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NEFROPATIE CRONICHE Qual è la pressione ottimale? CHLAMYDIA Gli effetti del vaccino in un modello previsionale TUMORE VESCICALE Cistectomia robot-assistita o a cielo aperto? CAUTI Come evitarle in terapia intensiva Radiofarmaco: nuova frontiera per il tumore alla prostata PROFESSIONAL EDITION C L IN I C A L L E A D E R K W A M E O W U S U - E D U S E I & patologie urogenitali RENE

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Nefropatie croNicheQual è la pressione

ottimale?

ChlamydiaGli effetti del vaccino in un modello previsionale

tumore vesCiCale

Cistectomia robot-assistita o

a cielo aperto?

CautiCome evitarlein terapia intensiva

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sommario

SCIENCE SHOT

8 Il pReCondIzIonamento IsChemICo RIduCe Il danno Renale post-ChIRuRGICo

9lIvellI tRoppo altI dI testosteRone Prostata a rischio

12RadIofaRmaConuova frontiera contro il tumore della prostata

HIGHLIGHTS

14InfezIonI uRInaRIe da CateteReCome evitarle in terapia intensiva

15tRapIanto dI Reneil fallimento in età pediatrica rende difficoltosi i trapianti successivi

16nefRopatIeComune il dolore cronico

17IpeRplasIa pRostatICa benIGna e RIsChIo CaRdIovasColaRe

18tumoRe vesCICaleCistectomia robot-assistita o a cielo aperto?

19una mIGlIoRe pRospettIva suI tumoRI pRostatICI letalI

EVIDENCE BASED MEDICINE

22resezione transuretrale della prostata per l’iperplasia prostatica

22Chemioterapia adiuvante per i tumori vescicali invasivi

23restrizione proteica per i bambini con insufficienza renale cronica

23inibitori delle fosfodiesterasi per la disfunzione erettile nei pazienti con diabete mellito

INSIDE

24 nefRopatIe CRonICheQual è la pressione ottimale?

THE CLINICAL GAME

29 fai la tua diagnosi e scopri se è esatta

CLINICAL LEADER

34 ChlamYdIa, GlI effettI del vaCCIno In un modello pRevIsIonalea tu per tu con Kwame owusu-edusei

Professional E dit ion

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direttore responsabile francesco Maria avitto

direttore editoriale Vincenzo Coluccia

direttore scientifico lucia limiti

e d i t o r i a l s ta F Fmedical editor Patrizia Maria Gatti, sara raselli, leonardo scalia,magazine editor Marco landucciWeb editor Marzia Caposio, Manuela Biello

a r tart director francesco Moriniimpaginazione niccolò iacovelliWeb developer roberto Zanetti, Paolo Cambiaghi, Paolo Gobbi

i t & d i G i ta liCt manager Giuseppe riccidigital operation manager davide Battaglino

distriBuZioNe diGitale

supplemento al n°4 di Popular scienceGiugno 2015

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redaZioNe• Via Boncompagni, 16

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Farmacisti territoriali 25.558

Farmacisti ospedalieri 2.275

Mmg 35.815

Internisti 17.056

Nefrologi 4.276

Urologi 3.723

Ginecologi 10.990

Oncologi 5.439

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Clinical shotla scienza in immagini

Il precondizionamentoischemico riduceil danno renalepost-chirurgico

il precondizionamento ischemico remoto proteg-ge i pazienti dai danni renali acuti dopo un intervento di chi-rurgia cardiaca e, inoltre, riduce significativamente la necessità di terapie nefrosostitutive e la durata della degenza in unità di terapia intensiva. secondo alexander Zarbock dell’ospedale Universitario di Munster, autore di uno studio in materia su 240 pazienti, si tratta di una pratica economica e sicura che può essere eseguita facilmente sotto anestesia generale, anche se è necessario confermare i dati raccolti in uno studio più ampio prima di introdurre il precondizionamento nella pratica chirurgica.esso consiste nel piazzare un bracciale per la misurazione della pressione nella parte superiore del braccio e gonfiarlo per 5 minuti ad una pressione di almeno 200 mmHg, fase a cui segue un intervallo di riperfusione di 5 minuti con lo sgonfiamento del bracciale. la procedura viene ripetuta tre volte dopo l’induzione dell’anestesia che viene somministrata secondo i criteri standard. durante questa pratica vengono rilasciati diversi mediatori proinfiammatori, che sono filtrati nei glomeruli e successivamente si legano alle cellule tubulari epiteliali inducendo un arresto del ciclo cellulare. nel corso di quest’ultimo le cellule sono protette da ulteriori danni.in caso di danno renale il paziente può andare incontro ad ulteriori ricoveri o anche alla morte o necessitare di sessioni di dialisi in terapia intensiva, il che aumenterebbe la gravità del suo stato generale prolungando la sua ripresa.

Fonte: JaMa online 2015, pubblicato il 29/5

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Quando si tratta di testosterone non sempre vige la regola dei “di più è meglio”. Una sovrabbondanza innaturale di questo ormone, che regola negli uomini anche il desiderio, l’erezione e la soddisfazione sessuale, potrebbe essere tra le cause dell’iperplasia prostatica benigna (BPH), una condi-zione caratterizzata dall’aumento di volume della ghiandola prostatica. È quanto emerge da uno studio della University of California – santa Barbara.

Basandosi su lavori condotti sugli tsimane, una popolazione in-digena isolata nel centro della Bolivia, i ricercatori hanno esa-minato la prevalenza di BPH in un gruppo di circa 350 maschi adulti. all’interno di questo gruppo, casi avanzati di aumento di volume della prostata erano praticamente inesistenti e gli tsimane sono risultati anche avere livelli bassi di testosterone costanti nel corso della loro vita. Chi, pur mantenendosi in un range basso, aveva livelli più alti di questo ormone era dotato anche di una prostata più grande.“Ultrasuoni addominali hanno dimostrato che avevano prostate un 62% più piccole rispetto a quelle di uomini della stessa età negli Usa”, spiega il ricercatore Benjamin trum-ble, che evidenzia come questo aspetto sia stato messo in correlazione con il fatto che gli indigeni risultino avere livelli di testosterone circa il 30% inferiori a quelli di uomini di pari età americani, con tassi molto bassi di obesità, ipertensione, malattie cardiache e metaboliche, come il diabete. Gli studiosi evidenziano quindi che gli uomini in cura per aumentare livelli di testosterone bassi devono prestare attenzione alla prostata.

