Rassegna stampa 10 ottobre 2019 · "Scienza e fede, andate in pace" di Elena Dusi IL FOGLIO Pag III...

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 10 ottobre 2019 SOMMARIO “Ci fu, un tempo, un Veneto a misura parrocchiale – osserva il sociologo Vittorio Filippi sul Corriere del Veneto di oggi -. Letteralmente. In cui cioè la parrocchia ritagliava non solo i territori, ma organizzava le coscienze e faceva le comunità. Una fabbrica per campanile si diceva, un binomio in cui la fabbrica produceva il benessere materiale ed il campanile quello spirituale. Ma anche psicologico e sociale. Questo tempo è passato: il suo declino è avvenuto a partire dagli anni sessanta, in paradossale coincidenza con il Vaticano secondo: lentamente, silenziosamente, è avvenuto che «Il cristianesimo non si intende più da sé. Le sue parole centrali, i suoi gesti, la sua morale e la sua teologia suonano estranei al cuore e alla vita degli uomini e delle donne di oggi. È diventato come una lingua straniera. E credere risulta ogni giorno più difficile», come scrive il teologo Armando Matteo. Se il cattolicesimo di Chiesa che tanto aveva reso «bianco» il Veneto oggi è divenuto estraneo come una lingua straniera, ciò è dovuto anche al fatto che è evaporata l’organizzazione territoriale che tale lingua doveva parlare e diffondere, cioè le parrocchie. Che certamente in teoria esistono ancora numerose, ma svuotate di clero e di fedeli. Dove le chiese appaiono sempre più utilizzate per i funerali, cerimonie frequenti che risentono di una demografia invecchiata e di un evento di fine vita che non ha molte alternative celebrative. Per il resto parlano i dati impietosi prodotti dall’Osservatorio socioreligioso triveneto. Nel 1970, quando ormai molte cose cambiavano, solo 15 erano le parrocchie venete senza pastore: oggi sono 235 e di più saranno in futuro. Il motivo è semplice e sta nel crollo delle vocazioni: sempre nel 1970 vennero ordinati 242 nuovi preti, nel 2016 solo 37. Tutto ciò comporta due conseguenze: da un lato un clero sempre più ridotto (il calo è del 28% rispetto al ‘70) ed invecchiato, con tutte le ovvie conseguenze che ciò comporta in termini di efficacia pastorale, specie nel rapporto con i giovani, il segmento notoriamente più difficile per la catechesi. Dall’altro la «lingua» della fede, fatta di liturgie, omelie, tradizioni, precetti, sempre meno trova nel clero e nelle parrocchie (e nei parrocchiani) gli utilizzatori. Per cui diventa una lingua arcaica, anacronistica, incomprensibile ai più. Nella nostra epoca detta dell’«umanesimo esclusivo» si pensa di «mettersi in proprio» senza dover ricorrere all’ipotesi Dio. Allora le lingue in auge si fanno diverse, sono quelle della libertà, del benessere, dell’espressività, dell’autorealizzazione. Per queste lingue le parrocchie come organizzazioni della fede decisamente non servono”. “La società dei viventi terminali che non fa figli e non accoglie. Implicazioni sociali e culturali del declino demografico in Europa” è il titolo (e tema) del pezzo di Eugenio Mazzarella su Avvenire di oggi. Ecco le sue considerazioni: “Prima nascere. Decliniamo ogni giorno, su tutti i registri, il diritto alla vita, e giustamente. Ma perché la vita possa avere diritti, c’è bisogno che nasca. Un’ovvietà non scontata proprio in quel pezzo di mondo che ci riguarda – l’Europa, l’Italia –, che l’idea stessa della vita e dei suoi diritti ha generato, e che per i suoi tassi di natalità vede oggi a repentaglio il proprio futuro. Che è poi il futuro della 'civilizzazione' che a quei diritti ha dato storia e voce. I l che vuol dire per l’Europa il dovere inderogabile di sostenere la tenuta demografica, almeno a livello di mero rimpiazzo, dei propri 'popoli', che detto in modo più articolato sono le società, anche con la loro fisiologia di meticciato etnico- culturale, che le sostanziano. Perché sarebbe singolare che una civilizzazione – quella europea – in cui è emersa l’idea stessa di diritto dei 'popoli', di tutti e degli altri, com’è giusto, non sostenga il diritto del 'proprio' popolo, della propria comunità 'organica'. Che oggi certo, nel mondo globalizzato, non è e non può essere solo – sia detto per evitare polemiche ideologiche a priori – l’organicità di uno ius sanguinis legato a un suolo, un’organicità etnico-biologica collocata in una sua geografia storica, ma non può non essere 'anche' questo; non può non essere cioè almeno uno 'stile di

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 10 ottobre 2019

SOMMARIO

“Ci fu, un tempo, un Veneto a misura parrocchiale – osserva il sociologo Vittorio Filippi sul Corriere del Veneto di oggi -. Letteralmente. In cui cioè la parrocchia

ritagliava non solo i territori, ma organizzava le coscienze e faceva le comunità. Una fabbrica per campanile si diceva, un binomio in cui la fabbrica produceva il benessere

materiale ed il campanile quello spirituale. Ma anche psicologico e sociale. Questo tempo è passato: il suo declino è avvenuto a partire dagli anni sessanta, in paradossale coincidenza con il Vaticano secondo: lentamente, silenziosamente, è avvenuto che «Il

cristianesimo non si intende più da sé. Le sue parole centrali, i suoi gesti, la sua morale e la sua teologia suonano estranei al cuore e alla vita degli uomini e delle

donne di oggi. È diventato come una lingua straniera. E credere risulta ogni giorno più difficile», come scrive il teologo Armando Matteo. Se il cattolicesimo di Chiesa che

tanto aveva reso «bianco» il Veneto oggi è divenuto estraneo come una lingua straniera, ciò è dovuto anche al fatto che è evaporata l’organizzazione territoriale che tale lingua doveva parlare e diffondere, cioè le parrocchie. Che certamente in teoria esistono ancora numerose, ma svuotate di clero e di fedeli. Dove le chiese

appaiono sempre più utilizzate per i funerali, cerimonie frequenti che risentono di una demografia invecchiata e di un evento di fine vita che non ha molte alternative

celebrative. Per il resto parlano i dati impietosi prodotti dall’Osservatorio socioreligioso triveneto. Nel 1970, quando ormai molte cose cambiavano, solo 15

erano le parrocchie venete senza pastore: oggi sono 235 e di più saranno in futuro. Il motivo è semplice e sta nel crollo delle vocazioni: sempre nel 1970 vennero ordinati

242 nuovi preti, nel 2016 solo 37. Tutto ciò comporta due conseguenze: da un lato un clero sempre più ridotto (il calo è del 28% rispetto al ‘70) ed invecchiato, con tutte le

ovvie conseguenze che ciò comporta in termini di efficacia pastorale, specie nel rapporto con i giovani, il segmento notoriamente più difficile per la catechesi.

Dall’altro la «lingua» della fede, fatta di liturgie, omelie, tradizioni, precetti, sempre meno trova nel clero e nelle parrocchie (e nei parrocchiani) gli utilizzatori. Per cui diventa una lingua arcaica, anacronistica, incomprensibile ai più. Nella nostra epoca

detta dell’«umanesimo esclusivo» si pensa di «mettersi in proprio» senza dover ricorrere all’ipotesi Dio. Allora le lingue in auge si fanno diverse, sono quelle della

libertà, del benessere, dell’espressività, dell’autorealizzazione. Per queste lingue le parrocchie come organizzazioni della fede decisamente non servono”.

“La società dei viventi terminali che non fa figli e non accoglie. Implicazioni sociali e culturali del declino demografico in Europa” è il titolo (e tema) del pezzo di Eugenio

Mazzarella su Avvenire di oggi. Ecco le sue considerazioni: “Prima nascere. Decliniamo ogni giorno, su tutti i registri, il diritto alla vita, e giustamente. Ma perché la vita possa avere diritti, c’è bisogno che nasca. Un’ovvietà non scontata proprio in

quel pezzo di mondo che ci riguarda – l’Europa, l’Italia –, che l’idea stessa della vita e dei suoi diritti ha generato, e che per i suoi tassi di natalità vede oggi a repentaglio il proprio futuro. Che è poi il futuro della 'civilizzazione' che a quei diritti ha dato storia

e voce. I l che vuol dire per l’Europa il dovere inderogabile di sostenere la tenuta demografica, almeno a livello di mero rimpiazzo, dei propri 'popoli', che detto in

modo più articolato sono le società, anche con la loro fisiologia di meticciato etnico-culturale, che le sostanziano. Perché sarebbe singolare che una civilizzazione – quella

europea – in cui è emersa l’idea stessa di diritto dei 'popoli', di tutti e degli altri, com’è giusto, non sostenga il diritto del 'proprio' popolo, della propria comunità

'organica'. Che oggi certo, nel mondo globalizzato, non è e non può essere solo – sia detto per evitare polemiche ideologiche a priori – l’organicità di uno ius sanguinis

legato a un suolo, un’organicità etnico-biologica collocata in una sua geografia storica, ma non può non essere 'anche' questo; non può non essere cioè almeno uno 'stile di

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vita' che connota uno spazio geopolitico, e che se vuole rimanere aperto sulla scena geopolitica del mondo globale deve sapersi riprodurre; il che nient’altro significa che generare e assimilare, cioè 'ri-generarsi', sia sul piano etnico che culturale: fare figli e, proprio per questo, avere meno timore di accogliere i figli degli 'altri'. La vita, la propria vita come una comunità organica definita da uno stile di vita, un’identità 'nazionale', la si difende non sparando sui barconi della speranza degli altri, ma

dondolando le culle, a cominciare dalle proprie. 'Stile di vita': al di là del politicamente corretto polemico, qualcosa che una delle deleghe previste per la sua

Commissione dalla neo presidente Ursula von der Leyen voleva mettere al centro delle politiche di sviluppo e difesa dell’Europa. L’utilizzo perverso, ideologico-politico

contingente di questo problema (al centro del discorso di sovranismi e popu- lismi nazionalistici) non ci può esimere dal vederlo e dall’affrontare il dato sostantivo, e

non lessicale, che ci pone davanti. E gran parte di questa visione e di questa gestione passa per il sostegno alla natalità europea, e per quanto ci riguarda, italiana. Il che

significa un sostegno alla famiglia generativa, riproduttiva, che 'fa figli', che garantisca all’uomo 'europeo' (e 'italiano') di evitare - o almeno limitare - la sua decrescita

prevista dagli studi dal 10% della sua presenza sul pianeta oggi, al 7% di quella attesa a fine di questo secolo. Che in Italia significherà passare dagli attuali 61 milioni di

individui a circa 39, a ordini di valori più o meno di un secolo fa. Questo è il punto attorno a cui ruota il senso stesso di lavorare e pensare a un futuro in Europa e in

Italia. Nelle società europee, e tanto più in quella italiana, che ha uno dei più bassi indici di natalità del continente, avanza sempre più il tipo sociale proprio alle società in recessione demografica del 'vivente terminale', di individui non più portatori di un

progetto genitoriale. Individui biologicamente a scadenza in se stessi, senza 'discendenza'. Una figura sociale sempre più diffusa, che ha ragioni complesse in

condizioni socio-economiche oggettive che impediscono o disincentivano la genitorialità, ma anche in preferenze e stili di vita soggettivi per lo più introiettati

senza neppure la consapevolezza di non starsela scegliendo la propria vita, tutta volta a una autorealizzazione generativamente autoreferenziale, ma di starsela facendo prescrivere da una società, che nella generatività dei suoi membri – nell’impegno

progettuale di una famiglia stabile che mette al mondo figli – vede una dis-economia produttiva. Una visione che condiziona la vita e che ha sua ideologia, anche questa prescrittagli, basata sull’autorealizzazione dell’esistenza come liberazione da ogni

vincolo che ne tarpi le possibilità, che possa togliere qualcosa a quel che si può godere al 'presente'. Abbiamo costruito le società del 'vivente terminale': sono un

sistema di produzione e riproduzione sociale, che trova non solo funzionale ma più economico – anziché sostenere la propria dinamica demografica – 'approvvigionarsi'

altrove di quelle che vengono definite 'riserve popolazionali' (di popolazione, cioè, di nuovi individui) necessarie al mantenimento dei propri standard produttivi (finché ovviamente questo approvvigionamento sarà possibile, e il modello dominante non

sarà divenuto standard globale, a cominciare dalla sua acquisizione – tempo una o due generazioni – dai 'migrati' nelle società del 'vivente terminale'). Ma i membri di questi nostri consorzi umani che interesse potranno avere al loro futuro? Quale altro se non quello, angosciato, di invecchiare bene senza che al loro futuro, sempre più ristretto,

'rubino' risorse proprio le riserve di popolazione chiamate 'a servizio' per reggere e pagare fette crescenti di un welfare in cui 'vengono prima loro', i vecchi cittadini, anche se producono sempre meno? Può interessarsi davvero al futuro dei figli una

società che non li genera? E come può essere accogliente una società che non accoglie neanche più se stessa? Prima queste domande arriveranno, con soluzioni adeguate, nell’agenda politica europea, e dei suoi governi nazionali, e meglio sarà per tutti”

(a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO La Chiesa dal volto amazzonico e i nuovi ministeri di Andrea Tornielli

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Violazioni sistematiche La denuncia nella quarta congregazione generale di martedì pomeriggio Più impegno per i diritti dei popoli indigeni L’auspicio durante la quinta congregazione generale del Sinodo dei Vescovi Non trasformare la religione in ideologia All’udienza generale il Papa invita i cristiani ad andare «incontro» agli altri e non «contro» gli altri AVVENIRE Pag 21 Amazzonia, quelli ecologici sono peccati gravi. “Si riconosca concretamente il ruolo della donna” di Stefania Falasca LA REPUBBLICA Pag 19 Müller: “Nemmeno il Papa può abolire il celibato dei preti” di Paolo Rodari Il cardinale leader dei conservatori Pag XIII L'abate con la laurea in Fisica. "Scienza e fede, andate in pace" di Elena Dusi IL FOGLIO Pag III Te lodiamo, Trinità di mat. Mat. Al Sinodo si discute di medicina amazzonica, ma per tutto il giorno in realtà tiene botta il caso Scalfari LA NUOVA Pag 27 Abusi sui minori, riflessione dei vescovi Incontro a Zelarino 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO LA REPUBBLICA Pag 8 Gli italiani si sono abituati all'insicurezza del lavoro di Ilvo Diamanti AVVENIRE Pag 3 La società dei viventi terminali che non fa figli e non accoglie di Eugenio Mazzarella Implicazioni sociali e culturali del declino demografico in Europa Pag 24 Transumano: ma davvero è bello tutto ciò che è nuovo? di Giuseppe O. Longo 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 8 Tassa di sbarco, un altro rinvio. Nuove tariffe e sarà “volontaria” di Francesco Bottazzo Pag 9 La scommessa di Scola, l’ex patriarca torna a Mestre di m.ri. Il libro a M9 Pag 13 Il Leonardo della discordia di Fiorella Girardo Il caso dell’Uomo Vitruviano: i retroscena del prestito (negato) IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XVI Jesolo, la Lega: “I soldi per le parrocchie? Un obbligo imposto dalla Regione” di F.Cib.

