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Il Piano Stralcio per l'Assetto Idrogeologico (PAI) è stato redatto alla scala 1:5000 su Cartografia Tecnica Regionale (ed. 2004 - 2005)

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REGIONE CAMPANIAAssesorato all'Ambiente autorità di bacinonord occidentale

Piano Stralcio per l'Assetto Idrogeologicodell'Autorità di Bacino Nord Occidentale della Campania

RELAZIONE GENERALE

Aggiornamento anno 2010

Responsabili scientificiprof. ing. Michele Di Natale (conv. 04/2007) arch. Paolo Tolentino

Coordinamento generale di progetto

Consulenza giuridicaavv. Angelo Marzocchella (Avvocatura Regionale)

prof. geol. Roberto de Riso (conv. 03/2007)

GRUPPO DI PROGETTO

geol. Stefania Coraggioing. Luigi Iodiceing. Pasquale Laezzaarch. Pietro Paolo Piconegeol. Antonella Ricciogeol. Assunta Maria Santangelo

Autorità di Bacino Nord Occidentale della Campania

responsabili: prof. ing. Corrado Gisonni, prof. ing. Alessandro Mandolini

CIRIAM - Centro Interdipartimentale di Ricerca in Ingegneria Ambientale della Seconda Università degli Studi di Napoli (conv. 02/2007)

collaboratori convenzionati dal CIRIAMing. Agostino Santilloing. Luca Cristianoing. Diego Di Martire ing. Anna Di Mauroarch. Valeriano Pesceing. Eleonora Quarantaing. Liberata Tufano

società convenzionate dal CIRIAM:Tecnorilievi s.r.l. per il rilievo topograficoIdrogeo s.r.l. per l'indagine geotecnica

collaboratori convenzionati dal DIGAgeol. Melania De Falcogeol. Sossio Del Prete arch. Maria De Rosa geol. Giuseppe Di Crescenzo geol. Luca Di Iorio geol. Vittorio Emanuele Iervolino geol. Biagio Palma geol. Marcello Rotella

DIGA - Dipartimento di Ingegneria Idraulica Geotecnica ed Ambientaledell'Università degli Studi di Napoli Federico II (conv. 01/2007)

prof. geol. Domenico Calcaterraprof. geol. Antonio Santo

responsabile: coordinatore:

SUPPORTO SCIENTIFICO

dott. Giuseppe CatenacciIL SEGRETARIO GENERALE

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SOMMARIO

PREMESSA.........................................................................................................................2 1. INTRODUZIONE ...........................................................................................................3 1.1 Gli Enti Territoriali interessati ....................................................................................................... 6 1.2 Il quadro normativo di riferimento ................................................................................................ 7 1.3 Gli obiettivi e le finalità del Piano ............................................................................................... 13 2. LA COSTRUZIONE DEL SITEMA DELLE CONOSCENZE.......................................15 2.2 Idrografia.................................................................................................................................... 16 2.3 Aspetti geologici e geomorfologici ............................................................................................. 17 2.4 Aspetti socioeconomici e uso del suolo..................................................................................... 20 2.5 Caratteri generali del paesaggio................................................................................................ 23 2.6 Strutturazione storica del territorio............................................................................................. 25 3. IL RISCHIO..................................................................................................................27 3.1 Definizione di rischio.................................................................................................................. 28 4. LA PERICOLOSITA’ ...................................................................................................33 4.1 Valutazione della pericolosità dei fenomeni franosi................................................................... 33 4.2 Il modello geometrico del corso d’acqua ................................................................................... 48 4.3 La modellazione idraulica .......................................................................................................... 48 5. IL VALORE ESPOSTO ...............................................................................................68 6. VULNERABILITA’ E DANNO .....................................................................................71 7. LA GESTIONE DEL RISCHIO ....................................................................................73 8. LA VALUTAZIONE DEL DANNO ..............................................................................76 9. GLI INTERVENTI ........................................................................................................87 10. L’ATTUAZIONE DEL PIANO......................................................................................92 11. MANUTENZIONE DEL PIANO ...................................................................................95

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PREMESSA

L’aggiornamento del Piano di Assetto Idrogeologico rappresenta, per questa Autorità di

Bacino, la scelta strategica del modello di pianificazione ricercata attraverso un continua verifica, monitoraggio, manutenzione del proprio sistema delle conoscenze. Tale strategia si è tradotta in un progetto di manutenzione territoriale riconducibile sia agli aspetti legati alla migliore comprensione delle criticità ambientali espresse da un sempre più diffuso dissesto idrogeologico, sia a quelli legati a un progetto complessivo di assetto territoriale.

La filosofia di approccio alla problematica dell’assetto e della sicurezza idrogeologica si ritrova nella stessa natura “ordinaria” dell’Autorità di Bacino che risulta coerente con il concetto della sostenibilità delle politiche di vincolo e trasformazione territoriale.

Tale indirizzo complessivo si pone in antitesi alla pratica dell’emergenza e della straordinarietà degli interventi che al di là dell’impegno economico esorbitante si dimostrano fallimentari per la non riproducibilità di un modello che risulta non coerente agli indirizzi di sostenibilità ambientale e allo sviluppo culturale della protezione integrata del territorio. Queste esperienze passate ci hanno indotto a ricercare un modello di intervento che possa coniugare l’assetto idrogeologico del territorio con la sostenibilità ambientale delle azioni di Piano finalizzate a una forte politica territoriale per la gestione del rischio idrogeologico.

Questa linea di indirizzo deriva dalla conoscenza della diffusa fragilità del nostro territorio e dagli indirizzi di natura comunitaria che prevedono che le azioni della pubblica amministrazione siano strutturate in modo da privilegiare la tutela degli aspetti di carattere ambientale.

Per tali ragioni questo Piano nel rispondere al mandato istituzionale che prevede l’aggiornamento delle conoscenze delle criticità di carattere idrogeologico, nuovi studi di carattere tecnico–scientifico, l’aggiornamento cartografico, l’individuazione di modelli di studio per gli approfondimenti successivi in aree ad elevata complessità idrogeologica, vuole delineare una generale politica di trasformazione territoriale da coniugarsi con il concetto di manutenzione territoriale per la gestione del rischio idrogeologico.

In sintesi l’articolazione dell’assetto del territorio che viene di volta in volta richiamato nella normativa di attuazione e negli elaborati di Piano fa riferimento ancora una volta in prima battuta ad un grande opera di manutenzione del territorio finalizzata al ripristino ed al recupero del sistema idrografico naturale e artificiale. Sono quindi ipotizzabili, a scala di bacino, solo alcuni interventi di manutenzione straordinaria finalizzati alla mitigazione del rischio idraulico che possano prevedere in luogo dei diffusi fenomeni di esondazione non controllata un contesto di interventi ed azioni per garantire un controllo ed un disciplina di tali fenomeni in equilibrio con la salvaguardia ambientale del territorio.

Un altro importante indirizzo normativo del Piano, che peraltro ripropone in sintesi tematiche normative regionali e nazionali (D.Lgs. 152/2006 e L.R. 16/2004), prevede che la pianificazione urbanistica recepisca direttamente i contenuti del Piano di Assetto Idrogeologico ed in particolare possa prevedere: azioni finalizzate all’abbattimento dei manufatti che non risultino legittimi dal punto di vista edilizio ed urbanistico; individuazione di infrastrutture e manufatti da ricollocare fuori dalle aree a rischio (art. 67 comma 6 del D.Lgs. 152/2006); adozione di strumenti urbanistici che prevedano la piena compatibilità della pianificazione comunale attraverso piani di prevenzione del rischio idrogeologico (art. 23 comma 9 della L.R. 16/2004); Piani di emergenza finalizzati alle

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azioni di protezione civile del territorio interessato dai fenomeni di dissesto idrogeologico (art. 67 comma 5 del D.Lgs. 152/2006).

Proprio per la redazione del Piano di emergenza questa Autorità di Bacino ha inteso elaborare una cartografia del “Rischio finalizzato alle azioni di protezione Civile” e uno studio per la strumentazione di un sito pilota con finalità early-warning, in modo da individuare direttamente i manufatti e le infrastrutture esposti al rischio idrogeologico che siano soggetti a possibile perdita di vite umane o di danno grave alle stesse e predisporre le necessarie azioni per la mitigazione del rischio. Questo Piano di emergenza assume, in coerenza con quanto sopra illustrato, valore di indirizzo per l’ assetto idrogeologico inteso come quadro strategico degli interventi strutturali e non che, con la verifica della procedibilità economica e tempistica, diventino uno strumento di pianificazione per la mitigazione del rischio. Tale Piano può avere concreta attuazione solo attraverso la crescita culturale delle comunità locali che assumano come valore la protezione del territorio e la salvaguardia della vita umana.

1. INTRODUZIONE

Il Piano per l’Assetto Idrogeologico è un documento programmatorio che si propone di prevedere (valutazione ex ante) scenari di rischio e di associare ad essi limitazioni nell’uso del suolo e tipologie di interventi, strutturali e non, finalizzati alla mitigazione dei danni (valutazione ex ante causa-effetto).

Il Piano non è un documento “statico” in quanto il territorio evolve nel tempo, per cause naturali ed antropiche, e, di conseguenza, si modificano le condizioni di rischio idrogeologico. Il processo di pianificazione deve pertanto seguire le fasi di un processo dinamico e a tale scopo deve caratterizzarsi per un continuo aggiornamento delle ipotesi di previsione.

L’Autorità di Bacino Nord-Occidentale della Campania, con delibera del Comitato Istituzionale n.11 del 10 maggio 2002, adottò il Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico (denominato nel seguito PAI 2002) redatto ai sensi della legge 183/89 sulla Difesa del Suolo e successive integrazioni.

Nella elaborazione del PAI 2002 l’analisi territoriale venne condotta a un livello di approfondimento di gran lunga superiore da quanto previsto dalla normativa. In particolare furono svolti:

- studi e allestimento di cartografia in scala 1: 5.000, di carattere geologico-geomorfologico estesi alle aree perimetrate ad alto rischio ed alta attenzione (circa 500 Kmq) con approfondimenti mediante una campagna di indagini in situ (prove penetrometriche, pozzetti, trincee esplorative e sondaggi) finalizzati alla redazione della carta della suscettibilità e del rischio di frane;

- rilievi topografici delle aste fluviali per circa 300 Km lineari; - ricognizioni speditive del reticolo idrografico; - studio idrologico finalizzato alla elaborazione di un modello afflussi-deflussi in

grado di stimare le portate di piena con prefissati periodi di ritorno che possono verificarsi in una generica sezione idrica;

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- studio idraulico finalizzato alla individuazione delle capacità di convogliamento dei diversi tratti d’alveo nelle loro condizioni attuali ed alla individuazione dell’estensione delle aree di allagamento, nei tratti soggetti ad esondazione, per i periodi di ritorno prefissati;

- elaborazione di cartografia tematica relativamente a: carta dell’uso del suolo, carta della copertura vegetale; carta della permeabilità, carta della zonazione sismica, carta dei fattori climatici, carta dell’indice di erosione, carta della densità del drenaggio, carta dell’acclività dei versanti, carta dell’esposizione, ecc.;

- sviluppo ed implementazione di un Sistema Informativo Territoriale attraverso l’uso di tecnologie GIS;

- costruzione di una norma tecnica attuativa del Piano. La versione 2002 del PAI già prevedeva una azione di “Manutenzione del Piano” in

relazione a: - studi specifici corredati da indagini ed elementi informativi a scala di maggior

dettaglio prodotti da pubbliche amministrazioni; - nuovi eventi idrogeologici da cui venga modificato il quadro della pericolosità

idrogeologica; - nuove emergenze ambientali; - significative modificazioni di tipo agrario-forestale sui versanti o incendi su grandi

estensioni boschive; - realizzazione da parte di un Ente locale di un intervento di mitigazione

(regolarmente collaudato) nel rispetto delle norme vigenti e delle norme di Piano; - acquisizione di nuove conoscenze in campo scientifico e tecnologico, o storiche,

provenienti da studi o dai risultati delle attività di monitoraggio del piano; - variazione significativa delle condizioni di rischio o di pericolo derivanti da azioni

ed interventi non strutturali e strutturali di messa in sicurezza delle aree interessate.

Alla luce delle precedenti considerazioni, L’Autorità di Bacino, con delibera n. 8 del 21

dicembre 2006 ha avviato una attività di aggiornamento del Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico.

Per lo svolgimento delle attività tecnico-scientifiche connesse a tale attività, l’Autorità si è avvalsa della collaborazione del:

- CIRIAM (Centro Interdipartimentale di Ricerca in Ingegneria Ambientale) della Seconda Università di Napoli, per gli aspetti idraulici;

- DIGA (Dipartimento di Ingegneria Geotecnica e Ambientale) della Università di Napoli Federico II.

Gli studi ed i rilievi svolti hanno consentito di pervenire ad un aggiornamento della cartografia tematica del Piano ed in particolare delle carte di pericolosità e di rischio idraulico e geologico.

La carenza delle risorse economiche disponibili non ha purtroppo consentito alla Autorità di Bacino di estendere le attività di rilievo e di studio a tutti i numerosi casi critici presenti nel territorio del Bacino nord-occidentale della Campania. Pertanto, anche se i risultati raggiunti sono da considerarsi molto significativi, la fase di revisione del PAI 2002 non comprende alcune aree di pericolosità che riguardano, in particolare, una parte degli alvei vesuviani e una parte delle aree interessate da fenomeni di alluvionamento

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(presenza di flussi iperconcentrati). Dette aree restano perimetrate allo stato attuale solo come suscettibili di allagamento, nel primo caso, e su base esclusivamente geomorfologica nel secondo.. Per tali casi, che necessitano di rilievi topografici, geologoci e geotecnici di dettaglio, è stata tuttavia predisposta una adeguata relazione metodologica che può agevolare lo sviluppo di studi ed indagini successive.

Un elemento innovato della nuova versione del PAI è rappresentato dalla introduzione

del moderno concetto di “early warning” applicato al caso dei rischio idrogeologico. A tal fine nella documentazione prodotta viene presentata, in via esemplificativa, una applicazione delle tecniche di protezione idraulica in termini di “allerta idrogeologica”. In particolare viene presentato un modello per la gestione delle informazioni di una rete di monitoraggio e per l’elaborazione dei dati, in grado di fornire elementi quantitativi sulla pericolosità di un evento nei primi momenti di accadimento e in tempo utile per assumere misure precauzionali.

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IL PAI 2010 Il PAI 2010, che segue il PAI 2002, ne rappresenta un aggiornamento ed un

approfondimento. Le attività dell’ aggiornamento hanno riguardato in particolare i seguenti punti:

a. per la cartografia di base:

- l’adeguamento cartografico degli elaborati di Piano mediante l’utilizzo della nuova

cartografia tecnica regionale ed. 2004/2005.

b. per gli aspetti idraulici:

- la revisione dello studio idrologico; - il rilievo topografico di dettaglio di alcuni alvei e delle opere di mitigazione del

rischio idraulico realizzati sugli stessi dopo il 2002; - l’applicazione di un nuovo modello di calcolo per la stima delle aree soggette a

fenomeni di esondazione, tenendo sempre conto della presenza di nuove strutture eseguite;

- lo studio dei fenomeni di invasione da flussi iperconcentrati in alcuni dei valloni soggetti a pericolosità da colata di fango, considerando anche le opere di mitigazione realizzate;

- la predisposizione di un documento tecnico che illustra le metodologie di analisi utilizzate e rappresenta un riferimento da adottare per l’elaborazione degli studi di compatibilità idraulica necessari per la redazione di ulteriori studi per la riperimetrazione delle aree rischio e per la valutazione del rischio residuo a seguito della realizzazione di nuove opere di mitigazione.

c. per la valutazione del valore esposto:

- l’aggiornamento puntuale, effettuata sulla nuova cartografia regionale, degli elementi utili alla definizione dei valori esposti sul territorio ha permesso un approfondimento indispensabile per la successiva definizione del rischio

1.1 Gli Enti Territoriali interessati

L’area oggetto del Piano è totalmente ricompresa nella regione Campania ed in essa

sono presenti territori amministrati dalle Provincie di Napoli , Avellino, Benevento (per una piccola porzione di territorio) e Caserta.

I Comuni interessati dal Piano Stralcio sono: Acerra; Afragola; Airola; Arienzo;

Arpaia; Arzano; Avella; Aversa; Bacoli; Baiano; Barano d'Ischia; Brusciano; Caivano; Calvizzano; Camposanto; Cancello Arnone; Capodrise; Carbonara di Nola; Cardito; Carinaro; Casagiove; Casal di Principe; Casalnuovo di Napoli; Casaluce; Casamarciano;

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Casamicciola Terme; Casandrino; Casapesenna; Casapulla; Casavatore; Caserta; Caloria; Castel Volturno; Castello di Cisterna; Cercola; Cervino; Cesa; Cicciano; Cimatile; Comiziano; Crispano; Curti; Domicella; Durazzano; Forchia; Forio d'Ischia; Frattamaggiore; Frattaminore; Frignano; Giugliano in Campania; Gricignano d'Aversa; Grumo Nevano; Ischia; Lacco Ameno; Lauro; Liveri; Lusciano; Macerata Campania; Maddaloni; Marano di Napoli; Marcianise; Mariglianella; Marigliano; Marzano di Nola; Massa di Somma; Melito di Napoli; Mercogliano; Moiano; Monte di Procida; Monteforte Irpino; Moschiano; Mugnano del Cardinale; Mugnano di Napoli; Napoli; Nola; Orta di Atella; Ottaviano; Pago del Vallo di Lauro; Palma Campania; Pannarano; Paolisi; Parete; Pollena Trocchia; Pomigliano d'Arco; Portico di Caserta; Pozzuoli; Procida; Quadrelle; Qualiano; Quarto; Quindici; Recale; Roccarainola; Rotondi; S. Anastasia; S. Antimo; S. Arpino; S. Cipriano d'Aversa; S. Felice a Cancello; S. Gennaro Vesuviano; S. Marcellino; S. Marco Evangelista; S. Maria a Vico; S. Maria Capua Vetere; S. Maria La Fossa; S. Nicola La Strada; S. Paolo Belsito; S. Sebastiano al Vesuvio; S. Tammaro; S. Vitaliano; Sant.Agata dei Goti; Saviano; Scosciano; Serrara Fontana; Siringano; Somma Vesuviana; Sperone; Succivo; Summonte; Taurano; Teverola; Trentola Ducenta; Tufino; Valle di Maddaloni; Villa Di Briano; Villa Literno; Villaricca ; Visciano; Volla;

Le Comunità Montane sono: Montedonico-Tribucco Roccarainola (NA), Serinese

Solofrana (AV), Valle di Lauro Baianese (AV). I Consorzio di Bonifica sono: Paludi di Napoli e Volla (NA), Conca di Agnano (NA),

Bacino Inferiore del Volturno (CE), Alto Calore (AV), Agro Sarnese Nocerino (AV).

BACINO NORD-OCCIDENTALE DELLA CAMPANIA

Categoria REGIONALE

Regioni interessate CAMPANIA

Superficie (Kmq) 1500 Kmq circa

Popolazione 3.000.000 ab. Circa

Provincie 4 (Napoli, Avellino, Benevento e Caserta)

Comuni interesssati 127

Corsi d’acqua principali Regi Lagni, alveo Quarto, Camaldoli, Alveo Pollena e Volla (e relativi reticoli idrografici)

1.2 Il quadro normativo di riferimento

PRINCIPI GENERALI Considerato che la materia della “tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni

culturali” rientra nelle competenze esclusive dello Stato ex art. 117, 2 comma, lett. s), mentre la “.. protezione civile e il governo del territorio..” costituiscono materie di legislazione concorrente a mente del 3 comma dello stesso art. 117 Cost., detta esigenza ha postulato la necessità di premettere alla formulazione delle norme tecniche di

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attuazione del PAI una verifica aggiornata delle fonti normative di riferimento a tutti i livelli e competenze.

La tutela idrogeologica, secondo la giurisprudenza costituzionale, ha un ambito di intervento complesso, riguardando una pluralità di materie, tra le quali, in particolare, la «tutela dell'ambiente», ricompresa nella materia di competenza esclusiva statale (art. 117, comma 2, rispettivamente, lettera s, Cost.), nonché la «tutela della salute e protezione civile» nonchè il «governo del territorio», tutte di competenza regionale concorrente (art. 117, comma 3, Cost.).

Al riguardo, tenuto conto che, a mente del D.P.R. n. 616 del 1977, la difesa suolo deve considerarsi tra le materie di competenza regionale (quale branca concorrente e complementare con l'urbanistica) (cfr. Corte Cost. n. 418/92), nel precedente assetto costituzionale -entro il quale era nata la legge n. 183 del 1989, poi abrogata dal T.U. sull’ambiente- trovava naturale luogo anche la legge regionale della Campania 7 febbraio 1994 n. 8 (Norme in materia di difesa del suolo - attuazione della legge 18 maggio 1989,

n. 183 e successive modificazioni ed integrazioni").

Quest’ultima legge regionale deve ora, invece, considerarsi recessiva sia in materia ambientale (dove la competenza è esclusivamente statale per quanto innanzi precisato), sia in materia di difesa suolo, dove, non essendo stata emanata una nuova legge regionale dopo l’entrata in vigore dei nuovi principi generali introdotti nella parte terza del D.Lgs. 152/06, è superata in parte qua dalle disposizioni di legge statale successive (prevalenti in virtù del cd. “principio di cedevolezza” come suggellato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione n. 2/08).

Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale non ha mancato di osservare che, data la complessità dei rapporti tra le fonti in oggetto, non potendosi considerare nessuna delle descritte materie nettamente prevalente sulle altre, si impone l'applicazione del principio di leale collaborazione per dirimere eventuali conflitti di attribuzione (cfr. Corte Cost. sent. nn. 211 del 2006, 144 e 378 del 2007 e 168 del 2008).

Il che ha reso doveroso un’attenta analisi alla luce dei principi informatori delle rispettive materie, tenuto conto dell’indirizzo del giudice delle leggi secondo cui la potestà di disciplinare l'ambiente nella sua interezza è stata affidata, in riferimento al riparto delle competenze tra Stato e regioni, in via esclusiva allo Stato, dall'art. 117 comma 2 lett. s) Cost., e perciò, pur se l'ambiente costituisce una "materia trasversale", e cioè una materia nella quale insistono interessi diversi - quello alla conservazione dell'ambiente e quelli inerenti alle sue utilizzazioni -, la disciplina unitaria del bene complessivo ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato, prevale su quella dettata dalle regioni o dalle province autonome, in materie di competenza propria, ed in riferimento ad altri interessi, operando come un limite alla disciplina regionale o provinciale che non può in alcun modo derogare o peggiorare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato. E ciò vale anche nel caso in cui vengano in considerazione le competenze delle regioni speciali o delle province autonome, dovendosi peraltro, in tali casi, tener conto degli statuti speciali di autonomia, alla luce del criterio per il quale tutto ciò che gli statuti non riservano all'ente di autonomia resta attribuito alla competenza dello Stato, salvo quanto stabilito dall'art. 10 l. cost. n. 3 del 2001 (cfr. Corte Cost. sent. n. 378 del 2007).

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CARATTERI DEL P.A.I. E RAPPORT I CON LA PIANIFICAZIONE URBANISTICA REGIONA LE E TERRITORIALE

L’esigenza di coordinare le materie e le norme in esse ricomprese si traduce in un fatto

concreto in riferimento alla portata derogatoria delle norme dei piani di bacino e dei piani stralcio, che di essi rappresentano una costola, rispetto alla pianificazione urbanistica ai vari livelli territoriali.

Al riguardo va rammentato che la Corte Costituzionale era già intervenuta (sent. n. 524 del 2002), dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 bis comma 5, del d.l. n. 279 del 2000, poiché la disposizione considerata, attribuendo alle determinazioni assunte in sede di Comitato istituzionale delle Autorità di bacino - di rilievo nazionale - il valore di variante agli strumenti urbanistici, veniva a porsi in contrasto con le competenze regionali in materia di pianificazione urbanistica.

Il legislatore – aggiunge la Consulta - aveva del resto previsto la possibilità di introdurre misure di salvaguardia o inibitorie e cautelative (art. 17, commi 6-bis e 6-ter, della citata legge n. 183 del 1989), ed un obbligo generale per le autorità competenti di adeguare i piani territoriali e i programmi regionali nei vari settori.

Inoltre - precisa il Giudice delle leggi -già sussisteva un obbligo specifico delle regioni di emanare le necessarie disposizioni per l'attuazione del piano di bacino nel settore urbanistico entro un termine assai contenuto, decorso il quale scattava il dovere degli enti territorialmente interessati di rispettare le prescrizioni nel settore urbanistico, con poteri sostitutivi regionali (art. 17, commi 4 e 6, della legge n. 183 del 1989). In argomento, la Consulta si rifaceva ad un proprio precedente (cfr. sent. n. 206 del 2001), con il quale venne dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 25 comma 2 lett. g) del d.lg. n. 112 del 1998, nella parte in cui prevedeva che, ove la conferenza di servizi registri un accordo sulla variazione dello strumento urbanistico, la determinazione costituisce proposta di variante sulla quale si pronuncia definitivamente il consiglio comunale, anche quando vi sia il dissenso della regione, con conseguente lesione della sua competenza in materia urbanistica.

Deve, altresì, rammentarsi che, sempre in tempi antecedenti la riforma del Titolo V della Costituzione (l. 3 del 2001), la Consulta (cfr. Corte Cost. sent. n. 85 del 1990), dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Regione Veneto e dalle province autonome di Trento e Bolzano circa gli artt. 17 e 18 della l. n. 183 del 1989, aveva affermato sui rapporti tra pianificazione di bacino e competenze legislative regionali in materia di assetto del territorio, precisando che i piani di bacino non rientrano nella disciplina urbanistica (di competenza regionale o provinciale), ma sono piani che pongono vincoli e limiti immediatamente obbligatori per le amministrazioni competenti (statali e regionali), le quali sono tenute ad osservarli e ad operare di conseguenza.

La problematica è stata, perciò, risolta dal legislatore nazionale, nel solco della più recente giurisprudenza costituzionale, con la disciplina generale introdotta nel D.lgs. 152 del 2006 (art. 65 e ss.) (Testo unico sull’ambiente) nel senso che le Regioni e gli enti territoriali devono adeguare la propria strumentazione urbanistica alle disposizioni del piano stralcio a pena, in mancanza, dell’esercizio del potere sostitutivo del Ministero ivi codificato.

La complessa articolazione legislativa, in cui il Piano Stralcio si è venuto a trovare, ha perciò messo in conto di ponderare se esso fosse o non soggetto anche alla valutazione

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ambientale strategica (VAS), cui, secondo il diritto comunitario (direttiva 42/01/CE del 27 giugno 2001) e la stessa legge regionale n. 16 del 2004, vanno sottoposti tutti gli strumenti di settore aventi ad oggetto il governo del territorio.

La questione è stata risolta, alla luce, della suddetta prevalenza della materia dello ambiente e della difesa suolo nel caso della tutela idrogeologica sulla disciplina concorrente del governo del territorio, facendo leva sul dato positivo dell’art. 68, 1 comma, del d.lg. 3 aprile 2006 n. 152 laddove stabilisce espressamente che “… I progetti

di piano stralcio per la tutela dal rischio idrogeologico, di cui al comma 1 dell'art. 67,

non sono sottoposti a valutazione ambientale strategica (VAS) e sono adottati con le

modalità di cui all'art. 66.. ”. La disposizione richiamata dell’art. 67, 1 comma, del decreto Matteoli, a sua volta,

sancisce che “…Nelle more dell'approvazione dei piani di bacino, le Autorità di bacino

adottano, ai sensi dell'art. 65, comma 8, piani stralcio di distretto per l'assetto

idrogeologico (PAI), che contengano in particolare l'individuazione delle aree a rischio

idrogeologico, la perimetrazione delle aree da sottoporre a misure di salvaguardia e la

determinazione delle misure medesime...”. COMPETENZE DELL’AUTORITA’ DI BACINO Poste tali premesse generali, sul piano esecutivo l’analisi normativa si è doverosamente

concentrata sulla potestà attuale dell’Autorità di Bacino. Infatti, con la prima stesura del decreto Matteoli sull’Ambiente (T.U. d.lg. 3 aprile

2006 n. 152), il legislatore statale [v. art. 63, comma 3, (Le autorità di bacino previste dalla legge 18 maggio 1989, n. 183, sono soppresse a far data dal 30 aprile 2006 e le relative funzioni sono esercitate dalle Autorità di bacino distrettuale)], nel quadro dei principi generali in soggetta materia, aveva addirittura ritenuto di abrogare, tra l’altro, anche le autorità di Bacino regionali di cui alla vecchia legge 183 del 1989 (v. art. 175, comma, 1 lett. l).

Ciò rientrava all’interno di un più ampio progetto di riordino delle competenze (v. artt. 54 e ss. del D.lg. 152/06) che trasferiva su un piano nazionale esigenze di vigilanza territoriale mediante l’istituzione in ciascun distretto idrografico dell'Autorità di bacino distrettuale, quale ente pubblico non economico che informa la propria attività a criteri di efficienza, efficacia, economicità e pubblicità.

