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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il mondo come volontà e rappresentazioneAUTORE: Schopenhauer, ArthurTRADUTTORE: Savj-Lopez, Paolo e De Lorenzo, GiuseppeCURATORE: NOTE:

CODICE ISBN E-BOOK: 9788828100713

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

COPERTINA: [elaborazione da] "Portrait of ArthurSchopenhauer" di Ludwig Ruhl (1794–1887). -https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Arthur_Scho-penhauer_Portrait_by_Ludwig_Sigismund_Ruhl_1815.jpeg- Pubblico Dominio.

TRATTO DA: Il mondo come volontà erappresentazione / Arthur Schopenhauer ; introduzio-ne di Cesare Vasoli. - 5. ed. - Roma ; Bari : Later-za, 1991. - 2 v. ; 21 cm. - (Biblioteca universaleLaterza ; 66). - Traduzione di Paolo Savj-Lopez e

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il mondo come volontà e rappresentazioneAUTORE: Schopenhauer, ArthurTRADUTTORE: Savj-Lopez, Paolo e De Lorenzo, GiuseppeCURATORE: NOTE:

CODICE ISBN E-BOOK: 9788828100713

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

COPERTINA: [elaborazione da] "Portrait of ArthurSchopenhauer" di Ludwig Ruhl (1794–1887). -https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Arthur_Scho-penhauer_Portrait_by_Ludwig_Sigismund_Ruhl_1815.jpeg- Pubblico Dominio.

TRATTO DA: Il mondo come volontà erappresentazione / Arthur Schopenhauer ; introduzio-ne di Cesare Vasoli. - 5. ed. - Roma ; Bari : Later-za, 1991. - 2 v. ; 21 cm. - (Biblioteca universaleLaterza ; 66). - Traduzione di Paolo Savj-Lopez e

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Giuseppe De Lorenzo. - [ISBN] 88-420-2079-6.

CODICE ISBN FONTE: 88-420-2079-6

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 28 dicembre 20052a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 6 maggio 20133a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 5 luglio 2017

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:PHI000000 FILOSOFIA / Generale

DIGITALIZZAZIONE:Giovanni Mazzarello, [email protected]

REVISIONE:Claudio Paganelli, [email protected] Paganelli, per le frasi in grecoUgo Santamaria

IMPAGINAZIONE:Catia Righi, [email protected] (ODT)Massimo Rosa, [email protected] (ePub)Rosario Di Mauro (revisione ePub)

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:PHI000000 FILOSOFIA / Generale

DIGITALIZZAZIONE:Giovanni Mazzarello, [email protected]

REVISIONE:Claudio Paganelli, [email protected] Paganelli, per le frasi in grecoUgo Santamaria

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Tomo primo....................................................................9Avvertenza....................................................................10Proemio alla prima edizione.........................................12Libro primo. Il mondo come rappresentazione............22

Prima considerazioneRappresentazione sottomessa al principio della ragione:l'oggetto dell'esperienza e della scienza..........................23

§ 1.......................................................................................24§ 2.......................................................................................27§ 3.......................................................................................30§ 4.......................................................................................33§ 5.......................................................................................42§ 6.......................................................................................51§ 7.......................................................................................63§ 8.......................................................................................80§ 9.......................................................................................87§ 10...................................................................................109§ 11...................................................................................111§ 12...................................................................................114§ 13...................................................................................124§ 14...................................................................................129§ 15...................................................................................143§ 16...................................................................................167

Libro secondo. Il mondo come volontà......................182Prima considerazioneL'obiettivazione del volere............................................ 183

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Tomo primo....................................................................9Avvertenza....................................................................10Proemio alla prima edizione.........................................12Libro primo. Il mondo come rappresentazione............22

Prima considerazioneRappresentazione sottomessa al principio della ragione:l'oggetto dell'esperienza e della scienza..........................23

§ 1.......................................................................................24§ 2.......................................................................................27§ 3.......................................................................................30§ 4.......................................................................................33§ 5.......................................................................................42§ 6.......................................................................................51§ 7.......................................................................................63§ 8.......................................................................................80§ 9.......................................................................................87§ 10...................................................................................109§ 11...................................................................................111§ 12...................................................................................114§ 13...................................................................................124§ 14...................................................................................129§ 15...................................................................................143§ 16...................................................................................167

Libro secondo. Il mondo come volontà......................182Prima considerazioneL'obiettivazione del volere............................................ 183

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§ 17...................................................................................184§ 18...................................................................................191§ 19...................................................................................198§ 20...................................................................................203§ 21...................................................................................208§ 22...................................................................................210§ 23...................................................................................213§ 24...................................................................................225§ 25...................................................................................239§ 26...................................................................................243§ 27...................................................................................258§ 28...................................................................................282§ 29...................................................................................297

Tomo secondo.............................................................304Libro terzo. Il mondo come rappresentazione............305

Seconda considerazioneLa rappresentazione, indipendente dal principio di ragio-ne: l'idea platonica: l'oggetto dell'arte........................... 306

§ 30...................................................................................307§ 31...................................................................................308§ 32...................................................................................316§ 33...................................................................................318§ 34...................................................................................322§ 35...................................................................................327§ 36...................................................................................332§ 37...................................................................................349§ 38...................................................................................351§ 39...................................................................................359§ 40...................................................................................370§ 41...................................................................................372§ 42...................................................................................378§ 43...................................................................................380§ 44...................................................................................388

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§ 17...................................................................................184§ 18...................................................................................191§ 19...................................................................................198§ 20...................................................................................203§ 21...................................................................................208§ 22...................................................................................210§ 23...................................................................................213§ 24...................................................................................225§ 25...................................................................................239§ 26...................................................................................243§ 27...................................................................................258§ 28...................................................................................282§ 29...................................................................................297

Tomo secondo.............................................................304Libro terzo. Il mondo come rappresentazione............305

Seconda considerazioneLa rappresentazione, indipendente dal principio di ragio-ne: l'idea platonica: l'oggetto dell'arte........................... 306

§ 30...................................................................................307§ 31...................................................................................308§ 32...................................................................................316§ 33...................................................................................318§ 34...................................................................................322§ 35...................................................................................327§ 36...................................................................................332§ 37...................................................................................349§ 38...................................................................................351§ 39...................................................................................359§ 40...................................................................................370§ 41...................................................................................372§ 42...................................................................................378§ 43...................................................................................380§ 44...................................................................................388

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§ 45...................................................................................391§ 46...................................................................................402§ 47...................................................................................406§ 48...................................................................................407§ 49...................................................................................413§ 50...................................................................................419§ 51...................................................................................428§ 52...................................................................................451

Libro quarto. Il mondo come volontà.........................472Seconda considerazioneAffermazione e negazione della volontà di vivere, doporaggiunta la conoscenza di sé........................................ 473

§ 53...................................................................................474§ 54...................................................................................480§ 55...................................................................................500§ 56...................................................................................536§ 57...................................................................................541§ 58...................................................................................555§ 59...................................................................................562§ 60...................................................................................567§ 61...................................................................................575§ 62...................................................................................579§ 63...................................................................................609§ 64...................................................................................619§ 65...................................................................................623§ 66...................................................................................637§ 67...................................................................................649§ 68...................................................................................654§ 69...................................................................................688§ 70...................................................................................695§ 71...................................................................................705

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§ 45...................................................................................391§ 46...................................................................................402§ 47...................................................................................406§ 48...................................................................................407§ 49...................................................................................413§ 50...................................................................................419§ 51...................................................................................428§ 52...................................................................................451

Libro quarto. Il mondo come volontà.........................472Seconda considerazioneAffermazione e negazione della volontà di vivere, doporaggiunta la conoscenza di sé........................................ 473

§ 53...................................................................................474§ 54...................................................................................480§ 55...................................................................................500§ 56...................................................................................536§ 57...................................................................................541§ 58...................................................................................555§ 59...................................................................................562§ 60...................................................................................567§ 61...................................................................................575§ 62...................................................................................579§ 63...................................................................................609§ 64...................................................................................619§ 65...................................................................................623§ 66...................................................................................637§ 67...................................................................................649§ 68...................................................................................654§ 69...................................................................................688§ 70...................................................................................695§ 71...................................................................................705

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Arthur Schopenhauer

Il mondo come volontàe rappresentazione

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Arthur Schopenhauer

Il mondo come volontàe rappresentazione

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Tomo primo

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Tomo primo

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Avvertenza

La prima edizione di questa traduzione, a cura di PaoloSavj-Lopez, apparve nei «Classici della filosofia moder-na», in due volumi, pubblicati rispettivamente nel 1914e nel 1916. Dell'ultima edizione rivista da Schopenhauerdi Die Welt l'edizione italiana traduceva soltanto i quat-tro libri del primo volume, tralasciando l'Appendice(Critica della filosofa kantiana) e tutto il secondo volu-me contenente i Supplementi.Al primo volume di questa edizione italiana Paolo Savj-Lopez premise una breve Nota del traduttore che con-viene rileggere, almeno per quanto riguarda i criteri del-la traduzione:

Una parola sola intorno alla traduzione. L'abbiamovoluta, soprattutto, fedele; seguendo la lettera del testofin dove era possibile seguirla in italiano senza dannodella chiarezza. Come il Deussen, abbiamo anche noi ri-spettato l'ortografia talvolta errata di vocaboli o nomistranieri, e la cosciente deliberazione di citare il grecosenz'accenti. Insomma abbiamo avuto di mira il proposi-to di dare al lettore l'impressione di contatto non troppoindiretto con questo filosofo, che fu anche un grandescrittore.

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Avvertenza

La prima edizione di questa traduzione, a cura di PaoloSavj-Lopez, apparve nei «Classici della filosofia moder-na», in due volumi, pubblicati rispettivamente nel 1914e nel 1916. Dell'ultima edizione rivista da Schopenhauerdi Die Welt l'edizione italiana traduceva soltanto i quat-tro libri del primo volume, tralasciando l'Appendice(Critica della filosofa kantiana) e tutto il secondo volu-me contenente i Supplementi.Al primo volume di questa edizione italiana Paolo Savj-Lopez premise una breve Nota del traduttore che con-viene rileggere, almeno per quanto riguarda i criteri del-la traduzione:

Una parola sola intorno alla traduzione. L'abbiamovoluta, soprattutto, fedele; seguendo la lettera del testofin dove era possibile seguirla in italiano senza dannodella chiarezza. Come il Deussen, abbiamo anche noi ri-spettato l'ortografia talvolta errata di vocaboli o nomistranieri, e la cosciente deliberazione di citare il grecosenz'accenti. Insomma abbiamo avuto di mira il proposi-to di dare al lettore l'impressione di contatto non troppoindiretto con questo filosofo, che fu anche un grandescrittore.

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Nel 1928/30 Giovanni Di Lorenzo tradusse per lastessa collana l'Appendice e il volume di Supplementi,riproducendo così fedelmente, anche nella distribuzionein due volumi, l’edizione schopenhaueriana del 1859.

La presente ristampa riproduce integralmente il primovolume dell'edizione apparsa nel 1928 a cura di PaoloSavj-Lopez e Giovanni Di Lorenzo. Non si dà quindi ilvolume dei Supplementi, al quale tuttavia si rimandaogni volta che il testo schopenhaueriano vi fa riferimen-to. [Ogni rinvio nelle pagine seguenti a un «secondo vo-lume» dell'opera è dunque da intendersi riferito ai Sup-plementi comparsi in questa stessa collana (2 tomi,1986).]

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Nel 1928/30 Giovanni Di Lorenzo tradusse per lastessa collana l'Appendice e il volume di Supplementi,riproducendo così fedelmente, anche nella distribuzionein due volumi, l’edizione schopenhaueriana del 1859.

La presente ristampa riproduce integralmente il primovolume dell'edizione apparsa nel 1928 a cura di PaoloSavj-Lopez e Giovanni Di Lorenzo. Non si dà quindi ilvolume dei Supplementi, al quale tuttavia si rimandaogni volta che il testo schopenhaueriano vi fa riferimen-to. [Ogni rinvio nelle pagine seguenti a un «secondo vo-lume» dell'opera è dunque da intendersi riferito ai Sup-plementi comparsi in questa stessa collana (2 tomi,1986).]

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PROEMIO ALLA PRIMA EDIZIONE

Mi sono qui proposto d'indicare come sia da leggerequesto libro, perché si riesca possibilmente a capirlo.Quel che per suo mezzo dev'esser comunicato, è un uni-co pensiero. Eppure, malgrado ogni sforzo, non ho potu-to trovare per comunicarlo nessuna via più breve chequesto libro intero. Io considero quel pensiero come ciò,che per sì gran tempo s'è cercato sotto il nome di Filoso-fia, e la cui scoperta sembra quindi ai dotti in istoria al-trettanto impossibile quanto quella della pietra filosofa-le, sebbene loro già dicesse Plinio: Quam multa fierinon posse, priusquam sint facta, judicantur? (Hist. nat.,7, 1).Secondo l'aspetto da cui si considera quell'unico pensie-ro ch'io ho a comunicare, esso si mostra come ciò ches'è chiamato Metafisica, o Etica, o Estetica: e invero do-vrebbe essere tutto codesto insieme, se fosse quel ch'io,come ho già affermato, ritengo che sia.Un sistema di pensieri deve sempre avere un organismoarchitettonico, ossia tale, che sempre una parte sostengal'altra, ma non questa anche sostenga quella: la pietrafondamentale sostiene tutte le parti, senza venir da essesostenuta; il vertice è sorretto, senza sorreggere. Inveceun pensiero unico deve, per quanto comprensivo essosia, conservare la più perfetta unità. Si lasci pure, per il

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PROEMIO ALLA PRIMA EDIZIONE

Mi sono qui proposto d'indicare come sia da leggerequesto libro, perché si riesca possibilmente a capirlo.Quel che per suo mezzo dev'esser comunicato, è un uni-co pensiero. Eppure, malgrado ogni sforzo, non ho potu-to trovare per comunicarlo nessuna via più breve chequesto libro intero. Io considero quel pensiero come ciò,che per sì gran tempo s'è cercato sotto il nome di Filoso-fia, e la cui scoperta sembra quindi ai dotti in istoria al-trettanto impossibile quanto quella della pietra filosofa-le, sebbene loro già dicesse Plinio: Quam multa fierinon posse, priusquam sint facta, judicantur? (Hist. nat.,7, 1).Secondo l'aspetto da cui si considera quell'unico pensie-ro ch'io ho a comunicare, esso si mostra come ciò ches'è chiamato Metafisica, o Etica, o Estetica: e invero do-vrebbe essere tutto codesto insieme, se fosse quel ch'io,come ho già affermato, ritengo che sia.Un sistema di pensieri deve sempre avere un organismoarchitettonico, ossia tale, che sempre una parte sostengal'altra, ma non questa anche sostenga quella: la pietrafondamentale sostiene tutte le parti, senza venir da essesostenuta; il vertice è sorretto, senza sorreggere. Inveceun pensiero unico deve, per quanto comprensivo essosia, conservare la più perfetta unità. Si lasci pure, per il

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fine della propria comunicabilità, scomporre in parti: matuttavia deve la concatenazione di queste parti essere or-ganica, ossia tale, che ogni parte altrettanto regga il tut-to, quando viene retta dal tutto; nessuna è la prima enessuna è l'ultima; l'intero pensiero guadagna in chiarez-za mediante ogni sua parte, ed anche la più piccola par-ticella non può venir compresa appieno, se già primanon è stato compreso l'insieme. Ma un libro deve intantoavere un primo ed un ultimo rigo, e per questo rimarràsempre molto dissimile da un organismo, per quanto simantenga somigliante a questo il suo contenuto: di con-seguenza staranno qui in contrasto forma e contenuto.Risulta da sé che, in tali circostanze, non v'ha altro con-siglio, per vedere a fondo nel pensiero qui esposto, senon leggere il libro due volte, e a dir vero la prima voltacon molta pazienza; la quale si può attingere soltantodalla spontanea fiducia che il principio presupponga lafine, quasi altrettanto come la fine il principio; e cosìogni parte che sta innanzi presupponga quella che se-gue, quasi altrettanto come questa quella. Io dico «qua-si»: perché non è così in tutto e per tutto; e quanto erapossibile di fare, per mettere innanzi ciò che meno ri-chiede d'esser chiarito dal seguito, come del resto quan-to poteva contribuire alla più facile comprensibilità echiarezza possibile, è stato fatto onestamente e coscien-ziosamente. Anzi, questo sarebbe fino a un certo puntoriuscito, se il lettore, ciò che è molto naturale, invece difermarsi solo a quel che è detto di volta in volta, non

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fine della propria comunicabilità, scomporre in parti: matuttavia deve la concatenazione di queste parti essere or-ganica, ossia tale, che ogni parte altrettanto regga il tut-to, quando viene retta dal tutto; nessuna è la prima enessuna è l'ultima; l'intero pensiero guadagna in chiarez-za mediante ogni sua parte, ed anche la più piccola par-ticella non può venir compresa appieno, se già primanon è stato compreso l'insieme. Ma un libro deve intantoavere un primo ed un ultimo rigo, e per questo rimarràsempre molto dissimile da un organismo, per quanto simantenga somigliante a questo il suo contenuto: di con-seguenza staranno qui in contrasto forma e contenuto.Risulta da sé che, in tali circostanze, non v'ha altro con-siglio, per vedere a fondo nel pensiero qui esposto, senon leggere il libro due volte, e a dir vero la prima voltacon molta pazienza; la quale si può attingere soltantodalla spontanea fiducia che il principio presupponga lafine, quasi altrettanto come la fine il principio; e cosìogni parte che sta innanzi presupponga quella che se-gue, quasi altrettanto come questa quella. Io dico «qua-si»: perché non è così in tutto e per tutto; e quanto erapossibile di fare, per mettere innanzi ciò che meno ri-chiede d'esser chiarito dal seguito, come del resto quan-to poteva contribuire alla più facile comprensibilità echiarezza possibile, è stato fatto onestamente e coscien-ziosamente. Anzi, questo sarebbe fino a un certo puntoriuscito, se il lettore, ciò che è molto naturale, invece difermarsi solo a quel che è detto di volta in volta, non

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pensasse anche alle deduzioni possibili: dalla qual cosa,oltre ai molti contrasti effettivamente esistenti con l'opi-nione dell'epoca e presumibilmente del lettore medesi-mo, tanti altri ancora possono sorgere anticipati ed arbi-trari, che per conseguenza deve presentarsi come vivacedisapprovazione ciò che ancora è semplice malinteso.Ma tanto meno si riconosce il malinteso, quando la lim-pidezza faticosamente raggiunta dell'esposizione e lachiarezza dell'espressione non lasciano forse mai indubbio sul senso immediato d'ogni luogo del testo; seb-bene non possano simultaneamente esprimere i suoi rap-porti con tutto il complesso dell'opera. Perciò adunquerichiede la prima lettura, come ho avvertito, una pazien-za attinta alla fiducia, che nella seconda o molto o tuttosarà visto in ben altra luce. Inoltre il meditato sforzo diraggiungere una più piena e perfino più agevole com-prensibilità in un argomento molto difficile dev'esser discusa se qua e là si trova una ripetizione. Già la strutturadel complesso, organica e non disposta a mo' di catena,ha reso necessario il toccar talora due volte lo stesso ar-gomento. Appunto questa struttura, e la strettissima coe-renza di tutte le parti, non ha consentito la divisione,d'altro canto per me così apprezzabile, in capitoli e para-grafi; e invece m'ha obbligato a contentarmi di quattropartizioni capitali, come a dire quattro aspetti dell'unicopensiero. In ciascuno di questi quattro libri bisogna spe-cialmente guardarsi dal perdere di vista, disopra daipunti particolari de' quali per necessità si tratta, il pen-siero essenziale cui quelli appartengono, e il procedere

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pensasse anche alle deduzioni possibili: dalla qual cosa,oltre ai molti contrasti effettivamente esistenti con l'opi-nione dell'epoca e presumibilmente del lettore medesi-mo, tanti altri ancora possono sorgere anticipati ed arbi-trari, che per conseguenza deve presentarsi come vivacedisapprovazione ciò che ancora è semplice malinteso.Ma tanto meno si riconosce il malinteso, quando la lim-pidezza faticosamente raggiunta dell'esposizione e lachiarezza dell'espressione non lasciano forse mai indubbio sul senso immediato d'ogni luogo del testo; seb-bene non possano simultaneamente esprimere i suoi rap-porti con tutto il complesso dell'opera. Perciò adunquerichiede la prima lettura, come ho avvertito, una pazien-za attinta alla fiducia, che nella seconda o molto o tuttosarà visto in ben altra luce. Inoltre il meditato sforzo diraggiungere una più piena e perfino più agevole com-prensibilità in un argomento molto difficile dev'esser discusa se qua e là si trova una ripetizione. Già la strutturadel complesso, organica e non disposta a mo' di catena,ha reso necessario il toccar talora due volte lo stesso ar-gomento. Appunto questa struttura, e la strettissima coe-renza di tutte le parti, non ha consentito la divisione,d'altro canto per me così apprezzabile, in capitoli e para-grafi; e invece m'ha obbligato a contentarmi di quattropartizioni capitali, come a dire quattro aspetti dell'unicopensiero. In ciascuno di questi quattro libri bisogna spe-cialmente guardarsi dal perdere di vista, disopra daipunti particolari de' quali per necessità si tratta, il pen-siero essenziale cui quelli appartengono, e il procedere

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dell'esposizione nel suo complesso. Con ciò è formulatala prima richiesta, indispensabile come l'altra che segui-rà, che io rivolgo al lettore malevolo (malevolo verso ilfilosofo, appunto perché il lettore è filosofo anch'esso).La seconda è questa, che prima del libro si legga l'operache gli serve d'introduzione, sebbene non stia qui unita,essendo comparsa cinque anni prima, col titolo: «Sullaquadruplice radice del principio della ragione sufficien-te: trattazione filosofica». Senza la conoscenza di questaintroduzione e propedeutica, la vera comprensione delpresente scritto è del tutto impossibile; e il contenuto diquella è qui ognora presupposto, come se facesse partedell'opera. D'altronde, se quella non avesse precedutogià di parecchi anni l'opera presente, non le starebbe orainnanzi come un proemio, bensì sarebbe incorporata nelprimo libro; il quale ora, mancandogli ciò ch'è detto inquella trattazione, dimostra una certa incompiutezza perle lacune che di continuo deve riempire riferendosi adessa. Era tuttavia così grande la mia ripugnanza a copia-re me stesso, o a presentare un'altra volta faticosamentecon altre parole ciò che già una prima volta avevo dettoa sufficienza, che ho preferito questa via, quantunqueavessi ora potuto dare al contenuto di quella memoriaun'esposizione alquanto migliore, soprattutto sgombran-dola di parecchi concetti derivati dalla mia troppa sug-gezione d'allora alla filosofia di Kant: categorie, sensointerno ed esterno, e simili. Nondimeno codesti concettisi trovano colà, soltanto perché fino allora non m'ero

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dell'esposizione nel suo complesso. Con ciò è formulatala prima richiesta, indispensabile come l'altra che segui-rà, che io rivolgo al lettore malevolo (malevolo verso ilfilosofo, appunto perché il lettore è filosofo anch'esso).La seconda è questa, che prima del libro si legga l'operache gli serve d'introduzione, sebbene non stia qui unita,essendo comparsa cinque anni prima, col titolo: «Sullaquadruplice radice del principio della ragione sufficien-te: trattazione filosofica». Senza la conoscenza di questaintroduzione e propedeutica, la vera comprensione delpresente scritto è del tutto impossibile; e il contenuto diquella è qui ognora presupposto, come se facesse partedell'opera. D'altronde, se quella non avesse precedutogià di parecchi anni l'opera presente, non le starebbe orainnanzi come un proemio, bensì sarebbe incorporata nelprimo libro; il quale ora, mancandogli ciò ch'è detto inquella trattazione, dimostra una certa incompiutezza perle lacune che di continuo deve riempire riferendosi adessa. Era tuttavia così grande la mia ripugnanza a copia-re me stesso, o a presentare un'altra volta faticosamentecon altre parole ciò che già una prima volta avevo dettoa sufficienza, che ho preferito questa via, quantunqueavessi ora potuto dare al contenuto di quella memoriaun'esposizione alquanto migliore, soprattutto sgombran-dola di parecchi concetti derivati dalla mia troppa sug-gezione d'allora alla filosofia di Kant: categorie, sensointerno ed esterno, e simili. Nondimeno codesti concettisi trovano colà, soltanto perché fino allora non m'ero

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profondamente addentrato in essi, e vi stanno quindicome elementi accessori, senz'alcun vincolo con l'essen-ziale; sì che la rettificazione di cotali luoghi in quellamemoria si farà benissimo da sé nel pensiero del lettore,con la conoscenza dello scritto presente. Ma solo quan-do per mezzo di quella memoria si è conosciuto appienociò che sia e significhi il principio di ragione, dove siestenda e dove no il suo vigore, e come esso non prece-da tutte le cose, per modo che il mondo venga ad esiste-re solo in conseguenza e conformità sua, essendone qua-si il corollario; bensì non sia altro che la forma in cuil'oggetto sotto condizione del soggetto, di qualunquespecie quello sia, viene ovunque conosciuto, in quanto ilsoggetto è un individuo conoscente: solo allora sarà pos-sibile penetrare a fondo nel metodo di filosofare qui perla prima volta tentato, affatto diverso da tutti i preceden-ti.Ma la medesima riluttanza a copiare me stesso parolaper parola, o anche a dire una seconda volta proprio lostesso con altre peggiori parole, dopo che avevo già laprima volta usato le migliori, ha prodotto ancora un'altralacuna nel primo libro di quest'opera; avendo io trala-sciato quanto si trova nel primo capitolo della mia me-moria Sopra la vista e i colori, e che altrimenti avrebbequi trovato posto integralmente. Quindi anche la cono-scenza di questo piccolo scritto anteriore viene qui pre-supposta.Finalmente la terza richiesta da fare al lettore potrebbe

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profondamente addentrato in essi, e vi stanno quindicome elementi accessori, senz'alcun vincolo con l'essen-ziale; sì che la rettificazione di cotali luoghi in quellamemoria si farà benissimo da sé nel pensiero del lettore,con la conoscenza dello scritto presente. Ma solo quan-do per mezzo di quella memoria si è conosciuto appienociò che sia e significhi il principio di ragione, dove siestenda e dove no il suo vigore, e come esso non prece-da tutte le cose, per modo che il mondo venga ad esiste-re solo in conseguenza e conformità sua, essendone qua-si il corollario; bensì non sia altro che la forma in cuil'oggetto sotto condizione del soggetto, di qualunquespecie quello sia, viene ovunque conosciuto, in quanto ilsoggetto è un individuo conoscente: solo allora sarà pos-sibile penetrare a fondo nel metodo di filosofare qui perla prima volta tentato, affatto diverso da tutti i preceden-ti.Ma la medesima riluttanza a copiare me stesso parolaper parola, o anche a dire una seconda volta proprio lostesso con altre peggiori parole, dopo che avevo già laprima volta usato le migliori, ha prodotto ancora un'altralacuna nel primo libro di quest'opera; avendo io trala-sciato quanto si trova nel primo capitolo della mia me-moria Sopra la vista e i colori, e che altrimenti avrebbequi trovato posto integralmente. Quindi anche la cono-scenza di questo piccolo scritto anteriore viene qui pre-supposta.Finalmente la terza richiesta da fare al lettore potrebbe

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anche esser sottintesa: perché non è altra se non quelladi conoscere la più importante apparizione che sia avve-nuta da due secoli nella filosofia: intendo gli scritti prin-cipali di Kant. L'azione, che essi esercitano sullo spiritoal quale effettivamente parlino, io la trovo invero para-gonabile, come forse è già stato detto, all'operazionedella cateratta sui ciechi: e se vogliamo continuare il pa-ragone, il mio intento si può designare dicendo, che acoloro ai quali quell'operazione è riuscita ho voluto por-re in mano gli occhiali che adoprano gli operati di cate-ratta, per l'uso dei quali è adunque prima condizionequell'atto operativo. Ma per quanto io prenda le mosseda ciò che il gran Kant ha fatto, tuttavia appunto lo stu-dio serio delle sue opere mi ha fatto scoprire in quellenotevoli errori, ch'io dovevo staccare dal resto e mostra-re come condannabili, per poter presupporre e adoprarepuro e purgato da essi quanto nella dottrina kantiana è divéro e di eccellente. Tuttavia, per non interrompere econfondere la mia propria esposizione con la frequentepolemica contro Kant, ho concentrato questa in una spe-ciale appendice. Ora, secondo ho detto, come la miaopera presuppone la conoscenza della filosofia kantiana,così presuppone dunque pur la conoscenza di quella ap-pendice: perciò sotto questo riguardo sarebbe consiglia-bile di leggere prima l'appendice, tanto più che il suocontenuto ha precisi rapporti proprio col primo librodell'opera presente. D'altra parte non si potè evitare, perla natura della cosa, che anche l'appendice qua e là si ri-ferisse all'opera stessa: da ciò nient'altro consegue se

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anche esser sottintesa: perché non è altra se non quelladi conoscere la più importante apparizione che sia avve-nuta da due secoli nella filosofia: intendo gli scritti prin-cipali di Kant. L'azione, che essi esercitano sullo spiritoal quale effettivamente parlino, io la trovo invero para-gonabile, come forse è già stato detto, all'operazionedella cateratta sui ciechi: e se vogliamo continuare il pa-ragone, il mio intento si può designare dicendo, che acoloro ai quali quell'operazione è riuscita ho voluto por-re in mano gli occhiali che adoprano gli operati di cate-ratta, per l'uso dei quali è adunque prima condizionequell'atto operativo. Ma per quanto io prenda le mosseda ciò che il gran Kant ha fatto, tuttavia appunto lo stu-dio serio delle sue opere mi ha fatto scoprire in quellenotevoli errori, ch'io dovevo staccare dal resto e mostra-re come condannabili, per poter presupporre e adoprarepuro e purgato da essi quanto nella dottrina kantiana è divéro e di eccellente. Tuttavia, per non interrompere econfondere la mia propria esposizione con la frequentepolemica contro Kant, ho concentrato questa in una spe-ciale appendice. Ora, secondo ho detto, come la miaopera presuppone la conoscenza della filosofia kantiana,così presuppone dunque pur la conoscenza di quella ap-pendice: perciò sotto questo riguardo sarebbe consiglia-bile di leggere prima l'appendice, tanto più che il suocontenuto ha precisi rapporti proprio col primo librodell'opera presente. D'altra parte non si potè evitare, perla natura della cosa, che anche l'appendice qua e là si ri-ferisse all'opera stessa: da ciò nient'altro consegue se

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non che anch'essa, come il corpo dell'opera, deve esserletta due volte.La filosofia di Kant è dunque la sola, di cui assoluta-mente si suppone una conoscenza a fondo per ciò chequi verrà esposto. Ma se per di più il lettore s'è ancoraintrattenuto alla scuola del divino Platone, tanto meglione riuscirà preparato e disposto ad udirmi. Se poi ancheè diventato partecipe del benefizio dei Veda, l'accesso aiquali, apertoci mediante le Upanisciade, è a' miei occhiil maggior privilegio che questo ancor giovine secolopuò vantare sul precedente, in quanto io ritengo chel'influsso della letteratura sanscrita non sarà meno pro-fondo che il rinascimento della cultura greca nel secoloxv, se adunque, io dico, il lettore ha già ricevuto e accol-to con animo ben disposto anche la consacrazionedell'antichissima saggezza indiana, allora è nel migliormodo preparato a udire ciò che io ho da esporgli. Lamateria non sembrerà allora a lui, come a qualche altro,straniera o addirittura ostica; perché io, se non suonassetroppo superbo, vorrei affermare che ciascuna delle sin-gole sentenze staccate, le quali costituiscono le Upani-sciade, si lascia dedurre, come conclusione, dal pensieroch'io devo comunicare; sebbene questo pensiero vice-versa non si possa in alcun modo trovare colà.

Ma già sono i più de' lettori scattati con impazienza,prorompendo nel rimprovero a stento trattenuto per tan-to tempo, come mai io possa osar di presentare al pub-

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non che anch'essa, come il corpo dell'opera, deve esserletta due volte.La filosofia di Kant è dunque la sola, di cui assoluta-mente si suppone una conoscenza a fondo per ciò chequi verrà esposto. Ma se per di più il lettore s'è ancoraintrattenuto alla scuola del divino Platone, tanto meglione riuscirà preparato e disposto ad udirmi. Se poi ancheè diventato partecipe del benefizio dei Veda, l'accesso aiquali, apertoci mediante le Upanisciade, è a' miei occhiil maggior privilegio che questo ancor giovine secolopuò vantare sul precedente, in quanto io ritengo chel'influsso della letteratura sanscrita non sarà meno pro-fondo che il rinascimento della cultura greca nel secoloxv, se adunque, io dico, il lettore ha già ricevuto e accol-to con animo ben disposto anche la consacrazionedell'antichissima saggezza indiana, allora è nel migliormodo preparato a udire ciò che io ho da esporgli. Lamateria non sembrerà allora a lui, come a qualche altro,straniera o addirittura ostica; perché io, se non suonassetroppo superbo, vorrei affermare che ciascuna delle sin-gole sentenze staccate, le quali costituiscono le Upani-sciade, si lascia dedurre, come conclusione, dal pensieroch'io devo comunicare; sebbene questo pensiero vice-versa non si possa in alcun modo trovare colà.

Ma già sono i più de' lettori scattati con impazienza,prorompendo nel rimprovero a stento trattenuto per tan-to tempo, come mai io possa osar di presentare al pub-

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blico un libro con esigenze e condizioni, delle quali ledue prime sono presuntuose e affatto immodeste: e que-sto in una epoca sì ricca di singolari pensieri, che inGermania soltanto per mezzo della stampa ve n'ha i qua-li diventano annualmente dominio comune in tremilaopere dense di contenuto, originali, assolutamente indi-spensabili, e inoltre in periodici innumerevoli, o addirit-tura nei giornali quotidiani; in un'epoca, nella quale so-prattutto non v'ha punto difetto di filosofi pienamenteoriginali e profondi: sì che nella sola Germania vivonotanti di essi a un tempo, quanti prima potevan produrrevarii secoli l'un dopo l'altro. Come mai dunque, interro-ga l'irato lettore, si può venirne a capo, se bisogna darsitanto da fare per un libro solo?Poiché non ho la minima obiezione da fare contro talirimproveri, da questi lettori non m'attendo qualche grati-tudine, se non per averli avvertiti in tempo, affinchè essinon perdano un'ora con un libro la cui lettura non po-trebbe dar frutto senza la soddisfazione delle esigenzeformulate, e perciò è da tralasciare affatto; massime es-sendovi d'altronde anche da scommetter grosso, che illibro non piacerebbe loro; che piuttosto esso sarà sem-pre soltanto paucorum hominum, e perciò paziente emodesto deve attendere i pochi, la cui maniera di pensa-re non comune lo trovi leggibile. Perché, anche astraen-do dall'ampiezza d'idee e dallo sforzo che domanda allettore, quale uomo colto del nostro tempo, in cui il sa-pere è arrivato vicino a quel mirabile punto dove para-dosso ed errore sono tutt'uno, potrebbe sopportar di tro-

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blico un libro con esigenze e condizioni, delle quali ledue prime sono presuntuose e affatto immodeste: e que-sto in una epoca sì ricca di singolari pensieri, che inGermania soltanto per mezzo della stampa ve n'ha i qua-li diventano annualmente dominio comune in tremilaopere dense di contenuto, originali, assolutamente indi-spensabili, e inoltre in periodici innumerevoli, o addirit-tura nei giornali quotidiani; in un'epoca, nella quale so-prattutto non v'ha punto difetto di filosofi pienamenteoriginali e profondi: sì che nella sola Germania vivonotanti di essi a un tempo, quanti prima potevan produrrevarii secoli l'un dopo l'altro. Come mai dunque, interro-ga l'irato lettore, si può venirne a capo, se bisogna darsitanto da fare per un libro solo?Poiché non ho la minima obiezione da fare contro talirimproveri, da questi lettori non m'attendo qualche grati-tudine, se non per averli avvertiti in tempo, affinchè essinon perdano un'ora con un libro la cui lettura non po-trebbe dar frutto senza la soddisfazione delle esigenzeformulate, e perciò è da tralasciare affatto; massime es-sendovi d'altronde anche da scommetter grosso, che illibro non piacerebbe loro; che piuttosto esso sarà sem-pre soltanto paucorum hominum, e perciò paziente emodesto deve attendere i pochi, la cui maniera di pensa-re non comune lo trovi leggibile. Perché, anche astraen-do dall'ampiezza d'idee e dallo sforzo che domanda allettore, quale uomo colto del nostro tempo, in cui il sa-pere è arrivato vicino a quel mirabile punto dove para-dosso ed errore sono tutt'uno, potrebbe sopportar di tro-

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vare quasi ad ogni pagina pensieri, che francamentecontrastano con ciò che egli stesso, una volta per sem-pre, ha stabilito per vero e indubitato? E poi, come talu-no si troverà spiacevolmente deluso, non imbattendosiqui in nessun discorso di ciò che egli proprio qui pensadi dover cercare, perché il suo modo di speculares'incontra con quello di un grande filosofo vivente1, ilquale ha scritto libri davvero commoventi, ed ha soltan-to la piccola debolezza di veder pensieri fondamentali,innati nello spirito umano, in tutto quanto egli ha impa-rato e accettato prima del suo quindicesimo anno! Chipotrebbe sopportare tutto ciò? Quindi il mio solo consi-glio è di metter via il libro, ancora una volta. Ma temoio stesso di non uscirne così. Il lettore, una volta arrivatoal proemio che lo respinge, ha pur comprato il libro adenaro sonante, e domanda che cosa ne lo risarcirà. Mioultimo riparo è ora il rammentargli che egli può utilizza-re un libro in vari modi, senza bisogno di leggerlo. Può,come tanti altri, riempire un vuoto della sua biblioteca,dov'esso, ben rilegato, farà certo buona mostra di sé. Oanche deporlo sulla toilette o sul tavolino da the dellasua dotta amica. O infine egli può ancora, ciò che di cer-to è il meglio di tutto ed io particolarmente consiglio,farne una recensione.E così, dopo che mi son permesso lo scherzo, al qualenon c'è pagina per quanto seria che non debba far postoin questa vita, la quale sempre e ovunque mostra una

1 F. H. Jacobi.

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vare quasi ad ogni pagina pensieri, che francamentecontrastano con ciò che egli stesso, una volta per sem-pre, ha stabilito per vero e indubitato? E poi, come talu-no si troverà spiacevolmente deluso, non imbattendosiqui in nessun discorso di ciò che egli proprio qui pensadi dover cercare, perché il suo modo di speculares'incontra con quello di un grande filosofo vivente1, ilquale ha scritto libri davvero commoventi, ed ha soltan-to la piccola debolezza di veder pensieri fondamentali,innati nello spirito umano, in tutto quanto egli ha impa-rato e accettato prima del suo quindicesimo anno! Chipotrebbe sopportare tutto ciò? Quindi il mio solo consi-glio è di metter via il libro, ancora una volta. Ma temoio stesso di non uscirne così. Il lettore, una volta arrivatoal proemio che lo respinge, ha pur comprato il libro adenaro sonante, e domanda che cosa ne lo risarcirà. Mioultimo riparo è ora il rammentargli che egli può utilizza-re un libro in vari modi, senza bisogno di leggerlo. Può,come tanti altri, riempire un vuoto della sua biblioteca,dov'esso, ben rilegato, farà certo buona mostra di sé. Oanche deporlo sulla toilette o sul tavolino da the dellasua dotta amica. O infine egli può ancora, ciò che di cer-to è il meglio di tutto ed io particolarmente consiglio,farne una recensione.E così, dopo che mi son permesso lo scherzo, al qualenon c'è pagina per quanto seria che non debba far postoin questa vita, la quale sempre e ovunque mostra una

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duplice faccia, offro con intima gravità il libro, con la fi-ducia che presto o tardi raggiungerà coloro, ai quali solopuò esser rivolto; e d'altronde tranquillamente rassegna-to a vedergli toccare in piena misura il destino, che sem-pre toccò alla verità, in ogni dominio del sapere, e tantopiù in quello che più importa: alla quale verità è destina-to solo un breve trionfo, fra i due lunghi spazi di tempoin cui ella è condannata come paradossale o spregiatacome banale. E il primo destino colpisce insieme coluiche l'ha trovata. Ma la vita è breve, e la verità opera lon-tano e lungamente vive: diciamo la verità.

(Scritto in Dresda nell'agosto 1818).

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duplice faccia, offro con intima gravità il libro, con la fi-ducia che presto o tardi raggiungerà coloro, ai quali solopuò esser rivolto; e d'altronde tranquillamente rassegna-to a vedergli toccare in piena misura il destino, che sem-pre toccò alla verità, in ogni dominio del sapere, e tantopiù in quello che più importa: alla quale verità è destina-to solo un breve trionfo, fra i due lunghi spazi di tempoin cui ella è condannata come paradossale o spregiatacome banale. E il primo destino colpisce insieme coluiche l'ha trovata. Ma la vita è breve, e la verità opera lon-tano e lungamente vive: diciamo la verità.

(Scritto in Dresda nell'agosto 1818).

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LIBRO PRIMOIL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE

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LIBRO PRIMOIL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE

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PRIMA CONSIDERAZIONERappresentazione sottomessa al principio della ragio-

ne: l'oggetto dell'esperienza e della scienza.

Sors de l'enfance, ami, réveille-toi!Jean-Jacques Rousseau

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PRIMA CONSIDERAZIONERappresentazione sottomessa al principio della ragio-

ne: l'oggetto dell'esperienza e della scienza.

Sors de l'enfance, ami, réveille-toi!Jean-Jacques Rousseau

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§ 1.«Il mondo è mia rappresentazione»: – questa è una veri-tà che vale in rapporto a ciascun essere vivente e cono-scente, sebbene l'uomo soltanto sia capace d'accoglierlanella riflessa, astratta coscienza: e s'egli veramente faquesto, con ciò è penetrata in lui la meditazione filosofi-ca. Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch'egli nonconosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, ilquale vede un sole, una mano, la quale sente una terra;che il mondo da cui è circondato non esiste se non comerappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto inrapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale èlui stesso. Se mai una verità può venire enunciata apriori è appunto questa: essendo l'espressione di quellaforma d'ogni possibile e immaginabile esperienza, laquale è più universale che tutte le altre forme, più chetempo, spazio e causalità; poi che tutte queste presup-pongono appunto quella. E se ciascuna di tali forme, chenoi abbiamo tutte riconosciute come altrettante determi-nazioni particolari del principio della ragione, ha valoresolo per una speciale classe di rappresentazioni, la divi-sione in oggetto e soggetto è invece forma comune ditutte quelle classi: è la forma unica in cui qualsivogliarappresentazione, di qualsiasi specie, astratta o intuitiva,pura o empirica, è possibile ed immaginabile. Nessunaverità è adunque più certa, più indipendente da ogni al-tra, nessuna ha minor bisogno d’esser provata, di questa:

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§ 1.«Il mondo è mia rappresentazione»: – questa è una veri-tà che vale in rapporto a ciascun essere vivente e cono-scente, sebbene l'uomo soltanto sia capace d'accoglierlanella riflessa, astratta coscienza: e s'egli veramente faquesto, con ciò è penetrata in lui la meditazione filosofi-ca. Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch'egli nonconosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, ilquale vede un sole, una mano, la quale sente una terra;che il mondo da cui è circondato non esiste se non comerappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto inrapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale èlui stesso. Se mai una verità può venire enunciata apriori è appunto questa: essendo l'espressione di quellaforma d'ogni possibile e immaginabile esperienza, laquale è più universale che tutte le altre forme, più chetempo, spazio e causalità; poi che tutte queste presup-pongono appunto quella. E se ciascuna di tali forme, chenoi abbiamo tutte riconosciute come altrettante determi-nazioni particolari del principio della ragione, ha valoresolo per una speciale classe di rappresentazioni, la divi-sione in oggetto e soggetto è invece forma comune ditutte quelle classi: è la forma unica in cui qualsivogliarappresentazione, di qualsiasi specie, astratta o intuitiva,pura o empirica, è possibile ed immaginabile. Nessunaverità è adunque più certa, più indipendente da ogni al-tra, nessuna ha minor bisogno d’esser provata, di questa:

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che tutto ciò che esiste per la conoscenza, – adunquequesto mondo intero, – è solamente oggetto in rapportoal soggetto, intuizione di chi intuisce; in una parola, rap-presentazione. Naturalmente questo vale, come per ilpresente, così per qualsiasi passato e qualsiasi futuro,per ciò che è lontanissimo come per ciò che è vicino:imperocché vale finanche per il tempo e lo spazio, den-tro i quali tutto viene distinto. Tutto quanto è compresoe può esser compreso nel mondo, deve inevitabilmenteaver per condizione il soggetto, ed esiste solo per il sog-getto. Il mondo è rappresentazione.Questa verità è tutt'altro che nuova. Ella era già nellaconcezione degli scettici, donde mosse Cartesio. MaBerkeley fu il primo ad esprimerla risolutamente, e siacquistò così un merito immortale verso la filosofia,quantunque il resto delle sue dottrine non possa reggere.Il primo errore di Kant fu la negligenza di questo princi-pio, come verrà esposto nell'appendice. Quanto remota-mente invece tal fondamentale verità fosse riconosciutadai saggi indiani, apparendo come base della filosofiaVedanta attribuita a Vyasa, ci attesta W. Jones, nell'ulti-ma sua memoria On the philosophy of the Asiatics;«Asiatic Researches», vol. IV, p. 164: «the fundamentaltenet of the Vedanta school consisted not in denying theexistence of matter, that is of solidity, impenetrability,and extended figure (to deny which would be lunacy),but in correcting the popular notion of it, and incontending that it has no essence independent of mental

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che tutto ciò che esiste per la conoscenza, – adunquequesto mondo intero, – è solamente oggetto in rapportoal soggetto, intuizione di chi intuisce; in una parola, rap-presentazione. Naturalmente questo vale, come per ilpresente, così per qualsiasi passato e qualsiasi futuro,per ciò che è lontanissimo come per ciò che è vicino:imperocché vale finanche per il tempo e lo spazio, den-tro i quali tutto viene distinto. Tutto quanto è compresoe può esser compreso nel mondo, deve inevitabilmenteaver per condizione il soggetto, ed esiste solo per il sog-getto. Il mondo è rappresentazione.Questa verità è tutt'altro che nuova. Ella era già nellaconcezione degli scettici, donde mosse Cartesio. MaBerkeley fu il primo ad esprimerla risolutamente, e siacquistò così un merito immortale verso la filosofia,quantunque il resto delle sue dottrine non possa reggere.Il primo errore di Kant fu la negligenza di questo princi-pio, come verrà esposto nell'appendice. Quanto remota-mente invece tal fondamentale verità fosse riconosciutadai saggi indiani, apparendo come base della filosofiaVedanta attribuita a Vyasa, ci attesta W. Jones, nell'ulti-ma sua memoria On the philosophy of the Asiatics;«Asiatic Researches», vol. IV, p. 164: «the fundamentaltenet of the Vedanta school consisted not in denying theexistence of matter, that is of solidity, impenetrability,and extended figure (to deny which would be lunacy),but in correcting the popular notion of it, and incontending that it has no essence independent of mental

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perception; that existence and perceptibility areconvertible terms»2. Queste parole esprimono sufficien-temente la coesistenza della realtà empirica con l'ideali-tà trascendentale.Dunque solo dal punto di vista indicato, solo in quanto èrappresentazione, noi consideriamo il mondo in questoprimo libro. Che nondimeno questa considerazione,malgrado la sua verità, sia unilaterale, e quindi ottenutamediante un'astrazione arbitraria, è fatto palese a ciascu-no dall'intima riluttanza ch’ei prova a concepire il mon-do soltanto come sua pura rappresentazione; al qualeconcetto d'altra parte non può mai e poi mai sottrarsi.Ma l'unilateralità di questa considerazione verrà integra-ta nel libro seguente con un'altra verità, la quale non è dicerto così immediata come quella da cui qui muoviamo;bensì tale che vi si può esser condotti solo da più pro-fonda indagine, più difficile astrazione, separazione deldiverso e riunione dell'identico – una verità che deve ap-parire molto grave e per ognuno, se non proprio pauro-sa, almeno meritevole di riflessione: ossia questa, cheegli appunto può dire e deve dire: «il mondo è la miavolontà».Ma per ora, in questo primo libro, è necessario conside-

2 «Il dogma fondamentale della scuola Vedanta non consisteva nel negarel'esistenza della materia, cioè della solidità, impenetrabilità ed estensio-ne (ciò che sarebbe stolto negare), bensì nel correggere il concetto vol-gare di quella: affermando che la materia non ha un'esistenza indipen-dente dalla percezione mentale, che esistenza e percettibilità sonotermini a vicenda convertibili.»

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perception; that existence and perceptibility areconvertible terms»2. Queste parole esprimono sufficien-temente la coesistenza della realtà empirica con l'ideali-tà trascendentale.Dunque solo dal punto di vista indicato, solo in quanto èrappresentazione, noi consideriamo il mondo in questoprimo libro. Che nondimeno questa considerazione,malgrado la sua verità, sia unilaterale, e quindi ottenutamediante un'astrazione arbitraria, è fatto palese a ciascu-no dall'intima riluttanza ch’ei prova a concepire il mon-do soltanto come sua pura rappresentazione; al qualeconcetto d'altra parte non può mai e poi mai sottrarsi.Ma l'unilateralità di questa considerazione verrà integra-ta nel libro seguente con un'altra verità, la quale non è dicerto così immediata come quella da cui qui muoviamo;bensì tale che vi si può esser condotti solo da più pro-fonda indagine, più difficile astrazione, separazione deldiverso e riunione dell'identico – una verità che deve ap-parire molto grave e per ognuno, se non proprio pauro-sa, almeno meritevole di riflessione: ossia questa, cheegli appunto può dire e deve dire: «il mondo è la miavolontà».Ma per ora, in questo primo libro, è necessario conside-

2 «Il dogma fondamentale della scuola Vedanta non consisteva nel negarel'esistenza della materia, cioè della solidità, impenetrabilità ed estensio-ne (ciò che sarebbe stolto negare), bensì nel correggere il concetto vol-gare di quella: affermando che la materia non ha un'esistenza indipen-dente dalla percezione mentale, che esistenza e percettibilità sonotermini a vicenda convertibili.»

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rare, senz'allontanarsene, quell'aspetto del mondo da cuiprendiamo le mosse – l'aspetto della conoscibilità – eperciò, lasciando ogni riluttanza, esaminare tutti gli og-getti esistenti, compreso perfino il nostro corpo (comesarà spiegato meglio ben presto), esclusivamente qualirappresentazioni; e quali pure rappresentazioni definire.In tal modo si viene a fare astrazione, unicamente esempre, dalla volontà, secondo più tardi sarà per appari-re evidente, spero, a tutti; come da quella che da solacostituisce l'altro aspetto del mondo: perché come ilmondo è da un lato, in tutto e per tutto, rappresentazio-ne, così dall'altro, in tutto e per tutto, volontà. Una realtàinvece che non sia né questa né quella, ma sia bensì unoggetto in sé (com'è purtroppo divenuta la cosa in sé diKant degenerando nelle sue mani) è una chimera di so-gno, e la sua assunzione un fuoco fatuo della filosofia.

§ 2.Quello che tutto conosce, e da nessuno è conosciuto, è ilsoggetto. Esso è dunque che porta in sé il mondo; èl'universale, ognora presupposta condizione d'ogni feno-meno di ogni oggetto: perché ciò che esiste, non esistese non per il soggetto. Questo soggetto ciascuno trova insé stesso; ma tuttavia solo in quanto conosce, non inquanto è egli medesimo oggetto di conoscenza. Oggettoè già invece il suo corpo: ed anch’esso perciò, secondoquesto modo di vedere, chiamiamo rappresentazione.Invero il corpo è oggetto fra oggetti, e sottoposto alle

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rare, senz'allontanarsene, quell'aspetto del mondo da cuiprendiamo le mosse – l'aspetto della conoscibilità – eperciò, lasciando ogni riluttanza, esaminare tutti gli og-getti esistenti, compreso perfino il nostro corpo (comesarà spiegato meglio ben presto), esclusivamente qualirappresentazioni; e quali pure rappresentazioni definire.In tal modo si viene a fare astrazione, unicamente esempre, dalla volontà, secondo più tardi sarà per appari-re evidente, spero, a tutti; come da quella che da solacostituisce l'altro aspetto del mondo: perché come ilmondo è da un lato, in tutto e per tutto, rappresentazio-ne, così dall'altro, in tutto e per tutto, volontà. Una realtàinvece che non sia né questa né quella, ma sia bensì unoggetto in sé (com'è purtroppo divenuta la cosa in sé diKant degenerando nelle sue mani) è una chimera di so-gno, e la sua assunzione un fuoco fatuo della filosofia.

§ 2.Quello che tutto conosce, e da nessuno è conosciuto, è ilsoggetto. Esso è dunque che porta in sé il mondo; èl'universale, ognora presupposta condizione d'ogni feno-meno di ogni oggetto: perché ciò che esiste, non esistese non per il soggetto. Questo soggetto ciascuno trova insé stesso; ma tuttavia solo in quanto conosce, non inquanto è egli medesimo oggetto di conoscenza. Oggettoè già invece il suo corpo: ed anch’esso perciò, secondoquesto modo di vedere, chiamiamo rappresentazione.Invero il corpo è oggetto fra oggetti, e sottoposto alle

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leggi degli oggetti, sebbene sia oggetto immediato3.Esso sta, come tutti gli oggetti dell'intuizione, nelle for-me d'ogni conoscimento, nel tempo e nello spazio, permezzo dei quali si ha pluralità. Ma il soggetto, il cono-scente, non mai conosciuto, non sta anch'esso in quelleforme, dalle quali appunto viene invece sempre già pre-supposto: non gli tocca perciò né pluralità né il contrap-posto di quella, unità. Giammai lo conosciamo, ma essoè che conosce, dovunque sia conoscenza.Il mondo come rappresentazione, adunque – e noi nonlo consideriamo qui se non sotto questo aspetto – ha duemetà essenziali, necessarie e inseparabili. L'una èl'oggetto, di cui sono forma spazio e tempo, mediante iquali si ha la pluralità. Ma l'altra metà, il soggetto, nonsta nello spazio e nel tempo: perché essa è intera e indi-visa in ogni essere rappresentante; perciò anche un solodi questi esseri, con l'oggetto, integra il mondo comerappresentazione, sì appieno quanto i milioni d'esseriesistenti. Ma, se anche solo quell'unico svanisse, cesse-rebbe d'esistere pure il mondo come rappresentazione.Queste metà sono perciò inseparabili, anche per il pen-siero; perché ciascuna di esse consegue solo mediante eper l'altra significazione ed esistenza, ciascuna esistecon l’altra e con lei dilegua. Esse si limitano a vicendadirettamente: dove l'oggetto comincia, finisce il sogget-to. La comunanza di questi limiti si mostra appunto inciò, che le forme essenziali e perciò universali d'ogni

3 Sul principio della ragione, 2ª ed., § 22.

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leggi degli oggetti, sebbene sia oggetto immediato3.Esso sta, come tutti gli oggetti dell'intuizione, nelle for-me d'ogni conoscimento, nel tempo e nello spazio, permezzo dei quali si ha pluralità. Ma il soggetto, il cono-scente, non mai conosciuto, non sta anch'esso in quelleforme, dalle quali appunto viene invece sempre già pre-supposto: non gli tocca perciò né pluralità né il contrap-posto di quella, unità. Giammai lo conosciamo, ma essoè che conosce, dovunque sia conoscenza.Il mondo come rappresentazione, adunque – e noi nonlo consideriamo qui se non sotto questo aspetto – ha duemetà essenziali, necessarie e inseparabili. L'una èl'oggetto, di cui sono forma spazio e tempo, mediante iquali si ha la pluralità. Ma l'altra metà, il soggetto, nonsta nello spazio e nel tempo: perché essa è intera e indi-visa in ogni essere rappresentante; perciò anche un solodi questi esseri, con l'oggetto, integra il mondo comerappresentazione, sì appieno quanto i milioni d'esseriesistenti. Ma, se anche solo quell'unico svanisse, cesse-rebbe d'esistere pure il mondo come rappresentazione.Queste metà sono perciò inseparabili, anche per il pen-siero; perché ciascuna di esse consegue solo mediante eper l'altra significazione ed esistenza, ciascuna esistecon l’altra e con lei dilegua. Esse si limitano a vicendadirettamente: dove l'oggetto comincia, finisce il sogget-to. La comunanza di questi limiti si mostra appunto inciò, che le forme essenziali e perciò universali d'ogni

3 Sul principio della ragione, 2ª ed., § 22.

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oggetto, le quali sono tempo, spazio e causalità, posso-no, muovendo dal soggetto, venir trovate e pienamenteconosciute anche senza la conoscenza stessa dell'ogget-to; il che val quanto dire, nel linguaggio di Kant, cheesse stanno a priori nella nostra coscienza. L’aver ciòscoperto è un capitale merito di Kant, un immenso meri-to. Io affermo ora in più, che il principio di ragione èl'espressione comune per tutte queste forme dell'oggetto,delle quali siamo consci a priori; e che perciò tuttoquanto noi sappiamo puramente a priori, non è nulla senon appunto il contenuto di quel principio e ciò che daesso deriva; in esso adunque propriamente viene formu-lata tutta quanta la nostra conoscenza certa a priori. Nelmio scritto intorno al principio di ragione ho ampiamen-te mostrato che qualsivoglia oggetto possibile è a quellosottomesso; vale a dire, sta in una relazione necessariacon altri oggetti, da un verso come determinato,dall'altro come determinante: ciò va tanto lungi, chel'intera esistenza di tutti gli oggetti, in quanto oggetti,rappresentazioni e null'altro, in tutto e per tutto fa capo aquel loro necessario, scambievole rapporto; e solo inesso ella consiste, dunque è affatto relativa. Ma su ciò sidirà presto di più. Io ho inoltre mostrato che a secondadelle classi nelle quali gli oggetti si ripartiscono avendoriguardo alla loro possibilità, si presenta in vario modoquel necessario rapporto che il principio di ragione ge-nericamente esprime; dal che si conferma la giusta ri-partizione delle classi medesime. Qui sempre suppongogià conosciuto e presente al lettore quanto ho detto in

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oggetto, le quali sono tempo, spazio e causalità, posso-no, muovendo dal soggetto, venir trovate e pienamenteconosciute anche senza la conoscenza stessa dell'ogget-to; il che val quanto dire, nel linguaggio di Kant, cheesse stanno a priori nella nostra coscienza. L’aver ciòscoperto è un capitale merito di Kant, un immenso meri-to. Io affermo ora in più, che il principio di ragione èl'espressione comune per tutte queste forme dell'oggetto,delle quali siamo consci a priori; e che perciò tuttoquanto noi sappiamo puramente a priori, non è nulla senon appunto il contenuto di quel principio e ciò che daesso deriva; in esso adunque propriamente viene formu-lata tutta quanta la nostra conoscenza certa a priori. Nelmio scritto intorno al principio di ragione ho ampiamen-te mostrato che qualsivoglia oggetto possibile è a quellosottomesso; vale a dire, sta in una relazione necessariacon altri oggetti, da un verso come determinato,dall'altro come determinante: ciò va tanto lungi, chel'intera esistenza di tutti gli oggetti, in quanto oggetti,rappresentazioni e null'altro, in tutto e per tutto fa capo aquel loro necessario, scambievole rapporto; e solo inesso ella consiste, dunque è affatto relativa. Ma su ciò sidirà presto di più. Io ho inoltre mostrato che a secondadelle classi nelle quali gli oggetti si ripartiscono avendoriguardo alla loro possibilità, si presenta in vario modoquel necessario rapporto che il principio di ragione ge-nericamente esprime; dal che si conferma la giusta ri-partizione delle classi medesime. Qui sempre suppongogià conosciuto e presente al lettore quanto ho detto in

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quella trattazione; perché, se non fosse già stato dettocolà, qui dovrebbe per necessità avere il suo posto.

§ 3.La differenza capitale fra tutte le nostre rappresentazioniè quella dell'intuitivo e dell'astratto. Astratta è una clas-se sola di rappresentazioni, che sono i concetti: e questisulla terra sono patrimonio speciale dell'uomo. Tale ca-pacità, che lui distingue da tutti gli animali, fu dai piùremoti tempi chiamata ragione4. Esamineremo a parte inseguito codeste rappresentazioni astratte, ma dapprimasi discorrerà esclusivamente della rappresentazione in-tuitiva. Questa adunque comprende l'intero mondo visi-bile, o il complesso dell'esperienza, oltre le condizionidi possibilità della medesima. È, come ho detto, un'assaiimportante scoperta di Kant, che appunto queste condi-zioni, queste forme dell'esperienza (ossia ciò che v'ha dipiù generale nella sua percezione, ciò che in egual modoè proprio di tutti i suoi fenomeni – intendo il tempo e lospazio) possono per se stesse, disgiunte dal loro conte-nuto, venir non pure pensate in abstracto, ma anche im-mediatamente intuite; e che tale intuizione non sia peravventura un fantasma ricavato dall'esperieza5 medianteil suo ripetersi, bensì dall'esperienza sia tanto indipen-dente, da doversi questa viceversa pensare piuttosto4 Solo Kant ha confuso questo concetto della ragione. Su ciò rinvio

all’appendice, come anche ai miei Problemi fondamentali dell’Etica: Basedella Morale, § 6, pp. 148-154 della prima edizione.

5 Sic. [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

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quella trattazione; perché, se non fosse già stato dettocolà, qui dovrebbe per necessità avere il suo posto.

§ 3.La differenza capitale fra tutte le nostre rappresentazioniè quella dell'intuitivo e dell'astratto. Astratta è una clas-se sola di rappresentazioni, che sono i concetti: e questisulla terra sono patrimonio speciale dell'uomo. Tale ca-pacità, che lui distingue da tutti gli animali, fu dai piùremoti tempi chiamata ragione4. Esamineremo a parte inseguito codeste rappresentazioni astratte, ma dapprimasi discorrerà esclusivamente della rappresentazione in-tuitiva. Questa adunque comprende l'intero mondo visi-bile, o il complesso dell'esperienza, oltre le condizionidi possibilità della medesima. È, come ho detto, un'assaiimportante scoperta di Kant, che appunto queste condi-zioni, queste forme dell'esperienza (ossia ciò che v'ha dipiù generale nella sua percezione, ciò che in egual modoè proprio di tutti i suoi fenomeni – intendo il tempo e lospazio) possono per se stesse, disgiunte dal loro conte-nuto, venir non pure pensate in abstracto, ma anche im-mediatamente intuite; e che tale intuizione non sia peravventura un fantasma ricavato dall'esperieza5 medianteil suo ripetersi, bensì dall'esperienza sia tanto indipen-dente, da doversi questa viceversa pensare piuttosto4 Solo Kant ha confuso questo concetto della ragione. Su ciò rinvio

all’appendice, come anche ai miei Problemi fondamentali dell’Etica: Basedella Morale, § 6, pp. 148-154 della prima edizione.

5 Sic. [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

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come dipendente da quella: per ciò che le proprietà del-lo spazio e del tempo, quali li riconosce a priori l'intui-zione, valgono come leggi per ogni possibile esperienza;leggi, a cui questa deve ovunque conformarsi. Per que-sto motivo nella mia memoria sul principio di ragioneho considerato tempo e spazio, in quanto vengono intui-ti puri e privi di contenuto, come una classe particolaredi rappresentazioni, esistente di per sé. Ora, per quantoimportante sia pure codesta natura, scoperta da Kant, diquelle forme universali dell'intuizione, che cioè le sipossano intuire in sé e indipendenti dall'esperienza, econoscere dalla loro piena legittimità (sul che si fonda lamatematica con la sua infallibilità), non è tuttavia menoosservabile quest’altra loro proprietà, che il principio diragione (il quale determina l'esperienza come legge del-la causalità e motivazione, e il pensiero come legge delfondamento dei giudizi) si presenti qui sotto un aspettotutto speciale, a cui ho dato il nome di ragione dell'esse-re; e che è, nel tempo, il succedersi dei suoi momenti, enello spazio la posizione delle sue parti vicendevolmen-te determinantisi all'infinito.Quegli a cui dalla mia dissertazione introduttiva sia ri-sultata chiara la piena identità di contenuto del principiodi ragione, malgrado tutta la varietà delle sue modifica-zioni, sarà pur convinto di quanto importi, a penetrarnella sua più intima essenza, la nozione della più sem-plice tra le sue forme, come tali: e per tale abbiamo rico-nosciuto il tempo. Come nel tempo ciascun attimo esiste

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come dipendente da quella: per ciò che le proprietà del-lo spazio e del tempo, quali li riconosce a priori l'intui-zione, valgono come leggi per ogni possibile esperienza;leggi, a cui questa deve ovunque conformarsi. Per que-sto motivo nella mia memoria sul principio di ragioneho considerato tempo e spazio, in quanto vengono intui-ti puri e privi di contenuto, come una classe particolaredi rappresentazioni, esistente di per sé. Ora, per quantoimportante sia pure codesta natura, scoperta da Kant, diquelle forme universali dell'intuizione, che cioè le sipossano intuire in sé e indipendenti dall'esperienza, econoscere dalla loro piena legittimità (sul che si fonda lamatematica con la sua infallibilità), non è tuttavia menoosservabile quest’altra loro proprietà, che il principio diragione (il quale determina l'esperienza come legge del-la causalità e motivazione, e il pensiero come legge delfondamento dei giudizi) si presenti qui sotto un aspettotutto speciale, a cui ho dato il nome di ragione dell'esse-re; e che è, nel tempo, il succedersi dei suoi momenti, enello spazio la posizione delle sue parti vicendevolmen-te determinantisi all'infinito.Quegli a cui dalla mia dissertazione introduttiva sia ri-sultata chiara la piena identità di contenuto del principiodi ragione, malgrado tutta la varietà delle sue modifica-zioni, sarà pur convinto di quanto importi, a penetrarnella sua più intima essenza, la nozione della più sem-plice tra le sue forme, come tali: e per tale abbiamo rico-nosciuto il tempo. Come nel tempo ciascun attimo esiste

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solo in quanto ha cancellato l'attimo precedente – suopadre – per venire anch'esso con la medesima rapiditàalla sua volta cancellato; come passato e avvenire (fa-cendo astrazione dalle conseguenze del loro contenuto)sono illusori a modo di sogni, e il presente non è che unlimite tra quelli, privo di estensione e durata: propriocosì riconosceremo la stessa nullità anche in tutte le al-tre forme del principio di ragione. E comprenderemoche come il tempo, così anche lo spazio, e come questo,così tutto ciò che è insieme nello spazio e nel tempo,tutto, insomma, ciò che proviene da cause o motivi, haun'esistenza solo relativa, esiste solo mediante e perun'altra cosa che ha la stessa natura, ossia esisteanch'essa soltanto a quel modo. La sostanza di questaopinione è antica: Eraclito lamentava con essa l'eternofluire delle cose; Platone ne disdegnò l'oggetto come unperenne divenire, che non è mai essere; Spinoza chiamòle cose puri accidenti della unica sostanza, che sola esi-ste e permane; Kant contrappose ciò che conosciamo intal modo, come pura apparenza, alla cosa in sé; e infinel'antichissima sapienza indiana dice: «È Maya, il veloingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa lorovedere un mondo del quale non può dirsi né che esista,né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, ras-somiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegri-no da lontano scambia per acqua; o anche rassomigliaalla corda gettata a terra, che egli prende per un serpen-te» (Questi paragoni si trovano ripetuti in luoghi innu-merevoli dei Veda e dei Purana). Ma ciò che tutti costo-

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solo in quanto ha cancellato l'attimo precedente – suopadre – per venire anch'esso con la medesima rapiditàalla sua volta cancellato; come passato e avvenire (fa-cendo astrazione dalle conseguenze del loro contenuto)sono illusori a modo di sogni, e il presente non è che unlimite tra quelli, privo di estensione e durata: propriocosì riconosceremo la stessa nullità anche in tutte le al-tre forme del principio di ragione. E comprenderemoche come il tempo, così anche lo spazio, e come questo,così tutto ciò che è insieme nello spazio e nel tempo,tutto, insomma, ciò che proviene da cause o motivi, haun'esistenza solo relativa, esiste solo mediante e perun'altra cosa che ha la stessa natura, ossia esisteanch'essa soltanto a quel modo. La sostanza di questaopinione è antica: Eraclito lamentava con essa l'eternofluire delle cose; Platone ne disdegnò l'oggetto come unperenne divenire, che non è mai essere; Spinoza chiamòle cose puri accidenti della unica sostanza, che sola esi-ste e permane; Kant contrappose ciò che conosciamo intal modo, come pura apparenza, alla cosa in sé; e infinel'antichissima sapienza indiana dice: «È Maya, il veloingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa lorovedere un mondo del quale non può dirsi né che esista,né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, ras-somiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegri-no da lontano scambia per acqua; o anche rassomigliaalla corda gettata a terra, che egli prende per un serpen-te» (Questi paragoni si trovano ripetuti in luoghi innu-merevoli dei Veda e dei Purana). Ma ciò che tutti costo-

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ro pensavano, e di cui parlano, non è altro se non quelche anche noi ora, appunto, consideriamo: il mondocome rappresentazione, sottomesso al principio della ra-gione.

§ 4.Chi ha conosciuto quella forma del principio di ragioneche apparisce nel tempo puro in quanto è tale, e su cuipoggia ogni numerazione e calcolo, ha con ciò appuntoconosciuto anche l'intera essenza del tempo. Esso non èse non proprio della forma del principio di ragione, enon ha alcun'altra proprietà. Successione è la forma delprincipio di ragione nel tempo, successione è tuttal'essenza del tempo. Chi poi ha conosciuto il principio diragione quale esso domina nell'intuizione pura dellospazio, ha con ciò stesso dato fondo all'intera essenzadello spazio; perché questo in tutto e per tutto niente al-tro è se non la possibilità delle vicendevoli determina-zioni delle sue parti, la quale si chiama posizione. Lostudio ampio di questa, e la fissazione in concetti astrat-ti, per più comodo uso, dei risultati che ne seguono, è ilcontenuto di tutta la geometria. Ora appunto così, chi haconosciuto il modo del principio di ragione che regge ilcontenuto di quelle forme (il tempo e lo spazio) e la loropercettibilità, cioè la materia, e ha quindi conosciuto lalegge della causalità; quegli ha pur conosciuto propriocon ciò l'intera essenza della materia come tale: perchéquesta è in tutto e per tutto nient'altro che causalità: ciò

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ro pensavano, e di cui parlano, non è altro se non quelche anche noi ora, appunto, consideriamo: il mondocome rappresentazione, sottomesso al principio della ra-gione.

§ 4.Chi ha conosciuto quella forma del principio di ragioneche apparisce nel tempo puro in quanto è tale, e su cuipoggia ogni numerazione e calcolo, ha con ciò appuntoconosciuto anche l'intera essenza del tempo. Esso non èse non proprio della forma del principio di ragione, enon ha alcun'altra proprietà. Successione è la forma delprincipio di ragione nel tempo, successione è tuttal'essenza del tempo. Chi poi ha conosciuto il principio diragione quale esso domina nell'intuizione pura dellospazio, ha con ciò stesso dato fondo all'intera essenzadello spazio; perché questo in tutto e per tutto niente al-tro è se non la possibilità delle vicendevoli determina-zioni delle sue parti, la quale si chiama posizione. Lostudio ampio di questa, e la fissazione in concetti astrat-ti, per più comodo uso, dei risultati che ne seguono, è ilcontenuto di tutta la geometria. Ora appunto così, chi haconosciuto il modo del principio di ragione che regge ilcontenuto di quelle forme (il tempo e lo spazio) e la loropercettibilità, cioè la materia, e ha quindi conosciuto lalegge della causalità; quegli ha pur conosciuto propriocon ciò l'intera essenza della materia come tale: perchéquesta è in tutto e per tutto nient'altro che causalità: ciò

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che ognuno immediatamente vede, appena vi rifletta.Poiché il suo essere è la sua attività: nessun altro suo es-sere si può anche solamente pensare. Solo come agenteriempie essa lo spazio, riempie il tempo: la sua azionesull'oggetto immediato (che pur esso è materia) determi-na l’intuizione, senza la quale non esiste materia: il ri-sultato dell’azione di ogni oggetto materiale sopra un al-tro è solo conosciuto in quanto quest'ultimo agisce allasua volta diversamente che innanzi sull'oggetto imme-diato; e in ciò solo consiste. Causa ed effetto è dunquetutta la essenza della materia: il suo essere è la sua atti-vità. (Su ciò più minutamente nella dissertazione intornoal principio di ragione, § 21, p. 77). Giustissimamenteperciò in tedesco il concetto di tutto ciò che è materialevien chiamato6 Wirklichkeit, da wirken, agire, la qual pa-rola è molto più precisa che non realtà. Ciò su cui lamateria agisce, è ancora e sempre materia: tutta la suasostanza consiste adunque nella regolare modificazioneche una parte di essa produce nell'altra, e perciò del tut-to relativa, relazione vigente solo dentro i suoi confini;adunque proprio come il tempo, proprio come lo spazio.Ma tempo e spazio, ognuno per sé, sono anche senza lamateria intuitivamente rappresentabili; invece non lamateria senza quelli. Già la forma, che da lei è insepara-bile, presuppone lo spazio; e la sua attività, in cui sta

6 «Mira in quibusdam rebus verborum proprietas est, etconsuetudo sermonis antiqui quaedam efficacissimis notissignat»: SENECA, Epist. 81.

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che ognuno immediatamente vede, appena vi rifletta.Poiché il suo essere è la sua attività: nessun altro suo es-sere si può anche solamente pensare. Solo come agenteriempie essa lo spazio, riempie il tempo: la sua azionesull'oggetto immediato (che pur esso è materia) determi-na l’intuizione, senza la quale non esiste materia: il ri-sultato dell’azione di ogni oggetto materiale sopra un al-tro è solo conosciuto in quanto quest'ultimo agisce allasua volta diversamente che innanzi sull'oggetto imme-diato; e in ciò solo consiste. Causa ed effetto è dunquetutta la essenza della materia: il suo essere è la sua atti-vità. (Su ciò più minutamente nella dissertazione intornoal principio di ragione, § 21, p. 77). Giustissimamenteperciò in tedesco il concetto di tutto ciò che è materialevien chiamato6 Wirklichkeit, da wirken, agire, la qual pa-rola è molto più precisa che non realtà. Ciò su cui lamateria agisce, è ancora e sempre materia: tutta la suasostanza consiste adunque nella regolare modificazioneche una parte di essa produce nell'altra, e perciò del tut-to relativa, relazione vigente solo dentro i suoi confini;adunque proprio come il tempo, proprio come lo spazio.Ma tempo e spazio, ognuno per sé, sono anche senza lamateria intuitivamente rappresentabili; invece non lamateria senza quelli. Già la forma, che da lei è insepara-bile, presuppone lo spazio; e la sua attività, in cui sta

6 «Mira in quibusdam rebus verborum proprietas est, etconsuetudo sermonis antiqui quaedam efficacissimis notissignat»: SENECA, Epist. 81.

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tutto il suo essere, concerne sempre un cambiamento – eperciò una determinazione – del tempo. Ma tempo espazio non vengono isolatamente, ciascuno per sé, pre-supposti dalla materia; bensì l'unione d'entrambi costi-tuisce l'essenza di questa; appunto perché tale essenza,com'è dimostrato, consiste nell'attività, nella causalità.Tutti gli immaginabili, innumerevoli fenomeni e statipotrebbero invero nello spazio infinito, senza darsi im-paccio, l'un presso l'altro coesistere, o anche nel tempoinfinito, senza disturbarsi, l'un l'altro seguire; perciòdunque una necessaria relazione fra loro ed una regolache li determinasse in conformità di questa relazionenon sarebbe in niun modo indispensabile, e nemmenoapplicabile: non si avrebbe dunque allora, malgradoogni giustapposizione nello spazio e ogni mutamentonel tempo, ancora nessuna causalità, fin che ciascuna diquelle due forme avesse la sua esistenza e il suo corso diper sé, senza connessione con l'altra. E poiché la causa-lità costituisce propriamente l'essenza della materia, nonsi avrebbe nemmeno materia. Ora invece la legge dicausalità trae la sua significazione e necessità solo daciò, che l'essenza del cambiamento non sta nel puro mu-tar degli stati in sé, bensì piuttosto nel fatto che nellostesso punto dello spazio è ora uno stato e successiva-mente un altro, e in uno stesso momento determinato èqui questo stato, là un altro: solo questa reciproca limi-tazione del tempo e dello spazio da significato e insiemenecessità ad una regola, secondo la quale deve svolgersiil cambiamento. Ciò che viene determinato mediante la

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tutto il suo essere, concerne sempre un cambiamento – eperciò una determinazione – del tempo. Ma tempo espazio non vengono isolatamente, ciascuno per sé, pre-supposti dalla materia; bensì l'unione d'entrambi costi-tuisce l'essenza di questa; appunto perché tale essenza,com'è dimostrato, consiste nell'attività, nella causalità.Tutti gli immaginabili, innumerevoli fenomeni e statipotrebbero invero nello spazio infinito, senza darsi im-paccio, l'un presso l'altro coesistere, o anche nel tempoinfinito, senza disturbarsi, l'un l'altro seguire; perciòdunque una necessaria relazione fra loro ed una regolache li determinasse in conformità di questa relazionenon sarebbe in niun modo indispensabile, e nemmenoapplicabile: non si avrebbe dunque allora, malgradoogni giustapposizione nello spazio e ogni mutamentonel tempo, ancora nessuna causalità, fin che ciascuna diquelle due forme avesse la sua esistenza e il suo corso diper sé, senza connessione con l'altra. E poiché la causa-lità costituisce propriamente l'essenza della materia, nonsi avrebbe nemmeno materia. Ora invece la legge dicausalità trae la sua significazione e necessità solo daciò, che l'essenza del cambiamento non sta nel puro mu-tar degli stati in sé, bensì piuttosto nel fatto che nellostesso punto dello spazio è ora uno stato e successiva-mente un altro, e in uno stesso momento determinato èqui questo stato, là un altro: solo questa reciproca limi-tazione del tempo e dello spazio da significato e insiemenecessità ad una regola, secondo la quale deve svolgersiil cambiamento. Ciò che viene determinato mediante la

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legge di causalità non è adunque la successione deglistati nel tempo puro, ma codesta successione riguardo auno spazio determinato, e non la presenza degli stati inun luogo determinato, ma in questo luogo in un tempodeterminato. La modificazione, ossia il cambiamentosopravveniente secondo la legge causale, concerne per-ciò ogni volta una determinata parte dello spazio e unadeterminata parte del tempo, simultaneamente e insie-me. Quindi la causalità congiunge lo spazio col tempo.Ma noi abbiamo trovato che nell'attività, e perciò nellacausalità, consiste l'intera essenza della materia: di con-seguenza devono anche in questa spazio e tempo essercongiunti, ossia essa deve avere simultaneamente in séle proprietà del tempo e dello spazio, per quanto questesi contrastino; e ciò che in ciascuno di quelli è da soloimpossibile, deve essa in sé riunire, ossia l'inconsistentefuga del tempo con la rigida, immutabile persistenzadello spazio: la divisibilità infinita essa l'ha da entrambi.In tal modo noi troviamo primamente per suo mezzoprodotta la simultaneità, che non poteva essere né neltempo puro, il quale non conosce alcuna giustapposizio-ne, né nel puro spazio, il quale non conosce alcun in-nanzi, dopo, e ora. Ma è appunto la simultaneità di mol-ti stati che costituisce l'essenza della realtà [Wirklich-keit]: perché dalla simultaneità in primissimo luogo èresa possibile la durata, essendo questa conoscibile soloal variar di ciò che è insieme presente e durevole:com'anche solo mediante il durevole nella variazioneprende questa il carattere della modificazione, ossia del

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legge di causalità non è adunque la successione deglistati nel tempo puro, ma codesta successione riguardo auno spazio determinato, e non la presenza degli stati inun luogo determinato, ma in questo luogo in un tempodeterminato. La modificazione, ossia il cambiamentosopravveniente secondo la legge causale, concerne per-ciò ogni volta una determinata parte dello spazio e unadeterminata parte del tempo, simultaneamente e insie-me. Quindi la causalità congiunge lo spazio col tempo.Ma noi abbiamo trovato che nell'attività, e perciò nellacausalità, consiste l'intera essenza della materia: di con-seguenza devono anche in questa spazio e tempo essercongiunti, ossia essa deve avere simultaneamente in séle proprietà del tempo e dello spazio, per quanto questesi contrastino; e ciò che in ciascuno di quelli è da soloimpossibile, deve essa in sé riunire, ossia l'inconsistentefuga del tempo con la rigida, immutabile persistenzadello spazio: la divisibilità infinita essa l'ha da entrambi.In tal modo noi troviamo primamente per suo mezzoprodotta la simultaneità, che non poteva essere né neltempo puro, il quale non conosce alcuna giustapposizio-ne, né nel puro spazio, il quale non conosce alcun in-nanzi, dopo, e ora. Ma è appunto la simultaneità di mol-ti stati che costituisce l'essenza della realtà [Wirklich-keit]: perché dalla simultaneità in primissimo luogo èresa possibile la durata, essendo questa conoscibile soloal variar di ciò che è insieme presente e durevole:com'anche solo mediante il durevole nella variazioneprende questa il carattere della modificazione, ossia del

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mutamento di qualità e forma nel perdere della sostanza,cioè della materia7. Nello spazio puro il mondo sarebberigido ed immobile: nessuna successione, nessuna modi-ficazione, nessuna attività: ma appunto con l'attività èanche tolta via la rappresentazione della materia. D’altraparte, nel tempo puro tutto sarebbe fuggitivo: nessunpersistere, nessun coesistere, e perciò nulla di simulta-neo, quindi nessuna durata: ossia anche in questo casoniente materia. Solo dall'unione di tempo e spazio risul-ta la materia, vale a dire la possibilità della esistenza si-multanea e quindi della durata; mediante questa poi, lapossibilità del permanere della sostanza nel mutar deglistati8. Avendo la sua essenza nell'unione di tempo e spa-zio, la materia reca sempre l'impronta d'entrambi. Ellaattesta la sua origine dallo spazio, in parte con la forma,che da lei è inseparabile, ma soprattutto (perché il cam-biamento appartiene solo al tempo, ed in questo, consi-derato in sé e per sé, non è nulla di stabile) col suo per-manere (sostanza); la cui certezza a priori va perciò de-rivata in tutto e per tutto da quella dello spazio9: invecela sua origine dal tempo manifesta ella con la qualità(accidente) senza la quale mai non appare, e che non èaltro se non causalità (azione sopr'altra materia, ossiacambiamento, che è un concetto di tempo). Ma la legit-

7 Che materia e sostanza sono tutt'uno è spiegato nell'Appendice.8 Questo mostra anche il fondamento della definizione che Kant dà della

materia: «che essa è ciò che si muove nello spazio»: perché il movimentoconsiste solo nell'unione di spazio e tempo.

9 Non da quella del tempo, come vuole Kant: ciò che sarà dimostratonell’appendice.

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mutamento di qualità e forma nel perdere della sostanza,cioè della materia7. Nello spazio puro il mondo sarebberigido ed immobile: nessuna successione, nessuna modi-ficazione, nessuna attività: ma appunto con l'attività èanche tolta via la rappresentazione della materia. D’altraparte, nel tempo puro tutto sarebbe fuggitivo: nessunpersistere, nessun coesistere, e perciò nulla di simulta-neo, quindi nessuna durata: ossia anche in questo casoniente materia. Solo dall'unione di tempo e spazio risul-ta la materia, vale a dire la possibilità della esistenza si-multanea e quindi della durata; mediante questa poi, lapossibilità del permanere della sostanza nel mutar deglistati8. Avendo la sua essenza nell'unione di tempo e spa-zio, la materia reca sempre l'impronta d'entrambi. Ellaattesta la sua origine dallo spazio, in parte con la forma,che da lei è inseparabile, ma soprattutto (perché il cam-biamento appartiene solo al tempo, ed in questo, consi-derato in sé e per sé, non è nulla di stabile) col suo per-manere (sostanza); la cui certezza a priori va perciò de-rivata in tutto e per tutto da quella dello spazio9: invecela sua origine dal tempo manifesta ella con la qualità(accidente) senza la quale mai non appare, e che non èaltro se non causalità (azione sopr'altra materia, ossiacambiamento, che è un concetto di tempo). Ma la legit-

7 Che materia e sostanza sono tutt'uno è spiegato nell'Appendice.8 Questo mostra anche il fondamento della definizione che Kant dà della

materia: «che essa è ciò che si muove nello spazio»: perché il movimentoconsiste solo nell'unione di spazio e tempo.

9 Non da quella del tempo, come vuole Kant: ciò che sarà dimostratonell’appendice.

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tima possibilità di questa azione si riferisce sempre si-multaneamente a spazio e tempo, e appunto da ciò sol-tanto acquista un senso. Quale stato debba aversi in undato tempo e luogo è la sola determinazione su cuis'estende la giurisdizione della causalità. Su questa pro-venienza delle determinazioni fondamentali della mate-ria dalle forme a priori della nostra conoscenza, poggiail riconoscimento a priori che noi facciamo in lei di ta-lune proprietà, come quella di riempir lo spazio, ossiaimpenetrabilità, ossia attività; inoltre estensione, infinitadivisibilità, permanenza, ossia indistruttibilità, e infinemobilità: la gravità invece, malgrado ammetta eccezio-ni, sarà da attribuire alla conoscenza a posteriori, sebbe-ne Kant nei Principi metafisici della scienza della natu-ra, p. 71 (ed. Rosenkranz, p. 372) la ponga come cono-scibile a priori. Ma come l’oggetto esiste solo per il soggetto, quale suarappresentazione, così ogni speciale classe di rappresen-tazione esiste nel soggetto soltanto per un'altrettantaspeciale determinazione, che si chiama facoltà conosci-tiva. Il correlato subiettivo di tempo e spazio in sé, comeforme vuote, fu da Kant chiamato sensibilità pura, equesta espressione, poiché qui Kant aperse la via, puòesser mantenuta; sebbene non convenga perfettamente,per ciò che sensibilità presuppone già materia. Il corre-lato subiettivo della materia o causalità, le quali sonotutt'uno, è l'intelletto, che non altro è fuori di questo.Sua esclusiva funzione, sua unica forza è conoscere la

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tima possibilità di questa azione si riferisce sempre si-multaneamente a spazio e tempo, e appunto da ciò sol-tanto acquista un senso. Quale stato debba aversi in undato tempo e luogo è la sola determinazione su cuis'estende la giurisdizione della causalità. Su questa pro-venienza delle determinazioni fondamentali della mate-ria dalle forme a priori della nostra conoscenza, poggiail riconoscimento a priori che noi facciamo in lei di ta-lune proprietà, come quella di riempir lo spazio, ossiaimpenetrabilità, ossia attività; inoltre estensione, infinitadivisibilità, permanenza, ossia indistruttibilità, e infinemobilità: la gravità invece, malgrado ammetta eccezio-ni, sarà da attribuire alla conoscenza a posteriori, sebbe-ne Kant nei Principi metafisici della scienza della natu-ra, p. 71 (ed. Rosenkranz, p. 372) la ponga come cono-scibile a priori. Ma come l’oggetto esiste solo per il soggetto, quale suarappresentazione, così ogni speciale classe di rappresen-tazione esiste nel soggetto soltanto per un'altrettantaspeciale determinazione, che si chiama facoltà conosci-tiva. Il correlato subiettivo di tempo e spazio in sé, comeforme vuote, fu da Kant chiamato sensibilità pura, equesta espressione, poiché qui Kant aperse la via, puòesser mantenuta; sebbene non convenga perfettamente,per ciò che sensibilità presuppone già materia. Il corre-lato subiettivo della materia o causalità, le quali sonotutt'uno, è l'intelletto, che non altro è fuori di questo.Sua esclusiva funzione, sua unica forza è conoscere la

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causalità – ed è una forza grande, che molto abbraccia,di svariata applicazione, ma di non disconoscibile iden-tità in tutte le sue manifestazioni. Viceversa ogni causa-lità, perciò ogni materia, e quindi l'intera realtà esistesoltanto per l'intelletto, mediante l'intelletto, nell'intellet-to. La prima, più semplice, sempre presente manifesta-zione dell'intelletto è l'intuizione del mondo reale: que-sta non è altro se non conoscenza della causa dall'effet-to: perciò ogni intuizione è intellettuale. Non vi si po-trebbe tuttavia pervenire mai, se un effetto qualsiasi nonfosse conosciuto immediatamente, servendo con ciò dapunto di partenza. E questo è l'effetto sui corpi animali.In tale senso sono questi gli oggetti immediati del sog-getto: l'intuizione di tutti gli altri oggetti si ha per loromezzo. Le modificazioni che ogni corpo animato subi-sce sono immediatamente conosciute, ossia provate; e inquanto codesto effetto viene tosto riferito alla sua causa,nasce l'intuizione di quest'ultima come di un oggetto.Questo riferimento non è una conclusione di concettiastratti, non accade per mezzo di riflessione né con arbi-trio, ma immediatamente, necessariamente e sicuramen-te. Esso è il modo di conoscere del puro intelletto, senzail quale non si verrebbe mai all’intuizione; ma s'avrebbeuna coscienza ottusa, vegetativa, delle modificazionidell'oggetto immediato, che si succederebbero prive intutto di senso, se non avessero forse un senso di dolore odi piacere per la volontà. Ma come, con l'apparir delsole, il mondo visibile si scopre, così l'intelletto con lasua unica, semplice funzione trasforma d'un tratto in in-

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causalità – ed è una forza grande, che molto abbraccia,di svariata applicazione, ma di non disconoscibile iden-tità in tutte le sue manifestazioni. Viceversa ogni causa-lità, perciò ogni materia, e quindi l'intera realtà esistesoltanto per l'intelletto, mediante l'intelletto, nell'intellet-to. La prima, più semplice, sempre presente manifesta-zione dell'intelletto è l'intuizione del mondo reale: que-sta non è altro se non conoscenza della causa dall'effet-to: perciò ogni intuizione è intellettuale. Non vi si po-trebbe tuttavia pervenire mai, se un effetto qualsiasi nonfosse conosciuto immediatamente, servendo con ciò dapunto di partenza. E questo è l'effetto sui corpi animali.In tale senso sono questi gli oggetti immediati del sog-getto: l'intuizione di tutti gli altri oggetti si ha per loromezzo. Le modificazioni che ogni corpo animato subi-sce sono immediatamente conosciute, ossia provate; e inquanto codesto effetto viene tosto riferito alla sua causa,nasce l'intuizione di quest'ultima come di un oggetto.Questo riferimento non è una conclusione di concettiastratti, non accade per mezzo di riflessione né con arbi-trio, ma immediatamente, necessariamente e sicuramen-te. Esso è il modo di conoscere del puro intelletto, senzail quale non si verrebbe mai all’intuizione; ma s'avrebbeuna coscienza ottusa, vegetativa, delle modificazionidell'oggetto immediato, che si succederebbero prive intutto di senso, se non avessero forse un senso di dolore odi piacere per la volontà. Ma come, con l'apparir delsole, il mondo visibile si scopre, così l'intelletto con lasua unica, semplice funzione trasforma d'un tratto in in-

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tuizione la confusa e bruta sensazione. Ciò che sentel'occhio, l'orecchio, la mano, non è l'intuizione, ma sonoappena i dati dell'intuizione. Solo allor che l'intelletto ri-sale dall'effetto alla causa, apparisce il mondo, estesonello spazio come intuizione, mutevole nella forma,eterno in quanto materia: perché l'intelletto congiungespazio e tempo nella rappresentazione di materia, ossiadi attività. Questo mondo come rappresentazione esistesolo mediante l'intelletto, e solo per l'intelletto. Nel pri-mo capitolo della mia dissertazione «sulla vista ed i co-lori», ho già spiegato come sui dati, che i sensi fornisco-no, l'intelletto foggi l'intuizione; come dal confrontodelle impressioni che i vari sensi ricevono dal medesimooggetto il bambino apprenda l'intuizione; come soltantociò fornisca la spiegazione di tanti fenomeni dei sensi:la visione unica con due occhi; la doppia visione nellostrabismo, o nella ineguale distanza di oggetti postil'uno dietro l'altro, che l'occhio veda simultaneamente; etutte le illusioni prodotte da un'improvvisa modificazio-ne negli organi sensorii. Molto più estesamente e più afondo ho tuttavia studiato questo importante argomentonella seconda edizione dello scritto sul principio di ra-gione (§ 21). Tutto ciò che là vien detto avrebbe qui dinecessità il suo luogo, dovrebbe quindi in verità esserqui ripetuto: ma poi che io ho quasi altrettanta ripugnan-za a copiare me stesso che gli altri, né sono in grado diesporre le mie idee meglio di quanto abbia fatto colà, virinunzio; e invece di ripeterle qui, le do per già cono-sciute.

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tuizione la confusa e bruta sensazione. Ciò che sentel'occhio, l'orecchio, la mano, non è l'intuizione, ma sonoappena i dati dell'intuizione. Solo allor che l'intelletto ri-sale dall'effetto alla causa, apparisce il mondo, estesonello spazio come intuizione, mutevole nella forma,eterno in quanto materia: perché l'intelletto congiungespazio e tempo nella rappresentazione di materia, ossiadi attività. Questo mondo come rappresentazione esistesolo mediante l'intelletto, e solo per l'intelletto. Nel pri-mo capitolo della mia dissertazione «sulla vista ed i co-lori», ho già spiegato come sui dati, che i sensi fornisco-no, l'intelletto foggi l'intuizione; come dal confrontodelle impressioni che i vari sensi ricevono dal medesimooggetto il bambino apprenda l'intuizione; come soltantociò fornisca la spiegazione di tanti fenomeni dei sensi:la visione unica con due occhi; la doppia visione nellostrabismo, o nella ineguale distanza di oggetti postil'uno dietro l'altro, che l'occhio veda simultaneamente; etutte le illusioni prodotte da un'improvvisa modificazio-ne negli organi sensorii. Molto più estesamente e più afondo ho tuttavia studiato questo importante argomentonella seconda edizione dello scritto sul principio di ra-gione (§ 21). Tutto ciò che là vien detto avrebbe qui dinecessità il suo luogo, dovrebbe quindi in verità esserqui ripetuto: ma poi che io ho quasi altrettanta ripugnan-za a copiare me stesso che gli altri, né sono in grado diesporre le mie idee meglio di quanto abbia fatto colà, virinunzio; e invece di ripeterle qui, le do per già cono-sciute.

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L'apprendimento della visione da parte dei bambini edei ciechi nati che siano stati operati, la visione unica diciò che vien percepito doppio con due occhi, il doppiovedere o la doppia sensibilità tattile nello spostamentodegli organi sensorii dalla loro posizione ordinaria, ilveder l’oggetto diritto mentre l’immagine sta capovoltanell’occhio, l’attribuzione del colore – che è solo unafunzione interna, una divisione polare dell'attivitàdell'occhio – agli oggetti esterni e infine anche lo stereo-scopio – tutte queste sono salde e indiscutibili prove delfatto che ogni intuizione non è puramente sensibile,bensì intellettuale, ossia pura conoscenza intellettivadella causa dall'effetto, e quindi presuppone la legge dicausalità. Dal conoscimento di quella dipende ogni in-tuizione, e perciò ogni esperienza, nella sua prima e in-tera possibilità; e non viceversa il conoscimento dellalegge causale dall'esperienza, secondo voleva lo scettici-smo di Hume, che per la prima volta viene confutatocon questa dimostrazione. Poiché l'indipendenza dellacognizione della causalità da ogni esperienza, ossia lasua apriorità, non può venir dimostrata se non col dipen-dere di tutta l'esperienza da lei e questo alla sua voltapuò solamente accadere quando si provi nel modo quiindicato, e ampiamente svolto nei luoghi più sopra cita-ti, che la nozione di causalità è già universalmente im-plicita nell'intuizione, nel cui dominio sta tutta l'espe-rienza; sì che quella nozione sussiste pienamente a prio-ri in rapporto all'esperienza, e viene da questa presuppo-sta, non la presuppone. Ciò non si può invece dimostra-

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L'apprendimento della visione da parte dei bambini edei ciechi nati che siano stati operati, la visione unica diciò che vien percepito doppio con due occhi, il doppiovedere o la doppia sensibilità tattile nello spostamentodegli organi sensorii dalla loro posizione ordinaria, ilveder l’oggetto diritto mentre l’immagine sta capovoltanell’occhio, l’attribuzione del colore – che è solo unafunzione interna, una divisione polare dell'attivitàdell'occhio – agli oggetti esterni e infine anche lo stereo-scopio – tutte queste sono salde e indiscutibili prove delfatto che ogni intuizione non è puramente sensibile,bensì intellettuale, ossia pura conoscenza intellettivadella causa dall'effetto, e quindi presuppone la legge dicausalità. Dal conoscimento di quella dipende ogni in-tuizione, e perciò ogni esperienza, nella sua prima e in-tera possibilità; e non viceversa il conoscimento dellalegge causale dall'esperienza, secondo voleva lo scettici-smo di Hume, che per la prima volta viene confutatocon questa dimostrazione. Poiché l'indipendenza dellacognizione della causalità da ogni esperienza, ossia lasua apriorità, non può venir dimostrata se non col dipen-dere di tutta l'esperienza da lei e questo alla sua voltapuò solamente accadere quando si provi nel modo quiindicato, e ampiamente svolto nei luoghi più sopra cita-ti, che la nozione di causalità è già universalmente im-plicita nell'intuizione, nel cui dominio sta tutta l'espe-rienza; sì che quella nozione sussiste pienamente a prio-ri in rapporto all'esperienza, e viene da questa presuppo-sta, non la presuppone. Ciò non si può invece dimostra-

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re nel modo tentato da Kant e da me criticato nella dis-sertazione sul principio della ragione (§ 23).

§ 5.Ma bisogna guardarsi dal grande equivoco di pensareche, poiché l'intuizione richiede la nozione della causali-tà, ne sorga di conseguenza fra oggetto e soggetto il rap-porto di causa ed effetto; mentre questo rapporto hasempre luogo invece fra oggetto immediato e mediato,quindi sempre soltanto fra oggetti. Appunto su quellafalsa premessa poggia l'insana contesa intorno alla realtàdel mondo esterno, nella quale stanno di fronte dogmati-smo e scetticismo, e quello interviene ora come reali-smo, ora come idealismo. Il realismo pone l'oggettocome causa, e il suo effetto pone nel soggetto. L'ideali-smo di Fichte fa invece l’oggetto del soggetto. Ma nonpotendo esservi alcun rapporto fra soggetto ed oggettosecondo il principio di ragione – ciò che non sarà mai ri-badito abbastanza – non potè venir provata né l'una nél'altra di quelle affermazioni, e contro entrambe fece vit-toriosi assalti lo scetticismo. Invero come la legge dicausalità già precede, essendone condizione, l'intuizionee l'esperienza, e quindi non può venir ricavata da queste(secondo Hume pensava); così oggetto e soggetto, giàquali prime condizioni, precedono ogni conoscenza equindi in genere il principio di ragione, perché questonon è se non la forma di tutti gli oggetti, il modo costan-te del loro apparire. Ma l'oggetto già presuppone sempre

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re nel modo tentato da Kant e da me criticato nella dis-sertazione sul principio della ragione (§ 23).

§ 5.Ma bisogna guardarsi dal grande equivoco di pensareche, poiché l'intuizione richiede la nozione della causali-tà, ne sorga di conseguenza fra oggetto e soggetto il rap-porto di causa ed effetto; mentre questo rapporto hasempre luogo invece fra oggetto immediato e mediato,quindi sempre soltanto fra oggetti. Appunto su quellafalsa premessa poggia l'insana contesa intorno alla realtàdel mondo esterno, nella quale stanno di fronte dogmati-smo e scetticismo, e quello interviene ora come reali-smo, ora come idealismo. Il realismo pone l'oggettocome causa, e il suo effetto pone nel soggetto. L'ideali-smo di Fichte fa invece l’oggetto del soggetto. Ma nonpotendo esservi alcun rapporto fra soggetto ed oggettosecondo il principio di ragione – ciò che non sarà mai ri-badito abbastanza – non potè venir provata né l'una nél'altra di quelle affermazioni, e contro entrambe fece vit-toriosi assalti lo scetticismo. Invero come la legge dicausalità già precede, essendone condizione, l'intuizionee l'esperienza, e quindi non può venir ricavata da queste(secondo Hume pensava); così oggetto e soggetto, giàquali prime condizioni, precedono ogni conoscenza equindi in genere il principio di ragione, perché questonon è se non la forma di tutti gli oggetti, il modo costan-te del loro apparire. Ma l'oggetto già presuppone sempre

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il soggetto: fra i due non può adunque sussistere alcunrapporto di causa ed effetto. Il mio scritto sul principiodi ragione mira appunto a questo, a esporre il contenutodi quel principio come la forma essenziale di ogni og-getto, ossia come il modo universale di ogni esistenzaoggettiva, come qualcosa che appartiene in proprioall'oggetto in quanto è tale; ma in quanto è tale, l'oggettopresuppone ognora il soggetto come suo necessario cor-relato: questo rimane perciò sempre fuori del dominio incui ha valore il principio di ragione. La contesa sullarealtà del mondo esterno si fonda appunto su quella fal-sa estensione di valore data al principio di ragione fino acomprendere anche il soggetto; e muovendo da questoequivoco non potè mai chiarirsi. Da un lato il dogmati-smo realistico, considerando la rappresentazione comeeffetto dell'oggetto, vuole separare queste due cose –rappresentazione ed oggetto – che sono invece una cosasola, ed ammettere una causa affatto differente dallarappresentazione, un oggetto in sé indipendente dal sog-getto: qualcosa del tutto inconcepibile perché appuntocome oggetto presuppone sempre il soggetto e semprerimane perciò una semplice rappresentazione di questo.Al dogmatismo realistico lo scetticismo oppone, con lastessa falsa premessa, che nella rappresentazione si hasempre unicamente l’effetto, mai la causa, perciò non siconosce mai l'essenza, ma soltanto l'azione degli ogget-ti. L'azione poi potrebbe forse non avere alcuna analogiacon l’essenza; anzi in genere sarebbe questa analogiaun’opinione del tutto falsa, poiché la legge di causalità

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il soggetto: fra i due non può adunque sussistere alcunrapporto di causa ed effetto. Il mio scritto sul principiodi ragione mira appunto a questo, a esporre il contenutodi quel principio come la forma essenziale di ogni og-getto, ossia come il modo universale di ogni esistenzaoggettiva, come qualcosa che appartiene in proprioall'oggetto in quanto è tale; ma in quanto è tale, l'oggettopresuppone ognora il soggetto come suo necessario cor-relato: questo rimane perciò sempre fuori del dominio incui ha valore il principio di ragione. La contesa sullarealtà del mondo esterno si fonda appunto su quella fal-sa estensione di valore data al principio di ragione fino acomprendere anche il soggetto; e muovendo da questoequivoco non potè mai chiarirsi. Da un lato il dogmati-smo realistico, considerando la rappresentazione comeeffetto dell'oggetto, vuole separare queste due cose –rappresentazione ed oggetto – che sono invece una cosasola, ed ammettere una causa affatto differente dallarappresentazione, un oggetto in sé indipendente dal sog-getto: qualcosa del tutto inconcepibile perché appuntocome oggetto presuppone sempre il soggetto e semprerimane perciò una semplice rappresentazione di questo.Al dogmatismo realistico lo scetticismo oppone, con lastessa falsa premessa, che nella rappresentazione si hasempre unicamente l’effetto, mai la causa, perciò non siconosce mai l'essenza, ma soltanto l'azione degli ogget-ti. L'azione poi potrebbe forse non avere alcuna analogiacon l’essenza; anzi in genere sarebbe questa analogiaun’opinione del tutto falsa, poiché la legge di causalità

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non è ricavata che dalla esperienza, la cui realtà alla suavolta dovrebbe poi poggiare su quella legge. Ora a que-sto proposito conviene ad entrambe le dottrine l’ammo-nimento, in primo luogo, che oggetto e rappresentazionesono tutt'uno; poi, che l'essenza degli oggetti intuibili èappunto la loro azione; che proprio nell’azione consistela realtà dell'oggetto, e la pretesa di un esistenzadell'oggetto fuori della rappresentazione del soggetto, eanche di un'essenza della cosa reale diversa dalla suaazione non ha senso di sorta, anzi è una contraddizione;che per conseguenza il conoscimento del modo d'agired'un oggetto intuito lo esaurisce, in quanto è oggetto, os-sia rappresentazione, perché all'infuori di ciò nulla rima-ne in esso per la conoscenza. Sotto questo rispetto adun-que il mondo intuito nello spazio e nel tempo, il mondoche si manifesta come pura causalità, è pienamente rea-le, ed è in tutto come esso si dà: e si dà intero e senza ri-serve come rappresentazione, disposta secondo la leggedi causalità. Questa è la sua realtà empirica. Ma d'altrolato ogni causalità è soltanto nell'intelletto e per l'intel-letto; quindi tutto quel mondo reale, ossia attivo, è cometale condizionato ognora dall'intelletto, e non è nullasenza di questo. E non solo per tale motivo, ma perchégeneralmente non si può, a meno di cadere in contraddi-zione, pensare un oggetto senza soggetto, al dogmaticoche spiega la realtà del mondo esterno con la sua indi-pendenza dal soggetto noi dobbiamo negare francamen-te codesta realtà. L'intero mondo degli oggetti è e rima-ne rappresentazione, e appunto perciò in tutto ed eterna-

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non è ricavata che dalla esperienza, la cui realtà alla suavolta dovrebbe poi poggiare su quella legge. Ora a que-sto proposito conviene ad entrambe le dottrine l’ammo-nimento, in primo luogo, che oggetto e rappresentazionesono tutt'uno; poi, che l'essenza degli oggetti intuibili èappunto la loro azione; che proprio nell’azione consistela realtà dell'oggetto, e la pretesa di un esistenzadell'oggetto fuori della rappresentazione del soggetto, eanche di un'essenza della cosa reale diversa dalla suaazione non ha senso di sorta, anzi è una contraddizione;che per conseguenza il conoscimento del modo d'agired'un oggetto intuito lo esaurisce, in quanto è oggetto, os-sia rappresentazione, perché all'infuori di ciò nulla rima-ne in esso per la conoscenza. Sotto questo rispetto adun-que il mondo intuito nello spazio e nel tempo, il mondoche si manifesta come pura causalità, è pienamente rea-le, ed è in tutto come esso si dà: e si dà intero e senza ri-serve come rappresentazione, disposta secondo la leggedi causalità. Questa è la sua realtà empirica. Ma d'altrolato ogni causalità è soltanto nell'intelletto e per l'intel-letto; quindi tutto quel mondo reale, ossia attivo, è cometale condizionato ognora dall'intelletto, e non è nullasenza di questo. E non solo per tale motivo, ma perchégeneralmente non si può, a meno di cadere in contraddi-zione, pensare un oggetto senza soggetto, al dogmaticoche spiega la realtà del mondo esterno con la sua indi-pendenza dal soggetto noi dobbiamo negare francamen-te codesta realtà. L'intero mondo degli oggetti è e rima-ne rappresentazione, e appunto perciò in tutto ed eterna-

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mente relativo al soggetto: ossia ha una idealità trascen-dentale. Tuttavia il mondo non è per questo né menzo-gna né illusione: si dà per quello che è, come rappresen-tazione, e precisamente come una serie di rappresenta-zioni, il cui vincolo comune è il principio di ragione.Come tale esso è comprensibile, fin nel suo senso piùintimo, da un intelletto sano, e gli parla una lingua chequesti comprende pienamente. Soltanto ad uno spiritocontorto dal sofisticare può venir l'idea di contenderesulla realtà del mondo; il che sempre accade per unainesatta applicazione del principio di ragione, il qualecollega, è vero, tutte le rappresentazioni di qualsiasi spe-cie fra loro, ma non mai collega quelle col soggetto, ocon qualcosa che non sia né soggetto né oggetto, masolo ragione dell'oggetto: uno sproposito, perché soltan-to oggetti possono essere cause, e cause sempre di altrioggetti. Se andiamo a investigare più attentamente l'ori-gine di questo problema della realtà del mondo esterno,troviamo che oltre quel falso riferimento del principio diragione a ciò che sta fuori del suo dominio, si aggiungeancora una speciale confusione delle sue forme: ossia laforma ch'esso assume esclusivamente riguardo ai con-cetti o rappresentazioni astratte, viene trasportata allerappresentazioni intuitive, agli oggetti reali, e si preten-de una ragione di conoscenza da oggetti che non posso-no avere se non una ragione di divenire. Imperocchésulle rappresentazioni astratte, sui concetti collegati ingiudizi, domina il principio di ragione siffattamente, checiascuno di quelli ha il suo valore, la sua portata, la sua

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mente relativo al soggetto: ossia ha una idealità trascen-dentale. Tuttavia il mondo non è per questo né menzo-gna né illusione: si dà per quello che è, come rappresen-tazione, e precisamente come una serie di rappresenta-zioni, il cui vincolo comune è il principio di ragione.Come tale esso è comprensibile, fin nel suo senso piùintimo, da un intelletto sano, e gli parla una lingua chequesti comprende pienamente. Soltanto ad uno spiritocontorto dal sofisticare può venir l'idea di contenderesulla realtà del mondo; il che sempre accade per unainesatta applicazione del principio di ragione, il qualecollega, è vero, tutte le rappresentazioni di qualsiasi spe-cie fra loro, ma non mai collega quelle col soggetto, ocon qualcosa che non sia né soggetto né oggetto, masolo ragione dell'oggetto: uno sproposito, perché soltan-to oggetti possono essere cause, e cause sempre di altrioggetti. Se andiamo a investigare più attentamente l'ori-gine di questo problema della realtà del mondo esterno,troviamo che oltre quel falso riferimento del principio diragione a ciò che sta fuori del suo dominio, si aggiungeancora una speciale confusione delle sue forme: ossia laforma ch'esso assume esclusivamente riguardo ai con-cetti o rappresentazioni astratte, viene trasportata allerappresentazioni intuitive, agli oggetti reali, e si preten-de una ragione di conoscenza da oggetti che non posso-no avere se non una ragione di divenire. Imperocchésulle rappresentazioni astratte, sui concetti collegati ingiudizi, domina il principio di ragione siffattamente, checiascuno di quelli ha il suo valore, la sua portata, la sua

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intera esistenza – chiamata qui verità – esclusivamentemediante la relazione del giudizio con qualcosa che nesta fuori, ossia il suo principio di conoscenza; al qualebisogna dunque sempre far capo. Sugli oggetti reali in-vece, sulle rappresentazioni intuitive, il principio di ra-gione non domina come principio di ragione della cono-scenza, ma del divenire, come legge di causalità: ciascu-no di quegli oggetti gli ha già pagato il suo debito pelfatto che è divenuto, ossia è stato prodotto come effettoda una causa: la pretesa d'un principio di conoscenzanon ha dunque qui nessun valore e nessun senso, bensìappartiene a tutt'altra classe di oggetti. Perciò il mondodell'intuizione non suscita, finché si rimane nei suoiconfini, né scrupolo né dubbio in chi l'osserva: qui nonv'ha né errore né verità; che sono confinati nel dominiodell'astratto, della riflessione. Qui invece sta il mondoaperto ai sensi ed all'intelletto, dandosi con ingenua ve-rità per ciò che è, per una rappresentazione intuitiva chelegittimamente si svolge sul filo della causalità.Il problema della realtà del mondo esterno, comel'abbiamo considerato finora, era sempre generato dauno smarrimento della ragione che andava fino a misco-noscere se stessa, e sotto questo rispetto il problema erada risolvere con la semplice dilucidazione del suo conte-nuto. Dopo investigata tutta l'essenza del principio di ra-gione, la relazione fra oggetto e soggetto e la vera natu-ra dell'intuizione sensitiva, esso doveva cadere da sé,appunto perché non gli rimaneva più alcun significato.

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intera esistenza – chiamata qui verità – esclusivamentemediante la relazione del giudizio con qualcosa che nesta fuori, ossia il suo principio di conoscenza; al qualebisogna dunque sempre far capo. Sugli oggetti reali in-vece, sulle rappresentazioni intuitive, il principio di ra-gione non domina come principio di ragione della cono-scenza, ma del divenire, come legge di causalità: ciascu-no di quegli oggetti gli ha già pagato il suo debito pelfatto che è divenuto, ossia è stato prodotto come effettoda una causa: la pretesa d'un principio di conoscenzanon ha dunque qui nessun valore e nessun senso, bensìappartiene a tutt'altra classe di oggetti. Perciò il mondodell'intuizione non suscita, finché si rimane nei suoiconfini, né scrupolo né dubbio in chi l'osserva: qui nonv'ha né errore né verità; che sono confinati nel dominiodell'astratto, della riflessione. Qui invece sta il mondoaperto ai sensi ed all'intelletto, dandosi con ingenua ve-rità per ciò che è, per una rappresentazione intuitiva chelegittimamente si svolge sul filo della causalità.Il problema della realtà del mondo esterno, comel'abbiamo considerato finora, era sempre generato dauno smarrimento della ragione che andava fino a misco-noscere se stessa, e sotto questo rispetto il problema erada risolvere con la semplice dilucidazione del suo conte-nuto. Dopo investigata tutta l'essenza del principio di ra-gione, la relazione fra oggetto e soggetto e la vera natu-ra dell'intuizione sensitiva, esso doveva cadere da sé,appunto perché non gli rimaneva più alcun significato.

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Ma il problema ha ancora un'altra origine, affatto diver-sa da quella, tutta speculativa, indicata finora: un'originepropriamente empirica, sebbene essa anche in questaforma sia ancor sempre messa in campo con intendi-menti speculativi. Ed esso ha in questo senso un signifi-cato molto più intelligibile che in quel primo, venendo aformularsi così: noi abbiamo sogni; non è forse tutta lavita un sogno? – o più precisamente: non c'è un criteriosicuro per distinguere sogno e realtà, fantasmi ed oggettireali? – L'addurre la minor vivacità e chiarezza del so-gno in confronto dell'intuizione reale non merita alcunaconsiderazione, perché nessuno finora ha avuto presenticontemporaneamente l'uno e l'altro per confrontarli, masoltanto il ricordo del sogno si poteva confrontare con larealtà presente. Kant scioglie il problema così: «II rap-porto delle rappresentazioni fra di loro secondo la leggedi causalità distingue la vita dal sogno». Ma anche nelsogno ciascun particolare dipende egualmente in tutte lesue forme dal principio di ragione, e questo rapporto sispezza soltanto fra la vita e il sogno e fra i singoli sogni.La risposta di Kant potrebbe quindi suonare soltantocosì: il lungo sogno (la vita) ha connessione costante insé secondo il principio di ragione, ma non l'ha coi sognibrevi; sebbene ciascuno di questi abbia in sé la stessaconnessione; fra questi e quello è adunque rotto il ponte,e in base a ciò vengono distinti. Tuttavia l'intraprendereuna investigazione secondo questo criterio, per sapere sequalcosa sia sognato o veramente accaduto, sarebbe as-sai difficile e spesso impossibile; perché non siamo in

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Ma il problema ha ancora un'altra origine, affatto diver-sa da quella, tutta speculativa, indicata finora: un'originepropriamente empirica, sebbene essa anche in questaforma sia ancor sempre messa in campo con intendi-menti speculativi. Ed esso ha in questo senso un signifi-cato molto più intelligibile che in quel primo, venendo aformularsi così: noi abbiamo sogni; non è forse tutta lavita un sogno? – o più precisamente: non c'è un criteriosicuro per distinguere sogno e realtà, fantasmi ed oggettireali? – L'addurre la minor vivacità e chiarezza del so-gno in confronto dell'intuizione reale non merita alcunaconsiderazione, perché nessuno finora ha avuto presenticontemporaneamente l'uno e l'altro per confrontarli, masoltanto il ricordo del sogno si poteva confrontare con larealtà presente. Kant scioglie il problema così: «II rap-porto delle rappresentazioni fra di loro secondo la leggedi causalità distingue la vita dal sogno». Ma anche nelsogno ciascun particolare dipende egualmente in tutte lesue forme dal principio di ragione, e questo rapporto sispezza soltanto fra la vita e il sogno e fra i singoli sogni.La risposta di Kant potrebbe quindi suonare soltantocosì: il lungo sogno (la vita) ha connessione costante insé secondo il principio di ragione, ma non l'ha coi sognibrevi; sebbene ciascuno di questi abbia in sé la stessaconnessione; fra questi e quello è adunque rotto il ponte,e in base a ciò vengono distinti. Tuttavia l'intraprendereuna investigazione secondo questo criterio, per sapere sequalcosa sia sognato o veramente accaduto, sarebbe as-sai difficile e spesso impossibile; perché non siamo in

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alcun modo in grado di seguire anello per anello la con-catenazione causale fra quella circostanza passata e ilmomento presente, e tuttavia non possiamo per questoaffermare che sia un sogno. Quindi nella vita reale, perdistinguere sogno da realtà, non ci si serve ordinaria-mente di quel modo d'investigazione. Il solo criterio si-curo per distinguere il sogno dalla realtà è in verità quel-lo affatto empirico del risveglio, col quale infatti la con-catenazione causale fra le circostanze sognate e quelledella vita cosciente viene espressamente e sensibilmenterotta. Un ottimo esempio di ciò è fornito dall'osservazio-ne che fa Hobbes nel Leviathan, cap. 2, che cioè alloranoi teniamo facilmente i sogni per realtà, anche dopo ilrisveglio, quando senza farlo di proposito abbiamo dor-mito vestiti; ma soprattutto quando si aggiunge cheun'impresa o un proposito assorbe tutti i nostri pensieri eci occupa nel sogno come nella veglia: perché in questicasi il risvegliarsi viene avvertito quasi tanto poco quan-to l'addormentarsi, il sogno confluisce nella realtà e siconfonde con questa. Allora non rimane in verità altroche l'applicazione del criterio kantiano: ma se poi, comespesso accade, in nessun modo può venire scoperto ilnesso causale col presente, oppure la sua mancanza, intal caso deve per sempre rimaner dubbio se un fatto siasognato o accaduto. Qui in verità ci salta agli occhi lastretta parentela fra vita e sogno: e non ci vergogneremodi confessarla, dopo che è stata riconosciuta e dichiaratada molti grandi spiriti. I Veda ed i Purana per l'intera co-noscenza del mondo reale, che essi chiamano il velo di

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alcun modo in grado di seguire anello per anello la con-catenazione causale fra quella circostanza passata e ilmomento presente, e tuttavia non possiamo per questoaffermare che sia un sogno. Quindi nella vita reale, perdistinguere sogno da realtà, non ci si serve ordinaria-mente di quel modo d'investigazione. Il solo criterio si-curo per distinguere il sogno dalla realtà è in verità quel-lo affatto empirico del risveglio, col quale infatti la con-catenazione causale fra le circostanze sognate e quelledella vita cosciente viene espressamente e sensibilmenterotta. Un ottimo esempio di ciò è fornito dall'osservazio-ne che fa Hobbes nel Leviathan, cap. 2, che cioè alloranoi teniamo facilmente i sogni per realtà, anche dopo ilrisveglio, quando senza farlo di proposito abbiamo dor-mito vestiti; ma soprattutto quando si aggiunge cheun'impresa o un proposito assorbe tutti i nostri pensieri eci occupa nel sogno come nella veglia: perché in questicasi il risvegliarsi viene avvertito quasi tanto poco quan-to l'addormentarsi, il sogno confluisce nella realtà e siconfonde con questa. Allora non rimane in verità altroche l'applicazione del criterio kantiano: ma se poi, comespesso accade, in nessun modo può venire scoperto ilnesso causale col presente, oppure la sua mancanza, intal caso deve per sempre rimaner dubbio se un fatto siasognato o accaduto. Qui in verità ci salta agli occhi lastretta parentela fra vita e sogno: e non ci vergogneremodi confessarla, dopo che è stata riconosciuta e dichiaratada molti grandi spiriti. I Veda ed i Purana per l'intera co-noscenza del mondo reale, che essi chiamano il velo di

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Maya, non conoscono miglior paragone né altro usanopiù di frequente, che quello del sogno. Platone dicespesso che gli uomini non vivono che in sogno, e il solofilosofo s'affatica a svegliarsi. Pindaro dice (II, η, 135):σχιας οναρ ανθρωπος [umbrae somnium homo] e Sofo-cle:

Ὅρω γαρ ἡµας ουδεν οντας αλλο, πληνΕιδωλ’, ὁσοιπερ ζωµεν, η χουφην σχιαν.

Ajax 125,

[Nos enim, quicumque vivimus, nihil aliud essecomperio, quam simulacra et levem umbram.]

Accanto ai quali sta più degnamente di tutti Shake-speare:

We are such stuffAs dreams are made on, and our little lifeIs rounded with a sleep.

Temp., a. 3, sc. 110.

Finalmente era Calderón così profondamente preso daquesto pensiero, che cercò di esprimerlo in un drammain certo modo metafisico, La vita è sogno.Dopo tutti questi passi di poeti sia ora anche a me con-cesso di esprimermi con un paragone. La vita e i sogni

10 [«Noi siamo tale stoffa, come quella di cui son fatti i sogni, ela nostra breve vita è chiusa in un sonno.»]

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Maya, non conoscono miglior paragone né altro usanopiù di frequente, che quello del sogno. Platone dicespesso che gli uomini non vivono che in sogno, e il solofilosofo s'affatica a svegliarsi. Pindaro dice (II, η, 135):σχιας οναρ ανθρωπος [umbrae somnium homo] e Sofo-cle:

Ὅρω γαρ ἡµας ουδεν οντας αλλο, πληνΕιδωλ’, ὁσοιπερ ζωµεν, η χουφην σχιαν.

Ajax 125,

[Nos enim, quicumque vivimus, nihil aliud essecomperio, quam simulacra et levem umbram.]

Accanto ai quali sta più degnamente di tutti Shake-speare:

We are such stuffAs dreams are made on, and our little lifeIs rounded with a sleep.

Temp., a. 3, sc. 110.

Finalmente era Calderón così profondamente preso daquesto pensiero, che cercò di esprimerlo in un drammain certo modo metafisico, La vita è sogno.Dopo tutti questi passi di poeti sia ora anche a me con-cesso di esprimermi con un paragone. La vita e i sogni

10 [«Noi siamo tale stoffa, come quella di cui son fatti i sogni, ela nostra breve vita è chiusa in un sonno.»]

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sono pagine di uno stesso libro. La lettura continuata sichiama vita reale. Ma quando l'ora abituale della lettura(il giorno) viene a finire e giunge il tempo del riposo, al-lora noi spesso seguitiamo ancora fiaccamente, senzaordine e connessione, a sfogliare or qua or là una pagi-na: spesso è una pagina già letta, spesso un'altra ancorasconosciuta, ma sempre dello stesso libro. È vero cheuna pagina letta così isolatamente è senza connessionecon la lettura ordinata: tuttavia non sta molto indietro aquesta, se si pensa che anche il complesso della letturaordinata comincia e finisce egualmente all'improvviso, esi deve quindi considerare come un'unica pagina piùlunga.Sebbene adunque i singoli sogni siano distinti dalla vitareale per questo, che non entrano nella connessione del-la esperienza, connessione che si prosegue costante nel-la vita, e il risveglio riveli questa differenza; tuttavia ap-punto quella connessione dell'esperienza appartiene giàcome sua forma alla vita reale, ed anche il sogno ha dapalesare egualmente una connessione, che è a sua voltain se stesso. Ora, se per giudicare si prende un punto divista fuori d'entrambi, non si trova nella loro essenza al-cuna distinzione precisa, e si è costretti a concedere aipoeti, che la vita sia un lungo sogno.Volgendoci ora da questa origine empirica, di per séstante, del problema circa la realtà del mondo esteriore,per tornare alla sua origine speculativa, abbiamo bensìtrovato che questa si fonda primamente sulla falsa appli-

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sono pagine di uno stesso libro. La lettura continuata sichiama vita reale. Ma quando l'ora abituale della lettura(il giorno) viene a finire e giunge il tempo del riposo, al-lora noi spesso seguitiamo ancora fiaccamente, senzaordine e connessione, a sfogliare or qua or là una pagi-na: spesso è una pagina già letta, spesso un'altra ancorasconosciuta, ma sempre dello stesso libro. È vero cheuna pagina letta così isolatamente è senza connessionecon la lettura ordinata: tuttavia non sta molto indietro aquesta, se si pensa che anche il complesso della letturaordinata comincia e finisce egualmente all'improvviso, esi deve quindi considerare come un'unica pagina piùlunga.Sebbene adunque i singoli sogni siano distinti dalla vitareale per questo, che non entrano nella connessione del-la esperienza, connessione che si prosegue costante nel-la vita, e il risveglio riveli questa differenza; tuttavia ap-punto quella connessione dell'esperienza appartiene giàcome sua forma alla vita reale, ed anche il sogno ha dapalesare egualmente una connessione, che è a sua voltain se stesso. Ora, se per giudicare si prende un punto divista fuori d'entrambi, non si trova nella loro essenza al-cuna distinzione precisa, e si è costretti a concedere aipoeti, che la vita sia un lungo sogno.Volgendoci ora da questa origine empirica, di per séstante, del problema circa la realtà del mondo esteriore,per tornare alla sua origine speculativa, abbiamo bensìtrovato che questa si fonda primamente sulla falsa appli-

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cazione del principio di ragione (ossia nel vederlo anchefra soggetto e oggetto) e poi ancora sulla confusionedelle sue forme, ossia sul fatto che il principio di ragio-ne della conoscenza veniva trasportato nel dominiodove vige il principio di ragione del divenire: ma tutta-via difficilmente quel problema avrebbe potuto occuparcosì a lungo i filosofi, se fosse del tutto senza vero con-tenuto, e non si celasse nel suo intimo, come vera origi-ne di esso, un qualche pensiero e senso giusto – del qua-le si dovesse poi ammettere che, penetrando nella rifles-sione e cercando la propria espressione, fosse degenera-to in quelle assurde, incomprensibili forme e quistioni.Così è veramente, secondo io penso: e come puraespressione di quell'intimo senso finora inafferrabile delproblema, io pongo la domanda: Che cosa è questomondo dell'intuizione, oltre ad essere la mia rappresen-tazione? Il mondo di cui io sono conscio in un solomodo, cioè come rappresentazione, non sarebbe, analo-gamente al mio proprio corpo, di cui sono conscio induplice modo, da un lato rappresentazione, dall'altro vo-lontà? La chiara spiegazione e la risposta affermativa aquesta domanda formerà il contenuto del secondo libro;e le conclusioni che ne derivano occuperanno il restodell'opera.

§ 6.Frattanto consideriamo per ora in questo primo libro iltutto come semplice rappresentazione, come oggetto per

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cazione del principio di ragione (ossia nel vederlo anchefra soggetto e oggetto) e poi ancora sulla confusionedelle sue forme, ossia sul fatto che il principio di ragio-ne della conoscenza veniva trasportato nel dominiodove vige il principio di ragione del divenire: ma tutta-via difficilmente quel problema avrebbe potuto occuparcosì a lungo i filosofi, se fosse del tutto senza vero con-tenuto, e non si celasse nel suo intimo, come vera origi-ne di esso, un qualche pensiero e senso giusto – del qua-le si dovesse poi ammettere che, penetrando nella rifles-sione e cercando la propria espressione, fosse degenera-to in quelle assurde, incomprensibili forme e quistioni.Così è veramente, secondo io penso: e come puraespressione di quell'intimo senso finora inafferrabile delproblema, io pongo la domanda: Che cosa è questomondo dell'intuizione, oltre ad essere la mia rappresen-tazione? Il mondo di cui io sono conscio in un solomodo, cioè come rappresentazione, non sarebbe, analo-gamente al mio proprio corpo, di cui sono conscio induplice modo, da un lato rappresentazione, dall'altro vo-lontà? La chiara spiegazione e la risposta affermativa aquesta domanda formerà il contenuto del secondo libro;e le conclusioni che ne derivano occuperanno il restodell'opera.

§ 6.Frattanto consideriamo per ora in questo primo libro iltutto come semplice rappresentazione, come oggetto per

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il soggetto: e come ogni altro oggetto reale, guardiamoanche il nostro corpo, dal quale in ciascuno muovel'intuizione del mondo, sotto il solo rispetto della cono-scibilità; per il quale è anch'esso una semplice rappre-sentazione. È vero che la coscienza comune, la quale giàsi rivoltava contro il dichiarar pure rappresentazioni glialtri oggetti, ancor più si ribella quando il proprio corpodev'essere nient'altro che una rappresentazione; il cheproviene dal fatto che ad ognuno la cosa in sé è cono-sciuta immediatamente in quanto si manifesta come ilsuo proprio corpo, e solo mediatamente, in quanto vieneoggettivata negli altri oggetti dell'intuizione. Ma l'anda-mento della nostra ricerca rende necessaria questa astra-zione, questa maniera di considerazione unilaterale,questa violenta separazione di ciò che sostanzialmente èinsieme connesso: perciò quella riluttanza dev'essereprovvisoriamente soffocata e tranquillata dall'attesa chele considerazioni seguenti compiano l'unilateralità dellapresente, per venire alla piena cognizione dell'essenzadel mondo.Il corpo è adunque qui per noi oggetto immediato, ossiaquella rappresentazione, che serve di punto di partenzaal conoscimento da parte del soggetto, per ciò che essa,con le sue modificazioni immediatamente percepite,precede l'applicazione del principio di causalità e forni-sce a questo i primi dati. Tutta l'essenza della materiaconsiste, come s'è dimostrato, nella sua attività. Ma cau-sa ed effetto esistono solamente per l'intelletto, come

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il soggetto: e come ogni altro oggetto reale, guardiamoanche il nostro corpo, dal quale in ciascuno muovel'intuizione del mondo, sotto il solo rispetto della cono-scibilità; per il quale è anch'esso una semplice rappre-sentazione. È vero che la coscienza comune, la quale giàsi rivoltava contro il dichiarar pure rappresentazioni glialtri oggetti, ancor più si ribella quando il proprio corpodev'essere nient'altro che una rappresentazione; il cheproviene dal fatto che ad ognuno la cosa in sé è cono-sciuta immediatamente in quanto si manifesta come ilsuo proprio corpo, e solo mediatamente, in quanto vieneoggettivata negli altri oggetti dell'intuizione. Ma l'anda-mento della nostra ricerca rende necessaria questa astra-zione, questa maniera di considerazione unilaterale,questa violenta separazione di ciò che sostanzialmente èinsieme connesso: perciò quella riluttanza dev'essereprovvisoriamente soffocata e tranquillata dall'attesa chele considerazioni seguenti compiano l'unilateralità dellapresente, per venire alla piena cognizione dell'essenzadel mondo.Il corpo è adunque qui per noi oggetto immediato, ossiaquella rappresentazione, che serve di punto di partenzaal conoscimento da parte del soggetto, per ciò che essa,con le sue modificazioni immediatamente percepite,precede l'applicazione del principio di causalità e forni-sce a questo i primi dati. Tutta l'essenza della materiaconsiste, come s'è dimostrato, nella sua attività. Ma cau-sa ed effetto esistono solamente per l'intelletto, come

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quello che non è altro se non il loro correlato soggettivo.L'intelletto tuttavia non potrebbe mai pervenire all'appli-cazione, se non vi fosse qualcos'altro da cui esso muove.Questa cosa è la sensazione semplice, la coscienza im-mediata delle modificazioni del corpo, per la quale ilcorpo è oggetto immediato. La possibilità della cono-scenza del mondo dell'intuizione noi la troviamo dunquein due condizioni. La prima è, se l'esprimiamo oggetti-vamente, l'attitudine dei corpi ad agire l'uno sull'altro,producendo reciproche modificazioni; senza la qual ge-nerale proprietà di tutti i corpi anche mediante la sensi-bilità dei corpi animali non sarebbe punto possibile al-cuna intuizione. Ma se vogliamo esprimer soggettiva-mente questa stessa prima condizione, diciamo: l'intel-letto anzitutto rende possibile l'intuizione: perché soltan-to da esso procede e per esso soltanto vige la legge dicausalità, la possibilità di causa ed effetto; e soltanto peresso e mediante esso esiste quindi il mondo dell'intui-zione. La seconda condizione è invece la sensibilità deicorpi animali, ossia la proprietà che certi corpi hanno, diessere oggetti immediati del soggetto. Ora le semplicimodificazioni che subiscono gli organi dei sensi me-diante l'azione esterna specificamente adatta ad essi,sono invero già da chiamare rappresentazioni, fin quan-do codeste azioni non producono né dolore né piacere,ossia non hanno alcun significato per la volontà, e tutta-via vengono percepite; quindi esistono solo per la cono-scenza. In questo senso dunque io dico che il corpo èconosciuto immediatamente, è oggetto immediato. Non-

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quello che non è altro se non il loro correlato soggettivo.L'intelletto tuttavia non potrebbe mai pervenire all'appli-cazione, se non vi fosse qualcos'altro da cui esso muove.Questa cosa è la sensazione semplice, la coscienza im-mediata delle modificazioni del corpo, per la quale ilcorpo è oggetto immediato. La possibilità della cono-scenza del mondo dell'intuizione noi la troviamo dunquein due condizioni. La prima è, se l'esprimiamo oggetti-vamente, l'attitudine dei corpi ad agire l'uno sull'altro,producendo reciproche modificazioni; senza la qual ge-nerale proprietà di tutti i corpi anche mediante la sensi-bilità dei corpi animali non sarebbe punto possibile al-cuna intuizione. Ma se vogliamo esprimer soggettiva-mente questa stessa prima condizione, diciamo: l'intel-letto anzitutto rende possibile l'intuizione: perché soltan-to da esso procede e per esso soltanto vige la legge dicausalità, la possibilità di causa ed effetto; e soltanto peresso e mediante esso esiste quindi il mondo dell'intui-zione. La seconda condizione è invece la sensibilità deicorpi animali, ossia la proprietà che certi corpi hanno, diessere oggetti immediati del soggetto. Ora le semplicimodificazioni che subiscono gli organi dei sensi me-diante l'azione esterna specificamente adatta ad essi,sono invero già da chiamare rappresentazioni, fin quan-do codeste azioni non producono né dolore né piacere,ossia non hanno alcun significato per la volontà, e tutta-via vengono percepite; quindi esistono solo per la cono-scenza. In questo senso dunque io dico che il corpo èconosciuto immediatamente, è oggetto immediato. Non-

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dimeno il concetto di oggetto non va qui preso in sensoproprio: poiché mediante questa immediata conoscenzadel corpo, la quale precede l'applicazione dell'intellettoed è pura sensazione, non il corpo esiste precisamentecome oggetto, bensì soltanto i corpi che agiscono su diesso; essendo che ogni conoscenza di un vero e propriooggetto, ossia di una rappresentazione percettibile nellospazio, può esistere unicamente mediante e per l'intellet-to – quindi non prima, bensì appena dopo l'applicazionedi questo. Quindi il corpo come vero e proprio oggetto,ossia come rappresentazione intuibile nello spazio, vienconosciuto solo mediatamente, al modo di tutti gli altrioggetti, per mezzo dell'applicazione della legge di cau-salità all'azione di una delle sue parti sulle altre, quando,per esempio, l'occhio vede il corpo, o la mano lo tocca.Conseguentemente la forma del nostro corpo non ci ènota per mezzo della semplice sensibilità generale; ben-sì solo per mezzo della conoscenza, solo nella rappre-sentazione; ossia solo nel cervello il nostro corpo vienerappresentato come un che di esteso, di articolato, di or-ganico. Un cieco nato non riceve questa rappresentazio-ne che a poco a poco, per mezzo dei dati che il tatto glifornisce; un cieco senza mani non conoscerebbe mai lapropria forma, o al più la ricaverebbe e costruirebbe gra-dualmente dall'azione di altri corpi su di lui. Con questarestrizione bisogna adunque intendere, quando chiamia-mo il corpo oggetto immediato.Per altro, in conseguenza di ciò che si è detto, tutti i cor-

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dimeno il concetto di oggetto non va qui preso in sensoproprio: poiché mediante questa immediata conoscenzadel corpo, la quale precede l'applicazione dell'intellettoed è pura sensazione, non il corpo esiste precisamentecome oggetto, bensì soltanto i corpi che agiscono su diesso; essendo che ogni conoscenza di un vero e propriooggetto, ossia di una rappresentazione percettibile nellospazio, può esistere unicamente mediante e per l'intellet-to – quindi non prima, bensì appena dopo l'applicazionedi questo. Quindi il corpo come vero e proprio oggetto,ossia come rappresentazione intuibile nello spazio, vienconosciuto solo mediatamente, al modo di tutti gli altrioggetti, per mezzo dell'applicazione della legge di cau-salità all'azione di una delle sue parti sulle altre, quando,per esempio, l'occhio vede il corpo, o la mano lo tocca.Conseguentemente la forma del nostro corpo non ci ènota per mezzo della semplice sensibilità generale; ben-sì solo per mezzo della conoscenza, solo nella rappre-sentazione; ossia solo nel cervello il nostro corpo vienerappresentato come un che di esteso, di articolato, di or-ganico. Un cieco nato non riceve questa rappresentazio-ne che a poco a poco, per mezzo dei dati che il tatto glifornisce; un cieco senza mani non conoscerebbe mai lapropria forma, o al più la ricaverebbe e costruirebbe gra-dualmente dall'azione di altri corpi su di lui. Con questarestrizione bisogna adunque intendere, quando chiamia-mo il corpo oggetto immediato.Per altro, in conseguenza di ciò che si è detto, tutti i cor-

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pi animati sono oggetti immediati, ossia punto di parten-za per l'intuizione del mondo, da parte del soggetto chetutto conosce e appunto perciò non è mai conosciuto. Ilconoscere, col muoversi secondo motivi determinatidalla conoscenza, è quindi il carattere proprio dell'ani-malità, come il movimento per effetto di stimoli è il ca-rattere della pianta: i corpi inorganici invece non hannoaltri movimenti che quelli prodotti da vere e propriecause nel senso più stretto. Ho spiegato più ampiamentetutto ciò nello scritto sul principio di ragione, 2a ed. (§20), nell'Etica, prima dissert. (§ 3), e in Sulla vista e icolori (§ 1); ai quali luoghi rinvio il lettore.Da ciò che ho detto risulta che tutti gli animali hanno in-telletto, anche i più imperfetti: perché tutti conosconooggetti, e questa conoscenza determina come motivo iloro movimenti. L'intelletto è in tutti gli animali e in tut-ti gli uomini il medesimo, ha sempre la stessa sempliceforma: conoscenza della causalità, passaggio dall'effettoalla causa e dalla causa all'effetto, e nient'altro. Ma igradi della sua acutezza e l'estensione della sua sfera co-noscitiva sono estremamente diversi, variati e in piùmodi sviluppati: dal grado più basso, che conosce sol-tanto il rapporto causale fra l'oggetto immediato e il me-diato, bastando così appena, col passaggio dall'azioneche il corpo subisce alla causa di essa, a intuire questacome oggetto nello spazio; fino ai gradi più alti della co-noscenza del nesso causale dei semplici oggetti mediatifra loro – conoscenza che va fino a intendere le più

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pi animati sono oggetti immediati, ossia punto di parten-za per l'intuizione del mondo, da parte del soggetto chetutto conosce e appunto perciò non è mai conosciuto. Ilconoscere, col muoversi secondo motivi determinatidalla conoscenza, è quindi il carattere proprio dell'ani-malità, come il movimento per effetto di stimoli è il ca-rattere della pianta: i corpi inorganici invece non hannoaltri movimenti che quelli prodotti da vere e propriecause nel senso più stretto. Ho spiegato più ampiamentetutto ciò nello scritto sul principio di ragione, 2a ed. (§20), nell'Etica, prima dissert. (§ 3), e in Sulla vista e icolori (§ 1); ai quali luoghi rinvio il lettore.Da ciò che ho detto risulta che tutti gli animali hanno in-telletto, anche i più imperfetti: perché tutti conosconooggetti, e questa conoscenza determina come motivo iloro movimenti. L'intelletto è in tutti gli animali e in tut-ti gli uomini il medesimo, ha sempre la stessa sempliceforma: conoscenza della causalità, passaggio dall'effettoalla causa e dalla causa all'effetto, e nient'altro. Ma igradi della sua acutezza e l'estensione della sua sfera co-noscitiva sono estremamente diversi, variati e in piùmodi sviluppati: dal grado più basso, che conosce sol-tanto il rapporto causale fra l'oggetto immediato e il me-diato, bastando così appena, col passaggio dall'azioneche il corpo subisce alla causa di essa, a intuire questacome oggetto nello spazio; fino ai gradi più alti della co-noscenza del nesso causale dei semplici oggetti mediatifra loro – conoscenza che va fino a intendere le più

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complicate concatenazioni di cause ed effetti nella natu-ra. Perché quest'ultima capacità appartiene ancor sempreall'intelletto, non alla ragione; i cui concetti astratti ser-vono ad accogliere, fissare e collegare ciò che è stato in-teso immediatamente, ma non mai a produrre l'intendi-mento medesimo. Ogni forza e ogni legge della natura,ogni caso in cui quelle si manifestano, deve essere im-mediatamente conosciuto dall'intelletto, afferrato intuiti-vamente, prima di entrare in abstracto per la ragionenella coscienza riflessa. Intuitiva, immediata compren-sione mediante l'intelletto fu la scoperta fatta da R. Hoo-kes della legge di gravitazione, e il ricondurre tantigrandi fenomeni a quest'unica legge, come poi confer-marono i calcoli di Neuton11; tale fu anche per Lavoisierla scoperta dell'ossigeno e della sua importante funzionenella natura; tale per Goethe la scoperta del modo di for-mazione dei colori naturali. Tutte queste scoperte nonsono altro che un esatto, immediato risalir dall'effettoalla causa, cui tosto segue il riconoscimento dell'identitàdella forza naturale manifestantesi in tutte le cause dellostesso genere: e questa intera penetrazione è un atto, di-verso soltanto nel grado, della medesima ed unica fun-zione dell'intelletto, per cui anche un animale intuiscecome oggetto nello spazio la causa agente sul suo corpo.Perciò anche tutte quelle grandi scoperte sono, propriocome l'intuizione e ogni manifestazione dell'intelletto,una penetrazione immediata, e, come tali, l'opera di un

11 Così nel testo. [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

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complicate concatenazioni di cause ed effetti nella natu-ra. Perché quest'ultima capacità appartiene ancor sempreall'intelletto, non alla ragione; i cui concetti astratti ser-vono ad accogliere, fissare e collegare ciò che è stato in-teso immediatamente, ma non mai a produrre l'intendi-mento medesimo. Ogni forza e ogni legge della natura,ogni caso in cui quelle si manifestano, deve essere im-mediatamente conosciuto dall'intelletto, afferrato intuiti-vamente, prima di entrare in abstracto per la ragionenella coscienza riflessa. Intuitiva, immediata compren-sione mediante l'intelletto fu la scoperta fatta da R. Hoo-kes della legge di gravitazione, e il ricondurre tantigrandi fenomeni a quest'unica legge, come poi confer-marono i calcoli di Neuton11; tale fu anche per Lavoisierla scoperta dell'ossigeno e della sua importante funzionenella natura; tale per Goethe la scoperta del modo di for-mazione dei colori naturali. Tutte queste scoperte nonsono altro che un esatto, immediato risalir dall'effettoalla causa, cui tosto segue il riconoscimento dell'identitàdella forza naturale manifestantesi in tutte le cause dellostesso genere: e questa intera penetrazione è un atto, di-verso soltanto nel grado, della medesima ed unica fun-zione dell'intelletto, per cui anche un animale intuiscecome oggetto nello spazio la causa agente sul suo corpo.Perciò anche tutte quelle grandi scoperte sono, propriocome l'intuizione e ogni manifestazione dell'intelletto,una penetrazione immediata, e, come tali, l'opera di un

11 Così nel testo. [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

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attimo, un apperçu, un'idea improvvisa, e non il prodot-to di lunghe deduzioni in abstracto; le quali ultime ser-vono invece a fissare per la ragione, deponendola neisuoi concetti astratti, l'immediata conoscenza intelletti-va, ossia a mettersi in grado di spiegarla, dichiararla adaltri. Quell'acume dell'intelletto nell'afferrare le relazionicausali dell'oggetto conosciuto immediatamente, trovala sua applicazione non solo nella scienza naturale (chegli deve tutte le sue scoperte), ma anche nella vita prati-ca, dove prende il nome di avvedutezza; mentre invecenel primo uso vien meglio chiamato acutezza, penetra-zione e sagacità: in senso preciso, avvedutezza indicaesclusivamente l'intelletto che sta al servizio della vo-lontà. Tuttavia i limiti di questi concetti non devono es-ser tracciati troppo recisamente, perché si tratta sempredi un'unica funzione del medesimo intelletto che operain ogni animale con l'intuizione degli oggetti nello spa-zio. Questa nel suo più alto grado ora investiga retta-mente nei fenomeni della natura la causa ignota, parten-do da un dato effetto, e dà così alla ragione la materiaper escogitar regole universali, come leggi della natura;ora, con l'impiego di cause conosciute per fini prestabi-liti, inventa complicate, ingegnose macchine; ora, appli-candosi alla motivazione, o penetra e rende vani sottiliintrighi e macchinazioni, oppure quegli stessi motivi egli uomini, che a ciascuno di essi sono sensibili, disponeconvenientemente e mette in moto a suo piacere comemacchine mosse da leve e ruote, guidandoli ai suoi fini.Mancanza d'intelletto si chiama in senso proprio stupidi-

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attimo, un apperçu, un'idea improvvisa, e non il prodot-to di lunghe deduzioni in abstracto; le quali ultime ser-vono invece a fissare per la ragione, deponendola neisuoi concetti astratti, l'immediata conoscenza intelletti-va, ossia a mettersi in grado di spiegarla, dichiararla adaltri. Quell'acume dell'intelletto nell'afferrare le relazionicausali dell'oggetto conosciuto immediatamente, trovala sua applicazione non solo nella scienza naturale (chegli deve tutte le sue scoperte), ma anche nella vita prati-ca, dove prende il nome di avvedutezza; mentre invecenel primo uso vien meglio chiamato acutezza, penetra-zione e sagacità: in senso preciso, avvedutezza indicaesclusivamente l'intelletto che sta al servizio della vo-lontà. Tuttavia i limiti di questi concetti non devono es-ser tracciati troppo recisamente, perché si tratta sempredi un'unica funzione del medesimo intelletto che operain ogni animale con l'intuizione degli oggetti nello spa-zio. Questa nel suo più alto grado ora investiga retta-mente nei fenomeni della natura la causa ignota, parten-do da un dato effetto, e dà così alla ragione la materiaper escogitar regole universali, come leggi della natura;ora, con l'impiego di cause conosciute per fini prestabi-liti, inventa complicate, ingegnose macchine; ora, appli-candosi alla motivazione, o penetra e rende vani sottiliintrighi e macchinazioni, oppure quegli stessi motivi egli uomini, che a ciascuno di essi sono sensibili, disponeconvenientemente e mette in moto a suo piacere comemacchine mosse da leve e ruote, guidandoli ai suoi fini.Mancanza d'intelletto si chiama in senso proprio stupidi-

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tà, ed è appunto ottusità dell'applicazione della leggecausale, incapacità d'afferrare immediatamente le conca-tenazioni di causa ed effetto, motivo ed azione. Unosciocco non vede il nesso dei fenomeni naturali, né dovesi presentano abbandonati a se stessi, né dove sono di-retti intenzionalmente, ossia utilizzati nelle macchine:perciò crede volentieri ad arte magica ed a miracoli.Uno sciocco non osserva che diverse persone, in appa-renza indipendenti le une dalle altre, in realtà agisconosecondo un accordo prestabilito, e perciò si lascia facil-mente mistificare e raggirare; non osserva i celati motividi consigli dati, di giudizi espressi, e così via. Questosolo gli manca costantemente: acume, sveltezza, facilitànell'applicare la legge di causalità, ossia gli manca laforza dell'intelletto. Il maggiore, e per l'argomento checi occupa più istruttivo esempio di stupidità, che mi siamai capitato, era un ragazzo di circa undici anni, del tut-to idiota, al manicomio: il quale aveva sì l'uso di ragio-ne, perché parlava ed ascoltava, ma per intelletto stavaal di sotto di più di un animale. Imperocché ogni voltach'io venivo, osservava un paio d'occhiali che portavo alcollo e in cui si riflettevano le finestre della stanza conle cime degli alberi prospicienti: di ciò aveva ogni voltamaraviglia e gioia grande, né si stancava di contemplarecon stupore; perché non comprendeva questa causalitàaffatto immediata del riflesso.Come negli uomini sono assai differenti i gradi dell'acu-me intellettuale, così fors'anche più differenti sono fra le

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tà, ed è appunto ottusità dell'applicazione della leggecausale, incapacità d'afferrare immediatamente le conca-tenazioni di causa ed effetto, motivo ed azione. Unosciocco non vede il nesso dei fenomeni naturali, né dovesi presentano abbandonati a se stessi, né dove sono di-retti intenzionalmente, ossia utilizzati nelle macchine:perciò crede volentieri ad arte magica ed a miracoli.Uno sciocco non osserva che diverse persone, in appa-renza indipendenti le une dalle altre, in realtà agisconosecondo un accordo prestabilito, e perciò si lascia facil-mente mistificare e raggirare; non osserva i celati motividi consigli dati, di giudizi espressi, e così via. Questosolo gli manca costantemente: acume, sveltezza, facilitànell'applicare la legge di causalità, ossia gli manca laforza dell'intelletto. Il maggiore, e per l'argomento checi occupa più istruttivo esempio di stupidità, che mi siamai capitato, era un ragazzo di circa undici anni, del tut-to idiota, al manicomio: il quale aveva sì l'uso di ragio-ne, perché parlava ed ascoltava, ma per intelletto stavaal di sotto di più di un animale. Imperocché ogni voltach'io venivo, osservava un paio d'occhiali che portavo alcollo e in cui si riflettevano le finestre della stanza conle cime degli alberi prospicienti: di ciò aveva ogni voltamaraviglia e gioia grande, né si stancava di contemplarecon stupore; perché non comprendeva questa causalitàaffatto immediata del riflesso.Come negli uomini sono assai differenti i gradi dell'acu-me intellettuale, così fors'anche più differenti sono fra le

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varie specie animali. Ma in tutte, e perfino in quelle chestanno più vicine alla pianta, è tuttavia tanto intellettoquanto basta per il passaggio dell'azione sull'oggetto im-mediato all'oggetto mediato come causa: quanto bastadunque per l'intuizione, per l'apprendimento di un og-getto; perché l'intuizione appunto fa che siano animali,porgendo loro la possibilità di muoversi secondo datimotivi e quindi di cercare o almeno di ghermire il nutri-mento. Le piante invece hanno solo un moto prodotto dastimoli, di cui debbono attendere l'azione diretta, oppurelanguire, senza poterne andare in traccia o afferrarle.Negli animali più perfetti ammiriamo la grande sagacia:per esempio nel cane, nell'elefante, nella scimmia, nellavolpe, la cui astuzia ha così magistralmente descritta ilBuffon. In questi animali più intelligenti possiamo consufficiente precisione misurare quanto possa l'intellettosenza l'aiuto della ragione, ossia della conoscenza astrat-ta per concetti; in noi stessi non possiamo giudicar diquesto egualmente, perché in noi intelletto e ragione sisorreggono sempre a vicenda. Perciò troviamo soventele manifestazioni d'intelligenza presso gli animali orasopra ora sotto la nostra aspettazione. Da un lato ci sor-prende la sagacia di quell'elefante il quale, dopo esserpassato su molti ponti durante il suo viaggio in Europa,si rifiuta un giorno di varcarne uno, sul quale vede tutta-via passar come al solito la carovana di uomini e anima-li di cui fa parte, sol perché gli sembra troppo legger-mente costruito per il suo peso; ma dall'altra parte cimeravigliamo che gli intelligenti oranghi non alimenti-

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varie specie animali. Ma in tutte, e perfino in quelle chestanno più vicine alla pianta, è tuttavia tanto intellettoquanto basta per il passaggio dell'azione sull'oggetto im-mediato all'oggetto mediato come causa: quanto bastadunque per l'intuizione, per l'apprendimento di un og-getto; perché l'intuizione appunto fa che siano animali,porgendo loro la possibilità di muoversi secondo datimotivi e quindi di cercare o almeno di ghermire il nutri-mento. Le piante invece hanno solo un moto prodotto dastimoli, di cui debbono attendere l'azione diretta, oppurelanguire, senza poterne andare in traccia o afferrarle.Negli animali più perfetti ammiriamo la grande sagacia:per esempio nel cane, nell'elefante, nella scimmia, nellavolpe, la cui astuzia ha così magistralmente descritta ilBuffon. In questi animali più intelligenti possiamo consufficiente precisione misurare quanto possa l'intellettosenza l'aiuto della ragione, ossia della conoscenza astrat-ta per concetti; in noi stessi non possiamo giudicar diquesto egualmente, perché in noi intelletto e ragione sisorreggono sempre a vicenda. Perciò troviamo soventele manifestazioni d'intelligenza presso gli animali orasopra ora sotto la nostra aspettazione. Da un lato ci sor-prende la sagacia di quell'elefante il quale, dopo esserpassato su molti ponti durante il suo viaggio in Europa,si rifiuta un giorno di varcarne uno, sul quale vede tutta-via passar come al solito la carovana di uomini e anima-li di cui fa parte, sol perché gli sembra troppo legger-mente costruito per il suo peso; ma dall'altra parte cimeravigliamo che gli intelligenti oranghi non alimenti-

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no, aggiungendovi legna, il fuoco da essi trovato sul ca-mino, al quale si scaldano: prova che questo richiede-rebbe già una riflessione, la quale senza concetti astrattiè impossibile. Che il conoscimento di causa ed effetto,come forma universale dell'intelletto, sia insito a priorinegli animali, è invero già pienamente sicuro pel fattoche quel conoscimento è per essi, come per noi, la con-dizione prima d'ogni conoscimento intuitivo del mondoesterno. Se poi si vuole averne ancora una prova parti-colare, basti considerar per esempio come finanche ungiovanissimo cane non osi saltar giù dalla tavola, perquanto desiderio ne abbia, perché prevede l'effetto delpeso del suo corpo; pur senza aver prima sperimentatoquesta caduta. Nel giudicar l'intelletto degli animali, noidobbiamo tuttavia guardarci dall'attribuirgli ciò che èmanifestazione dell'istinto; proprietà la quale, sebbeneaffatto diversa dall'intelletto, com'anche dalla ragione,pure opera spesso in modo assai analogo all'azione com-binata dell'intelletto e della ragione. La spiegazione diciò non appartiene a questo luogo, ma troverà il suo po-sto nel secondo libro, dove si tratta della armonia o co-siddetta teleologia della natura; ed a tale spiegazione èconsacrato esclusivamente il 27° capitolo dei Supple-menti12.Mancanza d'intelletto si chiama stupidità; mancato im-piego della ragione nel campo pratico riconosceremo in

12 [Cfr. pp. 354-60 del tomo I dell'edizione nella «Biblioteca Universale La-terza», 2 tomi, Roma-Bari 1986].

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no, aggiungendovi legna, il fuoco da essi trovato sul ca-mino, al quale si scaldano: prova che questo richiede-rebbe già una riflessione, la quale senza concetti astrattiè impossibile. Che il conoscimento di causa ed effetto,come forma universale dell'intelletto, sia insito a priorinegli animali, è invero già pienamente sicuro pel fattoche quel conoscimento è per essi, come per noi, la con-dizione prima d'ogni conoscimento intuitivo del mondoesterno. Se poi si vuole averne ancora una prova parti-colare, basti considerar per esempio come finanche ungiovanissimo cane non osi saltar giù dalla tavola, perquanto desiderio ne abbia, perché prevede l'effetto delpeso del suo corpo; pur senza aver prima sperimentatoquesta caduta. Nel giudicar l'intelletto degli animali, noidobbiamo tuttavia guardarci dall'attribuirgli ciò che èmanifestazione dell'istinto; proprietà la quale, sebbeneaffatto diversa dall'intelletto, com'anche dalla ragione,pure opera spesso in modo assai analogo all'azione com-binata dell'intelletto e della ragione. La spiegazione diciò non appartiene a questo luogo, ma troverà il suo po-sto nel secondo libro, dove si tratta della armonia o co-siddetta teleologia della natura; ed a tale spiegazione èconsacrato esclusivamente il 27° capitolo dei Supple-menti12.Mancanza d'intelletto si chiama stupidità; mancato im-piego della ragione nel campo pratico riconosceremo in

12 [Cfr. pp. 354-60 del tomo I dell'edizione nella «Biblioteca Universale La-terza», 2 tomi, Roma-Bari 1986].

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seguito per insania; così anche mancanza di giudizio,per scempiaggine; e infine parziale o completa mancan-za di memoria per follia. Ma d'ogni cosa si tratterà a suoluogo. Ciò che dalla ragione vien riconosciuto esatto èverità, ossia un giudizio astratto con ragion sufficiente(Dissertazione sul principio di ragione, § 29 sgg.): ciòche vien riconosciuto esatto dall'intelletto è realtà, ossialegittimo passaggio alla causa dall'effetto prodottonell'oggetto immediato. Alla verità si contrapponel'errore come inganno della ragione, alla realtà l'illusio-ne come inganno dell'intelletto. L'illustrazione più am-pia di tutto ciò è da leggersi nel primo capitolo del mioscritto sopra la vista ed i colori. Illusione si ha quandouno stesso effetto può esser prodotto da due cause deltutto diverse, delle quali l'una agisce molto spesso, el'altra raramente: l'intelletto, che non ha alcun dato perdistinguere quale causa agisca in quel caso, poichél'effetto è proprio il medesimo, presuppone allora unavolta per tutte la causa più frequente; e non essendo lasua attività riflessiva e discorsiva, ma diretta ed imme-diata, quella falsa causa sta davanti a noi come oggettointuito, il che, appunto costituisce la falsa apparenza.Come sorga in questo modo la doppia percezione visivao tattile, quando gli organi sensorii sono adoprati in unaposizione non abituale, ho già mostrato nel luogo citato;e appunto con ciò ho fornito una prova indiscutibile delfatto che l'intuizione si ha solo mediante l'intelletto e perl'intelletto. Esempi di questo inganno dell'intelletto, o il-lusione, sono inoltre il bastone immerso nell'acqua, che

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seguito per insania; così anche mancanza di giudizio,per scempiaggine; e infine parziale o completa mancan-za di memoria per follia. Ma d'ogni cosa si tratterà a suoluogo. Ciò che dalla ragione vien riconosciuto esatto èverità, ossia un giudizio astratto con ragion sufficiente(Dissertazione sul principio di ragione, § 29 sgg.): ciòche vien riconosciuto esatto dall'intelletto è realtà, ossialegittimo passaggio alla causa dall'effetto prodottonell'oggetto immediato. Alla verità si contrapponel'errore come inganno della ragione, alla realtà l'illusio-ne come inganno dell'intelletto. L'illustrazione più am-pia di tutto ciò è da leggersi nel primo capitolo del mioscritto sopra la vista ed i colori. Illusione si ha quandouno stesso effetto può esser prodotto da due cause deltutto diverse, delle quali l'una agisce molto spesso, el'altra raramente: l'intelletto, che non ha alcun dato perdistinguere quale causa agisca in quel caso, poichél'effetto è proprio il medesimo, presuppone allora unavolta per tutte la causa più frequente; e non essendo lasua attività riflessiva e discorsiva, ma diretta ed imme-diata, quella falsa causa sta davanti a noi come oggettointuito, il che, appunto costituisce la falsa apparenza.Come sorga in questo modo la doppia percezione visivao tattile, quando gli organi sensorii sono adoprati in unaposizione non abituale, ho già mostrato nel luogo citato;e appunto con ciò ho fornito una prova indiscutibile delfatto che l'intuizione si ha solo mediante l'intelletto e perl'intelletto. Esempi di questo inganno dell'intelletto, o il-lusione, sono inoltre il bastone immerso nell'acqua, che

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sembra spezzato; le immagini degli specchi sferici, chese la superficie è convessa appariscono alquanto indie-tro di questa, e se la superficie è concava apparisconodavanti alla superficie stessa, a una certa distanza. Quianche va ricordata la dimensione apparentemente mag-giore della luna all'orizzonte che allo zenith, non per ef-fetto di ottica; perché, come dimostra il micrometro,l'occhio vede anzi la luna allo zenith in un angolo visua-le alquanto più grande che all'orizzonte; ma per l'intel-letto, il quale attribuisce il più debole splendore dellaluna e delle altre stelle sull'orizzonte ad una loro distan-za maggiore, considerandole secondo la prospettiva ae-rea come oggetti terrestri; perciò ritiene la luna all'oriz-zonte molto più grossa che allo zenith, e anche la voltaceleste ritiene più ampia all'orizzonte, quasi fosse piùdistesa. Lo stesso falso apprezzamento dovuto alla pro-spettiva aerea ci fa ritenere più vicine dal vero, con pre-giudizio della loro altezza, altissime montagne, di cui lasola vetta è a noi visibile nella pura aria trasparente,come per esempio il Monte Bianco visto da Salenche. Etutte queste illusioni ingannatrici stanno davanti a noicome intuizione immediata, che non si può allontanareper mezzo d'alcun ragionamento. Quest'ultimo può soloimpedir l'errore, ossia un giudizio senza ragion suffi-ciente, contrapponendogli un giudizio esatto: come peresempio il conoscere in abstracto che non la maggiordistanza, bensì i vapori più densi all'orizzonte sono cau-se del più debole splendore della luna e delle stelle. Mal'illusione rimarrà incrollabile in tutti i casi citati, mal-

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sembra spezzato; le immagini degli specchi sferici, chese la superficie è convessa appariscono alquanto indie-tro di questa, e se la superficie è concava apparisconodavanti alla superficie stessa, a una certa distanza. Quianche va ricordata la dimensione apparentemente mag-giore della luna all'orizzonte che allo zenith, non per ef-fetto di ottica; perché, come dimostra il micrometro,l'occhio vede anzi la luna allo zenith in un angolo visua-le alquanto più grande che all'orizzonte; ma per l'intel-letto, il quale attribuisce il più debole splendore dellaluna e delle altre stelle sull'orizzonte ad una loro distan-za maggiore, considerandole secondo la prospettiva ae-rea come oggetti terrestri; perciò ritiene la luna all'oriz-zonte molto più grossa che allo zenith, e anche la voltaceleste ritiene più ampia all'orizzonte, quasi fosse piùdistesa. Lo stesso falso apprezzamento dovuto alla pro-spettiva aerea ci fa ritenere più vicine dal vero, con pre-giudizio della loro altezza, altissime montagne, di cui lasola vetta è a noi visibile nella pura aria trasparente,come per esempio il Monte Bianco visto da Salenche. Etutte queste illusioni ingannatrici stanno davanti a noicome intuizione immediata, che non si può allontanareper mezzo d'alcun ragionamento. Quest'ultimo può soloimpedir l'errore, ossia un giudizio senza ragion suffi-ciente, contrapponendogli un giudizio esatto: come peresempio il conoscere in abstracto che non la maggiordistanza, bensì i vapori più densi all'orizzonte sono cau-se del più debole splendore della luna e delle stelle. Mal'illusione rimarrà incrollabile in tutti i casi citati, mal-

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grado qualsivoglia conoscenza astratta: perché l'intellet-to è completamente e nettamente separato dalla ragione– facoltà conoscitiva aggiuntasi esclusivamenteall'uomo – ed è in se stesso a dir vero irragionevole an-che nell'uomo. La ragione non può che sapere: al solointelletto, e libero dall'influsso di quella, rimane l'intui-zione.

§ 7.Sul proposito di tutta la nostra precedente considerazio-ne è forse ancora da osservare quanto segue. In essa nonabbiamo preso le mosse né dall'oggetto né dal soggetto;bensì dalla rappresentazione, la quale già li contiene epresuppone entrambi; poiché la divisione in oggetto esoggetto è la sua forma prima, più generale e più essen-ziale. Abbiamo dunque dapprima considerato questaforma come tale, dipoi (pur rinviando per la sostanzaalla dissertazione introduttiva) le altre forme a lei subor-dinate, tempo, spazio e causalità; le quali appartengonosoltanto all'oggetto. Ma poiché esse sono essenziali aquesto in quanto è tale, e l'oggetto a sua volta è essen-ziale al soggetto in quanto soggetto, possono dal sogget-to stesso venir trovate, ossia conosciute a priori; e per-tanto sono da considerare come limite comune d'entram-bi. Ma tutte si lascian ricondurre ad una comune espres-sione – il principio di causa – com'è ampiamente mo-strato nella dissertazione introduttiva.Ora, questo procedimento distingue affatto la nostra

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grado qualsivoglia conoscenza astratta: perché l'intellet-to è completamente e nettamente separato dalla ragione– facoltà conoscitiva aggiuntasi esclusivamenteall'uomo – ed è in se stesso a dir vero irragionevole an-che nell'uomo. La ragione non può che sapere: al solointelletto, e libero dall'influsso di quella, rimane l'intui-zione.

§ 7.Sul proposito di tutta la nostra precedente considerazio-ne è forse ancora da osservare quanto segue. In essa nonabbiamo preso le mosse né dall'oggetto né dal soggetto;bensì dalla rappresentazione, la quale già li contiene epresuppone entrambi; poiché la divisione in oggetto esoggetto è la sua forma prima, più generale e più essen-ziale. Abbiamo dunque dapprima considerato questaforma come tale, dipoi (pur rinviando per la sostanzaalla dissertazione introduttiva) le altre forme a lei subor-dinate, tempo, spazio e causalità; le quali appartengonosoltanto all'oggetto. Ma poiché esse sono essenziali aquesto in quanto è tale, e l'oggetto a sua volta è essen-ziale al soggetto in quanto soggetto, possono dal sogget-to stesso venir trovate, ossia conosciute a priori; e per-tanto sono da considerare come limite comune d'entram-bi. Ma tutte si lascian ricondurre ad una comune espres-sione – il principio di causa – com'è ampiamente mo-strato nella dissertazione introduttiva.Ora, questo procedimento distingue affatto la nostra

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concezione dalle filosofie tentate finora, come quelleche tutte partivano o dall'oggetto o dal soggetto, e perconseguenza cercavano di spiegare l'uno mediantel'altro, precisamente secondo il principio di ragione, allasignoria del quale noi veniamo invece a sottrarre il rap-porto tra oggetto e soggetto, lasciandole solamentel'oggetto. Si potrebbe considerar come non compresanella suaccennata contrapposizione di sistemi filosoficila filosofia della identità, sorta a' nostri giorni e univer-salmente conosciuta; in quanto questa non fa né l'ogget-to né il soggetto il vero e primo punto di partenza, bensìun terzo, l'Assoluto, conoscibile mediante l'intuizionerazionale; il quale non è né oggetto né soggetto, maidentità di entrambi. Sebbene io, per assoluta mancanzad'ogni intuizione razionale, non presuma entrare a di-scorrere con gli altri della suddetta venerabile identità edell'assoluto, devo tuttavia osservare, fondandomi suiprotocolli aperti a tutti, anche a noi profani, di coloro iquali sanno intuire razionalmente, che la detta filosofianon va eccettuata dalla opposizione di due errori più so-pra esposta. Perché essa, malgrado l'identità di soggettoe oggetto – identità che non può esser pensata, ma solointuita intellettualmente o appresa mediante uno specia-le assorbimento in lei – non evita tuttavia quei due erroriopposti, ma piuttosto li unisce in sé, scindendosi ellamedesima in due discipline: ossia in primo luogo l'idea-lismo trascendentale, che è la teoria fichtiana dell'io, eper conseguenza, secondo il principio di ragione, fa ve-nir l'oggetto fuori dal soggetto o svolto da questo come

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concezione dalle filosofie tentate finora, come quelleche tutte partivano o dall'oggetto o dal soggetto, e perconseguenza cercavano di spiegare l'uno mediantel'altro, precisamente secondo il principio di ragione, allasignoria del quale noi veniamo invece a sottrarre il rap-porto tra oggetto e soggetto, lasciandole solamentel'oggetto. Si potrebbe considerar come non compresanella suaccennata contrapposizione di sistemi filosoficila filosofia della identità, sorta a' nostri giorni e univer-salmente conosciuta; in quanto questa non fa né l'ogget-to né il soggetto il vero e primo punto di partenza, bensìun terzo, l'Assoluto, conoscibile mediante l'intuizionerazionale; il quale non è né oggetto né soggetto, maidentità di entrambi. Sebbene io, per assoluta mancanzad'ogni intuizione razionale, non presuma entrare a di-scorrere con gli altri della suddetta venerabile identità edell'assoluto, devo tuttavia osservare, fondandomi suiprotocolli aperti a tutti, anche a noi profani, di coloro iquali sanno intuire razionalmente, che la detta filosofianon va eccettuata dalla opposizione di due errori più so-pra esposta. Perché essa, malgrado l'identità di soggettoe oggetto – identità che non può esser pensata, ma solointuita intellettualmente o appresa mediante uno specia-le assorbimento in lei – non evita tuttavia quei due erroriopposti, ma piuttosto li unisce in sé, scindendosi ellamedesima in due discipline: ossia in primo luogo l'idea-lismo trascendentale, che è la teoria fichtiana dell'io, eper conseguenza, secondo il principio di ragione, fa ve-nir l'oggetto fuori dal soggetto o svolto da questo come

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un filo dalla rocca; e in secondo luogo la filosofia dellanatura, che egualmente fa sviluppare a poco a poco ilsoggetto dall'oggetto, con l'impiego di un metodo chevien chiamato costruzione. Di questo ben poco m'è chia-ro, ma abbastanza per vedere che esso è un avanzar pro-gressivo secondo il principio di ragione in forme svaria-te. Alla profonda sapienza, che quella filosofia contiene,rinunzio; poiché per me, cui manca del tutto l'intuizionerazionale, tutti quei discorsi che la presuppongono devo-no essere un libro chiuso con sette suggelli. Il che poianche è vero in tal grado, che – strano a dirsi – davantialla profonda saggezza di quelle dottrine ho l'impressio-ne di non ascoltar nient'altro che spaventose e per di piùnoiosissime fanfaronate.I sistemi che prendevano le mosse dall'oggetto si pone-vano invero sempre come problema tutto il mondodell'intuizione e il suo ordinamento; ma l'oggetto, cheessi stabiliscono come punto di partenza, non è semprequel mondo, o la materia, suo elemento fondamentale:piuttosto si può fare una partizione di tali sistemi con-formemente alle quattro classi di oggetti possibili, fissa-te nella dissertazione introduttiva. Si può dire così chedalla prima di quelle classi, ossia dal mondo reale, sonopartiti: Talete e la scuola jonica, Democrito, Epicuro,Giordano Bruno ed i materialisti francesi. Dalla secon-da, ossia dal concetto astratto: Spinoza (precisamentedal puro concetto astratto di sostanza esistente soltantonella sua definizione) e innanzi a lui gli Eleati. Dalla

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un filo dalla rocca; e in secondo luogo la filosofia dellanatura, che egualmente fa sviluppare a poco a poco ilsoggetto dall'oggetto, con l'impiego di un metodo chevien chiamato costruzione. Di questo ben poco m'è chia-ro, ma abbastanza per vedere che esso è un avanzar pro-gressivo secondo il principio di ragione in forme svaria-te. Alla profonda sapienza, che quella filosofia contiene,rinunzio; poiché per me, cui manca del tutto l'intuizionerazionale, tutti quei discorsi che la presuppongono devo-no essere un libro chiuso con sette suggelli. Il che poianche è vero in tal grado, che – strano a dirsi – davantialla profonda saggezza di quelle dottrine ho l'impressio-ne di non ascoltar nient'altro che spaventose e per di piùnoiosissime fanfaronate.I sistemi che prendevano le mosse dall'oggetto si pone-vano invero sempre come problema tutto il mondodell'intuizione e il suo ordinamento; ma l'oggetto, cheessi stabiliscono come punto di partenza, non è semprequel mondo, o la materia, suo elemento fondamentale:piuttosto si può fare una partizione di tali sistemi con-formemente alle quattro classi di oggetti possibili, fissa-te nella dissertazione introduttiva. Si può dire così chedalla prima di quelle classi, ossia dal mondo reale, sonopartiti: Talete e la scuola jonica, Democrito, Epicuro,Giordano Bruno ed i materialisti francesi. Dalla secon-da, ossia dal concetto astratto: Spinoza (precisamentedal puro concetto astratto di sostanza esistente soltantonella sua definizione) e innanzi a lui gli Eleati. Dalla

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terza classe, ossia dal tempo, e conseguentemente dainumeri: i Pitagorici e la filosofia chinese dell'I-king. Fi-nalmente, dalla quarta classe, ossia dall'atto di volontàmotivato dalla conoscenza: gli scolastici, che insegnanouna creazione dal Nulla, mediante l'atto di volontà di unessere personale fuori del mondo.

Il metodo obiettivo si può sviluppare con maggiorconseguenza e condur più lontano quando si presentacome vero e proprio materialismo. Questo pone la mate-ria, e con lei tempo e spazio, come esistenti assoluta-mente, e trascura il rapporto col soggetto, senza pensareche materia, tempo e spazio esistono solo in questo.Prende poi per filo conduttore la legge di causalità, econ essa vuole avanzare, considerandola come un ordinedelle cose in sé esistente, veritas aeterna; passando cosìsopra all'intelletto, nel quale e per il quale esclusiva-mente esiste causalità. Poi cerca di trovare il primo, piùsemplice stato della materia, e quindi ricavare da essogli altri, salendo dal puro meccanismo al chimismo, allapolarità, alla vegetazione, all'animalità: e supposto checiò riesca, ultimo anello della catena sarebbe la sensibi-lità animale, il conoscere: che comparirebbe quindi aquesto punto come una semplice modificazione dellamateria, uno stato di questa prodotto dalla causalità.Ora, se noi avessimo seguito fin là, con rappresentazioniintuitive, il materialismo, appena giunti con esso al suovertice saremmo stati presi da un accesso del riso ine-

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terza classe, ossia dal tempo, e conseguentemente dainumeri: i Pitagorici e la filosofia chinese dell'I-king. Fi-nalmente, dalla quarta classe, ossia dall'atto di volontàmotivato dalla conoscenza: gli scolastici, che insegnanouna creazione dal Nulla, mediante l'atto di volontà di unessere personale fuori del mondo.

