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Relazione sull’attività2009-2010

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Assemblea 2011

Dieci anni in Assonime ........................................................................................................................... 9

CAPO I

DIRITTO SOCIETARIO E MERCATO DEI CAPITALI

1. Le modifiche alla legislazione primaria e regolamentare per effetto del recepimento della normativa europea1.1 Le modifiche alla disciplina sui diritti degli azionisti ................................................................. 191.2 La disciplina OPA ..............................................................................................................................211.3 La nuova disciplina sulle remunerazioni ...................................................................................... 221.4 La disciplina sulla revisione legale dei conti ............................................................................... 241.5 La disciplina sugli intermediari finanziari ................................................................................... 301.6 Le altre modifiche al TUF ............................................................................................................... 321.7 L’evoluzione della disciplina della valutazione dei conferimenti in natura e dell’acquisto

di azioni proprie ............................................................................................................................. 37

2. L’attività regolamentare della Consob, la disciplina dei mercati e di bilancio2.1 La disciplina sulle parti correlate ................................................................................................... 402.2 Le modifiche al Regolamento Emittenti ........................................................................................ 422.3 Le prassi di mercato ammesse ........................................................................................................ 452.4 Gli altri interventi della Consob ................................................................................................... 462.5 Le modifiche ai regolamenti di Borsa Italiana ............................................................................ 482.6 Le novità in materia di documenti finanziari .............................................................................. 49

3. La legge fallimentare3.1 L’evoluzione della disciplina delle procedure concorsuali ......................................................... 503.2 Le modifiche alle soluzioni concordate della crisi d’impresa ................................................... 523.3 L’indagine Assonime sull’attuazione della legge fallimentare .................................................. 54

4. La disciplina della responsabilità amministrativa degli enti4.1 L’evoluzione normativa del d.lgs. n. 231/2001 ............................................................................ 554.2 I progetti di riforma ....................................................................................................................... 57

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5. Autodisciplina e corporate governance5.1 Il nuovo Codice di autodisciplina .................................................................................................. 595.2 L’Analisi dello stato di attuazione del Codice di autodisciplina delle società quotate ........... 60

6. Linee evolutive della disciplina societaria e del mercato dell’Unione Europea6.1 Il libro verde sulla governance delle financial institutions e le politiche delle remunerazioni ... 626.2 Il libro verde sull’audit .................................................................................................................... 646.3 La revisione delle direttive del FSAP ............................................................................................ 656.4. Società Europea e Società privata Europea ................................................................................. 696.5 Agenzie di rating .............................................................................................................................706.6 Altre iniziative comunitarie ........................................................................................................... 726.7 L’attività di EuropeanIssuers ......................................................................................................... 806.8 Le crisi bancarie ...............................................................................................................................816.9 Il “pacchetto supervision" e le nuove regole sul capitale delle banche .................................... 826.10 L’evoluzione della disciplina USA ............................................................................................... 84

CAPO II

CONCORRENZA E DISCIPLINA DELL’ATTIVITA’ D’IMPRESA

1. Disciplina della concorrenza1.1 Tutela dei consumatori e approccio economico nel diritto europeo della concorrenza ......... 861.2 La nuova disciplina europea delle intese verticali ...................................................................... 881.3 Le nuove regole europee sugli accordi di cooperazione tra concorrenti ...................................911.4 Sviluppi in tema di concentrazioni ............................................................................................... 931.5 Verso la legge annuale per il mercato e la concorrenza ........................................................... 941.6 Disciplina della professione forense e giuristi d’impresa ........................................................... 98

2. Controllo degli aiuti di stato2.1 Il controllo degli aiuti di Stato nel contesto della crisi economica .........................................1012.2 Altre novità nella politica degli aiuti di Stato ........................................................................... 1032.3 Il ruolo dei giudici nazionali nell’applicazione della disciplina europea degli aiuti di Stato.. 105

3. Tutela dei consumatori3.1 La disciplina delle pratiche commerciali scorrette: applicazione e linee evolutive ...............1073.2 Azione di classe nell’ordinamento italiano e il dibattito in Europa ....................................... 1093.3 La soluzione stragiudiziale delle controversie ............................................................................1123.4 Prospettive del diritto dell’Unione europea in materia di tutela dei consumatori .................114

4. Società a partecipazione pubblica, servizi pubblici locali e appalti pubblici4.1 Evoluzione del quadro giuridico delle società a partecipazione pubblica ..............................1154.2 La riforma della disciplina dei servizi pubblici locali ...............................................................117

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4.3 Appalti pubblici ..............................................................................................................................1194.4 Tracciabilità dei flussi di pagamento .......................................................................................... 122

5. Altri aspetti del diritto dell’attività d’impresa 5.1 Il Trattato di Lisbona: le principali novità e le disposizioni attinenti all’attività d’impresa ... 1235.2 Mercato unico: dal rapporto Monti al Single Market Act ....................................................... 1255.3 Politiche di semplificazione .......................................................................................................... 1275.4 Recepimento della direttiva servizi ............................................................................................. 1305.5 Digitalizzazione e attività d’impresa .......................................................................................... 1315.6 Tutela dei dati personali ............................................................................................................... 1345.7 Ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali ................................................................ 1355.8 Sviluppi in materia di diritto industriale .................................................................................... 136

CAPO III

IMPOSTE DIRETTE E IMPOSTE INDIRETTE

1. Considerazioni generali .............................................................................................................. 141

IMPOSTE DIRETTE

2. Reddito d’impresa2.1 Le novità in materia di fiscalità internazionale ......................................................................... 1442.2 L’impatto dei principi contabili internazionali .......................................................................... 1512.3 Valutazione del circolante ............................................................................................................ 1532.4 Conversione delle imposte anticipate in crediti per gli istituti bancari .................................. 1532.5 Ulteriori modifiche in tema di reddito d’impresa ...................................................................... 155

3. Le discipline di incentivazione fiscale a favore delle imprese3.1 La “Tremonti-ter" ........................................................................................................................... 1563.2 Incentivo alla capitalizzazione delle imprese ............................................................................. 1583.3 La “Tremonti-tessile" ..................................................................................................................... 1583.4 Credito d'imposta per le attività di rricerca e sviluppo ............................................................ 1593.5 Altre agevolazioni: aggregazioni aziendali, distretti industriali e reti d’impresa ................. 161

4. Le novità per i fondi comuni di investimento4.1 La nuova disciplina dei fondi immobiliari ................................................................................. 1654.2 La nuova disciplina dei fondi mobiliari ...................................................................................... 167

5. Imposta regionale sulle attività produttive ..................................................................... 170

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6. IRPEF6.1 Considerazioni generali ................................................................................................................. 1736.2 La proroga di detrazioni d’imposta temporaneamente previste in precedenti periodi ........ 1736.3 I bonus fiscali per il rientro dei “cervelli” ................................................................................... 1746.4 Reddito di lavoro dipendente ....................................................................................................... 1756.5 Redditi diversi ............................................................................................................................... 1776.6 Disciplina delle attività e degli investimenti transfrontalieri delle persone fisiche e

degli enti non commerciali ......................................................................................................... 178

IMPOSTE INDIRETTE

7. Modifiche alla normativa IVA in attuazione di direttive comunitarie7.1 Premessa ......................................................................................................................................... 1797.2 Nuova disciplina nazionale della territorialità delle prestazioni di servizi ............................ 1817.3 Modifiche alla disciplina dei servizi di intermediazione .......................................................... 1827.4 Ampliamento dell’applicazione del sistema del reverse charge ............................................... 1847.5 Modifiche ai modelli riepilogativi degli scambi intracomunitari ............................................ 1867.6 Modifiche alla procedura dei rimborsi ai soggetti non residenti ............................................ 1887.7 La base imponibile dell'IVA: deroghe al criterio del corrispettivo .......................................... 191

8. Misure di contrasto dell’evasione fiscale in materia d’IVA8.1 Premessa ......................................................................................................................................... 1958.2 Comunicazione delle operazioni con soggetti stabiliti in Paesi a fiscalità privilegiata ....... 1968.3 Autorizzazione all’effettuazione delle operazioni intracomunitarie ....................................... 2008.4 Comunicazione telematica delle operazioni di importo pari o superiore a tremila euro ..... 2018.5 Limiti alla compensazione dei crediti annuali e infrannuali ................................................... 203

9. Altre disposizioni comunitarie in materia d’IVA9.1 Nuove norme in materia di aliquote ........................................................................................... 2059.2 Disposizioni in materia di fatturazione elettronica ................................................................... 206

10. Dazi e diritti doganali10.1 Premessa ....................................................................................................................................... 20910.2 Sviluppi della materia doganale in ambito comunitario ........................................................ 20910.3 Modifiche alle disposizioni di applicazione del codice doganale comunitario ....................21110.4 Novità intervenute in ambito nazionale ................................................................................... 212

11. Accise11.1 Premessa ........................................................................................................................................ 21311.2 Nuovo regime generale delle accise: modifiche al Testo Unico nazionale ........................... 21411.3 Telematizzazione delle procedure di circolazione dei prodotti in regime sospensivo ........ 21511.4 Modifiche alle disposizioni nazionali in materia di imposizione sugli oli lubrificanti ...... 21511.5 Prospettive di riforma del regime comunitario di tassazione dell’energia ........................... 216

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ACCERTAMENTO, RISCOSSIONE, SANZIONI

12. Premessa ......................................................................................................................................... 217

13. Potenziamento e razionalizzazione dell’attività di accertamento .................... 218

13.1 Razionalizzazione dell’accertamento per i soggetti che partecipano al consolidato .......... 22213.2 Raddoppio dei termini per l’accertamento tributario .............................................................. 224

14. Modifiche in materia di riscossione .................................................................................. 225

15. Inasprimento del regime sanzionatorio .......................................................................... 228

CAPO IV

RIFORMA DELLA FINANZA PUBBLICA E FEDERALISMO

1. Riforma della finanza pubblica .............................................................................................. 230

2. L’attuazione della legge delega sul federalismo fiscale ............................................ 232

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Dieci anni in Assonime

di Stefano Micossi

Pubblichiamo qui di seguito il testo della post-fazione ai volumi celebrativi del Centenario pubblicati nei tipi di Laterza, “Tra imprese e istituzioni: 100 anni di Assonime”, curato dal direttore generale Stefano Micossi. Il testo ripercorre i momenti salienti della riorganizzazione dell’Associazione, i temi di attività e le principali questioni di politica istituzionale che hanno segnato l’ultimo decennio dell’Associazione.

Pietro Marzotto e Umberto Agnelli, a lungo numi tutelari dell’Assonime, la consideravano il luogo in cui si potesse aspirare a formulare strategie per l’economia italiana. Nel 1999 mi chiesero di diventarne direttore generale, con l’attivo sostegno di Innocenzo Cipolletta, con il quale avevo collaborato in Confindustria nei primi anni Novanta. Lasciavo la direzione generale dell’industria della Commissione europea, dove avevo rafforzato la mia passione europea con la conoscenza dei meccanismi procedurali e del merito delle politiche comuni.

Quell’esperienza era conclusa, per contrasti insanabili con il commissario responsabile. Il mio ultimo atto fu, nei primi giorni di dicembre del 1998, una testimonianza presso la Commissione di controllo sul bilancio comunitario del Parlamento europeo nella quale descrivevo il ruolo abnorme assunto dai gabinetti dei commissari nella destinazione delle risorse e nelle nomine del personale. Non combattevo la prerogativa della politica di indicare gli orientamenti, ma la degenerazione di quel potere per interessi impropri: un tema sul quale sono ritornato più tardi con riguardo all’Italia. Alcune delle proposte formulate in quell’audizione furono fatte proprie dalla Commissione Prodi, dopo la poco onorevole caduta della Commissione Santer.

Avendo sempre lavorato in istituzioni, pubbliche e private, mi chiedevo se non fosse il tempo di trovare un impiego più business-oriented, magari, come molti colleghi usciti dalla Commissione, negli affari istituzionali di una grande impresa; ma non ero certo di poter fare il lobbista, perché l’impronta originaria dell’esperienza formativa in Banca d’Italia (tra il 1973 e il 1988) mi rendeva ardua una logica di pura difesa d’interessi privati – pur pienamente legittimi – senza riguardo per gli effetti sugli incentivi istituzionali.

La proposta di venire in Assonime, che non conoscevo per niente, risolveva il problema. Mi fu spiegato che si trattava di un’associazione d’imprese tesa per tradizione e per struttura a guardare all’interesse generale delle associate, identificato nella costruzione di buone istituzioni per il mercato, cioè un ambiente favorevole all’attività dell’impresa.

Il primo presidio di questa impostazione è costituito dalla sua base associativa: la presenza contemporanea delle maggiori imprese di tutti i settori di attività – la manifattura, i servizi finanziari, le utilities e gli altri servizi privati – necessariamente conduce all’enfasi prevalente sulle buone regole, invece che sulla tutela d’interessi settoriali. Il secondo presidio, non meno importante, deriva dalla qualità e indipendenza della struttura nella formulazione delle proposte normative e delle interpretazioni, talora accolte dalle pubbliche amministrazioni e dai tribunali come documenti pro veritate.

L’Assonime che trovai somigliava più a un ufficio pubblico che a un’organizzazione privata, con molto personale d’ordine e pochi ricercatori, un solo accesso a Internet gelosamente custodito sotto

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chiave, tende polverose e stanze vetuste ancora adornate delle boiseries degli anni Cinquanta. Il bilancio mostrava entrate per nove miliardi di vecchie lire e uscite per tredici; da qualche anno il saldo era ripianato liquidando gli immobili di proprietà, che si stavano esaurendo.

Da oltre un decennio era stato chiuso l’ufficio statistico – per mancanza di risorse, ma anche perché l’attività appariva meno rilevante – il quale per quasi ottant’anni aveva raccolto con interviste dirette, rielaborato e pubblicato dati sui bilanci e le attività delle società italiane di capitali. L’archivio statistico era stato ceduto alla Centrale dei bilanci, società di gestione dati delle principali banche, nell’attesa che essa potesse valorizzarlo. Invece, finì in uno scantinato, dal quale lo abbiamo ripescato quest’anno; un progetto di valorizzazione è stato predisposto da Fulvio Coltorti di Mediobanca, e stiamo cercando le risorse per realizzarlo.

Poco dopo il mio arrivo, una commissione governativa per le restituzioni agli ebrei, presieduta da Tina Anselmi, chiese di accedere ai nostri archivi in cerca di evidenza. Trovammo che negli anni della Repubblica di Salò Assonime aveva preso tempo, ingaggiando con l’amministrazione dotte disquisizioni sull’esatta definizione dei destinatari del provvedimento che vietava la distribuzione dei dividendi agli ebrei, mentre al contempo raccomandava alle associate di non distribuire dividendi. Ma la documentazione d’archivio per quegli anni, come per quelli successivi, apparve in larga parte mancante. Si favoleggiava di un allagamento che l’avrebbe distrutta negli scantinati del palazzo delle Assicurazioni Generali – in piazza Venezia a Roma, dove l’Associazione ha sede fin dai suoi primi anni – anche se dell’allagamento non vi era riscontro. È plausibile che il desiderio di riservatezza dei miei predecessori, fattosi particolarmente acuto nei tormentati anni Settanta del secolo scorso, possa aver indotto a occultare o distruggere la documentazione più delicata sui rapporti con le associate.

La struttura manteneva competenze significative nel campo fiscale, dove la sua tradizione era pienamente preservata e si affollava il numero più largo di funzionari, ancora diviso tra le imposte indirette, guidate da Luigi Cecamore, e quelle dirette, guidate da Giuseppe De Angelis; c’era anche un piccolo ma espressivo nucleo pensante in campo societario, affaccendato a gestire gli effetti dell’introduzione del testo unico della finanza (TUF, ovvero il d.lgs. 58 del 1998) e a convincere una giunta (come allora si chiamava il consiglio direttivo) ancora riluttante sui meriti dell’autodisciplina.

Presi servizio il 1° aprile del 1999, sotto la presidenza di Umberto Zanni, stimato dirigente del mondo assicurativo, già amministratore e poi presidente della Ras. La giunta era convocata per il 21 dello stesso mese e attendeva dal nuovo direttore generale un piano di riorganizzazione e rilancio. Le mie proposte, contenute in un documento di poche pagine preparato con Massimo Muzzin, allora direttore amministrativo, comprendevano l’aumento dei contributi, fermi da un decennio, nella misura del 50 per cento, e iniziative di rilancio dell’attività di servizio alle associate, allora quasi inesistenti, tra l’altro attraverso la creazione di un sito Internet capace di informare in tempo reale le associate sui provvedimenti di interesse. La tenacia e la duttilità di Muzzin mi aiutarono a realizzare nel giro di pochi anni un mutamento radicale della composizione del personale, che arricchimmo di giovani funzionarie e funzionari provenienti dalle migliori scuole. La modernizzazione della struttura è stata completata da Gianfranco Talarico, che ne prese il posto nel 2006.

Cambiammo anche gli arredi, seguendo il progetto dell’architetto Roberto Liorni: i legni chiari, le postazioni di lavoro a isola che incoraggiavano i funzionari a lavorare insieme, invece dei tramezzi che li isolavano, la cablatura completa degli uffici per dare a tutti libero accesso alle informazioni e al web, costituirono il segno materiale della nuova organizzazione.

Nella nostra attività abbiamo potuto contare sul costante incoraggiamento dei presidenti che si sono succeduti alla guida dell’Associazione: dopo Zanni, Vittorio Merloni, che attrasse molte imprese di qualità, ci insegnò una mentalità di servizio e volle un termine quadriennale alla carica di presidente (prima a tempo indeterminato); Vittorio Mincato, che modernizzò lo Statuto e rafforzò la contabilità e il controllo di gestione; Luigi Abete, arrivato solo da un anno mentre scrivo, che ha rilanciato l’ambizione di offrire in Assonime il punto di riferimento e raccordo degli interessi comuni di tutte le imprese. Tutti i presidenti hanno difeso fermamente la qualità e l’indipendenza di giudizio dell’Associazione da ogni pressione esterna.

L’aumento dei contributi condusse a un calo del numero delle associate di circa un terzo, al di sotto delle seicento unità: uscirono in larga parte imprese piccolissime o strutture di consulenza in forma

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societaria. L’obiettivo di colmare il disavanzo fu centrato.

Negli undici anni trascorsi da allora, il bilancio è stato normalmente in attivo; il patrimonio si è rafforzato. Tuttavia, pur con molti nuovi ingressi d’imprese importanti, la base associativa ha continuato lentamente a restringersi, anche a causa degli intensi processi di ristrutturazione e aggregazione in atto nell’economia.

Sempre più Assonime si è caratterizzata come associazione d’imprese di qualità di medie e grandi dimensioni. Creammo anche una struttura, Assonime Servizi, incaricata di valorizzare i prodotti Assonime nei confronti di platee diverse dalle associate; affidata prima a Stefania Graziosi, poi a Chiara Petruzzelli, essa ha operato con successo, sviluppando la distribuzione online dei nostri prodotti e la platea degli utenti. Oggi il suo bilancio cresce verso il milione di euro; al suo interno abbiamo concentrato le attività d’informazione e assistenza al sistema Confindustria e un numero crescente di rapporti di abbonamento con professionisti e associazioni professionali. È distribuita da Assonime Servizi, ormai nella sola versione elettronica, anche la rifondata rivista «Giurisprudenza delle imposte » che, sotto la direzione congiunta di Adriano di Pietro e Claudio Berliri, ha ritrovato consistenza e prestigio e viene regolarmente consultata da oltre 2500 utenti. È continuato, seppure in misura ridotta, anche il sostegno alla «Rivista delle società»; molto prima del mio arrivo si era staccata da Assonime, mantenendo grande prestigio sotto la guida di Ariberto Mignoli, Guido Rossi e, infine, Piergaetano Marchetti.

Per partecipare più efficacemente ai processi nazionali e internazionali di redazione degli standard contabili, su suggerimento di Pellegrino Capaldo promuovemmo il nuovo Organismo italiano di contabilità (Oic), nel quale confluirono, insieme ai commercialisti e ai revisori, gli utilizzatori dei bilanci, rappresentati dalle principali associazioni d’impresa, degli analisti e degli intermediari finanziari. Lo statuto dell’Oic, redatto da Sabino Cassese, garantì l’equilibrata rappresentanza dei diversi interessi e insieme la trasparenza e la qualità degli standard, creando le condizioni per il pubblico riconoscimento. A metà del decennio scorso un regolamento europeo rese obbligatoria l’adozione degli standard Ias per i bilanci consolidati delle società quotate. L’Italia volle andare oltre, senza ben valutare le conseguenze, ed estese l’obbligo anche ai bilanci civilistici; le accresciute esigenze interpretative rafforzarono considerevolmente il ruolo dell’Oic.

In seguito, un nuovo meccanismo di finanziamento proposto da Assonime ne ha posto gli oneri a carico delle imprese, con un contributo legato al deposito annuale dei bilanci presso il registro delle imprese, rendendo disponibili le risorse necessarie non solo per lo svolgimento in Italia dei compiti istituzionali, ma per la piena partecipazione dell’Oic al finanziamento e alla gestione dei meccanismi internazionali di standardizzazione, a Londra (Iasb) e a Bruxelles (Efrag). Sotto la guida di Massimo Tezzon l’Oic ha ormai superato l’adolescenza, diventando il centro di riferimento per l’attività di standardizzazione contabile e i problemi di coordinamento con la legislazione civilistica e fiscale. Assonime partecipa alla vita dell’Oic quale membro dell’assemblea dei fondatori e assiduo interlocutore dei suoi organismi tecnici.

In occasione della privatizzazione di Borsa Italiana, le autorità di vigilanza vollero tra gli azionisti anche le società emittenti di azioni. Già prima del mio arrivo, Assonime aveva promosso la creazione della società Emittenti Titoli, nel cui azionariato entrarono, in proporzione alla capitalizzazione di borsa, le principali società quotate italiane. Emittenti Titoli acquistò azioni di Borsa Italiana (cedute dal San Paolo-Imi) per circa 4 milioni di euro, poco più del 6 per cento del capitale; quando Borsa Italiana fu ceduta al London Stock Exchange, nel 2007, Emittenti divenne azionista di questo gruppo, con una partecipazione dell’1,6 per cento (oggi del valore di circa 35 milioni di euro). Emittenti Titoli – oggi presieduta da Piero Gnudi e di cui il direttore generale di Assonime è vicepresidente – è diventato il forum delle società quotate per l’analisi dei problemi della quotazione e degli effetti sulle imprese del processo di consolidamento globale delle borse azionarie. In queste materie è stato prezioso il contributo costante di Massimo Belcredi e Valter Lazzari. Gli emittenti italiani partecipano anche a European Issuers, l’Associazione europea degli emittenti di azioni che Assonime ha contribuito a fondare e che oggi è riconosciuto interlocutore delle istituzioni europee sui temi della finanza d’impresa.

Gradualmente, ho riordinato la struttura di Assonime in cinque aree tematiche. Chiamai Ivan Vacca

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alla direzione delle imposte dirette, dopo le dimissioni di De Angelis; Ginevra Bruzzone dall’Autorità garante della concorrenza a dirigere la nuova area Concorrenza e mercati, creata con l’incoraggiamento di Silvio Salteri di Mediobanca, per molti anni membro assiduo del consiglio direttivo. Dopo l’uscita di Francesco Chiappetta, responsabile nei miei primi anni del diritto societario, creammo due nuove aree: una per il mercato dei capitali e le società quotate, affidata a Carmine Di Noia, proveniente dalla Consob, e collocata negli uffici milanesi – spostati dalla storica sede di via Passione in via Santa Maria Segreta, proprio di fianco alla borsa; l’altra per il diritto societario strictu sensu, affidata a Margherita Bianchini, proveniente dal mondo della consulenza e alla ricerca di una prospettiva più istituzionale. Paola Parascandolo, economista, assunse la responsabilità di un nuovo nucleo di analisi incaricato di valutare l’impatto sull’economia dei provvedimenti normativi.

Luigi Cecamore fu confermato condirettore dell’Associazione e in quel ruolo ha continuato a servirla con straordinaria dedizione e competenza fino alla scomparsa, nel luglio del 2008, dopo quarantatre anni di servizio ininterrotto. Contribuì più di ogni altro al disegno dell’Iva nel nostro paese; ne vide la crisi, negli anni recenti aveva iniziato con noi a riflettere sull’evoluzione ulteriore del tributo in un contesto economico in rapido cambiamento. Era un uomo di altri tempi per virtù e dedizione, assecondò con leale sostegno e preziosi consigli la mia azione di trasformazione. In seguito, la posizione di condirettore è stata assunta da Ivan Vacca, le due direzioni delle imposte sono state unificate sotto la sua guida.

Aprii anche un piccolo presidio a Bruxelles, oggi affidato ad Alessandra Casale e ospitato negli uffici congiunti in rue Belliard con European Issuers e Afep, l’organizzazione consorella francese. La nostra presenza a Bruxelles si è fatta più penetrante e continua, in particolare sui temi della concorrenza e dei mercati finanziari, ma anche delle istituzioni europee. A metà del decennio scorso fui cooptato nel consiglio di amministrazione del Ceps, Centre for European Policy Studies, un think tank attivo a Bruxelles con il quale abbiamo sviluppato molti studi e iniziative sulle politiche europee.

Oggi l’Assonime conta cinquantaquattro collaboratori. Nei suoi campi di attività, le posizioni e i documenti dell’Associazione costituiscono un punto di riferimento per le imprese, le istituzioni e l’accademia.

L’imposizione dei redditi d’impresa è stata investita negli ultimi quindici anni da una turbolenza senza precedenti, con il rapido succedersi dell’introduzione di un nuovo tributo, l’IRAP, e di due riforme dell’Irpeg di segno radicalmente opposto, alla fine degli anni Novanta del secolo scorso e nel primo decennio di questo secolo. L’IRAP, imposta regionale sulle attività produttive, sostituì i contributi sanitari, l’Ilor e vari altri tributi minori, in larga parte non deducibili; determinò un ampliamento della base imponibile, in particolare con l’inclusione dei redditi professionali, e un forte risparmio per le società di capitali rispetto ai tributi sostituiti.

Tuttavia, colpendo il valore della produzione e non essendo deducibile dall’Irpeg, di fatto assumeva la natura di un’imposta sui volumi di attività, comunque dovuta anche in assenza di utili. Ciò la rese molto impopolare, in particolare tra le imprese di piccola e piccolissima dimensione, e condusse la Confindustria a chiederne ripetutamente l’abolizione; lo stato del bilancio pubblico però non lo consentiva, anche per il forte aumento della spesa pubblica già dalla fine degli anni Novanta. L’Assonime ha continuato a sostenere le ragioni del tributo, ritenendo che, prima di abolirlo, occorra indicare alternative migliori per le imprese.

Nella seconda metà degli anni Novanta, l’allora ministro delle Finanze Vincenzo Visco aveva perfezionato la disciplina d’integrazione dell’imposizione dell’utile societario con quella personale dei soci percettori di dividendi: questa disciplina, introdotta nel 1977, si fondava sul principio di far concorrere integralmente il dividendo alla formazione del reddito imponibile del socio, restituendogli le imposte pagate dalla società al momento della produzione dell’utile attraverso l’attribuzione di un corrispondente credito d’imposta. Quella riforma ha avuto il pregio di restituire al sistema maggiore razionalità, calibrando il credito sulle imposte effettivamente pagate dalla società, ma si prestava ad abusi che minavano il gettito dell’imposta. Inoltre, il credito d’imposta si fermava ai confini nazionali e, dunque, era incompatibile con la crescente internazionalizzazione dei possessi azionari e le regole comunitarie. Era stata anche introdotta la c.d. Dit, un sistema di calcolo dell’imposta sulle imprese che faceva scendere l’aliquota marginale, e tendenzialmente quella media, al crescere dell’investimento e

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della patrimonializzazione.

Con il nuovo decennio, l’impostazione mutò radicalmente. Il nuovo ministro Giulio Tremonti scelse un diverso sistema d’integrazione tra reddito societario e reddito dei soci, omogeneo per gli utili di fonte nazionale ed estera, dunque più conforme alle prescrizioni comunitarie. La doppia imposizione economica dell’utile societario fu trattata tassando l’utile in capo alla società e accordando regimi di parziale esenzione ai soci percettori del dividendo.

Tale regime trovò il proprio completamento sistematico nell’esenzione anche delle plusvalenze dalla cessione di partecipazioni sociali (e nella conseguente indeducibilità delle eventuali minusvalenze). L’abrogazione del credito d’imposta comportò l’abbandono dei meccanismi di consolidamento implicito dei redditi e delle perdite fra società socie e società partecipate. In loro vece furono introdotti regimi di consolidamento (consolidato nazionale, consolidato transnazionale e trasparenza fiscale) più in linea con gli istituti degli altri paesi europei. Venne anche previsto un tetto alla deduzione degli interessi passivi dal reddito d’impresa, pensato con il lodevole obiettivo di ridurre il vantaggio fiscale dell’indebitamento, ma fonte in seguito di molteplici e complicati aggiustamenti. La Dit fu abolita e al suo posto fu introdotta la c.d. Tremonti, un meccanismo di deduzione diretta dalla base imponibile di una quota degli investimenti, divenuto popolare tra le imprese.

Il nuovo sistema era in linea con l’evoluzione in altri paesi europei, ma in seguito fu ripetutamente modificato per esigenze di gettito, rendendone opaca e complessa l’applicazione. Nel frattempo, la legislazione di contrasto ai paradisi fiscali (Cfc) accentuava il sindacato diretto e preventivo dell’amministrazione sulla natura delle operazioni all’estero delle imprese italiane. Infine, l’applicazione poco meditata degli standard contabili internazionali anche sui bilanci d’esercizio, dunque con rilevanza civile e fiscale, ha generato un autentico sconvolgimento di molti istituti.

L’opera di chiarificazione e riparazione ancora continua, con l’intensa collaborazione dei nostri esperti.

L’incertezza è stata accresciuta dal ripetersi di provvedimenti emergenziali che hanno colpito in maniera selettiva imprese di singoli settori – le banche, le assicurazioni, le imprese petrolifere, certe aziende di servizio: un’operazione che serve a ridurre i costi politici immediati dell’aumento del prelievo, ma che distorce il sistema e lo rende opaco. Molti provvedimenti emergenziali sono stati resi applicabili dal periodo d’imposta in corso, dunque con effetti retroattivi.

Soprattutto, la disciplina anti-elusiva, anche per effetto d’interpretazioni giurisprudenziali centrate sulla nozione di abuso del diritto, ha ampliato la discrezionalità dell’amministrazione nel disconoscere ex post gli effetti giuridici e fiscali degli atti di gestione dell’impresa e, in particolare, delle operazioni di ristrutturazione aziendale, rendendo generalmente incerto il carico fiscale. Nei fatti, non solo il nostro sistema appare ormai caratterizzato da endemica instabilità, ma genera tra imprese e investitori veri e propri timori di «confisca», per l’imprevedibilità delle pretese fiscali.

Assonime ha denunciato questa involuzione del sistema, ma non ha potuto impedirla, in un quadro di continuo deterioramento delle finanze pubbliche. I danni per l’investimento e l’attività economica sono probabilmente ingenti. Il ritorno a un sistema più semplice e prevedibile non appare procrastinabile.

Pur in tale sfavorevole contesto, non abbiamo cessato di riflettere sugli assetti desiderabili del sistema fiscale. Aspetti costanti di questa riflessione sono stati la proposta di accrescere il peso relativo dell’imposizione indiretta, che appare basso nel confronto internazionale, rispetto a quella diretta; quella di uniformare la tassazione dei frutti delle attività patrimoniali, inclusi gli investimenti finanziari e le locazioni, con aliquota secca (intorno al 20 per cento); quella di rendere permanente il trattamento fiscale di favore per la parte di salario distribuita a livello aziendale in contropartita di miglioramenti di produttività.

Un tema importante nel disegno del sistema fiscale resta quello dell’internazionalizzazione delle nostre imprese e del sostegno alla loro competitività: da qui la particolare attenzione alla disciplina delle operazioni cross border e, in generale, all’introduzione di norme che garantiscano, alle imprese italiane che investono all’estero, condizioni di trattamento simili a quelle previste dagli Stati partner.

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La finalità istituzionale della promozione della concorrenza e di buone istituzioni per il mercato ha trovato attuazione nella nostra intensa partecipazione alle consultazioni per i nuovi regolamenti europei sui procedimenti antitrust (1/2003) e il controllo delle concentrazioni (139/2004) e, in seguito, alla loro applicazione nel nostro ordinamento; abbiamo costantemente richiamato l’esigenza di rafforzare l’analisi economica dei mercati e dei comportamenti degli operatori rispetto alla valutazione legalistica.

Ci siamo occupati analogamente di poteri, procedure e garanzie nella nuova disciplina delle pratiche commerciali scorrette, introdotta con la trasposizione della direttiva europea 2005/29.

Abbiamo partecipato attivamente alla discussione in Europa sulla nuova direttiva sui servizi (2006/123) e poi alla sua trasposizione in Italia: essa dà attuazione ai principi generali di libertà di stabilimento e prestazione dei servizi – con enormi benefici potenziali sull’intero comparto, che costituisce tuttora un enorme serbatoio di arretratezza nell’economia italiana, proprio per questo anche di potenziale sviluppo. Ci siamo battuti a viso aperto contro i tentativi ripetuti degli ordini professionali di introdurre restrizioni e riserve di attività nell’esercizio delle professioni c.d. liberali.

Abbiamo ripreso l’analisi dei problemi della proprietà intellettuale e industriale, campo tradizionale d’interesse dell’Associazione, trascurato da decenni. Abbiamo contribuito a promuovere la legge annuale di semplificazione, uno strumento potenzialmente poderoso per l’eliminazione dei troppi vincoli all’attività economica che i governi non hanno saputo sfruttare. Abbiamo invocato la figura del giudice specializzato per l’applicazione del diritto e della regolamentazione commerciale, con qualche limitato successo, sempre trovando l’opposizione di parti importanti della magistratura, più attente a difendere lo status quo che il buon funzionamento del sistema.

Due materie hanno assunto speciale preminenza nel corso del decennio: le autorità indipendenti, che dovevano consolidare le regole europee di mercato nel nostro paese, e la gestione viepiù distorta del settore pubblico.

Sul primo tema, inizialmente ponemmo l’enfasi sulle procedure decisionali, sia nei procedimenti individuali, dove abbiamo ottenuto progressi rilevanti nell’affermazione dei diritti di difesa; sia nell’emanazione degli atti generali tipici dell’attività di regolazione, dove abbiamo contribuito a consolidare la cultura della consultazione preventiva dei soggetti regolati e, forse con minor successo, della proporzionalità della regolazione.

In seguito abbiamo alzato il tiro, provando a fare ordine in un sistema cresciuto a strati, con regole diverse per le diverse autorità, che stava perdendo coerenza: un disegno di legge organico di nostra ispirazione arrivò alle soglie del Consiglio dei ministri subito dopo la metà del decennio, ma poi fu abbandonato. Cercavamo di chiarire l’indipendenza delle autorità dal potere esecutivo e i contrappesi necessari di controllo da parte del Parlamento, che volevamo rafforzare. Vedevamo nei criteri personali di eleggibilità e nelle procedure di nomina dei presidenti e dei membri delle autorità la prima garanzia della loro indipendenza; invece la politica ha travolto ogni diga, usando quei posti come una prebenda per persone prive delle necessarie competenze, talora nominando tra i commissari manutengoli di specifici interessi. Così, il sistema appare fortemente indebolito; alle ferite all’indipendenza si è aggiunta l’incertezza dei finanziamenti.

Quanto al settore pubblico, il decennio è stato segnato dall’arresto delle liberalizzazioni, l’esplosione a livello locale delle società pubbliche create per fornire posti e prebende fuori dai controlli di contabilità pubblica, la diffusione a macchia d’olio del c.d. spoil system, che ha compromesso la terzietà delle amministrazioni e favorito la corruzione.

Tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007 pubblicai su «La Voce» e «La Stampa» un decalogo d’interventi «per bonificare i rapporti tra politica e affari». L’idea di fondo era che il cattivo andamento dell’economia non poteva essere rimediato dalla politica industriale o da altri sostegni al settore privato, ma che occorresse porre al centro la questione del degrado delle amministrazioni pubbliche, legato a sua volta alla dilatazione patologica dell’ingerenza della politica nelle gestioni. Che dunque la politica avrebbe dovuto fare un passo indietro, adottando regole rigorose di trasparenza, merito e competenza per le scelte del personale, e rispettando le regole europee per le forniture e gli appalti pubblici, che invece continuiamo a disattendere. Richiamavo l’importanza di ristabilire il vincolo di bilancio sulle

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amministrazioni decentrate; invece, i vari governi continuano a ripianare a piè di lista gli sfondamenti delle amministrazioni amiche, incoraggiando nuove spese senza copertura e togliendo credibilità agli annunci di rigore dal federalismo. Suggerivo che l’erogazione dei fondi a università e ospedali potrebbe esser legata molto di più alle scelte di studenti e pazienti, attraverso meccanismi ormai ben sperimentati in molti paesi, lasciando che le cattive università e i cattivi ospedali perdano i fondi, fino a dover chiudere se non rimediano. Due successivi rapporti sul federalismo hanno esaminato vari aspetti istituzionali di questa importante riforma dello Stato, in particolare una migliore delimitazione delle competenze nel Titolo V della Costituzione e i pericoli di un federalismo multicentrico nel quale comuni, province e regioni acquistano ciascuno autonomi poteri di entrata.

Sulla gestione delle imprese pubbliche nel 2008 Assonime ha pubblicato un rapporto sui principi di corretta gestione delle imprese di proprietà pubblica, invocando una chiara distinzione tra quelle che sono solo appendici dell’amministrazione, che dovrebbero esser ricondotte nel suo alveo e assoggettate ai relativi controlli; e quelle che stanno sul mercato, che dovrebbero poter operare in condizioni di parità con le imprese private, limitando l’intervento dell’azionista agli atti di indirizzo e di controllo previsti dal Codice civile ed eliminando ogni altra interferenza nelle gestioni.

Alla fine del secolo scorso l’approvazione del TUF portò a compimento un lungo processo di modernizzazione dei mercati finanziari, mettendo ordine nella disciplina e riformulandone varie parti con regole più orientate al mercato e di facile applicazione.

Importanti furono le scelte a favore della contendibilità del controllo, della tutela degli azionisti di minoranza, dell’autodisciplina. La redazione di un codice d’autodisciplina fu il primo dossier importante sul mio tavolo in materia di governo societario.

Fu costituito un comitato per la corporate governance, abilmente guidato da Stefano Preda, allora presidente di Borsa Italiana; il Codice vide la luce in poco meno di un anno, grazie a delicati compromessi in materia di ruolo e composizione dei consigli di amministrazione, amministratori indipendenti, nomina e remunerazione degli amministratori, conflitti di interesse, meccanismi di controllo interno, informazione societaria. Fu poi rivisto due volte e ha nel complesso ben funzionato, come mostra l’indagine annuale sulla sua applicazione che avviammo subito dopo con l’aiuto di Massimo Belcredi. L’impostazione del Codice fu ripresa in molti aspetti nella successiva riforma del diritto societario, nel 2003. Tuttavia, la sua reputazione è rimasta controversa, perché si sono imputati al Codice – in effetti alla mancata vigilanza degli amministratori indipendenti – alcuni casi clamorosi di mala gestione e truffa in danno dei risparmiatori. Quel che certamente è mancato è stata la disciplina di mercato in casi evidenti in cui le regole di autodisciplina venivano violate, per la debole vigilanza di stampa e analisti. Per rimediare, Assonime ha ripetutamente proposto di istituire un meccanismo di sanzione reputazionale presso Borsa Italiana, ma questa si sottrasse, forse a causa del conflitto d’interesse latente tra la funzione (pubblica) del listing e quella (for profit) di aumentare le società quotate. Il crollo dei mercati azionari, all’inizio dello scorso decennio, espose grossolane falsità nei bilanci, in particolare nel caso della Parmalat, ma anche comportamenti discutibili delle reti di distribuzione degli strumenti finanziari ai risparmiatori. Inoltre, i controlli della Consob non avevano brillato per incisività ed efficacia. Nel 2003 Assonime pubblicò un Rapporto sul risparmio nel quale la diagnosi dei fallimenti del mercato non risparmiava le imprese, ma si rilevava l’esigenza di rafforzare i presidi contro i conflitti d’interesse negli intermediari polifunzionali, stabilendo forti principi di duty of care nel collocamento di strumenti finanziari tra i risparmiatori. Quell’impostazione non fu accolta allora, ma trovò poi pieno riconoscimento nella direttiva Mifid alla fine del decennio.

La riforma societaria del 2003 – abilmente condotta in porto da Michele Vietti, allora sottosegretario alla Giustizia – confermò l’impostazione del Codice, sancendo il ruolo centrale del consiglio di amministrazione nella definizione delle linee strategiche aziendali e nel controllo degli amministratori delegati, e ampliando l’autonomia statutaria. Accanto al modello tradizionale di governo societario con il collegio sindacale, furono introdotti due nuovi modelli: uno simile al modello anglosassone, nel quale il collegio sindacale era sostituito dal comitato audit (modello monistico), l’altro che replicava il modello dualistico di derivazione germanica, affidando il controllo a un consiglio di sorveglianza.

Un vizio di fondo rese i nuovi modelli disfunzionali fin dall’origine: gli organi di sorveglianza e controllo dei nuovi modelli furono disegnati con riferimento al collegio sindacale, con effetti deleteri

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che hanno poi richiesto continui aggiustamenti e hanno impedito ai nuovi modelli di assumere veramente una configurazione autonoma. Il modello dualistico è divenuto il veicolo di elezione per sistemi di governance piuttosto barocchi, in particolare nel sistema bancario. Il modello monistico non è stato utilizzato.

La legge sul risparmio (262/2005), dopo gli scandali finanziari, segnò una svolta rispetto all’impostazione precedente, con la riduzione degli spazi di autonomia statutaria e il rafforzamento dei meccanismi interni ed esterni di controllo pubblicistico. Nascono così due nuove figure di garanzia, il preposto ai controlli contabili (mutuato dalla nuova legislazione americana Sarbanes- Oxley) e gli amministratori di minoranza, che duplicano e in parte contraddicono i compiti dell’amministratore delegato e degli amministratori indipendenti. Assonime ha obiettato a entrambi gli istituti, pur aiutando a disegnarli in maniera meno perniciosa.

I controlli furono rafforzati anche attraverso il collegio sindacale, assegnandone la presidenza al membro di minoranza e attribuendo alla Consob un ruolo attivo nella definizione delle modalità di nomina dei sindaci e dei limiti al cumulo degli incarichi.

Un risultato positivo della nostra azione fu la riforma delle procedure concorsuali, di nuovo realizzata grazie all’azione intelligente ed efficace di Michele Vietti, tra le resistenze di parti importanti della magistratura e delle professioni. Vittorio Mincato e Maurizio Sella negoziarono abilmente il compromesso finale. La novità centrale è il rilievo all’esigenza di proteggere la continuità dell’impresa, fermando le pretese dei creditori e introducendo vari istituti tesi a favorire le soluzioni concordate, snellire le procedure, abbatterne i costi. La riforma è incompleta: parti importanti degli istituti sulla crisi dell’impresa devono essere ancora aggiornati, in particolare con norme penali coerenti con la nuova impostazione delle procedure e un ripensamento organico dell’istituto dell’amministrazione straordinaria. Un tema costante alla nostra attenzione è stato la contendibilità del controllo delle imprese quotate. Da un lato, abbiamo promosso l’adozione della variante più aperta tra quelle consentite dalla direttiva europea sulle offerte pubbliche di acquisto – trovando spesso la Consob schierata su posizioni più difensive.

Dall’altro, abbiamo contrastato la visione di coloro che ritengono opportuno cambiare la governance per forzare il mutamento del controllo: ad esempio, dopo la metà del decennio scorso un disegno di legge d’iniziativa parlamentare voleva limitare il diritto di voto nelle catene societarie di controllo all’effettivo possesso azionario dell’azionista di controllo «a monte» nella società operativa «a valle», demoltiplicando i possessi intermedi. Si trova qui il riflesso di una tesi, a lungo coltivata negli ambienti intellettuali vicini alla Banca d’Italia, secondo cui l’Italia ha più buone imprese che buoni imprenditori; perciò, si potrebbe migliorare l’economia cambiando gli imprenditori – a discrezione di un illuminato pubblico decisore.

Questa tesi riflette in realtà il rifiuto di guardare in faccia le ragioni profonde del declino economico italiano: che stanno, all’origine, nella rigidità ancora fortissima del lavoro, nelle leggi vincolistiche e disordinate, nell’incertezza fiscale, nella mancanza di mercato. La politica industriale, popolare a sinistra come a destra, è stato il tentativo di compensare con i sussidi pubblici gli imprenditori disponibili a lavorare in un contesto fuori mercato.

Alla lunga, i sussidi e le interferenze politiche nell’economia hanno quasi distrutto la grande impresa in Italia, contribuendo a far marcire l’economia e la società civile, soprattutto nel Mezzogiorno.

Spinta dall’Assonime, l’industria italiana ha capito il problema e ha incominciato a chiedere un sistema di regole nel quale le imprese possano operare senza dover dipendere dagli aiuti pubblici per sopravvivere.

All’inizio del decennio scorso fu introdotta nel nostro ordinamento la legge sulla responsabilità penale amministrativa degli enti per gli atti criminali dei loro amministratori (d.lgs. 231/2001).

Questa disciplina ha rivoluzionato il modo di pensare i controlli sull’attività d’impresa introducendo l’idea di sistemi organizzativi interni di monitoraggio, che devono essere «adeguati», come metodo di prevenzione degli illeciti. Le società che dimostrano di aver costruito modelli organizzativi adeguati a impedire i fatti criminali non sono punibili. La nuova legge, di derivazione internazionale e voluta

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in reazione all’uso fin troppo diffuso della corruzione per conquistare contratti e concessioni pubblici, è in seguito degenerata in un contenitore omnibus utilizzato dal Parlamento per trasferire sulle imprese l’onere del contrasto dei comportamenti illeciti. Una complicazione addizionale, fonte di grande incertezza, è derivata dal rifiuto dei giudici di riconoscere validità preventiva ai modelli organizzativi aziendali. Il tema è di grande importanza, sia sul fronte dei controlli societari sia sul fronte delle responsabilità per l’attività d’impresa: a quasi dieci anni dalla sua emanazione, con un quadro normativo molto cambiato, è venuto il tempo di ripensare la disciplina.

La mia passione e la mia bussola restano nella costruzione europea: un modello straordinario d’integrazione nella diversità, partito dalla costruzione del mercato interno, ma che poi si è sviluppato nel coordinamento delle politiche economiche, di cui l’euro è il segno visibile; nei nuovi «pilastri» della politica estera e di sicurezza interna (quest’ultimo ora in larga parte «comunitarizzato »); nella fondazione di diritti individuali di libertà e cittadinanza direttamente affermabili davanti alla Corte europea di giustizia. Ho mantenuto dal 1991 l’insegnamento al Collegio d’Europa, a Bruges, con l’intervallo degli anni alla Commissione: la preparazione delle lezioni e il rapporto con gli studenti hanno continuato ad alimentare di nuove idee il mio lavoro.

I nostri contributi hanno coperto largamente il novero delle norme europee per il mercato, con un’azione costante per migliorarne il disegno e l’applicazione interna, come ho già ricordato; sono stati intensi anche nel disegno di una fiscalità europea delle imprese, nell’architettura regolamentare dei mercati finanziari europei, nei dibattiti sulla riforma del bilancio europeo. Nell’ultimo biennio la nostra attenzione si è concentrata sulle cause e sulle risposte alla crisi finanziaria, con vari scritti (pubblicati in lingua inglese con il Ceps) largamente riconosciuti nel dibattito internazionale.

Nel 2002, insieme a Sabino Cassese e Giacinto della Cananea, fondammo EuropEos – gli europei, ma anche l’alba (Eos) d’Europa – un gruppo interdisciplinare di studiosi che volevano contribuire ai lavori della Convenzione per il nuovo trattato costituzionale e che hanno continuato a riunirsi in Assonime. Un tema centrale di EuropEos è stato quello della ripartizione dei poteri tra le istituzioni europee e gli Stati membri e dell’applicazione del principio di sussidiarietà: un aspetto poi decisivo nel compromesso che condusse al Trattato di Lisbona due anni fa. Le tesi che abbiamo portato nel dibattito istituzionale sono riflesse in un pamphlet pubblicato nel 2004 da Assonime e in un volume, che ho curato insieme a Gian Luigi Tosato, The European Union in the 21st Century: Perspectives from the Lisbon Treaty, pubblicato nel 2009 dal Ceps in inglese e dal Mulino in italiano. L’Unione europea non è uno Stato federale e l’unione politica non è all’orizzonte; ma resta una costruzione vitale, capace di evolvere in risposta alle esigenze dei suoi Stati membri e dei suoi cittadini. Nella costruzione di buone istituzioni per il mercato, l’integrazione in Europa resta il riferimento obbligato. Anche oggi, in una fase di crisi acuta delle economie e delle istituzioni, i governi cercano le soluzioni a Bruxelles: soluzioni che, ancora una volta, non richiedono geniali intuizioni dei leader del momento, ma uno stabile sistema di regole condivise per il governo delle economie che sostenga il processo di integrazione, rassicuri gli investitori e tenga la moneta e le finanze pubbliche lontane dai giochi elettorali.

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CAPO I

DIRITTO SOCIETARIO E MERCATO DEI CAPITALI

1. Le modifiche alla legislazione primaria e regolamentare per effetto del recepimento della normativa europea1.1 Le modifiche alla disciplina sui diritti degli azionisti

La direttiva 2007/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 luglio 2007 relativa all’esercizio di alcuni diritti degli azionisti di società quotate (di seguito la “Direttiva”) è stata recepita dal decreto legislativo del 27 gennaio 2010, n. 27 (di seguito “Decreto”). Il Decreto è stato preceduto da due consultazioni avviate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, rispettivamente nel giugno 2008 e luglio 2009 cui Assonime ha risposto1. Assonime ha anche seguito i lavori parlamentari che hanno condotto all’emanazione del Decreto.

Il Decreto ha profondamente innovato la disciplina sul funzionamento dell’assemblea per le società quotate, prevedendo nuovi istituti volti a favorire la partecipazione alla vita delle società stesse, e ha accorpato in un unico testo legislativo le norme sulla gestione accentrata e sulla dematerializzazione, prima frammentate in diversi testi normativi. La disciplina è stata completata dall'emanazione dei regolamenti attuativi, preceduti da consultazione pubblica cui Assonime ha risposto2. I provvedimenti di modifica del Regolamento Emittenti e del Provvedimento congiunto Banca d’Italia/Consob in materia di post-trading sono entrati in vigore il 22 gennaio 2011, ma è stata prevista una disciplina transitoria di centottanta giorni successivi alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (fino al 6 luglio 2011) per alcune specifiche disposizioni contenute nel Provvedimento congiunto.

Il Decreto, entrato in vigore il 20 marzo 2010, ha altresì stabilito che le nuove norme si applicano alle assemblee il cui avviso è stato pubblicato dopo il 31 ottobre 2010. In una prima circolare3 Assonime ha quindi commentato gli effetti delle nuove disposizioni sugli statuti e i nuovi termini per le assemblee.

Le principali novità sul funzionamento dell’assemblea delle società quotate rivenienti dal complesso delle disposizioni citate riguardano: (i) l’ampliamento del contenuto minimo dell’avviso di convocazione; (ii) la previsione di diversi termini di convocazione dell’assemblea a seconda delle materie all’ordine del giorno (quaranta giorni per le assemblee di nomina degli organi di amministrazione e controllo con voto di lista, trenta giorni nei casi ordinari, ventuno nei casi speciali, quindici in caso di OPA); in sede di consultazione avviata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, Assonime aveva espresso le proprie perplessità in ordine alla previsione di diversi termini in quanto tale scelta si poneva in antitesi con le istanze di semplificazione della Direttiva che prevedeva due soli termini. I diversi termini sono stati tuttavia mantenuti nel Decreto; (iii) la pubblicazione dei

1. Cfr. Risposte alle consultazioni, rispettivamente del 30 luglio 2008 e del 2 ottobre 2009.

2. Cfr. Risposte alle consultazioni del 14 ottobre 2010.

3. Cfr. Circolare Assonime n. 11/2010.

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documenti pre-assembleari e post-assembleari sul sito internet della società; (iv) la previsione espressa di nuovi diritti degli azionisti, come ad esempio il diritto di porre domande prima dell’assemblea; (v) la modifica di altri diritti già disciplinati, come ad esempio il diritto di integrazione dell’ordine del giorno; (vi) l’introduzione della record date (data di registrazione precedente l’assemblea in cui viene “fotografato” l’azionariato legittimato a partecipare alla stessa) e l’estensione della record date alla presentazione delle liste per la nomina degli organi di amministrazione e controllo; con riferimento alla record date per la partecipazione all’assemblea, Assonime, in sede di consultazione, aveva sollevato alcune criticità sulla previsione che imponeva agli intermediari la comunicazione all’emittente di tutti i soggetti legittimati, a prescindere dalla richiesta di partecipare all’assemblea in quanto ciò avrebbe fatto pervenire alle società un elevato numero di informazioni in un termine ravvicinato all’assemblea (cinque giorni prima) generando costi elevati e difficoltà nel processare le informazioni, senza benefici in termini di organizzazione assembleare. Nel testo finale del Decreto si è opportunamente previsto che la comunicazione dall’intermediario all’emittente sia effettuata su richiesta del titolare del conto che intende partecipare all’assemblea e la record date è stata fissata sette giorni di mercato aperto precedenti la data dell’assemblea in prima o unica convocazione; (vi) la rivisitazione della disciplina delle deleghe di voto e della sollecitazione delle deleghe di voto; (vii) la previsione di numerose soluzioni opzionali rimesse a scelte statutarie, come ad esempio, la facoltà di prevedere una convocazione unica dell’assemblea, di identificare gli azionisti (non presenti in sede di consultazione ma auspicata da Assonime nella risposta alla consultazione), di maggiorare il dividendo a favore di taluni soci che detengano le azioni per un periodo continuativo di tempo, di nominare un rappresentante designato per raccogliere le deleghe e le istruzioni di voto, di consentire l’intervento in assemblea mediante mezzi di telecomunicazione ovvero l’espressione del voto per corrispondenza o in via elettronica. Le novità sul funzionamento dell’assemblea sono state commentate da una seconda circolare di Assonime4.

Al quadro normativo sulla disciplina delle assemblee si sono poi aggiunti, nel 2011, il decreto legge 25 marzo 2011 n. 26 sulle “misure urgenti per garantire l’ordinato svolgimento delle assemblee societarie annuali”5 e la delibera Consob n. 17730 del 31 marzo 2011 che ha modificato alcuni profili relativi ai costi della sollecitazione delle deleghe di voto.

La nuova disciplina sul funzionamento dell’assemblea riguarda principalmente le società con azioni (ordinarie) quotate, le azioni di risparmio, le obbligazioni6; alcune disposizioni si applicano anche agli emittenti azioni diffuse tra il pubblico in misura rilevante. Dall’ambito di applicazione del Decreto sono state invece espressamente escluse le società cooperative; ciò in attuazione del criterio di delega contenuto nella legge comunitaria (legge 7 luglio 2009 n. 88).

Con il Decreto, si delinea ancora di più uno statuto differenziato delle società quotate, o comunque

4. Cfr. Circolare Assonime n. 14/2011.

5. Il decreto, entrato in vigore il 27 marzo 2011, ha previsto la possibilità, per gli emittenti quotati aventi l’Italia come Stato membro di origine, di convocare l’assemblea annuale di approvazione del bilancio nel termine di 180 giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale 2010, anche qualora tale possibilità non sia prevista dallo statuto. Si rammenta che, per effetto dell’introduzione dell’art. 154-ter TUF che aveva recepito la direttiva Transparency (direttiva 2004/109/CE), non era più consentito alle società convocare l’assemblea annuale di bilancio entro 180 giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale, come invece previsto dall’art. 2364 c.c. Ciò in quanto la norma imponeva l’obbligo di pubblicazione del bilancio di esercizio, così come approvato dall’assemblea, entro 120 giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale. Con il recepimento della direttiva sui diritti degli azionisti, l’art. 154-ter è stato modificato e ora la disposizione impone la pubblicazione, entro 120 giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale, del progetto di bilancio approvato dall’organo amministrativo (in luogo del bilancio approvato dall’assemblea), con la conseguenza che le società possono tornare ad avvalersi della facoltà di prevedere in statuto la convocazione dell’assemblea entro 180 giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale. Il decreto legge ha anche consentito alle società che abbiano già pubblicato l’avviso di convocazione, di convocare l’assemblea, in prima o unica convocazione, a nuova data, nel rispetto dei termini e delle modalità di cui all’art. 125-bis TUF, purché non sia ancora decorso il termine previsto dall’art. 83-sexies, comma 2, TUF (ovvero la record date). Il decreto legge ha infine previsto che, qualora l’assemblea sia stata convocata anche per la nomina degli organi societari, le liste già depositate siano ritenute valide anche per la nuova convocazione ed è consentito presentare nuove liste. Il decreto infine stabilisce che qualora sia stata convocata con medesimo avviso anche l’assemblea straordinaria, questa può essere rinviata a nuova data.

6. Per un’analisi della questione dell’applicabilità alle azioni di risparmio e alle obbligazioni, si rinvia alla Circolare Assonime n. 14/2011.

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delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (società con azioni quotate e società con azioni diffuse tra il pubblico in misura rilevante, con l’eccezione delle cooperative quotate), rispetto alle società “chiuse”, secondo una linea di tendenza già segnata dalla riforma del diritto societario del 2003.

Il Decreto ha dunque posto le premesse per un maggior coinvolgimento degli azionisti, retail e minoranze qualificate, alla vita della società; la valutazione dell’effettiva applicazione delle nuove norme consentirà di constatare se tali maggiori poteri e strumenti saranno effettivamente utilizzati.

1.2 La disciplina OPA

Nel biennio la disciplina sull’OPA è stata modificata dal decreto legislativo 25 settembre 2009, n. 146 (di seguito “d.lgs. 146/2009” o “decreto correttivo”) che ha introdotto disposizioni integrative e correttive al decreto di trasposizione della direttiva comunitaria e ha rivisto alcune delle scelte normative adottate con il c.d. decreto anti-crisi del novembre 20087 e dall’art. 7 della legge 9 aprile 2009, n. 33, di conversione del decreto legge del 10 febbraio 2009, n. 5 recante misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi, che ha elevato dal 3% al 5% la soglia di partecipazione rilevante per l’obbligo di OPA da consolidamento della partecipazione. Assonime ha pubblicato una circolare sulle modifiche introdotte dal decreto anti-crisi8 e una circolare sul decreto correttivo9.

Le modifiche principali introdotte dal decreto correttivo riguardano la disciplina dell’azione di concerto e della passivity rule. Le altre modifiche riguardano l’ambito di applicazione della disciplina sulle offerte pubbliche di acquisto e scambio; la definizione di partecipazione rilevante ai fini dell’obbligo di OPA; l’obbligo di acquisto e il diritto di acquisto; i patti parasociali e le sanzioni contro la violazione dell’obbligo di OPA.

Il d.lgs. 146/2009 ha introdotto una definizione generale di concerto, in linea con quanto previsto dalla direttiva, e ha mantenuto le ipotesi di presunzione assoluta di concerto già previste dal TUF. Il decreto correttivo, innovando rispetto alla disciplina precedente, ha poi attribuito alla Consob il potere di individuare, con regolamento (i) altre ipotesi con riguardo alle quali si presume, salvo prova contraria, l’azione di concerto e (ii) casi nei quali, invece, la cooperazione tra più soggetti non configura un’ipotesi rilevante (art. 101-bis, 4-ter). La norma risponde a un’esigenza di certezza per gli operatori di mercato e costituisce un incentivo per gli investitori istituzionali e gli altri azionisti a esercitare i propri diritti sociali, senza timore che i propri comportamenti vengano impropriamente assimilati all’azione di concerto10.

Le principali criticità dell’impianto normativo discendono dall’eccessiva rigidità delle presunzioni assolute di concerto. Da un lato, infatti, la norma può produrre effetti non coerenti con la sua finalità: si pensi al caso di un amministratore, anche senza deleghe, contrario a un’OPA lanciata dalla società di cui è amministratore e che viene però considerato dalla norma come “concertista” con la società stessa. Dall’altro, la norma rischia di sanzionare anche comportamenti non necessariamente concertati: si pensi, ad esempio, alla rilevanza attribuita a tutti i patti parasociali, ivi inclusi quelli di consultazione o di prelazione convenzionale, o quelli che vincolano a non superare una certa percentuale di possesso, pur quando essi lasciano gli aderenti al patto liberi di votare come meglio credono e, quindi, anche di seguire condotte antitetiche. Assonime aveva segnalato la questione alle Commissioni Parlamentari competenti a esprimere il parere sullo schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri con lettera del Presidente del 22 luglio 200911, con la quale si

7. Cfr. Relazione di Assonime sull’attività 2007/2008, 16 giugno 2009, p. 19.

8. Cfr. Circolare Assonime n. 18/2009.

9. Cfr. Circolare Assonime n. 4/2010.

10. In questo senso, si era espressa Assonime con una lettera alle Commissioni Parlamentari del 22 luglio 2009. La disposizione così introdotta pone il nostro ordinamento in linea con le raccomandazioni formulate in materia dall’OCSE e riproposte nel rapporto del Comitato ESME (European Securities Market Expert Group) della Commissione Europea.

11. Lettere di Assonime del 23 luglio 2009 alla Commissione Finanze della Camera e alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato sullo schema di decreto correttivo sull’OPA.

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chiedeva espressamente di rimuovere le ipotesi tassative di concerto e di consentire sempre la prova contraria.

Il decreto correttivo è intervenuto nuovamente in materia di “passività” degli amministratori: l’art. 104 impone la regola della passività alle società italiane quotate, ma consente ora agli statuti di derogarvi in tutto o in parte. Resta ferma la disposizione in materia di reciprocità, ai sensi della quale la passività non si applica se l’offerente non è soggetto alla medesima regola nel proprio ordinamento. Il decreto correttivo ha modificato il regime di opt-in in materia di passivity che era stato introdotto con il decreto anti-crisi. La nuova modifica risponde all’esigenza, manifestata nei pareri delle Commissioni Parlamentari sullo schema di decreto legislativo, di rivedere il regime di contendibilità delle società italiane quotate nel momento in cui le condizioni di mercato lo consentissero. Nella sua lettera alle Commissioni Parlamentari, Assonime aveva invece chiesto di rimuovere le restrizioni introdotte dal decreto anti-crisi, ripristinando integralmente la previgente versione del Testo Unico della Finanza che prevedeva l’obbligatorietà della passivity rule, sempre a condizione di reciprocità.

Il quadro normativo è stato completato solo recentemente con la modifica del Regolamento Emittenti in materia di offerte pubbliche d’acquisto adottata con delibera della Consob n. 17731 del 5 aprile 2011. La delibera è stata preceduta da due consultazioni: la prima si è svolta dal 6 ottobre al 15 novembre 2010 e la seconda dal 18 febbraio al 4 marzo 2011. Assonime ha risposto ad entrambe12.

1.3 La nuova disciplina sulle remunerazioni

A seguito della crisi finanziaria internazionale e dell’ampio dibattito sviluppatosi sul tema della remunerazione quale una delle concause che hanno contribuito all’assunzione di rischi eccessivi da parte degli intermediari finanziari, la Commissione europea ha pubblicato, nell’aprile 2009 e senza procedura di consultazione, due raccomandazioni, rispettivamente, sulle politiche retributive nel settore dei servizi finanziari (C(2009) 3159) e sulla remunerazione degli amministratori delle società quotate (C(2099) 3177). Quest’ultima raccomandazione integra le raccomandazioni precedenti del 2004 (2004/913/CE) e 2005 (2005/162/CE) sulla remunerazione e sul ruolo degli amministratori nelle società quotate.

I principi fondamentali della raccomandazione del 2004 sulla remunerazione erano i seguenti: (i) trasparenza della politica di remunerazione, costituita da una serie di informazioni predeterminate e che dovrebbe rappresentare un punto separato all’ordine del giorno dell’assemblea; (ii) voto degli azionisti sulla politica di remunerazione (vincolante o consultivo); (iii) pubblicazione della remunerazione individuale degli amministratori nei conti annuali o negli allegati o, se del caso, nella relazione sulle remunerazioni: (iv) approvazione preventiva da parte degli azionisti dei piani di compenso basati su azioni.

La raccomandazione europea del 2009 per le società quotate stabilisce alcuni precisi criteri per la determinazione delle remunerazione in tema, per esempio, di rapporto tra componente variabile e componente fissa, di importo massimo per il trattamento di fine rapporto e periodo di vesting per i piani di compenso basati su azioni.

La raccomandazione europea del 2009 per gli intermediari finanziari prescrive più dettagliatamente la struttura della politica retributiva rispetto alla raccomandazione per le società quotate e fissa alcuni criteri per la determinazione dei compensi.

Oltre alle raccomandazioni della Commissione europea si è assistito al proliferare di interventi sul

12. Osservazioni al documento di consultazione “Modifiche al Regolamento Emittenti in materia di offerte pubbliche di acquisto e scambio" del 6 ottobre 2010, 8 dicembre 2010; Osservazioni al secondo documento di consultazione “Modifiche al Regolamento Emittenti in materia di offerte pubbliche di acquisto e di scambio" del 18 febbraio 2011, 11 marzo 2011.

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tema da parte di diverse istituzioni internazionali13.

Buona parte dei principi contenuti nella raccomandazione europea del 2004 erano già stati recepiti nel nostro ordinamento. Da un lato, l’approvazione preventiva degli azionisti circa i piani di compenso basati su strumenti finanziari è stata prevista dalla legge per la tutela del risparmio che ha introdotto nel TUF l’art. 114-bis. Dall’altro lato, l’informativa sui compensi erogati è assicurata dalle disposizioni contenute nel Regolamento Emittenti già da diversi anni.

Ciò che tuttavia non era ancora stato implementato, rispetto alla raccomandazione comunitaria del 2004 era: (i) la trasparenza della politica di remunerazione; (ii) la sottoposizione di tale politica di remunerazione all’assemblea dei soci chiamata ad esprimersi con voto consultivo o vincolante (principio c.d. say on pay), con la possibilità per gli Stati membri di subordinare l’intervento dei soci a una richiesta di almeno il 25% del capitale.

Allo scopo di aderire alla raccomandazione comunitaria del 2009 era invece necessario intervenire per prevedere una disciplina sui criteri per la fissazione della remunerazione dei managers. I primi interventi in tale materia sono stati effettuati in sede autoregolamentare mediante la modifica al Codice di autodisciplina (di seguito “Codice”); come verrà meglio precisato sub par. 5.1, il Comitato per la Corporate Governance ha infatti approvato, nel marzo 2010, il nuovo testo dell’art. 7 in materia di remunerazione degli amministratori e dei dirigenti con responsabilità strategiche.

Con le modifiche apportate all’art. 7 del Codice di autodisciplina: (i) sono stati introdotti i criteri per la determinazione delle remunerazioni degli amministratori; (ii) è stata rivisitata la composizione del comitato per la remunerazione cui sono stati attribuiti nuovi compiti; (iii) è stata prevista la redazione, da parte del Cda, di una relazione sulla politica delle remunerazioni da presentare, con cadenza almeno annuale, all’assemblea. In tal modo è stato completato il recepimento delle raccomandazioni comunitarie del 2004 e parte di quelle contenute nella raccomandazione comunitaria del 2009.

Successivamente è stato emanato, alla luce della delega contenuta all’art. 24 della legge 4 giugno 2010, n. 96 (legge comunitaria 2009), il decreto legislativo 30 dicembre 2010, n. 259 (di seguito “Decreto”) per l’attuazione delle raccomandazioni comunitarie del 2004 e del 2009. Il Decreto, preceduto da una consultazione pubblica cui Assonime ha risposto14, ha quindi dato attuazione ai principi contenuti nelle due raccomandazioni comunitarie che ancora non erano stati recepiti, a livello legislativo e di autodisciplina, nel nostro ordinamento; in particolare si tratta delle previsioni che concernono la politica delle remunerazioni, il regime informativo e il voto degli azionisti. La parte sui criteri per la determinazione delle remunerazioni non è stata inclusa nel Decreto in quanto già recepita dal Codice al novellato art. 7.

Il Decreto ha introdotto nel TUF l’art. 123-ter che stabilisce il contenuto della relazione sulla remunerazione, il relativo regime informativo e il voto consultivo dell’assemblea, limitato a una sezione della predetta relazione sulla remunerazione. La Consob è chiamata ad emanare un regolamento, sentite Banca d’Italia e Isvap, per indicare le informazioni da includere nella relazione sulla remunerazione. Secondo quanto previsto dal Decreto, la relazione sulla remunerazione è presentata all’assemblea annuale convocata nell’esercizio successivo a quello nel corso del quale entra in vigore il regolamento attuativo, peraltro non ancora emanato.

Sempre in tema di remunerazione, la Consob è intervenuta, nel febbraio 2011, con una comunicazione15, preceduta da una consultazione avviata il 18 gennaio 2011 cui Assonime ha risposto16. La comunicazione in commento è intervenuta richiedendo o raccomandando agli emittenti di fornire

13. A mero titolo esemplificativo si segnalano: (i) statement in materia di remunerazioni dell’European Corporate Governance Forum del marzo 2009; (ii) Principi dell’aprile 2009 e gli Implementation Standards del Financial Stability Board del settembre 2009; (iii) High Level principles for remuneration policies del Committee of European Banking Supervisors dell’aprile 2009; (iv) Green Paper della Commissione europea – Corporate governance in financial institutions and remuneration policies – COM (2010)286.

14. Risposta alla consultazione del 14 dicembre 2010.

15. Comunicazione n. DEM/11012984 del 24 febbraio 2011.

16. Cfr. Risposta alla consultazione del 17 febbraio 2011.

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alcune informazioni in tema di compensi degli amministratori sebbene il quadro complessivo di talune di queste informazioni fosse stato reso nella relazione sul governo societario, in molti casi già approvata dagli organi amministrativi delle società all’epoca dell’emanazione della comunicazione.

1.4 La disciplina sulla revisione legale dei conti

Con il decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39 è stata data attuazione alla direttiva 2006/43/CE in materia di revisione legale dei conti annuali e dei conti consolidati17.

Assonime ha seguito l’iter normativo per la trasposizione della direttiva e ha presentato le proprie osservazioni alle Commissioni parlamentari competenti18.

Il decreto modifica profondamente il quadro delle fonti, raccogliendo in un unico testo normativo le disposizioni in materia di revisione legale. La nuova disciplina individua i soggetti che sono legittimati all’esercizio dell’attività e definisce le modalità di affidamento ed estinzione dell’incarico; l’oggetto dell’attività di controllo; le modalità di svolgimento della revisione (poteri, doveri e responsabilità dei revisori); il sistema di vigilanza pubblica sull’attività di revisione; il sistema sanzionatorio di natura amministrativa e penale.

Di conseguenza molte norme che regolavano la materia sono state abrogate. Nel codice civile sono state abrogate le disposizioni relative alla funzione di controllo contabile, al conferimento e alla revoca dell’incarico di revisione, alle cause di ineleggibilità-decadenza dei revisori, alla responsabilità della società di revisione. Sono state invece solo modificate le norme che individuavano il soggetto deputato a esercitare il controllo contabile, quelle sullo scambio di informazioni tra collegio sindacale e revisore e sull’attribuzione ai revisori o alle società di revisione di compiti non compresi propriamente nell’attività di revisione. Nel TUF sono state abrogate le norme che disciplinano la nozione di revisione contabile, le modalità di esercizio della revisione, la relazione di revisione, il conferimento e la revoca dell’incarico, le incompatibilità, l’albo speciale, la vigilanza sulle società di revisione, la responsabilità della società di revisione, la revisione di gruppo. Rimangono alcune previsioni relative alla revisione di società con azioni quotate. Residuano anche alcune limitate previsioni in materia di banche e assicurazioni.

Il quadro normativo dovrà essere poi completato con l’emanazione di una serie di regolamenti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e della Consob.

Sotto un profilo sostanziale, il testo unico sulla revisione legale sostituisce la pluralità di discipline speciali con un regime composto da un nucleo di norme comuni, applicabili a tutte le società, e alcune disposizioni speciali per le società qualificabili come “enti d’interesse pubblico”.

Il decreto conferma la scelta, già operata dalla riforma del diritto societario, di affidare la revisione legale nelle società per azioni, in linea di principio, ad un revisore esterno, mentre nelle società a responsabilità limitata, nel caso in cui ricorra tale obbligo, essa compete al collegio sindacale.

Il nuovo articolo 2409-bis del codice civile stabilisce, dunque, che la revisione legale dei conti nelle società per azioni (e nelle società in accomandita per azioni in virtù del richiamo alle norme in materia di società per azioni contenuto nell’art. 2454 c.c.) è esercitata da un revisore legale oppure da una società di revisione iscritti nell’apposito registro. Lo statuto delle società che non sono tenute alla redazione del bilancio consolidato può prevedere che la revisione legale sia esercitata dal collegio sindacale. Nel caso in cui la revisione sia esercitata dal collegio sindacale, i componenti di questo organo devono essere iscritti nel registro dei revisori.

Nelle società a responsabilità limitata, il nuovo articolo 2477 del codice civile richiede in via obbligatoria la nomina del collegio sindacale: (i) se il capitale sociale non è inferiore a quello minimo previsto per le società per azioni; (ii) se la società è tenuta alla redazione del bilancio consolidato;

17. Cfr. Circolare Assonime n. 16/2010.

18. Cfr. le osservazioni del 24 novembre 2009 presentate alle Commissioni parlamentari.

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(iii) se la società controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti; (iv) se per due esercizi consecutivi sono superati due dei limiti previsti dall’articolo 2435-bis per la redazione del bilancio in forma abbreviata. In quest’ultimo caso l’obbligo cessa se, per due esercizi consecutivi, due dei limiti non vengono superati.

In caso di nomina obbligatoria, l’attività di controllo è disciplinata dalle disposizioni relative alle società per azioni. Questo comporta che la società è soggetta a revisione legale dei conti. Nella società a responsabilità limitata, però, l’attività di revisione legale, a differenza della società per azioni, è esercitata dal collegio sindacale, salvo i casi in cui: (i) la società a responsabilità limitata sia tenuta alla redazione del consolidato; (ii) sia qualificata ente di interesse pubblico o sia controllata, controllante o sottoposta a comune controllo di un ente di interesse pubblico; (iii) oppure ancora quando l’atto costitutivo attribuisca l’attività di revisione a un revisore esterno.

Rispetto alla disciplina previgente la novità più significativa consiste nell’estensione dell’obbligo di nominare il collegio sindacale ai casi in cui la società a responsabilità limitata sia tenuta alla redazione del consolidato oppure controlli una società obbligata a sua volta alla revisione legale dei conti.

L’esercizio dell’attività di revisione legale dei conti annuali e dei conti consolidati è riservata agli iscritti in un apposito Registro.

La disciplina previgente era anch’essa incentrata su un registro dei revisori contabili istituito presso il Ministero della Giustizia che abilitava al controllo dei documenti contabili. Il controllo dei documenti contabili delle società con azioni quotate e delle altre società ad esse assimilate era, invece, riservato alle società di revisione iscritte nell’albo speciale tenuto dalla Consob e i requisiti richiesti per l’iscrizione in tale albo erano disciplinati dal TUF. Queste previsioni sono state ora abrogate. Il decreto istituisce infatti un Registro unico nel quale possono essere iscritte sia le persone fisiche sia le società, purché siano in possesso di determinati requisiti e soddisfino precise condizioni. L’iscrizione nel registro abilita all’esercizio dell’attività di revisione legale.

Nella disciplina previgente, il rapporto di revisione era diversamente regolato secondo che la società tenuta all’obbligo della revisione legale fosse sottoposta al regime di diritto comune previsto dal codice civile, oppure fosse soggetta alle disposizioni contenute nel TUF. Il decreto detta, invece, una regolamentazione del rapporto di revisione comune a tutte le società. La nuova disciplina prevede che, salvo il caso della nomina effettuata dai soci nell’atto costitutivo, l’incarico di revisione legale deve essere conferito dall’assemblea su proposta motivata dell’organo di controllo. L’assemblea che conferisce l’incarico è quella ordinaria.

Per le società che adottano il sistema tradizionale di amministrazione e controllo, quindi, la proposta di nomina dovrà essere formulata dal collegio sindacale. Nel caso in cui sia invece adottato il modello di amministrazione e controllo dualistico oppure monistico, la proposta di nomina dovrà provenire rispettivamente dal consiglio di sorveglianza o dal comitato per il controllo sulla gestione. È da ritenere che l’organo di controllo, nel formulare la proposta, dovrà valutare l’idoneità tecnica del revisore, la sua indipendenza, nonché la completezza del piano di revisione e dell’organizzazione della società in relazione all’ampiezza e complessità dell’incarico da svolgere.

L’assemblea che conferisce l’incarico di revisione determina anche il compenso per l’attività esercitata. La competenza assembleare riguarda propriamente quelle attività esercitate dal revisore o dalla società di revisione a favore della società revisionata rientranti nella nozione di revisione legale in senso stretto. Non dovrebbero rientrare, invece, in tale competenza la determinazione di quei compensi attribuiti al revisore o alla società di revisione per i servizi di natura diversa dalla revisione legale. Si pensi, a titolo di esempio, alle relazioni che devono accompagnare le fusioni a seguito di acquisizione con indebitamento di cui all’articolo 2501-bis del codice civile. Il compenso per tali servizi aggiuntivi dovrebbe essere quindi deliberato direttamente dal consiglio di amministrazione, o dall’organo delegato, in quanto si qualifica come corrispettivo dovuto a fronte di prestazioni professionali, che anche se predisposte su richiesta dell’assemblea, rientrano istituzionalmente nella competenza dell’organo di gestione.

Una novità rispetto al passato riguarda la previsione per cui l’assemblea che conferisce l’incarico di

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revisione e determina il compenso può stabilire anche gli eventuali criteri per l’adeguamento dello stesso durante l’incarico.

Con riguardo alla durata dell’incarico di revisione il decreto prevede che la durata dell’incarico sia di tre esercizi e scada alla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo al terzo esercizio dell’incarico.

Le cause di cessazione del rapporto di revisione sono: (i) la naturale scadenza del termine di durata dell’incarico; (ii) la morte del revisore individuale o la cessazione della società di revisione; (iii) la revoca per giusta causa. Accanto alle tradizionali ipotesi di scioglimento del rapporto, il decreto aggiunge due ulteriori cause: le dimissioni del revisore e la risoluzione consensuale.

La determinazione dei casi e delle modalità delle dimissioni, della risoluzione consensuale e della revoca per giusta causa devono essere definite con regolamento dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, sentita la Consob.

Particolarmente innovativa si presenta la disciplina in materia di indipendenza. La disciplina previgente contenuta nel codice civile, al fine di assicurare l’indipendenza dei soggetti incaricati di esercitare la revisione contabile, partiva dall’individuazione di una serie di situazioni che si presumevano idonee a pregiudicare l’indipendenza del revisore. La sussistenza di queste situazioni determinava l’incompatibilità del revisore a svolgere l’incarico ed erano qualificate quali cause di ineleggibilità-decadenza.

La nuova disciplina muta radicalmente l’approccio al problema e, sulla scia delle indicazioni che derivano dal diritto comunitario e in particolare dagli articoli 22, 24 e 25 della direttiva 2006/43/CE, passa da un sistema incentrato su figure predefinite di incompatibilità di carattere formale ad un sistema fondato su principi volti ad assicurare l’indipendenza sotto un profilo sostanziale.

I principi cardine in materia sono due: il revisore legale e la società di revisione legale che effettuano la revisione di una società devono essere indipendenti da questa; essi non devono essere in alcun modo coinvolti nel suo processo decisionale. Il principio di indipendenza risulta declinato attraverso una serie di corollari che si concentrano su tre profili: i rapporti tra revisore e società revisionata; il comportamento dei soci e dei componenti dell’organo di amministrazione della società di revisione legale e dell’affiliata; la determinazione del corrispettivo.

Sotto il primo profilo la regola è che il revisore legale e la società di revisione non devono effettuare la revisione legale dei conti di una società qualora tra tale società e il revisore o la società di revisione o la rete sussistano relazioni finanziarie, d’affari, di lavoro o di altro genere, comprese quelle derivanti dalla prestazione di servizi diversi dalla revisione contabile, dalle quali un terzo informato, obiettivo e ragionevole trarrebbe la conclusione che l’indipendenza del revisore o della società di revisione risulta compromessa. La norma prende in considerazione quelle relazioni che intercorrono tra la società soggetta a revisione e il revisore o la società di revisione o entità appartenenti alla medesima rete del revisore o della società di revisione. Si prende in considerazione anche il “rischio” di compromissione dell’indipendenza. Nel caso in cui l’indipendenza del revisore rischi di essere compromessa il revisore o la società di revisione devono adottare misure volte a ridurre tali rischi. Qualora infine il rischio assuma un rilievo tale da compromettere l’indipendenza, il revisore o la società di revisione non devono effettuare la revisione. Tra le situazioni di rischio, sono elencate, in via meramente esemplificativa, le situazioni di autoriesame (e cioè i casi in cui il revisore esegua un’attività di controllo su dati o elementi che il revisore o un appartenente alla sua rete ha contribuito a elaborare), interesse personale (e cioè i casi in cui il revisore sia portatore di un interesse finanziario o di altra natura), esercizio del patrocinio legale (e cioè i casi in cui assume le funzioni di avvocato a sostegno o contro le posizioni del cliente), familiarità e fiducia eccessiva (e cioè i casi in cui il revisore sia indebitamente influenzato dalla personalità e dalle qualità del cliente), intimidazione (e cioè i casi in cui il revisore non si comporti obiettivamente per minacce o timore del cliente).

La funzione di revisione legale si sostanzia nell’attività di controllo sul bilancio consolidato e sul bilancio d’esercizio. Questa attività viene sintetizzata dal decreto attraverso la formula per cui il revisore legale e la società di revisione incaricati di effettuare la revisione legale dei conti devono: (i) esprimere con apposita relazione un giudizio sul bilancio d’esercizio e sul bilancio consolidato (nel

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caso in cui quest’ultimo sia redatto); (ii) verificare nel corso dell’esercizio la regolare tenuta della contabilità sociale e la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili.

Non appartengono alla nozione di revisione legale propriamente detta gli altri compiti che il legislatore riserva al revisore legale o alla società di revisione.

Questa distinzione non ha un mero rilievo concettuale ma comporta rilevanti conseguenze operative. In particolare le norme previste nel decreto in ordine al conferimento dell’incarico, alla determinazione del corrispettivo nonché alla sua estinzione sono dirette a regolare solo l’incarico di revisione legale propriamente detto e non gli altri compiti che il revisore o la società di revisione pongono in essere. Questo significa, ad esempio, che questi compiti diversi possono essere conferiti direttamente dagli amministratori che possono determinarne anche il corrispettivo.

La responsabilità dei revisori e delle società di revisione è disciplinata in senso unitario ed è applicabile a tutti i revisori iscritti al registro. Essa prevede la responsabilità solidale di revisori, società di revisione e amministratori della società per i danni provocati dai loro inadempimenti alla società revisionata, ai soci e ai terzi con la precisazione che, nei rapporti interni tra debitori solidali, essi sono responsabili nei limiti del contributo effettivo al danno cagionato. Si afferma poi la responsabilità solidale del responsabile della revisione e dei dipendenti per i danni conseguenti ai loro inadempimenti o fatti illeciti, con la precisazione che essi sono responsabili entro i limiti del contributo effettivo al danno cagionato. In ogni caso, il termine per fare valere il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni dalla data della relazione di revisione sul bilancio di esercizio o consolidato emessa al termine dell’attività di revisione cui si riferisce l’azione di responsabilità.

Rispetto a quanto disponevano sia l’art. 2406-sexies sia l’art. 164 TUF, nella nuova norma è venuto meno il rinvio all’art. 2407 c.c., che consentiva l’applicazione diretta ai revisori della disciplina sulla responsabilità del collegio sindacale. In questo modo si configura la responsabilità dei revisori come un’ipotesi tipica e autonoma di responsabilità. Il cambiamento determina diverse conseguenze che meritano attenzione: (i) non è più indicato il parametro di diligenza che deve essere osservato dal revisore nell’adempimento, che l’art. 2407 c.c. individua nella diligenza richiesta “dalla natura dell’incarico”; (ii) non trova più applicazione la regola secondo la quale i revisori sono responsabili solidalmente con gli amministratori per i fatti e le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica; (iii) non c’è più la previsione che obbligava i revisori a conservare il segreto sui fatti e sui documenti cui hanno conoscenza per ragione del loro ufficio.

Tra le novità più significative del decreto vi è l’introduzione nel nostro ordinamento della categoria degli enti di interesse pubblico, mutuata dalla direttiva comunitaria, che si riferisce a società che operano in ambiti di particolare interesse pubblico. A queste società si applicano alcune regole speciali che riguardano: (i) i soggetti legittimati ad esercitare l’incarico; (ii) la durata dell’incarico di revisione; (iii) requisiti più stringenti d’indipendenza; (iv) obblighi specifici di trasparenza a carico dei revisori; (v) l’attribuzione all’organo di controllo del ruolo di “comitato per il controllo interno e la revisione contabile”, con compiti specifici in materia di informazione finanziaria, sistema di controllo interno e revisione legale.

Sono enti di interesse pubblico: a) le società italiane emittenti valori mobiliari ammessi alla negoziazione su mercati regolamentati italiani e dell’Unione europea e quelle che hanno richiesto l’ammissione alla negoziazione; b) le banche; c) le imprese di assicurazione, le imprese di riassicurazione, con sede legale in Italia, e le sedi secondarie in Italia delle imprese di riassicurazione extracomunitarie; d) le società emittenti strumenti finanziari, che, ancorché non quotati su mercati regolamentati, sono diffusi tra il pubblico in maniera rilevante; e) le società di gestione dei mercati regolamentati; f) le società che gestiscono i sistemi di compensazione e di garanzia; g) le società di gestione accentrata di strumenti finanziari; h) le società di intermediazione mobiliare; i) le società di gestione del risparmio; l) le società di investimento a capitale variabile; m) gli istituti di pagamento di cui alla direttiva 2009/64/CE; n) gli istituti di moneta elettronica; o) gli intermediari finanziari di cui all’articolo 106 del TUB.

Per quanto riguarda i soggetti legittimati ad esercitare l’attività di revisione, si stabilisce che nelle società qualificate come enti di interesse pubblico, nonché nelle società controllate da enti di interesse

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pubblico, nelle società che controllano enti di interesse pubblico e nelle società sottoposte a comune controllo, la revisione legale non può essere esercitata dal collegio sindacale. La Consob, d’intesa con la Banca d’Italia e l’Isvap, può individuare tra le società controllate e le società sottoposte a comune controllo quelle nelle quali la revisione può essere affidata al collegio sindacale, in considerazione della rilevanza non significativa nell’ambito del gruppo.

L’incarico di revisione legale negli enti di interesse pubblico, nel caso in cui venga affidato ad una società di revisione, ha la durata di nove esercizi, mentre nel caso in cui sia affidato ad un revisore persona fisica, ha una durata di sette esercizi. In entrambi i casi esso non può essere rinnovato o nuovamente conferito se non siano decorsi almeno tre esercizi dalla cessazione del precedente incarico.

In attuazione delle previsioni della direttiva comunitaria viene introdotta la figura del comitato per il controllo interno e la revisione contabile, individuando le funzioni che è chiamato a svolgere e quale organo assuma tale qualifica.

Il comitato vigila su: a) il processo di informativa finanziaria; b) l’efficacia dei sistemi di controllo interno, di revisione interna, se applicabile, e di gestione del rischio; c) la revisione legale dei conti annuali e dei conti consolidati; d) l’indipendenza del revisore legale o della società di revisione legale, in particolare per quanto concerne la prestazione di servizi non di revisione all’ente sottoposto alla revisione legale dei conti.

Il comitato per il controllo interno e la revisione contabile si identifica con: a) il collegio sindacale, nelle società che adottano sistemi di amministrazione e controllo tradizionale; b) il consiglio di sorveglianza ovvero un comitato costituito al suo interno, nelle società che adottano il sistema di amministrazione e controllo dualistico; c) il comitato per il controllo sulla gestione, nelle società che adottano il sistema di amministrazione e controllo monistico.

Il legislatore italiano, dunque, in sede di attuazione della delega ha operato una scelta precisa nell’attribuzione dei compiti del comitato, e non ha ritenuto di mantenere flessibile per le società questa attribuzione, come invece consentito dalla direttiva e dalla stessa legge delega.

L’opzione proposta dal decreto per il modello tradizionale sembra in controtendenza rispetto all’evoluzione normativa italiana e internazionale che ha valorizzato molto l’attività di monitoraggio nel consiglio di amministrazione. Nel sistema delineato dal recente diritto societario il consiglio di amministrazione è il primo controllore dell’attività di impresa. A partire dalla riforma societaria del 2003 il consiglio è chiamato, infatti, a valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile. Questo orientamento trova un significativo presidio anche nei principi di autodisciplina delle società quotate in cui si prevede l’istituzione, all’interno del consiglio di amministrazione, di un comitato che si occupa tanto del sistema di controllo interno quanto dei profili di controllo contabile. In questa linea evolutiva si collocano l’introduzione, nell’ordinamento italiano, di modelli alternativi di governo societario nonché, per le società quotate, l’introduzione in via legislativa, di una componente indipendente degli amministratori e della figura del dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili. Nell’impresa il sistema dei controlli interni rappresenta, oggi, il processo di governo dei rischi aziendali svolto dall’organo di governo societario, dai dirigenti e da altri operatori della struttura aziendale e i controlli contabili costituiscono una parte del più ampio sistema di controllo interno. La stessa direttiva comunitaria sulla revisione legale, al considerando 24, richiama, a proposito del comitato per il controllo interno e la revisione contabile, la raccomandazione della Commissione del 15 febbraio 2005 sul ruolo degli amministratori non esecutivi.

Il decreto sembra invertire questa linea di tendenza. Nella trasposizione della direttiva sulla revisione legale si inserisce, dunque, anche un’importante riforma di governance societaria. La modifica tocca un sistema di regole piuttosto recente, di cui non sono state, forse, apprese ancora tutte le potenzialità. Occorrerà attendere per capire come viene elaborata dall’esperienza delle imprese questa novità legislativa e quale ne siano i reali effetti.

I nuovi compiti attribuiti al collegio sindacale in qualità di comitato richiedono un nuovo coordinamento con i compiti spettanti al (eventuale) comitato per il controllo interno istituito all’interno del consiglio di amministrazione ai sensi del Codice di autodisciplina. Nel definire i rapporti tra collegio sindacale

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e comitato per il controllo interno nel consiglio di amministrazione occorre partire dalla diversa natura delle due figure: il collegio sindacale vigila al fine di verificare il rispetto della legge e della correttezza della gestione per riferirne ai soci; il comitato per il controllo interno nel consiglio di amministrazione svolge compiti istruttori per il consiglio di amministrazione al fine di adottare decisioni.

Di conseguenza l’aver attribuito compiti di vigilanza al collegio sindacale in aree in cui interviene anche il comitato non determina automaticamente il venir meno dei compiti di quest’ultimo. In particolare, per gli ambiti (controllo interno, informazione finanziaria, dati contabili) su cui insistono competenze tanto del consiglio di amministrazione (e quindi del comitato di controllo interno) che del collegio sindacale, si pone un problema di coordinamento tra organi.

Diversa è la questione con riguardo ai compiti che il collegio sindacale è ora chiamato a svolgere, ai sensi dell’articolo 19, in via esclusiva. Essi attengono fondamentalmente alla sfera della revisione legale. Si pensi in particolare ai compiti di: (i) valutare le proposte formulate dalla società di revisione per ottenere l’affidamento del relativo incarico; (ii) valutare il piano di lavoro predisposto per la revisione; (iii) vigilare sull’efficacia del processo di revisione contabile. Essi spettano ora al collegio sindacale e in relazione a tali compiti occorrerà rivedere, pertanto, il ruolo del comitato all’interno del consiglio di amministrazione.

L’articolo 17 del decreto detta alcune disposizioni in materia di indipendenza che sono applicabili alle società qualificabili come enti di interesse nonché ai revisori e alle società di revisione incaricati della revisione presso enti di interesse pubblico. Queste disposizioni non si sostituiscono alle disposizioni generali in materia di indipendenza contenute nell’articolo 10 del d.lgs. n. 39/2010 ma si aggiungono, come si desume dall’inciso “fermo restando il rispetto delle disposizioni del’articolo 10”. Ciò significa che, per questi soggetti, si ha un’applicazione cumulativa dei principi generali dell’articolo 10 e delle norme speciali. Si tratta di disposizioni che riprendono sostanzialmente i principi che erano già previsti per le società con azioni quotate dall’articolo 160 del TUF con alcune innovazioni. Questa disciplina concerne: (i) la prestazione di servizi diversi dalla revisione; (ii) l’individuazione delle situazioni che possono compromettere l’indipendenza; (iii) la rotazione del responsabile della revisione; (iv) le regole sul passaggio di soggetti dalla società di revisione alla società revisionata e dalla società revisionata alla società di revisione.

Il punto di partenza della disciplina è costituito dal tendenziale divieto di fornire servizi diversi dalla revisione. I revisori legali, le società di revisione legale e le entità appartenenti alla loro rete, i soci, gli amministratori, i componenti degli organi di controllo e i dipendenti della società di revisione legale non possono fornire alcuno dei seguenti servizi all’ente di interesse pubblico che ha conferito l’incarico di revisione e alle società dallo stesso controllate o che lo controllano o sono sottoposte a comune controllo. I servizi interessati sono: a) la tenuta dei libri contabili e altri servizi relativi alle registrazioni contabili o alle relazioni di bilancio; b) la progettazione e la realizzazione dei sistemi informativi contabili; c) i servizi di valutazione e stima e di emissione di pareri pro veritate; d) i servizi attuariali; e) la gestione esterna dei servizi di controllo interno; f) la consulenza e i servizi in materia di organizzazione aziendale diretti alla selezione, formazione e gestione del personale; g) l’intermediazione di titoli, la consulenza per l’investimento o i servizi bancari d’investimento; h) la prestazione di difesa giudiziale; i) gli altri servizi e attività, anche di consulenza, inclusa quella legale, non collegati alla revisione, individuati dalla Consob.

Il decreto contiene, infine, anche le sanzioni per i reati commessi dai revisori legali e dalle società di revisione. Le corrispondenti disposizioni contenute nel codice civile e nel TUF sono abrogate. I reati previsti dal decreto sono: (i) falsità nelle relazioni o comunicazioni dei responsabili della revisione legale; (ii) corruzione dei revisori; (iii) impedito controllo; (iv) compensi illegali; (v) illeciti rapporti patrimoniali con la società assoggettata a revisione.

Sono infine previste: (i) una circostanza aggravante nel caso in cui derivi alla società assoggettata alla revisione un danno di rilevante gravità; (ii) la comunicazione della sentenza di condanna al Ministero dell’Economia e delle Finanze e alla Consob a cura del cancelliere dell’autorità giudiziaria che ha emesso la sentenza.

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1.5 La disciplina sugli intermediari finanziari

Il decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 141, modificato e integrato con il decreto legislativo 14 dicembre 2010, n. 218, ha introdotto nel nostro ordinamento una nuova disciplina in materia di intermediari finanziari19. Le nuove norme originano dalla legge comunitaria del 2008 con cui è stata attribuita al Governo la delega per l’attuazione di decreti legislativi volti a: a) recepire nel nostro ordinamento la direttiva comunitaria n. 2008/48/CE in materia di credito al consumo; b) coordinare il titolo VI del Testo unico bancario in materia di trasparenza delle condizioni contrattuali con le altre disposizioni in materia di trasparenza; c) ridefinire la disciplina relativa ai soggetti operanti nel settore finanziario contenuta nel titolo V del TUB; d) rivedere la disciplina degli agenti in attività finanziaria e mediatori creditizi. In particolare, l’articolo 7 del d.lgs. n. 141/2010 ha sostituito integralmente il titolo V del TUB, l’articolo 8 ha modificato altre norme del TUB che si connettono a questa disciplina, l’articolo 9 ha dettato ulteriori modifiche normative di raccordo, l’articolo 10 ha previsto le disposizioni transitorie e finali.

Assonime ha seguito l’iter normativo per la trasposizione della direttiva e ha preso parte alla consultazione pubblica sullo schema di decreto legislativo di trasposizione avviato dal Ministero dell’Economia nell’aprile 201020. La previgente disciplina in materia di soggetti operanti nel settore finanziario prendeva in considerazione quattro tipi di attività finanziarie (l’assunzione di partecipazioni, la concessione di finanziamenti, la prestazione di servizi di pagamento e l’intermediazione in cambi) e prevedeva tre livelli di disciplina progressivamente più incisivi in considerazione di determinate caratteristiche dell’attività. Questa normativa presentava dei profili critici significativi sia per il numero e la varietà dei soggetti da essa interessati, sia per un’architettura dei controlli che non era efficace e proporzionata rispetto ai rischi connessi con le attività prese in considerazione.

La nuova disciplina in materia di intermediari finanziari non prende più in considerazione una pluralità di attività finanziarie ma si occupa della sola attività di concessione di finanziamenti esercitata nei confronti del pubblico. Di conseguenza, l’attività di assunzione di partecipazioni, anche se svolta nei confronti del pubblico, non è più un’attività soggetta al regime pubblicistico di vigilanza dettato per gli intermediari finanziari. Secondo questa nuova impostazione non rientrano nella disciplina degli intermediari finanziari le holding di partecipazione, nonché le società che esercitano attività assimilabili a quelle di merchant banking attraverso l’acquisizione di partecipazioni, ai fini della loro valorizzazione e smobilizzazione. Non rileva più ai fini della disciplina degli intermediari finanziari neppure l’attività di intermediazione in cambi. Lo stesso d.lgs. n. 141/2010 ha, però, modificato il Testo unico sull’intermediazione finanziaria (cd TUIF) nel senso di prevedere che sono strumenti finanziari e, in particolare, contratti finanziari differenziali: i contratti di acquisto e vendita di valuta, estranei a transazioni commerciali e regolati per differenza, anche mediante operazioni di rinnovo automatico (cd roll-over); le ulteriori operazioni su valute individuate con regolamento del Ministro dell’Economia ai sensi dell’art. 18, comma 5, del TUIF. Per effetto di tale modifica, l’esercizio professionale nei confronti del pubblico dei servizi e delle attività di investimento aventi ad oggetto queste tipologie di operazioni su valuta è un’attività riservata alle imprese di investimento e alle banche.

Nel novero delle attività finanziarie rilevanti ai fini della disciplina in esame non vi è neppure compresa l’attività di prestazione di servizi di pagamento. Tale attività, mentre originariamente rientrava nella disciplina in materia di intermediari finanziari, è ora sottoposta ad un regime autonomo introdotto dal d.lgs. n. 11/2010.

L’attività di finanziamento rileva solo se rivolta nei confronti del pubblico. Le concessioni di finanziamenti che non presentano questa caratteristica sono liberamente esercitabili. In base a questa nuova impostazione viene meno il regime dettato dal previgente articolo 113 secondo cui l’esercizio in via prevalente, ma non nei confronti del pubblico, delle attività finanziarie è riservato ai soggetti iscritti in un’apposita sezione dell’elenco generale tenuto dalla Banca d’Italia. La linea di tendenza di questo nuovo impianto normativo è quindi quella di restringere l’ambito di applicazione della

19. Cfr. Circolare Assonime n. 11/2011.

20. Cfr. risposta Assonime del 24 maggio 2010.

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disciplina, concentrandolo su quei soggetti la cui attività pone in evidenza esigenze di tutela dei consumatori e di tutela della stabilità del mercato finanziario. L’esercizio dell’attività di concessione di finanziamenti nei confronti del pubblico è soggetto a un regime di autorizzazione ed è riservato agli intermediari iscritti in un apposito albo. Viene eliminata quindi la distinzione tra elenco generale, elenco speciale e sezione speciale dell’elenco generale e viene istituito un unico albo tenuto dalla Banca d’Italia. La Banca d’Italia rilascia l’autorizzazione per l’esercizio dell’attività al ricorrere di una serie di condizioni. L’intermediario deve: a) possedere la forma giuridica di società di capitali; b) avere la sede legale e la direzione generale in Italia; c) avere un capitale sociale versato di ammontare non inferiore a quello determinato dalla Banca d’Italia (misura del capitale che può essere differenziata in relazione al tipo di attività); d) presentare un programma concernente l’attività iniziale e la struttura organizzativa, unitamente all’atto costitutivo e allo statuto; e) avere un oggetto sociale limitato alle sole attività che gli intermediari possono svolgere. Sempre al fine del rilascio dell’autorizzazione si richiede che: i titolari di partecipazioni di controllo o di partecipazioni che attribuiscono la possibilità di esercitare un’influenza notevole sull’intermediario finanziario o che attribuiscono una quota dei diritti di voto o del capitale almeno pari al 10%, possiedano i requisiti di onorabilità previsti dall’articolo 25 del TUB; i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso l’intermediario possiedano i requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza previsti dal’articolo 26 del TUB. L’ultima condizione prevista è che non devono sussistere, tra gli intermediari finanziari o i soggetti del gruppo di appartenenza e altri soggetti, stretti legami che ostacolino l’effettivo esercizio delle funzioni di vigilanza.

La Banca d’Italia ha il potere di negare l’autorizzazione quando dalla verifica delle predette condizioni non risulti garantita la sana e prudente gestione. Sono previste regole di vigilanza sugli intermediari sostanzialmente allineate a quelle già in essere per gli altri soggetti regolamentati del mercato bancario e finanziario. I poteri di controllo sono affidati alla Banca d’Italia e contemplano tanto il potere di emanare disposizioni di carattere generale, quanto il potere di adottare provvedimenti specifici. La Banca d’Italia ha il potere di emanare disposizioni di carattere generale aventi ad oggetto l’adeguatezza patrimoniale, il contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni, l’organizzazione amministrativa e contabile, i controlli interni, l’informativa da rendere al pubblico sulle predette materie. Con riferimento a determinati tipi di attività la Banca d’Italia può anche dettare disposizioni volte ad assicurare il loro regolare esercizio. Nelle materie ora indicate la Banca d’Italia ha il potere di adottare, ove la situazione lo richieda, provvedimenti specifici nei confronti di singoli intermediari, riguardanti anche la restrizione delle attività o della struttura territoriale, il divieto di effettuare determinate operazioni, anche di natura societaria, il divieto di distribuire utili o altri elementi del patrimonio.

Il sistema di vigilanza si completa prevedendo obblighi informativi in capo agli intermediari e poteri ispettivi. Gli intermediari finanziari sono tenuti a trasmettere alla Banca d’Italia, con le modalità e nei termini da essa stabiliti: a) le segnalazioni periodiche nonché ogni altro dato e documento richiesto; b) i bilanci. La Banca d’Italia ha il potere di effettuare ispezioni presso gli intermediari finanziari e di richiedere ad essi l’esibizione di documenti e atti che ritenga necessari. Il nuovo sistema dei controlli sugli intermediari finanziari prevede anche un sistema di vigilanza su base consolidata, per i casi in cui l’intermediario si inserisca all’interno di un gruppo che si impernia sulla nozione di gruppo finanziario. Il sistema di vigilanza consolidata è strutturato in forma analoga a quello previsto per le banche. Si attribuisce un ruolo preciso alla capogruppo. Si distingue tra vigilanza regolamentare, informativa e ispettiva che trovano applicazione differenziata a seconda della natura del soggetto.

Lo statuto normativo degli intermediari finanziari è completato attraverso il richiamo di una serie di disposizioni contenute nel TUB che hanno per oggetto le banche. In particolare trovano applicazione agli intermediari finanziari, in quanto compatibili, le norme in materia di: a) partecipazioni al capitale delle banche; b) requisiti di onorabilità dei partecipanti al capitale; c) requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza degli esponenti aziendali; d) finanziamenti agevolati e gestione dei fondi pubblici; e) obblighi di comunicazione in capo al collegio sindacale e ai soggetti incaricati della revisione legale; f) capogruppo; g) provvedimenti straordinari per la violazione di disposizioni; h) accertamento giudiziale dello stato di insolvenza. Per alcune tipologie di attività, il d.lgs. n. 141/2010 detta una serie di norme speciali le quali sono dirette ad alleggerire il regime di vigilanza, che risulta affidato a organismi privati di natura associativa. La prima categoria di intermediari presa in considerazione è costituita dai soggetti che esercitano il c.d. microcredito. Una seconda categoria

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presa in considerazione è quella dei confidi e cioè degli intermediari che esercitano l’attività di garanzia collettiva dei fidi.

La nuova disciplina in materia di intermediari finanziari ha comportato anche la necessità di modificare il relativo apparato delle sanzioni penali e amministrative. Le figure sanzionatorie interessate sono: l’abusiva attività finanziaria (art. 132 TUB); l’abuso di denominazione (art. 133 TUB); il mendacio e il falso interno (art. 137 TUB); le sanzioni amministrative connesse alle violazioni in materia di partecipazioni in banche, società finanziarie capogruppo e intermediari finanziari (art. 139 TUB) nonché in materia di obblighi di comunicazione (art. 140 TUB). Di particolare rilievo ai nostri fini è l’introduzione di una sanzione amministrativa pecuniaria per l’abuso di denominazione finanziaria. In particolare è stata ampliata la fattispecie dell’abuso di denominazione con il divieto all’uso della parola “finanziaria” (o altre locuzioni analoghe) nella denominazione e nelle comunicazioni al pubblico, da parte di soggetti diversi dagli intermediari finanziari di cui all’articolo 106 del TUB. Per le società la cui denominazione sociale contiene la parola finanziaria, ma che non rientrano nella categoria degli intermediari finanziari, si pone il problema se sia legittimo continuare a utilizzare nella propria denominazione l’espressione finanziaria oppure si debba procedere ad una immediata modifica per non incorrere nella sanzione amministrativa. La parola “finanziaria” o altre parole o locuzioni simili, anche in lingua straniera, presenti nella denominazione sociale devono essere modificate solo quando possano trarre effettivamente in inganno il pubblico sull’attività che può esercitare il soggetto. Scopo della norma è infatti quella di colpire l’uso di quelle denominazioni che potrebbero ingenerare confusione nel pubblico circa l’attività esercitata dal soggetto, inducendo nell’equivoco che si tratti di un intermediario finanziario. Nel caso in cui il termine sia utilizzato attraverso modalità che escludano un inganno per il pubblico, l’infrazione non sussiste per difetto assoluto di offesa del bene tutelato. Occorrerà valutare caso per caso, in particolare per le parole solo affini alla parola finanziaria (come gli acronimi) presenti nella denominazione sociale, se si rientri nell’ambito di applicazione delle norme in questione. Per la modifica della denominazione sociale, che consista nella mera eliminazione del termine vietato, si ritiene possibile fare ricorso a quanto previsto dall’articolo 2365 del codice civile, dove si consente all’organo amministrativo di apportare direttamente modifiche allo statuto, quando si tratti di adeguamenti a disposizioni normative.

1.6 Le altre modifiche al TUF

1.6.1 Il regime sulla governance delle società quotate: le novità in materia di relazione

sulla corporate governance

La Direttiva 2006/46/CE in materia di relazione sul governo societario da parte degli emittenti e di informativa di bilancio sulle operazioni con parti correlate e sugli impegni fuori bilancio è stata recepita nel nostro ordinamento, con il decreto legislativo 3 novembre 2008, n. 173 (di seguito, il Decreto). L’emanazione del provvedimento legislativo è stata accompagnata da una procedura di consultazione, avviata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, alla quale Assonime ha risposto con una lettera di osservazioni e commenti tecnici21. Come illustrato nella precedente Relazione Assonime, le modifiche introdotte dal Decreto hanno riguardato diversi profili, quali, in particolare la disciplina del Testo Unico della Finanza concernente le informazioni sugli assetti proprietari (art. 123-bis TUF) e la disciplina codicistica in materia di contenuto della nota integrativa (art. 2427 c.c.) e di bilancio in forma abbreviata (art. 2435-bis c.c.). Il Decreto ha modificato inoltre la disciplina in materia di bilancio consolidato, nella parte relativa ai casi di esonero dall’obbligo di redazione dello stesso, la disciplina in materia di conti annuali e consolidati di banche, quella delle assicurazioni private.

Tra le novità più significative, va segnalata la modifica dell’art. 123-bis TUF22. La norma, nella formulazione antecedente all’emanazione del Decreto in commento, annoverava le informazioni

21. Cfr. Risposta Assonime del 5 agosto 2008.

22. La norma è stata originariamente introdotta dal d.lgs. n. 229/2007, con il quale è stata recepita la Direttiva 2004/25/CE del 21 aprile 2004.

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relative agli assetti proprietari da riportare nella relazione sulla gestione o in una relazione distinta.

Il Decreto ha completamente modificato la disciplina, ampliando i destinatari e il novero delle informazioni da riportare nella c.d. “Relazione sul governo societario e gli assetti proprietari” (d’ora in avanti, Relazione), mentre ha mantenuto invariate le modalità di pubblicazione: le informazioni sono quindi ancora oggi da riportare nella relazione sulla gestione o in una relazione distinta, pubblicata congiuntamente alla relazione sulla gestione; in alternativa la relazione sulla gestione può indicare la sezione del sito web dell’emittente ove è pubblicato tale documento.

Altra importante innovazione del Decreto riguarda il giudizio di coerenza che la società di revisione è chiamata a esprimere su alcune delle informazioni che gli emittenti sono tenuti a diffondere al mercato in applicazione del nuovo regime. Assonime è intervenuta significativamente nel processo di trasposizione della direttiva per garantire che, in linea con il dettato comunitario, il giudizio di coerenza fosse limitato ad alcune delle specifiche informazioni richieste dall’art. 123-bis. Alla luce della nuova disciplina, il giudizio di coerenza riguarda solo alcune specifiche informazioni sulle quali l’intervento della società di revisione può essere effettivamente esercitato23. Delle “restanti informazioni” la società di revisione deve limitarsi a riscontrare che siano state riportate nella relazione sulla gestione o nella Relazione.

La nuova disciplina ha modificato significativamente struttura e contenuto della relazione sulla governance che gli emittenti già elaboravano in applicazione del Codice di autodisciplina. Oltre a redigere una circolare illustrativa della nuova disciplina24, Assonime ha organizzato una serie di incontri con le Associate, al fine di agevolare gli emittenti nella più consapevole attuazione del nuovo regime. Una particolare attenzione è stata inoltre posta sul giudizio di coerenza che il revisore è tenuto a rilasciare su alcune delle informazioni riportate nella Relazione. Assonime, in collaborazione con Assirevi e Borsa Italiana, ha redatto un documento che contiene alcuni principi guida e possibili esemplificazioni al fine di agevolare gli emittenti sulle modalità di esposizione delle informazioni sulle quali la società di revisione è chiamata a rilasciare il giudizio di coerenza. Ferma restando la libera discrezionalità degli emittenti nel decidere come articolare e definire le informazioni da diffondere, il documento propone di raccogliere le informazioni in un paragrafo della Relazione. Il documento suggerisce di strutturare il paragrafo in una parte introduttiva, nella quale descrivere le specifiche linee e le procedure relative alla progettazione, implementazione, monitoraggio e aggiornamento del Sistema di gestione dei rischi e di controllo interno (Sistema). Il documento propone di descrivere in una seconda parte del paragrafo, le principali caratteristiche del Sistema adottato, con particolare riferimento alla sua articolazione, alle modalità operative che ne caratterizzano il funzionamento e ai ruoli e alle funzioni coinvolte. Il documento è stato pubblicato in allegato alla seconda edizione del Format di Borsa italiana, redatto da Borsa Italiana S.p.A25.

1.6.2 Le altre modifiche al TUF apportate dal decreto legislativo 17 luglio 2009, n. 101

Il decreto legislativo 17 luglio 2009, n. 101 (di seguito il Decreto), entrato in vigore il 18 agosto 2009, ha apportato alcune modifiche al TUF. Il Decreto, emanato sulla base delle deleghe contenute nella Legge 18 aprile 2005 n. 62 (legge comunitaria 2004) e nella legge 28 dicembre 2005 n. 262 (legge risparmio), ha inciso: (i) sulle modalità di pubblicazione delle informazioni regolamentate; (ii) sulla disciplina degli emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un sistema multilaterale di negoziazione (di seguito “MTF”); (iii) sulla disciplina del prospetto; (iv) sui consulenti finanziari. Le deleghe, che, invero, legittimavano l’emanazione di un decreto correttivo nell’ambito della disciplina di attuazione delle direttive Mifid e prospetto, sono state utilizzate in modo estremamente ampio.

23. Il giudizio di coerenza dovrà riguardare esclusivamente le seguenti informazioni: (i) partecipazioni rilevanti nel capitale; (ii) possessori di titoli che conferiscono diritti speciali di controllo; (iii) qualsiasi restrizione al diritto di voto; (iv) le norme applicabili alla nomina e alla sostituzione degli amministratori e dei componenti del consiglio di gestione e di sorveglianza; (v) l’esistenza di deleghe per gli aumenti di capitale; (vi) le principali caratteristiche dei sistemi di gestione dei rischi e di controllo.

24. Cfr. Circolare Assonime n. 9/2009.

25. Cfr. “Format per la relazione sul governo societario e gli assetti proprietari", II Edizione, febbraio 2010.

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Con riferimento alla disciplina di pubblicazione delle informazioni regolamentate26, il Decreto ha innovato la normativa primaria, contenuta agli artt. 113-ter e 114 TUF stabilendo che, ferma restando la delega alla Consob in tema di modalità e diffusione al pubblico delle informazioni regolamentate, sussiste la necessità di pubblicare le stesse tramite mezzi di informazione sui quotidiani nazionali. L’innovazione ha riguardato il regime pubblicitario delle informazioni relative agli emittenti quotati, rispetto a precedenti interventi legislativi e regolamentari che avevano privilegiato, in linea con gli orientamenti comunitari, forme di diffusione di avvisi relativi a informazioni su emittenti quotati idonee a consentirne una diffusione in tempo reale e facilmente accessibili anche agli investitori non di lingua italiana, non necessariamente con la pubblicazione a mezzo stampa. Con la delibera Consob n. 16850 dell’1 aprile 2009, precedente al Decreto e in attuazione della direttiva Transparency, erano infatti stati abrogati gli obblighi di pubblicazione degli avvisi di avvenuto deposito di alcuni documenti informativi. La disciplina sulle modalità di pubblicazione delle informazioni regolamentate, a seguito del Decreto e in pendenza della normativa di attuazione, è stata commentata in una Circolare Assonime27.

Successivamente, con la delibera n. 17002 del 17 agosto 2009, la Consob ha dettato le disposizioni provvisorie in materia di diffusione a mezzo stampa delle informazioni regolamentate, ove ha stabilito che una parte delle informazioni regolamentate o gli avvisi di messa a disposizione di alcune informazioni regolamentate devono essere pubblicati su almeno un quotidiano a diffusione nazionale, così ripristinando buona parte delle disposizioni anteriori al recepimento della direttiva Transparency. La delibera è tuttora vigente.

Con riguardo alla disciplina degli emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione su MTF, il Decreto ha esteso a tali soggetti sia la disciplina sugli abusi di mercato, sia gli obblighi informativi continui e periodici, già applicabili agli emittenti quotati. La ratio delle modifiche introdotte è quella di estendere le tutele previste per gli strumenti finanziari quotati sui mercati regolamentati agli strumenti finanziari ammessi alla negoziazione, richiesta con il consenso dell’emittente, sui sistemi multilaterali di negoziazione. L’estensione degli obblighi informativi è subordinata alla sussistenza di due condizioni: (i) gli MTF devono avere le caratteristiche stabilite dalla Consob con regolamento; (ii) l’ammissione deve essere richiesta o autorizzata dall’emittente. La disciplina deve ancora essere completata dal regolamento attuativo, non ancora emanato.

La disciplina sull’estensione degli obblighi informativi e degli abusi di mercato agli emittenti ammessi alla negoziazione su MTF è stata commentata in una Circolare Assonime28 che ha sottolineato la necessità di riflettere sullo scopo e sul ruolo degli MTF, alla luce della tendenza del legislatore a ridurre le differenze tra mercati regolamentati e MTF.

1.6.3 Le quote “rosa” negli organi di amministrazione e controllo

Nel corso del biennio 2009-2010, è divenuto progressivamente più acceso il dibattito parlamentare relativo alla possibile introduzione di quote di genere all’interno degli organi di amministrazione e controllo. Proposte legislative sono state presentate sia alla Camera sia al Senato per essere poi unificate in una proposta di legge, che modifica le disposizioni del Testo Unico della Finanza in materia di elezione dei componenti degli organi di amministrazione e controllo29.

La proposta intende modificare il Testo Unico della Finanza, nella parte in cui disciplina,

26. Ai sensi dell’art. 113-ter del TUF sono informazioni regolamentate quelle relative all’informazione societaria (informazioni price-sensitive, informazioni su operazioni straordinarie e relazioni finanziarie), agli assetti proprietari e alla corporate governance e alla tutela delle minoranze.

27. Cfr. Circolare Assonime n. 35/2009.

28. Cfr. Circolare Assonime n. 22/2010.

29. Testo unificato (C2426-2956-B) recante “Modifiche al Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, concernenti la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società’ quotate in mercati regolamentati”. Il testo è attualmente all’esame della VI Commissione Finanze della Camera in sede referente.

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rispettivamente, le modalità di elezione degli organi di amministrazione e controllo, al fine di assicurare, in via obbligatoria, la presenza del genere femminile all’interno degli stessi. Il nuovo regime trova applicazione a prescindere dal modello di governance e dovrebbe riguardare: (i) le società quotate (ii) le società non quotate controllate dallo Stato.

Con riguardo all’organo gestorio, la proposta richiede che lo statuto preveda che il riparto degli amministratori da eleggere sia effettuato in base a un criterio che assicuri l’equilibrio tra i generi e affidi al genere meno rappresentato almeno un terzo degli amministratori eletti. Lo statuto dovrebbe disciplinare, inoltre, le modalità di formazione delle liste, nonché i casi di sostituzione in corso di mandato, al fine di garantire il rispetto del criterio di riparto.

Con riguardo all’organo di controllo, la proposta richiede che l’atto costitutivo della società stabilisca che il riparto sia effettuato in modo che il genere meno rappresentato ottenga almeno un terzo dei membri effettivi del collegio sindacale. Sia per l’organo gestorio, sia per l’organo di controllo, il criterio di riparto dovrebbe trovare applicazione per tre mandati consecutivi.

Assonime sta seguendo con una particolare attenzione l’iter del provvedimento, anche in considerazione dell’impatto destinato ad avere sulle composizioni dei board. Pur non manifestando contrarietà alla proposta di legge, Assonime sostiene con forza l’opportunità di pervenire ad un’applicazione graduale delle quote di genere.

1.6.4 I commenti di Assonime sul sistema normativo delle società

Nel corso del biennio, l’attività di Assonime si è concentrata sull’analisi del sistema normativo delle società quotate: dopo l’emanazione della legge per la tutela del risparmio, la disciplina delle società con azioni quotate nei mercati regolamentati è stata profondamente modificata; il quadro normativo è stato completato attraverso un’importante attività regolamentare da parte della Consob. Assonime ha pubblicato alcune circolari relative ai punti nodali della governance degli emittenti quotati.

Il voto di lista

Nell’agosto del 2009, è stata pubblicata una circolare dedicata alla disciplina di nomina dei componenti degli organi di amministrazione e controllo30. La circolare commenta le modalità di funzionamento del voto di lista – una delle novità più rilevanti della legge per la tutela del risparmio – tesa a garantire la partecipazione delle minoranze in seno agli organi societari. In particolare, sono state analizzate le modalità di funzionamento del meccanismo elettivo mediante lista, le questioni relative alla legittimazione alla presentazione delle liste e alla determinazione delle soglie di capitale a tal fine rilevanti. Una particolare attenzione è stata posta sulle ipotesi di collegamento e sul loro accertamento: la legge prevede che almeno uno dei componenti del consiglio di amministrazione sia espresso dalla lista di minoranza che abbia ottenuto il maggior numero di voti e non sia collegata, in alcun modo, neppure indirettamente con i soci che hanno presentato o votato la lista risultata prima per numero di voti. Nel commentare la nuova disciplina, la circolare ha valutato anche gli orientamenti espressi dalla Consob in una Comunicazione del febbraio 2009, nella quale sono state definite, tra le altre cose, le ipotesi di collegamento31.

La circolare commenta inoltre alcuni profili relativi alla reale operatività dell’istituto. È stato evidenziato che, nell’anno 2009, l’elezione di almeno un rappresentate delle minoranze è avvenuta in circa un terzo delle società che avevano rinnovato gli organi. È stato, inoltre, constatato uno scarso attivismo dei fondi nella presentazione delle liste di minoranza. Un’analisi più compiuta sul reale funzionamento del voto di lista si è avuta in occasione della pubblicazione del X rapporto sull’Analisi dello stato di attuazione del Codice di autodisciplina delle società quotate, pubblicato da Assonime – Emittenti Titoli. Come verrà meglio spiegato nel paragrafo 5.2, il rapporto ha dedicato una parte monografica alla disciplina del voto di lista.

30. Cfr. Circolare Assonime n. 36/2009.

31. Cfr. Comunicazione Consob n. DEM/9017893 del 26 febbraio 2009.

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Gli amministratori indipendenti

La figura dell’amministratore indipendente rappresenta uno tra i temi di corporate governance sui quali Assonime ha posto una particolare attenzione. La scelta di dedicare un approfondimento su tale figura è dipesa dalla sua evidente e progressiva affermazione nell’ordinamento. L’amministratore indipendente ha avuto il suo ingresso nel sistema italiano con la diffusione del Codice di autodisciplina delle società quotate (1999). Il Codice, fortemente ispirato all’esperienza dei Paesi anglosassoni, propone regole di funzionamento dell’organo amministrativo, nel quale sono differenziati i ruoli delle varie componenti del consiglio di amministrazione e dell’organo nel suo complesso. Alla componente non esecutiva - indipendente è infatti affidato il compito di effettuare un’attività di controllo sugli amministratori c.d. esecutivi, incaricati della gestione della società. L’introduzione per via normativa dell’amministratore indipendente si è avuta in occasione della riforma delle società di capitali (d.lgs. n. 5/2003). Nel prevedere modelli di amministrazione e controllo alternativi, il legislatore ha sancito la presenza degli amministratori indipendenti nell’ambito del modello c.d. monistico. In tale modello, l’organo amministrativo assomma su di sé le funzioni di gestione e controllo: l’attività di controllo è dunque riservata a quella componente del consiglio di amministrazione che presenti una serie di condizioni idonee a garantire una più equilibrata capacità di giudizio. Gli amministratori indipendenti sono stati qualificati alla stregua dei requisiti fissati per i componenti del collegio sindacale dall’art. 2399 c.c.

Il ruolo degli amministratori indipendenti è tornato di attualità in occasione degli scandali finanziari: tra le misure di rafforzamento dei controlli societari interni, la legge per la tutela del risparmio ha introdotto, obbligatoriamente, per tutte le società quotate e a prescindere dal modello di governance adottato, la figura dell’amministratore indipendente. Nel qualificare l’amministratore indipendente, il legislatore ha applicato i requisiti fissati per i sindaci, rinviando alla disciplina contenuta nell’art. 148 TUF.

Assonime ha pubblicato una circolare volta a realizzare una sistematica ricostruzione del concetto di indipendenza, evidenziando l’evoluzione che tale requisito ha avuto nel nostro ordinamento, per i componenti del collegio sindacale e – solo in un secondo momento – per gli amministratori. La circolare analizza inoltre i profili critici dell’istituto dell’amministratore indipendente. Si è visto che la pedissequa applicazione agli amministratori indipendenti dei requisiti fissati per i sindaci non esclude, in astratto, che possa essere qualificato come indipendente anche un amministratore munito di deleghe. Inoltre, la creazione di una categoria di amministratori indipendenti da legge affiancata a quella di più lunga tradizione, derivante dall’autodisciplina, ha creato problemi di coesistenza nel sistema. Gli amministratori indipendenti ex lege presentano, infatti, una disciplina autonoma e sono soggetti ad un proprio sistema di valutazione e decadenza: la conseguenza di questo quadro è che si realizza in consiglio la presenza di due componenti indipendenti, ciascuna soggetta alle proprie regole.