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LA NUOVA Pag 39 La scommessa sulla liberrtà del Cardinale Angelo Scola 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Perché le chiese si svuotano di Vittorio Filippi Nordest che cambia IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XVI Il cardinale agita l’Itis Volterra di Davide De Bortoli Contestata da alcuni insegnanti la visita odierna di Leo Burke, dell’ala più conservatrice della Chiesa 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 36 di Gente Veneta in uscita venerdì 11 ottobre 2019:

Pagg 1, 15 Ac, la marcia in più per chi lavora di Marco Zane Sordi: «Uno dell’associazione lo riconosci subito». La testimonianza di un giovane professionista mestrino: l’esperienza in Azione cattolica ha valore a 360° Pag 1 Il lavoro del futuro in città? Cameriere e netturbino di Serena Spinazzi Lucchesi Pag 4 Luigi, Gianfranco, Samir, Elisa: nelle loro mani il testo di pace di Alessandro Polet Patriarca e Imam di Venezia si sono incontrati per consegnare alla città il Documento sulla Fratellanza umana firmato da Papa Francesco e dal grande Imam di Al-Azhar. L’Imam: «Siamo sulla stessa barca, siamo sulla stessa strada. Nella diversità di lingue, di colori e di fedi. Ma siamo fratelli nella stessa umanità». Il Patriarca: «L’uomo tende a prevaricare e porre il suo io come misura di tutto; le religioni ci aiutano a cogliere il nostro io in una dimensione limitata» Pag 7 Peter e la sclerosi: «La mia malattia non mi ha abbattuto» di Giovanni Carnio Ha 40 anni e da tre si muove solo in carrozzina. «Spero nei nuovi farmaci, ma vorrei soprattutto sentirmi utile. Ho perso il lavoro e non trovo nulla. Vado al centro diurno, ho scoperto la bellezza del volontariato e ho trovato un’amica. Non penso mai al suicidio, credo che conti più di tutto la qualità» Pag 8 Un ascolto spirituale della Parola del Signore ci fa comprendere l’esistenza come storia di salvezza di Sandro Vigani Papa Francesco istituisce la Domenica della Parola Pag 11 Ridisegnata la geografia dei vicariati: si passa da 13 a 9 di Alessandro Polet A Mestre un raggruppamento di 130 mila abitanti. La laguna si divide in due nuove realtà. Immutati i vicariati di Marghera, Riviera e Litorale. Mons. Memo: «La riconfigurazione si comprende nel cammino delle collaborazioni pastorali». In corso le consultazioni per la nomina dei nuovi Vicari Pag 22 La “piastra” sulla stazione: «Mancano una piazza e un parco» di Gino Cintolo Assemblea in parrocchia della Risurrezione, martedì 8, per conoscere e discutere il progetto che collegherà Mestre e Marghera, portando anche alla creazione di due hotel, abitazioni, un parcheggio multipiano da mille posti e negozi. «Piazza e giardino per

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accrescere le occasioni di relazione» Pag 29 Censiti solo 450 delfini nel mare su cui si affaccia il Veneto di Maria Giovanna Romanelli Lo zoologo Bearzi: «Acque troppo sfruttate dalla pesca; così i delfini calano di numero». Il punto sui cetacei dell’Adriatico, contati grazie al fatto che le loro pinne dorsali sono tutte diverse … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il reddito ora va riparato di Dario Di Vico Errori e paradossi Pag 1 Vietato distrarsi di Paolo Lepri Pag 25 Erion, Marie e gli altri immigrati. Quelli che assumono gli italiani di Goffredo Buccini In 1600 ce l’hanno fatta. Ma dal 2011 gli ingressi legali per lavoro sono praticamente chiusi Pag 32 Impeachment, clima rovente. E il peggio deve ancora venire di Ian Bremmer AVVENIRE Pag 1 Ciò che i giudici hanno detto di Mario Chiavario Ergastolo: rigore, dignità, speranza Pag 1 Ciò che spetta alla giustizia di Danilo Paolini Ergastolo: diritto certo, non resa ai boss Pag 3 Rifiuti, mafie e fuochi. Veleno a Nord e a Sud di Antonio Maria Mira Cambiano le tratte dei traffici criminali degli scarti IL GAZZETTINO Pag 1 La trattativa in due fasi per la legge elettorale di Alberto Gentili ed Emilio Pucci LA NUOVA Pag 7 E’ l’egemonia culturale grillina. Ora la palla passa al Pd di Massimiliano Panarari

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO La Chiesa dal volto amazzonico e i nuovi ministeri di Andrea Tornielli Dagli interventi in aula in questi primi giorni del Sinodo, accanto al grido delle popolazioni indigene che chiedono di essere rispettate invocando attenzione e cura per il creato, emerge un altro grido. È quello delle comunità cristiane disseminate in territori vastissimi. È quello dei pastori che con una decina di sacerdoti soltanto devono assistere anche 500 comunità sparse in centomila chilometri quadrati, con notevoli difficoltà di spostarsi da una parte all’altra. È stato evidenziato e criticato un modo di affrontare questo tema senza il cuore del pastore. L’approccio che non parte da quel grido e non lo fa proprio, che non parte dalla esigenza di quei cristiani ai quali non è dato di celebrare

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l’eucaristia se non una o due volte l’anno, cristiani che non possono confessarsi e non hanno il conforto del sacerdote in punto di morte. Ogni riflessione, ogni tentativo di risposta, ogni confronto tra posizioni diverse su questo argomento dovrebbe dunque far propria questa sofferenza. Una situazione che ha caratteristiche proprie, non sovrapponibili ad altre: il Sinodo sull’evangelizzazione dell’Amazzonia è chiamato dunque a proporre delle possibili risposte. Una di queste, com’è noto, è la possibilità di aprire - come eccezione e in via sperimentale - all’ordinazione sacerdotale di uomini anziani di provata fede (non di abolire o rendere opzionale il celibato permettendo ai sacerdoti di sposarsi). Ma non si tratta dell’unica via percorribile, nonostante sia quella su cui si concentra il dibattito mediatico. Ci sono infatti anche altre vie e altre risposte al grido di quelle comunità che riguardano, ad esempio, una maggiore valorizzazione del diaconato permanente conferito a uomini sposati, cercando di far crescere e formare adeguatamente vocazioni indigene. Quella di una formazione adeguata per i ministri ordinati, i religiosi e i laici è infatti un’esigenza emersa più volte negli interventi in aula. È stata evidenziata, ad esempio, la possibilità di nuovi ministeri per i laici e in particolare per le donne, riconoscendo la straordinaria dedizione di tante religiose che consumano la loro vita al servizio delle comunità amazzoniche. È l’eucaristia che fa la Chiesa, è la celebrazione eucaristica il cuore, la fonte e il fondamento della vita comunitaria. Ma, con la creatività dello Spirito, là dove il sacerdote non può essere presente, si potrebbe pensare - è stato detto - a nuovi ministeri che corrispondano alle necessità dei popoli amazzonici per predicare la Parola, dirigere le comunità, accompagnare nei sacramenti del battesimo, del matrimonio e dell’unzione degli infermi, e presiedere le liturgie delle esequie. Nuovi cammini che dovrebbero coinvolgere innanzitutto gli indigeni come agenti pastorali, come diaconi permanenti e come nuovi ministri non ordinati capaci di riconoscere i doni che il Signore ha fatto ai membri delle comunità native. Il Sinodo è in cammino. Violazioni sistematiche La denuncia nella quarta congregazione generale di martedì pomeriggio La violazione sistematica dei diritti dei popoli originari dell’Amazzonia e la vita a rischio dell’intera regione, ferita nel suo habitat, sono stati al centro della riflessione della quarta congregazione del Sinodo dei vescovi, con cui si è conclusa, nel pomeriggio di martedì 8 ottobre, la seconda giornata di lavori del Sinodo speciale. Anche questa sessione si è svolta alla presenza dal Papa, con la partecipazione di 182 padri. Presidente delegato di turno era il cardinale Barreto Jimeno, sedici sono stati gli interventi programmati e nove quelli liberi. Nell’aula forte è risuonato l’appello affinché la Chiesa con la sua voce autorevole in ambito morale e spirituale tuteli sempre la vita, denunciando le tante strutture di morte che la minacciano. Gli intervenuti hanno ribadito il loro fermo “no” all’individualismo o all’indifferenza che fa guardare la realtà da spettatori, come in uno schermo, e il “sì” a una conversione ecologica centrata sulla responsabilità e su un’ecologia integrale che ponga al centro innanzitutto la dignità umana, troppe volte calpestata. La situazione inaccettabile del degrado ambientale nella regione - è stata la denuncia - va affrontata in modo serio da tutta la comunità internazionale, spesso indifferente di fronte allo spargimento di sangue innocente. Le popolazioni native, custodi delle riserve naturali, evangelizzate con la croce di Cristo, vanno considerate alleate nella lotta ai cambiamenti climatici, in un’ottica sinodale, ovvero di cammino “insieme”, in amicizia. Nell’intervento di un delegato fraterno a tal proposito è stata messa in luce la necessità di unire le forze e porsi in dialogo, perché l’amicizia - ha detto - «rispetta, protegge e cura». Da più parti è arrivato l’invito alla Chiesa a divenire alleata dei movimenti sociali di base, a porsi in ascolto umile e accogliente nei confronti della cosmovisione amazzonica, e a comprendere il diverso significato, rispetto alla tradizione occidentale, dato dalle culture locali a simboli rituali. È stato auspicato uno sviluppo sostenibile che sia socialmente giusto e inclusivo e che combini conoscenze scientifiche e tradizionali, perché il futuro dell’Amazzonia, realtà viva e non museale, è nelle mani degli uomini. Invocata, inoltre, una conversione ecologica che faccia percepire la gravità del peccato contro l’ambiente alla stregua di un peccato contro Dio, contro il prossimo e le future generazioni. Da qui la proposta di approfondire e divulgare una letteratura teologica che includa insieme a quelli

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tradizionalmente noti anche i “peccati ecologici”. Un appello a unire le forze nella formazione dei missionari amazzonici, laici e consacrati, ha contribuito ad arricchire la riflessione sui ministeri. Appare infatti necessario ai padri sinodali coinvolgere di più i popoli indigeni nell’apostolato a cominciare dalla promozione del diaconato indigeno permanente e dalla valorizzazione del ministero laicale, intesi come autentica manifestazione dello Spirito Santo. E in proposito è stato richiesto inoltre un maggiore coinvolgimento della presenza femminile nella Chiesa. Il tema dei criteri di ammissione al ministero ordinato è tornato in più di un intervento. C’è chi ha esortato alla preghiera per le vocazioni, immaginando la trasformazione dell’Amazzonia in grande santuario spirituale dal quale innalzare l’invocazione al “Padrone della messe” affinché mandi nuovi operai per l’annuncio del Vangelo. L’insufficienza numerica dei presbiteri - è stato rilevato - è un problema non solo amazzonico, ma comune a tutto il mondo cattolico. Da qui l’invito a un serio esame di coscienza su come oggi si vive la vocazione sacerdotale. La mancanza di santità infatti è ostacolo alla testimonianza evangelica: non sempre i pastori portano con loro il profumo di Cristo e finiscono per allontanare le pecore che sono chiamati a guidare. Evidenziato anche l’esempio luminoso dei martiri dell’Amazzonia, come quello di due servi di Dio uccisi nello Stato brasiliano di Mato Grosso: il salesiano Rudolf Lunkenbein e il laico Simão Cristino Koge Kudugodu. Conversione ecologica è infatti in primis conversione alla santità. Questa ha un enorme potere attrattivo tra i giovani, per i quali si sollecita una rinnovata pastorale, più dinamica e attenta. Si desidera che siano poste in luce, anche tramite i media, le tante testimonianze di buoni sacerdoti e non solo gli scandali esistenti che purtroppo occupano tante pagine di giornali. Inoltre se piaghe come violenza, droga, prostituzione, disoccupazione e vuoto esistenziale minacciano le nuove generazioni, andrebbe rimarcato come non manchino esempi positivi di tanti giovani cattolici. Occhi puntati anche sul tema dell’immigrazione, che in Amazzonia ha molteplici volti, ma che sempre esige un’azione ecclesiale coordinata, fondata sull’accoglienza, la protezione, la promozione e l’integrazione. La quarta congregazione si era aperta con la preghiera di tutta l’assemblea per il cardinale brasiliano Serafim Fernandes de Araújo, morto novantacinquenne a Belo Horizonte. Guidati dal Papa, i padri sinodali hanno elevato un Padre Nostro, un’Ave Maria, un Gloria e l’eterno riposo per il porporato defunto. Più impegno per i diritti dei popoli indigeni L’auspicio durante la quinta congregazione generale del Sinodo dei Vescovi Nella regione amazzonica esistono circa 150 popoli, o porzioni di popolazioni indigene, che non hanno alcun contatto sistematico o permanente con l’ambiente sociale circostante. Questa realtà è stata portata all’attenzione dei 174 padri presenti alla quinta congregazione generale - svoltasi nella mattina di mercoledì 9 ottobre, nell’aula del Sinodo (non era presente Papa Francesco per la concomitanza con l’udienza generale) - insieme alla richiesta esplicita di assicurare strumenti giuridici e legali per garantire il loro diritto all’autodeterminazione e tutelare l’inviolabilità dei territori minacciati dall’estrattivismo predatorio. A questo scopo è stata proposta, tra l’altro, l’istituzione di un osservatorio ecclesiale internazionale dei diritti umani che dedichi particolare attenzione ai popoli “isolati” e, in generale, a quelli più vulnerabili. La salute integrale dell’Amazzonia è stata uno dei primi temi affrontati dall’assemblea, che ha iniziato i suoi lavori - moderati del presidente delegato di turno, il cardinale Braz de Aviz - con la recita dell’ora terza, dedicata in particolare alla preghiera per l’Ecuador e accompagnata da una breve omelia dell’arcivescovo boliviano di Cochabamba, monsignor Oscar Omar Aparicio Céspedes. Il modello di sviluppo del capitalismo che distrugge la natura, gli incendi che stanno devastando la regione, la corruzione, la deforestazione e le coltivazioni illegali - è stato evidenziato - minacciano sia la salute delle persone sia quelle del territorio e di tutto il pianeta, provocando anche l’apparizione di nuove malattie legate all’inquinamento ambientale. In proposito è stato sottolineato il valore della medicina tradizionale, che può costituire un’alternativa alla medicina occidentale. È stata poi posta in luce la lentezza con cui a volte la Chiesa individua e fa proprie le esigenze della popolazione. Capita, infatti, che essa sia distante dai popoli locali; e tale vuoto viene riempito spesso dalla proposta delle Chiese neopentecostali. Urgente e irrinunciabile resta comunque il dialogo ecumenico e interreligioso: un dialogo rispettoso

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e fecondo rappresenta, infatti, una dimensione fondamentale per la Chiesa in uscita nella regione panamazzonica, caratterizzata da un contesto multiculturale. A tale proposito, il rapporto tra inculturazione e interculturazione è stato più volte richiamato dagli interventi dei padri. I quali hanno messo in guardia dall’atteggiamento di imposizione dall’alto di una singola cultura, invitando piuttosto all’accoglienza dell’altro e a una salutare decentralizzazione in un’ottica sinodale. La Chiesa, senza nascondere le difficoltà oggettive che incontra sul proprio cammino, deve essere missionaria, avere un volto indigeno e favorire una logica secondo cui la periferia si fa centro e il centro si fa periferia, in un movimento di mutua trasformazione. In un’ottica sinodale si inserisce anche l’appello a un maggiore coinvolgimento dei laici nella vita ecclesiale, che potrebbe essere favorito dalla creazione di nuovi ministeri più rispondenti alle necessità dei popoli amazzonici: da qui la sollecitazione a una maggiore creatività da parte della Chiesa, con la proposta di una ministerialità ricca e multiforme tra le popolazioni locali. È stato osservato che già dal concilio Vaticano II sono stati chiesti maggiori sforzi a favore di un’inculturazione della liturgia, con celebrazioni rispettose sia delle tradizioni e delle lingue dei popoli locali, sia del messaggio integrale del Vangelo. In ogni caso, serve un attento discernimento da parte dei vescovi, in modo che non venga esclusa a priori alcuna soluzione, neanche quella dell’ordinazione di uomini sposati. È stata data voce, poi, alla richiesta di molti seminaristi, desiderosi di una formazione affettiva mirata a curare le ferite lasciate dalla rivoluzione sessuale: oggi in tanti hanno voglia di riscoprire e conoscere più a fondo il valore del celibato e della castità. E su questo la Chiesa è stata invitata a non tacere e a offrire generosamente il proprio tesoro dottrinale, che trasforma i cuori di chi è disposto ad accoglierlo. Dall’assemblea è venuta anche una ferma presa di posizione contro la dilagante violenza sulle donne. Ed è stata lanciata l’idea di istituire un ministero laicale femminile per l’evangelizzazione. Occorre infatti promuovere una partecipazione più attiva della donna alla vita della Chiesa in un’ottica samaritana. Più in generale, per i padri sinodali va perseguita l’unità nella diversità secondo l’immagine del poliedro più volte suggerita da Papa Francesco. Nell’aula è risuonato l’invito a passare da una pastorale della visita a una pastorale della presenza e dell’ascolto, proclamando la tenerezza divina e promuovendo la cura della casa comune non solo tra i fedeli ma anche tra chi è lontano e la pensa in maniera diversa. Su Gesù vanno radicati i valori della fraternità universale, dell’ecologia integrale e degli stili di vita ispirati al “buon vivere” come risposta all’egoismo di tante proposte che caratterizzano l’epoca moderna. Di fronte alla tragedia climatica denunciata a livello globale, il Sinodo diventa così un momento di grazia e una grande opportunità per la Chiesa, chiamata a promuovere una conversione ecologica e un’educazione integrale. All’attenzione dei padri sinodali è stata riproposta anche la questione delle migrazioni, le cui cause fondamentali - sociopolitiche, climatiche, economiche o legate alla persecuzione etnica - esigono un approccio pastorale specifico. L’imposizione di un modello occidentale estrattivista nei Paesi amazzonici colpisce le famiglie e forza i giovani a spostarsi nelle città. A partire da questa realtà, la Chiesa ha il compito di dar vita a una pastorale urbana. Nel dibattito si è parlato anche del valore della teologia india, con riferimento all’appello del Papa a plasmare una Chiesa dal volto indigeno, in grado di rileggere gli elementi essenziali dell’universo cattolico in chiave indigena. È stata proposta, infine, la creazione di maggiori riserve naturali per custodire sia la biodiversità sia la pluralità delle culture amazzoniche. Al termine della sessione mattutina si è svolto il consueto briefing nella Sala stampa della Santa Sede, moderato dal vicedirettore Cristiane Murray. Insieme con il prefetto del Dicastero per la comunicazione Ruffini e il segretario della Commissione per l’informazione, il gesuita Costa, sono intervenuti lo scienziato brasiliano Carlos Afonso Nobre, premio Nobel per la pace 2007 e membro da Comissão de Ciências Ambientais do Conselho Nacional de Desenvolvimento Científico e Tecnológico (Cnpq), la brasiliana Ima Célia Guimarães Vieira, membro della Commissione nazionale per l’ambiente (Conama), e il vescovo Erwin Kräutler, dei missionari del Preziosissimo sangue, prelato emerito di Xingu. Non trasformare la religione in ideologia All’udienza generale il Papa invita i cristiani ad andare «incontro» agli altri e non «contro» gli altri