Il metodo obiettivo si può sviluppare con maggiorconseguenza e condur più lontano quando si presentacome vero e proprio materialismo. Questo pone la mate-ria, e con lei tempo e spazio, come esistenti assoluta-mente, e trascura il rapporto col soggetto, senza pensareche materia, tempo e spazio esistono solo in questo.Prende poi per filo conduttore la legge di causalità, econ essa vuole avanzare, considerandola come un ordinedelle cose in sé esistente, veritas aeterna; passando cosìsopra all'intelletto, nel quale e per il quale esclusiva-mente esiste causalità. Poi cerca di trovare il primo, piùsemplice stato della materia, e quindi ricavare da essogli altri, salendo dal puro meccanismo al chimismo, allapolarità, alla vegetazione, all'animalità: e supposto checiò riesca, ultimo anello della catena sarebbe la sensibi-lità animale, il conoscere: che comparirebbe quindi aquesto punto come una semplice modificazione dellamateria, uno stato di questa prodotto dalla causalità.Ora, se noi avessimo seguito fin là, con rappresentazioniintuitive, il materialismo, appena giunti con esso al suovertice saremmo stati presi da un accesso del riso ine-

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stinguibile degli Olimpi: accorgendoci d'un tratto, comesvegliati da un sogno, che il suo ultimo risultato così fa-ticosamente raggiunto – la conoscenza – era già presup-posto come condizione assoluta fin dal primissimo pun-to di partenza, dalla semplice materia; e noi c'eravamofigurati di pensare col materialismo la materia, mentrein realtà nient'altro avevamo pensato che il soggetto, ilquale rappresenta la materia, l'occhio che la vede, lamano che la sente, l'intelletto che la conosce. Così sa-rebbe venuta inaspettatamente a scoprirsi l'enorme peti-tio principii: quando all'improvviso l'ultimo anello sifosse presentato come il punto d'appoggio dal quale giàpendeva il primo, e la catena come un circolo; il mate-rialista avrebbe rassomigliato al Barone di Munchhau-sen, il quale, nuotando a cavallo nell'acqua, con le gam-be solleva il cavallo, e solleva se stesso tirandosi pel co-dino della propria parrucca ripiegato sul davanti. Perciòl'assurdità fondamentale del materialismo consiste inquesto, che parte dall'oggettivo, e un oggettivo prendecome termine: sia poi questo la materia, in abstracto,come essa viene solamente pensata, o la materia dataempiricamente, che già ha preso forma, ossia la materiacostitutiva, come per esempio i corpi chimici semplici,con le loro combinazioni più elementari. Cotali coseprende il materialismo come esistenti in sé e assoluta-mente, per farne scaturire la natura organica e infine ilsoggetto conoscente, dando con ciò piena spiegazione diquella e di questo – mentre in realtà ogni elemento og-gettivo, già in quanto tale, ha in varia maniera per con-

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stinguibile degli Olimpi: accorgendoci d'un tratto, comesvegliati da un sogno, che il suo ultimo risultato così fa-ticosamente raggiunto – la conoscenza – era già presup-posto come condizione assoluta fin dal primissimo pun-to di partenza, dalla semplice materia; e noi c'eravamofigurati di pensare col materialismo la materia, mentrein realtà nient'altro avevamo pensato che il soggetto, ilquale rappresenta la materia, l'occhio che la vede, lamano che la sente, l'intelletto che la conosce. Così sa-rebbe venuta inaspettatamente a scoprirsi l'enorme peti-tio principii: quando all'improvviso l'ultimo anello sifosse presentato come il punto d'appoggio dal quale giàpendeva il primo, e la catena come un circolo; il mate-rialista avrebbe rassomigliato al Barone di Munchhau-sen, il quale, nuotando a cavallo nell'acqua, con le gam-be solleva il cavallo, e solleva se stesso tirandosi pel co-dino della propria parrucca ripiegato sul davanti. Perciòl'assurdità fondamentale del materialismo consiste inquesto, che parte dall'oggettivo, e un oggettivo prendecome termine: sia poi questo la materia, in abstracto,come essa viene solamente pensata, o la materia dataempiricamente, che già ha preso forma, ossia la materiacostitutiva, come per esempio i corpi chimici semplici,con le loro combinazioni più elementari. Cotali coseprende il materialismo come esistenti in sé e assoluta-mente, per farne scaturire la natura organica e infine ilsoggetto conoscente, dando con ciò piena spiegazione diquella e di questo – mentre in realtà ogni elemento og-gettivo, già in quanto tale, ha in varia maniera per con-

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dizione il soggetto conoscente, secondo le forme dellasua conoscenza, e quelle forme presuppone; sì che sva-nisce del tutto, se si toglie di mezzo il soggetto. Il mate-rialismo è adunque il tentativo di spiegar ciò che ci èdato immediatamente con ciò che ci è dato mediatamen-te. Tutto l'oggettivo, l'esteso, l'agente, cioè tutta la mate-rialità, che dal materialismo è ritenuta così solido fonda-mento delle sue spiegazioni da non potersi più altro de-siderare dopo essere stati ricondotti a quella (massima-mente se mette capo da ultimo alla legge di azione ereazione), tutto questo, dico io, è qualcosa che è datopiù che mediatamente e condizionatamente, sì da avereun'esistenza appena relativa: perché è passato attraversoil meccanismo e la fabbricazione del cervello, e penetra-to così nelle forme di questo, tempo, spazio, causalità;in grazia delle quali comincia a presentarsi come estesonello spazio ed agente nel tempo. Con un tal dato pre-tende il materialismo di spiegare persino il dato imme-diato ossia la rappresentazione (in cui quello è tuttocompreso) e finalmente la volontà stessa, con la qualepiuttosto sono in realtà da spiegare tutte quelle forzeelementari che si manifestano legittimamente, seguendoil filo conduttore delle cause. All'affermazione, che ilconoscere sia modificazione della materia, si contrappo-ne sempre con egual diritto l'altra, che ogni materia nonè se non modificazione del conoscere nel soggetto,come rappresentazione di questo. Nondimeno il fine el'ideale di tutta la scienza della natura è una compiuta at-tuazione del materialismo. Ora, l'opinione che riconosce

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dizione il soggetto conoscente, secondo le forme dellasua conoscenza, e quelle forme presuppone; sì che sva-nisce del tutto, se si toglie di mezzo il soggetto. Il mate-rialismo è adunque il tentativo di spiegar ciò che ci èdato immediatamente con ciò che ci è dato mediatamen-te. Tutto l'oggettivo, l'esteso, l'agente, cioè tutta la mate-rialità, che dal materialismo è ritenuta così solido fonda-mento delle sue spiegazioni da non potersi più altro de-siderare dopo essere stati ricondotti a quella (massima-mente se mette capo da ultimo alla legge di azione ereazione), tutto questo, dico io, è qualcosa che è datopiù che mediatamente e condizionatamente, sì da avereun'esistenza appena relativa: perché è passato attraversoil meccanismo e la fabbricazione del cervello, e penetra-to così nelle forme di questo, tempo, spazio, causalità;in grazia delle quali comincia a presentarsi come estesonello spazio ed agente nel tempo. Con un tal dato pre-tende il materialismo di spiegare persino il dato imme-diato ossia la rappresentazione (in cui quello è tuttocompreso) e finalmente la volontà stessa, con la qualepiuttosto sono in realtà da spiegare tutte quelle forzeelementari che si manifestano legittimamente, seguendoil filo conduttore delle cause. All'affermazione, che ilconoscere sia modificazione della materia, si contrappo-ne sempre con egual diritto l'altra, che ogni materia nonè se non modificazione del conoscere nel soggetto,come rappresentazione di questo. Nondimeno il fine el'ideale di tutta la scienza della natura è una compiuta at-tuazione del materialismo. Ora, l'opinione che riconosce

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questo come palesemente impossibile è confermata daun'altra verità, che sarà per risultare dal seguito della no-stra indagine: che cioè nessuna scienza nel significatopreciso della parola – con la quale io intendo la cono-scenza sistematica secondo il principio di ragione – puòraggiungere una mèta finale né una spiegazione che sod-disfi del tutto; perché non coglie mai la più intima es-senza nel mondo, né mai può andare oltre la rappresen-tazione; bensì piuttosto null'altro insegna, in fondo, cheil rapporto d'una rappresentazione con l'altra.Ciascuna scienza parte sempre da due dati fondamentali.Di questi, l'uno è costantemente il principio di ragione,in una forma qualsiasi come organo; l'altra, il suo ogget-to particolare, come problema. Così ad esempio la geo-metria ha per problema lo spazio, e come organo il prin-cipio d'esistenza nello spazio; l'aritmetica ha come pro-blema il tempo, e il principio dell'essere nel tempo comeorgano; la logica ha per problema il collegamento deiconcetti come tali, e per organo il principio di conoscen-za; la storia ha come problema i fatti accaduti agli uomi-ni nel loro complesso, e il principio di motivazionecome organo; la scienza naturale infine ha la materiacome problema, e come organo la legge di causalità.Sua mèta e suo scopo è quindi ricondurre l'uno all'altroe finalmente ad uno stato unico, seguendo il filo condut-tore della causalità, tutti i possibili stati della materia;poi viceversa dedurli gli uni dagli altri, e alla fine da ununico stato. Due stati si trovano adunque come estreminella storia naturale: lo stato in cui la materia è nel mi-

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questo come palesemente impossibile è confermata daun'altra verità, che sarà per risultare dal seguito della no-stra indagine: che cioè nessuna scienza nel significatopreciso della parola – con la quale io intendo la cono-scenza sistematica secondo il principio di ragione – puòraggiungere una mèta finale né una spiegazione che sod-disfi del tutto; perché non coglie mai la più intima es-senza nel mondo, né mai può andare oltre la rappresen-tazione; bensì piuttosto null'altro insegna, in fondo, cheil rapporto d'una rappresentazione con l'altra.Ciascuna scienza parte sempre da due dati fondamentali.Di questi, l'uno è costantemente il principio di ragione,in una forma qualsiasi come organo; l'altra, il suo ogget-to particolare, come problema. Così ad esempio la geo-metria ha per problema lo spazio, e come organo il prin-cipio d'esistenza nello spazio; l'aritmetica ha come pro-blema il tempo, e il principio dell'essere nel tempo comeorgano; la logica ha per problema il collegamento deiconcetti come tali, e per organo il principio di conoscen-za; la storia ha come problema i fatti accaduti agli uomi-ni nel loro complesso, e il principio di motivazionecome organo; la scienza naturale infine ha la materiacome problema, e come organo la legge di causalità.Sua mèta e suo scopo è quindi ricondurre l'uno all'altroe finalmente ad uno stato unico, seguendo il filo condut-tore della causalità, tutti i possibili stati della materia;poi viceversa dedurli gli uni dagli altri, e alla fine da ununico stato. Due stati si trovano adunque come estreminella storia naturale: lo stato in cui la materia è nel mi-

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nor grado, e quello in cui essa è nel maggior grado og-getto immediato del soggetto: ossia la bruta, inerte ma-teria, la materia primitiva, da una parte; e dall'altral'organismo umano. La scienza naturale in quanto è chi-mica studia la prima, in quanto fisiologia il secondo. Mafinora questi due estremi non sono stati raggiunti, e s'èconquistato solo qualche punto fra di essi. Anzi, le pro-spettive sono alquanto disperate. I chimici, in base allapremessa che la divisibilità qualitativa della materia nonvada all'infinito come la quantitativa, cercano di ridurresempre più il numero dei suoi corpi semplici, che sonoancora circa 60: e li avessero pure ridotti a due: ancoravorrebbero ricondur questi due ad uno solo. Imperocchéla legge d'omogeneità conduce alla ipotesi di un primostato chimico della materia, che solo appartiene alla ma-teria in quanto tale, ed ha preceduto tutti gli altri, comequelli che alla materia in quanto materia non sono es-senziali, bensì appaiono forme e qualità casuali di essa.Per altro non si riesce a vedere come un tale stato, nonessendovene un secondo in grado di agire su di esso, ab-bia potuto subire una trasformazione chimica; dal chenasce qui nel campo chimico il medesimo imbarazzo incui cadde in fatto di meccanica Epicuro, quand'ebbe damostrare come il primo atomo fosse deviato dalla dire-zione originaria del suo moto. Questa contraddizione,che sorge di per se stessa e non si può né impedire né ri-solvere, potrebbe benissimo esser presentata comeun'antinomia chimica: e come essa si trova qui al primodei due estremi della scienza naturale, così verrà a mo-

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nor grado, e quello in cui essa è nel maggior grado og-getto immediato del soggetto: ossia la bruta, inerte ma-teria, la materia primitiva, da una parte; e dall'altral'organismo umano. La scienza naturale in quanto è chi-mica studia la prima, in quanto fisiologia il secondo. Mafinora questi due estremi non sono stati raggiunti, e s'èconquistato solo qualche punto fra di essi. Anzi, le pro-spettive sono alquanto disperate. I chimici, in base allapremessa che la divisibilità qualitativa della materia nonvada all'infinito come la quantitativa, cercano di ridurresempre più il numero dei suoi corpi semplici, che sonoancora circa 60: e li avessero pure ridotti a due: ancoravorrebbero ricondur questi due ad uno solo. Imperocchéla legge d'omogeneità conduce alla ipotesi di un primostato chimico della materia, che solo appartiene alla ma-teria in quanto tale, ed ha preceduto tutti gli altri, comequelli che alla materia in quanto materia non sono es-senziali, bensì appaiono forme e qualità casuali di essa.Per altro non si riesce a vedere come un tale stato, nonessendovene un secondo in grado di agire su di esso, ab-bia potuto subire una trasformazione chimica; dal chenasce qui nel campo chimico il medesimo imbarazzo incui cadde in fatto di meccanica Epicuro, quand'ebbe damostrare come il primo atomo fosse deviato dalla dire-zione originaria del suo moto. Questa contraddizione,che sorge di per se stessa e non si può né impedire né ri-solvere, potrebbe benissimo esser presentata comeun'antinomia chimica: e come essa si trova qui al primodei due estremi della scienza naturale, così verrà a mo-

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strarsi all'altro estremo una contraddizione corrispon-dente. Altrettanto poca speranza v'ha di raggiungerequest'altro estremo; perché sempre più si comprende chenon può un fenomeno chimico essere ricondotto ad unfenomeno meccanico, né un fenomeno organico ad unfenomeno chimico o elettrico. E coloro che oggis'incamminano di nuovo per questo sentiero fallace do-vranno ben presto ritrarsene quatti quatti, come tutti iloro predecessori. Di ciò sarà fatto più ampio discorsonel libro seguente. Le difficoltà qui ricordate di sfuggitasi oppongono alla scienza naturale nel suo stesso territo-rio. Presa come filosofia, ella sarebbe inoltre materiali-smo: ma questo porta fin dalla nascita, come abbiamoveduto, la morte nel cuore, perché passa sopra al sogget-to e alle forme della conoscenza; le quali nondimenovanno premesse tanto per la più bruta materia, da cui ilmaterialismo vorrebbe muovere, quanto per la materiaorganica, a cui vuol pervenire. Imperocché «nessun og-getto senza soggetto» è il principio, che rende per sem-pre impossibile ogni materialismo. Sole e pianeti, senzaun occhio che li veda e un intelletto che li conosca, sipossono bensì esprimere a parole: ma queste parolesono per la rappresentazione un sideroxylon. È verod'altra parte che la legge di causalità e l'osservazione ela ricerca della natura, che su quella si fonda, ci condu-cono necessariamente alla certezza che ogni più perfettostato organico della materia ha seguito nel tempo unostato più grossolano: che cioè gli animali sono comparsiprima degli uomini, i pesci prima degli animali terrestri,

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strarsi all'altro estremo una contraddizione corrispon-dente. Altrettanto poca speranza v'ha di raggiungerequest'altro estremo; perché sempre più si comprende chenon può un fenomeno chimico essere ricondotto ad unfenomeno meccanico, né un fenomeno organico ad unfenomeno chimico o elettrico. E coloro che oggis'incamminano di nuovo per questo sentiero fallace do-vranno ben presto ritrarsene quatti quatti, come tutti iloro predecessori. Di ciò sarà fatto più ampio discorsonel libro seguente. Le difficoltà qui ricordate di sfuggitasi oppongono alla scienza naturale nel suo stesso territo-rio. Presa come filosofia, ella sarebbe inoltre materiali-smo: ma questo porta fin dalla nascita, come abbiamoveduto, la morte nel cuore, perché passa sopra al sogget-to e alle forme della conoscenza; le quali nondimenovanno premesse tanto per la più bruta materia, da cui ilmaterialismo vorrebbe muovere, quanto per la materiaorganica, a cui vuol pervenire. Imperocché «nessun og-getto senza soggetto» è il principio, che rende per sem-pre impossibile ogni materialismo. Sole e pianeti, senzaun occhio che li veda e un intelletto che li conosca, sipossono bensì esprimere a parole: ma queste parolesono per la rappresentazione un sideroxylon. È verod'altra parte che la legge di causalità e l'osservazione ela ricerca della natura, che su quella si fonda, ci condu-cono necessariamente alla certezza che ogni più perfettostato organico della materia ha seguito nel tempo unostato più grossolano: che cioè gli animali sono comparsiprima degli uomini, i pesci prima degli animali terrestri,

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le piante anche prima dei pesci, la materia inorganicaprima della organica; che quindi la materia primitiva hadovuto traversare una lunga serie di modificazioni, in-nanzi che il primo occhio si aprisse. E tuttavia l'esisten-za del mondo intero rimane sempre dipendente da que-sto primo occhio che si è aperto – fosse pure statol'occhio di un insetto – come dall'indispensabile inter-mediario della conoscenza, per la quale e nella qualeesclusivamente il mondo esiste, e senza la quale essonon può nemmeno essere pensato: perché il mondo èsemplicemente rappresentazione; e tale essendo, abbiso-gna del soggetto conoscente come fondamento della suaesistenza. Anzi, quella medesima lunga successione ditempi, riempita da innumerevoli trasformazioni, attra-verso cui la materia si elevò di forma in forma finoall'avvento del primo animale conoscente, può esserpensata soltanto nell'identità di una coscienza: di cuiessa costituisce la serie delle rappresentazioni e la formadella conoscenza. Senza quest'identità, tale successioneperde ogni senso e non è più nulla. Così vediamo da unlato l'esistenza del mondo intero dipendere di necessitàdal primo essere conoscente, per quanto sia quest'ultimoancora imperfetto; e dall'altro lato con la stessa necessitàquesto primo animale conoscente dipendere in tutto eper tutto da una lunga catena anteriore di cause e di ef-fetti, alla quale esso viene ad aggiungersi come un pic-colo anello. Queste due opposte vedute, a ciascuna dellequali siamo invero condotti da una pari necessità, si po-trebbero dire anch'esse un'antinomia nella nostra facoltà

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le piante anche prima dei pesci, la materia inorganicaprima della organica; che quindi la materia primitiva hadovuto traversare una lunga serie di modificazioni, in-nanzi che il primo occhio si aprisse. E tuttavia l'esisten-za del mondo intero rimane sempre dipendente da que-sto primo occhio che si è aperto – fosse pure statol'occhio di un insetto – come dall'indispensabile inter-mediario della conoscenza, per la quale e nella qualeesclusivamente il mondo esiste, e senza la quale essonon può nemmeno essere pensato: perché il mondo èsemplicemente rappresentazione; e tale essendo, abbiso-gna del soggetto conoscente come fondamento della suaesistenza. Anzi, quella medesima lunga successione ditempi, riempita da innumerevoli trasformazioni, attra-verso cui la materia si elevò di forma in forma finoall'avvento del primo animale conoscente, può esserpensata soltanto nell'identità di una coscienza: di cuiessa costituisce la serie delle rappresentazioni e la formadella conoscenza. Senza quest'identità, tale successioneperde ogni senso e non è più nulla. Così vediamo da unlato l'esistenza del mondo intero dipendere di necessitàdal primo essere conoscente, per quanto sia quest'ultimoancora imperfetto; e dall'altro lato con la stessa necessitàquesto primo animale conoscente dipendere in tutto eper tutto da una lunga catena anteriore di cause e di ef-fetti, alla quale esso viene ad aggiungersi come un pic-colo anello. Queste due opposte vedute, a ciascuna dellequali siamo invero condotti da una pari necessità, si po-trebbero dire anch'esse un'antinomia nella nostra facoltà

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conoscitiva, e porre a riscontro dell'antinomia trovataalla prima estremità della scienza naturale; mentre laquadrupla antinomia di Kant sarà dimostrata una incon-sistente illusione nella critica della filosofia kantianache fa da appendice all'opera presente. La contraddizio-ne che qui da ultimo ci è necessariamente risultata si ri-solve tuttavia osservando che, per parlare nel linguaggiodi Kant, tempo, spazio e causalità non appartengono allacosa in sé, bensì esclusivamente al suo fenomeno, delquale essi sono forma; il che nel linguaggio mio viene adire che il mondo oggettivo, il mondo come rappresen-tazione non è l'unico, bensì è uno degli aspetti, anzil'aspetto esteriore del mondo; il quale ha poi un tutt'altroaspetto, che è la sua intima essenza, il suo nocciolo, lacosa in sé: e questo noi esamineremo nel libro seguente,dandogli il nome della più immediata fra le sue oggetti-vazioni – volontà. Ma il mondo come rappresentazione,il solo che qui consideriamo, comincia veramentedall'aprirsi del primo occhio, senza il quale mezzo dellaconoscenza esso non può esistere, e quindi non esistevaanteriormente. Ma senza quell'occhio, ossia senza la co-noscenza, non c'era neppure nulla di anteriore, non c'erail tempo. Tuttavia non per ciò il tempo ha un principio,essendo invece ogni principio in esso: ma poi che iltempo è la forma più generale della conoscenza, in cuitutti i fenomeni vengono a connettersi mediante il vin-colo della causalità, anche il tempo comincia ad esistere,in tutta la sua bilaterale infinità, con la prima conoscen-za. Il fenomeno che riempie questo primo presente deve

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conoscitiva, e porre a riscontro dell'antinomia trovataalla prima estremità della scienza naturale; mentre laquadrupla antinomia di Kant sarà dimostrata una incon-sistente illusione nella critica della filosofia kantianache fa da appendice all'opera presente. La contraddizio-ne che qui da ultimo ci è necessariamente risultata si ri-solve tuttavia osservando che, per parlare nel linguaggiodi Kant, tempo, spazio e causalità non appartengono allacosa in sé, bensì esclusivamente al suo fenomeno, delquale essi sono forma; il che nel linguaggio mio viene adire che il mondo oggettivo, il mondo come rappresen-tazione non è l'unico, bensì è uno degli aspetti, anzil'aspetto esteriore del mondo; il quale ha poi un tutt'altroaspetto, che è la sua intima essenza, il suo nocciolo, lacosa in sé: e questo noi esamineremo nel libro seguente,dandogli il nome della più immediata fra le sue oggetti-vazioni – volontà. Ma il mondo come rappresentazione,il solo che qui consideriamo, comincia veramentedall'aprirsi del primo occhio, senza il quale mezzo dellaconoscenza esso non può esistere, e quindi non esistevaanteriormente. Ma senza quell'occhio, ossia senza la co-noscenza, non c'era neppure nulla di anteriore, non c'erail tempo. Tuttavia non per ciò il tempo ha un principio,essendo invece ogni principio in esso: ma poi che iltempo è la forma più generale della conoscenza, in cuitutti i fenomeni vengono a connettersi mediante il vin-colo della causalità, anche il tempo comincia ad esistere,in tutta la sua bilaterale infinità, con la prima conoscen-za. Il fenomeno che riempie questo primo presente deve

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esser conosciuto come causalmente collegato e dipen-dente da una serie di fenomeni, che si stende all'infinitonel passato; il qual passato tuttavia è anch'esso altrettan-to sotto condizione di questo primo presente, come vice-versa questo di quello. Sicché, come il primo presente,anche il passato da cui esso deriva dipende dal soggettoconoscente e non è nulla senza di questo. Tuttavia ilpassato genera la necessità, che questo primo presentenon apparisca come veramente primo, ossia come prin-cipio del tempo, senz'avere alcun passato per padre,bensì come seguito del passato, secondo il principiod'esistenza nel tempo. E così anche il fenomeno che loriempie apparirà come effetto di stati anteriori, cheriempivano quel passato secondo la legge di causalità.Chi ama le sottigliezze simboliche della mitologia puòconsiderare come l'immagine del momento qui rappre-sentato, in cui principia il tempo, che tuttavia non haprincipio, la nascita di Kronos (χρόονος‘) il più giovinetitano; col quale, avendo egli evirato il padre, cessano imostruosi prodotti del cielo e della terra, e viene in isce-na la razza degli dèi e degli uomini.Questa esposizione, nella quale siamo venuti seguendole tracce del più conseguente fra i sistemi filosofici cheprendono le mosse dall'oggetto – il materialismo, – ser-ve nello stesso tempo a fare intuire l'indissolubile dipen-denza reciproca, accompagnata da un'opposizione indi-struttibile, fra soggetto ed oggetto; la qual conoscenza èdi guida a cercare l'intima essenza del mondo, la cosa in

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esser conosciuto come causalmente collegato e dipen-dente da una serie di fenomeni, che si stende all'infinitonel passato; il qual passato tuttavia è anch'esso altrettan-to sotto condizione di questo primo presente, come vice-versa questo di quello. Sicché, come il primo presente,anche il passato da cui esso deriva dipende dal soggettoconoscente e non è nulla senza di questo. Tuttavia ilpassato genera la necessità, che questo primo presentenon apparisca come veramente primo, ossia come prin-cipio del tempo, senz'avere alcun passato per padre,bensì come seguito del passato, secondo il principiod'esistenza nel tempo. E così anche il fenomeno che loriempie apparirà come effetto di stati anteriori, cheriempivano quel passato secondo la legge di causalità.Chi ama le sottigliezze simboliche della mitologia puòconsiderare come l'immagine del momento qui rappre-sentato, in cui principia il tempo, che tuttavia non haprincipio, la nascita di Kronos (χρόονος‘) il più giovinetitano; col quale, avendo egli evirato il padre, cessano imostruosi prodotti del cielo e della terra, e viene in isce-na la razza degli dèi e degli uomini.Questa esposizione, nella quale siamo venuti seguendole tracce del più conseguente fra i sistemi filosofici cheprendono le mosse dall'oggetto – il materialismo, – ser-ve nello stesso tempo a fare intuire l'indissolubile dipen-denza reciproca, accompagnata da un'opposizione indi-struttibile, fra soggetto ed oggetto; la qual conoscenza èdi guida a cercare l'intima essenza del mondo, la cosa in

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sé, non più in uno di quei due elementi della rappresen-tazione, ma piuttosto in alcunché di affatto diverso dallarappresentazione, che non sia partecipe di tale origina-ria, essenziale e quindi insolubile contraddizione.Contro il su esposto dipartirsi dall'oggetto, per fare svi-luppare da questo il soggetto, sta il partire dal soggettoper far spuntar fuori da questo l'oggetto. Se frequente egenerale è stato in tutte le filosofie fino al giorno d'oggiquel primo sistema, del secondo si trova invece un unicoesempio, e recentissimo: la pseudofilosofia di J. G. Fi-chte. Il quale merita quindi di venir notato sotto questorispetto, per quanto poco genuino pregio e intimo conte-nuto abbia avuto la sua dottrina in sé stessa; essendo sta-ta in verità nient'altro che un vaniloquio, il quale, espo-sto tuttavia con aria di profondissima gravità, tono so-stenuto e vivo calore, e difeso con abile polemica controdeboli avversari, poteva brillare e aver l'apparenzad'essere qualche cosa. Ma a questo come a tutti gli altrisomiglianti filosofi, che si conformano alle circostanze,mancava affatto la vera serietà, che insensibile a tutti gliinflussi esteriori tien l'occhio fisso imperturbabilmentealla sua mèta – la verità. Né a lui di certo poteva capita-re altrimenti. Imperocché il filosofo diventa sempre talein virtù di una perplessità, che egli cerca di superare, eche è il θαυµαζειν di Platone, che Platone medesimochiama µαλα φιλοσοφικον παθος. Ma qui i falsi filosofisi distinguono dai veri, in questo, che nei veri quellaperplessità nasce dalla vista diretta del mondo; negli al-

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sé, non più in uno di quei due elementi della rappresen-tazione, ma piuttosto in alcunché di affatto diverso dallarappresentazione, che non sia partecipe di tale origina-ria, essenziale e quindi insolubile contraddizione.Contro il su esposto dipartirsi dall'oggetto, per fare svi-luppare da questo il soggetto, sta il partire dal soggettoper far spuntar fuori da questo l'oggetto. Se frequente egenerale è stato in tutte le filosofie fino al giorno d'oggiquel primo sistema, del secondo si trova invece un unicoesempio, e recentissimo: la pseudofilosofia di J. G. Fi-chte. Il quale merita quindi di venir notato sotto questorispetto, per quanto poco genuino pregio e intimo conte-nuto abbia avuto la sua dottrina in sé stessa; essendo sta-ta in verità nient'altro che un vaniloquio, il quale, espo-sto tuttavia con aria di profondissima gravità, tono so-stenuto e vivo calore, e difeso con abile polemica controdeboli avversari, poteva brillare e aver l'apparenzad'essere qualche cosa. Ma a questo come a tutti gli altrisomiglianti filosofi, che si conformano alle circostanze,mancava affatto la vera serietà, che insensibile a tutti gliinflussi esteriori tien l'occhio fisso imperturbabilmentealla sua mèta – la verità. Né a lui di certo poteva capita-re altrimenti. Imperocché il filosofo diventa sempre talein virtù di una perplessità, che egli cerca di superare, eche è il θαυµαζειν di Platone, che Platone medesimochiama µαλα φιλοσοφικον παθος. Ma qui i falsi filosofisi distinguono dai veri, in questo, che nei veri quellaperplessità nasce dalla vista diretta del mondo; negli al-

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tri invece soltanto da un libro, da un sistema, che si tro-vano già belli e pronti. E questo era anche il caso di Fi-chte, che divenne filosofo solo a proposito della cosa insé di Kant e senza di questa probabilissimamente si sa-rebbe occupato di tutt'altre cose con molto miglior suc-cesso, poiché possedeva un notevole talento retorico.Ma, se fosse almeno penetrato un po' addentro nel sensodel libro che fece di lui un filosofo – la Critica della ra-gion pura – avrebbe capito che lo spirito della dottrinafondamentale della Critica è il seguente: che il principiodi ragione non è, come vuole tutta la filosofia scolastica,una veritas aeterna, ossia non ha un valore incondizio-nato, fuori e sopra del mondo: bensì soltanto un valorerelativo e condizionato, valido esclusivamente nel feno-meno, sia che si presenti come nesso necessario dellospazio o del tempo, o come legge di causalità o comelegge del principio di conoscenza; che quindi l'essenzainterna del mondo, la cosa in sé, non può mai essere tro-vata seguendo il principio di ragione, ma tutto ciò, a cuiquesto conduce, è ancora alla sua volta dipendente e re-lativo, è sempre soltanto un fenomeno, non cosa in sé;che inoltre il principio di ragione non si applica punto alsoggetto, ma è solo forma degli oggetti, i quali appuntoperciò non sono cose in sé; e con l'oggetto si presentaimmediatamente insieme il soggetto, e quello con que-sto; sì che né l'oggetto può venir dopo il soggetto néquesto dopo quello, come un effetto viene dopo la suacausa. Ma nulla di tutto ciò è minimamente penetrato inFichte; la sola cosa che lo interessava in questo era il

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tri invece soltanto da un libro, da un sistema, che si tro-vano già belli e pronti. E questo era anche il caso di Fi-chte, che divenne filosofo solo a proposito della cosa insé di Kant e senza di questa probabilissimamente si sa-rebbe occupato di tutt'altre cose con molto miglior suc-cesso, poiché possedeva un notevole talento retorico.Ma, se fosse almeno penetrato un po' addentro nel sensodel libro che fece di lui un filosofo – la Critica della ra-gion pura – avrebbe capito che lo spirito della dottrinafondamentale della Critica è il seguente: che il principiodi ragione non è, come vuole tutta la filosofia scolastica,una veritas aeterna, ossia non ha un valore incondizio-nato, fuori e sopra del mondo: bensì soltanto un valorerelativo e condizionato, valido esclusivamente nel feno-meno, sia che si presenti come nesso necessario dellospazio o del tempo, o come legge di causalità o comelegge del principio di conoscenza; che quindi l'essenzainterna del mondo, la cosa in sé, non può mai essere tro-vata seguendo il principio di ragione, ma tutto ciò, a cuiquesto conduce, è ancora alla sua volta dipendente e re-lativo, è sempre soltanto un fenomeno, non cosa in sé;che inoltre il principio di ragione non si applica punto alsoggetto, ma è solo forma degli oggetti, i quali appuntoperciò non sono cose in sé; e con l'oggetto si presentaimmediatamente insieme il soggetto, e quello con que-sto; sì che né l'oggetto può venir dopo il soggetto néquesto dopo quello, come un effetto viene dopo la suacausa. Ma nulla di tutto ciò è minimamente penetrato inFichte; la sola cosa che lo interessava in questo era il

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partire dal soggetto; via scelta da Kant per dimostrarefalso il partire dall'oggetto, come s'era usato fino allora,il quale oggetto era perciò diventato la cosa in sé. Inve-ce Fichte prese il partir dal soggetto per la cosa impor-tante; suppose, come tutti gli imitatori, che se egli in ciòandasse più lontano di Kant, perverrebbe a superarlo; eripetè in quest'indirizzo gli errori, che fino allora avevacommesso il dogmatismo, provocando appunto con ciòla critica di Kant. Così nulla era mutato nella sostanza; eil vecchio errore fondamentale, l'ammissione di un rap-porto di causa ed effetto tra oggetto e soggetto, continuòcome per l'innanzi; quindi il principio di ragione conser-vò, proprio come prima, un valore incondizionato. E lacosa in sé, invece di stare come al solito nell'oggetto,veniva ora trasferita nel soggetto della conoscenza; mala completa relatività di entrambi – la quale indica chela cosa in sé, ossia l'intera essenza del mondo, non vacercata in essi, bensì fuori di questa come d'ogni altraesistenza condizionata – seguitò a rimanere, come perl'innanzi, sconosciuta. Proprio come se Kant non fosseesistito, il principio di ragione è in Fichte ancora quelche era in tutti gli scolastici, una aeterna veritas. Impe-rocché, come imperava sugli dèi degli antichi l'eternofato, così imperavano sul Dio degli scolastici quelle ae-ternae veritates, ossia le verità metafisiche, matemati-che e metalogiche, e presso alcuni anche la validità dellalegge morale. Queste sole verità erano affatto indipen-denti da tutto: e in virtù della loro necessità esistevanotanto Dio che il mondo. In virtù adunque del principio

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partire dal soggetto; via scelta da Kant per dimostrarefalso il partire dall'oggetto, come s'era usato fino allora,il quale oggetto era perciò diventato la cosa in sé. Inve-ce Fichte prese il partir dal soggetto per la cosa impor-tante; suppose, come tutti gli imitatori, che se egli in ciòandasse più lontano di Kant, perverrebbe a superarlo; eripetè in quest'indirizzo gli errori, che fino allora avevacommesso il dogmatismo, provocando appunto con ciòla critica di Kant. Così nulla era mutato nella sostanza; eil vecchio errore fondamentale, l'ammissione di un rap-porto di causa ed effetto tra oggetto e soggetto, continuòcome per l'innanzi; quindi il principio di ragione conser-vò, proprio come prima, un valore incondizionato. E lacosa in sé, invece di stare come al solito nell'oggetto,veniva ora trasferita nel soggetto della conoscenza; mala completa relatività di entrambi – la quale indica chela cosa in sé, ossia l'intera essenza del mondo, non vacercata in essi, bensì fuori di questa come d'ogni altraesistenza condizionata – seguitò a rimanere, come perl'innanzi, sconosciuta. Proprio come se Kant non fosseesistito, il principio di ragione è in Fichte ancora quelche era in tutti gli scolastici, una aeterna veritas. Impe-rocché, come imperava sugli dèi degli antichi l'eternofato, così imperavano sul Dio degli scolastici quelle ae-ternae veritates, ossia le verità metafisiche, matemati-che e metalogiche, e presso alcuni anche la validità dellalegge morale. Queste sole verità erano affatto indipen-denti da tutto: e in virtù della loro necessità esistevanotanto Dio che il mondo. In virtù adunque del principio

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di ragione, come d'una tale veritas aeterna, è l'Io per Fi-chte causa del mondo, ossia del Non-io, dell'oggetto: ilquale appunto è sua conseguenza, sua produzione. Per-ciò si è ben guardato dall'esaminare o controllare più ol-tre il principio di ragione. Ma s'io dovessi indicare laforma di quel principio, seguendo la quale Fichte fa ve-nir fuori il Non-io dall'Io, come dal ragno la sua tela,troverei che è il principio della ragione dell'essere nellospazio: perché solo riferendosi a questo acquistano unqualche senso e significato quelle tormentose deduzionidel modo come l'Io produce dal suo seno e fabbrica ilNon-io – deduzioni le quali costituiscono il contenutodel più insensato e, anche solo per questo, del più noio-so libro che mai sia stato scritto. La filosofia fichtiana,pel resto neppur degna di ricordo, c'interessa soltantocome il vero e proprio contrapposto, comparso tardi,dell'antichissimo materialismo; il quale era il più conse-guente sistema che partisse dall'oggetto, come quella ilpiù conseguente fra i sistemi che partono dal soggetto.Come il materialismo non s'accorgeva, che insieme colpiù semplice oggetto veniva a stabilire contemporanea-mente anche il soggetto, così non s'accorgeva Fichte cheinsieme col soggetto (lo chiamasse poi come voleva)aveva già stabilito anche l'oggetto, perché nessun sog-getto può esser pensato senza oggetto; e inoltre gli sfug-giva il fatto che ogni deduzione a priori, anzi in genera-le ogni dimostrazione, poggia sopra una necessità, maogni necessità si fonda esclusivamente sul principio diragione. Imperocché l'esser necessario e il derivare da

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di ragione, come d'una tale veritas aeterna, è l'Io per Fi-chte causa del mondo, ossia del Non-io, dell'oggetto: ilquale appunto è sua conseguenza, sua produzione. Per-ciò si è ben guardato dall'esaminare o controllare più ol-tre il principio di ragione. Ma s'io dovessi indicare laforma di quel principio, seguendo la quale Fichte fa ve-nir fuori il Non-io dall'Io, come dal ragno la sua tela,troverei che è il principio della ragione dell'essere nellospazio: perché solo riferendosi a questo acquistano unqualche senso e significato quelle tormentose deduzionidel modo come l'Io produce dal suo seno e fabbrica ilNon-io – deduzioni le quali costituiscono il contenutodel più insensato e, anche solo per questo, del più noio-so libro che mai sia stato scritto. La filosofia fichtiana,pel resto neppur degna di ricordo, c'interessa soltantocome il vero e proprio contrapposto, comparso tardi,dell'antichissimo materialismo; il quale era il più conse-guente sistema che partisse dall'oggetto, come quella ilpiù conseguente fra i sistemi che partono dal soggetto.Come il materialismo non s'accorgeva, che insieme colpiù semplice oggetto veniva a stabilire contemporanea-mente anche il soggetto, così non s'accorgeva Fichte cheinsieme col soggetto (lo chiamasse poi come voleva)aveva già stabilito anche l'oggetto, perché nessun sog-getto può esser pensato senza oggetto; e inoltre gli sfug-giva il fatto che ogni deduzione a priori, anzi in genera-le ogni dimostrazione, poggia sopra una necessità, maogni necessità si fonda esclusivamente sul principio diragione. Imperocché l'esser necessario e il derivare da

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una data causa sono concetti equivalenti13. E gli sfuggìche il principio di ragione non è altro se non l'universalforma dell'oggetto come tale, sì che già presupponel'oggetto, né può viceversa, vigendo all'infuori e primadi quello, produrlo e farlo nascere conformemente allapropria legge. Insomma, adunque, il partir dal soggettoha in comune col su esposto partir dall'oggetto il mede-simo errore, di ammettere in anticipazione ciò che affer-ma di dedurre solo in seguito, ossia il necessario corre-lato del suo punto di partenza.Ora, da codesti due contrari equivoci il nostro metodo sidistingue toto genere, in quanto noi non partiamo nédall'oggetto né dal soggetto, ma dalla rappresentazione,come primo fatto della coscienza, di cui è essenzialissi-ma forma fondamentale lo sdoppiarsi in oggetto e sog-getto. La forma dell'oggetto alla sua volta è il principiodi ragione nelle sue differenti forme, ciascuna delle qua-li domina talmente la classe di rappresentazioni a leispettante, che, come s'è mostrato, con la conoscenza ditale forma è conosciuta insieme l'essenza dell'interaclasse; non essendo questa (come rappresentazione)nient'altro per l'appunto che quella forma medesima.Così il tempo non è altro che il principio dell'essere neltempo, ossia successione; lo spazio nient'altro che ilprincipio di ragione nello spazio, ossia posizione; la ma-teria nient'altro che causalità; il concetto (come sarà su-

13 Vedi a questo proposito La quadruplice radice del principio di ragione, 2a

ediz., § 49.

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una data causa sono concetti equivalenti13. E gli sfuggìche il principio di ragione non è altro se non l'universalforma dell'oggetto come tale, sì che già presupponel'oggetto, né può viceversa, vigendo all'infuori e primadi quello, produrlo e farlo nascere conformemente allapropria legge. Insomma, adunque, il partir dal soggettoha in comune col su esposto partir dall'oggetto il mede-simo errore, di ammettere in anticipazione ciò che affer-ma di dedurre solo in seguito, ossia il necessario corre-lato del suo punto di partenza.Ora, da codesti due contrari equivoci il nostro metodo sidistingue toto genere, in quanto noi non partiamo nédall'oggetto né dal soggetto, ma dalla rappresentazione,come primo fatto della coscienza, di cui è essenzialissi-ma forma fondamentale lo sdoppiarsi in oggetto e sog-getto. La forma dell'oggetto alla sua volta è il principiodi ragione nelle sue differenti forme, ciascuna delle qua-li domina talmente la classe di rappresentazioni a leispettante, che, come s'è mostrato, con la conoscenza ditale forma è conosciuta insieme l'essenza dell'interaclasse; non essendo questa (come rappresentazione)nient'altro per l'appunto che quella forma medesima.Così il tempo non è altro che il principio dell'essere neltempo, ossia successione; lo spazio nient'altro che ilprincipio di ragione nello spazio, ossia posizione; la ma-teria nient'altro che causalità; il concetto (come sarà su-

13 Vedi a questo proposito La quadruplice radice del principio di ragione, 2a

ediz., § 49.

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bito dimostrato) niente altro che relazione col principiodi conoscenza. Questa integrale e costante relatività delmondo come rappresentazione, sia nella sua forma piùgenerale (soggetto e oggetto), sia in quella sottopostaalla prima (principio di ragione), ci richiama, come s'èdetto, a cercar l'intima essenza del mondo in un aspettodi esso del tutto diverso dalla rappresentazione – unaspetto che il libro seguente dimostrerà come cosa nonmeno immediatamente certa in ogni essere vivente.Tuttavia bisogna dapprima esaminare ancora quellaclasse di rappresentazioni, che appartiene soltantoall'uomo: classe che ha per materia il concetto, e percorrelato soggettivo la ragione; come correlato dellerappresentazioni finora considerate erano intelletto esensibilità, che sono proprii di tutti gli animali14.

§ 8.Come dalla diretta luce del sole al derivato riflesso dellaluna, passiamo ora dalla rappresentazione intuitiva, im-mediata, che sostiene e garentisce se stessa, alla rifles-sione: agli astratti, discorsivi concetti della ragione, chetutto il loro contenuto hanno solo da quella conoscenzaintuitiva ed in rapporto a lei. Fino a quando noi restiamonella pura intuizione, tutto è chiaro, solido e sicuro. Nonci sono problemi, né dubbi, né errori: non si domanda dipiù, non si può andar oltre; si ha riposo nell'atto d'intui-

14 A questi primi sette paragrafi si riferiscono i primi quattro capitoli deiSupplementi al primo libro [pp. 5-61 del tomo I dell'ed. cit.].

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bito dimostrato) niente altro che relazione col principiodi conoscenza. Questa integrale e costante relatività delmondo come rappresentazione, sia nella sua forma piùgenerale (soggetto e oggetto), sia in quella sottopostaalla prima (principio di ragione), ci richiama, come s'èdetto, a cercar l'intima essenza del mondo in un aspettodi esso del tutto diverso dalla rappresentazione – unaspetto che il libro seguente dimostrerà come cosa nonmeno immediatamente certa in ogni essere vivente.Tuttavia bisogna dapprima esaminare ancora quellaclasse di rappresentazioni, che appartiene soltantoall'uomo: classe che ha per materia il concetto, e percorrelato soggettivo la ragione; come correlato dellerappresentazioni finora considerate erano intelletto esensibilità, che sono proprii di tutti gli animali14.

§ 8.Come dalla diretta luce del sole al derivato riflesso dellaluna, passiamo ora dalla rappresentazione intuitiva, im-mediata, che sostiene e garentisce se stessa, alla rifles-sione: agli astratti, discorsivi concetti della ragione, chetutto il loro contenuto hanno solo da quella conoscenzaintuitiva ed in rapporto a lei. Fino a quando noi restiamonella pura intuizione, tutto è chiaro, solido e sicuro. Nonci sono problemi, né dubbi, né errori: non si domanda dipiù, non si può andar oltre; si ha riposo nell'atto d'intui-

14 A questi primi sette paragrafi si riferiscono i primi quattro capitoli deiSupplementi al primo libro [pp. 5-61 del tomo I dell'ed. cit.].

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re, soddisfazione nel presente. L'intuizione basta a sestessa: quindi ciò che da lei scaturisce puro ed a lei è ri-masto fedele, come per esempio la genuina opera d'arte,non può mai essere falso, né essere giammai confutato:perché non si tratta di opinione, bensì della cosa stessa.Con la conoscenza astratta invece, con la ragione, pene-trano nel campo teoretico il dubbio e l'errore, nel campopratico l'ansia e il pentimento. Se nella rappresentazioneintuitiva l'apparenza può per qualche istante deformarela realtà, viceversa nella rappresentazione astratta l'erro-re può dominare per secoli, imporre a popoli interi il suogiogo di ferro, soffocare le più nobili aspirazionidell'umanità; e perfino colui, ch'esso non riesce a ingan-nare, può far mettere in ceppi dai proprii schiavi, vittimedell'inganno. Esso è il nemico, contro il quale i più saggispiriti d'ogni tempo sostennero una lotta disuguale; esoltanto ciò, che quelli hanno a lui strappato, è divenutopatrimonio della umanità. Per questo è bene richiamarsubito l'attenzione su di esso, mentre cominciamo a met-tere il piede sul suolo ove si estende il suo dominio. Perquanto sia stato detto sovente che bisogna seguir le trac-ce della verità, anche dove non c'è da sperare alcun van-taggio, potendo questo essere indiretto e venire quandonon lo si aspetta: tuttavia io qui voglio ancora aggiunge-re che in egual modo bisogna darsi da fare per iscopriree disperdere ogni errore, pur dove non è da attendernealcun danno: anche il danno potendo essere indiretto, ecomparire inaspettatamente, perché ogni errore ha nelsuo interno un veleno. Se è lo spirito, se è la conoscenza

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re, soddisfazione nel presente. L'intuizione basta a sestessa: quindi ciò che da lei scaturisce puro ed a lei è ri-masto fedele, come per esempio la genuina opera d'arte,non può mai essere falso, né essere giammai confutato:perché non si tratta di opinione, bensì della cosa stessa.Con la conoscenza astratta invece, con la ragione, pene-trano nel campo teoretico il dubbio e l'errore, nel campopratico l'ansia e il pentimento. Se nella rappresentazioneintuitiva l'apparenza può per qualche istante deformarela realtà, viceversa nella rappresentazione astratta l'erro-re può dominare per secoli, imporre a popoli interi il suogiogo di ferro, soffocare le più nobili aspirazionidell'umanità; e perfino colui, ch'esso non riesce a ingan-nare, può far mettere in ceppi dai proprii schiavi, vittimedell'inganno. Esso è il nemico, contro il quale i più saggispiriti d'ogni tempo sostennero una lotta disuguale; esoltanto ciò, che quelli hanno a lui strappato, è divenutopatrimonio della umanità. Per questo è bene richiamarsubito l'attenzione su di esso, mentre cominciamo a met-tere il piede sul suolo ove si estende il suo dominio. Perquanto sia stato detto sovente che bisogna seguir le trac-ce della verità, anche dove non c'è da sperare alcun van-taggio, potendo questo essere indiretto e venire quandonon lo si aspetta: tuttavia io qui voglio ancora aggiunge-re che in egual modo bisogna darsi da fare per iscopriree disperdere ogni errore, pur dove non è da attendernealcun danno: anche il danno potendo essere indiretto, ecomparire inaspettatamente, perché ogni errore ha nelsuo interno un veleno. Se è lo spirito, se è la conoscenza

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che fa l'uomo signore della terra, non possono esservierrori inoffensivi, e ancor meno errori rispettabili o sa-cri. Ed a conforto di coloro, i quali in qualsivoglia ma-niera ed occasione dedicano forza e vita alla difficile ecosì aspra guerra contro l'errore, non posso astenermidall'aggiungere qui, che l'errore può bensì aver liberogiuoco, come civette e pipistrelli nella notte, fin che laverità non è apparsa: ma è più facile attendersi di vedercivette e pipistrelli respingere il sole verso l'oriente, cheveder la verità, una volta riconosciuta e chiaramente,compiutamente affermata, esser di nuovo respinta, per-ché l'antico errore riprenda daccapo, indisturbato, il suocomodo posto. Tale è la potenza della verità: di cui èdifficile e faticosa la vittoria; ma questa, una volta rag-giunta, non può più esserle strappata.Oltre le rappresentazioni fin qui considerate – le quali,per la loro costituzione, si potevan ricondurre a tempo,spazio e causalità, ponendo mira all'oggetto; ed a purasensibilità ed intelletto (ossia conoscimento della causa-lità) ponendo mira al soggetto – è dunque penetratanell'uomo, unico fra tutti gli abitatori della terra, ancoraun'altra facoltà conoscitiva: è sorta una conscienza affat-to nuova, molto calzantemente e con profonda giustezzachiamata riflessione. Imperocché essa è in verità un ri-flesso, un derivato di quella conoscenza intuitiva, pureavendo natura e costituzione fondamentalmente diversa;non conosce le forme di quella, ed anche il principio diragione, che impera su tutti gli oggetti, assume in lei un

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che fa l'uomo signore della terra, non possono esservierrori inoffensivi, e ancor meno errori rispettabili o sa-cri. Ed a conforto di coloro, i quali in qualsivoglia ma-niera ed occasione dedicano forza e vita alla difficile ecosì aspra guerra contro l'errore, non posso astenermidall'aggiungere qui, che l'errore può bensì aver liberogiuoco, come civette e pipistrelli nella notte, fin che laverità non è apparsa: ma è più facile attendersi di vedercivette e pipistrelli respingere il sole verso l'oriente, cheveder la verità, una volta riconosciuta e chiaramente,compiutamente affermata, esser di nuovo respinta, per-ché l'antico errore riprenda daccapo, indisturbato, il suocomodo posto. Tale è la potenza della verità: di cui èdifficile e faticosa la vittoria; ma questa, una volta rag-giunta, non può più esserle strappata.Oltre le rappresentazioni fin qui considerate – le quali,per la loro costituzione, si potevan ricondurre a tempo,spazio e causalità, ponendo mira all'oggetto; ed a purasensibilità ed intelletto (ossia conoscimento della causa-lità) ponendo mira al soggetto – è dunque penetratanell'uomo, unico fra tutti gli abitatori della terra, ancoraun'altra facoltà conoscitiva: è sorta una conscienza affat-to nuova, molto calzantemente e con profonda giustezzachiamata riflessione. Imperocché essa è in verità un ri-flesso, un derivato di quella conoscenza intuitiva, pureavendo natura e costituzione fondamentalmente diversa;non conosce le forme di quella, ed anche il principio diragione, che impera su tutti gli oggetti, assume in lei un

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aspetto del tutto diverso. È solo questa nuova coscienzadi secondo grado, questo astratto riflesso dell'intuitivo inun concetto di ragione non intuitivo, che dà all'uomo lariflessione, per cui la sua coscienza è così nettamente di-stinta da quella degli animali, e tutto il suo passaggiosulla terra si compie in modo così diverso da quello de'suoi fratelli irragionevoli. Molto anche l'uomo li superain potenza e in dolore. Essi vivono solo nel presente,mentre l'uomo per di più vive contemporaneamentenell'avvenire e nel passato. Essi soddisfano il bisognomomentaneo; egli provvede con le più accorte disposi-zioni al proprio avvenire, anzi perfino ad epoche chenon giungerà a vedere. Essi sono in tutto sottopostiall'impressione del momento, alla azione del moventeintuitivo; egli è guidato da concetti astratti indipendentidal presente. Perciò esegue piani meditati, oppure agiscesecondo massime prestabilite, senza riguardoall'ambiente e alle impressioni fortuite dell'istante. Può,per esempio, prendere con calma le complicate disposi-zioni per la propria morte, può infingersi, fino a rendersiimpenetrabile, e portar con sé nella tomba il suo segreto;ha finalmente una vera scelta fra numerosi motivi: per-ché solo in abstracto possono vari motivi, l'un pressol'altro, esser presenti nella coscienza, trarre con sé il co-noscimento che l'uno esclude l'altro, misurando così incontrasto il loro potere sulla volontà; quindi il motivopreponderante, dando il tratto alla bilancia, diventa me-ditata risoluzione della volontà, e manifesta come certoindizio la sua natura. Al contrario, la sola impressione

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aspetto del tutto diverso. È solo questa nuova coscienzadi secondo grado, questo astratto riflesso dell'intuitivo inun concetto di ragione non intuitivo, che dà all'uomo lariflessione, per cui la sua coscienza è così nettamente di-stinta da quella degli animali, e tutto il suo passaggiosulla terra si compie in modo così diverso da quello de'suoi fratelli irragionevoli. Molto anche l'uomo li superain potenza e in dolore. Essi vivono solo nel presente,mentre l'uomo per di più vive contemporaneamentenell'avvenire e nel passato. Essi soddisfano il bisognomomentaneo; egli provvede con le più accorte disposi-zioni al proprio avvenire, anzi perfino ad epoche chenon giungerà a vedere. Essi sono in tutto sottopostiall'impressione del momento, alla azione del moventeintuitivo; egli è guidato da concetti astratti indipendentidal presente. Perciò esegue piani meditati, oppure agiscesecondo massime prestabilite, senza riguardoall'ambiente e alle impressioni fortuite dell'istante. Può,per esempio, prendere con calma le complicate disposi-zioni per la propria morte, può infingersi, fino a rendersiimpenetrabile, e portar con sé nella tomba il suo segreto;ha finalmente una vera scelta fra numerosi motivi: per-ché solo in abstracto possono vari motivi, l'un pressol'altro, esser presenti nella coscienza, trarre con sé il co-noscimento che l'uno esclude l'altro, misurando così incontrasto il loro potere sulla volontà; quindi il motivopreponderante, dando il tratto alla bilancia, diventa me-ditata risoluzione della volontà, e manifesta come certoindizio la sua natura. Al contrario, la sola impressione

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momentanea determina l'animale: soltanto la paura diuna costrizione immediata può domare le sue cupidigie,finché quella paura finisce col diventare abitudine, e al-lora lo determina come tale: questo significa ammae-stramento. L'animale sente e intuisce; l'uomo per di piùpensa e sa: entrambi vogliono. L'animale comunica lasua sensazione e disposizione per mezzo di movimentoe suono: l'uomo comunica all'altro uomo pensieri, permezzo del linguaggio, o nasconde pensieri, per mezzodel linguaggio. Il linguaggio è il primo prodotto e il ne-cessario strumento della sua ragione; per questo in grecoed in italiano linguaggio e ragione vengono indicati conla stessa parola: ὁ λογος, il discorso15. In tedesco Ver-nunft (ragione) viene da vernehmen, che non è sinonimodi hóren, udire, ma indica la comprensione del pensierocomunicato per mezzo di parole. Solo con l'aiuto del lin-guaggio può la ragione eseguire i suoi compiti impor-tantissimi, come sarebbe la concorde azione di molti in-dividui, la metodica collaborazione di molte migliaiad'uomini, la civiltà, lo stato; e inoltre la scienza, la con-servazione dell'esperienza anteriore, l'aggruppamentodelle note comuni in un concetto, la partecipazione dellaverità, la diffusione dell'errore, il pensare e il poetare, idogmi e le superstizioni. L'animale conosce la mortesolo nella morte: l'uomo s'appressa di ora in ora coscien-temente alla morte sua, e questo rende talvolta pensosaanche la esistenza di chi non ha ancora riconosciuto alla

15 [In italiano nel testo.]

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momentanea determina l'animale: soltanto la paura diuna costrizione immediata può domare le sue cupidigie,finché quella paura finisce col diventare abitudine, e al-lora lo determina come tale: questo significa ammae-stramento. L'animale sente e intuisce; l'uomo per di piùpensa e sa: entrambi vogliono. L'animale comunica lasua sensazione e disposizione per mezzo di movimentoe suono: l'uomo comunica all'altro uomo pensieri, permezzo del linguaggio, o nasconde pensieri, per mezzodel linguaggio. Il linguaggio è il primo prodotto e il ne-cessario strumento della sua ragione; per questo in grecoed in italiano linguaggio e ragione vengono indicati conla stessa parola: ὁ λογος, il discorso15. In tedesco Ver-nunft (ragione) viene da vernehmen, che non è sinonimodi hóren, udire, ma indica la comprensione del pensierocomunicato per mezzo di parole. Solo con l'aiuto del lin-guaggio può la ragione eseguire i suoi compiti impor-tantissimi, come sarebbe la concorde azione di molti in-dividui, la metodica collaborazione di molte migliaiad'uomini, la civiltà, lo stato; e inoltre la scienza, la con-servazione dell'esperienza anteriore, l'aggruppamentodelle note comuni in un concetto, la partecipazione dellaverità, la diffusione dell'errore, il pensare e il poetare, idogmi e le superstizioni. L'animale conosce la mortesolo nella morte: l'uomo s'appressa di ora in ora coscien-temente alla morte sua, e questo rende talvolta pensosaanche la esistenza di chi non ha ancora riconosciuto alla

15 [In italiano nel testo.]

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vita intera questo carattere di perenne distruzione. So-prattutto per questo ha l'uomo filosofie e religioni: marimane tuttavia incerto, se sia frutto di quelle ciò che noia buon diritto stimiamo in più alto grado nel suo opera-re, la volontaria giustizia e l'animo generoso. Invececome indubbi, esclusivi germogli delle filosofie e dellereligioni, e prodotti della ragione, appaiono le più stra-vaganti e arrischiate opinioni filosofiche delle diversescuole, e le stranissime, talora anche crudeli costumanzedei preti delle diverse religioni.Che tutte queste sì svariate ed estese manifestazioni pro-vengano da un principio comune, da quella particolarefacoltà dello spirito, che è privilegio dell'uomo in con-fronto dell'animale e che fu chiamata ragione, ὁ λογοςτο λογιστικον, το λογιµον, ratio, è opinione unanime ditutti i tempi e di tutti i popoli. E anche sanno tutti gli uo-mini benissimo riconoscere le manifestazioni di questafacoltà, e dire ciò che è ragionevole e ciò che è irragio-nevole, e dove la ragione viene a conflitto con le altrefacoltà e proprietà dell'uomo, e finalmente ciò che nonci si potrà mai attendere anche dal più intelligente deglianimali, per la mancanza di ragione. I filosofi di tutti itempi anche si esprimono generalmente in armonia conquell'universale conoscenza della ragione, ed oltre a ciòmettono in rilievo qualche sua manifestazione più im-portante, come sarebbe il dominio sugli affetti e sullepassioni, la capacità di giudicare e di porre principi ge-nerali con una certezza che talvolta precede ogni espe-

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vita intera questo carattere di perenne distruzione. So-prattutto per questo ha l'uomo filosofie e religioni: marimane tuttavia incerto, se sia frutto di quelle ciò che noia buon diritto stimiamo in più alto grado nel suo opera-re, la volontaria giustizia e l'animo generoso. Invececome indubbi, esclusivi germogli delle filosofie e dellereligioni, e prodotti della ragione, appaiono le più stra-vaganti e arrischiate opinioni filosofiche delle diversescuole, e le stranissime, talora anche crudeli costumanzedei preti delle diverse religioni.Che tutte queste sì svariate ed estese manifestazioni pro-vengano da un principio comune, da quella particolarefacoltà dello spirito, che è privilegio dell'uomo in con-fronto dell'animale e che fu chiamata ragione, ὁ λογοςτο λογιστικον, το λογιµον, ratio, è opinione unanime ditutti i tempi e di tutti i popoli. E anche sanno tutti gli uo-mini benissimo riconoscere le manifestazioni di questafacoltà, e dire ciò che è ragionevole e ciò che è irragio-nevole, e dove la ragione viene a conflitto con le altrefacoltà e proprietà dell'uomo, e finalmente ciò che nonci si potrà mai attendere anche dal più intelligente deglianimali, per la mancanza di ragione. I filosofi di tutti itempi anche si esprimono generalmente in armonia conquell'universale conoscenza della ragione, ed oltre a ciòmettono in rilievo qualche sua manifestazione più im-portante, come sarebbe il dominio sugli affetti e sullepassioni, la capacità di giudicare e di porre principi ge-nerali con una certezza che talvolta precede ogni espe-

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rienza, e così via. Nondimeno tutte le loro spiegazioniintorno alla vera essenza della ragione sono traballanti,non determinate nettamente, prolisse, senza unità nécentro, intese a mettere in rilievo or questa or quella ma-nifestazione, e perciò spesso divergenti l'una dall'altra.Si aggiunga, che molte partono dal contrasto fra ragionee rivelazione, il quale è del tutto estraneo alla filosofia, enon serve che ad accrescere la confusione. È oltremodosorprendente, che finora nessun filosofo abbia rigida-mente ricondotto quelle svariate manifestazioni della ra-gione ad una funzione semplice, la quale sia da ricono-scere in tutte, e tutte le spieghi, e costituisca perciò lavera intima essenza della ragione. L'esimio Locke indicabensì molto giustamente nell'Essay on Human Under-standing, libro 2, cap. 11, §§ 10 e 11, come carattere di-stintivo fra animale ed uomo, i concetti universali astrat-ti, e Leibniz ripete lo stesso con pieno accordo nei Nou-veaux essays sur l'entendement humain, libro 2, cap. 11,§§ 10 e 11. Ma quando Locke nel libro 4, cap. 17, §§ 2,3, viene alla vera e propria spiegazione della ragione,perde affatto di vista quel semplice carattere fondamen-tale, e cade anche lui in una oscillante, imprecisa, in-compiuta esposizione di manifestazioni derivate e fram-mentarie di quella: anche Leibniz, nel luogo corrispon-dente della sua opera, si contiene in complesso nel me-desimo modo, solo con maggior confusione ed oscurità.E fino a qual punto abbia poi Kant confuso e falsato ilconcetto dell'essenza della ragione, ho detto ampiamen-te nell'appendice. Ma chi voglia darsi la pena di scorrere

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rienza, e così via. Nondimeno tutte le loro spiegazioniintorno alla vera essenza della ragione sono traballanti,non determinate nettamente, prolisse, senza unità nécentro, intese a mettere in rilievo or questa or quella ma-nifestazione, e perciò spesso divergenti l'una dall'altra.Si aggiunga, che molte partono dal contrasto fra ragionee rivelazione, il quale è del tutto estraneo alla filosofia, enon serve che ad accrescere la confusione. È oltremodosorprendente, che finora nessun filosofo abbia rigida-mente ricondotto quelle svariate manifestazioni della ra-gione ad una funzione semplice, la quale sia da ricono-scere in tutte, e tutte le spieghi, e costituisca perciò lavera intima essenza della ragione. L'esimio Locke indicabensì molto giustamente nell'Essay on Human Under-standing, libro 2, cap. 11, §§ 10 e 11, come carattere di-stintivo fra animale ed uomo, i concetti universali astrat-ti, e Leibniz ripete lo stesso con pieno accordo nei Nou-veaux essays sur l'entendement humain, libro 2, cap. 11,§§ 10 e 11. Ma quando Locke nel libro 4, cap. 17, §§ 2,3, viene alla vera e propria spiegazione della ragione,perde affatto di vista quel semplice carattere fondamen-tale, e cade anche lui in una oscillante, imprecisa, in-compiuta esposizione di manifestazioni derivate e fram-mentarie di quella: anche Leibniz, nel luogo corrispon-dente della sua opera, si contiene in complesso nel me-desimo modo, solo con maggior confusione ed oscurità.E fino a qual punto abbia poi Kant confuso e falsato ilconcetto dell'essenza della ragione, ho detto ampiamen-te nell'appendice. Ma chi voglia darsi la pena di scorrere

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sotto questo riguardo la massa di scritti filosofici venutiin luce da Kant in qua, riconoscerà che, come gli erroridei principi sono scontati da popoli interi, gli errori deigrandi spiriti distendono la loro influenza dannosa su in-tere generazioni anche per secoli; anzi, crescendo e pro-pagandosi, finiscono col degenerare in mostruosità: etutto questo deriva dal fatto che, come dice Berkeley:«Few men think; yet all will have opinions»16.Come l'intelletto ha soltanto una funzione: immediataconoscenza del rapporto di causa ed effetto: e l'intuizio-ne del mondo reale, come anche tutta l'avvedutezza, sa-gacia, facoltà inventiva – per quanto sia molteplice laloro applicazione – non sono tuttavia evidentementenull'altro che manifestazioni di quella funzione sempli-ce; così anche la ragione ha una sola funzione: formareil concetto. In base a quest'unica funzione si spieganomolto facilmente, e compiutamente, e spontaneamentetutti i fenomeni sopra citati, che distinguono la vitadell'uomo da quella dell'animale. E all'uso o al non-usodi quella funzione si riconduce sempre ciò che ovunquee in ogni tempo si è chiamato ragionevole o irragione-vole17.

§ 9.I concetti formano una classe speciale di rappresentazio-

16 [«Pochi uomini pensano, ma tutti vogliono avere opinioni.»]17 Si confrontino con questo paragrafo i § 26 e 27 della 2a ediz. della memo-

ria sul principio di ragione.

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sotto questo riguardo la massa di scritti filosofici venutiin luce da Kant in qua, riconoscerà che, come gli erroridei principi sono scontati da popoli interi, gli errori deigrandi spiriti distendono la loro influenza dannosa su in-tere generazioni anche per secoli; anzi, crescendo e pro-pagandosi, finiscono col degenerare in mostruosità: etutto questo deriva dal fatto che, come dice Berkeley:«Few men think; yet all will have opinions»16.Come l'intelletto ha soltanto una funzione: immediataconoscenza del rapporto di causa ed effetto: e l'intuizio-ne del mondo reale, come anche tutta l'avvedutezza, sa-gacia, facoltà inventiva – per quanto sia molteplice laloro applicazione – non sono tuttavia evidentementenull'altro che manifestazioni di quella funzione sempli-ce; così anche la ragione ha una sola funzione: formareil concetto. In base a quest'unica funzione si spieganomolto facilmente, e compiutamente, e spontaneamentetutti i fenomeni sopra citati, che distinguono la vitadell'uomo da quella dell'animale. E all'uso o al non-usodi quella funzione si riconduce sempre ciò che ovunquee in ogni tempo si è chiamato ragionevole o irragione-vole17.

§ 9.I concetti formano una classe speciale di rappresentazio-

16 [«Pochi uomini pensano, ma tutti vogliono avere opinioni.»]17 Si confrontino con questo paragrafo i § 26 e 27 della 2a ediz. della memo-

ria sul principio di ragione.

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ni, che si trova solo nello spirito dell'uomo, toto generediversa dalle rappresentazioni intuitive esaminate finora.Perciò non possiamo mai raggiungere una conoscenzaintuitiva, assolutamente evidente, del loro essere; masoltanto una conoscenza astratta e discorsiva. Sarebbequindi assurdo pretender che venissero provati conl'esperienza, in quanto s'intende per esperienza il mondoreale esterno, che è appunto rappresentazione intuitiva;o che fossero portati davanti agli occhi, o davanti allafantasia, come oggetti d'intuizione. Essi si lascianoesclusivamente pensare, non intuire; e soltanto gli effettiche per mezzo di quelli l'uomo produce, sono materia divera e propria esperienza. Tali sono la lingua, l'azionemetodica e meditata, e la scienza; e dipoi tutto quantonasce da queste. Evidentemente il discorso, come ogget-to dell'esperienza interna, non è altro che un telegrafomolto perfezionato, il quale comunica segni convenzio-nali con rapidità massima e delicatissima precisione. Mache cosa significano questi segni? Come vengono deci-frati? Forse che noi, mentre un altro parla, traduciamoimmediatamente il suo discorso in immagini della fanta-sia, le quali con la rapidità del lampo ci trasvolano in-nanzi e si muovono, si concatenano, si trasformano e sicolorano a seconda delle fluenti parole e delle loro fles-sioni grammaticali? Quale tumulto sarebbe allora nelnostro capo all'atto d'ascoltare un discorso o di leggereun libro! Ma non accade punto così. Il senso del discor-so viene compreso immediatamente, afferrato con preci-sione e determinatezza, senza che di regola si confonda-

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ni, che si trova solo nello spirito dell'uomo, toto generediversa dalle rappresentazioni intuitive esaminate finora.Perciò non possiamo mai raggiungere una conoscenzaintuitiva, assolutamente evidente, del loro essere; masoltanto una conoscenza astratta e discorsiva. Sarebbequindi assurdo pretender che venissero provati conl'esperienza, in quanto s'intende per esperienza il mondoreale esterno, che è appunto rappresentazione intuitiva;o che fossero portati davanti agli occhi, o davanti allafantasia, come oggetti d'intuizione. Essi si lascianoesclusivamente pensare, non intuire; e soltanto gli effettiche per mezzo di quelli l'uomo produce, sono materia divera e propria esperienza. Tali sono la lingua, l'azionemetodica e meditata, e la scienza; e dipoi tutto quantonasce da queste. Evidentemente il discorso, come ogget-to dell'esperienza interna, non è altro che un telegrafomolto perfezionato, il quale comunica segni convenzio-nali con rapidità massima e delicatissima precisione. Mache cosa significano questi segni? Come vengono deci-frati? Forse che noi, mentre un altro parla, traduciamoimmediatamente il suo discorso in immagini della fanta-sia, le quali con la rapidità del lampo ci trasvolano in-nanzi e si muovono, si concatenano, si trasformano e sicolorano a seconda delle fluenti parole e delle loro fles-sioni grammaticali? Quale tumulto sarebbe allora nelnostro capo all'atto d'ascoltare un discorso o di leggereun libro! Ma non accade punto così. Il senso del discor-so viene compreso immediatamente, afferrato con preci-sione e determinatezza, senza che di regola si confonda-

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no i fantasmi. È la ragione che parla alla ragione, mante-nendosi nel proprio dominio; e ciò che essa comunica oriceve, sono concetti astratti, rappresentazioni non intui-tive, le quali, formate una volta per sempre e relativa-mente scarse di numero, comprendono, contengono erappresentano nondimeno tutti gli innumerevoli oggettidel mondo reale. Solo con ciò si spiega che non mai unanimale può parlare o comprendere, sebbene abbia co-muni con noi gli strumenti del linguaggio ed anche lerappresentazioni intuitive; appunto perché le paroleesprimono quella classe affatto speciale di rappresenta-zioni, di cui è correlato soggettivo la ragione, esse sonoper l'animale prive di valore e di significato. Pertanto illinguaggio, come ogni altro fenomeno che noi ascrivia-mo alla ragione, e come tutto ciò che distingue l'uomodall'animale, va spiegato mediante quest'una e sempliceorigine: i concetti – le rappresentazioni astratte, non in-tuitive; universali, non individuate nel tempo e nellospazio. Solo in alcuni casi passiamo dai concetti allarappresentazione, formandoci fantasmi che sono intuiti-vi rappresentanti di concetti, ai quali tuttavia non sonomai adeguati. Questi sono stati particolarmente illustratinella memoria sul principio della ragione, § 28, né vo-glio quindi ripetermi ora. Con ciò che è detto colà vaconfrontato quanto scrive Hume nel dodicesimo dei suoiPhilosophical Essays, p. 244, e Herder nella Metacriti-ca (libro d'altronde cattivo), Parte I, p. 274. L'idea plato-nica, che diventa possibile mediante l'unione di fantasiae ragione, forma l'argomento principale del terzo libro

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no i fantasmi. È la ragione che parla alla ragione, mante-nendosi nel proprio dominio; e ciò che essa comunica oriceve, sono concetti astratti, rappresentazioni non intui-tive, le quali, formate una volta per sempre e relativa-mente scarse di numero, comprendono, contengono erappresentano nondimeno tutti gli innumerevoli oggettidel mondo reale. Solo con ciò si spiega che non mai unanimale può parlare o comprendere, sebbene abbia co-muni con noi gli strumenti del linguaggio ed anche lerappresentazioni intuitive; appunto perché le paroleesprimono quella classe affatto speciale di rappresenta-zioni, di cui è correlato soggettivo la ragione, esse sonoper l'animale prive di valore e di significato. Pertanto illinguaggio, come ogni altro fenomeno che noi ascrivia-mo alla ragione, e come tutto ciò che distingue l'uomodall'animale, va spiegato mediante quest'una e sempliceorigine: i concetti – le rappresentazioni astratte, non in-tuitive; universali, non individuate nel tempo e nellospazio. Solo in alcuni casi passiamo dai concetti allarappresentazione, formandoci fantasmi che sono intuiti-vi rappresentanti di concetti, ai quali tuttavia non sonomai adeguati. Questi sono stati particolarmente illustratinella memoria sul principio della ragione, § 28, né vo-glio quindi ripetermi ora. Con ciò che è detto colà vaconfrontato quanto scrive Hume nel dodicesimo dei suoiPhilosophical Essays, p. 244, e Herder nella Metacriti-ca (libro d'altronde cattivo), Parte I, p. 274. L'idea plato-nica, che diventa possibile mediante l'unione di fantasiae ragione, forma l'argomento principale del terzo libro

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dell'opera presente.Ora, per quanto i concetti siano adunque fondamental-mente diversi dalle rappresentazioni intuitive, stannotuttavia in un necessario rapporto con queste, senza dicui non esisterebbero; il qual rapporto costituisce quinditutta la loro essenza ed esistenza. La riflessione è neces-sariamente imitazione, riproduzione dell'originario mon-do intuitivo, per quanto imitazione di tutt'altro genere, inuna materia del tutto eterogenea. Perciò i concetti siposson benissimo chiamare rappresentazioni di rappre-sentazioni. Il principio di ragione ha qui egualmente unaforma particolare; e come la forma con cui esso dominain una classe di rappresentazioni costituisce ed esauriscetutta l'essenza di questa classe in quanto è formata dirappresentazioni, – sì che, come abbiamo veduto, il tem-po è in tutto e per tutto successione, e nient'altro, lo spa-zio in tutto e per tutto posizione, e nient'altro, la materiain tutto e per tutto causalità e nient'altro – così anchetutta l'essenza dei concetti, ossia della classe delle rap-presentazioni astratte, consiste esclusivamente nella re-lazione che in essi esprime il principio di ragione. Edessendo questa la relazione col principio di conoscenza,la rappresentazione astratta ha tutta la sua essenza uni-camente, esclusivamente nel suo rapporto con un'altrarappresentazione, che è il suo principio di conoscenza.Ora questa può essere alla sua volta un concetto, o rap-presentazione astratta, ed anch'essa può avere ancora unaltrettale principio di conoscenza astratta. Ma non si

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dell'opera presente.Ora, per quanto i concetti siano adunque fondamental-mente diversi dalle rappresentazioni intuitive, stannotuttavia in un necessario rapporto con queste, senza dicui non esisterebbero; il qual rapporto costituisce quinditutta la loro essenza ed esistenza. La riflessione è neces-sariamente imitazione, riproduzione dell'originario mon-do intuitivo, per quanto imitazione di tutt'altro genere, inuna materia del tutto eterogenea. Perciò i concetti siposson benissimo chiamare rappresentazioni di rappre-sentazioni. Il principio di ragione ha qui egualmente unaforma particolare; e come la forma con cui esso dominain una classe di rappresentazioni costituisce ed esauriscetutta l'essenza di questa classe in quanto è formata dirappresentazioni, – sì che, come abbiamo veduto, il tem-po è in tutto e per tutto successione, e nient'altro, lo spa-zio in tutto e per tutto posizione, e nient'altro, la materiain tutto e per tutto causalità e nient'altro – così anchetutta l'essenza dei concetti, ossia della classe delle rap-presentazioni astratte, consiste esclusivamente nella re-lazione che in essi esprime il principio di ragione. Edessendo questa la relazione col principio di conoscenza,la rappresentazione astratta ha tutta la sua essenza uni-camente, esclusivamente nel suo rapporto con un'altrarappresentazione, che è il suo principio di conoscenza.Ora questa può essere alla sua volta un concetto, o rap-presentazione astratta, ed anch'essa può avere ancora unaltrettale principio di conoscenza astratta. Ma non si

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continua così all'infinito: bensì alla fine la serie dei prin-cipi di conoscenza deve chiudersi con un concetto, cheha la sua base nella conoscenza intuitiva. Imperocchétutto il mondo della riflessione poggia sul mondodell'intuizione come suo principio di conoscenza. Quin-di la classe delle rappresentazioni astratte ha di frontealle altre la seguente nota distintiva: che in queste ilprincipio di ragione esige sempre soltanto un rapportocon un'altra rappresentazione della medesima classe,mentre nelle rappresentazioni astratte esige alla fine unrapporto con una rappresentazione di altra classe.Quei concetti che, come si è detto or ora, non direttamen-te, bensì solo mediante l'intermediario di uno o anche piùaltri concetti si riferiscono alla conoscenza intuitiva, ven-gono chiamati di preferenza abstracta; e concreta vice-versa quelli che hanno il loro fondamento immediato nelmondo intuitivo. Ma quest'ultima denominazione nonconviene se non molto impropriamente ai concetti da leiindicati, perché ancor questi sono pur sempre abstracta,e non già rappresentazioni intuitive. Tali denominazionisono venute solamente da una coscienza molto confusadel divario che si voleva così esprimere; ma con l'inter-pretazione qui indicata possono tuttavia sussistere. Esem-pi della prima maniera, ossia abstracta in senso eminen-te, sono concetti come «relazione, virtù, investigazione,inizio», etc. Esempi della seconda maniera, ossia impro-priamente chiamati concreta, sono i concetti «uomo, pie-tra, cavallo», etc. Se non fosse un paragone troppo figu-

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continua così all'infinito: bensì alla fine la serie dei prin-cipi di conoscenza deve chiudersi con un concetto, cheha la sua base nella conoscenza intuitiva. Imperocchétutto il mondo della riflessione poggia sul mondodell'intuizione come suo principio di conoscenza. Quin-di la classe delle rappresentazioni astratte ha di frontealle altre la seguente nota distintiva: che in queste ilprincipio di ragione esige sempre soltanto un rapportocon un'altra rappresentazione della medesima classe,mentre nelle rappresentazioni astratte esige alla fine unrapporto con una rappresentazione di altra classe.Quei concetti che, come si è detto or ora, non direttamen-te, bensì solo mediante l'intermediario di uno o anche piùaltri concetti si riferiscono alla conoscenza intuitiva, ven-gono chiamati di preferenza abstracta; e concreta vice-versa quelli che hanno il loro fondamento immediato nelmondo intuitivo. Ma quest'ultima denominazione nonconviene se non molto impropriamente ai concetti da leiindicati, perché ancor questi sono pur sempre abstracta,e non già rappresentazioni intuitive. Tali denominazionisono venute solamente da una coscienza molto confusadel divario che si voleva così esprimere; ma con l'inter-pretazione qui indicata possono tuttavia sussistere. Esem-pi della prima maniera, ossia abstracta in senso eminen-te, sono concetti come «relazione, virtù, investigazione,inizio», etc. Esempi della seconda maniera, ossia impro-priamente chiamati concreta, sono i concetti «uomo, pie-tra, cavallo», etc. Se non fosse un paragone troppo figu-

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rato e perciò tendente allo scherzo, si potrebbe con im-magine calzante chiamare gli ultimi concetti il pianterre-no, mentre i primi sarebbero invece i piani superioridell'edifizio della riflessione18.Che un concetto comprenda molto sotto di sé, ossia chemolte rappresentazioni intuitive o magari anche astrattestiano con lui nel rapporto del principio di conoscenza,cioè vengano pensate per suo mezzo, non è, come soli-tamente si ammette, proprietà essenziale di quel concet-to, bensì solamente secondaria e derivata; la quale puòaddirittura non sempre trovarsi di fatto, per quantoognora possibile. Codesta proprietà deriva da ciò, che ilconcetto è rappresentazione di una rappresentazione, os-sia ha tutta la sua essenza esclusivamente nella sua rela-zione con un'altra rappresentazione; ma il concetto nonè tale rappresentazione, ed anzi questa addirittura appar-tiene di solito a tutt'altra classe di rappresentazioni:avendo carattere intuitivo, può di conseguenza aver de-terminazioni di tempo, di spazio, ed altre. Può insommaaver molte relazioni, che nel concetto non vengono pun-to pensate: quindi più rappresentazioni, fra loro diversein ciò che non è sostanziale, possono venir pensate conlo stesso concetto, ossia venir assunte sotto di questo.Ma questo valer per oggetti vari non è proprietà essen-ziale, bensì accidentale, del concetto. Si possono adun-que dare concetti, coi quali vien pensato un solo oggetto

18 A questo riguardo, v. i capp. 5 e 6 del secondo volume [pp. 62-74 deltomo I dell'ed. cit.].

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rato e perciò tendente allo scherzo, si potrebbe con im-magine calzante chiamare gli ultimi concetti il pianterre-no, mentre i primi sarebbero invece i piani superioridell'edifizio della riflessione18.Che un concetto comprenda molto sotto di sé, ossia chemolte rappresentazioni intuitive o magari anche astrattestiano con lui nel rapporto del principio di conoscenza,cioè vengano pensate per suo mezzo, non è, come soli-tamente si ammette, proprietà essenziale di quel concet-to, bensì solamente secondaria e derivata; la quale puòaddirittura non sempre trovarsi di fatto, per quantoognora possibile. Codesta proprietà deriva da ciò, che ilconcetto è rappresentazione di una rappresentazione, os-sia ha tutta la sua essenza esclusivamente nella sua rela-zione con un'altra rappresentazione; ma il concetto nonè tale rappresentazione, ed anzi questa addirittura appar-tiene di solito a tutt'altra classe di rappresentazioni:avendo carattere intuitivo, può di conseguenza aver de-terminazioni di tempo, di spazio, ed altre. Può insommaaver molte relazioni, che nel concetto non vengono pun-to pensate: quindi più rappresentazioni, fra loro diversein ciò che non è sostanziale, possono venir pensate conlo stesso concetto, ossia venir assunte sotto di questo.Ma questo valer per oggetti vari non è proprietà essen-ziale, bensì accidentale, del concetto. Si possono adun-que dare concetti, coi quali vien pensato un solo oggetto

18 A questo riguardo, v. i capp. 5 e 6 del secondo volume [pp. 62-74 deltomo I dell'ed. cit.].

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reale, ma che sono tuttavia astratti ed universali, e nongià rappresentazioni isolate ed intuitive. Tale è peresempio il concetto che si ha d'una città determinata, laquale ci è nota solo dalla geografia: sebbene con code-sto concetto venga pensata quella sola città, sarebberotuttavia possibili più città, pur differenti in alcune parti,alle quali tutte converrebbe il concetto medesimo. Nonper essere astratto da più oggetti acquista universalità unconcetto: bensì al contrario, essendo per esso, in quantorappresentazione astratta della ragione, essenziale l'uni-versalità, ossia la non-determinazione del singolo, pos-sono diverse cose esser pensate per mezzo del medesi-mo concetto.Da quanto s'è detto risulta che ogni concetto, appuntoperché è rappresentazione astratta, non intuitiva e quindinon in tutto determinata, ha quel che chiamiamo unaestensione circolare o sfera, perfino nel caso che gli cor-risponda un solo oggetto reale. Ora, noi troviamo co-stantemente che la sfera d'ogni concetto ha qualcosa dicomune con quelle d'altri concetti: ossia, che in essoviene parzialmente pensato ciò che si pensa in quegli al-tri, e viceversa; sebbene, quando sono davvero concettidifferenti, ciascuno o per lo meno uno dei due contengaqualcosa che l'altro non ha. In questo rapporto sta ognisoggetto col suo predicato. Riconoscere questo rapporto,dicesi giudicare. La rappresentazione di quelle sfere me-diante figure geometriche è stata un pensiero felicissi-mo. L'ha avuto forse per primo Goffredo Plouquet, il

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reale, ma che sono tuttavia astratti ed universali, e nongià rappresentazioni isolate ed intuitive. Tale è peresempio il concetto che si ha d'una città determinata, laquale ci è nota solo dalla geografia: sebbene con code-sto concetto venga pensata quella sola città, sarebberotuttavia possibili più città, pur differenti in alcune parti,alle quali tutte converrebbe il concetto medesimo. Nonper essere astratto da più oggetti acquista universalità unconcetto: bensì al contrario, essendo per esso, in quantorappresentazione astratta della ragione, essenziale l'uni-versalità, ossia la non-determinazione del singolo, pos-sono diverse cose esser pensate per mezzo del medesi-mo concetto.Da quanto s'è detto risulta che ogni concetto, appuntoperché è rappresentazione astratta, non intuitiva e quindinon in tutto determinata, ha quel che chiamiamo unaestensione circolare o sfera, perfino nel caso che gli cor-risponda un solo oggetto reale. Ora, noi troviamo co-stantemente che la sfera d'ogni concetto ha qualcosa dicomune con quelle d'altri concetti: ossia, che in essoviene parzialmente pensato ciò che si pensa in quegli al-tri, e viceversa; sebbene, quando sono davvero concettidifferenti, ciascuno o per lo meno uno dei due contengaqualcosa che l'altro non ha. In questo rapporto sta ognisoggetto col suo predicato. Riconoscere questo rapporto,dicesi giudicare. La rappresentazione di quelle sfere me-diante figure geometriche è stata un pensiero felicissi-mo. L'ha avuto forse per primo Goffredo Plouquet, il

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quale si servì a tal fine di quadrati; il Lambert, sebbenevenuto dopo, usò ancora semplici linee, che disponeval'una sotto l'altra; l'Euler perfezionò la figurazione va-lendosi di cerchi. Su che cosa poggi in fondo questa sìprecisa analogia fra i rapporti dei concetti e quelli dellefigure geometriche, non so dire. Ma intanto è per la lo-gica un'assai favorevole circostanza questa, che tutti irapporti dei concetti, perfino secondo la loro possibilità,ossia a priori, si possano rappresentare intuitivamenteper mezzo di tali figure, nel modo che segue:1. Le sfere di due concetti sono identiche: per esempio ilconcetto della necessità e quello dell'effetto prodotto dauna data causa; così quello di ruminantia e di bisulca(ruminanti e animali con l'unghia fessa); e similmente ilconcetto di vertebrati e d'animali a sangue rosso (al chesarebbe tuttavia qualcosa da opporre a proposito deglianellidi). Tutti codesti sono concetti equivalenti. Li rap-presenta un unico circolo, il quale indica tanto l'unoquanto l'altro.2. La sfera di un concetto chiude interamente in sé quel-la d'un altro:

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quale si servì a tal fine di quadrati; il Lambert, sebbenevenuto dopo, usò ancora semplici linee, che disponeval'una sotto l'altra; l'Euler perfezionò la figurazione va-lendosi di cerchi. Su che cosa poggi in fondo questa sìprecisa analogia fra i rapporti dei concetti e quelli dellefigure geometriche, non so dire. Ma intanto è per la lo-gica un'assai favorevole circostanza questa, che tutti irapporti dei concetti, perfino secondo la loro possibilità,ossia a priori, si possano rappresentare intuitivamenteper mezzo di tali figure, nel modo che segue:1. Le sfere di due concetti sono identiche: per esempio ilconcetto della necessità e quello dell'effetto prodotto dauna data causa; così quello di ruminantia e di bisulca(ruminanti e animali con l'unghia fessa); e similmente ilconcetto di vertebrati e d'animali a sangue rosso (al chesarebbe tuttavia qualcosa da opporre a proposito deglianellidi). Tutti codesti sono concetti equivalenti. Li rap-presenta un unico circolo, il quale indica tanto l'unoquanto l'altro.2. La sfera di un concetto chiude interamente in sé quel-la d'un altro:

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3. Una sfera ne racchiude due o più, che si escludono econtemporaneamente riempiono la prima:

4. Due sfere includono ciascuna una parte dell'altra:

5. Due sfere sono comprese in una terza, senza riempir-la:

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3. Una sfera ne racchiude due o più, che si escludono econtemporaneamente riempiono la prima:

4. Due sfere includono ciascuna una parte dell'altra:

5. Due sfere sono comprese in una terza, senza riempir-la:

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Quest'ultimo caso vale per tutti i concetti, le cui sferenon hanno una comunione immediata: perché ve n'èsempre una terza, se pur sovente assai ampia, che li rac-chiude entrambi.A questi casi si potrebbero ricondurre tutte le combina-zioni dei concetti, e se ne ricava l'intera dottrina dei giu-dizi; con la loro conversione, contrapposizione, recipro-cazione, disgiunzione (quest'ultima conformemente allaterza figura). E così anche le proprietà dei giudizi, sullequali Kant stabiliva le pretese categorie dell'intelletto;facendo nondimeno eccezione della forma ipotetica, chenon è più una combinazione di puri concetti, bensì digiudizi, ed eccettuando inoltre la modalità: della quale,come d'ogni proprietà dei giudizi che serve di fonda-mento alle categorie, da conto distesamente l'appendice.Circa le possibili combinazioni di concetto sopraindica-te, è solo da aggiungere che esse possono anche venircombinate variamente; per esempio la quarta figura conla seconda. Solo quando una sfera, la quale ne contieneun'altra in tutto o in parte, viene a sua volta contenutatutta in una terza, le tre insieme rappresentano il sillogi-

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Quest'ultimo caso vale per tutti i concetti, le cui sferenon hanno una comunione immediata: perché ve n'èsempre una terza, se pur sovente assai ampia, che li rac-chiude entrambi.A questi casi si potrebbero ricondurre tutte le combina-zioni dei concetti, e se ne ricava l'intera dottrina dei giu-dizi; con la loro conversione, contrapposizione, recipro-cazione, disgiunzione (quest'ultima conformemente allaterza figura). E così anche le proprietà dei giudizi, sullequali Kant stabiliva le pretese categorie dell'intelletto;facendo nondimeno eccezione della forma ipotetica, chenon è più una combinazione di puri concetti, bensì digiudizi, ed eccettuando inoltre la modalità: della quale,come d'ogni proprietà dei giudizi che serve di fonda-mento alle categorie, da conto distesamente l'appendice.Circa le possibili combinazioni di concetto sopraindica-te, è solo da aggiungere che esse possono anche venircombinate variamente; per esempio la quarta figura conla seconda. Solo quando una sfera, la quale ne contieneun'altra in tutto o in parte, viene a sua volta contenutatutta in una terza, le tre insieme rappresentano il sillogi-

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smo della prima figura, ossia quella combinazione digiudizi mediante la quale viene riconosciuto che un con-cetto, contenuto in tutto o in parte in un altro, è anchecontenuto egualmente in un terzo concetto che contengaquest'altro: o anche rappresentano il caso opposto, la ne-gazione; la cui espressione figurata può naturalmenteconsistere solo in due sfere congiunte, che non sonocomprese in una terza. Quando molte sfere si compren-dono l'una nell'altra in questa maniera, ne vengono lun-ghe catene di sillogismi. Questo schematismo dei con-cetti, il quale già in molti trattati è abbastanza beneesposto, può esser messo come fondamento alla dottrinadei giudizi, com'anche a tutta la sillogistica; dal chel'esposizione d'entrambe sarà resa assai facile e sempli-ce. Imperocché tutte le regole di quelle ne vengono ap-profondite, dedotte e spiegate secondo la loro origine.Ma il sovraccaricar di queste regole la memoria non ènecessario; perché la logica non ha pratica utilità, masolo importanza teorica per la filosofia. Poiché sebbenesi dica che la logica si comporta riguardo al pensiero ra-ziocinativo come il basso fondamentale riguardo allamusica, o anche, se vogliamo esser meno precisi, comel'etica riguardo alla virtù, o l'estetica all'arte; tuttavia bi-sogna riflettere che nessuno è divenuto artista per lo stu-dio dell'estetica, né un nobile carattere s'è formato conlo studio dell'etica; che da gran tempo prima del Ra-meau fu composta musica corretta e bella, e che inoltrenon c'è bisogno di sentirsi padroni del basso fondamen-tale per accorgersi delle disarmonie: similmente non oc-

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smo della prima figura, ossia quella combinazione digiudizi mediante la quale viene riconosciuto che un con-cetto, contenuto in tutto o in parte in un altro, è anchecontenuto egualmente in un terzo concetto che contengaquest'altro: o anche rappresentano il caso opposto, la ne-gazione; la cui espressione figurata può naturalmenteconsistere solo in due sfere congiunte, che non sonocomprese in una terza. Quando molte sfere si compren-dono l'una nell'altra in questa maniera, ne vengono lun-ghe catene di sillogismi. Questo schematismo dei con-cetti, il quale già in molti trattati è abbastanza beneesposto, può esser messo come fondamento alla dottrinadei giudizi, com'anche a tutta la sillogistica; dal chel'esposizione d'entrambe sarà resa assai facile e sempli-ce. Imperocché tutte le regole di quelle ne vengono ap-profondite, dedotte e spiegate secondo la loro origine.Ma il sovraccaricar di queste regole la memoria non ènecessario; perché la logica non ha pratica utilità, masolo importanza teorica per la filosofia. Poiché sebbenesi dica che la logica si comporta riguardo al pensiero ra-ziocinativo come il basso fondamentale riguardo allamusica, o anche, se vogliamo esser meno precisi, comel'etica riguardo alla virtù, o l'estetica all'arte; tuttavia bi-sogna riflettere che nessuno è divenuto artista per lo stu-dio dell'estetica, né un nobile carattere s'è formato conlo studio dell'etica; che da gran tempo prima del Ra-meau fu composta musica corretta e bella, e che inoltrenon c'è bisogno di sentirsi padroni del basso fondamen-tale per accorgersi delle disarmonie: similmente non oc-

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corre saper la logica per non lasciarsi trarre in ingannida sofismi. Si deve tuttavia convenire che, se non perl'apprezzamento, il basso fondamentale è di grande utili-tà per la pratica della composizione musicale: e perfinol'estetica o addirittura l'etica possono, sebbene in misuraassai minore, esser nella pratica di qualche utilità – perquanto sia un'utilità più che altro negativa – sì che nonpuò esser loro negato ogni valore pratico. Ma della logi-ca non può dirsi nemmeno questo. Essa non è se non laconsapevolezza in abstracto di ciò che ognuno sa inconcreto. Quindi, come non se n'ha bisogno per respin-gere un falso ragionamento, così non si ricorre alle sueregole per farne uno giusto; e finanche il più addottrina-to dei logici le lascia affatto da canto nell'atto del suo ef-fettivo pensare. Questo si spiega con l'osservazione chesegue. Ogni scienza consiste in un sistema di verità, leg-gi e regole generali, e quindi astratte, relative a un qual-che genere d'oggetti. Ciascun nuovo caso particolare,che venga a capitare fra questi, viene di volta in voltadeterminato secondo quella nozione generale, che valeuna volta per tutte; perché questa applicazione della re-gola generale è infinitamente più facile che non l'inve-stigare da capo, per sé, ogni sopravveniente caso isolato;essendo che la general conoscenza astratta, una voltaraggiunta, ci è ognora più agevole che l'investigazioneempirica del caso singolo. Ma con la logica accade ilcontrario. Essa è la consapevolezza generale del mododi procedere della ragione, raggiunta mediante la direttaosservazione della ragione stessa, e l'astrazione da ogni

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corre saper la logica per non lasciarsi trarre in ingannida sofismi. Si deve tuttavia convenire che, se non perl'apprezzamento, il basso fondamentale è di grande utili-tà per la pratica della composizione musicale: e perfinol'estetica o addirittura l'etica possono, sebbene in misuraassai minore, esser nella pratica di qualche utilità – perquanto sia un'utilità più che altro negativa – sì che nonpuò esser loro negato ogni valore pratico. Ma della logi-ca non può dirsi nemmeno questo. Essa non è se non laconsapevolezza in abstracto di ciò che ognuno sa inconcreto. Quindi, come non se n'ha bisogno per respin-gere un falso ragionamento, così non si ricorre alle sueregole per farne uno giusto; e finanche il più addottrina-to dei logici le lascia affatto da canto nell'atto del suo ef-fettivo pensare. Questo si spiega con l'osservazione chesegue. Ogni scienza consiste in un sistema di verità, leg-gi e regole generali, e quindi astratte, relative a un qual-che genere d'oggetti. Ciascun nuovo caso particolare,che venga a capitare fra questi, viene di volta in voltadeterminato secondo quella nozione generale, che valeuna volta per tutte; perché questa applicazione della re-gola generale è infinitamente più facile che non l'inve-stigare da capo, per sé, ogni sopravveniente caso isolato;essendo che la general conoscenza astratta, una voltaraggiunta, ci è ognora più agevole che l'investigazioneempirica del caso singolo. Ma con la logica accade ilcontrario. Essa è la consapevolezza generale del mododi procedere della ragione, raggiunta mediante la direttaosservazione della ragione stessa, e l'astrazione da ogni

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contenuto. Ma un tal modo di procedere è per la ragionenecessario ed essenziale: in nessun caso ella se ne puòrimuovere, non appena sia abbandonata a se stessa. Èadunque più facile e più sicuro in ogni caso speciale la-sciarla procedere conformemente alla sua natura, chenon metterle innanzi, in forma di legge esteriore, venutadal di fuori, una teoria tratta appunto da quel suo proce-dere. È più facile: perché, se in tutte le altre scienze laregola generale ci è più comoda che l'investigazione delsingolo caso da solo o in se medesimo, invece nell'usodella ragione il suo natural modo di comportarsi in undato caso ci vien più spontaneo sempre che non la rego-la generale tratta da quello: poi che l'elemento pensantein noi è per l'appunto la ragione stessa. Ed è più sicuro:perché molto più agevolmente può capitare un errore inquel sapere astratto o nella sua applicazione, che nonpossa subentrare un processo della ragione, il quale ri-pugni alla sua essenza, alla sua natura. Da ciò provieneil fatto singolare, che se di regola nelle altre scienze siprova la verità del caso particolare con la regola, nellalogica all'opposto la regola viene sempre sperimentatanel caso singolo: ed anche il logico più esercitato, accor-gendosi che in un singolo caso viene a concludere diffe-rentemente dal modo imposto da una regola, cercheràsempre l'errore nella regola, prima che nella deduzioneda lui fatta. Voler fare uso pratico della logica, sarebbedunque un voler derivare, con indicibile pena, da regolegenerali, ciò di cui noi siamo immediatamente consci,con la massima sicurezza, caso per caso: sarebbe come

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contenuto. Ma un tal modo di procedere è per la ragionenecessario ed essenziale: in nessun caso ella se ne puòrimuovere, non appena sia abbandonata a se stessa. Èadunque più facile e più sicuro in ogni caso speciale la-sciarla procedere conformemente alla sua natura, chenon metterle innanzi, in forma di legge esteriore, venutadal di fuori, una teoria tratta appunto da quel suo proce-dere. È più facile: perché, se in tutte le altre scienze laregola generale ci è più comoda che l'investigazione delsingolo caso da solo o in se medesimo, invece nell'usodella ragione il suo natural modo di comportarsi in undato caso ci vien più spontaneo sempre che non la rego-la generale tratta da quello: poi che l'elemento pensantein noi è per l'appunto la ragione stessa. Ed è più sicuro:perché molto più agevolmente può capitare un errore inquel sapere astratto o nella sua applicazione, che nonpossa subentrare un processo della ragione, il quale ri-pugni alla sua essenza, alla sua natura. Da ciò provieneil fatto singolare, che se di regola nelle altre scienze siprova la verità del caso particolare con la regola, nellalogica all'opposto la regola viene sempre sperimentatanel caso singolo: ed anche il logico più esercitato, accor-gendosi che in un singolo caso viene a concludere diffe-rentemente dal modo imposto da una regola, cercheràsempre l'errore nella regola, prima che nella deduzioneda lui fatta. Voler fare uso pratico della logica, sarebbedunque un voler derivare, con indicibile pena, da regolegenerali, ciò di cui noi siamo immediatamente consci,con la massima sicurezza, caso per caso: sarebbe come

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un voler prender consiglio nei propri movimenti dallameccanica, e nella digestione dalla fisiologia. E chi ap-prende la logica per fini pratici somiglia a colui che vo-glia insegnare a un castoro la costruzione del suo nido.Sebbene la logica sia adunque senza pratica utilità, devenondimeno venir conservata, perché ha importanza filo-sofica, come speciale conoscenza dell'organismo e atti-vità della ragione. Nella sua qualità di disciplina chiusa,esistente di per sé, in sé compiuta, perfetta, e affatto si-cura, è in diritto di essere trattata scientificamente, dasola, e senza dipender da tutte le altre scienze, venendoanche insegnata nelle università: ma non acquista il suoeffettivo valore se non nel complesso dell'intera filoso-fia, nell'esame della conoscenza, e precisamente dellaconoscenza razionale o astratta. Perciò la sua esposizio-ne non dovrebbe aver tanto la forma di una scienza ri-volta alla pratica, né contener soltanto nude regole pelgiusto modo di formular giudizi, sillogismi e così via;bensì esser piuttosto indirizzata a meglio riconoscerl'essenza della ragione e del concetto, ed ampiamenteesaminare il principio di ragione della conoscenza. Im-perocché la logica è una semplice parafrasi di questo, eprecisamente per il solo caso, in cui il principio che dàverità ai giudizi, non sia empirico o metafisico, ma logi-co o metalogico. Accanto al principio di ragione dellaconoscenza, sono quindi da porre le tre rimanenti leggifondamentali del pensiero, ossia giudizi di verità meta-logica, a quello così strettamente affini; e su questa basesi forma a poco a poco l'intera tecnica della ragione.

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un voler prender consiglio nei propri movimenti dallameccanica, e nella digestione dalla fisiologia. E chi ap-prende la logica per fini pratici somiglia a colui che vo-glia insegnare a un castoro la costruzione del suo nido.Sebbene la logica sia adunque senza pratica utilità, devenondimeno venir conservata, perché ha importanza filo-sofica, come speciale conoscenza dell'organismo e atti-vità della ragione. Nella sua qualità di disciplina chiusa,esistente di per sé, in sé compiuta, perfetta, e affatto si-cura, è in diritto di essere trattata scientificamente, dasola, e senza dipender da tutte le altre scienze, venendoanche insegnata nelle università: ma non acquista il suoeffettivo valore se non nel complesso dell'intera filoso-fia, nell'esame della conoscenza, e precisamente dellaconoscenza razionale o astratta. Perciò la sua esposizio-ne non dovrebbe aver tanto la forma di una scienza ri-volta alla pratica, né contener soltanto nude regole pelgiusto modo di formular giudizi, sillogismi e così via;bensì esser piuttosto indirizzata a meglio riconoscerl'essenza della ragione e del concetto, ed ampiamenteesaminare il principio di ragione della conoscenza. Im-perocché la logica è una semplice parafrasi di questo, eprecisamente per il solo caso, in cui il principio che dàverità ai giudizi, non sia empirico o metafisico, ma logi-co o metalogico. Accanto al principio di ragione dellaconoscenza, sono quindi da porre le tre rimanenti leggifondamentali del pensiero, ossia giudizi di verità meta-logica, a quello così strettamente affini; e su questa basesi forma a poco a poco l'intera tecnica della ragione.

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L'essenza del pensare vero e proprio, ossia del giudizioe del sillogismo, va spiegata con le combinazioni dellesfere dei concetti, conformemente allo schema geome-trico, nel modo sopra accennato; e da questo, per costru-zione, vanno derivate tutte le regole del giudizio e delsillogismo. In un sol modo si può far uso pratico dellalogica: quando nel disputare si dimostrano all'avversarionon tanto le sue conclusioni veramente errate, quantoquelle intenzionalmente false, chiamandole col loronome tecnico di paralogismi e sofismi. Ma per codestorigetto dell'indirizzo pratico e per la messa in rilievodella connessione che ha la logica con l'intera filosofia,come un capitolo di questa, non dovrebbe quella divenirtuttavia più trascurata che oggi non sia; poi che al gior-no d'oggi deve aver studiato filosofia speculativa ciascu-no il quale non voglia rimanere incolto in ciò che piùimporta, e confuso nella massa ignorante ed opaca. Im-perocché questo secolo decimonono è un secolo filoso-fico; con la qual cosa non si deve tanto intendere cheesso possegga una filosofia o che la filosofia vi domini,quanto piuttosto che per la filosofia il secolo è maturo, eappunto perciò ne ha bisogno assoluto. Questo è un se-gno di cultura molto elevata, anzi addirittura un puntofermo sulla scala della civiltà19.Per quanto poca utilità pratica possa avere la logica, nonsi può tuttavia negare che essa fu inventata per un fine

19 Si vedano a questo proposito i capp. 9 e 10 del secondo volume [pp. 106-21 del tomo I dell'ed. cit.].

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L'essenza del pensare vero e proprio, ossia del giudizioe del sillogismo, va spiegata con le combinazioni dellesfere dei concetti, conformemente allo schema geome-trico, nel modo sopra accennato; e da questo, per costru-zione, vanno derivate tutte le regole del giudizio e delsillogismo. In un sol modo si può far uso pratico dellalogica: quando nel disputare si dimostrano all'avversarionon tanto le sue conclusioni veramente errate, quantoquelle intenzionalmente false, chiamandole col loronome tecnico di paralogismi e sofismi. Ma per codestorigetto dell'indirizzo pratico e per la messa in rilievodella connessione che ha la logica con l'intera filosofia,come un capitolo di questa, non dovrebbe quella divenirtuttavia più trascurata che oggi non sia; poi che al gior-no d'oggi deve aver studiato filosofia speculativa ciascu-no il quale non voglia rimanere incolto in ciò che piùimporta, e confuso nella massa ignorante ed opaca. Im-perocché questo secolo decimonono è un secolo filoso-fico; con la qual cosa non si deve tanto intendere cheesso possegga una filosofia o che la filosofia vi domini,quanto piuttosto che per la filosofia il secolo è maturo, eappunto perciò ne ha bisogno assoluto. Questo è un se-gno di cultura molto elevata, anzi addirittura un puntofermo sulla scala della civiltà19.Per quanto poca utilità pratica possa avere la logica, nonsi può tuttavia negare che essa fu inventata per un fine

19 Si vedano a questo proposito i capp. 9 e 10 del secondo volume [pp. 106-21 del tomo I dell'ed. cit.].

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pratico. Io mi spiego la sua origine nel modo che segue.Quando fra gli eleatici, megarici e sofisti il gusto del di-sputare si fu sempre più sviluppato, arrivando fin pressoalla mania, la confusione in cui quasi ogni disputa cade-va dovè far loro presto sentire la necessità di un procedi-mento metodico: e, come introduzione a questo, era dacercare una dialettica scientifica. La prima cosa da os-servare era che le due parti contendenti dovevano sem-pre essere d'accordo sopra un principio qualunque, a cuieran da ricondurre i punti controversi nell'atto del dispu-tare. L'inizio del procedimento metodico è consistito nelfatto, che questi principi da tutti ammessi vennero for-malmente dichiarati tali, e posti a capo dell'investigazio-ne. Ma tali principi concernevano dapprima soltanto illato materiale di questa. Presto si comprese che, pur nel-la maniera di rifarsi dalla verità universalmente ricono-sciuta, e tentar di derivarne le proprie affermazioni, siseguivano certe forme e leggi, intorno alle quali anchesenza precedente intesa non mai si dissentiva; dal cheapparve, che quelle dovevano essere il procedimentoproprio ed essenziale della ragione, ossia il lato formaledell'investigazione. Ora, sebbene questo non fosse espo-sto al dubbio e al disaccordo, un cervello sistematicofino alla pedanteria venne nondimeno a pensare, che fa-rebbe un bel vedere, e sarebbe il compimento della dia-lettica metodica, se codesto lato formale d'ogni disputa,codesto sempre regolare procedimento della ragionemedesima venisse anch'esso formulato in principi astrat-ti; i quali, appunto, al modo di quei principi universal-

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pratico. Io mi spiego la sua origine nel modo che segue.Quando fra gli eleatici, megarici e sofisti il gusto del di-sputare si fu sempre più sviluppato, arrivando fin pressoalla mania, la confusione in cui quasi ogni disputa cade-va dovè far loro presto sentire la necessità di un procedi-mento metodico: e, come introduzione a questo, era dacercare una dialettica scientifica. La prima cosa da os-servare era che le due parti contendenti dovevano sem-pre essere d'accordo sopra un principio qualunque, a cuieran da ricondurre i punti controversi nell'atto del dispu-tare. L'inizio del procedimento metodico è consistito nelfatto, che questi principi da tutti ammessi vennero for-malmente dichiarati tali, e posti a capo dell'investigazio-ne. Ma tali principi concernevano dapprima soltanto illato materiale di questa. Presto si comprese che, pur nel-la maniera di rifarsi dalla verità universalmente ricono-sciuta, e tentar di derivarne le proprie affermazioni, siseguivano certe forme e leggi, intorno alle quali anchesenza precedente intesa non mai si dissentiva; dal cheapparve, che quelle dovevano essere il procedimentoproprio ed essenziale della ragione, ossia il lato formaledell'investigazione. Ora, sebbene questo non fosse espo-sto al dubbio e al disaccordo, un cervello sistematicofino alla pedanteria venne nondimeno a pensare, che fa-rebbe un bel vedere, e sarebbe il compimento della dia-lettica metodica, se codesto lato formale d'ogni disputa,codesto sempre regolare procedimento della ragionemedesima venisse anch'esso formulato in principi astrat-ti; i quali, appunto, al modo di quei principi universal-

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mente riconosciuti, che concernono il lato materialedell'investigazione, si ponessero a capo di questa, comeun canone fisso del disputare, al quale si dovesse ognoravolger l'occhio e riferirsi. Nel mentre in tal modo si vo-leva coscientemente riconoscer per legge, e formalmen-te dichiarare, quello che fino allora s'era seguito in virtùdi tacito accordo o praticato come per istinto, si trovaro-no a poco a poco espressioni più o meno perfette per iprincipi logici, come il principio di contraddizione, diragion sufficiente, del terzo escluso, il dictum de omniet nullo, e poi le speciali regole della sillogistica, comeper esempio ex meris particularibus aut negativis nihilsequitur, a rationato ad rationem non valet consequen-tia, etc. Ma come di ciò si venisse a capo solo lentamen-te e con molta fatica, e come tutto fosse rimasto assaiimperfetto prima di Aristotele, vediamo in parte dalmodo impacciato e prolisso con cui vengono portate allaluce le verità logiche in alcuni dialoghi platonici; e an-cor meglio da ciò che ci riferisce Sesto Empirico sullecontese dei megarici intorno alle più facili e semplicileggi logiche, ed alla faticosa maniera con cui le chiari-vano (Sext. Emp. adv. Math. 1. 8, p. 112 sgg.). Aristote-le raccolse, ordinò, corresse quanto aveva trovato innan-zi a sé, e lo portò ad una perfezione incomparabilmentepiù alta. Se si considera in questo modo come il cammi-no della cultura greca aveva preparato e provocato il la-voro di Aristotele, si sarà poco disposti a prestar fedealla testimonianza di scrittori persiani comunicataci daJones, il quale vi dà molto peso: che cioè Callistene ab-

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mente riconosciuti, che concernono il lato materialedell'investigazione, si ponessero a capo di questa, comeun canone fisso del disputare, al quale si dovesse ognoravolger l'occhio e riferirsi. Nel mentre in tal modo si vo-leva coscientemente riconoscer per legge, e formalmen-te dichiarare, quello che fino allora s'era seguito in virtùdi tacito accordo o praticato come per istinto, si trovaro-no a poco a poco espressioni più o meno perfette per iprincipi logici, come il principio di contraddizione, diragion sufficiente, del terzo escluso, il dictum de omniet nullo, e poi le speciali regole della sillogistica, comeper esempio ex meris particularibus aut negativis nihilsequitur, a rationato ad rationem non valet consequen-tia, etc. Ma come di ciò si venisse a capo solo lentamen-te e con molta fatica, e come tutto fosse rimasto assaiimperfetto prima di Aristotele, vediamo in parte dalmodo impacciato e prolisso con cui vengono portate allaluce le verità logiche in alcuni dialoghi platonici; e an-cor meglio da ciò che ci riferisce Sesto Empirico sullecontese dei megarici intorno alle più facili e semplicileggi logiche, ed alla faticosa maniera con cui le chiari-vano (Sext. Emp. adv. Math. 1. 8, p. 112 sgg.). Aristote-le raccolse, ordinò, corresse quanto aveva trovato innan-zi a sé, e lo portò ad una perfezione incomparabilmentepiù alta. Se si considera in questo modo come il cammi-no della cultura greca aveva preparato e provocato il la-voro di Aristotele, si sarà poco disposti a prestar fedealla testimonianza di scrittori persiani comunicataci daJones, il quale vi dà molto peso: che cioè Callistene ab-

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bia trovata presso gl'Indiani una logica bell'e fatta, el'abbia inviata a suo zio Aristotele («Asiatic Resear-ches», vol. IV, p. 163). Si comprende facilmente, che neltriste medioevo la logica aristotelica sia stata oltremodobene accetta allo spirito degli scolastici, avido di conte-se e, nella mancanza d'ogni conoscenza positiva, nutritosoltanto di formule e parole; e da quello cupidamenteghermita, malgrado la mutilazione araba, e tosto elevataa centro di tutto il sapere. Decaduta poi dalla sua gloria,si è nondimeno conservata fino al nostro tempo nella ri-nomanza d'una scienza indipendente, pratica, ed utilissi-ma; finanche a' nostri giorni la filosofia kantiana, la qua-le propriamente tolse dalla logica la propria base, ha fat-to nascer daccapo un nuovo interesse per lei; interessech'ella d'altronde merita sotto questo rispetto, ossiacome mezzo per conoscere l'essenza della ragione.Se alle giuste e severe conclusioni si perviene osservan-do con cura il rapporto delle sfere concettuali, e solquando una sfera è precisamente contenuta in un'altra, equesta a sua volta è tutta contenuta in una terza, si rico-nosce anche la prima come contenuta appieno nella ter-za; l'arte della persuasione, invece, poggia sul fatto, chei rapporti delle sfere concettuali sono sottoposti a unaconsiderazione appena superficiale, e si determinano inmodo unilaterale, a seconda delle nostre intenzioni. Ciòaccade soprattutto quando – mentre la sfera di un con-cetto preso in esame è solo parzialmente compresa inun'altra, ed il resto è compreso invece in una sfera affat-

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bia trovata presso gl'Indiani una logica bell'e fatta, el'abbia inviata a suo zio Aristotele («Asiatic Resear-ches», vol. IV, p. 163). Si comprende facilmente, che neltriste medioevo la logica aristotelica sia stata oltremodobene accetta allo spirito degli scolastici, avido di conte-se e, nella mancanza d'ogni conoscenza positiva, nutritosoltanto di formule e parole; e da quello cupidamenteghermita, malgrado la mutilazione araba, e tosto elevataa centro di tutto il sapere. Decaduta poi dalla sua gloria,si è nondimeno conservata fino al nostro tempo nella ri-nomanza d'una scienza indipendente, pratica, ed utilissi-ma; finanche a' nostri giorni la filosofia kantiana, la qua-le propriamente tolse dalla logica la propria base, ha fat-to nascer daccapo un nuovo interesse per lei; interessech'ella d'altronde merita sotto questo rispetto, ossiacome mezzo per conoscere l'essenza della ragione.Se alle giuste e severe conclusioni si perviene osservan-do con cura il rapporto delle sfere concettuali, e solquando una sfera è precisamente contenuta in un'altra, equesta a sua volta è tutta contenuta in una terza, si rico-nosce anche la prima come contenuta appieno nella ter-za; l'arte della persuasione, invece, poggia sul fatto, chei rapporti delle sfere concettuali sono sottoposti a unaconsiderazione appena superficiale, e si determinano inmodo unilaterale, a seconda delle nostre intenzioni. Ciòaccade soprattutto quando – mentre la sfera di un con-cetto preso in esame è solo parzialmente compresa inun'altra, ed il resto è compreso invece in una sfera affat-

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to diversa – la si fa passare come tutta compresa nellaprima, o tutta nella seconda, come conviene a chi parla.Se, per esempio, si discorre di passione, questa si puòfar entrare a piacere nel concetto della maggior forza edel più poderoso agente che sia al mondo, oppure nelconcetto dell'irragionevolezza; e questo, a sua volta, nelconcetto dell'impotenza, della debolezza. Questo siste-ma potrebbe esser continuato e applicato ad ogni con-cetto, sul quale cada il discorso. Quasi sempre nella sfe-ra di un concetto s'incrociano più sfere, ciascuna dellequali contiene nel proprio dominio una parte del domi-nio del primo concetto, ma abbraccia inoltre anche altrodominio: e di queste ultime sfere concettuali si mette inevidenza solo quella, sotto di cui si vuole assumere ilprimo concetto; lasciando le altre inosservate, o tenen-dole nascoste. Su questo artifizio poggiano precisamen-te tutte le insidie della persuasione, tutti i più sottili sofi-smi: poiché i sofismi logici, come il mentiens, velatus,cornutus, etc. sono evidentemente troppo grossolani perl'impiego effettivo. Non constandomi che finora l'essen-za d'ogni sofisticazione e persuasione sia stata ricondot-ta a quest'ultimo principio della sua possibilità, e addita-ta nella particolare natura dei concetti, ossia nel modo diconoscenza della ragione; voglio, or che il mio discorsom'ha condotto a questo punto, chiarire la cosa – perquanto essa sia di facile comprensione – mediante unoschema esposto nella tavola qui annessa [v. pp. 90-1].

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to diversa – la si fa passare come tutta compresa nellaprima, o tutta nella seconda, come conviene a chi parla.Se, per esempio, si discorre di passione, questa si puòfar entrare a piacere nel concetto della maggior forza edel più poderoso agente che sia al mondo, oppure nelconcetto dell'irragionevolezza; e questo, a sua volta, nelconcetto dell'impotenza, della debolezza. Questo siste-ma potrebbe esser continuato e applicato ad ogni con-cetto, sul quale cada il discorso. Quasi sempre nella sfe-ra di un concetto s'incrociano più sfere, ciascuna dellequali contiene nel proprio dominio una parte del domi-nio del primo concetto, ma abbraccia inoltre anche altrodominio: e di queste ultime sfere concettuali si mette inevidenza solo quella, sotto di cui si vuole assumere ilprimo concetto; lasciando le altre inosservate, o tenen-dole nascoste. Su questo artifizio poggiano precisamen-te tutte le insidie della persuasione, tutti i più sottili sofi-smi: poiché i sofismi logici, come il mentiens, velatus,cornutus, etc. sono evidentemente troppo grossolani perl'impiego effettivo. Non constandomi che finora l'essen-za d'ogni sofisticazione e persuasione sia stata ricondot-ta a quest'ultimo principio della sua possibilità, e addita-ta nella particolare natura dei concetti, ossia nel modo diconoscenza della ragione; voglio, or che il mio discorsom'ha condotto a questo punto, chiarire la cosa – perquanto essa sia di facile comprensione – mediante unoschema esposto nella tavola qui annessa [v. pp. 90-1].

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Il quale schema intende mostrare come variamentes'intreccino le sfere concettuali, offrendo campo all'arbi-trio di passar da ogni concetto a questo o a quell'altro.Soltanto, non vorrei che dalla tavola si fosse falsamenteindotti ad attribuire a questa piccola dilucidazione inci-dentale maggiore importanza di quella che per sua natu-ra le compete. Come esempio, ho scelto il concetto delviaggiare. La sua sfera s'interseca col campo di altrequattro, in ciascuna delle quali può passare a volontà chi

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Il quale schema intende mostrare come variamentes'intreccino le sfere concettuali, offrendo campo all'arbi-trio di passar da ogni concetto a questo o a quell'altro.Soltanto, non vorrei che dalla tavola si fosse falsamenteindotti ad attribuire a questa piccola dilucidazione inci-dentale maggiore importanza di quella che per sua natu-ra le compete. Come esempio, ho scelto il concetto delviaggiare. La sua sfera s'interseca col campo di altrequattro, in ciascuna delle quali può passare a volontà chi

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parli col proposito di persuadere; queste, alla lor volta,s'intersecano con altre sfere, e talune di esse contempo-raneamente con due o più, tra le quali colui che parlasceglie arbitrariamente la propria via, sempre come seve ne fosse una sola – e così alla fine perviene – a se-conda del suo proposito, o al Bene o al Male. Ma nelprocedere da sfera a sfera si deve sempre andar dal cen-tro (ossia da un dato concetto fondamentale) verso laperiferia, e non camminare all'indietro. Questa sofisticapuò assumere la forma del discorso filato o anche quelladel rigido sillogismo, secondo consiglia il lato deboledell'ascoltatore. In fondo, la più parte delle dimostrazio-ni scientifiche e specialmente filosofiche non sono fattemolto diversamente. Altrimenti, come sarebbe possibileche tante cose, in tempi diversi, non solo siano state er-roneamente accettate (perché l'errore in se stesso haun'altra origine), ma dimostrate e provate, e nondimenopiù tardi riconosciute falsissime; per esempio la filoso-fia di Leibnitz e di Wolff, l'astronomia tolemaica, la chi-mica di Stahl, la dottrina dei colori di Newton, etc.,etc.?20.

§ 10.In tutto questo ci si fa sempre più vicina la domanda,come mai sia da raggiungere la certezza, come siano dafondare i giudizi, in che consistano il sapere e la scien-

20 Vedi a questo proposito il cap. 11 del secondo volume [pp.122-3 del tomo I dell'ed. cit.].

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parli col proposito di persuadere; queste, alla lor volta,s'intersecano con altre sfere, e talune di esse contempo-raneamente con due o più, tra le quali colui che parlasceglie arbitrariamente la propria via, sempre come seve ne fosse una sola – e così alla fine perviene – a se-conda del suo proposito, o al Bene o al Male. Ma nelprocedere da sfera a sfera si deve sempre andar dal cen-tro (ossia da un dato concetto fondamentale) verso laperiferia, e non camminare all'indietro. Questa sofisticapuò assumere la forma del discorso filato o anche quelladel rigido sillogismo, secondo consiglia il lato deboledell'ascoltatore. In fondo, la più parte delle dimostrazio-ni scientifiche e specialmente filosofiche non sono fattemolto diversamente. Altrimenti, come sarebbe possibileche tante cose, in tempi diversi, non solo siano state er-roneamente accettate (perché l'errore in se stesso haun'altra origine), ma dimostrate e provate, e nondimenopiù tardi riconosciute falsissime; per esempio la filoso-fia di Leibnitz e di Wolff, l'astronomia tolemaica, la chi-mica di Stahl, la dottrina dei colori di Newton, etc.,etc.?20.

§ 10.In tutto questo ci si fa sempre più vicina la domanda,come mai sia da raggiungere la certezza, come siano dafondare i giudizi, in che consistano il sapere e la scien-

20 Vedi a questo proposito il cap. 11 del secondo volume [pp.122-3 del tomo I dell'ed. cit.].

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za, che noi, accanto al linguaggio e all'agire con rifles-sione, vantiamo come il terzo grande privilegio ottenutomediante la ragione.La ragione è di natura femminile: ella può dare soltantodopo di aver ricevuto. Da per sé sola non ha se non levuote forme del suo operare. Non v'è altra conoscenzarazionale in tutto pura, fuori dei quattro principi, ai qualiio ho attribuito verità metalogica, ossia i principi diidentità, di contraddizione, del terzo escluso e di ragionsufficiente. Imperocché perfino il resto della logica nonè già più conoscenza razionale affatto pura, presuppo-nendo i rapporti e le combinazioni delle sfere dei con-cetti. E concetti in genere si hanno soltanto in seguito aprecedenti rappresentazioni intuitive; essendo tuttal'essenza di quelli costituita dalla lor relazione con que-ste, sì che i concetti presuppongono le rappresentazioni.Ma poiché codesta presupposizione non si estende alcontenuto determinato dei concetti bensì soltanto adun'esistenza di essi in genere, può tuttavia la logica, pre-sa nel suo complesso, valere come una pura scienza ra-zionale. In tutte le altre scienze la ragione ha preso ilsuo contenuto dalle rappresentazioni intuitive: nella ma-tematica dalle relazioni, intuitivamente conosciute pri-ma d'ogni esperienza, dello spazio e del tempo; nellascienza naturale pura, ossia in quello che noi sappiamosul corso della natura anteriormente ad ogni esperienza,il contenuto proviene dal puro intelletto, cioè dalla co-noscenza a priori della legge di causalità e del suo col-

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za, che noi, accanto al linguaggio e all'agire con rifles-sione, vantiamo come il terzo grande privilegio ottenutomediante la ragione.La ragione è di natura femminile: ella può dare soltantodopo di aver ricevuto. Da per sé sola non ha se non levuote forme del suo operare. Non v'è altra conoscenzarazionale in tutto pura, fuori dei quattro principi, ai qualiio ho attribuito verità metalogica, ossia i principi diidentità, di contraddizione, del terzo escluso e di ragionsufficiente. Imperocché perfino il resto della logica nonè già più conoscenza razionale affatto pura, presuppo-nendo i rapporti e le combinazioni delle sfere dei con-cetti. E concetti in genere si hanno soltanto in seguito aprecedenti rappresentazioni intuitive; essendo tuttal'essenza di quelli costituita dalla lor relazione con que-ste, sì che i concetti presuppongono le rappresentazioni.Ma poiché codesta presupposizione non si estende alcontenuto determinato dei concetti bensì soltanto adun'esistenza di essi in genere, può tuttavia la logica, pre-sa nel suo complesso, valere come una pura scienza ra-zionale. In tutte le altre scienze la ragione ha preso ilsuo contenuto dalle rappresentazioni intuitive: nella ma-tematica dalle relazioni, intuitivamente conosciute pri-ma d'ogni esperienza, dello spazio e del tempo; nellascienza naturale pura, ossia in quello che noi sappiamosul corso della natura anteriormente ad ogni esperienza,il contenuto proviene dal puro intelletto, cioè dalla co-noscenza a priori della legge di causalità e del suo col-

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legamento con le pure intuizioni dello spazio e del tem-po. In ogni altro sapere tutto ciò che non è tolto dalle in-tuizioni or ora indicate appartiene all'esperienza. Sapere,in generale, significa aver in potere della propria mente,per riprodurli a volontà, quei giudizi, che hanno il lorprincipio sufficiente di conoscenza in qualcosa fuori dise stessi, ossia sono veri. Solo la conoscenza astratta èquindi un sapere; questo è perciò sotto condizione dellaragione; e parlando degli animali, per esser precisi, nonpossiamo dire che essi sappiano, sebbene abbiano cono-scenza intuitiva e, quindi, anche memoria, e perciò fan-tasia: il che d'altronde dimostrano i loro sogni. Ricono-sciamo loro la coscienza; il concetto della quale, perconseguenza, sebbene la parola derivi da scire, viene acoincidere con quello di rappresentazione, di qualunquespecie questa poi sia. Perciò anche s'attribuisce bensì danoi vita alla pianta, ma non coscienza. Sapere è adunquela conscienza astratta: l'aver fissato in concetti della ra-gione ciò che è stato conosciuto per altra via.

§ 11.Ora, da, questo punto di vista il vero contrapposto delsapere è il sentimento, del quale dobbiamo a questopunto introdurre l'esame. Il concetto espresso dalla paro-la sentimento ha un contenuto del tutto negativo, ossiasignifica che qualcosa, presente nella coscienza, non èconcetto, non è conoscenza astratta della ragione. Siapoi d'altronde quel che vuole, sempre va nel concetto di

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legamento con le pure intuizioni dello spazio e del tem-po. In ogni altro sapere tutto ciò che non è tolto dalle in-tuizioni or ora indicate appartiene all'esperienza. Sapere,in generale, significa aver in potere della propria mente,per riprodurli a volontà, quei giudizi, che hanno il lorprincipio sufficiente di conoscenza in qualcosa fuori dise stessi, ossia sono veri. Solo la conoscenza astratta èquindi un sapere; questo è perciò sotto condizione dellaragione; e parlando degli animali, per esser precisi, nonpossiamo dire che essi sappiano, sebbene abbiano cono-scenza intuitiva e, quindi, anche memoria, e perciò fan-tasia: il che d'altronde dimostrano i loro sogni. Ricono-sciamo loro la coscienza; il concetto della quale, perconseguenza, sebbene la parola derivi da scire, viene acoincidere con quello di rappresentazione, di qualunquespecie questa poi sia. Perciò anche s'attribuisce bensì danoi vita alla pianta, ma non coscienza. Sapere è adunquela conscienza astratta: l'aver fissato in concetti della ra-gione ciò che è stato conosciuto per altra via.

§ 11.Ora, da, questo punto di vista il vero contrapposto delsapere è il sentimento, del quale dobbiamo a questopunto introdurre l'esame. Il concetto espresso dalla paro-la sentimento ha un contenuto del tutto negativo, ossiasignifica che qualcosa, presente nella coscienza, non èconcetto, non è conoscenza astratta della ragione. Siapoi d'altronde quel che vuole, sempre va nel concetto di

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sentimento, la cui sfera smisuratamente ampia compren-de le cose più eterogenee; delle quali non si viene acapo di scorgere come possano accozzarsi insieme, finquando non si sia riconosciuto che s'accordano soltantoper questo rispetto negativo, di non essere concettiastratti. Imperocché gli elementi più disparati, anzi i piùcontrastanti stanno tranquillamente l'un presso l'altro inquel concetto; per esempio, sentimento religioso, senti-mento del piacere, sentimento morale, sentimento cor-poreo come tatto, come dolore, come sentimento dei co-lori, dei suoni, e delle loro armonie e disarmonie; senti-mento dell'odio, della ripugnanza, della contentezza disé, dell'onore, dell'onta, del diritto, del torto; sentimentodella verità, sentimento estetico, sentimento di forza, de-bolezza, sanità, amicizia, amore, etc. etc. Nessuna affi-nità passa tra questi sentimenti, se non quella negativadi non essere conoscenze astratte di ragione. Ma è ancorpiù sorprendente, quando perfino la conoscenza intuiti-va a priori delle relazioni spaziali, e oltre a ciò la cono-scenza puramente intellettiva, vengon ricondotte al con-cetto di sentimento; e in genere d'ogni conoscenza,d'ogni verità, della quale si sia consci solo intuitivamen-te, ma che non anco è deposta in concetti astratti, viendetto che la si sente. Di ciò intendo, a mo' di chiarimen-to, riferire alcuni esempi tolti a libri recenti, perché sonoprove efficaci della mia spiegazione. Mi rammentod'aver letto nel proemio d'una traduzione tedesca di Eu-clide, che ai principianti in geometria si debbano far di-segnare tutte le figure, prima di procedere alle dimostra-

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sentimento, la cui sfera smisuratamente ampia compren-de le cose più eterogenee; delle quali non si viene acapo di scorgere come possano accozzarsi insieme, finquando non si sia riconosciuto che s'accordano soltantoper questo rispetto negativo, di non essere concettiastratti. Imperocché gli elementi più disparati, anzi i piùcontrastanti stanno tranquillamente l'un presso l'altro inquel concetto; per esempio, sentimento religioso, senti-mento del piacere, sentimento morale, sentimento cor-poreo come tatto, come dolore, come sentimento dei co-lori, dei suoni, e delle loro armonie e disarmonie; senti-mento dell'odio, della ripugnanza, della contentezza disé, dell'onore, dell'onta, del diritto, del torto; sentimentodella verità, sentimento estetico, sentimento di forza, de-bolezza, sanità, amicizia, amore, etc. etc. Nessuna affi-nità passa tra questi sentimenti, se non quella negativadi non essere conoscenze astratte di ragione. Ma è ancorpiù sorprendente, quando perfino la conoscenza intuiti-va a priori delle relazioni spaziali, e oltre a ciò la cono-scenza puramente intellettiva, vengon ricondotte al con-cetto di sentimento; e in genere d'ogni conoscenza,d'ogni verità, della quale si sia consci solo intuitivamen-te, ma che non anco è deposta in concetti astratti, viendetto che la si sente. Di ciò intendo, a mo' di chiarimen-to, riferire alcuni esempi tolti a libri recenti, perché sonoprove efficaci della mia spiegazione. Mi rammentod'aver letto nel proemio d'una traduzione tedesca di Eu-clide, che ai principianti in geometria si debbano far di-segnare tutte le figure, prima di procedere alle dimostra-

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zioni; affinchè in tal modo essi sentano la verità geome-trica, ancor prima che la dimostrazione dia loro la cono-scenza compiuta. Similmente nella Critica della dottri-na dei costumi di F. Schleiermacher si parla di senti-mento logico e matematico (p. 339), e anche del senti-mento d'identità o differenza di due formule (p. 342);inoltre nella Storia della filosofia di Tennemann, vol. I,p. 361, si legge: «Si sentiva, che i sofismi erano sbaglia-ti, ma non si poteva tuttavia scoprirne il difetto». Finquando questo concetto di sentimento non venga consi-derato da un giusto punto di vista, e non si riconoscaquell'unica caratteristica negativa che gli è propria, essodeve costantemente fornir materia d'equivoci e di conte-se, per l'eccessiva ampiezza della sua sfera, e per il suotenue contenuto, affatto negativo e solo unilateralmentedeterminato. Poiché noi abbiamo in tedesco la voce ab-bastanza corrispondente Empfindung (sensazione), sa-rebbe utile riservar questa per i sentimenti corporei,come una sottospecie. Ma l'origine di quel concetto disentimento, senza paragone sproporzionato in confrontodi tutti gli altri, è fuor d'ogni dubbio la seguente. Tutti iconcetti – e soltanto concetti sono espressi dalle parole– esistono esclusivamente per la ragione, da questaprendono le mosse: si sta dunque con essi già da unpunto di vista unilaterale. Ma guardando da questo pun-to, ciò che è vicino apparisce chiaro, e viene stabilitocome positivo; ciò ch'è lontano si confonde, e vien pre-sto a esser considerato solo negativamente. Nello stessomodo ogni nazione chiama straniere le altre, il greco

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zioni; affinchè in tal modo essi sentano la verità geome-trica, ancor prima che la dimostrazione dia loro la cono-scenza compiuta. Similmente nella Critica della dottri-na dei costumi di F. Schleiermacher si parla di senti-mento logico e matematico (p. 339), e anche del senti-mento d'identità o differenza di due formule (p. 342);inoltre nella Storia della filosofia di Tennemann, vol. I,p. 361, si legge: «Si sentiva, che i sofismi erano sbaglia-ti, ma non si poteva tuttavia scoprirne il difetto». Finquando questo concetto di sentimento non venga consi-derato da un giusto punto di vista, e non si riconoscaquell'unica caratteristica negativa che gli è propria, essodeve costantemente fornir materia d'equivoci e di conte-se, per l'eccessiva ampiezza della sua sfera, e per il suotenue contenuto, affatto negativo e solo unilateralmentedeterminato. Poiché noi abbiamo in tedesco la voce ab-bastanza corrispondente Empfindung (sensazione), sa-rebbe utile riservar questa per i sentimenti corporei,come una sottospecie. Ma l'origine di quel concetto disentimento, senza paragone sproporzionato in confrontodi tutti gli altri, è fuor d'ogni dubbio la seguente. Tutti iconcetti – e soltanto concetti sono espressi dalle parole– esistono esclusivamente per la ragione, da questaprendono le mosse: si sta dunque con essi già da unpunto di vista unilaterale. Ma guardando da questo pun-to, ciò che è vicino apparisce chiaro, e viene stabilitocome positivo; ciò ch'è lontano si confonde, e vien pre-sto a esser considerato solo negativamente. Nello stessomodo ogni nazione chiama straniere le altre, il greco

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chiama barbari gli altri popoli, l'inglese chiama conti-nent e continental ciò che non è Inghilterra o non è in-glese, il devoto chiama eretici o pagani tutti gli altri, pelnobile sono tutti roturiers, per lo studente tutti Philister(filistei), e così via. In questa medesima unilateralità, osi può dire in questa medesima grossolana ignoranzaproveniente da orgoglio, incorre anche la ragione, perquanto ciò possa parere strano, quando comprende sottol'unico concetto di sentimento ogni modificazione dellacoscienza, che non spetti immediatamente alla sua ma-niera di rappresentazione, cioè che non sia concettoastratto. E finora, non essendosi resa conscia del suostesso procedimento per mezzo d'una profonda cono-scenza di se medesima, ha dovuto scontare ciò con equi-voci e smarrimenti nel suo proprio dominio; perché s'èperfino stabilita una particolare facoltà del sentimento, ese ne sono costruite le teorie.

§ 12.Sapere – il cui opposto contraddittorio è il concetto disentimento or ora chiarito – è, come ho detto, ogni co-noscenza astratta, ossia conoscenza di ragione. Ora, poi-ché la ragione offre sempre alla conoscenza solo ciò cheha ricevuto per altro mezzo, non allarga propriamente iconfini della conoscenza, bensì non fa che darle un'altraforma. Ossia ciò ch'era stato conosciuto intuitivamente,in concreto, lo fa conoscere in modo astratto e universa-le. Ma ciò è senza confronto più importante che non

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chiama barbari gli altri popoli, l'inglese chiama conti-nent e continental ciò che non è Inghilterra o non è in-glese, il devoto chiama eretici o pagani tutti gli altri, pelnobile sono tutti roturiers, per lo studente tutti Philister(filistei), e così via. In questa medesima unilateralità, osi può dire in questa medesima grossolana ignoranzaproveniente da orgoglio, incorre anche la ragione, perquanto ciò possa parere strano, quando comprende sottol'unico concetto di sentimento ogni modificazione dellacoscienza, che non spetti immediatamente alla sua ma-niera di rappresentazione, cioè che non sia concettoastratto. E finora, non essendosi resa conscia del suostesso procedimento per mezzo d'una profonda cono-scenza di se medesima, ha dovuto scontare ciò con equi-voci e smarrimenti nel suo proprio dominio; perché s'èperfino stabilita una particolare facoltà del sentimento, ese ne sono costruite le teorie.

§ 12.Sapere – il cui opposto contraddittorio è il concetto disentimento or ora chiarito – è, come ho detto, ogni co-noscenza astratta, ossia conoscenza di ragione. Ora, poi-ché la ragione offre sempre alla conoscenza solo ciò cheha ricevuto per altro mezzo, non allarga propriamente iconfini della conoscenza, bensì non fa che darle un'altraforma. Ossia ciò ch'era stato conosciuto intuitivamente,in concreto, lo fa conoscere in modo astratto e universa-le. Ma ciò è senza confronto più importante che non

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sembri, così formulato, a tutta prima. Imperocché ognisicura conservazione, ogni possibile comunicazione,ogni precisa e ampia applicazione della conoscenza alcampo pratico dipende dall'esser divenuta un sapere,una conoscenza astratta. La conoscenza intuitiva valesempre solamente per un caso solo, si riferisce solo aciò ch'è più vicino, ed a questo si ferma, perché senso eintelletto possono propriamente afferrare un solo ogget-to alla volta. Ogni attività durevole, coordinata, sistema-tica deve perciò muovere da principi, ossia da un sapereastratto, ed esser guidata secondo quelli. Per esempio, laconoscenza che ha l'intelletto del rapporto di causa edeffetto è invero in sé molto più compiuta, profonda edesauriente di quanto possa esserne pensato in abstracto:l'intelletto solo conosce per intuizione, immediatamentee compiutamente, il modo d'agire d'una leva, d'una car-rucola, d'una ruota d'ingranaggio, la stabilità d'una voltaetc. Ma per la proprietà or ora toccata della conoscenzaintuitiva, di riferirsi solo a ciò ch'è immediato e presen-te, l'intelletto non perviene da solo alla costruzione dimacchine e di edifizi: qui deve piuttosto intervenire laragione, porre concetti astratti in luogo d'intuizioni,quelli prendere a guida dell'azione; e il buon successoverrà, se i concetti son giusti. Così nella pura intuizionenoi conosciamo perfettamente l'essenza e la regolaritàd'una parabola o iperbole o spirale; ma per fare nellarealtà una sicura applicazione di tale conoscenza, questadeve dapprima esser diventata sapere astratto; nel cheessa perde, è vero, il carattere intuitivo, ma guadagna in

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sembri, così formulato, a tutta prima. Imperocché ognisicura conservazione, ogni possibile comunicazione,ogni precisa e ampia applicazione della conoscenza alcampo pratico dipende dall'esser divenuta un sapere,una conoscenza astratta. La conoscenza intuitiva valesempre solamente per un caso solo, si riferisce solo aciò ch'è più vicino, ed a questo si ferma, perché senso eintelletto possono propriamente afferrare un solo ogget-to alla volta. Ogni attività durevole, coordinata, sistema-tica deve perciò muovere da principi, ossia da un sapereastratto, ed esser guidata secondo quelli. Per esempio, laconoscenza che ha l'intelletto del rapporto di causa edeffetto è invero in sé molto più compiuta, profonda edesauriente di quanto possa esserne pensato in abstracto:l'intelletto solo conosce per intuizione, immediatamentee compiutamente, il modo d'agire d'una leva, d'una car-rucola, d'una ruota d'ingranaggio, la stabilità d'una voltaetc. Ma per la proprietà or ora toccata della conoscenzaintuitiva, di riferirsi solo a ciò ch'è immediato e presen-te, l'intelletto non perviene da solo alla costruzione dimacchine e di edifizi: qui deve piuttosto intervenire laragione, porre concetti astratti in luogo d'intuizioni,quelli prendere a guida dell'azione; e il buon successoverrà, se i concetti son giusti. Così nella pura intuizionenoi conosciamo perfettamente l'essenza e la regolaritàd'una parabola o iperbole o spirale; ma per fare nellarealtà una sicura applicazione di tale conoscenza, questadeve dapprima esser diventata sapere astratto; nel cheessa perde, è vero, il carattere intuitivo, ma guadagna in

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compenso la certezza e la determinatezza del sapereastratto. Così ogni calcolo differenziale non allarga pun-to la nostra conoscenza delle curve, e nulla contiene chegià non contenesse la semplice intuizione pura di quelle;bensì cambia il modo della conoscenza, trasmuta la co-noscenza intuitiva in astratta, e questo è di grandissimaimportanza per l'applicazione. Ma qui è il momento ditrattar d'un'altra proprietà del nostro potere conoscitivo,che non si poteva bene osservare finora, non essendo deltutto chiarita la distinzione tra conoscenza intuitiva edastratta. Ed è questa: che le relazioni di spazio non pos-sono essere trasferite immediatamente, e come tali, nellaconoscenza astratta; bensì sono a ciò adatte soltanto legrandezze di tempo, ossia i numeri. I numeri soli, non lequantità spaziali, possono venire espressi in concettiastratti, che loro perfettamente corrispondano. Il concet-to mille è altrettanto diverso dal concetto dieci, quantoentrambe le grandezze temporali sono diverse nell'intui-zione: noi pensiamo nel mille un determinato multiplodel dieci; nel quale possiamo scomporre quello a piacereper l'intuizione nel tempo, ossia possiamo contarlo. Mafra il concetto astratto d'un miglio e quello d'un piede,senza nessuna rappresentazione intuitiva d'entrambi esenz'aiuto del numero, non c'è una distinzione netta ecorrispondente a quelle grandezze. In entrambe vienepensata solo una quantità spaziale; e se debbono venirdistinte con sufficiente precisione, bisogna in ogni modoo ricorrere all'intuizione spaziale, abbandonando perciòil dominio della conoscenza astratta, o pensare la diffe-

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compenso la certezza e la determinatezza del sapereastratto. Così ogni calcolo differenziale non allarga pun-to la nostra conoscenza delle curve, e nulla contiene chegià non contenesse la semplice intuizione pura di quelle;bensì cambia il modo della conoscenza, trasmuta la co-noscenza intuitiva in astratta, e questo è di grandissimaimportanza per l'applicazione. Ma qui è il momento ditrattar d'un'altra proprietà del nostro potere conoscitivo,che non si poteva bene osservare finora, non essendo deltutto chiarita la distinzione tra conoscenza intuitiva edastratta. Ed è questa: che le relazioni di spazio non pos-sono essere trasferite immediatamente, e come tali, nellaconoscenza astratta; bensì sono a ciò adatte soltanto legrandezze di tempo, ossia i numeri. I numeri soli, non lequantità spaziali, possono venire espressi in concettiastratti, che loro perfettamente corrispondano. Il concet-to mille è altrettanto diverso dal concetto dieci, quantoentrambe le grandezze temporali sono diverse nell'intui-zione: noi pensiamo nel mille un determinato multiplodel dieci; nel quale possiamo scomporre quello a piacereper l'intuizione nel tempo, ossia possiamo contarlo. Mafra il concetto astratto d'un miglio e quello d'un piede,senza nessuna rappresentazione intuitiva d'entrambi esenz'aiuto del numero, non c'è una distinzione netta ecorrispondente a quelle grandezze. In entrambe vienepensata solo una quantità spaziale; e se debbono venirdistinte con sufficiente precisione, bisogna in ogni modoo ricorrere all'intuizione spaziale, abbandonando perciòil dominio della conoscenza astratta, o pensare la diffe-

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renza in numeri. Se si vuol quindi avere una conoscenzaastratta delle relazioni spaziali, queste prima devon es-ser ridotte a relazioni temporali, ossia in numeri: perciòsolamente l'aritmetica, e non la geometria, è dottrinauniversale delle quantità; e la geometria dev'esser tra-dotta in aritmetica, se vuole avere comunicabilità, deter-minazione precisa, e possibilità d'applicazione al campopratico. È vero che una relazione di spazio si può pensarcome tale anche in abstracto, per esempio: «il seno cre-sce in ragione dell'angolo»; ma se la quantità di questarelazione dev'essere indicata, ha bisogno del numero. Èquesta necessità di convertir lo spazio con le sue tre di-mensioni nel tempo, che ha una dimensione sola, quan-do si voglia aver una conoscenza astratta (ossia un sape-re e non una semplice intuizione) delle sue relazioni; èquesta necessità che rende così difficile la matematica.La cosa diventa chiarissima, se paragoniamo l'intuizionedelle curve col loro calcolo analitico, o anche soltanto letavole dei logaritmi delle funzioni trigonometriche conl'intuizione delle relazioni variabili delle parti del trian-golo, le quali vengono espresse mediante quelle tavole.Ciò che l'intuizione afferra qui in un'occhiata, piena-mente e con la massima precisione, ossia come il cosenodiminuisca col crescer del seno, come il coseno di unangolo sia il seno dell'altro, il rapporto inverso del dimi-nuire o crescere dei due angoli, etc.; di quale immanecontesto di numeri, di qual faticoso computo abbisogne-rebbe, per esprimersi in abstracto! Come deve tormen-tarsi il tempo, si potrebbe dire, con la sua unica dimen-

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renza in numeri. Se si vuol quindi avere una conoscenzaastratta delle relazioni spaziali, queste prima devon es-ser ridotte a relazioni temporali, ossia in numeri: perciòsolamente l'aritmetica, e non la geometria, è dottrinauniversale delle quantità; e la geometria dev'esser tra-dotta in aritmetica, se vuole avere comunicabilità, deter-minazione precisa, e possibilità d'applicazione al campopratico. È vero che una relazione di spazio si può pensarcome tale anche in abstracto, per esempio: «il seno cre-sce in ragione dell'angolo»; ma se la quantità di questarelazione dev'essere indicata, ha bisogno del numero. Èquesta necessità di convertir lo spazio con le sue tre di-mensioni nel tempo, che ha una dimensione sola, quan-do si voglia aver una conoscenza astratta (ossia un sape-re e non una semplice intuizione) delle sue relazioni; èquesta necessità che rende così difficile la matematica.La cosa diventa chiarissima, se paragoniamo l'intuizionedelle curve col loro calcolo analitico, o anche soltanto letavole dei logaritmi delle funzioni trigonometriche conl'intuizione delle relazioni variabili delle parti del trian-golo, le quali vengono espresse mediante quelle tavole.Ciò che l'intuizione afferra qui in un'occhiata, piena-mente e con la massima precisione, ossia come il cosenodiminuisca col crescer del seno, come il coseno di unangolo sia il seno dell'altro, il rapporto inverso del dimi-nuire o crescere dei due angoli, etc.; di quale immanecontesto di numeri, di qual faticoso computo abbisogne-rebbe, per esprimersi in abstracto! Come deve tormen-tarsi il tempo, si potrebbe dire, con la sua unica dimen-

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sione, per rendere le tre dimensioni dello spazio! Maquesto era necessario, se volevamo, all'effetto dell'appli-cazione pratica, posseder le relazioni dello spazio for-mulate in concetti astratti. Quelle non potevano passaredirettamente in questi, ma solo per la trafila della quan-tità puramente temporale, del numero, come quello cheimmediatamente si muta in conoscenza astratta. Inoltreè da notare, che mentre lo spazio è tanto atto all'intuizio-ne, e, per mezzo delle sue tre dimensioni, lascia facil-mente scorgere relazioni anche complicate, esso si sot-trae invece alla conoscenza astratta. Viceversa il temporientra facilmente nei concetti astratti, ma dà invece benpoco all'intuizione. La nostra intuizione dei numeri nelloro proprio elemento, il tempo puro, senza aggiungervilo spazio, giunge appena fino a dieci; più in su abbiamosolamente concetti astratti, ma non conoscenza intuitivadei numeri: al contrario colleghiamo con ciascun nume-ro e con tutti i segni algebrici concetti astratti precisa-mente determinati.Va qui notato di sfuggita, che taluni spiriti trovano pienasoddisfazione solo in ciò che viene conosciuto intuitiva-mente. Causa ed effetto dell'essere nello spazio, intuiti-vamente manifesto, è ciò ch'essi cercano: una dimostra-zione euclidea, o una soluzione aritmetica di problemigeometrici non li attira. Altri spiriti all'opposto doman-dano i concetti astratti, che soli si prestano all'applica-zione e alla comunicazione: essi hanno pazienza e me-moria per i principi astratti, formule, dimostrazioni in

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sione, per rendere le tre dimensioni dello spazio! Maquesto era necessario, se volevamo, all'effetto dell'appli-cazione pratica, posseder le relazioni dello spazio for-mulate in concetti astratti. Quelle non potevano passaredirettamente in questi, ma solo per la trafila della quan-tità puramente temporale, del numero, come quello cheimmediatamente si muta in conoscenza astratta. Inoltreè da notare, che mentre lo spazio è tanto atto all'intuizio-ne, e, per mezzo delle sue tre dimensioni, lascia facil-mente scorgere relazioni anche complicate, esso si sot-trae invece alla conoscenza astratta. Viceversa il temporientra facilmente nei concetti astratti, ma dà invece benpoco all'intuizione. La nostra intuizione dei numeri nelloro proprio elemento, il tempo puro, senza aggiungervilo spazio, giunge appena fino a dieci; più in su abbiamosolamente concetti astratti, ma non conoscenza intuitivadei numeri: al contrario colleghiamo con ciascun nume-ro e con tutti i segni algebrici concetti astratti precisa-mente determinati.Va qui notato di sfuggita, che taluni spiriti trovano pienasoddisfazione solo in ciò che viene conosciuto intuitiva-mente. Causa ed effetto dell'essere nello spazio, intuiti-vamente manifesto, è ciò ch'essi cercano: una dimostra-zione euclidea, o una soluzione aritmetica di problemigeometrici non li attira. Altri spiriti all'opposto doman-dano i concetti astratti, che soli si prestano all'applica-zione e alla comunicazione: essi hanno pazienza e me-moria per i principi astratti, formule, dimostrazioni in

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lunghe serie di sillogismi, e calcoli, i segni dei quali rap-presentano le più complicate astrazioni. Questi cercanodeterminatezza: quelli, intuitività. La differenza è carat-teristica.Il sapere, la conoscenza astratta, ha il suo maggior pre-gio nella comunicabilità e nella possibilità di venir con-servato in forma fissa: con ciò solo diventa così inesti-mabilmente importante per la pratica. Taluno può averenel puro intelletto una conoscenza immediata, intuitivadel nesso causale dei cambiamenti e dei moti dei corpinaturali, e trovare in quella una piena soddisfazione; maessa diviene atta ad esser comunicata, solo dopo che eglil'ha fissata in concetti. Per la pratica è sufficiente unaconoscenza della prima maniera, fin tanto che colui as-sume tutto solo l'attuazione, e quando sia un'azione daeseguirsi allor che ancora è viva la conoscenza intuitiva;ma non più, se egli abbisogna d'aiuto estraneo, o anchedi una propria azione personale da attuarsi in diverseepoche, e quindi d'un piano meditato. Così, per esempio,può un esercitato giocator di bigliardo avere soltantonell'intelletto, soltanto per l'intuizione immediata, unapiena conoscenza delle leggi che riflettono l'urto di cor-pi elastici l'un contro l'altro; e con ciò raggiungere ap-pieno le sue mire: all'opposto solo uno scienziato dellameccanica ha una vera e propria scienza di quelle leggi,ossia ne ha una conoscenza in abstracto. Perfino alla co-struzione di macchine basta la conoscenza intellettualepuramente intuitiva, quando l'inventore della macchina

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lunghe serie di sillogismi, e calcoli, i segni dei quali rap-presentano le più complicate astrazioni. Questi cercanodeterminatezza: quelli, intuitività. La differenza è carat-teristica.Il sapere, la conoscenza astratta, ha il suo maggior pre-gio nella comunicabilità e nella possibilità di venir con-servato in forma fissa: con ciò solo diventa così inesti-mabilmente importante per la pratica. Taluno può averenel puro intelletto una conoscenza immediata, intuitivadel nesso causale dei cambiamenti e dei moti dei corpinaturali, e trovare in quella una piena soddisfazione; maessa diviene atta ad esser comunicata, solo dopo che eglil'ha fissata in concetti. Per la pratica è sufficiente unaconoscenza della prima maniera, fin tanto che colui as-sume tutto solo l'attuazione, e quando sia un'azione daeseguirsi allor che ancora è viva la conoscenza intuitiva;ma non più, se egli abbisogna d'aiuto estraneo, o anchedi una propria azione personale da attuarsi in diverseepoche, e quindi d'un piano meditato. Così, per esempio,può un esercitato giocator di bigliardo avere soltantonell'intelletto, soltanto per l'intuizione immediata, unapiena conoscenza delle leggi che riflettono l'urto di cor-pi elastici l'un contro l'altro; e con ciò raggiungere ap-pieno le sue mire: all'opposto solo uno scienziato dellameccanica ha una vera e propria scienza di quelle leggi,ossia ne ha una conoscenza in abstracto. Perfino alla co-struzione di macchine basta la conoscenza intellettualepuramente intuitiva, quando l'inventore della macchina

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la costruisce egli medesimo da solo, come si vede spes-so fare a ingegnosi operai senz'alcuna scienza: invecenon appena son necessari più uomini ed una loro attivitàcoordinata, esercitantesi in momenti diversi, pel compi-mento d'una operazione meccanica, d'una macchina,d'una costruzione, allora deve colui che li dirige avertracciato il piano in abstracto, e solo mediante il contri-buto della ragione divien possibile una tale attività col-lettiva. Notevole è tuttavia che in quella prima manierad'attività, dove taluno deve eseguir da solo qualcosa inuna ininterrotta operazione, il sapere, l'uso della ragione,la riflessione possono essergli perfino d'impedimento;per esempio nel gioco del bigliardo, nella scherma, nelsuono d'uno strumento, nel canto. Qui dev'esser la cono-scenza intuitiva a guidare direttamente l'attività: il pas-sare per la riflessione la rende malsicura, per il fatto chescinde l'attenzione confonde l'uomo. Perciò selvaggi euomini incolti, i quali sono pochissimo avvezzi a pensa-re, eseguono vari esercizi corporali, lotta con le belve,tiro dell'arco e simili, con una sicurezza e rapidità, che ilriflessivo europeo non raggiunge mai, appunto perché lasua riflessione lo fa tentennare ed esitare: poi ch'eglicerca di trovar, per esempio, il posto buono, o il mo-mento opportuno a pari distanza da due falsi estremi;mentre l'uomo semplice li coglie immediatamente, sen-za deviazioni. Così non m'è d'aiuto il saper indicare inabstracto per gradi e per minuti l'angolo in cui ho daadoperare il rasoio, se non lo conosco intuitivamente,ossia non lo formo naturalmente impugnando il rasoio.

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la costruisce egli medesimo da solo, come si vede spes-so fare a ingegnosi operai senz'alcuna scienza: invecenon appena son necessari più uomini ed una loro attivitàcoordinata, esercitantesi in momenti diversi, pel compi-mento d'una operazione meccanica, d'una macchina,d'una costruzione, allora deve colui che li dirige avertracciato il piano in abstracto, e solo mediante il contri-buto della ragione divien possibile una tale attività col-lettiva. Notevole è tuttavia che in quella prima manierad'attività, dove taluno deve eseguir da solo qualcosa inuna ininterrotta operazione, il sapere, l'uso della ragione,la riflessione possono essergli perfino d'impedimento;per esempio nel gioco del bigliardo, nella scherma, nelsuono d'uno strumento, nel canto. Qui dev'esser la cono-scenza intuitiva a guidare direttamente l'attività: il pas-sare per la riflessione la rende malsicura, per il fatto chescinde l'attenzione confonde l'uomo. Perciò selvaggi euomini incolti, i quali sono pochissimo avvezzi a pensa-re, eseguono vari esercizi corporali, lotta con le belve,tiro dell'arco e simili, con una sicurezza e rapidità, che ilriflessivo europeo non raggiunge mai, appunto perché lasua riflessione lo fa tentennare ed esitare: poi ch'eglicerca di trovar, per esempio, il posto buono, o il mo-mento opportuno a pari distanza da due falsi estremi;mentre l'uomo semplice li coglie immediatamente, sen-za deviazioni. Così non m'è d'aiuto il saper indicare inabstracto per gradi e per minuti l'angolo in cui ho daadoperare il rasoio, se non lo conosco intuitivamente,ossia non lo formo naturalmente impugnando il rasoio.

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Nella stessa maniera ci disturba l'uso della ragionenell'apprezzamento della fisonomia: questo anche deveavvenire direttamente, mediante l'intelletto. Si dice, chel'espressione, il significato dei lineamenti si può solosentire, ossia che appunto non rientra nei concetti astrat-ti. Ciascun uomo ha la sua immediata fisiognomica epatognomica intuitiva: ma l'uno riconosce più chiara-mente che l'altro quella signatura rerum. Una fisiogno-mica in abstracto, che si possa insegnare ed apprendere,non si può costruire; perché le sfumature sono qui tantofine, che il concetto non vi può discendere. Quindi il sa-pere astratto si comporta di fronte a quelle come una fi-gura a mosaico di fronte a una di van der Werft o Den-ner; come, per fino che sia il mosaico, rimangono tutta-via sempre visibili i contorni d'ogni pietruzza e non èperciò possibile il passaggio continuo da una tintaall'altra; così anche i concetti con la loro rigidità e la lornetta limitazione, per quanto sottilmente si possano sud-dividere mediante una più minuta determinazione, sonopur sempre incapaci di raggiungere le fine sfumaturedell'intuizione, che son quelle che importano appuntonella fisiognomica qui addotta ad esempio21.

21 Io sono perciò d'avviso che la fisiognomica non possa proce-der con sicurezza oltre la fissazione di alcune regole affattogenerali, come per esempio queste: nella fronte e nell'occhiosi può leggere il valore intellettuale, nella bocca e nella metàinferiore del volto il valore etico, la manifestazione della vo-lontà; – fronte e occhio si dilucidano a vicenda; ciascuno diessi, veduto senza l'altro, è comprensibile solo a metà; – il ge-

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Nella stessa maniera ci disturba l'uso della ragionenell'apprezzamento della fisonomia: questo anche deveavvenire direttamente, mediante l'intelletto. Si dice, chel'espressione, il significato dei lineamenti si può solosentire, ossia che appunto non rientra nei concetti astrat-ti. Ciascun uomo ha la sua immediata fisiognomica epatognomica intuitiva: ma l'uno riconosce più chiara-mente che l'altro quella signatura rerum. Una fisiogno-mica in abstracto, che si possa insegnare ed apprendere,non si può costruire; perché le sfumature sono qui tantofine, che il concetto non vi può discendere. Quindi il sa-pere astratto si comporta di fronte a quelle come una fi-gura a mosaico di fronte a una di van der Werft o Den-ner; come, per fino che sia il mosaico, rimangono tutta-via sempre visibili i contorni d'ogni pietruzza e non èperciò possibile il passaggio continuo da una tintaall'altra; così anche i concetti con la loro rigidità e la lornetta limitazione, per quanto sottilmente si possano sud-dividere mediante una più minuta determinazione, sonopur sempre incapaci di raggiungere le fine sfumaturedell'intuizione, che son quelle che importano appuntonella fisiognomica qui addotta ad esempio21.

21 Io sono perciò d'avviso che la fisiognomica non possa proce-der con sicurezza oltre la fissazione di alcune regole affattogenerali, come per esempio queste: nella fronte e nell'occhiosi può leggere il valore intellettuale, nella bocca e nella metàinferiore del volto il valore etico, la manifestazione della vo-lontà; – fronte e occhio si dilucidano a vicenda; ciascuno diessi, veduto senza l'altro, è comprensibile solo a metà; – il ge-

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Questa medesima costituzione dei concetti, che li fa si-mili alle pietruzze della figura musiva, e grazie alla qua-le l'intuizione rimane sempre la loro asintote, è anche ilmotivo, per cui nell'arte nulla vien fatto di buono conessi. Se il cantante, il musicista vuol prodursi con la gui-da della riflessione, si demolisce. Lo stesso vale per ilcompositore, il pittore, il poeta stesso: il concetto rima-ne sempre infruttuoso per l'arte. Esso non può guidare inlei che la tecnica: suo dominio è la scienza. Nel terzo li-bro esamineremo più da vicino, perché ogni vera arteprovenga dalla conoscenza intuitiva, non mai dal con-cetto. Perfino riguardo al modo di contenersi, alla piace-volezza nei rapporti sociali, il concetto non serve se nonnegativamente, per trattenere le grossolane esplosionidell'egoismo e della bestialità, come d'altra parte è suolodevole frutto la cortesia: ma ciò che attira, ciò che ègrazioso, avvincente nel contegno, amorevole e gentile,non deve provenire dal concetto: in caso contrario

fühlt man Absicht und man ist verstimmt[si sente il voluto e si è male disposti].

nio non va mai senza una fronte alta, ampia, ben curvata; maquesta si ha sovente senza quello; – da un aspetto intelligentesi può concludere per l'intelligenza con tanto più di sicurezza,quanto è più brutto il volto; e da un aspetto sciocco si puòconcludere per la sciocchezza, tanto più sicuramente, quantopiù il volto è bello. Perché la bellezza, concepita come ade-guatezza al tipo dell'umanità, contiene già in sé e per sél'espressione della chiarezza intellettuale, e la bruttezza sicomporta al contrario.

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Questa medesima costituzione dei concetti, che li fa si-mili alle pietruzze della figura musiva, e grazie alla qua-le l'intuizione rimane sempre la loro asintote, è anche ilmotivo, per cui nell'arte nulla vien fatto di buono conessi. Se il cantante, il musicista vuol prodursi con la gui-da della riflessione, si demolisce. Lo stesso vale per ilcompositore, il pittore, il poeta stesso: il concetto rima-ne sempre infruttuoso per l'arte. Esso non può guidare inlei che la tecnica: suo dominio è la scienza. Nel terzo li-bro esamineremo più da vicino, perché ogni vera arteprovenga dalla conoscenza intuitiva, non mai dal con-cetto. Perfino riguardo al modo di contenersi, alla piace-volezza nei rapporti sociali, il concetto non serve se nonnegativamente, per trattenere le grossolane esplosionidell'egoismo e della bestialità, come d'altra parte è suolodevole frutto la cortesia: ma ciò che attira, ciò che ègrazioso, avvincente nel contegno, amorevole e gentile,non deve provenire dal concetto: in caso contrario

fühlt man Absicht und man ist verstimmt[si sente il voluto e si è male disposti].

nio non va mai senza una fronte alta, ampia, ben curvata; maquesta si ha sovente senza quello; – da un aspetto intelligentesi può concludere per l'intelligenza con tanto più di sicurezza,quanto è più brutto il volto; e da un aspetto sciocco si puòconcludere per la sciocchezza, tanto più sicuramente, quantopiù il volto è bello. Perché la bellezza, concepita come ade-guatezza al tipo dell'umanità, contiene già in sé e per sél'espressione della chiarezza intellettuale, e la bruttezza sicomporta al contrario.

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Ogni finzione è frutto di riflessione; ma alla lunga e dicontinuo la finzione non può durare: nemo potest perso-nam diu ferre fictam, dice Seneca, nel libro De clemen-tia: inoltre essa viene il più delle volte smascherata, emanca il suo effetto. In un alto fervore di vita, dove oc-corre veloce risoluzione, azione ardita, rapida e fermainiziativa, è bensì la ragione necessaria; ma può facil-mente guastare tutto se prende il sopravvento. Allora,generando confusione, impedisce la trovata intuitiva, di-retta, puramente intellettiva, la pronta e giusta risoluzio-ne, ed è causa d'irresolutezza.Finalmente, anche virtù e santità non provengono dallariflessione, ma dall'intima profondità del volere e dallasua relazione col conoscere. Il dimostrar ciò spetta atutt'altro luogo di quest'opera: qui voglio soltanto osser-vare, che i dogmi riferentisi al mondo etico possono es-sere i medesimi nella ragione di popoli interi, ma diver-so l'agire in ogni individuo, e viceversa. Si agisce, comesuol dirsi, per sentimenti: ossia non per concetti, ossianon secondo il lor contenuto etico. I dogmi tengono oc-cupata la pigra ragione: l'azione procede indipendenteda quelli pel suo cammino, il più delle volte secondomassime non astratte, ma inespresse, di cui è espressio-ne appunto tutto l'uomo, medesimo. Quindi, per quantodiversi siano i dogmi religiosi dei popoli, pure è per tutticausa d'inesprimibile contento la buona azione, e la cat-tiva è accompagnata da orrore infinito. Nessun dileggioscuote quel contento; nessuna assoluzione del confesso-

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Ogni finzione è frutto di riflessione; ma alla lunga e dicontinuo la finzione non può durare: nemo potest perso-nam diu ferre fictam, dice Seneca, nel libro De clemen-tia: inoltre essa viene il più delle volte smascherata, emanca il suo effetto. In un alto fervore di vita, dove oc-corre veloce risoluzione, azione ardita, rapida e fermainiziativa, è bensì la ragione necessaria; ma può facil-mente guastare tutto se prende il sopravvento. Allora,generando confusione, impedisce la trovata intuitiva, di-retta, puramente intellettiva, la pronta e giusta risoluzio-ne, ed è causa d'irresolutezza.Finalmente, anche virtù e santità non provengono dallariflessione, ma dall'intima profondità del volere e dallasua relazione col conoscere. Il dimostrar ciò spetta atutt'altro luogo di quest'opera: qui voglio soltanto osser-vare, che i dogmi riferentisi al mondo etico possono es-sere i medesimi nella ragione di popoli interi, ma diver-so l'agire in ogni individuo, e viceversa. Si agisce, comesuol dirsi, per sentimenti: ossia non per concetti, ossianon secondo il lor contenuto etico. I dogmi tengono oc-cupata la pigra ragione: l'azione procede indipendenteda quelli pel suo cammino, il più delle volte secondomassime non astratte, ma inespresse, di cui è espressio-ne appunto tutto l'uomo, medesimo. Quindi, per quantodiversi siano i dogmi religiosi dei popoli, pure è per tutticausa d'inesprimibile contento la buona azione, e la cat-tiva è accompagnata da orrore infinito. Nessun dileggioscuote quel contento; nessuna assoluzione del confesso-

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re libera da quell'orrore. Tuttavia non si vuol negare conquesto, che l'uso della ragione sia necessario nella prati-ca continuata della virtù: soltanto, la ragione non è lafonte di questa; bensì la sua funzione è subordinata, econsiste nell'osservanza di deliberazioni già prese, neltener presenti le massime, per resistere alle debolezzemomentanee e agire conseguentemente. Lo stesso uffi-cio compie la ragione anche nell'arte, dov'essa non habensì alcun potere sostanziale, ma sorregge l'esecuzio-ne; appunto perché il genio non sta a disposizione in tut-ti i momenti, mentre l'opera dev'essere compiuta in ognisua parte e arrotondata in un tutto22.

§ 13.Tutte queste considerazioni, sì intorno all'utilità che allosvantaggio dell'impiego della ragione, devono servire arender chiaro, che sebbene il sapere astratto sia il rifles-so della rappresentazione intuitiva e si fondi su questa,non è tuttavia in alcun modo identico a lei, sì da poterfare ovunque le sue veci. Anzi, non le corrisponde maiperfettamente; quindi, come abbiamo veduto, è vero chemolte delle azioni umane vengono a buon termine solocon l'aiuto della ragione e della condotta meditata, matalune riescon meglio senza. Appunto quella incon-gruenza del conoscere intuitivo e dell'astratto, in graziadella quale quest'ultimo s'agguaglia al primo solo ap-prossimativamente, come il mosaico alla pittura, è an-

22 V. il cap. 7 del secondo volume [pp. 75-94 del tomo I dell'ed. cit.].

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re libera da quell'orrore. Tuttavia non si vuol negare conquesto, che l'uso della ragione sia necessario nella prati-ca continuata della virtù: soltanto, la ragione non è lafonte di questa; bensì la sua funzione è subordinata, econsiste nell'osservanza di deliberazioni già prese, neltener presenti le massime, per resistere alle debolezzemomentanee e agire conseguentemente. Lo stesso uffi-cio compie la ragione anche nell'arte, dov'essa non habensì alcun potere sostanziale, ma sorregge l'esecuzio-ne; appunto perché il genio non sta a disposizione in tut-ti i momenti, mentre l'opera dev'essere compiuta in ognisua parte e arrotondata in un tutto22.

§ 13.Tutte queste considerazioni, sì intorno all'utilità che allosvantaggio dell'impiego della ragione, devono servire arender chiaro, che sebbene il sapere astratto sia il rifles-so della rappresentazione intuitiva e si fondi su questa,non è tuttavia in alcun modo identico a lei, sì da poterfare ovunque le sue veci. Anzi, non le corrisponde maiperfettamente; quindi, come abbiamo veduto, è vero chemolte delle azioni umane vengono a buon termine solocon l'aiuto della ragione e della condotta meditata, matalune riescon meglio senza. Appunto quella incon-gruenza del conoscere intuitivo e dell'astratto, in graziadella quale quest'ultimo s'agguaglia al primo solo ap-prossimativamente, come il mosaico alla pittura, è an-

22 V. il cap. 7 del secondo volume [pp. 75-94 del tomo I dell'ed. cit.].

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che il motivo d'un fenomeno molto singolare; il quale,appunto come la ragione, è proprio esclusivamente dellanatura umana. Le spiegazioni sempre nuove che ne fu-ron tentate finora sono tutte insufficienti: intendo parlaredel riso. In virtù di questa sua origine, non possiamosottrarci qui ad una spiegazione di esso, sebbene ne ven-ga ancora ritardato il nostro cammino. Il riso volta pervolta nasce da nient'altro che da un'incongruenza, im-provvisamente percepita, fra un, concetto e gli oggettireali, che erano pensati mediante quel concetto, in unarelazione qualsiasi: ed esso medesimo è proprio sola-mente l'espressione di tale incongruenza. Questa è pro-dotta sovente da ciò, che due o più oggetti reali sonopensati mediante un unico concetto, la cui identità è tra-sportata in essi: ma tosto una completa dissomiglianzaloro nel resto rende palese che il concetto conveniva adessi sotto un solo punto di vista. Tuttavia è altrettantofrequente un unico oggetto reale, la cui incongruenzacol concetto, a cui da un lato era stato sussunto con ra-gione, divien sensibile d'un tratto. Quanto è più giustada un lato la sussunzione di tali oggetti reali sotto unconcetto, e più grossa e stridente dall'altro la loro discor-danza da quello; tanto più forte è l'azione del ridicoloemergente a questo contrasto. Ogni riso è provocatoquindi da una sussunzione paradossale e quindi inattesa,si esprima questa in parole od in atti. Tale è, in breve,l'esatta spiegazione del ridicolo.Non m'indugierò qui a narrare aneddoti ed esempi per

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che il motivo d'un fenomeno molto singolare; il quale,appunto come la ragione, è proprio esclusivamente dellanatura umana. Le spiegazioni sempre nuove che ne fu-ron tentate finora sono tutte insufficienti: intendo parlaredel riso. In virtù di questa sua origine, non possiamosottrarci qui ad una spiegazione di esso, sebbene ne ven-ga ancora ritardato il nostro cammino. Il riso volta pervolta nasce da nient'altro che da un'incongruenza, im-provvisamente percepita, fra un, concetto e gli oggettireali, che erano pensati mediante quel concetto, in unarelazione qualsiasi: ed esso medesimo è proprio sola-mente l'espressione di tale incongruenza. Questa è pro-dotta sovente da ciò, che due o più oggetti reali sonopensati mediante un unico concetto, la cui identità è tra-sportata in essi: ma tosto una completa dissomiglianzaloro nel resto rende palese che il concetto conveniva adessi sotto un solo punto di vista. Tuttavia è altrettantofrequente un unico oggetto reale, la cui incongruenzacol concetto, a cui da un lato era stato sussunto con ra-gione, divien sensibile d'un tratto. Quanto è più giustada un lato la sussunzione di tali oggetti reali sotto unconcetto, e più grossa e stridente dall'altro la loro discor-danza da quello; tanto più forte è l'azione del ridicoloemergente a questo contrasto. Ogni riso è provocatoquindi da una sussunzione paradossale e quindi inattesa,si esprima questa in parole od in atti. Tale è, in breve,l'esatta spiegazione del ridicolo.Non m'indugierò qui a narrare aneddoti ed esempi per

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chiarire la mia spiegazione, essendo questa tanto sem-plice e agevole, da non averne bisogno; e ciascun casoridicolo, di cui si sovvenga il lettore, serve in egualmodo di prova. Ma forse la nostra spiegazione riceveconferma e chiarimento insieme dalla distinzione di duegeneri del ridicolo, che appunto ne risultano. Può acca-dere che si siano trovati prima nella conoscenza due opiù oggetti reali meno diversi (rappresentazioni intuiti-ve) e li si abbia arbitrariamente eguagliati nell'unità diun concetto che li racchiude entrambi: questo modo diridicolo si chiama spirito. O, viceversa, il giudizio è pri-mo a trovarsi nella conoscenza, e si parte da esso per ve-nire alla realtà e all'azione sulla realtà, alla pratica. Inquesto caso oggetti nel resto fondamentalmente diversi,ma tutti pensati sotto quel concetto, vengono ora riguar-dati e trattati ad un modo, fin quando la lor grande di-versità in tutto il rimanente balza fuori, producendo sor-presa e stupore in chi agisce: questo genere di ridicolo sichiama buffoneria. Per conseguenza ogni ridicolo è unatrovata umoristica, oppure un'azione buffonesca, a se-conda che si proceda dalla discrepanza degli oggettiall'identità del concetto, o viceversa. Il primo caso èsempre volontario, il secondo sempre involontario edimposto esteriormente. Aver l'aria di permutare questipunti di partenza, e mascherare l'umorismo da buffone-ria, è l'arte del buffone di corte e del pagliaccio: di chi,pur essendo ben conscio della diversità degli oggetti, liravvicina, con celata arguzia, sotto un concetto; e par-tendo poi da questo, ricava dalla diversità degli oggetti,

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chiarire la mia spiegazione, essendo questa tanto sem-plice e agevole, da non averne bisogno; e ciascun casoridicolo, di cui si sovvenga il lettore, serve in egualmodo di prova. Ma forse la nostra spiegazione riceveconferma e chiarimento insieme dalla distinzione di duegeneri del ridicolo, che appunto ne risultano. Può acca-dere che si siano trovati prima nella conoscenza due opiù oggetti reali meno diversi (rappresentazioni intuiti-ve) e li si abbia arbitrariamente eguagliati nell'unità diun concetto che li racchiude entrambi: questo modo diridicolo si chiama spirito. O, viceversa, il giudizio è pri-mo a trovarsi nella conoscenza, e si parte da esso per ve-nire alla realtà e all'azione sulla realtà, alla pratica. Inquesto caso oggetti nel resto fondamentalmente diversi,ma tutti pensati sotto quel concetto, vengono ora riguar-dati e trattati ad un modo, fin quando la lor grande di-versità in tutto il rimanente balza fuori, producendo sor-presa e stupore in chi agisce: questo genere di ridicolo sichiama buffoneria. Per conseguenza ogni ridicolo è unatrovata umoristica, oppure un'azione buffonesca, a se-conda che si proceda dalla discrepanza degli oggettiall'identità del concetto, o viceversa. Il primo caso èsempre volontario, il secondo sempre involontario edimposto esteriormente. Aver l'aria di permutare questipunti di partenza, e mascherare l'umorismo da buffone-ria, è l'arte del buffone di corte e del pagliaccio: di chi,pur essendo ben conscio della diversità degli oggetti, liravvicina, con celata arguzia, sotto un concetto; e par-tendo poi da questo, ricava dalla diversità degli oggetti,

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in seguito scoperta, quella sorpresa che egli stesso s'erapreparata. Da questa breve, ma sufficiente teoria del ri-dicolo appare che (facendo astrazione dall'ultimo casocitato del burlone), lo spirito si deve mostrar sempre aparole, la buffoneria invece il più sovente nei fatti, seb-bene a volte si mostri anche a parole, come quando nonfa che esporre il suo proposito invece di eseguirlo, o simanifesta soltanto in giudizi ed opinioni.Alla buffoneria appartiene anche la pedanteria. Essaproviene dall'aver poca fiducia nel nostro intelletto, edal non poterlo lasciar libero di trovare immediatamentela via giusta in ogni singolo caso; quindi lo si colloca intutto e per tutto sotto la tutela della ragione, e ci si vuolservire sempre di questa: ossia muover sempre da con-cetti universali, regole, massime; ed attenervisi esatta-mente nella vita, nell'arte, perfino nella buona condottamorale. Di qui l'attaccamento, caratteristico della pedan-teria, alla forma, alla maniera, all'espressione, alla paro-la; che per lei si sostituiscono all'assenza della cosa. Al-lora non si tarda a veder l'incongruenza del concetto conla realtà; si vede come quello non scende mai fino alparticolare, e come quella universalità e rigida determi-natezza non possa mai adattarsi alle fine sfumature ealle variate modificazioni della realtà. Quindi il pedantecon le sue massime generali si trova sempre al disottonella vita, e si mostra inetto, insulso, inservibile;nell'arte, per la quale il concetto è sterile, produce abortiesanimi, rigidi, artificiosi. Perfino il rispetto etico il pro-

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in seguito scoperta, quella sorpresa che egli stesso s'erapreparata. Da questa breve, ma sufficiente teoria del ri-dicolo appare che (facendo astrazione dall'ultimo casocitato del burlone), lo spirito si deve mostrar sempre aparole, la buffoneria invece il più sovente nei fatti, seb-bene a volte si mostri anche a parole, come quando nonfa che esporre il suo proposito invece di eseguirlo, o simanifesta soltanto in giudizi ed opinioni.Alla buffoneria appartiene anche la pedanteria. Essaproviene dall'aver poca fiducia nel nostro intelletto, edal non poterlo lasciar libero di trovare immediatamentela via giusta in ogni singolo caso; quindi lo si colloca intutto e per tutto sotto la tutela della ragione, e ci si vuolservire sempre di questa: ossia muover sempre da con-cetti universali, regole, massime; ed attenervisi esatta-mente nella vita, nell'arte, perfino nella buona condottamorale. Di qui l'attaccamento, caratteristico della pedan-teria, alla forma, alla maniera, all'espressione, alla paro-la; che per lei si sostituiscono all'assenza della cosa. Al-lora non si tarda a veder l'incongruenza del concetto conla realtà; si vede come quello non scende mai fino alparticolare, e come quella universalità e rigida determi-natezza non possa mai adattarsi alle fine sfumature ealle variate modificazioni della realtà. Quindi il pedantecon le sue massime generali si trova sempre al disottonella vita, e si mostra inetto, insulso, inservibile;nell'arte, per la quale il concetto è sterile, produce abortiesanimi, rigidi, artificiosi. Perfino il rispetto etico il pro-

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posito d'agir giustamente o nobilmente non può sempreessere attuato secondo massime astratte; perché in molticasi la natura delle circostanze con le loro infinite, deli-cate sfumature richiede una scelta della vita giustaemersa lì per lì dal carattere dell'individuo. Invecel'applicazione di pure massime astratte in parte da cattivirisultati, perché queste non convengono che a metà; inparte non si può fare, quando le massime sono estraneeal carattere individuale di chi agisce, e questi non puòrinnegar del tutto se stesso: da ciò possono derivare in-conseguenze. Non possiamo assolvere pienamente Kantdall'accusa di pedanteria, quando pone a condizione delvalore morale di un atto, che questo si faccia secondopure massime astratte razionali, senz'alcuna inclinazioneo eccitazione del momento; accusa che è anche il sensodell'epigramma schilleriano «Scrupolo di coscienza».Quando, soprattutto in cose politiche, si parla di dottri-nari, teorici, eruditi, etc., s'intendono sempre pedanti:ossia persone che conoscono bensì le cose in abstracto,ma non in concreto. L'astrazione consiste nel cancellardal pensiero le circostanze particolari: mentre sono ap-punto queste, che hanno grande importanza nella prati-ca.Per compiere la teoria è da ricordare ancora un falso ge-nere di spirito: il giuoco di parole, calembourg, pun, alquale si può ravvicinare anche il doppio senso, l’équivo-que, usato principalmente per l'oscenità. Come lo spiritoforza due oggetti reali ben diversi a stare sotto un con-

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posito d'agir giustamente o nobilmente non può sempreessere attuato secondo massime astratte; perché in molticasi la natura delle circostanze con le loro infinite, deli-cate sfumature richiede una scelta della vita giustaemersa lì per lì dal carattere dell'individuo. Invecel'applicazione di pure massime astratte in parte da cattivirisultati, perché queste non convengono che a metà; inparte non si può fare, quando le massime sono estraneeal carattere individuale di chi agisce, e questi non puòrinnegar del tutto se stesso: da ciò possono derivare in-conseguenze. Non possiamo assolvere pienamente Kantdall'accusa di pedanteria, quando pone a condizione delvalore morale di un atto, che questo si faccia secondopure massime astratte razionali, senz'alcuna inclinazioneo eccitazione del momento; accusa che è anche il sensodell'epigramma schilleriano «Scrupolo di coscienza».Quando, soprattutto in cose politiche, si parla di dottri-nari, teorici, eruditi, etc., s'intendono sempre pedanti:ossia persone che conoscono bensì le cose in abstracto,ma non in concreto. L'astrazione consiste nel cancellardal pensiero le circostanze particolari: mentre sono ap-punto queste, che hanno grande importanza nella prati-ca.Per compiere la teoria è da ricordare ancora un falso ge-nere di spirito: il giuoco di parole, calembourg, pun, alquale si può ravvicinare anche il doppio senso, l’équivo-que, usato principalmente per l'oscenità. Come lo spiritoforza due oggetti reali ben diversi a stare sotto un con-

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cetto, così il giuoco di parola riunisce con l'aiuto delcaso due concetti differenti in un'unica parola. Ne vienelo stesso contrasto, ma molto più fiacco e superficiale,essendo sorto non dall'essenza delle cose, bensì dal casodelle denominazioni. Il vero spirito ha identità nel con-cetto, differenza nella realtà; col giuoco di parole invecesi ha differenza nei concetti e identità nella realtà, consi-derando come tale il suono della parola. Sarebbe un pa-ragone un po' troppo ricercato, il dire che il giuoco diparole sta allo spirito come la parabola del cono supe-riore rovesciato sta a quella dell'inferiore. Il fraintendi-mento della parola poi, ossia il quid pro quo, è il calem-bourg involontario, e sta a questo proprio come la buffo-neria all'umorismo. Perciò un uomo duro d'orecchi può,come il buffone, dar materia al riso; e i commediografiscadenti se ne servono in luogo di quello.Ho considerato qui il riso unicamente dal lato psichico;sotto l'aspetto fisico si vegga quanto se ne dice nei Pa-rerga, vol. II, Cap. 6, § 96, p. 134 (prima ediz.)23.

§ 14.Dopo tutte queste varie considerazioni (le quali è spera-bile abbian posto in piena luce la differenza e la relazio-ne fra il modo di conoscere della ragione, ossia il sape-re, il concetto, da un lato, e dall'altro la conoscenza im-mediata nella pura intuizione sensibile e matematica,

23 Si veda il cap. 8 del secondo volume [pp. 95-105 del tomo I dell'ed. cit.].

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cetto, così il giuoco di parola riunisce con l'aiuto delcaso due concetti differenti in un'unica parola. Ne vienelo stesso contrasto, ma molto più fiacco e superficiale,essendo sorto non dall'essenza delle cose, bensì dal casodelle denominazioni. Il vero spirito ha identità nel con-cetto, differenza nella realtà; col giuoco di parole invecesi ha differenza nei concetti e identità nella realtà, consi-derando come tale il suono della parola. Sarebbe un pa-ragone un po' troppo ricercato, il dire che il giuoco diparole sta allo spirito come la parabola del cono supe-riore rovesciato sta a quella dell'inferiore. Il fraintendi-mento della parola poi, ossia il quid pro quo, è il calem-bourg involontario, e sta a questo proprio come la buffo-neria all'umorismo. Perciò un uomo duro d'orecchi può,come il buffone, dar materia al riso; e i commediografiscadenti se ne servono in luogo di quello.Ho considerato qui il riso unicamente dal lato psichico;sotto l'aspetto fisico si vegga quanto se ne dice nei Pa-rerga, vol. II, Cap. 6, § 96, p. 134 (prima ediz.)23.