La circolare affronta incidentalmente anche il ruolo degli amministratori indipendenti: un tema destinato a divenire rilevante anche in considerazione della disciplina regolamentare della Consob in materia di operazioni con parti correlate, più diffusamente descritta sub paragrafo 4.1.

Il dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili e il sistema dei controlli societari

Assonime ha commentato, in un’apposita circolare, la figura del dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili. La figura è stata introdotta con la legge per la tutela del risparmio e ad essa sono affidati compiti organizzativi (predisposizione di adeguate procedure amministrative e contabili per la formazione del bilancio) e di attestazione sull’adeguatezza delle procedure stesse e sulla congruità della formazione dei dati di bilancio. Il legislatore ha inteso allineare la disciplina nazionale alle disposizioni statunitensi del Sarbanes Oxley Act. La circolare analizza non solo le funzioni e i profili di responsabilità di tale figura, ma valuta le ragioni della sua collocazione tra i soggetti deputati al controllo organizzativo e contabile della società. Nel corso degli ultimi anni si è assistito a un progressivo aumento delle figure di garanzia all’interno delle società al punto da sollevare un problema di razionalizzazione del sistema dei controlli societari. Assonime ha dedicato una particolare attenzione al tema. Come ricordato nella precedente Relazione biennale, nel marzo del 2009, è stato organizzato un convegno sul tema, i cui atti sono stati raccolti in un volume pubblicato

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da Assonime32. Nel corso del 2010 è stato costituito un gruppo di lavoro della Giunta di Assonime allo scopo di individuare una serie di soluzioni tese a migliorare il sistema dei controlli. Al fine di procedere a una più compiuta analisi, è stata condotta un’indagine presso un significativo campione di società rappresentative del mondo delle grandi imprese, quotate e non quotate, appartenenti ai settori dell’industria, dei servizi, dei servizi bancari e assicurativi. Assonime ha pubblicato33, con il contributo del gruppo di lavoro, un Rapporto sui controlli che, partendo dalle caratteristiche e criticità del sistema attuale, contiene una serie di proposte di semplificazione, adottabili sia a livello normativo, sia a livello autoregolamentare.

1.7 L’evoluzione della disciplina della valutazione dei conferimenti in naturae dell’acquisto di azioni proprie

Nell’agosto del 200834 sono state introdotte modifiche significative alla disciplina sui conferimenti in natura nelle società per azioni e sulle operazioni compiute dalla società sulle proprie azioni, in attuazione della direttiva 2006/68/CE, che ha consentito agli Stati membri di introdurre alcune deroghe e semplificazioni35.

Con riguardo ai conferimenti in natura, il decreto legislativo 4 agosto 2008, n. 142, ha riconosciuto la possibilità – sia in sede di costituzione, sia in sede di aumento di capitale – di prescindere dalla relazione di un esperto di nomina giudiziale per la stima del conferimento in tre ipotesi: (i) quando il conferimento ha ad oggetto valori monetari o strumenti del mercato monetario e il valore ad essi attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale e dell’eventuale sovrapprezzo è pari al prezzo medio ponderato al quale sono stati negoziati su uno o più mercati regolamentati nei sei mesi precedenti il conferimento; per gli altri beni (ii) quando il valore ad essi attribuito corrisponda al valore equo ricavato da un bilancio approvato da non oltre un anno, e purché sottoposto a revisione legale e il revisore non abbia espresso rilievi sulla valutazione dei beni da conferire; (iii) quando il valore attribuito ai beni corrisponda al valore equo risultante dalla valutazione, precedente di non oltre sei mesi al conferimento, redatta da un esperto in possesso di requisiti di professionalità idonei e che sia indipendente da chi conferisce e dalla società.

La semplificazione della disciplina è stata accompagnata da un rafforzamento di responsabilità degli amministratori della società conferitaria, che sono tenuti ad effettuare una serie di verifiche. Essi devono: verificare se siano intervenuti eventi successivi al conferimento che abbiano modificato sensibilmente il valore dei beni conferiti; verificare l’idoneità dei requisiti di professionalità e indipendenza dell’esperto. Nel caso in cui tali presupposti si siano realizzati oppure si ritengano non idonei i requisiti di professionalità e indipendenza occorre procedere ad una nuova valutazione.

Sulle operazioni compiute dalla società sulle proprie azioni il d.lgs. n. 142/2008 ha eliminato per l’acquisto delle proprie azioni il limite del 10% del capitale sociale per le sole società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. Per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio la legge 9 aprile 2009, n. 3336 ha fissato, invece, il limite per l’acquisto delle azioni proprie a un quinto del capitale sociale.

Lo stesso decreto ha riconosciuto, inoltre alla società, la possibilità di anticipare fondi e di concedere prestiti o garanzie per l’acquisto delle proprie azioni a condizione che: (i) siano rispettate condizioni di mercato eque, con particolare riferimento al tasso d’interesse, e che sia stato valutato il merito di credito del beneficiario; (ii) l’operazione sia stata autorizzata dall’assemblea, alla quale sia stata preventivamente presentata una relazione dell’organo amministrativo che ne illustri le ragioni, i

32. Assonime, “I controlli societari. Molte regole, nessun sistema", Egea, 2010.

33. Cfr. Note e Studi, Assonime n. 6/2011.

34. Il decreto legislativo 4 agosto 2008, n. 142 ha introdotto nel codice civile gli artt. 2343- ter; 2343-quater, 2440-bis e ha modificato gli artt. 2440, 2357 e 2358.

35. Relazione biennale di Assonime del 2009.

36. Con la quale è stato convertito con modificazioni il decreto legge 10 febbraio 2009, n. 5.

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rischi, le condizione e l’interesse per la società; (iii) l’importo complessivo dell’assistenza finanziaria concessa ai terzi sia limitata agli aiuti distribuibili e alle riserve disponibili.

A circa due anni dall’entrata in vigore della novella del 2008 è stato emanato il decreto legislativo 29 novembre 2010, n. 224, per correggere alcune criticità applicative sorte con le prime applicazioni della nuova disciplina. Le modifiche riguardano sia il regime semplificato di valutazione dei conferimenti, sia le operazioni compiute dalla società sulle proprie azioni.

1.7.1 Le modifiche introdotte dal decreto legislativo 29 novembre 2010, n. 224 alla disciplina

della valutazione dei conferimenti in natura

Le prime applicazioni del regime alternativo di valutazione dei conferimenti in natura e le prime riflessioni della dottrina hanno evidenziato l’opportunità di una limitata revisione di alcune disposizioni introdotte dal d.lgs. n. 142/2008. Le modifiche hanno riguardato sia i criteri di valutazione alternativa disciplinati dall’art. 2343-ter sia le verifiche degli amministratori e il procedimento di valutazione in sede di aumento di capitale.

Con riguardo ai criteri di valutazione previsti dall’art. 2343-ter è stata riconosciuta espressamente la possibilità di applicare i criteri di stima basati sul valore di bilancio e sulla perizia dell’esperto indipendente anche per la valutazione del conferimento di valori mobiliari e di strumenti del mercato monetario, nei casi in cui per essi non è possibile la stima in base al criterio del prezzo medio ponderato di negoziazione. Un’interpretazione letterale delle norme introdotte nel 2008 aveva portato ad escludere l’applicabilità di questi criteri anche agli strumenti finanziari, con la conseguenza che in difetto dei presupposti per la rilevazione del prezzo di negoziazione si sarebbe dovuto ricorrere per la valutazione del conferimento alla perizia dell’esperto di nomina giudiziale.

In relazione al criterio di stima basato sul valore di bilancio, il decreto ha chiarito che il valore al quale deve corrispondere il conferimento è il fair value derivante dall’applicazione dei principi contabili internazionali adottati dall’Unione europea e che il bilancio di riferimento è quello dell’esercizio precedente. Sul criterio basato sulla perizia non giurata di un esperto indipendente, il decreto ha richiesto, infine, che il requisito dell’indipendenza sussista anche nei confronti dei soci di controllo, oltre che nei confronti del conferente e della società conferitaria.

In relazione alle verifiche successive al conferimento, è stata risolta la questione relativa a cosa accade quando gli amministratori riscontrino variazioni sensibili del valore dei beni conferiti, oppure l’inidoneità dell’esperto chiamato a svolgere la valutazione. La formulazione originaria dell’art. 2343-quater aveva suscitato il dubbio, se in tali casi la nuova valutazione potesse essere svolta direttamente dagli amministratori oppure se dovesse, invece, essere effettuata dall’esperto designato dal tribunale (art. 2343 c.c.). La nuova norma richiede la riattivazione dell’intero procedimento ordinario con una nuova valutazione dell’esperto di nomina giudiziale.

Sulle modalità alternative di valutazione del conferimento in sede di aumento di capitale, è stato precisato che ai fini dell’applicazione del criterio del prezzo medio ponderato, il periodo dei sei mesi di negoziazione sul quale effettuare il calcolo del prezzo deve precedere la data alla quale si riferisce la relazione degli amministratori sulle ragioni dell’esclusione del diritto di opzione, e non la data del conferimento. L’individuazione del momento dal quale calcolare a ritroso il semestre nel momento del conferimento, come nel caso di conferimento in sede di costituzione della società, rendeva infatti difficilmente applicabile il criterio di stima semplificato in caso di aumento di capitale: ciò sarebbe stato possibile solo in caso di sottoscrizione dell’aumento contestualmente alla delibera37. Il decreto ha, inoltre, esteso la facoltà per i soci di minoranza di richiedere una nuova valutazione del bene conferito in tutti i casi di aumento di capitale e non solo alle ipotesi di aumento delegato, come previsto dal decreto del 2008. Il diritto di richiedere la nuova valutazione è stato limitato, in conformità alla direttiva comunitaria, solo nel caso di conferimento in natura la cui valutazione derivi da un bilancio

37. Posto che le condizioni di legittimità dell’operazione devono sussistere al momento della deliberazione assembleare di aumento.

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d’esercizio e dalla perizia di un esperto indipendente. Per adeguare il regime pubblicitario previsto in sede di costituzione della società al procedimento in sede di aumento di capitale è stato, infine, esplicitato l’obbligo di depositare la documentazione dalla quale risulta il valore del conferimento valutato secondo i criteri alternativi di cui all’art. 2343-ter, durante i quindici giorni che precedono l’assemblea.

1.7.2 Le modifiche introdotte dal decreto legislativo 29 novembre 2010, n. 224 alla disciplina

delle operazioni della società sulle proprie azioni

Il decreto n. 224/2010 è intervenuto sulla disciplina dell’acquisto di azioni proprie contenuta nel codice civile, per risolvere alcune questioni non affrontate dalla riforma del 2008 e per realizzare un miglior coordinamento con le modifiche alla stessa disciplina introdotte dal decreto legge 10 febbraio 2009, n. 3338. Alcune modifiche sono state, inoltre, introdotte al Testo Unico della finanza.

Il decreto ha chiarito in primo luogo la disciplina del computo delle azioni proprie ai fini della determinazione del quorum costitutivo e deliberativo, distinguendo tra il regime dell’assemblea delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio da quello delle società chiuse. Con la modifica al secondo comma dell’art. 2357-ter, per le società che fanno ricorso al capitale di rischio le azioni proprie si computano ai fini della regolare costituzione dell’assemblea, mentre non si computano ai fini del calcolo della maggioranza e della quota di capitale richiesta per l’approvazione della deliberazione. Ciò in quanto i quorum deliberativi in questo tipo di società si calcolano, per le assemblee ordinarie e straordinarie, sul capitale presente in assemblea e non sull’intero capitale sociale, con la conseguenza che le azioni proprie sono irrilevanti per l’adozione delle relative delibere. Diversamente, per le società chiuse la norma prevede che le azioni proprie si computano sempre ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste sia per la costituzione, sia per le deliberazioni dell’assemblea e, in quest’ultimo caso, anche quando la legge non assume il capitale sociale a denominatore per il calcolo dei quorum assembleari. Questa previsione speciale per le società chiuse consente di tenere conto della rimozione dei limiti quantitativi all’acquisto39, evitando che l’acquisto di azioni proprie diventi strumentale alla modifica del peso organizzativo delle partecipazioni all’interno dell’assemblea.

Un’ulteriore modifica ha riguardato la disciplina dell’acquisto di azioni della società controllante (art. 2359-bis) da parte della controllata eliminando il limite del 10% per le società chiuse e riducendolo al quinto del capitale per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. La modifica si è resa necessaria per un miglior coordinamento con i limiti previsti per l’acquisto delle azioni proprie della società. Prima dell’intervento del decreto correttivo n. 224/2010, il mancato coordinamento tra l’art. 2359-bis e l’art. 2357 determinava l’irragionevole conseguenza per cui una società chiusa avrebbe potuto acquistare proprie azioni senza limite, ma la sua controllata non avrebbe potuto acquistare più del 10% delle azioni della società controllante; così come una società che fa ricorso al mercato del capitale di rischio avrebbe potuto acquistare azioni proprie fino al quinto del capitale sociale, ma la controllata non più del decimo.

Il decreto ha, infine, modificato l’art. 132, comma 3, del Testo unico della finanza in tema di acquisti di azioni proprie per estendere i casi in cui la disciplina sulla parità di trattamento prevista dalla disposizione in commento non si applica in presenza di alcune fattispecie di acquisto; in particolare è stato previsto che tale regime non si applica anche nel caso in cui le azioni siano acquistate dalla società per piani di compenso approvati ai sensi dell’art. 114-bis TUF40.

38. Convertito dalla legge 9 aprile 2009, n. 33.

39. Per effetto del d.lgs. n. 142/2008.

40. Sulla nuova disciplina in materia di conferimenti e di azioni proprie sono in corso di pubblicazione due circolari Assonime.

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2. L’attività regolamentare della Consob, la disciplina dei mercati e di bilancio

2.1 La disciplina sulle parti correlate

Nel corso del biennio, si è concluso il lungo processo di consultazione, con il quale la Consob ha attuato le deleghe che le attribuivano il potere di regolamentare la disciplina delle operazioni con parti correlate (art. 2391-bis c.c. e 154-ter TUF). Dopo la prima bozza di proposta regolamentare pubblicata in consultazione nell’aprile 2008, l’Autorità ha presentato una seconda versione nell’agosto dell’anno successivo. Assonime ha partecipato attivamente al processo di consultazione, mediante l’invio di risposte pubbliche41. Solo nel marzo del 2010, la Consob ha approvato un Regolamento che disciplina in maniera sistematica il regime delle operazioni con parti correlate42. Molti elementi di dettaglio sono definiti da quattro allegati tecnici. La stessa delibera ha inoltre modificato il Regolamento Mercati nella parte in cui disciplina le società soggette ad attività di direzione e coordinamento, integrando e modificando la composizione dei comitati (art. 37).

La disciplina regolamentare definisce il regime procedurale e di trasparenza cui devono attenersi le società italiane con azioni quotate o diffuse fra il pubblico in misura rilevante nella gestione delle operazioni con parti correlate. I consigli di amministrazione (o i consigli di gestione) adottano, secondo i principi contenuti nel Regolamento in oggetto, procedure che assicurino la trasparenza e la correttezza sostanziale e procedurale delle operazioni con parti correlate. La disciplina contiene la definizione di “operazioni con parti correlate” e quella di “parte correlata”. Pur rifacendosi alla nozione dello IAS 24, entrambe le definizioni subiscono degli adattamenti che tengono conto del contesto normativo nazionale. Questa impostazione dovrebbe evitare che eventuali modifiche della definizione IAS abbiano impatto sulla stabilità della definizione.

Il Regolamento prevede due categorie di operazioni con parti correlate, che possono essere di maggiore o minore rilevanza. Rientrano nella definizione di maggiore rilevanza le operazioni che superino la soglia del 5% di almeno uno degli indici individuati dalla stessa Consob. La soglia scende al 2,5% in caso di operazioni con società controllante quotata o con soggetti a quest’ultima correlati che risultino a loro volta correlati alla società.

Il Regolamento definisce un penetrante regime informativo delle operazioni con parti correlate43 e l’applicazione di un regime procedurale, diversamente modulato a seconda che le operazioni siano o meno rilevanti. Mentre le operazioni con parti correlate di minore rilevanza sono soggette a una procedura generale, una disciplina più rigorosa si applica alle operazioni di maggiore rilevanza. Il regime procedurale subisce alcune deviazioni in caso di società che adottano il modello dualistico.

Il Regolamento assegna un ruolo di particolare rilievo alla figura dell’amministratore indipendente44.

41. Cfr. Risposta Assonime del 16 luglio 2008 e Risposta Assonime dell'11 novembre 2009.

42. Cfr. Delibera n. 17221 del 12 marzo 2010, successivamente modificata dalla Delibera n. 17389 del 23 giugno 2010. Nel settembre 2010, la Consob ha emanato la Comunicazione n. DEM/100786883 che contiene indicazioni e orientamenti per l’applicazione del Regolamento sulle parti correlate e la Comunicazione n. 10094530. Si precisa, inoltre, che il quadro normativo è destinato ad ulteriori evoluzioni sia pur con riguardo alla disciplina settoriale. Nel maggio 2010, Banca d’Italia ha posto in consultazione un documento sulla “Attività di rischio e conflitti di interesse delle banche e dei gruppi bancari nei confronti di soggetti collegati”. Assonime ha risposto alla consultazione con una lettera di osservazioni.

43. In particolare il Regolamento prevede: (i) un’informativa trimestrale agli organi di amministrazione e controllo su tutte le operazioni con parti correlate e (ii) la predisposizione di un documento informativo molto dettagliato che riguarda le operazioni di maggiore rilevanza e quelle che sono qualificabili come tali se cumulativamente considerate.

44. Quanto alla definizione di indipendenza, il Regolamento stabilisce che qualora la società dichiari di aderire ad un codice di governance delle società quotate, possono essere coinvolti nella disciplina gli amministratori riconosciuti come tali dalla società in applicazione del medesimo Codice. In caso di mancata adesione, potranno essere coinvolti gli amministratori in possesso dei requisiti fissati per i sindaci o degli eventuali ulteriori requisiti individuati nelle procedure o dalle normative di settore.

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Il coinvolgimento degli indipendenti nella disciplina sulle operazioni con parti correlate avviene a più livelli: l’approvazione delle procedure che gli emittenti sono tenuti ad adottare per assicurare la trasparenza e la correttezza sostanziale e procedurale delle operazioni con parti correlate è subordinata a un parere vincolante di un comitato composto esclusivamente da amministratori indipendenti. Quanto alla fase procedurale occorre distinguere: in caso di operazioni di minore rilevanza, un comitato composto esclusivamente da amministratori non esecutivi e non correlati, in maggioranza indipendenti, è chiamato a esprimere un motivato parere non vincolante sull’interesse della società al compimento dell’operazione nonché sulla convenienza e sulla correttezza sostanziale delle relative condizioni. Relativamente alle operazioni di maggiore rilevanza, invece, un comitato composto da amministratori indipendenti non correlati (o uno o più componenti dallo stesso delegati) deve essere coinvolto nella fase delle trattative e nella fase istruttoria attraverso la ricezione di un flusso informativo completo e tempestivo e con la facoltà di richiedere informazioni e di formulare osservazioni agli organi delegati e ai soggetti incaricati dalla conduzione delle trattative o dell’istruttoria. Il consiglio di amministrazione può approvare l’operazione previo motivato parere favorevole del comitato. Le procedure possono consentire al consiglio di amministrazione di approvare ugualmente l’operazione, anche in caso di parere negativo: l’operazione deve essere, però, autorizzata dall’assemblea, ai sensi dell’art. 2364, comma 1, n. 5, c.c. , che delibera con il meccanismo c.d. del whitewash. L’applicazione di tale innovativo sistema deliberativo richiede una verifica sul voto espresso da parte dei soci non correlati votanti: l’operazione può essere approvata solo se la maggioranza di questi non abbia espresso voto contrario45.

Al fine di non gravare eccessivamente gli emittenti, il Regolamento accorda loro la possibilità di avvalersi di un sistema di esenzioni che, per alcune tipologie di operazioni, opera di default, per altre richiede un’esplicita previsione all’interno della procedura: rientrano in questa tipologia di esenzione, le operazioni infragruppo, le ordinarie e quelle che si pongono al di sotto di una soglia di esiguità fissata dal singolo emittente. Specifiche esenzioni sono previste per le operazioni già soggette alla disciplina del Testo Unico Bancario relativa alle obbligazioni degli esponenti bancari e per le operazioni urgenti.

Il Regolamento realizza, infine, una semplificazione del regime procedurale con riguardo a società di dimensioni ridotte: sono infatti previste facilitazioni per le società neo-quotate, per le società di minori dimensioni e per le società con azioni diffuse tra il pubblico. Ferma restando la disciplina di trasparenza, queste società possono applicare la normativa per le operazioni di minore rilevanza anche alle operazioni di maggiore rilevanza.

Come premesso, con la stessa Delibera con la quale è stato emanato il Regolamento in materia di operazioni con parti correlate, la Consob ha modificato l’art. 37 del Regolamento Mercati dedicato alle società soggette ad attività di direzione e coordinamento di altra società. Il Regolamento ha ampliato il novero delle condizioni che inibiscono la quotazione di azioni di società che rientrano in tale categoria, prevedendo, in aggiunta alle altre condizioni elencate dalla norma, che le stesse devono disporre di un comitato di controllo interno composto interamente da amministratori indipendenti. Nel caso, inoltre, in cui siano istituiti anche altri comitati “raccomandati” da codici di comportamento in materia di governo societario, anche questi ultimi dovranno prevedere una composizione integrale di amministratori indipendenti46.

In ragione della complessità del nuovo regime, Assonime ha organizzato numerosi incontri tecnici con le Associate per commentare la nuova disciplina e per valutare le ricadute applicative sugli emittenti. L’attività di analisi si è conclusa con la pubblicazione di una circolare ricognitiva dell’intera

45. Con riguardo ai soci non correlati, le procedure possono inoltre prevedere un quorum costitutivo, comunque non superiore al 10%, stabilendo che il mancato raggiungimento può impedire l’operatività del whitewash.

46. Quanto alla definizione di amministratore indipendente, la Consob adotta quella richiamata nella disciplina generale delle operazioni con parti correlate, prima illustrata. In caso di società controllate soggette all’attività di direzione e coordinamento di altra società italiana o estera con azioni quotate in mercati regolamentati, italiani o dell’UE, viene però precisato che non possono essere qualificati indipendenti, ai fini della disciplina, quegli amministratori che, pur rispondendo ai requisiti di indipendenza sopra richiamati, contestualmente ricoprano la carica di amministratore nella società o nell’ente che esercita attività di direzione e coordinamento o nelle società quotate controllate da tale società o ente.

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disciplina47, che contiene una serie di soluzioni operative anche in relazione alla redazione delle procedure.

2.2 Le modifiche al Regolamento Emittenti

Nel biennio 2009-2010 sono state apportate importanti modifiche al Regolamento Emittenti48 realizzate mediante le consuete procedure di consultazione.

Nel luglio 2009 la Consob ha avviato una consultazione su una bozza di raccomandazione sulle informazioni da inserire nel prospetto per i prodotti finanziari non rappresentativi di capitale, diverse dalle quote di OICR e dai prodotti assicurativi; nella bozza di raccomandazione, che riguarda anche le obbligazioni corporate, la Consob raccomanda le linee guida per la rappresentazione sintetica del profilo rischio-rendimento degli scenari probabilistici e dei costi nonché le modalità e l’ordine di presentazione delle informazioni; Assonime ha risposto alla consultazione49, cui non ha mai fatto seguito il documento definitivo, eccependo che la richiesta di informazioni non è prevista dalla disciplina comunitaria e rischia di creare un unlevel playing field per gli emittenti italiani.

Nel febbraio del 2010, la Consob ha avviato un’altra procedura di consultazione50, a seguito della quale sono state apportate alcune modifiche tese a perfezionare alcune disposizioni del Regolamento Emittenti anche in ragione dell’evoluzione normativa. Assonime ha risposto51 alla consultazione che si è conclusa con un delibera di modifica del Regolamento52. Una volta definito il quadro regolamentare, Assonime ha pubblicato una circolare di commento delle nuove disposizioni53.

La disciplina in materia di organi di amministrazione e controllo

Le modifiche più rilevanti hanno riguardato la disciplina degli organi di amministrazione e controllo. In primo luogo, la delibera ha modificato la disciplina relativa alle quote di partecipazione per la presentazione delle liste dei candidati54. Nel prevedere il meccanismo del voto di lista, il TUF (art. 147-ter) richiede che negli statuti deve essere determinata la quota minima di partecipazione richiesta per la presentazione delle liste in misura non superiore a un quarantesimo del capitale sociale o alla diversa misura stabilita dalla Consob con regolamento, tenuto conto della capitalizzazione, del flottante e degli assetti proprietari delle società quotate. La Consob che aveva già individuato nel 2007 sei differenti classi dimensionali55, ha fissato nuovi parametri di riferimento in relazione ai nuovi valori di mercato, determinati dalla crisi finanziaria. Nel documento pubblicato all’esito della consultazione, la Consob ha inoltre chiarito di voler procedere a una revisione periodica delle soglie che identificano le classi di capitalizzazione.

La Delibera ha integrato la disciplina relativa alla nomine degli organi di amministrazione e controllo

47. Cfr. Circolare Assonime n.38/2010.

48. Regolamento adottato con delibera n. 11971 del 14 maggio 1999 e succ. modificazioni.

49. Cfr. Risposta alla consultazione del 2 ottobre 2009.

50. Cfr. Regolamento Emittenti. Proposte di modifica. 26 febbraio 2010.

51. Cfr. Risposta di Assonime del 12 aprile 2010.

52. Cfr. Delibera n. 17326 del 13 maggio 2010.

53. Cfr. Circolare Assonime n. 21 del 17 giugno 2010.

54. Cfr. artt. 144-ter e 144-quater del Regolamento Emittenti.

55. Cfr. art. 144-quater, introdotto dalla Delibera n. 15915 del 3 maggio 2007.

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(artt. 144-octies; 144-novies; 144-decies)56. Alla luce della nuova disciplina, la dichiarazione da depositare a corredo delle liste per la carica di amministratore deve quindi fare riferimento anche “ai requisiti di indipendenza previsti da normative di settore eventualmente applicabili in ragione dell’attività svolta dalla società”, in aggiunta a quelli previsti dalla legge (art. 148 TUF) e dall’autodisciplina, sempreché lo statuto faccia rinvio anche a tali ultimi requisiti (art. 144-octies, comma 1, lett. b.2)). Inoltre, successivamente alla nomina, le società sono tenute a informare il pubblico dell’avvenuta nomina degli amministratori, indicando, tra gli eletti, coloro che hanno dichiarato di essere in possesso dei requisiti di indipendenza previsti dalla legge (art.148 TUF), da normativa di settore eventualmente applicabili in ragione dell’attività svolta dalla società e, eventualmente, dall’autodisciplina, se lo statuto prevede anche tali ultimi requisiti (art. 144-novies, comma 1, lett. b)).

La delibera ha infine previsto, mediante l’inserimento di un nuovo comma all’interno dell’art. 144-novies (comma 1-bis), che le società devono valutare, sulla base delle informazioni fornite dagli interessati o comunque a disposizione della società: (i) il possesso, in capo ad uno o più componenti dell’organo di amministrazione, dei requisiti di indipendenza, previsti dall’art. 148, comma 3, TUF e dei requisiti di indipendenza previsti da normativa di settore, eventualmente applicabili in ragione dell’attività svolta; (ii) il possesso, in capo ai componenti dell’organo di controllo, dei requisiti di indipendenza previsti dalla legge (art. 148, comma 3, TUF) e dalla normativa di settore eventualmente applicabili in ragione dell’attività svolta. Gli esiti delle valutazioni effettuate devono essere comunicati al pubblico.

La formulazione della disposizione regolamentare, nella versione approvata, recepisce alcune delle osservazioni formulate da Assonime in corso di consultazione. In primo luogo, è stato chiarito che le valutazioni sono effettuate sulla base delle informazioni fornite dagli interessati o comunque a disposizione della società. Inoltre, l’obbligo di valutazione deve essere assolto solo nella fase immediatamente successiva alla nomina; da ciò si desume che nessuna valutazione sulla sussistenza dei requisiti di indipendenza è richiesta in costanza di mandato. Inoltre, l’indipendenza oggetto di valutazione è quella che deriva dai requisiti di legge e non anche dall’autoregolamentazione, soggetta ad un autonomo regime descritto all’interno del Codice di autodisciplina. A completamento degli obblighi di disclosure, è stato, infine, precisato, con una modifica all’articolo dedicato alla “Informazione periodica” (art. 144-decies), che le informazioni richieste dalle precedenti disposizioni, riferite ai candidati eletti, devono essere riportate nella relazione sul governo societario e gli assetti proprietari prevista dal nuovo art. 123-bis TUF.

56. La Consob era già intervenuta sul tema, nel febbraio del 2009, sottoponendo a consultazione una bozza di Comunicazione sulla trasparenza informativa in materia di indipendenza degli amministratori. L’avvio della consultazione si è resa necessaria al fine di rafforzare l’informativa che il consiglio deve produrre in merito alla valutazione della sussistenza dei requisiti di indipendenza dei propri componenti. A parere dell’Autorità, dall’esame dei comunicati diffusi dopo il rinnovo degli organi sociali e delle relazioni annuali sul governo societario, si era riscontrata un’informazione poco trasparente sulle valutazioni effettuate dall’organo amministrativo in merito alla sussistenza dei requisiti di indipendenza. La bozza di Comunicazione proponeva in tal senso di qualificare in occasione delle nomine e, periodicamente, nella relazione sul governo societario quali amministratori: (i) fossero indipendenti ai sensi della legge, (ii) fossero indipendenti da Codice di autodisciplina; (iii) soddisfacessero sia le condizioni di indipendenza del TUF sia del Codice; (iv) fossero in possesso di requisiti previsti da discipline di settore, eventualmente applicabili alla società. Inoltre, la proposta di comunicazione richiedeva di fornire adeguata motivazione, nella relazione sulla corporate governance, dei criteri aggiuntivi o difformi rispetto a quelli previsti dal Codice, in applicazione dei quali un amministratore fosse valutato indipendente, “pur in presenza di situazioni astrattamente riconducibili alle ipotesi individuate dal Codice come sintomatiche di mancanza di indipendenza”. Assonime aveva risposto alla consultazione con una lettera di osservazioni, inviata in data 15 aprile 2009. Oltre a commentare i singoli aspetti della consultazione in merito alla nozione di amministratore indipendente, Assonime aveva sottolineato l’inopportunità di pubblicare le motivazioni per le quali un amministratore fosse qualificato come indipendente pur in presenza di situazioni astrattamente riconducibili a ipotesi di non indipendenza, dal momento che il Codice di autodisciplina si limita a richiedere di comunicare al mercato il solo esito della valutazione e non anche le motivazioni per le quali si è arrivati alla qualificazione dell’indipendenza dell’amministratore. Assonime aveva infatti sottolineato che un simile approccio, andando oltre le richieste dell’autodisciplina, avrebbe rischiato di trasformare il meccanismo del comply or explain in un diverso sistema di comply and explain. Con Comunicato stampa della Consob del 28 aprile 2009, la Consob ha sospeso la pubblicazione della Comunicazione, anche in considerazione della intenzione manifestata da Borsa Italiana di avviare una revisione del Codice di autodisciplina.

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Obblighi di informativa alla Consob in materia di cumulo degli incarichi

La delibera ha poi realizzato alcune semplificazioni in merito alla disciplina in materia di cumulo degli incarichi di amministrazione e controllo dei componenti degli organi di controllo. Il Regolamento prevede che non possono assumere la carica di componente dell’organo di controllo di un emittente coloro che già ricoprono la medesima carica in cinque emittenti (art. 144-terdecies, comma 1, RE); inoltre, fermo restando il limite dei cinque incarichi, il componente dell’organo di controllo di un emittente può assumere altri incarichi di amministrazione e controllo nel limite massimo pari a sei punti, risultanti dall’applicazione del modello di calcolo fissato dalla stessa Consob57. Il nuovo regime ha eliminato gli obblighi di comunicazione che i componenti degli organi di controllo erano tenuti a effettuare su base annuale in merito agli incarichi ricoperti. A fronte di tali abrogazioni, il componente dell’organo di controllo deve comunicare alla Consob l’assunzione o la cessazione degli incarichi ricoperti, entro 10 giorni dall’evento, secondo le istruzioni contenute nell’Allegato 5-bis del Regolamento Emittenti. Infine, nel caso in cui un soggetto rivesta, per la prima volta, l’incarico di sindaco presso un emittente azioni quotate o strumenti finanziari diffusi, è tenuto a effettuare la prima comunicazione alla Consob entro 90 giorni dall’assunzione dell’incarico. Una volta che gli emittenti avranno proceduto agli opportuni aggiornamenti e realizzato le dovute comunicazioni alla Consob, quest’ultima potrà pubblicare la lista degli incarichi (art. 144-quinquiesdecies) oltre che comunicare l’avvenuto superamento del limite degli incarichi al componente dell’organo di controllo interessato (art. 144-terdecies, comma 4-ter).

La Delibera Consob ha poi apportato alcune modifiche minori al Regolamento Emittenti. Tra queste, un approfondimento merita la nuova disciplina informativa in materia di operazioni straordinarie, contenuta nel Regolamento Emittenti (artt. 70 e 71). È stato, infatti, previsto che gli emittenti azioni devono procedere alla predisposizione del documento informativo utilizzando i criteri contenuti nell’Allegato 3B o su richiesta della Consob. L’Allegato, come riformulato, contiene, in una prima sezione, i “principi generali” da seguire per stabilire se un’operazione straordinaria debba considerarsi significativa e i “parametri di significatività”. In particolare, l’Allegato riproduce i contenuti di una precedente Comunicazione Consob58, che forniva informazioni sui criteri generali da adottare per stabilire se un’operazione straordinaria potesse essere considerata significativa e se l’emittente fosse tenuto a pubblicare il documento informativo. In aggiunta, sono stati inseriti nell’Allegato gli orientamenti della Consob in materia, maturati nel corso degli ultimi anni.

L’Allegato prevede che, in caso di operazioni di fusione, scissione, aumento di capitale mediante conferimento di beni in natura, acquisizione e cessione, gli emittenti pubblichino un documento informativo, previa valutazione della significatività dell’operazione, rispetto alle dimensioni dell’emittente. La significatività ricorre, di norma, se uno dei parametri riportati nell’Allegato risulta non inferiore al 25%. Sono escluse dall’obbligo di pubblicazione: (i) le operazioni effettuate tra l’emittente quotato e società da esso interamente controllate; (ii) le operazioni effettuate tra due o più società interamente controllate dall’emittente. Per contro, l’emittente è tenuto alla redazione del documento informativo se conclude più operazioni che, pur non essendo singolarmente significative, superino i parametri di significatività se considerate in forma aggregata.

Il regime di comunicazione dei dati relativi agli organi sociali da parte degli emittenti quotati

Nel corso del 2010, la Consob ha proposto di modificare, attraverso l’avvio di una procedura di consultazione, la disciplina relativa alle modalità di comunicazione dei dati relativi agli organi sociali. Le modifiche proposte sono divenute necessarie in relazione alle recenti riforme in materia di composizione degli organi sociali. Con il documento posto in consultazione, la Consob ha proposto di modificare l’art. 100 del Regolamento Emittenti, relativo alla composizione degli organi di amministrazione e controllo e del direttore generale e i contenuti del Modello59 che gli emittenti devono compilare e inviare alla Consob per aggiornare, in caso di variazioni, i dati sulle cariche prima richiamate. In particolare, la Consob ha richiesto informazioni integrative per i soggetti che ricoprono

57. Cfr. Regolamento Emittenti, Allegato 5-bis.

58. Comunicazione DIS/98081334 del 19 ottobre 1998.

59. Modello 100, Allegato 3H al Regolamento Emittenti.

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la carica di amministratore. Assonime ha risposto alla consultazione evidenziando alcune criticità in merito al novero e alla qualità delle informazioni. Oggetto di particolare critica è stata la proposta attraverso la quale la Consob intendeva estendere gli obblighi informativi anche con riferimento alla qualifica di indipendenza da autodisciplina ovvero alla partecipazione degli amministratori a comitati interni al consiglio di amministrazione. Le criticità evidenziate da Assonime sono state recepite da Consob, che è pervenuta nel marzo 2011 alla modifica dell’art. 10060. La disposizione continua a prescrivere per gli emittenti un obbligo di comunicazione dei dati relativi alle variazioni nella composizione degli organi di amministrazione e controllo e, ove prevista, nella carica di direttore generale. La delibera ha invece innovato sotto il profilo delle modalità di trasmissione. È oggi possibile inviare le informazioni alla Consob per via telematica attraverso il nuovo sistema informatico (Sistema Automatico Integrato di Vigilanza Emittenti Quotati - SAIVEQ).

Trasmissione di Dati Informativi Finanziari contenuti nelle relazioni finanziarie semestrali e annuali

Nel corso del 2010, la Consob ha messo a punto un sistema che consente la trasmissione in via telematica di una serie di Dati Informativi e Finanziari (di seguito DIF) contenuti nella documentazione contabile. L’acquisizione di tali dati si è resa necessaria al fine di consentire alla Consob di disporre di una banca dati informatica, contenente i principali dati di bilancio delle società quotate, di cui avvalersi, a vari fini, nello svolgimento di compiti istituzionali. Con Comunicazione dell’aprile 201061, la Consob ha richiesto agli emittenti di trasmettere, in via telematica e in formato elaborabile, i dati informativi finanziari desunti dalla relazione finanziaria annuale. Con successiva Comunicazione62, la Consob ha proceduto ad analoga richiesta anche con riferimento ai dati informativi finanziari contenuti nelle relazioni finanziarie semestrali. Gli obblighi informativi si applicano limitatamente agli emittenti appartenenti a settori industriali e vengono assolti mediante lo strumento della teleraccolta. Al fine di facilitare la trasmissione dei dati, la Consob ha pubblicato due distinti manuali.

Assonime ha partecipato attivamente al processo che ha portato alla pubblicazione delle due comunicazioni, al fine di risolvere le criticità derivanti dall’applicazione della disciplina e contenere il numero e la qualità delle informazioni da richiedere. Assonime è stata particolarmente critica circa l’ipotesi, originariamente proposta dalla Consob poi ritirata, di richiedere informazioni relative alla governance degli emittenti. già presenti nelle relazioni di governance.

2.3 Le prassi di mercato ammesse

Come diffusamente illustrato nella Relazione sull’attività 2007/2008, la direttiva sugli abusi di mercato (direttiva 2003/6/CE) aveva disciplinato i casi di esenzione dalla disciplina facendovi rientrare anche gli acquisti di azioni proprie alle condizioni stabilite da un regolamento comunitario (Regolamento CE n. 2273/2003). Per poter godere del safe harbour comunitario, gli acquisti di azioni proprie devono essere effettuati secondo gli esclusivi obiettivi previsti nel Regolamento citato e secondo le modalità ivi stabilite.

Gli acquisti di azioni proprie possono avere molteplici finalità oltre a quelle disciplinate dal Regolamento comunitario senza tuttavia concretare abusi di mercato. Per tutelare gli acquisti di azioni proprie effettuati dagli emittenti non in conformità con il regolamento comunitario, si è quindi posta la necessità di riconoscere talune di queste attività nell’ambito delle “prassi di mercato ammesse63”, prassi riconosciute e ammesse dalle autorità competenti nazionali, secondo quanto previsto dalla direttiva sugli abusi di mercato, e volte a salvaguardare le peculiarità nazionali.

La Consob, con delibera n. 16839 del 19 marzo 2009, è intervenuta quindi per riconoscere alcune

60. Cfr. Delibera n. 17679 dell’1 marzo 2011.

61. Cfr. Comunicazione n. DEM/10036807 del 26 aprile 2010.

62. Cfr. Comunicazione n. DEM/10082834 dell’8 ottobre 2010.

63. Art. 180, comma 1, lett. c) TUF.

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prassi di mercato ammesse, previa consultazione pubblica cui Assonime ha partecipato64.

Il riconoscimento della prassi consente di non applicare le sanzioni amministrative a chi, effettuando alcune operazioni di compravendita disciplinate dal TUF, dimostri di aver agito per motivi legittimi e in conformità di dette prassi. Gli acquisti di azioni proprie che ricadono invece nel campo di applicazione del Regolamento CE n. 2273/2003 beneficiano della deroga ai divieti di abuso di mercato, con la conseguenza che a tali operazioni non si applicano le disposizioni anche penali contenute nel TUF.

Le due prassi riconosciute dalla delibera citata, e descritte diffusamente nella Relazione sull’attività 2007/2008, sono volte rispettivamente a: (i) sostenere la liquidità dei titoli; (ii) acquistare azioni proprie dell’emittente per la costituzione di un c.d. magazzino titoli.

Le prassi riconosciute dalla Consob, simili a quelle ammesse anche in altri paesi, sono state pubblicate dal CESR sul proprio sito solo il 31 maggio 2010. In una circolare65 Assonime ha descritto la disciplina dell’acquisto di azioni proprie derivante dalle norme volte a tutelare la parità di trattamento (artt. 132 TUF e 144-bis Regolamento Emittenti) e dalle disposizioni sugli abusi di mercato (art. 183 TUF), le prassi di mercato ammesse e infine il regime informativo dell’acquisto di azioni proprie derivante dal complesso delle disposizioni primarie e secondarie.

2.4 Gli altri interventi della Consob

Aumenti di capitale diluitivi

La Consob, nell’aprile 2010, ha avviato una consultazione sugli aumenti di capitale cc.dd. diluitivi; nel documento di consultazione la Consob ha analizzato gli aumenti diluitivi di alcuni emittenti, caratterizzati da un elevato rapporto tra numero di azioni emesse e numero di azioni in circolazione, con il fine di massimizzare il valore dello sconto per i sottoscrittori rispetto al valore delle azioni in circolazione. Nel documento la Consob ha illustrato alcune possibili soluzioni operative per prevedere più finestre di consegna delle azioni, in luogo dell’unica consegna al termine del periodo di opzione, con lo scopo di evitare il disallineamento tra il prezzo delle azioni e quello dei diritti di opzione.

Nella risposta alla consultazione Assonime66 ha optato per una finestra supplementare di consegna delle azioni, soluzione eventualmente estendibile a tutti gli aumenti di capitale, non solo quelli diluitivi, a richiesta dell’emittente. Assonime ha altresì evidenziato alcune perplessità in ordine alla possibile soluzione paventata da Consob in merito alla previsione di finestre giornaliere di consegna delle azioni (c.d. rolling) anche a fronte della possibile moltiplicazione degli adempimenti da parte degli emittenti.

Nel documento di esito delle consultazioni dell’agosto 2010, la Consob ha indicato la soluzione di finestre giornaliere di consegna delle azioni, da estendere a tutti gli aumenti di capitale, non solo quelli diluitivi e ha invitato l’industry a implementare la soluzione entro la fine del 2010. A seguito del documento di esito delle consultazioni vi sono stati alcuni incontri dell’industry per discutere la soluzione prospettata dalla Consob e costituire un gruppo di lavoro ristretto volto ad analizzare, nel dettaglio, la soluzione e le criticità. Assonime, in tale sede, si è espressa condividendo le soluzioni volte a prevedere una o due finestre di consegna oltre a quella finale e riservando la possibilità di avere finestre giornaliere solo nel caso in cui le precedenti soluzioni non si fossero dimostrate adeguate al raggiungimento degli scopi prefissi. Non essendo stato tuttavia possibile addivenire a una soluzione condivisa dall’industry, la Consob, nell’aprile 2011, ha avviato un’ulteriore consultazione ristretta ai partecipanti al tavolo di lavoro dove ha ipotizzato alcune proposte operative che sono state discusse in un incontro ad hoc con gli associati.

64. Cfr. Risposta del 6 febbraio 2008.

65. Cfr. Circolare Assonime n. 22/2009.

66. Cfr. Risposta alla consultazione del 21 luglio 2010.

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Trasparenza dei derivati cash-settled

Nell’ottobre 2009, la Consob ha pubblicato un position paper in tema di trasparenza proprietaria dei derivati cash-settled al fine di aprire un dibattito sull’opportunità di estendere gli obblighi di trasparenza proprietaria anche a questi strumenti derivati. Nel documento vengono inoltre valutate le possibili modalità tecniche di attuazione di tale obbligo, con particolare riferimento all’eventuale aggregazione, ai fini del raggiungimento della soglia di rilevanza, tra le posizioni assunte come partecipazioni “effettive” e quelle assunte in via potenziale (e, in subordine, tra quelle cash e physical-settled) e la definizione delle soglie stesse.

L’assenza di trasparenza sulle operazioni in derivati cash-settled67 può infatti rivelarsi critica in alcune circostanze: attraverso la costituzione di posizioni in derivati cash-settled è infatti possibile costituire una partecipazione rilevante in una società senza che il mercato ne sia informato (undisclosed stake building); in parallelo, è possibile che la parte corta voti in assenza di un interesse economico (c.d. empty voting) ovvero che il titolare della partecipazione “occulta” sia in grado di influire sulle modalità di esercizio del voto.

Assonime ha inviato le proprie osservazioni68 al position paper sottolineando come sia necessario, in questa materia, che qualsiasi scelta regolamentare (i) sia il più possibile armonizzata a livello comunitario; a questo riguardo, Assonime ha ricordato che l’European Securities Markets Expert Group (ESME) ha reso alla Commissione Europea un advice nel quale si raccomanda fortemente l’armonizzazione, a livello europeo e, in quanto possibile, a livello globale, delle regole che presiedono alla disclosure delle posizioni in derivati aventi come sottostante azioni quotate; (ii) sia strettamente funzionale al soddisfacimento di un effettivo fabbisogno informativo; (iii) tenga conto della configurazione tipica dell’assetto proprietario delle società italiane; (iv) sia sorretta da una rigorosa comparazione dei costi e dei benefici; (v) sia improntata ai principi della proporzionalità e, con riferimento ai nuovi adempimenti informativi, della gradualità. Con riguardo a quest’ultimo aspetto, qualora fosse perseguita l’opzione regolamentare, si ritiene opportuno valutare la possibilità di prevedere, quanto meno in una fase iniziale e nelle more dell’approvazione di regole armonizzate a livello comunitario, che le posizioni rilevanti in strumenti derivati cash-settled debbano essere comunicate non al mercato, bensì alla Consob, in quanto dotata di strumenti idonei a valutare l’effettiva rilevanza di tali operazioni ai fini della trasparenza degli assetti proprietari e quindi titolata, ove lo ritenga necessario, a richiederne la disclosure verso il pubblico.

Consob su short selling

Con delibera n. 16904 del 27 maggio 2009, la Consob ha modificato il regime applicabile alle vendite allo scoperto, rimuovendo le misure più restrittive previste per la vendita di azioni di banche e di imprese di assicurazione e delle relative holding. Con le modifiche introdotte, la vendita di azioni di società quotate nei mercati regolamentati, a prescindere dalla loro appartenenza al settore finanziario e assicurativo, dovrà essere assistita dalla sola disponibilità dei titoli. Viene così meno il regime più restrittivo che imponeva, per la vendita di azioni di banche e assicurazioni, accanto alla disponibilità, anche la proprietà dei titoli.

Nella stessa data, la Consob ha pubblicato un position paper per aprire un dibattito con il mercato sul tema generale delle vendite allo scoperto. L’intento della Commissione era quello di individuare possibili soluzioni regolamentari e di sottoporle ad un’analisi preliminare degli operatori del mercato per valutarne i relativi costi e benefici.

67. L’attuale disciplina sulla trasparenza proprietaria, definita dall’art. 119 del Regolamento Emittenti in attuazione dell’art. 120 del TUF, infatti, prevede in Italia, come in molti altri paesi europei e coerentemente con la direttiva europea, che solo gli strumenti derivati che prevedano espressamente o consentano la consegna fisica del sottostante debbano essere considerati ai fini della determinazione degli obblighi di comunicazione, mentre sono esenti da tali obblighi le operazioni su strumenti derivati cash-settled che abbiano come sottostante azioni quotate.

68. Consultazione n. 1/2010, Osservazioni al position paper della Consob in tema di trasparenza proprietaria sulle posizioni in derivati cash-settled.

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Assonime ha risposto69 alla consultazione e ha condiviso le valutazioni del documento di consultazione circa la positività della pratica dello short selling in condizioni normali di mercato; ha inoltre sottolineato l’opportunità di disciplinare tale pratica in modo coordinato, almeno con le Autorità dei Paesi europei. Anche alla luce del documento di consultazione del CESR dell’8 luglio 2009, Assonime ha suggerito di attendere gli standard di trasparenza che saranno elaborati dal CESR stesso, al fine di evitare che il mercato italiano adotti regole e procedure che debbano poi essere modificate in tempi brevi, e di procedere quindi in modo graduale alla eliminazione dei provvedimenti limitativi. Con riferimento invece alle misure sugli aumenti di capitale, Assonime non ha ritenuto opportuna la previsione di divieti permanenti, ritenendo invece che la questione debba essere affrontata con misure di trasparenza particolari. Assonime ha inoltre considerato positivamente l’eventuale introduzione di regole di trasparenza in materia di vendite allo scoperto, se coordinata con gli altri ordinamenti.

2.5 Le modifiche ai regolamenti di Borsa Italiana

Nel corso del biennio Borsa Italiana ha modificato il proprio Regolamento e le Istruzioni ai mercati gestiti o organizzati da Borsa Italiana ed è altresì intervenuta modificando la disciplina dei mercati alternativi gestiti dalla medesima (MAC e AIM Italia).

Nel settembre 2010 Borsa Italiana, che già deteneva il 5% circa della società PROMAC S.p.A. – società volta a promuovere lo sviluppo del MAC – ha acquistato le azioni dai 22 azionisti della società (fra cui Assonime).

Nell’ottobre 2010 è stato costituito l’Advisory Board per lo sviluppo dei mercati alternativi (MAC e AIM Italia) con poteri propositivi e volti a promuovere iniziative e strategie di sviluppo dei mercati. Dell’Advisory Board, costituito da 15 membri rappresentanti dell’industry, fa parte anche un rappresentante di Assonime.

Le modifiche al Regolamento e alle Istruzioni dei mercati regolamentati e dei mercati alternativi

Nel giugno 2009 Borsa Italiana, nel quadro del processo di integrazione con il London Stock Exchange, ha accorpato i mercati Expandi e MTA. Per effetto dell’accorpamento, gli strumenti finanziari negoziati sull’Expandi sono negoziati nel segmento Blue Chip e nel segmento Standard, a seconda della soglia di capitalizzazione. In sede di consultazione per le modifiche al regolamento, Assonime aveva rappresentato come in questo modo si legittimasse il trasferimento unilaterale delle società quotate da un segmento ad un altro, senza il consenso delle società interessate, come già accaduto in occasione dell’accorpamento del MTAX nel MTA, avvenuto nel 2008.

Sempre nel giugno 2009 Borsa Italiana ha: (i) introdotto una procedura semplificata di ammissione per gli emittenti AIM Italia che intendono accedere al MTA (esonero dalla presentazione del QMAT e dall’attestazione dello sponsor sul sistema del controllo di gestione); (ii) ridefinito alcuni requisiti per il segmento STAR (per esempio allineamento del flottante minimo per l’ottenimento della qualifica STAR delle società già quotate (pari al 20%) con quello richiesto alle società in fase di ammissione (35%)); (iii) definito nuovi indici (FTSE MIB) che sostituiscono l’indice S&P/MIB; (iv) ridotto il lotto minimo di negoziazione nel MAC da 25.000 euro a 15.000 euro.

Nel settembre 2009 Borsa Italiana ha eliminato dalle Istruzioni la previsione di obblighi informativi in materia di governance alla luce della nuova disciplina contenuta direttamente nella normativa primaria (art. 123-bis TUF)70, poiché in virtù del decreto citato, gli emittenti sono tenuti a inserire, nella relazione sulla gestione o in una relazione distinta, informazioni relative alla governance della società che vanno ad aggiungersi a quelle in materia di assetti proprietari cui la norma faceva già riferimento, si è reso necessario eliminare le disposizioni contenute nelle Istruzioni di Borsa.

Altre modifiche di rilievo al segmento STAR nel corso del 2010 hanno riguardato: (i) l’obbligo di fornire

69. Consultazione n. 2/2009, Osservazioni al position paper in tema di short selling.

70. Come ricordato nel par.1.6.1, la disposizione è stata modificata a seguito del d.lgs. n. 173/2008.

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in lingua inglese, contestualmente alle corrispondenti comunicazioni in italiano, i comunicati price sensitive; (ii) l’eliminazione dei criteri addizionali previsti dalle Istruzioni riguardanti la rilevanza delle relazioni commerciali, finanziarie e professionali per la definizione di amministratore indipendente per cui si rinvia ai principi e criteri applicativi dell’art. 3 del Codice di autodisciplina; (iii) la proroga del termine per la pubblicazione del progetto di bilancio a novanta giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale71; (iv) alcuni requisiti di governo societario in tema di comitato per il controllo interno e remunerazione degli amministratori. Con riguardo al comitato per il controllo interno, Borsa Italiana ha precisato che gli emittenti STAR non sono tenuti ad attribuire a tale comitato alcuni dei compiti previsti dal Regolamento di Borsa Italiana in quanto recentemente attribuiti dalla normativa primaria all’organo di controllo72. Con riferimento al regime delle remunerazioni, Borsa Italiana ha chiarito che il rinvio operato dal Regolamento all’art. 7 del Codice di autodisciplina in materia di remunerazione degli amministratori deve intendersi riferito alla versione del Codice pubblicata nel 2006. Durante la fase transitoria, agli emittenti STAR – per i quali il Regolamento di Borsa richiede il rispetto della disciplina sulla remunerazione – si applicano le disposizioni previgenti dell’art. 7.

2.6 Le novità in materia di documenti finanziari

Nel biennio trascorso è continuato il percorso volto ad introdurre in Italia il linguaggio XBRL. Il linguaggio XBRL (eXtensible Business Reporting Language) è un formato concepito per rendere più agevole la trasmissione e l’elaborazione di dati quantitativi e testuali mediante la loro codificazione in tassonomie predefinite. L’adozione di XBRL è stata promossa in diversi paesi al fine di agevolare i rapporti tra imprese e pubblica amministrazione, in particolare fiscali, e per migliorare i flussi informativi delle imprese con la comunità finanziaria.

Il primo intervento normativo che ha aperto la strada all’adozione nel nostro paese del formato XBRL è stata la Legge 4 agosto 2006, n. 248, che prevedeva l’emanazione, con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, delle specifiche tecniche del formato elettronico elaborabile che le società avrebbero dovuto impiegare per la presentazione dei bilanci d’esercizio e degli altri atti al registro delle imprese. Si stabiliva, altresì, che la decorrenza dell’obbligo di adozione di tale modalità di presentazione non potesse essere successiva al 31 marzo 2007, termine poi spostato di un anno. Tali disposizioni hanno trovato compimento nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 10 dicembre 2008 che reca «Specifiche tecniche del formato elettronico elaborabile (XBRL) per la presentazione dei bilanci di esercizio e consolidati e di altri atti al registro delle imprese» pubblicato in Gazzetta Ufficiale 31 dicembre 2008, n. 304) (di seguito “DPCM”)73.

Il DPCM definisce l’ambito di applicazione di XBRL escludendo: a) le società di capitali quotate in mercati regolamentati; b) le società non quotate che redigono i bilanci d’esercizio o consolidato in conformità ai principi contabili internazionali, le società esercenti attività di assicurazione e riassicurazione, di cui all’art. 1 del decreto legislativo settembre 2005, n. 209 e le altre tenute a redigere i bilanci secondo il decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 87; c) le società controllate e le società incluse nel bilancio consolidato redatto dalle società di cui alle lettere a) e b).

71. Il nuovo termine sostituisce quello dei settantacinque giorni precedentemente previsti per avvalersi dell’esonero dalla pubblicazione del quarto resoconto intermedio di gestione. La modifica è stata effettuata alla luce di quanto previsto dal decreto di recepimento della direttiva sui diritti degli azionisti; l’art. 154-ter TUF, così come novellato dal Decreto di recepimento della Direttiva, stabilisce l’obbligo di pubblicazione del progetto di bilancio, approvato dall’organo amministrativo, entro centoventi giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale imponendo altresì l’obbligo di comunicare il progetto di bilancio al collegio sindacale e alla società di revisione almeno quindici giorni prima della pubblicazione. Poiché in virtù delle nuove disposizioni, le società STAR che si volessero avvalere dell’esonero dalla pubblicazione del quarto resoconto intermedio di gestione, dovrebbero anticipare l’approvazione del progetto di bilancio entro sessanta giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale, dovendo rispettare il termine di quindici giorni per la comunicazione del suddetto progetto di bilancio a collegio sindacale e revisori, Borsa Italiana ha prorogato il termine a novanta giorni al fine di non comprimere eccessivamente le tempistiche per l’approvazione del progetto di bilancio.

72. La novità è stata determinata a seguito del recepimento della Direttiva 2006/43 da parte del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39 in tema di revisione contabile.

73. Cfr. Circolare Assonime 5/2010.

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Il processo di implementazione è accompagnato in Italia dall’associazione XBRL Italia. Assonime partecipa ai vari tavoli tecnici dell’associazione ed è, inoltre, impegnata nel coordinamento del tavolo tecnico costituito per consentire l’applicazione di XBRL alle imprese italiane che adottano gli IFRS. L’obiettivo fondamentale del gruppo di lavoro è quello di tradurre in italiano le tassonomie elaborate in inglese per i soggetti IFRS adopter sotto la supervisione dello IASB che sono state pubblicate nel marzo 2011.

Sempre in tema di disciplina del bilancio, è da segnalare il documento n. 4 del tavolo di coordinamento fra Banca d’Italia, Consob e Isvap in materia di applicazione degli IAS/IFRS, pubblicato il 3 marzo del 201074. Il documento delle Autorità individua alcune aree informative nelle quali le società devono assicurare un più elevato grado di trasparenza, in particolare: (i) la valutazione dell’avviamento (c.d. impairment test), delle altre attività immateriali a vita utile indefinita e delle partecipazioni; (ii) la valutazione dei titoli di capitale classificati come “disponibili per la vendita”; (iii) la classificazione delle passività finanziarie quando non vengano rispettate le clausole contrattuali che determinano la perdita del beneficio del termine. Il documento non ha, per espressa sua indicazione, “un contenuto precettivo autonomo, in quanto non introduce alcun obbligo ulteriore, bensì richiama tutti i partecipanti al processo di elaborazione delle relazioni finanziarie ad una puntuale ed esaustiva applicazione delle norme e dei principi contabili di riferimento considerati nella loro interezza”. Quindi, nessun contenuto vincolante può essergli attribuito.

Assonime partecipa inoltre alla Commissione civilistica presso l’OIC che si occupa di redigere pareri sulla bozze di principi contabili nazionali. Nel decorso biennio, la Commissione si è occupata di ristrutturazione del debito e informativa in bilancio, di ritorno dagli IAS/IFRS, di conferimenti d’azienda.

3. La legge fallimentare

3.1 L’evoluzione della disciplina delle procedure concorsuali

La disciplina del fallimento è un tema fondamentale ai fini del buon funzionamento dell’economia nazionale. In tal senso la riforma attuata tra il 2005 e il 2007 ha sicuramente impresso una spinta modernizzatrice al nostro sistema economico, ed è proprio nella frammentazione dell’intervento normativo che ha potuto trovare sostegno una profonda rivoluzione dei principi della materia75. Le modifiche legislative hanno infatti rappresentato un passo significativo e importante verso la modernizzazione della disciplina della crisi dell’impresa, per garantire la speditezza del procedimento, la conservazione dei mezzi produttivi dell’impresa e liquidazioni più efficienti.

Sebbene la riforma abbia segnato un passaggio di modernità e consenta oggi, a distanza di anni dalla sua conclusione, di apprezzarne alcuni effetti positivi, non si può escludere che alcuni miglioramenti possano rendere più efficiente la regolamentazione. Il quadro attuale della disciplina presenta un sistema di regole in cui coesistono obiettivi e strumenti diversi, in relazione alle dimensioni dell’impresa in crisi. In particolare rimangono aspetti della disciplina concorsuale ancora da riformare quali la disciplina dell’amministrazione straordinaria, l’insolvenza civile, il diritto penale fallimentare e la disciplina dell’insolvenza dei gruppi di imprese.

Il riordino della materia dell’amministrazione straordinaria per le grandi imprese in crisi e la modifica della disciplina dei reati fallimentari sono all’esame della Camera (disegno di legge delega (AC)

74. Cfr. Circolare Assonime 10/2010.

75. La riforma della legge fallimentare è stata realizzata in tre tempi attraverso il d.l. n. 35/2005 (convertito dalla l. n. 80/2005), il d.lgs. n. 5/2006 e il d.lgs. n. 169/2007 (c.d. decreto correttivo).

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1741), che nei primi mesi del 2010 ha condotto un’indagine conoscitiva sulla materia76. Il disegno di legge delega è volto a sostituire le attuali procedure di amministrazione straordinaria con una sola procedura ispirata a criteri di massima flessibilità. La delega contiene, inoltre, alcuni principi di riforma dei reati fallimentari, rimasti esclusi dalla riforma della legge fallimentare. L’attuazione della delega in discussione rappresenta, dunque, l’occasione per portare a compimento un disegno organico della materia e la razionalizzazione delle soluzioni, dando nuovo impulso ad istituti introdotti dalle recenti modifiche normative.

Il 27 aprile 2010 il Presidente di Assonime, Luigi Abete, è intervenuto in audizione presso le Commissioni riunite Giustizia e Attività produttive della Camera dei Deputati, nell’ambito dell’indagine sulla riforma della amministrazione straordinaria77.

Al riguardo il Presidente ha approfondito i profili di maggiore criticità dell’istituto, che presenta molti aspetti di inefficienza economica e giuridica. Una volta aperta, con la riforma della procedura fallimentare, la strada principale per la conservazione dei valori aziendali occorrerebbe infatti puntare sulla massima efficienza della procedura liquidatoria: se l’impresa ha valore dovrà essere conservata, diversamente andrà rapidamente liquidata attraverso la procedura ordinaria. Ne consegue che l’amministrazione straordinaria è utile solo nel caso di grandissime imprese per il cui recupero sia necessario intervenire subito e le cui sorti possano incidere sull’economia nazionale. Inoltre, la procedura speciale va raccordata con la disciplina generale sia per consentire alla società di accedere alla procedura di concordato preventivo – e tentare la via della ristrutturazione –, sia per prevedere che l’esito negativo della ristrutturazione o della cessione dei complessi aziendali dia luogo al fallimento.

La questione principale che, secondo Assonime, deve essere affrontata per la riforma dell’amministrazione straordinaria riguarda, dunque, i requisiti dimensionali o qualitativi dell’impresa che accede alla disciplina speciale, i quali devono chiarire l’applicabilità alla procedura solo in caso di crisi di assoluta rilevanza nel panorama economico e con implicazione di vastissima portata sia finanziaria che sociale. Tra i requisiti rilevanti occorre tenere conto della dimensione occupazionale, del livello di indebitamento e del livello di fatturato.

E’ necessario altresì considerare le soglie di accesso con riguardo ai gruppi di imprese. Nell’ambito dei gruppi, le soglie per l’accesso dovrebbero riferirsi alle singole società. Pur potendo considerare unitariamente il gruppo ai fini di una procedura coordinata (provvedimenti comuni e commissario unico che diriga l’applicazione del programma), il discorso sulle soglie va riferito sempre ai criteri generali di ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria.

Con riguardo all’ammissione alla procedura la delega prevede che questa venga effettuata immediatamente dall’autorità amministrativa e solo successivamente segua la verifica dei presupposti per l’apertura della stessa da parte del tribunale. Questo meccanismo consente senz’altro un più rapido avvio della procedura. La scelta, tuttavia, è condivisibile solo nel presupposto che l’amministrazione straordinaria sia riservata ai casi di imprese di rilevantissima dimensione e importanza, che richiedano soluzioni celeri. Diversa è la valutazione nell’ipotesi in cui l’ammissione alla procedura straordinaria venisse garantita ad un ampio ambito d’imprese. In tali casi la sottrazione della decisione al tribunale, con la conseguente privazione di un ruolo attivo per i creditori, solleverebbe un rilevante problema di discriminazione tra imprese soggette all’amministrazione straordinaria e imprese soggette alle procedure concorsuali ordinarie. Appare, comunque, necessario che l’apertura della procedura basata solo sul decreto dell’autorità amministrativa sia bilanciata dal rafforzamento della tutela dei creditori.

Con riguardo alla delega per la riforma dei reati fallimentari le considerazioni svolte da Assonime hanno riguardato l’urgenza e la necessità della realizzazione della riforma penale fallimentare generale. Il sistema delle norme penali delineato dalla legge fallimentare è rimasto, infatti, immutato nel tempo e non appare più coerente con i principi ispiratori delle nuove procedure concorsuali. Gli istituti più nuovi della legge fallimentare risultano fortemente penalizzati dalla presenza di un rischio

76. La materia delle procedure di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi è attualmente regolata dai decreti legislativi n. 270/1999 (c.d. Prodi bis) e n. 347/2003 (c.d. Marzano) e 134/2008 (c.d. Decreto Alitalia).

77. Intervento Assonime 5/2010 “Indagine conoscitiva sul disegno di legge C 1741, recante la delega al Governo per il riordino della legislazione in materia di gestione delle crisi aziendali- Audizione del presidente dell’Assonime Luigi Abete”.

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penale, anche se le modifiche intervenute nel luglio del 2010 hanno parzialmente risolto la questione.

Nel corso dell’audizione, è stato espresso un generale apprezzamento per i principi delineati nella delega e in particolare con riguardo: (i) alla previsione di una migliore precisazione delle condotte dei reati di bancarotta fraudolenta e semplice78; (ii) alla scelta di prevedere per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e preferenziale che la condotta rilevante debba essere contemporanea allo stato di insolvenza (o al concreto pericolo del medesimo); (iii) alla rideterminazione delle pene con la possibile modulazione in base alla gravità dell’illecito.

In aggiunta alle osservazioni sulla riforma dell’amministrazione straordinaria e del diritto penale fallimentare, è stato presentato un documento di proposte legislative per alcune modifiche alle norme concorsuali ordinarie, ritenute urgenti per il buon funzionamento dei nuovi istituti introdotti dalla riforma. In particolare, il documento segnalava la necessità di introdurre: la prededuzione (rimborso prioritario) dei finanziamenti erogati per accedere ai nuovi istituti del risanamento; l’anticipazione del blocco delle azioni esecutive negli accordi di ristrutturazione dei debiti; l’esenzione da punibilità per bancarotta di accordi finalizzati al risanamento e alla ristrutturazione, resi pienamente leciti dalle nuove norme concorsuali.

I lavori parlamentari e di Governo sull’amministrazione straordinaria non hanno avuto esito, ma alcune delle modifiche suggerite da Assonime sulle norme concorsuali ordinarie sono state recepite dal decreto legge 31 maggio 2010, n. 78 convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.

3.2 Le modifiche alle soluzioni concordate della crisi d’impresa

La riforma della legge fallimentare ha valorizzato le soluzioni concordate della crisi con la modifica della disciplina del concordato preventivo e con l’introduzione di nuovi istituti: l’accordo di ristrutturazione dei debiti e il piano attestato di risanamento79. Questo tipo di accordi avrebbe dovuto favorire una precoce emersione della crisi e consentirne una più rapida ed efficiente soluzione. Tuttavia, nella prassi sono stati scarsamente utilizzati, in ragione delle incertezze normative e delle lacune della disciplina80. L’insuccesso di questi istituti è stato principalmente ricondotto alle insufficienti garanzie per i finanziamenti delle imprese in crisi; al persistente rischio di responsabilità anche penali per la sottoscrizione di accordi stragiudiziali; alla mancanza di protezione del patrimonio del debitore dalle esecuzioni individuali nella fase delle trattative con i creditori.

Per eliminare questi ostacoli il decreto legge 31 maggio 2010, n. 7881 ha introdotto alcune ulteriori modifiche alla legge fallimentare82. Il decreto, in primo luogo, ha previsto una nuova disciplina della prededuzione dei crediti in caso di fallimento successivo ad un concordato preventivo o ad un accordo di ristrutturazione dei debiti. Prima delle modifiche la prededuzione si configurava come una modalità di pagamento prioritaria soltanto dei crediti sorti in esecuzione o in funzione di un concordato preventivo o di un concordato fallimentare. La regola del rimborso prioritario non trovava, invece, applicazione ai crediti sorti nell’ambito di un accordo di ristrutturazione non andato a buon fine, e neppure ai crediti sorti per consentire l’accesso alle soluzioni concordate (c.d. finanza ponte).

78. Previsti dagli artt. 216 e 217 l.f..

79. Per l’analisi di alcuni profili applicativi dei nuovi istituti si vedano il Caso Assonime n.11/2009 “Accordo di ristrutturazione dei debiti: due pronunce a confronto” e il Caso n.3/2009 “La prima sentenza della Corte di Cassazione sul nuovo concordato preventivo”.

80. Per sopperire nella prassi a tali incertezze l’Università di Firenze, in collaborazione con Assonime e con il CNDEC, ha continuato ad aggiornare le “Linee guida per il finanziamento alle imprese in crisi”, elaborando l’edizione del 2010. Scopo di tale progetto è quello di proporre alle imprese modelli di comportamento utili per la loro ristrutturazione che potrebbero porsi come una sorta di ‘porto sicuro’ nel successivo, eventuale, scrutinio giudiziale.

81. Convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.

82. Nuovi artt. 182-bis, 182-ter, 182-quater e 217-bis. l.f.. Per il commento delle nuove norme, cfr. Circolare Assonime 33/2010.

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La nuova disciplina83 estende la garanzia della prededuzione in presenza di determinate condizioni: (i) ai finanziamenti effettuati da banche e intermediari finanziari, in esecuzione o in funzione di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti, (ii) ai finanziamenti ponte; (iii) ai finanziamenti dei soci; (iv) ai compensi dei professionisti. Questa estensione dovrebbe favorire il reperimento di risorse sia per accedere che per dare esecuzione alle soluzioni concordate della crisi, consentendo il risanamento dell’impresa.

Sempre al fine di incentivare la concessione del credito alle imprese in crisi, nell’ambito di accordi stragiudiziali di risanamento è stato attivato, con un diverso intervento normativo84, il Fondo per il salvataggio e la ristrutturazione delle imprese in difficoltà85. L’aiuto statale – che assume la forma della garanzia sui finanziamenti bancari richiesti dall’imprenditore – consente di ovviare a situazioni di difficoltà di breve o anche di lungo periodo, purché sussistano progetti di ristrutturazione volti a restituire al mercato imprese ancora in grado di produrre ricchezza e di conservare posti di lavoro. L’accesso al Fondo consente due tipi di intervento: uno per il salvataggio, l’altro per la ristrutturazione dell’impresa. Il primo tipo di aiuto consente di mantenere in vita l’impresa il tempo necessario a comprendere le cause della crisi e ad elaborare un piano di ristrutturazione o liquidazione idoneo a porvi rimedio. Il secondo consente, invece, di dare esecuzione al piano elaborato e ripristinare la redditività di lungo periodo dell’impresa.

Un’ulteriore modifica importante per la disciplina degli accordi di ristrutturazione introdotta dal d.l n. 78/2010, riguarda la previsione di un procedimento finalizzato ad ottenere l’anticipazione della sospensione delle azioni esecutive e cautelari durante le trattative per concludere gli accordi. Le nuove norme86 rispondono all’esigenza di proteggere il patrimonio del debitore dalle azioni individuali dei creditori prima del perfezionamento dell’accordo. Prima delle modifiche il meccanismo di protezione operava automaticamente dalla data della pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese e aveva una durata limitata a sessanta giorni da tale data. In tal modo le azioni individuali dei creditori venivano impedite nella sola fase tra la pubblicazione dell’accordo e l’omologa dello stesso da parte del tribunale. Il nuovo procedimento per l’anticipazione del blocco delle azioni esecutive e cautelari dovrebbe garantire al debitore la protezione necessaria per pervenire alla conclusione dell’accordo, tuttavia, appare di notevole complessità e comporta l’intervento del tribunale in una fase che per la stessa natura dell’accordo di ristrutturazione si caratterizza per la sua stragiudizialità.

Il d.l. n. 78/2010 ha, infine, modificato l’istituto della transazione fiscale previsto dall’art. 182-ter della legge fallimentare, con particolare riguardo a: (i) l’ambito di applicazione; (ii) la documentazione necessaria per proporre l’accordo transattivo; (iii) la revoca dell’accordo. Le novità fiscali fanno, tuttavia, parte di un pacchetto di misure finalizzato a ottimizzare la riscossione dei tributi e la prevenzione degli abusi in materia tributaria e non hanno lo scopo di agevolare fiscalmente il ricorso ai nuovi istituti di risanamento dell’impresa. Il trattamento delle rinunce dei creditori in sede di accordo, rimane dunque ancora non conforme a quello previsto per il concordato preventivo e fallimentare dagli articoli 88 e 101 del TUIR87. La mancanza di previsioni analoghe per gli accordi di ristrutturazione comporta che a fronte di una parziale rinuncia al credito, il debitore registri una sopravvenienza attiva – come tale tassabile – e il creditore non possa dedurre la parte del credito a cui ha rinunciato in esecuzione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, con la conseguenza di incorrere in una minusvalenza tassabile.

In sede di conversione in legge del decreto è stato introdotto il nuovo art. 217-bis nella legge

83. Cfr. art. 182-quater l.f..

84. Con il decreto del Ministero dello sviluppo economico 25 febbraio 2010 per il cui commento si veda la Circolare Assonime 34/2010.

85. Il Fondo è stato istituito con il decreto legge 14 marzo 2005, n. 35 nell’ambito di un piano di azione per lo sviluppo economico e sociale e territoriale, con lo scopo di finanziare gli interventi consentiti dagli Orientamenti U.E. sugli aiuti di Stato per il rilancio produttivo delle imprese che attraversano una situazione di difficoltà.

86. Cfr. art. 182-bis sesto, settimo e ottavo comma.

87. Secondo tali disposizioni, per il debitore non si considera sopravvenienza attiva la riduzione del debito che si realizza con il concordato e per il creditore la rinuncia alla soddisfazione integrale si traduce in una perdita su credito deducibile (c.d. bonus di concordato).

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fallimentare in base al quale le disposizioni in materia di bancarotta preferenziale e semplice non si applicano ai pagamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione di un concordato preventivo, di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato e di un piano attestato. La nuova norma assume una rilevanza fondamentale per incentivare l’utilizzo delle soluzioni concordate.

Prima delle modifiche del luglio 2010, infatti, in assenza di una specifica norma di esenzione, la condotta del finanziatore che erogava credito a un’impresa nel tentativo di risanamento – nel caso di insuccesso di quest’ultimo – poteva integrare il reato di concorso in bancarotta semplice e di bancarotta preferenziale. Nel primo caso perché il finanziatore avrebbe contribuito con l’imprenditore a ritardare la dichiarazione di fallimento, aggravando il dissesto; nel secondo perché avrebbe concorso con il debitore nell’eseguire pagamenti o simulare titoli di prelazione in favore di alcuni creditori in danno di altri.

La nuova norma, in attesa di una riforma completa dei reati fallimentari, elimina ogni incertezza sulle conseguenze penali connesse alle operazioni compiute nell’ambito di ristrutturazioni aziendali attraverso l’espressa esclusione della responsabilità, sia per il debitore sia per i creditori che abbiano cercato di risolvere la crisi con gli strumenti predisposti dall’ordinamento.

3.3 L’indagine Assonime sull’attuazione della legge fallimentare

Assonime ha promosso, nel dicembre 2010, una nuova indagine empirica sull’efficienza delle procedure concorsuali, in collaborazione con la Direzione generale statistiche del Ministero della Giustizia. L’iniziativa è volta a proseguire l’attività di monitoraggio delle prassi seguite dai Tribunali fallimentari italiani nell’applicazione della legge fallimentare riformata, iniziata all’indomani della riforma con l’indagine nel 200788.

La rilevazione ha lo scopo, da un lato, di verificare in che misura gli obiettivi della riforma siano stati realizzati e quale sia stato l’impatto delle più recenti modifiche normative, in modo da poter analizzare quali aspetti della disciplina appaiano ancora critici e se vi siano utili correzioni da apportare; d’altro lato, l’indagine si propone di ricavare utili informazioni sulle caratteristiche economiche, finanziarie e aziendali delle imprese che accedono alle procedure.

A tal fine sono stati elaborati tre questionari diversi, che saranno inviati dal Ministero ai giudici delegati, ai curatori e ai commissari giudiziali di un campione significativo di Tribunali fallimentari italiani. Il campione è stato selezionato tenendo conto della localizzazione territoriale dei tribunali (nord, centro, sud), nonché delle dimensioni per numero di procedure aperte (grandi, medi, piccoli). I risultati dell’indagine saranno elaborati statisticamente dal Ministero e verranno analizzati da Assonime al fine di svolgere ulteriori riflessioni sull’evoluzione del sistema concorsuale italiano.

88. Nel 2006 l’Osservatorio Assonime sulle procedure concorsuali ha realizzato un’indagine per monitorare le prassi seguite dai tribunali italiani nell’applicazione della legge fallimentare riformata. I risultati dell’indagine sono stati pubblicati nel “Rapporto di sintesi – Il primo anno di riforma- Settembre 2007”. I dati ottenuti dall’indagine sono stati, inoltre, utilizzati per individuare i problemi irrisolti della disciplina e per formulare osservazioni che sono state in parte recepite dal decreto correttivo n. 169/2007.

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4. La disciplina della responsabilità amministrativadegli enti

4.1 L’evoluzione normativa del d.lgs. n. 231/2001

In linea con la tendenza manifestata sin dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 231/2001, anche nel biennio 2009–2010 nuove fattispecie di reato hanno trovato ingresso nella parte speciale del provvedimento legislativo che estende alle persone giuridiche la responsabilità penale (anche se formalmente amministrativa) per i reati commessi posti in essere, nel loro interesse o vantaggio, da soggetti che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione e di gestione all’interno dell’ente e dai loro sottoposti. Si conferma così la volontà di attribuire alle imprese una sempre maggiore responsabilità penale per i crimini d’impresa.

In particolare, nel 2009, sono state emanate, nell’arco di un mese, tre leggi successive che hanno modificato il d.lgs. n. 231/01, ampliandone l’ambito di applicazione e aggiungendo ulteriori ipotesi di reato. Le novità legislative riguardano i delitti di criminalità organizzata (l. 94/2009); i reati contro l’industria e il commercio e la violazione del diritto d’autore (l. 99/2009) e il reato di dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria (l. 116/2009).

Delitti di criminalità organizzata

La legge 15 luglio 2009, n. 94, in materia di pubblica sicurezza, ha introdotto nel d.lgs. n. 231/2001 l’art. 24-ter, con cui il regime della responsabilità amministrativa degli enti viene esteso ai reati di associazione per delinquere diretta a commettere i delitti di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù; tratta di persone; acquisto e alienazione di schiavi; nonché a procurare l’ingresso illegale dello straniero nel territorio dello Stato nei casi previsti dall’art. 12, comma 3-bis del d.lgs. n. 286/1998; associazione di tipo mafioso anche straniera; scambio elettorale politico-mafioso; sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione; delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. per le associazioni di tipo mafioso, nonché delitti commessi per agevolare tali associazioni; associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Le sanzioni previste per questo tipo di illeciti sono gravi, andando dall’irrogazione di sanzioni pecuniarie (da 300 a 800 quote) fino alle sanzioni interdittive per una durata non inferiore all’anno. Va inoltre segnalato che l’art. 24-ter dispone anche che se l’ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di questo tipo di reati, si applica la sanzione dell’interdizione definitiva dell’attività.

L’estensione della disciplina prevista dal d.lgs. n. 231/2001 ai delitti della criminalità organizzata, e specialmente ai reati di tipo associativo, introduce un elemento di particolare complessità nella valutazione della cosiddetta “colpa da organizzazione” dell’ente, su cui si fonda la responsabilità penale – amministrativa delle persone giuridiche. Non essendo reati tipici dell’impresa, appare infatti particolarmente difficile predisporre e attuare modelli organizzativi che possano efficacemente prevenire e contrastare le condotte criminose di tipo associativo. Tra le due finalità concorrenti che si prefigge il d.lgs. n. 231/2001, l’una di carattere preventivo – volta a impedire la commissione dei reati previsti dal decreto attraverso il monitoraggio delle aree di rischio e la predisposizione di procedure organizzative interne idonee a prevenire gli illeciti – e l’altra di carattere repressivo, la scelta che ha ispirato il provvedimento sembra dunque essere la seconda.

Delitti contro l’industria e il commercio

Nell’ambito delle misure per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, introdotte dalla legge 23 luglio 2009, n. 99, è stata estesa alle persone giuridiche la responsabilità per i reati contro l’industria e il commercio e per le violazioni del diritto d’autore.

Si è resa perciò necessaria la modifica all’art. 25-bis, che non riguarda più solo la falsità in monete, in

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carte di pubblico credito e in valori di bollo, ma anche la falsità in “strumenti e segni di riconoscimento”, che fa riferimento ai due delitti contro la fede pubblica che sono stati contestualmente riformulati. Si tratta dei reati di “Contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni” (art. 473 c.p.) e di “Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi” (art. 474 c.p.). Le due ipotesi di reato, l’una strettamente connessa all’altra, possono dare luogo alla responsabilità penale – amministrativa dell’ente che non predisponga misure adeguate a impedire tali condotte poste in essere, all’interno dell’impresa, nell’interesse o a vantaggio di questa.

E’ stato poi introdotto l’art. 25-bis, comma 1, secondo il quale l’impresa può anche essere chiamata a rispondere per i reati di: turbata libertà dell’industria e del commercio; illecita concorrenza con minaccia o violenza; frodi contro le industrie nazionali; frode nell’esercizio del commercio; vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine; vendita di prodotti industriali con segni mendaci; fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale; contraffazione di indicazioni geografiche o denominazione di origine dei prodotti agroalimentari. In tutte queste ipotesi l’obiettivo è la tutela della pubblica fede e della fiducia dei consumatori.

Le sanzioni pecuniarie di ammontare fino a 500 quote sono previste per i reati di turbata libertà dell’industria e del commercio; frode nell’esercizio del commercio; vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine; vendita di prodotti industriali con segni mendaci; fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale; contraffazione di indicazioni geografiche o denominazione di origine dei prodotti agroalimentari. Il bene protetto in questi casi è individuabile nell’onesto svolgimento dell’attività dell’impresa e nella buona fede negli scambi commerciali. L’ammontare massimo della sanzione pecuniaria (800 quote) e l’applicabilità di sanzioni di tipo interdittivo è invece previsto per i delitti di illecita concorrenza con minaccia o violenza e di frodi contro le industrie nazionali: la maggiore severità della sanzione si lega alla necessità di tutelare l’ordine economico del mercato.

Delitti in materia di violazione del diritto d’autore

Infine, l’art. 25-novies include nel catalogo dei reati rilevanti ai fini dell’applicazione del d.lgs. n. 231/2001 tutte le ipotesi a rilevanza penale connesse alla violazione del diritto d’autore dalla l. n. 633/1941.

In particolare, si assumono come rilevanti i delitti di: immissione su sistemi di reti telematiche a disposizione del pubblico, mediante connessioni di qualsiasi genere, di un’opera dell’ingegno protetta o parte di essa (art. 171, comma 1, lett. a-bis); stesso reato commesso su un’opera altrui non destinata alla pubblicazione, ovvero con usurpazione della paternità dell’opera, ovvero con deformazione, mutilazione o altra modificazione, qualora ne risulti offesa all’onore o alla reputazione dell’autore (art. 171, comma 3); abusiva duplicazione di programmi per elaboratore, importazione, distribuzione, vendita, detenzione a scopo commerciale o imprenditoriale, concessione in locazione di programmi contenuti in supporti non contrassegnati dalla SIAE, nonché predisposizione di mezzi per rimuovere o eludere dispositivi di protezione di un programma per elaboratori e riproduzione, distribuzione, reimpiego vendita o concessione in locazione di una banca dati (art. 171-bis); condotte abusive aventi ad oggetto la duplicazione, riproduzione, trasmissione, noleggio, proiezione in pubblico di opere televisive, cinematografiche, letterarie, scientifiche, musicali, nonché altre condotte specificamente elencate dall’art. 171-ter; mancata comunicazione alla SIAE dei dati necessari per l’identificazione dei supporti non soggetti al contrassegno o falsa comunicazione degli stessi (art 171-septies); produzione, vendita, installazione, importazione, modifica, utilizzazione per uso pubblico o privato di apparati o parti di essi atti alla decodificazione di trasmissioni audiovisive ad accesso condizionato effettuate via etere, via satellite, via cavo, in forma sia analogica che digitale (art. 171-octies).

La responsabilità dell’ente può dipendere in tutti questi casi dall’inadeguatezza dell’organizzazione dell’impresa a tutelare il diritto d’autore, l’opera dell’ingegno, la tutela del software, e ciò quando vi è lesione dell’onore e della reputazione dell’autore o quando si lede la sua aspettativa economica. Anche per queste ipotesi è prevista una sanzione pecuniaria fino a 500 quote e una sanzione interdittiva fino ad 1 anno.

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Delitto in materia di corruzione

Si segnala che, per una svista del legislatore, esiste ora nel d.lgs. n. 231/2001 un’altra disposizione che, pur trattando una diversa fattispecie, è disciplinata sempre dall’art. 25-novies.

Infatti, la l. n. 116/2009 (di ratifica della Convenzione O.N.U. sulla corruzione) inserisce nel decreto legislativo un altro art. 25-novies che prevede come reato presupposto l’induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’Autorità Giudiziaria, in relazione al quale si applica la sanzione pecuniaria fino a 500 quote. La finalità di repressione della corruzione costituisce peraltro uno dei capisaldi del d.lgs. n. 231/2001.

Assonime ha osservato che il catalogo originario dei reati presupposto era coerente con l’obiettivo di contrastare i fenomeni di corruzione ma il progressivo espandersi dei reati presupposto a fattispecie anche molto distanti da quelle originarie ha trasformato la disciplina in uno strumento generico di esecuzione della legge penale nei campi più svariati, incrinando il disegno originario della legge e caricando le imprese di adempimenti burocratici sempre più onerosi.

4.2 I progetti di riforma

Nel biennio 2009–2010 sono state presentate due proposte di legge di riforma del d.lgs. n. 231/2001, con le quali si intendono superare alcune difficoltà applicative che sono emerse nella prassi nel lungo periodo ormai trascorso dall’approvazione della legge. Non vi è dubbio, infatti, che la disciplina, a quasi un decennio dall’entrata in vigore, abbia mostrato i suoi limiti e richieda un ripensamento.

Un primo disegno di legge è stato presentato il 7 luglio 2010 in un incontro promosso dall’Arel con la partecipazione del Ministero della Giustizia; una seconda proposta di legge, di iniziativa parlamentare, è stata invece presentata dall’onorevole Della Vedova il 19 luglio 2010 (proposta di legge n. 3640). Le due proposte si differenziano sotto diversi aspetti, tuttavia entrambe toccano gli aspetti più delicati del sistema 231: l’onere della prova; le misure cautelari; l’efficacia esimente dei modelli organizzativi. Le principali linee guida del progetto di modifica n. 3640 (Progetto della Vedova) riguardano: l’esclusione dell’applicazione indiscriminata delle sanzioni interdittive in via cautelare e il corrispondente inasprimento delle pene pecuniarie; l’obbligo di elezione da parte dell’assemblea dell’Organismo di Vigilanza – che dovrà avere forma collegiale – negli enti di interesse pubblico ai sensi dell’art. 16 del decreto legislativo 27 gennaio 2001, n. 39 (società quotate, banche, assicurazioni, intermediari finanziari, ecc.); e lo spostamento dell’onere della prova di dimostrare l’inefficacia del Modello a carico della Pubblica Accusa anche quando il reato è commesso da un soggetto apicale. Si sottolinea nella Relazione a questo Disegno di legge che le sanzioni interdittive hanno potenzialmente un carattere così devastante da portare alla chiusura dell’ente destinatario delle stesse o, comunque, tale da comprometterne la sopravvivenza. In particolare, tale rischio si aggrava se le sanzioni sono applicate in sede cautelare. Pertanto, secondo l’articolato, salvo l’ipotesi in cui l’unica finalità della società sia la commissione del crimine considerato, le sanzioni interdittive dovrebbero applicarsi, tendenzialmente, solo dopo la sentenza di condanna.

Per quanto riguarda l’Organismo di Vigilanza, invece, il progetto Della Vedova propone che la sua nomina spetti all’assemblea insieme alla predisposizione dei modelli organizzativi mentre all’organo amministrativo, o allo stesso OdV, spetti il controllo sull’effettiva efficacia dei modelli organizzativi. Sul piano probatorio si afferma che, fino a prova contraria, si presumono avere efficacia esimente i modelli di organizzazione e gestione definiti conformemente alle indicazioni contenute nelle linee guida o nei codici di comportamento redatti dalle associazioni di categoria. In questo modo si introduce, rispetto al sistema vigente, una semplificazione dell’onere della prova per le imprese che abbiano adeguato i modelli organizzativi alle indicazioni contenute nelle linee guida.

Anche la proposta formulata dall’Arel si fonda su alcuni capisaldi simili a quelli previsti dal Progetto n. 3640. In entrambi i progetti si assiste a una ricerca di tipicità. In primo luogo, la proposta Arel prevede l’inversione dell’onere della prova rispetto al regime attualmente vigente nel sistema 231. In coerenza con il principio generale vigente nel diritto penale, si statuisce che in caso di reato commesso dall’apicale spetta al pubblico ministero dimostrare che l’ente non ha adottato e attuato

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efficaci modelli organizzativi e che l’OdV non ha vigilato sul loro concreto funzionamento. In secondo luogo, si procede alla definizione di ente di piccole dimensioni, identificandolo in quei soggetti che, per due esercizi consecutivi, non hanno superato due dei limiti indicati nell’art. 2435-bis c.c.. La vera novità del progetto Arel sta però nella previsione della certificazione del modello preventivo. In caso di certificazione di idoneità del modello preventivo secondo le modalità stabilite dal Regolamento previsto dal Ministero di Giustizia è esclusa la responsabilità dell’ente, sempre che il modello concretamente attuato corrisponda al modello certificato e non siano sopravvenute significative violazioni delle prescrizioni che abbiano reso manifesta la lacuna organizzativa causa del reato per cui si procede. La certificazione dovrebbe, secondo il progetto, permettere all’ente di andare esente da responsabilità con maggiore facilità, in quanto non consentirebbe di affermare che la commissione del reato prova di per sé l’inadeguatezza del modello, come spesso invece è sotteso nelle pronunce giurisprudenziali.

Assonime ha sostenuto che lo scopo di ridurre l’ambito di discrezionalità della valutazione giudiziale è condivisibile; tuttavia, la via della certificazione presuppone che il giudizio sull’idoneità dei modelli venga sottratto ai giudici e affidato a un soggetto privato il quale deve esprimere un giudizio preventivo e astratto, prescindendo dalle circostanze che accompagnano in concreto la commissione del reato. Il rischio di questa impostazione, rilevato da Assonime, è che il giudice possa ritenersi svincolato dal giudizio formulato dal certificatore e ritenere comunque sussistenti i presupposti per condannare l’ente. Inoltre, si osserva che la certificazione dell’esperto professionista, che fotografa e cristallizza nel tempo un dato assetto dell’organizzazione, sconfessa la filosofia di fondo del decreto 231, che esige modelli costantemente monitorati e aggiornati. Un aspetto centrale della disciplina sul quale Assonime ritiene essenziale intervenire modificando l’attuale disciplina del d.lgs. n. 231/2001 è il sistema sanzionatorio.

L’applicazione delle misure cautelari si è infatti rivelata in questi anni la vera sanzione per l’impresa, in considerazione del fatto che al giudice è dato un ampio potere discrezionale esercitato nella delicata fase di acquisizione degli elementi di prova a carico dell’ente, con rischio di forte pregiudizio per l’ente stesso. In considerazione della gravità delle sanzioni cautelari interdittive, il d.lgs. n. 231/2001 prevede che il giudice possa nominare un commissario giudiziale che operi in luogo dell’imprenditore per un periodo pari alla durata della misura che sarebbe stata applicata. Ma questa misura si è dimostrata inadeguata a salvaguardare l’impresa, in quanto, nel periodo in cui è sottoposta alle misure cautelari, essa potrebbe subire danni economici irreversibili. Il d.lgs. n. 231/2001 non prevede infatti requisiti specifici per la nomina a commissario giudiziale e, in ogni caso, non è detto che questo soggetto indicato dal giudice sia in possesso delle qualità necessarie a garantire il successo dell’impresa. Inoltre, l’impresa può subire anche un grave danno d’immagine quando, prima ancora dello svolgimento del processo, la vicenda sia resa nota.

Per quanto riguarda l’Organismo di Vigilanza, il tema della revisione della relativa disciplina è stato affrontato nel Rapporto Assonime sui controlli societari. In particolare è stato evidenziata la necessità di affrontare il problema della qualificazione e collocazione dell’Organismo di Vigilanza ex d.lgs. n. 231/2001 nel “sistema di controllo”. In un’ottica di semplificazione dell’assetto dei controlli, l’Organismo di Vigilanza stenta a trovare una ragione di sopravvivenza. Questo perché alcune delle sue funzioni possono essere direttamente svolte dall’organo di governo oppure dall’organo di vigilanza, con l’ausilio delle funzioni di controllo interno, senza che vengano meno le garanzie che derivano dalla sussistenza di una figura dedicata. L’OdV potrebbe essere soppresso e i compiti attribuitigli dal d.lgs. n. 231/2001 riallocati tra l’organo di governo (cui già compete di definire e aggiornare il modello organizzativo) e l’organo di vigilanza (cui è già affidata la vigilanza sugli assetti organizzativi dell’impresa e sul rispetto della legge). Nello svolgimento di tali compiti, gli organi societari potrebbero utilizzare una struttura interna eventualmente dedicata a tale ambito; ciò deve essere rimesso all’autonomia organizzativa dell’impresa, eliminando la previsione normativa di un organismo ad hoc. Assonime auspica perciò che il progetto di riforma tenga conto di queste osservazioni e intervenga sulla disciplina a tutela dell’economia e del mercato, cercando di assicurare un maggiore equilibrio tra esigenze di certezza e esigenze di legalità.

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5. Autodisciplina e corporate governance

5.1 Il nuovo Codice di autodisciplina

Nell’ottobre 2009 Borsa Italiana aveva comunicato l’intenzione di procedere ad una revisione del Codice di autodisciplina sulla base di una proposta elaborata da un gruppo di esperti. La proposta aveva il duplice scopo di adeguare il Codice alle evoluzioni normative, in materia di remunerazioni e indipendenza degli amministratori, e di proporre regole più stringenti in materia di composizione e funzionamento degli organi di amministrazione.

A seguito dei lavori, il Comitato per la corporate governance (d’ora in avanti, il Comitato) ha emanato una raccomandazione sulla valutazione dell’indipendenza89 con la quale ha richiesto alle società che aderiscono al Codice di inserire nei comunicati diffusi al mercato alcune informazioni sulle valutazioni dei consigli di amministrazione in merito ai requisiti di indipendenza degli amministratori, con applicazione immediata alle nuove nomine effettuate nell’anno in corso. In particolare, si richiede di illustrare: (i) se siano stati adottati, e in tal caso con quale motivazione, parametri di valutazione differenti da quelli indicati nel Codice, anche con riferimento a singoli amministratori; (ii) i criteri quantitativi e/o qualitativi eventualmente utilizzati per valutare la significatività dei rapporti oggetto di valutazione.

Con riguardo ai contenuti del Codice, il Comitato si è limitato a modificare la disciplina delle remunerazioni, in parte illustrata sub par. 1.3. Il Comitato ha quindi approvato il nuovo testo dell’art. 7 in materia di remunerazione degli amministratori e dei dirigenti con responsabilità strategiche. Le modifiche apportate sono volte a recepire le indicazioni contenute nella raccomandazione europea n. 2009/385/CE in materia di remunerazioni degli amministratori di società quotate.

Le novità apportate concernono: (i) l’ampliamento dell’ambito di applicazione soggettivo delle disposizioni; (ii) la rivisitazione della composizione del comitato per la remunerazione e l’attribuzione di nuovi compiti; (iii) la previsione della redazione, da parte del Cda, di una relazione sulla politica delle remunerazioni da presentare, con cadenza almeno annuale, all’assemblea; (iv) la previsione di criteri per la determinazione delle remunerazioni degli amministratori.

L’ambito soggettivo delle disposizioni contenute all’art. 7 è stato ampliato poiché, a differenza della versione previgente, concerne anche la remunerazione dei dirigenti con responsabilità strategiche, oltre che degli amministratori. Il nuovo ambito soggettivo discende dalla raccomandazione comunitaria del 2004 che prevedeva che la stessa si applicasse (solo) in quanto compatibile ai “massimi dirigenti delle società quotate, nel caso in cui non siano membri dell’organo di amministrazione, gestione o di sorveglianza, con responsabilità strategiche”.

La composizione del comitato per la remunerazione è rimasta immutata ma si richiede che almeno uno dei componenti possieda un’adeguata conoscenza ed esperienza in materia finanziaria, da valutarsi da parte del consiglio di amministrazione al momento della nomina; anche tale requisito discende dalla raccomandazione comunitaria del 2009. Sono stati inoltre attribuiti nuovi compiti al comitato per la remunerazione che è chiamato a valutare periodicamente l’adeguatezza, la coerenza complessiva e la concreta applicazione della politica generale adottata e a monitorare l’applicazione delle decisioni adottate dal CdA, verificando, in particolare, l’effettivo raggiungimento degli obiettivi di performance.

Una delle novità più significative contenute nel Codice è costituita dalla redazione, da parte del Cda e su proposta del comitato per la remunerazione, della politica generale per la remunerazione degli amministratori esecutivi, degli altri amministratori investiti di particolari cariche e dei dirigenti con responsabilità strategiche. Gli amministratori, almeno con cadenza annuale, presentano all’assemblea una relazione che descriva la politica delle remunerazioni. Nel commento all’articolo si prevede che

89. Comunicato stampa del Comitato per la corporate governance di Borsa Italiana del 3 marzo 2010.

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l’assemblea dei soci sia coinvolta nel processo di approvazione della politica generale di cui sopra90.

L’art. 7 ha infine recepito i criteri per la determinazione della remunerazione previsti dalla raccomandazione comunitaria del 2009, suggerendo, per esempio, il bilanciamento tra la componente fissa e quella variabile, la determinazione degli obiettivi di performance, limiti massimi per le componenti variabili, periodi di vesting per i piani di remunerazione basati su azioni.

Gli emittenti azioni quotate sono invitati ad applicare il nuovo art. 7 entro la fine dell’esercizio che inizia nel 2011, informandone il mercato con la relazione sulla corporate governance da pubblicarsi nel corso del 2012.

5.2 L’Analisi dello stato di attuazione del Codice di autodisciplina delle società quotate

Nel biennio 2009-2010, Assonime ed Emittenti Titoli S.p.A. hanno condotto le tradizionali analisi sullo stato di attuazione del Codice di autodisciplina delle società quotate. Le analisi sono state realizzate sulla base delle Relazioni annuali di corporate governance degli emittenti quotati nei mercati regolamentati gestiti da Borsa Italiana.

Con riferimento all’anno 2009, l’Analisi ha riguardato le Relazioni diffuse, fino al luglio 2009, dagli emittenti azioni quotate presso Borsa Italiana. Le Relazioni fanno riferimento all’applicazione del Codice (edizione 2006) nel corso dell’anno 2008. L’indagine ha coperto tutte le società quotate al 31 marzo 2009, le cui Relazioni erano disponibili al 31 luglio 2009 (279, pari al 98% dell’intero listino): la copertura è risultata quasi totale e in linea con quella del 2008, quando si erano esaminate 291 relazioni.

L’Analisi relativa all’anno 2010 ha esaminato, invece, le Relazioni diffuse, fino a luglio 2010, dagli emittenti azioni quotate. Anche in questo caso, le Relazioni fanno riferimento all’applicazione del Codice (edizione 2006), ma nel corso dell’anno 2009. L’indagine 2010 ha coperto tutte le 272 società italiane quotate al 31 marzo 2010, le cui Relazioni erano disponibili al 31 luglio 2010: la copertura è stata, per la prima volta, integrale: tale risultato è dipeso dall’entrata in vigore del nuovo art.123-bis del TUF, che ha imposto agli “emittenti valori mobiliari quotati” la diffusione (in una specifica sezione della Relazione sulla gestione o in una relazione distinta, approvata dal consiglio di amministrazione e pubblicata congiuntamente ad essa) di una “Relazione sul governo societario e gli assetti proprietari”.

L’Analisi delle Relazioni compiute nel biennio ha evidenziato lo sforzo compiuto dagli emittenti sia nel fornire informazioni sul proprio modello di governance, sia nell’adeguarlo alle mutate disposizioni del Codice. Le Relazioni sono più complete, leggibili con maggiore facilità e più trasparenti, sia in caso di adesione alle raccomandazioni del Codice, sia nelle ipotesi di eventuale mancata adesione. Sono individuabili sia società che dichiarano di non aderire al Codice, sia società che dichiarano esplicitamente la loro intenzione di disapplicare uno o più principi o criteri applicativi del nuovo Codice, fornendo in tal caso esplicita motivazione delle scelte effettuate. Lungi dal costituire un arretramento, tali fatti sono indizi di una maggiore maturità nella valutazione – da parte degli emittenti – delle raccomandazioni del Codice di autodisciplina.

Una serie di informazioni di base, quali la composizione di organi e comitati, la frequenza delle riunioni e la partecipazione delle singole persone sono disponibili sempre (o quasi sempre). Anche tale dato è, in parte, ricollegabile all’entrata in vigore del nuovo testo dell’art.123-bis TUF, che, come chiarito sub par. 1.6.1, ha imposto a tutti gli emittenti la pubblicazione di una “Relazione sul governo societario e gli assetti proprietari”. Riguardo ai punti coperti dal Codice di autodisciplina, tuttavia, l’aumento dell’informazione è relativo soprattutto alle società che, non aderendo al Codice, non erano in precedenza tenute a fornire spiegazioni dettagliate (su base comply or explain) sulle loro scelte di governance.

90. La redazione della relazione sulla politica delle remunerazioni deriva dalla raccomandazione comunitaria del 2004 che stabiliva, inoltre, che tale politica dovesse costituire un punto separato all’ordine del giorno dell’assemblea chiamata ad esprimersi con voto vincolante o consultivo.

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L’indagine del 2010 ha mostrato un aumento delle riunioni consiliari (10,3 riunioni/anno, in media) dovuto essenzialmente alle società minori. Le società maggiori hanno mostrato una frequenza di riunioni lievemente inferiore a quella – comunque elevata – del 2009. In quell’anno, l’incremento del numero di riunioni del Cda, ma anche dei comitati consiliari, del Collegio Sindacale e dell’Organismo di Vigilanza ex d.lgs. 231/2001, è stato in parte ascrivibile a un forte aumento del numero di riunioni presso un numero abbastanza ristretto di banche. Esso era probabilmente connesso sia alle turbolenze del settore dopo la crisi finanziaria di fine 2007, sia a una maggior formalizzazione del processo decisionale a seguito dell’emanazione da parte della Banca d’Italia delle Disposizioni di Vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle banche.

Costante l’informativa sulle deleghe: quasi sempre disponibile e sovente di buona qualità, con una descrizione dettagliata delle competenze delegate e di quelle riservate al Consiglio. L’istituzione della figura del Lead Independent Director è riscontrabile in 100 società nel 2010 e in 101 società nel 2009. L’istituzione è frequente soprattutto dove il presidente coincide con l’azionista che controlla la società, sia egli o meno qualificabile come CEO.

L’identificazione nominativa degli amministratori esecutivi, non esecutivi e indipendenti, è risultata quasi sempre disponibile. Gli amministratori esecutivi sono risultati pari al 31% dei componenti del Cda nel 2010 (nel 2009 erano il 33%). Le restanti percentuali (69% nel 2010 e 67% nel 2009) si riferiscono agli amministratori non esecutivi. Gli amministratori indipendenti sono risultati pari al 35% del totale nel 2010 e al 36% nel 2009. Il peso delle varie classi all’interno del Cda è relativamente stabile nel tempo. È risultato inoltre un miglioramento riguardo la qualità degli indipendenti e il diminuire di situazioni particolari (riconducibili – sostanzialmente – a quelle considerate critiche dai criteri applicativi del nuovo Codice) meritevoli di un’attenta valutazione da parte del mercato, soprattutto nei casi in cui le ragioni dell’apparente disapplicazione dei criteri del Codice non erano spiegate in dettaglio.

Un contributo al miglioramento delle Relazioni è dipeso dall’utilizzo del Format di Borsa Italiana, soprattutto da parte delle società di minori dimensioni. Una seconda versione del Format è stata pubblicata nel febbraio 2010, in ragione delle modifiche all’art. 123-bis TUF, più volte richiamate. Assonime ha contribuito alla stesura della nuova edizione, che include, tra l’altro, Tabelle su composizione e funzionamento degli organi sociali, redatte sulla falsariga di schemi proposti da Assonime-Emittenti Titoli nella Guida alla compilazione della Relazione sulla Corporate Governance.

Entrambe le analisi contengono una parte monografica. Nel 2009, è stato affrontato il tema delle remunerazioni degli amministratori: la scelta è dipesa dall’ampio dibattito in materia, sviluppatosi dopo la crisi dei mercati finanziari. L’Analisi ha approfondito due differenti profili: anzitutto, si sono svolti approfondimenti sulle remunerazioni degli amministratori in base alle informazioni reperibili nei fascicoli di bilancio, opportunamente incrociate con quelle ricavabili dalle Relazioni sul governo societario. In parallelo, si è svolta un’indagine mirata sui piani di incentivazione basati su strumenti finanziari adottati degli emittenti a favore di componenti degli organi societari (“esponenti aziendali”), dipendenti e collaboratori.

La remunerazione media degli amministratori è pari a 235 mila €. Essa varia in misura notevole secondo i seguenti parametri: a) dimensione dell’impresa (409 mila € presso le S&P, pari a circa 5 volte la remunerazione media presso le Expandi – pari a 86 mila €); b) settore di appartenenza (300 mila € nelle società finanziarie contro 220 mila € nelle non finanziarie); c) ruolo dei singoli consiglieri. La componente principale è rappresentata dagli emolumenti per la carica (circa 50% del totale); gli “altri compensi” pesano per circa 1/3 del totale; più basso il peso dei bonus (14%); i benefici non monetari hanno un peso marginale (2%). La maggioranza dei consiglieri (in particolare, non esecutivi e indipendenti) percepisce una remunerazione inferiore a 75 mila €. A diversi ruoli corrisponde diversa retribuzione: sul gradino più alto sono gli Amministratori Delegati (in media, 727 mila €).

L’indagine sui piani di incentivazione ha consentito di censire i piani e individuarne la struttura, nonché di stimare il valore dei diritti attribuiti ai beneficiari e la loro evoluzione nel tempo. 123 società, pari al 44% del listino, hanno adottato almeno un piano; come prevedibile, la frequenza è maggiore presso le società più grandi (presso le S&P è l’86%) e nel settore finanziario (58%, contro

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il 42% presso le società non finanziarie). La tipologia più frequente è quella dei piani di stock option (80% del totale).

Nel 2010, invece, l’approfondimento ha riguardato il voto di lista, soffermandosi su due distinti profili: (a) le modalità con cui ha trovato applicazione – nell’ultimo triennio – il voto di lista, con particolare attenzione alle caratteristiche delle società dove sono presentate più liste, alle qualità delle liste medesime e dei soci che le hanno proposte, nonché all’esito delle votazioni; (b) talune caratteristiche personali di consiglieri e sindaci di minoranza, nonché il ruolo da essi ricoperto dopo la nomina.

Anzitutto, il voto di lista è una realtà presso una quota considerevole, sebbene minoritaria delle società quotate: gli emittenti in cui soci di minoranza hanno sfruttato la possibilità di eleggere propri rappresentanti negli organi sociali sono un centinaio (il 40% del totale). Nel restante 60% dei casi il mancato ricorso al voto di lista non pare dovuto alla carenza di opportunità legate alla prevalenza di assetti proprietari concentrati. La mancata presentazione di liste di minoranza pare dovuta, quindi, a un limitato interesse per tale opportunità (connesso a ben noti fenomeni di apatia razionale degli investitori), non a una presunta elevatezza dei quorum.

La presentazione di liste “di minoranza” è particolarmente frequente (supera l’80% dei casi) nelle società “privatizzate” e tra quelle a controllo pubblico. Ciò è, evidentemente, connesso all’influenza della regolamentazione (in particolare della legge 474/1994). La presentazione di una pluralità di liste è più frequente nelle società più grandi (60% nel FTSE Mib)91 e nel settore finanziario (52% tra banche e assicurazioni). Dove sono presentate più liste, il loro numero è solitamente pari a due: i soci evitano di sopportare i costi connessi alla presentazione di candidature che hanno scarse probabilità di successo. La presentazione di tre o più liste è più frequente dove lo statuto prevede un sistema elettorale “proporzionale” e/o dove il numero di posti riservati alle minoranze è superiore a uno. L’analisi delle caratteristiche personali (in termini di altri incarichi ricoperti, di durata in carica e di partecipazione alle riunioni) degli amministratori (e sindaci) di minoranza non conferma l’ipotesi che essi abbiano caratteristiche marcatamente diverse rispetto a quelle dei consiglieri (e sindaci) “di maggioranza”, né rispetto a quelle degli amministratori indipendenti. L’analisi dei ruoli da essi ricoperti mostra, anzi, che, contrariamente a quanto sovente affermato nel pubblico dibattito, i consiglieri di minoranza non sono sempre qualificabili come amministratori non esecutivi e indipendenti.

6. Linee evolutive della disciplina societaria e del mercato dell’Unione Europea

Il biennio appena concluso è stato interessato da un’intensa attività normativa a livello sia comunitario, sia internazionale. Assonime ha costantemente monitorato il quadro normativo di riferimento e ha elaborato posizioni relative alle proposte delle diverse Istituzioni, anche per il tramite di EuropeanIssuers, l’organizzazione che rappresenta circa 9.200 società quotate presenti in Europa.

6.1 Il libro verde sulla governance delle financial institutions e le politiche delle remunerazioni

La crisi finanziaria ha evidenziato alcune debolezze nella struttura organizzativa degli istituti finanziari: la Commissione europea nella Comunicazione del 4 marzo 200992 ha annunciato di voler migliorare la gestione del rischio nelle società finanziarie e di voler allineare gli incentivi retributivi

91. Si ricorda che l’indagine del 2010 utilizza la nuova classificazione di Borsa Italiana basata sugli indici FTSE.

92. Comunicazione della Commissione, Guidare la ripresa in Europa, COM(2009) 114 def.

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con i risultati sostenibili.

Nel giugno 2010 la Commissione europea ha aperto una consultazione sul “Libro Verde sul governo societario degli istituti finanziari e le politiche delle remunerazioni”93. Il documento affronta numerose tematiche in materia di corporate governance. Con riguardo all’organo di governo, il libro verde propone di migliorare la definizione del ruolo del presidente dell’organo di amministrazione; di assicurare una maggiore diversità nel Cda in termini di genere, professionalità e competenze; di limitare il numero degli incarichi per gli amministratori; di formalizzare una procedura per la valutazione delle attività svolte dal Cda; di creare all’interno del Cda un comitato speciale per la supervisione dei rischi; di chiarire il ruolo e le responsabilità dei diversi membri del Cda; di prevedere per il Cda un dovere di allerta delle autorità di supervisione.

Per migliorare la gestione dei rischi, la Commissione suggerisce, tra l’altro, di rafforzare il ruolo del direttore rischi (CRO), al quale dovrebbe essere riconosciuto lo stesso status del direttore finanziario; di prevedere che lo stesso riferisca direttamente al Cda, che stabilirà la frequenza e il contenuto della relazione sui rischi; di migliorare il sistema di comunicazione della gestione dei rischi.

Il libro verde ipotizza anche l’estensione del ruolo del revisore esterno, in particolare, ampliando il contenuto della relazione dei revisori ai rischi; rafforzando la cooperazione tra i revisori e l’autorità di vigilanza; certificando alcune informazioni oggi escluse dall’oggetto della revisione.

Il libro verde propone anche un rafforzamento del ruolo delle autorità di vigilanza prevedendo un obbligo per le stesse di verificare il buon funzionamento e l’efficacia dei Cda e delle funzioni di gestione del rischio, stabilendo requisiti di professionalità per gli amministratori e sollecitando la cooperazione delle autorità di vigilanza sulla corporate governance di istituti finanziari transfrontalieri.

Il libro verde ipotizza la creazione di un forum di discussione tra gli azionisti; la comunicazione delle politiche di voto da parte degli investitori istituzionali e la loro adesione a codici di buona condotta; la comunicazione di eventuali conflitti di interesse da parte degli investitori istituzionali; la dichiarazione delle politiche di remunerazione degli intermediari; il miglioramento della comunicazione dei rischi agli azionisti.

Infine, la Commissione esamina la necessità di eventuali misure legislative in materia di remunerazione degli amministratori di società quotate e di istituti finanziari e ritiene che qualsiasi rafforzamento delle responsabilità civili e penali degli amministratori debba essere valutato con cura dopo uno studio approfondito.

Assonime ha risposto alla consultazione sul libro verde attraverso EuropeanIssuers94. Nella risposta, l’associazione europea ha evidenziato come alcune delle questioni affrontate nella consultazione dovrebbero continuare ad essere disciplinate dai codici di corporate governance in applicazione del principio comply or explain. EuropeanIssuers ha accolto positivamente le iniziative della Commissione sulla trasparenza delle politiche di voto degli investitori istituzionali, insistendo sulla necessità di un’effettiva trasmissione delle informazioni lungo la catena degli intermediari fino agli investitori.

In sede di elaborazione del rapporto di iniziativa da parte della Commissione affari economici e monetari del Parlamento europeo, Assonime ha suggerito di lasciare al codice di corporate governance la scelta della separazione tra le funzioni di CEO e di presidente. Il rapporto di iniziativa sarà votato a breve in plenaria.

In tema di remunerazione degli amministratori, EuropeanIssuers, commentando95 una dichiarazione

93. Commissione europea, Documento di consultazione sul “Libro Verde sul governo societario degli istituti finanziari e le le politiche di remunerazione”, 2 giugno 2010, COM(2010) 284 def. Il libro verde deve essere letto insieme al Documento di lavoro sulla “Corporate Governance in Financial Institutions: Lessons to be drawn from the current financial crisis, best practices”, 2 giugno 2010, SEC(2010) 669.

94. Cfr. Risposta EuropeanIssuers (del 1 settembre 2010) al documento di consultazione della Commissione europea del 2 giugno 2010 sul “Green Paper Corporate Governance in Financial Istitutions”, cit.

95. Cfr. Risposta EuropeanIssuers (del 16 aprile 2009) su European Corporate Governance Forum on Director remuneration, del 23 marzo 2009.

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dell’European Corporate Governance Forum, ha affermato di essere favorevole a una maggiore trasparenza, pur sottolineando che le questioni relative alle remunerazioni dovrebbero essere disciplinate dalla soft law e che, per motivi di concorrenza, andrebbe evitata la pubblicazione dei metodi di calcolo della parte variabile della remunerazione.

6.2 Il libro verde sull’audit

Nell’ottobre 2010, la Commissione europea ha pubblicato il libro verde “La politica in materia di revisione contabile: gli insegnamenti della crisi”, oggetto di una consultazione pubblica che si è chiusa l’8 dicembre 2010. Numerosi sono i temi affrontati nel libro verde: (i) il ruolo del revisore legale; (ii) il governo societario e l’indipendenza delle imprese di revisione legale; (iii) la vigilanza sull’attività di revisione; (iv) la concentrazione nel mercato della revisione; (v) la creazione di un mercato unico europeo per i servizi di revisione; (vi) la semplificazione delle regole per le imprese e i professionisti di piccole e medie dimensioni; (vii) la cooperazione internazionale. Con il libro verde, la Commissione ha aperto un dibattito sul ruolo della revisione legale per assicurare una maggiore stabilità dei sistemi finanziari, dibattito che si inserisce nel più ampio contesto della riforma della regolamentazione dei mercati avviata dopo la crisi.

Assonime ha risposto alla consultazione della Commissione europea96 e ha svolto, nel febbraio 2011, un’audizione informale presso la Commissione Finanze della Camera dei Deputati97. Nella sua risposta Assonime ha sottolineato l’importanza di avere, a livello europeo, un quadro regolamentare idoneo a garantire un’alta qualità dell’attività di revisione, fondamentale ai fini della tutela dell’affidamento riposto dal mercato sulle informazioni finanziarie sottoposte a revisione e della tutela degli investitori. Assonime ha tuttavia ricordato che la direttiva 2006/43/CE, in materia di revisione legale dei conti, già prevede misure volte a garantire l’indipendenza dei revisori, sistemi di controllo della qualità della professione, regole sulla vigilanza e sulle sanzioni. Alla luce del nuovo quadro normativo, di recente definizione e non ancora completamente trasposto da parte di tutti gli ordinamenti, Assonime ha quindi evidenziato che potrebbe essere prematuro proporre modifiche all’assetto della regolamentazione europea, mentre potrebbe essere forse più appropriato concentrarsi sull’armonizzazione delle prassi applicative: la struttura multinazionale delle società quotate ha evidenziato come il recepimento – spesso difforme negli Stati membri delle direttive europee – determini difficoltà applicative e sostenimento di costi non necessari.

Rispetto alle singole proposte contenute nel libro verde, le principali perplessità riguardano quelle sul ruolo del revisore e sull’estensione del suo mandato e quelle sui meccanismi per la nomina e la remunerazione dei revisori98. Quanto al ruolo del revisore, non appare condivisibile la proposta di estendere l’attività dei revisori anche a valutazioni sull’evoluzione futura o che essi possano delineare le prospettive economiche e finanziarie dell’impresa. L’attribuzione di tali competenze significherebbe chiedere alle società di revisione non solo di esprimere valutazioni di “legittimità” sulla regolare tenuta della contabilità da parte delle imprese, ma anche di dover esprimere valutazioni di merito sulla gestione sociale, estranee al contenuto del giudizio di revisione. La revisione legale dovrebbe invece concentrarsi sulla verifica dei bilanci, annuali e consolidati; i revisori dovrebbero verificare la regolare tenuta della contabilità sociale e la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili.

In merito alla nomina e alla remunerazione, occorre ricordare che il tema generale del conflitto di interessi nei meccanismi di nomina e remunerazione dei revisori è stato già affrontato nella direttiva 2006/43/CE. Nel recepire la direttiva, il decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39 prevede che

96. Consultazione n. 1/2011, Assonime response to the Green Paper “Audit policy: Lessons from the Crisis” of the European Commission, 21 dicembre 2010.

97. Intervento n. 4/2011, Consultazione della Commissione europea sul libro verde “La politica in materia di revisione contabile: gli insegnamenti della crisi”, Audizione informale del Vice Direttore Generale di Assonime, Camera dei Deputati, VI Commissione Permanente (Finanze), 2 febbraio 2011.

98. Perplessità suscitano anche le proposte in materia di revisione congiunta e la previsione della rotazione obbligatoria della società di revisione come strumento per superare l’attuale concentrazione nel mercato della revisione.

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l’incarico di revisione legale debba essere conferito dall’assemblea su proposta motivata dell’organo di controllo per tutte le società, e non solo per gli enti di interesse pubblico. Appare, quindi, del tutto inopportuna la proposta contenuta nel libro verde di coinvolgere l’autorità di vigilanza o altra terza parte, nel procedimento di nomina o nella definizione della retribuzione del revisore legale. Il procedimento per la nomina richiede, infatti, una conoscenza approfondita della struttura organizzativa e del business della società, informazioni che l’autorità di vigilanza o un soggetto terzo potrebbe non avere. Non è tuttavia chiaro quali criteri seguirebbe l’autorità di vigilanza nel selezionare le imprese di revisione. Si ravvisano inoltre possibili conflitti di interesse dal momento che, almeno in Italia, i revisori contribuiscono al finanziamento della stessa Autorità di vigilanza (la Consob), che potrebbe poi essere incaricata della loro nomina e remunerazione99.

Condivisibili appaiono invece le proposte di prevedere limiti alla prestazione, alla società oggetto di controllo, di servizi diversi dalla revisione, quanto meno con riferimento agli enti di interesse pubblico, e di introdurre una disciplina sulla revisione di gruppo a livello europeo. In entrambi i casi, è auspicabile l’adozione di regole di armonizzazione massima.

Prima della pubblicazione del libro verde, la Commissione europea aveva avviato, nel novembre 2008, una consultazione pubblica sulle strutture di controllo delle società di revisione contabile allo scopo di individuare possibili incentivi volti a favorire l’emergere di nuovi attori nel mercato internazionale delle società di revisione e superare l’attuale concentrazione. Tra questi ad esempio, la deregulation relativa alla proprietà delle società di revisione e altri fattori legati al capitale umano. La consultazione faceva seguito ad uno studio indipendente sulle regole di proprietà che si applicano alle società di revisione e i loro effetti sulla concentrazione del mercato dell’audit, pubblicato dalla Commissione europea nell’ottobre 2007. Sul tema, il Parlamento europeo ha organizzato una tavola rotonda, svoltasi il 10 febbraio 2009, alla quale ha partecipato in veste di relatore il Vice Direttore Generale dell’Assonime. EuropeanIssuers, nella sua risposta alla consultazione del 6 marzo 2009, ha condiviso le preoccupazioni della Commissione rispetto all’eccessiva concentrazione del mercato della revisione, ma ha espresso perplessità rispetto all’efficacia delle modifiche delle regole sulla proprietà delle società di revisione per migliorare le condizioni del mercato. Nella stessa risposta, EuropeanIssuers ha inoltre richiamato l’attenzione della Commissione sulla necessità che qualsiasi modifica di queste regole, garantisca comunque la tutela dell’indipendenza dei revisori, della riservatezza della loro funzione e della qualità della loro attività.

6.3 La revisione delle direttive del FSAP

Nel biennio 2009/2010, la Commissione europea ha avviato i lavori per la revisione delle direttive Prospetto, Transparency, Market abuse e Mifid, tutte adottate nell’ambito del Piano d’azione per i servizi finanziari della Commissione europea del 1999. Le quattro direttive prevedono infatti una disposizione che richiede alla Commissione di procedere, dopo cinque anni dall’entrata in vigore, alla valutazione della loro attuazione e di presentare, al Parlamento europeo e al Consiglio, una relazione corredata, se necessario, da proposte di revisione.

Un tema comune ai lavori preparatori per la revisione delle direttive del FSAP è quello delle cc.dd. smaller issuers (le piccole e medie società quotate) e della loro regolamentazione; in particolare, la Commissione sta valutando l’opportunità di prevedere un regime regolamentare speciale e proporzionato alle dimensioni delle PMI quotate al fine di contenere gli elevati costi sostenuti per la quotazione nei mercati regolamentati. Uno dei principali ostacoli alla realizzazione è però costituito dall’assenza di una definizione condivisa di PMI quotata, poiché le soglie dimensionali delle società variano a seconda dei mercati di riferimento.

Assonime non condivide la scelta di istituire segmenti di mercato specializzati in relazione alle dimensioni delle imprese e di prevedere semplificazioni ad hoc per le sole società più piccole; questa

99. A maggiore garanzia dell’indipendenza dei revisori si potrebbe invece pensare di disciplinare il procedimento di revoca prevedendo che l’organo di controllo debba rendere il proprio parere sulla proposta dell’organo di amministrazione, ferma restando la competenza dell’assemblea per la delibera di revoca.

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soluzione, unita alla difficoltà di individuare una nozione di PMI unica o quanto meno omogenea, potrebbe creare un unlevel playing field tra le società operanti nei diversi mercati nazionali. Sarebbe allora preferibile immaginare un sistema a tre scalini che preveda: (i) mercati regolamentati “Base”, dedicati a tutte le quotate con obblighi, comunque in linea con le direttive comunitarie, ma semplificati rispetto all’attuale disciplina e che prevedano un’adozione volontaria di codici di corporate governance; (ii) mercati regolamentati ad adesione volontaria da parte di tutte le società, indipendentemente dalla dimensione, caratterizzati da una disciplina particolarmente rigorosa, anche in tema di governance; (iii) un MTF che negozi imprese non quotate sul mercato regolamentato, non accessibile al mercato retail, aperto solo a investitori professionali (istituzionali e private equity) che abbia requisiti base di trasparenza, l’eventuale presenza di un NOMAD, eventualmente una disciplina dell’OPA endo-societaria, senza pubblicazione del prospetto per l’ammissione a quotazione100.