Fonte: Journals of Gerontology: Medical sciences, 2015

livelli troppo altidi testosteroneprostata a rischio

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RadiofarmacoNuova frontiera contro il tumore della prostata

Un radiofarmaco, che utilizza sostanze radioattive per colpire le cellule tumorali, rappresenta la nuova frontiera contro il cancro della prostata: aumenta del 30% la sopravvivenza globale. ad illustrarne l’efficacia è il presidente dell’associazione italiana di Medicina nucleare ed imaging Molecolare (aimn) onelio Geatti, in occasione del 12/mo Congresso nazionale aimn che ha visto riuniti a rimini oltre 500 specialisti da tutta italia.”abbiamo a disposizione – rileva Geatti – una cura innovativa ed efficace contro il tumore più diffuso tra gli uomini del nostro Paese. solo lo scorso anno sono stati infatti registrati 36.000 nuovi casi”. la nuova molecola si chiama radio-223 dicloruro (ra-223) ed è il primo radiofarmaco efficace nei pazienti affetti da tumore della prostata con metastasi ossee. Una inno-vazione, rileva l’aimn, ”riconosciuta anche dall’agenzia italiana del farmaco (aifa) che sta per inserirlo in fascia H, a totale carico del sistema sanitario”.”serviva una nuova arma contro una malattia che pro-voca piu’ di 7.500 decessi l’anno – sottolinea sergio Baldari, direttore di Medicina nucleare dell’Universi-tà di Messina -. il ra-223 à un radiofarmaco ad azione specifica sulle metastasi ossee. emette radiazioni alfa ed ha dimostrato, rispetto ad altre terapie, di non indurre danni evidenti al midollo osseo. Migliora in modo significativo la qualità della vita dei pazienti e, oltre ad incrementare la sopravvivenza, riduce il dolore osseo che contraddistingue la neoplasia”.“la medicina nucleare è sicura – sostiene maria luisa de rimini, presidente del Congresso aimn -. i radiofarmaci che utilizziamo di solito vengono somministrati con iniezione in vena. il ra-223 espone il paziente a dosi di radioattività estremamente basse e il suo impatto nell’ambiente è quasi pari a zero”.

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highlights

Nell’unità di terapia intensiva neuro-chirurgica del North Shore University Hospital di Manhasset è stato concepito con grande successo un programma per prevenire le infezioni del tratto urinario associate al catetere (CAUTI). In questa unità non si è più verificato alcun caso di infezione del tratto urinario in quasi 8 mesi. Prima che il programma venisse implementato, in questa unità si veri-

InfezIonI urInarIe da catetereCome evitarle in terapia intensiva

ficava almeno un caso di infezione del tratto urinario al mese.Secondo Merin Thomas, uno dei creatori del protocollo, la popolazione delle unità di terapia intensiva neurochirurgica – il 45% della quale è costituita da pazienti con ictus – è particolarmente delicata, in quanto soffre di vescica neurogena, ten-de a trattenere le urine e riceve soluzioni saline ipertoniche. La strategia proposta implica cambiamenti clinici e cultu-rali. Innanzitutto è stata introdotta la pratica correlata alla rimozione precoce del catetere e per ridurre la probabilità di esaurimenti è stato assunto personale supplementare. Sono poi stati aggiunti incentivi visivi tramite poster e magliet-te per il personale.

Le CAUTI rappresentano i più comuni tipi di infezioni ospedaliere e circa un quarto di tutti i pazienti ricoverati in ospedale ha un catetere urinario inserito in vescica, generalmente per poco tempo. Non vi sono indicazioni adeguate per questa pratica e si tratta soltanto di parte di un protocollo, ma ogni giorno in cui un paziente mantiene il catetere aumenta il rischio di infezioni e di mortalità. L’ esperimento condotto rappresenta un primo passo al fine di stabilire le migliori linee guida in mate-ria all’interno di tutti gli ospedali.

Fonte: American Association of Criti-cal-Care Nurses, 2015

Nell’unità di terapia intensiva neurochirurgica del North shore University Hospital di manhasset (Usa) non si è verificato alcun caso di infezione del tratto urinario in quasi 8 mesi. merito di un’attività di sensibilizzazione

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La presenza nell’anamnesi di un precedente trapian-to di rene fallito in età infantile potrebbe essere sfavorevole per i pazienti che si sottopongono ad un nuovo trapianto. L’ autore di un recente studio in ma-teria su 2.281 casi, Matthew Levine dell’Università della Pennsylvania, ha affermato che “abbiamo osservato nei pazienti pediatrici un’influenza dei primi episodi di trapianto di rene sui successivi trapianti. I soggetti che inizialmente sono andati incontro ad esito negativo del trapianto hanno maggiori probabilità di andare incontro ad un secondo trapianto, e coloro che hanno ricevuto un pri-mo trapianto scarsamente corrispondente, vanno in-contro a maggiori difficoltà ad avere accesso ad un secondo trapianto”.Di fatto, molti pazienti trapiantati in età pediatrica richiederanno successiva-mente un nuovo trapianto.

i casi esaminati dallo studio statunitense

2.281

trapIanto dI reneIl fallimento in età pediatrica rende difficoltosi i trapianti successivi

Infatti negli USA questi bambini mantengono la propria priorità per un secondo trapianto.La durata della sopravvi-venza del primo rene e l’età del ricevente all’atto del se-condo trapianto sono fatto-ri chiave associati agli esiti di quest’ultimo. L’intento degli autori non è quello di scoraggiare i nuovi trapian-ti in bambini, adolescenti e giovani adulti, in cui si pre-

vedono sostanziali benefici, quanto piuttosto quello di stratificare il rischio e mirare gli interventi verso questo gruppo di pazienti che potrebbero essere espo-sti ad un maggiore rischio di fallimento del trapianto rispetto a quanto inizial-mente percepito.Una serie di dati recenti suggerisce che alcuni tipi di terapia dialitica possono of-frire la stessa sopravviven-

za di quanto farebbe un tra-pianto di rene nei pazienti anziani in dialisi. é dunque necessario effettuare un approccio maggiormente personalizzato al paziente, prendendo in considerazio-ne le eventuali alternative al trapianto laddove neces-sarie e disponibili.

Fonte: Transplantation online 2015, pubblicato il 23/3

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NefropatieComune il dolore cronico

Il dolore cronico ed il cattivo impiego dei farmaci antidolorifici sono comuni nei soggetti con nefropatie croniche in stadio precoce. Gli autori di un recente studio su 308 pazienti, guidati da Jeffrey Fink dell’U-niversità del Maryland di Baltimora, hanno infatti dimostrato l’esistenza di un legame fra dolore e sicurezza del paziente nelle ne-fropatie croniche e che la popolazione che ne è affetta necessita di una stretta attenzione per la gestione del proprio dolore, in modo che il medico possa scongiurare significativi effetti collaterali dei farmaci pericolosi per la sicurezza del paziente.Benchè il dolore cronico sia comune nelle nefropatie terminali, i dati disponibili sul dolore nelle nefropatie croniche pre-dia-lisi sono più scarsi e la sicurezza potrebbe divenire problematica. Alcuni analgesici prescrivibili e da banco, secondo gli autori, necessitano di dosaggio renale e, inoltre, i FANS sono nefrotossici, anche se vengono spesso impiegati contro il dolore nei pazienti con nefropatie croniche.Alcuni esperti ricordano che l’impiego e la sicurezza degli analgesici, oppiacei compresi, in questa popolazione di pazienti è stata poco studiata e che il loro impatto su esiti cli-nicamente rilevanti come analgesia, qualità della vita correlata alla salute, funzionalità fisica o effetti collaterali è sostanzialmente inesplorato. Il controllo del dolore nelle nefropatie croniche può essere ottenuto tramite un approccio omnicomprensivo che comprenda terapie fisiche, psicologiche e comportamentali, ma è necessario svilup-pare anche altri strumenti per distinguere i pazienti che potrebbero trarre beneficio dall’analgesia a lungo termine da coloro che potrebbero essere particolarmente esposti ad eventuali danni derivanti da questi farmaci.