§ 14.Dopo tutte queste varie considerazioni (le quali è spera-bile abbian posto in piena luce la differenza e la relazio-ne fra il modo di conoscere della ragione, ossia il sape-re, il concetto, da un lato, e dall'altro la conoscenza im-mediata nella pura intuizione sensibile e matematica,

23 Si veda il cap. 8 del secondo volume [pp. 95-105 del tomo I dell'ed. cit.].

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nonché il suo apprendimento da parte dell'intelletto); equindi dopo le dilucidazioni episodiche intorno al senti-mento ed al riso – cui siamo stati condotti quasi inevita-bilmente attraverso l'esame di quella singolare relazionedei nostri modi di conoscenza – riprendo ora a spiegareche cosa sia la scienza: come quella che accanto al lin-guaggio e all'azione meditata, è il terzo privilegio con-cesso all'uomo dalla ragione. L'esame generale dellascienza, che qui c'incombe, toccherà per una parte la suaforma, per l'altra il fondamento dei suoi giudizi, e final-mente anche il suo contenuto.Abbiamo veduto che – facendo eccezione del fonda-mento della logica pura – nessun altro sapere ha la suaorigine nella ragione; bensì, attinto da altra sorgente inqualità di conoscenza intuitiva, nella ragione viene de-positato, passando così in un modo di conoscenza affat-to diverso: la conoscenza astratta. Ogni sapere, ossiaogni conoscenza elevata alla coscienza in abstracto, staalla vera e propria scienza come un frammento sta altutto. Ciascun uomo, sia per esperienza, sia per conside-razione dei singoli dati, ha raggiunto un sapere intornoad oggetti svariati: ma solo chi s'impone d'acquistarecompiuta conoscenza in abstracto d'una data specied'oggetti, aspira veramente alla scienza. Solo per mezzodel concetto può isolare quella specie: quindi al sommod'ogni scienza sta un concetto, mediante il quale dalcomplesso di tutte le cose viene staccata una parte, dicui la scienza promette una piena cognizione in abstrac-

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nonché il suo apprendimento da parte dell'intelletto); equindi dopo le dilucidazioni episodiche intorno al senti-mento ed al riso – cui siamo stati condotti quasi inevita-bilmente attraverso l'esame di quella singolare relazionedei nostri modi di conoscenza – riprendo ora a spiegareche cosa sia la scienza: come quella che accanto al lin-guaggio e all'azione meditata, è il terzo privilegio con-cesso all'uomo dalla ragione. L'esame generale dellascienza, che qui c'incombe, toccherà per una parte la suaforma, per l'altra il fondamento dei suoi giudizi, e final-mente anche il suo contenuto.Abbiamo veduto che – facendo eccezione del fonda-mento della logica pura – nessun altro sapere ha la suaorigine nella ragione; bensì, attinto da altra sorgente inqualità di conoscenza intuitiva, nella ragione viene de-positato, passando così in un modo di conoscenza affat-to diverso: la conoscenza astratta. Ogni sapere, ossiaogni conoscenza elevata alla coscienza in abstracto, staalla vera e propria scienza come un frammento sta altutto. Ciascun uomo, sia per esperienza, sia per conside-razione dei singoli dati, ha raggiunto un sapere intornoad oggetti svariati: ma solo chi s'impone d'acquistarecompiuta conoscenza in abstracto d'una data specied'oggetti, aspira veramente alla scienza. Solo per mezzodel concetto può isolare quella specie: quindi al sommod'ogni scienza sta un concetto, mediante il quale dalcomplesso di tutte le cose viene staccata una parte, dicui la scienza promette una piena cognizione in abstrac-

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to. Per esempio il concetto delle relazioni spaziali, odell'azione reciproca dei corpi organici, o della naturadelle piante e degli animali, o delle successive trasfor-mazioni della superficie della terra, o dell'evoluzionecomplessiva del genere umano, o della formazione d'unalingua, e così via. Se la scienza volesse acquistar cogni-zione del suo campo, indagando ad una ad una tutte lecose pensate col concetto, e venendo così a poco a pocoa conoscere il tutto, né la memoria umana basterebbeallo scopo, né si raggiungerebbe mai la certezza d'avertutto conosciuto. Perciò la scienza si vale della proprie-tà, più sopra illustrata, che hanno le sfere concettuali, diesser comprese l'una nell'altra; e considera principal-mente le sfere più ampie fra quelle che si trovano rac-chiuse nel concetto del suo oggetto. Quando ha determi-nato le loro relazioni reciproche, ha contemporaneamen-te determinato in genere tutto ciò che in quelle sfere vie-ne pensato e che ora sarà determinato con sempre mag-giore precisione, man mano che si vengano ad isolaresfere concettuali più ristrette. Così diventa possibile aduna scienza di abbracciare completamente il suo ogget-to. E questa via, che conduce alla conoscenza proceden-do dall'universale verso il particolare, distingue la scien-za dal sapere comune: quindi la forma sistematica è unacaratteristica essenziale della scienza. Il collegamentodelle più vaste sfere concettuali d'ogni scienza, ossia laconoscenza dei suoi principi superiori, è condizione as-soluta del suo apprendimento: rimane poi ad arbitriodello scienziato il punto a cui vuol pervenire, scendendo

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to. Per esempio il concetto delle relazioni spaziali, odell'azione reciproca dei corpi organici, o della naturadelle piante e degli animali, o delle successive trasfor-mazioni della superficie della terra, o dell'evoluzionecomplessiva del genere umano, o della formazione d'unalingua, e così via. Se la scienza volesse acquistar cogni-zione del suo campo, indagando ad una ad una tutte lecose pensate col concetto, e venendo così a poco a pocoa conoscere il tutto, né la memoria umana basterebbeallo scopo, né si raggiungerebbe mai la certezza d'avertutto conosciuto. Perciò la scienza si vale della proprie-tà, più sopra illustrata, che hanno le sfere concettuali, diesser comprese l'una nell'altra; e considera principal-mente le sfere più ampie fra quelle che si trovano rac-chiuse nel concetto del suo oggetto. Quando ha determi-nato le loro relazioni reciproche, ha contemporaneamen-te determinato in genere tutto ciò che in quelle sfere vie-ne pensato e che ora sarà determinato con sempre mag-giore precisione, man mano che si vengano ad isolaresfere concettuali più ristrette. Così diventa possibile aduna scienza di abbracciare completamente il suo ogget-to. E questa via, che conduce alla conoscenza proceden-do dall'universale verso il particolare, distingue la scien-za dal sapere comune: quindi la forma sistematica è unacaratteristica essenziale della scienza. Il collegamentodelle più vaste sfere concettuali d'ogni scienza, ossia laconoscenza dei suoi principi superiori, è condizione as-soluta del suo apprendimento: rimane poi ad arbitriodello scienziato il punto a cui vuol pervenire, scendendo

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da quei principi superiori a principi di mano in mano piùlimitati; con ciò si accresce non la profondità, mal'estensione della scienza. Il numero dei principi supe-riori, ai quali sono tutti subordinati i rimanenti, è moltodiverso a seconda delle varie scienze, tanto che in alcu-ne si ha più subordinazione, in altre più coordinazione;sotto il qual punto di vista quelle richiedono più forza digiudizio, queste più memoria. Era già noto agli scolasti-ci24 che, richiedendo il sillogismo due premesse, nessu-na scienza può muovere da un unico principio superiore,che non sia a sua volta derivabile da un altro; ma deveaverne parecchi; o almeno due. Le scienze di classifica-zione vera e propria: zoologia, botanica, ed anche fisicae chimica, in quanto queste due ultime riconducono apoche forze elementari ogni azione inorganica, hanno lamassima subordinazione; viceversa la storia non ne hapunto, perché in lei l'universale consiste appena nel pro-spetto delle epoche principali maggiori, da cui tuttavianon si posson derivare le circostanze particolari. Questesono a quelle subordinate solo per il tempo, ma coordi-nate in quanto al concetto. Perciò la storia, presa in sen-so preciso, è bensì un sapere, ma non una scienza. Nellamatematica gli assiomi sono, secondo la trattazione eu-clidea, i soli principi superiori non dimostrabili, e tuttele dimostrazioni sono di grado in grado rigidamente su-bordinate a quelli: tuttavia questo modo di trattazionenon è essenziale alla matematica, e in realtà ogni teore-

24 SUAREZ, Disput. metaphysicae, disp. III, sect. 3, tit. 3.

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da quei principi superiori a principi di mano in mano piùlimitati; con ciò si accresce non la profondità, mal'estensione della scienza. Il numero dei principi supe-riori, ai quali sono tutti subordinati i rimanenti, è moltodiverso a seconda delle varie scienze, tanto che in alcu-ne si ha più subordinazione, in altre più coordinazione;sotto il qual punto di vista quelle richiedono più forza digiudizio, queste più memoria. Era già noto agli scolasti-ci24 che, richiedendo il sillogismo due premesse, nessu-na scienza può muovere da un unico principio superiore,che non sia a sua volta derivabile da un altro; ma deveaverne parecchi; o almeno due. Le scienze di classifica-zione vera e propria: zoologia, botanica, ed anche fisicae chimica, in quanto queste due ultime riconducono apoche forze elementari ogni azione inorganica, hanno lamassima subordinazione; viceversa la storia non ne hapunto, perché in lei l'universale consiste appena nel pro-spetto delle epoche principali maggiori, da cui tuttavianon si posson derivare le circostanze particolari. Questesono a quelle subordinate solo per il tempo, ma coordi-nate in quanto al concetto. Perciò la storia, presa in sen-so preciso, è bensì un sapere, ma non una scienza. Nellamatematica gli assiomi sono, secondo la trattazione eu-clidea, i soli principi superiori non dimostrabili, e tuttele dimostrazioni sono di grado in grado rigidamente su-bordinate a quelli: tuttavia questo modo di trattazionenon è essenziale alla matematica, e in realtà ogni teore-

24 SUAREZ, Disput. metaphysicae, disp. III, sect. 3, tit. 3.

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ma fa sorgere una nuova costruzione spaziale, che in séè indipendente dalle precedenti e può invero indipen-dentemente da quelle esser conosciuta, di per se stessa,nella pura intuizione dello spazio, nella quale anche lapiù complicata costruzione ha in realtà la stessa imme-diata evidenza dell'assioma. Ma di ciò sarà trattato am-piamente in seguito. Frattanto, ogni principio matemati-co rimane pur sempre una verità universale, applicabilead innumerevoli casi singoli; alla matematica è ancheessenziale un graduato procedere dai principi sempliciai meno semplici, e questi vanno ricondotti a quelli. Per-ciò la matematica è sotto ogni rispetto una scienza. Laperfezione d'una scienza in quanto tale, ossia nella suaforma, consiste nell'aver quanto più è possibile subordi-nazione di principi, e poca coordinazione. Quindi il ta-lento scientifico in genere è l'attitudine a subordinare lesfere concettuali, secondo le loro varie determinazioni;affinchè, come ripetutamente esorta Platone, non costi-tuisca scienza un solo principio universale, sotto cui sia-no giustapposti una sterminata varietà di casi singoli,ma bensì la conoscenza proceda gradualmente dal piùuniversale al particolare, attraverso concetti intermedi epartizioni, fatte secondo determinazioni sempre piùstrette. Con le parole di Kant, questo si chiama soddisfa-re egualmente la legge di omogeneità e quella di specifi-cazione. Ma appunto dal fatto che ciò costituisce la veraperfezione scientifica, deriva che scopo della scienzanon è una maggiore certezza, la quale può esser altret-tanto data anche dalla più limitata conoscenza singola;

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ma fa sorgere una nuova costruzione spaziale, che in séè indipendente dalle precedenti e può invero indipen-dentemente da quelle esser conosciuta, di per se stessa,nella pura intuizione dello spazio, nella quale anche lapiù complicata costruzione ha in realtà la stessa imme-diata evidenza dell'assioma. Ma di ciò sarà trattato am-piamente in seguito. Frattanto, ogni principio matemati-co rimane pur sempre una verità universale, applicabilead innumerevoli casi singoli; alla matematica è ancheessenziale un graduato procedere dai principi sempliciai meno semplici, e questi vanno ricondotti a quelli. Per-ciò la matematica è sotto ogni rispetto una scienza. Laperfezione d'una scienza in quanto tale, ossia nella suaforma, consiste nell'aver quanto più è possibile subordi-nazione di principi, e poca coordinazione. Quindi il ta-lento scientifico in genere è l'attitudine a subordinare lesfere concettuali, secondo le loro varie determinazioni;affinchè, come ripetutamente esorta Platone, non costi-tuisca scienza un solo principio universale, sotto cui sia-no giustapposti una sterminata varietà di casi singoli,ma bensì la conoscenza proceda gradualmente dal piùuniversale al particolare, attraverso concetti intermedi epartizioni, fatte secondo determinazioni sempre piùstrette. Con le parole di Kant, questo si chiama soddisfa-re egualmente la legge di omogeneità e quella di specifi-cazione. Ma appunto dal fatto che ciò costituisce la veraperfezione scientifica, deriva che scopo della scienzanon è una maggiore certezza, la quale può esser altret-tanto data anche dalla più limitata conoscenza singola;

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bensì una maggior facilità del sapere mediante la formadi esso, o per tal via la possibilità di un sapere compiu-to. È quindi opinione corrente ma sbagliata, che il carat-tere scientifico della conoscenza sta nella maggior cer-tezza, ed altrettanto falsa è l'affermazione che ne deriva,che soltanto la matematica e la logica siano scienze insenso proprio; essendo solo in quelle, a causa della lorocompleta apriorità, un'incrollabile certezza della cono-scenza. Quest'ultimo privilegio non si può contrastare:ma esso non dà loro nessuno speciale monopolio del ca-rattere scientifico, poiché questo consiste non già nellacertezza, bensì nella sistematica forma della conoscenzafondata sul graduale discendere dal generale al partico-lare. Codesto cammino della conoscenza proprio dellescienze (ossia il discender dal generale al particolare),porta con sé che molto in esse poggia sulla derivazioneda principi anteriori, e quindi su dimostrazioni. E questoha provocato l'antico errore, esser vero soltanto ciò cheè provato, ed ogni verità abbisognar d'una prova; mentreal contrario ogni prova abbisogna piuttosto d'una veritànon provata, che appoggi la prova stessa o anche, allalor volta, le prove di questa. Perciò una verità diretta-mente accertata è da preferire a quella fondata su una di-mostrazione, come l'acqua della sorgente è preferibile aquella dell'acquedotto. Intuizione – o pura, a priori,come quella della matematica, o empirica, a posteriori,come quella di tutte le altre scienze – è la sorgented'ogni verità e il fondamento d'ogni scienza. (Va eccet-tuata solo la logica, fondata sulla conoscenza non intui-

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bensì una maggior facilità del sapere mediante la formadi esso, o per tal via la possibilità di un sapere compiu-to. È quindi opinione corrente ma sbagliata, che il carat-tere scientifico della conoscenza sta nella maggior cer-tezza, ed altrettanto falsa è l'affermazione che ne deriva,che soltanto la matematica e la logica siano scienze insenso proprio; essendo solo in quelle, a causa della lorocompleta apriorità, un'incrollabile certezza della cono-scenza. Quest'ultimo privilegio non si può contrastare:ma esso non dà loro nessuno speciale monopolio del ca-rattere scientifico, poiché questo consiste non già nellacertezza, bensì nella sistematica forma della conoscenzafondata sul graduale discendere dal generale al partico-lare. Codesto cammino della conoscenza proprio dellescienze (ossia il discender dal generale al particolare),porta con sé che molto in esse poggia sulla derivazioneda principi anteriori, e quindi su dimostrazioni. E questoha provocato l'antico errore, esser vero soltanto ciò cheè provato, ed ogni verità abbisognar d'una prova; mentreal contrario ogni prova abbisogna piuttosto d'una veritànon provata, che appoggi la prova stessa o anche, allalor volta, le prove di questa. Perciò una verità diretta-mente accertata è da preferire a quella fondata su una di-mostrazione, come l'acqua della sorgente è preferibile aquella dell'acquedotto. Intuizione – o pura, a priori,come quella della matematica, o empirica, a posteriori,come quella di tutte le altre scienze – è la sorgented'ogni verità e il fondamento d'ogni scienza. (Va eccet-tuata solo la logica, fondata sulla conoscenza non intui-

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tiva, sebbene sia anche immediata conoscenza che la ra-gione ha delle sue proprie leggi). Non i giudizi provati,né le loro prove: bensì quelli direttamente attintidall'intuizione e fondati su questa, in luogo d'ogni pro-va, sono nella scienza quel ch'è il sole nell'universo:perché da essi deriva tutta la luce, dalla quale illuminatisplendono gli altri alla lor volta. Fondar direttamentesull'intuizione la verità di codesti giudizi primi; estrarredall'infinita moltitudine di oggetti reali codesti cardinidella scienza: tale è il compito della facoltà giudicante;la quale consiste nel trasferire con giustezza e precisionenella coscienza astratta ciò che è conosciuto intuitiva-mente, e quindi è intermediaria tra intelletto e ragione.Solo una forza di giudizio eccezionale, superiore allamedia, in un individuo, può far davvero avanzare lescienze: ma derivare principi da principi, dimostrare,sillogizzare può ciascuno, sol che abbia sana ragione.All'opposto, deporre e fissare in concetti convenienti,per riflessione, la conoscenza intuitiva; sì che da un latoi caratteri comuni di molti oggetti reali siano pensati conun concetto, e dall'altro con altrettanti concetti i loro ca-ratteri differenti; per modo che il differente, malgradouna parziale concordanza, sia conosciuto e pensatocome differente, e l'identico alla sua volta come identi-co, malgrado una parziale differenza (sempre secondo loscopo e il punto di vista che in ogni singolo caso predo-mina), tutto questo fa il giudizio. Mancanza di giudizioè stoltezza. Lo stolto misconosce ora la parziale o relati-va differenza di ciò che per un altro riguardo è identico,

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tiva, sebbene sia anche immediata conoscenza che la ra-gione ha delle sue proprie leggi). Non i giudizi provati,né le loro prove: bensì quelli direttamente attintidall'intuizione e fondati su questa, in luogo d'ogni pro-va, sono nella scienza quel ch'è il sole nell'universo:perché da essi deriva tutta la luce, dalla quale illuminatisplendono gli altri alla lor volta. Fondar direttamentesull'intuizione la verità di codesti giudizi primi; estrarredall'infinita moltitudine di oggetti reali codesti cardinidella scienza: tale è il compito della facoltà giudicante;la quale consiste nel trasferire con giustezza e precisionenella coscienza astratta ciò che è conosciuto intuitiva-mente, e quindi è intermediaria tra intelletto e ragione.Solo una forza di giudizio eccezionale, superiore allamedia, in un individuo, può far davvero avanzare lescienze: ma derivare principi da principi, dimostrare,sillogizzare può ciascuno, sol che abbia sana ragione.All'opposto, deporre e fissare in concetti convenienti,per riflessione, la conoscenza intuitiva; sì che da un latoi caratteri comuni di molti oggetti reali siano pensati conun concetto, e dall'altro con altrettanti concetti i loro ca-ratteri differenti; per modo che il differente, malgradouna parziale concordanza, sia conosciuto e pensatocome differente, e l'identico alla sua volta come identi-co, malgrado una parziale differenza (sempre secondo loscopo e il punto di vista che in ogni singolo caso predo-mina), tutto questo fa il giudizio. Mancanza di giudizioè stoltezza. Lo stolto misconosce ora la parziale o relati-va differenza di ciò che per un altro riguardo è identico,

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ora l'identità del relativamente o parzialmente diverso.D'altronde a questa spiegazione del giudizio si può ap-plicare la partizione che fa Kant in giudizio riflettente esussumente, a seconda ch'esso proceda dagli oggetti in-tuitivi verso il concetto, o da questo a quelli; ma, nell'uncaso e nell'altro, sempre facendo da intermediario tra laconoscenza intuitiva dell'intelletto e quella riflessa dellaragione. Non esiste nessuna verità, che possa incondi-zionatamente essere ricavata solo mediante sillogismi; eil bisogno di fondarla coi soli sillogismi è sempre relati-vo, anzi subiettivo. Essendo sillogismi tutte le dimostra-zioni per una verità nuova, non si deve cominciare acercar una prova, bensì l'evidenza assoluta; e solo finchéquesta viene a mancare, è da costruire in via provvisoriauna dimostrazione. Nessuna scienza può esser provatain tutto e per tutto, come un edifizio non può reggersi inaria: tutte le sue prove devono risalire ad un fatto intuiti-vo e quindi non più dimostrabile. Imperocché l'interomondo della riflessione poggia e ha le sue radici nelmondo intuitivo. Ogni evidenza ultima, ossia originaria,è intuitiva: la parola stessa lo dice. Può essere empirica,oppure fondata sull'intuizione a priori delle condizionidell'esperienza possibile: ma in entrambi i casi essa for-nisce conoscenza immanente, non trascendente. Ogniconcetto ha il suo valore e la sua essenza soltanto nellarelazione, sia pur molto indiretta, con una rappresenta-zione intuitiva. E, ciò che vale pei concetti, vale ancheper i giudizi, che son composti di concetti, e per tutte lescienze. Dev'esser dunque possibile, in qualche modo,

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ora l'identità del relativamente o parzialmente diverso.D'altronde a questa spiegazione del giudizio si può ap-plicare la partizione che fa Kant in giudizio riflettente esussumente, a seconda ch'esso proceda dagli oggetti in-tuitivi verso il concetto, o da questo a quelli; ma, nell'uncaso e nell'altro, sempre facendo da intermediario tra laconoscenza intuitiva dell'intelletto e quella riflessa dellaragione. Non esiste nessuna verità, che possa incondi-zionatamente essere ricavata solo mediante sillogismi; eil bisogno di fondarla coi soli sillogismi è sempre relati-vo, anzi subiettivo. Essendo sillogismi tutte le dimostra-zioni per una verità nuova, non si deve cominciare acercar una prova, bensì l'evidenza assoluta; e solo finchéquesta viene a mancare, è da costruire in via provvisoriauna dimostrazione. Nessuna scienza può esser provatain tutto e per tutto, come un edifizio non può reggersi inaria: tutte le sue prove devono risalire ad un fatto intuiti-vo e quindi non più dimostrabile. Imperocché l'interomondo della riflessione poggia e ha le sue radici nelmondo intuitivo. Ogni evidenza ultima, ossia originaria,è intuitiva: la parola stessa lo dice. Può essere empirica,oppure fondata sull'intuizione a priori delle condizionidell'esperienza possibile: ma in entrambi i casi essa for-nisce conoscenza immanente, non trascendente. Ogniconcetto ha il suo valore e la sua essenza soltanto nellarelazione, sia pur molto indiretta, con una rappresenta-zione intuitiva. E, ciò che vale pei concetti, vale ancheper i giudizi, che son composti di concetti, e per tutte lescienze. Dev'esser dunque possibile, in qualche modo,

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di conoscer direttamente, senza sillogismi e senza pro-ve, ciascuna verità che sia stata trovata con sillogismi ecomunicata con prove. La cosa è più difficile per certicomplicati principi matematici, cui perveniamo solo at-traverso catene di sillogismi, come per esempio il calco-lo delle corde e delle tangenti per tutti gli archi, cui siperviene, per mezzo di sillogismi, dal teorema di Pitago-ra. Ma anche codesta verità non può poggiare sostan-zialmente ed esclusivamente su principi astratti, e cosìle relazioni spaziali, che le servono di fondamento, de-vono poter esser ricavate con la pura intuizione a priori,in modo che la loro astratta enunciazione venga fondatadirettamente. Ma della dimostrazione matematica si trat-terà subito distesamente.Si parla spesso in tono enfatico di scienze, le quali pog-giano esclusivamente su deduzioni esatte da sicure pre-messe, e quindi devono essere incrollabilmente vere.Ma con una serie puramente logica di deduzioni, sianopur vere le premesse quanto si voglia, non si otterrà maialtro che una maggior chiarezza e dimostrazione di ciò,che già si trova bell'e pronto nelle premesse: non si faràquindi che esporre explicite ciò che si trova implicitecolà. Quelle scienze così vantate sono in ispecial modole scienze matematiche, e soprattutto l'astronomia. Mala certezza dell'astronomia proviene dal fatto, ch'ella haper fondamento l'intuizione a priori, e quindi infallibile,dello spazio; mentre tutte le relazioni spaziali si svolgo-no l'una dall'altra con una necessità (principio dell'esse-

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di conoscer direttamente, senza sillogismi e senza pro-ve, ciascuna verità che sia stata trovata con sillogismi ecomunicata con prove. La cosa è più difficile per certicomplicati principi matematici, cui perveniamo solo at-traverso catene di sillogismi, come per esempio il calco-lo delle corde e delle tangenti per tutti gli archi, cui siperviene, per mezzo di sillogismi, dal teorema di Pitago-ra. Ma anche codesta verità non può poggiare sostan-zialmente ed esclusivamente su principi astratti, e cosìle relazioni spaziali, che le servono di fondamento, de-vono poter esser ricavate con la pura intuizione a priori,in modo che la loro astratta enunciazione venga fondatadirettamente. Ma della dimostrazione matematica si trat-terà subito distesamente.Si parla spesso in tono enfatico di scienze, le quali pog-giano esclusivamente su deduzioni esatte da sicure pre-messe, e quindi devono essere incrollabilmente vere.Ma con una serie puramente logica di deduzioni, sianopur vere le premesse quanto si voglia, non si otterrà maialtro che una maggior chiarezza e dimostrazione di ciò,che già si trova bell'e pronto nelle premesse: non si faràquindi che esporre explicite ciò che si trova implicitecolà. Quelle scienze così vantate sono in ispecial modole scienze matematiche, e soprattutto l'astronomia. Mala certezza dell'astronomia proviene dal fatto, ch'ella haper fondamento l'intuizione a priori, e quindi infallibile,dello spazio; mentre tutte le relazioni spaziali si svolgo-no l'una dall'altra con una necessità (principio dell'esse-

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re) che dà certezza a priori, e si posson quindi dedurresuccessivamente con sicurezza. A queste determinazionisi aggiunge qui una sola forza naturale, la gravità, cheagisce nella precisa relazione delle masse e del quadratodella distanza; e finalmente ancora la legge d'inerzia,che è certa a priori, perché derivante dalla causalità, ac-canto al dato empirico del movimento impresso una vol-ta per sempre a ciascuna di quelle masse. Questo è tuttoil materiale dell'astronomia; il quale, tanto per la suasemplicità quanto per la sua certezza, conduce a risultatifermi, e molto interessanti a causa della grandezza e im-portanza degli oggetti. Se io, per esempio, conosco lamassa d'un pianeta e la distanza del suo satellite, potròcon certezza determinare il tempo di rivoluzione diquest'ultimo, in conformità della seconda legge di Ke-plero: ma il principio di questa legge è che, ad una datadistanza, una data velocità può insieme tener legato ilsatellite al pianeta ed impedirgli di cadere in questo.Quindi solo su tal fondamento geometrico, ossia permezzo di un'intuizione a priori, e inoltre con l'applica-zione d'una legge naturale, si può andar così lontano conle deduzioni; perché queste sono qui nient'altro che pon-ti da un'intuizione ad un'altra. Ma non altrettanto si puòfare con semplici e pure deduzioni per via esclusiva-mente logica. L'origine delle prime verità fondamentalidell'astronomia è propriamente induzione, ossia riunionedi ciò ch'è dato da molte intuzioni in un giudizio esatto,direttamente fondato. Su quest'ultimo vengono poi for-mate ipotesi, la cui conferma mediante l'esperienza – in-

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re) che dà certezza a priori, e si posson quindi dedurresuccessivamente con sicurezza. A queste determinazionisi aggiunge qui una sola forza naturale, la gravità, cheagisce nella precisa relazione delle masse e del quadratodella distanza; e finalmente ancora la legge d'inerzia,che è certa a priori, perché derivante dalla causalità, ac-canto al dato empirico del movimento impresso una vol-ta per sempre a ciascuna di quelle masse. Questo è tuttoil materiale dell'astronomia; il quale, tanto per la suasemplicità quanto per la sua certezza, conduce a risultatifermi, e molto interessanti a causa della grandezza e im-portanza degli oggetti. Se io, per esempio, conosco lamassa d'un pianeta e la distanza del suo satellite, potròcon certezza determinare il tempo di rivoluzione diquest'ultimo, in conformità della seconda legge di Ke-plero: ma il principio di questa legge è che, ad una datadistanza, una data velocità può insieme tener legato ilsatellite al pianeta ed impedirgli di cadere in questo.Quindi solo su tal fondamento geometrico, ossia permezzo di un'intuizione a priori, e inoltre con l'applica-zione d'una legge naturale, si può andar così lontano conle deduzioni; perché queste sono qui nient'altro che pon-ti da un'intuizione ad un'altra. Ma non altrettanto si puòfare con semplici e pure deduzioni per via esclusiva-mente logica. L'origine delle prime verità fondamentalidell'astronomia è propriamente induzione, ossia riunionedi ciò ch'è dato da molte intuzioni in un giudizio esatto,direttamente fondato. Su quest'ultimo vengono poi for-mate ipotesi, la cui conferma mediante l'esperienza – in-

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duzione molto prossima alla compiutezza – fornisce laprova di quel primo giudizio. Per esempio, l'apparentemoto dei pianeti è conosciuto empiricamente: dopo mol-te false ipotesi sulla connessione spaziale di questomoto (orbita dei pianeti) fu trovata infine la giusta; poi,subito, le loro leggi (leggi di Keplero); e finalmente an-che la loro causa (gravitazione universale). Ed a tutte leipotesi diede piena certezza l'accordo, empiricamenteconosciuto, di tutti i casi avveratisi con le ipotesi stessee con le loro conseguenze – ossia l'induzione. La sco-perta delle ipotesi era compito del giudizio, che afferròesattamente, e convenientemente espresse, i dati di fat-to; ma l'induzione, ossia intuizione molteplice, ne con-fermò la verità. Questa poteva tuttavia poggiare anchedirettamente sopra un'unica intuizione empirica, se noifossimo stati in grado di trasvolar liberamente per glispazi, avendo occhi telescopici. Per conseguenza anchequi le deduzioni non sono l'essenziale ed unica sorgentedella conoscenza, ma sempre un semplice espediente.Finalmente, per citare un terzo esempio d'altra natura,vogliamo ancora osservare, che neppur le cosiddette ve-rità metafisiche – ossia quelle che Kant enumera neiPrincipi metafisici della scienza della natura – devonoalle dimostrazioni la loro evidenza. Ciò che è certo apriori, lo conosciamo direttamente: come forma di ogniconoscenza, ha per noi il carattere della massima neces-sità. Per esempio, che la materia persista, cioè non abbiaprincipio né fine, ci è noto direttamente come verità ne-

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duzione molto prossima alla compiutezza – fornisce laprova di quel primo giudizio. Per esempio, l'apparentemoto dei pianeti è conosciuto empiricamente: dopo mol-te false ipotesi sulla connessione spaziale di questomoto (orbita dei pianeti) fu trovata infine la giusta; poi,subito, le loro leggi (leggi di Keplero); e finalmente an-che la loro causa (gravitazione universale). Ed a tutte leipotesi diede piena certezza l'accordo, empiricamenteconosciuto, di tutti i casi avveratisi con le ipotesi stessee con le loro conseguenze – ossia l'induzione. La sco-perta delle ipotesi era compito del giudizio, che afferròesattamente, e convenientemente espresse, i dati di fat-to; ma l'induzione, ossia intuizione molteplice, ne con-fermò la verità. Questa poteva tuttavia poggiare anchedirettamente sopra un'unica intuizione empirica, se noifossimo stati in grado di trasvolar liberamente per glispazi, avendo occhi telescopici. Per conseguenza anchequi le deduzioni non sono l'essenziale ed unica sorgentedella conoscenza, ma sempre un semplice espediente.Finalmente, per citare un terzo esempio d'altra natura,vogliamo ancora osservare, che neppur le cosiddette ve-rità metafisiche – ossia quelle che Kant enumera neiPrincipi metafisici della scienza della natura – devonoalle dimostrazioni la loro evidenza. Ciò che è certo apriori, lo conosciamo direttamente: come forma di ogniconoscenza, ha per noi il carattere della massima neces-sità. Per esempio, che la materia persista, cioè non abbiaprincipio né fine, ci è noto direttamente come verità ne-

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gativa: perché la nostra intuizione pura dello spazio edel tempo dà la possibilità del moto, e l'intelletto dà,nella legge di causalità, la possibilità del cambiamentodi forma e qualità; ma le forme dell'intuizione possibileci mancano per un nascere o svanire della materia.Quindi codesta verità fu sempre, dovunque ed a tuttievidente, né mai posta seriamente in dubbio; il che nonpotrebbe essere, se il suo principio di conoscenza nonfosse ben diverso dalla dimostrazione così difficile diKant, che sembra procedere su punte di spilli. Oltre aciò, la prova di Kant l'ho trovata falsa (com'è spiegatonell'appendice); ed ho più sopra mostrato che la perma-nenza della materia non va dedotta dalla partecipazioneche ha il tempo alla possibilità della esperienza, ma daquella che v'ha lo spazio. La vera base di tutte le veritàchiamate in questo senso metafisiche, ossia espressioniastratte delle forme necessarie e universali della cono-scenza, non può stare alla sua volta in principi astratti;ma solo nella coscienza diretta delle forme della rappre-sentazione. La qual coscienza si manifesta a priori me-diante affermazioni apodittiche, più forti di qualunqueobiezione. Se nondimeno si vuol darne una prova, que-sta può consister solo nel dimostrare che la verità daprovarsi è già contenuta – sia come parte, sia come pre-messa – in qualche altra verità non mai contestata. Cosìio ho dimostrato, per esempio, che ogni intuizione empi-rica già contiene l'applicazione della legge di causalità;la cui cognizione è quindi base d'ogni esperienza, e nonpuò per tal motivo esser data e condizionata da questa,

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gativa: perché la nostra intuizione pura dello spazio edel tempo dà la possibilità del moto, e l'intelletto dà,nella legge di causalità, la possibilità del cambiamentodi forma e qualità; ma le forme dell'intuizione possibileci mancano per un nascere o svanire della materia.Quindi codesta verità fu sempre, dovunque ed a tuttievidente, né mai posta seriamente in dubbio; il che nonpotrebbe essere, se il suo principio di conoscenza nonfosse ben diverso dalla dimostrazione così difficile diKant, che sembra procedere su punte di spilli. Oltre aciò, la prova di Kant l'ho trovata falsa (com'è spiegatonell'appendice); ed ho più sopra mostrato che la perma-nenza della materia non va dedotta dalla partecipazioneche ha il tempo alla possibilità della esperienza, ma daquella che v'ha lo spazio. La vera base di tutte le veritàchiamate in questo senso metafisiche, ossia espressioniastratte delle forme necessarie e universali della cono-scenza, non può stare alla sua volta in principi astratti;ma solo nella coscienza diretta delle forme della rappre-sentazione. La qual coscienza si manifesta a priori me-diante affermazioni apodittiche, più forti di qualunqueobiezione. Se nondimeno si vuol darne una prova, que-sta può consister solo nel dimostrare che la verità daprovarsi è già contenuta – sia come parte, sia come pre-messa – in qualche altra verità non mai contestata. Cosìio ho dimostrato, per esempio, che ogni intuizione empi-rica già contiene l'applicazione della legge di causalità;la cui cognizione è quindi base d'ogni esperienza, e nonpuò per tal motivo esser data e condizionata da questa,

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come Hume affermava. Le dimostrazioni d'altronde ser-vono meno a chi impara, che non a chi vuol disputare.Questi ultimi negano con ostinazione ogni certezza di-rettamente conseguita. Ma la verità sola può esser con-seguente da tutti i lati: si deve quindi mostrare a costoro,che essi in un modo e direttamente concedono ciò, chein un altro modo e indirettamente negano; ossia mostra-re la necessaria connessione logica fra quel ch'è negatoe quel ch'è concesso.Inoltre la forma scientifica, che è subordinazione di tut-to il particolare al generale e così via, salendo semprepiù alto, ha per conseguenza, che la verità di molti prin-cipi sia fondata solo logicamente, cioè in virtù della lorodipendenza da altri principi; quindi per mezzo di dedu-zioni, che fanno insieme le veci di dimostrazioni. Manon va mai dimenticato, che tutta codesta forma scienti-fica è semplicemente facilitazione della conoscenza, enon mezzo per raggiungere una maggiore certezza. Èpiù facile conoscere la natura di un animale dalla speciea cui esso appartiene, e questa via via dal genere, dallafamiglia, dall'ordine e dalla classe, anzi che studiare vol-ta per volta ogni animale isolatamente; ma la verità ditutti i principi derivati da deduzioni è sempre appena re-lativa, e alla fine dipendente da un'altra verità, la qualeriposa non sopra deduzioni, ma sopra l'intuizione. Sequesta fosse sempre così accessibile come una deduzio-ne per sillogismi, sarebbe in tutti i modi da preferire.Poiché ogni deduzione da concetti è – per la varia inter-

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come Hume affermava. Le dimostrazioni d'altronde ser-vono meno a chi impara, che non a chi vuol disputare.Questi ultimi negano con ostinazione ogni certezza di-rettamente conseguita. Ma la verità sola può esser con-seguente da tutti i lati: si deve quindi mostrare a costoro,che essi in un modo e direttamente concedono ciò, chein un altro modo e indirettamente negano; ossia mostra-re la necessaria connessione logica fra quel ch'è negatoe quel ch'è concesso.Inoltre la forma scientifica, che è subordinazione di tut-to il particolare al generale e così via, salendo semprepiù alto, ha per conseguenza, che la verità di molti prin-cipi sia fondata solo logicamente, cioè in virtù della lorodipendenza da altri principi; quindi per mezzo di dedu-zioni, che fanno insieme le veci di dimostrazioni. Manon va mai dimenticato, che tutta codesta forma scienti-fica è semplicemente facilitazione della conoscenza, enon mezzo per raggiungere una maggiore certezza. Èpiù facile conoscere la natura di un animale dalla speciea cui esso appartiene, e questa via via dal genere, dallafamiglia, dall'ordine e dalla classe, anzi che studiare vol-ta per volta ogni animale isolatamente; ma la verità ditutti i principi derivati da deduzioni è sempre appena re-lativa, e alla fine dipendente da un'altra verità, la qualeriposa non sopra deduzioni, ma sopra l'intuizione. Sequesta fosse sempre così accessibile come una deduzio-ne per sillogismi, sarebbe in tutti i modi da preferire.Poiché ogni deduzione da concetti è – per la varia inter-

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secazione delle sfere più sopra mostrata, e per la deter-minazione spesso incerta del loro contenuto – esposta amolti sbagli; dei quali sono esempi tante dimostrazionidi false dottrine, e sofismi d'ogni genere. I sillogismisono invero certissimi quanto alla forma, ma assai mal-sicuri quanto alla loro materia, che sono i concetti; per-ché in parte le sfere di questi non sono spesso determi-nate con sufficiente nettezza, in parte s'intrecciano cosìvariamente, che una sfera è in modo frammentario con-tenuta in molte altre, e da lei si può liberamente passareall'una o all'altra di queste e così via; come fu già espo-sto. O con altre parole: il terminus minor ed anche ilmedius possono sempre venir subordinati a differenticoncetti, fra' quali si sceglie a volontà il terminus maiored il medius: dal che dipende la diversità della conclu-sione. Sempre è adunque la diretta evidenza da preferiredi gran lunga alla verità dimostrata; e questa va accoltasolo quando l'altra s'avrebbe a cercar troppo lontano, manon quando sono egualmente vicine o è più vicina l'evi-denza. Perciò vedemmo, che in realtà anche nella logi-ca, dove la conoscenza diretta in ogni singolo caso ci èpiù prossima che la derivata conoscenza scientifica, gui-diamo il nostro pensiero sempre secondo la conoscenzaimmediata delle leggi del pensiero stesso, e lasciamo lalogica stessa in disparte25.

25 Si veda il cap. 12 del secondo volume [pp. 124-33 del tomo I dell'ed. cit.].

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secazione delle sfere più sopra mostrata, e per la deter-minazione spesso incerta del loro contenuto – esposta amolti sbagli; dei quali sono esempi tante dimostrazionidi false dottrine, e sofismi d'ogni genere. I sillogismisono invero certissimi quanto alla forma, ma assai mal-sicuri quanto alla loro materia, che sono i concetti; per-ché in parte le sfere di questi non sono spesso determi-nate con sufficiente nettezza, in parte s'intrecciano cosìvariamente, che una sfera è in modo frammentario con-tenuta in molte altre, e da lei si può liberamente passareall'una o all'altra di queste e così via; come fu già espo-sto. O con altre parole: il terminus minor ed anche ilmedius possono sempre venir subordinati a differenticoncetti, fra' quali si sceglie a volontà il terminus maiored il medius: dal che dipende la diversità della conclu-sione. Sempre è adunque la diretta evidenza da preferiredi gran lunga alla verità dimostrata; e questa va accoltasolo quando l'altra s'avrebbe a cercar troppo lontano, manon quando sono egualmente vicine o è più vicina l'evi-denza. Perciò vedemmo, che in realtà anche nella logi-ca, dove la conoscenza diretta in ogni singolo caso ci èpiù prossima che la derivata conoscenza scientifica, gui-diamo il nostro pensiero sempre secondo la conoscenzaimmediata delle leggi del pensiero stesso, e lasciamo lalogica stessa in disparte25.

25 Si veda il cap. 12 del secondo volume [pp. 124-33 del tomo I dell'ed. cit.].

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§ 15.Ora, se noi con la nostra fede che l'intuizione sia la fonteprima d'ogni evidenza, e sola assoluta verità sia la diret-ta o mediata relazione con lei; che inoltre la via più si-cura per giungere alla verità sia sempre la più breve,perché ogni frapposizione di concetti può esser causa diinganni – se noi, dico, con questa fede ci volgiamo allamatematica, quale è stata eretta a scienza da Euclide erimasta in complesso fino al giorno d'oggi, non possia-mo fare a meno di giudicar singolare, anzi assurda, lavia che questa percorre. Noi pretendiamo che ogni argo-mentazione logica sia ricondotta ad un'intuizione; la ma-tematica invece si sforza a gran fatica di rigettare teme-rariamente l'evidenza intuitiva che le è propria e le stasempre a portata di mano, per sostituire un'evidenza lo-gica. Questo a noi fa l'effetto di qualcuno che si tagli legambe, per camminare con le grucce; o del principe chenel «Trionfo della sensibilità» rifugge dalla vera, bellanatura, per compiacersi d'una decorazione teatrale che laimita. Devo qui richiamare quel che ho detto nel sestocapitolo della memoria sopra il principio di ragione, eche suppongo fresco nella memoria al lettore e ben pre-sente, sì da potervi riannodare le mie osservazioni senzaspiegar daccapo il divario tra il semplice principio di co-noscenza di una verità matematica, che può esser datologicamente, e il principio dell'essere, che è la connes-sione diretta, conoscibile solo intuitivamente, delle partidello spazio e del tempo. Solo il penetrare in questa dà

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§ 15.Ora, se noi con la nostra fede che l'intuizione sia la fonteprima d'ogni evidenza, e sola assoluta verità sia la diret-ta o mediata relazione con lei; che inoltre la via più si-cura per giungere alla verità sia sempre la più breve,perché ogni frapposizione di concetti può esser causa diinganni – se noi, dico, con questa fede ci volgiamo allamatematica, quale è stata eretta a scienza da Euclide erimasta in complesso fino al giorno d'oggi, non possia-mo fare a meno di giudicar singolare, anzi assurda, lavia che questa percorre. Noi pretendiamo che ogni argo-mentazione logica sia ricondotta ad un'intuizione; la ma-tematica invece si sforza a gran fatica di rigettare teme-rariamente l'evidenza intuitiva che le è propria e le stasempre a portata di mano, per sostituire un'evidenza lo-gica. Questo a noi fa l'effetto di qualcuno che si tagli legambe, per camminare con le grucce; o del principe chenel «Trionfo della sensibilità» rifugge dalla vera, bellanatura, per compiacersi d'una decorazione teatrale che laimita. Devo qui richiamare quel che ho detto nel sestocapitolo della memoria sopra il principio di ragione, eche suppongo fresco nella memoria al lettore e ben pre-sente, sì da potervi riannodare le mie osservazioni senzaspiegar daccapo il divario tra il semplice principio di co-noscenza di una verità matematica, che può esser datologicamente, e il principio dell'essere, che è la connes-sione diretta, conoscibile solo intuitivamente, delle partidello spazio e del tempo. Solo il penetrare in questa dà

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vero appagamento e piena conoscenza; mentre il sem-plice principio di conoscenza rimane sempre alla super-ficie, facendoci sapere che qualcosa è così, ma non per-ché è così. Euclide ha seguito questa seconda via, conpalese svantaggio della scienza. Imperocché, ad esem-pio, fin dal principio, dove dovrebbe dimostrare unavolta per sempre che nel triangolo angoli e lati si deter-minano a vicenda, e sono reciprocamente causa ed effet-to gli uni degli altri, secondo la forma che ha il principiodi ragione nello spazio puro e che produce quivi, comeovunque, la necessità che una cosa sia così com'è, per-ché un'altra, da quella affatto diversa, è così com'è – in-vece di rivelare in questo modo a fondo l'essenza deltriangolo, stabilisce alcune proposizioni frammentariesul triangolo, scelte a suo modo, e ne dà un principio lo-gico di conoscenza con una dimostrazione faticosa, logi-ca, condotta secondo il principio di contraddizione. Daciò, invece d'una conoscenza a fondo di codeste relazio-ni spaziali, si vengono ad avere solo alcune risultanze diquelle, comunicate ad arbitrio; e ci si trova nelle condi-zioni di colui al quale si mostrino le differenti operazio-ni d'una macchina, ma tacendone la costituzione internaed il funzionamento. Che tutto sia come Euclide dimo-stra, bisogna concedere, costretti dal principio di con-traddizione: ma perché sia così, non si apprende. Si haquindi press'a poco la stessa impressione spiacevole checi lascia un giuoco di destrezza; e in verità a questi so-migliano in massima parte le dimostrazioni euclidee.Quasi sempre la verità irrompe da una porticina secon-

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vero appagamento e piena conoscenza; mentre il sem-plice principio di conoscenza rimane sempre alla super-ficie, facendoci sapere che qualcosa è così, ma non per-ché è così. Euclide ha seguito questa seconda via, conpalese svantaggio della scienza. Imperocché, ad esem-pio, fin dal principio, dove dovrebbe dimostrare unavolta per sempre che nel triangolo angoli e lati si deter-minano a vicenda, e sono reciprocamente causa ed effet-to gli uni degli altri, secondo la forma che ha il principiodi ragione nello spazio puro e che produce quivi, comeovunque, la necessità che una cosa sia così com'è, per-ché un'altra, da quella affatto diversa, è così com'è – in-vece di rivelare in questo modo a fondo l'essenza deltriangolo, stabilisce alcune proposizioni frammentariesul triangolo, scelte a suo modo, e ne dà un principio lo-gico di conoscenza con una dimostrazione faticosa, logi-ca, condotta secondo il principio di contraddizione. Daciò, invece d'una conoscenza a fondo di codeste relazio-ni spaziali, si vengono ad avere solo alcune risultanze diquelle, comunicate ad arbitrio; e ci si trova nelle condi-zioni di colui al quale si mostrino le differenti operazio-ni d'una macchina, ma tacendone la costituzione internaed il funzionamento. Che tutto sia come Euclide dimo-stra, bisogna concedere, costretti dal principio di con-traddizione: ma perché sia così, non si apprende. Si haquindi press'a poco la stessa impressione spiacevole checi lascia un giuoco di destrezza; e in verità a questi so-migliano in massima parte le dimostrazioni euclidee.Quasi sempre la verità irrompe da una porticina secon-

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daria, risultando per accidens da qualche circostanza ac-cessoria. Sovente una dimostrazione apagogica chiudetutte le porte, l'una dopo l'altra, e ne lascia aperta unasola, nella quale s'ha quindi da entrare per forza. Spesso,come accade nel teorema di Pitagora, vengono tiratecerte linee senza che si sappia perché: dipoi si apprendeche erano lacciuoli destinati a stringersi all'improvviso,per imprigionar l'assenso del discepolo: il quale ora, stu-pito, deve accettare un fatto che gli rimane ancora deltutto incomprensibile nel suo intimo nesso. Tanto in-comprensibile, ch'egli deve studiare Euclide da capo afondo senza potersi render davvero conto delle leggidelle relazioni spaziali, e imparandone invece a memo-ria appena pochi risultati. Questa conoscenza, empiricae non scientifica, somiglia a quella del medico, il qualeconosce bensì malattia e rimedio, ma non la connessio-ne d'entrambi. Tutto ciò è prodotto dal respinger capric-ciosamente il modo di dimostrazione e l'evidenza proprid'un genere di conoscenza, introducendo invece per for-za un metodo eterogeneo. Nondimeno la maniera in ciòadoperata da Euclide merita tutta l'ammirazione, che persecoli le è stata tributata, e che è giunta tant'oltre da far-la proclamare il prototipo d'ogni dimostrazione scientifi-ca, sul quale si cercò di modellare tutte le altre scienze.Più tardi s'è cambiata opinione, senza saper bene perché.Ai nostri occhi tuttavia quel metodo euclideo nella ma-tematica apparisce non altrimenti che una brillantissimastortura. Ma di ogni grande aberrazione, seguita conproposito e con metodo, sia che tocchi la vita o la scien-

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daria, risultando per accidens da qualche circostanza ac-cessoria. Sovente una dimostrazione apagogica chiudetutte le porte, l'una dopo l'altra, e ne lascia aperta unasola, nella quale s'ha quindi da entrare per forza. Spesso,come accade nel teorema di Pitagora, vengono tiratecerte linee senza che si sappia perché: dipoi si apprendeche erano lacciuoli destinati a stringersi all'improvviso,per imprigionar l'assenso del discepolo: il quale ora, stu-pito, deve accettare un fatto che gli rimane ancora deltutto incomprensibile nel suo intimo nesso. Tanto in-comprensibile, ch'egli deve studiare Euclide da capo afondo senza potersi render davvero conto delle leggidelle relazioni spaziali, e imparandone invece a memo-ria appena pochi risultati. Questa conoscenza, empiricae non scientifica, somiglia a quella del medico, il qualeconosce bensì malattia e rimedio, ma non la connessio-ne d'entrambi. Tutto ciò è prodotto dal respinger capric-ciosamente il modo di dimostrazione e l'evidenza proprid'un genere di conoscenza, introducendo invece per for-za un metodo eterogeneo. Nondimeno la maniera in ciòadoperata da Euclide merita tutta l'ammirazione, che persecoli le è stata tributata, e che è giunta tant'oltre da far-la proclamare il prototipo d'ogni dimostrazione scientifi-ca, sul quale si cercò di modellare tutte le altre scienze.Più tardi s'è cambiata opinione, senza saper bene perché.Ai nostri occhi tuttavia quel metodo euclideo nella ma-tematica apparisce non altrimenti che una brillantissimastortura. Ma di ogni grande aberrazione, seguita conproposito e con metodo, sia che tocchi la vita o la scien-

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za, si troverà sempre il principio nella filosofia correnteal suo tempo. Gli Eleatici furono i primi a scoprire il di-vario, anzi il frequente contrasto, fra l'intuito,φαινοµενον, e il pensato, νοουµενον 26, e se ne servironovariamente pei loro filosofemi, ed anche per sofismi. Aloro tennero dietro poi Megarici, Dialettici, Sofisti,Neoaccademici e Scettici; questi attirarono l'attenzionesull'apparenza, ossia sull'illusione dei sensi, o piuttostodell'intelletto, che i loro dati trasforma in intuizione; laquale illusione ci fa spesso veder cose di cui la ragionecon certezza nega la realtà, per esempio il bastone spez-zato nell'acqua e così via. Si comprese che non c'è da fi-darsi incondizionatamente dell'intuizione sensibile, econ troppa fretta si concluse che soltanto il razionale, lo-gico pensiero fosse fondamento di verità; sebbene Plato-ne (nel Parmenide), i Megarici, Pirrone e i Neoaccade-mici dimostrassero con esempi (come fece più tardi Se-sto Empirico), come d'altra parte anche sillogismi e con-cetti inducano in errore, generando paralogismi e sofi-smi molto più facili a sorgere e più difficili a disperdereche non sia l'illusione nell'intuizione sensibile. Frattan-to, adunque, quel razionalismo, sorto in opposizioneall'empirismo, mantenne il sopravvento, e sulle sue trac-ce elaborò Euclide la matematica: poggiando per neces-sità sull'evidenza intuitiva (φαινοµενον) i soli assiomi, etutto il resto su illazioni (νοουµενον). Il suo metodo ri-mase a dominare per tutti i secoli, e così doveva essere,26 Non si deve qui por mente al cattivo uso di queste espressioni greche fatto

da Kant, che è biasimato nell'Appendice.

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za, si troverà sempre il principio nella filosofia correnteal suo tempo. Gli Eleatici furono i primi a scoprire il di-vario, anzi il frequente contrasto, fra l'intuito,φαινοµενον, e il pensato, νοουµενον 26, e se ne servironovariamente pei loro filosofemi, ed anche per sofismi. Aloro tennero dietro poi Megarici, Dialettici, Sofisti,Neoaccademici e Scettici; questi attirarono l'attenzionesull'apparenza, ossia sull'illusione dei sensi, o piuttostodell'intelletto, che i loro dati trasforma in intuizione; laquale illusione ci fa spesso veder cose di cui la ragionecon certezza nega la realtà, per esempio il bastone spez-zato nell'acqua e così via. Si comprese che non c'è da fi-darsi incondizionatamente dell'intuizione sensibile, econ troppa fretta si concluse che soltanto il razionale, lo-gico pensiero fosse fondamento di verità; sebbene Plato-ne (nel Parmenide), i Megarici, Pirrone e i Neoaccade-mici dimostrassero con esempi (come fece più tardi Se-sto Empirico), come d'altra parte anche sillogismi e con-cetti inducano in errore, generando paralogismi e sofi-smi molto più facili a sorgere e più difficili a disperdereche non sia l'illusione nell'intuizione sensibile. Frattan-to, adunque, quel razionalismo, sorto in opposizioneall'empirismo, mantenne il sopravvento, e sulle sue trac-ce elaborò Euclide la matematica: poggiando per neces-sità sull'evidenza intuitiva (φαινοµενον) i soli assiomi, etutto il resto su illazioni (νοουµενον). Il suo metodo ri-mase a dominare per tutti i secoli, e così doveva essere,26 Non si deve qui por mente al cattivo uso di queste espressioni greche fatto

da Kant, che è biasimato nell'Appendice.

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fin quando l'intuizione pura a priori non venne distintadall'intuizione empirica. È vero che già Proclo, com-mentatore d'Euclide, sembra aver conosciuto appienoquella distinzione, come dimostra il passo di lui tradottoin latino da Keplero nel suo libro de harmonia mundi:ma Proclo non diede abbastanza peso alla cosa, la pre-sentò troppo isolatamente, rimase inosservato e nonebbe successo. Quindi solo due secoli dopo, la dottrinadi Kant, cui tocca in sorte di produrre così grandi tra-sformazioni in tutto il sapere, il pensiero e l'azione deipopoli europei, provocherà la stessa trasformazione an-che nella matematica. Poiché soltanto dopo aver appresoda questo grande spirito che le intuizioni dello spazio edel tempo sono affatto diverse dalle intuizioni empiri-che, affatto indipendenti da ogni impressione dei sensi,essendo essi condizione dell'impressione e non vicever-sa; che sono in altri termini a priori, e quindi inaccessi-bili all'illusione dei sensi – soltanto ora possiamo com-prendere, che la trattazione euclidea della matematicafondata sulla logica è una provvidenza inutile, una gruc-cia per gambe sane. E rassomiglia ad un pellegrino, che,scambiando per acqua nella notte una bella strada chia-ra, si guardi dal posarvi il piede, e la vada fiancheggian-do sul terreno disuguale, contento d'imbattersi di tantoin tanto nell'acqua supposta. Ora soltanto possiamo concertezza affermare, che quando ci si rivela necessarionell'intuizione di una figura non viene dalla figura stes-sa, disegnata forse molto male sulla carta, e nemmenodal concetto astratto che noi ce ne facciamo, bensì diret-

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fin quando l'intuizione pura a priori non venne distintadall'intuizione empirica. È vero che già Proclo, com-mentatore d'Euclide, sembra aver conosciuto appienoquella distinzione, come dimostra il passo di lui tradottoin latino da Keplero nel suo libro de harmonia mundi:ma Proclo non diede abbastanza peso alla cosa, la pre-sentò troppo isolatamente, rimase inosservato e nonebbe successo. Quindi solo due secoli dopo, la dottrinadi Kant, cui tocca in sorte di produrre così grandi tra-sformazioni in tutto il sapere, il pensiero e l'azione deipopoli europei, provocherà la stessa trasformazione an-che nella matematica. Poiché soltanto dopo aver appresoda questo grande spirito che le intuizioni dello spazio edel tempo sono affatto diverse dalle intuizioni empiri-che, affatto indipendenti da ogni impressione dei sensi,essendo essi condizione dell'impressione e non vicever-sa; che sono in altri termini a priori, e quindi inaccessi-bili all'illusione dei sensi – soltanto ora possiamo com-prendere, che la trattazione euclidea della matematicafondata sulla logica è una provvidenza inutile, una gruc-cia per gambe sane. E rassomiglia ad un pellegrino, che,scambiando per acqua nella notte una bella strada chia-ra, si guardi dal posarvi il piede, e la vada fiancheggian-do sul terreno disuguale, contento d'imbattersi di tantoin tanto nell'acqua supposta. Ora soltanto possiamo concertezza affermare, che quando ci si rivela necessarionell'intuizione di una figura non viene dalla figura stes-sa, disegnata forse molto male sulla carta, e nemmenodal concetto astratto che noi ce ne facciamo, bensì diret-

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tamente dalla forma d'ogni conoscenza, forma di cuisiam consci a priori. Questa è, in tutto, il principio di ra-gione. Qui essa come forma dell'intuizione, ossia spazio,è principio di ragione dell'essere; la cui evidenza e vali-dità è altrettanto grande ed immediata come quella delprincipio di ragione di conoscenza, ossia della certezzalogica. Non abbiamo dunque bisogno né dobbiamo, percreder solo alla logica, abbandonare il dominio propriodella matematica, venendo a dimostrare questa sopra undominio che le è affatto estraneo – quello dei concetti.Se ci teniamo sul terreno proprio della matematica, nericaviamo il grande vantaggio, che quivi il sapere chequalcosa sta in un certo modo, è tutt'uno col sapere per-ché sta così. Mentre invece il metodo euclideo separanettamente questi due termini, e fa conoscere solo il pri-mo, non il secondo. Ma, dice ottimamente Aristotele ne-gli Analyt. post. I, 27: Ακριβεστερα δ’επιστηµηεπιστηµης και προτερα ἡτε του ὁτι και του διοτι ἡ αυτη,αλλα µη χωρις του ὁτι, της του διοτι (Subtilior autem etpraestantior ea est scientia, qua quod aliquis sit, et cursit una simulque intelligimus, non separatim quod, etcur sit). In fisica siamo pur soddisfatti sol quando la co-noscenza che qualcosa è in un certo modo, si congiungecon quella del perché è così. Che il mercurio del tubotorricelliano s'alzi a 28 pollici, è un povero sapere, senon si aggiunge che vien trattenuto a quel limite dalcontrappeso dell'aria. Ma ci dovrà bastare in matematicaquella qualitas occulta del circolo, per cui i segmenti

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tamente dalla forma d'ogni conoscenza, forma di cuisiam consci a priori. Questa è, in tutto, il principio di ra-gione. Qui essa come forma dell'intuizione, ossia spazio,è principio di ragione dell'essere; la cui evidenza e vali-dità è altrettanto grande ed immediata come quella delprincipio di ragione di conoscenza, ossia della certezzalogica. Non abbiamo dunque bisogno né dobbiamo, percreder solo alla logica, abbandonare il dominio propriodella matematica, venendo a dimostrare questa sopra undominio che le è affatto estraneo – quello dei concetti.Se ci teniamo sul terreno proprio della matematica, nericaviamo il grande vantaggio, che quivi il sapere chequalcosa sta in un certo modo, è tutt'uno col sapere per-ché sta così. Mentre invece il metodo euclideo separanettamente questi due termini, e fa conoscere solo il pri-mo, non il secondo. Ma, dice ottimamente Aristotele ne-gli Analyt. post. I, 27: Ακριβεστερα δ’επιστηµηεπιστηµης και προτερα ἡτε του ὁτι και του διοτι ἡ αυτη,αλλα µη χωρις του ὁτι, της του διοτι (Subtilior autem etpraestantior ea est scientia, qua quod aliquis sit, et cursit una simulque intelligimus, non separatim quod, etcur sit). In fisica siamo pur soddisfatti sol quando la co-noscenza che qualcosa è in un certo modo, si congiungecon quella del perché è così. Che il mercurio del tubotorricelliano s'alzi a 28 pollici, è un povero sapere, senon si aggiunge che vien trattenuto a quel limite dalcontrappeso dell'aria. Ma ci dovrà bastare in matematicaquella qualitas occulta del circolo, per cui i segmenti

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d'ogni due corde intersecantisi in esso formano semprerettangoli uguali? Che sia così, dimostra invero Euclidenella 35a proposizione del terzo libro: il perché sta anco-ra nell'ombra. Nello stesso modo c'insegna il teorema diPitagora a conoscere una qualitas occulta del triangolorettangolo; ma la dimostrazione zoppicante, anzi insi-diosa di Euclide ci lascia senza il perché; e la semplicefigura che qui segue, già nota, ci fa in un solo sguardoveder la cosa molto più addentro che non faccia quelladimostrazione; e ci dà la intima, ferma persuasione diquella necessità, e della dipendenza di quella proprietàdell'angolo retto.

Anche se i cateti sono disuguali, si deve pervenire a co-desta convinzione intuitiva, e così nel caso di tutte le ve-rità geometriche possibili: anche solo per questo, che laloro scoperta derivò sempre da una consimile necessitàd'intuizione, e la dimostrazione ne fu pensata soltanto inseguito. Basta dunque un'analisi del processo mentalenella prima scoperta d'una verità geometrica, per cono-scere intuitivamente la sua necessità. Il metodo, che in

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d'ogni due corde intersecantisi in esso formano semprerettangoli uguali? Che sia così, dimostra invero Euclidenella 35a proposizione del terzo libro: il perché sta anco-ra nell'ombra. Nello stesso modo c'insegna il teorema diPitagora a conoscere una qualitas occulta del triangolorettangolo; ma la dimostrazione zoppicante, anzi insi-diosa di Euclide ci lascia senza il perché; e la semplicefigura che qui segue, già nota, ci fa in un solo sguardoveder la cosa molto più addentro che non faccia quelladimostrazione; e ci dà la intima, ferma persuasione diquella necessità, e della dipendenza di quella proprietàdell'angolo retto.

Anche se i cateti sono disuguali, si deve pervenire a co-desta convinzione intuitiva, e così nel caso di tutte le ve-rità geometriche possibili: anche solo per questo, che laloro scoperta derivò sempre da una consimile necessitàd'intuizione, e la dimostrazione ne fu pensata soltanto inseguito. Basta dunque un'analisi del processo mentalenella prima scoperta d'una verità geometrica, per cono-scere intuitivamente la sua necessità. Il metodo, che in

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genere io preferisco per l'esposizione della matematica,è l'analitico, e non il metodo sintetico che ha usato Eu-clide. È vero tuttavia che, quando si tratta di verità ma-tematiche complicate, quello offre grandi difficoltà: manon insuperabili. Già si comincia qua e là in Germania amodificare l'esposizione della matematica, seguendo piùspesso questa via analitica. L'ha fatto più risolutamenteil signor Kosack, insegnante di matematica e fisica nelginnasio di Nordhausen, nell'accompagnare il program-ma d'esame del 6 aprile 1852 con un diffuso tentativo ditrattazione geometrica secondo i miei principi.Per migliorare il metodo della matematica, si richiedesoprattutto di rinunziare al pregiudizio che la verità di-mostrata abbia una qualsivoglia preminenza sulla veritàconosciuta intuitivamente: o che la verità logica, fondatasul principio di contraddizione, prevalga sulla verità me-tafisica, la quale è di evidenza diretta, ed a cui appartie-ne anche l'intuizione pura dello spazio.Quel che c'è di più certo, né mai può essere spiegato, è ilcontenuto del principio di ragione. Imperocché questo,nei suoi vari atteggiamenti, esprime la forma universaledi tutte le nostre rappresentazioni e conoscenze. Ciascu-na spiegazione è un risalire a codesto principio; un con-statare nel caso singolo il nesso delle rappresentazioni,che quello esprime in genere. Esso è quindi il principiod'ogni spiegazione, e perciò non può avere spiegazionealla sua volta, né di spiegazioni ha bisogno: poi che cia-scuna spiegazione lo presuppone, e solo per suo mezzo

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genere io preferisco per l'esposizione della matematica,è l'analitico, e non il metodo sintetico che ha usato Eu-clide. È vero tuttavia che, quando si tratta di verità ma-tematiche complicate, quello offre grandi difficoltà: manon insuperabili. Già si comincia qua e là in Germania amodificare l'esposizione della matematica, seguendo piùspesso questa via analitica. L'ha fatto più risolutamenteil signor Kosack, insegnante di matematica e fisica nelginnasio di Nordhausen, nell'accompagnare il program-ma d'esame del 6 aprile 1852 con un diffuso tentativo ditrattazione geometrica secondo i miei principi.Per migliorare il metodo della matematica, si richiedesoprattutto di rinunziare al pregiudizio che la verità di-mostrata abbia una qualsivoglia preminenza sulla veritàconosciuta intuitivamente: o che la verità logica, fondatasul principio di contraddizione, prevalga sulla verità me-tafisica, la quale è di evidenza diretta, ed a cui appartie-ne anche l'intuizione pura dello spazio.Quel che c'è di più certo, né mai può essere spiegato, è ilcontenuto del principio di ragione. Imperocché questo,nei suoi vari atteggiamenti, esprime la forma universaledi tutte le nostre rappresentazioni e conoscenze. Ciascu-na spiegazione è un risalire a codesto principio; un con-statare nel caso singolo il nesso delle rappresentazioni,che quello esprime in genere. Esso è quindi il principiod'ogni spiegazione, e perciò non può avere spiegazionealla sua volta, né di spiegazioni ha bisogno: poi che cia-scuna spiegazione lo presuppone, e solo per suo mezzo

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acquista un senso. Ma nessuna delle sue manifestazioniha preminenza sulle altre: esso è a un modo certo e indi-mostrabile in qualità di principio dell'essere, o del dive-nire, o dell'agire, e del conoscere. Nell'una comenell'altra delle sue forme, è sempre necessaria la relazio-ne di causa ed effetto; anzi è questa l'origine, nonchél'unico significato, del concetto di necessità. Non c'è al-tra necessità che quella dell'effetto, allorché è data lacausa; e non v'ha causa che non generi la necessitàdell'effetto. Con la stessa certezza con cui dal principiodi conoscenza, dato nelle premesse, deriva la conse-guenza espressa nella proposizione finale, determina ilprincipio d'essere nello spazio la sua conseguenza nellospazio: e quando ho conosciuto intuitivamentequest'ultima relazione, ho una certezza altrettanto gran-de quanto una certezza logica. Ma qualsiasi teoremageometrico esprime una tal relazione egualmente bene,come un de' dodici assiomi: perché è una verità metafi-sica, e come tale immediatamente certo, al modo stessodel principio di contraddizione, il quale è una verità me-talogica e serve di base universale a tutte le dimostrazio-ni logiche. Chi nega la necessità intuitivamente manife-stata delle relazioni spaziali espresse in un qualsiasi teo-rema, può con lo stesso diritto negare gli assiomi, e conlo stesso diritto la derivazione della conclusione dallepremesse, o addirittura il principio di contraddizione:perché in tutto ciò sono egualmente relazioni indimo-strabili, d'immediata evidenza, e conoscibili a priori. Sequindi la necessità delle relazioni spaziali, conoscibile

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acquista un senso. Ma nessuna delle sue manifestazioniha preminenza sulle altre: esso è a un modo certo e indi-mostrabile in qualità di principio dell'essere, o del dive-nire, o dell'agire, e del conoscere. Nell'una comenell'altra delle sue forme, è sempre necessaria la relazio-ne di causa ed effetto; anzi è questa l'origine, nonchél'unico significato, del concetto di necessità. Non c'è al-tra necessità che quella dell'effetto, allorché è data lacausa; e non v'ha causa che non generi la necessitàdell'effetto. Con la stessa certezza con cui dal principiodi conoscenza, dato nelle premesse, deriva la conse-guenza espressa nella proposizione finale, determina ilprincipio d'essere nello spazio la sua conseguenza nellospazio: e quando ho conosciuto intuitivamentequest'ultima relazione, ho una certezza altrettanto gran-de quanto una certezza logica. Ma qualsiasi teoremageometrico esprime una tal relazione egualmente bene,come un de' dodici assiomi: perché è una verità metafi-sica, e come tale immediatamente certo, al modo stessodel principio di contraddizione, il quale è una verità me-talogica e serve di base universale a tutte le dimostrazio-ni logiche. Chi nega la necessità intuitivamente manife-stata delle relazioni spaziali espresse in un qualsiasi teo-rema, può con lo stesso diritto negare gli assiomi, e conlo stesso diritto la derivazione della conclusione dallepremesse, o addirittura il principio di contraddizione:perché in tutto ciò sono egualmente relazioni indimo-strabili, d'immediata evidenza, e conoscibili a priori. Sequindi la necessità delle relazioni spaziali, conoscibile

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intuitivamente, si vuol derivare attraverso una dimostra-zione logica dal principio di contraddizione, gli è comese al diretto signore d'una terra volesse un altro conce-der la stessa terra in feudo. E proprio questo ha fatto Eu-clide. Soltanto i suoi assiomi egli fa per forza poggiaresull'immediata evidenza: tutte le verità geometriche, chene derivano, vengono dimostrate logicamente, ossia conla premessa di quegli assiomi, mediante l'accordo con leipotesi fatte nel teorema, o con un teorema precedente; oanche mediante la contraddizione dell'opposto del teore-ma con le ipotesi, gli assiomi, i teoremi precedenti, oaddirittura con se stesso. Ma gli assiomi stessi non han-no evidenza diretta maggiore d'ogni altro teorema geo-metrico, bensì soltanto maggiore semplicità a causa delminor contenuto.Se si interroga un delinquente, si stende un verbale dellesue dichiarazioni, per giudicarne la verità dalla loro con-cordanza. Ma questo è un semplice espediente, del qualecerto non ci si appagherebbe, se si potesse indagare aparte la verità di ciascuna delle sue dichiarazioni: tantopiù ch'egli potrebbe mentire con conseguenza dal princi-pio alla fine. Eppure è proprio con quel primo metodo,che Euclide ha indagato lo spazio. È vero ch'egli partì inciò dalla giusta premessa che la natura dappertutto – equindi anche nella sua forma principale, lo spazio –dev'esser conseguente, e quindi – perché le parti dellospazio stanno reciprocamente in relazione di causa edeffetto – neppure una determinazione spaziale può esser

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intuitivamente, si vuol derivare attraverso una dimostra-zione logica dal principio di contraddizione, gli è comese al diretto signore d'una terra volesse un altro conce-der la stessa terra in feudo. E proprio questo ha fatto Eu-clide. Soltanto i suoi assiomi egli fa per forza poggiaresull'immediata evidenza: tutte le verità geometriche, chene derivano, vengono dimostrate logicamente, ossia conla premessa di quegli assiomi, mediante l'accordo con leipotesi fatte nel teorema, o con un teorema precedente; oanche mediante la contraddizione dell'opposto del teore-ma con le ipotesi, gli assiomi, i teoremi precedenti, oaddirittura con se stesso. Ma gli assiomi stessi non han-no evidenza diretta maggiore d'ogni altro teorema geo-metrico, bensì soltanto maggiore semplicità a causa delminor contenuto.Se si interroga un delinquente, si stende un verbale dellesue dichiarazioni, per giudicarne la verità dalla loro con-cordanza. Ma questo è un semplice espediente, del qualecerto non ci si appagherebbe, se si potesse indagare aparte la verità di ciascuna delle sue dichiarazioni: tantopiù ch'egli potrebbe mentire con conseguenza dal princi-pio alla fine. Eppure è proprio con quel primo metodo,che Euclide ha indagato lo spazio. È vero ch'egli partì inciò dalla giusta premessa che la natura dappertutto – equindi anche nella sua forma principale, lo spazio –dev'esser conseguente, e quindi – perché le parti dellospazio stanno reciprocamente in relazione di causa edeffetto – neppure una determinazione spaziale può esser

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diversa da quel che è, senza trovarsi in contraddizionecon tutte le altre. Ma questo è un deviar dalla via diritta,molesto e poco soddisfacente; che preferisce la cono-scenza mediata a quella – altrettanto certa – immediata;e con danno grave della scienza separa la cognizioneche qualcosa esista, da quella del perché esista. E, infi-ne, impedisce del tutto al discepolo la penetrazione nelleleggi dello spazio, anzi, lo distoglie dalla vera e propriaindagine del fondamento e dell'intimo nesso delle cose,avviandolo invece a contentarsi d'un sapere storico, chela cosa stia in un certo modo. L'esercizio d'acume men-tale, tanto incessantemente vantato in questo metodo,consiste solo in ciò, che lo scolaro si esercita a sillogiz-zare, ossia a usare il principio di contraddizione; ma so-prattutto affatica la propria memoria, per ritenere queidati dei quali deve giudicare l'accordo.Va notato inoltre, che questo metodo dimostrativo è sta-to applicato soltanto alla geometria e non all'aritmetica.In questa effettivamente la verità si lascia svelare dallasola intuizione, che qui consiste nel puro contare. Poiche l'intuizione dei numeri è nel tempo solamente, e nonpuò quindi venir rappresentata da uno schema sensibile,come la figura geometrica, non si ebbe qui il sospettoche l'intuizione fosse solo empirica e quindi soggettaall'illusione; sospetto che soltanto il metodo della dimo-strazione logica ha potuto introdurre nella geometria. Ilcontare è – poi che il tempo ha una sola dimensione –l'unica operazione aritmetica, alla quale sono da ricon-

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diversa da quel che è, senza trovarsi in contraddizionecon tutte le altre. Ma questo è un deviar dalla via diritta,molesto e poco soddisfacente; che preferisce la cono-scenza mediata a quella – altrettanto certa – immediata;e con danno grave della scienza separa la cognizioneche qualcosa esista, da quella del perché esista. E, infi-ne, impedisce del tutto al discepolo la penetrazione nelleleggi dello spazio, anzi, lo distoglie dalla vera e propriaindagine del fondamento e dell'intimo nesso delle cose,avviandolo invece a contentarsi d'un sapere storico, chela cosa stia in un certo modo. L'esercizio d'acume men-tale, tanto incessantemente vantato in questo metodo,consiste solo in ciò, che lo scolaro si esercita a sillogiz-zare, ossia a usare il principio di contraddizione; ma so-prattutto affatica la propria memoria, per ritenere queidati dei quali deve giudicare l'accordo.Va notato inoltre, che questo metodo dimostrativo è sta-to applicato soltanto alla geometria e non all'aritmetica.In questa effettivamente la verità si lascia svelare dallasola intuizione, che qui consiste nel puro contare. Poiche l'intuizione dei numeri è nel tempo solamente, e nonpuò quindi venir rappresentata da uno schema sensibile,come la figura geometrica, non si ebbe qui il sospettoche l'intuizione fosse solo empirica e quindi soggettaall'illusione; sospetto che soltanto il metodo della dimo-strazione logica ha potuto introdurre nella geometria. Ilcontare è – poi che il tempo ha una sola dimensione –l'unica operazione aritmetica, alla quale sono da ricon-

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durre tutte le altre: e questo contare non è tuttavia altro,che un'intuizione a priori, alla quale ci si richiama quisenz'alcuna riluttanza; e per suo mezzo viene da ultimoconfermato tutto il resto, ogni equazione, ogni calcolo.Non si dimostra, per esempio, che (7+ 9)×8−2

3=42 ;

ma ci si riferisce alla pura intuizione nel tempo, al con-tare. Ogni singola proposizione diventa dunque un as-sioma. Invece delle dimostrazioni che riempiono la geo-metria, tutto il contenuto dell'aritmetica e dell'algebra èquindi un semplice metodo per abbreviare il conto. Lanostra intuizione immediata dei numeri nel tempo nonarriva, come fu detto, più in là del dieci all'incirca: piùoltre deve già un concetto astratto del numero, fissatomediante una parola, fare le veci dell'intuizione; la qualeperciò non è più effettivamente attuata, ma soltanto indi-cata con tutta determinatezza. Tuttavia anche così, colvalido aiuto dell'ordine dei numeri, che fa sempre rap-presentare i numeri grandi per mezzo dei piccoli, è resapossibile un'evidenza intuitiva d'ogni calcolo; perfino làdove si ricorre tanto all'astrazione, che non solo i numerima anche indeterminate quantità ed intere operazionisono pensate unicamente in abstracto, e in cotal formaespresse; come ad esempio [ √ r−b ]; sì che non si ese-guono, ma vengono appena accennate.Con lo stesso diritto e la stessa certezza, come nell'arit-metica, si potrebbe anche nella geometria lasciar la veri-tà fondata soltanto sulla pura intuizione a priori. In veri-

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durre tutte le altre: e questo contare non è tuttavia altro,che un'intuizione a priori, alla quale ci si richiama quisenz'alcuna riluttanza; e per suo mezzo viene da ultimoconfermato tutto il resto, ogni equazione, ogni calcolo.Non si dimostra, per esempio, che (7+ 9)×8−2

3=42 ;

ma ci si riferisce alla pura intuizione nel tempo, al con-tare. Ogni singola proposizione diventa dunque un as-sioma. Invece delle dimostrazioni che riempiono la geo-metria, tutto il contenuto dell'aritmetica e dell'algebra èquindi un semplice metodo per abbreviare il conto. Lanostra intuizione immediata dei numeri nel tempo nonarriva, come fu detto, più in là del dieci all'incirca: piùoltre deve già un concetto astratto del numero, fissatomediante una parola, fare le veci dell'intuizione; la qualeperciò non è più effettivamente attuata, ma soltanto indi-cata con tutta determinatezza. Tuttavia anche così, colvalido aiuto dell'ordine dei numeri, che fa sempre rap-presentare i numeri grandi per mezzo dei piccoli, è resapossibile un'evidenza intuitiva d'ogni calcolo; perfino làdove si ricorre tanto all'astrazione, che non solo i numerima anche indeterminate quantità ed intere operazionisono pensate unicamente in abstracto, e in cotal formaespresse; come ad esempio [ √ r−b ]; sì che non si ese-guono, ma vengono appena accennate.Con lo stesso diritto e la stessa certezza, come nell'arit-metica, si potrebbe anche nella geometria lasciar la veri-tà fondata soltanto sulla pura intuizione a priori. In veri-

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tà è pur sempre questa necessità conosciuta intuitiva-mente, secondo il principio di ragione dell'essere, che dàalla geometria la sua grande evidenza, e su cui poggianella coscienza d'ognuno la certezza delle sue proposi-zioni: e non è di certo la prova logica, avanzante fatico-samente sui trampoli. Questa, estranea sempre al vivodella cosa, il più sovente vien subito dimenticata senzadanno della persuasione, e potrebbe essere eliminata deltutto, senza che ne fosse diminuita l'evidenza della geo-metria, essendo questa affatto indipendente dalla provalogica; la quale dimostra soltanto ciò di cui già si ha pie-na certezza mediante un altro modo di conoscenza. So-miglia sotto questo rispetto ad un soldato, che vibrasseun colpo al nemico già ucciso da altri e si vantassed'averlo abbattuto27.

27 Spinoza, sempre si vanta di procedere more geometrico; equesto è vero, anche più di quanto egli pensasse. Imperocchéquanto egli sapeva con evidente certezza in virtù di una diret-ta, intuitiva comprensione dell'essenza del mondo, cercò di di-mostrare per via logica, indipendentemente da quella cono-scenza. Ma a questa risultanza premeditata, e della quale eragià certo in anticipazione, egli non perviene se non prendendoper punto di partenza concetti arbitrariamente composti da luistesso (substantia, causa, etc.); e permettendosi nella dimo-strazione tutti quegli arbitri a cui dà comoda occasione l'esi-stenza delle ampie sfere concettuali. Quel che nella sua dottri-na c'è di vero e di eccellente, è dunque anche presso di lui af-fatto indipendente dalle dimostrazioni: appunto come in geo-metria.

Si veda il cap. 13 del secondo volume [pp. 134-6 del tomo I

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tà è pur sempre questa necessità conosciuta intuitiva-mente, secondo il principio di ragione dell'essere, che dàalla geometria la sua grande evidenza, e su cui poggianella coscienza d'ognuno la certezza delle sue proposi-zioni: e non è di certo la prova logica, avanzante fatico-samente sui trampoli. Questa, estranea sempre al vivodella cosa, il più sovente vien subito dimenticata senzadanno della persuasione, e potrebbe essere eliminata deltutto, senza che ne fosse diminuita l'evidenza della geo-metria, essendo questa affatto indipendente dalla provalogica; la quale dimostra soltanto ciò di cui già si ha pie-na certezza mediante un altro modo di conoscenza. So-miglia sotto questo rispetto ad un soldato, che vibrasseun colpo al nemico già ucciso da altri e si vantassed'averlo abbattuto27.

27 Spinoza, sempre si vanta di procedere more geometrico; equesto è vero, anche più di quanto egli pensasse. Imperocchéquanto egli sapeva con evidente certezza in virtù di una diret-ta, intuitiva comprensione dell'essenza del mondo, cercò di di-mostrare per via logica, indipendentemente da quella cono-scenza. Ma a questa risultanza premeditata, e della quale eragià certo in anticipazione, egli non perviene se non prendendoper punto di partenza concetti arbitrariamente composti da luistesso (substantia, causa, etc.); e permettendosi nella dimo-strazione tutti quegli arbitri a cui dà comoda occasione l'esi-stenza delle ampie sfere concettuali. Quel che nella sua dottri-na c'è di vero e di eccellente, è dunque anche presso di lui af-fatto indipendente dalle dimostrazioni: appunto come in geo-metria.

Si veda il cap. 13 del secondo volume [pp. 134-6 del tomo I

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In seguito a tutto ciò, spero non vi sia più alcun dubbiosul fatto che l'evidenza della matematica, la quale è di-ventata modello e simbolo d'ogni evidenza, per proprianatura non poggia su dimostrazioni, bensì sull'immedia-ta intuizione: e questa in matematica come dappertutto èbase, è la prima base e la sorgente d'ogni verità. Tuttavial'intuizione che sta a fondamento della matematica ha ungran privilegio su ciascun'altra, quindi anche sull'intui-zione empirica. Ossia, ella è a priori, e perciò indipen-dente dall'esperienza, che vien data sempre soltanto inmodo frammentario e successivo: tutto è vicino egual-mente, e si può a volontà partir dalla causa o dall'effetto.Ora, questo le dà una piena infallibilità, per il fatto chein lei l'effetto viene conosciuto dalla causa, la qual co-noscenza è la sola ad aver necessità: per esempio l'egua-glianza dei lati vien conosciuta come fondata sull'egua-glianza degli angoli. All'opposto, ogni intuizione empi-rica e la maggior parte di tutta l'esperienza procede in-vece dall'effetto alla causa – modo di conoscere non in-fallibile, perché la necessità appartiene solo all'effettoquando è data la causa, e non alla conoscenza della cau-sa dall'effetto; potendo questo effetto provenire da causedifferenti. Quest'ultimo modo di conoscenza non è altroche induzione: ossia movendo da molti effetti, che fannocapo ad una causa, viene ammessa la causa come certa.Ma poiché i casi non possono mai esser raccolti tutti, laverità non è qui mai assolutamente certa. Eppur questo è

dell'ed. cit.].

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In seguito a tutto ciò, spero non vi sia più alcun dubbiosul fatto che l'evidenza della matematica, la quale è di-ventata modello e simbolo d'ogni evidenza, per proprianatura non poggia su dimostrazioni, bensì sull'immedia-ta intuizione: e questa in matematica come dappertutto èbase, è la prima base e la sorgente d'ogni verità. Tuttavial'intuizione che sta a fondamento della matematica ha ungran privilegio su ciascun'altra, quindi anche sull'intui-zione empirica. Ossia, ella è a priori, e perciò indipen-dente dall'esperienza, che vien data sempre soltanto inmodo frammentario e successivo: tutto è vicino egual-mente, e si può a volontà partir dalla causa o dall'effetto.Ora, questo le dà una piena infallibilità, per il fatto chein lei l'effetto viene conosciuto dalla causa, la qual co-noscenza è la sola ad aver necessità: per esempio l'egua-glianza dei lati vien conosciuta come fondata sull'egua-glianza degli angoli. All'opposto, ogni intuizione empi-rica e la maggior parte di tutta l'esperienza procede in-vece dall'effetto alla causa – modo di conoscere non in-fallibile, perché la necessità appartiene solo all'effettoquando è data la causa, e non alla conoscenza della cau-sa dall'effetto; potendo questo effetto provenire da causedifferenti. Quest'ultimo modo di conoscenza non è altroche induzione: ossia movendo da molti effetti, che fannocapo ad una causa, viene ammessa la causa come certa.Ma poiché i casi non possono mai esser raccolti tutti, laverità non è qui mai assolutamente certa. Eppur questo è

dell'ed. cit.].

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il solo genere di verità che appartenga alla conoscenzaraggiunta mediante intuizione sensibile, ed alla massimaparte dell'esperienza. L'impressione d'un senso provocaun passar dell'intelletto dall'effetto alla causa: ma poiche il passaggio dal causato alla causa non è mai sicuro,sempre rimane possibile e si ha sovente una falsa appa-renza, come inganno dei sensi; secondo è sopra dimo-strato. Solo quando più sensi, o tutti e cinque, ricevonoimpressioni che fan capo alla stessa causa, solo alloradiventa minima la possibilità dell'inganno, per quantoancor sussista; poi che in taluni casi, per esempio conmonete false, s'ingannano tutti quanti i sensi. Nella stes-sa condizione si trova tutta la conoscenza empirica, equindi l'intera scienza della natura, lasciandone fuori laparte pura (o metafisica, secondo Kant). Anche qui lecause vengono conosciute attraverso gli effetti: quindiogni dottrina naturale è fondata su ipotesi, che spessoson false, e solo a poco a poco cedono il posto a dottrinepiù esatte. Solo negli esperimenti disposti con un datoproposito la conoscenza va dalla causa all'effetto, se-guendo la via sicura: ma anch'essi sono dapprima intra-presi in conseguenza di ipotesi. Perciò non poteva nes-sun ramo della scienza naturale, come fisica, o astrono-mia, o fisiologia, essere scoperto d'un tratto, come furo-no matematica e logica: bensì fu ed è necessaria l'espe-rienza comparata di molti secoli. Solo una moltepliceconferma empirica porta l'induzione – su cui poggial'ipotesi – tanto vicina alla compiutezza, che questa perla pratica prende il posto della certezza. Ed alla ipotesi

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il solo genere di verità che appartenga alla conoscenzaraggiunta mediante intuizione sensibile, ed alla massimaparte dell'esperienza. L'impressione d'un senso provocaun passar dell'intelletto dall'effetto alla causa: ma poiche il passaggio dal causato alla causa non è mai sicuro,sempre rimane possibile e si ha sovente una falsa appa-renza, come inganno dei sensi; secondo è sopra dimo-strato. Solo quando più sensi, o tutti e cinque, ricevonoimpressioni che fan capo alla stessa causa, solo alloradiventa minima la possibilità dell'inganno, per quantoancor sussista; poi che in taluni casi, per esempio conmonete false, s'ingannano tutti quanti i sensi. Nella stes-sa condizione si trova tutta la conoscenza empirica, equindi l'intera scienza della natura, lasciandone fuori laparte pura (o metafisica, secondo Kant). Anche qui lecause vengono conosciute attraverso gli effetti: quindiogni dottrina naturale è fondata su ipotesi, che spessoson false, e solo a poco a poco cedono il posto a dottrinepiù esatte. Solo negli esperimenti disposti con un datoproposito la conoscenza va dalla causa all'effetto, se-guendo la via sicura: ma anch'essi sono dapprima intra-presi in conseguenza di ipotesi. Perciò non poteva nes-sun ramo della scienza naturale, come fisica, o astrono-mia, o fisiologia, essere scoperto d'un tratto, come furo-no matematica e logica: bensì fu ed è necessaria l'espe-rienza comparata di molti secoli. Solo una moltepliceconferma empirica porta l'induzione – su cui poggial'ipotesi – tanto vicina alla compiutezza, che questa perla pratica prende il posto della certezza. Ed alla ipotesi

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reca la propria origine così poco danno, quanto ne recaall'applicazione della geometria l'incommensurabilitàdelle linee rette e curve, o all'aritmetica l'impossibilità diraggiunger l'assoluta esattezza del logaritmo. Imperoc-ché come la quadratura del cerchio e il logaritmo si pos-sono accostare all'esattezza fino ad esserne separati dauna distanza infinitesimale, così l'induzione, ossia cono-scenza della causa dall'effetto, mediante molteplici espe-rienze viene accostata all'evidenza matematica, permodo che ne la divida una distanza non proprio infinite-simale, ma tuttavia minima; sì che la possibilitàdell'errore si riduca tanto da poterla trascurare. Ciò non-dimeno, tale possibilità sussiste: ad esempio, quando dainnumerevoli casi l'induzione conclude per tutti i casi,ossia precisamente per la causa ignota, da cui tutti di-pendono. Quale fra le conclusioni di tal sorta ci apparepiù sicura di questa, che tutti gli uomini hanno il cuore asinistra? Tuttavia ci sono, come rarissime, isolate ecce-zioni, uomini che hanno il cuore a destra. Intuizionesensibile e scienza sperimentale hanno dunque la stessamaniera d'evidenza. Il privilegio che matematica, scien-za naturale pura e logica in quanto conoscenza a priorihanno su di quelle, consiste solo in ciò, che il lato for-male delle conoscenze, sul quale ogni apriorità si fonda,è dato per intero e tutto in una volta, e quindi si può quisempre passare dalla causa all'effetto, mentre là si passageneralmente dall'effetto alla causa. In sé d'altronde lalegge di causalità, o principio di ragione del divenire,che guida la conoscenza empirica, è tanto certa, quanto

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reca la propria origine così poco danno, quanto ne recaall'applicazione della geometria l'incommensurabilitàdelle linee rette e curve, o all'aritmetica l'impossibilità diraggiunger l'assoluta esattezza del logaritmo. Imperoc-ché come la quadratura del cerchio e il logaritmo si pos-sono accostare all'esattezza fino ad esserne separati dauna distanza infinitesimale, così l'induzione, ossia cono-scenza della causa dall'effetto, mediante molteplici espe-rienze viene accostata all'evidenza matematica, permodo che ne la divida una distanza non proprio infinite-simale, ma tuttavia minima; sì che la possibilitàdell'errore si riduca tanto da poterla trascurare. Ciò non-dimeno, tale possibilità sussiste: ad esempio, quando dainnumerevoli casi l'induzione conclude per tutti i casi,ossia precisamente per la causa ignota, da cui tutti di-pendono. Quale fra le conclusioni di tal sorta ci apparepiù sicura di questa, che tutti gli uomini hanno il cuore asinistra? Tuttavia ci sono, come rarissime, isolate ecce-zioni, uomini che hanno il cuore a destra. Intuizionesensibile e scienza sperimentale hanno dunque la stessamaniera d'evidenza. Il privilegio che matematica, scien-za naturale pura e logica in quanto conoscenza a priorihanno su di quelle, consiste solo in ciò, che il lato for-male delle conoscenze, sul quale ogni apriorità si fonda,è dato per intero e tutto in una volta, e quindi si può quisempre passare dalla causa all'effetto, mentre là si passageneralmente dall'effetto alla causa. In sé d'altronde lalegge di causalità, o principio di ragione del divenire,che guida la conoscenza empirica, è tanto certa, quanto

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quelle altre forme del principio di ragione, cui seguonole citate scienze a priori. Dimostrazioni logiche dedotteda concetti, o sillogismi, hanno, nello stesso modo comela conoscenza per intuizione a priori, il privilegio dipassar dalla causa all'effetto: per la qual cosa essi sonoin se stessi, ossia rispetto alla lor forma, infallibili. Que-sto ha molto contribuito a procacciar tanto rispetto alledimostrazioni. Ma codesta loro infallibilità è relativa:essi non fanno che sussumere sotto i principi superioridella scienza: ma son pur sempre questi, che contengo-no tutto il fondo di verità della scienza stessa, né si pos-sono alla lor volta dimostrare: bensì devono fondarsisull'intuizione, che se è pura in quelle poche scienze apriori citate, è invece sempre empirica altrove, e solomediante induzione è stata elevata dal particolare al ge-nerale. Se adunque anche nelle scienze empiriche il sin-golo viene provato col generale, il generale alla sua vol-ta ha ricevuto tutta la sua verità dal singolo. È un ma-gazzino carico di provviste, non un suolo di per sé fe-condo.Questo basti intorno al fondamento della verità. Circal'origine e la possibilità dell'errore, molte spiegazionisono state tentate, a partir dalle soluzioni figurate di Pla-tone, come quella della colombaia, dove invece del co-lombo desiderato se ne ghermisse un altro, e così via(Theaetet., p. 167 sgg.). La vaga, indeterminata spiega-zione dell'origine dell'errore fatta da Kant mediantel'immagine del moto diagonale si trova nella Critica

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quelle altre forme del principio di ragione, cui seguonole citate scienze a priori. Dimostrazioni logiche dedotteda concetti, o sillogismi, hanno, nello stesso modo comela conoscenza per intuizione a priori, il privilegio dipassar dalla causa all'effetto: per la qual cosa essi sonoin se stessi, ossia rispetto alla lor forma, infallibili. Que-sto ha molto contribuito a procacciar tanto rispetto alledimostrazioni. Ma codesta loro infallibilità è relativa:essi non fanno che sussumere sotto i principi superioridella scienza: ma son pur sempre questi, che contengo-no tutto il fondo di verità della scienza stessa, né si pos-sono alla lor volta dimostrare: bensì devono fondarsisull'intuizione, che se è pura in quelle poche scienze apriori citate, è invece sempre empirica altrove, e solomediante induzione è stata elevata dal particolare al ge-nerale. Se adunque anche nelle scienze empiriche il sin-golo viene provato col generale, il generale alla sua vol-ta ha ricevuto tutta la sua verità dal singolo. È un ma-gazzino carico di provviste, non un suolo di per sé fe-condo.Questo basti intorno al fondamento della verità. Circal'origine e la possibilità dell'errore, molte spiegazionisono state tentate, a partir dalle soluzioni figurate di Pla-tone, come quella della colombaia, dove invece del co-lombo desiderato se ne ghermisse un altro, e così via(Theaetet., p. 167 sgg.). La vaga, indeterminata spiega-zione dell'origine dell'errore fatta da Kant mediantel'immagine del moto diagonale si trova nella Critica

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della ragion pura, p. 294 della prima, e p. 350 dellaquinta edizione. Essendo la verità relazione d'un giudi-zio col suo principio di conoscenza, è un vero problemacome avvenga che colui, il quale giudica, creda d'avereeffettivamente codesto principio, mentre invece nonl'ha; ossia, come sia possibile l'errore, l'inganno della ra-gione. Io trovo questa possibilità affatto analoga a quelladell'illusione, o inganno dell'intelletto, che più sopra èstata chiarita. La mia opinione invero è (e perciò trovaqui posto la mia spiegazione) che ogni errore è una con-clusione dall'effetto alla causa, conclusione che ha valo-re. quando si sa che l'effetto può avere quella causa enessun'altra; ma non in altri casi. Chi sbaglia, o attribui-sce all'effetto una causa, che quello non può punto ave-re; nel che dimostra vera mancanza di intelletto, ossiaincapacità di conoscer direttamente il nesso tra causa edeffetto: oppure, come accade più spesso, dato l'effettodetermina bensì una causa possibile, ma alla maggiorpremessa del sillogismo, con cui va dall'effetto alla cau-sa, aggiunge che codesto effetto costantemente provienedalla causa attribuitagli. In ciò potrebbe esser giustifica-to solo da una compiuta induzione, che egli bensì pre-suppone, ma che non ha fatta. Quel costantemente èdunque un concetto troppo ampio, invece del quale po-trebbe star solo un talvolta, o il più sovente; sì che laconclusione verrebbe ad esser problematica, e come talenon sarebbe erronea. Un tal modo di procedere da partedi chi sbaglia può essere effetto di precipitazione, oppu-re di troppo limitata conoscenza della possibilità; per cui

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della ragion pura, p. 294 della prima, e p. 350 dellaquinta edizione. Essendo la verità relazione d'un giudi-zio col suo principio di conoscenza, è un vero problemacome avvenga che colui, il quale giudica, creda d'avereeffettivamente codesto principio, mentre invece nonl'ha; ossia, come sia possibile l'errore, l'inganno della ra-gione. Io trovo questa possibilità affatto analoga a quelladell'illusione, o inganno dell'intelletto, che più sopra èstata chiarita. La mia opinione invero è (e perciò trovaqui posto la mia spiegazione) che ogni errore è una con-clusione dall'effetto alla causa, conclusione che ha valo-re. quando si sa che l'effetto può avere quella causa enessun'altra; ma non in altri casi. Chi sbaglia, o attribui-sce all'effetto una causa, che quello non può punto ave-re; nel che dimostra vera mancanza di intelletto, ossiaincapacità di conoscer direttamente il nesso tra causa edeffetto: oppure, come accade più spesso, dato l'effettodetermina bensì una causa possibile, ma alla maggiorpremessa del sillogismo, con cui va dall'effetto alla cau-sa, aggiunge che codesto effetto costantemente provienedalla causa attribuitagli. In ciò potrebbe esser giustifica-to solo da una compiuta induzione, che egli bensì pre-suppone, ma che non ha fatta. Quel costantemente èdunque un concetto troppo ampio, invece del quale po-trebbe star solo un talvolta, o il più sovente; sì che laconclusione verrebbe ad esser problematica, e come talenon sarebbe erronea. Un tal modo di procedere da partedi chi sbaglia può essere effetto di precipitazione, oppu-re di troppo limitata conoscenza della possibilità; per cui

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ignora la necessità dell'induzione da fare. L'errore èquindi affatto analogo all'illusione. Entrambi sono con-clusioni dall'effetto alla causa: l'illusione si compie sem-pre nel puro intelletto, e secondo la legge di causalità,quindi direttamente nell'intuizione stessa; l'errore sicompie dalla ragione, secondo tutte le forme del princi-pio di ragione (quindi nel pensiero vero e proprio), mapiù spesso secondo la legge di causalità, come mostranoi tre esempi seguenti che si posson considerare cometipi o rappresentanti di questa classe d'errori. 1. L'illu-sione dei sensi (inganno dell'intelletto) genera errore(inganno della ragione), per esempio, quando si scambiauna pittura per un altorilievo e veramente per tale la sitiene. Questo accade mediante una deduzione dalla se-guente premessa maggiore: «Se il grigio oscuro qua e làpassa nel bianco attraverso tutte le sfumature, di ciò èsempre causa la luce che diversamente batte i rilievi e lecavità: ergo ...». 2. «Se manca denaro nella mia cassa,ne è sempre cagione il fatto che il mio domestico ha unachiave falsa: ergo...». 3. «Se l'immagine del sole rotta,ossia sospinta all'insù o all'ingiù dal prisma, appare al-lungata, il motivo è sempre questo: che nella luce si tro-vano raggi omogenei variamente colorati e variamenterifrangibili; i quali, separatisi per la loro varia rifrangibi-lità, mostrano ora un'immagine allungata e insieme va-riopinta: ergo... bibamus!». Ogni errore va ricondotto aduna consimile deduzione da una premessa maggiorespesso soltanto falsamente generalizzata, ipotetica, sortadall'ammetter una data causa per un dato effetto. Fanno

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ignora la necessità dell'induzione da fare. L'errore èquindi affatto analogo all'illusione. Entrambi sono con-clusioni dall'effetto alla causa: l'illusione si compie sem-pre nel puro intelletto, e secondo la legge di causalità,quindi direttamente nell'intuizione stessa; l'errore sicompie dalla ragione, secondo tutte le forme del princi-pio di ragione (quindi nel pensiero vero e proprio), mapiù spesso secondo la legge di causalità, come mostranoi tre esempi seguenti che si posson considerare cometipi o rappresentanti di questa classe d'errori. 1. L'illu-sione dei sensi (inganno dell'intelletto) genera errore(inganno della ragione), per esempio, quando si scambiauna pittura per un altorilievo e veramente per tale la sitiene. Questo accade mediante una deduzione dalla se-guente premessa maggiore: «Se il grigio oscuro qua e làpassa nel bianco attraverso tutte le sfumature, di ciò èsempre causa la luce che diversamente batte i rilievi e lecavità: ergo ...». 2. «Se manca denaro nella mia cassa,ne è sempre cagione il fatto che il mio domestico ha unachiave falsa: ergo...». 3. «Se l'immagine del sole rotta,ossia sospinta all'insù o all'ingiù dal prisma, appare al-lungata, il motivo è sempre questo: che nella luce si tro-vano raggi omogenei variamente colorati e variamenterifrangibili; i quali, separatisi per la loro varia rifrangibi-lità, mostrano ora un'immagine allungata e insieme va-riopinta: ergo... bibamus!». Ogni errore va ricondotto aduna consimile deduzione da una premessa maggiorespesso soltanto falsamente generalizzata, ipotetica, sortadall'ammetter una data causa per un dato effetto. Fanno

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eccezione gli errori di calcolo, che non sono per l'appun-to errori veri e propri, ma semplici sbagli. Non l'opera-zione, che i concetti dei numeri indicavano, è stata ese-guita nell'intuizione pura, nel calcolo; bensì un'altra insua vece.Per quanto riguarda il contenuto delle scienze in genere,questo è sempre in relazione scambievole dei fenomenidel mondo, in conformità del principio di ragione e sulleorme del perché; il quale da esso principio unicamentetrae significazione e valore. L'indicar quella relazione sichiama spiegazione. Questa non può dunque mai far dipiù, che mostrar due rappresentazioni nel loro reciprocorapporto, secondo la forma del principio di ragione do-minante nella classe a cui tali rappresentazioni apparten-gono. Arrivati a questo punto, non si può domandare al-tro perché: poiché la relazione indicata non si può innessun modo rappresentare altrimenti, ossia è la formad'ogni conoscenza. Quindi non ci si domanda perché 2 +2 = 4; o perché eguaglianza d'angoli nel triangolo deter-mini eguaglianza di lati; o perché a una data causa seguail suo effetto; o perché dalla verità delle premesse brillila verità della conclusione. Ogni spiegazione, che nonfaccia capo ad un rapporto, oltre il quale non si possapretendere alcun perché, si arresta davanti a una suppo-sta qualitas occulta: e di tal sorta è ogni forza elementa-re della natura. Davanti a queste deve alfine arrestarsiogni spiegazione scientifica: ossia davanti ad alcunchéaffatto oscuro. Deve quindi lasciare tanto inesplicata

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eccezione gli errori di calcolo, che non sono per l'appun-to errori veri e propri, ma semplici sbagli. Non l'opera-zione, che i concetti dei numeri indicavano, è stata ese-guita nell'intuizione pura, nel calcolo; bensì un'altra insua vece.Per quanto riguarda il contenuto delle scienze in genere,questo è sempre in relazione scambievole dei fenomenidel mondo, in conformità del principio di ragione e sulleorme del perché; il quale da esso principio unicamentetrae significazione e valore. L'indicar quella relazione sichiama spiegazione. Questa non può dunque mai far dipiù, che mostrar due rappresentazioni nel loro reciprocorapporto, secondo la forma del principio di ragione do-minante nella classe a cui tali rappresentazioni apparten-gono. Arrivati a questo punto, non si può domandare al-tro perché: poiché la relazione indicata non si può innessun modo rappresentare altrimenti, ossia è la formad'ogni conoscenza. Quindi non ci si domanda perché 2 +2 = 4; o perché eguaglianza d'angoli nel triangolo deter-mini eguaglianza di lati; o perché a una data causa seguail suo effetto; o perché dalla verità delle premesse brillila verità della conclusione. Ogni spiegazione, che nonfaccia capo ad un rapporto, oltre il quale non si possapretendere alcun perché, si arresta davanti a una suppo-sta qualitas occulta: e di tal sorta è ogni forza elementa-re della natura. Davanti a queste deve alfine arrestarsiogni spiegazione scientifica: ossia davanti ad alcunchéaffatto oscuro. Deve quindi lasciare tanto inesplicata

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l'intima essenza d'una pietra, quanto quella dell'uomo;non può dar conto della gravità, della coesione, delleproprietà chimiche, che la pietra manifesta, più di quan-to possa dar conto del conoscere e dell'agire dell'uomo.Così per esempio la gravità è una qualitas occulta: per-ché si può fare a meno di pensarla, e non sorge quindicome una necessità dalla forma del conoscere. Questoinvece è il caso della legge d'inerzia, in quanto deriva daquella di causalità: quindi il richiamarvisi è una spiega-zione del tutto sufficiente. Due cose invero sono proprioinesplicabili, non si possono cioè ricondurre alla relazio-ne formulata dal principio di ragione: in primo luogo, ilprincipio stesso di ragione, nelle sue quattro forme, per-ché esso è il principio d'ogni spiegazione, quello in rap-porto al quale ogni spiegazione ha senso; e, in secondoluogo, ciò che non è raggiunto dal principio di ragione,ma da cui proviene l'elemento primordiale in tutti i fe-nomeni – ossia la cosa in sé, la cui conoscenza non èpunto subordinata al principio di ragione. Quest'ultimadeve rimaner per ora nell'ombra, perché diventerà com-prensibile solo col libro seguente, nel quale riprendere-mo anche questa considerazione della capacità dellescienze. Ma là, dove la scienza naturale, anzi ogni scien-za, s'arresta davanti agli oggetti, e non solo la spiegazio-ne che ne dà, ma perfino il principio di questa spiega-zione – il principio di ragione – non oltrepassa quel pun-to: là viene la filosofia a prender codesti oggetti e li con-sidera a suo modo, con metodo affatto diverso dallascienza. Nella memoria sul principio di ragione, § 51,

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l'intima essenza d'una pietra, quanto quella dell'uomo;non può dar conto della gravità, della coesione, delleproprietà chimiche, che la pietra manifesta, più di quan-to possa dar conto del conoscere e dell'agire dell'uomo.Così per esempio la gravità è una qualitas occulta: per-ché si può fare a meno di pensarla, e non sorge quindicome una necessità dalla forma del conoscere. Questoinvece è il caso della legge d'inerzia, in quanto deriva daquella di causalità: quindi il richiamarvisi è una spiega-zione del tutto sufficiente. Due cose invero sono proprioinesplicabili, non si possono cioè ricondurre alla relazio-ne formulata dal principio di ragione: in primo luogo, ilprincipio stesso di ragione, nelle sue quattro forme, per-ché esso è il principio d'ogni spiegazione, quello in rap-porto al quale ogni spiegazione ha senso; e, in secondoluogo, ciò che non è raggiunto dal principio di ragione,ma da cui proviene l'elemento primordiale in tutti i fe-nomeni – ossia la cosa in sé, la cui conoscenza non èpunto subordinata al principio di ragione. Quest'ultimadeve rimaner per ora nell'ombra, perché diventerà com-prensibile solo col libro seguente, nel quale riprendere-mo anche questa considerazione della capacità dellescienze. Ma là, dove la scienza naturale, anzi ogni scien-za, s'arresta davanti agli oggetti, e non solo la spiegazio-ne che ne dà, ma perfino il principio di questa spiega-zione – il principio di ragione – non oltrepassa quel pun-to: là viene la filosofia a prender codesti oggetti e li con-sidera a suo modo, con metodo affatto diverso dallascienza. Nella memoria sul principio di ragione, § 51,

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ho mostrato che nelle varie scienze è principal filo con-duttore l'una o l'altra forma di quel principio: e invero sipotrebbe far su questa base la miglior suddivisione dellescienze. Ma ogni spiegazione data seguendo quel filo è,come ho detto, sempre relativa: spiega gli oggetti in re-ciproca relazione, lasciando sempre qualcosa d'inespli-cato, che appunto già presuppone. Questo è il caso, peresempio, di spazio e tempo nella matematica; così nellameccanica, nella fisica e nella chimica la materia, lequalità, le forze elementari, le leggi naturali; nella bota-nica e nella zoologia la varietà delle specie e la vita stes-sa; nella storia la razza umana, con le sue proprietà delpensare e del volere; – in tutte, il principio di ragione;nella forma che volta per volta è applicata. La filosofiaha questo di caratteristico, che non presuppone nulla digià noto, ma tutto le è in egual misura estraneo e costi-tuisce un problema: non solo le relazioni dei fenomeni,ma anche i fenomeni stessi, e lo stesso principio di ra-gione, al quale le altre scienze s'appagano di tutto ricon-durre. Da codesto risalire al principio di ragione la filo-sofia non avrebbe nulla da guadagnare, perché un anellodella catena le è sconosciuto come l'altro, e quella stessamaniera di connessione è per lei un problema pari alproblema dei termini che essa congiunge; e questi ri-mangono problemi dopo rilevato il loro rapporto, comeprima. Perché, come ho detto, appunto ciò, che le scien-ze presuppongono e mettono a base delle loro spiegazio-ni e si stabiliscono come limite, è il vero problema dellafilosofia; la quale per conseguenza comincia, dove le

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ho mostrato che nelle varie scienze è principal filo con-duttore l'una o l'altra forma di quel principio: e invero sipotrebbe far su questa base la miglior suddivisione dellescienze. Ma ogni spiegazione data seguendo quel filo è,come ho detto, sempre relativa: spiega gli oggetti in re-ciproca relazione, lasciando sempre qualcosa d'inespli-cato, che appunto già presuppone. Questo è il caso, peresempio, di spazio e tempo nella matematica; così nellameccanica, nella fisica e nella chimica la materia, lequalità, le forze elementari, le leggi naturali; nella bota-nica e nella zoologia la varietà delle specie e la vita stes-sa; nella storia la razza umana, con le sue proprietà delpensare e del volere; – in tutte, il principio di ragione;nella forma che volta per volta è applicata. La filosofiaha questo di caratteristico, che non presuppone nulla digià noto, ma tutto le è in egual misura estraneo e costi-tuisce un problema: non solo le relazioni dei fenomeni,ma anche i fenomeni stessi, e lo stesso principio di ra-gione, al quale le altre scienze s'appagano di tutto ricon-durre. Da codesto risalire al principio di ragione la filo-sofia non avrebbe nulla da guadagnare, perché un anellodella catena le è sconosciuto come l'altro, e quella stessamaniera di connessione è per lei un problema pari alproblema dei termini che essa congiunge; e questi ri-mangono problemi dopo rilevato il loro rapporto, comeprima. Perché, come ho detto, appunto ciò, che le scien-ze presuppongono e mettono a base delle loro spiegazio-ni e si stabiliscono come limite, è il vero problema dellafilosofia; la quale per conseguenza comincia, dove le

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scienze finiscono. Dimostrazioni non possono essere ilsuo fondamento: perché queste ricavano principii ignotidai noti, mentre a lei tutto è ad un modo ignoto e stra-niero. Non vi può esser nessun principio, in base delquale abbia preso esistenza il mondo con tutti i suoi fe-nomeni: perciò non si può per via di dimostrazioni de-durre, come Spinoza voleva, una filosofia ex firmisprincipiis. La filosofia è anche il sapere più universale, icui principi fondamentali non possono perciò esser deri-vazioni da un altro più universale ancora. Il principio dicontraddizione stabilisce semplicemente la concordanzadei concetti; ma non da esso medesimo concetti. Il prin-cipio di ragione spiega i collegamenti dei fenomeni, manon i fenomeni: perciò la filosofia non può andar a cer-car una causa efficiens o una causa finalis del mondointero. La filosofia moderna, almeno, non indaga puntol'origine e la finalità del mondo; bensì soltanto che sia ilmondo. Ma il perché è qui subordinato al che cosa: poi-ché esso già fa parte del mondo, sorgendo unicamentedalla forma in cui questo appare – il principio di ragione– e solo per tal rispetto acquista significato e valore. Sipotrebbe dire bensì, che ciascuno senz'altro aiuto cono-sce da sé che cosa sia il mondo, essendo egli medesimoil soggetto della conoscenza, del quale il mondo è rap-presentazione: ed anche questo sarebbe vero in tal sen-so. Ma quella conoscenza è di natura intuitiva, in con-creto: riprodurla in abstracto, elevare a sapere astratto,chiaro, durevole l'intuizione successiva e mutabile, especialmente tutto ciò, che il vasto concetto del senti-

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scienze finiscono. Dimostrazioni non possono essere ilsuo fondamento: perché queste ricavano principii ignotidai noti, mentre a lei tutto è ad un modo ignoto e stra-niero. Non vi può esser nessun principio, in base delquale abbia preso esistenza il mondo con tutti i suoi fe-nomeni: perciò non si può per via di dimostrazioni de-durre, come Spinoza voleva, una filosofia ex firmisprincipiis. La filosofia è anche il sapere più universale, icui principi fondamentali non possono perciò esser deri-vazioni da un altro più universale ancora. Il principio dicontraddizione stabilisce semplicemente la concordanzadei concetti; ma non da esso medesimo concetti. Il prin-cipio di ragione spiega i collegamenti dei fenomeni, manon i fenomeni: perciò la filosofia non può andar a cer-car una causa efficiens o una causa finalis del mondointero. La filosofia moderna, almeno, non indaga puntol'origine e la finalità del mondo; bensì soltanto che sia ilmondo. Ma il perché è qui subordinato al che cosa: poi-ché esso già fa parte del mondo, sorgendo unicamentedalla forma in cui questo appare – il principio di ragione– e solo per tal rispetto acquista significato e valore. Sipotrebbe dire bensì, che ciascuno senz'altro aiuto cono-sce da sé che cosa sia il mondo, essendo egli medesimoil soggetto della conoscenza, del quale il mondo è rap-presentazione: ed anche questo sarebbe vero in tal sen-so. Ma quella conoscenza è di natura intuitiva, in con-creto: riprodurla in abstracto, elevare a sapere astratto,chiaro, durevole l'intuizione successiva e mutabile, especialmente tutto ciò, che il vasto concetto del senti-

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mento abbraccia ed indica appunto in modo negativocome un sapere non astratto, confuso – ecco la missionedella filosofia. Ella dev'esser quindi una dichiarazionein abstracto dell'essenza del mondo intero, del suo com-plesso come di tutte le sue parti. Ma tuttavia, per nonperdersi in una massa infinita di giudizi singoli, deveservirsi dell'astrazione, ed ogni singolo pensare in formagenerale, ed in forma generale anche le sue differenze:quindi in parte separerà, in parte congiungerà, per tra-smettere al sapere, condensata in pochi concetti astratti,tutta la molteplicità del mondo nella sua essenza. Conquei concetti, in cui ella fissa l'essenza del mondo, devenondimeno, come il generale, anche il particolarissimovenir conosciuto, e la conoscenza d'entrambi esser quin-di collegata strettissimamente: perciò l'attitudine alla fi-losofia consiste appunto là dove Platone la poneva, nelconoscer l'uno nel molteplice, e il molteplice nell'uno.La filosofia sarà dunque una somma di giudizi moltogenerali, il cui principio di conoscenza è direttamente ilmondo medesimo nel suo complesso, senza alcunaesclusione: ossia tutto ciò che si trova nella coscienzaumana. Ella sarà una completa ripetizione, e quasi un ri-flesso del mondo in concetti astratti, possibile solo me-diante la riunione di ciò ch'è essenzialmente identico inun concetto, e l'isolamento del diverso in un altro con-cetto. Questo compito assegnava già Bacone da Verula-mio alla filosofia, dicendo: «Ea demum vera est philo-sophia, quae mundi ipsius voces fidelissime reddit, etveluti dictante mundo conscripta est, et nihil aliud est,

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mento abbraccia ed indica appunto in modo negativocome un sapere non astratto, confuso – ecco la missionedella filosofia. Ella dev'esser quindi una dichiarazionein abstracto dell'essenza del mondo intero, del suo com-plesso come di tutte le sue parti. Ma tuttavia, per nonperdersi in una massa infinita di giudizi singoli, deveservirsi dell'astrazione, ed ogni singolo pensare in formagenerale, ed in forma generale anche le sue differenze:quindi in parte separerà, in parte congiungerà, per tra-smettere al sapere, condensata in pochi concetti astratti,tutta la molteplicità del mondo nella sua essenza. Conquei concetti, in cui ella fissa l'essenza del mondo, devenondimeno, come il generale, anche il particolarissimovenir conosciuto, e la conoscenza d'entrambi esser quin-di collegata strettissimamente: perciò l'attitudine alla fi-losofia consiste appunto là dove Platone la poneva, nelconoscer l'uno nel molteplice, e il molteplice nell'uno.La filosofia sarà dunque una somma di giudizi moltogenerali, il cui principio di conoscenza è direttamente ilmondo medesimo nel suo complesso, senza alcunaesclusione: ossia tutto ciò che si trova nella coscienzaumana. Ella sarà una completa ripetizione, e quasi un ri-flesso del mondo in concetti astratti, possibile solo me-diante la riunione di ciò ch'è essenzialmente identico inun concetto, e l'isolamento del diverso in un altro con-cetto. Questo compito assegnava già Bacone da Verula-mio alla filosofia, dicendo: «Ea demum vera est philo-sophia, quae mundi ipsius voces fidelissime reddit, etveluti dictante mundo conscripta est, et nihil aliud est,

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quam ejusdem simulacrum et reflectio, neque addit qui-dquam de proprio, sed tantum iterat et resonat» (Deaugm. scient., 1. 2, e. 13). Noi prendiamo tuttavia lacosa in senso più ampio di quanto potesse allora pensareBacone.La reciproca concordanza che hanno fra loro tutti gliaspetti e le parti del mondo, appunto perché appartengo-no ad un tutto, deve ritrovarsi anche in quell'astratta ri-produzione del mondo. Così fu possibile in quella som-ma di giudizi derivare in certo modo l'uno dall'altro; eviceversa, sempre. Ma per ciò devono i giudizi in primoluogo esistere, e dunque prima venir stabiliti, come di-rettamente fondati in concreto sulla conoscenza delmondo; tanto più che ogni fondamento immediato è piùsicuro che il mediato. La loro armonia reciproca, in gra-zia della quale confluiscono perfino nell'unità di un pen-siero, e che sgorga dall'armonia ed unità del mondo in-tuitivo medesimo, che è il lor comune principio di cono-scenza, non è adunque adoprata come primo argomentoper la loro dimostrazione; ma verrà solo come una con-ferma della loro verità. Tuttavia questo compito può di-ventar ben chiaro solo mediante la sua attuazione28.

§ 16.Dopo tutto questo esame sia della ragione, come d'unaforza conoscitiva propria, particolare dell'uomo soltanto,

28 Si veda il cap. 17 del secondo volume [pp. 165-94 del tomo I dell'ed. cit.].

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quam ejusdem simulacrum et reflectio, neque addit qui-dquam de proprio, sed tantum iterat et resonat» (Deaugm. scient., 1. 2, e. 13). Noi prendiamo tuttavia lacosa in senso più ampio di quanto potesse allora pensareBacone.La reciproca concordanza che hanno fra loro tutti gliaspetti e le parti del mondo, appunto perché appartengo-no ad un tutto, deve ritrovarsi anche in quell'astratta ri-produzione del mondo. Così fu possibile in quella som-ma di giudizi derivare in certo modo l'uno dall'altro; eviceversa, sempre. Ma per ciò devono i giudizi in primoluogo esistere, e dunque prima venir stabiliti, come di-rettamente fondati in concreto sulla conoscenza delmondo; tanto più che ogni fondamento immediato è piùsicuro che il mediato. La loro armonia reciproca, in gra-zia della quale confluiscono perfino nell'unità di un pen-siero, e che sgorga dall'armonia ed unità del mondo in-tuitivo medesimo, che è il lor comune principio di cono-scenza, non è adunque adoprata come primo argomentoper la loro dimostrazione; ma verrà solo come una con-ferma della loro verità. Tuttavia questo compito può di-ventar ben chiaro solo mediante la sua attuazione28.

§ 16.Dopo tutto questo esame sia della ragione, come d'unaforza conoscitiva propria, particolare dell'uomo soltanto,

28 Si veda il cap. 17 del secondo volume [pp. 165-94 del tomo I dell'ed. cit.].

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sia delle operazioni e dei fenomeni anche propriidell'umana natura, che da quella derivano, mi rimarreb-be a parlar della ragione in quanto guida le azioni degliuomini; e sotto tal rispetto può definirsi pratica. Ma lamaggior parte di ciò, che qui andrebbe detto, ha trovatoluogo altrove, ossia nell'appendice di quest'opera, dovemi propongo di combattere l'esistenza della cosiddettaragion pratica di Kant; la quale egli (invero molto co-modamente) rappresenta come sorgente immediatad'ogni virtù, e come sede di un dovere assoluto (ovverocaduto dal cielo). La diffusa e radicale confutazione diquesto principio della morale kantiana io l'ho fatta piùtardi, nei Problemi fondamentali dell'etica. Perciò nonho che poco da dire qui ancora sull'effettivo influsso chela ragione – nel vero senso della parola – ha sull'azione.Già sul principio del nostro esame della ragione abbia-mo in generale osservato quanto la condotta dell'uomosi distingua da quella dell'animale, e come codesta di-stinzione sia unicamente da considerare come dovutaalla presenza di concetti astratti nella coscienza.L'influsso di questi su tutto il nostro essere è così pene-trante e significativo, che in certo modo ci pone davantiagli animali nella stessa situazione, in cui si trovano glianimali veggenti in confronto di quelli privi della vista(alcune larve, vermi e zoofiti). Questi ultimi conosconosolo mediante il tatto ciò, che si trova nello spazio im-mediatamente presso di loro, e li tocca; mentre i veg-genti dispongono di un'ampia sfera da presso e da lungi.Similmente l'assenza della ragione limita gli animali alle

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sia delle operazioni e dei fenomeni anche propriidell'umana natura, che da quella derivano, mi rimarreb-be a parlar della ragione in quanto guida le azioni degliuomini; e sotto tal rispetto può definirsi pratica. Ma lamaggior parte di ciò, che qui andrebbe detto, ha trovatoluogo altrove, ossia nell'appendice di quest'opera, dovemi propongo di combattere l'esistenza della cosiddettaragion pratica di Kant; la quale egli (invero molto co-modamente) rappresenta come sorgente immediatad'ogni virtù, e come sede di un dovere assoluto (ovverocaduto dal cielo). La diffusa e radicale confutazione diquesto principio della morale kantiana io l'ho fatta piùtardi, nei Problemi fondamentali dell'etica. Perciò nonho che poco da dire qui ancora sull'effettivo influsso chela ragione – nel vero senso della parola – ha sull'azione.Già sul principio del nostro esame della ragione abbia-mo in generale osservato quanto la condotta dell'uomosi distingua da quella dell'animale, e come codesta di-stinzione sia unicamente da considerare come dovutaalla presenza di concetti astratti nella coscienza.L'influsso di questi su tutto il nostro essere è così pene-trante e significativo, che in certo modo ci pone davantiagli animali nella stessa situazione, in cui si trovano glianimali veggenti in confronto di quelli privi della vista(alcune larve, vermi e zoofiti). Questi ultimi conosconosolo mediante il tatto ciò, che si trova nello spazio im-mediatamente presso di loro, e li tocca; mentre i veg-genti dispongono di un'ampia sfera da presso e da lungi.Similmente l'assenza della ragione limita gli animali alle

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rappresentazioni intuitive, ossia agli oggetti reali, cheson loro immediatamente presenti nel tempo: mentrenoi, grazie alla conoscenza in abstracto, abbracciamo,di là dal ristretto presente della realtà, anche tutto il pas-sato ed il futuro, oltre l'ampio dominio della possibilità;noi dominiamo con lo sguardo la vita, liberi da ogni par-te, fino a grandissima distanza dal presente e dalla real-tà. Quel che l'occhio è nello spazio, e per la conoscenzasensibile, è in certo modo la ragione nel tempo, e per laconoscenza interiore. Ma, come la visibilità degli ogget-ti ha valore e significato solo perché ne denota la tangi-bilità, così sempre l'intero valore della conoscenzaastratta consiste nella sua relazione con la conoscenzaintuitiva. Quindi l'uomo conforme alla natura dà sempremaggior peso a ciò che ha conosciuto immediatamenteed intuitivamente, che non ai concetti astratti, ossia a ciòche ha soltanto pensato: egli preferisce la conoscenzaempirica alla conoscenza logica. Opposta è la disposi-zione di coloro che vivono più in parole che in fatti, chehanno guardato più alla carta ed ai libri che al mondoreale, e nella loro grandissima degenerazione diventanopedanti e spulciatori di vocaboli. Così soltanto si com-prende come Leibniz e Wolff e tutti i loro seguaci si po-tessero tanto smarrire, sull'esempio di Duns Scoto, dadir che la conoscenza intuitiva non è che una conoscen-za astratta ingarbugliata! Ad onore di Spinoza devo ri-cordare che il suo buon senso ha viceversa ritenuto tuttii concetti comuni come sorti dalla confusione della co-noscenza intuitiva (Eth., II, prop. 40, schol. 1). Da quel-

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rappresentazioni intuitive, ossia agli oggetti reali, cheson loro immediatamente presenti nel tempo: mentrenoi, grazie alla conoscenza in abstracto, abbracciamo,di là dal ristretto presente della realtà, anche tutto il pas-sato ed il futuro, oltre l'ampio dominio della possibilità;noi dominiamo con lo sguardo la vita, liberi da ogni par-te, fino a grandissima distanza dal presente e dalla real-tà. Quel che l'occhio è nello spazio, e per la conoscenzasensibile, è in certo modo la ragione nel tempo, e per laconoscenza interiore. Ma, come la visibilità degli ogget-ti ha valore e significato solo perché ne denota la tangi-bilità, così sempre l'intero valore della conoscenzaastratta consiste nella sua relazione con la conoscenzaintuitiva. Quindi l'uomo conforme alla natura dà sempremaggior peso a ciò che ha conosciuto immediatamenteed intuitivamente, che non ai concetti astratti, ossia a ciòche ha soltanto pensato: egli preferisce la conoscenzaempirica alla conoscenza logica. Opposta è la disposi-zione di coloro che vivono più in parole che in fatti, chehanno guardato più alla carta ed ai libri che al mondoreale, e nella loro grandissima degenerazione diventanopedanti e spulciatori di vocaboli. Così soltanto si com-prende come Leibniz e Wolff e tutti i loro seguaci si po-tessero tanto smarrire, sull'esempio di Duns Scoto, dadir che la conoscenza intuitiva non è che una conoscen-za astratta ingarbugliata! Ad onore di Spinoza devo ri-cordare che il suo buon senso ha viceversa ritenuto tuttii concetti comuni come sorti dalla confusione della co-noscenza intuitiva (Eth., II, prop. 40, schol. 1). Da quel-

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la assurda concezione è anche derivato che si rigettasseil genere d'evidenza proprio della matematica, per farvalere la sola evidenza logica; che in genere ogni cono-scenza non astratta si comprendesse e si trascurasse sot-to l'ampio nome di sentimento; che finalmente l'eticakantiana dichiarasse senza valore e senza merito, comepuro sentimento ed emozione, quella volontà buona, chesi fa immediatamente sentire con la conoscenza dei fatti,e spinge al giusto operare ed al bene – mentre invece at-tribuiva valore morale soltanto alla condotta guidata damassime astratte.Il privilegio, che l'uomo in grazia della ragione hasull'animale, di dominar da ogni parte con lo sguardo lavita nel suo complesso, si può anche paragonare ad undisegno geometrico, incolore, astratto, rimpicciolito, delcorso della sua vita. L'uomo con ciò sta rispetto all'ani-male, come il navigatore, il quale con l'aiuto della cartadi navigazione, della bussola e del quadrante sappia conprecisione il suo percorso ad ogni punto del mare, sta ri-spetto alla ciurma ignara, la quale non vede che le ondee il cielo. Ne consegue un fatto notevole, anzi mirabile:che l'uomo, accanto alla propria vita in concreto, neconduce una seconda in abstracto. Nella prima è dato inbalia a tutte le tempeste della realtà e all'influenza delpresente: deve lottare, soffrire, morire come l'animale.Ma la sua vita in abstracto, qual'essa sta davanti alla suaragionante riflessione, è quel disegno ridotto, qui sopraaccennato. Quivi, nel dominio della pacata meditazione,

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la assurda concezione è anche derivato che si rigettasseil genere d'evidenza proprio della matematica, per farvalere la sola evidenza logica; che in genere ogni cono-scenza non astratta si comprendesse e si trascurasse sot-to l'ampio nome di sentimento; che finalmente l'eticakantiana dichiarasse senza valore e senza merito, comepuro sentimento ed emozione, quella volontà buona, chesi fa immediatamente sentire con la conoscenza dei fatti,e spinge al giusto operare ed al bene – mentre invece at-tribuiva valore morale soltanto alla condotta guidata damassime astratte.Il privilegio, che l'uomo in grazia della ragione hasull'animale, di dominar da ogni parte con lo sguardo lavita nel suo complesso, si può anche paragonare ad undisegno geometrico, incolore, astratto, rimpicciolito, delcorso della sua vita. L'uomo con ciò sta rispetto all'ani-male, come il navigatore, il quale con l'aiuto della cartadi navigazione, della bussola e del quadrante sappia conprecisione il suo percorso ad ogni punto del mare, sta ri-spetto alla ciurma ignara, la quale non vede che le ondee il cielo. Ne consegue un fatto notevole, anzi mirabile:che l'uomo, accanto alla propria vita in concreto, neconduce una seconda in abstracto. Nella prima è dato inbalia a tutte le tempeste della realtà e all'influenza delpresente: deve lottare, soffrire, morire come l'animale.Ma la sua vita in abstracto, qual'essa sta davanti alla suaragionante riflessione, è quel disegno ridotto, qui sopraaccennato. Quivi, nel dominio della pacata meditazione,

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gli appare freddo, incolore ed estraneo al momento pre-sente ciò, che colà tutto lo possiede e violentemente loagita: quivi egli è un semplice spettatore ed osservatore.In codesto ritrarsi nella riflessione egli rassomiglia adun attore, il quale ha recitato la sua scena, e, fino al mo-mento di ricomparire, prende posto fra gli spettatori;donde contempla indifferente qualunque cosa possa ac-cader nel dramma, foss'anche la preparazione della pro-pria morte. Poi, al momento dato, torna sulla scena eagisce e soffre come deve. Da questa doppia vita sorgequell'umana calma – tanto diversa dall'animale spensie-ratezza – con la quale taluno per ben ponderata riflessio-ne, per una risoluzione presa o una riconosciuta necessi-tà, lascia freddamente venir su di sé o compie egli me-desimo cose per lui essenzialissime, spesso terribili: sui-cidio, supplizio, duello, temerità mortali d'ogni specie e,in genere, cose contro le quali si ribella tutta la sua natu-ra animale. Qui si vede, in qual misura la ragione si ren-da padrona della natura animale, e gridi all'uomo forte:σιδηρειον νυ τοι ητορ! (ferreum certe tibi cor!) Il., 24,521. E qui può dirsi che davvero si manifesti la ragionepraticamente: quindi, ovunque l'atto è guidato dalla ra-gione, dove i moventi sono concetti astratti, dove il mo-tivo determinante non è costituito da isolate rappresen-tazioni intuitive né dall'impressione momentanea, cheguida gli animali, – qui si mostra ragione pratica. Mache tutto ciò sia affatto diverso ed indipendente dal me-rito etico della condotta; che condotta razionale e con-dotta virtuosa siano due cose del tutto distinte; che la ra-

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gli appare freddo, incolore ed estraneo al momento pre-sente ciò, che colà tutto lo possiede e violentemente loagita: quivi egli è un semplice spettatore ed osservatore.In codesto ritrarsi nella riflessione egli rassomiglia adun attore, il quale ha recitato la sua scena, e, fino al mo-mento di ricomparire, prende posto fra gli spettatori;donde contempla indifferente qualunque cosa possa ac-cader nel dramma, foss'anche la preparazione della pro-pria morte. Poi, al momento dato, torna sulla scena eagisce e soffre come deve. Da questa doppia vita sorgequell'umana calma – tanto diversa dall'animale spensie-ratezza – con la quale taluno per ben ponderata riflessio-ne, per una risoluzione presa o una riconosciuta necessi-tà, lascia freddamente venir su di sé o compie egli me-desimo cose per lui essenzialissime, spesso terribili: sui-cidio, supplizio, duello, temerità mortali d'ogni specie e,in genere, cose contro le quali si ribella tutta la sua natu-ra animale. Qui si vede, in qual misura la ragione si ren-da padrona della natura animale, e gridi all'uomo forte:σιδηρειον νυ τοι ητορ! (ferreum certe tibi cor!) Il., 24,521. E qui può dirsi che davvero si manifesti la ragionepraticamente: quindi, ovunque l'atto è guidato dalla ra-gione, dove i moventi sono concetti astratti, dove il mo-tivo determinante non è costituito da isolate rappresen-tazioni intuitive né dall'impressione momentanea, cheguida gli animali, – qui si mostra ragione pratica. Mache tutto ciò sia affatto diverso ed indipendente dal me-rito etico della condotta; che condotta razionale e con-dotta virtuosa siano due cose del tutto distinte; che la ra-

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gione possa unirsi sì con grande cattiveria come congrande bontà, e questa come quella renda attive con lapropria presenza; che la ragione sia ugualmente pronta evalevole per l'attuazione metodica e conseguente d'unnobile proposito come d'un cattivo, di una massima in-telligente come d'una massima stolta (il che proviene dalsuo carattere femminile, atto a ricevere e conservare, manon a produrre direttamente); – tutto ciò ho ampiamentespiegato nell'appendice e illustrato con esempi. Le cosequivi dette dovrebbero invero trovarsi in questo luogo;ma han dovuto esser trasportate colà per la polemicacontro la pretesa ragion pratica di Kant. Perciò torno arinviare all'appendice.Il più perfetto svolgimento della ragione pratica nel veroe proprio senso della parola; il più alto culmine a cuil'uomo può elevarsi col semplice impiego della sua ra-gione, e sul quale più evidente appare la sua diversitàdagli animali, è come ideale rappresentato nel sapientestoico. Imperocché l'etica stoica originariamente ed es-senzialmente non è punto una dottrina di virtù, ma sem-plice avviamento alla vita razionale, di cui è meta e sco-po la felicità ottenuta con la calma dello spirito. La con-dotta virtuosa vi si trova solo come per accidens, comemezzo, non come scopo. Perciò l'etica stoica, in tutta lasua essenza e nella sua concezione, è radicalmente di-versa dai sistemi etici, che spingono direttamente allavirtù, come sarebbero le dottrine dei Veda, di Platone,del Cristianesimo e di Kant. Il fine dell'etica stoica è la

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gione possa unirsi sì con grande cattiveria come congrande bontà, e questa come quella renda attive con lapropria presenza; che la ragione sia ugualmente pronta evalevole per l'attuazione metodica e conseguente d'unnobile proposito come d'un cattivo, di una massima in-telligente come d'una massima stolta (il che proviene dalsuo carattere femminile, atto a ricevere e conservare, manon a produrre direttamente); – tutto ciò ho ampiamentespiegato nell'appendice e illustrato con esempi. Le cosequivi dette dovrebbero invero trovarsi in questo luogo;ma han dovuto esser trasportate colà per la polemicacontro la pretesa ragion pratica di Kant. Perciò torno arinviare all'appendice.Il più perfetto svolgimento della ragione pratica nel veroe proprio senso della parola; il più alto culmine a cuil'uomo può elevarsi col semplice impiego della sua ra-gione, e sul quale più evidente appare la sua diversitàdagli animali, è come ideale rappresentato nel sapientestoico. Imperocché l'etica stoica originariamente ed es-senzialmente non è punto una dottrina di virtù, ma sem-plice avviamento alla vita razionale, di cui è meta e sco-po la felicità ottenuta con la calma dello spirito. La con-dotta virtuosa vi si trova solo come per accidens, comemezzo, non come scopo. Perciò l'etica stoica, in tutta lasua essenza e nella sua concezione, è radicalmente di-versa dai sistemi etici, che spingono direttamente allavirtù, come sarebbero le dottrine dei Veda, di Platone,del Cristianesimo e di Kant. Il fine dell'etica stoica è la

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felicità: τελος το ευδαιµονειν (virtutes omnes finem ha-bere beatitudinem) si legge nell'esposizione della Stoapresso Stobeo (Ecl., l. II, e. 7, p. 114, ed anche p. 138).Tuttavia l'etica stoica insegna, che la felicità si può tro-var con certezza solo nella pace interiore e nella calmadello spirito (αταραξια), e la calma alla sua volta si rag-giunge esclusivamente con la virtù: questo appunto si-gnifica l'espressione, che bene supremo sia la virtù. Mase poi a poco a poco si dimentica il fine per il mezzo ela virtù viene raccomandata in modo da rilevar tutt'altrointeresse che quello della propria felicità, sì da star conquest'ultima in aperto contrasto; abbiamo in ciò una del-le inconseguenze, per le quali in ogni sistema la veritàdirettamente conosciuta (o, come suol dirsi, sentita) ri-conduce sul diritto cammino, facendo violenza ai ragio-namenti. La qual cosa si vede chiaramente, per esempio,nell'etica di Spinoza, che dall'egoistico suum utile quae-rere deriva, mediante sofismi da toccarsi con mano, unapura dottrina della virtù. Secondo il modo in cui ho inte-so lo spirito dell'etica stoica, la sua origine sta nel pen-sare, se il grande privilegio dell'uomo – la ragione, che,mediatamente, per mezzo della condotta sistematica e diciò che ne deriva, di tanto gli allevia la vita ed i suoipesi – non sarebbe anche capace di sottrarlo d'un trattodirettamente, ossia per conoscenza pura, ai mali ed aitormenti d'ogni specie che gli riempiono la vita: sottrar-lo del tutto, ovvero quasi del tutto. Si ritenne non conve-niente al privilegio della ragione, che l'essere, il qualene è dotato, e per suo mezzo abbraccia e domina un'infi-

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felicità: τελος το ευδαιµονειν (virtutes omnes finem ha-bere beatitudinem) si legge nell'esposizione della Stoapresso Stobeo (Ecl., l. II, e. 7, p. 114, ed anche p. 138).Tuttavia l'etica stoica insegna, che la felicità si può tro-var con certezza solo nella pace interiore e nella calmadello spirito (αταραξια), e la calma alla sua volta si rag-giunge esclusivamente con la virtù: questo appunto si-gnifica l'espressione, che bene supremo sia la virtù. Mase poi a poco a poco si dimentica il fine per il mezzo ela virtù viene raccomandata in modo da rilevar tutt'altrointeresse che quello della propria felicità, sì da star conquest'ultima in aperto contrasto; abbiamo in ciò una del-le inconseguenze, per le quali in ogni sistema la veritàdirettamente conosciuta (o, come suol dirsi, sentita) ri-conduce sul diritto cammino, facendo violenza ai ragio-namenti. La qual cosa si vede chiaramente, per esempio,nell'etica di Spinoza, che dall'egoistico suum utile quae-rere deriva, mediante sofismi da toccarsi con mano, unapura dottrina della virtù. Secondo il modo in cui ho inte-so lo spirito dell'etica stoica, la sua origine sta nel pen-sare, se il grande privilegio dell'uomo – la ragione, che,mediatamente, per mezzo della condotta sistematica e diciò che ne deriva, di tanto gli allevia la vita ed i suoipesi – non sarebbe anche capace di sottrarlo d'un trattodirettamente, ossia per conoscenza pura, ai mali ed aitormenti d'ogni specie che gli riempiono la vita: sottrar-lo del tutto, ovvero quasi del tutto. Si ritenne non conve-niente al privilegio della ragione, che l'essere, il qualene è dotato, e per suo mezzo abbraccia e domina un'infi-

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nità di cose e di fatti, fosse nondimeno in balia di tantodolore, di sì grande angoscia e sofferenza, quanta ne puòsorgere dal tumultuoso impeto della brama o dell'avver-sione: e ciò per l'effetto del momento presente, e per icasi che i pochi anni d'una sì breve, fugace, incerta vitapossono contenere. E si pensò che il conveniente usodella ragione potesse elevar l'uomo sopra a questo male,renderlo invulnerabile. Disse perciò Antistene: Δει ̃κτα̃σθαι νου̃ν, ἣ βρόχον (aut mentem parandam, aut la-queum, Plut., De sthoic. repugn., e. 14), ossia: la vita ècosì piena di tormenti e di molestie, che conviene o col-locarsene fuori mediante la saviezza del pensiero, o ab-bandonarla. Si comprese che la privazione, il soffrire,non nascono direttamente e necessariamente dal nonavere, bensì dal voler avere e non avere; che quindi que-sto voler avere è la condizione necessaria, per la quale ilnon avere diventa privazione, e genera il dolore. Ουπενια λυπην εργζεται, αλλ επιθυµια (non paupertas do-lorem efficit, sed cupiditas, Epict. fragm. 25). Si conob-be inoltre dall'esperienza, che solo la speranza, l'idead'aver diritto ad una cosa, genera ed alimenta il deside-rio; perciò né i molti mali a tutti comuni ed inevitabili,né gl'irraggiungibili beni ci agitano e tormentano: bensìsolo l'insignificante misura maggiore o minore di ciòche l'uomo può raggiungere o evitare. Si conobbe anzi,che perfin quanto non è irraggiungibile in modo assolu-to, ma soltanto relativo, ci lascia del tutto tranquilli; per-ciò i mali, che stabilmente si sono associati alla nostraindividualità, o i beni, che per necessità a lei devono ri-

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nità di cose e di fatti, fosse nondimeno in balia di tantodolore, di sì grande angoscia e sofferenza, quanta ne puòsorgere dal tumultuoso impeto della brama o dell'avver-sione: e ciò per l'effetto del momento presente, e per icasi che i pochi anni d'una sì breve, fugace, incerta vitapossono contenere. E si pensò che il conveniente usodella ragione potesse elevar l'uomo sopra a questo male,renderlo invulnerabile. Disse perciò Antistene: Δει ̃κτα̃σθαι νου̃ν, ἣ βρόχον (aut mentem parandam, aut la-queum, Plut., De sthoic. repugn., e. 14), ossia: la vita ècosì piena di tormenti e di molestie, che conviene o col-locarsene fuori mediante la saviezza del pensiero, o ab-bandonarla. Si comprese che la privazione, il soffrire,non nascono direttamente e necessariamente dal nonavere, bensì dal voler avere e non avere; che quindi que-sto voler avere è la condizione necessaria, per la quale ilnon avere diventa privazione, e genera il dolore. Ουπενια λυπην εργζεται, αλλ επιθυµια (non paupertas do-lorem efficit, sed cupiditas, Epict. fragm. 25). Si conob-be inoltre dall'esperienza, che solo la speranza, l'idead'aver diritto ad una cosa, genera ed alimenta il deside-rio; perciò né i molti mali a tutti comuni ed inevitabili,né gl'irraggiungibili beni ci agitano e tormentano: bensìsolo l'insignificante misura maggiore o minore di ciòche l'uomo può raggiungere o evitare. Si conobbe anzi,che perfin quanto non è irraggiungibile in modo assolu-to, ma soltanto relativo, ci lascia del tutto tranquilli; per-ciò i mali, che stabilmente si sono associati alla nostraindividualità, o i beni, che per necessità a lei devono ri-

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manere negati, si considerano con indifferenza; ed ingrazia di questa proprietà dell'uomo, ogni desiderio to-sto muore né può più generare dolore, non appena lasperanza cessa d'alimentarlo. Da questo risultò, che tuttala felicità consiste solo nella proporzione delle nostreaspirazioni con ciò che ci viene accordato: la maggior ominor misura delle due grandezze di questa proporzioneè indifferente, e la proporzione può esser ristabilita siacon l'impiccolir la prima grandezza, sia con l'ingrandirla seconda. Egualmente risultò, che ogni dolore inveronasce dalla sproporzione di ciò, che pretendiamo edaspettiamo, con ciò che ci è dato; la qual sproporzionetuttavia sta evidentemente solo nella conoscenza29, e po-trebbe esser tolta di mezzo appieno, mediante una mi-glior valutazione. Disse perciò Crisippo: δει ζηνκατ’εµπειριαν των φυσει συµβαινοντων (Stob., Ecl., l.II, e. 7, p. 134), ossia: si deve vivere con opportuna co-noscenza dell'andamento delle cose del mondo. Impe-rocché ogni volta che un uomo in qualsiasi modo perdail dominio di sé, o è schiacciato da un dolore, o s'infuria,o si scoraggia; egli dimostra così di trovar le cose diver-se da quel che s'attendeva; dimostra quindi d'essere statoimpigliato nell'errore, di non aver conosciuto il mondo ela vita; non aver saputo come la natura inanimata intral-ci ad ogni passo la volontà di ciascuno per mezzo del

29 Omnes perturbationes judicio censent fieri et opinione: Cic,. Tusc., 4, 6.Ταρασσει τους ανθρωπους ου τα πραγµατα, αλλα τα περι των πραγµατωνδογµατα. (Perturbant homines non res ipsae, sed de rebus opiniones):EPICTET. e. v.

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manere negati, si considerano con indifferenza; ed ingrazia di questa proprietà dell'uomo, ogni desiderio to-sto muore né può più generare dolore, non appena lasperanza cessa d'alimentarlo. Da questo risultò, che tuttala felicità consiste solo nella proporzione delle nostreaspirazioni con ciò che ci viene accordato: la maggior ominor misura delle due grandezze di questa proporzioneè indifferente, e la proporzione può esser ristabilita siacon l'impiccolir la prima grandezza, sia con l'ingrandirla seconda. Egualmente risultò, che ogni dolore inveronasce dalla sproporzione di ciò, che pretendiamo edaspettiamo, con ciò che ci è dato; la qual sproporzionetuttavia sta evidentemente solo nella conoscenza29, e po-trebbe esser tolta di mezzo appieno, mediante una mi-glior valutazione. Disse perciò Crisippo: δει ζηνκατ’εµπειριαν των φυσει συµβαινοντων (Stob., Ecl., l.II, e. 7, p. 134), ossia: si deve vivere con opportuna co-noscenza dell'andamento delle cose del mondo. Impe-rocché ogni volta che un uomo in qualsiasi modo perdail dominio di sé, o è schiacciato da un dolore, o s'infuria,o si scoraggia; egli dimostra così di trovar le cose diver-se da quel che s'attendeva; dimostra quindi d'essere statoimpigliato nell'errore, di non aver conosciuto il mondo ela vita; non aver saputo come la natura inanimata intral-ci ad ogni passo la volontà di ciascuno per mezzo del

29 Omnes perturbationes judicio censent fieri et opinione: Cic,. Tusc., 4, 6.Ταρασσει τους ανθρωπους ου τα πραγµατα, αλλα τα περι των πραγµατωνδογµατα. (Perturbant homines non res ipsae, sed de rebus opiniones):EPICTET. e. v.

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caso, e la natura animata l'intralci sia con l'opporle finicontrari, sia con la malvagità. Adunque egli o non s'èservito della sua ragione per venire ad una generale con-sapevolezza di questa condizione della vita, oppure hamancato di giudizio, disconoscendo nel caso particolarequel che conosceva in generale; e perciò appunto si sor-prende, e perde il dominio di sé30. Nello stesso modo èogni viva gioia un errore, un vaneggiamento; perchénessun desiderio appagato può soddisfare a lungo, e per-ché ogni possessione, ogni felicità ci è concessa dal casoper un tempo indeterminato – e quindi ci può esser toltanello spazio di un'ora. Ma intanto ogni dolore provienedal dileguarsi di codesto vaneggiamento. Questo e quel-lo derivano adunque da manchevole conoscenza. Perciòdal saggio rimangono gioia e dolore sempre lontani enessun evento scuote la sua αταραξια.Conformemente a tale spirito ed a tal mira della Stoa,Epitteto parte dal principio – e vi torna sopra continua-mente, come al nocciolo della sua sapienza – che occor-ra ben meditare e distinguere ciò che dipende e ciò chenon dipende da noi, e non contare mai su quest'ultimo.In questo modo si può fiduciosamente tenersi liberi daogni dolore, sofferenza ed angoscia. Ciò che dipende danoi, è solamente la volontà; e qui si viene a fare un gra-duale passaggio alla dottrina della virtù, mentre si osser-

30 Τουτο γαρ εστι το αιτιον τοις άνθρωποις παντων των κακων, το ταςπροληψεις τας κοινας µη δυνασθαι εφαρµοζειν ταις επι µερους (Haec estcausa mortalibus omnium malorum, non posse communes notiones aptaresingularibus): EPICT, Dissert. III, 26.

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caso, e la natura animata l'intralci sia con l'opporle finicontrari, sia con la malvagità. Adunque egli o non s'èservito della sua ragione per venire ad una generale con-sapevolezza di questa condizione della vita, oppure hamancato di giudizio, disconoscendo nel caso particolarequel che conosceva in generale; e perciò appunto si sor-prende, e perde il dominio di sé30. Nello stesso modo èogni viva gioia un errore, un vaneggiamento; perchénessun desiderio appagato può soddisfare a lungo, e per-ché ogni possessione, ogni felicità ci è concessa dal casoper un tempo indeterminato – e quindi ci può esser toltanello spazio di un'ora. Ma intanto ogni dolore provienedal dileguarsi di codesto vaneggiamento. Questo e quel-lo derivano adunque da manchevole conoscenza. Perciòdal saggio rimangono gioia e dolore sempre lontani enessun evento scuote la sua αταραξια.Conformemente a tale spirito ed a tal mira della Stoa,Epitteto parte dal principio – e vi torna sopra continua-mente, come al nocciolo della sua sapienza – che occor-ra ben meditare e distinguere ciò che dipende e ciò chenon dipende da noi, e non contare mai su quest'ultimo.In questo modo si può fiduciosamente tenersi liberi daogni dolore, sofferenza ed angoscia. Ciò che dipende danoi, è solamente la volontà; e qui si viene a fare un gra-duale passaggio alla dottrina della virtù, mentre si osser-

30 Τουτο γαρ εστι το αιτιον τοις άνθρωποις παντων των κακων, το ταςπροληψεις τας κοινας µη δυνασθαι εφαρµοζειν ταις επι µερους (Haec estcausa mortalibus omnium malorum, non posse communes notiones aptaresingularibus): EPICT, Dissert. III, 26.

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va che, come il mondo esterno da noi indipendente de-termina gioia e dolore, così dalla volontà nasce internasoddisfazione o insoddisfazione di noi stessi. In seguitopoi si domandò, se nel primo o nel secondo caso si con-venissero i nomi di bene e di male. Questo era invero unproblema arbitrario, da risolversi a piacere e non mutavanulla alla cosa. Eppure su di esso contesero incessante-mente Stoici con Peripatetici ed Epicurei, si baloccaronocon l'impossibile paragone di due quantità affatto in-commensurabili e con le opposte, paradossali sentenzeche ne derivavano, scagliandosele vicendevolmente ad-dosso. Un'interessante raccolta, dal punto di vista stoico,ce n'è tramandata nei Paradoxa di Cicerone.Zenone, il fondatore, sembra aver seguito in origine uncammino alquanto diverso. Il suo punto di partenza eraquesto: che per raggiungere il massimo bene, ossia la fe-licità mediante la calma dello spirito bisognerebbe vive-re d'accordo con se stessi. (ὁµολογουµενως ζην τουτοδ’εστι καθ’ ἑνα λογον και συµφωνον ξην. Consonantervivere: hoc est secundum unam rationem et concordemsibi vivere; Stob. Ecl., eth., L. II, c. 7, p. 132. Cosìancora: αρετην διαθεσιν ειναι ψυχης συµφωνον ἑαυτῃπερι ὁλον τον βιον. Virtutem esse animi affectionemsecum per totam vitam consentientem, ibid., p. 104). Maquesto era possibile solo informando tutta la propria vitaalla ragione, secondo concetti, non secondo mutevoliimpressioni e fisime. E poi che né il successo, né i fattiesterni, ma solo le massime direttive sono in nostro po-

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va che, come il mondo esterno da noi indipendente de-termina gioia e dolore, così dalla volontà nasce internasoddisfazione o insoddisfazione di noi stessi. In seguitopoi si domandò, se nel primo o nel secondo caso si con-venissero i nomi di bene e di male. Questo era invero unproblema arbitrario, da risolversi a piacere e non mutavanulla alla cosa. Eppure su di esso contesero incessante-mente Stoici con Peripatetici ed Epicurei, si baloccaronocon l'impossibile paragone di due quantità affatto in-commensurabili e con le opposte, paradossali sentenzeche ne derivavano, scagliandosele vicendevolmente ad-dosso. Un'interessante raccolta, dal punto di vista stoico,ce n'è tramandata nei Paradoxa di Cicerone.Zenone, il fondatore, sembra aver seguito in origine uncammino alquanto diverso. Il suo punto di partenza eraquesto: che per raggiungere il massimo bene, ossia la fe-licità mediante la calma dello spirito bisognerebbe vive-re d'accordo con se stessi. (ὁµολογουµενως ζην τουτοδ’εστι καθ’ ἑνα λογον και συµφωνον ξην. Consonantervivere: hoc est secundum unam rationem et concordemsibi vivere; Stob. Ecl., eth., L. II, c. 7, p. 132. Cosìancora: αρετην διαθεσιν ειναι ψυχης συµφωνον ἑαυτῃπερι ὁλον τον βιον. Virtutem esse animi affectionemsecum per totam vitam consentientem, ibid., p. 104). Maquesto era possibile solo informando tutta la propria vitaalla ragione, secondo concetti, non secondo mutevoliimpressioni e fisime. E poi che né il successo, né i fattiesterni, ma solo le massime direttive sono in nostro po-

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tere, si doveva fare di queste sole, non di quelle il pro-prio scopo, se si voleva rimaner conseguenti; entrandocosì per quest'altra via nella dottrina della virtù.Ma già agl'immediati successori di Zenone parve il suoprincipio morale – vivere armonicamente – troppo for-male e privo di contenuto. Gli diedero perciò un conte-nuto materiale, con quest'aggiunta: «vivere in armoniacon la natura» (ὁµολογουµενως τῃ φυσει ξῃν.); la qualeaggiunta, secondo c'informa Stobeo nel luogo indicato,venne fatta dapprima da Cleante ed allargò di molto ilprincipio, per l'ampia sfera del concetto e l'indetermina-tezza dell'espressione. Imperocché Cleante intendevatutta la natura in generale, Crisippo invece la naturaumana in particolare (Diog. Laert., 7, 89). La cosa con-forme solo a quest'ultima doveva quindi esser la virtù,come la soddisfazione degl'istinti animali è conformealla natura dei bruti. E così si rientrava di nuovo risolu-tamente nella dottrina della virtù; l'etica – venisse pure apiegarsi o a rompersi – doveva esser fondata sulla fisica.Imperocché gli Stoici miravano soprattutto all'unità delprincipio; Dio e il mondo non essendo per loro punto di-stinti.L'etica stoica, presa in complesso, è veramente un pre-gevolissimo e considerevolissimo tentativo di giovarsidella maggior prerogativa umana – la ragione – per unoscopo importante e salutare com'è quello di elevarsi so-pra i patimenti e i dolori toccati in sorte a ciascuna vita,con un ammonimento:

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tere, si doveva fare di queste sole, non di quelle il pro-prio scopo, se si voleva rimaner conseguenti; entrandocosì per quest'altra via nella dottrina della virtù.Ma già agl'immediati successori di Zenone parve il suoprincipio morale – vivere armonicamente – troppo for-male e privo di contenuto. Gli diedero perciò un conte-nuto materiale, con quest'aggiunta: «vivere in armoniacon la natura» (ὁµολογουµενως τῃ φυσει ξῃν.); la qualeaggiunta, secondo c'informa Stobeo nel luogo indicato,venne fatta dapprima da Cleante ed allargò di molto ilprincipio, per l'ampia sfera del concetto e l'indetermina-tezza dell'espressione. Imperocché Cleante intendevatutta la natura in generale, Crisippo invece la naturaumana in particolare (Diog. Laert., 7, 89). La cosa con-forme solo a quest'ultima doveva quindi esser la virtù,come la soddisfazione degl'istinti animali è conformealla natura dei bruti. E così si rientrava di nuovo risolu-tamente nella dottrina della virtù; l'etica – venisse pure apiegarsi o a rompersi – doveva esser fondata sulla fisica.Imperocché gli Stoici miravano soprattutto all'unità delprincipio; Dio e il mondo non essendo per loro punto di-stinti.L'etica stoica, presa in complesso, è veramente un pre-gevolissimo e considerevolissimo tentativo di giovarsidella maggior prerogativa umana – la ragione – per unoscopo importante e salutare com'è quello di elevarsi so-pra i patimenti e i dolori toccati in sorte a ciascuna vita,con un ammonimento:

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Qua ratione queas traducere leniter aevum:Ne te semper inops agitet vexetque cupido,Ne pavor et rerum mediocriter utilium spes.

Con ciò l'etica stoica tendeva a far l'uomo partecipe inaltissimo grado della dignità che a lui, essere ragionevo-le, spetta in confronto dell'animale – dignità che solo inquesto senso e in nessun altro va presa. Questo miomodo di considerar l'etica stoica mi ha condotto a do-verne parlare qui, dove tratto di ciò che la ragione è, e diciò che può compiere. È certamente vero, che quelloscopo è fino a un dato punto raggiungibile con l'uso del-la ragione, e con un'etica esclusivamente razionale; per-ché anche l'esperienza dimostra, che gli uomini di carat-tere puramente razionale, i quali si soglion chiamare fi-losofi pratici (e con ragione, perché, come il filosofovero, ossia teorico, trasporta la vita nei concetti, traspor-tano essi il concetto nella vita) sono forse i più felici.Tuttavia moltissimo manca, perché si possa in questamaniera giungere ad alcunché di perfetto, e la ragioneesattamente applicata possa davvero liberarci da tutto ilpeso, da tutti i patimenti della vita, conducendoci allafelicità. C'è piuttosto una assoluta contraddizione nelproposito di voler vivere senza soffrire; contraddizioneche reca in sé anche il comune modo di dire: «vita feli-ce». Questo brillerà ben chiaro a chi avrà compresa finoall'ultimo l'esposizione seguente. Codesta contraddizio-ne si rivela già in quell'etica della ragione pura, pel fattoche lo Stoico è costretto ad intercalare nel suo avvia-

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Qua ratione queas traducere leniter aevum:Ne te semper inops agitet vexetque cupido,Ne pavor et rerum mediocriter utilium spes.

Con ciò l'etica stoica tendeva a far l'uomo partecipe inaltissimo grado della dignità che a lui, essere ragionevo-le, spetta in confronto dell'animale – dignità che solo inquesto senso e in nessun altro va presa. Questo miomodo di considerar l'etica stoica mi ha condotto a do-verne parlare qui, dove tratto di ciò che la ragione è, e diciò che può compiere. È certamente vero, che quelloscopo è fino a un dato punto raggiungibile con l'uso del-la ragione, e con un'etica esclusivamente razionale; per-ché anche l'esperienza dimostra, che gli uomini di carat-tere puramente razionale, i quali si soglion chiamare fi-losofi pratici (e con ragione, perché, come il filosofovero, ossia teorico, trasporta la vita nei concetti, traspor-tano essi il concetto nella vita) sono forse i più felici.Tuttavia moltissimo manca, perché si possa in questamaniera giungere ad alcunché di perfetto, e la ragioneesattamente applicata possa davvero liberarci da tutto ilpeso, da tutti i patimenti della vita, conducendoci allafelicità. C'è piuttosto una assoluta contraddizione nelproposito di voler vivere senza soffrire; contraddizioneche reca in sé anche il comune modo di dire: «vita feli-ce». Questo brillerà ben chiaro a chi avrà compresa finoall'ultimo l'esposizione seguente. Codesta contraddizio-ne si rivela già in quell'etica della ragione pura, pel fattoche lo Stoico è costretto ad intercalare nel suo avvia-

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mento ad una vita felice (e tale rimane pur sempre la suaetica) la raccomandazione del suicidio – come nel son-tuoso corredo dei depositi orientali si trova anche unapreziosa fiala di veleno – per il caso che i dolori del cor-po, i quali non si lasciano sopprimere da nessun princi-pio o ragionamento filosofico, prendano il sopravventoe siano incurabili. Allora il fine unico – la felicità – vie-ne a mancare; e per sottrarsi al patimento, non altro ri-mane che la morte, la quale va presa in tal caso indiffe-rentemente, come una medicina. Qui si fa manifesta unaforte opposizione fra l'etica stoica e quelle altre sopra ci-tate, le quali pongono a scopo della vita la virtù in sestessa, direttamente, anche fra le più penose sofferenze;né ammettono che per sottrarsi ai patimenti si dia termi-ne alla vita – sebbene nessuna di loro abbia saputoesprimere il vero argomento contro il suicidio, e tutte in-vece siano venute accozzando faticosamente motivi illu-sori. Nel quarto libro quell'argomento risulterà in rela-zione col nostro sistema. Ma il contrasto su riferito pale-sa e conferma appunto il dissidio essenziale e fonda-mentale tra la Stoa, che in sostanza non è se non unaparticolar forma d'eudemonismo, e quelle dottrine cita-te; sebbene l'una e le altre s'accordino spesso nei risulta-ti, ed abbiano un'apparente parentela. La surriferita con-traddizione inerente all'etica stoica, perfino nel suo pen-siero sostanziale, si mostra inoltre anche in questo: cheil suo ideale, il Sapiente stoico, non potè neppur da leimedesima rappresentato, conseguir mai vita, o intimapoetica verità; bensì rimane un legnoso, rigido fantoc-

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mento ad una vita felice (e tale rimane pur sempre la suaetica) la raccomandazione del suicidio – come nel son-tuoso corredo dei depositi orientali si trova anche unapreziosa fiala di veleno – per il caso che i dolori del cor-po, i quali non si lasciano sopprimere da nessun princi-pio o ragionamento filosofico, prendano il sopravventoe siano incurabili. Allora il fine unico – la felicità – vie-ne a mancare; e per sottrarsi al patimento, non altro ri-mane che la morte, la quale va presa in tal caso indiffe-rentemente, come una medicina. Qui si fa manifesta unaforte opposizione fra l'etica stoica e quelle altre sopra ci-tate, le quali pongono a scopo della vita la virtù in sestessa, direttamente, anche fra le più penose sofferenze;né ammettono che per sottrarsi ai patimenti si dia termi-ne alla vita – sebbene nessuna di loro abbia saputoesprimere il vero argomento contro il suicidio, e tutte in-vece siano venute accozzando faticosamente motivi illu-sori. Nel quarto libro quell'argomento risulterà in rela-zione col nostro sistema. Ma il contrasto su riferito pale-sa e conferma appunto il dissidio essenziale e fonda-mentale tra la Stoa, che in sostanza non è se non unaparticolar forma d'eudemonismo, e quelle dottrine cita-te; sebbene l'una e le altre s'accordino spesso nei risulta-ti, ed abbiano un'apparente parentela. La surriferita con-traddizione inerente all'etica stoica, perfino nel suo pen-siero sostanziale, si mostra inoltre anche in questo: cheil suo ideale, il Sapiente stoico, non potè neppur da leimedesima rappresentato, conseguir mai vita, o intimapoetica verità; bensì rimane un legnoso, rigido fantoc-

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cio, del quale non si sa cosa fare, che non sa egli stessodove voglia andare con la sua saggezza; e la cui calmaperfetta, contentezza, felicità stanno in aperto contrastocon la natura umana, né possono darci di sé una rappre-sentazione intuitiva. Come differenti appaiono, accantoa questo fantoccio, i Superatori del mondo e volontariPenitenti, che la sapienza indiana ci presenta ed effetti-vamente ha prodotti; o anche il Salvatore cristiano –quella magnifica figura, piena di vita profonda,d'immensa verità poetica e di altissimo significato, laquale nondimeno, malgrado la sua perfetta virtù, santitàed elevatezza, viene davanti a noi in istato di altissimodolore31.

31 Si veda il cap. 16 del secondo volume [pp. 154-64 del tomo I dell'ed. cit.].

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cio, del quale non si sa cosa fare, che non sa egli stessodove voglia andare con la sua saggezza; e la cui calmaperfetta, contentezza, felicità stanno in aperto contrastocon la natura umana, né possono darci di sé una rappre-sentazione intuitiva. Come differenti appaiono, accantoa questo fantoccio, i Superatori del mondo e volontariPenitenti, che la sapienza indiana ci presenta ed effetti-vamente ha prodotti; o anche il Salvatore cristiano –quella magnifica figura, piena di vita profonda,d'immensa verità poetica e di altissimo significato, laquale nondimeno, malgrado la sua perfetta virtù, santitàed elevatezza, viene davanti a noi in istato di altissimodolore31.

31 Si veda il cap. 16 del secondo volume [pp. 154-64 del tomo I dell'ed. cit.].

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LIBRO SECONDOIL MONDO COME VOLONTÀ

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LIBRO SECONDOIL MONDO COME VOLONTÀ

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PRIMA CONSIDERAZIONEL'obiettivazione del volere.

Nos habitat, non tartara, sed nec sidera coeli: Spìritus, in nobis qui viget, illa facit.

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PRIMA CONSIDERAZIONEL'obiettivazione del volere.

Nos habitat, non tartara, sed nec sidera coeli: Spìritus, in nobis qui viget, illa facit.

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§ 17.Nel primo libro abbiamo esaminato la rappresentazionesolo come tale, ossia nella sua forma generica. Tuttavia,per ciò che riguarda la rappresentazione astratta – ilconcetto – questa ci fu nota anche nel suo contenuto, inquanto essa riceve ogni contenuto e significato solamen-te dalla sua relazione con la rappresentazione intuitiva;senza la quale sarebbe priva di valore e di contenuto.Dovendo quindi far capo esclusivamente alla rappresen-tazione intuitiva, cercheremo di conoscere anche il con-tenuto suo, le sue più precise determinazioni e gli atteg-giamenti ch'essa ci presenta. Baderemo particolarmentea chiarire con precisione il suo vero significato: quel si-gnificato, che di solito è soltanto sentito, ed in grazia delquale le immagini della rappresentazione non sfilanodavanti a noi, come altrimenti accadrebbe, del tutto stra-niere e mute; bensì ci parlano direttamente, vengonocomprese ed acquistano un interesse, che avvolge tuttoil nostro essere.Dirizziamo lo sguardo alla matematica, alla scienza na-turale ed alla filosofia; ciascuna delle quali ci fa sperareche ci darà una parte della luce desiderata. Ora, la filo-sofia ci appare a tutta prima come un mostro dalle molteteste, ognuna parlante una lingua diversa. È vero chenon tutte sono discordi sul punto che qui si tocca, il si-gnificato della rappresentazione intuitiva: perché, ecce-zion fatta degli scettici e degli idealisti, tutte le altre,

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§ 17.Nel primo libro abbiamo esaminato la rappresentazionesolo come tale, ossia nella sua forma generica. Tuttavia,per ciò che riguarda la rappresentazione astratta – ilconcetto – questa ci fu nota anche nel suo contenuto, inquanto essa riceve ogni contenuto e significato solamen-te dalla sua relazione con la rappresentazione intuitiva;senza la quale sarebbe priva di valore e di contenuto.Dovendo quindi far capo esclusivamente alla rappresen-tazione intuitiva, cercheremo di conoscere anche il con-tenuto suo, le sue più precise determinazioni e gli atteg-giamenti ch'essa ci presenta. Baderemo particolarmentea chiarire con precisione il suo vero significato: quel si-gnificato, che di solito è soltanto sentito, ed in grazia delquale le immagini della rappresentazione non sfilanodavanti a noi, come altrimenti accadrebbe, del tutto stra-niere e mute; bensì ci parlano direttamente, vengonocomprese ed acquistano un interesse, che avvolge tuttoil nostro essere.Dirizziamo lo sguardo alla matematica, alla scienza na-turale ed alla filosofia; ciascuna delle quali ci fa sperareche ci darà una parte della luce desiderata. Ora, la filo-sofia ci appare a tutta prima come un mostro dalle molteteste, ognuna parlante una lingua diversa. È vero chenon tutte sono discordi sul punto che qui si tocca, il si-gnificato della rappresentazione intuitiva: perché, ecce-zion fatta degli scettici e degli idealisti, tutte le altre,

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nella sostanza, parlano con sufficiente accordo di un og-getto, che sta a base della rappresentazione, e che, puressendo dalla rappresentazione affatto distinto nell'esse-re e nell'essenza, le somiglia d'altra parte tanto per ogniverso, quanto un uovo ad un altro uovo. Ma con ciò nonsiamo tratti d'impaccio: perché noi non sappiamo puntodistinguere un tale oggetto dalla rappresentazione, anzitroviamo che questa e quello sono tutt'uno, poiché ognioggetto sempre e perennemente presuppone un sogget-to, e rimane quindi rappresentazione; così pure abbiamoconosciuto il fatto d'essere oggetto, come appartenentealla più general forma della rappresentazione, che è ap-punto la scissione in oggetto e soggetto. Inoltre il princi-pio di ragione, al quale ci si riferisce in tale proposito, èper noi similmente la pura forma della rappresentazione,ossia il regolare collegamento di una rappresentazionecon un'altra, e non collegamento dell'intera, finita o infi-nita serie delle rappresentazioni con qualcosa che nonsia rappresentazione, né sia quindi rappresentabile. De-gli scettici e degl'idealisti si è parlato più sopra, spiegan-do la contesa intorno alla realtà del mondo esteriore.Se domandiamo ora alla matematica la desiderata, preci-sa conoscenza della rappresentazione intuitiva, che co-nosciamo solo in generale, nella sua pura forma; la ma-tematica ci parlerà solo di codeste rappresentazioni inquanto riempiono tempo e spazio, ossia in quanto sonoquantità. C'indicherà con perfetta esattezza il «quanto» eil «quanto grande»; ma poi che questo è sempre relativo,

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nella sostanza, parlano con sufficiente accordo di un og-getto, che sta a base della rappresentazione, e che, puressendo dalla rappresentazione affatto distinto nell'esse-re e nell'essenza, le somiglia d'altra parte tanto per ogniverso, quanto un uovo ad un altro uovo. Ma con ciò nonsiamo tratti d'impaccio: perché noi non sappiamo puntodistinguere un tale oggetto dalla rappresentazione, anzitroviamo che questa e quello sono tutt'uno, poiché ognioggetto sempre e perennemente presuppone un sogget-to, e rimane quindi rappresentazione; così pure abbiamoconosciuto il fatto d'essere oggetto, come appartenentealla più general forma della rappresentazione, che è ap-punto la scissione in oggetto e soggetto. Inoltre il princi-pio di ragione, al quale ci si riferisce in tale proposito, èper noi similmente la pura forma della rappresentazione,ossia il regolare collegamento di una rappresentazionecon un'altra, e non collegamento dell'intera, finita o infi-nita serie delle rappresentazioni con qualcosa che nonsia rappresentazione, né sia quindi rappresentabile. De-gli scettici e degl'idealisti si è parlato più sopra, spiegan-do la contesa intorno alla realtà del mondo esteriore.Se domandiamo ora alla matematica la desiderata, preci-sa conoscenza della rappresentazione intuitiva, che co-nosciamo solo in generale, nella sua pura forma; la ma-tematica ci parlerà solo di codeste rappresentazioni inquanto riempiono tempo e spazio, ossia in quanto sonoquantità. C'indicherà con perfetta esattezza il «quanto» eil «quanto grande»; ma poi che questo è sempre relativo,

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ossia è un confronto d'una rappresentazione con un'altra,e consiste solo in quell'unilaterale riguardo della quanti-tà, non potrà darci la nozione a cui principalmente mi-riamo.Se guardiamo infine all'ampio, in molti campi diviso,territorio della scienza naturale, possiamo subito distin-guere due partizioni fondamentali. Essa è o descrizionedi forme – ch'io chiamo morfologia – o spiegazione deicambiamenti – ch'io chiamo etiologia. La prima consi-dera le forme permanenti, la seconda considera la mate-ria evolvente secondo le leggi del suo passaggio da unaforma all'altra. La prima è ciò che vien chiamato, siapure impropriamente, storia naturale, nel suo senso piùampio. Specialmente come botanica e zoologia c'inse-gna a conoscere le diverse forme organiche, permanenti,e quindi nettamente determinate, nell'incessante mutardegli individui, le quali costituiscono gran parte del con-tenuto della rappresentazione intuitiva. Esse vengono dalei classificate, isolate, riunite, ordinate in sistemi natu-rali ed artificiali, raccolte sotto concetti, che rendonopossibile uno sguardo d'insieme e una conoscenza di tut-te. Viene inoltre mostrata un'analogia, nel complesso onelle parti, che fra tutte le forme passa con infinite sfu-mature (unité de plan), in grazia della quale esse rasso-migliano a molteplici variazioni di un tema non formu-lato. Il passaggio della materia in quelle forme, ossia ilsorgere degli individui, non è la parte principale da con-siderare, perché ogni individuo deriva da un suo simile

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ossia è un confronto d'una rappresentazione con un'altra,e consiste solo in quell'unilaterale riguardo della quanti-tà, non potrà darci la nozione a cui principalmente mi-riamo.Se guardiamo infine all'ampio, in molti campi diviso,territorio della scienza naturale, possiamo subito distin-guere due partizioni fondamentali. Essa è o descrizionedi forme – ch'io chiamo morfologia – o spiegazione deicambiamenti – ch'io chiamo etiologia. La prima consi-dera le forme permanenti, la seconda considera la mate-ria evolvente secondo le leggi del suo passaggio da unaforma all'altra. La prima è ciò che vien chiamato, siapure impropriamente, storia naturale, nel suo senso piùampio. Specialmente come botanica e zoologia c'inse-gna a conoscere le diverse forme organiche, permanenti,e quindi nettamente determinate, nell'incessante mutardegli individui, le quali costituiscono gran parte del con-tenuto della rappresentazione intuitiva. Esse vengono dalei classificate, isolate, riunite, ordinate in sistemi natu-rali ed artificiali, raccolte sotto concetti, che rendonopossibile uno sguardo d'insieme e una conoscenza di tut-te. Viene inoltre mostrata un'analogia, nel complesso onelle parti, che fra tutte le forme passa con infinite sfu-mature (unité de plan), in grazia della quale esse rasso-migliano a molteplici variazioni di un tema non formu-lato. Il passaggio della materia in quelle forme, ossia ilsorgere degli individui, non è la parte principale da con-siderare, perché ogni individuo deriva da un suo simile

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per via di generazione; la quale, sempre egualmente mi-steriosa, si sottrae finora a una chiara nozione: ed ilpoco, che se ne sa, trova posto nella fisiologia, che giàappartiene alla scienza etiologica della natura. Anche lamineralogia, che pure, nella sostanza, appartiene allamorfologia, tende verso l'etiologia, specie là dove di-venta geologia. Vera e propria etiologia sono poi lebranche della scienza naturale rivolte soprattutto allacausa e all'effetto: queste insegnano, come, secondo unalegge infallibile, ad uno stato della materia necessaria-mente un altro determinato consegua; come un determi-nato cambiamento sia condizione e causa di un altro,egualmente determinato: la qual prova si chiama spiega-zione. Qui troviamo in primo luogo meccanica, fisica,chimica, fisiologia.Ma, se ci mettiamo alla lor scuola, non tardiamo ad ac-corgerci, che la cognizione a cui soprattutto miriamonon ci vien data dall'etiologia più che dalla morfologia.Quest'ultima ci mostra forme innumerevoli, – per noi,rappresentazioni – infinitamente varie, e pur affini perun'innegabile aria di famiglia; le quali per questa via cirimangono eternamente estranee e, guardate in questosolo modo, ci stanno davanti come incomprensibili ge-roglifici. L'etiologia viceversa c'insegna che, secondo lalegge di causa ed effetto, un certo stato della materia neproduce un altro; e con ciò ha spiegato, ed ha fatto il suocompito. Così, in sostanza, non fa altro che mostrarel'ordine regolare, col quale gli stati si presentano nello

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per via di generazione; la quale, sempre egualmente mi-steriosa, si sottrae finora a una chiara nozione: ed ilpoco, che se ne sa, trova posto nella fisiologia, che giàappartiene alla scienza etiologica della natura. Anche lamineralogia, che pure, nella sostanza, appartiene allamorfologia, tende verso l'etiologia, specie là dove di-venta geologia. Vera e propria etiologia sono poi lebranche della scienza naturale rivolte soprattutto allacausa e all'effetto: queste insegnano, come, secondo unalegge infallibile, ad uno stato della materia necessaria-mente un altro determinato consegua; come un determi-nato cambiamento sia condizione e causa di un altro,egualmente determinato: la qual prova si chiama spiega-zione. Qui troviamo in primo luogo meccanica, fisica,chimica, fisiologia.Ma, se ci mettiamo alla lor scuola, non tardiamo ad ac-corgerci, che la cognizione a cui soprattutto miriamonon ci vien data dall'etiologia più che dalla morfologia.Quest'ultima ci mostra forme innumerevoli, – per noi,rappresentazioni – infinitamente varie, e pur affini perun'innegabile aria di famiglia; le quali per questa via cirimangono eternamente estranee e, guardate in questosolo modo, ci stanno davanti come incomprensibili ge-roglifici. L'etiologia viceversa c'insegna che, secondo lalegge di causa ed effetto, un certo stato della materia neproduce un altro; e con ciò ha spiegato, ed ha fatto il suocompito. Così, in sostanza, non fa altro che mostrarel'ordine regolare, col quale gli stati si presentano nello

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spazio e nel tempo, e per tutti i casi insegnare quale fe-nomeno debba necessariamente prodursi in un dato tem-po, in un dato luogo. Assegna quindi ai fenomeni il loroposto nel tempo e nello spazio, secondo una legge, il cuicontenuto preciso viene rivelato dall'esperienza, ma del-la cui generale forma e necessità siamo consapevoli in-dipendentemente da quella. Tuttavia, sull'intima essenzad'uno qualsiasi tra codesti fenomeni non riceviamo conciò la minima luce: tale essenza vien chiamata forza na-turale, e sta fuor del dominio della spiegazione etiologi-ca; la quale chiama legge naturale l'immutabile costanzanell'apparir della manifestazione di codesta forza, ogniqual volta si presentino le condizioni che l'etiologia hariconosciute. Ma questa legge naturale, queste condizio-ni, questo apparir d'un fenomeno in luogo determinato, atempo determinato, è tutto ciò che essa conosce e potràconoscere. La forza in sé, che si manifesta, l'intima es-senza dei fenomeni, producentesi secondo quelle leggi,rimane per lei sempre un segreto, alcunché di stranieroed ignoto, tanto nei fenomeni più semplici, quanto neipiù complicati. Imperocché, sebbene l'etiologia abbia fi-nora meglio conseguito il suo fine nella meccanica, emeno compiutamente nella fisiologia; la forza, in virtùdella quale una pietra cade a terra o un corpo ne urta unaltro, non ci è meno estranea e misteriosa di quella cheproduce i movimenti e lo sviluppo di un animale. Lameccanica presuppone come imperscrutibili materia,gravità, impenetrabilità, comunicabilità del moto me-diante urto, rigidità, etc.; e tutto ciò chiama forze natura-

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spazio e nel tempo, e per tutti i casi insegnare quale fe-nomeno debba necessariamente prodursi in un dato tem-po, in un dato luogo. Assegna quindi ai fenomeni il loroposto nel tempo e nello spazio, secondo una legge, il cuicontenuto preciso viene rivelato dall'esperienza, ma del-la cui generale forma e necessità siamo consapevoli in-dipendentemente da quella. Tuttavia, sull'intima essenzad'uno qualsiasi tra codesti fenomeni non riceviamo conciò la minima luce: tale essenza vien chiamata forza na-turale, e sta fuor del dominio della spiegazione etiologi-ca; la quale chiama legge naturale l'immutabile costanzanell'apparir della manifestazione di codesta forza, ogniqual volta si presentino le condizioni che l'etiologia hariconosciute. Ma questa legge naturale, queste condizio-ni, questo apparir d'un fenomeno in luogo determinato, atempo determinato, è tutto ciò che essa conosce e potràconoscere. La forza in sé, che si manifesta, l'intima es-senza dei fenomeni, producentesi secondo quelle leggi,rimane per lei sempre un segreto, alcunché di stranieroed ignoto, tanto nei fenomeni più semplici, quanto neipiù complicati. Imperocché, sebbene l'etiologia abbia fi-nora meglio conseguito il suo fine nella meccanica, emeno compiutamente nella fisiologia; la forza, in virtùdella quale una pietra cade a terra o un corpo ne urta unaltro, non ci è meno estranea e misteriosa di quella cheproduce i movimenti e lo sviluppo di un animale. Lameccanica presuppone come imperscrutibili materia,gravità, impenetrabilità, comunicabilità del moto me-diante urto, rigidità, etc.; e tutto ciò chiama forze natura-

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li; chiama leggi naturali il loro necessario e regolareprodursi in date condizioni. E da questo punto soltantocomincia la propria spiegazione, la quale consistenell'indicar con fedele e matematica esattezza come,dove, quando ciascuna forza si estrinseca; e nel ricon-durre ad una di codeste forze ogni fenomeno che a lei sipresenti. Lo stesso fanno fisica, chimica, fisiologia nelloro territorio, con la sola differenza, che presuppongo-no ancor più, e spiegano ancor meno. Perciò anche lapiù completa spiegazione etiologica di tutta la naturanon sarebbe propriamente altro, che un elenco delle for-ze inesplicabili, ed una sicura indicazione delle regole,secondo cui i fenomeni di quelle forze si producono, sisuccedono, si sostituiscono vicendevolmente nel tempoe nello spazio: ma l'intima essenza delle forze in talmodo manifestantisi verrebbe a rimaner semprenell'ombra, perché la legge, che l'etiologia segue, nonconduce a spiegar quell'essenza: essa deve fermarsi alfenomeno ed alla sua classificazione. La spiegazioneetiologica si potrebbe quindi paragonare al taglio di unmarmo, il quale mostra molte venature l'una accantoall'altra, ma non lascia seguire il loro corso dall'internodel blocco fino alla superficie. Oppure – se mi è consen-tito, perché calzante, un esempio scherzoso – davantiall'etiologia completa della natura intera, l'indagatore fi-losofo dovrebbe sentirsi sempre come qualcuno il qualecapiti, senza saper come, in una società a lui del tuttosconosciuta, dove ciascuno degli astanti a turno gli pre-senti un altro come suo amico o cugino, senz'altra spie-

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li; chiama leggi naturali il loro necessario e regolareprodursi in date condizioni. E da questo punto soltantocomincia la propria spiegazione, la quale consistenell'indicar con fedele e matematica esattezza come,dove, quando ciascuna forza si estrinseca; e nel ricon-durre ad una di codeste forze ogni fenomeno che a lei sipresenti. Lo stesso fanno fisica, chimica, fisiologia nelloro territorio, con la sola differenza, che presuppongo-no ancor più, e spiegano ancor meno. Perciò anche lapiù completa spiegazione etiologica di tutta la naturanon sarebbe propriamente altro, che un elenco delle for-ze inesplicabili, ed una sicura indicazione delle regole,secondo cui i fenomeni di quelle forze si producono, sisuccedono, si sostituiscono vicendevolmente nel tempoe nello spazio: ma l'intima essenza delle forze in talmodo manifestantisi verrebbe a rimaner semprenell'ombra, perché la legge, che l'etiologia segue, nonconduce a spiegar quell'essenza: essa deve fermarsi alfenomeno ed alla sua classificazione. La spiegazioneetiologica si potrebbe quindi paragonare al taglio di unmarmo, il quale mostra molte venature l'una accantoall'altra, ma non lascia seguire il loro corso dall'internodel blocco fino alla superficie. Oppure – se mi è consen-tito, perché calzante, un esempio scherzoso – davantiall'etiologia completa della natura intera, l'indagatore fi-losofo dovrebbe sentirsi sempre come qualcuno il qualecapiti, senza saper come, in una società a lui del tuttosconosciuta, dove ciascuno degli astanti a turno gli pre-senti un altro come suo amico o cugino, senz'altra spie-

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gazione: e frattanto quegli, mentre ogni volta si dichiarafelice di farne la conoscenza, ha sempre sulla punta del-la lingua la domanda: «Ma come diavolo sono capitatoin questa società?».Dunque, nemmeno l'etiologia può darci su quei fenome-ni che chiamiamo nostre rappresentazioni la luce desi-derata, capace di farci avanzare oltre i fenomeni stessi.Anche dopo tutte le sue spiegazioni, essi seguitano astarci davanti, del tutto sconosciuti, come pure rappre-sentazioni, delle quali non comprendiamo il significato.Il nesso causale ci dà soltanto la regola e la relativa di-sposizione del loro prodursi nello spazio e nel tempo,ma non ci fa conoscere da vicino che cosa sia ciò che intal modo si produce. Inoltre la stessa legge di causalitàvige soltanto per rappresentazioni, per oggetti d'una de-terminata classe; ha significato solo con la presupposi-zione di quelli: è adunque sempre, come gli oggetti me-desimi, esclusivamente in relazione col soggetto, ossianon si ha se non condizionatamente: per la qual cosaviene conosciuta egualmente, sia che si parta dal sogget-to, ossia a priori, o dall'oggetto, ossia a posteriori, comeKant ci ha insegnato.Ma ciò, che ora ci spinge all'indagine, è appunto questo:che non ci basta saper che abbiamo rappresentazioni,che le rappresentazioni sono così e così, e che si colle-gano secondo queste o quelle leggi, delle quali è sempreespressione generale il principio di ragione. Noi voglia-mo sapere il significato della rappresentazione: noi do-

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gazione: e frattanto quegli, mentre ogni volta si dichiarafelice di farne la conoscenza, ha sempre sulla punta del-la lingua la domanda: «Ma come diavolo sono capitatoin questa società?».Dunque, nemmeno l'etiologia può darci su quei fenome-ni che chiamiamo nostre rappresentazioni la luce desi-derata, capace di farci avanzare oltre i fenomeni stessi.Anche dopo tutte le sue spiegazioni, essi seguitano astarci davanti, del tutto sconosciuti, come pure rappre-sentazioni, delle quali non comprendiamo il significato.Il nesso causale ci dà soltanto la regola e la relativa di-sposizione del loro prodursi nello spazio e nel tempo,ma non ci fa conoscere da vicino che cosa sia ciò che intal modo si produce. Inoltre la stessa legge di causalitàvige soltanto per rappresentazioni, per oggetti d'una de-terminata classe; ha significato solo con la presupposi-zione di quelli: è adunque sempre, come gli oggetti me-desimi, esclusivamente in relazione col soggetto, ossianon si ha se non condizionatamente: per la qual cosaviene conosciuta egualmente, sia che si parta dal sogget-to, ossia a priori, o dall'oggetto, ossia a posteriori, comeKant ci ha insegnato.Ma ciò, che ora ci spinge all'indagine, è appunto questo:che non ci basta saper che abbiamo rappresentazioni,che le rappresentazioni sono così e così, e che si colle-gano secondo queste o quelle leggi, delle quali è sempreespressione generale il principio di ragione. Noi voglia-mo sapere il significato della rappresentazione: noi do-

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mandiamo, se questo mondo non sia altro che rappre-sentazione; nel qual caso dovrebbe passare davanti ainostri occhi come un sogno inconsistente, o uno fanta-stica visione, indegna della nostra attenzione; o se nonsia qualcosa d'altro, qualcosa di più, e che cosa sia. Sivede subito, che questo, a cui miriamo, è alcunché di so-stanzialmente diverso dalla rappresentazione, e che de-vono essergli del tutto estranee le forme e le leggi diquesta: sì che, partendo dalla rappresentazione, non sipuò giungere ad esso seguendo il filo di quelle leggi, lequali collegano soltanto fra loro oggetti, rappresentazio-ni; leggi che sono poi le forme del principio di ragione.Vediamo già a questo punto, che all'essenza delle cosenon si potrà mai pervenire dal di fuori: per quantos'indaghi, non si trova mai altro che immagini e nomi. Sifa come qualcuno, che giri attorno ad un castello, cer-cando invano l'ingresso, e ne schizzi frattanto le faccia-te. Eppur questa è la via tenuta da tutti i filosofi prima dime.

