RACCONTI FUORICLASSE 2013 - Associazione Editori Modenesi · 2015. 12. 24. · RACCONTI FUORI...

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RACCONTI FUORI CLASSE 2013

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RACC

ONTI

FUOR

ICLA

SSE •

2013Anche quest’anno l’Associazione Editori

Modenesi ha deciso di sostenere l’iniziativa di alcune scuole modenesi con questa nuova edizione del concorso “Racconti Fuoriclasse”, giunta al suo

terzo appuntamento.

Gli autori si sono immedesimati nel loro ruolo di scrittori e hanno elaborato i loro temi pensando a un lettore da coinvolgere, da catturare, da colpire

a volte e, usando diverse tecniche di scrittura, hanno raccontato, nella maggior parte dei casi, di fatti cruenti di cronaca, di problematiche sociali vissute in prima persona, di guerra, di violenza, di vendetta, di destini che arrivano inesorabili o

iniziano puntuali… alle tre del pomeriggio…

A tutti i ragazzi va il nostro ringraziamento e l’augurio di disegnare e condividere con gli altri

il migliore dei mondi possibili, esplorando, sognando, scoprendo

RACCONTI FUORICLASSE2013

Le illustrazioni sono state realizzate da allievi dell’Istituto Superiore d’Arte “A. Venturi” di Modena1 – Annalisa Paltrinieri, 1ªF2 – Marco Rubbera, 1ªF3 – Annarita Barbieri, 2ªF4 – Sara Cassanelli, 2ªF5 – Giada Lanzotti, 2ªF6 – Francesca Nordi, 2ªF7 – Greta Petrarca, 2ªF8 – Lisa Syrbu, 2ªF9 – Giulia Tomasselli, 2ªF10 – Morgana Volpi, 2ªF11 – Laura Zambroni, 2ªF

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Nata il 20 marzo 2009 l’Associazione Editori Modenesi (AEM) ha come scopo principale di riunire, in un affiatato gruppo di lavoro, gran parte delle realtà editoriali attive nel territorio modenese al fine di promuovere, diffondere e far co-noscere i libri pubblicati nella nostra pro-vincia attraverso mostre, fiere, rassegne e iniziative culturali. L’intento è dunque di diventare un punto di riferimento per coloro che scrivono, producono o vendono libri e per coloro che i libri li leggono.

I soci fondatori dell’AEM sono case editrici distribuite sul territorio della provincia. Gli editori associati nel 2013 sono: Almayer (Lama Mocogno)APM (Carpi)Artestampa (Modena)Artioli (Modena)CDL (Finale Emilia)Colombini (Modena)Damster (Modena)Iaccheri (Pavullo)Il Fiorino (Modena)Infinito (Formigine)Incontri (Sassuolo)MaPi (Guiglia)Vaccari (Vignola)

In copertina: illustrazione di Giada Lanzotti2ªF - Istituto Superiore d’Arte “Adolfo Venturi”

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RACC

ONTI

FUOR

ICLA

SSE •

2013Anche quest’anno l’Associazione Editori

Modenesi ha deciso di sostenere l’iniziativa di alcune scuole modenesi con questa nuova edizione del concorso “Racconti Fuoriclasse”, giunta al suo

terzo appuntamento.

Gli autori si sono immedesimati nel loro ruolo di scrittori e hanno elaborato i loro temi pensando a un lettore da coinvolgere, da catturare, da colpire

a volte e, usando diverse tecniche di scrittura, hanno raccontato, nella maggior parte dei casi, di fatti cruenti di cronaca, di problematiche sociali vissute in prima persona, di guerra, di violenza, di vendetta, di destini che arrivano inesorabili o

iniziano puntuali… alle tre del pomeriggio…

A tutti i ragazzi va il nostro ringraziamento e l’augurio di disegnare e condividere con gli altri

il migliore dei mondi possibili, esplorando, sognando, scoprendo

RACCONTI FUORICLASSE2013

Le illustrazioni sono state realizzate da allievi dell’Istituto Superiore d’Arte “A. Venturi” di Modena1 – Annalisa Paltrinieri, 1ªF2 – Marco Rubbera, 1ªF3 – Annarita Barbieri, 2ªF4 – Sara Cassanelli, 2ªF5 – Giada Lanzotti, 2ªF6 – Francesca Nordi, 2ªF7 – Greta Petrarca, 2ªF8 – Lisa Syrbu, 2ªF9 – Giulia Tomasselli, 2ªF10 – Morgana Volpi, 2ªF11 – Laura Zambroni, 2ªF

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Nata il 20 marzo 2009 l’Associazione Editori Modenesi (AEM) ha come scopo principale di riunire, in un affiatato gruppo di lavoro, gran parte delle realtà editoriali attive nel territorio modenese al fine di promuovere, diffondere e far co-noscere i libri pubblicati nella nostra pro-vincia attraverso mostre, fiere, rassegne e iniziative culturali. L’intento è dunque di diventare un punto di riferimento per coloro che scrivono, producono o vendono libri e per coloro che i libri li leggono.

I soci fondatori dell’AEM sono case editrici distribuite sul territorio della provincia. Gli editori associati nel 2013 sono: Almayer (Lama Mocogno)APM (Carpi)Artestampa (Modena)Artioli (Modena)CDL (Finale Emilia)Colombini (Modena)Damster (Modena)Iaccheri (Pavullo)Il Fiorino (Modena)Infinito (Formigine)Incontri (Sassuolo)MaPi (Guiglia)Vaccari (Vignola)

In copertina: illustrazione di Giada Lanzotti2ªF - Istituto Superiore d’Arte “Adolfo Venturi”

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Concorso letterario degli studenti delle scuole modenesi

3ª edizione - maggio 2013

RACCONTI FUORICLASSE

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RACCONTI FUORICLASSERACCONTI FUORICLASSEConcorso letterario degli studenti delle scuole modenesi3ª edizione - maggio 2013

L’Associazione Editori Modenesi ringrazia

i dirigenti scolasticiLiviana CassanelliFrancesca Romana GiulianiStefano GraziosiGiovanna MoriniRoberta Pinelli

i docentiArcangela CaragnanoMariangela CavaniNadia Di GrusoMargherita MantovaniMaria Elena MonariCarla QuarantaMichela SalsaruloFrancesca SartoriAnna SoresinaM. Cristina Tazzioli

gli studenti delle scuole modenesi:Liceo Scientifico delle Scienze Applicate “Fermo Corni” di ModenaIstituto Tecnico Industriale “Fermo Corni” di ModenaLiceo Musicale “Carlo Sigonio” di ModenaLiceo delle Scienze Umane “Carlo Sigonio” di ModenaIstituto Superiore d’Arte “Adolfo Venturi” di ModenaLiceo Scientifico “Wiligelmo” di Modena

la CNA di Modena che ha dato un contributo per la realizzazione di questo volume

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Tra vent’anni non sarete delusi del-le cose che avete fatto ma di quelle che non avete fatto. Allora levate l’ancora, abbandonate i porti sicuri, catturate il vento nelle vostre vele. Esplorate. Sognate. Scoprite.

Mark Twain

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PRESENTAZIONE

E siamo a sette.Sono sette anni che il Liceo Sigonio organizza la gara di scrittura “Rac-conti fuoriclasse” e l’iniziativa continua a raccogliere molto successo.

Certamente, il patrocinio dell’Associazione Editori Modenesi, che da tre anni raccoglie in un curatissimo volume i racconti selezionati e premia in Piazza Grande i tre migliori, ha contribuito molto all’afferma-zione dell’iniziativa, tanto che quest’anno le scuole partecipanti sono ancora aumentate. Con l’adesione del Liceo Wiligelmo di Modena le istituzioni scolastiche sono infatti diventate sei: Liceo Musicale Sigonio, Liceo delle Scienze Umane Sigonio, Liceo Artistico Venturi, Istituto Tec-nico Corni, Liceo delle Scienze Applicate Corni e Liceo Wiligelmo.

È la dimostrazione che l’intuizione di alcuni insegnanti, anni fa, di proporre un’esperienza di scrittura creativa ai loro studenti raccoglie ancora un interesse per certi versi inaspettato, in un mondo in cui la cultura non viene tenuta in gran conto.

E ancora una volta gli studenti ci hanno stupito per la loro capa-cità di esprimersi, di raccontarsi, di mostrare i propri sentimenti e le emozioni più personali e più intime, di giocare con le parole. Fantasia, invenzione, immaginazione, originalità, tutte caratteristiche che si ritro-vano nei racconti selezionati, a dimostrazione che, se guidati, anche gli studenti apparentemente meno dotati possono mostrare una inattesa potenzialità creativa.

Non è un caso che eminenti pedagogisti come John Dewey negli USA e Celestin Freinet in Francia abbiano sostenuto la scrittura creativa, per le sue motivazioni educative nell’ambito di quel processo continuo che è l’educazione.

I racconti qui pubblicati ci hanno stupito anche per la varietà di temi affrontati: dal giallo ai ricordi, dalle paure più profonde alle emozioni più gioiose: tutto il ventaglio delle esperienze umane viene raccontato.

Ed è significativo che più di un racconto affronti il tema del terre-moto dello scorso maggio, a riprova di quanto quelle giornate abbiano segnato la vita delle persone, considerato anche che due delle scuole

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partecipanti (Liceo Sigonio e Liceo Artistico Venturi) hanno dovuto ab-bandonare le proprie sedi storiche danneggiate dal sisma.

Può sembrare una contraddizione, ma la scrittura creativa può inol-tre costituire lo stimolo per la lettura, che è l’altro scopo importante del-la nostra Gara di racconti.

Come dice Ferdinando Camon: “La scrittura registra il lavoro del mondo. Chi legge libri e articoli, eredita questo lavoro, ne viene trasfor-mato, alla fine di ogni libro o di ogni giornale è diverso da com’era al-l’inizio.

Perciò leggere non è soltanto un diritto, è anche un dovere”.A questo scopo hanno lavorato le insegnanti che hanno seguito

l’iniziativa e che ancora una volta hanno dimostrato che nella scuola pubblica italiana ci sono tuttora, nonostante tutto, energie ed entusiasmi insospettati, voglia di sperimentare, curiosità intellettuale, fiducia nelle potenzialità degli studenti, alto senso della propria missione professio-nale, consapevolezza che insegnare non è riempire una testa di nozioni ma accendere un interesse duraturo.

A tutte loro il ringraziamento più sentito da parte dei Dirigenti delle scuole coinvolte.

E a chi prenderà in mano questo libretto, un consiglio disinteressato, quello di non fermarsi alle prime pagine, ma di leggerlo fino in fondo: i nostri ragazzi vi sorprenderanno e, forse, vi insegneranno qualcosa.

Roberta Pinelli Dirigente del Liceo delle Scienze Umane “Carlo Sigonio”

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RACCONTI FUORICLASSE 2013

Anche quest’anno l’Associazione Editori Modenesi ha deciso di soste-nere l’iniziativa di alcune scuole modenesi con questa nuova edizione del concorso “Racconti Fuoriclasse”, giunta al suo terzo appuntamento.

Come negli anni precedenti, prima di scrivere questa presentazione, ho letto con attenzione gli elaborati che sono arrivati e, come sempre, sono rimasto stupito dai temi trattati e dai modi di narrare dei parteci-panti, che mostrano abilità e qualità sorprendenti.

Leggendo questi racconti, scritti da alunni di prima e seconda supe-riore, selezionati dalle classi quarte, ci si aspetta di trovare scene di vita quotidiana lette e interpretate attraverso il filtro dell’unica condizione imposta dalle insegnanti: iniziare il testo con le parole “Alle tre del po-meriggio”. E ancora ci si aspettano guizzi di fantasia, fughe nell’imma-ginario, situazioni “semplici” e “momenti felici”, vista anche l’età dei ragazzi e delle ragazze.

Niente di tutto questo!Gli autori si sono immedesimati nel ruolo di scrittori e hanno elabo-

rato i loro racconti pensando a un lettore da coinvolgere, da catturare, da colpire a volte e, usando diverse tecniche di scrittura, hanno narra-to, nella maggior parte dei casi, fatti cruenti di cronaca, problematiche sociali vissute in prima persona, episodi di guerra, di violenza, di ven-detta, destini che arrivano inesorabili o iniziano puntuali… alle tre del pomeriggio.

I racconti colpiscono per le tematiche affrontate, specchio dei tempi e della società attuale, riflesso e condizionamento dei media che sottolinea-no gli aspetti più negativi ammiccando alla morbosità del lettore/spetta-tore ed esaltando la spettacolarità nel dramma.

Ecco che allora compaiono tra le righe l’ineluttabilità del destino, la volontà del caso, l’inesorabilità degli eventi che seguono il loro corso, la

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RACCONTI FUORICLASSE

ricerca delle soluzioni più veloci a problemi complessi, la naturalezza nel commettere un delitto e la sorpresa nel riconoscersi assassini, ma anche il timore del cambiamento, spesso doloroso, gli eterni ritorni, la separazione, la morte come “dimensione disperata”, gli appuntamenti ineludibili, il trascorrere del tempo e lo scoccare dell’ora “x”.

Alcuni sprazzi di luce e di speranza filtrano però da questi racconti, a narrarci ancora che la vita è bella; che anche a eventi disastrosi come il terremoto si possono annettere valori positivi; che le cose capitano ma che in un modo o nell’altro le situazioni si superano; che l’attesa nell’im-mobilità, nell’ansia e nella paura di una scadenza importante può essere vinta dalla determinazione e dall’azione; che anche i momenti più dif-ficili, pericolosi, dolorosi si possono affrontare e risolvere; che il tempo, malgrado tutto, scorre e quell’appuntamento, alle tre del pomeriggio, è destinato a lasciare il posto ad altri appuntamenti…

Elis Colombini presidente AEM

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Racconti fuori classe

UN PUGNO IN PIENO VISOGabriele Bertoni, 1ªO, ITIS “F. Corni”, Biennio tecnicoModena

Alle tre del pomeriggio stavo tenendo una conferenza sull’anda-mento della mia azienda quando lo rividi, non potevo crederci.

Era proprio lui: Jack, colui che aveva reso i miei anni alle su-periori un vero inferno.

Trovarmelo davanti dopo quasi vent’anni fu un vero e proprio shock.

Ricordavo ancora tutte le umiliazioni che mi aveva fatto subire nei cinque anni che avevamo passato insieme da adolescenti. Jack era il classico bulletto: era sempre seguito da due ragazzi grossi il doppio del normale, aveva tutte le ragazze ai suoi piedi e il suo passatempo preferito era rubarci la merenda, farci gli sgambetti e rubarci i compiti.

Quanti pugni in faccia avrei voluto dargli!Uno degli episodi che non scorderò mai fu quando mi rubò i

vestiti durante l’ora di educazione fisica e io dovetti uscire dallo spogliatoio in mutande, con gli occhi di tutta la scuola puntati su di me: fu veramente umiliante.

Per colpa sua ero arrivato ad odiare la scuola: alzarsi tutte le mattine sapendo cosa mi sarebbe aspettato durante la mattinata era a dir poco snervante; inoltre sapere che Marylin, la ragazza di cui ero da sempre innamorato, aveva una cotta per quel bullo non faceva che peggiorare la situazione.

Per questo, finite le scuole superiori, cambiai città e andai in un’università molto prestigiosa, lavorai sodo e mi laureai con il massimo dei voti. Cercai lavoro e mi accettarono in un’azienda farmaceutica di fama internazionale. Volevo dimostrare a lui, ma

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soprattutto a me stesso, che non ero il perdente che mi aveva fatto credere di essere durante quegli anni.

In quel momento però, guardando Jack, si vedeva chiaramen-te che gli anni passati non gli avevano fatto tanto bene: era grasso, era diventato bruttissimo, puzzava come se vivesse in una fogna e ridotto in quello stato poteva dire addio alle belle ragazze che da giovane gli giravano intorno continuamente.

Io mi misi a ridere perché il ragazzo che faceva tanto il bullo ora era solo un pigro scansafatiche, un fallito senza una carriera decente. Chiedendo in giro, scoprii che la moglie lo aveva lasciato quasi un anno prima per un altro uomo e che era lì solo per ripu-lire la sala una volta finita la conferenza.

Io, al contrario, ero il presidente di un’azienda famosa, avevo sposato Marylin dopo averla rivista una volta finita l’università e avevamo tre splendidi figli.

A fine conferenza andai a parlargli; subito non mi riconobbe ma quando gli dissi il mio nome la sua faccia cambiò di colpo, diventò rosso per la rabbia e la vergogna, si girò da un’altra parte, quasi correndo via.

Ero riuscito a vendicarmi per gli anni infernali che mi aveva fatto passare e avevo dimostrato che alla fine non conta essere prepotenti ma impegnarsi nella vita per raggiungere buoni risul-tati.

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Racconti fuori classe

LA FINESTRAMaria Luisa Basciu, 1ªP, ITIS “F. Corni”, Biennio tecnicoModena

Alle tre del pomeriggio Digory era seduto sul vecchio divano di quello sfarzoso e antico soggiorno.

Era una casa di campagna fuori Londra. Si erano trasferiti lì per sfuggire ai bombardamenti che squarciavano la capitale. Era una vecchia villa circondata da alberi secolari che la lasciavano all’ombra. Non c’era molto da fare lì, aveva esplorato la zona cer-cando qualcosa che potesse rendere la permanenza interessante, fuori aveva trovato solo la campagna, dentro era più divertente, c’erano stanze nascoste, corridoi e cunicoli che si estendevano ovunque. Guardava pensieroso il soffitto bianco, pensava fosse un colore poco adatto, gli sembrava una presa in giro in quella situazione. Lui, lì, in un’altra casa, lontano da tutto ciò che co-nosceva, lontano da tutto quello che lo faceva sentire sicuro. Lui era stato fortunato, altri erano rimasti nell’inferno, lui ora era nel purgatorio, un luogo di pentimento e solitudine.

Spostò lo sguardo sull’orologio a pendolo, continuava a tic-chettare, immobile in quell’angolo oscuro della sala. C’era silen-zio, eppure il rumore del silenzio scandito solo da quel ticchettio era opprimente, una strana tensione si propagava nell’aria, era palpabile, ma non ne capiva il senso. Che cosa strana il tempo, passa senza che nessuno se ne accorga, non riusciamo a vederlo ma i suoi effetti si sentono in tutto e tutti, basta solo farlo passare per notarlo. In quel momento, mentre si faceva inondare da que-sti pensieri, iniziò a sentirsi solo. A volte ci sono giorni in cui vor-resti fuggire, scappare lontano, invece rimani e affronti la realtà, una realtà che non vorresti mai vedere. In quel silenzio, in quella

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casa le cui mura sembravano volergli crollare addosso, sentiva solo quel ticchettio che sembrava aumentare secondo dopo se-condo. Ma come era arrivato lì? Non lo sapeva nemmeno lui. In un momento di lucidità iniziò a porsi domande che fino a poco prima non gli erano nemmeno passate per la mente. Dov’erano tutti gli altri? I suoi genitori, sua sorella, i proprietari della casa e le cameriere… non c’erano, non c’era nessuno. Il panico si fece strada in lui, iniziò a correre per le camere, ma qualcosa o qual-cuno sembrava frenarlo, non riusciva a muoversi. Si strattonò via da quel nulla che gli impediva i movimenti. Attraversò stanze che sembravano infinite e improvvisamente arrivò a una stanza che non ricordava di aver mai visto. Dove sono io? Ma non era quello che lo terrorizzava di più, un pensiero orribile gli attraversò la testa, come un’ascia che si conficca nel cranio.

Un alito gelido si fece strada nella stanza, strisciava infido ver-so di lui e gli si posò sul dorso della mano.

Si voltò verso il punto da cui proveniva quel respiro. Si avvici-nò a una finestra da cui si sentiva ululare il vento.

Da quanto era lì quella finestra? Nei suoi occhi si dipinse un’espressione di terrore, orrore, disgusto, disperazione… Fuori non c’era il mondo che conosceva. Quello era l’inferno. Vedeva scheletri camminare tra i vivi che li sorvegliavano con armi e cani da guardia, erano tenuti come schiavi, facevano credere loro di avere una speranza, e appena iniziavano ad affiocarsi, loro li spe-gnevano una volta per tutte. Erano tenuti come bestie, o quelle probabilmente erano trattate meglio, rinchiusi senza via di scam-po in enormi allevamenti recintati con fili spinati che spegnevano anche le ultime speranze. Non era possibile, non era concepibile una cosa come quella, solo un demone poteva aver fatto una cosa simile. Eppure negli occhi di qualcuno brillava una luce fioca, fa-miliare. Non erano scheletri, erano uomini.

Si ridestò dall’incubo nella sua stanza, sudato e inorridito. Era solo un sogno, un orribile sogno, o così avrebbe voluto pensare anche negli anni successivi.

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VIAGGIO NEL TEMPOAlessandro Damiani, 1ªQ, ITIS “F. Corni”, Biennio tecnicoModena

Alle tre del pomeriggio del 30 dicembre 2012 Marco era appena uscito di casa per trovarsi con i suoi amici a giocare a calcio come facevano tutti i pomeriggi, ma non avrebbero mai potuto imma-ginare quello che sarebbe successo.

Stavano giocando a calcio quando all’improvviso ci fu un lam-po accecante.

Quando si risvegliarono, si ritrovarono in un mondo scono-sciuto. Nel posto in cui si trovavano c’erano tantissime piante, fiumi limpidi e non era minimamente inquinato. Decisero di proseguire a piedi, sperando prima o poi di trovare qualcuno o qualcosa che li aiutasse; dopo due lunghe ore di camminata ar-rivarono a una specie di città in cui sorgevano alti palazzi, si re-spirava aria pulita, non era inquinata e le macchine volavano e non rilasciavano gas. Percorsero la città in lungo e in largo e a un certo punto trovarono una persona disposta ad aiutarli; raccontò loro che si trovavano nell’anno 3000, che c’erano state altre guerre mondiali, l’umanità era sopravvissuta ad esplosioni nucleari, ter-remoti, tsunami, eruzioni vulcaniche e violenti tornado all’inizio dell’anno 2013.

Marco guardò gli altri stupito e chiese all’uomo del futuro come avevano fatto a sfuggire alla fine e lui gli rispose che per due giorni tutti gli abitanti della Terra si erano trasferiti sulla Luna.

Marco e i suoi amici capirono il pericolo e l’uomo suggerì loro di andare presso uno studio in cui era presente una macchina per tornare al passato, i ragazzi lo ringraziarono e partirono. Attra-versando quella meravigliosa città rimasero tutti estasiati dalla

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sua bellezza e dall’equilibrio tra natura e civilizzazione al suo interno, sembrava che tutti i cataclismi accaduti fossero serviti da lezione all’umanità, che da quel momento viveva in equilibro perfetto con la natura.

Quando finalmente arrivarono all’indirizzo, datogli dall’uo-mo del futuro, trovarono la porta chiusa, bussarono più volte ma non ci fu nessuna risposta, allora decisero di forzare la porta e entrarono. All’interno della casa non erano presenti oggetti tran-ne quella strana macchina del tempo, ragionarono sul da farsi ma non trovarono nessuna soluzione e proprio quando si stavano per arrendere, un bagliore accecante li colpì. Quando riuscirono a ria-prire gli occhi si trovarono davanti un uomo di nome Luca che chiese loro in che modo poteva aiutarli.

Si risvegliarono nel campo da calcio dove tutto era incomin-ciato e subito andarono a raccontare tutto quello che era successo, ma come era prevedibile, nessuno li credette. Non sapevano più come fare e continuarono a raccontare la loro storia ma gli unici che li credevano erano i soliti fanatici sulla fine del mondo. Le voci cominciarono a spargersi e riuscirono con molta difficoltà a essere ricevuti dal Presidente che li ascoltò e per sicurezza inviò una navicella sulla Luna.

Arrivò la notte del 31 dicembre 2012, i ragazzi sembravano rassegnati e tristi, allo scoccare della mezzanotte si salutarono e subito dopo ci fu una scossa.