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«Come vivo la mia vita di fede? Vado incontro agli altri oppure sono contro gli altri?»: a questi interrogativi è chiamato a rispondere ogni cristiano alla luce dell’esperienza di conversione di san Paolo. Lo ha sottolineato Papa Francesco all’udienza generale di mercoledì mattina 9 ottobre in piazza San Pietro, proseguendo il ciclo di catechesi sugli Atti degli Apostoli. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! A partire dall’episodio della lapidazione di Stefano, compare una figura che, accanto a quella di Pietro, è la più presente ed incisiva negli Atti degli Apostoli: quella di «un giovane, chiamato Saulo» (At 7, 58). È descritto all’inizio come uno che approva la morte di Stefano e vuole «distruggere la Chiesa» (cfr. At 8, 3); ma poi diventerà lo strumento scelto da Dio per annunciare il Vangelo alle genti (cfr. At 9, 15; 22, 21; 26, 17). Con l’autorizzazione del sommo sacerdote, Saulo dà la caccia ai cristiani e li cattura. Voi, che venite da alcuni popoli che sono stati perseguitati dalle dittature, voi capite bene cosa significa dare la caccia alla gente e catturarla. Così faceva Saulo. E questo lo fa pensando di servire la Legge del Signore. Dice Luca che Saulo “spirava” «minacce e stragi contro i discepoli del Signore» (At 9, 1): in lui c’è un soffio che sa di morte, non di vita. Il giovane Saulo è ritratto come un intransigente, cioè uno che manifesta intolleranza verso chi la pensa diversamente da sé, assolutizza la propria identità politica o religiosa e riduce l’altro a potenziale nemico da combattere. Un ideologo. In Saulo la religione si era trasformata in ideologia: ideologia religiosa, ideologia sociale, ideologia politica. Solo dopo essere stato trasformato da Cristo, allora insegnerà che la vera battaglia «non è contro la carne e il sangue, ma contro [...] i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male» (Ef 6, 12). Insegnerà che non si devono combattere le persone, ma il male che ispira le loro azioni. La condizione rabbiosa - perché Saulo era rabbioso - e conflittuale di Saulo invita ciascuno a interrogarsi: come vivo la mia vita di fede? Vado incontro agli altri oppure sono contro gli altri? Appartengo alla Chiesa universale (buoni e cattivi, tutti) oppure ho una ideologia selettiva? Adoro Dio o adoro le formulazioni dogmatiche? Com’è la mia vita religiosa? La fede in Dio che professo mi rende amichevole oppure ostile verso chi è diverso da me? Luca racconta che, mentre Saulo è tutto intento ad estirpare la comunità cristiana, il Signore è sulle sue tracce per toccargli il cuore e convertirlo a sé. È il metodo del Signore: tocca il cuore. Il Risorto prende l’iniziativa e si manifesta a Saulo sulla via di Damasco, evento che viene narrato per ben tre volte nel Libro degli Atti (cfr. At 9, 3-19; 22, 3-21; 26, 4-23). Attraverso il binomio «luce» e «voce», tipico delle teofanie, il Risorto appare a Saulo e gli chiede conto della sua furia fratricida: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9, 4). Qui il Risorto manifesta il suo essere una cosa sola con quanti credono in Lui: colpire un membro della Chiesa è colpire Cristo stesso! Anche coloro che sono ideologi perché vogliono la “purità” - tra virgolette - della Chiesa, colpiscono Cristo. La voce di Gesù dice a Saulo: «Alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare» (At 9, 6). Una volta in piedi, però, Saulo non vede più nulla, è diventato cieco, e da uomo forte, autorevole e indipendente diventa debole, bisognoso e dipendente dagli altri, perché non vede. La luce di Cristo lo ha abbagliato e reso cieco: «Appare così anche esteriormente ciò che era la sua realtà interiore, la sua cecità nei confronti della verità, della luce che è Cristo» (Benedetto XVI, Udienza generale, 3 settembre 2008). Da questo “corpo a corpo” tra Saulo e il Risorto prende il via una trasformazione che mostra la “pasqua personale” di Saulo, il suo passaggio dalla morte alla vita: ciò che prima era gloria diventa «spazzatura» da rigettare per acquistare il vero guadagno che è Cristo e la vita in Lui (cfr. Fil 3, 7-8). Paolo riceve il Battesimo. Il Battesimo segna così per Saulo, come per ciascuno di noi, l’inizio di una vita nuova, ed è accompagnato da uno sguardo nuovo su Dio, su sé stesso e sugli altri, che da nemici diventano ormai fratelli in Cristo. Chiediamo al Padre che faccia sperimentare anche a noi, come a Saulo, l’impatto con il suo amore che solo può fare di un cuore di pietra un cuore di carne (cfr. Ez 11, 15), capace di accogliere in sé «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2, 5). AVVENIRE Pag 21 Amazzonia, quelli ecologici sono peccati gravi. “Si riconosca concretamente il ruolo della donna” di Stefania Falasca

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«Come si può pensare che questo golpe all’ecosistema, che ha violentato la vita delle persone che lì vivono, per costruire una centrale idroelettrica, di cui non abbiamo alcun bisogno, possa essere spacciata per sviluppo ed energia pulita?». Si alza chiara e forte la voce di Erwin Kräutler, vescovo prelato emerito di Xingu, quando parla della tragedia che colpito la sua diocesi: quella della diga di Belo Monte sul fiume Xingu, la seconda più grande centrale idroelettrica del Brasile e la quarta più grande nel mondo per capacità installata, che ha trasformato per sempre e distrutto l’ambiente e le popolazioni indigene e fluviali che vi abitavano. Parla senza mezzi termini di “ecocidio”, di “peccati ecologici” a danno della Creazione il vescovo brasiliano nel briefing di ieri sul Sinodo per l’Amazzonia. «Sì, si è parlato di questi peccati» riferisce il prefetto del Dicastero della comunicazione, Paolo Ruffini riferendo i temi affrontati nel corso della quarta Congregazione generale del Sinodo. «Peccati gravi perché offendono Dio e l’uomo» ha affermato il prefet- to riferendo quanto emerso dall’assemblea sinodale: «Che la Chiesa faccia sentire la propria voce in difesa dei popoli indigeni vessati dell’Amazzonia e allo stesso tempo faccia comprendere l’importanza dei cosiddetti peccati ecologici, tra cui l’ecocidio». Dai padri sinodali è stata infatti auspicata «una conversione ecologica che faccia percepire la gravità del peccato contro l’ambiente come peccato contro Dio, contro il prossimo e le future generazioni». Da qui la proposta di approfondire e divulgare una letteratura teologica che includa, assieme ai peccati tradizionalmente noti, i “peccati ecologici”. I padri sinodali tra gli altri temi hanno quindi affrontato il tema della salute integrale dell’Amazzonia, facendo memoria delle idolatrie colonialiste passate e presenti, di un modello di sviluppo capitalista che sta distruggendo la regione, e di uno sviluppo ecosostenibile, di come la tecnologia può essere una possibilità per nuovi modelli di sviluppo, perché questo interessa tutti «per superare una cultura della irresponsabilità e non vivere da padroni ma da ospiti nel rispetto della nostra Casa comune» – ha riferito Ruffini –. Il noto scienziato brasiliano, Nobel per la Pace 2007, Carlos Alfonso Nobre, da parte sua nel corso del briefing ha ribadito come l’Amazzonia abbia «un ruolo determinante per il futuro della sostenibilità del nostro pianeta, ma purtroppo siamo molto vicini ad un collasso». Un dato, ha aggiunto, sul quale ormai la comunità scientifica concorda. «Il ciclo di scomposizione della foresta, destinata a diventare una savana, è irreversibile – ha proseguito Nobre –. Ora siamo al 20% della deforestazione, cioè vicini al punto di non ritorno, con tassi di disboscamento e di incendi che aumentano, come abbiamo visto anche di recente». Di fronte a questo quadro della scienza, per Nobre «la tecnologia, se non diventa tecnocrazia, può essere di grande aiuto. Dobbiamo mettere in atto conoscenze secondo un nuovo modello di economia sostenibile decentrata che possa aiutare le popolazioni locali. È il nostro contributo scientifico al Sinodo», ha affermato mostrando il documento ad hoc distribuito nell’assemblea. Il Nobel ha definito il 'negazionismo scientifico” «una grave minaccia, ma non viene però dalla maggioranza della popolazione del mondo, che rispetta la voce della scienza. Si tratta di una quota molto piccola, non della popolazione ma dei rappresentanti di quegli interessi economici che hanno dominato in questi anni». Riguardo alla presenza della Chiesa il vescovo Kräutler ha detto di avere incontrato il Papa prima della stesura della Laudato si’, e di avergli posto tre punti: le minacce all’Amazzonia, le sue possibilità di distruzione; le condizioni delle popolazioni indigene; la questione dell’Eucaristia, cioè il fatto che ci siano migliaia e migliaia di comunità in Amazzonia che non hanno l’Eucaristia, se non una, due o tre volte l’anno. «È un popolo escluso dal contesto della Chiesa cattolica. Giovanni Paolo II diceva che non esiste la Chiesa se non vicino a un altare. Questo popolo non ha un altare: noi vogliamo che abbia non solo il tavolo della Parola, ma anche il tavolo dell’Eucaristia. Quali possibilità ci sono di arrivare al sacerdozio? Fino ad oggi solo per un uomo celibe». «I due terzi delle comunità amazzoniche che sono senza sacerdoti sono dirette e coordinate da donne – ha evidenziato poi il presule –. Si parla tanto di valorizzazione della donna, ma cosa vuol dire? Hanno bisogno di riconoscimenti concreti». LA REPUBBLICA Pag 19 Müller: “Nemmeno il Papa può abolire il celibato dei preti” di Paolo Rodari Il cardinale leader dei conservatori

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Città del Vaticano - Nell'appartamento che era di Joseph Ratzinger ai tempi in cui guidava la Dottrina della fede, il prefetto emerito dell'ex Sant'Uffizio Gerhard Müller sfoglia le bozze del suo ultimo libro "Affinché siate una benedizione" (Cantagalli). Dodici lettere sul sacerdozio in libreria nei giorni in cui il Sinodo s'interroga sulla possibilità di aprire il sacerdozio ai «viri probati», uomini anziati sposati e di provata fede. Cosa pensa? «Penso sia sbagliato introdurre i "viri probati". Ci sono già dei diaconi sposati. Se li introduciamo devono rispettare la consuetudine della Chiesa antica: devono vivere in castità». Ma se sono sposati, come fanno? «Anche nella Chiesa ortodossa, che pure ha aperto in questo senso, i sacerdoti sposati devono vivere in castità nei giorni che precedono la celebrazione della messa. Non conosce il Sinodo Trullano del 692? Lì, sotto pressione dell'imperatore, venne sciolta la legge del celibato, ma solo la Chiesa ortodossa vi aderì. Non quella latina. Per questo chi vuole inserire la pratica dei preti sposati nella Chiesa latina non conosce la sua storia». Eppure il celibato è soltanto una legge ecclesiastica. «Non è una qualsiasi legge che può essere cambiata a piacimento. Ma ha profonde radici nel sacramento dell'ordine. Il prete è rappresentante di Cristo sposo e ha una spiritualità vissuta che non può essere cambiata». Benedetto XVI però ha permesso ai sacerdoti anglicani che si convertono di restare sposati. «Si tratta di eccezioni. Gli apostoli hanno lasciato tutto per andare dietro a Gesù. Cristo è il modello per i ministri, i preti. E questa cosa non può essere cambiata da spinte secolari. E nemmeno si può contraddire il Concilio Vaticano II che in "Presbyterorum ordinis", al numero 16, parla del celibato e del legame di convenienza fra chi rappresenta Cristo celibe sposo e la Chiesa». Senza il celibato non diminuirebbero anche gli abusi sessuali commessi da preti? «No, è falso. Ciò nasconde una falsa antropologia. Un abuso è una contraddizione contro la castità. Gli abusi avvengono ovunque, non soltanto nel sacerdozio. E non dobbiamo dimenticare che statisticamente più dell'80 per cento delle vittime non sono bambini, ma adolescenti maschi. Ciò significa che molti abusi sono commessi da persone che non vogliono rispettate il sesto comandamento. Nessuno dovrebbe essere ammesso al sacerdozio se non accetta di vivere secondo i comandamenti di Dio e le esortazioni di Cristo. Ho scritto il mio libro per i tanti preti buoni e fedeli costretti a subire accuse per colpa di alcuni che sbagliano». È vero che parte del mondo conservatore è pronto allo scisma se il Sinodo cambia questioni fondamentali della dottrina? «Uno scisma è contro la volontà di Gesù, ed è il tradimento delle sane parole di Gesù o della dottrina degli apostoli. Il magistero agirà nel solco della tradizione apostolica della Chiesa, del resto non può fare altrimenti. Nessun Papa, né la maggioranza dei vescovi, possono cambiare dogmi della fede o leggi del diritto divino secondo i propri piaceri. La tradizione della Chiesa non è un gioco che si può modellare a piacimento». C'è chi la dipinge come un nemico di Francesco. «Il Papa deve riflettere su alcuni suoi adulatori. Coloro che dicono queste cose tecnicamente sono ignoranti. Ho scritto un libro di 600 pagine sul Papa e sul papato, la più estesa monografia attuale in merito. Avversari del Papa sono quelli che negano che il papato sia un' istituzione divina, che vogliono cambiare la dottrina rivelata senza tener conto del Vaticano I e II. Chi dice queste cose fa un grave danno alla credibilità della Chiesa cattolica». Cosa pensa dell'ordinazione femminile? «Non se ne può parlare perché dogmaticamente è impossibile arrivare a tanto». Si sono levate proteste all'interno dell'Istituto Giovanni Paolo II contro il suo rinnovamento. Alcuni docenti hanno perso la cattedra e hanno detto che si sta tradendo l'intero magistero di Wojtyla. È così? «Era un grande sbaglio distruggere quest'Istituto, un attentato contro la qualità intellettuale della teologia cattolica. Nel mondo accademico sono tutti senza parole: impensabile licenziare dei docenti per il loro pensiero veramente ortodosso. Fra l'altro non è un pensiero che tradisce la dottrina, quindi non si capisce perché mandarli via».