§ 18.In verità, il senso tanto cercato di questo mondo, che mista davanti come mia rappresentazione – oppure il pas-saggio da esso, in quanto pura rappresentazione del sog-getto conoscente, a quel che ancora può essere oltre diciò – non si potrebbe assolutamente mai raggiungere, sel'indagatore medesimo non fosse nient'altro che il purosoggetto conoscente (alata testa d'angelo senza corpo).

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mandiamo, se questo mondo non sia altro che rappre-sentazione; nel qual caso dovrebbe passare davanti ainostri occhi come un sogno inconsistente, o uno fanta-stica visione, indegna della nostra attenzione; o se nonsia qualcosa d'altro, qualcosa di più, e che cosa sia. Sivede subito, che questo, a cui miriamo, è alcunché di so-stanzialmente diverso dalla rappresentazione, e che de-vono essergli del tutto estranee le forme e le leggi diquesta: sì che, partendo dalla rappresentazione, non sipuò giungere ad esso seguendo il filo di quelle leggi, lequali collegano soltanto fra loro oggetti, rappresentazio-ni; leggi che sono poi le forme del principio di ragione.Vediamo già a questo punto, che all'essenza delle cosenon si potrà mai pervenire dal di fuori: per quantos'indaghi, non si trova mai altro che immagini e nomi. Sifa come qualcuno, che giri attorno ad un castello, cer-cando invano l'ingresso, e ne schizzi frattanto le faccia-te. Eppur questa è la via tenuta da tutti i filosofi prima dime.

§ 18.In verità, il senso tanto cercato di questo mondo, che mista davanti come mia rappresentazione – oppure il pas-saggio da esso, in quanto pura rappresentazione del sog-getto conoscente, a quel che ancora può essere oltre diciò – non si potrebbe assolutamente mai raggiungere, sel'indagatore medesimo non fosse nient'altro che il purosoggetto conoscente (alata testa d'angelo senza corpo).

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Ma egli ha in quel mondo le proprie radici, vi si trovacome individuo: ossia il suo conoscere, che è condizio-ne dell'esistenza del mondo intero in quanto rappresen-tazione, avviene in tutto e per tutto mediante un corpo;le cui affezioni, come s'è mostrato, sono per l'intelletto ilpunto di partenza dell'intuizione di quel mondo. Codestocorpo è per il puro soggetto conoscente, in quanto tale,una rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fraoggetti: i suoi movimenti, le sue azioni non sono da lui,sotto questo rispetto, conosciute altrimenti che le modi-ficazioni di tutti gli altri oggetti intuitivi; e gli sarebberoegualmente estranee ed incomprensibili, se il loro sensonon gli fosse per avventura svelato in qualche modo af-fatto diverso. In caso contrario, vedrebbe la propria con-dotta regolarsi con la costanza d'una legge naturale suimotivi che le si offrono, proprio come le modificazionidegli altri oggetti sono regolate da cause, stimoli, moti-vi. Ma non comprenderebbe l'influsso dei motivi megliodi quanto comprenda il nesso di ogni altro effetto, a luivisibile, con la causa rispettiva. All'intima, per lui in-comprensibile essenza di quelle manifestazioni ed ope-razioni del suo corpo, egli seguiterebbe allora a dare inomi di forza, qualità, carattere, a piacere: e non vedreb-be più addentro. Ma le cose non stanno così: al soggettoconoscente, che appare come individuo, è data la paroladell'enigma; e questa parola è volontà. Questa, e questasola, gli dà la chiave per spiegare il suo proprio fenome-no, gli manifesta il senso, gli mostra l'intimo congegnodel suo essere, del suo agire, dei suoi movimenti. Al

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Ma egli ha in quel mondo le proprie radici, vi si trovacome individuo: ossia il suo conoscere, che è condizio-ne dell'esistenza del mondo intero in quanto rappresen-tazione, avviene in tutto e per tutto mediante un corpo;le cui affezioni, come s'è mostrato, sono per l'intelletto ilpunto di partenza dell'intuizione di quel mondo. Codestocorpo è per il puro soggetto conoscente, in quanto tale,una rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fraoggetti: i suoi movimenti, le sue azioni non sono da lui,sotto questo rispetto, conosciute altrimenti che le modi-ficazioni di tutti gli altri oggetti intuitivi; e gli sarebberoegualmente estranee ed incomprensibili, se il loro sensonon gli fosse per avventura svelato in qualche modo af-fatto diverso. In caso contrario, vedrebbe la propria con-dotta regolarsi con la costanza d'una legge naturale suimotivi che le si offrono, proprio come le modificazionidegli altri oggetti sono regolate da cause, stimoli, moti-vi. Ma non comprenderebbe l'influsso dei motivi megliodi quanto comprenda il nesso di ogni altro effetto, a luivisibile, con la causa rispettiva. All'intima, per lui in-comprensibile essenza di quelle manifestazioni ed ope-razioni del suo corpo, egli seguiterebbe allora a dare inomi di forza, qualità, carattere, a piacere: e non vedreb-be più addentro. Ma le cose non stanno così: al soggettoconoscente, che appare come individuo, è data la paroladell'enigma; e questa parola è volontà. Questa, e questasola, gli dà la chiave per spiegare il suo proprio fenome-no, gli manifesta il senso, gli mostra l'intimo congegnodel suo essere, del suo agire, dei suoi movimenti. Al

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soggetto della conoscenza, il quale per la sua identitàcol proprio corpo ci si presenta come individuo, questocorpo è dato in due modi affatto diversi: è dato comerappresentazione nell'intuizione dell'intelletto, come og-getto fra oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma èdato contemporaneamente anche in tutt'altro modo, os-sia come quell'alcunché direttamente conosciuto da cia-scuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero attodella sua volontà è immediatamente e ineluttabilmenteanche un moto del suo corpo: egli non può voler davve-ro l'atto, senz'accorgersi insieme ch'esso appare comemovimento del corpo. L'atto volitivo e l'azione del cor-po non sono due diversi stati conosciuti oggettivamente,che il vincolo della causalità collega; non stanno fra loronella relazione di causa ed effetto: bensì sono un tuttounico, soltanto dati in due modi affatto diversi, nell'unodirettamente, e nell'altro mediante l'intuizione per l'intel-letto. L'azione del corpo non è altro, che l'atto del volereoggettivato, ossia penetrato nell'intuizione.Nel seguito vedremo, che ciò vale per ogni movimentodel corpo, non solo per quelli provocati da motivi, maanche per quelli arbitrarii provocati da semplici stimoli;vedremo, anzi, che il corpo intero non è altro se non lavolontà oggettivata, ossia divenuta rappresentazione –tutte cose che risulteranno e appariranno evidenti dallasuccessiva trattazione. Chiamerò dunque qui il corpo,sotto questo punto di vista, l'obiettità della volontà;mentre nel libro precedente e nella memoria sopra il

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soggetto della conoscenza, il quale per la sua identitàcol proprio corpo ci si presenta come individuo, questocorpo è dato in due modi affatto diversi: è dato comerappresentazione nell'intuizione dell'intelletto, come og-getto fra oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma èdato contemporaneamente anche in tutt'altro modo, os-sia come quell'alcunché direttamente conosciuto da cia-scuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero attodella sua volontà è immediatamente e ineluttabilmenteanche un moto del suo corpo: egli non può voler davve-ro l'atto, senz'accorgersi insieme ch'esso appare comemovimento del corpo. L'atto volitivo e l'azione del cor-po non sono due diversi stati conosciuti oggettivamente,che il vincolo della causalità collega; non stanno fra loronella relazione di causa ed effetto: bensì sono un tuttounico, soltanto dati in due modi affatto diversi, nell'unodirettamente, e nell'altro mediante l'intuizione per l'intel-letto. L'azione del corpo non è altro, che l'atto del volereoggettivato, ossia penetrato nell'intuizione.Nel seguito vedremo, che ciò vale per ogni movimentodel corpo, non solo per quelli provocati da motivi, maanche per quelli arbitrarii provocati da semplici stimoli;vedremo, anzi, che il corpo intero non è altro se non lavolontà oggettivata, ossia divenuta rappresentazione –tutte cose che risulteranno e appariranno evidenti dallasuccessiva trattazione. Chiamerò dunque qui il corpo,sotto questo punto di vista, l'obiettità della volontà;mentre nel libro precedente e nella memoria sopra il

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principio di ragione l'avevo chiamato – secondo il puntodi vista colà assunto intenzionalmente (quello dell'intui-zione) – l'oggetto immediato. In un certo senso si puòquindi anche dire: la volontà è la conoscenza a prioridel corpo, e il corpo la conoscenza a posteriori della vo-lontà. Decisioni della volontà, riferentisi anche al futuro,sono semplici riflessioni della ragione su ciò che si vor-rà che allora avvenga, e non veri e proprii atti volitivi:soltanto l'attuazione suggella la risoluzione, che, finchénon sia attuata, è ancor sempre un proposito soggetto avariare, ed esiste soltanto nella ragione, in abstracto.Nella semplice riflessione, volere ed agire sono distinti:nella realtà sono tutt'uno. Ogni vero, genuino, immedia-to atto volitivo è subito e direttamente anche un visibileatto del corpo: e corrispondentemente, d'altra parte, ogniazione sul corpo, subito e direttamente, è anche azionesulla volontà; come tale si chiama dolore, se ripugnaalla volontà; benessere, piacere, se è a questa conforme.Assai diverse sono le gradazioni del dolore e del piace-re. Ma si ha pieno torto, se si dà il nome di rappresenta-zioni al dolore ed al piacere, che non sono punto tali,bensì affezioni dirette della volontà nella sua manifesta-zione fenomenica, ch'è il corpo: un forzato, istantaneovolere o non volere l'impressione, che questo subisce.Sono da considerar semplici rappresentazioni, e vannoquindi eccettuate da quanto or ora s'è detto, soltanto al-cune poche impressioni corporee che non eccitano lavolontà, e per le quali il corpo diventa immediato ogget-to della conoscenza, mentre come intuizione è già og-

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principio di ragione l'avevo chiamato – secondo il puntodi vista colà assunto intenzionalmente (quello dell'intui-zione) – l'oggetto immediato. In un certo senso si puòquindi anche dire: la volontà è la conoscenza a prioridel corpo, e il corpo la conoscenza a posteriori della vo-lontà. Decisioni della volontà, riferentisi anche al futuro,sono semplici riflessioni della ragione su ciò che si vor-rà che allora avvenga, e non veri e proprii atti volitivi:soltanto l'attuazione suggella la risoluzione, che, finchénon sia attuata, è ancor sempre un proposito soggetto avariare, ed esiste soltanto nella ragione, in abstracto.Nella semplice riflessione, volere ed agire sono distinti:nella realtà sono tutt'uno. Ogni vero, genuino, immedia-to atto volitivo è subito e direttamente anche un visibileatto del corpo: e corrispondentemente, d'altra parte, ogniazione sul corpo, subito e direttamente, è anche azionesulla volontà; come tale si chiama dolore, se ripugnaalla volontà; benessere, piacere, se è a questa conforme.Assai diverse sono le gradazioni del dolore e del piace-re. Ma si ha pieno torto, se si dà il nome di rappresenta-zioni al dolore ed al piacere, che non sono punto tali,bensì affezioni dirette della volontà nella sua manifesta-zione fenomenica, ch'è il corpo: un forzato, istantaneovolere o non volere l'impressione, che questo subisce.Sono da considerar semplici rappresentazioni, e vannoquindi eccettuate da quanto or ora s'è detto, soltanto al-cune poche impressioni corporee che non eccitano lavolontà, e per le quali il corpo diventa immediato ogget-to della conoscenza, mentre come intuizione è già og-

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getto mediato nell'intelletto, al pari di tutti gli altri og-getti. S'intendono con ciò le affezioni dei sensi pura-mente oggettivi: della vista, dell'udito e del tatto; e soloin quanto codesti organi sono impressionati nella manie-ra specialmente caratteristica, specifica, naturale di cia-scuno. Codesta è un'impressione così estremamente de-bole della sensibilità aumentata e specificamente modi-ficata di tali organi, da non toccare la volontà; e, nonturbata da nessuna eccitazione di quest'ultima, non fache fornire all'intelletto i dati dai quali nasce l'intuizio-ne. Ma ogni affezione di questi organi più intensa o dialtra natura è dolorosa, ossia contraria alla volontà,all'oggettità della quale anch'essi dunque appartengono.Debolezza di nervi si manifesta in quanto le impressio-ni, le quali dovrebbero aver solo il grado di forza, chebasti a farne dati per l'intelletto, raggiungono il gradopiù elevato, in cui muovono la volontà, ossia produconodolore o piacere; più sovente, invero, dolore, il quale inparte è ottuso ed indistinto, quindi non solo singoli suo-ni e forte luce fa dolorosamente avvertire, bensì produceanche una generale disposizione di malessere ipocondri-co, senza venir chiaramente conosciuto. Inoltre, l'identi-tà del corpo e della volontà si mostra fra l'altro anchenel fatto, che ogni movimento vivace ed eccessivo dellavolontà, ossia ogni affetto, scuote direttamente il corpoed il suo intimo meccanismo, disturbando l'andamentodelle sue funzioni vitali. Ciò si trova in modo specialespiegato nella Volontà nella natura, p. 27 della secondaedizione.

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getto mediato nell'intelletto, al pari di tutti gli altri og-getti. S'intendono con ciò le affezioni dei sensi pura-mente oggettivi: della vista, dell'udito e del tatto; e soloin quanto codesti organi sono impressionati nella manie-ra specialmente caratteristica, specifica, naturale di cia-scuno. Codesta è un'impressione così estremamente de-bole della sensibilità aumentata e specificamente modi-ficata di tali organi, da non toccare la volontà; e, nonturbata da nessuna eccitazione di quest'ultima, non fache fornire all'intelletto i dati dai quali nasce l'intuizio-ne. Ma ogni affezione di questi organi più intensa o dialtra natura è dolorosa, ossia contraria alla volontà,all'oggettità della quale anch'essi dunque appartengono.Debolezza di nervi si manifesta in quanto le impressio-ni, le quali dovrebbero aver solo il grado di forza, chebasti a farne dati per l'intelletto, raggiungono il gradopiù elevato, in cui muovono la volontà, ossia produconodolore o piacere; più sovente, invero, dolore, il quale inparte è ottuso ed indistinto, quindi non solo singoli suo-ni e forte luce fa dolorosamente avvertire, bensì produceanche una generale disposizione di malessere ipocondri-co, senza venir chiaramente conosciuto. Inoltre, l'identi-tà del corpo e della volontà si mostra fra l'altro anchenel fatto, che ogni movimento vivace ed eccessivo dellavolontà, ossia ogni affetto, scuote direttamente il corpoed il suo intimo meccanismo, disturbando l'andamentodelle sue funzioni vitali. Ciò si trova in modo specialespiegato nella Volontà nella natura, p. 27 della secondaedizione.

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Finalmente la conoscenza che io ho della mia volontà è,sebbene immediata, tuttavia inseparabile da quella delmio corpo. Conosco la mia volontà non nel suo com-plesso, non come unità, non appieno nella sua essenza;ma la conosco soltanto nei suoi singoli atti, e quindi neltempo, ch'è forma del fenomeno del mio corpo, comed'ogni oggetto: sì che il corpo è condizione per la cono-scenza della mia volontà. Questa volontà, senza il miocorpo, io non riesco invero a rappresentarmela. Nellamemoria sul principio di ragione è bensì la volontà, opiuttosto il soggetto del volere, presentata come unaspeciale classe di rappresentazioni o oggetti: ma già qui-vi vedemmo codesto oggetto coincidere col soggetto,ossia cessar di essere oggetto. Noi chiamammo questacoincidenza il miracolo κατ’ εξοχην: in certo modo tuttal'opera presente è spiegazione di quello. In quanto cono-sco veramente la mia volontà come oggetto, la conoscocome corpo: ma allora mi ritrovo daccapo nella primaclasse di rappresentazioni stabilita in quello scritto, os-sia fra gli oggetti reali. Verremo scorgendo sempre me-glio, in seguito, che quella prima classe di rappresenta-zioni trova appunto la sua sola chiave e spiegazione nel-la quarta classe, anche colà stabilita, la quale non si con-trappone più, propriamente, come oggetto al soggetto.E, in corrispondenza con ciò, dovremo arrivare a capire,attraverso la legge di motivazione che governa la quartaclasse, l'intima essenza della legge di causalità, domi-nante nella prima, e di quanto accade in conformità del-la legge medesima.

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Finalmente la conoscenza che io ho della mia volontà è,sebbene immediata, tuttavia inseparabile da quella delmio corpo. Conosco la mia volontà non nel suo com-plesso, non come unità, non appieno nella sua essenza;ma la conosco soltanto nei suoi singoli atti, e quindi neltempo, ch'è forma del fenomeno del mio corpo, comed'ogni oggetto: sì che il corpo è condizione per la cono-scenza della mia volontà. Questa volontà, senza il miocorpo, io non riesco invero a rappresentarmela. Nellamemoria sul principio di ragione è bensì la volontà, opiuttosto il soggetto del volere, presentata come unaspeciale classe di rappresentazioni o oggetti: ma già qui-vi vedemmo codesto oggetto coincidere col soggetto,ossia cessar di essere oggetto. Noi chiamammo questacoincidenza il miracolo κατ’ εξοχην: in certo modo tuttal'opera presente è spiegazione di quello. In quanto cono-sco veramente la mia volontà come oggetto, la conoscocome corpo: ma allora mi ritrovo daccapo nella primaclasse di rappresentazioni stabilita in quello scritto, os-sia fra gli oggetti reali. Verremo scorgendo sempre me-glio, in seguito, che quella prima classe di rappresenta-zioni trova appunto la sua sola chiave e spiegazione nel-la quarta classe, anche colà stabilita, la quale non si con-trappone più, propriamente, come oggetto al soggetto.E, in corrispondenza con ciò, dovremo arrivare a capire,attraverso la legge di motivazione che governa la quartaclasse, l'intima essenza della legge di causalità, domi-nante nella prima, e di quanto accade in conformità del-la legge medesima.

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L'identità, ora esposta in via provvisoria, della volontà edel corpo, può soltanto essere mostrata come qui per laprima volta s'è fatto e sempre più si farà in seguito; os-sia dalla coscienza immediata, dalla conoscenza in con-creto, venir elevata a nozione razionale, o trasportatanella conoscenza in abstracto. Viceversa non può, per lasua natura, venir provata, ossia esser dedotta come co-noscenza mediata da un'immediata, appunto perché essaè la più immediata; e se non la prendiamo e teniamo pertale, attenderemo invano di riceverla in qualche modomediatamente, come conoscenza derivata. Essa è unaconoscenza di genere affatto speciale, la cui verità ap-punto perciò non può esser propriamente disposta sottouna delle quattro rubriche, in cui ho distinto ogni veritànello scritto sul principio di ragione, § 29 sgg.: ossia ve-rità logica, empirica, metafisica e metalogica. Imperoc-ché non è, come quelle, la relazione d'una rappresenta-zione astratta con un'altra rappresentazione, o con la for-ma necessaria della rappresentazione intuitiva od astrat-ta: bensì è il rapporto di un giudizio con la relazione trauna rappresentazione intuitiva – il corpo – e ciò che nonè punto rappresentazione, ma alcunché da questa totogenere diverso: volontà. Vorrei dunque distinguere que-sta verità da tutte le altre, e chiamarla verità filosoficaκατ’ εξοχην. L'espressione di questa può esser formulatavariamente, dicendo: il mio corpo e la mia volontà sonotutt'uno; oppure, ciò, che io chiamo mio corpo comerappresentazione intuitiva, chiamo mia volontà in quan-to ne sono conscio in maniera del tutto diversa, non pa-

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L'identità, ora esposta in via provvisoria, della volontà edel corpo, può soltanto essere mostrata come qui per laprima volta s'è fatto e sempre più si farà in seguito; os-sia dalla coscienza immediata, dalla conoscenza in con-creto, venir elevata a nozione razionale, o trasportatanella conoscenza in abstracto. Viceversa non può, per lasua natura, venir provata, ossia esser dedotta come co-noscenza mediata da un'immediata, appunto perché essaè la più immediata; e se non la prendiamo e teniamo pertale, attenderemo invano di riceverla in qualche modomediatamente, come conoscenza derivata. Essa è unaconoscenza di genere affatto speciale, la cui verità ap-punto perciò non può esser propriamente disposta sottouna delle quattro rubriche, in cui ho distinto ogni veritànello scritto sul principio di ragione, § 29 sgg.: ossia ve-rità logica, empirica, metafisica e metalogica. Imperoc-ché non è, come quelle, la relazione d'una rappresenta-zione astratta con un'altra rappresentazione, o con la for-ma necessaria della rappresentazione intuitiva od astrat-ta: bensì è il rapporto di un giudizio con la relazione trauna rappresentazione intuitiva – il corpo – e ciò che nonè punto rappresentazione, ma alcunché da questa totogenere diverso: volontà. Vorrei dunque distinguere que-sta verità da tutte le altre, e chiamarla verità filosoficaκατ’ εξοχην. L'espressione di questa può esser formulatavariamente, dicendo: il mio corpo e la mia volontà sonotutt'uno; oppure, ciò, che io chiamo mio corpo comerappresentazione intuitiva, chiamo mia volontà in quan-to ne sono conscio in maniera del tutto diversa, non pa-

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ragonabile a nessun'altra; oppure, il mio corpo è l'ogget-tità della mia volontà; oppure, prescindendo dal fattoche il mio corpo è mia rappresentazione, esso non è al-tro che mia volontà; e così via32.

§ 19.Se nel primo libro, con intima riluttanza, dichiaravamoil nostro proprio corpo esser pura intuizione del soggettoconoscente, come tutti gli altri oggetti di questo mondointuitivo, ormai ci si è fatto chiaro ciò che nella coscien-za di ciascuno distingue la rappresentazione del propriocorpo da ogni altra, pel resto simile a quella. Ossia, cheil corpo si presenta alla coscienza anche in tutt'altra ma-niera, toto genere diversa, la quale viene indicata con laparola volontà, e che questa doppia conoscenza, che ab-biamo del nostro corpo, ci dà sopra di esso, sopra il suooperare e muoversi in seguito a motivi, come anche sulsuo risentirsi dell'azione esterna – in una parola, sopraciò ch'esso è, non in quanto rappresentazione, ma in sestesso – quella luce, che non possiamo avere immediata-mente sull'essenza, l'attività, l'impressionabilità di tuttigli altri oggetti reali.Il soggetto conoscente è appunto un individuo per que-sta speciale relazione con un corpo, il quale, consideratofuori di tal relazione, non è che una rappresentazioneeguale a tutte le altre. Ma la relazione, in virtù della

32 Si veda il cap. 18 del secondo volume [pp. 197-206 del tomo I dell'ed.cit.].

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ragonabile a nessun'altra; oppure, il mio corpo è l'ogget-tità della mia volontà; oppure, prescindendo dal fattoche il mio corpo è mia rappresentazione, esso non è al-tro che mia volontà; e così via32.

§ 19.Se nel primo libro, con intima riluttanza, dichiaravamoil nostro proprio corpo esser pura intuizione del soggettoconoscente, come tutti gli altri oggetti di questo mondointuitivo, ormai ci si è fatto chiaro ciò che nella coscien-za di ciascuno distingue la rappresentazione del propriocorpo da ogni altra, pel resto simile a quella. Ossia, cheil corpo si presenta alla coscienza anche in tutt'altra ma-niera, toto genere diversa, la quale viene indicata con laparola volontà, e che questa doppia conoscenza, che ab-biamo del nostro corpo, ci dà sopra di esso, sopra il suooperare e muoversi in seguito a motivi, come anche sulsuo risentirsi dell'azione esterna – in una parola, sopraciò ch'esso è, non in quanto rappresentazione, ma in sestesso – quella luce, che non possiamo avere immediata-mente sull'essenza, l'attività, l'impressionabilità di tuttigli altri oggetti reali.Il soggetto conoscente è appunto un individuo per que-sta speciale relazione con un corpo, il quale, consideratofuori di tal relazione, non è che una rappresentazioneeguale a tutte le altre. Ma la relazione, in virtù della

32 Si veda il cap. 18 del secondo volume [pp. 197-206 del tomo I dell'ed.cit.].

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quale il soggetto conoscente è individuo, appunto perciòsussiste unicamente fra lui e una sola di tutte le sue rap-presentazioni. Di questa sola egli è quindi conscio nonsemplicemente come d'una rappresentazione, bensì inpari tempo anche in tutt'altro modo, ossia come d'unavolontà. Ma, se si astrae da quella speciale relazione, daquella duplice ed eterogenea conoscenza di un tutto unoed identico, – essendo quell'uno, il corpo, una rappre-sentazione eguale a tutte le altre – l'individuo conoscen-te, per orientarsi a questo proposito, deve ammettere chel'elemento distintivo di quell'unica rappresentazione stiaesclusivamente nel fatto, che la conoscenza, ch'egli neha, si trovi in codesta duplice relazione con quella rap-presentazione sola, e che solo di quest'unico oggetto in-tuitivo egli possa aver nozione in due modi; ma che ciònon va spiegato con la differenza di tale oggetto da tuttigli altri, bensì con una differenza della relazione esisten-te tra la sua conoscenza e quest'unico oggetto, da quellach'essa ha con tutti gli altri. Oppure, deve ammettereche quest'unico oggetto sia essenzialmente diverso datutti gli altri, solo fra tutti sia contemporaneamente vo-lontà e rappresentazione; e gli altri, invece, semplicerappresentazione, ossia puri fantasmi; che il suo corpoadunque sia l'unico individuo reale nel mondo, ossial'unico fenomeno di volontà e l'unico oggetto immediatodel soggetto. Che gli altri oggetti, considerati come sem-plici rappresentazioni, siano eguali al nostro corpo, os-sia come questo riempiano lo spazio (che anch'esso esi-ste solo in possibilità come rappresentazione), e come

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quale il soggetto conoscente è individuo, appunto perciòsussiste unicamente fra lui e una sola di tutte le sue rap-presentazioni. Di questa sola egli è quindi conscio nonsemplicemente come d'una rappresentazione, bensì inpari tempo anche in tutt'altro modo, ossia come d'unavolontà. Ma, se si astrae da quella speciale relazione, daquella duplice ed eterogenea conoscenza di un tutto unoed identico, – essendo quell'uno, il corpo, una rappre-sentazione eguale a tutte le altre – l'individuo conoscen-te, per orientarsi a questo proposito, deve ammettere chel'elemento distintivo di quell'unica rappresentazione stiaesclusivamente nel fatto, che la conoscenza, ch'egli neha, si trovi in codesta duplice relazione con quella rap-presentazione sola, e che solo di quest'unico oggetto in-tuitivo egli possa aver nozione in due modi; ma che ciònon va spiegato con la differenza di tale oggetto da tuttigli altri, bensì con una differenza della relazione esisten-te tra la sua conoscenza e quest'unico oggetto, da quellach'essa ha con tutti gli altri. Oppure, deve ammettereche quest'unico oggetto sia essenzialmente diverso datutti gli altri, solo fra tutti sia contemporaneamente vo-lontà e rappresentazione; e gli altri, invece, semplicerappresentazione, ossia puri fantasmi; che il suo corpoadunque sia l'unico individuo reale nel mondo, ossial'unico fenomeno di volontà e l'unico oggetto immediatodel soggetto. Che gli altri oggetti, considerati come sem-plici rappresentazioni, siano eguali al nostro corpo, os-sia come questo riempiano lo spazio (che anch'esso esi-ste solo in possibilità come rappresentazione), e come

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questo operino nello spazio, si può dimostrare con tuttacertezza con la legge di causalità, che per le rappresen-tazioni è certa a priori. Questa non ammette effetto sen-za causa. Ma, prescindendo dal fatto che dall'effetto sipuò risalire solo ad una causa in genere, e non ad unacausa eguale, qui si è sempre nel dominio della purarappresentazione, sol per la quale vige la legge dellacausalità, né si può andare oltre. Se poi gli oggetti notiall'individuo come semplici rappresentazioni siano tutta-via, come il suo proprio corpo, fenomeni d'una volontà;questo è, come già fu detto nel libro precedente, il verosenso della quistione intorno alla realtà del mondo ester-no. Negare ciò, è seguire il pensiero dell'egoismo teore-tico, che appunto per questo ritiene fantasmi tutti i feno-meni, eccettuato il proprio individuo, precisamentecome fa, sotto il rispetto pratico, l'egoismo pratico; ilquale considera e tratta la persona propria come la solapersona reale, e tutte le altre come puri fantasmi. L'egoi-smo teorico non si potrà mai confutare con prove: tutta-via filosoficamente non è di certo altro che un sofismascettico, ossia dedotto per pura apparenza. Come con-vinzione seria, lo si potrebbe trovare soltanto al manico-mio; dove a combatterlo non occorrerebbe tanto unaprova quanto una cura. Per questo non ci indugiamo an-cora a trattarne, ma lo consideriamo unicamente comel'ultima fortezza dello scetticismo, che è sempre polemi-co. Ora adunque, se la nostra conoscenza, sempre legataall'individualità e perciò stesso limitata, reca con sé lanecessità che ogni individuo sia bensì uno, ma possa tut-

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questo operino nello spazio, si può dimostrare con tuttacertezza con la legge di causalità, che per le rappresen-tazioni è certa a priori. Questa non ammette effetto sen-za causa. Ma, prescindendo dal fatto che dall'effetto sipuò risalire solo ad una causa in genere, e non ad unacausa eguale, qui si è sempre nel dominio della purarappresentazione, sol per la quale vige la legge dellacausalità, né si può andare oltre. Se poi gli oggetti notiall'individuo come semplici rappresentazioni siano tutta-via, come il suo proprio corpo, fenomeni d'una volontà;questo è, come già fu detto nel libro precedente, il verosenso della quistione intorno alla realtà del mondo ester-no. Negare ciò, è seguire il pensiero dell'egoismo teore-tico, che appunto per questo ritiene fantasmi tutti i feno-meni, eccettuato il proprio individuo, precisamentecome fa, sotto il rispetto pratico, l'egoismo pratico; ilquale considera e tratta la persona propria come la solapersona reale, e tutte le altre come puri fantasmi. L'egoi-smo teorico non si potrà mai confutare con prove: tutta-via filosoficamente non è di certo altro che un sofismascettico, ossia dedotto per pura apparenza. Come con-vinzione seria, lo si potrebbe trovare soltanto al manico-mio; dove a combatterlo non occorrerebbe tanto unaprova quanto una cura. Per questo non ci indugiamo an-cora a trattarne, ma lo consideriamo unicamente comel'ultima fortezza dello scetticismo, che è sempre polemi-co. Ora adunque, se la nostra conoscenza, sempre legataall'individualità e perciò stesso limitata, reca con sé lanecessità che ogni individuo sia bensì uno, ma possa tut-

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to il resto conoscere (la qual limitazione appunto fa sor-gere il bisogno della filosofia); noi, che appunto perciòci sforziamo d'allargar mediante la filosofia i limiti dellanostra conoscenza, considereremo l'argomento dell'egoi-smo scettico, che qui ci si oppone, come una piccolafortezza di confine, la quale è per sempre inespugnabile,ma il cui presidio non ha modo d'uscirne, sì che si puòpassarle davanti e senza pericolo lasciarsela alle spalle.La doppia conoscenza, ormai assurta a chiarezza, e rag-giunta in due modi affatto eterogenei, che noi abbiamodell'essenza e dell'attività del nostro corpo, ci serviràd'ora innanzi come una chiave per aprirci l'essenzad'ogni fenomeno nella natura; e sull'analogia del nostrocorpo giudicar tutti gli oggetti, che non come quel cor-po, ossia non in duplice modo, ma soltanto come rap-presentazioni sono dati alla nostra coscienza; e quindiammettere, che com'essi da un lato, a mo' del corpo,sono rappresentazioni, e perciò della stessa sua natura,così d'altra parte quel che rimane, quando si metta in di-sparte il loro essere in quanto rappresentazioni del sog-getto, sia nella sua intima essenza identico a ciò che innoi stessi chiamiamo volontà. Invero, quale altra specied'esistenza o di realtà dovremmo attribuire al rimanentemondo corporeo? donde prender gli elementi, coi qualimetterlo insieme? All'infuori di volontà e rappresenta-zione, nient'altro conosciamo, né possiamo pensare. Seal mondo reale, che esiste immediatamente sol nella no-stra rappresentazione, vogliamo attribuire la massima

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to il resto conoscere (la qual limitazione appunto fa sor-gere il bisogno della filosofia); noi, che appunto perciòci sforziamo d'allargar mediante la filosofia i limiti dellanostra conoscenza, considereremo l'argomento dell'egoi-smo scettico, che qui ci si oppone, come una piccolafortezza di confine, la quale è per sempre inespugnabile,ma il cui presidio non ha modo d'uscirne, sì che si puòpassarle davanti e senza pericolo lasciarsela alle spalle.La doppia conoscenza, ormai assurta a chiarezza, e rag-giunta in due modi affatto eterogenei, che noi abbiamodell'essenza e dell'attività del nostro corpo, ci serviràd'ora innanzi come una chiave per aprirci l'essenzad'ogni fenomeno nella natura; e sull'analogia del nostrocorpo giudicar tutti gli oggetti, che non come quel cor-po, ossia non in duplice modo, ma soltanto come rap-presentazioni sono dati alla nostra coscienza; e quindiammettere, che com'essi da un lato, a mo' del corpo,sono rappresentazioni, e perciò della stessa sua natura,così d'altra parte quel che rimane, quando si metta in di-sparte il loro essere in quanto rappresentazioni del sog-getto, sia nella sua intima essenza identico a ciò che innoi stessi chiamiamo volontà. Invero, quale altra specied'esistenza o di realtà dovremmo attribuire al rimanentemondo corporeo? donde prender gli elementi, coi qualimetterlo insieme? All'infuori di volontà e rappresenta-zione, nient'altro conosciamo, né possiamo pensare. Seal mondo reale, che esiste immediatamente sol nella no-stra rappresentazione, vogliamo attribuire la massima

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realtà a noi nota, gli diamo la realtà, che per ciascuno dinoi ha il suo proprio corpo: poiché questo è per ciascunoquanto v'è di più reale. Ma se poi analizziamo la realtàdi questo corpo e delle sue azioni, all'infuori del fattod'essere nostra rappresentazione, non altro vi troviamoche la volontà: e con ciò viene ad essere esaurita la suarealtà. Non possiamo quindi trovare in niun luogo unarealtà differente per attribuirla al mondo corporeo. Se ilmondo corporeo adunque dev'essere qualcosa di più chenostra semplice rappresentazione, dobbiamo direch'esso, oltre che rappresentazione, e quindi in se mede-simo e nella sua più intima essenza, è ciò che troviamodirettamente in noi stessi come volontà. Io dico, nellasua più intima essenza: ma codesta essenza della volon-tà dobbiamo prima conoscerla meglio, per saper distin-guere ciò che appartiene a lei da ciò che già spetta al suofenomeno nei vari gradi di esso. Così, per esempio,l'essere in compagnia della conoscenza e il relativo agirper determinazione di motivi non appartiene, come ve-dremo in seguito, all'essenza della volontà, bensì sem-plicemente al suo fenomeno visibile in quanto uomo oanimale. Se io quindi dirò: la forza, che fa cadere a terrala pietra, nella sua essenza, in sé, e fuori d'ogni rappre-sentazione, è volontà; non si attribuirà a quest'afferma-zione l'insano significato, che la pietra si muova secon-do un motivo conosciuto, perché nell'uomo la volontà simanifesta in questo modo33. Ma oramai ci proponiamo33 Non converremo adunque per nulla con Bacone da Verulamio, quand'egli

(De augm. scient. 1. 4 in fine) ritiene, che tutti i movimenti meccanici e fi-

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realtà a noi nota, gli diamo la realtà, che per ciascuno dinoi ha il suo proprio corpo: poiché questo è per ciascunoquanto v'è di più reale. Ma se poi analizziamo la realtàdi questo corpo e delle sue azioni, all'infuori del fattod'essere nostra rappresentazione, non altro vi troviamoche la volontà: e con ciò viene ad essere esaurita la suarealtà. Non possiamo quindi trovare in niun luogo unarealtà differente per attribuirla al mondo corporeo. Se ilmondo corporeo adunque dev'essere qualcosa di più chenostra semplice rappresentazione, dobbiamo direch'esso, oltre che rappresentazione, e quindi in se mede-simo e nella sua più intima essenza, è ciò che troviamodirettamente in noi stessi come volontà. Io dico, nellasua più intima essenza: ma codesta essenza della volon-tà dobbiamo prima conoscerla meglio, per saper distin-guere ciò che appartiene a lei da ciò che già spetta al suofenomeno nei vari gradi di esso. Così, per esempio,l'essere in compagnia della conoscenza e il relativo agirper determinazione di motivi non appartiene, come ve-dremo in seguito, all'essenza della volontà, bensì sem-plicemente al suo fenomeno visibile in quanto uomo oanimale. Se io quindi dirò: la forza, che fa cadere a terrala pietra, nella sua essenza, in sé, e fuori d'ogni rappre-sentazione, è volontà; non si attribuirà a quest'afferma-zione l'insano significato, che la pietra si muova secon-do un motivo conosciuto, perché nell'uomo la volontà simanifesta in questo modo33. Ma oramai ci proponiamo33 Non converremo adunque per nulla con Bacone da Verulamio, quand'egli

(De augm. scient. 1. 4 in fine) ritiene, che tutti i movimenti meccanici e fi-

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di mostrare, fondare con più estensione e chiarezza, esviluppare in tutta la sua ampiezza, quanto fin qui fuesposto in maniera provvisoria e generica.34

§ 20.Come essenza in sé del nostro corpo, come ciò che que-sto corpo è, oltre all'esser oggetto di intuizione o rappre-sentazione, si palesa la volontà primamente, secondo s'èdetto, nei movimenti volontari del corpo medesimo, inquanto questi non sono altro che la visibilità dei singoliatti volitivi.Con tali atti, i movimenti si producono in diretta e im-mediata concomitanza, formando un tutto unico; distintida quelli solo nella forma di conoscibilità in cui sonopassati, diventando rappresentazione. Codesti atti dellavolontà hanno sempre un principio fuori di se stessi, neimotivi. Questi tuttavia non determinano se non ciò cheio voglio in un dato tempo, in un dato luogo, in date cir-costanze: non il fatto generico del mio volere, né ciò cheio genericamente voglio, ossia la massima a cuis'impronta tutto il mio volere. Quindi il mio volere non

sici dei corpi avvengano solo in seguito ad una precedente percezione cheabbia avuto luogo nei corpi stessi; sebbene anche questo principio falsovenisse da un presentimento della verità. Lo stesso può dirsi dell'afferma-zione di Keplero, nel suo trattato De planeta Martis, che i pianeti debbanoaver conoscenza per trovar con tanta esattezza le loro orbite ellittiche e mi-surar la velocità del loro moto, sì che i triangoli della superficie della loroorbita rimangano sempre proporzionali al tempo in cui ne percorrono labase.

34 Si veda il cap. 19 del secondo volume [pp. 207-52 del tomo I dell'ed. cit.].

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di mostrare, fondare con più estensione e chiarezza, esviluppare in tutta la sua ampiezza, quanto fin qui fuesposto in maniera provvisoria e generica.34

§ 20.Come essenza in sé del nostro corpo, come ciò che que-sto corpo è, oltre all'esser oggetto di intuizione o rappre-sentazione, si palesa la volontà primamente, secondo s'èdetto, nei movimenti volontari del corpo medesimo, inquanto questi non sono altro che la visibilità dei singoliatti volitivi.Con tali atti, i movimenti si producono in diretta e im-mediata concomitanza, formando un tutto unico; distintida quelli solo nella forma di conoscibilità in cui sonopassati, diventando rappresentazione. Codesti atti dellavolontà hanno sempre un principio fuori di se stessi, neimotivi. Questi tuttavia non determinano se non ciò cheio voglio in un dato tempo, in un dato luogo, in date cir-costanze: non il fatto generico del mio volere, né ciò cheio genericamente voglio, ossia la massima a cuis'impronta tutto il mio volere. Quindi il mio volere non

sici dei corpi avvengano solo in seguito ad una precedente percezione cheabbia avuto luogo nei corpi stessi; sebbene anche questo principio falsovenisse da un presentimento della verità. Lo stesso può dirsi dell'afferma-zione di Keplero, nel suo trattato De planeta Martis, che i pianeti debbanoaver conoscenza per trovar con tanta esattezza le loro orbite ellittiche e mi-surar la velocità del loro moto, sì che i triangoli della superficie della loroorbita rimangano sempre proporzionali al tempo in cui ne percorrono labase.

34 Si veda il cap. 19 del secondo volume [pp. 207-52 del tomo I dell'ed. cit.].

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si può spiegare in tutta la sua essenza coi motivi; maquesti determinano soltanto la sua manifestazione in undato momento, sono la semplice occasione, in cui la miavolontà si manifesta. Essa rimane nondimeno fuor deldominio assegnato alla legge di motivazione: solo il suorivelarsi in ciascun istante è determinato necessariamen-te da quest'ultima. Esclusivamente con la premessa delmio carattere empirico il motivo è una spiegazione suf-ficiente della mia condotta: ma s'io faccio astrazione dalmio carattere, e poi domando perché io voglio questacosa e non quell'altra, nessuna risposta è possibile; ap-punto perché soltanto il fenomeno della volontà è sotto-messo al principio di ragione, e non la volontà stessa,che sotto questo rispetto può dirsi non abbia ragione.Qui da una parte presuppongo nota la dottrina kantianadel carattere empirico ed intelligibile, come anche ilchiarimento ch'io ne diedi nei miei Problemi fondamen-tali dell'etica, pp. 48-58, e p. 178 sgg. della prima edi-zione; per altra parte avremo a discorrere ampiamente diciò nel quarto libro. Per ora ho solo richiamato l'atten-zione sul fatto, che l'essere un fenomeno fondatosull'altro (in questo caso dunque l'azione sul motivo)non esclude punto che la sua essenza sia, in sé, volontà;la quale non ha alla sua volta nessun fondamento, per-ché il principio di ragione in tutte le sue applicazioni èsemplice forma della conoscenza, ed estende la sua vali-dità alla sola rappresentazione, ch'è il fenomeno, la visi-bilità del volere, ma non al volere medesimo, che diven-ta visibile.

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si può spiegare in tutta la sua essenza coi motivi; maquesti determinano soltanto la sua manifestazione in undato momento, sono la semplice occasione, in cui la miavolontà si manifesta. Essa rimane nondimeno fuor deldominio assegnato alla legge di motivazione: solo il suorivelarsi in ciascun istante è determinato necessariamen-te da quest'ultima. Esclusivamente con la premessa delmio carattere empirico il motivo è una spiegazione suf-ficiente della mia condotta: ma s'io faccio astrazione dalmio carattere, e poi domando perché io voglio questacosa e non quell'altra, nessuna risposta è possibile; ap-punto perché soltanto il fenomeno della volontà è sotto-messo al principio di ragione, e non la volontà stessa,che sotto questo rispetto può dirsi non abbia ragione.Qui da una parte presuppongo nota la dottrina kantianadel carattere empirico ed intelligibile, come anche ilchiarimento ch'io ne diedi nei miei Problemi fondamen-tali dell'etica, pp. 48-58, e p. 178 sgg. della prima edi-zione; per altra parte avremo a discorrere ampiamente diciò nel quarto libro. Per ora ho solo richiamato l'atten-zione sul fatto, che l'essere un fenomeno fondatosull'altro (in questo caso dunque l'azione sul motivo)non esclude punto che la sua essenza sia, in sé, volontà;la quale non ha alla sua volta nessun fondamento, per-ché il principio di ragione in tutte le sue applicazioni èsemplice forma della conoscenza, ed estende la sua vali-dità alla sola rappresentazione, ch'è il fenomeno, la visi-bilità del volere, ma non al volere medesimo, che diven-ta visibile.

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Ora, se ogni azione del mio corpo è fenomeno di un attovolitivo, nel quale, in seguito a determinati motivi, si ri-flette la mia volontà genericamente ed in complesso, os-sia il mio carattere; dev'esser anche condizione e pre-messa immancabile d'ogni azione un fenomeno dellavolontà. Imperocché il fenomeno della volontà non puòdipendere da qualche cosa che non esista direttamente eper solo mezzo di lei, che sia rispetto a lei dovuto alsolo caso, sì che diverrebbe semplicemente casuale an-che il fenomeno stesso: ma quella condizione è il corpointero. Il corpo deve dunque già essere fenomeno dellavolontà, e comportarsi di fronte alla mia volontà generi-ca, – ossia al mio carattere intelligibile, del quale è feno-meno nel tempo il mio carattere empirico – come la sin-gola azione del corpo si comporta di fronte al singoloatto della volontà. Dunque, non deve tutto il corpo esse-re altro che la mia volontà, diventata visibile; dev'esserela mia volontà stessa, in quanto questa è oggetto intuiti-vo, rappresentazione della prima classe. Come confermadi ciò, fu già osservato che ogni impressione ricevutadal nostro corpo eccita istantaneamente e direttamenteanche la nostra volontà, e sotto questo rispetto si chiamadolore o piacere; oppure, in un grado inferiore, sensa-zione piacevole o spiacevole. E fu anche osservato che,viceversa, ogni moto violento della volontà, affetto epassione, scuote il corpo e turba l'andamento delle suefunzioni. Si può, è vero, spiegare etiologicamente (siapure in maniera assai incompleta) la nascita, e, un po'meglio, lo sviluppo e la conservazione del corpo; tale è

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Ora, se ogni azione del mio corpo è fenomeno di un attovolitivo, nel quale, in seguito a determinati motivi, si ri-flette la mia volontà genericamente ed in complesso, os-sia il mio carattere; dev'esser anche condizione e pre-messa immancabile d'ogni azione un fenomeno dellavolontà. Imperocché il fenomeno della volontà non puòdipendere da qualche cosa che non esista direttamente eper solo mezzo di lei, che sia rispetto a lei dovuto alsolo caso, sì che diverrebbe semplicemente casuale an-che il fenomeno stesso: ma quella condizione è il corpointero. Il corpo deve dunque già essere fenomeno dellavolontà, e comportarsi di fronte alla mia volontà generi-ca, – ossia al mio carattere intelligibile, del quale è feno-meno nel tempo il mio carattere empirico – come la sin-gola azione del corpo si comporta di fronte al singoloatto della volontà. Dunque, non deve tutto il corpo esse-re altro che la mia volontà, diventata visibile; dev'esserela mia volontà stessa, in quanto questa è oggetto intuiti-vo, rappresentazione della prima classe. Come confermadi ciò, fu già osservato che ogni impressione ricevutadal nostro corpo eccita istantaneamente e direttamenteanche la nostra volontà, e sotto questo rispetto si chiamadolore o piacere; oppure, in un grado inferiore, sensa-zione piacevole o spiacevole. E fu anche osservato che,viceversa, ogni moto violento della volontà, affetto epassione, scuote il corpo e turba l'andamento delle suefunzioni. Si può, è vero, spiegare etiologicamente (siapure in maniera assai incompleta) la nascita, e, un po'meglio, lo sviluppo e la conservazione del corpo; tale è

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il compito della fisiologia. Ma questa risolve il suo pro-blema, così come i motivi spiegano la condotta. Quindi,come la spiegazione dei singoli atti mediante il motivo,e il necessario derivar di quelli da questo, non contrasta-no col fatto che l'azione in genere e nella sua essenza èfenomeno di una volontà, in se stessa priva di spiegazio-ne; così la spiegazione fisiologica delle funzioni corpo-ree non reca nocumento alla verità filosofica, per cuil'intera esistenza del corpo e la serie compiuta delle suefunzioni è soltanto l'obiettivazione di quella volontà ap-punto, che appare determinata da motivi nelle azioniesterne del corpo medesimo. La fisiologia si studia ben-sì di far risalire a cause proprie dell'organismo codesteazioni esterne, i moti direttamente volontari; – spiegarper esempio il movimento dei muscoli con un afflussodi succhi («come la contrazione d'una corda inumidita»,dice Reil, nel suo Archivio di fisiologia, vol. VI, p. 153)– ma, pur concedendo che si venisse davvero a una radi-cale spiegazione di tal sorta, questa non escluderebbemai la verità direttamente certa, che ogni moto volonta-rio (functiones animales) è fenomeno di un atto volitivo.Nello stesso modo la spiegazione fisiologica della vitavegetativa (functiones naturales, vitales), per quanto sipossa spingere avanti, non perverrà a cancellare la veri-tà, che quest'intera vita animale, così come si svolge, èfenomeno della volontà. In genere, com'è spiegato piùsopra, qualsiasi spiegazione etiologica non può darci al-tro che il punto, necessariamente determinato nel tempoe nello spazio, d'ogni singolo fenomeno, e il suo neces-

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il compito della fisiologia. Ma questa risolve il suo pro-blema, così come i motivi spiegano la condotta. Quindi,come la spiegazione dei singoli atti mediante il motivo,e il necessario derivar di quelli da questo, non contrasta-no col fatto che l'azione in genere e nella sua essenza èfenomeno di una volontà, in se stessa priva di spiegazio-ne; così la spiegazione fisiologica delle funzioni corpo-ree non reca nocumento alla verità filosofica, per cuil'intera esistenza del corpo e la serie compiuta delle suefunzioni è soltanto l'obiettivazione di quella volontà ap-punto, che appare determinata da motivi nelle azioniesterne del corpo medesimo. La fisiologia si studia ben-sì di far risalire a cause proprie dell'organismo codesteazioni esterne, i moti direttamente volontari; – spiegarper esempio il movimento dei muscoli con un afflussodi succhi («come la contrazione d'una corda inumidita»,dice Reil, nel suo Archivio di fisiologia, vol. VI, p. 153)– ma, pur concedendo che si venisse davvero a una radi-cale spiegazione di tal sorta, questa non escluderebbemai la verità direttamente certa, che ogni moto volonta-rio (functiones animales) è fenomeno di un atto volitivo.Nello stesso modo la spiegazione fisiologica della vitavegetativa (functiones naturales, vitales), per quanto sipossa spingere avanti, non perverrà a cancellare la veri-tà, che quest'intera vita animale, così come si svolge, èfenomeno della volontà. In genere, com'è spiegato piùsopra, qualsiasi spiegazione etiologica non può darci al-tro che il punto, necessariamente determinato nel tempoe nello spazio, d'ogni singolo fenomeno, e il suo neces-

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sario prodursi in quel punto secondo una regola fissa:ma l'intima essenza d'ogni fenomeno rimane per questavia sempre imperscrutabile, venendo presupposta daciascuna spiegazione etiologica, e semplicemente desi-gnata col nome di forza, o legge naturale, o, se si trattad'azioni, carattere, volontà. Sebbene adunque ogni sin-gola azione, essendo presupposto un determinato carat-tere, si svolga necessariamente secondo i motivi presen-tatisi, e sebbene lo sviluppo, il processo nutritivo, e tuttele modificazioni della vita animale avvengano secondocause (stimoli) necessariamente operanti; nondimeno laserie compiuta delle azioni (quindi anche ogni azionesingola, e così la condizione di queste, ossia tutto il cor-po medesimo che le compie; e per conseguenza anche ilprocesso, pel quale e nel quale il corpo sussiste) non èaltro che il fenomeno della volontà, l'estrinsecazione vi-sibile, l'obiettità della volontà. Su questo fatto poggia lapiena concordanza del corpo umano ed animale conl'umana ed animale volontà; somigliante a quella – pursopravanzandola di molto – che uno strumento costruitoper un certo scopo ha con la volontà del costruttore; eperciò apparendoci come finalità, ossia spiegabilitàideologica del corpo. Le parti del corpo debbono quindicorrisponder perfettamente ai bisogni principali, in cuila volontà si manifesta, debbono essere la visibileespressione di quelli: denti, esofago e canale intestinalesono la fame oggettivata; i genitali, l'istinto sessuale og-gettivato; le mani prensili, i piedi veloci corrispondonoal già più mediato bisogno della volontà, che mani e

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sario prodursi in quel punto secondo una regola fissa:ma l'intima essenza d'ogni fenomeno rimane per questavia sempre imperscrutabile, venendo presupposta daciascuna spiegazione etiologica, e semplicemente desi-gnata col nome di forza, o legge naturale, o, se si trattad'azioni, carattere, volontà. Sebbene adunque ogni sin-gola azione, essendo presupposto un determinato carat-tere, si svolga necessariamente secondo i motivi presen-tatisi, e sebbene lo sviluppo, il processo nutritivo, e tuttele modificazioni della vita animale avvengano secondocause (stimoli) necessariamente operanti; nondimeno laserie compiuta delle azioni (quindi anche ogni azionesingola, e così la condizione di queste, ossia tutto il cor-po medesimo che le compie; e per conseguenza anche ilprocesso, pel quale e nel quale il corpo sussiste) non èaltro che il fenomeno della volontà, l'estrinsecazione vi-sibile, l'obiettità della volontà. Su questo fatto poggia lapiena concordanza del corpo umano ed animale conl'umana ed animale volontà; somigliante a quella – pursopravanzandola di molto – che uno strumento costruitoper un certo scopo ha con la volontà del costruttore; eperciò apparendoci come finalità, ossia spiegabilitàideologica del corpo. Le parti del corpo debbono quindicorrisponder perfettamente ai bisogni principali, in cuila volontà si manifesta, debbono essere la visibileespressione di quelli: denti, esofago e canale intestinalesono la fame oggettivata; i genitali, l'istinto sessuale og-gettivato; le mani prensili, i piedi veloci corrispondonoal già più mediato bisogno della volontà, che mani e

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piedi rappresentano. Come la general forma umana allageneral volontà umana, così alla volontà individualmen-te modificata, al carattere dell'individuo singolo corri-sponde la forma individuale del corpo; la quale è perciònel suo complesso, come in ciascuna parte, caratteristicaed espressiva. È assai notevole che già Parmenidel'abbia detto, nei seguenti versi citati da Aristotele (Me-taph. III, 5).

Ως γαρ ἑκαστος εχει κρασιν µελεων πολυκαµπτων,Τως νοος ανθρωποισι παρεστηκεν ˙ το γαρ αυτοΕστιν, ὁπερ φρονεει, µελεων φυσις ανθρψποισι,Και πασιν και παντι ˙ το γαρ πλεον εστι νοηµα.

(Ut enim cuique complexio membrorum flexibilium sehabet, ita mens hominibus adest: idem namque est, quodsapit, membrorum natura hominibus, et omnibus etomni: quod enim plus est, intelligentia est.)35.

§ 21.Attraverso tutte queste considerazioni, chi può aver rag-giunto anche in abstracto – quindi con chiarezza e cer-tezza – la conoscenza che ciascuno ha direttamente inconcreto, ossia come sentimento: che cioè l'essenza insé del nostro proprio fenomeno (il quale come rappre-sentazione ci si offre sia nelle nostre azioni, sia nel per-

35 Si veda il cap. 20 del secondo volume [pp. 253-76 del tomo I dell'ed. cit.],e così, nel mio scritto Sulla volontà nella natura, le rubriche Fisiologia eAnatomia comparata, dove è sviluppato a fondo ciò che qui appenas'accenna.

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piedi rappresentano. Come la general forma umana allageneral volontà umana, così alla volontà individualmen-te modificata, al carattere dell'individuo singolo corri-sponde la forma individuale del corpo; la quale è perciònel suo complesso, come in ciascuna parte, caratteristicaed espressiva. È assai notevole che già Parmenidel'abbia detto, nei seguenti versi citati da Aristotele (Me-taph. III, 5).

Ως γαρ ἑκαστος εχει κρασιν µελεων πολυκαµπτων,Τως νοος ανθρωποισι παρεστηκεν ˙ το γαρ αυτοΕστιν, ὁπερ φρονεει, µελεων φυσις ανθρψποισι,Και πασιν και παντι ˙ το γαρ πλεον εστι νοηµα.

(Ut enim cuique complexio membrorum flexibilium sehabet, ita mens hominibus adest: idem namque est, quodsapit, membrorum natura hominibus, et omnibus etomni: quod enim plus est, intelligentia est.)35.

§ 21.Attraverso tutte queste considerazioni, chi può aver rag-giunto anche in abstracto – quindi con chiarezza e cer-tezza – la conoscenza che ciascuno ha direttamente inconcreto, ossia come sentimento: che cioè l'essenza insé del nostro proprio fenomeno (il quale come rappre-sentazione ci si offre sia nelle nostre azioni, sia nel per-

35 Si veda il cap. 20 del secondo volume [pp. 253-76 del tomo I dell'ed. cit.],e così, nel mio scritto Sulla volontà nella natura, le rubriche Fisiologia eAnatomia comparata, dove è sviluppato a fondo ciò che qui appenas'accenna.

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manente loro substrato: il nostro corpo) è la nostra vo-lontà; e che questa costituisce l'elemento immediato del-la nostra coscienza, ma come tale non è tutta passatanella forma della rappresentazione, in cui si contrappon-gono soggetto ed oggetto; bensì si manifesta in una ma-niera immediata, nella quale soggetto ed oggetto nonsono distinti nettamente; e tuttavia non è conoscibile nelsuo complesso dall'individuo, ma solo nei suoi singoliatti: chi, io dico, è arrivato con me a codesta persuasio-ne, troverà che questa è per lui come la chiave per cono-scere l'intima essenza della natura intera; applicandolaanche a quei fenomeni che non gli son dati, come i suoipropri, in conoscenza immediata oltre che mediata, masolo in quest'ultima, quindi solo unilateralmente, comesemplice rappresentazione. Non soltanto in quei feno-meni che sono affatto simili al suo proprio – negli uomi-ni e negli animali – egli dovrà riconoscere, come più in-tima essenza, quella medesima volontà; ma la riflessio-ne prolungata lo condurrà a conoscer anche la forza cheferve e vegeta nella pianta, e quella per cui si forma ilcristallo, e quella che volge la bussola al polo, e quellache scocca nel contatto di due metalli eterogenei, e quel-la che si rivela nelle affinità elettive della materia, comeripulsione ed attrazione, separazione e combinazione; eda ultimo perfino la gravità, che in ogni materia sì po-tentemente agisce e attrae la pietra alla terra, come laterra verso il sole – tutte queste forze in apparenza di-verse conoscerà nell'intima essenza come un'unica for-za, come quella forza a lui più profondamente e meglio

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manente loro substrato: il nostro corpo) è la nostra vo-lontà; e che questa costituisce l'elemento immediato del-la nostra coscienza, ma come tale non è tutta passatanella forma della rappresentazione, in cui si contrappon-gono soggetto ed oggetto; bensì si manifesta in una ma-niera immediata, nella quale soggetto ed oggetto nonsono distinti nettamente; e tuttavia non è conoscibile nelsuo complesso dall'individuo, ma solo nei suoi singoliatti: chi, io dico, è arrivato con me a codesta persuasio-ne, troverà che questa è per lui come la chiave per cono-scere l'intima essenza della natura intera; applicandolaanche a quei fenomeni che non gli son dati, come i suoipropri, in conoscenza immediata oltre che mediata, masolo in quest'ultima, quindi solo unilateralmente, comesemplice rappresentazione. Non soltanto in quei feno-meni che sono affatto simili al suo proprio – negli uomi-ni e negli animali – egli dovrà riconoscere, come più in-tima essenza, quella medesima volontà; ma la riflessio-ne prolungata lo condurrà a conoscer anche la forza cheferve e vegeta nella pianta, e quella per cui si forma ilcristallo, e quella che volge la bussola al polo, e quellache scocca nel contatto di due metalli eterogenei, e quel-la che si rivela nelle affinità elettive della materia, comeripulsione ed attrazione, separazione e combinazione; eda ultimo perfino la gravità, che in ogni materia sì po-tentemente agisce e attrae la pietra alla terra, come laterra verso il sole – tutte queste forze in apparenza di-verse conoscerà nell'intima essenza come un'unica for-za, come quella forza a lui più profondamente e meglio

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nota d'ogni altra cosa, che là, dove più chiaramente siproduce, prende nome di volontà. Solo quest'impiegodella riflessione non ci fa più arrestare al fenomeno,bensì ci conduce fino alla cosa in sé. Fenomeno è rap-presentazione, e non più: ogni rappresentazione, di qual-sivoglia specie, ogni oggetto è fenomeno. Cosa in sé in-vece è solamente la volontà: ella, come tale, non è puntorappresentazione, bensì qualcosa toto genere differenteda questa: ogni rappresentazione, ogni oggetto, è feno-meno, estrinsecazione visibile, obiettità di lei. Ella èl'intimo essere, il nocciolo di ogni singolo, ed egualmen-te del Tutto: ella si manifesta in ogni cieca forza natura-le; ella anche si manifesta nella meditata condottadell'uomo. La gran differenza, che separa la forza ciecadalla meditata condotta, tocca il grado della manifesta-zione, non l'essenza della volontà che si manifesta.

§ 22.Questa cosa in sé (vogliamo mantener come formula fis-sa l'espressione di Kant), che in quanto tale non è maioggetto, appunto perché ogni oggetto è invece semplicefenomeno di quella, e non è più lei medesima, doveva,per poter esser nondimeno pensata oggettivamente,prendere a prestito nome e concetto da un oggetto, daalcunché oggettivamente dato, quindi da uno dei suoifenomeni. Ma questo, per servir di mezzo di compren-sione, non poteva esser altro se non il più perfetto di tut-ti i fenomeni, ossia il più chiaro, il più sviluppato, dalla

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nota d'ogni altra cosa, che là, dove più chiaramente siproduce, prende nome di volontà. Solo quest'impiegodella riflessione non ci fa più arrestare al fenomeno,bensì ci conduce fino alla cosa in sé. Fenomeno è rap-presentazione, e non più: ogni rappresentazione, di qual-sivoglia specie, ogni oggetto è fenomeno. Cosa in sé in-vece è solamente la volontà: ella, come tale, non è puntorappresentazione, bensì qualcosa toto genere differenteda questa: ogni rappresentazione, ogni oggetto, è feno-meno, estrinsecazione visibile, obiettità di lei. Ella èl'intimo essere, il nocciolo di ogni singolo, ed egualmen-te del Tutto: ella si manifesta in ogni cieca forza natura-le; ella anche si manifesta nella meditata condottadell'uomo. La gran differenza, che separa la forza ciecadalla meditata condotta, tocca il grado della manifesta-zione, non l'essenza della volontà che si manifesta.

§ 22.Questa cosa in sé (vogliamo mantener come formula fis-sa l'espressione di Kant), che in quanto tale non è maioggetto, appunto perché ogni oggetto è invece semplicefenomeno di quella, e non è più lei medesima, doveva,per poter esser nondimeno pensata oggettivamente,prendere a prestito nome e concetto da un oggetto, daalcunché oggettivamente dato, quindi da uno dei suoifenomeni. Ma questo, per servir di mezzo di compren-sione, non poteva esser altro se non il più perfetto di tut-ti i fenomeni, ossia il più chiaro, il più sviluppato, dalla

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conoscenza direttamente illuminato: la volontà umana.Bisogna tuttavia osservare, che qui usiamo invero solouna denominatio a potiori, mediante la quale, appuntoperciò, il concetto di volontà acquista una ampiezzamaggiore di quella finora avuta. Conoscenza dell'identi-co in fenomeni diversi, e del diverso nell'identico è,come spesso nota Platone, condizione per far della filo-sofia. Non s'era finora conosciuta come identica con lavolontà l'essenza di tutte le forze agitantisi e operantinella natura; e si consideravan quindi come eterogeneigli svariati fenomeni, che sono invece specie differentid'un medesimo genere. Perciò non poteva aversi alcunaparola, che indicasse il concetto di codesto genere. Ioquindi indico il genere col nome della più nobile specie;la cui immediata conoscenza, la più facile per noi, ci èguida alla conoscenza mediata delle altre specie.Si troverebbe quindi impigliato in un perenne equivocochi non fosse capace di applicar la richiesta estensionedel concetto, e con la parola volontà seguitasse ancoraad intendere soltanto la specie con essa comunementeindicata, ossia la volontà diretta dalla conoscenza e ma-nifestantesi esclusivamente in seguito a motivi, anzi asoli motivi astratti, e quindi sotto la guida della ragione– volontà speciale, che, come s'è detto, non è se non ilpiù evidente fenomeno della volontà intesa nel senso piùvasto. Ma è appunto l'intima essenza di codesto fenome-no, che noi dobbiamo isolare col pensiero, e trasportarlapoi in tutti i più deboli, meno chiari fenomeni dell'essen-

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conoscenza direttamente illuminato: la volontà umana.Bisogna tuttavia osservare, che qui usiamo invero solouna denominatio a potiori, mediante la quale, appuntoperciò, il concetto di volontà acquista una ampiezzamaggiore di quella finora avuta. Conoscenza dell'identi-co in fenomeni diversi, e del diverso nell'identico è,come spesso nota Platone, condizione per far della filo-sofia. Non s'era finora conosciuta come identica con lavolontà l'essenza di tutte le forze agitantisi e operantinella natura; e si consideravan quindi come eterogeneigli svariati fenomeni, che sono invece specie differentid'un medesimo genere. Perciò non poteva aversi alcunaparola, che indicasse il concetto di codesto genere. Ioquindi indico il genere col nome della più nobile specie;la cui immediata conoscenza, la più facile per noi, ci èguida alla conoscenza mediata delle altre specie.Si troverebbe quindi impigliato in un perenne equivocochi non fosse capace di applicar la richiesta estensionedel concetto, e con la parola volontà seguitasse ancoraad intendere soltanto la specie con essa comunementeindicata, ossia la volontà diretta dalla conoscenza e ma-nifestantesi esclusivamente in seguito a motivi, anzi asoli motivi astratti, e quindi sotto la guida della ragione– volontà speciale, che, come s'è detto, non è se non ilpiù evidente fenomeno della volontà intesa nel senso piùvasto. Ma è appunto l'intima essenza di codesto fenome-no, che noi dobbiamo isolare col pensiero, e trasportarlapoi in tutti i più deboli, meno chiari fenomeni dell'essen-

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za medesima, venendo così a compiere la desiderataestensione del concetto di volontà. Cadrebbe nell'equi-voco opposto, chi pensasse che sia alla fin fine indiffe-rente chiamar quell'essenza in sé di tutti i fenomeni colnome di volontà, o con un altro nome qualsiasi. Sarebbequesto il caso, se quella cosa in sé fosse il semplice frut-to d'una deduzione, e quindi conosciuta solo mediata-mente, in abstracto. La si potrebbe allora chiamar conun nome purchessia; il nome sarebbe il semplice segnod'una entità incognita. Invece la parola volontà, che anoi, come una formula magica, deve svelar la più intimaessenza d'ogni cosa nella natura, non indica punto unaentità sconosciuta, un quid ottenuto per via di deduzioni,bensì alcunché direttamente conosciuto, e così ben noto,che noi sappiamo ciò che sia volontà, meglio di qualsi-voglia altra cosa. Finora si assumeva il concetto di vo-lontà sotto quello di forza: io faccio il contrario, e vo-glio che ogni forza della natura sia pensata come volon-tà. Non si creda che questa sia una logomachia, o unaquistione indifferente; perché anzi è di altissima signifi-cazione ed importanza. Infatti, a base del concetto diforza, come di tutti gli altri concetti, sta la conoscenzaintuitiva del mondo oggettivo, ossia il fenomeno, la rap-presentazione: ed esso con quella si esaurisce. Tale con-cetto è ricavato dal territorio in cui imperano causa edeffetto, ossia dalla rappresentazione intuitiva; ed indicaappunto il carattere causale della causa, nel punto in cuiesso non è più oltre spiegabile etiologicamente, ma di-venta proprio la necessaria premessa d'ogni spiegazione

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za medesima, venendo così a compiere la desiderataestensione del concetto di volontà. Cadrebbe nell'equi-voco opposto, chi pensasse che sia alla fin fine indiffe-rente chiamar quell'essenza in sé di tutti i fenomeni colnome di volontà, o con un altro nome qualsiasi. Sarebbequesto il caso, se quella cosa in sé fosse il semplice frut-to d'una deduzione, e quindi conosciuta solo mediata-mente, in abstracto. La si potrebbe allora chiamar conun nome purchessia; il nome sarebbe il semplice segnod'una entità incognita. Invece la parola volontà, che anoi, come una formula magica, deve svelar la più intimaessenza d'ogni cosa nella natura, non indica punto unaentità sconosciuta, un quid ottenuto per via di deduzioni,bensì alcunché direttamente conosciuto, e così ben noto,che noi sappiamo ciò che sia volontà, meglio di qualsi-voglia altra cosa. Finora si assumeva il concetto di vo-lontà sotto quello di forza: io faccio il contrario, e vo-glio che ogni forza della natura sia pensata come volon-tà. Non si creda che questa sia una logomachia, o unaquistione indifferente; perché anzi è di altissima signifi-cazione ed importanza. Infatti, a base del concetto diforza, come di tutti gli altri concetti, sta la conoscenzaintuitiva del mondo oggettivo, ossia il fenomeno, la rap-presentazione: ed esso con quella si esaurisce. Tale con-cetto è ricavato dal territorio in cui imperano causa edeffetto, ossia dalla rappresentazione intuitiva; ed indicaappunto il carattere causale della causa, nel punto in cuiesso non è più oltre spiegabile etiologicamente, ma di-venta proprio la necessaria premessa d'ogni spiegazione

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etiologica. Viceversa, il concetto di volontà è l'unico, fratutti i concetti possibili, che non abbia la propria originenel fenomeno, non nella semplice rappresentazione in-tuitiva; ma derivi dall'intimo, dalla coscienza immediatadi ciascuno; nella qual coscienza ciascuno contempora-neamente conosce ed insieme è il suo proprio individuo,nella sua essenza, immediatamente, senz'alcuna forma,neppur quella di soggetto ed oggetto: perché qui il cono-scente e il conosciuto coincidono. Se riportiamo quindiil concetto di forza a quello di volontà, abbiamo effetti-vamente ricondotto un'incognita ad un quid infinitamen-te più noto, anzi, all'unico che a noi sia davvero diretta-mente e compiutamente noto; e la nostra conoscenza neviene grandemente, allargata. Se invece sussumiamo,come s'è fatto finora, il concetto di volontà sotto quellodi forza, veniamo a rinunziare all'unica conoscenza im-mediata, che abbiamo dell'intima essenza del mondo, la-sciandola perdere sotto un concetto ricavato dal mondofenomenico, col quale non possiamo quindi superar lacerchia del fenomeno.

§ 23.La volontà come cosa in sé è affatto diversa dal suo fe-nomeno, e pienamente libera da tutte le forme di questo,nelle quali appunto, ella passa all'atto del suo manife-starsi; sì che codeste forme riguardano la sua obiettità,ma le sono sostanzialmente estranee. La stessa formapiù generale d'ogni rappresentazione – quella dell'ogget-

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etiologica. Viceversa, il concetto di volontà è l'unico, fratutti i concetti possibili, che non abbia la propria originenel fenomeno, non nella semplice rappresentazione in-tuitiva; ma derivi dall'intimo, dalla coscienza immediatadi ciascuno; nella qual coscienza ciascuno contempora-neamente conosce ed insieme è il suo proprio individuo,nella sua essenza, immediatamente, senz'alcuna forma,neppur quella di soggetto ed oggetto: perché qui il cono-scente e il conosciuto coincidono. Se riportiamo quindiil concetto di forza a quello di volontà, abbiamo effetti-vamente ricondotto un'incognita ad un quid infinitamen-te più noto, anzi, all'unico che a noi sia davvero diretta-mente e compiutamente noto; e la nostra conoscenza neviene grandemente, allargata. Se invece sussumiamo,come s'è fatto finora, il concetto di volontà sotto quellodi forza, veniamo a rinunziare all'unica conoscenza im-mediata, che abbiamo dell'intima essenza del mondo, la-sciandola perdere sotto un concetto ricavato dal mondofenomenico, col quale non possiamo quindi superar lacerchia del fenomeno.

§ 23.La volontà come cosa in sé è affatto diversa dal suo fe-nomeno, e pienamente libera da tutte le forme di questo,nelle quali appunto, ella passa all'atto del suo manife-starsi; sì che codeste forme riguardano la sua obiettità,ma le sono sostanzialmente estranee. La stessa formapiù generale d'ogni rappresentazione – quella dell'ogget-

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to per un soggetto – non la tocca; ed ancor meno le for-me subordinate alla prima, le quali hanno collettivamen-te la loro espressione comune nel principio di ragione.Ad esse appartengono, com'è noto, anche tempo e spa-zio, e per conseguenza pur la pluralità, che solo median-te il tempo e lo spazio esiste e diventa possibile. Daquest'ultimo punto di vista chiamerò tempo e spazio –con espressione tolta all'antica scolastica propriamentedetta – il principium individuationis: il che prego di no-tare una volta per sempre. Imperocché, per mezzo deltempo e dello spazio ciò che è tutt'uno nell'essenza e nelconcetto apparisce invece diverso, come pluralità giu-stapposta e succedentesi; tempo e spazio sono quindi ilprincipium individuationis, l'oggetto di tante disquisi-zioni e contese degli scolastici, le quali si trovan raccol-te presso Suarez (Disp. Metaph., disp. v, sect. 3). Per leragioni sopraddette, la volontà come cosa in sé sta fuordel dominio del principio di ragione in tutte le sue for-me, ed è quindi assolutamente senza ragione, sebbeneogni sua manifestazione sia in tutto sottomessa al princi-pio di ragione; sta fuori inoltre di ogni pluralità, sebbenele sue manifestazioni nel tempo e nello spazio siano in-numerevoli. Ella è una, ma non com'è uno un oggetto, lacui unità può esser conosciuta solo in contrasto con lapossibile pluralità; e nemmeno com'è uno un concetto,che è sorto dalla pluralità mediante astrazione: bensì èuna in quanto sta fuori del tempo e dello spazio, fuoridel principium individuationis, ossia della possibile plu-ralità. Solo quando tutto ciò ci sarà diventato intelligibi-

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to per un soggetto – non la tocca; ed ancor meno le for-me subordinate alla prima, le quali hanno collettivamen-te la loro espressione comune nel principio di ragione.Ad esse appartengono, com'è noto, anche tempo e spa-zio, e per conseguenza pur la pluralità, che solo median-te il tempo e lo spazio esiste e diventa possibile. Daquest'ultimo punto di vista chiamerò tempo e spazio –con espressione tolta all'antica scolastica propriamentedetta – il principium individuationis: il che prego di no-tare una volta per sempre. Imperocché, per mezzo deltempo e dello spazio ciò che è tutt'uno nell'essenza e nelconcetto apparisce invece diverso, come pluralità giu-stapposta e succedentesi; tempo e spazio sono quindi ilprincipium individuationis, l'oggetto di tante disquisi-zioni e contese degli scolastici, le quali si trovan raccol-te presso Suarez (Disp. Metaph., disp. v, sect. 3). Per leragioni sopraddette, la volontà come cosa in sé sta fuordel dominio del principio di ragione in tutte le sue for-me, ed è quindi assolutamente senza ragione, sebbeneogni sua manifestazione sia in tutto sottomessa al princi-pio di ragione; sta fuori inoltre di ogni pluralità, sebbenele sue manifestazioni nel tempo e nello spazio siano in-numerevoli. Ella è una, ma non com'è uno un oggetto, lacui unità può esser conosciuta solo in contrasto con lapossibile pluralità; e nemmeno com'è uno un concetto,che è sorto dalla pluralità mediante astrazione: bensì èuna in quanto sta fuori del tempo e dello spazio, fuoridel principium individuationis, ossia della possibile plu-ralità. Solo quando tutto ciò ci sarà diventato intelligibi-

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le appieno, attraverso la seguente considerazione dei fe-nomeni e delle varie manifestazioni della volontà, com-prenderemo interamente il senso della dottrina kantiana,per cui tempo, spazio e causalità non appartengono allacosa in sé, ma sono semplici forme della conoscenza.La mancanza di ragione nella volontà si è effettivamenteconosciuta là, dov'essa si manifesta in modo più palese,come volontà dell'uomo; e la volontà fu detta libera, in-dipendente. Ma nello stesso tempo, appunto per codestamancanza di ragione, si trascurò la necessità, a cui èsempre sottomesso il suo fenomeno: e gli atti furon di-chiarati liberi, mentre non sono tali; perché ogni singoloatto proviene con stretta necessità dall'azione del motivosul carattere. Ogni necessità è, come s'è detto, relazionetra causa ed effetto, e non altro. Il principio di ragione èforma generale di ciascun fenomeno, e l'uomo nella suaattività, come ogni altro fenomeno, dev'essergli sotto-messo. Ma poiché nella coscienza personale la volontàvien conosciuta direttamente ed in sé, in codesta co-scienza v'è anche la consapevolezza della libertà. Non-dimeno si dimentica che l'individuo, la persona, non èvolontà come cosa in sé, bensì fenomeno della volontà;e come tale già determinato, già passato nella forma delfenomeno, nel principio di ragione. Di qui viene il fattosingolare, che ciascuno a priori si ritiene del tutto libe-ro, anche nelle sue singole azioni; e ritiene di poter ini-ziare ad ogni momento un nuovo indirizzo di vita quasidiventando un altro. Ma a posteriori, attraverso l'espe-

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le appieno, attraverso la seguente considerazione dei fe-nomeni e delle varie manifestazioni della volontà, com-prenderemo interamente il senso della dottrina kantiana,per cui tempo, spazio e causalità non appartengono allacosa in sé, ma sono semplici forme della conoscenza.La mancanza di ragione nella volontà si è effettivamenteconosciuta là, dov'essa si manifesta in modo più palese,come volontà dell'uomo; e la volontà fu detta libera, in-dipendente. Ma nello stesso tempo, appunto per codestamancanza di ragione, si trascurò la necessità, a cui èsempre sottomesso il suo fenomeno: e gli atti furon di-chiarati liberi, mentre non sono tali; perché ogni singoloatto proviene con stretta necessità dall'azione del motivosul carattere. Ogni necessità è, come s'è detto, relazionetra causa ed effetto, e non altro. Il principio di ragione èforma generale di ciascun fenomeno, e l'uomo nella suaattività, come ogni altro fenomeno, dev'essergli sotto-messo. Ma poiché nella coscienza personale la volontàvien conosciuta direttamente ed in sé, in codesta co-scienza v'è anche la consapevolezza della libertà. Non-dimeno si dimentica che l'individuo, la persona, non èvolontà come cosa in sé, bensì fenomeno della volontà;e come tale già determinato, già passato nella forma delfenomeno, nel principio di ragione. Di qui viene il fattosingolare, che ciascuno a priori si ritiene del tutto libe-ro, anche nelle sue singole azioni; e ritiene di poter ini-ziare ad ogni momento un nuovo indirizzo di vita quasidiventando un altro. Ma a posteriori, attraverso l'espe-

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rienza, s'accorge con suo stupore di non esser libero,bensì sottomesso alla necessità; che malgrado tutti i pro-positi e le riflessioni, non muta il suo modo d'agire, edal principio alla fine di sua vita è costretto a trascinarquel carattere ch'egli medesimo disapprova, quasi reci-tasse fino all'ultimo una parte. Non posso qui svilupparepiù a lungo questa considerazione, che per la sua naturaetica spetta ad altro luogo della presente opera. Qui vo-glio intanto semplicemente ricordare, che il fenomenodella volontà in sé, priva di ragione, è tuttavia, in quantofenomeno, sottomesso alla legge di necessità, ossia alprincipio di ragione. E voglio ricordarlo, perché la ne-cessità, con cui avvengono i fenomeni della natura, nonsia d'impedimento a vedere in questi le manifestazionidella volontà.Finora furon considerati fenomeni della volontà soloquelle modificazioni, le quali non hanno altra causa cheun motivo, ossia una rappresentazione. Perciò in tutta lanatura si attribuiva una volontà soltanto all'uomo, etutt'al più agli animali; perché il conoscere, il rappresen-tare, come ho già notato altrove, è la genuina ed esclusi-va caratteristica dell'umanità. Ma che la volontà agiscaanche là dove nessuna conoscenza la guida, vediamo su-bito dall'istinto e dalle tendenze meccaniche degli ani-mali36. Che essi abbiano rappresentazioni e conoscenza,non è cosa che ora ci riguardi; imperocché lo scopo, al

36 Di queste tratta specialmente il cap. 27 del secondo volume [pp. 354-60del tomo I dell'ed. cit.].

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rienza, s'accorge con suo stupore di non esser libero,bensì sottomesso alla necessità; che malgrado tutti i pro-positi e le riflessioni, non muta il suo modo d'agire, edal principio alla fine di sua vita è costretto a trascinarquel carattere ch'egli medesimo disapprova, quasi reci-tasse fino all'ultimo una parte. Non posso qui svilupparepiù a lungo questa considerazione, che per la sua naturaetica spetta ad altro luogo della presente opera. Qui vo-glio intanto semplicemente ricordare, che il fenomenodella volontà in sé, priva di ragione, è tuttavia, in quantofenomeno, sottomesso alla legge di necessità, ossia alprincipio di ragione. E voglio ricordarlo, perché la ne-cessità, con cui avvengono i fenomeni della natura, nonsia d'impedimento a vedere in questi le manifestazionidella volontà.Finora furon considerati fenomeni della volontà soloquelle modificazioni, le quali non hanno altra causa cheun motivo, ossia una rappresentazione. Perciò in tutta lanatura si attribuiva una volontà soltanto all'uomo, etutt'al più agli animali; perché il conoscere, il rappresen-tare, come ho già notato altrove, è la genuina ed esclusi-va caratteristica dell'umanità. Ma che la volontà agiscaanche là dove nessuna conoscenza la guida, vediamo su-bito dall'istinto e dalle tendenze meccaniche degli ani-mali36. Che essi abbiano rappresentazioni e conoscenza,non è cosa che ora ci riguardi; imperocché lo scopo, al

36 Di queste tratta specialmente il cap. 27 del secondo volume [pp. 354-60del tomo I dell'ed. cit.].

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quale essi dirigono la loro azione quasi fosse un motivoconosciuto, rimane ad essi del tutto ignoto. Perciò il loroagire avviene in quel caso senza motivo, non è guidatodalla rappresentazione, e ci mostra immediatamente echiarissimamente, che la volontà agisce anche senz'alcu-na conoscenza. L'uccello di un anno non ha nessuna rap-presentazione delle uova, per le quali costruisce unnido; un giovine ragno non ne ha della preda, per la qua-le tesse una rete; non il formicaleone della formica, acui per la prima volta scava una fossa; la larva del cervovolante fora il legno, dove vuol compiere la sua meta-morfosi; e quando essa vuol diventare un insetto masco-lino, il foro è doppio di quando vuol diventare femmina,per dar posto alle corna, delle quali non ha ancor nessu-na rappresentazione. In tali atti di codesti animali è purpalesemente in gioco la volontà, come nelle altre loroazioni; ma essa agisce in un'attività cieca, la quale èbensì accompagnata dalla conoscenza, ma non ne è gui-data. Ora, se ci siamo persuasi che la rappresentazione,come motivo, non è punto necessaria ed essenziale con-dizione dell'attività del volere, conosceremo più facil-mente l'effetto della volontà in casi dov'è meno appari-scente. Per esempio, non attribuiremo il guscio dellachiocciola ad una volontà guidata da conoscenza, maestranea alla chiocciola stessa, come non pensiamo chela casa da noi stessi costruita sorga per effetto d'una vo-lontà che non sia la nostra; ma questa casa e la casa del-la chiocciola conosceremo quali opere della volontà, og-gettivantesi in entrambi i fenomeni; volontà, che opera

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quale essi dirigono la loro azione quasi fosse un motivoconosciuto, rimane ad essi del tutto ignoto. Perciò il loroagire avviene in quel caso senza motivo, non è guidatodalla rappresentazione, e ci mostra immediatamente echiarissimamente, che la volontà agisce anche senz'alcu-na conoscenza. L'uccello di un anno non ha nessuna rap-presentazione delle uova, per le quali costruisce unnido; un giovine ragno non ne ha della preda, per la qua-le tesse una rete; non il formicaleone della formica, acui per la prima volta scava una fossa; la larva del cervovolante fora il legno, dove vuol compiere la sua meta-morfosi; e quando essa vuol diventare un insetto masco-lino, il foro è doppio di quando vuol diventare femmina,per dar posto alle corna, delle quali non ha ancor nessu-na rappresentazione. In tali atti di codesti animali è purpalesemente in gioco la volontà, come nelle altre loroazioni; ma essa agisce in un'attività cieca, la quale èbensì accompagnata dalla conoscenza, ma non ne è gui-data. Ora, se ci siamo persuasi che la rappresentazione,come motivo, non è punto necessaria ed essenziale con-dizione dell'attività del volere, conosceremo più facil-mente l'effetto della volontà in casi dov'è meno appari-scente. Per esempio, non attribuiremo il guscio dellachiocciola ad una volontà guidata da conoscenza, maestranea alla chiocciola stessa, come non pensiamo chela casa da noi stessi costruita sorga per effetto d'una vo-lontà che non sia la nostra; ma questa casa e la casa del-la chiocciola conosceremo quali opere della volontà, og-gettivantesi in entrambi i fenomeni; volontà, che opera

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in noi secondo motivi, e nella chiocciola ciecamente,come un impulso costruttivo rivolto al di fuori. Anche innoi la stessa volontà agisce in vari modi ciecamente: intutte le funzioni del nostro corpo, che nessuna cono-scenza guida, in tutti i suoi processi vitali e vegetativi,digestione, circolazione del sangue, secrezione, svilup-po, riproduzione. Non solo le azioni del corpo, ma ilcorpo medesimo è in tutto e per tutto, come abbiamomostrato, fenomeno della volontà, volontà oggettivata,volontà concreta: tutto ciò, che in esso accade, devequindi accadere per effetto di volontà; sebbene qui co-desta volontà non sia diretta dalla conoscenza, né deter-minata da motivi, ma agisca ciecamente in seguito acause che in tal caso prendono il nome di stimoli.Chiamo causa, nel senso più stretto della parola, quellostato della materia che, mentre ne produce necessaria-mente un altro, subisce a sua volta una modificazionegrande come quella ch'esso produce; la qual cosa siesprime con la regola «azione e reazione si equivalgo-no». Inoltre, con una vera e propria causa l'azione crescein proporzione della causa, e così anche la reazione; sìche, una volta conosciuto il modo d'agire, dal gradod'intensità della causa si può misurare e calcolare il gra-do dell'effetto, e viceversa. Tali cause propriamente det-te agiscono in tutti i fenomeni del meccanismo, chimi-smo, e così via; insomma, in tutte le modificazioni deicorpi inorganici. Chiamo invece stimolo quella causa, laquale non subisce nessuna reazione proporzionata alla

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in noi secondo motivi, e nella chiocciola ciecamente,come un impulso costruttivo rivolto al di fuori. Anche innoi la stessa volontà agisce in vari modi ciecamente: intutte le funzioni del nostro corpo, che nessuna cono-scenza guida, in tutti i suoi processi vitali e vegetativi,digestione, circolazione del sangue, secrezione, svilup-po, riproduzione. Non solo le azioni del corpo, ma ilcorpo medesimo è in tutto e per tutto, come abbiamomostrato, fenomeno della volontà, volontà oggettivata,volontà concreta: tutto ciò, che in esso accade, devequindi accadere per effetto di volontà; sebbene qui co-desta volontà non sia diretta dalla conoscenza, né deter-minata da motivi, ma agisca ciecamente in seguito acause che in tal caso prendono il nome di stimoli.Chiamo causa, nel senso più stretto della parola, quellostato della materia che, mentre ne produce necessaria-mente un altro, subisce a sua volta una modificazionegrande come quella ch'esso produce; la qual cosa siesprime con la regola «azione e reazione si equivalgo-no». Inoltre, con una vera e propria causa l'azione crescein proporzione della causa, e così anche la reazione; sìche, una volta conosciuto il modo d'agire, dal gradod'intensità della causa si può misurare e calcolare il gra-do dell'effetto, e viceversa. Tali cause propriamente det-te agiscono in tutti i fenomeni del meccanismo, chimi-smo, e così via; insomma, in tutte le modificazioni deicorpi inorganici. Chiamo invece stimolo quella causa, laquale non subisce nessuna reazione proporzionata alla

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sua azione, e la cui intensità non procede punto paralleladi grado con l'intensità dell'azione, la quale perciò nonpuò esser misurata su quella: anzi una piccola diminu-zione dello stimolo può produrne una grandissimanell'azione, o anche distruggere del tutto l'azione prece-dente, etc. Di tal maniera è ogni azione su corpi organicicome tali: da stimoli dunque, non da semplici cause,procedono tutte le modificazioni veramente organiche evegetative nel corpo animale. Ma lo stimolo, come delresto ogni causa, e com'anche il motivo, non determinamai altro che il punto, in cui prende a manifestarsi cia-scuna forza nel tempo e nello spazio, non già l'intimaessenza della forza manifestantesi, che noi, secondo laprecedente deduzione, conosciamo per volontà; allaqual volontà riferiamo quindi tanto le consapevoli quan-to le inconsapevoli modificazioni del corpo. Lo stimolotiene la via di mezzo, fa da transizione tra il motivo, cheè la causalità penetrata dalla conoscenza, e la causa insenso stretto. Nei singoli casi lo stimolo s'accosta ora almotivo, ora alla causa, ma si può tuttavia distinguersempre da entrambi. Per esempio, il salire dei succhinelle piante avviene per stimolo e non si può spiegarcon pure cause, secondo le leggi dell'idraulica o dellacapillarità; tuttavia è da queste leggi aiutato, e sta giàmolto vicino alla pura modificazione causale. Invece, imovimenti dell'hedysarum gyrans e della mimosa pudi-ca, per quanto prodotti da semplici stimoli, sono giàmolto prossimi a quelli prodotti da motivi, e sembranoquasi esser passaggio dagli uni agli altri. Il restringersi

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sua azione, e la cui intensità non procede punto paralleladi grado con l'intensità dell'azione, la quale perciò nonpuò esser misurata su quella: anzi una piccola diminu-zione dello stimolo può produrne una grandissimanell'azione, o anche distruggere del tutto l'azione prece-dente, etc. Di tal maniera è ogni azione su corpi organicicome tali: da stimoli dunque, non da semplici cause,procedono tutte le modificazioni veramente organiche evegetative nel corpo animale. Ma lo stimolo, come delresto ogni causa, e com'anche il motivo, non determinamai altro che il punto, in cui prende a manifestarsi cia-scuna forza nel tempo e nello spazio, non già l'intimaessenza della forza manifestantesi, che noi, secondo laprecedente deduzione, conosciamo per volontà; allaqual volontà riferiamo quindi tanto le consapevoli quan-to le inconsapevoli modificazioni del corpo. Lo stimolotiene la via di mezzo, fa da transizione tra il motivo, cheè la causalità penetrata dalla conoscenza, e la causa insenso stretto. Nei singoli casi lo stimolo s'accosta ora almotivo, ora alla causa, ma si può tuttavia distinguersempre da entrambi. Per esempio, il salire dei succhinelle piante avviene per stimolo e non si può spiegarcon pure cause, secondo le leggi dell'idraulica o dellacapillarità; tuttavia è da queste leggi aiutato, e sta giàmolto vicino alla pura modificazione causale. Invece, imovimenti dell'hedysarum gyrans e della mimosa pudi-ca, per quanto prodotti da semplici stimoli, sono giàmolto prossimi a quelli prodotti da motivi, e sembranoquasi esser passaggio dagli uni agli altri. Il restringersi

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delle pupille all'aumentar della luce accade in virtù distimolo, ma passa già fra i movimenti prodotti da moti-vi: esso accade perché la luce troppo forte impressione-rebbe dolorosamente la retina, e noi, per impedirlo, re-stringiamo la pupilla. La spinta all'erezione è un motivo,essendo una rappresentazione; tuttavia essa agisce conla necessità di uno stimolo, ossia non vi si può resistere,e bisogna allontanarla per renderla inefficace. Lo stessosi dica degli oggetti disgustosi, che eccitano tendenza alvomito. Come un vero intermediario, di tutt'altro genere,tra il movimento prodotto da stimolo e l'agire in forzad'un motivo conosciuto, abbiamo or ora consideratol'istinto degli animali. Quale altro intermediario dellostesso tipo si potrebbe ancora esser tentati di ritener larespirazione: essendosi discusso se appartenga ai movi-menti volontari o involontari, ossia precisamente se siproduca per motivo o per eccitazione; sì che la si po-trebbe forse porre nel mezzo fra questa e quello. Mar-shall Hall (On the diseases of the nervous system, § 293sg.) dichiara che è una funzione mista, stando sottol'influsso parte dei nervi cerebrali (volontari), parte deglispinali (involontari). Frattanto noi dobbiamo finir tutta-via per attribuirla alle manifestazioni della volontà pro-dotte da motivi: perché altri motivi, ossia semplici rap-presentazioni, possono determinar la volontà a rallentareo accelerare la respirazione; e questa, come ogni altraazione volontaria, dà l'impressione che la si possa deltutto interrompere, e volontariamente morire asfissiati.E questo si potrebbe veramente fare, qualora un altro

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delle pupille all'aumentar della luce accade in virtù distimolo, ma passa già fra i movimenti prodotti da moti-vi: esso accade perché la luce troppo forte impressione-rebbe dolorosamente la retina, e noi, per impedirlo, re-stringiamo la pupilla. La spinta all'erezione è un motivo,essendo una rappresentazione; tuttavia essa agisce conla necessità di uno stimolo, ossia non vi si può resistere,e bisogna allontanarla per renderla inefficace. Lo stessosi dica degli oggetti disgustosi, che eccitano tendenza alvomito. Come un vero intermediario, di tutt'altro genere,tra il movimento prodotto da stimolo e l'agire in forzad'un motivo conosciuto, abbiamo or ora consideratol'istinto degli animali. Quale altro intermediario dellostesso tipo si potrebbe ancora esser tentati di ritener larespirazione: essendosi discusso se appartenga ai movi-menti volontari o involontari, ossia precisamente se siproduca per motivo o per eccitazione; sì che la si po-trebbe forse porre nel mezzo fra questa e quello. Mar-shall Hall (On the diseases of the nervous system, § 293sg.) dichiara che è una funzione mista, stando sottol'influsso parte dei nervi cerebrali (volontari), parte deglispinali (involontari). Frattanto noi dobbiamo finir tutta-via per attribuirla alle manifestazioni della volontà pro-dotte da motivi: perché altri motivi, ossia semplici rap-presentazioni, possono determinar la volontà a rallentareo accelerare la respirazione; e questa, come ogni altraazione volontaria, dà l'impressione che la si possa deltutto interrompere, e volontariamente morire asfissiati.E questo si potrebbe veramente fare, qualora un altro

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motivo qualsiasi determinasse con tanta forza la volon-tà, da vincere l'imperioso bisogno dell'aria. Secondo al-cuni, avrebbe Diogene effettivamente posto in tal guisatermine alla propria vita (Diog. Laert., VI, 76). Anche ta-luni negri pare l'abbiano fatto (F. B. Osiander, Sul suici-dio [1813], pp. 170-80). Avremmo in ciò un forte esem-pio dell'influsso di motivi astratti, ossia della prevalenzadel volere propriamente razionale, sul semplice volereanimale. In favore della dipendenza, almeno in parte,della respirazione dall'attività cerebrale sta il fatto, chel'acido prussico uccide paralizzando il cervello, e cosìfermando indirettamente la respirazione; ma se questavien prolungata artificialmente, finché sia passato quellostordimento del cervello, la morte viene evitata. In paritempo la respirazione ci fornisce qui incidentalmente ilpiù bell'esempio del fatto che i motivi agiscono con al-trettanto grande necessità, quanto gli stimoli e le sempli-ci cause in senso ristretto; e appunto sol da opposti mo-tivi – come pressione da contropressione – possono es-ser privati della loro forza. Imperocché nella respirazio-ne, la possibilità apparente di poterla interrompere èsenza confronto minore che in altri movimenti prodottida motivi; essendo il motivo di quella imperioso, pre-sente, di facilissima soddisfazione, a causa dell'infatica-bilità dei muscoli respiratorii; nulla in generale oppo-nendovisi, ed essendo il tutto favorito dalla inveterataabitudine dell'individuo. Eppure tutti i motivi agisconocon la stessa necessità. Il conoscer che la necessità è co-mune tanto ai movimenti prodotti da motivi, quanto a

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motivo qualsiasi determinasse con tanta forza la volon-tà, da vincere l'imperioso bisogno dell'aria. Secondo al-cuni, avrebbe Diogene effettivamente posto in tal guisatermine alla propria vita (Diog. Laert., VI, 76). Anche ta-luni negri pare l'abbiano fatto (F. B. Osiander, Sul suici-dio [1813], pp. 170-80). Avremmo in ciò un forte esem-pio dell'influsso di motivi astratti, ossia della prevalenzadel volere propriamente razionale, sul semplice volereanimale. In favore della dipendenza, almeno in parte,della respirazione dall'attività cerebrale sta il fatto, chel'acido prussico uccide paralizzando il cervello, e cosìfermando indirettamente la respirazione; ma se questavien prolungata artificialmente, finché sia passato quellostordimento del cervello, la morte viene evitata. In paritempo la respirazione ci fornisce qui incidentalmente ilpiù bell'esempio del fatto che i motivi agiscono con al-trettanto grande necessità, quanto gli stimoli e le sempli-ci cause in senso ristretto; e appunto sol da opposti mo-tivi – come pressione da contropressione – possono es-ser privati della loro forza. Imperocché nella respirazio-ne, la possibilità apparente di poterla interrompere èsenza confronto minore che in altri movimenti prodottida motivi; essendo il motivo di quella imperioso, pre-sente, di facilissima soddisfazione, a causa dell'infatica-bilità dei muscoli respiratorii; nulla in generale oppo-nendovisi, ed essendo il tutto favorito dalla inveterataabitudine dell'individuo. Eppure tutti i motivi agisconocon la stessa necessità. Il conoscer che la necessità è co-mune tanto ai movimenti prodotti da motivi, quanto a

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quelli prodotti da stimoli, ci renderà più facile compren-dere, che anche quanto avviene nel corpo organico pereffetto di stimoli ed in modo affatto regolare è tuttavia,nella sua intima essenza, volontà. La quale, non già insé, ma in tutti i suoi fenomeni è sottomessa al principiodi ragione, ossia alla necessità37. Non ci fermeremoquindi a riconoscer che gli animali, come nel loro agire,così in tutto quanto il loro essere, nella forma del corpo,nell'organizzazione, sono fenomeni di volontà; ma que-sta conoscenza immediata, a noi soli concessa,dell'essenza in sé delle cose, noi trasporteremo anchealle piante, i cui movimenti avvengono tutti per effettodi stimoli: poiché la privazione di conoscenza, e delconseguente muoversi per impulso di motivi, costituisceil solo divario essenziale fra la pianta e l'animale. Ciòche alla nostra rappresentazione della pianta appariscepura vegetazione, cieca forza, noi lo apprezzeremo nellasua essenza per volontà; e vi riconosceremo quella me-desima forza, che costituisce la base del nostro propriofenomeno, quale essa si palesa nella nostra attività, eprimieramente in tutta l'esistenza del nostro corpo.Un ultimo passo ci rimane da fare: l'estensione del no-stro sistema anche a quelle forze, che agiscono nella na-tura secondo leggi generali ed immutabili, conforme-mente alle quali si producono i movimenti di tutti quei

37 Questa conoscenza è fissata appieno nella mia memoria scritta per con-corso sopra la libertà del volere; dove (pp. 30-44 dei Problemi fondamen-tali dell'Etica) ha avuto anche piena dilucidazione il rapporto fra causa,stimolo e motivo.

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quelli prodotti da stimoli, ci renderà più facile compren-dere, che anche quanto avviene nel corpo organico pereffetto di stimoli ed in modo affatto regolare è tuttavia,nella sua intima essenza, volontà. La quale, non già insé, ma in tutti i suoi fenomeni è sottomessa al principiodi ragione, ossia alla necessità37. Non ci fermeremoquindi a riconoscer che gli animali, come nel loro agire,così in tutto quanto il loro essere, nella forma del corpo,nell'organizzazione, sono fenomeni di volontà; ma que-sta conoscenza immediata, a noi soli concessa,dell'essenza in sé delle cose, noi trasporteremo anchealle piante, i cui movimenti avvengono tutti per effettodi stimoli: poiché la privazione di conoscenza, e delconseguente muoversi per impulso di motivi, costituisceil solo divario essenziale fra la pianta e l'animale. Ciòche alla nostra rappresentazione della pianta appariscepura vegetazione, cieca forza, noi lo apprezzeremo nellasua essenza per volontà; e vi riconosceremo quella me-desima forza, che costituisce la base del nostro propriofenomeno, quale essa si palesa nella nostra attività, eprimieramente in tutta l'esistenza del nostro corpo.Un ultimo passo ci rimane da fare: l'estensione del no-stro sistema anche a quelle forze, che agiscono nella na-tura secondo leggi generali ed immutabili, conforme-mente alle quali si producono i movimenti di tutti quei

37 Questa conoscenza è fissata appieno nella mia memoria scritta per con-corso sopra la libertà del volere; dove (pp. 30-44 dei Problemi fondamen-tali dell'Etica) ha avuto anche piena dilucidazione il rapporto fra causa,stimolo e motivo.

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corpi che, affatto privi di organi, non sono sensibili allostimolo e non possono conoscere motivi. La chiave perl'intendimento delle cose nella loro sostanza in sé –chiave che sola poteva darci l'immediata cognizione del-la nostra propria essenza – dobbiamo ora applicarla an-che a questi fenomeni del mondo inorganico, che sono ipiù remoti da noi stessi. Ora, se noi li osserviamo conocchio indagatore; se vediamo il veemente, incessanteimpeto, con cui le acque precipitano verso il profondo;la costanza, con cui il magnete torna sempre a volgersial polo; lo slancio, con cui il ferro corre alla calamita; lavivacità, con cui i poli elettrici tendono a congiungersi,vivacità che viene aumentata dagli ostacoli, propriocome accade ai desideri umani; se vediamo il cristalloformarsi quasi istantaneamente, con tanta regolarità diconformazione, la quale evidentemente è solo una riso-luta e precisa tendenza verso differenti direzioni, irrigi-dita e fissata d'un tratto; se osserviamo la scelta, con cuii corpi sottratti ai vincoli della solidità, e fatti liberi dal-lo stato liquido, si cercano, si sfuggono, si congiungono,si separano; se infine sentiamo direttamente che unpeso, la cui tendenza verso terra sia trattenuta dal nostrocorpo, grava e preme incessantemente su di questo, se-guendo la propria unica tendenza; – non ci costerà ungrande sforzo di fantasia il riconoscere, anche a sì grandistanza, la nostra medesima essenza: quella stessa, chein noi opera secondo i suoi fini alla luce della conoscen-za, mentre qui, nei più deboli de' suoi fenomeni, operain modo cieco, sordo, unilaterale ed invariabile. Ella è

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corpi che, affatto privi di organi, non sono sensibili allostimolo e non possono conoscere motivi. La chiave perl'intendimento delle cose nella loro sostanza in sé –chiave che sola poteva darci l'immediata cognizione del-la nostra propria essenza – dobbiamo ora applicarla an-che a questi fenomeni del mondo inorganico, che sono ipiù remoti da noi stessi. Ora, se noi li osserviamo conocchio indagatore; se vediamo il veemente, incessanteimpeto, con cui le acque precipitano verso il profondo;la costanza, con cui il magnete torna sempre a volgersial polo; lo slancio, con cui il ferro corre alla calamita; lavivacità, con cui i poli elettrici tendono a congiungersi,vivacità che viene aumentata dagli ostacoli, propriocome accade ai desideri umani; se vediamo il cristalloformarsi quasi istantaneamente, con tanta regolarità diconformazione, la quale evidentemente è solo una riso-luta e precisa tendenza verso differenti direzioni, irrigi-dita e fissata d'un tratto; se osserviamo la scelta, con cuii corpi sottratti ai vincoli della solidità, e fatti liberi dal-lo stato liquido, si cercano, si sfuggono, si congiungono,si separano; se infine sentiamo direttamente che unpeso, la cui tendenza verso terra sia trattenuta dal nostrocorpo, grava e preme incessantemente su di questo, se-guendo la propria unica tendenza; – non ci costerà ungrande sforzo di fantasia il riconoscere, anche a sì grandistanza, la nostra medesima essenza: quella stessa, chein noi opera secondo i suoi fini alla luce della conoscen-za, mentre qui, nei più deboli de' suoi fenomeni, operain modo cieco, sordo, unilaterale ed invariabile. Ella è

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sempre una e sempre la stessa in così diverse manifesta-zioni, e perciò – come il primo crepuscolo partecipa coiraggi del pieno meriggio del nome di luce solare – inqueste ed in quelle deve prendere il nome di volontà: ilquale contrassegna ciò che è essenza di ciascuna cosanel mondo, ed unica sostanza di ogni fenomeno.Tuttavia la distanza, o addirittura l'apparenza di un com-pleto divario tra i fenomeni della natura inorganica, e lavolontà, che noi percepiamo come l'intimo della nostrapropria essenza, viene principalmente dal contrasto frala regolarità ben determinata dell'una e l'apparente arbi-trio sregolato dell'altra classe di fenomeni. Nell'uomol'individualità si afferma poderosamente: ciascuno ha ilsuo proprio carattere. Quindi lo stesso motivo non ha sututti lo stesso potere, e mille circostanze accessorie, chehanno posto nell'ampia sfera di conoscenza d'ogni indi-viduo, ma rimangono ignote agli altri, modificano la suaazione per modo che dal solo motivo non si può deter-minare in precedenza l'azione; poiché manca l'altro fat-tore, la precisa cognizione del carattere individuale edella conoscenza che lo accompagna. Invece mostranoqui i fenomeni delle forze naturali l'altro estremo: questeoperano secondo leggi generali, senza deviazione, senzaindividualità, in base a circostanze palesi sottomessealla più esatta predeterminazione; e la stessa forza natu-rale si manifesta identicamente in milioni dei suoi feno-meni. Per chiarire questo punto, per mostrare l'identicanatura dell'una e indivisibile volontà in tutti i suoi feno-

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sempre una e sempre la stessa in così diverse manifesta-zioni, e perciò – come il primo crepuscolo partecipa coiraggi del pieno meriggio del nome di luce solare – inqueste ed in quelle deve prendere il nome di volontà: ilquale contrassegna ciò che è essenza di ciascuna cosanel mondo, ed unica sostanza di ogni fenomeno.Tuttavia la distanza, o addirittura l'apparenza di un com-pleto divario tra i fenomeni della natura inorganica, e lavolontà, che noi percepiamo come l'intimo della nostrapropria essenza, viene principalmente dal contrasto frala regolarità ben determinata dell'una e l'apparente arbi-trio sregolato dell'altra classe di fenomeni. Nell'uomol'individualità si afferma poderosamente: ciascuno ha ilsuo proprio carattere. Quindi lo stesso motivo non ha sututti lo stesso potere, e mille circostanze accessorie, chehanno posto nell'ampia sfera di conoscenza d'ogni indi-viduo, ma rimangono ignote agli altri, modificano la suaazione per modo che dal solo motivo non si può deter-minare in precedenza l'azione; poiché manca l'altro fat-tore, la precisa cognizione del carattere individuale edella conoscenza che lo accompagna. Invece mostranoqui i fenomeni delle forze naturali l'altro estremo: questeoperano secondo leggi generali, senza deviazione, senzaindividualità, in base a circostanze palesi sottomessealla più esatta predeterminazione; e la stessa forza natu-rale si manifesta identicamente in milioni dei suoi feno-meni. Per chiarire questo punto, per mostrare l'identicanatura dell'una e indivisibile volontà in tutti i suoi feno-

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meni tanto diversi – nei più deboli come nei più forti –dobbiamo in primo luogo considerare il rapporto, che lavolontà come cosa in sé ha col proprio fenomeno, ossiail rapporto, che il mondo come volontà ha col mondocome rappresentazione. Ci si aprirà così la miglior viaverso un'indagine profonda di tutta la materia trattata inquesto secondo libro38.

§ 24.Dal grande Kant abbiamo imparato, che tempo, spazio ecausalità, in tutta la loro legittimità e nella possibilità ditutte le loro forme, esistono nella nostra conscienza af-fatto indipendenti dagli oggetti, che in essi apparisconoe ne costituiscono il contenuto. Ossia, con altre parole,essi possono venir conosciuti sia che si parta dal sogget-to o dall'oggetto: e' si posson quindi denominare, conegual diritto, modi d'intuizione del soggetto, o anchequalità dell'oggetto, in quanto è oggetto (per Kant: feno-meno), ossia rappresentazione. Quelle forme si possonoanche considerare come l'indivisibile confine tra oggettoe soggetto: perciò è bensì vero che ogni oggetto devemostrarsi in quelle, ma anche il soggetto – indipendentedall'oggetto rappresentato – le possiede e le domina ap-pieno. Ora, se gli oggetti rappresentati in codeste formenon fossero vuoti fantasmi, ma avessero un significato,38 Si vegga il cap. 23 del secondo volume [pp. 302-14 del tomo I dell'ed.

cit.]; inoltre, nel mio scritto Sulla volontà nella natura, il capitolo Fisiolo-gia delle piante, e l'altro capitolo, essenzialissimo per la sostanza della miametafisica Astronomia fisica.

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meni tanto diversi – nei più deboli come nei più forti –dobbiamo in primo luogo considerare il rapporto, che lavolontà come cosa in sé ha col proprio fenomeno, ossiail rapporto, che il mondo come volontà ha col mondocome rappresentazione. Ci si aprirà così la miglior viaverso un'indagine profonda di tutta la materia trattata inquesto secondo libro38.

§ 24.Dal grande Kant abbiamo imparato, che tempo, spazio ecausalità, in tutta la loro legittimità e nella possibilità ditutte le loro forme, esistono nella nostra conscienza af-fatto indipendenti dagli oggetti, che in essi apparisconoe ne costituiscono il contenuto. Ossia, con altre parole,essi possono venir conosciuti sia che si parta dal sogget-to o dall'oggetto: e' si posson quindi denominare, conegual diritto, modi d'intuizione del soggetto, o anchequalità dell'oggetto, in quanto è oggetto (per Kant: feno-meno), ossia rappresentazione. Quelle forme si possonoanche considerare come l'indivisibile confine tra oggettoe soggetto: perciò è bensì vero che ogni oggetto devemostrarsi in quelle, ma anche il soggetto – indipendentedall'oggetto rappresentato – le possiede e le domina ap-pieno. Ora, se gli oggetti rappresentati in codeste formenon fossero vuoti fantasmi, ma avessero un significato,38 Si vegga il cap. 23 del secondo volume [pp. 302-14 del tomo I dell'ed.

cit.]; inoltre, nel mio scritto Sulla volontà nella natura, il capitolo Fisiolo-gia delle piante, e l'altro capitolo, essenzialissimo per la sostanza della miametafisica Astronomia fisica.

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dovrebbero riferirsi a qualcosa, essere espressione diqualcosa, che alla sua volta non fosse egualmente ogget-to, rappresentazione, esistente di un'esistenza solo relati-va al soggetto: di qualcosa, che esistesse senza dipenderda un elemento che le sta di fronte come condizione es-senziale, e dalle forme di questo – ossia non fosse piùrappresentazione, ma cosa in sé. Quindi si potrebbe al-meno domandare: sono quelle rappresentazioni, queglioggetti, qualche altra cosa di più, prescindendodall'essere rappresentazioni, oggetti del soggetto? E checosa sarebbero in questo senso? Che cos'è quell'altroloro aspetto, toto genere diverso dalla rappresentazione?Che è mai la cosa in sé? La volontà: è stata la nostra ri-sposta, che tuttavia per ora metto in disparte.Checché sia la cosa in sé, Kant ha giustamente stabilitoche tempo, spazio e causalità (riconosciuti in seguito danoi come varietà del principio di ragione, il quale fu allasua volta riconosciuto come espressione generale delleforme del fenomeno) non sono sue determinazioni, male vengono attribuiti solo e in quanto la cosa in sé è di-venuta rappresentazione; ossia appartengono solo al suofenomeno, e non a lei medesima. Invero, poiché il sog-getto li conosce e costruisce da sé, indipendenti da ognioggetto, debbono quelli essere inerenti all'atto di rappre-sentare in quanto è tale, e non a ciò che diventa rappre-sentazione. Debbono esser la forma della rappresenta-zione come tale, e non proprietà di ciò che ha assuntoquesta forma. Debbono già esser dati con la semplice

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dovrebbero riferirsi a qualcosa, essere espressione diqualcosa, che alla sua volta non fosse egualmente ogget-to, rappresentazione, esistente di un'esistenza solo relati-va al soggetto: di qualcosa, che esistesse senza dipenderda un elemento che le sta di fronte come condizione es-senziale, e dalle forme di questo – ossia non fosse piùrappresentazione, ma cosa in sé. Quindi si potrebbe al-meno domandare: sono quelle rappresentazioni, queglioggetti, qualche altra cosa di più, prescindendodall'essere rappresentazioni, oggetti del soggetto? E checosa sarebbero in questo senso? Che cos'è quell'altroloro aspetto, toto genere diverso dalla rappresentazione?Che è mai la cosa in sé? La volontà: è stata la nostra ri-sposta, che tuttavia per ora metto in disparte.Checché sia la cosa in sé, Kant ha giustamente stabilitoche tempo, spazio e causalità (riconosciuti in seguito danoi come varietà del principio di ragione, il quale fu allasua volta riconosciuto come espressione generale delleforme del fenomeno) non sono sue determinazioni, male vengono attribuiti solo e in quanto la cosa in sé è di-venuta rappresentazione; ossia appartengono solo al suofenomeno, e non a lei medesima. Invero, poiché il sog-getto li conosce e costruisce da sé, indipendenti da ognioggetto, debbono quelli essere inerenti all'atto di rappre-sentare in quanto è tale, e non a ciò che diventa rappre-sentazione. Debbono esser la forma della rappresenta-zione come tale, e non proprietà di ciò che ha assuntoquesta forma. Debbono già esser dati con la semplice

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contrapposizione di soggetto ed oggetto (non nel con-cetto, bensì nel fatto); debbono quindi esser soltanto laprecisa determinazione della forma della conoscenza ingenere; della quale codesta contrapposizione è appuntola determinazione più generale. Ora, ciò che nel feno-meno, nell'oggetto, è sotto condizione del tempo, dellospazio e della causalità, in quanto sol per loro mezzopuò venir rappresentato – ossia pluralità, per mezzo digiustapposizione e successione; mutamento e durata, permezzo della legge di causalità e della materia, la quale èrappresentabile unicamente sotto condizione della cau-salità; e infine quant'altro non si può rappresentare senzacotali forme – tutto ciò, in complesso, non è proprio es-senzialmente di quello che apparisce, che è passato nellaforma della rappresentazione: bensì è inerente solo aquesta forma medesima. Viceversa, ciò che nel fenome-no non è sotto condizione di tempo, spazio e causalità,né si può a questi ricondurre, né con questi spiegare,sarà appunto l'elemento, nel quale si manifesta diretta-mente l'essenza del fenomeno, la cosa in sé. Per conse-guenza la più perfetta conoscibilità, ossia la massimachiarezza, limpidità ed esauriente perscrutabilità debbo-no necessariamente toccare a ciò che è proprio della co-noscenza in quanto tale, ossia alla forma della cono-scenza: e non a ciò che, in sé non essendo rappresenta-zione, non oggetto, è diventato conoscibile (cioè è di-ventato rappresentazione, oggetto) soltanto col passarein tali forme. Adunque solo quel che dipende dal fattocome tale d'esser conosciuto, d'esser rappresentato (non

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contrapposizione di soggetto ed oggetto (non nel con-cetto, bensì nel fatto); debbono quindi esser soltanto laprecisa determinazione della forma della conoscenza ingenere; della quale codesta contrapposizione è appuntola determinazione più generale. Ora, ciò che nel feno-meno, nell'oggetto, è sotto condizione del tempo, dellospazio e della causalità, in quanto sol per loro mezzopuò venir rappresentato – ossia pluralità, per mezzo digiustapposizione e successione; mutamento e durata, permezzo della legge di causalità e della materia, la quale èrappresentabile unicamente sotto condizione della cau-salità; e infine quant'altro non si può rappresentare senzacotali forme – tutto ciò, in complesso, non è proprio es-senzialmente di quello che apparisce, che è passato nellaforma della rappresentazione: bensì è inerente solo aquesta forma medesima. Viceversa, ciò che nel fenome-no non è sotto condizione di tempo, spazio e causalità,né si può a questi ricondurre, né con questi spiegare,sarà appunto l'elemento, nel quale si manifesta diretta-mente l'essenza del fenomeno, la cosa in sé. Per conse-guenza la più perfetta conoscibilità, ossia la massimachiarezza, limpidità ed esauriente perscrutabilità debbo-no necessariamente toccare a ciò che è proprio della co-noscenza in quanto tale, ossia alla forma della cono-scenza: e non a ciò che, in sé non essendo rappresenta-zione, non oggetto, è diventato conoscibile (cioè è di-ventato rappresentazione, oggetto) soltanto col passarein tali forme. Adunque solo quel che dipende dal fattocome tale d'esser conosciuto, d'esser rappresentato (non

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da ciò che viene conosciuto ed è diventato rappresenta-zione); quel che quindi s'appartiene senza distinzione aquanto vien conosciuto; quel che per conseguenza puòesser trovato sia muovendo dal soggetto sia dall'oggetto– quello solo può dar senza riserva una sufficiente e finoal fondo esauriente conoscenza. E non consiste in altroche nelle forme d'ogni fenomeno, delle quali siamo con-sci a priori, che si esprimono collettivamente nel princi-pio di ragione: le varietà del quale, riferentisi alla cono-scenza intuitiva (con la quale esclusivamente abbiamoqui da fare), sono tempo, spazio e causalità. Su questiultimi soltanto poggia l'intera matematica pura e la purascienza naturale a priori. Perciò la conoscenza non tro-va in queste discipline alcuna oscurità, non va a urtarecontro l'imperscrutabile (l'infondato, ossia la volontà),contro ciò che non può esser più dedotto: e sotto questorispetto anche Kant, come ho detto, voleva dare di pre-ferenza, anzi esclusivamente a cotali discipline, oltreche alla logica, il nome di scienze. Ma d'altra parte, sif-fatte discipline non ci mostrano altro che semplici rap-porti, relazioni d'una rappresentazione con l'altra, formasenza contenuto. Ciascun contenuto ch'esse ricevano,ciascun fenomeno che riempia quelle forme, comprendegià qualcosa di non più conoscibile appieno in tutta lasua essenza, non più spiegabile in tutto medianteun'altra cosa: ossia alcunché privo di base, per cui la co-noscenza immantinenti perde in evidenza, e si vedemancar la sua perfetta trasparenza. E questo elemento,che si sottrae all'indagine, è la cosa in sé; è ciò che es-

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da ciò che viene conosciuto ed è diventato rappresenta-zione); quel che quindi s'appartiene senza distinzione aquanto vien conosciuto; quel che per conseguenza puòesser trovato sia muovendo dal soggetto sia dall'oggetto– quello solo può dar senza riserva una sufficiente e finoal fondo esauriente conoscenza. E non consiste in altroche nelle forme d'ogni fenomeno, delle quali siamo con-sci a priori, che si esprimono collettivamente nel princi-pio di ragione: le varietà del quale, riferentisi alla cono-scenza intuitiva (con la quale esclusivamente abbiamoqui da fare), sono tempo, spazio e causalità. Su questiultimi soltanto poggia l'intera matematica pura e la purascienza naturale a priori. Perciò la conoscenza non tro-va in queste discipline alcuna oscurità, non va a urtarecontro l'imperscrutabile (l'infondato, ossia la volontà),contro ciò che non può esser più dedotto: e sotto questorispetto anche Kant, come ho detto, voleva dare di pre-ferenza, anzi esclusivamente a cotali discipline, oltreche alla logica, il nome di scienze. Ma d'altra parte, sif-fatte discipline non ci mostrano altro che semplici rap-porti, relazioni d'una rappresentazione con l'altra, formasenza contenuto. Ciascun contenuto ch'esse ricevano,ciascun fenomeno che riempia quelle forme, comprendegià qualcosa di non più conoscibile appieno in tutta lasua essenza, non più spiegabile in tutto medianteun'altra cosa: ossia alcunché privo di base, per cui la co-noscenza immantinenti perde in evidenza, e si vedemancar la sua perfetta trasparenza. E questo elemento,che si sottrae all'indagine, è la cosa in sé; è ciò che es-

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senzialmente non è rappresentazione, non oggetto di co-noscenza, ma che è diventato conoscibile solo passandoin quelle forme. La forma è ad esso dapprima estranea,né esso può mai diventar tutt'uno con lei, non alla sem-plice forma venir ricondotto; e – poiché la forma è ilprincipio di ragione – non può dar piena ragione di sé.Quindi, se anche tutta la matematica ci dà compiuta co-noscenza di ciò, che nei fenomeni è grandezza, posizio-ne, numero – in breve, ogni relazione spaziale e tempo-rale –; se tutta l'etiologia ci indica per intero le regolaricondizioni, in cui si producono i fenomeni, con tutte leloro determinazioni, nel tempo e nello spazio (senza in-segnarci altro con ciò, se non perché ogni volta ciascundeterminato fenomeno debba mostrarsi appunto in uncerto momento in un certo spazio, ed appunto in un cer-to spazio in un certo momento): col loro aiuto tuttavianon penetreremo mai nell'intima essenza delle cose. Ri-mane sempre alcunché d'inaccessibile ad ogni spiega-zione, che anzi ogni spiegazione deve presupporre: ossiale forze della natura, il determinato modo d'agire dellecose, la qualità, il carattere di ciascun fenomeno, ciò chenon ha perché, ciò che non dipende dalla forma del fe-nomeno, dal principio di ragione; ciò a cui questa formain sé è estranea, ma che è entrato in lei e si manifesta se-condo la sua legge. La quale legge determina nondime-no soltanto il fenomeno, e non l'essenza del fenomeno;la forma, e non il contenuto. Meccanica, fisica, chimicainsegnano le regole e le leggi, secondo le quali agisconole forze dell'impenetrabilità, gravità, solidità, fluidità,

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senzialmente non è rappresentazione, non oggetto di co-noscenza, ma che è diventato conoscibile solo passandoin quelle forme. La forma è ad esso dapprima estranea,né esso può mai diventar tutt'uno con lei, non alla sem-plice forma venir ricondotto; e – poiché la forma è ilprincipio di ragione – non può dar piena ragione di sé.Quindi, se anche tutta la matematica ci dà compiuta co-noscenza di ciò, che nei fenomeni è grandezza, posizio-ne, numero – in breve, ogni relazione spaziale e tempo-rale –; se tutta l'etiologia ci indica per intero le regolaricondizioni, in cui si producono i fenomeni, con tutte leloro determinazioni, nel tempo e nello spazio (senza in-segnarci altro con ciò, se non perché ogni volta ciascundeterminato fenomeno debba mostrarsi appunto in uncerto momento in un certo spazio, ed appunto in un cer-to spazio in un certo momento): col loro aiuto tuttavianon penetreremo mai nell'intima essenza delle cose. Ri-mane sempre alcunché d'inaccessibile ad ogni spiega-zione, che anzi ogni spiegazione deve presupporre: ossiale forze della natura, il determinato modo d'agire dellecose, la qualità, il carattere di ciascun fenomeno, ciò chenon ha perché, ciò che non dipende dalla forma del fe-nomeno, dal principio di ragione; ciò a cui questa formain sé è estranea, ma che è entrato in lei e si manifesta se-condo la sua legge. La quale legge determina nondime-no soltanto il fenomeno, e non l'essenza del fenomeno;la forma, e non il contenuto. Meccanica, fisica, chimicainsegnano le regole e le leggi, secondo le quali agisconole forze dell'impenetrabilità, gravità, solidità, fluidità,

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coesione, elasticità, calore, luce, affinità elettive, ma-gnetismo, elettricità etc.: ossia quella legge, quella rego-la che codeste forze seguono, ogni qual volta si manife-stano nel tempo e nello spazio. Ma le forze in se stesserimangono, per quanto si faccia, qualitates occultae. Im-perocché la cosa in sé, la quale nel manifestarsi presentaquei fenomeni, è per l'appunto da essi affatto diversa: intutto soggetta bensì, nel suo manifestarsi, al principio diragione come alla forma della rappresentazione, ma taleda non potervi esser ricondotta ella medesima, e quindietiologicamente inesplicabile a fondo, né mai suscettibi-le d'essere spiegata appieno; comprensibilissima tuttaviain quanto è fenomeno, ossia in quanto ha assunto quellaforma, ma per nulla spiegata da codesta comprensibilità.Per conseguenza, quanta più necessità trae seco una co-noscenza, quanto più è in lei di ciò che non può esserpensato e rappresentato altrimenti – come per esempiole relazioni spaziali –, quanto più chiara e soddisfacenteella diviene: tanto meno contenuto oggettivo compren-de, o tanto minore realtà è in lei data. O viceversa, quan-to più in lei può essere giudicato del tutto contingente,quanto più ci viene offerto di puro dato empirico, tantopiù di vero elemento oggettivo ed effettivamente reale èin codesta conoscenza: ma in pari tempo, tanto piùd'inesplicabile, ossia non deducibile da altro.In tutti i tempi, invero, un'etiologia ignara del propriofine si è sforzata di far risalire ogni vita organica a chi-mismo, o elettricità; ogni chimismo, ossia qualità, a

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coesione, elasticità, calore, luce, affinità elettive, ma-gnetismo, elettricità etc.: ossia quella legge, quella rego-la che codeste forze seguono, ogni qual volta si manife-stano nel tempo e nello spazio. Ma le forze in se stesserimangono, per quanto si faccia, qualitates occultae. Im-perocché la cosa in sé, la quale nel manifestarsi presentaquei fenomeni, è per l'appunto da essi affatto diversa: intutto soggetta bensì, nel suo manifestarsi, al principio diragione come alla forma della rappresentazione, ma taleda non potervi esser ricondotta ella medesima, e quindietiologicamente inesplicabile a fondo, né mai suscettibi-le d'essere spiegata appieno; comprensibilissima tuttaviain quanto è fenomeno, ossia in quanto ha assunto quellaforma, ma per nulla spiegata da codesta comprensibilità.Per conseguenza, quanta più necessità trae seco una co-noscenza, quanto più è in lei di ciò che non può esserpensato e rappresentato altrimenti – come per esempiole relazioni spaziali –, quanto più chiara e soddisfacenteella diviene: tanto meno contenuto oggettivo compren-de, o tanto minore realtà è in lei data. O viceversa, quan-to più in lei può essere giudicato del tutto contingente,quanto più ci viene offerto di puro dato empirico, tantopiù di vero elemento oggettivo ed effettivamente reale èin codesta conoscenza: ma in pari tempo, tanto piùd'inesplicabile, ossia non deducibile da altro.In tutti i tempi, invero, un'etiologia ignara del propriofine si è sforzata di far risalire ogni vita organica a chi-mismo, o elettricità; ogni chimismo, ossia qualità, a

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meccanismo (azione mediante la forma degli atomi); equest'ultimo, in parte all'oggetto della foronomia (ossiaal tempo e allo spazio congiunti per la possibilità delmovimento), in parte alla geometria pura (ossia posizio-ne nello spazio); – press'a poco come, a buon diritto, sicostruisce in geometria pura il decrescere di un'azione inragione del quadrato della distanza, e la teoria dellaleva. La geometria finalmente si risolve nell'aritmetica;la quale, a causa dell'unità di dimensione, è la forma delprincipio di ragione più facile a comprendere, a domina-re. Prove del metodo qui indicato in generale sono: gliatomi di Democrito, il vortice di Cartesio, la fisica mec-canica di Lesage, che sulla fine del secolo scorso tentòdi spiegare meccanicamente, mediante l'urto e la pres-sione, tanto le affinità chimiche quanto la gravitazione,come si può più minutamente vedere nel Lucrèce Neu-tonien. A quella mira tende anche Reil con la dottrinadella forma e del miscuglio, come causa della vita ani-male: della stessa natura è anche il rozzo materialismoappunto ora, a mezzo il secolo XIX, nuovamente ravvi-vato, e per ignoranza reputantesi originale. Il materiali-smo, con una stupida negazione della forza vitale, vor-rebbe dapprima spiegare i fenomeni della vita con forzefisiche e chimiche, e queste alla lor volta far proveniredall'attività meccanica della materia, dalla situazione,dalla forma, e dal movimento di certi sognati atomi; ecosì tutte le forze della natura far risalire all'urto ed allaripercussione, che sarebbero la «cosa in sé» del materia-lismo. Per conseguenza, dovrebbe perfino la luce esser

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meccanismo (azione mediante la forma degli atomi); equest'ultimo, in parte all'oggetto della foronomia (ossiaal tempo e allo spazio congiunti per la possibilità delmovimento), in parte alla geometria pura (ossia posizio-ne nello spazio); – press'a poco come, a buon diritto, sicostruisce in geometria pura il decrescere di un'azione inragione del quadrato della distanza, e la teoria dellaleva. La geometria finalmente si risolve nell'aritmetica;la quale, a causa dell'unità di dimensione, è la forma delprincipio di ragione più facile a comprendere, a domina-re. Prove del metodo qui indicato in generale sono: gliatomi di Democrito, il vortice di Cartesio, la fisica mec-canica di Lesage, che sulla fine del secolo scorso tentòdi spiegare meccanicamente, mediante l'urto e la pres-sione, tanto le affinità chimiche quanto la gravitazione,come si può più minutamente vedere nel Lucrèce Neu-tonien. A quella mira tende anche Reil con la dottrinadella forma e del miscuglio, come causa della vita ani-male: della stessa natura è anche il rozzo materialismoappunto ora, a mezzo il secolo XIX, nuovamente ravvi-vato, e per ignoranza reputantesi originale. Il materiali-smo, con una stupida negazione della forza vitale, vor-rebbe dapprima spiegare i fenomeni della vita con forzefisiche e chimiche, e queste alla lor volta far proveniredall'attività meccanica della materia, dalla situazione,dalla forma, e dal movimento di certi sognati atomi; ecosì tutte le forze della natura far risalire all'urto ed allaripercussione, che sarebbero la «cosa in sé» del materia-lismo. Per conseguenza, dovrebbe perfino la luce esser

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la vibrazione meccanica, o addirittura l'ondulazione diun etere immaginario e postulato a tal fine: il quale, percosì dire, suona il tamburo sulla retina, dove per esem-pio 483 bilioni di colpi di tamburo al secondo danno ilcolor rosso, e 727 bilioni il violetto, e così via. I daltoni-ci sarebbero dunque coloro, che non possono contare icolpi di tamburo: non è vero? Cotali crasse, meccaniche,democritee, pesanti e veramente informi teorie sono de-gne di gente che, cinquant'anni dopo l'apparir della teo-ria goethiana dei colori, crede ancora alle luci omogeneedi Neuton e non si vergogna di dirlo. Costoro apprende-ranno, come ciò che si perdona al fanciullo (a Democri-to) non può essere scusato nell'uomo. Un giorno potreb-bero perfino finire molto male: ma ognuno allora se lasvigna, con l'aria di dire: io non c'ero! Dovremo prestoriparlar di questo falso ricondur le forze naturali l'unaall'altra: qui basti di ciò. Ammesso che le cose andasse-ro così, sarebbe invero tutto spiegato a fondo, anzi ri-condotto da ultimo ad un problema di calcolo, che ver-rebbe ad essere il Santissimo nel tempio della sapienza,cui arriveremmo guidati felicemente dal principio di ra-gione. Ma tutto il contenuto del fenomeno sarebbe sva-nito, rimanendo la semplice forma: il che cosa appare,sarebbe ridotto al come appare; e questo come sarebbe ilconoscibile a priori, quindi in tutto dipendente dal sog-getto, solo pel soggetto esistente; e per conseguenza, in-fine, un puro fantasma, rappresentazione e forma dellarappresentazione in tutto e per tutto: non si potrebbe piùandare in cerca di nessuna cosa in sé. Posto che così fos-

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la vibrazione meccanica, o addirittura l'ondulazione diun etere immaginario e postulato a tal fine: il quale, percosì dire, suona il tamburo sulla retina, dove per esem-pio 483 bilioni di colpi di tamburo al secondo danno ilcolor rosso, e 727 bilioni il violetto, e così via. I daltoni-ci sarebbero dunque coloro, che non possono contare icolpi di tamburo: non è vero? Cotali crasse, meccaniche,democritee, pesanti e veramente informi teorie sono de-gne di gente che, cinquant'anni dopo l'apparir della teo-ria goethiana dei colori, crede ancora alle luci omogeneedi Neuton e non si vergogna di dirlo. Costoro apprende-ranno, come ciò che si perdona al fanciullo (a Democri-to) non può essere scusato nell'uomo. Un giorno potreb-bero perfino finire molto male: ma ognuno allora se lasvigna, con l'aria di dire: io non c'ero! Dovremo prestoriparlar di questo falso ricondur le forze naturali l'unaall'altra: qui basti di ciò. Ammesso che le cose andasse-ro così, sarebbe invero tutto spiegato a fondo, anzi ri-condotto da ultimo ad un problema di calcolo, che ver-rebbe ad essere il Santissimo nel tempio della sapienza,cui arriveremmo guidati felicemente dal principio di ra-gione. Ma tutto il contenuto del fenomeno sarebbe sva-nito, rimanendo la semplice forma: il che cosa appare,sarebbe ridotto al come appare; e questo come sarebbe ilconoscibile a priori, quindi in tutto dipendente dal sog-getto, solo pel soggetto esistente; e per conseguenza, in-fine, un puro fantasma, rappresentazione e forma dellarappresentazione in tutto e per tutto: non si potrebbe piùandare in cerca di nessuna cosa in sé. Posto che così fos-

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se, allora veramente sarebbe il mondo intero dedotto dalsoggetto: e si farebbe effettivamente ciò che Fichte conle sue ciarle vuote voleva fingere di fare. Ma la cosa nonsta così: a quel modo si costruivano fantasie, sofistica-zioni, castelli in aria, ma non scienza. Si è riusciti – e fu,ogni volta, un vero progresso – a far risalire i molti esvariati fenomeni della natura a poche forze originarie;molte forze e qualità, prima ritenute diverse, sono statededotte le une dalle altre (per esempio, il magnetismodall'elettricità), diminuendone così il numero: l'etiologiaavrà toccato la meta, quando avrà conosciuto e fissatocome tali tutte le forze elementari della natura, e stabili-to i loro modi d'agire; ossia la regola, con cui si produ-cono nel tempo e nello spazio i loro fenomeni, seguendoil filo conduttore della causalità, determinandosi a vi-cenda il loro posto. Ma sempre avanzeranno forze pri-me; sempre avanzerà, come insolubile residuo, un con-tenuto dei fenomeni, che non si può ridurre alla loro for-ma, ossia spiegare con qualcos'altro secondo il principiodi ragione. Imperocché in ogni cosa della natura è al-cunché, la cui ragione non può mai essere indicata, dicui nessuna spiegazione è possibile, nessuna causa è dacercare più oltre: e ciò è il modo specifico della sua atti-vità, ossia appunto il modo del suo essere, la sua essen-za. Si può certamente d'ogni singola azione dell'oggettomostrare una causa, dalla quale deriva ch'esso debbaagire proprio in un dato momento, in un dato luogo: madel fatto ch'esso in genere agisca, e agisca così, nessuna.Se anche non ha nessun'altra proprietà, se è un atomo di

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se, allora veramente sarebbe il mondo intero dedotto dalsoggetto: e si farebbe effettivamente ciò che Fichte conle sue ciarle vuote voleva fingere di fare. Ma la cosa nonsta così: a quel modo si costruivano fantasie, sofistica-zioni, castelli in aria, ma non scienza. Si è riusciti – e fu,ogni volta, un vero progresso – a far risalire i molti esvariati fenomeni della natura a poche forze originarie;molte forze e qualità, prima ritenute diverse, sono statededotte le une dalle altre (per esempio, il magnetismodall'elettricità), diminuendone così il numero: l'etiologiaavrà toccato la meta, quando avrà conosciuto e fissatocome tali tutte le forze elementari della natura, e stabili-to i loro modi d'agire; ossia la regola, con cui si produ-cono nel tempo e nello spazio i loro fenomeni, seguendoil filo conduttore della causalità, determinandosi a vi-cenda il loro posto. Ma sempre avanzeranno forze pri-me; sempre avanzerà, come insolubile residuo, un con-tenuto dei fenomeni, che non si può ridurre alla loro for-ma, ossia spiegare con qualcos'altro secondo il principiodi ragione. Imperocché in ogni cosa della natura è al-cunché, la cui ragione non può mai essere indicata, dicui nessuna spiegazione è possibile, nessuna causa è dacercare più oltre: e ciò è il modo specifico della sua atti-vità, ossia appunto il modo del suo essere, la sua essen-za. Si può certamente d'ogni singola azione dell'oggettomostrare una causa, dalla quale deriva ch'esso debbaagire proprio in un dato momento, in un dato luogo: madel fatto ch'esso in genere agisca, e agisca così, nessuna.Se anche non ha nessun'altra proprietà, se è un atomo di

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polvere nel sole, mostra tuttavia nel peso e nell'impene-trabilità quel quid imperscrutabile. Ora questo, io dico, èad esso, quel che all'uomo è la volontà; e, come questa,non è nella sua intima essenza soggetto a spiegazione,anzi è in sé identico a lei. Certo, che per ogni manifesta-zione del volere, per ogni singolo atto di questo in uncerto tempo e luogo, si può indicare un motivo a cuiquell'atto, dato il carattere dell'uomo, doveva necessa-riamente seguire. Ma dell'aver l'uomo questo carattere,anzi della facoltà stessa di volere; e del fatto, che framolti motivi per l'appunto questo e nessun altro, o addi-rittura che un qualunque motivo muova la sua volontà:di tutto ciò non si può dar ragione alcuna. Quel ch'è perl'uomo il suo proprio imperscrutabile carattere, presup-posto indispensabile d'ogni spiegazione dei suoi atticondotti da motivi, è per ogni corpo organico la sua es-senziale qualità, il modo della sua attività. Le manifesta-zioni di codesta attività sono provocate da un'influenzaesterna; mentre il suo modo, ossia la qualità essenziale,non è da nulla determinato fuor che da se stesso, ed èquindi inesplicabile. I suoi singoli fenomeni – ne' qualisoltanto ella diviene visibile – sono sottomessi al princi-pio di ragione: ma ella non sottosta a ragione. Ciò ave-vano già gli scolastici esattamente riconosciuto, e chia-mato forma substantialis (si veda Suarez, Disp. meta-ph., disp. XV, sect. 1).È un errore tanto grosso quanto comune, il pensar chesiano i più frequenti, più generali e più semplici feno-

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polvere nel sole, mostra tuttavia nel peso e nell'impene-trabilità quel quid imperscrutabile. Ora questo, io dico, èad esso, quel che all'uomo è la volontà; e, come questa,non è nella sua intima essenza soggetto a spiegazione,anzi è in sé identico a lei. Certo, che per ogni manifesta-zione del volere, per ogni singolo atto di questo in uncerto tempo e luogo, si può indicare un motivo a cuiquell'atto, dato il carattere dell'uomo, doveva necessa-riamente seguire. Ma dell'aver l'uomo questo carattere,anzi della facoltà stessa di volere; e del fatto, che framolti motivi per l'appunto questo e nessun altro, o addi-rittura che un qualunque motivo muova la sua volontà:di tutto ciò non si può dar ragione alcuna. Quel ch'è perl'uomo il suo proprio imperscrutabile carattere, presup-posto indispensabile d'ogni spiegazione dei suoi atticondotti da motivi, è per ogni corpo organico la sua es-senziale qualità, il modo della sua attività. Le manifesta-zioni di codesta attività sono provocate da un'influenzaesterna; mentre il suo modo, ossia la qualità essenziale,non è da nulla determinato fuor che da se stesso, ed èquindi inesplicabile. I suoi singoli fenomeni – ne' qualisoltanto ella diviene visibile – sono sottomessi al princi-pio di ragione: ma ella non sottosta a ragione. Ciò ave-vano già gli scolastici esattamente riconosciuto, e chia-mato forma substantialis (si veda Suarez, Disp. meta-ph., disp. XV, sect. 1).È un errore tanto grosso quanto comune, il pensar chesiano i più frequenti, più generali e più semplici feno-

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meni quelli, che noi meglio comprendiamo: mentre sonosemplicemente quelli, a cui si sono meglio abituati il no-stro sguardo e la nostra ignoranza. Che una pietra cadain terra, ci è tanto inesplicabile quanto il vedere muover-si un animale. Si è ritenuto, com'è detto più sopra, chepartendo dalle più generali forze di natura (per esempiogravitazione, coesione, impenetrabilità) si potesserospiegare con esse le forze più rare ed operanti solo incircostanze combinate (per esempio qualità chimica,elettricità, magnetismo); poi finalmente con questel'organismo e la vita degli animali, e perfino dell'uomo.Ci si accordò tacitamente nel proposito di partire dapure qualitates occultae, che si rinunziava a chiarire,avendo intenzione di costruirci sopra e non di scavarleda sotto. Impresa siffatta non può, come ho detto, riusci-re. Ma, anche prescindendo da ciò, un simile edifizio sa-rebbe sempre campato in aria. A che giovano spiegazio-ni, che da ultimo conducono ad un termine altrettantosconosciuto quanto il primo problema? Si arriva forse,alla fine, a capir dell'intima essenza di quelle universaliforze della natura più che non si capisse dell'intima es-senza d'un animale? Non è l'una cosa inesplicata quantol'altra? Imperscrutabile, perché senza ragione, perché èil contenuto, la sostanza del fenomeno, la quale non puòmai esser ridotta alla forma di esso, al come, al principiodi ragione. Ma noi, che qui abbiamo di mira non l'etiolo-gia, bensì la filosofia, ossia non la relativa ma l'assolutacognizione dell'essenza del mondo, battiamo la via op-posta, e muoviamo da quel che conosciamo direttamen-

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meni quelli, che noi meglio comprendiamo: mentre sonosemplicemente quelli, a cui si sono meglio abituati il no-stro sguardo e la nostra ignoranza. Che una pietra cadain terra, ci è tanto inesplicabile quanto il vedere muover-si un animale. Si è ritenuto, com'è detto più sopra, chepartendo dalle più generali forze di natura (per esempiogravitazione, coesione, impenetrabilità) si potesserospiegare con esse le forze più rare ed operanti solo incircostanze combinate (per esempio qualità chimica,elettricità, magnetismo); poi finalmente con questel'organismo e la vita degli animali, e perfino dell'uomo.Ci si accordò tacitamente nel proposito di partire dapure qualitates occultae, che si rinunziava a chiarire,avendo intenzione di costruirci sopra e non di scavarleda sotto. Impresa siffatta non può, come ho detto, riusci-re. Ma, anche prescindendo da ciò, un simile edifizio sa-rebbe sempre campato in aria. A che giovano spiegazio-ni, che da ultimo conducono ad un termine altrettantosconosciuto quanto il primo problema? Si arriva forse,alla fine, a capir dell'intima essenza di quelle universaliforze della natura più che non si capisse dell'intima es-senza d'un animale? Non è l'una cosa inesplicata quantol'altra? Imperscrutabile, perché senza ragione, perché èil contenuto, la sostanza del fenomeno, la quale non puòmai esser ridotta alla forma di esso, al come, al principiodi ragione. Ma noi, che qui abbiamo di mira non l'etiolo-gia, bensì la filosofia, ossia non la relativa ma l'assolutacognizione dell'essenza del mondo, battiamo la via op-posta, e muoviamo da quel che conosciamo direttamen-

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te, nel modo più pieno, e che ci è più famigliare; movia-mo da quel che ci sta più vicino, per comprendere ciòche ci è noto solo da lontano, unilateralmente e mediata-mente: e dal fenomeno più vivace, più significante, piùchiaro vogliamo apprendere a capire il meno compiuto epiù debole. Di tutte le cose – eccettuato il mio propriocorpo – è a me conosciuto un solo aspetto, quello dellarappresentazione: la loro intima essenza mi rimane chiu-sa, ed è un profondo mistero, anche se io conosco tuttele cause, in seguito a cui si producono le loro modifica-zioni. Solo dal confronto con ciò che accade in me se,mentre un motivo mi scuote, compie il mio corpoun'azione – il che è l'intima essenza delle mie propriemodificazioni prodotte da fattori esterni – posso pene-trare il modo con cui quei corpi inanimati si modificanosotto azione di cause, e comprendere così che cosa sial'intima essenza loro; poiché il conoscer la causa, per cuiquell'essenza si manifesta, mi dà semplicemente la rego-la del suo entrar nel tempo e nello spazio, ma non più. Equesto confronto posso fare, perché il mio corpo è l'uni-co oggetto del quale io non un solo aspetto – quello del-la rappresentazione – conosca: bensì anche l'altro aspet-to, che si chiama volontà. Invece adunque di credere,ch'io capirei la mia propria organizzazione, e quindi ilmio conoscere e volere e muovermi in seguito a motivi,se io potessi tutto ridurre a movimento prodotto da cau-se quali elettricità, chimismo, meccanismo: io devo vi-ceversa – in quanto cerco filosofia, e non etiologia – daimiei propri movimenti, effetto di motivi, imparare a ca-

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te, nel modo più pieno, e che ci è più famigliare; movia-mo da quel che ci sta più vicino, per comprendere ciòche ci è noto solo da lontano, unilateralmente e mediata-mente: e dal fenomeno più vivace, più significante, piùchiaro vogliamo apprendere a capire il meno compiuto epiù debole. Di tutte le cose – eccettuato il mio propriocorpo – è a me conosciuto un solo aspetto, quello dellarappresentazione: la loro intima essenza mi rimane chiu-sa, ed è un profondo mistero, anche se io conosco tuttele cause, in seguito a cui si producono le loro modifica-zioni. Solo dal confronto con ciò che accade in me se,mentre un motivo mi scuote, compie il mio corpoun'azione – il che è l'intima essenza delle mie propriemodificazioni prodotte da fattori esterni – posso pene-trare il modo con cui quei corpi inanimati si modificanosotto azione di cause, e comprendere così che cosa sial'intima essenza loro; poiché il conoscer la causa, per cuiquell'essenza si manifesta, mi dà semplicemente la rego-la del suo entrar nel tempo e nello spazio, ma non più. Equesto confronto posso fare, perché il mio corpo è l'uni-co oggetto del quale io non un solo aspetto – quello del-la rappresentazione – conosca: bensì anche l'altro aspet-to, che si chiama volontà. Invece adunque di credere,ch'io capirei la mia propria organizzazione, e quindi ilmio conoscere e volere e muovermi in seguito a motivi,se io potessi tutto ridurre a movimento prodotto da cau-se quali elettricità, chimismo, meccanismo: io devo vi-ceversa – in quanto cerco filosofia, e non etiologia – daimiei propri movimenti, effetto di motivi, imparare a ca-

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pir dapprima, nella loro intima essenza, anche i più sem-plici e comuni movimenti del corpo inorganico, ch'iovedo provocati da cause; e le imperscrutabili forze, chein tutti i corpi della natura si manifestano, riconoscereidentiche, nel modo, con ciò che in me è la volontà, esolo per grado diverse da questa. In altre parole: la quar-ta classe di rappresentazioni, stabilita nella memoria sulprincipio di ragione, deve fornirmi la chiave per la co-noscenza della prima classe; e dalla legge di motivazio-ne devo apprendere a capire la legge di causalità, nelsuo intimo significato.Dice Spinoza (Epist. 62) che la pietra lanciata nell'ariacrederebbe, se avesse coscienza, di volare per sua pro-pria volontà. Io aggiungo soltanto, che la pietra avrebberagione. Il lancio è per lei, quel che per me è il motivo;e ciò che nella pietra apparisce come coesione, peso,permanenza nello stato acquisito, è, nell'intima essenza,il medesimo, ch'io conosco in me come volontà, e cheanch'essa come volontà conoscerebbe, se acquistasseconoscenza. Spinoza, in quel passo, aveva rivoltal'attenzione alla necessità, con cui la pietra vola; e cercò,con ragione, di ragguagliarla alla necessità dei singoliatti volontari d'una persona. Io ho di mira invece l'inti-ma essenza, che è la sola a dar significato e valore adogni necessità reale (ossia effetto da causa) come suopresupposto; e chiamandosi nell'uomo carattere, nellapietra qualità, è nondimeno la stessa in entrambi. Là,dov'è immediatamente conosciuta, si chiama volontà; e

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pir dapprima, nella loro intima essenza, anche i più sem-plici e comuni movimenti del corpo inorganico, ch'iovedo provocati da cause; e le imperscrutabili forze, chein tutti i corpi della natura si manifestano, riconoscereidentiche, nel modo, con ciò che in me è la volontà, esolo per grado diverse da questa. In altre parole: la quar-ta classe di rappresentazioni, stabilita nella memoria sulprincipio di ragione, deve fornirmi la chiave per la co-noscenza della prima classe; e dalla legge di motivazio-ne devo apprendere a capire la legge di causalità, nelsuo intimo significato.Dice Spinoza (Epist. 62) che la pietra lanciata nell'ariacrederebbe, se avesse coscienza, di volare per sua pro-pria volontà. Io aggiungo soltanto, che la pietra avrebberagione. Il lancio è per lei, quel che per me è il motivo;e ciò che nella pietra apparisce come coesione, peso,permanenza nello stato acquisito, è, nell'intima essenza,il medesimo, ch'io conosco in me come volontà, e cheanch'essa come volontà conoscerebbe, se acquistasseconoscenza. Spinoza, in quel passo, aveva rivoltal'attenzione alla necessità, con cui la pietra vola; e cercò,con ragione, di ragguagliarla alla necessità dei singoliatti volontari d'una persona. Io ho di mira invece l'inti-ma essenza, che è la sola a dar significato e valore adogni necessità reale (ossia effetto da causa) come suopresupposto; e chiamandosi nell'uomo carattere, nellapietra qualità, è nondimeno la stessa in entrambi. Là,dov'è immediatamente conosciuta, si chiama volontà; e

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ha nella pietra il più debole, nell'uomo il più alto gradodi visibilità, di obiettità. Quest'essenza, identica nellanostra volontà e nell'attività di tutte le cose, già conobbecon giusto sentimento sant'Agostino, e non posso aste-nermi dal riportare qui la sua ingenua espressione delfatto: «Si pecora essemus, carnalem vitam et quod se-cundum sensum ejusdem est amaremus, idque esset suf-ficiens bonum nostrum, et secundum hoc si esset nobisbene, nihil aliud quaereremus. Item, si arbores essemus,nihil quidem sentientes motu amare possemus: verumta-men id quasi appetere videremur, quo feracius essemus,uberiusque fructuosae. Si essemus lapides, aut fluctus,aut ventus, aut fiamma, vel quid ejusmodi, sine ullo qui-dem sensu atque vita, non tamen nobis deesset quasiquidam nostrorum locorum atque ordinis appetitus.Nam velut amores corporum momenta sunt ponderum,sive deorsum gravitate, sive sursum levitate nitantur: itaenim corpus pendere, sicut animus amore fertur quo-cumque fertur» (De civ. Dei, xi, 28).Merita ancora d'esser notato, che già Euler compresedover l'essenza della gravitazione esser ricondotta aduna particolare «tendenza e brama» dei corpi – quindivolontà (nella 68a lettera alla Principessa). Questo lo al-lontana anzi dal concetto della gravitazione, quale è for-mulato da Neuton; ed egli è disposto a tentarne una mo-dificazione secondo l'anterior teoria cartesiana: derivarcioè la gravitazione dall'urto di un etere sui corpi. Di-venterebbe così «più razionale e più confacente a coloro

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ha nella pietra il più debole, nell'uomo il più alto gradodi visibilità, di obiettità. Quest'essenza, identica nellanostra volontà e nell'attività di tutte le cose, già conobbecon giusto sentimento sant'Agostino, e non posso aste-nermi dal riportare qui la sua ingenua espressione delfatto: «Si pecora essemus, carnalem vitam et quod se-cundum sensum ejusdem est amaremus, idque esset suf-ficiens bonum nostrum, et secundum hoc si esset nobisbene, nihil aliud quaereremus. Item, si arbores essemus,nihil quidem sentientes motu amare possemus: verumta-men id quasi appetere videremur, quo feracius essemus,uberiusque fructuosae. Si essemus lapides, aut fluctus,aut ventus, aut fiamma, vel quid ejusmodi, sine ullo qui-dem sensu atque vita, non tamen nobis deesset quasiquidam nostrorum locorum atque ordinis appetitus.Nam velut amores corporum momenta sunt ponderum,sive deorsum gravitate, sive sursum levitate nitantur: itaenim corpus pendere, sicut animus amore fertur quo-cumque fertur» (De civ. Dei, xi, 28).Merita ancora d'esser notato, che già Euler compresedover l'essenza della gravitazione esser ricondotta aduna particolare «tendenza e brama» dei corpi – quindivolontà (nella 68a lettera alla Principessa). Questo lo al-lontana anzi dal concetto della gravitazione, quale è for-mulato da Neuton; ed egli è disposto a tentarne una mo-dificazione secondo l'anterior teoria cartesiana: derivarcioè la gravitazione dall'urto di un etere sui corpi. Di-venterebbe così «più razionale e più confacente a coloro

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che amano principi chiari ed afferabili». L'attrazioneegli vuol vederla bandita, come qualitas occulta, dallafisica. Il che è appunto conforme alla morta concezionedella natura che dominava ai tempi di Euler, come cor-relato dell'anima immateriale; ma è nondimeno degna dinota, sotto il rispetto della verità fondamentale da mestabilita. La vedeva balenar da lungi, questo fine cervel-lo: ma tosto s'affrettò a volgersi da un'altra parte e, nelsuo timore di veder minacciate tutte le capitali concezio-ni d'allora, cercò perfino salvezza in vecchie e già smes-se assurdità.

§ 25.Sappiamo che la pluralità in genere è necessariamentedeterminata da tempo e spazio, e può esser pensata soloin questi, che noi per tal rispetto chiamiamo principiumindividuationis. Ma tempo e spazio abbiamo conosciuticome forme del principio di ragione, nel qual principiosi esprime tutta la nostra conoscenza a priori. E questa,come abbiamo più sopra spiegato, appunto in quantotale, si riferisce solo alla conoscibilità delle cose, nonalle cose stesse; ossia è solamente la nostra forma di co-noscenza, non proprietà della cosa in sé. La cosa in sé,in quanto tale, è libera da ogni forma della conoscenza,anche da quella più generale dell'essere oggetto per ilsoggetto; ossia è qualcosa d'affatto diverso dalla rappre-sentazione. Ora, se la cosa in sé, com'io credo d'aversufficientemente provato e reso chiaro, è la volontà;

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che amano principi chiari ed afferabili». L'attrazioneegli vuol vederla bandita, come qualitas occulta, dallafisica. Il che è appunto conforme alla morta concezionedella natura che dominava ai tempi di Euler, come cor-relato dell'anima immateriale; ma è nondimeno degna dinota, sotto il rispetto della verità fondamentale da mestabilita. La vedeva balenar da lungi, questo fine cervel-lo: ma tosto s'affrettò a volgersi da un'altra parte e, nelsuo timore di veder minacciate tutte le capitali concezio-ni d'allora, cercò perfino salvezza in vecchie e già smes-se assurdità.

§ 25.Sappiamo che la pluralità in genere è necessariamentedeterminata da tempo e spazio, e può esser pensata soloin questi, che noi per tal rispetto chiamiamo principiumindividuationis. Ma tempo e spazio abbiamo conosciuticome forme del principio di ragione, nel qual principiosi esprime tutta la nostra conoscenza a priori. E questa,come abbiamo più sopra spiegato, appunto in quantotale, si riferisce solo alla conoscibilità delle cose, nonalle cose stesse; ossia è solamente la nostra forma di co-noscenza, non proprietà della cosa in sé. La cosa in sé,in quanto tale, è libera da ogni forma della conoscenza,anche da quella più generale dell'essere oggetto per ilsoggetto; ossia è qualcosa d'affatto diverso dalla rappre-sentazione. Ora, se la cosa in sé, com'io credo d'aversufficientemente provato e reso chiaro, è la volontà;

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questa, considerata in quanto tale e isolata dal suo feno-meno, sta dunque fuori del tempo e dello spazio, e nonconosce quindi alcuna pluralità: essa è una. Non tutta-via, secondo ho già detto, com'è uno un individuo o unconcetto: bensì come alcunché, a cui sia estranea la con-dizione della pluralità possibile, il principium individua-tionis. La pluralità delle cose nello spazio e nel tempo,che insieme formano la sua obiettità, non tocca perciò lavolontà; e questa rimane, senza riguardo a quelli, indivi-sibile. Né per avventura è una minor parte di lei nellapietra, una maggiore nell'uomo: imperocché il rapportodi parte e di tutto appartiene esclusivamente allo spazio,e non ha più senso quando si prescinda da codesta formad'intuizione. Il più e il meno è cosa che tocca solo il fe-nomeno, ossia la visibilità, la obiettivazione. Quest'ulti-ma è in più alto grado nella pianta che nella pietra,nell'animale che nella pianta: la volontà resa visibile, lasua obiettivazione, ha tante infinite gradazioni, quantene passano tra il più incerto crepuscolo e la più sfolgo-rante luce solare, tra il più forte suono e l'eco più imper-cettibile. Torneremo a considerare in seguito questi gra-di della visibilità, che appartengono all'obiettivazionedella volontà, al riflesso della sua essenza. Ma meno an-cora di quanto i gradi della sua obiettivazione tocchinodirettamente la volontà, la tocca la pluralità dei fenome-ni in tali diversi gradi, ossia la massa degli individuid'ogni forma, o delle singole manifestazioni d'ogni for-za; poiché codesta pluralità è immediatamente sottopo-sta alla condizione del tempo e dello spazio, che riman-

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questa, considerata in quanto tale e isolata dal suo feno-meno, sta dunque fuori del tempo e dello spazio, e nonconosce quindi alcuna pluralità: essa è una. Non tutta-via, secondo ho già detto, com'è uno un individuo o unconcetto: bensì come alcunché, a cui sia estranea la con-dizione della pluralità possibile, il principium individua-tionis. La pluralità delle cose nello spazio e nel tempo,che insieme formano la sua obiettità, non tocca perciò lavolontà; e questa rimane, senza riguardo a quelli, indivi-sibile. Né per avventura è una minor parte di lei nellapietra, una maggiore nell'uomo: imperocché il rapportodi parte e di tutto appartiene esclusivamente allo spazio,e non ha più senso quando si prescinda da codesta formad'intuizione. Il più e il meno è cosa che tocca solo il fe-nomeno, ossia la visibilità, la obiettivazione. Quest'ulti-ma è in più alto grado nella pianta che nella pietra,nell'animale che nella pianta: la volontà resa visibile, lasua obiettivazione, ha tante infinite gradazioni, quantene passano tra il più incerto crepuscolo e la più sfolgo-rante luce solare, tra il più forte suono e l'eco più imper-cettibile. Torneremo a considerare in seguito questi gra-di della visibilità, che appartengono all'obiettivazionedella volontà, al riflesso della sua essenza. Ma meno an-cora di quanto i gradi della sua obiettivazione tocchinodirettamente la volontà, la tocca la pluralità dei fenome-ni in tali diversi gradi, ossia la massa degli individuid'ogni forma, o delle singole manifestazioni d'ogni for-za; poiché codesta pluralità è immediatamente sottopo-sta alla condizione del tempo e dello spazio, che riman-

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gono fuori della volontà. La volontà si palesa tutta e conegual forza in una quercia, come in milioni di querce. Illor numero, la loro moltiplicazione nello spazio e neltempo, non ha significato alcuno rispetto a lei, ma solorispetto alla pluralità degli individui conoscenti nellospazio e nel tempo, ed appunto perciò moltiplicati e di-spersi, ma la cui pluralità alla sua volta riguarda solo ilfenomeno della volontà, non la volontà medesima. Per-ciò si potrebbe anche affermare che se, per impossibile,un unico essere – fosse pure l'infimo – venisse del tuttoannientato, sarebbe con lui annientato il mondo intero.Col sentimento di questa verità dice il grande misticoAngelus Silesius:

Ich weiss, dass ohne mich Gott nicht cin Nu kann leben:Werd'ich zunicht; er muss von Noth den Geist aufgeben.39

Si è tentato in vari modi di rendere accessibile alla com-prensione di ciascuno la smisurata grandezza dell'uni-verso, e toltone motivo a considerazioni edificanti,come per avventura quella intorno alla relativa piccolez-za della terra, ed anche dell'uomo; poi d'altra parte – incontrasto con la prima – quella intorno alla grandezzadello spirito in quest'uomo così piccolo, che può avver-tire e comprendere, anzi misurare, l'immenso mondo.Benissimo! Per me intanto, nel misurar l'incommensura-bilità del mondo, è questo il principale: che l'essenza insé, della quale il mondo è fenomeno – sia poi essa quel39 [Io so che senza di me Dio non può vivere un attimo: /se io sono annienta-

to, egli deve per necessità perire.]

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gono fuori della volontà. La volontà si palesa tutta e conegual forza in una quercia, come in milioni di querce. Illor numero, la loro moltiplicazione nello spazio e neltempo, non ha significato alcuno rispetto a lei, ma solorispetto alla pluralità degli individui conoscenti nellospazio e nel tempo, ed appunto perciò moltiplicati e di-spersi, ma la cui pluralità alla sua volta riguarda solo ilfenomeno della volontà, non la volontà medesima. Per-ciò si potrebbe anche affermare che se, per impossibile,un unico essere – fosse pure l'infimo – venisse del tuttoannientato, sarebbe con lui annientato il mondo intero.Col sentimento di questa verità dice il grande misticoAngelus Silesius:

Ich weiss, dass ohne mich Gott nicht cin Nu kann leben:Werd'ich zunicht; er muss von Noth den Geist aufgeben.39

Si è tentato in vari modi di rendere accessibile alla com-prensione di ciascuno la smisurata grandezza dell'uni-verso, e toltone motivo a considerazioni edificanti,come per avventura quella intorno alla relativa piccolez-za della terra, ed anche dell'uomo; poi d'altra parte – incontrasto con la prima – quella intorno alla grandezzadello spirito in quest'uomo così piccolo, che può avver-tire e comprendere, anzi misurare, l'immenso mondo.Benissimo! Per me intanto, nel misurar l'incommensura-bilità del mondo, è questo il principale: che l'essenza insé, della quale il mondo è fenomeno – sia poi essa quel39 [Io so che senza di me Dio non può vivere un attimo: /se io sono annienta-

to, egli deve per necessità perire.]

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che le piace – non può di certo aver così spezzato e di-sperso il suo vero essere nello spazio infinito; questa in-finita estensione appartiene unicamente al suo fenome-no, mentr'essa è presente in ciascun essere vivente, tuttaintera e indivisa. Non si perde quindi nulla, quando ci siferma ad un solo individuo; né la vera sapienza s'acqui-sta col misurare a fondo lo sconfinato universo, o coltrasvolar di persona – il che sarebbe ancor più atto alproposito – lo spazio infinito. Ma s'acquista bensì inda-gando bene addentro un qualsivoglia singolo, cercandodi comprenderne appieno la vera e propria essenza.Sarà perciò materia d'ampia trattazione nel libro seguen-te un argomento, che già dev'essersi qui affacciato conforza ad ogni scolaro di Platone: che cioè questi diffe-renti gradi d'obiettivazione del volere – i quali, espressiin individui inumerevoli, stanno come gl'irraggiungibilimodelli di questi, o come le forme eterne delle cose,senza rientrar nel tempo e nello spazio, che sono il me-dium degli individui: stanno fermi, a nessun mutamentosoggetti, sempre esistenti, mai divenuti, mentre gl'indi-vidui nascono e periscono, sempre diventano e non maisono – che, dicevo, questi gradi d'oggettivazione dellavolontà altro non siano, se non le idee di Platone. Vi ac-cenno qui di sfuggita, per poter usare d'ora innanzi laparola idea in questo senso, la quale dunque, usata dame, è sempre da comprendere nel suo vero e originariosignificato, attribuitole da Platone, né va punto confusacon quegli astratti prodotti della ragione scolasticamente

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che le piace – non può di certo aver così spezzato e di-sperso il suo vero essere nello spazio infinito; questa in-finita estensione appartiene unicamente al suo fenome-no, mentr'essa è presente in ciascun essere vivente, tuttaintera e indivisa. Non si perde quindi nulla, quando ci siferma ad un solo individuo; né la vera sapienza s'acqui-sta col misurare a fondo lo sconfinato universo, o coltrasvolar di persona – il che sarebbe ancor più atto alproposito – lo spazio infinito. Ma s'acquista bensì inda-gando bene addentro un qualsivoglia singolo, cercandodi comprenderne appieno la vera e propria essenza.Sarà perciò materia d'ampia trattazione nel libro seguen-te un argomento, che già dev'essersi qui affacciato conforza ad ogni scolaro di Platone: che cioè questi diffe-renti gradi d'obiettivazione del volere – i quali, espressiin individui inumerevoli, stanno come gl'irraggiungibilimodelli di questi, o come le forme eterne delle cose,senza rientrar nel tempo e nello spazio, che sono il me-dium degli individui: stanno fermi, a nessun mutamentosoggetti, sempre esistenti, mai divenuti, mentre gl'indi-vidui nascono e periscono, sempre diventano e non maisono – che, dicevo, questi gradi d'oggettivazione dellavolontà altro non siano, se non le idee di Platone. Vi ac-cenno qui di sfuggita, per poter usare d'ora innanzi laparola idea in questo senso, la quale dunque, usata dame, è sempre da comprendere nel suo vero e originariosignificato, attribuitole da Platone, né va punto confusacon quegli astratti prodotti della ragione scolasticamente

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dogmatizzante, riferendosi ai quali Kant abusò in modosì inopportuno come inesatto d'una parola, che Platoneaveva fatta propria ed usata ottimamente a proposito.Per idea intendo adunque ogni determinato ed immobilegrado di obiettivazione della volontà, in quanto esso ècosa in sé, e sta quindi fuor della pluralità. Codesti gradistanno ai singoli oggetti, come le loro forme eterne, o iloro modelli. La più breve e precisa espressione di quelcelebre dogma platonico ci è data da Diogene Laerzio(in, 12): ὁ Πλατων φησι, εν τη φυσει τας ιδεας ἑσταναι,καθαπερ παραδειγµατα τα δ‛αλλα ταυταις εοικεναι,τουτων ὁ µοιωµατα καθεστωτα. (Plato ideas in naturavelut exemplaria dixit subsistere; cetera his esse similia,ad istarum similitudinem consistentia.) Sull'abuso kan-tiano non mi diffondo: il necessario in proposito è dettonell'Appendice.

§ 26.Come infimo grado dell'obiettivazione della volontà, sipresentano le forze più generali della natura; le quali peruna parte appariscono in ogni materia senza eccezione(come peso, impenetrabilità), e per l'altra si sono riparti-te alla rinfusa in tutta la materia esistente, sì che alcunedominano su questa, altre su quella materia, la quale ap-punto da ciò viene ad essere specificata. Queste ultimesono, per esempio, solidità, fluidità, elasticità, elettricità,magnetismo, proprietà chimiche e qualità d'ogni sorta.In sé, esse sono fenomeni immediati della volontà, al-

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dogmatizzante, riferendosi ai quali Kant abusò in modosì inopportuno come inesatto d'una parola, che Platoneaveva fatta propria ed usata ottimamente a proposito.Per idea intendo adunque ogni determinato ed immobilegrado di obiettivazione della volontà, in quanto esso ècosa in sé, e sta quindi fuor della pluralità. Codesti gradistanno ai singoli oggetti, come le loro forme eterne, o iloro modelli. La più breve e precisa espressione di quelcelebre dogma platonico ci è data da Diogene Laerzio(in, 12): ὁ Πλατων φησι, εν τη φυσει τας ιδεας ἑσταναι,καθαπερ παραδειγµατα τα δ‛αλλα ταυταις εοικεναι,τουτων ὁ µοιωµατα καθεστωτα. (Plato ideas in naturavelut exemplaria dixit subsistere; cetera his esse similia,ad istarum similitudinem consistentia.) Sull'abuso kan-tiano non mi diffondo: il necessario in proposito è dettonell'Appendice.