Lo stesso legislatore statale, tenuto conto tuttavia della natura concorrente della materia in questione (art. 117, 1 comma, Cost.) e del principio di sussidiarietà (cui si ispira lo stesso decreto Matteoli), è tornato sui suoi passi provvedendo con l’art. 170, comma 2 bis del medesimo decreto n. 152 del 2006, come modificato dall'articolo 1, comma 3 del D.Lgs. 8 novembre 2006 n. 284, a disporre che le Autorità di bacino, soppresse espressamente dall'articolo 63, comma 3 del D.Lgs. 152 del 2006, sono prorogate fino alla data di entrata in vigore del decreto che definisca la disciplina dei distretti idrografici. Deve, altresì, tenersi presente che con D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 erano state devolute alle regioni e agli enti locali tutte le funzioni amministrative inerenti alla materia delle risorse idriche e della difesa del suolo, ad eccezione di quelle espressamente mantenute allo Stato.

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FINALITA’ DEL PAI E FUNZIONE ATTUATIVA DEI LIVELLI DI PROTEZIONE NELL’AMBITO DELLE COMPETENZE DI PROTEZIONE CIVILE E TUTELA D EL TERROTORIO

La funzione dell’Autorità di Bacino si è incentrata sulla perimetrazione e classificazine

degli indici di rischio nelle diverse zone indicate nella cartografia, stilata da ultimo dalla Regione Campania nel 2004.

Premessa la definizione del Piano Stralcio come “.. strumento conoscitivo, normativo e

tecnico-operativo mediante il quale sono pianificate e programmate le azioni, le norme

d’uso del suolo e gli interventi riguardanti l’assetto idrogeologico del territorio.. ” la finalità, alla cui realizzazione si è indirizzata l’attività di normazione, è stata quella di conferire un testo chiaro e più dettagliato agli operatori degli enti locali che si troveranno ad applicare il piano sulla base della cartografia.

Il PAI, redatto in ottica essenzialmente conservativa, si pone l’obiettivo di salvaguardare le risorse ambientali in funzione del principio di sviluppo sostenibile e di tutela antropica.

Esso, organizzando il territorio – in chiave geomorfologia – nel senso di circoscrivere la implementazione dell’azione umana, intende prevenirne un uso non coerente ed antitetico con la dinamica degli elementi naturali, imponendo massivamente la mitigazione del rischio idrogeologico e la delocalizzazione degli insediamenti e manufatti incompatibili, soprattutto in zona di rischio R3-R4.

Il rapporto con gli enti locali è stato, perciò, posto al centro dell’attenzione sia con riferimento alla intersezione tra pianificazione territoriale e normativa del PAI, per quanto innanzi detto, nonchè in riferimento all’esigenza capillare di repressione del fenomeno dell’abusivismo edilizio, sia con riferimento alla responsabilità dei Comuni nelle funzioni di protezione civile, sia, infine, con riferimento alla necessità di reperire e gestire i fondi disponibili a tali fini.

Tolta la funzione di pianificazione dell’Autorità di Bacino, l’attuazione pratica del PAI spetta ai diversi organi della Protezione civile a livello nazionale e territoriale.

E' opportuno rammentare che l'art. 107, comma 1, lettere b) e c), del suddetto D.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), a sua volta, chiarisce che le funzioni di protezione civile e difesa suolo, di cui alla legge n. 225 del 1992, hanno rilievo nazionale, escludendo che il riconoscimento di poteri straordinari e derogatori della legislazione vigente possa avvenire da parte di una legge regionale.

Di talchè, il potere di ordinanza del Governo in materia di protezione civile, di cui all'art. 5 l. n. 225 del 1992, che richiama l'art. 2 comma 1 lett. c) della stessa legge, riguarda le sole ipotesi di eventi straordinari, mentre il potere di ordinanza del Presidente della Giunta concerne gli eventi calamitosi che possono essere fronteggiati con l'intervento di più enti o amministrazioni competenti in via ordinaria, ai sensi dell'art. 2 comma 1 lett. b) l. n. 225 del 1992, sicché deve escludersi in radice la possibilità di invasione di competenze della protezione civile ai vari livelli.

La funzione di concreta attuazione del PAI si è tradotta in primo luogo nella necessità di indurre gli enti locali ad adeguare la propria strumentazione urbanistica alle cogenti norme del piano stralcio ed a redigere i piani di protezione civile previsti dalla l. 225/92; in secondo luogo nella finalità di indirizzare la destinazione dei fondi disponibili in tal senso, in ambito di mitigazione del rischio più alto, alla delocalizzazione ed alla

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predisposizione di adeguate misure di prevenzione, idonee alla concreta realizzazione dietro la previsione di studi di fattibilità.

In mancanza si è codificata la facoltà per l’autorità di Bacino di sollecitare il potere sostitutivo degli organi centrali di governo e regionali, secondo quanto previsto dallo stesso D.lg. 152/065 e dalla L.R. 8/94, nonché facendo leva sul potere sostitutivo generalmente consentito alle autorità gerarchicamente sovrapposte.

Infatti è oramai principio insito nell’ordinamento quello per cui lo Stato esercita il potere sostitutivo ai sensi dell'art. 120 Cost. dietro specifica verifica della sussistenza dei presupposti sostanziali contemplati nella norma costituzionale, nonché sul rispetto delle condizioni procedimentali previste dall'art. 8 l. 5 giugno 2003 n. 131, alla quale si è fatto richiamo nelle NTA del PAI.

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1.3 Gli obiettivi e le finalità del Piano

Il PAI 2010 del Bacino nord occidentale della Campania, nello spirito della L.183/89 e

s.m.i., evidenzia come la pianificazione non debba limitarsi alla sola “messa in sicurezza” del territorio ma debba rivolgersi anche alla “conservazione” ed al “recupero” della naturalità dei luoghi e dei processi in atto, ha le seguenti finalità:

- la sistemazione, la conservazione ed il recupero del suolo nei bacini idrografici , con interventi idrogeologici, idraulici, idraulico-forestali, idraulico-agrari compatibili con i criteri di recupero naturalistico;

- la difesa ed il consolidamento dei versanti e delle aree instabili, nonché la difesa degli abitati e delle infrastrutture contro i movimenti franosi e gli altri fenomeni di dissesto;

- il riordino del vincolo idrogeologico; - la difesa, la sistemazione e la regolazione dei corsi d’acqua; - la moderazione delle piene, anche mediante, vasche di laminazione, casse di

espansione, scaricatori, scolmatori, diversivi o altro, per la difesa dalle inondazioni e dagli allagamenti;

- lo svolgimento funzionale dei servizi di polizia idraulica, di piena e di pronto intervento idraulico, nonché della gestione degli impianti;

- la manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere e degli impianti nel settore e la conservazione dei beni;

- la disciplina delle attività estrattive, al fine di prevenire il dissesto del territorio, inclusi l’abbassamento e l’erosione degli alvei e delle coste;

- la regolamentazione dei territori interessati dagli interventi ai fini della loro tutela ambientale, anche mediante la determinazione dei criteri per la salvaguardia e la conservazione delle aree demaniali e la costituzione di parchi e di aree protette;

- l’attività di prevenzione e di allerta svolta dagli enti periferici operanti sul territorio.

- In previsione del perseguimento delle finalità sopra enunciate, il PAI disciplina: - le azioni riguardanti la difesa idrogeologica e della rete idrografica del bacino

nord-occidentale della Campania, nei limiti territoriali di competenza dell’Autorità di Bacino;

- le norme riguardanti le fasce fluviali di rispetto e la programmazione degli interventi

Il PAI 2010 persegue l’obiettivo di garantire al territorio del Bacino Nord-Occidentale

della Campania un livello di sicurezza adeguato rispetto ai fenomeni di dissesto idraulico e idrogeologico, attraverso il ripristino degli equilibri idrogeologici e ambientali, il recupero degli ambiti idraulici e del sistema delle acque, la programmazione degli usi del suolo ai fini della difesa, della stabilizzazione e del consolidamento dei terreni.

Le finalità richiamate sono perseguite mediante:

- la definizione del quadro del rischio idraulico e idrogeologico in relazione ai fenomeni di dissesto evidenziati;

- l’adeguamento della strumentazione urbanistico-territoriale;

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- la costituzione di vincoli, di prescrizioni, di incentivi e di destinazioni d’uso del suolo in relazione al diverso grado di rischio;

- l’individuazione di interventi finalizzati al recupero naturalistico ed ambientale, nonché alla tutela e al recupero dei valori monumentali ed ambientali presenti e/o la riqualificazione delle aree degradate;

- l’individuazione di interventi su infrastrutture e manufatti di ogni tipo, anche edilizi, che determinino rischi idrogeologici, anche con finalità di rilocalizzazione;

- la sistemazione dei versanti e delle aree instabili a protezione degli abitati e delle infrastrutture adottando modalità di intervento che privilegiano la conservazione e il recupero delle caratteristiche naturali del terreno;

- la difesa e la regolazione dei corsi d’acqua, con specifica attenzione alla valorizzazione della naturalità dei bacini idrografici;

- la definizione delle esigenze di manutenzione, completamento ed integrazione dei sistemi di difesa esistenti in funzione del grado di sicurezza compatibile e del loro livello di efficienza ed efficacia;

- la definizione di nuovi sistemi di difesa, ad integrazione di quelli esistenti, con funzioni di controllo dell’evoluzione dei fenomeni di dissesto, in relazione al grado di sicurezza da conseguire;

- il monitoraggio dello stato dei dissesti. I Programmi e i Piani nazionali, regionali e degli Enti locali di sviluppo economico, di

uso del suolo e di tutela ambientale, devono essere coordinati con il Piano. Di conseguenza le Autorità competenti, con apposita Conferenza Programmatica da indire ai sensi del comma 3 art. 1-bis della legge 365/2000, provvedono ad adeguare gli atti di pianificazione e di programmazione territoriale alle prescrizioni del Piano che una volta adottato entro il 31 ottobre 2001 diventano immediatamente operativi in variante agli strumenti di pianificazione territoriale vigenti.

Allorché il Piano, riguardante l’assetto della rete idrografica e dei versanti, detta disposizioni di indirizzo o vincolanti per le aree interessate dall’antecedente Piano Straordinario le previsioni del piano stralcio abrogano e sostituiscono le discipline previste per detto Piano Straordinario.

Sono fatte salve in ogni caso le disposizioni più restrittive di quelle previste nelle norme del Piano, contenute nella legislazione statale in materia di beni culturali e ambientali e di aree naturali protette, negli strumenti di pianificazione territoriale di livello regionale, provinciale e comunale ovvero in altri piani di tutela del territorio ivi compresi i Piani Paesistici.

Le previsioni e le prescrizioni del Piano hanno valore a tempo indeterminato. Esse sono verificate almeno ogni 2 anni in relazione allo stato di realizzazione delle opere programmate e al variare della situazione morfologica, ecologica e territoriale dei luoghi ed all’approfondimento degli studi conoscitivi.

L’aggiornamento degli elaborati del Piano è operato con deliberazione del Comitato Istituzionale sentiti i soggetti interessati.

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2. LA COSTRUZIONE DEL SITEMA DELLE CONOSCENZE 2.1 Caratteristiche del territorio

Il bacino nord-occidentale della Campania, che si estende per circa 1500 kmq, comprende 127 comuni, per un totale di circa 3 milioni di abitanti, e risulta essere costituito dai seguenti bacini idrografici:

- Regi Lagni - Alveo Camaldoli - Campi Flegrei - Volla - Bacini delle Isole Ischia e Procida

Il territorio si estende su di una vasta area regionale che gravita intorno ai golfi di

Napoli e Pozzuoli ed è delimitata, ad ovest, dal litorale domitio fino al confine con il Bacino Nazionale Liri-Garigliano-Volturno, e si protende verso est nell’area casertana, rientrando nel tenimento della provincia di Napoli, ove include parte del Nolano fino alle falde settentrionali del Vesuvio.

A nord comprende le aree prossime al tratto terminale del fiume Volturno; a sud ovest si sviluppano i bacini dei Regi Lagni, del Lago Patria e quello dell’alveo dei Camaldoli.

A sud, fino al mare, il territorio comprende l’area vulcanica dei Campi Flegrei, che si affaccia sul golfo di Pozzuoli; al largo di quest’ultimo si trovano le isole di Procida e di Ischia (anch’esse di competenza dell’Autorità di Bacino nord occidentale della Campania).

Nella zona orientale ricadono il bacino dei Regi Lagni, i torrenti vesuviani e la piana di Volla. Quest’ultima costituisce la valle del fiume Sebeto originariamente paludosa e tra-sformata, in seguito, da interventi antropici di bonifica, in zona agricola fertile.

I bacini sopra menzionati sono caratterizzati da aree colanti modeste e da un reticolo idrografico a regime tipicamente torrentizio. Le zone montane e pedemontane presentano pendenze medie talvolta elevate ed incisioni profonde con un elevato trasporto solido verso valle. Le zone vallive si sviluppano in aree originariamente paludose in cui la difficoltà di smaltimento delle acque zenitali è stata migliorata con interventi di bonifica.

In concomitanza con i fenomeni di piena si verificano condizioni di allagamento con gravi danni alle colture e al patrimonio, sia per insufficienza della rete dei colatori che per insufficienza delle sezioni idriche.

Tra i bacini della Campania, quello nord-occidentale è caratterizzato dal più alto indice di edificazione e dal più alto rapporto popolazione/territorio e attività produttive/ territorio.

L’intervento antropico, volto generalmente proprio ad uno sviluppo produttivo del territorio, ha talvolta contribuito, per carenza di programmazione, ad un aggravio del dissesto territoriale, creando situazioni conflittuali tra i centri insediativi e infrastrutture di trasporto da una parte e corsi d’acqua dall’altra. Ad esempio, l’urbanizzazione, spingendosi fino ai margini dei corsi d’acqua, ha reso pericolose le esondazioni una volta considerate innocue ed ha causato il costante depauperamento qualitativo delle acque stesse, dovuto allo smaltimento dei rifiuti e all’emungimento sempre più spinto delle falde.

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2.2 Idrografia

Nell’ambito territoriale in esame possono essere individuati i seguenti bacini

idrografici: ‚ bacino dei Regi Lagni: delimitato a nord dall’argine sinistro del fiume Volturno e dai

monti Tifatini, a sud dai Campi Flegrei e dal massiccio Somma-Vesuvio e ad est dalle pendici dei monti Avella, sottende una superficie di circa 1300 kmq che, dal punto di vista morfologico, può essere suddivisa in un’area montana e pedemontana, dell’estensione di circa 550 kmq, caratterizzata da pendici piuttosto acclivi (i sottobacini di maggiore interesse sono quelli del torrente Boscofangone, del Gaudo, del Quindici, del lagno di Somma, di Spirito Santo, di Avella), e da una zona di pianura, estesa cir-ca 750 kmq, caratterizzata dalla presenza del canale dei Regi Lagni, di lunghezza di circa 55 km, che costituisce in pratica l’unico recapito delle acque meteoriche provenienti dalle campagne attraversate e dalla maggior parte dei comuni presenti nell’area;

‚ bacino del Lago Patria: il lago, che ha un’estensione di circa 200 ha e profondità modesta (non superiore al-l’incirca a 1.50 m), sottende un bacino di circa 120 kmq. Gli afflussi al lago provengono essenzialmente dallo scarico della centrale idrovora Patria, dai canali Vico Patra - Cavone Amore, dal Canale Vessa e da alcune sorgenti;

‚ bacino dell’alveo dei Camaldoli: l’alveo dei Camaldoli attraversa i territori comunali di Mugnano, Calvizzano e Qualiano, indi si affaccia sulla strada provinciale Ripuaria fin al ponte di Ferro, a partire dal quale lascia il vecchio tracciato che sfociava nell’emissario del lago Patria e, seguendo la strada provinciale di S. Maria al Pantano, attraversa con alveo pensile la zona di Licola fino al mare. La superficie complessiva del bacino è di circa 70 kmq. L’alveo dei Camaldoli è ormai ad uso promiscuo, in gravi condizioni d’inquinamento, a causa d’immissioni di acque reflue civili ed industriali e dello sversamento incontrollato di rifiuti solidi e materiali di risulta, che talvolta determinano localmente pericolose situazioni di restringimento dell’alveo;

‚ bacino di Volla: la piana di Volla, situata nella zona orientale di Napoli, era originariamente interessata da una copiosa circolazione idrica superficiale in gran parte alimentata da antiche sorgenti ormai prosciugate. L’antico F. Sebeto costituiva il recapito principale di tali deflussi. Gli interventi antropici degli ultimi decenni hanno determinato un grave stato di dissesto idrogeologico, cancellando di fatto la rete idrografica superficiale che risulta, oggi, praticamente irriconoscibile per le numerose deviazioni e gli interrimenti realizzati. Il bacino (esteso circa 20 kmq) è oggi attraversato ad ovest dal canale Sbauzone e, nell’area industriale orientale, dai fossi Volla, Cozzone e Reale che, parzialmente in-terrati e deviati, sversano nell’area portuale di Napoli (l’ex area dei Granili), ove un tempo sfociava l’alveo del Pollena. La piana di Volla, attualmente priva di una re-te idrografica superficiale efficiente per lo smaltimento delle acque meteoriche, risulta soggetta a fenomeni d’allagamento, divenuti di recente più gravosi anche a seguito del cessato emungimento e della conseguente risalita della falda freatica, in precedenza utilizzata per scopi acquedottistici.

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2.3 Aspetti geologici e geomorfologici

Nel territorio dell’Autorità di Bacino della Campania Nord-Occidentale ricadono tre

grandi contesti geologico-strutturali: le aree vulcaniche (Somma-Vesuvio p.p. e Campi Flegrei continentali ed insulari); la Piana Campana p.p.; le dorsali carbonatiche appenniniche p.p. Le fasce costiere costituiscono, infine, un ambito geomorfologico del tutto particolare per quanto attiene agli aspetti connessi alla vulnerabilità del territorio. Le aree vulcaniche Area flegrea

E’ la vasta area ubicata ad Ovest di Napoli e che si estende sino a comprendere le isole di Procida, Vivara ed Ischia. La struttura vulcanica è estremamente complessa, infatti in una zona di poco superiore ai 400 km2 si ritrovano più di 60 edifici vulcanici. La porzione continentale è inoltre caratterizzata dalla presenza di una vasta area calderica L’attività vulcanica ha avuto inizio circa 150.000 anni fa, mentre le ultime manifestazioni si sono avute nel 1301 (ad Ischia) e nel 1538 con la formazione del M.te Nuovo. In questo intervallo temporale si riconoscono secondo alcuni Autori 4 cicli di vulcanismo, così distinti:

- I ciclo (> 35.000 anni da oggi): in tale ciclo l’attività, di tipo esplosivo, si è esplicata nel settore occidentale dei Campi Flegrei (M.te di Procida) e nelle isole di Procida ed Ischia (Tufo Verde di Ischia: 55.000 anni da oggi). I prodotti di tale attività sulla terraferma sono poco diffusi, mentre si rinvengono morfologie vulcaniche relitte attribuibili a tale ciclo.

- II ciclo (35.000÷30.000 anni da oggi): si attribuiscono a tale ciclo il Piperno, la Breccia Museo e l’Ignimbrite Campana (o Tufo Grigio Campano - 80 km3 di materiali su 10.000 km2)) nonché la formazione della Caldera flegrea.

- III ciclo (18.000÷10.000 anni da oggi): a tale ciclo sono da riferire la formazione dei tufi biancastri stratificati (Soccavo) ed i prodotti dei vulcani di Solchiaro (Procida), Trentaremi, M.te Echia, Torregaveta, e quindi del Tufo Giallo Napoletano (10 km3 di materiali su 350 km2). Tale tufo è, secondo le più recenti vedute, il prodotto di più eventi di tipo “pliniano”, avvenuti (11.000 anni da oggi) in ambiente sottomarino, con un’intensa interazione acqua marina-magma (eruzioni freato-magmatiche).

- IV ciclo (10.000 anni da oggi ÷ 1538 d.C.): in tale ciclo si è avuta un’intensa attività esplosiva connessa a bocche eruttive apertesi all'interno della Caldera Flegrea. Ad una fase iniziale vengono attribuiti i Tufi Gialli Stratificati (vulcani del Gauro, Miseno, Nisida, Mofete), mentre in una seconda fase si sono formati prodotti piroclastici sciolti, (es.: prodotti dei vulcani di Baia, Fondi di Baia, M. Spaccata, S. Martino, Agnano, Astroni, Averno). Si segnalano la messa in posto della cupola lavica trachitica di M.te Olibano (Accademia Aeronautica) (3.900 anni da oggi) e l'eruzione di M.te Nuovo avvenuta in epoca storica (1538 d.C.).

Isola di Procida

L’isola di Procida è costituita da prodotti piroclastici nella quasi totalità e, subordinatamente, da lave e brecce laviche. Alcuni Autori, di recente, riconoscono

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sull’Isola alcuni prodotti originati da vulcani locali ed altri provenienti da Ischia e dai Campi Flegrei. Sui prodotti locali dei vulcani di Vivara, Pozzo Vecchio e Terra Murata (tufi gialli e grigi) poggiano prodotti di provenienza ischitana (piroclastiti sciolte, tufi di Fiumicello e la Breccia della Lingua ascrivibile all’eruzione del Tufo Verde) e flegrea (Breccia di Capo Scotto di Carlo ascrivibile all’eruzione dell’Ignimbrite Campana).

Isola d’Ischia

Le rocce più antiche dell’isola sono vulcaniti (età > 150.000 da oggi) che affiorano nel settore Sud-Est dell’isola e, assai più limitatamente, in quello Sud-Ovest. Tali materiali sono stati interessati da un collasso vulcano-tettonico; i margini della struttura collassata sarebbero gli affioramenti anzidetti. All’interno ed alla periferia della depressione si svilupparono duomi e colate laviche (trachitici ed alcalitrachitici) nel periodo da 150.000 a 75.000 anni fa.

Si sono quindi succeduti gli eventi di seguito riassunti: - circa 55.000 anni fa eruzione del Tufo verde (trachitico); - circa 33.000 anni fa sollevamento del blocco tufaceo del M. Epomeo dovuto alla

risalita di magma trachibasaltico; - circa 28.000 anni fa eruzione di magma trachibasaltico (zona Grotta di Terra nel

settore Sud-Est dell’isola); - circa 18.000 anni fa eruzione nel settore Sud-Ovest dell’isola (vulcano di

Campotese): depositi piroclastici alcalitrachitici e limitati flussi lavici trachitici; - 10.000 anni fa - 1302 d.C: attività vulcanica quasi tutta concentrata sul bordo Est

del blocco di M. Epomeo e legata alla sua risorgenza. I territori flegrei, continentali ed insulari sono interessati da molteplici frane di varia età

che hanno coinvolto sia i terreni piroclastici sciolti (crolli-scorrimenti talora evolventi a colata), sia le unità tufacee e laviche (crolli e ribaltamenti i blocchi). Lungo le aree costiere (falesie attive) sono numerosi gli esempi di gravi dissesti legati al moto ondoso e a situazioni di crisi dei cigli.

Somma-Vesuvio

Il vulcano è costituito dal più antico edificio del Somma nel quale la formazione della caldera (avvenuta 17.000 o 4.000 anni da oggi, secondo i diversi Autori) ha determinato il ribassamento del fianco meridionale, la migrazione verso Sud-Ovest delle successive manifestazioni e la formazione nel tempo, all’interno della caldera, del cono del Vesuvio. Dell’edificio del Somma è così rimasto affiorante il solo settore settentrionale mentre il resto, ribassato, è stato coperto dai prodotti vesuviani. L’attività del vulcano è iniziata circa 25.000 anni fa, come si evince anche dalla sovrapposizione, riscontrata in perforazioni realizzate sul fianco settentrionale, dei prodotti del Somma su piroclastiti riferibili all’Ignimbrite Campana (età 37.000 anni). Fino a 17.000 anni fa l’attività è proseguita con fasi alterne effusive ed esplosive, per divenire, queste ultime, quasi prevalenti fino al 1631. Da tale anno (in cui si è avuto un evento esplosivo assai intenso che provocò più di 6.000 vittime) all’ultima eruzione (1944), le manifestazioni eruttive, pur con alternanza di fasi, hanno assunto più spesso il carattere di flussi lavici. Attualmente il vulcano è in fase quiescente. In estrema sintesi i materiali emessi dal vulcano possono riunirsi nelle seguenti unità (dalle più recenti):

- piroclastiti e scorie del cono vesuviano;

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- colate laviche con interposizione di banchi di terreni piroclastici discontinui e di varia potenza;

- lave basali del Somma. L’edificio vulcanico è caratterizzato soprattutto lungo i versanti settentrionali

(M.Somma) e sud-occidentali da un fitto reticolo idrografico attivo in concomitanza di eventi meteorici intensi. Ne conseguono frequenti fenomeni di alluvionamento e trasporto solido che coinvolgono soprattutto le fasce pedemontane.

La Piana Campana

Si estende su una superficie di circa 1350 km2 (della quale solo la porzione settentrionale e nord-orientale ricade nel territorio dell’Autorità) con quote variabili dallo zero assoluto nei settori costieri ai 40/50 m s.l.m. delle fasce pedemontane dei rilievi carbonatici che la contornano (M.te Massico a Nord, M.ti Tifatini a Nord-Est, M.ti di Durazzano e di Avella-Partenio, M.ti di Sarno a Est, M.ti Lattari a Sud).

La Piana corrisponde ad una depressione tettonica impostata su un originario piastrone carbonatico i cui margini affioranti sono i rilievi che attualmente la bordano (M. Massico, M. Maggiore, i Tifatini etc.). Lungo le fratture che hanno prodotto la depressione si è avuta, nel tempo, un’intensa attività vulcanica e si sono sviluppati importanti edifici vulcanici (Roccamonfina, Somma-Vesuvio); lungo le stesse fratture sono inoltre presenti sorgenti mineralizzate con alti tenori in CO2 (Sorg. di Triflisco e di Cancello al margine NE della Piana) e si rinvengono spesso acque termali (M. Massico al margine NW).

Il distretto vulcanico dei Campi Flegrei e il massiccio del Somma-Vesuvio individuano tre settori della piana: quello settentrionale (basso Volturno); quello mediano (valle del Sebeto); quello meridionale (piana di Sarno).

Dai dati derivanti da prospezioni geofisiche, da perforazioni profonde eseguite per ricerche di idrocarburi e da molteplici pozzi perforati soprattutto per ricerche d’acqua, risulta - per i settori del basso Volturno e della valle del Sebeto - la seguente successione dall’alto:

- Tufo Grigio Campano per spessori di 30-60 m, con i valori massimi a ridosso dei massicci carbonatici e dei Campi Flegrei e i valori minimi a ridosso del corso del Volturno, dove esso è ricoperto da una coltre piroclastico-alluvionale, talora con livelli torbosi;

- depositi vulcano-sedimentari di varia granulometria e spessore di alcune decine di metri;

- depositi prevalentemente pelitici di probabile ambiente marino e transizionale dello spessore di alcune centinaia di metri;

- depositi vulcanici antichi (tufi e lave andesitiche e basaltiche) intercettati da sondaggi profondi, per spessori notevoli, e con il tetto che risale fino ad alcune centinaia di metri dal p.c. sulla verticale di Parete;

- depositi clastici di probabile età miopliocenica a profondità superiore ai 3 km; - piattaforma carbonatica, mai raggiunta dalle perforazioni profonde eseguite nella

zona baricentrica dell’area, ma ricollegabile con gli affioramenti periferici attraverso successivi importanti gradini di faglia.

La Dorsale carbonatica

I rilievi carbonatici che ricadono nel territorio dell’Autorità di Bacino Nord Occidentale della Campania appartengono al settore strutturale di catena sud-appenninica. Tale settore

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è stato caratterizzato da complesse vicende tettoniche prima di tipo compressivo e poi tipo distensivo. Queste ultime hanno determinato fenomeni differenziati di sollevamento con conseguente individuazione di alti strutturali (corrispondenti ai rilievi montuosi) e di depressioni morfologiche (conche intramontane). La Catena sud-appenninica ha la sua massima espressione morfologica in rilievi montuosi che superano talora i 2000 m di altezza e che sono costituiti prevalentemente da rocce lapidee calcareo-dolomitiche. Tali successioni costituiscono l’ossatura della catena e si estendono in modo continuo dall’Abruzzo alla Calabria settentrionale.

Si tratta di sedimenti di piattaforma carbonatica (cioè di un mare poco profondo ) nel quale a partire dal Trias e sino al Miocene si sono depositati sedimenti dolomitici e poi calcarei di natura biochimica e bioclastica. La dorsale carbonatica, in quanto appartenente al settore di catena, è interessata da una sismicità molto elevata. Con riferimento precipuo al territorio del Nord Occidentale può affermarsi che il grado di sismicità raggiunge livelli leggermente inferiori in quanto il territorio stesso è periferico rispetto a quello assiale appenninico. Per quanto riguarda la stabilità dei versanti i fenomeni più diffusi sono crolli e/o ribaltamenti di masse lapidee indotte dai vari sistemi di discontinuità negli ammassi. Laddove sono presenti, in appoggio sul substrato carbonatico, coltri piroclastiche di origine vesuviana e/o flegrea, sono frequenti fenomeni di scorrimento-colata anche di notevole volume (vedi eventi franosi di notevole intensità del 1986, del 1997-98, del maggio ’98 e dicembre ’99 che hanno interessato i territori del Comune di Palma Campania, di Avella, di Quindici, Moschiano, San Felice a Cancello, ed altri “minori” molto diffusi in vaste porzioni montane del territorio).