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Pag XIII L'abate con la laurea in Fisica. "Scienza e fede, andate in pace" di Elena Dusi Che c'è di strano? Le domande sono le stesse. Qual è la nostra origine, cosa c'è oltre l'universo?». Stefano Visintin, nato a Gorizia 60 anni fa, è un abate scienziato. Le domande impegnative ha iniziato a porsele quando faceva il militare. «E avevo parecchio tempo libero». Poi si è laureato in fisica nucleare all'università di Trieste. «Ma si sa, c'è un punto oltre al quale la scienza non riesce a spingersi». Per andare oltre è diventato monaco benedettino, in quello stesso monastero di Praglia, sulle colline di Padova, che oggi lo ha eletto abate, dopo aver insegnato per 18 anni e fatto il rettore dell' università pontificia Sant' Anselmo, a Roma. Religioso e scienziato, si sente un po' diverso? «A volte mi fanno notare che rispondo a una domanda in due parole anziché usarne venti». Quali erano le domande che premevano di più? «Dove siamo nell'universo, cosa conta davvero, cosa c'è dietro quel che vedo». La fisica non l'ha appagata? «Meglio di nulla. Ma ogni sua risposta non fa altro che aprire nuove domande. All'università ho iniziato ad avvicinarmi alle religioni, pur mancando da una chiesa da quando ero bambino. Frequentavo Comunione e Liberazione, mi affascinavano i culti orientali, con la loro ricerca di una teoria del tutto e l'attenzione alla meditazione. Poi ho scoperto il monachesimo. E Praglia». Punti in comune fra le due vite? «Dopo la laurea ho avuto una borsa di studio e sono entrato in un gruppo di ricerca dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Cercavamo materiali rari nei meteoriti usando gli acceleratori di particelle. La dedizione, l'umiltà, il distacco dal mondo, lo spirito di sacrificio e di collaborazione che hanno gli scienziati non sono molto diversi da quelli di una comunità monastica». Cos'altro trova di simile? «Chi comanda è un primus inter pares. Conta l'opinione di tutti. Anche uno studente o l'ultimo arrivato fra i monaci possono avere l'idea giusta». Una formula che dovrebbe valere ovunque. «Infatti al monastero abbiamo organizzato e ospitiamo corsi di leadership, con diversi imprenditori fra gli allievi. Insegniamo che è importante valorizzare l'uomo, non basta spremere il lavoratore. Che il potere, più è orizzontale e condiviso, più è efficace. Che merito e obiettività dovrebbero guidare le scelte di un abate, del leader di un esperimento o di un manager». Molti scienziati sono degli irriducibili atei. «Ce ne sono anche di assai religiosi. E nemmeno gli atei come Hawking riescono a spiegare perché esiste qualcosa, anziché il nulla. Finiscono per cadere in contraddizione o per sostituire alla metafisica cristiana una metafisica fatta di teorie matematiche». Ha mai vissuto di persona episodi di ostilità fra scienza e religione? «No. Oggi c'è un armistizio, una convivenza pacifica. Il Pontificio Consiglio per la Cultura spinge le università vaticane a inserire nei loro curricula dei corsi scientifici. Anch'io a Sant'Anselmo ho insegnato storia dei rapporti fra scienza e teologia. Molti religiosi, avendo una formazione umanistica, incontrano delle difficoltà. Di fronte agli argomenti tecnici si sentono impreparati. Ma io credo che la vera fase di scontro fra scienza e religione, quell'800 in cui l'illuminismo cercava di ridurre la fede a superstizione, sia del tutto esaurito. Probabilmente nasceva da fattori politici ed economici. Sono convinto che un'integrazione fra i due modi di vedere il mondo sia sempre stata possibile». La tecnologia esplode ovunque. In convento come ci si regola? «Ci stavo pensando proprio in questi giorni. Sento i cellulari squillare anche a messa. Penso che dovremmo darci una regola». La Genesi ordina all'uomo di soggiogare e dominare la Terra. La scienza ci avverte che stiamo esagerando. Come si colloca la Chiesa sui problemi dell'ambiente? «Le cose stanno cambiando anche lì. La visione dell'uomo che prende in mano il mondo e risolve i suoi problemi con l'aiuto della tecnica è troppo semplicistica. Dio, che è in ogni cosa, è presente anche nella natura. E noi non abbiamo il mondo ai nostri piedi. L'enciclica Laudato Si' di Papa Francesco è molto chiara. La natura va difesa».

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IL FOGLIO Pag III Te lodiamo, Trinità di mat. Mat. Al Sinodo si discute di medicina amazzonica, ma per tutto il giorno in realtà tiene botta il caso Scalfari Si è discusso di tutto (missioni, sfruttamento, ecologia integrale), anche di medicina tradizionale, "valida alternativa alla medicina occidentale", nell'Aula Nuova del Sinodo. All'ora di pranzo c'è stato poi l'opportuno briefing che come di consueto ha animato la giornata assembleare: a dominare la scena, stavolta, è stato il vescovo-prelato emerito di Xingu, l'austriaco Erwin Kräutler (è diventato vescovo succedendo a suo zio), vero ispiratore del Sinodo. Davanti ai giornalisti ha detto in modo chiaro che non c'è alcuna alternativa a ordinare uomini sposati anche perché in Amazzonia "non si capisce il celibato". Due terzi dei padri, secondo il monsignore, la pensano come lui (il che appare assai verosimile). In assemblea si insiste sul ministero femminile, si va dalle diaconesse (e pazienza per le commissioni volute dal Papa che a nulla hanno portato), a qualcosa di ancora nebuloso che potrebbe essere definito meglio nei prossimi giorni. Però è stata la giornata delle rivelazioni di Eugenio Scalfari, che con un suo fondo su Repubblica ha mandato in tilt la Sala stampa vaticana. Scalfari ha messo tra virgolette una confidenza di Bergoglio, secondo il quale "una volta incarnato, Gesù cessa di essere un Dio e diventa fino alla sua morte sulla croce un uomo". E questo perché - chiarisce il fondatore di Repubblica - "Chi l'ha incontrato, sa che Papa Francesco concepisce il Cristo come Gesù di Nazareth, uomo, non Dio incarnato". Nel pomeriggio la comunicazione ufficiale vaticana - che avrebbe altro a cui pensare, soprattutto in questi giorni - pubblica la smentita: libera interpretazione scalfariana, il Papa non ha mai negato la divinità di Gesù Cristo. E siamo solo al giorno 3. LA NUOVA Pag 27 Abusi sui minori, riflessione dei vescovi Incontro a Zelarino Abuso su minori e difesa delle persone più deboli. Si è riunito per la prima volta al Centro cardinal urbani di Zelarino, il Servizio regionale tutela dei minori e delle persone vulnerabili per la Regione Ecclesiastica del Triveneto, come previsto dalle "linee guida" emanate lo scorso 24 giugno dalla Conferenza Episcopale Italiana. Un incontro di indirizzo sui suoi compiti da svolgere. Il neonato strumento per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili è presieduto dal vescovo di Adria-Rovigo monsignor Pierantonio Pavanello ed è coordinato da don Gottfried Ugolini, sacerdote della Diocesi di Bolzano-Bressanone. Ne fanno, inoltre, parte i referenti diocesani dei servizi diocesani per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, rappresentanti dei religiosi e delle religiose più alcuni operatori ed esperti in ambito pedagogico, giuridico (penale e canonico), psicologico e comunicativo. «Questo Servizio» ha ricordato il vescovo Pavanello, illustrandone le finalità «vuole ulteriormente esprimere l'attenzione della Chiesa nel difendere i piccoli e le persone più fragili. La Chiesa è chiamata oggi più che mai ad affrontare il fenomeno degli abusi sui minori e sulle persone vulnerabili, una piaga che purtroppo c'è sempre stata e che coinvolge prevalentemente gli ambiti "vicini" al minore e che oggi trova terreno fertile anche nell'ambiente digitale. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO LA REPUBBLICA Pag 8 Gli italiani si sono abituati all'insicurezza del lavoro di Ilvo Diamanti Il clima economico, in Italia, è autunnale. Così suggeriscono i principali istituti di indagine, ma anche le agenzie di rating. Non solo per l'Italia. Anche per gli Usa e per l'Europa. Dunque, tanto più per noi. Tuttavia, il clima d'opinione, sui temi del lavoro e dell'economia, secondo il sondaggio condotto nei giorni scorsi, dall'Osservatorio sul

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Capitale Sociale di Demos-Coop, appare meno pessimista. Meno scuro. La stessa tendenza, d'altronde, era emersa alcuni mesi fa nell'indagine curata dall'Osservatorio europeo sulla Sicurezza (Demos-Fondazione Unipolis). Anche allora si osservava un calo delle preoccupazioni economiche, rispetto agli anni precedenti, nonostante il persistere delle ragioni che le alimentano. Per spiegare questo mutamento, inatteso, avevamo evocato una definizione di Hannah Arendt: "La banalità del male". L'attenuarsi delle paure dipenderebbe, almeno in parte, dall'abitudine. Così sembra avvenire, in Italia, anche in riferimento lavoro. Nonostante le statistiche e le previsioni parlino di declino. Perfino di recessione. Certo, l'inquietudine non si è dissolta. I timori, intorno al lavoro e all'economia, in Italia, persistono, come emerge nel sondaggio di Demos per Coop. Per "ragioni ragionevoli". Quasi 6 italiani su 10, infatti, ritengono che ai giovani convenga andarsene all'estero. Come stanno già facendo da anni. Perché avranno pensioni molto "povere". E perché, per i giovani, "emigrare" fornisce l'unica speranza di fare carriera. Di trovare un lavoro adeguato alle loro aspettative. In generale, quasi metà della popolazione considera "inutile fare progetti per sé e la propria famiglia", vista l'incertezza futura. Poco più di un terzo si dice soddisfatto delle opportunità di lavoro. Ancor meno delle prospettive economiche. In Italia. Nel prossimo futuro, d' altronde, metà della popolazione intervistata pensa che la situazione lavorativa personale non cambierà. Mentre il 18% crede che potrebbe perfino peggiorare. Agli occhi di gran parte della popolazione, d'altronde, la nostra società è sempre più "spezzata". Infatti, oltre 7 italiani su 10 (fra quelli intervistati da Demos) pensano che le disuguaglianze siano aumentate. L'Italia appare, dunque, un Paese diviso. Non solo dal punto di vista territoriale, perché la percezione delle disuguaglianze, fra gli italiani sale via via che da Nord si scende verso Sud. Ma anche dal punto di vista della posizione sociale. Perché il disagio, per lo squilibrio nella distribuzione delle risorse e delle opportunità, si allarga fra le classi sociali popolari. Tuttavia, come abbiamo osservato in precedenza, il clima d'opinione, sui temi economici e del lavoro, è meno pessimista, rispetto agli anni recenti. L'incertezza verso il futuro, negli ultimi due anni, si è ridotta sensibilmente. Oggi coinvolge il 47% della popolazione (intervistata). Una componente elevata. Ma molto meno di due anni fa, quando pervadeva quasi i due terzi dei cittadini. Anche la soddisfazione della situazione economica del Paese viene espressa da una minoranza di persone: 28%. In crescita, tuttavia, rispetto a dieci anni fa. Insomma, la visione dell'economia e del lavoro, nella società italiana, è sicuramente "grigia", come abbiamo scritto alcuni giorni fa. E non potrebbe essere diversamente. Tuttavia, l'atteggiamento che prevale non è la rassegnazione. Al contrario, si colgono alcuni segnali in contro- tendenza. Anzitutto, di fronte alla mobilità sociale - percepita. Per alcuni anni, è apparsa bloccata. Dal 2014 e fino al 2017, il peso di coloro che si collocavano nelle classi più bassa era cresciuto notevolmente. Fino a superare, nel 2014-5, la maggioranza della popolazione. In seguito, questo declino psicologico (e non solo) si è fermato. La tendenza si è invertita. E, oggi, la maggioranza degli italiani si riconosce nei "ceti medi". La società italiana, per citare Giuseppe De Rita, si è nuovamente "ceto-medizzata". Anche la percezione della disuguaglianza, per quanto estesa, appare ridimensionata. Mitigata, come si è detto, dall'abitudine a sopportare l'insicurezza. Siamo divenuti, cioè, dei "professionisti dell'incertezza". Così l'abbiamo "normalizzata". Anche perché il sentimento sociale, per tradizione, poggia su basi solide e stabili. Anzitutto, sulla famiglia. Quasi due terzi degli italiani, infatti, si dice soddisfatto della situazione economica della propria famiglia. E quasi 9 su 10 affermano che, nei prossimi anni, rimarrà stabile, oppure migliorerà. È (anche) per questa ragione che il "pessimismo" sul futuro dei giovani appare meno "pessimista". E proprio loro, i giovani, sono i meno pessimisti. Perché, quando se ne vanno altrove, sempre più numerosi, alla ricerca di opportunità di occupazione coerenti con le loro aspettative e le loro competenze, mantengono rifermenti stabili. Rassicuranti. Perché, in Italia, hanno la famiglia che li sostiene. Partono e se ne vanno, ma possono tornare, se vogliono. Quando vogliono. Perché l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro - incerto. E sulla famiglia. Sicuramente sicura. AVVENIRE Pag 3 La società dei viventi terminali che non fa figli e non accoglie di Eugenio Mazzarella

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Implicazioni sociali e culturali del declino demografico in Europa Prima nascere. Decliniamo ogni giorno, su tutti i registri, il diritto alla vita, e giustamente. Ma perché la vita possa avere diritti, c’è bisogno che nasca. Un’ovvietà non scontata proprio in quel pezzo di mondo che ci riguarda – l’Europa, l’Italia –, che l’idea stessa della vita e dei suoi diritti ha generato, e che per i suoi tassi di natalità vede oggi a repentaglio il proprio futuro. Che è poi il futuro della 'civilizzazione' che a quei diritti ha dato storia e voce. I l che vuol dire per l’Europa il dovere inderogabile di sostenere la tenuta demografica, almeno a livello di mero rimpiazzo, dei propri 'popoli', che detto in modo più articolato sono le società, anche con la loro fisiologia di meticciato etnico-culturale, che le sostanziano. Perché sarebbe singolare che una civilizzazione – quella europea – in cui è emersa l’idea stessa di diritto dei 'popoli', di tutti e degli altri, com’è giusto, non sostenga il diritto del 'proprio' popolo, della propria comunità 'organica'. Che oggi certo, nel mondo globalizzato, non è e non può essere solo – sia detto per evitare polemiche ideologiche a priori – l’organicità di uno ius sanguinis legato a un suolo, un’organicità etnico-biologica collocata in una sua geografia storica, ma non può non essere 'anche' questo; non può non essere cioè almeno uno 'stile di vita' che connota uno spazio geopolitico, e che se vuole rimanere aperto sulla scena geopolitica del mondo globale deve sapersi riprodurre; il che nient’altro significa che generare e assimilare, cioè 'ri-generarsi', sia sul piano etnico che culturale: fare figli e, proprio per questo, avere meno timore di accogliere i figli degli 'altri'. La vita, la propria vita come una comunità organica definita da uno stile di vita, un’identità 'nazionale', la si difende non sparando sui barconi della speranza degli altri, ma dondolando le culle, a cominciare dalle proprie. 'Stile di vita': al di là del politicamente corretto polemico, qualcosa che una delle deleghe previste per la sua Commissione dalla neo presidente Ursula von der Leyen voleva mettere al centro delle politiche di sviluppo e difesa dell’Europa. L’utilizzo perverso, ideologico-politico contingente di questo problema (al centro del discorso di sovranismi e popu- lismi nazionalistici) non ci può esimere dal vederlo e dall’affrontare il dato sostantivo, e non lessicale, che ci pone davanti. E gran parte di questa visione e di questa gestione passa per il sostegno alla natalità europea, e per quanto ci riguarda, italiana. Il che significa un sostegno alla famiglia generativa, riproduttiva, che 'fa figli', che garantisca all’uomo 'europeo' (e 'italiano') di evitare - o almeno limitare - la sua decrescita prevista dagli studi dal 10% della sua presenza sul pianeta oggi, al 7% di quella attesa a fine di questo secolo. Che in Italia significherà passare dagli attuali 61 milioni di individui a circa 39, a ordini di valori più o meno di un secolo fa. Questo è il punto attorno a cui ruota il senso stesso di lavorare e pensare a un futuro in Europa e in Italia. Nelle società europee, e tanto più in quella italiana, che ha uno dei più bassi indici di natalità del continente, avanza sempre più il tipo sociale proprio alle società in recessione demografica del 'vivente terminale', di individui non più portatori di un progetto genitoriale. Individui biologicamente a scadenza in se stessi, senza 'discendenza'. Una figura sociale sempre più diffusa, che ha ragioni complesse in condizioni socio-economiche oggettive che impediscono o disincentivano la genitorialità, ma anche in preferenze e stili di vita soggettivi per lo più introiettati senza neppure la consapevolezza di non starsela scegliendo la propria vita, tutta volta a una autorealizzazione generativamente autoreferenziale, ma di starsela facendo prescrivere da una società, che nella generatività dei suoi membri – nell’impegno progettuale di una famiglia stabile che mette al mondo figli – vede una dis-economia produttiva. Una visione che condiziona la vita e che ha sua ideologia, anche questa prescrittagli, basata sull’autorealizzazione dell’esistenza come liberazione da ogni vincolo che ne tarpi le possibilità, che possa togliere qualcosa a quel che si può godere al 'presente'. Abbiamo costruito le società del 'vivente terminale': sono un sistema di produzione e riproduzione sociale, che trova non solo funzionale ma più economico – anziché sostenere la propria dinamica demografica – 'approvvigionarsi' altrove di quelle che vengono definite 'riserve popolazionali' (di popolazione, cioè, di nuovi individui) necessarie al mantenimento dei propri standard produttivi (finché ovviamente questo approvvigionamento sarà possibile, e il modello dominante non sarà divenuto standard globale, a cominciare dalla sua acquisizione – tempo una o due generazioni – dai 'migrati' nelle società del 'vivente terminale'). Ma i membri di questi nostri consorzi umani che interesse potranno avere al loro futuro? Quale altro se non quello, angosciato, di invecchiare bene senza che al loro