La Direttiva Prospetto

Nel gennaio 2009, la Commissione europea ha avviato una consultazione pubblica per la revisione della direttiva Prospetto (direttiva 2003/71/CE), cui ha fatto seguito, nel settembre del 2009, la presentazione di una proposta di modifica. Assonime ha contribuito, tramite EuropeanIssuers, all’elaborazione della nuova direttiva partecipando alla consultazione pubblica, commentando le proposte di modifica e seguendo i lavori a livello di Parlamento europeo e di Consiglio101.

Di seguito, si segnalano alcune delle modifiche di maggiore interesse per gli emittenti. La definizione di investitori qualificati è stata allineata con quella di clienti professionali, contenuta nella direttiva Mifid, e vi è stata l’abrogazione del registro degli investitori qualificati. La disciplina prevede ora che le imprese di investimento e gli enti creditizi comunichino la propria classificazione, su richiesta, all’emittente, fatta salva la legislazione in vigore sulla protezione dei dati. È stata introdotta la nozione di “società con ridotta capitalizzazione di mercato”, intendendosi come tale ciascuna società quotata su un mercato regolamentato con una capitalizzazione media di mercato inferiore a 100.000.000 Euro, calcolata sulla base delle quotazioni di chiusura anno dei tre precedenti anni civili. Per le società che rientrano in tale definizione è prevista una semplificazione e una riduzione delle informazioni fornite nel prospetto. È stata, infine, elevata a 5.000.000 di Euro la soglia per l’esenzione dalla pubblicazione del prospetto per l’offerta di strumenti finanziari.

La Direttiva Transparency

Nel dicembre 2009, la Commissione europea ha pubblicato uno studio sull’applicazione della Direttiva Transparency (direttiva 2004/109/CE). Lo studio ha evidenziato un generale apprezzamento da parte degli operatori rispetto all’efficacia della direttiva nel migliorare il flusso di informazioni per gli investitori, ma ha individuato nell’eccessiva frammentazione del regime regolamentare europeo una delle maggiori difficoltà operative. Nel maggio 2010, la Commissione ha pubblicato il rapporto sull’attuazione della direttiva, accompagnato dal documento “The review of the operation of Directive 2004/109/EC: emerging issues”, in cui ha presentato una valutazione dell’impatto della direttiva e ha identificato le aree di possibile miglioramento. Infine, il 28 maggio 2010, la Commissione ha pubblicato un documento di consultazione per la revisione della direttiva Transparency, che è stato discusso in una conferenza da questa organizzata. Il documento presenta alcune proposte di semplificazione in materia di convenienza e i costi della quotazione sui mercati regolamentati per le PMI; in particolare propone di prevedere un regime differenziato per le PMI quotate, come ad esempio in materia di termini di pubblicazione della relazione semestrale. Viene poi proposto di estendere l’applicazione degli obblighi di comunicazione delle partecipazioni rilevanti ai derivati, anche cash-settled, come già

100. Da ultimo, tale soluzione è stata rappresenta da Assonime in occasione dell’Audizione in ambito dell’indagine conoscitiva sui mercati degli strumenti finanziari, del 3 maggio 2011.

101. La direttiva 2010/73/UE di modifica della direttiva prospetto, è stata approvata in prima lettura dal Parlamento europeo il 17 giugno 2010 e dal Consiglio l’11 ottobre 2010 ed è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea dell’11 dicembre 2010.

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suggerito da una precedente consultazione del CESR102. In considerazione delle riscontrate differenze nazionali nella trasposizione della direttiva, la Commissione si è interrogata sull’opportunità di adottare un approccio di armonizzazione massima in sede di revisione della direttiva sugli obblighi di comunicazione delle partecipazioni rilevanti e sulle relative modalità di calcolo. Infine, nel documento di Consultazione la Commissione ha richiesto di segnalare le disposizioni poco chiare della direttiva che avevano portato a un’applicazione difforme nei diversi Stati membri.

Assonime ha risposto alla consultazione tramite EuropeanIssuers. Nella risposta, è stata condivisa l’idea di prevedere un regime proporzionato alle dimensioni dell’impresa, pur ritenendo opportuno procedere a un ulteriore confronto con la Commissione europea. Nella risposta è stato inoltre manifestato favore per la previsione di un regime sulla trasparenza proprietaria delle posizioni in derivati cash-settled, rilevando tuttavia la mancanza di una posizione comune tra i suoi membri in merito alla questione della aggregazione dei dati relativi a posizioni qualificate in partecipazioni effettive o potenziali in azioni e a posizioni in derivati cash-settled. È stata ritenuta ugualmente condivisibile la previsione dell’aggregazione delle partecipazioni in azioni con quelle in strumenti finanziari con similar economic effect. Da ultimo, nella risposta, è stata sottolineata l’opportunità di un regime europeo sull’identificazione degli azionisti e l’estensione dei termini previsti per la pubblicazione della relazione semestrale.

La Direttiva sugli abusi di mercato

La Commissione europea ha avviato, il 20 aprile 2009, una prima consultazione contenente alcune proposte di modifica della direttiva market abuse (direttiva 2003/6/CE), con l’obiettivo di migliorarne e semplificarne l’applicazione a livello nazionale, con particolare riferimento a: (i) l’estensione dell’ambito di applicazione della direttiva agli MTF; (ii) la tipologia di strumenti finanziari coperti dalla Direttiva; (iii) la comunicazione e il ritardo nella comunicazione delle informazioni privilegiate; (iv) la disciplina delle insider lists; (v) l’internal dealing; (vi) le prassi di mercato ammesse; (vii) i programmi di buy-back; (viii) lo short selling.

Assonime ha risposto alla consultazione tramite EuropeanIssuers. La Commissione europea ha avviato, il 28 giugno 2010, una seconda consultazione103 per la revisione della direttiva, che si è chiusa il 23 luglio 2010. Il documento ha proposto in primo luogo di ampliare l’ambito di applicazione della Direttiva, prevedendo: (i) un’estensione della Direttiva a tutti gli strumenti finanziari, inclusi i derivati, scambiati non solo su mercati regolamentati, ma anche (solo) sugli MTF; (ii) l’inserimento dei tentativi di manipolazione del mercato tra gli abusi perseguiti nell’ambito della direttiva; (iii) l’allineamento della definizione di inside information per i commodity derivatives a quella generale prevista nella direttiva.

È stato poi proposto un rafforzamento dei poteri di enforcement delle autorità competenti e delle sanzioni, mediante la previsione delle seguenti misure: (i) valutare l’opportunità di prevedere nuovi obblighi di reporting delle transazioni riguardanti strumenti finanziari scambiati solo su MTF, nonché derivati OTC che possono influenzare il prezzo di strumenti scambiati su MTF e mercati regolamentati; (ii) aumentare i poteri investigativi delle autorità competenti; (iii) prevedere regole più precise in materia di sanzioni; (iv) adottare misure per favorire la cooperazione tra autorità nazionali, ESMA e autorità di paesi terzi. Si è, infine, prevista la creazione di un single rule-book europeo, in

102. Su cui v. supra par. 2.4. Il documento di consultazione affrontava anche la questione dell’opportunità di prevedere un obbligo di “aggregazione” delle partecipazioni con diritto di voto e quelle in strumenti finanziari che conferiscono il diritto di acquistare azioni con diritto di voto ai fini del calcolo della partecipazione rilevante per gli obblighi di comunicazione.

103. Tra la prima e la seconda consultazione della Commissione ci sono state due iniziative del CESR. La prima, del 15 maggio 2009, con la pubblicazione delle linee guida del terzo pacchetto di misure di livello 3 in tema di disciplina sugli abusi di mercato; le linee guida sono accompagnate da un feedback statement, con cui si sintetizzano le criticità sollevate nelle due consultazioni dai relativi respondents; entrambi i documenti non hanno valore legale né introducono nuove regole in materia. La seconda, del 6 aprile 2010, con la pubblicazione di uno studio che illustra come vengono applicate in Europa le opzioni e le discrezionalità previste dalla Direttiva sugli abusi di mercato: lo studio ha evidenziato significative divergenze nell’applicazione della direttiva agli MTF e una certa disomogeneità nell’applicazione delle disposizioni relative ai termini di pubblicazione delle informazioni privilegiate, alla notifica delle transazioni; alla pubblicità delle misure o sanzioni applicate per il mancato rispetto delle disposizioni; e alla notifica delle transazioni sospette.

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particolare valutando: (i) l’opportunità di prevedere l’obbligo di notifica all’autorità competente di ogni caso di diffusione ritardata di informazioni price sensitive da parte dell’emittente; (ii) prevedere misure speciali di diffusione ritardata da parte di istituti finanziari in situazioni gravi; (iii) chiarire la definizione di accepted market practices alla luce del fatto che il riconoscimento di tali pratiche in uno Stato membro possa avere implicazioni anche in altri Stati membri; (iv) aumentare la soglia per la notifica delle operazioni di internal dealing da €5.000 a €20.000.

Le proposte in consultazione sono state discusse il 2 luglio 2010 in una conferenza organizzata dalla Commissione europea, alla quale ha partecipato – in veste di relatore – il Vicedirettore Generale di Assonime.

Assonime ha risposto alla consultazione tramite EuropeanIssuers che ha pubblicato un position paper il 27 luglio 2010. EuropeanIssuers ha avanzato la proposta di una semplificazione generale del regime sugli abusi di mercato per tutte le società quotate suggerendo che la semplificazione dovrebbe riguardare, in particolare, le norme sulle liste di insiders, sulle market transaction e sui programmi di buy-back. Con riferimento poi all’eventuale estensione del regime degli abusi di mercato agli MTF, EuropeanIssuers ha ritenuto che tale scelta dovrebbe essere subordinata a un’effettiva semplificazione del regime generale previsto dalla direttiva. È stata poi evidenziata l’opportunità di distinguere la nozione di informazione privilegiata, utilizzata per la disciplina sull’insider trading, da quella utilizzata per gli obblighi di informazione continua.

La Direttiva Mifid

L’8 dicembre 2010 la Commissione europea ha avviato una consultazione pubblica per la revisione della direttiva Mifid (direttiva 2004/39/CE), che si è chiusa il 2 febbraio 2011.

La revisione della direttiva, che rientra tra le iniziative intraprese per la creazione di un mercato degli strumenti finanziari più sicuro e trasparente, si propone di disciplinare anche parti di mercato rimaste opache, estendendo le regole della direttiva a segmenti di mercato per strumenti negoziati over the counter. La revisione intende poi rafforzare la protezione degli investitori e diminuire la discrezionalità degli Stati membri creando un single rule-book per i mercati finanziari europei. Nel documento di consultazione sono affrontate le seguenti tematiche: (i) l’evoluzione della struttura dei mercati; (ii) il miglioramento della trasparenza pre-trade e post-trade nei mercati di equity e la previsione di nuove regole per la trasparenza anche dei mercati non-equity104; (iii) il miglioramento delle regole sul consolidamento dei dati di mercato105; (iv) l’adozione di misure specifiche per i mercati di commodity derivative; (v) la modifica delle regole in materia di transaction reporting; (vi) il rafforzamento della protezione degli investitori e le regole sui servizi di investimento; (vii) una maggiore armonizzazione del quadro regolamentare e delle prassi di vigilanza; (viii) il rafforzamento dei poteri di vigilanza. La consultazione è stata preceduta da una conferenza organizzata dalla Commissione europea per discutere di questi temi per il 20 e il 21 settembre 2010.

Assonime ha risposto alla consultazione per il tramite di EuropeanIssuers106. L’Associazione si è concentrata su alcuni profili ritenuti di maggiore rilevanza per gli emittenti, dichiarandosi favorevole a una maggiore trasparenza sia pre-trade che post-trade per i mercati equity e non-equity e ha affermato la necessità di migliorare il consolidamento dei dati richiamando però l’attenzione sui costi che qualsiasi soluzione regolamentare può determinare a carico degli emittenti stessi.

104. Su questa materia, il CESR aveva avviato una consultazione pubblica il 19 dicembre 2008 alla quale EuropeanIssuers ha risposto con position paper del 5 marzo 2009; la Commissione europea ha pubblicato un questionario il 9 dicembre 2009 al quale EuropeanIssuers ha risposto con lettera del 18 marzo 2010.

105. Su questa materia la Commissione europea ha pubblicato un questionario il 28 gennaio 2010 al quale EuropeanIssuers ha risposto con lettera del 19 marzo 2010.

106. Cfr. Risposta dell’8 febbraio 2011.

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6.4 Società Europea e Società privata Europea

Società Europea (SE)

Il 9 dicembre 2009 la Commissione europea ha pubblicato uno studio sull’applicazione del regolamento sulla SE (regolamento n. 2157/2001) dopo poco più di cinque anni dalla sua entrata in vigore. Dallo studio emerge che il numero totale di SE a oggi costituite risulta inferiore alle aspettative, sebbene cresciuto negli anni. La distribuzione geografica delle SE varia notevolmente: una maggiore concentrazione si registra in quei paesi il cui diritto societario è meno flessibile del regolamento europeo. In particolare, un significativo numero di SE è stato costituito in Germania, che prevedeva solo il modello dualistico di amministrazione e controllo, mentre il regolamento contempla anche il modello monistico. La maggior parte delle SE costituite in Europa opera nel settore dei servizi, con una prevalenza nel settore bancario e finanziario; solo una parte marginale opera nel settore manifatturiero. Lo studio individua i principali fattori dell’interesse delle imprese per la SE nella sua “identità europea” e nelle disposizioni regolamentari sul trasferimento della sede sociale e sulla formazione della SE per fusione (almeno fino all’adozione della direttiva sulle fusioni transfrontaliere). In particolare, la forma della SE si è rivelata vantaggiosa nell’ambito delle riorganizzazioni di gruppo per la semplificazione della struttura e per la razionalizzazione delle regole di governance oppure, nel caso di gruppi operanti nel settore bancario e finanziario, per la semplificazione degli adempimenti imposti dalle regole europee sulla vigilanza prudenziale e sulla supervisione. La complessità dello statuto e i costi di costituzione, principalmente legati alla novità dello strumento e alla sua scarsa conoscenza, sono invece indicati come elementi che scoraggiano la costituzione di SE. Analogamente, la scarsa uniformità del regolamento, che opera numerosi rinvii alla legislazione nazionale e non si occupa di alcune materie come fiscalità o insolvenza, viene vista come un ostacolo alla formazione delle SE. Infine, la previsione di un forte regime di partecipazione dei lavoratori, che impone la costituzione di uno speciale organismo di negoziazione e incide sulla tempistica del procedimento di costituzione, rende il modello SE meno attraente per le imprese.

Lo studio è stato oggetto di una pubblica consultazione dal 23 marzo al 23 maggio 2010; il 26 maggio si è svolta una conferenza organizzata dalla Commissione per discutere dei risultati dello studio. Assonime ha risposto107 alla consultazione raccomandando una semplificazione delle regole sulla costituzione della SE; la modifica del regime della sede sociale consentendo di localizzare sede sociale e amministrazione centrale in Stati diversi; la riduzione del capitale sociale minimo, attualmente previsto in 120.000 euro; la previsione di una soglia per la negoziazione dei lavoratori, in linea con quanto previsto dalla direttiva sulle fusioni transfrontaliere. Assonime ha poi pubblicato, nel maggio 2010, un quaderno di approfondimento sul tema della società europea elaborato con il contributo di studiosi provenienti da diverse università. Gli approfondimenti contenuti nel Quaderno analizzano le disposizioni del Regolamento e nella Direttiva sul coinvolgimento dei lavoratori nella SE e prestano particolare attenzione ai problemi interpretativi e applicativi posti dalla disciplina europea. I contributi privilegiano un approccio comparato volto a confrontare le soluzioni normative adottate negli altri paesi, principalmente Francia, Germania e Inghilterra, con le soluzioni offerte dal nostro ordinamento. Da questo confronto, emergono anche le lacune dovute all’inerzia del legislatore italiano, con riferimento non solo alle misure di coordinamento necessarie tra norma europea e norma nazionale, ma anche all’esercizio delle opzioni, lasciate dal Regolamento agli Stati membri, che consentono di differenziare il modello SE da quello delle società per azioni di diritto nazionale. Il 19 novembre 2010 la Commissione europea ha pubblicato un rapporto sullo stato di applicazione del Regolamento in Europa, come previsto dall’articolo 69 dello stesso, in vista di eventuali proposte di modifica dello stesso. La relazione analizza in particolare: (i) la scelta del regime della sede effettiva e l’opportunità di consentire l’ubicazione dell’amministrazione centrale e della sede sociale di Stati membri diversi; (ii) la nozione di fusione, prevista dall’art. 17, paragrafo 2, per includervi anche altre ipotesi di fusione, diverse da quelle per incorporazione o mediante costituzione di una nuova società già disciplinate dalla direttiva 78/855 sulle fusioni interne; (iii) la competenza giurisdizionale, di cui all’articolo 8, paragrafo 16, alla luce delle disposizioni che potrebbero essere state inserite nella

107. Osservazioni al documento di consultazione della Commissione europea sulla revisione del Regolamento sulla SE del 23 marzo 2010 (23 maggio 2010).

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convenzione di Bruxelles del 1968 o in qualsiasi testo adottato dagli Stati membri o dal Consiglio in sostituzione di detta convenzione; (iv) l’autonomia statutaria della SE e la possibilità che questa possa derogare o integrare le disposizioni di legge adottate dagli Stati membri per dare attuazione al Regolamento.

Società Privata Europea (SPE)

La Commissione europea ha presentato nel giugno del 2008 una proposta di regolamento sullo statuto della Società Privata Europea (SPE), una nuova forma giuridica di diritto comunitario per favorire la mobilità delle piccole e medie imprese (PMI); lo strumento è destinato a essere utilizzato anche nei gruppi operanti su scala europea e per costituire joint venture. Il 10 marzo 2009 il Parlamento europeo ha adottato in sessione plenaria la relazione legislativa sulla proposta di regolamento, approvando con emendamenti il testo della Commissione. Il Consiglio europeo non ha ancora raggiunto un accordo sul testo108.

I temi più controversi appaiono essere la specifica previsione di un elemento transfrontaliero tra i requisiti di costituzione, il regime della sede sociale, il regime del capitale sociale e la partecipazione dei lavoratori.

6.5 Agenzie di rating

Nel corso del biennio 2009/2010 le istituzioni europee hanno avviato un ampio dibattito sul ruolo delle agenzie di rating nell’attuale crisi finanziaria.

Nel settembre del 2009, su proposta della Commissione europea109, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato un regolamento110 che introduce disposizioni sull’organizzazione e sull’esercizio delle attività delle agenzie e sulle condizioni per l’emissione dei rating. In fase di consultazione, Assonime ha formulato osservazioni per il tramite di EuropeanIssuers111.

Il regolamento si applica ai rating emessi da agenzie registrate nella comunità112 e destinati ad essere divulgati al pubblico o distribuiti previa sottoscrizione113.

Le agenzie di rating dovranno attuare tutte le norme necessarie per garantire che l’emissione del rating non sia influenzata da conflitti di interessi, anche potenziali, dell’agenzia, dei managers, degli analisti e dovranno stabilire un meccanismo di rotazione individuale graduale degli analisti e delle

108. Sul punto si rinvia alla Relazione Assonime sull’attività 2007/2008, 16 giugno 2009, p. 78.

109. Commissione europea, Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alle agenzie di rating del credito, 12 novembre 2008, COM(2008) 704 def.

110. Regolamento (CE) n. 1060/2009 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 16 settembre 2009, riguardante le agenzie di rating del credito.

111. Cfr. Risposta EuropeanIssuers (del 15 gennaio 2009) alla Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alle agenzie di rating del credito, cit.

112. Il regolamento prevede uno “sportello unico” per la presentazione delle domande di registrazione. Il compito è affidato al CESR (Comitato delle autorità europee di regolamentazioni dei valori mobiliari), incaricato anche di fornire informazioni sulla completezza della domanda. L’esame della domanda spetta invece all’autorità competente dello Stato Membro interessato che svolge anche le funzioni di vigilanza delle agenzie di rating. In caso di violazione degli obblighi del regolamento, l’autorità competente può, con effetto in tutta la Comunità, revocare la registrazione o inibire temporaneamente le emissioni di rating. Il CESR deve tenere un registro centrale pubblico in cui saranno conservate le informazioni relative ai precedenti risultati delle agenzie di rating e ai rating emessi.

113. Sono esclusi i rating privati forniti esclusivamente alla persona che li ha commissionati, i credit score, i sistemi di credit scoring o i rating prodotti dalle agenzie per il credito all’esportazione o dalle banche centrali. Gli enti creditizi, le imprese di investimento, di assicurazione, gli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari, gli enti pensionistici o aziendali possono utilizzare a fini regolamentari solo i rating emessi da agenzie stabilite nella Comunità e registrate conformemente al regolamento.

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persone che approvano i rating114.

Le agenzie dovranno operare una chiara distinzione tra le categorie utilizzate per emettere rating su strumenti strutturati e quelle utilizzate per altri strumenti o obblighi finanziari.

Nel giugno 2010, la Commissione europea ha presentato una proposta115 di modifica del regolamento sulle agenzie di rating del credito al fine di attribuire all’European Securities and Markets Authority (ESMA) – l’autorità che ha sostituito il CESR – poteri esclusivi di vigilanza sulle agenzie di rating e di introdurre un sistema di vigilanza centralizzato a livello europeo. La proposta è stata analizzata dal Parlamento europeo e dal Consiglio con la procedura di codecisione e il testo è stato adottato nella seduta plenaria del Parlamento europeo nel dicembre 2010116. Si attende ora l’adozione formale da parte del Consiglio.

Il testo adottato dal Parlamento europeo attribuisce all’ESMA la responsabilità esclusiva in materia di registrazione e vigilanza delle agenzie di rating del credito nell’UE e la competenza esclusiva per la conclusione di accordi di cooperazione sullo scambio di informazioni con le autorità dei paesi terzi117.

In sede di lavori parlamentari Assonime ha espresso criticità su un emendamento del Parlamento europeo volto a imporre all’emittente l’obbligo di fornire a tutte le agenzie di rating le informazioni già trasmesse all’agenzia da esso designata. Nel testo adottato dalla plenaria, l’articolo è stato trasformato in un considerando in cui si invita la Commissione europea ad approfondire la riflessione, e eventualmente a presentare proposte legislative, su questo particolare obbligo di trasparenza.

Assonime, inoltre, ha partecipato all’audizione sulle agenzie di rating organizzata dalla Commissione Finanze della Camera118. In quell’occasione il Presidente di Assonime ha espresso soddisfazione per la scelta di centralizzare la vigilanza a livello europeo. Ha però sottolineato l’importanza di evitare che le valutazioni delle agenzie sulla qualità dei titoli siano utilizzate in modo da indebolire l’autonoma responsabilità dell’investitore nella scelta dei portafogli e dei profili di rischio e ha indicato che, come è avvenuto negli Stati Uniti, sarebbe opportuno ripensare il ruolo talora eccessivo attribuito alle valutazioni delle agenzie dalla regolamentazione.

La riflessione sulle agenzie di rating da parte della Commissione europea è proseguita nel novembre 2010 con l’apertura di una nuova consultazione pubblica119.

Il questionario, suddiviso in 5 sezioni: (i) analizza le misure volte a ridurre l’eccessivo affidamento sui rating delle agenzie, ad esempio, per la determinazione dei requisiti di capitale si esamina la possibilità di richiedere l’uso di modelli interni; di fare riferimento a due rating esterni provenienti da

114. Un allegato al regolamento descrive i requisiti organizzativi e operativi delle agenzie. Le agenzie di rating dovranno adottare e applicare le misure necessarie a garantire che i rating siano basati su un’analisi accurata delle informazioni, che siano di qualità sufficiente e provengano da fonti affidabili. Le metodologie dovranno essere comunicate al pubblico ed essere sottoposte a una revisione annuale. Le agenzie dovranno pubblicare una relazione che indichi, tra l’altro, la loro struttura giuridica, gli assetti proprietari, i meccanismi di controllo interno, la politica di rotazione del management e degli analisti, le informazioni sul fatturato e una dichiarazione sulla governance.

115. Commissione europea, Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica del regolamento (CE) n.1060/2009 relativo alle agenzie di rating del credito, 2 giugno 2010, COM(2010) 289 def.

116. Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 15 dicembre 2010 sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica del regolamento (CE) n.1060/2009 relativo alle agenzie di rating del credito, 15, P7_TA(2010)0478.

117. L’ESMA, in particolare, avrà il potere di imporre ad un’agenzia di rating la cessazione di una violazione, la sospensione dell’uso dei rating a fini regolamentari, il divieto temporaneo di emettere rating e, in caso estremo, la revoca della registrazione. L’ESMA potrà anche imporre penalità di mora per obbligare le agenzie di rating a porre fine ad una violazione, a fornire informazioni o sottoporsi a indagini o a ispezioni in loco. L’ESMA, inoltre, potrà imporre ammende qualora risulti che un’agenzia di rating ha violato, intenzionalmente o per negligenza, le disposizioni del regolamento (CE) n. 1060/2009.

118. Cfr. Audizione del Presidente di Assonime, Camera dei Deputati VI Commissione Permanente (Finanze), “Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica del regolamento (CE) n.1060/2009 relativo alle agenzie di rating del credito”, 6 ottobre 2010.

119. Direzione Generale Mercato Interno e Servizi, Documento di consultazione sulle “Credit Rating Agencies”, 5 novembre 2010.

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due diverse agenzie; di utilizzare, insieme o al posto dei rating, altri indicatori di rischio come certi dati di mercato; (ii) esamina le misure volte a migliorare la trasparenza, il controllo, la metodologia e le procedure per i rating dei debiti sovrani; (iii) analizza le misure volte a rafforzare la concorrenza tra le agenzie di rating, ad esempio, affidando i rating alla Banca Centrale Europea o alle Banche Centrali Nazionali; creando agenzie di rating nazionali, pubbliche o private; creando un’European Credit Rating Agency; stabilendo un network per le agenzie di rating piccole e medie; (iv) valuta la possibilità di introdurre un regime di responsabilità civile per le agenzie di rating e si interroga sul suo eventuale campo di applicazione: infrazioni volontarie o anche colpose; rating troppo elevati o troppo bassi; rating sollecitati o meno; (v) analizza le misure che possono ridurre il conflitto di interessi legato al modello issuer-pays. La Commissione ha valutato i pro e i contro di altri modelli in cui a pagare siano gli investitori o le trading venues, in cui l’agenzia di rating sia governativa o in cui un’autorità indipendente abbia il compito di affidare gli incarichi alle agenzie di rating.

Assonime, tramite EuropeanIssuers, ha risposto120 alla consultazione accogliendo favorevolmente l’idea di ridurre l’eccessivo affidamento della legislazione sui rating, chiedendo che sia chiarita la distinzione tra prodotti finanziari strutturati e corporate financial instruments, illustrando le sue perplessità sull’estensione del diritto di accesso alle informazioni della società da parte di altre agenzie di rating, e affermando la sua preferenza per l’uso del modello issuer-pays. Inoltre, EuropeanIssuers ritiene che l’istituzione di una European Credit Rating Agency non sia necessaria e che gli emittenti, in ogni caso, non dovrebbero essere obbligati a rivolgersi a tale agenzia e non dovrebbero contribuire al suo finanziamento.

6.6 Altre iniziative comunitarie

Trasparenza informativa non finanziaria

L’attuale legislazione UE affronta la questione della trasparenza delle informazioni di carattere non-finanziario nella IV direttiva di diritto delle società121. Negli ultimi anni, si è diffusa a livello europeo una crescente richiesta di intervento per migliorare la comparabilità, l’affidabilità e la rilevanza della disclosure delle informazioni non finanziarie diffuse dalle società europee.

Nel novembre 2010, la Direzione Generale Mercato Interno e Servizi ha aperto una consultazione pubblica122 sulla trasparenza delle informazioni non finanziarie da parte delle società: le informazioni legate ai temi sociali, ambientali, dei diritti umani e dello sviluppo sostenibile. La Direzione Generale, in particolare, ha chiesto osservazioni sui seguenti temi: (i) attuale regime di disclosure delle informazioni non finanziarie operante in ciascuno Stato Membro; (ii) eventuali proposte di miglioramento del regime di disclosure; (iii) effetti, costi e benefici per le società derivanti dalla disclosure di informazioni non-finanziarie; (iv) tipologie di misure da adottare a livello europeo per migliorare la coerenza e la comparabilità delle informazioni non-finanziarie; (v) approccio da implementare, con particolare riguardo al concetto di reporting integrato; (vi) ambiti di applicazione degli obblighi di trasparenza; (vii) tipologie di rischi oggetto di obblighi di trasparenza.

La consultazione si è chiusa nel gennaio 2011 e se ne attende l’esito.

120. Cfr. Risposta EuropeanIssuers (del 14 gennaio 2011) al documento di consultazione della Direzione Generale Mercato Interno e Servizi del 5 novembre 2010 sulle “Credit Rating Agencies”.

121. Cfr. l’art.46, par. 1(b) della Direttiva 1978/660/CE del Consiglio, del 25 luglio 1978, riguardante le regole e principi sulla redazione dei conti annuali delle società. In generale, la direttiva richiede alle società di includere, se del caso, nel bilancio annuale l’informazione su tematiche relative all’ambiente e ai lavoratori nella misura necessaria a consentire un’analisi dello sviluppo, della performance e della competitività della società. Gli Stati membri, tuttavia, sono liberi di escludere le piccole e medie imprese da tali obblighi. Alcuni Stati, come la Danimarca e la Francia, hanno introdotto obblighi di trasparenza più stringenti di quelli richiesti dalla IV direttiva.

122. Direzione Generale Mercato Interno e Servizi, Documento di consultazione sulla “Disclosure of Non-Financial Information by Companies”, 22 novembre 2010.

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Country by country reporting

La Commissione europea nell’ottobre del 2010 ha aperto una consultazione123 sulla rendicontazione finanziaria paese per paese delle imprese multinazionali.

Il country-by-country reporting richiede alle società multinazionali di fornire nei loro conti annuali informazioni finanziarie paese per paese (performance finanziaria, transazioni infra-gruppo, profitto pre-imposizione, ecc.) sulle loro attività nei Paesi terzi, ossia in quei paesi che non sono membri dell’Unione Europea e dell’Area Economica Europea (EEA).

Il documento di consultazione riporta due tipologie di rendicontazione, una generale per aiutare gli investitori a valutare meglio le differenti attività delle multinazionali e incrementare la trasparenza dei flussi di capitale anche per permettere una migliore applicazione delle norme fiscali. L’altra, invece, specifica per le società operanti nel settore estrattivo (minerali, olio e gas) dei paesi terzi.

Assonime ha risposto124 alla consultazione attraverso EuropeanIssuers. L’associazione europea ritiene che i requisiti regionali specifici costituirebbero un onere elevato per le società, che l’esigenza di informazione degli investitori delle società quotate dovrebbe essere soddisfatta dalla normativa esistente e che obblighi di trasparenza specifici per il settore estrattivo dovrebbero essere valutati in un quadro globale per non mettere le imprese europee in una posizione di svantaggio concorrenziale. La consultazione si è chiusa nel gennaio 2011 e se ne attende l’esito.

Single Market Act

Nell'ottobre 2010, la Commissione europea ha aperto una consultazione pubblica sulla comunicazione intitolata “Verso un atto per il mercato unico” 125 che contiene misure per dare nuovo slancio al mercato unico. Tra le proposte con cui la Commissione intende stimolare la crescita e la competitività del mercato interno si segnalano: (i) un piano d’azione per migliorare l’accesso delle PMI ai mercati dei capitali; (ii) la revisione delle direttive sulle norme contabili per semplificare i requisiti di informativa finanziaria e ridurre gli oneri amministrativi per le PMI; (iii) le misure di corporate governance per incoraggiare gli investimenti a lungo termine e (iv) una normativa che implementi l’interconnessione dei registri per le imprese nel 2011.

Alternative Investment Funds Managers (AIFM)

La Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva sui gestori di fondi di investimento alternativi126 che modifica le direttive 2004/39/CE127 e 2009/65/CE128. La proposta è stata approvata nella seduta plenaria dal Parlamento europeo l’11 novembre 2010129 e si attende, a breve, l’adozione formale da parte del Consiglio. La direttiva entrerà in vigore nel 2013 e sarà sottoposta a revisione nel 2017.

123. Direzione Generale Mercato Interno e Servizi, Documento di consultazione sul “Financial Reporting on a Country-by-Country Basis by Multinational Companies”.

124. Cfr. Risposta EuropeanIssuers (del 22 dicembre 2010) al documento di consultazione della Direzione Generale Mercato Interno e Servizi relativo al “country-by-country reporting by multinational companies”.

125. Comunicazione della Commissione, “Towards a Single Market Act. For a highly competitive social market economy 50 proposals for improving our work, business and exchanges with another”, COM(2010) 608 def./2.

126. Commissione europea, Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica delle direttive 2004/39/CE e 2009/65/CE relative ai gestori di fondi di investimento alternativi, 30 aprile 2009, COM(2009) 207 def.

127. Direttiva 2004/39/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, relativa ai mercati degli strumenti finanziari, che modifica le direttive 85/611/CEE e 93/6/CEE del Consiglio e la direttiva 2000/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e che abroga la direttiva 93/22/CEE del Consiglio.

128. Direttiva 2009/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 luglio 2009, concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative in materia di taluni Organismi d’Investimento Collettivo in Valori Mobiliari (OICVM).

129. Risoluzione del Parlamento europeo, dell’11 novembre 2010, sulla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sui gestori di fondi di investimento alternativi, che modifica le direttive 2004/39/CE e 2009/65/CE, P7_TA(2010)0393.

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Il testo adottato in plenaria introduce un quadro regolamentare armonizzato per le attività di tutti i gestori di fondi stabiliti all’interno e al di fuori dell’Unione europea al fine di controllare i potenziali rischi per gli investitori, le controparti, gli altri partecipanti al mercato e preservare la stabilità finanziaria generale. In particolare, la direttiva prevede un “passaporto” che permette ai gestori di fondi alternativi non europei di commercializzarli a clienti in tutta l’UE. Essa inoltre, introduce regole sui compensi, sull’asset stripping e sulla responsabilità dei depositari di fondi. La direttiva si applica alle entità che gestiscono fondi di investimento alternativi di tipo aperto o chiuso, a prescindere dalla forma giuridica o dal fatto che siano quotati o meno, che raccolgano capitali da diversi investitori in base ad una determinata politica di investimento a vantaggio di tali investitori.

Nel corso dei lavori parlamentari Assonime, anche attraverso EuropeanIssuers, ha proposto e ottenuto l’esenzione delle holding di partecipazione dal campo di applicazione della direttiva130: queste società detengono partecipazioni per investimenti a lungo termine nelle società, non costituiscono un rischio sistemico per sé e sono già soggette alle regolamentazioni nazionali di borsa per la protezione degli investitori.

Interconnessione dei registri delle imprese

Nel novembre 2009, la Commissione ha avviato una consultazione sul libro verde in merito all’interconnessione dei registri delle imprese131. Il libro verde si colloca tra le misure volte ad aumentare la trasparenza dei mercati finanziari migliorando l’accesso alle informazioni societarie aggiornate e ufficiali e la cooperazione tra i registri. Tra le misure proposte, il libro verde solleva anche la questione del collegamento dei registri delle imprese con la rete elettronica prevista dalla direttiva Transparency.

Assonime ha risposto132 alla consultazione e, in particolare, ha insistito sulla necessità che i registri delle imprese che partecipano al network debbano rimanere liberi di fissare la propria politica dei prezzi, ferma restando l’opportunità di garantire un contenimento dei costi, dal momento che le informazioni “appartengono” alle società, che devono pubblicarle per legge. Assonime ha inoltre suggerito di considerare per il futuro la creazione di un registro transnazionale almeno per le società che abbiano una base giuridica europea (SE, SCE, GEIE) e per le multinazionali, al fine di semplificare il contesto giuridico delle società che svolgono attività transfrontaliere.

Il Parlamento europeo nel settembre 2010 ha adottato un rapporto di iniziativa133 sull’interconnessione dei registri delle imprese. Nel rapporto il Parlamento ha evidenziato l’importanza dei meccanismi di cooperazione tra i registri delle imprese già esistenti (EBR, BRITE), ritenendo che la partecipazione debba essere resa obbligatoria per tutti gli Stati membri, sostenendo la necessità di creare un unico punto di accesso ai dati contenuti nei registri. Il Parlamento ha altresì evidenziato la necessità di fornire le informazioni in un formato standard e in tutte le lingue ufficiali dell’UE. Il Parlamento ha tuttavia sottolineato che le misure da adottare non dovrebbero imporre oneri supplementari alle imprese, in particolare alle PMI. Il Parlamento si è, infine, espresso positivamente sul collegamento della rete dei registri di imprese con la rete elettronica creata dalla direttiva Transparency per le informazioni regolamentate per offrire un unico punto di accesso alle informazioni legali e finanziarie

130. Nel testo adottato dal Parlamento europeo, pertanto, la direttiva non si applica alle “società di partecipazione finanziaria”, vale a dire a una società con una partecipazione azionaria in una o più società, il cui obiettivo commerciale è realizzare una strategia o strategie imprenditoriali attraverso le sue società consociate, associate o partecipazioni per contribuire al loro valore a lungo termine e che: (i) è una società le cui azioni siano ammesse alla negoziazione in un mercato regolamentato europeo e che opera per conto proprio; ovvero (ii) non è costituita con lo scopo principale di generare utili per i propri investitori mediante disinvestimenti delle società consociate o associate come comprovato dalla relazione annuale o da altri documenti ufficiali della società.

131. Commissione europea, Documento di consultazione relativo al Libro verde sull’interconnessione dei registri delle imprese, 4 novembre 2009, COM(2009)614 def.

132. Cfr. Note e Studi Assonime, 02/2010, “Green Paper on the interconnection of Business Registers. Assonime response to the consultation".

133. Parlamento europeo, Rapporto di iniziativa sull’interconnessione dei registri delle imprese, 7 settembre 2010, 2010/2055(INI).

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sulle società quotate.

In sede di lavori parlamentari, Assonime ha espresso le sue perplessità sull’idea che le informazioni debbano essere fornite in tutte le lingue dell’UE senza una chiara indicazione di chi debba sostenere i costi di traduzione.

Revisione IV e VII direttiva di diritto delle società

Nel febbraio 2009 la Commissione ha presentato una proposta134 di modifica della IV direttiva sul diritto societario relativa ai conti annuali di taluni tipi di società (78/660/CEE)135. La proposta suggerisce di accordare agli Stati membri la facoltà di escludere le microentità dall’obbligo di redazione dei conti annuali. Per microentità si intendono quelle imprese che alla data di chiusura del bilancio non superano i limiti numerici di due dei seguenti criteri: (i) totale dello stato patrimoniale di €500.000; (ii) importo netto del volume di affari di €1.000.000; (iii) numero dei dipendenti occupati in media durante l’esercizio uguale a 10. Le microentità potrebbero comunque, su base volontaria, redigere conti annuali, sottoporli a revisione e inviarli al registro nazionale.

La proposta è stata adottata dal Parlamento europeo nel marzo 2010136 ma deve ancora essere adottata dal Consiglio.

Contestualmente alla presentazione della proposta, la Commissione europea ha aperto una consultazione137 sulla revisione della IV (78/660/CEE) e della VII (83/349/CEE)138 direttiva di diritto delle società relative rispettivamente ai conti annuali e consolidati (c.d. direttive contabili). Il documento affronta tematiche che mirano a modernizzare e semplificare le direttive contabili e a ridurre gli oneri burocratici per le PMI. In particolare, la consultazione chiede pareri sull’adozione di un approccio bottom-up che prenda in considerazione innanzitutto le necessità delle PMI; sulla necessità di aumentare l’uso delle disposizioni opzionali di semplificazione; sulla necessità di aggiornare i criteri per definire le PMI o di prevedere criteri aggiuntivi; sulla riduzione delle categorie in cui sono divise le imprese; sull’esenzione dall’obbligo di redigere la relazione annuale per le imprese di medie dimensioni.

Short selling e Credit default swaps

Nel biennio 2009-2010, vi sono state numerose iniziative legislative e regolamentari finalizzate a introdurre misure permanenti volte a evitare tecniche finanziarie abusive. Tra queste si segnala la Consultazione avviata dal CESR139 e successivamente dallo IOSCO140 concernente la regolamentazione

134. Commissione europea, Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica della direttiva del Consiglio 1978/660/CE relativa ai conti annuali di taluni tipi di società, 26 febbraio 2009, COM(2009) 83 def.

135. Direttiva 78/660/CE del Consiglio, del 25 luglio 1978, basata sull’art. 54, par. 3, lett. g), del Trattato e relativa ai conti annuali di taluni tipi di società.

136. Risoluzione del Parlamento europeo, del 10 marzo 2010, sulla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica della direttiva 78/660/CEE del Consiglio relativa ai conti annuali di taluni tipi di società per quanto riguarda le microentità, P7_TA(2010)0052.

137. Direzione Generale Mercato Interno e Servizi, Documento di consultazione sulla revisione delle direttive contabili, 26 febbraio 2009, F3/ D(2009).

138. Direttiva 83/349/CE del Consiglio, del 13 giugno 1983, basata sull’art. 54, par. 3, lett. g), del Trattato e relativa ai conti consolidati.

139. Committee of European Securities Regulators (CESR), Documento di consultazione sul “Regulation of short-selling”, dicembre 2008.

140. International Organization of Securities Commissions (IOSCO), Documento di consultazione sulla “Regulation of short selling”, 23 marzo 2009.

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dello short selling141.

Assonime, tramite EuropeanIssuers, ha risposto nel febbraio 2009 alla consultazione del CESR142 e, successivamente a quella dello IOSCO143. Nella prima risposta, l’associazione europea ha condiviso l’introduzione di misure permanenti volte a evitare pratiche abusive, affermando che le pratiche di naked short selling dovrebbero essere proibite a livello internazionale e chiedendo misure volte a regolare lo stock lending.

Nella risposta alla Consultazione dello IOSCO, EuropeanIssuers ha proposto, in tema di short selling, l’introduzione di controlli per garantire il funzionamento e la stabilità dei mercati finanziari e l’applicazione del regime derivante dalla market abuse. Nella stessa occasione, EuropeanIssuers ha richiesto di regolare le pratiche di stock lending e di prevedere un sistema di rendicontazione che fornisca informazioni al mercato e alle autorità, ferma restando una particolare cautela nelle possibili esenzioni.

Nel giugno 2009 lo IOSCO ha pubblicato la relazione finale144 sulla Regolamentazione dello short selling suggerendo di inserire nella regolamentazione: (i) una disciplina sul regolamento delle transazioni di short selling per ridurre o minimizzare i rischi per la stabilità dei mercati finanziari; (ii) un sistema d’informazione tempestivo rivolto al mercato o alle autorità di mercato; (iii) un effettivo controllo della conformità e della corretta applicazione della regolamentazione; (iv) la previsione di eccezioni per certi tipi di transazione per consentire il funzionamento e lo sviluppo di un mercato efficiente.

Sempre nel 2009, il CESR ha avviato una nuova consultazione sullo short selling145, nella quale ha proposto un regime di trasparenza permanente e armonizzato al fine di ridurre o attenuare i rischi legati allo short selling, salvaguardandone al tempo stesso gli effetti positivi. Assonime, sempre attraverso EuropeanIsseurs, ha risposto146 alla consultazione: pur condividendo le proposte del CESR, EuropeanIssuers ha osservato, tra l’altro, che lo short selling andrebbe considerato anche dal punto di vista del governo societario e degli abusi di mercato e che la pratica del naked short selling andrebbe vietata. EuropeanIsseurs ha poi evidenziato l’opportunità di allineare le soglie per la disclosure pubblica e privata.

EuropeanIsseurs si è infine espressa sul tema, anche in occasione della consultazione147 della Commissione europea. Nella risposta148, EuropeanIsseurs ha ribadito: (i) di essere favorevole ad una legislazione europea sullo short selling; (ii) che gli obblighi di trasparenza dovrebbero riguardare le

141. Lo short selling - o vendita allo scoperto - è una tecnica finanziaria in base alla quale un operatore procede alla vendita di un titolo non di sua proprietà, preso in prestito (o che intende prendere a prestito, nel caso del naked short selling), scommettendo sul ribasso del titolo che gli permetterà di acquistare il titolo ad un prezzo inferiore e perfezionare così l’operazione di vendita realizzando un guadagno. La pratica dello short selling, operata in condizioni normali di mercato, può essere benefica sia per i mercati finanziari, consentendo un aumento della liquidità dei titoli sul mercato e facilitando il processo di price discovery, che per gli investitori, offrendo loro uno strumento per la copertura di rischi. Tuttavia, le operazioni di short selling possono anche avere effetti destabilizzanti sulle quotazioni dei titoli interessati, e sull’andamento dei mercati in generale. Nel momento in cui innescano un massiccio flusso di ordini di vendita, le operazioni di short selling possono infatti alterare i trend di mercato, consentendo la manipolazione al ribasso delle quotazioni. Se questo avviene in fase di contrazione dei mercati, il risultato può essere un’ulteriore accelerazione dei trend negativi.

142. Cfr. Risposta EuropeanIssuers (del 11 febbraio 2009) al documento di consultazione del Committee of European Securities Regulators (CESR) del dicembre 2008 sul “Regulation of short-selling by CESR Member”.

143. Cfr. Risposta EuropeanIssuers (del 12 maggio 2009) al documento di consultazione dell’International Organization of Securities Commissions (IOSCO) del 23 marzo 2009 sulla “Regulation of short selling”.

144. International Organization of Securities Commissions (IOSCO), “Regulation of short selling”, 19 giugno 2009.

145. Committee of European Securities Regulators (CESR), Documento di consultazione “Proposal for a Pan -European Short Selling Disclosure Regime”, 8 luglio 2009.

146. Cfr. Risposta EuropeanIssuers (del 1 ottobre 2009) al documento di consultazione del Committee of European Securities Regulators (CESR) dell’8 luglio 2009 sul “Proposal for a Pan-European Short Selling Disclosure Regime”.

147. Direzione Generale Mercato Interno e Servizi, Documento di consultazione sullo short selling, 14 giugno 2010.

148. Cfr. Risposta EuropeanIssuers (del 9 luglio 2010) al documento di consultazione della Direzione Generale Mercato Interno e Servizi del 14 giugno 2010 sullo short selling.

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operazioni di short selling aventi per oggetto tutti i titoli scambiati sui mercati regolamentati dell’area EEA, nonché posizioni equivalenti ottenuti per mezzo di derivati e (iii) che un diverso livello di trasparenza dovrebbe essere richiesto a seconda che le posizioni siano corte o superino una certa soglia149.

Nel settembre 2010 la Commissione europea ha presentato una proposta150 di regolamento relativo alle vendite allo scoperto e ai credit default swap151.

In casi eccezionali di pericolo per la stabilità finanziaria e per la fiducia sui mercati finanziari, la proposta riconosce alle autorità nazionali competenti il potere di imporre delle restrizioni temporanee sulle transazioni short selling e CDS e/o di imporre ulteriori requisiti di trasparenza su tali transazioni e attribuisce all’ESMA il potere di indirizzare pareri alle autorità nazionali, di coordinarne gli interventi e adottare essa stessa, in presenza di determinate condizioni, misure temporanee, aventi efficacia immediata, per limitare o vietare vendite allo scoperto.

La proposta di regolamento sullo short selling contiene anche misure relative ai credit default swaps152. La proposta di regolamento del 15 settembre 2010 introduce disposizioni volte a ridurre il rischio di spirali negative dei prezzi derivanti da posizioni corte ottenute anche tramite CDS e migliorarne la trasparenza.

Derivati OTC

Nel quadro delle iniziative legislative intraprese a seguito della crisi economica e finanziaria per favorire la creazione di un sistema finanziario più solido, rientra anche l’iniziativa per render più sicuro e trasparente il mercato dei derivati negoziati fuori borsa: i cc.dd. derivati over-the-counter (OTC). EuropeanIssuers ha risposto153 alla consultazione della Commissione europea del 14 giugno 2010 che chiedeva osservazioni sulla compensazione e mitigazione dei rischi dei derivati OTC; in particolare, sulla procedura per determinare se un prodotto derivato debba essere obbligatoriamente compensato da una controparte centrale (CCP); sui requisiti delle controparti centrali (CCP), in particolare, le norme applicabili alla controparte per assicurare che essa possa contenere i rischi nel mercato invece di diventare una fonte potenziale di concentrazione dei rischi stessi; sull’interoperabilità tra le CCP e sugli obblighi di comunicazione e requisiti dei Trade Repositories.

EuropeanIssuers, richiamando espressamente la posizione elaborata dall’European Association of Corporate Treasurers (EACT), ha sottolineato che le società non finanziarie usano i mercati derivati OTC

149. Più specificamente, posizioni corte oltre una prima soglia dovrebbero essere comunicate all’autorità competente, mentre posizioni che superino una seconda soglia più alta dovrebbero essere rese note al mercato. Inoltre, afferma che sono necessarie delle restrizioni alle uncovered short sales al fine di prevedere l’obbligo per gli operatori di avere, al momento della vendita stessa, la disponibilità, tramite prestiti o altri accordi già sottoscritti, degli strumenti oggetto della vendita corta.

150. Commissione europea, Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alle vendite allo scoperto e ai credit default swap, 15 settembre 2010, COM(2010) 482 def.

151. La proposta mira a creare un quadro normativo armonizzato per migliorare la trasparenza del mercato, attribuire maggiori poteri di controllo alle autorità di vigilanza nazionale assicurando il coordinamento da parte dell’ESMA, e ridurre i rischi. In particolare la proposta si applica a tutti gli strumenti finanziari, ma le disposizioni sono modulate a seconda dei livelli di rischio dei singoli strumenti finanziari. La proposta introduce l’obbligo di comunicare all’autorità competente posizioni corte in azioni assunte oltre una certa soglia (0,2% del capitale azionario), e l’obbligo di rendere noto al mercato posizioni che superino una seconda soglia (0,5%) e prevede l’obbligo di comunicare all’autorità anche posizioni assunte in altri titoli quali titoli sovrani Europei, credit default swaps interessanti titoli sovrani Europei, strumenti OTC e posizioni affini create dall’uso di strumenti derivati, oltre che per variazioni nelle posizioni che portino a superare le soglie previste introduce restrizioni alle uncovered short sales, prevedendo l’obbligo per gli operatori di avere, al momento della vendita stessa, la disponibilità, tramite prestiti o altri accordi già sottoscritti, degli strumenti oggetto della vendita corta.

152. Il credit default swap è un prodotto derivato che opera come forma di assicurazione nei confronti del rischio di inadempimento (credit default) di una società o di uno Stato. A fronte del pagamento di un premio annuale, l’acquirente di un CDS è protetto dal venditore del CDS contro il rischio di inadempimento di un determinato soggetto di riferimento. Se il soggetto di riferimento è inadempiente, il venditore della protezione versa all’acquirente il valore nominale dello strumento in cambio della consegna materiale dello strumento di riferimento.

153. Cfr. Risposta EuropeanIssuers (del 9 luglio 2010) al documento di consultazione della Direzione Generale Mercato Interno e Servizi del 14 giugno 2010 sui “Derivatives and Market Infrastructures”.

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per gestire i rischi pertanto questo aspetto dovrebbe essere preso in considerazione nella previsione di obblighi di standardizzazione dei derivati; che le società non finanziarie europee non dovrebbero essere penalizzate sul piano regolamentare rispetto alle loro concorrenti extra UE; e che le società non finanziarie non costituiscono di per sé un rischio sistemico sui mercati finanziari e non dovrebbero quindi essere soggette agli stessi obblighi regolamentari previsti per le società regolamentari.

Il 15 settembre 2010, la Commissione ha pubblicato una proposta154 di Regolamento per rendere più sicuro e trasparente il mercato dei derivati negoziati fuori borsa (derivati OTC). La proposta tiene conto delle conclusioni del G20 dell’ottobre 2009, delle precedenti comunicazioni adottate dalla Commissione, della risoluzione del Parlamento europeo del 15 giugno 2010155 e infine dei contributi raccolti nel corso della consultazione chiusasi nel luglio 2010. La proposta di regolamento mira a introdurre criteri armonizzati per l’individuazione dei derivati che devono essere compensati tramite CCP e criteri organizzativi e prudenziali per le CCP. Nel nuovo sistema, un ruolo centrale di coordinamento e supervisione viene affidato all’ESMA.

La proposta si applica a tutti i derivati OTC, sia alle imprese finanziarie sia alle imprese non finanziarie. Tuttavia, quando le imprese non finanziarie utilizzano derivati OTC per attenuare i rischi derivanti dalla loro attività di base, esse sono esonerate dall’obbligo di compensazione tramite CCP156. La proposta prevede che i derivati OTC standardizzati (secondo criteri di ammissibilità predefiniti) saranno compensati tramite controparti centrali e qualora un contratto non fosse ammissibile e non fosse compensato da una controparte centrale, dovranno essere applicate diverse tecniche di gestione del rischio. Vengono previste due modalità per individuare i derivati che devono essere compensati tramite CCP: un approccio bottom-up ( la CCP decide di compensare un certo tipo di contratto, ne informa l’autorità di sorveglianza che poi riporta all’ESMA, la quale infine deciderà se rendere la compensazione obbligatoria per tutte le CCP su quel tipo di contratto) e un approccio top-down (l’ESMA, in accordo con lo European Systemic Risk Board, decide quali contratti debbano essere oggetto dell’obbligo di compensazione).

La proposta è attualmente in discussione al Parlamento europeo e al Consiglio.

Securities Law Directive

Assonime, tramite EuropeanIssuers, ha seguito le iniziative avviate dalla Commissione europea sulla Securities Law Directive. In particolare, nell’aprile del 2009 la Commissione ha aperto una consultazione157 contenente proposte volte a migliorare il quadro giuridico pan-europeo sul possesso e sul trasferimento dei titoli dematerializzati. Il documento di consultazione, che rinvia esplicitamente al parere pubblicato dal Legal Certainty Group nell’agosto del 2008, chiede commenti sull’armonizzazione minima e sul conflitto di leggi; sull’esercizio transfrontaliero dei diritti derivanti dai titoli e sulla trasmissione delle informazioni necessarie; sulla libertà dell’emittente di scegliere il depositario e, in particolare, sul Central Securities Depository; e sui doveri dell’account provider.

Nella risposta158 alla consultazione EuropeanIssuers ha espresso dubbi sull’efficacia di un approccio che lascia al diritto nazionale l’inquadramento giuridico generale dei titoli dematerializzati e alla

154. Commissione europea, Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio concernente le misure volte a rendere più sicuro e trasparente il mercato dei derivati negoziati fuori borsa, 15 settembre 2010, COM(2010) 484/5.

155. Risoluzione del Parlamento europeo, del 15 giugno 2010, sui mercati dei derivati: azioni strategiche future, P7_TA(2010)0206.

156. In particolare, la proposta di regolamento prevede che gli scambi di derivati OTC siano comunicati a centrali di dati, i cc.dd. repertori di dati sulle negoziazioni; che le autorità di vigilanza avranno accesso a questi dati; che l’ESMA sarà responsabile della vigilanza sui repertori di dati sulle negoziazioni e autorizzerà/revocherà la loro registrazione e che i repertori pubblichino le posizioni aggregate per classi di derivati in modo che tutti i partecipanti al mercato abbiano una visione più chiara del mercato dei derivati OTC.

157. Direzione Generale Mercato Interno e Servizi, Documento di consultazione sulla “Legislation on legal certainty of securities holding and dispositions”, 16 aprile 2009, G2/PP D(2009).

158. Cfr., Risposta EuropeanIssuers (del 10 giugno 2009) al documento di consultazione della Direzione Generale Mercato Interno e Servizi del 16 aprile 2009 sulla “Legislation on legal certainty of securities holding and dispositions”.

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legislazione europea la definizione di certe caratteristiche armonizzate e ha ritenuto che debba essere la legge di riferimento per l’emittente a stabilire quali siano i diritti conferiti dai titoli dematerializzati all’investitore finale. Inoltre, EuropeanIssuers ha sostenuto che l’account provider debba facilitare l’esercizio delle corporate actions da parte dell’account holder veicolando i flussi informativi necessari e, in quest’ottica, ha considerato essenziale che un’eventuale legislazione europea supporti e renda possibile l’effettiva applicazione degli standard del mercato sulle corporate actions e sulle assemblee, elaborati sotto l’egida del CESAME group. Infine, EuropeanIssuers ha ritenuto necessario abolire tutte le restrizioni che impediscono all’emittente di scegliere ove accentrare i titoli emessi e, a tal fine, ha suggerito di prevedere un’autorizzazione su base europea alle funzioni e attività svolte dal depositario centrale.

Nell’aprile del 2010, commentando159 un documento di lavoro della Direzione mercato interno e servizi160, EuropeanIssuers ha affermato che un’eventuale direttiva sulla detenzione e trasferimento dei titoli dematerializzati dovrebbe affrontare il problema dell’identificazione degli azionisti, imponendo agli intermediari un obbligo di risposta alle richieste degli emittenti. Queste perplessità sono state reiterate anche nella posizione161 pubblicata il 23 giugno 2010.

Nel novembre 2010, la Commissione ha aperto una consultazione162 sull’armonizzazione delle norme sulla detenzione intermediata di titoli e strumenti finanziari (intermediated securities) per raccogliere pareri su alcuni aspetti di un’eventuale misura legislativa, tra cui, l’ambito dell’armonizzazione, che dovrebbe riguardare solo le modalità di detenzione e disposizione degli strumenti finanziari detenuti tramite intermediari e le modalità di esercizio dei diritti connessi a tali strumenti e non anche la diversa questione di chi la società emittente riconosca come proprio azionista; la possibilità per gli Stati membri di riconoscere che un soggetto diverso dall’account provider possa svolgere alcune funzioni proprie dell’account provider; l’identificazione dei diritti minimi conferiti all’account holder dalla detenzione intermediata dei titoli; i metodi per l’acquisto e la disposizione delle intermediated securities e loro efficacia; la protezione dell’account holder in caso di insolvenza dell’account provider; la determinazione della legge applicabile; il riconoscimento cross-border dei diritti connessi ai titoli detenuti tramite intermediari; la circolazione delle informazioni lungo la catena degli intermediari; il rafforzamento della posizione dell’ultimate account holder nell’esercizio dei diritti connessi ai titoli detenuti tramite intermediari.

La Commissione dovrebbe presentare una proposta legislativa nel corso del primo semestre del 2011.

EuropeanIssuers ha anche seguito i lavori dell’International Institute for the Unification of Private Law (UNIDROIT) per la redazione di una Convenzione volta a uniformare il diritto sostanziale in materia di strumenti finanziari detenuti tramite un intermediario. EuropeanIssuers, in un commento inviato al segretariato di UNIDROIT, ha sollevato alcune perplessità sul progetto di convenzione163 che incide sulle relazioni tra emittente e azionista e, in certe circostanze, prevale sulla legge dell’emittente. Il progetto di convenzione, inoltre, non riconoscerebbe la legge di riferimento dell’emittente come unica fonte dei diritti degli azionisti.

La Convenzione di UNIDROIT è stata adottata a Ginevra il 9 ottobre del 2009. EuropeanIssuers ha partecipato ai lavori come osservatore.

159. Cfr. Risposta EuropeanIssuers (dell’ 8 aprile 2010) al Documento di lavoro della Direzione Generale Mercato Interno e Servizi del 1 febbraio 2010.

160. Direzione Generale Mercato Interno e Servizi , Documento di lavoro sulla “Legislation on legal certainty of securities holding and dispositions", G.2/(2010)57731.

161. Cfr. Position paper EuropeanIssuers, “EuropeanIssuers’ comments on the Securities law directive”, 23 giugno 2010.

162. Direzione Generale Mercato Interno e Servizi, Documento di consultazione sulla “Harmonisation of securities law”, 5 novembre 2010, G2 MET/OT/acg D(2010).

163. International Institute for the Unification of Private Law (UNIDROIT), “Draft convention on substantive rules regarding intermediated securities”, CONF. 11/2 – Doc. 4.

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6.7 L’attività di EuropeanIssuers

Internal Control & Risk Management (ICRM)

Assonime ha partecipato alla stesura del position paper164 “Towards Common Principles for Internal Control & Risk Management System at Listed Companies in Europe” pubblicato da EuropeanIssuers nel gennaio 2010.

Il documento fa seguito alla dichiarazione165 dell’European Corporate Governance Forum del giugno 2006 che sottolineava la necessità di sviluppare principi coerenti in materia di internal control e risk management. Il position paper fissa alcuni principi generali cui gli emittenti europei possono volontariamente attenersi per disciplinare e gestire il sistema di ICRM. Il documento, in particolare, definisce il ruolo dell’audit committee nell’esecuzione delle attribuzioni derivanti della Direttiva 2006/43166 (art. 41, par. 1) e i rapporti che intercorrono tra l’audit committee e gli altri soggetti coinvolti nella funzione di internal audit e risk management. Il documento chiarisce che il sistema di ICRM deve essere adattato e proporzionato alle caratteristiche della società. Per tale motivo fa riferimento a due differenti modelli di controllo: il c.d. developed model applicabile a tutte le società e c.d. simplified model applicabile alle società che non hanno l’audit committee o la funzione di internal audit. Il position paper, inoltre, tiene anche conto della specificità del sistema italiano, chiarendo che, nelle società quotate italiane che adottano il modello c.d. tradizionale, la presenza obbligatoria del collegio sindacale e la presenza (eventuale) del comitato per il controllo interno può richiedere adattamenti nell’applicazione dei principi in esso contenuti.

Standard europei in materia di corporate actions

Assonime attraverso EuropeanIssuers ha partecipato all’elaborazione degli standard sulle corporate actions diverse dal diritto di intervento e voto in assemblea. In particolare, Assonime ha partecipato alle numerose riunioni del gruppo di lavoro in seno a EuropeanIsseurs veicolando le osservazioni e i commenti delle proprie associate.

Gli standard sulle corporate actions sono stati finalizzati l’8 maggio 2009167 dal Corporate action joint working group (CAJWG), gruppo di lavoro costituito da diverse associazioni europee, tra cui EuropeanIssuers, sotto l’egida del CESAME. EuropeanIssuers ha formalmente adottato gli standard sulle corporate actions con una lettera168 del 17 luglio 2009.

Standard europei in materia di general meeting

Assonime ha partecipato tramite EuropeanIssuers all’elaborazione degli standard in materia di assemblea generale. Gli standard sono stati adottati il 30 ottobre 2009169 dal Joint Working Group on General Meeting (JWGGM), gruppo di lavoro costituito da diverse associazioni, posto sotto l’egida del CESAME, e presieduto da EuropeanIssuers.

Tali standard sono volti ad armonizzare e facilitare i flussi informativi per l’esercizio del diritto di intervento e di voto in assemblea, integrando con procedure operative ad hoc i vuoti normativi lasciati

164. Cfr. Position paper EuropeanIssuers, “Towards Common Principles for Internal Control & Risk Management Systems at Listed Companies in Europe”, 26 gennaio 2010.

165. Direzione Generale Mercato Interno, “European Corporate Governance Forum. Minutes of the meeting of 1 June 2006”, 19 luglio 2006, MARKT/ECGF/F2/CU D(2006).

166. Direttiva 2006/43/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 maggio 2006, relativa alle revisioni legali dei conti annuali e dei conti consolidati, che modifica le direttive 78/660/CEE e 83/349/CEE del Consiglio e abroga la direttiva 84/253/CEE del Consiglio.

167. Joint working group on general meeting (JWGGM), “Market Standards for Corporate Actions Processing”, 8 maggio 2009.

168. Cfr. Lettera di EuropeanIssuers del 17 luglio 2009 al Corporate Actions Joint Working Group.

169. Joint working group on general meeting (JWGGM), “Market Standards for General Meeting”, 30 ottobre 2009.

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dalla direttiva sui diritti degli azionisti (direttiva 2007/36/CE)170. Gli standard riguardano l’avviso di convocazione dell’assemblea che l’emittente invia al depositario centrale che a sua volta lo trasmette ai propri partecipanti fino a raggiungere attraverso la catena degli intermediari gli investitori finali; la comunicazione all’investitore sul numero delle azioni detenute alla record date; la comunicazione da intermediario a emittente (in via diretta o mediata) sui partecipanti all’assemblea. Gli standard, che concernono gli strumenti finanziari in gestione accentrata, prevedono flussi informativi tra emittenti, depositario centrale, intermediari e investitori; disciplinano le procedure e le modalità dei flussi informativi e determinano la sequenza delle date rilevanti per l’esercizio delle corporate actions.

EuropeanIssuers ha adottato gli standard in materia di Assemblea generale con lettera del 20 gennaio 2010171.

6.8 Le crisi bancarie

In seguito alla crisi finanziaria del 2009, il 7 luglio 2010 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione per la gestione delle crisi transfrontaliere nel settore bancario con cui ha chiesto alla Commissione europea di presentare una o più proposte legislative al riguardo. In particolare il Parlamento ritiene necessario: (i) provvedere alla graduale armonizzazione delle norme nazionali in materia di risoluzione e insolvenza bancaria; (ii) istituire un’unica autorità europea per la risoluzione delle crisi, come organo distinto o in seno alla European Banking Authority (EBA); (iii) attribuire alla nuova autorità poteri di intervento preventivi; (iv) prevedere piani di risoluzione come requisito regolamentare obbligatorio; (v) elaborare un rating europeo di vigilanza per le banche; (vi) prevedere un regime speciale a livello europeo per banche sistemiche transfrontaliere, sottoposte alla vigilanza dell’EBA, incaricata anche di condurre le procedure di risoluzione e insolvenza, e a tal fine predisporre dei criteri per la definizione di questa categoria di banche; (vii) creare un fondo europeo di stabilità finanziaria sotto la responsabilità dell’EBA.

Il 6 gennaio 2011, la Commissione europea ha aperto una consultazione per la creazione di un quadro normativo sulla gestione delle crisi bancarie172. Le proposte contenute nel documento di consultazione dovrebbero assicurare la ristrutturazione o l’ordinato fallimento delle istituzioni finanziarie, senza che i costi ricadano sui contribuenti173.

La consultazione si focalizza sulla previsione di strumenti e poteri comuni per la gestione delle crisi bancarie con l’obiettivo, tra l’altro, di assicurare accesso continuo ai depositi per i depositanti assicurati. Tra le proposte si ipotizza l’istituzione di misure preparatorie e preventive (recovery e resolution plan) e l’attribuzione alle autorità di supervisione dei poteri di modificare la struttura e l’organizzazione delle banche. Queste misure dovrebbero poter essere utilizzate per tutte le banche, indipendentemente dalla loro dimensione, complessità o rischio sistemico. La Commissione propone inoltre di attribuire alle autorità di supervisione i poteri per gestire la risoluzione della banche in modo ordinato (ad es. trasferimento attivi e passivi, bridge bank), di istituire fondi per la risoluzione e meccanismi di regolamentazione per i finanziamenti infragruppo.

Assonime ha risposto alla consultazione della Commissione europea sottolineando come l’approccio proposto appaia notevolmente complesso, soprattutto per quel che riguarda l’attuabilità di una futura armonizzazione delle norme nazionali di insolvenza delle banche e la creazione di una European

170. Direttiva 2007/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 luglio 2007, relativa all’esercizio di alcuni diritti degli azionisti di società quotate.

171. Cfr. Lettera di EuropeanIssuers del 20 gennaio 2010 al Joint Working Group on General Meeting.

172. La consultazione della DG Internal Market and Services “Techincal detalis of a possible EU framework for bank recovery ancd resolution” si è chiusa il 3 marzo 2011 e la proposta legislativa relativa alla consultazione dovrebbe essere formulata prima dell’estate 2011.

173. La Commissione ha pubblicato tre comunicazioni sull’argomento: nell’ottobre 2009, “An EU framework for cross-border crisis management in the banking sector” COM (2009)561/4; in seguito, nel maggio 2010, “Communication on bank resolution fund” COM(2010) 254, e infine, nell’ottobre 2010, “Communication on a new EU framework for cross-border crisis management in the banking sector” COM(2010) 579.

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Resolution Authority. Il sistema di risoluzione delle crisi bancarie dovrebbe basarsi, invece, sui poteri nazionali esistenti e fondarsi su quattro pilastri: (i) tutti i paesi dovrebbero disporre di poteri per gestire le crisi bancarie; (ii) i gruppi bancari europei dovrebbero essere riorganizzati con delle decisioni a livello di gruppo; (iii) le crisi dei gruppi bancari dovrebbero essere gestite da Collegi di autorità di vigilanza rafforzati sotto la guida dell’Autorità di vigilanza della società madre; (iv) nel caso in cui la fase di riorganizzazione non funzionasse, si dovrebbe procedere alla fase di liquidazione174. Il sistema proposto è stato delineato nell’ambito dei lavori svolti dalla Task Force on Banking Crisis Resolution Assonime – Centre for European Policy Studies (CEPS) che hanno portato alla pubblicazione del Policy Brief CEPS-Assonime “Overcoming too big to fail - A Regulatory Framework to Limit Moral Hazard and Free Riding in the Financial Sector”175.

6.9 Il "pacchetto supervision” e le nuove regole sul capitale delle banche

6.9.1 La nuova architettura di regolamentazione e vigilanza finanziaria nell’Unione Europea

L’Unione Europea si è dotata di un nuovo sistema di vigilanza bancaria e finanziaria. Nel 2010 sono stati adottati i regolamenti che hanno istituito lo European Systemic Risk Board (ESRB; Regolamento (EU) 1092/2010), autorità di vigilanza macro-prudenziale sui rischi sistemici, e tre autorità europee di vigilanza microprudenziale (European Supervisory Authorities, ESA) sulle banche, sui mercati mobiliari e sulle imprese di assicurazione e i fondi pensione, rispettivamente l’EBA (European Banking Authority; Regolamento (EU) 1093/2010), l’ESMA (European Securities and Markets Authority; Regolamento (EU) 1095/2010) e l’EIOPA (European Insurance and Occupational Pensions Authority; Regolamento (EU) 1094/2010). EBA, ESMA e EIOPA hanno sostituito i preesistenti comitati di terzo livello (CEBS, CESR e CEIOPS). L’ESRB e le tre ESA, insieme con un Joint Committee delle ESA e con le autorità di supervisione nazionali, costituiscono lo European System of Financial Supervision (ESFS).

L’ESRB sarà presieduto nei primi cinque anni dal Presidente della BCE e si articola in un General Board, l’organo decisionale, uno Steering Committee, un Segretariato affidato alla BCE, un Advisory Scientific Committee e un Advisory Technical Committee. Sono membri del General Board con diritto di voto il Presidente e il Vice-Presidente dell’ESRB, i Governatori delle banche centrali nazionali, un rappresentante della Commissione Europea, i Chairperson delle tre ESA; sono membri senza diritto di voto un rappresentante per ciascuno Stato membro delle autorità di vigilanza nazionali e il Presidente dell’Economic and Financial Committee.

All’ESRB sono stati assegnati i compiti di identificare i rischi sistemici; raccogliere e analizzare dati e informazioni necessarie; lanciare “allarmi” quando i rischi sistemici siano rilevanti (anche al Consiglio nei casi di emergenza) ed emanare raccomandazioni per porvi rimedio; cooperare con le ESA, con scambio di informazioni micro-macro e lo sviluppo di un set comune di indicatori qualitativi e quantitativi per l’identificazione e la misurazione dei rischi sistemici.

Le ESA hanno tra le proprie funzioni l’emanazione di standard tecnici, la mediazione nei conflitti tra i supervisori nazionali, l’adozione di decisioni su singole istituzioni se le autorità di vigilanza nazionali non decidono, la partecipazione ai collegi dei supervisori, l’elaborazione di un regime di stress testing per individuare le istituzioni finanziarie con rilevanza sistemica (da sottoporre a vigilanza rafforzata), la protezione dei consumatori (incluso il potere di vietare o sospendere temporaneamente attività finanziarie che compromettano l’integrità, il buon funzionamento e la stabilità dei mercati finanziari), il coordinamento delle risposte in situazioni di emergenza.

Assonime ha espresso una valutazione positiva sulla riforma della vigilanza europea nel suo complesso, pur proponendo alcune modiche volte a rafforzare ulteriormente il sistema. Nel gennaio 2010 il Presidente di Assonime, nell’Audizione presso la Commissione 6^ (Finanze e Tesoro) del Senato della

174. Consultazione Assonime 3/2011 “Assonime response to the Working Document on technical details of a possible EU framework for bank recovery and resolution”.

175. “Overcoming too big to fail - A Regulatory Framework to Limit Moral Hazard and Free Riding in the Financial Sector” scritto da Jacopo Carmassi, Elisabetta Luchetti e Stefano Micossi e pubblicato nel marzo 2010.

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Repubblica nell’ambito dell’indagine conoscitiva sugli strumenti di vigilanza europea dei mercati, finanziari, creditizi e assicurativi, ha evidenziato gli importanti progressi compiuti e ha avanzato, tra le altre proposte, quelle di adottare un modello di vigilanza per finalità176; realizzare una maggiore centralizzazione della vigilanza sugli operatori paneuropei; rafforzare il ruolo delle ESA nei collegi dei supervisori. In “Overcoming Too-Big-To-Fail – A Regulatory Framework to Limit Moral Hazard and Free Riding in the Financial Sector”, rapporto della Task Force Assonime-CEPS sulla risoluzione delle crisi bancarie, pubblicato dal CEPS nel marzo 2010, Assonime ha auspicato l’attribuzione di poteri chiave all’EBA, che dovrebbe diventare il centro del sistema europeo di vigilanza sui gruppi bancari cross-border, svolgendo un ruolo centrale anche nella prevenzione e nella gestione delle crisi.

6.9.2 Le nuove regole sul capitale delle banche

La crisi finanziaria 2007-2009 ha avuto una molteplicità di cause. Tra queste, un ruolo determinante è stato giocato dall’inadeguatezza della regolamentazione sul capitale delle banche e dall’eccessivo livello dell’indebitamento bancario. Assonime ha sostenuto fin dall’inizio del dibattito sulle nuove regole per la finanza alla luce della crisi finanziaria la necessità di rafforzare i requisiti di capitale per le banche, correggendo le criticità del sistema di Basilea 2 e in particolare fissando un tetto massimo al leverage delle banche, misurato come rapporto tra il totale delle attività e il capitale. L’introduzione di un leverage ratio è stata proposta da Assonime in “Keep It Simple – Policy Responses to the Financial Crisis”, Policy Brief pubblicato nel marzo 2009 da Assonime e dal CEPS e in “Overcoming Too-Big-To-Fail – A Regulatory Framework to Limit Moral Hazard and Free Riding in the Financial Sector” nel marzo 2010.

A livello internazionale, il Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria ha adottato nel dicembre 2010 il pacchetto delle nuove misure sul capitale delle banche (Basilea III). Le nuove norme prevedono un aumento della qualità e del livello minimo del capitale: in particolare, il rapporto minimo tra common equity e attività ponderate per il rischio è innalzato al 4,5%, mentre il requisito minimo di capitale Tier 1 passa dal 4% al 6%. Viene inoltre introdotto un cuscinetto di conservazione del capitale (capital conservation buffer) del 2,5%, composto da common equity, cui attingere in caso di crisi; sono previste restrizioni sulla distribuzione degli utili qualora il capital conservation buffer scenda al di sotto del 2,5%, e le restrizioni sono di intensità crescente al diminuire del cuscinetto. Infine, gli accordi di Basilea III prevedono un ulteriore cuscinetto anticiclico (countercyclical capital buffer) compreso tra lo 0% e il 2,5%, da implementare su base nazionale al fine di contenere la formazione di rischi sistemici (per esempio legati ad un’eccessiva espansione del credito).

Basilea III introduce anche un leverage ratio, un tetto massimo all’indebitamento bancario misurato come rapporto tra il capitale Tier 1 e le attività non ponderate per il rischio, pari al 3%, e due requisiti di liquidità, uno a breve termine (Liquidity Coverage Ratio) e uno a lungo termine (Net Stable Funding Ratio). Per i nuovi requisiti di capitale, leverage e liquidità sono previsti periodi di transizione, in alcuni casi abbastanza lunghi (il leverage ratio sarà operativo solo dal 2018). La proposta di Assonime di fissare un tetto massimo all’indebitamento delle banche è stata quindi accolta, anche se i tempi di implementazione sono piuttosto lunghi e il limite del 3%, che consentirebbe di avere una leva anche superiore a 30, appare troppo basso.

Nell’Unione Europea la Commissione ha proposto una serie di emendamenti alle direttive comunitarie in materia di requisiti di capitale delle banche (2006/48/EC e 2006/49/EC). Alcune delle modifiche proposte sono già state adottate, tra cui nuove regole per collegi dei supervisori, esposizioni interbancarie, requisiti di capitale per le cartolarizzazioni (CRD II, Direttiva 2009/111/EC), requisiti patrimoniali per il portafoglio di negoziazione e le ricartolarizzazioni, politiche di remunerazione (CRD III, Direttiva 2010/76/UE). Nel febbraio 2010 la Commissione ha presentato ulteriori proposte di modifica (CRD IV), che includono regole sulla definizione di capitale, sul leverage ratio, sulla liquidità, sui rischi di credito di controparte, sulle misure anticicliche, sul single rule book e sulle istituzioni finanziarie di importanza sistemica. Le nuove proposte dovranno essere raccordate con il

176. Assonime aveva proposto il passaggio al modello per finalità, sia a livello europeo che nazionale, anche in “Keep It Simple – Policy Responses to the Financial Crisis”, Policy Brief Assonime-CEPS del marzo 2009.

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nuovo quadro regolamentare internazionale di Basilea III.

6.10 L’evoluzione della disciplina USA

6.10.1 La riforma finanziaria negli Stati Uniti

Nel luglio 2010 gli Stati Uniti hanno adottato il ‘‘Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act”, che ha profondamente modificato la regolamentazione e la vigilanza sui mercati finanziari negli Stati Uniti. Il Dodd-Frank Act ha introdotto un approccio sistemico in una molteplicità di settori della regolamentazione bancaria e finanziaria. È stata istituita un’autorità per il rischio sistemico, il Financial Stability Oversight Council (FSOC), presieduto dal Ministro del Tesoro e partecipato dalle autorità di vigilanza. Il FSOC ha il compito di raccogliere le informazioni per monitorare il sistema finanziario, individuare eventuali carenze nella regolamentazione e le potenziali minacce alla stabilità finanziaria; facilitare il coordinamento tra regolatori finanziari; identificare le istituzioni finanziarie non bancarie con rilevanza sistemica (da sottoporre a vigilanza della Federal Reserve); rivolgere alla Federal Reserve raccomandazioni su regole più stringenti per le istituzioni finanziarie sistemiche.

Il Dodd-Frank Act ha apportato altre importanti innovazioni alla struttura della supervisione, prevedendo l’istituzione di un Bureau of Consumer Financial Protection all’interno della Federal Reserve; di un Federal Insurance Office all’interno del Tesoro, con finalità di coordinamento della vigilanza sul settore assicurativo (affidata alle autorità statali); di un Office of Financial Research (OFR) all’interno del Tesoro, con funzioni di supporto al FSOC; l’abolizione dell’Office of Thrift Supervision (OTS), l’autorità di controllo sulle savings and loan, e la ripartizione dei suoi poteri tra le altre autorità di vigilanza.

Il Dodd-Frank Act prevede un trattamento regolamentare speciale per le Systemically Important Financial Institutions (SIFI), definite come i gruppi bancari con almeno $50 mld di totale attivo consolidato e le istituzioni finanziarie non bancarie designate “sistemiche” dal FSOC. Le regole speciali per le SIFI includono requisiti più stringenti su capitale, leverage, liquidità. risk management, resolution plans, emissione di contingent capital, limiti alla concentrazione, esposizioni creditizie. Sono inoltre previsti meccanismi di mitigazione del rischio sistemico e “early remediation”, di intensità crescente al deteriorarsi delle condizioni finanziarie177.

Le SIFI sono assoggettate a un regime speciale di risoluzione e liquidazione, volto a rendere il fallimento di una SIFI possibile senza ripercussioni sistemiche e senza costi per i contribuenti. Il nuovo meccanismo, denominato Orderly Liquidation Authority (OLA) e ispirato al sistema già in vigore per le istituzioni bancarie di deposito, sarà gestito dalla Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), che disporrà di poteri speciali (amministrativi) di gestione e risoluzione delle crisi delle SIFI, tra cui il trasferimento di attività e passività e la creazione di bridge financial companies.

Il Dodd-Frank Act introduce il divieto per le banche di proprietary trading e di investimenti in fondi hedge e private equity entro il limite del 3% del capitale Tier 1 (Volcker rule), e regole più stringenti per i derivati, con obblighi di standardizzazione e clearing presso controparti centrali (con esenzioni per imprese non finanziarie e per finalità di hedging). Viene inoltre rafforzato il sistema di assicurazione dei depositi, anche con l’innalzamento permanente della copertura a $250.000.

Il Dodd-Frank Act, pur affrontando nel dettaglio una molteplicità di problemi regolamentari, resta in larga parte una normativa quadro, che demanda alle autorità numerosi studi e l’emanazione di regole di implementazione per un elevato numero di aspetti chiave: l’effettivo impatto della riforma potrà dunque essere valutato solo quando i regolatori avranno adottato tali misure.

177. La Federal Reserve, con il consenso di almeno 2/3 dei membri del FSOC con diritto di voto, può anche disporre il break-up di una SIFI in caso di seria minaccia alla stabilità finanziaria.

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6.10.2 La Regolamentazione SEC

Nel corso del biennio 2009-2010, è continuata l’attività di studio e di monitoraggio della normativa statunitense che trova applicazione agli emittenti stranieri italiani quotati in quel mercato. Dal gennaio 2009 la SEC ha adottato una regolamentazione dell’impiego di nuove tecnologie per la diffusione e il reperimento delle informazioni finanziarie in modo più veloce, più affidabile e meno costoso. La nuova regolazione riguarda tutte le società che redigono i bilanci in base a U.S. GAAP (Generally Accepted Accounting Principles) e IFRS (International Financial Reporting Standards) e obbliga a trasmettere i documenti contabili, le relazioni finanziarie e i registration statements previsti dal Securities Act, mediante l’uso della tecnologia XBRL – eXtensible Business Reporting language. La SEC ha proposto un’applicazione scaglionata della nuova disciplina, diversificata a seconda della dimensione della società.

La SEC ha individuato la nuova deadline per l’invio del Form-20F, attraverso il quale gli emittenti stranieri quotati sul mercato statunitense devono fornire dettagliata disclosure di dati finanziari e non finanziari. Le società dovranno attenersi al rispetto della nuova tempistica a partire dal Form-20F relativo all’esercizio che si chiude dopo il 15 Dicembre 2011 (incluso). La nuova deadline si applica a tutti gli emittenti indipendentemente dalle loro dimensioni e dagli standard di revisione contabile loro applicabili. La nuova deadline per l’invio del Form-20F è stato fissata nel termine di quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio.

A partire dall’ottobre 2008, la SEC ha definitivamente adottato la regola che consente alle società straniere di detenere le azioni negoziate sul mercato U.S. senza obblighi di registrazione.

Si segnala che, nel corso del 2010, sono state emanate alcune disposizioni in materia di corporate governance per gli emittenti quotati su NYSE e Nasdaq; alcune di tali regole possono avere un impatto sui foreign private issuers. Come anticipato nel precedente paragrafo, il Governo americano ha emanato, nel luglio 2010, il Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act. La nuova normativa ha introdotto nuove regole in materia di remunerazioni; in primo luogo, viene impedita la quotazione degli emittenti che abbiano un compensation committee composto non esclusivamente da amministratori indipendenti. Tale regola non trova applicazione per i foreign private issuers quotati su NYSE e Nasdaq che abbiano dichiarato nell’annual report le ragioni per le quali non hanno istituito un comitato che risponda a tale requisito. Sempre nell’ambito della stessa legge, è stato rafforzato il potere degli azionisti di esprimersi sui compensi degli amministratori esecutivi: le nuove regole non trovano applicazione per i foreign private issuers.

In materia di governance, la nuova normativa intende promuovere l’uso delle deleghe in materia di voto per la nomina dei candidati per la carica di amministratore, affidando alla SEC l’emanazione di specifiche regole. Con la riforma del c.d. Proxy access, si è consentito agli azionisti delle società con azioni quotate di promuovere, secondo certi limiti, propri candidati alla carica di amministratore a condizione che vi sia la detenzione di una certa partecipazione di azioni per un periodo continuativo di tempo e pari a tre anni178.

178. SEC, press release n. 33-9136.

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CAPO II

CONCORRENZA E DISCIPLINA DELL’ATTIVITA’ D’IMPRESA

1. Disciplina della concorrenza

1.1 Tutela dei consumatori e approccio economico nel diritto europeo della concorrenza

Le regole sulla concorrenza sono state introdotte nel Trattato di Roma a tutela di un processo concorrenziale non distorto, in vista della creazione di un mercato integrato e come salvaguardia rispetto al rischio di un’evoluzione monopolistica in alcuni settori. I possibili effetti positivi per i consumatori europei stavano solo sullo sfondo. Nella formulazione di quelli che oggi sono gli artt. 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea vi sono alcuni specifici richiami all’impatto sui consumatori (nell’art. 101, par. 3 e nell’art. 102, lett. b), ma esso non è indicato né come obiettivo della disciplina né come criterio generale per distinguere i comportamenti vietati.

E’ dalla fine degli anni Novanta che nell’applicazione del diritto antitrust europeo l’attenzione all’impatto sui consumatori è aumentata sino ad acquisire un’indubbia centralità. I motivi sono principalmente due: il primo è la necessità di rafforzare il sostegno pubblico nei confronti della politica europea di concorrenza; il secondo è l’esigenza di orientare l’applicazione delle norme verso un’analisi più attenta all’impatto economico sul mercato.

L’opportunità di creare una constituency pubblica in favore delle regole di concorrenza è stata un’intuizione del Commissario Monti, di cui anche i suoi successori hanno colto l’importanza. Soprattutto in tempi di crisi economica le pressioni in favore di misure volte a proteggere gli operatori dalla concorrenza sono forti e, in assenza di argomenti in senso opposto, possono portare a un riorientamento del sistema economico verso logiche non di mercato. Il rischio di un’Europa meno favorevole alla concorrenza è emerso in tutta evidenza nel dibattito sul Trattato di Lisbona ed è stato ben presente quando si è trattato di gestire la politica degli aiuti di Stato nei momenti più drammatici della crisi.

I successivi Commissari per la concorrenza hanno resistito sostenendo che la tutela del mercato ha un importante impatto esterno che va a beneficio, in ultima analisi, dei consumatori europei. La via da seguire è stata successivamente proposta dallo stesso Monti come strategia generale per il rilancio del progetto del Mercato unico: l’economia di mercato non va abbandonata perché fornisce le migliori garanzie di un’efficiente allocazione delle risorse; essa però deve essere accompagnata da misure attive volte ad accrescere la sostenibilità, anche sociale, delle politiche per il mercato1.

In questo quadro, l’esigenza di rendere più evidente l’impatto positivo dell’applicazione delle regole di concorrenza ha portato a una crescente enfasi sulla fissazione delle priorità d’intervento nel public enforcement. La Commissione europea ha concentrato l’azione antitrust sulle restrizioni da cui può derivare un maggiore pregiudizio per i consumatori, in particolare i cartelli, e ha iniziato a condurre una serie di indagini conoscitive in settori ritenuti cruciali per i consumatori europei (quali energia, settore farmaceutico, servizi finanziari), tipicamente accompagnate da interventi in applicazione delle regole del Trattato. La focalizzazione del public enforcement delle regole antitrust sui casi più rilevanti per i consumatori intesi come acquirenti finali (persone fisiche ma anche imprese) rimarrà

1. Mario Monti, Una nuova strategia per il mercato unico al servizio dell’economia e della società europea, Rapporto al Presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso, 9 maggio 2010.

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presumibilmente una caratteristica importante nei prossimi anni: resta infatti viva l’esigenza politica di rendere la tutela della concorrenza vicina ai cittadini.

La Commissione europea ha ribadito più volte, anche di recente, la scelta di un approccio al diritto antitrust basato sull’analisi dell’impatto effettivo o potenziale delle condotte d’impresa sul mercato, sostenendo che “i casi non sono fine a se stessi, hanno un valore solo se ci consentono di migliorare il funzionamento dei mercati e i benefici che ne derivano per i consumatori”2.

La storia del c.d. approccio economico ha due momenti che possono essere indicati come epocali. Il primo è la revisione della disciplina delle intese verticali nel 1999, che ha determinato l’abbandono di un’analisi basata principalmente sul contenuto formale della relazione economica tra le parti per passare all’analisi dell’impatto dell’accordo sul prezzo, sulla quantità e sulle altre variabili rilevanti del processo concorrenziale. Il secondo momento è l’adozione, dieci anni dopo, degli Orientamenti sulle priorità della Commissione europea nell’applicazione dell’art. 102 agli abusi a carattere escludente3. Anche per l’abuso, come per le intese verticali, la spinta a meglio definire i criteri applicativi della disciplina è giunta dall’insoddisfazione per le conseguenze di modalità di applicazione basate su un’analisi troppo incentrata sulla forma e troppo troncata. Dagli Orientamenti del 2009 si evince che un comportamento escludente dell’impresa dominante è anticoncorrenziale quando comporta, o è probabile che comporti, un pregiudizio per i consumatori in termini di prezzi più elevati di quelli che sarebbero altrimenti stati applicati o in qualche altra forma, quale una riduzione della qualità o dell’innovazione.

Il nuovo approccio è ‘più economico’ in quanto attento all’impatto esterno dell’atto o della condotta, non nel senso di richiedere necessariamente una valutazione quantitativa dell’effetto sui consumatori. Il percorso di valutazione resta di tipo giuridico. In pratica, sia l’art. 101 che l’art. 102 sono applicati attraverso un percorso strutturato in base al quale un’intesa o la condotta di un’impresa dominante può essere considerata illegittima solo se riesce a superare una serie di filtri volti a escludere un impatto restrittivo sulla concorrenza, identificato in prima battuta con un aumento del prezzo del prodotto o una riduzione della quantità venduta (con un chiaro nesso con la nozione economica di surplus del consumatore).

Resta da vedere quale sarà l’atteggiamento della Corte di Giustizia rispetto all’evoluzione del paradigma applicativo della Commissione. In molte sentenze recenti i giudici europei ribadiscono che gli artt. 101 e 102 sono volti a “proteggere la struttura del mercato e quindi la concorrenza in quanto tale (come istituzione); in questo modo, anche i consumatori ricevono indirettamente protezione”. Viene quindi ribadito che l’obiettivo diretto degli artt. 101 e 102 non è la tutela del consumatore, ma la concorrenza. Anche se chiaramente ispirata a una visione ordo-liberale che ha portato in passato a modalità di applicazione della disciplina diverse da quelle attuali, questa posizione della Corte non esclude di per sé un approccio che esamina l’impatto effettivo o probabile della condotta sulle variabili, tra cui in primis il prezzo, rilevanti per gli acquirenti finali. Anche nelle statuizioni della Commissione l’applicazione delle regole del Trattato non è mai presentata come la massimizzazione diretta del benessere dei consumatori. La questione cruciale è se per accertare una restrizione della concorrenza in applicazione delle regole del Trattato si possa ritenere irrilevante l’assenza di un impatto negativo, almeno potenziale, sugli acquirenti finali.

Nel caso GlaxoSmithKline, relativo a restrizioni considerate tradizionalmente gravi nell’applicazione dell’art. 101 (limitazioni del commercio parallelo formalmente rientranti nella categoria delle restrizioni per oggetto) la Corte di Giustizia ha in effetti mostrato una ritrosia a collegare la nozione di restrizione della concorrenza all’impatto, effettivo o probabile, sui consumatori4. Per l’applicazione dell’art. 102

2. Joaquin Almunia, Staying ahead of the curve in "EU competition policy", GCLC’s Fifth Evening Talk, Bruxelles, 19 aprile 2011.

3. Commissione europea, Orientamenti sulle priorità della Commissione nell’applicazione dell’articolo 82 del Trattato CE (ora articolo 102 TFUE) al comportamento abusivo delle imprese dominanti volto all’esclusione dei concorrenti, 2009/C 45/02; cfr. anche Note e studi Assonime 2/2009.

4. Corte di Giustizia, sentenza 6 ottobre 2009, cause riunite C-501/06 P, C-513/06 P, C- 515/06 P e C-519/06 P, GlaxoSmithKline, (2009) ECR I-9291, par. 59, 62 e 64.

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non ci sono stati invece, dopo la pubblicazione degli Orientamenti del 2009, disconoscimenti netti da parte dei giudici europei, anche se nel caso Tomra il Tribunale non si è discostato da alcuni approcci tradizionali alla valutazione delle politiche di sconto dell’impresa dominante5. Anzi, si può osservare che nei recenti casi di applicazione dell’art. 102 i giudici europei hanno considerato con grande attenzione l’analisi compiuta dalla Commissione delle caratteristiche del mercato e dell’impatto della condotta dell’impresa in posizione dominante.

In ogni caso, per essere accettabile da parte dei giudici l’approccio economico deve essere proposto in termini compatibili con l’esigenza di consentire il controllo giurisdizionale. A questo fine l’analisi non deve necessariamente essere di tipo formale, ma deve fornire una storia chiara e convincente dell’impatto effettivo o probabile della condotta sul mercato in modo da soddisfare lo standard probatorio richiesto6.

1.2 La nuova disciplina europea delle intese verticali

Nei prossimi undici anni l’applicazione del diritto antitrust europeo agli accordi verticali si baserà sul regolamento n. 330/2010 della Commissione europea del 20 aprile 2010, che ha sostituito il regolamento n. 2790/1999. Il nuovo regolamento, come il precedente, individua categorie di intese verticali che soddisfano le condizioni di cui all’art. 101.3 TFUE e sono quindi compatibili con il diritto europeo. Esso è accompagnato da nuovi Orientamenti della Commissione sulle restrizioni verticali7.

Il regolamento e gli Orientamenti riguardano i criteri sostanziali di applicazione dell’art. 101 TFUE agli accordi conclusi tra imprese ciascuna delle quali opera, ai fini dell’accordo, a un diverso livello della catena di produzione o distribuzione (accordo verticale) e relativi alle condizioni a cui le parti possono acquistare, vendere o rivendere determinati beni o servizi. Il campo di applicazione include quindi una vasta parte dei contratti tra le imprese: sono interessati, ad esempio, gli accordi tra produttori e grossisti o produttori e dettaglianti, e gli accordi tra il fornitore di un bene intermedio e l’impresa che lo acquista per incorporarlo nel prodotto che a sua volta vende sul mercato. La disciplina inoltre ha una portata tendenzialmente generale. Il regolamento si applica infatti in tutti i settori economici: a beni e servizi, inclusi i servizi finanziari; a prodotti intermedi e prodotti finali; a prodotti durevoli e beni di consumo (dal grocery ai beni di lusso). La Commissione europea ha recentemente avviato una graduale transizione verso il regime generale anche per il settore degli autoveicoli, nel quale tradizionalmente era prevista una disciplina ad hoc degli accordi di distribuzione. A partire dal 2013 la distribuzione di nuovi autoveicoli rientrerà nell’ambito di applicazione del reg. 330/2010; solo per la distribuzione di pezzi di ricambio e la fornitura di servizi di riparazione e manutenzione la Commissione ha ritenuto necessario mantenere regole speciali8.

Prima dell’adozione del nuovo regolamento la Commissione europea ha condotto un’ampia consultazione pubblica per verificare se vi fossero esigenze di modifica della disciplina. La riforma del trattamento delle intese verticali dello scorso decennio perseguiva due obiettivi ambiziosi. Il primo obiettivo era quello di delineare un insieme di regole sufficientemente flessibile da poter essere applicato a un’ampia varietà di settori economici, mercati e modelli distributivi (incluso il franchising). Il secondo obiettivo era quello di concentrare l’attenzione sugli accordi potenzialmente pregiudizievoli per il mercato riducendo i vincoli imposti dai regolamenti di esenzione vecchio stile nei confronti di accordi verticali completamente innocui (c.d. effetto straight jacket) e consentendo così alle imprese una maggiore flessibilità nella scelta degli accordi di distribuzione più efficienti, con effetti benefici per il mercato.

5. Tribunale CE, sentenza 9 settembre 2010, causa T-155/06.

6. Cfr. ad esempio Corte di Giustizia (Grande Sezione), sentenza 10 luglio 2008, causa C-413/06 P, Bertelsmann AG e Sony Corporation of America c. Independent Music Publishers and Labels Association (Impala).

7. 2010/C 130/1. Cfr. Circolare Assonime 23/2010.

8. Regolamento (UE) n. 461/2010 della Commissione del 27 maggio 2010, relativo all’applicazione dell’art. 101, par. 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea a categorie di accordi verticali e pratiche concordate nel settore automobilistico.

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La consultazione ha evidenziato che nell’ultimo decennio i mercati della distribuzione sono stati interessati da importanti cambiamenti, tra cui in particolare lo sviluppo delle vendite on-line, una crescente diffusione di modelli di integrazione verticale in cui il distributore commercializza i propri prodotti e l’aumento del potere contrattuale di alcuni soggetti acquirenti rispetto ai fornitori. La Commissione europea è intervenuta in alcuni casi di intese verticali relativi a ipotesi di segmentazione territoriale dei mercati, imposizione da parte dei fornitori di limiti alla possibilità per i distributori di commercializzare i prodotti su internet, fissazione verticale dei prezzi e preclusione dell’accesso al mercato da parte dei fornitori. Alcuni Stati membri hanno mostrato un certo attivismo su particolari temi: in Francia ci sono stati vari casi relativi alla distribuzione selettiva, nel Regno Unito sono stati compiuti approfondimenti relativi al potere di mercato degli acquirenti, in Polonia è stato ampiamente applicato il divieto della fissazione verticale dei prezzi. Riguardo a quest’ultimo tema, e più in generale al trattamento delle restrizioni verticali ritenute hardcore, numerosi partecipanti alla consultazione hanno criticato la rigidità dell’approccio europeo, auspicando una maggiore apertura verso una valutazione caso per caso dell’impatto dell’accordo sul mercato e delle sue possibili giustificazioni di natura economica. Le autorità di alcuni Stati membri hanno chiesto un ridimensionamento dell’esenzione per categoria al fine di accrescere lo spazio di intervento a livello nazionale. Le imprese, viceversa, hanno generalmente auspicato che l’esenzione per categoria venisse salvaguardata, per non ridurre la certezza giuridica.

Nel complesso, comunque, la consultazione pubblica ha evidenziato una valutazione positiva del funzionamento delle regole di fine anni Novanta. Non sorprende, quindi, che il reg. 330/2010 e i nuovi Orientamenti si pongano in sostanziale continuità con la precedente disciplina.

La principale modifica è costituita dal ridimensionamento del campo di applicazione del regolamento. Mentre il precedente regolamento prevedeva un’unica soglia, che nella maggior parte dei casi riguardava la quota di mercato del fornitore, il reg. 330/2010 si basa su una doppia soglia di quota di mercato: affinché un’intesa verticale rientri nell’esenzione per categoria occorre che sia il fornitore che l’acquirente (nel mercato in cui acquista il prodotto) abbiano quote di mercato non superiori alla soglia del 30 per cento.

Per il resto, il pacchetto sulle intese verticali contiene una serie di precisazioni e nuove indicazioni, in particolare sulle conseguenze giuridiche delle restrizioni hardcore, sulla nozione di rapporto di agenzia, sui criteri seguiti dalla Commissione nel valutare le restrizioni imposte dal produttore alle vendite on-line da parte dell’impresa che acquista i suoi prodotti e su alcune tipologie di accordi tipiche dei rapporti tra fornitori e grande distribuzione (pagamento anticipato dell’accesso, category management).

Gli accordi verticali che contengono restrizioni individuate come fondamentali (hardcore) dal reg. 330/2010 sono esclusi dall’esenzione per categoria a prescindere dalla quota di mercato delle imprese interessate. L’elenco delle restrizioni hardcore riproduce, nella sostanza, quello contenuto nel precedente regolamento, con qualche piccolo aggiustamento. Sono considerate restrizioni hardcore: l’imposizione di un prezzo fisso o un prezzo minimo a cui l’acquirente dovrà vendere i prodotti sul mercato in cui opera; le restrizioni relative al territorio in cui, o ai clienti ai quali, l’acquirente può vendere i beni o servizi oggetto del contratto; per i membri di un sistema di distribuzione selettiva, la restrizione delle vendite attive o passive nei confronti degli utilizzatori finali e la restrizione delle forniture incrociate tra distributori facenti parte del sistema; le restrizioni relative alla facoltà per un fornitore di componenti di venderli come pezzi di ricambio agli utilizzatori finali o ai riparatori e fornitori di servizi non facenti parte della rete di riparazione e di servizi di assistenza dell’acquirente.

Il regolamento di esenzione delinea in modo ampio il novero degli accordi verticali che perdono il beneficio dell’esenzione a causa della presenza di restrizioni hardcore. Infatti, il beneficio dell’esenzione viene meno per tutti gli accordi verticali che “direttamente o indirettamente, isolatamente o congiuntamente con altri fattori sotto il controllo delle parti, hanno come oggetto” una delle cinque restrizioni sopra indicate. Il motivo di una definizione così ampia è certamente la necessità di evitare facili elusioni della regola. Tuttavia, la possibilità che l’esistenza di una restrizione fondamentale venga dedotta sulla base di elementi indiretti, riguardanti in particolare gli incentivi delle parti, costituisce una fonte di notevole incertezza per le imprese. Date le gravi conseguenze giuridiche della qualificazione di un accordo come contenente una restrizione fondamentale, sembra necessario

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che, in assenza di una chiara restrizione hardcore, lo standard probatorio richiesto, ad esempio, per dimostrare che una determinata intesa comporta la fissazione verticale dei prezzi sia posto a un livello elevato.

Nei nuovi Orientamenti la Commissione mantiene la presunzione in base alla quale è improbabile che un accordo che contiene una restrizione hardcore soddisfi le condizioni dell’art. 101.3 (per questo motivo non viene applicata l’esenzione per categoria), ma riconosce espressamente che “le imprese hanno tuttavia la possibilità di dimostrare l’esistenza di effetti favorevoli alla concorrenza ai sensi dell’art. 101.3, in un caso individuale”9. La nuova formulazione degli Orientamenti è stata presentata come un segnale di maggiore disponibilità da parte della Commissione a tenere conto di considerazioni di efficienza (c.d. efficiency defense) nell’applicazione dell’art. 101.3. La concreta portata della novità probabilmente non va sovrastimata. L’onere di provare che le quattro condizioni dell’art. 101.3 sono soddisfatte ricade sull’impresa che chiede l’applicazione dell’esenzione e l’esperienza ha mostrato che il compito di provare la sussistenza di queste condizioni è arduo, soprattutto per quanto concerne la prova dell’indispensabilità della restrizione.

Consapevole della difficoltà del percorso dell’efficiency defense, la Commissione indica negli Orientamenti alcune circostanze in cui si può ritenere che una restrizione fondamentale non rientri nel divieto di cui all’art. 101.1: esse includono l’ipotesi in cui le restrizioni sono “oggettivamente necessarie” e la cosiddetta eccezione del nuovo entrante, ossia la protezione dalle vendite attive e passive nei primi due anni in cui un distributore commercializza un nuovo marchio o un marchio esistente su un nuovo mercato.

Nel complesso, la probabilità che le restrizioni fondamentali in accordi verticali possano essere considerate compatibili con l’art. 101 è ancora molto bassa. Nel diritto antitrust europeo una forte presunzione negativa nei confronti delle restrizioni delle vendite passive può essere ricollegata alla protezione della libertà dei cittadini europei di effettuare i propri acquisti ovunque nel territorio dell’Unione. Per le altre restrizioni fondamentali, tuttavia, tra cui in particolare la fissazione verticale dei prezzi e la combinazione di distribuzione selettiva ed esclusiva nello stesso territorio, l’attuale quadro giuridico appare ancora troppo severo, in particolare quando le parti hanno quote di mercato molto piccole. Per queste restrizioni resta l’esigenza di trovare un approccio all’applicazione del diritto antitrust che tenga in maggiore considerazione l’impatto esterno sul mercato. Si può quindi sperare che sia la giurisprudenza sia la Commissione compiranno ulteriori sforzi per delimitare la portata del divieto di cui all’art. 101.1, chiarendo le circostanze in cui è possibile escludere con ragionevole certezza che restrizioni verticali ritenute molto gravi, quali la fissazione verticale del prezzo o la combinazione di distribuzione selettiva e distribuzione esclusiva, abbiano un apprezzabile impatto in termini di restrizione della concorrenza ai sensi dell’art. 101.1. Questi sforzi sono essenziali per evitare che l’applicazione decentrata dell’art. 101 porti in alcuni Stati membri a una diffusa politica di divieto e all’imposizione di sanzioni nei confronti di accordi verticali intrinsecamente incapaci di arrecare pregiudizio alla concorrenza.

Lo sviluppo delle vendite on-line ha reso di attualità il tema di come trattare nel diritto della concorrenza le restrizioni imposte dai fornitori alla possibilità per i distributori di commercializzare i prodotti via internet. Il problema si pone in particolare per quei prodotti, tra cui i beni di lusso, tradizionalmente commercializzati attraverso sistemi di distribuzione selettiva, ossia sistemi a cui sono ammessi solo distributori che soddisfano determinati requisiti.

L’impostazione generale della Commissione negli Orientamenti è volta a favorire l’utilizzo di internet come strumento per promuovere il commercio transfrontaliero (“In linea di principio, a qualsiasi distributore deve essere consentito di utilizzare internet per vendere prodotti”). Lo strumento per consentire ai fornitori di evitare forme di commercializzazione inadeguate in relazione alle caratteristiche del proprio prodotto è identificato dalla Commissione nella fissazione da parte dei fornitori di requisiti qualitativi proporzionati che devono essere rispettati dai distributori.

Come già nelle Linee direttrici del 2000, la Commissione prevede un diverso trattamento delle restrizione alla vendita on-line a seconda che la modalità di commercializzazione via internet sia

9. Orientamenti sulle restrizioni verticali, par. 47.

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assimilabile alle vendite passive o alle vendite attive (sollecitate dal venditore). Le limitazioni delle vendite passive sono sempre considerate hardcore.

1.3 Le nuove regole europee sugli accordi di cooperazione tra concorrenti

Alla fine del 2010 la Commissione europea ha adottato due nuovi regolamenti di esenzione con cui dichiara compatibili ai sensi dell’art. 101.3 TFUE alcune categorie di accordi di cooperazione orizzontale, ossia tra imprese operanti allo stesso livello della catena produttiva. Il regolamento (UE) n. 1217/2010 del 14 dicembre 2010 riguarda gli accordi di ricerca e sviluppo10 e il regolamento (UE) n. 1218/2010, adottato nella medesima data, riguarda gli accordi di specializzazione e produzione congiunta11.

Anche in questo caso, come nella revisione della disciplina delle intese verticali, è stata mantenuta l’impostazione dei precedenti regolamenti, che per gli accordi tra concorrenti subordina l’esenzione a una soglia relativa alla quota di mercato congiunta delle imprese (la soglia è del 25 per cento per ricerca e sviluppo, del 20 per cento per specializzazione e produzione congiunta). Nei nuovi regolamenti la Commissione specifica che è considerata impresa concorrente anche quella che, in base a considerazioni realistiche e non a una semplice possibilità teorica, sarebbe disposta in assenza dell’accordo e a fronte di un incremento modesto ma permanente dei prezzi relativi a effettuare entro tre anni gli investimenti o le spese di riconversione necessarie per entrare nel mercato interessato.

Per gli accordi di ricerca e sviluppo, nella nuova disciplina l’esenzione è estesa anche alle ipotesi in cui una delle parti è un mero finanziatore; in questo caso, al fine di verificare il rispetto della quota di mercato soglia, bisogna considerare anche le quote di tutte le imprese con cui il finanziatore ha stipulato analoghi accordi. Un’altra novità è l’applicazione dell’esenzione anche agli accordi in cui è previsto che solo una delle parti produca e distribuisca i prodotti contrattuali nell’Unione europea sulla base di una licenza esclusiva fornita dall’altra impresa. L’accordo deve prevedere l’accesso delle parti ai risultati finali dell’attività di ricerca e sviluppo non appena tali risultati siano disponibili; dato che il contributo delle parti può essere diverso, l’accordo può legittimamente prevedere una remunerazione per l’accesso ai risultati.

Per gli accordi di produzione, il nuovo regolamento chiarisce che l’esenzione si applica agli accordi di specializzazione, unilaterale o reciproca, anche quando la specializzazione è solo parziale, ossia l’impresa rinuncia solo in parte a fabbricare alcuni prodotti o fornire determinati servizi e si impegna ad acquistarli dall’altra, che a sua volta si impegna a fornirli. Se l’accordo di specializzazione riguarda prodotti intermedi che le parti utilizzano internamente, in toto o in parte, per fabbricare i prodotti che vendono sul mercato a valle, l’esenzione si applica solo se la quota congiunta non supera il 20 per cento anche nel mercato a valle.

I due regolamenti di esenzione sono accompagnati da nuove Linee direttrici sull’applicazione dell’art. 101 TFUE agli accordi di cooperazione orizzontale, che sostituiscono le Linee guida del 200112. Va ricordato che la comunicazione della Commissione sugli accordi di importanza minore (de minimis) del 2001 già fornisce indicazioni sugli accordi di natura orizzontale: se la quota di mercato congiunta non supera il 10 per cento e l’accordo tra concorrenti non contiene restrizioni hardcore (fissazione dei prezzi, limitazione delle quantità, ripartizione dei mercati) la Commissione non interviene perché si presume che non vi sia un impatto apprezzabile sulla concorrenza ai sensi dell’art. 101, paragrafo 1. In presenza di un effetto cumulato di reti di accordi simili che copra il 30 per cento del mercato, la soglia de minimis scende al 5 per cento.

Le nuove Linee direttrici sugli accordi di cooperazione orizzontale indicano i criteri di valutazione per gli accordi orizzontali che non beneficiano né del trattamento de minimis, né di un’esenzione per categoria. La Commissione ricorda che la valutazione ai sensi dell’art. 101 non si applica alle forme

10. Il regolamento n. 1217/2010 sostituisce il regolamento (CE) n. 2659/2000.

11. Il regolamento n. 1218/2010 sostituisce il regolamento (CE) n. 2658/2000.

12. Comunicazione 2011/C 11/01.

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di integrazione orizzontale che costituiscono una concentrazione ai sensi del diritto comunitario. A fronte di accordi verticali tra concorrenti, prima bisogna valutare i profili di cooperazione orizzontale secondo le Linee direttrici e poi, laddove espressamente previsto, anche gli eventuali profili di restrizione verticale. Se un accordo prevede più di un tipo di cooperazione orizzontale, le Linee guida del 2001 richiedevano di incentrare la valutazione sul ‘centro di gravità’ o elemento principale dell’accordo, da individuare tenendo conto della ratio complessiva dell’accordo e del grado di integrazione tra le diverse funzioni. Con le Linee direttrici del 2011 la Commissione propone un metodo più rigoroso: il centro di gravità dell’accordo rileva solo per individuare eventuali safe harbours o restrizioni per oggetto; per il resto, occorre valutare ciascun profilo della cooperazione secondo i criteri pertinenti indicati nelle Linee direttrici.

La Commissione ricorda che nell’applicazione dell’art. 101 bisogna distinguere tra le restrizioni indicate come “restrizioni per oggetto” e quelle considerate restrizioni per effetto. Le prime sono quelle che per natura ed esperienza vengono considerate così pericolose da essere ritenute in contrasto con l’art. 101.1 senza necessità di esaminarne l’impatto sul mercato. Tali restrizioni, in base alla giurisprudenza, devono essere individuate tenendo conto delle disposizioni dell’accordo, degli obiettivi perseguiti e del contesto economico e giuridico. La Commissione indica che le restrizioni per oggetto possono essere ritenute compatibili con il diritto europeo solo se soddisfano i criteri di cui all’art. 101. 3. Le restrizioni per effetto sono invece quelle che ricadono nel divieto di cui all’art. 101.1 solo se l’analisi del mercato indica che determinano un significativo impatto, attuale o probabile, in termini di aumento dei prezzi o peggioramento di altre variabili rilevanti per il consumatore. La valutazione dell’impatto deve prendere come scenario controfattuale di riferimento quello che si verificherebbe in assenza dell’accordo esaminato.

Gli accordi di cooperazione orizzontale determinano tre possibili tipologie di scenari anticoncorrenziali:

- la diretta eliminazione degli incentivi delle parti a competere tra loro che, se le condizioni di mercato lo consentono, può avere un impatto negativo in termini di aumento dei prezzi o peggioramento delle altre variabili concorrenziali;

- il rendere possibile o facilitare la collusione;

- la preclusione anticoncorrenziale, ossia l'ostacolo all’entrata o all’affermazione sul mercato di un concorrente con effetti negativi sui prezzi o sulle altre variabili concorrenziali.

Per valutare la compatibilità di un accordo di cooperazione orizzontale con l’art. 101 bisogna anzitutto interrogarsi su quali siano, nel caso specifico, le preoccupazioni in termini di restrizione della concorrenza (theory of harm) e, se si tratta di una restrizione per effetto, verificare se le caratteristiche dell’accordo e le condizioni di mercato comportino il rischio di un significativo impatto restrittivo.

Per gli accordi che risultano restrittivi ai sensi dell’art. 101.1 si può verificare l’applicabilità dell’eccezione di cui all’art. 101.3. La Commissione considera con particolare favore, da questo punto di vista, gli accordi tra concorrenti le cui competenze e le cui attività sono complementari, e quelli che determinano una riduzione dei costi variabili.

Le Linee direttrici, oltre ad indicare i criteri generali di valutazione seguiti dalla Commissione, si soffermano su alcune tipologie di accordi particolarmente diffuse. Nel nuovo testo sono trattati: gli scambi di informazione tra concorrenti; gli accordi di ricerca e sviluppo e gli accordi relativi alla produzione (compresi quelli di specializzazione) non coperti dai relativi regolamenti di esenzione; gli accordi di acquisto; gli accordi di commercializzazione; gli accordi di standardizzazione. E’ stata eliminata la sezione dedicata agli accordi in materia di tutela ambientale, considerata superflua in quanto a questi accordi si applicano i criteri di valutazione relativi ai diversi profili trattati nelle altre sezioni (ricerca e sviluppo, standardizzazione e così via).

Il capitolo sui principi generali per la valutazione dello scambio di informazioni tra imprese costituisce una novità delle Linee direttrici del 2011. In vista della revisione della disciplina molti operatori avevano chiesto alla Commissione di precisare i criteri di applicazione dell’art. 101 agli scambi di informazione tra concorrenti per facilitare l’autovalutazione da parte delle imprese, soprattutto a fronte di orientamenti applicativi diversi e in alcuni casi piuttosto restrittivi negli Stati membri.

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Nelle Linee direttrici la Commissione chiarisce anzitutto che se lo scambio di informazioni è funzionale a un altro accordo orizzontale, esso va considerato nell’ambito della valutazione dell’accordo principale; lo scambio di informazioni può tuttavia configurare un accordo o una pratica concordata rilevante ai sensi dell’art. 101 anche in quanto tale, perché può alterare direttamente le condizioni di concorrenza, in particolare consentendo o rafforzando la collusione, anche in assenza di un altro accordo. L’autonoma rilevanza dello scambio di informazioni è una peculiarità del diritto antitrust europeo, che non si trova in altri ordinamenti tra cui in particolare quello statunitense.

Per rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 101, lo scambio di informazioni deve costituire un’intesa. A questo fine la Commissione considera rilevante non solo lo scambio diretto tra concorrenti, ma anche quello realizzato per il tramite di un’associazione o di un terzo (ad esempio, organismi che effettuano ricerche di mercato, dettaglianti o fornitori). Anche un annuncio unilaterale, se richiesto o accettato dal concorrente, può ricadere nel divieto dell’art. 101 ma solo se viene dimostrato che l’annuncio si colloca all’interno di una strategia collusiva (pratica concordata).

Nelle Linee direttrici la Commissione indica che sono considerati restrizioni per oggetto gli scambi di dati individualizzati sulle intenzioni relative al futuro comportamento delle imprese in termini di prezzi e quantità.

Nelle altre ipotesi, la Commissione effettua una valutazione caso per caso dell’impatto restrittivo dello scambio, tenendo conto delle caratteristiche del mercato e di quelle dello scambio di informazioni. Per quest’ultimo profilo rilevano: la natura strategica delle informazioni scambiate; la parte di mercato interessata dallo scambio di informazioni; il carattere individualizzato o aggregato delle informazioni; l’età dei dati; la frequenza dello scambio; la natura pubblica o non pubblica dello scambio di informazioni; la natura pubblica o non pubblica delle informazioni scambiate. La Commissione ritiene “poco probabile che gli scambi di informazioni effettivamente pubbliche costituiscano una violazione dell’articolo 101(1)”. Non sono comunque considerate informazioni “effettivamente pubbliche” quelle che, pur essendo di pubblico dominio, sono più facilmente accessibili ai partecipanti allo scambio di informazioni che ai clienti o alle imprese che non partecipano allo scambio.

Le imprese devono ora impostare l’autovalutazione dei propri scambi di informazioni alla luce delle Linee direttrici. Nelle ipotesi che non costituiscono restrizioni per oggetto, ciò che occorre chiedersi è se lo scambio sia idoneo a modificare in modo significativo in senso anticoncorrenziale le condizioni del mercato, in particolare rendendo possibile o rafforzando un equilibrio collusivo.

La Commissione riconosce che la raccolta di informazioni sugli andamenti del mercato costituisce un’attività fisiologica e utile per il processo concorrenziale, ma suggerisce in sostanza di impostare tale attività in modo da minimizzare i rischi di violazione del diritto antitrust, tenendo conto delle variabili indicate come rilevanti ai fini della valutazione delle restrizioni per effetto (aggregazione, età dei dati, scambio in forma pubblica ecc.). Se vi è incertezza riguardo alla potenziale restrittività dello scambio di informazioni, è opportuno valutare se esso possa soddisfare i requisiti di cui all’art. 101.3 (efficienza con beneficio dei consumatori, indispensabilità e non eliminazione della concorrenza) e risultare quindi compatibile con il diritto europeo per questa seconda via.

Dato il rilievo pratico della raccolta di informazioni sul mercato da parte delle imprese per definire le proprie strategie commerciali, sembra utile che il dibattito dottrinale continui ad occuparsi del tema del rilievo concorrenziale di queste pratiche con il duplice obiettivo di evitare un atteggiamento troppo rigido da parte delle autorità di concorrenza e di contribuire a chiarire quali scenari possano considerarsi compatibili con l’art. 101.

1.4 Sviluppi in tema di concentrazioni

Il 18 giugno 2009 la Commissione europea ha presentato al Consiglio un rapporto sul funzionamento del regolamento (CE) n. 139/2004 relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese. L’obiettivo del rapporto, accompagnato da un Working Paper dei servizi della Commissione, è valutare, a distanza di cinque anni dall’entrata in vigore del regolamento, come abbia operato il sistema di allocazione dei casi tra la Commissione europea e le autorità di concorrenza degli Stati membri. Il sistema si basa

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sull’applicazione di criteri legati a soglie di fatturato delle imprese interessate dalla concentrazione e su alcuni meccanismi correttivi che consentono, anche su richiesta delle imprese, il rinvio di un caso dalla Commissione a un’autorità nazionale e viceversa.

Nel rapporto, che tiene conto dei risultati di una consultazione pubblica svoltasi negli ultimi mesi del 2008, la Commissione conclude che il regolamento ha fornito un quadro giuridico adeguato per il riparto delle competenze tra livello europeo e nazionale. Nella maggior parte dei casi le regole vigenti hanno consentito di distinguere in modo efficace tra i casi che hanno rilevanza comunitaria e quelli che hanno essenzialmente un nesso nazionale, realizzando l’obiettivo dell’one-stop-shop e il principio dell’“autorità più idonea” a esercitare il controllo. Ci sono tuttavia alcuni aspetti del sistema che possono essere migliorati, in particolare per ridurre ulteriormente il numero di casi di concentrazione soggetti a notifiche multiple e per aumentare l’applicazione del meccanismo di rinvio pre-notifica su richiesta delle parti. La Commissione valuterà, anche a seguito delle reazioni del Consiglio sul rapporto, se presentare proposte di revisione delle soglie di fatturato o dei meccanismi di rinvio.

Con un provvedimento del 18 giugno 2009, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, facendo seguito a una pronuncia del Consiglio di Stato13, ha indicato le condizioni alle quali le acquisizioni di licenze commerciali per esercizi di vicinato sono escluse dalla nozione di concentrazione14. Il provvedimento comporta una riduzione degli oneri amministrativi per le imprese che operano nel settore della distribuzione commerciale. L’Autorità ha modificato il Formulario per la notifica delle concentrazioni, in modo da chiarire che l’acquisizione di licenza commerciale non configura un’operazione di concentrazione quando l’operazione consista nell’acquisizione della sola licenza e qualora non sia impedita al cedente la prosecuzione dell’attività commerciale, neppure in base a disposizioni di natura pattizia o a disposizioni normative.

1.5 Verso la legge annuale per il mercato e la concorrenza

L’art. 47 della legge 23 luglio 2009, n. 99, ha introdotto nel nostro ordinamento la legge annuale per il mercato e la concorrenza, con l’obiettivo “di rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo o amministrativo, all’apertura dei mercati, di promuovere lo sviluppo della concorrenza e di garantire la tutela dei consumatori”. In base alla l. n. 99/2009 il disegno di legge dovrebbe contenere norme di immediata applicazione, deleghe al Governo per l’emanazione di decreti legislativi, nonché disposizioni che autorizzano l’adozione di regolamenti e decreti ministeriali. Inoltre, nel disegno di legge potranno essere individuati “i principi fondamentali nel rispetto dei quali le regioni e le province autonome esercitano le proprie competenze normative, quando vengano in rilievo profili attinenti alla tutela della concorrenza, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione”.

A maggio 2011 il primo disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza non è stato ancora presentato dal Governo alle Camere.

Nel 2010 Assonime ha trasmesso alle istituzioni competenti alcune considerazioni e proposte in merito al nuovo istituto15.

La legge annuale per il mercato e la concorrenza può costituire un utile strumento per migliorare la qualità e la stabilità del quadro normativo. Nel recente passato, infatti, disposizioni volte a promuovere la concorrenza e a rafforzare la tutela dei consumatori sono state spesso introdotte tramite interventi legislativi di urgenza, non preceduti da un adeguato dibattito. In più di un caso questo modo di procedere ha reso necessari successivi ripensamenti delle scelte inizialmente compiute. Un clima di incertezza sulla stabilità delle regole mal si concilia con l’esigenza di mantenere gli incentivi per le imprese a investire nel mercato italiano.

13. Consiglio di Stato, sez. VI, 31 marzo 2009, n. 1894.

14. Autorità garante della concorrenza e del mercato, provvedimento 18 giugno 2009, n. 19964, sul quale cfr. Circolare Assonime 33/2009.

15. Intervento n. 6/2010.

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L’incarico affidato al Governo dalla l. n. 99/2009 di elaborare periodicamente un disegno di legge in tema di concorrenza e tutela dei consumatori può segnare una svolta verso un approccio più sistematico e più conforme ai principi di qualità della regolazione. Va anzitutto considerato che il disegno di legge governativo, secondo quanto previsto dalla legge di semplificazione 200516, dovrà essere accompagnato dall’analisi dell’impatto delle nuove disposizioni e dall’esame della loro coerenza con il quadro giuridico nazionale e comunitario. Quest’attività di verifica preventiva dell’incidenza economica e giuridica delle nuove previsioni può consentire di accantonare tempestivamente le soluzioni inefficaci e quelle i cui costi superano i benefici per la collettività. Inoltre, l’art. 47 della l. n. 99/2009 prevede espressamente la verifica ex post degli effetti che le disposizioni introdotte dalle leggi annuali per la concorrenza produrranno sui cittadini, le imprese e la pubblica amministrazione. Il metodo di elaborazione della normativa diverrà quindi più simile a quello seguito dalle istituzioni europee quando adottano misure legislative in tema di apertura dei mercati e di protezione dei consumatori. Ciò avverrà a tutto vantaggio della qualità del dibattito e della capacità del sistema di promuovere l’emergere delle migliori soluzioni.