E’ infine da segnalare un aspetto di carattere idrogeologico connesso alla diffusione del fenomeno carsico ed in generale all’elevata permeabilità dell’acquifero carbonatico. In questo contesto sussiste una notevole predisposizione alla diffusione nel sottosuolo di fluidi inquinati che hanno spesso un recapito ultimo nella falda di base. Attualmente la scarsa urbanizzazione di questo settore montuoso mitiga l’entità del problema, che tuttavia presenta aspetti di particolare rilievo in punti singolari rappresentati dalle conche carsiche endoreiche, dalle cave utilizzate come discariche, dalle aree più direttamente a ridosso delle opere di captazione.

2.4 Aspetti socioeconomici e uso del suolo

Il territorio oggetto di analisi presenta una complessità decisamente rilevante a tutti i

livelli di analisi (economica, sociale, relazionale, urbanistica, demografica, funzionale) necessarie e rispetto alle quali la difesa del suolo trova continue e non trascurabili relazioni che non possono essere taciute.

Come detto sono presenti 127 comuni di 4 province (Napoli, Caserta, Avellino e Benevento) per una superficie pari a circa kmq 1.791 ed una popolazione totale di circa 3,58 milioni di abitanti.

Nel bacino si alternano aree strutturate funzionalmente ad aree prive di vocazione funzionale; alte densità in via di ridimensionamento ad alte densità ancora in crescita; dismissioni industriali a nuove concentrazioni produttive;

L’area compresa nel bacino di competenza risulta fortemente squilibrata dal punto di vista delle densità insediative infatti i valori oscillano dai più alti della Nazione (l’area metropolitana napoletana vede in circa milleduecento kmq oltre 3 milioni di abitanti –

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2.575 ab/kmq) ai 141, 157 e 309 ab/kmq rispettivamente delle province di Benevento, Avellino e Caserta. La variabilità demografica si rileva molto sensibile da comune a comune: i residenti oscillano da un minimo di 893 di Forchia ad un massimo di 79.907 di Casoria (escluso Napoli che ne conta 1.067.365). La densità pur essendo mediamente elevata (1934 ab/kmq dell’area a fronte dei 411 ab/kmq a livello regionale e 115 ab/kmq a livello europeo) varia da 29 ab/Kmq del comune di S. Arpino ad un massimo di 8728 ab/kmq del comune di Arzano (escluso Napoli).

Le forti densità investono decisamente il comune di Napoli ed il suo hinterland: nel capoluogo il valore di 9.102 ab/kmq è tra i più elevati per le città delle stesse dimensioni. La densità è ancora molto elevata lungo l’arco costiero da Monte di Procida a Castellamare, lungo l’asse che collega Napoli con Caserta e lungo la direttrice Marigliano-Nola-San Giuseppe Vesuviano-Nocera mentre va scemando con gradienti rapidamente decrescenti, man mano che ci si sposta verso l’interno.

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Per quanto attiene le classi di età si rileva che i valori accomunano le province di Napoli

e Caserta contro quelle di Benevento ed Avellino i cui valori risultano molto disomogenei rispetto ai precedenti. Gli indicatori rilevano infatti per la provincia di Napoli una popolazione di ultrasessantacinquenni pari a ca. il 10% dei residenti e di giovani under 14 che supera il 14% mentre per Avellino e Caserta i valori si attestano, per gli anziani, intorno al 15, 16% e, per i giovani sotto i 14 anni, intorno al 19%.

Una grande variabilità si rileva anche nell’aspetto produttivo che vede (sempre al 1991) gli addetti totale ammontare a 787.000 unità con una distribuzione geografica molto diversificata: da un minimo di 117 a Forchia ad un massimo di 24.713 a Caserta e di 326.000 a Napoli per una densità produttiva media pari a ca. 395 addetti/kmq escludendo Napoli dove tale indicatore misura il valore di 2.784 addetti/kmq.

L’area napoletana esercita un ruolo fortemente gerarchico dal punto di vista produttivo rispetto al resto del bacino anche se nel decennio 1981/91 si è registra un maggiore aumento dell’offerta di lavoro nei comuni del bacino rispetto al capoluogo rispettivamente pari al 9,7% e al 3,1%.

I caratteri produttivi, inoltre, si differenziano molto anche nella distribuzione dei singoli settori.

Il settore industriale è fortemente presente nei comuni di Pozzuoli e Napoli con qualche propaggine nei comuni siti a nord-est del capoluogo, intorno alle pendici del Vesuvio.

Il settore agricolo si sviluppa in modo tutt’altro che complementare a quello industriale sia per la forte diversificazione degli addetti sul territorio che per la forte disomogeneità della densità abitativa.

La crescita demografica degli ultimi trent’anni (dal 1961 al 1991) nell’area è pari a ca. il 26% anche se nei singoli comuni si registra un inversione del trend che nel periodo precedente aveva visto la prevalenza della città di Napoli sul suo hinterland: il comune di Napoli è interessato da un decremento demografico pari a ca. il 10% della popolazione mentre il resto del bacino registra un incremento di ca. il 50% della popolazione.

La ricerca di percorsi simili e comuni a territori adiacenti a portato ad individuare cinque profili di crescita1: a) aree in crescita stabilmente sostenuta, costituite da comuni che presentano indici di

concentrazione demografica elevati e costanti nei tre decenni (61/71-71/81-81/91); b) aree in crescita progressiva, costituite da comuni con indici inizialmente inferiori a

quelli della prima categoria, ma in costante aumento; c) aree in rallentamento demografico, costituite da comuni caratterizzati da fenomeni di

concentrazione all’inizio elevati, ma che sono andati successivamente smorzandosi; d) aree a crescita contenuta, costituite da comuni con indici positivi, ma sempre inferiori

all’unità; e) aree a dinamica non identificabile perché caratterizzati da comuni in cui l’andamento

dell’indice non è netto.

1 Da “Tipologie della crescita” in “Mobilità delle residenze, mobilità delle persone”, M. De Luca e B. Rallo, CCIA PRISMI editore. Napoli, 1998.

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2.5 Caratteri generali del paesaggio

Il riferimento agli aspetti naturali (idrografia, geomorfologia, ecc.) ed antropici

(struttura demografica, socioeconomica, ecc.) del territorio oggetto di studio ha già, in parte, consentito di individuare alcuni caratteri tipici del paesaggio, inteso in senso complesso, cioè come sistema di componenti interrelate.

L’assetto del paesaggio è condizionato, infatti, dalle correlazioni tra l’ambiente naturale - con gli specifici caratteri che assumono il suolo, le acque, l’atmosfera - e l’ambiente antropico - con i suoi aspetti relativi al sistema insediativo, della mobilità, socio produttivo.

Il territorio di competenza dell’Autorità di Bacino Nord-Occidentale presenta degli aspetti paesaggistici molto diversificati e complessi, sia dal punto di vista naturalistico che da quello antropico.

Le macrostrutture paesistiche del territorio, conseguenti alla storia geologica ed al ruolo delle relazioni terra-mare, sono riconosciute nelle unità geomorfologiche dominanti nella razionalità paesistica, ovvero i sistemi vulcanici del Vesuvio e dei Campi Flegrei; le dorsali carbonatiche di Avella-Partenip; nelle unità geomorfologiche di pianura o intervallive, di connessione tra unità dominanti, quali la Piana Campana; la pianura e la successiva valle

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intermontana del nolano; le piane di connessione svolgentisi tra il Vesuvio e le colline flegree; l’esteso e differenziato sistema costiero.

I valori naturali e culturali riconosciuti nelle dominanti geomorfologiche e nel sistema costiero hanno condotto a sancirne la tutela.

Tuttavia i valori del paesaggio coinvolgono l’intero insieme territoriale, compresi gli usi urbani e rurali , attraverso le relazioni spazio-temporali configuratesi, concernenti i tessuti insediativi consolidati o espressione di nuovi bisogni, aree agricole, aree di naturalità protetta.

Il cambiamento intercorso nei trascorsi decenni, effettuatasi su basi scarsamente programmate nelle manifestazioni connesse alla disciplina dell’uso del suolo, ha comportato un aggravarsi delle condizioni di vivibilità, un accentuarsi degli squilibri nei modi d’uso delle risorse territoriali, una consistente espansione della periferizzazione della condizione insediativa. Non a caso, gli anni passati appaiono caratterizzati dalle periodiche condizioni di emergenze tutte correlate alla condizione ambientale, intendendo con questa anche le ricadute sull’ambiente naturale, in senso stretto, di quello antropizzato.

Da questo punto di vista la L. 1497/39 e la successiva L.431/85 hanno entrambe dimostrato dei grossi limiti nella salvaguardia dei beni paesaggistici, da un lato perché propongono un concetto “vedutistico” e “puro-visibilista” del paesaggio, dall’altro in quanto supportano un atteggiamento sostanzialmente vincolistico e di tutela passiva dei beni. D’altra parte, anche la L. 394/91, che istituisce le aree protette al fine di “garantire e promuovere, in forma coordinata, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale del paese”, non ha ancora prodotto un’azione concreta in questo senso, in quanto ha fino ad adesso portato solo ad una ennesima perimetrazione dei territori da salvaguardare.

Risulta, tuttavia, necessario inquadrare le porzioni di territorio, che ricadono nei confini dell’Autorità di Bacino Nord-Occidentale, vincolate ai sensi delle succitate leggi di tutela allo scopo di consentire una valutazione del rischio che tenga in debito conto i diversi pesi del valore esposto.

Nella G.U. n. 37 del 26/04/1985, sono riportate le dichiarazioni di notevole interesse pubblico, ai sensi della L. 1947/39, di vasti territori della Regione Campania, taluni rientranti nell’area di competenza dell’Autorità di Bacino Nord-Occidentale:

- le isole di Ischia e di Procida; - i comuni di Bacoli, Monte di Procida, Pozzuoli, S.Sebastiano al Vesuvio,

Ottaviano, Somma Vesuviana, Sant’Anastasia, Pollena Trocchia, Cercola, Massa di Somma;

- parte dei comuni di Napoli (Camaldoli, Agnano, Posillipo, Mergellina), Nola, Marano di Napoli, Castel Volturno, Casagiove, Casapulla, Caserta, Maddaloni, S. Maria Capua Vetere, Mercogliano, Summonte, Quadrelle;

- parte del litorale dominio. La disciplina d’uso del suolo attivata dalla L. 431/85 si sarebbe dovuta specificare

attraverso “piani territoriali paesistici”, obbligatori, o “piani urbanistico territoriali con specifica attenzione ai valori del paesaggio”.

Attualmente, all’interno del perimetro dell’Autorità di Bacino Nord-Occidentale, ricadono i seguenti Piani Territoriali Paesistici:

- Piano Territoriale Paesistico dell’area dei Campi Flegrei; - Piano Territoriale Paesistico dell’area Agnano-Camaldoli;

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- Piano Territoriale Paesistico dell’area di Posillipo; - Piano Territoriale Paesistico dell’isola di Ischia; - parte del Piano Territoriale Paesistico del Vesuvio, esteso al comune di Nola-

Castel Cicala: Un elemento interessante da sottolineare è che la disciplina d’uso del suolo sancita con i

Piani Paesistici è da integrare attraverso azioni svolte attraverso piani urbanistici di iniziativa comunale, redatti con contenuti di progetto d’uso, intervento ed attuazione idonei a ricercare la compatibilità tra l’istanza di conservazione e l’istanza di valorizzazione.

La strumentazione per la protezione del paesaggio promuove, di conseguenza, attraverso le prescrizioni caratterizzanti la disciplina d’uso del suolo, interventi coerenti con quelli sollecitati o da sollecitare per la prevenzione e la mitigazione del rischio.

La L. 394/91 ha istituito le aree protette di rilievo nazionale o regionale, gestite dagli Enti Parco.

Interessano l’Autorità di Bacino Nord-Occidentale, interamente o per alcune parti, i seguenti parchi regionali:

- Foce Volturno e costa di Licola; - Campi Flegrei; - Monti del Partenio.

Per concludere, è significativo ricordare, ancora una volta, che “il paesaggio si propone

come manifestazione sensibile dei valori della comunità”, va quindi commentato nella sua discontinuità tematica, ma contemporaneamente va trattato sinergicamente nella sua complessità.

2.6 Strutturazione storica del territorio

La descrizione, sia pure per grandi linee, della strutturazione storica del territorio

oggetto di studio, risulta essere particolarmente importante ai fini di una lettura sinergica dello stesso.

Ogni innovazione, ogni intervento modificativo, ma anche ogni possibilità di riqualificazione e di riassetto, finirebbero per conformarsi come estranei avulsi e quindi non pertinenti, se non rapportati alla struttura “consolidata” di un territorio che comprende, inevitabilmente, anche ciò che, nel corso dei secoli, è stato “artefatto” dall’uomo, con particolare riferimento ai beni storico-culturali.

L’Autorità di Bacino Nord-Occidentale si trova ad agire in un ambito territoriale particolarmente ricco di beni storico-culturali, ed il riferimento ad essi risulta essere condizione necessaria ai fini di una valutazione del rischio che tenga in debito conto i diversi pesi del valore esposto.

L’insieme dei beni nell’area flegrea, dall’Anfiteatro Flavio (il più grande dopo quello di Roma) a Pozzuoli al Palatium di Baia (più noto come complesso termale), al Portus Julius (ancora sommerso nel golfo di Pozzuoli), alla città di Cuma (sull’acropoli del litorale di Licola); la città di Calatia nel territorio comunale di Maddaloni; la città di Atella nei territori dei comuni di Succivo e Sant’Arpino; i numerosi resti archeologici presenti in forma puntuale su tutto il territorio oggetto di studio, rappresentano una risorsa in parte poco nota, frammentata, ma di grandissimo valore.

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In generale, si tratta però di un patrimonio scarsamente valorizzato, non inserito in circuiti di fruizione organica, gestito da Soprintendenze differenti separate e non coordinate, poco vigilato e pertanto oggetto di atti vandalici e di rapine, per lo più non aperto al pubblico oppure, al contrario, alla mercé di un pubblico indiscriminato e non selezionato.

L’ambito territoriale in esame risulta essere, altresì, caratterizzato da un’eccezionale sistema difensivo articolato e diffuso che trova i suoi riferimenti già nell’epoca romana (anche se con la caduta dell’Impero d’Occidente e per gran parte dei secoli fino all’anno 1000 fu travolto e trasformato dalle invasioni barbariche e dalle conseguenti azioni di controllo sui feudatari che si suddividevano il territorio in aree di influenza e di dominio), per poi risalire dall’epoca longobarda, in particolare con le aree del beneventano e parte del casertano; all’epoca normanno-sveva (i castelli di Acerra, Marigliano, Napoli, Somma Vesuviana); all’epoca quella angiona (i castelli di Nola, Afragola, Palma Campania, Napoli); a quella aragonese (il castello di Ischia, di Procida, I presidi di Somma Vesuviana, le residenze fortificate baronali a Marano, il castello di Pomigliano d’Arco); al viceregno spagnolo con il rafforzamento di nuovi presidi; l’epoca austriaca ed, infine quella borbonica con la sistemazione e l’ampliamento di tutto il sistema difensivo spagnolo-austriaco basato sulle piazzeforti, nonché con la realizzazione di palazzi e dimore nobiliari (il Palazzo Reale di Napoli, la Reggia di Capodimonte, il Palazzo Reale di Caserta); di grandi edifici pubblici (l’Albergo dei Poveri, L’Osservatorio Vesuviano) e, ancora, di opere infrastutturali (l’Acquedotto carolino, i sistemi di bonifica, come quelli di irrigazione dei Regi Lagni).

L’insieme dei beni difensivi – alcuni di eccezionale valore storico-documentario - appare scarsamente valorizzato quando non oggetto di trasformazione violenta o di usi non consoni.

Un sistema storico-culturale che intende ricostruire, non solo ai fini testimoniali e documentari, l’organizzazione complessa di aree territoriali non può prescindere dai modi in cui i territori stessi avevano stabilito il rapporto con il mare.

Valga come esempio il sistema flegreo in epoca romana, organizzato intorno alla città di Pozzuoli, con il porto mercantile più importante del Mediterraneo, al presidio militare di Misero (Bacoli), al golfo di Baia (Bacoli), al Portus Julius (Lucrino, tra Pozzuoli e Baia).

Un elemento fondamentale da sottolineare e che l’ambito territoriale oggetto di studio presenta una qualità non solo altissima, ma, cosa ancora più importante, diffusa dei beni storico-culturali. Si tratta, cioè, non di un’area con presenze puntuali, bensì di un “territorio storico”, dove esiste un intero sistema fortemente strutturato di città storiche, e, a questo proposito, torna particolarmente utile ricordare il ruolo ordinatore che la centuratio romana ha avuto nel determinare il disegno produttivo, proprietario, infrastrutturale e urbano di gran parte della piana di Caserta fino a Quarto e Pozzuoli.

Un’azione di tutela e di difesa del suolo non può non fare i conti con una realtà culturale così fortemente consolidata ed estesa. Se è vero che il concetto di rischio non passa solo per la capacità di calcolare la probabilità che un evento “pericoloso” accada, ma anche per quella di definire la quantità di danno provocato, allora deve essere possibile individuare delle priorità, oltre a quella delle vite umane, che tengano presente il valore esposto delle differenti tipologie di beni presenti sul territorio.

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3. IL RISCHIO

Il rischio idrogeologico è un termine sempre più diffuso a causa del crescente aumento di danni (e di vittime) che i fenomeni franosi e alluvionali stanno producendo nel mondo ed in particolare in Italia.

Tale aumento è per lo più causato dall’aumento del “valore esposto” e non tanto da un reale incremento del numero e dell’intensità degli eventi.

In seguito ai numerosi disastri verificatesi negli ultimi anni ed al riconoscimento della natura sociale di tali eventi, sono stati intrapresi programmi di ricerca, sia a livello nazionale che internazionale, mirati ad affrontare tali fenomeni con opportune opere di previsione e prevenzione.

Uno dei temi più trattati dalla letteratura, e sul quale non c’è ancora una soluzione condivisa, è quello della metodologia per l’individuazione del “rischio” idrogeologico e delle sue componenti.

In Italia, una punta avanzata nella ricerca in questo campo è il Gruppo Nazionale per la Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche (GNDCI), nel quale è attiva una linea di ricerca denominata “Previsione e Prevenzione di eventi Franosi a Grande Rischio”.

In Francia si registrano forse i migliori risultati nel campo della previsione e prevenzione dei rischi.

L’ultimo decennio del secolo (1990-2000) è stato designato dalla 42a Assemblea Generale delle Nazioni Unite come Decennio Internazionale per la Riduzione dei Disastri Naturali ed è stata istituita una Commissione per il censimento mondiale dei fenomeni franosi.

Il Working Party on World Landslide Inventory (WP/WLI) dell’UNESCO è nata per creare una banca dati mondiale che dovrà costituire la base di riferimento per l’analisi della distribuzione delle frane. Tale gruppo ha quindi predisposto “metodi raccomandati” per la descrizione delle frane, schede per la rilevazione e glossari finalizzati ad uniformare la terminologia scientifica relativa.

In Italia , attraverso il Progetto AVI, commissionato dal Dipartimento della Protezione Civile al GNDCI del CNR, sono stati censiti tutti i territori del paese colpiti da frane e da inondazioni per il periodo 1918-1990. Gli eventi sono stati catalogati, mediante apposite schede, per ambiti regionali, aggiornati fino all’anno 2000.

Permane, nonostante questi sforzi, una non condivisone ed incertezza relativa al significato di pericolosità, vulnerabilità e rischio, nonché alla valutazione dei parametri con cui tali valori possano essere quantificati.

La protezione idrogeologica, così come affrontata con il Piano Straordinario ex lege 226/99, sembra contenere una certa rigidità e staticità ed evocare un atteggiamento vincolistico, fatto perlopiù di “divieti”, che è, in definitiva, l’atteggiamento comune alle numerose leggi, in tema di tutela e salvaguardia ambientale, attualmente vigenti nel nostro Paese.

L’origine di questo tipo di approccio può essere ricercata in un uso sconsiderato delle risorse e, dunque, nel confronto tra lo stato attuale delle diverse utilizzazioni territoriali e la loro compatibilità con il carattere fisico dell’ambiente naturale. Tale confronto chiarisce, ma certo non giustifica, una politica ambientale permeata sostanzialmente da passività e scarsa flessibilità, che si è tradotta, nel corso degli ultimi anni, in sterili perimetrazione di aree rigidamente vincolate. Lo sforzo necessario da compiere dovrebbe concretizzarsi nel

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superamento di un atteggiamento vincolistico, che il più delle volte finisce per creare situazioni di stallo e di immobilità altrettanto pericolose di quelle di uso indiscriminato delle risorse, per adottare, invece, un approccio “attivo” di mitigazione e prevenzione del rischio legato alle dinamiche ambientali naturali/antropiche.

Una riflessione sulla sostanza delle azioni di protezione idrogeologica conduce così a ritenere che queste oggi debbano essere orientate prevalentemente alla elaborazione di proposte che contengano, insieme alla ovvia identificazione delle cause e degli effetti del dissesto idrogeologico e alla perimetrazione delle aree effettivamente e/o potenzialmente soggette a tale dissesto, anche e soprattutto gli elementi necessari per la previsione e prevenzione degli eventi calamitosi. Lo strumento, se pur complesso, per quest’analisi si identifica nella valutazione del rischio, la cui assunzione presuppone una confluenza disciplinare di opinioni, criteri e consapevolezze, che consenta di progettare il “piano” non come “modello”, bensì come “processo”.

La “processualità” è una scelta difficile perché parte dal presupposto che i fenomeni oggetto di studio non siano riconducibili a schemi predefiniti capaci di spiegarli in modo completo ed esaustivo, ma al contrario, siano interrelati ad una serie complessa di fattori che con al loro peculiarità caratterizzano contesti specifici e ogni volta differenziati. Quando si fa riferimento alla necessità di un piano “pertinente”, si intende sottolineare proprio l’esigenza di un modus pianificatorio che sia capace di relazionarsi alla peculiarità dei diversi contesti.

3.1 Definizione di rischio

Il rischio (R) è definito come l’entità del danno atteso in una data area e in un certo

intervallo di tempo in seguito al verificarsi di un particolare evento calamitoso. Per una dato elemento a rischio l’entità dei danni attesi è correlata a2: • la pericolosità (P) ovvero la probabilità di occorrenza dell’evento calamitoso entro un

certo intervallo di tempo ed in una zona tale da influenzare l’elemento a rischio; • la vulnerabilità (V) ovvero il grado di perdita prodotto su un certo elemento o gruppo

di elementi esposti a rischio risultante dal verificarsi dell’evento calamitoso temuto. • il valore esposto (E) ovvero il valore (che può essere espresso in termini monetari o di

numero o quantità di unità esposte) della popolazione, delle proprietà e delle attività economiche, inclusi i servizi pubblici, a rischio in una data area.

Il danno (D) è definito come il grado previsto di perdita, di persone e/o beni, a seguito di un particolare evento calamitoso, funzione sia del valore esposto che della vulnerabilità.

2 Nel rapporto UNESCO di VARNES & IAEG (1984) vengono date precise definizioni relative alle diverse componenti che concorrono nella determinazione del rischio di frana: a) Pericolosità (hazard H): probabilità che un fenomeno potenzialmente distruttivo si verifichi in un dato periodo di tempo ed in una data area. b) Elementi a rischio (element at risk E): popolazione, proprietà, attività economiche, inclusi i servizi pubblici etc., a rischio in una data area. c) Vulnerabilità (vulnerability V): grado di perdita prodotto su un certo elemento o gruppo di elementi esposti a rischio risultante dal verificarsi di un fenomeno naturale di una data intensità. E espressa in una scala da O (nessuna perdita) a i (perdita totale). d) Rischio specifico (specifìc Risk Rs): grado di perdita atteso quale conseguenza di un particolare fenomeno naturale. Può essere espresso dal prodotto di Hper V e) Rischio totale (total Risk R): atteso numero di perdite umane, feriti, danni alla proprietà, interruzione di attività economiche, in conseguenza di un particolare fenomeno naturale; il rischio totale è pertanto espresso dal prodotto: R=HVE=Rs E

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Di conseguenza: R = P × E × V ovvero R = P × D dove D = E × V Dalle relazioni riportate discende che il rischio da associare ad un determinato evento

calamitoso dipende dalla intensità e dalla probabilità di accadimento dell’evento, dal valore esposto degli elementi che con l’evento interagiscono e dalla loro vulnerabilità.

La valutazione del rischio comporta non poche difficoltà per la complessità e l’articolazione delle azioni da svolgere ai fini di una adeguata quantificazione dei fattori che lo definiscono. E’, infatti, assai complicato giungere ad una parametrizzazione, in termini probabilistici, della pericolosità e della vulnerabilità e, in termini monetari, del valore esposto.

Per lo stesso motivo, anche la mitigazione del rischio - che può essere attuata, a seconda dei casi, agendo su uno o più elementi tra quelli sopra riportati – risulta essere un’operazione molto complessa.

Allo stato attuale, il Piano classifica i territori amministrativi dei comuni e le aree soggette a dissesto, individuati in funzione del rischio, valutato sulla base della pericolosità connessa ai fenomeni di dissesto idraulico e idrogeologico, della vulnerabilità e dei danni attesi.

La perimetrazione delle aree a rischio è redatta sulla base delle conoscenze finora acquisite dall’Autorità di bacino. Al fine di mantenere aggiornato il quadro delle conoscenze sulle condizioni di rischio, i contenuti del Piano sono aggiornati a cura dell’Autorità di bacino almeno ogni due anni, mediante specifiche procedure in base alle quali gli Enti locali interessati sono tenuti a comunicare all’Autorità di bacino i dati e le variazioni, sia in relazione allo stato di realizzazione delle opere programmate, sia in relazione al variare dei rischi del territorio.

Sono individuate le seguenti classi di rischio idraulico e idrogeologico3: - R1 – moderato, per il quale sono possibili danni sociali ed economici marginali; - R2 – medio, per il quale sono possibili danni minori agli edifici e alle infrastrutture

che non pregiudicano l’incolumità delle persone, l’agibilità degli edifici e lo svolgimento delle attività socio- economiche;

- R3 – elevato, per il quale sono possibili problemi per l’incolumità delle persone, danni funzionali agli edifici e alle infrastrutture con conseguente inagibilità degli stessi e l’interruzione delle attività socio - economiche, danni al patrimonio culturale;

- R4 – molto elevato, per il quale sono possibili la perdita di vite umane e lesioni gravi alle persone, danni gravi agli edifici e alle infrastrutture, danni al patrimonio culturale, la distruzione di attività socio - economiche.

Il Piano individua, all’interno dell’ambito territoriale di riferimento, le aree interessate da fenomeni di dissesto idraulico e idrogeologico. Le aree sono distinte in relazione alle seguenti tipologie di fenomeni prevalenti, rispetto ai quali definire i differenti livelli di pericolosità:

- frane; 3 D.P.C.M. 11 giugno 1998 n°180.

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- esondazione e dissesti morfologici di carattere torrentizio lungo le aste dei corsi d’acqua.

Il valore del rischio sul territorio è stato desunto da una combinazione matriciale della

pericolosità (da frana o da esondazione) e del danno.

3.2 Rischio frana I valori delle classi di rischio si ottengono dalla matrice riportata di seguito4:

Pn Rk = Pn × Dm

P3 P2 P1

D4 R4 R4 R3

D3 R4 R3 R2

D2 R3 R2 R1 Dm

D1 R2 R1 R1

Rischio frana

3.3 Rischio idraulico I valori delle classi del rischio idraulico si ottengono dalle tre matrici riportate di

seguito. In particolare, nella prima, i valori del danno incrociano quelli della pericolosità nelle aree soggette a fenomeni di allagamento da esondazione; nella seconda, quelli della pericolosità nelle aree soggette ad invasione di flussi iperconcentrati (colate); nella terza, quelli della pericolosità nelle aree soggette a fenomeni di trasporto liquido e trasporto solido da alluvionamento.5:

4 Approfondimenti sulla metodologia di definizione delle classi di pericolosità di frana sono riportati nel paragrafo 5.1 “Valutazione della pericolosità dei fenomeni franosi”. 5 Approfondimenti sulla metodologia di definizione delle classi di pericolosità idraulica sono riportati nel paragrafo 5.2 “Valutazione della pericolosità dei fenomeni da inondazione”.

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Pn Rk = Pn × Dm

P4 P3 P2 P1

D4 R4 R4 R3 R2

D3 R4 R4 R2 R1

D2 R3 R2 R1 R1 Dm

D1 R2 R1 R1 R1

Rischio idraulico da esondazione

Pn Rk = Pn × Dm

P4 P3 P2 P1

D4 R4 R4 R3 R2

D3 R4 R4 R2 R1

D2 R3 R2 R1 R1 Dm

D1 R2 R1 R1 R1

Rischio idraulico da flusso iperconcentrato

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Pn Rk = Pn × Dm

Pa Pm Pb

D4 R4 R3 R2

D3 R4 R2 R2

D2 R3 R1 R1 Dm

D1 R2 R1 R1

Rischio idraulico da trasporto liquido e trasporto solido da alluvionamento

Sia la valutazione che la mitigazione del rischio richiedono, comunque, l’acquisizione

di informazioni territoriali sui caratteri geologico-idraulico-ambientali e su quelli socio-economici ed uso suolo dell’area in esame.