“Marco, Marco è ora di svegliarsi, devi andare a scuola!”Marco aprì gli occhi, fece per alzarsi per capire cosa era suc-

cesso e appena capì si rituffò nel letto.

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Racconti fuori classe

CALCIO Federico Zanichelli, 2ªB, ITIS “F. Corni”, Biennio tecnicoModena

Alle tre del pomeriggio, Marco doveva ancora finire di eseguire i compiti che gli avevano assegnato per il giorno seguente. Il solito riassunto del capitolo che lo allontanava da una bella passeggia-ta nel parco, odiava scrivere. Era un ragazzo normale, semplice, come tutti gli altri del quartiere. Non aveva molti amici, si era appena trasferito in quella città ed era molto timido. Finito il suo dovere, iniziò a prepararsi. Non voleva camminare quel giorno, sarebbe andato a correre, perché amava tenersi in forma. Vestito da calcio iniziò il suo ‘allenamento’ o almeno così lo chiamava, in verità voleva solamente conoscere bene la zona e farsi notare dagli altri ragazzi. Voleva degli amici, una nuova vita. L’adole-scenza senza l’amicizia non è una vera e propria adolescenza. Passando per il parco, inciampò su un pallone, era arrivato lì per-ché un ragazzo più o meno della sua stessa età l’aveva tirato. Era il vicino di casa che aveva sbagliato un rigore. Il suo nome era Sam, stava giocando a calcio con i suoi amici. Si riconobbero e il vicino chiese a Marco se avesse potuto calciare il pallone verso di lui. Così tirò verso quella direzione, lo ringraziarono mentre sta-va per riprendere la sua corsa piacevolmente. Sam si girò di scatto e chiamando Marco gli disse di dirigersi verso di lui. Aveva una proposta. Gli chiese se gli andasse di giocare una partita a pallone con i suoi amici. Marco non sapeva come ringraziarlo, sarebbe stata la svolta per la sua vita?

Si presentò agli altri. Iniziarono a giocare finché il sole non andò dietro le alte montagne che arricchivano il fantastico pa-norama della cittadina. Era un momento bellissimo. Il punteg-

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gio della partita però era di 3-3. Bisognava segnare. Detto fatto, l’azione successiva Marco venne steso in area di rigore con un fallo non violento e assolutamente involontario, ma fu concesso il rigore. Il rigore! Marco avrebbe rischiato il tutto per tutto, per lui quella partita era come un esame di ammissione in quella cerchia di amici, non sarebbe mai più stato solo. Così decise di calciare, aveva paura. La paura che tutto quello che aveva immaginato, l’amicizia, potesse essere rovinata da quella stupida azione sba-gliata. Prese le distanze e con un gran tiro di destro, calciò a giro nell’angolino. Un goal come pochi. La sua squadra esultò saltan-dogli addosso, erano felicissimi, dopo tutto si sa che vincere sui propri amici non ha prezzo, piace a tutti, soprattutto a calcio, uno sport molto competitivo.

Sarebbe stato ricordato nei giorni seguenti per quell’episodio, finalmente aveva amici che lo chiamavano ogni volta che orga-nizzavano qualcosa. Se fosse stata la svolta per la sua vita? Lo era stata eccome, finalmente aveva la cosa più importante di tutte, l’amicizia.

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L’IMPOSTORE Arfaoui Bilel, 2ªB, ITIS “F. Corni”, Biennio tecnicoModena

Alle tre del pomeriggio, un uomo era affacciato alla finestra e os-servava la bolla, una barriera protettiva progettata per protegge-re la terra dagli attacchi alieni, all’inizio copriva solo le città più grandi ma ora conteneva tutto il pianeta, la bolla è stata la nostra prima e vera reazione contro gli alieni. Qualcuno bussò alla por-ta: «Avanti.» Entrò un ragazzo sulla ventina alto, capelli corti e castani, naso aquilino e mento pronunciato: «Dottor Selvig porto brutte notizie.» E l’uomo dalla curiosità rispose: «Dimmi!» Si capì dalla faccia del ragazzo che era qualcosa di grave: «Abbiamo tro-vato un buco nella barriera.» Incredulo il dottor Selvig rispose: «E dove sarebbe?» Il ragazzo tirò fuori una mappa elettronica: «Non lontano da qui, a Newtown.» Non ci volle nemmeno un secondo e il dottor Selvig rispose: «Allora manda qualcuno a ripararlo! Subito!» Il ragazzo uscì di corsa dalla stanza.

“Come è possibile? Che cosa abbiamo sbagliato?” pensava e le domande rimbombavano nella testa del dottore. Rimase a riflette-re per un po’, poi riprese a lavorare ma non concluse nulla, perché pensava al buco nella barriera, non si era reso conto del tempo che passava ed era già ora di tornare a casa.

La mattina seguente Selvig si svegliò con difficoltà perché la paura che gli alieni potessero infiltrarsi grazie al varco nella bolla lo aveva tenuto sveglio tutta la notte. Arrivato davanti al labora-torio, trovò due uomini davanti all’entrata, uno lo aveva ricono-sciuto, era Steve, suo ex compagno di scuola, non lo vedeva da molto, mentre l’altro non lo aveva mai visto prima: «Steve! Da quanto tempo!» Con un falso sorriso Steve rispose: «Erik! Vole-

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vo farti una sorpresa.» Erik si girò verso l’altro individuo, era un uomo dalla faccia segnata dalle rughe e dal tempo, probabilmen-te la sua età era intorno ai cinquant’anni: «Perché non mi pre-sen…» Non aveva fatto in tempo a finire la frase quando percepì il freddo della canna di pistola sulla nuca: «Ora tu vieni con noi, risponderemo alle tue domande durante il tragitto in navicella.» Steve e Spencer lo spinsero verso una navicella che assomigliava a un insetto per la forma e per le due antenne poste poco sopra il parabrezza. Steve aprì la porta posteriore: «Entra!» Dopo esse-re entrato l’insetto partì ad una velocità inaudita verso il cielo. Steve si girò verso Erik: «Non so come fai, ma stai imitando Erik perfettamente.» Nella testa di Erik cominciarono a bombardare centinaia di domande: «Non capisco, che cosa sta succedendo?» Intanto l’insetto aveva già superato la stratosfera: «Sei un robot con una bomba “U” all’interno, sei stato mandato dagli alieni per uccidere Erik, prendere le sue sembianze e i suoi ricordi, sei at-terrato al parco di Newtown la notte scorsa e hai ucciso Erik, ti stiamo portando alla base lunare per smontarti e disinnescare la bomba U.» Erik era ancora più confuso di prima, “Ma io sono Erik”: «Steve posso dimostrarti che ti sbagli!» Mancavano pochi secondi all’atterraggio: «Stai zitto replicante che non sei altro.» Erik cominciò a sudare freddo, era innocente e non poteva dimo-strarlo. L’insetto era atterrato sulla luna, Spencer e Steve tirarono fuori delle tute protettive con tanto di casco. Spencer preoccupato chiese a Steve: «E lui?» Steve si girò verso Erik e disse: «No! Lui è un robot, non ne ha bisogno.» Spencer uscì dalla navicella e stava per aprire lo sportello, ormai Erik era caduto nel panico, se avesse aperto lo sportello sarebbe stato troppo tardi per accorgersi del-l’errore commesso; doveva inventarsi qualcosa e subito, incrociate le dita: «Ok mi avete scoperto avete trenta secondi per scappare.» Il terrore era stampato nelle facce di Steve e Spencer, cominciaro-no a scappare. Erik mise in moto l’insetto e partì, doveva andare a Newtown nella speranza di trovare una prova a favore della sua innocenza; atterrato si diresse verso il luogo dove la navicella era atterrata. Trovata la navicella notò che lo sportello era aperto. En-

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trato vide un corpo d’acciaio supino “Eccolo! Il robot deve essersi danneggiato durante l’impatto così tanto da avergli causato un corto circuito.” Erik uscì dalla navicella e si ritrovò circondato da almeno una ventina di agenti speciali guidati da Steve e Spencer. L’espressione facciale di Steve sembrava volesse dire “Ora non mi scappi.” Erik alzo le mani e disse: «Sono innocente! La prova è dentro quella navicella.» Steve non lo ascoltò e disse: «Spara-te!» Ma la voce di Spencer si oppose a quella di Steve: «Fermi!» Steve si girò verso Spencer: «Che cosa hai intenzione di fare?» Spencer rispose: «Il replicante ha detto di avere la prova della sua innocenza, lasciatemi entrare nella navicella per controllare, voi tenetelo sotto tiro.» Steve un po’ infastidito dalla cosa disse: «Ok ma non metterci tanto.» Dopo tre interminabili minuti Spencer uscì dalla navicella: «Erik è innocente, abbassate le armi.» Steve si diresse verso Erik: «Scusa se ho dubitato di te, una settimana di vacanze dopo questa brutta esperienza non te la toglie nessuno.» Erik rispose: «Ora voglio solo tornare a casa.» Steve se ne andò, proprio in quel momento Spencer si avvicino a Erik: «Posso par-larti in privato?» Erik con aria tranquilla: «Ok ti seguo.» Dopo una ventina di passi Spencer si fermò: «Hai presente i kamikaze?» Erik rimase spiazzato: «Sì.» Spencer rispose: «Venivano conside-rati degli eroi nazionali.» Erik con tono un po’ impaziente: «Mi scusi, non voglio essere offensivo, ma questo discorso non è un po’ fuori luogo?» Spencer tirò fuori dalla tasca una chiave a due denti: «Oh non lo è affatto.» Spencer si trasformò in una creatu-ra mostruosa, la pelle era verde e squamosa, gli occhi erano neri come la pece più grandi di una palla da bowling e con una forza inaudita prese Erik e gli strappò la maglia mettendo in bella vista due buchi sul petto e rivelando l’amara verità: Erik era il robot e Spencer un alieno mandato per dare fuoco alla miccia. Infilò la chiave a due denti nei buchi e combaciavano perfettamente, l’alieno lasciò cadere Erik che aveva cominciato a rilasciare una luce accecante: «Abbiamo vinto!» L’esplosione fu talmente poten-te da poter essere vista dalla base lunare.

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IN UN GIORNO QUALUNQUEMartina Mammi, 2ªB, ITIS “F. Corni”, Biennio tecnicoModena

Alle tre del pomeriggio di un giorno qualunque, cominciai a stu-diare. Ero sdraiata al calduccio sotto le coperte del mio letto, come ero solito fare, ma quel giorno non trovavo la giusta concentrazio-ne e distratta da mille altri pensieri mi addormentai.

Sognai vaste spiagge candide, un mare di un azzurro vivido come pochi, di un sole pallido ma tanto caldo al punto da scio-gliere perfino la pietra, il rumore della risacca delle onde, il garri-re dei gabbiani che volavano nel cielo limpido. Mi trovavo in una piccola baia di non so quale splendido posto. Mi guardai intorno e vidi qualche strana capanna, da questo dedussi che quel pa-radiso era abitato; mi avvicinai a queste strane casupole ma un giovane dalla scura carnagione, dai lineamenti curvi mi venne incontro. Non so che lingua fosse, ma lo capivo e mi facevo ca-pire molto bene anche io (forse proprio perché era un sogno). Mi guardava con uno sguardo così profondo che mi stordiva ogni volta. Girammo per mano tutta l’isola, io ridevo e lo supplicavo di fermarsi, ero distrutta ma lui si girava verso di me e con quei suoi occhi così espressivi mi sorrideva e tutto il resto non contava nulla. Diceva di dovermi mostrare una cosa e io lo seguii fino a che non arrivammo al luogo tanto speciale: ci trovavamo in una specie di bosco, in cui il verde degli alberi si mescolava con il blu di quei piccoli sprazzi di cielo che si intravedevano, la luce chiara del sole e i mille colori dei fiori e dei frutti appesi sui fitti rami. Mi aveva portata proprio sotto ad una cascata, che rifletteva tut-ta la luce e i colori che la natura attorno presentava. Si formava addirittura un arcobaleno alla base ed io rimasi incantata, con il

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fiatone, ad ammirare lo spettacolo davanti ai miei occhi. Mi spie-gò che proprio in quel posto meraviglioso era nato, per desiderio della sua mamma… Parlammo tantissimo, forse un’ora o due, non lo so, ma mi raccontò ogni cosa di lui. Ad ogni mio sorriso lui si avvicinava sempre di più, ma quando arrivò a sfiorarmi, mi accorsi di non sapere ancora il suo nome. Quando glielo chiesi, lui non rispose e mi guardò ancora una volta con quello sguardo perso e intenso.

Tutto d’un tratto un rumore proveniente dal giardino mi sve-gliò e dispiaciuta di aver lasciato quel posto incantevole, con così tanta tranquillità, decisi di riaddormentarmi per continuare, al-meno speravo, quella meravigliosa avventura. Ma dell’isola, mi comparve uno scenario del tutto diverso in cui ero soltanto spet-tatrice di una serie di eventi. Vidi una ragazza che mi somigliava molto, uscire da una casa ridotta parecchio male, con larghi jeans da uomo ed una canottiera nera. Aveva biondi capelli che le ar-rivavano alla schiena, ma erano rasati a lato. Si vedeva anche da lontano che era sciupata, ma non dimostrava neanche trent’an-ni; scese i tre gradini che rialzavano l’entrata del palazzo e si di-resse verso una vecchia Golf piuttosto malandata accendendosi una sigaretta. Come se tutto fosse già deciso, la seguii per tutto il tragitto seduta sul sedile a fianco: la sentivo cantare canzoni che già conoscevo, e in particolare una: ‘Mille volte ancora’; la can-tava sorridendo come se le ricordasse qualcosa… O per meglio dire qualcuno. Le squillò il telefono e capii che era qualcuno che chiedeva di incontrarla ma non si capiva molto bene il motivo, le parole che sentivo erano confuse. Ci fermammo nel parcheggio di un grande parco, in cui gli alberi erano altissimi, ma distanziati; ci dirigemmo verso un luogo isolato, lontano da sguardi ostili. Là, già seduto ad aspettare, si trovava un ragazzo che all’apparenza sembrava alto e molto magro, anche lui molto sfatto e addirittura agitato. Quando salutò la ragazza, parlando così velocemente che sembrava dovesse chiederle qualcosa di molto urgente, sentii il suo nome per la prima volta ma non riuscii a capire per bene, di sicuro però cominciava per ‘M’. Purtroppo, in quella circostan-

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za, mi trovavo lontano da loro e di conseguenza non capivo ciò che dicevano ma li sentivo bisbigliare: vidi lei mettere le mani in quella grande borsa nera ormai ridotta male, e tirare fuori qualco-sa, qualcosa dentro una busta trasparente, ma non ne individuai il colore. Lui le diede dei soldi e dopo ancora qualche bisbiglio sentii il ragazzo dire: ‘grazie Marti, ci vediamo alla prossima’, lei gli sorrise si voltò e tornammo in macchina. Partimmo, la stra-da era quella che già avevamo percorso precedentemente, ma il telefono squillò un’altra vola: un altro appuntamento, ma in un luogo diverso. Questa volta ci dirigemmo verso un vecchio can-tiere abbandonato, e le persone da incontrare erano due, una ra-gazza e un ragazzo. Questa volta il nome lo sentii perfettamente, la chiamarono Martina, qualcosa nella mia testa mi diceva che quella ragazza aveva un qualcosa di famigliare con me, oltre al nome. Il procedimento era lo stesso, lei dava loro qualcosa e ve-niva pagata: al termine di questo scambio, sorrideva e voltava le spalle. Tornammo per l’ennesima volta in macchina e ricominciò da capo un’altra volta, e poi ancora e ancora: insomma avevo ca-pito che cosa faceva quella ragazza che tanto mi somigliava per mantenersi, e mi faceva molto pena, anche perché lei stessa face-va uso di ciò che vendeva. Mentre il sogno svaniva, io pensai alla somiglianza che c’era tra me e Martina: eravamo troppo simili per essere due persone diverse: il nome era lo stesso, il colore dei capelli e degli occhi era lo stesso e anche i lineamenti.

A quel punto mi sfiorò il pensiero che se qualcosa nella mia vita non fosse cambiato, quella donna avrei potuto essere io.

La calma e la tranquillità del sogno precedente forse stava-no solo a significare che la mia vita, se vissuta più serenamente, poteva darmi tanto e non valeva quindi la pena sprecarla come stavo facendo. “Le tre del pomeriggio” avrebbero segnato la mia svolta.

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LA STRANA AVVENTURASimone Salati, 2ªM, ITIS “F. Corni”, Biennio tecnicoModena

Alle tre del pomeriggio… di una caldissima giornata d’estate, tutti gli abitanti del mio piccolo paesino di campagna si erano rifugiati in casa aspettando le ore più fresche della giornata, ma io e i miei amici eravamo in giro con le nostre biciclette.

Pedalavamo, molto tranquillamente, lungo la strada che porta verso il centro del paese, quando ci accorgemmo che un animale molto strano correva tra i campi del signor Giberti.

Seguimmo con gli occhi i suoi spostamenti fino a che, dopo uno sparo, si rifugiò (forse per paura) in una casa abbandonata lì in mezzo al campo.

Noi, presi da un’incontrollata curiosità, decidemmo di andare a scoprire di che animale si trattasse quindi, armati delle nostre fidate biciclette, iniziammo ad avventurarci nel campo fino a rag-giungere, dopo dieci minuti di intensa pedalata, la vecchia casa diroccata del signor Giberti.

Appena arrivati notammo che la porta era socchiusa e delle impronte, simili a quelle di un cane, conducevano all’interno. De-cidemmo di entrare e appena aprimmo la porta piano piano si sentì un forte cigolio dei cardini, proprio come accade nei film horror. Ci trovammo davanti a un’enorme scalinata e decidemmo di dividerci in due gruppi; fu una decisione molto frettolosa e azzardata.

Io ero nel gruppo che doveva controllare la parte superiore della vecchia casa. Iniziammo io e due miei amici a salire le sca-le lentamente, arrivati al piano superiore, una porta si socchiuse dinnanzi a noi. Riuscimmo a scorgere a mala pena l’ombra di un

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uomo. Era basso, con il fucile in mano e il suo fedele cane al se-guito.

In preda al panico iniziammo a urlare e scappammo fuori spa-ventatissimi. Il signore si affacciò e ci chiese se volevamo prende-re un caffè, ma noi in preda alla follia scappammo il più veloce possibile.

Qualche giorno dopo incontrammo quel signore che ci fermò e imbarazzato ci chiese: “Come mai non vi siete fermati per il caffè?” Noi gli raccontammo poi tutta la storia e alla fine lui inco-minciò a ridere, dopo 3-4 minuti di fragorosa risata si fermò e ci disse che quello era il suo cane da caccia il cui nome era Fulmine, e che se mai avessimo voluto tornare in quella casa potevamo farlo tranquillamente perché eravamo ben accetti sia dal signor Giberti sia da Fulmine.

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QUELLO CHE NON TI ASPETTISofia Carnevali, 1ªG, Liceo Scientifico delle Scienze Applicate “F. Corni”Modena

Alle tre del pomeriggio di un lunedì, entrai in un lussuoso nego-zio di abbigliamento situato lungo gli Champs-Elysées a Parigi per comprare il vestito che da tempo sognavo. Quando mi recai alla cassa vidi che la commessa era agitata; le chiesi cosa la tur-bava e lei mi raccontò che due individui avevano girato davanti al negozio tutto il giorno e l’avevano persino seguita in un risto-rante all’ora di pranzo. Cercai di tranquillizzarla dicendole che poteva trattarsi di una semplice coincidenza.

Alla sera, mentre stavo cucinando, sentii al telegiornale la no-tizia della scomparsa di una giovane commessa; mi avvicinai al monitor, guardai la foto, era lei. Una collega che avrebbe dovuto fare il turno serale ne aveva denunciato la scomparsa.

Allora decisi subito di recarmi in commissariato per esporre la mia versione dei fatti, ma non feci in tempo ad arrivarvi: lungo il tragitto due uomini mi presero, mi legarono e mi portarono in un furgone dove mi picchiarono e mi diedero un sonnifero.

Quando mi svegliai la commessa era con me in un garage di-sperso nel nulla, tutto sporco senza neanche una finestra. Erava-mo sole, non c’era nessuno intorno a noi che ci controllava, eppu-re mi sentivo osservata, volevo trovare un modo per scappare, ma non sapevo come fare.

Non so che strada avevamo percorso prima di arrivare nel luogo della mia prigionia, in quel posto che mi aveva strappato alla mia vita, alla mia realtà soltanto perché io c’ero, perché io sapevo.

D’istinto mi misi a urlare, con la consapevolezza che nessuno

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mi avrebbe mai sentito, mi domandai pure perché avevo urlato, il fato l’aveva voluto, forse dovevo morire, ma io non volevo, non volevo proprio ammetterlo.

Improvvisamente due uomini armati uscirono da dietro un enorme armadio grigio, sentii un rumore assordante, al quale seguì un contemporaneo e fulminante dolore all’addome, caddi in ginocchio, poi mi sdraiai e il dolore cominciò gradualmente a svanire, lasciando spazio ad una nuova sensazione che non avevo mai provato prima di allora, le forze mi stavano abbandonando, gli occhi diventavano sempre più pesanti, “sto morendo!” pensai, e la mia mente cominciò a vagare.

Vidi gli ultimi attimi della mia vita scorrermi davanti agli oc-chi e mi ricordai del momento in cui avevo visto i miei rapitori, se non avessi fatto finta di niente, se avessi creduto davvero alla preoccupazione di quella commessa o semplicemente se fossi andata in un altro negozio alle tre di quel pomeriggio, forse in quel momento sarei stata a casa, ma subito dopo capii che la vita è un grande gioco basato sulla fortuna, è come in una roulette; noi speriamo che la piccola pallina cada sul nostro numero per realizzare tutto ciò che abbiamo sempre desiderato, ma se ciò non accade accettiamo, con un po’ di delusione, quello che il destino ha da offrirci.

Poi i miei pensieri svanirono con me…

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UNA STRANA COINCIDENZAMatteo Gobbi, 1ªG, Liceo Scientifico delle Scienze Applicate “F. Corni”Modena

Alle tre del pomeriggio, è l’ultima cosa che ricordo di quel giorno, le campane della chiesa vicino alla scuola suonarono tre rintoc-chi.

Mi hanno raccontato diversi fatti avvenuti dopo quell’ora, non tutte le versioni coincidono, ma c’è un avvenimento che ricorre in tutte quelle storie: incidente, macchina che sbanda, esce di strada, va contro una persona, me.

Mi dicono che sono stato in coma per due lunghi anni e, nella mia testa, penso ancora di essere disteso lì, privo di coscienza, su quel lettino bianco di ospedale. Il buio che si cela all’interno della mia mente offusca troppi ricordi che io, invano, cerco di riportare in vita. Non riesco a capacitarmi del fatto che la mia mente non ri-cordi niente di tutto ciò che è successo in questi ultimi due anni.

Ho molte domande a cui non riesco a dare una risposta. Ho sentito una discussione che il medico ha tenuto con il mio dottore, gli ha detto che sono stato molto fortunato a poter vedere la luce del sole ancora una volta, ma io non capisco dove possa essere questa fortuna; prima potevo giocare a basket, fare una partita a pallone con gli amici, invece adesso sono imprigionato in questo corpo immobile e, se provo a far partire un comando dal cervello alle mie gambe, nessuna volontà arriva a destinazione. Ma perché è successo proprio a me? Purtroppo so che non riuscirò mai a trovare una risposta a questa domanda.

Ultimamente in clinica viene a trovarmi uno psicologo che cerca di aiutarmi a ricordare e ad accettare questa mia nuova si-tuazione. Malgrado i suoi sforzi, non è ancora riuscito nel suo

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intento. Non mi è molto simpatico, ma devo dire che fa di tutto per essermi vicino in un momento così difficile come quello che mi ritrovo ad affrontare e questo lo apprezzo.