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futuro, sempre più ristretto, 'rubino' risorse proprio le riserve di popolazione chiamate 'a servizio' per reggere e pagare fette crescenti di un welfare in cui 'vengono prima loro', i vecchi cittadini, anche se producono sempre meno? Può interessarsi davvero al futuro dei figli una società che non li genera? E come può essere accogliente una società che non accoglie neanche più se stessa? Prima queste domande arriveranno, con soluzioni adeguate, nell’agenda politica europea, e dei suoi governi nazionali, e meglio sarà per tutti. Pag 24 Transumano: ma davvero è bello tutto ciò che è nuovo? di Giuseppe O. Longo Uno degli aspetti più interessanti, esaltanti e inquietanti, della nostra società è l’ibridazione naturale- artificiale, in particolare la simbiosi uomo- macchina. L’argomento è suggestivo al punto di aver ispirato molta letteratura fantascientifica e più di recente molta produzione cinematografica. Ma i progressi travolgenti della tecnologia rendono sempre più vicino il momento in cui questi scenari diventeranno parte della nostra realtà sociale. A questo punto c’è da chiedersi come saranno accolte le nuove forme di umanità ibridata o addirittura mutante: se con indifferenza, ostilità, rigetto o favore. In Gran Bretagna, Paese all’avanguardia nella sperimentazione di creature ciborganiche e nell’analisi sociologica del loro rapporto con le forme umane 'tradizionali', la recentissima serie televisiva Years and Years, creata da Russell T. Davies, ha presentato il caso (inventato) di una ragazza che, insoddisfatta del proprio stato, rivela ai genitori di essere 'trans'. I genitori, immaginando che la figlia desideri cambiare sesso, le esprimono comprensione e le offrono aiuto finanziario. Ma a questo punto la ragazza dissipa l’equivoco affermando di essere non 'transessuale' bensì 'transumana' e dichiara di voler abbandonare il proprio corpo trasfor-mandolo in uno sciame di bit. I genitori restano sbalorditi e poi s’infuriano. È il rischio cui viene esposto il corpo a suscitare questa violenta reazione. Il corpo è percepito come il baluardo ultimo dell’identità umana nonostante gli interventi anche cruenti a cui può essere sottoposto (tatuaggi, perforazioni, tagli, incisioni, operazioni di chirurgia plastica e sessuale anche radicali, praticati da 'artisti del corpo' come Stelarc, Harbisson e Orlan o da chiunque voglia in qualche modo diventare altro da sé). C’è da chiedersi quale sia il confine al di là del quale una trasformazione corporea produca qualcosa di essenzialmente diverso dall’umano, il 'transumano'. Nonostante le svariate forme, dimensioni, colorazioni e così via in cui il corpo si presenta tradizionalmente come esito polimorfo dell’evoluzione biologica, poco o punto influenzata dalla tecnologia, gli individui che si discostano dalla norma (concetto vago ma tenace) sono spesso percepiti come ridicoli, rivoltanti o minacciosi. Se poi il diverso non è il prodotto casuale della lotteria genetica, ma il risultato di una trasformazione tecnica volontaria, il disgusto può trasformarsi in violenza. Un esempio letterario di altissimo livello dell’accoglienza riservata al diverso si trova nella Metamorfosi di Kafka, in cui una ributtante modificazione notturna trasforma Gregor Samsa, un giovane rappresentante in un gigantesco insetto che la famiglia accoglie con ribrezzo e vergogna, per poi, alla sua morte, gettarlo nella spazzatura. Tuttavia l’antesignano letterario più celebre del genere 'trans' è il mostro costruito dal dottor Victor Frankenstein, al centro dello straordinario romanzo di Mary Shelley, pubblicato nella prima versione nel 1818. Anche questo essere, un diverso per eccellenza, viene respinto dal suo creatore inorridito. Ferito nei suoi sentimenti, il mostro, per vendetta, compie crimini atroci. Naturalmente la tecnologia a cui poteva ispirarsi la Shelley era, rispetto a quella odierna, molto rudimentale: niente genetica, niente nanotecnologie, niente intelligenza artificiale. È interessante che la scrittrice omosessuale britannica Jeanette Winterson abbia appena pubblicato il romanzo Frankissstein (sic), che sciorina una gamma di alternative di identità e di genere. Ambientato curiosamente nel 1816 sulle rive del lago di Ginevra (dove e quando scaturì l’idea prima del Frankenstein della Shelley), ma in un mondo dominato dalla tecnologia e in specie dall’intelligenza artificiale, il libro della Winterson illustra le possibilità sempre più ampie offerte dalla tecnologia di scegliere la propria identità, ma anche l’insorgere di nuovi pregiudizi e discriminazioni. In un crescendo di situazioni, pulsioni e avventure di cui sono protagonisti un medico transessuale, un impresario di robot erotici e un professore di intelligenza artificiale, il romanzo spinge oltre ogni limite il significato e la

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portata potenziale dell’essere umani. In particolare prospetta il trasferimento della mente in supporti digitali, una forma di postumanesimo illustrata da Marvin Minsky in un articolo del 1994, dove si prefigura un mondo abitato da robot che per Minsky sono i «figli della nostra mente». Oggi la tecnologia permette di intervenire sull’identità di genere (o sessuale, la distinzione è questione aperta e controversa), ma consente anche incrementi, trasformazioni e potenziamenti inauditi, che vanno ben oltre i tradizionali interventi medici, come l’inserzione di impianti o di protesi. Si è perciò coniato il termine 'transumano' per indicare il viaggio della specie umana verso uno stadio ulteriore rispetto a quello attuale, viaggio che dovrebbe sfociare nelle varie forme del 'postumano'. Si forma così una galleria di 'personoidi' che variano dagli umani a tutto tondo (ammesso che se ne possano ancora rintracciare di non ibridati in qualche misura) ai postumani più bizzarri e stravaganti (ai nostri occhi), passando per un vero e proprio vivaio creaturale di transumani in cui avvengono incroci e interaccoppiamenti inaspettati. Fra tutte queste schiatte nascono e si sviluppano sentimenti più o meno intensi di ammirazione, rispetto, tolleranza, indifferenza, avversione, odio: sentimenti che possono manifestare un gradiente nel passaggio dagli umani tradizionali alle forme più esasperate di postumani. Il gradiente po- trebbe corrispondere al livello di ibridazione o simbiosi uomo-tecnologia. Per tutte le tipologie intermedie e finali, e per le loro combinazioni, sarà necessario elaborare forme inedite di etica (per esempio oggi si parla già di 'roboetica' e Minsky ha elaborato un embrione di etica per i suoi 'figli della mente'), che comprendano anche concetti giuridici quali la responsabilità. Non c’è dubbio che i progressi della tecnologia consentiranno, e in parte già consentano, di collocare nel vivaio dei personoidi un numero crescente di esemplari. Ma resta una domanda di fondo: è lecito, giusto, etico fare tutto ciò che si può fare oppure esistono limiti che non si debbono superare? Nel loro statuto la scienza e la tecnologia non contemplano il concetto di limite, anzi considerano ogni limite etico, religioso, sociale come un ostacolo provvisorio da superare. E non bisogna dimenticare che dietro la spinta alle innovazioni c’è quasi sempre l’incontenibile brama di profitto delle aziende. È necessario riflettere bene sulle possibili conseguenze di una corsa al 'trans' e al 'post', costruendo scenari quanto più possibile realistici e simulandone tutte le potenziali implicazioni. E non bisogna farsi travolgere dalla corsa al nuovo per il nuovo. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 8 Tassa di sbarco, un altro rinvio. Nuove tariffe e sarà “volontaria” di Francesco Bottazzo Venezia. Alla fine sarà una questione di onestà, dei turisti pendolari. Controllarli tutti, così come Ca’ Farsetti aveva ipotizzato inizialmente puntando su quanto prevedeva la legge (e quindi con la collaborazione dei vettori) è praticamente impossibile, tanto che Venezia ha deciso di far slittare ancora (per la terza volta) l’applicazione del contributo di accesso. «Partirà il primo luglio 2020 e il Comune potrà incamerare direttamente il contributo», dice l’assessore al Bilancio Michele Zuin. Troppo stretti i tempi previsti per poter cominciare senza avere problemi, polemiche e ricorsi, così Ca’ Farsetti ha deciso di rallentare, mettere da parte l’entusiasmo della primavera scorsa (doveva partire in estate) per affinare il sistema. Al primo anno cambiano anche le tariffe che saranno rimodulate, mantenendo comunque la diversificazione giornaliera sulla base del sistema dei bollini. Il contributo ordinario sarà di tre euro (sia per gli alberghi fuori comune che avranno fatto la convenzione sia per gli altri, che così avranno il tempo di mettersi in «regola»), quello per i giorni affollati (bollino rosso) sei, mentre nei giorni particolarmente critici (nero) otto. Dal 2021 si ritornerà all’ipotesi iniziale con l’introduzione dei periodi «scarichi» (3 euro) e l’aumento di tutte le altre tariffe (verde da tre a sei, rosso a otto, nero a dieci). «E’ la dimostrazione che il contributo di accesso non serve per fare cassa», sottolinea Zuin. Del resto una stima dell’importo ancora non c’è, molto dipenderà dalle deroghe (tante, a partire dai residenti in Veneto ) e dai turisti che pagheranno il contributo. «Sarà invece un modo per raggiungere gradualmente lo

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scopo per cui il contributo è stato istituito: la gestione dei flussi turistici quale strumento per la salvaguardia di Venezia e della laguna e il miglioramento della qualità della vita dei residenti», aggiunge l’assessore. La modifica votata ieri dalla giunta permetterà quindi, sottolinea Ca’ Farsetti ad arrivare alla prenotazione completamente elettronica nel 2022. Perché l’aspetto tecnologico è stato quasi completamente definito: non saranno più i vettori a dover riscuotere il ticket, ma sarà direttamente l’amministrazione veneziana ad occuparsene attraverso tutta una serie di punti vendita sparsi nel territorio, dalle macchine automatiche agli sportelli Vela, fino ai tabaccai, oltre naturalmente al sito web. In sostanza chi prenoterà il viaggio in treno o in autobus verrà informato di dover acquistare il ticket di accesso, se non rientra nella lunga sfilza di deroghe che il consiglio comunale ha introdotto. Ma sarà una questione di correttezza, perché nonostante l’assessore al Bilancio insista sull’attività di verifica, che con ogni probabilità sarà fatta da una società esterna, sarà difficile controllare - a bordo dei mezzi - tutti i turisti che arrivano a Venezia. In questi mesi dovrà essere creato il sistema di riscossione che vede la predisposizione di un programma web specifico che consenta il pagamento attraverso i diversi sistemi, un’adeguata rete di vendita sul territorio, una campagna comunicativa del nuovo sistema e sul turismo sostenibile. La messa a regime comporterà entro i primi mesi del prossimo anno la realizzazione completa del sistema informativo che consentirà di acquisire i voucher per l’esenzione e l’esclusione del pagamento del contributo, per evitare il congestionamento degli accessi al portale in concomitanza dell’avvio del ticket. Sarà un modo per testare l’intero sistema «che responsabilizzi quanti vengono a visitare in giornata Venezia», precisa Zuin. Rimane ancora aperta la questione che riguarda le auto private escluse (dalla legge) dal ticket. Per ovviare alle limitazioni infatti Ca’ Farsetti ha deciso di introdurre una zona a traffico limitato sul ponte della Libertà, ma per farlo c’è bisogno del via libera del ministero delle Infrastrutture che deve ancora arrivare. Pag 9 La scommessa di Scola, l’ex patriarca torna a Mestre di m.ri. Il libro a M9 Angelo Scola, patriarca di Venezia dal 2002 al 2011, torna per la prima volta in città dopo otto anni. Oggi alle 17 sarà all’auditorium M9 accettando l’invito della Fondazione Venezia 2000 e della Fondazione di Venezia a presentare il suo libro «Ho scommesso sulla libertà», scritto insieme al giornalista Luigi Geninazzi ed edito da Solferino. Il libro racconta le tappe più significative della vita del cardinale: l’infanzia, gli studi, la nomina a vescovo di Grosseto e quella di patriarca fino allo spostamento a Milano. Poi ci sarà il dialogo intorno al tema della libertà e della «scommessa» (introdotta dal presidente della Fondazione di Venezia Giampietro Brunello) nel quale si confronteranno l’ex presidente della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli, il giornalista Ferruccio de Bortoli e il presidente di Venezia 2000 Giuliano Segre. «Prima di lasciare Venezia – spiega Giuliano Segre – il cardinale ha visitato i cantieri dove sorge M9, disse che era un bel progetto ma anche una bella sfida. Prima dell’incontro visiterà alcune parti del museo per vedere da vicino come si è concretizzata quella scommessa». Scommessa che risuona nel titolo del libro e che sarà, insieme al concetto di libertà, filo conduttore di un dibattito che toccherà questioni che riguardano il passato ma anche le sfide che contraddistinguono il presente e il futuro della nostra società. Pag 13 Il Leonardo della discordia di Fiorella Girardo Il caso dell’Uomo Vitruviano: i retroscena del prestito (negato) «La giustizia italiana sospende il prestito al Louvre del disegno di Leonardo». Il titolo campeggia pressoché uguale su tutti i giornali francesi che riportano la notizia dello stop imposto dal Tar del Veneto alla cessione dell’Uomo Vitruviano al museo parigino da parte delle Gallerie dell’Accademia. E se il quotidiano Libération pronostica che il Louvre «dovrà fare a meno dell’opera» per la mostra celebrativa del genio francese che aprirà il 24 ottobre, Le Monde , più cauto, parla di «ennesimo colpo di teatro che giunge quando le controversie tra Italia e Francia sembravano appianate, anche se il caso Leonardo non è mai stato semplice». Nel frattempo l’Avvocatura dello Stato sta preparando la difesa in vista dell’udienza del 16 ottobre. In effetti, la vicenda del prestito del disegno custodito