In altre parole, risulta essere fondamentale una fase di analisi estesa e puntuale che riesca a costruire un quadro, quanto più possibile completo, delle aree oggetto di studio, per ciò che concerne sia gli aspetti naturali che quelli antropici. Ovviamente, si deve trattare di un’analisi mirata e quindi capace di focalizzare quei fattori che più e meglio di altri concorrono alla valutazione dei livelli di rischio ed alla sua eventuale mitigazione.

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4. LA PERICOLOSITA’

La valutazione della pericolosità di un evento calamitoso è possibile solo a seguito di

accurate indagini di rilevante impegno economico, che pongano in relazione l’intensità dell’evento con la sua periodicità. In altre parole, alla pericolosità può attribuirsi un valore numerico se è nota la relazione che intercorre tra il tempo di ritorno (T) dell’evento e l’intensità del fenomeno (funzione della velocità, del volume mobilitato, dell’energia, del tirante idrico ecc.).

Di seguito sono riportati gli studi realizzati per ciò che concerne il rischio frane ed il rischio idraulico , relativamente alla determinazione di una metodologia necessaria alla definizione della pericolosità.

4.1 Valutazione della pericolosità dei fenomeni franosi

Per quanto attiene alla componente collegata agli aspetti geologici (in generale) è da

evidenziare che si è sostituito il concetto di Pericolosità P (inteso come probabilità, in senso temporale e spaziale, di accadimento dell’evento) con quello di Suscettibilità o Pericolosità Relativa (intesa come previsione solo “spaziale”, tipologica, dell’intensità ed evoluzione del fenomeno franoso: Hartlèn & Viberg, 1988). Di fatto, i tipi di frana presenti sul territorio (di elevata intensità e soggetti per vari motivi a rapida cancellazione delle forme) rende oltremodo problematica la ricostruzione della franosità storica (e, quindi, la definizione dei tempi di ritorno).

Di seguito sono riportati gli studi realizzati per ciò che concerne il Rischio frane

relativamente alla determinazione di una metodologia necessaria alla definizione della pericolosità.

Sulla base delle esperienze maturate per la redazione del PAI 2002 piano l’Autorità di Bacino ha impostato il seguente iter operativo:

Aggiornamento e rivisitazione delle carte geotematiche di base già prodotte in scala

1/25.000 (Carta Geolitologica, Carta delle coperture, Carta strutturale, Carta Inventario dei fenomeni franosi, Carta geomorfologica finalizzata alla valutazione del rischio di frana);

Approfondimenti degli stessi tematismi di cui sopra con relativa restituzione

cartografica in scala 1/5.000 per una superficie totale di circa 270 km2 corrispondenti alle aree già classificate di “alta attenzione” e a “rischio molto elevato”;

Analisi di altri fattori influenti sulle condizioni di equilibrio dei versanti e relativa redazione di cartografia tematica in scala 1/5.000 (Carta dell’uso del suolo, Carta

dell’acclività);

Esecuzione di indagini in sito (scavi esplorativi e prove penetrometriche) per l’approfondimento delle stratigrafie e degli spessori delle corti piroclastiche interessate da frane del tipo colata rapida;

4.1.1 Le carte geotematiche

Sono rappresentate dai seguenti elaborati

Carta geolitologica

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Carta degli elementi strutturali Carta-inventario dei fenomeni franosi Carta geomorfologica

La carta geolitologica contiene le informazioni standard della cartografia geologica ufficiale inerenti alla litologia ed agli aspetti strutturali, ma si distingue per un aspetto fondamentale, ovvero la rappresentazione planimetrica, nell’ambito delle dorsali carbonatiche, delle coperture (di origine vulcanica e detritico-colluviale) a tetto delle unità del substrato, distinte per classi di spessore (< 0.5 m; 0.5-2.0 m; 2.0-5.0 m; 5.0-20.0 m). Nella cartografia in scala 1:5.000, relativa alle aree vulcaniche, la differenziazione delle classi di spessore è prevista nel caso in cui lo spessore delle coperture non superi i 20 m, con individuazione di due sole classi di spessore ( ~ 10 m, > 10 m).

La carta degli elementi strutturali, intesa come documento che evidenzia i motivi

strutturali delle varie unità del substrato che controllano più direttamente i meccanismi di deformazione dei pendii. Essa non è stata redatta, in quanto si è ritenuto di rappresentare i motivi strutturali significativi direttamente sulla carta geolitologica.

La carta-inventario dei fenomeni franosi, intesa come documento recante la

distribuzione sul territorio delle frane classificate secondo Varnes (1978) e seguendo – per gli aspetti terminologici - i contributi WP/WPLI (1990/91/93/94), non è stata redatta in quanto si è ritenuto di trasferire tale tematismo direttamente sulla Carta geomorfologica.

La carta geomorfologica finalizzata al rischio di frana è stata impostata seguendo gli

standard proposti dal GNG e dal Servizio Geologico Nazionale, ma tenendo altresì conto delle impostazioni seguite dal C.U.G.Ri. per le finalità precipue previste dal Piano Straordinario e valide anche per il Piano Stralcio (vedi peculiarità degli indicatori geomorfologici connessi alle zone di innesco e di accumulo degli eventi franosi che caratterizzano il territorio: crolli di rocce lapide; colate rapide in terreni piroclastici).

Per le aree vulcaniche (Vesuvio e siti singolari dell’area Flegrea) l’impianto della cartografia geomorfologica in scala 1:5.000 ha previsto anche il ricorso ai metodi dell’analisi geomorfica quantitativa ai fini della stima del tasso di erosione di alcuni sottobacini.

Per quanto attiene ai contesti caratterizzati da rocce lapidee e quindi all’individuazione degli indicatori utili ai fini della definizione dei meccanismi di innesco di frane da crollo e delle aree d’invasione, nella carta geomorfologica in scala 1:5.000 si è proceduto all’individuazione di un congruo numero di siti singolari, ove sono stati effettuati studi geostrutturali di dettaglio.

4.1.2 Le carte di Suscettibilità

Il confronto incrociato, mediante GIS, dei vari “strati” di informazione corrispondenti alle carte di base (geologica, geomorfologia, delle coperture, dell’acclività, dell’uso del suolo) ha comportato la produzione di alcune centinaia di elaborati in scala 1:5.000, che a loro volta hanno condotto alla redazione di Carte di Suscettibilità all’innesco ed

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all’invasione da frana riferite ai contesti geologici rappresentativi del territorio (dorsali carbonatiche; area flegrea continentale ed insulare, area vesuviana).

L’iter metodologico seguito viene sintetizzato nei paragrafi che seguono.

4.1.3Suscettibilità all’innesco Per la realizzazione della carta della suscettibilità all’innesco di frane da scorrimento-

colata rapida nel territorio dell’Autorità si è partiti dall’esperienza condotta dal Servizio Geologico Nazionale all’indomani dell’evento del 5 maggio 1998 in Campania (Amanti et

alii, 1998) modificato in funzione dei diversi contesti geologici e geomorfologici considerati. Per quanto concerne la suscettibilità per frane in roccia (crolli e/o ribaltamenti), in considerazione dell’estensione dei fronti potenzialmente instabili e della difficoltà di procedere, come da metodologie consolidate, ad analisi strutturali puntuali, si è dato un peso prevalente all’assetto geostrutturale “in grande”, evidenziando le forme più significative (scarpate di origine erosionale e/o tettonica, falesie, fronti di cava) ed in particolare le balze rocciose ad elevata acclività, peraltro oggetto di rilevamenti singolari.

Il metodo relativo agli scorrimenti-colate nei depositi piroclastici si basa sul calcolo della frequenza degli eventi franosi noti riguardo ad alcuni fattori territoriali che possono svolgere un ruolo di “controllo” nell’innesco di tali fenomeni. Nella formulazione proposta da Amanti et alii (1998), i parametri ritenuti significativi sono i seguenti:

BLDT

SI ··ÙÚ

×ÈÉ

Ç --?

ÕÖÔÄ

ÅÃ1 ,

con: I = suscettibilità all’innesco S = acclività dei versanti, T = spessore della coltre piroclastica D = distanza dalla linea di scorrimento delle acque superficiali L = uso del suolo B = ordine di bacino. Le grandezze S, T e D sono frequenze percentuali e probabilità, mentre L e B sono state

utilizzate come fattori peggiorativi (e quindi con valore uguale o superiore all’unità). Partendo dalla suddetta formulazione, si è proceduto alla verifica dell’effettiva

incidenza dei parametri considerati da Amanti et alii (1998) come potenziali fattori predisponesti all’innesco di frane da scorrimento-colata, attraverso l’analisi statistica dei dati inizialmente disponibili per alcune aree particolarmente significative (dorsale di Avella e territorio di Quindici - Lauro per l’area dei massicci carbonatici; collina dei Camaldoli e versante settentrionale di Monte Epomeo per il distretto vulcanico flegreo). Sulla scorta di tali test, si è in un primo momento pervenuti alla seguente espressione:

RLDT

SI ··ÙÚ

×ÈÉ

Ç --?

ÕÖÔÄ

ÅÃ1 ,

con: S = acclività dei versanti T = spessore della coltre piroclastica

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D = distanza da sentieri e strade montane L = uso del suolo R = distanza dagli orli di scarpate Per tali dati, che si riferiscono unicamente alle aree di coronamento delle colate, sono

stati calcolati i dati statistici elementari (valore minimo, massimo, medio; deviazione standard), necessari alle successive elaborazioni. Per ciascun parametro si è altresì allestita la relativa carta tematica, da incrociare con quella recante l’ubicazione delle aree di coronamento delle frane.

La carta delle pendenze e la carta di ubicazione delle scarpate sono state ricavate da un Modello Digitale del Terreno (DTM), con struttura matriciale con passo di 20 m. Nelle zone in cui per motivi connessi alla risoluzione del DTM non si riuscivano ad estrarre in modo automatico le rotture di pendenza è stato necessario ricavarle da un’analisi geomorfologia, riportarle sulla cartografia di base e successivamente digitalizzarle.

La carta-inventario delle aree di coronamento di frana e la carta delle pendenze sono state utilizzate per definire la pendenza nelle zone di distacco delle frane attraverso un’operazione di Map Algebra. Definita per ciascun coronamento la relativa pendenza, è stato elaborato un grafico che evidenziasse la loro distribuzione di frequenza. Questa, in analogia con quanto già rilevato in diversi contributi scientifici (tra cui quello già citato di Amanti et alii, 1998), ben si approssima ad una distribuzione di tipo gaussiano. E’ stato pertanto possibile valutare l’incidenza del fattore pendenza sul potenziale innesco delle frane da scorrimento-colata attraverso la funzione di densità di probabilità

* +2/2

2

1

2

1u

o

ru

//?

x

eS .

Avendo verificato che, almeno da un punto di vista statistico, la posizione delle scarpate

non determinava sensibili modifiche nella zonazione delle aree suscettibili a franare, in quanto i dati di riferimento, essenzialmente di tipo geomorfologico, incidono in modo pressoché uniforme negli areali considerati, si è ritenuto di non includere tale fattore nella formulazione definitiva, che è risultata quindi così composta:

LDT

SI ·ÙÚ

×ÈÉ

Ç --?

ÕÖÔÄ

ÅÃ1

Nelle aree vulcaniche l’espressione sopra indicata è stata modificata in relazione al diverso ruolo esercitato dai fattori T, D ed L

A chiusura dell’iter come sopra descritto, si è operata la suddivisione della suscettibilità

all’innesco (I) in tre classi, rispettivamente definite molto elevata, elevata e medio-moderata, prendendo in considerazione particolari valori di S, T, L. Per quanto riguarda il fattore S, sono stati assunti i valori corrispondenti a o ± 3u (tra suscettibilità bassa e media) e o ± u (tra suscettibilità media ed elevata), con o = valore medio e u = deviazione standard; per il parametro T stato invece considerato il valore minimo, mentre per il parametro L è stato assunto il valore massimo.

L’influenza della sismicità è stata valutata preliminarmente adottando un metodo

suggerito dalla Comunità scientifica (curve di Keefer). I risultati ottenuti, che peraltro

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evidenziano soprattutto l’incidenza degli eventi sismici sulle frane da crollo in roccia (non esiste infatti una casistica relativa alle frane per colata rapida), non forniscono un sostanziale contributo aggiuntivo alle indicazioni fornite dalla Legge sismica nazionale.

Nel caso del territorio dell’Autorità la gran parte dei Comuni ricade nella 2a categoria sismica. Pertanto, la sismicità non costituisce un fattore discriminante ai fini della definizione del grado di suscettibilità. Dunque non se n’è tenuto conto.

4.1.4 Suscettibilità all’invasione

La suscettibilità all’invasione per frane come quelle tipiche del territorio dell’AdB può

ragionevolmente identificarsi nei due aspetti elementari della previsione della distanza di

propagazione e dell’espansione areale del fenomeno franoso (Hartlèn & Viberg, 1988), essendo l’eventuale tendenza retrogressiva in qualche modo contemplata nell’analisi della suscettibilità all’innesco.

In particolare, la previsione della distanza di propagazione è di fondamentale importanza per frane di crollo o di colate detritico-fangose, le quali possono, come noto, coprire grandi distanze. Le colate rapide del maggio ’98 anche in questo senso rappresentano un riferimento imprescindibile, essendosi raggiunte in quell’occasione distanze massime nell’ordine dei 3.500-4.000 m dal coronamento di alcune frane.

Sia per i crolli che per le colate rapide esistono diversi metodi analitici adatti alla “simulazione” dei possibili percorsi dei corpi di frana. Nel caso dei crolli, la procedura più comunemente seguita è quella, di norma basata sull’osservazione della posizione di blocchi già franati, dell’analisi cinematica o dinamica delle possibili traiettorie dei blocchi, in funzione della loro forma e dimensione e delle caratteristiche morfologiche del pendio.

Nel caso delle colate rapide un metodo già applicato in diversi contesti è quello delle linee di energia (noto anche come modello a slitta), originariamente proposto da Heim (1932) e successivamente ripreso da altri autori, ed in particolare da Sassa (1988). Tale metodo, basato sull’assunzione che tutta l’energia persa nel movimento è dissipata per attrito, richiede la stima dell’angolo di attrito apparente (funzione dell’angolo d’attrito dinamico del materiale) e delle pressioni neutre durante il moto.

Altrettanto complessa è la previsione dell’espansione areale di un fenomeno franoso, importante nel caso di colate viscose di terra o di fenomeni di liquefazione (Canuti & Casagli, 1996). Tale previsione dipende infatti da un elevato numero di fattori (morfologia del versante, granulometria e contenuto d’acqua del materiale, parametri di resistenza al taglio, pressioni interstiziali, ecc.). Esistono al riguardo approcci analitici propri dell’ingegneria sia geotecnica (Sassa, 1988) che idraulica (Takahashi, 1991), ed in entrambi i casi è indispensabile la conoscenza di parametri specifici dei materiali suscettibili di franare.

La pericolosità di frane a cinematica rapida come crolli e colate detritico-fangose può essere stimata, in assenza di specifici ed affidabili dati geotecnici ed idraulici, su base geomorfologica, mediante la determinazione di alcuni parametri morfometrici elementari. Questo approccio fu per la prima volta introdotto nel 1932 da Heim che, analizzando alcune frane catastrofiche avvenute nell’Arco Alpino (stürzstroms o rock avalanches), definì il cosiddetto fahrböschung o angle of reach (traducibile come “angolo di portata o distanza”), ovvero l’angolo formato (rispetto all’orizzontale) dalla congiungente il punto posto a quota più alta della zona di distacco con il punto estremo raggiunto dalla massa

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franata. In seguito (Shrieve, 1968, Scheidegger, 1975) questo angolo è stato definito anche “coefficiente equivalente di attrito”.

Nel corso degli anni, attraverso un numero ingente di studi, l’angolo di distanza è stato utilizzato per stimare la mobilità di numerosi tipi di frana (scorrimenti, colate di detrito e di terra, crolli, rock avalanches), inizialmente di volume imponente (milioni o decine di milioni di m3), in seguito anche di più modesta dimensione. Il volume mobilizzato è il parametro morfometrico più di frequente utilizzato in relazione con l’angolo di distanza, essendosi constatata, su un’ampia casistica, l’esistenza di una relazione di proporzionalità inversa (l’angolo diminuisce al crescere del volume). La relazione tra massima altezza verticale di caduta ed angolo di distanza è stato invece oggetto di studi controversi (es.: Skermer, 1985; Corominas, 1996).

Le varie relazioni sperimentali sono state testate su un’ampia serie di contesti geologici e geomorfologici (Alpi, Pirenei, Montagne Rocciose, Cordigliera andina, estremo Oriente, ecc.), costituendo in molti casi un primo criterio di valutazione del potenziale d’invasione e quindi di pericolosità di frane rapide. Alcuni autori, tuttavia, suggeriscono di utilizzare un parametro differente, derivato dall’angolo di distanza: l’eccesso di distanza percorsa (Hsü, 1975) o l’eccesso relativo di distanza percorsa (Corominas, 1996). In entrambi i casi, si tratta di una stima dell’anomala mobilità di frane veloci, in relazione ad un dato standard, costituito, nei due casi, dal prodotto dell’altezza massima di caduta (H) per tan32°, dove quest’ultimo valore rappresenta l’angolo d’attrito “normale” per molti tipi di materiali.

L’adozione di questo approccio non può però prescindere dall’evidenziare alcuni limiti, ad esempio insiti nel valutare il ruolo di ostacoli e deviazioni sulla mobilità delle frane (soprattutto le colate). E’ altresì il caso di ricordare gli altri fattori che condizionano la stessa mobilità, ovvero l’altezza della caduta, la regolarità del percorso, la dimensione della massa in movimento.

Per quanto attiene specificamente l’iter seguito per il territorio dell’Autorità di Bacino,

la procedura di elaborazione adottata parte dalla Carta di suscettibilità all’innesco, già trattata nel paragrafo precedente. Tale Carta viene utilizzata, in questa fase, per il tracciamento di sezioni topografiche, passanti per i principali valloni dei vari contesti, nonché per un numero significativo di versanti “planari”, ovvero privi di incisioni torrentizie di un certo rilievo, e per lo più coincidenti con le “faccette triangolari” della Carta geomorfologica.

Contestualmente, si è proceduto alla determinazione dell’angolo di portata specifico per i vari contesti geologico-geomorfologici. In tal senso, si è operato tenendo conto della letteratura più recente disponibile sull’argomento, sui territori d’interesse, tra cui, in particolare Calcaterra et alii (1999), de Riso et alii (1999), Di Crescenzo & Santo (1999). La valutazione del suddetto angolo è stata condotta considerando esclusivamente i valori di H ed L, non potendo disporre dei valori di volumi mobilizzati per l’intera area di studio, scegliendo i più idonei valori rispettivamente per frane generate a monte di impluvi e/o valloni (e quindi passibili di incanalamento) e per frane lungo versanti planari.

Tali valori sono stati utilizzati, in prima approssimazione, a partire dal punto di “Suscettibilità molto elevata all’innesco”, posto a quota più alta lungo le prescelte sezioni di calcolo. In presenza di settori di versante posti a monte del suddetto punto e classificati a “Suscettibilità elevata o media-moderata”, il primo calcolo è stato reiterato, al fine di determinare le corrispondenti aree di possibile invasione. In caso di pronunciate anomalie

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morfologiche lungo la sezione (concavo-convessità, tratti di versante planari che si raccordano ad incisioni, ecc.), i calcoli sono stati ulteriormente replicati.

Al termine di tale fase, si sono quindi uniti i punti di massima invasione, corrispondenti ai diversi livelli di suscettibilità, ottenendo quindi degli areali “preliminari”. Questi ultimi sono stati successivamente controllati con una serie di dati, derivati dalla Carta geomorfologica, quali frane (e loro effettiva “impronta”), conoidi, glacis d’accumulo pedemontani, elementi antropici significativi (cave, vasche, rilevati), ecc. L’iniziale delimitazione è stata quindi ridefinita in modo da pervenire alla versione definitiva della Carta di suscettibilità all’invasione per frane da scorrimento-colata rapida.

L’esplicitazione dell’intero iter metodologico seguito per la redazione della carta di

pericolosità relativa (suscettibilità) da frana (innesco-transito-invasione) è visualizzata nelle tre figure seguenti (la distribuzione dei valori di acclività delle aree di distacco si riferisce al Vallo di Lauro).

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Per quanto attiene alle frane da crollo in rocce lapidee, la definizione del limite di

massima invasione è affetto da margini di approssimazione connessi alla complessità oggettiva del tema, ma anche alla vastità dei fronti lapidei considerati. L’elemento di riferimento, di tipo areale, è mutuato essenzialmente dal rilevamento gemorfologico e riguarda in particolare la presenza o meno di blocchi franati, nei tratti a valle delle balze rocciose considerate (vedi zona di Taurano; collina dei Camaldoli e Monte Barbaro; versanti dell’Epomeo). In un’area singolare, rappresentativa del contesto carbonatico, il dato geomorfologico è stato confrontato con le risultanze di analisi di dettaglio relativa sia all’assetto strutturale del fronte, sia alle traiettorie percorse da un blocco di riferimento. Le risultanze dei dati acquisiti, con i limiti di approssimazione sopra riportati, sembrano indicare (tenuto conto delle dimensioni prevalenti dei blocchi e della lunghezza dei percorsi) che il limite massimo ricade, in un buon numero di casi, all’interno o al piede delle aree di versante. In tali casi, esso viene a coincidere, nelle condizioni più sfavorevoli, con la zona apicale delle aree a suscettibilità molto elevata all’invasione per frane da colata rapida.

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4.2 Valutazione della pericolosità dei fenomeni da allagamento per esondazione, da flusso iperconcentrato e da trasporto liquido e solido da alluvionamento esondazione,

Le attività di studio eseguite per la perimetrazione delle aree a rischio idraulico sono descritte nei paragrafi che seguono.

Attività conoscitiva Questa fase iniziale dello studio è stata necessaria ad acquisire tutte le informazioni utili

per ricostruire lo stato di conservazione delle singole aste del reticolo idrografico del bacino.

Più in particolare, in base ai risultati di sopralluoghi e di appositi rilievi è stato eseguito il censimento sistematico, la localizzazione e la collocazione storica degli eventi critici di allagamento e degli interventi di protezione eseguiti nel tempo ed il cui stato di conservazione potrebbe essere in grado di influenzare il deflusso delle correnti di piena.

Documentazione prodotta I documenti di sintesi di tale attività sono rappresentati da:

- catalogo delle ricognizioni del reticolo idrografico esistente riportante le informazioni fotografiche e cartografiche relative ai sopralluoghi svolti per la verifica dello stato di conservazione dei diversi tronchi dei corsi d’acqua ispezionati; tali informazioni sono restituite anche in un data-base su supporto di semplice utilizzazione (del tipo EXCEL, ACCESS );

- cartografia tematica riportante la localizzazione delle aree interessate da fenomeni di allagamento per esondazione ricavata dai dati storici del progetto AVI opportunamente integrati.

Studio idrologico

Lo studio idrologico ha lo scopo di elaborare un modello afflussi-deflussi in grado di stimare le portate di piena con prefissati periodi di ritorno che possono verificarsi in una generica sezione di un tronco d’alveo.

Nelle elaborazioni eseguite vengono evidenziati i seguenti aspetti:

- analisi e sviluppo di modelli probabilistici presi a riferimento; - metodologia utilizzata per la stima dei parametri dei suddetti modelli; - metodologia utilizzata per l’elaborazione statistica dei dati a disposizione; - risultati delle elaborazioni effettuate a partire dai dati pluviografici e pluviometrici

a disposizione (medie aritmetiche, scarti quadratici medi, valori modali,ecc.); - valutazione, nell’ambito delle zone pluviometriche omogenee, dei fattori di

crescita col periodo di ritorno T; - determinazione, per ciascuna delle sottozone pluviometriche, delle relative curve

di probabilità pluviometriche; - analisi e sviluppo dei modelli di trasformazione afflussi/deflussi prescelti per la

valutazione delle massime portate e dei massimi volumi di piena corrispondenti ad assegnato periodo di ritorno;

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La metodologia utilizzata nello studio idrologico fa riferimento a quella riportata nel PAI 2002, proposta su scala nazionale dal progetto VAPI del Gruppo Nazionale per la Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche (GNDCI).

In via più dettagliata, i valori della portata TQ , corrispondenti al periodo di ritorno T, possono essere stimati a partire da una relazione del tipo:

TQT KQ ©? z (1)

dove: - Qz è un parametro centrale della distribuzione di probabilità della variabile

idrologica Q, massimo annuale della portata istantanea (ad esempio: la media, la mediana, il valore modale, etc.)

- TK e’ un coefficiente amplificativo, denominato coefficiente di crescita col periodo di ritorno T espresso dalla relazione

)(TKK TT ? (2)

che dipende, per una data regione omogenea rispetto alle portate al colmo di piena, solo dal particolare modello probabilistico adottato e dallo specifico parametro Qz

preso a riferimento (Tabella 1). Le elaborazioni relative alla applicazione di tale modello fanno riferimento

ad una procedura di regionalizzazione gerarchica in cui i parametri vengono valutati a scale regionali differenti, in funzione dell’ordine statistico.

Relativamente al valore da assegnare al periodo di ritorno T, prendendo a riferimento le tre classi di valori riportate dal DPCM del 29/09/98 (T=20-50 anni; T=100-200 anni; T=300-500 anni) si e’ fatto riferimento ai valori 20 anni, 100 anni e 300 anni.

La stima dei massimi istantanei delle variabili aleatorie (altezza di pioggia, intensità

di pioggia, portata di piena, etc.) corrispondenti ad assegnati valori del periodo di ritorno T, è stata effettuata attraverso una metodologia di tipo probabilistico che utilizza il modello T.C.E.V.

Nel caso specifico la variabile aleatoria presa in esame è il massimo annuale dell’altezza di pioggia hd,T di assegnata durata d, corrispondente al periodo di ritorno T.

L’espressione

* +Tdhh TdTd ,,, ? (3)

viene, come noto, denominata “curva di probabilità pluviometrica per assegnato periodo

di ritorno T. La (3) assume notoriamente l’espressione:

ThTd Khd©? X, (4)

dove

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- dhX è il parametro centrale della distribuzione di probabilità del massimo annuale

della altezza di pioggia in assegnata durata (per es. il valore modale (g ) o la media (o ), ovvero parametri legati a momenti del primo ordine).

- TK è il coefficiente di crescita col periodo di ritorno T, che dipende per una data regione omogenea rispetto ai massimi annuali delle altezze di pioggia, dal modello probabilistico adottato e dal parametro

dhX preso a riferimento.

Per quanto concerne la variabile dhX essa si assume comunemente corrispondente

al valore della media dho dei massimi annuali di pioggia di durata d

dd hh oX » (5)

I valori del coefficiente di crescita TK delle piogge e delle portate sono indicati,

per i differenti periodi di ritorno T assunti, nella successiva Tabella 1.

T 20 100 300 Piogge

TK 1.64 2.36 2.90

Portate TK 2.03 3.07 3.83

Tabella 1: Coefficienti di crescita TK per differenti valori del periodo di ritorno T

Al fine di conseguire valutazioni del parametro

dho (media dei massimi annuali

dell'intensità media di pioggia di durata d), si è fatto riferimento ai dati delle stazioni pluviometriche di cui alla Tabella II allegata alla Relazione Idrologica del PAI 2002.

Sulla base delle condizioni geomorfologiche, l’intera area di studio è stata divisa in tre diverse sottozone indicate nella planimetria schematica di figura 1, come sottozone n. 1 n. 2 e n. 3.

A partire da tali dati, si è innanzitutto individuato il tipo di modello di regressione in base al quale caratterizzare il legame esistente tra i valori dell'intensità media di pioggia

d

d

d

h

i

oo ? , le durate d prese a riferimento e le quote z sul livello del mare relative alle

singole stazioni di misura considerate; successivamente, si è passati a stimare i parametri in esso contenuti eseguendo una analisi di gruppo (cluster analysis) attraverso la massimizzazione del coefficiente di determinazione della regressione multipla.

Per quanto riguarda la forma del legame di regressione, si è fatto riferimento all'espressione:

DzC

d

di

c

d

I-

ÕÕÖ

ÔÄÄÅ

Ã-

?1

0o (6)

che presenta, rispetto alle più diffuse forme di tipo monomio, i seguenti vantaggi: - per durate 0›d , risulta 0I

di›o e, quindi, anche per durate ridotte si ottengono

valori non troppo elevati dell'intensità media di pioggia nella durata d;

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- la derivata di di

o rispetto a d si presenta continua in tutto l'intervallo di durate, il

che la rende notevolmente più duttile nella ricerca della durata critica con un approccio variazionale;

- compare direttamente la quota z sul livello del mare. Analogamente a quanto riportato nel PAI 2002, per la scelta del modello di

trasformazione afflussi/deflussi si è tenuto conto della estensione e delle caratteristiche morfometriche dei bacini da esaminare.