Nell’indicare l’obiettivo della promozione della concorrenza, l’art. 47 della l. n. 99/2009 si riferisce anche “alle funzioni pubbliche e ai costi regolatori condizionanti l’esercizio delle attività economiche private”. Le politiche di rimozione degli oneri ingiustificati e di miglioramento della qualità della regolazione possono fornire un impulso importante all’esplicarsi del processo concorrenziale, poiché aumentano la chiarezza del quadro in cui si svolge l’attività d’impresa e riducono i costi. Appare quindi coerente con lo spirito di una legge annuale per il mercato e la concorrenza che quest’ultima contenga misure volte a migliorare l’intervento pubblico di regolazione e controllo del funzionamento dei mercati in una prospettiva di semplificazione. In particolare, il nuovo strumento può fornire l’occasione per rivedere periodicamente l’adeguatezza sia delle norme generali e settoriali attinenti all’esercizio delle attività d’impresa, sia dei relativi sistemi di enforcement, anche al fine di eliminare duplicazioni di ruoli e sovrapposizioni di competenze.

Per quanto concerne il possibile contenuto della prima legge annuale della concorrenza, Assonime ha formulato alcune proposte relative alla normativa nazionale a tutela della concorrenza e alla disciplina delle pratiche commerciali scorrette.

Una prima proposta riguarda la semplificazione degli obblighi di notifica delle concentrazioni. In un moderno sistema di tutela della concorrenza, le risorse delle autorità pubbliche preposte all’applicazione delle regole devono concentrarsi sulla repressione delle infrazioni più gravi, quali i cartelli, e non essere assorbite da attività di controllo ex ante di operazioni che hanno scarso rilievo in termini di impatto sul mercato.

In questa prospettiva, Assonime richiede da tempo una revisione della prima parte dell’art. 16 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, che prevede un obbligo di notifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato delle operazioni di concentrazione quando l’acquirente e l’acquisita raggiungono complessivamente una determinata soglia di fatturato sul territorio italiano (oggi pari a 472 milioni di euro) a prescindere dal fatturato realizzato in Italia dall’impresa acquisita17. Una grande impresa deve notificare qualsiasi acquisizione, anche quando il fatturato dell’acquisita è estremamente modesto o, se si tratta di imprese titolari di licenze o autorizzazioni, addirittura nullo. Tale obbligo di notifica comporta oneri in termini di tempo e di risorse, sia per le imprese che per l’Autorità garante. Inoltre, per ogni operazione notificata le imprese devono pagare all’Autorità una contribuzione (filing fee), che si traduce in una sorta di imposta sulla crescita dimensionale mediante acquisizioni.

Dall’esperienza maturata nei vent’anni di applicazione della l. n. 287/1990 emerge che per le operazioni di importanza minore il sistema di controllo preventivo delle concentrazioni potrebbe

16. Legge 25 novembre 2005, n. 246, art. 14.

17. In base all’art. 16 della l. n. 287/1990, le operazioni di concentrazione (come definite dall’art. 5 della stessa legge) devono essere preventivamente comunicate all’Autorità qualora il fatturato totale realizzato a livello nazionale dall’insieme delle imprese interessate sia superiore a una soglia attualmente pari a 472 milioni di euro, oppure qualora il fatturato totale realizzato a livello nazionale dall’impresa di cui è prevista l’acquisizione sia superiore a una soglia oggi pari a 47 milioni di euro. Tali valori sono incrementati ogni anno di un ammontare equivalente all’aumento dell’indice del deflatore dei prezzi del prodotto interno lordo.

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essere semplificato senza pregiudicare la tutela del mercato. Anzi, un intervento normativo in questa direzione libererebbe risorse che l’Autorità garante potrebbe impiegare più utilmente.

La via da seguire è indicata come best practice dalla rete mondiale delle autorità di concorrenza (International Competition Network): occorre limitare il controllo preventivo delle concentrazioni ai casi in cui il fatturato dell’impresa acquisita nel territorio nazionale supera una determinata soglia individuata nella normativa. Si tratta, in pratica, di modificare la prima parte dell’art. 16, comma 1, della l. n. 287/1990 prevedendo che, nei casi in cui il fatturato complessivo delle parti supera i 472 milioni di euro, la concentrazione va notificata solo quando il fatturato realizzato in Italia dall’impresa acquisita supera una soglia minima. Recentemente anche la legge tedesca a tutela della concorrenza è stata modificata in questo senso.

Una seconda questione che merita attenzione da parte del legislatore è il riordino del quadro delle competenze giurisdizionali per l’applicazione del diritto antitrust nelle controversie tra privati.

Il canale del c.d. private enforcement, in cui imprese e consumatori si rivolgono ai giudici ordinari per fare valere i propri diritti in caso di violazione delle disposizioni a tutela della concorrenza, sta assumendo un’importanza crescente. Le istituzioni europee esercitano un forte impulso in questa direzione. In Italia, anche a causa di un susseguirsi di interventi normativi, le competenze per il private enforcement delle norme antitrust sono assegnate a giudici diversi:

- per le violazioni delle disposizioni della normativa antitrust nazionale (l. n. 287/1990), le azioni di nullità e le azioni di risarcimento del danno, nonché i ricorsi diretti a ottenere provvedimenti di urgenza devono essere promossi davanti alle corti d’appello competenti per territorio18;

- nei casi di violazione delle disposizioni antitrust comunitarie (artt. 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) l’azione in giudizio deve essere promossa, a seconda del valore della controversia, davanti ai tribunali ordinari di tutte le sedi territoriali o ai giudici di pace;

- se si tratta di “illeciti afferenti all’esercizio dei diritti di proprietà industriale”, l’applicazione delle disposizioni antitrust nazionali e comunitarie spetta alle dodici sezioni di tribunale specializzate in materia di proprietà industriale19;

- infine, per le azioni di classe basate su violazioni della normativa antitrust nazionale o comunitaria, il foro competente è il tribunale ordinario del capoluogo della regione ove ha sede l’impresa convenuta, con alcuni accorpamenti di competenza per regioni contigue20.

Questo quadro non risponde ad alcuna logica e crea incertezze e difficoltà pratiche. Appare quindi opportuno un intervento di riordino. Vi sono alcuni importanti principi guida a cui ispirarsi. Anzitutto, il riordino dovrebbe favorire la specializzazione dei giudici competenti ad applicare la disciplina antitrust. Vi sono due principali ragioni per una scelta in questo senso: la prima è che l’incidenza della normativa a tutela della concorrenza sul funzionamento del mercato richiede la comprensione dei processi economici da parte del giudice; la seconda è che il giudice deve avere familiarità con la giurisprudenza europea in materia di diritto della concorrenza. Per questi motivi, è auspicabile che la competenza sia affidata a un numero limitato di tribunali, secondo un modello che è già stato seguito in altri Stati membri.

18. Art. 33, comma 2, della l. n. 287/1990.

19. Cfr. art. 134 del codice della proprietà industriale (decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30), come sostituito dall’art. 19 della legge 23 luglio 2009, n. 99. Le sezioni specializzate sono state istituite dal decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 168, presso i tribunali e le corti d’appello di Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Trieste e Venezia.

20. Art. 140-bis del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo). I tribunali competenti sono undici. Per la Valle d’Aosta è competente il tribunale di Torino; per il Trentino-Alto Adige e il Friuli-Venezia Giulia è competente il tribunale di Venezia; per le Marche, l’Umbria, l’Abruzzo e il Molise è competente il tribunale di Roma; per la Basilicata e la Calabria è competente il tribunale di Napoli. Le sedi coincidono con quelle delle sezioni specializzate, con l’eccezione di Cagliari, dove non esiste attualmente una sezione specializzata ma il tribunale ha la competenza per le azioni di classe ai sensi dell’art. 140-bis. A Catania e Trieste, viceversa, esiste la sezione specializzata ma il tribunale non ha competenza per l’azione di classe ai sensi dell’art. 140-bis.

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Inoltre, per assicurare un migliore coordinamento con la disciplina delle azioni di classe, affidata ai tribunali, appare opportuno che anche per le azioni individuali in materia antitrust la competenza sia attribuita ai tribunali piuttosto che alle corti di appello. Va anche considerato che le cause antitrust, soprattutto quando non sono precedute da una decisione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato o della Commissione europea, comportano un’attività di accertamento dei fatti che appare più consona al ruolo dei giudici dei tribunali che a quello dei giudici delle corti d’appello. Infine, attribuire la competenza in primo grado ai tribunali consente di preservare il doppio grado di giudizio. Una soluzione che soddisfa i requisiti qui delineati e dovrebbe quindi essere considerata da un intervento di razionalizzazione delle competenze è quella di attribuire alle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale, già competenti per parte della materia e già dotate di particolare esperienza nella trattazione del diritto europeo, l’intera competenza per l’applicazione delle disposizioni antitrust nazionali ed europee nelle controversie tra privati.

Un tema assai controverso, che genera molti problemi sul piano dell’applicazione delle regole e delle garanzie per le imprese, è quello dei rapporti tra la normativa generale sulle pratiche commerciali scorrette contenuta nel Codice del consumo e le disposizioni settoriali volte ad assicurare un’informazione trasparente e corretta nei rapporti delle imprese con i consumatori. La questione è strettamente legata a quella della ripartizione delle competenze tra l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e le autorità di vigilanza settoriali.

Il diritto europeo fornisce indicazioni sull’approccio da seguire per evitare il rischio di bis in idem. Infatti, in base alla direttiva sulle pratiche commerciali scorrette, le norme settoriali di fonte comunitaria che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni generali in essa contenute21. La direttiva “offre una tutela ai consumatori ove a livello comunitario non esista una specifica legislazione di settore”22: essa svolge quindi una funzione residuale, di completamento delle regole europee applicabili alle pratiche commerciali lesive degli interessi economici dei consumatori. In sintesi, il principio è quello dell’applicazione della disciplina di settore salvo che per le questioni da questa non coperte, a cui si applicano le disposizioni generali in tema di pratiche commerciali scorrette. Nel nostro ordinamento il tema è stato affrontato dal Consiglio di Stato in una pronuncia relativa alla ripartizione delle competenze tra Consob e Autorità garante della concorrenza e del mercato nel settore dei servizi finanziari. In tale pronuncia è stato indicato che se l’oggetto di tutela è lo stesso (corretta informazione del pubblico) la questione dei rapporti tra la normativa del codice del consumo e le discipline di settore va risolta alla luce del principio di specialità: la disciplina di settore è speciale in virtù del proprio ambito di riferimento (il mercato mobiliare rispetto al mercato generale) e quindi prevale, anche ai fini dell’identificazione dell’autorità competente a intervenire, sulla normativa generale di cui al Codice del consumo23.

Queste indicazioni, tuttavia, non sono state sinora sufficienti a risolvere compiutamente il problema dei rapporti e delle possibili sovrapposizioni di competenze tra l’Autorità garante e le autorità di settore: vi è quindi il concreto rischio di adozione di due decisioni su una medesima condotta, con un’inefficiente duplicazione di attività amministrativa e l’eventualità di pronunce tra loro contrastanti. Tenendo conto delle indicazioni derivanti dal diritto europeo circa il ruolo residuale della normativa generale a tutela dei consumatori, le soluzioni vanno cercate sul piano del coordinamento tra gli interventi delle autorità interessate.

Potrebbe essere utile un intervento normativo sul coordinamento tra i procedimenti. In particolare, si potrebbe prevedere che laddove un’autorità di settore avvia un procedimento volto ad accertare per specifici profili il carattere scorretto di una pratica commerciale, l’Autorità garante si astiene dall’iniziare un procedimento sui medesimi profili, o sospende il proprio procedimento laddove già avviato. Concluso il procedimento dell’Autorità di settore, l’Autorità garante potrebbe portare a termine il proprio intervento limitatamente agli eventuali profili che non sono stati oggetto della procedura dell’altra Autorità. Verrebbe così evitato il rischio di decisioni contrastanti da parte di diverse autorità chiamate a pronunciarsi su una medesima questione.

21. Direttiva 2005/29/CE, art. 3, par. 4.

22. Direttiva 2005/29/CE, considerando 10.

23. Consiglio di Stato, adunanza della sezione I, 3 dicembre 2008, n. 3999.

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I dettagli e gli ulteriori profili del coordinamento procedurale potrebbero essere definiti attraverso protocolli d’intesa tra le autorità, sul modello di quanto previsto dall’art. 20 della legge sul risparmio24 per il coordinamento delle competenze nel settore finanziario. Per evitare il rischio che i protocolli di intesa restino esercizi formali senza risultati concreti, sarebbe opportuno prevedere l’obbligo per le autorità interessate di rendere periodicamente conto dei risultati raggiunti in termini di semplificazione e minimizzazione del rischio di bis in idem.

1.6 Disciplina della professione forense e giuristi d’impresa

Nel 2009 Assonime ha presentato alcune osservazioni sui progetti di riforma della disciplina della professione forense all’esame del Parlamento italiano. I progetti mirano a modernizzare una normativa che risale nel suo impianto fondamentale agli anni Trenta. Tuttavia, soprattutto nelle prime versioni, anche in ragione di un difficile contesto economico in cui si sono create situazioni di difficoltà per molti professionisti, erano inserite restrizioni della libertà di prestazione di servizi legali non necessarie né proporzionate per il perseguimento di esigenze di interesse generale. Alcune delle restrizioni più preoccupanti sono state rimosse nel testo unificato approvato dal Senato alla fine del 2010 e ora all’esame della Camera25.

Assonime ha sottolineato che ridurre la flessibilità delle scelte e introdurre ostacoli alla mobilità, ad esempio tra la libera professione e l’attività di giurista d’impresa, è una strategia inefficace per reagire a una fase di contrazione dell’attività economica. Solo contribuendo alla creazione di un sistema economico aperto, senza barriere e costi ingiustificati, è possibile ipotizzare l’uscita da questa fase di stagnazione economica. E’ la ripresa dell’attività economica nel paese che può consentire di porre un rimedio effettivo alle difficoltà della professione, attraverso un aumento fisiologico e non imposto della domanda di servizi professionali da parte delle imprese.

Vari aspetti della disciplina della professione forense sono di grande importanza dal punto di vista delle imprese-clienti. Tra essi, vi sono in primo luogo le regole deontologiche e la loro rigorosa applicazione. La delicatezza delle questioni che sono affidate agli avvocati richiede un assetto istituzionale atto a prevenire e correggere severamente comportamenti patologici, per assicurare il necessario clima di fiducia che deve caratterizzare la relazione tra professionista e cliente in un contesto di informazione imperfetta.

Un’altra parte della disciplina che è certamente da non mettere in discussione è la riserva in favore dell’avvocatura delle attività di assistenza, rappresentanza e difesa in giudizio. Il motivo fondamentale è la funzionalità della riserva all’efficace amministrazione della giustizia, nell’interesse pubblico. Per queste attività la prestazione professionale oltre che riservata è anche obbligatoria, nel senso che il ricorso ad essa è imposto dalla legge a chi voglia agire o difendersi in giudizio. In materia civile, ad esempio, nel nostro ordinamento il ministero del difensore è necessario nei giudizi davanti ai tribunali, alle corti di appello e alla corte di cassazione. Nelle cause davanti ai giudici di pace, è consentito alle parti stare in giudizio personalmente nelle cause con valore inferiore a una data cifra; nelle cause di valore superiore è richiesto di regola il ministero di un difensore ma il giudice di pace, in considerazione della natura ed entità della causa, con decreto emesso anche su istanza verbale della parte, può autorizzare quest’ultima a stare in giudizio di persona26. Anche la possibilità di fornire informazioni sull’esercizio della professione in modo non ingannevole e compatibile con il decoro della professione e l’obbligo di formazione continua possono essere viste come positive per i clienti. Sulle modalità di organizzazione dell’attività professionale, l’interesse dei clienti è che non siano posti freni ingiustificati alle soluzioni organizzative più efficienti, che possono tra l’altro comportare una riduzione dei costi complessivi del servizio; le restrizioni devono riguardare unicamente le ipotesi in cui si crei un potenziale conflitto di interessi o sia a rischio la responsabilità professionale del professionista e la sua indipendenza. Gli eventuali vincoli alle

24. Legge 29 dicembre 2005, n. 262.

25. AC 3900.

26. Art. 82 del codice di procedura civile.

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modalità di organizzazione della professione anche in forma societaria devono essere necessari e proporzionati a evitare questi specifici scenari. Questa impostazione, che è stata sancita anche dalla Corte di Giustizia nella sentenza Wouters del 200227, dovrebbe costituire la bussola per verificare se siano possibili ulteriori passi avanti in direzione di una maggiore flessibilità nelle forme societarie. Un punto su cui riflettere è se sia giustificato mantenere la previsione della responsabilità solidale e illimitata dei soci che ancora disincentiva la costituzione delle società tra avvocati.

I tre profili più delicati della disciplina riguardano il regime di determinazione delle tariffe, l’estensione delle riserve di attività e i rapporti tra libero professionista e giurista d’impresa a salvaguardia della mobilità professionale.

Il testo oggi in discussione reintroduce il sistema delle tariffe minime inderogabili e il divieto del patto di quota lite, che erano stati eliminati dal nostro ordinamento nel 2006 dal c.d. decreto Bersani28. Il rilievo pratico della modifica non va esagerato, in quanto generalmente la remunerazione degli avvocati delle imprese si colloca a livelli al di sopra del minimo. Ci sono però due aspetti che portano a ritenere questa evoluzione non desiderabile dal punto di vista del cliente impresa.

Il primo è un aspetto pratico: la reintroduzione delle tariffe minime obbligatorie aumenterebbe il costo della difesa tecnica per le imprese che sono interessate da piccolo contenzioso seriale su larga scala (si pensi al contenzioso delle banche in materia di credito): per queste tipologie di controversie, dopo l’eliminazione delle tariffe minime obbligatorie si sono affermate forme flessibili di remunerazione. La reintroduzione delle tariffe minime obbligatorie potrebbe disincentivare in questi ambiti il ricorso alla difesa tecnica.

Il secondo profilo di perplessità ha invece natura sistematica. In tutti i settori di attività, professionale e non, gli operatori preferirebbero porre un limite inderogabile alla concorrenza di prezzo, ma questo tipo di restrizione in generale non è consentito perché va a discapito dei clienti senza avere giustificazioni di interesse pubblico. In particolare, le tariffe minime non offrono di per sé alcuna garanzia di un aumento della qualità del servizio (a cui possono invece contribuire le altre disposizioni della disciplina). Se si cede sulla fissazione dei prezzi minimi inderogabili in un settore, diventa molto più difficile riuscire a resistere ad analoghe richieste che saranno presentate dai soggetti che operano negli altri comparti dell’attività professionale ed economica. Lo scenario è temibile: una diffusa attenuazione della concorrenza di prezzo può comportare nel complesso un grave pregiudizio alla competitività delle imprese italiane. Per questo, le possibili conseguenze negative dell’introduzione di tariffe minime inderogabili non vanno sottovalutate.

Un tema ancora più delicato è quello dell’estensione della riserva di attività al di là di quanto attualmente previsto. Oggi al di fuori delle attività di rappresentanza, assistenza e difesa nei procedimenti giurisdizionali civili, penali e amministrativi, l’impresa è libera di scegliere se avvalersi o meno di attività professionali esterne e, in tale ipotesi, se ricorrere a un avvocato. Le versioni iniziali dei progetti di riforma della disciplina estendevano la riserva a un ampio novero di attività: alle procedure arbitrali, ai procedimenti di natura amministrativa, tributaria e disciplinare, ai procedimenti di mediazione e conciliazione. Il testo oggi in discussione alla Camera è stato ridimensionato: diviene attività esclusiva dell’avvocato l’assistenza, rappresentanza e difesa nelle procedure arbitrali rituali; la riserva di attività è inoltre estesa all’attività di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale.

Per consulenza e assistenza legale stragiudiziale sono previste due eccezioni e alcune precisazioni rispetto all’estensione della riserva.

La prima eccezione riguarda i casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla legge per gli esercenti altre professioni regolamentate. La seconda eccezione riguarda la consulenza da parte di professori universitari di ruolo e ricercatori confermati nelle materia giuridiche.

Le precisazioni riguardano le imprese (i giuristi d’impresa) e le associazioni (i giuristi nelle associazioni e enti esponenziali).

27. Corte di Giustizia, sentenza 19 febbraio 2002, causa C-309/99, Wouters.

28. Art. 2 del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 2006, n. 248.

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Per il primo aspetto “è comunque consentita l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato ovvero la stipulazione di contratti di prestazione di opera continuativa e coordinata aventi ad oggetto la consulenza e l’assistenza legale stragiudiziale nell’esclusivo interesse del datore di lavoro o del soggetto in favore del quale l’opera viene prestata”. Nel caso delle società, l’attività può essere svolta anche in favore dell’eventuale controllante, controllata o collegata ai sensi dell’art. 2359 del codice civile.

Nel caso delle associazioni o enti esponenziali nelle diverse articolazioni, purché portatori di un interesse di particolare rilievo sociale e riferibili a un gruppo non occasionale, l’attività può essere svolta nell’ambito delle competenze istituzionali e limitatamente all’interesse dei propri associati e iscritti.

La nuova formulazione dell’estensione della riserva di attività è certamente meno preoccupante rispetto alla formulazione iniziale, ma c’è da chiedersi se davvero sia giustificato oggi ampliare i confini delle esclusive nell’attività professionale rivolta alle imprese. Irrigidire il sistema ampliando la riserva legale è inutile perché il destinatario dei servizi è in grado, anche senza una previsione di legge, di rivolgere le proprie scelte alle professionalità più appropriate. Sarebbe stata preferibile e più moderna un’impostazione diversa, basata sul mantenimento dell’attuale sistema dell’esclusiva degli avvocati per i procedimenti in giudizio e sul rafforzamento della qualità delle prestazioni per incentivare l’utilizzo da parte dei clienti dei servizi legali degli avvocati esterni.

I soggetti che svolgono un’attività di lavoro subordinato non possono oggi essere iscritti all’Albo degli avvocati. Non assume rilievo al riguardo la circostanza che la loro attività lavorativa consista in via esclusiva o prevalente nella trattazione di questioni giuridiche, come nel caso dei giuristi d’impresa. Le uniche eccezioni riguardano gli avvocati degli uffici legali degli enti pubblici (iscritti a un elenco speciale annesso all’Albo) e i professori di università e degli istituti superiori. Per chi abbia conseguito l’abilitazione superando l’esame di stato non è previsto un limite temporale per l’iscrizione all’Albo: pertanto un soggetto che abbia scelto di operare come giurista d’impresa può successivamente in ogni momento iscriversi all’albo e passare alle libera professione. Inizialmente i progetti di riforma della disciplina forense introducevano nuovi limiti alla mobilità: l’iscrizione all’albo poteva essere ottenuta solo entro 5 anni dal superamento dell’esame di stato (quindi dopo 5 anni era necessario ripetere l’esame) ed erano introdotti limiti di età (piuttosto bassi) per l’ammissione all’esame e l’iscrizione all’albo. Questi vincoli sono stati ora rimossi, giustamente, in quanto costituivano soluzioni chiaramente sproporzionate per assicurare che il singolo che ha superato l’esame di Stato abbia conservato i requisiti per l’accesso alla professione.

La mobilità tra la libera professione e l’attività di giurista d’impresa, con le opportune garanzie, dovrebbe essere vista come un valore da preservare nel sistema, nell’interesse sia dell’avvocatura che delle imprese che possono solo trarre vantaggio dalla ricchezza delle esperienze professionali dei giuristi.

Proprio le preoccupazioni circa il difficile contesto economico dovrebbero portare a favorire la ricerca di percorsi professionali anche diversi dall’esercizio costante della libera professione.

E’ un bene che siano stati eliminati gli ostacoli alla mobilità previsti dagli originari progetti di riforma. Al tempo stesso sarebbe desiderabile compiere un passo in più per agevolare la mobilità tra impresa e libera professione all’interno di un sistema integrato di vigilanza sui requisiti professionali e deontologici.

La direzione che andrebbe ancora perseguita è quella di consentire ai giuristi d’impresa in possesso dell’abilitazione di iscriversi in un elenco speciale annesso all’Albo. Questo modello, già utilizzato in Italia per gli avvocati dipendenti da enti pubblici, è diffuso anche in vari Stati europei. L’elenco speciale consentirebbe di valorizzare la funzione di garante di compliance con la legge che il giurista interno svolge nell’ambito dell’impresa e sarebbe un passo probabilmente necessario per riuscire a ottenere in prospettiva l’estensione, a certe condizioni, del legal privilege anche ai giuristi d’impresa come avviene in altri Stati membri.

Va peraltro preso atto che con la sentenza Akzo del 14 settembre 2010 la Corte di Giustizia si è

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pronunciata in senso restrittivo sui confini del legal privilege nei procedimenti antitrust29. Nel diritto dell’Unione europea il legal privilege è il principio generale per cui nell’ambito dei procedimenti di indagine svolti dalla Commissione europea ai sensi del Regolamento (CE) n. 1/200330, le comunicazioni tra avvocato indipendente e impresa sono coperte da segreto. In passato la Corte aveva affermato che il riconoscimento della tutela della riservatezza delle comunicazioni tra avvocati è subordinato a due requisiti cumulativi: da un lato, lo scambio con l’avvocato deve essere connesso all’esercizio del diritto alla difesa del cliente e, dall’altro, si deve trattare di uno scambio proveniente da “avvocati indipendenti”31. Nella sentenza Akzo la Corte di Giustizia ha sostenuto che il requisito di indipendenza implica l’assenza di qualsiasi rapporto di impiego tra l’avvocato e il suo cliente, e che pertanto la tutela in base al principio della riservatezza non si estende agli scambi con avvocati interni, anche se iscritti all’Ordine forense e soggetti a vincoli professionali.

2. Controllo degli aiuti di stato

2.1 Il controllo degli aiuti di Stato nel contesto della crisi economica

Il 23 luglio 2009 la Commissione europea ha completato il pacchetto delle misure in materia di aiuti di Stato adottate a favore delle banche nel contesto della crisi, con una comunicazione che illustra il metodo con cui la Commissione intende valutare gli aiuti alla ristrutturazione concessi dagli Stati membri alle banche. La comunicazione integra le altre tre comunicazioni sulla valutazione delle banche adottate dall’inizio della crisi finanziaria (in materia di garanzie, ricapitalizzazione e impaired assets)32. In base alle precedenti comunicazioni relative al settore bancario nell’ambito della crisi la Commissione europea aveva richiesto la presentazione di piani individuali di ristrutturazione a seguito di aiuti al salvataggio. La valutazione della Commissione si basa su tre principi fondamentali: le banche beneficiarie devono acquisire una redditività di lungo periodo senza ulteriore sostegno statale; le banche beneficiarie e i loro proprietari devono sostenere un onere equo per i costi di ristrutturazione; è necessaria l’adozione di misure per limitare le distorsioni della concorrenza nel mercato unico. Il piano di ristrutturazione deve identificare le cause dei problemi della banca. Per concepire strategie per la redditività di lungo periodo, la banca dovrà sottoporre le proprie attività operative a stress test, il più possibile basati su parametri uniformi a livello europeo. L’analisi dei punti di forza e di debolezza della banca può condurre a una ridefinizione del modello aziendale, alla pubblicazione e alla gestione delle attività deteriorate, al ritiro da attività in perdita, all’acquisizione da parte di un altro intermediario finanziario o alla liquidazione. In considerazione delle difficoltà dovute alla crisi, i piani di ristrutturazione possono durare fino a cinque anni, a differenza dei normali due o tre anni previsti dalle linee guida sul salvataggio e la ristrutturazione.

Le banche beneficiarie e coloro che ne detengono il capitale devono contribuire alla ristrutturazione il più possibile mediante risorse proprie. Lo Stato quindi dovrà ricevere, immediatamente o in un momento successivo, la giusta remunerazione per l’aiuto concesso. A fronte di ingenti aiuti pubblici la Commissione può richiedere misure strutturali, tra cui cessioni che potranno essere eseguite su un arco di tempo da definire, o misure comportamentali, quali vincoli a nuove acquisizioni o a strategie

29. Corte di Giustizia (Grande Sezione), sentenza 14 settembre 2010, causa C-550/07, Akzo Nobel Chemicals Ltd e Akros Chemical LTD c. Commissione europea e altri.

30. Regolamento (CE) n. 1/2003 del Consiglio, del 16 dicembre 2002.

31. Corte di Giustizia, sentenza 18 maggio 1982, causa C-155/79, AM&S. Secondo la Corte, l’esigenza relativa alla situazione e alla qualifica di avvocato indipendente, che devono essere proprie del legale dal quale proviene la corrispondenza atta ad essere protetta, deriva dalla concezione della funzione dell’avvocato come collaborazione all’amministrazione della giustizia e attività intesa a fornire, in piena indipendenza e nell’interesse superiore della giustizia, l’assistenza legale di cui il cliente ha bisogno. Questa tutela ha come contropartita la disciplina professionale, imposta e controllata nell’interesse generale.

32. Sugli aiuti di Stato alle istituzioni finanziarie cfr. Circolare Assonime 3/2009.

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aggressive di fissazione dei prezzi e di commercializzazione qualora esse siano finanziate mediante risorse pubbliche.

Questi orientamenti avrebbero dovuto essere validi fino al 31 dicembre 2010, ma la Commissione europea ha prorogato le misure temporanee adottate nel contesto della crisi finanziaria in favore sia delle banche sia dell’economia reale33. La Commissione, pur riconoscendo i segnali di una lenta ripresa nel 2010, ritiene che sussistano ancora le condizioni per l’approvazione degli aiuti di Stato in base all’art. 107, par. 3, lett. b), del Trattato (che consente di dichiarare compatibili gli aiuti destinati a “porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro”) a causa della perdurante instabilità dei mercati finanziari e dell’incertezza sulle prospettive economiche. La proroga delle misure di aiuto è accompagnata dall’introduzione di condizioni più restrittive per accompagnare la progressiva uscita dal sostegno pubblico, consentendo un graduale ritorno alle normali regole in materia di aiuti di Stato, e allo stesso tempo per limitare l’impatto sulla concorrenza della prolungata concessione degli aiuti.

Con la comunicazione che proroga le misure a sostegno alle banche la Commissione indica che continuano ad applicarsi le quattro comunicazioni del settore bancario che forniscono orientamenti sui criteri per valutare la compatibilità degli aiuti collegati alla crisi forniti alle banche sotto forma di garanzie pubbliche, ricapitalizzazione, misure di sostegno a fronte di attività deteriorate e le misure sulla ristrutturazione34.

Già a partire dal luglio 2010 erano state introdotte condizioni più rigorose per valutare la compatibilità delle garanzie pubbliche, mediante una commissione di garanzia maggiorata e il nuovo obbligo di presentare un piano di redditività per i beneficiari che si avvalgono delle nuove garanzie e le cui passività oggetto di garanzia superano determinate soglie. In considerazione del breve lasso di tempo trascorso dall’adozione di queste nuove condizioni, la Commissione non ritiene necessario adeguarle ulteriormente. I regimi di garanzie pubbliche per i quali l’approvazione degli aiuti di Stato scade alla fine del 2010 possono pertanto essere autorizzati per altri sei mesi; nella prima metà del 2011 la Commissione valuterà nuovamente le condizioni di compatibilità delle garanzie pubbliche per il periodo successivo al 30 giugno 2011.

All’inizio della crisi la Commissione europea aveva operato una distinzione tra le banche in difficoltà e quelle fondamentalmente sane, cioè tra le banche che risentono di problemi strutturali endogeni legati, ad esempio, al loro particolare modello aziendale e alle loro strategie di investimento e le banche i cui problemi derivano dalla crisi finanziaria. Questa distinzione si basa su una serie di indicatori contenuti nella comunicazione sulla ricapitalizzazione. La ricapitalizzazione di una banca in difficoltà comportava l’obbligo di presentare un piano di ristrutturazione alla Commissione, mentre per la ricapitalizzazione di una banca sana era necessario presentare un piano di redditività. Secondo la nuova comunicazione, dal 1° gennaio 2011 ogni banca che intenda beneficiare di aiuti strutturali (misure di ricapitalizzazione e/o misure di sostegno a fronte di attività deteriorate) dovrà presentare un piano di ristrutturazione. L’obiettivo è incoraggiare la ristrutturazione delle banche, creando le premesse per la normalizzazione del mercato del credito e il rafforzamento del processo di ripresa economica.

Con una comunicazione del 1° dicembre 2010 la Commissione europea ha prorogato fino al 31 dicembre 2011 il Quadro di riferimento temporaneo adottato nel 2008 per gli aiuti pubblici al di fuori del settore bancario, che consentiva agli Stati membri di adottare misure di aiuto supplementari per agevolare l’accesso delle imprese ai finanziamenti e allo stesso tempo incoraggiare gli investimenti35. Gli Stati membri hanno fatto un notevole ricorso alle misure previste dal quadro, che è stato più volte modificato nel corso del 2009.

Secondo la Commissione, l’andamento futuro dei finanziamenti rimane incerto e persiste il rischio che il settore bancario non sia in grado di sostenere la ripresa nel momento in cui ripartiranno le richieste

33. Comunicazioni della Commissione europea 2010/C 329/07 e 2011/C 6/05, illustrate nella Circolare Assonime 2/2011.

34. Comunicazioni della Commissione europea 2008/C 270/02, 2009/C 10/03, 2009/C 10/03 e 2009/C 195/04.

35. Comunicazione 2009/C 83/01, su cui cfr. Circolare Assonime 13/2009.

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di credito. La nuova comunicazione introduce tuttavia requisiti più stringenti per la compatibilità delle misure di sostegno, in modo da facilitare il graduale ritorno alla nomale disciplina degli aiuti di Stato e limitare l’impatto delle misure di aiuto sulla concorrenza. Sono state in particolare ridotte le tipologie di aiuto coperte dal Quadro temporaneo e sono state introdotte condizioni più restrittive per il sostegno alle grandi imprese. La comunicazione della Commissione sottolinea che le misure di aiuto dovrebbero essere destinate agli investimenti che contribuiscono a un’economia sostenibile a lungo termine fornendo sostegno alle imprese redditizie. Le imprese in difficoltà economica non possono beneficiare delle misure previste dal Quadro temporaneo. Secondo la Commissione, infatti, anche in periodi di crisi le imprese in difficoltà dovrebbero procedere alle necessarie ristrutturazioni con l’obiettivo del risanamento a lungo termine.

La proroga riguarda gli aiuti sotto forma di garanzie e quelli sotto forma di tasso di interesse agevolato, tra cui gli aiuti alla produzione di prodotti verdi. E’ stata inoltre prorogata la procedura semplificata per gli aiuti di Stato all’assicurazione del credito all’esportazione a breve termine. La concessione degli aiuti di importo limitato (fino a 500.000 euro) è prorogata solamente a condizione che il beneficiario abbia presentato una richiesta completa nell’ambito del regime di aiuti entro il 31 dicembre 2010 o, nel caso di imprese attive nella produzione primaria di prodotti agricoli, entro il 31 marzo 2011.

La comunicazione sul Quadro temporaneo non prevede più una misura transitoria per gli aiuti di Stato a favore del capitale di rischio. Per questi aiuti la Commissione ha modificato gli orientamenti comunitari sugli aiuti di Stato destinati a promuovere gli investimenti in capitale di rischio nelle piccole e medie imprese, rendendo permanente una delle misure previste dal Quadro di riferimento temporaneo adottato nel 2008. In particolare sono state aumentate da 1,5 milioni di euro a 2,5 milioni di euro le tranche massime di investimento consentite per impresa beneficiaria su un periodo di dodici mesi36.

La Commissione precisa che la nuova comunicazione si applica solo ai regimi di aiuto che escludono in maniera esplicita il pagamento di aiuti individuali a favore di un’impresa destinataria di un ordine di recupero pendente a seguito di una precedente decisione della Commissione che dichiara un aiuto illegale e incompatibile con il mercato interno. Allo stesso modo la comunicazione non si applica agli aiuti ad hoc a favore di un’impresa destinataria di un ordine di recupero, per il medesimo motivo. Si tratta di un’applicazione del principio sancito dalla Corte di Giustizia nel caso Deggendorf in base al quale la Commissione può subordinare la concessione di un nuovo aiuto alla condizione che il beneficiario abbia restituito gli eventuali aiuti incompatibili con il diritto europeo ricevuti in precedenza.

La Commissione europea ha autorizzato le misure notificate dall’Italia, che riguardano gli aiuti di importo limitato, gli aiuti sotto forma di garanzia e sotto forma di tasso di interesse agevolato. La direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 23 dicembre 2010 ha fornito alle pubbliche amministrazioni che intendono concedere aiuti sulla base della comunicazione europea di proroga del Quadro temporaneo indicazioni su come procedere. In particolare le amministrazioni devono verificare che le imprese beneficiarie non rientrino tra quelle che hanno ricevuto e successivamente non rimborsato o depositato in un conto bloccato aiuti che lo Stato è tenuto a recuperare in esecuzione di una decisione di recupero adottata dalla Commissione ai sensi dell’art. 14 del regolamento (CE) n. 659/1999.

2.2 Altre novità nella politica degli aiuti di Stato

Il 3 giugno 2009 la Commissione europea ha adottato gli orientamenti sugli aiuti di Stato alla formazione e ai lavoratori svantaggiati e disabili. Gli orientamenti definiscono i criteri per la valutazione approfondita di questi aiuti, individuando le informazioni di cui la Commissione ha bisogno per procedere alla valutazione e la metodologia che intende applicare. Quest’ultima si basa sulla valutazione comparata, che mette a confronto gli effetti positivi prodotti dall’aiuto con

36. La modifica degli orientamenti è contenuta nella comunicazione 2010/C 329/05.

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l’incidenza negativa di un’eventuale distorsione della concorrenza. Questo metodo di valutazione è conforme all’approccio economico della Commissione nell’analisi degli aiuti di Stato previsto dal Piano d’azione 2005-2009. Gli orientamenti si inseriscono nell’impegno della Commissione di chiarire e semplificare le regole in materia di aiuti di Stato, in modo da consentire un’approvazione rapida delle misure. Gli aiuti alla formazione e gli aiuti destinati all’occupazione di lavoratori svantaggiati e disabili di importo inferiore a una determinata soglia rientrano tra le misure di aiuto che il regolamento generale di esenzione per categoria del 2008 esenta dall’obbligo di notifica. La soglia di notifica dei progetti di aiuti alla formazione è fissata a 2 milioni di euro, mentre per gli aiuti all’occupazione la soglia è fissata a 5 milioni di euro all’anno per impresa per l’occupazione di lavoratori svantaggiati e a 10 milioni di euro all’anno per impresa per l’occupazione di lavoratori disabili. Considerato il maggiore rischio di distorsione della concorrenza insito negli aiuti di importo elevato, per le misure di aiuto superiori alle soglie individuate viene mantenuto l’obbligo di notifica alla Commissione europea, in modo che essa proceda alla loro valutazione. Gli orientamenti sugli aiuti alla formazione e all’occupazione individuano i criteri che la Commissione utilizzerà nella valutazione della compatibilità delle singole misure di aiuto notificate.

Il 16 giugno 2009 la Commissione europea ha pubblicato due documenti con lo scopo di migliorare l’efficienza delle procedure di controllo degli aiuti di Stato: si tratta di un “codice delle migliori pratiche” relative alla gestione dei procedimenti e di una comunicazione su una procedura di esame semplificata per determinati tipi di aiuti di Stato. Il codice spiega nel dettaglio come dovrebbero svolgersi le varie fasi della procedura di controllo degli aiuti di Stato. Esso si basa sull’impegno congiunto della Commissione e degli Stati membri a rendere il procedimento più rapido, trasparente e prevedibile. Il codice valorizza in particolare la fase dei contatti pre-notifica e prevede una pianificazione concordata tra Commissione e Stati membri per la gestione dei casi più complessi o urgenti. La procedura semplificata è volta a migliorare la gestione dei casi più chiari, tra cui quelli in linea con quanto previsto dalle comunicazioni o con la prassi decisionale consolidata della Commissione. Se lo Stato membro fornisce una notificazione completa, è previsto che gli aiuti chiaramente compatibili siano approvati entro un mese.

Il 24 giugno 2009 la Commissione europea ha adottato le linee guida per la valutazione dettagliata degli aiuti regionali destinati ai grandi progetti di investimento. Gli orientamenti in materia di aiuti di Stato a finalità regionale 2007-201337 prevedono l’obbligo di notificare individualmente alla Commissione i grandi progetti di investimento al di sopra di determinate soglie, in quanto presentano rischi maggiori di distorsione della concorrenza. Con riferimento agli aiuti notificati, la Commissione apre un procedimento di indagine formale qualora il beneficiario degli aiuti disponga di una quota di mercato superiore al 25 per cento o se la capacità produttiva creata dal progetto è superiore al 5 per cento del mercato mentre il tasso di crescita del mercato del prodotto interessato è inferiore al tasso di crescita del PIL all’interno del SEE. Le linee guida del 24 giugno 2009 illustrano il tipo di informazioni che la Commissione richiede per svolgere una valutazione approfondita della compatibilità, nonché il metodo di valutazione che verrà utilizzato. Quest’ultimo, secondo l’approccio economico adottato dalla Commissione nell’analisi degli aiuti di Stato, mette a confronto gli effetti positivi degli aiuti e l’impatto negativo derivante dai loro potenziali effetti di distorsione della concorrenza. Gli Stati membri dovranno fornire informazioni sugli effetti positivi degli aiuti, sulla loro adeguatezza e proporzionalità e sul loro effetto di incentivazione. Le linee guida sono volte anche a migliorare le notifiche dei progetti di aiuto relativi a grandi investimenti, con l’obiettivo di accelerare i tempi della decisione.

Il 23 marzo 2011 la Commissione europea ha adottato una comunicazione sulla prossima revisione del pacchetto in materia di aiuti di Stato ai servizi di interesse economico generale (SIEG)38. Il pacchetto disciplina le modalità con cui possono essere erogati finanziamenti per compensare obblighi di servizio pubblico senza violare la normativa comunitaria in materia di aiuti di Stato39. La disciplina dei SIEG scade nel novembre 2011 e la Commissione ha avviato il processo di revisione già nel

37. 2006/C 54/08.

38. COM(2011) 146 def.

39. Il pacchetto comunitario è costituito dalla decisione della Commissione europea 2005/842/CE, dalla comunicazione della Commissione 2005/C 297/04 e dalla direttiva 2005/81/CE.

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2008. In parallelo con la comunicazione del 2011, i servizi della Commissione hanno pubblicato una relazione che illustra la prassi seguita dalla Commissione sulla base della normativa vigente e le questioni principali sollevate nell’ambito della consultazione pubblica promossa dalla Commissione nel 2010. Nel 2009, su richiesta della Commissione, gli Stati membri hanno presentato delle relazioni sull’applicazione della disciplina comunitaria sugli aiuti di Stato ai servizi di interesse economico generale40.

Nella comunicazione del 2011 la Commissione prevede di basare la riforma su due principi fondamentali: un principio di chiarificazione e un approccio diversificato e proporzionato. La Commissione intende fornire ulteriori chiarimenti su una serie di concetti chiave, anche per quanto riguarda il campo di applicazione della disciplina e le condizioni per l’approvazione degli aiuti; essa valuta inoltre la possibilità di un approccio più diversificato e proporzionato ai diversi tipi di SIEG, con lo scopo di far dipendere il livello dell’esame degli aiuti di Stato dalla natura e portata dei servizi forniti. Questa strategia può portare a semplificare l’applicazione della disciplina a determinati tipi di servizi pubblici di carattere locale e su scala ridotta, con un’incidenza limitata sugli scambi tra Stati membri, e per determinati tipi di servizi sociali.

La riforma mira a fornire un quadro giuridico più chiaro, semplice ed efficace, in modo da facilitare l’applicazione delle norme da parte delle autorità nazionali, regionali e locali, e favorire la prestazione efficiente dei SIEG. La Commissione afferma che la riforma sarà pienamente in linea con l’obiettivo generale del controllo degli aiuti di Stato nell’ambito dell’UE, ossia garantire che gli Stati membri diano attuazione solo agli aiuti che contribuiscono al raggiungimento di obiettivi di interesse comune, sono ben congegnati e proporzionati e non distorcono la concorrenza e gli scambi tra Stati membri.

In linea generale, dall’ultimo quadro di valutazione degli aiuti di Stato della Commissione europea del 7 dicembre 2009 è emerso che il volume complessivo degli aiuti di Stato è aumentato considerevolmente a causa della crisi economica e finanziaria. Per quanto riguarda gli aiuti non connessi alla crisi è proseguito lo sforzo degli Stati membri di orientare gli aiuti verso obiettivi orizzontali di interesse comune; a questi obiettivi è attualmente destinato circa l’88 per cento degli aiuti concessi all’industria e ai servizi. In proporzione, sono diminuiti gli aiuti al salvataggio e alla ristrutturazione non collegati alla crisi ed è aumentato il rilievo degli aiuti regionali e degli aiuti per la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione. Il quadro di valutazione ha inoltre evidenziato progressi nell’attività di recupero degli aiuti di Stato illegali e incompatibili41.

2.3 Il ruolo dei giudici nazionali nell’applicazione della disciplina europea degli aiuti di Stato

Con la comunicazione 2009/C 85/01 la Commissione europea ha analizzato il ruolo dei giudici nazionali nel sistema di controllo degli aiuti di Stato42. Al fine di rafforzare il canale del private enforcement la comunicazione illustra le varie modalità di intervento del giudice nazionale in materia di aiuti di Stato alla luce della giurisprudenza europea e indica gli strumenti con cui la Commissione può fornire un supporto ai giudici nazionali, sul modello della cooperazione tra Commissione e giudici in materia antitrust43.

Nell’applicazione della disciplina degli aiuti di Stato la Commissione europea e i giudici nazionali svolgono ruoli complementari. Alla Commissione spetta in via esclusiva la valutazione della compatibilità dell’aiuto con il mercato comune sulla base dei criteri enunciati dall’art. 107 (ex art.87),

40. Il 22 ottobre 2009 il Dipartimento politiche comunitarie ha pubblicato e presentato alla Commissione europea la prima relazione triennale sull’applicazione di questa normativa comunitaria.

41. Al 30 giugno 2009 solo il 9 per cento dell’importo complessivo di questi aiuti non era stato recuperato (nel 2004 la percentuale degli aiuti illegali e incompatibili non recuperata era pari al 75 per cento).

42. La comunicazione è illustrata nella Circolare Assonime 37/2009.

43. Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione tra la Commissione e le giurisdizioni degli Stati membri dell’UE ai fini dell’applicazione degli artt. 81 e 82 del Trattato CE, 2004/C 101/04.

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parr. 2 e 3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Per il giudice nazionale, uno dei compiti fondamentali è la tutela dei singoli nel caso in cui le autorità nazionali abbiano concesso l’aiuto senza rispettare la clausola di sospensione di cui all’art. 108, par. 3 del Trattato. Questa norma prevede che lo Stato membro non può dare esecuzione alle misure progettate prima della decisione finale della Commissione in merito alla compatibilità. La clausola di sospensione è violata sia quando l’aiuto avrebbe dovuto essere notificato e non è stato notificato, sia quando l’autorità nazionale vi ha dato esecuzione prima dell’approvazione da parte della Commissione. Il divieto imposto dall’art. 108, par. 3 del Trattato ha efficacia diretta negli ordinamenti nazionali e fa pertanto sorgere direttamente diritti individuali azionabili in capo alle parti interessate, siano queste concorrenti del beneficiario o altri soggetti. Il ruolo delle autorità nazionali in questi casi consiste nel tutelare i diritti dei singoli lesi dall’esecuzione illegale dell’aiuto quando essi propongono un’azione contro lo Stato che ha concesso gli aiuti. Nel caso di violazione della clausola di sospensione, i rimedi che possono essere chiesti ai giudici nazionali sono: la sospensione del pagamento dell’aiuto illegale; il recupero dell’aiuto illegale; il recupero degli interessi dovuti per la durata dell’illegalità dell’aiuto; il risarcimento dei danni a concorrenti e terzi interessati; l’adozione di misure provvisorie. In particolare, se l’aiuto non è stato ancora erogato ma vi è il rischio che venga versato durante il procedimento davanti al giudice nazionale, quest’ultimo può emanare un ordine provvisorio per impedire il versamento illegale dell’aiuto fino alla decisione del merito. Se il pagamento illegale è stato già effettuato e la sentenza finale con cui il giudice disporrà il recupero è per qualsiasi motivo ritardata, l’obbligo di tutela dei diritti individuali impone al giudice di adottare le misure necessarie per far cessare provvisoriamente gli effetti anticoncorrenziali dell’aiuto.

I procedimenti davanti al giudice nazionale possono inoltre riguardare l’applicabilità di un regolamento di esenzione per categoria. Ciò avviene ad esempio nel caso in cui un’impresa concorrente eccepisca che la misura non aveva le caratteristiche per poter beneficiare dell’esenzione e che quindi andava notificata e autorizzata dalla Commissione. In questi casi il giudice pur non potendo esprimersi riguardo alla compatibilità dell’aiuto ha il potere di verificare se siano soddisfatte tutte le condizioni stabilite dal regolamento di esenzione. Allo stesso modo, se il giudice deve determinare se una misura rientra in un regime di aiuti esistente oppure approvato dalla Commissione, può soltanto verificare se sono soddisfatte tutte le condizioni previste da quel regime. Se si trova di fronte a una questione relativa alla validità di una decisione della Commissione, il giudice nazionale non è competente e può solo sottoporre al riguardo una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia.

I giudici nazionali svolgono anche un’importante funzione nella fase successiva all’adozione da parte della Commissione di una decisione di recupero44. Quando la Commissione dichiara un aiuto incompatibile, ingiunge allo Stato membro interessato di recuperarlo presso il beneficiario. In questi casi solitamente il coinvolgimento del giudice nazionale consegue ad azioni esperite dai beneficiari per ottenere il riesame della legittimità dell’ordine di recupero emesso dall’autorità nazionale. I giudici nazionali possono anche essere chiamati a esaminare ricorsi di terzi per il risarcimento dei danni causati dalla mancata esecuzione della decisione della Commissione.

Con la comunicazione del 2009 la Commissione riprova a dare slancio alla collaborazione con i giudici nazionali proponendo canali più pratici e agevoli. La Commissione è tenuta a trasmettere, su richiesta del giudice nazionale, le informazioni rilevanti a sua diposizione e, in caso di dubbi, i giudici nazionali possono chiedere il parere della Commissione su questioni relative all’applicazione della normativa sugli aiuti di Stato. Rimane comunque ferma la facoltà, e in alcune circostanze l’obbligo, di chiedere alla Corte di Giustizia di pronunciarsi in via pregiudiziale sulla questione45. La Commissione non può fornire pareri in merito alla compatibilità degli aiuti, poiché la valutazione di questo profilo non compete ai giudici nazionali. Il parere della Commissione, a differenza dell’interpretazione del diritto europeo da parte della Corte di Giustizia, non è vincolante per i giudici nazionali.

44. Ai sensi dell’art. 14 del regolamento di procedura (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999.

45. Ai sensi dell’art. 267 TFUE.

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3. Tutela dei consumatori

3.1 La disciplina delle pratiche commerciali scorrette: applicazione e linee evolutive

Entro giugno 2011 la Commissione europea deve presentare al Parlamento europeo e al Consiglio un primo rapporto sull’attuazione della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette nei rapporti con i consumatori. Il Parlamento europeo ha già adottato due risoluzioni in materia il 13 gennaio 2009 e il 15 dicembre 201046.

Rispetto alla precedente normativa europea sulla pubblicità ingannevole, la direttiva 2005/29 fornisce un quadro di regole più sistematico e coerente e ha un campo di applicazione più ampio. La direttiva introduce una clausola generale che vieta le pratiche commerciali scorrette e indica le circostanze in cui una pratica commerciale è scorretta in quanto ingannevole o in quanto aggressiva. Due liste nere individuano le pratiche commerciali per le quali il carattere ingannevole o aggressivo viene presunto.

La direttiva ha il duplice obiettivo di assicurare un’elevata tutela dei consumatori e di rimuovere gli ostacoli al mercato interno derivanti da differenti discipline nazionali sulle pratiche commerciali nei rapporti tra imprese e consumatori. Per conseguire il secondo obiettivo, essa si basa su un approccio di armonizzazione completa: nella materia disciplinata dalla direttiva gli Stati membri non possono adottare misure più vincolanti o più dettagliate47.

L’esperienza dei primi anni di applicazione della direttiva ha dimostrato che la tutela dei consumatori è stata sicuramente rafforzata. L’obiettivo di rimuovere gli ostacoli al mercato unico invece non è stato ancora pienamente raggiunto. Come osservato anche dal Parlamento europeo nella risoluzione del 15 dicembre 2010, le divergenze d’interpretazione e di attuazione a livello nazionale non hanno permesso di raggiungere l’auspicato livello di armonizzazione, generando un’insicurezza giuridica e pregiudicando gli scambi transfrontalieri nel mercato interno.

Si pone oggi l’esigenza di riflettere su come migliorare il quadro giuridico. Nell’aprile 2011 Assonime ha trasmesso alla Commissione europea un documento sullo stato di applicazione della direttiva 2005/29/CE, predisposto da un gruppo di lavoro composto da imprese appartenenti a diversi settori e operanti in più Stati membri48. Assonime fornisce alcuni suggerimenti su come promuovere un’applicazione più uniforme della direttiva sulle pratiche commerciali scorrette a livello europeo, con l’obiettivo di facilitare il commercio transfrontaliero e l’integrazione dei mercati.

Una parte delle difficoltà nel raggiungimento di un’uniforme applicazione della disciplina dipende dalla natura delle norme sostanziali contenute nella direttiva che si basano su nozioni generali e astratte. Per assicurare un’interpretazione uniforme in tutti gli Stati membri un ruolo fondamentale deve essere svolto dal ricorso da parte dei giudici nazionali alle domande di pronuncia pregiudiziale alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267 TFUE.

Un importante ruolo per fornire linee interpretative comuni agli Stati membri nell’applicazione sostanziale della direttiva può essere svolto anche dalla Commissione europea. Essa ha pubblicato nel 2009 un documento contenente linee guida sull’applicazione della direttiva, che sarà rivisto periodicamente49. Queste linee guida possono essere utilmente impiegate dalla Commissione per sottolineare l’importanza del test del “consumatore medio” e la richiesta di un apprezzabile impatto della pratica per un’applicazione della direttiva in linea con il principio di proporzionalità. Inoltre, la Commissione può aiutare a individuare tempestivamente filoni prioritari di attenzione e favorire l’emergere di best practices per le imprese, in una logica di prevenzione.

46. GUUE C 46 E del 24 febbraio 2010; T7-0484/2010.

47. Sul recepimento della direttiva in Italia, cfr. Circolari Assonime 80/2007 e 50/2009.

48. Note e studi Assonime 4/2011.

49. Staff Document, Guidance on the implementation/Application of Directive 2005/29/CE on Unfair Commercial Practices.

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La prassi decisionale e la giurisprudenza degli Stati membri chiariscono progressivamente come applicare le nozioni generali nei casi concreti. In termini sistematici, nel nostro ordinamento la regola sul divieto delle pratiche commerciali scorrette contenuta dell’art. 20 del Codice del consumo è stata interpretata come norma generale, rilevante per l’interpretazione delle disposizioni più specifiche, e non come norma puramente residuale; questo orientamento è sicuramente positivo. Per il resto in Italia si è avuta inizialmente l’impressione che l’esigenza di una diffusa applicazione delle nuove regole prevalesse su quella di un’attenta valutazione dell’impatto delle pratiche sul comportamento economico del consumatore medio. Sono quindi particolarmente apprezzabili, anche come segnali, quelle decisioni in cui il carattere scorretto della pratica è stato escluso dall’Autorità perché essa non era idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore. Molto importanti sono anche quegli orientamenti giurisprudenziali che richiedono di individuare lo standard di diligenza richiesto agli operatori nel quadro di una condotta concretamente esigibile e proporzionata, in un’ottica di bilanciamento di interessi.

Al di fuori dei confini nazionali è ancora molto difficile ottenere informazioni sull’applicazione della disciplina negli altri Stati membri e questo certamente non facilita l’attività transfrontaliera delle imprese. La Commissione europea ha da tempo annunciato la creazione sul proprio sito internet di un database sulla prassi applicativa e la giurisprudenza degli Stati membri. Assonime ha sollecitato la realizzazione di questo progetto, che sarà operativo dal giugno 2011.

La direttiva lascia gli Stati membri liberi di scegliere un modello amministrativo e/o giudiziario di enforcement e di coordinare il ruolo degli organismi di autodisciplina con quello delle autorità pubbliche. Le scelte degli Stati membri sugli assetti istituzionali sono state molto diverse e questo ha comportato mancanza di uniformità nelle modalità di applicazione della disciplina. Anche tra gli Stati che hanno scelto un sistema amministrativo non vi è uniformità di approccio. L’Autorità italiana è stata molto attiva con un numero di procedimenti e sanzioni elevato rispetto ad altri Stati. Altre autorità, come l’Office of Fair Trading nel Regno Unito, hanno avviato un numero inferiore di procedimenti istruttori e hanno adottato un approccio più attento all’attività di formazione, consultazione e dialogo con le imprese per prevenire le violazioni.

Nei paesi che hanno scelto il modello amministrativo, peraltro, in un contesto in cui le risorse sono scarse vi è l’esigenza di scegliere le priorità d’intervento. L’Autorità italiana ha già intrapreso un percorso di progressiva focalizzazione dell’attività su casi non sporadici e ha manifestato una crescente disponibilità a utilizzare strumenti alternativi alla sanzione quali la moral suasion e le decisioni con impegni quando ciò è compatibile con l’interesse pubblico. Nella risoluzione del 15 dicembre 2010 il Parlamento europeo ha incoraggiato gli Stati membri che hanno scelto il modello amministrativo a promuovere la funzione di guidance, ispirandosi all’approccio seguito nel Regno Unito. Il Parlamento ha inoltre sollecitato gli Stati ad agevolare lo sviluppo di forme di autoregolamentazione complementari all’intervento pubblico.

La sovrapposizione delle competenze tra le autorità di vigilanza settoriali e le autorità tenute ad applicare la normativa generale sulle pratiche commerciali scorrette è percepita in alcuni Stati membri come un problema significativo. Il documento che Assonime ha inviato alla Commissione europea auspica che il controllo delle pratiche commerciali scorrette non comporti duplicazioni di interventi, con un diverso standard applicativo, su pratiche già disciplinate in dettaglio dalla normativa settoriale ma venga utilizzata solo per colmare eventuali lacune nelle regole di settore.

Sul piano nazionale appare interessante segnalare che con il nuovo Codice del processo amministrativo adottato nel 2010 è sancita la competenza del giudice amministrativo a rideterminare direttamente le sanzioni irrogate da tutte le autorità amministrative indipendenti, comprese quelle irrogate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato in materia di pratiche commerciali scorrette50.

In tema di impegni vi sono state due importanti novità. Anzitutto con una pronuncia del 2010, che segna una svolta rispetto al precedente orientamento giurisprudenziale, il giudice amministrativo ha affermato che il termine per la presentazione degli impegni in materia di pratiche commerciali scorrette non ha carattere perentorio, bensì meramente sollecitatorio, analogamente a quanto accade

50. Art. 134, comma 1, lett. c) del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.

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in materia di tutela della concorrenza. Il Tar sottolinea che l’istituto degli impegni è di matrice comunitaria e che se la fissazione di uno sbarramento temporale è giusta in quanto rappresenta un deterrente per prevenire comportamenti opportunistici da parte del professionista, “è indubbio che in ambito comunitario prevale una logica di tipo effettuale, posto che la funzione dell’istituto richiede, da un lato, che i professionisti medesimi siano posti in grado di proporre misure correttive idonee e, dall’altro, che l’Autorità stessa disponga di elementi sufficienti per valutare la rispondenza degli impegni alla tutela dei consumatori e degli altri professionisti”. La tempestività della presentazione degli impegni va rapportata, di volta in volta, alle fattispecie concrete51.

Nel febbraio 2011 l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha modificato le regole di procedura relative al rigetto degli impegni, prevedendo che per le pratiche commerciali scorrette l’Autorità delibera il rigetto degli impegni, nei casi di gravità e manifesta scorrettezza delle pratiche o di inidoneità degli impegni, nel provvedimento finale52.

3.2 Azione di classe nell’ordinamento italiano e il dibattito in Europa

L’azione collettiva per il risarcimento del danno è stata introdotta nel nostro ordinamento con la legge finanziaria per il 200853. La disciplina presentava un’articolazione complessa e alcuni profili poco chiari che suscitavano dubbi sulla sua idoneità ad assicurare l’efficace funzionamento del nuovo istituto. Nell’attesa di elaborare le correzioni e i chiarimenti necessari, il legislatore ha rinviato più volte la data di operatività delle disposizioni. E’ stato quindi avviato un processo di revisione normativa che ha portato con la legge 23 luglio 2009, n. 99 a una formulazione nuova, e nel complesso meglio strutturata, dell’art. 140-bis del Codice del consumo54.

La scelta di dotarsi di uno strumento di tutela collettiva per il ristoro dei soggetti danneggiati dagli illeciti plurioffensivi risponde principalmente a due esigenze: agevolare la tutela dei diritti nei casi in cui i singoli non avrebbero incentivo a intraprendere individualmente l’azione in giudizio perché i costi sarebbero superiori al beneficio atteso e favorire l’efficiente amministrazione della giustizia e l’economia processuale razionalizzando il contenzioso seriale.

L’azione di classe disciplinata dal Codice del consumo, che indubbiamente arricchisce la gamma degli strumenti per la risoluzione delle controversie tra imprese e consumatori, ha una fisionomia ben precisa che privilegia i profili di continuità con gli istituti del nostro ordinamento giuridico. Lo strumento si presta solo alla soluzione di determinate controversie tra imprese e consumatori e certamente non è idoneo a rimediare in via generale ad ogni pregiudizio. L’art. 140-bis del Codice del consumo deve quindi essere considerato nel più ampio contesto degli strumenti attraverso i quali il consumatore può ottenere ristoro.

Nella nuova formulazione della disciplina introdotta dalla l. n. 99/2009, l’oggetto della tutela non è più un interesse collettivo come situazione soggettiva riferibile congiuntamente a un insieme di persone, ma sono i diritti individuali omogenei di cui sono singolarmente titolari i consumatori colpiti da uno stesso illecito. L’obiettivo dell’azione è ottenere l’accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni. Lo strumento dell’azione di classe è applicabile in relazione a quattro ambiti: i diritti contrattuali; i diritti dei consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del produttore (anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale); le pratiche commerciali scorrette e i comportamenti anticoncorrenziali.

Anche l’ambito soggettivo di applicazione dell’art. 140-bis ha precisi confini. L’azione di classe può essere avviata unicamente nei confronti di un soggetto che nel nostro ordinamento sia qualificabile come impresa. Inoltre, i soggetti tutelati sono solo consumatori e utenti nell’accezione del Codice

51. Tar Lazio, sentenza 24 febbraio 2010 n. 2974.

52. Deliberazione n. 22092 del 9 febbraio 2011, in G.U. n. 49 del 1° marzo 2011.

53. Art. 2, commi 445-449, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.

54. Cfr. Circolare Assonime 38/2009 e Note e studi Assonime 1/2011.

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del consumo55, ossia persone fisiche che agiscono per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta.

La possibilità di avvalersi dell’azione di classe è limitata ai casi di identità/omogeneità dei diritti individuali da tutelare. La condizione è oggetto di vaglio da parte del giudice nella fase di giudizio sull’ammissibilità dell’azione. Ai fini di tale ammissibilità occorre valutare se vi sia una sufficiente omogeneità della causa del danno e del danno stesso, ossia della causa petendi e del petitum, sul piano di diritto e di fatto.

L’azione di classe può essere proposta da ciascun componente della classe, ossia da ciascuno dei consumatori o utenti i cui diritti individuali omogenei sono violati dalla condotta. Sul piano pratico è probabile che le istanze individuali saranno perlopiù veicolate attraverso associazioni di consumatori o comitati costituiti per l’occasione, salva l’ipotesi che l’azione di classe venga organizzata da studi legali.

Il foro competente per le azioni di classe è il tribunale ordinario del capoluogo della regione ove ha sede l’impresa convenuta, che tratta la causa in composizione collegiale. La disciplina dispone alcuni accorpamenti di competenze per regioni contigue, con la conseguenza che vi sono solo undici tribunali chiamati a giudicare le cause collettive.

L’azione di classe è sottoposta a un giudizio preliminare di ammissibilità. La domanda sarà respinta se è manifestamente infondata, se sussiste un conflitto di interessi, se i diritti individuali non sono identici e se il proponente non appare in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe. Le principali funzioni del filtro del giudice, ispirato alla certification propria di altri ordinamenti, sono quelle di limitare l’applicazione dell’azione di classe alle ipotesi in cui essa costituisce uno strumento efficiente per la trattazione della pluralità di cause individuali e di arrestare le iniziative pretestuose. Il giudice può sospendere il giudizio sull’ammissibilità quando sui fatti che rilevano per la decisione è in corso un’istruttoria davanti a un’autorità indipendente oppure un giudizio davanti al giudice amministrativo.

L’ordinanza con cui viene ammessa l’azione di classe fissa i termini e le modalità della pubblicità che deve essere data all’azione affinché tutti i consumatori interessati ne abbiano notizia e possano aderire tempestivamente. Con l’ordinanza inoltre il giudice procede all’individuazione della classe e dei requisiti di appartenenza e definisce il termine per l’adesione.

Per il coinvolgimento dei singoli consumatori nell’azione di classe in Italia, come in altri ordinamenti europei, è stata scelta la soluzione di richiedere un’esplicita manifestazione di consenso dell’individuo a essere incluso nell’azione (sistema opt-in) e di prevedere, conseguentemente, che la sentenza sia efficace solo nei confronti di quanti abbiano aderito all’azione. L’adesione comporta la rinuncia a ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sullo stesso titolo e il consumatore aderente resta assoggettato in modo pieno e definitivo alla sentenza che definisce il processo collettivo, tanto nel caso di accoglimento quanto nel caso di rigetto della domanda.

Mentre il testo originario della norma prevedeva l’articolazione della procedura in due fasi, in base alla formulazione attuale la procedura si risolve in un’unica fase: se accoglie la domanda, il giudice emette una sentenza di condanna con cui liquida le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito oppure stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di queste somme. Quando il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare il giudice è chiamato ad effettuare la liquidazione in base a una valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 del codice civile.

In deroga al regime generale del codice di procedura civile, la sentenza resa al termine del giudizio collettivo diviene esecutiva dopo centottanta giorni dalla pubblicazione. Se l’impresa impugna la sentenza può chiedere alla Corte d’appello di sospenderne l’esecutività; la Corte d’appello nel decidere terrà conto anche dell’entità complessiva della somma che l’impresa è tenuta a pagare, del numero dei creditori e delle difficoltà di un’eventuale ripetizione degli importi nell’ipotesi in cui l’impugnazione sia accolta.

55. Art. 3, comma 1, lett. a).

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Una delle questioni aperte sulla base della precedente disciplina era se fossero proponibili più azioni collettive risarcitorie contro la stessa impresa in relazione a una medesima fattispecie. Pur in mancanza di una previsione esplicita, era stata sostenuta in dottrina la tesi dell’unicità dell’azione collettiva. La nuova formulazione chiarisce definitivamente che l’azione di classe è uno strumento unico che l’ordinamento mette a disposizione degli interessati per far valere congiuntamente in giudizio le proprie pretese risarcitorie: una volta scaduto il termine che il giudice ha assegnato per le adesioni, non saranno più proponibili ulteriori azioni di classe per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa. Le azioni proposte prima della scadenza di tale termine sono riunite d’ufficio o comunque rimesse al giudice adito per primo. Questa caratteristica dell’azione di classe nella disciplina italiana consente di sfruttare appieno le potenziali efficienze connesse alla trattazione in un’unica azione del contenzioso seriale, con evidenti vantaggi sia per l’amministrazione della giustizia sia per le imprese.

Fino ad oggi è stata dichiarata ammissibile una sola azione di classe, che ha superato il vaglio di ammissibilità anche da parte della Corte d’appello56.

Azione di classe nei confronti della pubblica amministrazione

L’azione di classe risarcitoria disciplinata dall’art. 140-bis si differenzia dalla cosiddetta azione di classe nei confronti delle pubbliche amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici introdotta dal decreto legislativo 20 dicembre 2009, n. 198. La seconda non ha funzione risarcitoria, ma mira a “ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione del servizio” nei casi in cui la condotta inadempiente dell’amministrazione o del concessionario abbia determinato la lesione di “interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori”. La lesione deve dipendere da violazione di termini o mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori, nonché da violazione di standard qualitativi ed economici o degli obblighi contenuti nelle Carte dei servizi.

La legittimazione ad agire in giudizio spetta al singolo interessato nonché ad associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati. La circostanza che la disciplina, a differenza dell’art. 140-bis, non sia collocata all’interno del Codice del consumo autorizza a ritenere che in questo caso la tutela non riguardi solo utenti e consumatori nell’accezione del Codice del consumo, ma si estenda a tutti i fruitori di prestazioni rese nello svolgimento di funzioni amministrative e nell’erogazione di servizi pubblici, incluse le imprese.

Per essere ammissibile, il ricorso deve essere preceduto da una diffida all’amministrazione o al concessionario a provvedere alla soddisfazione degli interessati. Al posto della diffida può essere promossa la risoluzione non giurisdizionale della controversia. Il giudizio è affidato alla giurisdizione esclusiva e di merito del giudice amministrativo; in caso di accoglimento dell’istanza il giudice ordina all’amministrazione o al concessionario di rimediare alle violazioni riscontrate.

E’ espressamente escluso che il giudice possa condannare al risarcimento del danno.

Nei confronti dei concessionari di servizi pubblici l’azione non potrà essere proposta o proseguita nel caso in cui un’autorità indipendente o comunque un organismo con funzioni di vigilanza e controllo nel relativo settore abbia avviato sul medesimo oggetto il procedimento di propria competenza.

Il dibattito in Europa

Negli ultimi anni la Commissione europea ha promosso un ampio dibattito per verificare se siano opportune iniziative UE in materia di azioni collettive nel campo del diritto della concorrenza

56. L’azione riguarda ipotesi di pratiche commerciali scorrette o comportamenti anticoncorrenziali in relazione alla vendita di test anti-influenzali, ritenuta ammissibile dal Tribunale di Milano con ordinanza del 20 dicembre 2010, confermata dalla Corte d’appello di Milano nel maggio 2011.

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dell’Unione europea e del diritto dei consumatori57. Il 30 aprile 2011 si è conclusa una consultazione pubblica sull’approccio europeo al collective redress. La consultazione risponde alla richiesta giunta da diversi stakeholder di una maggiore coerenza nelle eventuali iniziative della Commissione sui ricorsi collettivi. L’approccio seguito è di tipo orizzontale e mira ad individuare quali principi comuni dovrebbero guidare eventuali iniziative dell’UE in materia di azione collettiva.

Tra le questioni considerate vi sono l’ambito di applicazione dell’azione collettiva (solo concorrenza e consumatori, o anche altri ambiti), le salvaguardie da introdurre per evitare le liti temerarie e il finanziamento delle azioni collettive.

Assonime ha sottolineato che in linea di principio spetta agli Stati membri garantire una protezione giuridica efficace dei diritti conferiti dalla legislazione UE. Qualsiasi iniziativa a livello europeo deve essere strettamente giustificata in termini di sussidiarietà e proporzionalità. Le soluzioni che sono state adottate negli Stati membri sono diverse, ma la varietà non è un problema in sé. Potrebbe essere utile dare agli Stati membri il tempo necessario per testare i propri modelli nazionali al fine di far emergere le migliori pratiche, sia in termini di efficacia che di garanzie58.

Per i ricorsi collettivi ingiuntivi, l’approccio seguito finora da parte delle istituzioni UE (su diritto dei consumatori, ambiente, ecc) sembra soddisfacente. Per il risarcimento del danno i principi che appaiono più importanti sono da un lato l’efficacia e l’efficienza del ristoro, dall’altro l’esigenza di evitare azioni pretestuose. Un approccio efficiente al collective redress dovrebbe considerare in sequenza il ricorso al sistema di gestione dei reclami dell’impresa, gli eventuali sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, anche di tipo collettivo, e solo in ultima analisi l’azione in giudizio.

Un tema classico nei dibattiti sui modelli nazionali di azione collettiva, che sarà centrale anche in vista di eventuali iniziative dell’Unione europea, è se sia preferibile un modello che richiede all’individuo di manifestare espressamente la volontà di essere incluso nell’azione (c.d. sistema di opt-in) o uno basato sull’opt-out, in cui il singolo che non vuole essere coinvolto deve manifestare la propria volontà in tal senso.

In Europa i paesi che hanno adottato sistemi di opt-out, con diverse varianti, sono una netta minoranza. Negli altri paesi, inclusa l’Italia, è stato adottato l’approccio più tradizionale dell’opt-in, che richiede l’espressa adesione da parte degli individui e sicuramente non pone problemi di compatibilità costituzionale in relazione al diritto del singolo di decidere se agire in giudizio e da chi farsi rappresentare.

Nei prossimi anni in Europa, grazie alla varietà di soluzioni adottate nei diversi Stati, sarà possibile sperimentare concretamente i punti di forza e di debolezza dei diversi modelli di tutela degli individui danneggiati da illeciti plurioffensivi. Da questa sperimentazione emergeranno spunti per una possibile maggiore convergenza tra i modelli nazionali. Sarebbe prematuro, in questa fase, che eventuali iniziative legislative a livello europeo sulla tutela collettiva andassero oltre la fissazione di principi comuni e pretendessero di uniformare le soluzioni.

3.3 La soluzione stragiudiziale delle controversie

Il panorama degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie si è arricchito negli ultimi anni. Molte imprese hanno potenziato i sistemi di gestione dei reclami e in vari settori, tra cui ad esempio quello delle comunicazioni elettroniche, sono stati creati nuovi sistemi di alternative dispute resolution. In materia di operazioni e servizi bancari e finanziari è operativo presso la Banca d’Italia l’Arbitro bancario finanziario, sistema al quale gli intermediari sono obbligati ad aderire e

57. Sul fronte dell’antitrust europeo, i servizi della Commissione avevano iniziato a lavorare a una proposta di direttiva sul risarcimento del danno derivante da violazioni delle disposizioni del Trattato in materia di intese e di abuso di posizione dominante che conteneva anche previsioni relative a forme di collective redress negli Stati membri. In base alle dichiarazioni del Commissario Almunia una proposta specifica sulle azioni di risarcimento del danno in materia antitrust verrà presentata solo quando sarà stato definito più in generale l’approccio europeo agli strumenti collettivi di ristoro del danno.

58. Consultazione 4/2011.

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che permette ai clienti di ottenere in modo semplice, rapido e poco costoso una decisione imparziale su reclami relativi a importi non superiori a 100.000 euro che non abbiano trovato soluzione nel rapporto diretto con l’intermediario59. Presso la Consob è stata creata una specifica procedura di conciliazione e arbitrato per le controversie tra gli investitori e gli intermediari nei casi di violazione da parte di questi ultimi degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza60.

Con il decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 è stata introdotta nel nostro ordinamento la disciplina della conciliazione per le controversie civili e commerciali (c.d. media-conciliazione)61.

Il decreto legislativo definisce mediazione l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia (mediazione compositiva) o nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa (c.d. mediazione propositiva).

La mediazione è lo strumento per arrivare alla conciliazione, con il supporto di organismi (enti pubblici o privati abilitati a svolgere il procedimento di mediazione, privi del potere di rendere giudizi o decisioni vincolanti) iscritti in un registro istituito con decreto del Ministro della giustizia.

Può essere oggetto di mediazione qualsiasi controversia civile e commerciale che verte su diritti disponibili e chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia. Non sono previste formalità particolari e la mediazione può svolgersi anche secondo modalità telematiche.

E’ previsto un nuovo obbligo per l’avvocato di informare l’assistito, in modo chiaro e per iscritto, della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione. In caso di violazione dell’obbligo di informazione, il contratto tra l’avvocato e l’assistito è annullabile.

I tipi di mediazione previsti sono tre: la mediazione facoltativa che viene liberamente scelta dalle parti; la mediazione obbligatoria che è imposta dalla legge; la mediazione giudiziale quando è il giudice a invitare le parti a procedere a una mediazione.

Per le controversie in alcune materie (contratti assicurativi, bancari e finanziari, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimenti danni derivanti da responsabilità medica e da diffamazione a mezzo stampa o con altro mezzo di pubblicità) l’esperimento del procedimento di mediazione è previsto come condizione di procedibilità della domanda giudiziale. A partire dal 20 marzo 2012 il procedimento di mediazione dovrà essere esperito a pena di improcedibilità della domanda giudiziale anche nei casi di controversie in materia di condominio e di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti.

La mediazione obbligatoria non si applica alle azioni collettive inibitorie e all’azione di classe disciplinate dal Codice del consumo62.

Il procedimento di mediazione non è soggetto ad alcuna formalità e ha una durata non superiore a quattro mesi. Se si raggiunge l’accordo amichevole (conciliazione) il mediatore redige processo verbale; se non si raggiunge l’accordo il mediatore può formulare una proposta di conciliazione. Se le parti aderiscono alla proposta del mediatore si forma processo verbale sottoscritto dalle parti e dal mediatore. Il verbale di accordo viene omologato con decreto del Presidente del Tribunale e costituisce titolo esecutivo.

Il rifiuto delle parti a una proposta di conciliazione può avere conseguenze nel successivo procedimento civile: se all’esito del processo civile il provvedimento del giudice corrisponde alla proposta conciliativa che non è stata accettata, le spese del processo saranno a carico della parte che

59. Circolare Assonime 8/2009.

60. Circolare Assonime 48/2009.

61. Il d.lgs. n. 28/2010 costituisce attuazione della delega contenuta nell’art. 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69 e della direttiva dell’Unione europea 2008/52/CE del 21 maggio 2008. Con il successivo regolamento 18 ottobre 2010 n. 180 sono stati disciplinati, tra l’altro, l’importo delle tariffe, i requisiti per l’iscrizione al registro dei mediatori e il profilo dei mediatori.

62. Artt. 37, 140 e 140-bis.

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ha rifiutato ingiustificatamente la soluzione conciliativa.

Nell’azione di classe disciplinata dall’art. 140-bis del Codice del consumo la conciliazione intervenuta dopo la scadenza del termine per l’adesione ha effetto nei confronti degli aderenti che vi abbiano espressamente consentito.

Prosegue a livello europeo l’impegno a rafforzare e agevolare i meccanismi di composizione stragiudiziale delle controversie. Su queste procedure la Commissione europea ha promosso una consultazione pubblica che si è chiusa il 15 marzo 2011. Obiettivo della Commissione è aumentare la fiducia dei consumatori negli acquisti transfrontalieri nel mercato unico, fornendo delle forme di risoluzione alternativa delle controversie che siano poco costose, semplici, rapide e che evitino il ricorso al giudice.

Negli Stati membri esistono attualmente più di 750 sistemi diversi di ADR in materia di consumo, soprattutto nei settori dei servizi finanziari, delle telecomunicazioni e dei trasporti. La Commissione europea intende sviluppare ulteriormente questi sistemi, migliorando l’informazione dei consumatori e delle imprese sulla loro esistenza ed estendendone l’applicazione ad altre aree geografiche e ad altri settori, tra cui in particolare il commercio elettronico transfrontaliero.

3.4 Prospettive del diritto dell’Unione europea in materia di tuteladei consumatori

Il 2 luglio 2009 la Commissione europea ha adottato una comunicazione sull’applicazione della normativa comunitaria a tutela dei consumatori63. La comunicazione illustra la correlazione tra i vari sistemi volti ad assicurare il rispetto dei diritti dei consumatori (public enforcement, private enforcement, meccanismi di soluzione stragiudiziale delle controversie, attività degli organismi di autoregolamentazione) e il ruolo che spetta alla Commissione nell’attuazione della politica europea sui consumatori. La comunicazione individua inoltre cinque aree prioritarie di intervento e propone alcune misure per rendere più efficace l’attività di applicazione delle norme da parte delle autorità pubbliche. La Commissione intende in particolare: rafforzare i meccanismi di cooperazione a livello transfrontaliero; migliorare la trasparenza e la visibilità dei risultati dell’attività di sorveglianza e di enforcement; incoraggiare lo scambio di conoscenze tra autorità e sviluppare un’interpretazione condivisa delle regole, anche mediante l’adozione di linee guida interpretative (ad esempio in tema di pratiche commerciali scorrette); migliorare i sistemi di monitoraggio del mercato e di benchmark relativi alla tutela dei consumatori negli Stati membri; intensificare la cooperazione internazionale mediante accordi con le autorità dei Paesi terzi e lo scambio di best practices. 

Il 22 ottobre 2009 la Commissione europea ha adottato una comunicazione sul commercio elettronico transfrontaliero64. Una recente indagine sul commercio elettronico transfrontaliero di prodotti di consumo ha evidenziato che gli ordinativi dei consumatori dell’Unione europea che tentano di acquistare prodotti in un altro Stato membro sono spesso rifiutati. Dall’indagine è emerso che nella quasi totalità dei paesi dell’Unione europea le probabilità di successo di un acquisto transfrontaliero sono inferiori al 50 per cento. Gli acquisti transfrontalieri vanno salvaguardati perché possono assicurare ai consumatori risparmi sostanziali e l’accesso a prodotti non disponibili sul mercato nazionale. Tra le linee di azione prioritarie individuate dalla Commissione vi è il rafforzamento dell’applicazione transfrontaliera delle norme in materia di diritti dei consumatori, in modo da accrescere la fiducia nel commercio transfrontaliero e semplificare gli adempimenti richiesti alle imprese per le vendite transfrontaliere al dettaglio.

Prosegue l’iter della proposta di direttiva in materia di diritti dei consumatori. La proposta, presentata nell’ottobre 2008 dalla Commissione europea, modifica e accorpa in un unico testo normativo le disposizioni attualmente contenute nelle direttive sui contratti negoziati fuori dai contratti commerciali (85/577/CEE), sulle clausole abusive nei contratti con i consumatori (93/13/CEE), sui contratti a

63. Comunicazione sull’applicazione dell’acquis in materia di protezione dei consumatori, COM(2009)330.

64. Comunicazione sul commercio elettronico transfrontaliero tra imprese e consumatori nell’UE, COM(2009)557.

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distanza (97/7/CE) e sulle garanzie nelle vendite di beni di consumo (99/44/CE). La direttiva interessa i seguenti aspetti: gli obblighi di informazione precontrattuale verso il consumatore, regole specifiche sull’informazione ai consumatori e sul diritto di recesso nei contratti a distanza e nei contratti negoziati fuori dai locali commerciali, con allungamento del periodo di ripensamento a disposizione del consumatore e l’introduzione di un modello standard per esercitare il diritto di recesso; altri diritti dei consumatori in relazione ai contratti di vendita, comprese regole sulla consegna del bene, e sul passaggio del rischio al consumatore, che costituiscono una novità a livello comunitario; una disciplina in materia di clausole contrattuali unilateralmente imposte, che include una nuova lista nera di clausole sempre vietate e una lista grigia di clausole ritenute abusive fino a prova contraria.

La proposta iniziale presentata dalla Commissione si basava su un approccio di armonizzazione massima, secondo il quale gli Stati membri non possono mantenere o introdurre nei propri ordinamenti disposizioni più stringenti volte a garantire un livello più elevato di tutela dei consumatori. Il Parlamento europeo ha proposto modifiche al testo della Commissione, orientandosi verso un approccio basato su un’armonizzazione completa mirata, vale a dire un’armonizzazione minima generale accompagnata dall’armonizzazione piena di alcune norme tecniche.

4. Società a partecipazione pubblica, servizi pubblici locali e appalti pubblici

4.1 Evoluzione del quadro giuridico delle società a partecipazione pubblica

A partire dal 2006 sono state introdotte nell’ordinamento italiano molte regole in materia di società a partecipazione pubblica, con l’obiettivo di frenare sprechi e degenerazioni65. Nel rapporto sul quadro giuridico delle società a partecipazione pubblica pubblicato nel 2008, Assonime aveva indicato alcune linee per un riordino della disciplina che forniscono una guida ancora valida sulla direzione da seguire66:

a. distinguere il regime giuridico delle società di mercato, quotate e non quotate, che deve essere improntato al diritto comune, da quello dei soggetti che, pur avendo forma societaria, sono nella sostanza pubbliche amministrazioni e quindi possono essere assoggettati a norme di tipo pubblicistico;

b. promuovere il ricorso alla gara come strumento generale per l’affidamento dei servizi pubblici locali e limitare gli affidamenti in house da parte delle amministrazioni anche per i servizi diversi dai servizi pubblici locali;

c. assicurare trasparenza e certezza sugli obblighi di servizio pubblico e sulla copertura dei costi derivanti dagli oneri di servizio pubblico:

d. precisare i poteri dell’azionista pubblico, che nella sua veste di socio deve avvalersi unicamente delle disposizioni del codice civile. Nella governance delle società a partecipazione pubblica il rapporto tra azionista e amministratori dovrebbe essere fondato sulla fissazione di chiari obiettivi di performance; gli amministratori, quali titolari esclusivi del potere di gestione, dovrebbero essere valutati in relazione ai risultati ottenuti nel perseguimento degli obiettivi concordati;

65 Vanno ricordate, in particolare, le misure contenute nel decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, nella legge fi nanziaria per il Vanno ricordate, in particolare, le misure contenute nel decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, nella legge finanziaria per il 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296), nella legge finanziaria per il 2008 (legge 24 dicembre 2007, n. 244) e nel decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con la legge 6 agosto 2008, n. 133.

66 Principi di riordino del quadro giuridico delle società pubbliche, Note e studi Assonime, settembre 2008.

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e. ispirarsi a criteri di mercato nella selezione delle posizioni apicali e nella fissazione delle remunerazioni in modo da favorire l’interesse di lungo periodo della società;

f. porre un limite alla proliferazione delle società a partecipazione pubblica dando attuazione alla disciplina che richiede la dismissione delle partecipazioni pubbliche che non riguardano servizi pubblici o attività strettamente necessarie allo svolgimento dei fini istituzionali.

Nell’ultimo biennio vi sono state importanti pronunce giurisprudenziali e il legislatore ha adottato vari provvedimenti di modifica e integrazione della disciplina67.

La Corte di Cassazione ha sancito la competenza del giudice ordinario, con esclusione della giurisdizione della Corte dei conti, in tema di responsabilità degli amministratori di società a partecipazione pubblica per danno al patrimonio sociale68. Le società partecipate da un soggetto pubblico non perdono infatti la loro natura di enti privati per il fatto che il capitale è alimentato da conferimenti provenienti dallo Stato o da altro ente pubblico. In particolare la Corte di Cassazione ha sottolineato che il danno al patrimonio sociale riguarda un soggetto privato (la società) ed è riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai singoli soci, pubblici o privati, i quali sono unicamente titolari delle quote di partecipazione e i cui originari conferimenti restano confusi e assorbiti nel patrimonio sociale. La Corte dei conti è invece competente a giudicare nel caso in cui il comportamento degli amministratori crei un danno diretto all’ente pubblico, non qualificabile come un mero riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale.

Per quanto riguarda i limiti ai compensi, con il decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 195 è stata data attuazione alla previsione della legge finanziaria 2008 che ha introdotto un limite massimo al trattamento economico onnicomprensivo a carico delle pubbliche finanze per le retribuzioni o gli emolumenti conferiti da parte delle società non quotate a totale o prevalente partecipazione pubblica nonché delle loro controllate69. Il trattamento economico onnicomprensivo non può superare quello spettante al Primo Presidente della Corte di Cassazione (attualmente pari a 311.000 euro); il limite può essere derogato solo per motivate esigenze di carattere eccezionale e per un periodo di tempo non superiore a tre anni. Il regolamento del 2010 ha specificato che alla verifica del rispetto del limite non concorre né il corrispettivo globale percepito per il rapporto di lavoro o il trattamento pensionistico corrisposto al soggetto destinatario da parte dell’amministrazione o dalla società di appartenenza e dall’ente previdenziale, né la parte del compenso che il soggetto destinatario è obbligato a versare in fondi. Dall’ambito di applicazione sono esclusi gli emolumenti correlati ad attività soggette a tariffa professionale, a prestazioni professionali o a contratti d’opera di natura non continuativa e i compensi per gli amministratori investiti di particolari incarichi.

Il decreto legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, contiene alcune disposizioni in materia di società a partecipazione pubblica nell’ambito delle misure di contenimento della spesa pubblica. Il compenso dei consiglieri d’amministrazione e dei sindaci delle società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione nonché delle società interamente possedute dalle pubbliche amministrazioni è stato ridotto del 10 per cento. Sono stati posti limiti alla possibilità per le pubbliche amministrazioni di destinare risorse al finanziamento di società in perdita: salvo il caso di riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale, le amministrazioni pubbliche non possono effettuare aumenti di capitale, trasferimenti straordinari o altri finanziamenti a favore di società partecipate non quotate che abbiano registrato, per tre anni consecutivi, perdite di esercizio oppure che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali. Per quanto concerne i limiti all’operatività delle società, il d.l. n. 78/2009 ha esteso alle società non quotate inserite nel conto economico consolidato della PA e controllate direttamente o indirettamente

67. Circolari Assonime 31/2009 (“. Circolari Assonime 31/2009 (“Le nuove norme in materia di società pubbliche”) e 3/2010 (“La responsabilità degli amministratori di società a partecipazione pubblica: nuovi orientamenti della Cassazione”); Note e studi Assonime 11/2010 (“Società a partecipazione pubblica: manovra estiva, indagine della Corte dei conti sulle partecipazioni dei comuni, applicabilità del decreto n. 231/2001”).

68. Corte di Cassazione, sez. un., sentenza 19 dicembre 2009, n. 26806 e Corte di Cassazione, sez. un., sentenza 15 gennaio . Corte di Cassazione, sez. un., sentenza 19 dicembre 2009, n. 26806 e Corte di Cassazione, sez. un., sentenza 15 gennaio 2010, n. 519.

69. Legge 24 dicembre 2007, n. 244, art. 3.. Legge 24 dicembre 2007, n. 244, art. 3.

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dalle amministrazioni pubbliche l’applicazione delle misure previste per le assunzioni pubbliche. Dal 2015 le assunzioni di personale a tempo indeterminato, previo svolgimento delle procedure di mobilità, non possono comportare una spesa superiore a quella relativa al personale cessato nell’anno precedente. In ogni caso il numero delle unità di personale da assumere non può eccedere quello delle unità cessate nell’anno precedente.

Negli scorsi anni erano già state introdotte disposizioni per limitare la proliferazione delle società a partecipazione pubblica, soprattutto a livello locale. In particolare, l’art. 3, commi da 27 a 32, della legge finanziaria per il 2008 ha precluso a tutte le amministrazioni pubbliche – statali, regionali e locali – di costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali e di assumervi partecipazioni, anche di minoranza. L’assunzione di nuove partecipazioni e il mantenimento di quelle possedute deve essere autorizzato dall’amministrazione pubblica interessata, che deve indicare i motivi per i quali quell’attività è strettamente necessaria per le finalità istituzionali. Le società e le partecipazioni che non rispettano i requisiti devono essere cedute. Sono espressamente escluse dalla disciplina le società per la fornitura di servizi di interesse generale nell’ambito del livello di competenza dell’amministrazione pubblica e le società emittenti strumenti finanziari quotati.

Nel biennio appena trascorso sono state aggiunte nuove disposizioni funzionali allo stesso obiettivo. Le nuove regole di contabilità pubblica introdotte dalla legge 31 dicembre 2009, n. 196 e la legge 5 maggio 2009, n. 42 sul federalismo fiscale prevedono l’adozione da parte delle amministrazioni pubbliche di un bilancio consolidato con le proprie aziende, società o organismi controllati. L’obbligo di consolidamento dei bilanci elimina l’incentivo a costituire società per eludere i vincoli di finanza pubblica; la disciplina, però, non è ancora operativa.

Con il d.l. n. 78/2010 sono stati introdotti ulteriori vincoli, di tipo numerico, per le società degli enti locali di minori dimensioni. I comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti non possono costituire nuove società e devono mettere in liquidazione le società già costituite o cedere la loro partecipazione entro il 31 dicembre 201370. Il divieto non si applica alle società costituite da più comuni la cui popolazione complessiva supera i 30.000 abitanti, con partecipazione paritaria oppure con partecipazione proporzionale al numero di abitanti. I comuni con popolazione compresa tra i 30.000 e i 50.000 abitanti possono detenere la partecipazione in una sola società ed entro il 31 dicembre 2011 devono mettere in liquidazione le altre società già costituite.

La relazione sul federalismo fiscale presentata dal Governo alle Camere il 30 giugno 2010 e le analisi della Corte dei conti indicano, peraltro, che i tentativi di ridimensionamento delle partecipazioni pubbliche a livello locale non hanno ancora prodotto significativi risultati.

4.2 La riforma della disciplina dei servizi pubblici locali

L’art. 23-bis del d.l. n. 112/2008 ha introdotto nuove regole sull’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Dopo un lungo periodo di attesa, nel settembre 2010 è stato adottato il regolamento di attuazione dell’art. 23-bis71. La disciplina si applica al servizio idrico integrato, alla gestione dei rifiuti, al trasporto pubblico locale ad eccezione del trasporto ferroviario regionale e ai servizi pubblici locali minori.

In base alla nuova normativa, la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica è affidata, in via ordinaria:

- a imprese, in qualunque forma costituite, mediante procedure competitive a evidenza pubblica; oppure

- a società a partecipazione mista pubblico privata, se la selezione del socio avviene attraverso

70. Termine da ultimo modifi cato dall’art. 2, comma 43 del decreto legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito con . Termine da ultimo modificato dall’art. 2, comma 43 del decreto legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito con modificazioni dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10.

71. Decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 168. Cfr. Circolare Assonime 1/2011.. Decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 168. Cfr. Circolare Assonime 1/2011.

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procedure competitive a evidenza pubblica che hanno ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio, purché al socio sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40 per cento del capitale.

L’affidamento in house è consentito solo in via eccezionale, a condizione che siano rispettati i requisiti del diritto europeo72 e che, inoltre, “peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento” non permettano un efficace e utile ricorso al mercato. La scelta dell’ente locale di procedere all’affidamento in house deve essere motivata in base a un’analisi di mercato; al di sopra di una determinata soglia dimensionale (cioè quando il valore del servizio oggetto di affidamento è superiore a 200.000 euro annui) è necessario il parere preventivo, non vincolante, dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato.

Tale normativa ha sollevato dubbi da parte di una serie di regioni italiane sul fondamento costituzionale della competenza legislativa dello Stato e il corretto esercizio di tale competenza. Alcune regioni hanno inoltre sostenuto che l’art. 23-bis violerebbe l’art. 117, primo comma, della Costituzione in base al quale la potestà legislativa dello Stato e delle regioni è vincolata al rispetto del diritto dell’Unione europea, perché la disciplina italiana restringe, rispetto al diritto europeo, la possibilità di affidare la gestione dei servizi con modalità diverse dalla gara. Nella sentenza n. 325/2010 la Corte costituzionale ha valutato le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle regioni e le ha ritenute inammissibili o infondate73. E’ stata dichiarata illegittima unicamente la disposizione dell’art. 23-bis che prevedeva l’assoggettamento degli affidatari in house di servizi pubblici locali al Patto di stabilità interno attraverso un regolamento dello Stato74. La Corte ha osservato che la definizione dell’ambito di applicazione del Patto di stabilità interno rientra nella materia del coordinamento della finanza pubblica, che è di competenza legislativa concorrente dello Stato e delle regioni. Le materie di competenza legislativa concorrente esulano dalla potestà regolamentare dello Stato che, in base all’art. 117, comma 6, della Costituzione, è prevista solo per le materie di competenza legislativa esclusiva statale.

Il regolamento di attuazione dell’art. 23-bis richiede agli enti locali di limitare l’attribuzione di diritti in esclusiva ai casi in cui la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio corrispondente ai bisogni della comunità. Gli enti locali sono tenuti a definire ove necessario obblighi di servizio pubblico e prevedere eventuali compensazioni economiche delle imprese che esercitano i servizi, tenendo conto dei proventi derivanti dalle tariffe e dei limiti della disponibilità di bilancio. I gestori di servizi pubblici locali titolari di diritti di esclusiva, se intendono svolgere attività in mercati diversi da quelli in cui detengono tali diritti, sono soggetti alla disciplina prevista dalla legge 10 ottobre 1990, n. 287, sull’obbligo di operare mediante società separate e di concedere alle imprese concorrenti l’accesso a determinati beni o servizi.

Il regolamento fornisce anche indicazioni sul contenuto del bando o della lettera di invito volte a favorire la più ampia partecipazione dei concorrenti. In particolare: il bando deve essere redatto in modo tale che la disponibilità a qualunque titolo delle reti, degli impianti o delle altre dotazioni patrimoniali non sia elemento discriminante nella valutazione delle offerte; i requisiti tecnici ed economici devono essere proporzionati; la durata dell’affidamento deve essere commisurata alla consistenza degli investimenti e non essere superiore al periodo di ammortamento; devono essere chiaramente specificate le condizioni per la cessione dei beni strumentali necessari per la prosecuzione del servizio pubblico locale in caso di subentro di un altro gestore. Il bando di gara deve prevedere l’adozione di carte di servizio al fine di garantire trasparenza informativa e qualità di servizio. Nel caso di procedure aventi ad oggetto la qualità di socio e l’attribuzione di specifici compiti operativi, il bando di gara deve inoltre assicurare che i criteri di valutazione basati sulla qualità del servizio prevalgano su quelli riferiti al prezzo delle quote societarie. Il socio privato selezionato con la

72. Capitale totalmente pubblico, controllo da parte dell’amministrazione aggiudicatrice sull’affi datario analogo a quello . Capitale totalmente pubblico, controllo da parte dell’amministrazione aggiudicatrice sull’affidatario analogo a quello esercitato sui propri servizi, svolgimento della parte più importante dell’affidatario in favore dell’ente o degli enti che detengono il controllo.

73. Corte costituzionale, sentenza 17 novembre 2010, n. 325.. Corte costituzionale, sentenza 17 novembre 2010, n. 325.

74. Art. 23-. Art. 23-bis, comma 10, lett. a) prima parte, limitatamente alle parole “l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno e”.

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procedura a evidenza pubblica deve svolgere i compiti operativi per l’intera durata del servizio; in caso contrario si deve procedere a un nuovo affidamento. Devono essere previsti criteri e modalità di liquidazione del socio privato alla cessazione della gestione.

Le società in house e le società a partecipazione mista affidatarie di servizi pubblici locali sono tenute al rispetto della normativa sui contratti pubblici per l’acquisto di beni e servizi. Infine per l’assunzione del personale o il conferimento degli incarichi le società a partecipazione pubblica non quotate che gestiscono servizi pubblici locali sono tenute al rispetto dei principi applicabili al pubblico impiego.

Al fine di separare le funzioni di regolazione dalle funzioni di gestione, il regolamento introduce particolari regole di incompatibilità per le nomine e gli incarichi deliberati successivamente all’entrata in vigore del regolamento stesso. Esso prevede ad esempio che i responsabili degli organismi che espletano o che hanno espletato nei tre anni precedenti funzioni di stazione appaltante non possono svolgere incarichi inerenti la gestione dei servizi affidati da parte di tali organismi. Inoltre non possono essere nominati amministratori di società partecipate da enti locali coloro che nei tre anni precedenti la nomina hanno ricoperto la carica di amministratore negli enti locali che detengono quote di partecipazione al capitale della stessa società. Infine non possono essere nominati componenti della commissione di gara per l’affidamento del servizio coloro che hanno rivestito nel biennio precedente la carica di amministratore locale.

Per il servizio idrico integrato, il regolamento di attuazione dell’art. 23-bis specifica che restano ferme la piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche nonché la spettanza esclusiva alle istituzioni pubbliche del governo delle risorse stesse, mentre è fatta salva l’autonomia gestionale del soggetto gestore.

Al fine di tutelare l’interesse degli utenti, assicurare la regolare determinazione e l’adeguamento delle tariffe e promuovere l’efficienza, l’economicità e la trasparenza nella gestione dei servizi idrici è stata recentemente istituita l’Agenzia nazionale di vigilanza sulle risorse idriche75. Essa è un organo collegiale, funzionalmente indipendente dal Governo e costituito da tre membri, eletti su designazione del Governo previo parere delle commissioni parlamentari competenti. Tra i compiti dell’Agenzia vi sono la definizione dei livelli minimi di qualità del servizio e dei criteri di determinazione della tariffa, nonché la predisposizione di convenzioni tipo. Inoltre, l’Agenzia ha il compito di approvare le tariffe predisposte dalle autorità competenti, verificare la corretta redazione dei piani d’ambito, emanare direttive per la trasparenza della contabilità delle gestioni, definire indici di valutazione della loro efficienza ed economicità e valutare, su questa base, i costi delle singole prestazioni. All’Agenzia sono trasferite le funzioni attribuite al Conviri, che è soppresso. Agli oneri derivanti dal funzionamento dell’Agenzia si provvede con un contributo a carico dei soggetti vigilati.

4.3 Appalti pubblici

In materia di appalti pubblici vi sono state nel biennio importanti novità sul piano normativo: il recepimento della direttiva europea sui ricorsi 2007/66/CE76, il nuovo regolamento attuativo del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici) e le misure di semplificazione per gli appalti di lavori introdotte dal recente d.l. n. 70/2011 sulle misure urgenti per l’economia.

La direttiva 2007/66/CE ha l’obiettivo di assicurare negli Stati membri mezzi di ricorso più rapidi ed efficaci nei confronti delle decisioni delle amministrazioni aggiudicatrici. La direttiva è stata recepita in Italia con il decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53 che ha modificato alcune disposizioni del Codice dei contratti pubblici.

Una prima novità riguarda il periodo dilatorio prima della stipulazione del contratto. Divenuta efficace l’aggiudicazione, il contratto non può essere stipulato prima di trentacinque giorni dall’invio

75. Decreto legge 13 maggio 2011, n. 70.. Decreto legge 13 maggio 2011, n. 70.

76. Direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2007, che modifi ca le direttive 89/665/. Direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2007, che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE del Consiglio per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudicazione degli appalti pubblici.

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dell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione definitiva. Il termine dilatorio non si applica se è stata presentata o è stata ammessa una sola offerta e non sono state tempestivamente proposte impugnazioni del bando, nonché nel caso di appalto basato su un accordo quadro o su un sistema dinamico di acquisizione. Se invece è stato proposto un ricorso contro l’aggiudicazione definitiva con contestuale domanda cautelare, il contratto non può essere stipulato dal momento della notificazione dell’istanza cautelare alla stazione appaltante e per i successivi venti giorni, a condizione che non intervenga il provvedimento cautelare o la pubblicazione del dispositivo della sentenza in caso di decisione del merito all’udienza cautelare. L’effetto sospensivo sulla stipula del contratto cessa quando il giudice si dichiara incompetente o fissa la data di discussione del merito senza concedere misure cautelari o rinvia al giudizio di merito l’esame della domanda cautelare.

Inoltre sono stati modificati gli obblighi di comunicazione dell’aggiudicazione definitiva e le regole per l’accesso agli atti di gara. L’amministrazione è tenuta a comunicare l’aggiudicazione definitiva, entro un termine non superiore a cinque giorni, all’aggiudicatario, al concorrente che segue nella graduatoria, a tutti i candidati che hanno presentato un’offerta ammessa alla gara, a coloro la cui candidatura è stata esclusa se hanno proposto o sono in tempo per proporre un’impugnazione, nonché a coloro che hanno impugnato il bando, se le impugnazioni non siano state respinte con pronuncia giurisdizionale definitiva. L’accesso agli atti del procedimento in cui sono stati adottati i provvedimenti oggetto di comunicazione è consentito entro dieci giorni dall’invio della comunicazione dei provvedimenti stessi, mediante visione ed estrazione di copia.

Ulteriori modifiche hanno interessato la disciplina dell’arbitrato. La stazione appaltante indica nel bando se il contratto conterrà o meno la clausola compromissoria. L’aggiudicatario può ricusare la clausola compromissoria, che in tal caso non è inserita nel contratto, comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione. È vietato in ogni caso il compromesso. Il compenso per il collegio arbitrale non può superare l’importo di centomila euro, da rivalutarsi ogni tre anni. Il lodo si considera pronunciato con la sua ultima sottoscrizione e diviene efficace con il deposito presso la camera arbitrale per i contratti pubblici. Entro quindici giorni dalla pronuncia del lodo le parti devono corrispondere all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici una somma pari all’uno per mille del valore della relativa controversia. Il lodo è impugnabile oltre che per motivi di nullità anche per motivi relativi al merito della controversia. Su istanza di parte la Corte d’appello può sospendere l’efficacia del lodo se ricorrono gravi e fondati motivi.

Il d.lgs. n. 53/2010 introduce alcune modifiche in tema di impugnazione degli atti. In particolare viene previsto l’obbligo di comunicazione dell’intenzione di proporre ricorso. I soggetti che intendono proporre un ricorso giurisdizionale ne informano le stazioni appaltanti. L’informazione deve recare una sintetica e sommaria indicazione dei presunti vizi di legittimità e dei motivi di ricorso che il ricorrente intende presentare in giudizio, salva in ogni caso la facoltà di proporre in giudizio anche motivi diversi o ulteriori. L’informativa non impedisce l’ulteriore corso del procedimento di gara né il decorso del termine dilatorio per la stipulazione del contratto o la proposizione del ricorso giurisdizionale. La stazione appaltante entro quindici giorni dall’informativa comunica le proprie determinazioni in ordine ai motivi indicati dall’interessato, stabilendo se interviene o meno in autotutela. L’inerzia equivale a diniego di autotutela.

Gli atti delle procedure di affidamento, comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di attività tecnico-amministrative ad esse connesse, relativi a lavori, servizi o forniture, nonché i connessi provvedimenti dell’Autorità, sono impugnabili unicamente mediante ricorso al tribunale amministrativo regionale competente (non è più consentito il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica). La competenza territoriale del tribunale è inderogabile e il relativo difetto è rilevato anche d’ufficio prima di ogni altra questione.

Infine il decreto legislativo dispone nuove regole sulla sorte del contratto in seguito all’annullamento dell’aggiudicazione. Il giudice che annulla l’aggiudicazione definitiva dichiara l’inefficacia del contratto nei casi indicati dal nuovo art. 245-bis. Il contratto resta efficace, anche nelle ipotesi indicate, qualora venga accertato che il rispetto di esigenze imperative connesse a un interesse generale imponga che i suoi effetti siano mantenuti. Tra le esigenze imperative rientrano, fra l’altro, quelle imprescindibili di carattere tecnico o di altro tipo, tali da rendere evidente che i residui obblighi contrattuali possono essere rispettati dall’esecutore attuale. Fuori da tali casi, il giudice che annulla

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l’aggiudicazione definitiva stabilisce se dichiarare inefficace il contratto, fissandone la decorrenza, tenendo conto in particolare degli interessi delle parti, dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e delle possibilità di subentrare nel contratto, nei casi in cui il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovare la gara e la relativa domanda sia stata proposta.

Con il regolamento adottato con decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207, è stata completata la disciplina attuativa del Codice dei contratti pubblici77. Il regolamento riguarda in particolare gli organismi di attestazione, i contratti pubblici eseguiti all’estero e i contratti pubblici relativi a servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria nei settori ordinari.

Nel d.l. n. 70/2011 sono state introdotte disposizioni volte a semplificare le procedure per alcuni appalti di lavori. In particolare il provvedimento prevede che le stazioni appaltanti dovranno predisporre i bandi di gara sulla base dei modelli standard approvati dall’Autorità di vigilanza, previo parere del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Le stazioni appaltanti devono espressamente indicare le ragioni di eventuali deroghe. Inoltre è prevista la possibilità di verificare il possesso dei requisiti tecnico-organizzativi dei partecipanti alla gara presso la Banca nazionale dei contratti pubblici, gestita dall’Autorità di vigilanza. Infine, nell’ambito della disciplina sui contratti sottosoglia, il decreto innalza fino a 1 milione di euro la soglia entro cui è possibile ricorrere alla procedura negoziata senza pubblicazione del bando. Vi è tuttavia l’obbligo di invitare almeno dieci concorrenti per i lavori di importo superiore a 500.000 euro e almeno cinque per i lavori di importo inferiore a 500.000 euro e di provvedere alla pubblicità dei risultati della procedura di affidamento, indicando le imprese invitate.

Il 27 gennaio 2011 la Commissione europea ha pubblicato un Libro verde sulla modernizzazione della politica dell’Unione europea in materia di appalti pubblici e ha avviato una consultazione pubblica sul tema. La Commissione osserva che gli appalti pubblici rappresentano il 17 per cento del PIL dell’Unione europea e che, in un periodo di restrizioni di bilancio e difficoltà economiche, è particolarmente importante assicurare l’uso efficiente del denaro pubblico per sostenere la crescita e l’occupazione. Occorrono strumenti flessibili e di facile impiego che favoriscano procedure trasparenti e competitive di aggiudicazione degli appalti pubblici a vantaggio sia delle autorità pubbliche che delle imprese. La consultazione è volta ad approfondire come migliorare l’attuale quadro giuridico europeo riducendo i costi complessivi. Nel Libro verde la Commissione identifica una serie di aree in cui sarebbe possibile, in linea di principio, modificare le regole e le prassi attuali. Esse riguardano sia l’ambito soggettivo e oggettivo di applicazione sia le procedure. In particolare la Commissione chiede se dare più spazio alle procedure accelerate e alla negoziazione, se rendere più flessibile la distinzione tra i criteri di selezione e di aggiudicazione, se consentire espressamente di tenere conto della performance passata dei fornitori, se vi sia bisogno di regolare a livello europeo anche alcuni aspetti della fase di esecuzione del contratto.

Un altro tema considerato nel Libro verde è come integrare nella politica degli appalti pubblici il perseguimento degli obiettivi della strategia Europa 2020, quali l’innovazione, la tutela dell’ambiente e il risparmio energetico. Viene anche discusso se siano opportune regole particolari per l’affidamento dei servizi sociali. Da ultimo, la Commissione chiede che cosa si debba fare per migliorare l’accesso delle imprese europee ai mercati degli appalti pubblici nei paesi terzi.

Nella risposta alla consultazione78, Assonime ha sottolineato che il modo migliore per affrontare le diverse questioni sollevate dal Libro verde è ricordare che l’obiettivo primario della politica UE sugli appalti pubblici è, e deve rimanere, quello di garantire l’uso efficiente dei fondi pubblici (miglior rapporto qualità/prezzo) in un mercato unico integrato, senza barriere artificiali agli scambi transfrontalieri.

77. La legge delega in base alla quale è stato adottato il Codice dei contratti pubblici ha previsto la possibilità di emanare . La legge delega in base alla quale è stato adottato il Codice dei contratti pubblici ha previsto la possibilità di emanare decreti correttivi entro due anni dall’entrata in vigore del Codice. Il Governo ha esercitato tale facoltà quattro volte adottando i seguenti decreti correttivi: decreto legislativo 26 gennaio 2007, n. 6, decreto legislativo 31 luglio 2007, n. 113, decreto legislativo 11 settembre 208, n. 152 e decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207.

78. Assonime, Intervento 5/2011, . Assonime, Intervento 5/2011, Response to the Green Paper on the modernisation of EU public procurement policy.

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La semplificazione del quadro giuridico attuale e delle procedure dovrebbe essere perseguita negli ambiti in cui ciò non pregiudica la trasparenza e la concorrenza. Le procedure trasparenti e non discriminatorie in materia di appalti pubblici non solo hanno effetti positivi sull’efficienza della spesa pubblica, ma rendono meno probabili favoritismi e corruzione.

Poiché le direttive si basano su un approccio di armonizzazione minima, in alcuni Stati membri le norme e le procedure sono più rigorose e più rigide che in altri. Alcune divergenze non appaiono strettamente giustificate da esigenze di interesse generale; il dibattito europeo dovrebbe incoraggiare gli Stati membri che applicano regole più severe e più rigide rispetto a quanto richiesto dalle direttive del 2004 a verificare se sia possibile semplificare il proprio quadro normativo.

Assonime ha inoltre auspicato un intervento a livello europeo per meglio delimitare la nozione di organismo di diritto pubblico. La giurisprudenza ha infatti progressivamente ampliato questa nozione, così che oggi vi rientrano anche società soggette a stretti vincoli di mercato, che non necessitano pertanto di regole ad hoc volte ad assicurare l’efficienza degli acquisti. Un’analoga esigenza di ripensamento dell’ambito di applicazione delle regole sugli appalti pubblici si pone nel settore dei servizi speciali (acqua, energia, trasporti e servizi postali): quando un’impresa pubblica è soggetta a un’effettiva concorrenza da parte di operatori privati, assoggettarla alle regole sugli acquisti pubblici può comportare un ingiustificato svantaggio competitivo rispetto agli altri operatori. La direttiva sui settori speciali già prevede un meccanismo per sottrarre all’ambito di applicazione le imprese esposte alla concorrenza79, ma il suo funzionamento appare lento e macchinoso.

La semplificazione amministrativa costituisce il migliore strumento per agevolare l’accesso al mercato degli appalti pubblici anche da parte delle piccole e medie imprese. Occorre consentire un maggiore ricorso alle autocertificazioni, ridurre gli oneri informativi a carico delle imprese valorizzando le informazioni inserite in banche dati pubbliche e sfruttare appieno le possibilità offerte dall’utilizzo delle nuove tecnologie.

La politica europea degli appalti pubblici ha anche un’importante dimensione internazionale. Le iniziative europee volte a garantire l’accesso ai mercati degli appalti pubblici fuori dall’Unione europea devono essere accompagnate, secondo Assonime, da una più attiva politica internazionale dell’Unione in materia di aiuti di Stato, secondo le linee indicate nel rapporto Monti sul rilancio della strategia per il mercato interno.

4.4 Tracciabilità dei flussi di pagamento

Nella legge 13 agosto 2010, n. 136 sul piano straordinario contro le mafie sono state inserite, all’art. 3, alcune disposizioni volte ad assicurare la tracciabilità dei flussi finanziari connessi ai contratti pubblici. La formulazione originaria della disciplina generava numerose incertezze e problemi applicativi. Per porvi rimedio, il decreto legge 12 novembre 2010, n. 187, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2010, n. 217, ha apportato una serie di modifiche al testo dell’art. 3. Il decreto ha inoltre chiarito l’ambito di applicazione temporale della disciplina e il regime transitorio e ha dettato alcune disposizioni di interpretazione autentica. L’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici si è fatta carico di fornire ulteriori chiarimenti e indicazioni operative per la concreta attuazione degli obblighi di tracciabilità80. Per molti profili, tuttavia, resta ancora l’esigenza di trovare modalità applicative che non impongano agli operatori obblighi sproporzionati rispetto al perseguimento degli obiettivi di interesse pubblico.

Per prevenire le infiltrazioni criminali nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, l’art. 3 della l. n. 136/2010 prevede che “gli appaltatori, i subappaltatori e i subcontraenti della filiera delle imprese nonché i concessionari di finanziamenti pubblici anche europei a qualsiasi titolo interessati ai lavori, ai servizi e alle forniture pubblici” devono utilizzare uno o più conti correnti

79. Direttiva 2004/17/CE.. Direttiva 2004/17/CE.

80. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, determinazione n. 8 del 18 novembre 2010 e determinazione n. 10 del 22 . Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, determinazione n. 8 del 18 novembre 2010 e determinazione n. 10 del 22 dicembre 2010.

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bancari o postali, accesi presso banche o presso la società Poste italiane spa, dedicati, anche non in via esclusiva, alle commesse pubbliche. Tutti i movimenti finanziari relativi ai lavori, ai servizi e alle forniture pubblici nonché alla gestione dei finanziamenti pubblici che rientrano nell’ambito di applicazione della disciplina devono essere registrati sui conti correnti dedicati. La disciplina prevede un limite al novero degli strumenti utilizzabili: i movimenti devono essere effettuati esclusivamente tramite bonifico bancario o postale, oppure con altri strumenti di incasso o di pagamento “idonei a consentire la piena tracciabilità delle operazioni”. Gli strumenti finanziari devono riportare, in relazione a ogni transazione, i codici volti ad assicurare la tracciabilità del pagamento: il Codice identificativo di gara (CIG) e, ove obbligatorio, il codice unico di progetto (CUP).

La disciplina prevede un regime semplificato per alcune tipologie di pagamenti: i pagamenti destinati a dipendenti, consulenti e fornitori di beni e servizi che rientrano tra le spese generali e quelli destinati alla provvista di immobilizzazioni tecniche, i pagamenti in favore degli enti previdenziali, assicurativi e istituzionali e di gestori e fornitori di servizi pubblici, i pagamenti relativi a tributi e quelli per le spese giornaliere di importo non superiore a 1500 euro.

E’ prescritto che i contratti pubblici contengano un’apposita clausola relativa al rispetto degli obblighi di tracciabilità fissati dalla legge.

Per il mancato rispetto delle disposizioni sulla tracciabilità vi sono sia conseguenze civilistiche, sia sanzioni amministrative pecuniarie.

5. Altri aspetti del diritto dell’attività d’impresa

5.1 Il Trattato di Lisbona: le principali novità e le disposizioni attinenti all’attività d’impresa

Il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, ha modificato il Trattato sull’Unione europea (TUE) e il Trattato CE, che ora prende il nome di Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). I due Trattati hanno il medesimo valore giuridico.

Nel TUE sono illustrati i principi fondamentali dell’Unione, i suoi obiettivi, i criteri di delimitazione delle sue competenze rispetto a quelle degli Stati membri, la sua struttura istituzionale e sono contenute disposizioni generali sull’azione esterna dell’Unione e disposizioni specifiche sulla politica estera e di sicurezza comune.

Nel TFUE sono contenute, senza radicali modifiche rispetto alla struttura del Trattato CE, le regole di funzionamento dell’Unione europea.

Al Trattato di Lisbona sono allegati trentasette protocolli, che ne formano parte integrante e hanno il medesimo valore giuridico delle disposizioni del Trattato.

L’Unione europea, a cui è ora attribuita personalità giuridica, prende il posto della Comunità europea. Ad essa sono ricondotte le competenze che prima erano suddivise nei tre pilastri (politiche della Comunità europea, politica estera e di sicurezza comune, giustizia e affari interni).

L’esercizio delle competenze dell’Unione si fonda sui principi di sussidiarietà e proporzionalità (art. 5 TUE). E’ confermata la divisione delle competenze tra Unione europea e Stati membri che distingue tra competenze esclusive, competenze concorrenti e azioni volte a sostenere, coordinare e integrare l’azione degli Stati membri (art. 2 TFUE). Sono di competenza esclusiva dell’Unione europea, ad esempio, le regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, la politica monetaria dell’area euro e la politica commerciale comune. Rientrano tra le competenze condivise il mercato interno, l’agricoltura, l’ambiente, la protezione dei consumatori, i trasporti, le reti

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transeuropee e l’energia (art. 4 TFUE). La politica estera e di sicurezza comune resta soggetta a norme e procedure specifiche (artt. 23-46 TUE); è istituita la figura dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (art. 24 TUE). Il regime delle competenze delineato dal TFUE può essere modificato, nei singoli ambiti, con una procedura decisionale analoga al vecchio art. 308 CE, che ora però richiede il consenso del Parlamento europeo (art. 352 TFUE).

Per quanto riguarda gli assetti istituzionali, è stato sancito il diritto dei cittadini dell’Unione, in numero di almeno un milione, di invitare la Commissione a presentare una proposta di atto giuridico dell’Unione ritenuto necessario ai fini dell’attuazione dei Trattati (European Citizen’s Initiative, art. 11 TUE). Per accrescere il carattere democratico del processo decisionale, è stato inoltre rafforzato il ruolo del Parlamento europeo. L’approvazione delle iniziative legislative europee ora si basa di regola sul processo di co-decisione da parte del Consiglio e del Parlamento europeo, che diviene la procedura legislativa ordinaria (art. 289 e 294 TFUE).

Le decisioni del Consiglio dei ministri dell’UE avvengono inoltre di regola a maggioranza qualificata, secondo criteri di ponderazione che muteranno nel 2014 (da allora, sarà richiesto il voto positivo del 55% degli Stati membri con il 65% della popolazione). In alcune aree, tra cui in particolare tassazione e difesa, continua ad essere richiesta l’unanimità.

I parlamenti nazionali e il Comitato delle regioni possono presentare ricorso alla Corte di giustizia per violazione del principio di sussidiarietà da parte delle istituzioni dell’Unione europea. I parlamenti nazionali possono inoltre contestare il mancato rispetto del principio di sussidiarietà nella fase iniziale del processo legislativo, in cui la proposta della Commissione è ancora all’esame del Parlamento europeo e del Consiglio (early warning – protocollo n. 2 sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità).

Il ruolo del Consiglio europeo, che ha il compito di fissare gli orientamenti e le priorità politiche generali dell’Unione, è ora espressamente riconosciuto (art. 15 TUE). La Banca centrale europea, pur mantenendo la sua indipendenza, è qualificata come istituzione dell’Unione europea (art. 13 TUE).

La Corte di giustizia dell’Unione europea è composta rispettivamente dalla Corte di giustizia, dal Tribunale (già Tribunale di primo grado, che nella versione inglese del Trattato è ora denominato General Court) e da tribunali specializzati (già camere giurisdizionali, incaricate di categorie di ricorsi in materie specifiche quali attualmente le cause relative ai dipendenti delle istituzioni comunitarie) (art. 19 TUE). In seguito all’abolizione dei pilastri, la Corte di giustizia acquista una competenza generale su tutto il diritto dell’Unione europea, salvo che i Trattati dispongano diversamente. In particolare, la Corte ha ora una competenza pregiudiziale generale nel settore dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Sono stati attenuati i requisiti per il ricorso giurisdizionale delle persone fisiche o giuridiche contro gli atti di natura regolamentare adottati da istituzioni, organi e organismi dell’Unione per i quali non sono necessarie misure di esecuzione: in tali casi, per poter ricorrere alla Corte di giustizia non è più necessario dimostrare che l’atto regolamentare riguarda individualmente il ricorrente, essendo sufficiente che lo riguardi direttamente (art. 263 TFEU, già art. 230 CE). E’ stato accelerato il meccanismo di irrogazione delle sanzioni pecuniarie da parte della Corte di Giustizia in caso di mancata esecuzione da parte di uno Stato membro di una sentenza di inadempimento (art. 260 TFUE).

E’ stato anche sancito il diritto di uno Stato membro di recedere volontariamente dall’Unione europea (art. 50 TUE). Per future modifiche dei Trattati resta necessaria la convocazione di una conferenza intergovernativa. Per le politiche comuni è stato però introdotto un meccanismo semplificato di revisione, che consente emendamenti previa approvazione unanime da parte degli Stati membri e successiva ratifica a livello nazionale, senza la necessità di una conferenza intergovernativa (art. 48 TUE). E’ previsto anche un meccanismo di “passerella” che consente al Consiglio europeo di decidere, all’unanimità, il passaggio in una data area alla votazione a maggioranza qualificata oppure alla procedura legislativa ordinaria; in queste ipotesi, tuttavia, resta un potere di veto in capo ai singoli parlamenti nazionali degli Stati membri.

Anche per le questioni più direttamente attinenti al diritto dell’attività d’impresa nel Trattato di Lisbona vi sono importanti novità.

Per rafforzare la tutela dei diritti individuali, alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE è ora attribuito

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lo stesso valore giuridico dei Trattati. Le violazioni della Carta da parte delle istituzioni europee o da parte degli Stati membri quando applicano il diritto europeo sono, quindi, assimilate alle violazioni dei Trattati e come tali possono essere sottoposte al vaglio della Corte di giustizia (art. 6.1 TUE). E’ inoltre prevista l’adesione dell’UE alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che consentirà di ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso di violazione delle disposizioni della Convenzione da parte delle istituzioni europee (art. 6.2 TUE).

Nel TFUE sono state inserite specifiche disposizioni sulla politica spaziale europea (art. 189 TFUE), sul settore del turismo (art. 195 TFUE) e sull’energia (art. 194 TFUE). La politica dell’Unione nel settore dell’energia è espressamente volta a “garantire il funzionamento del mercato dell’energia; garantire la sicurezza dell’approvvigionamento energetico nell’Unione; promuovere il risparmio energetico, l’efficienza energetica e lo sviluppo di energie nuove e rinnovabili; promuovere l’interconnessione delle reti energetiche”.