Mancano solo due giorni a Natale. Ciò vuol dire che sono pas-sati due anni, tre mesi e quindici giorni dalla mia “morte”. Lo ricordo bene quel giorno, e Dio solo sa quanto vorrei poter riav-volgere il nastro e tornare indietro.

Io e la mia ragazza dovevamo scambiarci i regali per il nostro primo anno di fidanzamento, ma la sorte non ha giocato a nostro favore. Leti, la mia fidanzata – almeno credo lo sia ancora – mi viene a trovare una volta a settimana. Sono imbarazzato, al punto che non ho nemmeno il coraggio di chiederle se in questi anni ha trovato un altro. Chissà cosa pensa di me? Forse le faccio pena. Passiamo le nostre giornate in silenzio, lei appoggiata alle mie braccia; di tanto in tanto le do un bacio sulla guancia ed entrambi arrossiamo.

L’ho sempre amata per la sua timidezza, lasciava parlare gli altri e di rado faceva ascoltare la sua candida voce. Dopo il nostro primo incontro ho voluto conoscerla meglio, così ho cominciato a frequentarla e alla fine abbiamo passato un bellissimo anno in-sieme.

Due anni, tre mesi e quindici giorni dalla mia “morte”. Eppure ultimamente mi pare di recuperare qualche forza, riesco addirit-tura a tirare una pallina da tennis contro il muro e a farla tornare nella mia mano. Quante illusioni e speranze vane! Mentre cerco di non pensare alle prossime vicine feste, sento una voce nel cor-ridoio, il medico sta parlando con il mio dottore, come una volta di un giorno non meglio precisato dei miei due anni bui, gli dice che sono molto fortunato ed io continuo a non vedere tutta questa fortuna, poi però la voce si fa più vicina ed io intendo chiara-mente: “Sì, ce la farà, tornerà a giocare a pallone con gli amici” – dice.

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SONO SCESO DAL TRENOChiara Melotti, 1ªG, Liceo Scientifico delle Scienze Applicate “F. Corni”Modena

Alle tre del pomeriggio di quel dodici dicembre, mi trovavo sul treno in direzione Bari. Mi dirigevo là per questioni di lavoro, ma ammetto, ne avrei fatto molto volentieri a meno.

“Il destino dell’azienda è nelle tue mani, contiamo tutti su di te!”

Questa era la solita frase che mi accompagnava prima di par-tire per un viaggio di lavoro. Il mio capo era convinto che queste parole mi avrebbero dato la giusta grinta per affrontare importan-ti colloqui, che dovevano mettere in luce l’affidabilità, la disponi-bilità e naturalmente l’efficienza della nostra azienda, nella quale era ovviamente un buon affare investire. Ma diciamolo pure, il vero obiettivo del mio capo era avere le tasche piene di soldi e vantarsi di averle! Lo detestavo perché si preoccupava di me so-lamente quando ne aveva bisogno per il proprio tornaconto ed io odio la gente che si comporta in questo modo.

Non vedevo l’ora di andare in pensione, ma ero solo un gio-vane trentenne e sicuramente avevo ancora davanti a me lunghi e faticosi anni prima di trovare un po’ di pace e riposo in quel bel periodo della vita dove il dolce far niente è all’ordine del giorno.

Durante il viaggio lasciai vagare i miei pensieri più nascosti, riuscivo così a conoscermi, trovando in me le rabbie più profonde e le paure che giorno dopo giorno mi opprimevano sempre di più, ma la triste conclusione era sempre la stessa: non ero felice e non sapevo nemmeno cosa avrei potuto fare per esserlo. Questo pensiero mi soffocava, mi faceva sentire un uomo debole, incom-pleto, ero bravo nel mio lavoro ma non mi bastava. Per anni ave-

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vo creduto che il lavoro fosse tutto, che bastasse il successo per es-sere felici, ero stato la fotocopia perfetta di quell’individuo privo di scrupoli che era mio capo. Ed ora che ci ripensavo la sola idea di assomigliare anche solo lontanamente a quell’uomo mi faceva venire i brividi. Mi ero accorto troppo tardi di non voler aver a che fare con questo tipo di vita. Avevo sprecato la mia giovinezza dedicandomi interamente al lavoro, dimenticando di costruirmi una vita sociale; un errore, perché ora mi trovavo lì, solo, su quel treno, in attesa di qualcosa che potesse riempire quel vuoto che ormai da anni mi opprimeva.

Una cosa avevo capito, probabilmente la più importante: an-dare al colloquio sarebbe stato l’errore più grande. Ero giovane e sapevo che non volevo quei soldi per essere felice, non avevo bisogno di un importante lavoro per essere qualcuno. Era arriva-to il momento di prendere in mano le redini della mia vita. Agire subito era la cosa migliore da fare, e per miracolo il treno si fermò e la voce del capo stazione dall’altoparlante disse: “Stazione Ter-mini”.

Non sono del tutto sicuro di essere stato realmente cosciente in quel momento, il mio gesto era certamente fuori dagli schemi: scesi dal treno e mi diressi da qualche parte, non so bene dove, alla ricerca di qualcosa, non so bene cosa. Ma le avevo dato un nome, l’avevo chiamata felicità.

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MALEDETTI SENTIMENTILuca Stanisci, 1ªG, Liceo Scientifico delle Scienze Applicate “F. Corni”Modena

Alle tre del pomeriggio, con lo sguardo perso nel vuoto, guarda-vo fuori dalla finestra. Ero sola in casa ed avevo un solo pensiero: i miei figli. Chissà dov’erano… Da quel lontano 8 settembre non li avevo più visti, l’unica cosa che sapevo era che i miei figli si erano arruolati in una brigata partigiana, una delle tante che combatte-vano contro i nazi-fascisti nella zona.

Fu la solita sirena, che avvertiva dell’arrivo del bombarda-mento aereo, che mi riportò indietro, lontano da quei pensieri. Venni attraversata da un brivido di paura che mi fece correre il più velocemente possibile verso la porticina del rifugio, situata nel sottoscala che portava nello scantinato. Prima che vi arrivassi – toc toc – bussarono alla porta ed istintivamente andai ad aprire: era un giovane, avrà avuto l’età dei miei figli, mi chiese di potersi riparare.

Immobili aspettammo la fine del bombardamento, fuori gli aerei cancellavano al loro passaggio ogni cosa, lasciando una scia di distruzione. Finiti quei minuti di assoluto terrore, il giovane mi ringraziò di cuore per avergli permesso di rifugiarsi insieme a me; presa da un momento di affetto materno per la somiglianza ai miei figli lo invitai a bere qualcosa. Avevamo appena fatto le presentazioni, si chiamava Italo Rossi, quando mi chiese se mi ricordavo di lui; lo scrutai attentamente, ma il suo volto regolare, di carnagione pallida e ben curato, non restituiva alcun ricordo alla mia mente. Mi raccontò di essere un compagno di scuola di Marco e Luca, i miei figli, di quando giocavano a calcio insieme nel parchetto del quartiere, mi domandò dove erano e mi sentii

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libera di potermi confidare con quel giovane: gli dissi che erano partigiani e che da quando erano partiti non avevo avuto più no-tizie da loro, ma che la figlia del fornaio, che portava dispacci per i partigiani, li aveva visti in salute nei pressi di Passo Mulini due settimane prima.

Mi ringraziò di queste informazioni e mi disse che sarebbe presto andato a salutarli per unirsi a loro.

Poco tempo dopo, mentre mi recavo dal fornaio che si era for-tunatamente salvato dai bombardamenti, davanti all’edicola lessi la seguente notizia: ”Sgominata banda partigiana, merito al gio-vane ufficiale Italo Rossi”.

Il mondo mi cadde addosso, avevo involontariamente tradito i miei figli.

I miei sentimenti mi avevano ingannata, le confidenze fatte al giovane ufficiale fascista avevano condannato Marco e Luca. Se solo fossi stata più prudente sarebbero probabilmente ancora in vita.

I sentimenti in guerra sono più pericolosi delle armi.

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UN’ORA DI VUOTOAngélique Deserti, 1ªD, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Alle tre del pomeriggio tutto sembra più rilassato. Il boom di traffico, che fino a poche decine di minuti prima

era congestionato, pare allentare la sua morsa. Gli studenti hanno terminato le loro corse per non perdere l’autobus, e la digestione ancora fresca duole all’inizio dei compiti. Gli anziani accorrono alla pennichella pomeridiana con tanto di occhiali sul naso e gior-nali pubblicitari in mezzo alle mani a metà lettura. Anche i più piccoli iniziano la loro ora di riposo a scuola o a casa.

I negozi, i tabaccai e le cartolerie non sono ancora aperti. Alle tre del pomeriggio gli impiegati, i muratori, gli operai e

molti altri, sono rientrati al lavoro dopo una corsa in macchina, in bicicletta o a piedi, magari sotto la pioggia, per non rischiare di arrivare in ritardo.

Pensandoci bene, anche durante i mesi caldi dell’anno, questo ciclo va a ripetersi.

Alle tre del pomeriggio la sabbia scotta ancora. I ragazzi con le loro famiglie non sono ancora tornati in spiaggia dopo aver ter-minato gli ultimi ritocchi ai castelli di sabbia e le nuotate in mare. I bagnini si riposano sonnecchiando sotto l’ombrellone, dove fi-nalmente possono non controllare l’orizzonte. Gli anziani, come in città, sono a casa o in hotel ad appisolarsi sul letto e la spiaggia sembra vivere un momento di stasi, dove gli unici rumori che la interrompono sono lo stridere dei gabbiani che attraversano il cielo e lo scroscìo del mare sulla battigia.

Alle tre del pomeriggio nei centri città non c’è anima viva, tutti sono impegnati, al lavoro o nelle loro case ad aspettare che

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questo momento vuoto passi e che il traffico si risvegli per dare vita alla città.

A quest’ora anche i fast food, i ristoranti e le pizzerie hanno terminato il loro servizio.

La domenica, per gli appassionati di sport, le tre del pome-riggio sono un momento magico, in quanto i loro avvenimenti preferiti sono al culmine del loro interesse.

Forse le tre del pomeriggio sono il momento in cui la nostra società, frenetica, prende una pausa per riordinare le idee.

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IL VOLO DELLE FARFALLEMartina Dotti, 1ªD, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Alle tre del pomeriggio, di un giorno come un altro, immersa nello studio mi perdevo, guardavo fuori da quella finestra, quel mondo sembrava così lontano da me. Il sole splendeva alto nel cielo, le rondini volavano spensierate sugli immensi campi verdi e là fuori un dolce venticello odorava di primavera, tanto lieve da far tremare appena le foglie più alte dei lunghi faggi che cir-condavano la mia casa. Io, costretta sui libri, potevo solo sognare tutto ciò che di splendido c’era oltre quella bianca finestra con la maniglia laccata d’oro che i segni del tempo avevano consumato. Ad un tratto la voce di mia madre: mi sveglia di soprassalto dal mio sogno ad occhi aperti, che vedo scomparire insieme alla neve sui campi invasi dalla primavera. Entra in camera e mi guarda perplessa: – La lezione di danza è stata spostata. – Ci mancava solo questo. L’unico momento della settimana in cui posso essere me stessa, esprimermi senza giudizi, uscire dal solito tran-tran e vivere un momento magico. La danza ti cattura e inconsciamente ti porta alla tranquillità, in un mondo completamente diverso dal nostro, dove ogni piccola cosa è importante. Amareggiata ritorno allo stu-dio, non so bene perché, ma lo faccio, forse per poter volare, essere indipendente, andare via da casa. La mia casa da quando papà è scomparso è diventata vuota, senza sentimenti, senza amore, sen-za affetto. I mobili cadono a pezzi, le stanze sono buie e spente. Mamma è assente e distratta, nei suoi occhi vedo il dolore di una donna sola e abbandonata, sorride raramente. Quando c’era lui

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era tutto diverso, entrando si sentiva il profumo del suo sigaro, la sera ci si ritrovava tutti davanti al fuoco, parlavamo, stavamo davvero bene tutti insieme. La mamma sorrideva sempre, aveva un sorriso bellissimo e la casa era piena di amore. Non ho molta voglia di studiare, sono invasa da problemi che mi martellano il cervello fino a farmi piangere, non capisco il motivo, piango per ogni cosa, ogni stupidissima cosa, e così non riesco più a fare nul-la. Mi tengo tutto dentro, ma ho paura, perché so che un giorno scoppierò, i miei problemi e quelli di mia madre voleranno come il volo delle farfalle in primavera e magari qualcuno sarà lì ad ascoltarci. L’unica salvezza è la finestra, il mondo esterno che vive la giornata al ritmo del vento accarezzato dal tiepido sole, guardo fuori quando sono triste. Mi sento parte di quel mondo che posso solo immaginare, appoggio la testa sulla mano e guardando fuori perdo la cognizione del tempo, che scorre veloce. Non c’è modo di fermarlo. Penso alla mia vita, cosa ci faccio su questo pianeta? Qui mancano fiducia, amicizia, amore e gioia, che già da un po’ non fa visita alle mie emozioni: è così rara; la delusione, la rabbia, la schiacciano come un elefante con una formica. Questo mondo mi spaventa, io vago come un uccello in cerca di briciole, non so chi sono, chi diventerò, non so cosa accadrà domani, nessuno lo sa, ma c’è un vento molto forte che mi spinge ad andare avanti, e vivere ogni giorno come fosse l’unico e meravigliarmi delle picco-le cose per poi trovare la mia vera identità: il volo delle farfalle.

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OMBRE DAL PASSATOMartina Arletti, 2ªB, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Alle tre del pomeriggio. Tic, tac, tic, tac, tic. Un violento tempora-le terminò di scrosciare sulle case piccole e monotone dell’isolata cittadina che, in quel particolare periodo dell’anno, era partico-larmente deserta, fatto che le conferiva un aspetto ancora più spettrale e sconsolato del solito. Il Natale era ormai prossimo e gli abitanti già da alcuni giorni erano partiti per raggiungere le rispettive famiglie, facendo in modo che una delle poche case an-cora abitate fosse proprio quella di Amanda. La giovane ragazza era distesa sul divano e svogliatamente osservava le figure che si rincorrevano sul televisore senza prestargli la benché minima at-tenzione. C’era una calma piatta e l’abitazione era deserta, segno che i genitori della giovane dovevano ancora rientrare da un lun-go viaggio di lavoro che li aveva portati in Svizzera. Uno spiffero d’aria entrò indisturbato dalla piccola finestrella della mansarda, dove si trovava la ragazza che, avvertendo un brivido di freddo percorrerle le braccia, si decise ad alzarsi e con una lieve torsio-ne del polso richiuse il vetro. Si perse per alcuni secondi nella contemplazione del paesaggio che si poteva scorgere da quella modesta altezza e si concentrò ad osservare il cielo che, pieno di nuvole dense e fitte formava una spessa cappa che incombeva sulla città e dava l’impressione che fosse già sera inoltrata, nono-stante fossero esattamente le tre del pomeriggio. Appena si voltò in direzione della stanza notò che in essa, prima calda ed acco-gliente, aleggiava, ormai da alcuni minuti, un’atmosfera elettrica e inquietante. Senza che se ne rendesse pienamente conto scattò in piedi e si strofinò nervosamente mani e braccia, come se fosse

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stata travolta da un vento gelido. Si sentiva osservata. Decise di controllare che qualcuno non fosse entrato in casa, scese in salot-to, controllò camera per camera, ma niente. Sembrava tutto nor-male. Così, mentre risaliva le scale, si convinse che fosse stata solo la sua immaginazione, che non c’era nulla da temere, e accantonò quel senso di irrequietezza che fino a pochi secondi prima la stor-diva. Allora la ragazza, come se niente fosse, si riaccomodò sul divano e incurante di ciò che stava accadendo, cambiò canale, nel tentativo di tenere la propria mente occupata. Dopo pochi mi-nuti di quiete quella stravolgente sensazione di essere osservata ritornò a colpirla più prepotentemente che mai e la ragazza non potè fare altro se non tendere l’orecchio per cercare un qualsiasi indizio di una presenza indesiderata. Fu proprio allora che udì uno scricchiolio. Proveniva dal tetto. Il suo sguardo saettò fulmi-neo a una delle finestrelle sul soffitto e scorse la figura indistinta di un uomo; strizzò gli occhi per metterla a fuoco e potè notare chiaramente i suoi occhi. La fissavano, attenti e scrutatori, era-no di un nero intenso e trasmettevano una strana ansia. Amanda ebbe l’impressione di averli già visti. Un brivido di paura le scese lungo la schiena e un formicolio le intorpidì gli arti. La giovane, in un lampo di lucidità, si costrinse a pensare a tutte le motivazio-ni possibili e razionali per cui quell’uomo potesse trovarsi lì, ma solo una cosa era chiara: non c’erano. In quel preciso istante, però, come un lampo, un’idea si presentò alla mente della ragazza e tutto le fu estremamente chiaro. C’era un uomo che, fino a qual-che anno prima, dopo essere venuto in possesso del suo numero, la chiamava e la contattava continuamente. All’inizio non gli die-de tanta importanza, si limitò ad ignorarlo. Un giorno, però, se lo ritrovò alla porta di casa; non sapeva come aveva fatto a trovare l’indirizzo, ma Amanda era a dir poco terrorizzata. L’uomo, con uno scatto rapido del braccio riuscì ad aprire la porta e ad intru-folarsi in casa e appena fu dentro provò a violentare la ragazza. Fortunatamente i genitori della giovane si trovavano nella stanza a fianco e contattarono immediatamente la polizia. L’uomo venne arrestato e portato in carcere, nel quale sarebbe dovuto rimanere

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per lungo tempo. Così almeno credevano tutti. Perché l’uomo era lì. Proprio sul tetto della casa di Amanda e cercava vendetta. La ragazza si tappò la bocca con la mano, come a reprimere un urlo, tanto nessuno l’avrebbe udita. L’uomo infranse il vetro e con un piccolo balzo entrò nella mansarda, lentamente, estrasse la pisto-la, la rimirò tra le sue mani, l’alzò di poco e infine la puntò su Amanda. Lei chiuse gli occhi e udì solamente un tonfo sordo e un dolore acuto che si espandeva dal petto fino alla punta dei suoi piedi. La vista le si appannò e ben presto il buio la avvolse com-pletamente. Tic, tac, tic, tac, tic.

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IL SOGNO DELLO SCHIAVOLinda Cavedoni, 2ªB, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Alle tre del pomeriggio, l’hora decima, insieme ad altri gladiato-ri mi trovavo sotto la tribuna dell’imperatore. Come al solito lo salutammo: “Ave Caesar! Morituri te salutant”. Ero un gladiato-re schiavo molto popolare tra la gente, i miei rapporti con l’im-peratore erano ottimi e nella mia vita non mancavano le donne. Costretto dalla miseria mi arruolai in un corpo ausiliario della milizia romana, un giovane ragazzo mi convinse che ero spreca-to nello svolgere questo compito e che dovevo sfruttare in modo migliore le arti che pochi come me possedevano; decisi così di scappare e abbandonare la milizia. Per questo venni dichiarato disertore e ridotto in schiavitù come gladiatore. Questa fu una vera fortuna perché fin da piccolo amavo i combattimenti tra le persone e fisicamente ero molto forte e potente. Il mio collare di metallo segnava nove vittorie ed ero pronto a portare a termine la decima. Secondo la legge tutte queste affermazioni mi avreb-bero permesso di diventare libero e quindi di poter decidere se continuare a combattere per soldi o intraprendere altre attività tra le quali il mio sogno: poter diventare istruttore nella scuola per gladiatori. Dopo aver pronunciato il saluto all‘imperatore, il combattimento iniziò. Sin dai primi colpi sferrati notai una stra-na debolezza in me, caddi a terra più volte e in ogni circostanza vidi il mio sogno sgretolarsi davanti ai miei occhi. Senza neanche accorgermene mi ritrovai il piede di un gladiatore sul petto, ma grazie al successo acquisito fino ad allora l’intero pubblico era pollice recto. Questa sconfitta non diminuì la mia fama, ma poco tempo dopo si affermò nella mia stessa scuola un altro gladiatore

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soprannominato Leo per la sua forza da leone. Nelle battaglie suc-cessive non riportai ancora la decima vittoria e pian piano notai che i pollici recti delle persone erano sempre meno. Dovevo evi-tare in qualsiasi modo un contatto diretto con Leo nelle battaglie perché essendo più forte e popolare di me mi avrebbe sottomesso facilmente e il pubblico questa volta non avrebbe risparmiato la mia vita.

Ed ora mi ritrovo qui, mentre sto indossando gli schinieri, e tra poco tempo avrà inizio un’altra battaglia; tutto quello che devo fare è evitare di scontrarmi con Leo. Il sole è alto nel cielo, la ceri-monia iniziale ha inizio. Riesco a ferire tre gladiatori servendomi del gladio, nel giro di poco tempo accade proprio quello che da giorni mi tormenta mattina e sera. Gli occhi di Leo sono fissi su di me, dal modo in cui si muove scorgo in lui qualcosa di nuovo: paura. Ne approfitto per avventarmici sopra, ma ben presto que-sta sua paura non l’avverto più, anzi, si è trasformata in aggres-sività. Leo con la spada mi colpisce così forte da scaraventarmi a terra con un colpo solo, i raggi del sole sono così fastidiosi che rie-sco a malapena a vedere cosa stia succedendo. Quando poi sento il peso del suo piede sul mio petto capisco che la mia vita è per sempre perduta. Svengo e mi riprendo poco dopo con le guance in fiamme dovute agli schiaffi che mi deve aver tirato Leo. Tra il pubblico c’è un attimo di silenzio ma poi riprendono le grida e gli schiamazzi; con mio grande terrore l’intero pubblico è pollice verso. Non mi resta che chiudere gli occhi e aspettare la morte in silenzio. Non succede niente. Riapro gli occhi e immobile per terra c’è Leo; il suo volto è coperto di lacrime e ha conficcata nel petto una freccia. Mi alzo, tra gli sguardi pieni di sgomento della gente noto un viso famigliare. Non smetto un attimo di pensa-re e alla fine mi ricordo di quel volto, è il ragazzo che incontrai quando ero arruolato nella milizia romana; grazie a lui, oggi sono qua a combattere per il mio sogno. Capisco dal suo sguardo che in qualche modo è stato lui ad aver ferito Leo. La gente discute, la maggior parte è rivolta verso questo ragazzo e capisco che sta cercando di convincerla per ottenere in cambio il pollice verso per

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la morte di Leo. Le altre persone sono troppo assorte nella vista del gladiatore sofferente per accorgersi di quanto stia accadendo. Ben presto la maggior parte degli spettatori inizia a urlare ‘morte per Leo‘. Arrivato a così poco dal poter realizzare il mio sogno mi sento sopraffare dalla vergogna perché essendomi sempre conquistato il consenso della gente da solo grazie alle mie vitto-rie quanto accaduto costituirà una macchia indelebile per il mio onore: non ho la forza di uccidere Leo e nemmeno quella di non ucciderlo. Così mi porto alla gola il gladio e con un colpo secco mi procuro la morte.

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LA SERENITÀ CON LEIMartina Lamparelli, 2ªB, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Alle tre del pomeriggio, quando uscii dallo studio medico dove ero stata convocata in seguito a degli esami che avevo effettua-to, le mie gambe facevano fatica a reggermi, mi sentivo smarrita, confusa e non sapevo a chi rivolgermi.

Il dottor Fox nonostante tutta la cautela con cui me lo aveva esposto, non fu in grado di attutire il colpo, la diagnosi era chiara: avevo il cancro al seno.

Programmammo l’intervento, che si svolse una settimana dopo, non mi ero neanche preoccupata di avvertire le mie amiche forse perché non sapevo ancora la gravità della situazione: quan-do mi svegliai dall’anestesia il dottore mi disse che il tumore era ormai ad uno stato avanzato, avevano dovuto rimuovere molto tessuto muscolare.