In particolare per i bacini montani di superficie inferiore a 15 Km2 per la valutazione delle portate piena si è ritenuto opportuno fare riferimento al metodo della corrivazione ed in particolare alla formula razionale:

Q = Cf*i(tc) *S (7) nella quale tc è il tempo di corrivazione del bacino (ore) calcolato con la nota formula di

Giandotti: tc = (4 * S0.5+1.5*L)/ 0.8*(Hmed – Ho)0.5 (8) in cui L = lunghezza dell’asta principale in Km; S = superficie totale del bacino in Km2; Hmed = quota media del bacino in m; Ho = quota della sezione di chiusura in m. Per gli altri bacini il modello di trasformazione afflussi/deflussi utilizzato è quello

di Nash a tre serbatoi. L’idrogramma di piena è fornito dalla risoluzione dell’integrale di convoluzione

Ð /?t

t dtupQ0

)()( vvv (9)

nel quale la funzione u(t) rappresenta l'IUH del modello, la cui espressione è la

seguente

0

1

00)!1(

1 K

tn

t eK

t

Knu

/

ÕÕÖ

ÔÄÄÅ

Ã/

? (10)

È possibile dimostrare che ntK r?0 , essendo rt il tempo di ritardo del bacino ed

n il numero di serbatoi. Ne consegue che, nel caso in esame, avendo scelto n=3, è stato necessario valutare solo il tempo di ritardo rt di ciascuno dei bacini sottesi dalle singole sezioni prese a riferimento, che può essere valutato con i diversi approcci riportati nella Relazione Idrologica allegata al PAI 2002.

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Per la valutazione del coefficiente di afflusso, per i sottobacini già oggetto di studio idrologico nel PAI 2002 si è fatto riferimento ai valori contenuti nel predetto PAI.

Per i restanti sottobacini, sono stati stimati coefficienti di afflusso prendendo a riferimento quelli riportati nel PAI 2002 per bacini aventi caratteristiche morfologiche simili.

Nello studio idrologico, particolare attenzione è stata rivolta agli alvei/canali che, in

parti del tracciato, si presentano pensili rispetto ai terreni circostanti ed hanno una capacità idrovettrice inferiore alla portata meteorica attesa.

In tale caso, per la stima dei volumi esondabili è stato fatto ricorso ad un modello idologico di tipo cinematico, ipotizzando, per un assegnato periodo di ritorno, idrogrammi di durata pari o superiore al tempo di corrivazione nella sezione di interesse che massimizzassero al variare della durata il valore del volume esondabile.

Note le caratteristiche geometriche ed i materiali costituenti la sezione

dell’alveo/canale nel tratto in cui si presenta pensile rispetto ai terreni circostanti, è stata valutata la sua massima capacità idrovettrice Q* (portata di soglia).

Il volume esondato può essere stimato mediante un processo di massimizzazione della differenza tra le aree poste al di sotto dell’idrogramma trapezioidale in ingresso e la fissata portata in uscita Q* (portata di soglia). Se la durata D dell’evento è pari al tempo di corrivazione, il volume esondato è rappresentato dalla porzione di idrogramma triangolare caratterizzata da valori delle portate superiori al valore di soglia Q. Assumendo valori della durata D dell’evento superiori al tempo di corrivazione, il volume esondato è rappresentato dall’area dell’idrogramma trapezoidale posta al di sopra del valore di soglia Q*.

La stima del massimo volume esondabile è stata quindi riferita alla ricerca della durata D che massimizza il valore del volume esondato in corrispondenza di un prefissato valore della portata di soglia Q* e di un assegnato periodo di ritorno T.

4.2.3 Lo studio idraulico per la valutazione delle aree soggette a fenomeni di

allagamento per esondazione

Lo studio idraulico è stato finalizzato sia alla valutazione delle capacità di convogliamento dei diversi tratti d’alveo nelle loro condizioni attuali, sia alla individuazione della estensione delle aree di allagamento, nei tratti soggetti ad esondazione.

In particolare nell’ambito dell’aggiornamento sono stati condotti studi di dettaglio in aree per le quali si sono rese disponibili informazioni più dettagliate rispetto al PAI 2002 (ad esempio, rilievi topografici approfonditi), o nei casi in cui fossero stati compiutamente realizzati interventi o manufatti i cui effetti possono comportare una significativa mitigazione della pericolosità idraulica.

La modellazione idraulica dei fenomeni di propagazione delle piene in alveo e’ stata effettuata con riferimento ad uno schema di moto permanente monodimensionale, per valori delle portate pari a quelli al colmo di piena con periodo di ritorno T= 20, 100 e 300 anni.

Nelle aree soggette ad allagamenti i calcoli idraulici sono stati condotti con differenti criteri a seconda delle caratteristiche morfologiche degli alvei e dell’entità dei

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fenomeni di allagamento (volume di acqua che può fuoriuscire dall’alveo), utilizzando modelli semplificati basati sulla valutazione della distribuzione statica dei volumi esondati e sul criterio della conservazione del carico idraulico nelle sezioni di esondazione.

Aspetti geomorfologici del reticolo idrografico

Gli alvei ricadenti nel bacino Nord Occidentale della Campania sono stati schematizzati in tre tipologie :

- alvei naturali; - alvei strada ; - alvei tombati.

Per quanto concerne gli alvei naturali va evidenziato che le problematiche della

sicurezza idraulica, che rappresentano l’obiettivo principale dello studio idraulico, sono connesse, come è noto, ai processi morfologici di erosione, trasporto e sedimentazione, oltre che agli interventi antropici; pertanto, lo studio idraulico è stato accompagnato prioritariamente da una analisi geomorfologia del reticolo fluviale nella quale i singoli tronchi d’alveo sono stati caratterizzati come :

- torrenti montani, incisi in formazioni in posto in cui possono verificarsi dissesti di carattere erosivo localizzati a piede dei versanti e colate rapide di fango o di detrito;

- tratti pedemontani, in cui si verificano processi di deposito nel breve, medio e lungo periodo, con conseguente incremento del rischio di esondazioni per restringimento delle sezioni trasversali che possono interessare i coni di deiezione;

- tratti incassati di pianura, in cui si verificano esondazioni delle portate in arrivo dai bacini a monte per superamento della capacità di convogliamento idrico dell’alveo.

Particolare attenzione è stata posta nei confronti degli alvei strada. Infatti è abbastanza frequente il verificarsi di alvei naturali che, arrivati in prossimità dei centri abitati, divengono delle vere e proprie strade con la caratteristica di essere la sola via di accesso a proprietà private, senza che si rilevi la presenza di opportune opere idrauliche atte ad allontanare la naturale portata convogliata a monte dall’alveo.

Pertanto, tutti gli alvei strada sono stati perimetrali come zone a massima pericolosità idraulica.

Infine per quanto concerne l’ultima tipologia che è quella degli alvei tombati va evidenziato che nel territorio esaminato essa ricorre comunemente Infatti, è frequente il caso di corsi d’acqua che per alcuni tratti vengono ad essere incanalati in sezioni chiuse.

Questi alvei sono stati studiati con particolare attenzione, in quanto una inadeguata capacità idrovettrice, a fronte delle portate idrologiche attese, può causare problemi di notevole rilevanza.

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4.2 Il modello geometrico del corso d’acqua

La ricostruzione della geometria dei corsi d’acqua e delle aree limitrofe è stata effettuata sia attraverso l’utilizzo di cartografia di base già esistente, sia attraverso una campagna di rilievi topografici.

La cartografia di base utilizzata per definire la topografia delle aree oggetto dello studio è rappresentata dal Rilievo aerofotogrammetrico in scala 1:5000 eseguito nel 2004 dalla Regione Campania;

Negli studi di dettaglio per l’aggiornamento del Piano, si è disposto per ogni alveo da studiare un apposita campagna di rilievi effettuati secondo le indicazioni contenute nella Relazione idrologica del PAI 2010.

Durante la campagna di indagini e rilievi particolare cura è stata richiesta nel rilievo di sottopassi, ponti, alvei strada e per ogni singolarità che potesse risultare importante ai fini della determinazione della pericolosità.

Tutta la campagna di rilievi è stata poi corredata di una vasta documentazione fotografica.

4.3 La modellazione idraulica

La modellazione idraulica dei fenomeni di propagazione delle piene in alveo per i

corsi d’acqua per i quali si è svolto uno studio di approfondimento, è stata effettuata con riferimento ad uno schema di moto permanente monodimensionale.

Le simulazioni sono state condotte con l’ausilio del codice di calcolo HEC-RAS (Hydrologic Engineering Center - River Analysis System).

Per l’implementazione del codice di calcolo è necessario di tutto l’insieme di dati che caratterizzano il sistema idrografico; in particolare necessitano i dati geometrici che includono sia quelli topografici (coordinate planimetriche, quote altimetriche, ponti, tombinature ecc) che le caratteristiche fisiche, quali i valori dei coefficienti di scabrezza e delle portate.

Per la valutazione della scabrezza nella formula di resistenza si sono utilizzati i seguenti coefficienti di Gauckler -Strickler:

- K=30 m1/3/s per i tronchi d’alveo in terra (corrispondente al coefficiente di Manning pari a 0.033 m-1/3s);

- K=40 m1/3/s per i tronchi d’alveo in pietrame (corrispondente al coefficiente di Manning pari a 0.025 m-1/3s);

- K=50 m1/3/s per i tronchi d’alveo sistemati in calcestruzzo e per fondo in asfalto (corrispondente al coefficiente di Manning pari a 0.02 m-1/3s).

In merito alle condizioni al contorno, si è proceduto in diversi modi tenendo conto

delle caratteristiche idrauliche della corrente e dei manufatti eventualmente presenti a monte e a valle dei tratti studiati.

Il codice di calcolo HEC-RAS utilizzato per lo studio idraulico è stato predisposto

dall’Hydrologic Engineering Center (HEC), dell’U.S. Army Corps of Engineers. In particolare esso consente il calcolo del profilo del pelo libero sia in caso di moto stazionario (steady flow) che in condizioni di moto non stazionario (unsteady flow).

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Il programma è in grado di effettuare l’analisi di più profili contemporaneamente, prevedendo la possibilità di inserire punti singolari (ponti, sottopassi, ecc.) e portate con vari tempi di ritorno; é possibile, inoltre, un loro confronto per sovrapposizione. Inoltre esso è in grado di simulare indifferentemente sia canali singoli che reti di canali naturali od artificiali, integrando profili di moto permanente in regime di corrente lenta, veloce o di tipo “misto”.

Per quanto concerne le ipotesi di base del codice di calcolo, con specifico riferimento alla sussistenza della condizione di moto permanente assunta nei calcoli effettuati,esse possono essere così riassunte:

- portata costante nel tempo nei vari tratti di canale/alveo (steady flow); - moto della corrente idrica monodimensionale; - canale/alveo con una pendenza sufficientemente piccola da poter ritenere che tiranti

idrici siano misurabili secondo una direzione verticale, piuttosto che ortogonalmente alla linea di fondo

- corrente gradualmente variata. -

Ovviamente, l’ipotesi di moto permanente preclude la possibilità di considerare idrogrammi variabili nel tempo sia in termini input che come output del codice di calcolo. Tale circostanza risulta comunque essere cautelativa ai fini della valutazione della capacità idrovettrici del reticolo idrografico e, quindi, della delimitazione delle aree soggette a fenomeni di allagamento.

L’ipotesi di corrente idrica gradualmente varia, oltre che monodimensionale, limita la possibilità di analizzare fenomeni idraulici in cui queste ipotesi perdono di validità; ad esempio, in corrispondenza di brusche variazioni planimetriche della linea d’asse del canale/alveo, possono instaurarsi sensibili valori di sovralzo della superficie libera che dovranno essere opportunamente sommati ai valori dei tiranti idrici valutati dal codice di calcolo.

Inoltre l’ipotesi di piccola pendenza comporterà la necessità di valutare separatamente gli effetti della eventuale insorgenza di fenomeni idraulici caratteristici di canali/alvei ad elevata pendenza, quali, ad esempio, formazione di onde di traslazione a fronte ripido e rigonfiamento della corrente per effetto dell’elevato trascinamento d’aria.

Relativamente alle equazioni idrodinamiche di base, il profilo del pelo libero in condizioni di moto stazionario è calcolato, tra una sezione traversale e quella successiva, risolvendo l’equazione dell’energia, con una procedura iterativa. L’equazione dell’energia è la seguente:

Y2 + Z2 + g

V

2

222c

= Y1 + Z1 + g

V

2

211c + he (11)

dove: Y1, Y2 = altezza d’acqua nella sezione trasversale; Z1, Z2 = quota del fondo del canale, rispetto ad un generico piano orizzontale di

riferimento; V1, V2 = velocità media di portata;

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g 1, g2 = coefficienti di ragguaglio delle potenze cinetiche; g = accelerazione di gravità; he = perdita di energia.

c3V1²/2g

Piano di riferimento

Linea di fondo

Linea di pelo libero

Linea dell'energia totale

z=0

he

Y1

Z1

Y2

Z2

c4V2²/2g

W.S.2W.S.1

La somma di Z e Y, che rappresenta la quota del pelo libero rispetto ad un piano orizzontale di riferimento, viene indicata con il termine W.S. (Water Stage).

La perdita di energia (he) tra due sezioni trasversali è costituita da due aliquote: una dovuta all’attrito ed una dovuta all’espansione o contrazione della corrente. L’equazione della perdita di energia è la seguente:

he = L * Sf + C g

V

g

V

22

211

222 cc/ (12)

dove: L = distanza tra le due sezioni; Sf = perdita di energia per unità di lunghezza, che può essere vista come la pendenza della

linea rappresentativa delle perdite di energia per attrito; C = coefficiente per le perdite di espansione o contrazione

Le perdita di energia per attrito è calcolata con la seguente formula:

hfe = L * Sf (13)

La cadente Sf è determinata con la formula di Manning.

V = n

SR f2

13

2

(14)

La perdita di energia, dovuta alla contrazione o espansione della corrente, è calcolata mediante la relazione:

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hce = C g

V

g

V

22

211

222 cc/ (15)

in cui C è un coefficiente di espansione o contrazione.

Il programma presume che si verifichi una contrazione ogni qual volta che la velocità nella sezione di valle è maggiore della velocità nella sezione di monte;viceversa, quando la velocità nella sezione di monte è maggiore della velocità nella sezione di valle, il programma suppone che verifichi un’espansione. Per una descrizione dettagliata delle procedure di calcolo previste dal codice HEC-RAS si rimanda alla Relazione Idraulica del PAI 2010. La determinazione delle aree allagabili

In via preliminare si ricorda che, con riferimento alla normativa del settore e tenendo conto delle definizioni e dei criteri adottati dalle Autorità di bacino nazionali, la regione fluviale, cioè quell’area interessata dai fenomeni idraulici ed influenzata dalle caratteristiche naturalistiche e paesaggistiche connesse al corso d’acqua, si articola nelle seguenti zone:

- alveo di piena ordinaria; - alveo di piena standard; - aree di espansione naturale della piena; - aree ad elementi di interesse naturalistico, paesaggistico, storico, artistico ed

archeologico.

L’alveo di piena ordinaria, che ai sensi dell’art.822 del C.C. appartiene al Demanio Pubblico, è definito come quella regione fluviale interessata dal deflusso idrico in condizioni di piena ordinaria (periodo di ritorno 2-5 anni).

L’alveo di piena standard corrisponde a quella regione fluviale interessata dalla piena di riferimento. Il periodo di ritorno di quest’ultima viene fissato tenendo conto della particolare situazione in esame e l’alveo di piena deve essere delimitato sulla base delle caratteristiche morfologiche del corso d’acqua e delle aree inondabili .

Le aree di espansione naturale della piena vengono incluse nelle fasce di pertinenza fluviale quando esercitano un significativo effetto di laminazione.

Le aree ad interesse naturalistico, paesaggistico, storico, artistico ed archeologico comprendono quella parte della regione fluviale appartenente alle aree naturali protette (parchi e riserva naturali, nazionali, regionali) in base alla normativa vigente a livello nazionale (art.2 della L.349/91 e s.m.i.) e regionali (piani paesistici e piani di bacino).

Sulla base delle precedenti definizioni e degli studi relativi, vengono identificate le fasce di pertinenza fluviale la cui importanza, come è noto, è connessa alle ricadute in termini urbanistici. Prendendo a riferimento per la piena standard un periodo di ritorno di 100 anni, si definiscono poi le seguenti tre fasce di pertinenza fluviale:

1. fascia A: coincide con l’alveo di piena, assicura il libero deflusso della piena standard, assunta di norma a base del dimensionamento delle opere di difesa; si escludono da tale fascia le aree i cui tiranti idrici siano modesti (inferiori ad 1.0 m);

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2. fascia B : comprende le aree inondabili dalla piena standard ed è suddivisa nelle seguenti tre sottozone:

- sottofascia B1 - sottofascia B2 - sottofascia B3

3. fascia C: coincide con quella compresa tra la sottofascia B3 e le aree inondabili per portate con periodo di ritorno di 300 anni.

Il reticolo idrografico del bacino nord occidentale della Campania è

schematicamente rappresentato da: - il sistema idrografico dei Regi Lagni costituito dal canale artificiale dei Regi Lagni

nel quale convergono una serie di “lagni” disposti a raggiera (Avella, Gaudo, Quindici, Somma, Spirito Santo);

- numerosi valloni, generalmente incisi, che spesso non recapitano in un reticolo idrografico vero e proprio, ma sversano le acque nelle zone di contatto con le aree pianeggianti. Alla luce di queste caratteristiche del reticolo, si evidenzia come nel caso in esame

appare non applicabile in senso stretto il concetto di regione fluviale e quindi quello di fascia fluviale. Infatti, i fenomeni di esondazione sono caratterizzati generalmente da allagamenti delle aree prossime alla sponde dei lagni o dei canali artificiali per effetto di:

- insufficienza idraulica dovuta a riduzione delle sezioni idriche utili causate dall’apporto di detriti ovvero da materiale sversato impropriamente negli alvei;

- crisi idrauliche localizzate dovute a restringimenti di sezione (tombini, ponticelli, ecc.);

- cedimenti di arginature e muretti spondali; - utilizzo improprio degli alvei come sedi viarie (alvei-strada).

In definitiva, con riferimento alle precedenti considerazioni, si è preferita, nel caso in esame, la dizione di “aree allagabili” a quella di “fasce fluviali”, caratterizzando (come meglio esplicitato in seguito) ciascuna area in funzione del periodo di ritorno (T) dell’evento di piena ed in funzione del tirante idrico medio (h) dell’acqua nell’area allagata.

Per la valutazione delle aree allagabili, sono stati utilizzati criteri differenti in relazione alle caratteristiche geometriche ed idrauliche degli alvei ed all’entità dei fenomeni (volumi di esondazione).

A tal proposito si evidenzia che, in relazione alle caratteristiche idrauliche del reticolo idrografico del bacino Nord-Occidentale della Campania (portate di piena relativamente modeste, sistemazioni con strutture spondali o con vasche di laminazione, interventi di tombamento dei canali nei centri urbani ecc.) ed alle cause più frequenti dei fenomeni di dissesto (riduzione delle sezioni idriche per effetto del trasporto solido e dell’uso improprio dei canali, manutenzione ordinaria carente, trasformazioni idrauliche delle reti di drenaggio naturale in reti artificiali ecc.), i volumi di esondazione non sono, in linea generale, quasi mai elevati.

Alla luce di ciò, nello studio idraulico per la delimitazione delle aree di esondazione, in alternativa ai modelli teorici la cui complessità operativa spesso ne rende poco proficua l’utilizzazione, sono stati utilizzati alcuni schemi concettuali approssimati,

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semplici nella applicazione e fisicamente basati su oggettive considerazioni di carattere idraulico.

In particolare, nel caso di alvei di “pianura” sono state individuate le sezioni trasversali di rilievo in cui si è stimato che possa manifestarsi l’esondazione ed il lato in cui le zone circostanti vengono inondate (nel caso in cui il tirante idrico risulta maggiore solo della quota di una delle due sponde dell’alveo).

Successivamente, considerando le sezioni trasversali interpolate tra le sezioni originarie di riferimento, sono stati individuati i vari tratti in cui è previsto l’allagamento.

Dalla restituzione del profilo di rigurgito e delle tabelle di output del codice di calcolo HEC-RAS, in ogni sezione in cui è prevista l’esondazione dell’alveo è stato individuato il valore dell’altitudine della superficie idrica (in m s.l.m.m.) in corrispondenza del convogliamento delle portate attese per ognuno dei periodi di ritorno considerati (T=20, 100 e 300 anni).

Il limite destro e/o sinistro delle aree soggette ad allagamento si è ottenuto dall’intersezione, in ogni sezione trasversale in cui è prevista l’esondazione dell’alveo, del piano orizzontale, avente quota pari all’altitudine della superficie idrica valutata nella sezione di interesse, con la rappresentazione cartografica di rilievo, appoggiata alla cartografia ufficiale della Regione Campania del 2004.

Nei casi in cui i fenomeni di esondazione si manifestano in tratti “pensili” rispetto al territorio circostante, ovvero, qualora l’intersezione del piano orizzontale avente quota pari a quella della superficie idrica della piena con la rappresentazione cartografica disponibile in scala 1:5.000 si verificasse a distanze troppo elevate dall’asse del canale, si è adottata una diversa procedura, onde evitare la perimetrazione di aree di estensione eccessiva, non compatibile con i volumi di esondazione stimati.

In tali casi, si rende indispensabile l’esecuzione di rilievi e sopralluoghi di estremo dettaglio, finalizzati allo studio particolareggiato della morfologia dell’area interessata, in modo da poter giungere ad una valutazione realistica della estensione dell’area potenzialmente soggetta ad allagamento.

Il valore del volume esondabile è stato stimato, per un prefissato periodo di ritorno, a partire dalla valutazione dell’idrogramma di piena nella sezione idraulicamente insufficiente, avente una capacità idrovettrice pari ad un valore di portata Q* inferiore alla portata al colmo di piena QT. In particolare, sono stati assunti idrogrammi di forma triangolare/trapezia, sulla base della assunzione di un modello cinematico di trasformazione afflussi-deflussi (metodo della corrivazione).

Per diversi valori della durata D dell’evento meteorico è stato stimato il corrispondente idrogramma e quindi il volume esondato W. È stato così possibile individuare il valore della durata che massimizzasse il valore del volume esondato dal canale/alveo.

La valutazione delle superfici soggette ad allagamento è stata quindi effettuata utilizzando il modello digitale del terreno (DEM) dell’area interessata dal fenomeno di allagamento.

Analogamente a quanto già riportato nel PAI del 2002, sono state infine delimitate le aree inondabili per differenti pericolosità, P, introducendo una matrice di pericolosità in cui il valore di P viene correlato all’altezza del tirante idrico ed al periodo di ritorno dell’evento. considerato.

Il livello di pericolosità, Pi, è stato definito in funzione di due parametri T ed h:

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Pi = f( T, h) essendo: T, il periodo di ritorno dell’evento; h, il tirante idrico medio nell’area allagata. Relativamente al valore da assegnare al periodo di ritorno T, prendendo a riferimento le

tre classi di valori riportate nel DPCM del 29/09/98.(T=20-50anni; T=100-200anni; T=300-500anni) si è fatto riferimento ai valori T= 20; T= 100; T=300 anni.

Ciò detto, sono stati introdotti i seguenti livelli di pericolosità: - P4 – pericolostà molto elevata; - P3 - pericolostà elevata; - P2 - pericolostà media; - P1 - pericolostà moderata.

Ciascun livello Pi è correlato ad una coppia di valori T,h definiti dalla matrice di

seguito riportata:

PTn (3 œ n œ 1) Pericolosità

PT1 PT2 PT3

Ph1 P1 P1 P2

Ph2 P2 P2 P3 Phm

(3 œ m œ 1)

Ph3 P3 P4 P4

avendo posto:

Periodo di ritorno Pericolosità relativa Intensità

300 anni PT1 Bassa

100 anni PT2 Media

20 anni PT3 Alta

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Tirante idrico (h) Pericolosità relativa Intensità

h < 0.50 m Ph1 Bassa

1.00 m > h > 0.50 m Ph2 Media

h > 1.00 m Ph3 Alta

Studi di dettaglio

Nel PAI 2010, utilizzando la metodologia illustrata sono stati sviluppati studi di

dettaglio per i seguenti alvei: - Alveo Quindici - Alveo di Casamarciano - Alveo Acquaserta - Alveo Arena a S. Felice a Cancello - Aste del Bacino Carmignano (Vallone Mandre Papi,Vallone Pompilio, Vallone

Rosciano) - Aste nel Comune di Liveri - Aste del Bacino Spirito Santo (Lagno Spirito Santo, Lagno Amendolare, Lagno

Pomentella, Lagno Sorbo, Lagno Cupa dell’Olivella, Lagno Sant’Elmo, Lagno

Spirito Santo Sinistro)

4.2.4 Lo studio idraulico per la valutazione delle aree soggette a fenomeni di flusso

iperconcentrato (colate di tipo fangoso)

La valutazione della pericolosità idraulica in aree di conoide esposte ad eventi di colata detritico-fangosa richiede, in via preliminare, la stima di alcuni parametri fondamentali che possono caratterizzare l’evento, oltre che una scrupolosa attività di campo, consistente nella raccolta della necessaria documentazione tecnica e delle indagini in sito.

In via più specifica gli elementi necessari ad effettuare uno adeguato studio dei fenomeni in esame possono essere sintetizzati nei seguenti punti:

- magnitudo dell’evento, ovvero volume mobilitabile; - fangogramma della colata; - modellazione dei flussi di colata (flussi iperconcentrati), finalizzata alla valutazione

dei percorsi di propagazione ed alla conseguente perimetrazione delle aree soggette a pericolo di invasione.

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Magnitudo dell’evento

Il volume mobilitabile (magnitudo dell’evento) è una grandezza che va intesa come il limite superiore del volume potenzialmente coinvolto in un evento di colata. Tale volume si compone generalmente di due aliquote:

- volume proveniente dai versanti del bacino di alimentazione sotteso dalla sezione di interesse;

- volume eventualmente mobilitato durante l’evento per effetto del trasporto innescato dalla colata lungo il suo percorso all’interno delle incisioni.

La letteratura tecnico-scientifica fornisce alcune indicazioni sulle procedure di stima del volume mobilitabile che, come è noto, dipende da molteplici parametri legati alla natura geologica, geotecnica ed idraulica dei versanti interessati. Nel seguito si illustra sinteticamente l’approccio metodologico qui previsto per analizzare questo aspetto, rimandando per maggiori dettagli alla Relazione metodologica - Pericolosità geologica ed idraulica in aree di conoide

Per la valutazione dei volumi potenzialmente mobilitabili ad opera di eventi franosi si suggerisce una procedura basata sull’individuazione di alcuni parametri caratteristici del fenomeno. In primo luogo, attraverso la redazione della Carta della Suscettibilità all’innesco, occorre definire i settori del bacino da cui un ipotetico evento franoso può raggiungere il fondovalle ed interessare il centro abitato. In tal modo si valuta il volume della frana di maggiori dimensioni (“frana di progetto”), sulla base della sua energia di rilievo e dello spessore delle coperture, ed ipotizzando la geometria del corpo di frana.

La metodologia per la valutazione della suscettibilità all’innesco è quella già adottata nel PAI 2002 per i massicci carbonatici (AA. VV., 2002; CALCATERRA et al., 2003).

Il potenziale d’invasione della “frana di progetto” viene calcolato adottando il metodo dell’ angle of reach (angolo di estensione - HEIM, 1932).

Esso è dato dal rapporto di due grandezze (Fig. ): H = dislivello misurato dalla quota massima del coronamento di frana (qn) e la quota

assoluta dell’unghia del cumulo di frana (qfc); L = distanza orizzontale misurata a partire dal coronamento fino all’unghia del cumulo

di frana. In pratica quindi:

angolo di estensione (y) = arctg H/L = arctg (qn-qfc)/L

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Fig. - Rappresentazione schematica dell’angolo di estensione.

Il valore dell’angolo di estensione è stato correlato da diversi autori ai volumi

mobilizzati da varie tipologie di frane (cfr.: SHREVE, 1968; SCHEIDEGGER, 1973; HSÜ, 1975, 1978; COROMINAS, 1996). E’ stato altresì dimostrato, sulla base di numerosi casi, che esso diminuisce con l’aumentare del volume al di sopra del valore di 100.000 m3 mentre si mantiene costante per valori più bassi.

Per quanto attiene agli studi svolti sull’argomento da ricercatori che hanno lavorato nei contesti appenninici campani, un’analisi statistica del rapporto H/L delle numerose frane verificatesi nell’area flegrea, in Penisola Sorrentina, nei M.ti di Avella e sul Pizzo D’Alvano ha evidenziato che in ambito flegreo e nella Penisola Sorrentina si riscontrano valori di angle of reach più alti rispetto ai versanti del Pizzo d’Alvano (Fig. )

Dal grafico cumulativo di Fig. risulta invece che, indipendentemente dal volume mobilitato, i vari eventi censiti possono essere interpolati secondo una relazione lineare o, meglio ancora, secondo una funzione di potenza (CALCATERRA et al., 2004).

Fig. - (A) - Avanzamento delle frane da scorimento-colata rapida basato sul rapporto H/L per i vari contesti della Campania. (B) Curve di migliore approssimazione per i valori di H/L: a= regressione lineare; b = funzione di potenza (CALCATERRA et al., 2004).

Per la valutazione della geometria del corpo di frana viene proposto un criterio di tipo

geomorfologico scaturito dall’analisi di numerose frane e riportato in DI CRESCENZO &

SANTO (2005). Più in particolare, lo studio, derivato dall’analisi delle caratteristiche

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morfologiche e morfometriche di 172 frane da scorrimento-colata rapida (sia del tipo incanalato che su versante regolare) che hanno interessato i diversi massicci carbonatici della Campania, perviene al diagramma di Fig. che è stato tarato sui dati di 46 frane di tipo incanalato.