Il protocollo n. 26 sui servizi di interesse generale sottolinea l’esigenza di tenere conto, nell’interpretazione delle norme del TFUE, dell’importante ruolo affidato a questi servizi e ribadisce la competenza degli Stati membri sui servizi non economici di interesse generale. Resta comunque immutato l’ex art. 86 del Trattato CE (ora art. 106 TFUE).

Una nuova disposizione consente al Parlamento europeo e al Consiglio, in co-decisione, di creare titoli europei per garantire una protezione uniforme dei diritti di proprietà intellettuale nell’Unione e istituire regimi di autorizzazione, di coordinamento e di controllo centralizzati a livello di Unione (art. 118 TFUE). Tale modifica può facilitare l’adozione di misure volte a conseguire una maggiore integrazione del mercato europeo per quanto concerne la tutela del diritto d’autore on-line.

E’ stata introdotta una nuova base giuridica per rafforzare la capacità amministrativa degli Stati membri nell’attuazione del diritto dell’UE, ad esempio tramite misure volte a favorire lo scambio di informazioni e di funzionari pubblici e a sostenere programmi di formazione (art. 197 TFUE).

La politica commerciale, anche riguardo agli investimenti esteri diretti, è chiaramente attribuita alla competenza esclusiva dell’UE. In questa materia viene riconosciuto un nuovo ruolo di co-legislatore al Parlamento europeo e viene esteso il ricorso alla votazione a maggioranza qualificata (art. 207 TFUE).

5.2 Mercato unico: dal rapporto Monti al Single Market Act

Il 10 maggio 2010 è stato pubblicato il rapporto “Una nuova strategia per il mercato unico – Al servizio dell’economia e della società europea”, predisposto da Mario Monti su incarico del presidente della Commissione europea. Nel rapporto viene delineata una strategia complessiva per rilanciare l’obiettivo della realizzazione del mercato unico europeo, che include linee di azione non tradizionalmente considerate nel perseguimento di questo obiettivo. Questo nuovo approccio si fonda sulla constatazione dell’erosione del sostegno politico e sociale al progetto di integrazione dei mercati in Europa e sull’esigenza di un’azione meno frammentaria, che coinvolga anche i settori da cui può derivare un maggiore contributo alla crescita dell’economia. Le proposte contenute nel rapporto rappresentano un “pacchetto” che tiene conto delle esigenze delle diverse constituencies e dei diversi gruppi di Stati membri (paesi dell’Europa continentale orientati ad un’economia sociale di mercato, paesi anglo-sassoni, paesi dell’Europa centrale e orientale e paesi nordici).

La nuova strategia include iniziative volte a: costruire un mercato unico più forte; creare consenso per tale progetto; riuscire a conseguire in modo efficace gli obiettivi.

Per rafforzare il mercato unico, il rapporto raccomanda tra l’altro di concentrarsi sulle potenzialità fornite dalla digitalizzazione, sulle iniziative per favorire una crescita eco-compatibile, sulle misure per assicurare la mobilità geografica del lavoro e per realizzare le infrastrutture fisiche necessarie al mercato unico. Il rapporto raccomanda anche di adottare misure europee sulle azioni collettive e di realizzare al più presto il brevetto dell’Unione europea, accompagnato da un sistema giurisdizionale unico.

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Per eliminare i timori e creare maggiore consenso nei confronti del mercato unico, il rapporto delinea una serie di iniziative per conciliare la tutela delle libertà di movimento con i diritti dei lavoratori, valorizzare il ruolo dei servizi sociali, utilizzare gli appalti pubblici per perseguire altri obiettivi delle politiche europee, coordinare le politiche fiscali senza pregiudicare la sovranità degli Stati membri in materia di tassazione e spingere l’Unione europea a svolgere un ruolo più attivo nella politica commerciale a livello mondiale.

Infine, per assicurare che la strategia del mercato interno sia efficace sul piano dei risultati, il rapporto insiste sull’importanza della qualità della regolazione e di un’effettiva applicazione delle regole europee. Esso ricorda il ruolo del private enforcement del diritto europeo davanti ai giudici nazionali e auspica un potenziamento dei poteri della Commissione nei casi di infrazione da parte degli Stati membri.

Alla luce delle indicazioni contenute nel rapporto Monti, nell’ottobre 2010 la Commissione ha presentato una comunicazione intitolata “Verso un atto per il mercato unico”, con cinquanta proposte, e l’ha sottoposta a consultazione pubblica.

Il 13 aprile 2011 la Commissione europea ha adottato l’Atto per il mercato unico (Single Market Act – SMA) che individua dodici “leve”, o ambiti d’azione prioritari, per stimolare la crescita e la competitività del mercato interno. Per ciascun ambito di azione, sono indicate alcune misure concrete da adottare entro il 2012.

I dodici ambiti di azione prioritari sono:

- Accesso al finanziamento per le PMI: la Commissione prevede un’iniziativa legislativa volta a facilitare gli investimenti transfrontalieri dei fondi di venture capital. Questa misura si inserisce in un programma di lavoro più ampio volto a creare un contesto favorevole allo sviluppo e alla crescita delle PMI, che ha portato nel febbraio scorso alla revisione dello Small Business Act. Per quel che riguarda le PMI quotate, al fine di rendere più proporzionati gli oneri incombenti su di esse, è prevista una modifica delle direttive Transparency, Prospectus, MAD e Mifid;

- Mobilità dei cittadini: la Commissione intende adottare misure per favorire la mobilità dei lavoratori, che mirano alla semplificazione della procedure di mutuo riconoscimento delle qualifiche professionali, alla creazione di un passaporto europeo delle competenze e alla protezione del diritto alla pensione;

- Diritti di proprietà intellettuale: la Commissione intende proseguire nel progetto relativo a un brevetto che fornisca protezione unitaria nel maggior numero di Stati membri e basato su una giurisdizione unitaria, con l’obiettivo di rilasciare il primo brevetto UE entro il 2013. Le iniziative in tema di proprietà intellettuale saranno inserite nell’ambito di una strategia complessiva, che include anche il rafforzamento della lotta contro la pirateria e la contraffazione, la modernizzazione del sistema dei marchi e la semplificazione dei sistemi di concessione delle licenze di diritto d’autore on-line;

- Consumatori: la Commissione intende sviluppare i sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, soprattutto nel settore del commercio elettronico, e continuare i lavori sull’adozione di un approccio europeo al collective redress. Inoltre, ha pianificato la revisione della direttiva sulla sicurezza generale dei prodotti e un’iniziativa sull’ impronta ecologica dei prodotti;

- Servizi: la Commissione propone di estendere ai servizi il sistema europeo di standardizzazione e di rendere le procedure per l’adozione degli standard più efficaci e più rapide. La piena attuazione della direttiva servizi è considerata prioritaria. Inoltre, la Commissione effettuerà “test di performance” per verificare l’effettivo funzionamento del quadro regolamentare europeo in certi settori, tra cui i servizi alle imprese;

- Infrastrutture di rete: sono previste iniziative sulle infrastrutture energetiche e di trasporto volte a realizzare reti europee realmente integrate, complete e “intelligenti”. La Commissione auspica anche la rapida adozione del programma per la pianificazione strategica e l’armonizzazione dell’utilizzo dello spettro radioelettrico in Europa;

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- Mercato unico digitale: la Commissione proporrà un nuovo quadro legislativo per garantire il mutuo riconoscimento dei servizi di identificazione e autenticazione elettronica nell’UE e una revisione della direttiva sulla firma elettronica per chiarirne i concetti, semplificarne l’uso e abbattere gli ostacoli all’interoperabilità. Inoltre, la Commissione presenterà un piano d’azione per lo sviluppo del commercio elettronico e linee direttrici per eliminare le discriminazioni ingiustificate basate sulla nazionalità e sul luogo di residenza;

- Imprenditoria sociale: la Commissione intende creare un quadro europeo per facilitare lo sviluppo di fondi di investimento solidale e nel 2011 adotterà una comunicazione sulla responsabilità sociale delle imprese;

- Fiscalità: la Commissione ha presentato una proposta di direttiva sulla tassazione dell’energia per promuovere le pratiche che permettono il risparmio energetico e il rispetto dell’ambiente. Essa intende inoltre proseguire i lavori sulla definizione di una base imponibile comune consolidata per la tassazione del reddito d’impresa, che potrà essere utilizzata in alternativa ai sistemi nazionali. Sono previste iniziative per identificare e risolvere i principali problemi fiscali transfrontalieri per i cittadini;

- Coesione sociale: la Commissione ha già avviato una riflessione sugli aiuti di Stato a favore dei servizi d’interesse economico generale (SIEG) e nel 2011 intende adottare una comunicazione per una strategia sui SIEG. Vi saranno anche misure per migliorare l’applicazione della direttiva sui distacchi temporanei dei lavoratori;

- Business environment: la Commissione intende in particolare modificare le direttive contabili per quel che riguarda gli obblighi in materia di informativa finanziaria e proseguire nella riduzione degli oneri amministrativi, soprattutto per le PMI. La Commissione vuole anche proporre l’adozione di uno strumento opzionale di diritto europeo dei contratti e un regolamento per facilitare il recupero dei crediti transfrontalieri;

- Appalti pubblici: la Commissione, con l’adozione del Libro verde, ha avviato una riflessione sulla modernizzazione del quadro legislativo degli appalti pubblici per sostenere una domanda di beni e servizi rispettosa dell’ambiente, per semplificare le procedure e per facilitare l’accesso delle imprese, in particolare delle PMI, ai mercati degli appalti. E’ prevista un’iniziativa legislativa in materia di concessioni.

Perché le azioni proposte producano gli effetti desiderati, la Commissione sottolinea la necessità di un migliore dialogo con la società civile, di uno stretto partenariato con i vari attori del mercato e di un attento monitoraggio dell’applicazione della legislazione sul mercato unico.

Nel 2012 la Commissione valuterà lo stato di avanzamento dell’azione nei dodici ambiti ed elaborerà un nuovo piano d’azione.

5.3 Politiche di semplificazione

La qualità dell’ambiente normativo e amministrativo in cui operano le imprese è fondamentale per la competitività e la crescita. Efficaci politiche di semplificazione sono una necessità. Gli investimenti in settori cruciali quali l’energia e la gestione dei rifiuti sono oggi ancora disincentivati dalla lunghezza e dalla complessità dei procedimenti amministrativi e dalla pluralità dei soggetti dotati di potere di veto. L’esperienza di questi anni ha evidenziato che, per ottenere risultati concreti, le disposizioni a carattere orizzontale volte a limitare le restrizioni normative e gli oneri amministrativi a quanto giustificato da esigenze di interesse generale sono essenziali, ma non bastano. Esse vanno accompagnate da revisioni, possibilmente periodiche, della disciplina dei singoli settori volte ad individuare puntualmente le proposte per migliorare il quadro giuridico per l’attività d’impresa e a realizzarle. Le disposizioni di principio, quali l’obbligo per le amministrazioni di non chiedere ai cittadini informazioni e documenti già in possesso di un’amministrazione pubblica, non producono effetti se non sono accompagnate dal necessario supporto organizzativo e se non sono previste sanzioni per chi non le rispetta.

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Nel biennio trascorso sono state adottate varie iniziative in termini di semplificazione.

Comunicazione unica per la nascita delle’impresa

Dal 1° aprile 2010 è entrato a regime il sistema della comunicazione unica per la nascita dell’impresa, da presentare al Registro delle imprese in via telematica o su supporto informatico81.

La comunicazione unica permette di assolvere agli adempimenti dichiarativi per avviare una nuova attività nei confronti di varie amministrazioni: Registro delle imprese, Inps, Inail e Agenzia delle entrate. Il sistema prevede l’invio automatico delle ricevute all’indirizzo di posta elettronica certificata del soggetto che ha presentato la richiesta e risposte delle amministrazioni in tempi certi (cinque giorni per le Camere di commercio e sette giorni per Inps e Inail). Il rilascio di codice fiscale e partita Iva è praticamente immediato. Sono state successivamente emanate le regole tecniche per le modalità di presentazione della comunicazione unica e per l’immediato trasferimento dei dati tra le pubbliche amministrazioni82.

Segnalazione certificata di inizio di attività

Il d.l. n. 78/2010 ha modificato la legge generale sul procedimento amministrativo sostituendo alle regole sulla denuncia di inizio di attività (che erano già state ripetutamente cambiate) la disciplina della segnalazione certificata di inizio di attività (Scia)83. Le nuove norme interessano tutti i procedimenti amministrativi, davanti ad ogni amministrazione pubblica.

L’obiettivo è consentire l’avvio delle varie attività d’impresa basandosi sulle dichiarazioni del soggetto privato, senza una preventiva verifica della sussistenza dei requisiti da parte della pubblica amministrazione. La Scia, come la precedente Dia, sostituisce ogni atto di autorizzazione, comunque denominato, il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge. La segnalazione deve essere corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazione o di atto di notorietà, nonché dalle attestazioni di tecnici abilitati o delle “agenzie delle imprese” circa la sussistenza dei requisiti e dei presupposti.

Questo strumento semplificato non si applica nei casi in cui entrano in gioco interessi di particolare rilievo (vincoli ambientali, paesaggistici o cultura, difesa, pubblica sicurezza ecc.). A differenza della Dia, la segnalazione può essere utilizzata anche in presenza di regole a tutela della salute pubblica. La Scia consente l’avvio immediato dell’attività (con la denuncia di inizio di attività occorreva aspettare trenta giorni). In linea di principio la Scia può portare a una riduzione dei tempi per l’avvio delle attività. Il sistema però è destinato a non funzionare se i requisiti e i presupposti di legge non sono definiti chiaramente, in modo il più possibile oggettivo, per evitare incertezze.

Allo scopo di rendere più trasparente l’azione amministrativa e ridurre gli oneri gravanti sulle imprese, il d.l. n. 70/2011 ha posto a carico delle pubbliche amministrazioni l’obbligo di pubblicare sul proprio sito istituzionale, per ciascun procedimento di propria competenza, l’elenco degli atti e dei documenti che l’interessato deve presentare a corredo della propria domanda. In caso di mancato adempimento dell’obbligo di pubblicazione, la pubblica amministrazione non potrà respingere la domanda adducendo la mancata produzione di un atto o documento e dovrà invitare l’interessato a regolarizzare la documentazione in un termine congruo. Inoltre nel caso dei procedimenti per i quali vige il regime della segnalazione di inizio attività, in mancanza della pubblicazione dei documenti necessari per l’avvio del procedimento il soggetto potrà iniziare l’attività e l’amministrazione non potrà adottare i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività prima della scadenza del termine fissato per la regolarizzazione della domanda.

81. Decreto legge 31 gennaio 2007, n. 7, convertito dalla legge 2 aprile 2007, n. 40. Cfr. Circolari Assonime 49/2008 e 1/2010.

82. Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 6 maggio 2009.

83. Art. 49 del d.l. n.78/2010, convertito dalla l. n.122/2010.

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Conferenze di servizi

Sempre in una prospettiva di semplificazione, sono state modificate le norme sui procedimenti amministrativi che coinvolgono più amministrazioni attraverso la revisione della disciplina della conferenza di servizi84. I procedimenti interessati sono quelli in cui c’è esercizio di potere discrezionale, a cui non si applica la Scia; si tratta in particolare dei procedimenti che coinvolgono profili connessi alla tutela dell’ambiente.

Per assicurare il rispetto dei tempi, l’amministrazione competente al rilascio dei provvedimenti in materia ambientale può far eseguire le attività tecnico-istruttorie da altri organi della pubblica amministrazione o enti pubblici qualificati. Nei casi in cui l’intervento oggetto della conferenza di servizi è stato sottoposto positivamente a valutazione ambientale strategica (VAS), i risultati devono essere utilizzati senza modificazioni ai fini della valutazione di impatto ambientale (VIA) effettuata nella stessa sede. All’esito dei lavori della conferenza dei servizi e, in ogni caso, scaduti i termini di legge, sono previsti meccanismi per arrivare a una decisione finale: nei casi di VIA statale, l’amministrazione può adire direttamente il Consiglio dei ministri ai sensi del Codice dell’ambiente; negli altri casi, spetta all’amministrazione responsabile adottare la decisione finale, tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse dalla conferenza. La mancata partecipazione alla conferenza o ritardi nell’adozione del provvedimento hanno rilievo sotto il profilo della responsabilità e ai fini della retribuzione di risultato. Si considera acquisito l’assenso delle amministrazioni, anche preposte alla tutela della salute e dell’ambiente, il cui rappresentante non abbia espresso definitivamente la volontà dell’amministrazione nell’ambito della conferenza dei servizi; questo meccanismo, però, non si applica a VIA, VAS e autorizzazione integrata ambientale, lasciando varchi troppo ampi di resistenza burocratica.

Riforma dello sportello unico per le attività produttive

Gli sportelli unici per le attività produttive costituiscono un punto di contatto a livello territoriale tra imprese e pubbliche amministrazioni per gli adempimenti relativi alla realizzazione e alla modifica degli impianti produttivi di beni e servizi e all’accesso all’attività di servizi.

Nei comuni in cui sono stati istituiti, gli sportelli unici per le attività produttive sinora non hanno portato apprezzabili risultati in termini di semplificazione. Con il decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n.16085, è stato intrapreso un nuovo riordino della disciplina, con due obiettivi: agevolare l’accesso all’attività per i prestatori di servizi, in attuazione di quanto richiede la direttiva comunitaria sui servizi nel mercato interno86, e semplificare i procedimenti per la realizzazione e per la modifica degli impianti. Per questi procedimenti lo sportello unico (Suap) è l’unico soggetto pubblico a cui riferirsi a livello territoriale. Domande e documenti vanno trasmessi in via telematica al Suap, che provvede a trasmetterli alle altre amministrazioni. Lo sportello è tenuto a fornire al richiedente una risposta telematica “unica e tempestiva” in luogo di tutti gli altri uffici e amministrazioni coinvolti nel procedimento. Attraverso il portale “impresainungiorno” devono essere messe a disposizione delle imprese le informazioni sugli adempimenti necessari per svolgere l’attività e sullo stato di avanzamento dei procedimenti che le riguardano.

I comuni possono esercitare le funzioni inerenti al Suap in forma singola o associata tra loro, o in convenzione con le camere di commercio. Un’importante novità è che i Suap saranno collegati con il Registro delle imprese: atti e documenti già acquisiti dal Registro delle imprese non potranno essere più richiesti alle imprese dai Suap, e al tempo stesso tutti gli atti di assenso, quali ad esempio le autorizzazioni, rilasciati dal Suap saranno registrati (e quindi disponibili) a livello centrale nel Repertorio delle notizie economiche e amministrative presso il Registro delle imprese.

Il compito di attestare i requisiti richiesti per svolgere l’attività d’impresa può essere assegnato a soggetti privati (agenzie per le imprese). Per le attività non soggette alla disciplina semplificata della

84. Art. 49 del d.l. n.78/2010.

85. In attuazione dell’art. 38 del d.l. n.112/2008, convertito con modificazioni dalla l. n.133/2008.

86. Direttiva 2006/123/CE, recepita con il decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59.

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Scia, lo sportello unico deve adottare il provvedimento conclusivo entro trenta giorni o indire una conferenza di servizi in vista dell’adozione del provvedimento finale. Il rispetto dei termini per la conclusione del procedimento costituisce elemento di valutazione del responsabile del Suap e degli altri soggetti pubblici che partecipano alla conferenza dei servizi.

Per i comuni che non istituiscono tempestivamente sportelli che soddisfino i requisiti previsti dalla normativa, le funzioni sono devolute alla camera di commercio territorialmente competente.

Riduzione degli oneri amministrativi entro il 2012

In attuazione del progetto europeo di ridurre gli oneri amministrativi che derivano da obblighi informativi per le imprese del 25 per cento entro il 2012, è stato avviato in Italia un processo di misurazione degli oneri amministrativi nella materie di competenza statale. A ogni ministero è stato richiesto di individuare le misure normative, organizzative e tecnologiche per raggiungere l’obiettivo87. E’ previsto il coinvolgimento nel progetto di misurazione e riduzione degli oneri amministrativi anche delle autonomie locali e delle autorità amministrative indipendenti88.

Questo tipo di impostazione, che parte dalla quantificazione degli oneri, si sta rivelando utile a orientare gli interventi di semplificazione verso misure che hanno benefici concreti ed evidenti. Nell’area del lavoro e della previdenza, ad esempio, sono stati già conseguiti risultati. La misurazione degli oneri ha evidenziato che le procedure più onerose erano la tenuta del libro paga, le denunce mensili dei dati retributivi e contributivi e le comunicazioni relative alle assunzioni e cessazioni dei rapporti di lavoro. Con la l. n.133/2008, è stato eliminato il libro paga (istituendo il libro unico sul lavoro), sono state unificate le denunce mensili e sono state informatizzate le comunicazioni obbligatorie.

5.4 Recepimento della direttiva servizi

Accanto alle misure volte a semplificare i procedimenti, vanno ricordate le previsioni più sostanziali di semplificazione e rimozione di vincoli normativi introdotte nel nostro ordinamento con il decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, di attuazione della direttiva 2006/123/CE sui servizi nel mercato interno.

Il decreto si applica a qualunque attività di servizio svolta senza vincolo di subordinazione da un soggetto stabilito in uno Stato membro89. La disciplina sancisce che l’accesso e l’esercizio delle attività di servizi, che sono espressione della libertà di iniziativa economica, non possono essere soggetti a limitazioni non giustificate o discriminatorie. Alcune restrizioni sono sempre vietate. Tra queste vi sono le disposizioni discriminatorie fondate sulla cittadinanza o sulla sede legale del prestatore, l’obbligo di presentare una garanzia finanziaria o di sottoscrivere un’assicurazione presso un soggetto stabilito in Italia, l’obbligo di essere già stato iscritto nei registri italiani o di aver esercitato l’attività in Italia per un determinato periodo. Il rilascio di un’autorizzazione non può essere subordinato alla prova dell’esistenza di un bisogno economico o di una domanda di mercato.

Altri vincoli, tra cui le restrizioni quantitative o territoriali, l’obbligo per il prestatore di avere un determinato statuto giuridico, gli obblighi relativi alla detenzione del capitale di una società, l’obbligo di rispettare tariffe obbligatorie minime o massime, sono consentiti solo se giustificati in base a motivi imperativi di interesse generale. I progetti di norme che prevedono questi vincoli devono essere previamente notificati alla Commissione europea, mediante una procedura che fa capo al Dipartimento per il coordinamento delle politiche europee presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

87. Piano per la semplificazione amministrativa per le imprese e le famiglie 2010-2012.

88. AS 2243.

89. Sono esclusi dall’ambito di applicazione della disciplina del decreto i servizi connessi all’esercizio di pubblici poteri, i servizi di interesse economico generale erogati in regime di esclusiva, i servizi sociali, i servizi finanziari, i servizi di trasporto. Ai servizi di comunicazione elettronica si applicano solo le disposizioni del decreto in tema di semplificazione amministrativa e tutela del destinatario dei servizi.

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I regimi autorizzatori possono essere istituiti o mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi di interesse generale e purché basati su condizioni non discriminatorie, oggettive, trasparenti e commisurate all’obiettivo di interesse generale.

Per la prestazione temporanea e occasionale di servizi in Italia da parte di prestatori stabiliti in altri Stati membri non possono essere imposti determinati requisiti, quali l’obbligo di essere stabilito in Italia o l’obbligo di ottenere un’autorizzazione dalle autorità competenti, salvo che sussistano motivi imperativi di ordine pubblico, pubblica sicurezza, sanità pubblica o tutela dell’ambiente. Il decreto afferma il principio della parità di trattamento, in base al quale i cittadini italiani e i soggetti giuridici costituiti in conformità alla legislazione di altri Stati membri che sono stabiliti in Italia possono invocare l’applicazione delle disposizioni in tema di libera prestazione di servizi.

Attraverso lo sportello unico per le attività produttive viene assicurato l’espletamento in via telematica di tutte le procedure necessarie per poter svolgere le attività di servizi. Il portale “impresainungiorno” assicura il collegamento con le autorità competenti. Nel caso in cui le domande sono contestuali alla presentazione della “comunicazione unica”, queste sono presentate al Registro delle imprese che le trasmette immediatamente allo sportello unico.

I prestatori e destinatari dei servizi devono poter accedere attraverso lo sportello unico a una serie di informazioni (procedure e formalità da espletare per accedere alle attività di servizi ed esercitarle; dati necessari per entrare in contatto con le autorità competenti; mezzi di ricorso esistenti in caso di controversie).

Nei casi in cui è prescritto a un prestatore o destinatario di fornire un certificato o qualsiasi documento che comprova il rispetto di un requisito, si considera idonea la documentazione rilasciata da un altro Stato membro che abbia finalità equivalenti o dalla quale risulti che il requisito in questione è rispettato.

Il decreto contiene norme sulla tutela dei destinatari dei servizi, che stabiliscono tra l’altro il divieto di discriminazione in ragione della nazionalità o della residenza. Al Ministero dello sviluppo economico e alle Camere di commercio è attribuita una funzione di assistenza ai destinatari di servizi che richiedono determinate informazioni, ad esempio circa i requisiti applicati negli altri Stati membri per l’accesso e l’esercizio delle attività di servizi e i mezzi di ricorso esperibili in caso di controversia.

Tra le disposizioni sulla qualità dei servizi vi è la previsione che impone al prestatore di fornire al destinatario determinate informazioni prima della prestazione del servizio (in particolare dati del prestatore, numero di partita IVA, clausole e condizioni generali applicate dal prestatore, esistenza di un’eventuale garanzia post vendita non imposta dalla legge, prezzo e principali caratteristiche del servizio) e di rispondere ai reclami con la massima sollecitudine.

Il decreto disciplina le modalità di partecipazione delle autorità nazionali competenti al sistema di cooperazione amministrativa e scambio di informazioni tra Stati membri istituito a livello comunitario e relativo al funzionamento del Mercato interno (IMI - Internal Market Information).

Nella misura in cui incidono su materie di competenza esclusiva regionale e di competenza concorrente, le disposizioni del decreto si applicano fino alla data di entrata in vigore della normativa di attuazione della direttiva 2006/123/CE adottata da ciascuna regione e provincia autonoma nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dei principi fondamentali desumibili dal decreto (cosiddetta clausola di cedevolezza).

In attuazione della direttiva servizi, sono stati semplificati alcuni procedimenti di competenza dei vari ministeri. Vanno ora messi a punto i meccanismi istituzionali volti ad assicurare in via strutturale l’eliminazione delle restrizioni ingiustificate, soprattutto a livello locale.

5.5 Digitalizzazione e attività d’impresa

L’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione può contribuire alla semplificazione dei processi gestionali delle imprese e dei loro rapporti con le pubbliche amministrazioni sotto più

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profili. In Italia sono stati compiuti importanti progressi nella predisposizione degli strumenti giuridici e tecnici necessari per lo sviluppo della digitalizzazione ma rimangono irrisolte molte questioni che, in parte, attengono a difficoltà connesse all’applicazione pratica di questi strumenti e, in parte, riguardano lacune normative e regolamentari. Per analizzare le principali questioni e studiare le possibili soluzioni è apparso utile nel novembre 2009 costituire un gruppo di lavoro con le associate Assonime che si occupa, sotto il profilo giuridico, dei temi connessi alla digitalizzazione più rilevanti per l’attività d’impresa.

Nel biennio trascorso vi sono state importanti novità sul piano normativo.

Codice dell’amministrazione digitale

Il Codice dell’amministrazione digitale (Cad) è stato oggetto di un’importante revisione90. Il nuovo Cad aggiorna le regole del 2005 alla luce dell’evoluzione tecnologica e conferisce maggiore effettività alle norme di carattere programmatico, anche attraverso l’introduzione di meccanismi premiali e sanzionatori.

In base al nuovo Codice, le PA hanno l’obbligo di consentire i pagamenti ad esse spettanti, a qualsiasi titolo dovuti, con l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Esse possono avvalersi di prestatori di servizi di pagamento per consentire ai privati di effettuare i pagamenti in loro favore attraverso carte di debito, di credito, prepagate e ogni altro strumento di pagamento elettronico disponibile. E’ previsto l’utilizzo esclusivo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per tutte le comunicazioni tra imprese e amministrazioni pubbliche. Per i soggetti che hanno dichiarato il proprio indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) le comunicazioni con le PA avverranno esclusivamente attraverso la PEC.

Per rendere effettive le disposizioni volte a favorire lo scambio di dati tra pubbliche amministrazioni e quindi anche l’attuazione del principio dell’accertamento d’ufficio, le pubbliche amministrazioni titolari di banche dati accessibili per via telematica devono predisporre, sulla base delle linee guida redatte da DigitPA, convenzioni aperte all’adesione di tutte le pubbliche amministrazioni interessate per disciplinare le modalità di accesso ai dati.

E’ stata introdotta nel Cad la “firma elettronica avanzata”, prevista dalla direttiva comunitaria sulle firme elettroniche (direttiva 1999/93/CE). Si tratta di un’integrazione importante e opportuna poiché, in relazione all’evoluzione tecnologica, si può oggi concretamente configurare una serie di soluzioni tecniche che, senza giungere a configurare una vera e propria firma digitale o qualificata (cioè basata su un certificato qualificato) può comunque mettere a disposizione strumenti di firma di buon livello di sicurezza e attendibilità, atti a semplificare, e quindi favorire, l’uso delle nuove tecnologie. La firma elettronica avanzata è ora richiamata nelle disposizioni del Codice relative al valore giuridico e probatorio del documento informatico. E’ anche previsto che i documenti delle pubbliche amministrazioni con rilevanza interna al procedimento amministrativo sottoscritti con firma elettronica avanzata abbiano l’efficacia prevista dall’art. 2702 del codice civile.

Le disposizioni sull’apposizione delle firme elettroniche con procedura automatica, che consentono la sottoscrizione di un elevato numero di documenti, sono state semplificate. L’apposizione della firma con procedura automatica potrà infatti effettuarsi sull’insieme dei documenti previo consenso del titolare della firma all’adozione della procedura, senza richiedere una manifestazione del consenso caso per caso.

E’ previsto un nuovo regime per le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico. Esse hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono estratte se la loro conformità è attestata da un notaio o da un altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con dichiarazione allegata al documento informatico e asseverata secondo le regole tecniche. Le copie, formate nel rispetto delle regole tecniche, che non sono state dichiarate conformi da un notaio o altro pubblico ufficiale, hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale non è espressamente disconosciuta. Le copie cosi formate

90. Decreto legislativo 30 dicembre 2010, n. 235, in attuazione della legge delega 18 giugno 2009, n. 69.

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sostituiscono ad ogni effetto di legge gli originali formati in origine su supporto analogico e sono idonee ad assolvere gli obblighi di conservazione previsti dalla legge.

Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri possono essere individuate particolari tipologie di documenti analogici originali unici per le quali, in ragione di esigenze di natura pubblicistica, permane l’obbligo della conservazione dell’originale analogico o in caso di conservazione sostitutiva, la loro conformità all’originale deve essere autenticata da un notaio o da un altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con dichiarazione firmata digitalmente da questi e allegata al documento informatico. Fino alla data di emanazione del decreto per tutti i documenti analogici originali unici permane l’obbligo di conservazione dell’originale analogico o in caso di conservazione sostitutiva, la loro conformità all’originale deve essere autenticata da un notaio o da un altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con dichiarazione firmata digitalmente da questi e allegata al documento informatico.

In base al Cad la conservazione dei documenti informatici deve essere gestita dal responsabile della conservazione. Il responsabile della conservazione può avvalersi di conservatori che offrono idonee garanzie organizzative e tecnologiche. I soggetti pubblici e privati che svolgono attività di conservazione di documenti informatici e di certificazione dei relativi processi possono chiedere l’accreditamento presso DigitPA per conseguire il riconoscimento dei requisiti del livello più elevato in termini di qualità e sicurezza.

Obbligo della PEC per le società

Un’altra importante novità è costituita dall’obbligo della PEC per le società. Il decreto legge 29 novembre 2008, n. 185,91 ha infatti richiesto alle imprese costituite in forma societaria di indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata al Registro delle imprese92.

Le imprese possono assolvere all’obbligo anche indicando un indirizzo di posta elettronica di un sistema alternativo rispetto alla PEC. Quest’ultima disposizione è connessa al fatto che la PEC è un sistema funzionante solo all’interno del territorio italiano. Il decreto legge individua i requisiti che un sistema di posta alternativo alla PEC deve soddisfare. In particolare, il sistema di posta elettronica deve essere basato su tecnologie che certifichino la data e l’ora dell’invio e della ricezione delle comunicazioni e l’integrità del loro contenuto; esso inoltre deve assicurare l’interoperabilità con analoghi sistemi internazionali. A riguardo si osserva che le nuove regole tecniche per la presentazione della comunicazione unica prevedono l’utilizzo esclusivo della posta elettronica certificata senza far riferimento a un sistema alternativo.

La legge 18 giugno 2009, n.69 ha previsto che il Governo adotti un regolamento di modifica del regolamento sulla posta elettronica certificata, anche al fine di garantire l’interoperabilità di quest’ultima con analoghi sistemi internazionali.

Tenuta e conservazione delle scritture contabili in via informatica

Il nuovo art. 2215-bis del codice civile ha introdotto una nuova disciplina sulle modalità di tenuta con strumenti informatici dei libri e delle scritture contabili dell’imprenditore commerciale93. In particolare, questa disciplina stabilisce che i libri, i repertori, le scritture e la documentazione la cui tenuta è obbligatoria possono essere formati e tenuti con strumenti informatici, prevede quale sia la loro natura e il possibile uso, individua le formalità di tenuta dei libri e delle scritture nonché la loro efficacia probatoria.

Per quanto attiene la conservazione delle scritture contabili in via informatica si deve fare riferimento al Codice dell’amministrazione digitale e alle relative regole tecniche.

91. Convertito con modificazioni dalla legge 28 gennaio 2009 n.2

92. Sul tema cfr. Circolare Assonime 28/2009.

93. Cfr.Circolare Assonime 19/2009.

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5.6 Tutela dei dati personali

Le misure di semplificazione

Nell’ultimo biennio la disciplina del trattamento dei dati personali è stata oggetto di una serie di misure di semplificazione.

Un primo intervento normativo riguarda l’utilizzo dei dati personali contenuti negli elenchi telefonici cartacei o elettronici a disposizione del pubblico per l’invio di materiale pubblicitario o di vendita o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale. Il trattamento di tali dati è possibile qualora l’interessato non abbia esercitato il diritto di opposizione94. L’abbonato può esercitare l’opt-out mediante l’iscrizione in un registro delle opposizioni istituito presso il Ministero dello sviluppo economico; al Garante per la protezione dei dati personali spettano le funzioni di vigilanza e di controllo sull’organizzazione e sul funzionamento del registro95.

Al fine di ridurre gli oneri amministrativi, il d.l. n. 70/2011 ha escluso dall’ambito di applicazione del Codice i trattamenti dei dati personali tra imprese per finalità amministrativo-contabili. Si tratta in particolare dei trattamenti connessi alle attività organizzative interne, all’adempimento degli obblighi contrattuali e precontrattuali, alla gestione del rapporto di lavoro in tutte le sue fasi, alla tenuta della contabilità e all’applicazione delle norme in materia fiscale, sindacale, previdenziale-assistenziale, di salute, igiene e sicurezza sul lavoro.

Inoltre il decreto semplifica le modalità di trattamento relative alla gestione dei dati contenuti nei curricula. In particolare l’informativa non è dovuta in caso di ricezione del curriculum spontaneamente trasmesso dall’interessato ai fini dell’eventuale instaurazione di un rapporto di lavoro. In questi casi, l’obbligo del titolare del trattamento di fornire l’informativa è posticipato all’eventuale primo contatto successivo all’invio; l’informativa può essere fornita anche oralmente e in forma semplificata.

Provvedimenti del Garante su videosorveglianza e number portability

Nel 2010 il Garante per la protezione dei dati personali ha introdotto nuove regole alle quali i soggetti pubblici e privati devono conformarsi per installare telecamere e sistemi di videosorveglianza. In particolare sono previste specifiche regole per l’installazione dei sistemi integrati, cioè i sistemi che collegano telecamere tra soggetti diversi o che consentono la fornitura di servizi di videosorveglianza da parte di società specializzate, e dei sistemi intelligenti, cioè i sistemi dotati di software che permettono l’associazione di immagini a dati biometrici o in grado di riprendere e registrare comportamenti o eventi anomali.

Un ulteriore provvedimento del Garante chiarisce le regole applicabili al trattamento dei dati personali inseriti nella base di dati unica nel caso di cambio di operatore telefonico. La base di dati unica è un insieme di dati raccolti dagli operatori titolari di servizi di telecomunicazioni relativi ai propri clienti. Nel caso in cui l’abbonato, al momento dell’attivazione del nuovo rapporto di fornitura di servizio telefonico, decida di conservare il numero telefonico che gli era stato in precedenza assegnato (number portability), l’operatore è tenuto a richiedere nuovamente il consenso all’inserimento dei dati personali nella base di dati unica96.

94. Art. 20-bis del decreto legge 25 settembre 2009 n. 135, convertito con modificazioni dalla legge 20 novembre 2009 n. 166 che ha inserito tre nuovi commi all’art. 130 del Codice per la protezione dei dati personali (art. 130, commi 3-bis, 3-ter e 3-quater).

95. Decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 178.

96. Provvedimenti in materia di sorveglianza, 8 aprile 2010 e trattamento dei dati degli abbonati in caso di number portability, 1° aprile 2010, entrambi pubblicati in Gazzetta ufficiale n. 99 del 29 aprile 2010.

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5.7 Ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali

Il 16 febbraio 2011 il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato la direttiva 2011/17/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali che sostituisce e abroga la direttiva 2000/35/CE, recepita in Italia dal decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231.

Come nel sistema precedente, la direttiva riguarda ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale tra imprese e tra imprese e pubbliche amministrazioni che comporta la consegna di merci o la prestazione di servizi. Le nuove regole sono differenziate a seconda che si tratti di transazioni tra imprese o tra imprese e pubbliche amministrazioni97.

Riguardo al termine di pagamento nelle transazioni commerciali tra imprese, gli Stati membri dovranno assicurare che il contratto non preveda periodi di pagamento superiori a sessanta giorni, a meno che ciò non sia espressamente concordato nel contratto e non risulti gravemente iniquo nei confronti del creditore. Quando la data o il periodo di pagamento non sono stabiliti nel contratto, il periodo di pagamento è di trenta giorni.

Nelle transazioni commerciali tra imprese e pubbliche amministrazioni il termine di pagamento per le pubbliche amministrazioni è di trenta giorni, che possono essere estesi fino ad un massimo di sessanta giorni se concordato nel contratto e oggettivamente giustificato dalla natura particolare del contratto o da talune sue caratteristiche. Gli Stati membri possono prorogare il termine di pagamento fino a un massimo di sessanta giorni nelle transazioni tra imprese ed enti pubblici di assistenza sanitaria o pubbliche amministrazioni che svolgono attività economiche di natura industriale e commerciale e che siano soggette ai requisiti di trasparenza di cui alla direttiva 2006/111/CE.

Il tasso di legge applicabile agli interessi di mora deriva dalla somma del tasso di riferimento della Banca centrale europea più almeno otto punti percentuali. Le pubbliche amministrazioni non possono stabilire tassi inferiori per gli interessi di mora.

Nelle transazioni commerciali tra imprese, gli Stati membri assicurano che il creditore ha diritto agli interessi di mora senza che sia necessario un sollecito qualora vengano rispettate determinate condizioni. Inoltre, quando gli interessi di mora sono dovuti in conformità con quanto previsto dalla direttiva, il creditore ha il diritto di ottenere un importo fisso minimo di 40 euro a titolo di risarcimento delle spese di recupero del credito. Il creditore, oltre a tale importo, ha il diritto di esigere dal debitore un risarcimento ragionevole per ogni restante costo di recupero sostenuto a causa del ritardo di pagamento del debitore. I restanti costi possono comprendere anche le spese che il creditore ha sopportato per aver affidato un incarico a un avvocato o a una società di recupero crediti.

La direttiva stabilisce che le prassi o le clausole che escludono gli interessi di mora sono sempre considerate gravemente inique mentre quelle che escludono il risarcimento per i costi di recupero sono considerate gravemente inique in via presuntiva.

Gli Stati membri devono assicurare piena trasparenza in merito ai diritti e agli obblighi stabiliti dalla direttiva e utilizzare qualsiasi mezzo idoneo a incrementare la consapevolezza tra le imprese dei rimedi ai ritardi di pagamento. Gli Stati membri possono incoraggiare la redazione di codici di pagamento rapido che prevedano termini di pagamento chiaramente definiti e un adeguato procedimento per trattare tutti i pagamenti oggetto di controversia. Rimane invariata per gli Stati membri la facoltà di mantenere o adottare disposizioni più favorevoli al creditore di quelle necessarie per conformarsi alla direttiva.

97. In questo senso, cfr. Intervento Assonime 3/2010.

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5.8 Sviluppi in materia di diritto industriale

Riforma del codice della proprietà industriale

Il decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 131, in attuazione della delega contenuta nella legge 23 luglio 2009, n. 99, ha attuato un’importante riforma del Codice della proprietà industriale98.

Alcune modifiche inserite nel Codice mirano a rafforzare la tutela contro i comportamenti diretti a sfruttare indebitamente i valori di avviamento commerciale incorporati in marchi, segni distintivi e denominazioni d’origine. Per i brevetti, la revisione della disciplina tende ad allineare il sistema italiano a quello europeo previsto nell’ultima versione della Convenzione sul brevetto europeo (EPC 2000). Inoltre, sono state inserite nel Codice le disposizioni sulla brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche adottate in attuazione della direttiva 1998/44/CE, che prima erano contenute nel decreto legge 10 gennaio 2006, n. 3.

Sono state apportate importanti modifiche alle norme sulla tutela giurisdizionale dei titoli di proprietà industriale. Esse sono dirette a facilitare l’ottenimento di misure di emergenza contro i soggetti contraffattori dei diritti di proprietà industriale, a semplificare le procedure e rendere efficiente e rapida la tutela, nonché a mettere in posizione paritaria chi accusa e chi si difende. Tra le novità più significative vi sono: la riunificazione in capo allo stesso giudice della competenza a provvedere sulla descrizione, il sequestro e le misure inibitorie; l’introduzione della consulenza tecnica preventiva; la previsione di un’azione per l’accertamento di non contraffazione, anche in via cautelare. Con riferimento ai provvedimenti di descrizione e di sequestro, è introdotta la possibilità da parte del giudice di adottare provvedimenti cautelari senza previa convocazione della parte contro la quale sono richiesti, in casi di speciale urgenza e, in particolare, quando eventuali ritardi potrebbero causare un danno irreparabile al titolare dei diritti o la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del provvedimento.

E’ stata riformulato l’art. 239 del Codice sulla protezione giuridica dei disegni e modelli ai sensi del diritto d’autore. In base all’attuale formulazione, la protezione dei disegni e modelli accordata in base alla legge sul diritto d’autore copre anche le opere che prima del 19 aprile 2001 erano o erano divenute di pubblico dominio. Tuttavia, i terzi che avevano fabbricato o commercializzato, nei dodici mesi anteriori a quella data, prodotti realizzati in conformità con le opere di disegno industriale allora in pubblico dominio, non rispondono della violazione del diritto d’autore da essi compiuta proseguendo questa attività anche dopo tale data, limitatamente ai prodotti fabbricati o acquistati prima del 19 aprile 2001 e a quelli fabbricati nei cinque anni successivi a tale data, purché questa attività si sia mantenuta nei limiti anche quantitativi del preuso. La nuova disciplina del regime transitorio appare coerente con le indicazioni fornite dalla recente sentenza della Corte di giustizia che si è pronunciata in via pregiudiziale su una domanda presentata dal Tribunale di Milano dichiarando incompatibile con il diritto dell’Unione Europea il regime transitorio della tutela esperibile ai sensi del diritto d’autore, contenuto nella precedente versione del Codice99.

Sviluppi sulla tutela dei marchi

La Corte di giustizia è intervenuta con un’importante pronuncia del 23 marzo 2010 sull’applicazione del diritto europeo alla responsabilità del prestatore di un servizio di posizionamento su internet, per l’utilizzo da parte di terzi, ai fini della visualizzazione di link pubblicitari per i propri prodotti, di parole chiave corrispondenti a marchi d’impresa altrui100. La Corte ha effettuato una ponderazione tra l’esigenza di tutela della proprietà industriale e quella di promuovere lo sviluppo del commercio elettronico e ha ritenuto che il prestatore del servizio di posizionamento non violi la normativa europea a tutela del marchio se consente l’utilizzo a pagamento di una parola chiave corrispondente

98. Contenuto nel decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30.

99. Corte di Giustizia, sentenza 27 gennaio 2011, causa C-168/09. Sulla nuova disciplina dei disegni e modelli e sulla sentenza della Corte di Giustizia, cfr. Circolare Assonime 6/2011.

100. Corte di Giustizia (Grande Sezione), sentenza 23 marzo 201, cause da C-236/08 a C-238/08, sulla quale cfr. Circolare Assonime 30/2010.

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a un marchio altrui a un’impresa che si avvale del servizio per promuovere l’accesso ai propri link pubblicitari. Il fornitore del servizio della società dell’informazione è però tenuto ad attivarsi immediatamente qualora venga a conoscenza di attività illecite compiute dal terzo attraverso il proprio servizio. Spetta al giudice nazionale valutare se sussistano le condizioni per ritenere che il prestatore del servizio non fosse a conoscenza della condotta illecita e pertanto non possa essere considerato responsabile.

Nel maggio 2010, il Consiglio Competitività dell’Unione europea ha invitato la Commissione a presentare proposte di revisione del regolamento (CE) n. 207/2009 sul marchio comunitario e della direttiva 2008/95/CE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa per apportare alcuni miglioramenti alla disciplina europea del marchio. La revisione dovrebbe in particolare: migliorare la coerenza tra le disposizioni della direttiva e quelle del regolamento; introdurre una disposizione specifica che definisca il quadro di cooperazione tra l’UAMI e gli uffici nazionali; chiarire che l’armonizzazione delle prassi e degli strumenti deve essere l’obiettivo di tutti gli uffici per i marchi nell’Unione europea; definire una chiara base giuridica per il coinvolgimento dell’UAMI nelle attività connesse con la tutela dei diritti, inclusa la lotta alla contraffazione, in particolare promuovendo la sua collaborazione con gli uffici nazionali e con l’Osservatorio europeo sulla contraffazione e la pirateria; definire una base giuridica per la distribuzione agli uffici nazionali di un importo pari al 50 per cento delle tasse di rinnovo dell’UAMI e prevedere appositi meccanismi per assicurare che i fondi in questione siano a disposizione degli uffici nazionali e vengano da questi utilizzati per finalità connesse alla protezione e alla promozione dei marchi; introdurre modifiche e altre misure per migliorare i rapporti tra il sistema comunitario dei marchi e i sistemi nazionali.

Tutela penale dei diritti di proprietà industriale

La legge 23 luglio 2009, n. 99 ha apportato alcune modifiche al sistema di tutela penale dei diritti di proprietà industriale e ha esteso la responsabilità amministrativa degli enti ai reati in materia di diritti di proprietà industriale e intellettuale101.

Le modifiche del sistema penale di tutela hanno per obiettivo principalmente quello di aumentare l’efficacia deterrente delle sanzioni. A tale fine la legge ha aumentato i limiti edittali delle pene. Sono state poi introdotte nuove figure di reato, tra cui in particolare la contraffazione di indicazioni geografiche e denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari. Sono previste riduzioni della pena per i soggetti che collaborano con le autorità nella lotta a questi delitti. Inoltre, per facilitare la raccolta di prove durante le indagini, viene estesa ai reati in materia di proprietà industriale la disciplina delle operazioni sotto copertura, che consente alle autorità una maggiore flessibilità di azione.

Vi è stata invece una riduzione dei livelli minimi e massimi delle sanzioni amministrative per gli acquirenti finali di prodotti che, per la loro qualità o per la condizione di chi li offre o per il loro prezzo, inducono a ritenere che vi sia stata una violazione delle norme in materia di origine e provenienza dei prodotti o in materia di proprietà industriale.

Di rilievo è infine l’inserimento, tra i reati-presupposto della responsabilità amministrativa degli enti previsti dal d.lgs. n. 231/2001, dei reati in materia di diritti di proprietà industriale e diritti di proprietà intellettuale. Ciò richiede alle imprese una mappatura delle nuove aree di rischio e l’adattamento dei modelli di organizzazione e gestione al fine di prevenire le figure di reato rilevanti.

L’evoluzione della normativa sulla tutela del made in Italy

La disciplina a tutela del made in Italy è stata oggetto negli ultimi anni di una serie di interventi normativi volti a specificare gli obblighi per le imprese in materia di indicazione dell’origine dei prodotti. Con il decreto legge 25 settembre 2009, n. 135102 è stato introdotto nel nostro ordinamento il reato relativo alle indicazioni di vendita che presentino il prodotto come interamente italiano in

101. Circolare Assonime 43/2009.

102. Convertito dalla legge 20 novembre 2009, n. 166.

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assenza dei presupposti ed è stata prevista una sanzione amministrativa pecuniaria per determinati usi del marchio che costituiscono fallace indicazione di provenienza o di origine.

Per potere essere classificato come made in Italy103, il prodotto o la merce deve essere originario dell’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine (essere interamente ottenuto in Italia o avere subito in Italia l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale). Per essere considerato realizzato interamente in Italia, occorre inoltre che quattro specifiche fasi (disegno, progettazione, lavorazione e confezionamento) siano compiute esclusivamente sul territorio nazionale104.

In questa materia la Corte di Cassazione ha ribadito che, relativamente ai prodotti industriali, per “provenienza ed origine” della merce non deve intendersi la provenienza della stessa da un certo luogo di fabbricazione, bensì la sua provenienza da un determinato imprenditore che si assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica della produzione e si rende garante della qualità del prodotto nei confronti degli acquirenti. A questo principio fanno eccezione solo i prodotti agricoli o alimentari che sono identificabili in base all’origine geografica, la cui qualità essenzialmente dipende dall’ambiente naturale e umano in cui sono coltivati, trasformati e prodotti, e per i quali per origine del prodotto deve intendersi propriamente la sua origine geografica o territoriale105. Nella successiva sentenza del 25 ottobre 2010, n. 37818, la Corte di Cassazione, sezione penale, ha affermato che l’art. 4, comma 49, della legge finanziaria per il 2004 non comporta l’obbligo, per i produttori italiani che commercializzano in Italia beni prodotti da essi o per essi all’estero, di indicare espressamente il luogo in cui i beni importati sono materialmente prodotti106. Un obbligo di marcatura di origine dei prodotti posto unilateralmente dal legislatore nazionale potrebbe risultare in contrasto con i principi comunitari relativi alla libera circolazione dei beni e servizi, perché incentiverebbe gli operatori che fanno realizzare da altri i prodotti con il loro marchio a rivolgersi all’industria nazionale invece che a imprese di altri Stati membri.

La legge 8 aprile 2010 n. 55 ha introdotto nel nostro ordinamento nuove disposizioni in materia di etichettatura e di uso della denominazione made in Italy per i prodotti tessili, della pelletteria e calzaturieri, nonché per i prodotti conciari e per il settore dei divani107. La legge istituisce un sistema di etichettatura obbligatoria per tutti i prodotti finiti e intermedi, intendendosi come tali i prodotti destinati alla vendita. L’etichetta obbligatoria deve evidenziare il luogo di origine di ciascuna fase di lavorazione e assicurare la tracciabilità, ossia la possibilità di ricostruire il percorso del prodotto. La possibilità di utilizzare la denominazione made in Italy per questi prodotti è subordinata al requisito che almeno due delle fasi della lavorazione siano state eseguite nel territorio italiano e per le restanti fasi sia verificabile la tracciabilità. La l. n. 55/2010 prevede l’applicazione di sanzioni per la mancata e la scorretta etichettatura e per l’apposizione abusiva dell’indicazione made in Italy. L’individuazione delle caratteristiche del sistema di etichettatura obbligatoria e dell’impiego dell’indicazione made in Italy in questi comparti, nonché delle modalità di esecuzione dei controlli, anche attraverso il sistema della camere di commercio, è demandata a un decreto del Ministro dello sviluppo economico. L’adozione di queste disposizioni di attuazione era prevista entro quattro mesi dall’entrata in vigore della legge (6 maggio 2010), previa notifica alla Commissione europea ai sensi dell’art. 8, paragrafo 1, della direttiva 93/34/CE.

Il 28 luglio 2010 la Direzione generale Impresa e Industria della Commissione europea ha inviato una nota sulla l. n. 55/2010, chiedendo alle Autorità italiane di fornire indicazioni sulle misure che intendono adottare per assicurare che questa normativa sia in linea con le disposizioni del Trattato e della direttiva 98/34/CE. Ad oggi l’applicazione della nuova normativa è sospesa.

Per quanto attiene ai possibili profili di contrasto con la normativa europea, va ricordato che l’art. 34 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea stabilisce che sono vietate tra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione e le misure di effetto equivalente. Il successivo art. 36 consente

103. Conformemente all’art. 4, comma 49 della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (finanziaria per il 2004).

104. Sull’evoluzione della disciplina cfr. Circolare Assonime 17/2010.

105. Corte di Cassazione, sentenza 22 aprile 2010, n. 15374, in Circolare Assonime 17/2010.

106. Circolare Assonime 39/2010.

107. Circolare Assonime 17/2010.

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tuttavia le restrizioni all’importazione che siano giustificate da alcune esigenze, tra cui quelle di tutela della salute e di tutela della proprietà industriale e commerciale, purché esse non costituiscano un mezzo di discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri. Secondo la giurisprudenza costante della Corte di giustizia, sono incompatibili con il mercato unico, sulla base dell’art. 34 del Trattato, le normative adottate dagli Stati membri che attribuiscono una denominazione di qualità a un prodotto legata alla localizzazione nel territorio nazionale di tutto il processo produttivo o di parte di esso. Questa presunzione di qualità limita o svantaggia un processo produttivo le cui fasi si svolgano in tutto o in parte in altri Stati membri. A questo principio fanno eccezione solo le regole relative alle denominazioni di origine e alle indicazioni di provenienza dei prodotti agroalimentari, per i quali la qualità è connessa in modo rilevante all’ambiente geografico nel quale sono coltivati, trasformati o elaborati. Per essi è lo stesso diritto comunitario a disciplinare la possibilità di registrare la denominazione d’origine o l’indicazione geografica.

La giurisprudenza europea ha invece riconosciuto meritevole di tutela l’interesse del produttore a indicare di propria iniziativa l’origine nazionale del prodotto. In questo caso la tutela dei consumatori è adeguatamente garantita dalle norme che consentono di far vietare l’uso di indicazioni d’origine false, norme che il Trattato lascia intatte. Nell’attuale contesto normativo la tutela dei consumatori è assicurata, oltre che dalle norme sulle indicazioni di origine false, anche dalle disposizioni (purché compatibili con il diritto comunitario) che vietano le indicazioni ingannevoli per i consumatori.

Proposta di regolamento europeo sul made in

Il 21 ottobre 2010 il Parlamento dell’Unione europea ha approvato la proposta di regolamento sull’etichettatura di origine obbligatoria dei prodotti importati in Europa da paesi terzi. Il progetto di regolamento propone l’introduzione di un sistema di marchio di origine obbligatorio per un certo numero di prodotti (individuati in un allegato alla proposta tra i prodotti industriali, ad esclusione dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura e dei prodotti alimentari), applicabile esclusivamente alle merci importate. Attualmente nell’Unione europea non esiste alcuna normativa sull’impiego del marchio di origine per i prodotti industriali e ciò pone l’Unione europea in una posizione di svantaggio rispetto ai suoi partner commerciali che impongono l’obbligo di un marchio di origine sulle importazioni (ad esempio, Canada, Cina, Giappone e Stati Uniti): gli esportatori della UE devono rispettare tale obbligo e sono tenuti ad apporre il marchio sui loro prodotti. Nella proposta di regolamento è stata scelta una definizione del paese di origine basata sulle norme di origine non preferenziale dell’Unione europea, applicate per altri fini doganali.

Brevetto dell’Unione europea

Nell’Unione Europea la tutela brevettuale è assicurata da brevetti nazionali rilasciati dagli Stati membri o da brevetti europei rilasciati dall’Ufficio europeo dei brevetti in applicazione della Convenzione sul brevetto europeo (CBE), che consistono di fatto in un fascio di brevetti negli Stati membri per i quali viene chiesta la tutela. Non è ancora disponibile uno strumento che fornisca una protezione unitaria su tutto il territorio dell’Unione europea. Le iniziative volte a realizzare un brevetto dell’Unione europea, avviate da più di un decennio, non hanno ancora raggiunto una fase conclusiva.

Nel giugno 2010 la Commissione europea ha formulato una proposta di regolamento del Consiglio sul regime di traduzione del brevetto dell’Unione europea. La proposta prevedeva che i fascicoli del brevetto UE fossero pubblicati in una delle tre lingue ufficiali dell’Ufficio europeo dei brevetti (inglese, francese e tedesco) e contenessero una traduzione delle rivendicazioni nelle altre due lingue. Nonostante gli sforzi nella riunione del Consiglio “Competitività” del 10 dicembre 2010 è stata confermata l’esistenza di difficoltà che rendevano impossibile adottare una decisione all’unanimità. Nel marzo 2011 il Consiglio dell’Unione europea, con il consenso del Parlamento europeo, ha autorizzato a procedere attraverso la cooperazione rafforzata tra gli Stati membri che aderiscono al progetto.

Nel frattempo, la Corte di giustizia ha espresso un parere negativo sul modello di sistema unico di risoluzione giurisdizionale delle controversie in materia di brevetti su cui stava lavorando il Consiglio. La Corte ha osservato che il modello attribuiva a un giudice internazionale, esterno alla cornice istituzionale e giurisdizionale dell’Unione, la competenza esclusiva a conoscere un rilevante numero

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di azioni promosse da privati in materia di brevetto UE nonché a interpretare e ad applicare il diritto dell’Unione in questa materia. Ciò avrebbe privato i giudici degli Stati membri delle loro competenze in materia di interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione, nonché la Corte della propria competenza a risolvere in via pregiudiziale le questioni proposte da questi giudici e avrebbe perciò snaturato le competenze attribuite dai Trattati alle istituzioni dell’Unione. Occorre quindi trovare una differente soluzione per assicurare una tutela giurisdizionale unitaria al futuro brevetto dell’Unione europea.

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CAPO III

IMPOSTE DIRETTE E IMPOSTE INDIRETTE

1. Considerazioni generali

Il passato biennio non ha registrato modifiche dell’ordinamento tributario di portata strutturale, come quelle che hanno caratterizzato i precedenti periodi. Molto si è discusso, in effetti, sul riordino complessivo del sistema tributario, sulla rimodulazione dei carichi impositivi tra imposte dirette e IVA, sulla opportunità di mantenere o sostituire l’IRAP, ma non ci sono progetti ancora chiari in proposito.

In linea generale, in tema di imposte dirette l'unica novità di carattere strutturale attiene all’introduzione di un nuovo regime di imposizione dei fondi comuni di investimento, volto ad adeguare il sistema italiano a quello esistente negli ordinamenti dei principali competitors e, in particolare, a passare dall’imposizione dei proventi “per maturato” ad una imposizione “per cassa”. Ricordiamo che i fondi italiani sono sempre stati tassati, in monte, sulle plusvalenze maturate, compensando le minusvalenze; negli altri Paesi, invece, si prevedeva la tassazione, in capo al singolo sottoscrittore, delle sole plusvalenze effettive emerse in sede di vendita delle quote del fondo, con possibilità di compensare le eventuali minusvalenze con plusvalenze degli anni successivi. Il diverso trattamento fiscale ha storicamente penalizzato i fondi italiani, i quali hanno scontato tale differenza di trattamento nel valore della quota; ciò ha indotto le società di gestione del risparmio a trasferire progressivamente all’estero le loro attività, così da poter offrire alla clientela italiana i vantaggi derivanti dalla tassazione estera. Con la modifica normativa, operante dal 1° luglio 2011, lo squilibrio nel trattamento fiscale tra fondi di diritto italiano (tassati per maturazione) e fondi di diritto estero (tassati per cassa) è destinato a venir meno, in linea con le aspettative dell’industria bancaria italiana.

L’altra novità strutturale riguarda l’IVA e concerne la concreta attuazione, nel corso del biennio, di tre importanti Direttive comunitarie, emanate nel corso del 2008, di cui avevamo fatto cenno nella precedente relazione. Si tratta della Direttiva 2008/8/CE, che ha modificato i criteri di territorialità delle prestazioni di servizi, esteso il sistema del reverse charge anche alle prestazioni cc.dd. business-to-business e previsto l’inserimento dei servizi tassati nello Stato del committente negli elenchi riepilogativi delle operazioni intracomunitarie (Intrastat), della Direttiva 2008/9/CE, che ha modificato e semplificato il regime dei rimborsi d’imposta per i soggetti che acquistano beni e servizi in un Paese comunitario diverso da quello di propria residenza, e della Direttiva 2008/117/CE, che ha fissato nuove modalità e nuovi termini per compilare e trasmettere gli elenchi Intrastat.

Nel corso del biennio non sono stati avviati, invece, gli auspicati interventi di manutenzione del sistema tributario, soprattutto per quanto riguarda il reddito d’impresa, cioè il reddito dei soggetti che costituiscono il principale tessuto della nostra economia.

Anche l’annoso problema del c.d. abuso del diritto non ha registrato significativi passi in avanti. Come avevamo accennato nella precedente relazione, si è affermata negli ultimi anni, sia nella giurisprudenza che nella prassi degli uffici accertatori, la tesi secondo cui sussisterebbe un principio immanente al sistema – derivante dall’applicazione dei principi UE e dei principi costituzionali di

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capacità contributiva e di uguaglianza – in base al quale dovrebbero ritenersi automaticamente privi di efficacia gli atti negoziali che permettano di realizzare vantaggi d’imposta rispetto ad alternative fiscalmente più onerose, in assenza di prevalenti ragioni economiche extrafiscali che giustifichino la scelta compiuta. Si tratta di una tematica particolarmente delicata, perché l’applicazione o meno dei regimi fiscali codificati sarebbe rimessa ad un giudizio sull’apprezzabilità economica delle operazioni da parte del singolo verificatore o dell’organo giudicante: giudizio alquanto soggettivo in assenza di una definizione legislativa del concetto di “valide ragioni economiche”.

In realtà, nell’ultimo biennio, la giurisprudenza sembra avere fatto qualche passo avanti: diverse pronunce della Cassazione hanno, infatti, precisato che l’ottenimento di benefici fiscali previsti per legge non può integrare un’ipotesi di abuso del diritto, perché tali benefici non rappresentano una finalità contraria al diritto stesso. Ci vuole qualcosa di più e, cioè, che risultino effettivamente aggirate le finalità e, cioè, più precisamente, la ratio degli istituti fiscali utilizzati dal contribuente e in quest’ottica è compito dell’Amministrazione fiscale dar conto di questo effettivo “aggiramento”.

Sul tema dell’abuso del diritto si sta muovendo, comunque, anche il Parlamento, che per riscriverne la disciplina – come auspicato dalla dottrina e dagli operatori economici – ha già programmato le audizioni delle principali Associazioni di categoria. Appare ormai davvero indispensabile un intervento normativo che tuteli la certezza del rapporto tributario, quale valore di primaria importanza per l’ordinamento e fondamentale strumento di competizione con gli altri ordinamenti. La possibilità di predeterminare con certezza l’entità degli oneri fiscali costituisce, infatti, uno dei principali fattori di scelta degli investitori esteri, nonché un presupposto essenziale per la pianificazione degli investimenti da parte delle imprese nazionali e, dunque, un aspetto non secondario per un ordinato sviluppo economico.

Venendo, in concreto, all’esame dei provvedimenti adottati nel biennio, osserviamo che essi, tanto quelli in tema di imposte sui redditi e IVA, quanto quelli in materia di accertamento e riscossione, perseguono essenzialmente l’obiettivo di dotare l’Amministrazione finanziaria di strumenti operativi volti a contrastare in modo sempre più efficace i fenomeni crescenti di evasione e di elusione, nonché di frode fiscale.

Si tratta di strumenti operativi che si fondano principalmente sulla previsione di adempimenti di varia natura posti a carico dei contribuenti, soprattutto dei soggetti esercenti attività d’impresa: adempimenti, per certi versi, necessari ad attuare un’efficace attività di controllo, ma che indubbiamente sottopongono i contribuenti ad una serie di oneri, spesso molto gravosi, che dovrebbero trovare de iure condendo una sistemazione più organica e razionale.

In quest’ottica, in particolare, si collocano, in materia di imposte sui redditi, le recenti modifiche normative apportate alla disciplina delle società estere controllate (disciplina CFC) e dei prezzi di trasferimento, destinate ad aggravare i costi di compliance a carico delle imprese italiane che più hanno internazionalizzato la propria attività.

Il regime di CFC, in particolare, è stato inasprito sotto un duplice punto di vista. Anzitutto, sono state ridefinite le condizioni per il riconoscimento dell’esimente relativa all’esercizio, nel Paese di black list, di un’“effettiva attività industriale o commerciale”, che si prevede adesso debba essere svolta nel mercato dello Stato o territorio di insediamento. Inoltre, è stata introdotta una presunzione relativa di inesistenza di un’attività economica effettiva nel caso in cui la controllata estera realizzi prevalentemente passive income o proventi derivanti da servizi infragruppo.

Un secondo intervento normativo ha poi portato ad introdurre un regime di CFC anche per le controllate estere localizzate in Paesi di White list (compresi gli Stati dell’Unione europea), quando tali controllate avverano contemporaneamente due condizioni: a) sono assoggettate ad un livello di tassazione effettiva inferiore alla metà di quello che avrebbero scontato ove residenti in Italia; b) hanno conseguito proventi prevalentemente derivanti da passive income e servizi infragruppo.

Questo inasprito regime di CFC, esteso anche alle controllate White list, continua peraltro a fondarsi – unico nel panorama internazionale – sull’obbligatorietà dell’interpello preventivo, con ciò gravando il contribuente dell’onere di fornire, anno per anno, adeguata prova liberatoria.

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Anche in relazione alla disciplina fiscale dei prezzi di trasferimento di beni o servizi, è stato introdotto, a carico delle imprese multinazionali operanti in Italia, l’onere di predisporre una documentazione, conforme agli standards condivisi a livello comunitario, volta a dimostrare l’adeguatezza dei propri prezzi di trasferimento intercompany. La documentazione sulle modalità di determinazione dei prezzi di trasferimento, comprendente un master file con le informazioni generali riguardanti il gruppo e un country file con le specifiche informazioni inerenti la società interessata, è un adempimento finalizzato, al tempo stesso, ad ottimizzare l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria e a ottenere, per il contribuente che la predisponga, un effetto premiale: la disapplicazione delle sanzioni amministrative ordinariamente stabilite per l’ipotesi di dichiarazione infedele, sia ai fini IRES che ai fini IRAP.

Anche ai fini IVA sono stati previsti nuovi adempimenti comunicativi, volti a contrastare le evasioni d'imposta nelle operazioni poste in essere tra i soggetti passivi del tributo. Ci riferiamo, in particolare, agli obblighi di comunicazione telematica all’Agenzia delle entrate delle operazioni rilevanti agli effetti dell’IVA, rese e ricevute dai soggetti passivi di imposta, di importo pari o superiore ai 3.000 euro: si tratta di una previsione volta a rafforzare gli strumenti a disposizione dell’Amministrazione finanziaria per contrastare e prevenire i comportamenti fraudolenti in primo luogo in materia di IVA (frodi carosello e false fatturazioni), ma anche in tema di imposte sui redditi. Ulteriori misure antifrode consistono nell’obbligo di comunicare in via telematica all’Agenzia delle entrate, da parte dei soggetti passivi IVA, le operazioni intercorse con gli operatori economici stabiliti in Paesi a fiscalità privilegiata, nonché nell’obbligo di indicare, in appositi elenchi riepilogativi, le operazioni intracomunitarie.

In tema di accertamento, si è inteso potenziare in vario modo l’attività accertativa degli uffici, sia implementando l’incrocio tra le banche dati e prevedendo il più ampio coinvolgimento dei Comuni nell’accertamento tributario, sia, soprattutto, accelerando i tempi di esecuzione dei pagamenti dovuti a seguito dell’azione accertatrice. Sotto quest’ultimo profilo, si è previsto che gli avvisi di accertamento relativi alle imposte sui redditi, all’IVA e all’IRAP, decorsi sessanta giorni dalla loro notifica, divengano immediatamente esecutivi, consentendo così agli agenti della riscossione di procedere immediatamente all’esecuzione forzata dell’imposta accertata, senza dover più notificare la cartella di pagamento.

Per scovare gli evasori in maniera più capillare e veloce, a partire dal 1° gennaio 2011 è inoltre entrato in campo, a fianco del redditometro, il c.d. spesometro, un nuovo sistema informatico che permetterà al fisco di controllare in tempo reale le spese effettuate dai singoli cittadini, attivando gli accertamenti fiscali sui potenziali evasori. Lo spesometro registra, tramite il codice fiscale dell’acquirente, tutte le spese superiori ai 3.000 euro, consentendo di valutare eventuali incongruità tra spese sostenute e redditi dichiarati dal contribuente, ai fini dell’accertamento sintetico.

Ulteriori disposizioni sono poi state introdotte, in tema di riscossione, sempre al fine di salvaguardare le pretese erariali e accelerarne l’incasso: in quest’ottica devono leggersi le disposizioni che hanno introdotto il divieto di compensazione dei crediti d’imposta per i contribuenti che siano, al contempo, debitori di importi iscritti a ruolo per un ammontare superiore a 1.500 euro o quelle che, nell’ipotesi di pignoramento presso terzi, obbligano il terzo pignorato che rivesta la qualifica di sostituto d’imposta ad effettuare, all’atto del pagamento, una ritenuta a titolo d’acconto.

Alle medesime finalità di tutela delle pretese erariali si ispirano anche le disposizioni che hanno inteso limitare il diffuso fenomeno delle illegittime compensazioni dei crediti IVA, a volte risultati totalmente inesistenti. Per consentire all’Amministrazione finanziaria di operare un più efficace controllo di tali compensazioni, è stato previsto che la compensazione dei crediti IVA annuali e trimestrali possa essere effettuata solo dopo la presentazione della dichiarazione IVA, o dell’istanza nella quale è indicato il credito oggetto di compensazione: in tal modo, l’Amministrazione finanziaria potrà efficacemente controllare i dati sui quali si fonda il credito prima che esso venga utilizzato in compensazione dal contribuente. Oltre a ciò, per l’utilizzo in compensazione del credito IVA annuale è stato previsto che, nel caso in cui l’importo da compensare in un anno superi i 15.000 euro, la dichiarazione IVA debba avere il visto di conformità da parte di uno dei soggetti a ciò abilitati dalla legge.

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In definitiva, il biennio si è caratterizzato, principalmente, per un’operazione legislativa di lotta all’evasione e all’elusione, in attesa di un ripensamento globale della linea strutturale del sistema impositivo.

Interventi sono stati fatti anche nel settore degli incentivi fiscali agli investimenti produttivi e alle attività di ricerca: si è trattato, però, di interventi di limitata portata, in alcuni casi in relazione al quantum delle agevolazioni concesse e, in altri, per la loro limitata applicabilità temporale, attesa la difficile situazione della finanza pubblica. L'agevolazione di maggior spicco è stata senz'altro la c.d Tremonti-ter che ha costituito una riedizione semplificata di analoghi provvedimenti del passato.

IMPOSTE DIRETTE

2. Reddito d’impresa

2.1 Le novità in materia di fiscalità internazionale

Nel trascorso biennio molte importanti novità hanno toccato temi e istituti di fiscalità internazionale. Come accennato, alcuni provvedimenti, in particolare le modifiche che sono state apportate alla disciplina delle società estere controllate (CFC) e le nuove disposizioni in tema di oneri di adeguata documentazione dei prezzi di trasferimento delle transazioni intercompany, sono finalizzati al contrasto dell’evasione fiscale e dell’erosione delle basi imponibili nazionali. Accanto a questi due provvedimenti, che hanno avuto già realizzazione, una terza misura – cui non è ancora stata data attuazione – tende, invece, a conseguire un obiettivo completamente diverso, o opposto: consentire alle imprese estere che intraprendono una nuova iniziativa imprenditoriale in Italia di importare il regime fiscale di maggior favore tra quelli vigenti negli Stati membri UE.

La nuova disciplina delle controlled foreign company (c.d. CFC)

Si ricorda che il regime CFC, introdotto nel nostro ordinamento con la legge 21 novembre 2000, n. 342 e collocato attualmente nell’art. 167 del TUIR, prevede che se un soggetto residente in Italia detiene, direttamente o indirettamente, anche tramite società fiduciarie o per interposta persona, il controllo di un’impresa, di una società o di un altro ente, residente o localizzato in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, così come individuati con apposito decreto (c.d. CFC black list)1, i redditi conseguiti dal soggetto controllato estero sono imputati e tassati per trasparenza in capo ai soggetti residenti, in proporzione alle partecipazioni detenute. Sono previste due circostanze esimenti, il cui riconoscimento – a seguito della presentazione di un’istanza di interpello all'Agenzia delle entrate – consente al soggetto controllante italiano di non applicare le CFC rules, dimostrando, alternativamente i) che il soggetto estero svolge un’effettiva attività industriale o commerciale, come propria principale attività (cfr. art. 167, comma 5, lett. a), del TUIR) oppure ii) che le partecipazioni non determinano l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a fiscalità privilegiata (cfr. art. 167, comma 5, lett. b)).

1. Si tratta dei paesi individuati con il d.m. 21 novembre 2001. Si ricorda che il dato testuale dell’art. 167, comma 1, del TUIR prevede l’applicabilità del regime di trasparenza nell’ipotesi in cui un soggetto residente in Italia detenga il controllo di una società o altro ente residente o localizzato in Stati o territori diversi da quelli di cui al decreto ministeriale emanato ai sensi dell’art. 168-bis (c.d. White list). Nelle more dell’emanazione del decreto che dovrà individuare i paesi da includere nella White list (quelli “che consentono un adeguato scambio di informazioni e nei quali il livello di tassazione non è sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia”) continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti fino al 31 dicembre 2007, giusto quanto stabilito dall’art. 1, comma 88, della l. n. 244/2007. Pertanto, la disciplina CFC di cui ai commi da 1 a 5-bis continua ad applicarsi con riferimento all’elenco dei paesi c.d. black list del d.m. 21 novembre 2001.

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Il decreto legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, ha introdotto modifiche, che, allo scopo di evitare indebiti arbitraggi fiscali, comportano un inasprimento di questo regime sotto vari profili.

Innanzitutto, sono state ridefinite le condizioni per il riconoscimento dell’esimente relativa all’esercizio di una “effettiva attività industriale o commerciale”, nel senso che tale attività deve esprimere un collegamento qualificato con il “mercato” dello Stato o territorio di insediamento. Il testo del citato art. 167, comma 5, lett. a), nella sua nuova formulazione prevede, infatti, che essa sia svolta “nel mercato dello Stato o territorio di insediamento”, anziché, semplicemente “nello Stato o nel territorio nel quale ha sede” l’ente estero controllato.

Inoltre, è stata introdotta, con il nuovo comma 5-bis dell’art. 167 del TUIR, una presunzione relativa di inesistenza di una attività economica effettiva nei casi in cui la controllata estera realizzi in prevalenza proventi derivanti da attività finanziarie e immateriali – c.d. passive income – o da servizi infragruppo: presunzione che può essere vinta solo adducendo elementi di prova particolarmente circostanziati e complessi.

Un secondo e più incisivo intervento ha poi condotto all’introduzione di un regime CFC di carattere generale, applicabile worldwide, e quindi anche nei confronti delle controllate estere non localizzate nei cc.dd. paradisi. Il nuovo comma 8-bis dell’art. 167 ha esteso, infatti, l’ambito applicativo della disciplina CFC anche ai Paesi a fiscalità ordinaria, compresi gli Stati membri dell’Unione europea, quando i soggetti controllati avverano contemporaneamente due condizioni i) sono assoggettati ad un livello di tassazione effettiva inferiore alla metà di quello che avrebbero subito ove residenti in Italia; ii) hanno conseguito proventi che derivano in prevalenza da passive income e servizi interni al gruppo. È fatta salva la possibilità, a carico del contribuente, di provare in sede di interpello preventivo che l’insediamento estero non rappresenta una “costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale”.

Per effetto di queste modifiche vengono oggi a convivere, nell’art. 167, due diversi regimi CFC, il cui comune presupposto è l’esistenza del requisito del controllo sull’ente estero da parte di un soggetto residente, ma che si differenziano in ragione del Paese di stabilimento, della natura delle esimenti e delle relative prove: regimi che si affiancano a quello dell’art. 168 del TUIR, riservato alle società estere collegate situate nei paesi black list, che non è stato modificato ma su cui si riflettono, indirettamente, le novità che hanno interessato la disciplina delle controllate estere localizzate nei paesi di black list.

Nel suo insieme, l’attuale disciplina CFC suscita diverse perplessità. Sono infatti rimasti aperti tutti i problemi dell’originario regime e ne sono sorti di ulteriori.

In particolare, per quanto riguarda la c.d. CFC black list è rimasta inalterata la grave anomalia esistente per le imprese che, in virtù dell’esimente dell’art. 167, comma 5, lett. a), ottengono la disapplicazione della tassazione per trasparenza in quanto esercitano in loco un'effettiva attività d’impresa: infatti, la società controllante che rimpatria in Italia gli utili di questa impresa, sotto forma di dividendi, subisce la tassazione piena di tali dividendi, senza neanche il riconoscimento delle imposte pagate dalla società partecipata nello Stato di insediamento.

Inoltre, le modifiche apportate a questa esimente dell’art. 167, comma 5, lett. a), rendono la sua portata applicativa di incerta applicazione (soprattutto perché non è chiaro il concetto di “effettivo radicamento” nel mercato locale) e altalenante (dovendosi in ogni esercizio verificare se i passive income superano gli active income): si tratta, in definitiva, di un arretramento rispetto all’originaria impostazione.

Ancor più criticabile la disciplina CFC generale.

In questo ambito, l’adozione del comparable approach (anziché di una lista di Stati o regimi privilegiati approvata dall’autorità legislativa o amministrativa) pone a carico del contribuente anche l’onere di individuare, anno per anno, le giurisdizioni con livello impositivo inferiore della metà rispetto a quello domestico, attraverso il periodico confronto tra l’effective tax rate estero e quello domestico, nel contesto di una disciplina molto complessa, destinata a funzionare a fasi alterne, ancor più della

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CFC black list. Con la particolarità, che costituisce un unicum nel panorama internazionale, che non spetta alla Amministrazione finanziaria contestare l’elusività dell’insediamento estero, fornendo i relativi elementi di prova; ma, al contrario, è il contribuente a dover preventivamente dimostrare, in sede di interpello, che l’insediamento estero è effettivamente radicato e non rappresenta una costruzione di puro artificio.

A tal proposito, occorre prendere atto dell’apertura interpretativa dell’Agenzia delle entrate che, nell’intento di circoscrivere la portata dell’obbligo, ha osservato2 che la mancata proposizione dell’istanza d’interpello non preclude al contribuente la possibilità di disapplicare le norme a contenuto antielusivo, dimostrando, in sede di controllo o in fase contenziosa, la “serietà” dell’insediamento estero.

Non è chiaro, tuttavia, se questo orientamento, pur apprezzabile, è in linea con la recente posizione espressa dalla Suprema Corte di Cassazione che, con riguardo all’interpello disapplicativo di cui all’art. 37-bis, comma 8, del d.P.R. n. 600/1973, ha affermato in via generale la natura costitutiva e autorizzatoria della risposta dell’Amministrazione finanziaria agli interpelli disapplicativi; il che comporta, ad avviso del Giudice di legittimità, da un lato, che il contribuente ha il potere di impugnare il diniego espresso dall’Amministrazione, alla stregua di qualsiasi atto d’imposizione e, dall’altro – e questo è l’aspetto che qui maggiormente suscita preoccupazione – che il contribuente non ha il potere di disapplicare autonomamente il regime antielusivo per cui è richiesto l’interpello3. In effetti, posto che la fattispecie rimessa all’attenzione della Corte di Cassazione riguardava, come detto, la rilevanza dell’interpello disapplicativo di cui all’art. 37-bis, comma 8, del d.P.R. n. 600/1973, non è chiaro se alle medesime conclusioni – ed, in particolare, per quanto concerne l’impossibilità per il contribuente di disapplicare la norma antielusiva – si debba pervenire anche in relazione alla disciplina in esame.

Resta il fatto che nel contesto del rinnovato regime CFC e della sua estensione ai paesi White list, anche europei, l’obbligatorietà dell’interpello preventivo produce l’effetto di rovesciare interamente sul contribuente l’onere di fornire adeguata prova liberatoria e costituisce una sanzione indiretta non proporzionata rispetto allo scopo antielusivo che il regime fiscale intende perseguire e non in linea con i principi UE come interpretati dalla Corte di Giustizia: sarebbe quanto mai opportuno che la disciplina venga adeguatamente rivisitata in via normativa. E ciò, non solo per coerenza con il diritto comunitario, ma soprattutto per evitare che disposizioni pensate per contrastare arbitraggi e artifici finiscano, in realtà, per limitare l’operatività estera delle imprese più attive sui mercati internazionali.

Il confine tra i diversi obiettivi non risulta infatti sempre chiaro. Per quanto l’Agenzia delle entrate abbia cercato di moderarne l’impatto con scelte interpretative4 anche coraggiose, la disciplina resta lontana dalle best practices e dai contenuti più attuali del dibattito internazionale sul tema.

Di particolare interesse è, ad esempio, il progetto in corso di definizione nel Regno Unito, dove Amministrazione finanziaria, imprese ed esperti si confrontano pubblicamente, da oltre due anni, sui criteri e sugli obiettivi di una riforma della legislazione CFC, da inserire in un più generale progetto di revisione della corporate tax. La nuova CFC supera i tradizionali approcci jurisdictional e transactional, conservandone solo gli elementi migliori. Rispetto al metodo transactional che circoscrive, per natura, i singoli redditi da tassare e al metodo jurisdictional, che invece seleziona le entità estere, per poi attrarne a tassazione l’intero reddito, la futura disciplina CFC del Regno Unito dovrebbe operare in modo selettivo: prima circoscrivendo le entity, cioè le controllate ricadenti nell’ambito di applicazione della disciplina e, poi, distinguendo, nel coacervo del loro reddito complessivo, quei redditi che, in relazione alla loro qualità e natura, possono essere oggetto di imputazione per trasparenza, superando, in tal modo, l’approccio all or nothing. Il sistema prevede, infatti, che restino imputati al soggetto controllante, a chiusura e protezione del sistema, solo i redditi ‘passivi’ (e non l’intero reddito) delle società ‘selezionate’, e, in ogni caso, nella sola misura in cui tali redditi passivi possano essere considerati effettivamente generati nel Regno Unito.

2. Cfr. circolari nn. 32/E e 51/E del 2010.

3. Corte di Cassazione, sentenza n. 8663 del 15 aprile 2011.

4. Cfr. circolare n. 51/E del 2010.

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Questo approccio è coerente e parallelo con un principio più generale che si sta affermando in campo internazionale: quello di consentire alle imprese, anche in via opzionale, la tassazione su base territoriale – e quindi solo nel paese in cui sono prodotti – dei redditi transnazionali d’impresa realizzati all’estero, sia attraverso stabili organizzazioni sia attraverso società controllate. In questo contesto, lo Stato di residenza si limiterebbe ad attrarre a tassazione, in capo al soggetto controllante residente, i soli passive income localizzati all’estero che possono considerarsi artificialmente “distratti" dalla base imponibile nazionale.

Le sfide degli altri Stati, in definitiva, sono la territorialità del prelievo a sostegno della competitività estera delle imprese e, nel contempo, l’assoggettamento a tassazione dei soli redditi che apparentemente sono prodotti all’estero ma che in realtà sono distolti oltre frontiera in modo artificioso.

Le innovazioni in materia di transfer pricing

L’altra importante innovazione è intervenuta, come accennato in premessa, in relazione alla disciplina fiscale dei prezzi di trasferimento di beni o servizi di cui all’art. 110, comma 7, del TUIR (transfer pricing); articolo che, come noto, reca un principio di carattere generale secondo cui i componenti di reddito derivanti da operazioni con società del gruppo non residenti sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, se ne deriva un aumento del reddito oppure, limitatamente ai casi di accordo concluso a seguito di “procedure amichevoli” contemplate da Convenzioni contro le doppie imposizioni, anche se ne deriva una diminuzione.

Le norme sui prezzi di trasferimento sono modelli di risoluzione del conflitto tra giurisdizioni che hanno lo scopo di ripartire la materia imponibile tra gli Stati di residenza delle imprese associate che si scambiano beni o servizi e dovrebbero consentire alle imprese di operare con tranquillità senza incorrere in doppia imposizione. In realtà, sono fonte di incertezza e creano costi di compliance tanto più rilevanti quanto più complesse e integrate sono le transazioni economiche. Inoltre, in relazione alla crescente sensibilità con cui gli Stati mettono sotto controllo questo tipo di operazioni, le rettifiche sui prezzi di trasferimento comportano l’applicazione di sanzioni e possono altresì provocare doppia imposizione economica, avuto riguardo alle persistenti difficoltà che i gruppi incontrano ad ottenere, all’esito di una procedura amichevole, le rettifiche “corrispondenti” nell’altro Stato.

Al riguardo, il decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, ha introdotto5, a carico delle imprese multinazionali operanti in Italia, l’onere di predisporre una documentazione, conforme agli standards condivisi a livello comunitario6, idonea a dimostrare l’adeguatezza dei propri prezzi di trasferimento intercompany, dandone tempestiva e formale comunicazione all'Agenzia delle entrate. La documentazione comprende un master file con le informazioni generali riguardanti il gruppo e un dossier nazionale con le informazioni specifiche sulla società residente interessata e le modalità di determinazione dei prezzi.

5. L’art. 26 del d.l. n. 78/2010 (rubricato “Adeguamento alle direttive OCSE in materia di documentazione dei prezzi di trasferimento”), più in dettaglio, ha novellato il testo dell’art. 1 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, introducendo il comma 2-ter che recita: “In caso di rettifica del valore normale dei prezzi di trasferimento praticati nell’ambito delle operazioni di cui all’art. 110, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, da cui derivi una maggiore imposta o una differenza del credito, la sanzione di cui al comma 2 [i.e., la sanzione per dichiarazione infedele] non si applica qualora, nel corso dell’accesso, ispezione o verifica o di altra attività istruttoria, il contribuente consegni all’Amministrazione finanziaria la documentazione indicata in apposito provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate idonea a consentire il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati. Il contribuente che detiene la documentazione prevista dal provvedimento di cui al periodo precedente, deve darne apposita comunicazione all’Amministrazione finanziaria secondo le modalità e i termini ivi indicati. In assenza di detta comunicazione si rende applicabile il comma 2”. Il Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate contemplato dalla disposizione, emanato il 29 settembre 2010, fa espresso riferimento al “Codice di condotta relativo alla documentazione dei prezzi di trasferimento per le imprese associate nell’Unione Europea”, adottato dal Consiglio dell’Unione Europea in data 27 giugno 2006 e alle “Linee Guida OCSE sulla determinazione dei prezzi di trasferimento per le imprese multinazionali e le amministrazioni fiscali”, nella versione approvata dal Consiglio dell’OCSE il 22 luglio 2010.

6. Con la Risoluzione Consiglio 2006/C 176/01 è stato approvato il Codice di condotta sugli oneri di documentazione, che la Commissione aveva elaborato nel corso dei lavori del Joint Transfer Pricing Forum con l’obiettivo di attenuare i conflitti tra le imprese e le amministrazioni finanziarie che nascono dai tecnicismi.

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Il nuovo regime intende rispondere ad esigenze di trasparenza sia delle imprese multinazionali, che intendono operare o già operano nel territorio italiano, sia dell’Amministrazione finanziaria, che può disporre, in sede di controllo, di supporti documentali che consentano di verificare la corrispondenza dei prezzi praticati nelle transazioni infragruppo a quelli applicabili in regime di libera concorrenza.

È un adempimento finalizzato ad ottimizzare l’azione di controllo dell’Amministrazione finanziaria cui si collega un effetto premiale per il contribuente. Non costituisce un obbligo generalizzato, e, infatti, non sono previste sanzioni specifiche per i contribuenti che non intendano predisporre, nella forma richiesta, la documentazione probatoria delle policy di transfer pricing. Si tratta, cioè, semplicemente di un onere che il contribuente è tenuto a soddisfare per ottenere, in caso di accertamento relativo a queste operazioni, la disapplicazione delle sanzioni amministrative ordinariamente stabilite per l’ipotesi di dichiarazione infedele, sia per quanto riguarda l’IRES che per quanto concerne le analoghe sanzioni nell’ambito dell’IRAP.

Il Provvedimento con il quale il Direttore dell’Agenzia delle entrate ha attuato il nuovo regime di oneri documentali definisce puntualmente i soggetti7 onerati dalla predisposizione e conservazione dei documenti necessari a supportare la pricing policy praticata e chiarisce, in dettaglio, cosa debba intendersi per “documentazione idonea”8 da predisporre al fine della disapplicazione delle sanzioni. Si richiede in particolare che il contribuente comunichi all’Amministrazione finanziaria il possesso della documentazione prevista9 e che essa sia consegnata agli organi di controllo in occasione dello svolgimento delle loro attività ispettive.

Le nuove disposizioni e i relativi effetti premiali si rendono applicabili anche per i periodi d’imposta precedenti la loro entrata in vigore, qualora il contribuente predisponga la documentazione richiesta.

Restano tuttavia insoluti alcuni problemi di un certo rilievo.

Anzitutto, la configurazione del nuovo adempimento come un onere cui si associa il beneficio dell’esenzione dalle sanzioni, anziché come un obbligo, non riesce a superare, e anzi conferma un’anomalia di fondo che caratterizza, tra i pochi in Europa e in sede Ocse, il nostro ordinamento. Ci riferiamo alla automatica applicabilità delle sanzioni amministrative per infedele dichiarazione anche nei casi di accertamento conseguente alle rettifiche di transfer pricing, e, cioè, di accertamenti che vertono su tematiche complesse, di carattere estimativo, attinenti alla ripartizione dei ricavi e dei costi di operazioni transfrontaliere tra due ordinamenti diversi.

Nella gran parte degli altri Stati membri o aderenti all’Ocse le contestazioni sui prezzi di trasferimento

7. Il Provvedimento, infatti, definisce la “società holding appartenente ad un gruppo multinazionale”, la “società sub-holding appartenente ad un gruppo multinazionale” e la “impresa controllata appartenente ad un gruppo multinazionale”.

8. In coerenza con il contenuto del “Codice di condotta relativo alla documentazione dei prezzi di trasferimento per le imprese associate nell’Unione Europea”, le disposizioni domestiche individuano, quale documentazione idonea a consentire la verifica della conformità dei prezzi di trasferimento, un set documentale denominato “Masterfile” e un set documentale denominato “Documentazione nazionale”. Il “Masterfile” deve contenere, tra le altre cose, informazioni dettagliate in merito all’attività svolta, alla struttura societaria e organizzativa del gruppo; dettagli circa le strategie commerciali e il modello di business adottato; una descrizione del mercato e posizionamento competitivo del gruppo di appartenenza; la descrizione dei beni materiali e immateriali impiegati e dei rischi assunti da ciascuna delle imprese del gruppo; i flussi intercompany tra le varie società appartenenti al gruppo; la politica di determinazione dei prezzi di trasferimento del gruppo e delle motivazioni per le quali essa è ritenuta conforme alle regole della libera concorrenza e degli accordi preventivi sui prezzi di trasferimento stessi. Quanto alla “Documentazione nazionale”, essa afferisce alle informazioni da fornire sulla singola società del gruppo e deve riportarne una descrizione generale, dei settori in cui opera, delle strategie e della sua struttura operativa, con specifiche informazioni in merito alle operazioni infragruppo cui la società partecipa, all’analisi di comparabilità e al metodo adottato per la determinazione dei prezzi di trasferimento.

9. La comunicazione del possesso della documentazione necessaria a fruire della non applicazione delle sanzioni deve essere effettuata, per il periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del d.l. n. 78/2010 (31 maggio 2010) e per quelli successivi, in sede di presentazione della dichiarazione dei redditi. Per quanto riguarda la medesima comunicazione concernente periodi d’imposta antecedenti, questa doveva essere effettuata entro novanta giorni dalla data di pubblicazione del citato Provvedimento, quindi entro il 28 dicembre 2010. Lo stesso Provvedimento, tuttavia, ha chiarito che saranno considerate valide anche eventuali comunicazioni successive a tale termine, sempre che esse siano state trasmesse precedentemente all’inizio di accessi, ispezioni, verifiche o altre attività di accertamento di cui il soggetto onerato della comunicazione abbia avuto formale conoscenza.

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non prevedono, in via ordinaria, l’applicazione delle sanzioni (né amministrative né penali), ma solo il recupero delle imposte con i relativi interessi. È solo il mancato adempimento degli obblighi documentali idonei a dare trasparenza alla transfer pricing policy che può, in molti di questi paesi, giustificare l’applicabilità di sanzioni. Ma si tratta di sanzioni in misura fissa, rapportate non al reddito oggetto di recupero, ma sic et simpliciter al mancato assolvimento dell’onere documentale. È questa, del resto, la direzione recentemente indicata dalla stessa Commissione UE10, che, dopo avere ricordato che il transfer pricing non è una scienza esatta, invita gli Stati membri a non prevedere sanzioni automaticamente applicabili in ipotesi di rettifica, riservandole alle sole ipotesi che denotino mancanza di diligenza e cooperazione, per inosservanza degli obblighi documentali o delle richieste di informazioni o documentazione supplementare.

Con il recente intervento legislativo, dunque, è stata persa l’occasione per una rivisitazione complessiva delle implicazioni sanzionatorie conseguenti alle rettifiche sui prezzi di trasferimento, in linea con gli indirizzi e le politiche dei principali partners europei e extra europei.

Altri gravi problemi si segnalano sul fronte delle sanzioni penali, su cui ci saremmo aspettati indicazioni esplicite da parte del legislatore. Invece, nessuno specifico chiarimento è stato fornito in merito al rapporto fra la regolare tenuta della documentazione sui prezzi di trasferimento e il profilo delle sanzioni penali. Proprio perché l’esistenza di questa documentazione (tempestivamente comunicata all’Amministrazione finanziaria) determina la disapplicazione delle sanzioni amministrative, sarebbe stato logico almeno chiarire che, a maggior ragione, non si applicano le sanzioni penali, e che quindi i verificatori non sono tenuti a trasmettere la comunicazione della notitia criminis relativa al reato di dichiarazione infedele, di cui all’art. 4 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74. In linea generale, infatti, l’esposizione (c.d. ostentazione) nei documenti contabili delle scelte operate dal contribuente e delle relative motivazioni costituisce motivo di depenalizzazione della condotta. Di conseguenza, la circostanza che la documentazione della transfer pricing policy del gruppo è oggetto di comunicazione specifica, dovrebbe ragionevolmente escludere l’esistenza del dolo specifico di evasione, necessario per la configurabilità dei reati penali tributari e, quindi, l’obbligo per i verificatori di inoltrare la denuncia alla autorità giudiziaria. La questione è di rilievo perché comportamenti che determinino l’applicazione di serious penalty precludono l’avvio della procedura amichevole regolata, in ambito europeo, dalla Convenzione arbitrale n. 90/436/CEE11, che consentirebbe di risolvere – a beneficio del gruppo – la doppia imposizione conseguente alla intervenuta rettifica dei prezzi di trasferimento; e l’Italia in calce a tale Convenzione ha dichiarato che per quanto riguarda il nostro ordinamento, sono violazioni gravi (serious penalty) gli illeciti di rilevanza penale. Si ricorda che la Convenzione arbitrale, come recentemente rivisitata dal nuovo codice di condotta approvato dal Consiglio UE del 22 dicembre 200912, prevede che la procedura amichevole tra gli Stati membri sia seguita, se non ha dato esiti entro due anni, da una procedura arbitrale affidata ad una commissione consultiva che provvederà a risolvere il conflitto assicurando che le imposte non siano prelevate in entrambi gli ordinamenti. È dunque essenziale che la procedura non resti preclusa (o, se già iniziata, non sia sospesa fino alla archiviazione o alla conclusione del procedimento penale) dall’invio della notitia criminis relativa ad una rettifica dei prezzi di trasferimento a carico di un’impresa che, avendo regolarmente predisposto e messo a disposizione dei verificatori l'idonea documentazione richiesta, abbia ottenuto la disapplicazione delle sanzioni amministrative per infedele dichiarazione.

In subordine, occorrerebbe quantomeno modificare la ricordata dichiarazione unilaterale che l’Italia ha reso in calce alla Convenzione arbitrale n. 90/436/CEE. Questa dichiarazione fu resa, infatti, nel diverso contesto normativo della legge 7 agosto 1982, n. 516, che puniva condotte di natura

10. Cfr. COM(2009) 472 del 14 settembre 2009, par. 2.1, punti 8 – 14, in coerenza con le indicazioni del JTPF SEC (2009) 1168 par. 9.

11. Convenzione relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate (90/436/CEE).

12. A seguito della COM(2009)472 del 14 settembre 2009 della Commissione, il Consiglio UE ha approvato, il 22 dicembre 2009, il nuovo codice condotta sull’effettiva implementazione della convenzione arbitrale, per evitare fenomeni di doppia imposizione in sede di rettifica dei prezzi di trasferimento. Il nuovo codice si propone di dare effettiva attuazione alla Convenzione CEE n.436/1990, prevedendo che la procedura amichevole sia seguita, se non ha dato esiti entro due anni, da una procedura arbitrale affidata ad una commissione consultiva.

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fraudolenta, laddove il d.lgs. n. 74/2000 considera reato, al superamento delle soglie previste, anche l’infedele dichiarazione. È la stessa Commissione UE ad invitare tutti gli Stati membri, che a suo tempo – in sede di firma della Convenzione arbitrale – abbiano reso “dichiarazioni” eccessivamente punitive a modificarle, qualificando come “gravi” le sole violazioni riconducibili a comportamenti frodatori.

L’importazione del regime fiscale estero delle imprese

In controtendenza rispetto alle misure già illustrate in tema di fiscalità internazionale, è stato introdotto nell’ordinamento il c.d. regime fiscale di attrazione europea di cui all’art. 41 del d.l. n. 78/2010.

Tale regime prevede la possibilità, per le imprese residenti in uno degli Stati membri dell’Unione europea diverso dall’Italia che intraprendano effettivamente nel territorio dello Stato italiano una nuova attività d’impresa a partire dal 31 maggio 201013 di optare per l’applicazione, in alternativa alla normativa fiscale italiana, delle regole fiscali vigenti in un qualsiasi altro Stato europeo, al fine - così si legge nella relazione illustrativa al provvedimento governativo - di favorire “la circolazione di sottosistemi giuridici all’interno dell’Unione Europea” e attrarre investimenti dall’estero. La medesima possibilità di opzione è riconosciuta ai dipendenti e ai collaboratori delle medesime imprese.

Sono escluse dal beneficio le sole imposte locali di competenza, ad esempio, di Comuni, Province e Regioni.

Anche così limitata, la scelta del regime si presenta, comunque, ampia, in quanto l’imprenditore straniero e i suoi dipendenti e collaboratori possono spaziare tra tutti gli ordinamenti fiscali degli Stati membri, senza essere obbligati ad adottare necessariamente le norme tributarie vigenti in Italia o nel proprio Stato d’origine.

L’agevolazione è operante soltanto per tre periodi di imposta, decorsi i quali sarà applicato l’ordinario sistema tributario italiano ed è stata subordinata alla presentazione all'Agenzia delle entrate del c.d. ruling internazionale di cui all’art. 8 del d.l. n. 269/2003.

L’ultimo comma dell’art. 41, infine, delega a un decreto di natura non regolamentare del Ministero dell’economia e delle finanze l'emanazione delle disposizioni attuative necessarie a disciplinare gli aspetti sostanziali e procedurali non espressamente regolati dalla norma. Sul sito del Ministero dell’economia e delle finanze è stata recentemente pubblicata una bozza del decreto attuativo “aperta ad ogni proposta di miglioramento e/o di cambiamento”.

A tal proposito, non possiamo sottacere le criticità che il nuovo istituto presenta, e in particolare i suoi profili di dubbia compatibilità costituzionale e comunitaria.

Quanto al primo aspetto, l’istituto finisce per trattare in modo diverso, sul piano dell’obbligazione tributaria, soggetti che parimenti svolgono in Italia la propria attività d’impresa o (per quanto riguarda dipendenti e collaboratori) attività di lavoro subordinato o autonomo.

Difficilmente, inoltre, potrà superare l’esame dei competenti organi UE al cui vaglio il regime dovrà sicuramente essere sottoposto dopo la pubblicazione del decreto attuativo, perché - non essendo generalizzato - viola principi fondamentali di diritto comunitario, tra cui il divieto di non discriminazione e di aiuti di Stato e quindi la libertà di stabilimento; nonché il divieto di concorrenza fiscale dannosa, posto a tutela degli interessi delle imprese residenti e delle ragioni degli altri ordinamenti.

Per altro va anche osservato che l’attrattività del regime è discutibile: esso, infatti, ha una durata limitata di tre anni e quindi non è del tutto certo che sia in grado di richiamare investimenti esteri reali e duraturi. Più facilmente potrebbe diventare strumento per veicolare temporanei ‘travestimenti’ di iniziative produttive vecchie o estero vestite.

13. Cfr. la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 4/E del 15 febbraio 2011.

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In un tale contesto che si annuncia molto complesso e non privo di ‘opacità’, l’effettiva attivazione di questo nuovo istituto è destinata a creare notevoli difficoltà operative anche alla stessa Amministrazione finanziaria, i cui uffici saranno chiamati ad esercitare i poteri di controllo e verifica su scritture, bilanci e modalità di determinazione del reddito ‘importati’ da ciascuno degli altri 26 ordinamenti contabili e fiscali esistenti in Europa.

Infine, sotto un profilo più generale, non si può sottacere che il regime consente la più ampia libertà di shopping tra i regimi fiscali comunitari alle imprese estere che si insediano in Italia, mentre – come abbiamo visto – con gli altri provvedimenti sopra esaminati sono stati incrementati gli oneri che gravano sulle nostre imprese che intendano mantenere e accrescere la propria presenza e operatività internazionale. Con l’ulteriore effetto che, in relazione alle attività svolte in Italia, le nostre imprese e i loro dipendenti e collaboratori subiranno la concorrenza delle imprese estere ammesse a fruire del nuovo istituto di attrazione europea, sul terreno sensibilissimo della gravosità dell’onere tributario e, indirettamente, del costo del lavoro.

2.2 L’impatto dei principi contabili internazionali

Come già ricordato nella precedente relazione biennale, per i soggetti IAS adopter, a seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 244/2007 e dell’emanazione del decreto attuativo n. 48 del 2009, si è resa operante una disciplina di determinazione della base imponibile IRES basata sul principio di derivazione c.d. rafforzata dalle risultanze di bilancio e, cioè, sul recepimento ai fini fiscali dei criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione previsti dai principi contabili internazionali IAS/IFRS.

Il nuovo assetto normativo risponde ad una logica opposta rispetto a quella sottostante al d.lgs. n. 38/2005 che, come è noto, era ispirato al principio di neutralità e, dunque, all’idea di assicurare alle imprese che avessero adottato, per obbligo o per opzione, i principi contabili internazionali, lo stesso trattamento che avrebbero avuto, tendenzialmente, in caso di redazione del bilancio in base ai principi contabili nazionali.

Il legislatore del 2008 ha compiuto questa scelta in considerazione del fatto che il sistema di determinazione dell’imponibile previsto dal d.lgs. n. 38/2005 era ormai divenuto di difficile gestione. La necessità di attenersi al contenuto giuridico formale degli atti gestionali, infatti, aveva determinato un sostanziale distacco dai criteri di rappresentazione IAS, sicché il patrimonio esposto in bilancio era assai diverso, sia sotto il profilo quantitativo che sotto il profilo qualitativo, rispetto a quello fiscalmente rilevante. L’imponibile, pertanto, doveva essere ricostruito apportando una serie di assai complesse variazioni che non erano supportate neanche dalla tenuta di scritture contabili obbligatorie.

Sempre nella precedente relazione, avevamo già segnalato che le modifiche introdotte dalla l. n. 244/2007, pur consentendo il superamento di queste difficoltà di gestione dei diversi valori civili e fiscali, ponevano alcune problematiche di non poco conto.

In particolare, avevamo accennato al fatto che le qualificazioni IAS sono strettamente dipendenti da atti valutativi che il redattore di bilancio è chiamato ad effettuare e che possono essere oggetto di verifica da parte dell’Amministrazione finanziaria in sede di accertamento. Questo stretto legame tra qualificazione e atti di valutazione, che ne costituiscono il presupposto, differenzia sensibilmente la posizione delle imprese IAS adopter rispetto a quelle non IAS. Per le imprese che seguono i principi contabili tradizionali, il fenomeno delle valutazioni si presenta a fine esercizio ed è disciplinato da apposite regole fiscali finalizzate a ridurre i margini di contenzioso tra fisco e contribuente. Per i soggetti IAS adopter, le valutazioni si presentano già in sede di rilevazione degli atti gestionali, sicché le regole del TUIR che limitano le valutazioni a fine esercizio, pur continuando a trovare applicazione anche nei confronti delle imprese IAS, non sono idonee ad evitare che possa proliferare il contenzioso, tra contribuenti e uffici accertatori, sulla correttezza delle valutazioni compiute nella rappresentazione di bilancio.

Altro aspetto problematico dell’assetto attuale è quello della convivenza nel sistema impositivo di imprese IAS adopter e di imprese non IAS, ossia di categorie di imprese che, per effetto del

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proprio assetto contabile, possono rilevare e assoggettare a tassazione una stessa operazione in modo assai differente. Queste diversità, evidentemente, possono dar luogo ad asimmetrie suscettibili di determinare effetti di doppia tassazione o salti di imposta. Mentre in un primo tempo si assumeva che tali asimmetrie potessero compensarsi nei grandi numeri ed essere tollerate a livello di sistema, trattandosi di differenze di imputazione temporale, è poi emerso che in varie ipotesi ciò non si verifica, in quanto talune operazioni sono rappresentate dagli IAS come estranee al circuito reddituale (si pensi, ad esempio, all’acquisto di azioni proprie che gli IAS concepiscono come una restituzione del capitale).

Ed infine, un punto delicato è che il sistema contabile IAS/IFRS si configura come un insieme di regole contabili in continua evoluzione. Negli ultimi anni, e, in particolare, dal 2008 in poi, gli organi competenti (IASB e Commissione CE) hanno varato profonde modifiche dei principi contabili internazionali e altre sono attese per il futuro. Si pensi, ad esempio, agli emendamenti apportati nel 2008 allo IAS 39 a causa della crisi finanziaria, all’IFRIC 12 sugli accordi in concessione, alle modifiche all’IFRS 3, alle previste innovazioni in tema di leasing e di riconoscimento dei ricavi, all’IFRS 9 sugli strumenti finanziari, ecc. Queste modifiche hanno un impatto diretto non solo sulla redazione del bilancio ma anche sui criteri di quantificazione del reddito imponibile, testimoniando che, con la derivazione rafforzata dagli IAS/IFRS, il legislatore non ha più il totale controllo dei componenti reddituali che concorrono a formare la base imponibile, dal momento che tali componenti variano con il variare delle regole contabili di riferimento.

A quest’ultimo riguardo, un’importante novità è stata introdotta dall’art. 2, commi 25-28, del d.l. n. 225/2010, proprio per restituire una supremazia al legislatore interno, ha previsto che, in caso di modifiche agli IAS/IFRS, il Ministro della Giustizia - di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e previo parere dell’OIC, della Banca d’Italia, della Consob e dell’ISVAP - possa emanare norme di coordinamento per garantire il rispetto delle funzioni organizzatorie che il bilancio è chiamato a svolgere in base al codice civile. Analoga facoltà è stata prevista in favore del Ministro dell’economia per l’emanazione di norme di coordinamento ai fini fiscali. Norme fiscali di coordinamento, infine, potranno essere anche emanate, entro il 31 maggio 2011, in relazione a modifiche dei principi contabili internazionali risultanti da regolamenti comunitari entrati in vigore nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2009 e il 31 dicembre 2010.

L’intervento del legislatore è stato accompagnato da reazioni di varia natura.

Sul piano civilistico, parte della dottrina ha contestato la legittimità della delega conferita al Ministro della giustizia osservando che, in base al regolamento CE n. 1606 del 2002, il legislatore italiano aveva a disposizione la sola opzione di adottare o meno gli IAS/IFRS ai fini della redazione del bilancio di esercizio e che, avendo esercitato tale opzione con il d.lgs. n. 38/2005, non sarebbe più abilitato ad introdurre norme di adattamento dei principi contabili internazionali. Altri commentatori, invece, hanno osservato che poiché il regolamento CE n. 1606 del 2002 non impone l’adozione degli IAS/IFRS ai fini della redazione del bilancio di esercizio – rimettendola ad una decisione dei singoli Stati membri – la materia continuerebbe ad essere nella disponibilità del legislatore interno, che potrebbe, pertanto, legittimamente coordinare, mediante apposite disposizioni, le regole contabili IAS con le esigenze dell’ordinamento nazionale.

Quanto alla delega relativa alle norme di adeguamento di natura fiscale, sotto il profilo tecnico sono state sollevate perplessità in considerazione del fatto che la norma non esplicita i criteri direttivi cui dovrebbe attenersi il Ministro dell’economia nel dare attuazione alla norma primaria. In proposito, la tesi più convincente è che debbano essere osservati i criteri guida previsti dalla l. n. 244/2007 anche in sede di emanazione di queste norme di coordinamento, tenuto conto che esse si propongono di aggiornare la disciplina contenuta nel decreto n. 48 del 2009 in funzione delle novità contabili nel frattempo intervenute. Altro aspetto delicato è quello della decorrenza delle nuove disposizioni di coordinamento, specie con riguardo a quelle che dovrebbero essere varate entro il termine del 31 maggio 2001 con riferimento alle modifiche del sistema contabile IAS/IFRS intervenute nel biennio 2009-2010. La soluzione più coerente dovrebbe essere quella di salvaguardare, comunque, il regime delle operazione pregresse già assunte ai fini fiscali.

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2.3 Valutazione del circolante

Nel corso del biennio in esame le imprese che non adottano i principi contabili internazionali hanno potuto fruire nuovamente della facoltà prevista dall’art. 15, comma 13, del d.l. n. 185/2008, in tema di valutazioni dei titoli del circolante.

Come si ricorderà14, la predetta disposizione aveva concesso la facoltà, ai soggetti che non adottano i principi contabili internazionali, di derogare all’art. 2426, n. 9, del cod. civ., secondo cui i “i titoli e le attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni sono iscritti al costo di acquisto […], ovvero al valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato, se minore”. Tale facoltà, come dichiarato espressamente dalla norma, era stata introdotta in chiave anticongiunturale, in considerazione dell’eccezionale turbolenza che aveva caratterizzato i mercati finanziari in quel periodo storico. La possibilità di mantenere i predetti titoli iscritti ad un valore superiore a quello di realizzo desumibile dall’andamento del mercato era volta, infatti, a non deprimere eccessivamente le valutazioni di bilancio – e, dunque, ad evitare che le imprese fossero chiamate ad adottare le necessarie misure di salvaguardia del capitale – fino a quando non fossero ripristinate condizioni di stabilità dei mercati.

Il citato art. 15, prevedeva che la medesima misura, valevole esclusivamente in relazione all’esercizio in corso al 29 novembre 200815, potesse essere estesa “all’esercizio successivo con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze”. A tal fine è stato emanato il D.M. 24 luglio 2009, n. 28, con il quale, per l’appunto, è stato previsto che tale facoltà potesse essere esercitata anche in relazione all’esercizio 200916.

Le imprese non IAS adopter, peraltro, hanno potuto fruire di tale opzione anche in relazione al successivo esercizio 2010; e ciò per effetto dell’art. 52, comma 1-bis, del d.l. n. 78/2010. La citata disposizione, infatti, ha previsto che l’art. 15, comma 13, del d.l. n. 185/2008 trovi applicazione anche in relazione all’esercizio in corso alla data di entrata in vigore del d.l. n. 78/2010 (e, cioè, in relazione all’esercizio in corso al 31 maggio 2010).

Come rilevato nella scorsa relazione, tale misura, seppur di portata essenzialmente civilistica, assume rilevanza anche ai fini fiscali, in quanto i contribuenti che decidono di non svalutare i titoli del circolante perdono anche l’opportunità – in difetto dell’interessamento del conto economico – di avere il riconoscimento fiscale dei minori valori che avrebbero potuto essere attribuiti ai titoli sulla base delle quotazioni di mercato.

Per completezza, segnaliamo che, per effetto delle modifiche apportate all’art. 15, comma 13, del d.l. n. 185/2008, dall’art. 2, comma 17-terdecies, del d.l. n. 225/2010, è stato anche previsto che la misura in commento possa “essere reiterata con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze”.

2.4 Conversione delle imposte anticipate in crediti per gli istituti bancari

Particolare rilievo hanno assunto le disposizioni contenute nell’art. 2, commi 55-58, del d.l. 225/2010, che prevedono la conversione in crediti d’imposta delle attività per imposte anticipate iscritte in bilancio “relative a svalutazioni di crediti non ancora dedotte dal reddito imponibile ai sensi del comma 3 dell’articolo 106, del [TUIR], nonché quelle relative al valore dell’avviamento e delle altre attività immateriali, i cui componenti negativi sono deducibili in più periodi d’imposta ai fini delle imposte sui redditi”.

Si tratta di un intervento che ha come principali destinatari le banche. Ciò si evince sia dal fatto che, relativamente alle attività per imposte anticipate conseguenti alla indeducibilità delle svalutazioni

14. Cfr. relazione Assonime biennio 2007-2008.

15. Data in cui è entrato in vigore il d.l. n. 185/2008.

16. In particolare, il citato decreto aveva previsto che la facoltà in esame potesse essere esercitata “anche per l’esercizio successivo a quello in corso alla data del 29 novembre 2008” e, cioè, nella generalità dei casi, per l’esercizio 2009.

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di crediti, la norma si riferisce alle sole svalutazioni operate dagli enti creditizi e finanziari (art. 106, comma 3, del TUIR), sia pure dall’espressa indicazione contenuta nella medesima norma (comma 55 del citato articolo 2) che giustifica questa misura in “funzione anche della prossima entrata in vigore del nuovo accordo di Basilea”. In effetti, è appena il caso di ricordare che la prossima adozione del nuovo accordo Basilea 3 – in base al quale il patrimonio di vigilanza deve essere determinato secondo criteri più rigidi di quelli previsti attualmente – produrrebbe, in assenza di tale misura, effetti assai negativi per le banche, in quanto per effetto di tale accordo, in sede di determinazione del patrimonio base di vigilanza (il c.d. Tier One), esse, tra l’altro, non potranno tener conto delle attività illiquide tra cui quelle, per l’appunto, per imposte anticipate. Tale effetto negativo, peraltro, sarebbe particolarmente avvertito dalle banche domestiche, in quanto nel loro patrimonio, più di quello delle altre, le attività per imposte anticipate assumono notevole rilievo.

Ciò non toglie, tuttavia, che tale misura possa trovare applicazione anche nei confronti degli altri soggetti IRES. In tal senso, in effetti, depone anzitutto la circostanza che tra le imposte anticipate oggetto di trasformazione siano contemplate anche quelle conseguenti al rinvio della deducibilità fiscale di componenti reddituali relative ad elementi – quali l’avviamento e altri beni immateriali – presenti nei bilanci di imprese anche diverse da quelle bancarie. In questo senso sembrerebbe deporre anche la circostanza che è stata prevista una misura compensativa della perdita di gettito derivante dalla conversione in crediti delle attività per imposte differite consistente nel prolungamento, da 9 a 10 anni, del periodo di ammortamento del maggior valore dell’avviamento e dei marchi d’impresa di cui all’art. 15, comma 10, del d.l. n. 185/2008; una misura, dunque, che coinvolge tutte le imprese bancarie e non (cfr. comma 50 del medesimo art. 2). Sarebbe, infatti, singolare che a fronte di un beneficio accordato ad una sola categoria di imprese, siano chiesti sacrifici anche alle altre categorie. Sarebbe, comunque, opportuno un chiarimento ufficiale in merito.

Quanto alle modalità applicative, va subito detto che la conversione in crediti d’imposta non opera su tutta la massa delle predette attività per imposte anticipate presenti in bilancio, bensì essa opera entro certi limiti e a determinate condizioni. In particolare la conversione opera solo in presenza di esercizi in perdita; essa, inoltre, è ammessa entro un limite individuato nella quota di tale perdita corrispondente al rapporto tra le attività per imposte anticipate riferibili alle indicate voci di bilancio e la somma del capitale sociale e delle riserve.

In realtà, l’apposizione dei predetti limiti e condizioni non risulta di agevole comprensione anche in considerazione del fatto che la conversione delle predette attività in crediti, comportando una mera permutazione di elementi comunque collocati nell’attivo patrimoniale, non modifica le risultanze del conto economico e, quindi, non è in grado di attenuare eventuali risultati in perdita.

È più probabile che tali limitazioni siano state previste in ragione delle scarse risorse di bilancio disponibili per il finanziamento di questa misura e che l’obiettivo perseguito sia semplicemente quello di agevolare solo le imprese che si trovino in situazioni di difficoltà comprovate dalla presenza di perdite. Non è da escludere, comunque, che anche così limitata la misura conferisca alle imposte differite evidenziate in bilancio dalle banche, quale che sia il loro risultato di esercizio, un potenziale connotato di liquidità utile ai fini dell’accordo Basilea 3. Il punto, naturalmente, meriterebbe un chiarimento ufficiale.

Il credito di imposta così determinato non è rimborsabile né produttivo di interessi, ma può essere oggetto di cessione ovvero utilizzato in compensazione, senza limiti di importo, ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. n. 241/1997.

La conversione delle attività per imposte anticipate in crediti determina una sostanziale anticipazione del riconoscimento fiscale delle perdite e degli ammortamenti precedentemente non più riconoscibili in deduzione dal reddito rispetto ai tempi di recupero previsti dalle ordinarie regole del TUIR; per questo motivo la norma si cura di precisare, tra l’altro, che “non sono deducibili i componenti negativi corrispondenti alle attività per imposte anticipate trasformate in credito d’imposta”.

La stessa norma prevede, inoltre, che detto “credito va indicato nella dichiarazione dei redditi e non concorre alla formazione del reddito d’impresa né della base imponibile dell’imposta regionale sulle attività produttive” (cfr. art. 2, commi 55-58, del d.l. n. 225/2010).

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È previsto, infine, che con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Banca d’Italia, possono essere stabilite apposite modalità di attuazione delle predette disposizioni.

2.5 Ulteriori modifiche in tema di reddito d’impresa

In materia di reddito d’impresa non si registrano altre particolari innovazioni oltre quelle sopra segnalate. Qualche elemento di novità, meritevole di segnalazione, riguarda, invece, misure già adottate in passato ma ancora in fase di evoluzione.

In particolare, in materia di parziale deducibilità dell’IRAP dall’imponibile IRES e IRPEF, si segnala una recente iniziativa del Governo, contenuta in uno schema di disegno di legge di recente approvazione, volta ad una migliore e più puntuale definizione della quota di IRAP ammessa in deduzione dal reddito d’impresa.

Si ricorda, in proposito, che la parziale deducibilità dell’IRAP dalla base imponibile delle imposte sui redditi era stata introdotta dall’art. 6 del d.l. n. 185/2008, con decorrenza dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2008, per ovviare a possibili censure da parte della Corte costituzionale che era stata chiamata a pronunciarsi in ordine alla legittimità della norma che escludeva la deducibilità di tale onere impositivo nella determinazione del reddito ai fini IRES e IRPEF.

Le maggiori riserve che la Corte aveva espresso in ordine al previgente regime di indeducibilità dell’IRAP si incentravano, in particolare, sulle quote d’imposta riferibili agli oneri finanziari e al costo del personale che alimentano la base imponibile di questo tributo; tali quote d’imposta, infatti, sebbene prelevate unitariamente sull’imprenditore, in quanto organizzatore dei fattori produttivi, attengono al reddito dei suoi finanziatori e dei suoi dipendenti e collaboratori. Sicché, dette quote non potevano essere trattate come imposte del soggetto, ma, piuttosto, come veri e propri oneri concorrenti alla formazione del reddito.

In quest’ottica, quindi, con il citato provvedimento del 2008 è stata prevista la deducibilità dell’IRAP nella misura del 10 per cento dell’imposta complessiva, considerando tale quota come forfetariamente riferibile alle predette componenti di interessi passivi e di costo del lavoro.

Inoltre, anche al fine di evitare il protrarsi di un contenzioso che nel frattempo si era prodotto in materia, è stata consentita la restituzione ai contribuenti delle maggiori imposte versate per i periodi pregressi in conseguenza della mancata deduzione dell’IRAP, con modalità diverse a seconda che gli stessi avessero o meno già presentato istanze di rimborso. Sono stati, quindi, approvati i modelli che le imprese hanno potuto utilizzare per la presentazione delle relative istanze di rimborso.

L’intervento attuato nei termini innanzi descritti, non ha, tuttavia, eliminato del tutto il rischio di ulteriori possibili censure da parte della Corte Costituzionale che potrebbe ancora eccepire l’illegittimità di una deduzione dell’IRAP che viene forfetariamente riconosciuta a tutte le imprese in eguale misura (10 per cento del tributo) a prescindere dalla entità delle componenti relative agli oneri finanziari e al costo del lavoro che ne alimentano la base imponibile, cosicché ne risultano penalizzate le imprese con elevato indebitamento e con forte concentrazione di lavoro dipendente.

Proprio per scongiurare una tale eventualità, il richiamato schema di disegno di legge approvato dal Governo17 reca una delega per l’emanazione, con uno o più decreti legislativi, di apposite norme volte a diversificare la quota di IRAP deducibile dal reddito d’impresa tenendo anche conto dell’intensità del fattore capitale e del fattore lavoro.

Lo schema di disegno di legge prevede, tra l’altro, che nella determinazione delle modalità e dei limiti della deduzione dell’IRAP, il Governo debba tener conto di determinati principi e criteri direttivi tra cui: i) consentire la deducibilità dell’IRAP in misura corrispondente alla quota di base imponibile formata dal costo del personale, dagli interessi passivi e dagli oneri assimilati; ii) definire

17. Nella seduta del Governo del 9 febbraio 2011.

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eventuali modalità di calcolo semplificate o forfetizzate; iii) modulare, anche in caso di adozione di modalità semplificate, la deducibilità in relazione alle intensità di impiego del fattore capitale e del fattore lavoro nell’ambito dei diversi settori produttivi; iv) emanare disposizioni dirette a gestire la deducibilità dell’IRAP per i periodi d’imposta precedenti all’emanazione delle nuove regole.

Questo schema di disegno di legge non ha avuto, ad oggi, ulteriori sviluppi. Va solo aggiunto che, stando alla sua testuale formulazione, i decreti legislativi che dovrebbero dare attuazione alle misure da esso previste sarebbero sottoposti al vincolo della sostanziale invarianza dei saldi di finanza pubblica. La revisione della deduzione dell’IRAP, quindi, se attuata secondo queste direttive, non porterebbe, nel complesso, sostanziali benefici per le imprese.

Un’altra materia per la quale erano stati già da tempo annunciati specifici interventi normativi, è quella della revisione dei coefficienti di ammortamento.

Nella relazione relativa al biennio 2007/2008, trattando dell’eliminazione dell’ammortamento anticipato e accelerato disposta dalla legge finanziaria per l’anno 2008, avevamo posto in evidenza come tale misura si inserisse in un più ampio e generale programma di revisione delle aliquote tabellari volto ad adeguare l’ammortamento fiscale a quello economico-tecnico imposto dal bilancio civile, nell’intento di rendere la determinazione del reddito più aderente, anche sotto questo profilo, alle risultanze del bilancio.

Era stata, infatti, la stessa norma della legge finanziaria per il 200818 che, escludendo per il solo anno 2008 la limitazione al 50 per cento della misura dell’ammortamento nel primo periodo di utilizzo dei beni, giustificava tale misura in vista “della revisione generale dei coefficienti di ammortamento tabellare".