Mi trovavo in uno stato di incredulità, di shock, feci avvertire dal mio compagno i miei genitori e le mie amiche, ma quando vennero a trovarmi capii che non avevo voglia di vedere nessuno, sentivo un conflitto di emozioni: voglia di star da sola con il mio dolore e allo stesso tempo voglia di avere qualcuno vicino a cui aggrap-parmi che alleviasse il mio dolore e, per quanto i medici cercasse-ro di confortarmi, sentivo che non mi rimaneva molto da vivere.

Nei giorni seguenti mi recai in ospedale per fare la chemio; la paura, la disperazione, l’assenza di voglia di vivere mi portarono a litigare con il mio compagno che pregai di andare via e di non farsi più vedere.

Non potevo sopportare il fatto che mi vedesse morire ogni giorno di più, che mi vedesse in quelle condizioni, che mi vedesse

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così senza capelli e con il viso segnato dal pianto. Quando lui se ne andò venne a stare da me la mia migliore

amica Lara che mi stette vicino sempre: con lei la voglia di vivere tornava, il suo sorriso mi faceva trovare la forza di andare avanti, di credere ancora di potercela fare.

Dopo una settimana che eravamo sempre insieme giorno e notte, lei una sera andò ad un appuntamento: quella sera mi sentii molto male, sentivo i brividi percorrermi la schiena, il gelo penetrò nelle mie ossa.

Chiamai immediatamente Lara, che mentre tornava a casa av-vertì i soccorsi, mi portarono in ospedale di corsa, dove fui rico-verata d’urgenza.

Passai i due giorni più brutti della mia vita in quell’ospedale, dove avevo sempre a fianco la mia famiglia e Lara che non lascia-va mai la stanza dov’ero.

Una sera si assentò per tornare a casa a cambiarsi i vestiti e a farsi una doccia, in quelle poche ore in cui non c’era accadde l’impensabile, ebbi una crisi e i medici accorsero a fare tutte le procedure del caso ma io mi sentivo che ero giunta alla fine, en-trai in uno stato di confusione, le immagini della mia vita che prima della diagnosi era stata felice si sovrapponevano nella mia mente, sentivo il lavoro di tutti i medici intorno a me, ma la mia testa vagava in quei magnifici ricordi. Questo mi fece rilassare un po’ e mi allontanò da tutta quella situazione orribile, da tutto quel male che mi stava uccidendo.

In quel momento entrò Lara. Vedendo quella situazione capì quello che stava succedendo e dall’espressione del suo volto sep-pi che stava soffrendo anche lei. Questo mi scaldò il cuore. Notai in quel momento che lei mi era sempre stata vicina e che forse non era un caso che avessi concesso solo a lei di condividere tutto ciò che mi stava succedendo; rivolsi lo sguardo su di lei e trovai con l’ultimo alito di vita la forza di rivolgerle un sorriso, consapevole che ero stata amata e che anche io avevo amato.

Finalmente ebbi la serenità di chiudere gli occhi e lasciarmi andare.

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LA PIOGGIAMargherita Benati, 2ªC, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Alle tre del pomeriggio non si ode più il rumore del traffico e le poche macchine che passano sono insolitamente silenziose. Il cielo è plumbeo e le nuvole sono cariche di pioggia pronte a farla cascare sulla piccola città. Amo la pioggia, non c’è miglior momento per pensare che quando piove, per restare un po’ per conto mio, da sola col suo rumore che culla i pensieri. La gente tace quando piove. Forse perché la pioggia dà loro un motivo per essere tristi. Non io, io nella pioggia vedo un motivo per essere fe-lice; porta via tutto con sé, è come se volesse ripulire il mondo da ogni cosa e gli uomini dai loro peccati per ricominciare da capo. Dentro questa stanza a me sconosciuta ascolto quel lieve ticchet-tio delle gocce sul vetro. Il vento che si intrufola tra gli spifferi della finestra gela le mie deboli ossa ma non il mio sangue. Il mio sangue è già freddo da tempo. Guardo la stanza che mi ha vista cambiare, morire e poi rinascere. Eppure io non la conosco. Il letto in cui sto, le lenzuola che si attorcigliano ai miei piedi non sono il letto e le lenzuola di casa mia, eppure questa stanza ha udito il mio cuore fermarsi e visto i miei occhi spegnersi. Sì, perché qui avevo rischiato la vita già più volte. Lo sguardo mi cade sul ca-lendario appeso alla parete di fronte a me, con la stupida frase “Guarisci presto Lily, ti vogliamo bene!!! la tua classe 2L”. Ma a cosa serve augurare ad una persona di guarire presto se sai che quella persona è destinata a non guarire mai? Tutti lo sanno e mi raccontano solo balle su balle e così, oltre al corpo, mi si ammala anche lo spirito. Sospiro. Mi metto a contare i giorni. Da quanto tempo sono in questa stanza? 64 giorni. Due mesi. Due mesi che

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sembrano anni. I miei genitori vengono a trovarmi ogni giorno dopo pranzo e stanno con me finché il sonno non vince le mie for-ze e mi addormento. Ogni sera dormo anche con la paura di non svegliarmi più, ma ci convivo ormai con la paura e come posso la combatto ancora. La pioggia ormai sta lavando la città. Vorrei non smettesse mai. Alla porta bussano. Chi è? Camice bianco. Come fanno sempre a sorridere i dottori, mi chiedo io? Vedono morire gente tutti i giorni e seguono pazienti ai quali magari si affeziona-no. Il sorriso è la loro arma migliore. Ci vuole fegato, a fare il dot-tore. “Cosa l’ha spinta a fare il dottore?” gli domando mentre egli è intento a sistemarmi la flebo. Mi sorride, ma è sorpreso, glielo si legge in quegli occhi apparentemente felici ma vuoti, vuoti di paura: “Di dare speranza a persone che l’hanno persa del tutto, di ricominciare da capo, di ricostruire” mi risponde così. “Come la pioggia” dico io. “Come la pioggia” risponde lui. Esce e rimango nuovamente sola coi miei pensieri. Sono le quattro del pomerig-gio e i ragazzi e le ragazze, della scuola di fronte alla mia finestra, escono spingendosi dalla grande entrata. Come sono belle le ra-gazzine, quanto avrei voluto essere come loro. Come sono lunghi e morbidi i loro capelli. Io non ne ho più. La chemio. Mi hanno rassicurata dicendomi che se avessi perso i capelli il mio corpo sarebbe guarito e dopo avrei potuto vederli ricrescere. Ma sto solo peggio e in più mi hanno portato via i capelli. I miei capelli neri. Il flusso dei miei pensieri è interrotto dalla brusca entrata di mia madre che mi corre incontro e mi abbraccia con le sue poche forze e le sue magre braccia. È bagnata, ma non so dirvi se le lacrime sono le sue o le mie o se è solamente pioggia. Ha più paura di me. E anche lei sembra si stia ammalando con me, come se il suo cuore perdesse battiti giorno dopo giorno. Non è più la donna di una volta. Mio padre entra dopo poco, lo sguardo basso, curvo sulle gambe. Il suo dolore è silenzioso. Silenzioso come sempre. Parliamo di quel che c’è da dire quando uno sta male. Anche del-la scuola parliamo. Dio solo sa quanto vorrei tornare a scuola. Vengono a volte qualche compagna o professore della mia classe a trovarmi, ma io voglio imparare. La vita senza la scuola non è

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vita. Credo che la scuola mi manchi più di tutto, persino più dei miei capelli. Poi viene fuori il sole. Sì. Il sole dopo la tempesta. Non mi dispiace affatto quel sole. Ha lottato contro la pioggia e finalmente è riuscito a prevalere e a fare capolino tra le nuvole. Ha vinto. Illumina la stanza trionfante. Mio padre e mia madre siedono sulle due sedie ai piedi del letto e mi guardano con amo-re. Io guardo il sole. Chissà se riuscirò anche io a fare capolino tra la leucemia, a ritornare a scuola, a riavere i miei capelli, ad amare qualcuno oltre i miei genitori. Il calore del sole mi anima final-mente quel sangue che è stato immobile e fermo troppo tempo. Sono finalmente felice dopo tanto tempo. Poi chiudo gli occhi.

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TUTTI UGUALIMarco Luppi, 2ªC, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Alle tre del pomeriggio ad Albert venne l’idea, mentre guardava un notiziario alla televisione seduto sulla sua poltrona “ispiratri-ce”. La giornalista stava raccontando di un omicidio… l’ennesimo omicidio di un ragazzo di colore, la sua colpa? Essere un po’ più “abbronzato” rispetto ai suoi coetanei. Erano parecchi mesi che Albert sentiva notizie di questo genere, e poiché in quel periodo non trovava niente da inventare, non faceva altro che stare chiu-so in casa a guardare la tv sulla poltrona in cerca di ispirazione; beh quel giorno la trovò! Decise di risolvere i problemi di queste minoranze che venivano sistematicamente massacrate. Saltò giù dalla poltrona urlando “Eureka” e scese le scale che portavano al suo laboratorio. Dopo due giorni e due notti di lavoro finalmente risalì le scale dello scantinato e indisse una conferenza stampa dove avrebbe esposto le funzioni della sua nuova macchina. Alla conferenza arrivarono giornalisti da tutte le parti del mondo per scoprire quale altra invenzione la mente di Albert avesse parto-rito.

La macchina si chiamava “Livella” perché il suo potere era “li-vellare” tutte le differenze tra le persone del mondo. Per esempio se una persona di colore avesse voluto diventare bianca avrebbe potuto farlo grazie alla livella! Se un cinese avesse voluto avere le fattezze di un egiziano avrebbe potuto farlo grazie a questa formidabile macchina! Se una persona pessimista avesse voluto diventare ottimista, passando dentro la livella avrebbe potuto di-ventarlo!

La conferenza fu un successo ed Albert nei mesi successivi ri-

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cevette molte richieste di persone che avrebbero voluto sfruttare i poteri della macchina per risolvere i propri problemi.

Albert ne fu entusiasta, la sua invenzione era unica, efficace e soprattutto utile per la società, tante persone di cultura, religione e lingua diverse entravano dalla porta di casa di Albert e ne usci-vano cambiate. La livella di Albert negli anni successivi cambiò così tanta gente che quasi ogni persona sulla terra aveva risolto i propri problemi di diversità!

Da Albert si presentavano persone che volevano sentirsi di-verse, presto questa “moda” si diffuse e tutti volevano quel qual-cosa di diverso che anche quello prima di lui aveva ricevuto, ma così facendo nessuno era più originale, nessuno aveva le proprie caratteristiche che lo rendevano diverso!

Albert se ne rese conto e decise di demolire la sua macchina, la livella, poiché le diversità nel mondo servono, non solo quelle fisiche, ognuno deve avere il suo diverso contributo da dare agli altri, e nessuno deve essere penalizzato o maltrattato per quello che è.

Con la distruzione della macchina svanirono anche i suoi effet-ti; Albert spiegò le ragioni del suo atto e dopo un po’ di proteste tutti accettarono la decisione e il consiglio dell’inventore: “Siate quello che siete e accettate le diversità altrui prendendole come ricchezza”.

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LETTERA ALLA FIGLIAValeria Vessio, 2ªC, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Alle tre del pomeriggio ero ancora chiusa in camera mia, erano ormai cinque giorni che non uscivo più, perché erano cinque gior-ni che non c’eri più. Stavo troppo male per alzarmi e non avevo la forza per affrontare il mondo, quel mondo crudele che ti aveva portata via. Piangevo e non riuscivo più a smettere, leggevo il tuo diario e percepivo la tristezza in cui vivevi. E io non me ne ero accorta, credevo andasse tutto bene, che la mia bambina fosse felice.

Davvero stavi così male per quel tuo amico che se n’era anda-to? Perché non ti sei mai sfogata? Non ne parlavi mai con me, e io non ti chiedevo mai niente per non farti stare male, che stupida sono stata. Noi non abbiamo mai parlato molto, nessuna aveva il coraggio di confidarsi con l’altra, e anche io avrei voluto dirti tante cose, ma avevo paura e me le tenevo per me.

Poi è arrivata la morte del nonno Matteo, che ha lasciato un grande vuoto e tanta malinconia, ma forse tu eri quella che stava peggio, volevi così tanto bene a tuo nonno, ma lo sapevamo tutti che la malattia se lo sarebbe portato via, prima o poi. Ma anche su questo non ci siamo mai dette nulla.

Tu a scuola andavi così bene, dicevi che ti piaceva tanto, i tuoi professori erano entusiasti di te e io ero orgogliosa della mia pic-colina quando andavo ai colloqui e sentivo dirmi da tutti che eri bravissima.

Sei sempre stata abile a dire le bugie, a nascondere le tue emo-zioni, a non dire quello che pensavi, a cambiare per fare piace-re agli altri, ma stavolta credevo avessi veramente trovato il tuo

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posto, un luogo dove amavi stare, ma mi avevi mentito un’altra volta. Come potevo sospettare che tu odiassi tanto quel posto?

È vero che negli ultimi tempi eri più schiva, più silenziosa, che a scuola andavi meno bene, che non uscivi più con le tue ami-che, ma pensavo fosse il periodo, l’adolescenza, o un momento di stanchezza. E non me ne ero preoccupata.

Anche della pallavolo eri così contenta, non saltavi mai un allenamento o una partita, andavi anche ad aiutare la tua allena-trice con le bambine piccole. Sembravi veramente felice, e non eri mai a casa per tutte le cose che volevi fare, ma forse era per questo che le facevi, volevi stare lontana da casa tua, perché ti ricordava di quando eravamo una famiglia unita.

Invece con i tuoi amici sentivo che qualcosa non andava, da quando Tommy era andato via tu non uscivi più con il tuo grup-po, non ti facevi più portare in centro o al cinema o in discoteca, per poi farti venire a prendere a degli orari improponibili. Cosa ti era successo?

Adesso forse è tardi per avere delle risposte, per parlare con te, per essere la mamma chiacchierona che non hai mai avuto, ma spero non sia troppo tardi per dirti che mi manchi, che ti voglio tanto bene, che mi dispiace per tutto quanto, che ti penso sempre e che non riesco a togliermi dalla testa l’immagine di quando ti ho trovata nella tua stanza, senza vita, alle tre di quel giovedì pomeriggio.

Mi manchi, mi manchi da morire, mia piccola Rosie. Con tanto affetto, mamma.

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IL VIAGGIO DEL MONDO IN 60 SECONDIChiara Zironi, 2ªC, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Alle tre del pomeriggio sembra che il mondo rallenti tutto ad un tratto, il pomeriggio è alle porte e la lista delle cose da fare sembra non finire mai. Il mio gatto, dal pelo lungo e color champagne, gioca con le tende della sala da pranzo, e dalla finestra osservo i vigneti dai colori spenti. Le tre del pomeriggio annoiano anche le galline, che immobili, osservano il mondo dalla rete del pollaio. A quest’ora ho la mia fuga segreta, che io chiamo “il viaggio del mondo in sessanta secondi”. Mi sdraio sul divano e viaggio con la mente cercando d’immaginare cosa succede in questo momento in alcuni luoghi della terra, brevemente ma dolcemente mi sdraio sui miei pensieri...

Sulla riva della Senna, al tavolino di un elegante caffè, una si-gnora appoggia la tazzina di tè sul tavolino di marmo e si sistema con il piede la calza velata. Gli occhi sono rapiti da quel bruli-chio di gente che attraversa l’immenso viale parigino e immagina qualche amore passato o un romanzo appena terminato.

Sotto il Big Ben non c’è tempo per fermarsi, è l’ora del lavoro, della spesa, degli affari, dello shopping. A Londra è sempre tem-po per tutto, ma non si può arrivare in ritardo. Solo un ragazzo seduto sul marciapiede suona la chitarra e canta un’allegra can-zone e sembra dire al mondo “la fretta vi stancherà!”.

A Delhi pochi sanno che ore sono, gli orologi non vanno molto di moda perché il tempo è libero e senza barriere. Molti stanno seduti sulla strada a vendere qualche bicchiere di tè o ad ascoltare un po’ di musica, da radio vecchie almeno vent’anni. Una ragaz-za, dagli occhi scuri come il petrolio cerca di calmare il fratellino

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neonato e pensa rapita allo stupendo vestito colorato che ha visto al mercato qualche giorno prima, le ha ricordato incredibilmente la sua attrice preferita.

In una via soleggiata di Roma c’è una finestra da cui s’intra-vede la camera di un ragazzo, i libri sono sparsi sul letto e dalle casse dello stereo riecheggia una musica rock che ricorda qualche musical americano. Il cellulare squilla, sarà forse la sua ragazza che gli chiede di uscire ? Purtroppo è l’insegnante di batteria, vuole rimandare la lezione.

I sessanta secondi anche per oggi sono passati e le lancette si sono spostate, dopo un salto tra l’India e l’Europa è ora di termi-nare il viaggio nell’antica Roma, con i libri di latino!

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LA STESSA STORIAMaria Giulia Labagnara, 2ªD, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Alle tre del pomeriggio di un giorno di gennaio, avevo finito la pausa pranzo già da un bel po’ e avrei dovuto rientrare al lavo-ro. Ma quel giorno non lo feci. Camminavo lungo le strade del centro storico, in giro non c’era anima viva, ad eccezione di un vecchietto con il suo piccolo cane pulcioso e una signora accom-pagnata da quella che apparentemente poteva essere sua figlia, quando improvvisamente transitò a velocità elevata un signore in bicicletta a cui cadde qualcosa dal portapacchi… Mi avvicinai di corsa, lo raccolsi e cominciai ad urlare: – Signore, le è cascato un libro, si fermi! – ma oramai il ciclista era già stato inghiottito dalla fitta nebbia che stava per avvolgere l’intero paese. Guardai atten-tamente quel libro, lo sfogliai per cercare qualche annotazione, un nome, un indirizzo o anche soltanto un numero di telefono! Non trovai nulla. Notai, però, ad un certo punto, sul dorso del libro un’etichetta sulla quale vi era scritto “Biblioteca comunale”. La prima cosa che mi venne in mente fu quella di andarci, maga-ri lì mi avrebbero aiutato a capire chi l’avesse smarrito: anzi ne ero certo! Cominciai a camminare frettolosamente, ero curioso di scoprire qualcosa di più su quel semplice libro e sul suo lettore… Camminai fino a trovarmi davanti a quel grande edificio, in cui non ero mai stato e sul quale campeggiava l’enorme scritta a ca-ratteri cubitali “BIBLIOTECA”. Non attesi oltre, entrai e le gambe per un momento si immobilizzarono, mentre gli occhi fissavano quegli scaffali altissimi pieni di libri pensavo dentro di me: – Ma quanti saranno? – Restai immobile ad osservare quella bellezza per qualche istante, finché una voce sottile e aggraziata si rivol-

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se a me: era la bibliotecaria. Allora senza perdere tanto tempo le spiegai l’accaduto, lei mi ringraziò ed io per timidezza non riuscii a chiederle niente di più. Mentre stavo per uscire, l’occhio mi cad-de su un libro, la cui copertina era completamente rossa. Lo presi, mi misi a sedere su una poltroncina lì vicino, cominciai a leggere e più entravo nella storia e più ero preso da quel libro e un sottile piacere cominciava a prendere anche me. Per tutti i pomeriggi successivi, anziché tornare al lavoro, andavo a immergermi nella lettura finché non arrivava l’ora di chiusura. È così che nacque il mio amore per i libri, trovai straordinari stimoli per superare soli-tudini, fragilità che permisero di immedesimarmi in personaggi, storie e fantastiche avventure.

Ed è grazie a questo, carissimi nipoti miei, che sono qui a rac-contarvi questa storia…

– Ma nonno, il libro, quello perso dal ciclista di che cosa trat-tava?

– Che storia era? – Come cominciava? – Va bene, va bene bambini racconto… – il libro cominciava

così… – Alle tre del pomeriggio di un giorno di gennaio, avevo finito

la pausa pranzo già da un bel po’ e sarei dovuto rientrare al lavo-ro. Ma quel giorno non lo feci…

– Ma questa è la stessa storia di prima – disse il nipote più piccolo.

– Già… D’altronde si sa, i vecchi raccontano sempre le stesse storie.

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SORRIDERE NON È DIFFICILEBenedetta Mazzoleni, 2ªD, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Martedì 16 marzoAlle tre del pomeriggio, feci scivolare l’ultimo mobile sul cemen-to e mi sedetti sul marciapiedi per riprendere fiato, mi soffermai a osservare gli altri carcerati che dovevano ancora finire di aiu-tare nel trasloco. Ce n’erano di alti, bassi, magri, in sovrappeso; maschi o femmine, non importava molto, ormai, nessuno di loro conosceva più il piacere di sorridere. Le guardie ci controlla-vano; dovevi imparare a stare in silenzio o te lo insegnavano loro. Abbiamo sbagliato, tutti commettono errori, ma nessuno merita di essere trattato come venivamo trattati noi. Il sole pic-chiava forte sulla cute e la mia fronte non smetteva di sudare, le braccia e le mani mi facevano male e le gambe quasi non mi reggevano in piedi. Solo gli occhi mi erano rimasti illesi. Oggi era il turno del trasloco, probabilmente l’indomani mi sarebbe toccato pulire il parco o qualcosa di altrettanto ripugnante; quei lavoretti che odiavo più dei cibi dietetici erano l’unico modo per poter uscire da quel buco schifoso il prima possibile. Grandi sfere colorate di azzurro non smettevano di fissarmi, erano ore che il proprietario della casa mi guardava incuriosito, come se fosse attratto da me.

– Tieni, rinfrescati un po’ – disse avvicinandosi a me. Afferrai rapidamente il bicchiere e deglutii lentamente quell’acqua pre-ziosa che non potevo ricevere mai. Parlammo per quasi tutto il tempo cercando di non farci sorprendere dalle guardie, finché non giunse sera e così dovetti salutare l’aria aperta per ritornar-mene da dove ero venuta.

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Mercoledì 17 marzo Non so bene per quale motivo, ma ritenevano che mi fosse

utile parlare con uno strizzacervelli, così quasi ogni giorno mi ri-trovavo abitualmente nell’ufficio di Marta. Alla fine non era così male parlare con lei, mi ascoltava e mi aiutava, ed era l’unico es-sere umano che sembrava capirmi.

– Ieri ho parlato – le dissi, abbassando frettolosamente lo sguardo.

– Ancora da sola? – – No, stavolta con una persona reale, un ragazzo che abbiamo

aiutato a traslocare, era tanto che non parlavo a qualcuno oltre che a lei. All’inizio sembrava una testa vuota come tutte le persone di questo mondo. –

– E dopo? – – Dopo, dopo mi piaceva parlare con lui. – Rimasi ancora due ore a parlare con Marta di quel ragazzo

misterioso, finché non fu l’ora della cena e del coprifuoco. Prima dell’arresto trovavo un certo fascino nella notte, mi dava l’ispi-razione e permetteva a me stessa di liberarmi da quelle catene di paura e timidezza che gli altri mi costringevano ad indossare. Invece ora quelle catene sono più strette che mai, mi sento sola, soffocare in tutti i miei errori, persa in una gara di cui non cono-sco l’arrivo. Non mi piace stare qui dentro, ma ancora meno mi piaceva essere povera e girare per strada come un barbone. Mi sentivo inutile, come se non meritassi di essere come tutti gli altri, per questo ho cominciato a rubare e a rovinarmi con le mie stesse mani.

Giovedì 10 maggioSono quasi due mesi che sono cambiata, che il ragazzo mi-

sterioso mi ha cambiata, ora non piango più; rido, rido tutto il giorno e la notte penso a lui e a come potrà essere la mia vita con lui accanto. Da quel giorno è venuto spesso a farmi visita, a par-larmi, a raccontare cosa mi aspetta lì fuori, ad avere speranza. Lui è riuscito ad insegnarmi a sorridere di nuovo.