§ 26.Come infimo grado dell'obiettivazione della volontà, sipresentano le forze più generali della natura; le quali peruna parte appariscono in ogni materia senza eccezione(come peso, impenetrabilità), e per l'altra si sono riparti-te alla rinfusa in tutta la materia esistente, sì che alcunedominano su questa, altre su quella materia, la quale ap-punto da ciò viene ad essere specificata. Queste ultimesono, per esempio, solidità, fluidità, elasticità, elettricità,magnetismo, proprietà chimiche e qualità d'ogni sorta.In sé, esse sono fenomeni immediati della volontà, al-

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trettanto quanto l'attività umana; e come tali non hannofondamento di ragione, a modo del carattere dell'uomo;solo i loro singoli fenomeni sono sottomessi al principiodi ragione, come le azioni umane. Non possono adunquemai avere il nome di effetto o di causa, ma sono invecele antecedenti e presupposte condizioni di tutte le causee di tutti gli effetti, per mezzo dei quali si svolge e pale-sa la loro intima essenza. È dunque cosa stolta doman-dar la causa del peso, dell'elettricità: sono codeste forzeoriginarie, le cui manifestazioni si producono bensì percausa ed effetto, in modo che ogni loro singolo fenome-no ha una causa, la quale a sua volta è un consimile fe-nomeno singolo, e fa sì che quella forza debba manife-starsi producendosi nel tempo e nello spazio; ma non èmai la forza stessa effetto d'una causa, né causa d'un ef-fetto. Quindi è anche falso il dire: «il peso è causa dellacaduta della pietra»; causa è piuttosto la vicinanza dellaterra, che attira la pietra. La forza in sé sta completa-mente fuori della catena delle cause e degli effetti, laquale presuppone il tempo, avendo significato soltantoin ordine a questo: mentre quella sta anche fuori deltempo. La singola modificazione ha per causa, ogni vol-ta, un'altra singola modificazione; ma non così la forza,che in lei si palesa. Poiché ciò, che appunto forniscel'attività ad una causa – agisca pure questa innumerevolivolte – è una forza naturale, priva come tale del fonda-mento di ragione; ossia sta del tutto fuor della catenadelle cause, e in genere fuor del dominio del principio diragione. E viene conosciuta filosoficamente come im-

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trettanto quanto l'attività umana; e come tali non hannofondamento di ragione, a modo del carattere dell'uomo;solo i loro singoli fenomeni sono sottomessi al principiodi ragione, come le azioni umane. Non possono adunquemai avere il nome di effetto o di causa, ma sono invecele antecedenti e presupposte condizioni di tutte le causee di tutti gli effetti, per mezzo dei quali si svolge e pale-sa la loro intima essenza. È dunque cosa stolta doman-dar la causa del peso, dell'elettricità: sono codeste forzeoriginarie, le cui manifestazioni si producono bensì percausa ed effetto, in modo che ogni loro singolo fenome-no ha una causa, la quale a sua volta è un consimile fe-nomeno singolo, e fa sì che quella forza debba manife-starsi producendosi nel tempo e nello spazio; ma non èmai la forza stessa effetto d'una causa, né causa d'un ef-fetto. Quindi è anche falso il dire: «il peso è causa dellacaduta della pietra»; causa è piuttosto la vicinanza dellaterra, che attira la pietra. La forza in sé sta completa-mente fuori della catena delle cause e degli effetti, laquale presuppone il tempo, avendo significato soltantoin ordine a questo: mentre quella sta anche fuori deltempo. La singola modificazione ha per causa, ogni vol-ta, un'altra singola modificazione; ma non così la forza,che in lei si palesa. Poiché ciò, che appunto forniscel'attività ad una causa – agisca pure questa innumerevolivolte – è una forza naturale, priva come tale del fonda-mento di ragione; ossia sta del tutto fuor della catenadelle cause, e in genere fuor del dominio del principio diragione. E viene conosciuta filosoficamente come im-

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mediata obiettità del volere, che è l'in-sé di tutta la natu-ra. Nell'etiologia – nel caso presente, nella fisica – è in-dicata come forza primitiva, ossia qualitas occulta.Nei gradi superiori dell'obiettità della volontà, vediamofarsi efficacemente avanti l'individualità, in particolarmodo nell'uomo, come gran distinzione di caratteri indi-viduali, ossia compiuta personalità; espressa anche este-riormente da una fisonomia individuale nettamente se-gnata, la quale comprende l'intera conformazione delcorpo. Un tal grado di personalità non hanno nemmenoalla lontana gli animali; soltanto gli animali superiori nehanno una lieve impronta, sulla quale domina tuttaviaancora in tutto e per tutto il carattere della specie, sì cheperciò appena si disegna la fisonomia individuale.Quanto più si discende, tanto più ogni traccia di caratte-re individuale si perde nel carattere generale della spe-cie, la cui fisonomia finisce col regnare da sola. Si cono-sce il carattere psicologico della specie, e se ne deduceciò che bisogna attendersi dall'individuo; mentre invecenella specie umana ogni individuo vuol essere studiato escrutato per sé. E questo è difficilissimo, quando si vo-glia determinare in anticipazione con qualche sicurezzala condotta di un uomo; perché con la ragione è sotten-trata la possibilità della finzione. Verosimilmente conquesta differenza della specie umana da tutte le altre harapporto il fatto, che i solchi e le circonvoluzioni delcervello, i quali negli uccelli mancano del tutto e nei ro-ditori sono ancora molto deboli, negli animali superiori

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mediata obiettità del volere, che è l'in-sé di tutta la natu-ra. Nell'etiologia – nel caso presente, nella fisica – è in-dicata come forza primitiva, ossia qualitas occulta.Nei gradi superiori dell'obiettità della volontà, vediamofarsi efficacemente avanti l'individualità, in particolarmodo nell'uomo, come gran distinzione di caratteri indi-viduali, ossia compiuta personalità; espressa anche este-riormente da una fisonomia individuale nettamente se-gnata, la quale comprende l'intera conformazione delcorpo. Un tal grado di personalità non hanno nemmenoalla lontana gli animali; soltanto gli animali superiori nehanno una lieve impronta, sulla quale domina tuttaviaancora in tutto e per tutto il carattere della specie, sì cheperciò appena si disegna la fisonomia individuale.Quanto più si discende, tanto più ogni traccia di caratte-re individuale si perde nel carattere generale della spe-cie, la cui fisonomia finisce col regnare da sola. Si cono-sce il carattere psicologico della specie, e se ne deduceciò che bisogna attendersi dall'individuo; mentre invecenella specie umana ogni individuo vuol essere studiato escrutato per sé. E questo è difficilissimo, quando si vo-glia determinare in anticipazione con qualche sicurezzala condotta di un uomo; perché con la ragione è sotten-trata la possibilità della finzione. Verosimilmente conquesta differenza della specie umana da tutte le altre harapporto il fatto, che i solchi e le circonvoluzioni delcervello, i quali negli uccelli mancano del tutto e nei ro-ditori sono ancora molto deboli, negli animali superiori

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sono dalle due parti molto più simmetrici e costanti chenell'uomo40. Inoltre è da considerar come un fenomenodi quello special carattere individuale, distinguentel'uomo da tutti gli animali, il fatto che presso gli animalil'istinto sessuale cerca di soddisfarsi senza una visibilescelta; mentre codesta scelta nell'uomo – e in modoistintivo, indipendente da ogni riflessione – è spintatant'oltre, da salir fino alla possente passione. Così,mentre ciascun uomo va guardato come un fenomenodella volontà particolarmente determinato e caratterizza-to, anzi in certo modo come un'idea a parte, negli ani-mali questo carattere individuale manca del tutto, aven-do la specie sola un significato caratteristico; e la suatraccia sempre più svanisce, man mano che gli animalisi allontanano dall'uomo; le piante finalmente non han-no più alcuna particolarità individuale, se non quelle chesi possono spiegare con i favorevoli o sfavorevoli in-flussi esterni del suolo e del clima, e con altre circostan-ze casuali. Così ogni individualità finisce con lo svaniredel tutto nel regno inorganico della natura. Soltanto ilcristallo è ancora in certo modo da considerarsi comeindividuo: esso è l'unità d'una tendenza verso determina-te direzioni, irrigidita, che rende duratura l'orma di taletendenza; esso è in pari tempo un aggregato risultanteda una figura centrale, costituito a unità da un'idea, pro-prio come l'albero è un aggregato venuto dalla singola

40 WENZEL, De structura cerebri hominis et brutorum, 1812, cap. 3.CUVIER, Leçons d'anatomie comp., leçon 9, artt. 4 e 5. VICQ D'AZYR,Hist. de l'acad. d. sc. de Paris, 1783, pp. 470 e 483.

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sono dalle due parti molto più simmetrici e costanti chenell'uomo40. Inoltre è da considerar come un fenomenodi quello special carattere individuale, distinguentel'uomo da tutti gli animali, il fatto che presso gli animalil'istinto sessuale cerca di soddisfarsi senza una visibilescelta; mentre codesta scelta nell'uomo – e in modoistintivo, indipendente da ogni riflessione – è spintatant'oltre, da salir fino alla possente passione. Così,mentre ciascun uomo va guardato come un fenomenodella volontà particolarmente determinato e caratterizza-to, anzi in certo modo come un'idea a parte, negli ani-mali questo carattere individuale manca del tutto, aven-do la specie sola un significato caratteristico; e la suatraccia sempre più svanisce, man mano che gli animalisi allontanano dall'uomo; le piante finalmente non han-no più alcuna particolarità individuale, se non quelle chesi possono spiegare con i favorevoli o sfavorevoli in-flussi esterni del suolo e del clima, e con altre circostan-ze casuali. Così ogni individualità finisce con lo svaniredel tutto nel regno inorganico della natura. Soltanto ilcristallo è ancora in certo modo da considerarsi comeindividuo: esso è l'unità d'una tendenza verso determina-te direzioni, irrigidita, che rende duratura l'orma di taletendenza; esso è in pari tempo un aggregato risultanteda una figura centrale, costituito a unità da un'idea, pro-prio come l'albero è un aggregato venuto dalla singola

40 WENZEL, De structura cerebri hominis et brutorum, 1812, cap. 3.CUVIER, Leçons d'anatomie comp., leçon 9, artt. 4 e 5. VICQ D'AZYR,Hist. de l'acad. d. sc. de Paris, 1783, pp. 470 e 483.

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germogliante radice, che si riproduce e si ripete in ogninervatura di foglia, in ogni foglia, in ogni ramo: ed incerto qual modo ciascuna di queste parti appare comeun vegetale a sé, il quale da parassita si nutre del vegeta-le grande: sì che l'albero, come il cristallo, è un aggrega-to sistematico di piccole piante – sebbene il tutto sia lacompiuta presentazione di un'idea indivisibile, ossiad'un certo determinato grado d'obiettivazione della vo-lontà. Ma gl'individui della stessa specie di cristalli nonpossono aver fra loro altra distinzione, che quella pro-dotta da accidentalità esteriori: si può perfino far cristal-lizzare ogni specie, a piacere, in cristalli grandi o picco-li. L'individuo come tale, ossia con le impronte d'un ca-rattere individuale, non si trova assolutamente più nellanatura inorganica. Tutti i fenomeni di questa sono mani-festazioni di forze naturali generali, ossia di quei gradid'obiettivazione della volontà, i quali non si obiettivanopunto (come nella natura organica) nelle varie indivi-dualità, che esprimono parzialmente la totalità dell'idea;bensì si manifestano soltanto nella specie, e tutte interein ogni singolo fenomeno, senz'alcuna deviazione. Poi-ché tempo, spazio, pluralità e determinazione causalenon appartengono alla volontà, né all'idea (al gradod'obiettivazione della volontà), ma soltanto ai singoli fe-nomeni di questa, deve in tutti i milioni di fenomeni diuna tra cotali forze naturali (per esempio del peso odell'elettricità) prodursi questa esattamente nello stessomodo, e solo le circostanze esterne possono modificareil fenomeno. Tale unità della sua essenza, in tutte le sue

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germogliante radice, che si riproduce e si ripete in ogninervatura di foglia, in ogni foglia, in ogni ramo: ed incerto qual modo ciascuna di queste parti appare comeun vegetale a sé, il quale da parassita si nutre del vegeta-le grande: sì che l'albero, come il cristallo, è un aggrega-to sistematico di piccole piante – sebbene il tutto sia lacompiuta presentazione di un'idea indivisibile, ossiad'un certo determinato grado d'obiettivazione della vo-lontà. Ma gl'individui della stessa specie di cristalli nonpossono aver fra loro altra distinzione, che quella pro-dotta da accidentalità esteriori: si può perfino far cristal-lizzare ogni specie, a piacere, in cristalli grandi o picco-li. L'individuo come tale, ossia con le impronte d'un ca-rattere individuale, non si trova assolutamente più nellanatura inorganica. Tutti i fenomeni di questa sono mani-festazioni di forze naturali generali, ossia di quei gradid'obiettivazione della volontà, i quali non si obiettivanopunto (come nella natura organica) nelle varie indivi-dualità, che esprimono parzialmente la totalità dell'idea;bensì si manifestano soltanto nella specie, e tutte interein ogni singolo fenomeno, senz'alcuna deviazione. Poi-ché tempo, spazio, pluralità e determinazione causalenon appartengono alla volontà, né all'idea (al gradod'obiettivazione della volontà), ma soltanto ai singoli fe-nomeni di questa, deve in tutti i milioni di fenomeni diuna tra cotali forze naturali (per esempio del peso odell'elettricità) prodursi questa esattamente nello stessomodo, e solo le circostanze esterne possono modificareil fenomeno. Tale unità della sua essenza, in tutte le sue

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manifestazioni, tale incrollabile costanza della sua pre-senza, non appena, seguendo il filo conduttore dellacausalità, se ne trovino raccolte le condizioni, si chiamalegge naturale. Conosciutane una sperimentalmente, sipuò con esattezza prevedere e calcolare la manifestazio-ne della forza naturale, il cui carattere è in quella espres-so e registrato. È appunto questa regolarità dei fenomeninelle classi inferiori della obiettivazione della volontà,che dà loro un aspetto tanto diverso dalle manifestazionidella volontà medesima nei gradi più alti, ossia più di-stinti, della sua obiettivazione – negli animali, negli uo-mini e nella loro attività. Qui il maggiore o minor rilie-vo del carattere individuale, e l'impulso dei motivi (iquali, stando nella conoscenza, rimangono spesso celatiallo spettatore), hanno fatto finora misconoscere del tut-to l'identità dell'intima essenza nei due generi di feno-meni.L'infallibilità delle leggi naturali ha – se si muove dallaconoscenza del singolo e non da quella dell'idea – al-cunché di sorprendente, anzi, a volte, di quasi terrifican-te. C'è da stupire, che la natura non dimentichi neppureuna volta le sue leggi: che, per esempio, se è conformead una legge naturale che nell'incontro di certe sostanze,in determinate condizioni, abbia luogo una combinazio-ne chimica, uno sviluppo di gas, una combustione; ripe-tendosene le condizioni sia per nostra volontà, sia percaso (dove la regolarità è tanto più sorprendente quantopiù inaspettata), oggi come mille anni fa si produca im-

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manifestazioni, tale incrollabile costanza della sua pre-senza, non appena, seguendo il filo conduttore dellacausalità, se ne trovino raccolte le condizioni, si chiamalegge naturale. Conosciutane una sperimentalmente, sipuò con esattezza prevedere e calcolare la manifestazio-ne della forza naturale, il cui carattere è in quella espres-so e registrato. È appunto questa regolarità dei fenomeninelle classi inferiori della obiettivazione della volontà,che dà loro un aspetto tanto diverso dalle manifestazionidella volontà medesima nei gradi più alti, ossia più di-stinti, della sua obiettivazione – negli animali, negli uo-mini e nella loro attività. Qui il maggiore o minor rilie-vo del carattere individuale, e l'impulso dei motivi (iquali, stando nella conoscenza, rimangono spesso celatiallo spettatore), hanno fatto finora misconoscere del tut-to l'identità dell'intima essenza nei due generi di feno-meni.L'infallibilità delle leggi naturali ha – se si muove dallaconoscenza del singolo e non da quella dell'idea – al-cunché di sorprendente, anzi, a volte, di quasi terrifican-te. C'è da stupire, che la natura non dimentichi neppureuna volta le sue leggi: che, per esempio, se è conformead una legge naturale che nell'incontro di certe sostanze,in determinate condizioni, abbia luogo una combinazio-ne chimica, uno sviluppo di gas, una combustione; ripe-tendosene le condizioni sia per nostra volontà, sia percaso (dove la regolarità è tanto più sorprendente quantopiù inaspettata), oggi come mille anni fa si produca im-

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mediatamente e senza indugio il fenomeno determinato.Questa meraviglia proviamo più vivacemente per certirari fenomeni producentisi solo in circostanze moltocomplicate, ma preannunziatici per quando codeste cir-costanze si offrano; come, per esempio, se certi metallisi toccano a vece alterna tra loro e con un liquido acido,e foglioline d'argento poste fra le estremità di questaconcatenazione devono improvvisamente consumarsi inverdi fiamme; o come il duro diamante, che sotto certecondizioni si trasforma in acido carbonico. È la magicaonnipresenza delle forze naturali, che allora ci sorpren-de; e qui osserviamo quel che non ci colpisce più nei fe-nomeni quotidiani, ossia come la relazione tra causa edeffetto sia in verità misteriosa quanto quella, di cui si fa-voleggia, tra una formula magica e lo spirito che da leievocato deve necessariamente comparire. Se invece sia-no penetrati addentro nel comprendere filosoficamente,che una forza naturale è un determinato grado nell'obiet-tivazione della volontà, cioè di quella che noi stessi ri-conosciamo come nostra più intima essenza; e che code-sta volontà in sé, e distinta dal suo fenomeno e dalle for-me di questo, sta fuori del tempo e dello spazio, sì che lapluralità, da tempo e spazio determinata, non a lei, nédirettamente al grado della sua obiettivazione (ossiaall'idea) compete, bensì soltanto ai suoi fenomeni; men-tre la legge di causalità invece ha significato soltanto inrelazione col tempo e con lo spazio, assegnando in que-sti il posto dovuto ai molteplici fenomeni delle diverseidee in cui la volontà si manifesta, e determinando

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mediatamente e senza indugio il fenomeno determinato.Questa meraviglia proviamo più vivacemente per certirari fenomeni producentisi solo in circostanze moltocomplicate, ma preannunziatici per quando codeste cir-costanze si offrano; come, per esempio, se certi metallisi toccano a vece alterna tra loro e con un liquido acido,e foglioline d'argento poste fra le estremità di questaconcatenazione devono improvvisamente consumarsi inverdi fiamme; o come il duro diamante, che sotto certecondizioni si trasforma in acido carbonico. È la magicaonnipresenza delle forze naturali, che allora ci sorpren-de; e qui osserviamo quel che non ci colpisce più nei fe-nomeni quotidiani, ossia come la relazione tra causa edeffetto sia in verità misteriosa quanto quella, di cui si fa-voleggia, tra una formula magica e lo spirito che da leievocato deve necessariamente comparire. Se invece sia-no penetrati addentro nel comprendere filosoficamente,che una forza naturale è un determinato grado nell'obiet-tivazione della volontà, cioè di quella che noi stessi ri-conosciamo come nostra più intima essenza; e che code-sta volontà in sé, e distinta dal suo fenomeno e dalle for-me di questo, sta fuori del tempo e dello spazio, sì che lapluralità, da tempo e spazio determinata, non a lei, nédirettamente al grado della sua obiettivazione (ossiaall'idea) compete, bensì soltanto ai suoi fenomeni; men-tre la legge di causalità invece ha significato soltanto inrelazione col tempo e con lo spazio, assegnando in que-sti il posto dovuto ai molteplici fenomeni delle diverseidee in cui la volontà si manifesta, e determinando

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l'ordine in cui devono prodursi; – se a noi, io dico, si ècosì svelato l'intimo senso della grande teoria kantiana,che tempo, spazio e causalità non appartengano allecose in sé, ma esclusivamente al fenomeno, e siano for-me della nostra conoscenza, non qualità della cosa in sé:in tal caso ci renderemo conto, che quello stupirsi dellaregolarità e puntualità, con cui agisce una forza naturale,e della piena identità di tutti i suoi milioni di fenomeni,e del loro immancabile prodursi, è invero paragonabileallo stupore d'un bambino o d'un selvaggio, il quale,guardando per la prima volta un fiore attraverso un cri-stallo faccettato, si meravigli della perfetta identità degliinnumerevoli fiori che vede, e conti ad uno ad uno i pe-tali d'ogni fiore.Ogni general forza primitiva della natura è adunque nel-la sua intima essenza nient'altro che l'obiettivazione del-la volontà in un grado inferiore: cotal grado chiamiamoidea eterna, nel senso platonico. Invece la legge naturaleè la relazione dell'idea con la forma del suo fenomeno.Codesta forma è tempo, spazio e causalità – i quali han-no fra loro necessario, indissolubile nesso e rapporto.Mediante tempo e spazio si moltiplica l'idea in fenomeniinnumerevoli; e l'ordine, con cui questi rientrano inquelle forme della molteplicità, è rigidamente determi-nato dalla legge causale. Questa è come la norma del li-mite tra quelle manifestazioni d'idee diverse; in base allaquale sono ripartiti tra' fenomeni il tempo, lo spazio e lacausalità. Tale norma si riferisce quindi necessariamente

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l'ordine in cui devono prodursi; – se a noi, io dico, si ècosì svelato l'intimo senso della grande teoria kantiana,che tempo, spazio e causalità non appartengano allecose in sé, ma esclusivamente al fenomeno, e siano for-me della nostra conoscenza, non qualità della cosa in sé:in tal caso ci renderemo conto, che quello stupirsi dellaregolarità e puntualità, con cui agisce una forza naturale,e della piena identità di tutti i suoi milioni di fenomeni,e del loro immancabile prodursi, è invero paragonabileallo stupore d'un bambino o d'un selvaggio, il quale,guardando per la prima volta un fiore attraverso un cri-stallo faccettato, si meravigli della perfetta identità degliinnumerevoli fiori che vede, e conti ad uno ad uno i pe-tali d'ogni fiore.Ogni general forza primitiva della natura è adunque nel-la sua intima essenza nient'altro che l'obiettivazione del-la volontà in un grado inferiore: cotal grado chiamiamoidea eterna, nel senso platonico. Invece la legge naturaleè la relazione dell'idea con la forma del suo fenomeno.Codesta forma è tempo, spazio e causalità – i quali han-no fra loro necessario, indissolubile nesso e rapporto.Mediante tempo e spazio si moltiplica l'idea in fenomeniinnumerevoli; e l'ordine, con cui questi rientrano inquelle forme della molteplicità, è rigidamente determi-nato dalla legge causale. Questa è come la norma del li-mite tra quelle manifestazioni d'idee diverse; in base allaquale sono ripartiti tra' fenomeni il tempo, lo spazio e lacausalità. Tale norma si riferisce quindi necessariamente

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all'identità di tutta una data materia, la quale è il sostratocomune di quei differenti fenomeni. Se questi non fosse-ro tutti in rapporto ad una materia comune, nel cui pos-sesso vanno distribuiti, non occorrerebbe più una tallegge per fissare i loro diritti: potrebbero tutti contempo-raneamente, gli uni presso gli altri, riempire lo spazioinfinito per un tempo infinito. Quindi solo per il fattoche tutti quei fenomeni delle eterne idee appartengonoad una stessa materia, doveva sorgere una regola delloro prodursi e del loro cessare; altrimenti nessuno fa-rebbe posto all'altro. Pertanto la legge di causalità è col-legata essenzialmente con quella della permanenza dellasostanza: entrambe acquistano sol nel reciproco rappor-to un significato; né diversamente si comportano rispet-to ad esse tempo e spazio. Imperocché la pura possibili-tà di opposte determinazioni nella stessa materia è iltempo; la pura possibilità del permaner della stessa ma-teria in tutte le opposte determinazioni è lo spazio. Per-ciò dichiarammo nel precedente libro esser la materiauna combinazione di tempo e spazio; la qual combina-zione si mostra come mutar d'accidenti nel permaneredella sostanza, di cui è possibilità generale appunto lacausalità, ossia il divenire. Pertanto dicemmo anche es-ser la materia in tutto e per tutto causalità. L'intellettodichiarammo correlato soggettivo della causalità, e di-cemmo esister la materia (quindi il mondo intero comerappresentazione) soltanto per l'intelletto, essendo que-sta la condizione, il suo sostegno, come suo necessariocorrelato. Tutto ciò non è che un rapido ricordo di quan-

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all'identità di tutta una data materia, la quale è il sostratocomune di quei differenti fenomeni. Se questi non fosse-ro tutti in rapporto ad una materia comune, nel cui pos-sesso vanno distribuiti, non occorrerebbe più una tallegge per fissare i loro diritti: potrebbero tutti contempo-raneamente, gli uni presso gli altri, riempire lo spazioinfinito per un tempo infinito. Quindi solo per il fattoche tutti quei fenomeni delle eterne idee appartengonoad una stessa materia, doveva sorgere una regola delloro prodursi e del loro cessare; altrimenti nessuno fa-rebbe posto all'altro. Pertanto la legge di causalità è col-legata essenzialmente con quella della permanenza dellasostanza: entrambe acquistano sol nel reciproco rappor-to un significato; né diversamente si comportano rispet-to ad esse tempo e spazio. Imperocché la pura possibili-tà di opposte determinazioni nella stessa materia è iltempo; la pura possibilità del permaner della stessa ma-teria in tutte le opposte determinazioni è lo spazio. Per-ciò dichiarammo nel precedente libro esser la materiauna combinazione di tempo e spazio; la qual combina-zione si mostra come mutar d'accidenti nel permaneredella sostanza, di cui è possibilità generale appunto lacausalità, ossia il divenire. Pertanto dicemmo anche es-ser la materia in tutto e per tutto causalità. L'intellettodichiarammo correlato soggettivo della causalità, e di-cemmo esister la materia (quindi il mondo intero comerappresentazione) soltanto per l'intelletto, essendo que-sta la condizione, il suo sostegno, come suo necessariocorrelato. Tutto ciò non è che un rapido ricordo di quan-

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to è esposto nel primo libro. Il por mente all'intimo ac-cordo dei due libri è richiesto per la lor piena compren-sione; imperocché, ciò che nel mondo reale è indissolu-bilmente congiunto, costituendone i due aspetti – volon-tà e rappresentazione – è in questi due libri con violenzaseparato, col fine di poter ciascuno aspetto più esatta-mente conoscere, quando sia isolato dall'altro.Non sarebbe forse superfluo render più evidente con unesempio come la legge di causalità abbia significatosolo in rapporto al tempo, allo spazio ed alla materia,che risulta dalla combinazione d'entrambi; questa essen-do la legge che determina i confini, entro cui le manife-stazioni delle forze naturali si dividono il possesso dellamateria; mentre le naturali forze originarie medesime,come immediate obiettivazioni della volontà, la quale inquanto cosa in sé non è sottomessa al principio di ragio-ne, stanno fuor di quelle forme. Intanto solo in quelleforme ha valore e significato ogni spiegazione etiologi-ca, ed appunto perciò l'etiologia non può mai condurrefino all'intima essenza della natura. Immaginiamoci, atal fine, una macchina costruita secondo le leggi dellameccanica. Pesi di ferro danno principio al movimento;ruote di rame resistono con la loro rigidità, si urtano esollevano l'una con l'altra e muovono le leve, in graziadella propria impenetrabilità, e così via. Peso, rigidità,impenetrabilità sono qui forze primitive non dimostrate:la meccanica dà soltanto il modo, con cui tali forze simanifestano, entrano in campo, dominano una data ma-

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to è esposto nel primo libro. Il por mente all'intimo ac-cordo dei due libri è richiesto per la lor piena compren-sione; imperocché, ciò che nel mondo reale è indissolu-bilmente congiunto, costituendone i due aspetti – volon-tà e rappresentazione – è in questi due libri con violenzaseparato, col fine di poter ciascuno aspetto più esatta-mente conoscere, quando sia isolato dall'altro.Non sarebbe forse superfluo render più evidente con unesempio come la legge di causalità abbia significatosolo in rapporto al tempo, allo spazio ed alla materia,che risulta dalla combinazione d'entrambi; questa essen-do la legge che determina i confini, entro cui le manife-stazioni delle forze naturali si dividono il possesso dellamateria; mentre le naturali forze originarie medesime,come immediate obiettivazioni della volontà, la quale inquanto cosa in sé non è sottomessa al principio di ragio-ne, stanno fuor di quelle forme. Intanto solo in quelleforme ha valore e significato ogni spiegazione etiologi-ca, ed appunto perciò l'etiologia non può mai condurrefino all'intima essenza della natura. Immaginiamoci, atal fine, una macchina costruita secondo le leggi dellameccanica. Pesi di ferro danno principio al movimento;ruote di rame resistono con la loro rigidità, si urtano esollevano l'una con l'altra e muovono le leve, in graziadella propria impenetrabilità, e così via. Peso, rigidità,impenetrabilità sono qui forze primitive non dimostrate:la meccanica dà soltanto il modo, con cui tali forze simanifestano, entrano in campo, dominano una data ma-

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teria, un dato tempo e luogo. Intanto, per avventura puòuna forte calamita agire sul ferro dei pesi, vincere lagravità; allora il moto della macchina s'arresta, e la ma-teria è d'un tratto il campo d'una nuova forza affatto di-versa, il magnetismo: ma anche questa volta la spiega-zione etiologica non sa dirci altro, se non le condizioniin cui quella si presenta. Oppure, i dischi di rame diquella macchina vengono poggiati su lamine di zinco,introducendovisi frammezzo un liquido acido: immedia-tamente la materia della macchina cade in potere diun'altra forza primitiva, del galvanismo, che la dominaora secondo le proprie leggi, ed in lei si palesa mediantei propri fenomeni, dei quali egualmente l'etiologia altronon può dire, se non le circostanze in cui si mostrano ele leggi che li governano. Lasciamo ora crescere la tem-peratura, e prodursi del puro ossigeno: tutta la macchinaarde; ossia ancora una diversa forza naturale, il chimi-smo, ha in questo istante, in questo luogo, l'incontrastatapadronanza di quella materia, e in lei si manifesta comeidea, come un determinato grado nell'obiettivazione del-la volontà. Ora, l'ossido metallico in tal guisa formatosi,lo combino con un acido: un sale si forma, si dispone incristalli; questi sono il fenomeno di un'altra idea, a suavolta affatto imperscrutabile, mentre il comparir dellasua manifestazione dipendeva da quelle condizioni chel'etiologia sa indicare. I cristalli si disgregano, si mi-schiano con altre sostanze, una vegetazione vi spunta:una nuova manifestazione di volontà; – e così la stessapermanente materia si potrebbe seguire all'infinito, e ve-

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teria, un dato tempo e luogo. Intanto, per avventura puòuna forte calamita agire sul ferro dei pesi, vincere lagravità; allora il moto della macchina s'arresta, e la ma-teria è d'un tratto il campo d'una nuova forza affatto di-versa, il magnetismo: ma anche questa volta la spiega-zione etiologica non sa dirci altro, se non le condizioniin cui quella si presenta. Oppure, i dischi di rame diquella macchina vengono poggiati su lamine di zinco,introducendovisi frammezzo un liquido acido: immedia-tamente la materia della macchina cade in potere diun'altra forza primitiva, del galvanismo, che la dominaora secondo le proprie leggi, ed in lei si palesa mediantei propri fenomeni, dei quali egualmente l'etiologia altronon può dire, se non le circostanze in cui si mostrano ele leggi che li governano. Lasciamo ora crescere la tem-peratura, e prodursi del puro ossigeno: tutta la macchinaarde; ossia ancora una diversa forza naturale, il chimi-smo, ha in questo istante, in questo luogo, l'incontrastatapadronanza di quella materia, e in lei si manifesta comeidea, come un determinato grado nell'obiettivazione del-la volontà. Ora, l'ossido metallico in tal guisa formatosi,lo combino con un acido: un sale si forma, si dispone incristalli; questi sono il fenomeno di un'altra idea, a suavolta affatto imperscrutabile, mentre il comparir dellasua manifestazione dipendeva da quelle condizioni chel'etiologia sa indicare. I cristalli si disgregano, si mi-schiano con altre sostanze, una vegetazione vi spunta:una nuova manifestazione di volontà; – e così la stessapermanente materia si potrebbe seguire all'infinito, e ve-

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dere come ora l'una, ora l'altra forza naturale acquisti undiritto su di lei e ineluttabilmente lo ghermisca, per en-trare in campo e manifestare la propria essenza. La leg-ge di causalità fa conoscere la determinazione di questodiritto, il punto del tempo e dello spazio in cui esso di-vien valido; ma la spiegazione fondata su di lei non vapiù oltre. La forza in se stessa è un fenomeno della vo-lontà, e come tale non sottomessa al principio di ragio-ne, ossia senza fondamento di ragione. Essa sta fuori ditutti i tempi, è onnipresente, e sembra attender costante-mente il presentarsi delle circostanze, nelle quali puòprodursi ed impadronirsi d'una data materia, respingen-do la forza che fino a quel momento vi dominava. Iltempo tutto esiste solo per il suo fenomeno, ma non haimportanza per lei; le forze chimiche sonnecchiano permillenni in una materia, prima d'esser liberate dal con-tatto dei reagenti. Allora appariscono: ma il tempo esistesolo per questa manifestazione, non per le forze medesi-me. Per millenni sonnecchia il galvanismo nel rame enello zinco, e questi giacciono quietamente accanto alferro; il quale, non appena tutti e tre si toccano nellecondizioni volute, deve andare in fiamme. Perfino nelregno organico vediamo un seme disseccato conservareper tremila anni la forza addormentata, che, presentan-dosi finalmente le circostanze favorevoli, si sviluppa inpianta41.

41 Il 16 settembre 1840 nell'istituto letterario-scientifico della City di Londrail signor Pettigrew, tenendo una conferenza sopra le antichità egiziane,mostrò dei granelli di frumento trovati da sir G. Wilkinson in una tomba

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dere come ora l'una, ora l'altra forza naturale acquisti undiritto su di lei e ineluttabilmente lo ghermisca, per en-trare in campo e manifestare la propria essenza. La leg-ge di causalità fa conoscere la determinazione di questodiritto, il punto del tempo e dello spazio in cui esso di-vien valido; ma la spiegazione fondata su di lei non vapiù oltre. La forza in se stessa è un fenomeno della vo-lontà, e come tale non sottomessa al principio di ragio-ne, ossia senza fondamento di ragione. Essa sta fuori ditutti i tempi, è onnipresente, e sembra attender costante-mente il presentarsi delle circostanze, nelle quali puòprodursi ed impadronirsi d'una data materia, respingen-do la forza che fino a quel momento vi dominava. Iltempo tutto esiste solo per il suo fenomeno, ma non haimportanza per lei; le forze chimiche sonnecchiano permillenni in una materia, prima d'esser liberate dal con-tatto dei reagenti. Allora appariscono: ma il tempo esistesolo per questa manifestazione, non per le forze medesi-me. Per millenni sonnecchia il galvanismo nel rame enello zinco, e questi giacciono quietamente accanto alferro; il quale, non appena tutti e tre si toccano nellecondizioni volute, deve andare in fiamme. Perfino nelregno organico vediamo un seme disseccato conservareper tremila anni la forza addormentata, che, presentan-dosi finalmente le circostanze favorevoli, si sviluppa inpianta41.

41 Il 16 settembre 1840 nell'istituto letterario-scientifico della City di Londrail signor Pettigrew, tenendo una conferenza sopra le antichità egiziane,mostrò dei granelli di frumento trovati da sir G. Wilkinson in una tomba

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Ora, se dopo codesta considerazione ci si è fatta chiarala differenza della forza naturale da tutti i suoi fenome-ni; se abbiamo compreso, che quella forza è la volontàstessa in un dato grado della sua obiettivazione, ma cheai soli fenomeni, mediante tempo e spazio, appartiene lapluralità, e la legge di causalità non è altro che la deter-minazione dei singoli fenomeni in un punto del tempo edello spazio: conosceremo allora anche la piena veritàed il senso profondo della dottrina di Malebranche intor-no alle cause occasionali. Questa dottrina, com'egli laespone nelle Recherches de la vérité, particolarmentenel terzo capitolo della seconda parte del sesto libro enegli éclaircissements aggiunti al medesimo capitolo,vale la pena di confrontarla con la mia presente esposi-zione, notando il perfettissimo accordo delle due dottri-ne, malgrado tanta diversità nel procedimento del pen-

presso Tebe, nella quale dovevano aver passato trenta secoli. Egli ne avevaseminati dodici e ne aveva avuto una pianta, cresciuta all'altezza di cinquepiedi, i cui semi erano allora del tutto maturi. Dal «Times» del 21 settem-bre 1840. Similmente il signor Haulton presentò nella Società medico-botanica di Londra, l'anno 1830, una radice bulbosa scoperta nella manod'una mummia egiziana, a cui era stata forse data per qualche motivo reli-gioso, ed antica di almeno 2000 anni. Egli l'aveva piantata in un vaso difiori, dov'era tosto germogliata ed ora verdeggiava. Questa notizia del«Medical Journal» del 1830 è riportata nel «Journal of the Royal Institu-tion of Great-Britain», ottobre 1830, p. 196. «Nel giardino del signorGrimstone, dell'Herbarium, in Highgate, a Londra, sta ora una pianta di pi-selli in pieno frutto, germogliata da un pisello, che il signor Pettigrew e gliimpiegati del Museo Britannico hanno preso in un vaso trovato in un sar-cofago egiziano, dove deve aver passato 2844 anni». Dal «Times» del 16agosto 1844. Perfino i rospi trovati vivi nel calcare conducono all'ipotesi,che la stessa vita animale sia capace d'una tal sospensione secolare, se que-sta viene iniziata col letargo autunnale e mantenuta da speciali circostanze.

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Ora, se dopo codesta considerazione ci si è fatta chiarala differenza della forza naturale da tutti i suoi fenome-ni; se abbiamo compreso, che quella forza è la volontàstessa in un dato grado della sua obiettivazione, ma cheai soli fenomeni, mediante tempo e spazio, appartiene lapluralità, e la legge di causalità non è altro che la deter-minazione dei singoli fenomeni in un punto del tempo edello spazio: conosceremo allora anche la piena veritàed il senso profondo della dottrina di Malebranche intor-no alle cause occasionali. Questa dottrina, com'egli laespone nelle Recherches de la vérité, particolarmentenel terzo capitolo della seconda parte del sesto libro enegli éclaircissements aggiunti al medesimo capitolo,vale la pena di confrontarla con la mia presente esposi-zione, notando il perfettissimo accordo delle due dottri-ne, malgrado tanta diversità nel procedimento del pen-

presso Tebe, nella quale dovevano aver passato trenta secoli. Egli ne avevaseminati dodici e ne aveva avuto una pianta, cresciuta all'altezza di cinquepiedi, i cui semi erano allora del tutto maturi. Dal «Times» del 21 settem-bre 1840. Similmente il signor Haulton presentò nella Società medico-botanica di Londra, l'anno 1830, una radice bulbosa scoperta nella manod'una mummia egiziana, a cui era stata forse data per qualche motivo reli-gioso, ed antica di almeno 2000 anni. Egli l'aveva piantata in un vaso difiori, dov'era tosto germogliata ed ora verdeggiava. Questa notizia del«Medical Journal» del 1830 è riportata nel «Journal of the Royal Institu-tion of Great-Britain», ottobre 1830, p. 196. «Nel giardino del signorGrimstone, dell'Herbarium, in Highgate, a Londra, sta ora una pianta di pi-selli in pieno frutto, germogliata da un pisello, che il signor Pettigrew e gliimpiegati del Museo Britannico hanno preso in un vaso trovato in un sar-cofago egiziano, dove deve aver passato 2844 anni». Dal «Times» del 16agosto 1844. Perfino i rospi trovati vivi nel calcare conducono all'ipotesi,che la stessa vita animale sia capace d'una tal sospensione secolare, se que-sta viene iniziata col letargo autunnale e mantenuta da speciali circostanze.

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siero. Anzi, mi stupisce che Malebranche, tutto irretitonei dogmi positivi, che l'età sua irresistibilmentegl'imponeva, abbia tuttavia saputo, malgrado quei vin-coli, sotto un tal peso, coglier con tanta giustezza il veroed accordarlo con quei dogmi – o almeno con la letteradi essi.Gli è che il potere della verità è incredibilmente grandee d'indicibile tenacia. Ne troviamo le tracce frequenti intutti, anche nei più bizzarri o addirittura più assurdi dog-mi di età e paesi diversi: spesso, è vero, in singolarecompagnia, in mescolanze stupefacenti – ma tuttavia ri-conoscibili. La verità rassomiglia a una pianta, che ger-mogli sotto un mucchio di grosse pietre, e tuttavias'inerpichi verso la luce, affannandosi, con mille rigiri econtorcimenti, deformata, impallidita – ma pur verso laluce.Malebranche ha senza dubbio ragione: ogni causa natu-rale è solo causa occasionale, dà solo occasione, spinta,alla manifestazione di quell'una e indivisibile volontà,che è l'in sé di tutte le cose; e la cui graduale obiettiva-zione costituisce tutto questo mondo visibile. Il soloprodursi, farsi visibile in un dato luogo, in un dato tem-po, è provocato dalla causa, e da questa per tal rispettodipendente; ma non l'insieme del fenomeno, non la suaintima essenza. Questa è la volontà medesima, su cuinon ha potere il principio di ragione, ed è quindi senzafondamento di ragione. Nessuna cosa al mondo haun'assoluta e generica causa della sua esistenza: bensì

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siero. Anzi, mi stupisce che Malebranche, tutto irretitonei dogmi positivi, che l'età sua irresistibilmentegl'imponeva, abbia tuttavia saputo, malgrado quei vin-coli, sotto un tal peso, coglier con tanta giustezza il veroed accordarlo con quei dogmi – o almeno con la letteradi essi.Gli è che il potere della verità è incredibilmente grandee d'indicibile tenacia. Ne troviamo le tracce frequenti intutti, anche nei più bizzarri o addirittura più assurdi dog-mi di età e paesi diversi: spesso, è vero, in singolarecompagnia, in mescolanze stupefacenti – ma tuttavia ri-conoscibili. La verità rassomiglia a una pianta, che ger-mogli sotto un mucchio di grosse pietre, e tuttavias'inerpichi verso la luce, affannandosi, con mille rigiri econtorcimenti, deformata, impallidita – ma pur verso laluce.Malebranche ha senza dubbio ragione: ogni causa natu-rale è solo causa occasionale, dà solo occasione, spinta,alla manifestazione di quell'una e indivisibile volontà,che è l'in sé di tutte le cose; e la cui graduale obiettiva-zione costituisce tutto questo mondo visibile. Il soloprodursi, farsi visibile in un dato luogo, in un dato tem-po, è provocato dalla causa, e da questa per tal rispettodipendente; ma non l'insieme del fenomeno, non la suaintima essenza. Questa è la volontà medesima, su cuinon ha potere il principio di ragione, ed è quindi senzafondamento di ragione. Nessuna cosa al mondo haun'assoluta e generica causa della sua esistenza: bensì

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soltanto una causa per cui essa appare per l'appunto inun dato luogo e in un dato tempo. Che una pietra or mo-stri peso, ora solidità, ora elettricità, ora proprietà chimi-che, dipende da cause, da influenze esterne, e con questesi spiega; ma quelle qualità medesime, ossia la sua es-senza, che di tali qualità risulta, e si manifesta per con-seguenza in tutti quei modi indicati: e il fatto d'esser lapietra quale è, anzi il fatto d'esistere in genere, non haragione alcuna, bensì è la manifestazione della incausatavolontà. Ogni causa è quindi causa occasionale. Cosìabbiamo veduto stare le cose nella natura incosciente:ma non diversamente stanno anche là, dove non più cau-se e stimoli, ma motivi sono, che determinano il produr-si dei fenomeni: ossia nella condotta degli animali e de-gli uomini. Imperocché qui come colà è una medesimavolontà, che si palesa, diversissima nei gradi della suamanifestazione, moltiplicata nei fenomeni di questa, eper rispetto a questa sottomessa al principio di ragione,ma in sé del tutto libera. I motivi non determinano il ca-rattere dell'uomo, ma soltanto la manifestazione di code-sto carattere, ossia gli atti; la configurazione esterioredel suo cammino vitale, non l'intimo significato e conte-nuto di esso: i quali provengono dal carattere, che è im-mediato fenomeno della volontà, ossia non fondato suragione. Che un uomo sia cattivo, un altro buono, nondipende da motivi e da influenza esterna, né da dottrinee prediche; ed è in questo senso assolutamente inespli-cabile. Ma se un cattivo mostra la sua cattiveria in me-schine ingiustizie, in vili macchinazioni, in basse furfan-

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soltanto una causa per cui essa appare per l'appunto inun dato luogo e in un dato tempo. Che una pietra or mo-stri peso, ora solidità, ora elettricità, ora proprietà chimi-che, dipende da cause, da influenze esterne, e con questesi spiega; ma quelle qualità medesime, ossia la sua es-senza, che di tali qualità risulta, e si manifesta per con-seguenza in tutti quei modi indicati: e il fatto d'esser lapietra quale è, anzi il fatto d'esistere in genere, non haragione alcuna, bensì è la manifestazione della incausatavolontà. Ogni causa è quindi causa occasionale. Cosìabbiamo veduto stare le cose nella natura incosciente:ma non diversamente stanno anche là, dove non più cau-se e stimoli, ma motivi sono, che determinano il produr-si dei fenomeni: ossia nella condotta degli animali e de-gli uomini. Imperocché qui come colà è una medesimavolontà, che si palesa, diversissima nei gradi della suamanifestazione, moltiplicata nei fenomeni di questa, eper rispetto a questa sottomessa al principio di ragione,ma in sé del tutto libera. I motivi non determinano il ca-rattere dell'uomo, ma soltanto la manifestazione di code-sto carattere, ossia gli atti; la configurazione esterioredel suo cammino vitale, non l'intimo significato e conte-nuto di esso: i quali provengono dal carattere, che è im-mediato fenomeno della volontà, ossia non fondato suragione. Che un uomo sia cattivo, un altro buono, nondipende da motivi e da influenza esterna, né da dottrinee prediche; ed è in questo senso assolutamente inespli-cabile. Ma se un cattivo mostra la sua cattiveria in me-schine ingiustizie, in vili macchinazioni, in basse furfan-

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terie, esercitate nella ristretta cerchia che lo circonda, ose da conquistatore opprime i popoli, e tutto un mondoprecipita nella disperazione, e versa il sangue di milionid'uomini: questa è la forma esteriore, con cui la volontàsi manifesta, la sua parte non essenziale, dipendente dal-le circostanze in cui il destino ha posto quell'uomo,dall'ambiente, dagl'influssi esteriori, dai motivi. Sempreinesplicabile rimarrà invece il fatto di obbedire a talimotivi: esso risulta dalla volontà, di cui quell'uomo èmanifestazione. Di ciò si tratterà nel quarto libro. Ilmodo onde il carattere dispiega le sue qualità si puòesattamente paragonare a quello, onde ogni corpo dellanatura incosciente mostra le proprie. Con tutte le sue in-site qualità, l'acqua rimane acqua, sia che essendo lagotranquillo rifletta le proprie rive, sia che spumeggiandoprecipiti sulle rocce, o per forza d'artificio sprizzi conalto zampillo verso il cielo. Queste varie disposizioni di-pendono dalle circostanze esterne, l'una le è naturalecome l'altra; e l'acqua mostra o l'una o l'altra secondo lecircostanze, egualmente disposta a tutto, ma in ognicaso fedele al proprio carattere e sempre questo solo ca-rattere manifestando. Non altrimenti si manifesterà inqualsivoglia circostanza ciascun carattere umano: masaranno diverse le sue manifestazioni, come diverse sa-ranno le circostanze.

§ 27.Se da tutte le precedenti considerazioni sopra le forze

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terie, esercitate nella ristretta cerchia che lo circonda, ose da conquistatore opprime i popoli, e tutto un mondoprecipita nella disperazione, e versa il sangue di milionid'uomini: questa è la forma esteriore, con cui la volontàsi manifesta, la sua parte non essenziale, dipendente dal-le circostanze in cui il destino ha posto quell'uomo,dall'ambiente, dagl'influssi esteriori, dai motivi. Sempreinesplicabile rimarrà invece il fatto di obbedire a talimotivi: esso risulta dalla volontà, di cui quell'uomo èmanifestazione. Di ciò si tratterà nel quarto libro. Ilmodo onde il carattere dispiega le sue qualità si puòesattamente paragonare a quello, onde ogni corpo dellanatura incosciente mostra le proprie. Con tutte le sue in-site qualità, l'acqua rimane acqua, sia che essendo lagotranquillo rifletta le proprie rive, sia che spumeggiandoprecipiti sulle rocce, o per forza d'artificio sprizzi conalto zampillo verso il cielo. Queste varie disposizioni di-pendono dalle circostanze esterne, l'una le è naturalecome l'altra; e l'acqua mostra o l'una o l'altra secondo lecircostanze, egualmente disposta a tutto, ma in ognicaso fedele al proprio carattere e sempre questo solo ca-rattere manifestando. Non altrimenti si manifesterà inqualsivoglia circostanza ciascun carattere umano: masaranno diverse le sue manifestazioni, come diverse sa-ranno le circostanze.

§ 27.Se da tutte le precedenti considerazioni sopra le forze

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della natura e le lor manifestazioni ci si è reso chiaro findove possa giungere la spiegazione fondata sulle cause,e dove bisogna che s'arresti, se non vuol precipitarnell'insensato sforzo di ridurre tutti i fenomeni alla lorosemplice forma, sì che alla fine nulla rimanga se non laforma; potremo ora fissare in generale ciò che si puòpretendere da ogni etiologia. L'etiologia deve per tutti ifenomeni della natura indagare le cause, ossia le circo-stanze in cui costantemente i fenomeni si producono:ma poi deve ricondurre i fenomeni, diversamente atteg-giati da multiformi circostanze, a ciò che in ogni feno-meno agisce e dalla causa viene presupposto, alle ele-mentari forze della natura; nettamente distinguendo, seuna differenza del fenomeno proviene da una differenzadella forza, o soltanto da una differenza delle circostan-ze in cui la forza si manifesta; e guardandosi bene sì dalcreder fenomeno di forze diverse ciò, che è manifesta-zione di una forza unica in circostanze diverse, sì vice-versa dal creder manifestazioni di un'unica forza ciò,che in origine appartiene a forze differenti. Ora, a questooccorre immediato giudizio; perciò così pochi uominisono capaci di allargare le cognizioni nella fisica, men-tre tutti sono capaci di allargare l'esperienza. Pigrizia edignoranza dispongono a richiamarsi troppo presto alleforze originarie: come si vede, in un'esagerazione chesembra ironia, nelle entità e quiddità degli scolastici.Niente è più lontano dal mio intendimento, che il favori-re un ritorno di queste. Non è lecito riferirsi all'obietti-vazione della volontà, invece di dare una spiegazione fi-

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della natura e le lor manifestazioni ci si è reso chiaro findove possa giungere la spiegazione fondata sulle cause,e dove bisogna che s'arresti, se non vuol precipitarnell'insensato sforzo di ridurre tutti i fenomeni alla lorosemplice forma, sì che alla fine nulla rimanga se non laforma; potremo ora fissare in generale ciò che si puòpretendere da ogni etiologia. L'etiologia deve per tutti ifenomeni della natura indagare le cause, ossia le circo-stanze in cui costantemente i fenomeni si producono:ma poi deve ricondurre i fenomeni, diversamente atteg-giati da multiformi circostanze, a ciò che in ogni feno-meno agisce e dalla causa viene presupposto, alle ele-mentari forze della natura; nettamente distinguendo, seuna differenza del fenomeno proviene da una differenzadella forza, o soltanto da una differenza delle circostan-ze in cui la forza si manifesta; e guardandosi bene sì dalcreder fenomeno di forze diverse ciò, che è manifesta-zione di una forza unica in circostanze diverse, sì vice-versa dal creder manifestazioni di un'unica forza ciò,che in origine appartiene a forze differenti. Ora, a questooccorre immediato giudizio; perciò così pochi uominisono capaci di allargare le cognizioni nella fisica, men-tre tutti sono capaci di allargare l'esperienza. Pigrizia edignoranza dispongono a richiamarsi troppo presto alleforze originarie: come si vede, in un'esagerazione chesembra ironia, nelle entità e quiddità degli scolastici.Niente è più lontano dal mio intendimento, che il favori-re un ritorno di queste. Non è lecito riferirsi all'obietti-vazione della volontà, invece di dare una spiegazione fi-

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sica, più che non sia lecito riferirsi alla forza creatrice diDio. Imperocché la fisica esige cause, e la volontà non èmai causa. Il suo rapporto col fenomeno non è mai con-forme al principio di ragione. Ma ciò che è in sé volon-tà, per un altro verso esiste come rappresentazione, ossiaè fenomeno: come tale segue le leggi, che costituisconola forma del fenomeno: perciò deve ad esempio ognimovimento, sebbene sia ognora fenomeno di volontà,aver tuttavia una causa, in base alla quale esso è da spie-gare in relazione ad un determinato tempo e luogo, ossianon in generale nella sua intima essenza, ma come feno-meno singolo. Questa causa è meccanica nella pietra, èun motivo nel movimento dell'uomo: ma mancare nonpuò mai. Invece, l'universale, la comune essenza di tuttii fenomeni d'una data specie, ciò senza la cui premessanon avrebbe senso né significato alcuna spiegazionecausale – questo è la general forza naturale, che nella fi-sica deve rimaner come qualitas occulta, appunto per-ché qui la spiegazione etiologica s'arresta e la metafisicaincomincia. Ma la catena delle cause e degli effetti nonviene mai spezzata da una forza primitiva, a cui ci sidebba riferire, né risalire a questa come a suo primoanello; bensì tanto il più prossimo quanto il più lontanoanello della catena già presuppone la forza originaria,senza la quale non potrebbe nulla spiegare. Una serie dicause ed effetti può esser la manifestazione delle forzepiù differenti, il cui successivo prodursi nella visibilità èguidato da quella serie, come ho sopra spiegato conl'esempio d'una macchina metallica; ma la varietà di

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sica, più che non sia lecito riferirsi alla forza creatrice diDio. Imperocché la fisica esige cause, e la volontà non èmai causa. Il suo rapporto col fenomeno non è mai con-forme al principio di ragione. Ma ciò che è in sé volon-tà, per un altro verso esiste come rappresentazione, ossiaè fenomeno: come tale segue le leggi, che costituisconola forma del fenomeno: perciò deve ad esempio ognimovimento, sebbene sia ognora fenomeno di volontà,aver tuttavia una causa, in base alla quale esso è da spie-gare in relazione ad un determinato tempo e luogo, ossianon in generale nella sua intima essenza, ma come feno-meno singolo. Questa causa è meccanica nella pietra, èun motivo nel movimento dell'uomo: ma mancare nonpuò mai. Invece, l'universale, la comune essenza di tuttii fenomeni d'una data specie, ciò senza la cui premessanon avrebbe senso né significato alcuna spiegazionecausale – questo è la general forza naturale, che nella fi-sica deve rimaner come qualitas occulta, appunto per-ché qui la spiegazione etiologica s'arresta e la metafisicaincomincia. Ma la catena delle cause e degli effetti nonviene mai spezzata da una forza primitiva, a cui ci sidebba riferire, né risalire a questa come a suo primoanello; bensì tanto il più prossimo quanto il più lontanoanello della catena già presuppone la forza originaria,senza la quale non potrebbe nulla spiegare. Una serie dicause ed effetti può esser la manifestazione delle forzepiù differenti, il cui successivo prodursi nella visibilità èguidato da quella serie, come ho sopra spiegato conl'esempio d'una macchina metallica; ma la varietà di

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queste forze primitive, non deducibili l'una dall'altra,non interrompe in nessun modo l'unità di quella catenadi cause e la connessione fra tutti i suoi anelli. L'etiolo-gia della natura e la filosofia della natura non si pregiu-dicano vicendevolmente mai, ma procedono parallele, ilmedesimo oggetto guardando da differenti punti di vi-sta. L'etiologia dà conto delle cause, che hanno prodottonecessariamente il singolo fenomeno da spiegarsi, e mo-stra a fondamento di ogni sua spiegazione le forze gene-rali attive in tutte codeste cause ed effetti, determina talicause con precisione, il loro numero, le lor differenze, equindi tutti gli effetti, in cui ciascuna forza, secondo ladiversità delle circostanze, si produce diversamente masempre in conformità del suo speciale carattere dispie-gato secondo una regola infallibile, che si chiama leggenaturale. Quando la fisica ha compiutamente sotto ognirispetto esaurito questo compito, è giunta alla mèta: poi-ché nessuna forza nella natura organica rimane ignota enessuna azione sussiste, che non sia dimostrata fenome-no d'una di quelle forze, sotto certe determinate condi-zioni. Per conseguenza una legge naturale non è se nonla semplice regola, osservata nella natura, secondo cuiquesta si comporta ogni volta in determinate circostan-ze, tosto che si mostrino; quindi si può invero definire lalegge naturale come un fatto formulato in forma genera-le, un fait généralisé, sì che una completa esposizione ditutte leggi naturali non sarebbe che un completo registrodi fatti. L'esame di tutta la natura viene dunque compiu-to mediante la morfologia, la quale enumera, paragona

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queste forze primitive, non deducibili l'una dall'altra,non interrompe in nessun modo l'unità di quella catenadi cause e la connessione fra tutti i suoi anelli. L'etiolo-gia della natura e la filosofia della natura non si pregiu-dicano vicendevolmente mai, ma procedono parallele, ilmedesimo oggetto guardando da differenti punti di vi-sta. L'etiologia dà conto delle cause, che hanno prodottonecessariamente il singolo fenomeno da spiegarsi, e mo-stra a fondamento di ogni sua spiegazione le forze gene-rali attive in tutte codeste cause ed effetti, determina talicause con precisione, il loro numero, le lor differenze, equindi tutti gli effetti, in cui ciascuna forza, secondo ladiversità delle circostanze, si produce diversamente masempre in conformità del suo speciale carattere dispie-gato secondo una regola infallibile, che si chiama leggenaturale. Quando la fisica ha compiutamente sotto ognirispetto esaurito questo compito, è giunta alla mèta: poi-ché nessuna forza nella natura organica rimane ignota enessuna azione sussiste, che non sia dimostrata fenome-no d'una di quelle forze, sotto certe determinate condi-zioni. Per conseguenza una legge naturale non è se nonla semplice regola, osservata nella natura, secondo cuiquesta si comporta ogni volta in determinate circostan-ze, tosto che si mostrino; quindi si può invero definire lalegge naturale come un fatto formulato in forma genera-le, un fait généralisé, sì che una completa esposizione ditutte leggi naturali non sarebbe che un completo registrodi fatti. L'esame di tutta la natura viene dunque compiu-to mediante la morfologia, la quale enumera, paragona

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ed ordina tutte le forme costanti della natura organica;sulla causa dell'apparirvi dei diversi esseri ha poco dadire, essendo questa per tutti la generazione (la cui teo-ria sta a sé) e in rari casi la generatio aequivoca. Aquest'ultima, in senso stretto, appartiene anche la manie-ra, con cui si manifestano nel caso singolo tutti i gradiinferiori dell'obiettità della volontà, ossia i fenomeni fi-sici e chimici; e l'indicar le condizioni di codesto mani-festarsi è appunto compito dell'etiologia. La filosofia in-vece considera dovunque – e quindi anche nella natura –soltanto l'universale: qui sono suo argomento le forzeprimitive stesse, ed in queste ella conosce i diversi gradid'obiettivazione della volontà che è l'intima sostanza,l'in-sé del mondo; il quale mondo è dalla filosofia di-chiarato – se prescinde dalla volontà – semplice rappre-sentazione del soggetto. Ora se l'etiologia, invece diaprire il cammino alla filosofia e fornire le prove appli-cate delle sue dottrine, tiene per propria mèta il negartutte le forze primitive meno forse una sola, la più gene-rale, per esempio l'impenetrabilità, immaginandosi dicomprenderla a fondo ed a lei riconducendo con violen-za tutte le altre; viene con ciò a sottrarre a se stessa lapropria base, e può soltanto fornire errore in luogo diverità. Il contenuto della natura viene allora cacciato,per mettere al suo posto la forma; tutto viene attribuitoalle circostanze agenti, nulla all'intima essenza dellecose. Se veramente si venisse a questo, il problema delmondo finirebbe con l'esser risolto, come ho detto, amodo d'un problema d'aritmetica. E tal via si percorre,

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ed ordina tutte le forme costanti della natura organica;sulla causa dell'apparirvi dei diversi esseri ha poco dadire, essendo questa per tutti la generazione (la cui teo-ria sta a sé) e in rari casi la generatio aequivoca. Aquest'ultima, in senso stretto, appartiene anche la manie-ra, con cui si manifestano nel caso singolo tutti i gradiinferiori dell'obiettità della volontà, ossia i fenomeni fi-sici e chimici; e l'indicar le condizioni di codesto mani-festarsi è appunto compito dell'etiologia. La filosofia in-vece considera dovunque – e quindi anche nella natura –soltanto l'universale: qui sono suo argomento le forzeprimitive stesse, ed in queste ella conosce i diversi gradid'obiettivazione della volontà che è l'intima sostanza,l'in-sé del mondo; il quale mondo è dalla filosofia di-chiarato – se prescinde dalla volontà – semplice rappre-sentazione del soggetto. Ora se l'etiologia, invece diaprire il cammino alla filosofia e fornire le prove appli-cate delle sue dottrine, tiene per propria mèta il negartutte le forze primitive meno forse una sola, la più gene-rale, per esempio l'impenetrabilità, immaginandosi dicomprenderla a fondo ed a lei riconducendo con violen-za tutte le altre; viene con ciò a sottrarre a se stessa lapropria base, e può soltanto fornire errore in luogo diverità. Il contenuto della natura viene allora cacciato,per mettere al suo posto la forma; tutto viene attribuitoalle circostanze agenti, nulla all'intima essenza dellecose. Se veramente si venisse a questo, il problema delmondo finirebbe con l'esser risolto, come ho detto, amodo d'un problema d'aritmetica. E tal via si percorre,

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quando, come fu già osservato, ogni azione fisiologicadev'essere ricondotta a forma e combinazione, quindiper avventura ad elettricità; questa poi a chimismo, equesto ancora a meccanismo. Tale fu l'errore per esem-pio di Cartesio e di tutti gli atomisti, che riducono il mo-vimento dei corpi celesti all'urto di un fluido, e la quali-tà alla connessione ed alla forma degli atomi; ed in talcaso lavorano a spiegare tutte le manifestazioni della na-tura come semplici fenomeni di impenetrabilità e coe-sione. Per quanto ci si sia ricreduti di questo errore, fan-no tuttavia lo stesso anche ai nostri giorni i fisiologielettrici, chimici e meccanici, che ostinatamente voglio-no spiegare tutte le funzioni dell'organismo con la «for-ma e combinazione» dei suoi elementi costitutivi. Chefine della spiegazione fisiologica sia il ridur la vita orga-nica alle forze generali studiate dalla fisica, si trova an-cor detto nell'Archivio di fisiologia del Meckel, 1820,vol. 5, p. 185. Anche Lamarck nella sua Philosophiezoologique, vol. 2, cap. 3 definisce la vita quale unsemplice effetto del calore e dell'elettricità: «le caloriqueet la matière électrique suffisent parfaitement pourcomposer ensemble cette cause essentielle de la vie» (p.16). Calore ed elettricità sarebbero quindi propriamentela cosa in sé, e fenomeno di questa il mondo animale evegetale. L'assurdità di quest'opinione salta crudamentefuori a p. 306 della stessa opera. È universalmente notoche ai nostri giorni tutte quelle concezioni così spessobalzate fuori, sono tornate in campo con nuova audacia.A guardar bene, hanno per supremo presupposto, che

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quando, come fu già osservato, ogni azione fisiologicadev'essere ricondotta a forma e combinazione, quindiper avventura ad elettricità; questa poi a chimismo, equesto ancora a meccanismo. Tale fu l'errore per esem-pio di Cartesio e di tutti gli atomisti, che riducono il mo-vimento dei corpi celesti all'urto di un fluido, e la quali-tà alla connessione ed alla forma degli atomi; ed in talcaso lavorano a spiegare tutte le manifestazioni della na-tura come semplici fenomeni di impenetrabilità e coe-sione. Per quanto ci si sia ricreduti di questo errore, fan-no tuttavia lo stesso anche ai nostri giorni i fisiologielettrici, chimici e meccanici, che ostinatamente voglio-no spiegare tutte le funzioni dell'organismo con la «for-ma e combinazione» dei suoi elementi costitutivi. Chefine della spiegazione fisiologica sia il ridur la vita orga-nica alle forze generali studiate dalla fisica, si trova an-cor detto nell'Archivio di fisiologia del Meckel, 1820,vol. 5, p. 185. Anche Lamarck nella sua Philosophiezoologique, vol. 2, cap. 3 definisce la vita quale unsemplice effetto del calore e dell'elettricità: «le caloriqueet la matière électrique suffisent parfaitement pourcomposer ensemble cette cause essentielle de la vie» (p.16). Calore ed elettricità sarebbero quindi propriamentela cosa in sé, e fenomeno di questa il mondo animale evegetale. L'assurdità di quest'opinione salta crudamentefuori a p. 306 della stessa opera. È universalmente notoche ai nostri giorni tutte quelle concezioni così spessobalzate fuori, sono tornate in campo con nuova audacia.A guardar bene, hanno per supremo presupposto, che

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l'organismo sia solamente un aggregato di fenomeni diforze fisiche, chimiche e meccaniche, le quali riunitesiper caso avrebbero prodotto l'organismo, come un giuo-co di natura, senz'altro significato. L'organismo di unanimale o dell'uomo non sarebbe quindi, filosoficamen-te considerato, rappresentazione di una idea a sé, ossianon sarebbe obiettità immediata della volontà, in undato grado superiore; bensì apparirebbero in esso unica-mente quelle idee, che obiettivano la volontà nell'elettri-cità, nel chimismo, nel meccanismo. E l'organismo sa-rebbe quindi a caso accozzato dall'incontro di questeforze, come le figure d'uomini e d'animali formate dallenuvole o dalle stalattiti, né più interessanti di queste. Ve-dremo subito fino a qual segno le spiegazioni fisiche echimiche applicate all'organismo entro certi limiti pos-sano esser lecite ed utili, man mano ch'io verrò esponen-do, come la forza vitale si valga bensì e faccia uso delleforze della natura inorganica, ma non sia costituita daesse, più che il fabbro non sia costituito dall'incudine edal martello. Perciò nemmeno la semplicissima vita ve-getale può essere spiegata con quelle forze, come peresempio con la capillarità e l'endosmosi, e tanto meno lavita animale. La considerazione che segue ci apre la viaa questa difficile trattazione.È veramente – in virtù di quanto s'è detto – una aberra-zione della scienza naturale, il voler ridurre i più altigradi dell'obiettità della volontà ai più bassi; poiché ilmisconoscere e negare forze naturali primitive e di per

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l'organismo sia solamente un aggregato di fenomeni diforze fisiche, chimiche e meccaniche, le quali riunitesiper caso avrebbero prodotto l'organismo, come un giuo-co di natura, senz'altro significato. L'organismo di unanimale o dell'uomo non sarebbe quindi, filosoficamen-te considerato, rappresentazione di una idea a sé, ossianon sarebbe obiettità immediata della volontà, in undato grado superiore; bensì apparirebbero in esso unica-mente quelle idee, che obiettivano la volontà nell'elettri-cità, nel chimismo, nel meccanismo. E l'organismo sa-rebbe quindi a caso accozzato dall'incontro di questeforze, come le figure d'uomini e d'animali formate dallenuvole o dalle stalattiti, né più interessanti di queste. Ve-dremo subito fino a qual segno le spiegazioni fisiche echimiche applicate all'organismo entro certi limiti pos-sano esser lecite ed utili, man mano ch'io verrò esponen-do, come la forza vitale si valga bensì e faccia uso delleforze della natura inorganica, ma non sia costituita daesse, più che il fabbro non sia costituito dall'incudine edal martello. Perciò nemmeno la semplicissima vita ve-getale può essere spiegata con quelle forze, come peresempio con la capillarità e l'endosmosi, e tanto meno lavita animale. La considerazione che segue ci apre la viaa questa difficile trattazione.È veramente – in virtù di quanto s'è detto – una aberra-zione della scienza naturale, il voler ridurre i più altigradi dell'obiettità della volontà ai più bassi; poiché ilmisconoscere e negare forze naturali primitive e di per

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sé esistenti è altrettanto errato, quanto l'ammetter senzafondamento forze speciali, quando si ha semplicementeuna special manifestazione di forze già note. Kant diceadunque con ragione essere assurdo lo sperare in unNeuton del filo d'erba, ossia in colui, che saprà ridurre ilfilo d'erba a fenomeno di forze fisiche e chimiche, dellequali esso sarebbe una concreazione casuale, come unsemplice giuoco di natura, in cui non apparisse alcunaidea speciale, ossia nessuna volontà si manifestasse im-mediatamente in grado elevato e particolare; ma soltan-to come nei fenomeni della natura organica, e fissato percaso in quella forma. Gli scolastici, i quali non avrebbe-ro in nessun modo concesso alcunché di simile, avreb-bero detto con piena ragione, che questo sarebbe un ne-gar del tutto la forma substantialis, e un abbassarla aforma accidentalis. Imperocché la forma substantialisd'Aristotele designa appunto ciò ch'io chiamo gradodell'obiettivazione della volontà in un oggetto. D'altraparte, non va dimenticato che in tutte le idee, ossia intutte le sfere della natura inorganica ed in tutti gli aspettidell'organica, è una volontà unica che si manifesta, ossiapassa nella forma della rappresentazione, nell'obiettità.La sua unità deve quindi darsi a conoscere anche a tra-verso un'intima parentela fra tutte le sue manifestazioni.Ora, questa parentela si palesa nei gradi più alti dellasua obiettità, dove tutta la manifestazione è più chiara,ossia nel regno vegetale ed animale, con analogia ovun-que diffusa di tutte le forme, col tipo fondamentale, chesi ritrova in tutti i fenomeni: questo è perciò diventato il

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sé esistenti è altrettanto errato, quanto l'ammetter senzafondamento forze speciali, quando si ha semplicementeuna special manifestazione di forze già note. Kant diceadunque con ragione essere assurdo lo sperare in unNeuton del filo d'erba, ossia in colui, che saprà ridurre ilfilo d'erba a fenomeno di forze fisiche e chimiche, dellequali esso sarebbe una concreazione casuale, come unsemplice giuoco di natura, in cui non apparisse alcunaidea speciale, ossia nessuna volontà si manifestasse im-mediatamente in grado elevato e particolare; ma soltan-to come nei fenomeni della natura organica, e fissato percaso in quella forma. Gli scolastici, i quali non avrebbe-ro in nessun modo concesso alcunché di simile, avreb-bero detto con piena ragione, che questo sarebbe un ne-gar del tutto la forma substantialis, e un abbassarla aforma accidentalis. Imperocché la forma substantialisd'Aristotele designa appunto ciò ch'io chiamo gradodell'obiettivazione della volontà in un oggetto. D'altraparte, non va dimenticato che in tutte le idee, ossia intutte le sfere della natura inorganica ed in tutti gli aspettidell'organica, è una volontà unica che si manifesta, ossiapassa nella forma della rappresentazione, nell'obiettità.La sua unità deve quindi darsi a conoscere anche a tra-verso un'intima parentela fra tutte le sue manifestazioni.Ora, questa parentela si palesa nei gradi più alti dellasua obiettità, dove tutta la manifestazione è più chiara,ossia nel regno vegetale ed animale, con analogia ovun-que diffusa di tutte le forme, col tipo fondamentale, chesi ritrova in tutti i fenomeni: questo è perciò diventato il

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principio direttivo dell'eccellente sistema zoologico ini-ziato in questo secolo dai francesi, e vien dimostrato nelmodo più perfetto nell'anatomia comparata, come l'unitedu pian, l'uniformité de l'élément anatomique. L'andarnein cerca è stata anche la principale impresa o almeno ilpiù lodevole sforzo dei filosofi naturali della scuola diSchelling, che hanno vari meriti in questo proposito, purse in molti casi la loro caccia alle analogie nella naturadegeneri in pura sottigliezza forzata. Con ragione hannomostrata quella general parentela ed aria di famiglia an-che nelle idee della natura inorganica, per esempio fraelettricità e magnetismo (la cui identità fu più tardi con-statata), fra attrazione chimica e peso, e così via. In par-ticolar modo hanno richiamata l'attenzione sul fatto chela polarità, ossia lo sdoppiarsi di una forza in due attivi-tà qualitativamente diverse, opposte, e tendenti a ricon-giungersi (il che si rivela il più delle volte anche nellospazio mediante una scissione verso direzioni opposte) ètipo fondamentale di quasi tutti i fenomeni della natura,dal magnete e dal cristallo fino all'uomo. Questa cono-scenza è dai più remoti tempi corrente in Cina, nelladottrina del contrasto del Yin e del Yang. Anzi, appuntoperché tutte le cose del mondo sono obiettità di un'unicaidentica volontà, identiche quindi nell'intima essenza,non solo deve trovarsi fra loro quell'innegabile analogia,e deve in ogni fenomeno meno perfetto apparir la trac-cia, l'accenno, la preparazione del più prossimo fenome-no d'ordine superiore; ma ancora, poiché tutte quelleforme insomma non appartengono al mondo se non

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principio direttivo dell'eccellente sistema zoologico ini-ziato in questo secolo dai francesi, e vien dimostrato nelmodo più perfetto nell'anatomia comparata, come l'unitedu pian, l'uniformité de l'élément anatomique. L'andarnein cerca è stata anche la principale impresa o almeno ilpiù lodevole sforzo dei filosofi naturali della scuola diSchelling, che hanno vari meriti in questo proposito, purse in molti casi la loro caccia alle analogie nella naturadegeneri in pura sottigliezza forzata. Con ragione hannomostrata quella general parentela ed aria di famiglia an-che nelle idee della natura inorganica, per esempio fraelettricità e magnetismo (la cui identità fu più tardi con-statata), fra attrazione chimica e peso, e così via. In par-ticolar modo hanno richiamata l'attenzione sul fatto chela polarità, ossia lo sdoppiarsi di una forza in due attivi-tà qualitativamente diverse, opposte, e tendenti a ricon-giungersi (il che si rivela il più delle volte anche nellospazio mediante una scissione verso direzioni opposte) ètipo fondamentale di quasi tutti i fenomeni della natura,dal magnete e dal cristallo fino all'uomo. Questa cono-scenza è dai più remoti tempi corrente in Cina, nelladottrina del contrasto del Yin e del Yang. Anzi, appuntoperché tutte le cose del mondo sono obiettità di un'unicaidentica volontà, identiche quindi nell'intima essenza,non solo deve trovarsi fra loro quell'innegabile analogia,e deve in ogni fenomeno meno perfetto apparir la trac-cia, l'accenno, la preparazione del più prossimo fenome-no d'ordine superiore; ma ancora, poiché tutte quelleforme insomma non appartengono al mondo se non

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come rappresentazioni, si può perfino ammettere, chegià nelle più generali forme della rappresentazione, inquesta vera e propria armatura di sostegno del mondovisibile, ossia nello spazio e nel tempo, sia da cercare emostrare il tipo fondamentale, l'accenno, la preparazionedi tutto ciò che quelle forme riempie. Sembra che unoscuro presentimento di questa verità abbia dato originealla Cabbala ed a tutta la filosofia matematica dei Pita-gorici, nonché dei cinesi nel Y-king: ed anche nella ri-cordata scuola di Schelling troviamo, fra gli svariatisforzi per mettere in luce l'analogia di tutti i fenomenidella natura, anche qualche tentativo, sia pure infelice,di derivar leggi di natura dalle semplici leggi dello spa-zio e del tempo. Intanto non si può sapere fino a chepunto un intelletto geniale potrà un giorno attuare questetendenze.Ora, sebbene non si debba mai perder di vista la diffe-renza tra fenomeno e cosa in sé, né quindi possa mail'identità della volontà obiettivata in tutte le idee esservolta falsamente a identità delle singole idee in cui simanifesta (perché ha gradi determinati della propriaobiettità), sì che per esempio l'attrazione chimica o elet-trica non possa esser ricondotta all'attrazione della gra-vità – quand'anche se ne riconosca l'intima analogia, e leprime possano quasi esser considerate come più alte po-tenze di quest'ultima – più di quanto l'intima analogiadella struttura animale consenta di confondere e identifi-care le specie, considerando le più perfette come varietà

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come rappresentazioni, si può perfino ammettere, chegià nelle più generali forme della rappresentazione, inquesta vera e propria armatura di sostegno del mondovisibile, ossia nello spazio e nel tempo, sia da cercare emostrare il tipo fondamentale, l'accenno, la preparazionedi tutto ciò che quelle forme riempie. Sembra che unoscuro presentimento di questa verità abbia dato originealla Cabbala ed a tutta la filosofia matematica dei Pita-gorici, nonché dei cinesi nel Y-king: ed anche nella ri-cordata scuola di Schelling troviamo, fra gli svariatisforzi per mettere in luce l'analogia di tutti i fenomenidella natura, anche qualche tentativo, sia pure infelice,di derivar leggi di natura dalle semplici leggi dello spa-zio e del tempo. Intanto non si può sapere fino a chepunto un intelletto geniale potrà un giorno attuare questetendenze.Ora, sebbene non si debba mai perder di vista la diffe-renza tra fenomeno e cosa in sé, né quindi possa mail'identità della volontà obiettivata in tutte le idee esservolta falsamente a identità delle singole idee in cui simanifesta (perché ha gradi determinati della propriaobiettità), sì che per esempio l'attrazione chimica o elet-trica non possa esser ricondotta all'attrazione della gra-vità – quand'anche se ne riconosca l'intima analogia, e leprime possano quasi esser considerate come più alte po-tenze di quest'ultima – più di quanto l'intima analogiadella struttura animale consenta di confondere e identifi-care le specie, considerando le più perfette come varietà

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delle meno perfette; se dunque infine anche le funzionifisiologiche non son mai da ricondurre a processi chimi-ci o fisici, è lecito nondimeno, a giustificazione di code-sto metodo entro dati limiti, ammettere con molta verisi-miglianza quanto segue.Se fra i fenomeni della volontà, nei gradi più bassi dellasua obiettivazione, ossia nel regno inorganico, vengonoa conflitto fra loro alcuni di quei fenomeni, volendo cia-scuno impadronirsi d'una data materia secondo la leggedi causalità, balza fuor d'una tal contesa la manifestazio-ne di un'idea più elevata, la quale domina tutte le menoperfette idee precedenti; ma tuttavia sì da lasciarne sus-sistere l'essenza in maniera subordinata, accogliendonein sé un riflesso analogo; il qual procedimento è com-prensibile solo in ragione dell'identità della volontà ma-nifestantesi in tutte le idee, e della tendenza, che ha lavolontà, verso un'obiettivazione sempre più alta. Vedia-mo per esempio nell'indurirsi delle ossa un'innegabileanalogia con la cristallizzazione, quale dominava findall'origine della calce – sebbene l'ossificazione nonpossa esser ricondotta alla cristallizzazione. Più deboleappare l'analogia nel solidificarsi della carne. Così lamiscela dei succhi nel corpo animale e la secrezionesono analoghi alla combinazione e separazione chimica;anzi le leggi di queste vigono ancora in quelle, sebbenesubordinate, assai modificate, signoreggiate da un'ideapiù alta, per modo che semplici forze chimiche, fuoridell'organismo, non produrrebbero mai quei succhi; ma

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delle meno perfette; se dunque infine anche le funzionifisiologiche non son mai da ricondurre a processi chimi-ci o fisici, è lecito nondimeno, a giustificazione di code-sto metodo entro dati limiti, ammettere con molta verisi-miglianza quanto segue.Se fra i fenomeni della volontà, nei gradi più bassi dellasua obiettivazione, ossia nel regno inorganico, vengonoa conflitto fra loro alcuni di quei fenomeni, volendo cia-scuno impadronirsi d'una data materia secondo la leggedi causalità, balza fuor d'una tal contesa la manifestazio-ne di un'idea più elevata, la quale domina tutte le menoperfette idee precedenti; ma tuttavia sì da lasciarne sus-sistere l'essenza in maniera subordinata, accogliendonein sé un riflesso analogo; il qual procedimento è com-prensibile solo in ragione dell'identità della volontà ma-nifestantesi in tutte le idee, e della tendenza, che ha lavolontà, verso un'obiettivazione sempre più alta. Vedia-mo per esempio nell'indurirsi delle ossa un'innegabileanalogia con la cristallizzazione, quale dominava findall'origine della calce – sebbene l'ossificazione nonpossa esser ricondotta alla cristallizzazione. Più deboleappare l'analogia nel solidificarsi della carne. Così lamiscela dei succhi nel corpo animale e la secrezionesono analoghi alla combinazione e separazione chimica;anzi le leggi di queste vigono ancora in quelle, sebbenesubordinate, assai modificate, signoreggiate da un'ideapiù alta, per modo che semplici forze chimiche, fuoridell'organismo, non produrrebbero mai quei succhi; ma

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Encheiresin naturae nennt es die Chemie,Spottet ihrer selbst und weiss nicht vie42.

L'idea od oggettivazione della volontà di grado superio-re, balzata da questa vittoria su più idee di grado inferio-re, acquista – appunto perché accoglie in sé da quelleidee vinte alcunché d'analogo elevato a più alta potenza– un carattere del tutto nuovo: la volontà si obiettiva inun nuovo modo più netto: sorge, dapprima per genera-tio aequivoca, poi per assimilazione a un dato germe, ilsucco organico, la pianta, l'animale, l'uomo. Adunquedalla contesa di fenomeni inferiori proviene il fenomenopiù elevato, che tutti li divora, ma nondimeno attua in séin grado più alto la tendenza di tutti. Domina quindi giàqui la legge: serpens, nisi serpentem comederit, non fitdraco.Vorrei che mi fosse riuscito di vincer con la chiarezzadell'esposizione l'oscurità di questi pensieri, inerenteall'argomento: ma vedo benissimo, che deve venirmilargamente in aiuto la meditazione personale del lettore,se non voglio rimanere incompreso o mal compreso. Inconformità del punto di vista accennato, si potrannobensì mostrar nell'organismo le tracce di azioni chimi-che e fisiche, ma non mai spiegare quello con queste;non essendo esso punto un fenomeno prodotto dall'azio-ne combinata di tali forze, ossia venuto su per caso, maun'idea più alta, la quale ha sottomesso a sé le idee infe-

42 [La chimica chiama ciò encheiresin naturae, / si fa beffe di se stessa e nonlo sa.]

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Encheiresin naturae nennt es die Chemie,Spottet ihrer selbst und weiss nicht vie42.

L'idea od oggettivazione della volontà di grado superio-re, balzata da questa vittoria su più idee di grado inferio-re, acquista – appunto perché accoglie in sé da quelleidee vinte alcunché d'analogo elevato a più alta potenza– un carattere del tutto nuovo: la volontà si obiettiva inun nuovo modo più netto: sorge, dapprima per genera-tio aequivoca, poi per assimilazione a un dato germe, ilsucco organico, la pianta, l'animale, l'uomo. Adunquedalla contesa di fenomeni inferiori proviene il fenomenopiù elevato, che tutti li divora, ma nondimeno attua in séin grado più alto la tendenza di tutti. Domina quindi giàqui la legge: serpens, nisi serpentem comederit, non fitdraco.Vorrei che mi fosse riuscito di vincer con la chiarezzadell'esposizione l'oscurità di questi pensieri, inerenteall'argomento: ma vedo benissimo, che deve venirmilargamente in aiuto la meditazione personale del lettore,se non voglio rimanere incompreso o mal compreso. Inconformità del punto di vista accennato, si potrannobensì mostrar nell'organismo le tracce di azioni chimi-che e fisiche, ma non mai spiegare quello con queste;non essendo esso punto un fenomeno prodotto dall'azio-ne combinata di tali forze, ossia venuto su per caso, maun'idea più alta, la quale ha sottomesso a sé le idee infe-

42 [La chimica chiama ciò encheiresin naturae, / si fa beffe di se stessa e nonlo sa.]

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riori mediante una vittoriosa assimilazione. Poiché l'uni-ca volontà, obiettivantesi in tutte le idee, nel mentre ten-de ad un'obiettivazione la più alta possibile, depone qui igradi più bassi del proprio fenomeno, dopo un loro con-flitto, per apparir di tanto più forte in un grado più ele-vato. Nessuna vittoria senza lotta: l'idea superiore, o su-periore obiettivazione della volontà, pur, potendo veniresoltanto dalla sconfitta delle inferiori, deve subir la resi-stenza di queste; le quali, sebbene ridotte a servitù, ten-dono ancora sempre a pervenire alla libera e compiutamanifestazione della loro essenza. Come la calamita,che ha sollevato un pezzo di ferro, sostiene una lottacontinuata contro la gravità – la quale, essendo la piùbassa obiettivazione della volontà, ha un diritto origina-rio sulla materia di quel ferro –; ed in questa permanentebattaglia la calamita si rafforza, quasi eccitata dalla resi-stenza ad uno sforzo maggiore: così ogni fenomeno divolontà – anche quello che si presenta nell'organismoumano – sostiene una diuturna lotta contro le molte for-ze fisiche e chimiche, le quali, essendo idee inferiori,hanno un precedente diritto su quella materia. Cade per-ciò il braccio, che per un po' s'è tenuto sollevato facendoviolenza alla gravità; e quindi il piacevole senso di salu-te, esprimente la vittoria che l'idea dell'organismo con-scio di sé riporta sulle leggi fisiche e chimiche, le qualiin origine dominavano gli umori vitali, è così spesso in-terrotto, anzi a dir vero sempre accompagnato da un cer-to maggiore o minore malessere, che nasce dalla resi-stenza di quelle forze. Così anche la parte vegetativa

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riori mediante una vittoriosa assimilazione. Poiché l'uni-ca volontà, obiettivantesi in tutte le idee, nel mentre ten-de ad un'obiettivazione la più alta possibile, depone qui igradi più bassi del proprio fenomeno, dopo un loro con-flitto, per apparir di tanto più forte in un grado più ele-vato. Nessuna vittoria senza lotta: l'idea superiore, o su-periore obiettivazione della volontà, pur, potendo veniresoltanto dalla sconfitta delle inferiori, deve subir la resi-stenza di queste; le quali, sebbene ridotte a servitù, ten-dono ancora sempre a pervenire alla libera e compiutamanifestazione della loro essenza. Come la calamita,che ha sollevato un pezzo di ferro, sostiene una lottacontinuata contro la gravità – la quale, essendo la piùbassa obiettivazione della volontà, ha un diritto origina-rio sulla materia di quel ferro –; ed in questa permanentebattaglia la calamita si rafforza, quasi eccitata dalla resi-stenza ad uno sforzo maggiore: così ogni fenomeno divolontà – anche quello che si presenta nell'organismoumano – sostiene una diuturna lotta contro le molte for-ze fisiche e chimiche, le quali, essendo idee inferiori,hanno un precedente diritto su quella materia. Cade per-ciò il braccio, che per un po' s'è tenuto sollevato facendoviolenza alla gravità; e quindi il piacevole senso di salu-te, esprimente la vittoria che l'idea dell'organismo con-scio di sé riporta sulle leggi fisiche e chimiche, le qualiin origine dominavano gli umori vitali, è così spesso in-terrotto, anzi a dir vero sempre accompagnato da un cer-to maggiore o minore malessere, che nasce dalla resi-stenza di quelle forze. Così anche la parte vegetativa

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della nostra vita è legata perennemente ad una leggerasofferenza. Anche la digestione deprime tutte le funzio-ni animali, assorbendo tutta la forza vitale per domarecon l'assimilazione le forze naturali chimiche. Da ciòproviene in genere il peso della vita fisica, la necessitàdel sonno e poi della morte, quando finalmente, col fa-vore delle circostanze, quelle forze naturali soggiogateriprendono all'organismo, stanco per la stessa sua conti-nuata vittoria, la materia già loro strappata, e pervengo-no alla libera esplicazione della loro essenza. Si puòpertanto dire che ogni organismo rappresenti l'idea dicui è immagine, solo facendo la tara delle parti di suaforza, impiegate a vincere le idee inferiori che gli con-tendono la materia. Questo sembra esser balenato a Ja-cob Bohm, quand'egli dice essere in verità mezzo mortitutti i corpi degli uomini e degli animali, ed anche tuttele piante. Secondo che all'organismo riesca più o menodi vincer quelle forze naturali, esprimenti i gradi inferio-ri dell'obiettità della volontà, esso diventa espressionepiù o meno perfetta della propria idea, ossia sta più vici-no o più lontano dall'ideale, che nella specie di codestoorganismo rappresenta la bellezza.Così vediamo dappertutto nella natura contesa, batta-glia, e alternanze di vittorie; ed in ciò appunto conosce-remo più chiaramente d'ora innanzi l'essenziale dissidiodella volontà da se medesima. Ogni grado nell'obiettiva-zione della materia contende all'altro la materia, lo spa-zio, il tempo. Senza tregua deve la permanente materia

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della nostra vita è legata perennemente ad una leggerasofferenza. Anche la digestione deprime tutte le funzio-ni animali, assorbendo tutta la forza vitale per domarecon l'assimilazione le forze naturali chimiche. Da ciòproviene in genere il peso della vita fisica, la necessitàdel sonno e poi della morte, quando finalmente, col fa-vore delle circostanze, quelle forze naturali soggiogateriprendono all'organismo, stanco per la stessa sua conti-nuata vittoria, la materia già loro strappata, e pervengo-no alla libera esplicazione della loro essenza. Si puòpertanto dire che ogni organismo rappresenti l'idea dicui è immagine, solo facendo la tara delle parti di suaforza, impiegate a vincere le idee inferiori che gli con-tendono la materia. Questo sembra esser balenato a Ja-cob Bohm, quand'egli dice essere in verità mezzo mortitutti i corpi degli uomini e degli animali, ed anche tuttele piante. Secondo che all'organismo riesca più o menodi vincer quelle forze naturali, esprimenti i gradi inferio-ri dell'obiettità della volontà, esso diventa espressionepiù o meno perfetta della propria idea, ossia sta più vici-no o più lontano dall'ideale, che nella specie di codestoorganismo rappresenta la bellezza.Così vediamo dappertutto nella natura contesa, batta-glia, e alternanze di vittorie; ed in ciò appunto conosce-remo più chiaramente d'ora innanzi l'essenziale dissidiodella volontà da se medesima. Ogni grado nell'obiettiva-zione della materia contende all'altro la materia, lo spa-zio, il tempo. Senza tregua deve la permanente materia

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mutar di forma, mentre, seguendo il filo conduttore del-la causalità, fenomeni meccanici, fisici, chimici, organi-ci, facendo avidamente ressa per venire alla luce, sistrappano l'un l'altro la materia stessa – poiché ciascunovuol rendere manifesta la propria idea. Nella natura in-tera si continua questa lotta; anzi, solo per essa la naturasussiste: ει γαρ µη ην το νεικος εν τοις πραγµασιν, ἑν ανην ἁπαντα, ὡς φησιν Εµπεδοκλης. (nam si non inessetin rebus contentio, unum omnia essent, ut ait Empedo-cles. Arist., Metaph., B, 5): essendo appunto questa lottala rivelazione del dissidio essenziale tra la volontà e sestessa. Questa lotta universale raggiunge la più chiaraevidenza nel mondo animale, che ha per proprio nutri-mento il mondo vegetale; ed in cui inoltre ogni animalediventa preda e nutrimento d'un altro; ossia deve cederela materia, in cui si rappresentava la sua idea, per la rap-presentazione d'una idea diversa, potendo ogni animaleconservar la propria esistenza solo col sopprimerne co-stantemente un'altra. In tal modo la volontà di vivere di-vora perennemente se stessa, ed in diversi aspetti si nu-tre di sé, finché da ultimo la specie umana, avendotrionfato di tutte le altre, ritiene la natura creata per pro-prio uso. E nondimeno questa stessa specie umana,come vedremo nel quarto libro, rivela ancora con terri-bile evidenza in se medesima quella lotta, quel dissidiodella volontà; e diventa homo homini lupus. Intanto ri-conosceremo la stessa lotta, la stessa violenza egual-mente nei gradi inferiori dell'obiettità della volontà.Molti insetti (particolarmente gl'icneumonidi) depongo-

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mutar di forma, mentre, seguendo il filo conduttore del-la causalità, fenomeni meccanici, fisici, chimici, organi-ci, facendo avidamente ressa per venire alla luce, sistrappano l'un l'altro la materia stessa – poiché ciascunovuol rendere manifesta la propria idea. Nella natura in-tera si continua questa lotta; anzi, solo per essa la naturasussiste: ει γαρ µη ην το νεικος εν τοις πραγµασιν, ἑν ανην ἁπαντα, ὡς φησιν Εµπεδοκλης. (nam si non inessetin rebus contentio, unum omnia essent, ut ait Empedo-cles. Arist., Metaph., B, 5): essendo appunto questa lottala rivelazione del dissidio essenziale tra la volontà e sestessa. Questa lotta universale raggiunge la più chiaraevidenza nel mondo animale, che ha per proprio nutri-mento il mondo vegetale; ed in cui inoltre ogni animalediventa preda e nutrimento d'un altro; ossia deve cederela materia, in cui si rappresentava la sua idea, per la rap-presentazione d'una idea diversa, potendo ogni animaleconservar la propria esistenza solo col sopprimerne co-stantemente un'altra. In tal modo la volontà di vivere di-vora perennemente se stessa, ed in diversi aspetti si nu-tre di sé, finché da ultimo la specie umana, avendotrionfato di tutte le altre, ritiene la natura creata per pro-prio uso. E nondimeno questa stessa specie umana,come vedremo nel quarto libro, rivela ancora con terri-bile evidenza in se medesima quella lotta, quel dissidiodella volontà; e diventa homo homini lupus. Intanto ri-conosceremo la stessa lotta, la stessa violenza egual-mente nei gradi inferiori dell'obiettità della volontà.Molti insetti (particolarmente gl'icneumonidi) depongo-

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no le loro uova sulla pelle o addirittura nel corpo dellelarve d'altri insetti, la cui lenta distruzione è il primocompito del vermiciattolo uscito dall'uovo. Il giovinepolipo tentacolato, che si sviluppa come un ramo dalvecchio e poi se ne separa, contende già con esso, quan-do ancora vi aderisce, l'offertasi preda, sì che l'uno devestrapparla di bocca all'altro (Trembley, Polypod., II, p.110 e III, p. 165). Ma il più singolare esempio del gene-re ci è dato dalla formica (bulldog ant) in Australia:quando la si taglia, comincia una lotta fra la parte delcorpo e quella della coda; quella ghermisce questa colmorso, questa si difende validamente col pungere quel-la. La battaglia dura di solito una mezz'ora, finché le dueparti muoiono, o vengono trascinate via da altre formi-che. Il fatto si ripete ogni volta. (Da una lettera di Ho-witt, nel «W. Journal», riportata nel «Messenger» di Ga-lignani del 17 novembre 1855). Sulle rive del Missourisi vede talvolta una poderosa quercia avvolta, legata estretta nel tronco e nei rami da una gigantesca vite sel-vatica, sì che deve inaridirsi come soffocata. Lo stesso siosserva perfino negl'infimi gradi, per esempio dove perassimilazione organica acqua e carbone si trasformanoin succo vegetale, oppure vegetali e pane si trasformanoin sangue, e così dovunque si abbia una secrezione ani-male con limitazione delle forze fisiche ad un subordi-nato modo d'attività. Similmente anche nella naturainorganica, là dove per esempio i cristalli nel formarsis'incontrano, s'incrociano e si ostacolano a vicenda, sìche non possono pervenire alla pura loro forma (quasi

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no le loro uova sulla pelle o addirittura nel corpo dellelarve d'altri insetti, la cui lenta distruzione è il primocompito del vermiciattolo uscito dall'uovo. Il giovinepolipo tentacolato, che si sviluppa come un ramo dalvecchio e poi se ne separa, contende già con esso, quan-do ancora vi aderisce, l'offertasi preda, sì che l'uno devestrapparla di bocca all'altro (Trembley, Polypod., II, p.110 e III, p. 165). Ma il più singolare esempio del gene-re ci è dato dalla formica (bulldog ant) in Australia:quando la si taglia, comincia una lotta fra la parte delcorpo e quella della coda; quella ghermisce questa colmorso, questa si difende validamente col pungere quel-la. La battaglia dura di solito una mezz'ora, finché le dueparti muoiono, o vengono trascinate via da altre formi-che. Il fatto si ripete ogni volta. (Da una lettera di Ho-witt, nel «W. Journal», riportata nel «Messenger» di Ga-lignani del 17 novembre 1855). Sulle rive del Missourisi vede talvolta una poderosa quercia avvolta, legata estretta nel tronco e nei rami da una gigantesca vite sel-vatica, sì che deve inaridirsi come soffocata. Lo stesso siosserva perfino negl'infimi gradi, per esempio dove perassimilazione organica acqua e carbone si trasformanoin succo vegetale, oppure vegetali e pane si trasformanoin sangue, e così dovunque si abbia una secrezione ani-male con limitazione delle forze fisiche ad un subordi-nato modo d'attività. Similmente anche nella naturainorganica, là dove per esempio i cristalli nel formarsis'incontrano, s'incrociano e si ostacolano a vicenda, sìche non possono pervenire alla pura loro forma (quasi

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tutte le druse sono immagine d'una tal battaglia della vo-lontà in quel grado sì basso della sua oggettivazione);oppure quando una calamita impone al ferro la sua forzamagnetica per rappresentare anche là la propria idea; oquando il galvanismo fa violenza alle affinità elettive, lepiù salde combinazioni dissolve, e le leggi chimiche an-nulla, sì che l'acido d'un sale, disgregatosi al polo nega-tivo, deve passare al positivo senza combinarsi con glialcali che attraversa per via, né poter fare arrossire il gi-rasole con cui s'incontra. Ciò appare in grande nel rap-porto tra corpo celeste centrale e pianeta: questo, sebbe-ne in aperta dipendenza, resiste pur sempre, come le for-ze chimiche nell'organismo: dal che proviene la perma-nente tensione tra forza centripeta e forza centrifuga, laquale tiene in moto l'universo, ed è già di per se stessaun'espressione di quell'universal battaglia essenziale alfenomeno della volontà, della quale discorrevamo. Inve-ro, poiché ciascun corpo dev'essere considerato comefenomeno d'una volontà, e volontà si presenta necessa-riamente come lotta, non può essere il riposo lo statooriginario d'ogni corpo celeste conglobato in una sfera;bensì il movimento, la spinta a proceder oltre nello spa-zio infinito, senza posa e senza mèta. Né a ciò si opponela legge d'inerzia o quella di causalità. Infatti, poiché se-condo quella la materia come tale è indifferente rispettoal riposo ed al moto, può il moto come il riposo essere ilsuo stato originario; quindi, se la troviamo in moto, nonci è lecito presupporre un anteriore stato di riposo, néviceversa, se la troviamo in riposo, presupporre un mo-

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tutte le druse sono immagine d'una tal battaglia della vo-lontà in quel grado sì basso della sua oggettivazione);oppure quando una calamita impone al ferro la sua forzamagnetica per rappresentare anche là la propria idea; oquando il galvanismo fa violenza alle affinità elettive, lepiù salde combinazioni dissolve, e le leggi chimiche an-nulla, sì che l'acido d'un sale, disgregatosi al polo nega-tivo, deve passare al positivo senza combinarsi con glialcali che attraversa per via, né poter fare arrossire il gi-rasole con cui s'incontra. Ciò appare in grande nel rap-porto tra corpo celeste centrale e pianeta: questo, sebbe-ne in aperta dipendenza, resiste pur sempre, come le for-ze chimiche nell'organismo: dal che proviene la perma-nente tensione tra forza centripeta e forza centrifuga, laquale tiene in moto l'universo, ed è già di per se stessaun'espressione di quell'universal battaglia essenziale alfenomeno della volontà, della quale discorrevamo. Inve-ro, poiché ciascun corpo dev'essere considerato comefenomeno d'una volontà, e volontà si presenta necessa-riamente come lotta, non può essere il riposo lo statooriginario d'ogni corpo celeste conglobato in una sfera;bensì il movimento, la spinta a proceder oltre nello spa-zio infinito, senza posa e senza mèta. Né a ciò si opponela legge d'inerzia o quella di causalità. Infatti, poiché se-condo quella la materia come tale è indifferente rispettoal riposo ed al moto, può il moto come il riposo essere ilsuo stato originario; quindi, se la troviamo in moto, nonci è lecito presupporre un anteriore stato di riposo, néviceversa, se la troviamo in riposo, presupporre un mo-

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vimento anteriore a quel riposo, e chieder perché quellosia cessato. Non bisogna perciò cercare nessun primoimpulso alla forza centrifuga: questa è nei pianeti – se-condo l'ipotesi di Kant e di Laplace – residuo dell'ordi-naria rotazione del corpo centrale, da cui si sono quellidistaccati nel suo concentrarsi. Ma il corpo celeste cen-trale è mobile per essenza: esso ruota pur sempre ed in-sieme trasvola nello spazio infinito, o meglio gira intor-no ad un altro maggior corpo centrale a noi invisibile.Questa concezione s'accorda pienamente con la conget-tura che gli astronomi fanno d'un sole centrale, come an-che con l'avvertito spostarsi di tutto il nostro sistema so-lare, e forse dell'intero gruppo stellare cui il nostro soleappartiene; dal che si può da ultimo dedurre un generalespostamento di tutte le stelle fisse, insieme col sole cen-trale. Tale spostamento perde, a dir vero, ogni significa-to nello spazio infinito (perché nello spazio assoluto nonsi distingue moto da riposo); e così appunto diventa –com'era già direttamente per il suo agitarsi e correresenza mèta – l'espressione di quel nulla, di quella man-canza d'un fine ultimo, che noi dovremo riconoscere allavolontà, in tutte le sue manifestazioni, nel concluderequest'opera. Dovevano quindi essere appunto spazio in-finito e tempo infinito le più generali ed essenziali for-me del complessivo manifestarsi della volontà, comequelle che ne esprimono l'essenza intera. La lotta, da noipresa a considerare, di tutti i fenomeni fra loro, si puòriconoscer perfino nella semplice materia in quanto tale,nei limiti in cui la sua essenza fu giustamente formulata

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vimento anteriore a quel riposo, e chieder perché quellosia cessato. Non bisogna perciò cercare nessun primoimpulso alla forza centrifuga: questa è nei pianeti – se-condo l'ipotesi di Kant e di Laplace – residuo dell'ordi-naria rotazione del corpo centrale, da cui si sono quellidistaccati nel suo concentrarsi. Ma il corpo celeste cen-trale è mobile per essenza: esso ruota pur sempre ed in-sieme trasvola nello spazio infinito, o meglio gira intor-no ad un altro maggior corpo centrale a noi invisibile.Questa concezione s'accorda pienamente con la conget-tura che gli astronomi fanno d'un sole centrale, come an-che con l'avvertito spostarsi di tutto il nostro sistema so-lare, e forse dell'intero gruppo stellare cui il nostro soleappartiene; dal che si può da ultimo dedurre un generalespostamento di tutte le stelle fisse, insieme col sole cen-trale. Tale spostamento perde, a dir vero, ogni significa-to nello spazio infinito (perché nello spazio assoluto nonsi distingue moto da riposo); e così appunto diventa –com'era già direttamente per il suo agitarsi e correresenza mèta – l'espressione di quel nulla, di quella man-canza d'un fine ultimo, che noi dovremo riconoscere allavolontà, in tutte le sue manifestazioni, nel concluderequest'opera. Dovevano quindi essere appunto spazio in-finito e tempo infinito le più generali ed essenziali for-me del complessivo manifestarsi della volontà, comequelle che ne esprimono l'essenza intera. La lotta, da noipresa a considerare, di tutti i fenomeni fra loro, si puòriconoscer perfino nella semplice materia in quanto tale,nei limiti in cui la sua essenza fu giustamente formulata

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da Kant come forza di repulsione e di attrazione; sì cheanch'essa ha esistenza soltanto in una lotta di forze con-trastanti. Se facciamo astrazione da ogni varietà chimicadella materia, o risaliamo tanto lungi la catena delle cau-se e degli effetti da non trovar più alcuna differenza chi-mica, ci rimane la pura materia, il mondo conglobato inuna sfera; la cui vita, ossia obiettivazione della volontà,è costituita da quella battaglia tra forza d'attrazione e direpulsione: la prima come gravità, da tutte le parti spin-gendo verso il centro, l'altra resistendo alla prima comeimpenetrabilità, sia mediante solidità sia mediante ela-sticità. Codesto perenne premere e resistere può esserconsiderato come l'obiettità della volontà nel suo infimogrado, e pur già esprimere il carattere di questa.Così vediamo dunque qui, nell'infimo grado, la volontàpresentarsi come un cieco impulso, un'oscura, sorda agi-tazione, lungi da ogni immediata percettibilità. È il piùsemplice e più debole modo della sua obiettivazione. Edancor come cieco impulso ed inconscia aspirazione ap-pare in tutta la natura inorganica, in tutte le forze ele-mentari, che fisica e chimica s'occupano a conoscere,fissandone le regole, e ciascuna delle quali si presenta inmilioni di fenomeni affatto simili e regolari, che non ri-velano alcuna traccia di carattere individuale, ma sonosemplicemente moltiplicati per mezzo del tempo e dellospazio, ossia del principium individuationis, comeun'immagine viene moltiplicata dalle faccette d'un cri-stallo.

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da Kant come forza di repulsione e di attrazione; sì cheanch'essa ha esistenza soltanto in una lotta di forze con-trastanti. Se facciamo astrazione da ogni varietà chimicadella materia, o risaliamo tanto lungi la catena delle cau-se e degli effetti da non trovar più alcuna differenza chi-mica, ci rimane la pura materia, il mondo conglobato inuna sfera; la cui vita, ossia obiettivazione della volontà,è costituita da quella battaglia tra forza d'attrazione e direpulsione: la prima come gravità, da tutte le parti spin-gendo verso il centro, l'altra resistendo alla prima comeimpenetrabilità, sia mediante solidità sia mediante ela-sticità. Codesto perenne premere e resistere può esserconsiderato come l'obiettità della volontà nel suo infimogrado, e pur già esprimere il carattere di questa.Così vediamo dunque qui, nell'infimo grado, la volontàpresentarsi come un cieco impulso, un'oscura, sorda agi-tazione, lungi da ogni immediata percettibilità. È il piùsemplice e più debole modo della sua obiettivazione. Edancor come cieco impulso ed inconscia aspirazione ap-pare in tutta la natura inorganica, in tutte le forze ele-mentari, che fisica e chimica s'occupano a conoscere,fissandone le regole, e ciascuna delle quali si presenta inmilioni di fenomeni affatto simili e regolari, che non ri-velano alcuna traccia di carattere individuale, ma sonosemplicemente moltiplicati per mezzo del tempo e dellospazio, ossia del principium individuationis, comeun'immagine viene moltiplicata dalle faccette d'un cri-stallo.

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Sempre più chiaramente obiettivandosi di grado in gra-do, la volontà agisce tuttavia ancor del tutto incosciente,come oscura forza impulsiva, nel regno vegetale, dovenon più vere e proprie cause, ma stimoli sono il legamedei suoi fenomeni, e così anche, finalmente, nella partevegetativa del fenomeno animale, nella produzione enello sviluppo d'ogni animale e nella conservazione del-la sua interna economia, dove il fenomeno di esso vienenecessariamente determinato da semplici eccitazioni. Igradi di mano in mano più alti dell'obiettità della volon-tà conducono da ultimo al punto, in cui l'individuo cherappresenta l'idea non può più ricevere in seguito a sem-plici movimenti provocati da stimoli il nutrimento chedeve assimilarsi: perché lo stimolo bisogna attenderlo,mentre qui il nutrimento è determinato in modo specia-le, e nella varietà sempre crescente dei fenomeni si èfatta così grande la ressa e la confusione, che quellis'intralciano a vicenda; ed il caso, da cui deve attendersiil proprio nutrimento l'individuo mosso da semplici sti-moli, sarebbe troppo sfavorevole. Il nutrimento devequindi esser cercato, scelto, a partire dall'istante in cuil'animale s'è disciolto dall'uovo o dal corpo materno, incui vegetava inconsciamente. Perciò diventa qui neces-sario il movimento regolato da motivi, e per esso la co-noscenza; la quale adunque interviene come un aiuto –µηχανή – fattosi necessario a questo grado di obiettiva-zione della volontà, per la conservazione dell'individuoe la propagazione della specie. Ella entra in iscena, rap-presentata dal cervello o da un grosso ganglio, appunto

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Sempre più chiaramente obiettivandosi di grado in gra-do, la volontà agisce tuttavia ancor del tutto incosciente,come oscura forza impulsiva, nel regno vegetale, dovenon più vere e proprie cause, ma stimoli sono il legamedei suoi fenomeni, e così anche, finalmente, nella partevegetativa del fenomeno animale, nella produzione enello sviluppo d'ogni animale e nella conservazione del-la sua interna economia, dove il fenomeno di esso vienenecessariamente determinato da semplici eccitazioni. Igradi di mano in mano più alti dell'obiettità della volon-tà conducono da ultimo al punto, in cui l'individuo cherappresenta l'idea non può più ricevere in seguito a sem-plici movimenti provocati da stimoli il nutrimento chedeve assimilarsi: perché lo stimolo bisogna attenderlo,mentre qui il nutrimento è determinato in modo specia-le, e nella varietà sempre crescente dei fenomeni si èfatta così grande la ressa e la confusione, che quellis'intralciano a vicenda; ed il caso, da cui deve attendersiil proprio nutrimento l'individuo mosso da semplici sti-moli, sarebbe troppo sfavorevole. Il nutrimento devequindi esser cercato, scelto, a partire dall'istante in cuil'animale s'è disciolto dall'uovo o dal corpo materno, incui vegetava inconsciamente. Perciò diventa qui neces-sario il movimento regolato da motivi, e per esso la co-noscenza; la quale adunque interviene come un aiuto –µηχανή – fattosi necessario a questo grado di obiettiva-zione della volontà, per la conservazione dell'individuoe la propagazione della specie. Ella entra in iscena, rap-presentata dal cervello o da un grosso ganglio, appunto

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come ogni altra aspirazione o determinazione dell'obiet-tivantesi volontà è rappresentata da un'organo; ossia sioffre alla rappresentazione come un organo43. Ma conquesto aiuto, con questa (µηχανή), ecco balzar fuori,d'un tratto, il mondo come rappresentazione, con tutte lesue forme, oggetto e soggetto, tempo, spazio, pluralità ecausalità. Il mondo mostra ora il Suo secondo aspetto.Era finora semplice volontà: adesso è, insieme, rappre-sentazione, oggetto del soggetto conoscente. La volontà,che finora seguiva il suo impulso nelle tenebre, sicura-mente ed infallibilmente, ha in questo grado acceso a sestessa una fiaccola, come un mezzo resosi necessarioper impedire lo svantaggio, che sarebbe venuto crescen-do dalla ressa e dalla complicata natura dei suoi feno-meni, e soprattutto dei più perfetti. La sicurezza e rego-larità fino allora infallibile, con cui la volontà operavanella natura inorganica e puramente vegetativa, derivavadal suo operar nella propria essenza primitiva, come cie-co impulso, volontà; senz'aiuto, ma anche senza l'intral-cio di un altro mondo del tutto diverso, del mondo comerappresentazione; il quale è bensì soltanto l'immaginedell'essenza di quella, ma pur tuttavia è di ben altra na-tura, e viene ora a introdursi nella connessione dei suoifenomeni. Cessa ora perciò la sua infallibile sicurezza.Gli animali sono già esposti all'illusione, all'errore. Ed

43 Si veda il cap. 22 del secondo volume [pp. 280-301 del tomo I dell'ed.cit.], come anche nel mio scritto Sulla volontà nella natura, le pp. 54 sgg.e 70-79 della prima edizione, o le pp. 46 sgg. e 63-72 della seconda edizio-ne.

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come ogni altra aspirazione o determinazione dell'obiet-tivantesi volontà è rappresentata da un'organo; ossia sioffre alla rappresentazione come un organo43. Ma conquesto aiuto, con questa (µηχανή), ecco balzar fuori,d'un tratto, il mondo come rappresentazione, con tutte lesue forme, oggetto e soggetto, tempo, spazio, pluralità ecausalità. Il mondo mostra ora il Suo secondo aspetto.Era finora semplice volontà: adesso è, insieme, rappre-sentazione, oggetto del soggetto conoscente. La volontà,che finora seguiva il suo impulso nelle tenebre, sicura-mente ed infallibilmente, ha in questo grado acceso a sestessa una fiaccola, come un mezzo resosi necessarioper impedire lo svantaggio, che sarebbe venuto crescen-do dalla ressa e dalla complicata natura dei suoi feno-meni, e soprattutto dei più perfetti. La sicurezza e rego-larità fino allora infallibile, con cui la volontà operavanella natura inorganica e puramente vegetativa, derivavadal suo operar nella propria essenza primitiva, come cie-co impulso, volontà; senz'aiuto, ma anche senza l'intral-cio di un altro mondo del tutto diverso, del mondo comerappresentazione; il quale è bensì soltanto l'immaginedell'essenza di quella, ma pur tuttavia è di ben altra na-tura, e viene ora a introdursi nella connessione dei suoifenomeni. Cessa ora perciò la sua infallibile sicurezza.Gli animali sono già esposti all'illusione, all'errore. Ed

43 Si veda il cap. 22 del secondo volume [pp. 280-301 del tomo I dell'ed.cit.], come anche nel mio scritto Sulla volontà nella natura, le pp. 54 sgg.e 70-79 della prima edizione, o le pp. 46 sgg. e 63-72 della seconda edizio-ne.

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essi frattanto non hanno se non rappresentazioni intuiti-ve: nessun concetto, nessuna riflessione. Sono legati alpresente, non possono tener conto del futuro. Sembrache questa conoscenza irrazionale non sia stata in tutti icasi sufficiente al proprio scopo, ed abbia talvolta pro-vato quasi il bisogno di un soccorso. Imperocché ci sioffre il notevolissimo fatto, che la cieca attività della vo-lontà e l'attività illuminata della conoscenza, in due clas-si di fenomeni, invadono l'una il dominio dell'altra. Daun lato troviamo nell'attività degli animali, guidata dallaconoscenza intuitiva e dai suoi motivi, un'attività com-pientesi senza di quella, e cioè compiuta con necessitàdella ciecamente operante volontà: la troviamo in quegliistinti meccanici che, pur non essendo guidati da alcunmotivo né da conoscenza, hanno l'apparenza di compierle loro operazioni in virtù di motivi astratti, razionali. Ilcaso opposto è quando, viceversa, il lume della cono-scenza penetra nell'officina della ciecamente operantevolontà ed illumina le funzioni vegetative dell'organi-smo umano: nella chiaroveggenza magnetica. Finalmen-te, là dove la volontà è giunta al sommo grado della suaobiettivazione, non basta più agli animali la conoscenzarazionale, cui offrono i sensi i loro dati, generando sem-plici rappresentazioni vincolate al presente: l'esserecomplicato, multilaterale, plasmabile, pieno di bisognied esposto ad innumerevoli danni, doveva, per poter re-sistere, essere illuminato da una doppia conoscenza, equasi una potenza più elevata della conoscenza intuitivadoveva aggiungersi a quest'ultima, come un suo riverbe-

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essi frattanto non hanno se non rappresentazioni intuiti-ve: nessun concetto, nessuna riflessione. Sono legati alpresente, non possono tener conto del futuro. Sembrache questa conoscenza irrazionale non sia stata in tutti icasi sufficiente al proprio scopo, ed abbia talvolta pro-vato quasi il bisogno di un soccorso. Imperocché ci sioffre il notevolissimo fatto, che la cieca attività della vo-lontà e l'attività illuminata della conoscenza, in due clas-si di fenomeni, invadono l'una il dominio dell'altra. Daun lato troviamo nell'attività degli animali, guidata dallaconoscenza intuitiva e dai suoi motivi, un'attività com-pientesi senza di quella, e cioè compiuta con necessitàdella ciecamente operante volontà: la troviamo in quegliistinti meccanici che, pur non essendo guidati da alcunmotivo né da conoscenza, hanno l'apparenza di compierle loro operazioni in virtù di motivi astratti, razionali. Ilcaso opposto è quando, viceversa, il lume della cono-scenza penetra nell'officina della ciecamente operantevolontà ed illumina le funzioni vegetative dell'organi-smo umano: nella chiaroveggenza magnetica. Finalmen-te, là dove la volontà è giunta al sommo grado della suaobiettivazione, non basta più agli animali la conoscenzarazionale, cui offrono i sensi i loro dati, generando sem-plici rappresentazioni vincolate al presente: l'esserecomplicato, multilaterale, plasmabile, pieno di bisognied esposto ad innumerevoli danni, doveva, per poter re-sistere, essere illuminato da una doppia conoscenza, equasi una potenza più elevata della conoscenza intuitivadoveva aggiungersi a quest'ultima, come un suo riverbe-

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ramento: dico la ragione, come patrimonio di concettiastratti. Con la ragione incomincia la riflessione, che ab-braccia il futuro ed il passato; ed in seguito vengono lameditazione, la preoccupazione, la capacità d'una con-dotta premeditata, indipendente dal presente; e infineuna coscienza in tutto chiara delle proprie decisioni vo-lontarie, in quanto tali. Ora, se già con la semplice cono-scenza intuitiva s'era avuta la possibilità dell'illusione edell'errore – dal che era distrutta l'anteriore infallibilitànell'inconsapevole agire della volontà; sì che istinto edabito meccanico, quali manifestazioni incoscienti dellavolontà in mezzo alle manifestazioni guidate dalla cono-scenza, dovettero alla volontà stessa venire in aiuto –con l'apparire della ragione va quasi del tutto perdutaquella sicurezza e infallibilità con cui la volontà venivaa manifestarsi (la quale sicurezza all'estremo opposto,nella natura inorganica, apparisce addirittura come rego-la assoluta). L'istinto si ritrae completamente; la rifles-sione, che ora deve sostituire tutto il resto, genera(com'è spiegato nel primo libro) esitazione ed incertez-za; diventa possibile l'errore, il quale in molti casi impe-disce l'adeguata obiettivazione della volontà in atti. Per-ché, sebbene la volontà abbia già preso nel carattere lasua determinata ed immutabile direzione, in rispondenzacon la quale il volere medesimo opera infallibilmentedietro la spinta dei motivi, può tuttavia l'errore falsarnele manifestazioni, allorché motivi illusori somiglianti ai

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ramento: dico la ragione, come patrimonio di concettiastratti. Con la ragione incomincia la riflessione, che ab-braccia il futuro ed il passato; ed in seguito vengono lameditazione, la preoccupazione, la capacità d'una con-dotta premeditata, indipendente dal presente; e infineuna coscienza in tutto chiara delle proprie decisioni vo-lontarie, in quanto tali. Ora, se già con la semplice cono-scenza intuitiva s'era avuta la possibilità dell'illusione edell'errore – dal che era distrutta l'anteriore infallibilitànell'inconsapevole agire della volontà; sì che istinto edabito meccanico, quali manifestazioni incoscienti dellavolontà in mezzo alle manifestazioni guidate dalla cono-scenza, dovettero alla volontà stessa venire in aiuto –con l'apparire della ragione va quasi del tutto perdutaquella sicurezza e infallibilità con cui la volontà venivaa manifestarsi (la quale sicurezza all'estremo opposto,nella natura inorganica, apparisce addirittura come rego-la assoluta). L'istinto si ritrae completamente; la rifles-sione, che ora deve sostituire tutto il resto, genera(com'è spiegato nel primo libro) esitazione ed incertez-za; diventa possibile l'errore, il quale in molti casi impe-disce l'adeguata obiettivazione della volontà in atti. Per-ché, sebbene la volontà abbia già preso nel carattere lasua determinata ed immutabile direzione, in rispondenzacon la quale il volere medesimo opera infallibilmentedietro la spinta dei motivi, può tuttavia l'errore falsarnele manifestazioni, allorché motivi illusori somiglianti ai

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reali s'introducono e prendono il luogo di questi44: così,per esempio, quando la superstizione insinua motivi im-maginari, dai quali l'uomo è spinto a tenere una condottaproprio opposta a quella che altrimenti la sua volontàseguirebbe in quelle circostanze. Agamennone uccidesua figlia; un avaro largisce elemosine, per puro egoi-smo, nella speranza di un centuplicato compenso futuro,e così via.Adunque la conoscenza in genere, sia razionale o sia pu-ramente intuitiva, nasce originariamente dalla volontà,appartiene all'essenza dei più alti gradi della sua obietti-vazione, come una semplice (µηχανή), un mezzo per laconservazione dell'individuo e della specie, a modod'ogni altro organo del corpo. In origine destinata quindial servizio della volontà, pel raggiungimento dei suoifini, rimane a questa pressocché costantemente schiava:così in tutti gli animali ed in quasi tutti gli uomini. Ve-dremo tuttavia nel terzo libro, come in alcuni uomini laconoscenza si sottragga a questa servitù, ne spezzi ilgiogo, e, libera da tutti i fini della volontà, stia a sécome un semplice, chiaro specchio del mondo. Così na-sce l'arte. E vedremo finalmente nel quarto libro, comeper mezzo di questa maniera di conoscenza, quand'ellaagisce di riflesso sulla volontà, possa aversi la soppres-sione della volontà stessa; ossia la rassegnazione, che èlo scopo supremo, o anzi la più intima essenza d'ogni44 Dicevano quindi benissimo gli scolastici: «Causa finalis movet non secun-

dum suum esse reale, sed secundum esse cognitum». Vedi Suarez, Disp.metaph., disp. XXIII, sect. 7 et 8.

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reali s'introducono e prendono il luogo di questi44: così,per esempio, quando la superstizione insinua motivi im-maginari, dai quali l'uomo è spinto a tenere una condottaproprio opposta a quella che altrimenti la sua volontàseguirebbe in quelle circostanze. Agamennone uccidesua figlia; un avaro largisce elemosine, per puro egoi-smo, nella speranza di un centuplicato compenso futuro,e così via.Adunque la conoscenza in genere, sia razionale o sia pu-ramente intuitiva, nasce originariamente dalla volontà,appartiene all'essenza dei più alti gradi della sua obietti-vazione, come una semplice (µηχανή), un mezzo per laconservazione dell'individuo e della specie, a modod'ogni altro organo del corpo. In origine destinata quindial servizio della volontà, pel raggiungimento dei suoifini, rimane a questa pressocché costantemente schiava:così in tutti gli animali ed in quasi tutti gli uomini. Ve-dremo tuttavia nel terzo libro, come in alcuni uomini laconoscenza si sottragga a questa servitù, ne spezzi ilgiogo, e, libera da tutti i fini della volontà, stia a sécome un semplice, chiaro specchio del mondo. Così na-sce l'arte. E vedremo finalmente nel quarto libro, comeper mezzo di questa maniera di conoscenza, quand'ellaagisce di riflesso sulla volontà, possa aversi la soppres-sione della volontà stessa; ossia la rassegnazione, che èlo scopo supremo, o anzi la più intima essenza d'ogni44 Dicevano quindi benissimo gli scolastici: «Causa finalis movet non secun-

dum suum esse reale, sed secundum esse cognitum». Vedi Suarez, Disp.metaph., disp. XXIII, sect. 7 et 8.

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virtù e santità, ed è la redenzione del mondo.

§ 28.Abbiamo considerato la grande molteplicità e varietàdei fenomeni, nei quali viene ad obiettivarsi la volontà;anzi, abbiamo veduta l'irreconciliabile lotta senza fineche fra loro si combatte. Ma la volontà stessa, comecosa in sé – secondo appare da tutta la nostra esposizio-ne – non è punto compresa in quella molteplicità ed inquella varietà. La diversità delle idee (platoniche), ossiai gradi dell'oggettivazione, la folla degli individui, in cuiciascuno di questi si presenta, la battaglia delle formeper la materia: tutto ciò non riguarda la volontà, ma soloil modo della sua obiettivazione; e solo mediante questaultima ha con la volontà una relazione mediata, in graziadella quale diventa espressione della sua essenza per larappresentazione. Come una lanterna magica fa appariremolte e diverse immagini, ma una sola è la fiamma, chequelle immagini rende visibili, così in tutti i molteplicifenomeni, che o l'uno accanto all'altro riempiono ilmondo, o l'un dopo l'altro s'incalzano in forma d'avveni-menti, è nondimeno la volontà unica, che si disvela; iltutto non è se non visibilità e oggettità di lei, ed ella im-mota rimane in ogni mutamento, ella sola è la cosa insé: mentre ogni oggetto è apparizione, o fenomeno, perparlare nel linguaggio di Kant. Per quanto la volontà,come idea (platonica), abbia la sua più chiara e perfettaobiettivazione nell'uomo, non potrebbe tuttavia questa

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virtù e santità, ed è la redenzione del mondo.

§ 28.Abbiamo considerato la grande molteplicità e varietàdei fenomeni, nei quali viene ad obiettivarsi la volontà;anzi, abbiamo veduta l'irreconciliabile lotta senza fineche fra loro si combatte. Ma la volontà stessa, comecosa in sé – secondo appare da tutta la nostra esposizio-ne – non è punto compresa in quella molteplicità ed inquella varietà. La diversità delle idee (platoniche), ossiai gradi dell'oggettivazione, la folla degli individui, in cuiciascuno di questi si presenta, la battaglia delle formeper la materia: tutto ciò non riguarda la volontà, ma soloil modo della sua obiettivazione; e solo mediante questaultima ha con la volontà una relazione mediata, in graziadella quale diventa espressione della sua essenza per larappresentazione. Come una lanterna magica fa appariremolte e diverse immagini, ma una sola è la fiamma, chequelle immagini rende visibili, così in tutti i molteplicifenomeni, che o l'uno accanto all'altro riempiono ilmondo, o l'un dopo l'altro s'incalzano in forma d'avveni-menti, è nondimeno la volontà unica, che si disvela; iltutto non è se non visibilità e oggettità di lei, ed ella im-mota rimane in ogni mutamento, ella sola è la cosa insé: mentre ogni oggetto è apparizione, o fenomeno, perparlare nel linguaggio di Kant. Per quanto la volontà,come idea (platonica), abbia la sua più chiara e perfettaobiettivazione nell'uomo, non potrebbe tuttavia questa

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da sola esprimere l'essenza di esso. L'idea dell'uomo do-veva, per apparir nel significato che le si conviene, nonpresentarsi sola ed isolata, bensì essere accompagnatada tutta la scala discendente dei gradi, attraverso le for-me animali ed il regno vegetale, fino al regno inorgani-co. In tutti questi gradi si ha la compiuta obiettivazionedella volontà: essi vengono presupposti dall'ideadell'uomo, come i fiori dell'albero presuppongono fo-glie, rami, tronco e radici. Essi formano una piramide,della quale è vertice l'uomo. Se si amano i paragoni, sipuò anche dire: la loro manifestazione accompagnaquella dell'uomo con la stessa necessità, con cui la pienaluce è accompagnata da tutte le gradazioni della penom-bra, attraverso le quali va a perdersi nell'oscurità. O an-che si possono definire l'eco dell'uomo, e dire: animali epiante sono la quinta e terza minore dell'uomo, il regnoinorganico è l'ottava inferiore. Ma l'intera verità diquest'ultimo paragone ci sarà evidente sol quando nel li-bro seguente cercheremo di approfondire l'alta significa-zione della musica. Vedremo come la melodia, proce-dente ben connessa di alti, agili toni, sia in un certo sen-so da considerare quale un'immagine della vita edell'agitazione umana, che procede col nesso della ri-flessione; mentre invece il grave e lento basso, dal qualesi ha l'armonia necessaria alla compiutezza della musi-ca, dà immagine della rimanente natura animale o in-consapevole. Ma di ciò a suo tempo, quando non avràpiù un aspetto così paradossale. Quella interna necessitàdella serie dei fenomeni, inseparabile dall'adeguata

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da sola esprimere l'essenza di esso. L'idea dell'uomo do-veva, per apparir nel significato che le si conviene, nonpresentarsi sola ed isolata, bensì essere accompagnatada tutta la scala discendente dei gradi, attraverso le for-me animali ed il regno vegetale, fino al regno inorgani-co. In tutti questi gradi si ha la compiuta obiettivazionedella volontà: essi vengono presupposti dall'ideadell'uomo, come i fiori dell'albero presuppongono fo-glie, rami, tronco e radici. Essi formano una piramide,della quale è vertice l'uomo. Se si amano i paragoni, sipuò anche dire: la loro manifestazione accompagnaquella dell'uomo con la stessa necessità, con cui la pienaluce è accompagnata da tutte le gradazioni della penom-bra, attraverso le quali va a perdersi nell'oscurità. O an-che si possono definire l'eco dell'uomo, e dire: animali epiante sono la quinta e terza minore dell'uomo, il regnoinorganico è l'ottava inferiore. Ma l'intera verità diquest'ultimo paragone ci sarà evidente sol quando nel li-bro seguente cercheremo di approfondire l'alta significa-zione della musica. Vedremo come la melodia, proce-dente ben connessa di alti, agili toni, sia in un certo sen-so da considerare quale un'immagine della vita edell'agitazione umana, che procede col nesso della ri-flessione; mentre invece il grave e lento basso, dal qualesi ha l'armonia necessaria alla compiutezza della musi-ca, dà immagine della rimanente natura animale o in-consapevole. Ma di ciò a suo tempo, quando non avràpiù un aspetto così paradossale. Quella interna necessitàdella serie dei fenomeni, inseparabile dall'adeguata

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obiettità della volontà, la troviamo anche espressanell'insieme dei fenomeni stessi, mediante una necessitàesterna: in virtù della quale l'uomo per la propria con-servazione ha bisogno degli animali, questi di grado ingrado l'uno dell'altro, e finalmente delle piante; che, allalor volta, hanno bisogno del suolo, dell'acqua, degli ele-menti chimici e delle loro combinazioni, del pianeta, delsole, della rotazione e della rivoluzione intorno a quello,dell'inclinazione dell'eclittica e così via. In fondo, que-sto stato di cose proviene dal fatto che la volontà devedivorare se stessa, perché nulla esiste fuori di lei, ed ellaè una volontà affamata. Di qui la caccia, l'ansia e la sof-ferenza.Come il conoscer che la volontà è una, in quanto cosa insé, nell'infinita varietà e molteplicità dei fenomeni, puòda solo dirci il vero perché di quella stupefacente, inne-gabile analogia di tutte le produzioni della natura, diquell'aria di famiglia, che ci ricorda le variazioni d'unostesso tema non formulato: così in certo modo mediantela chiara e profonda conoscenza di quell'armonia, diquell'intimo nesso, che lega tutte le parti del mondo, diquella necessaria loro gradazione, che or ora abbiamoesaminata, ci si rivelerà in modo sincero e sufficientel'intima essenza dell'innegabile finalità di tutti i prodottiorganici della natura; la quale finalità noi addiritturapresupponiamo a priori nell'esame e nel giudizio di queiprodotti.Codesta finalità è duplice. Da un lato è interna, ossia è

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obiettità della volontà, la troviamo anche espressanell'insieme dei fenomeni stessi, mediante una necessitàesterna: in virtù della quale l'uomo per la propria con-servazione ha bisogno degli animali, questi di grado ingrado l'uno dell'altro, e finalmente delle piante; che, allalor volta, hanno bisogno del suolo, dell'acqua, degli ele-menti chimici e delle loro combinazioni, del pianeta, delsole, della rotazione e della rivoluzione intorno a quello,dell'inclinazione dell'eclittica e così via. In fondo, que-sto stato di cose proviene dal fatto che la volontà devedivorare se stessa, perché nulla esiste fuori di lei, ed ellaè una volontà affamata. Di qui la caccia, l'ansia e la sof-ferenza.Come il conoscer che la volontà è una, in quanto cosa insé, nell'infinita varietà e molteplicità dei fenomeni, puòda solo dirci il vero perché di quella stupefacente, inne-gabile analogia di tutte le produzioni della natura, diquell'aria di famiglia, che ci ricorda le variazioni d'unostesso tema non formulato: così in certo modo mediantela chiara e profonda conoscenza di quell'armonia, diquell'intimo nesso, che lega tutte le parti del mondo, diquella necessaria loro gradazione, che or ora abbiamoesaminata, ci si rivelerà in modo sincero e sufficientel'intima essenza dell'innegabile finalità di tutti i prodottiorganici della natura; la quale finalità noi addiritturapresupponiamo a priori nell'esame e nel giudizio di queiprodotti.Codesta finalità è duplice. Da un lato è interna, ossia è

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una così ordinata armonia di tutte le parti d'un singoloorganismo, che la conservazione di questo e della suaspecie ne deriva, presentandosi quindi come scopo diquell'armonia medesima. Dall'altro lato è esterna: ossiaè una relazione della natura inorganica con l'organica ingenere, o anche di singole parti della natura organica fraloro; relazione che rende possibile la conservazione ditutta quanta la natura organica, o anche di singole specieanimali, e quindi appare al nostro giudizio come unmezzo per la conservazione stessa.La finalità interna si connette col nostro ragionamentonel modo che segue. Se, conformemente a quanto ab-biam detto finora, tutti i differenti aspetti della natura etutta la pluralità degli individui non appartengono allavolontà, ma alla sua obiettità ed alle forme di questa, nesegue necessariamente, che la volontà è indivisibile, etutta intera presente in ogni fenomeno; sebbene sianomolto diversi i gradi della sua obiettivazione, ossia leidee (platoniche). Per maggior chiarezza, possiamo con-siderare queste diverse idee come singoli, ed in sé sem-plici atti di volontà, nei quali più o meno si manifestal'essenza della volontà medesima: ma gli individui sonoalla lor volta manifestazioni delle idee, cioè di quegliatti, nel tempo, nello spazio e nella pluralità. Ora un taleatto (o idea) nei gradi inferiori dell'obiettità conserva lasua unità, anche diventando fenomeno; mentre nei gradisuperiori per manifestarsi ha bisogno di tutta una seriedi stati e di sviluppi nel tempo, i quali soltanto se presi

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una così ordinata armonia di tutte le parti d'un singoloorganismo, che la conservazione di questo e della suaspecie ne deriva, presentandosi quindi come scopo diquell'armonia medesima. Dall'altro lato è esterna: ossiaè una relazione della natura inorganica con l'organica ingenere, o anche di singole parti della natura organica fraloro; relazione che rende possibile la conservazione ditutta quanta la natura organica, o anche di singole specieanimali, e quindi appare al nostro giudizio come unmezzo per la conservazione stessa.La finalità interna si connette col nostro ragionamentonel modo che segue. Se, conformemente a quanto ab-biam detto finora, tutti i differenti aspetti della natura etutta la pluralità degli individui non appartengono allavolontà, ma alla sua obiettità ed alle forme di questa, nesegue necessariamente, che la volontà è indivisibile, etutta intera presente in ogni fenomeno; sebbene sianomolto diversi i gradi della sua obiettivazione, ossia leidee (platoniche). Per maggior chiarezza, possiamo con-siderare queste diverse idee come singoli, ed in sé sem-plici atti di volontà, nei quali più o meno si manifestal'essenza della volontà medesima: ma gli individui sonoalla lor volta manifestazioni delle idee, cioè di quegliatti, nel tempo, nello spazio e nella pluralità. Ora un taleatto (o idea) nei gradi inferiori dell'obiettità conserva lasua unità, anche diventando fenomeno; mentre nei gradisuperiori per manifestarsi ha bisogno di tutta una seriedi stati e di sviluppi nel tempo, i quali soltanto se presi

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nel loro insieme compiono l'espressione della sua essen-za. Così, per esempio, l'idea che si palesa in qualsivogliaforza generale di natura ha sempre una sola e semplicemanifestazione, sebbene questa si presenti variamente aseconda delle relazioni esteriori: altrimenti non si po-trebbe dimostrar la sua identità, ciò che appunto si fa ri-muovendo la varietà prodotta unicamente dalle relazioniesterne. Così il cristallo ha una sola manifestazione vita-le: il cristallizzarsi; e questo ha poi nella forma irrigidi-ta, nel cadavere di quella vita momentanea, la sua com-piuta ed esauriente espressione. Ma già la pianta espri-me l'idea, di cui è fenomeno, non più in un sol tratto emediante una manifestazione semplice, bensì in unasuccessione di sviluppi dei propri organi, nel tempo.L'animale non soltanto sviluppa nello stesso modo, inuna successione di forme spesso differenti (metamorfo-si), il suo organismo; bensì questa forma medesima,sebbene già sia obbiettità della volontà in un dato grado,non basta tuttavia alla compiuta manifestazione dellasua idea. L'idea viene invece integrata mediante le azio-ni dell'animale, nelle quali viene ad esprimersi il suo ca-rattere empirico, che è il medesimo in tutta la specie, ecompie la manifestazione dell'idea; nel qual compimen-to questa presuppone un determinato organismo, comecondizione fondamentale. Presso l'uomo, il carattereempirico ha già in ogni individuo una speciale natura(anzi, come vedremo nel quarto libro, questo arriva finoa sostituir del tutto il carattere della specie, sopprimendospontaneamente la volontà intera). Ciò che dal suo ne-

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nel loro insieme compiono l'espressione della sua essen-za. Così, per esempio, l'idea che si palesa in qualsivogliaforza generale di natura ha sempre una sola e semplicemanifestazione, sebbene questa si presenti variamente aseconda delle relazioni esteriori: altrimenti non si po-trebbe dimostrar la sua identità, ciò che appunto si fa ri-muovendo la varietà prodotta unicamente dalle relazioniesterne. Così il cristallo ha una sola manifestazione vita-le: il cristallizzarsi; e questo ha poi nella forma irrigidi-ta, nel cadavere di quella vita momentanea, la sua com-piuta ed esauriente espressione. Ma già la pianta espri-me l'idea, di cui è fenomeno, non più in un sol tratto emediante una manifestazione semplice, bensì in unasuccessione di sviluppi dei propri organi, nel tempo.L'animale non soltanto sviluppa nello stesso modo, inuna successione di forme spesso differenti (metamorfo-si), il suo organismo; bensì questa forma medesima,sebbene già sia obbiettità della volontà in un dato grado,non basta tuttavia alla compiuta manifestazione dellasua idea. L'idea viene invece integrata mediante le azio-ni dell'animale, nelle quali viene ad esprimersi il suo ca-rattere empirico, che è il medesimo in tutta la specie, ecompie la manifestazione dell'idea; nel qual compimen-to questa presuppone un determinato organismo, comecondizione fondamentale. Presso l'uomo, il carattereempirico ha già in ogni individuo una speciale natura(anzi, come vedremo nel quarto libro, questo arriva finoa sostituir del tutto il carattere della specie, sopprimendospontaneamente la volontà intera). Ciò che dal suo ne-

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cessario sviluppo nel tempo e dal conseguente frangersiin singole azioni vien conosciuto come carattere empiri-co, è – fatta astrazione da questa forma temporale delfenomeno – il carattere intelligibile (secondo l'espressio-ne di Kant, il quale nel dimostrare questo divario enell'esporre il rapporto tra libertà e necessità, ossia pro-priamente tra la volontà come cosa in sé e il suo feno-meno nel tempo, da a conoscere in modo particolarmen-te felice il proprio merito immortale)45. Il carattere intel-ligibile coincide quindi con l'idea, o più precisamentecon l'originario atto di volontà, che in lei si manifesta:sotto questo rispetto, adunque, non solo il carattere em-pirico dell'uomo, ma anche quello d'ogni specie anima-le, anzi d'ogni specie vegetale e perfino d'ogni forza ori-ginaria della natura inorganica, è da considerar come fe-nomeno d'un carattere intelligibile, ossia d'un atto di vo-lontà indivisibile, che sta fuori del tempo. Vorrei qui disfuggita richiamar l'attenzione sull'ingenuità, con cuiciascuna pianta esprime e rivela intero tutto il propriocarattere mediante la semplice forma, e tutto il proprioessere e volere fa manifesto; la qual cosa rende tanto in-teressanti le fisonomie delle piante. L'animale invece,per esser conosciuto nella sua idea, ha già bisognod'essere osservato in tutte le sue azioni, e l'uomo, infine,va studiato bene addentro e sperimentato: imperocché la45 Si veda la Critica della ragion pura. Soluzione delle idee cosmologiche

intorno alla totalità della derivazione degli avvenimenti universali, pp.560-86 della quinta e pp. 532 sg. della prima edizione; e la Critica dellaragion pratica, quarta edizione, pp. 169-79. Edizione Rosenkranz, p. 224sgg. Cfr. la mia memoria sul principio di ragione, § 43.

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cessario sviluppo nel tempo e dal conseguente frangersiin singole azioni vien conosciuto come carattere empiri-co, è – fatta astrazione da questa forma temporale delfenomeno – il carattere intelligibile (secondo l'espressio-ne di Kant, il quale nel dimostrare questo divario enell'esporre il rapporto tra libertà e necessità, ossia pro-priamente tra la volontà come cosa in sé e il suo feno-meno nel tempo, da a conoscere in modo particolarmen-te felice il proprio merito immortale)45. Il carattere intel-ligibile coincide quindi con l'idea, o più precisamentecon l'originario atto di volontà, che in lei si manifesta:sotto questo rispetto, adunque, non solo il carattere em-pirico dell'uomo, ma anche quello d'ogni specie anima-le, anzi d'ogni specie vegetale e perfino d'ogni forza ori-ginaria della natura inorganica, è da considerar come fe-nomeno d'un carattere intelligibile, ossia d'un atto di vo-lontà indivisibile, che sta fuori del tempo. Vorrei qui disfuggita richiamar l'attenzione sull'ingenuità, con cuiciascuna pianta esprime e rivela intero tutto il propriocarattere mediante la semplice forma, e tutto il proprioessere e volere fa manifesto; la qual cosa rende tanto in-teressanti le fisonomie delle piante. L'animale invece,per esser conosciuto nella sua idea, ha già bisognod'essere osservato in tutte le sue azioni, e l'uomo, infine,va studiato bene addentro e sperimentato: imperocché la45 Si veda la Critica della ragion pura. Soluzione delle idee cosmologiche

intorno alla totalità della derivazione degli avvenimenti universali, pp.560-86 della quinta e pp. 532 sg. della prima edizione; e la Critica dellaragion pratica, quarta edizione, pp. 169-79. Edizione Rosenkranz, p. 224sgg. Cfr. la mia memoria sul principio di ragione, § 43.

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ragione lo fa in alto grado capace di fingere. L'animale ètanto più ingenuo dell'uomo, quanto la pianta è più inge-nua dell'animale. Nell'animale vediamo la volontà di vi-vere come se fosse più nuda che nell'uomo, dov'è rive-stita di tanta conoscenza, e per di più avvolta nella capa-cità della finzione; sì che la sua vera essenza non si pa-lesa se non per caso e frammentariamente. Affatto nuda,ma anche più debole si mostra la volontà di vivere nellapianta, come semplice, cieca tendenza ad esistere, senzascopo e senza mèta. Infatti la pianta disvela tutta la suaessenza al primo sguardo e con perfetta innocenza; né siperita di estendere al proprio vertice gli organi della ge-nerazione, che in tutti gli altri animali si trovano invecenel luogo più nascosto. Questa innocenza della pianta èfondata sulla sua incoscienza: non nel volere, bensì nelvolere cosciente risiede la colpa. Ogni pianta ci narra, atutta prima, della propria patria, del clima di questa, del-la natura del suolo da cui è uscita. Perciò anche l'ine-sperto conosce facilmente se una pianta esotica appar-tenga alla zona tropicale, o temperata, e se ella crescanell'acqua, nella palude, sui monti, o nella landa. Inoltre,ogni pianta esprime ancora la volontà speciale della suaspecie, e dice qualcosa, che non si può esprimere in nes-suna altra lingua. Ma passiamo ora ad applicar ciò ches'è detto alla considerazione ideologica degli organismi,in quanto questa tocca la loro finalità interiore. Se nellanatura inorganica l'idea – la quale va considerata ovun-que come un unico atto di volontà – si manifesta anchein un'unica e sempre eguale espressione, e si può quindi

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ragione lo fa in alto grado capace di fingere. L'animale ètanto più ingenuo dell'uomo, quanto la pianta è più inge-nua dell'animale. Nell'animale vediamo la volontà di vi-vere come se fosse più nuda che nell'uomo, dov'è rive-stita di tanta conoscenza, e per di più avvolta nella capa-cità della finzione; sì che la sua vera essenza non si pa-lesa se non per caso e frammentariamente. Affatto nuda,ma anche più debole si mostra la volontà di vivere nellapianta, come semplice, cieca tendenza ad esistere, senzascopo e senza mèta. Infatti la pianta disvela tutta la suaessenza al primo sguardo e con perfetta innocenza; né siperita di estendere al proprio vertice gli organi della ge-nerazione, che in tutti gli altri animali si trovano invecenel luogo più nascosto. Questa innocenza della pianta èfondata sulla sua incoscienza: non nel volere, bensì nelvolere cosciente risiede la colpa. Ogni pianta ci narra, atutta prima, della propria patria, del clima di questa, del-la natura del suolo da cui è uscita. Perciò anche l'ine-sperto conosce facilmente se una pianta esotica appar-tenga alla zona tropicale, o temperata, e se ella crescanell'acqua, nella palude, sui monti, o nella landa. Inoltre,ogni pianta esprime ancora la volontà speciale della suaspecie, e dice qualcosa, che non si può esprimere in nes-suna altra lingua. Ma passiamo ora ad applicar ciò ches'è detto alla considerazione ideologica degli organismi,in quanto questa tocca la loro finalità interiore. Se nellanatura inorganica l'idea – la quale va considerata ovun-que come un unico atto di volontà – si manifesta anchein un'unica e sempre eguale espressione, e si può quindi

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dire, che in ciò il carattere empirico partecipa diretta-mente dell'unità del carattere intelligibile, e quasi coin-cide con esso, sì che non può qui mostrarsi alcuna fina-lità interna; se invece tutti gli organismi estrinsecano laloro idea mediante una successione di sviluppi, condi-zionata da una molteplicità di parti differenti l'una ac-canto all'altra, ossia la somma delle manifestazioni delloro carattere empirico non è espressione del carattereintelligibile se non nel complesso: questo necessariogiustapporsi delle parti o succedersi dello sviluppo nonsopprime punto l'unità dell'idea manifestantesi,dell'esprimentesi atto di volontà. Piuttosto, codesta unitàtrova ora la sua espressione nella necessaria relazione econcatenazione di quelle parti e di quegli sviluppi fraloro, secondo la legge di causalità. Essendo l'unica e in-divisibile volontà, ed appunto perciò sempre concordecon se stessa, quella che si manifesta in tutta quantal'idea come in un atto, deve il suo fenomeno, pure divi-dendosi in una varietà di parti e di stati, continuar tutta-via a mostrare la propria unità in una costante armoniadi quelle parti e di quegli stati: e ciò accade medianteuna necessaria relazione e dipendenza rispettiva, sì cheanche nel fenomeno viene ricostituita l'unità dell'idea.Per conseguenza, noi conosciamo le diverse parti e fun-zioni dell'organismo, reciprocamente, come mezzo escopo le une delle altre, e l'organismo stesso come il su-premo scopo di tutte. Quindi tanto il suddividersi dellaidea – in sé semplice – nella pluralità delle parti e deglistati dell'organismo, da un lato, quanto dall'altro la rico-

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dire, che in ciò il carattere empirico partecipa diretta-mente dell'unità del carattere intelligibile, e quasi coin-cide con esso, sì che non può qui mostrarsi alcuna fina-lità interna; se invece tutti gli organismi estrinsecano laloro idea mediante una successione di sviluppi, condi-zionata da una molteplicità di parti differenti l'una ac-canto all'altra, ossia la somma delle manifestazioni delloro carattere empirico non è espressione del carattereintelligibile se non nel complesso: questo necessariogiustapporsi delle parti o succedersi dello sviluppo nonsopprime punto l'unità dell'idea manifestantesi,dell'esprimentesi atto di volontà. Piuttosto, codesta unitàtrova ora la sua espressione nella necessaria relazione econcatenazione di quelle parti e di quegli sviluppi fraloro, secondo la legge di causalità. Essendo l'unica e in-divisibile volontà, ed appunto perciò sempre concordecon se stessa, quella che si manifesta in tutta quantal'idea come in un atto, deve il suo fenomeno, pure divi-dendosi in una varietà di parti e di stati, continuar tutta-via a mostrare la propria unità in una costante armoniadi quelle parti e di quegli stati: e ciò accade medianteuna necessaria relazione e dipendenza rispettiva, sì cheanche nel fenomeno viene ricostituita l'unità dell'idea.Per conseguenza, noi conosciamo le diverse parti e fun-zioni dell'organismo, reciprocamente, come mezzo escopo le une delle altre, e l'organismo stesso come il su-premo scopo di tutte. Quindi tanto il suddividersi dellaidea – in sé semplice – nella pluralità delle parti e deglistati dell'organismo, da un lato, quanto dall'altro la rico-

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stituzione della sua unità mediante il necessario collega-mento di quelle parti e funzioni, che per esso divengonocausa ed effetto, ossia mezzo e scopo reciprocamente;sono caratteristici ed essenziali non della volontà pura,della cosa in sé, ma solamente del suo manifestarsi nellospazio, nel tempo e nella causalità (tutte varietà del prin-cipio di ragione, della forma del fenomeno). Apparten-gono al mondo come rappresentazione, non al mondocome volontà; si riferiscono alla maniera, con cui la vo-lontà diventa oggetto, ossia rappresentazione, in un datogrado della sua obiettità. Chi ha colto il senso di questaesposizione forse alquanto difficile, potrà ora compren-dere esattamente la dottrina kantiana, la quale tende amostrar che tanto la finalità del mondo organico quantola finalità del mondo inorganico è introdotta nella naturadal nostro intelletto; motivo per cui si riferiscono en-trambe al solo fenomeno, e non alla cosa in sé. Lo stu-pore, di cui s'è detto più sopra, di fronte all'infallibilecostanza della regolarità della natura inorganica, è so-stanzialmente identico a quello che si prova davanti allafinalità della natura organica: perché in ambo i casi quelche ci sorprende è il veder l'originaria unità dell'idea, laquale, diventando fenomeno, ha preso la forma dellapluralità e della diversità46.Per ciò che riguarda poi la seconda specie di finalità, se-condo la partizione fatta più sopra, – ossia la finalità,

46 Si confronti Sulla volontà nella natura, in fine della rubrica Anatomiacomparata.

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stituzione della sua unità mediante il necessario collega-mento di quelle parti e funzioni, che per esso divengonocausa ed effetto, ossia mezzo e scopo reciprocamente;sono caratteristici ed essenziali non della volontà pura,della cosa in sé, ma solamente del suo manifestarsi nellospazio, nel tempo e nella causalità (tutte varietà del prin-cipio di ragione, della forma del fenomeno). Apparten-gono al mondo come rappresentazione, non al mondocome volontà; si riferiscono alla maniera, con cui la vo-lontà diventa oggetto, ossia rappresentazione, in un datogrado della sua obiettità. Chi ha colto il senso di questaesposizione forse alquanto difficile, potrà ora compren-dere esattamente la dottrina kantiana, la quale tende amostrar che tanto la finalità del mondo organico quantola finalità del mondo inorganico è introdotta nella naturadal nostro intelletto; motivo per cui si riferiscono en-trambe al solo fenomeno, e non alla cosa in sé. Lo stu-pore, di cui s'è detto più sopra, di fronte all'infallibilecostanza della regolarità della natura inorganica, è so-stanzialmente identico a quello che si prova davanti allafinalità della natura organica: perché in ambo i casi quelche ci sorprende è il veder l'originaria unità dell'idea, laquale, diventando fenomeno, ha preso la forma dellapluralità e della diversità46.Per ciò che riguarda poi la seconda specie di finalità, se-condo la partizione fatta più sopra, – ossia la finalità,

46 Si confronti Sulla volontà nella natura, in fine della rubrica Anatomiacomparata.

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esteriore, la quale si mostra non già nell'intera economiadegli organismi, bensì nell'appoggio e nell'aiuto, chequesti ricevono dal di fuori, tanto dalla natura inorgani-ca, quanto gli uni dagli altri – anch'essa viene generica-mente spiegata dall'esposizione fatta or ora; essendo ilmondo intero, con tutti i suoi fenomeni, obiettità dellavolontà una ed indivisibile – l'idea – la quale sta a tuttele altre idee come l'armonia sta alle singole voci, sì chequella unità della volontà deve anche mostrarsinell'accordo di tutti i suoi fenomeni. Ma possiamo ele-var questa cognizione a molto maggior chiarezza, se cifacciamo a guardare un po' più da vicino i fenomeni diquella finalità esterna e di quell'armonia delle diverseparti della natura: il quale esame rifletterà contempora-neamente nuova luce su ciò che precede. Vi perverremonel miglior modo con l'esaminare l'analogia seguente.Il carattere d'ogni singolo uomo può, in quanto è affattoindividuale e non tutto compreso nel carattere della spe-cie, esser considerato come un'idea particolare, corri-spondente ad uno speciale atto d'obiettivazione della vo-lontà. Questo atto medesimo sarebbe quindi il suo carat-tere intelligibile; e il suo carattere empirico sarebbe lamanifestazione di quello. Il carattere empirico è in tuttoe per tutto determinato dall'intelligibile, il quale è volon-tà priva del fondamento di ragione, ossia come cosa insé non è sottomesso al principio di ragione (forma delfenomeno). Il carattere empirico deve render nel corsod'una vita l'immagine del carattere intelligibile, e non

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esteriore, la quale si mostra non già nell'intera economiadegli organismi, bensì nell'appoggio e nell'aiuto, chequesti ricevono dal di fuori, tanto dalla natura inorgani-ca, quanto gli uni dagli altri – anch'essa viene generica-mente spiegata dall'esposizione fatta or ora; essendo ilmondo intero, con tutti i suoi fenomeni, obiettità dellavolontà una ed indivisibile – l'idea – la quale sta a tuttele altre idee come l'armonia sta alle singole voci, sì chequella unità della volontà deve anche mostrarsinell'accordo di tutti i suoi fenomeni. Ma possiamo ele-var questa cognizione a molto maggior chiarezza, se cifacciamo a guardare un po' più da vicino i fenomeni diquella finalità esterna e di quell'armonia delle diverseparti della natura: il quale esame rifletterà contempora-neamente nuova luce su ciò che precede. Vi perverremonel miglior modo con l'esaminare l'analogia seguente.Il carattere d'ogni singolo uomo può, in quanto è affattoindividuale e non tutto compreso nel carattere della spe-cie, esser considerato come un'idea particolare, corri-spondente ad uno speciale atto d'obiettivazione della vo-lontà. Questo atto medesimo sarebbe quindi il suo carat-tere intelligibile; e il suo carattere empirico sarebbe lamanifestazione di quello. Il carattere empirico è in tuttoe per tutto determinato dall'intelligibile, il quale è volon-tà priva del fondamento di ragione, ossia come cosa insé non è sottomesso al principio di ragione (forma delfenomeno). Il carattere empirico deve render nel corsod'una vita l'immagine del carattere intelligibile, e non

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può riuscir diverso da come richiede l'essenza diquest'ultimo. Ma questa determinazione si estende soloall'essenziale, non a ciò che non è essenziale, nel corsodella vita così determinata. Non essenziale è la determi-nazione precisa degli eventi e delle azioni, che sono ilcampo in cui si esplica il carattere empirico. Eventi edazioni sono determinati da circostanze esteriori, che pro-ducono i motivi su cui reagisce il carattere, conforme-mente alla propria natura; e potendo essere diversissimi,si dirigerà sotto la loro influenza l'esterno atteggiamentodel carattere empirico nel suo fenomeno, ossia il deter-minato atteggiamento effettivo o storico del corso vitale.Questo potrà riuscir molto diverso, sebbene rimangaidentico il nucleo essenziale, il contenuto di tal fenome-no: così, per esempio, non è essenziale il giuocare a nociod a soldi; ma essenziale bensì il barare al giuoco, ol'agire onesto; l'essenziale viene determinato dal caratte-re intelligibile, l'inessenziale dall'influenza esterna.Come il medesimo tema si può presentare in cento va-riazioni, così il medesimo carattere in cento diversissi-me vie di vita. Ma, per quanto svariata possa esserel'influenza esterna, il carattere empirico manifestantesinel corso della vita, comunque riesca, deve pur tuttaviaobiettivare esattamente il carattere intelligibile, adattan-do la sua obiettivazione alle circostanze reali che gli sioffrono. Dobbiamo ammettere alcunché di analogo aquell'influsso di circostanze esterne sulla vita, pur deter-minata essenzialmente dal carattere, se vogliamo pensa-re al modo, con cui la volontà, nell'atto originario della

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può riuscir diverso da come richiede l'essenza diquest'ultimo. Ma questa determinazione si estende soloall'essenziale, non a ciò che non è essenziale, nel corsodella vita così determinata. Non essenziale è la determi-nazione precisa degli eventi e delle azioni, che sono ilcampo in cui si esplica il carattere empirico. Eventi edazioni sono determinati da circostanze esteriori, che pro-ducono i motivi su cui reagisce il carattere, conforme-mente alla propria natura; e potendo essere diversissimi,si dirigerà sotto la loro influenza l'esterno atteggiamentodel carattere empirico nel suo fenomeno, ossia il deter-minato atteggiamento effettivo o storico del corso vitale.Questo potrà riuscir molto diverso, sebbene rimangaidentico il nucleo essenziale, il contenuto di tal fenome-no: così, per esempio, non è essenziale il giuocare a nociod a soldi; ma essenziale bensì il barare al giuoco, ol'agire onesto; l'essenziale viene determinato dal caratte-re intelligibile, l'inessenziale dall'influenza esterna.Come il medesimo tema si può presentare in cento va-riazioni, così il medesimo carattere in cento diversissi-me vie di vita. Ma, per quanto svariata possa esserel'influenza esterna, il carattere empirico manifestantesinel corso della vita, comunque riesca, deve pur tuttaviaobiettivare esattamente il carattere intelligibile, adattan-do la sua obiettivazione alle circostanze reali che gli sioffrono. Dobbiamo ammettere alcunché di analogo aquell'influsso di circostanze esterne sulla vita, pur deter-minata essenzialmente dal carattere, se vogliamo pensa-re al modo, con cui la volontà, nell'atto originario della

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sua obiettivazione, determina le diverse idee nelle qualisi obiettiva; ossia le diverse forme d'esseri naturalid'ogni specie, fra cui ripartisce la sua obiettivazione, eche devono quindi aver necessariamente una reciprocarelazione nel fenomeno. Dobbiamo ammettere, che fratutti quei fenomeni dell'unica volontà abbia luogo un ge-nerale e reciproco adattarsi e accomodarsi – escludendotuttavia, come presto vedremo più chiaramente, ogni de-terminazione di tempo; perché l'idea sta fuori del tempo.Ogni fenomeno ha dovuto perciò adattarsi alle circo-stanze in cui s'era trovato, e queste adattarsi a quello,sebbene molto più recente nel tempo; e dappertutto noivediamo cotal consensus naturae. Quindi è ogni piantaadatta al suo terreno ed al suo cielo, ogni animale al suoelemento ed alla preda che deve nutrirlo, oltre ad esserein certo modo protetto contro i suoi naturali persecutori;adatto è l'occhio alla luce ed alla sua frangibilità, il pol-mone ed il sangue all'aria, la vescica natatoria all'acqua,l'occhio della foca al mutar dell'ambiente, le cellule ac-quifere nello stomaco del cammello all'aridità dei deser-ti africani, la vela del nautilo al vento che deve spingerla sua barchetta – e così giù giù fino alle più particolarie sorprendenti finalità esteriori47. In tutto ciò bisognaastrarre da ogni relazione temporale, perché questa puòriferirsi soltanto al fenomeno dell'idea, e non all'ideamedesima. Conseguentemente, quel modo di spiegazio-ne può anche valere in senso inverso, facendoci ammet-

47 Si veda Sulla volontà nella natura, rubrica Anatomia comparata.

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sua obiettivazione, determina le diverse idee nelle qualisi obiettiva; ossia le diverse forme d'esseri naturalid'ogni specie, fra cui ripartisce la sua obiettivazione, eche devono quindi aver necessariamente una reciprocarelazione nel fenomeno. Dobbiamo ammettere, che fratutti quei fenomeni dell'unica volontà abbia luogo un ge-nerale e reciproco adattarsi e accomodarsi – escludendotuttavia, come presto vedremo più chiaramente, ogni de-terminazione di tempo; perché l'idea sta fuori del tempo.Ogni fenomeno ha dovuto perciò adattarsi alle circo-stanze in cui s'era trovato, e queste adattarsi a quello,sebbene molto più recente nel tempo; e dappertutto noivediamo cotal consensus naturae. Quindi è ogni piantaadatta al suo terreno ed al suo cielo, ogni animale al suoelemento ed alla preda che deve nutrirlo, oltre ad esserein certo modo protetto contro i suoi naturali persecutori;adatto è l'occhio alla luce ed alla sua frangibilità, il pol-mone ed il sangue all'aria, la vescica natatoria all'acqua,l'occhio della foca al mutar dell'ambiente, le cellule ac-quifere nello stomaco del cammello all'aridità dei deser-ti africani, la vela del nautilo al vento che deve spingerla sua barchetta – e così giù giù fino alle più particolarie sorprendenti finalità esteriori47. In tutto ciò bisognaastrarre da ogni relazione temporale, perché questa puòriferirsi soltanto al fenomeno dell'idea, e non all'ideamedesima. Conseguentemente, quel modo di spiegazio-ne può anche valere in senso inverso, facendoci ammet-

47 Si veda Sulla volontà nella natura, rubrica Anatomia comparata.

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tere, che se ogni specie si conformò alle circostanze,queste circostanze presentatesi in antecedenza ebberoaltrettanto riguardo agli esseri che dovevano venire piùtardi. Imperocché è pur sempre la volontà una ed identi-ca, che si obiettiva nel mondo intero: ella non conoscetempo, poiché questa forma del principio di ragione nona lei appartiene né alle idee, sua obiettità originaria:bensì solamente al modo, con cui le idee vengono cono-sciute dagli effimeri individui, ossia al fenomeno delleidee. Quindi nel nostro presente esame del modo, concui si ripartisce fra le idee l'obiettivazione della volontà,è affatto priva di significato la successione del tempo.Quelle idee, le cui manifestazioni – conformemente allalegge di causalità cui sono, in quanto fenomeni, sotto-messe – entrarono dapprima nella successione del tem-po, non hanno alcun diritto di precedenza sulle altre, ilcui fenomeno v'entrò più tardi; anzi queste ultime sonoappunto le più perfette obiettivazioni della volontà, e leprime vi si dovettero adattare, così come le ultime alleprime. Quindi il corso dei pianeti, la inclinazionedell'eclittica, la rotazione della terra, la separazione del-la terraferma e del mare, l'atmosfera, la luce, il calore etutti i consimili fenomeni, i quali nella natura sono ciòche il basso fondamentale è nell'armonia, si adattaronopresaghi alle future specie d'esseri viventi, ch'essi eranodestinati a sostenere e conservare. Similmente si adattòil terreno alla nutrizione delle piante, queste alla nutri-zione degli animali, questi ancora alla nutrizione d'altrianimali, così come pur questi a quelli. Tutte le parti del-

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tere, che se ogni specie si conformò alle circostanze,queste circostanze presentatesi in antecedenza ebberoaltrettanto riguardo agli esseri che dovevano venire piùtardi. Imperocché è pur sempre la volontà una ed identi-ca, che si obiettiva nel mondo intero: ella non conoscetempo, poiché questa forma del principio di ragione nona lei appartiene né alle idee, sua obiettità originaria:bensì solamente al modo, con cui le idee vengono cono-sciute dagli effimeri individui, ossia al fenomeno delleidee. Quindi nel nostro presente esame del modo, concui si ripartisce fra le idee l'obiettivazione della volontà,è affatto priva di significato la successione del tempo.Quelle idee, le cui manifestazioni – conformemente allalegge di causalità cui sono, in quanto fenomeni, sotto-messe – entrarono dapprima nella successione del tem-po, non hanno alcun diritto di precedenza sulle altre, ilcui fenomeno v'entrò più tardi; anzi queste ultime sonoappunto le più perfette obiettivazioni della volontà, e leprime vi si dovettero adattare, così come le ultime alleprime. Quindi il corso dei pianeti, la inclinazionedell'eclittica, la rotazione della terra, la separazione del-la terraferma e del mare, l'atmosfera, la luce, il calore etutti i consimili fenomeni, i quali nella natura sono ciòche il basso fondamentale è nell'armonia, si adattaronopresaghi alle future specie d'esseri viventi, ch'essi eranodestinati a sostenere e conservare. Similmente si adattòil terreno alla nutrizione delle piante, queste alla nutri-zione degli animali, questi ancora alla nutrizione d'altrianimali, così come pur questi a quelli. Tutte le parti del-

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la natura si fanno incontro, perché una è la volontà chein tutte si manifesta; ma la successione temporale è deltutto estranea alle idee, che della volontà sono l'origina-ria ed esclusivamente adeguata obiettità (il libro seguen-te chiarisce quest'espressione). Ancora adesso, quandole specie non hanno più che da conservarsi, e non da ini-ziarsi, vediamo qua e là estendersi al futuro, quasiastraendo dalla successione temporale, una cotal provvi-denza di natura, un adattarsi di ciò che esiste a ciò cheverrà. Così costruisce l'uccello il nido per i piccoli, chenon conosce ancora; alza il castoro una casa, della qualegli è ignoto il perché; la formica, la marmotta, l'ape rac-colgono provviste per lo sconosciuto inverno; il ragno,il formicaleone rizzano, quasi con meditata astuzia,trappole per una preda futura, che non sanno; gl'insettidepongono le loro uova là, dove la futura larva troveràfuturo alimento. Quando, alla stagione della, fioritura, ilfiore femminile della Valisneria distende le curve spiredel suo stelo, dalle quali era stata fino allora trattenutain fondo all'acqua, e sale in tal modo alla superficie; al-lora il fiore maschile, cresciuto in fondo all'acqua sopraun breve stelo, si strappa da questo per venir così, colsacrifizio della propria vita, a galla, dove nuotando in-torno va in cerca del fiore femminile. E questo, feconda-to, si ritrae di nuovo, contraendo le sue spire, nel fondo,dove il frutto si matura48. Anche qui devo ricordareun'altra volta la larva del cervo volante maschio, la qua-48 Chatin, Sur la Valisneria spiralis, nei «Comptes rendus de l'Acad. d. Sc.»,

n. 13, 1855.

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la natura si fanno incontro, perché una è la volontà chein tutte si manifesta; ma la successione temporale è deltutto estranea alle idee, che della volontà sono l'origina-ria ed esclusivamente adeguata obiettità (il libro seguen-te chiarisce quest'espressione). Ancora adesso, quandole specie non hanno più che da conservarsi, e non da ini-ziarsi, vediamo qua e là estendersi al futuro, quasiastraendo dalla successione temporale, una cotal provvi-denza di natura, un adattarsi di ciò che esiste a ciò cheverrà. Così costruisce l'uccello il nido per i piccoli, chenon conosce ancora; alza il castoro una casa, della qualegli è ignoto il perché; la formica, la marmotta, l'ape rac-colgono provviste per lo sconosciuto inverno; il ragno,il formicaleone rizzano, quasi con meditata astuzia,trappole per una preda futura, che non sanno; gl'insettidepongono le loro uova là, dove la futura larva troveràfuturo alimento. Quando, alla stagione della, fioritura, ilfiore femminile della Valisneria distende le curve spiredel suo stelo, dalle quali era stata fino allora trattenutain fondo all'acqua, e sale in tal modo alla superficie; al-lora il fiore maschile, cresciuto in fondo all'acqua sopraun breve stelo, si strappa da questo per venir così, colsacrifizio della propria vita, a galla, dove nuotando in-torno va in cerca del fiore femminile. E questo, feconda-to, si ritrae di nuovo, contraendo le sue spire, nel fondo,dove il frutto si matura48. Anche qui devo ricordareun'altra volta la larva del cervo volante maschio, la qua-48 Chatin, Sur la Valisneria spiralis, nei «Comptes rendus de l'Acad. d. Sc.»,

n. 13, 1855.

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le scava rodendo, per la sua metamorfosi, un buco nellegno, due volte più grosso del buco scavato dalla fem-mina, perché v'abbiano spazio le sue future corna. In ge-nerale, adunque, l'istinto degli animali ci dà il miglioreavviamento a capir tutta la teleologia della natura. Impe-rocché come l'istinto è un agire simile a quello provoca-to da un concetto di finalità, pur non avendone alcuno,così ogni cosa formata dalla natura rassomiglia a quelleguidate da un concetto di finalità, anche quando ne èpriva. Nell'esteriore come nell'interior teleologia dellanatura ciò che noi dobbiamo pensare come mezzo ecome scopo è sempre unicamente la manifestazione –venuta a scindersi per la nostra maniera di conoscenzanel tempo e nello spazio – dell'unità dell'unica volontà,per questo rispetto concorde con se stessa.Frattanto il reciproco adattarsi e accomodarsi dei feno-meni, derivato da questa unità, non può cancellare l'inti-mo dissidio sopra esposto, rivelantesi nell'universale lot-ta della natura, ed alla volontà inerente. Quell'armoniaperviene solamente a render possibile l'esistenza delmondo e degli esseri viventi, che senza di lei sarebberoda tempo periti. Quindi ella si estende solo all'esistenzadella specie ed alle generali condizioni di vita, ma nonagli individui. Quindi, se in grazia di quell'armonia edadattamento le specie nel mondo organico e le generaliforze di natura nel mondo inorganico sussistono le unepresso le altre, sorreggendosi anzi a vicenda, l'intimodissidio della volontà obiettivato in tutte quelle idee si

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le scava rodendo, per la sua metamorfosi, un buco nellegno, due volte più grosso del buco scavato dalla fem-mina, perché v'abbiano spazio le sue future corna. In ge-nerale, adunque, l'istinto degli animali ci dà il miglioreavviamento a capir tutta la teleologia della natura. Impe-rocché come l'istinto è un agire simile a quello provoca-to da un concetto di finalità, pur non avendone alcuno,così ogni cosa formata dalla natura rassomiglia a quelleguidate da un concetto di finalità, anche quando ne èpriva. Nell'esteriore come nell'interior teleologia dellanatura ciò che noi dobbiamo pensare come mezzo ecome scopo è sempre unicamente la manifestazione –venuta a scindersi per la nostra maniera di conoscenzanel tempo e nello spazio – dell'unità dell'unica volontà,per questo rispetto concorde con se stessa.Frattanto il reciproco adattarsi e accomodarsi dei feno-meni, derivato da questa unità, non può cancellare l'inti-mo dissidio sopra esposto, rivelantesi nell'universale lot-ta della natura, ed alla volontà inerente. Quell'armoniaperviene solamente a render possibile l'esistenza delmondo e degli esseri viventi, che senza di lei sarebberoda tempo periti. Quindi ella si estende solo all'esistenzadella specie ed alle generali condizioni di vita, ma nonagli individui. Quindi, se in grazia di quell'armonia edadattamento le specie nel mondo organico e le generaliforze di natura nel mondo inorganico sussistono le unepresso le altre, sorreggendosi anzi a vicenda, l'intimodissidio della volontà obiettivato in tutte quelle idee si

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rivela invece nell'incessante guerra sterminatrice degliindividui appartenenti alle varie specie, e nel perennelottare delle forze naturali fra loro, com'è sopra esposto.Campo ed oggetto di questa guerra è la materia, che gliavversari cercano di strapparsi a vicenda; o anche iltempo e lo spazio, la cui combinazione sotto la formadella causalità costituisce propriamente la materia,com'è spiegato nel primo libro49.

§ 29.Chiudo qui la seconda parte della mia trattazione, con lasperanza che – per quanto è possibile nel comunicar perla prima volta un pensiero nuovissimo, al quale non rie-sce quindi di liberarsi del tutto dalla personalità che l'haprodotto – mi sia riuscito di mostrar con chiara certezzacome questo mondo, nel quale viviamo ed esistiamo, sianella sua intera essenza in tutto e per tutto volontà, econtemporaneamente in tutto e per tutto rappresentazio-ne; inoltre, come questa rappresentazione, in quantotale, presupponga una forma – ossia oggetto e soggetto– e sia quindi relativa. E se ci domandiamo che cosa ri-manga, sopprimendo questa forma e tutte le altre a leisubordinate, espresse dal principio di ragione,quest'avanzo, come alcunché toto genere diverso dallarappresentazione, non può essere altro che la volontà,che è perciò la vera cosa in sé. Ognuno sente di essere

49 Si vedano i capp. 26 e 27 del secondo volume [pp. 339-60 del tomo Idell'ed. cit.].

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rivela invece nell'incessante guerra sterminatrice degliindividui appartenenti alle varie specie, e nel perennelottare delle forze naturali fra loro, com'è sopra esposto.Campo ed oggetto di questa guerra è la materia, che gliavversari cercano di strapparsi a vicenda; o anche iltempo e lo spazio, la cui combinazione sotto la formadella causalità costituisce propriamente la materia,com'è spiegato nel primo libro49.

§ 29.Chiudo qui la seconda parte della mia trattazione, con lasperanza che – per quanto è possibile nel comunicar perla prima volta un pensiero nuovissimo, al quale non rie-sce quindi di liberarsi del tutto dalla personalità che l'haprodotto – mi sia riuscito di mostrar con chiara certezzacome questo mondo, nel quale viviamo ed esistiamo, sianella sua intera essenza in tutto e per tutto volontà, econtemporaneamente in tutto e per tutto rappresentazio-ne; inoltre, come questa rappresentazione, in quantotale, presupponga una forma – ossia oggetto e soggetto– e sia quindi relativa. E se ci domandiamo che cosa ri-manga, sopprimendo questa forma e tutte le altre a leisubordinate, espresse dal principio di ragione,quest'avanzo, come alcunché toto genere diverso dallarappresentazione, non può essere altro che la volontà,che è perciò la vera cosa in sé. Ognuno sente di essere

49 Si vedano i capp. 26 e 27 del secondo volume [pp. 339-60 del tomo Idell'ed. cit.].

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codesta volontà, così come sente d'altra parte di esseresoggetto conoscente, di cui è rappresentazione il mondointero; il quale esiste solo in rapporto alla sua coscienza,che n'è il necessario sostegno. Ognuno è adunque, perquesto duplice rispetto, tutto quanto il mondo: è il mi-crocosmo; ed i due aspetti del modo trova interi, com-piuti in se stesso. E ciò ch'egli conosce in tal modocome sua propria essenza, costituisce pur l'essenza delmondo intero, del macrocosmo: anche questo è, comelui, in tutto e per tutto volontà, in tutto e per tutto rap-presentazione; e niente di più. Così vediamo qui coinci-dere la filosofia di Talete, che considerava il macroco-smo, e quella di Socrate, che considerava il microco-smo, poiché unico si rivela l'oggetto d'entrambe. Ma tut-ta la cognizione rivelata nei due primi libri guadagneràin compiutezza ed evidenza nei due libri che seguiran-no; nei quali, spero, talune quistioni, sollevate fin quinettamente od oscuramente, troveranno piena risposta.Frattanto, una di codeste quistioni va discussa a parte,potendo esser posta solo in quanto non s'è ancor pene-trato del tutto il senso della trattazione fatta finora, e ap-punto perciò potendo servire a chiarirla. Essa è la se-guente. Ogni volontà è volontà di qualche cosa, ha unoggetto, una mèta del suo volere: che cosa vuol dunquealla fin fine quella volontà, che noi abbiamo rappresen-tata come essenza in sé del mondo? Questa domanda sifonda, come tante altre, sulla confusione della cosa in sécol fenomeno. Al fenomeno, non alla cosa in sé si esten-

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codesta volontà, così come sente d'altra parte di esseresoggetto conoscente, di cui è rappresentazione il mondointero; il quale esiste solo in rapporto alla sua coscienza,che n'è il necessario sostegno. Ognuno è adunque, perquesto duplice rispetto, tutto quanto il mondo: è il mi-crocosmo; ed i due aspetti del modo trova interi, com-piuti in se stesso. E ciò ch'egli conosce in tal modocome sua propria essenza, costituisce pur l'essenza delmondo intero, del macrocosmo: anche questo è, comelui, in tutto e per tutto volontà, in tutto e per tutto rap-presentazione; e niente di più. Così vediamo qui coinci-dere la filosofia di Talete, che considerava il macroco-smo, e quella di Socrate, che considerava il microco-smo, poiché unico si rivela l'oggetto d'entrambe. Ma tut-ta la cognizione rivelata nei due primi libri guadagneràin compiutezza ed evidenza nei due libri che seguiran-no; nei quali, spero, talune quistioni, sollevate fin quinettamente od oscuramente, troveranno piena risposta.Frattanto, una di codeste quistioni va discussa a parte,potendo esser posta solo in quanto non s'è ancor pene-trato del tutto il senso della trattazione fatta finora, e ap-punto perciò potendo servire a chiarirla. Essa è la se-guente. Ogni volontà è volontà di qualche cosa, ha unoggetto, una mèta del suo volere: che cosa vuol dunquealla fin fine quella volontà, che noi abbiamo rappresen-tata come essenza in sé del mondo? Questa domanda sifonda, come tante altre, sulla confusione della cosa in sécol fenomeno. Al fenomeno, non alla cosa in sé si esten-

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de il principio di ragione; una forma del quale è anche lalegge di motivazione. Si può dare una ragione dei feno-meni in quanto tali, dei singoli oggetti, ma non mai dellavolontà medesima, né dell'idea, in cui questa adeguata-mente si obiettiva: Nello stesso modo, d'ogni singolomovimento, o in genere d'ogni modificazione nella natu-ra si deve cercar la causa, ossia uno stato, che l'abbia ne-cessariamente prodotta: ma non mai della forza naturale,che si manifesta in quel fenomeno, come in altri innu-merevoli fenomeni eguali. Ed è una vera dissennatezza,proveniente da mancanza di riflessione, il voler cono-scere una causa della gravità, della elettricità e così via.Per avventura, sol quando si fosse dimostrato che gravi-tà, elettricità non sono vere e proprie forze naturali ori-ginarie, bensì soltanto aspetti fenomenici di una forza dinatura più generale e già nota, allora si potrebbe volerconoscere la causa, per cui codesta forza producesse quiil fenomeno della gravità e dell'elettricità. Tutto ciò èampiamente spiegato più sopra. Nello stesso modo, ognisingolo atto di volontà di un individuo conoscente (ilquale è anch'esso semplice fenomeno della cosa in sé)ha necessariamente un motivo, senza il quale quell'attonon si sarebbe mai prodotto: ma come la causa materia-le contiene soltanto la determinazione per cui in un datotempo, in un dato luogo, in una data materia deve pro-dursi una manifestazione di questa o quella forza natura-le, così anche il motivo determina soltanto l'atto di vo-lontà di un individuo conoscente in un dato tempo, in undato luogo, in date circostanze, come fatto singolo; né

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de il principio di ragione; una forma del quale è anche lalegge di motivazione. Si può dare una ragione dei feno-meni in quanto tali, dei singoli oggetti, ma non mai dellavolontà medesima, né dell'idea, in cui questa adeguata-mente si obiettiva: Nello stesso modo, d'ogni singolomovimento, o in genere d'ogni modificazione nella natu-ra si deve cercar la causa, ossia uno stato, che l'abbia ne-cessariamente prodotta: ma non mai della forza naturale,che si manifesta in quel fenomeno, come in altri innu-merevoli fenomeni eguali. Ed è una vera dissennatezza,proveniente da mancanza di riflessione, il voler cono-scere una causa della gravità, della elettricità e così via.Per avventura, sol quando si fosse dimostrato che gravi-tà, elettricità non sono vere e proprie forze naturali ori-ginarie, bensì soltanto aspetti fenomenici di una forza dinatura più generale e già nota, allora si potrebbe volerconoscere la causa, per cui codesta forza producesse quiil fenomeno della gravità e dell'elettricità. Tutto ciò èampiamente spiegato più sopra. Nello stesso modo, ognisingolo atto di volontà di un individuo conoscente (ilquale è anch'esso semplice fenomeno della cosa in sé)ha necessariamente un motivo, senza il quale quell'attonon si sarebbe mai prodotto: ma come la causa materia-le contiene soltanto la determinazione per cui in un datotempo, in un dato luogo, in una data materia deve pro-dursi una manifestazione di questa o quella forza natura-le, così anche il motivo determina soltanto l'atto di vo-lontà di un individuo conoscente in un dato tempo, in undato luogo, in date circostanze, come fatto singolo; né

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mai determina genericamente che quell'essere voglia, eche voglia in tal modo. Codesta è invece manifestazionedel suo carattere intelligibile, il quale come la volontàstessa – la cosa in sé – è senza fondamento di ragione,stando appunto fuor del dominio del principio di ragio-ne. Quindi ciascun uomo ha sempre finalità e motivi, inbase ai quali dirige la propria condotta, e sa ognora ren-der conto delle proprie azioni: ma, se gli si domandasseperché egli in genere voglia, o perché in genere egli ab-bia volontà di esistere, non avrebbe da dar risposta alcu-na; piuttosto la domanda gli parrebbe stolta. Ed in ciòappunto verrebbe ad esprimersi la coscienza dell'essereegli medesimo niente altro se non volontà; volontà, chesi comprende da se stessa, e soltanto nei suoi singoliatti, nei singoli momenti abbisogna di una più precisadeterminazione.Infatti la mancanza d'ogni finalità e d'ogni confines'appartiene all'essenza della volontà in sé, che è unatendenza infinita. Questo punto fu già toccato più sopra,quando s'accennò alla forza centrifuga: e nel modo piùsemplice si rivela nell'infimo grado dell'obiettità dellavolontà, ossia nella gravità; il cui perenne tendere, mal-grado la palese impossibilità di una mèta ultima, è evi-dente. Foss'anche, per sua volontà, tutta la materia esi-stente riunita in un'unica massa compatta, la gravità se-guiterebbe tuttavia nel suo interno a lottare pur sempre,tendendo verso il centro, contro l'impenetrabilità, pale-santesi sia come rigidità, sia come elasticità. Questa ten-

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mai determina genericamente che quell'essere voglia, eche voglia in tal modo. Codesta è invece manifestazionedel suo carattere intelligibile, il quale come la volontàstessa – la cosa in sé – è senza fondamento di ragione,stando appunto fuor del dominio del principio di ragio-ne. Quindi ciascun uomo ha sempre finalità e motivi, inbase ai quali dirige la propria condotta, e sa ognora ren-der conto delle proprie azioni: ma, se gli si domandasseperché egli in genere voglia, o perché in genere egli ab-bia volontà di esistere, non avrebbe da dar risposta alcu-na; piuttosto la domanda gli parrebbe stolta. Ed in ciòappunto verrebbe ad esprimersi la coscienza dell'essereegli medesimo niente altro se non volontà; volontà, chesi comprende da se stessa, e soltanto nei suoi singoliatti, nei singoli momenti abbisogna di una più precisadeterminazione.Infatti la mancanza d'ogni finalità e d'ogni confines'appartiene all'essenza della volontà in sé, che è unatendenza infinita. Questo punto fu già toccato più sopra,quando s'accennò alla forza centrifuga: e nel modo piùsemplice si rivela nell'infimo grado dell'obiettità dellavolontà, ossia nella gravità; il cui perenne tendere, mal-grado la palese impossibilità di una mèta ultima, è evi-dente. Foss'anche, per sua volontà, tutta la materia esi-stente riunita in un'unica massa compatta, la gravità se-guiterebbe tuttavia nel suo interno a lottare pur sempre,tendendo verso il centro, contro l'impenetrabilità, pale-santesi sia come rigidità, sia come elasticità. Questa ten-

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denza della materia può essere quindi appena frenata,ma non mai appagata. E lo stesso accade ad ogni ten-denza di tutti i fenomeni della volontà. Ogni mèta rag-giunta è alla sua volta principio di un nuovo percorso, ecosì all'infinito. La pianta solleva la propria manifesta-zione dal germe, attraverso tronco e foglie, fino al fioreed al frutto, che alla sua volta non è che il principio diun nuovo germe, di un nuovo individuo, il quale un'altravolta segue l'antico cammino, e così per un tempo infi-nito. Non diversa è la vita dell'animale: suo vertice è lagenerazione, e dopo averlo raggiunto, la vita del primoindividuo decade presto o tardi, mentre un nuovo indivi-duo garantisce alla natura la conservazione della specie,e ripete lo stesso fenomeno. Anzi, qual semplice feno-meno di codesta perenne aspirazione e mutazione è purda considerare il continuo rinnovarsi della materia inciascun individuo, che i fisiologi hanno ora cessato ditener per necessaria compensazione della materia consu-matasi nel movimento; imperocché il possibile logoriodella macchina non può esser punto equivalente al con-tinuo afflusso proveniente dalla nutrizione: eterno dive-nire, infinito fluire appartengono al manifestarsidell'essenza della volontà. Lo stesso si può anche vede-re, finalmente, nelle aspirazioni e voglie umane, chesempre c'illudono mostrandoci il lor compimento comesupremo fine del volere; ma, non appena raggiunte, nonsembrano più le stesse, e quindi tosto dimenticate, in-vecchiate, vengono sempre – anche se non vogliamo su-bito convenirne – messe da parte come miraggi dilegua-

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denza della materia può essere quindi appena frenata,ma non mai appagata. E lo stesso accade ad ogni ten-denza di tutti i fenomeni della volontà. Ogni mèta rag-giunta è alla sua volta principio di un nuovo percorso, ecosì all'infinito. La pianta solleva la propria manifesta-zione dal germe, attraverso tronco e foglie, fino al fioreed al frutto, che alla sua volta non è che il principio diun nuovo germe, di un nuovo individuo, il quale un'altravolta segue l'antico cammino, e così per un tempo infi-nito. Non diversa è la vita dell'animale: suo vertice è lagenerazione, e dopo averlo raggiunto, la vita del primoindividuo decade presto o tardi, mentre un nuovo indivi-duo garantisce alla natura la conservazione della specie,e ripete lo stesso fenomeno. Anzi, qual semplice feno-meno di codesta perenne aspirazione e mutazione è purda considerare il continuo rinnovarsi della materia inciascun individuo, che i fisiologi hanno ora cessato ditener per necessaria compensazione della materia consu-matasi nel movimento; imperocché il possibile logoriodella macchina non può esser punto equivalente al con-tinuo afflusso proveniente dalla nutrizione: eterno dive-nire, infinito fluire appartengono al manifestarsidell'essenza della volontà. Lo stesso si può anche vede-re, finalmente, nelle aspirazioni e voglie umane, chesempre c'illudono mostrandoci il lor compimento comesupremo fine del volere; ma, non appena raggiunte, nonsembrano più le stesse, e quindi tosto dimenticate, in-vecchiate, vengono sempre – anche se non vogliamo su-bito convenirne – messe da parte come miraggi dilegua-

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ti. Felici ancora, se qualche cosa rimane al nostro desi-derio ed alla nostra aspirazione, per alimentare il giuocodel perenne passaggio dal desiderio all'appagamento, eda questo ad un novello desiderio – passaggio, che sichiama felicità quand'è rapido, dolore quand'è lento –;invece di cadere in quella paralisi, che si rivela come or-ribile, stagnante noia, confusa aspirazione senza oggettopreciso, mortale languore. Da tutto ciò appare che la vo-lontà, illuminata dalla conoscenza, sempre sa ciò chevuole in un dato momento, in un dato luogo; ma non saciò che vuole in genere. Ogni singolo atto ha un fine: lavolontà nel suo insieme non ne ha alcuno. Appuntocome ogni singolo fenomeno della natura viene determi-nato, nel suo prodursi in un dato luogo, in un dato tem-po, da una causa sufficiente; mentre la forza, che in essosi manifesta genericamente, non ha una causa, poichécodesta causa è un grado nella manifestazione della cosain sé, della volontà senza fondamento di ragione. L'uni-ca conoscenza di sé, che abbia la volontà in genere, è larappresentazione nel suo complesso, la totalità del mon-do intuitivo. Questo mondo è la sua obiettità, la sua ri-velazione, il suo specchio. Che cosa significhi il mondoin questa sua qualità, sarà oggetto della nostra seguenteconsiderazione50.