Fonte: CJASN online 2015, pubblicato il 20/2

il dolore cronico ed il cattivo impiego dei

farmaci antidolorifici sono comuni nei soggetti con nefropatie croniche

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Il periodo in cui gli uomInI con infezioni del tratto urinario inferiorepossono andare incontro a un evento cardiovascolare maggiore

10anni

Gli uomini con sintomi a carico del tratto urinario inferiore di gravità medio-elevata ed iperplasia prostatica benigna potrebbero andare incontro ad un aumento del rischio di malattie cardiovascolari, come accertato da uno studio condotto da Giorgio Ivan Russo dell’Università di Catania. Secondo l’ autore, “il dato più importante che deriva dallo studio consiste nel fatto che, in un gruppo di pazienti con sintomi medio-gravi a carico del tratto urinario inferiore, abbiamo osservato un rischio più che quintuplicato di manifestare un rischio di cardiopatia, pari al 10% o più. In altre parole, questi pazienti potrebbero andare incontro ad un evento cardiovascolare maggiore entro i

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IperplasIa prostatIca benIgna e rIschIo cardIovascolare

prossimi 10 anni”.Secondo l’autore lo status cardiovascola-re di questi pazienti andrebbe valutato ed i medici dovrebbero tenere conto di questi dati durante la valutazione medica globale e nello stabilire nuove strategie preventive. I risultati dello studio, che ha coinvolto 336 pazienti, sono in qualche modo sorprendenti, in quanto nessuna indagine precedente aveva riscontrato associazioni fra questi sintomi, che sono fra i disturbi più comuni dell’uomo in età avanzata, e le malattie cardiovascolari, che rappresen-tano le patologie più diffuse nella nostra società.Non è comunque noto se la cura dei sintomi a carico del tratto urinario

inferiore sia in grado di ridurre il rischio cardiovascolare. Secondo l’autore, i prossimi studi in materia dovrebbero essere longitudinali e focalizzati sulla correlazione fra sollievo dai sintomi e conseguenze cardiovascolari.

Fonte: BJU Int online 2015, pubblicato il 25/3

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tumore vescIcaleCistectomia robot-assistita o a cielo aperto?

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Nei pazienti con tumore vescicale, la recidiva linfonodale extrapelvica e la carcinomatosi peritoneale sono più probabili a seguito di una cistectomia radicale robot-assistita (RARC) che dopo una cistectomia radicale a cielo aperto (ORC). Questo dato deriva da una revisione retrospettiva su 120 pazienti, che ha riscontrato anche che dopo due anni il numero complessivo di recidive locali ed a distanza non differisce più in modo signifi-cativo fra i due gruppi considerati.Secondo Daniel Nguyen del Weill Cornell Medical College di New York, autore dello studio, “questo risultato, tenendo conto delle limitazioni derivanti dal basso numero di eventi, sugge-risce che i pazienti con patologia maggiormente avanzata a

livello clinico (tumori di grandi dimensioni, lesioni che invadono l’intera parete vescicale, o presenza di idronefrosi pre-opera-toria) potrebbero non essere buoni candidati per la RARC. La cistectomia a cielo aperto potrebbe rappresentare ancora lo standard per questi pazienti”.L’impiego della RARC per i tumori vescicali rimane comunque controverso e sono stati riportati alcuni casi di disseminazione peritoneale durante gli interventi di chirurgia minimamente invasiva in questi pazienti. Secondo Nguyen “ la cistectomia robotica non dovrebbe essere considerata equivalente a quella a cielo aperto sin quando la sua sicurezza oncologica non verrà dimostrata da studi a lungo termine. Un buon candidato per la RARC sarebbe un paziente con tumore vescicale ad uno stadio che non supera il T2 e non presenta le normali controindica-zioni alla laparoscopia (come interventi estensivi precedenti o BPCO) e che non presenti gravi comorbidità dato che la RARC di solito dura di più di un intervento a cielo aperto.”

Fonte: Eur Uro online 2015

Un buon candidato per la rarc sarebbe un paziente con tumore vescicale ad uno stadio che non supera il T2 e non presenta le normali controindicazioni alla laparoscopia

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una mIglIore prospettIva suI tumorI prostatIcI letalI

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Uno studio che ha tracciato la storia evolutiva delle mutazioni genetiche nei tumori prostatici letali, ha riscontrato che alcune metastasi vengano di fatto disseminate dalle cellule tumorali provenienti da altre metastasi e non dal tumore primario originale, Secondo il coautore William Isaacs - professore di urologia al Johns Hopkins Brady Urological Institute e di oncologia alla Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora - questi dati porteranno ad una migliore compren-sione delle metastasi nei tumori prostatici, la cui complessità

è tale da rendere necessaria un’analisi approfondita per poter agire in modo efficace. La ricerca ha dimostrato anche che, a differenza di altre tipologie tumorali, sussiste un patrimonio genetico comune nei tumori prostatici, il che lascia spazio alla speranza di sviluppare nuove terapie in grado di agire in fasi più precoci della malattia. Essa, peraltro, ha anche confermato l’importanza cruciale della cascata androgenica per il tumore prostatico, e che l’ulteriore sviluppo di farmaci che blocchino questa cascata rimane la giusta via da percorrere. Lo studio ha implicato l’analisi dettagliata dei campioni tumorali provenienti da vari siti anatomici (fra cui non soltanto la prostata, ma anche ossa, fegato e ghiandole linfatiche) di 10 pazienti deceduti per tumori prostatici metastatici dopo essere stati trattati al Johns Hopkins Hospital. Gli autori hanno osservato che la malattia tende a divenire molto eterogenea man mano che si diffonde nell’organismo, sia fra i vari individui, sia all’interno dello stesso soggetto. Fonte: Nature online 2015

La ricerca ha dimostrato anche che, a differenza di altre tipologie tumorali, sussiste un patrimonio genetico comune nei tumori prostatici. Questo lascia spazio alla speranza di sviluppare nuove terapie in grado di agire in fasi più precoci della malattia

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a = elevata abbiamo molta fiducia nel fatto che la stima dell’efficacia sia vicina all’efficacia reale negli esiti con-siderati. le evidenze accumulate presentano deficit scarsi o nulli. e’ nostra opinione che i dati siano stabili, ossia che un nuovo studio non porterebbe ad un cambiamen-to nelle conclusioni.