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alle Gallerie dell’Accademia è diventato ben presto ostaggio delle polemiche politiche. Per capire come si è giunti a questo punto bisogna ripercorrere le tappe che hanno portato alla situazione - surreale e grottesca - di adesso, quando solo due settimane fa il ministro italiano dei Beni culturali Dario Franceschini aveva firmato con il suo omologo francese Franck Riester un accordo di scambio di opere tra i due Paese, nel cui elenco figurava anche il celebre Uomo. Come ha ricordato su queste pagine lo storico dell’arte Vittorio Sgarbi, «l’Italia è partita in ritardo nella preparazione delle celebrazioni per il cinquecentenario della morte del fiorentino, mentre sta allestendo una mostra memorabile per la stessa occasione in onore di Raffello, che si terrà alle Scuderie del Quirinale a Roma il prossimo anno». In virtù di questo, al Louvre andava Leonardo, mentre all’Italia spettava allestire l’evento sul pittore di Urbino, con l’arrivo di tre dipinti dal museo parigino in cambio di alcuni disegni di Leonardo. E già qui c’è la prima intrusione a gamba tesa della politica, perché lo scambio serviva anche a ripianare i rapporti diplomatici compromessi dall’appoggio ai Gilet Gialli del ministro Luigi Di Maio e del suo compagno di movimento Alessandro Di Battista. Lo stesso Quirinale aveva dimostrato apprezzamento per la ripresa dei colloqui, grazie all’intervento dell’allora responsabile del Mibac Alberto Bonisoli, che si era particolarmente speso per favorire il prestito. Il pressing si era tradotto in email del direttore generale Panebianco ad alcuni funzionari delle Gallerie lagunari per caldeggiare l’invio del disegno a Parigi, e sono state proprio quelle lettere (incaute, col senno di poi) a scatenare la bagarre che ha visto l’associazione Italia Nostra ricorrere alcuni giorni fa al Tribunale Amministrativo per bloccare il viaggio Oltralpe. Nel frattempo sono corsi fiumi di parole, facendo scoprire alla maggioranza dei veneziani (e non solo) che il museo lagunare custodisce da quasi due secoli il famoso disegno. Beninteso, non appeso a qualche parete, ma invisibile nel caveau dove le opere in carta trascorrono gran parte del loro tempo per difenderle dall’aggressione della luce. Da prassi, L’Uomo Vitruviano viene esposto ogni 5 anni, avendo a disposizione un certo numero di ore-luce. Così è stato per i tre mesi che l’anno visto protagonista della mostra su Leonardo la primavera scorsa alle Gallerie (dove peraltro non si sono viste le folle di visitatori che la strenua difesa nazionalista farebbe supporre), e così sarà – forse- per le otto settimane parigine che rimangono a prima di tornare al buio. Mentre due perizie su tre giudicavano possibile il prestito, ancora una volta la politica ha preso il sopravvento: da una parte la Lega nostrana che non vede «alcuna utilità per il Veneto in tutta l’operazione», dall’altra quella nazionale che si chiede «perché non venga data in cambio la Gioconda», supponendo quindi che, per par condicio, gli Uffizi di Firenze possano privarsi della Venere di Botticelli, in cambio di un disegno in carta, per quanto iconico. Ci sarebbero state così tante polemiche se il disegno anziché oltrepassare le Alpi fosse volato più a Est? Non è dato sapersi, ma certo le precauzioni in questo caso sono sempre tante, come dichiarava in un’intervista il curatore Marco Goldin, spiegando che «solo le mostre temporanee offrono l’occasione per conoscere e vedere dal vivo opere che altrimenti rimangono patrimonio solo degli studiosi». Se poi il Louvre, uno dei musei più importanti, abbia le competenze per maneggiare opere così delicate è pleonastico chiederselo, non a caso il Tribunale Amministrativo del Veneto ha sospeso l’invio dell’opera non per ragioni tecniche ma di carattere giuridico. D’altronde, per quanto noto e importante, l’Uomo leonardesco non può essere considerata l’opera rappresentative dell’Accademia, se non altro perché non viene esposta quasi mai. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XVI Jesolo, la Lega: “I soldi per le parrocchie? Un obbligo imposto dalla Regione” di F.Cib. «I soldi per le parrocchie? Un obbligo di legge della Regione». Così il gruppo consiliare della Lega sulla comunicazione dell'amministrazione comunale circa l'assegnazione di 72mila euro alle parrocchie del territorio. «I fondi vengono erogati grazie alla Regione Veneto - viene spiegato - che mantiene in vigore la Legge del 1987, la quale obbliga i Comuni a destinare una quota dell'8x100 degli oneri di urbanizzazione, per la manutenzione degli edifici di culto; inoltre le priorità per l'assegnazione dei contributi vengono decise dalla Diocesi, all'assessore Bergamo spetta solo la ratifica di quanto già previsto per legge e deciso dalla Diocesi stessa. Se realmente l'assessore Bergamo vuole

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sostenere le parrocchie dia un segnale forte, che la legge 44/87 lo permette, aumenti la percentuale destinata a tali fondi e dia risposte più concrete ai contributi richiesti dalle singole parrocchie». LA NUOVA Pag 39 La scommessa sulla liberrtà del Cardinale Angelo Scola Oggi, giovedì 10 ottobre, nell'auditorium del Museo M9, alle 17, sarà presentato il libro del Cardinale Angelo Scola "Ho scommesso sulla libertà" (Edizioni Solferino). L'incontro, organizzato dalla Fondazione Venezia 2000, sarà introdotto dal saluto del presidente della Fondazione di Venezia, Giampietro Brunello, cui seguirà una dialogo tra Cesare Mirabelli, Ferruccio de Bortoli e Giuliano Segre con il Cardinale Scola. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Perché le chiese si svuotano di Vittorio Filippi Nordest che cambia Ci fu, un tempo, un Veneto a misura parrocchiale. Letteralmente. In cui cioè la parrocchia ritagliava non solo i territori, ma organizzava le coscienze e faceva le comunità. Una fabbrica per campanile si diceva, un binomio in cui la fabbrica produceva il benessere materiale ed il campanile quello spirituale. Ma anche psicologico e sociale. Questo tempo è passato: il suo declino è avvenuto a partire dagli anni sessanta, in paradossale coincidenza con il Vaticano secondo: lentamente, silenziosamente, è avvenuto che «Il cristianesimo non si intende più da sé. Le sue parole centrali, i suoi gesti, la sua morale e la sua teologia suonano estranei al cuore e alla vita degli uomini e delle donne di oggi. È diventato come una lingua straniera. E credere risulta ogni giorno più difficile», come scrive il teologo Armando Matteo. Se il cattolicesimo di Chiesa che tanto aveva reso «bianco» il Veneto oggi è divenuto estraneo come una lingua straniera, ciò è dovuto anche al fatto che è evaporata l’organizzazione territoriale che tale lingua doveva parlare e diffondere, cioè le parrocchie. Che certamente in teoria esistono ancora numerose, ma svuotate di clero e di fedeli. Dove le chiese appaiono sempre più utilizzate per i funerali, cerimonie frequenti che risentono di una demografia invecchiata e di un evento di fine vita che non ha molte alternative celebrative. Per il resto parlano i dati impietosi prodotti dall’Osservatorio socioreligioso triveneto. Nel 1970, quando ormai molte cose cambiavano, solo 15 erano le parrocchie venete senza pastore: oggi sono 235 e di più saranno in futuro. Il motivo è semplice e sta nel crollo delle vocazioni: sempre nel 1970 vennero ordinati 242 nuovi preti, nel 2016 solo 37. Tutto ciò comporta due conseguenze: da un lato un clero sempre più ridotto (il calo è del 28% rispetto al ‘70) ed invecchiato, con tutte le ovvie conseguenze che ciò comporta in termini di efficacia pastorale, specie nel rapporto con i giovani, il segmento notoriamente più difficile per la catechesi. Dall’altro la «lingua» della fede, fatta di liturgie, omelie, tradizioni, precetti, sempre meno trova nel clero e nelle parrocchie (e nei parrocchiani) gli utilizzatori. Per cui diventa una lingua arcaica, anacronistica, incomprensibile ai più. Nella nostra epoca detta dell’«umanesimo esclusivo» si pensa di «mettersi in proprio» senza dover ricorrere all’ipotesi Dio. Allora le lingue in auge si fanno diverse, sono quelle della libertà, del benessere, dell’espressività, dell’autorealizzazione. Per queste lingue le parrocchie come organizzazioni della fede decisamente non servono. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XVI Il cardinale agita l’Itis Volterra di Davide De Bortoli Contestata da alcuni insegnanti la visita odierna di Leo Burke, dell’ala più conservatrice della Chiesa Altolà degli insegnanti dell'istituto tecnico Volterra al cardinale Leo Burke. La visita del prelato alla scuola di San Donà è stata organizzata in fretta, annunciata alla fine di

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settembre ma nulla era trapelato al di fuori dalla scuola. Raymond Leo Burke, statunitense, nominato cardinale nel 2010 da papa Benedetto XVI, è ritenuto uno degli esponenti più conservatori della Chiesa. Nel suo sito www.cardinalburke.com nella sezione dedicata all'associazione Azione cattolica per la fede e la famiglia si possono trovare riferimenti all'operazione cielo tempestoso il cui obiettivo è fermare l'aborto, l'assalto della rivoluzione omosessuale, ribaltare il matrimonio omosessuale legalizzato, fermare la diffusione del suicidio assistito dal medico e dell'eutanasia. LA PROTESTA - «Burke è il capo dell'ala più conservatrice della Chiesa - spiegano alcuni insegnanti - e la stampa nazionale e internazionale lo indica come sovranista e in contatto con il presidente americano Donald Trump, ed è tra i più forti oppositori ad un'attitudine morbida della Chiesa su parecchi temi etici». Quando, nei giorni scorsi la sua visita prevista stamane è comparsa nel registro elettronico qualche insegnante è sobbalzato sulla sedia. «Inizialmente era previsto che il cardinale incontrasse circa 300 studenti di quarta e quinta nell'aula magna, per parlare di solidarietà e tolleranza nel mondo globale, poi il programma è stato rivisto, aperto solo ai maggiorenni in aula Ferron, più piccola. Sarebbe stato opportuno discutere dell'incontro con un certo anticipo continuano - coinvolgendo tutti gli organi collegiali, impossibile a causa dei tempi stretti. Al di là delle questioni teologiche o di coscienza non ci sembra opportuno che la scuola pubblica diventi una cassa di risonanza, per cui non abbiamo sostenuto l'iniziativa. Un personaggio di questo calibro è in contrasto con valori e principi educativi che la scuola cerca di perseguire: uguaglianza, condivisione, solidarietà, rispetto delle diversità». LA DIFESA - Dal canto suo la dirigente scolastica Erminia Bosnia ridimensiona la portata dell'evento. «Si tratta di una semplice visita privata spiega - il tema è interessante e non scottante. Inoltre c'è massima libertà di partecipazione, sia per studenti sia per docenti. Non è un evento ufficiale, una conferenza promossa dalla scuola e non voglio che un semplice saluto del prelato sia strumentalizzato». Ma come è avvenuto il contatto tra Burke e il Volterra? «Un docente lo ha conosciuto in Vaticano spiega la preside il docente ha ventilato la possibilità di salutare gli studenti se fosse stato in zona. La proposta è piaciuta al cardinale che nei giorni scorsi ci ha comunicato la sua disponibilità per oggi, è sembrata un'occasione da prendere al volo». Nessuna riserva sulle sue posizioni integraliste? «Una scuola valida è aperta a tutti, anzi ogni tanto un'azione forte, di rottura, serve a pensare. Anche per questo l'incontro è aperto ai maggiorenni. Un saluto di mezz'ora non sconvolge o condiziona nessuno. Ognuno è libero di mantenere la proprie convinzioni». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il reddito ora va riparato di Dario Di Vico Errori e paradossi Il nuovo governo alle prese con la priorità rappresentata dalla legge di Bilancio non ha ancora affrontato un nodo che nel frattempo è venuto al pettine, non ha formulato un giudizio sullo stato di attuazione del reddito di cittadinanza. Parliamo di un provvedimento che ha poco più di un semestre di vita e che però ha già mostrato limiti strutturali e pecche organizzative che non possono essere trascurati. In almeno tre casi, poi, il reddito ha smentito le attese dei suoi stessi sostenitori: non è servito a sorreggere il Pil dell’anno in corso, non ha spinto gli inattivi a mobilitarsi e a far crescere la quota di chi cerca veramente lavoro e, soprattutto, non si è rivelato quella pietra miliare nella storia del welfare italiano che doveva essere nelle intenzioni di chi ne ha disegnato i contorni. La verità, assai prosaica, è che il reddito di cittadinanza via via che accumula giorni di vita non riesce a nascondere un difetto congenito: è stato varato in tutta fretta perché doveva servire a una grande operazione di comunicazione («l’abolizione della povertà» proclamata dall’allora vicepremier Luigi Di Maio) e subito dopo doveva farsi vento per soffiare nelle vele elettorali dei Cinque Stelle.    Non è andata così, la nuova legge si è dimostrata uno strumento di captatio benevolentiae largamente imperfetto e al suo interno non è riuscita a celare alcune contraddizioni che ne hanno compromesso

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l’immagine. Mi riferisco al fatto che la legge privilegi le famiglie con uno o due figli rispetto a quelle extralarge e che tagli completamente fuori gli stranieri. Ma forse il pasticcio più grande creato riguarda la scelta di sommare l’intervento contro l’indigenza con una rivisitazione delle politiche per il lavoro. Con quest’abbinata i Cinque Stelle hanno coltivato un progetto ambizioso, scardinare una volta per tutte l’egemonia della sinistra nel campo delle disuguaglianze. Per far questo hanno individuato un’ampia platea sociale - i poveri - che la socialdemocrazia italiana aveva ampiamente sottovalutato, hanno creato per questa platea una sorta di sistema di welfare che viaggiasse in parallelo con quello esistente e che avesse dunque propri fondi di dotazione e un proprio personale dedicato (i navigator). Mentre la sinistra si era in precedenza impegnata a promuovere politiche attive del lavoro e ricerca dell’occupabilità i Cinque Stelle hanno scelto un’altra strada, quella del risarcimento o, se volete usare un termine antico, dell’assistenzialismo. Si sono create così aspettative di ingresso al lavoro che non potevano essere soddisfatte da una legge-centauro, per di più in un mercato del lavoro come quello italiano in cui i paradossi sono all’ordine del giorno e che ha visto aumentare gli occupati ma diminuire le ore lavorate. Poveri e disoccupati sono due platee differenti, coincidono solo per un quarto, i Cinque Stelle hanno pensato di unificarle per via legislativa e a quel punto hanno creato un altro pasticcio. Il Reddito di inclusione - la misura anti-povertà varata in extremis dal governo Gentiloni - aveva scelto un modello organizzativo e distributivo centrato sui Comuni, il nuovo provvedimento pentastellato ha puntato su un doppio canale - Comuni e Centri per l’impiego - finendo così per generare complicazioni e confusioni. Il buonsenso avrebbe consigliato meno fretta e scelte meno improvvisate ma in questa vicenda non è stato un compagno di strada dei Cinque Stelle che si sono fatti sovente consigliare dall’ideologia e sappiamo, però, come nella storia del welfare italiano questa commistione sia servita solo a generare disastri. E a far attecchire una malattia politica - Innocenzo Cipolletta la chiama «riformite» - a causa della quale ogni nuova maggioranza riscrive le leggi che si è trovata in eredità, creando così un ingorgo di norme che si sovrappongono o persino si contraddicono. Ma proprio per evitare di perpetuare il morbo delle riforme che riformano sé stesse è impensabile cancellare con un colpo di spugna il reddito di cittadinanza e tornare alla situazione precedente. Il paradosso, caso mai, è che dovranno adoperarsi per «ripararlo» proprio coloro che lo avevano criticato sin dall’inizio e che per di più hanno visto i loro argomenti confortati dai fatti. Pag 1 Vietato distrarsi di Paolo Lepri L’allarme è risuonato spesso, magari in sordina. Ora, invece, le urla venute dai fedeli asserragliati dietro le porte sbarrate della sinagoga di Halle nel giorno dello Yom Kippur rimbombano con il frastuono di un terremoto anche nelle orecchie più lontane. Germania in autunno, Germania che si interroga ancora sulle sue malattie, ben sapendo – naturalmente – che il virus non ha confini e non ha solo passaporto tedesco. Va detto che le istituzioni hanno fatto il loro dovere, in un Paese dove la memoria è stata sempre un monito. Rendiamone atto alla cancelliera Angela Merkel, al suo rappresentante speciale per la lotta all’antisemitismo, il diplomatico Felix Klein, agli uomini e alle donne che insegnano a non dimenticare. Ma è anche vero che le ombre oscure annidate nella società sono state spesso scambiate per qualcosa destinato a non materializzarsi, come generalmente fanno le ombre. In questo caso è accaduto il contrario. Hanno anzi impugnato le armi. Bisogna riconoscere inoltre che in Germania non è stato mai sottovalutato l’odio anti-ebraico. L’impressione, piuttosto, è che siano state affrontate con meno determinazione del necessario le persone sospette, le cellule neonaziste emerse o sommerse, le interazioni micidiali tra questi gruppi e il mondo più «normale» dell’estrema destra. Si è sorvolato sulle complicità che sono affiorate nei servizi di sicurezza e nelle forze dell’ordine. Certo, sgominare non è facile. Ma gli atti di antisemitismo in aumento e il crescere sul web dei sentimenti ostili agli ebrei avrebbero richiesto una discesa nell’inferno più massiccia nel tentativo di bonificarlo. Un’altra cosa da non rimuovere è la battaglia che è stata combattuta contro il negazionismo. Su questo non sono mai stati fatti sconti. Resta il dubbio che la guardia sia stata troppo debole, invece, contro la revisione aggressivo-nazionalistica del passato, che finisce per diventare una giustificazione «alta» ad una visione distorta della realtà. Non è questione