Sul tema è, poi, intervenuto l’art. 6 del d.l. n. 78/2009, che, “per tener conto della mutata incidenza sui processi produttivi dei beni a più avanzata tecnologia o che producono risparmio energetico”, ha disposto che entro il 31 dicembre 2009 si sarebbe provveduto alla “revisione dei coefficienti di ammortamento […] compensandola con diversi coefficienti per i beni industrialmente meno strategici”.

Resta il fatto che, a tutt’oggi, non è stato ancora emanato il decreto ministeriale per dare attuazione alla previsione di delega di cui alla richiamata disposizione di legge.

Comunque, preme rilevare che dalla formula legislativa emerge chiaramente che nell’intento del legislatore la revisione dei coefficienti di ammortamento deve avvenire “a saldo zero” per non gravare, evidentemente, sul bilancio della Stato. Condizione, questa, che ridimensiona fortemente le aspettative delle imprese che in questa manovra di revisione avevano intravisto uno strumento di incentivazione agli investimenti produttivi anche in funzione anti congiunturale.

3. Le discipline di incentivazione fiscale a favoredelle imprese

3.1 La "Tremonti-ter"

Particolari misure di sostegno alle imprese sono state adottate in questi ultimi anni dal Governo per fronteggiare la crisi economica che ha colpito gran parte delle economie occidentali. Si è trattato essenzialmente di interventi volti ad incentivare gli investimenti produttivi al fine di restituire al sistema industriale del Paese competitività e capacità di penetrazione nei mercati. Lo strumento

18. Cfr. art. 1, comma 34, della l. n. 244/2007.

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utilizzato è stato, ancora una volta, quello della detassazione degli investimenti produttivi, attuato dal d.l. n. 78/2009 – c.d. Tremonti-ter – sulla scia degli analoghi provvedimenti del passato (le cc.dd. “ Tremonti 1” del 1994 e “Tremonti-bis” del 2001).

Ricordiamo brevemente che l’agevolazione è stata introdotta dall’articolo 5 del predetto decreto legge sotto forma di esclusione dall’imposizione sul reddito d’impresa del 50 per cento del valore degli investimenti in nuovi macchinari e nuove apparecchiature individuati con riferimento alla divisione 28 della tabella ATECO (classificazione delle attività economiche elaborata dall’Istituto nazionale di statistica). Rispetto ai precedenti provvedimenti, pertanto, la “Tremonti-ter” si è caratterizzata essenzialmente in ragione della specificità degli investimenti ammessi all’agevolazione che sono stati individuati non più, come in passato, nella generalità dei beni strumentali all’esercizio d’impresa, bensì in una determinata tipologia di beni – macchinari e apparecchiature appartenenti alla divisione 28 della predetta tabella – che, più di altri, sono stati ritenuti strategici per sostenere l’export dei prodotti italiani.

Per il resto, il meccanismo di applicazione dell’agevolazione è stato quello consueto, consistente nel riconoscere l’ammontare degli investimenti effettuati nei predetti beni, assunto nella misura del 50 per cento dei relativi costi, a riduzione del reddito d’impresa del periodo d’imposta di riferimento. Più in particolare, sono stati ammessi al beneficio, oltre ai costi sostenuti per l’acquisto dei beni appartenenti alla divisione 28 della predetta tabella e agli oneri accessori ad essi direttamente imputabili, anche i beni compresi in altre divisioni della medesima tabella se indispensabili al funzionamento dei primi. Questa estensione, ammessa in via interpretativa dall’Agenzia delle entrate19, risulta, tuttavia, confinata all’ambito dei beni accessori che sono strettamente connessi al funzionamento dei macchinari e che, solitamente, ne costituiscono naturale dotazione.

Al pari dei precedenti provvedimenti di detassazione, anche la “Tremonti-ter” ha compreso nell’agevolazione gli investimenti effettuati nelle diverse forme di acquisizione diretta presso fornitori terzi, di costruzione in economia e di acquisizione in locazione finanziaria.

Lo strumento della detassazione ha avuto soprattutto il pregio della sua agevole e automatica applicazione, nel senso che le imprese hanno potuto fruire del beneficio a diretta riduzione delle imposte dovute per il periodo di realizzazione degli investimenti, evitando, con ciò, tutte le complicazioni e le incertezze del monitoraggio preventivo che, invece, caratterizzano le più recenti agevolazioni solitamente accordate sotto forma di credito d’imposta. Questo strumento, inoltre, ha permesso alle imprese di avvalersi dell’agevolazione anche in situazioni di esercizi in perdita; la detassazione, infatti, agisce come una qualsiasi altra componente negativa che ha la capacità non solo di abbattere il reddito di periodo ma anche, eventualmente, di alimentare perdite che, pur non recando un beneficio immediato in termini di risparmio d’imposta, possono essere utilizzate a compensazione di redditi di successivi esercizi secondo le ordinarie regole stabilite in materia dal TUIR.

Proprio perché rivolta a fronteggiare una crisi di tipo congiunturale, la “Tremonti-ter”, come le precedenti analoghe agevolazioni, ha avuto efficacia limitata ad un breve intervallo di tempo (1° luglio 2009 – 30 giugno 2010) che, tuttavia, si è dimostrato non adeguato rispetto ad una congiuntura sfavorevole che, invece, si è protratta più a lungo del previsto.

Giova infine rilevare che il biennio in esame è stato caratterizzato da un vivace dibattito relativo alla possibilità o meno di cumulare tale agevolazione con il regime di incentivazione dei cc.dd. “certificati verdi”; dubbio interpretativo, questo, che è stato oggetto di discussione anche nel corso di una riunione tenutasi presso i nostri uffici. Al riguardo, segnaliamo che la questione è stata risolta positivamente dal legislatore, il quale, su invito del’Avvocatura di Stato, ha chiarito che il divieto di cui all’art. 2, comma 152, della l. n. 244/2007 – e, cioè, la disposizione che prevede, per l’appunto, il divieto di cumulo dei cc.dd. certificati verdi con “altri incentivi pubblici di natura nazionale, regionale, locale o comunitaria in conto energia, in conto capitale o in conto interessi con capitalizzazione anticipata” – “non si applica nel caso di fruizione della detassazione dal reddito di impresa degli investimenti in macchinari e apparecchiature e di accesso a fondi di rotazione e fondi di garanzia” (cfr. art. 26, comma 3, del d.lgs. n. 28/2011).

19. Cfr. circolare dell’Agenzia delle entrate n. 44/E del 27 ottobre 2009.

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3.2 Incentivo alla capitalizzazione delle imprese

Con lo stesso d.l. n. 78/2009, è stata introdotta anche una misura di incentivo alla capitalizzazione delle imprese, entro limiti quantitativi e temporali molto contenuti.

L’art. 5, comma 3-ter, del decreto ha, infatti, previsto che per gli aumenti di capitale delle società di importo fino a 500.000 euro, effettuati da persone fisiche mediante conferimenti ai sensi degli artt. 2342 e 2464 del codice civile, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del provvedimento20, si presume un rendimento del 3 per cento annuo che viene escluso da imposizione fiscale per il periodo d’imposta in corso alla data di perfezionamento dell’aumento di capitale e per i quattro periodi d’imposta successivi.

L’incentivo alla capitalizzazione delle imprese ha costituito, in certo modo, una misura complementare a quella della Tremonti-ter, nel senso che i nuovi apporti di capitale possono favorire una politica di espansione degli investimenti produttivi delle imprese. Si è trattato, quindi, di provvedimenti entrambi finalizzati al superamento dell’attuale fase di crisi economica in cui versa il Paese. Sta di fatto, però, che le limitazioni quantitative e temporali cui è condizionato l’incentivo – aumenti di capitale sino a 500.000 euro e limitazione del beneficio ai conferimenti perfezionati nell’arco di soli sei mesi – hanno reso la manovra scarsamente incisiva rispetto agli obiettivi che essa intendeva perseguire.

L’altra limitazione posta dalla norma, consistente nel riconoscere il beneficio solo in relazione ai conferimenti effettuati da persone fisiche – ed escludere, quindi, quelli eseguiti da società – è sembrata, invece, rispondere all’esigenza di premiare esclusivamente le immissioni di capitale nuovo proveniente da economie private, anche in ragione del fatto che l’estensione alle società avrebbe potuto dar luogo a fenomeni di attribuzione “a cascata” dei benefici, qualora la società conferitaria avesse utilizzato le nuove risorse acquisite per effettuare, a sua volta, conferimenti in altre società da essa partecipate.

Sul piano operativo il meccanismo per l’attribuzione del beneficio è abbastanza semplice. Per il quinquennio di riferimento (il periodo d’imposta in cui si perfeziona l’aumento e i quattro successivi) la società conferitaria ha diritto ad una detassazione del reddito per un importo che è pari al 3 per cento dell’aumento di capitale, nel rispetto dei limiti e delle condizioni innanzi descritti. In via interpretativa, l’Agenzia delle entrate ha, tuttavia, ritenuto di dover porre una ulteriore limitazione alla fruizione di questo beneficio21 precisando che il rendimento presunto del 3 per cento annuo escluso da imposizione in ciascun periodo d’imposta “si applica sull’aumento di capitale effettivamente versato che costituisce un permanente incremento di patrimonio netto rispetto all’ammontare esistente” alla data di decorrenza del provvedimento. Per la fruizione del beneficio, quindi, non è sufficiente che vi sia stato un incremento di patrimonio alimentato dai predetti conferimenti, occorre anche che tale incremento sia mantenuto per il periodo della sua applicazione. In altri termini, per ciascun periodo di imposta del quinquennio di fruizione della detassazione, il 3 per cento va calcolato sull’incremento di patrimonio conseguente ad aumenti di capitale ammessi all’agevolazione assunto, tuttavia,al netto di eventuali successivi decrementi che ne abbiano ridotto l’originaria consistenza.

3.3 La "Tremonti-tessile"

Sempre in funzione anticongiunturale e per venire incontro alle esigenze dei settori tessile, dell’abbigliamento e calzaturiero che più di altri hanno risentito dell’attuale stato di crisi, con il decreto legge 25 marzo 2010, n. 40, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2010, n. 73, è stata, poi, introdotta una misura di detassazione dal reddito d’impresa degli investimenti in attività di ricerca e sviluppo finalizzate alla realizzazione di campionari (c.d. Tremonti-tessile).

L’articolo 4, del decreto legge ha escluso dall’imposizione sul reddito d’impresa “il valore degli investimenti in attività di ricerca industriale e di sviluppo precompetitivo, finalizzate alla realizzazione

20. Per l’esattezza, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 78 /2009 (5 agosto 2009).

21. Cfr. circolare dell’Agenzia delle entrate n. 53/E del 21 dicembre 2009.

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di campionari fatti nell’Unione europea dalle imprese che svolgono le attività di cui alle divisioni 13, 14, 15 e 32.99.20 (quest’ultima per la sola attività di fabbricazione di bottoni) della tabella ATECO … a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2009 e fino alla chiusura del periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2010”. Per le imprese con periodo coincidente con l’anno solare l’agevolazione è, quindi, riconosciuta per gli investimenti effettuati nel corso del 2010.

Si è trattato, in particolare, di un provvedimento che, quanto a contenuto, ha riproposto le agevolazioni alla ricerca già accordate alla generalità delle imprese dalla l. n. 296/2007, limitandone l’ambito applicativo alle sole imprese che operano in taluni settori individuati con riferimento alla tabella ATECO, mentre sul piano dei meccanismi applicativi, ha adottato lo strumento della detassazione del reddito proprio della c.d. Tremonti-ter.

Le attività di ricerca e di sviluppo precompetitivo cui si riferisce questa nuova misura di agevolazione sono, infatti, le stesse che, con riguardo alla l. n. 296/2007, avevano trovato analitica elencazione nel decreto del Ministero dello sviluppo economico n. 76 del 28 marzo 2008 e ulteriore specificazione nella circolare n. 46586 del 2009, emanata dallo stesso Ministero. Alla luce di queste indicazioni sono state, in ogni caso, ritenute agevolabili, nell’ambito del processo di realizzazione del campionario e delle collezioni nel settore tessile e della moda, la fase della ricerca e della ideazione estetica e la fase della realizzazione dei prototipi, mentre altre fasi, quali la preparazione e la promozione del campionario e la gestione del magazzino campioni, sono state ammesse all’agevolazione solo se collegate alla realizzazione di un prodotto nuovo o sostanzialmente modificato.

Quanto alla misura massima del beneficio fruibile da ciascuna impresa, il limite complessivo imposto dallo stanziamento di bilancio (70 milioni di euro) e quello individuale previsto dalla normativa comunitaria in materia di aiuti temporanei di importo limitato (500.000 euro nel triennio 2008/2010), hanno reso necessaria l’adozione di un apposito provvedimento dell’Agenzia delle entrate al fine di definire specifiche regole per le comunicazioni da parte delle imprese interessate e la ripartizione, tra tutti i richiedenti, delle risorse disponibili.

Esaurita la fase di presentazione delle comunicazioni, con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 24 marzo 2011 è stata definita nella misura del 25,1903 per cento la quota di risparmio d’imposta fruibile da ciascuna impresa sull’ammontare dell’investimento teoricamente ammissibile all’agevolazione, indicato nelle predette comunicazioni.

3.4 Credito d’imposta per le attività di ricerca e sviluppoAccanto alle anzidette misure agevolative, nel trascorso biennio è proseguito anche l’intervento di sostegno alle imprese sotto forma di credito d’imposta per le attività di ricerca e sviluppo.

La misura, introdotta dall’art. 1, commi 280-284, della l. n. 296/2006, aveva riconosciuto un apposito credito di imposta commisurato ai costi sostenuti per le attività di ricerca e di sviluppo precompetitivo nei tre periodi d’imposta successivi a quello in corso al 31 dicembre 2006; quindi, nella generalità dei casi, l’agevolazione ha interessato le attività di ricerca e di sviluppo precompetitivo svolte nei periodi d'imposta 2007, 2008 e 2009.

Per espressa previsione della norma il credito d’imposta può essere utilizzato per il versamento delle imposte sui redditi (IRES e IRPEF) e dell’IRAP dovute per il periodo di sostenimento dei costi e, per l’eccedenza, in compensazione solo “a decorrere dal mese successivo al termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta con riferimento al quale il credito è concesso” 22.

L’agevolazione, ricordiamo, era inizialmente fruibile in modo automatico; le imprese, infatti, dovevano adempiere meramente gli oneri dichiarativi al fine di dare evidenza della spettanza del credito e dell’utilizzo del medesimo.

22. Cfr. art. 1, comma 282, della l. n. 296/2006.

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Tuttavia, già nella precedente relazione avevamo segnalato che la fruizione automatica del credito d’imposta era venuta meno a seguito dell’introduzione, nel corso del 2008, di un meccanismo di monitoraggio23 con l’obbligo di inoltrare all’Agenzia delle entrate un apposito formulario (cfr. art. 29 del d.l. n.185/2008) per la “prenotazione” delle risorse.

In particolare, per effetto dell’art. 29 del d.l. n. 185/2008, il credito d’imposta in esame è divenuto fruibile solo a seguito di invio del predetto formulario e successivo nulla osta da parte dell’Agenzia delle entrate; la citata disposizione, peraltro, nel prevedere l’obbligo generalizzato di inoltro del formulario, ha previsto che il finanziamento dell’agevolazione avvenga in modo diverso a seconda che gli investimenti siano stati avviati anteriormente al 29 novembre 2008 o successivamente a tale data.

Attesa l’insufficienza delle risorse finanziarie, infatti, è stata anzitutto attribuita rilevanza agli investimenti agevolati avviati prima del 29 novembre 2008, nel senso che la fruizione del credito d’imposta relativo agli investimenti effettuati successivamente è stata postergata e, comunque, condizionata alla sussistenza di future risorse e correlati stanziamenti. Tuttavia, le risorse complessivamente stanziate si sono già rilevate insufficienti alla copertura degli investimenti avviati anteriormente alla data del 29 novembre 2008, sicché, allo stato delle cose, vi sono scarse probabilità che le imprese possano conseguire i benefici relativamente agli investimenti avviati dopo tale data. In particolare, dopo il c.d. click day – e, cioè, dopo l’invio del formulario avvenuto nel periodo 6 maggio 2009-5 giugno 2009 – le imprese che avevano già avviato gli investimenti prima del 29 novembre 2008 [lett. a) dell’art. 29 del d.l. n.185/2008] hanno ricevuto dall’Agenzia delle entrate, nel corso del mese di giugno 2009, le previste comunicazioni24.

È accaduto, tuttavia, che molte di queste imprese si sono viste negare il nulla osta per insufficienza di risorse; ciò non ha fatto venir meno il loro diritto al credito d’imposta, il cui effettivo esercizio è, tuttavia, rinviato al momento in cui saranno disponibili ulteriori stanziamenti e sarà data comunicazione positiva da parte dell’Agenzia delle entrate25.

Proprio in quest’ottica, la l. n. 191/200926 ha disposto un parziale rifinanziamento nella misura di 200 milioni di euro (poi ridotti a 150, in base all’art. 4, comma 1, del d.l. n. 40/2010) per l’anno 2010 e di 200 milioni di euro per l’anno 2011.

Con la stessa disposizione è stata anche prevista l’emanazione di un decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze e del Ministro dello sviluppo economico per stabilire le modalità di utilizzo del nuovo stanziamento “sentite le associazioni di categoria”.

A seguito della riunione con le associazioni di categoria, il Dipartimento delle Finanze ha ritenuto che la soluzione più opportuna per ripartire queste risorse fosse quella di assegnare i 350 milioni di euro, nel rispetto del criterio proporzionale, a favore dei soli soggetti (art. 29, lett. a), del d.l. n.185/2008) che, avendo avviato gli investimenti prima del 29 novembre 2008, avevano partecipato al click day e non avevano ricevuto il nulla osta per la fruizione del credito d’imposta per esaurimento delle risorse disponibili.

Sulla base di questo orientamento e delle limitate risorse disponibili è stato, pertanto, emanato in data 4 marzo 2011 (in G.U. del 18 aprile 2011) il decreto che fissa le modalità di accesso all’ulteriore

23. Analogo a quello previsto per la fruizione del credito d’imposta per gli investimenti nel Mezzogiorno (c.d. Visco sud) di cui all’art. 1, commi 271-279, della l. n. 296/2006.

24. In particolare: circa 7.000 imprese hanno ricevuto il nulla osta per la fruizione del credito d’imposta per gli anni dal 2009 al 2011; altre imprese (circa 11.000) hanno, invece, ricevuto il provvedimento di diniego per esaurimento delle risorse.

25. Molte delle imprese escluse dal beneficio (circa 2.000) avevano presentato ricorso contro il provvedimento di diniego. Nel gennaio 2010, la Commissione tributaria di Pescara si è pronunciata sui primi ricorsi, accogliendo solo in limitati casi le istanze dei contribuenti. L’Agenzia delle entrate, con comunicato stampa del 5 febbraio 2010, ha precisato che sui primi 571 ricorsi decisi dalla Commissione tributaria di Pescara “472 sono stati decisi in favore dell’Agenzia delle entrate e 99 sentenze hanno accolto i ricorsi dei contribuenti”. L’Agenzia ha sottolineato, nel comunicato, che “il giudice ha, comunque, riconosciuto soltanto l’esistenza del diritto al credito d’imposta il cui utilizzo rimane legato in via normativa alla disponibilità dei fondi”.

26. In particolare, l’art. 2, comma 236, della l. n. 191/2009.

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stanziamento di 350 milioni di euro, ripartendolo fra gli aventi diritto in via proporzionale e, precisamente, nella misura massima del 47,53% del credito d’imposta richiesto.

Una nuova agevolazione per le attività di ricerca è stata successivamente disposta, in favore delle imprese che affidano le attività di ricerca e sviluppo ad università o ad enti pubblici di ricerca, dall’art. 25 della l. n. 220/2010, a fronte di uno stanziamento di bilancio di 100 milioni di euro per l’anno 2011 (c.d. ricerca contrattuale).

Per completezza d’informazione, segnaliamo che l’art. 1 del decreto legge 13 maggio 2011, n. 7027, previa abrogazione dell’art. 25 della l. 220/2010, ha modificato l’ambito applicativo e temporale dell’agevolazione in esame. Questa è sempre riservata alle imprese che finanziano progetti di ricerca ad università o ad enti pubblici di ricerca, ma questi ultimi possono ora anche sviluppare tali progetti in associazione, consorzio o joint venture con altre qualificate strutture di ricerca, anche private.

L’agevolazione, sotto forma di credito d’imposta, è riconosciuta sugli investimenti realizzati a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2010 e fino alla chiusura del periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2012 (quindi, nella generalità dei casi, per gli anni 2011 e 2012). Il credito d’imposta compete in tre quote annuali per l’importo che eccede la media degli investimenti in ricerca effettuati nel triennio 2008-2010.

Il credito è stabilito nella misura del 90% della spesa incrementale di investimento nelle ipotesi in cui tale investimento è commissionato direttamente a determinati soggetti (università, enti pubblici di ricerca, ASI, organismi di ricerca definiti dalla disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato alla ricerca). Le modalità applicative dell’agevolazione saranno adottate con successivo provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate.

Il credito d’imposta è utilizzabile esclusivamente in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del d.lgs. n. 241/1997 e dovrà essere indicato nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta di sostenimento dei costi: esso non concorre alla formazione del reddito né della base imponibile dell’IRAP e non rileva ai fini del rapporto di cui agli artt. 61 e 109, comma 5, del TUIR.

3.5 Altre agevolazioni: aggregazioni aziendali, distretti industrialie reti d’impresa

Talune novità si registrano anche in relazione alle discipline agevolative delle operazioni di aggregazione aziendale.

Anzitutto, merita ricordare che sono ormai cessati gli effetti degli incentivi alle aggregazioni aziendali previsti dalla l. n. 296/2006 (c.d. bonus aggregazioni). Tali incentivi, originariamente previsti per le operazioni attuate nei periodi 2007-2008 sono stati successivamente riproposti dal d.l. n. 5/2009, con riferimento alle operazioni poste in essere nel 200928.

Di questa agevolazione, nelle due varianti sopra citate, abbiamo già dato conto nelle precedenti relazioni all’attività svolta per il 2005-2006 e per il 2007-2008.

In questa sede merita soltanto rammentare che l’apprezzabile finalità di questa agevolazione era quella di incentivare le operazioni di “concentrazione” di più aziende, consentendo il riconoscimento fiscale gratuito, fino ad un importo massimo di 5 milioni di euro, dei disavanzi da concambio emergenti da operazioni di fusione o scissione, nonché del maggior valore iscritto dalla società che riceveva un conferimento d’azienda realizzato ai sensi dell’art. 176 del TUIR.

Cionondimeno, l’agevolazione in commento non ha riscosso particolare successo in considerazione sia delle stringenti condizioni cui veniva subordinata la sua fruizione, sia dei limiti soggettivi e oggettivi del suo ambito applicativo. Da un lato, infatti, per la fruizione dell’agevolazione era necessario proporre

27. Attualmente in fase di conversione.

28. Cfr. art. 4 del d.l. n. 5/2009.

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un interpello preventivo all’Amministrazione finanziaria (onere che, in effetti, è stato eliminato nella seconda edizione del bonus cui abbiamo fatto cenno) e, dall’altro lato, rimanevano comunque escluse le aggregazioni cc.dd. “miste”, quelle cioè aventi ad oggetto un complesso aziendale, da una parte, e un capitale messo a disposizione da un partner finanziario, dall’altra29.

Nel nostro sistema sono stati previsti anche altri meccanismi di incentivazione delle operazioni di aggregazione aziendale (latu sensu intese), tra cui quelli relativi ai “distretti industriali” e alle “reti d’impresa”, originariamente previsti dalla l. n. 266/2005 e successivamente riproposti con gli artt. 3 e 4 del d.l. n. 5/2009.

Si tratta di incentivi flessibili che secondo l’intenzione del legislatore dovrebbero assolvere alla funzione di favorire la crescita organizzativa e produttiva delle imprese italiane, anche in considerazione della struttura tipica degli operatori economici del nostro Paese, notoriamente di ridotte dimensioni e poco propensi allo “spossessamento” del controllo delle proprie aziende. In particolare – come si evince dalla relazione illustrativa del provvedimento – la previsione di un regime agevolativo per i distretti industriali e per le reti di impresa nasce con l’intento di incentivare la crescita del tessuto economico dello Stato italiano e, con particolare riferimento alle reti, dall’esigenza di fornire alle aziende italiane gli strumenti per poter accrescere la propria competitività sul mercato in termini di qualità e di innovazione e, dunque, di dare nuovo impulso soprattutto alle piccole e medie imprese in termini di valorizzazione delle potenzialità di crescita sostenibile nel medio-lungo periodo. I regimi agevolativi si inseriscono, peraltro, nel più ampio progetto di attuazione della Comunicazione della Commissione europea del 25 giugno 2008 sullo “Small Business Act”.

Per ciò che riguarda i distretti industriali, ci limitiamo a ricordare che con essi il legislatore ha inteso disciplinare una forma di incentivazione fiscale per le imprese accomunate dal medesimo radicamento territoriale, dallo svolgimento di attività complementari o dall’appartenenza alla stessa filiera produttiva, prevedendo la facoltà di optare per la tassazione unitaria dell’imponibile del distretto con l’applicazione, in quanto compatibile, della disciplina del consolidato fiscale nazionale. Tuttavia, alle disposizioni normative aventi ad oggetto tale forma di aggregazione industriale non è mai stata data una concreta applicazione e, ad oggi, ancora mancano i relativi decreti di attuazione.

Con riguardo alle reti d’impresa, invece, si segnala che con il recente d.l. n. 78/2010, il legislatore ha apportato alcune modifiche a tale regime agevolativo.

In particolare, nell’attuale assetto normativo le reti di impresa costituiscono una forma negoziale di “aggregazione di imprese”, alla quale si aderisce mediante la sottoscrizione di un apposito contratto redatto per atto pubblico o per scrittura privata autenticata – e contenente il c.d. programma comune di rete – dal quale emerga chiaramente come lo scopo perseguito dagli imprenditori aderenti al programma comune di rete sia quello “di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato”, obbligandosi a tal fine “a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero ancora ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa”30.

29. Nella seconda edizione del bonus, peraltro, venne anche escluso dal novero dei beni strumentali immateriali sui quali si poteva fruire dell’agevolazione l’avviamento che, come noto, nelle aggregazioni aziendali rappresenta solitamente la componente più rilevante.

30. Cfr. art. 3 del d.l. n. 5/2009, così come modificato dall’art. 42 del d.l. n. 78/2010.

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L’agevolazione fiscale riconosciuta per effetto di tale particolare forma di aggregazione si sostanzia31 nella esclusione dal reddito della quota degli utili dell’esercizio – vincolata ad apposita riserva – destinata dalle imprese aderenti alla rete “al fondo patrimoniale comune o al patrimonio destinato all’affare per realizzare entro l’esercizio successivo gli investimenti previsti dal programma comune di rete”. Ma alle reti d’impresa vengono ricollegate anche altre agevolazioni amministrative e finanziarie32.

Tornando, comunque, all’agevolazione fiscale, segnaliamo che, per espressa previsione normativa, “l’importo che non concorre alla formazione del reddito d’impresa non può, comunque, superare il limite di euro 1.000.000”33 ed, in ogni caso, questo regime di sospensione d’imposta cessa – e, dunque, gli utili accantonati concorrono alla formazione del reddito – “nell’esercizio in cui la riserva è utilizzata per scopi diversi dalla copertura di perdite di esercizio ovvero in cui viene meno l’adesione al contratto di rete”34.

Il beneficio fiscale rileva esclusivamente ai fini delle imposte sui redditi e non anche dell’IRAP e opera solo in sede di versamento del saldo delle imposte sui redditi dovute per il periodo di imposta relativo all’esercizio cui si riferiscono gli utili destinati al fondo patrimoniale comune o al patrimonio destinato all’affare, nel senso che di esso non può tenersi conto in sede di versamento degli acconti.

Da un punto di vista soggettivo segnaliamo che destinatarie dell’agevolazione sono le imprese residenti in Italia o le stabili organizzazioni nel territorio dello Stato di imprese non residenti che sottoscrivono (o aderiscono ad) un contratto di rete, indipendentemente dalla forma giuridica, dalle dimensioni aziendali, dalla tipologia di attività svolta o dal settore economico di riferimento35; l’adesione al contratto di rete non comporta, in ogni caso, estinzione o modificazione della soggettività tributaria delle imprese che aderiscono all’accordo in questione, né l’attribuzione di soggettività tributaria alla rete risultante dal contratto stesso.

Per quanto riguarda l’ambito oggettivo, rientrano tra gli investimenti agevolati (rectius: tra gli investimenti alla cui realizzazione è destinata la quota di utili accantonata che gode del regime di sospensione d’imposta) quelli relativi all’acquisto o all’utilizzo di beni (strumentali e non) e di servizi, nonché all’utilizzo del personale. Sono inoltre considerati quali investimenti agevolati anche quelli che derivano dalla messa a disposizione dei predetti beni, servizi e personale, da parte delle imprese aderenti al contratto di rete. In tal caso “rileva il costo figurativo relativo all’effettivo impiego di detti beni, servizi e personale per la realizzazione degli investimenti”36.

31. Quanto agli effetti dell’adesione ad una rete di imprese, infatti, l’art. 42 del d.l. n. 78/2010 prevede anche la possibilità per i partecipanti, già delineata in prima approssimazione dal precedente assetto normativo, di fruire di vantaggi amministrativi, finanziari e fiscali, nonché di stipulare convenzioni con l’A.B.I. “nei termini definiti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge 400 del 1988” entro quarantacinque giorni dall'entrata in vigore del predetto decreto. Il contenuto delle agevolazioni amministrative e finanziarie, come già evidenziato da più parti, si dovrebbe sostanziare nella possibilità, per le reti, di intrattenere rapporti diretti con le pubbliche amministrazioni e con gli enti pubblici ed economici, di avviare procedimenti amministrativi volti all’ottenimento di contributi erogati sulla base di disposizioni regionali, nazionali e comunitarie, nonché di ottenere condizioni semplificate ai fini dell’ottenimento di finanziamenti.

32. Cfr. art. 42, comma 2-quater, del d.l. n. 78/2010. Giova peraltro rilevare che, rispetto alla previgente disciplina, l’istituzione del fondo patrimoniale comune e la nomina dell’organo comune non costituiscono elementi essenziali ai fini della configurabilità del contratto di rete. Tuttavia, l’Agenzia delle entrate ha specificato che l’accesso all’agevolazione fiscale è consentito solo ed esclusivamente a quelle imprese aderenti a contratti di rete che prevedano l’istituzione del fondo patrimoniale comune (cfr. circolare n. 15/E del 14 aprile 2011).

33. Cfr. art. 42, comma 2-quater, del d.l. n. 78/2010. Al riguardo, l’Agenzia delle entrate nella circolare n. 4/E del 2011 ha chiarito che detto limite deve essere inteso come riferibile “per ciascuna impresa, nonché per ciascun periodo d’imposta in cui è consentito l’accesso all’agevolazione, fermo restando il limite stabilito dal comma 2-quinquies pari a 20 milioni di euro per l’anno 2011 e 14 milioni di euro per ciascuno degli anni 2012 e 2013”. Ciò significa che le imprese beneficeranno dell’agevolazione in modo separato, secondo quanto effettivamente accantonato e nel periodo d’imposta di effettuazione dell’operazione.

34. Cfr. art. 42, comma 2-quater, del d.l. n. 78/2010.

35. In questo senso si è espressa anche l’Agenzia delle entrate nella circolare n. 15/E del 14 aprile 2011.

36. Cfr. circolare dell’Agenzia delle entrate n15/E del 14 aprile 2011.

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Da un punto di vista operativo l’art. 42 del d.l. n. 78/2010 prevede che per l’effettiva attuazione, il programma comune di rete debba necessariamente essere sottoposto al vaglio di “organismi espressione dell’associazionismo imprenditoriale muniti dei requisiti previsti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, ovvero, in via sussidiaria, da organismi pubblici individuati con il medesimo decreto”. Il predetto decreto del Ministero dell’economia e delle finanze è stato emanato il 25 febbraio 2011 37 38.

È altresì previsto39 che, in ogni caso, l’Agenzia delle entrate, avvalendosi dei propri poteri di accertamento e di controllo, vigili sui contratti di rete e sulla realizzazione degli investimenti che hanno dato accesso all’agevolazione, revocando i benefici indebitamente fruiti, anche in collaborazione con gli organismi di asseverazione.

Sul piano applicativo, il 14 aprile 2011 il Direttore dell’Agenzia delle entrate ha approvato il modello che le imprese appartenenti ad una delle reti di impresa devono utilizzare per comunicare all’Amministrazione finanziaria la fruizione dei relativi benefici (c.d. modello reti).

Per il primo anno di applicazione dell’agevolazione, il termine entro il quale possono essere stipulati i contratti di rete è stato individuato, dalla richiamata circolare n. 15/E, nel 30 settembre 2011, data di presentazione del modello UNICO 2011 in cui dovrà essere indicata l’agevolazione.

4. Le novità per i fondi comuni di investimento

La disciplina dei fondi comuni d’investimento è stata interessata nel corso del passato biennio da significative innovazioni e ulteriori sono in procinto di essere introdotte da provvedimenti ancora in fase di elaborazione e pubblicazione.

In particolare, per quanto riguarda i fondi immobiliari la preoccupazione del legislatore è stata di contrastarne l’utilizzo con finalità elusive, con particolare riferimento ai fondi a stretta base partecipativa. In questo senso, il d.l. n. 78/2010 ha introdotto una serie di specificazioni sulla natura civilistica del fondo, sulla autonomia gestionale della società di gestione e sul regime esonerativo previsto per i soggetti esteri.

Con riguardo, invece, ai fondi comuni d’investimento mobiliare e alle SICAV, con il recente d.l. n. 225/2010 è stata introdotta una riforma di fondamentale importanza volta ad attuare un miglior coordinamento della disciplina degli OICVM nazionali con quella dei fondi esteri; riforma che si basa sulla sostituzione del regime di imposizione “per maturato” dei risultati dei fondi nazionali, con un regime di esonero e spostamento della tassazione sugli investitori al momento della percezione di tali proventi.

Diciamo subito, però, che entrambe queste modifiche sono ancora in corso di evoluzione. Per quanto riguarda i fondi immobiliari, infatti, segnaliamo che è recentemente intervenuto il d.l. n. 70/2011, attualmente in fase di conversione, il quale prevede ulteriori innovazioni in materia; in relazione ai fondi mobiliari, invece, rileviamo che ulteriori novità sono previste nella “legge comunitaria 2010” attualmente in discussione alla Camera dei deputati.

37. Tale decreto è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 31 marzo 2011, n. 74. In particolare, tale decreto ha individuato i requisiti degli “organismi espressione dell'associazionismo imprenditoriale".

38. Ricordiamo, peraltro, che l’operatività dell’agevolazione era stata espressamente subordinata, ai sensi dell’art. 42, comma 2-septies, del d.l. n. 78/2010, all’autorizzazione della Commissione europea, la quale si è pronunciata in senso favorevole, con ciò ritenendo che la misura in favore delle reti di imprese non costituisce aiuto di Stato (cfr. Decisione C(2010)8939 def. del 26 gennaio 2011).

39. Artt. 42, comma 2-quater, del d.l. n. 78/2010 e 6 del d.m. 25 febbraio 2011.

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4.1 La nuova disciplina dei fondi immobiliari

Come accennato, il legislatore ha introdotto alcune modifiche alla disciplina civilistica e fiscale dei fondi immobiliari con finalità antielusive. In particolare, l’obiettivo è stato di arginare il fenomeno dei “fondi immobiliari veicolo”, ossia la costituzione di fondi immobiliari da parte di un numero ristretto di partecipanti al fine di beneficiare del regime fiscale di favore previsto per tali fondi, in luogo dell’applicazione del regime ordinario di tassazione che si applicherebbe qualora gli immobili fossero detenuti direttamente dai partecipanti (cfr. relazione illustrativa al d.l. n. 78/2010).

La novella normativa segue la linea di contrasto dei fondi immobiliari a ristretta base partecipativa (composti da poche persone fisiche legate tra loro da rapporti di parentela o affinità) intrapresa dal legislatore già con l’art. 82, commi da 17 a 20, del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, ma se ne differenzia sostanzialmente, in quanto tale ultima disposizione ne modificava il trattamento fiscale legittimandone tuttavia l’esistenza, mentre la recente modifica ne determina la definitiva cessazione.

L’art. 32 del d.l. n. 78/2010, in particolare, ha stabilito che “il fondo comune di investimento è un patrimonio autonomo raccolto, mediante una o più emissione di quote, tra una pluralità di investitori con la finalità di investire lo stesso sulla base di una predeterminata politica di investimento. Il patrimonio deve essere suddiviso in quote di pertinenza di una pluralità di partecipanti, gestito in monte, nell’interesse dei partecipanti ed in autonomia dai medesimi” (nuova lettera j), dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 58/2008). É stata, peraltro, conferita la delega al Ministero dell’economia e delle finanze al fine di individuare in maniera puntuale i requisiti che i fondi debbono possedere per essere considerati tali. Il decreto non è stato ad oggi emanato40, così come manca ancora il relativo provvedimento dell’Agenzia delle entrate, previsto entro 30 giorni dall’emanazione del citato decreto (cfr. risposta all’interrogazione parlamentare n. 5-04390 del 16 marzo 2011).

Sulla base della nuova previsione e delle indicazioni preliminari fornite dal Dipartimento del tesoro, comunque, è già possibile individuare le caratteristiche essenziali di un fondo comune di investimento che, in estrema sintesi, dovrebbero consistere nella pluralità di investitori, nella politica di investimento predeterminata e, soprattutto, nella autonomia gestionale delle SGR rispetto ai sottoscrittori del fondo.

In effetti, la novella, se confrontata con la previgente formulazione, non introduce particolari elementi di novità relativamente ai requisiti qualificanti del fondo, ma li rende più espliciti, in quanto precedentemente si ritenevano insiti nello stesso concetto di gestione collettiva del risparmio41.

Cionondimeno, come anticipato, la modifica è destinata ad avere notevoli impatti proprio sulla tassazione dei fondi immobiliari.

Il d.l. n. 78/2010, infatti, ha previsto un particolare obbligo di adeguamento dei regolamenti di gestione per i fondi che non siano conformi ai nuovi requisiti e alle relative norme di attuazione (essenzialmente, i fondi immobiliari “familiari” e a ristretta base partecipativa), o, in alternativa, la liquidazione obbligatoria di quelli che non verranno adeguati a detti nuovi requisiti.

L’adeguamento o la liquidazione dei fondi immobiliari debbono avvenire entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore delle citate disposizioni di attuazione e comportano, peraltro, l’applicazione di un’imposta sostitutiva. In particolare, l’art. 32, commi 4 e 5, del d.l. n. 78/2010 dispone l’applicazione

40. Si segnala che il Ministero dell’economia e delle finanze, per il tramite del Dipartimento del tesoro, ha recentemente pubblicato una bozza di regolamento relativa alla determinazione dei criteri generali, cui devono essere uniformati i fondi comuni di investimento, ai fini di una consultazione pubblica, propedeutica all’emanazione del documento definitivo, che è stata chiusa alla data del 23 aprile u.s. Sennonché, nell’ambito dell’ulteriore rivisitazione della disciplina in commento, recata dal d.l. n. 70/2011, non ancora convertito, questi requisiti sono stati direttamente individuati per legge (art. 8, comma 9, del citato decreto legge) e, pertanto, la norma contenente la delega al predetto dicastero (art. 32, comma 2, del d.l. n. 78/2010) è stata abrogata.

41. Giova segnalare che nel “Provvedimento della Banca d’Italia del 14 aprile 2005” si rinvengono specifiche indicazioni proprio in merito ai requisiti indicati.

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di un’imposta sostitutiva pari al 5 per cento, in caso di adeguamento, e al 7 per cento, in caso di liquidazione del fondo42. L’imposta si applica sul valore netto del fondo (“NAV – Net Asset Value”), risultante dal prospetto redatto alla data del 31 dicembre 200943.

Ovviamente, con la nuova disciplina è stata anche prevista l’abrogazione dei commi da 17 a 20 dell’art. 82 del d.l. n. 112/2008 regolanti l’applicazione dell’imposta patrimoniale dell’1 per cento sui fondi patrimoniali “familiari” e a ristretta base partecipativa, in quanto con la nuova definizione civilistica non è più ammessa la costituzione di fondi diversi da quelli a risparmio “diffuso” o di quelli diretti alla realizzazione di attività ad interesse pubblico.

Con l’art. 32, comma 7, del d.l. n. 78/2010, sono state apportate modifiche anche al regime di tassazione dei proventi derivanti da fondi immobiliari percepiti da soggetti esteri di cui all’art. 7, comma 3, del decreto legge 25 settembre 2001, n. 351; in particolare, con tale novella normativa, l’esenzione dall’imposizione dei proventi percepiti, prima estesa a tutti i soggetti esteri residenti in Stati o territori non black list44, è stata ristretta ai soli proventi percepiti da fondi pensione e OICR esteri, sempreché situati in detti Stati o territori, da enti od organismi internazionali costituiti sulla base di accordi internazionali resi esecutivi in Italia e da banche centrali od organismi che gestiscono anche le riserve ufficiali dello Stato. Nei confronti dei soggetti diversi da quelli citati, trova invece applicazione il regime ordinario del citato art. 7 del d.l. n. 351/2011, e pertanto, su tali proventi, si renderà applicabile la ritenuta a titolo d’imposta pari al 20 per cento (eventualmente ridotta su base convenzionale).

Ciò detto, ribadiamo che, nell’ambito di un ulteriore e recentissimo progetto di riassetto normativo della materia, contenuto nel citato d.l. n. 70/2011, non ancora convertito in legge, sono state previste ulteriori innovazioni al regime fiscale dei fondi immobiliari. Ancorché si tratti di un provvedimento che non ha ancora completato il suo iter per l’approvazione definitiva, merita dare conto delle principali innovazioni da esso recate.

In primis, viene rivista la disciplina fiscale dei soggetti partecipanti ai fondi immobiliari, distinguendo il trattamento in funzione delle caratteristiche soggettive e oggettive dei partecipanti stessi. In estrema sintesi, viene introdotta un’imposizione per trasparenza dei redditi del fondo nei confronti dei partecipanti diversi dai “soggetti portatori di interessi collettivi” (e.g., Stato, enti pubblici, OICR, intermediari bancari e finanziari) ove siano in possesso, direttamente o indirettamente, di “quote qualificate” (i.e., maggiori del 5 per cento). Peraltro, con evidente scopo di regolamentare il relativo regime transitorio, a carico dei medesimi soggetti (“non portatori di interessi collettivi” e partecipanti “qualificati” a tali fondi alla data del 31 dicembre 2010) viene anche prevista l’applicazione – una tantum – di un’imposta sostitutiva del 5 per cento sul valore medio delle quote possedute nel periodo d’imposta 2010.

Così ridisegnata la disciplina dei redditi dei fondi immobiliari, l’iniziale idea del legislatore di pretendere l’adeguamento ovvero la liquidazione dei fondi a ristretta base partecipativa sembra essere venuta meno. Nell’assetto previsto dal citato d.l. n. 70/2011, infatti, la liquidazione di detti fondi non è più obbligatoria, ma soltanto eventuale. Nel caso in cui comunque si proceda alla liquidazione entro il 31 dicembre 2011 di un fondo che alla data del 31 dicembre 2010 fosse caratterizzato dalla presenza anche di un solo dei propri partecipanti “qualificato” e “non portatore di interessi collettivi”, in luogo dei citati regimi di tassazione per trasparenza e dell’imposizione sostitutiva una tantum del 5 per cento, è prevista l’applicazione di un’imposta sostitutiva del 7 per cento sul valore netto del fondo oggetto di liquidazione alla data del 31 dicembre 201045.

42. Con i commi 5-ter e 5-quater dell’art. 32 del d.l. n. 78/2010 sono state introdotte specifiche disposizioni sulle imposte indirette (IVA, Registro, Ipo-catastali) volte ad agevolare la liquidazione del patrimonio immobiliare dei fondi che non intendono adeguarsi ai nuovi requisiti civilistici.

43. In caso liquidazione, tuttavia, è prevista l’applicazione dell’imposta sostitutiva del 7 per cento anche sui risultati di gestione conseguiti a far data dal 1° gennaio 2010 e fino alla data di conclusione della liquidazione (che, per espressa previsione normativa deve avvenire entro un massimo di cinque anni).

44. Con i requisiti, cioè, di cui all’articolo 6 del d.lgs. n. 239/1996 e successive modificazioni e integrazioni.

45. L’imposta sostitutiva del 7 per cento è dovuta anche sui risultati di gestione conseguiti successivamente al 31 dicembre 2010 e fino alla data di conclusione della liquidazione (che deve avvenire entro un massimo cinque anni).

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4.2 La nuova disciplina dei fondi mobiliari

Di estrema rilevanza è anche la riforma della disciplina fiscale degli OICVM recentemente introdotta dal citato d.l. n. 225/2010. In tale sede, è stata prevista un’armonizzazione del trattamento fiscale degli OICVM esteri di White list ma non conformi alla direttiva 2009/65/CE del 13 luglio 2009 con quelli previsti per i fondi italiani non armonizzati ed esteri armonizzati; soprattutto è stata prevista la generale parificazione della disciplina degli OICVM italiani con quella degli OICVM di diritto estero conformi alle direttive, con la introduzione della tassazione dei proventi derivanti dai fondi italiani al momento del realizzo e, dunque, con la eliminazione, in tal modo, del sistema della “tassazione sul maturato” che ha rappresentato, sino ad oggi, il principale svantaggio competitivo dei fondi nazionali rispetto a quelli esteri46.

Partendo da quest’ultimo profilo, in effetti, c’è da rilevare come la tassazione sul risultato della gestione “maturata”, comportava – nei rendiconti riepilogativi del fondo – l’esposizione dei rendimenti al netto dell’imposta sostitutiva dovuta di anno in anno, con la conseguenza che le performance dei fondi italiani venivano ad essere rappresentate in maniera penalizzante rispetto a quelle dei fondi esteri i cui rendimenti, sono generalmente tassati al momento della percezione da parte degli investitori e presso costoro e, quindi, vengono esplicitati al lordo dell’eventuale effetto fiscale.

Attraverso la citata novella normativa, dunque, si è inteso porre rimedio a questa situazione di svantaggio, prevedendosi che, a far data dal 1° luglio 2011, i fondi italiani non siano più tassati sulla base del risultato “maturato” e introducendo una ritenuta sui redditi di capitale derivanti dalla partecipazione a detti fondi che viene applicata soltanto al momento del “realizzo” degli stessi da parte degli investitori.

Nello specifico, con il d.l. n. 225/2010, è stata anzitutto apportata una modifica all’art. 73 del TUIR, inserendosi tra i soggetti ivi richiamati gli OICR italiani, diversi dai fondi immobiliari, e quelli “lussemburghesi storici” (i.e., quelli con sede in Lussemburgo già autorizzati al collocamento nel territorio italiano di cui all’art. 11-bis del decreto legge 30 settembre 1983, n. 512) e introducendosi, salvo talune eccezioni, un regime generalizzato di non imponibilità dei proventi realizzati da detti fondi47 48.

Parallelamente all’esenzione in capo al fondo, il legislatore ha introdotto un’imposizione sui proventi percepiti dagli investitori al momento del “realizzo”, mediante l’istituzione – col nuovo art. 26-quinquies del d.P.R. n. 600/1973 – di una ritenuta sui redditi di capitale derivanti dalla partecipazione agli OICR italiani, diversi dai fondi immobiliari, e ai fondi lussemburghesi storici, limitatamente alle quote o azioni collocate nel territorio dello Stato49.

In linea generale, la citata ritenuta, prevista con aliquota pari al 12,50 per cento, dovrà essere applicata, a far data dal 1° luglio 2011, dalle SICAV e, per ciò che riguarda i fondi, dalle SGR50. Qualora le quote

46. Ex multis vedasi M.E.F. “Commissione di studio sulla tassazione dei redditi di capitale e dei redditi diversi di natura finanziaria – Relazione finale” del 27 settembre 2006 e cfr. la relazione tenuta dal Governatore della Banca d’Italia il 31 ottobre 2007 in occasione della “Giornata del risparmio”.

47. La norma citata, peraltro, prevede espressamente la non applicazione: i) della ritenuta del 27 per cento prevista dall’art. 26, comma 2, del d.P.R. n. 600/1973, e successive modificazioni, relativa agli interessi e agli altri proventi dei conti correnti bancari, a condizione che la giacenza media annua non sia superiore al 5 per cento dell’attivo medio gestito e ii) delle ritenute del 12,50 per cento previste dagli articoli 26, commi 3-bis e 5, e 26-quinquies del predetto decreto, nonché dall’articolo 10-ter della legge 23 marzo 1983, n. 77, e successive modificazioni.

48. Il legislatore, come accennato, ha tuttavia previsto alcune specifiche eccezioni a questo criterio di generalizzata non imponibilità. Oltre alla ritenuta del 27 per cento prevista dal  comma 2 dell’art. 26 del d.P.R. n. 600/1973 (che si rende applicabile, come visto, per i casi di giacenza media superiore al 5%), è stata mantenuta ferma l’applicazione dell’imposta sostitutiva del 27 per cento sugli interessi e altri proventi delle obbligazioni e titoli similari emessi da soggetti non residenti e aventi scadenza inferiore a diciotto mesi, prevista dall’art. 2 del d.lgs. n. 239/1996, e successive modificazioni. È stato altresì stabilito che le ritenute eventualmente subite dal fondo siano a titolo d’imposta.

49. Redditi di cui alla lettera g) dell’art. 44, comma 1, del TUIR.

50. Per quanto attiene ai fondi lussemburghesi storici, è prevista l’applicazione della ritenuta da parte dei soggetti incaricati del collocamento e di quelli di cui all’art. 23 del d.P.R. n. 600/1973 incaricati della negoziazione.

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o azioni dei predetti organismi siano immesse in un sistema di deposito accentrato, invece, la ritenuta è applicata dai soggetti residenti – e, per il tramite di un rappresentante fiscale, da quelli non residenti – direttamente o indirettamente aderenti al suddetto sistema di deposito accentrato, presso i quali le quote o azioni sono state depositate.

La ritenuta è applicata sui proventi “distribuiti in costanza di partecipazione” all’OICR e su quelli compresi nella “differenza tra il valore di riscatto, di liquidazione o di cessione delle quote o azioni e il costo medio ponderato di sottoscrizione o acquisto delle quote e azioni medesime”, rilevati dai prospetti periodici.

La ritenuta è a titolo di acconto nei confronti dei titolari di reddito d’impresa51 e a titolo d’imposta nei confronti di tutti gli altri soggetti, compresi quelli esenti o esclusi dall’imposta sul reddito delle società. Al fine di contrastare eventuali forme di abuso, è previsto che la ritenuta sia applicata anche a seguito del “trasferimento di quote o azioni a rapporti di custodia, amministrazione o gestione intestati a soggetti diversi dagli intestatari dei rapporti di provenienza, salvo che il trasferimento sia avvenuto per successione o donazione”. In tali casi il contribuente fornisce al soggetto tenuto all’applicazione della ritenuta la necessaria provvista.

È tuttavia prevista la non applicazione della ritenuta per taluni percettori, quali: i) le forme di previdenza complementare di cui all’art. 17, comma 3, del d.lgs. n. 252/200552; ii) gli organismi di investimento collettivo del risparmio con sede in Italia, diversi dai fondi immobiliari, e quelli storici lussemburghesi di cui all’art. 73 comma, 5-quinquies, del TUIR53 e iii) i fondi di investimento immobiliare di cui all’art. 6, comma 1, del d.l. n. 351/200154. Analoga non applicazione della ritenuta è stata introdotta anche per i soggetti percettori esteri residenti in paesi White list di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 239/199655, per i quali, giova ricordare, nell’attuale sistema, in vigore sino al 30 giugno 2010, viene riconosciuto, con un meccanismo invero articolato, un credito di imposta (art. 9 del d.lgs. n. 461/1997, abrogato dalle norme in commento).

Giova segnalare che la predetta ritenuta non trova, altresì, applicazione nel particolare caso in cui le quote o azioni degli OICR siano immesse in rapporti di gestione individuale di portafoglio per i quali il contribuente abbia optato per l’applicazione del sistema c.d. di risparmio gestito di cui all’articolo 7 del d.lgs. n. 461/1997. In tale peculiare caso, infatti, i proventi, unitamente alle minusvalenze, concorreranno alla formazione del risultato di gestione da assoggettare ad imposta sostitutiva per “maturazione”, cioè a prescindere dall’effettivo realizzo.

In considerazione della rilevanza della riforma e dei potenziali impatti che le modifiche apportate avrebbero potuto creare alla data di entrata in vigore – stabilita, si ripete, al 1° luglio 2011 – il legislatore si è preoccupato di inserire alcune specifiche disposizioni volte a regolare il regime transitorio relativo al passaggio dal regime “del maturato” al nuovo regime “del realizzato”.

Le citate disposizioni prevedono che se alla data del 30 giugno 2011 il risultato della gestione è positivo, l’attuale imposta sostitutiva su detto risultato sia prelevata secondo le vigenti regole e versata “in un massimo di undici rate a partire dal 16 febbraio 2012”.

Viceversa, in presenza di un risultato della gestione negativo, questo potrà essere compensato in base all’attuale disciplina (ad esempio, a valere sui risultati positivi di altri fondi di una stessa SGR) ovvero utilizzato in compensazione, senza limiti di importo, in sede di versamento della nuova ritenuta di cui all’art. 26-quinquies del d.P.R. n. 600/1973 applicata sui proventi erogati ai partecipanti a partire

51. Trattasi, in particolare: a) degli imprenditori individuali, se le partecipazioni sono relative all’impresa ai sensi dell’art. 65 del TUIR, b) delle società in nome collettivo, in accomandita semplice ed equiparate di cui all’art. 5 del TUIR; c) delle società ed enti di cui alle lettere a) e b) dell’art. 73, comma 1, del TUIR; d) delle stabili organizzazioni nel territorio dello Stato delle società e degli enti di cui al comma 1, lettera d), del medesimo articolo.

52. Art. 2, comma 66 del d.l. n. 225/2010.

53. Art. 73, comma 5-quinquies, ultimo periodo, del TUIR.

54. Comma 67 dell’art. 2 del d.l. n. 225/2010.

55. Comma 5 del nuovo art. 26-quinquies del d.P.R. n. 600/1973.

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dal 1° luglio 2011 56. Nel caso in cui, al momento della cessazione del fondo o della SICAV, il citato risultato negativo non sia ancora interamente utilizzato è altresì prevista la sua “attribuzione”, sotto forma di minusvalenza deducibile57, ai soggetti partecipanti.

Tornando al nuovo regime – e, cioè, alla disciplina che si rende operante dal 1° luglio 2011 – è stato stabilito che ai fini dell’applicazione della nuova ritenuta sui proventi delle quote o delle azioni detenute alla data del 30 giugno 2011 occorre prendere a riferimento, in luogo del valore rilevato dai prospetti periodici alla data di sottoscrizione o acquisto, il valore delle quote o azioni rilevato dai prospetti periodici a tale ultima data. Con una previsione avente finalità analoga, è altresì disposto che per la determinazione delle plusvalenze o minusvalenze realizzate – a far data dal 1° luglio p.v. – mediante la cessione il rimborso di dette quote o azioni, il costo o il valore di acquisto sia aumentato o diminuito di un ammontare pari, rispettivamente, alla differenza positiva o negativa fra il valore delle quote e azioni medesime rilevato dai prospetti periodici al 30 giugno 2011 e quello rilevato alla data di sottoscrizione o acquisto.

In sostanza, la transizione al nuovo regime comporterà la “cristallizzazione” dei valori assunti dalle quote o azioni degli OICR alla data del 30 giugno 2011. Detti valori, infatti, costituiranno, da una parte, il dato di riferimento per l’applicazione dell’imposta sostitutiva in capo al fondo per ciò che concerne il risultato di gestione maturato fino a tale data e, dall’altra parte, il “costo fiscale” di partenza riconosciuto in capo ai partecipanti nel contesto della nuova disciplina.

Misure specifiche di carattere transitorio sono infine previste per le quote o azioni degli OICR di diritto italiano o lussemburghesi storici possedute da soggetti residenti titolari di reddito d’impresa, per il credito d’imposta spettante ai fondi pensione e per il regime del rimborso d’imposta spettante ai sottoscrittori non residenti di quote di organismi di investimento collettivo del risparmio italiani (commi 76 e 77 del citato art. 2).

Come accennato, la recente riforma ha riguardato anche il regime fiscale dei redditi derivanti dalla partecipazione agli OICVM esteri non conformi alla direttiva 2009/65/CE del 13 luglio 2009 (cc.dd. “non armonizzati”), al fine di armonizzarne la disciplina fiscale con quella valevole per i redditi derivanti dalla partecipazione agli organismi non armonizzati di diritto italiano. Al riguardo, merita ricordare che, prima della riforma contenuta nel d.l. n. 225/2010 in commento, i redditi derivanti dalla partecipazione a OICVM esteri non armonizzati – a prescindere dall’eventuale applicazione di una ritenuta d’acconto – concorrevano alla formazione del reddito dei percettori in via integrale58; tale trattamento risultava differente rispetto a quello previsto per i redditi derivanti dalla partecipazione agli organismi italiani non armonizzati, i quali, infatti, per i soggetti non titolari di reddito d’impresa, scontavano soltanto un’imposta sostitutiva, presso il fondo, del 12,5 per cento59.

Al riguardo, merita anzitutto precisare che un primo tentativo di armonizzare tali regimi era stato già intrapreso dal legislatore con il d.l. n. 135/200960. Tale provvedimento mirava espressamente a sanare la procedura di infrazione n. 2008/414561, attraverso la quale la Commissione europea aveva evidenziato l’incompatibilità, col principio comunitario della libera circolazione dei capitali, del regime fiscale italiano relativo ai proventi derivanti dalle partecipazioni ad OICVM di diritto estero non armonizzati, stigmatizzando le differenze di trattamento prima evidenziate.

56. In realtà, non appare chiaro come il risultato negativo di una gestione possa concretamente essere utilizzato in diminuzione della nuova ritenuta di cui all’art. 26-quinquies del d.P.R. n. 600/1973; in effetti, affinché la predetta base imponibile di segno negativo possa assumere rilevanza ai fini del versamento della predetta ritenuta, sarebbe forse necessario “trasformare” tale valore – e, cioè, quello relativo alla base imponibile negativa – in un credito d’imposta. Si tratta di una questione delicata sulla quale è auspicabile un chiarimento da parte dei competenti organi.

57. Ai sensi del comma 4 dell’articolo 68 del TUIR ovvero ai sensi degli articoli 6 e 7 del d.lgs. n. 461/1997.

58. Art. 10-ter, commi 5 e 6, della l. n. 77/1983, nella formulazione vigente sino al 30 giugno 2011.

59. Art. 11, commi 2 e 4, della legge 14 agosto 1993 n. 344, nella formulazione vigente sino al 30 giugno 2011.

60. Art. 14 del d.l. n. 135/2009.

61. Per ulteriori approfondimenti vedasi il disegno di legge A.S. n. 1784 della XVI legislatura rubricato “Conversione in legge del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, recante disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione delle sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità europee”.

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Il tentativo di riforma contenuto nel d.l. n. 135/2009 non ha avuto seguito in quanto il provvedimento citato lasciava aperta la questione, assai più grave, relativa alla già ricordata discriminazione “inversa” dei fondi italiani, tassati sul “maturato”, rispetto a quelli esteri che, invece, erano tassati sul “realizzato”. È sembrato quindi opportuno rinviare l’adeguamento del regime dei fondi esteri non armonizzati al momento in cui sarebbe stata attuata la riforma complessiva della fiscalità degli OICR62.

Nel contesto, dunque, della riforma recata dal recente d.l. n. 225/2010 è stato possibile intervenire anche su questo aspetto. A decorrere dal 1° luglio 2011, infatti, anche i proventi di cui alla lettera g) dell’art. 44 del TUIR conseguiti per effetto della distribuzione, rimborso e/o negoziazione delle quote o azioni di OICVM non armonizzati, istituiti e vigilati in Paesi esteri dell’UE o aderenti al SEE e inclusi nella c.d. White list di cui all’art. 168-bis del TUIR saranno soggetti a una ritenuta a titolo di imposta nella misura del 12,5 per cento se percepiti al di fuori del reddito d’impresa o da soggetti esenti o esclusi dall’IRES (rimane, invece, fermo il regime della ritenuta a titolo di acconto qualora i redditi siano percepiti nell’ambito del reddito d’impresa).

Per completezza, ricordiamo ancora una volta che a tutt’oggi è in discussione alla Camera dei Deputati la c.d. legge comunitaria 2010 recante, tra le altre, la legge di delega al Governo per l’attuazione della direttiva 2009/65/CE (direttiva UCITS IV) relativa al “coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative in materia di taluni organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari”. Nell’ambito del processo di definizione delle disposizioni di recepimento di detta direttiva, sono allo studio anche ulteriori innovazioni di coordinamento al commentato sistema di tassazione con ritenuta sul “realizzato” degli OICVM; sistema, dunque, che pur rimanendo fermo nei suoi tratti essenziali, non può ancora considerarsi definitivamente “stabilizzato” (cfr. bozza di decreto legislativo, pubblicata nel sito del Dipartimento del tesoro).

5. Imposta regionale sulle attività produttive

In tema di imposta regionale sulle attività produttive si è aperto già da tempo un ampio dibattito circa l’opportunità di mantenere in vita questo tributo in considerazione, soprattutto, della inadeguatezza di un sistema impositivo fortemente incentrato sulla parziale indeducibilità del costo del lavoro con conseguenze da molti ritenute inique e discriminanti. Ne risultano, in particolare, fortemente penalizzate le imprese labour intensive, che fanno principalmente affidamento sull’impiego di risorse umane, rispetto alle imprese capital intensive che, invece, privilegiano lo sviluppo di impianti che richiedono scarsa manodopera63.

All’interno di questo dibattito l’Assonime64 ha mantenuto una posizione di sostanziale equilibrio, ritenendo: da un lato, che l’eliminazione di un tributo, quale è l’IRAP, che ha un’ampia base imponibile e assicura una costante e stabile quantità di gettito, determinerebbe la necessità di ricorrere ad altre forme di imposizione sul reddito, di cui allo stato attuale non si vede quali possano essere le caratteristiche; dall’altro che, sotto il profilo equitativo sarebbe possibile migliorare la struttura del tributo, eliminando le attuali sperequazioni che penalizzano le imprese ad alta concentrazione di lavoro dipendente65.

Sul piano normativo non v’è stata, peraltro, alcuna sostanziale modificazione; qualche sporadico

62. Cfr. in tal senso, il dibattito del 3 novembre 2009 tenutosi presso il Senato della Repubblica in relazione all’approvazione del disegno di legge di conversione del citato d.l. n. 135/2009.

63. In quest’ottica sono avvantaggiate, ad esempio, le imprese che sostituiscono la manodopera con sistemi robotizzati.

64. Cfr. interventi del Presidente di Assonime ai convegni di Assolombarda del 19 gennaio 2010 e del 18 gennaio 2011.

65. Si è ipotizzato, ad esempio, di ampliare la base imponibile IRAP, includendo gli ammortamenti, a fronte di una riduzione dell’ aliquota.

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intervento sulla determinazione della base imponibile di questo tributo si è verificato solo per effetto di norme che hanno interessato la determinazione del reddito d’impresa e, di riflesso, anche il valore della produzione. Ci riferiamo, in particolare, alle agevolazioni accordate alla capitalizzazione delle imprese introdotte dall’articolo 5 del d.l. n. 78/2009 – di cui abbiano precedentemente riferito - che consentono di ridurre per un periodo di 5 anni decorrenti dall’avvenuta capitalizzazione, oltre che il reddito, anche la base imponibile IRAP per un importo (3 per cento) pari al rendimento presunto degli aumenti di capitale agevolati.

Quanto alla struttura del tributo, restano tutt’ora non adeguatamente risolti i problemi che si sono aperti con la riforma introdotta dalla l. n. 244 del 2007 e che, anzi, nel decorso biennio si sono ulteriormente accentuati.

Ricordiamo brevemente che – salvo i casi di esercizio d’impresa in forma individuale o di società di persone di cui all’articolo 5-bis del d.lgs. n. 446/1997 – per tutte le altre imprese a contabilità ordinaria i componenti positivi e negativi del valore della produzione rilevanti nella determinazione della base imponibile del tributo si assumono in diretta derivazione dal bilancio. In particolare:

- per le imprese industriali e commerciali in genere, la base imponibile è costituita dalle poste del conto economico relative all’attività caratteristica, individuate con riferimento a specifiche voci del conto economico di cui alle lettere A) e B) dell’articolo 2425 del codice civile;

- per le medesime imprese che redigono il bilancio sulla base dei principi IAS, la base imponibile è determinata assumendo le voci del valore e dei costi della produzione corrispondenti a quelle indicate nell’articolo 2425 del codice civile;

- per le banche e gli enti finanziari viene, invece, fatto riferimento a specifiche voci del bilancio redatto secondo gli schemi per essi previsti: in particolare, per le banche il riferimento è alle voci che compongono il c.d. margine di intermediazione al netto di determinate poste individuate dalla norma;

- per le imprese di assicurazione, infine, si fa riferimento ai risultati del conto tecnico dei rami danni e dei rami vita con alcune variazioni anch’esse espressamente indicate dalla norma.

L’intento era, evidentemente, quello di realizzare un’imposta di tipo quasi “cartolare” e, cioè, di derivazione assolutamente bilancistica, con evidenti finalità di semplificazione e certezza operativa per le imprese. Questo obiettivo, tuttavia, specie per le imprese industriali e commerciali, s’è rivelato, ben presto, di difficile realizzazione.

Una prima tipologia di scostamenti dalle risultanze del conto economico deriva dalle differenze che molto spesso sussistono tra valori civili e fiscali di cespiti aziendali rilevati a stato patrimoniale e che, a loro volta, producono corrispondenti divergenze nei componenti reddituali ad essi correlati (ammortamenti e plus/minus valenze da realizzo). Ciò si verifica, ad esempio, nelle operazioni di aggregazione aziendale – in specie per i conferimenti d’azienda – che in bilancio sono rilevate a valori di realizzo, mentre ai fini fiscali avvengono in regime di neutralità e continuità dei valori.

Più in generale tali divergenze si manifestano nelle ipotesi di rivalutazione o di svalutazione di beni operate in bilancio che, nella generalità dei casi, non hanno riconoscimento fiscale.

Nelle descritte situazioni, è evidente che anche le quote di ammortamento di questi cespiti dovranno assumere valori fiscali divergenti da quelli del bilancio. Sul punto l’Agenzia delle entrate ha tratto delle soluzioni interpretative non sempre soddisfacenti. In particolare, nelle ipotesi più ricorrenti di costo fiscale di cespiti superiore a quello di bilancio (in conseguenza, ad esempio, di svalutazioni non dedotte), l’interpretazione dell’Agenzia parrebbe essere nel senso di ritenere che le corrispondenti maggiori quote di ammortamento fiscale possano essere fatte valere solo a partire dall’esercizio successivo a quello in cui si conclude l’ammortamento contabile. Soluzione, questa, che a nostro avviso appare inadeguata sia nella fase transitoria che nell’applicazione a regime della nuova

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disciplina IRAP scaturita dalla riforma66.

L’opera interpretativa dell’Agenzia di ripristinare, come in passato, deroghe al principio di derivazione è proseguita anche su altri componenti del valore della produzione rilevanti nella determinazione della base imponibile IRAP.

Segnaliamo, in particolare, le precisazioni fornite dall’Agenzia delle entrate67 con riguardo a quei costi per i quali il TUIR, ai fini dell’IRES e dell’IRPEF, ha introdotto presunzioni legali di parziale inerenza al reddito d’impresa ponendo limiti alla relativa deducibilità (spese di rappresentanza, costi delle auto e delle apparecchiature relative a servizi di comunicazione, oneri sociali etc.). Ad avviso dell’Agenzia, pur non essendo possibile reintrodurre un legame tra l’IRES e l’IRAP, i contribuenti potrebbero, tuttavia, valutare l’opportunità di adeguarsi alle regole e ai limiti dettati dal TUIR, ponendosi così in una “area di sicurezza” che li garantirebbe contro il rischio di possibili controversie in sede di accertamento.

Nello stessa direzione si è mossa l’Agenzia con riferimento ai costi per l’IVA indetraibile sulle prestazioni alberghiere e di ristorazione. Si ricorda, in proposito, che con la circolare n. 6 del 2009 l’Agenzia delle entrate aveva escluso, per difetto di inerenza, la deducibilità dal reddito dell’IVA rimasta a carico dell’impresa in tutti i casi in cui le relative prestazioni non risultassero documentate da regolare fattura. Ciò in quanto l’indetraibilità dell’IVA dipenderebbe, in tali circostanze, da un comportamento omissivo e, quindi, sostanzialmente antieconomico68.

Sulla medesima linea interpretativa è l’orientamento manifestato sempre dall’Agenzia con riguardo alle disposizioni in materia di ammortamento dei fabbricati strumentali, introdotte dal d.l. n. 223/2006, che ne fanno assumere il costo al netto di quello attribuibile alle aree occupate dalla costruzione. La circolare dell’Agenzia delle entrate n. 38/E del 2010 afferma, infatti, che tali regole operano anche ai fini della determinazione della base imponibile IRAP.

Anche in materia di transfer pricing l’Agenzia è parsa orientata nel senso di estendere all’IRAP la particolare disciplina valevole per la determinazione del reddito d’impresa. Ci riferiamo, in particolare, ad una affermazione contenuta nella circolare dell’Agenzia n. 58/E del 2010, secondo cui le disposizioni introdotte dall’articolo 26 del d.l. n. 78/2010, in materia di non applicabilità delle sanzioni connesse alla rettifica del valore normale dei prezzi di trasferimento in presenza dell’apposita documentazione da esso prevista, troverebbero applicazione anche per il comparto IRAP.

S’è avviata, in definitiva, anche nel nuovo assetto di determinazione dell’imponibile IRAP, un’opera di ripristino di limitazioni e condizioni già presenti nel regime previgente alla riforma, senza, tuttavia, un supporto normativo chiaro e preciso. Ne è derivato un sistema IRAP, per così dire, ibrido, in parte di derivazione dal bilancio e in parte di derivazione fiscale, con effetti sostanzialmente opposti a quelli di semplificazione e razionalizzazione prefigurati dalla riforma.

Si tratta, indubbiamente, di una materia molto delicata sulla quale abbiano già in passato svolto qualche riflessione69. In particolare abbiamo posto in evidenza come, in verità, le deroghe alle risultanze contabili contenute nella disciplina dell’IRES siano state concepite proprio per venire incontro ad esigenze specifiche di natura tributaria che non sarebbero sufficientemente tutelate dalle regole civilistiche in materia di redazione del bilancio, considerato che esse sono, peraltro, caratterizzate da un certo grado di elasticità e che, viceversa, ai fini impositivi, esigenze di certezza nella definizione del rapporto tributario, richiederebbero una più puntuale definizione degli elementi

66. Nel regime transitorio dovrebbero, infatti, applicarsi le regole dettate in via generale dall’articolo 109 del TUIR che, nei limiti dei coefficienti tabellari consentono la deduzione di costi non imputati al conto economico se l’imputazione è avvenuta in precedenti esercizi; a regime, invece, in assenza di previsioni specifiche sarebbe parso logico riproporzionare l’ammortamento rilevante ai fini IRAP al maggior valore fiscale del cespite (cfr. ns. circolare n. 20 del 2010).

67. Cfr. circolari nn. 36/E e 39/E del 2009.

68. Successivamente, con circolare n. 25/E del 19 maggio 2010, l’Agenzia ha mitigato la sua posizione ammettendo la deducibilità dell’IVA rimasta a carico dell’impresa nei casi in cui l’esiguità delle prestazioni rendono non economico l’assolvimento degli obblighi di fatturazione

69. Cfr. nostra circolare n. 20 del 2010, par. 2.6.2.

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Relazione sull’attività 2009-2010Assemblea 2011

positivi e negativi di rilevanza fiscale.

Sulla base di queste considerazioni, si comprende che la scelta della riforma introdotta dalla l. n. 244/2007 di rendere l’IRAP autonoma rispetto alle regole IRES ha posto una serie di problematiche sulla rilevanza fiscale delle scelte bilancistiche che, nel precedente regime, erano risolte normativamente.

In ultima analisi, si avverte il bisogno di un nuovo intervento normativo che realizzi un assetto organico della materia tale da restituire al sistema IRAP certezza e oggettività nelle sue regole applicative.

6. IRPEF

6.1 Considerazioni generali

Nel corso del biennio 2009/2010, i vincoli comunitari al controllo del debito pubblico e la perdurante crisi economico/finanziaria hanno impedito di apportare modifiche strutturali alla disciplina dell’IRPEF: non sono stati, dunque, modificati, come pure molti auspicavano, né gli scaglioni di reddito, né le aliquote progressive agli stessi applicabili. Sempre per le medesime ragioni, non sono state riproposte neanche talune misure agevolative già sperimentate negli anni precedenti, quali il bonus straordinario riconosciuto alle famiglie a basso reddito dal d.l. n. 185/200870; la detrazione del 19 per cento delle spese sostenute per l’acquisto di abbonamenti ai servizi di trasporto pubblico (locale, regionale e interregionale); la detrazione del 19 per cento delle spese sostenute per l’acquisto di un personal computer nuovo riconosciuta agli insegnanti delle scuole pubbliche e ai docenti universitari.

Gli interventi normativi in materia di IRPEF si sono limitati alla proroga di alcune delle detrazioni previste, in via temporanea, in precedenti periodi di imposta e alla riedizione delle discipline fiscali di incentivazione volte a favorire il rientro in Italia dei cc.dd. cervelli.

Più significativi gli interventi sulla disciplina dei redditi di lavoro dipendente, categoria reddituale che più delle altre sopporta ormai il peso dell’imposta progressiva. Nell’ambito di tale categoria sono stati operati due interventi di segno opposto: da un lato, è stata prorogata e meglio calibrata la tassazione agevolata dei redditi di lavoro collegati ad un incremento della produttività dell’impresa, e dall’altro è stata introdotta un’imposizione addizionale sui bonus dei manager del settore finanziario, con il chiaro intento di disincentivare queste forme di retribuzione che, come precisato nella relazione illustrativa al d.l. n. 78/2010 avevano prodotto “effetti distorsivi ... sul sitema finanziario e sull'economia mondiale".

6.2 La proroga di detrazioni d’imposta temporaneamente previste in precedenti periodi

Talune detrazioni d’imposta già previste, in via temporanea, per gli anni precedenti sono state prorogate nell’ottica di sostenere quei settori produttivi che hanno particolarmente risentito della crisi economico-finanziaria che ha colpito il Paese. Le detrazioni d’imposta interessate dalla proroga sono quelle legate alle ristrutturazioni edilizie, all’efficientamento energetico degli edifici e all’acquisto di elettrodomestici a basso consumo energetico.

70. Tale agevolazione (prevista dall’art. 1 del d.lgs. n. 185/2008) era finalizzata ad attribuire, per il solo anno 2009, un beneficio economico alle famiglie a basso reddito, mediante l’attribuzione di un importo determinato in relazione al numero dei componenti della famiglia e all’ammontare del reddito complessivo conseguito dai relativi componenti nel periodo d’imposta 2007 o, in alternativa, nel periodo d’imposta 2008.

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In particolare, anche nel biennio 2009-2010 sono stati agevolati, attraverso il riconoscimento di una detrazione dall’imposta lorda IRPEF pari al 36 per cento delle spese sostenute, gli interventi di manutenzione straordinaria sulle singole unità immobiliari di qualsiasi categoria catastale (anche rurali e sulle pertinenze); gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle parti comuni di edifici residenziali; gli interventi di restauro e risanamento conservativo e le opere di ristrutturazione (ad esempio, quelle finalizzate alla sicurezza statica e antisismica) 71. La legge finanziaria 200972 e, successivamente, la legge finanziaria 201073 hanno prorogato questa agevolazione dapprima sino al 2011 e poi al 201274.

Sono state prorogate, dapprima sino al 31 dicembre 201075 e poi fino al 31 dicembre 201176 - variandone però la modalità di ripartizione che, per le spese sostenute nel 2011, è passata da cinque quote annuali a dieci - anche alcune detrazioni d’imposta introdotte dalla legge finanziaria per il 200777 per le spese effettuate dai contribuenti al fine di incentivare il risparmio energetico. Si tratta, in particolare, delle spese relative alla riqualificazione di edifici esistenti78, alla sostituzione di impianti di climatizzazione invernale79, agli interventi sull’involucro degli edifici esistenti e all’installazione di pannelli solari80: a fronte di tali spese spetta, ai fini IRES e IRPEF, una detrazione dall’imposta lorda pari al 55 per cento degli importi rimasti a carico del contribuente.

Infine, nel quadro delle misure anti-recessione e con l’intento di rilanciare i consumi, il d.l. n. 5/2009 ha riconosciuto, a coloro che fruiscono dell’agevolazione prevista in materia di ristrutturazioni edilizie sopra descritta, “limitatamente agli interventi di recupero del patrimonio edilizio effettuati su singole unità immobiliari residenziali iniziati a partire dal 1° luglio 2008, a fronte di spese sostenute dalla predetta data”, “una detrazione dall’imposta lorda, fino a concorrenza del suo ammontare, nella misura del 20 per cento delle ulteriori spese documentate, effettuate con le stesse modalità, sostenute dal 7 febbraio 2009 e fino al 31 dicembre 2009, per l’acquisto di mobili, elettrodomestici di classe energetica non inferiore ad A+, …, nonché apparecchi televisivi e computer, finalizzati all’arredo dell’immobile oggetto di ristrutturazione”81.

6.3 I bonus fiscali per il rientro dei “cervelli”

Dopo l’analogo provvedimento approvato nel corso del 2003 82 e volto a favorire il rientro nel nostro Paese dei ricercatori italiani recatisi a lavorare all’estero, nel 2008 e nel 2010 si sono susseguite due nuove versioni degli incentivi fiscali per il rientro in Italia dei cc.dd. cervelli, cioè dei soggetti che, dopo essere transitati all’estero in un determinato periodo di riferimento, decidano di rientrare nel nostro Paese, portando in dote esperienze e competenze umane, culturali e professionali, utili al rilancio della nostra economia.

71. La spesa su cui calcolare la detrazione non può superare 77.468,53 euro per le spese sostenute fino al 31 dicembre 2002 e 48.000,00 euro per le spese sostenute negli anni successivi.

72. Vedi art. 2, comma 15, legge 22 dicembre 2008, n. 203, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2009)”, pubblicata nel Supplemento Ordinario n. 285/L alla Gazzetta Ufficiale n. 303 del 30 dicembre 2008.

73. Cfr. art. 2, commi 10 e 12, della legge 23 dicembre 2009, n. 191.

74. La proroga sino al 2012 risulta condizionata all’indicazione del costo della relativa manodopera in fattura.

75. Vedi art. 1, comma 20, legge 24 dicembre 2007, n. 244.

76. Vedi art. 1, comma 48, legge 13 dicembre 2010, n. 220.

77. Vedi art. 1, commi da 344 a 347, della legge 27 dicembre 2006, n. 296.

78. Per un importo massimo di 181.818,18 euro.

79. Per un importo massimo di 54.545,45 euro.

80. Per un importo massimo di 109.090,90 euro.

81. Vedi art. 2. La detrazione, riconosciuta fino ad un ammontare massimo di spesa detraibile di 10.000 euro, deve essere ripartita “tra gli aventi diritto in cinque quote annuali di pari importo” e spetta “anche sulle spese sostenute per il trasporto e montaggio di mobili ed elettrodomestici per i quali si fa valere la detrazione sempreché le spese siano state sostenute mediante bonifico bancario o postale”.

82. Cfr. art. 3 del d.l. n. 269/2003.

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Con l’art. 17 del d.l. n. 185/2008 è stato anzitutto disciplinato un regime fiscale di favore, applicabile a docenti e ricercatori che – tra il 29 novembre 2008 fino al 31 dicembre 2013 – vengano a svolgere la loro attività in Italia, trasferendo la loro residenza fiscale nel territorio del nostro Stato. La norma richiede che tali soggetti siano in possesso di titolo di studio universitario o equiparato; siano non occasionalmente residenti all’estero; abbiano svolto documentata attività di ricerca e docenza all’estero presso centri di ricerca pubblici o privati o università per almeno due anni continuativi. L’agevolazione, applicabile nel periodo di imposta in cui il docente o il ricercatore diviene fiscalmente residente in Italia e nei due periodi di imposta successivi, consiste nel prevedere l’imponibilità del reddito di lavoro dipendente e/o autonomo di tali docenti e ricercatori solo per il 10 per cento del suo ammontare e nell'esclusione di tale reddito dal concorso alla formazione del valore della produzione netta dell’IRAP.

Con la l. n. 238/2010 è stata approvata una nuova versione dell’incentivo fiscale per il rientro in Italia dei cc.dd. cervelli, destinato ai cittadini UE nati dopo il 1° gennaio 1969, che hanno risieduto continuativamente in Italia per almeno 24 mesi e che alternativamente:

a) sono in possesso di un titolo di laurea e, sebbene residenti nel loro Paese di origine, hanno svolto continuativamente un’attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o d’impresa fuori di tale Paese e dell’Italia negli ultimi 24 mesi o più;

b) sebbene residenti nel loro Paese di origine, hanno svolto continuativamente un’attività di studio fuori di tale Paese e dell’Italia negli ultimi 24 mesi o più, conseguendo un titolo di laurea o una specializzazione post lauream.

Sia per l’una che per l’altra categoria di soggetti, il presupposto per il riconoscimento dell’agevolazione fiscale consiste nell’assunzione o nell’avvio di un’attività di impresa o di lavoro autonomo in Italia, unitamente al trasferimento del proprio domicilio e della propria residenza nel nostro Paese, entro tre mesi dall’assunzione o dall’avvio dell’attività.

Il bonus, applicabile al massimo per tre periodi d’imposta a decorrere dal 2010, consiste nell’abbattimento della base imponibile IRPEF per una percentuale pari all’80 o al 70 per cento, rispettivamente per le lavoratrici o i lavoratori. Non sono stati invece previsti, a differenza delle due precedenti versioni del bonus, riflessi di favore sotto il profilo IRAP.

Il bonus è riconosciuto nei limiti fissati dal Regolamento CE n. 1998/2006, relativo all’applicazione degli artt. 87 e 88 del Trattato CE agli aiuti di importanza minore (de minimis): dunque, l’importo degli aiuti concessi non deve superare i 200.000 euro nell’arco dei tre periodi di imposta.

Il beneficiario del bonus decade dal diritto all’incentivo fiscale nel caso in cui trasferisca nuovamente la propria residenza o il proprio domicilio fuori dall’Italia prima che siano decorsi cinque anni dalla data della prima fruizione del beneficio; in questo caso, sono previsti il recupero dell’incentivo e l’applicazione di sanzioni e interessi.

La fruizione del beneficio previsto dall’art. 3 della l. n. 238/2010 è incompatibile con la contemporanea fruizione della precedente versione degli incentivi previsti per il “rientro dei cervelli”, dal ricordato art. 17 del d.l. n. 185/2008.

6.4 Reddito di lavoro dipendente

Come già ricordato, il principale intervento operato nel biennio riguarda il reddito di lavoro dipendente, e in particolare, la tassazione con imposta sostitutiva di quelle componenti variabili della retribuzione che si ricollegano agli incrementi di produttività dell’impresa.

Il regime fiscale agevolativo per tali componenti del reddito di lavoro dipendente era nato con l’art. 2 del d.l. n. 93/200883; disposizione che aveva introdotto, con efficacia limitata alle somme pagate

83. Convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 126.

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nel periodo compreso tra il 1° luglio e il 31 dicembre 2008, un’imposta del 10 per cento, sostitutiva dell’imposta ordinaria sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionale e comunale84, sulle componenti variabili della retribuzione di lavoro85 corrisposte, nel limite di 3.000 euro lordi, ai dipendenti del settore privato che avessero conseguito nel 2007 redditi da lavoro (comprese le pensioni e gli assegni a queste equiparati) non superiori complessivamente a 30 mila euro lordi. Questa disciplina di favore è stata prorogata, dapprima al 200986 e successivamente al 201087, con alcune modificazioni. Per gli anni 2009 e 2010, infatti, essa è stata riconosciuta ai dipendenti che nell’anno precedente a quello di spettanza del beneficio avessero percepito redditi di lavoro dipendente di ammontare non superiore a 35.000 euro: l’importo, dunque, è stato innalzato rispetto a quello previsto nell’originaria agevolazione (30.000 euro). Inoltre, è stato anche elevato l’importo dei redditi agevolabili, passato da 3.000 euro a 6.000 euro. È stata invece ristretta l’area di applicazione dell’agevolazione che nel regime 2009-2010 ha riguardato le sole somme “previste dall’articolo 2, comma 1, lettera c), del decreto-legge 27 maggio 2008, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 126”. Per i periodi d’imposta 2009 e 2010, dunque, gli elementi retributivi ammessi alla tassazione sostitutiva con aliquota ridotta hanno ricompreso esclusivamente quelli erogati al dipendente in relazione ad incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa, nonché altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico della impresa.

È a partire dal 2011, tuttavia, che si sono registrate le innovazioni più significative riguardo alla disciplina della tassazione degli elementi retributivi premianti. L’art. 53 del d.l. n. 78/201088 ha prorogato anche per il 2011, nel limite di 6.000 euro lordi e per i titolari di reddito da lavoro dipendente non superiore a 40.000 euro, la tassazione agevolata della c.d. retribuzione incentivante (“somme …. correlate a incrementi di produttività, qualità, redditività, innovazione, efficienza organizzativa, collegate ai risultati riferiti all’andamento economico o agli utili della impresa o a ogni altro elemento rilevante ai fini del miglioramento della competitività aziendale”), ma ne ha contestualmente circoscritto l’ambito di operatività, limitandola ai soli compensi premianti disposti dagli accordi collettivi di secondo livello. Per godere di questa nuova disciplina agevolativa (la cui più puntuale determinazione89 è stata attuata attraverso la c.d. legge di stabilità 201190) è stato, infatti, previsto che la corresponsione dei suddetti elementi retributivi debba avvenire “in attuazione di quanto previsto da accordi o contratti collettivi territoriali o aziendali”. L’ambito oggettivo di applicazione della nuova disposizione, così come definito dalla legge di stabilità per il 2011, ha ricalcato quello identificato dall’art. 2, comma 1, lettera c), del d.l. n. 93/2008 e quindi ha sostanzialmente finito col coincidere con i premi di

84. La disciplina agevolativa, sia per quanto riguarda la disposizione istitutiva che per le successive proroghe, risulta opzionale e dunque destinata a trovare applicazione solo laddove più vantaggiosa per il dipendente: il sostituto d’imposta può, pertanto, continuare ad applicare la tassazione ordinaria ove ne verifichi la maggiore convenienza o a seguito di richiesta scritta del lavoratore (Cfr. circolare Agenzia delle entrate n. 49/E del 11 luglio 2008, pag. 9, e Circolare Assonime n. 47 del 31 luglio 2008, par. 2.3, pagg. 17 e ss ). Il sostituto d’imposta o il dipendente, evidentemente, non applicheranno il regime sostitutivo nelle ipotesi in cui l’imposta sostitutiva si presenti, per il lavoratore, meno conveniente dell’imposizione ordinaria (ad esempio, in presenza di detrazioni o deduzioni di importo rilevante che potrebbero anche abbattere in tutto o in parte l’IRPEF dovuta dal lavoratore).

85. In particolare, l’agevolazione riguardava i compensi per prestazioni di lavoro straordinario effettuate ai sensi del d.lgs. n. 66/2003 (art. 2, comma 1, lett. a), le retribuzioni per prestazioni di lavoro supplementare e per prestazioni rese in funzione di clausole elastiche effettuate nel periodo agevolato e con esclusivo riferimento a contratti di lavoro a tempo parziale stipulati prima della data di entrata in vigore del decreto (art. 2, comma 1, lett. b) nonché le somme corrisposte in relazione ad incrementi della produttività, innovazione ed efficienza organizzativa e altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’impresa (art. 2, comma 1, lett. c).

86. Cfr. art. 5 del d.lgs. n. 185/2008.

87. Cfr. art. 2, comma 156, della l. n. 191/2009.

88. Convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, pubblicata nella G.U. n. 176 del 30 luglio 2010.

89 Cfr. art. 53, comma 3, del d.l. n. 78/2010

90 Vedi art. 1, comma 47, della legge 13 dicembre 2010, n. 220, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2011)” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 21 dicembre 2010, n. 297.

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produttività91. Tutte le fattispecie ricomprese nella precedente definizione possono, così, ritenersi ricomprese nella nuova disposizione agevolativa che dispone l’applicazione dell’imposta sostitutiva a qualsiasi elemento rilevante ai fini del miglioramento della competitività aziendale92. Occorre però precisare che non è sufficiente che gli elementi retributivi premianti risultino semplicemente previsti in contratti collettivi – come sembrerebbe lasciar intendere la relazione tecnica al provvedimento che fa riferimento alla “quota di retribuzione erogata in attuazione di contratti collettivi anche aziendali o territoriali” – ma è necessario che essi siano previsti in accordi o contratti collettivi di secondo livello, aziendali o territoriali.

In dipendenza delle decisioni assunte in sede di G20 e in considerazione degli effetti economici distorsivi propri delle forme di remunerazione operate sotto forma di bonus e stock options, l’art. 33 del d.l. n. 78/2010 ha introdotto un’addizionale del 10 per cento sui compensi di questa natura, corrisposti ai dirigenti e ai titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa che operano nel settore finanziario, ed eccedenti il triplo della parte fissa della retribuzione erogata.

La norma ha immediatamente suscitato dubbi tra gli interpreti, soprattutto riguardo all’individuazione dei suoi presupposti applicativi e alla decorrenza dei suoi effetti. Riguardo all’ambito oggettivo di applicazione della disposizione, l’Agenzia delle entrate, nella circolare n. 4/E del 2011, ha affermato che il “settore finanziario” deve essere individuato “nelle banche e negli altri enti finanziari, nonché negli enti e nelle altre società la cui attività consista in via esclusiva o prevalente nell’assunzione di partecipazioni” e che la norma deve ritenersi applicabile a “tutte le forme di incentivazione realizzate con azioni, le quali rileveranno in ragione del loro valore normale, individuato ai sensi dell’articolo 9 del TUIR, alla data in cui vengono assegnate al dirigente o al collaboratore, al netto delle somme da questi corrisposte”. Per quanto riguarda l’ambito soggettivo di applicazione, invece, l’Amministrazione finanziaria ha precisato che l’individuazione del requisito di appartenenza alla categoria dei dirigenti è demandata al contratto di lavoro e che sono soggetti al prelievo dell’addizionale “anche i dirigenti del settore bancario e finanziario che prestano la loro attività lavorativa all’estero, per i quali, ai fini dell’applicazione dell’aliquota addizionale del 10 per cento, occorrerà tener conto della retribuzione effettiva prevista dal contratto di lavoro, a prescindere dai criteri convenzionali di determinazione del relativo reddito da lavoro dipendente dettati dall’art. 51, comma 8-bis, del TUIR”. Quanto alla decorrenza del provvedimento, secondo i chiarimenti forniti dall’Agenzia delle entrate93, il maggior prelievo deve trovare applicazione sui compensi variabili corrisposti a partire dal 31 maggio 2010 (data di entrata in vigore del decreto istitutivo), anche se maturati in anni precedenti. Considerate, peraltro, le obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sulle modalità di applicazione della disposizione, la stessa Amministrazione finanziaria ha, successivamente94, precisato che i sostituti d’imposta, che non avessero operato le ritenute a titolo di addizionale al momento dell’erogazione dei suddetti compensi, potessero provvedervi “in sede di conguaglio senza applicazione di sanzioni, in ossequio al principio sancito dallo Statuto del contribuente (art. 10, comma 3, della l. n. 212/2000)”.

6.5 Redditi diversi

In materia di redditi diversi di cui agli artt. 67 e 68 del TUIR si segnala nel biennio la nuova riapertura, disposta dalla legge 23 dicembre 2009, n. 19195, dei termini per avvalersi delle disposizioni di cui agli artt. 5 e 7 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, che consentono di aggiornare il valore di acquisto

91. La volontà di non creare soluzioni di continuità rispetto alla precedente disciplina, del resto, sembrerebbe trasparire dalla stessa relazione tecnica al provvedimento che riguardo alle condizioni di applicabilità della nuova norma si è espressa in termini di “elevazione” del limite reddituale e di “mantenimento” del limite complessivo dei compensi agevolabili, formulando così un implicito riferimento alla normativa in vigore negli anni precedenti.

92. Sulla base di questa premessa dovrebbero mantenere validità anche per la nuova disposizione – ovviamente per quanto compatibili – i chiarimenti forniti riguardo alla disciplina agevolativa attualmente in vigore dall’Agenzia delle entrate, con le citate circolari nn. 49/E e 59/E del 2008, e da Assonime, con le circolari nn. 47 e 57 del 2008.

93. Vedi circolare n. 7/E del 15 febbraio 2011, par. 13.5.

94. Vedi risoluzione 11 marzo 2011, n. 31/E.

95. In particolare, dall’art. 2, comma 229, lett. a), b) e c), della legge 23 dicembre 2009, n. 191, il quale, a tal fine, ha modificato l’art. 2, del d.l. n. 282/2002.

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delle partecipazioni non negoziate nei mercati regolamentati nonché il valore dei “terreni edificabili e con destinazione agricola” detenuti dai soggetti che non svolgono attività di impresa.

Si ricorda che le richiamate disposizioni, più volte reiterate nel tempo, hanno consentito ai contribuenti che operano al di fuori dell’esercizio di imprese commerciali di rivalutare i predetti beni sulla base di apposita perizia di stima, con riconoscimento dei nuovi valori ai fini della determinazione delle plusvalenze e minusvalenze conseguite in sede di loro realizzo.

In particolare, con la l. n. 191/2009 sono stati ammessi alla rivalutazione i terreni e le partecipazioni posseduti alla data del 1° gennaio 201096, previo pagamento di un’imposta sostitutiva, determinata in misura proporzionale rispetto al maggior valore ad essi attribuito97. Ai fini del versamento, l’imposta è rateizzabile fino a un massimo di tre rate annuali di pari importo e con scadenza della prima rata al 2 novembre 201098 99.

6.6 Disciplina delle attività e degli investimenti transfrontalieri delle persone fisiche e degli enti non commerciali

Nel trascorso biennio il legislatore ha introdotto un’apposita disciplina delle attività e degli investimenti effettuati da persone fisiche ed enti non commerciali in Paesi a fiscalità privilegiata.

In particolare, segnaliamo che l’art. 12 del d.l. n. 78/2009, al fine di attuare le intese raggiunte tra gli Stati aderenti all’OCSE in materia di emersione di attività economiche e finanziarie detenute in Paesi aventi regimi fiscali privilegiati, ha introdotto una presunzione relativa in virtù della quale, in caso di violazione delle norme sul c.d monitoraggio fiscale100, gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenuti da persone fisiche, enti non commerciali, società semplici ed equiparate in Paesi a fiscalità privilegiata o che non attuano lo scambio di informazioni, sono considerati costituiti mediante redditi sottratti a tassazione101. In questa ipotesi, qualora il contribuente non fornisca adeguata prova liberatoria – e non riesca dunque a superare la predetta presunzione – l’Amministrazione finanziaria procederà all’accertamento dei redditi che si presumono evasi e all’irrogazione delle sanzioni per omessa o infedele dichiarazione in misura doppia rispetto a quella ordinaria102.

96. A tal fine, l’art. 2, del d.l. n. 282/2002, così come risultante a seguito delle anzidette modifiche, ha previsto che “La redazione e il giuramento della perizia devono essere effettuati entro la predetta data del 31 ottobre 2010” (termine che, vista la festività del 31 ottobre 2010 e del 1° novembre 2010, è slittato al 2 novembre 2010).

97. In particolare, la predetta imposta sostitutiva è pari al 4 per cento del maggior valore attribuito ai terreni e alle partecipazioni qualificate e al 2 per cento del maggior valore attribuito alle partecipazioni non qualificate.

98. Ricordiamo, infatti, che il termine del 31 ottobre 2010, vista la festività del 31 ottobre 2010 e del 1° novembre 2010, è slittato al 2 novembre 2010.

99. Per completezza, segnaliamo che il decreto legge 13 maggio 2011, n.70, in corso di conversione, ha nuovamente riaperto i termini per fruire della misura in commento. L’art. 7 del citato decreto, infatti, riconosce ai contribuenti la facoltà di rivalutare nuovamente i terreni e le partecipazioni posseduti al 1° luglio 2011, previo pagamento di un imposta sostituiva – nella medesima misura di cui alla nota 97 – rateizzabile fino ad un massimo di tre rate annuali e con scadenza della prima rata al 30 giugno 2012.

100. Si tratta del monitoraggio previsto dai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 4 del decreto legge 28 giugno 1990, n. 167, convertito dalla legge 4 agosto 1990, n. 227.

101. In particolare, l’art. 12 del d.l. n. 78/2009 prevede che gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenuti negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al decreto del Ministro delle finanze 4 maggio 1999 e al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 21 novembre 2001, in violazione degli obblighi di dichiarazione di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 4 del decreto legge 28 giugno 1990, n. 167, si presumono costituiti ai soli fini fiscali, salva la prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione. In tale caso, le sanzioni previste dall’articolo 1 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, sono raddoppiate.

102. Inoltre, il comma 3 dell’art. 1 del d.l. n. 194/2009, ha aggiunto i commi 2-bis e 2- ter all’art. 12 del d.l. n. 78/2009, per effetto dei quali sono stati raddoppiati i termini di cui all’art. 43 commi 1 e 2, del d.P.R. n. 600/1973 e all’art. 57, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 633/1972, per gli accertamenti fondati sulla suddetta presunzione, nonché i termini di cui all’art. 20 del d.lgs. n. 472/1997, previsti per la notifica dell’atto di contestazione o di irrogazione delle sanzioni relative alle violazioni degli obblighi di monitoraggio.

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Con questo intervento, il legislatore ha inteso dotare l’ordinamento di uno strumento idoneo a “contrastare comportamenti che, tramite l’illecita esportazione di capitali verso paradisi fiscali, ostacolano l’azione di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria di forme particolarmente insidiose di evasione fiscale” (cfr. relazione illustrativa al d.l. n. 78/2009); strumento che va ad affiancarsi al regime delle CFC previsto per i soggetti che svolgono attività d’impresa e che, come abbiamo visto, è stato anch’esso modificato e ampliato nell’ambito applicativo.

Per connessione d’argomento, ricordiamo che con l’art. 13-bis del d.l. n. 78/2009 sono state introdotte disposizioni in materia di rimpatrio e regolarizzazione delle attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero in data non successiva al 31 dicembre 2008, in violazione degli obblighi previsti dal d.l. n.167/1990. Sotto il profilo soggettivo, potevano effettuare le operazioni di emersione, c.d. scudo-ter le persone fisiche, gli enti non commerciali, le società semplici e associazioni equiparate, nonché – ai sensi del comma 7-bis dell’articolo 13-bis - le società e gli enti esteri controllati o collegati, di cui agli articoli 167 e 168 del TUIR. I termini, che erano scaduti il 15 dicembre 2009, sono stati riaperti, a partire dal 30 dicembre 2009 fino al 30 aprile 2010, dal d.l. n. 194/2009. Occorre evidenziare che con riferimento alle attività oggetto di emersione, non operano la presunzione prevista dal menzionato art. 12 del d.l. n. 78/2009, né le disposizioni relative all’ampliamento dei termini di accertamento e di irrogazione delle sanzioni.

IMPOSTE INDIRETTE

7. Modifiche alla normativa IVA in attuazione di direttive comunitarie

7.1 Premessa

Nella relazione relativa al biennio 2007-2008 abbiamo dato conto di alcune Direttive emanate nel corso del 2008, che hanno modificato numerose disposizioni della Direttiva IVA103, sia per arginare i noti fenomeni di frode e di evasione del tributo, sia per semplificare gli adempimenti contabili e dichiarativi dei soggetti d’imposta: si tratta delle Direttive 2008/8/CE e 2008/9/CE del 12 febbraio 2008 e della Direttiva 2008/117/CE del 16 dicembre 2008.

Il biennio 2009-2010 è stato caratterizzato dall’introduzione delle disposizioni nazionali volte a dare concreta attuazione ai principi generali, ai criteri di tassazione e agli adempimenti procedimentali previsti da tali Direttive.

Più in particolare, la Direttiva 2008/8/CE104 è intervenuta in materia di territorialità ai fini IVA delle prestazioni di servizi, modificando la previgente regola generale che dava rilievo al luogo di stabilimento del soggetto prestatore. La Direttiva ha, dunque, previsto che le prestazioni di servizi rese ad un soggetto passivo d’imposta (c.d. business-to-business) si considerano effettuate nel luogo di stabilimento del committente; continua, invece, ad essere rilevante il luogo di stabilimento del prestatore nel caso di prestazioni commesse da un non soggetto d’imposta (c.d. business-to-consumer).

Nel sistema previgente, la previsione di numerose deroghe, per specifici servizi, al criterio-base di territorialità aveva dato luogo a casi di duplicazione di tassazione o a salti d’imposta: per evitare ciò,

103. Direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006, che ha operato la rifusione della Prima (67/227/CEE dell’11 aprile 1967) e della Sesta Direttiva IVA (77/388/CEE del 17 maggio 1977).

104. Entrata in vigore il 1° gennaio 2010.

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la Direttiva 2008/8/CE ha introdotto solo limitate deroghe ai due sopra indicati criteri-base105.

Al fine, poi, di semplificare l’applicazione del tributo da parte del soggetto passivo committente, la Direttiva ha esteso il sistema del reverse charge, già in vigore per le cessioni intracomunitarie di beni, alle prestazioni cc.dd. business-to-business: tale estensione, peraltro, è stata adottata anche in considerazione del fatto che, come si è rilevato nella prassi seguita da altri Paesi comunitari, il reverse charge è un’efficace misura di contrasto delle frodi IVA106.

Per monitorare i servizi intracomunitari soggetti ad imposta nel Paese del committente, la Direttiva ha inoltre previsto l’obbligo di inserire anche tali servizi negli elenchi riepilogativi delle operazioni intracomunitarie107.

Per rendere più efficace la lotta alle frodi IVA, le norme della Direttiva IVA concernenti tali elenchi sono state modificate dalla Direttiva 2008/117/CE108 che ha fissato nuove modalità e nuovi termini per compilare e trasmettere gli elenchi109.

Infine, semplificando gli adempimenti dei soggetti d’imposta in relazione alla richiesta di rimborso ad un Paese membro dell’Unione europea dell’IVA ivi assolta in occasione dell’acquisto di beni e servizi, la Direttiva 2008/9/CE110 ha sensibilmente modificato tale procedura, rendendola, peraltro, completamente informatizzata111.

Tutte le ricordate Direttive comunitarie, come accennato, sono state recepite nel nostro ordinamento nel corso del passato biennio: a ciò ha provveduto il decreto legislativo 11 febbraio 2010, n. 18112, che, incidendo notevolmente sull’assetto sistematico e sul funzionamento dell’imposta nazionale, ha apportato le conseguenti modifiche al d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.

L’art. 1 del d.lgs. n. 18/2010 ha, in particolare, introdotto nuove norme in materia di presupposto territoriale del tributo, di soggetto d’imposta e di soggetto tenuto ad applicare il tributo, nonché in ordine alla generalizzata applicazione del sistema del reverse charge; lo stesso articolo ha anche recepito la nuova procedura per il rimborso dell’IVA assolta in Italia da operatori non residenti113.

Con l’art. 2 del medesimo decreto è stata, poi, modificata la disciplina IVA delle operazioni intracomunitarie, contenuta nel decreto legge 30 agosto 1993, n. 331114, al fine, da un lato, di adeguare le previgenti norme relative alle prestazioni di servizi intracomunitari ai nuovi principi posti dalla Direttiva 2008/8/CE e, dall’altro, di regolamentare i nuovi adempimenti in materia di registrazione,

105. Cfr. paragrafo 7.2.

106. Cfr. paragrafo 7.4.

107. Sebbene la Direttiva 2008/8/CE abbia avuto principalmente il fine di semplificare il sistema di imposizione delle prestazioni di servizi rese a committenti passivi d’imposta, numerosi e rilevanti dubbi interpretativi sono sorti in sede di attuazione, da parte dei singoli Stati membri, delle disposizioni della Direttiva. Per garantire l’uniformità di comportamento degli Stati membri in sede di attuazione delle nuove disposizioni comunitarie e, nel contempo, fornire i necessari chiarimenti interpretativi delle disposizioni stesse, il Consiglio dell’Unione europea ha emanato il regolamento (CE) n. 282/2011 del 15 marzo 2011, che detta principi generali e criteri specifici per l’applicazione delle disposizioni da parte di tutti gli Stati membri, intervenendo, ad esempio, con specifiche disposizioni riguardo allo status di soggetto passivo, ai criteri per individuare il luogo di stabilimento del committente di un servizio, ai requisiti della stabile organizzazione, alle caratteristiche di alcuni specifici servizi come quello di catering, ecc.. Tale regolamento ha aggiornato il precedente regolamento (CE) n. 1777 del 17 ottobre 2005, che conteneva le disposizioni per l’applicazione della Sesta Direttiva IVA, e, al pari di quello precedente, ha recepito gli orientamenti interpretativi delle norme comunitarie elaborati dal Comitato IVA, nonché quelli assunti dalla Corte di Giustizia dell'Unione.

108. Entrata in vigore il 1° gennaio 2010.

109. Cfr. paragrafo 7.5.

110. Entrata in vigore il 1° gennaio 2010.

111. Cfr. paragrafo 7.6.

112. Entrato in vigore il 20 febbraio 2010.

113. Cfr. paragrafo 7.6.

114. La disciplina IVA delle operazioni intracomunitarie è regolata dal decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427.

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liquidazione e indicazione negli elenchi Intrastat di tali prestazioni115.

Si è trattato, dunque, di un sensibile passo avanti nella più ampia prospettiva di rendere l’IVA una vera e propria imposta sui consumi, di omogenea applicazione europea, semplificando, nel contempo, gli obblighi dei soggetti passivi. Le nuove norme introdotte dal d.lgs. n. 18/2010 hanno, tuttavia, sollevato numerose e delicate questioni interpretative, nonché varie problematiche in relazione ai profili più strettamente procedimentali dei nuovi adempimenti relativi all’applicazione del tributo e alle comunicazioni da rendere all’Amministrazione finanziaria: questioni e problematiche sulle quali ci soffermiamo qui di seguito.

7.2 Nuova disciplina nazionale della territorialità delle prestazioni di servizi

Recependo, dunque, le ricordate disposizioni comunitarie in materia di territorialità delle prestazioni di servizi, l’art. 1 del d.lgs. n. 18/2010 ha provveduto – oltre a riformulare l’art. 7 del d.P.R. n. 633/1972 (in cui erano indicati tutti i vari criteri per l’individuazione del presupposto territoriale sia delle cessioni di beni che delle prestazioni di servizi), limitandone sensibilmente il contenuto – anche a trasfondere nei nuovi articoli 7-ter, 7-quater, 7-quinquies, 7-sexies e 7-septies dello stesso d.P.R. i criteri-base della territorialità, nonché le specifiche deroghe agli stessi, che disciplinano la rilevanza agli effetti dell’IVA nazionale delle cessioni di beni (ad esclusione delle cessioni intracomunitarie, che continuano a essere regolate dall’art. 40 del d.l. n. 331/1993) e delle prestazioni di servizi (comprese ora quelle intracomunitarie): ciò ha sicuramente facilitato la comprensione delle nuove disposizioni.

In particolare, l’art. 7 precisa, fra l’altro, che deve intendersi per “soggetto passivo stabilito nel territorio dello Stato” – soggetto che, se committente di una prestazione di servizio, è tenuto, di norma, ad applicare il tributo con il sistema del reverse charge – il soggetto passivo ivi domiciliato ovvero il soggetto ivi residente, che non abbia stabilito il domicilio all’estero o, ancora, la stabile organizzazione nel territorio dello Stato di un soggetto domiciliato o residente all’estero116; nel caso di soggetti diversi dalle persone fisiche, peraltro, si considera domicilio il luogo in cui si trova la sede legale, e residenza quello in cui si trova la sede effettiva.

L’art. 7-bis conferma, a sua volta, che sono rilevanti ai fini IVA in Italia le cessioni di beni mobili e immobili esistenti nel territorio dello Stato, compresi i beni mobili spediti da altro Stato membro che vengono installati, montati o assiemati in Italia dal fornitore o per suo conto. I criteri-base comunitari per la rilevanza in Italia delle prestazioni di servizi sono contenuti nell’art. 7-ter, in forza del quale sono soggette all’IVA nazionale le prestazioni da chiunque rese a committenti nazionali soggetti passivi IVA, comprese, peraltro, le prestazioni rese da un soggetto passivo nazionale a favore di un committente anch’esso soggetto passivo nazionale, ma eseguite fuori dal territorio dello Stato; sono del pari soggette ad IVA le prestazioni da chiunque rese in Italia a consumatori finali nazionali. Restano, viceversa, sempre fuori campo IVA le prestazioni di servizi rese da un soggetto passivo nazionale ad un committente soggetto passivo non residente, sia comunitario che extracomunitario, a prescindere dal luogo di esecuzione delle stesse e, quindi, anche se sono rese in Italia.

Non può sottacersi al riguardo come la rilevanza territoriale dei servizi nello Stato di stabilimento del committente, se soggetto passivo d’imposta, causi agli operatori nazionali nuovi e non trascurabili oneri finanziari.

Ed invero, le imprese che svolgono particolari servizi a favore di operatori economici comunitari – come, ad esempio, le lavorazioni su beni mobili materiali, i trasporti intracomunitari di beni, i servizi accessori a tali trasporti, nonché, come in seguito si dirà in modo più dettagliato, le prestazioni di intermediazione rese da soggetti nazionali a soggetti IVA non residenti, comunitari o extra-UE117 – in base alla previgente normativa ponevano in essere prestazioni che, agli effetti dell’IVA, erano

115. Cfr. paragrafo 7.5.

116. E’ da evidenziare che la rilevanza territoriale in Italia, ai fini IVA, della stabile organizzazione è limitata alle operazioni dalla stessa rese o effettuate e non si estende, invece, alle operazioni effettuate o ricevute direttamente dal soggetto estero.

117. Cfr. paragrafo 7.3.

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considerate non imponibili: ciò consentiva alle imprese di assumere la veste di “esportatori abituali” e, come tali, di acquistare beni e servizi senza applicazione dell’imposta.

La nuova normativa considera, invece, tali servizi territorialmente rilevanti nei Paesi comunitari dei committenti e, quindi, per quanto riguarda le imprese nazionali prestatrici, esclusi da IVA. Ciò comporta che le imprese, dovendo ora assolvere l’IVA sugli acquisti di beni e servizi e non potendo operare la detrazione di tale imposta (essendo le prestazioni rese escluse dal tributo), si trovano ad avere ingenti crediti IVA, per i quali è possibile solo chiedere il rimborso o operare la compensazione “orizzontale” con altre imposte e contributi, con i notevoli limiti e le particolari condizioni previste della recente normativa in materia118.

Al fine, perciò, di mitigare tali oneri finanziari a carico degli operatori nazionali, sarebbe opportuno che ad essi venisse riconosciuto il diritto ad ottenere il rimborso dei crediti IVA, oltre che annualmente, anche trimestralmente e, soprattutto, in via prioritaria.

Il secondo comma dell’art. 7-ter del d.P.R. n. 633/1972 – recependo la Direttiva 2008/8/CE, che ha esteso, i fini della territorialità IVA, la nozione di soggetto passivo – considera tali, in relazione alle prestazioni di servizi ad essi rese, oltre ai soggetti esercenti l’attività di impresa, arte o professione, anche gli enti, le associazioni e le altre organizzazioni non commerciali indicate dal quarto comma dell’art. 4 del d.P.R. n. 633/1972, che svolgono attività commerciali o agricole congiuntamente alla propria attività istituzionale. Analogamente, al predetto fine e in relazione ai servizi ricevuti, sono considerati soggetti passivi anche gli enti, le associazioni e le altre organizzazioni che non svolgono attività commerciali o agricole, ma che sono in possesso della partita IVA per aver effettuato acquisti intracomunitari di beni per un ammontare annuo superiore a 10.000 euro. In base alla nuova disciplina, quindi, tali enti sono considerati soggetti passivi IVA indipendentemente dalla circostanza che utilizzino le prestazioni acquistate per lo svolgimento delle attività istituzionali o per lo svolgimento di quelle commerciali.

I nuovi articoli da 7-quater a 7-septies del d.P.R. n. 633/1972 prevedono, poi, con riguardo ad alcune specifiche prestazioni di servizi, criteri di rilevanza territoriale derogatori di quelli posti dall’art. 7-ter per le cc.dd. prestazioni “generiche”, in conformità alle corrispondenti disposizioni della Direttiva 2008/8/CE.

In proposito è da rilevare, in termini generali, che mentre per alcuni servizi i criteri di territorialità continuano, in buona sostanza, ad essere quelli previgenti (come, ad esempio, il criterio che individua il luogo di tassazione delle prestazioni relative ai beni immobili là dove è sito l’immobile119 e quello secondo cui le prestazioni di trasporto di passeggeri continuano a considerarsi effettuate nel territorio dove sono eseguite in relazione alla distanza percorsa in tale territorio120), nuovi, specifici criteri derogatori sono stati invece introdotti dal d.lgs. n. 18/2010 in relazione ad alcune specifiche fattispecie, come, ad esempio, nel caso delle prestazioni di servizi di ristorazione e di catering, soggette all’IVA nazionale se materialmente eseguite in Italia, indipendentemente dal luogo di stabilimento del committente121.

7.3 Modifiche alla disciplina dei servizi di intermediazione

Discorso a parte, per la loro complessità, meritano le modifiche normative, intervenute nel passato biennio, alla disciplina della territorialità delle prestazioni di servizi di intermediazione, rese in nome e per conto di terzi committenti, disciplinate fino al 31 dicembre 2009 dalla lettera f-quinquies) dell’art. 7 del d.P.R. n. 633/1972122.

118. Cfr. paragrafo 8.5.

119. Cfr. art. 7-quater del d.P.R. n. 633/1972.

120. Cfr. art. 7-quater del d.P.R. n. 633/1972.

121. Cfr. art. 7-quater, lett. c), del d.P.R. n. 633/1972.

122. Cfr. capo IV, par. 2.5, della relazione per il biennio 2007-2008.

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In conformità alla previsione comunitaria del previgente art. 44 della Direttiva IVA, la norma nazionale prevedeva – in deroga al principio generale della rilevanza territoriale delle prestazioni di servizi nel Paese di residenza del prestatore – che le prestazioni di intermediazione rese da intermediari con rappresentanza fossero da considerare territorialmente rilevanti nello Stato in cui venivano effettuate le operazioni principali sottostanti (operazioni “intermediate”).

La stessa disposizione stabiliva poi che le intermediazioni, rese nei confronti di un soggetto passivo identificato in un altro Stato membro dell’Unione europea, erano sempre da considerare territorialmente rilevanti in tale Stato, ancorché le operazioni intermediate fossero effettuate in Italia.

L’ultimo periodo della lettera f-quinquies) dell’art. 7 disponeva, infine, che le intermediazioni dovevano considerarsi “in ogni caso” effettuate in Italia se rese nei confronti di un soggetto passivo d’imposta domiciliato o residente o comunque identificato in Italia (quindi, anche se le operazioni intermediate non erano effettuate nel territorio dello Stato): tale soggetto doveva, peraltro, assolvere l’IVA mediante emissione di un’autofattura123.

Con la legge comunitaria per il 2008124, la disciplina di tali prestazioni subì una prima rilevante modificazione.

Furono, anzitutto, espressamente escluse dall’ambito applicativo dell’IVA le prestazioni di intermediazione relative ad operazioni effettuate al di fuori del territorio dell’Unione europea (c.d. intermediazioni “estero su estero”).

Fu poi stabilito – per superare talune precedenti incertezze interpretative – che tutte le prestazioni di intermediazione rese da soggetti non residenti, comunitari ed extracomunitari, a operatori residenti dovessero sempre scontare il tributo in Italia, con l’emissione di un’autofattura125. In tal senso, infatti, la legge comunitaria per il 2008 aveva disposto l’espressa abrogazione della specifica norma sulle intermediazioni comunitarie126, con la conseguente applicazione generalizzata dei criteri di territorialità stabiliti dalla lettera f-quinquies) dell’art. 7 a tutte le fattispecie di intermediazioni, comprese, quindi, quelle relative alle operazioni intracomunitarie afferenti beni mobili127.

Correlativamente, per eliminare le incertezze in merito all’individuazione delle corrette modalità di fatturazione delle prestazioni di intermediazione rese da soggetti comunitari in favore di committenti nazionali soggetti passivi d’imposta, la stessa legge comunitaria integrò il testo del terzo comma dell’art. 17 del d.P.R. n. 633/1972, prevedendo specificamente, come già anticipato, che per tutte le intermediazioni – sia se rese da soggetti comunitari, sia se rese da soggetti extra-UE – i committenti nazionali avrebbero dovuto assolvere l’imposta esclusivamente con l’emissione dell’autofattura, e non anche, quindi, per le intermediazioni relative ad operazioni intracomunitarie, con l’integrazione della fattura emessa dal prestatore comunitario.

Il criterio di tassazione delle prestazioni in questione è stato nuovamente modificato, con effetto dal 1° gennaio 2010, dal d.lgs. 18/2010, che, come detto, ha recepito i nuovi criteri di territorialità delle prestazioni di servizi stabiliti dalla Direttiva 2008/8/CE.

Con specifico riferimento alle intermediazioni rese a soggetti IVA, risulta ora previsto che la territorialità di tali operazioni non è più regolata – come in precedenza – da un criterio speciale, ma rientra nel criterio generale contenuto nell’attuale art. 7-ter del d.P.R. n. 633/1972, che identifica il luogo di tassazione delle prestazioni di servizi, rese a soggetti passivi, nel luogo in cui è stabilito il committente.

Per esse, pertanto, il committente nazionale è tenuto in linea generale ad assolvere l’imposta mediante emissione dell’autofattura; per le prestazioni di servizi rese in ambito comunitario – e, quindi, per i

123. Ai sensi dell’art. 17, comma 3, del d.P.R. n. 633/1972.

124. Legge 7 luglio 2009, n. 88.

125. Cfr. Circolare Assonime n. 42/2009, par.3.

126. Il riferimento è al comma 8 dell’art. 40 del d.l. n. 331/1993.

127. Sul punto, cfr. Circolari Assonime n. 22/2007 e n. 4/2009.

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relativi servizi di intermediazione – è stata peraltro riconosciuta la possibilità di assolvere il tributo anche mediante integrazione della fattura emessa dal prestatore comunitario non residente128.

Viceversa, il criterio di tassazione delle intermediazioni basato sul luogo di effettuazione dell’operazione intermediata, originariamente previsto dalla lettera f-quinquies) dell’art. 7 del d.P.R. n. 633/1972, rimane valido per le sole intermediazioni rese nei confronti di soggetti privati129. Per l’assolvimento del tributo relativo a tali operazioni, quando rilevanti in territorio nazionale, i prestatori, se non residenti, sono tenuti ad identificarsi direttamente in Italia o a nominare un rappresentante fiscale.

È da evidenziare che, dal 1° gennaio 2010, le prestazioni di intermediazione rese da soggetti nazionali a soggetti IVA non residenti, comunitari o extra-UE, non essendo territorialmente rilevanti in Italia, non confluiscono più nell’ammontare delle operazioni non imponibili costituente il plafond spendibile dai soggetti nazionali prestatori, venendosi a creare in capo agli stessi un nuovo onere finanziario. Infatti, essendo le prestazioni rese escluse dal tributo e non potendosi per tale motivo operare la detrazione dell’imposta assolta sugli acquisti di beni e servizi, i soggetti in questione si trovano ad avere crediti IVA recuperabili solo con istanza di rimborso, o, in alternativa, operando la compensazione “orizzontale” con altre imposte e contributi130.

Sempre in merito alla vigente normativa è ulteriormente da rilevare che, poiché le prestazioni di intermediazione rese a soggetti IVA stabiliti in Italia si considerano “in ogni caso” effettuate nel nostro Stato, a prescindere dal luogo dell’operazione intermediata e dal domicilio del prestatore, risultano ora territorialmente soggette al tributo in Italia – e non più escluse, come nel vigore della precedente disciplina – anche le intermediazioni, rese a committenti nazionali, relative a operazioni poste in essere al di fuori del territorio della Comunità (c.d. estero su estero).

A tale ultimo riguardo, peraltro, poiché l’art. 153 della Direttiva IVA stabilisce che “gli Stati membri esentano le prestazioni effettuate dagli intermediari che agiscono in nome e per conto di terzi, quando intervengono... in operazioni effettuate fuori della Comunità”, con il d.lgs. n. 18/2010 il legislatore nazionale – nel rispetto di tale previsione comunitaria – ha evitato l’imponibilità ad IVA di tali intermediazioni, ricomprendendole nell’ambito dei servizi internazionali non imponibili di cui al n. 7) del primo comma dell’art. 9 del d.P.R. n. 633/1972. Ne deriva, fra l’altro, che se il prestatore del servizio di intermediazione è un soggetto residente in Italia, tali operazioni partecipano alla costituzione del plafond da esso successivamente spendibile.

7.4 Ampliamento dell’applicazione del sistema del reverse charge

Come si è accennato nella premessa, in questo nuovo assetto dei criteri di territorialità una delle modifiche più rilevanti apportate dalla Direttiva 2008/8/CE ha riguardato l’estensione dei casi di applicazione del sistema del reverse charge previsti dalla Direttiva IVA principalmente con finalità anti-frode.

Con tale particolare sistema, infatti – come si è già detto – i committenti soggetti IVA devono applicare l’imposta alle cc.dd. prestazioni generiche ricevute131 in luogo dei soggetti che prestano i servizi.

Il d.lgs. n. 18/2010, in attuazione di tali disposizioni comunitarie ha, dunque, modificato il secondo comma dell’art. 17 del d.P.R. n. 633/1972 rendendo obbligatoria l’applicazione del reverse charge nell’assoggettamento ad IVA dei servizi per i quali si rende applicabile il criterio generale di territorialità incentrato sul luogo in cui è stabilito il committente.

Peraltro, in sede di modifica dell’art. 17, il legislatore nazionale ha ritenuto opportuno dare attuazione

128. Cfr., in tal senso, le circolari dell’Agenzia delle entrate n. 58/E del 31 dicembre 2009 e n. 12/E del 12 marzo 2010, par. 3.2.

129. Cfr., in tal senso, l’art. 46 della Direttiva IVA e l’art. 7-sexies del d.P.R. n. 633/1972.

130. Cfr., per altre prestazioni in relazione alle quali le modifiche normative hanno comportato nuovi oneri finanziari, il paragrafo 7.2.

131. Il riferimento è al nuovo art. 196 della Direttiva IVA.

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alla facoltà riconosciuta agli Stati membri dalla Direttiva IVA132 di prevedere l’inversione contabile per tutte le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate da parte di soggetti non stabiliti nello Stato in cui deve essere applicata l’imposta.

Conseguentemente, in base al nuovo secondo comma dell’art. 17 del d.P.R. n. 633/1972133 sono soggette ad IVA con il sistema del reverse charge non solo le prestazioni di servizi cc.dd. generiche, ma anche le cessioni di beni effettuate da un soggetto passivo non residente in Italia nei confronti di un cessionario soggetto IVA, nonché le prestazioni di servizi cc.dd. in deroga rese da un soggetto passivo non residente in Italia nei confronti di un committente soggetto IVA nel caso in cui esse siano rilevanti territorialmente in Italia.

Dalla generalizzata applicazione del sistema del reverse charge consegue che l’operatore non residente in Italia non può più applicare l’imposta alle operazioni ivi effettuate – utilizzando a tal fine un rappresentante fiscale134 o la propria identificazione diretta135 – tutte le volte che il cessionario o il committente è un soggetto passivo stabilito in Italia. Il cedente o il prestatore non residente in Italia continuerà, invece, ad essere tenuto ad assolvere l’IVA – tramite un proprio rappresentante fiscale o la propria identificazione diretta – se i cessionario o il committente nazionale è un consumatore finale.