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Sabato 10 agostoOrmai, non ricordo neanche più il giorno preciso di quando

ho messo piede qui, so solo che non ci voglio più tornare. Mi ri-metto i miei vestiti e in un attimo il profumo del mio corpo, quello di sempre, mi riporta alla mente mille ricordi, a quando la mia vita aveva ancora un senso. Oltrepasso l’uscita e con aria di supe-riorità mando un bacio alle guardie che ormai non possono più farmi nulla. Prendo l’autobus, arrivo in Piazza Grande, mi aspet-ta Daniele, sì il ragazzo misterioso, quel ragazzo che ha riportato in vita il mio sorriso quel martedì alle tre del pomeriggio.

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COS’È LA NORMALITÀ?Ilaria Paltrinieri, 2ªD, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Alle tre del pomeriggio… i tiepidi raggi del sole scaldavano il viso di Edoardo affacciato alla finestra, con una tazza di tè bollen-te in mano. Osservava la caotica vita della città di Verona dall’in-terno di un mondo silenzioso, buio ed insopportabile: era la sua vita. Non aveva neanche finito di bere quella bevanda, non aveva mai capito come, ma avrebbe dovuto farlo sentire meglio, che la madre gli porse la giacca, la sciarpa ed il berretto.

– Dove andiamo? – C’è Silvia che ci aspetta, come al solito! – Non voglio venire da quella ragazza.– Perché? Sei arrabbiato? – No, non voglio venire con te, con il papà, con la nonna, con

il mio amico Luca, con tutte le persone che conosco e con il tuo cane! Sono stanco, non ho voglia di parlare.

La mamma smise di chiedere, Edoardo si sentì più sollevato. Non sopportava le domande. Rispondere ad una domanda vo-leva dire ragionare e ragionare voleva dire fare fatica e lui non aveva voglia di stare male. Ogni suo tentativo di dissuadere la mamma dall’idea dell’appuntamento con Silvia, come al solito, non diede nessun risultato. Edoardo si ritrovò, costretto anche quel pomeriggio, a parlare con quella strana ragazza che lo face-va sempre innervosire con le sue stupide domande, i suoi stupidi disegni ed i suoi insopportabili giochi di società. In verità, non conosceva il vero motivo del disagio che provava quando parlava con lei. Di sicuro non ne era innamorato, di questo era certo; lui era innamorato di Chiara, una di quelle persone che non fanno

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troppe domande, ma si limitano a fare le cose senza chiedere nul-la a nessuno. Un giorno, come spesso gli accadeva, si era sentito affaticato senza aver fatto alcuno sforzo fisico, quasi sul punto di svenire, lei lo aveva aiutato. Se non era innamorato di Silvia, quale era allora il motivo di quel disagio? Forse l’idea di parlare della propria vita con una perfetta sconosciuta che sapeva tutto di lui, ma di cui lui non sapeva niente. Quella sera, affaticato per quell’enorme quantità di pensieri che turbinavano nella sua testa in maniera vorticosa, si addormentò subito. La mattina seguente, alle sette in punto, come al solito sentì la voce della mamma, lo chiamava, la sua mano scorreva veloce sulle coperte, fino a rag-giungere il bordo del piumone e scoprirlo. La mattina, per Edoar-do era sempre un trauma, non aveva mai voglia di alzarsi e gli sembrava di fare ogni giorno più fatica a portare quei piedi freddi fuori dalle coperte, quasi fosse un vecchietto di novant’anni nel corpo di un sedicenne. Si vergognava un po’ a farsi chiamare da sua madre a quell’età, ma sapeva di non avere scelta. Quella mat-tina la mamma lo avrebbe portato, come ogni giovedì, in palestra, a fare stupidi esercizi e strani movimenti insieme ad una miriade di persone anziane che gli avrebbero chiesto per quale motivo fosse lì a saltare con loro, invece che stare insieme ai suoi ami-ci. Edoardo, non aveva amici fuori da quella palestra e detestava quelle persone perché lo costringevano a ricordare, ogni giovedì pomeriggio. Il giorno seguente di nuovo dal dottore, ancora una volta si era addormentato in classe, doveva farsi prescrivere quel-le disgustose medicine che avrebbero curato quella strana cosa chiamata dal dottore “ipersonnia” e che lui non aveva mai capito. Quel pomeriggio, però, si trattennero più del solito, quando ad un certo punto entrò Silvia con un fascicolo in mano che porse al dottore. Edoardo provò a leggere quella pila di fogli. “Edoardo Masetti: nevrastenico”. Per tanto tempo aveva pensato a quelle parole cercando di capire cosa significassero, non ci era mai riu-scito; ragionare comportava troppa fatica e in fondo a lui non in-teressava proprio niente di quello che pensavano gli altri.

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LA SOLITUDINERachele Zecchi, 2ªD, Liceo delle Scienze Umane “C. Sigonio”Modena

Alle tre del pomeriggio, di quel noioso pomeriggio non accadde proprio niente. Aspettavo un segno, una voce, ma niente. Era così che trascorrevo la maggior parte dei miei pomeriggi: aspettando. Me ne stavo sdraiata sul letto nella mia stanza al buio e la musica ad alto volume. Mia madre si era rassegnata a quel fracasso infernale, il gatto riusciva anche a dormire. Quanti pensieri mi giravano per la testa, uno più di tutti mi tormentava, ma come dargli risposta? Da quella notte, quel pensiero non faceva altro che tormentarmi, sen-za sosta come un tamburo che suona incessantemente. Dopo quella notte mia madre mi portò da molti strizzacervelli: non aprii mai boc-ca con loro. Ormai non avevo amici, ero sola. Di tanto in tanto, solo Rob passava a darmi un saluto, mi raccontava della sua giornata, di come era diventato bravo a basket, di come era riuscito a farsi dare il numero da Molly, una ragazza a cui faceva il filo da anni, e di come andava a scuola. Ah! la scuola, non resistevo agli sguardi dei miei compagni. Studiavo, ma non ero molto brava, soprattutto in matematica. Derek, invece, lui riusciva a renderla interessante e divertente. Non era più così. Dalle fessure delle finestre intravedevo qualche volta un gruppo di ragazze che si avvicinavano al campa-nello di casa senza mai suonarlo: erano le mie compagne di classe. Chissà cosa volevano, non parlavo con loro da molto tempo, ma avevo chiare nella mente le immagini dei momenti felici trascorsi insieme che quasi facevano spuntare sul mio volto un lieve sorriso. Non durava molto, qualche istante, e poi sprofondavo di nuovo nel-la solitudine della mia stanza. Mia madre ci provava in tutti i modi a farmi uscire, anche solo per poco, ma non ne volevo proprio sa-

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pere. Mio padre lo vedevo di rado; il nostro rapporto, dopo quella notte, non era certo migliorato, anzi, ci salutavamo quasi come due estranei, con un cenno di mano o con un “ciao” capace di raggelarti il sangue nelle vene. Lui e mamma si erano divisi tutto durante il divorzio, mobili, foto, argenteria, i servizi buoni dei piatti e persi-no i figli. Come papà, vedevo di rado anche James, mio fratello di venti anni. Da poco aveva iniziato l’università ed era entrato nella squadra di football. Ero molto orgogliosa di lui, ma non gli parlavo molto, il nostro rapporto era cambiato. Quando veniva a trovarmi mi lasciava sempre un bigliettino, non gli rispondevo sempre, avevo paura di rattristarlo o ancor peggio avevo paura che soffrisse per me. Quest’anno sarei stata all’ultimo anno di liceo, ho trovato tra la posta una lettera dalla scuola, nella quale mi chiedevano di essere presente alla cerimonia del diploma. Perché mai ci sarei dovuta andare? Con chi? Ma soprattutto, per chi? Pensavo a tutto questo sdraiata sul let-to, in silenzio, poiché il disordine nella mia testa faceva abbastanza rumore. Non riuscivo a dormire, ma non sentivo la stanchezza. Sen-tivo solo qualche fitta al cuore quando nella mia mente riaffioravano i ricordi legati a quella notte. Avrei voluto urlare per il dolore che provavo ogni volta che ci pensavo, nulla paragonato a quello che aveva provato lui. – Abbiamo fatto il possibile –, così hanno detto i medici dell’ospedale quando hanno comunicato la terribile notizia. Paralizzata per giorni, immobile a letto, immersa nel mio silenzio. Quella notte andarono in frantumi la vita di un giovane, i sogni di un giovane, il rapporto tra un padre e una figlia, un matrimonio, il cuo-re di una povera sopravvissuta. Pensavano che mi sarebbe passata, come passa la varicella, non fu così. Sono trascorsi ormai due anni e non passa giorno in cui quell’immagine orribile non mi attraversi la mente. Così rimango nella mia camera ad aspettare un segno, una voce, con la musica che rimbomba tra le pareti, ma niente. Aspetto un gesto, una carezza. Il suo gesto, la sua carezza che non arrivano. A volte mi sembra di sentire la sua voce che m’incoraggia ad andare avanti, senza però dimenticare. Rimango così, immobile con quelle dannate domande che mi ronzano nella testa: perché lui? Perché non io? Perché noi?

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BUIO TOTALEGiacomo Fato, 2ªM, Liceo Musicale “C. Sigonio”Modena

Alle tre del pomeriggio di un qualunque giovedì di un qualun-que mese, ero in camera e stavo facendo i compiti. I miei genito-ri erano andati a fare la spesa, finalmente un po’ di tranquillità! Non ne potevo più di sentirli starnazzare su come dovevo impie-gare secondo loro il tempo! La casa era immersa in un silenzio soffocante, spezzato ogni tanto dal clacson di una macchina di passaggio o dal canto di un uccellino. Il mio cane era disteso ad-dormentato sul mio letto. Tutto ad un tratto si svegliò, scese dal letto con occhi spalancati, si grattò freneticamente, annusò l’aria e infine si precipitò giù dalle scale. Rimasi un po’ sconcertato da quella scena, ma il mio cane è sempre stato un po’ strano, così ritornai tranquillamente a studiare. Due minuti dopo si mise ad abbaiare come un pazzo, senza interruzioni, poi sentii un guai-to e una porta sbattere. Mi fiondai giù per le scale ma non vidi niente. Mi guardai intorno: la porta d’ingresso era socchiusa. Tro-vai un po’ di coraggio ed andai fuori: sul pianerottolo c’era una grossa chiazza di sangue; il mio cane era scomparso nel nulla. Mi feci prendere dal panico, corsi al telefono, digitai il numero di mio padre ma non mi rispose, chiamai allora mia madre ma ebbi sempre lo steso risultato. La luce d’un tratto saltò. Ero immerso nel buio, le finestre erano chiuse e nella casa tornò un profondo silenzio. Nessuno mi aveva mai insegnato a farla ripartire dalla centralina fuori casa, ma decisi di provarci. Provai a raggiungere la porta brancolando nel buio, ma inciampai di botto su quella che sembrava una corda tesa. Non riuscivo più ad alzarmi, me la stavo facendo sotto dalla paura. Incominciai a sentire nella testa

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migliaia di voci che urlavano il mio nome, il clima cambiò di col-po e divenne freddo. La porta del bagno si spalancò: mi ritrovai davanti una figura massiccia nera, non vedevo bene, avevo gli oc-chi annebbiati dalle lacrime. La figura mi prese per la maglietta, mi tirò su e mi lanciò contro l’armadio di vetro che andò in mille pezzi; ero ferito da tutte le parti. Buio totale. Mi svegliai due gior-ni dopo in ospedale. Non mi sentivo per niente in forma, sentivo che ogni parte del corpo pesava il triplo del normale ma almeno ero cosciente. Un’infermiera bionda entrò nella mia stanza, si av-vicinò al mio letto e con voce cupa mi disse: “Ciao Giacomo, ben risvegliato. I tuoi vicini di casa hanno chiamato ieri l’altro l’ospe-dale. Ti hanno trovato disteso per terra pieno di ferite e lividi. Ci sono voluti due giorni per toglierti tutto il vetro che avevi dentro al corpo” l’infermiera parlava e io piano piano incominciai a ri-cordare quello che era accaduto. “Ecco, vedi ci sono una notizia bella e una brutta… La notizia bella è che tra un paio d’ore puoi riprendere a camminare, la brutta è che i tuoi genitori risultano scomparsi”. Rimasi a bocca aperta. Mi sembrava tutto un incubo, un incubo terribilmente reale. Lei mi guardò con aria di dispiace-re e poi uscì dalla stanza. Rimasi incredulo per circa dieci minuti. Ma che cosa stava succedendo? Perché qualcuno avrebbe dovuto ridurmi così? E perché i miei genitori e il mio cane erano scom-parsi? Mi feci queste domande fino all’ora di cena, senza riuscire a trovare uno straccio di risposta. Passarono due settimane, e dei miei genitori non c’erano tracce, i dottori mi rilasciarono e andai a stare dai miei nonni. Loro erano scioccati, ma mai quanto me. Nei giorni seguenti accaddero delle cose: un uomo di alta statu-ra, tutte le sere, alle 21 in punto, si fermava davanti al cancello della casa dei miei nonni e guardava per un’ora intera dentro le finestre. Una settimana dopo, mentre dormivo, saranno state le 4 del mattino, sentii delle urla agghiaccianti provenire dalla camera dei miei nonni. Quando corsi a vedere era troppo tardi: la finestra era spalancata e dei miei nonni non c’era traccia. Ero solo, com-pletamente solo e tremendamente impaurito. Qualcosa mi colpì dietro la testa. La mattina dopo mi risvegliai, ero tremendamente

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frastornato. L’uomo delle 21 di sera era davanti a me e mi disse soltanto: “Ti starai chiedendo chi sono, immagino, ebbene io sono la morte in persona, sono l’uomo che si prende delle persone e se le porta in un’altra dimensione.”

“Che cosa hai fatto ai miei genitori, ai miei nonni e al mio cane?” chiesi incredulo persino a me stesso per essere riuscito a parlare.

“Li ho portati in un’altra dimensione, te l’ho detto. Una di-mensione disperata, dove non si trova mai pace. E ora tocca a te”. Tac. Buio totale.

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LA MIA VITA È UN SOLO ISTANTEGuglielmo Mazzucchelli, 2ªM, Liceo Musicale “C. Sigonio”Modena

Alle tre del pomeriggio due possenti braccia spiccavano nere sul-la testa di un gigante. Entrambe nascevano nello stesso punto. Eppure la più grande e lunga saliva dritta a toccare il cielo, o forse toccava solo la grande tacca che era l’ultima di dodici sorelle. Il se-condo braccio invece era corto e si piegava a formare un perfetto angolo retto, guardando a est, e cercava strenuamente di toccare la terza di quelle strane tacche, fallendo miseramente a causa del-la sua ridotta dimensione. Eppure pareva che osservando atten-tamente quel corto braccino, esso lentamente si potesse allungare. In realtà tutto era fermo, come se la morte aleggiasse intorno a quel colosso. Ferme erano le dodici tacche, così come ferme erano le due braccia. L’antico guardiano si ergeva immobile, osservan-do ciò che lo circondava, cercando di respirare attraverso la coltre di polvere che lo ricopriva.

Ciò che forse più desiderava al mondo era di potersi scrollare di dosso quella nebbia perenne, eppure mai l’aveva fatto, perché da tempo immemore rimaneva immobile, e sempre immobile sa-rebbe restato, come se attendesse qualcosa che non sarebbe mai successo. Una singola grande gamba d’oro scendeva dal corpo di quel gigante, il cui piede era un grande disco, i cui raggi argentei diffondevano una tenue luce nelle vicinanze. Restava fermo an-che il grande mantello del titano, un grande mantello d’ebano in cui piccole viti di metallo si insinuavano. Tutto giaceva tranquillo in quel dì, come sempre in quel posto. Come in quel tragico gior-no, in cui tutto era iniziato, o forse dove tutto era finito.

Per questo mi ci recavo, sempre alla stessa ora; ripetevo quo-

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tidianamente quel rituale, perché quello era il mio santuario, la pace segreta intorno alla confusione che sempre mi attanagliava. Eppure quel luogo era carico di ricordi, nonostante fosse com-pletamente vuoto. Lì avevo passato la mia intera vita. E lì volevo ricordarla, come quella di mio padre.

Un tempo non era così. Un tempo la grande gamba del colos-so sferzava vigorosa l’aria, in movimenti dolci e precisi, sempre uguali. E i suoi grandi arti abbracciavano tutte le dodici sorelle; la più grande correva molto più veloce del suo piccolo fratello, giocando ad un rincorrersi infinito, anche se spesso si ritrovavano per qualche istante.

Qui lavorava mio padre, il più grande orologiaio che il mondo abbia mai visto.

Poi un giorno il cuore del gigante aveva smesso di battere, i suoi macchinari si erano fermati. Era successo proprio nel mo-mento in cui mio padre cadeva, un corpo privo di vita. E da quel giorno anche io mi ero fermato. Erano le tre esatte, e da quel giorno per me furono sempre le tre. Il cuore di mio padre si era fermato proprio a quell’ora, mentre contemplava la sua miglio-re creazione, il gioiello che custodiva per sé. Da quando lui era morto anche il frutto delle sue mani aveva cessato di esistere. Ma stentavo a credere che lui mi avesse potuto abbandonare, per questo tornavo ogni pomeriggio alla stessa ora. Perché anche da morto la creazione di mio padre avrebbe segnato l’ora esatta due volte ogni dì.

Da quando il pendolo stava immobile non avevo più osato toccarlo, non potevo disturbare il suo sonno eterno, e non osavo toccare la creatura di mio padre. E mentre nella solitudine anche io appassivo pensavo che comunque noi siamo come gli orologi. Passiamo la vita a rincorrere noi stessi, eppure alla fine di tutto questo, i due frammenti, il corpo e la spirito, si fermano a riposare per sempre.

Non importa in che momento il mio cuore si sarebbe addor-mentato, perché per noi sarebbero sempre state le tre.

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CALMA DOPO LA TEMPESTAChiara Parise, 2ªM, Liceo Musicale “C. Sigonio”Modena

Alle tre del pomeriggio, la casa era deserta. C’era la tipica calma dopo la tempesta. Tempesta, che aveva portato un grande cambia-mento all’interno della famiglia.

Era la tipica famiglia perfetta, quella che si vede nei film, un uomo e una donna nel pieno del loro amore, due figli fantastici, lei diligente a scuola, lui un talento nello sport, e un cane che portava ogni giorno vita e serenità in casa. Insomma, la famiglia che tutti vorrebbero.

La vita scorreva limpida; giorno per giorno, ognuno eseguiva i propri compiti al meglio. Ma non quel giorno. Quella fatidica notte in cui tutto cambiò. Erano le 23. I ragazzi erano a letto, mamma e papà, come tutte le sere, erano lì, stesi sul divano che si racconta-vano a vicenda gli episodi della giornata, tra una coccola e l’altra, cercando di recuperare il tempo passato lontani. Quello era amore, quell’amore che in pochi riescono a trovare. Non riuscivano a stare l’uno senza l’altro, si poteva capire da un semplice sguardo che da soli non erano niente, dopo quindici anni di matrimonio erano una cosa sola, una cosa unica.

Tra una chiacchiera e l’altra si erano fatte le due, decisero allora di ritirarsi. Si alzarono e si avviarono insieme verso la camera da letto mano nella mano come due giovani innamorati, entrarono nella stanza ma non arrivarono al letto. Improvvisamente lei si li-berò dalla mano e cadde a terra, priva di sensi. Non si svegliava. Subito il caos. Ambulanza, paramedici, figli preoccupati in lacrime, il cane, inconsapevole di quello che stava succedendo, accucciato nell’angolo della stanza, e il marito fermo, immobile di fronte alla

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moglie svenuta, ora stesa sul letto. Non riusciva a mostrare alcun segno, era paralizzato, troppo sconvolto per pronunciare anche solo una parola. Nel giro di poco tempo arrivarono in ospedale. Erano le tre, il tempo era fermo, lui insieme ai ragazzi in sala d’attesa, lei chiusa in una stanza per quello che potrebbe sembrare un’eternità. Nulla si muoveva tranne i pensieri, che piano piano aumentavano. Che cosa è successo? Perché è svenuta? Perché mi trovo qui? È un giorno come tutti gli altri, cos’è cambiato? Forse tutto questo è solo un brutto sogno.

Le ore passavano, le preoccupazioni aumentavano, mille paro-le vagavano nella sua mente, ma neanche una usciva. Passarono da poco le sei quando qualcuno uscì dalla stanza, un uomo per la precisione, un medico, mai visto prima. Si avvicinò e con aria seria prese da parte il padre in modo da escludere i ragazzi dalla conver-sazione. Si poteva quasi sentire il battito del suo cuore a mille, quel-le parole avrebbero potuto cambiare tutta la sua vita, in un istante. I ragazzi con uno sguardo attento cercavano di leggere nelle labbra di quel serio signore, di capire le espressioni del viso del padre, anche solo un accenno che potesse dire che tutto ciò era solo un incubo. D’un tratto le lacrime iniziarono a scendere, il padre dispe-rato cadde a terra in ginocchio, era pallido, aveva appena ricevu-to la notizia che meno avrebbe desiderato, che meno si aspettava. Stava morendo. Forse la sua unica ragione di vita stava morendo. Le restava forse un mese, forse poche settimane. Era malata, e i me-dici non potevano più fare niente per lei, se non cercare di rendere questi suoi ultimi giorni meno spiacevoli di quello che sarebbero stati. Il mondo gli era crollato addosso. Come avrebbe fatto a dirlo ai ragazzi? Come avrebbe fatto a portare avanti la famiglia da solo? Ma soprattutto, come avrebbe fatto a passare il resto della sua vita senza di lei, la sua metà? Mille pensieri, mille parole, il caos più totale dentro di lui, ma restava immobile. Avrebbe voluto urlare, ti-rare pugni contro il muro, non sapeva neanche lui cosa voleva fare, in lui c’era solo shock, nient’altro, anche lui stava morendo dentro.

Alle tre del pomeriggio la casa era deserta. La tempesta era pas-sata, ma i segni c’erano, e sarebbero rimasti in eterno.

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LEGAMILudovico Maletti, 1ªC, Istituto Superiore d’Arte “A. Venturi”Modena

Alle tre del pomeriggio i tetti piatti succhiavano affamati e im-mobili i raggi bollenti del sole. Non mi importava. Non pativo più. Ero abituato. Ero abituato a quella sauna urbana di fumi in-quinati.

Di sotto quei dannati sciocchi facevano chiasso con i loro ba-rattoli di metallo.

Quei fetidi ratti spelacchiati erano troppo persi nel loro desi-derio materiale per alzare la faccia e mostrarla a noi. Essi ci di-sgustavano: limitati nello spirito ed irriconoscenti verso la loro madre, ci prendevano in considerazione, inconsciamente, solo quand’erano intenti ad imprecare, a bestemmiare, oppure a se-guire un rumore nel cielo.

Balzavo goffo, ma disinvolto, fra un tetto e l’altro della me-tropoli arroventata. Egli mi seguiva prepotentemente ovunque andassi. Sapevo come nascondermi da lui, ma eravamo diventati come compagni. Lo accettavo e giocavamo a rincorrerci l’un l’al-tro come due farfalle danzanti. La nostra base era una musica si-lente, fatta di riflessi ed ombre. La nostra base era un andamento lento, intenso e confuso.

Mi bloccai. Il collo scricchiolò nel girarsi. Come un’oasi fra le dune la vidi. Stava china su di un banco; la folta chioma a ten-tacoli di polpo le proteggeva il viso, celandolo. I miei muscoli si tesero per un istante. Il mio corpo, per la prima volta, temeva di cadere. Mi cedettero le gambe. Non capivo. “Ti è nuova questa mia idea?” egli mi disse. Senza distogliere lo sguardo da tale me-raviglia feci cenno di sì, muovendo le mie enormi palpebre. La

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musica era cessata. Il chiasso non lo sentivo più. L’unico suono che percepivo era quello di una perpetua percussione, interval-lata dal mio respiro profondo. Protesi le mani. Lei si alzò e senza guardare il cielo sparì ove non potevo vederla.