50 Cfr. il cap. 28 del secondo volume [pp. 361-71 del tomo I dell'ed. cit.].

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ti. Felici ancora, se qualche cosa rimane al nostro desi-derio ed alla nostra aspirazione, per alimentare il giuocodel perenne passaggio dal desiderio all'appagamento, eda questo ad un novello desiderio – passaggio, che sichiama felicità quand'è rapido, dolore quand'è lento –;invece di cadere in quella paralisi, che si rivela come or-ribile, stagnante noia, confusa aspirazione senza oggettopreciso, mortale languore. Da tutto ciò appare che la vo-lontà, illuminata dalla conoscenza, sempre sa ciò chevuole in un dato momento, in un dato luogo; ma non saciò che vuole in genere. Ogni singolo atto ha un fine: lavolontà nel suo insieme non ne ha alcuno. Appuntocome ogni singolo fenomeno della natura viene determi-nato, nel suo prodursi in un dato luogo, in un dato tem-po, da una causa sufficiente; mentre la forza, che in essosi manifesta genericamente, non ha una causa, poichécodesta causa è un grado nella manifestazione della cosain sé, della volontà senza fondamento di ragione. L'uni-ca conoscenza di sé, che abbia la volontà in genere, è larappresentazione nel suo complesso, la totalità del mon-do intuitivo. Questo mondo è la sua obiettità, la sua ri-velazione, il suo specchio. Che cosa significhi il mondoin questa sua qualità, sarà oggetto della nostra seguenteconsiderazione50.

50 Cfr. il cap. 28 del secondo volume [pp. 361-71 del tomo I dell'ed. cit.].

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Arthur Schopenhauer

Il mondo come volontà erappresentazione

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Arthur Schopenhauer

Il mondo come volontà erappresentazione

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Tomo secondo

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Tomo secondo

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LIBRO TERZOIL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE

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LIBRO TERZOIL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE

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SECONDA CONSIDERAZIONELa rappresentazione, indipendente dal principio di ra-

gione: l'idea platonica: l'oggetto dell'arte.

Τί τὸ ὂν µὲν ἀεὶ, γένεσιν δὲοὐκ ἔχον; χαὶ τί τὸ γιγνύµενονµὲν χαὶ ἀπολλύµενον, ὄντως δὲοὐδέπυτε ὄν;

ΠΛΔΤΩΝ

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SECONDA CONSIDERAZIONELa rappresentazione, indipendente dal principio di ra-

gione: l'idea platonica: l'oggetto dell'arte.

Τί τὸ ὂν µὲν ἀεὶ, γένεσιν δὲοὐκ ἔχον; χαὶ τί τὸ γιγνύµενονµὲν χαὶ ἀπολλύµενον, ὄντως δὲοὐδέπυτε ὄν;

ΠΛΔΤΩΝ

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§ 30.Dopo aver nel primo libro considerato il mondo comepura rappresentazione, come oggetto per un soggetto,nel secondo libro l'abbiamo guardato dall'altra sua fac-cia, trovando che questa è volontà, e risultò che il mon-do, oltre all'esser rappresentazione, non è altro che vo-lontà. In virtù di tale conoscenza, il mondo come rap-presentazione l’abbiam definito, sia nel complesso chenelle sue parti, oggettità della volontà: ciò che vienequindi a significare la volontà fatta oggetto, ossia rap-presentazione. Ricordiamoci inoltre che codesta oggetti-vazione della volontà aveva molti gradi, ma determinati:attraverso i quali, con chiarezza e compiutezza di gradoin grado più alta, veniva l'essenza della volontà ad entrarnella rappresentazione, ossia a presentarsi come oggetto.In codesti gradi abbiamo già nel secondo libro ricono-sciuto le idee di Platone, in quanto essi gradi sono ap-punto le specie determinate, o le originarie, immutabiliforme e proprietà di tutti i corpi naturali, sia inorganiciche organici; come anche sono le forze universali mani-festantisi secondo leggi di natura. Tali idee in complessosi presentano adunque in individui e fenomeni singoliinnumerevoli, stando di fronte ad essi come modelli difronte alle copie. La molteplicità di codesti individuipuò esser rappresentata solo mediante tempo e spazio; illoro nascere e perire solo mediante causalità: nelle qualiforme tutte noi non vediamo se non differenti modi del

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§ 30.Dopo aver nel primo libro considerato il mondo comepura rappresentazione, come oggetto per un soggetto,nel secondo libro l'abbiamo guardato dall'altra sua fac-cia, trovando che questa è volontà, e risultò che il mon-do, oltre all'esser rappresentazione, non è altro che vo-lontà. In virtù di tale conoscenza, il mondo come rap-presentazione l’abbiam definito, sia nel complesso chenelle sue parti, oggettità della volontà: ciò che vienequindi a significare la volontà fatta oggetto, ossia rap-presentazione. Ricordiamoci inoltre che codesta oggetti-vazione della volontà aveva molti gradi, ma determinati:attraverso i quali, con chiarezza e compiutezza di gradoin grado più alta, veniva l'essenza della volontà ad entrarnella rappresentazione, ossia a presentarsi come oggetto.In codesti gradi abbiamo già nel secondo libro ricono-sciuto le idee di Platone, in quanto essi gradi sono ap-punto le specie determinate, o le originarie, immutabiliforme e proprietà di tutti i corpi naturali, sia inorganiciche organici; come anche sono le forze universali mani-festantisi secondo leggi di natura. Tali idee in complessosi presentano adunque in individui e fenomeni singoliinnumerevoli, stando di fronte ad essi come modelli difronte alle copie. La molteplicità di codesti individuipuò esser rappresentata solo mediante tempo e spazio; illoro nascere e perire solo mediante causalità: nelle qualiforme tutte noi non vediamo se non differenti modi del

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principio di ragione, che è il principio ultimo di ognicosa finita, di ogni individuazione, nonché la generalforma della rappresentazione, com'essa penetra nella co-noscenza dell'individuo in quanto individuo. L'idea in-vece non rientra in quel principio: non le tocca quindi némolteplicità né mutamento. Mentre gl'individui, nei qua-li ella si presenta, sono innumerevoli, e nascono e muo-iono senza posa, ella resta immutata, sempre una edidentica, né il principio di ragione ha valore per lei. Mapoi che questo è la forma, a cui va sottomessa tutta laconoscenza del soggetto, in quanto esso conosce comeindividuo, vengono anche le idee a trovarsi affatto fuoridella sfera di conoscenza dell'individuo in quanto indi-viduo. Se quindi si vuol che le idee diventino oggettodella conoscenza, questo può accadere solo col soppri-mere l'individualità nel soggetto conoscente. Più precisied ampii chiarimenti di ciò saranno materia della tratta-zione che segue.

§ 31.Ma, prima di tutto, ancora una considerazione essen-

ziale. Spero mi sia riuscito nel libro precedente di gene-rare la persuasione che la cosa in sé della filosofia kan-tiana – la quale vi si presenta come una dottrina di granpeso, ma oscura e paradossale, sì che, soprattutto per ilmodo con cui Kant l'introduce, ossia mediante la dedu-zione dal causato alla causa, apparve come una pietrad'inciampo, anzi come il lato debole della sua filosofia –

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principio di ragione, che è il principio ultimo di ognicosa finita, di ogni individuazione, nonché la generalforma della rappresentazione, com'essa penetra nella co-noscenza dell'individuo in quanto individuo. L'idea in-vece non rientra in quel principio: non le tocca quindi némolteplicità né mutamento. Mentre gl'individui, nei qua-li ella si presenta, sono innumerevoli, e nascono e muo-iono senza posa, ella resta immutata, sempre una edidentica, né il principio di ragione ha valore per lei. Mapoi che questo è la forma, a cui va sottomessa tutta laconoscenza del soggetto, in quanto esso conosce comeindividuo, vengono anche le idee a trovarsi affatto fuoridella sfera di conoscenza dell'individuo in quanto indi-viduo. Se quindi si vuol che le idee diventino oggettodella conoscenza, questo può accadere solo col soppri-mere l'individualità nel soggetto conoscente. Più precisied ampii chiarimenti di ciò saranno materia della tratta-zione che segue.

§ 31.Ma, prima di tutto, ancora una considerazione essen-

ziale. Spero mi sia riuscito nel libro precedente di gene-rare la persuasione che la cosa in sé della filosofia kan-tiana – la quale vi si presenta come una dottrina di granpeso, ma oscura e paradossale, sì che, soprattutto per ilmodo con cui Kant l'introduce, ossia mediante la dedu-zione dal causato alla causa, apparve come una pietrad'inciampo, anzi come il lato debole della sua filosofia –

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non è altro che la volontà, quando a tal riconoscimentosi pervenga per la via affatto diversa da noi seguita; vo-lontà, nella sfera di questo concetto allargata e precisataal modo suesposto. Spero inoltre che, in virtù di quantoho detto, non si troverà ostacolo a riconoscere nei deter-minati gradi dell'oggettivazione di quella volontà, costi-tuente l'in-sé del mondo, ciò che Platone chiamava leidee eterne, ossia le forme immutabili (ειδη), le quali, ri-conosciute come il primo ma anche come il più oscuro eparadossale dogma della sua dottrina, sono state per unaserie di secoli oggetto di meditazione, di contesa, di bef-fa e di venerazione da parte di tanti cervelli così vana-mente intonati.

Se adunque per noi la volontà è la cosa in sé, e l'ideaè invece la diretta oggettità di quella volontà in un gradodeterminato, veniamo a trovare che la cosa in sé di Kante l'idea di Platone, la quale per lui è l'unico οντως ον –questi due grandi oscuri paradossi dei due maggiori filo-sofi dell'Occidente –, pur non essendo del tutto identici,sono nondimeno strettamente affini, e distinti per unasola determinazione. I due grandi paradossi sono addi-rittura – appunto pel fatto di suonar in modo tanto diver-so, malgrado la loro intima concordanza e parentela, acausa della straordinaria differenza tra le individualitàdei loro autori – il miglior commento reciproco l'unodell'altro, rassomigliando a due strade affatto diverse,che pur conducono ad una mèta. Questo si può chiarirecon poco. Kant dice, nella sostanza, quanto segue:«Tempo, spazio e causalità non sono determinazioni

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non è altro che la volontà, quando a tal riconoscimentosi pervenga per la via affatto diversa da noi seguita; vo-lontà, nella sfera di questo concetto allargata e precisataal modo suesposto. Spero inoltre che, in virtù di quantoho detto, non si troverà ostacolo a riconoscere nei deter-minati gradi dell'oggettivazione di quella volontà, costi-tuente l'in-sé del mondo, ciò che Platone chiamava leidee eterne, ossia le forme immutabili (ειδη), le quali, ri-conosciute come il primo ma anche come il più oscuro eparadossale dogma della sua dottrina, sono state per unaserie di secoli oggetto di meditazione, di contesa, di bef-fa e di venerazione da parte di tanti cervelli così vana-mente intonati.

Se adunque per noi la volontà è la cosa in sé, e l'ideaè invece la diretta oggettità di quella volontà in un gradodeterminato, veniamo a trovare che la cosa in sé di Kante l'idea di Platone, la quale per lui è l'unico οντως ον –questi due grandi oscuri paradossi dei due maggiori filo-sofi dell'Occidente –, pur non essendo del tutto identici,sono nondimeno strettamente affini, e distinti per unasola determinazione. I due grandi paradossi sono addi-rittura – appunto pel fatto di suonar in modo tanto diver-so, malgrado la loro intima concordanza e parentela, acausa della straordinaria differenza tra le individualitàdei loro autori – il miglior commento reciproco l'unodell'altro, rassomigliando a due strade affatto diverse,che pur conducono ad una mèta. Questo si può chiarirecon poco. Kant dice, nella sostanza, quanto segue:«Tempo, spazio e causalità non sono determinazioni

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della cosa in sé; bensì appartengono solamente al suofenomeno, non altro essendo se non forme della nostraconoscenza. Ma poiché ogni pluralità ed ogni principioe fine è possibile sol mediante tempo, spazio e causalità,ne deriva che anche pluralità, principio e fine si riferi-scono esclusivamente al fenomeno, e non mai alla cosain sé. Ed essendo la nostra conoscenza sotto condizionedi quelle forme, ne viene che l'esperienza tutta intera èsemplice conoscimento del fenomeno, e non della cosain sé: quindi non possono le sue leggi aver valore per lacosa in sé. Ciò s'estende perfino al nostro proprio io, chenoi conosciamo soltanto come fenomeno, e non qualepuò essere in se stesso». Questo è, sotto l'importante ri-spetto qui preso a esaminare, il significato e il contenutodella dottrina kantiana. Platone invece dice: «Le cose diquesto mondo, che i nostri sensi percepiscono, non han-no nessuna vera consistenza: esse divengono sempre,ma non sono mai: hanno un'esistenza appena relativa,esistono soltanto nel loro reciproco rapporto e per il lororeciproco rapporto: tutto il loro essere può così chiamar-si con egual ragione un non-essere. Non sono quindineppure oggetto di una vera e propria conoscenza(επιστηµη); potendosi aver conoscenza solo di ciò cheesiste in sé e per sé; e sempre nello stesso modo: mentreesse non sono se non l'oggetto di un'opinione provocataper mezzo di sensazione (δοξα µετ' αισθησεως αλογου).Fin quando restiamo vincolati alla loro percezione, ras-somigliando a uomini i quali stiano in una oscura caver-na, così strettamente legati da non poter nemmeno vol-

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della cosa in sé; bensì appartengono solamente al suofenomeno, non altro essendo se non forme della nostraconoscenza. Ma poiché ogni pluralità ed ogni principioe fine è possibile sol mediante tempo, spazio e causalità,ne deriva che anche pluralità, principio e fine si riferi-scono esclusivamente al fenomeno, e non mai alla cosain sé. Ed essendo la nostra conoscenza sotto condizionedi quelle forme, ne viene che l'esperienza tutta intera èsemplice conoscimento del fenomeno, e non della cosain sé: quindi non possono le sue leggi aver valore per lacosa in sé. Ciò s'estende perfino al nostro proprio io, chenoi conosciamo soltanto come fenomeno, e non qualepuò essere in se stesso». Questo è, sotto l'importante ri-spetto qui preso a esaminare, il significato e il contenutodella dottrina kantiana. Platone invece dice: «Le cose diquesto mondo, che i nostri sensi percepiscono, non han-no nessuna vera consistenza: esse divengono sempre,ma non sono mai: hanno un'esistenza appena relativa,esistono soltanto nel loro reciproco rapporto e per il lororeciproco rapporto: tutto il loro essere può così chiamar-si con egual ragione un non-essere. Non sono quindineppure oggetto di una vera e propria conoscenza(επιστηµη); potendosi aver conoscenza solo di ciò cheesiste in sé e per sé; e sempre nello stesso modo: mentreesse non sono se non l'oggetto di un'opinione provocataper mezzo di sensazione (δοξα µετ' αισθησεως αλογου).Fin quando restiamo vincolati alla loro percezione, ras-somigliando a uomini i quali stiano in una oscura caver-na, così strettamente legati da non poter nemmeno vol-

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gere il capo; i quali null'altro vedano, alla luce di unfuoco acceso dietro di loro, se non le ombre, riflesse sul-la parete di contro, di oggetti reali fatti passare tra loromedesimi ed il fuoco; ed anche di se stesso o dei com-pagni ciascuno veda soltanto l'ombra su quella parete.Tutta la loro sapienza starebbe nel predire l'ordine disuccessione, appreso per esperienza, di quelle ombre.Ciò che invece può esser chiamato un vero essere(οντως ον), perché sempre è ma non mai comincia né fi-nisce, sono le cause reali di quelle ombre: sono le eterneidee, le forme prime di tutte le cose. Quelle non hannopluralità: perché ciascuna è, per essenza, unica; essendoella il prototipo, del quale sono riproduzioni oppure om-bre tutte le omonime, singole, periture cose. Né toccaloro un principio o una fine; poi che esse veramentesono, e non cominciano e non finiscono come i loroevanescenti riflessi. (In entrambe queste determinazioninegative è di necessità sottintesa la premessa, che tempospazio e causalità non abbiano per le idee significato névalore, e che le idee non stiano entro cotali forme). Del-le idee soltanto si ha quindi vera e propria conoscenza,potendo di questa essere oggetto solo ciò che perenne-mente e sotto ogni aspetto (quindi in sé) è; non ciò cheora è, ora non è, secondo il punto da cui lo si conside-ra». Questa è la dottrina di Platone. Risulta evidente, enon richiede ulteriore spiegazione, che l'intimo sensodelle due dottrine è identico; che l'una e l'altra tiene ilmondo visibile per un'apparenza, la quale è in sé nulla,ed acquista significato e realtà riflessa solo da ciò che in

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gere il capo; i quali null'altro vedano, alla luce di unfuoco acceso dietro di loro, se non le ombre, riflesse sul-la parete di contro, di oggetti reali fatti passare tra loromedesimi ed il fuoco; ed anche di se stesso o dei com-pagni ciascuno veda soltanto l'ombra su quella parete.Tutta la loro sapienza starebbe nel predire l'ordine disuccessione, appreso per esperienza, di quelle ombre.Ciò che invece può esser chiamato un vero essere(οντως ον), perché sempre è ma non mai comincia né fi-nisce, sono le cause reali di quelle ombre: sono le eterneidee, le forme prime di tutte le cose. Quelle non hannopluralità: perché ciascuna è, per essenza, unica; essendoella il prototipo, del quale sono riproduzioni oppure om-bre tutte le omonime, singole, periture cose. Né toccaloro un principio o una fine; poi che esse veramentesono, e non cominciano e non finiscono come i loroevanescenti riflessi. (In entrambe queste determinazioninegative è di necessità sottintesa la premessa, che tempospazio e causalità non abbiano per le idee significato névalore, e che le idee non stiano entro cotali forme). Del-le idee soltanto si ha quindi vera e propria conoscenza,potendo di questa essere oggetto solo ciò che perenne-mente e sotto ogni aspetto (quindi in sé) è; non ciò cheora è, ora non è, secondo il punto da cui lo si conside-ra». Questa è la dottrina di Platone. Risulta evidente, enon richiede ulteriore spiegazione, che l'intimo sensodelle due dottrine è identico; che l'una e l'altra tiene ilmondo visibile per un'apparenza, la quale è in sé nulla,ed acquista significato e realtà riflessa solo da ciò che in

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lei si esprime (per Kant la cosa in sé, per Platone l'idea).Ed a questa unica verace essenza sono affatto estranee,secondo entrambe le dottrine, tutte le forme dei fenome-ni, anche le più universali e sostanziali. Per negare co-deste forme, Kant le ha direttamente assunte in espres-sioni astratte: e, senz'altro, tempo spazio e causalità hariconosciuto non appartenenti alla cosa in sé, quali sem-plici forme dei fenomeni: Platone invece non è pervenu-to fino all'ultima espressione, e le sue idee ha solo inmodo indiretto mostrate prive di quelle forme, negandoloro ciò che unicamente per mezzo delle forme stessediventa possibile, ossia pluralità dell'identico, nascita emorte. Ma per abbondare voglio ancora rendere eviden-te con un esempio quella singolare e importante concor-danza. Stia davanti a noi un animale, in piena attività divita. Platone dirà: «Questo animale non ha alcuna esi-stenza effettiva, bensì solo apparente: un perpetuo dive-nire, una esistenza relativa, la quale può esser chiamatatanto un non-essere, quanto un essere. Effettiva esisten-za ha soltanto l'idea, che in quell'animale si riproduce,ossia l'animale in se stesso (αυτο το θηριον), il quale danulla dipendente esiste solo in sé e per sé (θαθ' ἑαυτο,αει ὡς αυτως), non è nato, non morirà, sempre ad unmodo sarà (αει ον, χαὶ µηδεποτε ουγε απολλυµενον).Fin quando adunque riconosciamo in questo animale lasua idea, è affatto indifferente e senza importanza, senoi abbiamo davanti questo animale d'adesso o un suoprogenitore vissuto or sono mille anni; e così se esso siaqui o in una terra lontana; e se si mostri in questa o

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lei si esprime (per Kant la cosa in sé, per Platone l'idea).Ed a questa unica verace essenza sono affatto estranee,secondo entrambe le dottrine, tutte le forme dei fenome-ni, anche le più universali e sostanziali. Per negare co-deste forme, Kant le ha direttamente assunte in espres-sioni astratte: e, senz'altro, tempo spazio e causalità hariconosciuto non appartenenti alla cosa in sé, quali sem-plici forme dei fenomeni: Platone invece non è pervenu-to fino all'ultima espressione, e le sue idee ha solo inmodo indiretto mostrate prive di quelle forme, negandoloro ciò che unicamente per mezzo delle forme stessediventa possibile, ossia pluralità dell'identico, nascita emorte. Ma per abbondare voglio ancora rendere eviden-te con un esempio quella singolare e importante concor-danza. Stia davanti a noi un animale, in piena attività divita. Platone dirà: «Questo animale non ha alcuna esi-stenza effettiva, bensì solo apparente: un perpetuo dive-nire, una esistenza relativa, la quale può esser chiamatatanto un non-essere, quanto un essere. Effettiva esisten-za ha soltanto l'idea, che in quell'animale si riproduce,ossia l'animale in se stesso (αυτο το θηριον), il quale danulla dipendente esiste solo in sé e per sé (θαθ' ἑαυτο,αει ὡς αυτως), non è nato, non morirà, sempre ad unmodo sarà (αει ον, χαὶ µηδεποτε ουγε απολλυµενον).Fin quando adunque riconosciamo in questo animale lasua idea, è affatto indifferente e senza importanza, senoi abbiamo davanti questo animale d'adesso o un suoprogenitore vissuto or sono mille anni; e così se esso siaqui o in una terra lontana; e se si mostri in questa o

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quella maniera, posizione o azione; e se infine sia esso oqualunque altro individuo della sua specie: tutto ciò nonha peso, e riguarda il solo fenomeno, mentre l'ideadell'animale unicamente ha effettiva esistenza ed è og-getto di verace conoscimento». Così Platone. Kant diràsu per giù: «Questo animale è un fenomeno nel tempo,nello spazio e nella causalità, che sono tutte condizionia priori dell'esperienza possibile giacenti nella nostrafacoltà conoscitiva, non già determinazioni della cosa insé. Perciò quest'animale, sì come noi lo vediamo in untempo determinato, in un dato luogo, quale individuoformatosi nella connessione dell'esperienza, ossia nellacatena di causa ed effetto, e necessariamente perituro,non è punto cosa in sé, ma soltanto un fenomeno chenon vige se non in modo relativo alla nostra conoscenza.Per conoscer ciò che l'animale può essere in se medesi-mo, e quindi indipendentemente da tutte le determina-zioni riferentisi al tempo, allo spazio e alla causalità, sirichiederebbe un modo di conoscenza diverso daquell'unico a noi reso possibile dai sensi e dall'intellet-to».

Per avvicinare ancor più la formula kantiana alla pla-tonica, si potrebbe anche dire: tempo, spazio e causalitàsono quella disposizione del nostro intelletto, in graziadella quale l'unico essere di ogni specie che effettiva-mente esiste ci si presenta come una pluralità di indivi-dui della specie medesima, sempre da capo nascenti emorienti, in successione infinita. La percezione dellecose per mezzo e in conformità della suddetta disposi-

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quella maniera, posizione o azione; e se infine sia esso oqualunque altro individuo della sua specie: tutto ciò nonha peso, e riguarda il solo fenomeno, mentre l'ideadell'animale unicamente ha effettiva esistenza ed è og-getto di verace conoscimento». Così Platone. Kant diràsu per giù: «Questo animale è un fenomeno nel tempo,nello spazio e nella causalità, che sono tutte condizionia priori dell'esperienza possibile giacenti nella nostrafacoltà conoscitiva, non già determinazioni della cosa insé. Perciò quest'animale, sì come noi lo vediamo in untempo determinato, in un dato luogo, quale individuoformatosi nella connessione dell'esperienza, ossia nellacatena di causa ed effetto, e necessariamente perituro,non è punto cosa in sé, ma soltanto un fenomeno chenon vige se non in modo relativo alla nostra conoscenza.Per conoscer ciò che l'animale può essere in se medesi-mo, e quindi indipendentemente da tutte le determina-zioni riferentisi al tempo, allo spazio e alla causalità, sirichiederebbe un modo di conoscenza diverso daquell'unico a noi reso possibile dai sensi e dall'intellet-to».

Per avvicinare ancor più la formula kantiana alla pla-tonica, si potrebbe anche dire: tempo, spazio e causalitàsono quella disposizione del nostro intelletto, in graziadella quale l'unico essere di ogni specie che effettiva-mente esiste ci si presenta come una pluralità di indivi-dui della specie medesima, sempre da capo nascenti emorienti, in successione infinita. La percezione dellecose per mezzo e in conformità della suddetta disposi-

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zione è l'immanente; mentre quella, che si rende consa-pevole del come sta veramente la cosa, è la trascenden-tale. Questa la si riceve in abstracto mediante la criticadella ragion pura: ma in via d'eccezione può anche sta-bilirsi intuitivamente. Quest'ultima affermazione è unamia aggiunta, che per l'appunto mi occupo di spiegarenel presente terzo libro.

Se si fosse mai davvero intesa e afferrata la dottrinadi Kant, e, da Kant in qua, capito Platone; se si avessecon fedeltà e serietà meditato l'intimo senso e contenutodelle dottrine di questi due grandi maestri, invece di farsproloqui coi termini tecnici dell'uno e parodiare lo stiledell'altro, non si sarebbe potuto mancar di scoprire dagran tempo quanto concordino i due grandi sapienti, ecome il significato puro, l'indirizzo ultimo delle due dot-trine sia proprio il medesimo. E così non pure non si sa-rebbe ostinatamente confrontato Platone con Leibniz,col quale il suo genio non s'accorda in nessun modo, etanto meno con un noto signore ancor vivente51, quasiper dileggiare i Mani del grande pensatore antico; masotto ogni rispetto saremmo assai più progrediti di quan-to siamo, o piuttosto non saremmo così ignominiosa-mente retrocessi, come è accaduto in questi ultimi qua-rant'anni; non ci si sarebbe lasciati tirar pel naso oggi daun ciarlatano, domani da un altro, né questo secolo XIX,annunziantesi così significante, avremmo inaugurato inGermania con filosofiche farse recitate sulla tomba di

51 F. H. Jacobi.

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zione è l'immanente; mentre quella, che si rende consa-pevole del come sta veramente la cosa, è la trascenden-tale. Questa la si riceve in abstracto mediante la criticadella ragion pura: ma in via d'eccezione può anche sta-bilirsi intuitivamente. Quest'ultima affermazione è unamia aggiunta, che per l'appunto mi occupo di spiegarenel presente terzo libro.

Se si fosse mai davvero intesa e afferrata la dottrinadi Kant, e, da Kant in qua, capito Platone; se si avessecon fedeltà e serietà meditato l'intimo senso e contenutodelle dottrine di questi due grandi maestri, invece di farsproloqui coi termini tecnici dell'uno e parodiare lo stiledell'altro, non si sarebbe potuto mancar di scoprire dagran tempo quanto concordino i due grandi sapienti, ecome il significato puro, l'indirizzo ultimo delle due dot-trine sia proprio il medesimo. E così non pure non si sa-rebbe ostinatamente confrontato Platone con Leibniz,col quale il suo genio non s'accorda in nessun modo, etanto meno con un noto signore ancor vivente51, quasiper dileggiare i Mani del grande pensatore antico; masotto ogni rispetto saremmo assai più progrediti di quan-to siamo, o piuttosto non saremmo così ignominiosa-mente retrocessi, come è accaduto in questi ultimi qua-rant'anni; non ci si sarebbe lasciati tirar pel naso oggi daun ciarlatano, domani da un altro, né questo secolo XIX,annunziantesi così significante, avremmo inaugurato inGermania con filosofiche farse recitate sulla tomba di

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Kant (come talora gli antichi ai funerali dei loro), fra ilgiusto dileggio d'altre nazioni – perché ai gravi e perfinorigidi tedeschi scherzi siffatti si convengono meno che aogni altro. Ma così ristretto è il vero e proprio pubblicodegno dei filosofi genuini, che perfino i discepoli atti acomprenderli sono loro parcamente condotti dai secoli.Εισι δη ναρθηκοφοροι µεν πολλοι, Βακχοι δε γε

παυροι. (Thyrsigeri quidem multi, Bacchi vero pauci).Ἡ ατιµια φιλοσοφια̣ δια ταυτα προσπεπτωκεν, ότι ονκατ’ αξιαν αυτης άπτονται’ ου γαρ νοθους, εδειάπτεσθαι, αλλα γνησιους. (Eam ob rem philosophia ininfamiam incidit, quod non pro dignitate ipsa attingunt:neque enim a spuriis, sed a legitimis erat attractanda).Plat.

Si andò dietro alle parole, alle parole: «rappresenta-zioni a priori, indipendentemente dall'esperienza consa-pute forme dell'intuire e del pensare, concetti primi delpuro intelletto», etc. – e ci si chiese poi se le idee di Pla-tone, le quali anche vogliono essere concetti originarii eper di più ricordi di un'intuizione delle cose davveroreali, anteriore alla vita, non forse coincidessero con leforme kantiane dell'intuire e del pensare, le quali stannoa priori nella nostra conscienza. Queste due affatto ete-rogenee dottrine – la dottrina kantiana delle forme, chelimitano al fenomeno la conoscenza individuale, e ladottrina platonica delle idee, la cui conoscenza perl'appunto nega espressamente quelle forme – queste dot-trine sotto un tal rispetto diametralmente opposte si con-frontarono attentamente, perché esse nelle loro espres-

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Kant (come talora gli antichi ai funerali dei loro), fra ilgiusto dileggio d'altre nazioni – perché ai gravi e perfinorigidi tedeschi scherzi siffatti si convengono meno che aogni altro. Ma così ristretto è il vero e proprio pubblicodegno dei filosofi genuini, che perfino i discepoli atti acomprenderli sono loro parcamente condotti dai secoli.Εισι δη ναρθηκοφοροι µεν πολλοι, Βακχοι δε γε

παυροι. (Thyrsigeri quidem multi, Bacchi vero pauci).Ἡ ατιµια φιλοσοφια̣ δια ταυτα προσπεπτωκεν, ότι ονκατ’ αξιαν αυτης άπτονται’ ου γαρ νοθους, εδειάπτεσθαι, αλλα γνησιους. (Eam ob rem philosophia ininfamiam incidit, quod non pro dignitate ipsa attingunt:neque enim a spuriis, sed a legitimis erat attractanda).Plat.

Si andò dietro alle parole, alle parole: «rappresenta-zioni a priori, indipendentemente dall'esperienza consa-pute forme dell'intuire e del pensare, concetti primi delpuro intelletto», etc. – e ci si chiese poi se le idee di Pla-tone, le quali anche vogliono essere concetti originarii eper di più ricordi di un'intuizione delle cose davveroreali, anteriore alla vita, non forse coincidessero con leforme kantiane dell'intuire e del pensare, le quali stannoa priori nella nostra conscienza. Queste due affatto ete-rogenee dottrine – la dottrina kantiana delle forme, chelimitano al fenomeno la conoscenza individuale, e ladottrina platonica delle idee, la cui conoscenza perl'appunto nega espressamente quelle forme – queste dot-trine sotto un tal rispetto diametralmente opposte si con-frontarono attentamente, perché esse nelle loro espres-

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sioni un poco vengono a rassomigliarsi. E si tenne con-siglio, e ci si accapigliò sulla loro coincidenza, e si trovòalla fine, che non erano la stessa cosa; e si concluse, chela teoria platonica delle idee e la critica kantiana dellaragione non avessero nessun punto di contatto52. Ma ba-sti di ciò.

§ 32.Per le considerazioni fatte finora, malgrado tutto

l'intimo accordo fra Kant e Platone, e l'identità dellamèta che ad essi traluceva, o della concezione del mon-do la quale li mosse e guidò al filosofare, non sono tut-tavia identiche per noi l'idea e la cosa in sé; piuttosto èper noi l'idea solo immediata e quindi adeguata oggettitàdella cosa in sé, la quale ultima è tuttavia la volontà; lavolontà, in quanto non è ancora oggettivata, non ancoraè divenuta rappresentazione. Imperocché la cosa in sédeve, appunto secondo Kant, esser sciolta da tutte le for-me inerenti al conoscere in quanto tale: ed è soltanto(come sarà mostrato nell'appendice) un errore di Kant ilnon aver noverato tra codeste forme, primo di tutte,l'essere-oggetto-per-un-soggetto, essendo proprio questala prima e più universal forma d'ogni fenomeno, ossiarappresentazione. Alla sua cosa in sé avrebbe egli dun-que dovuto espressamente toglier la qualità d'essere og-getto; ciò che l'avrebbe salvato da quella grande, subitoscoperta inconseguenza. L'idea platonica invece è per52 Si veda p. es. Immanuel Kant, ein Denkmal von Fr. Bouterweck, p. 49; e

la Geschichte der Philosophie di Buhle, vol. 6, pp. 802-815 e 823.

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sioni un poco vengono a rassomigliarsi. E si tenne con-siglio, e ci si accapigliò sulla loro coincidenza, e si trovòalla fine, che non erano la stessa cosa; e si concluse, chela teoria platonica delle idee e la critica kantiana dellaragione non avessero nessun punto di contatto52. Ma ba-sti di ciò.

§ 32.Per le considerazioni fatte finora, malgrado tutto

l'intimo accordo fra Kant e Platone, e l'identità dellamèta che ad essi traluceva, o della concezione del mon-do la quale li mosse e guidò al filosofare, non sono tut-tavia identiche per noi l'idea e la cosa in sé; piuttosto èper noi l'idea solo immediata e quindi adeguata oggettitàdella cosa in sé, la quale ultima è tuttavia la volontà; lavolontà, in quanto non è ancora oggettivata, non ancoraè divenuta rappresentazione. Imperocché la cosa in sédeve, appunto secondo Kant, esser sciolta da tutte le for-me inerenti al conoscere in quanto tale: ed è soltanto(come sarà mostrato nell'appendice) un errore di Kant ilnon aver noverato tra codeste forme, primo di tutte,l'essere-oggetto-per-un-soggetto, essendo proprio questala prima e più universal forma d'ogni fenomeno, ossiarappresentazione. Alla sua cosa in sé avrebbe egli dun-que dovuto espressamente toglier la qualità d'essere og-getto; ciò che l'avrebbe salvato da quella grande, subitoscoperta inconseguenza. L'idea platonica invece è per52 Si veda p. es. Immanuel Kant, ein Denkmal von Fr. Bouterweck, p. 49; e

la Geschichte der Philosophie di Buhle, vol. 6, pp. 802-815 e 823.

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necessità oggetto, un che di conosciuto, una rappresen-tazione: e appunto perciò, ma anche solo perciò, distintodalla cosa in sé. Ella ha semplicemente deposto le su-bordinate forme del fenomeno, le quali tutte noi com-prendiamo sotto il principio di ragione, o meglio nonancora è in quelle penetrata; ma la prima e più universalforma ha ella mantenuto, ossia quella di rappresentazio-ne, d'essere oggetto per un soggetto. Sono le forme aquesta subordinate, che moltiplicano le idee in singolied effimeri individui, de' quali il numero è affatto indif-ferente rispetto all'idea. Il principio di ragione è adun-que ancora la forma in cui s'adagia l'idea, entrando nellaconoscenza del soggetto in quanto individuo. Il singolooggetto manifestantesi in conformità del principio di ra-gione è quindi soltanto una mediata oggettivazione dellacosa in sé (che è la volontà), tra la qual cosa in sé edesso oggetto sta ancora l'idea come unica immediata og-gettità della volontà, non avendo ella preso alcun'altraforma propria del conoscere in quanto tale, se non quel-la generica della rappresentazione, ossia dell'essere og-getto per un soggetto. Quindi ella sola è anche l'adegua-ta oggettità della volontà o cosa in sé, anzi è proprio lacosa in sé, ma soltanto in forma di rappresentazione: equi sta la base della grande concordanza tra Platone eKant – per quanto, a tutto rigore, la cosa di cui parlanonon sia la medesima. I singoli oggetti invece non sonpunto oggettità adeguata della volontà; bensì questa vi ègià intorbidata da quelle forme di cui è espressione co-mune il principio di ragione, e che sono condizione del-

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necessità oggetto, un che di conosciuto, una rappresen-tazione: e appunto perciò, ma anche solo perciò, distintodalla cosa in sé. Ella ha semplicemente deposto le su-bordinate forme del fenomeno, le quali tutte noi com-prendiamo sotto il principio di ragione, o meglio nonancora è in quelle penetrata; ma la prima e più universalforma ha ella mantenuto, ossia quella di rappresentazio-ne, d'essere oggetto per un soggetto. Sono le forme aquesta subordinate, che moltiplicano le idee in singolied effimeri individui, de' quali il numero è affatto indif-ferente rispetto all'idea. Il principio di ragione è adun-que ancora la forma in cui s'adagia l'idea, entrando nellaconoscenza del soggetto in quanto individuo. Il singolooggetto manifestantesi in conformità del principio di ra-gione è quindi soltanto una mediata oggettivazione dellacosa in sé (che è la volontà), tra la qual cosa in sé edesso oggetto sta ancora l'idea come unica immediata og-gettità della volontà, non avendo ella preso alcun'altraforma propria del conoscere in quanto tale, se non quel-la generica della rappresentazione, ossia dell'essere og-getto per un soggetto. Quindi ella sola è anche l'adegua-ta oggettità della volontà o cosa in sé, anzi è proprio lacosa in sé, ma soltanto in forma di rappresentazione: equi sta la base della grande concordanza tra Platone eKant – per quanto, a tutto rigore, la cosa di cui parlanonon sia la medesima. I singoli oggetti invece non sonpunto oggettità adeguata della volontà; bensì questa vi ègià intorbidata da quelle forme di cui è espressione co-mune il principio di ragione, e che sono condizione del-

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la conoscenza nel modo in cui questa è possibileall'individuo come tale. Noi invero, se è lecito trarre de-duzione da una possibile premessa, non conosceremmopiù né singoli oggetti, né casi, né mutamenti, né plurali-tà; ma solamente idee, solamente i gradi nella scaladell'oggettivazione di quell'una volontà della veracecosa in sé coglieremmo in pura, non disturbata cono-scenza, e sarebbe quindi il nostro mondo un Nunc stans;se come soggetti del conoscere non fossimo in pari tem-po individui, ossia se la nostra intuizione non avesse perintermediario un corpo, dalle cui affezioni ella muove,ed il quale è anch'esso soltanto volontà concreta, ogget-tità della volontà, ossia oggetto tra oggetti; e come tale,può entrare nella conscienza conoscente solo nelle for-me del principio di ragione, sì che già presuppone equindi introduce il tempo con tutte le altre forme chequel principio esprime. Il tempo è semplicementel'immagine divisa e spezzettata, che un essere individuoha delle idee, le quali stanno fuori del tempo, e sonoquindi eterne: perciò dice Platone essere il tempo unamossa immagine dell'eternità: αιωνος εικων κινητη ὁχρονος53

§ 33.Poiché noi adunque come individui non abbiamo co-

noscenza se non sottomessa al principio di ragione, equesta forma esclude la conoscenza delle idee, certo è53 Si veda il cap. 29 del secondo volume [pp. 375-8 del tomo II dell'edizione

nella «Biblioteca Universale Laterza», 2 tomi, Roma Bari 1986].

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la conoscenza nel modo in cui questa è possibileall'individuo come tale. Noi invero, se è lecito trarre de-duzione da una possibile premessa, non conosceremmopiù né singoli oggetti, né casi, né mutamenti, né plurali-tà; ma solamente idee, solamente i gradi nella scaladell'oggettivazione di quell'una volontà della veracecosa in sé coglieremmo in pura, non disturbata cono-scenza, e sarebbe quindi il nostro mondo un Nunc stans;se come soggetti del conoscere non fossimo in pari tem-po individui, ossia se la nostra intuizione non avesse perintermediario un corpo, dalle cui affezioni ella muove,ed il quale è anch'esso soltanto volontà concreta, ogget-tità della volontà, ossia oggetto tra oggetti; e come tale,può entrare nella conscienza conoscente solo nelle for-me del principio di ragione, sì che già presuppone equindi introduce il tempo con tutte le altre forme chequel principio esprime. Il tempo è semplicementel'immagine divisa e spezzettata, che un essere individuoha delle idee, le quali stanno fuori del tempo, e sonoquindi eterne: perciò dice Platone essere il tempo unamossa immagine dell'eternità: αιωνος εικων κινητη ὁχρονος53

§ 33.Poiché noi adunque come individui non abbiamo co-

noscenza se non sottomessa al principio di ragione, equesta forma esclude la conoscenza delle idee, certo è53 Si veda il cap. 29 del secondo volume [pp. 375-8 del tomo II dell'edizione

nella «Biblioteca Universale Laterza», 2 tomi, Roma Bari 1986].

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che quando sia a noi possibile sollevarci dalla conoscen-za delle singole cose a quella delle idee, ciò può aversisolo accadendo nel soggetto una mutazione corrispon-dente ed analoga a quel gran cambiamento nel modod'essere dell'oggetto; per la quale il soggetto, in quantoconosce un'idea, non è più individuo.

Ci sovviene dal precedente libro, che il conoscere ingenere appartiene esso medesimo alla oggettivazionedella volontà nel suo grado più alto; e la sensibilità, inervi, il cervello non sono appunto, come altre partidell'essere organico, se non espressione della volontà inquesto grado della sua oggettità. Quindi la rappresenta-zione sorta per loro mezzo è anch'essa parimenti desti-nata al servizio di quella, come un mezzo (µηκανη) pelconseguimento dei suoi fini fattisi complicati(πολυτελεστερα), per la conservazione di un essereavente molteplici bisogni. In origine adunque e per na-tura è la conoscenza in tutto al servizio della volontà; ecome l'oggetto immediato, che diviene suo punto di par-tenza mediante l'applicazione della legge di causalità,non è se non volontà oggettivata, così rimane ancheogni conoscenza informata al principio di ragione in unpiù stretto o più largo rapporto con la volontà. Imperoc-ché l'individuo trova che il suo corpo è un oggetto fraoggetti, coi quali tutti il corpo stesso ha svariate relazio-ni e riferimenti, secondo il principio di ragione; sì che laconsiderazione di quegli oggetti riconduce pur sempre,in via diretta o indiretta, al proprio corpo, ossia alla pro-pria volontà. Essendo il principio di ragione quello che

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che quando sia a noi possibile sollevarci dalla conoscen-za delle singole cose a quella delle idee, ciò può aversisolo accadendo nel soggetto una mutazione corrispon-dente ed analoga a quel gran cambiamento nel modod'essere dell'oggetto; per la quale il soggetto, in quantoconosce un'idea, non è più individuo.

Ci sovviene dal precedente libro, che il conoscere ingenere appartiene esso medesimo alla oggettivazionedella volontà nel suo grado più alto; e la sensibilità, inervi, il cervello non sono appunto, come altre partidell'essere organico, se non espressione della volontà inquesto grado della sua oggettità. Quindi la rappresenta-zione sorta per loro mezzo è anch'essa parimenti desti-nata al servizio di quella, come un mezzo (µηκανη) pelconseguimento dei suoi fini fattisi complicati(πολυτελεστερα), per la conservazione di un essereavente molteplici bisogni. In origine adunque e per na-tura è la conoscenza in tutto al servizio della volontà; ecome l'oggetto immediato, che diviene suo punto di par-tenza mediante l'applicazione della legge di causalità,non è se non volontà oggettivata, così rimane ancheogni conoscenza informata al principio di ragione in unpiù stretto o più largo rapporto con la volontà. Imperoc-ché l'individuo trova che il suo corpo è un oggetto fraoggetti, coi quali tutti il corpo stesso ha svariate relazio-ni e riferimenti, secondo il principio di ragione; sì che laconsiderazione di quegli oggetti riconduce pur sempre,in via diretta o indiretta, al proprio corpo, ossia alla pro-pria volontà. Essendo il principio di ragione quello che

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pone gli oggetti in codesto rapporto con il corpo e quin-di con la volontà, deve la conoscenza che alla volontà èserva essere perciò rivolta unicamente a conoscer deglioggetti appunto i rapporti stabiliti secondo il principio diragione, ossia a tener dietro alle loro svariate relazioninello spazio, nel tempo e nella causalità. Poiché solo invirtù di queste è l'oggetto interessante per l'individuo,ossia ha un rapporto con la volontà. Per conseguenzanon altro conosce veramente degli oggetti la conoscenzache sta al servizio della volontà, se non le relazioni loro;e gli oggetti solo in tanto conosce, in quanto essi esisto-no in un tempo, in un luogo, in date circostanze, in virtùdi date cause, con dati effetti – esistono, in una parola,come singoli oggetti. E se fossero tolte via tutte codesterelazioni, svanirebbero insieme per la conoscenza anchegli oggetti, appunto perché questa non conosceva inquelli null'altro. Neppure dobbiamo dissimularci, chequanto considerano le scienze negli oggetti non è so-stanzialmente altro se non quel che sopra è detto: cioè leloro relazioni, i rapporti del tempo, dello spazio, le cau-se dei mutamenti naturali, il confronto delle forme, imotivi dei fatti – ossia semplici relazioni. Ciò che lescienze distingue dalla comune conoscenza è soltanto lalor forma, il carattere sistematico, l'alleviamento del co-noscere raggiunto col ridurre ogni caso singolo all'uni-versale, mediante la subordinazione dei concetti, e otte-nendo così la piena compiutezza. Ogni relazione ha puressa un'esistenza solamente relativa: per esempio ogniessere nel tempo è anche un non-essere, perché il tempo

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pone gli oggetti in codesto rapporto con il corpo e quin-di con la volontà, deve la conoscenza che alla volontà èserva essere perciò rivolta unicamente a conoscer deglioggetti appunto i rapporti stabiliti secondo il principio diragione, ossia a tener dietro alle loro svariate relazioninello spazio, nel tempo e nella causalità. Poiché solo invirtù di queste è l'oggetto interessante per l'individuo,ossia ha un rapporto con la volontà. Per conseguenzanon altro conosce veramente degli oggetti la conoscenzache sta al servizio della volontà, se non le relazioni loro;e gli oggetti solo in tanto conosce, in quanto essi esisto-no in un tempo, in un luogo, in date circostanze, in virtùdi date cause, con dati effetti – esistono, in una parola,come singoli oggetti. E se fossero tolte via tutte codesterelazioni, svanirebbero insieme per la conoscenza anchegli oggetti, appunto perché questa non conosceva inquelli null'altro. Neppure dobbiamo dissimularci, chequanto considerano le scienze negli oggetti non è so-stanzialmente altro se non quel che sopra è detto: cioè leloro relazioni, i rapporti del tempo, dello spazio, le cau-se dei mutamenti naturali, il confronto delle forme, imotivi dei fatti – ossia semplici relazioni. Ciò che lescienze distingue dalla comune conoscenza è soltanto lalor forma, il carattere sistematico, l'alleviamento del co-noscere raggiunto col ridurre ogni caso singolo all'uni-versale, mediante la subordinazione dei concetti, e otte-nendo così la piena compiutezza. Ogni relazione ha puressa un'esistenza solamente relativa: per esempio ogniessere nel tempo è anche un non-essere, perché il tempo

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per l'appunto non è se non ciò, per cui mezzo possono aun medesimo oggetto toccare determinazioni opposte.Quindi ogni fenomeno nel tempo è e non è: poiché ciòche separa il suo principio dalla sua fine non è se nontempo, ossia alcunché di evanescente, inconsistente erelativo, chiamato in questo caso durata. Eppure il tem-po è la più general forma di tutti gli oggetti della cono-scenza posta al servizio della volontà, ed il prototipodelle rimanenti forme di quella.

Ora, di regola al servizio della volontà rimane la co-noscenza sottomessa ognora, come già per tal servizioebbe principio; anzi è dalla volontà germinata, come latesta si svolge dal tronco. Presso gli animali codestasommissione della conoscenza alla volontà non può maivenir meno. Negli uomini può mancare solo in viad'eccezione, come tosto vedremo. Tale differenza trauomo e bruto viene manifestata esteriormente con la dif-ferenza della relazione che in loro passa tra il capo ed iltronco. Negli animali inferiori sono capo e tronco anco-ra del tutto confusi; in ognuno è il capo rivolto a terra,dove stanno gli oggetti della sua volontà: ed ancor neglianimali superiori sono capo e tronco assai più riuniti chenell'uomo, il cui capo appare libero al sommo del tron-co, solo da esso portato, non ad esso servendo. Questoumano privilegio presenta nel massimo grado l'Apollodel Belvedere: il lungiattornomirante capo del Dio delleMuse poggia così libero sulle spalle, da apparire in tuttodisciolto dal corpo, non più soggetto alle cure corporali.

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per l'appunto non è se non ciò, per cui mezzo possono aun medesimo oggetto toccare determinazioni opposte.Quindi ogni fenomeno nel tempo è e non è: poiché ciòche separa il suo principio dalla sua fine non è se nontempo, ossia alcunché di evanescente, inconsistente erelativo, chiamato in questo caso durata. Eppure il tem-po è la più general forma di tutti gli oggetti della cono-scenza posta al servizio della volontà, ed il prototipodelle rimanenti forme di quella.

Ora, di regola al servizio della volontà rimane la co-noscenza sottomessa ognora, come già per tal servizioebbe principio; anzi è dalla volontà germinata, come latesta si svolge dal tronco. Presso gli animali codestasommissione della conoscenza alla volontà non può maivenir meno. Negli uomini può mancare solo in viad'eccezione, come tosto vedremo. Tale differenza trauomo e bruto viene manifestata esteriormente con la dif-ferenza della relazione che in loro passa tra il capo ed iltronco. Negli animali inferiori sono capo e tronco anco-ra del tutto confusi; in ognuno è il capo rivolto a terra,dove stanno gli oggetti della sua volontà: ed ancor neglianimali superiori sono capo e tronco assai più riuniti chenell'uomo, il cui capo appare libero al sommo del tron-co, solo da esso portato, non ad esso servendo. Questoumano privilegio presenta nel massimo grado l'Apollodel Belvedere: il lungiattornomirante capo del Dio delleMuse poggia così libero sulle spalle, da apparire in tuttodisciolto dal corpo, non più soggetto alle cure corporali.

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§ 34.Il passaggio dalla volgar conoscenza di singoli ogget-

ti alla conoscenza dell'idea – possibile, come ho detto,ma da considerarsi soltanto quale eccezione – avviened'un subito, pel fatto che la conoscenza si scioglie dalservigio della volontà, e appunto perciò il soggetto cessadi essere semplicemente individuale, diventando sogget-to puro della conoscenza, privo di volontà. E questo nontiene più dietro alle relazioni, secondo il principio di ra-gione, bensì posa in ferma contemplazione dell'oggettooffertogli, e in questa s'immerge.

Ciò richiede di necessità, per esser chiaro, un'ampiaspiegazione. A quanto essa avrà di singolare non si badiper ora, finché codesta apparente stranezza non venga adissiparsi da sé, quando sia stato afferrato nel suo com-plesso il pensiero che quest'opera vuole comunicare.

Se, sollevati dalla potenza dello spirito, abbandonia-mo la maniera usuale di considerar le cose e cessiamo diricercare secondo gli aspetti del principio di ragione lereciproche relazioni loro, di cui è ultimo termine semprela relazione con la nostra volontà; se quindi non più siconsidera il dove, il quando, la causa e la finalità dellecose, ma unicamente ciò che elle sono; se non lasciamoche il pensare astratto, i concetti della ragione s'impa-droniscano della conscienza, bensì viceversa tutta la for-za dello spirito nostro diamo all'intuizione, in questa cisprofondiamo, e la conscienza intera lasciamo riempiredalla tranquilla contemplazione dell'oggetto naturale che

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§ 34.Il passaggio dalla volgar conoscenza di singoli ogget-

ti alla conoscenza dell'idea – possibile, come ho detto,ma da considerarsi soltanto quale eccezione – avviened'un subito, pel fatto che la conoscenza si scioglie dalservigio della volontà, e appunto perciò il soggetto cessadi essere semplicemente individuale, diventando sogget-to puro della conoscenza, privo di volontà. E questo nontiene più dietro alle relazioni, secondo il principio di ra-gione, bensì posa in ferma contemplazione dell'oggettooffertogli, e in questa s'immerge.

Ciò richiede di necessità, per esser chiaro, un'ampiaspiegazione. A quanto essa avrà di singolare non si badiper ora, finché codesta apparente stranezza non venga adissiparsi da sé, quando sia stato afferrato nel suo com-plesso il pensiero che quest'opera vuole comunicare.

Se, sollevati dalla potenza dello spirito, abbandonia-mo la maniera usuale di considerar le cose e cessiamo diricercare secondo gli aspetti del principio di ragione lereciproche relazioni loro, di cui è ultimo termine semprela relazione con la nostra volontà; se quindi non più siconsidera il dove, il quando, la causa e la finalità dellecose, ma unicamente ciò che elle sono; se non lasciamoche il pensare astratto, i concetti della ragione s'impa-droniscano della conscienza, bensì viceversa tutta la for-za dello spirito nostro diamo all'intuizione, in questa cisprofondiamo, e la conscienza intera lasciamo riempiredalla tranquilla contemplazione dell'oggetto naturale che

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ci sta innanzi, sia esso un paesaggio, un albero, una roc-cia, un edifizio o quel che si voglia; allor che – secondoun'espressiva locuzione tedesca – ci si perde appieno inquell'oggetto, ossia si dimentica il proprio individuo, lapropria volontà, e si rimane nient'altro che soggettopuro, chiaro specchio dell'oggetto, come se l'oggettosolo esistesse, senza che alcuno fosse là a percepirlo, népiù è possibile separare colui che intuisce dall'intuizionestessa, poiché sono diventati tutt'uno, essendo l'interaconscienza riempita e presa da una sola immagined'intuizione; se adunque in siffatto modo l'oggetto s'è di-sciolto da ogni relazione con altri oggetti fuor di se stes-so, e il soggetto s'è disciolto da ogni relazione con la vo-lontà – allora quel che viene così conosciuto non è piùla singola cosa come tale, ma è l'idea, l'eterna forma, ladiretta oggettità della volontà in quel grado. E perciò ap-punto non è più individuo quegli che è assorto in tale in-tuizione, imperocché proprio l'individualità vi s'è perdu-ta. Egli è invece puro soggetto della conoscenza, fuoridella volontà, del dolore, del tempo. Quest'affermazio-ne, ora così ostica (della quale io molto bene so, checonferma il detto di Thomas Paine, du sublime au ridi-cule il n'y a qu'un pas), apparirà nel seguito di mano inmano più chiara e meno stupefacente. Era la stessa veri-tà che balenava a Spinoza quando scrisse: mens aeternaest, quatenus res sub aeternitatis specie concipit (Eth.,V, prop. 31, schol.)54 In siffatta contemplazione accade54 Per chiarimento della maniera di conoscenza qui esposta, raccomando an-

che di leggere quanto egli dice nella stessa opera, 1. II, prop. 40, schol, 2, e

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ci sta innanzi, sia esso un paesaggio, un albero, una roc-cia, un edifizio o quel che si voglia; allor che – secondoun'espressiva locuzione tedesca – ci si perde appieno inquell'oggetto, ossia si dimentica il proprio individuo, lapropria volontà, e si rimane nient'altro che soggettopuro, chiaro specchio dell'oggetto, come se l'oggettosolo esistesse, senza che alcuno fosse là a percepirlo, népiù è possibile separare colui che intuisce dall'intuizionestessa, poiché sono diventati tutt'uno, essendo l'interaconscienza riempita e presa da una sola immagined'intuizione; se adunque in siffatto modo l'oggetto s'è di-sciolto da ogni relazione con altri oggetti fuor di se stes-so, e il soggetto s'è disciolto da ogni relazione con la vo-lontà – allora quel che viene così conosciuto non è piùla singola cosa come tale, ma è l'idea, l'eterna forma, ladiretta oggettità della volontà in quel grado. E perciò ap-punto non è più individuo quegli che è assorto in tale in-tuizione, imperocché proprio l'individualità vi s'è perdu-ta. Egli è invece puro soggetto della conoscenza, fuoridella volontà, del dolore, del tempo. Quest'affermazio-ne, ora così ostica (della quale io molto bene so, checonferma il detto di Thomas Paine, du sublime au ridi-cule il n'y a qu'un pas), apparirà nel seguito di mano inmano più chiara e meno stupefacente. Era la stessa veri-tà che balenava a Spinoza quando scrisse: mens aeternaest, quatenus res sub aeternitatis specie concipit (Eth.,V, prop. 31, schol.)54 In siffatta contemplazione accade54 Per chiarimento della maniera di conoscenza qui esposta, raccomando an-

che di leggere quanto egli dice nella stessa opera, 1. II, prop. 40, schol, 2, e

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insieme d'un tratto, che il singolo oggetto diventi ideadella propria specie; e l'individuo intuente si faccia purosoggetto del conoscere. L'individuo come tale conoscesolo oggetti singoli; il puro soggetto del conoscere, soloidee. Imperocché l'individuo è il soggetto del conoscerenella sua relazione con un determinato, singolo fenome-no della volontà, ed in servizio di esso. Codesto singolofenomeno della volontà è, in quanto tale, sottomesso alprincipio di ragione in tutte le sue forme; ogni cono-scenza riferentevisi segue perciò anch'essa il principiodi ragione, e ai fini della volontà nessuna conoscenzavale se non questa, che per oggetto ha sempre e sola-mente relazioni. L'individuo conoscente, come tale, e lasingola cosa da lui conosciuta sono sempre in qualcheluogo, in un dato tempo; sono anelli nella catena dellecause e degli effetti. Il puro soggetto della conoscenzaed il suo correlato – l'idea – sono usciti fuori da tuttequelle forme del principio di ragione: il tempo, il luogo,l'individuo che conosce e l'individuo che viene cono-sciuto non hanno per essi alcun significato. Non appenaun individuo conoscente si eleva nel modo indicato apuro soggetto del conoscere, ed appunto con ciò l'ogget-to conosciuto innalza ad idea, si presenta integro e puroil mondo come rappresentazione, e accade la compiutaoggettivazione della volontà, perché soltanto l'idea è suaadeguata oggettità. Questa chiude oggetto e soggetto pa-rimenti in sé, essendo entrambi la sua unica forma: ma

così 1. v, da prop. 25 a 38, sulla cognitio tertii generis, sive intuitiva. E so-prattutto prop. 29, schol.; prop. 36, schol. e prop. 38 demonstr. et schol.

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insieme d'un tratto, che il singolo oggetto diventi ideadella propria specie; e l'individuo intuente si faccia purosoggetto del conoscere. L'individuo come tale conoscesolo oggetti singoli; il puro soggetto del conoscere, soloidee. Imperocché l'individuo è il soggetto del conoscerenella sua relazione con un determinato, singolo fenome-no della volontà, ed in servizio di esso. Codesto singolofenomeno della volontà è, in quanto tale, sottomesso alprincipio di ragione in tutte le sue forme; ogni cono-scenza riferentevisi segue perciò anch'essa il principiodi ragione, e ai fini della volontà nessuna conoscenzavale se non questa, che per oggetto ha sempre e sola-mente relazioni. L'individuo conoscente, come tale, e lasingola cosa da lui conosciuta sono sempre in qualcheluogo, in un dato tempo; sono anelli nella catena dellecause e degli effetti. Il puro soggetto della conoscenzaed il suo correlato – l'idea – sono usciti fuori da tuttequelle forme del principio di ragione: il tempo, il luogo,l'individuo che conosce e l'individuo che viene cono-sciuto non hanno per essi alcun significato. Non appenaun individuo conoscente si eleva nel modo indicato apuro soggetto del conoscere, ed appunto con ciò l'ogget-to conosciuto innalza ad idea, si presenta integro e puroil mondo come rappresentazione, e accade la compiutaoggettivazione della volontà, perché soltanto l'idea è suaadeguata oggettità. Questa chiude oggetto e soggetto pa-rimenti in sé, essendo entrambi la sua unica forma: ma

così 1. v, da prop. 25 a 38, sulla cognitio tertii generis, sive intuitiva. E so-prattutto prop. 29, schol.; prop. 36, schol. e prop. 38 demonstr. et schol.

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in lei oggetto e soggetto mantengono appieno l'equili-brio: e come l'oggetto anche qui non altro è se non larappresentazione del soggetto, così anche il soggetto –perdendosi tutto nell'oggetto intuito – è diventatoquest'oggetto medesimo, in quanto l'intera conscienzanon è che la più limpida immagine di esso. Questa con-scienza appunto – in quanto tutte le idee, ossia i gradidell'oggettità della volontà, vengono per suo mezzo per-corse ordinatamente col pensiero – costituisce l'interomondo quale rappresentazione. Le singole cose d'ognitempo e luogo non sono altro che le idee moltiplicatedal principio di ragione (forma della conoscenza degliindividui in quanto tali) e perciò turbate nella lor puraoggettità. Come nel mentre appare l'idea non sono più inlei distinguibili soggetto ed oggetto, perché sol quandol'uno e l'altro reciprocamente si compiono e si penetranoappieno balza fuori l'idea, l'adeguata oggettità della vo-lontà, il vero mondo quale rappresentazione; così sonoanche in tale atto indistinguibili, come cose in sé, l'indi-viduo conoscente ed il conosciuto. Perciocché se faccia-mo astrazione da quel vero e proprio mondo quale rap-presentazione nulla rimane, se non il mondo come vo-lontà. La volontà è l'in-sé dell'idea, la quale oggettivaquella compiutamente; la volontà è anche l'in-sé del sin-golo oggetto e dell'individuo che lo conosce: i quali og-gettivano quella incompiutamente. In quanto volontà,fuor della rappresentazione e di tutte le sue forme, essaè una e identica nell'oggetto contemplato e nell'indivi-duo, che innalzandosi a codesta contemplazione diventa

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in lei oggetto e soggetto mantengono appieno l'equili-brio: e come l'oggetto anche qui non altro è se non larappresentazione del soggetto, così anche il soggetto –perdendosi tutto nell'oggetto intuito – è diventatoquest'oggetto medesimo, in quanto l'intera conscienzanon è che la più limpida immagine di esso. Questa con-scienza appunto – in quanto tutte le idee, ossia i gradidell'oggettità della volontà, vengono per suo mezzo per-corse ordinatamente col pensiero – costituisce l'interomondo quale rappresentazione. Le singole cose d'ognitempo e luogo non sono altro che le idee moltiplicatedal principio di ragione (forma della conoscenza degliindividui in quanto tali) e perciò turbate nella lor puraoggettità. Come nel mentre appare l'idea non sono più inlei distinguibili soggetto ed oggetto, perché sol quandol'uno e l'altro reciprocamente si compiono e si penetranoappieno balza fuori l'idea, l'adeguata oggettità della vo-lontà, il vero mondo quale rappresentazione; così sonoanche in tale atto indistinguibili, come cose in sé, l'indi-viduo conoscente ed il conosciuto. Perciocché se faccia-mo astrazione da quel vero e proprio mondo quale rap-presentazione nulla rimane, se non il mondo come vo-lontà. La volontà è l'in-sé dell'idea, la quale oggettivaquella compiutamente; la volontà è anche l'in-sé del sin-golo oggetto e dell'individuo che lo conosce: i quali og-gettivano quella incompiutamente. In quanto volontà,fuor della rappresentazione e di tutte le sue forme, essaè una e identica nell'oggetto contemplato e nell'indivi-duo, che innalzandosi a codesta contemplazione diventa

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conscio di sé come puro soggetto; oggetto e individuonon sono perciò distinti in sé, poi che in sé essi sono lavolontà, che quivi conosce se stessa. E pluralità e varie-tà consistono soltanto nel modo, in cui ella acquista taleconoscenza, ossia soltanto nel fenomeno, in grazia dellasua forma, che è il principio di ragione. Come senzal'oggetto, senza la rappresentazione io non sono sogget-to conoscente, bensì volontà cieca, così senza di mequale soggetto del conoscere non può la cosa conosciutaessere oggetto, bensì è pura volontà, impulso cieco.Questa volontà è in sé, ossia fuor della rappresentazio-ne, una e identica con la mia; solo nel mondo quale rap-presentazione, la cui forma è sempre almeno di soggettoe oggetto, veniamo a scinderci in conosciuto e cono-scente individuo. Non appena il conoscere – il mondoquale rappresentazione – è tolto via, non rimane altro senon pura volontà, cieco impulso. Il suo farsi oggettità, ildivenir rappresentazione, stabilisce d'un tratto sia sog-getto che oggetto. L'essere invece codesta oggettitàpura, compiuta, adeguata oggettità della volontà, ponel'oggetto come idea, libero dalle forme del principio diragione, e il soggetto come puro soggetto della cono-scenza, sciolto dall'individualità e dal servizio della vo-lontà.

Ora chi al modo sopra detto si è tanto addentro spro-fondato e smarrito nella contemplazione della natura, danon esistere più se non come puro soggetto conoscente,viene con ciò senz'altro a sentire che, in quanto tale, egliè la condizione, egli è che contiene il mondo e ogni esi-

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conscio di sé come puro soggetto; oggetto e individuonon sono perciò distinti in sé, poi che in sé essi sono lavolontà, che quivi conosce se stessa. E pluralità e varie-tà consistono soltanto nel modo, in cui ella acquista taleconoscenza, ossia soltanto nel fenomeno, in grazia dellasua forma, che è il principio di ragione. Come senzal'oggetto, senza la rappresentazione io non sono sogget-to conoscente, bensì volontà cieca, così senza di mequale soggetto del conoscere non può la cosa conosciutaessere oggetto, bensì è pura volontà, impulso cieco.Questa volontà è in sé, ossia fuor della rappresentazio-ne, una e identica con la mia; solo nel mondo quale rap-presentazione, la cui forma è sempre almeno di soggettoe oggetto, veniamo a scinderci in conosciuto e cono-scente individuo. Non appena il conoscere – il mondoquale rappresentazione – è tolto via, non rimane altro senon pura volontà, cieco impulso. Il suo farsi oggettità, ildivenir rappresentazione, stabilisce d'un tratto sia sog-getto che oggetto. L'essere invece codesta oggettitàpura, compiuta, adeguata oggettità della volontà, ponel'oggetto come idea, libero dalle forme del principio diragione, e il soggetto come puro soggetto della cono-scenza, sciolto dall'individualità e dal servizio della vo-lontà.

Ora chi al modo sopra detto si è tanto addentro spro-fondato e smarrito nella contemplazione della natura, danon esistere più se non come puro soggetto conoscente,viene con ciò senz'altro a sentire che, in quanto tale, egliè la condizione, egli è che contiene il mondo e ogni esi-

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stenza oggettiva; poi che questa non si presenta piùd'ora innanzi se non come dipendente dall'esistenza sua.Egli trae adunque dentro a sé la natura, sì da sentirlasolo come un accidente dell'esser suo. In questo sensodice Byron:

Are not the mountains, waves and skies, a partOf me and of my soul, as I of them?55

Ma come potrebbe, chi sente così, se stesso crederedel tutto mortale, in contrasto con l'immortale natura?Piuttosto lo afferrerà la coscienza di ciò che l'Upani-shad del Veda esprime; «Hae omnes creaturae in totumego sum, et praeter me aliud ens non est» (Oupnek'hat,I, 122)56.

§ 35.Per conseguire una più profonda penetrazionenell'essenza del mondo, è assolutamente necessario ap-prendere a distinguere la volontà quale cosa in sé dallasua adeguata oggettità; e inoltre i diversi gradi, in cuiquesta più limpidamente e compiutamente appare – os-sia le idee stesse – dal semplice fenomeno delle ideenelle forme del principio di ragione, del circoscrittomodo di conoscenza degli individui. Allora si converràcon Platone, dove egli alle idee sole attribuisce un veroe proprio essere, riconoscendo invece agli oggetti nel

55 Non sono i monti, le acque e il cielo una parteDi me e dell'anima mia, come io di loro?56 Si veda il cap. 30 del secondo volume [pp. 379-88 del tomo II dell'ed. cit.

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stenza oggettiva; poi che questa non si presenta piùd'ora innanzi se non come dipendente dall'esistenza sua.Egli trae adunque dentro a sé la natura, sì da sentirlasolo come un accidente dell'esser suo. In questo sensodice Byron:

Are not the mountains, waves and skies, a partOf me and of my soul, as I of them?55

Ma come potrebbe, chi sente così, se stesso crederedel tutto mortale, in contrasto con l'immortale natura?Piuttosto lo afferrerà la coscienza di ciò che l'Upani-shad del Veda esprime; «Hae omnes creaturae in totumego sum, et praeter me aliud ens non est» (Oupnek'hat,I, 122)56.

§ 35.Per conseguire una più profonda penetrazionenell'essenza del mondo, è assolutamente necessario ap-prendere a distinguere la volontà quale cosa in sé dallasua adeguata oggettità; e inoltre i diversi gradi, in cuiquesta più limpidamente e compiutamente appare – os-sia le idee stesse – dal semplice fenomeno delle ideenelle forme del principio di ragione, del circoscrittomodo di conoscenza degli individui. Allora si converràcon Platone, dove egli alle idee sole attribuisce un veroe proprio essere, riconoscendo invece agli oggetti nel

55 Non sono i monti, le acque e il cielo una parteDi me e dell'anima mia, come io di loro?56 Si veda il cap. 30 del secondo volume [pp. 379-88 del tomo II dell'ed. cit.

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tempo e nello spazio, a quel che per l'individuo è ilmondo reale, una mera esistenza apparente, a mo' di so-gno. Allora si comprenderà come l'unica e identica ideasi manifesti in così numerosi fenomeni, ed ai conoscentiindividui la sua essenza palesi solo in modo frammenta-rio, un aspetto dopo l'altro. Anche si distinguerà alloral'idea in sé dal modo, onde il suo fenomeno si offreall'osservazione dell'individuo: quella riconoscendo es-senziale, e questo invece non essenziale. Ma vediamociò in esempi, prima minimi e poi massimi. – Quando lenubi trasvolano, le figure ch'esse formano non sono aloro essenziali, sono anzi a loro indifferenti: ma che lenubi, essendo elastico vapore, vengano dall'impeto delvento compresse, cacciate, dilatate, lacerate, questo ènatura loro, è l'essenza delle forze, che in loro si oggetti-vano, è l'idea; mentre i lor mutevoli aspetti esistono sol-tanto per l'individuale osservatore. – Al rivo, che suisassi precipita sono i gorghi, le onde, i disegni di spuma,ch'esso fa vedere, sono indifferenti ed inessenziali: mache il rivo obbedisca alla gravità, e si comporti come li-quido non elastico, mobilissimo, privo di forma, traspa-rente, questa è la sua essenza, questa è – se conosciutaintuitivamente – l'idea; mentre solo per noi, finché noiconosciamo in quanto individui, esistono quelle forme.Il ghiaccio sui vetri delle finestre si cristallizza secondole leggi della cristallizzazione, le quali rivelano l'essenzadella forza naturale quivi manifestantesi, rappresentanol'idea; ma gli alberi e i fiori, che quel ghiaccio raffigura,sono inessenziali ed esistono solo per noi. Ciò che nelle

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tempo e nello spazio, a quel che per l'individuo è ilmondo reale, una mera esistenza apparente, a mo' di so-gno. Allora si comprenderà come l'unica e identica ideasi manifesti in così numerosi fenomeni, ed ai conoscentiindividui la sua essenza palesi solo in modo frammenta-rio, un aspetto dopo l'altro. Anche si distinguerà alloral'idea in sé dal modo, onde il suo fenomeno si offreall'osservazione dell'individuo: quella riconoscendo es-senziale, e questo invece non essenziale. Ma vediamociò in esempi, prima minimi e poi massimi. – Quando lenubi trasvolano, le figure ch'esse formano non sono aloro essenziali, sono anzi a loro indifferenti: ma che lenubi, essendo elastico vapore, vengano dall'impeto delvento compresse, cacciate, dilatate, lacerate, questo ènatura loro, è l'essenza delle forze, che in loro si oggetti-vano, è l'idea; mentre i lor mutevoli aspetti esistono sol-tanto per l'individuale osservatore. – Al rivo, che suisassi precipita sono i gorghi, le onde, i disegni di spuma,ch'esso fa vedere, sono indifferenti ed inessenziali: mache il rivo obbedisca alla gravità, e si comporti come li-quido non elastico, mobilissimo, privo di forma, traspa-rente, questa è la sua essenza, questa è – se conosciutaintuitivamente – l'idea; mentre solo per noi, finché noiconosciamo in quanto individui, esistono quelle forme.Il ghiaccio sui vetri delle finestre si cristallizza secondole leggi della cristallizzazione, le quali rivelano l'essenzadella forza naturale quivi manifestantesi, rappresentanol'idea; ma gli alberi e i fiori, che quel ghiaccio raffigura,sono inessenziali ed esistono solo per noi. Ciò che nelle

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nubi, nel rivo e nel cristallo apparisce, è il più debole ri-flesso di quella volontà, che più compiuta nella pianta,più ancora nell'animale, compiutissima appariscenell'uomo. Ma soltanto l'essenziale in tutti quei gradidella sua oggettivazione costituisce l'idea; viceversa lospiegamento di questa, in quanto ella viene disgregata infenomeni svariati e multilaterali nelle forme del princi-pio di ragione, non è all'idea stessa essenziale, ma stasoltanto nel modo di conoscenza dell'individuo, e haunicamente per esso la realtà. Lo stesso vale, necessaria-mente, anche per lo spiegarsi di quell'idea, che è la piùcompiuta oggettità della volontà: quindi la storia del ge-nere umano, la folla degli eventi, il mutar dei tempi, imolteplici aspetti della vita umana in paesi e secoli di-versi, tutto questo non è se non la forma casuale presadal fenomeno dell'idea, e non appartiene a questa, nellaquale soltanto è l'adeguata oggettità della volontà, bensìal fenomeno che cade nella conoscenza dell'individuo,ed è all'idea tanto estraneo, inessenziale e indifferentequanto sono alle nubi le figure, ch'esse rappresentano, alrivo la forma dei suoi gorghi e delle sue spume, e alghiaccio i suoi alberi e i suoi fiori.

Per chi ha ben compreso questo, e la volontà sa di-stinguere dall'idea, e questa dal suo fenomeno, gli eventidel mondo hanno significato non già in sé e per sé, masolo in quanto essi sono i segni dell'alfabeto, mediante iquali si può leggere l'idea dell'uomo. Quegli non crederàcol volgo, che il tempo generi alcunché di veramente

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nubi, nel rivo e nel cristallo apparisce, è il più debole ri-flesso di quella volontà, che più compiuta nella pianta,più ancora nell'animale, compiutissima appariscenell'uomo. Ma soltanto l'essenziale in tutti quei gradidella sua oggettivazione costituisce l'idea; viceversa lospiegamento di questa, in quanto ella viene disgregata infenomeni svariati e multilaterali nelle forme del princi-pio di ragione, non è all'idea stessa essenziale, ma stasoltanto nel modo di conoscenza dell'individuo, e haunicamente per esso la realtà. Lo stesso vale, necessaria-mente, anche per lo spiegarsi di quell'idea, che è la piùcompiuta oggettità della volontà: quindi la storia del ge-nere umano, la folla degli eventi, il mutar dei tempi, imolteplici aspetti della vita umana in paesi e secoli di-versi, tutto questo non è se non la forma casuale presadal fenomeno dell'idea, e non appartiene a questa, nellaquale soltanto è l'adeguata oggettità della volontà, bensìal fenomeno che cade nella conoscenza dell'individuo,ed è all'idea tanto estraneo, inessenziale e indifferentequanto sono alle nubi le figure, ch'esse rappresentano, alrivo la forma dei suoi gorghi e delle sue spume, e alghiaccio i suoi alberi e i suoi fiori.

Per chi ha ben compreso questo, e la volontà sa di-stinguere dall'idea, e questa dal suo fenomeno, gli eventidel mondo hanno significato non già in sé e per sé, masolo in quanto essi sono i segni dell'alfabeto, mediante iquali si può leggere l'idea dell'uomo. Quegli non crederàcol volgo, che il tempo generi alcunché di veramente

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nuovo e significante; che per esso o in esso qualcosa dieffettivamente reale pervenga ad esistere; o che il tempomedesimo abbia, come un tutto, principio e fine, normae sviluppo, e per avventura tenda, quasi ad estremo ter-mine, al massimo perfezionamento (come il volgo pen-sa) del genere ultimo venuto e vivente trent'anni. Perciòtanto sarà lontano dall'istituire con Omero tutto unOlimpo pieno di Dèi a guida di quegli eventi temporali,quanto dal tener con Ossian le forme delle nubi per es-seri individuali; poiché, come s'è detto, l'una e l'altracosa ha l'identica significazione, in rapporto all'idea chevi si manifesta. Negli svariati aspetti della vita umana enella perenne vicenda degli eventi, egli terrà come im-mutabile ed essenziale soltanto l'idea; nella quale la vo-lontà di vivere trova la sua più compiuta oggettità, e tut-ti i suoi vari aspetti mostra nelle qualità, nelle passioni,negli errori e nei meriti dell'uman genere – egoismo,odio, amore, paura, audacia, leggerezza, ottusità, astu-zia, spirito, genio, etc. – che concorrendo ad incorporar-si in forme (individui) svariatissime, perennemente fan-no agire la grande e la piccola storia del mondo. E in ciòè per sé indifferente se codesta storia sia messa in motoda un nonnulla o da corone. Quegli troverà infine, cheaccade nel mondo come nei drammi di Gozzi, nei qualiagiscono sempre gli stessi personaggi, con la stessa in-tenzione e lo stesso destino: sono bensì diversi in ognidramma i motivi e gli avvenimenti, ma degli avveni-menti è uno lo spirito. I personaggi d'un dramma nullasanno di quanto è accaduto in un altro, nel quale tuttavia

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nuovo e significante; che per esso o in esso qualcosa dieffettivamente reale pervenga ad esistere; o che il tempomedesimo abbia, come un tutto, principio e fine, normae sviluppo, e per avventura tenda, quasi ad estremo ter-mine, al massimo perfezionamento (come il volgo pen-sa) del genere ultimo venuto e vivente trent'anni. Perciòtanto sarà lontano dall'istituire con Omero tutto unOlimpo pieno di Dèi a guida di quegli eventi temporali,quanto dal tener con Ossian le forme delle nubi per es-seri individuali; poiché, come s'è detto, l'una e l'altracosa ha l'identica significazione, in rapporto all'idea chevi si manifesta. Negli svariati aspetti della vita umana enella perenne vicenda degli eventi, egli terrà come im-mutabile ed essenziale soltanto l'idea; nella quale la vo-lontà di vivere trova la sua più compiuta oggettità, e tut-ti i suoi vari aspetti mostra nelle qualità, nelle passioni,negli errori e nei meriti dell'uman genere – egoismo,odio, amore, paura, audacia, leggerezza, ottusità, astu-zia, spirito, genio, etc. – che concorrendo ad incorporar-si in forme (individui) svariatissime, perennemente fan-no agire la grande e la piccola storia del mondo. E in ciòè per sé indifferente se codesta storia sia messa in motoda un nonnulla o da corone. Quegli troverà infine, cheaccade nel mondo come nei drammi di Gozzi, nei qualiagiscono sempre gli stessi personaggi, con la stessa in-tenzione e lo stesso destino: sono bensì diversi in ognidramma i motivi e gli avvenimenti, ma degli avveni-menti è uno lo spirito. I personaggi d'un dramma nullasanno di quanto è accaduto in un altro, nel quale tuttavia

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agivano anch'essi: quindi, malgrado tutte le esperienzedei drammi precedenti, Pantalone non diviene più destroe più generoso, Tartaglia più onesto, Brighella più auda-ce e Colombina più costumata.

Posto che fosse a noi concesso gettare un limpidosguardo sul regno della possibilità e su tutte le concate-nazioni di cause e di effetti, balzerebbe fuori lo spiritodella terra e ci mostrerebbe in un quadro i più eminentiindividui, luci del mondo, eroi, che il caso ha distruttoprima che venisse il tempo della loro azione – poi igrandi eventi, che avrebbero mutato la storia del mondoe generato periodi di altissima e illuminata cultura, senon li avesse soffocati nel nascere il più cieco accidente,il caso più insignificante; e infine le magnifiche forze digrandi individui, che avrebbero potuto fecondare tuttaun'era del mondo, ma che sviati da errore o da passione,o costretti da necessità, quelle forze sterilmente dissipa-rono in oggetti indegni e infruttiferi, o addirittura spre-carono come in un giuoco. Se tutto questo vedessimo,avremmo da rabbrividire e da gemere pei tesori perdutid'intere epoche del mondo. Ma lo spirito della terra sor-riderebbe, dicendo: «La fonte, dalla quale gl'individui ele loro forze rampollano, è inesauribile e infinita come iltempo e lo spazio: imperocché quelli sono, sì come que-ste forme d'ogni fenomeno, null'altro se non fenomeni,visibilità della volontà. Quella infinita sorgente non puòessere esausta da una misura finita: quindi ad ogni even-to oppure opera soffocati in germe, rimane aperta sem-pre, per riprodursi, una giammai diminuita infinità. In

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agivano anch'essi: quindi, malgrado tutte le esperienzedei drammi precedenti, Pantalone non diviene più destroe più generoso, Tartaglia più onesto, Brighella più auda-ce e Colombina più costumata.

Posto che fosse a noi concesso gettare un limpidosguardo sul regno della possibilità e su tutte le concate-nazioni di cause e di effetti, balzerebbe fuori lo spiritodella terra e ci mostrerebbe in un quadro i più eminentiindividui, luci del mondo, eroi, che il caso ha distruttoprima che venisse il tempo della loro azione – poi igrandi eventi, che avrebbero mutato la storia del mondoe generato periodi di altissima e illuminata cultura, senon li avesse soffocati nel nascere il più cieco accidente,il caso più insignificante; e infine le magnifiche forze digrandi individui, che avrebbero potuto fecondare tuttaun'era del mondo, ma che sviati da errore o da passione,o costretti da necessità, quelle forze sterilmente dissipa-rono in oggetti indegni e infruttiferi, o addirittura spre-carono come in un giuoco. Se tutto questo vedessimo,avremmo da rabbrividire e da gemere pei tesori perdutid'intere epoche del mondo. Ma lo spirito della terra sor-riderebbe, dicendo: «La fonte, dalla quale gl'individui ele loro forze rampollano, è inesauribile e infinita come iltempo e lo spazio: imperocché quelli sono, sì come que-ste forme d'ogni fenomeno, null'altro se non fenomeni,visibilità della volontà. Quella infinita sorgente non puòessere esausta da una misura finita: quindi ad ogni even-to oppure opera soffocati in germe, rimane aperta sem-pre, per riprodursi, una giammai diminuita infinità. In

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questo mondo del fenomeno è tanto poco possibile unavera perdita, come un vero guadagno. La volontà sola è:ella, la cosa in sé, ella, la sorgente di tutti quei fenome-ni. La sua autocoscienza, e l'affermazione o negazione,che ne procede, è l'unico evento in sé»57

§ 36.Al filo degli eventi tien dietro la storia: ella è pram-

matica, in quanto deduce quelli secondo la legge di mo-tivazione, la qual legge determina la manifestantesi vo-lontà, dove questa è illuminata dalla conoscenza. Neigradi inferiori della sua oggettità, dove ancora agiscesenza conoscenza, è la scienza naturale, che studia comeetiologia le leggi delle variazioni dei suoi fenomeni, equanto è in essi permanente studia come morfologia; laquale allevia il suo compito quasi infinito con l'aiuto deiconcetti, raccogliendo il generale per ricavarne il parti-colare. Infine le semplici forme, nelle quali – per la co-noscenza del soggetto in quanto individuo – apparisco-no le idee scisse nella pluralità, ossia tempo e spazio,sono studiate dalla matematica. Tutte queste, che hannoil nome comune di scienze, seguono il principio di ra-gione nei suoi vari atteggiamenti, e la materia loro èsempre il fenomeno, le sue leggi, i suoi nessi, e i rappor-ti che ne derivano. Ma qual maniera di conoscenza stu-dia ciò che stando fuori e indipendente da ogni relazioneè in verità la sola cosa essenziale del mondo, la vera so-57 Quest'ultimo periodo non può esser compreso senza la conoscenza del li-

bro seguente.

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questo mondo del fenomeno è tanto poco possibile unavera perdita, come un vero guadagno. La volontà sola è:ella, la cosa in sé, ella, la sorgente di tutti quei fenome-ni. La sua autocoscienza, e l'affermazione o negazione,che ne procede, è l'unico evento in sé»57

§ 36.Al filo degli eventi tien dietro la storia: ella è pram-

matica, in quanto deduce quelli secondo la legge di mo-tivazione, la qual legge determina la manifestantesi vo-lontà, dove questa è illuminata dalla conoscenza. Neigradi inferiori della sua oggettità, dove ancora agiscesenza conoscenza, è la scienza naturale, che studia comeetiologia le leggi delle variazioni dei suoi fenomeni, equanto è in essi permanente studia come morfologia; laquale allevia il suo compito quasi infinito con l'aiuto deiconcetti, raccogliendo il generale per ricavarne il parti-colare. Infine le semplici forme, nelle quali – per la co-noscenza del soggetto in quanto individuo – apparisco-no le idee scisse nella pluralità, ossia tempo e spazio,sono studiate dalla matematica. Tutte queste, che hannoil nome comune di scienze, seguono il principio di ra-gione nei suoi vari atteggiamenti, e la materia loro èsempre il fenomeno, le sue leggi, i suoi nessi, e i rappor-ti che ne derivano. Ma qual maniera di conoscenza stu-dia ciò che stando fuori e indipendente da ogni relazioneè in verità la sola cosa essenziale del mondo, la vera so-57 Quest'ultimo periodo non può esser compreso senza la conoscenza del li-

bro seguente.

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stanza dei suoi fenomeni, a nessun mutamento soggettae quindi in ogni tempo con pari verità conosciuta – inuna parola, le idee, che sono l'immediata e adeguata og-gettità della cosa in sé, della volontà? È l'arte, l'operadel genio. Ella riproduce le eterne idee afferrate median-te pura contemplazione, l'essenziale e il permanente intutti i fenomeni del mondo; ed a seconda della materiain cui riproduce, è arte plastica, poesia o musica. Suaunica origine è la conoscenza delle idee; suo unico finela comunicazione di questa conoscenza. Mentre lascienza, tenendo dietro all'incessante e instabile flussodi cause ed effetti quadruplicemente atteggiati, ad ognimèta raggiunta viene di nuovo sospinta sempre più lon-tano e non mai può trovare un termine vero, né un pienoappagamento, più di quanto si possa raggiungere corren-do il punto in cui le nubi toccano l'orizzonte; l'arteall'opposto è sempre alla sua mèta. Imperocché ellastrappa l'oggetto della sua contemplazione fuori dal cor-rente flusso del mondo e lo tiene isolato davanti a sé: equest'oggetto singolo, ch'era in quel flusso una infinita-mente minima parte, diviene per lei un rappresentantedel tutto, un equivalente del molteplice infinito nellospazio e nel tempo: a questo singolo ella s'arresta: ellaferma la ruota del tempo: svaniscono per lei le relazioni:soltanto l'essenziale, l'idea, è suo oggetto. Noi possiamoadunque senz'altro indicarla come il modo di considerarle cose indipendentemente dal principio di ragioneall'opposto della considerazione che appunto di tal prin-cipio tien conto, la quale è la via dell'esperienza e della

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stanza dei suoi fenomeni, a nessun mutamento soggettae quindi in ogni tempo con pari verità conosciuta – inuna parola, le idee, che sono l'immediata e adeguata og-gettità della cosa in sé, della volontà? È l'arte, l'operadel genio. Ella riproduce le eterne idee afferrate median-te pura contemplazione, l'essenziale e il permanente intutti i fenomeni del mondo; ed a seconda della materiain cui riproduce, è arte plastica, poesia o musica. Suaunica origine è la conoscenza delle idee; suo unico finela comunicazione di questa conoscenza. Mentre lascienza, tenendo dietro all'incessante e instabile flussodi cause ed effetti quadruplicemente atteggiati, ad ognimèta raggiunta viene di nuovo sospinta sempre più lon-tano e non mai può trovare un termine vero, né un pienoappagamento, più di quanto si possa raggiungere corren-do il punto in cui le nubi toccano l'orizzonte; l'arteall'opposto è sempre alla sua mèta. Imperocché ellastrappa l'oggetto della sua contemplazione fuori dal cor-rente flusso del mondo e lo tiene isolato davanti a sé: equest'oggetto singolo, ch'era in quel flusso una infinita-mente minima parte, diviene per lei un rappresentantedel tutto, un equivalente del molteplice infinito nellospazio e nel tempo: a questo singolo ella s'arresta: ellaferma la ruota del tempo: svaniscono per lei le relazioni:soltanto l'essenziale, l'idea, è suo oggetto. Noi possiamoadunque senz'altro indicarla come il modo di considerarle cose indipendentemente dal principio di ragioneall'opposto della considerazione che appunto di tal prin-cipio tien conto, la quale è la via dell'esperienza e della

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scienza. Quest'ultima maniera di considerazione va pa-ragonata ad una linea orizzontale corrente all'infinito; laprima, invece, alla verticale che la taglia in qualsivogliapunto. Quella che tien dietro al principio di ragione è lamaniera razionale, che nella vita pratica, come nellascienza, sola vale e soccorre; quella che prescinde dalcontenuto del principio stesso è la maniera geniale, chesola vale e soccorre nell'arte. La prima è la maniera diAristotele; la seconda, in complesso, quella di Platone.La prima somiglia al violento uragano, che senza princi-pio e fine trascorre, e tutto piega, scuote, trascina consé: la seconda al placido raggio di sole, che traversa lavia di quell'uragano senza esserne scosso. La prima so-miglia alle innumerabili, impetuosamente agitate goccedella cascata, che sempre mutando non posano un atti-mo: la seconda al placido arcobaleno, che poggia suquesto tumulto furioso. Solo mediante la pura contem-plazione sopra descritta, assorbentesi intera nell'oggetto,vengono colte le idee, e l'essenza del genio sta appuntonella preponderante attitudine a tale contemplazione: epoi che questa richiede un pieno oblio della propria per-sona e dei suoi rapporti, ne viene che genialità non è al-tro se non la più completa obiettità, ossia direzioneobiettiva dello spirito, contrapposta alla direzione su-biettiva, che tende alla propria persona, ossia alla volon-tà. Quindi genialità è l'attitudine a contenersi nella puraintuizione, a perdersi nell'intuizione, e la conoscenza,che in origine esiste soltanto in servizio della volontà,sottrarre a codesto servizio; ossia il proprio interesse, il

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scienza. Quest'ultima maniera di considerazione va pa-ragonata ad una linea orizzontale corrente all'infinito; laprima, invece, alla verticale che la taglia in qualsivogliapunto. Quella che tien dietro al principio di ragione è lamaniera razionale, che nella vita pratica, come nellascienza, sola vale e soccorre; quella che prescinde dalcontenuto del principio stesso è la maniera geniale, chesola vale e soccorre nell'arte. La prima è la maniera diAristotele; la seconda, in complesso, quella di Platone.La prima somiglia al violento uragano, che senza princi-pio e fine trascorre, e tutto piega, scuote, trascina consé: la seconda al placido raggio di sole, che traversa lavia di quell'uragano senza esserne scosso. La prima so-miglia alle innumerabili, impetuosamente agitate goccedella cascata, che sempre mutando non posano un atti-mo: la seconda al placido arcobaleno, che poggia suquesto tumulto furioso. Solo mediante la pura contem-plazione sopra descritta, assorbentesi intera nell'oggetto,vengono colte le idee, e l'essenza del genio sta appuntonella preponderante attitudine a tale contemplazione: epoi che questa richiede un pieno oblio della propria per-sona e dei suoi rapporti, ne viene che genialità non è al-tro se non la più completa obiettità, ossia direzioneobiettiva dello spirito, contrapposta alla direzione su-biettiva, che tende alla propria persona, ossia alla volon-tà. Quindi genialità è l'attitudine a contenersi nella puraintuizione, a perdersi nell'intuizione, e la conoscenza,che in origine esiste soltanto in servizio della volontà,sottrarre a codesto servizio; ossia il proprio interesse, il

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proprio volere, i propri fini perdere affatto di vista, ecosì spogliarsi appieno per un certo tempo della propriapersonalità per rimanere alcun tempo qual puro soggettoconoscente, chiaro occhio del mondo. E ciò non per po-chi istanti; ma così durevolmente e con tanta conscien-za, quanto è necessario per riprodurre con meditata arteil conosciuto, e «ciò che fluttua in ondeggiante appari-zione fissare in durevoli pensieri». Gli è come se – per-ché il genio si riveli in un individuo – dovesse a questoesser toccata in sorte una tal misura di forza conoscitiva,da superar di molto quella che occorre al servizio d'unavolontà individuale; e questo più di conoscenza, divenu-to libero, diventa allora un soggetto sciolto da volontà,un lucido specchio dell'essenza del mondo. Così si spie-ga la vivacità spinta all'irrequietezza in individui geniali,di rado potendo loro bastare il presente, perché nonriempie la loro conscienza; questo da loro quella tensio-ne senza posa, quell'incessante ricerca di oggetti nuovi edegni di considerazione, quindi anche quell'ansia quasimai appagata di trovare esseri a loro somiglianti, fattiper loro, coi quali possano comunicare; mentre l'ordina-rio figlio della terra, tutto riempito ed appagatodall'ordinario presente, in esso si assorbe, e trovandoinoltre dappertutto pari suoi, possiede quello specialebenessere nella vita quotidiana, che al genio è negato.S'è riconosciuto come parte essenziale della genialità lafantasia, anzi talora la si è tenuta identica a quella: nelprimo caso con ragione, a torto nel secondo. Imperocchéoggetti del genio in quanto tale sono le eterne idee, le

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proprio volere, i propri fini perdere affatto di vista, ecosì spogliarsi appieno per un certo tempo della propriapersonalità per rimanere alcun tempo qual puro soggettoconoscente, chiaro occhio del mondo. E ciò non per po-chi istanti; ma così durevolmente e con tanta conscien-za, quanto è necessario per riprodurre con meditata arteil conosciuto, e «ciò che fluttua in ondeggiante appari-zione fissare in durevoli pensieri». Gli è come se – per-ché il genio si riveli in un individuo – dovesse a questoesser toccata in sorte una tal misura di forza conoscitiva,da superar di molto quella che occorre al servizio d'unavolontà individuale; e questo più di conoscenza, divenu-to libero, diventa allora un soggetto sciolto da volontà,un lucido specchio dell'essenza del mondo. Così si spie-ga la vivacità spinta all'irrequietezza in individui geniali,di rado potendo loro bastare il presente, perché nonriempie la loro conscienza; questo da loro quella tensio-ne senza posa, quell'incessante ricerca di oggetti nuovi edegni di considerazione, quindi anche quell'ansia quasimai appagata di trovare esseri a loro somiglianti, fattiper loro, coi quali possano comunicare; mentre l'ordina-rio figlio della terra, tutto riempito ed appagatodall'ordinario presente, in esso si assorbe, e trovandoinoltre dappertutto pari suoi, possiede quello specialebenessere nella vita quotidiana, che al genio è negato.S'è riconosciuto come parte essenziale della genialità lafantasia, anzi talora la si è tenuta identica a quella: nelprimo caso con ragione, a torto nel secondo. Imperocchéoggetti del genio in quanto tale sono le eterne idee, le

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permanenti essenziali forme del mondo e di tutti i suoifenomeni; ma la conoscenza dell'idea è, per necessità,intuitiva, non astratta: in tal modo sarebbe la conoscen-za del genio limitata alle idee degli oggetti effettivamen-te presenti alla sua persona, e dipendenti dalla catenadelle circostanze che a lui lì condussero, se la fantasianon allargasse il suo orizzonte molto di là dalla realtàdella sua personale esperienza e non lo ponesse in gradodi ricostruire, dal poco che è venuto nella sua effettivaappercezione, tutto il rimanente; e così far passare da-vanti a sé quasi tutte le possibili immagini della vita.Inoltre, gli oggetti reali quasi sempre non sono che man-chevoli esemplari dell'idea in loro manifestantesi: quindiil genio ha bisogno della fantasia, per veder nelle cosenon ciò che la natura ha in effetti formato, bensì ciòch'ella si sforzava di formare, ma che a causa della lotta– nel precedente libro ricordata – delle sue forme traloro, non è riuscita a compiere. Torneremo su questoproposito in seguito, trattando della scultura. La fantasiaallarga dunque la cerchia visuale del genio oltre gli og-getti offrentisi in realtà alla sua persona; e l'allarga siaper la qualità che per la quantità. Quindi una non comu-ne forza della fantasia è compagna, anzi condizione del-la genialità. Invece, quella non è prova di questa; anzi,possono anche uomini tutt'altro che geniali aver moltafantasia. Imperocché come si può considerare un ogget-to reale in due modi opposti – o in modo puramenteobiettivo, geniale, cogliendo l'idea di esso, o in modocomune, sol nelle sue relazioni con altri oggetti e con la

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permanenti essenziali forme del mondo e di tutti i suoifenomeni; ma la conoscenza dell'idea è, per necessità,intuitiva, non astratta: in tal modo sarebbe la conoscen-za del genio limitata alle idee degli oggetti effettivamen-te presenti alla sua persona, e dipendenti dalla catenadelle circostanze che a lui lì condussero, se la fantasianon allargasse il suo orizzonte molto di là dalla realtàdella sua personale esperienza e non lo ponesse in gradodi ricostruire, dal poco che è venuto nella sua effettivaappercezione, tutto il rimanente; e così far passare da-vanti a sé quasi tutte le possibili immagini della vita.Inoltre, gli oggetti reali quasi sempre non sono che man-chevoli esemplari dell'idea in loro manifestantesi: quindiil genio ha bisogno della fantasia, per veder nelle cosenon ciò che la natura ha in effetti formato, bensì ciòch'ella si sforzava di formare, ma che a causa della lotta– nel precedente libro ricordata – delle sue forme traloro, non è riuscita a compiere. Torneremo su questoproposito in seguito, trattando della scultura. La fantasiaallarga dunque la cerchia visuale del genio oltre gli og-getti offrentisi in realtà alla sua persona; e l'allarga siaper la qualità che per la quantità. Quindi una non comu-ne forza della fantasia è compagna, anzi condizione del-la genialità. Invece, quella non è prova di questa; anzi,possono anche uomini tutt'altro che geniali aver moltafantasia. Imperocché come si può considerare un ogget-to reale in due modi opposti – o in modo puramenteobiettivo, geniale, cogliendo l'idea di esso, o in modocomune, sol nelle sue relazioni con altri oggetti e con la

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propria volontà, conformi al principio di ragione – cosìanche un fantasma si può considerare nell'un modo enell'altro: nel primo, esso è un mezzo per la conoscenzadell'idea, della quale è comunicazione l'opera d'arte; nelsecondo, il fantasma è impiegato a costruir castelli inaria, che piacciono al nostro egoismo e al nostro capric-cio, e momentaneamente ingannano e rallegrano. E così,facendo dei fantasmi in tal guisa intrecciati, vengono in-vero conosciute sempre le sole relazioni. Chi praticaquesto giuoco è un cervello fantastico: facilmente con-fonderà le immagini, della sua fantasia, come fanno i ro-manzi ordinari d'ogni specie, che sollazzano i pari suoied il gran pubblico, per ciò che i lettori sognano di tro-varsi al posto dell'eroe e trovano quindi il racconto mol-to piacevole.

L'uomo comune, questa mercé all'ingrosso della natu-ra, che ne produce migliaia al giorno, è, come abbiamodetto, capace solo fugacemente di guardare le cose inmaniera affatto disinteressata in ogni senso – ciò che co-stituisce la vera contemplazione. Può alle cose volgerela sua attenzione solo in quanto esse abbiano una qual-siasi relazione, anche se molto indiretta, con la sua vo-lontà. Poi che sotto questo riguardo, il quale sempre ri-chiede solamente la conoscenza delle relazioni, è baste-vole ed anzi è spesso più valido il concetto astratto dellacosa, non s'indugia a lungo l'uomo comune nell'intuizio-ne pura, e quindi non poggia a lungo lo sguardo sopraun oggetto; bensì egli cerca sollecito in tutto ciò, che glisi offre, soltanto il concetto, al quale la cosa va ricon-

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propria volontà, conformi al principio di ragione – cosìanche un fantasma si può considerare nell'un modo enell'altro: nel primo, esso è un mezzo per la conoscenzadell'idea, della quale è comunicazione l'opera d'arte; nelsecondo, il fantasma è impiegato a costruir castelli inaria, che piacciono al nostro egoismo e al nostro capric-cio, e momentaneamente ingannano e rallegrano. E così,facendo dei fantasmi in tal guisa intrecciati, vengono in-vero conosciute sempre le sole relazioni. Chi praticaquesto giuoco è un cervello fantastico: facilmente con-fonderà le immagini, della sua fantasia, come fanno i ro-manzi ordinari d'ogni specie, che sollazzano i pari suoied il gran pubblico, per ciò che i lettori sognano di tro-varsi al posto dell'eroe e trovano quindi il racconto mol-to piacevole.

L'uomo comune, questa mercé all'ingrosso della natu-ra, che ne produce migliaia al giorno, è, come abbiamodetto, capace solo fugacemente di guardare le cose inmaniera affatto disinteressata in ogni senso – ciò che co-stituisce la vera contemplazione. Può alle cose volgerela sua attenzione solo in quanto esse abbiano una qual-siasi relazione, anche se molto indiretta, con la sua vo-lontà. Poi che sotto questo riguardo, il quale sempre ri-chiede solamente la conoscenza delle relazioni, è baste-vole ed anzi è spesso più valido il concetto astratto dellacosa, non s'indugia a lungo l'uomo comune nell'intuizio-ne pura, e quindi non poggia a lungo lo sguardo sopraun oggetto; bensì egli cerca sollecito in tutto ciò, che glisi offre, soltanto il concetto, al quale la cosa va ricon-

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dotta, come l'accidioso cerca la sedia – e non se ne inte-ressa più oltre. Perciò si sbriga di tutto così alla svelta:di opere d'arte, di belli oggetti naturali, e dell'ognora si-gnificante spettacolo della vita in tutte le sue scene. Eglinon s'indugia: cerca soltanto la sua strada nella vita, oanche, per ogni caso, tutto ciò che potrebbe essere ungiorno la sua strada, ossia cerca notizie topografiche nelsenso più ampio della parola: con l'osservazione dellavita stessa come tale non sta a perder tempo. L'uomo ge-niale invece, la cui forza conoscitiva si sottrae, per lapropria prevalenza, al servizio della sua volontà, si trat-tiene a considerar la vita per se stessa, si sforza di rag-giunger l'idea d'ogni cosa, e non già le relazioni di cia-scuna con le altre: perciò trascura sovente la considera-zione del suo proprio cammino nella vita, e lo percorrequindi il più delle volte in modo abbastanza maldestro.Mentre per l'uomo comune il proprio patrimonio cono-scitivo è la lanterna, che illumina la strada, esso è perl'uomo geniale il sole, che disvela il mondo. Questa sìdissimile maniera di guardar dentro alla vita, si fa prestovisibile perfino dall'apparenza esterna dei due. Lo sguar-do dell'uomo, in cui il genio vive e opera, fa distinguerecostui facilmente, perché, vivace e fermo insieme, ha ilcarattere della contemplazione; quale possiamo vederenelle immagini delle poche teste geniali, che la naturaha di quanto in quanto prodotto fra gli innumeri milioni.Invece nell'occhio dell'altro – quando non sia, come è ilpiù spesso, opaco o insignificante – si osserva facilmen-te il vero contrapposto della contemplazione: il cercare.

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dotta, come l'accidioso cerca la sedia – e non se ne inte-ressa più oltre. Perciò si sbriga di tutto così alla svelta:di opere d'arte, di belli oggetti naturali, e dell'ognora si-gnificante spettacolo della vita in tutte le sue scene. Eglinon s'indugia: cerca soltanto la sua strada nella vita, oanche, per ogni caso, tutto ciò che potrebbe essere ungiorno la sua strada, ossia cerca notizie topografiche nelsenso più ampio della parola: con l'osservazione dellavita stessa come tale non sta a perder tempo. L'uomo ge-niale invece, la cui forza conoscitiva si sottrae, per lapropria prevalenza, al servizio della sua volontà, si trat-tiene a considerar la vita per se stessa, si sforza di rag-giunger l'idea d'ogni cosa, e non già le relazioni di cia-scuna con le altre: perciò trascura sovente la considera-zione del suo proprio cammino nella vita, e lo percorrequindi il più delle volte in modo abbastanza maldestro.Mentre per l'uomo comune il proprio patrimonio cono-scitivo è la lanterna, che illumina la strada, esso è perl'uomo geniale il sole, che disvela il mondo. Questa sìdissimile maniera di guardar dentro alla vita, si fa prestovisibile perfino dall'apparenza esterna dei due. Lo sguar-do dell'uomo, in cui il genio vive e opera, fa distinguerecostui facilmente, perché, vivace e fermo insieme, ha ilcarattere della contemplazione; quale possiamo vederenelle immagini delle poche teste geniali, che la naturaha di quanto in quanto prodotto fra gli innumeri milioni.Invece nell'occhio dell'altro – quando non sia, come è ilpiù spesso, opaco o insignificante – si osserva facilmen-te il vero contrapposto della contemplazione: il cercare.

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Per conseguenza l'«espressione geniale di una testa con-siste nel palesarvisi un risoluto prevaler del conosceresul volere, e quindi anche nell'esprimervisi un conosceresenz'alcuna relazione con un volere, ossia un puro cono-scere». Viceversa, in teste quali sono di regola, predomi-na l'espressione del volere, e si vede che il conoscereentra sempre in azione solo in seguito a spinta del vole-re, e perciò è sempre indirizzato secondo motivi.

Poi che la conoscenza geniale, ossia conoscenzadell'idea, è quella che non segue il principio di ragione,l'altra invece che lo segue dà nella vita saggezza e razio-cinio, e produce le scienze; perciò individui genialiavranno quelle manchevolezze che trae con sé la trascu-ranza dell'altro modo di conoscere. Tuttavia va qui nota-ta la restrizione, che ciò ch'io verrò dicendo sotto tale ri-guardo, li tocca solo in quanto e mentre essi sono vera-mente in atto di aver la conoscenza geniale, e questonon è punto il caso in ogni momento di lor vita; impe-rocché la grande – sebbene spontanea – tensione, che sirichiede per vedere le idee fuori della volontà, necessa-riamente si rilascia ed ha grandi pause; in cui gli uominigeniali vengono, sia riguardo ai pregi che ai difetti, super giù a somigliare agli uomini comuni. Perciò s'è daitempi più remoti indicata l'attività del genio comeun'ispirazione; anzi, secondo esprime la parola stessa,come l'attività di un essere sovrumano distinto dall'indi-viduo medesimo, che sol periodicamente s'impadroniscedi questo. La ripugnanza degli individui geniali a dirigerl'attenzione sul contenuto di principio di ragione, si rive-

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Per conseguenza l'«espressione geniale di una testa con-siste nel palesarvisi un risoluto prevaler del conosceresul volere, e quindi anche nell'esprimervisi un conosceresenz'alcuna relazione con un volere, ossia un puro cono-scere». Viceversa, in teste quali sono di regola, predomi-na l'espressione del volere, e si vede che il conoscereentra sempre in azione solo in seguito a spinta del vole-re, e perciò è sempre indirizzato secondo motivi.

Poi che la conoscenza geniale, ossia conoscenzadell'idea, è quella che non segue il principio di ragione,l'altra invece che lo segue dà nella vita saggezza e razio-cinio, e produce le scienze; perciò individui genialiavranno quelle manchevolezze che trae con sé la trascu-ranza dell'altro modo di conoscere. Tuttavia va qui nota-ta la restrizione, che ciò ch'io verrò dicendo sotto tale ri-guardo, li tocca solo in quanto e mentre essi sono vera-mente in atto di aver la conoscenza geniale, e questonon è punto il caso in ogni momento di lor vita; impe-rocché la grande – sebbene spontanea – tensione, che sirichiede per vedere le idee fuori della volontà, necessa-riamente si rilascia ed ha grandi pause; in cui gli uominigeniali vengono, sia riguardo ai pregi che ai difetti, super giù a somigliare agli uomini comuni. Perciò s'è daitempi più remoti indicata l'attività del genio comeun'ispirazione; anzi, secondo esprime la parola stessa,come l'attività di un essere sovrumano distinto dall'indi-viduo medesimo, che sol periodicamente s'impadroniscedi questo. La ripugnanza degli individui geniali a dirigerl'attenzione sul contenuto di principio di ragione, si rive-

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lerà dapprima rispetto al principio d'esistenza, come ri-pugnanza per la matematica, la cui cognizione va alleforme più universali del fenomeno, tempo e spazio, cheper l'appunto non sono se non forme del principio di ra-gione; ed è quindi proprio l'opposto di quella cognizio-ne, che cerca viceversa il contenuto del fenomeno, l'ideaesprimentevisi dentro, prescindendo da ogni relazione.Inoltre anche la trattazione logica della matematica ripu-gnerà al genio, perché questa, sbarrando la via alla verae propria penetrazione, non appaga; bensì, presentandosemplicemente una catena di sillogismi, secondo il prin-cipio della ragione di conoscenza, tra tutte le forze dellospirito occupa prevalentemente la memoria, per tenereognora presenti le proposizioni anteriori, a cui ci si rife-risce. Anche l'esperienza ha confermato, che grandi ge-nii dell'arte non hanno alcuna attitudine per la matemati-ca: mai è esistito un uomo eccellente in pari temponell'una e nell'altra. Alfieri narra di non aver mai potutocapire neppur il quarto teorema di Euclide. A Goethe lamancanza di cognizioni matematiche fu a sazietà rim-proverata dagli stolti avversari della sua teoria dei colo-ri: e invero quivi, dove non si trattava di calcolare e mi-surare su dati ipotetici, bensì d'immediata conoscenzaintuitiva della causa e dell'effetto, era quel rimproverocosì storto e fuori posto, che coloro hanno appunto tantocon esso mostrato alla luce del giorno la lor completaassenza di ragione, quanto con le altre lor sentenze de-gne del re Mida. Che oggi ancora, quasi un mezzo seco-lo dopo l'apparir della teoria goethiana dei colori, possa-

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lerà dapprima rispetto al principio d'esistenza, come ri-pugnanza per la matematica, la cui cognizione va alleforme più universali del fenomeno, tempo e spazio, cheper l'appunto non sono se non forme del principio di ra-gione; ed è quindi proprio l'opposto di quella cognizio-ne, che cerca viceversa il contenuto del fenomeno, l'ideaesprimentevisi dentro, prescindendo da ogni relazione.Inoltre anche la trattazione logica della matematica ripu-gnerà al genio, perché questa, sbarrando la via alla verae propria penetrazione, non appaga; bensì, presentandosemplicemente una catena di sillogismi, secondo il prin-cipio della ragione di conoscenza, tra tutte le forze dellospirito occupa prevalentemente la memoria, per tenereognora presenti le proposizioni anteriori, a cui ci si rife-risce. Anche l'esperienza ha confermato, che grandi ge-nii dell'arte non hanno alcuna attitudine per la matemati-ca: mai è esistito un uomo eccellente in pari temponell'una e nell'altra. Alfieri narra di non aver mai potutocapire neppur il quarto teorema di Euclide. A Goethe lamancanza di cognizioni matematiche fu a sazietà rim-proverata dagli stolti avversari della sua teoria dei colo-ri: e invero quivi, dove non si trattava di calcolare e mi-surare su dati ipotetici, bensì d'immediata conoscenzaintuitiva della causa e dell'effetto, era quel rimproverocosì storto e fuori posto, che coloro hanno appunto tantocon esso mostrato alla luce del giorno la lor completaassenza di ragione, quanto con le altre lor sentenze de-gne del re Mida. Che oggi ancora, quasi un mezzo seco-lo dopo l'apparir della teoria goethiana dei colori, possa-

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no perfino in Germania rimanere indisturbate in posses-so delle cattedre le fandonie neutoniane, e che si conti-nui in tutta serietà a discorrere delle sette luci omogeneee della lor varia rifrangibilità, conterà un giorno tra lemaggiori caratteristiche intellettuali dell'umanità in ge-nere e del germanesimo in ispecie. Con lo stesso motivosopra indicato si spiega il fatto notissimo, che viceversaeccellenti matematici hanno poca comprensione per leopere delle arti belle; secondo è espresso in modo parti-colarmente ingenuo dal noto aneddoto di quel matemati-co francese, che dopo aver letta l'Ifigenia di Racine do-mandò alzando le spalle: Qu'est-ce-que cela prouve? Poiche inoltre un'acuta comprensione dei rapporti secondola legge di causalità e motivazione costituisce l'intelli-genza, mentre la conoscenza geniale non è rivolta allerelazioni, ne viene che un uomo intelligente, in quanto enel mentre è tale, non ha genio; e l'uomo di genio, inquanto e nel mentre è tale, non è intelligente. Infine laconoscenza intuitiva in genere, nel cui dominio esclusi-vo è l'idea, sta proprio di fronte alla conoscenza raziona-le o astratta, guidata dal principio di ragione del cono-scere. È anche raro, com'è noto, trovar grande genialitàunita a predominante ragionevolezza, che anzi al contra-rio individui geniali sono spesso in preda ad effetti vio-lenti e irragionevoli passioni. E di ciò non è punto causadebolezza di ragione, bensì, in parte, eccezionale ener-gia di tutto il fenomeno della volontà, che forma l'uomodi genio, e che si manifesta con la vivacità di tutti gliatti volitivi; e in parte predominio della conoscenza in-

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no perfino in Germania rimanere indisturbate in posses-so delle cattedre le fandonie neutoniane, e che si conti-nui in tutta serietà a discorrere delle sette luci omogeneee della lor varia rifrangibilità, conterà un giorno tra lemaggiori caratteristiche intellettuali dell'umanità in ge-nere e del germanesimo in ispecie. Con lo stesso motivosopra indicato si spiega il fatto notissimo, che viceversaeccellenti matematici hanno poca comprensione per leopere delle arti belle; secondo è espresso in modo parti-colarmente ingenuo dal noto aneddoto di quel matemati-co francese, che dopo aver letta l'Ifigenia di Racine do-mandò alzando le spalle: Qu'est-ce-que cela prouve? Poiche inoltre un'acuta comprensione dei rapporti secondola legge di causalità e motivazione costituisce l'intelli-genza, mentre la conoscenza geniale non è rivolta allerelazioni, ne viene che un uomo intelligente, in quanto enel mentre è tale, non ha genio; e l'uomo di genio, inquanto e nel mentre è tale, non è intelligente. Infine laconoscenza intuitiva in genere, nel cui dominio esclusi-vo è l'idea, sta proprio di fronte alla conoscenza raziona-le o astratta, guidata dal principio di ragione del cono-scere. È anche raro, com'è noto, trovar grande genialitàunita a predominante ragionevolezza, che anzi al contra-rio individui geniali sono spesso in preda ad effetti vio-lenti e irragionevoli passioni. E di ciò non è punto causadebolezza di ragione, bensì, in parte, eccezionale ener-gia di tutto il fenomeno della volontà, che forma l'uomodi genio, e che si manifesta con la vivacità di tutti gliatti volitivi; e in parte predominio della conoscenza in-

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tuitiva, mediante sensi e intelletto, sull'astratta; quinditendenza risoluta al campo intuitivo; – l'espressione delquale, energica in sommo grado, di tanto supera negliuomini geniali gl'incolori concetti, che non più questi,bensì quella dirige l'azione divenuta appunto perciò irra-zionale: e per conseguenza l'impressione del presente èsu di loro potentissima, li trascina all'atto inconsapevole,all'affetto, alla passione. Anche perciò, e soprattutto per-ché la lor conoscenza s'è in parte sottratta al serviziodella volontà, nella conversazione baderanno non tantoalla persona, con la quale parlano, quanto alla cosa dicui parlano, che vivacemente aleggia loro dinnanzi:quindi giudicheranno in un modo troppo obiettivo, sen-za riguardo al proprio interesse, o racconteranno, invecedi tacere, cose che prudenza vorrebbe taciute, e così via.Quindi, finalmente, sono inclinati a monologare, e pos-sono in genere lasciar scorgere in sé tante debolezze, daavvicinarsi davvero alla follia. Che genialità e pazziaabbiano un lato in cui confinano, anzi si confondono, fuosservato sovente; e perfino l'estro poetico fu detto unaspecie di pazzia: amabili insania lo chiama Orazio (Od.III, 4), e «graziosa follia» Wieland nell'introduzionedell'Oberon. Lo stesso Aristotele, secondo riferisce Se-neca (de tranq. animi, 15, 16) avrebbe detto: «Nullummagnum ingenium sine mixtura dementiae fuit». Il me-desimo esprime Platone, nel sopracitato mito della ca-verna oscura (de Rep. 7), col dire: Coloro, che fuor dellacaverna hanno contemplata la vera luce solare e le cosedavvero esistenti (le idee), non possono rientrando nella

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tuitiva, mediante sensi e intelletto, sull'astratta; quinditendenza risoluta al campo intuitivo; – l'espressione delquale, energica in sommo grado, di tanto supera negliuomini geniali gl'incolori concetti, che non più questi,bensì quella dirige l'azione divenuta appunto perciò irra-zionale: e per conseguenza l'impressione del presente èsu di loro potentissima, li trascina all'atto inconsapevole,all'affetto, alla passione. Anche perciò, e soprattutto per-ché la lor conoscenza s'è in parte sottratta al serviziodella volontà, nella conversazione baderanno non tantoalla persona, con la quale parlano, quanto alla cosa dicui parlano, che vivacemente aleggia loro dinnanzi:quindi giudicheranno in un modo troppo obiettivo, sen-za riguardo al proprio interesse, o racconteranno, invecedi tacere, cose che prudenza vorrebbe taciute, e così via.Quindi, finalmente, sono inclinati a monologare, e pos-sono in genere lasciar scorgere in sé tante debolezze, daavvicinarsi davvero alla follia. Che genialità e pazziaabbiano un lato in cui confinano, anzi si confondono, fuosservato sovente; e perfino l'estro poetico fu detto unaspecie di pazzia: amabili insania lo chiama Orazio (Od.III, 4), e «graziosa follia» Wieland nell'introduzionedell'Oberon. Lo stesso Aristotele, secondo riferisce Se-neca (de tranq. animi, 15, 16) avrebbe detto: «Nullummagnum ingenium sine mixtura dementiae fuit». Il me-desimo esprime Platone, nel sopracitato mito della ca-verna oscura (de Rep. 7), col dire: Coloro, che fuor dellacaverna hanno contemplata la vera luce solare e le cosedavvero esistenti (le idee), non possono rientrando nella

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caverna più nulla vedere, perché i loro occhi hanno per-duto l'abitudine dell'oscurità, né più sanno distinguere lìsotto le ombre; ed essi vengono perciò nei loro erroriderisi dagli altri, che non sono mai usciti da questa ca-verna e da queste ombre. Egli dice anche espressamentenel Fedro (p. 317) che senza qualche follia non può dar-si poeta vero; anzi (p. 327) che ciascuno, il quale nelleeffimere cose conosca le eterne idee, apparisce qual fol-le. Pur Cicerone riferisce: «Negat enim, sine furore,Democritus, quemquam poëtam magnum esse posse,quod idem dicit Plato» (de divin. I, 37). E finalmentedice Pope:

Great wits to madness sure are near allied,And thin partitions do their bounds divide58.

Particolarmente istruttivo a questo proposito è il Tor-quato Tasso di Goethe; dove questi ci pone innanzi agliocchi non solo il dolore, il martirio proprio del genio inquanto tale, ma anche il suo perenne inclinar verso lafollia. Infine l'immediato contatto tra genialità e pazzia èconfermato dalle biografie di uomini genialissimi – peresempio Rousseau, Byron, Alfieri –, e da aneddoti dellealtrui vite; per converso devo ricordare d'aver trovato,visitando frequentemente i manicomi, taluni soggettidotati di capacità innegabilmente grandi, la cui genialitàtraluceva palese attraverso la follia; la quale nondimenoaveva qui preso del tutto il sopravvento. Ora, questo fat-to non può essere attribuito al caso, perché da un lato il58 Alla pazzia è affine il grande genio; solo una sottile parete li divide.

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caverna più nulla vedere, perché i loro occhi hanno per-duto l'abitudine dell'oscurità, né più sanno distinguere lìsotto le ombre; ed essi vengono perciò nei loro erroriderisi dagli altri, che non sono mai usciti da questa ca-verna e da queste ombre. Egli dice anche espressamentenel Fedro (p. 317) che senza qualche follia non può dar-si poeta vero; anzi (p. 327) che ciascuno, il quale nelleeffimere cose conosca le eterne idee, apparisce qual fol-le. Pur Cicerone riferisce: «Negat enim, sine furore,Democritus, quemquam poëtam magnum esse posse,quod idem dicit Plato» (de divin. I, 37). E finalmentedice Pope:

Great wits to madness sure are near allied,And thin partitions do their bounds divide58.

Particolarmente istruttivo a questo proposito è il Tor-quato Tasso di Goethe; dove questi ci pone innanzi agliocchi non solo il dolore, il martirio proprio del genio inquanto tale, ma anche il suo perenne inclinar verso lafollia. Infine l'immediato contatto tra genialità e pazzia èconfermato dalle biografie di uomini genialissimi – peresempio Rousseau, Byron, Alfieri –, e da aneddoti dellealtrui vite; per converso devo ricordare d'aver trovato,visitando frequentemente i manicomi, taluni soggettidotati di capacità innegabilmente grandi, la cui genialitàtraluceva palese attraverso la follia; la quale nondimenoaveva qui preso del tutto il sopravvento. Ora, questo fat-to non può essere attribuito al caso, perché da un lato il58 Alla pazzia è affine il grande genio; solo una sottile parete li divide.

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numero dei pazzi è relativamente assai piccolo, mentredall'altro un individuo geniale è un fenomeno raro oltreogni comune misura, e sol come straordinaria eccezionecomparisce nella natura: basti a persuadercene il contarei genii davvero grandi che tutta intera l'Europa ha pro-dotto nell'era antica e nella moderna – ma comprenden-dovi soltanto gli autori di opere che in ogni tempo han-no conservato un durevole valore per l'umanità – e il nu-mero di questi singoli paragonar coi 250 milioni d'uomi-ni che, rinnovandosi di trenta in trent'anni, costantemen-te vivono in Europa. Ancora, non voglio tacere che va-rie persone ho conosciuto, dotate d'una superiorità intel-lettuale sicura, se pur non considerevole, che in paritempo dimostravano una leggera aria di follia. Da que-sto può apparire che ogni elevazione dell'intelletto soprail livello comune, essendo un carattere anormale, già di-sponga alla follia. Nondimeno voglio nel modo più bre-ve possibile esporre la mia opinione sul motivo pura-mente intellettuale di quella parentela tra genialità e fol-lia, poiché codesto esame contribuirà senza dubbio achiarire la vera essenza della genialità, ossia di quellaproprietà dello spirito che sola può produrre vere opered'arte. Ma questo rende necessario anche un breve esa-me della follia59.

Un chiaro, compiuto riconoscimento dell'essenza del-la follia; un esatto e limpido concetto di ciò che propria-mente distingue il folle dal savio, non s'è ancora, per59 Si veda il cap. 31 del secondo volume [pp. 389-411 del tomo II dell'ed.

cit.

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numero dei pazzi è relativamente assai piccolo, mentredall'altro un individuo geniale è un fenomeno raro oltreogni comune misura, e sol come straordinaria eccezionecomparisce nella natura: basti a persuadercene il contarei genii davvero grandi che tutta intera l'Europa ha pro-dotto nell'era antica e nella moderna – ma comprenden-dovi soltanto gli autori di opere che in ogni tempo han-no conservato un durevole valore per l'umanità – e il nu-mero di questi singoli paragonar coi 250 milioni d'uomi-ni che, rinnovandosi di trenta in trent'anni, costantemen-te vivono in Europa. Ancora, non voglio tacere che va-rie persone ho conosciuto, dotate d'una superiorità intel-lettuale sicura, se pur non considerevole, che in paritempo dimostravano una leggera aria di follia. Da que-sto può apparire che ogni elevazione dell'intelletto soprail livello comune, essendo un carattere anormale, già di-sponga alla follia. Nondimeno voglio nel modo più bre-ve possibile esporre la mia opinione sul motivo pura-mente intellettuale di quella parentela tra genialità e fol-lia, poiché codesto esame contribuirà senza dubbio achiarire la vera essenza della genialità, ossia di quellaproprietà dello spirito che sola può produrre vere opered'arte. Ma questo rende necessario anche un breve esa-me della follia59.

Un chiaro, compiuto riconoscimento dell'essenza del-la follia; un esatto e limpido concetto di ciò che propria-mente distingue il folle dal savio, non s'è ancora, per59 Si veda il cap. 31 del secondo volume [pp. 389-411 del tomo II dell'ed.

cit.

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quanto io sappia, trovato. Né ragione, né intelletto sipossono negare ai folli; imperocché questi discorrono eintendono, anzi spesso ragionano molto bene; di regolaintuiscono con giustezza ciò ch'è loro presente, e scor-gono il rapporto tra causa ed effetto. Visioni, simili afantasmagorie febbrili, non sono punto un ordinario sin-tomo di follia: il delirio altera la percezione, la follia al-tera i pensieri. Il più delle volte invero non errano i follinella cognizione dell'immediato presente, bensì il lorfarneticare si riferisce ognora all'assente e passato, esolo per tal via al rapporto di quello col presente. Perciòadunque sembra a me che il loro male tocchi particolar-mente la memoria; non già nel senso che questa manchiad essi del tutto (che molti sanno a memoria molto, e ri-conoscono talora persone da tempo non vedute), ma cheil filo della memoria sia rotto, smarrita la concatenazio-ne costante di quella, e reso impossibile un regolarecoordinato risovvenirsi di ciò che fu. Singole scene delpassato si presentano con giustezza, come l'isolato pre-sente: ma nel risalire indietro s'incontrano lacune, che ifolli riempiono con fantasie, le quali o essendo semprele medesime diventano idee fisse (e allora si ha mono-mania, malinconia) o cambiano ogni volta, in formad'immaginazioni momentanee (chiamandosi in questocaso stravaganza, fatuitas). Perciò è tanto difficile rica-var da un folle, nel suo entrare in manicomio, informa-zioni sulla sua vita passata. Sempre più viene a confon-dersi nella sua memoria il vero col falso. Per quanto siaconosciuto rattamente l'immediato presente, lo si altera

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quanto io sappia, trovato. Né ragione, né intelletto sipossono negare ai folli; imperocché questi discorrono eintendono, anzi spesso ragionano molto bene; di regolaintuiscono con giustezza ciò ch'è loro presente, e scor-gono il rapporto tra causa ed effetto. Visioni, simili afantasmagorie febbrili, non sono punto un ordinario sin-tomo di follia: il delirio altera la percezione, la follia al-tera i pensieri. Il più delle volte invero non errano i follinella cognizione dell'immediato presente, bensì il lorfarneticare si riferisce ognora all'assente e passato, esolo per tal via al rapporto di quello col presente. Perciòadunque sembra a me che il loro male tocchi particolar-mente la memoria; non già nel senso che questa manchiad essi del tutto (che molti sanno a memoria molto, e ri-conoscono talora persone da tempo non vedute), ma cheil filo della memoria sia rotto, smarrita la concatenazio-ne costante di quella, e reso impossibile un regolarecoordinato risovvenirsi di ciò che fu. Singole scene delpassato si presentano con giustezza, come l'isolato pre-sente: ma nel risalire indietro s'incontrano lacune, che ifolli riempiono con fantasie, le quali o essendo semprele medesime diventano idee fisse (e allora si ha mono-mania, malinconia) o cambiano ogni volta, in formad'immaginazioni momentanee (chiamandosi in questocaso stravaganza, fatuitas). Perciò è tanto difficile rica-var da un folle, nel suo entrare in manicomio, informa-zioni sulla sua vita passata. Sempre più viene a confon-dersi nella sua memoria il vero col falso. Per quanto siaconosciuto rattamente l'immediato presente, lo si altera

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mediante la fittizia connessione con un immaginariopassato: i folli ritengono quindi se stessi, o altri, identicia persone che esistono soltanto nel loro chimerico pas-sato, non riconoscono invece talune persone note, edhanno così, pur rappresentandosi con esattezza il singo-lo presente, ognora false relazioni di questo con l'assen-te. Quando la follia raggiunge un alto grado, viene unacompleta assenza di memoria, per cui il folle diventa af-fatto incapace di riferirsi ad alcunché di assente o dipassato, ma è determinato esclusivamente dalla fantasiamomentanea, in rapporto con le chimere che nel suocapo riempiono il passato. Allora non si è mai sicuri unistante, vicino a lui, dalla violenza o assassinio, quandonon gli si tenga ognora davanti agli occhi la forza domi-natrice. Il modo di conoscere del folle ha di comune conl'animale, l'essere entrambi limitati al presente; ma que-sto li distingue: che l'animale non ha propriamente alcu-na rappresentazione del passato come passato, per quan-to esso agisca sull'animale stesso per il mezzo dell'abitu-dine, sì che a mo' d'esempio il cane riconosce anchedopo anni il suo antico padrone, ossia riceve l'usata im-pressione dal suo sguardo, pur non avendo nessun ricor-do del tempo da allora trascorso: mentre il folle invecereca pur sempre nella sua ragione un passato in abstrac-to, ma però falso, che per lui solo esiste; e questo, o ri-mane costante, o varia a momenti. Ora, l'influsso di que-sto falso passato impedisce anche quell'uso del presente,conosciuto con giustezza, che l'animale tuttavia puòfare. Che intensa vita intellettuale, inattesi orribili eventi

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mediante la fittizia connessione con un immaginariopassato: i folli ritengono quindi se stessi, o altri, identicia persone che esistono soltanto nel loro chimerico pas-sato, non riconoscono invece talune persone note, edhanno così, pur rappresentandosi con esattezza il singo-lo presente, ognora false relazioni di questo con l'assen-te. Quando la follia raggiunge un alto grado, viene unacompleta assenza di memoria, per cui il folle diventa af-fatto incapace di riferirsi ad alcunché di assente o dipassato, ma è determinato esclusivamente dalla fantasiamomentanea, in rapporto con le chimere che nel suocapo riempiono il passato. Allora non si è mai sicuri unistante, vicino a lui, dalla violenza o assassinio, quandonon gli si tenga ognora davanti agli occhi la forza domi-natrice. Il modo di conoscere del folle ha di comune conl'animale, l'essere entrambi limitati al presente; ma que-sto li distingue: che l'animale non ha propriamente alcu-na rappresentazione del passato come passato, per quan-to esso agisca sull'animale stesso per il mezzo dell'abitu-dine, sì che a mo' d'esempio il cane riconosce anchedopo anni il suo antico padrone, ossia riceve l'usata im-pressione dal suo sguardo, pur non avendo nessun ricor-do del tempo da allora trascorso: mentre il folle invecereca pur sempre nella sua ragione un passato in abstrac-to, ma però falso, che per lui solo esiste; e questo, o ri-mane costante, o varia a momenti. Ora, l'influsso di que-sto falso passato impedisce anche quell'uso del presente,conosciuto con giustezza, che l'animale tuttavia puòfare. Che intensa vita intellettuale, inattesi orribili eventi

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producono spesso follia, io mi spiego nel modo seguen-te. Ciascuna di quelle sofferenze è sempre, in quantoevento reale, limitata al presente; quindi passeggera eperciò non mai oltremisura grave; smisuratamente gran-de si fa solo col diventar dolore fisso. Ma come tale,esso non è più che un pensiero, e sta quindi nella memo-ria. Ora, se un tale affanno, una tal dolorosa consapevo-lezza o memoria è di tanto tormento da riuscire affattointollerabile, tanto che l'individuo finirebbe col soggia-cervi, – allora la natura in sì estremo grado angosciataricorre alla follia, come all'estrema àncora di salvamentodella vita: lo spirito, cotanto travagliato, fa come sestrappasse il filo della propria memoria, riempie le lacu-ne con chimere, e da un dolore intellettuale, che sover-chia le sue forze, si rifugia nella follia – come si amputaun membro preso dalla cancrena e lo si sostituisce conaltro di legno. Per esempio si consideri Aiace furioso, ilre Lear e Ofelìa: imperocché le creature del genio vero,che sole si possono qui allegare, essendo a tutti note,sono per la lor verità da tenersi come persone reali; ed'altronde in ciò dimostra esattamente lo stesso anche lafrequente esperienza effettiva. Una lontana somiglianzacon quella maniera di passaggio dal dolore alla follia siscorge nel cercare che tutti spesso facciamo, di allonta-nare quasi meccanicamente un penoso ricordo, il qualeimprovviso ci sopravvenga, con una qualsiasi esclama-zione o con un movimento, distogliendo noi stessi di là,distraendocene con violenza.

Se vediamo adunque il folle ben conoscere, nel modo

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producono spesso follia, io mi spiego nel modo seguen-te. Ciascuna di quelle sofferenze è sempre, in quantoevento reale, limitata al presente; quindi passeggera eperciò non mai oltremisura grave; smisuratamente gran-de si fa solo col diventar dolore fisso. Ma come tale,esso non è più che un pensiero, e sta quindi nella memo-ria. Ora, se un tale affanno, una tal dolorosa consapevo-lezza o memoria è di tanto tormento da riuscire affattointollerabile, tanto che l'individuo finirebbe col soggia-cervi, – allora la natura in sì estremo grado angosciataricorre alla follia, come all'estrema àncora di salvamentodella vita: lo spirito, cotanto travagliato, fa come sestrappasse il filo della propria memoria, riempie le lacu-ne con chimere, e da un dolore intellettuale, che sover-chia le sue forze, si rifugia nella follia – come si amputaun membro preso dalla cancrena e lo si sostituisce conaltro di legno. Per esempio si consideri Aiace furioso, ilre Lear e Ofelìa: imperocché le creature del genio vero,che sole si possono qui allegare, essendo a tutti note,sono per la lor verità da tenersi come persone reali; ed'altronde in ciò dimostra esattamente lo stesso anche lafrequente esperienza effettiva. Una lontana somiglianzacon quella maniera di passaggio dal dolore alla follia siscorge nel cercare che tutti spesso facciamo, di allonta-nare quasi meccanicamente un penoso ricordo, il qualeimprovviso ci sopravvenga, con una qualsiasi esclama-zione o con un movimento, distogliendo noi stessi di là,distraendocene con violenza.

Se vediamo adunque il folle ben conoscere, nel modo

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indicato, il singolo presente, e anche qualche singolopassato, ma misconoscerne le relazioni e quindi errare efarneticare, proprio in ciò è il suo punto di contatto conl'individuo geniale. Imperocché anche il geniale, trala-sciando la conoscenza delle relazioni conforme al prin-cipio di ragione, per vedere e cercar nelle cose soltantol'idea loro, afferrare la lor vera essenza come intuitiva-mente gli si rivela (per la quale essenza un oggetto rap-presenta tutta intera la sua specie, sì che, dice Goethe,un caso vale per mille), – anche il geniale perde con ciòdi vista la conoscenza del nesso che lega le cose: il sin-golo oggetto della sua contemplazione, oppure il presen-te, da lui con eccessiva vivezza percepito, gli apparisco-no in così chiara luce, che i rimanenti anelli della catenaa cui quelli appartengono vengono di conseguenza a tro-varsi nell'ombra; la qual cosa produce fenomeni, chehanno con quelli della follia una somiglianza da temporiconosciuta. Quel che in una singola cosa non esiste senon incompiutamente e indebolito da modificazioni, ilmodo di vedere del genio Io innalza fino all'idea, alcompiuto: da per tutto quindi il genio vede estremi, eappunto perciò la sua azione va sempre all'estremo: nonsa cogliere la giusta misura, gli manca la temperanza, eil risultato è quel che s'è detto. Conosce le idee appieno,ma non gl'individui. Perciò un poeta, come fu osservato,può conoscere intimamente e a fondo l'uomo, moltomale invece gli uomini: egli è facile a essere ingannato,

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indicato, il singolo presente, e anche qualche singolopassato, ma misconoscerne le relazioni e quindi errare efarneticare, proprio in ciò è il suo punto di contatto conl'individuo geniale. Imperocché anche il geniale, trala-sciando la conoscenza delle relazioni conforme al prin-cipio di ragione, per vedere e cercar nelle cose soltantol'idea loro, afferrare la lor vera essenza come intuitiva-mente gli si rivela (per la quale essenza un oggetto rap-presenta tutta intera la sua specie, sì che, dice Goethe,un caso vale per mille), – anche il geniale perde con ciòdi vista la conoscenza del nesso che lega le cose: il sin-golo oggetto della sua contemplazione, oppure il presen-te, da lui con eccessiva vivezza percepito, gli apparisco-no in così chiara luce, che i rimanenti anelli della catenaa cui quelli appartengono vengono di conseguenza a tro-varsi nell'ombra; la qual cosa produce fenomeni, chehanno con quelli della follia una somiglianza da temporiconosciuta. Quel che in una singola cosa non esiste senon incompiutamente e indebolito da modificazioni, ilmodo di vedere del genio Io innalza fino all'idea, alcompiuto: da per tutto quindi il genio vede estremi, eappunto perciò la sua azione va sempre all'estremo: nonsa cogliere la giusta misura, gli manca la temperanza, eil risultato è quel che s'è detto. Conosce le idee appieno,ma non gl'individui. Perciò un poeta, come fu osservato,può conoscere intimamente e a fondo l'uomo, moltomale invece gli uomini: egli è facile a essere ingannato,

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ed è un trastullo in mano degli astuti60.

§ 37.Sebbene adunque, come risulta dalla nostra esposizio-

ne, il genio consista nella capacità di conoscere, indi-pendentemente dal principio di ragione, le idee dellecose invece che i singoli oggetti, i quali soltanto nellerelazioni hanno la loro esistenza; e di essere, di frontealle idee, il correlato stesso dell'idea, ossia non più unindividuo, bensì puro soggetto del conoscere; – devetuttavia questa capacità trovarsi in minore e diverso gra-do presso gli uomini tutti: poiché altrimenti sarebberquesti altrettanto incapaci di goder le opere dell'arte,quanto di produrle, e in genere non possederebbero peril bello e l'elevato sensibilità alcuna; anzi queste parolenon avrebbero per loro alcun senso. Dobbiamo dunqueammetter come esistente in tutti gli uomini – se per av-ventura non ve n'ha affatto incapaci d'ogni godimentoestetico – quel potere di conoscer nelle cose le idee ri-spettive, e spogliarsi così per un istante della loro perso-nalità. Il genio ha di fronte ad essi il solo vantaggio dipossedere in maggior grado e più durevolmente quelmodo di conoscere; vantaggio che gli permette di man-tenere in questa conoscenza la riflessione necessaria perriprodurre a volontà, in un'opera, ciò che ha conosciutoin tal modo; e codesta riproduzione è l'opera d'arte. Conl'opera d'arte il genio comunica agli altri l'idea percepita.

60 Si veda il cap. 32 del secondo volume [pp. 412-6 del tomo II dell'ed. cit.

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ed è un trastullo in mano degli astuti60.

§ 37.Sebbene adunque, come risulta dalla nostra esposizio-

ne, il genio consista nella capacità di conoscere, indi-pendentemente dal principio di ragione, le idee dellecose invece che i singoli oggetti, i quali soltanto nellerelazioni hanno la loro esistenza; e di essere, di frontealle idee, il correlato stesso dell'idea, ossia non più unindividuo, bensì puro soggetto del conoscere; – devetuttavia questa capacità trovarsi in minore e diverso gra-do presso gli uomini tutti: poiché altrimenti sarebberquesti altrettanto incapaci di goder le opere dell'arte,quanto di produrle, e in genere non possederebbero peril bello e l'elevato sensibilità alcuna; anzi queste parolenon avrebbero per loro alcun senso. Dobbiamo dunqueammetter come esistente in tutti gli uomini – se per av-ventura non ve n'ha affatto incapaci d'ogni godimentoestetico – quel potere di conoscer nelle cose le idee ri-spettive, e spogliarsi così per un istante della loro perso-nalità. Il genio ha di fronte ad essi il solo vantaggio dipossedere in maggior grado e più durevolmente quelmodo di conoscere; vantaggio che gli permette di man-tenere in questa conoscenza la riflessione necessaria perriprodurre a volontà, in un'opera, ciò che ha conosciutoin tal modo; e codesta riproduzione è l'opera d'arte. Conl'opera d'arte il genio comunica agli altri l'idea percepita.

60 Si veda il cap. 32 del secondo volume [pp. 412-6 del tomo II dell'ed. cit.

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L'idea rimane dunque immutata e identica: uno e identi-co è anche il piacere estetico relativo, sia esso prodottoda un'opera dell'arte o direttamente dall'intuizione dellanatura e della vita. L'opera d'arte è semplicemente unmezzo per rendere più facile quella conoscenza in cuiconsiste il piacere estetico. Lo svelarsi a noi dell'ideameglio nell'opera d'arte, che non direttamente dalla na-tura e dalla realtà, dipende dal fatto che l'artista, il qualel'idea sola e non la realtà conobbe, nell'opera sua appun-to l'idea pura ha riprodotto, l'ha isolata dalla realtà, trala-sciando ogni causalità perturbatrice. L'artista ci fa attra-verso i suoi occhi guardare dentro al mondo. L'aver que-sti occhi, il conoscer nelle cose l'essenziale, che sta fuord'ogni relazione, è proprio il dono del genio, la qualitàinnata; ma l'essere in grado di comunicare anche a noiquesto dono, dare a noi i suoi occhi, è la qualità acquisi-ta, la tecnica dell'arte. Perciò dopo aver nelle pagineprecedenti esposta l'intima natura della conoscenza este-tica nelle sue linee più generiche, il più minuto esamefilosofico del bello e del sublime, che ora segue, mostre-rà entrambi nella natura e nell'arte insieme, senza conti-nuare a distinguere. Vedremo dapprima quel che accadenell'uomo, quando il bello lo tocca, e quando il sublime:se poi questa commozione egli l'attinga direttamentedalla natura, dalla vita, oppure ne sia partecipe solo permezzo dell'arte, non costituisce un'essenziale bensì ap-pena un'esteriore differenza.

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L'idea rimane dunque immutata e identica: uno e identi-co è anche il piacere estetico relativo, sia esso prodottoda un'opera dell'arte o direttamente dall'intuizione dellanatura e della vita. L'opera d'arte è semplicemente unmezzo per rendere più facile quella conoscenza in cuiconsiste il piacere estetico. Lo svelarsi a noi dell'ideameglio nell'opera d'arte, che non direttamente dalla na-tura e dalla realtà, dipende dal fatto che l'artista, il qualel'idea sola e non la realtà conobbe, nell'opera sua appun-to l'idea pura ha riprodotto, l'ha isolata dalla realtà, trala-sciando ogni causalità perturbatrice. L'artista ci fa attra-verso i suoi occhi guardare dentro al mondo. L'aver que-sti occhi, il conoscer nelle cose l'essenziale, che sta fuord'ogni relazione, è proprio il dono del genio, la qualitàinnata; ma l'essere in grado di comunicare anche a noiquesto dono, dare a noi i suoi occhi, è la qualità acquisi-ta, la tecnica dell'arte. Perciò dopo aver nelle pagineprecedenti esposta l'intima natura della conoscenza este-tica nelle sue linee più generiche, il più minuto esamefilosofico del bello e del sublime, che ora segue, mostre-rà entrambi nella natura e nell'arte insieme, senza conti-nuare a distinguere. Vedremo dapprima quel che accadenell'uomo, quando il bello lo tocca, e quando il sublime:se poi questa commozione egli l'attinga direttamentedalla natura, dalla vita, oppure ne sia partecipe solo permezzo dell'arte, non costituisce un'essenziale bensì ap-pena un'esteriore differenza.

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§ 38.Abbiamo trovato nella contemplazione estetica due

inseparabili elementi: la conoscenza dell'oggetto, noncome cosa singola, ma come idea platonica, ossia comepermanente forma di tutta questa specie d'oggetti; quin-di la coscienza del conoscente, non come individuo, macome puro, libero dalla volontà soggetto della conoscen-za. La condizione per cui entrambi gli elementi si mo-strano sempre uniti vedemmo essere il tralasciare la co-noscenza legata al principio di ragione, la quale è invecela sola che possa servire alla volontà, com'anche allascienza. Anche il piacere suscitato dalla contemplazionedel bello vedremo nascere da quei due elementi; or piùdall'uno, or più dall'altro, secondo l'oggetto della con-templazione estetica.

Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancan-za, ossia da sofferenza. A questa dà fine l'appagamento;tuttavia per un desiderio, che venga appagato, ne riman-gono almeno dieci insoddisfatti; inoltre, la brama dura alungo, le esigenze vanno all'infinito; l'appagamento èbreve e misurato con mano avara. Anzi, la stessa soddi-sfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dàtosto luogo a un desiderio nuovo: quello è un errore ri-conosciuto, questo un errore non conosciuto ancora.Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, puòdare appagamento durevole, che più non muti: bensìrassomiglia soltanto all'elemosina, la quale gettata almendico prolunga oggi la sua vita per continuare doma-

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§ 38.Abbiamo trovato nella contemplazione estetica due

inseparabili elementi: la conoscenza dell'oggetto, noncome cosa singola, ma come idea platonica, ossia comepermanente forma di tutta questa specie d'oggetti; quin-di la coscienza del conoscente, non come individuo, macome puro, libero dalla volontà soggetto della conoscen-za. La condizione per cui entrambi gli elementi si mo-strano sempre uniti vedemmo essere il tralasciare la co-noscenza legata al principio di ragione, la quale è invecela sola che possa servire alla volontà, com'anche allascienza. Anche il piacere suscitato dalla contemplazionedel bello vedremo nascere da quei due elementi; or piùdall'uno, or più dall'altro, secondo l'oggetto della con-templazione estetica.

Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancan-za, ossia da sofferenza. A questa dà fine l'appagamento;tuttavia per un desiderio, che venga appagato, ne riman-gono almeno dieci insoddisfatti; inoltre, la brama dura alungo, le esigenze vanno all'infinito; l'appagamento èbreve e misurato con mano avara. Anzi, la stessa soddi-sfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dàtosto luogo a un desiderio nuovo: quello è un errore ri-conosciuto, questo un errore non conosciuto ancora.Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, puòdare appagamento durevole, che più non muti: bensìrassomiglia soltanto all'elemosina, la quale gettata almendico prolunga oggi la sua vita per continuare doma-

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ni il suo tormento. Quindi finché la nostra conscienza èriempita dalla nostra volontà; finché siamo abbandonatialla spinta dei desiderii, col suo perenne sperare e teme-re; finché siamo soggetti del volere, non ci è concessadurevole felicità né riposo. Che noi andiamo in caccia oin fuga; che temiamo sventura o ci affatichiamo per lagioia, è in sostanza tutt'uno; la preoccupazione della vo-lontà ognora esigente, sotto qualsivoglia aspetto, empiee agita perennemente la conscienza; e senza pace nessunbenessere è mai possibile. Così posa il soggetto del vo-lere senza tregua sulla volgente ruota d'Issione, attingeognora col vaglio delle Danaidi, è l'eternamente strug-gentesi Tantalo.

Ma quando una causa esteriore, o un'interna disposi-zione ci trae all'improvviso fuori dall'infinita correntedel volere, e la conoscenza sottrae alla schiavitù dellavolontà, e quando l'attenzione non è più rivolta ai motividel volere, bensì percepisce le cose sciolte dal loro rap-porto col volere, ossia le considera senza interesse, sen-za soggettività, in modo puramente obiettivo, dandositutta ad esse, in quanto esse sono pure rappresentazionie non motivi: allora sopravviene d'un tratto, spontanea-mente, la pace ognora cercata sulla prima via, la via delvolere, e ognora sfuggente; e noi ci sentiamo benissimo.È lo stato senza dolore, che Epicuro lodò come il massi-mo bene, e come condizione degli Dei: poiché noi sia-mo, per quell'istante, liberati dalla bassa ansia della vo-lontà, celebriamo il sabba dei lavori forzati; e la ruotad'Issione si ferma.

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ni il suo tormento. Quindi finché la nostra conscienza èriempita dalla nostra volontà; finché siamo abbandonatialla spinta dei desiderii, col suo perenne sperare e teme-re; finché siamo soggetti del volere, non ci è concessadurevole felicità né riposo. Che noi andiamo in caccia oin fuga; che temiamo sventura o ci affatichiamo per lagioia, è in sostanza tutt'uno; la preoccupazione della vo-lontà ognora esigente, sotto qualsivoglia aspetto, empiee agita perennemente la conscienza; e senza pace nessunbenessere è mai possibile. Così posa il soggetto del vo-lere senza tregua sulla volgente ruota d'Issione, attingeognora col vaglio delle Danaidi, è l'eternamente strug-gentesi Tantalo.

Ma quando una causa esteriore, o un'interna disposi-zione ci trae all'improvviso fuori dall'infinita correntedel volere, e la conoscenza sottrae alla schiavitù dellavolontà, e quando l'attenzione non è più rivolta ai motividel volere, bensì percepisce le cose sciolte dal loro rap-porto col volere, ossia le considera senza interesse, sen-za soggettività, in modo puramente obiettivo, dandositutta ad esse, in quanto esse sono pure rappresentazionie non motivi: allora sopravviene d'un tratto, spontanea-mente, la pace ognora cercata sulla prima via, la via delvolere, e ognora sfuggente; e noi ci sentiamo benissimo.È lo stato senza dolore, che Epicuro lodò come il massi-mo bene, e come condizione degli Dei: poiché noi sia-mo, per quell'istante, liberati dalla bassa ansia della vo-lontà, celebriamo il sabba dei lavori forzati; e la ruotad'Issione si ferma.

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Ed è questo appunto lo stato, ch'io ho descritto più so-pra come necessario per la conoscenza dell'idea qualepura contemplazione, assorbimento nell'intuizione,smarrimento di sé nell'oggetto, oblio d'ogni individuali-tà, abolizione della conoscenza che segue il principio diragione e soltanto le relazioni afferra; è lo stato, in cuid'un subito e indissociabilmente s'innalza il singolo og-getto intuito all'idea della sua specie, e l'individuo cono-scente a puro soggetto del conoscere fuori della volontà;sì che entrambi, in quanto tali, non stanno più nella cor-rente del tempo e di tutte le altre relazioni. È tutt'uno, al-lora, se il sole che sorge si vegga da un carcere o da unpalazzo.

Interna disposizione, prevalenza del conoscere sul vo-lere possono in qualsivoglia condizione produrre questostato. Ce lo dimostrano quegli eccellenti olandesi, checodesta intuizione puramente obiettiva rivolsero ai piùinsignificanti oggetti, e un durevole monumento dellaloro obiettità e pacatezza di spirito lasciarono nelle natu-re morte, che il contemplatore estetico guarda non senzacommozione, presentandoglisi alla mente il pacato, tran-quillo, di volontà scevro stato d'animo dell'artista, ch'eranecessario per guardare in modo tanto obiettivo sì insi-gnificanti oggetti, con tanta attenzione considerarli, equesta contemplazione riprodurre con tanta cura: e men-tre il quadro invita anche lui a farsi partecipe di cotalestato, la sua commozione è spesso ancora accresciutadal contrasto della disposizione d'animo agitata, contur-bata da impetuoso volere, in cui egli stesso si trova. Col

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Ed è questo appunto lo stato, ch'io ho descritto più so-pra come necessario per la conoscenza dell'idea qualepura contemplazione, assorbimento nell'intuizione,smarrimento di sé nell'oggetto, oblio d'ogni individuali-tà, abolizione della conoscenza che segue il principio diragione e soltanto le relazioni afferra; è lo stato, in cuid'un subito e indissociabilmente s'innalza il singolo og-getto intuito all'idea della sua specie, e l'individuo cono-scente a puro soggetto del conoscere fuori della volontà;sì che entrambi, in quanto tali, non stanno più nella cor-rente del tempo e di tutte le altre relazioni. È tutt'uno, al-lora, se il sole che sorge si vegga da un carcere o da unpalazzo.

Interna disposizione, prevalenza del conoscere sul vo-lere possono in qualsivoglia condizione produrre questostato. Ce lo dimostrano quegli eccellenti olandesi, checodesta intuizione puramente obiettiva rivolsero ai piùinsignificanti oggetti, e un durevole monumento dellaloro obiettità e pacatezza di spirito lasciarono nelle natu-re morte, che il contemplatore estetico guarda non senzacommozione, presentandoglisi alla mente il pacato, tran-quillo, di volontà scevro stato d'animo dell'artista, ch'eranecessario per guardare in modo tanto obiettivo sì insi-gnificanti oggetti, con tanta attenzione considerarli, equesta contemplazione riprodurre con tanta cura: e men-tre il quadro invita anche lui a farsi partecipe di cotalestato, la sua commozione è spesso ancora accresciutadal contrasto della disposizione d'animo agitata, contur-bata da impetuoso volere, in cui egli stesso si trova. Col

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medesimo spirito anche pittori paesisti, sopra tuttiRuisdael, hanno spesso dipinto insignificantissimi og-getti campestri, producendo con ciò, ancora più piace-volmente, la stessa impressione.

A ciò perviene sola l'intima forza di un animo d'arti-sta: ma facilitata e dal di fuori favorita è quella disposi-zione d'animo, puramente obiettiva, da oggetti che le sioffrano, dalla pienezza della bella natura che invita, anzicostringe alla contemplazione. Quasi sempre a lei rie-sce, ogni volta che si riveli d'un tratto al nostro occhio,sia pure per qualche istante, di strapparci alla soggettivi-tà, alla schiavitù del volere, e trasportarci nello stato delpuro conoscere. Perciò anche chi sia tormentato da pas-sioni o bisogno o affanno, è da un solo libero sguardo,ch'egli getti sulla natura, così improvvisamente confor-tato, rallegrato e sollevato: la tempesta delle passioni,l'ansia del desiderio e del timore, ed ogni tormento delvolere sono allora d'un tratto placati istantaneamente inmaniera maravigliosa. Imperocché nell'istante in cui noi,liberati dal volere, ci siamo abbandonati al puro cono-scere senza più volontà, siamo come trasportati in un al-tro mondo, dove tutto ciò che commuove la nostra vo-lontà e quindi sì forte ci scuote, più non esiste. Quella li-berazione della conoscenza ci trae fuori da tutto, tanto esì appieno, quanto il sonno e il sogno: felicità e infelici-tà sono svanite: non siamo più l'individuo, che è obliato,non siamo più che puro soggetto della conoscenza: nonesistiamo più se non come l'unico occhio del mondo, ilquale da tutti gli esseri conoscenti guarda, ma nell'uomo

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medesimo spirito anche pittori paesisti, sopra tuttiRuisdael, hanno spesso dipinto insignificantissimi og-getti campestri, producendo con ciò, ancora più piace-volmente, la stessa impressione.

A ciò perviene sola l'intima forza di un animo d'arti-sta: ma facilitata e dal di fuori favorita è quella disposi-zione d'animo, puramente obiettiva, da oggetti che le sioffrano, dalla pienezza della bella natura che invita, anzicostringe alla contemplazione. Quasi sempre a lei rie-sce, ogni volta che si riveli d'un tratto al nostro occhio,sia pure per qualche istante, di strapparci alla soggettivi-tà, alla schiavitù del volere, e trasportarci nello stato delpuro conoscere. Perciò anche chi sia tormentato da pas-sioni o bisogno o affanno, è da un solo libero sguardo,ch'egli getti sulla natura, così improvvisamente confor-tato, rallegrato e sollevato: la tempesta delle passioni,l'ansia del desiderio e del timore, ed ogni tormento delvolere sono allora d'un tratto placati istantaneamente inmaniera maravigliosa. Imperocché nell'istante in cui noi,liberati dal volere, ci siamo abbandonati al puro cono-scere senza più volontà, siamo come trasportati in un al-tro mondo, dove tutto ciò che commuove la nostra vo-lontà e quindi sì forte ci scuote, più non esiste. Quella li-berazione della conoscenza ci trae fuori da tutto, tanto esì appieno, quanto il sonno e il sogno: felicità e infelici-tà sono svanite: non siamo più l'individuo, che è obliato,non siamo più che puro soggetto della conoscenza: nonesistiamo più se non come l'unico occhio del mondo, ilquale da tutti gli esseri conoscenti guarda, ma nell'uomo

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soltanto può diventare del tutto libero dal servigio dellavolontà: e allora ogni distinzione da individuo a indivi-duo svanisce a tal punto, da essere affatto indifferente seil contemplante occhio appartenga a un re possente o aun tormentato mendico. Imperocché né felicità né penavengono portati con noi al di là da quei confini. Sì pres-so sta a noi perennemente un dominio, nel quale siamodel tutto strappati al nostro dolore; ma chi ha la forza ditrattenervisi a lungo? Non appena una qualsiasi relazio-ne tra quegli oggetti oggettivamente intuiti e la nostravolontà, la nostra persona, si riaffaccia alla conscienza,ha fine l'incantesimo: noi ricadiamo indietro nella cono-scenza che il principio di ragione governa; conosciamonon più l'idea, ma la cosa singola, l'anello d'una catena,alla quale noi stessi apparteniamo; e siamo restituiti atutto il nostro affanno. I più degli uomini, mancandoloro affatto l'oggettità, ossia la genialità, stanno quasisempre in questa condizione. Perciò non si trovano vo-lentieri soli con la natura; abbisognano di compagnia,almeno quella d'un libro. Imperocché il lor conoscere ri-mane soggetto al volere: negli oggetti essi cercano quin-di solamente un possibile rapporto con la propria volon-tà; e davanti a tutto ciò che tal rapporto non abbia, risuo-na nel loro intimo un perenne, sconsolato Non mi servea nulla: dal che anche il più bello spettacolo di naturaviene a prendere per essi nella solitudine una triste, sini-stra, ostile apparenza.

Finalmente è ancora quel senso beato dell'intuizionelibera da volontà, che diffonde un sì mirabile incanto sul

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soltanto può diventare del tutto libero dal servigio dellavolontà: e allora ogni distinzione da individuo a indivi-duo svanisce a tal punto, da essere affatto indifferente seil contemplante occhio appartenga a un re possente o aun tormentato mendico. Imperocché né felicità né penavengono portati con noi al di là da quei confini. Sì pres-so sta a noi perennemente un dominio, nel quale siamodel tutto strappati al nostro dolore; ma chi ha la forza ditrattenervisi a lungo? Non appena una qualsiasi relazio-ne tra quegli oggetti oggettivamente intuiti e la nostravolontà, la nostra persona, si riaffaccia alla conscienza,ha fine l'incantesimo: noi ricadiamo indietro nella cono-scenza che il principio di ragione governa; conosciamonon più l'idea, ma la cosa singola, l'anello d'una catena,alla quale noi stessi apparteniamo; e siamo restituiti atutto il nostro affanno. I più degli uomini, mancandoloro affatto l'oggettità, ossia la genialità, stanno quasisempre in questa condizione. Perciò non si trovano vo-lentieri soli con la natura; abbisognano di compagnia,almeno quella d'un libro. Imperocché il lor conoscere ri-mane soggetto al volere: negli oggetti essi cercano quin-di solamente un possibile rapporto con la propria volon-tà; e davanti a tutto ciò che tal rapporto non abbia, risuo-na nel loro intimo un perenne, sconsolato Non mi servea nulla: dal che anche il più bello spettacolo di naturaviene a prendere per essi nella solitudine una triste, sini-stra, ostile apparenza.

Finalmente è ancora quel senso beato dell'intuizionelibera da volontà, che diffonde un sì mirabile incanto sul

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passato come sulla distanza, e ce li mostra in una luceche tanto li abbellisce, per effetto d'una nostra illusione.Quando ci rappresentiamo giorni da lungo tempo tra-scorsi, vissuti in un paese lontano, sono gli oggetti sol-tanto, che la fantasia nostra richiama, e non il soggettodella volontà, il quale trascinava con sé i suoi mali insa-nabili, allora come oggi; ma questi sono dimenticati,perché già sovente da quei giorni hanno fatto luogo adaltri mali. Così l'intuizione oggettiva agisce nel ricordocome agirebbe nel presente, qualora avessimo su di noistessi la forza di abbandonarci a lei, liberi da volontà.Da ciò deriva, che specialmente quando una pena qual-siasi ci angoscia più del consueto, l'improvvisa memoriadi scene passate e lontane ci balena come un paradisoperduto. L'oggettivo soltanto, non l'individuale-soggetti-vo è rievocato dalla fantasia, e noi c'immaginiamo chequella visione oggettiva stesse allora davanti a noi cosìpura, così incontaminata dalla volontà, come ora ci stala sua immagine nella fantasia: mentre invece la relazio-ne degli oggetti col nostro volere ci creava tormento al-lora come adesso. Noi possiamo per mezzo degli oggettipresenti sottrarci a tutti i dolori come per mezzo dei lon-tani, sol che ci eleviamo alla pura considerazione ogget-tiva di quelli, e perveniamo così a produrre l'illusioneche essi soli, e non già noi stessi, siano presenti: allora,disciolti dal prepotente Io, come puri soggetti del cono-scere saremo tutt'uno con quegli oggetti. E nel modoond'è loro indifferente il nostro affanno, così è questo, intali istanti, indifferente a noi medesimi. Sopravvive allo-

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passato come sulla distanza, e ce li mostra in una luceche tanto li abbellisce, per effetto d'una nostra illusione.Quando ci rappresentiamo giorni da lungo tempo tra-scorsi, vissuti in un paese lontano, sono gli oggetti sol-tanto, che la fantasia nostra richiama, e non il soggettodella volontà, il quale trascinava con sé i suoi mali insa-nabili, allora come oggi; ma questi sono dimenticati,perché già sovente da quei giorni hanno fatto luogo adaltri mali. Così l'intuizione oggettiva agisce nel ricordocome agirebbe nel presente, qualora avessimo su di noistessi la forza di abbandonarci a lei, liberi da volontà.Da ciò deriva, che specialmente quando una pena qual-siasi ci angoscia più del consueto, l'improvvisa memoriadi scene passate e lontane ci balena come un paradisoperduto. L'oggettivo soltanto, non l'individuale-soggetti-vo è rievocato dalla fantasia, e noi c'immaginiamo chequella visione oggettiva stesse allora davanti a noi cosìpura, così incontaminata dalla volontà, come ora ci stala sua immagine nella fantasia: mentre invece la relazio-ne degli oggetti col nostro volere ci creava tormento al-lora come adesso. Noi possiamo per mezzo degli oggettipresenti sottrarci a tutti i dolori come per mezzo dei lon-tani, sol che ci eleviamo alla pura considerazione ogget-tiva di quelli, e perveniamo così a produrre l'illusioneche essi soli, e non già noi stessi, siano presenti: allora,disciolti dal prepotente Io, come puri soggetti del cono-scere saremo tutt'uno con quegli oggetti. E nel modoond'è loro indifferente il nostro affanno, così è questo, intali istanti, indifferente a noi medesimi. Sopravvive allo-

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ra unicamente il mondo quale rappresentazione, e ilmondo quale volontà è svanito. Con tutte queste consi-derazioni vorrei aver chiarito di qual genere e quantogrande sia la parte che nel piacere estetico ha la condi-zione soggettiva di esso, cioè la liberazione del conosce-re dal servizio della volontà, l'oblio di se stesso in quan-to individuo, e l'elevazione della conscienza a puro, li-bero da volontà, fuori del tempo, da ogni relazione indi-pendente soggetto del conoscere. Con questo aspettosoggettivo della contemplazione estetica si presentaognora congiunto, qual necessario correlato, l'aspettooggettivo di quella: la percezione intuitiva dell'idea pla-tonica. Ma, prima di volgerci a un più attento esame diquest'ultima, occorre indugiare ancora alquantosull'aspetto soggettivo del piacere estetico, per compier-ne lo studio spiegando l'impressione del sublime, che daesso unicamente dipende, e da una modificazione diesso deriva. In seguito la nostra investigazione del pia-cere estetico raggiungerà, con l'esame del suo aspettooggettivo, intera compiutezza.

A quanto abbiamo detto vanno aggiunte dapprima leosservazioni che seguono. La luce è la più rallegrantedelle cose: è divenuta il simbolo di tutto ciò ch'è buonoe salutare. In tutte le religioni indica la eterna salvezza,mentre l'oscurità indica dannazione. Ormuzd risiede inpurissima luce, Ahriman in eterna notte. Il paradiso diDante fa all'inarca l'effetto del Wauxhall di Londra, tuttigli spiriti beati apparendovi come punti luminosi, che siraccolgono in regolari figure. L'assenza della luce ci fa

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ra unicamente il mondo quale rappresentazione, e ilmondo quale volontà è svanito. Con tutte queste consi-derazioni vorrei aver chiarito di qual genere e quantogrande sia la parte che nel piacere estetico ha la condi-zione soggettiva di esso, cioè la liberazione del conosce-re dal servizio della volontà, l'oblio di se stesso in quan-to individuo, e l'elevazione della conscienza a puro, li-bero da volontà, fuori del tempo, da ogni relazione indi-pendente soggetto del conoscere. Con questo aspettosoggettivo della contemplazione estetica si presentaognora congiunto, qual necessario correlato, l'aspettooggettivo di quella: la percezione intuitiva dell'idea pla-tonica. Ma, prima di volgerci a un più attento esame diquest'ultima, occorre indugiare ancora alquantosull'aspetto soggettivo del piacere estetico, per compier-ne lo studio spiegando l'impressione del sublime, che daesso unicamente dipende, e da una modificazione diesso deriva. In seguito la nostra investigazione del pia-cere estetico raggiungerà, con l'esame del suo aspettooggettivo, intera compiutezza.

A quanto abbiamo detto vanno aggiunte dapprima leosservazioni che seguono. La luce è la più rallegrantedelle cose: è divenuta il simbolo di tutto ciò ch'è buonoe salutare. In tutte le religioni indica la eterna salvezza,mentre l'oscurità indica dannazione. Ormuzd risiede inpurissima luce, Ahriman in eterna notte. Il paradiso diDante fa all'inarca l'effetto del Wauxhall di Londra, tuttigli spiriti beati apparendovi come punti luminosi, che siraccolgono in regolari figure. L'assenza della luce ci fa

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immediatamente tristi; il suo ritorno rallegra: i colori su-scitano di per sé un vivo senso di piacere, che, quandosono trasparenti, raggiunge il massimo grado. Tutto ciòproviene esclusivamente dall'esser la luce il correlato ela condizione del più compiuto modo di conoscenza in-tuitiva, del solo, che direttamente non tocchi in nulla lavolontà. Imperocché la vista non è punto, come l'affe-zione degli altri sensi, in sé immediatamente e per lapropria azione sensitiva capace di sentire nell'organoun'impressione piacevole o spiacevole, ossia non ha al-cun legame immediato con la volontà: ma solo puòaverlo l'intuizione che nell'intelletto ne deriva; e quel le-game sta nel rapporto dell'oggetto con la volontà. Giànell'udito le cose vanno altrimenti: certi suoni possonodirettamente produrre dolore, e anche direttamente, pelpuro senso, non già rispetto all'armonia o alla melodia,essere piacevoli. Il tatto essendo tutt'uno col sentimentodel corpo intero, è ancor più vincolato a questo direttoinflusso sulla volontà: tuttavia può aversi una sensazio-ne tattile che non dia dolore o piacere. Ma gli odori sonosempre piacevoli o spiacevoli; i gusti ancor più. Questidue ultimi sensi adunque sono i più inquinati dalla vo-lontà: sono perciò sempre i meno nobili, e Kant li chia-mò sensi soggettivi. La gioia che dà la luce è quindi inrealtà nient'altro che la gioia per l'oggettiva possibilitàdella più pura e più compiuta conoscenza intuitiva; ecome tale va derivata dal fatto che il puro conoscere, li-bero e disciolto da ogni volere, è in sommo grado ralle-grante, e già di per sé ha una gran parte nel godimento

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immediatamente tristi; il suo ritorno rallegra: i colori su-scitano di per sé un vivo senso di piacere, che, quandosono trasparenti, raggiunge il massimo grado. Tutto ciòproviene esclusivamente dall'esser la luce il correlato ela condizione del più compiuto modo di conoscenza in-tuitiva, del solo, che direttamente non tocchi in nulla lavolontà. Imperocché la vista non è punto, come l'affe-zione degli altri sensi, in sé immediatamente e per lapropria azione sensitiva capace di sentire nell'organoun'impressione piacevole o spiacevole, ossia non ha al-cun legame immediato con la volontà: ma solo puòaverlo l'intuizione che nell'intelletto ne deriva; e quel le-game sta nel rapporto dell'oggetto con la volontà. Giànell'udito le cose vanno altrimenti: certi suoni possonodirettamente produrre dolore, e anche direttamente, pelpuro senso, non già rispetto all'armonia o alla melodia,essere piacevoli. Il tatto essendo tutt'uno col sentimentodel corpo intero, è ancor più vincolato a questo direttoinflusso sulla volontà: tuttavia può aversi una sensazio-ne tattile che non dia dolore o piacere. Ma gli odori sonosempre piacevoli o spiacevoli; i gusti ancor più. Questidue ultimi sensi adunque sono i più inquinati dalla vo-lontà: sono perciò sempre i meno nobili, e Kant li chia-mò sensi soggettivi. La gioia che dà la luce è quindi inrealtà nient'altro che la gioia per l'oggettiva possibilitàdella più pura e più compiuta conoscenza intuitiva; ecome tale va derivata dal fatto che il puro conoscere, li-bero e disciolto da ogni volere, è in sommo grado ralle-grante, e già di per sé ha una gran parte nel godimento

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estetico. Da questo aspetto della luce proviene alla suavolta la bellezza incredibilmente grande che noi trovia-mo nel riflesso degli oggetti nell'acqua. Quella lievissi-ma, rapidissima, finissima maniera di reciproca influen-za dei corpi; quella, a cui noi dobbiamo le nostre perce-zioni di gran lunga più perfette e più pure – l'influenzaper mezzo di raggi riflessi – è qui del tutto chiara, e suvasta scala messa davanti ai nostri occhi: di là viene lagioia estetica che ne proviamo, la quale, in sostanza, hatutte le sue radici nel principio soggettivo del piacereestetico, ed è gioia del puro conoscere e delle sue vie61.

§ 39.Ora, a tutte codeste considerazioni, le quali devono

mettere in rilievo la parte soggettiva del piacere estetico,ossia il piacere stesso in quanto è gioia del puro, intuiti-vo conoscere come tale, in opposizione alla volontà –viene a collegarsi, essendovi direttamente connesso, lostudio di quella disposizione che s'è chiamata sentimen-to del sublime.

Già osservammo che il trasportarsi dello stato dellapura intuizione più facilmente avviene, quando gli og-getti si fanno a questa incontro, ossia quando, per la lorvaria e in pari tempo determinata e chiara forma, facil-mente divengono i rappresentanti delle loro idee; nellequali appunto la bellezza, in senso oggettivo, consiste.Più di tutto ha questo privilegio la bella natura, e strappa

61 Si veda il cap. 33 del secondo volume [pp. 417-9 del tomo II dell'ed. cit.].

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estetico. Da questo aspetto della luce proviene alla suavolta la bellezza incredibilmente grande che noi trovia-mo nel riflesso degli oggetti nell'acqua. Quella lievissi-ma, rapidissima, finissima maniera di reciproca influen-za dei corpi; quella, a cui noi dobbiamo le nostre perce-zioni di gran lunga più perfette e più pure – l'influenzaper mezzo di raggi riflessi – è qui del tutto chiara, e suvasta scala messa davanti ai nostri occhi: di là viene lagioia estetica che ne proviamo, la quale, in sostanza, hatutte le sue radici nel principio soggettivo del piacereestetico, ed è gioia del puro conoscere e delle sue vie61.

§ 39.Ora, a tutte codeste considerazioni, le quali devono

mettere in rilievo la parte soggettiva del piacere estetico,ossia il piacere stesso in quanto è gioia del puro, intuiti-vo conoscere come tale, in opposizione alla volontà –viene a collegarsi, essendovi direttamente connesso, lostudio di quella disposizione che s'è chiamata sentimen-to del sublime.

Già osservammo che il trasportarsi dello stato dellapura intuizione più facilmente avviene, quando gli og-getti si fanno a questa incontro, ossia quando, per la lorvaria e in pari tempo determinata e chiara forma, facil-mente divengono i rappresentanti delle loro idee; nellequali appunto la bellezza, in senso oggettivo, consiste.Più di tutto ha questo privilegio la bella natura, e strappa

61 Si veda il cap. 33 del secondo volume [pp. 417-9 del tomo II dell'ed. cit.].

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quindi anche all'uomo più insensibile almeno un fugacepiacere estetico: anzi, è sorprendente come in particolarmaniera il mondo vegetale inviti alla contemplazioneestetica e quasi la imponga, sì che si potrebbe dire, que-sta facilità essere in relazione col fatto che gli esseri or-ganici di quel mondo non sono essi medesimi, come icorpi animali, immediato oggetto della conoscenza, eabbisognano quindi d'un estraneo individuo intelligente,per entrare dal mondo del cieco volere in quello dellarappresentazione; sì che quasi avevano la nostalgiad'entrarvi, per conseguire almeno indirettamente ciò chedirettamente è loro negato. Io pongo del resto senz'altroin disparte questo pensiero audace e forse confinantecon la fantasticheria, poi che solo una molto intima eamorosa contemplazione della natura può suscitarlo ogiustificarlo62. Fin quando è codesto offrircisi della natu-ra, con la significazione e l'evidenza delle sue forme(dalle quali facilmente parlano a noi le idee in noi indi-viduate), che dalla conoscenza delle semplici relazioniasservite alla volontà ci trasporta nella contemplazioneestetica, e con questa ci eleva a soggetti del conoscere,liberi da volontà; fino allora è solamente il bello, cheagisce su noi, e quel che si sveglia è sentimento dellabellezza. Ma se appunto quegli oggetti, le cui forme si-

62 Tanto più mi rallegra e mi sorprende ora, quarantanni dopo avere scrittocosì timidamente o con esitazione questo pensiero, lo scoprire che giàl'aveva espresso S. Agostino: «Arbusta formas suas varias, quibus mundìhujus visibilis structura formosa est, sentiendas sensibus praebent; ut, proeo quod nosse non possunt, quasi innotescere velle videantur» (De civ.Dei, XI, 27).

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quindi anche all'uomo più insensibile almeno un fugacepiacere estetico: anzi, è sorprendente come in particolarmaniera il mondo vegetale inviti alla contemplazioneestetica e quasi la imponga, sì che si potrebbe dire, que-sta facilità essere in relazione col fatto che gli esseri or-ganici di quel mondo non sono essi medesimi, come icorpi animali, immediato oggetto della conoscenza, eabbisognano quindi d'un estraneo individuo intelligente,per entrare dal mondo del cieco volere in quello dellarappresentazione; sì che quasi avevano la nostalgiad'entrarvi, per conseguire almeno indirettamente ciò chedirettamente è loro negato. Io pongo del resto senz'altroin disparte questo pensiero audace e forse confinantecon la fantasticheria, poi che solo una molto intima eamorosa contemplazione della natura può suscitarlo ogiustificarlo62. Fin quando è codesto offrircisi della natu-ra, con la significazione e l'evidenza delle sue forme(dalle quali facilmente parlano a noi le idee in noi indi-viduate), che dalla conoscenza delle semplici relazioniasservite alla volontà ci trasporta nella contemplazioneestetica, e con questa ci eleva a soggetti del conoscere,liberi da volontà; fino allora è solamente il bello, cheagisce su noi, e quel che si sveglia è sentimento dellabellezza. Ma se appunto quegli oggetti, le cui forme si-

62 Tanto più mi rallegra e mi sorprende ora, quarantanni dopo avere scrittocosì timidamente o con esitazione questo pensiero, lo scoprire che giàl'aveva espresso S. Agostino: «Arbusta formas suas varias, quibus mundìhujus visibilis structura formosa est, sentiendas sensibus praebent; ut, proeo quod nosse non possunt, quasi innotescere velle videantur» (De civ.Dei, XI, 27).