B = moderatasiamo moderatamente certi che la stima dell’efficacia sia vicina alla re-ale efficacia per gli esiti considerati. le evidenze accumulate presentano alcuni deficit. e’ nostra opinione che i dati siano probabilmente stabili, ma permangono alcuni dubbi.

C = Bassala certezza del fatto che la stima dell’efficacia sia vicina alla reale efficacia per gli esiti considerati è limitata. le evidenze accumulate presentano deficit numerosi o importanti (o entrambi). e’ nostra opinione che siano necessarie ulteriori evidenze prima di poter concludere che i dati siano stabili o che la stima dell’efficacia sia vicina all’efficacia reale.

d = iNsuFFiCieNtenon abbiamo evidenze, non siamo in grado di stimare l’efficacia, o non abbiamo fiducia nella stima dell’ef-ficiacia per quanto riguarda l’esito considerato. non sono disponibili evidenze, oppure le evidenze accu-mulate presentano deficit inaccetta-bili, precludendo il raggiungimento di una conclusione.

solidità delle evidenze: gradi e definizioni

evidence based medicine

eBm

Cosa sono?

L’EBm, in italiano “medicina basata sulle prove di efficacia”, ha come obiettivo quel-lo di assicurare che le decisioni cliniche siano informate dai risultati della ricerca, in particolare della ricerca clinica. Tra le sue funzioni chiave c’è quella di forni-re uno strumento di lettura rispetto ai dati della ricerca e di ricondurli al singolo paziente. Per accresce-re la credibilità delle deduzio-ni di un medico – rispetto, per esempio, all’utilità di un test o all’efficacia di una terapia o per una corretta prognosi – e per trasformare tali deduzioni in nozioni condivisibili dai colleghi e dall’intera comunità scientifica, diventa imprescindibile lo sforzo di standardizzare e validare le osservazio-ni maturate nel contesto della pratica medica. E per interpretare la letteratura scientifica esistente su eziologia, diagno-si, prognosi ed efficacia delle strategie terapeutiche è necessario comprendere e condividere le regole metodologiche di base. Non tutti gli studi clinici forniscono informazioni di uguale affidabilità, quin-di nella decisione clinica le prove di effi-

cacia avranno un peso maggiore a secon-da della robustezza della fonte che le ha prodotte. La visualizzazione più efficace di questa gerarchia è quella della pirami-de delle evidenze, che posiziona al pro-

prio vertice le prove sperimentali più af-fidabili e alla base quelle aneddotiche.

Sebbene esistano diverse varianti di piramide delle evidenze, la scala ge-rarchica di ciascuna pone al primo posto le informazioni desunte da revisioni sistematiche che inclu-dono studi clinici controllati di buona qualità; all’opposto, il pa-

rere degli esperti senza supporto di studi empirici occupano l’ultima

posizione. Nelle posizioni intermedie si trovano gli studi di popolazione e gli

studi osservazionali, nei quali la relazione tra l’intervento e l’effetto (o tra l’esposizio-ne a un fattore di rischio e l’effetto) non è causale e le inferenze di associazione sono spesso esposte a errori sistematici.

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E B M

Evidence summaries20.7.2005LiVELLo EViDENZE = a

La resezione transuretrale della prostata è efficace nel miglio-rare il grado dei sintomi nell’iperplasia prostatica, e l’effetto è prolungato.

Un articolo su Clinical Evidence ha riassunto i risultati di due SRC, per un totale di 779 soggetti, che hanno paragonato la re-sezione transuretrale (TURP) all’attesa vigile. Nel primo SRC la TURP si è dimostrata in grado di ridurre significativamen-te il grado dei sintomi. Dopo 5 anni il tasso di fallimento del trattamento era del 10% con la TURP, contro il 21% dell’attesa vigile, ed il 36% degli uomini assegnati all’attesa vigile ha do-vuto far ricorso alla chirurgia. Nel secondo SRC, la TURP ha migliorato significativamente i punteggi IPSS (differenza 10,4 punti, 95% CI 8.5 / 12.3).

Bibliografia: Webber R. Benign prostatic hyperplasia. What are the effects of surgical treatments? Clinical Evidence 2005;13:1101-1105.

Resezione transuretrale della prostata per l’iperplasia prostatica

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Evidence summaries1.11.2006LiVELLo EViDENZa = B

La chemioterapia adiuvante per i tumori vescicali invasivi sem-bra migliorare la sopravvivenza.

Una revisione del database Cochrane ha incluso 6 studi per un totale di 491 soggetti. L’HR complessivo per la sopravvivenza era pari a 0,75 (95% CI 0.60 / 0.96, p=0.019), il che suggerisce una riduzione relativa del 25% nel rischio di mortalità con la che-mioterapia rispetto a quella osservata nel gruppo di controllo. L’impatto degli studi sospesi precocemente, dei pazienti che non hanno ricevuto i trattamenti assegnati o che non hanno ricevuto la chemioterapia d’emergenza, è poco chiaro. La poten-za della metanalisi è chiaramente limitata. Commento: La qualità delle evidenze risulta ridotta per via dei risultati imprecisi (dimensioni degli studi limitate per ciascun raffronto).

Bibliografia: Advanced Bladder Cancer (ABC) Meta-analysis Col-laboration. Adjuvant chemotherapy for invasive bladder cancer (individual patient data). Cochrane Database Syst Rev 2006 Apr 19;(2):CD006018

Chemioterapia adiuvante per i tumori vescicali invasivi

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Evidence summaries18.1.2008LiVELLo EViDENZa = c

La restrizione proteica non è probabilmente efficace nel ritardare la progressione della nefropatia cronica verso la nefropatia ter-minale nei bambini.

Una revisione del database Cochrane ha incluso 2 studi per un totale di 250 bambini. Uno studio ha incluso 24 neonati recluta-ti ad un’età massima di 6 mesi, e l’altro 226 bambini di età com-presa fra 2 e 18 anni (in media 10,4 anni). Non sono state riscon-trate differenze significative nel numero di obliterazioni renali determinanti l’introduzione della dialisi, di trapianti di rene o di casi di mortalità (RR 1.12, 95% CI 0.54 / 2.33, 1 studio, n=191), di pro-gressione della nefropatia (clearance della creatinina dopo due anni; WMD 1.47, 95% CI -1.19 / 4.14, 1 studio, n=191) o nella crescita (peso - WMD -0.13, 95% CI -1.10 / 0.84; altezza - WMD -1.99, 95% CI -4.84 / 0.86, 2 studi, n=215).Commento: La qualità delle evidenze risulta ridotta per via del-la qualità degli studi (occultamento di al-locazione poco chia-ro e mancato design in cieco) e dei risul-tati imprecisi (di-mensioni degli studi limitate per ciascun raffronto).