La mia guancia destra si rigò e nella bocca sentii un sapore salino.

Alzai la testa e corrugai la fronte. Mostrai i canini ingialliti e ripresi a saltare fra un tetto e l’altro.

Egli non danzava più con me. Però non mi abbandonava mai; era sempre dietro di me, davanti ai miei occhi e sulla mia testa bollente.

La città cominciava il suo declino. Ora la farfalla mi inseguiva con prepotenza. Mi teneva il fiato

sul collo. Non potevo più conviverci. La via di fuga era lì dov’è sempre stata. Lì sotto i miei occhi. Lì sotto i miei piedi. Lì, sotto.

Corsi verso il cornicione e cantai urla di rabbia… di dispera-zione… di rassegnazione.

Non potevo mischiarmi ai ratti. Il mio posto era lì in alto. Vergogna, io provai in quel momento; e con la testa china sup-

plicai per il perdono. Le vetrate dei palazzi cominciarono a sanguinare e con loro

anche noi ci allontanavamo sempre più. Egli si sentiva sempre più imbarazzato ed arrossiva. Egli poi

scendeva. Provai un immenso dispiacere e mi avvicinai a lui, sino a rag-

giungere il bordo estremo del cornicione. Mi alzai in piedi. Amicizia. Amicizia era nata. E come una farfalla vive solo un

giorno, così anche lui, sì, proprio così “lui” sprofondava, ed io, farfalla inseparabile mi librai per seguirlo nella sua discesa, e fui libero.

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OLTRE LA NEBBIA Sara Manfredi, 1ªC, Istituto Superiore d’Arte “A. Venturi”Modena

Alle tre del pomeriggio di un giorno di febbraio, la nonna stava tagliando i miei lunghi capelli: usava il rasoio e io stranamente la lasciavo fare. Con voce tranquilla mi spiegava che, nonostante la mia testa dura, avevo subito un trauma cranico, con emorragia cerebrale. Mi avrebbero operata, ma diceva che sarebbe andato tutto bene. Mi aveva dato un bacio e avevo avvertito il profumo dei suoi biscotti. L’orologio era fermo alle tre del pomeriggio.

Stavo tornando da scuola e camminavo distrattamente, cuffie nelle orecchie e occhi bassi, sulla solita strada, incontrando la so-lita gente. Perché proprio a me?

Da qualche mese, questa domanda mi fa compagnia, come un’amica fedele, ed io, incapace di muovermi, cerco una risposta che non trovo: non credo di essere morta. Forse ci sono andata vicina, oppure sono morta solo per qualche istante il giorno del-l’incidente, quando ho rivisto la nonna, che mi tagliava i capelli. Lei è morta da più di tre anni: forse l’ho solo immaginata. Sono abbastanza sicura di non essere morta perché non ho ancora visto la luce, quella che nei film risplende alla fine del tunnel e porta in paradiso; anzi direi che intorno a me vedo solo nebbia.

Non mi sento sola e non ho paura. Avverto spesso le carezze delicate di mia madre e ho sentito il sapore delle sue lacrime, sa-late come l’acqua del mare. Mi riaffiora un ricordo: quando avevo sette anni un’onda, un giorno d’estate in cui il mare era agitato, mi aveva prima coperto e poi risucchiato, avvinghiandosi a me con tutta la sua irruenza. C’era voluta tutta la forza di mio padre per riuscire a riemergere.

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Ma quel giorno, alle tre del pomeriggio, mio padre non era con me. Quell’auto mi era piombata addosso, sbalzandomi sul-l’asfalto. Oggi il caldo mi sta soffocando; se potessi scegliere dove stare, vorrei trovarmi tra le cime di una montagna, o a piedi nudi su di un prato, per assaporare la sensazione di freschezza che mi darebbe la rugiada mattutina. Sento il calore delle mani di mio padre. Non lo vedo, ma riconosco le sue mani grandi e callose. Riesco a sentire la sua voce e da qualche giorno mi sembra più vicino, anche se ancora ovattato dalla nebbia. Mi ricordo che un giorno, io e mio padre siamo andati a pescare: è stato divertente. Anche allora era scesa la nebbia, ma forse perché ero piccola tutto mi era sembrato magico. Quel ricordo, anche in un periodo scuro come questo che sto passando, mi rende ancora felice.

Mi infastidisce la maschera che uso per respirare. Sento caldis-simo. Immagino sia estate, o forse mi trovo alle porte dell’inferno, ma non credo di essere morta: anzi mi rifiuto di morire a sedici anni, soprattutto il giorno prima di San Valentino.

Avevo un programma: avrei incontrato il ragazzo carino di 3ªB. Mi aveva invitata a pattinare e poi al cinema. Quel giorno di febbraio pioveva, ed ero avvolta nel mio Moncler bianco. Sicu-ramente si sarà rovinato nell’impatto, il mio iPod sarà distrutto: l’urto è stato forte, urla, dolore, poi solo nebbia e freddo.

Oggi sento il mio corpo, è intorpidito: ho bisogno di lavarmi i capelli che stanno ricrescendo, mi fa prurito la testa. Le palpebre sono pesanti, ma riesco a cogliere qualche bagliore. In mezzo alla nebbia, bianche sagome in movimento, luci colorate e suoni simili ad allarmi alternati al rumore del mio cuore. Non sono morta e sono le tre del pomeriggio. Lo leggo sul monitor di fronte a me.

È una bella giornata di sole, anche se non riesco a vedere oltre questo letto: l’ho sentito dire dall’infermiera di turno. Lei è molto bella e per un attimo penso che possa essere un angelo, ma subito noto che ha un trucco pesante e i capelli tinti: non credo che gli angeli ricorrano a queste strategie.

Sento fame: “Vorrei un pezzo di pane appena sfornato o i bi-scotti di mia nonna” dico.

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L’INCUBO DEL 20 MAGGIO 2012Michela Suffritti, 1ªC, Istituto Superiore d’Arte “A. Venturi”Modena

Alle tre del pomeriggio, l’incubo mi stava facendo impazzire. Quella giornata sembrava non finire mai. Erano ormai quindici ore che non chiudevo occhio. Dopo quel forte rumore all’una di notte avevo paura perfino di stare in casa, non capivo cosa stesse accadendo. Poi compresi.

Alle quattro sentii un formicolio nei piedi, poi un altro ru-more, come l’esplosione di una bomba esattamente sotto di me, dopodiché cominciò a tremare tutto, un’oscillazione terribile da un lato all’altro, dall’alto in basso, senza interruzione, ma aumen-tando di potenza. Mi resi conto di ciò che stava succedendo: era un terremoto.

Cominciai ad urlare: “FUORI, FUORI!” Afferrai il cellulare al volo, presi mia madre per un braccio e scappammo per le scale, via da quell’inferno che era diventata la casa. Fuori c’erano già alcuni dei miei vicini e altri stavano arrivando. Tremavo, non sta-vo in piedi e piangevo, la paura era tanta e le domande anche. Mi chiedevo come stessero i miei famigliari.

A un certo punto di nuovo si fece sentire: il rumore di quella terra a me conosciuta che ora mi sembrava estranea, le urla della gente, il rumore degli oggetti all’interno delle abitazioni che ca-devano rompendosi e soprattutto la visione di quella casa, che oscillava come una gelatina, spostandosi anche di un metro.

Abbracciai mia madre, che in quel momento era l’unico mio conforto: anche lei piangeva e insieme tremavamo dal freddo. Il mio vicino più giovane corse in casa e prese coperte e ciabatte per tutti. Non lo ringrazierò mai abbastanza. Una mia conoscente

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venne vicino a me e mi chiese se potevo guardare con il cellulare dove era l’epicentro e qual era la magnitudo e lo feci. Quando ar-rivai ai risultati fui sconvolta: magnitudo 6 con epicentro a Finale Emilia, il mio paese. Perché? Perché proprio noi?

All’alba cominciarono ad arrivare i primi soccorsi, che allestiro-no un campo di accoglienza nel nostro centro sportivo; passò una macchina a dire che dovevamo stare fuori per almeno dodici ore, ma penso che nessuno sarebbe rientrato prima di qualche giorno.

Iniziarono ad arrivare notizie dal centro, notizie terribili che ci sembravano incredibili: la “Torre dei Modenesi”, o Torre dell’oro-logio, era crollata per metà, la Torre estense del castello era total-mente caduta, la facciata del duomo era completamente crollata.

Due ore, solo due ore erano passate dalla forte scossa: erano le sei, mia madre tirò fuori la macchina dal garage e finalmente mi sedetti su qualcosa su cui mi sentivo sicura, più o meno.

Andai da mio zio che dista circa duecento metri da casa mia e quando lo vidi scoppiai in lacrime dalla gioia. Mio zio ha due figli, uno di quattro anni e uno che ha a malapena un anno. Il più grande mi guarda e dice: “Tata Chela, la mia casa non sta bene.” Io gli chiedo: “Perché?” E lui: “Non va bene perché balla, dobbiamo cambiarla”. In quel momento noto l’innocenza di quel bambino in una situazione così drammatica.

Dopo poco arrivò mia nonna, mi abbracciò e piangendo mi disse: “Forza Michela, forza, pensa al fatto che io non ho più una casa, ma che ce la farò se voi mi starete vicino”. Tempo qualche minuto e mi telefonò mio padre, dandomi due notizie: loro stava-no bene, ma purtroppo la casa dove viveva era crollata.

Lì realizzai: quel terremoto era devastante e non si sapeva quasi nulla di quello che era successo.

Arrivarono le undici e di nuovo un’altra forte scossa. Dalle quattro era stato tutto un susseguirsi di piccole scosse, un continuo ondeggiare, sembrava di essere su una barca in mezzo all’oceano.

Ed eccomi qui, mentre aspetto che questo incubo finisca e im-magino come sarà la notte e i giorni a venire.

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29 MAGGIO 2012Francesca Losi, 2ªC, Istituto Superiore d’Arte “A. Venturi”Modena

Alle tre del pomeriggio di quel 29 maggio mi trovavo nel mio giardino, insieme alla mia famiglia, ed ero intenta a montare delle tende da campeggio. L’aria era fresca, il sole splendeva, e la terra continuava a tremare.

Alle nove del mattino un forte terremoto aveva distrutto il paese in cui vivo, Rovereto: raso al suolo. Passandoci in macchina quel giorno, tra polvere, pietre e case che crollavano sulla strada, non ero in grado di capire dove mi trovassi, non riuscivo a rico-noscere la città in cui ero cresciuta.

La maggior parte delle case era stata danneggiata, la chiesa e il campanile potevano cadere da un momento all’altro, tre dei quat-tro bar erano crollati insieme alla banca e alla coop; la polisportiva, il cinema, la pizzeria e tanti altri edifici erano irrecuperabili.

Per non parlare delle scuole, già danneggiate dal terremoto precedente. Erano state messe in sicurezza, e il 29 maggio era il primo giorno in cui i bambini tornavano nelle loro aule.

Mia sorella, che faceva la quarta elementare, quel giorno era in classe e mi ha raccontato poi cos’era successo durante la scossa: “Ci siamo guardati tutti in faccia e abbiamo cominciato a urlare e a piangere. Stavamo per andare sotto ai banchi, perché i pezzi di intonaco ci cadevano in testa, poi abbiamo preferito andare vicino alla maestra, che cercava di abbracciarci tutti sotto alla porta. An-che lei piangeva e urlava. Quando abbiamo cominciato a uscire non riuscivamo ad andare dritto, perché c’era tantissima polvere e il pavimento tremava, molti bimbi cadevano. In più le vetrate del salone sono scoppiate e abbiamo cercato di schivare i vetri. La

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maestra è caduta per le scale, ma alla fine siamo usciti e nessuno si è fatto male.” Tutti erano sotto shock dopo questa esperienza; provate a immaginare come devono averla vissuta dei bambini di nove o dieci anni.

La mia casa era stata danneggiata, ma subito non sembrava una cosa grave. Infatti anche l’ingegnere in un primo tempo ave-va detto che era un danno lieve, che si poteva facilmente sistema-re e che saremmo tornati ad abitarla entro settembre.

Invece ho trascorso tutta l’estate in una tenda e non è un’espe-rienza che vi consiglio. Soprattutto quando si è isolati in mezzo alla campagna, con strani rumori notturni, insetti ovunque, zan-zare, gatti che gironzolano nel buio. E tutto questo durante l’esta-te, con il caldo di quest’anno.

In teoria non potevamo neanche entrare in casa, ma è una cosa impensabile se si sta dalla mattina alla sera in giardino a guardare la propria casa dall’esterno. Dopo un po’ la paura passa, e in casa siamo entrati lo stesso. Per un mesetto però abbiamo fatto tutto in giardino: cucinavamo con un fornelletto da campo, mangiavamo sotto al gazebo, anche il bagno era fuori e facevamo la doccia die-tro casa, riparandoci con un telo.

A Rovereto non si fa altro che parlare di terremoto, la gente non è più la stessa, molti se ne sono andati. I segni del terremoto sono ancora ben visibili; anzi, non si vede altro. Il centro è ancora oggi transennato e tanti edifici sono stati demoliti, tant’è che non sembra neanche più lo stesso paese. Forse tanti pensano che or-mai la cosa sia superata, ma siamo solo all’inizio. Non è cambiato molto in sette mesi.

Ma la cosa che ci porteremo dietro per tutta la vita sarà l’istin-to che ci fa sobbalzare a ogni rumore troppo forte. Ogni volta che una porta sbatte, che cade qualcosa, che passa una macchina o un camion, a ogni tonfo, a ogni vibrazione, chi ha vissuto quest’espe-rienza in prima persona sobbalza, ha una reazione di terrore: per-ché è questo che si prova in mesi di scosse continue. La resistenza fisica e psicologica sono messe a dura prova. Una paura incessan-te, che da un momento all’altro possa esserci una nuova scossa.

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L’ISOLA DELLE ROSESimone Muci, 2ªC, Istituto Superiore d’Arte “A. Venturi”Modena

Alle tre del pomeriggio, Guido stava seduto nel suo salotto. Era arredato con gusto: al centro un divanetto di pelle rossa, a fianco la poltrona, su cui era seduto comodamente. Intorno tanti mobili in stile ottocentesco.

La tv un po’ vecchia, a tubo catodico, mostrava immagini sbia-dite. Erano riprese fatte da due sommozzatori. Si vedeva qual-cosa di simile a cavi, tubi, frammenti di muratura, corrosi dalle alghe e dalla ruggine. Erano adagiati in modo solenne, in fondo al mare, e la poca luce che filtrava li faceva sembrare tetri. Pareva che i due sommozzatori fossero in ricognizione per scandagliare il fondale: un’importante società doveva costruire lì una piatta-forma petrolifera, ma poi aveva trovato quei resti. Lui guardava come se sapesse: anzi, ne era certo. Prima o poi avrebbero rico-nosciuto ciò che avevano realizzato un tempo, lui e i suoi amici, che si erano impegnati oltre l’umana sopportazione per portare a termine quel progetto.

Ormai era un signore attempato, stanco, si muoveva trasci-nandosi su un bastone. Sorrise e allungò la mano rugosa verso una foto incorniciata su un tavolino. Era in bianco e nero: tre uo-mini sorridevano, le loro espressioni erano piene di speranza, ma si leggeva anche una buona dose di spensieratezza. Sorridevano, nonostante fosse ovvio che avevano appena terminato un lavoro molto faticoso. Erano scamiciati e sudati. Dietro di loro, si notava a malapena una struttura. La loro bizzarra storia segnò perenne-mente l’estate adriatica di quel rivoluzionario 1968.

Qualcuno ancora la ricordava, l’Isola delle Rose, con la sua

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splendida architettura che si innalzava sinuosa, ma senza imporsi sul panorama del mare. Era una struttura artificiale, simile, per alcuni versi, alle piattaforme petrolifere: in basso, pesanti tubi e piloni di cemento reggevano la base; sopra, svettavano eleganti pareti di vetro e acciaio. Erano serre. Splendide serre contenenti tutte le specie di rose esistenti al mondo. Un turbinio di rosso, rosa e bianco. Perché era stata costruita? Semplice: lui voleva ve-dere le rose fiorire sul mare. Che pazzia vero? Ma non per lui, che al mare aveva sempre vissuto. Rose e mare erano due spettaco-li della natura, quindi perché non unirli? Questo era il progetto. L’isola venne “varata”, lo ricordava ancora, il 26 giugno del 1968; fu un successo turistico. Folle enormi affittavano barche per fare il giro intorno, ma era vietato “sbarcare”. Solo lui e i suoi compagni potevano. Principalmente lui. Entrava nelle maestose serre, e si sedeva: a pensare, a osservare lo spettacolo della luce del mattino e dei riflessi, che irradiavano il roseto, un turbinio di emozioni e colori. Entrare lì dentro era come ritrovarsi in uno splendido so-gno, un luogo fuori dalla realtà, dove il tempo non passava mai. Era il suo modo di evadere.

Adesso non poteva più. I suoi amici erano scomparsi da tem-po, e lui era relegato ad un bastone, fermo davanti alla TV e stan-co di questa vecchiaia. Né il mare né le rose poteva più vedere, il grigio cemento aveva mangiato ogni cosa; ma chi poteva notare quanto era cambiato il mondo, a parte lui? Si ricordava ancora quando le motovedette dell’esercito erano attraccate sull’isola: lui e i suoi amici erano sospettati di nascondere missili sovietici. Dopo neanche due mesi, l’isola venne data alle fiamme, le rose si sbriciolarono e diventarono polvere colorata, che si mischiò al vento e venne portata lontano, oltre l’orizzonte. Solo lui e i suoi amici rimasero muti di fronte a quella desolazione.

Adesso, pensò, non ci sono più colori a ravvivare il cielo, ma non interessa a nessuno, perché i colori non sono importanti. Si girò verso la finestra, le nuvole grigie si diradavano e lasciavano intrave-dere i raggi della luna. E lui ancora ripensò all’Isola delle Rose.

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PER FORTUNAFederica Orlandini, 2ªC, Istituto Superiore d’Arte “A. Venturi”Modena

Alle tre del pomeriggio, mentre guardavo il mio programma pre-ferito in tv, che avevo aspettato da oltre una settimana, avvenne la più grande disgrazia che potesse mai capitare: qualcuno suonò il campanello.

La mia gioia subì un mutamento tale che, mentre mi dirigevo alla porta, fui tentata di fare una breve sosta in cucina per pren-dere un coltello.

Per fortuna, so essere ragionevole. Aprii la porta e fui sorpresa di trovarmi davanti la signora

Perkins. Quella brutta, grassa, odiosa, puzzolente zitella della si-gnora Perkins, nonché la mia instancabile padrona di casa.

“Jess, cara, immagini perché sono venuta!” disse la mia ospite entrando in casa e accomodandosi sul divano.

“Prego, entri pure!” non riuscii a trattenermi dal dire con pa-lese sarcasmo, che lei non notò minimamente. Avrei voluto dirle in faccia, con cortese odio, quanto detestassi la sua fastidiosa in-tromissione nella mia vita.

Per fortuna, so essere ragionevole. E così le dissi soltanto quanto mi facesse piacere una sua visita

così inaspettata e altre frasi disinteressate di benvenuto, necessa-rie per una buona educazione.

“Ha bisogno di qualcosa?” le chiesi, quando vidi che non di-ceva nulla.

“Sì, Jess cara, dei soldi dell’affitto di questo e dello scorso mese. Lo sai, non mi hai pagato. Sono milleduecento sterline. “

“Milleduecento!?! Ma non dovrebbero essere solo mille?”

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“Sì, Jess cara, ma voglio gli interessi. Ho aspettato anche trop-po, e ora mi sono stancata. Se non li hai, temo che dovrò chiamare la polizia.”

“Ma, signora Perkins! Non esageriamo! Pagherò domani, glie-lo giuro, devo solo andare a prendere i soldi…”

Fui interrotta bruscamente dalla padrona di casa, che infasti-dita dal rumore della televisione, l’aveva spenta, e con un tono di superiorità commentò, sfoggiando il suo orribile sorriso sdenta-to: “Scusa, ma odio questo programma, lo trovo fastidioso e per nulla interessante, non lo posso sopportare. Non lo pensi anche tu, Jess cara?”

Silenzio. Che cosa aveva detto quella vecchia megera? Come aveva de-

finito il mio programma preferito?Agii impulsivamente. Forse, se fosse venuta un’ora dopo; forse, se si fosse accomo-

data in cucina; forse, se avessi pagato l’affitto, lei non avrebbe detto quello che invece disse e io non avrei fatto quello che feci.

Ma lei era venuta alle tre del pomeriggio, puntuale, e si era seduta sul divano, davanti alla televisione accesa.

Perciò non fui da biasimare se, in un impeto di giustificata pazzia, versai sopra i suoi capelli puzzolenti un litro di profumo (che avevo pagato con i soldi dell’affitto) e con indifferenza tirai fuori dalla tasca il mio accendino, che accesi e che lanciai sulla testa di quella vacca.

Fu una scena letteralmente luminosa. La signora Perkins prese fuoco all’istante.

Aveva una faccia spaventata e i suoi occhi mi guardavano, chiedendomi silenziosamente cosa avessi fatto. Meno silenziosa era la sua bocca, che emetteva versi ben poco moderati. E così, dopo qualche minuto di confusione, la signora Perkins cadde a terra, decisamente più abbronzata e profumata di quando era en-trata in casa.

Lo ammetto, non fui ragionevole, ma non me ne pento. Ho tre cose che nessuno può toccarmi: i capelli, la mia colle-

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zione di tappi di sughero e il mio programma preferito. Perciò sprofondai nel divano e con un gesto svelto accesi la tv; poi, finito di guardarla, la spensi.

Osservai la silenziosa, povera defunta distesa immobile a ter-ra, e fui così ragionevole da ammettere che non mi era mai stata così simpatica come in quel momento.

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IL RICORDO DI TEElena Vellani, 2ªC, Istituto Superiore d’Arte “A. Venturi”Modena

Alle tre del pomeriggio, anche quel giorno, come d’abitudine, se-detti sotto il salice del parco e accesi l’ultima sigaretta rimasta nel pacchetto.

Era piena estate, eppure sotto quell’albero non vi era troppo caldo. Vi era invece un leggero vento fresco che muoveva i rami. Mi sfioravano, quasi ad accarezzarmi.

Il cane correva sull’erba appena tagliata, felice. Anche io ero felice, stavo per rivedere la mia ragazza dopo quasi un mese. Mi mancava davvero tanto e già immaginavo il suo profumo, le mie mani sui suoi fianchi mentre ci baciamo, i suoi capelli rossi e le sue lentiggini. Mi toglieva il fiato pensarci ma non riuscivo a smettere.

Sentii una fresca carezza toccarmi il collo, mi voltai. Rimasi incantato a guardarla per qualche secondo. Era davvero bellis-sima, non riuscivo a trovare nemmeno un’imperfezione in lei. I suoi capelli rossi quel giorno splendevano e illuminavano i suoi grandi occhi verdi. Le lentiggini, la sua pelle chiara le sue gambe magre e il suo sorriso. Ricordo ancora che indossava la maglia che le avevo regalato l’anno prima, e le stava proprio bene.

Le presi la mano e la tirai verso di me. Si sedette e mi abbrac-ciò. Quell’abbraccio fu il migliore di sempre. Mi baciò.

Passammo tutto quanto il pomeriggio in quel parco. Ci dice-vano che l’amore dopo qualche mese svanisce, per i diciottenni. E invece era la mia ragazza da tre anni, e ci amavamo ancora come il primo giorno.

Oggi sono le tre del pomeriggio, e come d’abitudine siedo sot-

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to il salice del parco. Ho intenzione di fumare l’ultima sigaretta nel pacchetto per ricordare quel giorno felice, per fingere che lei ora sia qui con me. Oggi sarebbero sessantasei anni che lei è mia, e cinquantotto di matrimonio. Il mio primo e ultimo amore li fe-steggerà dal paradiso.