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di proibire le idee. Si tratta di evitare che la violenza possa trovare il modo di alimentarsi. Pag 25 Erion, Marie e gli altri immigrati. Quelli che assumono gli italiani di Goffredo Buccini In 1600 ce l’hanno fatta. Ma dal 2011 gli ingressi legali per lavoro sono praticamente chiusi Questa è la storia di Marie Terese, venuta dal Ruanda: dormiva in un container, era una «invisibile», una clandestina da scacciare; adesso nelle sue cooperative d’accoglienza ha assunto 150 italiani, ospita 800 profughi e nel 2018 ha vinto il MoneyGram Awards come migliore imprenditrice immigrata dell’anno. Ma è anche la storia di Erion l’albanese, che da povero gelataio immigrato è arrivato ad aprire una sua gelateria e a piazzarla nel 2017 tra le dieci migliori d’Italia (secondo il «Gastronauta») con una dozzina di dipendenti. È la storia di 1600 imprenditori immigrati che ce l’hanno fatta e qui in Italia danno lavoro a noi italiani (verrebbe da dire. prima a noi italiani). Ma è anche la storia di due milioni e mezzo di lavoratori stranieri che talvolta s’arrangiano e sempre provano a farcela (il 33% fa «lavori di fatica» che noi non vogliamo più) e, provandoci, producono 139 miliardi di euro, il 9% del nostro Pil (contro un peso del 3% sulla spesa pubblica). Ma soprattutto è la storia di un equivoco da sciogliere, dell’intreccio perverso che lega due questioni assolutamente distanti tra loro: le immigrazioni da lavoro (che ci servono come l’ossigeno) e l’accoglienza dei profughi (che ci tocca per continuare a essere umani). Gli ingressi legali per lavoro in Italia sono di fatto chiusi dal 2011, da noi si entra solo per ricongiungimento familiare o richiesta d’asilo. L’ultimo documento programmatico triennale per regolare gli ingressi degli stranieri non Ue per motivi di lavoro è del 2005. Dal 2011 i «decreti flussi» annuali non prevedono ingressi per motivi di lavoro subordinato non stagionale e le uniche quote disponibili sono, salvo eccezioni, riservate alla conversione di altri titoli di soggiorno (pertanto rivolte a soggetti già presenti sul territorio nazionale). Nel 2019 è stata prevista una quota massima di 30.850 ingressi, 18.000 dei quali per motivi di lavoro stagionale (settori agricolo e turistico-alberghiero) e 12.850 come conversioni in permessi di lavoro di permessi di soggiorno già rilasciati a vario titolo e agli ingressi per lavoro autonomo. Insomma, mentre i naufragi davanti a Lampedusa ci ricordano la tragedia di chi fugge, mentre l’Unione europea tentenna davanti alle responsabilità comuni, il tema degli ingressi legali nel Paese torna centrale. La Fondazione Moressa, nel suo Rapporto 2019 sull’economia dell’immigrazione spiega con efficacia ciò che è accaduto: nel 2009 i permessi di lavoro rilasciati in Italia erano il 47%, l’anno scorso appena il 6%. Il dato diventa ancora più eclatante se incrociato con questo del Viminale: i permessi per motivi familiari erano il 32,3% nel 2007 e sono diventati il 45,1% nel 2016; quelli per asilo e umanitari erano il 3,7% nel 2007 e si sono impennati al 34,3% nel 2016. Queste due sono le porte d’ingresso rimaste. Dietro una simile inversione in 10 o 12 anni ci sono la paura e la propaganda, gli attentati jihadisti e le primavere arabe coi picchi di sbarchi. Il problema è che (fonte Onu) nel 2035 in Italia la popolazione in età lavorativa diminuirà, senza le migrazioni, del 14%. Qui, fonte Moressa, pesa anche l’addio di tanti giovani italiani (siamo tornati terra di emigrazione): in 10 anni sono andati all’estero 500 mila connazionali di cui 248 mila ragazzi tra i 15 e i 34 anni (è come se fosse emigrata tutta la città di Verona): con la perdita di 1 punto percentuale di Pil (16 miliardi di euro). Gli stranieri che lavorano da noi sono il 10,6% degli occupati (dato che assume più significato in rapporto alla percentuale straniera sulla popolazione: l’8,7%). Uno su tre ci rimpiazza nei lavori più umili e a basso reddito (nel 2018 in agricoltura: -1,1% italiani, +6,1% stranieri; nelle costruzioni -1,3 italiani +1,9 stranieri). Ma il contributo economico dell’immigrazione è dato anche da 700 mila imprenditori nati all’estero (9,4% del totale) e da 2,3 milioni di contribuenti, un gettito di 3,5 miliardi di Irpef e 13,9 miliardi di contributi versati. Certo la materia va regolata meglio. Prima di tutto riaprendo i canali dell’immigrazione legale per contrastare davvero l’immigrazione clandestina (non con la farsa delle navi Ong bloccate in mare): il sociologo Stefano Allievi («Immigrazione, cambiare tutto», Laterza) paragona questa fase al proibizionismo che in America portò al contrabbando di alcolici. Secondo il Rapporto della Fondazione Moressa «occorre distinguere chiaramente tra politiche di accoglienza e

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asilo e politiche di ingresso regolare per motivi di lavoro da affrontare con strumenti specifici». Come? Ad esempio con ingressi basati su un documento pluriennale che contenga le quote suddivise per finalità (lavoro autonomo; lavoro dipendente; studio e formazione; ricerca) e i profili preferenziali di ammissione con i criteri di scelta attraverso un sistema a punti (modello che in Canada funziona). Le richieste di asilo dovrebbero essere escluse dalla programmazione; si potrebbe recuperare il sistema degli sponsor abolito dalla legge Bossi-Fini del 2002 e introdurre il permesso di soggiorno per comprovata integrazione ai fini della regolarizzazione ad personam del sommerso, come in altri Paesi europei. Non è buonismo, è efficienza. O, per dirla con la ministra Lamorgese, è «immigrazione senza emozione», buonsenso. Un po’ come il richiamo allo «scenario di testa» che Alessandro Rosina auspica, introducendo il rapporto Moressa, al posto dello «scenario di pancia» (respingiamoli tutti) o «di cuore» (accogliamoli tutti). Parole sagge. Ma senza un po’ di cuore non si va lontano. Marie Terese, per dire, deve tutto agli abitanti di Sezze, la cittadina in provincia di Latina dove viveva in clandestinità: fecero una sottoscrizione, andarono in questura perché potesse ottenere i documenti. Lei non ha dimenticato e molto ha restituito col suo lavoro da imprenditrice. Accadeva 23 anni fa: altra era, certo. Ma cervello e cuore insieme possono fare parecchio anche oggi. Pag 32 Impeachment, clima rovente. E il peggio deve ancora venire di Ian Bremmer Sebbene negli anni passati, in America, siano state avviate altre procedure di impeachment, non si era mai visto un clima così arroventato e controverso come quello di oggi. A seguito delle indagini di Mueller, l’attuale recrudescenza di tribalismo politico ha minacciato persino di impedire alla presidente della Camera, Nancy Pelosi, di presentare i capi d’imputazione contro il presidente Donald Trump. Perché mai mettere in pericolo i candidati democratici negli Stati in bilico andando a invischiarsi in un procedimento prettamente politico, che è destinato comunque a insabbiarsi in un Senato controllato dalla maggioranza repubblicana? Nella matematica politica i conti non quadrano più. Ed ecco che a gettare lo scompiglio in quei calcoli sono intervenute le rivelazioni sullo scandalo ucraino. L’accavallarsi degli avvenimenti ha colpito nel segno e la gravità delle accuse - un presidente americano in carica che usa il denaro dei contribuenti, sotto forma di aiuti, come arma di ricatto verso un alleato, per costringerlo ad aprire un’inchiesta su un avversario politico e la sua famiglia - ha finalmente fornito quella spinta politica che era mancata all’inchiesta di Mueller. Di colpo, l’intero partito democratico ha preso posizione a favore dell’impeachment, non solo le sue ali più estreme. Il popolo americano è parso sufficientemente scandalizzato dalle rivelazioni - alcune da parte dei whistleblower, altre provenienti dalla stessa Casa Bianca - al punto che nei sondaggi, in media, il 51% dei cittadini ha appoggiato il procedimento di impeachment la settimana successiva al suo avvio. Un gruppo ristretto di repubblicani si è addirittura spinto a criticare il presidente, cosa rarissima ai nostri giorni. Malgrado tutto, con ogni probabilità Trump sarà scagionato: al Senato, difatti, servono due terzi dei voti per far condannare un presidente e sollevarlo dall’incarico, e ciò significa che venti repubblicani dovrebbero sacrificare la carriera politica per cacciare Trump, il quale gode tuttora di grande popolarità. Comunque, persino un tentativo di impeachment andato a vuoto avrà pesanti ripercussioni sui futuri sviluppi della politica americana. La principale conseguenza, e la più ovvia, sarà sul presidente stesso, il quale ha già cominciato a dar segni di insofferenza, sia su Twitter che nella vita reale. L’incredibile conferenza stampa della scorsa settimana con il presidente finlandese non è stata una semplice bizzarria, bensì il preludio di quello che ci aspetta. Ancor più inquietante è parso l’appello che Trump ha esteso alla Cina affinché faccia luce sulle attività dei suoi avversari politici: per sviare i sospetti dal passo falso iniziale, Trump si è impantanato in una situazione di gran lunga più azzardata. È una strategia pericolosa, ma Trump non si è mai tirato indietro davanti al rischio. Immancabilmente, è arrivato il rimpasto tra il personale statunitense. L’inviato speciale in Ucraina, Kurt Volker, si è già dimesso, ma altre figure chiave dell’amministrazione Trump, quali il segretario di Stato Mike Pompeo e/o il procuratore generale William Barr, potrebbero essere costrette a far le valigie, man mano che emergono nuovi particolari sullo scandalo ucraino, indebolendo così il

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presidente. Sul fronte interno, gli Stati Uniti devono affrontare una paralisi legislativa che si trascina da oltre un anno. Ciò significa che con ogni probabilità Trump si rivolgerà alla scena internazionale per raccogliere consensi in vista delle elezioni del 2020, perciò aspettiamoci nuove iniziative per un vertice con la Corea del Nord, nuove pressioni per il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, e un rinnovato interesse a confrontarsi con l’Iran. Non sono mosse che assecondano gli interessi americani nel lungo periodo, ma favoriscono certamente le posizioni di Trump nel breve periodo: e questa è la sua priorità. Eppure, l’impatto maggiore delle procedure di impeachment sarà quello di spingere gli Stati Uniti verso una crisi costituzionale incentrata proprio sulle elezioni del 2020. Quando l’ex presidente Bill Clinton fu oggetto di un procedimento di impeachment, si trattò di appurare se avesse o meno ostacolato le indagini sulla sua persona. Il procedimento avviato da Mueller contro Trump avrebbe seguito probabilmente la medesima traccia. Ma questo impeachment chiamerà in causa la legittimità dello stesso processo politico americano, chiedendo di far luce sulla possibilità che le elezioni siano state pilotate dall’intervento di Paesi stranieri, forse addirittura dietro pressioni da parte di personalità politiche americane. Che Trump venga condannato o scagionato, quasi la metà della popolazione americana si sentirà ingiustamente colpita dalle accuse e si preparerà a trincerarsi dietro le sue posizioni politiche. Il risultato finale sarà che una parte del pubblico condannerà come illegittimi i risultati delle elezioni 2020, se la vittoria sarà negata al suo candidato preferito. Ricordiamo Bush e Gore, e immaginiamo che il partito perdente non voglia accettare la sconfitta elettorale. Per concludere: se queste ultime settimane di politica americana ci hanno insegnato qualcosa, è che il peggio deve ancora venire. AVVENIRE Pag 1 Ciò che i giudici hanno detto di Mario Chiavario Ergastolo: rigore, dignità, speranza No, non è un cedimento postumo al ricatto di un 'papello' di Totò Riina la conferma della censura della Corte europea dei diritti umani (Cedu) per l’«ergastolo ostativo». Non è vero, insomma, che d’ora in poi mafiosi e terroristi, camorristi e ’ndranghetari, saranno sicuri di fruire comunque, prima o poi, di 'benefici' come permessi e semilibertà, fino alla liberazione condizionale dopo ventisei anni di espiazione carceraria, che l’art. 4-bis della legge penitenziaria ha finora precluso a coloro i quali, condannati in quanto rientranti in tali categorie, non prestino «collaborazione» con la giustizia. Sono dunque del tutto infondate le preoccupazioni immediatamente espresse o ribadite da valorosi magistrati o exmagistrati da sempre impegnati con rigore e competenza in indagini sulla criminalità organizzata? Un’altra volta si deve rispondere di no. E meno ancora si può rimanere insensibili allo sconcerto di persone come la vedova dell’agente Vito Schifani quando non a torto ricorda, a confronto del carcere perpetuo per boss ed esecutori spietati, l’«ergastolo a vita» inflitto a lei nella primavera del 1992 con la strage di Capaci. Molto, però, dipende da una integrale lettura di ciò che la Corte europea ha davvero detto e voluto dire e che è in parte diverso da ciò che qualcuno attribuisce o addebita al collegio giudicante; e subito dopo dipende dalla capacità del nostro Stato di rispondere in modo puntuale – senza isterismi, senza arroganze, senza applicazioni esorbitanti – al messaggio europeo. E qui sono in molti a essere chiamati in causa, ciascuno nel suo ambito: i detentori del potere legislativo, cui si rivolge direttamente, per una riforma della legge vigente, la Corte stessa; prima ancora la nostra Corte costituzionale, che il 22 ottobre dovrà pronunciarsi su questioni in larga parte ricalcate su quella affrontata a Strasburgo; ma inoltre, e soprattutto, i giudici di sorveglianza, che dovranno esaminare vecchie e nuove istanze presentate da persone sottoposte a quella forma di ergastolo. Anzitutto, dunque, non si faccia dire ai giudici di Strasburgo ciò che non hanno detto. A essere giudicato inumano è stato l’inderogabile automatismo normativo tra il rifiuto di «collaborazione» e l’assoggettamento al regime del «fine pena mai», in quanto tale da avvilire la dignità delle persone, e da spegnere ogni speranza di ritorno a una vita 'diversa', sulla base di una presunzione di permanente pericolosità che non potrebbe definirsi assolutamente incontrovertibile. Ma è la Corte stessa a precisare che dalla sua pronuncia non consegue affatto il riconoscimento di un diritto del detenuto sollevato da quel regime ad essere messo necessariamente in libertà. Né viene svilito il ruolo che le

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«collaborazioni» (di giustizia) hanno avuto e possono avere tuttora come preziosi strumenti d’indagine. Indubbiamente esce accentuata la responsabilità dei tribunali di sorveglianza. Senza più lo 'scudo' di quella presunzione assoluta di pericolosità, spetterà loro valutare in concreto – come in ogni altro caso, compresi quelli di ergastolo 'ordinario' – se persista o no la pericolosità del condannato (oggettivamente altissima in radice per la gravità dei crimini commessi), se e quando maturerà il tempo per un’eventuale concessione di questo o quel 'beneficio'. Ma non è affatto detto che quella mancata 'collaborazione' non debba più pesare per nulla. A un automatismo non se ne deve sostituire uno di segno opposto; e, se ce ne fosse bisogno per orientare i giudici, dal Parlamento e magari, già tra pochi giorni, da Palazzo della Consulta potrebbe venire qualche precisa indicazione in tal senso: per esempio, precisandosi esplicitamente che il rifiuto di collaborare, se non può essere di per sé motivo preclusivo a quella concessione, continua però a poter avere rilievo, se del caso anche decisivo, ai fini di una risposta negativa alla richiesta del condannato; e gli accertamenti e le valutazioni, proprio per la caduta di quello scudo, dovranno tendere a essere di particolare rigore. Per tutti noi, l’emersione di una realtà niente affatto marginale (l’«ergastolo ostativo» coinvolge più di mille persone), ma che troppo pochi conoscevano e la svolta impressa dalla Cedu dovrebbero comunque far riflettere parecchio, senza soggiacere all’alternativa tra la condivisione dei truculenti appelli al far 'marcire in galera' e un ingenuo indulgenzialismo senza limiti. La strada la possono indicare proprio i valori della speranza e della dignità che stanno alle base di queste pronunce di Strasburgo. Speranza e dignità da non spegnere in nessuno e anzi da aiutare a risvegliare in chi possa averle smarrite. Speranza e dignità cui si richiama tanto spesso anche papa Francesco, non senza dedurne una contrarietà radicale al «fine pena mai». Speranza e dignità che tuttavia non debbono trasformarsi in fonti di abusi finalizzati al ritorno nel mondo del crimine o addirittura al mantenervi o riconquistarvi posizioni di dominio. Pag 1 Ciò che spetta alla giustizia di Danilo Paolini Ergastolo: diritto certo, non resa ai boss Guardatevi intorno. Li vedete? Sono centinaia di boss mafiosi e terroristi tornati in libertà dopo la conferma della sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo sull’ergastolo ostativo previsto dall’ordinamento penitenziario italiano. Non li vedete? In effetti non potete, perché quel verdetto non aveva lo scopo né il potere di scarcerare nessuno. Eppure a leggere i titoli urlati di molti giornali e le dichiarazioni (ormai altrettanto urlate, se non di più) della gran parte dei politici, ministri e parlamentari, il rapporto di causa-effetto sembra certo: tana libera tutti, l’Italia ha definitivamente perso la guerra contro la mafia e contro il terrorismo. Circolano già liste di nomi tristemente celebri che starebbero per uscire dal portone della prigione. Ogni cosa è perduta. Ne sono convinti, e ce lo spiegano, persino noti giuristi e stimati magistrati, in servizio o a riposo. Del resto, era stato proprio il governo italiano a ricorrere contro la sentenza emessa a giugno dalla Corte di Strasburgo. Per dare un contributo al dibattito in corso, avremmo preferito sinceramente attendere la decisione della Corte costituzionale italiana sulla medesima materia. Ma il clamore e l’allarme seguiti alla pronuncia inducono a una riflessione. Scrivere queste righe, per altro, è come remare controcorrente, con pochi compagni di viaggio (cappellani, avvocati penalisti, radicali) e però, tra i pochi, un campione dell’umanesimo integrale: papa Francesco. È stato lui a definire l’ergastolo una «pena di morte nascosta». Una pena fino alla morte. E ancora lui, un mese fa, ricevendo proprio il personale dell’Amministrazione penitenziaria italiana, ha ricordato che il compito del carcere è di indurre chi ha sbagliato a «prendere coscienza del male compiuto» per favorire «prospettive di rinascita per il bene di tutti». Mentre «l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere», perché «se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società». Ciò che i giudici del Consiglio d’Europa hanno detto al nostro Paese è: l’ergastolo ostativo - quello che nega a chi non ha collaborato con la giustizia la possibilità di chiedere, dopo un certo numero di anni di reclusione, benefici come il lavoro esterno o la semilibertà - è un trattamento inumano. Del resto, già l’ergastolo in sé è in contraddizione con l’articolo 27 della nostra Costituzione, laddove stabilisce che le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato». Una contraddizione attenuata, appunto, dalla possibilità di un