Bibliografia: Cha-turvedi S, Jones C. Protein restriction for children with chronic renal failure. Cochrane Database Syst Rev 2007 Oct 17;(4):CD006863.

Restrizione proteica per i bambini con insufficienza renale cronica

Evidence summaries1.3.2007LiVELLo EViDENZa = a

Gli inibitori della fosfodiesterasi 5 (PDE-5) sono efficaci contro la disfunzione erettile nei pazienti diabetici.

Una revisione del database Cochrane ha incluso 8 studi per un totale di 1717 soggetti. L’80% dei partecipanti aveva diabete di tipo 2. La WMD per le domande 3 e 4 dell’ Inter-national Index of Erectile Function (IIEF, frequenza della penetrazione durante il coito e mantenimento dell’erezione sino al completamento dello stesso) era pari a rispettiva-mente a 0,9 (95% CI 0.8 / 1.1) e 1.1 (95% CI 1.0 to 1.2) al termine del periodo di studio a favore del gruppo attivo. Il RR di ris-posta affermativa ad una domanda sull’efficacia globale (“il trattamento ha migliorato l’erezione?”) era pari a 3,8 (95% CI 3.1 / 4.5) nel gruppo trattato con inibitori della PDE-5 rispetto a quello di controllo. La WMD fra la percentuale di tentativi di successo nel gruppo trattato con inibitori della

PDE-5 e quelli nel gruppo di control-lo era pari a 26,7 (95% CI 23.1 / 30.3). Le cefalee sono state l’effetto col-laterale riportato più di frequente.

Bibliografia: Vardi M, Nini A. Pho-s p h o d i e s te r a s e inhibitors for erectile dysfun-ction in patien-ts with diabetes mellitus. Cochra-ne Database Syst Rev 2007 Jan 24;(1):CD002187

Inibitori delle fosfodiesterasi per la disfunzione erettile nei pazienti con diabete mellito

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Nefropatie croNiche

Qual è la pressione ottimale?

ènoto da secoli come l’i-pertensione sia un fenomeno pericoloso: la sua associazione con ictus e malattie cardiova-scolari è stata più volte con-fermata e non solo per valori pressori elevati.dunque è lecito chiedersi quali potrebbero essere i va-lori pressori ottimali.

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Secondo la stima del Prospective Studies Consortium, sarebbero più di un milione i casi in cui l’ipertensione arteriosa si associa a un aumento del rischio cardio-vascolare, e tale rischio si mantiene elevato anche con

valori pressori bassi come 115/75. Anzi il rischio raddoppiava per ogni 20 mmHg di aumento nella pressione sistolica e ogni 10 mmHg nella diastolica. Vi sono solide evidenze a supporto del fatto che ridurre la pressione porti anche a una riduzione del rischio cardiovascolare. Questo principio si applica ai pazienti con patologie cardiovascolari esistenti, che siano ipertesi o meno, alle vittime di ictus, ai soggetti diabetici, ai cosiddetti pazienti pre-ipertensivi e forse anche alla popolazione generale. Alcune analisi osservazionali hanno suggerito che una pressio-ne sistolica al di sotto dei 130 mmHg potrebbe essere associata a un aumento del rischio, ma sinora nessuna meta-analisi ha identificato un target al di sotto del quale la riduzione della pressione risulta dannosa. È piuttosto chiaro che i vari tipi di farmaci comunemente impiegati per la riduzione della pressione siano efficaci più o meno allo stesso modo, e che la loro efficacia sia additiva: nella maggior parte delle popolazioni cliniche, il dibattito si è spostato sul migliore approccio per gli interventi su vasta scala. È stato dimostrato che i trattamen-ti intensivi per raggiungere un particolare target pressorio migliorino i risultati nei pazienti diabetici, ma questo potrebbe non essere un approccio realistico per il miglioramento degli esiti per la salute in una condizione tanto ubiquitaria. Inizia ad essere studiata l’efficacia di approcci alternativi: nella coorte Kaiser Permanente, la percentuale di pazienti che hanno otte-nuto il controllo pressorio è aumentata dal 44% all’80% con un semplice intervento basato su un polifarmaco in compressa sin-gola e su un supporto multidisciplinare costante. Dati i grandi numeri dei pazienti affetti da questa patologia, è rassicurante apprendere che un semplice approccio basato su farmaci a basso costo possa risultare efficace. La gestione intensiva andrebbe forse riservata alle forme gravi che pongono a rischio la sopravvivenza del paziente. Le linee guida JNC8 di recente pubblicazione hanno riportato l’attenzione su questa questione. Esse raccomandano il rilassamento della pressione target da 130/80 a 140/90, o anche a 150/90 nei soggetti al di sopra dei 60 anni, ma gli esperti non sono di parere unanime in materia, e i target ottimali per la popolazione generale continuano ad esse-re oggetto di sostanziale dibattito, come anche il fatto se debba essere impiegato del tutto un target oppure no.

Va notato che le linee guida USA per la gestione del colesterolo, rilasciate in contemporanea, hanno abbandonato il concetto di target, preferendo la misurazione del livello di rischio e intervenendo nei

pazienti ad alto rischio, senza molteplici misurazioni dei livelli di colesterolo. E’ stato suggerito che un approccio del genere possa essere im-piegato anche nel trattamento dell’ipertensione. La pressione è una variabile continua, e continua è anche la sua correlazione

con il rischio cardiovascolare; pertanto suddividere la popola-zione in soggetti al di sopra e al di sotto della soglia dei 140/90, riservando il trattamento solo ai primi, significherebbe ignorare i benefici per la salute che potrebbero derivare dalla riduzione della pressione a qualsiasi livello nei soggetti portatori di gravi patologie croniche e di un rischio elevato. Questa prospettiva si applica di sicuro, in particolare, ai pazienti portatori di nefro-patie croniche. Il trattamento dell’ipertensione nei soggetti con nefropatie croniche è ancora controverso, soprattutto per quanto riguarda l’intensità della riduzione pressoria. Le linee guida JNC8 del 2014 hanno suscitato posizioni critiche da parte dei nefrologi, e varie società scientifiche hanno presentato linee guida differenti, ma appare chiaro che nessun singolo target pressorio e nessun singolo farmaco risultino appropriati per tutti i pazienti, e che le conoscenze riguardanti il trattamen-to ottimale dell’ipertensione nelle nefropatie croniche siano ancora limitate. Queste ultime sono state costantemente asso-ciate alle malattie cardiovascolari, e sussiste una correlazione inversa fra tasso di filtrazione glomerulare e rischio cardiova-scolare. Le forme precoci e moderate di nefropatia vengono sempre più spesso riconosciute per il loro ruolo quale fattore di rischio indipendente in questo senso, come testimoniato dalla

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loro recente inclusione nelle raccomandazioni consensuali delle Joint British Societies per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. I dati derivanti sia dagli studi radiologici che da quelli epidemiologici suggeriscono che l’irrigidimento arterioso e le patologie incipienti a carico del ventricolo sinistro (ipertro-fia e fibrosi) rappresentino i mediatori patogeni chiave delle malattie cardiovascolari nelle nefropatie croniche.