Il nuovo secondo comma dell’art. 17 del d.P.R. n. 633/1972 ha anche ampliato il novero dei soggetti tenuti ad applicare l’IVA con il sistema del reverse charge, comprendendo fra essi – oltre a coloro che esercitano attività d’impresa, arti o professioni (società, enti commerciali, imprenditori individuali, artisti e professionisti, quando agiscono nell’esercizio di tali attività) – anche gli enti, le associazioni e le altre organizzazioni che non sono soggetti passivi, quando agiscono nell’ambito di attività commerciali o agricole, nonché i medesimi enti, associazioni e organizzazioni quando sono identificati ai fini dell’IVA per aver effettuato acquisiti intracomunitari per un ammontare superiore a 10.000 euro. Detti enti, quindi, oltre ad essere considerati – come si è detto – soggetti d’imposta ai fini dell’acquisto di servizi, devono applicare il tributo con il sistema dell’inversione contabile al pari dei veri e propri soggetti IVA.

Tenuti ad applicare l’IVA con il sistema dell’inversione contabile sono anche i soggetti residenti all’estero, che in qualità di cessionari o committenti, acquisiscono un bene o un servizio “per il tramite” di loro stabili organizzazioni in Italia136.

Sempre relativamente ai soggetti esteri operanti in Italia è da evidenziare che, se essi cedono beni o prestano servizi in Italia “per il tramite” di loro stabili organizzazioni ivi esistenti, le stabili organizzazioni sono tenute ad applicare l’imposta nei modi ordinari, non potendo, quindi, i committenti o i cessionari nazionali applicare il reverse charge; ciò perché le stabili organizzazioni sono trattate, anche a questi fini, come gli altri soggetti passivi residenti in Italia.

In relazione alla generalizzata applicazione del sistema del reverse charge a tutte le cessioni e le prestazioni effettuate da operatori non residenti nei confronti di cessionari e committenti soggetti passivi stabiliti in Italia è da rilevare, in termini generali, che l’adozione di tale sistema, se da un lato costituisce un indubbio strumento di contrasto alle frodi IVA commesse dai soggetti che addebitano l’imposta in fattura (consentendo in tal modo alla controparte di detrarla) senza successivamente versarla all’Erario, dall’altro crea diversi problemi ai soggetti esteri che operano in Italia.

Anteriormente alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 18/2010, infatti, tali ultimi operatori, quando effettuavano cessioni di beni e prestazioni di servizi territorialmente rilevanti in Italia nei confronti di operatori nazionali, applicavano l’IVA sulle operazioni effettuate – attraverso un rappresentate fiscale ovvero identificandosi direttamente – detraendo poi l’imposta assolta “a monte” sugli acquisti

132. Il riferimento è all’art. 194 della Direttiva IVA.

133. La norma vigente dispone: “Gli obblighi relativi alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato da soggetti non residenti nei confronti di soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato, compresi i soggetti indicati all’art. 7-ter, comma 2, lettere b) e c), sono adempiuti dai cessionari o committenti”.

134. A norma del terzo comma dell’art. 17 del d.P.R. n. 633/1972.

135. A norma dell’art. 35-ter del d.P.R. n. 633/1972.

136. In base al quarto comma dell’art. 17 del d.P.R. n. 633/1972, come modificato dal d.lgs. n. 18/2010.

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e le importazioni operati in Italia. Attualmente, invece, i soggetti esteri, pur continuando ad assolvere l’IVA sugli acquisti e le importazioni effettuati in Italia, non possono più applicare l’IVA “a valle”, in quanto l’imposta è applicata dai loro clienti nazionali con il sistema del reverse charge: pertanto, non avendo più la possibilità di detrarre l’imposta assolta “a monte” sui propri acquisti, tali soggetti maturano eccedenze di credito IVA recuperabili solo chiedendone il rimborso; e ciò determina un nuovo e spesso non indifferente onere finanziario per gli operatori esteri.

7.5 Modifiche ai modelli riepilogativi degli scambi intracomunitari

Il d.lgs. n. 18/2010 ha disposto importanti modifiche alla disciplina degli elenchi riepilogativi degli scambi intracomunitari, applicabili a decorrere dal 1° gennaio 2010, in attuazione, come già detto, delle disposizioni contenute in materia nelle Direttive 2008/8/CE e 2008/117/CE137.

Con la prima Direttiva – in connessione con i nuovi criteri di territorialità in materia di prestazioni di servizi cc.dd. generici, che in linea generale identificano il luogo di effettuazione delle prestazioni nel Paese in cui è stabilito il committente138 – è stato introdotto l’obbligo, per i soggetti passivi identificati ai fini dell’IVA, di presentare, oltre ad elenchi riepilogativi delle cessioni intracomunitarie di beni, anche elenchi riepilogativi delle prestazioni di servizi intracomunitari rese, per le quali, come accennato, il committente assolve l’imposta con il meccanismo del reverse charge. Da questo adempimento sono escluse le prestazioni per le quali nello Stato membro in cui è stabilito il destinatario committente non è dovuta l’imposta.

Con la seconda Direttiva – che riguarda sia gli scambi di beni che le prestazioni di servizi – sono state modificate, invece, la periodicità di presentazione degli elenchi, che è passata, in linea generale, da trimestrale a mensile (con facoltà per gli Stati di autorizzare la presentazione degli elenchi con periodicità trimestrale, se l’ammontare degli scambi realizzati non supera l’importo di 50.000 euro), e le relative modalità di presentazione, prevedendosi che gli elenchi debbano essere inviati esclusivamente per via telematica.

Recependo tali norme, il d.lgs. n. 18/2010 ha stabilito139 che i soggetti passivi IVA devono presentare per via telematica all’Agenzia delle dogane, oltre agli elenchi riepilogativi delle cessioni e degli acquisti intracomunitari di beni, anche gli elenchi delle prestazioni intracomunitarie cc.dd. “generiche”140 rese a soggetti passivi d’imposta stabiliti in altro Stato membro; inoltre, lo stesso decreto legislativo ha previsto l’obbligo di trasmettere gli elenchi riepilogativi delle prestazioni intracomunitarie “generiche” ricevute dai medesimi soggetti.

Le disposizioni del d.lgs. n. 18/2010 sono state completate a livello operativo da quelle contenute nel decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 22 febbraio 2010141, relativo alle modalità e ai termini per la presentazione degli elenchi riepilogativi, e nella determinazione n. 22778 del 22 febbraio 2010 adottata dal Direttore dell’Agenzia delle dogane, di concerto con il Direttore dell’Agenzia delle entrate e d’intesa con l’ISTAT142, riguardante l’approvazione dei nuovi modelli e delle relative istruzioni.

La disciplina nazionale, peraltro, nell’estendere l’obbligo di indicazione negli elenchi riepilogativi

137. La nuova disciplina degli elenchi riepilogativi degli scambi intracomunitari è stata illustrata nella Circolare Assonime n. 18/2010. L’Agenzia delle entrate ha fornito chiarimenti in materia con le circolari 21 giugno 2010, n. 36/E (in Circolare Assonime n. 24/2010) e 6 agosto 2010, n. 43/E.

138. Le nuove regole in materia di territorialità delle prestazioni di servizi introdotte dal d.lgs. n. 18/2010, in recepimento della Direttiva 2008/8/CE, sono illustrate nel precedente paragrafo 7.2.

139. Il d.lgs. n. 18/2010 ha sul punto riformulato il comma 6 dell’art. 50 del d.l. n. 331/1993.

140. I servizi intracomunitari soggetti alla regola generale di tassazione nello Stato di stabilimento del committente soggetto passivo d’imposta sono denominati “generici” per distinguerli da quelli cc.dd. “in deroga”, per i quali sono previsti criteri di tassazione diversi.

141. Tale decreto ministeriale è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 53 del 5 marzo 2010.

142. La determinazione è stata pubblicata il 22 febbraio 2010 sul sito internet dell’Agenzia delle dogane.

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sia dei servizi intracomunitari resi che di quelli ricevuti, non è perfettamente in linea con quella comunitaria143. Le disposizioni di entrambe le richiamate direttive, infatti, riguardano le sole operazioni attive, cioè le cessioni intracomunitarie di beni e le prestazioni di servizi rese. Il legislatore italiano ha, invece, ritenuto opportuno adottare anche per i servizi intracomunitari, prima non coinvolti da questo tipo di adempimento, lo stesso criterio già scelto per gli scambi intracomunitari di beni, cioè la previsione di elenchi riguardanti anche gli acquisti. Altri Stati comunitari (quali, ad esempio, Francia, Austria e Germania) non hanno affatto adottato tale soluzione, limitando il nuovo obbligo ai soli servizi intracomunitari resi.

La disciplina interna, peraltro, si discosta da quella comunitaria anche per quanto riguarda la complessità e l’analiticità dei dati da indicare negli elenchi riepilogativi relativi ai servizi. La direttiva IVA richiede, infatti, di segnalare negli elenchi (sia per i beni che per i servizi) il numero di identificazione IVA del prestatore, il numero di identificazione IVA del destinatario e il valore complessivo delle prestazioni rese a ciascun destinatario soggetto passivo d’imposta. In ambito interno, invece, mentre per i beni - in conformità all’anzidetto principio - deve essere indicato negli elenchi il complesso delle operazioni (cessioni o acquisti intracomunitari) rese o ricevute con riferimento ad un determinato soggetto, nei modelli predisposti per i servizi viene richiesta l’indicazione di ogni singola prestazione. Ciò implica che, ad esempio, se sono emesse 50 distinte fatture nei confronti dello stesso soggetto, i relativi dati devono essere inseriti distintamente: questa circostanza crea senza dubbio notevoli difficoltà operative ai soggetti tenuti all’adempimento.

In buona sostanza, quindi, le modifiche apportate alla disciplina degli elenchi riepilogativi degli scambi intracomunitari non costituiscono solo attuazione di obblighi comunitari, ma rispondono anche ad esigenze di controllo di carattere interno.

La nuova disciplina si caratterizza, come accennato, anche per le modifiche, rispetto al sistema previgente, della periodicità di presentazione degli elenchi144.

Nel recepire sul punto i principi stabiliti dalla Direttiva 2008/117/CE, il legislatore nazionale ha ritenuto di adottare una identica periodicità di presentazione sia per le cessioni e gli acquisti intracomunitari di beni che per le prestazioni di servizi intracomunitari rese e ricevute.

Sempre in sede di recepimento della Direttiva, il legislatore nazionale ha usufruito della facoltà dalla stessa prevista di stabilire anche una periodicità trimestrale di presentazione degli elenchi: tale periodicità è consentita quando l’ammontare delle operazioni intracomunitarie (cessioni e prestazioni) non ha superato, nei quattro trimestri precedenti rispetto a quello di riferimento e per ciascuna categoria di operazioni, i 50.000 euro. Se, invece, l’ammontare delle operazioni intracomunitarie è superiore a 50.000 euro, l’obbligo di trasmissione è mensile. I soggetti tenuti alla presentazione trimestrale degli elenchi hanno comunque facoltà di optare per la periodicità di presentazione mensile.

E’ stata, quindi, completamente eliminata la periodicità annuale di presentazione degli elenchi145: tale cambiamento ha prodotto un notevole incremento dei soggetti che sono ora tenuti alla cadenza trimestrale o mensile146.

Se si supera durante il trimestre il limite dei 50.000 euro, la periodicità di presentazione degli elenchi cambia in corso d’anno, e l’elenco deve essere presentato con cadenza mensile a partire dal mese successivo a quello in cui la soglia è superata. In questo caso, però, è richiesta la presentazione, per i periodi mensili già trascorsi, di elenchi riepilogativi trimestrali appositamente contrassegnati.

143. Rimane dubbia, in particolare, la compatibilità della disciplina interna con le disposizioni degli articoli 266, 268 e 273 della Direttiva IVA.

144. Le regole sulla periodicità sono stabilite dal decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze del 22 febbraio 2010.

145. Tale periodicità era stabilita, nel precedente sistema, in caso di realizzazione di cessioni intracomunitarie fino a 40.000 euro e di acquisti intracomunitari fino a 180.000 euro. L’Italia, peraltro, era uno dei pochi Stati che aveva previsto la possibilità di presentare gli elenchi riepilogativi con cadenza annuale.

146. Secondo dati dell’Agenzia delle dogane, nel sistema precedente il 75% dei soggetti interessati presentava gli elenchi annualmente Il dato è stato diffuso in occasione del convegno in tema di “elenchi riepilogativi delle operazioni intracomunitarie, cosa cambia dal 1°gennaio 2010”, organizzato dall’Agenzia delle dogane il 23 novembre 2009.

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In linea con le previsioni della Direttiva 2008/117/CE, il d.lgs. n. 18/2010 stabilisce, al fine di velocizzare l’acquisizione dei dati147 e per esigenze di semplificazione, che gli elenchi riepilogativi devono essere trasmessi esclusivamente per via telematica. A tal fine deve essere utilizzato il servizio telematico doganale148, oppure, in alternativa, quello dell’Agenzia delle entrate (Entratel o Fisconline)149. L’invio telematico degli elenchi riepilogativi deve essere effettuato entro il giorno 25 del mese successivo al periodo (mese o trimestre) di riferimento150.

Particolari incertezze di carattere sia interpretativo che operativo hanno caratterizzato la fase di avvio della nuova disciplina.

Il d.lgs. n. 18/2010, infatti, è entrato in vigore il 20 febbraio 2010, ma l’art. 5 dello stesso provvedimento stabilisce che alcune disposizioni in esso contenute, tra le quali quelle in tema di elenchi Intrastat, abbiano una efficacia retroattiva, cioè si applichino a decorrere dal 1°gennaio 2010, data entro la quale avrebbero dovuto essere recepite le disposizioni delle richiamate direttive 2008/8/CE e 2008/117/CE. I provvedimenti attuativi delle nuove norme riguardanti gli elenchi Intrastat, però, sono stati emanati solo il 22 febbraio 2010, determinando una situazione di vuoto normativo che ha causato gravi incertezze negli operatori interessati, chiamati ad adempiere ai nuovi obblighi pur essendo privi della disciplina di riferimento151.

7.6 Modifiche alla procedura dei rimborsi ai soggetti non residenti

Come già rilevato152, nel biennio considerato è stata adottata la Direttiva 2008/9/CE, che, a partire dal 1° gennaio 2010, ha introdotto una nuova disciplina dei rimborsi ai soggetti passivi comunitari153, abrogando la Direttiva del 1979154 che aveva in precedenza regolato la materia.

La nuova Direttiva trae origine dall’esigenza – da lungo tempo avvertita in sede comunitaria – di superare le difformità delle procedure di rimborso così come attuate nei diversi Stati dell’Unione europea, di eliminare l’eccessiva lunghezza dei tempi di erogazione delle somme dovute, e, infine, di prevedere specificamente la corresponsione di interessi, a carico degli Stati membri, per i casi di

147. Nella previgente disciplina gli elenchi potevano essere presentati anche in formato cartaceo oppure tramite floppy disk, ma ciò provocava ritardi nell’acquisizione dei dati dei modelli, specie di quelli annuali.

148. Cfr. art. 3 della determinazione del 22 febbraio 2010.

149. Cfr. determinazione dell’Agenzia delle dogane del 7 maggio 2010.

150. Nel previgente sistema, ai sensi dell’art. 6, primo comma, del decreto 27 ottobre 2000, gli elenchi riepilogativi delle cessioni e degli acquisti intracomunitari di beni dovevano essere presentati ad uno degli uffici della circoscrizione doganale territorialmente competente entro il giorno 20 del mese successivo a quello di riferimento, nel caso di elenchi mensili - ad eccezione di quelli relativi alle operazioni effettuate nel mese di luglio, i quali dovevano essere presentati entro il 6 settembre (Cfr. art. 1 d.P.R. n. 190/2004) - ed entro la fine del mese successivo al periodo di riferimento, nel caso di elenchi trimestrali o annuali. La scadenza di presentazione degli elenchi era prorogata di cinque giorni nel caso di presentazione per via telematica tramite il sistema EDI (Electronic Data Interchange).

151. Prendendo atto di tale situazione, con la circolare n. 5/E del 17 febbraio 2010 l’Agenzia delle entrate ha riconosciuto, richiamandosi all’art. 10, comma 3, dello Statuto dei diritti del contribuente, che non sarebbero state irrogate sanzioni per eventuali violazioni relative alla compilazione sia degli elenchi mensili relativi al periodo gennaio–maggio 2010 che degli elenchi trimestrali relativi al primo trimestre (gennaio-marzo) del 2010. Per non incorrere nelle sanzioni, l’Agenzia ha richiesto peraltro la presentazione entro il 20 luglio 2010 di “elenchi riepilogativi integrativi redatti secondo le modalità che saranno definite nella normativa in corso di emanazione”. Con la circolare 18 marzo 2010, n. 14/E, l’Agenzia ha poi dichiarato che, ai sensi dell’art. 3, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente, i soggetti obbligati disponevano di 60 giorni a decorrere dal 5 marzo 2010 (data di pubblicazione del decreto 22 febbraio 2010) per adempiere all’obbligo di presentazione degli elenchi riepilogativi relativi al mese di gennaio 2010, e che, di conseguenza, fino al 4 maggio 2010 non sarebbero state applicate sanzioni per la tardiva presentazione degli elenchi relativi al mese di gennaio 2010.

152. Cfr. paragrafo 7.1.

153. Cfr. capo IV, par.5.2, della relazione per il biennio 2007-2008.

154. Direttiva 79/1072/CEE del 6 dicembre 1979 (c.d. Ottava Direttiva).

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ritardo nell’esecuzione dei rimborsi155.

La nuova disciplina ha notevolmente semplificato gli adempimenti che gli operatori economici appartenenti a Stati comunitari diversi da quello in cui viene chiesto il rimborso devono porre in essere per ottenere la restituzione del tributo assolto sugli acquisti di beni e servizi effettuati in tale Stato, riducendo, nel contempo, i tempi e i costi ad essi relativi.

In particolare, le novità più rilevanti consistono nell’uso quasi esclusivo di sistemi informatici per la gestione delle istanze di rimborso, con conseguente dematerializzazione dei relativi documenti cartacei giustificativi (fatture, bollette doganali d’importazione, ecc.), e nella presentazione, in via telematica, delle istanze direttamente all’Amministrazione finanziaria del proprio Stato membro di appartenenza (e non più quindi, come in passato, all’Amministrazione dello Stato membro del rimborso), che deve operare una prima valutazione delle condizioni necessarie per la valida presentazione delle istanze156.

In linea generale, il rimborso viene consentito al ricorrere di specifici presupposti, di carattere sia soggettivo che oggettivo, come, ad esempio, l’assenza di una stabile organizzazione nello Stato membro del rimborso; la non effettuazione di operazioni attive ivi territorialmente rilevanti, ad eccezione dei servizi di trasporto internazionali e intracomunitari e relative prestazioni accessorie, e delle operazioni soggette al reverse charge157; l’effettuazione, nel proprio Stato membro, di operazioni che danno diritto alla detrazione del tributo, totale o parziale, con applicazione, in tale ultimo caso, del pro rata di detrazione determinato dallo Stato membro di appartenenza.

La Direttiva stabilisce che la richiesta di rimborso deve riferirsi ad acquisti di beni e servizi fatturati, o ad importazioni effettuate, in un periodo temporale di riferimento non superiore ad un anno civile, né inferiore a tre mesi, provvedendo anche ad aggiornare le soglie monetarie minime di accesso alle stesse istanze (400 euro anziché – come in passato – 200 euro, se relative a periodi inferiori all’anno ma non a tre mesi, e 50 euro, anziché 25 euro, se relative a periodi annuali o a parti residuali di anno inferiori a tre mesi).

La Direttiva 2008/9/CE, infine, prevede un termine più ampio per l’inoltro telematico delle istanze all’Amministrazione finanziaria dello Stato membro di appartenenza, che devono essere ora inviate entro il 30 settembre dell’anno solare successivo al periodo annuale di riferimento (e non più, quindi, entro il 30 giugno di tale anno, come precedentemente previsto158).

Anche tale direttiva – come già detto – è stata attuata con il d.lgs. n. 18/2010159.

Il decreto ha stabilito che i soggetti passivi residenti in altri Stati membri possono ottenere i rimborsi in Italia alle stesse condizioni previste dalla disciplina comunitaria (non effettuazione, in territorio nazionale, di operazioni attive diverse da quelle non imponibili di trasporto e relative prestazioni accessorie, e da quelle soggette a reverse charge, obbligatorio o facoltativo; effettuazione, nello Stato

155. La legislazione nazionale, peraltro (comma 4 del previgente art.38-ter del d.P.R. n. 633/1972) – in linea con la nuova previsione della Direttiva 2008/9/CE – già in passato prevedeva l’applicazione degli interessi, sulle somme rimborsate ai soggetti passivi comunitari non residenti in Italia, in misura uguale a quella prevista per i rimborsi ai soggetti passivi nazionali dall’art.38-bis dello stesso d.P.R. (attualmente, 2 per cento annuo).

156. Con il regolamento (CE) n.1174/2009 del 30 novembre 2009, la Commissione europea ha successivamente stabilito le specifiche tecniche per lo scambio in via elettronica tra gli Stati membri delle informazioni relative al contenuto delle istanze di rimborso.

157. Gli artt. da 194 a 197 e l’art.199 della Direttiva IVA, espressamente richiamati dalla Direttiva in esame, riguardano tutte le ipotesi di operazioni soggette a reverse charge, sia obbligatorio che facoltativo; tali previsioni hanno trovato applicazione, in ambito nazionale, con l’art. 24 della legge 7 luglio 2009, n. 88 (legge comunitaria per il 2008, in Circolare Assonime n. 42/2009).

158. Si ricorda che, in data 14 ottobre 2010, il Consiglio UE ha adottato la Direttiva 2010/66/CE, con cui è stato disposto, in via eccezionale, il differimento, dal 30 settembre 2010 al 31 marzo 2011, del termine finale per la presentazione delle istanze di rimborso relative all’anno 2009. La Direttiva risponde all’esigenza di salvaguardare l’esercizio del diritto al rimborso dei contribuenti relativamente alle spese sostenute nel 2009, ostacolato, di fatto, dai ritardi nell’attuazione della nuova disciplina da parte di alcuni Stati membri (Cfr. Circolare Assonime n. 37/2010).

159. L’intera materia dei rimborsi ai soggetti non residenti è stata commentata dall’Assonime con le circolari n. 29/2010 e n. 37/2010.

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membro di appartenenza, di operazioni con diritto a detrazione, totale o parziale, con applicazione, in tale ultimo caso, del pro rata stabilito dal proprio Stato; mancanza di una stabile organizzazione in territorio nazionale).

Riguardo a quest’ultima condizione, l’intervento normativo ha modificato la normativa interna160 – adeguandola più compiutamente alla disciplina comunitaria del tributo – nella parte in cui impediva il rimborso non solo quando i soggetti comunitari avessero una stabile organizzazione in Italia161, ma anche qualora si fossero qui direttamente identificati, o avessero nominato un proprio rappresentante fiscale162.

Con la nuova disciplina, invece, la presenza in Italia di un rappresentante fiscale o di una posizione IVA di per sé non impedisce più ai soggetti comunitari di ottenere il rimborso, a condizione che non effettuino in territorio nazionale, per loro tramite, operazioni attive diverse da quelle a tali fini consentite (come detto, trasporti internazionali e prestazioni accessorie, e operazioni soggette al reverse charge163).

Relativamente ai rimborsi in favore dei soggetti passivi stabiliti fuori del territorio dell’Unione europea, il d.lgs. n. 18/2010 – in linea con la disciplina comunitaria in materia164 – ha sostanzialmente uniformato le relative disposizioni165 con quelle previste per i rimborsi ai soggetti passivi comunitari, al fine di evitare ingiustificate differenze di trattamento166.

Sotto il profilo soggettivo, viene stabilito che possono accedere al rimborso i soggetti extra-UE che esercitano attività d’impresa, arti o professioni, domiciliati o residenti in paesi non appartenenti alla Comunità europea che assicurano analogo trattamento agli operatori economici nazionali (c.d. condizione di reciprocità167), che non dispongono di una stabile organizzazione in Italia e che non hanno qui posto in essere operazioni rilevanti agli effetti del tributo, ad eccezione di quelle soggette a reverse charge (obbligatorio e/o facoltativo), e delle prestazioni non imponibili di trasporto internazionale e relative prestazioni accessorie.

Sotto il profilo oggettivo, il rimborso compete relativamente ai beni (esclusi gli immobili) e ai servizi acquistati o importati in Italia, inerenti all’attività d’impresa, arte o professione esercitata nel proprio Stato, la cui imposta sia detraibile in base alle norme nazionali168.

I limiti minimi di ammontare del tributo, previsti per i rimborsi ai soggetti comunitari, valgono anche per i rimborsi richiesti dai soggetti extra-UE (rispettivamente, 50 euro o 400 euro, a seconda che le richieste di rimborso riguardino periodi di riferimento annuali o infrannuali).

A differenza di quanto previsto per i rimborsi ai soggetti comunitari, peraltro, le istanze dei soggetti extra-UE non devono essere inoltrate per via elettronica dall’Amministrazione finanziaria dello Stato estero di appartenenza, ma – come in passato – devono continuare ad essere presentate dai

160. Precedentemente contenuta nell’art.38-ter, comma 1, del d.P.R. n. 633/1972.

161. In presenza di una stabile organizzazione in Italia, i soggetti passivi di altri Stati membri devono comunque operare tramite essa la detrazione del tributo assolto sugli acquisti effettuati in Italia, anche quando questi siano stati posti in essere direttamente dalla casa madre non residente (sulla questione cfr. Circolare Assonime n. 49/2009).

162. Cfr. Circolare Assonime n. 49/2009.

163. Cfr. Circolare Assonime n. 29/2010, par. 2.2.

164. Direttiva del Consiglio 86/650/CEE del 17 novembre 1986 (c.d. Tredicesima Direttiva).

165. Precedentemente contenute nell’art.38-ter, comma 2, del d.P.R. n. 633/1972.

166. L’art.3, par.2, della Tredicesima Direttiva stabilisce espressamente che, per i soggetti passivi extra-UE, “il rimborso non può essere concesso a condizioni più favorevoli di quelle applicate ai soggetti passivi della Comunità”.

167. Attualmente, gli Stati extra-UE con i quali sussiste questa condizione sono la Svizzera, la Norvegia, e Israele.

168. Cfr. artt.19, 19-bis1 e 19-bis2 del d.P.R. n. 633/1972.

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richiedenti in forma cartacea169 all’Amministrazione finanziaria nazionale170, sempre entro il termine di scadenza del 30 settembre dell’anno solare successivo a quello del periodo (trimestrale o annuale) di riferimento.

7.7 La base imponibile dell’IVA: deroghe al criterio del corrispettivo

Notevole importanza rivestono alcune misure introdotte nello scorso biennio con le quali sono state modificate o integrate varie disposizioni che derogano al principio fondamentale secondo cui la base imponibile IVA è costituita dal corrispettivo.

Le nuove disposizioni non toccano la nozione di corrispettivo che è alla base di tale principio; esse, piuttosto, modificano il criterio applicabile alle operazioni caratterizzate dall’assenza di corrispettivi e introducono criteri specifici di determinazione dell’imponibile per ipotesi particolari nelle quali, pur in presenza di corrispettivi, si è ritenuto opportuno derogare al criterio generale a causa dei collegamenti esistenti fra i soggetti che partecipano all’operazione.

Queste misure sono state introdotte con la legge comunitaria per il 2008171. Esse, da un lato, pongono rimedio ad alcune discrasie della normativa nazionale rispetto a quella comunitaria, dall’altro costituiscono il mezzo con cui lo Stato italiano ha esercitato varie facoltà che la Direttiva IVA ha concesso agli Stati membri.

Le nuove disposizioni sono ispirate, in definitiva, all’esigenza di rendere più efficiente il sistema di applicazione dell’IVA, tributo che realizza, nell’ambito dell’Unione europea, l’imposizione sui consumi. Attraverso il suo tipico meccanismo applicativo172, tale imposta è diretta a incidere sulla capacità di spesa del consumatore finale nei confronti del quale è esercitata la rivalsa da parte del soggetto passivo che si trova nell’ultima fase del ciclo produttivo e distributivo dei beni o servizi173; la capacità di spesa è espressa dal prezzo pagato dal consumatore per ottenere tali beni e servizi.

Il sistema impositivo così congegnato presuppone che la base imponibile, relativamente a ciascuna cessione o prestazione, comprenda tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore da parte dell’acquirente, del destinatario o di un terzo. In tale sistema il valore del bene ceduto o del servizio reso non assume rilevanza né se superiore, né se inferiore al corrispettivo dovuto.

Il criterio di determinazione dell’imponibile presuppone, quindi, che le operazioni imponibili siano costituite da cessioni e prestazioni effettuate dietro pagamento di un corrispettivo. Tuttavia, la funzione dell’IVA di realizzare la tassazione dei consumi, ha comportato la necessità di assoggettare al tributo – per evitare salti d’imposta e facili forme di elusione – anche operazioni caratterizzate dall’assenza di un corrispettivo174.

Per questo tipo di operazioni la Direttiva IVA, pur individuando un criterio di determinazione

169. Utilizzando il nuovo modello IVA 79, la cui versione aggiornata, con le relative istruzioni, è contenuta nel Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 29 aprile 2010.

170. In Italia, l’ufficio competente per la gestione di tutte le istanze di rimborso, sia dei soggetti comunitari che di quelli extra-UE, è il Centro Operativo di Pescara.

171. Legge 7 luglio 2009, n. 88.

172. Come è noto, il meccanismo applicativo dell’IVA consiste nell’assoggettamento al tributo delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi effettuate nell’esercizio di attività economiche, con rivalsa sui relativi beneficiari, e nella detrazione dall’imposta dovuta di quella addebitata dai fornitori. Attraverso, dunque, l’applicazione frazionata del tributo da parte degli operatori economici, l’imposta finisce per gravare sul consumatore finale che ne rimane inciso per un ammontare corrispondente ai corrispettivi pagati per i beni e i servizi ricevuti.

173. Si tratta, ad esempio, di chi esercita l’attività di commercio al minuto o rende servizi al consumatore finale.

174. Si tratta, in particolare: a) delle cessioni gratuite di beni; b) delle destinazioni di beni all’uso o al consumo personale o familiare dell’imprenditore o di coloro che esercitano un’arte o una professione o delle destinazioni ad altre finalità estranee all’esercizio dell’attività; c) delle assegnazioni ai soci fatte da società e delle assegnazioni (e analoghe operazioni) fatte da enti privati o pubblici; d) delle prestazioni di servizi effettuate per l’uso personale o familiare dell’imprenditore, o a titolo gratuito per altre finalità estranee all’esercizio dell’impresa.

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dell’imponibile alternativo rispetto a quello generale basato sui corrispettivi, ha comunque escluso il ricorso al concetto di “valore” del bene o servizio oggetto dell’operazione, in modo coerente con l’impostazione generale tendente a rilevare l’effettiva capacità di spesa del consumatore. Per queste particolari operazioni, invero, è stato attribuito rilievo al “prezzo di acquisto” o, in mancanza, al “prezzo di costo” sostenuti dal soggetto che presta il servizio o cede il bene, determinati nel momento in cui l’operazione si considera effettuata.

La disciplina italiana precedentemente vigente, invece, assumeva a imponibile di queste operazioni il valore normale: ciò comportava l’applicazione del tributo su un dato virtuale che, proprio per la sua astrattezza, non forniva la misura del consumo.

Per quanto riguarda le cessioni di beni, questa nuova impostazione comporta che - dal momento che l’imponibilità delle operazioni caratterizzate dall’assenza di un corrispettivo ha la funzione di consentire all’erario il recupero dell’imposta applicata nelle fasi precedenti l’operazione e regolarmente detratta dal contribuente - il prezzo di acquisto (o prezzo di costo), ai fini della determinazione dell’imponibile, non può essere limitato solo all’importo pagato per acquistare il bene (o ai costi sostenuti per realizzarlo), ma dovrebbe comprendere anche le spese relative ad acquisti di beni e servizi sostenute, in ipotesi, per riparare o completare il bene, tenendosi conto, inoltre, di quanto è stato già consumato al momento della effettuazione dell’operazione175.

In tale ottica, il riferimento al prezzo di acquisto tende a coincidere con il “valore residuo del bene al momento del prelievo”, intendendosi, però, come valore residuo, non il valore normale, ma la somma dei prezzi pagati per l’acquisto dei beni e dei servizi che hanno consentito la realizzazione del bene, al netto del deprezzamento che il bene ha subito nel tempo.

Analogamente, per le prestazioni di servizi gratuite, si assume ora come imponibile l’ammontare delle spese sostenute dal soggetto passivo per l’esecuzione dei servizi.

Il criterio del valore normale, eliminato per le operazioni nelle quali manca il corrispettivo, permane, e anzi se ne amplia l’ambito di applicabilità, per le operazioni caratterizzate da un collegamento fra le parti contraenti. Infatti la legge comunitaria per il 2008 ha previsto nuove fattispecie nelle quali la base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi fra soggetti fra i quali esiste un collegamento è costituita – in deroga al principio secondo cui l’imponibile dell’IVA è costituito dal corrispettivo dovuto – dal valore normale176 dei beni e dei servizi forniti nei casi in cui tale valore si discosti dall’ammontare del corrispettivo177.

Le fattispecie cui la Direttiva IVA fa riferimento sono le operazioni fra soggetti legati da particolari vincoli familiari, gestionali, giuridici, ecc.; ciò allo scopo di prevenire la frode o l’evasione fiscale che in tali ambiti potrebbero più facilmente realizzarsi. In relazione a tali operazioni la Direttiva IVA consente che sia assunta come base imponibile di una cessione o prestazione effettuata a titolo oneroso, non il corrispettivo (che pure è contrattualmente stabilito), ma il valore normale del bene o del servizio, sul presupposto che il collegamento esistente fra le parti dell’operazione potrebbe indurre a stabilire, fittiziamente, un corrispettivo diverso dal valore di mercato abituale; e ciò non per ragioni di carattere commerciale, ma solo per ottenere vantaggi di carattere fiscale connessi, per lo più, allo

175. Non potrebbe, ad esempio, assumersi come imponibile della cessione il prezzo di acquisto tal quale, se il bene nel frattempo è stato usato ed è diminuito di valore, così come non potrebbe assumersi il mero prezzo di acquisto se il bene è stato migliorato (riparato o completato) ed è aumentato di valore.

176. Per quanto riguarda la nozione di valore normale, la legge comunitaria per il 2008 ha reso la normativa nazionale letteralmente coincidente con la corrispondente disposizione comunitaria. La nuova definizione fa riferimento non più al prezzo mediamente praticato dallo stesso cedente o prestatore, ma a un dato più oggettivo, e cioè al prezzo normalmente praticato da altri cedenti o prestatori nel medesimo stadio di commercializzazione.

177. Le nuove norme introducono un elemento di forte incertezza nell’applicazione del tributo, in quanto viene sostituita a una base imponibile certa (il corrispettivo) un’altra soggetta a valutazione e, quindi, suscettibile di essere rettificata in base a un giudizio di congruità dell’Amministrazione finanziaria. Ora, tenuto conto che l’ambito soggettivo di applicazione delle norme è molto ampio, non è escluso che tali norme potranno incidere negativamente sulla neutralità del tributo e, di conseguenza, influire sulle scelte imprenditoriali dei contribuenti.

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svolgimento, da parte di uno dei contraenti, di attività che danno luogo all’effettuazione di operazioni esenti.

Ed invero, in tali particolari fattispecie le parti potrebbero avere interesse a prevedere corrispettivi, a seconda dei casi, più bassi o più alti rispetto a quelli usualmente praticati. In particolare, se l’acquirente è un soggetto che svolge attività che danno luogo a operazioni esenti, l’imposta addebitata in via di rivalsa non è detraibile, o lo è solo in parte se le operazioni attive effettuate sono in parte esenti e in parte imponibili (c.d. pro rata di indetraibilità). Dunque, l’imposta a monte, in questi casi, diventa un costo, con la conseguenza che la previsione di un corrispettivo contenuto per i propri acquisti consente di ridurre o di contenere l’onere relativo all’applicazione del’IVA.

Se invece è il cedente o il prestatore ad avere un pro rata di indetraibilità, vi è l’interesse a gonfiare il corrispettivo in quanto un corrispettivo elevato di un’operazione imponibile consente di diminuire il pro rata di indetraibilità. Se poi l’operazione fra soggetti collegati è esente da IVA, il cedente o il prestatore hanno l’interesse a contenere l’imponibile dell’operazione perché imponibili più bassi consentono di contenere anche il pro rata di indetraibilità e quindi di detrarre un maggiore ammontare dell’imposta assolta “a monte”.

Per contrastare queste pratiche elusive, la Direttiva IVA consente agli Stati membri di assumere il valore normale come imponibile delle cessioni o delle prestazioni, in particolare in tre ipotesi: a) quando il corrispettivo è inferiore al valore normale, l’acquirente dei beni o il committente dei servizi non ha diritto alla detrazione integrale dell’imposta “a monte” e l’operazione è imponibile; b) quando il corrispettivo è inferiore al valore normale, il cedente o il prestatore non ha interamente diritto alla detrazione e l’operazione è esente; c) quando il corrispettivo è superiore al valore normale, il cedente o il prestatore non ha interamente diritto alla detrazione e l’operazione è imponibile.

Con la legge finanziaria per il 2008, lo Stato italiano si era già avvalso della facoltà stabilita dalla Direttiva IVA ma solo limitatamente alla prima delle ricordate fattispecie178. La legge comunitaria per il 2008 ha esteso le ipotesi in cui si deve rapportare l’imponibile IVA al valore normale dei beni ceduti o delle prestazioni rese, comprendendovi anche quelle in cui il corrispettivo dovuto è inferiore a tale valore, l’operazione è esente e il cessionario o il committente è un soggetto cui è preclusa, in tutto o in parte, la detrazione, nonché quelle in cui il corrispettivo è superiore al valore normale, l’operazione è soggetta ad IVA e il cedente o il prestatore è un soggetto cui è preclusa la detrazione.

Per quanto riguarda la natura del collegamento fra le parti dell’operazione che consente l’assunzione del valore normale come imponibile dell’operazione, è da rilevare che la Direttiva IVA considera i casi in cui i destinatari dell’operazione sono soggetti “con cui sussistono legami personali e familiari o altri stretti vincoli personali, gestionali, di associazione, di proprietà, finanziari o giuridici quali definiti dallo Stato membro”: l’ambito soggettivo della disposizione è, quindi, piuttosto ampio; esso, tuttavia, deve essere definito, in concreto, dallo Stato membro che decide di avvalersi della deroga e ne stabilisce i limiti.

Un altro settore nel quale il criterio di determinazione della base imponibile è basato sul valore normale del bene o servizio oggetto dell’operazione è quello delle operazioni consistenti nella “messa a disposizione di veicoli stradali a motore nonché delle apparecchiature terminali per il servizio radiomobile pubblico terrestre di telecomunicazioni e delle relative prestazioni di gestione effettuata dal datore di lavoro nei confronti del proprio personale dipendente”.

Questa previsione fu inserita con la legge finanziaria per il 2008 per completare la normativa che ha reintrodotto la detraibilità dell’imposta assolta per l’acquisto di veicoli a motore, dei suddetti terminali (telefoni cellulari) e delle prestazioni di gestione concernenti tali beni. In seguito al riconoscimento del diritto all’integrale detrazione dell’imposta per i beni utilizzati esclusivamente nell’esercizio dell’impresa o dell’arte o professione, si era ammesso che tale requisito sussiste non soltanto quando i beni siano utilizzati solo nell’ambito dell’impresa, ma anche quando siano dati in uso promiscuo al personale dipendente (uso privato e per l’impresa da cui dipendono) e l’uso privato sia consentito

178. Cfr. capo IV, par. 3.7, della relazione per il biennio 2007 – 2008.

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dietro pagamento di un corrispettivo179.

Ciò avrebbe potuto consentire facili abusi nei casi in cui fosse pattuito un corrispettivo simbolico: a fronte della detrazione integrale dell’imposta sull’acquisto dei beni, l’applicazione “a valle” di un’imposta irrisoria avrebbe, di fatto, consentito l’immissione in consumo dei beni senza l’applicazione del tributo.

Per contrastare tali possibili abusi, la legge finanziaria per il 2008 ha previsto che l’imponibile delle prestazioni consistenti nella messa a disposizione di veicoli stradali a motore e di telefoni cellulari (e delle relative prestazioni di gestione) da parte del datore di lavoro a favore dei dipendenti è costituita dal valore normale dei beni e servizi forniti se il corrispettivo dovuto è inferiore a tale valore.

Per la determinazione di tale valore l’art. 14 – prima delle modifiche introdotte dalla legge comunitaria per il 2008 – aveva disposto un criterio rigido, e quindi più certo, disponendo che si assumeva il valore determinato ai fini delle imposte sul reddito per stabilire l’ammontare dei redditi di lavoro dipendente corrisposti in natura soggetti a tassazione a norma dell’art. 51 del TUIR. Nessuna particolare disposizione era invece stabilita per la determinazione del valore normale della messa a disposizione dei dipendenti dei telefoni cellulari; di conseguenza doveva applicarsi la nozione generale di valore normale, con tutte le incertezze che il ricorso a tale criterio avrebbe comportato.

Tale specifico criterio è stato abolito, ma si è disposto che appositi criteri, concernenti la messa a disposizione dei dipendenti sia dei veicoli, sia dei telefoni cellulari, saranno stabiliti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze; decreto che, peraltro, non è stato ancora emanato. Fino a quando non saranno stabiliti i nuovi criteri, il valore normale delle prestazioni di messa a disposizione dei veicoli a favore dei dipendenti è determinato con riferimento all’art. 51, comma 4, lett. a), del TUIR, e quindi, in sostanza, si continua ad applicare la norma sostituita, con la specificazione che tale importo è comprensivo delle somme eventualmente trattenute al dipendente ed è calcolato al netto dell’IVA (la quale è applicata proprio su tale base imponibile).

Connesse con il criterio di individuazione della base imponibile IVA non nel corrispettivo dell’operazione ma nel valore normale della stessa, sono poi le modifiche apportate dalla legge comunitaria 2008 alla disciplina in tema di accertamenti, agli effetti dell’IVA e delle imposte sul reddito, della base imponibile delle cessioni di beni immobili180.

E’ stata, in particolare, eliminata la disposizione contenuta nell’art. 54, terzo comma, del d.P.R. n. 633/1972, secondo cui, per le cessioni aventi ad oggetto beni immobili, la prova della infedeltà della dichiarazione “s’intende integrata anche se l’esistenza delle operazioni imponibili o l’inesattezza delle indicazioni” relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione “sono desunte sulla base del valore normale dei predetti beni, determinato ai sensi dell’art. 14 del presente decreto”. Correlativamente, è stata eliminata anche la disposizione contenuta nell’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973, secondo cui, in presenza di tali cessioni, la prova dell’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate s’intende integrata “se l’infedeltà dei relativi ricavi viene desunta sulla base del valore normale dei predetti beni”: valore questo che, trattandosi di imposte sul reddito, è determinato ai sensi dell’art. 9, comma 3, del TUIR.

E’ da evidenziare che tali disposizioni furono introdotte nel 2006181 nell’ambito di interventi tendenti a contrastare l’evasione tributaria nel settore immobiliare e, in particolare, nel quadro delle misure dirette ad ampliare le possibilità per gli uffici di contestare le indicazioni riportate negli atti di

179. Infatti, anche questo tipo di operazioni nei confronti dei dipendenti rientra nell’esercizio dell’impresa realizzando prestazioni di servizi imponibili che, come tali, legittimano la detrazione dell’imposta “a monte”.

180. Le modifiche normative, infatti, anche se sembrano riguardare solo aspetti procedimentali, finiscono per avere riflessi, in punto di fatto, anche su aspetti sostanziali legati alla determinazione dell’imponibile.

181. Cfr. art. 35, comma 2, del d.l. n. 223/2006.

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trasferimento di beni immobili relative ai loro valori182.

Le ricordate norme presentavano però ambiguità che rendevano incerto il loro ambito effettivo di operatività: infatti, a fronte di una disciplina sostanziale dei tributi considerati che assume criteri di determinazione degli imponibili fondati sui corrispettivi delle cessioni, si sovrapponeva un regime di accertamento che consentiva agli uffici finanziari di fondare gli atti accertativi su un elemento, il valore normale, estraneo alla disciplina sostanziale.

Le perplessità maggiori, comunque, concernevano l’IVA. Si dubitava, infatti, fondatamente, della compatibilità delle norme in questione con la Direttiva IVA che impone di assumere come imponibile i corrispettivi dovuti e non, quindi, il valore dei beni ceduti183.

Questo evidente contrasto con il sistema comunitario dell’IVA è stato superato con la legge comunitaria per il 2008 che ha disposto la soppressione delle ricordate norme in materia di accertamento introdotte nel 2006, ripristinando il quadro normativo esistente prima dell’introduzione delle stesse.

Di conseguenza, gli uffici non possono più presumere l’esistenza di corrispettivi non fatturati per il solo fatto che il valore normale degli immobili compravenduti, determinato in base ai criteri stabiliti con il provvedimento direttoriale, risulti superiore ai corrispettivi fatturati. E ciò vale, evidentemente, sia ai fini dell’IVA che delle imposte sul reddito.

L’occultamento di corrispettivi, pertanto, può ora essere provato dall’Amministrazione finanziaria solo secondo le regole generali in tema di accertamenti184.

8. Misure di contrasto dell’evasione fiscale in materia d’IVA8.1 Premessa

Al pari del legislatore comunitario – che, come si è rilevato nel paragrafo 7.1, nel modificare la Direttiva IVA, ha inteso, in primo luogo, arginare i fenomeni di evasione dell’IVA, ormai riscontrati in quasi tutti i Paesi membri, adottando misure di controllo delle operazioni transfrontaliere – anche il legislatore nazionale ha introdotto, nello scorso biennio, misure di contrasto delle frodi e delle evasioni dell’IVA poste in essere dagli operatori nazionali, che, secondo recenti stime, superano oramai i 100 milioni di euro.

Ed invero, una serie di norme hanno mirato a rafforzare i poteri di controllo dell’Amministrazione

182. I criteri utili per la determinazione del valore normale dei fabbricati erano stabiliti da un Provvedimento direttoriale che faceva dipendere le valutazioni degli immobili dalle rilevazioni dell’Osservatorio del mercato immobiliare (c.d. OMI); provvedimento, questo, che continua, peraltro, a esplicare effetti, anche dopo la soppressione delle norme in questione, ai fini delle imposte di registro, ipotecaria e catastale, nonché, quanto all’IVA e alle imposte sul reddito, nelle limitate ipotesi in cui il valore normale tuttora rileva nella determinazione della base imponibile.

183. È pur vero che la norma era inserita nella disciplina dell’accertamento e, pertanto, esplicava effetti solo in ambito procedimentale, non sulla disciplina sostanziale del tributo che comprende i criteri di determinazione dell’imponibile. Essa tuttavia, introducendo una presunzione legale nella disciplina degli accertamenti, finiva per assumere, di fatto, una valenza sostanziale consentendo agli uffici di superare il principio che impone di assumere il corrispettivo come base imponibile del tributo.

184. Per l’Amministrazione è, comunque, possibile ricorrere in sede di accertamento anche a elementi presuntivi: in tal caso, tuttavia, si tratta di presunzioni semplici che non hanno, come tali, forza di legge. Inoltre, secondo i principi generali stabiliti dall’art. 54 del d.P.R. n. 633/1972 e dall’art. 39 del d.P.R. n. 600/1973, deve trattarsi di presunzioni caratterizzate da una particolare forza probatoria, cioè, “gravi, precise e concordanti”. Non è sufficiente, quindi, rilevare che il corrispettivo pattuito per una compravendita immobiliare è inferiore al valore normale stabilito con riferimento ai cc.dd. valori OMI per legittimare un accertamento in rettifica da parte dell’ufficio ai fini dell’IVA o delle imposte sul reddito.

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finanziaria introducendo nuovi, specifici obblighi informativi a carico dei soggetti passivi dell’imposta.

L’istituzione dell’obbligo per i soggetti IVA di comunicare all’Agenzia delle entrate le operazioni intercorse con operatori economici stabiliti in Stati e territori a fiscalità privilegiata (cc.dd. Paesi black list)185 – adempimento che illustreremo nel successivo paragrafo 8.2 – è finalizzata a contrastare il fenomeno delle cc.dd. frodi carosello, che, seppure spesso realizzate fra operatori nazionali, si possono più facilmente mettere in atto con operatori di tali Paesi, per la mancanza o la limitatezza in essi di vincoli e di controlli fiscali186.

Al fine di combattere le frodi e le evasioni IVA poste in essere dagli operatori nazionali nell’ambito degli scambi intracomunitari, è stato, poi, previsto187 – come si dirà nel paragrafo 8.3 – l’obbligo per i soggetti IVA che intendono effettuare operazioni con altri Paesi aderenti all’Unione europea di chiedere all’Agenzia delle entrate una preventiva autorizzazione ad operare intracomunitariamente: ciò per consentire all’Agenzia di individuare e colpire più tempestivamente le operazioni fraudolente.

Anche la norma188 che ha istituito la comunicazione telematica all’Agenzia delle entrate delle operazioni rilevanti agli effetti dell’IVA, rese e ricevute dai soggetti passivi d’imposta, di importo pari o superiore a tremila euro189 si inserisce nell’ambito dei provvedimenti finalizzati a rafforzare i poteri di controllo dell’Amministrazione finanziaria, per acquisire un sempre maggior numero di dati relativi alle transazioni economiche dei contribuenti, per prevenire le frodi e le evasioni in campo IVA, e per garantire la congruità dei volumi d’affari e di reddito dichiarati.

Allo scopo, infine, di contrastare l’utilizzo fraudolento dell’istituto della compensazione dei crediti IVA, sia annuali che trimestrali, con le imposte, i contributi e i premi indicati nell’art. 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 (c.d. compensazione “orizzontale”), sono stati previsti190 alcuni limiti alla possibilità di operare tale compensazione191: le numerose anomalie riscontrate dall’Agenzia delle entrate nel controllo dei dati relativi alla legittimità e all’ammontare dei crediti compensati hanno, infatti, indotto il legislatore ad adottare anche questa ulteriore misura anti-frode.

8.2 Comunicazione delle operazioni con soggetti stabiliti in Paesi a fiscalità privilegiata

Il primo dei citati adempimenti di carattere dichiarativo è stato previsto dal d.l. n. 40/2010 (c.d. decreto “incentivi”)192. Esso consiste nell’obbligo di comunicare all’Agenzia delle entrate le operazioni rese a, e ricevute da, operatori economici stabiliti in determinati Stati o territori a fiscalità privilegiata (cc.dd. Paesi black list), individuati con i decreti 4 maggio 1999 del Ministro delle finanze e 21 novembre 2001 del Ministro dell’economia e delle finanze193.

La finalità dell’obbligo di comunicazione, come accennato, è quella di ridurre il fenomeno delle cc.dd. “frodi carosello” in materia di IVA, frodi che si possono verificare spesso (sebbene non esclusivamente) attraverso una non corretta applicazione dei meccanismi del tributo negli scambi intercorrenti con

185. Cfr. art. 1, comma 1, del d.l. n. 40/2010.

186. In sintesi, nelle “frodi carosello” una società nazionale B acquista da una società estera A beni o servizi: l’acquisto non comporta oneri finanziari per l’acquirente, che applica l’IVA con il sistema del reverse charge. Tale soggetto rivende, poi, i beni o i servizi ad un’altra società nazionale C, applicando l’imposta. La società B incassa l’IVA da C, ma non la versa all’Erario, evadendo in tal modo l’imposta. La società C può a sua volta rivendere i beni o i servizi alla società estera A senza applicare l’IVA, trattandosi di un’esportazione o di una cessione intracomunitaria, riavviando così il ciclo della “frode carosello”.

187. Cfr. art. 27 del d.l. n. 78/2010.

188. Cfr. art. 21 del d.l. n. 78/2010.

189. Cfr. il paragrafo 8.4.

190. Cfr. art. 10 del d.l. n. 78/2009.

191. Cfr. il paragrafo 8.5.

192. Cfr. art.1, comma 1, del d.l. n. 40/2010.

193. La nuova disciplina è stata commentata nelle Circolari Assonime n. 32/2010, n. 35/2010 e n. 5/2011.

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i predetti Stati o territori esteri. Sotto questo profilo, si tratta di una finalità analoga a quella degli elenchi Intrastat; tra i due adempimenti si verificano, peraltro, aree di sovrapposizione che possono causare inutili aggravi ai soggetti coinvolti.

Le modalità e i termini di trasmissione della comunicazione sono stati stabiliti con il decreto 30 marzo 2010 del Ministro dell’economia e delle finanze, che ha, fra l’altro, previsto la decorrenza della nuova disciplina con riguardo alle operazioni effettuate dal 1° luglio 2010; ulteriori disposizioni in argomento sono state previste con il decreto ministeriale 5 agosto 2010194.

Sono obbligati alla trasmissione della comunicazione i soggetti passivi dell’imposta sul valore aggiunto residenti nel territorio dello Stato (compresi anche gli enti non commerciali limitatamente alle sole attività commerciali)195, i soggetti non residenti direttamente identificati in Italia o che hanno ivi nominato un rappresentante fiscale, nonché quelli che hanno istituito in Italia una stabile organizzazione196.

I dati da comunicare all’Agenzia delle entrate riguardano le operazioni effettuate dai soggetti IVA di cui si è detto nei confronti di operatori economici che hanno sede, residenza o domicilio negli Stati o territori individuati nel decreto del Ministro delle finanze 4 maggio 1999 e dal decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 21 novembre 2001197, e le operazioni rese da questi ultimi operatori ai soggetti IVA nazionali. L’obbligo di segnalazione, dunque, riguarda espressamente solo le operazioni intercorse con controparti che rivestono la qualifica di “operatori economici”: ciò implica che non vi rientrano le operazioni attive e passive realizzate con soggetti privati o enti che non agiscono nell’esercizio di imprese, arti o professioni198.

E’ richiesto, inoltre, che gli operatori economici abbiano “sede” o “residenza” o “domicilio” in Paesi black list: gli Stati o territori a fiscalità privilegiata sono quelli individuati dai richiamati decreti 4 maggio 1999 e 21 novembre 2001199. Poiché solo alcuni Paesi compaiono in entrambi i decreti, l’Agenzia delle entrate ha precisato che la disciplina in esame si riferisce anche ai Paesi indicati soltanto in uno dei due decreti200. Ai fini di tale disciplina, inoltre, non rilevano i limiti soggettivi o oggettivi indicati nel d.m. 21 novembre 2001201.

Oltre alle operazioni direttamente intercorse con operatori economici stabiliti nei Paesi black list, devono essere indicate nella comunicazione le operazioni realizzate con rappresentanti fiscali di tali operatori. Secondo l’Agenzia202, devono essere oggetto di comunicazione anche le operazioni che i soggetti IVA nazionali realizzano nei confronti delle stabili organizzazioni degli operatori economici stabiliti in Paesi black list, pur se situate in Paesi non compresi fra quelli a fiscalità privilegiata. Tale obbligo sussisterebbe, ad avviso dell’Amministrazione finanziaria, perfino quando la stabile

194. L’Agenzia delle entrate ha fornito chiarimenti in materia con le circolari n. 53/E del 21 ottobre 2010, n. 54/E del 28 ottobre 2010, n. 2/E del 28 gennaio 2011 e con la risoluzione 29 novembre 2010, n. 121/E.

195. Ad avviso dell’Agenzia delle entrate l’obbligo investe addirittura le stabili organizzazioni di soggetti nazionali insediate in qualsiasi Stato estero che effettuino prestazioni con soggetti stabiliti in Paesi a fiscalità privilegiata, pur non trattandosi, a rigore, di soggetti passivi ai fini IVA (cfr. risoluzione n.121/E del 2010 e circolare n. 2/E del 2011).

196. In considerazione del fatto che l’obbligo di comunicazione riguarda, in linea generale, le operazioni registrate o soggette a registrazione ai fini IVA, l’Agenzia delle entrate ha riconosciuto con la circolare n. 53/E del 2010 che non sono tenuti a presentare la comunicazione i soggetti che applicano il regime speciale per i contribuenti minimi, e i soggetti che adottano il regime speciale delle nuove iniziative d’impresa e di lavoro autonomo, sul rilievo che si tratta appunto di soggetti esonerati dall’obbligo di registrazione delle operazioni.

197. Cfr. artt. 1, comma 1, del d.l. n. 40/2010, e 2 del d.m. 30 marzo 2010.

198. Relativamente alla verifica dello status di operatore economico da parte dei soggetti tenuti al nuovo obbligo, si veda quanto specificato dall’Agenzia delle entrate nella circolare n. 53/E del 2010.

199. Con il decreto ministeriale 27 luglio 2010 sono stati eliminati dalle liste dei Paesi a fiscalità privilegiata Cipro, Malta e Corea del sud: prendendo atto di questa modifica, il d. m. 5 agosto 2010 ha previsto che anche ai fini in esame le operazioni realizzate con operatori stabiliti in quei Paesi non devono essere inserite nella comunicazione, non essendo più considerati Paesi black list.

200. Cfr. circolare n. 53/E del 2010 dell’Agenzia delle entrate.

201. Cfr. circolare n. 53/E del 2010 dell’Agenzia delle entrate.

202. Cfr. circolare n. 53/E del 2010 dell’Agenzia delle entrate.

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organizzazione di un operatore economico stabilito in un Paese black list è istituita in Italia: ciò comporta che anche le operazioni “interne” fra due soggetti IVA nazionali – tali sono il soggetto tenuto alla comunicazione e la stabile organizzazione in Italia dell’operatore economico estero – sono soggette ad una comunicazione che è finalizzata a combattere le frodi IVA realizzate a livello transnazionale. Tale orientamento, però, suscita perplessità e meriterebbe di essere riesaminato da parte dell’Agenzia.

Nel modello devono essere riportate tutte le operazioni (imponibili, non imponibili, esenti e non soggette203), attive e passive, registrate o soggette a registrazione, intercorse con ciascun operatore estero nel periodo di riferimento della comunicazione. L’obbligo di comunicazione è stato poi esteso anche alle prestazioni di servizi “non soggette” per mancanza del requisito della territorialità204, nonostante si tratti di operazioni non soggette a registrazione ai fini IVA. L’estensione dell’obbligo, peraltro, si riferisce unicamente alle prestazioni di servizi extraterritoriali, e non anche alle cessioni di beni: rimangono dunque esclusi dall’obbligo di comunicazione i dati relativi alle cessioni di beni allo stato estero205.

Nella comunicazione, ad avviso dell’Agenzia206, sono da comprendere anche le importazioni, sebbene tali operazioni non siano espressamente menzionate fra quelle cui si riferisce la nuova disciplina, e benché si tratti di operazioni già soggette ai controlli sul corretto assolvimento del tributo, scontando l’IVA in dogana in occasione dell’introduzione del bene importato nel territorio italiano. E’ auspicabile, comunque, un ripensamento dell’Agenzia delle entrate sulla questione, anche tenuto conto delle difficoltà operative che comporta l’indicazione di tali operazioni nella comunicazione, dovendosi desumere i dati relativi al loro ammontare imponibile, e alla relativa imposta, dalla bolletta doganale, che spesso contiene anche i dati relativi a servizi connessi con l’importazione (trasporto, assicurazione, carico, movimentazione, ecc.)207.

Sono state invece escluse dalla comunicazione208 - accogliendo le richieste manifestate in tal senso dai soggetti interessati - le operazioni esenti (quali ad esempio, le operazioni bancarie, finanziarie o assicurative) rese da soggetti d’imposta che per esse si avvalgono della dispensa dagli adempimenti formali a norma dell’art. 36-bis del d.P.R. n. 633/1972. L’esonero dalla comunicazione di tali operazioni risulta in linea con la norma del decreto “incentivi”, istitutiva del nuovo adempimento, che stabilisce, appunto, l’obbligo di comunicazione solo per le operazioni “registrate o soggette a registrazione”.

I principi che regolano la periodicità di presentazione della comunicazione delle operazioni con soggetti stabiliti in Paesi a fiscalità privilegiata sono pressoché identiche a quelle stabilite per gli elenchi riepilogativi delle operazioni intracomunitarie209. La periodicità è trimestrale quando l’ammontare delle operazioni effettuate o ricevute non ha superato, nei quattro trimestri precedenti rispetto a quello di riferimento e per ciascuna delle categorie di operazioni da comunicare210, i 50.000 euro211. Se, invece, l’ammontare delle operazioni è superiore a 50.000 euro, l’obbligo di trasmissione è

203. Rientrano nella categoria delle operazioni “non soggette” ad imposta le cessioni di beni in transito o depositati in luoghi soggetti a vigilanza doganale, e le prestazioni di servizi cc.dd. “generiche” rese a committenti comunitari, espressamente qualificate dall’art. 21, comma 6, del d.P.R. n. 633/1972 come operazioni “non soggette” ad imposta, ma con l’obbligo di emissione della fattura e il conseguente obbligo di registrazione.

204. Cfr. art. 3 del d.m. 5 agosto 2010. Tale disposizione, a norma dell’art. 4, comma 2, dello stesso d.m., si applica alle operazioni effettuate dal 1° settembre 2010.

205. In tal senso si esprime la circolare n. 2/E del 2011 dell’Agenzia delle entrate.

206. Cfr. circolare dell’Agenzia delle entrate n. 53/E del 2010.

207. Alcune indicazioni in ordine alle modalità di indicazione delle importazioni nella comunicazione sono state fornite dall’Agenzia delle entrate nella circolare n. 2/E del 2011.

208. Cfr. art. 2 del d. m. 5 agosto 2010. Tale norma ha efficacia retroattiva: essa si applica alle operazioni effettuate dal 1° luglio 2010.

209. Tali principi sono stabiliti dall’art. 2 del d. m. 30 marzo 2010.

210. Le categorie di operazioni cui si fa riferimento sono: le cessioni di beni effettuate; le prestazioni di servizi rese; gli acquisti di beni effettuati e le prestazioni di servizi ricevute.

211. Per determinare se si è tenuti a presentare la comunicazione con cadenza trimestrale, i quattro trimestri cui far riferimento sono quelli che compongono l’anno solare.

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mensile. La periodicità di presentazione della comunicazione cambia in corso d’anno212 se durante il trimestre si supera il limite dei 50.000 euro: in tal caso la comunicazione deve essere presentata con cadenza mensile a partire dal mese successivo a quello in cui la soglia è superata213. I soggetti tenuti alla presentazione trimestrale hanno comunque facoltà di optare per la periodicità di presentazione mensile per l’intero anno solare.

La comunicazione, redatta su un apposito modello214, deve essere trasmessa all’Agenzia delle entrate, direttamente o tramite intermediari, esclusivamente per via telematica, entro la fine del mese successivo al periodo (mese o trimestre) di riferimento215. Peraltro, in considerazione delle difficoltà anche operative segnalate dai soggetti coinvolti nel nuovo adempimento, per i primi invii dei modelli – cioè quelli relativi ai periodi mensili di luglio e agosto 2010 – il decreto ministeriale del 5 agosto 2010 ha opportunamente disposto il differimento216 del termine ordinario di presentazione, prevedendo che tali modelli dovessero essere trasmessi entro il 2 novembre 2010217.

In caso di omissione della comunicazione o della sua trasmissione con dati incompleti o non veritieri, si applica la sanzione di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 471/1997 (da 258 a 2.065 euro) elevata al doppio (da 516 a 4.130 euro)218. E’ espressamente esclusa la possibilità di applicare le disposizioni sul concorso di violazioni e sulla continuazione stabilite dall’art. 12 del d.lgs. n. 472/1997219: ciò implica che, non operando la regola sul cumulo giuridico220, ad ogni singola violazione è applicabile la propria sanzione, secondo la regola del cumulo materiale.

L’Agenzia delle entrate ha peraltro affermato221 che alle violazioni dell’obbligo di comunicazione di cui si tratta sono applicabili le disposizioni sul ravvedimento operoso contenute nell’art. 13 del d.lgs. n. 472/1997. La stessa Agenzia, tenendo conto delle richieste dei contribuenti interessati, ha riconosciuto222 che, in sede di controllo, non saranno applicate sanzioni per le eventuali violazioni commesse in occasione della prima applicazione della nuova disciplina223.

212. L’ipotesi di cambio della periodicità di presentazione è regolata dal comma 4 dell’art. 2 del decreto ministeriale del 22 febbraio 2010.

213. In questo caso è richiesta la presentazione, per i periodi mensili già trascorsi, di separate comunicazioni mensili.

214. Il modello di comunicazione telematica è stato approvato con il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 28 maggio 2010. Le relative specifiche tecniche di trasmissione sono state approvate con il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 5 luglio 2010.

215. Cfr. art. 3 del d. m. 30 marzo 2010.

216. Cfr. art. 4, comma 3, del d. m. 5 agosto 2010.

217. Entro il 2 novembre 2010 – essendo giorni festivi sia il 31 ottobre che il 1°novembre 2010 – peraltro, i soggetti “trimestrali” dovevano trasmettere i modelli di comunicazione contenenti i dati del trimestre luglio – settembre 2010, e, i soggetti “mensili”, i modelli di comunicazione con i dati del mese di settembre.

218. Cfr. art. 1, comma 3, del d.l. n. 40/2010.

219. L’ambito applicativo dell’art. 12 del decreto legislativo n. 472 del 1997 è stato delineato dal Ministero delle finanze nella circolare 10 luglio 1998, n. 180.

220. La regola del cumulo giuridico comporta l’irrogazione di una sanzione unica – determinata in base a specifici parametri – per più violazioni.

221. Cfr. circolari 21 ottobre 2010, n. 53/E e 28 gennaio 2011, n. 2/E dell’Agenzia delle entrate.

222. Cfr. circolare 28 ottobre 2010, n. 54/E dell’Agenzia delle entrate.

223. In particolare, l’Agenzia ha ritenuto che, sussistendo obiettive condizioni di incertezza sui dati da segnalare in tali comunicazioni, non saranno applicate sanzioni per le eventuali violazioni che riguardano i modelli di comunicazione relativi al trimestre luglio-settembre 2010, nel caso di comunicazioni con periodicità trimestrale, e ai mesi da luglio a novembre 2010, nel caso di comunicazioni con periodicità mensile. Le sanzioni non saranno irrogate a condizione che i soggetti obbligati abbiano trasmesso all’Agenzia comunicazioni integrative, contenenti i dati corretti, entro il 31 gennaio 2011. Al riguardo, nella circolare n. 2/E del 2011, l’Agenzia ha dichiarato che per poter procedere alla regolarizzazione senza applicazione di sanzioni è necessario aver trasmesso una comunicazione, sia pure con dati incompleti o inesatti, mentre ha escluso che possa beneficiarsi dell’inapplicabilità delle sanzioni nel caso in cui la comunicazione sia stata omessa.

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8.3 Autorizzazione all’effettuazione delle operazioni intracomunitarie

Ulteriori misure di contrasto dell’evasione, nel biennio considerato, sono state previste nei confronti dei soggetti che effettuano operazioni intracomunitarie.

Nell’ottica di monitorare gli scambi intracomunitari, è stato stabilito, con la modifica dell’art. 35 del d.P.R. n. 633/1972224, che i soggetti che intendono effettuare operazioni225 con altri Paesi aderenti alla UE devono richiedere, nella dichiarazione di inizio attività, una autorizzazione in tal senso, che potrà essere negata dall’ufficio dell’Agenzia delle entrate entro trenta giorni dalla data di attribuzione della partita IVA. E’ stata prevista, inoltre, in conformità ai principi comunitari in tema di scambi di informazioni tra gli Stati membri finalizzati ad evitare le frodi226, l’emanazione di un provvedimento che stabilisca i criteri in base ai quali inserire le partite IVA degli operatori che effettuano operazioni intracomunitarie nella relativa banca dati (sistema VIES).

Tali previsioni normative sono state attuate con i provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle entrate n. 2010/188376 e n. 2010/188381 del 29 dicembre 2010.

Il primo provvedimento individua, innanzi tutto, le modalità attraverso le quali i contribuenti possono segnalare la volontà di porre in essere operazioni intracomunitarie, a seconda che si tratti di soggetti che richiedono la partita IVA oppure di soggetti già in possesso di partita IVA o, ancora, di soggetti non residenti227. Esso prevede, poi, la procedura di diniego, da parte dell’Agenzia delle entrate, dell’autorizzazione a realizzare operazioni intracomunitarie, basata sul controllo dell’esattezza dei dati dichiarati e sulla valutazione del rischio che i contribuenti possano commettere frodi o evasioni. Durante il periodo (trenta giorni) nel corso del quale l’Agenzia effettua i controlli, i soggetti interessati non possono effettuare operazioni intracomunitarie. E’ del pari disciplinata la procedura di revoca dell’autorizzazione ad effettuare operazioni intracomunitarie nei confronti di soggetti già inclusi nell’archivio. Sono inoltre stabilite apposite regole per determinati casi riguardanti il primo periodo di applicazione della nuova disciplina228.

Il secondo provvedimento stabilisce i criteri e le modalità di inclusione delle partite IVA nell’archivio informatico dei soggetti autorizzati ad effettuare operazioni intracomunitarie. Esso prevede quattro tipologie di elementi di rischio, che l’Agenzia deve valutare al fine di autorizzare il soggetto richiedente a realizzare operazioni intracomunitarie. Le prime due fattispecie riguardano rispettivamente la tipologia di attività esercitata e le relative modalità di svolgimento, nonché la posizione fiscale del soggetto richiedente. Il terzo elemento di rischio fa capo alla posizione personale del titolare della ditta individuale, o degli amministratori e dei soci della società. Ultimo elemento è il potenziale pericolo per l’erario, collegato a transazioni con soggetti direttamente o indirettamente coinvolti in

224. Cfr., in particolare, la lettera e-bis del comma 2 e il comma 7-bis dell’art. 35, inseriti dall’art. 27 del d.l. n. 78/2010.

225. In base alle nuove norme, le operazioni per le quali deve essere chiesta l’autorizzazione sono gli acquisti e le cessioni intracomunitari disciplinati dal d.l. n. 331/1993. L’Agenzia ha peraltro precisato, in occasione di un forum organizzato da un organo di stampa, che il regime autorizzatorio si estende anche all’effettuazione delle prestazioni di servizi intracomunitarie cc.dd. generiche, tassabili nello Stato di stabilimento dei committenti, rese a, o ricevute da, soggetti comunitari dotati del numero di identificazione IVA: è auspicabile che l’Amministrazione intervenga a fornire sul punto istruzioni ufficiali.

226. Sotto tale profilo, l’art. 27 del d.l. n. 78/2010 costituisce attuazione dell’art. 22 del Regolamento comunitario n. 904 del 7 ottobre 2010, il quale prevede che ciascuno Stato membro debba adottare le misure necessarie per garantire la veridicità delle informazioni fornite dai contribuenti al momento di registrarsi ai fini dell’IVA, e che, conseguentemente, le Amministrazioni fiscali debbano effettuare le opportune verifiche nell’ottica di contrasto alle frodi.

227. In particolare, i soggetti che richiedono la partita IVA possono segnalare tale volontà nel modello di dichiarazione di inizio attività; i soggetti già titolari di partita IVA possono invece a tal fine presentare all’Agenzia delle entrate un’apposita istanza e, nello stesso modo, possono comunicare di rinunciare a tale possibilità; i soggetti non residenti, già identificati direttamente o che presentano la dichiarazione per l’identificazione diretta, infine, comunicano la volontà di porre in essere operazioni intracomunitarie presentando un’apposita istanza al Centro operativo di Pescara e, con la stessa modalità, essi possono segnalare al Centro la volontà di retrocedere dall’opzione.

228. In particolare, specifiche previsioni riguardano i soggetti che hanno presentato la dichiarazione di inizio dell’attività a partire dal 31 maggio 2010 (data di entrata in vigore del testo dell’art. 35 del d.P.R. n. 633/1972 modificato dal d.l. n. 78/2010) e fino al 28 febbraio 2011, e i soggetti che hanno presentato la dichiarazione di inizio dell’attività prima del 31 maggio 2010, al fine di garantire l'affidabilità delle informazioni già inserite nell'archivio.

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fenomeni evasivi. Questi controlli devono essere effettuati avendo cura di verificare che i dati indicati nelle dichiarazioni di cui all’art. 35 del d.P.R. n. 633/1972 siano effettivamente corrispondenti al vero.

L’inserimento nella banca dati avviene al trentunesimo giorno successivo a quello di manifestazione della volontà del soggetto di effettuare operazioni intracomunitarie: a tale data, il soggetto potrà verificare la propria posizione nell’archivio informatico. E’ infine stabilito che, presentando un’istanza all’Agenzia delle entrate, il contribuente possa rinunciare all’inclusione nell’archivio dei soggetti autorizzati.

8.4 Comunicazione telematica delle operazioni di importo pari o superiorea tremila euro

L’altro adempimento comunicativo che, in via generale, tende a combattere – come già detto – le evasioni d’imposta nelle operazioni poste in essere tra soggetti passivi del tributo, è quello previsto dall’art. 21 del d.l. n.78/2010229, che, ai fini della tracciabilità delle operazioni in questione, ha introdotto il nuovo obbligo di comunicazione telematica all’Agenzia delle entrate delle operazioni rilevanti agli effetti dell’IVA, rese e ricevute dai soggetti passivi d’imposta, di importo pari o superiore a tremila euro.

Secondo quanto si legge nella relazione illustrativa del decreto legge, la finalità della norma è quella di “..rafforzare gli strumenti a disposizione dell’Amministrazione finanziaria per il contrasto e la prevenzione dei comportamenti fraudolenti soprattutto in materia IVA (frodi carosello e false fatturazioni), ma anche in ambito di imposizione sul reddito. L’analisi e l’incrocio dei dati acquisiti tramite l’invio telematico permetterà una rapida ed efficace individuazione di soggetti a rischio frode ed evasione per una mirata ed immediata azione di controllo. Gli stessi dati consentiranno una più puntuale ricostruzione della congruità dei volumi d’affari e dei costi indicati nelle dichiarazioni nonché l’individuazione di spese e consumi di particolare rilevanza utili alla individuazione della capacità contributiva, in specie ai fini dell’accertamento sintetico”.

Il nuovo obbligo di comunicazione, peraltro, riguardando sia le operazioni IVA attive che quelle passive poste in essere dai soggetti passivi del tributo, si avvicina, in sostanza, al contenuto degli ormai soppressi elenchi dei clienti e dei fornitori, i quali, comunque, erano relativi alle sole operazioni realizzate in ambito nazionale230.

Elementi in comune, sotto il profilo dell’impianto formale della disciplina, possono essere ravvisati anche con le ulteriori misure di contrasto alle frodi in materia di IVA, che consistono – come abbiamo visto – nell’obbligo di comunicare, in via telematica, all’Agenzia delle entrate, da parte dei soggetti passivi IVA, le operazioni intercorse con operatori economici stabiliti in Paesi a fiscalità privilegiata231, nonché con l’obbligo di indicare le operazioni intracomunitarie in appositi elenchi riepilogativi232.

I presupposti soggettivi e oggettivi posti alla base della comunicazione in parola sono stati definiti da un Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate233; lo stesso provvedimento ha anche fissato i termini e le modalità di presentazione della comunicazione, nonché le relative specifiche tecniche di trasmissione.

Sotto il profilo soggettivo, l’adempimento si rivolge a tutti i soggetti (imprese, esercenti arti e professioni e altri soggetti), in possesso della soggettività passiva IVA ai sensi degli artt. 4 e 5 del

229. Convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n.122.

230. L’obbligo di trasmissione degli elenchi dei clienti e dei fornitori, già previsto dall’originario art. 29 del d.P.R. n. 633/1972 e poi soppresso dall’art. 6 del decreto legge 10 giugno 1994, n. 357, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1994, n.489, era stato reintrodotto dall’art. 37, comma 8, del d.l. n. 223/2006 (cfr. Circolari Assonime n. 59/2007 e n. 61/2007), e infine, nuovamente eliminato dall’art. 33, comma 3, lett. a), del d.l. n. 112/2008 (cfr. Circolare Assonime n. 50/ 2008, par.11).

231. Cfr. paragrafo 8.2.

232. Cfr. paragrafo 7.5.

233. Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 22 dicembre 2010, prot. 2010/184182.

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d.P.R. n. 633/1972, che effettuano operazioni rilevanti ai fini del tributo234, registrate ai sensi degli artt. 23, 24 e 25 dello stesso decreto (o, in mancanza della registrazione, effettuate235) nel corso del periodo d’imposta di riferimento (anno solare).

In considerazione delle finalità della norma, l’obbligo di comunicazione vale per i soggetti passivi stabiliti in Italia, ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 633/1972, nonché, tra l'altro, per i soggetti esteri che operano in Italia tramite un rappresentante fiscale, o che si siano qui direttamente identificati, relativamente alle operazioni rilevanti in territorio nazionale.

Sotto il profilo oggettivo, la comunicazione ha ad oggetto tutte le operazioni – sia attive che passive – soggette all’obbligo di emissione della fattura di cui all’art. 21 del d.P.R. n. 633/1972, il cui corrispettivo, al netto dell’IVA, è di ammontare pari o superiore a tremila euro, e tutte le operazioni – attive e passive – non soggette all’obbligo di fatturazione in base all’art. 22 dello stesso decreto, il cui corrispettivo, comprensivo dell’IVA, è di ammontare pari o superiore a tremilaseicento euro.

L’elevazione del limite minimo di rilevanza di quest’ultima categoria di operazioni, agli effetti dell’obbligatorietà del nuovo adempimento, ne consente la sostanziale equiparazione a quelle soggette all’obbligo di fatturazione, dovendosi infatti a tal fine considerare l’incidenza dell’imposta (inglobata nel corrispettivo) applicata in misura ordinaria236.

La comunicazione deve essere unica e comprendere tutte le tipologie di operazioni rilevanti ai fini IVA – cessioni, acquisti, prestazioni rese e ricevute – poste in essere nel periodo annuale di riferimento, ferma restando, all’interno di ciascuna comunicazione, l’annotazione autonoma delle singole operazioni, anche se effettuate tra gli stessi soggetti.

I contribuenti tenuti all’adempimento dell’obbligo di comunicazione devono poi indicare distintamente i dati di ogni singola operazione, quando sia rilevante agli effetti dell’IVA, anche nei casi in cui questa faccia parte di un’unica fattispecie negoziale (ad es., pagamenti frazionati di una fornitura o di un servizio). Agli effetti della verifica della soglia minima di rilevanza dei tremila euro, peraltro, rimane fermo il riferimento all’ammontare complessivo dell’operazione unitariamente considerata: conseguentemente, se questo è pari o superiore a tremila euro, le operazioni frazionate devono essere distintamente indicate, anche se, singolarmente considerate, il loro ammontare rimane sotto la soglia minima di riferimento.

Al fine di evitare duplicazioni di adempimenti, inoltre, nel provvedimento sono state individuate alcune operazioni escluse dall’obbligo di comunicazione, in quanto già monitorate dall’Amministrazione finanziaria attraverso altri strumenti.

Si tratta, in particolare, delle importazioni e delle esportazioni di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell’art. 8 del d.P.R. n. 633/1972, delle operazioni intercorse con operatori economici stabiliti in Paesi cc.dd. black list di cui all’art.1 del d.l. n. 40/2010237, nonché delle operazioni da comunicare all’Anagrafe tributaria a norma dell’art. 7 del d.P.R. n. 605/1973238.

In merito alle modalità e ai termini di trasmissione della comunicazione, viene stabilito che questa,

234. Devono quindi considerarsi esclusi dal nuovo obbligo i soggetti privati, e gli enti che esercitano esclusivamente attività non commerciali di carattere istituzionale; in tal senso, dovrebbe considerarsi parimenti irrilevante che i soggetti in questione siano in possesso del numero di partita IVA all’unico fine di adempiere agli obblighi relativi alle operazioni intracomunitarie.

235. In base all’art. 6, comma 5, del d.P.R. n. 633/1972, il momento di effettuazione delle operazioni – cessioni di beni e prestazioni di servizi – va individuato, rispettivamente, nella stipula dell’atto di vendita per le cessioni di beni immobili, nella consegna o spedizione per le cessioni di beni mobili, e nella data di emissione della fattura o – se anteriore – nella data del pagamento del corrispettivo, per le prestazioni di servizi.

236. Peraltro, se queste operazioni sono soggette al tributo con aliquota ridotta, o sono esenti, o non imponibili, la relativa soglia minima di rilevanza, al netto del tributo, risulta essere più alta rispetto a quella delle operazioni con obbligo di fattura.

237. Cfr. Circolari Assonime n. 32/2010, n. 35/2010 e n. 5/2011.

238. Al riguardo, peraltro, è da tenere presente che, con l’art. 7 del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70 (c.d. decreto sviluppo), sono state altresì escluse dall’obbligo di comunicazione anche le operazioni di importo pari o superiore a tremila euro, effettuate nei confronti di non soggetti passivi, il cui corrispettivo sia pagato mediante carte di credito, di debito o prepagate, emesse da operatori finanziari soggetti all’obbligo di comunicazione previsto dall’art. 7 del d.P.R. n. 605/1973.

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a regime, deve essere inviata all’Agenzia delle entrate, esclusivamente in via telematica, entro il 30 aprile dell’anno successivo a quello di riferimento.

Stante la necessità di garantire l’introduzione graduale dell’obbligo di comunicazione, da un lato, e di fornire all’Amministrazione finanziaria i dati necessari per contrastare i fenomeni di evasione e di frode di maggiore rilevanza economica, dall’altro, il provvedimento stabilisce alcune regole particolari in relazione alle operazioni rese, o ricevute, nel periodo d’imposta 2010, che riguardano l’innalzamento della soglia minima di rilevanza delle operazioni, stabilita per la sussistenza dell’obbligo della comunicazione, e l’ampliamento del termine per la trasmissione dei dati in essa contenuti.

Sotto il primo profilo, viene previsto che, per l’anno 2010, la comunicazione deve avere ad oggetto le sole operazioni soggette all’obbligo di emissione della fattura di importo non inferiore al limite di venticinquemila euro (anziché tremila euro, come previsto a regime).

Sempre nell’ottica di un’applicazione graduale del nuovo adempimento, il provvedimento ha escluso dall’obbligo di comunicazione anche le operazioni senza obbligo di emissione della fattura poste in essere nel periodo compreso tra il 1° gennaio e il 30 aprile 2011. Il monitoraggio di tale categoria di operazioni (prevalentemente dirette nei confronti dei consumatori finali239) sarebbe divenuto, quindi, operativo a partire da quelle registrate (o, in mancanza di registrazione, effettuate) dal 1° maggio 2011. Tale termine di decorrenza della disposizione, peraltro, è stato prorogato, al 1° luglio 2011, con un successivo provvedimento dell’Agenzia delle entrate240.

Sotto il secondo profilo, viene stabilito che l’invio telematico della comunicazione relativa all’anno 2010 può essere effettuato entro il più ampio termine del 31 ottobre 2011 (anziché entro il termine ordinario del 30 aprile 2011).

A partire dalle operazioni registrate (o, in mancanza di registrazione, effettuate) dal 1° gennaio 2011, la soglia minima di rilevanza dell’ammontare delle operazioni, agli effetti del nuovo adempimento, inizia ad essere quella ordinaria, e cioè, tremila euro per le operazioni documentate da fattura, e tremilaseicento euro per le operazioni senza obbligo di emissione di fattura (per quest’ultime, peraltro, limitatamente a quelle comprese nel periodo 1° luglio - 31 dicembre 2011).

Sempre a decorrere dal 2011, infine, anche la comunicazione telematica dei dati delle operazioni poste in essere nel periodo d’imposta di riferimento dovrà essere trasmessa all’Agenzia delle entrate entro il termine ordinario (quindi, per il 2011, entro il termine del 30 aprile 2012).

8.5 Limiti alla compensazione dei crediti annuali e infrannuali

Come si è già accennato, nel corso del passato biennio il legislatore si è interessato anche di combattere le frodi IVA poste in essere in ambito nazionale. In particolare, con una normativa ad hoc si è cercato di limitare il fenomeno, diffusosi negli ultimi anni, delle illegittime compensazioni dei crediti IVA, a volte risultati totalmente inesistenti.

Con l’art. 10 del d.l. n. 78/2009241, dunque, per consentire all’Amministrazione finanziaria un più efficace controllo delle compensazioni dei crediti IVA, sono stati stabiliti alcuni limiti alla possibilità dei contribuenti di compensare i crediti IVA, sia annuali che trimestrali, con le imposte, i contributi e i premi indicati nell’art. 17 del d.lgs. n. 241/1997 (c.d. compensazione “orizzontale”, o “esterna”, dei crediti IVA)242.

239. Cfr. art. 22 del d.P.R. n. 633/1972.

240. Provvedimento n. 2011/59327 del 14 aprile 2011 del Direttore dell’Agenzia delle entrate.

241. Convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102.

242. In particolare l’art. 10, comma 1, lettera a), punto 1, del d.l. n. 78/2009 ha disposto: “All’art. 17, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, è aggiunto il seguente periodo: La compensazione del credito annuale o relativo a periodi inferiori all’anno dell’imposta sul valore aggiunto, per importi superiori a 10 mila euro annui, può essere effettuata a partire dal giorno sedici del mese successivo a quello di presentazione della dichiarazione o dell’istanza da cui il credito emerge”.

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In particolare, è stato disposto che la compensazione “orizzontale” di tali crediti per un importo annuo superiore a 10 mila euro può essere effettuata solo a partire dal giorno sedici del mese successivo a quello di presentazione della dichiarazione annuale IVA, nel caso di credito annuale, oppure a quello di presentazione dell’istanza di compensazione243, nel caso di credito trimestrale.

In concreto, quindi, la compensazione dei crediti IVA annuali e trimestrali può essere effettuata solo dopo la presentazione della dichiarazione, o dell’istanza, nella quale è indicato il credito oggetto di compensazione. La finalità di tale misura è quella di consentire all’Amministrazione un controllo dei dati sui quali si fonda il credito prima che esso venga utilizzato in compensazione e, quindi, con tale modalità riscosso dal contribuente.

In relazione all’utilizzo in compensazione del credito IVA annuale, inoltre, è stato anche previsto che, se l’importo da compensare in un anno è superiore a 15 mila euro, la dichiarazione IVA annuale deve avere il visto di conformità da parte di uno dei soggetti a ciò abilitati dalla legge; nel caso di contribuenti sottoposti al controllo contabile di cui all’art. 2409-bis del codice civile, in alternativa al visto di conformità, la dichiarazione annuale deve riportare la sottoscrizione, oltre che dei rappresentanti legali o negoziali di tali contribuenti, anche dei soggetti che esercitano il controllo contabile244.

L’Agenzia delle entrate245 ha fornito chiarimenti sui soggetti che possono apporre il visto di conformità alla dichiarazione annuale IVA, e sugli effetti dell’apposizione del visto.

L’ammontare estremamente ridotto delle soglie (10 mila o 15 mila euro) al di sopra delle quali scatta il nuovo obbligo di comunicazione, da un lato, e l’onere finanziario che devono sopportare le imprese per acquisire il visto di conformità sulle proprie dichiarazioni annuali IVA, dall’altro, risultano obiettivamente di ostacolo all’utilizzazione dell’istituto della compensazione dei crediti d’imposta, che, si deve ricordare, è stato introdotto nell’ordinamento per sopperire al cronico ritardo dei rimborsi dei crediti a favore dei contribuenti.

Le modalità tecniche per l’effettuazione, con procedure telematiche, della compensazione dei crediti IVA sono state stabilite dal provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 21 dicembre 2009.

Il provvedimento ha previsto che le deleghe di versamento, modelli F24, da utilizzare per fruire della compensazione dei crediti IVA di ammontare superiore a 10 mila euro possono essere trasmesse, esclusivamente on-line, sia direttamente dai soggetti IVA (attraverso i canali telematici Entratel o Fisconline), sia per il tramite degli intermediari abilitati (attraverso il canale Entratel).

Lo stesso provvedimento ha stabilito, inoltre, che la trasmissione di tali deleghe deve essere effettuata a partire dal decimo giorno successivo a quello di presentazione delle dichiarazioni nelle quali sono indicati i crediti IVA che si intendono compensare.

Per attuare un più puntuale controllo di particolari fattispecie di compensazione dei crediti IVA, l’Agenzia delle entrate246 ha anche istituito due specifici codici che devono essere indicati nelle deleghe di versamento (modelli F24) quando i soggetti che operano la compensazione dei crediti di ammontare superiore a 10 mila euro risultano essere diversi da quelli in capo ai quali gli stessi crediti sono maturati247.

243. L’istanza è prevista dal comma 3 dell’art. 8 del d.P.R. n. 542/1999.

244. Cfr. art. 10, comma 7, del d.l. n. 78/2009.

245. Cfr. circolare n. 57/E del 23 dicembre 2009 dell’Agenzia delle entrate.

246. Cfr. risoluzione n. 286/E del 22 dicembre 2009 dell’Agenzia delle entrate.

247. In particolare, nella delega dovrà essere indicato il codice 61 nel caso in cui un soggetto che partecipa in qualità di consolidante ad un consolidato di gruppo ai fini IRES utilizzi in compensazione un credito cedutogli da un soggetto aderente al consolidato stesso; dovrà invece essere indicato il codice 62 in tutti gli altri casi in cui il soggetto in capo al quale è maturato un credito IVA è diverso da quello che lo utilizza in compensazione.

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Le nuove disposizioni hanno avuto effetto dal 1° gennaio 2010248 e, quindi, a partire dai crediti indicati nella dichiarazione annuale per l’anno 2009 e da quelli indicati nelle istanze di compensazione relative ai primi tre trimestri dell’anno 2010.

Poiché – come detto – per poter compensare i crediti IVA annuali i soggetti d’imposta devono presentare la relativa dichiarazione annuale, il legislatore, in considerazione di ciò, ha consentito249 la presentazione di tale dichiarazione in modo “autonomo”, senza cioè farla confluire nel modello UNICO. In tal modo, i soggetti che intendono compensare un credito annuale posso presentare la dichiarazione IVA fin dall’inizio dell’anno solare successivo a quello in cui il credito si è maturato.

La presentazione della dichiarazione annuale IVA entro il mese di febbraio, peraltro, esonera250 i soggetti d’imposta dall’obbligo di presentare, entro lo stesso mese, la comunicazione annuale dati IVA251.

A fronte delle illustrate restrizioni all’utilizzo in compensazione dei crediti IVA annuali e trimestrali, il d.l. n. 78/2009 ha comunque previsto la possibilità per Ministro dell’economia e delle finanze di aumentare l’importo massimo compensabile ogni anno – attualmente pari a 516.456,90 euro – fino a 700 mila euro: tale aumento dovrà essere stabilito da un apposito decreto ministeriale, a tutt’oggi, peraltro, non ancora emanato.

9. Altre disposizioni comunitarie in materia d’IVA

9.1 Nuove norme in materia di aliquote

Nel biennio considerato, nell’ambito delle disposizioni comunitarie finalizzate ad armonizzare l’assetto normativo dell’IVA, sono da segnalare alcune modifiche in tema di aliquote.

In primo luogo, la Direttiva comunitaria 2009/47/CE del 5 maggio 2009 ha modificato la Direttiva IVA per quanto riguarda le aliquote ridotte dell’imposta sul valore aggiunto252.

La Direttiva, entrata in vigore il 1° giugno 2009, consente agli Stati membri di applicare l’aliquota ridotta in via permanente ai servizi cc.dd. ad alta intensità di lavoro (fra i quali rientra anche la ristrutturazione di case d’abitazione), per i quali tale possibilità era stata prevista in via transitoria fino al 2010. L’ambito di applicazione dell’aliquota ridotta, inoltre, è stato esteso ai servizi di ristorazione e catering, e alle cessioni di libri realizzati su qualsiasi tipo di supporto fisico, non necessariamente cartaceo.

Per quanto riguarda l’Italia, in recepimento delle norme della Direttiva 2009/47/CE, la legge finanziaria per il 2010253 ha stabilito l’applicabilità – non più in via transitoria, ma permanente254 – dell’aliquota ridotta del 10 per cento per le manutenzioni ordinarie e straordinarie su fabbricati a

248. Ciò è stato confermato dall’Agenzia delle entrate con il comunicato stampa del 2 luglio 2009.

249. Cfr. art. 10, comma 1, lettera a), n. 2.1 del d.l. n. 78/2009.

250. Cfr. art. 10, comma 1, lettera a), n. 2.4 del d.l. n. 78/2009.

251. La comunicazione è disciplinata dal comma 2 dell’art. 8-bis del d.P.R. n. 322/1998.

252. Nella Direttiva è stato trasfuso il contenuto dell’accordo politico raggiunto dai ministri finanziari degli Stati membri nella riunione del Consiglio ECOFIN del 10 marzo 2009. In quella sede il Consiglio ECOFIN, al termine di un lungo dibattito, recepì, peraltro, solo parte della più ampia revisione delle aliquote ridotte prevista dalla proposta COM(2008)428, presentata dalla Commissione europea nel luglio 2008.

253. Legge 23 dicembre 2009, n. 191.

254. Cfr. art. 2, comma 11, della legge finanziaria per il 2010.

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prevalente destinazione abitativa privata255. In adeguamento delle previsioni comunitarie, potrebbero essere disposte riduzioni di aliquota per le cessioni di libri registrati su CD o CD-ROM. I servizi di ristorazione, invece, anche anteriormente alla Direttiva 2009/47/CE, erano già soggetti in ambito interno all’aliquota ridotta (10 per cento) in base alla clausola standstill, che autorizza gli Stati membri a mantenere le aliquote da essi già stabilite al 1° gennaio 1991.

Sempre in materia di aliquote, la Direttiva 2010/88/UE del 7 dicembre 2010 ha confermato fino al 31 dicembre 2015 l’applicazione dell’aliquota ordinaria IVA nella misura minima del 15 per cento, già prevista fino al 31 dicembre 2010.

Nell’adottare tale previsione, il Consiglio dell’Unione europea ha ritenuto – facendo proprie le considerazioni espresse dalla Commissione europea nella relazione di accompagnamento alla proposta di Direttiva256 – che allo stato attuale sarebbe stato prematuro stabilire un livello minimo dell’aliquota in via permanente, oppure modificare l’aliquota minima attualmente prevista, in attesa delle indicazioni su un complessivo riordino della disciplina dell’imposta che potranno trarsi dalla consultazione pubblica avviata con la pubblicazione del “Libro verde sul futuro dell’IVA”257.

Il mantenimento dell’aliquota minima ordinaria al 15 per cento per un periodo transitorio piuttosto lungo, ad avviso del Consiglio, ha la funzione di garantire la certezza del diritto, anche tenuto conto che tale misura ha assicurato finora un funzionamento accettabile del sistema. Ciò non preclude, peraltro, una revisione della misura anche prima del 2015, ove ciò fosse necessario per adattarla all’esito della nuova strategia sull’IVA.

9.2 Disposizioni in materia di fatturazione elettronica

Come si è fatto più volte presente nelle precedenti relazioni, già da alcuni anni in sede comunitaria si era avvertita sempre più l’esigenza di migliorare la disciplina dell’IVA, anche per l’abbattimento delle frontiere fiscali, nell’ottica della semplificazione e della modernizzazione degli adempimenti.

Fra tali iniziative di semplificazione e modernizzazione della normativa comunitaria rientrava anche la Direttiva 2001/115/CE del 20 dicembre 2001, finalizzata, in primo luogo, a creare – relativamente alle norme sulle modalità di emissione, trasmissione e archiviazione delle fatture elettroniche – un quadro giuridico unitario per tutti gli Stati membri. La Direttiva, inoltre, intendeva soddisfare le esigenze delle imprese, soprattutto quelle di grandi dimensioni e/o transnazionali, di “digitalizzare” l’intero processo di fatturazione, dal momento della sua formazione a quello della trasmissione alla controparte, fino a quello della sua archiviazione.

In sostanza, tale Direttiva ha inteso, da un lato, individuare le condizioni affinché un documento contabile possa essere qualificato come fattura elettronica, nonché i dati che devono obbligatoriamente essere presenti in tale documento e, dall’altro, stabilire le modalità con cui formare, trasmettere e archiviare con sistemi elettronici le fatture, eliminando in tal modo i costi di gestione delle fatture cartacee.

255. Tale agevolazione era stata disposta in via transitoria, da ultimo, fino al 2011 dalla legge finanziaria per il 2009 (Cfr. Circolare Assonime n. 5/2009).

256. Cfr. proposta della Commissione europea COM(2010)331def. del 24 giugno 2010.

257. Con la pubblicazione del “Libro verde sul futuro dell’IVA” (COM(2010)695 def. del 1°dicembre 2010) la Commissione europea ha aperto una consultazione pubblica con le parti interessate sulle regole su cui basare una riformulazione della disciplina dell’imposta. La finalità è quella di individuare una configurazione più semplice del sistema, che avrebbe il vantaggio di ridurre i costi operativi a carico dei contribuenti e delle Amministrazioni. Si avverte inoltre l’esigenza di migliorare il funzionamento del mercato unico, di ottimizzare la riscossione del tributo e di contrastare le frodi. Nel Libro verde la Commissione ha posto all’attenzione degli operatori alcune questioni che presentano aspetti di criticità sulle quali ritiene utile acquisire suggerimenti per modificare la Direttiva IVA. Esse riguardano, tra l’altro, i principi di tassazione delle operazioni intracomunitarie, il trattamento degli organismi pubblici, le esenzioni dall’imposta, le regole in materia di detrazione, l’armonizzazione delle aliquote, la riduzione delle formalità burocratiche. L’elenco proposto non è tuttavia esaustivo, e offre quindi la possibilità di prendere in considerazione altre questioni. La Commissione ha invitato gli interessati ad inviare contributi in risposta alle domande poste nel Libro verde entro il 31 maggio 2011. Sulla base delle conclusioni che si potranno trarre da questo dibattito, la Commissione prevede di presentare, entro la fine del 2011, una Comunicazione in cui individuerà i settori prioritari nei quali sarebbero opportune ulteriori misure a livello comunitario.

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Fra l’altro, la Direttiva 2001/115/CE – successivamente confluita nella Direttiva IVA – ha ammesso la trasmissione e l’archiviazione della fattura con strumenti elettronici258 a condizione che l’autenticità della sua origine e l’integrità del contenuto siano assicurate con l’apposizione sulla fattura della firma elettronica avanzata, ovvero con la trasmissione della stessa con il sistema EDI (Electronic Data Interchange).

Recependo la Direttiva – peraltro nel modo più rigoroso – la normativa nazionale259 ha stabilito che su ciascuna fattura elettronica, devono essere apposti il riferimento temporale e la firma elettronica qualificata dell’emittente o, in alternativa, deve essere utilizzato un sistema EDI di trasmissione elettronica della fattura che garantisca i predetti requisiti di autenticità e integrità.

Molte imprese nazionali, soprattutto quelle di piccola e media dimensione, non hanno però approfittato della possibilità di adottare tale innovativa procedura di fatturazione, così come accaduto, del resto, in molti altri Stati membri.

D’altra parte, come riconosciuto dalla stessa Commissione europea260, le norme che regolavano la fatturazione elettronica in Europa erano frammentarie e disomogenee all’interno di ciascuno Stato membro e la maggior parte del potenziale della fatturazione elettronica risultava ancora da sfruttare; per di più, lo scambio di fatture elettroniche rimaneva, a quanto accertato dalla Commissione, troppo complesso e costoso, soprattutto per le PMI.

La stessa soluzione adottata da alcuni Stati membri, fra i quali l’Italia, di imporre l’uso della firma elettronica per la formazione delle fatture elettroniche, aveva rallentato l’adozione di soluzioni di fatturazione elettronica transfrontaliera, stanti le diversità, accertate dalla Commissione, fra Stati membri in relazione agli obblighi giuridici applicabili alla firma elettronica.

Per favorire al massimo la diffusione delle procedure di fatturazione elettronica nell’Unione europea, il Consiglio ha adottato il 13 luglio 2010 una nuova Direttiva in materia di fatturazione, la Direttiva 2010/45/CE, con cui sono state introdotte nuove norme di notevole semplificazione delle procedure.

La Direttiva stabilisce, in primo luogo, il principio secondo cui i singoli Stati membri devono assicurare la parità di trattamento tra fatture cartacee e fatture elettroniche, garantendo che a queste ultime non vengano imposti ulteriori requisiti rispetto a quelli già previsti per le prime.

Più in particolare, al fine di eliminare gli ostacoli – sia giuridici che tecnici – che hanno precedentemente impedito la diffusione dei sistemi elettronici di fatturazione, la Direttiva, da un lato, conferma la necessità che sia garantita l’autenticità dell’origine e l’integrità del contenuto della fattura – sia essa cartacea o elettronica – e, dall’altro, pone il principio generale in base al quale “ogni soggetto passivo stabilisce il modo con cui assicurare” che la fattura abbia tali requisiti261: in definitiva, le imprese devono essere libere di inviare e ricevere fatture elettroniche con modalità scelte dalle stesse.

La Direttiva non impone, invero, ai soggetti passivi – diversamente dalla previgente normativa – di osservare specifici obblighi nel formare o nel trasmettere le fatture elettroniche: essa si limita, nello specifico, ad indicare due esempi di procedure di fatturazione che possono garantire l’autenticità dell’origine e l’integrità del contenuto della fattura.

Sono ritenuti, ad esempio, idonei a garantire i suddetti requisiti “i controlli di gestione che creino una pista di controllo affidabile tra una fattura e una cessione di beni o una prestazione di servizi”262: se, pertanto, le imprese realizzano processi interni di controllo delle operazioni soggette a fatturazione tali da garantire che le fatture corrispondano a cessioni o prestazioni realmente effettuate, gli Stati membri dovranno riconoscere a tali documenti la validità e l’efficacia della fattura.

258. Cfr. art. 233 della Direttiva IVA.

259. Cfr. art. 21 del d.P.R. n. 633/1972.

260. Cfr. documento della Commissione europea COM (2010) 712 definitivo del 2 dicembre 2010.

261. Cfr. art. 233 della Direttiva 2006/112/CE, come riformulato dalla Direttiva 2010/45/CE.

262. Cfr. nuovo art. 233, comma 1, della Direttiva IVA.

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La medesima Direttiva indica263, poi, quali meri “esempi di tecnologie che assicurano l’autenticità dell’origine e l’integrità del contenuto di una fattura elettronica”, la firma elettronica avanzata o la trasmissione elettronica dei dati (sistema EDI), purché detta trasmissione garantisca la sussistenza dei requisiti in parola.

Particolari limiti per l’emissione in via elettronica delle fatture potranno comunque essere fissati dagli Stati membri nel caso di fatture emesse da soggetti stabiliti in Paesi con i quali “non esiste alcuno strumento giuridico che disciplini la reciproca assistenza”264.

Sempre al fine di alleggerire gli obblighi amministrativi delle imprese, la nuova Direttiva prevede ulteriori disposizioni di semplificazione della procedura di fatturazione, sia cartacea che elettronica.

E’ riconosciuta265, infatti, la possibilità di emettere una fattura semplificata quando l’importo della fattura non supera 100 euro, oppure nel caso in cui si debba modificare una fattura già emessa (come nel caso, ad esempio, di una nota di accredito). Nella fattura semplificata dovranno comunque essere indicati la data di emissione, i dati identificativi del soggetto che effettua l’operazione, la natura dei beni ceduti o dei servizi resi, l’ammontare dell’IVA e, nel caso di documento modificativo di una precedente fattura, il riferimento specifico e univoco alla fattura iniziale e i dati che vengono modificati. La fattura semplificata non può, però, essere emessa per le cc.dd. “vendite a distanza”, per le cessioni intracomunitarie di beni e per le prestazioni intracomunitarie di servizi per le quali debitori dell’imposta siano i soggetti committenti.

E’ prevista266, inoltre, per le cessioni intracomunitarie di beni e per le prestazioni di servizi per le quali l’imposta è dovuta dal committente, l’emissione della fattura entro il quindicesimo giorno del mese successivo a quello in cui si è verificato il fatto generatore dell’imposta (consegna dei beni o ultimazione della prestazione).

Infine, per ridurre gli oneri finanziari delle piccole e medie imprese che spesso versano l’IVA sulle operazioni effettuate molto tempo prima di recuperarla dai propri clienti, la Direttiva consente267 agli Stati membri di riconoscere ai soggetti IVA con un ridotto volume d’affari la possibilità di differire il calcolo dell’imposta dovuta all’Erario fino al momento dell’incasso dell’imposta dovuta dai soggetti cui è stata addebitata (c.d. sistema dell’IVA per cassa); correlativamente, tali soggetti potranno operare la detrazione dell’imposta da essi assolta solo dopo il pagamento ai fornitori dei corrispettivi dei beni o dei servizi acquisiti. Tale regime opzionale potrà essere ammesso per i soggetti IVA con un volume d’affari annuo non superiore a 500 mila euro (elevabile a 2 milioni di euro, previa consultazione del Comitato IVA).

La nuova Direttiva – che è entrata in vigore l’11 agosto 2010 – dovrà essere recepita dagli Stati membri, con provvedimenti legislativi, regolamentari e amministrativi, entro il 31 dicembre 2012, per trovare concreta applicazione – in conformità all’art. 2 della medesima Direttiva – a decorrere dal 1° gennaio 2013.

Per quanto concerne la legislazione nazionale, è auspicabile che in sede di recepimento di tali disposizioni comunitarie il legislatore adotti delle soluzioni normative che soddisfino, allo stesso tempo, sia l’esigenza dell’Amministrazione finanziaria di prevenire fenomeni di evasione o di frode in materia d’IVA, sia la necessità delle imprese di semplificare le procedure di fatturazione elettronica, di rendere interoperabili le fatture elettroniche nazionali con quelle degli altri Stati membri, nonché, infine, di adottare standard operativi per la formazione e la trasmissione delle fatture che possano essere utilizzati anche dalle piccole e medie imprese.

263. Cfr. nuovo art. 233, comma 2, della Direttiva IVA.

264. Cfr. nuovo art. 235 della Direttiva IVA.

265. Cfr. nuovo art. 220-bis della Direttiva IVA.

266. Cfr. nuovo art. 222 della Direttiva IVA.

267. Cfr. nuovo art. 167-bis della Direttiva IVA.

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10. Dazi e diritti doganali

10.1 Premessa

Nella relazione per il biennio 2007-2008, avevamo rilevato che le principali novità normative intervenute nella materia doganale erano state adottate a livello comunitario, in attuazione di strategie e politiche destinate a favorire il continuo sviluppo dell’Unione europea.

Tale situazione di prevalenza del diritto doganale comunitario, rispetto a quello nazionale, ha ormai da tempo assunto carattere strutturale, protraendosi anche nel biennio oggetto della presente relazione.

Come diremo più diffusamente nei prossimi paragrafi, due sono le principali direttrici su cui si è sviluppata la materia doganale in ambito comunitario negli anni 2009 e 2010: una direttrice, de jure condendo, costituita dal processo di elaborazione in seno agli organi comunitari delle norme che consentiranno – al più tardi, nel 2013 – la piena applicazione del nuovo codice doganale comunitario, adottato per tenere conto dei notevoli mutamenti intervenuti nel commercio internazionale, dell’espansione dell’uso delle tecnologie informatiche e della continua evoluzione dell’attività doganale; l’altra direttrice, de jure condito, è riconoscibile nelle ulteriori modifiche apportate alle disposizioni di applicazione del codice doganale comunitario tuttora vigente, volte principalmente a garantire un elevato e uniforme livello di efficienza e sicurezza nei controlli doganali alle frontiere comunitarie268.

A livello nazionale, la principale novità intervenuta nel biennio 2009-2010 è costituita – come si dirà – dall’emanazione del Regolamento applicativo del c.d. Sportello Unico doganale, che renderà finalmente operativo il sistema di cooperazione e coordinamento tra le Amministrazioni e gli Enti che intervengono nelle operazioni doganali, nell’ottica di semplificare le procedure doganali e ridurre gli oneri gravanti sugli operatori.

10.2 Sviluppi della materia doganale in ambito comunitario

In linea generale, le principali novità del biennio 2009-2010 intervenute a livello comunitario in materia doganale hanno avuto lo scopo di semplificare la legislazione, razionalizzare le procedure e dotare le dogane degli strumenti necessari per potenziare i controlli sulle merci, anche mediante sistemi informatizzati.

Tali obiettivi risultano coerenti con la strategia per l’evoluzione dell’Unione doganale, adottata dalla Commissione europea nel 2008269, che tiene conto della notevole trasformazione delle attività doganali dovuta, nell’attuale fase di globalizzazione, al considerevole aumento del volume degli scambi commerciali internazionali e allo sviluppo di nuovi schemi di produzione e consumo.

Le attività doganali risultano, infatti, volte non più soltanto alla riscossione dei dazi e delle imposte sulle importazioni (IVA e accise), ma, sempre più spesso, anche all’applicazione di misure non tariffarie – ad es., quelle riguardanti la sicurezza e la lotta contro le merci contraffatte, il riciclaggio del denaro e il traffico di stupefacenti – e di misure in materia di igiene, salute, ambiente e protezione dei consumatori. In tale contesto, le autorità doganali assumono un ruolo chiave nella tutela degli interessi finanziari della Comunità europea e degli Stati membri, nel sostegno alle attività commerciali

268. Tali modifiche normative sono state emanate principalmente in attuazione del c.d. emendamento sicurezza, apportato al vigente codice doganale comunitario e alle relative disposizioni di applicazione – rispettivamente – dal regolamento (CE) n. 648/2005, del 13 aprile 2005 e dal regolamento (CE) n. 1875/2006, del 18 dicembre 2006.

269. Il riferimento è alla Comunicazione “Strategia per l’evoluzione dell’Unione doganale” – COM(2008) 169, del 1° aprile 2008 – pubblicata dalla Commissione europea in occasione delle celebrazioni per il 40° anniversario dell’Unione doganale, istituita il 1° luglio 1968. Tale strategia è stata elaborata in funzione del completamento del mercato interno e del sostegno alla competitività delle imprese operanti in Europa.

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legittime, nella repressione del commercio sleale e illegale e nella garanzia della sicurezza della Comunità e dei suoi residenti.

In tale quadro strategico di riferimento, si inseriscono i progressi compiuti nel biennio appena trascorso dagli Uffici della Commissione europea incaricati di elaborare le disposizioni attuative del nuovo codice doganale comunitario, adottato nel 2008270 ma non ancora applicabile.

Il nuovo codice doganale è destinato a sostituire il vigente codice, adottato nel 1992271, divenuto ormai inadeguato rispetto ai notevoli mutamenti intervenuti nel commercio internazionale, all’espansione dell’uso delle tecnologie informatiche e alla continua evoluzione dell’attività doganale.

Il codice doganale aggiornato, pur essendo entrato in vigore il 24 giugno 2008, sarà operativo solo quando entreranno in vigore le relative disposizioni attuative e, comunque, “… al più tardi il 24 giugno 2013”272.

Nel biennio oggetto della presente relazione, sono divenuti operativi anche alcuni progetti rientranti nel piano strategico pluriennale approvato dall’Unione europea nel 2008273 con lo scopo di realizzare “sistemi doganali elettronici sicuri, integrati, interoperabili e accessibili”: in tale prospettiva, sono previste una serie di iniziative da attuare e di scadenze da rispettare per creare un portale informatico comune (c.d. dogana elettronica paneuropea), al fine di facilitare le comunicazioni tra operatori e autorità doganali e consentire uno scambio di informazioni più rapido ed efficace tra le autorità doganali europee. In tale contesto, è operativo – dal 1° luglio 2009 – il sistema unico di registrazione e identificazione, a livello comunitario, dei soggetti (persone fisiche o giuridiche) che intervengono nelle operazioni doganali (c.d. sistema EORI, Economic Operators’ Registration and Identification)274.

Nell’ambito delle misure volte a realizzare sistemi informatici di controllo delle operazioni doganali di esportazione e di transito, è da evidenziare che dal 1° luglio 2009 hanno preso avvio la seconda fase del progetto ECS (Export Control System)275 e la quarta fase del progetto NCTS (New Computerised Transit System)276. Dalla predetta data, quindi, le dichiarazioni di esportazione e di esportazione abbinata al transito comunitario delle merci, in procedura ordinaria e di domiciliazione, devono essere presentate in via telematica; del pari, dalla stesa data, i cc.dd. “dati sicurezza” – vale a dire, i dati ritenuti necessari per consentire l’analisi dei rischi, ai fini della sicurezza, delle operazioni doganali – devono essere inseriti nelle predette dichiarazioni e nelle dichiarazioni di solo transito comunitario delle merci, in procedura ordinaria e semplificata277.

270. Il riferimento è al Regolamento (CE) n. 450/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008, che istituisce il codice doganale comunitario (c.d. codice doganale aggiornato).

271. Il riferimento è al codice doganale comunitario istituito con il Regolamento (CEE) n. 2913/92, del 12 ottobre 1992.

272. Cfr. art.188 del Regolamento (CE) n. 450/2008.

273. Il riferimento è alla Decisione n. 70/2008/CE del 15 gennaio 2008, del Parlamento europeo e del Consiglio, per la realizzazione di un sistema doganale informatizzato e privo di supporti cartacei.

274. Nell’ambito del sistema EORI, ciascuno Stato membro attribuisce un codice unico di registrazione e di identificazione (c.d. codice EORI), valido in tutta la Comunità, ai soggetti stabiliti sul proprio territorio, nonché ai soggetti di Paesi Terzi che per la prima volta effettuano nel territorio comunitario un’operazione rilevante ai fini doganali.

275. Cfr. Circolari Assonime n. 29/2007 e n. 42/2007. E’ appena il caso di ricordare che, nell’ambito della prima fase del sistema ECS, si era reso necessario adottare – a livello comunitario – una procedura per la chiusura delle operazioni di esportazione aperte tra il 1° luglio 2007 e il 30 giugno 2009 e per le quali i termini di “appuramento” erano infruttuosamente scaduti: le relative istruzioni sono state diramate dall’Agenzia delle dogane con il comunicato stampa del 20 maggio 2009 e con le note n. 88970 del 30 giugno 2009, n. 169792 del 23 dicembre 2009 e n. 29141 del 29 aprile 2010.

276. Cfr. Circolare Assonime n. 14/2007.

277. L’Agenzia delle dogane ha diramato apposite istruzioni per preparare gli operatori economici all’introduzione degli obblighi soprarichiamati, connessi alle operazioni di esportazione e di transito, con la nota n. 75522 del 19 giugno 2009, con la circolare n. 15/D del 23 giugno 2009 e con la nota n. 88970 del 30 giugno 2009. Si segnala che, con quest’ultima nota, è stata illustrata la procedura (follow up) con cui gli uffici di esportazione possono, in presenza di determinate condizioni, attivarsi per la chiusura delle operazioni di esportazione gestite con il sistema ECS-fase 2; ulteriori precisazioni sulla procedura in questione sono state fornite dall’Agenzia delle dogane con le note n. 166840 del 16 dicembre 2009 e n. 29141 del 29 aprile 2010.

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Dal 1° gennaio 2011, infine, è divenuta obbligatoria la presentazione in formato elettronico delle dichiarazioni sommarie di entrata (ENS, Entry Summary declaration) e di uscita (EXS, EXit Summary declaration) delle merci, volte a costituire un quadro comunitario di riferimento per l’analisi e la gestione del “rischio”278. L’obbligo di presentare in formato elettronico tali dichiarazioni risponde all’esigenza di raccogliere tempestivamente informazioni preliminari per tutte le merci che entrano nel territorio doganale della Comunità, o ne escono: ciò, al fine di concentrare i controlli sulle operazioni che presentano maggiori rischi e di velocizzare le procedure di controllo ordinarie279.

10.3 Modifiche alle disposizioni di applicazione del codice doganale comunitario

In ambito normativo, nel corso dell’ultimo biennio sono state apportate significative modifiche alle disposizioni di applicazione del codice doganale comunitario tuttora vigente280, istituito dal Regolamento (CEE) n. 2913/92 del 12 ottobre 1992.

Le modifiche rispondono essenzialmente alla duplice esigenza di: i) modernizzare, semplificare e armonizzare le procedure doganali, mediante il ricorso alle dichiarazioni elettroniche e allo scambio di dati in via telematica, rispetto alle dichiarazioni su carta e alla trasmissione di documenti cartacei (programma e-Customs); ii) dotare le dogane degli strumenti necessari per potenziare i controlli sulle merci, al fine di garantire un livello di protezione elevato e uniforme di tutti i punti della frontiera esterna della Comunità contro minacce criminali e terroristiche, rischi per la salute e la sicurezza pubblica, etc. (programma sicurezza).

Con il Regolamento del 30 aprile 2009281, sono state introdotte alcune novità connesse con l’avvio – dal 1° luglio 2009 – della seconda fase del progetto ECS (Export Control System) e della quarta fase del progetto NCTS (New Computerised Transit System), richiamate nel precedente paragrafo. In particolare, sono stati adeguati i documenti di accompagnamento delle merci in regime di transito e di esportazione, per includervi i dati richiesti per rafforzare la sicurezza (cc.dd. “dati sicurezza”)282, e sono state anche previste procedure cartacee, alternative alle normali procedure informatiche, per consentire alle autorità doganali di ottenere le informazioni necessarie in tema di sicurezza anche qualora non funzionino i sistemi informatici doganali o i sistemi informatici dei soggetti che presentano la dichiarazione.

Un’importante innovazione è stata introdotta dal Regolamento del 1° marzo 2010283, che ha previsto alcune ipotesi di esenzione dall’obbligo di registrazione degli operatori economici, ai fini dell’attribuzione del codice EORI (Economic Operators’ Registration and Identification: v. il precedente paragrafo): tali esenzioni interessano gli operatori non stabiliti nel territorio doganale della Comunità che presentano dichiarazioni relative ai regimi dell’ammissione temporanea e del transito comunitario delle merci. Con riferimento a quest’ultimo regime, peraltro, l’esenzione è limitata ai soli casi nei quali la dichiarazione di transito non contenga le informazioni richieste per rafforzare la sicurezza (cc.dd. “dati sicurezza”).

Modifiche alle disposizioni di applicazione del codice doganale comunitario del 1992, relative ai

278. Il concetto di “rischio” è da intendersi, in tale contesto, come “la probabilità che possa verificarsi un evento … che impedisca la corretta applicazione di misure comunitarie o nazionali, o metta a repentaglio gli interessi finanziari della Comunità e dei suoi Stati membri, o costituisca una minaccia per la sicurezza della Comunità, per la salute pubblica, per l’ambiente o per i consumatori”. In questi termini, v. l’art. 4, n. 25, del reg. n. 2913/92, introdotto dal Regolamento (CE) n. 648/2005, del 13 aprile 2005.

279. Le istruzioni operative relative alla trasmissione telematica delle dichiarazioni sommarie, di entrata e di uscita, sono state fornite dall’Agenzia delle dogane con la nota n. 166163 del 27 dicembre 2010. Chiarimenti nella materia sono stati forniti dalla medesima Agenzia con le circolari n. 18/D del 29 dicembre 2010 e n. 19/D del 30 dicembre 2010.

280. Cfr. Regolamento (CEE) n. 2454/93, del 2 luglio 1993.

281. Cfr. Regolamento (CE) n. 414/09, del 30 aprile 2009.

282. Cfr. Regolamento (CEE) n. 2454/93, del 2 luglio 1993, all. 30-bis.

283. Cfr. Regolamento (CE) n. 169/10, del 1° marzo 2010. Le novità introdotte da tale Regolamento sono state illustrate dall’Agenzia delle dogane con la nota n. 85800 del 24 giugno 2010.

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collegamenti marittimi regolari, sono state apportate con il Regolamento del 2 marzo 2010284. Le modifiche, concernenti le merci trasportate tra porti situati nel territorio doganale della Comunità, sono state adottate allo scopo di semplificare i compiti sia degli operatori economici che delle amministrazioni doganali. Tali modifiche si inseriscono nel progetto comunitario di creazione di uno spazio europeo marittimo senza frontiere: a tal fine, il Regolamento in parola istituisce una nuova procedura di autorizzazione dei collegamenti marittimi regolari e di registrazione delle navi, basata sull’utilizzo del sistema elettronico europeo di informazione e comunicazione, già impiegato dalla Commissione e dagli Stati membri per il rilascio dei certificati AEO (Authorized Economic Operator, Operatore Economico Autorizzato)285 agli operatori che effettuano operazioni regolate dalla legislazione doganale.

Relativamente al certificato AEO, il Regolamento del 9 marzo 2010286 ha modificato le disposizioni che regolano la procedura per il riconoscimento dello status di Operatore Economico Autorizzato, prevedendo il prolungamento – da 90 a 120 giorni – del termine per il rilascio del certificato AEO, o per il rigetto della domanda, con la possibilità di prorogare il predetto termine di ulteriori 60 giorni per consentire alle autorità doganali di completare la procedura: la modifica è finalizzata a “garantire un funzionamento fluido del sistema AEO dal 1° gennaio 2010”, data dalla quale si applica il regolamento in parola.

Hanno trovato applicazione dal 1° gennaio 2011 alcune nuove disposizioni, introdotte con il Regolamento del 20 maggio 2010287, relative alla procedura doganale di esportazione e ad alcuni profili applicativi connessi con le misure doganali di sicurezza.

Dal 1° gennaio 2011 sono entrate in vigore le nuove regole in materia di origine delle merci applicabili ai prodotti importati dai Paesi in via di sviluppo nell’ambito del sistema di preferenze tariffarie generalizzate (SPG) previsto dall’Unione europea. Le nuove regole – introdotte dal Regolamento del 18 novembre 2010288 – prevedono procedure semplificate e meno rigorose per consentire che i prodotti originari dei Paesi in via di sviluppo possano effettivamente trarre vantaggio dalle preferenze tariffarie concesse dalla Comunità, assicurando comunque, nel contempo, l’effettuazione dei controlli necessari per prevenire le frodi.

10.4 Novità intervenute in ambito nazionale

Venendo alle novità intervenute in ambito nazionale nel corso del biennio in considerazione, si segnala l’emanazione del provvedimento289 che definisce i profili applicativi del c.d. Sportello Unico doganale.

284. Cfr. Regolamento (CE) n. 177/10, del 2 marzo 2010. Le novità introdotte da tale Regolamento sono state illustrate dall’Agenzia delle dogane con la nota n. 26466 del 26 marzo 2010.

285. Il certificato AEO attesta il possesso di requisiti e condizioni – quali, ad es., la comprovata osservanza degli obblighi doganali, un sistema di gestione delle scritture commerciali che consenta adeguati controlli doganali, nonché una comprovata solvibilità finanziaria – tali da attribuire, al soggetto che svolge attività regolate dalla legislazione doganale (ad es. importatore, esportatore, etc.) residente nel territorio doganale dell’UE, uno status di affidabilità doganale a livello europeo, con conseguente applicabilità di semplificazioni in materia doganale e/o di sicurezza. Il riconoscimento dello status di AEO risponde, in sostanza, all’esigenza di uniformare in ambito comunitario il concetto di “affidabilità” che, unitamente al rispetto di determinati standard di sicurezza, consente di individuare operatori considerati “affidabili” e/o “sicuri” nella catena logistica internazionale.

286. Cfr. Regolamento (CE) n. 197/10, del 9 marzo 2010.

287. Cfr. Regolamento (CE) n. 430/10, del 20 maggio 2010. Le novità introdotte da tale Regolamento sono state illustrate dall’Agenzia delle dogane con le circolari n. 18/D del 29 dicembre 2010 e n. 19/D del 30 dicembre 2010.

288. Cfr. Regolamento (CE) n. 1063/10, del 18 novembre 2010, che ha modificato gli articoli da 67 a 97 del Regolamento (CEE) n. 2454/93 contenenti le regole d’origine SPG. Le novità introdotte dal Regolamento n. 1063/10 sono state illustrate dall’Agenzia delle dogane con la nota n. 151552 del 25 novembre 2010.

289. Cfr. decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 242 del 4 novembre 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 10 del 14 gennaio 2011, recante la “Definizione dei termini di conclusione dei procedimenti amministrativi che concorrono all’assolvimento delle operazioni doganali di importazione ed esportazione”.

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L’istituzione dello Sportello Unico presso gli uffici dell’Agenzia delle dogane è stata prevista dalla legge Finanziaria per il 2004290, allo scopo di “semplificare le operazioni di importazione ed esportazione e per concentrare i termini delle attività istruttorie, anche di competenza di amministrazioni diverse, connesse alle predette operazioni”. In sostanza, lo Sportello Unico doganale realizza un sistema di cooperazione e di coordinamento tra il sistema informativo dell’Agenzia delle dogane e quello degli Enti e delle Amministrazioni che intervengono nelle operazioni doganali, concedendo autorizzazioni, permessi, licenze o effettuando controlli diversi da quello doganale. I vantaggi derivanti dall’istituzione dello Sportello Unico consistono nel superamento delle frammentazioni che derivano dalla suddivisione delle diverse competenze, nella razionalizzazione e accelerazione dei flussi di informazioni e nell’attuazione di un sistema integrato di controlli, che dovrebbe assicurare un risparmio di tempo e di costi per gli operatori.