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gnificative ci invitano alla contemplazione pura, hannoun atteggiamento ostile verso l'umana volontà in genere,quale si palesa nella sua oggettità – nel corpo umano –,ed a quella s'oppongono, e la minacciano con la lor for-za superiore, che vince ogni resistenza, o davanti allapropria smisurata grandezza la impiccioliscono fino alnulla; e pur ciò nondimeno il contemplatore non volgel'attenzione a questa premente mossa ostile contro la vo-lontà di lui, ma, pure accorgendosene e riconoscendola,conscientemente ne rimuove lo sguardo, nel mentre sidiscioglie con vigore dalla volontà e dalle sue relazionie, tutto dato alla conoscenza, appunto quegli oggetti perla volontà paurosi contempla tranquillo come puro sog-getto del conoscere; solo cogliendone l'idea, estranea adogni relazione, e quindi indugiandosi volentieri a con-templarli, sentendosi così levato sopra se stesso, sopra lapropria persona, la volontà propria e la volontà in gene-re: – allora lo riempie il sentimento del sublime; egli èin istato di elevazione, e perciò si dice sublime anchel'oggetto che un tale stato ha prodotto. Ciò che adunquedistingue il sentimento del sublime dal sentimento delbello, è questo: nel bello il puro conoscere ha preso sen-za lotta il sopravvento, mentre la bellezza dell'oggetto,ossia la conformazione di esso, che ne lascia facilmenteconoscer l'idea, ha senza opposizione e quasi inavverti-tamente la volontà e la conoscenza delle relazioni, chela serve, allontanato dalla conscienza; e lasciata questasopravvivere come puro soggetto del conoscere, sì chedella volontà non resta neppure un ricordo; invece nel

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gnificative ci invitano alla contemplazione pura, hannoun atteggiamento ostile verso l'umana volontà in genere,quale si palesa nella sua oggettità – nel corpo umano –,ed a quella s'oppongono, e la minacciano con la lor for-za superiore, che vince ogni resistenza, o davanti allapropria smisurata grandezza la impiccioliscono fino alnulla; e pur ciò nondimeno il contemplatore non volgel'attenzione a questa premente mossa ostile contro la vo-lontà di lui, ma, pure accorgendosene e riconoscendola,conscientemente ne rimuove lo sguardo, nel mentre sidiscioglie con vigore dalla volontà e dalle sue relazionie, tutto dato alla conoscenza, appunto quegli oggetti perla volontà paurosi contempla tranquillo come puro sog-getto del conoscere; solo cogliendone l'idea, estranea adogni relazione, e quindi indugiandosi volentieri a con-templarli, sentendosi così levato sopra se stesso, sopra lapropria persona, la volontà propria e la volontà in gene-re: – allora lo riempie il sentimento del sublime; egli èin istato di elevazione, e perciò si dice sublime anchel'oggetto che un tale stato ha prodotto. Ciò che adunquedistingue il sentimento del sublime dal sentimento delbello, è questo: nel bello il puro conoscere ha preso sen-za lotta il sopravvento, mentre la bellezza dell'oggetto,ossia la conformazione di esso, che ne lascia facilmenteconoscer l'idea, ha senza opposizione e quasi inavverti-tamente la volontà e la conoscenza delle relazioni, chela serve, allontanato dalla conscienza; e lasciata questasopravvivere come puro soggetto del conoscere, sì chedella volontà non resta neppure un ricordo; invece nel

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sublime quello stato del puro conoscere è raggiunto solomediante un conscio ed energico districarsi dalle rela-zioni di quello stesso oggetto con la volontà, riconosciu-te sfavorevoli; e mediante un libero elevarsi, accompa-gnato dalla conscienza, sopra la volontà come sopra laconoscenza che a lei si riferisce. Codesta elevazionedeve non soltanto esser guadagnata consapevolmente,ma anche conservata; l'accompagna quindi un continuoricordo della volontà, ma non di un singolo, individualevolere, come sarebbe la paura o il desiderio, bensì il ri-cordo del volere umano in genere, in quanto esso è ge-nericamente espresso per mezzo della sua oggettità, os-sia del corpo umano. Qualora intervenga nella conscien-za un reale, singolo atto di volontà, per effetto di unavera, personale angustia e d'un pericolo provenientedall'oggetto, ecco l'individuale volontà effettivamentescossa prendere d'un subito il sopravvento, farsi impos-sibile la calma della contemplazione, andar perdutal'impressione del sublime; la quale cede il posto allapaura, in cui l'ansia, che l'individuo prova, per salvarsi,caccia ogni altro pensiero. Alcuni esempi gioverannomolto a chiarire e rendere indubitabile questa teoria delsublime estetico; in pari tempo mostreranno la varietàdei gradi nel sentimento del sublime. Imperocché, poich'esso è nella sua principal determinazione tutt'uno colsentimento del bello (determinazione che consiste nelpuro conoscere libero da volontà e nella conoscenza ne-cessariamente concomitante delle idee, le quali stannofuor d'ogni relazione dominata dal principio di ragione);

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sublime quello stato del puro conoscere è raggiunto solomediante un conscio ed energico districarsi dalle rela-zioni di quello stesso oggetto con la volontà, riconosciu-te sfavorevoli; e mediante un libero elevarsi, accompa-gnato dalla conscienza, sopra la volontà come sopra laconoscenza che a lei si riferisce. Codesta elevazionedeve non soltanto esser guadagnata consapevolmente,ma anche conservata; l'accompagna quindi un continuoricordo della volontà, ma non di un singolo, individualevolere, come sarebbe la paura o il desiderio, bensì il ri-cordo del volere umano in genere, in quanto esso è ge-nericamente espresso per mezzo della sua oggettità, os-sia del corpo umano. Qualora intervenga nella conscien-za un reale, singolo atto di volontà, per effetto di unavera, personale angustia e d'un pericolo provenientedall'oggetto, ecco l'individuale volontà effettivamentescossa prendere d'un subito il sopravvento, farsi impos-sibile la calma della contemplazione, andar perdutal'impressione del sublime; la quale cede il posto allapaura, in cui l'ansia, che l'individuo prova, per salvarsi,caccia ogni altro pensiero. Alcuni esempi gioverannomolto a chiarire e rendere indubitabile questa teoria delsublime estetico; in pari tempo mostreranno la varietàdei gradi nel sentimento del sublime. Imperocché, poich'esso è nella sua principal determinazione tutt'uno colsentimento del bello (determinazione che consiste nelpuro conoscere libero da volontà e nella conoscenza ne-cessariamente concomitante delle idee, le quali stannofuor d'ogni relazione dominata dal principio di ragione);

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e dal sentimento del bello si distingue solo perun'aggiunta, ossia l'elevazione sopra il riconosciuto rap-porto ostile dell'oggetto contemplato con la volontà ingenere; nascono così – a seconda che tale aggiunta siaforte, chiara, insistente, vicina, oppure debole, lontana,appena accennata – più gradi del sublime: anzi, passaggidal bello al sublime. Credo più opportuno per la tratta-zione, questi passaggi e in genere i più deboli gradi delsublime porre dapprima in esempi davanti agli occhi;anche se coloro, la cui sensibilità estetica non è moltogrande, né viva la fantasia, comprenderanno solo gliesempi, che più tardi seguono, dei gradi più alti e piùchiari. A questi unicamente dovranno tenersi, ed i primitralasciare.

Come l'uomo è a un tempo impetuoso e oscuro im-pulso del volere (indicato, quale suo vertice, dal polodei genitali) ed eterno, libero, sereno soggetto del puroconoscere (indicato mediante il polo del cervello); così èil sole – conformemente a tale contrasto – nello stessotempo sorgente della luce, ch'è condizione del più per-fetto modo di conoscere, e sorgente del calore, ch'è con-dizione prima d'ogni vita, ossia d'ogni fenomeno dellavolontà nei gradi più alti di questa. Ciò che per la volon-tà è il calore, è per la conoscenza la luce. La luce è quin-di il più grosso diamante nella corona della bellezza, eha il più deciso influsso sopra la conoscenza di ciascunbell'oggetto: la sua presenza è condizione assoluta; lasua favorevole situazione aumenta anche la bellezza diciò ch'è bellissimo. Più degli altri è dal suo favore au-

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e dal sentimento del bello si distingue solo perun'aggiunta, ossia l'elevazione sopra il riconosciuto rap-porto ostile dell'oggetto contemplato con la volontà ingenere; nascono così – a seconda che tale aggiunta siaforte, chiara, insistente, vicina, oppure debole, lontana,appena accennata – più gradi del sublime: anzi, passaggidal bello al sublime. Credo più opportuno per la tratta-zione, questi passaggi e in genere i più deboli gradi delsublime porre dapprima in esempi davanti agli occhi;anche se coloro, la cui sensibilità estetica non è moltogrande, né viva la fantasia, comprenderanno solo gliesempi, che più tardi seguono, dei gradi più alti e piùchiari. A questi unicamente dovranno tenersi, ed i primitralasciare.

Come l'uomo è a un tempo impetuoso e oscuro im-pulso del volere (indicato, quale suo vertice, dal polodei genitali) ed eterno, libero, sereno soggetto del puroconoscere (indicato mediante il polo del cervello); così èil sole – conformemente a tale contrasto – nello stessotempo sorgente della luce, ch'è condizione del più per-fetto modo di conoscere, e sorgente del calore, ch'è con-dizione prima d'ogni vita, ossia d'ogni fenomeno dellavolontà nei gradi più alti di questa. Ciò che per la volon-tà è il calore, è per la conoscenza la luce. La luce è quin-di il più grosso diamante nella corona della bellezza, eha il più deciso influsso sopra la conoscenza di ciascunbell'oggetto: la sua presenza è condizione assoluta; lasua favorevole situazione aumenta anche la bellezza diciò ch'è bellissimo. Più degli altri è dal suo favore au-

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mentato il bello dell'architettura; il qual favore tuttaviada la maggior bellezza anche a ciò che v'ha di più insi-gnificante. Immaginiamo ora nel duro inverno, nell'uni-versale irrigidimento della natura, i raggi del sole bassoall'orizzonte riflessi da pietrosi massi, che quelli illumi-nano senza riscaldare, essendo con ciò propizi solo alpiù puro modo di conoscere e non alla volontà; la con-templazione del bell'effetto di luce su codesti massi citrasporta, come ogni cosa bella, nello stato della cono-scenza pura, il quale tuttavia per il tenue ricordo dellamancanza di calore, e quindi del principio vivificante –ricordo suscitato appunto da quei raggi – esige di già uncerto elevarsi sopra l'interesse della volontà, contieneuna leggera esortazione a rimanere nella conoscenzapura, rimuovendo ogni volere; ed appunto perciò vienead essere un passaggio dal sentimento del bello al senti-mento del sublime. Altro esempio quasi altrettanto de-bole è il seguente.

Trasportiamoci in una contrada molto solitària, con il-limitato orizzonte, sotto cielo perfettamente sereno, conalberi e piante nell'aria affatto immobile, nessun anima-le, nessun uomo, nessun'acqua scorrente, la più profon-da quiete; tale spettacolo è come un richiamo alla gravi-tà, alla contemplazione, a liberarsi dalla volontà e dallasua miseria: questo è sufficiente per dare alla contrada,sol per essere solinga e immersa nella pace, una sfuma-tura di sublime. Non offrendo ella alcun oggetto, né fa-vorevole né sfavorevole, alla volontà bisognosa d'un pe-renne aspirare e conseguire, rimane unicamente lo stato

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mentato il bello dell'architettura; il qual favore tuttaviada la maggior bellezza anche a ciò che v'ha di più insi-gnificante. Immaginiamo ora nel duro inverno, nell'uni-versale irrigidimento della natura, i raggi del sole bassoall'orizzonte riflessi da pietrosi massi, che quelli illumi-nano senza riscaldare, essendo con ciò propizi solo alpiù puro modo di conoscere e non alla volontà; la con-templazione del bell'effetto di luce su codesti massi citrasporta, come ogni cosa bella, nello stato della cono-scenza pura, il quale tuttavia per il tenue ricordo dellamancanza di calore, e quindi del principio vivificante –ricordo suscitato appunto da quei raggi – esige di già uncerto elevarsi sopra l'interesse della volontà, contieneuna leggera esortazione a rimanere nella conoscenzapura, rimuovendo ogni volere; ed appunto perciò vienead essere un passaggio dal sentimento del bello al senti-mento del sublime. Altro esempio quasi altrettanto de-bole è il seguente.

Trasportiamoci in una contrada molto solitària, con il-limitato orizzonte, sotto cielo perfettamente sereno, conalberi e piante nell'aria affatto immobile, nessun anima-le, nessun uomo, nessun'acqua scorrente, la più profon-da quiete; tale spettacolo è come un richiamo alla gravi-tà, alla contemplazione, a liberarsi dalla volontà e dallasua miseria: questo è sufficiente per dare alla contrada,sol per essere solinga e immersa nella pace, una sfuma-tura di sublime. Non offrendo ella alcun oggetto, né fa-vorevole né sfavorevole, alla volontà bisognosa d'un pe-renne aspirare e conseguire, rimane unicamente lo stato

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della pura contemplazione; e chi di questo non è capace,resta in preda al vuoto della volontà disoccupata, al tor-mento della noia, con vergognosa umiliazione. Quelpaesaggio ci dà adunque la misura del nostro valore in-tellettuale, di cui è buon indizio il grado dell'attitudinenostra a sopportare, oppure ad amare la solitudine. Cioffre perciò un esempio del sublime nel grado minore,essendo davanti ad esso, alla sua tranquilla e pacata ne-cessità, insito nello stato di pura conoscenza, come con-trasto, un ricordo della soggezione e miseria della vo-lontà per sua natura perennemente agitata. Questa è laspecie di sublime, che si suole esaltare come prodottodalla vista delle infinite praterie nell'interno dell'Ameri-ca Settentrionale.

Ma immaginiamo ora una contrada simile, la quale,spoglia anche delle piante, non mostri che nude rocce;già l'assoluta mancanza d'ogni essere organico necessa-rio alla nostra sussistenza è angosciosa per la volontà; ildeserto prende un carattere pauroso; la nostra disposi-zione si fa più tragica; l'elevazione al puro conoscereavviene con un risoluto svincolarsi dall'interesse dellavolontà; e mentre noi persistiamo nello stato del puroconoscere, comparisce palese il sentimento del sublime.

In grado ancor più alto questo può esser suscitato daun'altra scena. La natura in tempestosa agitazione, dub-bia luce attraverso minacciose, nere nubi d'uragano; mo-struose, nude, precipiti rocce, le quali chiudono in lorocerchia la vista; fragorose spumeggiami corrènti; assolu-to deserto; gemiti dell'aria fischiante attraverso le gole.

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della pura contemplazione; e chi di questo non è capace,resta in preda al vuoto della volontà disoccupata, al tor-mento della noia, con vergognosa umiliazione. Quelpaesaggio ci dà adunque la misura del nostro valore in-tellettuale, di cui è buon indizio il grado dell'attitudinenostra a sopportare, oppure ad amare la solitudine. Cioffre perciò un esempio del sublime nel grado minore,essendo davanti ad esso, alla sua tranquilla e pacata ne-cessità, insito nello stato di pura conoscenza, come con-trasto, un ricordo della soggezione e miseria della vo-lontà per sua natura perennemente agitata. Questa è laspecie di sublime, che si suole esaltare come prodottodalla vista delle infinite praterie nell'interno dell'Ameri-ca Settentrionale.

Ma immaginiamo ora una contrada simile, la quale,spoglia anche delle piante, non mostri che nude rocce;già l'assoluta mancanza d'ogni essere organico necessa-rio alla nostra sussistenza è angosciosa per la volontà; ildeserto prende un carattere pauroso; la nostra disposi-zione si fa più tragica; l'elevazione al puro conoscereavviene con un risoluto svincolarsi dall'interesse dellavolontà; e mentre noi persistiamo nello stato del puroconoscere, comparisce palese il sentimento del sublime.

In grado ancor più alto questo può esser suscitato daun'altra scena. La natura in tempestosa agitazione, dub-bia luce attraverso minacciose, nere nubi d'uragano; mo-struose, nude, precipiti rocce, le quali chiudono in lorocerchia la vista; fragorose spumeggiami corrènti; assolu-to deserto; gemiti dell'aria fischiante attraverso le gole.

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La nostra pochezza, la nostra lotta con la natura nemica,la nostra volontà, che vi s'infrange, ci sta qui evidenteinnanzi agli occhi: ma fin che l'angoscia individuale nonprende il sopravvento, finché noi restiamo in esteticacontemplazione, ficca l'occhio dentro quella battagliadella natura, dentro quello spettacolo di volontà infrantail puro soggetto del conoscere; e tranquillo, imperturba-to, non coinvolto (unconcerned) coglie le idee appuntoin quegli oggetti che sono per la volontà minacciosi epaurosi. Proprio in tal contrasto è il sentimento del su-blime. Ma più forte ancora è l'impressione, quando ab-biamo in grande, davanti agli occhi, la battaglia delle in-furiate forze naturali: quando in quella scena una preci-pite cascata ci toglie col suo fragore la possibilità d'udirla nostra stessa voce; – o quando ci troviamo sull'ampiomare sconvolto dalla burrasca: onde alte come case sal-gono e scendono, impetuose battono contro dirupaterive, sprizzano alta nell'aria la spuma, e la burrasca urla,il mare mugghia, guizzano lampi dalle nere nubi, colpidi tuono coprono la voce della tempesta e del mare.Raggiunge allora evidenza massima, nello spettatoreimperturbato di questa scena, il doppio carattere dellasua coscienza: egli sente se stesso come individuo,come fragile manifestazione della volontà, che il piùpiccolo urto di quelle forze può sfracellare, inerme con-tro la possente natura, da tutto dipendente, preda delcaso, meno che nulla di fronte a potenze mostruose; ed'altra parte nel tempo stesso vede sé come eterno, tran-quillo soggetto del conoscere, il quale, essendo condi-

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La nostra pochezza, la nostra lotta con la natura nemica,la nostra volontà, che vi s'infrange, ci sta qui evidenteinnanzi agli occhi: ma fin che l'angoscia individuale nonprende il sopravvento, finché noi restiamo in esteticacontemplazione, ficca l'occhio dentro quella battagliadella natura, dentro quello spettacolo di volontà infrantail puro soggetto del conoscere; e tranquillo, imperturba-to, non coinvolto (unconcerned) coglie le idee appuntoin quegli oggetti che sono per la volontà minacciosi epaurosi. Proprio in tal contrasto è il sentimento del su-blime. Ma più forte ancora è l'impressione, quando ab-biamo in grande, davanti agli occhi, la battaglia delle in-furiate forze naturali: quando in quella scena una preci-pite cascata ci toglie col suo fragore la possibilità d'udirla nostra stessa voce; – o quando ci troviamo sull'ampiomare sconvolto dalla burrasca: onde alte come case sal-gono e scendono, impetuose battono contro dirupaterive, sprizzano alta nell'aria la spuma, e la burrasca urla,il mare mugghia, guizzano lampi dalle nere nubi, colpidi tuono coprono la voce della tempesta e del mare.Raggiunge allora evidenza massima, nello spettatoreimperturbato di questa scena, il doppio carattere dellasua coscienza: egli sente se stesso come individuo,come fragile manifestazione della volontà, che il piùpiccolo urto di quelle forze può sfracellare, inerme con-tro la possente natura, da tutto dipendente, preda delcaso, meno che nulla di fronte a potenze mostruose; ed'altra parte nel tempo stesso vede sé come eterno, tran-quillo soggetto del conoscere, il quale, essendo condi-

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zione dell'oggetto, è appunto quegli che porta in sé que-sto mondo intero; la tremenda battaglia della natura nonè che la sua rappresentazione, mentr'egli stesso contem-pla tranquillo le idee, libero e straniero a tutti i voleri, atutti i bisogni. Questa è la piena impressione del subli-me. Qui la produce la vista d'una potenza, che minacciaall'individuo distruzione: potenza di lui, senza confron-to, maggiore.

In tutt'altro modo può sorgere quell'impressione dalrappresentarsi nella fantasia una semplice grandezza dispazio e di tempo, tanto smisurata da impicciolire l'indi-viduo, nel confronto, fino al nulla. La prima specie pos-siamo chiamare sublime dinamico, la seconda sublimematematico, conservando le denominazioni e la giustadistinzione di Kant; sebbene ci discostiamo interamenteda lui nello spiegar l'intima essenza di quell'impressio-ne, non riconoscendovi alcuna parte dovuta a riflessionimorali o a ipostasi tratte dalla scolastica.

Se ci veniamo a smarrire nel considerar l'infinitagrandezza del mondo nello spazio e nel tempo, ripen-sando ai secoli passati ed ai futuri – o anche, se il cielonotturno veracemente pone davanti al nostro occhio in-numerabili mondi –, vediamo noi stessi ridotti a un nul-la, ci sentiamo, in quanto individui, in quanto corpi ani-mati, in quanto effimere manifestazioni di volontà,come una goccia nell'oceano svanire, scioglierci nel nul-la. Ma in pari tempo, contro codesto fantasma della no-stra propria nullità, contro codesta menzognera impossi-bilità si leva l'immediata conscienza, che tutti quei mon-

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zione dell'oggetto, è appunto quegli che porta in sé que-sto mondo intero; la tremenda battaglia della natura nonè che la sua rappresentazione, mentr'egli stesso contem-pla tranquillo le idee, libero e straniero a tutti i voleri, atutti i bisogni. Questa è la piena impressione del subli-me. Qui la produce la vista d'una potenza, che minacciaall'individuo distruzione: potenza di lui, senza confron-to, maggiore.

In tutt'altro modo può sorgere quell'impressione dalrappresentarsi nella fantasia una semplice grandezza dispazio e di tempo, tanto smisurata da impicciolire l'indi-viduo, nel confronto, fino al nulla. La prima specie pos-siamo chiamare sublime dinamico, la seconda sublimematematico, conservando le denominazioni e la giustadistinzione di Kant; sebbene ci discostiamo interamenteda lui nello spiegar l'intima essenza di quell'impressio-ne, non riconoscendovi alcuna parte dovuta a riflessionimorali o a ipostasi tratte dalla scolastica.

Se ci veniamo a smarrire nel considerar l'infinitagrandezza del mondo nello spazio e nel tempo, ripen-sando ai secoli passati ed ai futuri – o anche, se il cielonotturno veracemente pone davanti al nostro occhio in-numerabili mondi –, vediamo noi stessi ridotti a un nul-la, ci sentiamo, in quanto individui, in quanto corpi ani-mati, in quanto effimere manifestazioni di volontà,come una goccia nell'oceano svanire, scioglierci nel nul-la. Ma in pari tempo, contro codesto fantasma della no-stra propria nullità, contro codesta menzognera impossi-bilità si leva l'immediata conscienza, che tutti quei mon-

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di solamente nella nostra rappresentazione esistono, so-lamente quali modificazioni dell'eterno soggetto delpuro conoscere – soggetto che riconosciamo in noi stes-si non appena dimentichiamo l'individualità, e che è ilnecessario sostegno, la condizione di tutti i mondi e ditutti i tempi. La grandezza del mondo, che primac'inquietava, sta ora in noi: la nostra dipendenza da leiviene soppressa mediante la sua dipendenza da noi. Matutto ciò non si presenta subito alla riflessione; invece, simostra come la coscienza appena sentita d'essere, in unsenso qualsivoglia (il quale dalla filosofia sarà chiarito),tutt'uno col mondo, e quindi nella sua smisurata gran-dezza non già schiacciati, bensì innalzati. È la conscien-za sentita di ciò, che le Upanishad dei Veda esprimonoripetute volte in così vari modi, specialmente nella giàcitata sentenza: «Hae omnes creaturae in totum egosum, et praeter me aliud ens non est» (Oupnek'hat, vol.I, p. 122). È innalzamento sul proprio individuo, senti-mento del sublime.

In modo affatto immediato quest'impressione del su-blime matematico ci è già prodotta da uno spazio picco-lo, sì, in confronto dell'universo, ma che, essendo a noivisibile intero e direttamente, agisce su di noi nelle suetre dimensioni con tutta la grandezza sua; la quale bastaa render quasi infinitamente pìccola la proporzione delnostro corpo. Di tale effetto non è capace uno spazio,che si presenti vuoto alla nostra percezione; mai quindiuno spazio aperto, ma soltanto uno che, essendo circo-scritto, sia direttamente percepibile in tutte le dimensio-

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di solamente nella nostra rappresentazione esistono, so-lamente quali modificazioni dell'eterno soggetto delpuro conoscere – soggetto che riconosciamo in noi stes-si non appena dimentichiamo l'individualità, e che è ilnecessario sostegno, la condizione di tutti i mondi e ditutti i tempi. La grandezza del mondo, che primac'inquietava, sta ora in noi: la nostra dipendenza da leiviene soppressa mediante la sua dipendenza da noi. Matutto ciò non si presenta subito alla riflessione; invece, simostra come la coscienza appena sentita d'essere, in unsenso qualsivoglia (il quale dalla filosofia sarà chiarito),tutt'uno col mondo, e quindi nella sua smisurata gran-dezza non già schiacciati, bensì innalzati. È la conscien-za sentita di ciò, che le Upanishad dei Veda esprimonoripetute volte in così vari modi, specialmente nella giàcitata sentenza: «Hae omnes creaturae in totum egosum, et praeter me aliud ens non est» (Oupnek'hat, vol.I, p. 122). È innalzamento sul proprio individuo, senti-mento del sublime.

In modo affatto immediato quest'impressione del su-blime matematico ci è già prodotta da uno spazio picco-lo, sì, in confronto dell'universo, ma che, essendo a noivisibile intero e direttamente, agisce su di noi nelle suetre dimensioni con tutta la grandezza sua; la quale bastaa render quasi infinitamente pìccola la proporzione delnostro corpo. Di tale effetto non è capace uno spazio,che si presenti vuoto alla nostra percezione; mai quindiuno spazio aperto, ma soltanto uno che, essendo circo-scritto, sia direttamente percepibile in tutte le dimensio-

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ni: così un alto e grande interno, qual è quello di S. Pie-tro in Roma o di S. Paolo in Londra. L'impressione delsublime nasce qui da sentire l'impercettibile nullità delnostro corpo davanti a una grandezza, la quale nondime-no d'altra parte sta solamente nella nostra rappresenta-zione, e che portiamo noi stessi, in quanto soggetto co-noscente. Ossia, nasce qui come sempre dal contrastodell'insignificanza e dipendenza del nostro io, in quantoindividuo, in quanto fenomeno di volontà, con la con-scienza di quell'io in quanto puro soggetto del conosce-re. Anche la volta del cielo stellato agisce – quando la siosservi senza riflessione – non altrimenti che quella vol-ta di pietra; e non con la sua vera, ma sol con la sua ap-parente grandezza. Vari oggetti della nostra intuizioneeccitano il sentimento del sublime, perché – a causa del-la loro vastità, o della loro antichità, ossia della loro du-rata temporale – noi ci sentiamo davanti ad essi impic-cioliti fino a sparire, e tuttavia ci inebriamo nel godernela vista. Di tal fatta sono le altissime montagne, le pira-midi d'Egitto, le colossali rovine di remota antichità.

Anzi, perfino al campo etico può applicarsi la nostraspiegazione del sublime; ossia a quel che si suol desi-gnare col nome di carattere sublime. Poiché questoegualmente si ha, quando la volontà non viene eccitatada oggetti, i quali pur sarebbero atti ad eccitarla; e inve-ce la conoscenza mantiene anche allora il sopravvento.Un tal carattere considera quindi gli uomini in modo af-fatto obiettivo, e non già secondo le relazioni che posso-no avere secondo la sua volontà. Osserverà per esempio

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ni: così un alto e grande interno, qual è quello di S. Pie-tro in Roma o di S. Paolo in Londra. L'impressione delsublime nasce qui da sentire l'impercettibile nullità delnostro corpo davanti a una grandezza, la quale nondime-no d'altra parte sta solamente nella nostra rappresenta-zione, e che portiamo noi stessi, in quanto soggetto co-noscente. Ossia, nasce qui come sempre dal contrastodell'insignificanza e dipendenza del nostro io, in quantoindividuo, in quanto fenomeno di volontà, con la con-scienza di quell'io in quanto puro soggetto del conosce-re. Anche la volta del cielo stellato agisce – quando la siosservi senza riflessione – non altrimenti che quella vol-ta di pietra; e non con la sua vera, ma sol con la sua ap-parente grandezza. Vari oggetti della nostra intuizioneeccitano il sentimento del sublime, perché – a causa del-la loro vastità, o della loro antichità, ossia della loro du-rata temporale – noi ci sentiamo davanti ad essi impic-cioliti fino a sparire, e tuttavia ci inebriamo nel godernela vista. Di tal fatta sono le altissime montagne, le pira-midi d'Egitto, le colossali rovine di remota antichità.

Anzi, perfino al campo etico può applicarsi la nostraspiegazione del sublime; ossia a quel che si suol desi-gnare col nome di carattere sublime. Poiché questoegualmente si ha, quando la volontà non viene eccitatada oggetti, i quali pur sarebbero atti ad eccitarla; e inve-ce la conoscenza mantiene anche allora il sopravvento.Un tal carattere considera quindi gli uomini in modo af-fatto obiettivo, e non già secondo le relazioni che posso-no avere secondo la sua volontà. Osserverà per esempio

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i loro difetti, e perfino il loro odio e la loro ingiustiziaverso di lui medesimo, senza per ciò sentirsi spinto aodiarli; li vedrà felici, senza provarne invidia; ricono-scerà le loro buone qualità, senza desiderarne per questodi avvicinarli più intimamente; apprezzerà la bellezzadelle donne, senza desiderarle. La sua individuale con-dizione felice o infelice non lo toccherà molto; piuttostosarà come Orazio descritto da Amleto:

for thou hast beenAs one, in suffering ali, that suffers nothing;A man, that fortune's buffets and rewardsHast ta'en with equal thanks, etc.

A. 3, sc. 263

Imperocché nel suo corso vitale e nelle traversie diquesto, egli scorgerà meno il proprio fato individualeche non il fato dell'umanità in genere; e per conseguen-za si comporterà piuttosto come quegli che conosce, an-ziché come quegli che soffre.

§ 40.Poiché i contrari si illuminano a vicenda, può qui tro-

var posto l'osservazione, che il vero e proprio contrariodel sublime è alcunché a tutta prima non riconoscibileper tale: l'eccitante. Chiamo così ciò che eccita la volon-tà, con l'immediato prometterle esaudimento, appaga-mento. Se l'impressione del sublime è nata dal fatto che

63 Tu sempre fosti uno che, tutto soffrendo, nulla soffra; un uomo che colpi efavori della fortuna ha accolto con eguali grazie.

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i loro difetti, e perfino il loro odio e la loro ingiustiziaverso di lui medesimo, senza per ciò sentirsi spinto aodiarli; li vedrà felici, senza provarne invidia; ricono-scerà le loro buone qualità, senza desiderarne per questodi avvicinarli più intimamente; apprezzerà la bellezzadelle donne, senza desiderarle. La sua individuale con-dizione felice o infelice non lo toccherà molto; piuttostosarà come Orazio descritto da Amleto:

for thou hast beenAs one, in suffering ali, that suffers nothing;A man, that fortune's buffets and rewardsHast ta'en with equal thanks, etc.

A. 3, sc. 263

Imperocché nel suo corso vitale e nelle traversie diquesto, egli scorgerà meno il proprio fato individualeche non il fato dell'umanità in genere; e per conseguen-za si comporterà piuttosto come quegli che conosce, an-ziché come quegli che soffre.

§ 40.Poiché i contrari si illuminano a vicenda, può qui tro-

var posto l'osservazione, che il vero e proprio contrariodel sublime è alcunché a tutta prima non riconoscibileper tale: l'eccitante. Chiamo così ciò che eccita la volon-tà, con l'immediato prometterle esaudimento, appaga-mento. Se l'impressione del sublime è nata dal fatto che

63 Tu sempre fosti uno che, tutto soffrendo, nulla soffra; un uomo che colpi efavori della fortuna ha accolto con eguali grazie.

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un oggetto avverso alla volontà può divenire oggetto dipura contemplazione, e questa viene continuata sol me-diante un perenne distogliersi dalla volontà ed elevarsisopra l'interesse di lei, la qual cosa appunto costituisce ilsublime in tal disposizione; l'eccitante viceversa fa di-scendere lo spettatore dalla contemplazione pura, richie-sta per ogni percezione del bello, eccitando forzatamen-te la sua volontà, per mezzo di oggetti che direttamentel'attraggono: sì che lo spettatore non è più puro soggettodel conoscere, bensì bisognoso, dipendente soggetto delvolere. Che di solito si chiami eccitante ogni bellezza digenere lieto, è concetto di troppo ampia sfera per man-canza di distinzione; ed io devo metterlo in disparte,anzi disapprovarlo. Ma nel senso indicato e spiegato,trovo nel dominio dell'arte due sole specie di eccitante,ed entrambe indegne di lei. L'una, davvero bassa, nellanatura morta degli olandesi: quando ci si inganna a se-gno da scambiar gli oggetti dipinti per commestibili, iquali per la loro ingannevole rappresentazione suscitanol'appetito, che è appunto un'eccitazione della volontà,per cui cessa ogni contemplazione estetica dell'oggetto.Frutta dipinta si può ancora ammettere, presentandosicome successivo sviluppo del fiore e come bel prodottodi natura per forma e colore, senza che si deva per forzapensare alla sua commestibilità; ma purtroppo troviamospesso, con naturalezza da illudere, vivande allestite eservite in tavola, ostriche, aringhe, gamberi di mare,pane e burro, birra, vino, etc.: cosa del tutto riprovevole.Nella pittura storica e nella scultura, l'eccitante consiste

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un oggetto avverso alla volontà può divenire oggetto dipura contemplazione, e questa viene continuata sol me-diante un perenne distogliersi dalla volontà ed elevarsisopra l'interesse di lei, la qual cosa appunto costituisce ilsublime in tal disposizione; l'eccitante viceversa fa di-scendere lo spettatore dalla contemplazione pura, richie-sta per ogni percezione del bello, eccitando forzatamen-te la sua volontà, per mezzo di oggetti che direttamentel'attraggono: sì che lo spettatore non è più puro soggettodel conoscere, bensì bisognoso, dipendente soggetto delvolere. Che di solito si chiami eccitante ogni bellezza digenere lieto, è concetto di troppo ampia sfera per man-canza di distinzione; ed io devo metterlo in disparte,anzi disapprovarlo. Ma nel senso indicato e spiegato,trovo nel dominio dell'arte due sole specie di eccitante,ed entrambe indegne di lei. L'una, davvero bassa, nellanatura morta degli olandesi: quando ci si inganna a se-gno da scambiar gli oggetti dipinti per commestibili, iquali per la loro ingannevole rappresentazione suscitanol'appetito, che è appunto un'eccitazione della volontà,per cui cessa ogni contemplazione estetica dell'oggetto.Frutta dipinta si può ancora ammettere, presentandosicome successivo sviluppo del fiore e come bel prodottodi natura per forma e colore, senza che si deva per forzapensare alla sua commestibilità; ma purtroppo troviamospesso, con naturalezza da illudere, vivande allestite eservite in tavola, ostriche, aringhe, gamberi di mare,pane e burro, birra, vino, etc.: cosa del tutto riprovevole.Nella pittura storica e nella scultura, l'eccitante consiste

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in figure nude, che per l'atteggiamento, la mezza nuditàe tutto il modo della rappresentazione mirano a destarelibidine nello spettatore; dal che vien subito distrutta lacontemplazione puramente estetica: ossia si opera in op-posizione allo scopo dell'arte. Tale difetto corrisponde intutto a quello or ora biasimato negli olandesi. Quasisempre ne son privi gli antichi, malgrado tutta la bellez-za e piena nudità delle figure; perché l'artista medesimole ha create con puro, obiettivo spirito, pieno dell'idealebellezza, e non già in ispirito di soggettiva, bassa concu-piscenza. L'eccitante è quindi sempre da evitarsinell'arte.

V'è anche un eccitante negativo, ancor più biasimevo-le che non sia il positivo or ora illustrato: e questo è ilnauseante. Appunto come il vero eccitante, questo sve-glia la volontà dello spettatore e distrugge con ciò lacontemplazione puramente estetica. Ma quel che vieneper suo mezzo eccitato, è un vivace non-volere, una ri-luttanza; suscita la volontà, ponendole innanzi oggettidel suo ribrezzo. Fu perciò conosciuto da tempo, ch'essoè del tutto inammissibile nell'arte; dove tuttavia anche ilbrutto – fin quando non sia disgustoso – può esser tolle-rato a suo luogo, come vedremo in seguito.

§ 41.Il corso del nostro studio ha reso necessario introdur

l'illustrazione del sublime a questo punto, quando quelladel bello non era compiuta che a mezzo, sotto un solo

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in figure nude, che per l'atteggiamento, la mezza nuditàe tutto il modo della rappresentazione mirano a destarelibidine nello spettatore; dal che vien subito distrutta lacontemplazione puramente estetica: ossia si opera in op-posizione allo scopo dell'arte. Tale difetto corrisponde intutto a quello or ora biasimato negli olandesi. Quasisempre ne son privi gli antichi, malgrado tutta la bellez-za e piena nudità delle figure; perché l'artista medesimole ha create con puro, obiettivo spirito, pieno dell'idealebellezza, e non già in ispirito di soggettiva, bassa concu-piscenza. L'eccitante è quindi sempre da evitarsinell'arte.

V'è anche un eccitante negativo, ancor più biasimevo-le che non sia il positivo or ora illustrato: e questo è ilnauseante. Appunto come il vero eccitante, questo sve-glia la volontà dello spettatore e distrugge con ciò lacontemplazione puramente estetica. Ma quel che vieneper suo mezzo eccitato, è un vivace non-volere, una ri-luttanza; suscita la volontà, ponendole innanzi oggettidel suo ribrezzo. Fu perciò conosciuto da tempo, ch'essoè del tutto inammissibile nell'arte; dove tuttavia anche ilbrutto – fin quando non sia disgustoso – può esser tolle-rato a suo luogo, come vedremo in seguito.

§ 41.Il corso del nostro studio ha reso necessario introdur

l'illustrazione del sublime a questo punto, quando quelladel bello non era compiuta che a mezzo, sotto un solo

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dei suoi aspetti – il soggettivo. Imperocché era appuntouna particolare modificazione di codesto aspetto sogget-tivo, che distingueva il sublime dal bello. Invero, se lostato del puro conoscere scevro di volontà, presuppostoe voluto da ogni contemplazione estetica, sia sorto comespontaneamente, senza resistenza, per un semplice dile-guarsi della volontà dalla conscienza, quando un oggettol'ha a ciò invitato ed attratto; oppur se il medesimo statosia raggiunto attraverso un libero, conscio elevarsi sullavolontà, con la quale l'oggetto contemplato aveva unarelazione sfavorevole ed ostile; – questa è la differenzatra il bello e il sublime. Nell'oggetto non sono l'uno el'altro sostanzialmente distinti: poiché in ciascun caso èoggetto della contemplazione estetica non già la singolacosa, bensì l'idea, che in questa tende a palesarsi, ossial'adeguata oggettità della volontà in un dato grado: ilsuo correlato necessario – sottratto, come lei medesima,al principio di ragione, è il puro soggetto del conoscere;come il correlato della cosa singola è l'individuo cono-scente, e questo e quella stanno entrambi in potere delprincipio di ragione.

Chiamando bella una cosa, veniamo con ciò a direche ella è oggetto della nostra contemplazione estetica;la qual cosa implica due fatti: da un lato, che la vista diquella ci renda obiettivi, ossia che noi nel contemplarlanon siamo più consapevoli di noi stessi in quanto indivi-dui, bensì in quanto puro, libero da volontà soggetto delconoscere; e dall'altro lato, che nell'oggetto non la sin-gola cosa, bensì conosciamo un'idea – il che può solo

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dei suoi aspetti – il soggettivo. Imperocché era appuntouna particolare modificazione di codesto aspetto sogget-tivo, che distingueva il sublime dal bello. Invero, se lostato del puro conoscere scevro di volontà, presuppostoe voluto da ogni contemplazione estetica, sia sorto comespontaneamente, senza resistenza, per un semplice dile-guarsi della volontà dalla conscienza, quando un oggettol'ha a ciò invitato ed attratto; oppur se il medesimo statosia raggiunto attraverso un libero, conscio elevarsi sullavolontà, con la quale l'oggetto contemplato aveva unarelazione sfavorevole ed ostile; – questa è la differenzatra il bello e il sublime. Nell'oggetto non sono l'uno el'altro sostanzialmente distinti: poiché in ciascun caso èoggetto della contemplazione estetica non già la singolacosa, bensì l'idea, che in questa tende a palesarsi, ossial'adeguata oggettità della volontà in un dato grado: ilsuo correlato necessario – sottratto, come lei medesima,al principio di ragione, è il puro soggetto del conoscere;come il correlato della cosa singola è l'individuo cono-scente, e questo e quella stanno entrambi in potere delprincipio di ragione.

Chiamando bella una cosa, veniamo con ciò a direche ella è oggetto della nostra contemplazione estetica;la qual cosa implica due fatti: da un lato, che la vista diquella ci renda obiettivi, ossia che noi nel contemplarlanon siamo più consapevoli di noi stessi in quanto indivi-dui, bensì in quanto puro, libero da volontà soggetto delconoscere; e dall'altro lato, che nell'oggetto non la sin-gola cosa, bensì conosciamo un'idea – il che può solo

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accadere fin quando la nostra contemplazionedell'oggetto non sia asservita al principio di ragione, nonvada dietro al suo rapporto con qualcosa fuori di esso(rapporto ch'è sempre collegato a rapporti con la nostravolontà), bensì posi nell'oggetto medesimo. Imperocchél'idea e il puro soggetto del conoscere si presentanosempre insieme alla conscienza, come necessari correla-ti, e col loro presentarsi svanisce anche ogni differenzatemporale, essendo entrambi affatto estranei al principiodi ragione in tutte le sue forme, e stando fuori delle rela-zioni da esso determinate: paragonabili all'arcobaleno edal sole, che nessuna parte hanno nel continuo moto enella successione delle cadenti gocce. Quindi, se io amo' d'esempio guardo un albero esteticamente, ossia conocchio artistico, e quindi non esso conosco, bensì la suaidea; perde subito ogni valore il saper se l'albero è que-sto o se è un suo florido antenato di mille anni innanzi, ecosì se chi l'osserva è questo o quell'individuo, quandoche sia e dove che sia vissuto. Tolto il principio di ragio-ne, son tolti anche l'oggetto singolo e il conoscente indi-viduo; nulla rimane se non l'idea e il puro soggetto delconoscere, che insieme costituiscono l'adeguata oggetti-tà della volontà in questo grado. E non solo al tempo,ma anche allo spazio è sottratta l'idea: poiché non la for-ma spaziale, che mi sta davanti, ma la sua espressione, ilsuo significato puro, la sua più intima essenza, che a mesi apre e mi parla, è propriamente l'idea; e rimane identi-ca pur se vi sia gran differenza nelle relazioni spazialidella forma.

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accadere fin quando la nostra contemplazionedell'oggetto non sia asservita al principio di ragione, nonvada dietro al suo rapporto con qualcosa fuori di esso(rapporto ch'è sempre collegato a rapporti con la nostravolontà), bensì posi nell'oggetto medesimo. Imperocchél'idea e il puro soggetto del conoscere si presentanosempre insieme alla conscienza, come necessari correla-ti, e col loro presentarsi svanisce anche ogni differenzatemporale, essendo entrambi affatto estranei al principiodi ragione in tutte le sue forme, e stando fuori delle rela-zioni da esso determinate: paragonabili all'arcobaleno edal sole, che nessuna parte hanno nel continuo moto enella successione delle cadenti gocce. Quindi, se io amo' d'esempio guardo un albero esteticamente, ossia conocchio artistico, e quindi non esso conosco, bensì la suaidea; perde subito ogni valore il saper se l'albero è que-sto o se è un suo florido antenato di mille anni innanzi, ecosì se chi l'osserva è questo o quell'individuo, quandoche sia e dove che sia vissuto. Tolto il principio di ragio-ne, son tolti anche l'oggetto singolo e il conoscente indi-viduo; nulla rimane se non l'idea e il puro soggetto delconoscere, che insieme costituiscono l'adeguata oggetti-tà della volontà in questo grado. E non solo al tempo,ma anche allo spazio è sottratta l'idea: poiché non la for-ma spaziale, che mi sta davanti, ma la sua espressione, ilsuo significato puro, la sua più intima essenza, che a mesi apre e mi parla, è propriamente l'idea; e rimane identi-ca pur se vi sia gran differenza nelle relazioni spazialidella forma.

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Ora, poiché da un verso ogni cosa che esista può es-ser considerata in modo puramente obiettivo e fuord'ogni relazione; poiché inoltre dall'altro verso, in ognicosa la volontà – qualunque sia il grado della sua ogget-tità – si rileva, e la cosa stessa è quindi espressione diun'idea; ne viene che ogni cosa è bella. Che anche lecose più insignificanti possano essere oggetto d'una con-siderazione puramente obiettiva e scevra di volontà, ecome tali mostrarsi belle, attesta l'esempio, già citato aquesto riguardo (§ 38), delle nature morte olandesi. Mauna cosa è più bella d'un'altra pel fatto che ella agevolaquella considerazione puramente oggettiva, le muoveincontro, quasi la costringe: e allora noi diciamo ch'èmolto bella. Questo in parte accade perché, come cosasingola, mediante la chiarissima, nettamente determina-ta, in tutto significativa relazione delle sue parti, ellaesprime nettamente l'idea della propria specie; e me-diante la compiutezza, in lei raccolta, di tutte le possibilimanifestazioni della specie stessa, quell'idea palesa inmodo compiuto; sì che allo spettatore è reso facilissimoil passar dalla singola cosa all'idea, e facilissimo appun-to perciò anche lo stato della pura contemplazione. Perun'altra parte, il privilegio della maggior bellezza d'unoggetto consiste nell'esser l'idea medesima, che da quel-lo ci parla, un alto grado nell'oggettità della volontà, equindi significantissima e molto espressiva. Perciò èl'uomo più bello d'ogni altra cosa, e la rivelazione dellasua essenza è il più alto fine dell'arte. Figura umana edumana espressione sono il più importante oggetto

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Ora, poiché da un verso ogni cosa che esista può es-ser considerata in modo puramente obiettivo e fuord'ogni relazione; poiché inoltre dall'altro verso, in ognicosa la volontà – qualunque sia il grado della sua ogget-tità – si rileva, e la cosa stessa è quindi espressione diun'idea; ne viene che ogni cosa è bella. Che anche lecose più insignificanti possano essere oggetto d'una con-siderazione puramente obiettiva e scevra di volontà, ecome tali mostrarsi belle, attesta l'esempio, già citato aquesto riguardo (§ 38), delle nature morte olandesi. Mauna cosa è più bella d'un'altra pel fatto che ella agevolaquella considerazione puramente oggettiva, le muoveincontro, quasi la costringe: e allora noi diciamo ch'èmolto bella. Questo in parte accade perché, come cosasingola, mediante la chiarissima, nettamente determina-ta, in tutto significativa relazione delle sue parti, ellaesprime nettamente l'idea della propria specie; e me-diante la compiutezza, in lei raccolta, di tutte le possibilimanifestazioni della specie stessa, quell'idea palesa inmodo compiuto; sì che allo spettatore è reso facilissimoil passar dalla singola cosa all'idea, e facilissimo appun-to perciò anche lo stato della pura contemplazione. Perun'altra parte, il privilegio della maggior bellezza d'unoggetto consiste nell'esser l'idea medesima, che da quel-lo ci parla, un alto grado nell'oggettità della volontà, equindi significantissima e molto espressiva. Perciò èl'uomo più bello d'ogni altra cosa, e la rivelazione dellasua essenza è il più alto fine dell'arte. Figura umana edumana espressione sono il più importante oggetto

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dell'arte figurativa, come l'azione umana è oggetto piùimportante della poesia. Ma tuttavia ogni cosa ha la suaspeciale bellezza: non soltanto ogni essere organico pre-sentantesi nell'unità del suo individuo, bensì anche ognicosa inorganica, priva di forma, e perfino ogni cosa fattadalla mano dell'uomo. Imperocché tutte palesano leidee, per mezzo delle quali la volontà s'oggettiva neigradi più bassi, e formano come le più profonde, estin-guentisi note di basso della natura. Gravità, solidità,fluidità, luce, etc., sono le idee che si esprimono in roc-ce, edilizi, acque. La bella architettura dei giardini e del-le costruzioni non altro può se non aiutar tali idee aspiegare in modo limpido, vario e compiuto quelle lorqualità, e dar loro modo di esprimersi nettamente; sì chepossano richiamare e rendere agevole la contemplazioneestetica. A ciò poco o punto riescono invece brutti edifi-zi e paesi; ma nemmeno da questi posson dileguarsi deltutto quelle generali idee elementari della natura. Quivianche parlano codeste idee al contemplatore che le cer-ca, anche edifizi brutti e simili cose sono atti ad unaconsiderazione estetica: ancora sono quivi riconoscibilile più generali qualità della loro materia, e soltanto laforma loro data artificialmente, lungi dall'agevolare, èun impedimento, che fa difficile la contemplazione este-tica. Dunque, anche cose artefatte servono alla espres-sione di idee: ma non è l'idea della cosa artefatta, che inloro parla, bensì l'idea del materiale a cui s'è data quellaforma artificialmente. Questo si può esprimere, in modoassai comodo, nel linguaggio degli scolastici, con due

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dell'arte figurativa, come l'azione umana è oggetto piùimportante della poesia. Ma tuttavia ogni cosa ha la suaspeciale bellezza: non soltanto ogni essere organico pre-sentantesi nell'unità del suo individuo, bensì anche ognicosa inorganica, priva di forma, e perfino ogni cosa fattadalla mano dell'uomo. Imperocché tutte palesano leidee, per mezzo delle quali la volontà s'oggettiva neigradi più bassi, e formano come le più profonde, estin-guentisi note di basso della natura. Gravità, solidità,fluidità, luce, etc., sono le idee che si esprimono in roc-ce, edilizi, acque. La bella architettura dei giardini e del-le costruzioni non altro può se non aiutar tali idee aspiegare in modo limpido, vario e compiuto quelle lorqualità, e dar loro modo di esprimersi nettamente; sì chepossano richiamare e rendere agevole la contemplazioneestetica. A ciò poco o punto riescono invece brutti edifi-zi e paesi; ma nemmeno da questi posson dileguarsi deltutto quelle generali idee elementari della natura. Quivianche parlano codeste idee al contemplatore che le cer-ca, anche edifizi brutti e simili cose sono atti ad unaconsiderazione estetica: ancora sono quivi riconoscibilile più generali qualità della loro materia, e soltanto laforma loro data artificialmente, lungi dall'agevolare, èun impedimento, che fa difficile la contemplazione este-tica. Dunque, anche cose artefatte servono alla espres-sione di idee: ma non è l'idea della cosa artefatta, che inloro parla, bensì l'idea del materiale a cui s'è data quellaforma artificialmente. Questo si può esprimere, in modoassai comodo, nel linguaggio degli scolastici, con due

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parole: ossia nell'artefatto si esprime l'idea della sua for-ma substantialis, non quella della sua forma accidenta-lis; la quale ultima non fa capo a un'idea, bensì sempli-cemente ad un concetto umano, dal quale ella è nata.S'intende, che qui con la parola artefatto non si vuole in-dicare nessun'opera dell'arte figurativa. D'altronde inrealtà gli scolastici intesero per forma substantialis quelch'io chiamo grado dell'oggettivazione della volontà inun oggetto. Nel trattar della bella architettura, ritornere-mo fra poco sull'espressione dell'idea del materiale. Ordunque, dato questo nostro giudizio, non possiamo con-venir con Platone, quando afferma (De Rep., X, pp. 284-285, e Parmen., p. 79, ed. Bip.), che tavola e sediaesprimono le idee tavola e sedia; noi diciamo invece,che esprimono le idee già rilevantisi nella semplice ma-teria loro, in quanto tale. Secondo Aristotele (Metaph.,XI, cap. 3) avrebbe tuttavia Platone statuito solamenteidee degli enti naturali: Πλατον εφη, ότι ειδη εστινόποσα φυσει. (Plato dixit, quod ideae eorum sunt, quaenatura sunt); e nel cap. 5 si dice non esister secondo iplatonici idea alcuna di casa o d'anello. In ogni modogià i discepoli più prossimi di Platone, secondo c'infor-ma Alcinoo (introducilo in platonicam philosophiam,cap. 9), negarono potersi dare idee di cose artificiali.Dice Alcinoo: Ὁριζονται δε την ιδεαν, παραδειγµα τωνκατα φυσιν αιωνιον. Ουτε γαρ τοις πλειστοις των αποΠλατωνος αρεσκει, των τεχνικων ειναι ιδεας, οίονασπιδος η λυρας, ουτε µην των παρα φυσιν, οίονπυρετου και χολερας, ουτε των κατα µερος, οίον

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parole: ossia nell'artefatto si esprime l'idea della sua for-ma substantialis, non quella della sua forma accidenta-lis; la quale ultima non fa capo a un'idea, bensì sempli-cemente ad un concetto umano, dal quale ella è nata.S'intende, che qui con la parola artefatto non si vuole in-dicare nessun'opera dell'arte figurativa. D'altronde inrealtà gli scolastici intesero per forma substantialis quelch'io chiamo grado dell'oggettivazione della volontà inun oggetto. Nel trattar della bella architettura, ritornere-mo fra poco sull'espressione dell'idea del materiale. Ordunque, dato questo nostro giudizio, non possiamo con-venir con Platone, quando afferma (De Rep., X, pp. 284-285, e Parmen., p. 79, ed. Bip.), che tavola e sediaesprimono le idee tavola e sedia; noi diciamo invece,che esprimono le idee già rilevantisi nella semplice ma-teria loro, in quanto tale. Secondo Aristotele (Metaph.,XI, cap. 3) avrebbe tuttavia Platone statuito solamenteidee degli enti naturali: Πλατον εφη, ότι ειδη εστινόποσα φυσει. (Plato dixit, quod ideae eorum sunt, quaenatura sunt); e nel cap. 5 si dice non esister secondo iplatonici idea alcuna di casa o d'anello. In ogni modogià i discepoli più prossimi di Platone, secondo c'infor-ma Alcinoo (introducilo in platonicam philosophiam,cap. 9), negarono potersi dare idee di cose artificiali.Dice Alcinoo: Ὁριζονται δε την ιδεαν, παραδειγµα τωνκατα φυσιν αιωνιον. Ουτε γαρ τοις πλειστοις των αποΠλατωνος αρεσκει, των τεχνικων ειναι ιδεας, οίονασπιδος η λυρας, ουτε µην των παρα φυσιν, οίονπυρετου και χολερας, ουτε των κατα µερος, οίον

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Σωκρατους καὶ Πλατωνος, αλλ’ουτε των ευτελων τινος,οίον µειζονος και ύπερεχοντος ειυαι γαρ τας ιδεαςνοησεις θεου αιωνιους τε και αυτοτελεις (Definiunt au-tem ideam exemplar aeternum éorum, quae secundumnaturam existunt. Nam plurimis ex iis, qui Platonem se-cuti sunt, minime placuit, arte factorum ideas esse, utclypei atque lyrae; neque rursus eorum, quae praeter na-turam, ut febris et cholerae; neque particularium, ceuSocratis et Platonis; neque etiam rerum vilium, velutisordium et festucae; neque relationum, ut majoris et ex-cedentis: esse namque ideas intellectiones dei aeternas,ac seipsis perfectas). In quest'occasione può essere toc-cato un altro punto, nel quale la nostra dottrina delleidee molto s'allontana da quella di Platone. Egli insegna(De Rep., X, p. 288), l'oggetto che l'arte bella vuol rap-presentare, il modello della pittura e della poesia, nonesser l'idea, bensì la cosa singola. Proprio il contrariosostiene tutta la dimostrazione da noi fin qui fatta; el'avviso di Platone tanto meno ci svierà su questo punto,essendo la causa d'un dei più grossi e riconosciuti erroricommessi da quell'uomo grande, ossia del suo disdegnoe abominio per l'arte, specialmente la poesia. Il suo falsogiudizio su di questo ei lo collega direttamente col luo-go citato.

§ 42.Ritorno alla nostra indagine dell'impressione estetica.

La conoscenza del bello richiede adunque sempre, con-

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Σωκρατους καὶ Πλατωνος, αλλ’ουτε των ευτελων τινος,οίον µειζονος και ύπερεχοντος ειυαι γαρ τας ιδεαςνοησεις θεου αιωνιους τε και αυτοτελεις (Definiunt au-tem ideam exemplar aeternum éorum, quae secundumnaturam existunt. Nam plurimis ex iis, qui Platonem se-cuti sunt, minime placuit, arte factorum ideas esse, utclypei atque lyrae; neque rursus eorum, quae praeter na-turam, ut febris et cholerae; neque particularium, ceuSocratis et Platonis; neque etiam rerum vilium, velutisordium et festucae; neque relationum, ut majoris et ex-cedentis: esse namque ideas intellectiones dei aeternas,ac seipsis perfectas). In quest'occasione può essere toc-cato un altro punto, nel quale la nostra dottrina delleidee molto s'allontana da quella di Platone. Egli insegna(De Rep., X, p. 288), l'oggetto che l'arte bella vuol rap-presentare, il modello della pittura e della poesia, nonesser l'idea, bensì la cosa singola. Proprio il contrariosostiene tutta la dimostrazione da noi fin qui fatta; el'avviso di Platone tanto meno ci svierà su questo punto,essendo la causa d'un dei più grossi e riconosciuti erroricommessi da quell'uomo grande, ossia del suo disdegnoe abominio per l'arte, specialmente la poesia. Il suo falsogiudizio su di questo ei lo collega direttamente col luo-go citato.

§ 42.Ritorno alla nostra indagine dell'impressione estetica.

La conoscenza del bello richiede adunque sempre, con-

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temporanei e inseparabili, un oggetto puramente cono-scente, e, come oggetto, un'idea conosciuta. Quindi lafonte del godimento estetico starà or più nella percezio-ne dell'idea conosciuta, or più nella beatitudine e sereni-tà spirituale del puro conoscere, liberatosi da ogni vole-re e per conseguenza da ogni individualità, e della penache questa produce: e codesto prevalere dell'uno odell'altro elemento del piacere estetico dipenderàdall'esser l'idea intuitivamente percepita un più alto opiù basso grado nell'oggettità della volontà. Ad esem-pio, con la contemplazione estetica della bella natura(sia in realtà, sia attraverso il mezzo dell'arte) nel campoinorganico e vegetale, e così con quella delle opere dibella architettura, prevarrà il godimento del puro cono-scere scevro di volontà, essendo le idee qui concepitesol bassi gradi nell'oggettità della volontà, e non feno-meni di profonda significazione e molto espressivo con-tenuto. Viceversa, quando animali e uomini sono ogget-to della contemplazione o rappresentazione estetica,consisterà il godimento piuttosto nell'obiettivo percepirtali idee, che sono le più chiare manifestazioni della vo-lontà, mostrandoci la massima varietà di forme, ricchez-za e profonda significanza dei fenomeni, e palesandocinel modo più compiuto l'essenza della volontà: sia nellasua violenza, nella sua terribilità, nel suo appagamento,sia nel suo infrangersi (quest'ultimo nella rappresenta-zione tragica), e finalmente pur nel suo mutarsi o sop-primersi (ciò ch'è particolarmente il tema della pitturacristiana; come in genere la pittura storica e il dramma

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temporanei e inseparabili, un oggetto puramente cono-scente, e, come oggetto, un'idea conosciuta. Quindi lafonte del godimento estetico starà or più nella percezio-ne dell'idea conosciuta, or più nella beatitudine e sereni-tà spirituale del puro conoscere, liberatosi da ogni vole-re e per conseguenza da ogni individualità, e della penache questa produce: e codesto prevalere dell'uno odell'altro elemento del piacere estetico dipenderàdall'esser l'idea intuitivamente percepita un più alto opiù basso grado nell'oggettità della volontà. Ad esem-pio, con la contemplazione estetica della bella natura(sia in realtà, sia attraverso il mezzo dell'arte) nel campoinorganico e vegetale, e così con quella delle opere dibella architettura, prevarrà il godimento del puro cono-scere scevro di volontà, essendo le idee qui concepitesol bassi gradi nell'oggettità della volontà, e non feno-meni di profonda significazione e molto espressivo con-tenuto. Viceversa, quando animali e uomini sono ogget-to della contemplazione o rappresentazione estetica,consisterà il godimento piuttosto nell'obiettivo percepirtali idee, che sono le più chiare manifestazioni della vo-lontà, mostrandoci la massima varietà di forme, ricchez-za e profonda significanza dei fenomeni, e palesandocinel modo più compiuto l'essenza della volontà: sia nellasua violenza, nella sua terribilità, nel suo appagamento,sia nel suo infrangersi (quest'ultimo nella rappresenta-zione tragica), e finalmente pur nel suo mutarsi o sop-primersi (ciò ch'è particolarmente il tema della pitturacristiana; come in genere la pittura storica e il dramma

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han per oggetto l'idea della volontà illuminata dalla pie-na conoscenza). Esamineremo adesso le arti ad una aduna: dal che la teoria del bello or ora formulata acquiste-rà compiutezza ed evidenza.

§ 43.La materia, in quanto tale, non può essere rappresen-

tazione di un'idea. Imperocché essa, come abbiamo tro-vato nel primo libro, è in tutto e per tutto causalità: ilsuo essere è un semplice agire. Ma causalità è forma delprincipio di ragione: conoscenza dell'idea invece esclu-de essenzialmente il contenuto di quel principio. Ancheabbiamo trovato nel secondo libro esser la materia il so-strato comune a tutti i singoli fenomeni delle idee, equindi l'anello di congiunzione tra l'idea e il fenomeno ocosa singola. Dunque, tanto per l'uno quanto per l'altromotivo, non può la materia di per sé rappresentare ideaalcuna. Ciò si conferma a posteriori pel fatto che dellamateria come tale nessuna rappresentazione intuitiva èpossibile, bensì unicamente un concetto astratto: nonrappresentandosi in quella se non le forme e qualità, del-le quali è base la materia, e in tutte le quali si palesanoidee. Questo corrisponde pure al fatto, che causalità(l'intera essenza della materia) per sé non è rappresenta-bile intuitivamente: ma rappresentabile è solo un deter-minato nesso causale. All'opposto deve ciascun fenome-no di un'idea, essendo questa come tale spirata nella for-ma del principio di ragione, o nel principia individua-

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han per oggetto l'idea della volontà illuminata dalla pie-na conoscenza). Esamineremo adesso le arti ad una aduna: dal che la teoria del bello or ora formulata acquiste-rà compiutezza ed evidenza.

§ 43.La materia, in quanto tale, non può essere rappresen-

tazione di un'idea. Imperocché essa, come abbiamo tro-vato nel primo libro, è in tutto e per tutto causalità: ilsuo essere è un semplice agire. Ma causalità è forma delprincipio di ragione: conoscenza dell'idea invece esclu-de essenzialmente il contenuto di quel principio. Ancheabbiamo trovato nel secondo libro esser la materia il so-strato comune a tutti i singoli fenomeni delle idee, equindi l'anello di congiunzione tra l'idea e il fenomeno ocosa singola. Dunque, tanto per l'uno quanto per l'altromotivo, non può la materia di per sé rappresentare ideaalcuna. Ciò si conferma a posteriori pel fatto che dellamateria come tale nessuna rappresentazione intuitiva èpossibile, bensì unicamente un concetto astratto: nonrappresentandosi in quella se non le forme e qualità, del-le quali è base la materia, e in tutte le quali si palesanoidee. Questo corrisponde pure al fatto, che causalità(l'intera essenza della materia) per sé non è rappresenta-bile intuitivamente: ma rappresentabile è solo un deter-minato nesso causale. All'opposto deve ciascun fenome-no di un'idea, essendo questa come tale spirata nella for-ma del principio di ragione, o nel principia individua-

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tionis, rappresentarsi nella materia, come qualità di que-sta. In questo senso è adunque la materia, come s'è det-to, l'anello di congiunzione tra l'idea e il principium in-dividuationis, il quale è la forma della conoscenza indi-viduale, ossia il principio di ragione. Giustissimamenteha quindi Platone posto accanto all'idea e al suo feno-meno, ch'è la cosa singola – i quali entrambi compren-dono le cose tutte del mondo – ancora la materia, comeun terzo elemento, da quelli diverso (Timaeus, p. 345).L'individuo, in quanto fenomeno dell'idea, è sempre ma-teria. Anche ciascuna qualità della materia è sempre fe-nomeno di un'idea, e come tale pur capace d'una con-templazione estetica, ossia conoscenza dell'idea che inlei si presenta. Questo vale egualmente per le più gene-riche qualità della materia, senza le quali essa non puòesistere, e le cui idee sono la più debole oggettità dellavolontà. Tali sono: gravità, coesione, rigidità, fluidità,reazione contro la luce, etc.

Se consideriamo ora l'architettura, soltanto come artebella, prescindendo dalla sua destinazione ai fini pratici,nei quali ella serve non alla conoscenza pura ma alla vo-lontà, e non è adunque più arte come noi l'intendiamo,non ci è possibile attribuirle altro intento se non quellodi rendere più chiare all'intuizione alcune delle idee, chesono i gradi più bassi nell'oggettità della volontà, qualigravità, coesione, solidità, durezza – le proprietà generi-che della pietra; le prime, più semplici, più grosse mani-festazioni visibili della volontà; le note del basso fonda-mentale della natura; – e poi, oltre quelle, la luce: che

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tionis, rappresentarsi nella materia, come qualità di que-sta. In questo senso è adunque la materia, come s'è det-to, l'anello di congiunzione tra l'idea e il principium in-dividuationis, il quale è la forma della conoscenza indi-viduale, ossia il principio di ragione. Giustissimamenteha quindi Platone posto accanto all'idea e al suo feno-meno, ch'è la cosa singola – i quali entrambi compren-dono le cose tutte del mondo – ancora la materia, comeun terzo elemento, da quelli diverso (Timaeus, p. 345).L'individuo, in quanto fenomeno dell'idea, è sempre ma-teria. Anche ciascuna qualità della materia è sempre fe-nomeno di un'idea, e come tale pur capace d'una con-templazione estetica, ossia conoscenza dell'idea che inlei si presenta. Questo vale egualmente per le più gene-riche qualità della materia, senza le quali essa non puòesistere, e le cui idee sono la più debole oggettità dellavolontà. Tali sono: gravità, coesione, rigidità, fluidità,reazione contro la luce, etc.

Se consideriamo ora l'architettura, soltanto come artebella, prescindendo dalla sua destinazione ai fini pratici,nei quali ella serve non alla conoscenza pura ma alla vo-lontà, e non è adunque più arte come noi l'intendiamo,non ci è possibile attribuirle altro intento se non quellodi rendere più chiare all'intuizione alcune delle idee, chesono i gradi più bassi nell'oggettità della volontà, qualigravità, coesione, solidità, durezza – le proprietà generi-che della pietra; le prime, più semplici, più grosse mani-festazioni visibili della volontà; le note del basso fonda-mentale della natura; – e poi, oltre quelle, la luce: che

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per molti rispetti è di quelle un contrapposto. Già in co-desto basso grado dell'oggettità della volontà vediamoche la sua essenza si palesa in un conflitto: poiché la lot-ta tra gravità e solidità è propriamente l'unico propositoestetico della bella architettura; metterlo variamente inpiena evidenza è il suo compito. Tale compito adempie,togliendo a quelle indelebili forze la via più breve delloro soddisfacimento, trattenendole col deviarle; la lottaviene così prolungata, e si fa in vario modo palese l'ine-sauribile tendenza di entrambe le forze. L'intera massadell'edificio, abbandonata alla sua originaria tendenza,presenterebbe nient'altro che un cumulo il più possibileaderente alla terra: verso la quale incessante sospinge lagravità (perché così si manifesta quivi la volontà), men-tre la solidità, anch'essa oggettità della volontà, le si op-pone. Ma appunto codesta tendenza, codesta necessitàviene dall'architettura impedita nella sua immediata sod-disfazione; che sol mediatamente le vien concessa, pervie non dirette. Per esempio, l'architrave può premer laterra sol per mezzo delle colonne; la volta deve reggersida sé, e appagar la sua attrazione verso la massa terre-stre solo attraverso i pilastri, etc. Ma appunto in questeforzate vie indirette, appunto attraverso questi impedi-menti, si dispiegano nel modo più manifesto e variato leforze inerenti al nudo masso di pietra; e più lungi nonpuò andare il fine puramente estetico dell'architettura.Perciò senza dubbio la bellezza di un edifizio consistenell'adattamento, visibile a tutta prima, di ciascuna parteal suo fine: e non al fine esteriore, arbitrario dell'uomo

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per molti rispetti è di quelle un contrapposto. Già in co-desto basso grado dell'oggettità della volontà vediamoche la sua essenza si palesa in un conflitto: poiché la lot-ta tra gravità e solidità è propriamente l'unico propositoestetico della bella architettura; metterlo variamente inpiena evidenza è il suo compito. Tale compito adempie,togliendo a quelle indelebili forze la via più breve delloro soddisfacimento, trattenendole col deviarle; la lottaviene così prolungata, e si fa in vario modo palese l'ine-sauribile tendenza di entrambe le forze. L'intera massadell'edificio, abbandonata alla sua originaria tendenza,presenterebbe nient'altro che un cumulo il più possibileaderente alla terra: verso la quale incessante sospinge lagravità (perché così si manifesta quivi la volontà), men-tre la solidità, anch'essa oggettità della volontà, le si op-pone. Ma appunto codesta tendenza, codesta necessitàviene dall'architettura impedita nella sua immediata sod-disfazione; che sol mediatamente le vien concessa, pervie non dirette. Per esempio, l'architrave può premer laterra sol per mezzo delle colonne; la volta deve reggersida sé, e appagar la sua attrazione verso la massa terre-stre solo attraverso i pilastri, etc. Ma appunto in questeforzate vie indirette, appunto attraverso questi impedi-menti, si dispiegano nel modo più manifesto e variato leforze inerenti al nudo masso di pietra; e più lungi nonpuò andare il fine puramente estetico dell'architettura.Perciò senza dubbio la bellezza di un edifizio consistenell'adattamento, visibile a tutta prima, di ciascuna parteal suo fine: e non al fine esteriore, arbitrario dell'uomo

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(che sotto questo rispetto appartiene l'opera all'architet-tura pratica), bensì direttamente alla consistenzadell'insieme; nella quale la posizione, grandezza e formad'ogni parte ha con le altre una relazione tanto necessa-ria, che, qualora fosse possibile, sottraendone una solacrollerebbe l'edifizio intero. Imperocché solo col soste-ner ciascuna parte quanto le conviene di sopportare, econ l'esser ciascuna sorretta dove e come occorre, si svi-luppa fino alla più perfetta evidenza quel contrasto,quella lotta tra solidità e gravità, onde son costituite nel-la pietra la vita, le manifestazioni della volontà; e chia-ramente si palesano questi gradi infimi dell'oggettitàdella volontà. Non altrimenti deve la forma di ciascunaparte esser determinata dal proprio scopo e dalla propriarelazione con l'insieme, non già dall'arbitrio. La colonnaè la più semplice forma di sostegno, determinata soltan-to dal suo fine: quindi la colonna attorta è goffa. Il pila-stro quadrato è in realtà meno semplice, sebbene casual-mente più facile a farsi che non la tonda colonna. Simil-mente sono le forme della cornice, dell'architrave,dell'arco e della cupola determinate in tutto e per tuttodal loro scopo diretto, e si spiegano quindi da sé. Le de-corazioni dei capitelli etc., spettano alla scultura, e nonall'architettura; dalla quale essi, come ornati aggiunti,non sono che tollerati, e potrebbero anche venir trala-sciati. In ragione di quanto s'è detto, per la comprensio-ne e il godimento estetico di un'opera d'architettura èimprescindibilmente necessario aver conoscenza intuiti-va del suo materiale in quanto a peso, solidità e coesio-

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(che sotto questo rispetto appartiene l'opera all'architet-tura pratica), bensì direttamente alla consistenzadell'insieme; nella quale la posizione, grandezza e formad'ogni parte ha con le altre una relazione tanto necessa-ria, che, qualora fosse possibile, sottraendone una solacrollerebbe l'edifizio intero. Imperocché solo col soste-ner ciascuna parte quanto le conviene di sopportare, econ l'esser ciascuna sorretta dove e come occorre, si svi-luppa fino alla più perfetta evidenza quel contrasto,quella lotta tra solidità e gravità, onde son costituite nel-la pietra la vita, le manifestazioni della volontà; e chia-ramente si palesano questi gradi infimi dell'oggettitàdella volontà. Non altrimenti deve la forma di ciascunaparte esser determinata dal proprio scopo e dalla propriarelazione con l'insieme, non già dall'arbitrio. La colonnaè la più semplice forma di sostegno, determinata soltan-to dal suo fine: quindi la colonna attorta è goffa. Il pila-stro quadrato è in realtà meno semplice, sebbene casual-mente più facile a farsi che non la tonda colonna. Simil-mente sono le forme della cornice, dell'architrave,dell'arco e della cupola determinate in tutto e per tuttodal loro scopo diretto, e si spiegano quindi da sé. Le de-corazioni dei capitelli etc., spettano alla scultura, e nonall'architettura; dalla quale essi, come ornati aggiunti,non sono che tollerati, e potrebbero anche venir trala-sciati. In ragione di quanto s'è detto, per la comprensio-ne e il godimento estetico di un'opera d'architettura èimprescindibilmente necessario aver conoscenza intuiti-va del suo materiale in quanto a peso, solidità e coesio-

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ne. E la gioia, che proviamo d'una tale opera, verrebbesubitamente molto ridotta dallo scoprir che il materialedi costruzione fosse di pietra pomice: che allora essa ciapparirebbe quasi come un edifizio posticcio. Press'apoco il medesimo effetto produrrebbe saperla fatta di le-gno, mentre noi la credevamo di pietra: appunto perchéciò muterebbe e sposterebbe il significato, la necessitàdi tutte le parti, molto più debolmente rivelandosi quelleforze di natura nell'edilizio ligneo. Perciò non può vera-mente farsi col legno opera alcuna di bella architettura,per quanto possa il legno piegarsi a tutte le forme: laqual cosa è spiegabile soltanto con la nostra teoria. Sepoi infine ci si dicesse, che l'edifizio, la cui vista ci ral-legra, è formato di materiali tra loro affatto diversi, dimolto dissimile gravità e consistenza, ma che l'occhionon sa distinguere, l'intero edifizio ci apparirebbe perciòinsipido e incomprensibile, come una poesia in una lin-gua a noi ignota. Tutto ciò prova appunto, che l'architet-tura non agisce solo matematicamente, ma anche dina-micamente; e quel che per suo mezzo ci parla, non è peravventura semplice forma e simmetria, bensì sono piut-tosto quelle elementari forze della natura, quelle primeidee, quegl'infimi gradi dell'oggettità della volontà. Laregolarità dell'edifizio e delle sue parti è per un versogenerata dal diretto adattamento di ciascuna parte allaconsistenza dell'insieme; per l'altro serve ad agevolare lavisione generale e la comprensione del tutto; e infine lefigure regolari, mostrando la regolarità dello spaziocome tale, contribuiscono alla bellezza. Ma tutto ciò ha

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ne. E la gioia, che proviamo d'una tale opera, verrebbesubitamente molto ridotta dallo scoprir che il materialedi costruzione fosse di pietra pomice: che allora essa ciapparirebbe quasi come un edifizio posticcio. Press'apoco il medesimo effetto produrrebbe saperla fatta di le-gno, mentre noi la credevamo di pietra: appunto perchéciò muterebbe e sposterebbe il significato, la necessitàdi tutte le parti, molto più debolmente rivelandosi quelleforze di natura nell'edilizio ligneo. Perciò non può vera-mente farsi col legno opera alcuna di bella architettura,per quanto possa il legno piegarsi a tutte le forme: laqual cosa è spiegabile soltanto con la nostra teoria. Sepoi infine ci si dicesse, che l'edifizio, la cui vista ci ral-legra, è formato di materiali tra loro affatto diversi, dimolto dissimile gravità e consistenza, ma che l'occhionon sa distinguere, l'intero edifizio ci apparirebbe perciòinsipido e incomprensibile, come una poesia in una lin-gua a noi ignota. Tutto ciò prova appunto, che l'architet-tura non agisce solo matematicamente, ma anche dina-micamente; e quel che per suo mezzo ci parla, non è peravventura semplice forma e simmetria, bensì sono piut-tosto quelle elementari forze della natura, quelle primeidee, quegl'infimi gradi dell'oggettità della volontà. Laregolarità dell'edifizio e delle sue parti è per un versogenerata dal diretto adattamento di ciascuna parte allaconsistenza dell'insieme; per l'altro serve ad agevolare lavisione generale e la comprensione del tutto; e infine lefigure regolari, mostrando la regolarità dello spaziocome tale, contribuiscono alla bellezza. Ma tutto ciò ha

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valore e necessità subordinati, ed è lungi dal costituirl'essenziale: che la simmetria stessa non è punto richie-sta assolutamente, potendo esser belle anche le rovine.

Una specialissima relazione hanno poi ancora le ope-re dell'architettura con la luce: in pieno splendore disole, col cielo azzurro nello sfondo, sono due volte piùbelle; e tutt'altro effetto producono inoltre nello splen-dore lunare. Perciò anche nella costruzione di unabell'opera architettonica si ha sempre particolare riguar-do agli effetti di luce e alle regioni del cielo. Tutto que-sto ha il suo motivo per massima parte nel fatto, chechiara e netta luce occorre a render ben visibili tutte leparti e le correlazioni loro; inoltre sono d'avviso, chel'architettura sia rivolta a palesare, così come palesa gra-vità e solidità, anche quest'opposta essenza della luce.Infatti, col venir la luce accolta, impedita, riflessa dallegrandi masse non trasparenti, nettamente delineate e va-riamente conformate, dispiega la sua natura e le sue pro-prietà nel modo più limpido ed evidente, con grandegioia dello spettatore: perché di tutte le cose la luce èquella che più rallegra, come condizione e correlato og-gettivo del più perfetto modo di conoscenza intuitiva.

Ora, essendo le idee, che l'architettura trae alla chiaraintuizione, i gradi infimi nell'oggettità della volontà, evenendo per conseguenza a esser relativamente scarsa lasignificanza oggettiva di ciò che l'architettura ci svela;ne deriva, che il godimento estetico provato alla vistad'un bell'edifizio in buona luce, non sta tanto nella per-cezione dell'idea, quanto nel correlato soggettivo stabili-

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valore e necessità subordinati, ed è lungi dal costituirl'essenziale: che la simmetria stessa non è punto richie-sta assolutamente, potendo esser belle anche le rovine.

Una specialissima relazione hanno poi ancora le ope-re dell'architettura con la luce: in pieno splendore disole, col cielo azzurro nello sfondo, sono due volte piùbelle; e tutt'altro effetto producono inoltre nello splen-dore lunare. Perciò anche nella costruzione di unabell'opera architettonica si ha sempre particolare riguar-do agli effetti di luce e alle regioni del cielo. Tutto que-sto ha il suo motivo per massima parte nel fatto, chechiara e netta luce occorre a render ben visibili tutte leparti e le correlazioni loro; inoltre sono d'avviso, chel'architettura sia rivolta a palesare, così come palesa gra-vità e solidità, anche quest'opposta essenza della luce.Infatti, col venir la luce accolta, impedita, riflessa dallegrandi masse non trasparenti, nettamente delineate e va-riamente conformate, dispiega la sua natura e le sue pro-prietà nel modo più limpido ed evidente, con grandegioia dello spettatore: perché di tutte le cose la luce èquella che più rallegra, come condizione e correlato og-gettivo del più perfetto modo di conoscenza intuitiva.

Ora, essendo le idee, che l'architettura trae alla chiaraintuizione, i gradi infimi nell'oggettità della volontà, evenendo per conseguenza a esser relativamente scarsa lasignificanza oggettiva di ciò che l'architettura ci svela;ne deriva, che il godimento estetico provato alla vistad'un bell'edifizio in buona luce, non sta tanto nella per-cezione dell'idea, quanto nel correlato soggettivo stabili-

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to con codesta percezione. Ossia consiste prevalente-mente nel fatto, che in tal vista il contemplatore si sentestrappato al modo di conoscere dell'individuo, e innalza-to a quello del puro, scevro di volontà soggetto del co-noscere; ossia alla pura, da ogni pena del volere edell'individualità disciolta contemplazione. Sotto questorispetto il contrario dell'architettura, l'estremo oppostonella serie delle arti belle, è il dramma: il quale portaalla conoscenza le idee di più alta importanza, sì che nelgodimento estetico di esso il lato oggettivo è del tuttoprevalente.

L'architettura ha di fronte alle arti plastiche e allapoesia questo carattere distintivo: non dà, come quelle,un'immagine della cosa, bensì la cosa stessa; non ripro-duce, come quelle, l'idea conosciuta, cedendo l'artista iproprii occhi allo spettatore, ma invece l'artista presentasemplicemente allo spettatore l'oggetto, e gli allevia lapercezione dell'idea, portando il vero oggetto individua-le alla chiara e completa espressione della sua essenza.

Molto raramente vengono le opere d'architettura –come le rimanenti opere dell'arte bella – eseguite perpuri fini estetici: più spesso vengono subordinate ad altrifini pratici, all'arte stranieri; ed il gran merito dell'archi-tetto consiste nel tener tuttavia di mira, e raggiungere, ifini puramente estetici anche in quella lor subordinazio-ne a fini estranei, adattandoli di volta in volta, in variomodo, con abilità, allo scopo pratico, e rettamente giudi-cando qual bellezza estetico-architettonica s'adatti e sipossa accordare con un tempio, quale con un palazzo,

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to con codesta percezione. Ossia consiste prevalente-mente nel fatto, che in tal vista il contemplatore si sentestrappato al modo di conoscere dell'individuo, e innalza-to a quello del puro, scevro di volontà soggetto del co-noscere; ossia alla pura, da ogni pena del volere edell'individualità disciolta contemplazione. Sotto questorispetto il contrario dell'architettura, l'estremo oppostonella serie delle arti belle, è il dramma: il quale portaalla conoscenza le idee di più alta importanza, sì che nelgodimento estetico di esso il lato oggettivo è del tuttoprevalente.

L'architettura ha di fronte alle arti plastiche e allapoesia questo carattere distintivo: non dà, come quelle,un'immagine della cosa, bensì la cosa stessa; non ripro-duce, come quelle, l'idea conosciuta, cedendo l'artista iproprii occhi allo spettatore, ma invece l'artista presentasemplicemente allo spettatore l'oggetto, e gli allevia lapercezione dell'idea, portando il vero oggetto individua-le alla chiara e completa espressione della sua essenza.

Molto raramente vengono le opere d'architettura –come le rimanenti opere dell'arte bella – eseguite perpuri fini estetici: più spesso vengono subordinate ad altrifini pratici, all'arte stranieri; ed il gran merito dell'archi-tetto consiste nel tener tuttavia di mira, e raggiungere, ifini puramente estetici anche in quella lor subordinazio-ne a fini estranei, adattandoli di volta in volta, in variomodo, con abilità, allo scopo pratico, e rettamente giudi-cando qual bellezza estetico-architettonica s'adatti e sipossa accordare con un tempio, quale con un palazzo,

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quale con un arsenale, e così via. Quanto più un rudeclima accresce quelle esigenze del necessario e dell'uti-le, e più rigidamente le determina e inesorabilmente pre-scrive, tanto meno spazio rimane al bello nell'architettu-ra. Nel mite clima dell'India, d'Egitto, di Grecia e diRoma, dove le esigenze della necessità erano imposte inminor numero e con meno rigore, potè l'architettura piùliberamente tener dietro ai suoi fini estetici; sotto il nor-dico cielo questi le vennero molto limitati. Qui, dovenecessità voleva chiusure, tetti acuminati e torri, dovel'architettura – potendo spiegar la propria bellezza soloin ristretti confini – ornarsi in compenso con decorazio-ne tolta a prestito dalla scultura, come si può veder nellabella architettura gotica.

Se deve in tal modo l'architettura, per le esigenze delnecessario e dell'utile, subir grandi limitazioni, ha ap-punto in ciò d'altra parte un poderoso appoggio; non po-tendosi ella punto reggere, per l'ampiezza ed il costodelle sue opere, come per la circoscritta sfera della suaspeciale azione estetica, se in pari tempo non avesse,come arte utile e necessaria, un posto fermo e onorevoletra le umane occupazioni. È appunto la mancanza d'untal posto, che impedisce a un'altra arte di starle accantoda sorella, sebbene sotto il rispetto estetico sia propria-mente da porlesi vicino come a riscontro: intendo l'artebella dell'idraulica. Imperocché ciò che opera l'architet-tura per l'idea della gravità, dove questa appare congiun-ta con la solidità, opera quella per l'idea medesima, dovea lei è associata la fluidità, ossia assenza di forma, estre-

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quale con un arsenale, e così via. Quanto più un rudeclima accresce quelle esigenze del necessario e dell'uti-le, e più rigidamente le determina e inesorabilmente pre-scrive, tanto meno spazio rimane al bello nell'architettu-ra. Nel mite clima dell'India, d'Egitto, di Grecia e diRoma, dove le esigenze della necessità erano imposte inminor numero e con meno rigore, potè l'architettura piùliberamente tener dietro ai suoi fini estetici; sotto il nor-dico cielo questi le vennero molto limitati. Qui, dovenecessità voleva chiusure, tetti acuminati e torri, dovel'architettura – potendo spiegar la propria bellezza soloin ristretti confini – ornarsi in compenso con decorazio-ne tolta a prestito dalla scultura, come si può veder nellabella architettura gotica.

Se deve in tal modo l'architettura, per le esigenze delnecessario e dell'utile, subir grandi limitazioni, ha ap-punto in ciò d'altra parte un poderoso appoggio; non po-tendosi ella punto reggere, per l'ampiezza ed il costodelle sue opere, come per la circoscritta sfera della suaspeciale azione estetica, se in pari tempo non avesse,come arte utile e necessaria, un posto fermo e onorevoletra le umane occupazioni. È appunto la mancanza d'untal posto, che impedisce a un'altra arte di starle accantoda sorella, sebbene sotto il rispetto estetico sia propria-mente da porlesi vicino come a riscontro: intendo l'artebella dell'idraulica. Imperocché ciò che opera l'architet-tura per l'idea della gravità, dove questa appare congiun-ta con la solidità, opera quella per l'idea medesima, dovea lei è associata la fluidità, ossia assenza di forma, estre-

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ma mobilità, trasparenza. Su per le rocce spumeggiandoe mugghiando precipiti cascate, cataratte frangentisimute in polvere d'acqua, fontane sprizzanti in alte liqui-de colonne, chiarospecchianti laghi svelano le idee dellagravità fluida nella materia, come le opere architettoni-che dispiegano le idee della materia solida. Nessun ap-poggio trova l'idraulica artistica nell'idraulica pratica;non potendosi gli scopi di quest'ultima accordare di re-gola co' suoi. Questo può accader soltanto per eccezio-ne, ad esempio nella Cascata di Trevi in Roma64.

§ 44.Quel che le due arti ricordate fanno per i gradi minimi

dell'oggettità della volontà, fa in certo modo l'arte belladei giardini per il grado, più elevato, della natura vege-tale. La bellezza d'un limitato paesaggio consiste in granparte nella varietà degli oggetti naturali che vi si trova-no; e poi nel fatto che questi vi si distinguano nettamen-te, vi risaltino con evidenza, e tuttavia si presentino inconvenevole armonia e varietà. Sono queste le condizio-ni, a cui l'arte bella dei giardini contribuisce: nondimenoella è lungi dall'esser padrona della sua materia, comel'architettura è della propria; e quindi la sua azione rima-ne limitata. Il bello, che essa presenta, appartiene quasiper intero alla natura; essa v'ha poco contribuito. E po-chissimo può d'altra parte contro il disfavore della natu-ra: dove questa invece di preparare contrasta, i suoi ri-64 Si veda il cap. 35 del secondo volume [pp. 425-33 del tomo II dell'ed.

cit.].

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ma mobilità, trasparenza. Su per le rocce spumeggiandoe mugghiando precipiti cascate, cataratte frangentisimute in polvere d'acqua, fontane sprizzanti in alte liqui-de colonne, chiarospecchianti laghi svelano le idee dellagravità fluida nella materia, come le opere architettoni-che dispiegano le idee della materia solida. Nessun ap-poggio trova l'idraulica artistica nell'idraulica pratica;non potendosi gli scopi di quest'ultima accordare di re-gola co' suoi. Questo può accader soltanto per eccezio-ne, ad esempio nella Cascata di Trevi in Roma64.

§ 44.Quel che le due arti ricordate fanno per i gradi minimi

dell'oggettità della volontà, fa in certo modo l'arte belladei giardini per il grado, più elevato, della natura vege-tale. La bellezza d'un limitato paesaggio consiste in granparte nella varietà degli oggetti naturali che vi si trova-no; e poi nel fatto che questi vi si distinguano nettamen-te, vi risaltino con evidenza, e tuttavia si presentino inconvenevole armonia e varietà. Sono queste le condizio-ni, a cui l'arte bella dei giardini contribuisce: nondimenoella è lungi dall'esser padrona della sua materia, comel'architettura è della propria; e quindi la sua azione rima-ne limitata. Il bello, che essa presenta, appartiene quasiper intero alla natura; essa v'ha poco contribuito. E po-chissimo può d'altra parte contro il disfavore della natu-ra: dove questa invece di preparare contrasta, i suoi ri-64 Si veda il cap. 35 del secondo volume [pp. 425-33 del tomo II dell'ed.

cit.].

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sultati sono scarsi.Adunque, in quanto il mondo vegetale – che senza

aver l'arte per intermediaria si offre da per tutto al godi-mento estetico – è oggetto dell'arte, appartiene princi-palmente alla pittura di paese. Nel dominio di questa sitrova, col mondo vegetale, anche tutta l'altra natura pri-va di conoscenza. Nella natura morta, e nella riprodu-zione di opere architettoniche, rovine, interni di chiese,etc., prevale il lato soggettivo del godimento estetico:ossia il piacere che ne abbiamo non sta principalmente edirettamente nella percezione delle idee rappresentate,bensì di più nel correlato soggettivo di questa percezio-ne, nel puro conoscere scevro di volere. Perché, mentreil pittore ci fa veder le cose co' suoi occhi, sentiamo inpari tempo dentro di noi medesimi quasi riflettersi laprofonda serenità di spirito e il perfetto silenzio dellavolontà, che sono stati necessari per concentrar sì appie-no la conoscenza in quegli oggetti inanimati, e con tantoamore – ossia a tal grado di obiettività – riprodurli.L'effetto della vera e propria pittura di paesaggio è anco-ra, a dire il vero, dello stesso genere; ma poi che le ideerappresentate, come gradi più alti nell'oggettità della vo-lontà, sono già più significanti ed espressive, vien fuoriin maggior misura il lato obiettivo del piacere estetico, esta a pari col soggettivo. Il puro conoscere, come tale,non è più quel che solo conta; ma con eguale potenzaagisce l'idea conosciuta, il mondo come rappresentazio-ne, in un notevole grado di oggettivazione della volontà.

Ma un grado ben più alto rivela la pittura e scultura

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sultati sono scarsi.Adunque, in quanto il mondo vegetale – che senza

aver l'arte per intermediaria si offre da per tutto al godi-mento estetico – è oggetto dell'arte, appartiene princi-palmente alla pittura di paese. Nel dominio di questa sitrova, col mondo vegetale, anche tutta l'altra natura pri-va di conoscenza. Nella natura morta, e nella riprodu-zione di opere architettoniche, rovine, interni di chiese,etc., prevale il lato soggettivo del godimento estetico:ossia il piacere che ne abbiamo non sta principalmente edirettamente nella percezione delle idee rappresentate,bensì di più nel correlato soggettivo di questa percezio-ne, nel puro conoscere scevro di volere. Perché, mentreil pittore ci fa veder le cose co' suoi occhi, sentiamo inpari tempo dentro di noi medesimi quasi riflettersi laprofonda serenità di spirito e il perfetto silenzio dellavolontà, che sono stati necessari per concentrar sì appie-no la conoscenza in quegli oggetti inanimati, e con tantoamore – ossia a tal grado di obiettività – riprodurli.L'effetto della vera e propria pittura di paesaggio è anco-ra, a dire il vero, dello stesso genere; ma poi che le ideerappresentate, come gradi più alti nell'oggettità della vo-lontà, sono già più significanti ed espressive, vien fuoriin maggior misura il lato obiettivo del piacere estetico, esta a pari col soggettivo. Il puro conoscere, come tale,non è più quel che solo conta; ma con eguale potenzaagisce l'idea conosciuta, il mondo come rappresentazio-ne, in un notevole grado di oggettivazione della volontà.

Ma un grado ben più alto rivela la pittura e scultura

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d'animali; della quale ultima abbiamo importanti avanziantichi, per esempio cavalli, a Venezia, a Monte Caval-lo, sui rilievi di Elgin, ed anche a Firenze, in bronzo omarmo (quivi pur l'antico cignale, gli urlanti lupi); e ileoni dell'arsenale di Venezia, e in Vaticano tutta unasala piena d'animali in massima parte antichi, e così via.Ora, davanti a codeste rappresentazioni il lato oggettivodel piacere estetico prende un aperto sopravvento sulsoggettivo. La serenità del soggetto, che tali idee cono-scendo ha placato la propria volontà, vi si ritrova, èvero, come in ogni contemplazione estetica, ma la suaazione non viene sentita: imperocché ci occupa la in-quietudine e la violenza della rappresentata volontà. Èquello stesso volere, ond'è pur costituita la nostra essen-za, che ci sta davanti agli occhi: in figure, nelle quali lasua manifestazione non è come in noi dominata e miti-gata dalla riflessione, ma si presenta bensì in forti tratti,con un'evidenza da rasentare il grottesco e il mostruoso;e in compenso ostentantesi liberamente in piena luce,ingenua e aperta – ragione per cui, appunto, il nostro in-teresse va agli animali. La nota caratteristica delle spe-cie già veniva fuori nella rappresentazione delle piante,mostrandosi tuttavia solamente nelle forme: qui acquistamolto maggior rilievo, e si esprime non solo nella for-ma, bensì nell'azione, posizione e movenza; sebbene siaancor sempre carattere della specie, e non dell'indivi-duo. Questa conoscenza delle idee di gradi più alti, chenoi acquistiamo nella pittura mediante un intermediario,possiamo raggiungere anche in maniera diretta, con la

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d'animali; della quale ultima abbiamo importanti avanziantichi, per esempio cavalli, a Venezia, a Monte Caval-lo, sui rilievi di Elgin, ed anche a Firenze, in bronzo omarmo (quivi pur l'antico cignale, gli urlanti lupi); e ileoni dell'arsenale di Venezia, e in Vaticano tutta unasala piena d'animali in massima parte antichi, e così via.Ora, davanti a codeste rappresentazioni il lato oggettivodel piacere estetico prende un aperto sopravvento sulsoggettivo. La serenità del soggetto, che tali idee cono-scendo ha placato la propria volontà, vi si ritrova, èvero, come in ogni contemplazione estetica, ma la suaazione non viene sentita: imperocché ci occupa la in-quietudine e la violenza della rappresentata volontà. Èquello stesso volere, ond'è pur costituita la nostra essen-za, che ci sta davanti agli occhi: in figure, nelle quali lasua manifestazione non è come in noi dominata e miti-gata dalla riflessione, ma si presenta bensì in forti tratti,con un'evidenza da rasentare il grottesco e il mostruoso;e in compenso ostentantesi liberamente in piena luce,ingenua e aperta – ragione per cui, appunto, il nostro in-teresse va agli animali. La nota caratteristica delle spe-cie già veniva fuori nella rappresentazione delle piante,mostrandosi tuttavia solamente nelle forme: qui acquistamolto maggior rilievo, e si esprime non solo nella for-ma, bensì nell'azione, posizione e movenza; sebbene siaancor sempre carattere della specie, e non dell'indivi-duo. Questa conoscenza delle idee di gradi più alti, chenoi acquistiamo nella pittura mediante un intermediario,possiamo raggiungere anche in maniera diretta, con la

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intuizione puramente contemplativa delle piante el'osservazione degli animali; questi nel loro stato libero,naturale, a loro agio. La considerazione obiettiva dellelor svariate, mirabili forme e della loro attività èun'istruttiva lezione del gran libro della natura, una deci-frazione della vera signatura rerum65: in lei vediamo imolteplici gradi e modi della manifestazione della vo-lontà, la quale, in tutti gli esseri una e identica, ovunquela stessa cosa vuole – vuole appunto ciò, che come vita,come esistenza viene ad oggettivarsi, in sì infinita varie-tà, in sì infinite forme; le quali tutte sono accomoda-menti alle diverse condizioni esteriori, paragonabili amolte variazioni d'uno stesso tema. Ma se dovessimo alcontemplatore fornire, anche per la riflessione, e conuna sola parola, un chiarimento sull'intima essenza dicodesti esseri, potremmo meglio d'ogni altra usare quel-la formula sanscrita, la quale tanto spesso ricorre nei li-bri sacri degli Indù e vien detta Mahavakya, ossia lagrande parola: «Tat tvam asi», che significa: «questo vi-vente sei tu».

§ 45.Rappresentare intuitivamente, in maniera diretta,

65 Jacob Böhm, nel suo libro de signatura rerum, cap. I, §§ 15, 16, 17, dice:«E nessuna cosa è nella natura, che non palesi anche' esteriormente la suaforma interna: imperocché l'interno sempre lavora per rivelarsi... Ognicosa ha la bocca per la propria rivelazione... E questa è la lingua naturale,nella quale ogni cosa per sua proprietà parla, e se stessa ognora rivela emanifesta.... Imperocché ciascuna cosa rivela sua madre, che da cosìl'essenza e la volontà per la conformazione».

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intuizione puramente contemplativa delle piante el'osservazione degli animali; questi nel loro stato libero,naturale, a loro agio. La considerazione obiettiva dellelor svariate, mirabili forme e della loro attività èun'istruttiva lezione del gran libro della natura, una deci-frazione della vera signatura rerum65: in lei vediamo imolteplici gradi e modi della manifestazione della vo-lontà, la quale, in tutti gli esseri una e identica, ovunquela stessa cosa vuole – vuole appunto ciò, che come vita,come esistenza viene ad oggettivarsi, in sì infinita varie-tà, in sì infinite forme; le quali tutte sono accomoda-menti alle diverse condizioni esteriori, paragonabili amolte variazioni d'uno stesso tema. Ma se dovessimo alcontemplatore fornire, anche per la riflessione, e conuna sola parola, un chiarimento sull'intima essenza dicodesti esseri, potremmo meglio d'ogni altra usare quel-la formula sanscrita, la quale tanto spesso ricorre nei li-bri sacri degli Indù e vien detta Mahavakya, ossia lagrande parola: «Tat tvam asi», che significa: «questo vi-vente sei tu».

§ 45.Rappresentare intuitivamente, in maniera diretta,

65 Jacob Böhm, nel suo libro de signatura rerum, cap. I, §§ 15, 16, 17, dice:«E nessuna cosa è nella natura, che non palesi anche' esteriormente la suaforma interna: imperocché l'interno sempre lavora per rivelarsi... Ognicosa ha la bocca per la propria rivelazione... E questa è la lingua naturale,nella quale ogni cosa per sua proprietà parla, e se stessa ognora rivela emanifesta.... Imperocché ciascuna cosa rivela sua madre, che da cosìl'essenza e la volontà per la conformazione».

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l'idea nella quale la volontà raggiunge il massimo gradodella sua oggettivazione, è finalmente il gran compitodella pittura storica e della scultura. Il lato obiettivo delpiacere prodotto dal bello è qui affatto prevalente, e illato soggettivo è rientrato nella penombra. Inoltre è daosservare, che ancor nel grado immediatamente piùprossimo sotto di questo, nella pittura animale, il carat-teristico è tutt'uno col bello: il più caratteristico leone,lupo, cavallo, pecoro, toro v'è anche ognora il più bello.La ragione di questo è che gli animali hanno solo il ca-rattere della specie, e nessun carattere individuale. Manella rappresentazione dell'uomo si distingue invece ilcarattere della specie dal carattere dell'individuo: quellosi chiama bellezza (in senso del tutto oggettivo), mentrequesto mantiene il nome di carattere o espressione; e su-bentra la nuova difficoltà, di rappresentarli entrambi inpari tempo nello stesso individuo.

Umana bellezza è un'espressione oggettiva, la qualeindica la più perfetta oggettivazione della volontà nelgrado più alto della sua conoscenza possibile, l'ideadell'uomo in genere, pienamente espressa nella formaintuita. Ma per quanto prevalga qui il lato oggettivo delbello, rimane tuttavia suo perenne compagno il soggetti-vo. E appunto perché nessun oggetto ci rapisce così pre-sto nell'intuizione puramente estetica, come fa il bellis-simo aspetto e la forma dell'uomo, alla cui vista subita-mente un piacere inesprimibile ci coglie, e sopra noistessi e ogni nostro tormento ci eleva; appunto per que-sto ciò è possibile solo in quanto cotale evidentissima e

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l'idea nella quale la volontà raggiunge il massimo gradodella sua oggettivazione, è finalmente il gran compitodella pittura storica e della scultura. Il lato obiettivo delpiacere prodotto dal bello è qui affatto prevalente, e illato soggettivo è rientrato nella penombra. Inoltre è daosservare, che ancor nel grado immediatamente piùprossimo sotto di questo, nella pittura animale, il carat-teristico è tutt'uno col bello: il più caratteristico leone,lupo, cavallo, pecoro, toro v'è anche ognora il più bello.La ragione di questo è che gli animali hanno solo il ca-rattere della specie, e nessun carattere individuale. Manella rappresentazione dell'uomo si distingue invece ilcarattere della specie dal carattere dell'individuo: quellosi chiama bellezza (in senso del tutto oggettivo), mentrequesto mantiene il nome di carattere o espressione; e su-bentra la nuova difficoltà, di rappresentarli entrambi inpari tempo nello stesso individuo.

Umana bellezza è un'espressione oggettiva, la qualeindica la più perfetta oggettivazione della volontà nelgrado più alto della sua conoscenza possibile, l'ideadell'uomo in genere, pienamente espressa nella formaintuita. Ma per quanto prevalga qui il lato oggettivo delbello, rimane tuttavia suo perenne compagno il soggetti-vo. E appunto perché nessun oggetto ci rapisce così pre-sto nell'intuizione puramente estetica, come fa il bellis-simo aspetto e la forma dell'uomo, alla cui vista subita-mente un piacere inesprimibile ci coglie, e sopra noistessi e ogni nostro tormento ci eleva; appunto per que-sto ciò è possibile solo in quanto cotale evidentissima e

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purissima conoscibilità della volontà anche ci trasportinel modo più lieve e rapido in quello stato del puro co-noscere, in cui la nostra personalità, il nostro volere, conla sua assidua pena, svanisce, fin quando persiste la puragioia estetica: perciò dice Goethe: «Chi scorge l'umanabellezza, niente di male può spirargli contro: egli si sen-te con se stesso e col mondo in accordo». Che alla natu-ra possa riuscir una bella figura d'uomo, si spiega colfatto che la volontà, oggettivandosi a tale altissimo gra-do in un individuo, vince appieno sia per favorevoli cir-costanze sia per forza propria tutti gli ostacoli e la resi-stenza opposti a lei dalle manifestazioni della volontànei gradi inferiori: di codesta sorte son le forze naturali,a cui ella deve ognora cominciar col conquistare e strap-pare la materia, a tutte comune. Inoltre il fenomeno del-la volontà nei gradi superiori ha sempre varietà di for-ma: già l'albero non è che un sistematico aggregato digerminanti fibre moltiplicate indefinitamente: questacomplessità s'accresce man mano che si salga nei gradi,e il corpo umano è un complicatissimo sistema di partiaffatto diverse, ciascuna delle quali, al complesso subor-dinata, ha tuttavia anche una vita propria. E l'esser tuttecodeste parti appunto nel giusto modo subordinateall'insieme, e il contribuire armonicamente all'aspettogenerale, nulla trovandovisi di eccessivo, nulla di man-chevole; tali son le rare condizioni, di cui è risultato labellezza, il carattere della specie perfettamente impron-tato. Così fa la natura. Ma come fa l'arte? Si crede, conl'imitar la natura. Ma a che cosa riconoscerebbe un arti-

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purissima conoscibilità della volontà anche ci trasportinel modo più lieve e rapido in quello stato del puro co-noscere, in cui la nostra personalità, il nostro volere, conla sua assidua pena, svanisce, fin quando persiste la puragioia estetica: perciò dice Goethe: «Chi scorge l'umanabellezza, niente di male può spirargli contro: egli si sen-te con se stesso e col mondo in accordo». Che alla natu-ra possa riuscir una bella figura d'uomo, si spiega colfatto che la volontà, oggettivandosi a tale altissimo gra-do in un individuo, vince appieno sia per favorevoli cir-costanze sia per forza propria tutti gli ostacoli e la resi-stenza opposti a lei dalle manifestazioni della volontànei gradi inferiori: di codesta sorte son le forze naturali,a cui ella deve ognora cominciar col conquistare e strap-pare la materia, a tutte comune. Inoltre il fenomeno del-la volontà nei gradi superiori ha sempre varietà di for-ma: già l'albero non è che un sistematico aggregato digerminanti fibre moltiplicate indefinitamente: questacomplessità s'accresce man mano che si salga nei gradi,e il corpo umano è un complicatissimo sistema di partiaffatto diverse, ciascuna delle quali, al complesso subor-dinata, ha tuttavia anche una vita propria. E l'esser tuttecodeste parti appunto nel giusto modo subordinateall'insieme, e il contribuire armonicamente all'aspettogenerale, nulla trovandovisi di eccessivo, nulla di man-chevole; tali son le rare condizioni, di cui è risultato labellezza, il carattere della specie perfettamente impron-tato. Così fa la natura. Ma come fa l'arte? Si crede, conl'imitar la natura. Ma a che cosa riconoscerebbe un arti-

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sta l'opera di natura ben riuscita e da imitare, sceglien-dola tra le non riuscite, se egli non avesse del bello unanozione anteriore all'esperienza? E poi, ha mai la naturaprodotto un essere umano perfettamente bello in ogniparte? Allora s'è pensato che l'artista dovesse sceglierele parti belle singolarmente distribuite in molte creature,per comporne un solo essere perfetto: opinione assurdae insensata. Imperocché ci si torna a chiedere: a qual se-gno deve conoscere, che proprio queste forme sono lebelle, e non le altre? E possiamo vedere che sorta di bel-lezza hanno trovata gli antichi pittori tedeschi, con l'imi-tar la natura! Basta guardare i loro nudi. No: a posterio-ri, e per semplice esperienza, non si può aver cognizio-ne del bello: questa è sempre, almeno in parte, a priori,sebbene di tutt'altra specie che i modi a noi noti a prioridel principio di ragione. Questi si riferiscono alla gene-ral forma del fenomeno come tale, in quanto essa è basealla conoscenza in genere, al come – universale e senzaeccezione – del fenomeno (da tal conoscenza nasconomatematica e scienza naturale pura). Invece quell'altramaniera di conoscenza a priori, che rende possibile larappresentazione del bello, non concerne la forma, bensìil contenuto dei fenomeni: non il «come» del loro mani-festarsi, bensì il «che cosa». Noi tutti conosciamo, ve-dendola, la beltà umana; ma nell'artista una tal cono-scenza avviene con tal chiarezza, ch'egli mostra quellabeltà, come non l'ha veduta mai, e sorpassa nella suarappresentazione la natura: questo è possibile sol perchéla volontà, la cui adeguata oggettivazione nel suo massi-

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sta l'opera di natura ben riuscita e da imitare, sceglien-dola tra le non riuscite, se egli non avesse del bello unanozione anteriore all'esperienza? E poi, ha mai la naturaprodotto un essere umano perfettamente bello in ogniparte? Allora s'è pensato che l'artista dovesse sceglierele parti belle singolarmente distribuite in molte creature,per comporne un solo essere perfetto: opinione assurdae insensata. Imperocché ci si torna a chiedere: a qual se-gno deve conoscere, che proprio queste forme sono lebelle, e non le altre? E possiamo vedere che sorta di bel-lezza hanno trovata gli antichi pittori tedeschi, con l'imi-tar la natura! Basta guardare i loro nudi. No: a posterio-ri, e per semplice esperienza, non si può aver cognizio-ne del bello: questa è sempre, almeno in parte, a priori,sebbene di tutt'altra specie che i modi a noi noti a prioridel principio di ragione. Questi si riferiscono alla gene-ral forma del fenomeno come tale, in quanto essa è basealla conoscenza in genere, al come – universale e senzaeccezione – del fenomeno (da tal conoscenza nasconomatematica e scienza naturale pura). Invece quell'altramaniera di conoscenza a priori, che rende possibile larappresentazione del bello, non concerne la forma, bensìil contenuto dei fenomeni: non il «come» del loro mani-festarsi, bensì il «che cosa». Noi tutti conosciamo, ve-dendola, la beltà umana; ma nell'artista una tal cono-scenza avviene con tal chiarezza, ch'egli mostra quellabeltà, come non l'ha veduta mai, e sorpassa nella suarappresentazione la natura: questo è possibile sol perchéla volontà, la cui adeguata oggettivazione nel suo massi-

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mo grado va qui giudicata e scoperta, è noi stessi. Solocosì possiamo avere in effetti una cognizione anticipatadi ciò che la natura (la quale è appunto la volontà checostituisce il nostro proprio essere) si sforza di rappre-sentare; e codesta cognizione anticipata nel vero genios'accompagna con tal grado di riflessione, che esso,mentre nel singolo oggetto conosce l'idea rispettiva,quasi viene a comprender la natura attraverso mezze pa-role; e così può esprimer nettamente ciò ch'ella appenabalbetta; tanto da imprimer nel duro marmo la bellezzadella forma che a lei in mille tentativi fallisce, e quellabellezza contrappone alla natura, quasi esclamando:«Questo era, ciò che tu volevi esprimere!» – e, «Sì, que-sto era!» fa eco l'intenditore. Solo così potè il greco ge-niale scoprire il prototipo della forma umana, e porlocome canone nella scuola della scultura; ed anche soloin grazia di tale anticipazione è a noi tutti possibile diconoscere il bello, là dove esso è alla natura in un singo-lo esemplare effettivamente riuscito. Codesta anticipa-zione è l'ideale: è l'idea, in quanto essa, almeno a metà,è conosciuta a priori, e, come tale, venendo a completarquanto ci è offerto dalla natura a posteriori, diventa pra-tica per l'arte. La possibilità di simile anticipazione delbello a priori nello scultore, come del suo riconosci-mento a posteriori nell'intenditore, sta in questo, che ar-tista e conoscitore sono essi medesimi l'in-sé della natu-ra, l'oggettivantesi volontà. Soltanto dal simile, comedisse Empedocle, si conosce il simile: soltanto naturapuò comprendere se stessa; soltanto natura da fondo a se

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mo grado va qui giudicata e scoperta, è noi stessi. Solocosì possiamo avere in effetti una cognizione anticipatadi ciò che la natura (la quale è appunto la volontà checostituisce il nostro proprio essere) si sforza di rappre-sentare; e codesta cognizione anticipata nel vero genios'accompagna con tal grado di riflessione, che esso,mentre nel singolo oggetto conosce l'idea rispettiva,quasi viene a comprender la natura attraverso mezze pa-role; e così può esprimer nettamente ciò ch'ella appenabalbetta; tanto da imprimer nel duro marmo la bellezzadella forma che a lei in mille tentativi fallisce, e quellabellezza contrappone alla natura, quasi esclamando:«Questo era, ciò che tu volevi esprimere!» – e, «Sì, que-sto era!» fa eco l'intenditore. Solo così potè il greco ge-niale scoprire il prototipo della forma umana, e porlocome canone nella scuola della scultura; ed anche soloin grazia di tale anticipazione è a noi tutti possibile diconoscere il bello, là dove esso è alla natura in un singo-lo esemplare effettivamente riuscito. Codesta anticipa-zione è l'ideale: è l'idea, in quanto essa, almeno a metà,è conosciuta a priori, e, come tale, venendo a completarquanto ci è offerto dalla natura a posteriori, diventa pra-tica per l'arte. La possibilità di simile anticipazione delbello a priori nello scultore, come del suo riconosci-mento a posteriori nell'intenditore, sta in questo, che ar-tista e conoscitore sono essi medesimi l'in-sé della natu-ra, l'oggettivantesi volontà. Soltanto dal simile, comedisse Empedocle, si conosce il simile: soltanto naturapuò comprendere se stessa; soltanto natura da fondo a se

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stessa: e similmente dal solo spirito è inteso lo spirito66.L'assurda opinione che i greci abbiano trovato l'ideale

della umana bellezza in modo affatto empirico, median-te scelta di singole parti belle, qui un ginocchio, là unbraccio denudando o notando, ha del resto il suo riscon-tro in un'opinione analoga concernente la poesia: l'opi-nione che, p. es., gl'infinitamente vari caratteri de' suoidrammi, così veri, così sostenuti, così ricavati dal pro-fondo, abbia Shakespeare notati nella propria personaleesperienza della vita sociale, e poi riprodotti. L'impossi-bilità e assurdità di tale opinione non ha bisogno d'esserdimostrata: è evidente che il genio, come produce leopere dell'arte plastica sol per mezzo di una presaga an-ticipazione del bello, così produce le opere della poesiasolo mediante una consimile anticipazione del caratteri-stico; per quanto l'una e l'altra richiedano l'esperienzacome uno schema, indispensabile, perché quanto eraloro noto oscuramente a priori venga innalzato alla pie-na chiarezza, e nasca così la possibilità di una meditatarappresentazione.

Umana bellezza fu qui sopra spiegata come la piùperfetta oggettivazione della volontà nel più alto gradodella sua conoscibilità. Essa si esprime attraverso la for-

66 L'ultima proposizione volge in tedesco il motto di Helvetius, il n'y a quel'esprit qui sente l'esprit: la qual cosa non ebbi necessità d'avvertire nellaprima edizione. Ma dopo d'allora, per l'effetto istupidente della filosofa-streria hegeliana, è il secolo sì caduto in basso e imbarbarito, che talunopotrebbe forse farneticando vedere anche qui un'allusione all'antitesi di«spirito e natura». Sono perciò costretto a premunirmi espressamente con-tro l'attribuzione di codesti filosofemi da trivio.

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stessa: e similmente dal solo spirito è inteso lo spirito66.L'assurda opinione che i greci abbiano trovato l'ideale

della umana bellezza in modo affatto empirico, median-te scelta di singole parti belle, qui un ginocchio, là unbraccio denudando o notando, ha del resto il suo riscon-tro in un'opinione analoga concernente la poesia: l'opi-nione che, p. es., gl'infinitamente vari caratteri de' suoidrammi, così veri, così sostenuti, così ricavati dal pro-fondo, abbia Shakespeare notati nella propria personaleesperienza della vita sociale, e poi riprodotti. L'impossi-bilità e assurdità di tale opinione non ha bisogno d'esserdimostrata: è evidente che il genio, come produce leopere dell'arte plastica sol per mezzo di una presaga an-ticipazione del bello, così produce le opere della poesiasolo mediante una consimile anticipazione del caratteri-stico; per quanto l'una e l'altra richiedano l'esperienzacome uno schema, indispensabile, perché quanto eraloro noto oscuramente a priori venga innalzato alla pie-na chiarezza, e nasca così la possibilità di una meditatarappresentazione.

Umana bellezza fu qui sopra spiegata come la piùperfetta oggettivazione della volontà nel più alto gradodella sua conoscibilità. Essa si esprime attraverso la for-

66 L'ultima proposizione volge in tedesco il motto di Helvetius, il n'y a quel'esprit qui sente l'esprit: la qual cosa non ebbi necessità d'avvertire nellaprima edizione. Ma dopo d'allora, per l'effetto istupidente della filosofa-streria hegeliana, è il secolo sì caduto in basso e imbarbarito, che talunopotrebbe forse farneticando vedere anche qui un'allusione all'antitesi di«spirito e natura». Sono perciò costretto a premunirmi espressamente con-tro l'attribuzione di codesti filosofemi da trivio.

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ma: questa è soltanto nello spazio, e non ha relazionenecessaria col tempo; come l'ha, per esempio, il moto.Possiamo dire adunque: l'adeguata oggettivazione dellavolontà per mezzo d'un fenomeno spaziale è bellezza,nel senso oggettivo. La pianta non è altro che un tal fe-nomeno, puramente spaziale, della volontà; imperocchénessun movimento e quindi nessuna relazione col tempo(astraendo dal suo sviluppo) appartiene all'espressionedella sua essenza: la sua forma esprime da sola tutta lasua essenza, e aperta la palesa. Ma uomo e animale perla piena rivelazione della volontà in loro manifestantesiabbisognano ancora d'una serie di atti, attraverso cuiquel fenomeno viene a prendere in essi un'immediata re-lazione col tempo. Tutto ciò fu già spiegato nel libro cheprecede: alla nostra indagine presente si riannoda perquanto segue. Come il fenomeno puramente spazialedella volontà può oggettivar quest'ultima in ciascun gra-do perfettamente o imperfettamente, il che produce ap-punto bellezza o bruttezza: così può anche la temporaleoggettivazione della volontà, ossia l'azione, e precisa-mente l'azione immediata, il movimento, corrisponder inmodo puro e perfetto alla volontà che in lei si oggettiva;senza estranea mescolanza, senza superfluità, senzamanchevolezza, ma solo esprimendo per l'appunto ognivolta quel determinato atto di volontà; – oppure può tut-to questo accadere a rovescio. Nel primo caso, il movi-mento è compiuto con grazia; e nel secondo, senza.Come adunque bella è la ben rispondente rappresenta-zione della volontà in genere mediante il suo fenomeno

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ma: questa è soltanto nello spazio, e non ha relazionenecessaria col tempo; come l'ha, per esempio, il moto.Possiamo dire adunque: l'adeguata oggettivazione dellavolontà per mezzo d'un fenomeno spaziale è bellezza,nel senso oggettivo. La pianta non è altro che un tal fe-nomeno, puramente spaziale, della volontà; imperocchénessun movimento e quindi nessuna relazione col tempo(astraendo dal suo sviluppo) appartiene all'espressionedella sua essenza: la sua forma esprime da sola tutta lasua essenza, e aperta la palesa. Ma uomo e animale perla piena rivelazione della volontà in loro manifestantesiabbisognano ancora d'una serie di atti, attraverso cuiquel fenomeno viene a prendere in essi un'immediata re-lazione col tempo. Tutto ciò fu già spiegato nel libro cheprecede: alla nostra indagine presente si riannoda perquanto segue. Come il fenomeno puramente spazialedella volontà può oggettivar quest'ultima in ciascun gra-do perfettamente o imperfettamente, il che produce ap-punto bellezza o bruttezza: così può anche la temporaleoggettivazione della volontà, ossia l'azione, e precisa-mente l'azione immediata, il movimento, corrisponder inmodo puro e perfetto alla volontà che in lei si oggettiva;senza estranea mescolanza, senza superfluità, senzamanchevolezza, ma solo esprimendo per l'appunto ognivolta quel determinato atto di volontà; – oppure può tut-to questo accadere a rovescio. Nel primo caso, il movi-mento è compiuto con grazia; e nel secondo, senza.Come adunque bella è la ben rispondente rappresenta-zione della volontà in genere mediante il suo fenomeno

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puramente spaziale, così è grazia la ben rispondente rap-presentazione della volontà mediante il suo fenomenotemporale; ossia l'espressione in tutto giusta e commisu-rata di ciascun atto di volontà, per mezzo del movimen-to e della posizione che l'oggettiva. Poiché movimento eposizione già presuppongono il corpo; quindi è giustis-sima e calzante la definizione di Winckelmann, quandodice: «La grazia è il particolare rapporto della personaagente con l'azione» (Werke, vol. I, p. 258). Se ne ricavanaturalmente, che a piante può attribuirsi bellezza, manon grazia, fuor che in senso figurato; ad animali e uo-mini entrambe, bellezza e grazia. La grazia consiste,adunque, in questo: che ogni movimento e atteggiamen-to venga eseguito o preso nel modo più facile, più con-veniente e più comodo, e sia quindi l'espressione direttadel proposito suo, ossia dell'atto di volontà, senza nulladi superfluo (che il superfluo si presenta come agitazio-ne disordinata, priva di senso, o posizione assurda) né dimanchevole (che produce lignea rigidità). La grazia ri-chiede, come condizione, un giusto equilibrio di tutte lemembra, una regolare, armonica struttura del corpo;poiché sol per questo mezzo è possibile il perfetto agio ela palese opportunità in tutte le posizioni e movenze: equindi la grazia non si dà senza un certo grado di bellez-za corporea. Questa e quella perfette e congiunte sono ilpiù limpido fenomeno della volontà nel grado supremodella sua oggettivazione.

È uno de' contrassegni dell'umanità – l'abbiamo os-servato – il trovarsi in lei distinti il carattere della specie

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puramente spaziale, così è grazia la ben rispondente rap-presentazione della volontà mediante il suo fenomenotemporale; ossia l'espressione in tutto giusta e commisu-rata di ciascun atto di volontà, per mezzo del movimen-to e della posizione che l'oggettiva. Poiché movimento eposizione già presuppongono il corpo; quindi è giustis-sima e calzante la definizione di Winckelmann, quandodice: «La grazia è il particolare rapporto della personaagente con l'azione» (Werke, vol. I, p. 258). Se ne ricavanaturalmente, che a piante può attribuirsi bellezza, manon grazia, fuor che in senso figurato; ad animali e uo-mini entrambe, bellezza e grazia. La grazia consiste,adunque, in questo: che ogni movimento e atteggiamen-to venga eseguito o preso nel modo più facile, più con-veniente e più comodo, e sia quindi l'espressione direttadel proposito suo, ossia dell'atto di volontà, senza nulladi superfluo (che il superfluo si presenta come agitazio-ne disordinata, priva di senso, o posizione assurda) né dimanchevole (che produce lignea rigidità). La grazia ri-chiede, come condizione, un giusto equilibrio di tutte lemembra, una regolare, armonica struttura del corpo;poiché sol per questo mezzo è possibile il perfetto agio ela palese opportunità in tutte le posizioni e movenze: equindi la grazia non si dà senza un certo grado di bellez-za corporea. Questa e quella perfette e congiunte sono ilpiù limpido fenomeno della volontà nel grado supremodella sua oggettivazione.

È uno de' contrassegni dell'umanità – l'abbiamo os-servato – il trovarsi in lei distinti il carattere della specie

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e quel dell'individuo; sì che, com'è detto nel libro prece-dente, ciascun essere umano rappresenta, in un certosenso, un'idea tutta a sé. Quindi le arti il cui fine è postonel rappresentar l'idea dell'umanità, hanno per compito,oltre la bellezza – carattere della specie – anche il carat-tere individuale, che suol chiamarsi appunto caratteresenz'altro. Quest'ultimo tuttavia, alla sua volta, solo inquanto sia da considerarsi non già come alcunché di ca-suale, come una singolarità appartenente in proprio a undato individuo; bensì come un aspetto, specialmente ri-levantesi in quell'individuo, dell'idea dell'umanità: a pa-lesare la quale è perciò opportuna la rappresentazionedell'individuo medesimo. Quindi il carattere, pur essen-do individuale, deve tuttavia esser colto e rappresentatoidealmente, ossia mettendo in rilievo la sua significanzain rapporto con l'idea dell'umanità in genere (alla cui og-gettivazione esso contribuisce a sua guisa): e oltre a ciòpoi la rappresentazione è ritratto, riproduzione del sin-golo come tale, con tutte le sue accidentalità. Ma il ri-tratto medesimo dev'essere, come dice Winckelmann,l'immagine ideale dell'individuo.

Quel carattere, da cogliersi idealmente, che è il rilievodi uno speciale aspetto dell'idea dell'umanità, si fa visi-bile nei transitori affetti e passioni, nelle reciproche al-terne modificazioni del conoscere e del volere: cose tut-te esprimentisi nel volto e nel movimento.

Appartenendo ognora l'individuo all'umanità, e vice-versa rivelandosi ognora l'umanità nell'individuo, anzirivelandosi con la particolar significazione ideale di

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e quel dell'individuo; sì che, com'è detto nel libro prece-dente, ciascun essere umano rappresenta, in un certosenso, un'idea tutta a sé. Quindi le arti il cui fine è postonel rappresentar l'idea dell'umanità, hanno per compito,oltre la bellezza – carattere della specie – anche il carat-tere individuale, che suol chiamarsi appunto caratteresenz'altro. Quest'ultimo tuttavia, alla sua volta, solo inquanto sia da considerarsi non già come alcunché di ca-suale, come una singolarità appartenente in proprio a undato individuo; bensì come un aspetto, specialmente ri-levantesi in quell'individuo, dell'idea dell'umanità: a pa-lesare la quale è perciò opportuna la rappresentazionedell'individuo medesimo. Quindi il carattere, pur essen-do individuale, deve tuttavia esser colto e rappresentatoidealmente, ossia mettendo in rilievo la sua significanzain rapporto con l'idea dell'umanità in genere (alla cui og-gettivazione esso contribuisce a sua guisa): e oltre a ciòpoi la rappresentazione è ritratto, riproduzione del sin-golo come tale, con tutte le sue accidentalità. Ma il ri-tratto medesimo dev'essere, come dice Winckelmann,l'immagine ideale dell'individuo.

Quel carattere, da cogliersi idealmente, che è il rilievodi uno speciale aspetto dell'idea dell'umanità, si fa visi-bile nei transitori affetti e passioni, nelle reciproche al-terne modificazioni del conoscere e del volere: cose tut-te esprimentisi nel volto e nel movimento.

Appartenendo ognora l'individuo all'umanità, e vice-versa rivelandosi ognora l'umanità nell'individuo, anzirivelandosi con la particolar significazione ideale di

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esso, non può né la bellezza esser cancellata dal caratte-re, né questo da quella: perché soppressione del caratte-re della specie a tutto vantaggio di quello individualedarebbe caricatura; e soppressione dell'individuale, perlasciare il solo carattere della specie, darebbe insignifi-canza. Dovrà quindi la rappresentazione, in quanto mirialla bellezza, – il che fa soprattutto la scultura – sempremodificar tuttavia quella (ossia il carattere della specie)in taluna cosa mediante il carattere individuale; e l'ideadell'umanità sempre esprimere in determinata, indivi-duale maniera, rilevandone un particolare aspetto; impe-rocché l'umano individuo come tale ha la dignità diun'idea sua propria, ed all'idea dell'umanità è appuntoessenziale il manifestarsi in individui di speciale signifi-cazione. Perciò nelle opere degli antichi troviamo, chela bellezza da loro limpidamente intuita non è espressada una figura sola, ma da molte, aventi carattere diverso,quasi fosse colta sempre sotto un nuovo aspetto, e quin-di altrimenti rappresentata in Apollo, altrimenti in Bac-co, altrimenti in Ercole, altrimenti in Antinoo: anzi, ilcaratteristico può limitare il bello e addirittura arrivarfino alla bruttezza, nel Sileno ebbro, nel Fauno, e cosìvia. Ma se il caratteristico perviene a sopprimer vera-mente il carattere della specie, ossia a toccare l'innatura-le, diventa caricatura. Tuttavia molto meno ancora dellabellezza deve la grazia venir sopraffatta dal caratteristi-co: qualunque posizione e movimento richieda l'espres-sione del carattere, devono tuttavia quelli esser presi ocompiuti nel modo più adatto alla persona, più confa-

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esso, non può né la bellezza esser cancellata dal caratte-re, né questo da quella: perché soppressione del caratte-re della specie a tutto vantaggio di quello individualedarebbe caricatura; e soppressione dell'individuale, perlasciare il solo carattere della specie, darebbe insignifi-canza. Dovrà quindi la rappresentazione, in quanto mirialla bellezza, – il che fa soprattutto la scultura – sempremodificar tuttavia quella (ossia il carattere della specie)in taluna cosa mediante il carattere individuale; e l'ideadell'umanità sempre esprimere in determinata, indivi-duale maniera, rilevandone un particolare aspetto; impe-rocché l'umano individuo come tale ha la dignità diun'idea sua propria, ed all'idea dell'umanità è appuntoessenziale il manifestarsi in individui di speciale signifi-cazione. Perciò nelle opere degli antichi troviamo, chela bellezza da loro limpidamente intuita non è espressada una figura sola, ma da molte, aventi carattere diverso,quasi fosse colta sempre sotto un nuovo aspetto, e quin-di altrimenti rappresentata in Apollo, altrimenti in Bac-co, altrimenti in Ercole, altrimenti in Antinoo: anzi, ilcaratteristico può limitare il bello e addirittura arrivarfino alla bruttezza, nel Sileno ebbro, nel Fauno, e cosìvia. Ma se il caratteristico perviene a sopprimer vera-mente il carattere della specie, ossia a toccare l'innatura-le, diventa caricatura. Tuttavia molto meno ancora dellabellezza deve la grazia venir sopraffatta dal caratteristi-co: qualunque posizione e movimento richieda l'espres-sione del carattere, devono tuttavia quelli esser presi ocompiuti nel modo più adatto alla persona, più confa-

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cente allo scopo e più facile. Tale precetto osserverà nonsoltanto lo scultore e pittore, ma pur ciascun buon atto-re: in caso contrario, si ha anche qui caricatura, sottoforma di contorcimento, distorsione.

Nella scultura rimangono bellezza e grazia la qualitàessenziale. Il vero carattere dello spirito, rilevantesi inaffetto, passione, giuoco alterno del conoscere e volere,rappresentabile solo mediante l'espressione del volto edil gesto, è soprattutto privilegio della pittura. Perchésebbene occhi e colorito, – i quali stanno fuor del domi-nio della scultura – molto contribuiscano alla bellezza,ben più sono essenziali per il carattere. Inoltre la bellez-za si dispiega più completamente a chi l'osservi da varilati: mentre la espressione, il carattere, possono ancheda un sol punto di vista essere compresi appieno.

Essendo la bellezza precipuo fine della scultura, haLessing cercato di spiegare il fatto che Laocoonte nongrida, con l'addurre che il gridare non sia compatibilecon la bellezza. Poi che per Lessing questo argomentodivenne il tema, o per lo meno il punto di partenza, d'unlibro speciale, ed anche prima e dopo di lui tanto vi si èscritto intorno, sia a me concesso di esporre qui per inci-denza la mia opinione a questo proposito; sebbeneun'analisi tanto particolare non entri propriamente nellatrama di un'argomentazione, che mira, in modo esclusi-vo, ai principi generali.

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cente allo scopo e più facile. Tale precetto osserverà nonsoltanto lo scultore e pittore, ma pur ciascun buon atto-re: in caso contrario, si ha anche qui caricatura, sottoforma di contorcimento, distorsione.

Nella scultura rimangono bellezza e grazia la qualitàessenziale. Il vero carattere dello spirito, rilevantesi inaffetto, passione, giuoco alterno del conoscere e volere,rappresentabile solo mediante l'espressione del volto edil gesto, è soprattutto privilegio della pittura. Perchésebbene occhi e colorito, – i quali stanno fuor del domi-nio della scultura – molto contribuiscano alla bellezza,ben più sono essenziali per il carattere. Inoltre la bellez-za si dispiega più completamente a chi l'osservi da varilati: mentre la espressione, il carattere, possono ancheda un sol punto di vista essere compresi appieno.

Essendo la bellezza precipuo fine della scultura, haLessing cercato di spiegare il fatto che Laocoonte nongrida, con l'addurre che il gridare non sia compatibilecon la bellezza. Poi che per Lessing questo argomentodivenne il tema, o per lo meno il punto di partenza, d'unlibro speciale, ed anche prima e dopo di lui tanto vi si èscritto intorno, sia a me concesso di esporre qui per inci-denza la mia opinione a questo proposito; sebbeneun'analisi tanto particolare non entri propriamente nellatrama di un'argomentazione, che mira, in modo esclusi-vo, ai principi generali.

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§ 46.Che Laocoonte, nel celebre gruppo, non gridi, è pale-

se, e la generale, sempre rinnovata sorpresa che se neprova, deve provenir dal fatto che noi tutti, al suo postogrideremmo. E ciò richiede la natura stessa: che nel vi-vissimo dolor fisico e nella massima, improvvisa ango-scia corporea, ogni riflessione, la quale potesse per av-ventura indurci a un tacito patire, è del tutto bandita dal-la conscienza; e la natura si sfoga nel gridare, con cheinsieme esprime il dolore e il terrore, il salvatore invocae l'assalitore spaventa. Già Winckelmann sentì quindiuna mancanza, non trovando la espressione del gridare:ma nell'intento di giustificar lo scultore, fece invero diLaocoonte uno stoico, il quale non ritiene conforme allapropria dignità il gridare secundum naturam, bensì alproprio dolore aggiunge ancora l'inutile sforzo di com-primerne l'espressione: Winckelmann vede quindi in lui«lo spirito provato di un uomo grande, il quale lotta colmartirio, e cerca di soffocare e rinserrare in sé l'espres-sione di ciò che prova: egli non prorompe in alte grida,come fa in Virgilio, ma solamente gli sfuggono ango-sciosi sospiri», e così via (Werke, vol. VII, p. 98. Lostesso più ampiamente, vol. VI, pp. 104 sg.). Ora,quest'opinione di Winckelmann criticò Lessing nel suoLaocoonte, e la corresse nel modo sopra indicato; il mo-tivo psicologico sostituì col motivo, puramente estetico,che la bellezza – principio fondamentale dell'arte antica– non ammette la espressione del grido. Un altro argo-

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§ 46.Che Laocoonte, nel celebre gruppo, non gridi, è pale-

se, e la generale, sempre rinnovata sorpresa che se neprova, deve provenir dal fatto che noi tutti, al suo postogrideremmo. E ciò richiede la natura stessa: che nel vi-vissimo dolor fisico e nella massima, improvvisa ango-scia corporea, ogni riflessione, la quale potesse per av-ventura indurci a un tacito patire, è del tutto bandita dal-la conscienza; e la natura si sfoga nel gridare, con cheinsieme esprime il dolore e il terrore, il salvatore invocae l'assalitore spaventa. Già Winckelmann sentì quindiuna mancanza, non trovando la espressione del gridare:ma nell'intento di giustificar lo scultore, fece invero diLaocoonte uno stoico, il quale non ritiene conforme allapropria dignità il gridare secundum naturam, bensì alproprio dolore aggiunge ancora l'inutile sforzo di com-primerne l'espressione: Winckelmann vede quindi in lui«lo spirito provato di un uomo grande, il quale lotta colmartirio, e cerca di soffocare e rinserrare in sé l'espres-sione di ciò che prova: egli non prorompe in alte grida,come fa in Virgilio, ma solamente gli sfuggono ango-sciosi sospiri», e così via (Werke, vol. VII, p. 98. Lostesso più ampiamente, vol. VI, pp. 104 sg.). Ora,quest'opinione di Winckelmann criticò Lessing nel suoLaocoonte, e la corresse nel modo sopra indicato; il mo-tivo psicologico sostituì col motivo, puramente estetico,che la bellezza – principio fondamentale dell'arte antica– non ammette la espressione del grido. Un altro argo-

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mento da lui addotto, che cioè uno stato affatto passeg-gero e incapace di durata non si possa esprimere inun'immobile opera d'arte, ha contro di sé cento esempidi figure ammirabili le quali sono fissate in movimentipiù che fuggitivi, danzando, lottando, inseguendo. Anzi,Goethe nel suo scritto sul Laocoonte, che inizia i Propi-lei (p. 8), tiene la scelta d'un tal momento affatto fuggiti-vo per addirittura indispensabile. A' nostri giorni Hirt(Horen, 1797, X), tutto riducendo alla massima veritàdell'espressione, concluse nel senso che Laocoonte nongrida, perché, già in procinto di morir soffocato, nonpuò più gridare. Da ultimo Fernov (Römische Studien,vol. I, pp. 426 sg.) ha illustrato e pesato le tre opinioniprecedenti, senza tuttavia recarne alcuna nuova; maquelle tre componendo e unificando.

Non posso a meno di stupirmi, che sì riflessivi e acutiuomini faticosamente vadano a cercar lontano ragioniinadeguate, s'afferrino ad argomenti psicologici, o addi-rittura fisiologici, per chiarire un fatto, la cui ragione èben prossima e subito palese ad uno spirito spregiudica-to, – e stupirmi soprattutto che Lessing, il quale tantos'appressò alla giusta spiegazione, non abbia poi coltoper nulla nel segno.

Prima d'ogni indagine psicologica e fisiologica, seLaocoonte nella sua situazione debba o no gridare – ciòche d'altronde io affermerei senz'altro – riguardo a quelgruppo è da mettere in chiaro, che non poteva il gridareesservi espresso, per il semplice motivo che la rappre-sentazione del grido sta completamente fuor del domi-

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mento da lui addotto, che cioè uno stato affatto passeg-gero e incapace di durata non si possa esprimere inun'immobile opera d'arte, ha contro di sé cento esempidi figure ammirabili le quali sono fissate in movimentipiù che fuggitivi, danzando, lottando, inseguendo. Anzi,Goethe nel suo scritto sul Laocoonte, che inizia i Propi-lei (p. 8), tiene la scelta d'un tal momento affatto fuggiti-vo per addirittura indispensabile. A' nostri giorni Hirt(Horen, 1797, X), tutto riducendo alla massima veritàdell'espressione, concluse nel senso che Laocoonte nongrida, perché, già in procinto di morir soffocato, nonpuò più gridare. Da ultimo Fernov (Römische Studien,vol. I, pp. 426 sg.) ha illustrato e pesato le tre opinioniprecedenti, senza tuttavia recarne alcuna nuova; maquelle tre componendo e unificando.

Non posso a meno di stupirmi, che sì riflessivi e acutiuomini faticosamente vadano a cercar lontano ragioniinadeguate, s'afferrino ad argomenti psicologici, o addi-rittura fisiologici, per chiarire un fatto, la cui ragione èben prossima e subito palese ad uno spirito spregiudica-to, – e stupirmi soprattutto che Lessing, il quale tantos'appressò alla giusta spiegazione, non abbia poi coltoper nulla nel segno.

Prima d'ogni indagine psicologica e fisiologica, seLaocoonte nella sua situazione debba o no gridare – ciòche d'altronde io affermerei senz'altro – riguardo a quelgruppo è da mettere in chiaro, che non poteva il gridareesservi espresso, per il semplice motivo che la rappre-sentazione del grido sta completamente fuor del domi-

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nio della scultura. Non si poteva dal marmo trarre un ur-lante Laocoonte, ma solo un che sgangheri la bocca einvano si sforzi d'urlare: un Laocoonte a cui la voce s'èarrestata nelle fauci, vox faucibus haesit. L'essenza, equindi anche l'effetto del gridare sullo spettatore, è tuttonel suono, non nello spalancare la bocca. Quest'ultimofenomeno, che di necessità accompagna il gridare, devevenir motivato e giustificato dal suono che per esso èprodotto: allora, come caratteristico per l'azione, è am-missibile, anzi necessario, quand'anche nuoccia alla bel-lezza. Ma nell'arte figurativa, a cui la rappresentazionedel gridare è del tutto estranea e negata, effettivamenteincomprensibile sarebbe il rappresentar la bocca spalan-cata, violento mezzo nel grido, che altera tutti i linea-menti e il resto dell'espressione; perché si porrebbe in-nanzi agli occhi un mezzo, che esige molti sacrifizi delrimanente, mentre il fine di esso, il grido, verrebbe amancare insieme col relativo effetto sul nostro animo.Anzi – e questo è peggio – si produrrebbe con ciò lospettacolo sempre ridicolo di uno sforzo che rimanesenz'effetto: spettacolo da paragonarsi a quel che si pro-curò un burlone, riempiendo di cera il corno d'una guar-dia notturna addormentata, per poi risvegliarla e godersii suoi vani tentativi di suonare. Là dove invece la rap-presentazione del gridare sta nel dominio dell'arte, essaè pienamente ammissibile, perché serve alla verità, ossiaalla compiuta rappresentazione dell'idea. Così nella poe-sia, la quale per la rappresentazione intuitiva si rivolgealla fantasia del lettore: perciò mugghia Laocoonte pres-

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nio della scultura. Non si poteva dal marmo trarre un ur-lante Laocoonte, ma solo un che sgangheri la bocca einvano si sforzi d'urlare: un Laocoonte a cui la voce s'èarrestata nelle fauci, vox faucibus haesit. L'essenza, equindi anche l'effetto del gridare sullo spettatore, è tuttonel suono, non nello spalancare la bocca. Quest'ultimofenomeno, che di necessità accompagna il gridare, devevenir motivato e giustificato dal suono che per esso èprodotto: allora, come caratteristico per l'azione, è am-missibile, anzi necessario, quand'anche nuoccia alla bel-lezza. Ma nell'arte figurativa, a cui la rappresentazionedel gridare è del tutto estranea e negata, effettivamenteincomprensibile sarebbe il rappresentar la bocca spalan-cata, violento mezzo nel grido, che altera tutti i linea-menti e il resto dell'espressione; perché si porrebbe in-nanzi agli occhi un mezzo, che esige molti sacrifizi delrimanente, mentre il fine di esso, il grido, verrebbe amancare insieme col relativo effetto sul nostro animo.Anzi – e questo è peggio – si produrrebbe con ciò lospettacolo sempre ridicolo di uno sforzo che rimanesenz'effetto: spettacolo da paragonarsi a quel che si pro-curò un burlone, riempiendo di cera il corno d'una guar-dia notturna addormentata, per poi risvegliarla e godersii suoi vani tentativi di suonare. Là dove invece la rap-presentazione del gridare sta nel dominio dell'arte, essaè pienamente ammissibile, perché serve alla verità, ossiaalla compiuta rappresentazione dell'idea. Così nella poe-sia, la quale per la rappresentazione intuitiva si rivolgealla fantasia del lettore: perciò mugghia Laocoonte pres-

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so Virgilio, come un toro che si sia sciolto dai legamidopo che la scure l'ha colpito: perciò fa Omero (Il., XX,48-53) orrendamente urlare Marte e Minerva, senzadanno della lor dignità di dei, né della divina bellezza. Ecosì nell'arte scenica: Laocoonte sulla scena doveva as-solutamente gridare; anche Sofocle fa urlare Filottete, esull'antica scena questi avrà urlato per davvero. Simil-mente ricordo d'aver visto in Londra il celebre attoreKemble rappresentare, in un dramma tradotto dal tede-sco, Pizarro, la parte dell'americano Rolla, un mezzoselvaggio, ma di nobilissimo carattere: questi, ferito,diede in un grido alto e veemente, che, essendo oltremo-do caratteristico, molto contribuiva alla verità dell'azio-ne. All'opposto sarebbe un gridare dipinto o impietratoancor più ridicolo, che una dipinta musica, quale giàvien condannata nei Propilei goethiani; imperocché ilgridare nuoce alla rimanente espressione e alla bellezzamolto più della musica, la quale di solito occupa soltan-to mani e braccia, e va considerata come un atto caratte-ristico della persona; sì che sotto questo rispetto si puòbenissimo rappresentare in pittura, fin quando non ri-chieda moti impetuosi del corpo o deformazione dellabocca: come per esempio la Santa Cecilia all'organo e ilViolinista di Raffaello nella Galleria Sciarra in Roma, emolti altri. Poiché adunque, a causa dei limiti dell'arte,non poteva il dolore di Laocoonte venire espresso colgrido, dovè l'artista porre in uso ogni altra espressionedel dolore stesso: questo egli ha fatto con perfezione su-prema, secondo espone sì magistralmente Winckelmann

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so Virgilio, come un toro che si sia sciolto dai legamidopo che la scure l'ha colpito: perciò fa Omero (Il., XX,48-53) orrendamente urlare Marte e Minerva, senzadanno della lor dignità di dei, né della divina bellezza. Ecosì nell'arte scenica: Laocoonte sulla scena doveva as-solutamente gridare; anche Sofocle fa urlare Filottete, esull'antica scena questi avrà urlato per davvero. Simil-mente ricordo d'aver visto in Londra il celebre attoreKemble rappresentare, in un dramma tradotto dal tede-sco, Pizarro, la parte dell'americano Rolla, un mezzoselvaggio, ma di nobilissimo carattere: questi, ferito,diede in un grido alto e veemente, che, essendo oltremo-do caratteristico, molto contribuiva alla verità dell'azio-ne. All'opposto sarebbe un gridare dipinto o impietratoancor più ridicolo, che una dipinta musica, quale giàvien condannata nei Propilei goethiani; imperocché ilgridare nuoce alla rimanente espressione e alla bellezzamolto più della musica, la quale di solito occupa soltan-to mani e braccia, e va considerata come un atto caratte-ristico della persona; sì che sotto questo rispetto si puòbenissimo rappresentare in pittura, fin quando non ri-chieda moti impetuosi del corpo o deformazione dellabocca: come per esempio la Santa Cecilia all'organo e ilViolinista di Raffaello nella Galleria Sciarra in Roma, emolti altri. Poiché adunque, a causa dei limiti dell'arte,non poteva il dolore di Laocoonte venire espresso colgrido, dovè l'artista porre in uso ogni altra espressionedel dolore stesso: questo egli ha fatto con perfezione su-prema, secondo espone sì magistralmente Winckelmann

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(Werke, vol. VI, pp. 104 sg.), la cui mirabile descrizioneacquista perciò valore e verità pieni, quando se ne tolgasoltanto l'attribuzione a Laocoonte di un animo stoico.

§ 47.Essendo bellezza e grazia il principale oggetto della

scultura, questa predilige il nudo, e tollera vestimentosolo se esso non cela le forme. Del drappeggiamento siserve non per nascondere, ma per rappresentare in unmodo indiretto la forma: maniera di rappresentare, chemolto occupa l'intelletto, il quale così non pervieneall'intuizione della causa, ossia della forma corporea, senon attraverso il solo effetto datogli direttamente, ossiaattraverso la disposizione delle pieghe. Il drappeggia-mento è quindi nella scultura in certo modo quel chenella pittura è lo scorcio.

L'uno e l'altro sono accenni: non già simbolici, matali, che – quando siano ben riusciti – direttamente co-stringono l'intelletto a intuir la cosa accennata come sefosse effettiva, rappresentata in realtà.

Mi sia concesso d'intercalar qui per incidenza un pa-ragone riferentesi alle arti oratorie. Come la bella formacorporea è nel modo più vantaggioso visibile con un ab-bigliamento leggerissimo, o addirittura senza, e quindiun uomo molto bello se avesse buon gusto e gli fosse le-cito usarne, andrebbe di preferenza quasi nudo, vestitoappena a mo' degli antichi; – così ciascuno spirito bello,ricco di pensiero, si esprimerà sempre nella più naturale,

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(Werke, vol. VI, pp. 104 sg.), la cui mirabile descrizioneacquista perciò valore e verità pieni, quando se ne tolgasoltanto l'attribuzione a Laocoonte di un animo stoico.

§ 47.Essendo bellezza e grazia il principale oggetto della

scultura, questa predilige il nudo, e tollera vestimentosolo se esso non cela le forme. Del drappeggiamento siserve non per nascondere, ma per rappresentare in unmodo indiretto la forma: maniera di rappresentare, chemolto occupa l'intelletto, il quale così non pervieneall'intuizione della causa, ossia della forma corporea, senon attraverso il solo effetto datogli direttamente, ossiaattraverso la disposizione delle pieghe. Il drappeggia-mento è quindi nella scultura in certo modo quel chenella pittura è lo scorcio.

L'uno e l'altro sono accenni: non già simbolici, matali, che – quando siano ben riusciti – direttamente co-stringono l'intelletto a intuir la cosa accennata come sefosse effettiva, rappresentata in realtà.

Mi sia concesso d'intercalar qui per incidenza un pa-ragone riferentesi alle arti oratorie. Come la bella formacorporea è nel modo più vantaggioso visibile con un ab-bigliamento leggerissimo, o addirittura senza, e quindiun uomo molto bello se avesse buon gusto e gli fosse le-cito usarne, andrebbe di preferenza quasi nudo, vestitoappena a mo' degli antichi; – così ciascuno spirito bello,ricco di pensiero, si esprimerà sempre nella più naturale,

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schietta, semplice maniera; cercando, ove sia possibile,di comunicare agli altri i suoi pensieri, per alleviare cosìa se stesso la solitudine che in un mondo come questodeve sentire.

All'opposto povertà di mente, confusione, stortezza sivestiranno delle espressioni più ricercate e dei modi piùoscuri per avvolgere così, in frasi difficili e pompose,piccoli, meschini, insipidi o comuni pensieri: come que-gli che, mancando a lui la maestà della bellezza, a talemancanza vuol riparare col vestito; e la meschinità obruttezza della persona cerca di nascondere sotto barba-rico sfoggio, luccicanti fronzoli, piume, gale, sboffi emantello.

Imbarazzato come costui se dovesse andar nudo, sa-rebbe più d'un autore, se fosse costretto a tradurre in for-ma chiara la povera sostanza del suo libro sì pomposoed oscuro.

§ 48.La pittura storica ha, oltre la bellezza e la grazia, an-

che il carattere per suo oggetto principale: con la qualparola s'intende la rappresentazione della volontà nelmassimo grado della sua oggettivazione, dove l'indivi-duo – nel quale ha rilievo uno speciale aspetto dell'ideadi umanità – acquista una sua particolare significanza, equesta non con la forma sola da a conoscere, ma conogni maniera d'azione e con le modificazioni del cono-scere e del volere (visibili nel volto e nei gesti) onde

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schietta, semplice maniera; cercando, ove sia possibile,di comunicare agli altri i suoi pensieri, per alleviare cosìa se stesso la solitudine che in un mondo come questodeve sentire.

All'opposto povertà di mente, confusione, stortezza sivestiranno delle espressioni più ricercate e dei modi piùoscuri per avvolgere così, in frasi difficili e pompose,piccoli, meschini, insipidi o comuni pensieri: come que-gli che, mancando a lui la maestà della bellezza, a talemancanza vuol riparare col vestito; e la meschinità obruttezza della persona cerca di nascondere sotto barba-rico sfoggio, luccicanti fronzoli, piume, gale, sboffi emantello.

Imbarazzato come costui se dovesse andar nudo, sa-rebbe più d'un autore, se fosse costretto a tradurre in for-ma chiara la povera sostanza del suo libro sì pomposoed oscuro.

§ 48.La pittura storica ha, oltre la bellezza e la grazia, an-

che il carattere per suo oggetto principale: con la qualparola s'intende la rappresentazione della volontà nelmassimo grado della sua oggettivazione, dove l'indivi-duo – nel quale ha rilievo uno speciale aspetto dell'ideadi umanità – acquista una sua particolare significanza, equesta non con la forma sola da a conoscere, ma conogni maniera d'azione e con le modificazioni del cono-scere e del volere (visibili nel volto e nei gesti) onde

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quell'azione è determinata e accompagnata. Poi chel'idea dell'umanità va espressa in sì vasta cerchia occor-re che i suoi molteplici aspetti ci vengano offerti da in-dividui ben significanti; e questi alla lor volta possonoesser fatti palesi nella lor significazione solo mediantescene, eventi e atti svariati. Questo suo compito infinitoadempie la pittura storica col porre davanti agli occhiogni specie di scene della vita, di grande o piccolo si-gnificato. Né un individuo qualsiasi, né una qualsiasiazione possono essere senza significato: in ciascuno econ ciascuna si fa sempre più manifesta l'idea dell'uma-nità. Perciò nessunissimo fatto della vita umana vaescluso dalla pittura. E gran torto si fa agli eccellentipittori della scuola olandese, lodando esclusivamente laloro perizia tecnica, ma per il resto disdegnandoli, per-ché essi rappresentano di solito oggetti della vita comu-ne: mentre invece si ritengono significanti solo i grandifatti della storia universale o quelli della Bibbia. Si do-vrebbe prima di tutto riflettere, che l'intimo significatodi un'azione è affatto diverso dal significato esteriore, el'uno spesso procede separato dall'altro. Il significatoesterno è l'importanza di un'azione in rapporto alle sueconseguenze e nel mondo reale e pel mondo reale; ossia,in base al principio di ragione. Il significato intimo è lapiù o meno profonda penetrazione nell'idea dell'umani-tà, che quell'azione può dare col mettere in luce i menocomuni aspetti di tale idea; facendo che individualitànettamente e apertamente rivelantisi dispieghino – permezzo di opportune circostanze – le loro caratteristiche.

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quell'azione è determinata e accompagnata. Poi chel'idea dell'umanità va espressa in sì vasta cerchia occor-re che i suoi molteplici aspetti ci vengano offerti da in-dividui ben significanti; e questi alla lor volta possonoesser fatti palesi nella lor significazione solo mediantescene, eventi e atti svariati. Questo suo compito infinitoadempie la pittura storica col porre davanti agli occhiogni specie di scene della vita, di grande o piccolo si-gnificato. Né un individuo qualsiasi, né una qualsiasiazione possono essere senza significato: in ciascuno econ ciascuna si fa sempre più manifesta l'idea dell'uma-nità. Perciò nessunissimo fatto della vita umana vaescluso dalla pittura. E gran torto si fa agli eccellentipittori della scuola olandese, lodando esclusivamente laloro perizia tecnica, ma per il resto disdegnandoli, per-ché essi rappresentano di solito oggetti della vita comu-ne: mentre invece si ritengono significanti solo i grandifatti della storia universale o quelli della Bibbia. Si do-vrebbe prima di tutto riflettere, che l'intimo significatodi un'azione è affatto diverso dal significato esteriore, el'uno spesso procede separato dall'altro. Il significatoesterno è l'importanza di un'azione in rapporto alle sueconseguenze e nel mondo reale e pel mondo reale; ossia,in base al principio di ragione. Il significato intimo è lapiù o meno profonda penetrazione nell'idea dell'umani-tà, che quell'azione può dare col mettere in luce i menocomuni aspetti di tale idea; facendo che individualitànettamente e apertamente rivelantisi dispieghino – permezzo di opportune circostanze – le loro caratteristiche.

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Solo il significato intimo conta nell'arte: l'esteriore contanella storia. Entrambi sono affatto indipendenti l'unodall'altro; possono presentarsi insieme, ma anche isolati.Un'azione altamente significativa per la storia può esse-re comune e banale nel suo senso interiore; e viceversapuò una scena della vita comune avere un senso interio-re grande, quando umani individui e umano agire e vo-lere vi appaiano, fino alle più riposte pieghe, in una lucelimpida e chiara. Anche può, in azioni di molto vario si-gnificato esteriore, esser l'interiore uno e identico. Così,per esempio, valgono rispetto a quest'ultimo in egualmodo ministri, che sulla carta geografica si contendonoterre e popoli, o contadini, che nella taverna voglionol'un contro l'altro affermare il loro diritto a proposito dicarte da giuoco e di dadi: come è indifferente se si gio-chi a scacchi con pezzi d'oro o di legno. Inoltre le scenee gli eventi, ond'è fatta la vita di tanti milioni d'uomini,e il loro agire e adoprarsi, la lor pena e la loro gioia,sono già di per sé importanti abbastanza per essere og-getto dell'arte; e devono, con la ricca varietà loro, daremateria sufficiente a che si dispieghi la multifronte ideadell'umanità. La fugacità stessa dell'attimo, che l'arte hafissato in un tal quadro (detto oggi quadretto di genere),produce una lieve, particolare commozione: imperocchéil fermar con durevoli tratti l'effimero mondo, che inces-santemente si trasmuta, in singoli episodi, che pur dannoimmagine del Tutto, è tal compito della pittura, che peresso ella sembra rendere immobile il tempo, innalzandoil singolo caso all'idea della sua specie. Finalmente i

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Solo il significato intimo conta nell'arte: l'esteriore contanella storia. Entrambi sono affatto indipendenti l'unodall'altro; possono presentarsi insieme, ma anche isolati.Un'azione altamente significativa per la storia può esse-re comune e banale nel suo senso interiore; e viceversapuò una scena della vita comune avere un senso interio-re grande, quando umani individui e umano agire e vo-lere vi appaiano, fino alle più riposte pieghe, in una lucelimpida e chiara. Anche può, in azioni di molto vario si-gnificato esteriore, esser l'interiore uno e identico. Così,per esempio, valgono rispetto a quest'ultimo in egualmodo ministri, che sulla carta geografica si contendonoterre e popoli, o contadini, che nella taverna voglionol'un contro l'altro affermare il loro diritto a proposito dicarte da giuoco e di dadi: come è indifferente se si gio-chi a scacchi con pezzi d'oro o di legno. Inoltre le scenee gli eventi, ond'è fatta la vita di tanti milioni d'uomini,e il loro agire e adoprarsi, la lor pena e la loro gioia,sono già di per sé importanti abbastanza per essere og-getto dell'arte; e devono, con la ricca varietà loro, daremateria sufficiente a che si dispieghi la multifronte ideadell'umanità. La fugacità stessa dell'attimo, che l'arte hafissato in un tal quadro (detto oggi quadretto di genere),produce una lieve, particolare commozione: imperocchéil fermar con durevoli tratti l'effimero mondo, che inces-santemente si trasmuta, in singoli episodi, che pur dannoimmagine del Tutto, è tal compito della pittura, che peresso ella sembra rendere immobile il tempo, innalzandoil singolo caso all'idea della sua specie. Finalmente i

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soggetti storici, ed esteriormente significativi, della pit-tura, hanno spesso lo svantaggio, che per l'appunto ciòche in essi è più significante non è rappresentabile perl'intuizione, bensì dev'esservi sovrapposto col pensiero.Sotto questo rispetto il significato nominale del quadrova di regola distinto dal reale: quello è il significatoesterno, che viene ad aggiungersi soltanto come pensie-ro; questo è una faccia dell'idea dell'umanità, dal quadrorivelata all'intuizione. Quello sarà, per esempio, Mosètrovato dalla principessa egiziana: momento essenzialis-simo per la storia; il senso reale invece, il vero datodell'intuizione, è un trovatello che una donna salva dallasua culla natante – episodio che può essere accaduto so-vente. Solo il costume può qui far conoscere a un uomocolto che si tratta di quel determinato fatto storico; ma ilcostume, se ha valore per il senso nominale, è indiffe-rente per il reale: poi che quest'ultimo conosce soltantol'uomo come tale, e non le forme occasionali. Soggettipresi dalla storia non hanno alcun vantaggio su quelliche, tolti dalla semplice possibilità, non possono avereun titolo individuale, bensì generale: imperocché ciò,che veramente importa nei primi, non è l'individuale,non è il singolo fatto per se stesso, bensì quanto vi sicontiene d'universale, l'aspetto dell'idea d'umanità, cheper suo mezzo si esprime. D'altronde non sono perciòpunto da rigettare anche determinati soggetti storici: main questo caso la vera mira artistica, sia del pittore siadello spettatore, non tende a ciò che v'ha d'individuale, aciò che propriamente costituisce la nota storica, bensì

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soggetti storici, ed esteriormente significativi, della pit-tura, hanno spesso lo svantaggio, che per l'appunto ciòche in essi è più significante non è rappresentabile perl'intuizione, bensì dev'esservi sovrapposto col pensiero.Sotto questo rispetto il significato nominale del quadrova di regola distinto dal reale: quello è il significatoesterno, che viene ad aggiungersi soltanto come pensie-ro; questo è una faccia dell'idea dell'umanità, dal quadrorivelata all'intuizione. Quello sarà, per esempio, Mosètrovato dalla principessa egiziana: momento essenzialis-simo per la storia; il senso reale invece, il vero datodell'intuizione, è un trovatello che una donna salva dallasua culla natante – episodio che può essere accaduto so-vente. Solo il costume può qui far conoscere a un uomocolto che si tratta di quel determinato fatto storico; ma ilcostume, se ha valore per il senso nominale, è indiffe-rente per il reale: poi che quest'ultimo conosce soltantol'uomo come tale, e non le forme occasionali. Soggettipresi dalla storia non hanno alcun vantaggio su quelliche, tolti dalla semplice possibilità, non possono avereun titolo individuale, bensì generale: imperocché ciò,che veramente importa nei primi, non è l'individuale,non è il singolo fatto per se stesso, bensì quanto vi sicontiene d'universale, l'aspetto dell'idea d'umanità, cheper suo mezzo si esprime. D'altronde non sono perciòpunto da rigettare anche determinati soggetti storici: main questo caso la vera mira artistica, sia del pittore siadello spettatore, non tende a ciò che v'ha d'individuale, aciò che propriamente costituisce la nota storica, bensì

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all'universale, che vi si esprime, all'idea. Inoltre vannoscelti solo quei soggetti storici, in cui la sostanza siadavvero rappresentabile, e non vada invece aggiunta colpensiero: che altrimenti il senso nominale troppo si al-lontana dal reale; e ciò che innanzi al quadro non è chepensato, diviene l'elemento più importante, a danno diciò che è intuito. Se già sul palcoscenico è un difetto(come nella tragedia francese) che l'azione principale sisvolga dietro le quinte, evidentemente questo difetto èdi gran lunga maggiore nel quadro. Effetto decisamentecattivo producono le scene storiche sol quando costrin-gono il pittore in un terreno arbitrario, e scelto con finiestranei all'arte; ma soprattutto quando codesto terreno èpovero di soggetti pittorici e significanti, – come sareb-be, per esempio, la storia d'un piccolo, segregato, capar-bio popolastro, fatto segno al disprezzo di tutti i grandipopoli dell'oriente e dell'occidente suoi contemporanei,qual è quello dei giudei. Poi che tra noi e tutti i popoliantichi sta come un termine la migrazione barbarica –nel modo stesso in cui tra l'attuale superficie terrestre equella, di cui ci si mostrano pietrificati gli organismi, stal'avvenuto spostamento del letto marino – è da conside-rarsi gran male che non siano per avventura gl'indiani o,i greci, o anche i romani il popolo la cui passata civiltàserva di precipua base alla nostra, bensì proprio codestigiudei. E fu specialmente una cattiva stella pei genialipittori d'Italia, nel XV e XVI secolo, il doversi appiglia-re – nella breve cerchia in cui erano arbitrariamente ri-dotti, per la scelta dei loro argomenti – a ogni maniera

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all'universale, che vi si esprime, all'idea. Inoltre vannoscelti solo quei soggetti storici, in cui la sostanza siadavvero rappresentabile, e non vada invece aggiunta colpensiero: che altrimenti il senso nominale troppo si al-lontana dal reale; e ciò che innanzi al quadro non è chepensato, diviene l'elemento più importante, a danno diciò che è intuito. Se già sul palcoscenico è un difetto(come nella tragedia francese) che l'azione principale sisvolga dietro le quinte, evidentemente questo difetto èdi gran lunga maggiore nel quadro. Effetto decisamentecattivo producono le scene storiche sol quando costrin-gono il pittore in un terreno arbitrario, e scelto con finiestranei all'arte; ma soprattutto quando codesto terreno èpovero di soggetti pittorici e significanti, – come sareb-be, per esempio, la storia d'un piccolo, segregato, capar-bio popolastro, fatto segno al disprezzo di tutti i grandipopoli dell'oriente e dell'occidente suoi contemporanei,qual è quello dei giudei. Poi che tra noi e tutti i popoliantichi sta come un termine la migrazione barbarica –nel modo stesso in cui tra l'attuale superficie terrestre equella, di cui ci si mostrano pietrificati gli organismi, stal'avvenuto spostamento del letto marino – è da conside-rarsi gran male che non siano per avventura gl'indiani o,i greci, o anche i romani il popolo la cui passata civiltàserva di precipua base alla nostra, bensì proprio codestigiudei. E fu specialmente una cattiva stella pei genialipittori d'Italia, nel XV e XVI secolo, il doversi appiglia-re – nella breve cerchia in cui erano arbitrariamente ri-dotti, per la scelta dei loro argomenti – a ogni maniera

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di miseri soggetti: perché il Nuovo Testamento è, nellaparte storica, quasi ancor più sfavorevole alla pittura chel'Antico non sia; e soggetto infelicissimo è la susseguen-te storia dei martiri e dei Padri della Chiesa. Bisognatuttavia ben distinguere dai quadri, che hanno per sog-getto la parte storica o mitologica del giudaismo e delcristianesimo, quelli, nei quali il verace ossia l'etico ge-nio del cristianesimo viene offerto all'intuizione, rappre-sentandovisi uomini che di quel genio son pieni. Code-ste rappresentazioni sono invero le più alte e ammirabiliopere della pittura: riuscite unicamente ai maestri mag-giori dell'arte, a Raffaello ed al Correggio – quest'ultimoparticolarmente ne' suoi primi quadri. Opere di tal natu-ra non vanno punto annoverate tra le pitture storiche,imperocché di solito non rappresentano un fatto,un'azione: sono bensì semplici gruppi di santi, o del Sal-vatore medesimo, spesso ancor bambino, con sua ma-dre, angeli, etc. Nei loro volti, e specialmente negli oc-chi, vediamo l'espressione, il riflesso della più perfettaconoscenza: di quella, che non a singole cose è rivolta,bensì ha pienamente afferrato le idee, ossia l'intero esse-re del mondo e della vita. La qual conoscenza operandoin essi, di ritorno, sulla volontà, non fornisce a questa,come l'altra conoscenza, motivi; ma viceversa è divenu-ta un quietivo d'ogni volontà, dal quale provengono laperfetta rassegnazione – ch'è lo spirito intimo del cristia-nesimo come dell'indiana saggezza – la rinunzia a tuttele brame, l'abdicazione, la soppressione della volontà econ essa dell'intera essenza di questo mondo: ossia, la

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di miseri soggetti: perché il Nuovo Testamento è, nellaparte storica, quasi ancor più sfavorevole alla pittura chel'Antico non sia; e soggetto infelicissimo è la susseguen-te storia dei martiri e dei Padri della Chiesa. Bisognatuttavia ben distinguere dai quadri, che hanno per sog-getto la parte storica o mitologica del giudaismo e delcristianesimo, quelli, nei quali il verace ossia l'etico ge-nio del cristianesimo viene offerto all'intuizione, rappre-sentandovisi uomini che di quel genio son pieni. Code-ste rappresentazioni sono invero le più alte e ammirabiliopere della pittura: riuscite unicamente ai maestri mag-giori dell'arte, a Raffaello ed al Correggio – quest'ultimoparticolarmente ne' suoi primi quadri. Opere di tal natu-ra non vanno punto annoverate tra le pitture storiche,imperocché di solito non rappresentano un fatto,un'azione: sono bensì semplici gruppi di santi, o del Sal-vatore medesimo, spesso ancor bambino, con sua ma-dre, angeli, etc. Nei loro volti, e specialmente negli oc-chi, vediamo l'espressione, il riflesso della più perfettaconoscenza: di quella, che non a singole cose è rivolta,bensì ha pienamente afferrato le idee, ossia l'intero esse-re del mondo e della vita. La qual conoscenza operandoin essi, di ritorno, sulla volontà, non fornisce a questa,come l'altra conoscenza, motivi; ma viceversa è divenu-ta un quietivo d'ogni volontà, dal quale provengono laperfetta rassegnazione – ch'è lo spirito intimo del cristia-nesimo come dell'indiana saggezza – la rinunzia a tuttele brame, l'abdicazione, la soppressione della volontà econ essa dell'intera essenza di questo mondo: ossia, la

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redenzione. Così quei maestri dell'arte in eterno laudatici espressero intuitivamente con le opere loro la saggez-za suprema. E qui è la vetta dell'arte: la quale, dopo averperseguito la volontà, nella sua adeguata oggettità – leidee – per tutti i gradi, dai più bassi, ove la eccitano cau-se, ai meno bassi, ove la eccitano stimoli, e finalmenteai superiori, in cui sì variamente la muovono motivi e nedispiegano l'essenza; alla fine termina col rappresentar-ne la libera abolizione mediante quel solo grande quieti-vo, che a lei viene dalla perfetta cognizione della suapropria essenza67.

§ 49.Tutte le nostre considerazioni sull'arte finora svolte

hanno sempre per base la verità, che suo oggetto – la cuirappresentazione è scopo dell'artista, e la cui conoscenzadeve quindi preceder come germe e principio l'opera dilui – è un'idea, nel senso platonico, e nient'altro: non lacosa singola, oggetto della comune percezione; né menoil concetto, ch'è oggetto del pensar razionale e dellascienza. Sebbene idea e concetto abbiano qualcosa incomune, rappresentando l'una e l'altro come unità unapluralità di cose reali, dev'esser tuttavia risultata chiara eluminosa la differenza loro, dopo quanto nel primo librosi disse intorno al concetto; e intorno all'idea nel libropresente. Che nondimeno già Platone avesse ben com-presa codesta differenza, non voglio punto affermare:

67 Questo luogo presuppone, per esser compreso, il libro seguente.

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redenzione. Così quei maestri dell'arte in eterno laudatici espressero intuitivamente con le opere loro la saggez-za suprema. E qui è la vetta dell'arte: la quale, dopo averperseguito la volontà, nella sua adeguata oggettità – leidee – per tutti i gradi, dai più bassi, ove la eccitano cau-se, ai meno bassi, ove la eccitano stimoli, e finalmenteai superiori, in cui sì variamente la muovono motivi e nedispiegano l'essenza; alla fine termina col rappresentar-ne la libera abolizione mediante quel solo grande quieti-vo, che a lei viene dalla perfetta cognizione della suapropria essenza67.

§ 49.Tutte le nostre considerazioni sull'arte finora svolte

hanno sempre per base la verità, che suo oggetto – la cuirappresentazione è scopo dell'artista, e la cui conoscenzadeve quindi preceder come germe e principio l'opera dilui – è un'idea, nel senso platonico, e nient'altro: non lacosa singola, oggetto della comune percezione; né menoil concetto, ch'è oggetto del pensar razionale e dellascienza. Sebbene idea e concetto abbiano qualcosa incomune, rappresentando l'una e l'altro come unità unapluralità di cose reali, dev'esser tuttavia risultata chiara eluminosa la differenza loro, dopo quanto nel primo librosi disse intorno al concetto; e intorno all'idea nel libropresente. Che nondimeno già Platone avesse ben com-presa codesta differenza, non voglio punto affermare:

67 Questo luogo presuppone, per esser compreso, il libro seguente.

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che anzi taluni tra' suoi esempi d'idee e tra' suoi chiari-menti in proposito sono applicabili soltanto a concetti.Basti per ora di ciò, e andiamo pel nostro cammino: ral-legrandoci bensì ogni qual volta ci accada d'incontrar lavia segnata da un grande e nobile spirito, ma ognora mi-rando alla nostra meta e non alle tracce di quello. Il con-cetto è astratto, discorsivo, affatto indeterminato entro lapropria sfera, determinato solo nei confini della medesi-ma; raggiungibile e afferrabile da ciascuno con la solaragione; comunicabile in parole senz'altra mediazione,tutto esaurito dalla propria definizione. L'idea invece,che al più va definita come adeguata rappresentante delconcetto, è del tutto intuitiva, e, sebbene rappresentiun'infinità di singole cose, è tuttavia ben determinata.Dall'individuo come tale non è mai conosciuta, ma solda quegli, che s'è elevato sopra ogni volere e ogni indi-vidualità a puro soggetto nel conoscere: quindi a lei per-viene solamente il genio, e in secondo luogo chi si troviin una disposizione geniale, mediante un innalzamentodella sua pura forza conoscitiva, il più delle volte dalleopere del genio prodotta. L'idea non è quindi comunica-bile senz'altro, ma solo condizionatamente, in quantol'idea percepita e riprodotta nell'opera d'arte parla a cia-scuno secondo la misura del suo valore intellettuale:perciò proprio le più eccellenti opere di ogni arte, i piùnobili prodotti del genio, devono per l'ottusa maggioran-za degli uomini rimaner libri chiusi in eterno, ad essainaccessibili, separati da un largo abisso, sì come al vol-go è inaccessibile il commercio dei principi. È vero, che

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che anzi taluni tra' suoi esempi d'idee e tra' suoi chiari-menti in proposito sono applicabili soltanto a concetti.Basti per ora di ciò, e andiamo pel nostro cammino: ral-legrandoci bensì ogni qual volta ci accada d'incontrar lavia segnata da un grande e nobile spirito, ma ognora mi-rando alla nostra meta e non alle tracce di quello. Il con-cetto è astratto, discorsivo, affatto indeterminato entro lapropria sfera, determinato solo nei confini della medesi-ma; raggiungibile e afferrabile da ciascuno con la solaragione; comunicabile in parole senz'altra mediazione,tutto esaurito dalla propria definizione. L'idea invece,che al più va definita come adeguata rappresentante delconcetto, è del tutto intuitiva, e, sebbene rappresentiun'infinità di singole cose, è tuttavia ben determinata.Dall'individuo come tale non è mai conosciuta, ma solda quegli, che s'è elevato sopra ogni volere e ogni indi-vidualità a puro soggetto nel conoscere: quindi a lei per-viene solamente il genio, e in secondo luogo chi si troviin una disposizione geniale, mediante un innalzamentodella sua pura forza conoscitiva, il più delle volte dalleopere del genio prodotta. L'idea non è quindi comunica-bile senz'altro, ma solo condizionatamente, in quantol'idea percepita e riprodotta nell'opera d'arte parla a cia-scuno secondo la misura del suo valore intellettuale:perciò proprio le più eccellenti opere di ogni arte, i piùnobili prodotti del genio, devono per l'ottusa maggioran-za degli uomini rimaner libri chiusi in eterno, ad essainaccessibili, separati da un largo abisso, sì come al vol-go è inaccessibile il commercio dei principi. È vero, che

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anche i più ottusi ammettono per sentito dire le opere ri-conosciute grandi: ma nell'ombra si tengono prontiognora a criticarle, non appena li si lasci sperare chepossan farlo senza compromettersi – nel che gioiosa-mente si sfoga il loro astio a lungo celato contro tutte lecose grandi e belle, che per non averli mai toccati liumiliavano, e contro i creatori di quelli. Imperocché diregola, per riconoscere e ammettere spontaneamente, li-beramente, il valore altrui, bisogna averne di proprio. Suciò poggia la necessità della modestia malgrado qualsi-voglia merito, ed anche la lode sproporzionatamente altadi codesta virtù: la quale, sola tra tutte le sue sorelle, daciascuno, che ardisca esaltare un uomo in qualche modosegnalato, è ogni volta aggiunta alle altre lodi di lui, perconciliarsi gl'inetti e placarne il livore. Che cos'è la mo-destia, se non finta umiltà, con la quale, in un mondoturgido di bassa invidia, si vuol mendicare per i proprivantaggi e meriti il perdono di quelli che non ne hanno?Poiché colui il quale né vantaggi né meriti s'attribuisce,perché effettivamente non ne possiede, non è modesto,ma appena onesto.

L'idea è l'unità infranta nella pluralità, secondo la for-ma temporale e causale della nostra apprensione intuiti-va: invece il concetto è l'unità, dalla pluralità novella-mente ricostituita, mediante il procedere astratto dellanostra ragione. Questa si può chiamare unitas post rem,quella unitas ante rem. Da ultimo la differenza tra con-cetto e idea si può ancora indicare con un paragone, di-cendo: – II concetto somiglia a una inerte custodia, nella

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anche i più ottusi ammettono per sentito dire le opere ri-conosciute grandi: ma nell'ombra si tengono prontiognora a criticarle, non appena li si lasci sperare chepossan farlo senza compromettersi – nel che gioiosa-mente si sfoga il loro astio a lungo celato contro tutte lecose grandi e belle, che per non averli mai toccati liumiliavano, e contro i creatori di quelli. Imperocché diregola, per riconoscere e ammettere spontaneamente, li-beramente, il valore altrui, bisogna averne di proprio. Suciò poggia la necessità della modestia malgrado qualsi-voglia merito, ed anche la lode sproporzionatamente altadi codesta virtù: la quale, sola tra tutte le sue sorelle, daciascuno, che ardisca esaltare un uomo in qualche modosegnalato, è ogni volta aggiunta alle altre lodi di lui, perconciliarsi gl'inetti e placarne il livore. Che cos'è la mo-destia, se non finta umiltà, con la quale, in un mondoturgido di bassa invidia, si vuol mendicare per i proprivantaggi e meriti il perdono di quelli che non ne hanno?Poiché colui il quale né vantaggi né meriti s'attribuisce,perché effettivamente non ne possiede, non è modesto,ma appena onesto.

L'idea è l'unità infranta nella pluralità, secondo la for-ma temporale e causale della nostra apprensione intuiti-va: invece il concetto è l'unità, dalla pluralità novella-mente ricostituita, mediante il procedere astratto dellanostra ragione. Questa si può chiamare unitas post rem,quella unitas ante rem. Da ultimo la differenza tra con-cetto e idea si può ancora indicare con un paragone, di-cendo: – II concetto somiglia a una inerte custodia, nella

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quale effettivamente viene a giustapporsi ogni cosa chevi si ponga; ma da cui nulla può esser tolto (mediantegiudizi analitici) più di quanto vi si sia posto (mediantesintetica riflessione). L'idea invece sviluppa, in quegliche l'ha afferrata, rappresentazioni che sono nuove inrapporto al concetto omonimo: ella somiglia a un viven-te, sviluppantesi organismo, dotato di forza generativa,il quale produce quel che non conteneva incasellato den-tro di sé.

Da tutto ciò risulta che il concetto, per quanto sia gio-vevole alla vita, per quanto utile, necessario e fecondoalla scienza, è in eterno sterile per l'arte. Vera e unicasorgente d'ogni genuina opera d'arte è la percepita idea.Nella sua robusta originalità viene ella attinta unicamen-te alla vita medesima, alla natura, al mondo; e unica-mente anche per mezzo del genio vero, o di chi sia perquell'attimo asceso fino a raggiungere la genialità. Solda questa diretta concezione nascono capolavori, che re-cano in sé vita immortale. Appunto perché l'idea è intui-tiva, e tale rimane, non è l'artista consapevole in ab-stracto dell'intenzione e della meta a cui tende l'operasua; non un concetto, ma un'idea gli fluttua davanti: per-ciò non può render conto del suo operare. Lavora, comesi suol dire, di puro sentimento, e inconsapevole, anziper istinto. Viceversa imitatori, artefici di maniera, imi-tatores, servum pecus, procedono nell'arte movendo dalconcetto: prendon nota di ciò che nelle vere opere d'artepiace e commuove, se lo rendono chiaro, lo afferrano informa di concetto, astrattamente, e lo imitano infine, in

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quale effettivamente viene a giustapporsi ogni cosa chevi si ponga; ma da cui nulla può esser tolto (mediantegiudizi analitici) più di quanto vi si sia posto (mediantesintetica riflessione). L'idea invece sviluppa, in quegliche l'ha afferrata, rappresentazioni che sono nuove inrapporto al concetto omonimo: ella somiglia a un viven-te, sviluppantesi organismo, dotato di forza generativa,il quale produce quel che non conteneva incasellato den-tro di sé.