L’ipertensione, d’altro canto, ne rappresenta una comune complicazione, e persiste nella maggior parte dei pazienti con nefropatie terminali, nonostante le convenzionali tre sedute di emodialisi alla settimana.

Un recente studio ha esaminato gli effetti delle emodialisi fre-quenti sulla pressione nell’ambito della più complessa indagine Frequent Hemodyalisis Network..Nel ramo diurno dello studio, due mesi di emodialisi 6 volte alla settimana hanno ridotto la pressione sistolica media di 7,7 mmHg e quella diastolica di 3,9 mmHg rispetto a quella praticata 3 volte alla settimana. Nel ramo notturno, invece, lo stesso intervento ha fatto registrare una riduzione della pressione sistolica di 7,3 mmHg e di quella diastolica di 4,2 mmHg. In entrambi i rami, gli effetti del trat-tamento sulla pressione erano ancora presenti dopo 12 mesi. L’emodialisi frequente ha determinato la necessità di una quan-

tità di farmaci anti-ipertensivi significativamente inferiore. Più in generale, molte nuove pubblicazioni in materia sono me-ta-analisi, linee guida e dibattiti su linee guida, ma i nuovi dati derivanti da studi clinici sono scarsi e frammentari. Tre linee guida revisionate (KDIGO, JNC8 e KHA-CARI) raccomandano un target inferiore a 140/90. La maggior parte dei farmaci antii-pertensivi risulta efficace allo stesso livello, ma questo principio potrebbe non applicarsi ai casi di nefropatia cronica avanzata. La presenza di proteinuria è vista in genere come un’ eccezione: tutte e tre le linee guida raccomandano un target di 130/80 in questo caso, e viene preferito l’impiego di ACE-inibitori o bloc-canti dei recettori dell’angiotensina (ma non entrambi contem-poraneamente). Non mancano commenti e pareri degli esperti, ma la solidità delle evidenze e la loro generalizzabilità diminu-iscono con l’avanzare dell’insufficienza renale e l’incremento dell’impatto della calcificazione vascolare e del sovraccarico di acqua e sali. In questo senso, un approccio basato sui livelli di rischio potrebbe non avere una valenza inferiore a quello basato sui target soglia, ma rimangono necessari studi clinici su pazienti con nefropatie croniche avanzate per identificare i trattamenti più efficaci, fra i quali potrebbe figurare un ritorno dello spironolattone.

Un caso particolare riguarda la comparsa di una situa-zione peculiare nota come sindrome cardiorenale. I meccanismi fisiopatologici alla base dello sviluppo di questa sindrome nelle nefropatie croniche com-

prendono elementi neuroumorali, emodinamici e correlati alla stessa nefropatia. Recenti studi suggeriscono che l’attività della rete del simpatico possa svolgere un ruolo nel suo sviluppo, ma lo studio SYMPLICITY HTN-3 non è riuscito a dimostrare una riduzione della pressione a seguito della denervazione renale cateterizzata nei pazienti con ipertensione resistente. In prece-denza era opinione comune che il danno renale nei soggetti con insufficienza cardiaca derivasse da un deficit di riempimento delle arterie legato al basso output cardiaco, ma di recente è sta-to anche investigato il ruolo dell’ipertensione venosa renale in questo processo. Sarebbe utile sviluppare un’opzione terapeu-tica affidabile per la sindrome cardiorenale data la presenza di meccanismi emodinamici diversi dal controllo volumetrico che intervengono con l’uso dei diuretici. Le attuali opzioni terapeu-tiche includono il blocco del sistema renina-angiotensina oltre al controllo volumetrico, ma rimangono limitate. È necessario

ridurre la pressione si associa a riduzione del rischio cardiovascolare nei pazienti già cardiopatici, ipertesi o meno, nelle vittime di ictus, nei diabetici, nei pazienti pre-ipertensivi e forse anche nella popolazione generale.

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un approccio multidisciplinare per la prevenzione della sin-drome cardio-renale e alcune possibili iniziative comprendono la denervazione del simpatico renale, il trattamento dell’iper-tensione venosa renale e l’impiego dell’FGF23. Quest’ultimo è un ormone fosfaturico che è stato recentemente identificato come fattore correlato alle nefropatie croniche e che influenza la sindrome cardiorenale. Il suo impiego presenta sia vantaggi che svantaggi in termini di progressione di quest’ultima. Merita infine menzione la cosiddetta ipertensione maligna, una rara manifestazione clinica della nefropatia IgA, di cui prevalenza, patogenesi ed evoluzione non sono ben note. Secondo uno studio retrospettivo su 13 casi, essa ha una prevalenza del 7%, e i pazienti si presentano con una pressione d’esordio media di 219/132. La microangiopatia trombotica è in genere assente, e la biopsia renale ha dimostrato la presenza di lievi lesioni croniche. La terapia standard è rappresentata da bloccanti del sistema renina-angiotensina-aldosterone e talora da steroidi, ma tutti i pazienti vanno incontro ad una perdita progressiva della funzionalità renale. La sopravvivenza renale è del 69% a tre anni e del 35% a 6 anni, e anche facendo ricorso al trapianto di rene la nefropatia IgA tende a recidivare circa in un quarto dei casi, portando a nuovi episodi di ipertensione maligna.

• Optimal Targets for Blood Pressure Control in Chronic Kidney Disease (Curr Opin Nephrol Hypertens. 2014; 23: 541-6)

• Cardiorenal syndrome in chronic kidney disease. (Curr Opin Nephrol Hypertens online 2015, pubblicato il 29/1)

• Malignant hypertension: a type of IgA nephropathy manifestation with poor prognosis. (Nefrologia. 2015; 35: 42-9)

• Antihypertensive mechanisms of intra-renal dopamine. (Curr Opin Nephrol Hypertens online 2015, pubblicato il 15/1)

• Association between visit-to-visit clinic blood pressure variability and home blood pressurevariability in patients with chronic kidney disease. (Ren Fail. 2015; 12: 1-6)

• Treatment of Hypertension in Chronic Kidney Disease: Does one Size Fit All? A Narrative Review from a Ne-phrologist's Perspective. (Curr Hypertens Rev online 2015, pubblicato il 7/1)

• Effects of frequent hemodialysis on blood pressure: Results from the randomized frequent hemodialysis network trials. (Hemodial Int online 2015, pubblicato il 5/1)

• Central blood pressure in chronic kidney disease: latest evidence and clinical relevance. (Curr Hypertens Rev. 2014; 10: 99-106)

BibliografiaNella sindrome cardio-renale i meccanismi fisiopatologici ritrovabili alla base delle nefropatie croniche comprendono elementi neuroumorali, emodinamici e processi correlati alla nefropatia stessa.