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IL MISTERO DI BLACKGATE Giovanni Mazzaferro 1ªA, Liceo Scientifico “Wiligelmo”Modena

Alle tre del pomeriggio stavo tornando dal dipartimento di poli-zia di Greenville, dove lavoravo come agente da circa un anno. Al mattino era arrivata la notizia della scomparsa di venti persone. Quella notte non dormii. Non era la prima volta. Da un po’ di tempo, di notte, degli strani passi mi svegliavano, ma quando mi alzavo per controllare, non trovavo nulla di strano. Io vivevo in un posto isolato, al limitare di una radura. La città si trovava oltre il bosco.

Alla mattina mi alzai e mi preparai per andare al lavoro. Al dipartimento mi accorsi subito di una cosa strana: una berlina nera nuova di zecca era ferma alla fine dell’isolato. La notai per-ché risaltava incredibilmente tra le altre auto. Rientrato a casa vidi dei graffi sulla serratura della porta, qualcuno aveva cercato di introdursi nella mia abitazione. Alla sera, mentre guardavo fuori dalla finestra, notai un strano riflesso dall’altra parte della radu-ra; ora ne ero certo, qualcuno mi stava osservando. Coincidenze? Non ci ho mai creduto. Andai a letto dopo la mezzanotte. Due ore più tardi ricominciarono quegli strani passi. Ora basta! Presi la pistola dal comodino e andai a vedere che cosa stesse succe-dendo. Aprii la porta di casa, nessuno. Sentii un rumore provenire dalla cantina, come se qualcosa sbattesse. Mi precipitai alla porta, faticai un po’ ad aprirla e scesi nel seminterrato. Il sangue mi si gelò nelle vene. Al centro della cantina era stata scavata un’enor-me fossa, una dozzina di cadaveri giaceva all’interno e altri dieci erano adagiati tutt’intorno, in attesa, pensai, di essere interrati. Mi ci vollero parecchi minuti per calmarmi, mentre la mia mente sta-

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va già elaborando un piano. Non potevo dire a nessuno quello che avevo scoperto, non mi fidavo di nessuno dei miei colleghi. Quei cadaveri erano in casa mia. Come dimostrare la mia innocenza? Aspettai che arrivasse il mattino per andare al lavoro. Giunto al dipartimento mi misi subito a lavorare al caso delle venti persone scomparse e scoprii che alcune di loro erano legate alla vicina pri-gione di Blackgate. Tra loro c’erano due ex detenuti, una guardia e due giornalisti che volevano scrivere un articolo sul direttore della prigione. Decisi di mettere in atto il mio piano. Lasciai la macchina parcheggiata davanti al dipartimento, uscii da una porta laterale e iniziai a correre verso casa. Appena arrivato vidi subito che la porta d’ingresso era spalancata. Entrai e mi diressi in cantina. Due uomini stavano ricoprendo di terra la fossa. Tirai fuori la pistola e sparai due colpi diretti alle gambe degli intrusi. Mentre si contor-cevano a terra per il dolore, iniziai a legarli con del nastro adesivo. Era arrivato il momento di scoprire la verità. “Perché siete qui?” chiesi. Silenzio. Minacciai di sparare ancora. Ripetei la domanda. Silenzio. Mi stavo stancando. Colpii uno dei due a un ginocchio e improvvisamente si sciolse la lingua dell’altro. Erano arrivati per seppellire i corpi, su commissione del direttore di Blackgate. Avrebbero dato la colpa a me, dicendo che ero impazzito ed avevo ucciso venti persone, sarei stato il capro espiatorio perfetto, visto che ero solo, senza amici, malvisto dai colleghi e poco amato dai superiori per la mia mancanza di disciplina. Tornai al dipartimen-to ed ottenni un mandato per la prigione. Schierammo l’intera forza di polizia, S.W.A.T. compresa. Entrammo nell’edifico prin-cipale facendo irruzione e restammo stupiti perché l’interno era nuovissimo, bianco e asettico, in netto contrasto con la fatiscenza dell’esterno. Quindi la prigione era una copertura, ma per cosa? La risposta arrivò qualche minuto più tardi. I prigionieri veniva-no condotti lì, messi sopra tavoli da laboratorio e poi sottoposti a terribili esperimenti. Le venti persone uccise avevano scoperto la verità ed erano state messe a tacere per sempre. La prigione venne chiusa e tutto il personale fu arrestato con pesanti accuse. Ed io? Finalmente riuscii a godermi una bella notte di sonno.

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CASCHÈDA DA ’NA FNESTRAGabriele Messori, 1ªA, Liceo Scientifico “Wiligelmo”Modena

Alle tre del pomeriggio al detective De Angelis as truveva sul treno per Mòdna, per ander a indagher sulla morte di una vecia sgnora. Il luogo del delitto l’era ’l Policlinico.

L’avevano chiamato perché era l’investigatore più bravo della zona. Un sacco di gente pensava che la donna, che soffriva di de-pressione, la s’era buteda da una finestra dell’ospedale da par lèe, mo a De Angelis quella teoria lì non ci piaceva micca. Pensava che non fosse stato un suicidio, ma piuttosto un omicidio. Ed era uno che ci sapeva fare un bel po’.

Il detective l’arrivò a Mòdna a zinc or e da principio rimase incantato dal suono delle campane della Ghirlandeina, ch’l’è un lavor menga da reder, tant’è bello. Con un taxi andò all’ospedale, il cadavere della pòvra sgnora era stato portato in obitorio per l’autopsia. Alla vecchia era rimasto sol un figlio di mezz’età per parente. De Angelis volle subito incontrarlo. L’uomo zigava, ma ad ogni modo accettò di vedere l’investigatore. Diceva che il de-litto era successo tardi a la basora, per cui lui l’era a drèe ad ander a lèet. Tot i dè andava a trovare sua madre, che era stata ricove-rata all’ospedale per un problema di nervi, mo anche perché l’era cascheda e s’era fiaccata un osso di una gamba.

Raccolte le informazioni necessarie, De Angelis si ritirò nella sua camera d’albergo, anche perché l’era bele sira.

Mentre si coricava, cominciò a ragionare su quel che gli aveva-no detto, ma lui s’era bell’e fatta un’idea tutta sua, che era proprio il contrario di come pensavano tutti quegli altri. Al dè dopo passò la giornata a interrogare i dutor, gli infermèer e tutti quelli che

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potevano avere qualcosa da raccontare della sgnora e delle ore prima della sua morte. Più andava avanti con le ricerche e più si convinceva d’la sò idea.

A mezdè era stato invitato dal fiòl della vittima a magner in centro, in un locale da rispettarsi. In quel posto lì mangiò i suoi primi turtlein in bròd, mo quelli buoni da sbavazzo. Era sempre più meravigliato da la belezza ’d Mòdna, pina ’d pordegh e di belle piazze. Comunque si teneva in mente il suo lavoro, che era quello d’indagare sulla morte d’la povra sgnora. Notò che quan-do as ciacareva di sua madre, il figlio diventava nervoso e secon-do De Angelis non era micca per il dolore che provava.

Quando i due si ritrovarono in una viuzza poco frequentata del centro, improvvisamente l’uomo gli saltò addosso, mo l’in-vestigatore, che si era preparato, aveva chiesto di farsi seguire da due agenti della polizia, che videro da lontano la scena e accorse-ro ad ammanettare il sandrone.

L’uomo fu portato in galera e, interrogato, confessò di ave-re ammazzato sua madre: “Am despies, non se ne poteva più di quella vecchia lì: l’era seimper drè a lamentarsi, così io non c’ho più visto dalla rabbia e l’ho buttata dalla finestra. E se non fosse stato per qual prufesor ed De Angelis sarebbe andato tot bein. Se fossi riuscito a saltargli addosso da boun avrei ammazzato anche lui…”

Al dè dopo De Angelis l’era bele a cà so e pensava che quel-l’uomo l’era propria un cretein.

Ad ogni modo la città di Modena gli è rimasta nel cuore e ogni anno torna a fare un giro in Piazza Grande, atac à la piopa.

———————Atac à la piopa: “presso la Ghirlandina”, chiamata dai modenesi “la pioppa”

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IL MOSTRO SOTTO AL LETTO Dorsa Rafiee, 1ªA, Liceo Scientifico “Wiligelmo”Modena

Alle tre del pomeriggio Anna e la madre andarono a fare la loro solita passeggiata giornaliera.

Si avviarono verso il parco, dove la piccola bambina adorava giocare.

Tra giostre, gelati, bambini che venivano e andavano, si fece sera, e per Anna e la madre era ora di tornare a casa.

Dopo aver mangiato la bambina andò in camera sua per pre-pararsi a dormire.

“Mamma, mamma! C’è un mostro sotto il letto!” urlò, tornan-do subito indietro.

“Uff…” sbuffò la donna “…non sei un po’ troppo grandicella per avere ancora paura di queste scemenze?” le domandò, ma la bimba, vestita con un morbido pigiama in pile, le si aggrappò alla vita. Sembrava veramente terrorizzata.

“L’ho visto prima, mentre stavo per andare in bagno… Ti dico che c’era!” urlò tra le lacrime, nascondendo il proprio volto con-tro l’addome della madre, ed era troppo spaventata per girarsi a guardare il buio corridoio che portava alle camere da letto.

“Avanti Anna, ragiona. Quelle cose non esistono: è colpa dei tuoi compagni di scuola che ti mettono in testa certe idee. Non devi fare tutte queste storie quando papà fa il turno di notte” dis-se dolce.

“Ma mamma…” fece per dire la bambina, prima che la donna la interrompesse.

“Niente ma, ora a letto” disse severa, capendo che con la gen-tilezza non avrebbe risolto nulla; ma la bambina iniziò a piangere

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disperatamente, urlando ed aggrappandosi al pesante maglione della madre, la quale non riuscì a calmarla.

“Anna, ti ho detto che quei mostri non esistono” disse convin-ta, prendendola in braccio e portandola nella sua stanza di peso.

L’abat-jour illuminava con la sua luce aranciata un lettino ad una piazza con due orsacchiotti ai piedi.

“Non voglio che tu te ne vada!” urlò la bambina in lacrime, te-nendosi forte alla madre che la adagiò sul lettino rimboccandole le coperte.

“Se dormissi con te stanotte, me lo chiederesti anche le pros-sime notti e sarebbe tutto inutile” spiegò la donna, riuscendo a liberarsi dalla presa della bimba. “Ti metterò in punizione se con-tinui!”

“Mamma, non andare! Rimani qui con me!” cercò invano di trattenerla.

“Dormi pure con la luce accesa, se vuoi” le consigliò lei, prima di sparire oltre la soglia, diretta verso la propria camera da letto.

Anna pianse, pianse a dirotto, rifugiandosi sotto quelle mor-bide coperte fin oltre la testa, sperando così di non sentire nul-la; ma l’urlo di terrore della madre le arrivò forte e chiaro alle orecchie, seguito dal rumore di ossa spezzate e di fauci serrate, mentre quell’orribile creatura nascosta sotto il letto della donna ne mangiava il corpo: non sempre i mostri si nascondono sotto i letti dei bambini…

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LA FORMA ERRATAGaia Bedini, 1ªB, Liceo Scientifico “Wiligelmo”Modena

Alle tre del pomeriggio il sole splendeva alto nel cielo inondando di luce la verde pianura sottostante. Orazio percorreva veloce-mente il sentiero seguito dalle guardie e da pochi fidati compa-gni; ammirava il cielo terso e limpido, interrotto qua e là da nu-vole lattiginose.

Era un uomo alto, possente, con lunghi capelli paglierini or-dinatamente raccolti, grandi occhi neri e il volto calmo. Apparte-neva a una ricca famiglia, sovrano di una vasta regione, appariva sempre elegante, ma deciso.

Arrivarono al tempio in poche ore; sorgeva minaccioso sul-la punta di un alto colle, troneggiando sulla vallata. Era un luo-go estremamente puro e rinfrescante, eppure qualcosa in quelle mura turbava Orazio…

Dietro una porticina segreta li aspettava l’oracolo; presenzia-rono al colloquio solo Orazio e il fratello Giulio. La stanza era av-volta dalle tenebre, ad eccezione di un piccolo spazio illuminato dal tremolante bagliore di una candela. L’aria era impregnata di odori pungenti, l’incenso bruciava con sbuffi di fumo nerastro. Pareva che quel luogo fosse occupato da qualche sinistra entità o spirito…

Una piccola donna, avvolta in teli colorati, sedeva immobile dinnanzi a loro; la nebbia d’incenso si fece spessa e incombente facendoli pian piano addormentare: le palpebre si fecero pesanti, le membra inconsistenti e la mente leggera. Veniva alterata la per-cezione del tempo e dello spazio in quella dimensione surreale, invasa da litanie. Il mondo girava frenetico, come danzando per

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poi improvvisamente fermarsi. Restò solo una voce, accompa-gnata da visioni future. “Mortale, ti libererò dall’ignoranza! Sento una guerra… La tua guerra!” Si materializzarono nell’aria scene cruente dove il sangue scendeva copioso. “Coraggio… forza… sangue! Vedo morte, dolore… SANGUE!” Vi furono altre imma-gini di guerra, poi tutto fu caos e confusione.

Orazio era madido di sudore, ciò che aveva udito lo terroriz-zava, aggiungeva mistero a una questione dapprima chiara e in-confutabile poiché egli era certo di vincere.

“Cosa mi capiterà?” domandò quasi urlando. “Vi prego spie-gatevi, non lasciatemi nel dubbio!”

Il tempo a lui concesso però era terminato e deluso dovette andarsene insieme ai suoi.

Nei giorni seguenti visse nell’ansia e nel mistero, il viso era scavato dai tormenti, gli occhi invetrati e spenti; affaticato dal proprio destino. Tradiva un’immensa insicurezza e una più gran-de paura.

Possibile che fossero bastate poche supposizioni per far crolla-re tutte le sue certezze?

Forse ciò che aveva sentito era solo una forma errata della realtà, un’interpretazione sbagliata di un ipotetico futuro.

Ora faceva i conti con la vita e quel grande mistero che questa è, e semplicemente rimaneva fermo, ad aspettare la propria fine… ma la vita è troppo immensa e nemmeno gli oracoli riescono a comprenderla.

Indisse una riunione, pochi giorni prima della battaglia, chia-mando amici e nemici, decidendo di muoversi invece che aspet-tare passivamente.

Parlò convincendo gli animi dei presenti. Evitò la guerra, evitò il dolore e la morte.

Sciolse il mistero con le sue parole. Scrisse il suo destino quel giorno, plasmando le cose secondo il suo volere.

Era stata sbagliata ogni cosa, la previsione fortunatamente non si avverò, egli agendo aveva cambiato la sua storia, forse proprio grazie a lui tutto si era risolto.

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La vita non può essere condizionata dall’opinione degli altri e neppure dalle proprie paure e fobie; sconfiggendole Orazio era diventato padrone e artefice del suo destino, era riuscito ad ingan-nare persino gli oracoli, e ora poteva decidere il proprio futuro.

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SANGUE E SALEDavide Fiorani, 1ªB, Liceo Scientifico “Wiligelmo”Modena

Alle tre del pomeriggio, in una luccicante giornata di New York delle urla seguite dal suono delle sirene della polizia inondarono la zona ritenuta la più pericolosa, oscura e misteriosa della città: il Bronx.

Erano le 15.03 quando le autorità del posto arrivarono sul luogo dell’accaduto, i due agenti di pattuglia scesero subito dal-la macchina e si diressero verso l’appartamento dell’abitazione a loro indicato; la porta con il numero 243 impresso sopra era semi-aperta, i due la spinsero e questa fece un rumore così sinistro che sembrava di essere in un film dell’orrore.

Entrarono all’interno con cautela. Sul pavimento giaceva nuda Elisabeth Brown; poco dopo arrivò il coroner che esaminò il cor-po, prese appunti sulle ferite della ragazza e scattò qualche foto.

Giunsero sul luogo dell’assassinio anche gli agenti della scien-tifica che osservarono accuratamente la scena del crimine.

Alle 15.30 sopraggiunse nell’appartamento numero 243 anche il tenente Steve Smith. Mentre studiava il ristretto salotto notò delle macchie di sangue sul divano, sul tappeto e per terra, ne prese un campione e lo fece portare in laboratorio per farlo ana-lizzare dagli esperti. Subito dopo si avvicinò al cadavere e scor-se dentro la bocca della vittima un foglio di carta accartocciato, lo estrasse e lesse la piccola parte del messaggio rimasta “… ore 20… 33ª e 34ª Street Avenue…”

Il tenente mise al corrente i compagni del foglio e del suo con-tenuto, poi se ne andò. Gli altri raccolsero le ultime prove tra cui: dell’epitelio sui capelli della vittima, forse dell’assassino e una so-

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stanza sotto le unghie della ragazza. Fatto questo si allontanarono dall’abitazione e andarono al laboratorio dove fecero analizzare le prove trovate: l’epitelio apparteneva ad un uomo sconosciuto non presente nel database, la sostanza trovata sotto le unghie era un misto di sangue e sale.

La sera stessa gli agenti della scientifica si trovarono sul luogo indicato nel messaggio: ”Ora che si fa?” chiese uno dei presenti. “Aspettiamo” rispose Steve. Improvvisamente un uomo sospetto svoltò l’angolo, guardava incessantemente l’orologio per control-lare l’ora.

“È lui!” affermò un agente e tutti gli si avvicinarono. “Chi sei?” chiese il tenente Smith. ”Richard Moss, signore” rispose il sospettato con voce tremo-

lante e proseguì: ”Io non c’entro niente, un tale mi ha dato dei soldi e mi ha detto di venire qui alle 20 in punto di stasera.”

“Ha detto qualcos’altro?”“Sì… Non è ancora finita!”I poliziotti portarono il sospettato alla centrale di polizia per

eseguire un ulteriore interrogatorio mentre gli agenti della scien-tifica lavorarono tutta notte per trovare un collegamento tra le prove raccolte sulla scena del crimine e l’assassino.

Il giorno seguente giunse una chiamata anonima al commis-sariato che denunciava un nuovo omicidio: vittima una ragazza. Tra le prove c’erano: sangue, sale e un’impronta digitale ricondu-cibile ad uno detto William Rose.

Steve fece esaminare meglio il sale e scoprì che era grezzo e che proveniva dall’America Meridionale, c’era un solo luogo dove era possibile trovarlo e si scoprì che vi lavorava il presunto assassino, la salina a nord di New York.

A quel punto si diressero tutti verso la salina e arrivati lì i po-liziotti scesero dalle auto ed entrarono silenziosamente nell’edifi-cio. L’interno era buio, ma si intravedevano le macchine per puri-ficare il sale; l’adrenalina era alle stelle, tutti gli indizi portavano lì, non potevano sbagliare. Infatti, svoltato l’angolo, trovarono l’assassino che, però, pentito di quello che aveva commesso si

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era impiccato ponendo fine alla storia del “Serial killer di New York”.

Infine si scoprì che Elisabeth e l’altra ragazza uccisa erano due ex compagne del college dell’assassino, lo avevano deriso molte volte e umiliato in pubblico a causa della sua timidezza. A quel punto la vendetta sembrava essere il vero movente dell’assassi-nio.

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LA CITTÀ DELLA FELICITÀLorenzo Morandi, 1ªB, Liceo Scientifico “Wiligelmo”Modena

Alle tre del pomeriggio, dopo ore di cammino, eravamo ancora in mezzo al deserto: sembrava non avesse più fine. Le scorte di acqua erano quasi terminate e il nostro cammino era ostacolato da un forte vento. Ogni minuto, le speranze di arrivare all’oasi si affievolivano.

Ad un tratto, nell’oscurità dell’orizzonte, vedemmo un muro: si perdeva nella foschia, ma ci fece tornare a sperare. Più ci avvi-cinavamo più si allungava e si alzava. Arrivati a ridosso di esso ci fermammo e ci guardammo intorno: in lontananza vi erano di-verse tende, ma intorno ad esse niente si muoveva e non vi era nemmeno un falò acceso; l’unica cosa che potevamo fare era cer-care di entrare dentro a quelle mura. Bussammo più volte a un portone, ma nessuno aprì.

Era ormai calata la notte: ci accampammo e accendemmo un falò. Alla tenue luce del fuoco chiacchierammo a lungo, fino a quando il sonno sopraggiunse e il calore si disperse.

La notte passò in fretta e all’alba eravamo svegli, ma ci ritro-vammo all’interno di una tenda rosso porpora, molto più ampia e spaziosa di quella in cui ci eravamo addormentati. Il sole si stava alzando e, usciti dalla tenda, ci accorgemmo che eravamo dalla parte opposta del muro rispetto alla sera prima. Davanti a noi, un uomo aspettava in piedi: aveva il volto racchiuso in un turbante di raso bianco, indossava una tunica e un paio di sandali. Dietro a lui avanzò un gruppo di guardie.

Eravamo stupiti e meravigliati. L’uomo si avvicinò e ci diede il benvenuto nella Città della Felicità. Si presentò e disse: “In que-

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ste mura possono entrare pochissime persone: solo chi sa vivere la vita. Fuori di qui vi sono tantissimi accampamenti di ricchi, esploratori, poveri e gente comune, che aspettano di entrare. C’è chi è qui da più tempo e chi da meno, chi viene da lontano e chi da vicino, ma una cosa hanno in comune: l’attesa. Chi attende però non vive; le cose gli passano davanti, il tempo scorre, ma lui è sempre lì, giorno e notte, aspetta e basta. Ciò che aspetta non ar-riverà mai perché lui non fa niente per raggiungerlo. Chi invece si pone un obiettivo e una meta, spende tutte le forze e tutte le risor-se che possiede, allora sì, che vive e prima o poi raggiungerà ciò che cerca”. Una pausa e continuò: “Vi abbiamo osservato e sap-piamo che anche voi avete una meta e pur di arrivarci avete fatto di tutto, ma purtroppo avete perso la rotta e siete giunti qui.” Noi eravamo senza parole, ma l’uomo proseguì: “All’interno di que-sta città immensa, le cui mura si perdono nell’orizzonte, potrete trovare ristoro e le carte per arrivare all’oasi che cercate. Quando vorrete potrete ripartire. Uscirete con qualcosa d’importante nel cuore: la certezza di saper vivere la vita anche nei momenti più difficili, e di aver dato il massimo per raggiungere il vostro obiet-tivo. Ricorderete sempre questa città perché grazie ad essa avete ritrovato la strada. Adesso seguite le guardie che vi condurranno nei vostri alloggi”.

Dall’interno si potevano vedere tutti gli accampamenti che c’erano fuori. Alcune persone erano sedute, altre guardavano il cielo e altre ancora camminavano lungo le mura.

La mattina successiva era già tempo di partire. Dopo aver preso provviste sufficienti, ci dirigemmo verso l’uscita. Vicino al portone d’ingresso ritrovammo l’ambasciatore che ci aveva accolti. L’uomo ci salutò dicendo che era sicuro che saremmo ripartiti presto, per-ché chi vuole davvero raggiungere la propria meta rinuncia anche a tutte le comodità di questa città, che rimarrà ancora e per sempre un mistero per molti, ma per alcuni anche una certezza.

Il portone si richiuse e noi ci incamminammo, mentre, alle no-stre spalle, le imponenti mura della città si rimpicciolivano sem-pre più, finché non sparirono del tutto.

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IL PEZZO MANCANTEElia Altieri, 1ªG, Liceo Scientifico “Wiligelmo”Modena

Alle tre di pomeriggio la Royal, nave mercantile proveniente dalle ricche coste del Sudamerica, entrò nel porto di Barcellona. Il trial-bero spagnolo però, spinto da una favorevole brezza, una volta giunto nelle acque del porto andò a speronare lo scafo di un’altra imbarcazione all’ancora, come se nessun equipaggio stesse go-vernandola; ed era così.