Fig. – Relazione tra l’energia del rilievo e l’area della zona di frana nel caso di frane da scorrimento-colata del tipo incanalato (DI CRESCENZO & SANTO, 2005).

Dopo aver definito la potenziale area in frana si può pervenire alla valutazione del volume mobilitabile, tenendo conto dello spessore delle coperture presenti sul versante.

Fangogramma della colata

Di particolare interesse ai fini dello studio della pericolosità idraulica risulta essere la definizione della modalità secondo cui il volume mobilitabile Wc è distribuito nel corso di un evento di colata; si tratta, in estrema sintesi, di ipotizzare quale sia l’idrogramma che caratterizza una colata di volume assegnato e pari appunto al volume mobilitabile.

Detta Dc la durata dell’evento di colata e Qc,max il massimo valore della portata della colata durante l’evento stesso, si tratta di valutare le possibili coppie di valori (Dc, Qc,max)che forniscano un idrogramma della colata di volume pari a Wc.

Non esistendo criteri univoci per la stima dei singoli parametri Dc e Qc,max, è lecito assumere che la durata Dc dell’evento di colata sia pari a due volte il tempo di corrivazione Tc del bacino idrografico sotteso, determinabile secondo le classiche formulazioni a base idrologica. Per conseguenza, ipotizzando un idrogramma di tipo triangolare, di volume pari a Wc, l’unica incognita Qc,max può essere semplicemente calcolata mediante la relazione:

c

c

max,cT

WQ ? (16)

Tale relazione, ovviamente, rapportando la grandezza Wc, che può facilmente consistere in alcune decine di migliaia di metri cubi, al parametro Tc, che per bacini di modesta estensione è dell’ordine di alcuni minuti, fornisce valori di Qc,max che possono essere facilmente di alcuni ordini di grandezza superiori al valore della portata al colmo di acqua

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chiara del bacino stesso, ancorchè assunto per periodi di ritorno elevati. Peraltro tale circostanza è confermata da numerosi dati reperibili in bibliografia, tra i quali si ritiene opportuno citare il contributo fornito da VANDINE (1996).

In particolare, per bacini di piccola estensione, la massima portata al colmo della colata può essere fino a 40 volte superiore alla portate meteorica caratterizzata da periodo di ritorno duecentennale.

Sulla scorta delle suddette considerazioni, è quindi possibile stimare l’idrogramma della colata (talvolta anche denominato fangogramma) per l’area in esame esposta al rischio di colata.

Modellazione dei flussi di colata

Il fenomeno di propagazione di una colata detritico-fangosa è fondamentalmente

controllato dalle resistenze al moto agenti sul flusso e dalla topografia caratteristica del dominio spaziale entro cui evolve il fenomeno.

La modellazione numerica, per lo specifico caso di studio, può essere condotta mediante codici di calcolo per la simulazione di flussi bi-dimensionali a superficie libera che prevedano la possibilità di modellare anche fluidi non newtoniani.

Le equazioni che canonicamente vengono utilizzate per la simulazione di flussi bi-dimensionali a superficie libera, sono costituite da un sistema di equazioni differenziali alle derivate parziali (equazione di continuità ed equazioni di conservazione della quantità di moto), di seguito riportato (O'BRIEN et al., 1993):

q = y

V h +

x

V h +

t

h yx

••

••

••

(17a)

t

V

g

1 -

y

V

g

V -

x

V

g

V -

x

h - i = J

xxyxxxx •

•••

••

••

(17b)

t

V

g

1 -

x

V

g

V -

y

V

g

V -

y

h - i = J

yyxyy

yy •

••

(17c)

essendo:

- h il tirante idrico;

- Vx e Vy le componenti della velocità mediata sulla verticale secondo la direzione x e

la direzione y;

- q la portata in ingresso per unità di superficie;

- Jx e Jy le resistenze unitarie al moto;

- ix e iy le pendenze del fondo rispettivamente secondo la direzione x e y.

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Per quanto riguarda il moto di “flussi iperconcentrati”, ovvero correnti caratterizzate da elevate concentrazioni di sedimenti, le resistenze al moto dipendono fortemente anche dalle caratteristiche reologiche della miscela. In tale condizione, infatti, il termine generico di resistenza J può essere espresso come somma di diverse componenti:

J J J = J turvislim -- (18)

essendo:

- Jlim le resistenze da vincere per avere l’inizio del moto;

- Jvis le resistenze al moto di tipo viscoso;

- Jtur le resistenze al moto dovute agli sforzi turbolenti.

In particolare i termini che compaiono nella precedente equazione possono essere esplicitati secondo quanto di seguito indicato:

h = J

m

limlim i

v (19)

dove v lim è lo sforzo di soglia della miscela e i m

è il suo peso specifico;

h 8

V K = J 2

m

vis io

(20)

dove o è la viscosità dinamica della miscela, e K è il parametro di resistenza che per moto laminare in alveo rettangolare larghissimo è pari a 24;

R

V n = J

4/3

2M

2

tur (21)

dove Mn è il coefficiente di Manning per la valutazione delle resistenze al moto in condizioni di moto uniforme, il cui valore va definito in funzione della scabrezza delle pareti e della concentrazione del materiale solido.

Per la definizione numerica dei parametri precedentemente richiamati, ci si è avvalsi di dati reperibili in letteratura, e, laddove possibile, a casi di studio specificamente riferiti alle colate fangose che colpirono l’area sarnese nel maggio del 1998.

In linea generale tra le equazioni maggiormente utilizzate per la caratterizzazione reologica della miscela fangosa si ricordano le:

ea= C b vo (22)

vC

lim e ©? dcv (23)

dove, appunto, Cv è la concentrazione volumetrica dei sedimenti e a, b , c e d sono coefficienti sperimentali tipici della miscela considerata.

Dunque le colate fangose sono modellate come flussi non omogenei e non newtoniani, in cui le proprietà del fluido possono variare significativamente durante la propagazione su

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superfici molto ripide o su conoidi alluvionali; di particolare importanza sono le proprietà della miscela fluida, che si compone di acqua e sedimenti fini, della geometria del canale, della pendenza e della scabrezza. Per alte concentrazioni di sedimenti, si alterano le proprietà del fluido quali la densità, la viscosità e gli sforzi di taglio e quindi il suo comportamento reologico.

Nelle simulazioni da effettuarsi, le caratteristiche reologiche della colata fangosa sono state assunte sulla base di quelle indicate nel rapporto EC.1 (ROSSI & BOVOLIN, 1998) dell’Unità Operativa 2.38 dell’Università degli Studi di Salerno (Gruppo Nazionale per la Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche, C.N.R. – G.N.D.C.I.).

I valori dei coefficienti nelle relazioni che caratterizzano il comportamento reologico del fango ipotizzato sono riportati nella tabella che segue

o=aeb Cv vlim=cedCv

a b c d

0.15 15 0.10 15

Valori dei coefficienti a,b, c,d

assumendo per la concentrazione Cv valori variabili tra 0.30 e 0.40.

Le modellazione dei flussi iperconcentrati, nei limiti dell’approssimazione propri della “sperimentazione numerica”, sono certamente utili ai fini della perimetrazione delle aree soggette ad invasione da parte dei volumi fangosi mobilitati.

I valori dei tiranti della colata h e delle velocità di propagazione V, caratterizzanti i flussi fangosi nel dominio di calcolo, consentono quindi di stimare i livelli di pericolosità nelle aree soggette ad invasione, sulla base di una opportuna classificazione.

Nel caso specifico delle colate, a differenza dei criteri utilizzati per la definizione dei livelli di pericolosità in aree soggette a fenomeni di allagamento, si è ritenuto opportuno considerare attentamente anche la quantità di moto del flusso oltre che i tiranti. Infatti, la capacità distruttiva di un fronte di colata dipende dalle sue caratteristiche impulsive e dinamiche oltre che dalla altezza del fronte. Per tale motivo i livelli di pericolosità in aree soggette all’invasione di colate detritico fangose sono stati stimati secondo lo schema di seguito riportato.

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Pn

h (m)

h* v

(m2 /s)

P4 h>1.00

oppure h* v >1

P3 0.30<h<1.00

oppure 0.3<h* v<1

P2 0.10<h<0.30

e h* v < 0.3

P1 h<0.10

e h* v < 0.3

La analisi del fenomeno di propagazione dei flussi fangosi vengono effettuati mediante modellistica numerica. Esistono in letteratura diversi approcci al problema. Nelle calcolazioni effetuate per i “casi studio” del PAI 2010, è stato utilizzato il codice di calcolo FLO-2Dł (versione 2007.06) messo a punto da Jimmy S. O’ Brien e commercializzato dalla FLO-2D Software Inc.; tale codice simula il fenomeno di propagazione di un flusso iperconcentrato nell’ipotesi di propagazione bi-dimensionale. Studi di dettaglio

Nel PAI 2010, utilizzando la metodologia illustrata sono stati sviluppati studi di

dettaglio per i seguenti casi ricadenti nel contesto carbonatico: - Arpaia (in provincia di Benevento) - S.Maria a Vico (in provincia di Benevento) - San Felice a Cancello (in provincia di Benevento)

I risultati degli studi sono riportati nella Relazione metodologica - Pericolosità

geologica ed idraulica in aree di conoide. L’approccio calcolativo proposto potrà essere applicato in tutti gli altri casi in cui non è stato possibile estendere attualmente l’analisi.

7.1 4.2.5 Lo studio idraulico per la valutazione delle aree soggette a fenomeni di

trasporto liquido e trasporto solido da alluvionamento.

Queste aree, presenti sia nella cartografia del PAI 2002 che in quella del PAI 2010, si riferiscono a quei casi in cui sono stati rilevati al piede degli alvei montani conoidi attivi a composizione granulometrica prevalentemente ghiaioso-sabbiosa oppure sabbiosa.

Nelle zone pedemontane la morfologia più evidente, legata all’azione erosiva, di trasporto e deposito dei materiali da parte dei corsi d’acqua torrentizi, è rappresentata dalle conoidi alluvionali. Esse possono essere definite come forme di deposito torrentizio, con superficie a forma di segmento di cono, che si irradiano sottopendio dal punto in cui il corso d’acqua esce da un’area montuosa, ovvero dove cambia il gradiente topografico

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(RICCI LUCCHI, 1978). Singole conoidi possono congiungersi lateralmente formando conoidi composite o fasce pedemontane.

Nell’ambito di una conoide è possibile distinguere diversi elementi, d’ordine per lo più geomorfologico e sedimentologico, che consentono di zonare il corpo d’accumulo in settori omogenei, a partire dal suo apice. In tal senso, è possibile distinguere settori apicali, intermedi e distali.

Le conoidi che hanno una genesi per trasporto in massa, con formazione di flussi ad alto contenuto di carico solido, mostrano alcune evidenze morfologiche e sedimentologiche (AULITZKY, 1982; PIERSON & COSTA, 1987; COSTA, 1988; BLAIR & MC PHERSON, 1994a; HUNGR, 2001), tra cui (Fig. 1.2): depositi massivi, caotici, a matrice prevalente, in cui la frazione grossolana è disposta in modo casuale nella matrice più fine (HOOKE, 1987) ed in cui non sono presenti evidenze di stratificazione; ampio fuso granulometrico (dalle argille ai blocchi); clasti con angoli a spigoli vivi o smussati; assenza di orientazione per i clasti di maggiore dimensione; argini laterali costituiti da depositi grossolani e superfici di terminazione lobate; presenza di molti blocchi sulla superficie della conoide; presenza di canali sepolti a forma di “U”; danni alla vegetazione d’alto fusto (cicatrici da impatto e da abrasione).

I fenomeni del tipo debris-flows in genere danno luogo alla deposizione della maggior parte del materiale sulla conoide ed in special modo nella sua parte apicale, con un deposito che presenta gradazione da inversa (alla base) a normale (verso l’alto) della sequenza sedimentaria.

Le conoidi generate da processi di trasporto fluviale selettivo presentano corpi sedimentari stratificati e gradati sia trasversalmente, sia longitudinalmente rispetto all’alveo (BULL, 1977; BLAIR & MC PHERSON, 1994a, 1999a). I depositi più grossolani infatti sono sedimentati nella parte apicale, mentre quelli più fini si rinvengono più a valle. A causa dell’alto valore percentuale della componente liquida, i flussi sono in grado di convogliare fino al corso d’acqua principale rilevanti apporti di sedimenti sottili. In genere danno origine a pellicole di depositi poco spesse, con assenza di forme quali lobi ed argini. Gli elementi si presentano arrotondati in quanto trasportati per rotolamento e trascinamento.

Nelle conoidi di tipo misto sono evidenti alternanze di forme e depositi indicativi di entrambe le precedenti tipologie e talora attribuibili a frane (colate detritiche).

A ciascuno di questi processi corrispondono flussi dotati di una diversa capacità distruttiva, dal che derivano differenti effetti sulle eventuali strutture antropiche esistenti nella zona pedemontana. In materia di processi geomorfici del tipo flusso/colata è opportuno ricordare che esiste un ulteriore criterio classificativo su base reologica, proposto nel 1987 da PIERSON & COSTA (Fig.).

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Fig. - Principali processi geomorfici del tipo flusso/colata secondo lo schema di PIERSON & COSTA (1987).

Il territorio dell’Autorità di Bacino Nord Occidentale della Campania è in gran parte caratterizzato da rilievi collinari e montuosi impostati prevalentemente in rocce carbonatiche e terreni vulcanici, ai cui piedi ricadono numerosi centri abitati. Le alte energie di rilievo e le elevate acclività dei bacini imbriferi favoriscono fenomeni erosionali e gravitativi, che a loro volta sono responsabili di significativi accumuli pedemontani, talora identificabili come conoidi detritico-alluvionali.

Queste ultime si presentano di dimensioni variabili, più limitate in corrispondenza degli affioramenti vulcanici, come nel caso dell’area flegreo-napoletana, dove il trasporto solido è prevalentemente legato al rimaneggiamento di sedimenti a granulometria fine, quali sabbie e ceneri vulcaniche. Viceversa, nei contesti carbonatici i corpi di conoide assumo dimensioni maggiori, sino a circa 1 km2, con granulometria tipicamente ghiaiosa e talora con presenza di blocchi calcarei nelle zone apicali. L’estensione delle conoidi dipende chiaramente dall’ampiezza del bacino imbrifero che le alimenta e che normalmente non supera i pochi km2; in media, le lunghezze dei lobi di conoide sono contenute tra i 500 m ed il km.

In occasione della redazione del PAI 2002 sono stati riconosciuti e cartografati circa 120 corpi di conoide, per i quali sono state distinte le aree attive dai settori reincisi ed ormai fossilizzati. La distribuzione delle conoidi segue fedelmente la base dei massici carbonatici, con presenza di accumuli detritico-alluvionali soprattutto nella valle del Clanio e nel Vallo di Lauro, nei monti di Caserta e Maddaloni, su entrambi i versanti della valle tra Maddaloni ed Arpaia. Sono altresì presenti conoidi lungo il perimetro basale dell’edificio del Somma-Vesuvio ed ai piedi dei principali rilievi collinari dell’area flegrea (es.: Camaldoli).

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Le stesse conoidi sono state oggetto di nuovi approfondimenti nella predisposizione del PAI 2010, durante la quale sono stati eseguiti nuovi rilievi geomorfologici ed ulteriori indagini speditive (scavi e trincee) e sono state consultate fotografie aeree ed ortofoto più recenti.

Le osservazioni di campagna e le indagini hanno dimostrato che, nell’ambito del distretto carbonatico, le conoidi possono rientrare in due differenti tipologie e più precisamente:

- conoidi alluvionali di tipo selettivo, accresciute esclusivamente a seguito di trasporto torrentizio di sedimenti per lo più ghiaioso-sabbiosi;

- conoidi “miste”, legate alla deposizione di sedimenti di varia granulometria ora legati a correnti idriche, ora a fenomeni di trasporto in massa (frane).

Al primo gruppo fanno capo le conoidi che si riscontrano in corrispondenza di bacini imbriferi (talora di diversi km2) che presentano coperture piroclastiche discontinue e di limitato spessore (< 0,5 m). Situazioni analoghe si ritrovano soprattutto sui versanti meridionali dei massicci carbonatici ubicati a notevole distanza dai centri eruttivi; esempi in tal senso sono le conoidi di S. Maria a Vico, Avella, Roccarainola, Maddaloni, ecc..

Al secondo gruppo fanno capo numerose conoidi (generalmente di dimensioni più limitate) che si sviluppano alla base di bacini imbriferi caratterizzati da versanti con copertura continua e spessa (1-2 m) di piroclastiti da caduta. Esse si ritrovano soprattutto lungo i settori settentrionali di strutture carbonatiche più prossime al Somma-Vesuvio; esempi sono le conoidi di Quindici, Lauro, Arpaia, Carbonara e Marzano di Nola, ecc..

Per quanto riguarda i distretti vulcanici, in relazione al diverso impianto morfostrutturale delle due aree (edificio centrale nel caso del Somma-Vesuvio; caldera policentrica per i Campi Flegrei), sono state riscontrate caratteristiche alquanto differenziate.

Ai piedi dei versanti settentrionali del Somma-Vesuvio è presente un’ampia fascia a debole pendenza di raccordo con la piana, definita apron (SBRANA et al., 1997), dove sono prevalenti i fenomeni di accumulo di depositi piroclastici sia primari che rimaneggiati. In tale area sono riconoscibili diverse generazioni di conoidi detritico-alluvionali, reincise, la cui attività è stata fortemente ridotta dalla realizzazione di canali artificiali (Regi Lagni).

Nell’area flegrea, invece, alla base dei principali rilievi collinari (es.: Camaldoli, Conca di Agnano) si rinvengono conoidi per lo più miste, di modesta estensione planimetrica, da ricondurre a versanti dotati di una minore energia di rilievo, se confrontata con quella del distretto carbonatico.

Anche in questo settore, a causa delle notevoli modifiche nella morfologia originaria dei luoghi, le forme di accumulo sono difficilmente riconoscibili in superficie. Inoltre, molti impluvi nel loro decorso verso valle perdono la propria evidenza morfologica, coincidendo di frequente con strade ed assumendo pertanto il carattere di alvei-strade.

Nella predisposizione del PAI 2010, sono state globalmente riviste tutte le conoidi

ricadenti nel territorio di competenza dell’Autorità di Bacino. In tal modo è stato possibile ridefinire con maggiore precisione il perimetro delle conoidi, i settori di conoidi reincisi e non più attivi, i settori di conoidi ormai totalmente urbanizzati, le nuove opere realizzate.

Per quanto concerne la valutazione della pericolosità da fenomeni di alluvionamento va evidenziato che, se per le frane e per le esondazioni sono stati messi a punto diversi metodi di valutazione della pericolosità, per i suindicati fenomeni in ambito di conoide si risente

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ancora di un certo ritardo in campo scientifico, con conseguenti difficoltà nella risoluzione di problematiche di notevole impatto territoriale ed urbanistico.

La pericolosità di questi processi deriva principalmente dalle ingenti quantità di materiale solido che possono essere mobilitate e giungere sino a valle, e dal breve intervallo di tempo entro il quale solitamente si innescano e si esauriscono le onde di piena. Tali caratteri derivano a loro volta dall’elevata acclività dei pendii dei bacini torrentizi, cui si associa spesso un’alta produttività di detrito (coperture alteritiche sciolte, falde detritico-colluviali sospese), e dall’elevata inclinazione degli alvei che conferisce ai flussi idrici grandi velocità ed energia, permettendo di prendere in carico detrito anche di notevole dimensione.

Un approccio metodologico per affrontare lo studio di questo complesso fenomeno è stato illustrato al precedente paragrafo 4.2.4 mentre, una applicazione della stessa metodologia è stata effettuata per due “casi studio”esaminati. Per approfondimenti ulteriori si rimanda alla Relazione metodologica - Pericolosità geologica ed idraulica in aree di conoide

Allo stato attuale per la perimetrazione delle aree di conoide non è stato possibile effettuare uno studio di dettaglio ma si è fatto ricorso sostanzialmente ad un approccio di tipo geomorfologico.

Il livello di pericolosità relativa, Pi, è stato definito in funzione di due parametri G e d: Pi = f( G, d) essendo: G = granulometria dei depositi d =ubicazione dell’area critica rispetto all’apice del conoide Relativamente alla caratterizzazione dei parametri G e d si è posto G1 = materiali grossolani (ghiaia e sabbia) G2 = materiali sottili ( limo e sabbia) d1= zona apicale d2= zona distale Sono stati introdotti i seguenti livelli di pericolosità: ‚ Pa = pericolosità molto elevata; ‚ Pm = pericolosità media; ‚ Pb = pericolosità bassa.

Ciascun livello Pi è correlato ad una coppia di valori definiti dalla matrice di seguito

riportata:

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Pdn (2 œ n œ 1) Pericolosità

Pd1 Pd2

PG1 Pa Pm

PG2 Pb Pb PGm

(2 œ m œ 1)

7.2 4.2.6 Individuazione di altre aree soggette a fenomeni di trasporto liquido e di

alluvionamento. Utilizzando sempre l’approccio geomorfologico è stato possibile individuare altre

tipologie di aree pericolose per fenomeni di trasporto liquido e per processi di alluvionamento. Più in particolare. Con riferimento alla Carta della Pericolosità Idraulica sono stati individuati i seguenti casi:

- area di cava a suscettibilità alta per fenomeni di trasporto liquido e solido da

alluvionamento (Pa); - conche endoreiche e zone a falda sub-affiorante (Pb).

Le aree definite “conche endoreiche e zone a falda sub-affiorante” intersecate con la

carta del valore esposto determinano sempre un rischio moderato (R1).

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5. Il Valore esposto Per valore esposto si intende il valore che è possibile associare agli elementi “da

difendere” sul territorio e pertanto alla costituzione di detto fattore parteciperanno non solo le vite umane e i beni immobili ma anche le risorse ambientali e culturali così come dettato dalla legge 183/1989 e successive integrazioni.

La determinazione del valore esposto rappresenta un’attività particolarmente complessa in quanto si basa su una difficoltà fondamentale che è quella di definire in maniera tendenzialmente omogenea categorie di elementi estremamente differenziati tra loro.

In linea generale potremmo definire i seguenti criteri per la determinazione del valore

esposto: ‚ quando gli elementi presenti sul territorio sono beni monetizzabili il loro valore

esposto è rappresentato dal loro valore monetario; ‚ quando gli elementi presenti sul territorio sono persone il loro valore esposto è

rappresentato dal loro valore numerico; ‚ quando gli elementi presenti sul territorio sono risorse e beni ambientali e culturali,

ecc. unici e di così grande rilevanza da costituire un patrimonio irrinunciabile per la collettività, il loro valore esposto è rappresentato dal bene stesso.

Il panorama dei dati ottenuti con l’applicazione dei suddetti criteri si presenta molto vario e differenziato6, per cui risulta essere particolarmente utile una semplificazione delle procedure da attuare accorpando categorie d’uso del territorio in classi omogenee per ciascuna delle quali si ipotizza un differente livello di valore esposto:

‚ valore esposto altissimo: comprende i centri urbani, le zone di completamento ed espansione, le zone di attrezzature esistenti e di progetto, i nuclei ad edificazione diffusa non presenti nei PRG, le infrastrutture principali, i laghi e le aree di riserva integrale e generale delle aree protette. In queste aree un evento catastrofico può provocare la perdita di vite umane, di ingenti beni economici e di valori ambientali inestimabili;

‚ valore esposto alto: comprende le aree attraversate da linee di comunicazione secondarie e da servizi di rilevante interesse, le aree archeologiche, i SIC e le aree di riserva controllata delle aree protette. In queste aree si possono avere problemi per l’incolumità delle persone e per la funzionalità del sistema economico;

‚ valore esposto medio: comprende le aree extra urbane, poco abitate, sede di edificazione sparsa, di infrastrutture secondarie, destinate sostanzialmente ad attività agricole o a verde pubblico. In queste aree sono improbabili problemi per l’incolumità delle persone e sono limitati gli effetti che possono derivare al tessuto socio economico;

‚ valore esposto basso o nullo: comprende le aree libere da insediamenti e incolte. In queste aree non esistono problemi per l’incolumità delle persone e sono limitati gli effetti che possono derivare al tessuto socio economico.

E’ possibile elencare gli elementi appartenenti alle differenti classi di valore esposto

sopra riportate:

6 vedi anche il paragrafo “ricerca sulla valutazione del danno”

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‚ E4: valore esposto altissimo - centri urbani, zone di completamento e di espansione (come delimitate da

PRG/PUC); - zone industriali, commerciali e artigianali esistenti e di progetto (come delimitate

da PRG/PUC o Aree di Sviluppo Industriale); - zone con attrezzature esistenti e di progetto (come delimitate da PRG/PUC); - zone turistiche esistenti e di progetto (come delimitate da PRG/PUC); - siti archeologici; - nuclei ad edificazione diffusa non previsti nel PRG (fonte CTR 2004/05); - case sparse (fonte CTR 2004/05); - zone militari (come delimitate da PRG/PUC); - laghi; - autostrade, strade extraurbane principali, linee ferroviarie principali; - aree protette (area di riserva integrale e generale);

‚ E3: valore esposto alto - Cimiteri ed aree di rispetto cimiteriale; - cave; - depuratori e impianti idrici; - strade extraurbane secondarie, - linee ferroviarie secondarie; - aeroporti; - metanodotti; - aree archeologiche, aree protette: (SIC, ZPS e aree di riserva controllata).

‚ E2: valore esposto medio - zone agricole (come delimitate da PRG/PUC); - verde urbano e parchi urbani (come delimitati da PRG/PUC); - aree soggette a vincolo idrogeologico (R.D.L. 3267/23).

‚ E1: valore esposto basso o nullo - zone incolte

La suddivisione del territorio in esame secondo le quattro classi precedentemente

esposte si è articolata nel seguente modo: 1 Individuazione delle aree interessate dalla pericolosità dei fenomeni franosi e di

esondazione. 2 Per le suddette aree, ricerca, acquisizione ed individuazione degli elementi descritti

nelle classi del valore esposto ricorrendo alle seguenti fonti: - Piani Regolatori Generali o Programmi di Fabbricazione dei comuni interessati; - Ortofotocarta in scala 1:10.000 aggiornata al 1998; - Cartografia 1:5.000 aggiornata al 2004; - Consorzi ASI di Napoli, Caserta, Benevento e Avellino; - Soprintendenza ai Beni Archeologici di Salerno, Avellino e Benevento; - Soprintendenza ai BAAS di Napoli e Caserta; - Soprintendenza BAAAS di Caserta e Benevento ; - Soprintendenza BAAAS di Salerno - Avellino; - Soprintendenza archeologica di Napoli e Caserta; - Soprintendenza Archeologica per le province di Salerno, Avellino e Benevento; - Sogesid;

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- S.T.A.P.F. – Regione Campania –Province di Napoli. Avellino, Benevento e Caserta;

- ATO 2 e ATO 3 della Regione Campania; - ENI Acqua; - T.E.R.N.A. S.p.A. Gruppo ENEL; - Rete Gas Italia – ENI Group; - ITALFER; - Testo “Natura 2000”, a cura di Assessorato ai Parchi, Riserve Naturali e

conservazione della Natura – Regione Campania; - CD Rom sulle aree protette e sui Parchi Regionali – Regione Campania.

3 Studio, verifica e sistemizzazione della documentazione acquisita. In particolare: - si è considerato quale fonte attendibile gli strumenti urbanistici approvati o

almeno adottati e trasmessi agli Enti preposti per l’approvazione. Per le aree ricadenti nei comuni sprovvisti di strumento urbanistico si è fatto riferimento alla L.R. n. 17 del 20/03/1982 “Norme transitorie per le attività urbanistico-edilizie nei Comuni della Regione”;

- si è inoltrata richiesta, alle amministrazioni comunali, delle ultime versioni degli strumenti urbanistici al fine di disporre di una documentazione ufficiale aggiornata;

- si è mirata l’attività di fotointerpretazione e studio cartografico a controllare la corrispondenza degli strumenti urbanistici con lo “stato di fatto” e ad integrare eventuali informazioni non riportate dagli stessi (ad esempio, la presenza di agglomerati edilizi in alcuni casi non riportati dagli strumenti urbanistici, in quanto di recente edificazione ma presenti sull’ortofotocarta e sulla cartografia di base aggiornata).

4 Digitalizzazione delle informazioni utilizzando il Programma GIS Arc View della ESRI su base cartografica 1: 5.000 georiferita;

5 Calcolo delle intersezione dei tematismi con le classi predefinite con algoritmi ad hoc.

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6. VULNERABILITA’ e DANNO

La vulnerabilità (V), come già detto, rappresenta il grado di perdita prodotto su un certo

elemento o gruppo di elementi esposti a rischio risultante dal verificarsi dell’evento calamitoso temuto, in altri termini, la percentuale del valore di un elemento o di un gruppo di elementi che andrà perduto nel caso si verificasse l’evento calamitoso.

La vulnerabilità si esprime con un numero compreso tra 0 (nessun danno) ed 1 (perdita totale).

La stima della vulnerabilità è molto complessa e dipende dall’intensità dell’evento calamitoso e dal livello di protezione degli elementi presenti sul territorio oggetto di studio.