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GAME

THECLINICAL

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risposta corretta: iNcoNTiNENZa UriNaria misTa

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PaZiENTEDonna, 66 anni

aNamNEsi FamiLiarEPadre deceduto all’età di 88 anni, nessuna patologia nota di rilievo; madre deceduta all’età di 84 anni, diabetica. Un fratello di 64 anni, iperteso. Coniugata, marito di 66 anni in apparente buona salute. Due figli in apparente buona salute, 4 nipoti in apparente buona salute.

aNamNEsi PaToLoGica rEmoTaLa paziente nega episodi patologici di rilievo nell’arco della sua vita, e riferisce di aver sem-pre goduto di relativa buona salute.

aNamNEsi PaToLoGica ProssimaLa paziente giunge all’osservazione lamentando la comparsa dell’improvvisa necessità di urinare, e spesso riferisce di non riuscire ad arrivare in bagno in tempo. Si sveglia almeno una o due volte durante la notte per urinare, e suo marito ha iniziato a lamentarsi di queste interruzioni notturne al suo sonno. La paziente riferisce anche di perdere occasionalmente un po’ di urina quando tossisce o starnutisce. Presenta una costipazione di entità mode-rata che gestisce di solito con agenti da banco. Secondo la paziente, i sintomi sono iniziati gradualmente, ma sono notevolmente peggiorati negli ultimi mesi, per questo ha deciso di consultare il medico. All’esame obiettivo generale ndp e non segni evidenti di demenza o morbo di Alzheimer.

sULLa BasE DEi siNTomi Di PrEsENTaZioNE, QUaLE sosPETTaTE Possa EssErE iL ProBLEma Di QUEsTa PaZiENTE?a) Normale invecchiamentoB) Incontinenza urinaria da stress (SUI)c) Incontinenza urinaria da urgenza (UUI)D) Incontinenza urinaria mista

&patologie urogenitaliRene

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CLIN

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L’incontinenza urinaria (Ui) è prevalente fra gli anziani, ma non fa parte del norma-le processo di invecchiamento. La pazien-te manifesta sia SUI che UUI, suggerendo la presenza di un’incontinenza urinaria mista. La UI è una sindrome clinica che interessa il 47% delle donne anziane. Ben-ché sia uomini che donne possano mani-festarla, è molto più comune nelle donne, e la sua prevalenza aumenta con l’età. Gli altri fattori di rischio di UI compren-dono fumo, nefropatie, diabete, eccesso di peso e uso di alcuni medicinali, come ad esempio alcuni farmaci per il cuore, miorilassanti, sedativi e antiipertensivi. La UUI è caratterizzata da un’improvvisa ed intensa urgenza di urinare, seguita dalla perdita involontaria di urina. Molti pazienti con UUI presentano una fre-quente necessità di urinare sia durante

le ore diurne che durante quelle notturne (nicturia). La più comune causa di UUI è la vescica iperattiva idiopatica (OAB), ma questa forma è anche associata a una varietà di disordini neurologici come sclerosi multi-pla, problemi cerebrovascolari, morbo di Parkinson e traumi a carico del midollo spinale, nel qual caso si parla di vescica neurogena. Sintomi del genere possono anche essere associati a infezioni del trat-to urinario, influenze alimentari e proble-mi intestinali, oppure esserne esacerbati. La UUI emerge quando la pressione vescicale è sufficiente a sopravanzare il meccanismo sfinterico, e l’elevata pres-sione vescicale o del detrusore determina l’apertura del collo della vescica e dell’ure-tra. Ciò avviene come risultato dell’iperat-tività detrusoriale (contrazioni intermit-

DiscUssioNE

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BiBLioGraFia

Correlates of urinary incontinence during the menopausal transition and early postmeno-pause: observations from the seattle Midlife Women’s Health study. (Climacteric. 2013; 16: 653-62)

Correlates of urinary incontinence during the menopausal transition and early postmeno-pause: observations from the seattle Midlife Women’s Health study. (Climacteric. 2013; 16: 653-62)

national Committee for Quality assurance (nCQa). Proposed changes to existing measure for Hedis® 2014: management of urinary incontinence in older adults (MUi). (March 21, 2013)

Management of oaB in those over age 65. (Curr Urol rep. 2013; 14: 379-85)

Management of mixed urinary incontinence. (Womens Health (lond eng). 2012; 8: 567-57)

female mixed urinary incontinence: a clinical review. (JaMa. 2014; 311: 2007-14)

improving the manage-ment of urinary incon-tinence. (Practitioner 2014; 258: 21-4)

tenti della vescica che si verificano senza la volontà del paziente) o dell’aumento incrementale della pressione associato a un aumento del volume vescicale (perdita di compliance dell’uretra). I pazienti che riportano sintomi di SUI e UUI ricevono la diagnosi di incontinenza urinaria mista (MUI), che rappresenta circa un terzo di tutti i casi di UI. La SUI si manifesta come perdita di urina con l’incremento della pressione intra-addominale, come avviene con gli starnuti, la tosse, il sollevamen-to di pesi o la risata. Essa si attribuisce spesso a cambiamenti fisici associati alla gravidanza, al parto o alla menopausa, e può verificarsi con l’indebolimento dello sfintere vescicale. L’incontinenza da sovraflusso, o incapacità di svuotare completamente la vescica, che determina la frequente e costante perdita di urina, è associata a danni vescicali, blocco dell’efflusso o danni neurali derivanti da problemi neurologici conseguenti a diabe-te, sclerosi multipla o traumi del midollo spinale. La UUI sembra essere più comu-ne della SUI o della MUI: i risultati dello studio SWAN hanno riportato che il 46,7% delle donne presenta UI almeno una volta al mese. Benché molte donne riportino SUI, sono ancora di più quelle che hanno sviluppato UUI. I fattori associati a una frequente incontinenza comprendono ansia, aumento di peso o BMI elevato. Allo stesso modo, i risultati del Seattle Midlife Women’s Health Study su 300 donne hanno concluso che la UUI sia associata a età più avanzata, percezione di uno stato di salute soggettivo peggiore, non meno di tre parti e obesità. Da un punto di vista terapeutico, le attuali linee guida raccomandano un trattamento conservativo focalizzato sugli elementi più fastidiosi della UI come trattamento di prima linea. Gli inter-venti comportamentali raccomandati comprendono educazione del paziente e consulenze, modifiche dello stile di vita, modifiche alle abitudini per l’evacuazione e la minzione, ginnastica dei muscoli del pavimento pelvico e, se appropriato, per-dita di peso. Gli approcci comportamenta-li richiedono la partecipazione attiva del paziente e del personale assistenziale. I pazienti che riducono la propria assunzio-ne quotidiana di fluidi del 25% potrebbero andare incontro a significative riduzioni