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reinserimento, seppure parziale, nella società. Ma secondo l’associazione 'Nessuno tocchi Caino', gli ergastolani ostativi sono 1.250 su un totale di 1.790. Tutti irrecuperabili? Tutti capi della mafia? Tutti terroristi intenzionati a riprendere la lotta armata? La realtà è che collaborare con la giustizia non sempre è una libera scelta. Può non essere possibile per diversi motivi. Per esempio perché la propria famiglia è esposta a ritorsioni. O perché, da 'manovali' della crimina-lità, non si hanno informazioni utili. Oppure, ancora, perché i propri compagni di crimine sono morti o già 'dentro'. E può perfino darsi, pensate un po’, che uno sia condannato da innocente e che perciò non abbia proprio nulla da riferire. Ma come si può automaticamente escludere che il detenuto non 'pentito' sia cambiato, sia oggi un uomo, una donna, differente rispetto a colui o a colei che si macchiarono del sangue altrui? Meglio che a farlo, come per gli altri ergastolani, sia il giudice di sorveglianza, valutando per ciascun richiedente vicende umane, condotta, circostanze. Tutto qui. Non sarebbe un passo indietro per la certezza della pena, ma un passo avanti per la certezza del diritto. Sarebbe senz’altro più difficile, laborioso, delicato, rispetto al 'chiudere la cella e buttare via la chiave' che va tanto di moda. Purché la cella sia quella di qualcun altro, ovvio: tutti i populismi, anche quello giudiziario, prevedono due pesi e due misure. Sì, dunque, sarebbe più difficile valutare persona per persona. Ma proprio per questo è necessario e sarebbe più giusto. Pag 3 Rifiuti, mafie e fuochi. Veleno a Nord e a Sud di Antonio Maria Mira Cambiano le tratte dei traffici criminali degli scarti C’era una volta una grande regione del Sud che non riusciva a smaltire correttamente i suoi stessi rifiuti. Non aveva impianti. Era in perenne emergenza. Discariche abusive, cumuli di 'schifezze' per strada, roghi nelle campagne. C’erano grandi regioni del Nord dove imprenditori senza scrupoli, per risparmiare sullo smaltimento dei propri rifiuti pericolosi (e anche 'in nero', cioè prodotti fuori dalle regole civili e fiscali) si rivolgevano a intermediari fuori legge per inviarli, a prezzi stracciati, proprio in quella grande regione del Sud. In mezzo, al di sopra, un po’ dovunque, c’era (e c’è) un potere mafioso, che gestisce territori, fa affari, offre spazi, uomini e mezzi. E così in quella grande regione del Sud per almeno trenta anni sono arrivati i veleni del Nord, si sono mischiati a veleni e rifiuti locali, sono stati interrati, sversati, tombati, bruciati. Moltissimi sono ancora lì. Inquinano, avvelenano, ammalano, uccidono. Pochissimi hanno pagato. Sia mafiosi che imprenditori e politici collusi, sia al Sud sia al Nord. Pochi si sono arricchiti. Moltissimi stanno soffrendo. A partire dal territorio e da chi vi abita. E gli anni passano. C’è una grande regione del Sud che non riesce a smaltire correttamente i suoi rifiuti. Ancora non ha impianti. Fa parecchia raccolta differenziata ma male, e non sa dove mettere i rifiuti separati. I pochi impianti si riempiono, alcuni bruciano, le strade tornano a riempirsi di 'monnezza' e nei campi tornano i roghi. Rifiuti urbani e resti delle attività 'in nero'. Ci sono grandi regioni del Nord dove imprenditori (sarebbe meglio definirli 'prenditori') senza scrupoli, attraverso imtermediari fuorilegge, offrono comodi e capienti spazi ad altri imprenditori senza scrupoli, anche della grande regione del Sud. I loro impianti sono strapieni? Non c’è problema. Per i rifiuti si aprono ospitali capannoni del Nord, fabbriche dismesse, resti di un’industrializzazione in affanno. Si riempiono e poi si bruciano, anche qui. Perché non è mai in affanno l’affare illegale dei rifiuti. Prezzi stracciati, carte truccate, esperti e tecnici compiacenti per mettere tutto a posto. In mezzo, al di sopra, un po’ dovunque, il potere mafioso, che gestisce territori, fa affari, offre spazi, uomini e mezzi. Per decenni nella grande regione del Sud, ora nelle grandi regioni del Nord. Ma se serve, se al Nord sentono il fiato della magistratura sul collo, tornano al Sud, molto al Sud, in territori ancor più controllati, nascosti, per ora indenni da rifiuti e inquinamenti. E comunque il servizio è assicurato, a prezzi sempre convenienti... Non è un romanzo giallo, né una serie televisiva su qualche 'Gomorra' o 'Suburra'. È storia criminale ed economica del Paese. È storia, anche e soprattutto, di 'non scelte' politiche e ammini-strative che favoriscono criminali mafiosi e imprenditori criminali. È la storia che emerge dalla mega operazione 'Feudo' della Dda di Milano, ma anche da altre inchieste, dalle analisi e dagli allarmi inascoltati della magistratura e perfino della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Storie vecchie e attualissime. Le tratte dei traffici sono le stesse, ma i percorsi sono invertiti. La Campania, la grande regione del Sud, da enorme discarica è diventata esportatrice di rifiuti. Le grandi regioni del Nord, la

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Lombardia in particolare, dopo aver avvelenato la Campania ora ne ospitano i rifiuti, avvelenando il proprio territorio. Ci sono sempre imprenditori e intermediari senza scrupoli. Ci sono sempre le mafie. Non più la camorra della 'terra dei fuochi' campana (ma non è detto che sia uscita fuori...), che offriva spazi, buchi e mezzi, ma la più evoluta ’ndrangheta formato export, che dispone di esperti, preziosi colletti grigi, capaci di truccare le carte, trasformando un rifiuto tal quale in uno 'trattato', che frequentano banche e imprese. Una ’ndrangheta che accetta anche di inquinare la propria terra, la Calabria (cade un luogo comune) e che non dimentica di saper essere violenta, minacciando e sequestrando chi non sta ai patti. Cambiamenti, evoluzioni – involuzioni. Ma dietro c’è l’eterno problema italiano, l’incapacità nel gestire i rifiuti. Problema italiano, più grave in alcune regioni. La Campania sicuramente, ancora oggi senza impianti, ma anche una grande città come Roma o altre grandi e importanti regioni come la Sicilia. Una situazione che favorisce mafiosi e imprenditori collusi, al Nord come al Sud. Se le tratte si invertono, le gravi colpe della politica restano sempre le stesse. Al Nord come al Sud. Così le mafie ingrassano. Al Nord come al Sud. E i territori si avvelenano. Al Nord come al Sud. IL GAZZETTINO Pag 1 La trattativa in due fasi per la legge elettorale di Alberto Gentili ed Emilio Pucci L'altra sera a cena, oltre a discutere dell'alleanza in Calabria e a studiare la strategia per «mettere la sordina» a Matteo Renzi, Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti hanno anche siglato un «patto anti-frammentazione». Traduzione: scrivere una legge elettorale che possa disinnescare Italia viva dell'ex premier. E così è saltato fuori il doppio turno su base nazionale con premio di coalizione, oppure un sistema proporzionale con sbarramento al 5%. Zingaretti e Di Maio non hanno, però, alcuna fretta di varare la nuova legge elettorale volta a riparare ai danni alla rappresentanza provocati dal taglio dei 345 parlamentari. Perché Pd e 5Stelle vogliono prima verificare (con il voto in Umbria) che i rispettivi elettorati siano compatibili e sommabili. E perché, come spiegano al Nazareno, «se facessimo subito la riforma elettorale il Parlamento attuale ne risulterebbe immediatamente delegittimato. Dunque è meglio aspettare...». Ciò significa che entro dicembre (come stabilito dall'intesa di maggioranza) verrà depositato il testo della legge. Ma soltanto dopo, forse addirittura a ridosso del semestre bianco che precederà l'elezione del capo dello Stato nel 2022, verrà approvato. «Non c'è fretta», spiega una fonte dem che segue il dossier, «tanto più perché è indispensabile coinvolgere nel dibattito tutte le opposizioni. Le leggi elettorali non è mai un bene farle a colpi di maggioranza, come insegna l'Italicum», voluto da Renzi nel 2015 e bocciato dalla Consulta nel 2017 senza mai essere diventato operativo. Il Pd questa mattina aprirà l'istruttoria. Al Nazareno si vedranno il capogruppo Graziano Delrio, il vicesegretario Andrea Orlando (che predilige il sistema spagnolo, al pari del sottosegretario grillino Fraccaro), il costituzionalista Stefano Ceccanti. I tre cominceranno a discutere sia di proporzionale con sbarramento, sia di un doppio turno «molto simile a quello attualmente usato nei Comuni sopra i 15mila abitanti, l'unico», spiega Ceccanti, «in grado di garantire un vincitore certo e dunque stabilità e governabilità». Per invogliare Renzi e Leu, più favorevoli al proporzionale, il Pd è pronto a offrire «una soglia di sbarramento bassa» al primo turno. E l'amo funziona. Ettore Rosato, coordinatore di Iv, si dichiara «aperto a discutere di tutto». Federico Fornaro, capogruppo di Leu, non chiude al sistema dei Comuni ma avverte: «La Consulta ha già bocciato l'Italicum in quanto aveva un eccessivo premio di governabilità...». Si vedrà. Intanto non è del tutto escluso che possa spuntare il referendum confermativo. Nonostante sia decisamente impopolare difendere le poltrone degli onorevoli, Roberto Giachetti è determinato a raccogliere le 126 firme necessarie per promuovere la consultazione: «C'è tempo fino a inizio gennaio e già sono stato contattato da diversi colleghi, come Bergamini e Stumpo, che hanno votato sì al taglio dei parlamentari. Dunque l'impresa è difficile, ma non impossibile. Ci proveremo». Anche perché, in caso di referendum, lo stop al rischio-elezioni verrebbe prolungato fino a giugno. E non c'è deputato e senatore (leghisti e Fdi a parte) che non guardi di buon occhio a questa ipotesi. Qualcosa si muove pure sul fronte della giustizia. Nel vertice della maggioranza

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tenutosi la settimana scorsa il Guardasigilli Alfonso Bonafede era stato tranchant: «La riforma della prescrizione è legge dello Stato». E i rappresentanti del Pd seduti al tavolo si erano lamentati con il capo delegazione Dario Franceschini: «Così non si può andare avanti. Se si alzano muri è difficile trovare una soluzione». Ma oggi pomeriggio al vertice con Bonafede ci saranno solo i dem e viene considerata probabile un'intesa sulla road map della riforma della giustizia: il disegno di legge per il nuovo processo penale (che conterrà anche il tema del Csm, con il Pd che vuole l'eliminazione del criterio del sorteggio per l'elezione dei consiglieri) partirà in un ramo del Parlamento, quello sul civile nell'altro. E appare possibile trovare l'accordo anche sulla prescrizione. Con una norma a salvaguardia, una sorta di clausola. L'obiettivo del Pd è quello di dimezzare i tempi dei processi. E la proposta sarà questa: qualora un processo dovesse durare più di quattro o cinque anni scatterà la prescrizione, altrimenti no. I pontieri sono al lavoro, ma ancora ieri sera non c'era il via libera di Bonafede riguardo alla clausola sulla prescrizione. Così al Nazareno non escludono che su questo tema debba intervenire il premier Giuseppe Conte, qualora oggi non arrivasse l'ok del Guardasigilli. L'alternativa è quella sulla quale puntano i renziani: prorogare di un anno l'entrata in vigore della riforma della prescrizione. LA NUOVA Pag 7 E’ l’egemonia culturale grillina. Ora la palla passa al Pd di Massimiliano Panarari E adesso inizia davvero il tempo delle riforme? È questa la domanda di fondo che porta con sé l'approvazione del taglio dei parlamentari. Una revisione costituzionale assai rilevante, perché va a modificare in profondità il nostro modello di rappresentanza. Approvata con un voto plebiscitario da parte delle forze politiche, dopo che tutte quante - a eccezione dei suoi promotori del Movimento 5 Stelle - l'avevano osteggiata. E quindi, pur dicendone peste e corna, nelle scorse ore l'hanno votata in massa, segnale di una classe politica che non si è autoriformata a tempo debito, non ha saputo realizzare una narrazione alternativa a quella antipolitica e, attualmente, si ritrova paralizzata dal clima d'opinione populista. Questo esito costituisce pertanto una grande vittoria dei 5 Stelle, che infatti hanno festeggiato in piazza di Monte Citorio con tanto di striscioni e forbicione (e torna in mente, al riguardo, quanto la serissima categoria del "carnevalesco" del formalista russo Michail Bachtin risulti applicabile con profitto alla politica postmoderna). Così, Luigi Di Maio - il quale aveva posto il taglio dei parlamentari come conditio sine qua non per fare un accordo con la sinistra - mette a segno un'altra delle misure simbolo di un Movimento che, dopo la fine dell'esperienza gialloverde, era tramortito e in forte caduta nei sondaggi. La "riforma Fraccaro", poi, fa emergere di nuovo la dimensione contrattualistica di questo governo, che appare in maniera molto chiara come una condizione strutturale di qualunque relazione politica con il M5S (in passato esplicitata direttamente, e ora invece implicita). Un effetto dell'ambiguità del suo processo di istituzionalizzazione, e un corollario della visione di un "non partito" nato per "rivoluzionare" il quadro politico e che mantiene un atteggiamento di diffidenza per le alleanze viste alla stregua di contaminazioni negative. E ora, per così dire, la palla passa al Pd. Che deve dimostrare - anche, per l'appunto, in nome della marcata logica contrattuale del rapporto con il M5S - di sapere mettere in campo un disegno complessivo di riforma costituzionale. A partire da quelle garanzie e contrappesi su cui è stato raggiunto tra i partner del Conte 2 un'intesa al momento ancora piuttosto generica. E deve essere un progetto che, passando per le tecnicalità - dal ridisegno dei collegi al numero dei senatori a vita e dei rappresentanti regionali, fino al nodo spinoso della legge elettorale -, e sempre che non venga richiesto il referendum confermativo, dovrebbe trovare la via per ribadire il carattere di democrazia rappresentativa del nostro sistema. Un percorso - peraltro significativamente legato anche ai risultati delle prossime regionali - che ci dirà se il Pd riuscirà a imprimere un proprio segno su questa fase. Altrimenti, dopo questa nuova tappa sotto l'egida dell'egemonia culturale grillina, tale cammino rischia di convertirsi per il gruppo dirigente dem in un'autentica via crucis. Torna al sommario