Quando l’ispettore Wilson salì sulla Royal dovette far fronte ad una scena alquanto raccapricciante: ovunque, in una immensa pozza di sangue, giacevano i corpi dei marinai e degli ufficiali privi di vita. Tutti erano stati freddati alle spalle dalla lama di un coltello; ma c’era un sopravvissuto: nella stiva fu ritrovato il capitano in agonia che venne subito ricoverato.

I conti però non tornavano: si erano imbarcati trenta marinai ma erano tornati solamente ventotto cadaveri e il superstite. Sul diario di bordo del capitano, aggiornato fino al giorno prima, non era segnalata la morte di nessun uomo, cosa che avveniva non raramente durante le lunghe traversate. Il marinaio mancante, Francis, non era quindi morto, almeno non di morte naturale.

Una volta che il capitano della Royal, un tale Carlos, si fu ripre-so, Wilson lo interrogò. Carlos raccontò che la notte del quattor-dici aprile, vale a dire il giorno precedente lo sbarco della Royal, non riuscendo a dormire, era sceso nella stiva per bere del whisky ed era stato fulminato da una pugnalata al ventre. L’assassino, non accorgendosi che era ancora vivo, era salito sul ponte per completare la sua opera.

La soluzione del caso era evidente: tutti i sospetti ricadevano

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su Francis, il trentesimo marinaio, il pezzo mancante. Infatti la scomparsa di Francis era la prova che lo incriminava: per logica il marinaio, dopo aver compiuto il delitto, avrebbe potuto abbando-nare la nave e approdare non visto fuori da Barcellona. Ma la logi-ca non soddisfaceva l’ispettore Wilson, il quale tornò a bordo della Royal per ulteriori indagini. Il giorno dopo Wilson si presentò da Carlos invitandolo a fare un giro in carrozza. Mentre sfrecciavano per le vie di Barcellona diretti a una meta segreta, l’ispettore Wil-son cominciò a fumare un sigaro Toscano intavolando una con-versazione: “Signor Carlos, immagino che anche lei probabilmen-te seguendo la logica sia arrivato alla evidente conclusione che il colpevole sia Francis, mi sbaglio?” “Non si sbaglia, in effetti è piuttosto lampante.” “Allora mi permetta di smentirla. Credo che lei abbia sbagliato deduzione.” “Sarebbe così gentile da informare anche me di questa sua nuova scoperta?” “Anche Francis è stato assassinato. Poi, il suo corpo è stato trascinato sul ponte ed è stato buttato in mare per inscenarne la fuga. Il colpevole ha cancellato le tracce di sangue dovute al trascinamento del corpo, ma non si è accorto che prima di cadere, esso ha sbattuto contro lo scafo, e ha lasciato ulteriori tracce. Ho capito che il colpevole è lei e che, dopo aver compiuto la strage, si è ferito da solo per trasformarsi nella vittima di un innocente Francis. Ciò spiega il fatto che lei è l’unico ferito al ventre. Inoltre ho capito il movente: il suo secondo le ave-va rubato delle lettere con le quali lei informava un committente britannico sui traffici e sui segreti mercantili spagnoli. Le abbiamo ritrovate sotto un’asse del pavimento della cabina di Francis. Non sapendo chi fra l’equipaggio avesse rubato quei documenti ha uc-ciso tutti per mettere a tacere una faccenda molto pericolosa per lei” concluse Wilson. Carlos si era impietrito, aveva gli occhi persi nel vuoto, le labbra serrate. Mentre Wilson terminava di fumare il sigaro, la carrozza si fermò all’ombra di un grande edificio. Carlos alzò lo sguardo per capire cosa avesse oscurato il sole: erano le carceri di Barcellona. In seguito al processo, Carlos fu accusato di tradimento alla corona e di pluriomicidio e fu impiccato il dicias-sette luglio di quello stesso anno.

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CHE FINE HA FATTO ANGIE CHART?Chiara Barbolini, 1ªG, Liceo Scientifico “Wiligelmo”Modena

Alle tre del pomeriggio la Royal Albert Hall di Londra era gremita da un tale viavai di gente che pareva una nave in partenza per una lunga crociera.

Erano tutti in attesa del grande spettacolo: la più grande compe-tizione musicale a cui il mondo avesse mai assistito, e che si sarebbe tenuta da lì a qualche ora. Era ormai da tutta la mattina che si svol-gevano i preparativi, e i pianisti provenienti dai paesi più importanti del mondo erano pronti per il grande esordio. Ma il mondo era lì per vederne due in particolare: i più talentuosi e famosi. Lui, il ragazzo prodigio Hans Oteng, che molti consideravano il più grande piani-sta di tutta la storia (ma anche il più superbo ed egocentrico). La sua musica era magia, un gioco di prestigio in grado di incantare chiun-que avesse la fortuna di ritrovarsi ad ascoltarlo. Eppure Oteng non era ancora niente in confronto a lei. Lei che, senza vedere, vedeva la musica attorno a sé e sapeva come riportarla in vita, eco di profonde passioni che in lei si rispecchiavano. Ciò che suonava non era solo musica, era vita. Angie Chart: pianista cieca di fama mondiale sem-pre accompagnata sul palco dal fratellino Ted che era il suo portafor-tuna; eppure a vederla sembrava la ragazza della porta accanto.

Tutti si aspettavano grandi cose da lei quel giorno, sicuri che non li avrebbe mai delusi perché la sua naturalezza e la sua purezza era-no sempre risposte a domande impossibili.

Ma quel giorno nessuno l’avrebbe ascoltata. Lei, Angie, era spa-rita. Già: sparita, eclissata, svanita come non fosse mai esistita. Alla Royal Albert era il caos più totale: qualcuno aveva rapito la grande pianista e bisognava assolutamente scoprire dove fosse finita entro

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l’inizio del concerto, e soprattutto chi fosse stato tanto meschino e invidioso da rapirla. La polizia e i servizi investigativi di Londra erano già all’opera da diverse ore, ma nessuno per ora sapeva dire dove fosse sparita, e ciò era molto strano, troppo. Nel camerino di Hans Oteng erano intanto partite le indagini. Il giovane infatti ave-va rilasciato pochi giorni prima una intervista in cui diceva che per vincere quella grande competizione, egli avrebbe fatto di tutto, di tutto. Anche rapire la sua acerrima nemica per poi rimanere l’unico e inimitabile pianista in gara? Sarebbe arrivato a questo punto?

I giornalisti fremevano in attesa del verdetto. Oh, certo, quante copie avrebbero venduto per quel caso unico al mondo. Si immagi-navano già il titolo del quotidiano del giorno dopo: “Angie Chart rapita prima del concerto alla Royal Albert Hall di Londra. Oteng il colpevole”. Sarebbe stato il caso globale, tutto il mondo ne avrebbe parlato. Sì, ma non avevano fatto i conti con la verità: Hans Oteng era assolutamente innocente. L’investigatore era da poco uscito dal suo camerino e aveva dichiarato che il pianista prodigio non era stato affatto la mente ideatrice del gran mistero di quel giorno. Il suo alibi era chiaro e accertato da tutti i testimoni del suo team: lui non si era mai mosso dalla sala prove, preso dalla foga di preparare il suo pezzo migliore per battere una volta per tutte la sua unica ri-vale. Il caso era irrisolvibile in appena pochi minuti, ma chi diavolo poteva essere stato? Non c’era assolutamente il tempo di scoprirlo! Il concerto stava veramente per iniziare, e quella volta sarebbe co-minciato senza la sua più grande stella, senza colei che tutti alla Royal Albert Hall aspettavano con impazienza e curiosità.

All’entrata del teatro un quindicenne magro e irrequieto si aggira tra la folla sconvolta per l’accaduto. Stringe nella mano una grande chiave dorata, la stessa che poco prima ha sigillato la porta di una cantina buia in St. Adams Street.

Ted Chart ha preso la sua decisione. Ora è tranquillo, perché sa che nelle sue mani stringe la vita e il futuro di sua sorella Angie.

La certezza da orfano qual è di non perdere l’ultima persona che gli è rimasta.

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L’UOMO INVISIBILEdi Michele Utini, 1ªG, Liceo Scientifico “Wiligelmo”Modena

Alle tre del pomeriggio George stava fissando il bianco manto nevoso che si estendeva dalla veranda di casa sua fino alla fine di Leichster. George era un uomo alto e robusto, dai capelli castani e gli occhi scuri, ma soprattutto era uno dei pochi poliziotti del posto.

Era proprio su quella bianca distesa tanto pacifica che si intra-vedeva ancora qualche macchia di sangue. Il giorno precedente infatti era stato rinvenuto il corpo di Edward Sinclair, uomo sulla settantina.

A Leichster si conoscevano tutti, di turisti non se ne erano mai visti, e non vi era mai stato un reato violento. Era incredibile che fosse accaduta una cosa del genere.

“Allora?” chiese George al vice, Joe, appena arrivato in centra-le “Cosa hai trovato su Sinclair?”

“Nulla di rilevante. Sappiamo che aveva ancora la cittadinan-za americana nonostante fosse emigrato qui una decina di anni fa… È arrivato il referto dell’autopsia, forse ti converrebbe leg-gerlo.”

Sinclair era stato colpito con un’arma da fuoco alla testa, come era ben intuibile vedendo il cadavere. Ciò che però era sfuggito all’occhio ancora assopito dell’agente la mattina precedente era che qualcuno aveva incastrato nella mandibola del morto una piastrina, come si faceva nell’esercito per l’identificazione dei ca-duti.

George chiamò David, suo vecchio amico che lavorava al di-partimento della difesa USA.

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“Edward Sinclair, che ti dicono i tuoi terminali su di lui?” disse. “Berretto Verde in Vietnam e Corea. Il resto del fascicolo è

criptato.”George rimase allibito. Avevano ucciso un ex berretto verde

con un’arma di grosso calibro, un 7,62 x 39 mm, riconducibile ad un Kalashnikov, arma in dotazione alle milizie coreane. In più gli avevano conficcato una piastrina in bocca come si faceva con i ca-duti in battaglia. Non poteva essere stato un abitante di Leichster, nessuno aveva motivo di farlo.

L’unico ad avere dichiarato un’arma del genere in quella parte dello stato era in realtà un uomo sulla sessantina di origini corea-ne, di nome Chang-Lin.

George sapeva che il Procuratore non avrebbe mai rilasciato un mandato perché le prove non c’erano. Così prese con sè Joe, e andò a casa dell’uomo.

La porta era chiusa e le finestre sbarrate, all’interno non vi era alcun segno di vita. Un biglietto appeso allo stipite della porta recitava: “Ho ucciso io Sinclair, come lui ha fatto con la mia fami-glia nel ’52. Non ha avuto pietà per nessun’anima, e io non ne ho avuta per la sua. Dopo una vita nella rabbia, finalmente ho tro-vato la persona che mi ha lacerato l’esistenza e ho fatto vendetta. Nessun rimpianto.”

La mattina seguente George stava ancora fissando quel fo-glietto. La notizia era stata diffusa al telegiornale assieme alle foto di Chang-Lin, secondo il procuratore qualcuno lo avrebbe potuto incontrare, ma l’agente non ci sperava. Dopo aver perlu-strato infruttuosamente la sua abitazione, restava solamente da scandagliare la sua vita e le sue conoscenze.

Chang-Lin era descritto da tutti come un uomo pacato e sve-glio, che però non aveva socializzato mai con nessuno in parti-colare, ad eccezione di un’anziana signora sua vicina di casa, la signora Mc Roll.

“Signora” disse George dopo essersi presentato, “Chang-Lin le ha mai parlato di qualche posto in particolare dove potrebbe essere fuggito, un amico o un parente… cose del genere?”

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“In effetti qui ha qualche parente” rispose la donna, “ma chiu-so in una cassa giù al cimitero…”

Quel giorno la tensione nell’aria si tagliava col coltello. Agli agenti, chiamati dalle città vicine per l’operazione, tremavano le mani. George diede il conto alla rovescia e poi abbatterono la por-ta in legno e ferro battuto della cappella, pronti a trovare un uomo armato fino ai denti.

Trovarono però soltanto un uomo lacerato dall’odio, con l’illu-sione di liberarsi dal rimpianto per mezzo della vendetta.

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LA CLASSIFICA DEL CONCORSO

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Primo premio

Margherita Benati • La pioggia

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Secondo premio

Federica Orlandini • Per fortuna

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Terzo premio

Lorenzo Morandi • La Città della Felicità

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Ai ragazzi premiati andranno in dono libri pubblicati dagli editori associati.

A tutti i partecipanti, agli insegnanti e alle scuole dedichiamo questa pubblicazione.

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LA MIA CLASSIFICA

Gabriele Bertoni Un pugno in pieno viso .....................................................Maria Luisa Basciu La finestra ..........................................................................Alessandro Damiani Viaggio nel tempo ..............................................................Federico Zanichelli Calcio .................................................................................Arfaoui Bilel L’impostore ........................................................................Martina Mammi In un giorno qualunque .....................................................Simone Salati La strana avventura ..........................................................Sofia Carnevali Quello che non ti aspetti ....................................................Matteo Gobbi Una strana coincidenza .....................................................Chiara Melotti Sono sceso dal treno ...........................................................Luca Stanisci Maledetti sentimenti .........................................................Angélique Deserti Un’ora di vuoto .................................................................Martina Dotti Il volo delle farfalle .............................................................Martina Arletti Ombre dal passato .............................................................Linda Cavedoni Il sogno dello schiavo .........................................................Martina Lamparelli La serenità con lei ..............................................................Margherita Benati La pioggia ..........................................................................Marco Luppi Tutti uguali ........................................................................Valeria Vessio Lettera alla figlia ................................................................Chiara Zironi Il viaggio del mondo in 60 secondi ....................................Maria Giulia Labagnara La stessa storia ...................................................................Benedetta Mazzoleni Sorridere non è difficile ......................................................Ilaria Paltrinieri Cos’è la normalità ..............................................................Rachele Zecchi La solitudine ......................................................................Giacomo Fato Buio totale ..........................................................................Guglielmo Mazzucchelli La mia vita è un solo istante ..............................................Chiara Parise Calma dopo la tempesta .....................................................Ludovico Maletti Legami ...............................................................................Sara Manfredi Oltre la nebbia ...................................................................Michela Suffritti L’incubo del 20 maggio 2012 .............................................

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Francesca Losi 29 maggio 2012 .................................................................Simone Muci L’ Isola delle Rose ...............................................................Federica Orlandini Per fortuna .........................................................................Elena Vellani Il ricordo di te ....................................................................Giovanni Mazzaferro Il mistero di Blackgate .......................................................Gabriele Messori Caschèda da’na fnestra ......................................................Dorsa Rafiee Il mostro sotto il letto ........................................................Gaia Bedini La forma errata ..................................................................Davide Fiorani Sangue e sale .....................................................................Lorenzo Morandi La Città della Felicità ........................................................Elia Altieri Il pezzo mancante ..............................................................Chiara Barbolini Che fine ha fatto Angie Chart? ..........................................Michele Utini L’uomo invisibile ...............................................................

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INDICE

Presentazione ................................................................................p. 4Racconti fuoriclasse 2013 ................................................................................p. 7

Gabriele Bertoni Un pugno in pieno viso ..........................................p. 11Maria Luisa Basciu La finestra ...............................................................p. 13Alessandro Damiani Viaggio nel tempo ...................................................p. 15Federico Zanichelli Calcio ......................................................................p. 17Arfaoui Bilel L’impostore .............................................................p. 19Martina Mammi In un giorno qualunque ..........................................p. 23Simone Salati La strana avventura ...............................................p. 26Sofia Carnevali Quello che non ti aspetti .........................................p. 28Matteo Gobbi Una strana coincidenza ..........................................p. 30Chiara Melotti Sono sceso dal treno ................................................p. 32Luca Stanisci Maledetti sentimenti ..............................................p. 35Angélique Deserti Un’ora di vuoto ......................................................p. 37Martina Dotti Il volo delle farfalle ..................................................p. 39Martina Arletti Ombre dal passato ..................................................p. 41Linda Cavedoni Il sogno dello schiavo ..............................................p. 45Martina Lamparelli La serenità con lei ...................................................p. 48Margherita Benati La pioggia ...............................................................p. 50Marco Luppi Tutti uguali .............................................................p. 53Valeria Vessio Lettera alla figlia .....................................................p. 55Chiara Zironi Il viaggio del mondo in 60 secondi .........................p. 57Maria Giulia Labagnara La stessa storia ........................................................p. 59Benedetta Mazzoleni Sorridere non è difficile ...........................................p. 61Ilaria Paltrinieri Cos’è la normalità ...................................................p. 65Rachele Zecchi La solitudine ...........................................................p. 67Giacomo Fato Buio totale ...............................................................p. 69Guglielmo Mazzucchelli La mia vita è un solo istante ...................................p. 72Chiara Parise Calma dopo la tempesta ..........................................p. 75

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Ludovico Maletti Legami ....................................................................p. 77Sara Manfredi Oltre la nebbia ........................................................p. 79Michela Suffritti L’incubo del 20 maggio 2012 ..................................p. 81Francesca Losi 29 maggio 2012 ......................................................p. 83Simone Muci L’ Isola delle Rose ....................................................p. 85Federica Orlandini Per fortuna ..............................................................p. 87Elena Vellani Il ricordo di te .........................................................p. 91Giovanni Mazzaferro Il mistero di Blackgate ............................................p. 93Gabriele Messori Caschèda da’na fnestra ...........................................p. 95Dorsa Rafiee Il mostro sotto il letto .............................................p. 97Gaia Bedini La forma errata .......................................................p. 99Davide Fiorani Sangue e sale ...........................................................p. 103Lorenzo Morandi La Città della Felicità .............................................p. 106Elia Altieri Il pezzo mancante ...................................................p. 109Chiara Barbolini Che fine ha fatto Angie Chart? ...............................p. 111Michele Utini L’uomo invisibile ....................................................p. 113

La classifica del concorso ................................................................................p. 117La mia classifica ................................................................................p. 118

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RACCONTI FUORICLASSEConcorso letterario degli studenti delle scuole modenesi

3ª edizione - maggio 2013

Scuole partecipanti:Liceo Scientifico delle Scienze Applicate “Fermo Corni” di Modena

Istituto Tecnico Industriale “Fermo Corni” di ModenaLiceo Musicale “Carlo Sigonio” di Modena

Liceo delle Scienze Umane “Carlo Sigonio” di ModenaIstituto Superiore d’Arte “Adolfo Venturi” di Modena

Liceo Scientifico “Wiligelmo” di Modena

Giuria composta dagli editori modenesi associatiRedazione e coordinamento:

Patrizia Belloi, Luca Maria Caffaro, Elis Colombini

•Finito di stampare nel mese di maggio 2013

presso Dps - Segrate (MI)

•pubblicazione omaggio

realizzata e offerta dall’AEMwww.editorimodenesi.it

www.libriamodena.it

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RACC

ONTI

FUOR

ICLA

SSE •

2013Anche quest’anno l’Associazione Editori

Modenesi ha deciso di sostenere l’iniziativa di alcune scuole modenesi con questa nuova edizione del concorso “Racconti Fuoriclasse”, giunta al suo

terzo appuntamento.

Gli autori si sono immedesimati nel loro ruolo di scrittori e hanno elaborato i loro temi pensando a un lettore da coinvolgere, da catturare, da colpire

a volte e, usando diverse tecniche di scrittura, hanno raccontato, nella maggior parte dei casi, di fatti cruenti di cronaca, di problematiche sociali vissute in prima persona, di guerra, di violenza, di vendetta, di destini che arrivano inesorabili o

iniziano puntuali… alle tre del pomeriggio…

A tutti i ragazzi va il nostro ringraziamento e l’augurio di disegnare e condividere con gli altri

il migliore dei mondi possibili, esplorando, sognando, scoprendo

RACCONTI FUORICLASSE2013

Le illustrazioni sono state realizzate da allievi dell’Istituto Superiore d’Arte “A. Venturi” di Modena1 – Annalisa Paltrinieri, 1ªF2 – Marco Rubbera, 1ªF3 – Annarita Barbieri, 2ªF4 – Sara Cassanelli, 2ªF5 – Giada Lanzotti, 2ªF6 – Francesca Nordi, 2ªF7 – Greta Petrarca, 2ªF8 – Lisa Syrbu, 2ªF9 – Giulia Tomasselli, 2ªF10 – Morgana Volpi, 2ªF11 – Laura Zambroni, 2ªF

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Nata il 20 marzo 2009 l’Associazione Editori Modenesi (AEM) ha come scopo principale di riunire, in un affiatato gruppo di lavoro, gran parte delle realtà editoriali attive nel territorio modenese al fine di promuovere, diffondere e far co-noscere i libri pubblicati nella nostra pro-vincia attraverso mostre, fiere, rassegne e iniziative culturali. L’intento è dunque di diventare un punto di riferimento per coloro che scrivono, producono o vendono libri e per coloro che i libri li leggono.

I soci fondatori dell’AEM sono case editrici distribuite sul territorio della provincia. Gli editori associati nel 2013 sono: Almayer (Lama Mocogno)APM (Carpi)Artestampa (Modena)Artioli (Modena)CDL (Finale Emilia)Colombini (Modena)Damster (Modena)Iaccheri (Pavullo)Il Fiorino (Modena)Infinito (Formigine)Incontri (Sassuolo)MaPi (Guiglia)Vaccari (Vignola)

In copertina: illustrazione di Giada Lanzotti2ªF - Istituto Superiore d’Arte “Adolfo Venturi”

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RACC

ONTI

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ICLA

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2013Anche quest’anno l’Associazione Editori

Modenesi ha deciso di sostenere l’iniziativa di alcune scuole modenesi con questa nuova edizione del concorso “Racconti Fuoriclasse”, giunta al suo

terzo appuntamento.

Gli autori si sono immedesimati nel loro ruolo di scrittori e hanno elaborato i loro temi pensando a un lettore da coinvolgere, da catturare, da colpire

a volte e, usando diverse tecniche di scrittura, hanno raccontato, nella maggior parte dei casi, di fatti cruenti di cronaca, di problematiche sociali vissute in prima persona, di guerra, di violenza, di vendetta, di destini che arrivano inesorabili o

iniziano puntuali… alle tre del pomeriggio…

A tutti i ragazzi va il nostro ringraziamento e l’augurio di disegnare e condividere con gli altri

il migliore dei mondi possibili, esplorando, sognando, scoprendo

RACCONTI FUORICLASSE2013

Le illustrazioni sono state realizzate da allievi dell’Istituto Superiore d’Arte “A. Venturi” di Modena1 – Annalisa Paltrinieri, 1ªF2 – Marco Rubbera, 1ªF3 – Annarita Barbieri, 2ªF4 – Sara Cassanelli, 2ªF5 – Giada Lanzotti, 2ªF6 – Francesca Nordi, 2ªF7 – Greta Petrarca, 2ªF8 – Lisa Syrbu, 2ªF9 – Giulia Tomasselli, 2ªF10 – Morgana Volpi, 2ªF11 – Laura Zambroni, 2ªF

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Nata il 20 marzo 2009 l’Associazione Editori Modenesi (AEM) ha come scopo principale di riunire, in un affiatato gruppo di lavoro, gran parte delle realtà editoriali attive nel territorio modenese al fine di promuovere, diffondere e far co-noscere i libri pubblicati nella nostra pro-vincia attraverso mostre, fiere, rassegne e iniziative culturali. L’intento è dunque di diventare un punto di riferimento per coloro che scrivono, producono o vendono libri e per coloro che i libri li leggono.

I soci fondatori dell’AEM sono case editrici distribuite sul territorio della provincia. Gli editori associati nel 2013 sono: Almayer (Lama Mocogno)APM (Carpi)Artestampa (Modena)Artioli (Modena)CDL (Finale Emilia)Colombini (Modena)Damster (Modena)Iaccheri (Pavullo)Il Fiorino (Modena)Infinito (Formigine)Incontri (Sassuolo)MaPi (Guiglia)Vaccari (Vignola)

In copertina: illustrazione di Giada Lanzotti2ªF - Istituto Superiore d’Arte “Adolfo Venturi”