dei loro sintomi di urgenza, frequenza e nicturia. I pazienti dovrebbero inoltre ridurre o eliminare i potenziali fattori irritanti per la vescica, come bevande gassate, alcool, caffeina, cibi speziati o ni-cotina, e aumentare l’assunzione di fibre per facilitare la regolarità intestinale. La caffeina è stata identificata come fattore di rischio indipendente e probabilmente dose-dipendente di attività detrusoriale, ed il thè e le bevande analcoliche diete-tiche creano di solito più problemi delle bevande analcoliche normali, del caffè o delle bevande gassate. Un recente studio ha riscontrato che un apporto di caffeina superiore a 204 mg/die (o di almeno due tazze di caffè) sia associato alla UI. Inoltre la ricerca suggerisce che per ogni incremento di 5 unità nel BMI si rileva un incremento del 60-100% nel rischio di incontinenza quotidiana: di conseguenza, una perdita di peso almeno del 5-10% è stata connessa ad una riduzione della gra-vità dei sintomi dell’UI, ed in particolare in caso di UUI. Le terapie comportamen-tali comprendono l’allenamento vescicale e le minzioni programmate: il medico può suggerire che i pazienti programmino le minzioni ogni 1-2 ore durante il giorno, aumentando progressivamente gli inter-valli fra le minzioni, il che migliorerebbe la propria sicurezza nella propria capacità di controllare la vescica. Ai pazienti può essere insegnato ad integrare tecniche di rilassamento, strategie di distrazione e/o esercizi di respirazione profonda per integrare la minzione programmata e as-sistere nella soppressione delle urgenze. I fisioterapisti specializzati possono istru-ire le pazienti nella PFMT o negli esercizi di Kegel per aiutarle a rafforzare i musco-li del pavimento pelvico che supportano vescica, uretra, utero e retto, migliorando così la stabilità della vescica. Il rafforza-mento dei muscoli del pavimento pelvico è stato trovato particolarmente efficace per le donne di mezza età più giovani e per quelle con SUI; ma in ogni caso i suoi benefici non si rendono evidenti prima di qualche settimana di esercizio. Nono-stante la sua efficacia, poche donne sono portate verso questo tipo di esercizio, ma la ricerca suggerisce che la sua combina-zione con la minzione programmata possa risultare più efficace di ciascun approccio da solo.

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La Chlamidya è un’infezione a trasmissione sessuale diffusa ma sottovalutata, anche perché non dà sintomi. molte persone che contraggono l'infezione non si sottopongono agli esami per avere una diagnosi e quindi non ricevono un trattamento medico. Kwame owusu-Edusei, un economista dello u.S. Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta, ha valutato l’impatto economico-sanitario di un’eventuale vaccinazione contro questa infezione.

Dottor Edusei, perchè le infezioni chlamydia possono essere considerate un pericolo per la salute pubblica?La Chlamydia è la malattia a trasmissione sessuale più frequente negli Stati Uniti, con più di 1,4 milioni di casi riportati nel 2013, principalmente tra le giovani donne. Siccome la Chlamydia non dà sintomi, molte persone che contraggono l'infezione non si sottopongono agli esami per avere una diagnosi e quindi non ricevono un trattamento medico. Le conseguenze di una infezione di Chlamydia non diagnosticata sono particolarmente gravi proprio per le giovani donne, perché esiste il rischio di complicazioni che possono durare per tutta la vita, come malattie infiamma-torie urogenitali ed infertilità.

come avete sviluppato il vostro modello economico?Abbiamo preso in considerazione una popolazione di 100000 persone (50% donne, 50% uomini), ed abbiamo svi-luppato un modello di diffusione della Chlamydia basato su questa popolazione. Siccome le statistiche dimostrano che la Chlamydia infetta soprattutto persone tra i 15 ed i 24 anni, abbiamo fatto rientrare tutta la popolazione dello studio in questa fascia di età.

Esiste un vaccino per chlamydia?Al momento, non esiste alcun vaccino per la Chlamydia, per quanto ne sappiamo, e non ci risulta che alcuna azienda stia lavorando per lanciarne uno sul mercato. Noi abbiamo fatto delle considerazioni sull'efficacia, la durata dell'im-

munità e il costo di un generico potenziale vaccino per Chlamydia.

Quali caratteristiche di un ipotetico vaccino avete consi-derato? Abbiamo assunto che l'efficacia del vaccino fosse del 75%, con un costo di 547 dollari (dollari USA del 2013, costo di una serie completa di vaccinazioni per ogni persona) e capace di offrire immunità per 10 anni. Questa previsione è in linea con altri studi relativi al rapporto costo/effica-cia dei vaccini per altri agenti patogeni. Per prevedere la copertura della vaccinazione per Chlamydia ci siamo basati sull'attuale diffusione dei vaccini HPV negli Stati Uniti.

Quindi un programma di vaccinazione per chlamydia può essere vantaggioso? Questo studio ed i suoi risultati servono proprio a fornire informazioni per decidere se finanziare un vaccino per Chlamydia.I nostri risultati indicano che l'opzione migliore consiste nel vaccinare donne di 14 anni, prima dell'inizio dell'attività sessuale. Infatti, vaccinare donne tra i 14 ed i 25 anni ha un rapporto dell'incremento di costo (ICER) pari a 16200$/QALY (il CDC ritiene vantaggioso qualsiasi rapporto infe-riore a 30000$/QALY, n.d.r.). Lo screening e la vaccinazione catch up avrebbero un ICER di 26300$/QALY.

Quali sono i limiti del vostro studio?I limiti sono diversi: tanto per cominciare si tratta di un modello previsionale, ed i modelli sono sempre semplifica-zioni del mondo reale. Alcuni parametri che abbiamo usato non sono certi; abbiamo escluso l'impatto delle vaccinazio-ni sulla spesa per gli screening (che diminuirebbe, n.d.r.) e sui potenziali effetti collaterali del vaccino (che aumente-rebbero i costi, n.d.r.).

avete intenzione di migliorare il vostro modello?Si, speriamo che nel prossimo futuro, appena nuovi dati saranno disponibili, noi ed altri ricercatori saremo in grado di sviluppare modelli più complessi, che potranno ridurre i limiti del nostro modello attuale.

ChlamYdIa, GlI effettI del vaCCIno In un modello pRevIsIonalea tu per tu con Kwame owusu-edusei

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CLINICAL LEADER

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Kwame owusu-edu-sei è un economista dello u.s. Centers for disease Control and prevention di atlanta (CDC) . Si occupa fin dal 2007 di valutare il costo e l'efficacia delle politiche di vaccinazio-ne pubblica assieme ai medici del CdC.

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