Ad esempio, la disponibilità di un adeguato piano di emergenza in grado di consentire l’evacuazione della popolazione a rischio, ed il trasferimento dei beni trasportabili, incide sul valore della vulnerabilità.

Quando le aree vulnerabili sono molto estese e densamente antropizzate la valutazione della vulnerabilità può dimostrarsi troppo complessa ed onerosa. Risulta estremamente difficoltoso assegnare classi di vulnerabilità per ciascuna categoria di valore omogenea, in quanto non è possibile sempre, e soprattutto in maniera puntuale, valutare il livello di protezione dei beni. Pertanto, in generale, si rinuncia ad una stima della vulnerabilità, operando una “messa in sicurezza” e, dunque, ipotizzandola sempre massima cioè pari a 1.

Si è detto che il danno (D) dipende, per ogni evento critico, dall’uso del territorio e quindi dal valore esposto (E) degli elementi presenti, e dalla loro vulnerabilità (V), intesa come aliquota che va effettivamente persa durante l’evento catastrofico:

D = E × V Il danno (D) così calcolato corrisponde al danno effettivo che è rappresentato dalla

percentuale del valore (esposto) complessivo degli elementi presenti sul territorio che andrà perduto nel caso si verifiche l’evento catastrofico:

D = D(effettivo) = E × V Il danno (D), inteso come danno effettivo, può essere anche rappresentato dal prodotto

del danno potenziale per la vulnerabilità: D = D(effettivo) = D(potenziale) × V e cioè D(potenziale) = E In altri termini, il danno potenziale finisce con il coincidere con il valore esposto, il che

è concettualmente evidente essendo il danno potenziale rappresentato non da un percentuale di valore (esposto), bensì dalla totalità di esso, in quanto si riferisce al caso limite dell’assenza di fattori di protezione (caso di vulnerabilità massima), in cui gli elementi sono interamente esposti all’evento catastrofico.

Si è detto anche che, in generale, si rinuncia ad una stima della vulnerabilità, ipotizzandola sempre massima cioè pari a 1. Questa approssimazione per eccesso, che corrisponde ad una “messa in sicurezza” di tutti gli elementi presenti sul territorio oggetto di studio, comporta un’assimilazione del danno effettivo al danno potenziale, per cui:

D = D(effettivo) = D(potenziale) × V posto V = 1

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si ottiene, appunto D = D(effettivo) = D(potenziale) Seguendo tale logica semplificativa, i livelli di valore esposto possono essere

considerati come livelli di danno, così: - D4 danno altissimo: comprende i centri urbani, le zone di completamento ed

espansione, le zone di attrezzature esistenti e di progetto, i nuclei ad edificazione diffusa non presenti nei PRG, le case sparse, le aree attraversate da linee di comunicazione e da servizi di rilevante interesse, i laghi e le aree di riserva integrale e generale delle aree protette. In queste aree un evento catastrofico può provocare la perdita di vite umane, di ingenti beni economici e di valori ambientali inestimabili;

- D3 danno alto:, le aree archeologiche, i SIC e le aree di riserva controllata delle aree protette. In queste aree si possono avere problemi per l’incolumità delle persone e per la funzionalità del sistema economico;

- D2 danno medio: comprende le aree extra urbane, poco abitate, di infrastrutture secondarie, destinate sostanzialmente ad attività agricole o a verde pubblico. In queste aree sono improbabili problemi per l’incolumità delle persone e sono limitati gli effetti che possono derivare al tessuto socio economico;

- D1 danno basso o nullo: comprende le aree incolte libere da insediamenti. In queste aree non esistono problemi per l’incolumità delle persone e sono limitati gli effetti che possono derivare al tessuto socio economico.

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7. LA GESTIONE DEL RISCHIO La zonazione del rischio in un dato territorio, costituisce la base della gestione del

rischio (risk management); questa prevede l'interpretazione delle informazioni ed il quadro delle decisioni operative per l'eventuale riduzione del rischio (risk mitigation). La fase gestionale è di natura essenzialmente politico-amministrativa; tuttavia il ruolo dei tecnici e della comunità scientifica è fondamentale nell'individuazione delle priorità di intervento e nella messa a punto delle strategie di mitigazione.

Facendo riferimento alle classi di rischio come sopra definite, si possono implementare delle strategie per la gestione adeguate ai differenti livelli di rischio individuati.

In aree caratterizzate da valori di rischio elevato e molto elevato (R4, R3), è possibile operare una strategia mirata alla mitigazione del rischio.

In aree caratterizzate da valori di rischio medio e moderato (R2, R1), ricadenti in porzioni di territorio classificate dal piano a pericolosità P4 e P3 è possibile operare delle strategie mirate alla riduzione della pericolosità (che costituisce una strategia specifica di quella più generale di mitigazione del rischio) ed alla determinazione delle soglie di rischio accettabile.

7.1 Mitigazione del Rischio Si è più volte sottolineato che la pianificazione, soprattutto quella ambientale, dovrebbe

mirare al superamento di un atteggiamento vincolistico, che il più delle volte finisce per creare situazioni di stallo e di immobilità altrettanto pericolose di quelle di uso indiscriminato delle risorse, per adottare, invece, un approccio “attivo” di mitigazione e prevenzione del rischio legato alle dinamiche ambientali naturali/antropiche.

La mitigazione del rischio può essere attuata secondo tre strategie. - Riducendo la pericolosità: l'incidenza dei fenomeni franosi o di esondazione in

una determinata zona può essere ridotta in due modi: - i) intervenendo sulle cause della fenomeni franosi o di esondazione, per

esempio mediante opere di bonifica e di sistemazione idrogeologica del territorio, oppure attraverso la razionalizzazione delle pratiche agricole o di utilizzo del suolo.

- ii) intervenendo direttamente sui fenomeni franosi o di esondazione esistenti al fine di prevenire la loro riattivazione o limitare la loro evoluzione.

- Riducendo gli elementi a rischio: tale strategia si esplica soprattutto in sede di pianificazione territoriale e di normativa, nell'ambito delle quali possono essere programmate le seguente azioni: - evacuazione di aree instabili e trasferimento dei centri abitati soggetti a pericolo; - interdizione o limitazione dell'espansione urbanistica in zone pericolose; - definizione dell'utilizzo del suolo più consono per le aree pericolose (es. prato-

pascolo, parchi, etc.) - Riducendo la vulnerabilità: la vulnerabilità può essere ridotta mediante interventi

di tipo tecnico oppure intervenendo sull'organizzazione sociale del territorio: - consolidamento degli edifici, che determina una riduzione della probabilità di

danneggiamento dell'elemento interessato dalla frana;

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- installazione di misure dì protezione quali reti o strutture paramassi (parapetti, gallerie, rilevati o trincee), in modo da determinare una riduzione della probabilità che l'elemento a rischio venga interessato dalla frana (senza tuttavia limitare la probabilità di occorrenza di questa).

7.2 . Rischio accettabile

La definizione delle soglie di “rischio accettabile” rappresenta un elemento

particolarmente importante nell'ambito delle attività di prevenzione del rischio e di programmazione dello sviluppo del territorio, in quanto essa consente l’individuazione delle priorità di intervento sia nell’uno che nell’altro caso.

Quando si parla di rischio accettabile si intende fare particolare riferimento alle aree R1 ed R2 soggette a pericolosità P4, P3 e Pa (nelle aree a rischio idraulico) e a pericolosità P3, P2 (nelle aree a rischio frane). Si tratta di aree che presentano livelli elevato o molto elevato di pericolosità che però incrociano livelli medio o basso di valore esposto per cui i relativi livelli di rischio risultano medio o moderato.

Qualora però, si preveda in queste aree la realizzazione di opere e/o attività, allora ci si troverebbe ad avere un incremento del valore esposto e, di conseguenza, un incremento del livello di rischio.

E’ necessario, a questo punto, ricordare quanto più volte sottolineato e cioè che l’attività di pianificazione deve prevedere, coerentemente con i propri presupposti, l’evoluzione del territorio oggetto di studio. Quando si parla di “piano come processo” si intende evidenziare il superamento di modelli statici che fissano il territorio al suo “stato di fatto” e che non sono adatti a gestire il cambiamento.

Da questo punto di vista, le suddette aree R2 ed R1 vedono collegato l’eventuale aumento del livello di rischio all’incremento delle possibilità di sviluppo. Sarebbe paradossale innescare processi di sviluppo senza conoscerne i rischi o ancora peggio, per evitare quest’ultimi, negare che i primi abbiano luogo. Pertanto si pongono due problematiche:

- la prima che è quella che il Piano non controlli adeguatamente porzioni di territorio con livelli elevati e molto elevati di pericolosità, perchè oggi rientranti in aree a rischio medio e moderato;

- la seconda è quella di non ingessare tali aree impedendo la realizzazione di opere e/o attività perchè produrrebbe comunque un incremento del livello di rischio.

Il primo problema può essere affrontato riducendo la pericolosità con le modalità

sopra riportate. In questo caso, si rende necessario l’uso della carta delle pericolosità (dei fenomeni franosi e dei fenomeni di esondazione) non solo come studio propedeutico alla costruzione della carta del rischio, ma anche, come elaborato finale di Piano.

Il secondo problema viene risolto con l’introduzione, nelle norme di salvaguardia

relative a queste aree, delle soglie di rischio accettabile Secondo questo concetto, tali norme prevedono la possibilità di insediare nuovi beni e/o

attività in tali aree , ma solo qualora vengano verificate le seguenti condizioni: - esistenza di un grado di rischio non superiore a R2 o comunque riportato a quel

livello da adeguati interventi di mitigazione del livello di pericolosità; - un adeguato studio che dimostri che i costi superano i benefici dove:

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- per costi si intendono i costi pari al valore economico del danno che la collettività dovrebbe assumersi e che è pari al valore del danno presunto diviso il periodo di ritorno, In tal senso si possono prevedere formule che riducono il costo per la collettività attribuendole all’eventuale soggetto privato interessato all’iniziativa (come ad esempio alcuni tipi di polizze assicurative);

- per benefici si intende il valore economico dei benefici apportati dall’insediamento di quel bene o attività alla collettività.

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8. LA VALUTAZIONE DEL DANNO La valutazione del danno è un elemento irrinunciabile per la formulazione della politica

ambientale e degli strumenti ad esso connessa, quelli di piano in primis. Allo stato attuale, l’Autorità di Bacino Nord-Occidentale della Campania ha definito,

nell’ambito del presente Piano di Assetto Idrogeologico, le classi di valore esposto e quelle di danno (che nel caso di “messa in sicurezza” del territorio e cioè per V = 1 coincidono) fornendo così, insieme ai differenti livelli di pericolosità, gli elementi base per la individuazione sul territorio delle aree a rischio, nel rispetto della classificazione riportata dal DPCM del 29/09/1998.

Tuttavia, si è più volte sottolineato che un corretto approccio ad un tema tanto complesso come quello della valutazione del rischio presuppone una confluenza disciplinare di opinioni, criteri e consapevolezze, che consenta di progettare il “piano” non come “modello”, bensì come “processo”.

La “processualità” è una scelta difficile perché riconosce il valore della flessibilità: i fenomeni oggetto di studio non sono riconducibili a schemi predefiniti capaci di spiegarli in modo completo ed esaustivo, essi, al contrario, sono interrelati ad una serie complessa di fattori che con al loro peculiarità caratterizzano contesti specifici e ogni volta differenziati.

Nonostante ciò, il ricorso a schemi e modelli risulta necessario quando il fine ultimo è una concreta operatività. Progettare un piano come “processo” significa, però, partire dal presupposto che la ricerca possa costantemente migliorare gli schemi e i modelli di riferimento allo scopo di renderli sempre più articolati e quindi più adeguati alla complessità dei fenomeni che intendono gestire.

D’altra parte anche nelle premesse al DPCM del 29/09/1998 si legge: “La individuazione delle aree a rischio [...] vanno perciò intese come suscettibili di revisione e perfezionamento, non solo dal punto di vista delle metodologie di individuazione e perimetrazione, ma anche, conseguentemente, nella stessa scelta sia delle aree collocate nella categoria di prioritaria urgenza, sia delle altre”.

In tale direzione l’Autorità di Bacino continua la sua attività di studio e ricerca al fine di perfezionare i modelli, le tecniche e le tecnologie con le quali opera.

Tra le varie attività di ricerca in essere quella sulla “valutazione del danno” ha iniziato a definire una nuova metodologia in corso di sperimentazione.

In particolare, tale ricerca è mirata alla elaborazione di una metodologia che consenta di ricalibrare le classi di valore esposto, così come definite in precedenza, fornendo gli strumenti necessari ad una più dettagliata valutazione dello stesso7.

7 La metodologia qui riportata per la valutazione del danno fa riferimento al filone di studi sviluppatosi negli USA sul finire degli anni ottanta.

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7.3 8.1 Danni valutabili e non valutabili in termini di mercato Gli impatti generati da un disastro naturale hanno ripercussioni dirette e ripercussioni

indirette. L’esistenza del mercato rende relativamente semplice valutare il danno diretto alle

strutture costruite dall’uomo: trattasi della categoria di danno meno problematica, ma tale danno rappresenta solo una piccola parte del problema della valutazione come si può meglio comprendere analizzando la tabella seguente:

Danni valutabili in termini di mercato

Danni non valutabili in termini di mercato

Danni diretti

Danni secondari

Capitale umano

Capitale sociale

Beni culturali

Capitale ambientale

Proprietà: - commerciale - residenziale - pubbliche Produzione

Valore aggiunto

Vita Salute Salute mentale

Perdita del senso di appartenenza

Perdita di patrimonio Opzioni Lascito

Acqua Clima Capitale genetico Paesaggio Habitat

Danni diretti

Danni diretti alla proprietà E’ uno delle categorie di danni più rilevanti prodotti dalle catastrofi naturali. Come già

accennato i danni diretti alla proprietà sono anche la categoria di danno più facilmente valutabile, potendosi ricorrere ai valori di mercato, prestando comunque grande attenzione ad evitare le duplicazioni contabili.8

Lo schema seguente esemplifica le possibili procedure per la valutazione con metodi diretti dei danni ai manufatti:

Valori alternativi per i beni - Valori contabili (in gran parte irrilevanti in quanto espressi al netto degli

ammortamenti fiscali) - Valore di sostituzione - Valori di mercato di beni analoghi

Distruzione completa di beni di vecchia acquisizione Sarà sostituito?

- Sì: danni = variazione del valore attuale degli investimenti di una impresa o di un ente statale, o valore di mercato di un bene simile

- No: danni = valore attuale del valore aggiunto perso sulla eventuale vita operativa rimanente.

8 Quello delle duplicazioni contabili è un problema ricorrente quando si possono considerare, come nel caso dei danni alla proprietà, sia i valori finanziari dei beni, sia i valori economici ad essi sottesi.

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Distruzione parziale di beni di vecchia acquisizione Sarà ristrutturato?

- Sì: danni = variazione del valore attuale degli investimenti - No: danni = valore attuale della riduzione del valore aggiunto a seguito della

distruzione parziale del bene. Danni diretti alla produzione “I danni causati dalla perdita o dal ritardo di produzione sono equivalenti al valore

attuale del reddito perduto, ovvero ritardato.” Anche in questo caso bisogna prestare molta attenzione ad evitare le duplicazioni, considerando ad esempio, sia la variazione del reddito, sia la perdita di valore dei beni.

Le misurazioni indirette dei danni diretti: la disponibilità a pagare A volte, specie nelle valutazioni ex ante, o quando il mercato non riesce a riflettere

compiutamente un sistema di prezzi adeguati alla valutazione del danno, può risultare utile chiedersi quanto un contribuente sia disposto a pagare per evitare il rischio di perdite e danni dovuti ad eventi geofisici: si utilizzano in questi casi i cosiddetti metodi indiretti per calcolare il danno. In altri termini il valore della sicurezza viene misurato indirettamente, osservando la risposta del mercato immobiliare ai vari gradi di rischio (le valutazioni di questo tipo derivano da quelle che gli economisti definisco tecniche

edeniche di elaborazione dei prezzi. 8.2 Danni economici indiretti

Oltre alle perdite dirette, i disastri naturali sono forieri di attivare danni indiretti riconducibili alla riduzione dei redditi familiari a causa di crisi, fallimenti, debiti insoluti: si tratta dei cosiddetti effetti indotti o moltiplicatori.

In termini di contabilità complessiva, tuttavia, non ci si può limitare a considerare la riduzione dei redditi familiari, dovendosi invece contabilizzare anche le spese governative (contributi) per gli interventi di recupero, e i benefici che tali spese attiveranno nelle zone di produzione dei beni il cui acquisto essi alimenteranno, e gli stessi effetti moltiplicativi che in genere si verificano nelle fasi di ricostruzione nei territori colpiti. Che l’effetto netto sia positivo, o negativo, dipende dalla variazione della domanda a livello regionale e dai relativi effetti moltiplicatori. Poiché è impossibile definire ex ante le politiche di intervento che saranno adottate, e di conseguenza i loro effetti, è meglio presupporre “che i risultati positivi derivanti dagli aiuti governativi e dall’espansione della produzione vengano compensati dagli effetti secondari negativi” che si verificheranno nelle aree colpite.

Ovviamente ove si potesse disporre di tavole input – output multiregionali e di matrici

di contabilità sociale territorializzate, ci si potrebbe spingere ad una analisi più di dettaglio, senza assumere a priori la compensazione del danno coi i benefici da effetti moltiplicatore. La costruzione di tali strumenti analitici può ricadere senz’altro nei compiti istituzionali attribuiti all’Autorità di bacino , tuttavia, data la complessità e l’onerosità dell’operazione, parrebbe assai più opportuno che essa fosse avviata da parte della Regione. Valutazione della perdita di vite umane

Pur trattandosi di valutazioni che implicano forti principi etici, la letteratura in materia ha fatto notevoli passi avanti, pervenendo alla messa a punto di criteri che non riferiscono

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unicamente al cosiddetto valore del capitale umano, ma al valore della riduzione del rischio per la vita o valore dell’aumento della sicurezza. Appare in ogni caso accettato che i costi per la prevenzione di perdite di vite umane in caso di disastro devono essere confrontati con altri problemi e bisogni sociali rilevanti.

Anche in questo caso il ricorso al calcolo della disponibilità a pagare della collettività per la riduzione del rischio per la vita può rappresentare un approccio preferibile9. Danni a monumenti o beni storici

Il ricorso ai prezzi di mercato non risolve il problema della valutazione del danno connesso alla perdita totale di tali beni, poiché essi spesso sono unici e insostituibili, hanno un grande valore sociale, e spesso non hanno mercato.

Anche in questo caso può essere utile il ricorso al calcolo della disponibilità a pagare espressa dalla stima dei costi – opportunità che la società è disposta a sostenere per la conservazione di un bene. A tal fine i metodi più utilizzati appaiono essere quello del costo

di viaggio e quello della valutazione di contingenza attraverso sondaggi. Danni agli ecosistemi

“Il fatto che un evento di disturbo causi un impatto ecologico dipende da come la società valuta i cambiamenti derivanti dall’evento stesso. Quindi un evento naturale viene definito calamità quando minaccia le persone o i beni a cui i soggetti e la società attribuiscono un valore…Sono dunque i danni evitabili, non il cambiamento totale, a rappresentare il danno…Gli effetti possono essere diretti o ritardati, indiretti o cumulativi e quindi richiedono una previsione”.

Anche in questo caso la disponibilità di una sistemica ed organizzata contabilità ambientale potrebbe aiutare molto, ma valgono le stesse considerazioni già esposte per le tavole input – output e per le matrici di contabilità sociale.

7.4 8.3 Principi per la valutazione del danno – una sintesi

- Stimare i danni con e senza l’evento, non prima e dopo. - Evitare le duplicazioni contabili. - Calcolare i danni previsti al patrimonio edilizio inquadrandolo in una prospettiva

dinamica. - Basare le politiche di intervento preventivo sui danni evitabili e non sul danno

totale. - E’ possibile valutare buona parte delle categorie di danno attraverso una serie di

approcci semplici messi a disposizione da una specifica e rodata letteratura.

9 In numerosi studi compiuti negli Stati Uniti, sebbene questi metodi siano controversi, i risultati indicano che il valore di una vita statistica è pari a circa 3 milioni di dollari.

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7.5 8.4Individuazione di un metodo coerente con i principi esposti e empiricamente applicabile

La metodologia che più coerentemente si sposa con i principi esposti e quella nota come

Analisi Costi Benefici. L’analisi costi benefici potrà essere sviluppata con i principi della metodologia FIO,

tramite gli schemi in uso per le richieste di finanziamento a carico della legge 64/86. Com'è noto, il criterio FIO assume a base della valutazione la determinazione del

Valore Attuale Netto (attraverso l'uso di un prefissato tasso sociale di sconto) e del Saggio di Rendimento Interno.

Nella metodologia FIO si perviene ai costi economici attraverso la depurazione degli importi finanziari con opportuni fattori di conversione. Detti fattori di conversione saranno da noi valutati in relazione a tutte quelle voci di costo che pur costituendo un onere finanziario per chi realizza l'intervento, non costituiscono una reale sottrazione di risorse economiche per la collettività, rappresentando invece dei trasferimenti al suo interno. L'elenco completo dei fattori di conversione che saranno utilizzati, e il loro procedimento di calcolo, saranno allegati alle singole valutazioni.

Per il calcolo dei benefici ci si riferirà al criterio della "disponibilità a pagare" per stimare il surplus del consumatore relativo ai beni e ai servizi generati dalle alternative di interventi proposti per la mitigazione del rischio.

Tale surplus sarà ottenuto differenziando i valori della situazione "senza" intervento da quelli della situazione "con" intervento, ovviamente per tutte le alternative di mitigazione da valutare.

Poiché le diverse politiche di mitigazione del rischio sono classificabili tra i "cosiddetti interventi di risanamento ambientale" un'ultima notazione è relativa proprio al ruolo dell'analisi costi-benefici su queste categorie di progetti.

Nel caso dei beni e delle risorse ambientali ci si trova di fronte ad un eclatante esempio di "fallimento del mercato" connesso all'esistenza di effetti negativi scaricati sull'ambiente esterno, in conseguenza della crescita della produzione e del consumo privato.

Proprio nel settore ambientale, infatti, si verificano con maggiore frequenza divergenze fra il costo sopportato dai privati per l'utilizzo delle risorse ed il loro valore sociale. Si producono in tal modo fenomeni distorsivi nell'allocazione delle risorse, associati ad un progressivo degrado dell'ambiente naturale ed all'eccessivo sfruttamento di risorse di cui la collettività dispone.

L'obiettivo dell'analisi costi-benefici applicata a progetti di mitigazione del rischio va perciò individuato nella valutazione dei danni prodotti dal mancato intervento su tutti coloro che usufruiscono dell'ambiente teoricamente impattato dall’evento calamitoso.

La quantizzazione dei benefici economici, per quanto detto, costituisce perciò il passo più delicato della procedura di analisi dei progetti di mitigazione del rischio.

Va anzitutto premesso che le tecniche di definizione del valore di progetti ambientali hanno carattere simmetrico in quanto valutano i benefici o in base all'uso delle risorse generate e preservate, o sulla base del costo delle risorse stesse quando non siano più utilizzabili; in altri termini il valore del beneficio generato può coincidere in parte o in tutto con il costo del danno evitato.

I benefici economici possono ovviamente essere interni al mercato o esterni ad esso. I benefici interni al mercato sono usualmente misurati attraverso le variazioni di valore

aggiunto dei settori di attività economica interessati dalla realizzazione del progetto.

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I benefici esterni al mercato scaturiscono dagli effetti reali ed estetici prodotti dal rischio su tutte le attività di tipo ricreativo e di tempo libero svolte dall'uomo direttamente o indirettamente nell'ambiente interessato. L'alterazione delle qualità delle risorse ambientali modifica anche la quantità e la qualità dei servizi resi come beni pubblici fruiti al di fuori di un rapporto di mercato e senza il pagamento del corrispettivo di un prezzo.

I soggetti cui si fa riferimento nella quantificazione dei benefici esterni sono i componenti della società in senso lato; oggetto della misurazione e la loro disponibilità a pagare per mantenere intatti tutti gli aspetti dell'ambiente esterno che sono influenzati.

La procedura classica inerente l’applicazione dell’analisi costi – benefici potrebbe essere arricchita con il ricorso a procedure proprie della valutazione di impatto, soprattutto per quanto attiene la definizione del danno relativo alle categorie per le quale appare di più difficile applicazione la monetizzazione dei vantaggi e degli svantaggi (beni culturali e ambientali soprattutto).

7.6 8.5Coerenza del metodo proposto con lo stato attuale della predisposizione

degli strumenti di piano dell’Autori tà di bacino Nord Occidentale.

L’analisi costi – benefici, arricchita ove necessario da valutazioni di impatto per l’internalizzazione di costi e benefici non monetizzabili, potrà essere compiutamente applicata allorquando saranno disponibili i diversi scenari e le alternative di intervento prospettati dagli strumenti di piano generali e attuativi.

In questa fase del lavoro, essendo ancora in corso le analisi fisiche del territorio al fine di tabularne compiutamente le problematiche connesse ai rischi naturali, la metodologia evidenziata potrà essere sperimentata soprattutto per i suoi aspetti di metodo.

La proposta è quella di corredare, per tutte le aree interessate da rischi naturali, i risultati delle indagini fisiche in corso con una informazione relativa al cosiddetto valore totale insediato (Vtot).

Per tutte le aree che al termine delle indagini in corso saranno classificate a rischio, con dettaglio di riferimento alla cella di superficie minima utilizzata per la classificazione dell’uso urbano del suolo, sarà quindi fornito un valore di Vtot:

Vtot = Rzona + Vsupe.+ Vinfra . + Vsupa. + Rlav Rzona = Reddito procapite insediato per abitanti insediati

Vsupe.= Valore superficie edificata insediata

Vinfra . = Valore infrastrutture insediate Vsupa. = Valore suoli agricoli insediati

Rlav = Redditi da lavoro in opifici produttivi insediati

Vtot = £

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Conosciuto il valore totale di ogni particella, valore che il metodo proposto fornisce in

lire, si può passare alla trasformazione del valore in indici, con riferimento alle particelle di rilevazione, o a loro aggregati. L’indice del valore totale della particella “i” considerata, sarà dato da:

IVAL (i) = IVAL tot(i) + IVAL soc(i) dove IVAL soc(i) - Valore totale insediato dei beni culturali e sociali.

IVAL tot(i) = Vtot(i) / Vtotmax = 80% IVAL soc(i) = Vsoc(i) / Vsocmax = 20% Per calcolare tutti i parametri necessari si utilizzeranno i criteri definiti nei paragrafi

precedenti. Il peso da dare agli indici IVAL tot(i) e IVAL soc(i) è una scelta dell’autorità politica

preposta al governo del rischio. Anche il peso da dare alla perdita di vite umane e alla perdita i valori irripetibili (parchi

e aree protette ad esempio, o emergenze monumentali) è una scelta di natura politica. In sede tecnica pare però opportuno suggerire che la presenza di rischi connessi a

categorie di valori come la perdita di vite umane o di beni irripetibili possa essere assunta come vincolo di massimo rischio, applicando alla porzione di territorio la max protezione10. 8.6Il metodo proposto per il calcolo del valore totale insediato

Di seguito viene descritta la metodologia di lavoro per la determinazione del valore totale insediato relativo alla cella i-esima. Il territorio interessato dall’Autorità di Bacino Nord Occidentale, formato da 69 Comuni, è stato infatti suddiviso in una maglia reticolare composta da celle di dimensioni pari 100 x 100 mt. Il calcolo del valore totale insediativo si riferisce alle porzioni di territorio definite come “zone rosse” e dunque non riguarda l’intero territorio dell’Autorità di Bacino.

Per tali aree, considerate a rischio, viene fornito il cosiddetto valore totale insediativo

(Vtot) risultante dalla seguente formula:

Vtot = Rzona + Vsupe.+ Vinfra . + Vsupa. + Rlav

10 Corrispondente alla classificazione “R4” nella tassonomia utilizzate per i piani di bacino.

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Rzona = Reddito procapite insediato per abitanti insediati

Vsupe.= Valore superficie edificata insediata

Vinfra . = Valore infrastrutture insediate Vsupa. = Valore suoli agricoli insediati

Rlav = Redditi da lavoro in opifici produttivi insediati

I singoli valori saranno dunque riferiti alla cella di superficie minima utilizzata per la

classificazione dell’uso urbano del suolo. Rzona = Reddito procapite insediato per abitanti insediati

Per il calcolo del Reddito relativo alla cella i-esima (Rzona) si è proceduto alla ricerca

del reddito procapite per abitanti insediati nella cella stessa. Innanzitutto, da fonte ISTAT, sono stati rilevati i dati relativi alla popolazione residente

al 1 gennaio 2000 nei 69 comuni dell’area. Il dato della popolazione del comune è stato spalmato nelle celle.

Individuata la percentuale di superficie edificata nella singola cella, l’ipotesi consiste nel far coincidere tale percentuale con la popolazione residente. In altri termini, è stata rapportata la superficie urbanizzata della cella alla superficie urbanizzata dell’intero territorio comunale; ricavata tale percentuale è stato possibile attribuire il dato di popolazione residente alla cella i-esima. Il reddito procapite a livello comunale, è calcolato a partire dai dati forniti dall’Istituto Tagliacarne.