L’attivazione dello Sportello Unico doganale dovrà essere ultimata entro il 27 luglio 2011291.

11. Accise

11.1 Premessa

Nel settore delle accise, armonizzato a livello comunitario, il biennio appena trascorso è stato caratterizzato dall’entrata in vigore – il 1° aprile 2010 – del nuovo regime generale delineato dalla direttiva 2008/118/CE e dalle relative norme di recepimento nel nostro ordinamento.

Come già rilevato nella relazione per il biennio 2007-2008, la Direttiva 2008/118/CE ha operato un’ampia revisione della disciplina che regola i profili generali nella materia delle accise e che definisce il regime comune in tema di detenzione, circolazione e controlli dei prodotti sottoposti a tassazione. Tale intervento riformatore intende migliorare il funzionamento del mercato interno, accrescendo la trasparenza negli scambi intracomunitari e semplificando le procedure per la circolazione dei prodotti sottoposti ad accisa, nonché rendere ancora più effettiva l’armonizzazione dei sistemi impositivi nazionali, ponendo i presupposti per una più efficace e trasparente applicazione e riscossione del tributo.

La principale novità prevista dalla Direttiva del 2008 e dalle relative norme interne di recepimento consiste nel ricorso alle tecnologie informatiche per il monitoraggio della circolazione dei prodotti sottoposti ad accisa.

In tale contesto innovativo, si segnala che dal 1° gennaio 2011 è divenuta obbligatoria l’adozione del documento amministrativo in formato elettronico, che deve scortare la circolazione dei prodotti in regime sospensivo – per i quali, cioè, il tributo non è stato ancora assolto – in sostituzione del precedente documento di accompagnamento, emesso in formato cartaceo.

In occasione del recepimento della Direttiva del 2008, il legislatore nazionale ha compiuto un’ampia revisione delle disposizioni generali previste nel Testo Unico delle Accise, intervenendo anche sulla struttura del Testo Unico per renderla più completa e organica mediante l’inserimento della disciplina sui tabacchi lavorati – da tempo armonizzata, peraltro, a livello comunitario – e delle vigenti disposizioni in materia di imposta di fabbricazione sui fiammiferi.

Nel rinnovato Testo Unico trovano spazio anche le modifiche alle disposizioni nazionali in materia di imposizione sugli oli lubrificanti, introdotte nel 2009 per adeguare il quadro normativo interno a

290. Cfr. art. 4, commi da 57 a 60, della legge 24 dicembre 2003, n. 350.

291. L’art. 7 del d.P.C.M. n. 242 del 2010 stabilisce, al riguardo, che “lo sportello unico doganale viene attivato entro centottanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto”.

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quello comunitario.

In una prospettiva de jure condendo, merita da ultimo richiamare la proposta di revisione del regime di tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità, presentata in ambito comunitario nel mese di aprile 2011.

11.2 Nuovo regime generale delle accise: modifiche al Testo Unico nazionale

In ambito nazionale, nel corso del biennio di riferimento, notevole rilievo assume il recepimento nel nostro ordinamento del nuovo regime generale delle accise, previsto dalla Direttiva 2008/118/CE, del 16 dicembre 2008.

La direttiva ha operato la rifusione delle disposizioni che regolano i profili generali della materia delle accise in ambito comunitario, precedentemente contenute nella Direttiva 92/12/CEE292, non limitandosi peraltro ad una mera revisione formale del testo della Direttiva del 1992, volta ad aggiornarne il linguaggio e a migliorarne la struttura, ma compiendo piuttosto un intervento più ampio di razionalizzazione, semplificazione e modernizzazione degli istituti e delle procedure relativi all’accisa.

La principale novità prevista dalla Direttiva del 2008 riguarda l’informatizzazione del sistema di monitoraggio dei movimenti e dei controlli dei prodotti in regime sospensivo293 – per i quali, cioè, il tributo non è stato ancora assolto – volta, da un lato, a semplificare gli adempimenti degli operatori, eliminando la documentazione cartacea; dall’altro, a consentire controlli più rapidi e efficaci da parte delle Amministrazioni nazionali294.

Il nuovo regime generale delle accise previsto dalla Direttiva 2008/118/CE è stato, dunque, recepito nel nostro ordinamento con il decreto legislativo 29 marzo 2010, n. 48 – emanato in attuazione della delega conferita al Governo con la legge Comunitaria 2008295 – entrato in vigore il 1° aprile 2010296.

Le principali misure introdotte dal d.lgs. n. 48/2010 hanno interessato le disposizioni in materia di accise – riportate nel Capo I (artt. da 1 a 20) del Testo Unico delle Accise (TUA)297 – che riguardano i profili generali, sostanziali e procedurali, relativi all’applicazione del tributo come, ad es., l’ambito di applicazione, il fatto generatore e l’esigibilità del tributo; l’accertamento, la liquidazione e il pagamento dell’imposta; la detenzione e la circolazione dei prodotti; i rimborsi, le esenzioni, i controlli.

Sotto il profilo sistematico, si osserva che, in occasione del recepimento della Direttiva del 2008, il legislatore delegato ha anche provveduto a rendere più completo e organico il Testo Unico delle Accise, mediante l’inserimento – in un’apposita nuova partizione (Capo III-bis, artt. da 39-bis a 39-duodecies) – della disciplina sui tabacchi lavorati e l’introduzione – nei nuovi articoli 62-bis e 62-ter – delle vigenti disposizioni in materia di imposta di fabbricazione sui fiammiferi.

292. Il riferimento è alla Direttiva 92/12/CEE del Consiglio, del 25 febbraio 1992, relativa al regime generale, alla detenzione, alla circolazione e ai controlli dei prodotti soggetti ad accisa.

293. In tal senso, la direttiva del 2008 ha recepito i contenuti della Decisione del Parlamento europeo e del Consiglio n. 1152/2003/CE, del 16 giugno 2003, che ha istituito un sistema di informatizzazione dei movimenti e dei controlli dei prodotti soggetti ad accisa (EMCS, Excise Movement and Control System).

294. Con il Regolamento (CE) n. 684/2009, del 24 luglio 2009, sono state emanate le disposizioni di attuazione della direttiva del 2008, relative alle procedure informatizzate di circolazione dei prodotti in sospensione d’imposta, che hanno tra l’altro previsto l’abrogazione del regolamento (CEE) n. 2719/92, dell’11 settembre 1992, che stabiliva la forma e il contenuto del documento amministrativo di accompagnamento in formato cartaceo (DAA).

295. Il riferimento è alla legge 7 luglio 2009, n. 88 (cosiddetta “Comunitaria 2008”), che è stata illustrata – per i profili attinenti alla materia fiscale – con la Circolare Assonime n. 42/2009.

296. Il d.lgs. n. 48/2010 è entrato in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale n. 75 del 31 marzo 2010 (si veda, in tal senso, l’art. 5 del d.lgs. n. 48/2010).

297. Il testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative (c.d. Testo Unico delle Accise, TUA) è stato emanato con il decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 (in Circolare Assonime n. 3/1996).

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11.3 Telematizzazione delle procedure di circolazione dei prodotti in regime sospensivo

Le suddette novità intervenute a livello comunitario in materia di telematizzazione delle procedure di circolazione dei prodotti in regime sospensivo sono state recepite, in particolare, attraverso una riformulazione dell’art. 6 del Testo Unico delle Accise.

Il riformulato art. 6 prevede, tra l’altro, l’istituzione del documento amministrativo elettronico (c.d. e-AD, electronic Administrative Document), che deve scortare la circolazione in regime sospensivo dei prodotti sottoposti ad accisa, in sostituzione del documento di accompagnamento precedentemente emesso in formato cartaceo. Tale innovazione è destinata a rendere più trasparenti e sicure le transazioni commerciali effettuate nel mercato interno, semplificando la circolazione intracomunitaria dei prodotti sottoposti ad accisa e consentendo agli Stati membri di effettuare in tempo reale controlli più rapidi ed efficaci.

L’adozione del documento amministrativo di accompagnamento in formato elettronico rientra, peraltro, in un più ampio programma di interventi normativi (c.d. telematizzazione delle accise), volto a rendere più efficiente la gestione delle procedure connesse all’accertamento e alla riscossione delle accise, mediante l’introduzione dell’obbligo di porre in essere determinati adempimenti in forma esclusivamente telematica298.

Nell’ambito di tale programma nazionale, è stata emanata la determinazione del Direttore dell’Agenzia delle dogane n. 38869 del 1° aprile 2010299, che ha fissato i termini di decorrenza degli obblighi di presentazione in forma esclusivamente telematica dei documenti di accompagnamento, stabilendo fra l’altro che l’adozione del documento amministrativo in formato elettronico, per la circolazione dei prodotti in regime sospensivo, “è obbligatoria a decorrere dal 1° gennaio 2011”300.

Con la successiva determinazione direttoriale n. 158235 del 7 dicembre 2010, sono state dettate le modalità per l’adempimento dell’obbligo di presentazione del documento amministrativo elettronico (e-AD)301, a parziale modifica delle disposizioni contenute nel decreto ministeriale 23 marzo 1996, n. 210302.

11.4 Modifiche alle disposizioni nazionali in materia di imposizionesugli oli lubrificanti

Tra le novità intervenute, a livello nazionale, nel settore delle accise nel corso del biennio 2009-2010, devono essere segnalate anche le modifiche alla disciplina applicabile agli oli lubrificanti introdotte

298. Nell’ordinamento nazionale, il progetto di telematizzazione delle accise – delineato con la Manovra finanziaria per il 2007 (Cfr. art. 1, comma 1, del d.l. n. 262/2006, in Circolare Assonime n. 15/2007, par. 1) – ha interessato anche altri adempimenti in materia di accise, quali la presentazione dei dati relativi alla contabilità degli operatori e delle dichiarazioni annuali di consumo per il gas naturale e l’energia elettrica.

299. Più precisamente, la determinazione del 1° aprile 2010 ha rimodulato i termini di decorrenza originariamente stabiliti dalla determinazione direttoriale n. 46083 del 1° aprile 2009, anche al fine di consentire il prolungamento della fase di sperimentazione a beneficio degli operatori.

300. La determinazione del 1° aprile 2010 ha anche stabilito che, per i documenti che accompagnano la circolazione dei prodotti che hanno già assolto il debito d’imposta, l’obbligo di presentazione in forma esclusivamente telematica decorre dal 1° gennaio 2012.

301. Con la circolare n. 16/D del 21 dicembre 2010 e la nota n. 156606 del 22 dicembre 2010, l’Agenzia delle dogane ha fornito le istruzioni operative in merito alle modalità di adempimento dell’obbligo di presentazione del documento amministrativo elettronico (e-AD), stabilite dalla citata determinazione direttoriale n. 158235 del 2010, nonché per l’applicazione delle procedure informatizzate relative alla circolazione in regime sospensivo dei prodotti sottoposti ad accisa.

302. Le norme del decreto ministeriale 23 marzo 1996, n. 210 – volte ad estendere alla circolazione nello Stato le disposizioni relative alla circolazione intracomunitaria dei prodotti soggetti al regime delle accise – sono state illustrate dall’Assonime con la circolare n. 56/1996.

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dalle disposizioni dell’art. 13 del d.l. n. 135/2009303.

Le modifiche principali riguardano, in particolare, il trattamento fiscale degli oli lubrificanti recuperati dal processo di rigenerazione degli oli usati già immessi in consumo – i cc.dd. oli lubrificanti rigenerati – previsto dall’art. 62 del Testo Unico delle Accise304. Nella formulazione precedente all’intervento legislativo in esame, tale norma stabiliva un regime di tassazione agevolata per “gli oli lubrificanti e gli altri prodotti energetici ottenuti congiuntamente dalla rigenerazione di oli usati, derivanti da oli, a base minerale o sintetica, già immessi in consumo”, che erano infatti sottoposti ad imposta “in misura pari al 50 per cento dell’aliquota normale prevista per gli oli di prima distillazione …”.

L’intervento operato con il d.l. n. 135/2009 risponde principalmente all’esigenza di superare i rilievi formulati in materia dalla Commissione europea – nell’ambito della procedura di infrazione n. 2004/2190, che ha portato al deferimento dello Stato italiano dinanzi alla Corte di Giustizia (v. causa C-572/08) – adeguando quindi il quadro normativo nazionale a quello comunitario.

In tal senso, l’art. 13 del d.l. n. 135/2009 prevede, in primo luogo, la soppressione della norma interpretativa, introdotta dalla legge Finanziaria per il 2006305, che limitava l’ambito di applicazione del regime di tassazione agevolata degli oli lubrificanti rigenerati ai soli “oli usati raccolti in Italia”. Secondo la Commissione europea, invero, tale norma interpretativa introduceva profili discriminatori nella disciplina agevolativa, favorendo di fatto le produzioni nazionali a discapito di quelle provenienti da altri Stati membri.

Le disposizioni dell’art. 13 del d.l. n. 135/2009 hanno provveduto poi a ridefinire il regime di tassazione delineato dal citato art. 62 del TUA, nel senso di prevedere l’applicazione – sia agli oli lubrificanti rigenerati, sia agli oli lubrificanti di prima distillazione – di un’aliquota unica di imposta, fissata nella misura di euro 750 per mille chilogrammi di prodotto: misura, quindi, inferiore rispetto a quella (euro 842) in precedenza prevista per gli oli lubrificanti di prima distillazione, ma maggiore di quella (euro 421) applicata precedentemente agli oli lubrificanti rigenerati.

Nella nuova formulazione dell’art. 62 del TUA è, inoltre, previsto che per i prodotti energetici ottenuti nel processo di rigenerazione congiuntamente agli oli lubrificanti trovano applicazione le disposizioni dell’art. 21 del TUA, che stabilisce la tassazione ordinaria dei prodotti energetici.

11.5 Prospettive di riforma del regime comunitario di tassazione dell’energia

Nel biennio appena trascorso, la principale novità intervenuta a livello comunitario nel settore delle accise riguarda la proposta di revisione della direttiva sulla tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità306, pubblicata dalla Commissione europea il 13 aprile 2011307.

L’iniziativa rientra nell’ambito dell’ampia e articolata strategia (c.d. Europa 2020) elaborata dalla Commissione per trasformare l’Unione europea “in un’economia intelligente, sostenibile e inclusiva

303. Il riferimento è al decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166.

304. Nella formulazione in vigore dal 26 settembre 2009 (data di entrata in vigore del d.l. n. 135/2009) al 31 marzo 2010, il trattamento fiscale degli oli lubrificanti rigenerati era previsto dal comma 5 dell’art. 62 del TUA; in occasione del recepimento della direttiva 2008/118/CE, ad opera del d.lgs. n. 48/2010 (in vigore dal 1° aprile 2010), il testo dell’art. 62 del TUA ha formato oggetto di modifiche, che non hanno tuttavia riguardato la disciplina che qui interessa, che ora è riportata dal comma 4 dell’art. 62.

305. Cfr. art. 1, comma 116, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (in Circolare Assonime n. 6/2006, par. 6).

306. Il riferimento è alla Direttiva 2003/96/CE, del 27 ottobre 2003, recepita nel nostro ordinamento con il decreto legislativo 2 febbraio 2007, n. 26, entrato in vigore il 1° giugno 2007 (in Circolare Assonime n. 68/2007).

307. Il 13 aprile 2011, la Commissione europea ha pubblicato la Comunicazione “Un’imposizione fiscale più intelligente dell’energia nell’UE” (COM(2011) 168 def.) e la proposta di revisione della “direttiva 2003/96/CE, che ristruttura il quadro comunitario per la tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità” (COM(2011) 169 def.).

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caratterizzata da alti livelli di occupazione, produttività e coesione sociale”308.

In generale, la proposta di revisione è volta ad allineare i criteri di tassazione dell’energia con gli obiettivi perseguiti, a livello comunitario, dalle politiche in materia di energia e cambiamenti climatici309: in tale prospettiva, essa intende promuovere il ricorso alle fonti rinnovabili di energia e incoraggiare il consumo di fonti energetiche che rilasciano meno emissioni di anidride carbonica (CO2)310, favorendo nel contempo la riduzione delle emissioni di gas serra mediante la previsione di un quadro normativo armonizzato, nel mercato comune, per la tassazione dei prodotti energetici che emettono CO2, destinato a integrarsi con il sistema di scambio delle quote di emissioni di gas ad effetto serra all’interno dell’Unione europea (c.d. ETS, Emission Trading System)311.

L’elemento principale della proposta di revisione del regime comunitario di tassazione dell’energia consiste nella scissione dell’aliquota d’imposta sui prodotti energetici in due parti: una, basata sulle emissioni di CO2 rilasciate; l’altra, basata sul contenuto energetico (ossia, sulla quantità di energia effettivamente generata) misurata in giga joule (GJ). Tale innovazione comporterà, quindi, l’applicazione di un regime di tassazione più vantaggioso per le fonti di energia meno inquinanti (cioè, a basse emissioni di carbonio)312 e, nel contempo, premierà il risparmio di energia e le modalità di consumo più efficienti.

Per concedere agli Stati membri e agli operatori del settore il tempo necessario per adeguarsi al nuovo regime fiscale, la proposta normativa prevede un’articolata disciplina transitoria volta a consentire, entro il 2023, la graduale introduzione dei nuovi criteri di tassazione dell’energia.

ACCERTAMENTO, RISCOSSIONE, SANZIONI

12. Premessa

Come già accennato in premessa, nel decorso biennio si sono succeduti diversi provvedimenti che hanno apportato rilevanti modifiche e innovazioni in materia di accertamento e riscossione delle imposte sui redditi e dell’IVA e del conseguente regime sanzionatorio.

Gli obiettivi perseguiti sono di varia natura.

308. Nella Comunicazione “Europa 2020: una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” (COM(2010) 2020 def., del 3 marzo 2010), tra i principali obiettivi che la Commissione europea propone di realizzare entro il 2020, c’è anche la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra almeno del 20 per cento rispetto ai livelli del 1990 (o del 30 per cento, in presenza delle necessarie condizioni); l’incremento (fino al 20 per cento) della quota delle fonti di energia rinnovabile nel computo dell’energia complessivamente consumata; il miglioramento del 20 per cento dell’efficienza energetica.

309. L’impegno di rendere la tassazione dell’energia “più vicina agli obiettivi dell’UE in materia di energia e cambiamenti climatici” è stato richiesto, nel marzo 2008, dal Consiglio europeo (v. le conclusioni della Presidenza, 7652/1/08 – REV 1, del 20 maggio 2008) e messo in luce, nel 2011, dalla Commissione nell’analisi annuale della crescita (COM(2011) 11 def., del 12 gennaio 2011). Si osserva che tali propositi risultano coerenti anche con gli scenari internazionali, emersi in occasione della conferenza dell’ONU sui cambiamenti climatici, tenutasi a Cancún, in Messico, dal 29 novembre al 10 dicembre 2010.

310. Come emerge dalle valutazioni compiute dalla Commissione, nel regime di tassazione dei prodotti energetici attualmente in vigore, le fonti più inquinanti (ad es., il carbone usato come combustibile per il riscaldamento) risultano, paradossalmente, meno tassate e, quindi, favorite; al contrario, sui biocarburanti gravano le imposte più pesanti, malgrado l’impegno dell’UE di aumentare la quota delle energie rinnovabili nei trasporti (è il caso, ad es., dell’E85, tassato molto più pesantemente del carburante convenzionale – la benzina – che sostituisce).

311. Il sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nella Comunità è stato istituito dalla Direttiva 2003/87/CE, del 13 ottobre 2003.

312. A titolo esemplificativo, la parte della tassazione legata al CO2 sarebbe pari a zero per tutti i biocarburanti che soddisfano i criteri di sostenibilità previsti dalla normativa di riferimento per il settore (cfr.art. 17 della Direttiva 2009/28/CE).

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In materia di accertamento si è inteso, in primo luogo, potenziare l’attività accertativa degli uffici mediante il coinvolgimento dei Comuni e l’incrocio tra varie banche dati, al fine di accrescere le informazioni in possesso dell’Amministrazione finanziaria che costituiscono anche presupposto per l’accertamento parziale. Sono state, inoltre, introdotte alcune innovazioni di ordine sostanziale, quali il potenziamento dell’accertamento sintetico e il suo adeguamento al nuovo contesto socio economico nazionale e le modificazioni apportate ai meccanismi di accertamento dei redditi delle società che abbiano optato per la tassazione consolidata di gruppo, per renderne le relative procedure più confacenti alla peculiare situazione caratterizzata da una pluralità di dichiarazioni e di relative responsabilità.

La disciplina della riscossione è stata, a sua volta, oggetto di importanti innovazioni volte, anzitutto, ad accelerare i tempi di esecuzione dei pagamenti dovuti a seguito dell’azione accertatrice; gli avvisi di accertamento relativi alle imposte sui redditi, all’IVA e all’IRAP, infatti, una volta trascorso il termine previsto per il pagamento dell’imposta accertata, divengono immediatamente esecutivi, nel senso che l’agente della riscossione può procedere immediatamente all’esecuzione forzata dell’imposta accertata senza più dover notificare la cartella di pagamento.

Ulteriori disposizioni sono state poi introdotte al fine di salvaguardare le pretese erariali, come, per esempio, quelle che prevedono il divieto di compensazione dei crediti d’imposta per i contribuenti che siano al contempo debitori di importi iscritti a ruolo per un ammontare superiore a 1500 euro o quelle che, nell’ipotesi di pignoramento presso terzi, obbligano il terzo pignorato che rivesta la qualifica di sostituto d’imposta ad effettuare all’atto del pagamento una ritenuta a titolo di acconto; altre norme, poi, hanno previsto la possibilità per gli uffici finanziari di richiedere, ai fini dell’iscrizione ipotecaria e del sequestro conservativo, alle banche, alla società Poste italiane e ad altri soggetti notizie e documenti relativi ai rapporti intrattenuti con il contribuente nei cui confronti si intende adottare la predetta misura.

Non sono infine mancati alcuni interventi innovativi, seppure sporadici e di portata limitata, tesi a deflazionare e semplificare il contenzioso tributario, nonché misure finalizzate a ridurre gli oneri posti a carico dei contribuenti per fruire di taluni istituti deflattivi del contenzioso già previsti dal nostro ordinamento.

Sul fronte del regime sanzionatorio, invece, si è registrato un inasprimento delle sanzioni dovute in sede di ravvedimento operoso o di altri istituti deflattivi del contenzioso: ciò in controtendenza con quanto avvenuto nel precedente biennio in cui, ricordiamo, il legislatore aveva introdotto misure di riduzione delle sanzioni al fine di incentivare il ricorso agli strumenti di definizione agevolata delle controversie tributarie.

13. Potenziamento e razionalizzazione dell’attività di accertamento

Nell’ambito delle misure tese a contrastare l’evasione fiscale e contributiva vanno anzitutto segnalate le disposizioni introdotte dall’art. 18 del d.l. n. 78/2010 che danno un nuovo impulso alla cooperazione dei Comuni nell’attività di accertamento già prevista dall’art. 1 del d.l. n. 203/2005, e dall’art. 44 del d.P.R. n. 600/1973.

Il rilancio della partecipazione dei Comuni nell’attività di accertamento è, peraltro, in piena sintonia con il rinnovato quadro normativo teso al conferimento di potestà tributarie a tutti gli enti locali nella più ampia prospettiva del federalismo fiscale: è evidente come in tale nuova configurazione il coinvolgimento dei Comuni nell’attività di contrasto all’evasione fiscale e previdenziale assuma attualmente una notevole importanza. In particolare, al fine di agevolare questa cooperazione – che si estrinseca, essenzialmente, nella segnalazione all’Agenzia delle entrate, alla Guardia di finanza e all’INPS, di elementi utili ad integrare i contenuti delle dichiarazioni presentate dai contribuenti

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– il legislatore ha introdotto, per i Comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, l’obbligo di istituire il Consiglio tributario313 cui è demandato il compito di effettuare tali segnalazioni e ha contestualmente incrementato il “premio” spettante ai Comuni per tale attività, prevedendo che esso sia pari al 33 per cento (e non più al 30 per cento) delle maggiori somme relative a tributi statali riscosse grazie alla loro collaborazione 314 315.

Modifiche sono state anche apportate all’art. 44 del d.P.R. n. 600/1973 – recante, per l’appunto, disposizioni “per la partecipazione dei Comuni all’accertamento” – al fine di semplificare e razionalizzare la cooperazione tra Comuni e Amministrazione finanziaria. È, tra l’altro, previsto che l’Agenzia delle entrate – ferma rimanendo la necessità di mettere a disposizione dei Comuni le dichiarazioni delle persone fisiche in essi residenti – prima di emettere un avviso di accertamento sintetico, deve effettuare una segnalazione al Comune di domicilio fiscale del contribuente, al fine di consentire ad esso di fornire, entro sessanta giorni dalla segnalazione, ogni “elemento in suo possesso utile alla determinazione del reddito complessivo”316. I Comuni, in ogni caso, sono tenuti a segnalare agli uffici dell’Amministrazione finanziaria qualsiasi integrazione degli elementi contenuti nelle dichiarazioni presentate dalle persone fisiche fornendo a tal fine dati e documenti utili 317.

Sotto altro profilo, nel medesimo intento di potenziamento dell’attività di accertamento, è stato ampliato il novero delle “fonti di innesco” dell’accertamento parziale e, cioè, dei mezzi istruttori volti a reperire dati e notizie che possono essere posti a fondamento di tale particolare modalità di accertamento disciplinata dagli artt. 41-bis del d.P.R. n. 600/1973 e 54, comma 4, del d.P.R. n. 633/1972 318 319.

Oltre ai casi già normativamente regolati dalle citate disposizioni320, infatti, gli uffici finanziari possono ora emettere avvisi di accertamento parziale anche sulla base delle attività istruttorie di cui all’art. 32, comma 1, nn. 2-4, del d.P.R. n. 600/1973 e all’art. 51, comma 2, nn. 2-4, del d.P.R. n. 633/1972 e, cioè, anche a seguito degli inviti rivolti ai contribuenti a fornire dati e notizie o a trasmettere atti

313. I Comuni con popolazione inferiore a cinquemila abitanti, che non abbiano già istituito il Consiglio tributario, invece, devono “riunirsi in consorzio, ai sensi dell’articolo 31 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, recante il Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, per la successiva istituzione del Consiglio tributario” (cfr. art. 18, comma 2, lett. b), del d.l. n. 78/2010), avente i suddetti compiti di segnalazione di dati utili all’accertamento.

314. Nella stessa quota del 33 per cento sono anche riconosciute ai Comuni le “sanzioni civili applicate sui maggiori contributi riscossi a titolo definitivo”, a seguito di interventi che abbiano contribuito all’accertamento stesso.

315. Nella stessa misura è stata aumentata la quota percentuale spettante ai Comuni per l’espletamento dell’attività di vigilanza nei confronti persone fisiche che hanno chiesto l’iscrizione nell’anagrafe degli italiani residenti all’estero; anche in questo, infatti, è stato previsto l’innalzamento della quota percentuale spettante ai comuni dal 30 al 33 per cento delle maggiori somme relative ai tributi statali riscosse a titolo definitivo.

316. Cfr. art. 44 del d.P.R. n. 600/1973, come risultante a seguito delle modifiche apportate dall’art. 18, comma 4, del d.l. n. 78/2010.

317. L’art. 18 del d.l. n. 78/2010, ha affidato ad un Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate il compito di individuare, d’intesa con l’INPS e la Conferenza unificata, “le modalità tecniche di accesso alle banche dati e di trasmissione ai comuni, anche in via telematica, di copia delle dichiarazioni relative ai contribuenti in essi residenti, nonché quelle della partecipazione dei comuni all’accertamento fiscale e contributivo”.

318. A tal fine il legislatore ha modificato il testo degli artt. 41-bis del d.P.R. n. 600/1973 e 54, comma 4, del d.P.R. n. 633/1972.

319. Come noto, l’elemento caratterizzante dell’accertamento parziale risiede nel fatto che gli uffici finanziari possono, in deroga ai principi di unicità e globalità che devono caratterizzare l’accertamento, rettificare la dichiarazione del contribuente sulla base esclusivamente delle risultanze di determinati fatti ed elementi, senza, cioè, la necessità di effettuare una valutazione complessiva della posizione del contribuente. Ciò, peraltro, senza “pregiudizio per l’ulteriore attività di accertamento”, nel senso che gli uffici finanziari possono assumere a fondamento di un ulteriore accertamento, nei confronti dello stesso contribuente e per il medesimo periodo d’imposta, elementi di cui erano già in possesso al momento di emissione dell’avviso di accertamento parziale. In sostanza, quindi, l’avviso di accertamento parziale viene emanato sulla base di dati dai quali è possibile evincere tout court l’esistenza di materia imponibile non dichiarata, rinviando eventualmente ad un successivo momento la valutazione complessiva della posizione del contribuente.

320. Le quali, ricordiamo, già prevedevano la possibilità di emettere avvisi di accertamento parziale sulla base delle risultanze derivanti dagli accessi, ispezioni e verifiche; la modifica in esame, pertanto, sul punto, si è limitata a sostituire le parole “dagli accessi, ispezioni o verifiche” con il richiamo alle disposizioni che riconoscono agli uffici tali poteri istruttori e, cioè, agli artt. 32, comma 1, n. 1, del d.P.R. n. 600/1973 e 51, comma 2, n. 1, del d.P.R. n. 633/1972.

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e documenti rilevanti ai fini dell’accertamento, o dei questionari inviati ai contribuenti medesimi relativi a dati e notizie di carattere specifico rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti o nei confronti di altri contribuenti con i quali abbiano intrattenuto rapporti321.

Ad analoghe finalità di ampliamento dell’attività di accertamento sono anche rivolte le misure adottate dal legislatore per rafforzare gli strumenti utili a reperire informazioni funzionali al contrasto dell’evasione fiscale e contributiva e di comportamenti fraudolenti (tra cui le cc.dd. frodi carosello e le false fatturazioni) 322, nonché all’individuazione delle spese di particolare rilevanza per l’accertamento sintetico ai fini delle imposte sui redditi. Tra queste ricordiamo: l’obbligo di comunicare telematicamente all’Agenzia delle entrate le operazioni rilevanti ai fini IVA di importo pari o superiore a 3000 euro323; l’attivazione, a decorrere dal 1° gennaio 2011, dell’Anagrafe immobiliare integrata gestita dall’Agenzia del territorio, finalizzata ad individuare i soggetti titolari di diritti reali sugli immobili324; l’ampliamento dei poteri istruttori a disposizione degli uffici finanziari per l’acquisizione di dati e notizie sulla posizione creditizia, finanziaria e assicurativa dei contribuenti325. Si tratta, nel complesso, di interventi che consentono l’analisi di un maggior numero di dati utili per una rapida ed efficace individuazione delle situazioni che più di altre presentano elementi sintomatici di evasione.

Inoltre, proprio per incentrare l’attività di controllo sulle fattispecie caratterizzate da un elevato rischio di frode o evasione fiscale, è stato previsto che il controllo formale delle dichiarazioni ai sensi dell’art. 36-ter del d.P.R. n. 600/1973 avvenga tenendo conto non solo delle capacità operative degli uffici dell’Amministrazione finanziaria, ma anche di specifiche analisi del rischio d’evasione326.

Ad analoghe finalità rispondono le norme327 che prevedono l’inclusione delle imprese che cessano l’attività entro un anno dalla data di inizio – cosiddette imprese “apri e chiudi”– e delle imprese in perdita “sistematica”328 tra i soggetti di cui occorre tener conto ai fini della selezione delle posizioni da sottoporre a controllo. La disposizione è finalizzata a garantire che la programmazione dei controlli fiscali avvenga in modo tale da assicurare una vigilanza sistematica dei predetti soggetti che, sulla base dell’esperienza maturata dagli uffici finanziari nell’ambito dei controlli fiscali, si caratterizzano per l’elevato rischio di frode o di evasione fiscale.

Altre disposizioni329 sono rivolte a regolare lo scambio di informazioni tra le banche dati dell’INPS e dell’Agenzia delle entrate al fine di individuare e controllare i soggetti che non hanno dichiarato redditi di lavoro dipendente e assimilati, ma in relazione ai quali, dai “flussi informativi dell’INPS, risultano versati i contributi previdenziali e non risultano effettuate le previste ritenute”.

Sempre in tema di scambio di dati fra Agenzia delle entrate e INPS, al fine di semplificare le

321. In tal senso dispone l’art. 1, comma 17, della l. n. 220/2010.

322. Tale misura è già stata illustrata più sopra, nel capitolo dedicato all’IVA.

323. Cfr. art. 21 del d.l. n. 78/2010.

324. In particolare, l’attivazione dell’Anagrafe immobiliare integrata consente di “di attestare, ai fini fiscali, il livello di integrazione delle banche dati disponibili presso l’Agenzia del territorio per ciascun immobile, garantendo la correlazione tra le informazioni catastali (dati censuari, cartografici e planimetrie delle unità immobiliari urbane) con le informazioni sui diritti reali recate negli atti trascritti nei pubblici registri immobiliari” (Cfr. relazione illustrativa dell’art. 19 del d.l. n. 78/2010).

325. L’art. 15, comma 8-quinquies, del d.l. n. 78/2009, infatti, ha inserito nel testo dell’art. 32 del d.P.R. n. 600/1973 il nuovo comma 7-bis, in base al quale gli uffici dell’Amministrazione finanziaria possono richiedere, tra l’altro, “ad autorità ed enti, notizie, dati, documenti e informazioni di natura creditizia, finanziaria e assicurativa, relativi alle attività di controllo e di vigilanza svolte dagli stessi, anche in deroga a specifiche disposizioni di legge”.

326. L’art. 36-ter del d.P.R. n. 600/1973, infatti, come risultante a seguito delle modifiche ad esso apportate dall’art. 1, comma 17, della l. n. 220/2010, prevede ora che “Gli uffici periferici dell’Amministrazione finanziaria, procedono, entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione, al controllo formale delle dichiarazioni presentate dai contribuenti e dai sostituti d’imposta, sulla base dei criteri selettivi fissati dal Ministro delle finanze, tenendo anche conto di specifiche analisi del rischio di evasione e delle capacità operative dei medesimi uffici”.

327. Cfr. art. 23 del d.l. n. 78/2010.

328. Si tratta, in particolare, delle imprese che presentano dichiarazioni in perdita per più di un periodo d’imposta (art. 24 del d.l. n. 78/2010).

329. Cfr. art. 28 del d.l. n. 78/2010.

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attività di verifica sulle situazioni reddituali dei pensionati INPS, è stato introdotto330 l’obbligo per l’Amministrazione finanziaria e per ogni altra Amministrazione pubblica, che detiene informazioni utili a determinare l’importo delle prestazioni previdenziali e assistenziali collegate al reddito dei beneficiari, di fornire all’INPS e agli altri enti di previdenza e assistenza obbligatoria le predette informazioni presenti in tutte le banche dati a loro disposizione, relative ai titolari, e rispettivi coniugi e familiari, di prestazioni pensionistiche o assistenziali residenti in Italia.

L’articolo 34 del d.l. n. 78/2010 ha altresì introdotto – previa modifica dell’art. 6 del d.P.R. n. 605/1973 – l’obbligo per le banche, per Poste Italiane S.p.A, per gli intermediari finanziari, per le imprese di investimento, per gli organismi di investimento collettivo del risparmio, per le società di gestione del risparmio e per le società fiduciarie di indicare il codice fiscale dei soggetti esteri non residenti in Italia sugli atti con essi compiuti riguardanti l’apertura o la chiusura di qualsiasi rapporto continuativo. Ciò al fine di superare le difficoltà connesse all’acquisizione dei dati, relativi ai rapporti finanziari continuativi dei clienti non residenti e privi di codice fiscale, utili all’accertamento. Detti soggetti devono quindi acquisire il codice fiscale per poter instaurare tali rapporti finanziari331.

Sul piano della disciplina sostanziale dell’accertamento, particolare rilevanza assumono le innovazioni introdotte in materia di rettifica delle dichiarazioni delle persone fisiche dall’articolo 22 del d.l. n. 78/2010, che hanno portato ad una completa revisione, come accennato, delle procedure di accertamento sintetico e induttivo di cui all’articolo 38 del d.P.R. n. 600/1973.

Il primo obiettivo di questa revisione è il potenziamento dell’attività di accertamento attraverso strumenti che consentono agli uffici di rettificare il reddito del contribuente sulla base della semplice conoscenza di singoli elementi di spesa che vengono assunti come indicativi di un reddito di equivalente ammontare.

A questo obiettivo risponde la nuova formulazione del quarto comma dell’articolo 38 che sostituisce il generico riferimento a “elementi e circostanze di fatto certi” che nel precedente testo normativo costituivano presupposto per la determinazione sintetica del reddito, con quello più concreto e immediato delle “spese di qualsiasi genere sostenute nel periodo d’imposta”.

In base alle nuove regole, quindi, gli Uffici possono determinare sinteticamente il reddito in misura almeno pari alle spese sostenute nel periodo d’imposta di riferimento. È fatta salva, tuttavia, la facoltà del contribuente di provare che il finanziamento delle spese è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d’imposta, con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile.

Si osserva inoltre che, stando alla lettera della nuova formulazione normativa, la spesa sostenuta in un determinato periodo d’imposta si considera nella sua interezza indicativa di un reddito di periodo di pari ammontare, senza tener conto che essa potrebbe risultare finanziata anche da redditi prodotti in precedenti periodi; in quest’ottica, nel previgente testo normativo e con riferimento alle spese per incrementi patrimoniali, si presumeva, più opportunamente, che esse fossero alimentate con redditi formati in un determinato arco temporale (nel periodo di riferimento e nei quattro precedenti).

Come emerge dalla relazione all’art. 22 del d.l. n. 78/2010, le modifiche apportate all’accertamento sintetico perseguono anche l’ulteriore obiettivo di adeguare questo strumento al mutato contesto socio-economico, rendendolo più efficiente e dotandolo di nuove garanzie per il contribuente.

A queste finalità sembrano più propriamente rispondere le modifiche apportate al quinto comma dell’articolo 38 del d.P.R. n. 600/1973. Nel riformulato testo normativo esso prevede che “la determinazione sintetica del reddito può essere altresì fondata sul contenuto induttivo degli elementi di capacità contributiva individuato mediante l’analisi di campioni significativi di contribuenti, differenziati anche in funzione del nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza”.

330. Cfr. art. 15 del d.l. n. 78/2009.

331. L’elenco di tali rapporti è riportato nella tabella Allegato 1 al provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 29 febbraio 2008.

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In verità non è del tutto chiara la relazione esistente tra le due richiamate previsioni considerato che le spese su cui si basa l’accertamento sintetico di cui al quarto comma dell’articolo 38 possono anche integrare quegli elementi indicativi di capacità contributiva su cui si fonda l’accertamento induttivo di cui al successivo comma. In queste circostanze occorre definire le regole di tale reciproca interferenza ai fini della determinazione del reddito complessivo del contribuente.

Si tratta, peraltro, di questioni che potranno trovare soluzione in sede di emanazione delle norme regolamentari; è previsto, infatti, che i predetti elementi di capacità contributiva, e l’analisi di campioni significativi di contribuenti siano individuati con decreto del Ministero dell’Economia e delle finanze, da pubblicare con periodicità biennale.

Altro elemento di novità introdotto nel sistema è la riduzione da un quarto a un quinto dello scarto tra reddito accertabile e reddito dichiarato posto quale condizione di procedibilità dell’accertamento sintetico; ciò comporta che l’Ufficio può determinare sinteticamente il reddito ai sensi dei commi quarto e quinto dell’articolo 38 solo se il maggior reddito che ne scaturisce risulta superiore di almeno il 20 per cento rispetto a quello dichiarato dal contribuente. È stata, infine, eliminata la previsione contenuta nel precedente testo normativo in base alla quale l’accertamento induttivo era ammesso solo nel caso in cui il reddito dichiarato non risultasse congruo, rispetto a quello accertabile, per due o più periodi d’imposta. Nel nuovo assetto normativo, quindi, le condizioni di procedibilità dell’accertamento sintetico sono verificate dagli Uffici singolarmente su ciascun periodo d’imposta.

Le nuove regole di determinazione sintetica e induttiva del reddito operano con effetto dagli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del d.l. n. 78/2010 e, quindi, nella generalità dei casi, a partire dal periodo d’imposta 2009. Per gli accertamenti relativi a periodi d’imposta precedenti continua, perciò, ad applicarsi la previgente disciplina.

Nella fase transitoria sono, pertanto, destinati a convivere due diversi sistemi di accertamento: quello previsto dalla disciplina previgente alla riforma, applicabile sino al periodo d’imposta 2008, per il quale la determinazione induttiva del reddito è ancora effettuata in base ai coefficienti presuntivi di reddito individuati con il D.M. 10 settembre 1992 (c.d. redditometro); l’altro, introdotto dalle norme in commento e applicabile per i periodi d’imposta 2009 e seguenti, per la cui definizione si attende l’emanazione dell’apposito decreto ministeriale.

13.1 Razionalizzazione dell’accertamento per i soggetti che partecipanoal consolidato

Importanti modifiche sono state introdotte dall’articolo 35 del d.l. n. 78/2010 nella disciplina di accertamento delle società che operano in regime di consolidato fiscale al fine di eliminare – o quantomeno ridurre – i difetti di un sistema articolato su due distinti livelli di accertamento: il primo sul reddito della società consolidata; l’altro sul reddito complessivo del consolidato risultante dalla dichiarazione presentata dalla consolidante.

La separazione delle procedure di accertamento nel consolidato deriva dalla necessità di mantenere distinte – pur in presenza di una tassazione che è operata sul reddito complessivo del consolidato e di un’imposta unitariamente liquidata su tale reddito – le responsabilità delle singole società partecipanti alla tassazione di gruppo relativamente al reddito da ciascuna di esse prodotto e le responsabilità della società consolidante riguardo alla dichiarazione del reddito complessivo del gruppo. Ad avviso dell’Amministrazione, questa circostanza, unita al fatto che le società partecipanti al consolidato, in ragione del domicilio fiscale di appartenenza, possono ricadere nella competenza di Uffici diversi, rendeva necessaria, nel precedente assetto normativo, l’emissione di due distinti atti di accertamento sul medesimo presupposto impositivo: il primo, sulla società consolidata per la rettifica dei redditi da essa dichiarati; il secondo sulla società consolidante nel cui reddito complessivo confluisce anche quello della consolidata. La separazione si rifletteva, poi, sui relativi procedimenti contenziosi rischiando, quindi, anche di generare esiti tra loro difformi.

Per rimediare a questi inconvenienti, il nuovo sistema di accertamento scaturito dalle anzidette

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modifiche, pur mantenendo ferma la distinzione delle responsabilità di ciascuna società relativamente alla propria dichiarazione dei redditi – e, quindi, senza modificare l’art. 127 del TUIR – attua due fondamentali cambiamenti: da un lato attribuisce la competenza dell’accertamento all’Ufficio di domicilio fiscale della società consolidata per i redditi da essa dichiarati, anche al fine della rettifica della dichiarazione del reddito complessivo del consolidato; dall’altro introduce l’istituto del litisconsorzio necessario, per cui le rettifiche del reddito complessivo proprio di ciascun soggetto sono effettuate con un unico atto, notificato sia alla consolidata che alla consolidante, con il quale è determinata la conseguente maggiore imposta accertata riferita al reddito complessivo globale del consolidato e sono irrogate le sanzioni correlate.

Sul piano della tecnica legislativa, tale intervento è stato realizzato attraverso l’abrogazione dell’articolo 17 del d.m. 9 giugno 2004 e l’inserimento di un nuovo articolo – art. 40-bis – all’interno del d.P.R. n. 600/1973.

In ragione dell’unicità del rapporto sostanziale la norma, oltre a prevedere che la società consolidata e la consolidante siano litisconsorti necessari nello svolgimento del processo contenzioso che si instaura a seguito dell’accertamento, dispone che il pagamento delle somme scaturenti dall’atto unico estingue l’obbligazione sia se effettuato dalla consolidata che dalla consolidante.

L’accertamento del reddito complessivo di gruppo risultante dalla dichiarazione della società consolidante conserva, anche nel nuovo regime, il carattere di atto a formazione progressiva nel senso che esso può essere integrato da successivi atti di accertamento riguardanti altre società appartenenti allo stesso consolidato.

Altra importante novità introdotta in materia dal nuovo articolo 40-bis del d.P.R. n. 600/1973, attiene alle modalità di utilizzo delle perdite pregresse a compensazione dei maggiori redditi accertati. Dispone, in proposito, il comma 3 del predetto articolo che “la consolidante ha facoltà di chiedere che siano imputate in diminuzione dei maggiori imponibili derivanti dalle rettifiche … le perdite di periodo del consolidato non utilizzate, fino a concorrenza del loro importo” e che, a tal fine, “la consolidante deve presentare un’apposita istanza all’Ufficio competente …” onde consentire il ricalcolo delle imposte effettivamente dovute, degli interessi e delle sanzioni.

A quest’ultimo proposito, vale la pena ricordare che l’utilizzo delle perdite pregresse, ancora disponibili per l’impresa al momento dell’accertamento, a compensazione dei maggiori redditi accertati, era stato già in passato ritenuto, in via generale, legittimo dall’Amministrazione finanziaria. L’espressa previsione ora contenuta in tal senso nel nuovo articolo 40-bis del d.P.R. n. 600/1973, nell’ambito della riformulata disciplina dell’accertamento nel consolidato fiscale, e la formalizzazione della relativa richiesta, costituiscono elementi che conferiscono al sistema maggiore certezza operativa.

Si segnala, al riguardo, che con Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 29 ottobre 2010 è stato approvato il modello di istanza per la comunicazione delle perdite da portare a compensazione dei maggiori imponibili derivanti dall’attività di accertamento.

Ovviamente, prima ancora della compensazione con le perdite disponibili del consolidato, le società consolidate dovrebbero poter compensare i maggiori redditi scaturiti dall’accertamento con eventuali disponibilità di perdite proprie non conferite al consolidato in quanto prodotte anteriormente all’ingresso nella tassazione di gruppo.

In base agli stessi principi che regolano l’accertamento ai sensi della riformulata disciplina dell’art. 40-bis del d.P.R. n. 600/1973, l’art. 35, comma 2, del d.l. n. 78/2010 ha integrato anche la disciplina dell’accertamento con adesione, inserendo nel d.lgs. n. 218/1997 l’art. 9-bis che reca specifiche modalità per la definizione dei redditi dei soggetti aderenti al consolidato nazionale.

Anche in relazione a queste modalità di definizione con adesione sono, infatti, affermati i principi di unicità del presupposto impositivo e di partecipazione congiunta al procedimento di accertamento sia della consolidante che della consolidata. Parimenti, si prevede che l’atto di adesione si perfezioni qualora la sua sottoscrizione e i conseguenti adempimenti (versamento delle imposte dovute ai sensi dell’articolo 9 del d.lgs. n. 218/1997) siano posti in essere anche da parte di uno solo dei soggetti che partecipano al procedimento. È, infine, confermata anche nell’ambito di questa procedura, la facoltà

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per la consolidante di chiedere che siano computate in diminuzione dei maggiori imponibili le perdite di periodo del consolidato ancora disponibili, fino a concorrenza del loro importo.

Le nuove disposizioni in materia di accertamento e di computo delle perdite a compensazione dei maggiori redditi accertati, introdotte alle dall’arti. 35 del d.l. n. 78/2010, si applicano dal 1° gennaio 2011 con riferimento ai periodi d’imposta per i quali alla predetta data sono ancora pendenti i termini per l’accertamento di cui all’articolo 43 del d.P.R. n. 600/1973.

13.2 Raddoppio dei termini per l’accertamento tributario

Come abbiamo già avuto occasione di evidenziare nella relazione relativa al biennio 2005-2006, l’art. 37, commi da 24 a 26, del d.l. n. 223/2006 (il c.d. decreto Visco-Bersani) ha modificato gli articoli 43 del d.P.R. n. 600/1973 e 57 del d.P.R. n. 633/1972 che disciplinano i termini di decadenza dell’azione di accertamento dell’Amministrazione finanziaria, rispettivamente, ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA. Tali termini sono fissati al 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi o dell’IVA ovvero al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui avrebbero dovuto essere presentate tali dichiarazioni, nel caso di mancata presentazione delle stesse. A seguito delle modifiche apportate dall’art. 37, “in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74”, i termini di decadenza in questione “sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione”.

Già nella ricordata relazione abbiamo rilevato alcuni aspetti problematici della nuova normativa, fra cui la circostanza che la denuncia all’Autorità giudiziaria di una notizia di reato prescinde, evidentemente, da un approfondito accertamento sia della sussistenza dei fatti tipizzati dalla norma penale, sia dell’esistenza dell’elemento soggettivo del reato e, inoltre, che, a causa dell’autonomia dei due procedimenti – penale e tributario – il raddoppio del termine di decadenza poteva produrre effetto anche qualora la denuncia fosse dichiarata infondata in sede penale (con un giudicato assolutorio ovvero con l’archiviazione della stessa).

Nel corso del passato biennio sono sorte anche altre problematiche sull’interpretazione della norma in argomento – illustrata dall’Agenzia delle entrate con le circolari n. 28/E del 4 agosto 2006 e n. 54/E del 23 dicembre 2008 –, sicché, nell’ambito del rapporto interassociativo istituito dall’Assonime con ABI, ANIA e Confindustria, è stato elaborato un documento congiunto332 che propone alcune soluzioni interpretative nel tentativo di dare a questa disposizione maggiore aderenza ai principi, posti dalla Costituzione e dallo Statuto del contribuente, di legittimità dell’azione amministrativa, di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento del contribuente.

In particolare, la questione di maggior rilevo è quella della possibilità per l’Amministrazione finanziaria di utilizzare la norma sul raddoppio dei termini per esercitare l’azione di accertamento anche in relazione ad annualità già definite per effetto della decadenza dal proprio potere accertativo. Accade sempre più di frequente, infatti, che l’Agenzia delle entrate, in applicazione di tale normativa, emani avvisi di accertamento in relazione a periodi d’imposta già definiti per essere già scaduto il ricordato termine di decadenza previsto dalla legge al momento della constatazione della violazione di natura penale.

A nostro avviso proprio i ricordati principi di certezza del diritto, dell’affidamento e della difesa del contribuente non consentono di ritenere operante questo raddoppio dei termini di decadenza laddove i termini ordinari per l’azione di accertamento risultano già scaduti al momento della verifica dalla quale scaturisce la notitia criminis.

La questione è stata portata all’esame della Corte costituzionale dalla Commissione Tributaria Provinciale di Napoli333 che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del nuovo art. 57 del

332. Cfr. Note e Studi Assonime n. 8/2010.

333. Cfr. Commissione Tributaria Provinciale di Napoli, ordinanza n. 266 del 29 aprile 2010.

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d.P.R. n. 633/1972 (ma i dubbi di costituzionalità valgono anche per l’art. 43 del d.P.R. n. 600/1973), nella parte in cui non subordina il raddoppio del termine di decadenza al fatto che la denuncia ex art. 331 del codice di procedura penale sia stata inviata antecedentemente allo spirare di tale termine. La Commissione ha rilevato, fra l’altro, che – come evidenziato anche nel documento congiunto334 – la norma in questione, così interpretata, lede il principio costituzionale della difesa del contribuente posto che nel caso in cui, per effetto del decorso degli ordinari termini di decadenza dell’azione accertatrice dell’Amministrazione, il contribuente si fosse disfatto delle scritture contabili335, si troverebbe ad affrontare un giudizio privo delle prove documentali.

14. Modifiche in materia di riscossione

Come anticipato in premessa, anche la disciplina della riscossione è stata oggetto, nel biennio in rassegna, di molteplici interventi correttivi.

Si segnalano, anzitutto, le disposizioni contenute nell’art. 29 del d.l. n. 78/2010 che, al fine di “intensificare il processo di accelerazione della riscossione delle somme dovute a seguito dell’attività di accertamento dell’Agenzia delle entrate”, ha attuato, mediante l’eliminazione della fase dell’iscrizione a ruolo, la cosiddetta concentrazione della riscossione nell’accertamento336. La citata disposizione, infatti, dispone che gli avvisi di accertamento relativi alle imposte sui redditi, all'IRAP e all’IVA e il provvedimento di irrogazione delle sanzioni “devono contenere anche l’intimazione ad adempiere, entro il termine di presentazione del ricorso, all’obbligo di pagamento degli importi negli stessi indicati, ovvero, in caso di tempestiva proposizione del ricorso ed a titolo provvisorio, degli importi stabiliti dall’articolo 15 del d.P.R. n. 602 del 1973”; i medesimi atti, che divengono esecutivi una volta che sia scaduto il predetto termine di presentazione del ricorso, devono altresì contenere l’indicazione che decorsi ulteriori “trenta giorni dal termine ultimo per il pagamento, la riscossione delle somme richieste, in deroga alle disposizioni in materia di iscrizione a ruolo, è affidata in carico agli agenti della riscossione anche ai fini dell’esecuzione forzata”337. Questa nuova disciplina della riscossione troverà applicazione in relazione agli avvisi di accertamento e ai connessi provvedimenti di irrogazione delle sanzioni notificati a partire dal 1° luglio 2011 e relativi ai periodi d’imposta in corso al 31 dicembre 2007 e successivi. Per completezza, segnaliamo che il legislatore, al fine di mitigare gli effetti dell’immediata esecutività quanto meno nelle ipotesi di impugnazione dell’avviso di accertamento, ha recentemente modificato l’art. 29 del d.l. n. 78/2010, prevedendo espressamente che “In caso di richiesta di sospensione giudiziale degli atti esecutivi, non si procede all’esecuzione fino alla decisione del giudice e comunque fino al centoventesimo giorno” (cfr. artt. 7, commi 1, lett. m) e 2, lett. n), del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70, in corso di conversione).

Sono stati, altresì, introdotti vari limiti all’utilizzo dell’istituto della compensazione al fine di contrastare l’indebito uso di questo strumento.

Come già rilevato nella parte concernente l’IVA, al fine di contrastare gli abusi nell’utilizzo da parte dei contribuenti dei crediti IVA mediante la compensazione con debiti relativi ad altri tributi e contributi, l’art. 10 del d.l. n. 78/2009 ha stabilito che i crediti IVA, annuali o trimestrali, se di ammontare superiore a 10.000 euro, possono essere utilizzati in compensazione solo dopo che l’Amministrazione finanziaria ne sia stata informata e sia, quindi, in grado di effettuare un controllo preventivo circa la legittimità degli stessi. In particolare, a decorrere dal 1° gennaio 2010, la compensazione di tali crediti

334. Cfr. Note e Studi Assonime n. 8/2010, paragrafo 4.

335. L’art. 22 del d.P.R. n. 600/1973 impone la tenuta delle scritture contabili sino a quando non sono spirati i termini per l’accertamento.

336. In questi termini la rubrica dell’art. 29 del d.l. n. 78/2010.

337. Alla medesima disciplina, naturalmente, soggiacciono anche gli avvisi di accertamento inviati successivamente a quello originario al fine di rideterminare gli importi effettivamente dovuti.

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può essere effettuata solo a partire dal giorno sedici del mese successivo a quello di presentazione della dichiarazione annuale IVA, o dell’istanza di rimborso trimestrale. Inoltre, alla dichiarazione annuale da cui emerge il credito IVA deve essere apposto il visto di conformità ai sensi dell’art. 35 del d.lgs. n. 241/1997 qualora il credito da compensare superi 15.000 euro.

Un ulteriore limite all’utilizzo dell’istituto della compensazione di carattere più generale, valevole cioè anche per i tributi diretti e per tutti i contribuenti è stato introdotto dall’articolo 31, comma 1, del d.l. n. 78/2010, relativamente ai casi in cui i contribuenti, pur vantando crediti nei confronti dell’erario per i quali avrebbero titolo ad operare la compensazione, risultino nel contempo debitori di imposte erariali e relativi accessori per un "ammontare superiore a millecinquecento euro" iscritti in ruoli per i quali è scaduto il termine di pagamento. Come emerge dalla relazione illustrativa del provvedimento in esame, si è inteso in tal modo impedire “la compensazione immediata (e dunque il mancato versamento delle imposte dovute) a chi è nel contempo debitore di altri importi iscritti a ruolo, anche di considerevole ammontare e risalenti nel tempo, e che si ostina a non pagare, costringendo gli organi della riscossione a defatiganti attività esecutive, spesso vanificate da deliberate spoliazioni preventive del patrimonio del debitore”. La violazione di tale divieto è punita con una sanzione pari al 50 per cento dei debiti iscritti a ruolo fino a concorrenza dell’ammontare indebitamente compensato.

Pur comprendendo le ragioni che possono aver indotto il legislatore ad adottare queste misure restrittive nell’utilizzo in compensazione dei crediti d’imposta, non possiamo sottacere che tale ultima innovazione è stata interpretata dall’Amministrazione finanziaria in modo particolarmente rigido che genera effetti, in taluni casi, eccessivamente penalizzanti338.

La citata disposizione ammette comunque il pagamento, in tutto o in parte, delle somme iscritte a ruolo per imposte erariali e relativi accessori mediante la compensazione di crediti relativi alle stesse imposte339 340.

Analoga facoltà è riconosciuta ai contribuenti che hanno maturato crediti di natura commerciale nei confronti delle regioni, degli enti locali e degli enti del Servizio sanitario nazionale; anche tali crediti, infatti, potranno essere utilizzati in compensazione con i debiti iscritti a ruolo341.

In tema di compensazione c.d. orizzontale, peraltro, è stato previsto, come si è già detto nel paragrafo 8.5, che il limite stabilito in materia – attualmente pari a 516.456,90 euro – può essere innalzato, tenendo conto delle esigenze di bilancio, fino a 700.000 euro. Ad oggi, tuttavia, il Ministero dell’Economia e delle finanze, al quale è stato attribuito il compito di individuare i nuovi e più

338. Facciamo riferimento, a titolo meramente indicativo, al fatto che secondo l’Amministrazione finanziaria la disposizione in esame “va interpretata nel senso che al contribuente titolare di crediti di importo superiore a quello iscritto a ruolo, non è consentito effettuare alcuna compensazione se non assolve, preventivamente, l’intero debito per il quale è scaduto il termine di pagamento, unitamente con i relativi accessori” (cfr. circolare n. 4/E del 15 febbraio 2011). Tale interpretazione, in effetti, non appare del tutto in linea né con il dato letterale dell’art. 31, comma 1, del d.l. n. 78/2010 secondo cui, per l’appunto, la compensazione “è vietata fino a concorrenza dell’importo dei debiti, di ammontare superiore a millecinquecento euro, iscritti a ruolo”, né con la relazione illustrativa della citata disposizione, secondo cui “La inibizione opera, naturalmente, limitatamente all’importo dei debiti, per imposte e relativi accessori, iscritti a ruolo e non pagati, a condizione che tale importo sia di ammontare superiore a 1.500 euro”.

339. A tal fine è stato emanato il decreto del Ministero dell’economia e delle finanze del 10 febbraio 2011, il quale ha individuato le modalità concrete per l’esercizio di tale facoltà.

340. È evidente che questa nuova facoltà riconosciuta ai contribuenti è strettamente correlata, in termini di strumentalità, all’introduzione della limitazione in tema di compensazione appena esaminata; tramite l’esercizio di tale facoltà, infatti, i contribuenti potranno utilizzare liberamente i crediti di cui sono titolari, in quanto fanno venir meno il presupposto della predetta disciplina limitativa e, cioè, l’esistenza di debiti iscritti a ruolo, per un ammontare superiore a 1.500,00 euro per i quali siano scaduti i termini di pagamento. In questo contesto, sembrerebbe logico ritenere che l’esercizio di tale facoltà – e, cioè, quella di pagare le somme iscritte a ruolo mediante la compensazione – non soggiaccia alla limitazione quantitativa prevista in tema di compensazione c.d. orizzontale dall’art. 34 della l. n. 388/2000 e che, conseguentemente, non rilevi in alcun modo ai fini del raggiungimento del predetto limite.

341. Segnaliamo, tuttavia, che i contribuenti non hanno ancora potuto esercitare tale facoltà, in quanto non è ancora stato emanato il decreto del Ministero dell’economia e delle finanze a cui è demandato il compito di stabilire le relative modalità di attuazione.

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favorevoli limiti di compensazione342, non ha adottato alcuna determinazione in tal senso.

Ulteriori provvedimenti sono stati inoltre adottati al fine di potenziare e semplificare l’attività di riscossione. Tra questi segnaliamo, per esempio, l’art. 15, comma 2, del d.l. n. 78/2009, il quale, previa modifica dell’art. 21, comma 15, della l. n. 449/1997, ha definitivamente chiarito che nell’ipotesi di pignoramento presso terzi l’obbligo di effettuare le ritenute alla fonte previste nel Titolo III del d.P.R. n. 600/1973, è posto a carico del terzo esecutato se ha veste di sostituto d’imposta e che tale ritenuta deve essere effettuata all’atto del pagamento nella misura del 20 per cento343. È stato così normativamente risolto il dubbio relativo al soggetto tenuto ad adempiere al predetto obbligo e alla misura in cui tale prelievo deve essere operato; e ciò con evidenti riflessi positivi in termini di gettito erariale in quanto, si “evita che, in considerazione della […] incertezza applicativa, i redditi erogati non siano assoggettati a ritenuta da parte del sostituto ed eventualmente ad imposta da parte del percettore”344.

Sempre in tema di ritenute è stato introdotto l’obbligo per le banche e le Poste italiane S.p.A. di assoggettare ad una ritenuta, a titolo di acconto dell’imposta sul reddito dovuta dai beneficiari, i compensi che devono essere corrisposti tramite bonifico bancario o postale al fine di beneficiare di determinate detrazioni o deduzioni345. In particolare, la predetta ritenuta deve essere applicata in occasione dei bonifici bancari o postali che i contribuenti dispongono in occasione delle spese di intervento di recupero del patrimonio edilizio e delle spese per interventi di risparmio energetico di cui all’art. 1, della l. n. 449/1997 e all’art. 1, commi 344, 345, 346 e 347, della l. n. 296/2006.

In questo contesto va anche collocata la previsione che amplia i poteri istruttori degli Uffici, ai fini dell’iscrizione dell’ipoteca sui beni del debitore ai sensi dell’art. 22 del d.lgs. n. 472/1997, nei casi in cui essi, “in base all’atto di contestazione, al provvedimento di irrogazione della sanzione o al processo verbale di constatazione e dopo la loro notifica”, abbiano il fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito. L’art. 15, comma 8-bis, del d.l. n. 78/2009, ha previsto che, a tal fine, gli uffici possono avvalersi anche dei poteri istruttori di cui all’art. 32, primo comma, numero 7), del d.P.R. n. 600/1973 e all’art. 51, secondo comma, numero 7), del d.P.R. n. 633/1972346.

Importanti innovazioni sono state anche introdotte al fine di deflazionare e semplificare il contenzioso tributario e, nel contempo, di ridurre gli oneri posti a carico dei contribuenti per fruire di taluni istituti deflattivi del contenzioso già previsti dal nostro ordinamento. Segnaliamo, in particolare, la possibilità per i contribuenti di definire le controversie tributarie pendenti dinanzi alla Commissione tributaria centrale e alla Corte di Cassazione qualora i relativi ricorsi siano stati “iscritti a ruolo nel primo grado, alla data di entrata in vigore della legge [25 maggio 2010] […] da oltre dieci anni, per le quali risulti soccombente l’Amministrazione finanziaria dello Stato nei primi due gradi di giudizio”. In queste ipotesi, è prevista347 la definizione automatica delle controversie pendenti innanzi alla Commissione tributaria centrale e la possibilità di definire quelle pendenti innanzi alla Corte di

342. A tal fine, l’art. 10, comma 1, lett. b), del d.l. n. 78/2009, ha aggiunto un nuovo periodo nel primo comma dell’art. 34 della l. n. 388/2000. Riportiamo, per comodità espositiva, il testo del primo comma dell’art. 34: “A decorrere dal 1º gennaio 2001 il limite massimo dei crediti di imposta e dei contributi compensabili ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, ovvero rimborsabili ai soggetti intestatari di conto fiscale, è fissato in lire 1 miliardo per ciascun anno solare. Tenendo conto delle esigenze di bilancio, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, il limite di cui al periodo precedente può essere elevato, a decorrere dal 1° gennaio 2010, fino a 700.000 euro”.

343. A tal fine è stato emanato il Provvedimento del Direttore del’Agenzia delle entrate del 3 marzo 2010, il auqle ha stabilito le modalità di effettuazione della predetta ritenuta.

344. In questi termini si esprime la relazione illustrativa dell’art. 15, comma 2, del d.l. n. 78/2009.

345. Cfr. art. 25 del d.l. n.78/2010.

346. In particolare, si tratta della possibilità di richiedere alle banche, alla società Poste italiane e ad altri soggetti notizie e documenti relativi ai rapporti intrattenuti con il contribuente nei cui confronti si intende adottate la predetta misura.

347. Cfr. art. 3, comma 2-bis del d.l. n. 40/2010.

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Cassazione mediante il pagamento di una somma pari al 5 per cento del loro valore348.

Sempre in tema di contenzioso tributario, al fine anche di accelerare la riscossione, è stata modificata la disciplina di notificazione delle sentenze, riconoscendo alle parti del processo la possibilità di avvalersi delle procedure previste per gli altri atti del processo349 e, dunque, senza la necessità di ricorrere all’ufficiale giudiziario350. Alla medesima finalità rispondono le modifiche apportate in tema di notificazione degli atti aventi natura fiscale ai contribuenti non residenti; per effetto di tali innovazioni, infatti, la notifica nei confronti dei predetti soggetti è validamente effettuata mediante invio di lettera raccomandata con avviso di ricevimento all’indirizzo della residenza estera rilevato dai registri dell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE) o, in caso di società, a quello della sede legale estera risultante dal registro delle imprese. In mancanza di tali indirizzi, invece, l’invio della lettera raccomandata con avviso di ricevimento deve essere effettuato all’indirizzo estero indicato dal contribuente nelle domande di attribuzione del numero di codice fiscale351.

Nella stessa logica di semplificazione della riscossione, è stata disposta la riduzione degli oneri posti a carico dei contribuenti nei casi di pagamento rateale delle somme dovute nell’ambito della conciliazione giudiziale e dell’accertamento con adesione. A seguito delle modifiche introdotte all’articolo 48 del d.lgs. n. 546/1992 dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 40/2010, la prestazione di garanzia che era precedentemente prevista nella generalità dei casi viene ora richiesta solo nel caso in cui l’importo delle rate successive alla prima sia superiore a 50.000 euro352.

15. Inasprimento del regime sanzionatorio

Abbiamo già evidenziato, in premessa, che in materia di regime sanzionatorio, il biennio in rassegna ha registrato una tendenziale inversione di quel processo che in anni precedenti aveva portato ad una accentuata riduzione delle sanzioni amministrative per le violazioni in materia tributaria nei casi di ricorso alle diverse fattispecie di ravvedimento o di definizione agevolata dei rapporti tributari.

L’art. 1, commi 18-20, della l. n. 220/2010 ha, infatti, modificato, rettificandole in aumento, le misure delle sanzioni previste in ipotesi di definizione con adesione, acquiescenza all’accertamento e all’irrogazione separata delle sanzioni tributarie, conciliazione giudiziale e ravvedimento operoso.

In particolare, sono state elevate da un quarto ad un terzo del minimo edittale le sanzioni previste, nell’ambito della disciplina della definizione con adesione, dagli artt. 2,3 e 15 del d.lgs. n. 218/1997. Alla stessa misura di un terzo del minimo edittale sono state anche ricondotte le sanzioni previste

348. Segnaliamo, tuttavia, che la Corte di cassazione, con ordinanza n. 18055 del 4 agosto 2010, nutrendo talune perplessità circa la compatibilità di tale misura con l’ordinamento comunitario, ha richiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea un pronunciamento ufficiale ai sensi dell’art. 267 del Trattato CE su tale aspetto. Al riguardo, è opportuno evidenziare che il Giudice di legittimità ha emesso la predetta ordinanza in occasione della richiesta avanzata da un contribuente di definire, ai sensi del predetto art. 3, comma 2-bis del d.l. 40/2010, una controversia nella quale l’Amministrazione finanziaria contestava la natura elusiva dell’operazione effettuata dal contribuente medesimo. In effetti, il Giudice di legittimità ha chiesto alla CGE se la definizione agevolata delle controversie prevista dall’art. 3, comma 2-bis del d.l. n. 40/2010, si ponga in contrasto, tra l’altro, con “l’obbligo di reprimere pratiche abusive” ed, in particolare, se tale misura “consistendo in una rinuncia pressoché integrale alla pretesa impositiva, possa ritenersi corretto esercizio della c.d. concorrenza fiscale, soprattutto quando, come nel caso di esame, la sottrazione al dovere di pagare il tributo dovuto è avvenuta mediante pratiche abusive”.

349. Cfr. art. 16 del d.lgs. n. 546/1992.

350. Cfr. art. 3, comma 1, lett. a) del d.l. n. 40/2010, il quale, a tal fine, ha modificato l’art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992.

351.Cfr. artt. 60 del d.P.R. n. 600/1973 e 26 del d.P.R. n. 602/1973, come risultanti a seguito delle modifiche ad essi apportati dall’art. 2, comma 1, del d.l. n. 40/2010.

352. La modifica in esame trova applicazione anche nell’ipotesi di c.d. acquiescenza all’avviso di accertamento o di liquidazione di cui all’art. 15, comma 2, del d.lgs. n. 218/1997.

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dagli artt. 16 e 17 del d.lgs. n. 472/1997 nell’ipotesi, rispettivamente, di acquiescenza all’accertamento e di acquiescenza alla irrogazione separata delle sanzioni.

Sono state anche elevate le misure delle sanzioni previste nelle diverse ipotesi di ravvedimento operoso di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 472/1997353.

Infine, sono state oggetto di revisione in aumento anche le sanzioni previste nell’ipotesi di conciliazione giudiziale di cui all’art. 48, comma 6, del d.lgs. n. 546/1992 354.

353. In particolare, art. 1, comma 20, della legge di stabilità finanziaria ha previsto:- l’aumento da un dodicesimo ad un decimo del minimo della sanzione “nei casi di mancato pagamento del tributo o di un acconto, se esso viene eseguito nel termine di trenta giorni dalla data della sua commissione”; - l’aumento da un decimo ad un ottavo del minimo della sanzione “se la regolarizzazione degli errori e delle omissioni, anche se incidenti sulla determinazione o sul pagamento del tributo, avviene entro il termine per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno nel corso del quale è stata commessa la violazione ovvero, quando non è prevista dichiarazione periodica, entro un anno dall’omissione o dall’errore”; - l’aumento da un dodicesimo ad un decimo del minimo della sanzione “è prevista per l’omissione della presentazione della dichiarazione, se questa viene presentata con ritardo non superiore a novanta giorni”, nonché l’aumento da un dodicesimo ad un decimo del minimo della sanzione “prevista per l’omessa presentazione della dichiarazione periodica prescritta in materia di imposta sul valore aggiunto, se questa viene presentata con ritardo non superiore a trenta giorni”.Per quanto riguarda la decorrenza del nuovo regime sanzionatorio, rileviamo che: le innovazioni di cui alle lettere a) e b) “si applicano con riferimento agli atti definibili emessi dagli uffici dell’agenzia delle entrate a decorrere dal 1°febbraio 2011”; le modifiche di cui alle lettera c) “si applicano con riferimento agli atti emessi a decorrere a decorre dal 1°febbraio 2011”; le modifiche di cui alla lettere d) “si applicano ai ricorsi presentati a decorrere dal 1° febbraio 2011”.Le modifiche di cui alla lettera e) “si applicano alle violazioni commesse a decorrere dal 1°febbraio 2011”.

354. In particolare, l’art. 48, comma 6, del d.lgs. n. 546/1992, nella versione risultante dalle predette modifiche, prevede l’applicazione di una sanzione pari al 40 per cento (in luogo della precedente misura di un terzo) delle somme irrogabili in rapporto dell’ammontare del tributo risultante dalla conciliazione e, in ogni caso, in misura non inferiore al 40 per cento dei minimi edittali per le violazioni più gravi relative a ciascun tributo.

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CAPO IV

RIFORMA DELLA FINANZA PUBBLICA E FEDERALISMO

1. Riforma della finanza pubblica

Il 31 dicembre 2009 è stata approvata la legge n. 196 che costituisce il primo passo di una riforma complessiva della legislazione di contabilità e finanza pubblica. L’iter prevede l’adozione di una serie di decreti delegati e dovrebbe concludersi in quattro anni1.

La riforma è stata avviata per superare alcuni difetti del sistema precedente, incentrato sulla legge 5 agosto 1978, n. 468, e adeguare l’ordinamento ad alcuni mutamenti del quadro istituzionale avvenuti negli ultimi vent’anni. Anzitutto, dall’adesione dell’Italia alle regole del Trattato di Maastricht sono derivati nuovi vincoli e obiettivi di finanza pubblica che impongono una disciplina fiscale più rigorosa. In secondo luogo, lo spostamento della gestione delle risorse pubbliche dal centro alla periferia nell’ambito del processo di attuazione del federalismo richiede la responsabilizzazione fiscale degli enti decentrati e meccanismi di coordinamento tra il ciclo finanziario dello Stato e quello di regioni e enti locali.

La riforma mira ad aumentare la trasparenza nei confronti del Parlamento e dell’opinione pubblica, assicurare un orizzonte pluriennale per la programmazione della spesa, far precedere le decisioni sugli aggregati rilevanti del bilancio pubblico a quelle sull’allocazione delle risorse e porre una maggiore enfasi sul controllo dei risultati della spesa più che sul controllo degli input. Tre sono le linee direttrici principali: la modifica del ciclo di bilancio in un’ottica di programmazione di medio periodo su un orizzonte triennale; un più stretto collegamento tra i diversi livelli della pubblica amministrazione per realizzare un governo unitario della finanza pubblica; l’aumento della trasparenza e il rafforzamento dei controlli sulla spesa.

La legge contiene alcune deleghe al Governo per completare l’impianto, che riguardano in particolare l’armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio, il potenziamento del sistema di controlli di ragioneria e del programma di analisi e valutazione della spesa, la razionalizzazione, trasparenza ed efficacia delle procedure di spesa in conto capitale per la realizzazione delle opere pubbliche. Entro il 1° gennaio 2014 è prevista l’adozione di un testo unico in materia di contabilità e tesoreria.

Le disposizioni della l. n. 196/2009 e dei decreti di attuazione costituiscono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 117 della Costituzione e sono finalizzate alla “tutela dell’unità economica della Repubblica italiana”.

L’armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio è un presupposto ineludibile per realizzare un effettivo governo unitario della finanza pubblica; la coerenza con i requisiti previsti a livello comunitario ai fini della procedura per i disavanzi eccessivi è funzionale a un più efficace

1. Cfr. Note e studi Assonime 10/2010.

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rispetto dei vincoli europei. Il processo di armonizzazione deve coinvolgere tutte le amministrazioni pubbliche, come identificate dall’ISTAT in base alle definizioni elaborate a livello comunitario. Per coinvolgere gli enti locali nel processo di armonizzazione la l. n.196/2009 ha modificato la l. n. 42/2009 di attuazione del federalismo fiscale.

Con la legge 7 aprile 2011, n. 39 sono state apportate alcune modifiche alla l. n. 196/2009 per tenere conto delle nuove regole europee sul coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri e in particolare del semestre europeo, già in vigore dal gennaio 2011.

La programmazione di finanza pubblica prevede ora la presentazione alle Camere entro il 10 aprile di ogni anno del Documento di economia e finanza (DEF), coordinata temporalmente con la presentazione del Piano Nazionale di riforma che gli Stati devono sottoporre alla Commissione europea (assieme al Piano di stabilità e convergenza) in aprile.

Nel DEF vengono formulate le previsioni economiche e di finanza pubblica per almeno un triennio e si definiscono gli obiettivi di politica economica da realizzare con la manovra di finanza pubblica. In particolare, il DEF contiene obiettivi programmatici riferiti all’indebitamento netto, al saldo di cassa al lordo e netto degli interessi, al debito delle amministrazioni pubbliche e previsioni sull’evoluzione dell’indebitamento netto; individua regole generali sull’evoluzione della spesa pubblica; stabilisce le priorità anche in termini di riforme da attuare. In caso di notevoli scostamenti rispetto agli obiettivi o in caso di modifica degli obiettivi stessi il Governo deve presentare alle Camere una Nota di aggiornamento.

La manovra di finanza pubblica, che definisce le misure per la realizzazione degli obiettivi contenuti nel DEF, si articola su legge di stabilità e legge di bilancio.

La legge di stabilità sostituisce la precedente legge finanziaria e ne costituisce una versione più snella. Essa non può contenere norme di delega, norme di carattere ordinamentale o organizzatorio, interventi di natura localistica o micro settoriale e norme per lo sviluppo. Non possono essere inserite disposizioni i cui effetti finanziari si producono oltre il triennio di programmazione. Alla preclusioni si affiancano le prescrizioni: la legge di stabilità ha un contenuto obbligatorio che include il livello massimo del ricorso al mercato finanziario, la variazione delle aliquote, delle detrazioni e degli scaglioni, l’ammontare massimo destinato per ciascun anno del bilancio pluriennale al rinnovo dei contratti del pubblico impiego e le eventuali norme necessarie all’attuazione del Patto di Stabilità interno e del Patto di Convergenza.

La legge di bilancio regola la gestione finanziaria dello Stato. Il bilancio annuale di previsione è accompagnato dal bilancio pluriennale di previsione che copre un periodo di tre anni, in coerenza con l’orizzonte triennale della programmazione. Il bilancio annuale è strutturato in missioni e programmi, codificando una prassi già in atto. Rispetto al sistema precedente, l’unità di voto parlamentare per la spesa è stata spostata a un livello più aggregato e corrisponde ora ai programmi. Cambia la classificazione delle spese rimodulabili rispetto a quelle non rimodulabili, aumentando l’ambito delle prime anche grazie all’ampliamento dell’unità di voto, così da rendere rimodulabile il 25 per cento delle spese del bilancio rispetto al 3 per cento precedente.

E’ affidata alla decretazione delegata (da esercitare entro il 1° gennaio 2012) la riorganizzazione dei programmi di spesa e delle missioni in modo da mettere in più stretta correlazione missioni e ministeri e aumentare così la trasparenza dell’intero procedimento di formazione delle decisioni di spesa. Sono previsti tetti di spesa tramite la fissazione di limiti alla rimodulabilità delle spese in linea con la programmazione triennale.

Per realizzare un efficace controllo degli andamenti di finanza pubblica un presupposto necessario è quello di un'adeguata base informativa. La l. n. 196/2009 prevede l’istituzione di una banca dati delle amministrazioni pubbliche presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze nella quale confluiscono tutte le informazioni rilevanti. La banca dati in particolare conterrà dati concernenti bilanci di previsione e relative variazioni, conti consuntivi e relativi alle operazioni gestionali di tutti gli enti che rientrano nella definizione di amministrazione pubblica. Nella banca dati confluiranno anche le informazioni necessarie alla realizzazione del federalismo fiscale, che verranno messe a disposizione della Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale e della Commissione

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permanente per il coordinamento della finanza pubblica.

La banca dati si pone all’interno di un sistema di obblighi informativi funzionale al monitoraggio degli andamenti di finanza pubblica da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Si spiega così la norma che dispone che gli enti e le amministrazioni che non adempiono agli obblighi informativi non possono effettuare prelevamenti dai conti aperti presso la Tesoreria dello Stato.

L’insieme dei programmi di spesa viene sottoposto a verifica tramite una valutazione di efficacia, efficienza ed economicità (spending review) nell’ambito di Nuclei di valutazione della spesa istituiti senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. La loro attività è funzionale alla formulazione di proposte di rimodulazione delle risorse finanziarie tra programmi di spesa. Ogni tre anni la Ragioneria generale dello Stato elabora e presenta al Parlamento un Rapporto sulla spesa delle amministrazioni dello Stato nel quale vengono presentati gli andamenti e la composizione della spesa.

Per il controllo della copertura della spesa, elemento cruciale in quanto in passato ha costituito l’anello debole nell’applicazione dell’art. 81 della Costituzione, si stabilisce tra l’altro che la spesa autorizzata deve intendersi come limite massimo per ciascun anno e che le eventuali maggiori entrate rispetto a quelle iscritte in bilancio non possono andare a coprire nuove o maggiori spese ma devono essere destinate al miglioramento dei saldi di finanza pubblica. La legge stabilisce tassativamente i modi tramite i quali deve essere effettuata la copertura di nuove spese o maggiori entrate e prevede che le disposizioni che comportano nuove o maggiori spese hanno effetto entro i limiti della spesa espressamente autorizzata dalla legge di riferimento; una clausola di salvaguardia si attiva automaticamente nei casi in cui si verificano o stanno per verificarsi scostamenti di copertura rispetto alle previsioni.

Va infine rilevato che la l. n. 39/2011 ha modificato la l. n. 196/2009 richiedendo solo un potenziamento della funzione del bilancio di cassa invece del previsto passaggio al solo regime di cassa.

2. L’attuazione della legge delega sul federalismo fiscale

Nel 2010 sono stati adottati i primi decreti legislativi di attuazione della legge delega sul federalismo fiscale2.

Federalismo demaniale

Il primo decreto di attuazione è stato il decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85 sul federalismo demaniale3. L’attribuzione di un patrimonio alle autonomie locali trova il suo fondamento nell’art. 119, comma 6, della Costituzione, in base al quale i comuni, le province, le città metropolitane e le regioni “hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato”. La legge delega n. 42/2009 prevede che parte del patrimonio attualmente posseduto dallo Stato venga attribuito alle autonomie locali in relazione alle dimensioni territoriali, alla capacità finanziaria e alle competenze e funzioni svolte; per l’attribuzione dei beni immobili dovrà essere applicato il principio di territorialità.

2. Legge 5 maggio 2009, n. 42. Dal punto di vista procedurale, la legge delega prevede che gli schemi dei decreti legislativi di attuazione dell’art. 119 della Costituzione devono essere trasmessi alle Camere, previa intesa in sede di Conferenza unificata Stato-regioni-enti locali. In mancanza dell’intesa in sede di Conferenza unificata nel termine di trenta giorni, il Consiglio dei ministri delibera approvando una relazione che è trasmessa alla Camere e che indica le specifiche motivazioni per cui l’intesa non è stata raggiunta.

3. “Attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un loro patrimonio, ai sensi dell’articolo 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42”.

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Il decreto legislativo indica come obiettivo la valorizzazione dei beni statali, spesso sottoutilizzati, tramite la loro assegnazione al livello di governo più capace di utilizzarli a favore della collettività. Il trasferimento dei beni deve avvenire a titolo non oneroso su richiesta dell’ente territoriale interessato e ha come oggetto beni individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa intesa in sede di Conferenza unificata Stato-regioni-enti locali, secondo criteri di territorialità, sussidiarietà, adeguatezza, semplificazione, capacità finanziaria, correlazione con competenze e funzioni e valorizzazione ambientale. Gli enti interessati che presentano richiesta per il trasferimento dei beni devono allegare alla domanda una relazione in cui vanno indicate, tra l’altro, le finalità, le modalità di utilizzazione e la destinazione del bene. Qualora l’ente non utilizzi il bene nel rispetto delle finalità e dei tempi indicati nella relazione, il Governo eserciterà il potere sostitutivo. I beni per i quali non viene presentata domanda di trasferimento confluiranno in un patrimonio vincolato affidato all’Agenzia del Demanio che li gestirà provvedendo alla loro valorizzazione e alienazione.

Il decreto legislativo prevede l’attribuzione alle regioni del demanio marittimo e del demanio idrico, ad eccezione dei fiumi sovraregionali e dei laghi di ambito sovraregionale per i quali non intervenga un’intesa tra le regioni interessate. Alle province verranno assegnati i laghi chiusi e le miniere, che non comprendono i giacimenti petroliferi e di gas. Alle province verrà anche destinata una parte dei proventi dei canoni ricavati dall’utilizzazione del demanio idrico trasferito alle regioni. Rimangono invece allo Stato i porti e gli aeroporti di rilevanza economica nazionale e internazionale, i beni appartenenti al patrimonio culturale, le reti di interesse statale, comprese quelle stradali ed energetiche, le strade ferrate di proprietà dello Stato, i parchi nazionali e le riserve naturali statali, i beni immobili in uso per finalità istituzionali.

Per il resto, i beni statali verranno attribuiti anzitutto ai comuni, ma saranno assegnati a livelli di governo superiori se prevalgono esigenze particolari di tutela, gestione e valorizzazione. I beni trasferiti entrano a far parte del patrimonio disponibile dell’ente a cui sono attribuiti. I beni del demanio marittimo, idrico e aeroportuale, restano indisponibili in base alle previsioni del codice civile. Altri beni potranno essere dichiarati indisponibili, con motivazione, mediante decreto del Governo.

I beni trasferiti agli enti territoriali possono essere conferiti a fondi comuni di investimento immobiliare, di cui essi detengono le quote. A questi fondi può partecipare la Cassa depositi e prestiti. Le risorse derivanti agli enti territoriali dall’eventuale alienazione del patrimonio disponibile loro attribuito o dalla cessione delle quote dei fondi immobiliari a cui i beni sono stati conferiti sono acquisite dall’ente territoriale per il 75 per cento; esse sono destinate alla riduzione del debito dell’ente e solo in assenza del debito, o comunque per la parte eventualmente eccedente, a spese di investimento. La residua quota del 25 per cento è destinata al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato.

Gli enti locali in stato di dissesto finanziario, fino a quando perdura lo stato di dissesto, non possono alienare i beni ad essi attribuiti, che possono essere utilizzati solo per finalità di carattere istituzionale.

Sul sito internet dell’Agenzia del demanio è stato pubblicato un elenco non completo dei beni del patrimonio dello Stato potenzialmente trasferibili alle autonomie territoriali in attuazione del decreto legislativo sul federalismo demaniale. Sono esclusi dall’attuale lista i beni utilizzati dalle amministrazioni pubbliche, i beni appartenenti al demanio storico e artistico e i beni situati nelle regioni a statuto speciale e nel comune di Roma. Per il trasferimento di questi ultimi la legge delega n. 42/2009 prevede l’emanazione di un apposito decreto legislativo. E’ previsto l’aggiornamento periodico della lista dei beni, ogni quindici giorni.

Roma capitale

Con il decreto legislativo 17 settembre 2010, n. 156 è stata attuata la delega sull’ordinamento di Roma

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capitale4, esclusivamente per la parte relativa all’autonomia statutaria, agli organi di governo e allo status degli amministratori. Il decreto legislativo individua come organi di governo di Roma Capitale l’Assemblea capitolina (al posto dell’attuale consiglio comunale), la Giunta capitolina e il Sindaco. L’Assemblea capitolina è l’organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo ed è composta dal Sindaco e da 48 consiglieri. L’assemblea ha tra le sue competenze la deliberazione dello statuto di Roma capitale e l’adozione di regolamenti per la disciplina delle ulteriori funzioni amministrative assegnate dalla legge delega. Lo statuto dovrà stabilire i municipi di Roma capitale in numero non superiore a quindici (attualmente sono venti). Lo statuto e i regolamenti dovranno inoltre prevedere e disciplinare forme di monitoraggio e controllo da affidare a soggetti terzi per garantire il rispetto degli standard e degli obiettivi di servizio nell’esercizio delle funzioni riconducibili ai livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali.

La Giunta capitolina è composta dal Sindaco e da un numero massimo di dodici assessori (pari a un quarto dei consiglieri) da lui nominati. Le disposizioni sul numero dei membri dell’Assemblea capitolina e degli assessori si applicano a partire dalla prima elezione dell’Assemblea capitolina successiva all’entrata in vigore del decreto legislativo. Al Sindaco sono attribuiti alcuni poteri particolari: è previsto che egli possa essere udito nelle riunioni del Consiglio dei ministri quando nell’ordine del giorno siano iscritti argomenti inerenti alle funzioni conferite a Roma capitale. E’ inoltre prevista la possibilità per il Sindaco di richiedere all’Assemblea deliberazioni con procedura d’urgenza per garantire il tempestivo adempimento degli obblighi di legge o per evitare l’omessa adozione di atti fondamentali di competenza dell’Assemblea.

Il decreto legislativo conferisce ai consiglieri dell’Assemblea capitolina, agli assessori della Giunta capitolina e al Sindaco lo status di amministratori di Roma capitale e rinvia a un decreto del Ministro dell’interno la determinazione delle loro indennità di funzione. Queste disposizioni troveranno applicazione a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo sulle funzioni di Roma capitale e sul trasferimento delle relative risorse.

Federalismo fiscale municipale

Il decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 ha attuato la legge delega per la parte relativa al federalismo fiscale municipale. Il provvedimento delinea una riforma della fiscalità comunale da realizzare in due fasi: la prima, immediatamente operativa, comporta, essenzialmente, la revisione di tributi già esistenti e la loro devoluzione ai comuni; la seconda avrà, invece, inizio nel 2014 e sarà incentrata sull’introduzione di due nuove forme di tributi propri dei comuni che sostituiranno, in larga misura, le imposte che nella fase di avvio costituiscono oggetto di devoluzione.

La fase di avvio è incentrata, in particolare, sulla devoluzione ai comuni della fiscalità relativa agli immobili situati nel loro territorio; in tale quadro, è attribuito ai comuni l’intero gettito dell’IRPEF relativa ai redditi fondiari (salvo per la parte relativa al reddito agrario), della cedolare secca sugli affitti e delle imposte di registro e di bollo sui contratti di locazione relativi agli immobili; e il 30 per cento del gettito dell’imposta di registro e di bollo sugli atti di trasferimento di beni immobili, delle imposte ipotecaria e catastale, dei tributi speciali catastali e delle tasse ipotecarie.

Particolare importanza assume, sempre in tema di fiscalità immobiliare, la previsione del nuovo regime opzionale di tassazione dei redditi e degli atti relativi a locazioni di immobili ad uso abitativo, denominato cedolare secca sugli affitti. Già da quest’anno i proprietari di immobili concessi in locazione possono scegliere se assoggettare a tassazione i redditi della locazione all’aliquota marginale IRPEF o ad un’imposta fissa, sostitutiva anche delle imposte di registro e di bollo sui contratti di locazione. Tale imposta sostitutiva, il cui gettito è attribuito al comune in cui è situato l’immobile, si applica con l’aliquota del 21 per cento per i contratti a canone libero e con l’aliquota del 19 per i contratti

4. La delega è prevista dall’art. 24 della l. n. 42/2009. La delega configura, al posto del comune di Roma, l’ente territoriale “Roma capitale”, dotato di una speciale autonomia. Ad esso sono attribuite, oltre a quelle svolte attualmente, ulteriori funzioni amministrative relative alla valorizzazione dei beni storici, artistici e ambientali, allo sviluppo del settore produttivo e del turismo, allo sviluppo urbano, all’edilizia pubblica e privata, ai servizi urbani e alla protezione civile. La delega prevede inoltre l’assegnazione a Roma di risorse ulteriori, in considerazione del ruolo di capitale della Repubblica e delle nuove funzioni ad essa attribuite e stabilisce i principi generali per l’attribuzione a Roma capitale di un proprio patrimonio.

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a canone concordato (nel caso di contratti a canone concordato, il locatore che opti per la cedolare secca non potrà richiedere aggiornamenti del canone per tutta la durata del contratto). L’imposta cedolare non si applica sui canoni delle locazioni di fabbricati commerciali (uffici, negozi, cantine, garages, opifici, ecc.), né sugli affitti dei terreni: per tali redditi, pertanto, resta fermo il regime ordinario di tassazione. All’istituzione della cedolare secca si riconnette il raddoppio delle sanzioni amministrative per l’inadempimento degli obblighi di dichiarazione concernenti gli immobili.

Ai comuni è attribuita, inoltre, una compartecipazione al gettito dell’IVA, in percentuale da stabilire con decreto del Presidente del Consiglio e in misura finanziariamente equivalente alla compartecipazione al 2 per cento al gettito dell’IRPEF, con riferimento al territorio su cui si è determinato il consumo che ha dato luogo al prelievo. Dal 2012 è soppressa l’addizionale comunale all’accisa sull’energia elettrica nelle regioni a statuto ordinario ed è corrispondentemente aumentata, nei predetti territori, l’accisa erariale, così da assicurare la neutralità finanziaria del provvedimento ai fini del rispetto dei saldi di finanza pubblica.

Un’importante fonte di entrata potrà essere costituita – ma solo per i comuni capoluogo di provincia, per le unioni di comuni, nonché per i comuni inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche o città d’arte – dall’istituzione facoltativa di un’imposta di soggiorno a carico di coloro che alloggiano nelle strutture ricettive situate sul proprio territorio; tale imposta, applicata in proporzione al prezzo, non potrà comunque essere superiore ai 5 euro per notte di soggiorno. Il gettito derivante da tale imposta dovrà essere utilizzato al solo fine di finanziare interventi in favore del turismo.

Quanto all’addizionale comunale all’IRPEF, il provvedimento prevede l’emanazione di un apposito regolamento che disciplini il potere dei comuni di introdurre o modificare l’aliquota. Un ulteriore regolamento dovrà essere emanato anche per riformare l’imposta di scopo, in modo da ampliarne l’ambito di operatività.

Il provvedimento adotta anche misure dirette a incentivare la partecipazione dei comuni al’accertamento tributario, quali l’attribuzione ai comuni del maggior gettito derivante dall’accatastamento degli immobili non dichiarati, l’aumento (dal 33 al 50 per cento) della quota dei tributi erariali già riconosciuta ai comuni per la loro partecipazione all’accertamento, l’accesso ai dati contenuti nell’Anagrafe tributaria.

La seconda fase di attuazione del federalismo municipale è incentrata sulla istituzione, a decorrere dall’anno 2014, di due nuovi tributi: un’imposta municipale propria e un’imposta municipale secondaria. L’imposta municipale propria (IMU) è istituita, a decorrere dal 2014, in sostituzione, per la componente immobiliare, dell’IRPEF e delle relative addizionali dovute sui redditi fondiari relativi a beni non locati, nonché dell’ICI. Il presupposto per l’applicazione dell’IMU è lo stesso dell’ICI, e cioè il possesso di immobili diversi dall’abitazione principale. Anche la base imponibile è la stessa dell’ICI, costituita dal valore dell’immobile.

L’aliquota è stabilita nello 0,76 per cento, ridotta alla metà per gli immobili locati, con la facoltà per i comuni di estendere in tutto o in parte tale riduzione anche agli immobili posseduti da soggetti cui si applichi l’IRES. Ai comuni è lasciata la possibilità di modificare l’aliquota, in aumento o in riduzione, fino a 0,3 punti percentuali (fino a 0,2 punti percentuali nel caso dell’aliquota ridotta alla metà per gli immobili locati).

Soggetti passivi del tributo sono il proprietario dell’immobile o il titolare di diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie. Se si tratta di aree demaniali, soggetto passivo è il concessionario; per gli immobili concessi in leasing, soggetto passivo è il locatario.

L’imposta municipale secondaria potrà essere introdotta, sempre a decorrere dal 2014, in base a deliberazione del consiglio comunale, per sostituire una o più delle seguenti forme di prelievo: la tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche, il canone di occupazione di spazi e aree pubbliche, l’imposta comunale sulla pubblicità e i diritti sulle pubbliche affissioni, il canone per l’autorizzazione all’installazione dei mezzi pubblicitari. A decorrere dall’introduzione dell’imposta municipale secondaria sarà abolita l’addizionale per l’integrazione dei bilanci degli enti comunali di assistenza.

In sostanza, la nuova imposta dovrà accorpare prelievi che, attualmente, possono sovrapporsi,

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realizzando duplicità di tassazione. Il presupposto del tributo sarà costituito dall’occupazione dei beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dei comuni, nonché degli spazi soprastanti o sottostanti il suolo pubblico, anche a fini pubblicitari. Il soggetto passivo sarà colui che effettua l’occupazione; in caso di occupazione con impianti pubblicitari, sarà obbligato in solido il soggetto che utilizza l’impianto per diffondere il messaggio pubblicitario.

La misura del tributo sarà stabilita con tariffe differenziate in base alla tipologia e alle finalità dell’occupazione, alla zona oggetto dell’occupazione e alla classe demografica del comune. I parametri saranno costituiti dalla durata dell’occupazione e dalla sua entità (espressa in metri quadrati o lineari).

Sempre a partire dal 2014, l’imposta di registro sui trasferimenti di beni immobili sarà semplificata con la previsione di due sole aliquote: quella ordinaria del 9 per cento e quella ridotta, per i trasferimenti di “prime case” di abitazione, del 2 per cento. Pertanto saranno abolite tutte le altre aliquote ridotte (ad esempio quella applicabile agli immobili di interesse storico-artistico), nonché l’aliquota maggiorata del 15 per cento applicabile ai terreni agricoli. L’imposta di registro è destinata ad essere l’unico tributo indiretto su tali atti poiché, a decorrere dal 2014, essi non saranno più assoggettati all’imposta di bollo, alle imposte ipocatastali, ai tributi speciali e alle tasse ipotecarie.

Il d.lgs. n. 23/2011 contiene anche misure in materia di finanza pubblica. Viene stabilito che l’autonomia finanziaria dei comuni deve essere compatibile con gli impegni finanziari assunti con il patto di stabilità e crescita e che dall’attuazione dei decreti legislativi previsti dalla legge delega sul federalismo fiscale non può derivare alcun aumento del prelievo fiscale complessivo a carico dei contribuenti, anche nella fase transitoria. Nel caso in cui siano attribuite ai comuni ulteriori funzioni, secondo quanto previsto dall’art. 118 della Costituzione e con le modalità stabilite nell’art. 7 della legge 5 giugno 2003, n. 131, deve essere assicurato al complesso degli enti l’integrale finanziamento di queste funzioni, qualora non si sia provveduto al finanziamento contestualmente al trasferimento.

Il decreto legislativo istituisce infine nel bilancio dello Stato un fondo perequativo per il finanziamento delle spese di comuni e province successivo alla determinazione dei fabbisogni standard collegati alle spese per le funzioni fondamentali. Il fondo, con indicazione separata degli stanziamenti per comuni e per province, è istituito a titolo di concorso per il finanziamento delle funzioni da essi svolte. Le modalità di alimentazione e di riparto del fondo saranno stabilite con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Il fondo perequativo a favore dei comuni è alimentato da quote del gettito dell’imposta di registro e di bollo sugli atti di trasferimento di beni immobili, delle imposte ipotecaria e catastale, dell’IRPEF in relazione ai redditi fondiari escluso il reddito agrario, dell’imposta di registro e di bollo sui contratti di locazione relativi a immobili, dei tributi speciali catastali, delle tasse ipotecarie e della cedolare secca sugli affitti. Il fondo è alimentato anche dalla compartecipazione al gettito dell’imposta di registro e di bollo sugli atti di trasferimento di beni immobili. Il fondo è articolato in due componenti, di cui la prima riguarda le funzioni fondamentali dei comuni e la seconda le funzioni non fondamentali. Le quote sono suddivise in corrispondenza della determinazione dei fabbisogni standard relativi alle funzioni fondamentali e riviste in funzione della loro dinamica.

Fabbisogni standard

Il decreto legislativo 26 novembre 2010, n. 216 riguarda i fabbisogni standard di comuni e province. I fabbisogni standard costituiscono il riferimento cui rapportare il finanziamento della spesa relativa alle funzioni fondamentali degli enti locali. La loro definizione consentirà il superamento del criterio della spesa storica. L’anno 2012 è individuato come anno di avvio della fase transitoria. Nel 2011 verranno determinati fabbisogni standard che entreranno in vigore nel 2012 per almeno un terzo delle funzioni fondamentali di comuni e province. Nel 2012 verranno determinati fabbisogni standard che entreranno in vigore nel 2013 per almeno due terzi delle funzioni fondamentali. Nel 2013 verranno determinati fabbisogni standard che entreranno in vigore nel 2014 riguardo a tutte le funzioni fondamentali di comuni e province. Ciascun gruppo di fabbisogni standard determinato annualmente entrerà in vigore con un processo di gradualità diretto a garantire l’entrata a regime nell’arco del triennio.

In attesa della legge statale di individuazione delle funzioni fondamentali degli enti locali, il decreto

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legislativo riprende l’elenco provvisorio delle funzioni stabilito dalla legge delega n. 42/20095. In particolare, sono considerate funzioni fondamentali dei comuni: le funzioni di amministrazione, gestione e controllo, polizia locale, istruzione pubblica, le funzioni nel campo della viabilità e dei trasporti, quelle riguardanti la gestione del territorio e dell’ambiente e quelle nel settore sociale.

Sono funzioni fondamentali delle province: le funzioni generali di amministrazione, gestione e controllo, quelle di istruzione pubblica, quelle nel campo dei trasporti, nella gestione del territorio e nella tutela ambientale e le funzioni nel campo dello sviluppo economico relative ai servizi del mercato del lavoro.

Il decreto stabilisce che il fabbisogno standard per ogni funzione fondamentale è individuato attraverso tre fasi: l’individuazione dei modelli organizzativi in relazione alla funzione fondamentale e ai relativi servizi; l’analisi dei costi finalizzata all’individuazione di quelli più significativi e alla determinazione degli intervalli di normalità; l’individuazione di un modello di stima dei fabbisogni standard.

La predisposizione delle metodologie per l’individuazione dei fabbisogni standard e la determinazione del valore di questi ultimi sono affidate alla Società per gli studi di settore – Sose spa, a partecipazione interamente pubblica. I valori dovranno essere determinati utilizzando tecniche statistiche che diano rilievo alle caratteristiche individuali dei singoli comuni e province, tenendo conto della spesa storica, della spesa relativa ai servizi esternalizzati o svolti in forma associata, dell’ampiezza demografica, delle caratteristiche territoriali, della presenza di zone montane, delle caratteristiche demografiche, sociali e produttive dei diversi enti, del personale impiegato, dell’efficienza, dell’efficacia e della qualità dei servizi erogati e del grado di soddisfazione degli utenti.

Per determinare i fabbisogni standard e, successivamente, per il monitoraggio della fase applicativa e per l’aggiornamento, la Sose raccoglierà i dati contabili e strutturali da comuni e province attraverso appositi questionari. Nella sua attività la Sose si avvarrà della collaborazione scientifica dell’Istituto per la finanza e per l’economia locale – IFEL. Le metodologie individuate saranno sottoposte all’approvazione della Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale. La nota metodologica relativa alla procedura di calcolo e i fabbisogni standard per ogni ente locale verranno adottati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. I fabbisogni standard saranno soggetti a revisione periodica, non oltre il terzo anno successivo alla loro precedente adozione.

Autonomia tributaria di regioni e province e costi standard nel settore sanitario

Con il decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68 è stata attuata la delega sul federalismo fiscale in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario.

Per quanto riguarda le entrate, il decreto individua sia le compartecipazioni delle regioni e delle province al gettito di tributi erariali sia i tributi propri delle regioni e delle province. Esso, inoltre, disciplina i meccanismi perequativi che regolano il finanziamento complessivo delle spese di tali enti. Il sistema prevede, per le regioni, le seguenti misure:

- la rideterminazione dell’addizionale regionale all’IRPEF delle regioni a statuto ordinario. Tale rideterminazione è affidata a un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri da adottare entro un anno dall’entrata in vigore del decreto legislativo, in modo da assicurare al complesso delle regioni a statuto ordinario entrate corrispondenti al gettito assicurato dall’aliquota di base (0,9 per cento), ai trasferimenti statali soppressi dal 2013 e alle entrate derivanti dalla compartecipazione regionale all’accisa sulla benzina, anch’essa soppressa dal 2013;

- la possibilità per ciascuna regione a statuto ordinario di aumentare o diminuire l’aliquota dell’addizionale regionale all’IRPEF di base stabilita nella misura dello 0,9 per cento, a decorrere dal 2013. La maggiorazione non potrà superare lo 0,5 per cento per l’anno 2013; l’1,1 per cento per l’anno 2014; il 2,1 per cento a decorrere dal 2015. In caso di riduzione, l’aliquota dovrà assicurare un gettito

5. Art. 21, comma 3.

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non inferiore all’ammontare dei trasferimenti regionali ai comuni, soppressi a decorrere dal 2013;

- la compartecipazione al gettito dell’IVA su basi diverse da quelle attuali. Fino al 2012 tale compartecipazione è attribuita secondo l’aliquota attualmente vigente (oggi la compartecipazione delle regioni al gettito dell’IVA è pari al 44,72 per cento del gettito complessivo – Dpcm 30 settembre 2009). A partire dal 2013 saranno stabilite, in sostanza, due compartecipazioni: una servirà ad assicurare il pieno finanziamento del fabbisogno corrispondente ai livelli essenziali delle prestazioni in una sola regione, l’altra dovrà alimentare un fondo perequativo idoneo a garantire in ogni regione il finanziamento integrale delle spese in materia di sanità, assistenza sociale, istruzione pubblica, trasporto pubblico locale (con riferimento alle spese in conto capitale) e ulteriori materie da stabilire con legge. Per quanto riguarda il criterio di riparto fra le regioni, lo schema dispone che, a partire dal 2013, le modalità di attribuzione del gettito dovranno essere stabilite – con decreto presidenziale - secondo il principio della territorialità, e cioè tenendo conto del luogo del consumo. Oggi il criterio di attribuzione fa riferimento alla media dei consumi delle famiglie rilevati dall’ISTAT a livello regionale negli ultimi tre anni disponibili (art. 2 della l. n. 56 del 2000);

- la possibilità, per ciascuna regione a statuto ordinario, di ridurre con propria legge le aliquote IRAP, a decorrere dal 2013, fino ad azzerarle e a disporre deduzioni dalla base imponibile. L’eventuale riduzione o azzeramento dell’IRAP è esclusivamente a carico del bilancio della regione e non comporta alcuna forma di compensazione;

- l’applicazione di tributi regionali previsti dalla legislazione in vigore, salvo alcuni tributi che vengono espressamente aboliti. Sono confermati il tributo per il conferimento in discarica, l’addizionale all’accisa sul gas naturale usato come combustibile: questi tributi sono definiti come “tributi propri derivati”. Sono invece trasformati in tributi propri regionali, ferma la facoltà per le regioni di sopprimerli, a decorrere dal 2014, la tassa per l’abilitazione al’esercizio professionale, l’imposta regionale sulle concessioni statali dei beni del demanio marittimo, l’imposta regionale sulle concessioni statali per l’occupazione e l’uso dei beni del patrimonio indisponibile, la tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche regionali, le tasse sulle concessioni regionali, l’imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili. Le tasse automobilistiche saranno disciplinate dalle regioni entro i limiti di manovrabilità stabiliti dalla legislazione statale. A partire dal 2012, è abolita la compartecipazione regionale all’accisa sulla benzina;

- la soppressione, a decorrere dal 2013, di tutti i trasferimenti statali di parte corrente alle regioni a statuto ordinario aventi carattere di generalità e permanenza e destinati all’esercizio delle competenze regionali, compresi quelli finalizzati all’esercizio di funzioni da parte di province e comuni;

- la soppressione, a decorrere dal 2013, dei trasferimenti dalle regioni a statuto ordinario ai comuni e la determinazione per ciascuna regione a statuto ordinario, a decorrere dal 2013, di una compartecipazione dei comuni del proprio territorio all’addizionale regionale all’IRPEF, in misura tale da assicurare un importo corrispondente ai trasferimenti regionali soppressi.

Per quanto riguarda il finanziamento delle province, il sistema prevede le seguenti misure:

- l’attribuzione alle province dell’imposta sulle assicurazioni contro la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, esclusi i ciclomotori. Questo prelievo attualmente è statale ma il relativo gettito è già attribuito alle province; con il nuovo sistema esso diverrà un tributo proprio derivato delle province la cui aliquota sarà pari al 12,5 per cento, ma con la possibilità di elevarla o diminuirla a partire dal 2011, in misura non superiore a 3,5 punti percentuali;

- la conferma dell’attribuzione alle province dell’imposta provinciale sulle formalità di trascrizione, iscrizione e annotazione dei veicoli richiesti al pubblico registro automobilistico, ma con la possibilità di aumentarne le misure per le trascrizioni relative ad atti soggetti a IVA. L’imposta sarà riordinata su iniziativa del Governo;

- l’applicazione di tributi provinciali previsti dalla legislazione in vigore, come il tributo in materia ambientale e la tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche;

- l’attribuzione di una compartecipazione alla tassa automobilistica in misura da assicurare un importo corrispondente ai trasferimenti regionali soppressi;

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- la soppressione, a decorrere dal 2012, dell’addizionale provinciale all’accisa sull’energia elettrica e la proroga, solo per il 2011, della compartecipazione provinciale al’IRPEF;

- la soppressione, a decorrere dal 2012, dei trasferimenti statali alle province comprese nelle regioni a statuto ordinario; in particolare dei trasferimenti aventi carattere di generalità e permanenza;

- la soppressione, a decorrere dal 2013, dei trasferimenti delle regioni a statuto ordinario alle province, in particolare dei trasferimenti di parte corrente diretti al finanziamento delle spese delle province.

Il d.lgs. n. 68/2011 contiene anche disposizioni sui costi e fabbisogni standard nel settore sanitario. Essi costituiscono il riferimento cui rapportare, nella fase transitoria e poi a regime, il finanziamento integrale della spesa sanitaria delle regioni e province autonome di Trento e Bolzano, nel rispetto della programmazione nazionale e dei vincoli di finanza pubblica. La disciplina dei costi standard e dei fabbisogni standard dovrebbe portare a un graduale e definitivo superamento degli attuali criteri di ripartizione6.

La determinazione di costi e fabbisogni standard è prevista a decorrere dal 2013. A partire da questa data il fabbisogno sanitario nazionale standard verrà fissato in coerenza con il quadro macroeconomico complessivo e nel rispetto dei vincoli della finanza pubblica e degli obblighi assunti dall’Italia in sede europea. I costi e i fabbisogni sanitari standard delle regioni saranno individuati annualmente dal ministro della Salute7. Il finanziamento della spesa sanitaria è ripartito in tre livelli percentuali: 5% per l’assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro; 51% per l’assistenza distrettuale e 44% per l’assistenza ospedaliera.

Il fabbisogno sanitario standard delle singole regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano viene determinato, a partire dal 2013, applicando alle singole regioni i valori di costo rilevati nelle regioni di riferimento (benchmark).

In sede di prima applicazione si utilizza il seguente procedimento:

- il ministro della Salute e il ministro dell’Economia individuano le migliori cinque regioni che abbiano garantito l’erogazione dei livelli essenziali delle prestazioni in condizione di equilibrio economico e che risultino adempienti in materia sanitaria. Sono considerate in equilibrio economico le regioni che garantiscono l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza in condizioni di efficienza e di appropriatezza con le risorse ordinarie stabilite dalla legislazione vigente a livello nazionale, comprese le entrate proprie regionali effettive. Le regioni in equilibrio economico sono individuate sulla base dei risultati relativi al secondo esercizio precedente a quello di riferimento;

- tra queste cinque regioni, la Conferenza Stato-regioni ne sceglie tre (tra cui obbligatoriamente la prima dell’elenco), che costituiscono le regioni di riferimento.

In mancanza di un numero sufficiente di regioni che soddisfi pienamente l’equilibrio, il benchmark per la spesa è dato da quella o quelle regioni con il miglior risultato economico nell’anno di riferimento, depurando i costi della quota eccedente rispetto a quella che sarebbe stata necessaria a garantire l’equilibrio.

I costi standard sono calcolati a livello aggregato per ciascuno dei tre macrolivelli di assistenza (collettiva, distrettuale e ospedaliera) facendo riferimento alle regioni benchmark. Per ciascun macrolivello, il valore del costo standard è dato dalla media pro-capite pesata del costo registrato in queste regioni. A tal fine il livello di spesa delle tre macroaree delle regioni benchmark è: computato al lordo della mobilità passiva e al netto della mobilità attiva extraregionale; depurato della quota di spesa finanziata dalle maggiori entrate proprie rispetto alle entrate proprie considerate ai fini della determinazione dei finanziamento nazionale e della quota di spesa che finanzia livelli di assistenza superiori ai livelli essenziali e delle quote di ammortamento; rapportato per ciascuna regione alla popolazione pesata regionale secondo criteri che tengano conto anche di indicatori relativi a particolari situazioni territoriali ritenuti utili per definire i bisogni sanitari.

6. Adottati ai sensi dell’art. 1, comma 34 della l. n. 662/1996 e integrati da quanto stabilito dagli Accordi tra Stato e regioni in materia sanitaria.

7. Di concerto con il ministro dell’Economia e d’intesa con la Conferenza Stato-regioni.

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Il fabbisogno standard regionale è il valore percentuale del fabbisogno regionale identificato, sulla base di questi criteri, rispetto al valore totale. La percentuale viene annualmente applicata al fabbisogno sanitario standard nazionale, determinato in coerenza con il quadro macroeconomico e nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica e degli obblighi europei.

Le pesature sono effettuate con i pesi per classi di età considerati ai fini della determinazione del fabbisogno sanitario relativi al secondo esercizio precedente a quello di riferimento. Per la determinazione dei fabbisogni standard regionali si fa riferimento agli elementi informativi presenti nel Nuovo sistema informativo sanitario (Nsis) del ministero della Salute.

I criteri di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard possono essere rivisti, previa intesa in sede di Conferenza Stato-regioni, comunque nel rispetto del fabbisogno standard nazionale.

Armonizzazione dei bilanci delle autonomie locali: schema di decreto legislativo

Altri provvedimenti di attuazione della legge delega sono oggi allo stadio di schema di decreto legislativo.

Lo schema di decreto legislativo sull’armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle regioni e degli enti locali attua la delega contenuta nella legge di contabilità e finanza pubblica8 che ha modificato la legge delega sul federalismo fiscale9. La delega, che deve essere attuata entro due anni dall’entrata in vigore della l. n. 196/2009, è finalizzata a una maggiore trasparenza dei conti pubblici e una migliore raccordabilità degli stessi con il sistema europeo dei conti nazionali.

Le disposizioni contenute nello schema di decreto costituiscono principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 117, comma 3, della Costituzione, e sono volte alla tutela dell’unità economica della Repubblica italiana secondo il principio previsto dall’art. 120, secondo comma della Costituzione.

Nello schema viene prevista l’adozione, da parte delle amministrazioni territoriali, di un piano di conti integrato ispirato a criteri comuni di contabilizzazione. Il piano è costituito dall’elenco delle articolazioni delle unità elementari del bilancio finanziario e dei conti economico - patrimoniali. Lo schema prevede infatti, in linea con quanto disposto dalla l. n. 196/2009, che gli enti che adottano la contabilità finanziaria affianchino un sistema di contabilità economico-patrimoniale a fini conoscitivi.

Lo schema di decreto prevede inoltre che le amministrazioni pubbliche adottino uno schema di bilancio consolidato con enti e organismi strumentali, aziende, società e altri organismi controllati; fissa inoltre come principio fondamentale del bilancio la rappresentazione della spesa in missioni e programmi con l’identificazione dell’unità di voto per l’approvazione del bilancio costituita almeno dal programma. Vengono poi introdotti criteri per la specificazione e classificazione delle spese e delle entrate e si individuano strumenti di flessibilità degli stanziamenti di bilancio e la riclassificazione dei dati contabili delle amministrazioni pubbliche tenute alla contabilità civilistica.

Lo schema di decreto contiene una parte specificatamente dedicata alla contabilità sanitaria. Vengono dettati i principi ai quali si devono attenere gli enti destinatari a fini di trasparenza e responsabilizzazione. Gli enti destinatari sono le regioni, le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, gli istituti di ricovero e cura pubblici, le aziende ospedaliere universitarie integrate con il SSN, gli istituti zoo profilattici. In particolare, lo schema di decreto definisce l’articolazione delle spese e delle entrate e i principi di individuazione delle responsabilità per la gestione all’interno delle regioni.

Risorse aggiuntive e interventi speciali: schema di decreto legislativo

Un altro schema di decreto legislativo disciplina la destinazione e l’utilizzazione delle risorse aggiuntive e l’effettuazione di interventi speciali per promuovere lo sviluppo economico e la coesione sociale e

8. Art. 2, comma 6 della l. n.196/2009 che ha modificato l’art. 2 della legge delega n. 42/2009.

9. Lo schema di decreto legislativo è stato trasmesso alla Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale l’11 marzo 2011 (Atto 339).

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territoriale e per rimuovere gli squilibri economici e sociali del Paese10. Le finalità del provvedimento verranno garantite innanzitutto dal Fondo per lo sviluppo e la coesione e con i finanziamenti a finalità strutturale dell’Unione europea e i relativi cofinanziamenti nazionali destinati esclusivamente alla spesa in conto capitale per gli investimenti nonché alle spese per lo sviluppo ammesse dai regolamenti dell’Unione europea. Il provvedimento enuncia una serie di principi che dovranno essere seguiti: la leale collaborazione tra lo Stato, le regioni e le autonomie locali e la collaborazione del partenariato economico sociale nell’individuazione delle priorità e nell’attuazione degli interventi, tenendo conto delle specifiche realtà territoriali; l’utilizzazione delle risorse secondo il metodo della programmazione pluriennale; il principio per cui le risorse devono essere aggiuntive e non possono essere sostitutive di spese ordinarie del bilancio dello Stato o delle autonomie locali.

Meccanismi sanzionatori e premiali: schema di decreto legislativo

Il 30 novembre 2010 il Consiglio dei ministri ha approvato lo schema di decreto legislativo sui meccanismi sanzionatori e premiali per regioni, province e comuni. Viene previsto che le regioni che in una legislatura sono assoggettate a un piano di rientro della spesa sanitaria o i comuni e le province che in un mandato consiliare si trovino in stato di dissesto finanziario sono tenuti a redigere un inventario di fine legislatura che dovrà essere pubblicato sul sito dell’ente prima delle elezioni, accompagnato dalla relazione rispettivamente del Presidente della giunta regionale o del Presidente della provincia o del sindaco. L’inventario di fine legislatura contiene la descrizione dettagliata delle principali attività normative e amministrative svolte durante la legislatura. Viene inoltre previsto e disciplinato il fallimento politico del Presidente della giunta regionale e del Presidente della provincia e del sindaco.

Sono inoltre introdotti meccanismi sanzionatori nel caso di mancato rispetto del patto di stabilità interno e meccanismi premiali per gli enti virtuosi che abbiano conseguito l’obiettivo programmatico assegnato al comparto di appartenenza, rispettando il patto di stabilità: essi possono nell’anno successivo a quello di riferimento ridurre l’obiettivo del patto stesso di un importo determinato con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze. La virtuosità degli enti è determinata attraverso la valutazione della posizione di ciascun ente rispetto a un insieme di indicatori economico-strutturali.

Viene infine istituita la Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica.

Organi e funzioni degli enti locali, semplificazione e razionalizzazione dell’ordinamento e carta delle autonomie locali

E’ all’esame del Parlamento un disegno di legge che contiene disposizioni in materia di organi e funzioni degli enti locali, semplificazione e razionalizzazione dell’ordinamento e carta delle autonomie locali11. Il provvedimento prevede vari interventi in attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di federalismo nonché misure di semplificazione e riordino dell’ordinamento locale. Anzitutto il provvedimento individua le funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane. L’esercizio delle funzioni fondamentali è obbligatorio per l’ente titolare: esse non possono essere esercitate da soggetti diversi da quelli cui sono state attribuite. Per quanto riguarda le funzioni fondamentali attribuite ai comuni, esse possono essere esercitate da ciascun comune singolarmente oppure in forma associata. L’esercizio in forma associata è obbligatorio da parte dei comuni con popolazione fino a tremila abitanti. Qualora la titolarità di una funzione fondamentale sia allocata a un ente locale diverso da quello che finora l’ha esercitata occorre provvedere al trasferimento delle risorse necessarie mediante accordo tra gli enti locali interessati. L’esercizio delle funzioni fondamentali è subordinato all’effettivo trasferimento di tali risorse.

Per quanto riguarda il trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato alle regioni e agli enti locali nelle materie di competenza esclusiva statale, lo schema di disegno di legge prevede una delega al Governo per l’individuazione delle funzioni amministrative che, non richiedendo l’unitario

10. Il decreto legislativo attua l’art. 16 della legge delega n. 42/2009 che si riferisce agli interventi di cui al quinto comma dell’art. 119 della Costituzione. Lo schema di decreto legislativo è stato trasmesso alla Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale l’11 febbraio 2011 (Atto 328).

11. S 2259.

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Relazione sull’attività 2009-2010 Assemblea 2011

esercizio a livello statale, sono attribuite sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, a comuni, province, città metropolitane e regioni.

In tema di semplificazione il provvedimento delega il Governo a razionalizzare e ridurre il numero delle province in relazione alla definizione delle funzioni fondamentali e amministrative a loro attribuite nonché a riordinare gli uffici periferici dello Stato con esclusione di quelli facenti capo ai ministeri degli esteri, della giustizia e della difesa. Inoltre il disegno di legge prevede la soppressione di una serie di soggetti; in particolare sono soppressi: i difensori civici, ad eccezione di quelli delle province, le comunità montane, le circoscrizioni comunali, ad eccezione di quelle relative ai comuni con popolazione superiore a duecentocinquantamila abitanti, i consorzi tra enti, compresi i bacini imbriferi montani, i consorzi di bonifica e quelli di miglioramento fondiario, qualora le regioni non provvedano al loro riordino. Le funzioni svolte dagli enti soppressi sono attribuite agli altri livelli di governo nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.

Inoltre il disegno di legge contiene una serie di norme volte alla riorganizzazione degli enti locali. In primo luogo viene ridotto il numero dei componenti dei consigli e delle giunte comunali e provinciali: il numero dei componenti degli organi degli enti locali è determinato in proporzione alla popolazione residente. In secondo luogo sono introdotte misure semplificate per i piccoli comuni cioè i comuni con popolazione residente pari o inferiore a cinquemila abitanti. Dal 2010 le regole del patto di stabilità sono definite con riferimento al saldo finanziario, espresso in termini di cassa e di competenza, calcolato in coerenza con le regole stabilite dalla normativa in materia di contabilità e finanza pubblica e assumendo quale base di riferimento per l’individuazione degli obiettivi un arco temporale triennale; gli enti locali che non raggiungono in un determinato anno gli obiettivi programmati possono recuperare lo scostamento entro l’esercizio successivo, purché non coincidente con l’ultimo anno del mandato elettorale. Infine nei comuni e nelle province è soppressa la figura del direttore generale che resterà soltanto nelle città metropolitane.

Nell’ambito della riforma degli enti locali, un intero capo del disegno di legge è dedicato ai controlli sulla regolarità dell’azione amministrativa. In aggiunta al controllo interno e strategico viene disciplinato il controllo sulle società partecipate. L’ente locale deve definire preventivamente gli obiettivi gestionali a cui deve tendere la società partecipata, secondo standard qualitativi e quantitativi, e organizzare un sistema informativo finalizzato a rilevare i rapporti finanziari tra ente proprietario e società, la situazione contabile, gestionale e organizzativa della società, i contratti di servizio, la qualità dei servizi, il rispetto delle norme di legge sui vincoli di finanza pubblica. Sulla base di tali informazioni l’ente locale effettua un monitoraggio periodico, individuando le opportune azioni correttive in caso di scostamento dagli obiettivi.

Infine il disegno di legge delega il Governo ad adottare un codice, denominato Carta delle autonomie locali, in cui riunire e coordinare sistematicamente le disposizioni statali relative alla disciplina degli enti locali.

Proroga dei termini per l’esercizio della delega in materia di federalismo fiscale

Nell’aprile 2011 è stato presentato un disegno di legge che prevede la proroga dei termini per l’esercizio della delega di cui alla l. n. 42/2009 sul federalismo fiscale12. Il disegno di legge prevede la proroga di sei mesi del termine per l’esercizio della delega, che diverrebbe quindi di trenta mesi. Viene inoltre prevista la proroga del termine per l’adozione di eventuali decreti legislativi integrativi e correttivi che è aumentato da due a tre anni, decorrenti dall’entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi da integrare o correggere. Il disegno di legge proroga il termine per l’adozione dei decreti legislativi istitutivi delle città metropolitane da trentasei a quarantotto mesi e il termine a disposizione delle Commissioni parlamentari per l’espressione del parere di competenza da sessanta a novanta giorni.

12. C 4299.

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