Vsupe (Valore superficie edificata insediata)

Vinfra (Valore infrastrutture insediate)

Per il calcolo del valore della superficie edificata insediata (Vsupe) si è moltiplicato il

dato relativo alla superficie edificata per il valore medio di costruzione dell’edificato espresso in £/mq.

Il dato si riferisce alla superficie edificata a meno delle infrastrutture viarie e ferroviarie e delle aree destinate ad attività produttive (industriali, artigianali, commerciali e turistiche) desumibile dalle planimetrie dei PRG comunali, ove presenti; infatti per i Comuni non dotati di P.R.G. è stato utilizzato lo strumento urbanistico vigente (Piano di Fabbricazione). Nell’analisi effettuata, non si è tenuto conto delle emergenze monumentali o di edifici di pregio o di particolare interesse, considerando per tutto l’edificato un unico valore medio di costruzione.

Un’analisi più puntuale, che intenda attribuire il valore economico agli edifici di particolare valore presenti nell’area, richiederebbe tempi molto lunghi non in coerenza con la metodologia proposta che intende essere uno strumento di indirizzo e di programmazione di base utile per ulteriori approfondimenti.

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Analoga operazione è stata effettuata per il calcolo del valore esposto delle infrastrutture (Vinfra ). Per infrastrutture, in tale studio, sono da intendersi essenzialmente le strutture

viarie di collegamento (autostrade, strade principali, strade secondarie e trasporti su rotaia). I dati relativi ai valori medi di costruzione sia per l’edificato che per le infrastrutture

sono stati forniti da terzi. Vsupa (Valore suoli agricoli insediati)

Relativamente al valore dei suoli agricoli insediati (Vsupa), sono stati considerati i

valori medi per ettaro dei terreni agrari delle province campane per zone agrarie omogenee espressi in migliaia di lire, Legge 590/65 art. 4 e Legge Regionale 42/82 art. 43.

Il valore dei suoli agricoli insediati per comune è stato ricavato moltiplicando il valore medio per ettaro dei terreni agrari destinati a seminativo (seminativi, seminativi irrigui, seminativi arborati, seminativi arborati irrigui, orti irrigui) per le relative superfici sommato al valore medio dei terreni agrari destinati a coltivazioni permanenti (agrumeto, agrumeto irriguo, vigneto, frutteto, frutteto irriguo, oliveto, noccioleto, castagneto da frutto) moltiplicato per le relative superfici; tale valore è stato poi rapportato alla superficie complessiva di seminativi e coltivazioni permanenti. Considerato che per molti comuni si è riscontrata l’assenza di prati e pascoli e che quando presenti, il loro valore medio per ettaro risulta basso, dalla SAU (Superficie Agricola Utilizzata) sono stati detratti gli ettari ad essi relativi in quanto il dato non incide in maniera rilevante sul valore finale. I dati delle superfici sono stati ricavati dal Censimento Generale dell’Agricoltura del 1990.

Rlav (Redditi da lavoro in opifici produttivi insediati)

Per ogni Comune è stato individuato il numero di addetti nell’industria e nell’artigianato (fonte Censimento intermedio dell’industria al 1996). Il numero di addetti della cella i-

esima è stato attribuito attraverso l’individuazione della percentuale di suolo della cella occupato da opifici industriali e attività produttive (artigianali, commerciali e turistiche). Analogamente al calcolo per la popolazione residente, l’ipotesi consiste nel far coincidere tale percentuale con il numero di addetti nel settore industriale.

Per tenere conto che non tutte le attività produttive ricadono nel tessuto edilizio urbano il dato degli addetti è stato ridotto del 50%.

Si perviene al calcolo del reddito da lavoro in opifici produttivi insediati (Rlav),

utilizzando il PIL procapite a livello comunale, derivato da fonti CCIAA, e moltiplicandolo per il numero di addetti.

I dati relativi alle superfici sono ottenuti da elaborazioni tramite GIS su precedenti elaborazioni cartografiche fornite da terzi.

Le elaborazioni in GIS sono state effettuate sulla base dello shape file dei confini

comunali e quello della maglia suddivisa in celle quadrate di 100 x 100 metri. Nel secondo shape file ad ogni cella erano già stati attribuiti i seguenti valori:

- superficie del Consolidato urbanizzato delle zone A e B dei PRG; - superficie delle zone di espansione; - superficie delle zone destinate a Commercio e Turismo; - superficie delle zone destinate ad attrezzature; - superficie delle zone E (agricole);

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- lunghezza in metri delle infrastrutture a sviluppo lineare (autostrade, strade principali, strade secondarie e trasporti su rotaia).

La prima operazione realizzata con il GIS, è stata l’identificazione delle celle

relativamente al Comune di appartenenza tramite overlay dei dati. Per effettuare correttamente tutte le elaborazioni relative al valore socio-economico

dell’area si è resa necessaria la suddivisione delle celle sui confini. Dai dati così ricavati per cella si è proceduto alle elaborazioni numeriche tramite

Access. Nel database denominato TB9_2001.dbf sono riportati i dati di base e le elaborazioni

effettuate per determinare il valore totale insediato. I campi dei dati di base, ricavati dalle precedenti elaborazioni cartografiche, sono di seguito riportati:

- Identificativo della maglia (MAGLIE_ID) - Codice ISTAT del Comune (COD_COM) - Nome del Comune (COMUNE) - Superficie del Consolidato urbanizzato delle zone A e B dei PRG

(ZONAA_BSAT) - Superficie delle zone di espansione (ZONAESPANS) - Superficie delle zone destinate ad attrezzature (ATTREZZATU) - Superficie delle zone agricole E (ZONAE) - Strade e ferrovie (STRADE_FER) - Superficie delle zone destinate a commercio e turismo (COMM_TURIS) - Superficie delle zone destinate a opifici industriali ed artigianali (ARTIGIANAL)

Le elaborazioni effettuate per la determinazione del valore totale insediato riguardano i

campi sotto elencati - Reddito procapite insediato per abitanti insediati (REDDITO_CE) - Valore superficie edificata insediata (VAL_SUPED) - Valore suoi agricoli insediati (VAL_AG_CE) - Valore infrastrutture insediate (VAL_INFR_C) - Redditi da lavoro in opifici produttivi insediati (REDDITO_LA) - Valore totale insediato (VALORE_TOT) - Valore insediato normalizzato (VALORE)

Relativamente al campo Valore insediato normalizzato (VALORE) si è dovuti ricorrere

ad una semplificazione, cioè sono state individuate tutte le celle della maglia che avevano la stessa numerazione (quelle sui confini) e doppio valore di Valore Insediato. Ad entrambe le celle è stato attribuito il valore massimo tra i due.

Tramite il supporto del GIS è stato possibile rappresentare cartograficamente il Valore Totale Insediato.

Tale tematismo (Valore Totale Insediato) non intende rappresentare la carta del rischio ma solo il valore totale insediato calcolato in termini socio-economici con l’unica funzione di supporto alla metodologia precedentemente descritta.

L’elaborazione cartografica del valore totale insediato è stata rappresentata in 5 classi

che visualizzano la distribuzione del valore nell’area oggetto di analisi.

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Le elaborazioni numeriche e cartografiche derivano dall’applicazione della metodologia sopra descritta e rappresentano una sperimentazione in una fase dell’indagine conoscitiva del territorio ancora in itinere e perciò suscettibile di ulteriori approfondimenti.

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9. GLI INTERVENTI

Un approccio basato sull’emergenza ha privilegiato negli ultimissimi decenni la realizzazione di opere intensive per la riduzione del rischio nella parte inferiore del bacino ove più elevato si presenta il livello di urbanizzazione, trascurando spesso un approccio al problema basato sull’intervento a lungo termine con opere estensive ed intensive nella parte superiore del bacino, ove il fenomeno erosivo inizia a manifestarsi e ove la sistemazione agisce sulle cause del dissesto.

Ne consegue la necessità di intervenire nelle zone montane e collinari, ove più estese ed intense sono le azioni erosive, con opere diffuse di rimboschimento, di miglioramento di boschi esistenti, di sistemazione delle frane e con opere concentrate sui corsi d’acqua per la loro regimazione idraulica anche nelle zone di pianura.

Esistono, comunque, delle priorità nella realizzazione degli interventi. Tali priorità riguardano le aree che presentano un livello elevato o molto elevato di rischio (R3 ed R4) e che coincidono spesso con quelle porzioni di territorio caratterizzate da un livello elevato o molto elevato di valore esposto (E3 ed E4), quasi sempre aree di pianura e pedemontane fortemente urbanizzate e densamente popolate.

Tuttavia, il mancato o non adeguato intervento sui bacini montani comporta un incremento delle portate di piena a valle unitamente all’aumento del trasporto solido, con conseguente necessità di arginature sempre più elevate e/o di più vaste aree di espansione e laminazione delle piene.

Con interventi di tipo diffuso sul territorio si può ottenere una maggiore efficacia delle misure di riduzione della probabilità di accadimento dell’evento calamitoso e sulla riduzione dell’intensità dello stesso; il perdurare dell’abbandono della montagna e della collina, invece, ha come conseguenza un aumento della vulnerabilità e della pericolosità del territorio anche a valle con conseguente richiesta di aumento delle difese passive (argini, casse d’espansione, ecc.), con notevole aumento dei costi diretti ed indiretti.

La sistemazione della parte superiore dei bacini idrografici, dunque, non assume solo un valore intrinseco, ma comporta il miglioramento delle condizioni idrauliche della pianura che ospita la maggioranza della popolazione e del patrimonio, infrastrutturale e insediativo, pubblico e privato.

La sistemazione dei bacini idrografici nelle aree montane, collinari e di pianura, va considerata quindi, secondo la legge sulla difesa del suolo (L. 183/89), come un intervento unitario da affrontare con un approccio sistemico attraverso, per esempio:

- interventi finalizzati al recupero, manutenzione e rinaturalizzazione delle superfici boscate del territorio montano e collinare, con particolare riferimento al rimboschimento, al miglioramento della funzionalità idraulica dei suoli forestali, alla regimazione idraulica ed alla rinaturalizzazione della rete idrografica minore;

- interventi finalizzati al recupero, manutenzione e rinaturalizzazione delle superfici erbacee del territorio montano e collinare, con particolare riferimento agli incentivi per la riconversione colturale di attività agro-pastorali ai fini del miglioramento della resistenza all’erosione dei suoli, nonché alla regimazione idraulica ed alla rinaturalizzazione della rete di scolo superficiale basata sulle fosse livellari;

- interventi integrati per il ripristino e il miglioramento delle funzionalità idrauliche del reticolo idrografico nei territori di pianura e dei tratti terminali in prossimità della foce, connessi con la ricostruzione delle fasce di vegetazione ripariale, necessarie per il miglioramento delle caratteristiche autodepurative dei corsi

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d’acqua ed alla funzionalità delle reti ecologiche per l’aumento della biodiversità e per l’attenuazione dell’effetto serra;

- interventi integrati per la depurazione, il drenaggio e l’assetto naturalistico nei territori di pianura.

Con riferimento a quanto finora detto, risulta evidente la necessità di sviluppare una

coerente ed efficace politica di tutela del paesaggio e dell’ambiente che veda, accanto a forme di sistemazioni intensive, interventi attivi di rinaturalizzazione di diversi ambiti del territorio nel suo complesso.

Tale obiettivo è perseguibile attraverso il ricorso a tecniche di ingegneria naturalistica, preferibili in quanto di basso impatto e rispettose degli equilibri ecologici-ambientali.

Gli interventi di ingegneria naturalistica sono raggruppabili in tre categorie relativamente omogenee:

- interventi che hanno per obiettivo la limitazione e la prevenzione dell’erosione superficiale del suolo;

- interventi che prevedono l’impiego della vegetazione eventualmente associata ad altre tecniche per ridurre il rischio frane;

- interventi volti a limitare l’erosione delle sponde degli alvei dei corsi d’acqua. Nei paragrafi successivi vengono individuati, relativamente al territorio di pertinenza

dell’Autorità di Bacino Nord-Occidentale, gli interventi strutturali e quelli non strutturali. 7.7 9.1Interventi strutturali

Gli interventi di tipo strutturale più adatti alla sistemazione idraulica della rete

idrografica e dei versanti del bacino nord occidentale della Campania sono: - manutenzione straordinaria degli alvei e dei versanti dopo ogni evento eccezionale; - briglie e soglie di stabilizzazione del fondo alveo; - briglie di trattenuta del trasporto solido; - difese spondali longitudinali; - difese arginali; - modellamento dell’alveo; - vasche di laminazione; - interventi estensivi integrati di rinaturazione e recupero dei suoli; - interventi di stabilizzazione e consolidamento di aree singolari.

Gli interventi di tipo strutturale più adatti alla mitigazione del rischio da frana sono:

- interventi di manutenzione idraulico-forestale - interventi di ingegneria naturalistica - interventi puntuali (opere di sostegno, drenaggi) -

Tali interventi terranno conto delle indicazioni del “Quaderno delle Opere Tipo” e della “Carta degli Interventi Strutturali”.

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7.8 9.2Il Quaderno delle opere tipo Il Quaderno, che è associato alla Carta degli Interventi Strutturali, fornisce una elencazione commentata delle tipologie di interventi che possono essere impiegati per il risanamento idrogeologico ed il recupero ambientale delle aste fluviali critiche e dei versanti in frana. Vengono riportate in particolare le descrizioni degli interventi strutturali e non strutturali più adatti al caso del bacino nord occidentale della Campania, precisando per gli interventi di tipo strutturale, le categorie di opere basate sul principio della difesa attiva e di quella passiva. Il Quaderno, fermo restando le valutazioni di dettaglio e le scelte tecniche proprie delle fasi di progettazione, è da considerare un documento di indirizzo che suggerisce tra l’altro, in accordo con le moderne tendenze del settore, il ricorso ad opere a basso impatto ambientale, proponendo a tal fine, ove possibile, interventi di ingegneria naturalistica.

7.9 9.3La Carta degli Interventi Strutturali Tale elaborato deriva dall’accorpamento per ciascun ambito geomorfologico (di versante; montano,pedemontano e di pianura) dei settori a vari livelli di pericolosità (da frana e idraulica) così come rappresentati nei rispettivi elaborati tematici originali e per i quali sono state prefigurate determinate categorie di intervento. I bacini incombenti su aree a rischio per l’incolumità delle persone (enucleate dalla carta tematica finalizzata ad esigenze di Protezione Civile) sono stati distinti dagli altri bacini in quanto considerati di interesse prioritario ai fini della programmazione degli interventi.

Interventi non strutturali

Gli interventi di tipo non strutturale, descritti nel quaderno delle opere, sono

rappresentati da: - monitoraggio, predisposizione di sistemi di allarme, early warning; - adeguamento del servizio di polizia idraulica; - programmi di manutenzione; - indirizzi alla pianificazione urbanistica e territoriale; - copertura assicurativa dei beni esposti al rischio non coperti dalle misure

strutturali; - delimitazione delle fasce fluviali; - incentivazione alla delocalizzazione di manufatti e infrastrutture realizzati in aree a

rischio.

La regolamentazione d’uso del territorio comporta diversi livelli ed ambiti di applicazione: ambiti di carattere generale (relativi alle linee di assetto idrogeologico a scala di bacino) ed ambiti di carattere specifico (relativi alle specifiche situazioni di dissesto, alle modalità di realizzazione di interventi interferenti con l’assetto idrogeologico ed alla regolamentazione dell’uso del suolo in ambito di pianificazione urbanistica). Quest’ultimo aspetto appare di natura complessa in quanto comporta una diretta influenza sulla pianificazione urbanistica a scala comunale e quindi richiede spesso adeguamenti e varianti che incidono sul contesto insediativo e produttivo, realizzato e programmato.

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La ricerca di coerenza tra obiettivi del Piano ed esigenze di sviluppo economico-territoriale è uno degli aspetti determinanti la reale capacità di efficacia del Piano. Va quindi affrontato con estrema attenzione, al fine di raggiungere una forte condivisione delle scelte operate ai diversi livelli di pianificazione, ma anche con estrema fermezza rispetto agli obiettivi di sicurezza e di integrità fisica del bacino che il Piano deve perseguire.

Nell’individuazione delle priorità la salvaguardia delle popolazioni è ovviamente determinante. Saranno poi privilegiati gli interventi di manutenzione o di completamento di opere e quelli che consentono il superamento delle situazioni di dissesto mediante il ripristino o il riequilibrio delle situazioni naturali preesistenti.

La manutenzione delle opere di difesa è sicuramente fondamentale e non solo quella delle opere ma anche quella del territorio stesso per preservare equilibri territoriali e ambientali. Non è vero che un’area priva di pressioni antropiche, lasciata allo stato “naturale” mantiene il suo equilibrio solo perché non interviene l’uomo: l’abbandono della manutenzione dei territori boscati ha portato in molto casi, al degrado delle coperture e dei suoli con inevitabile innesco di fenomeni di instabilità dei versanti e dei suoli in genere (aumento dell’erosione superficiale, diminuzione della permeabilità, ecc.);

La norma prevede che ogni progetto di intervento strutturale sia descritto almeno con gli elaborati di seguito elencati:

- un testo sintetico con la giustificazione del progetto alla luce di quanto chiarito nelle precedenti fasi di studio del Piano e la descrizione dei risultati che con esso si intende raggiungere;

- una cartografia in scala adeguata, con la localizzazione delle opere e degli interventi proposti;

- una serie di schede con l’indicazione delle caratteristiche delle opere e degli interventi; il grado di dettaglio nella descrizione delle opere deve essere sufficiente per una ragionata stima dei costi;

- una scheda con l’elenco delle opere e degli interventi e relativa stima dei costi, nonché l’indicazione degli stralci realizzativi;

- ove possibile, una sintetica analisi costi-benefici dell’intervento proposto. Analogamente ciascun progetto di intervento non strutturale è descritto almeno con gli

elaborati di seguito elencati: - un testo sintetico con la giustificazione del progetto alla luce di quanto chiarito

nelle precedenti fasi di studio del Piano e la descrizione dei risultati che con esso si intende raggiungere, sotto l’aspetto tecnico, ambientale, economico e sociale;

- una descrizione dei provvedimenti normativi e/o amministrativi proposti per la soluzione del problema;

- bozze dei testi delle disposizioni normative delle quali è proposta l’adozione; - una sintetica analisi costi-benefici dell’intervento previsto.

7.10 9.4Carte del rischio elevato e molto elevato (solo incolumità delle persone) finalizzate alle azioni di protezione civile

La differenza sostanziale fra la carta del rischio redatta per il PAI e quella allestita in

sede di Piano straordinario consiste, oltre che negli approfondimenti fisici, nel fatto che,

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nel calcolo del valore esposto, ha contribuito oltre che l’incolumità delle persone anche l’analisi di altri beni esposti quali quelli ambientali (parchi, aree protette) e culturali. Ciò ha comportato sovente l’attribuzione a livelli di rischio elevato o molto elevato di porzioni di territori non urbanizzate ma di alto valore ambientale e/o culturale.

Per tal motivo si è ritenuto utile procedere alla realizzazione di un ulteriore elaborato finalizzato ai problemi di protezione civile nel senso che esso reca la distribuzione sul territorio dei beni esposti che comportano l’incolumità per le persone (centri urbani e infrastrutture principali) assieme agli altri areali classificati in vari livelli di pericolosità idraulica o per eventi franosi.

In tali carte i valori di rischio rappresentati sono RA, R3 ed R4. I criteri di definizione degli areali associati a RA (aree da approfondire) sono scaturiti

dall’osservazione di aree che, anche se non rientranti nel modello utilizzato, presentano connotati tali da suggerire indagini puntuali di densità ben superiore a quella prevista per le finalità precipue di uno studio di area vasta quale è quello condotto per la realizzazione del Piano Stralcio.

Gli areali associati, in queste carte, ai valori R3 ed R4 scaturiscono sempre dall’incrocio

matriciale tra Pericolosità e Danno ma calcolando il Danno solo riferito all’incolumità delle persone. Pertanto alla definizione del Danno, per queste carte e solo per queste, si sono ridefinite le classi di valore esposto così come descritto di seguito:

‚ E4: valore esposto altissimo

- centri urbani, zone di completamento e di espansione (come delimitate da PRG); - zone industriali, commerciali e artigianali esistenti e di progetto (come delimitate

da PRG); - zone con attrezzature esistenti e di progetto (come delimitate da PRG); - zone turistiche esistenti e di progetto (come delimitate da PRG); - nuclei ad edificazione diffusa non previsti nel PRG (fonte aggiornamento ortofoto

del 1998); - zone militari (come delimitate da PRG); -

‚ E3: valore esposto alto - Cimiteri e relative aree di rispetto (come delimitati da PRG); - autostrade; - strade principali;

Essendo stata considerata la vulnerabilità pari a 1 è stato ridefinito il Danno come

corrispondente al nuovo valore esposto.

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10. L’ATTUAZIONE DEL PIANO 10.1 Strumenti di attuazione del Piano

Il Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico ha prodotto e consiste in una notevole quantità di elaborati (vedi elenco elaborati allegato) in formato cartografico, fotografico e alfanumerico. Buona parte di questi documenti sono stati finalizzati allo studio del territorio e dei fenomeni di carattere idrogeologico e sono stati propedeutici alla redazione di quelli che possiamo chiamare elaborati finali di piano ovvero quelli che determinano e regolano l’attuazione delle disposizioni del Piano sul territorio. Tali ultimi elaborati definiscono gli strumenti di attuazione del Piano come i mezzi prescelti per dare attuazione alle determinazioni assunte con la scelta delle linee di intervento.

Essi sono costituiti da:

1 Carte della Pericolosità 2 Carte del Rischio 3 Carte degli Interventi Strutturali ed indicazione degli interventi prioritari 4 Quaderno delle opere tipo 5 Carte del rischio elevato e molto elevato (solo incolumità delle persone) finalizzate

alle azioni di protezione civile 6 Norme di attuazione 7 Piano finanziario (piano che sarà redatto in fase successiva all’adozione del PAI in

relazione alle risorse finanziarie di provenienza Comunitaria, Statale, Regionale rese disponibili)

Gli elaborati individuati dal n°1 al n° 5 sono già stati descritti nei paragrafi di

riferimento ai quali si rimanda per una completa interpretazione e lettura. Le Norme di attuazione definiscono l’uso del territorio ritenuto coerente con le

risultanze delle Carte della Pericolosità e del Rischio e le modalità di attuazione di tutti gli interventi, strutturali e non individuati nel PAI (interventi di manutenzione idraulica ed idrogeologica, di sistemazione e difesa del suolo, di rinaturalizzazione, di forestazione, gli indirizzi di pianificazione urbanistica, gli interventi di realizzazione e di adeguamento delle principali infrastrutture pubbliche o di interesse pubblico).

10.2 Attuazione degli interventi e formazione dei Programmi triennali Gli interventi previsti dal Piano sono attuati in tempi successivi, anche per singole parti

del territorio, attraverso Programmi triennali di intervento, ai sensi dell’articolo 21 e seguenti della L. 18 maggio 1989, n. 183, redatti tenendo conto delle finalità e dei contenuti del Piano stesso e dei suoi allegati.

I Programmi triennali di cui sopra riguardano principalmente le seguenti categorie di intervento:

‚ manutenzione degli alvei, delle opere di difesa e dei versanti; ‚ opere di sistemazione e difesa del suolo; ‚ interventi di rinaturazione dei sistemi fluviali e dei versanti; ‚ opere nel settore agricolo e forestale finalizzate alla difesa idraulica e idrogeologica; ‚ adeguamento delle opere viarie di attraversamento.

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Il Piano può essere attuato, per gli interventi che coinvolgono più soggetti pubblici e

privati ed implicano decisioni istituzionali e risorse finanziarie statali, regionali, delle province nonché degli enti locali, anche mediante le forme di accordo tra i soggetti interessati secondo i contenuti definiti dall’art. 1 della L. 7 aprile 1995, n.104 (Accordi di programma, Contratti di programma, Programmazione negoziata, Intese istituzionali di programma).

Nell’ambito delle procedure innanzi richiamate, l’Autorità di bacino può assumere il compito di promozione delle intese e demandare al Settore Difesa Suolo della Giunta regionale il coordinamento degli interventi programmati.

L’Autorità di bacino, sulla base degli indirizzi e delle finalità del Piano di bacino e dei suoi stralci, tenuto conto delle indicazioni delle Amministrazioni competenti, redige i Programmi triennali di intervento ai sensi degli artt. 21 e seguenti della L. 18 maggio 1989, n. 183 e aggiorna le direttive tecniche concernenti i criteri e gli indirizzi di formulazione della programmazione triennale, nonché di progettazione degli interventi oggetto di programmazione.

L’Autorità di bacino definisce e aggiorna un quadro del fabbisogno di interventi tenendo conto delle linee di intervento di cui al Piano, anche sulla base delle indicazioni delle Amministrazioni territorialmente competenti. Il quadro del fabbisogno di interventi individua le opere strutturali da realizzare e i relativi costi di massima ed è ordinato secondo criteri di priorità.

Le Amministrazioni competenti, ai fini della programmazione triennale, sviluppano a livello di progetto preliminare gli interventi prioritari di cui al quadro del fabbisogno di interventi. L’Autorità di bacino, su tale base, predispone un elenco progetti.

I Progetti preliminari costituenti l’elenco progetti devono garantire un corretto inserimento paesaggistico-ambientale. A tal fine:

‚ i progetti delle opere strutturali di modesta rilevanza devono uniformarsi alle indicazioni del Quaderno delle opere tipo;

‚ i progetti delle opere strutturali rilevanti devono contenere uno studio di inserimento ambientale che tenga conto degli elementi di rilevanza naturalistica e paesaggistica presenti, con riferimento ai Caratteri paesistici e beni naturalistici, storico - culturali e ambientali.

Il Programma triennale sarà redatto sulla base dell’elenco progetti e terrà conto della programmazione finanziaria, con priorità per gli interventi sui nodi critici individuati nell’ambito del Piano stralcio; potranno inoltre essere considerati interventi di rilevanza locale sulla base di necessità documentate e in coerenza con le linee di intervento fissate dallo stesso Piano

I progetti preliminari inseriti nel Programma triennale di cui al precedente comma, qualora riguardino o interferiscano con le aree o i beni tutelati ai sensi del T.U. 490/99, dovranno ottenere preventivo parere favorevole dagli Uffici competenti alla tutela archeologica, architettonica, storico-artistica, paesaggistica e ambientale.

I progetti degli interventi inseriti nel Programma triennale dovranno contenere, unitamente alla definizione delle opere strutturali previste, la perimetrazione delle aree di dissesto conseguente alla realizzazione delle opere stesse e le relative norme d’uso del suolo. A opere realizzate, l’Amministrazione comunale provvederà all’adeguamento eventuale dello strumento urbanistico sulla base degli effetti delle nuove opere realizzate.

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Ai fini della programmazione degli interventi di manutenzione verranno costituiti e aggiornati appositi archivi presso l’Autorità di bacino, sulla base delle indicazioni delle Amministrazioni competenti e degli elementi derivanti dal catasto delle opere; gli archivi conterranno:

‚ il censimento e la caratterizzazione dei tratti fluviali aventi maggiori necessità di manutenzione periodica;

‚ il parco dei progetti di manutenzione, redatti a livello preliminare. I progetti sono ordinati secondo un parametro di priorità definito in base alle linee di intervento del Piano.

Il Programma triennale di manutenzione sarà redatto sulla base dell’elenco progetti di manutenzione" e terrà conto della programmazione finanziaria.

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11. MANUTENZIONE DEL PIANO

Il redigendo Piano Stralcio è un documento programmatorio che si propone di prevedere (valutazione ex ante) scenari di rischio e di associare ad essi limitazioni nell’uso del suolo e tipologie di interventi, strutturali e non, finalizzati alla mitigazione dei danni (altra valutazione ex ante causa-effetto). Pertanto è necessario considerare il Piano solo come lo stadio iniziale di un processo dinamico che prevede un continuo aggiornamento delle ipotesi di previsione.

Il Piano Stralcio può essere integrato e sottoposto a varianti dall’Autorità di Bacino ed anche a seguito di istanze di soggetti pubblici e privati, corredate da documentazione e rappresentazione cartografica idonea, con le stesse procedure necessarie per la sua adozione ed approvazione, in relazione a:

a) studi specifici corredati da indagini ed elementi informativi a scala di maggior dettaglio prodotti da pubbliche amministrazioni;

b) nuovi eventi idrogeologici da cui venga modificato il quadro della pericolosità idrogeologica;

c) nuove emergenze ambientali; d) significative modificazioni di tipo agrario-forestale sui versanti o incendi su grandi

estensioni boschive; e) realizzazione da parte di un Ente locale di un intervento di mitigazione

(regolarmente collaudato) nel rispetto delle norme vigenti e delle norme di Piano; f) acquisizione di nuove conoscenze in campo scientifico e tecnologico, o storiche,

provenienti da studi o dai risultati delle attività di monitoraggio del piano; g) variazione significativa delle condizioni di rischio o di pericolo derivanti da azioni

ed interventi non strutturali e strutturali di messa in sicurezza delle aree interessate.

Il Piano Stralcio ha valore a tempo indeterminato ed è comunque periodicamente

aggiornato con le stesse procedure necessarie per la sua adozione ed approvazione alla decorrenza di due anni solari dall’adozione del Piano.