Da tutto ciò risulta che il concetto, per quanto sia gio-vevole alla vita, per quanto utile, necessario e fecondoalla scienza, è in eterno sterile per l'arte. Vera e unicasorgente d'ogni genuina opera d'arte è la percepita idea.Nella sua robusta originalità viene ella attinta unicamen-te alla vita medesima, alla natura, al mondo; e unica-mente anche per mezzo del genio vero, o di chi sia perquell'attimo asceso fino a raggiungere la genialità. Solda questa diretta concezione nascono capolavori, che re-cano in sé vita immortale. Appunto perché l'idea è intui-tiva, e tale rimane, non è l'artista consapevole in ab-stracto dell'intenzione e della meta a cui tende l'operasua; non un concetto, ma un'idea gli fluttua davanti: per-ciò non può render conto del suo operare. Lavora, comesi suol dire, di puro sentimento, e inconsapevole, anziper istinto. Viceversa imitatori, artefici di maniera, imi-tatores, servum pecus, procedono nell'arte movendo dalconcetto: prendon nota di ciò che nelle vere opere d'artepiace e commuove, se lo rendono chiaro, lo afferrano informa di concetto, astrattamente, e lo imitano infine, in

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modo aperto o palese, con avveduta intenzione. Suc-chiano il lor nutrimento, simili a piante parassite, daopere altrui; e, simili a polipi, prendono il colore di ciòche mangiano. Anzi, andando innanzi coi paragoni, sipotrebbe affermare, che somigliano a macchine, le qualiperfettamente tritino e frammischino quanto vi si gettadentro, ma senza poterlo mai digerire: sì che i diversicomponenti si possan sempre ritrovare, trar fuori dellamiscela ed isolare: mentre il genio somiglierebbe inveceall'organismo, che assimila, trasforma e produce. Impe-rocché il genio viene bensì educato e formato dai prede-cessori e dalle opere loro; ma la vita e il mondo stesso,direttamente, lo fecondano con l'intuizione: perciò an-che una ricchissima cultura non può recar danno alla suaoriginalità. Tutti gl'imitatori, tutti i manieristi percepi-scono in forma di concetto l'essenza dei capolavori al-trui; ma concetti non possono mai dar vita interna aun'opera. I contemporanei – ossia l'opaca folla d'ognigenerazione – non conoscono anch'essi altro che concet-ti, e vi si attaccano, e accolgono quindi le opere manie-rate con rapido e alto plauso: ma le stesse opere sonodopo brevi anni già indigeste, perché lo spirito del tem-po – vale a dire, i concetti dominanti – in cui quelle ave-vano la loro unica base, è mutato. Soltanto le vere opered'arte, le quali dalla natura, dalla vita sono direttamenteinspirate, rimangono, come queste perennemente giova-ni, e poderose in eterno. Imperocché non appartengonoa una data epoca, ma all'umanità: e come perciò appuntodal loro proprio tempo – a cui disdegnarono di confor-

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modo aperto o palese, con avveduta intenzione. Suc-chiano il lor nutrimento, simili a piante parassite, daopere altrui; e, simili a polipi, prendono il colore di ciòche mangiano. Anzi, andando innanzi coi paragoni, sipotrebbe affermare, che somigliano a macchine, le qualiperfettamente tritino e frammischino quanto vi si gettadentro, ma senza poterlo mai digerire: sì che i diversicomponenti si possan sempre ritrovare, trar fuori dellamiscela ed isolare: mentre il genio somiglierebbe inveceall'organismo, che assimila, trasforma e produce. Impe-rocché il genio viene bensì educato e formato dai prede-cessori e dalle opere loro; ma la vita e il mondo stesso,direttamente, lo fecondano con l'intuizione: perciò an-che una ricchissima cultura non può recar danno alla suaoriginalità. Tutti gl'imitatori, tutti i manieristi percepi-scono in forma di concetto l'essenza dei capolavori al-trui; ma concetti non possono mai dar vita interna aun'opera. I contemporanei – ossia l'opaca folla d'ognigenerazione – non conoscono anch'essi altro che concet-ti, e vi si attaccano, e accolgono quindi le opere manie-rate con rapido e alto plauso: ma le stesse opere sonodopo brevi anni già indigeste, perché lo spirito del tem-po – vale a dire, i concetti dominanti – in cui quelle ave-vano la loro unica base, è mutato. Soltanto le vere opered'arte, le quali dalla natura, dalla vita sono direttamenteinspirate, rimangono, come queste perennemente giova-ni, e poderose in eterno. Imperocché non appartengonoa una data epoca, ma all'umanità: e come perciò appuntodal loro proprio tempo – a cui disdegnarono di confor-

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marsi – furono tiepidamente accolte, e, svelando inmodo indiretto e negativo gli errori di quello, furono tar-di e contro voglia riconosciute; così in compenso nonpossono invecchiare, e ancor ne' tempi più lontani parla-no con voce fresca e sempre giovane: non più esposte avenir trascurate o misconosciute, ma immutabilmentecoronate e sanzionate dal plauso delle poche teste capacidi giudicare, le quali compaiono isolate e rare nei seco-li68 e depongono i loro voti – la cui somma lentamentecrescendo serve di base a quell'autorità, che sola costi-tuisce il tribunale, a cui si allude quando diciamo di fareappello alla posterità. Sole formano il tribunale questeteste isolate, che successivamente appariscono: perchéla folla della posterità sarà e rimarrà in ogni tempo stoltae ottusa come nel passato e come nel presente. Si legga-no i lamenti di grandi spiriti, in ogni secolo, intorno ailoro contemporanei: sembrano di oggi, perché la razza èsempre la medesima. In ciascun tempo ed in ciascunaarte la maniera prende il posto del genio, che sempre èproprietà esclusiva di pochi: ma la maniera è come ilvecchio vestito smesso della più recente, riconosciutaapparizione del genio. In conseguenza di tutto ciò, ilplauso dei posteri non s'acquista di regola se non a costodel successo contemporaneo; e viceversa69.

68 Apparent rari, nantes in gurgite vasto.69 Si veda il cap. 34 del secondo volume [pp. 495-500 del vol. II dell'ed.

cit.].

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marsi – furono tiepidamente accolte, e, svelando inmodo indiretto e negativo gli errori di quello, furono tar-di e contro voglia riconosciute; così in compenso nonpossono invecchiare, e ancor ne' tempi più lontani parla-no con voce fresca e sempre giovane: non più esposte avenir trascurate o misconosciute, ma immutabilmentecoronate e sanzionate dal plauso delle poche teste capacidi giudicare, le quali compaiono isolate e rare nei seco-li68 e depongono i loro voti – la cui somma lentamentecrescendo serve di base a quell'autorità, che sola costi-tuisce il tribunale, a cui si allude quando diciamo di fareappello alla posterità. Sole formano il tribunale questeteste isolate, che successivamente appariscono: perchéla folla della posterità sarà e rimarrà in ogni tempo stoltae ottusa come nel passato e come nel presente. Si legga-no i lamenti di grandi spiriti, in ogni secolo, intorno ailoro contemporanei: sembrano di oggi, perché la razza èsempre la medesima. In ciascun tempo ed in ciascunaarte la maniera prende il posto del genio, che sempre èproprietà esclusiva di pochi: ma la maniera è come ilvecchio vestito smesso della più recente, riconosciutaapparizione del genio. In conseguenza di tutto ciò, ilplauso dei posteri non s'acquista di regola se non a costodel successo contemporaneo; e viceversa69.

68 Apparent rari, nantes in gurgite vasto.69 Si veda il cap. 34 del secondo volume [pp. 495-500 del vol. II dell'ed.

cit.].

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§ 50.Se adunque è fine di tutte le arti il comunicar la per-

cepita idea, la quale appunto per l'interposizione dellospirito dell'artista, in cui apparisce purificata e isolata,diventa alfine accessibile anche a chi abbia ricettivitàpiù debole, e nessuna produttività; se inoltre è nell'arteda rigettarsi il muover dal concetto; non potremo perconseguenza approvare, che un'opera d'arte sia intenzio-nalmente e palesemente destinata all'espressione d'unconcetto: com'è il caso dell'allegoria. Un'allegoria èun'opera d'arte, la quale significa alcunché di diverso daquel che rappresenta. Ma ciò che è intuitivo, e quindianche l'idea, si esprime da sé in modo diretto e compiu-to, né ha bisogno di altro intermediario, dal quale essovenga significato velatamente. Quel che in tal modo vie-ne adunque significato e rappresentato mediante alcun-ché di affatto diverso, non potendo esso medesimo veni-re offerto all'intuizione, è sempre un concetto. Conl'allegoria viene quindi ognora significato un concetto, eper conseguenza la mente dello spettatore è condottalungi dall'offertale rappresentazione intuitiva versoun'altra astratta, non intuitiva, che sta tutta fuoridell'opera d'arte: così il quadro o la statua devono com-piere quel che compie, solo in modo più completo, lascrittura. Quel che per noi è il fine dell'arte – rappresen-tazione dell'idea percepibile solo intuitivamente – non èquivi più il fine. Per la mira, a cui nell'allegoria si tende,non è neppur necessaria una gran perfezione dell'opera

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§ 50.Se adunque è fine di tutte le arti il comunicar la per-

cepita idea, la quale appunto per l'interposizione dellospirito dell'artista, in cui apparisce purificata e isolata,diventa alfine accessibile anche a chi abbia ricettivitàpiù debole, e nessuna produttività; se inoltre è nell'arteda rigettarsi il muover dal concetto; non potremo perconseguenza approvare, che un'opera d'arte sia intenzio-nalmente e palesemente destinata all'espressione d'unconcetto: com'è il caso dell'allegoria. Un'allegoria èun'opera d'arte, la quale significa alcunché di diverso daquel che rappresenta. Ma ciò che è intuitivo, e quindianche l'idea, si esprime da sé in modo diretto e compiu-to, né ha bisogno di altro intermediario, dal quale essovenga significato velatamente. Quel che in tal modo vie-ne adunque significato e rappresentato mediante alcun-ché di affatto diverso, non potendo esso medesimo veni-re offerto all'intuizione, è sempre un concetto. Conl'allegoria viene quindi ognora significato un concetto, eper conseguenza la mente dello spettatore è condottalungi dall'offertale rappresentazione intuitiva versoun'altra astratta, non intuitiva, che sta tutta fuoridell'opera d'arte: così il quadro o la statua devono com-piere quel che compie, solo in modo più completo, lascrittura. Quel che per noi è il fine dell'arte – rappresen-tazione dell'idea percepibile solo intuitivamente – non èquivi più il fine. Per la mira, a cui nell'allegoria si tende,non è neppur necessaria una gran perfezione dell'opera

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d'arte: basta che si vegga che cosa sia l'oggetto; perché,una volta trovato questo, lo scopo è raggiunto, e lo spiri-to è condotto verso una rappresentazione di tutt'altra na-tura, verso un concetto astratto che era appunto il fineproposto. Allegorie nell'arte figurativa non sono perciòaltro che geroglifici: il pregio artistico, che d'altrondepossono avere come rappresentazioni intuitive, non ap-partiene loro in quanto sono allegorie, ma per un altroverso. Che la Notte del Correggio, il Genio della Famadi Annibale Carracci, le Ore del Poussin siano bellissi-me pitture, è cosa affatto indipendente dall'essere alle-gorie. Come allegorie non dicono più di un'iscrizione –anzi piuttosto meno. Siamo qui richiamati alla distinzio-ne, fatta più sopra, tra il senso reale e il nominale d'unquadro. Il nominale è qui appunto l'allegorico, come,per esempio, il Genio della Fama; il reale è ciò che ineffetti vien rappresentato: nel caso presente, un bel gio-vane alato, con bei fanciulli intorno. Questo esprimeun'idea: ma cotal senso reale agisce solo fin che sia po-sto in oblio il senso nominale, allegorico; basta pensar-vi, perché l'intuizione si allontani e un concetto astrattooccupi lo spirito: ora il passaggio dall'idea al concetto èsempre una caduta. Sì, quel senso nominale, quell'inten-zione allegorica fa spesso danno al senso reale, alla veri-tà intuitiva: come, per esempio, l'innaturale luce nellaNotte del Correggio, la quale, per quanto ben dipinta,tuttavia è motivata solo dall'allegoria, ed in realtà im-possibile. Se quindi un quadro allegorico ha pregiod'arte, questo è del tutto separato e indipendente

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d'arte: basta che si vegga che cosa sia l'oggetto; perché,una volta trovato questo, lo scopo è raggiunto, e lo spiri-to è condotto verso una rappresentazione di tutt'altra na-tura, verso un concetto astratto che era appunto il fineproposto. Allegorie nell'arte figurativa non sono perciòaltro che geroglifici: il pregio artistico, che d'altrondepossono avere come rappresentazioni intuitive, non ap-partiene loro in quanto sono allegorie, ma per un altroverso. Che la Notte del Correggio, il Genio della Famadi Annibale Carracci, le Ore del Poussin siano bellissi-me pitture, è cosa affatto indipendente dall'essere alle-gorie. Come allegorie non dicono più di un'iscrizione –anzi piuttosto meno. Siamo qui richiamati alla distinzio-ne, fatta più sopra, tra il senso reale e il nominale d'unquadro. Il nominale è qui appunto l'allegorico, come,per esempio, il Genio della Fama; il reale è ciò che ineffetti vien rappresentato: nel caso presente, un bel gio-vane alato, con bei fanciulli intorno. Questo esprimeun'idea: ma cotal senso reale agisce solo fin che sia po-sto in oblio il senso nominale, allegorico; basta pensar-vi, perché l'intuizione si allontani e un concetto astrattooccupi lo spirito: ora il passaggio dall'idea al concetto èsempre una caduta. Sì, quel senso nominale, quell'inten-zione allegorica fa spesso danno al senso reale, alla veri-tà intuitiva: come, per esempio, l'innaturale luce nellaNotte del Correggio, la quale, per quanto ben dipinta,tuttavia è motivata solo dall'allegoria, ed in realtà im-possibile. Se quindi un quadro allegorico ha pregiod'arte, questo è del tutto separato e indipendente

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dall'ufficio dell'allegoria: un'opera siffatta serve insiemea due scopi, ossia all'espressione d'un concetto eall'espressione di un'idea, ma esclusivamente il secondopuò essere un fine dell'arte, mentre l'altro è uno scopoestraneo; è la piacevolezza scherzosa, di far che un qua-dro serva in pari tempo come un'iscrizione, un geroglifi-co: piacevolezza inventata a vantaggio di coloro per cuiè muta l'essenza vera dell'arte. Gli è allora come seun'opera d'arte fosse in pari tempo un arnese d'utilitàpratica, nel qual caso anche serve a due scopi: per esem-pio una statua, che sia insieme candelabro o cariatide, oun bassorilievo, che sia contemporaneamente scudod'Achille. Sinceri amici dell'arte non gusteranno né l'unané l'altro. È vero, che un'immagine allegorica può ap-punto in questa sua qualità produrre un vivo effettosull'animo: ma l'effetto medesimo produrrebbe, in circo-stanze eguali, anche un'iscrizione. Così, per esempio, senell'animo d'un uomo sia fermamente e fortemente radi-cata la brama della gloria, ed egli guardi alla gloriacome a sua legittima proprietà, a lui negata sol finché einon abbia prodotto i titoli del suo possesso; equest'uomo venga davanti al Genio della Fama coronatod'alloro; tutto il suo animo ne sarà infervorato, e la suaenergia spronata all'azione. Ma non accadrebbe altri-menti, se d'un tratto e' leggesse grande e chiara sulla pa-rete la parola «gloria». Oppure, se un uomo abbia svela-ta una verità, la quale sia importante o come regola perla vita pratica, o come cognizione per la scienza, ma nontrovi fede; agirà profondamente su di lui un'immagine

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dall'ufficio dell'allegoria: un'opera siffatta serve insiemea due scopi, ossia all'espressione d'un concetto eall'espressione di un'idea, ma esclusivamente il secondopuò essere un fine dell'arte, mentre l'altro è uno scopoestraneo; è la piacevolezza scherzosa, di far che un qua-dro serva in pari tempo come un'iscrizione, un geroglifi-co: piacevolezza inventata a vantaggio di coloro per cuiè muta l'essenza vera dell'arte. Gli è allora come seun'opera d'arte fosse in pari tempo un arnese d'utilitàpratica, nel qual caso anche serve a due scopi: per esem-pio una statua, che sia insieme candelabro o cariatide, oun bassorilievo, che sia contemporaneamente scudod'Achille. Sinceri amici dell'arte non gusteranno né l'unané l'altro. È vero, che un'immagine allegorica può ap-punto in questa sua qualità produrre un vivo effettosull'animo: ma l'effetto medesimo produrrebbe, in circo-stanze eguali, anche un'iscrizione. Così, per esempio, senell'animo d'un uomo sia fermamente e fortemente radi-cata la brama della gloria, ed egli guardi alla gloriacome a sua legittima proprietà, a lui negata sol finché einon abbia prodotto i titoli del suo possesso; equest'uomo venga davanti al Genio della Fama coronatod'alloro; tutto il suo animo ne sarà infervorato, e la suaenergia spronata all'azione. Ma non accadrebbe altri-menti, se d'un tratto e' leggesse grande e chiara sulla pa-rete la parola «gloria». Oppure, se un uomo abbia svela-ta una verità, la quale sia importante o come regola perla vita pratica, o come cognizione per la scienza, ma nontrovi fede; agirà profondamente su di lui un'immagine

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allegorica del Tempo, che alzi il velo e scopra la veritànuda. Ma non altrimenti agirebbe il motto: «Le tempsdécouvre la vérité». Imperocché ciò che quivi propria-mente agisce è sempre il solo pensiero astratto, e non lacosa intuita.

Ora se, come abbiamo visto, l'allegoria nell'arte figu-rativa è una tendenza viziosa, asservita ad un fine, cheall'arte è affatto estraneo, codesta tendenza diviene addi-rittura insopportabile, se è spinta a tal segno che la rap-presentazione di sottigliezze forzate e introdotte arbitra-riamente venga a cader nell'insulso. Di tal fatta è, peresempio, una testuggine, che voglia indicar la ritrosiafemminile; la Nemesi, che si guardi in seno dentro alvestito, per significar ch'ella vede anche l'ascoso; la di-chiarazione del Bellori, che Annibale Carracci abbia ve-stita di giallo la voluttà, per esprimere che le sue gioietosto appassiscono e si fanno gialle come paglia. Seadunque tra la cosa rappresentata e il concetto, per suomezzo significato, non è alcun legame che abbia perbase la sussunzione sotto quel soggetto e l'associazionedelle idee; ma segno e cosa significata stanno in connes-sione tutta convenzionale, mediante un ravvicinamentopositivo e provocato a caso: allora io chiamo simboloquesta varietà dell'allegoria. Così la rosa è simbolo delladiscrezione, l'alloro simbolo della gloria, la palma sim-bolo della vittoria, la conchiglia simbolo del pellegri-naggio, la croce simbolo della religione cristiana: e quivengono anche tutte le significazioni dirette attribuite aisemplici colori, per esempio, il giallo come colore della

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allegorica del Tempo, che alzi il velo e scopra la veritànuda. Ma non altrimenti agirebbe il motto: «Le tempsdécouvre la vérité». Imperocché ciò che quivi propria-mente agisce è sempre il solo pensiero astratto, e non lacosa intuita.

Ora se, come abbiamo visto, l'allegoria nell'arte figu-rativa è una tendenza viziosa, asservita ad un fine, cheall'arte è affatto estraneo, codesta tendenza diviene addi-rittura insopportabile, se è spinta a tal segno che la rap-presentazione di sottigliezze forzate e introdotte arbitra-riamente venga a cader nell'insulso. Di tal fatta è, peresempio, una testuggine, che voglia indicar la ritrosiafemminile; la Nemesi, che si guardi in seno dentro alvestito, per significar ch'ella vede anche l'ascoso; la di-chiarazione del Bellori, che Annibale Carracci abbia ve-stita di giallo la voluttà, per esprimere che le sue gioietosto appassiscono e si fanno gialle come paglia. Seadunque tra la cosa rappresentata e il concetto, per suomezzo significato, non è alcun legame che abbia perbase la sussunzione sotto quel soggetto e l'associazionedelle idee; ma segno e cosa significata stanno in connes-sione tutta convenzionale, mediante un ravvicinamentopositivo e provocato a caso: allora io chiamo simboloquesta varietà dell'allegoria. Così la rosa è simbolo delladiscrezione, l'alloro simbolo della gloria, la palma sim-bolo della vittoria, la conchiglia simbolo del pellegri-naggio, la croce simbolo della religione cristiana: e quivengono anche tutte le significazioni dirette attribuite aisemplici colori, per esempio, il giallo come colore della

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falsità, l'azzurro della fedeltà. Cotali simboli possonosovente giovar nella vita, ma all'arte il lor pregio è stra-niero: sono da considerare in tutto come geroglifici, oaddirittura come caratteri cinesi, ed appartengono inrealtà alla stessa categoria degli stemmi, della frasca po-sta a insegna di un'osteria, delle chiavi da cui si ricono-scono i ciambellani, o del cuoio da cui si conoscono iminatori. Quando infine certi personaggi storici o mitici,oppure certi personificati concetti vengono fatti cono-scere mediante simboli convenuti una volta per sempre,forse dovrebbero questi chiamarsi propriamente emble-mi: tali sono le bestie degli Evangelisti, la civetta di Mi-nerva, il pomo di Paride, l'ancora della Speranza, e cosìvia. Ma solitamente si da il nome d'emblemi a quelleimmagini parlanti, semplici, e illustrate da un motto, cheservono a raffigurare una verità morale, e di cui si hannograndi raccolte per opera di J. Camerarius, Alciatus e al-tri: esse formano il trapasso verso l'allegoria poetica,della quale sarà trattato in seguito. La scultura greca sirivolge all'intuizione, e però ella è estetica; l'indostana sirivolge al concetto, e però è solamente simbolica.

Questo giudizio dell'allegoria, poggiato sulle conside-razioni fin qui da noi fatte intorno all'intimo esseredell'arte, e con quelle strettamente connesso, è propriol'opposto dell'opinione di Winckelmann; il quale lungidal dichiarar l'allegoria affatto estranea all'arte, e a leispesso dannosa, costantemente ne sostiene le parti, anzi(Werke, vol. I, pp. 55 sg.) pone il supremo fine dell'artenella «rappresentazione di concetti generali e di cose

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falsità, l'azzurro della fedeltà. Cotali simboli possonosovente giovar nella vita, ma all'arte il lor pregio è stra-niero: sono da considerare in tutto come geroglifici, oaddirittura come caratteri cinesi, ed appartengono inrealtà alla stessa categoria degli stemmi, della frasca po-sta a insegna di un'osteria, delle chiavi da cui si ricono-scono i ciambellani, o del cuoio da cui si conoscono iminatori. Quando infine certi personaggi storici o mitici,oppure certi personificati concetti vengono fatti cono-scere mediante simboli convenuti una volta per sempre,forse dovrebbero questi chiamarsi propriamente emble-mi: tali sono le bestie degli Evangelisti, la civetta di Mi-nerva, il pomo di Paride, l'ancora della Speranza, e cosìvia. Ma solitamente si da il nome d'emblemi a quelleimmagini parlanti, semplici, e illustrate da un motto, cheservono a raffigurare una verità morale, e di cui si hannograndi raccolte per opera di J. Camerarius, Alciatus e al-tri: esse formano il trapasso verso l'allegoria poetica,della quale sarà trattato in seguito. La scultura greca sirivolge all'intuizione, e però ella è estetica; l'indostana sirivolge al concetto, e però è solamente simbolica.

Questo giudizio dell'allegoria, poggiato sulle conside-razioni fin qui da noi fatte intorno all'intimo esseredell'arte, e con quelle strettamente connesso, è propriol'opposto dell'opinione di Winckelmann; il quale lungidal dichiarar l'allegoria affatto estranea all'arte, e a leispesso dannosa, costantemente ne sostiene le parti, anzi(Werke, vol. I, pp. 55 sg.) pone il supremo fine dell'artenella «rappresentazione di concetti generali e di cose

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non percettibili dai sensi». Sia libero ciascuno d'acco-starsi all'una o all'altra opinione. Ma a me, davanti aquesta ed a consimili opinioni di Winckelmann, concer-nenti la vera e propria metafisica dell'arte, apparve lim-pida la persuasione, che si possa aver la massima sensi-bilità e il più esatto giudizio intorno al bello artistico,senza tuttavia essere in grado di dar ragione astratta epropriamente filosofica dell'essenza del bello e dell'arte:così come si può esser d'animo nobilissimo e virtuoso, eavere una coscienza molto delicata, la quale di caso incaso proceda con l'esattezza d'una bilancia di precisione,senza perciò essere in grado di approfondir filosofica-mente e rappresentare in abstracto il valore etico delleazioni.

Ma un tutt'altro rapporto ha l'allegoria con la poesiache non con l'arte figurativa, e sebbene qui sia da re-spingere, colà è volentieri ammessa e vantaggiosa. Im-perocché nell'arte figurativa ella conduce dal dato intui-tivo, dal vero oggetto di tutte le arti, al pensiero astratto;mentre nella poesia è il rapporto inverso. Nella poesiaquel ch'è dato direttamente con le parole è il concetto, escopo più prossimo è sempre il condur da questo al datointuitivo, la cui rappresentazione dev'essere intrapresadalla fantasia dell'ascoltatore. Se nell'arte figurativa s'ècondotti dal dato immediato verso qualche altra cosa,questa dev'esser sempre un concetto, perché qui soltantol'astratto non può esser dato immediatamente; ma unconcetto non può mai esser l'origine, né la sua comuni-cazione esser lo scopo di un'opera d'arte. Viceversa nella

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non percettibili dai sensi». Sia libero ciascuno d'acco-starsi all'una o all'altra opinione. Ma a me, davanti aquesta ed a consimili opinioni di Winckelmann, concer-nenti la vera e propria metafisica dell'arte, apparve lim-pida la persuasione, che si possa aver la massima sensi-bilità e il più esatto giudizio intorno al bello artistico,senza tuttavia essere in grado di dar ragione astratta epropriamente filosofica dell'essenza del bello e dell'arte:così come si può esser d'animo nobilissimo e virtuoso, eavere una coscienza molto delicata, la quale di caso incaso proceda con l'esattezza d'una bilancia di precisione,senza perciò essere in grado di approfondir filosofica-mente e rappresentare in abstracto il valore etico delleazioni.

Ma un tutt'altro rapporto ha l'allegoria con la poesiache non con l'arte figurativa, e sebbene qui sia da re-spingere, colà è volentieri ammessa e vantaggiosa. Im-perocché nell'arte figurativa ella conduce dal dato intui-tivo, dal vero oggetto di tutte le arti, al pensiero astratto;mentre nella poesia è il rapporto inverso. Nella poesiaquel ch'è dato direttamente con le parole è il concetto, escopo più prossimo è sempre il condur da questo al datointuitivo, la cui rappresentazione dev'essere intrapresadalla fantasia dell'ascoltatore. Se nell'arte figurativa s'ècondotti dal dato immediato verso qualche altra cosa,questa dev'esser sempre un concetto, perché qui soltantol'astratto non può esser dato immediatamente; ma unconcetto non può mai esser l'origine, né la sua comuni-cazione esser lo scopo di un'opera d'arte. Viceversa nella

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poesia il concetto è il materiale, il dato immediato, chesi può quindi benissimo abbandonare, per far nascereun'immagine intuitiva del tutto diversa, con la qualevien raggiunto lo scopo. Nella connessione di una poe-sia può qualche concetto, o pensiero astratto, essere in-dispensabile, pur non potendo in sé e direttamente esserdato all'intuizione: esso viene allora sovente reso intui-bile per mezzo d'un qualunque esempio che vi si possasussumere. Questo si vede già in ogni espressione figu-rata, e accade in ogni metafora, paragone, parabola e al-legoria, – tutte figure, che si distinguono solo per la lun-ghezza e ampiezza della loro rappresentazione. Per talmotivo sono d'eccellente effetto paragoni e allegorienelle arti oratorie. Come dice bene Cervantes del sonno,per significare ch'esso ci sottrae a tutti i dolori morali ecorporali, «essere un mantello che copre l'uomo tuttoquanto!». Come bene esprime Kleist allegoricamente ilpensiero, che filosofi e scienziati rischiarano il genereumano, nel verso:

Quei, la cui lampa notturna la terra tutta rischiara!70

Come fortemente e limpidamente Omero indica Atedi mali apportatrice, dicendo: «ella ha piedi delicati,poiché non calpesta la dura terra, ma s'aggira soltantosulle teste degli uomini» (Il., XIX, 91)! Che effetto ebbesul fuoruscito popolo romano la favola, detta da Mene-nio Agrippa, dello stomaco e delle membra! Comel'allegoria platonica della caverna, già riferita, bellamen-70 Si veda il cap. 34 del secondo volume [pp. 420-4 del tomo II dell'ed. cit.].

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poesia il concetto è il materiale, il dato immediato, chesi può quindi benissimo abbandonare, per far nascereun'immagine intuitiva del tutto diversa, con la qualevien raggiunto lo scopo. Nella connessione di una poe-sia può qualche concetto, o pensiero astratto, essere in-dispensabile, pur non potendo in sé e direttamente esserdato all'intuizione: esso viene allora sovente reso intui-bile per mezzo d'un qualunque esempio che vi si possasussumere. Questo si vede già in ogni espressione figu-rata, e accade in ogni metafora, paragone, parabola e al-legoria, – tutte figure, che si distinguono solo per la lun-ghezza e ampiezza della loro rappresentazione. Per talmotivo sono d'eccellente effetto paragoni e allegorienelle arti oratorie. Come dice bene Cervantes del sonno,per significare ch'esso ci sottrae a tutti i dolori morali ecorporali, «essere un mantello che copre l'uomo tuttoquanto!». Come bene esprime Kleist allegoricamente ilpensiero, che filosofi e scienziati rischiarano il genereumano, nel verso:

Quei, la cui lampa notturna la terra tutta rischiara!70

Come fortemente e limpidamente Omero indica Atedi mali apportatrice, dicendo: «ella ha piedi delicati,poiché non calpesta la dura terra, ma s'aggira soltantosulle teste degli uomini» (Il., XIX, 91)! Che effetto ebbesul fuoruscito popolo romano la favola, detta da Mene-nio Agrippa, dello stomaco e delle membra! Comel'allegoria platonica della caverna, già riferita, bellamen-70 Si veda il cap. 34 del secondo volume [pp. 420-4 del tomo II dell'ed. cit.].

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te esprime all'inizio del settimo libro della Repubblicaun astrattissimo dogma filosofico! Similmente va consi-derata come profonda allegoria di filosofica tendenza lafavola di Persefone, la quale, per avere gustato una me-lagrana nel mondo sotterraneo, cade in potere di questo:e ciò appare soprattutto luminosamente nella trattazione,superiore a ogni lode, che di tal favola Goethe ha intrec-ciato come episodio nel Trionfo della sensibilità. Treampie opere allegoriche io conosco: allegorica è inmodo aperto ed espresso l'incomparabile Criticon diBaldassar Gracian, consistente in un vasto, ricco tessutod'allegorie profondissime intrecciate l'un con l'altra, lequali servono qui a rivestir gaiamente verità morali, cuilo scrittore dà appunto in tal modo la massima evidenzaintuitiva, stupefacendosi con la ricchezza delle sue in-venzioni. Due allegorie dissimulate sono invece il DonChisciotte e Gulliver in Lulliput. Quello rappresenta al-legoricamente la vita di ciascuno, il quale non voglia,come gli altri, pensare soltanto al suo interesse persona-le, ma persegua un fine obiettivo, ideale, che s'è impa-dronito del suo pensiero e della sua volontà, per la qualcosa egli finisce, a dir vero, col comportarsi in questomondo un po' stranamente. Nel Gulliver basta dar sensomorale a tutto ciò ch'è materiale, per accorgersi a cheabbia mirato quel satirical rogue, come lo chiamerebbeAmleto. Essendo adunque dato costante dell'allegoriapoetica il concetto, che quella vuol rendere intuitivo me-diante un'immagine, potrà dessa talvolta esprimersi oaiutarsi magari con un'immagine dipinta: ma questa non

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te esprime all'inizio del settimo libro della Repubblicaun astrattissimo dogma filosofico! Similmente va consi-derata come profonda allegoria di filosofica tendenza lafavola di Persefone, la quale, per avere gustato una me-lagrana nel mondo sotterraneo, cade in potere di questo:e ciò appare soprattutto luminosamente nella trattazione,superiore a ogni lode, che di tal favola Goethe ha intrec-ciato come episodio nel Trionfo della sensibilità. Treampie opere allegoriche io conosco: allegorica è inmodo aperto ed espresso l'incomparabile Criticon diBaldassar Gracian, consistente in un vasto, ricco tessutod'allegorie profondissime intrecciate l'un con l'altra, lequali servono qui a rivestir gaiamente verità morali, cuilo scrittore dà appunto in tal modo la massima evidenzaintuitiva, stupefacendosi con la ricchezza delle sue in-venzioni. Due allegorie dissimulate sono invece il DonChisciotte e Gulliver in Lulliput. Quello rappresenta al-legoricamente la vita di ciascuno, il quale non voglia,come gli altri, pensare soltanto al suo interesse persona-le, ma persegua un fine obiettivo, ideale, che s'è impa-dronito del suo pensiero e della sua volontà, per la qualcosa egli finisce, a dir vero, col comportarsi in questomondo un po' stranamente. Nel Gulliver basta dar sensomorale a tutto ciò ch'è materiale, per accorgersi a cheabbia mirato quel satirical rogue, come lo chiamerebbeAmleto. Essendo adunque dato costante dell'allegoriapoetica il concetto, che quella vuol rendere intuitivo me-diante un'immagine, potrà dessa talvolta esprimersi oaiutarsi magari con un'immagine dipinta: ma questa non

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s'ha però da considerare come opera dell'arte figurativa,bensì unicamente qual parlante geroglifico; né può pre-tendere d'aver valore artistico, bensì solo poetico. Di talnatura è quella bella vignetta allegorica di Lavater, chetanto deve rianimare il cuore a ciascun nobile combat-tente per la verità: una mano, che sorreggendo una fiac-cola viene punta da una vespa, mentre alla fiamma sibruciano dei moscerini; e in basso sta il motto:

S'arda pure le ali il moscerino,Gli scoppi il capo e il piccolo cervello;

La luce riman sempre luce.E s'anco la vespa più irosa mi punge,

Non lascio la luce cadere71.

Qui va ricordata inoltre quella pietra sepolcrale conun lume spento dal soffio, e che fuma; col motto:

Quand'è spento, si rende allor paleseSe luce era di sego, oppur di cera72.

Dello stesso genere è infine un antico albero genealo-gico tedesco, nel quale l'ultimo rampollo della remotis-sima schiatta espresse il suo proposito di menar la vitain tutta continenza e castità, lasciando così perire la stir-

71 Und ob's auch der Mücke den Flügel versengt,Den Schädel und all sein Gehirnchen zerprengt;

Licht bleibet doch Licht;Und wenn auch die grimmigste Wespe mich sticht,

Ich lass'es doch nicht.72 Wann's aus ist, wird es offenbar,Ob's Talglicht, oder Wachslicht war.

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s'ha però da considerare come opera dell'arte figurativa,bensì unicamente qual parlante geroglifico; né può pre-tendere d'aver valore artistico, bensì solo poetico. Di talnatura è quella bella vignetta allegorica di Lavater, chetanto deve rianimare il cuore a ciascun nobile combat-tente per la verità: una mano, che sorreggendo una fiac-cola viene punta da una vespa, mentre alla fiamma sibruciano dei moscerini; e in basso sta il motto:

S'arda pure le ali il moscerino,Gli scoppi il capo e il piccolo cervello;

La luce riman sempre luce.E s'anco la vespa più irosa mi punge,

Non lascio la luce cadere71.

Qui va ricordata inoltre quella pietra sepolcrale conun lume spento dal soffio, e che fuma; col motto:

Quand'è spento, si rende allor paleseSe luce era di sego, oppur di cera72.

Dello stesso genere è infine un antico albero genealo-gico tedesco, nel quale l'ultimo rampollo della remotis-sima schiatta espresse il suo proposito di menar la vitain tutta continenza e castità, lasciando così perire la stir-

71 Und ob's auch der Mücke den Flügel versengt,Den Schädel und all sein Gehirnchen zerprengt;

Licht bleibet doch Licht;Und wenn auch die grimmigste Wespe mich sticht,

Ich lass'es doch nicht.72 Wann's aus ist, wird es offenbar,Ob's Talglicht, oder Wachslicht war.

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pe, col rappresentar se stesso vicino alla radice dell'albe-ro dai molti rami, nell'atto di reciderlo con le forbici eabbatterlo su di sé. E sempre di questo medesimo tiposono tutte le immagini parlanti più sopra ricordate, detteemblemi, che si potrebbero anche definir brevi favole acolori, con la morale formulata in parole. Cosiffatte alle-gorie vanno sempre annoverate tra le poetiche, non trale pittoriche, e appunto perciò sono ammesse: la rappre-sentazione figurata vi sta ognora come un accessorio, eda lei non altro si domanda che di far conoscere la cosa.Ma come nell'arte figurativa, così anche nella poesial'allegoria diventa simbolo, quando tra l'oggetto presen-tato all'intuizione e l'astrazione per suo mezzo indicatanon è altro legame, se non arbitrario. Appunto perchéogni rapporto simbolico poggia in sostanza sopra unaconvenzione, tra gli altri svantaggi il simbolo ha purquello che il suo significato si dimentica col tempo, e fi-nisce col perdersi del tutto: chi indovinerebbe, se non losapesse, perché il pesce è simbolo del Cristianesimo?Soltanto uno Champolion: essendo esso in tutto e pertutto un geroglifico fonetico. E perciò l'Apocalissi diGiovanni ci sta ora innanzi press'a poco come i bassori-lievi con l'iscrizione magnus Deus sol Mithra, intorno aiquali ancor si fanno chiose73.

§ 51.Se ora, armati delle nostre considerazioni precedenti

73 Si veda il cap. 36 del secondo volume [pp. 434-9 del tomo II dell'ed. cit.].

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pe, col rappresentar se stesso vicino alla radice dell'albe-ro dai molti rami, nell'atto di reciderlo con le forbici eabbatterlo su di sé. E sempre di questo medesimo tiposono tutte le immagini parlanti più sopra ricordate, detteemblemi, che si potrebbero anche definir brevi favole acolori, con la morale formulata in parole. Cosiffatte alle-gorie vanno sempre annoverate tra le poetiche, non trale pittoriche, e appunto perciò sono ammesse: la rappre-sentazione figurata vi sta ognora come un accessorio, eda lei non altro si domanda che di far conoscere la cosa.Ma come nell'arte figurativa, così anche nella poesial'allegoria diventa simbolo, quando tra l'oggetto presen-tato all'intuizione e l'astrazione per suo mezzo indicatanon è altro legame, se non arbitrario. Appunto perchéogni rapporto simbolico poggia in sostanza sopra unaconvenzione, tra gli altri svantaggi il simbolo ha purquello che il suo significato si dimentica col tempo, e fi-nisce col perdersi del tutto: chi indovinerebbe, se non losapesse, perché il pesce è simbolo del Cristianesimo?Soltanto uno Champolion: essendo esso in tutto e pertutto un geroglifico fonetico. E perciò l'Apocalissi diGiovanni ci sta ora innanzi press'a poco come i bassori-lievi con l'iscrizione magnus Deus sol Mithra, intorno aiquali ancor si fanno chiose73.

§ 51.Se ora, armati delle nostre considerazioni precedenti

73 Si veda il cap. 36 del secondo volume [pp. 434-9 del tomo II dell'ed. cit.].

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sull'arte in generale, ci volgiamo dalle arti figurative allapoesia, non dubiteremo, che anch'essa si proponga di ri-velar le idee – gradi dell'oggettivazione della volontà – econ quella chiarezza e vivacità, in cui le percepì l'animodel poeta, comunicarle all'ascoltatore. Le idee sono es-senzialmente intuitive: se quindi ciò, che nella poesiavien comunicato direttamente con parole, sono concettiastratti, è nondimeno palese l'intenzione di far che il let-tore intuisca, nei rappresentanti di codesti concetti, leidee della vita; la qual cosa non può aversi senza l'aiutodella fantasia di lui. Ma per scuoter quest'ultima in con-formità del fine, devono i concetti astratti, che sono ildiretto materiale della poesia come della più arida prosa,esser riuniti in modo, che le loro sfere s'intersechino, sìche nessuna possa permaner nella sua astratta universa-lità; e in luogo di questa si presenti alla fantasia un suorappresentante intuitivo, che le parole del poeta venganosempre più a modificare secondo l'intento proposto.Come il chimico da liquidi affatto chiari e trasparenti ri-cava, mescolandoli, precipitazioni solide, così il poetasa dall'astratta, trasparente universalità dei concetti, se-condo la maniera con cui li collega, far precipitare ilconcreto, l'individuale, la rappresentazione intuitiva. Im-perocché solo intuitivamente vien conosciuta l'idea: econoscenza dell'idea è lo scopo di tutte le arti. La mae-stria del poeta, come quella del chimico, lo fa capace diraccoglier sempre quel precipitato per l'appunto che siera proposto. A tal fine servono nella poesia i molti epi-teti, dai quali viene limitata l'universalità di ciascun con-

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sull'arte in generale, ci volgiamo dalle arti figurative allapoesia, non dubiteremo, che anch'essa si proponga di ri-velar le idee – gradi dell'oggettivazione della volontà – econ quella chiarezza e vivacità, in cui le percepì l'animodel poeta, comunicarle all'ascoltatore. Le idee sono es-senzialmente intuitive: se quindi ciò, che nella poesiavien comunicato direttamente con parole, sono concettiastratti, è nondimeno palese l'intenzione di far che il let-tore intuisca, nei rappresentanti di codesti concetti, leidee della vita; la qual cosa non può aversi senza l'aiutodella fantasia di lui. Ma per scuoter quest'ultima in con-formità del fine, devono i concetti astratti, che sono ildiretto materiale della poesia come della più arida prosa,esser riuniti in modo, che le loro sfere s'intersechino, sìche nessuna possa permaner nella sua astratta universa-lità; e in luogo di questa si presenti alla fantasia un suorappresentante intuitivo, che le parole del poeta venganosempre più a modificare secondo l'intento proposto.Come il chimico da liquidi affatto chiari e trasparenti ri-cava, mescolandoli, precipitazioni solide, così il poetasa dall'astratta, trasparente universalità dei concetti, se-condo la maniera con cui li collega, far precipitare ilconcreto, l'individuale, la rappresentazione intuitiva. Im-perocché solo intuitivamente vien conosciuta l'idea: econoscenza dell'idea è lo scopo di tutte le arti. La mae-stria del poeta, come quella del chimico, lo fa capace diraccoglier sempre quel precipitato per l'appunto che siera proposto. A tal fine servono nella poesia i molti epi-teti, dai quali viene limitata l'universalità di ciascun con-

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cetto, sempre più, fino a renderlo intuibile. Omero ac-coppia quasi a ogni sostantivo un aggettivo, il cui con-cetto taglia la sfera del concetto primo, e tosto conside-revolmente la riduce, sì che questo già molto s'avvicinaall'intuizione: per esempio

Εν δ’επεσ΄ Ωκεανω λαµπρον φαος ηελιοιο,‘Ελκον νυκτα µελαιναν επι ξειδωρον αρουραν.

(Occidit vero in Oceanum splendidum lumen solis,Trahens noctem nigram super almam terram).

E i versi:Un lieve vento dal cielo azzurro spira,Sta immoto il mirto ed alto sta l'alloro74.

Da pochi concetti traggono innanzi alla fantasia sen-sibilmente tutta l'ebbrezza del clima meridionale.

Ausiliarii tutti proprii della poesia sono ritmo e rima.Del loro effetto, efficace in modo incredibile, non sodare altra spiegazione se non questa: che le nostre forzerappresentative, essenzialmente legate al tempo, ne ab-biano derivata una proprietà, in grazia della quale noi sisegue internamente ogni suono ripetentesi a regolari in-tervalli, e quasi facciamo coro. Perciò in parte ritmo erima diventano un vincolo per la nostra attenzione, fa-cendoci ascoltar più volentieri la recitazione; e in partesorge dentro di noi per loro mezzo quasi un intuitivo ac-

74 Ein sanfter Wind vom blauen Himmel weht,Die Myrte stili und hoch der Lorbeer steht.

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cetto, sempre più, fino a renderlo intuibile. Omero ac-coppia quasi a ogni sostantivo un aggettivo, il cui con-cetto taglia la sfera del concetto primo, e tosto conside-revolmente la riduce, sì che questo già molto s'avvicinaall'intuizione: per esempio

Εν δ’επεσ΄ Ωκεανω λαµπρον φαος ηελιοιο,‘Ελκον νυκτα µελαιναν επι ξειδωρον αρουραν.

(Occidit vero in Oceanum splendidum lumen solis,Trahens noctem nigram super almam terram).

E i versi:Un lieve vento dal cielo azzurro spira,Sta immoto il mirto ed alto sta l'alloro74.

Da pochi concetti traggono innanzi alla fantasia sen-sibilmente tutta l'ebbrezza del clima meridionale.

Ausiliarii tutti proprii della poesia sono ritmo e rima.Del loro effetto, efficace in modo incredibile, non sodare altra spiegazione se non questa: che le nostre forzerappresentative, essenzialmente legate al tempo, ne ab-biano derivata una proprietà, in grazia della quale noi sisegue internamente ogni suono ripetentesi a regolari in-tervalli, e quasi facciamo coro. Perciò in parte ritmo erima diventano un vincolo per la nostra attenzione, fa-cendoci ascoltar più volentieri la recitazione; e in partesorge dentro di noi per loro mezzo quasi un intuitivo ac-

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compagnamento musicale, anteriore a ogni giudizio, diciò che vien recitato: dal che questo prende un certo po-tere di persuasione enfatico, indipendente da tutte le ra-gioni.

Per l'universalità della materia, di cui la poesia si valea comunicar le idee – ossia, de' concetti – molto vasta èla cerchia del suo dominio. La natura tutta quanta, leidee in tutti i gradi si posson per suo mezzo rappresenta-re, nel mentre ella, a seconda dell'idea che vuol comuni-carci, procede or descrivendo, ora narrando, ora rappre-sentando direttamente in forma drammatica. Ma, se nelrappresentare i gradi infimi dell'oggettità della volontà,l'arte figurativa supera il più delle volte la poesia, perchéla natura inconsciente e anche quella puramente animaletutta l'essenza loro rivelano in un unico momento bencolto; viceversa è l'uomo – in quanto non con la sempli-ce sua forma o con l'espressione del volto rivela se stes-so, ma con una catena d'azioni e coi pensieri e affettiche l'accompagnano – il principale oggetto della poesia:e nessun'altra arte può gareggiare con lei, perché in que-sto alla poesia soccorre il progressivo sviluppodell'argomento, negato alle arti figurative.

Rivelazione di quella idea, che è il grado più altonell'oggettità della volontà, rappresentazione dell'uomonella serie coordinata delle sue tendenze e dei suoi atti,questo è il grande soggetto della poesia. È vero bensìche anche l'esperienza, anche la storia insegnano a co-noscere l'uomo; ma più spesso gli uomini che nonl'uomo: ossia danno notizie empiriche sul contegno de-

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compagnamento musicale, anteriore a ogni giudizio, diciò che vien recitato: dal che questo prende un certo po-tere di persuasione enfatico, indipendente da tutte le ra-gioni.

Per l'universalità della materia, di cui la poesia si valea comunicar le idee – ossia, de' concetti – molto vasta èla cerchia del suo dominio. La natura tutta quanta, leidee in tutti i gradi si posson per suo mezzo rappresenta-re, nel mentre ella, a seconda dell'idea che vuol comuni-carci, procede or descrivendo, ora narrando, ora rappre-sentando direttamente in forma drammatica. Ma, se nelrappresentare i gradi infimi dell'oggettità della volontà,l'arte figurativa supera il più delle volte la poesia, perchéla natura inconsciente e anche quella puramente animaletutta l'essenza loro rivelano in un unico momento bencolto; viceversa è l'uomo – in quanto non con la sempli-ce sua forma o con l'espressione del volto rivela se stes-so, ma con una catena d'azioni e coi pensieri e affettiche l'accompagnano – il principale oggetto della poesia:e nessun'altra arte può gareggiare con lei, perché in que-sto alla poesia soccorre il progressivo sviluppodell'argomento, negato alle arti figurative.

Rivelazione di quella idea, che è il grado più altonell'oggettità della volontà, rappresentazione dell'uomonella serie coordinata delle sue tendenze e dei suoi atti,questo è il grande soggetto della poesia. È vero bensìche anche l'esperienza, anche la storia insegnano a co-noscere l'uomo; ma più spesso gli uomini che nonl'uomo: ossia danno notizie empiriche sul contegno de-

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gli uomini tra loro, dalle quali emergono regole per lacondotta individuale, piuttosto che far penetrare losguardo addentro nell'intimo essere dell'uomo. Non chequesta penetrazione sia loro del tutto preclusa: ma ogniqual volta veramente si apra a noi nella storia, o nellapersonale esperienza, l'essenza dell'umanità, vuol direche o da noi l'esperienza, o dallo storico la storia sonostate percepite già con occhi d'artista, poeticamente, os-sia nell'idea, e non nel fenomeno, nell'intimo essere, enon nelle relazioni. Assoluta condizione, per compren-dere la poesia come la storia, è l'esperienza propria: per-ché è quasi il dizionario della lingua, che parlano en-trambe. Ma la storia sta alla poesia come il ritratto sta alquadro storico: quello rende il vero nel particolare, que-sto il vero in generale: quello rende la verità del feno-meno, e col fenomeno documenta la verità; questo rendela verità dell'idea, che non si trova in nessun fenomenosingolo ma da tutti parla. Il poeta rappresenta con op-portuna scelta e intenzione significanti caratteri in signi-ficanti situazioni: lo storico prende queste e quelli comevengono. Anzi, egli non ha da considerare e scegliere lecircostanze e le persone secondo la loro interna, genuinasignificazione, esprimente l'idea; ma piuttosto secondola significazione esterna, apparente, relativa, importanterispetto ai loro nessi, alle loro conseguenze. Nessunacosa può guardare in sé e per sé, nel carattere enell'espressione essenziali, bensì deve tutto considerarein rapporto alla relazione, alla concatenazione, all'influs-so e a ciò che ne consegue; in rapporto, soprattutto, alla

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gli uomini tra loro, dalle quali emergono regole per lacondotta individuale, piuttosto che far penetrare losguardo addentro nell'intimo essere dell'uomo. Non chequesta penetrazione sia loro del tutto preclusa: ma ogniqual volta veramente si apra a noi nella storia, o nellapersonale esperienza, l'essenza dell'umanità, vuol direche o da noi l'esperienza, o dallo storico la storia sonostate percepite già con occhi d'artista, poeticamente, os-sia nell'idea, e non nel fenomeno, nell'intimo essere, enon nelle relazioni. Assoluta condizione, per compren-dere la poesia come la storia, è l'esperienza propria: per-ché è quasi il dizionario della lingua, che parlano en-trambe. Ma la storia sta alla poesia come il ritratto sta alquadro storico: quello rende il vero nel particolare, que-sto il vero in generale: quello rende la verità del feno-meno, e col fenomeno documenta la verità; questo rendela verità dell'idea, che non si trova in nessun fenomenosingolo ma da tutti parla. Il poeta rappresenta con op-portuna scelta e intenzione significanti caratteri in signi-ficanti situazioni: lo storico prende queste e quelli comevengono. Anzi, egli non ha da considerare e scegliere lecircostanze e le persone secondo la loro interna, genuinasignificazione, esprimente l'idea; ma piuttosto secondola significazione esterna, apparente, relativa, importanterispetto ai loro nessi, alle loro conseguenze. Nessunacosa può guardare in sé e per sé, nel carattere enell'espressione essenziali, bensì deve tutto considerarein rapporto alla relazione, alla concatenazione, all'influs-so e a ciò che ne consegue; in rapporto, soprattutto, alla

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sua epoca. Non potrà quindi trascurar l'azione di un re,anche se poco importante, anzi in se stessa ordinaria:perché quest'azione ha conseguenze ed effetto. Vicever-sa non dovrà far cenno di azioni per se medesime signi-ficantissime, compiute da singoli, eminenti individui,quando non abbiano avuto né conseguenze né effetto.Imperocché la sua indagine procede secondo il principiodi ragione, e s'attacca al fenomeno, di cui quello è for-ma. Coglie invece il poeta le idee, l'essenza dell'umani-tà, fuori d'ogni relazione, fuor d'ogni tempo, adeguataoggettità della cosa in sé nel suo grado più alto. Anchese in quella maniera d'indagine ch'è necessaria allo sto-rico non può andar del tutto smarrita l'essenza intima, lasignificanza dei fenomeni, il nocciolo di tutti quei gusci,o almeno la si lascia ancora scoprire e riconoscere dachi la cerca; tuttavia quel che per se stesso e non per lesue relazioni è importante, ossia il vero sviluppodell'idea, si ritroverà di gran lunga più preciso e limpidonella poesia che non nella storia. Ed alla poesia, perquanto suoni paradossale, sarà quindi da attribuire moltopiù genuina, intima, vera verità che alla storia. Imperoc-ché lo storico è obbligato a seguire con esattezza glieventi individuali secondo il corso della vita, quale sisvolge nel tempo in concatenazioni variamente intrec-ciate di cause e di effetti; ma gli è impossibile di cono-scer tutti i dati, tutto vedere, tutto investigare: ad ogniistante l'originale del suo quadro si allontana, oppure unoriginale falso si frappone innanzi al vero; e questo ac-cade tanto spesso, ch'io credo potermi convincere essere

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sua epoca. Non potrà quindi trascurar l'azione di un re,anche se poco importante, anzi in se stessa ordinaria:perché quest'azione ha conseguenze ed effetto. Vicever-sa non dovrà far cenno di azioni per se medesime signi-ficantissime, compiute da singoli, eminenti individui,quando non abbiano avuto né conseguenze né effetto.Imperocché la sua indagine procede secondo il principiodi ragione, e s'attacca al fenomeno, di cui quello è for-ma. Coglie invece il poeta le idee, l'essenza dell'umani-tà, fuori d'ogni relazione, fuor d'ogni tempo, adeguataoggettità della cosa in sé nel suo grado più alto. Anchese in quella maniera d'indagine ch'è necessaria allo sto-rico non può andar del tutto smarrita l'essenza intima, lasignificanza dei fenomeni, il nocciolo di tutti quei gusci,o almeno la si lascia ancora scoprire e riconoscere dachi la cerca; tuttavia quel che per se stesso e non per lesue relazioni è importante, ossia il vero sviluppodell'idea, si ritroverà di gran lunga più preciso e limpidonella poesia che non nella storia. Ed alla poesia, perquanto suoni paradossale, sarà quindi da attribuire moltopiù genuina, intima, vera verità che alla storia. Imperoc-ché lo storico è obbligato a seguire con esattezza glieventi individuali secondo il corso della vita, quale sisvolge nel tempo in concatenazioni variamente intrec-ciate di cause e di effetti; ma gli è impossibile di cono-scer tutti i dati, tutto vedere, tutto investigare: ad ogniistante l'originale del suo quadro si allontana, oppure unoriginale falso si frappone innanzi al vero; e questo ac-cade tanto spesso, ch'io credo potermi convincere essere

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in tutte le storie più di falso che di vero. Il poeta inveceha colto l'idea dell'umanità in uno dei suoi aspetti, chevuol rappresentare. Quel che per lui si oggettiva in quel-la, è l'essenza del suo proprio io: la sua conoscenza è,secondo fu sopra esposto a proposito della scultura,mezza a priori: il suo modello gli sta davanti allo spiri-to, fermo, limpido, in piena luce, e non può allontanarsi:perciò egli ci mostra pura e chiara nello specchio delproprio spirito l'idea, e la raffigurazione, ch'egli ne dà, è,fino ai minimi particolari, vera come la vita stessa75.

75 S'intende ch'io parlo sempre esclusivamente dei rarissimigrandi, genuini poeti: e sono ben lontano dal riferirmi aquell'insulso volgo dei poeti mediocri, fucinatori di rime e in-ventafavole, che oggi soprattutto sì rigoglioso pullula in Ger-mania, e a cui da ogni parte si dovrebbe incessantemente gri-dar negli orecchi:

Mediocribus esse poëtisNon homines, non Dî, non concessere columnae.

È proprio degno di seria considerazione qual mole di tempo, loroe altrui, e di carta sia sciupata da codesto sciame di poeti me-diocri, e come dannoso sia il loro influsso: in parte perché ilpubblico ghermisce sempre le novità, in parte perché esso hada natura maggiore inclinazione verso ciò che è insensato esciatto, essendogli più omogeneo. Perciò le opere dei mediocrilo distolgono e tengono lontano dai veri capolavori e dallacultura, che per mezzo di questi potrebbe acquistare; e operan-do quindi in senso contrario al benigno influsso dei genii,sempre più rovinano il gusto e trattengono il progresso dellegenerazioni. Per tal motivo dovrebbero critica e satira, senzariguardo e pietà, flagellare i poeti mediocri, fin quando essi

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in tutte le storie più di falso che di vero. Il poeta inveceha colto l'idea dell'umanità in uno dei suoi aspetti, chevuol rappresentare. Quel che per lui si oggettiva in quel-la, è l'essenza del suo proprio io: la sua conoscenza è,secondo fu sopra esposto a proposito della scultura,mezza a priori: il suo modello gli sta davanti allo spiri-to, fermo, limpido, in piena luce, e non può allontanarsi:perciò egli ci mostra pura e chiara nello specchio delproprio spirito l'idea, e la raffigurazione, ch'egli ne dà, è,fino ai minimi particolari, vera come la vita stessa75.

75 S'intende ch'io parlo sempre esclusivamente dei rarissimigrandi, genuini poeti: e sono ben lontano dal riferirmi aquell'insulso volgo dei poeti mediocri, fucinatori di rime e in-ventafavole, che oggi soprattutto sì rigoglioso pullula in Ger-mania, e a cui da ogni parte si dovrebbe incessantemente gri-dar negli orecchi:

Mediocribus esse poëtisNon homines, non Dî, non concessere columnae.

È proprio degno di seria considerazione qual mole di tempo, loroe altrui, e di carta sia sciupata da codesto sciame di poeti me-diocri, e come dannoso sia il loro influsso: in parte perché ilpubblico ghermisce sempre le novità, in parte perché esso hada natura maggiore inclinazione verso ciò che è insensato esciatto, essendogli più omogeneo. Perciò le opere dei mediocrilo distolgono e tengono lontano dai veri capolavori e dallacultura, che per mezzo di questi potrebbe acquistare; e operan-do quindi in senso contrario al benigno influsso dei genii,sempre più rovinano il gusto e trattengono il progresso dellegenerazioni. Per tal motivo dovrebbero critica e satira, senzariguardo e pietà, flagellare i poeti mediocri, fin quando essi

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I grandi storici antichi sono perciò, quando pongonoin disparte gli elementi di fatto, per esempio, nei discor-si dei loro eroi, poeti; ed anzi tutta la loro trattazionedella materia tiene dell'epico: ciò che per l'appunto dàunità ai loro racconti, e fa che questi contengano la veri-tà interna pur là dove l'esterna non era agli storici acces-sibile, o addirittura era falsata. E se dianzi paragonam-mo la storia al ritratto, in opposizione alla poesia checorrisponderebbe alla pittura storica, troviamo che lamassima di Winckelmann, dovere il ritratto esser l'idea-le dell'individuo, fu seguita pur dagli antichi storici, rap-presentando essi il singolo in modo che ne risultassel'idea dell'umanità dentro esprimentevisi: mentre i mo-derni, pochi eccettuati, non offrono di solito che «un ce-sto di spazzatura e un ripostiglio d'oggetti fuori uso, e alpiù affari capitali e di stato». A quegli adunque, chevuol conoscere l'umanità nella sua intima essenza, iden-tica in tutti i fenomeni e svolgimenti, nella sua idea, of-friranno le opere dei grandi, immortali poeti un quadroben più fedele e limpido che non possano gli storici of-frirgli: imperocché anche i migliori tra questi sono lungidall'esser come poeti i primi, e inoltre non hanno lamano libera. Il loro reciproco rapporto, sotto questo ri-

fossero, pel loro meglio, ridotti a tale da impiegar più volen-tieri i loro ozii a legger cose buone, che a scriverne di cattive.Poi che se l'acciabattamento dei poetastri indusse perfino ilmite Dio delle Muse in tal furore, ch'egli poté scuojare Mar-sia, non vedo su che cosa possa la mediocre poesia fondare lesue pretese di tolleranza.

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I grandi storici antichi sono perciò, quando pongonoin disparte gli elementi di fatto, per esempio, nei discor-si dei loro eroi, poeti; ed anzi tutta la loro trattazionedella materia tiene dell'epico: ciò che per l'appunto dàunità ai loro racconti, e fa che questi contengano la veri-tà interna pur là dove l'esterna non era agli storici acces-sibile, o addirittura era falsata. E se dianzi paragonam-mo la storia al ritratto, in opposizione alla poesia checorrisponderebbe alla pittura storica, troviamo che lamassima di Winckelmann, dovere il ritratto esser l'idea-le dell'individuo, fu seguita pur dagli antichi storici, rap-presentando essi il singolo in modo che ne risultassel'idea dell'umanità dentro esprimentevisi: mentre i mo-derni, pochi eccettuati, non offrono di solito che «un ce-sto di spazzatura e un ripostiglio d'oggetti fuori uso, e alpiù affari capitali e di stato». A quegli adunque, chevuol conoscere l'umanità nella sua intima essenza, iden-tica in tutti i fenomeni e svolgimenti, nella sua idea, of-friranno le opere dei grandi, immortali poeti un quadroben più fedele e limpido che non possano gli storici of-frirgli: imperocché anche i migliori tra questi sono lungidall'esser come poeti i primi, e inoltre non hanno lamano libera. Il loro reciproco rapporto, sotto questo ri-

fossero, pel loro meglio, ridotti a tale da impiegar più volen-tieri i loro ozii a legger cose buone, che a scriverne di cattive.Poi che se l'acciabattamento dei poetastri indusse perfino ilmite Dio delle Muse in tal furore, ch'egli poté scuojare Mar-sia, non vedo su che cosa possa la mediocre poesia fondare lesue pretese di tolleranza.

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spetto, può ancora esser chiarito dal paragone che segue.Lo storico semplice, puro, che non lavora se non suidati, somiglia a taluno, che, senza conoscere punto lamatematica, da figure per caso ritrovate calcola, misu-rando, i rapporti loro, venendo a un risultato empiricocui sono inerenti tutti gli errori della disegnata figura:mentre il poeta somiglia al matematico, che quelle rela-zioni costruisce a priori, in pura intuizione, e li manife-sta non quali sono effettivamente nella figura disegnata,ma quali nell'idea ond'è immagine sensibile il disegno.Perciò dice Schiller:

Quello che mai né in alcun luogo è stato,Quello soltanto non invecchia mai76.

Devo anzi, in riguardo alla cognizione dell'essenzadell'umanità, attribuire maggior pregio alle biografie, esoprattutto alle autobiografie, che non alla storia vera epropria – almeno come di solito è trattata. Imperocchéper un verso sono in quelle raccolti i dati con più preci-sione e compiutezza che in questa; per l'altro, nella sto-ria vera e propria non agiscono tanto uomini quanto po-poli ed eserciti, e gl'individui, che riescono ad entrarvi,appariscono a sì gran distanza, con sì gran contorno etale seguito, e coperti per di più da rigidi abiti di gala, egrevi, non pieghevoli armature, che davvero difficile sirende il riconoscere fra tutto questo il moto umano. In-vece la vita fedelmente esposta di un singolo individuo,

76 Was sich nie und nirgends hat begeben,Das allien veraltet nie.

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spetto, può ancora esser chiarito dal paragone che segue.Lo storico semplice, puro, che non lavora se non suidati, somiglia a taluno, che, senza conoscere punto lamatematica, da figure per caso ritrovate calcola, misu-rando, i rapporti loro, venendo a un risultato empiricocui sono inerenti tutti gli errori della disegnata figura:mentre il poeta somiglia al matematico, che quelle rela-zioni costruisce a priori, in pura intuizione, e li manife-sta non quali sono effettivamente nella figura disegnata,ma quali nell'idea ond'è immagine sensibile il disegno.Perciò dice Schiller:

Quello che mai né in alcun luogo è stato,Quello soltanto non invecchia mai76.

Devo anzi, in riguardo alla cognizione dell'essenzadell'umanità, attribuire maggior pregio alle biografie, esoprattutto alle autobiografie, che non alla storia vera epropria – almeno come di solito è trattata. Imperocchéper un verso sono in quelle raccolti i dati con più preci-sione e compiutezza che in questa; per l'altro, nella sto-ria vera e propria non agiscono tanto uomini quanto po-poli ed eserciti, e gl'individui, che riescono ad entrarvi,appariscono a sì gran distanza, con sì gran contorno etale seguito, e coperti per di più da rigidi abiti di gala, egrevi, non pieghevoli armature, che davvero difficile sirende il riconoscere fra tutto questo il moto umano. In-vece la vita fedelmente esposta di un singolo individuo,

76 Was sich nie und nirgends hat begeben,Das allien veraltet nie.

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in una sfera limitata, ci mostra la condotta degli uominiin tutte le loro sfumature e in tutti i loro aspetti: l'eccel-lenza, la virtù, anzi la santità di alcuni, la perversità, lamiseria morale, la malizia dei più, la scelleraggine dinon pochi. In ciò, sotto il rispetto che qui esclusivamen-te consideriamo, ossia in rapporto all'intimo significatodel fenomeno, è affatto indifferente, se gli oggetti intor-no a cui s'aggira l'azione siano, relativamente considera-ti, piccolezze o cose di gran peso, masserie o regni: im-perocché tutte codeste cose, senza importanza di per sé,ne acquistano solo in quanto la volontà è da esse agitata;il motivo ha importanza solo per la sua relazione con lavolontà, mentre la relazione, che esso in quanto oggettopuò avere con altri oggetti, non entra punto in gioco.Come un circolo d'un pollice di diametro e un altro conun diametro di quaranta milioni di miglia hanno esatta-mente le stesse proprietà geometriche, così sono gli av-venimenti e la storia d'un villaggio o quelli d'un regno,in sostanza, i medesimi; e si può negli uni come neglialtri studiare e conoscere l'umanità. Si ha anche torto diritenere che le biografie siano in tutto inganno e finzio-ne. Anzi la menzogna (sebbene possibile dappertutto)v'è forse più difficile che altrove. La finzione è facilissi-ma nel semplice conversare; ma – per quanto sembri pa-radossale – è già più difficile in una lettera, perché quivil'uomo, abbandonato a se stesso, guarda in sé e non fuo-ri, stenta ad aver da presso ciò che gli è estraneo e lonta-no, e non ha innanzi agli occhi la misura dell'effetto so-pra un altr'uomo. Quest'altro invece, calmo, in una di-

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in una sfera limitata, ci mostra la condotta degli uominiin tutte le loro sfumature e in tutti i loro aspetti: l'eccel-lenza, la virtù, anzi la santità di alcuni, la perversità, lamiseria morale, la malizia dei più, la scelleraggine dinon pochi. In ciò, sotto il rispetto che qui esclusivamen-te consideriamo, ossia in rapporto all'intimo significatodel fenomeno, è affatto indifferente, se gli oggetti intor-no a cui s'aggira l'azione siano, relativamente considera-ti, piccolezze o cose di gran peso, masserie o regni: im-perocché tutte codeste cose, senza importanza di per sé,ne acquistano solo in quanto la volontà è da esse agitata;il motivo ha importanza solo per la sua relazione con lavolontà, mentre la relazione, che esso in quanto oggettopuò avere con altri oggetti, non entra punto in gioco.Come un circolo d'un pollice di diametro e un altro conun diametro di quaranta milioni di miglia hanno esatta-mente le stesse proprietà geometriche, così sono gli av-venimenti e la storia d'un villaggio o quelli d'un regno,in sostanza, i medesimi; e si può negli uni come neglialtri studiare e conoscere l'umanità. Si ha anche torto diritenere che le biografie siano in tutto inganno e finzio-ne. Anzi la menzogna (sebbene possibile dappertutto)v'è forse più difficile che altrove. La finzione è facilissi-ma nel semplice conversare; ma – per quanto sembri pa-radossale – è già più difficile in una lettera, perché quivil'uomo, abbandonato a se stesso, guarda in sé e non fuo-ri, stenta ad aver da presso ciò che gli è estraneo e lonta-no, e non ha innanzi agli occhi la misura dell'effetto so-pra un altr'uomo. Quest'altro invece, calmo, in una di-

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sposizione d'animo estranea a quella dello scrittore,scorre la lettera, la rilegge a varie riprese ed in tempi di-versi, e così finisce con lo scoprirvi facilmente l'inten-zione riposta. Il miglior modo, di conoscere un autoreanche come uomo, è cercarlo nel suo libro, perché quiviagiscono ancor più forte e durevolmente tutte quellecondizioni: e farsi in una biografia diversi da quel che siè, è tanto difficile, che non ve n'ha forse alcuna, la qualenon sia in complesso più vera di qualsivoglia altra storiascritta. L'uomo, che ritrae la propria vita, la vede nellesue grandi linee: i singoli fatti s'impiccioliscono, le cosevicine s'allontanano, mentre s'avvicinano le lontane, i ri-guardi s'attenuano: egli sta con se medesimo in confes-sione, e vi si è disposto liberamente. Lo spirito dellamenzogna non l'afferra qui tanto facilmente: essendo inogni uomo insita un'inclinazione alla verità, che per cia-scuna bugia dev'esser prima rattenuta, e che all'atto delconfessarsi acquista il predominio. Il rapporto tra bio-grafia e storia dei popoli si rende manifesto con l'esem-pio che segue. La storia ci mostra l'umanità, come la vi-sta da un alto monte ci mostra la natura: molto vediamocon un'occhiata, ampie distese, grandi masse; ma nulla èdistintamente riconoscibile in tutto il suo vero essere.Viceversa la vita di un singolo individuo ci mostral'uomo a quel modo stesso, con cui apprendiamo a cono-scer la natura passeggiando tra i suoi alberi, piante, roc-ce e acque. Ma, come per mezzo della pittura di paesag-gi, nella quale l'artista ci fa veder la natura con gli occhisuoi, vengono a noi resi molto più facili la conoscenza

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sposizione d'animo estranea a quella dello scrittore,scorre la lettera, la rilegge a varie riprese ed in tempi di-versi, e così finisce con lo scoprirvi facilmente l'inten-zione riposta. Il miglior modo, di conoscere un autoreanche come uomo, è cercarlo nel suo libro, perché quiviagiscono ancor più forte e durevolmente tutte quellecondizioni: e farsi in una biografia diversi da quel che siè, è tanto difficile, che non ve n'ha forse alcuna, la qualenon sia in complesso più vera di qualsivoglia altra storiascritta. L'uomo, che ritrae la propria vita, la vede nellesue grandi linee: i singoli fatti s'impiccioliscono, le cosevicine s'allontanano, mentre s'avvicinano le lontane, i ri-guardi s'attenuano: egli sta con se medesimo in confes-sione, e vi si è disposto liberamente. Lo spirito dellamenzogna non l'afferra qui tanto facilmente: essendo inogni uomo insita un'inclinazione alla verità, che per cia-scuna bugia dev'esser prima rattenuta, e che all'atto delconfessarsi acquista il predominio. Il rapporto tra bio-grafia e storia dei popoli si rende manifesto con l'esem-pio che segue. La storia ci mostra l'umanità, come la vi-sta da un alto monte ci mostra la natura: molto vediamocon un'occhiata, ampie distese, grandi masse; ma nulla èdistintamente riconoscibile in tutto il suo vero essere.Viceversa la vita di un singolo individuo ci mostral'uomo a quel modo stesso, con cui apprendiamo a cono-scer la natura passeggiando tra i suoi alberi, piante, roc-ce e acque. Ma, come per mezzo della pittura di paesag-gi, nella quale l'artista ci fa veder la natura con gli occhisuoi, vengono a noi resi molto più facili la conoscenza

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delle idee di questa e lo stato del puro conoscere, scevrodi volontà, per tal conoscenza richiesto; così ha l'artepoetica per la rappresentazione delle idee, che noi po-tremmo cercar nella storia e nella biografia, grandi van-taggi su queste ultime: perché anche quivi il genio reggedavanti a noi il chiarificante specchio, nel quale tutto ciòch'è essenziale e significativo si raccoglie, e, posto inpiena luce, ci si fa incontro, mentre ciò ch'è causale edestraneo, viene rimosso77.

La rappresentazione dell'idea dell'umanità, che alpoeta incombe, può da lui esser fatta o in modo che ilrappresentato sia anche colui che rappresenta: il che ac-cade nella poesia lirica, nella canzone in senso proprio,dove il poeta vede e descrive vivacemente solo il suostato personale, sì che diviene essenziale in questo gene-re poetico una certa soggettività, a causa dell'argomento;oppure quegli che rappresenta è affatto distinto dallacosa rappresentata, come accade in tutti gli altri generipoetici, dove chi rappresenta più o meno si cela dietro alrappresentato e finisce con lo scomparire. Nella roman-za lirico-drammatica, chi rappresenta esprime ancora inqualche modo, mediante il tono e l'andatura dell'insie-me, il proprio stato: molto più oggettiva della canzone,la romanza ha tuttavia ancor qualcosa di soggettivo, cheimpallidisce già vieppiù nell'idillio, e più ancora nel ro-manzo, e svanisce quasi del tutto nell'epopea, e, finoall'ultima traccia, nel dramma, che è il più oggettivo, e77 Si veda il cap. 38 del secondo volume [pp. 455-63 del tomo II dell'ed.

cit.].

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delle idee di questa e lo stato del puro conoscere, scevrodi volontà, per tal conoscenza richiesto; così ha l'artepoetica per la rappresentazione delle idee, che noi po-tremmo cercar nella storia e nella biografia, grandi van-taggi su queste ultime: perché anche quivi il genio reggedavanti a noi il chiarificante specchio, nel quale tutto ciòch'è essenziale e significativo si raccoglie, e, posto inpiena luce, ci si fa incontro, mentre ciò ch'è causale edestraneo, viene rimosso77.

La rappresentazione dell'idea dell'umanità, che alpoeta incombe, può da lui esser fatta o in modo che ilrappresentato sia anche colui che rappresenta: il che ac-cade nella poesia lirica, nella canzone in senso proprio,dove il poeta vede e descrive vivacemente solo il suostato personale, sì che diviene essenziale in questo gene-re poetico una certa soggettività, a causa dell'argomento;oppure quegli che rappresenta è affatto distinto dallacosa rappresentata, come accade in tutti gli altri generipoetici, dove chi rappresenta più o meno si cela dietro alrappresentato e finisce con lo scomparire. Nella roman-za lirico-drammatica, chi rappresenta esprime ancora inqualche modo, mediante il tono e l'andatura dell'insie-me, il proprio stato: molto più oggettiva della canzone,la romanza ha tuttavia ancor qualcosa di soggettivo, cheimpallidisce già vieppiù nell'idillio, e più ancora nel ro-manzo, e svanisce quasi del tutto nell'epopea, e, finoall'ultima traccia, nel dramma, che è il più oggettivo, e77 Si veda il cap. 38 del secondo volume [pp. 455-63 del tomo II dell'ed.

cit.].

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per vari riguardi più perfetto, ma anche più difficile ge-nere poetico. La lirica è per questo motivo il genere piùfacile; e se l'arte in complesso è dominio esclusivo delgenio vero, che è tanto raro, tuttavia anche un uomo ilquale non sia nell'insieme molto eminente può, quandoin effetti siano le sue forze spirituali innalzate da unaforte eccitazione esteriore, da un qualche entusiasmo,mettere insieme una bella canzone: perché a ciò occorrenon altro che una viva intuizione del proprio stato in unmomento d'agitazione. Questo provano molti canti iso-lati composti da individui altrimenti ignoti, in ispecie icanti popolari tedeschi, dei quali noi abbiamo un'ottimaraccolta nel Wunderhorn, e così pure innumerabili cantipopolari d'amore o d'altro soggetto in tutte le lingue. Im-perocché il cogliere e fissare nella canzone la disposi-zione del momento, è tutto il compito di questo generepoetico. Tuttavia nella lirica dei poeti veri si riflettel'intimo di tutta l'umanità; e tutto ciò, che milionid'uomini passati, presenti, futuri hanno sentito o senti-ranno nelle medesime situazioni sempre rinascenti, tro-va colà la sua voce. Quelle situazioni, per il loro costan-te ritorno, appunto come l'umanità rimangono perenni, eognora producono i sentimenti medesimi: e perciò le li-riche dei veri poeti durano per millenni giuste, efficaci efresche. Il poeta, in sostanza, è l'uomo universale: tuttociò che ha scosso un cuore umano, ciò che l'umana natu-ra in qualsivoglia stato da se medesima esprime, tuttociò che in un petto umano può trovarsi e covare, – è suotema e sua materia; come, inoltre, tutta quanta la rima-

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per vari riguardi più perfetto, ma anche più difficile ge-nere poetico. La lirica è per questo motivo il genere piùfacile; e se l'arte in complesso è dominio esclusivo delgenio vero, che è tanto raro, tuttavia anche un uomo ilquale non sia nell'insieme molto eminente può, quandoin effetti siano le sue forze spirituali innalzate da unaforte eccitazione esteriore, da un qualche entusiasmo,mettere insieme una bella canzone: perché a ciò occorrenon altro che una viva intuizione del proprio stato in unmomento d'agitazione. Questo provano molti canti iso-lati composti da individui altrimenti ignoti, in ispecie icanti popolari tedeschi, dei quali noi abbiamo un'ottimaraccolta nel Wunderhorn, e così pure innumerabili cantipopolari d'amore o d'altro soggetto in tutte le lingue. Im-perocché il cogliere e fissare nella canzone la disposi-zione del momento, è tutto il compito di questo generepoetico. Tuttavia nella lirica dei poeti veri si riflettel'intimo di tutta l'umanità; e tutto ciò, che milionid'uomini passati, presenti, futuri hanno sentito o senti-ranno nelle medesime situazioni sempre rinascenti, tro-va colà la sua voce. Quelle situazioni, per il loro costan-te ritorno, appunto come l'umanità rimangono perenni, eognora producono i sentimenti medesimi: e perciò le li-riche dei veri poeti durano per millenni giuste, efficaci efresche. Il poeta, in sostanza, è l'uomo universale: tuttociò che ha scosso un cuore umano, ciò che l'umana natu-ra in qualsivoglia stato da se medesima esprime, tuttociò che in un petto umano può trovarsi e covare, – è suotema e sua materia; come, inoltre, tutta quanta la rima-

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nente natura. Può così il poeta cantare la voluttà come ilmisticismo, essere Anacreonte o Angelus Silesius, scri-vere tragedie o commedie, rappresentare animi alti ovolgari, – secondo ha capriccio e vocazione. E a nessu-no è lecito prescrivere al poeta d'esser nobile ed elevato,morale, pio, cristiano, essere questo o quello; e tantomeno rimproverarlo di non essere questo e quello. Egli èlo specchio dell'umanità, e la fa consapevole di ciòch'ella sente ed opera.

Consideriamo ora più da presso l'essenza della canzo-ne vera e propria, togliendo a esempio qualche modelloeccellente e puro insieme: non di quelli, che già in certomodo s'accostano a un altro tipo, come sarebbe alla ro-manza, all'elegia, all'inno, all'epigramma, e così via; tro-veremo così, che l'essenza caratteristica della canzone insenso preciso è la seguente. È il soggetto della volontà,ossia il proprio volere, che empie la conscienza di chicanta; spesso come sciolto, appagato volere (gioia), epiù spesso come un volere contrastato (dolore); sempre,tuttavia, come affetto, passione, animo agitato. Ma non-dimeno accanto a questo, e insieme con questo, coluiche canta diviene, alla vista della natura d'intorno, con-scio di sé qual soggetto del puro conoscere, scevro divolontà: la cui incrollabile pace spirituale viene a trovar-si in contrasto con l'urto del volere sempre costretto, an-cor sempre assetato. E la sensazione di tal contrasto, dital giuoco alterno, è proprio ciò che s'esprime nel com-plesso della canzone, e costituisce in genere lo stato liri-co. Si direbbe, che in tal stato ci si faccia dappresso il

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nente natura. Può così il poeta cantare la voluttà come ilmisticismo, essere Anacreonte o Angelus Silesius, scri-vere tragedie o commedie, rappresentare animi alti ovolgari, – secondo ha capriccio e vocazione. E a nessu-no è lecito prescrivere al poeta d'esser nobile ed elevato,morale, pio, cristiano, essere questo o quello; e tantomeno rimproverarlo di non essere questo e quello. Egli èlo specchio dell'umanità, e la fa consapevole di ciòch'ella sente ed opera.

Consideriamo ora più da presso l'essenza della canzo-ne vera e propria, togliendo a esempio qualche modelloeccellente e puro insieme: non di quelli, che già in certomodo s'accostano a un altro tipo, come sarebbe alla ro-manza, all'elegia, all'inno, all'epigramma, e così via; tro-veremo così, che l'essenza caratteristica della canzone insenso preciso è la seguente. È il soggetto della volontà,ossia il proprio volere, che empie la conscienza di chicanta; spesso come sciolto, appagato volere (gioia), epiù spesso come un volere contrastato (dolore); sempre,tuttavia, come affetto, passione, animo agitato. Ma non-dimeno accanto a questo, e insieme con questo, coluiche canta diviene, alla vista della natura d'intorno, con-scio di sé qual soggetto del puro conoscere, scevro divolontà: la cui incrollabile pace spirituale viene a trovar-si in contrasto con l'urto del volere sempre costretto, an-cor sempre assetato. E la sensazione di tal contrasto, dital giuoco alterno, è proprio ciò che s'esprime nel com-plesso della canzone, e costituisce in genere lo stato liri-co. Si direbbe, che in tal stato ci si faccia dappresso il

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puro conoscere, per liberarci dal volere e dal suo impul-so; noi lo seguiamo, ma sol per brevi istanti: sempre dinuovo il volere, il ricordo dei nostri fini personali, cistrappa alla pacata contemplazione; ma ogni volta ci di-scioglie dai lacci del volere la bella natura circostante,nella quale a noi si offre la pura conoscenza libera davolontà. Perciò sono nella canzone e nella disposizionelirica il volere (l'interesse personale per i propri fini) e lapura intuizione del mondo circostante in singolar modoframmisti: tra loro vengon cercate e immaginate relazio-ni; la disposizione soggettiva, la commozione della vo-lontà comunica i suoi colori all'ambiente intuito, e que-sto a quella: di tutto questo stato d'anima sì commisto ediscorde è la vera canzone un riflesso. Per rendere com-prensibile con esempi questa analisi astratta d'uno statoben lontano da ogni astrazione, sì può prender ciascunadelle immortali canzoni di Goethe; ma come particolar-mente chiare per il nostro scopo ne raccomando solo al-cune: Lamento d'un pastore, Il benvenuto e il commiato,Alla luna, Sul lago, Sensazione d'autunno78 Sono ancheottimi esempi le canzoni del Wunderhorn: soprattuttoquella che comincia: O Brema, or ti debbo lasciare79.Come parodia comica, e giustissima, del carattere lirico,mi sembra notevole una canzone, in cui Voss descriveciò che prova un copritetti ubriaco, nell'atto di cader dauna torre; il quale, pur cadendo, fa l'osservazione, molto

78 Schäfers Klagelied, Willkommen und Abschied, An den Mond, Auf demSee, Herbstgefühl.

79 O Bremen, ich muss dich nun lassen.

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puro conoscere, per liberarci dal volere e dal suo impul-so; noi lo seguiamo, ma sol per brevi istanti: sempre dinuovo il volere, il ricordo dei nostri fini personali, cistrappa alla pacata contemplazione; ma ogni volta ci di-scioglie dai lacci del volere la bella natura circostante,nella quale a noi si offre la pura conoscenza libera davolontà. Perciò sono nella canzone e nella disposizionelirica il volere (l'interesse personale per i propri fini) e lapura intuizione del mondo circostante in singolar modoframmisti: tra loro vengon cercate e immaginate relazio-ni; la disposizione soggettiva, la commozione della vo-lontà comunica i suoi colori all'ambiente intuito, e que-sto a quella: di tutto questo stato d'anima sì commisto ediscorde è la vera canzone un riflesso. Per rendere com-prensibile con esempi questa analisi astratta d'uno statoben lontano da ogni astrazione, sì può prender ciascunadelle immortali canzoni di Goethe; ma come particolar-mente chiare per il nostro scopo ne raccomando solo al-cune: Lamento d'un pastore, Il benvenuto e il commiato,Alla luna, Sul lago, Sensazione d'autunno78 Sono ancheottimi esempi le canzoni del Wunderhorn: soprattuttoquella che comincia: O Brema, or ti debbo lasciare79.Come parodia comica, e giustissima, del carattere lirico,mi sembra notevole una canzone, in cui Voss descriveciò che prova un copritetti ubriaco, nell'atto di cader dauna torre; il quale, pur cadendo, fa l'osservazione, molto

78 Schäfers Klagelied, Willkommen und Abschied, An den Mond, Auf demSee, Herbstgefühl.

79 O Bremen, ich muss dich nun lassen.

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fuori luogo nel suo stato presente, e quindi spettante allaconoscenza scevra di volontà, che l'orologio della torresegna per l'appunto le undici e mezza. Chi divide la miaopinione sullo stato lirico, dovrà pur convenire che essoè propriamente la conoscenza intuitiva e poetica di quel-la massima stabilita nel mio scritto sul principio di ra-gione, e in quest'opera già ricordata, che l'identità delsoggetto del conoscere con quello del volere può esserchiamata il miracolo κατ’εξοχην sì che l'effetto poeticodella canzone poggia da ultimo sulla verità di quellamassima. Nel corso della vita que' due soggetti o, peresprimermi alla buona, testa e cuore, vengono semprepiù discostandosi l'uno dall'altro: sempre più scindiamoil nostro sentimento soggettivo dalla conoscenza ogget-tiva. Nel fanciullo sono entrambi ancor fusi del tutto:egli sa a stento distinguer sé da ciò che lo circonda, e visi dissolve. Nel giovane, ogni percezione produce dap-prima sentimento e stato d'animo; e molto bene è ciòespresso da Byron:

I live not in myself, but I becomePortion of that around me; and to meHigh mountains are a feeling80.

Appunto perciò il giovine è tanto attaccato all'intuiti-va faccia esterna delle cose; appunto perciò egli non ècapace d'altra poesia che lirica, e soltanto l'uomo maturo

80 Io non vivo in me stesso, ma diventoParte di ciò che è intorno a me; e in meL'alte montagne sono un sentimento.

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fuori luogo nel suo stato presente, e quindi spettante allaconoscenza scevra di volontà, che l'orologio della torresegna per l'appunto le undici e mezza. Chi divide la miaopinione sullo stato lirico, dovrà pur convenire che essoè propriamente la conoscenza intuitiva e poetica di quel-la massima stabilita nel mio scritto sul principio di ra-gione, e in quest'opera già ricordata, che l'identità delsoggetto del conoscere con quello del volere può esserchiamata il miracolo κατ’εξοχην sì che l'effetto poeticodella canzone poggia da ultimo sulla verità di quellamassima. Nel corso della vita que' due soggetti o, peresprimermi alla buona, testa e cuore, vengono semprepiù discostandosi l'uno dall'altro: sempre più scindiamoil nostro sentimento soggettivo dalla conoscenza ogget-tiva. Nel fanciullo sono entrambi ancor fusi del tutto:egli sa a stento distinguer sé da ciò che lo circonda, e visi dissolve. Nel giovane, ogni percezione produce dap-prima sentimento e stato d'animo; e molto bene è ciòespresso da Byron:

I live not in myself, but I becomePortion of that around me; and to meHigh mountains are a feeling80.

Appunto perciò il giovine è tanto attaccato all'intuiti-va faccia esterna delle cose; appunto perciò egli non ècapace d'altra poesia che lirica, e soltanto l'uomo maturo

80 Io non vivo in me stesso, ma diventoParte di ciò che è intorno a me; e in meL'alte montagne sono un sentimento.

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è capace della drammatica. Il vecchio possiamo imma-ginarcelo al più come poeta epico, quali furono Ossian eOmero: perché il narrare appartiene al carattere del vec-chio.

Nei generi più oggettivi, specialmente nel romanzo,nell'epopea e nel dramma, lo scopo, rivelazione dell'ideadell'umanità, viene raggiunto soprattutto con due mezzi:con esatta e profonda rappresentazione di significanticaratteri, e col trovar significanti situazioni, in cui quellisi dispieghino. Imperocché come al chimico tocca nonsolo presentar puri e genuini i corpi semplici e le lorprincipali combinazioni; ma anche esporli all'azione direagenti tali, per cui le proprietà loro si rendano chiare evisibili appieno; così tocca al poeta non solo portarci in-nanzi con verità e fedeltà, come fa la natura medesima,significanti caratteri; ma deve, per farceli conoscere,metterli in situazioni, nelle quali le proprietà loro sisvolgano compiutamente e si presentino nette con preci-si contorni, situazioni che perciò appunto si chiamanosignificanti. Nella vita reale e nella storia è raro che ilcaso introduca situazioni di questa natura, e quelle po-che stanno isolate, smarrite e nascoste nella folla dellesituazioni insignificanti. La continuata importanza dellesituazioni distingue il romanzo, l'epopea, il dramma dal-la vita reale, altrettanto come li distingue l'accolta e lascelta di caratteri espressivi: ma nell'una cosa e nell'altraè inesorabile condizione dell'effetto la più rigida verità.E mancanza di unità nei caratteri, contraddizioni internein quelli, oppur contrasti con l'essenza dell'umanità in

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è capace della drammatica. Il vecchio possiamo imma-ginarcelo al più come poeta epico, quali furono Ossian eOmero: perché il narrare appartiene al carattere del vec-chio.

Nei generi più oggettivi, specialmente nel romanzo,nell'epopea e nel dramma, lo scopo, rivelazione dell'ideadell'umanità, viene raggiunto soprattutto con due mezzi:con esatta e profonda rappresentazione di significanticaratteri, e col trovar significanti situazioni, in cui quellisi dispieghino. Imperocché come al chimico tocca nonsolo presentar puri e genuini i corpi semplici e le lorprincipali combinazioni; ma anche esporli all'azione direagenti tali, per cui le proprietà loro si rendano chiare evisibili appieno; così tocca al poeta non solo portarci in-nanzi con verità e fedeltà, come fa la natura medesima,significanti caratteri; ma deve, per farceli conoscere,metterli in situazioni, nelle quali le proprietà loro sisvolgano compiutamente e si presentino nette con preci-si contorni, situazioni che perciò appunto si chiamanosignificanti. Nella vita reale e nella storia è raro che ilcaso introduca situazioni di questa natura, e quelle po-che stanno isolate, smarrite e nascoste nella folla dellesituazioni insignificanti. La continuata importanza dellesituazioni distingue il romanzo, l'epopea, il dramma dal-la vita reale, altrettanto come li distingue l'accolta e lascelta di caratteri espressivi: ma nell'una cosa e nell'altraè inesorabile condizione dell'effetto la più rigida verità.E mancanza di unità nei caratteri, contraddizioni internein quelli, oppur contrasti con l'essenza dell'umanità in

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genere, e impossibilità, o inverosimiglianza (cheall'impossibilità è vicina) dei fatti, sia pur soltanto in cir-costanze secondarie, offendono nella poesia quanto fi-gure mal disegnate, o falsa prospettiva, o luce difettosaoffendono in pittura: perché noi vogliamo, là come qui,lo specchio fedele della vita, dell'umanità, del mondo,sol reso più limpido dalla rappresentazione e più signifi-cante della combinazione. Uno essendo lo scopo di tuttele arti, rappresentazione delle idee, e consistendo la so-stanzial differenza di quelle solamente nel diverso gradodi oggettivazione della volontà toccato all'idea da rap-presentare, dal qual grado è a sua volta determinata lamateria della rappresentazione; ne consegue che anchele arti tra loro più discoste si possono illustrare con reci-proci confronti. Per esempio, a ben comprendere le ideeesprimentisi nell'acqua, non basta veder l'acqua d'unplacido stagno o corrente d'un corso regolare ed eguale:quelle idee si rivelano appieno sol quando l'acqua si mo-stra alle prese con tutte le situazioni e gli ostacoli che,operando su lei, la spingono alla manifestazione pienadi tutte le sue proprietà. Perciò la troviamo bella quandoprecipita, rumoreggia, spumeggia, si slancia in alto o ri-cadendo si fa polvere, o alfine, ad arte costretta, comeraggio sprizza verso il cielo. E così in circostanze diver-se variamente mostrandosi, sempre afferma costante ilcarattere proprio. Altrettanto è a lei naturale sprizzarnell'alto, quanto star quieta come specchio: all'uno eall'altro stato è subito disposta, non appena se ne presen-tino le circostanze. Ora, ciò che con la materia liquida

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genere, e impossibilità, o inverosimiglianza (cheall'impossibilità è vicina) dei fatti, sia pur soltanto in cir-costanze secondarie, offendono nella poesia quanto fi-gure mal disegnate, o falsa prospettiva, o luce difettosaoffendono in pittura: perché noi vogliamo, là come qui,lo specchio fedele della vita, dell'umanità, del mondo,sol reso più limpido dalla rappresentazione e più signifi-cante della combinazione. Uno essendo lo scopo di tuttele arti, rappresentazione delle idee, e consistendo la so-stanzial differenza di quelle solamente nel diverso gradodi oggettivazione della volontà toccato all'idea da rap-presentare, dal qual grado è a sua volta determinata lamateria della rappresentazione; ne consegue che anchele arti tra loro più discoste si possono illustrare con reci-proci confronti. Per esempio, a ben comprendere le ideeesprimentisi nell'acqua, non basta veder l'acqua d'unplacido stagno o corrente d'un corso regolare ed eguale:quelle idee si rivelano appieno sol quando l'acqua si mo-stra alle prese con tutte le situazioni e gli ostacoli che,operando su lei, la spingono alla manifestazione pienadi tutte le sue proprietà. Perciò la troviamo bella quandoprecipita, rumoreggia, spumeggia, si slancia in alto o ri-cadendo si fa polvere, o alfine, ad arte costretta, comeraggio sprizza verso il cielo. E così in circostanze diver-se variamente mostrandosi, sempre afferma costante ilcarattere proprio. Altrettanto è a lei naturale sprizzarnell'alto, quanto star quieta come specchio: all'uno eall'altro stato è subito disposta, non appena se ne presen-tino le circostanze. Ora, ciò che con la materia liquida

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può fare un artefice del genere, fa con la solida l'archi-tetto, e non altrimenti fa il poeta epico o drammaticocon l'idea dell'umanità. Disvelamento e chiarimentodell'idea esprimentesi nell'oggetto di ogni arte, della vo-lontà oggettivantesi in ogni grado, è di tutte le arti com-pito comune. La vita dell'uomo, quale apparisce il piùsovente nella realtà, somiglia all'acqua come noi di soli-to la vediamo, in fiume e stagno: ma nell'epopea, nel ro-manzo e nella tragedia vengono eletti caratteri posti incircostanze, nelle quali tutte le lor proprietà si dispiega-no, gli abissi dell'animo umano si dischiudono e fannovisibili in azioni straordinarie, altamente significative.Così l'arte poetica oggettiva l'idea dell'umanità, dellaquale è caratteristico il presentarsi in caratteri fortissi-mamente individuali.

Come vetta dell'arte poetica, tanto riguardo alla gran-dezza dell'effetto, quanto alla difficoltà dell'opera, è daconsiderarsi ed è generalmente ritenuta la tragedia. Peril complesso di tutta la nostra indagine è molto impor-tante e da tener bene in conto, che scopo di quest'altissi-ma creazione poetica è la rappresentazione della vita nelsuo aspetto terribile; che il dolore senza nome, l'affannodell'umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole si-gnoria del caso e il fatale precipizio dei giusti edegl'innocenti vengono qui a noi presentati: imperocchési ha in ciò un significante segno intorno alla natura delmondo e dell'essere. È il contrasto della volontà con semedesima, che qui, nel grado supremo della sua oggetti-tà, dispiegato in tutta la sua pienezza, tremendamente

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può fare un artefice del genere, fa con la solida l'archi-tetto, e non altrimenti fa il poeta epico o drammaticocon l'idea dell'umanità. Disvelamento e chiarimentodell'idea esprimentesi nell'oggetto di ogni arte, della vo-lontà oggettivantesi in ogni grado, è di tutte le arti com-pito comune. La vita dell'uomo, quale apparisce il piùsovente nella realtà, somiglia all'acqua come noi di soli-to la vediamo, in fiume e stagno: ma nell'epopea, nel ro-manzo e nella tragedia vengono eletti caratteri posti incircostanze, nelle quali tutte le lor proprietà si dispiega-no, gli abissi dell'animo umano si dischiudono e fannovisibili in azioni straordinarie, altamente significative.Così l'arte poetica oggettiva l'idea dell'umanità, dellaquale è caratteristico il presentarsi in caratteri fortissi-mamente individuali.

Come vetta dell'arte poetica, tanto riguardo alla gran-dezza dell'effetto, quanto alla difficoltà dell'opera, è daconsiderarsi ed è generalmente ritenuta la tragedia. Peril complesso di tutta la nostra indagine è molto impor-tante e da tener bene in conto, che scopo di quest'altissi-ma creazione poetica è la rappresentazione della vita nelsuo aspetto terribile; che il dolore senza nome, l'affannodell'umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole si-gnoria del caso e il fatale precipizio dei giusti edegl'innocenti vengono qui a noi presentati: imperocchési ha in ciò un significante segno intorno alla natura delmondo e dell'essere. È il contrasto della volontà con semedesima, che qui, nel grado supremo della sua oggetti-tà, dispiegato in tutta la sua pienezza, tremendamente

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balza alla luce. Nel dolore della umanità si fa visibile: equello è prodotto parte dal caso e dall'errore, che qualidominatori del mondo intervengono, e per la loro mali-zia, che giunge fino ad aver l'apparenza di consapevo-lezza, sono personificati nel destino; parte provienedall'umanità stessa, per le incrociantesi voglie degli in-dividui, per la malvagità e perversità dei più. Una eidentica volontà è quella, che in tutti vive e si manifesta,ma le sue manifestazioni si combattono e si dilaniano avicenda. In un individuo si rivela potente, in un altro piùdebole, qui più, lì meno accordata con la riflessione e at-tenuata dalla luce della conoscenza, fin quando alfine intaluno questa conoscenza, purificata ed elevata median-te il dolore stesso, tocca il punto in cui il fenomeno, ilvelo di Maja, non più l'inganna. Allora la forma del fe-nomeno, il principium individuationis, viene da lei vistobene addentro; e perciò l'egoismo che su questo si fondaè spento, sì che i motivi prima sì poderosi perdono laloro forza, e in luogo di quelli la piena cognizionedell'essenza del mondo, agendo come quietivo della vo-lontà, fa nascer la rassegnazione, la rinunzia non allavita soltanto, ma all'intera volontà di vivere. Così vedia-mo nella tragedia i più nobili caratteri da ultimo rinun-ziar per sempre, dopo lungo combattere e soffrire, agliscopi fino allora sì vivamente perseguiti, e a tutti i pia-ceri della vita, o la vita stessa abbandonare volenterosi elieti. Così il principe costante di Calderón; così Marghe-rita nel Faust; così Amleto, cui il suo Orazio volentieriseguirebbe, ma Amleto gl'impone di rimanere, e ancora

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balza alla luce. Nel dolore della umanità si fa visibile: equello è prodotto parte dal caso e dall'errore, che qualidominatori del mondo intervengono, e per la loro mali-zia, che giunge fino ad aver l'apparenza di consapevo-lezza, sono personificati nel destino; parte provienedall'umanità stessa, per le incrociantesi voglie degli in-dividui, per la malvagità e perversità dei più. Una eidentica volontà è quella, che in tutti vive e si manifesta,ma le sue manifestazioni si combattono e si dilaniano avicenda. In un individuo si rivela potente, in un altro piùdebole, qui più, lì meno accordata con la riflessione e at-tenuata dalla luce della conoscenza, fin quando alfine intaluno questa conoscenza, purificata ed elevata median-te il dolore stesso, tocca il punto in cui il fenomeno, ilvelo di Maja, non più l'inganna. Allora la forma del fe-nomeno, il principium individuationis, viene da lei vistobene addentro; e perciò l'egoismo che su questo si fondaè spento, sì che i motivi prima sì poderosi perdono laloro forza, e in luogo di quelli la piena cognizionedell'essenza del mondo, agendo come quietivo della vo-lontà, fa nascer la rassegnazione, la rinunzia non allavita soltanto, ma all'intera volontà di vivere. Così vedia-mo nella tragedia i più nobili caratteri da ultimo rinun-ziar per sempre, dopo lungo combattere e soffrire, agliscopi fino allora sì vivamente perseguiti, e a tutti i pia-ceri della vita, o la vita stessa abbandonare volenterosi elieti. Così il principe costante di Calderón; così Marghe-rita nel Faust; così Amleto, cui il suo Orazio volentieriseguirebbe, ma Amleto gl'impone di rimanere, e ancora

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un poco respirare con dolore in questo duro mondo, perfar luce sul destino di lui e lavar da ogni macchia la suamemoria; così ancora la Pulcella d'Orléans, la Fidanzatadi Messina: tutti muoiono purificati dal dolore, ossiaquando in loro la volontà di vivere è già morta. Questo èsignificato alla lettera nelle ultime parole del Moham-med di Voltaire, dove la Palmira grida a Mohammed: «Ilmondo è fatto pei tiranni: vivi!». Invece il pretender lacosiddetta giustizia poetica poggia sopra un assoluto mi-sconoscer l'essenza della tragedia, anzi l'essenza delmondo. Sfacciatamente questa pretesa si mostra in tuttala sua scipitaggine nei saggi critici, che il dr. SamuelJohnson ha scritto su ciascun dramma di Shakespeare,dov'egli in maniera proprio ingenua lamenta che la giu-stizia poetica sia sempre trascurata. Ed è vero: che malehanno commesso le Ofelie, le Desdemone, le Cordelie?Ma soltanto la piatta, ottimista, protestante-razionalisti-ca, o propriamente giudaica concezione del mondo pre-tenderà la giustizia poetica e troverà il proprio soddisfa-cimento nel soddisfacimento di quella. Il vero senso del-la tragedia è la cognizione ben più profonda, che l'eroenon sconta i suoi peccati personali, ma il peccato uni-versale, ossia la colpa stessa dell'essere:

Pues el delito mayorDel hombre es haber nacido81,

come apertamente afferma Calderón.

81 Poi che il delitto maggioreDell'uomo è l'esser nato.

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un poco respirare con dolore in questo duro mondo, perfar luce sul destino di lui e lavar da ogni macchia la suamemoria; così ancora la Pulcella d'Orléans, la Fidanzatadi Messina: tutti muoiono purificati dal dolore, ossiaquando in loro la volontà di vivere è già morta. Questo èsignificato alla lettera nelle ultime parole del Moham-med di Voltaire, dove la Palmira grida a Mohammed: «Ilmondo è fatto pei tiranni: vivi!». Invece il pretender lacosiddetta giustizia poetica poggia sopra un assoluto mi-sconoscer l'essenza della tragedia, anzi l'essenza delmondo. Sfacciatamente questa pretesa si mostra in tuttala sua scipitaggine nei saggi critici, che il dr. SamuelJohnson ha scritto su ciascun dramma di Shakespeare,dov'egli in maniera proprio ingenua lamenta che la giu-stizia poetica sia sempre trascurata. Ed è vero: che malehanno commesso le Ofelie, le Desdemone, le Cordelie?Ma soltanto la piatta, ottimista, protestante-razionalisti-ca, o propriamente giudaica concezione del mondo pre-tenderà la giustizia poetica e troverà il proprio soddisfa-cimento nel soddisfacimento di quella. Il vero senso del-la tragedia è la cognizione ben più profonda, che l'eroenon sconta i suoi peccati personali, ma il peccato uni-versale, ossia la colpa stessa dell'essere:

Pues el delito mayorDel hombre es haber nacido81,

come apertamente afferma Calderón.

81 Poi che il delitto maggioreDell'uomo è l'esser nato.

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Guardando più da presso il modo di compor la trage-dia, voglio permettermi ancora un'osservazione. Il rap-presentare una grande sventura è la sola cosa essenzialealla tragedia. Ma le molte vie, per le quali la sventurapuò essere introdotta dal poeta, sono di tre specie. Puòaccadere per la straordinaria perfidia, spinta a toccar gliestremi limiti della possibilità, d'un carattere, il quale di-venta causa della sventura: esempi di questo generesono Riccardo III, Jago nell'Otello, Shylok nel Mercan-te di Venezia, Franz Moor, la Fedra d'Euripide, Creontenell'Antigone e così via. Oppure può accadere per uncieco destino, ossia caso ed errore: di tale specie è unvero modello il re Edipo di Sofocle, ed anche le Trachi-nie, e in genere la maggior parte delle tragedie antiche;tra le moderne sono esempi Romeo e Giulietta, il Tan-cred di Voltaire, la Fidanzata di Messina. La sventurapuò esser cagionata in fine dalla semplice situazione ri-spettiva delle persone, dai loro rapporti, sì che non v'habisogno né d'un mostruoso errore o d'un caso inaudito,né d'un carattere, che tocchi i confini umani del male:ma caratteri come sotto il rispetto morale ve n'ha tanti,in circostanze quali occorrono sovente, sono posti difronte in modo, che la situazione loro li costringe a farsil'un l'altro, sapendo e vedendo, il più gran male, senzache in ciò il torto sia tutto da una parte sola. Quest'ulti-ma specie sembra a me di molto preferibile alle altredue: imperocché ci fa apparir la più grande delle sventu-re non come un'eccezione, non come effetto di circo-stanze rare o di mostruosi caratteri, ma come alcunché

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Guardando più da presso il modo di compor la trage-dia, voglio permettermi ancora un'osservazione. Il rap-presentare una grande sventura è la sola cosa essenzialealla tragedia. Ma le molte vie, per le quali la sventurapuò essere introdotta dal poeta, sono di tre specie. Puòaccadere per la straordinaria perfidia, spinta a toccar gliestremi limiti della possibilità, d'un carattere, il quale di-venta causa della sventura: esempi di questo generesono Riccardo III, Jago nell'Otello, Shylok nel Mercan-te di Venezia, Franz Moor, la Fedra d'Euripide, Creontenell'Antigone e così via. Oppure può accadere per uncieco destino, ossia caso ed errore: di tale specie è unvero modello il re Edipo di Sofocle, ed anche le Trachi-nie, e in genere la maggior parte delle tragedie antiche;tra le moderne sono esempi Romeo e Giulietta, il Tan-cred di Voltaire, la Fidanzata di Messina. La sventurapuò esser cagionata in fine dalla semplice situazione ri-spettiva delle persone, dai loro rapporti, sì che non v'habisogno né d'un mostruoso errore o d'un caso inaudito,né d'un carattere, che tocchi i confini umani del male:ma caratteri come sotto il rispetto morale ve n'ha tanti,in circostanze quali occorrono sovente, sono posti difronte in modo, che la situazione loro li costringe a farsil'un l'altro, sapendo e vedendo, il più gran male, senzache in ciò il torto sia tutto da una parte sola. Quest'ulti-ma specie sembra a me di molto preferibile alle altredue: imperocché ci fa apparir la più grande delle sventu-re non come un'eccezione, non come effetto di circo-stanze rare o di mostruosi caratteri, ma come alcunché

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venuto facilmente e spontaneamente, quasi per naturalenecessità, dall'azione e dai caratteri degli uomini; e ap-punto perciò la rende in terribile modo vicina a noi stes-si. E se noi nelle altre due specie vediamo il mostruosodestino e l'orrenda malvagità bensì come forze terribili,ma che solo da gran distanza ci minacciano e alle qualipossiamo sfuggire, senza cercar ricovero nella completarinunzia, l'ultima invece presenta a noi quelle forze,onde felicità e vita son travolte, come fatte di tal naturache anche contro di noi possono aprirsi la via ad ogniistante; e il più gran dolore può venirci da complicazio-ni, la cui essenza può pesare anche sul nostro destino, eda azioni, che noi anche saremmo capaci di commettere,sì che non potremmo lagnarci d'ingiustizia. Allora rab-brividendo ci sentiamo già in mezzo all'inferno. Ma lacomposizione d'una tragedia di quest'ultimo tipo è pur lapiù difficile, dovendosi qui con un minimo impiego dimezzi e di moventi produrre il massimo effetto, solomediante la situazione e la distribuzione di quelli: perciòanche in nome delle migliori tragedie questa difficoltà ègirata. Qual perfetto modello del genere è tuttavia da ci-tare un dramma, che sotto altro riguardo è di molto su-perato da altre opere del medesimo grande maestro:Clavigo. Della stessa natura è in un certo senso Amleto,se non guardiamo che alla situazione del protagonistadavanti a Laerte e ad Ofelia; anche il Wallenstein haquesto merito; tale è pure il Faust, se si considera comeazione principale soltanto ciò che accade a Margheritaed a suo fratello; così il Cid di Corneille, al quale manca

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venuto facilmente e spontaneamente, quasi per naturalenecessità, dall'azione e dai caratteri degli uomini; e ap-punto perciò la rende in terribile modo vicina a noi stes-si. E se noi nelle altre due specie vediamo il mostruosodestino e l'orrenda malvagità bensì come forze terribili,ma che solo da gran distanza ci minacciano e alle qualipossiamo sfuggire, senza cercar ricovero nella completarinunzia, l'ultima invece presenta a noi quelle forze,onde felicità e vita son travolte, come fatte di tal naturache anche contro di noi possono aprirsi la via ad ogniistante; e il più gran dolore può venirci da complicazio-ni, la cui essenza può pesare anche sul nostro destino, eda azioni, che noi anche saremmo capaci di commettere,sì che non potremmo lagnarci d'ingiustizia. Allora rab-brividendo ci sentiamo già in mezzo all'inferno. Ma lacomposizione d'una tragedia di quest'ultimo tipo è pur lapiù difficile, dovendosi qui con un minimo impiego dimezzi e di moventi produrre il massimo effetto, solomediante la situazione e la distribuzione di quelli: perciòanche in nome delle migliori tragedie questa difficoltà ègirata. Qual perfetto modello del genere è tuttavia da ci-tare un dramma, che sotto altro riguardo è di molto su-perato da altre opere del medesimo grande maestro:Clavigo. Della stessa natura è in un certo senso Amleto,se non guardiamo che alla situazione del protagonistadavanti a Laerte e ad Ofelia; anche il Wallenstein haquesto merito; tale è pure il Faust, se si considera comeazione principale soltanto ciò che accade a Margheritaed a suo fratello; così il Cid di Corneille, al quale manca

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nondimeno l'esito tragico, che invece si trova nell'analo-ga situazione di Max rispetto a Teda nel Wallenstein82.

§ 52.Dopo aver fin qui considerato tutte le arti belle da

quel punto di vista generale, che a noi si conviene, prin-cipiando dall'architettura, scopo della quale è render pa-lese l'oggettivazione della volontà nel grado più basso incui questa è visibile, ov'essa si mostra come oscuro, in-consciente, meccanico impulso della massa, e pur tutta-via già palesa interno dissidio e lotta; e il nostro esameconcludendo con la tragedia, che nel grado supremodell'oggettivazione della volontà appunto quell'internodissidio ci disvela in tremenda grandezza e chiarezza;troviamo che nondimeno un'arte bella è rimasta e dove-va rimanere esclusa da questa indagine, non essendo perlei alcun luogo conveniente nella trama della nostraesposizione: la musica. Ella è staccata da tutte le altre.In lei non conosciamo l'immagine, la riproduzione d'unaqualsiasi idea degli esseri che sono al mondo; eppureell'è una sì grande e sublime arte, sì potentemente agiscesull'intimo dell'uomo, sì appieno e a fondo vien da que-sto compresa, quasi lingua universale più limpida dellostesso mondo intuitivo; – che in lei di certo dobbiamocercar ben più dell'exercitium arithmeticae occultum ne-scientis se numerare animi, qual fu dichiarata da Leib-

82 Si veda il capitolo 37 del secondo volume [pp. 440-54 del tomo II dell'ed.cit.].

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nondimeno l'esito tragico, che invece si trova nell'analo-ga situazione di Max rispetto a Teda nel Wallenstein82.

§ 52.Dopo aver fin qui considerato tutte le arti belle da

quel punto di vista generale, che a noi si conviene, prin-cipiando dall'architettura, scopo della quale è render pa-lese l'oggettivazione della volontà nel grado più basso incui questa è visibile, ov'essa si mostra come oscuro, in-consciente, meccanico impulso della massa, e pur tutta-via già palesa interno dissidio e lotta; e il nostro esameconcludendo con la tragedia, che nel grado supremodell'oggettivazione della volontà appunto quell'internodissidio ci disvela in tremenda grandezza e chiarezza;troviamo che nondimeno un'arte bella è rimasta e dove-va rimanere esclusa da questa indagine, non essendo perlei alcun luogo conveniente nella trama della nostraesposizione: la musica. Ella è staccata da tutte le altre.In lei non conosciamo l'immagine, la riproduzione d'unaqualsiasi idea degli esseri che sono al mondo; eppureell'è una sì grande e sublime arte, sì potentemente agiscesull'intimo dell'uomo, sì appieno e a fondo vien da que-sto compresa, quasi lingua universale più limpida dellostesso mondo intuitivo; – che in lei di certo dobbiamocercar ben più dell'exercitium arithmeticae occultum ne-scientis se numerare animi, qual fu dichiarata da Leib-

82 Si veda il capitolo 37 del secondo volume [pp. 440-54 del tomo II dell'ed.cit.].

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niz83. E questi ebbe nondimeno ragione, in quanto neguardò soltanto l'immediata ed esterna significazione, lascorza. Ma se non fosse nulla di più, dovrebbe la soddi-sfazione, ch'ella ci arreca, somigliare a quella che noitroviamo nella giusta soluzione d'un problema di calco-lo; e non sarebbe punto quell'intima gioia, con la qualenoi vediamo fatto parlante il più segreto recesso del no-stro essere. Dal nostro punto di vista, adunque, dobbia-mo riconoscere alla musica un significato ben più gravee profondo, riferentesi alla più interiore essenza delmondo e del nostro io; rispetto alla quale le relazioni dinumeri, in cui quella si lascia scomporre, stanno non giàcome la cosa significata, ma appena come il segno si-gnificante. Che la musica debba stare al mondo, in unsenso qualsiasi, come rappresentazione sta al rappresen-tato, come immagine all'originale, possiamo dedurredall'analogia delle altre arti, alle quali tutte appartienequesto carattere, e la cui azione su di noi ha la stessa na-tura di quella della musica, ma solo è quest'ultima piùforte, più rapida, più necessaria, più infallibile. Quellarelazione d'immagine rispetto all'originale, ch'ella ha colmondo, deve pur essere ben intima, infinitamente veracee sommamente precisa, per esser da ciascuno compresain un attimo; e dà a conoscere una tal quale infallibilità,dal fatto che la sua forma si lascia ricondurre a regoleben determinate, da esprimersi in numeri; regole cui nonpuò sottrarsi, senza cessare interamente d'esser musica.

83 Leibnitii epistolae, collectio Kortholti: ep. 154.

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niz83. E questi ebbe nondimeno ragione, in quanto neguardò soltanto l'immediata ed esterna significazione, lascorza. Ma se non fosse nulla di più, dovrebbe la soddi-sfazione, ch'ella ci arreca, somigliare a quella che noitroviamo nella giusta soluzione d'un problema di calco-lo; e non sarebbe punto quell'intima gioia, con la qualenoi vediamo fatto parlante il più segreto recesso del no-stro essere. Dal nostro punto di vista, adunque, dobbia-mo riconoscere alla musica un significato ben più gravee profondo, riferentesi alla più interiore essenza delmondo e del nostro io; rispetto alla quale le relazioni dinumeri, in cui quella si lascia scomporre, stanno non giàcome la cosa significata, ma appena come il segno si-gnificante. Che la musica debba stare al mondo, in unsenso qualsiasi, come rappresentazione sta al rappresen-tato, come immagine all'originale, possiamo dedurredall'analogia delle altre arti, alle quali tutte appartienequesto carattere, e la cui azione su di noi ha la stessa na-tura di quella della musica, ma solo è quest'ultima piùforte, più rapida, più necessaria, più infallibile. Quellarelazione d'immagine rispetto all'originale, ch'ella ha colmondo, deve pur essere ben intima, infinitamente veracee sommamente precisa, per esser da ciascuno compresain un attimo; e dà a conoscere una tal quale infallibilità,dal fatto che la sua forma si lascia ricondurre a regoleben determinate, da esprimersi in numeri; regole cui nonpuò sottrarsi, senza cessare interamente d'esser musica.

83 Leibnitii epistolae, collectio Kortholti: ep. 154.

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Tuttavia il punto di paragone tra la musica e il mondo, ilmodo onde quella sta con questo nel rapporto d'imita-zione o riproduzione, giace ben profondamente celato.S'è fatto musica in tutti i tempi, senza rendersi conto diciò: paghi di comprenderla direttamente, s'è rinunziato auna conscienza astratta di questa immediata compren-sione.

Nel mentre io abbandonavo tutto il mio spiritoall'impressione della musica, facendo poi in seguito ri-torno alla riflessione e al corso dei pensieri espostinell'opera presente, venni a una conclusione sulla suaintima essenza e sul modo della sua relazione col mon-do, la quale per necessaria analogia era da supporre fos-se di natura imitativa. Tale conclusione essendo per mestesso sufficiente appieno, e per la mia indagine soddi-sfacente, sarà forse egualmente luminosa per chi mi ab-bia seguito finora convenendo col mio concetto delmondo. Ma di quella conclusione fornir la prova, rico-nosco esser cosa sostanzialmente impossibile; perchéessa ammette e stabilisce un rapporto della musica,come rappresentazione, con ciò che per essenza non puòmai essere rappresentazione; e la musica vuol conside-rata come immagine di un modello, che non può diretta-mente venir rappresentato esso medesimo. Non possoquindi fare altro, che qui, al termine del terzo libro,principalmente consacrato all'esame delle arti, esporrequel giudizio, ond'io m'appago, sulla mirabile arte deisuoni; e il consenso o il dissenso dipenderà dall'effettoprodotto sul lettore per una parte dalla musica, per l'altra

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Tuttavia il punto di paragone tra la musica e il mondo, ilmodo onde quella sta con questo nel rapporto d'imita-zione o riproduzione, giace ben profondamente celato.S'è fatto musica in tutti i tempi, senza rendersi conto diciò: paghi di comprenderla direttamente, s'è rinunziato auna conscienza astratta di questa immediata compren-sione.

Nel mentre io abbandonavo tutto il mio spiritoall'impressione della musica, facendo poi in seguito ri-torno alla riflessione e al corso dei pensieri espostinell'opera presente, venni a una conclusione sulla suaintima essenza e sul modo della sua relazione col mon-do, la quale per necessaria analogia era da supporre fos-se di natura imitativa. Tale conclusione essendo per mestesso sufficiente appieno, e per la mia indagine soddi-sfacente, sarà forse egualmente luminosa per chi mi ab-bia seguito finora convenendo col mio concetto delmondo. Ma di quella conclusione fornir la prova, rico-nosco esser cosa sostanzialmente impossibile; perchéessa ammette e stabilisce un rapporto della musica,come rappresentazione, con ciò che per essenza non puòmai essere rappresentazione; e la musica vuol conside-rata come immagine di un modello, che non può diretta-mente venir rappresentato esso medesimo. Non possoquindi fare altro, che qui, al termine del terzo libro,principalmente consacrato all'esame delle arti, esporrequel giudizio, ond'io m'appago, sulla mirabile arte deisuoni; e il consenso o il dissenso dipenderà dall'effettoprodotto sul lettore per una parte dalla musica, per l'altra

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da tutto l'unico pensiero, ch'io comunico in quest'opera.Ritengo inoltre necessario, perché si possa accoglierecon piena persuasione l'indagine, che ora farò, intorno alsenso della musica, ascoltar musica spesso, riflettendovidurevolmente. Ed anche a ciò occorre esser già moltofamigliare con tutto il mio pensiero.

L'adeguata oggettivazione della volontà sono le idee(platoniche); provocar la conoscenza di queste (cosapossibile solo con una corrispondente modificazione nelsoggetto conoscitivo) mediante rappresentazione di sin-goli oggetti (che non altro sono pur sempre le opered'arte), è il fine di tutte le altre arti. Tutte oggettivanoadunque la volontà in modo mediato, ossia per mezzodelle idee: e il nostro mondo non essendo se non feno-meno delle idee nella pluralità, per essere entrate nelprincipium individuationis (forma della conoscenza pos-sibile all'individuo come tale), ne risulta che la musica,la quale va oltre le idee, anche dal mondo fenomenico èdel tutto indipendente, e lo ignora, e potrebbe in certomodo sussistere quand'anche il mondo non fosse: il chenon può dirsi delle altre arti. La musica è dell'intera vo-lontà oggettivazione e immagine, tanto diretta com'è ilmondo; o anzi, come sono le idee: il cui fenomeno mol-tiplicato costituisce il mondo dei singoli oggetti. La mu-sica non è quindi punto, come l'altre arti, l'immaginedelle idee, bensì immagine della volontà stessa, dellaquale sono oggettità anche le idee. Perciò l'effetto dellamusica è tanto più potente e insinuante di quel delle al-tre arti: imperocché queste ci danno appena il riflesso,

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da tutto l'unico pensiero, ch'io comunico in quest'opera.Ritengo inoltre necessario, perché si possa accoglierecon piena persuasione l'indagine, che ora farò, intorno alsenso della musica, ascoltar musica spesso, riflettendovidurevolmente. Ed anche a ciò occorre esser già moltofamigliare con tutto il mio pensiero.

L'adeguata oggettivazione della volontà sono le idee(platoniche); provocar la conoscenza di queste (cosapossibile solo con una corrispondente modificazione nelsoggetto conoscitivo) mediante rappresentazione di sin-goli oggetti (che non altro sono pur sempre le opered'arte), è il fine di tutte le altre arti. Tutte oggettivanoadunque la volontà in modo mediato, ossia per mezzodelle idee: e il nostro mondo non essendo se non feno-meno delle idee nella pluralità, per essere entrate nelprincipium individuationis (forma della conoscenza pos-sibile all'individuo come tale), ne risulta che la musica,la quale va oltre le idee, anche dal mondo fenomenico èdel tutto indipendente, e lo ignora, e potrebbe in certomodo sussistere quand'anche il mondo non fosse: il chenon può dirsi delle altre arti. La musica è dell'intera vo-lontà oggettivazione e immagine, tanto diretta com'è ilmondo; o anzi, come sono le idee: il cui fenomeno mol-tiplicato costituisce il mondo dei singoli oggetti. La mu-sica non è quindi punto, come l'altre arti, l'immaginedelle idee, bensì immagine della volontà stessa, dellaquale sono oggettità anche le idee. Perciò l'effetto dellamusica è tanto più potente e insinuante di quel delle al-tre arti: imperocché queste ci danno appena il riflesso,

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mentre quella esprime l'essenza. Essendo adunque lamedesima volontà che si oggettiva, tanto nelle ideequanto nella musica, ma solo in modo affatto diverso,deve trovarsi non proprio una diretta somiglianza, matuttavia un parallelismo, un'analogia tra la musica e leidee, delle quali è fenomeno molteplice e imperfetto ilmondo visibile. L'indicare una tale analogia sarà comeun chiarimento, che aiuti a comprendere questa dimo-strazione difficile per l'oscurità del soggetto.

Nei suoni più gravi dell'armonia, nel basso fonda-mentale, io riconosco i gradi infimi dell'oggettivantesivolontà, la natura inorganica, la massa del pianeta. Tuttii suoni acuti, agili e rapidi, notoriamente sono da consi-derare sorti dalle vibrazioni concomitanti del suono fon-damentale profondo, e al risuonar di questi risuonan to-sto lievi anch'essi. È legge dell'armonia, accordare conuna nota bassa soltanto quei suoni acuti, che insiemecon lei già effettivamente risuonano nelle vibrazioniconcomitanti (i suoi sons harmoniques). È un fatto ana-logo a quello, per cui tutti i corpi e organismi della natu-ra devono esser considerati come svoltisi gradatamentedalla massa del pianeta; questa è il loro sostegno comela loro sorgente: e la medesima relazione hanno i suoniacuti col basso fondamentale. La profondità ha un ter-mine, oltre il quale un suono non è più percettibile: e ciòcorrisponde al non esservi materia percepibile senza for-ma e qualità, ossia senza manifestazione d'una forza,che non può esser meglio spiegata, e in cui un'idea siesprime; anzi corrisponde più generalmente al non es-

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mentre quella esprime l'essenza. Essendo adunque lamedesima volontà che si oggettiva, tanto nelle ideequanto nella musica, ma solo in modo affatto diverso,deve trovarsi non proprio una diretta somiglianza, matuttavia un parallelismo, un'analogia tra la musica e leidee, delle quali è fenomeno molteplice e imperfetto ilmondo visibile. L'indicare una tale analogia sarà comeun chiarimento, che aiuti a comprendere questa dimo-strazione difficile per l'oscurità del soggetto.

Nei suoni più gravi dell'armonia, nel basso fonda-mentale, io riconosco i gradi infimi dell'oggettivantesivolontà, la natura inorganica, la massa del pianeta. Tuttii suoni acuti, agili e rapidi, notoriamente sono da consi-derare sorti dalle vibrazioni concomitanti del suono fon-damentale profondo, e al risuonar di questi risuonan to-sto lievi anch'essi. È legge dell'armonia, accordare conuna nota bassa soltanto quei suoni acuti, che insiemecon lei già effettivamente risuonano nelle vibrazioniconcomitanti (i suoi sons harmoniques). È un fatto ana-logo a quello, per cui tutti i corpi e organismi della natu-ra devono esser considerati come svoltisi gradatamentedalla massa del pianeta; questa è il loro sostegno comela loro sorgente: e la medesima relazione hanno i suoniacuti col basso fondamentale. La profondità ha un ter-mine, oltre il quale un suono non è più percettibile: e ciòcorrisponde al non esservi materia percepibile senza for-ma e qualità, ossia senza manifestazione d'una forza,che non può esser meglio spiegata, e in cui un'idea siesprime; anzi corrisponde più generalmente al non es-

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servi materia in tutto scevra di volontà. Come adunquedal suono, in quanto tale, è inseparabile un certo gradodi altezza, così lo è dalla materia un certo grado di ma-nifestazione della volontà. Il basso fondamentale è quin-di per noi nell'armonia quel che il mondo nella naturainorganica: la massa più rude, su cui tutto posa e da cuitutto s'innalza e si sviluppa. Procedendo, in tutte le particostituenti l'armonia, tra il basso e la voce guida checanta la melodia, riconosco l'intera scala delle idee, incui la volontà si oggettiva. Quelle più vicine al bassocorrispondono ai gradi inferiori, ossia ai corpi ancorainorganici ma già in più modi estrinsecantisi: le più altemi rappresentano il mondo vegetale ed animale. I deter-minati intervalli della scala sono paralleli ai gradi deter-minati nell'oggettivazione della volontà, alle determina-te specie della natura. Il discostarsi dall'aritmetica esat-tezza degl'intervalli, o mediante una qualsiasi tempera, oindotto dalla prescelta tonalità, è analogo al discostarsidell'individuo dal tipo della specie: e anzi le dissonanzeimpure, che non danno un determinato intervallo, si pos-son paragonare ai mostri venuti da due specie animali, oda uomo e animale. A tutte codeste parti di basso e me-die, che formano l'armonia, manca nondimenoquell'organismo nella progressione, che soltanto ha laparte superiore, ond'è cantata la melodia; la qual parte èla sola a potersi muovere rapida e leggera nelle modula-zioni e digressioni, mentre tutte le altre hanno un andarepiù lento, senz'avere in ciascuna per sé un organismocostante. Più pesante di tutte si muove il basso fonda-

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servi materia in tutto scevra di volontà. Come adunquedal suono, in quanto tale, è inseparabile un certo gradodi altezza, così lo è dalla materia un certo grado di ma-nifestazione della volontà. Il basso fondamentale è quin-di per noi nell'armonia quel che il mondo nella naturainorganica: la massa più rude, su cui tutto posa e da cuitutto s'innalza e si sviluppa. Procedendo, in tutte le particostituenti l'armonia, tra il basso e la voce guida checanta la melodia, riconosco l'intera scala delle idee, incui la volontà si oggettiva. Quelle più vicine al bassocorrispondono ai gradi inferiori, ossia ai corpi ancorainorganici ma già in più modi estrinsecantisi: le più altemi rappresentano il mondo vegetale ed animale. I deter-minati intervalli della scala sono paralleli ai gradi deter-minati nell'oggettivazione della volontà, alle determina-te specie della natura. Il discostarsi dall'aritmetica esat-tezza degl'intervalli, o mediante una qualsiasi tempera, oindotto dalla prescelta tonalità, è analogo al discostarsidell'individuo dal tipo della specie: e anzi le dissonanzeimpure, che non danno un determinato intervallo, si pos-son paragonare ai mostri venuti da due specie animali, oda uomo e animale. A tutte codeste parti di basso e me-die, che formano l'armonia, manca nondimenoquell'organismo nella progressione, che soltanto ha laparte superiore, ond'è cantata la melodia; la qual parte èla sola a potersi muovere rapida e leggera nelle modula-zioni e digressioni, mentre tutte le altre hanno un andarepiù lento, senz'avere in ciascuna per sé un organismocostante. Più pesante di tutte si muove il basso fonda-

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mentale, il rappresentante della massa bruta: il suo saliree discendere si fa solo per grandi passaggi, in terze,quarte, quinte, e non mai d'un tono solo; che allora sa-rebbe, per contrappunto doppio, un basso trasportato.Questo tardo moto è a lui anche fisicamente naturale: unrapido passaggio o un gorgheggio nelle note gravi non sipuò neppure immaginare. Più svelte, ma ancor senzanesso melodico e significante progressione si muovonole parti più elevate, che corrono parallele al mondo ani-male. Il movimento isolato e la destinazione regolata ditutte le parti sono analoghi al fatto, che in tutto il mondoirrazionale, dal cristallo all'animale più perfetto, nessunessere ha una conscienza propriamente sistematica, chefaccia della sua vita un complesso sensato; e nessuno hauna successione di sviluppi mentali, nessuno si perfezio-na con la cultura; bensì tutti rimangono in ogni tempoeguali, secondo la propria natura, determinati da rigidalegge. Finalmente nella melodia, nella voce principale,alta, canora, che il tutto guida, e libera, spontanea proce-de dal principio alla fine con l'organismo ininterrotto esignificativo d'un pensiero unico, formando un tutto bendelineato, riconosco il grado supremo dell'oggettivazio-ne della volontà, la conscia vita e lotta dell'uomo. Comel'uomo ognora guarda, egli solo essendo fornito di ra-gione, davanti o dietro a sé, sul cammino della propriarealtà e delle possibilità innumerabili, compiendo uncorso vitale consapevole, in cui tutto si collega e formaun insieme: così ha la melodia sola una significativa,voluta connessione da capo a fondo. Ella narra quindi la

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mentale, il rappresentante della massa bruta: il suo saliree discendere si fa solo per grandi passaggi, in terze,quarte, quinte, e non mai d'un tono solo; che allora sa-rebbe, per contrappunto doppio, un basso trasportato.Questo tardo moto è a lui anche fisicamente naturale: unrapido passaggio o un gorgheggio nelle note gravi non sipuò neppure immaginare. Più svelte, ma ancor senzanesso melodico e significante progressione si muovonole parti più elevate, che corrono parallele al mondo ani-male. Il movimento isolato e la destinazione regolata ditutte le parti sono analoghi al fatto, che in tutto il mondoirrazionale, dal cristallo all'animale più perfetto, nessunessere ha una conscienza propriamente sistematica, chefaccia della sua vita un complesso sensato; e nessuno hauna successione di sviluppi mentali, nessuno si perfezio-na con la cultura; bensì tutti rimangono in ogni tempoeguali, secondo la propria natura, determinati da rigidalegge. Finalmente nella melodia, nella voce principale,alta, canora, che il tutto guida, e libera, spontanea proce-de dal principio alla fine con l'organismo ininterrotto esignificativo d'un pensiero unico, formando un tutto bendelineato, riconosco il grado supremo dell'oggettivazio-ne della volontà, la conscia vita e lotta dell'uomo. Comel'uomo ognora guarda, egli solo essendo fornito di ra-gione, davanti o dietro a sé, sul cammino della propriarealtà e delle possibilità innumerabili, compiendo uncorso vitale consapevole, in cui tutto si collega e formaun insieme: così ha la melodia sola una significativa,voluta connessione da capo a fondo. Ella narra quindi la

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storia della volontà illuminata dalla riflessione, volontàche si manifesta nel reale con la serie degli atti suoi; madice di più, narra della volontà la storia più segreta, nedipinge ogni emozione, ogni tendenza, ogni moto, tuttociò, che la ragione comprende sotto l'ampio e negativoconcetto di sentimento, né può meglio accogliere nelleproprie astrazioni. Perciò fu sempre detto esser la musi-ca il linguaggio del sentimento e della passione, come leparole sono il linguaggio della ragione. Già Platone ladichiara ή των µελων κινησις µεµιµηµενη, εν τοιςπαθηµασιν όταν ψυχη γινηται (melodiarum motus, ani-mi affectus imitans), De leg. VII; e anche Aristoteledice: δια τι οί ρυθµοι και τα µελη, φωνη ουσα, ηθεσινεοικε; (cur numeri musici et modi, qui voces sunt, mori-bus similes sese exhibent?); Probl., c. 19.

Ora, come l'essenza dell'uomo sta nel fatto, che la suavolontà aspira, viene appagata e torna ad aspirare, esempre così continua; anzi sua sola felicità, solo suo be-nessere è che quel passar dal desiderio all'appagamentoe da questo a un nuovo desiderio proceda rapido, poiche il ritardo dell'appagamento è dolore, e il ritardo delnuovo desiderio è aspirazione vuota, languor, noia; cosìl'essenza della melodia è un perenne discostarsi, peregri-nar lontano dal tono fondamentale per mille vie nonsolo verso i gradi armonici, la terza e la dominante, maverso ogni tono, fino alla dissonante settima ed ai gradieccedenti; eppur sempre succede da ultimo un ritorno altono fondamentale. Per tutte codeste vie esprime la me-lodia il multiforme aspirar della volontà; ma col ritrova-

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storia della volontà illuminata dalla riflessione, volontàche si manifesta nel reale con la serie degli atti suoi; madice di più, narra della volontà la storia più segreta, nedipinge ogni emozione, ogni tendenza, ogni moto, tuttociò, che la ragione comprende sotto l'ampio e negativoconcetto di sentimento, né può meglio accogliere nelleproprie astrazioni. Perciò fu sempre detto esser la musi-ca il linguaggio del sentimento e della passione, come leparole sono il linguaggio della ragione. Già Platone ladichiara ή των µελων κινησις µεµιµηµενη, εν τοιςπαθηµασιν όταν ψυχη γινηται (melodiarum motus, ani-mi affectus imitans), De leg. VII; e anche Aristoteledice: δια τι οί ρυθµοι και τα µελη, φωνη ουσα, ηθεσινεοικε; (cur numeri musici et modi, qui voces sunt, mori-bus similes sese exhibent?); Probl., c. 19.

Ora, come l'essenza dell'uomo sta nel fatto, che la suavolontà aspira, viene appagata e torna ad aspirare, esempre così continua; anzi sua sola felicità, solo suo be-nessere è che quel passar dal desiderio all'appagamentoe da questo a un nuovo desiderio proceda rapido, poiche il ritardo dell'appagamento è dolore, e il ritardo delnuovo desiderio è aspirazione vuota, languor, noia; cosìl'essenza della melodia è un perenne discostarsi, peregri-nar lontano dal tono fondamentale per mille vie nonsolo verso i gradi armonici, la terza e la dominante, maverso ogni tono, fino alla dissonante settima ed ai gradieccedenti; eppur sempre succede da ultimo un ritorno altono fondamentale. Per tutte codeste vie esprime la me-lodia il multiforme aspirar della volontà; ma col ritrova-

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re infine un grado armonico, o meglio ancora il tonofondamentale, esprime l'appagamento. Trovar la melo-dia, scoprire in lei tutti i segreti più profondi dell'umanovolere e sentire, è l'opera del genio: la cui azione è quipiù facile a vedersi che altrove, libera da ogni riflessionee meditato intento – e potrebbe chiamarsi inspirazione.Qui, come ovunque nel dominio dell'arte, il concetto èinfruttifero: il compositore disvela l'intima essenza delmondo, in un linguaggio che la ragione di lui non inten-de: come una sonnambula magnetica da rivelazione dicose, delle quali sveglia non ha concetto alcuno. In uncompositore quindi, meglio che in ogni altro artista, èl'uomo dall'artista in tutto separato e distinto. Perfinonell'illustrazione di quest'arte mirabile il concetto lasciascorgere la propria povertà e i propri limiti: ma io voglionondimeno tentar d'esporre fino all'ultimo l'analogia dame indicata. Come il rapido passaggio dal desiderioall'appagamento, e da questo a un nuovo desiderio, è fe-licità e benessere, così sono gioiose le melodie rapide,senza grandi deviazioni: tristi sono invece se lente, de-viate in penose dissonanze, e solo attraverso molte bat-tute facenti ritorno al tono fondamentale; sì da parago-narsi a un tardivo, contrastato appagamento del deside-rio. Il ritardo della nuova eccitazione della volontà, illanguore, non potrebbe esprimersi altrimenti che nelprolungato tono fondamentale, il cui effetto sarebbe benpresto intollerabile: già di molto s'avvicinano a ciò lemonotone, inespressive melodie. I brevi, facili periodid'una rapida musica a danza sembrano parlar d'una gioia

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re infine un grado armonico, o meglio ancora il tonofondamentale, esprime l'appagamento. Trovar la melo-dia, scoprire in lei tutti i segreti più profondi dell'umanovolere e sentire, è l'opera del genio: la cui azione è quipiù facile a vedersi che altrove, libera da ogni riflessionee meditato intento – e potrebbe chiamarsi inspirazione.Qui, come ovunque nel dominio dell'arte, il concetto èinfruttifero: il compositore disvela l'intima essenza delmondo, in un linguaggio che la ragione di lui non inten-de: come una sonnambula magnetica da rivelazione dicose, delle quali sveglia non ha concetto alcuno. In uncompositore quindi, meglio che in ogni altro artista, èl'uomo dall'artista in tutto separato e distinto. Perfinonell'illustrazione di quest'arte mirabile il concetto lasciascorgere la propria povertà e i propri limiti: ma io voglionondimeno tentar d'esporre fino all'ultimo l'analogia dame indicata. Come il rapido passaggio dal desiderioall'appagamento, e da questo a un nuovo desiderio, è fe-licità e benessere, così sono gioiose le melodie rapide,senza grandi deviazioni: tristi sono invece se lente, de-viate in penose dissonanze, e solo attraverso molte bat-tute facenti ritorno al tono fondamentale; sì da parago-narsi a un tardivo, contrastato appagamento del deside-rio. Il ritardo della nuova eccitazione della volontà, illanguore, non potrebbe esprimersi altrimenti che nelprolungato tono fondamentale, il cui effetto sarebbe benpresto intollerabile: già di molto s'avvicinano a ciò lemonotone, inespressive melodie. I brevi, facili periodid'una rapida musica a danza sembrano parlar d'una gioia

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comune, agevole a raggiungersi; mentre l'Allegro mae-stoso, in lunghi periodi, lenti passaggi, ampie deviazio-ni, esprime una più alta, più nobile aspirazione versouna meta lontana, e il suo finale conseguimento. L'Ada-gio parla del dolore d'una grande e nobile aspirazione, laquale disdegna ogni felicità meschina. Ma come mirabi-le è l'effetto del Minore e Maggiore! Come stupisce, cheil mutar d'un semitono, il subentrar della terza minore inluogo della maggiore, c'inspiri immediatamente e inevi-tabilmente un senso d'angoscia e di pena, dal quale conla stessa rapidità ci libera il modo maggiore! L'Adagioraggiunge nel modo minore l'espressione del più altospasimo, diviene il più sconvolgente lamento. Musica aballo in minore sembra indicare la perdita d'una felicitàmediocre, che piuttosto si dovrebbe disdegnare; sembraparlar d'un fine basso, conseguito con travagli e tribola-zioni. L'inesauribile ricchezza di possibili melodie corri-sponde all'inesauribile ricchezza della varietà d'indivi-dui, fisonomie e carriere vitali nella natura. Il passaggioda una tonalità a un'altra affatto diversa, venendo a to-glier la connessione con ciò che precede, somiglia allamorte, in quanto ella è fine dell'individuo: ma la volon-tà, che in costui si palesava, vive dopo come prima, inaltri individui palesandosi, la cui conscienza tuttavianon ha connessione di sorta con quella del primo.

Nel mostrar tutte queste analogie, non si deve tuttaviamai dimenticare che la musica non ha con esse una rela-zione diretta, ma soltanto indiretta: non esprimendo ellail fenomeno, ma l'intimo essere, l'in-sé d'ogni fenomeno,

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comune, agevole a raggiungersi; mentre l'Allegro mae-stoso, in lunghi periodi, lenti passaggi, ampie deviazio-ni, esprime una più alta, più nobile aspirazione versouna meta lontana, e il suo finale conseguimento. L'Ada-gio parla del dolore d'una grande e nobile aspirazione, laquale disdegna ogni felicità meschina. Ma come mirabi-le è l'effetto del Minore e Maggiore! Come stupisce, cheil mutar d'un semitono, il subentrar della terza minore inluogo della maggiore, c'inspiri immediatamente e inevi-tabilmente un senso d'angoscia e di pena, dal quale conla stessa rapidità ci libera il modo maggiore! L'Adagioraggiunge nel modo minore l'espressione del più altospasimo, diviene il più sconvolgente lamento. Musica aballo in minore sembra indicare la perdita d'una felicitàmediocre, che piuttosto si dovrebbe disdegnare; sembraparlar d'un fine basso, conseguito con travagli e tribola-zioni. L'inesauribile ricchezza di possibili melodie corri-sponde all'inesauribile ricchezza della varietà d'indivi-dui, fisonomie e carriere vitali nella natura. Il passaggioda una tonalità a un'altra affatto diversa, venendo a to-glier la connessione con ciò che precede, somiglia allamorte, in quanto ella è fine dell'individuo: ma la volon-tà, che in costui si palesava, vive dopo come prima, inaltri individui palesandosi, la cui conscienza tuttavianon ha connessione di sorta con quella del primo.

Nel mostrar tutte queste analogie, non si deve tuttaviamai dimenticare che la musica non ha con esse una rela-zione diretta, ma soltanto indiretta: non esprimendo ellail fenomeno, ma l'intimo essere, l'in-sé d'ogni fenomeno,

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la volontà stessa. Non esprime adunque questa o quellasingola e determinata gioia, questo o quel turbamento, odolore, o terrore, o giubilo, o letizia, o serenità; bensì lagioia, il turbamento, il dolore, il terrore, il giubilo, la le-tizia, la serenità in se stessi, e, potrebbe dirsi, in ab-stracto, dandone ciò che è essenziale, senza accessori,quindi anche senza i loro motivi. Perciò noi compren-diamo la musica perfettamente, in questa purificataquintessenza. Di là procede che la nostra fantasia vengadalla musica con tanta facilità eccitata, tenti allora di darforma a quel mondo di spiriti, che direttamente ci parla,invisibile e pur sì vivamente mosso, e di vestirlo concarne e ossa, cioè impersonarlo in un esempio analogo.Questa è l'origine del canto accompagnato da parole, efinalmente dell'opera, – la quale appunto perciò non do-vrebbe mai abbandonare questa situazione subordinataper salire al primo luogo, e ridurre la musica a semplicemezzo della propria espressione; la qual cosa è un gros-so errore e una brutta stortura. Imperocché sempre lamusica esprime la quintessenza della vita e dei suoieventi, ma non mai questi medesimi; le cui distinzioniquindi non hanno il minimo influsso sopra di lei. Ap-punto tale universalità, che a lei esclusivamente appar-tiene, malgrado la determinatezza più precisa, le dàl'alto valore, ch'ella possiede come panacea di tutti i no-stri mali. Se quindi si vuol troppo adattar la musica alleparole, e modellarla sui fatti, ella si sforza a parlare unlinguaggio che non è il suo. Da questo difetto nessunos'è tenuto lontano come Rossini: perciò la musica di lui

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la volontà stessa. Non esprime adunque questa o quellasingola e determinata gioia, questo o quel turbamento, odolore, o terrore, o giubilo, o letizia, o serenità; bensì lagioia, il turbamento, il dolore, il terrore, il giubilo, la le-tizia, la serenità in se stessi, e, potrebbe dirsi, in ab-stracto, dandone ciò che è essenziale, senza accessori,quindi anche senza i loro motivi. Perciò noi compren-diamo la musica perfettamente, in questa purificataquintessenza. Di là procede che la nostra fantasia vengadalla musica con tanta facilità eccitata, tenti allora di darforma a quel mondo di spiriti, che direttamente ci parla,invisibile e pur sì vivamente mosso, e di vestirlo concarne e ossa, cioè impersonarlo in un esempio analogo.Questa è l'origine del canto accompagnato da parole, efinalmente dell'opera, – la quale appunto perciò non do-vrebbe mai abbandonare questa situazione subordinataper salire al primo luogo, e ridurre la musica a semplicemezzo della propria espressione; la qual cosa è un gros-so errore e una brutta stortura. Imperocché sempre lamusica esprime la quintessenza della vita e dei suoieventi, ma non mai questi medesimi; le cui distinzioniquindi non hanno il minimo influsso sopra di lei. Ap-punto tale universalità, che a lei esclusivamente appar-tiene, malgrado la determinatezza più precisa, le dàl'alto valore, ch'ella possiede come panacea di tutti i no-stri mali. Se quindi si vuol troppo adattar la musica alleparole, e modellarla sui fatti, ella si sforza a parlare unlinguaggio che non è il suo. Da questo difetto nessunos'è tenuto lontano come Rossini: perciò la musica di lui

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parla sì limpido e puro il linguaggio suo proprio, da nonaver punto bisogno di parole, ed esercitare quindi tutto ilsuo effetto, anche se eseguita dai soli strumenti.

In conseguenza di tutto ciò possiamo considerare ilmondo fenomenico (o la natura) e la musica come duediverse espressioni della cosa stessa; la quale è adunqueil termine di unione dell'analogia che passa fra loro, lacui conoscenza si richiede per vedere addentroquell'analogia. La musica quindi è – guardata comeespressione del mondo – un linguaggio in altissimo gra-do universale, che addirittura sta all'universalità dei con-cetti press'a poco come i concetti stanno alle singolecose. Ma la sua universalità non è punto quell'universa-lità vuota dell'astrazione, bensì ha tutt'altro carattere, edè congiunta con una perenne, limpida determinatezza.Somiglia in ciò alle figure geometriche ed ai numeri:che, quali forme universali di tutti i possibili oggettidell'esperienza ed a tutti applicabili, non sono tuttaviaastratti, ma intuitivi e sempre determinati. Tutte le possi-bili aspirazioni, eccitazioni e manifestazioni della vo-lontà; tutti quei fatti interni dell'uomo, che la ragionegetta nell'ampio concetto negativo di sentimento, sonoda esprimere nelle infinite melodie possibili; ma ognoranell'universalità di semplice forma, senza la materia;ognora nell'in-sé, e non nel fenomeno: quasi la più pro-fonda anima di questo, senza il corpo. Da quest'intimarelazione, che la musica ha con la vera essenza di tuttele cose, si trae pur la spiegazione del fatto che se a qual-sivoglia scena, azione, evento, ambiente s'accompagna

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parla sì limpido e puro il linguaggio suo proprio, da nonaver punto bisogno di parole, ed esercitare quindi tutto ilsuo effetto, anche se eseguita dai soli strumenti.

In conseguenza di tutto ciò possiamo considerare ilmondo fenomenico (o la natura) e la musica come duediverse espressioni della cosa stessa; la quale è adunqueil termine di unione dell'analogia che passa fra loro, lacui conoscenza si richiede per vedere addentroquell'analogia. La musica quindi è – guardata comeespressione del mondo – un linguaggio in altissimo gra-do universale, che addirittura sta all'universalità dei con-cetti press'a poco come i concetti stanno alle singolecose. Ma la sua universalità non è punto quell'universa-lità vuota dell'astrazione, bensì ha tutt'altro carattere, edè congiunta con una perenne, limpida determinatezza.Somiglia in ciò alle figure geometriche ed ai numeri:che, quali forme universali di tutti i possibili oggettidell'esperienza ed a tutti applicabili, non sono tuttaviaastratti, ma intuitivi e sempre determinati. Tutte le possi-bili aspirazioni, eccitazioni e manifestazioni della vo-lontà; tutti quei fatti interni dell'uomo, che la ragionegetta nell'ampio concetto negativo di sentimento, sonoda esprimere nelle infinite melodie possibili; ma ognoranell'universalità di semplice forma, senza la materia;ognora nell'in-sé, e non nel fenomeno: quasi la più pro-fonda anima di questo, senza il corpo. Da quest'intimarelazione, che la musica ha con la vera essenza di tuttele cose, si trae pur la spiegazione del fatto che se a qual-sivoglia scena, azione, evento, ambiente s'accompagna

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una musica adatta, questa sembra dischiudercene il sen-so più segreto, ed esserne il più esatto, il più limpidocommentario; e nello stesso tempo pare a quegli, che in-tero s'abbandona all'effetto d'una sinfonia, di vedere in-nanzi a sé passare le vicende tutte della vita e del mon-do: ma nondimeno non gli è possibile, quando vi riflet-ta, trovare una somiglianza tra quella musica e le coseche ondeggiavano a lui nella fantasia. Imperocché quivila musica differisce, come ho detto, da tutte le altre arti:nell'essere non già una riflessa immagine del fenomenoo, meglio, l'adeguata oggettità della volontà, bensìl'immediato riflesso della volontà medesima; e per tuttociò ch'è fisico nel mondo rappresentare il metafisico, perogni fenomeno rappresentare la cosa in sé. Tanto si po-trebbe quindi chiamare il mondo musica materiata,quanto materiata volontà. Così si spiega, perché la musi-ca faccia apparire in più forte rilievo ogni quadro, anziogni scena della vita reale e del mondo: e tanto più, perquanto più analoga è la melodia di lei all'intimo spiritodel dato fenomenico. Di qui viene che una poesia possa,come canto, venir sottomessa alla musica: o una rappre-sentazione intuitiva come pantomina; o questa e quellainsieme, come opera. Tali scene isolate dell'umana vita,fatte soggetto all'universale linguaggio della musica,non sono mai con questa congiunte o a lei corrisponden-ti per una fissa necessità; bensì v'hanno il rapporto cheun qualsivoglia esempio può avere col concetto genera-le: rappresentano con la determinatezza della realtà quelche la musica esprime nell'universalità della forma pura.

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una musica adatta, questa sembra dischiudercene il sen-so più segreto, ed esserne il più esatto, il più limpidocommentario; e nello stesso tempo pare a quegli, che in-tero s'abbandona all'effetto d'una sinfonia, di vedere in-nanzi a sé passare le vicende tutte della vita e del mon-do: ma nondimeno non gli è possibile, quando vi riflet-ta, trovare una somiglianza tra quella musica e le coseche ondeggiavano a lui nella fantasia. Imperocché quivila musica differisce, come ho detto, da tutte le altre arti:nell'essere non già una riflessa immagine del fenomenoo, meglio, l'adeguata oggettità della volontà, bensìl'immediato riflesso della volontà medesima; e per tuttociò ch'è fisico nel mondo rappresentare il metafisico, perogni fenomeno rappresentare la cosa in sé. Tanto si po-trebbe quindi chiamare il mondo musica materiata,quanto materiata volontà. Così si spiega, perché la musi-ca faccia apparire in più forte rilievo ogni quadro, anziogni scena della vita reale e del mondo: e tanto più, perquanto più analoga è la melodia di lei all'intimo spiritodel dato fenomenico. Di qui viene che una poesia possa,come canto, venir sottomessa alla musica: o una rappre-sentazione intuitiva come pantomina; o questa e quellainsieme, come opera. Tali scene isolate dell'umana vita,fatte soggetto all'universale linguaggio della musica,non sono mai con questa congiunte o a lei corrisponden-ti per una fissa necessità; bensì v'hanno il rapporto cheun qualsivoglia esempio può avere col concetto genera-le: rappresentano con la determinatezza della realtà quelche la musica esprime nell'universalità della forma pura.

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Perché le melodie sono, in un certo modo, così come iconcetti universali, un'astrazione della realtà. Quest'ulti-ma, invero, fornisce l'intuitivo, il particolare e indivi-duale, il caso singolo, in corrispondenza sia all'universa-lità dei concetti, sia all'universalità delle melodie; lequali universalità sono tuttavia, sotto un certo rispetto,contrarie: poiché i concetti contengono soltanto le formeprimamente astratte dall'intuizione, quasi il vuoto guscioesterno delle cose, e sono quindi astrazioni vere e pro-prie; mentre la musica da invece il nocciolo più interno,precedente a ogni formazione, ossia il cuore della cosa.Questo rapporto si potrebbe esprimere benissimo nellalingua degli scolastici, dicendo: i concetti sono gli uni-versalia post rem, mentre la musica dà gli universaliaante rem, e la realtà gli universalia in re. Al senso uni-versale della melodia, posta ad accompagnare una poe-sia, potrebbero corrispondere egualmente altri esempi,scelti a piacere, dell'universale in quella espresso, nellostesso grado; perciò la stessa composizione s'adatta apiù strofe, e perciò si può avere il vaudeville. Ma in ge-nere l'esser possibile un rapporto tra una composizionemusicale e una rappresentazione intuitiva poggia, comeho osservato, sul fatto che l'una e l'altra sono espressionidifferentissime della stessa intima essenza del mondo.Ora, quando s'abbia davvero nel caso singolo un tal rap-porto, e il compositore abbia saputo esprimere nell'uni-versale lingua della musica quei moti della volontà, cheformano il nocciolo di un evento, allora la melodia dellacanzone o la musica dell'opera è altamente espressiva.

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Perché le melodie sono, in un certo modo, così come iconcetti universali, un'astrazione della realtà. Quest'ulti-ma, invero, fornisce l'intuitivo, il particolare e indivi-duale, il caso singolo, in corrispondenza sia all'universa-lità dei concetti, sia all'universalità delle melodie; lequali universalità sono tuttavia, sotto un certo rispetto,contrarie: poiché i concetti contengono soltanto le formeprimamente astratte dall'intuizione, quasi il vuoto guscioesterno delle cose, e sono quindi astrazioni vere e pro-prie; mentre la musica da invece il nocciolo più interno,precedente a ogni formazione, ossia il cuore della cosa.Questo rapporto si potrebbe esprimere benissimo nellalingua degli scolastici, dicendo: i concetti sono gli uni-versalia post rem, mentre la musica dà gli universaliaante rem, e la realtà gli universalia in re. Al senso uni-versale della melodia, posta ad accompagnare una poe-sia, potrebbero corrispondere egualmente altri esempi,scelti a piacere, dell'universale in quella espresso, nellostesso grado; perciò la stessa composizione s'adatta apiù strofe, e perciò si può avere il vaudeville. Ma in ge-nere l'esser possibile un rapporto tra una composizionemusicale e una rappresentazione intuitiva poggia, comeho osservato, sul fatto che l'una e l'altra sono espressionidifferentissime della stessa intima essenza del mondo.Ora, quando s'abbia davvero nel caso singolo un tal rap-porto, e il compositore abbia saputo esprimere nell'uni-versale lingua della musica quei moti della volontà, cheformano il nocciolo di un evento, allora la melodia dellacanzone o la musica dell'opera è altamente espressiva.

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L'analogia, dal compositore trovata fra quel linguaggio equei moti, deve nondimeno procedere dall'immediatacognizione dell'essenza del mondo, senza consapevolez-za della ragione; non dev'essere imitazione fatta consa-pevolmente, mediante concetti, che allora non esprime-rebbe la musica l'intima essenza, la volontà medesima, enon farebbe che imitare insufficientemente il fenomenodi quest'ultima, come ognor fa la musica imitativa, qualè per esempio Le stagioni di Haydn e anche la suaCreazione, in molti luoghi ove fenomeni del mondo in-tuitivo sono direttamente imitati. E così anche in tutte ledescrizioni di battaglie: tutta roba da gettar via.

L'ineffabile senso intimo d'ogni musica, in grazia delquale ella ci passa davanti come un paradiso a noi benfamigliare e pure eternamente lontano, affatto compren-sibile e pur tanto incomprensibile, proviene dal rifletteretutti i moti del nostro essere più segreto, ma senza larealtà loro, e tenendosi lungi dal loro tormento. Simil-mente la gravità essenziale alla musica, per cui è il ridi-colo escluso affatto dal suo diretto dominio, si spiegacon l'esser suo oggetto immediato non la rappresenta-zione, che sola può apparire illusoria e ridicola, ma lavolontà stessa. E questa è per sua natura ciò che esiste dipiù grave, come ciò da cui tutto dipende. Come ricco dicontenuto e di significanza sia il linguaggio musicale,provano perfino i segni di ripetizione, oltre al da capo,che in opere letterarie sarebbero intollerabili, mentre inquello appaiono opportuni e vantaggiosi, dovendosi udi-re due volte per afferrarlo appieno. In tutta questa tratta-

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L'analogia, dal compositore trovata fra quel linguaggio equei moti, deve nondimeno procedere dall'immediatacognizione dell'essenza del mondo, senza consapevolez-za della ragione; non dev'essere imitazione fatta consa-pevolmente, mediante concetti, che allora non esprime-rebbe la musica l'intima essenza, la volontà medesima, enon farebbe che imitare insufficientemente il fenomenodi quest'ultima, come ognor fa la musica imitativa, qualè per esempio Le stagioni di Haydn e anche la suaCreazione, in molti luoghi ove fenomeni del mondo in-tuitivo sono direttamente imitati. E così anche in tutte ledescrizioni di battaglie: tutta roba da gettar via.

L'ineffabile senso intimo d'ogni musica, in grazia delquale ella ci passa davanti come un paradiso a noi benfamigliare e pure eternamente lontano, affatto compren-sibile e pur tanto incomprensibile, proviene dal rifletteretutti i moti del nostro essere più segreto, ma senza larealtà loro, e tenendosi lungi dal loro tormento. Simil-mente la gravità essenziale alla musica, per cui è il ridi-colo escluso affatto dal suo diretto dominio, si spiegacon l'esser suo oggetto immediato non la rappresenta-zione, che sola può apparire illusoria e ridicola, ma lavolontà stessa. E questa è per sua natura ciò che esiste dipiù grave, come ciò da cui tutto dipende. Come ricco dicontenuto e di significanza sia il linguaggio musicale,provano perfino i segni di ripetizione, oltre al da capo,che in opere letterarie sarebbero intollerabili, mentre inquello appaiono opportuni e vantaggiosi, dovendosi udi-re due volte per afferrarlo appieno. In tutta questa tratta-

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zione intorno alla musica mi sono sforzato di renderchiaro, come ella in un linguaggio universalissimoesprima l'essenza intima, l'in-sé del mondo, che noi,muovendo dalla sua manifestazione più limpida, signifi-chiamo sotto il concetto di volontà; e l'esprima in unamateria particolare, ossia con semplici suoni, con lamassima determinatezza e verità. E d'altra parte, secon-do io vedo e tendo, la filosofia non è se non compiuta,esatta riproduzione ed espressione dell'essenza del mon-do, in concetti molto generali; sol con questi potendosiavere una visione, per ogni verso sufficiente e servibile,di tutta quell'essenza. Chi adunque m'ha seguito ed è pe-netrato nel mio pensiero, non mi troverà tanto parados-sale, quando dico che, posto si potesse dare una spiega-zione della musica, in tutto esatta, compiuta e adden-trantesi nei particolari, ossia riprodurre estesamente inconcetti ciò ch'ella esprime, questa sarebbe senz'altrouna sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo inconcetti; oppur le equivarrebbe in tutto, e sarebbe così lavera filosofia. Né il motto di Leibniz sopra citato, giu-stissimo da un inferior punto di vista, suonerebbe para-dossale venendo a esser parodiato nel senso della nostrasuperiore concezione della musica, così: Musica estexercitium metaphysices occultum nescientis se philoso-phari animi. Imperocché scire, sapere, significa sempreaver deposto la conoscenza in concetti astratti. E poi chela musica, per la verità da più parti confermata del mot-to leibniziano, non è altro, astraendo dal suo significatoestetico, o interno, e guardandola in modo affatto este-

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zione intorno alla musica mi sono sforzato di renderchiaro, come ella in un linguaggio universalissimoesprima l'essenza intima, l'in-sé del mondo, che noi,muovendo dalla sua manifestazione più limpida, signifi-chiamo sotto il concetto di volontà; e l'esprima in unamateria particolare, ossia con semplici suoni, con lamassima determinatezza e verità. E d'altra parte, secon-do io vedo e tendo, la filosofia non è se non compiuta,esatta riproduzione ed espressione dell'essenza del mon-do, in concetti molto generali; sol con questi potendosiavere una visione, per ogni verso sufficiente e servibile,di tutta quell'essenza. Chi adunque m'ha seguito ed è pe-netrato nel mio pensiero, non mi troverà tanto parados-sale, quando dico che, posto si potesse dare una spiega-zione della musica, in tutto esatta, compiuta e adden-trantesi nei particolari, ossia riprodurre estesamente inconcetti ciò ch'ella esprime, questa sarebbe senz'altrouna sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo inconcetti; oppur le equivarrebbe in tutto, e sarebbe così lavera filosofia. Né il motto di Leibniz sopra citato, giu-stissimo da un inferior punto di vista, suonerebbe para-dossale venendo a esser parodiato nel senso della nostrasuperiore concezione della musica, così: Musica estexercitium metaphysices occultum nescientis se philoso-phari animi. Imperocché scire, sapere, significa sempreaver deposto la conoscenza in concetti astratti. E poi chela musica, per la verità da più parti confermata del mot-to leibniziano, non è altro, astraendo dal suo significatoestetico, o interno, e guardandola in modo affatto este-

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riore ed empirico, che il mezzo di afferrar direttamente,e in concreto, numeri più grandi e relazioni numerichepiù complesse, quali di solito possiam conoscere soloindirettamente per mezzo di concetti, ne viene che, riu-nendo quelle due sì diverse e pure esatte concezioni del-la musica, possiamo farci un concetto sulla possibilitàd'una filosofia dei numeri, qual era quella di Pitagora eanche dei Cinesi nel Y-King; e in questo senso interpre-tare il detto di Pitagora riferito da Sesto Empirico (adv.Math., 1. VII): τω αριθµω δε τα παντ’ επεοικεν (numerocuncta assimilantur). Ma se infine applichiamo questomodo di vedere alla nostra precedente dimostrazionedell'armonia e della melodia, troveremo che una filoso-fia morale pura, senza spiegazione della natura, comeSocrate la voleva introdurre, è affatto analoga a una me-lodia senz'armonia, come Rousseau in modo esclusivola voleva; e all'opposto, una fisica e metafisica pura,senza etica, corrisponde a una pura armonia senza melo-dia. A queste osservazioni incidentali mi sia lecito anno-darne alcune altre, riferentisi ancora all'analogia dellamusica col mondo fenomenico. Trovammo nel prece-dente libro, che il grado supremo d'oggettivazione dellavolontà, l'uomo, non può apparir solitario e distaccatodagli altri gradi inferiori; ma li presuppone, come questipresuppongono gl'infimi. Così pure la musica, la quale,proprio come il mondo, oggettiva la volontà direttamen-te, è perfetta soltanto nell'armonia completa. La voceacuta, che fa da guida alla melodia, abbisogna, per pro-durre tutto il suo effetto, dell'accompagnamento di tutte

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riore ed empirico, che il mezzo di afferrar direttamente,e in concreto, numeri più grandi e relazioni numerichepiù complesse, quali di solito possiam conoscere soloindirettamente per mezzo di concetti, ne viene che, riu-nendo quelle due sì diverse e pure esatte concezioni del-la musica, possiamo farci un concetto sulla possibilitàd'una filosofia dei numeri, qual era quella di Pitagora eanche dei Cinesi nel Y-King; e in questo senso interpre-tare il detto di Pitagora riferito da Sesto Empirico (adv.Math., 1. VII): τω αριθµω δε τα παντ’ επεοικεν (numerocuncta assimilantur). Ma se infine applichiamo questomodo di vedere alla nostra precedente dimostrazionedell'armonia e della melodia, troveremo che una filoso-fia morale pura, senza spiegazione della natura, comeSocrate la voleva introdurre, è affatto analoga a una me-lodia senz'armonia, come Rousseau in modo esclusivola voleva; e all'opposto, una fisica e metafisica pura,senza etica, corrisponde a una pura armonia senza melo-dia. A queste osservazioni incidentali mi sia lecito anno-darne alcune altre, riferentisi ancora all'analogia dellamusica col mondo fenomenico. Trovammo nel prece-dente libro, che il grado supremo d'oggettivazione dellavolontà, l'uomo, non può apparir solitario e distaccatodagli altri gradi inferiori; ma li presuppone, come questipresuppongono gl'infimi. Così pure la musica, la quale,proprio come il mondo, oggettiva la volontà direttamen-te, è perfetta soltanto nell'armonia completa. La voceacuta, che fa da guida alla melodia, abbisogna, per pro-durre tutto il suo effetto, dell'accompagnamento di tutte

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le altre voci, fino al basso più profondo, il quale è daconsiderarsi come principio di tutte; la melodia entraqual parte integrante nell'armonia, come questa in quel-la. E come soltanto nell'insieme di tutte le voci la musi-ca esprime ciò che d'esprimer si propone, così l'unicavolontà, che sta fuori del tempo, trova la sua perfetta og-gettivazione soltanto nella completa unione di tutti i gra-di, che lungo un'infinita scala di progressiva evidenzamanifestano il suo essere. Molto notevole è ancoral'analogia che segue. Abbiamo nel precedente libro ve-duto che, malgrado il reciproco adattamento, rispettoalle specie, di tutti i fenomeni della volontà (il che dàluogo alla considerazione teleologica), rimane tuttaviaun non eliminabile contrasto tra quei fenomeni indivi-dualmente; il quale è in tutti i lor gradi visibile, e riduceil mondo a un perenne campo di battaglia tra i fenomenitutti dell'una e identica volontà, facendo palese cosìl'intimo dissidio di quest'ultima con se medesima. A ciòpur si trova corrispondenza nella musica. Invero un si-stema armonico di suoni interamente puro è impossibilenon solo fisicamente, ma già perfino aritmeticamente. Inumeri stessi, co' quali si esprimono i toni, hanno irra-zionalità non riducibili: nessuna scala sarebbe mai pos-sibile a calcolare, entro la quale ogni quinta stesse altono fondamentale come 2 sta a 3, ogni terza maggiorecome 4 a 5, ogni terza minore come 5 a 6, e così via.Perché, se i toni sono esatti rispetto al tono fondamenta-le, non lo son più reciprocamente, che allora, per esem-pio, dovrebbe la quinta esser la terza minore della terza,

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le altre voci, fino al basso più profondo, il quale è daconsiderarsi come principio di tutte; la melodia entraqual parte integrante nell'armonia, come questa in quel-la. E come soltanto nell'insieme di tutte le voci la musi-ca esprime ciò che d'esprimer si propone, così l'unicavolontà, che sta fuori del tempo, trova la sua perfetta og-gettivazione soltanto nella completa unione di tutti i gra-di, che lungo un'infinita scala di progressiva evidenzamanifestano il suo essere. Molto notevole è ancoral'analogia che segue. Abbiamo nel precedente libro ve-duto che, malgrado il reciproco adattamento, rispettoalle specie, di tutti i fenomeni della volontà (il che dàluogo alla considerazione teleologica), rimane tuttaviaun non eliminabile contrasto tra quei fenomeni indivi-dualmente; il quale è in tutti i lor gradi visibile, e riduceil mondo a un perenne campo di battaglia tra i fenomenitutti dell'una e identica volontà, facendo palese cosìl'intimo dissidio di quest'ultima con se medesima. A ciòpur si trova corrispondenza nella musica. Invero un si-stema armonico di suoni interamente puro è impossibilenon solo fisicamente, ma già perfino aritmeticamente. Inumeri stessi, co' quali si esprimono i toni, hanno irra-zionalità non riducibili: nessuna scala sarebbe mai pos-sibile a calcolare, entro la quale ogni quinta stesse altono fondamentale come 2 sta a 3, ogni terza maggiorecome 4 a 5, ogni terza minore come 5 a 6, e così via.Perché, se i toni sono esatti rispetto al tono fondamenta-le, non lo son più reciprocamente, che allora, per esem-pio, dovrebbe la quinta esser la terza minore della terza,

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etc. I toni della scala rassomigliano ad attori, che debba-no rappresentare or questa or quella parte. Una musicaperfettamente esatta non si può adunque pensare, non-ché eseguire, e dalla purezza piena si discosta ogni pos-sibile musica. Questa può solamente celare le dissonan-ze in lei essenziali, distribuendole fra tutti i toni, ossiaper mezzo di tempera. Si veda a questo proposito l'I diChladni, § 30, e del medesimo la Breve esposizione del-la teoria dei suoni e dell'armonia, p. 1284. Avrei ancorparecchio da aggiungere sul modo onde la musica vienpercepita, ossia unicamente nel tempo e per il tempo,con assoluta esclusione dello spazio, ed anchesenz'influsso della conoscenza di causalità, ossiadell'intelletto: imperocché i suoni musicali già produco-no come effetto l'impressione estetica, senza che si deb-ba risalire alla loro causa, come accade nell'intuizione.Ma non voglio prolungar questi discorsi, che probabil-mente già a taluno sono apparso nel mio terzo librotroppo prolisso, o troppo mi sono addentrato nei partico-lari. Ciò era tuttavia necessario per il mio scopo, e tantomeno sarà biasimato, quanto più ci si rappresentil'importanza, di rado conosciuta abbastanza, e l'alto va-lore dell'arte; riflettendo che se, a nostro modo di vede-re, tutto il mondo visibile non è se non oggettivazione,specchio della volontà, e accompagna questa alla cono-scenza di sé, anzi, come tosto vedremo, alla sua possibi-le redenzione; e riflettendo in pari tempo, che il mondo84 Si veda il cap. 39 del secondo volume [pp. 464-74 del tomo II dell'ed.

cit.].

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etc. I toni della scala rassomigliano ad attori, che debba-no rappresentare or questa or quella parte. Una musicaperfettamente esatta non si può adunque pensare, non-ché eseguire, e dalla purezza piena si discosta ogni pos-sibile musica. Questa può solamente celare le dissonan-ze in lei essenziali, distribuendole fra tutti i toni, ossiaper mezzo di tempera. Si veda a questo proposito l'I diChladni, § 30, e del medesimo la Breve esposizione del-la teoria dei suoni e dell'armonia, p. 1284. Avrei ancorparecchio da aggiungere sul modo onde la musica vienpercepita, ossia unicamente nel tempo e per il tempo,con assoluta esclusione dello spazio, ed anchesenz'influsso della conoscenza di causalità, ossiadell'intelletto: imperocché i suoni musicali già produco-no come effetto l'impressione estetica, senza che si deb-ba risalire alla loro causa, come accade nell'intuizione.Ma non voglio prolungar questi discorsi, che probabil-mente già a taluno sono apparso nel mio terzo librotroppo prolisso, o troppo mi sono addentrato nei partico-lari. Ciò era tuttavia necessario per il mio scopo, e tantomeno sarà biasimato, quanto più ci si rappresentil'importanza, di rado conosciuta abbastanza, e l'alto va-lore dell'arte; riflettendo che se, a nostro modo di vede-re, tutto il mondo visibile non è se non oggettivazione,specchio della volontà, e accompagna questa alla cono-scenza di sé, anzi, come tosto vedremo, alla sua possibi-le redenzione; e riflettendo in pari tempo, che il mondo84 Si veda il cap. 39 del secondo volume [pp. 464-74 del tomo II dell'ed.

cit.].

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come rappresentazione, quando lo si consideri a parte,ed essendo svincolati dal volere lo si lasci occupare essosolo la conscienza, è il più gioioso e l'unico innocenteaspetto della vita; di tutto ciò noi dobbiamo considerarl'arte come il più alto grado, il più completo sviluppo,poi che ella sostanzialmente fa quel medesimo che fa ilmondo visibile, ma con più concentrazione, compiutez-za, consapevole intento; e può quindi nel pieno signifi-cato della parola esser chiamata la fioritura della vita. Seil mondo intero quale rappresentazione non è che la vi-sibilità della volontà, l'arte è quella, che fa più limpidacodesta visibilità, la camera oscura, che gli oggetti faapparire più puri e meglio vedere e abbracciar con losguardo. È lo spettacolo nello spettacolo, la scena sullascena, come nell'Amleto.

Il godimento del bello, il conforto che l'arte può dare,l'entusiasmo dell'artista, che gli fa dimenticare i travaglidella vita, unico privilegio del genio, il solo che lo com-pensi del dolore cresciuto di pari passo con la chiaritàdella conscienza, e della squallida solitudine fra unagente eterogenea, – tutto ciò poggia sul fatto che, comeci si mostrerà in seguito, l'in-sé della vita, la volontà,l'essere medesimo sono un perenne soffrire, in parte mi-serabile, in parte orrendo; mentre l'essere medesimoquale semplice rappresentazione, puramente intuita, oriprodotta dall'arte, libera da dolore, offre un significan-te spettacolo. Quest'aspetto del mondo puramente cono-scitivo, e la riproduzione sua in un'arte qualsiasi è l'ele-mento dell'artista. Egli è incatenato dallo spettacolo

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come rappresentazione, quando lo si consideri a parte,ed essendo svincolati dal volere lo si lasci occupare essosolo la conscienza, è il più gioioso e l'unico innocenteaspetto della vita; di tutto ciò noi dobbiamo considerarl'arte come il più alto grado, il più completo sviluppo,poi che ella sostanzialmente fa quel medesimo che fa ilmondo visibile, ma con più concentrazione, compiutez-za, consapevole intento; e può quindi nel pieno signifi-cato della parola esser chiamata la fioritura della vita. Seil mondo intero quale rappresentazione non è che la vi-sibilità della volontà, l'arte è quella, che fa più limpidacodesta visibilità, la camera oscura, che gli oggetti faapparire più puri e meglio vedere e abbracciar con losguardo. È lo spettacolo nello spettacolo, la scena sullascena, come nell'Amleto.

Il godimento del bello, il conforto che l'arte può dare,l'entusiasmo dell'artista, che gli fa dimenticare i travaglidella vita, unico privilegio del genio, il solo che lo com-pensi del dolore cresciuto di pari passo con la chiaritàdella conscienza, e della squallida solitudine fra unagente eterogenea, – tutto ciò poggia sul fatto che, comeci si mostrerà in seguito, l'in-sé della vita, la volontà,l'essere medesimo sono un perenne soffrire, in parte mi-serabile, in parte orrendo; mentre l'essere medesimoquale semplice rappresentazione, puramente intuita, oriprodotta dall'arte, libera da dolore, offre un significan-te spettacolo. Quest'aspetto del mondo puramente cono-scitivo, e la riproduzione sua in un'arte qualsiasi è l'ele-mento dell'artista. Egli è incatenato dallo spettacolo

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dell'oggettivata volontà: vi si indugia, non si stanca diguardarlo e di riprodurlo, e talora ne fa egli medesimo lespese, ossia egli medesimo è la volontà, che in quelmodo s'oggettiva e perdura in continuo dolore. Quellapura, vera e profonda conoscenza dell'essere del mondogli si fa scopo di per se stessa: ed egli a lei si ferma.Non diviene ella adunque per lui, come vedremo nel se-guente libro accadere per il santo arrivato alla redenzio-ne, un quietivo della volontà; non lo redime per sempredalla vita, ma solo per brevi istanti, e non è ancor unavia a uscir dalla vita, ma solo a volte un conforto nellavita stessa; fin che la sua forza, così accresciuta, stancaalfine del giuoco, non si volga al serio. Come simbolo diquesto passaggio si può considerar la Santa Cecilia diRaffaello. Al serio ci volgeremo adunque noi pure nellibro seguente.

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dell'oggettivata volontà: vi si indugia, non si stanca diguardarlo e di riprodurlo, e talora ne fa egli medesimo lespese, ossia egli medesimo è la volontà, che in quelmodo s'oggettiva e perdura in continuo dolore. Quellapura, vera e profonda conoscenza dell'essere del mondogli si fa scopo di per se stessa: ed egli a lei si ferma.Non diviene ella adunque per lui, come vedremo nel se-guente libro accadere per il santo arrivato alla redenzio-ne, un quietivo della volontà; non lo redime per sempredalla vita, ma solo per brevi istanti, e non è ancor unavia a uscir dalla vita, ma solo a volte un conforto nellavita stessa; fin che la sua forza, così accresciuta, stancaalfine del giuoco, non si volga al serio. Come simbolo diquesto passaggio si può considerar la Santa Cecilia diRaffaello. Al serio ci volgeremo adunque noi pure nellibro seguente.

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LIBRO QUARTOIL MONDO COME VOLONTÀ

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LIBRO QUARTOIL MONDO COME VOLONTÀ

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SECONDA CONSIDERAZIONEAffermazione e negazione della volontà di vivere, dopo

raggiunta la conoscenza di sé.

Tempore quo cognitio simul ad-venit, amor e medio supersurrexit.

Oupneck' hat, studio Anquetil Duperron,vol. II, p. 216

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SECONDA CONSIDERAZIONEAffermazione e negazione della volontà di vivere, dopo

raggiunta la conoscenza di sé.

Tempore quo cognitio simul ad-venit, amor e medio supersurrexit.

Oupneck' hat, studio Anquetil Duperron,vol. II, p. 216

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§ 53.L'ultima parte del nostro esame si annunzia come la

più grave, poi che tocca le azioni degli uomini: oggettoche a ciascuno direttamente importa, e a nessuno puòessere straniero o indifferente. Anzi, tanto è conformealla natura dell'uomo il riferire a quello tutte le altrecose, che in ogni indagine di varie parti contesta egliterrà sempre la parte riferentesi alle azioni, almeno findove l'interessa, per il risultato ultimo di tutto quanto inquell'indagine si contiene; ed a questa sola porrà seriaattenzione, anche se non bada a nessun'altra. Sotto il ri-spetto indicato, la parte del nostro esame che ora seguesi potrebbe chiamare, secondo il comune modo d'espri-mersi, filosofia pratica; in opposizione alla filosofia teo-retica finora trattata. Ma ogni filosofia è a mio avvisoteoretica sempre, essendo a lei essenziale, qualunque sial'oggetto immediato della ricerca, il rimaner nel campodella considerazione pura e l'investigare, non già il darprecetti. Invece il diventar pratica, il guidar la condotta,il modificare il carattere, sono vecchie pretese cui ella,con più maturo giudizio, dovrebbe alfine rinunciare. Im-perocché qui, dove si tratta del valore e del non valored'un'esistenza, di salvazione o di condanna, non sono isuoi morti concetti a dare l'esito, bensì lo dà l'essenzapiù intima dell'uomo medesimo, il demone che lo guidae che non lo ha scelto, ma che da lui è stato scelto, comedice Platone – il suo carattere intelligibile, come Kant si

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§ 53.L'ultima parte del nostro esame si annunzia come la

più grave, poi che tocca le azioni degli uomini: oggettoche a ciascuno direttamente importa, e a nessuno puòessere straniero o indifferente. Anzi, tanto è conformealla natura dell'uomo il riferire a quello tutte le altrecose, che in ogni indagine di varie parti contesta egliterrà sempre la parte riferentesi alle azioni, almeno findove l'interessa, per il risultato ultimo di tutto quanto inquell'indagine si contiene; ed a questa sola porrà seriaattenzione, anche se non bada a nessun'altra. Sotto il ri-spetto indicato, la parte del nostro esame che ora seguesi potrebbe chiamare, secondo il comune modo d'espri-mersi, filosofia pratica; in opposizione alla filosofia teo-retica finora trattata. Ma ogni filosofia è a mio avvisoteoretica sempre, essendo a lei essenziale, qualunque sial'oggetto immediato della ricerca, il rimaner nel campodella considerazione pura e l'investigare, non già il darprecetti. Invece il diventar pratica, il guidar la condotta,il modificare il carattere, sono vecchie pretese cui ella,con più maturo giudizio, dovrebbe alfine rinunciare. Im-perocché qui, dove si tratta del valore e del non valored'un'esistenza, di salvazione o di condanna, non sono isuoi morti concetti a dare l'esito, bensì lo dà l'essenzapiù intima dell'uomo medesimo, il demone che lo guidae che non lo ha scelto, ma che da lui è stato scelto, comedice Platone – il suo carattere intelligibile, come Kant si

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esprime. La virtù non s'insegna, più che non s'insegni ilgenio: per lei è il concetto tanto infruttifero, e solo vale-vole come strumento, quanto è infruttifero per l'arte. Al-trettanto stolti saremmo nell'attenderci, che i nostri siste-mi morali e le nostre etiche suscitassero uomini virtuosi,nobili e santi, come nel chiedere alle nostre estetiche disuscitare poeti, scultori, musici.

La filosofia non può in nessun caso fare altro, se nonchiarire e spiegare ciò che è dato; recare alla limpida,astratta conoscenza della ragione, sotto ogni rispetto eda ogni punto di vista, quell'essenza del mondo che aciascuno si esprime intelligibile in concreto, ossia comesentimento. Ora, come nei tre libri precedenti s'è cercatod'operar questo passaggio alla consapevolezza razionalenel modo generico proprio della filosofia, e muovendoda altri principi; così nel presente libro sarà in egualmodo considerata la condotta dell'uomo: il quale aspettodel mondo dovrebbe non solo, secondo osservai, pergiudizio soggettivo, ma anche oggettivo, essere riguar-dato come di tutti il più importante. Mi terrò in questofedele al metodo finora seguito; mi fonderò su quantoho esposto innanzi, come necessaria premessa; anzi pro-priamente quell'unico pensiero, che forma il contenutodi tutta la mia opera, svolgerò in relazione con la con-dotta umana, come l'ho svolto fin qui in relazione contutti gli altri oggetti: venendo così a far l'ultimo sforzoch'io posso, per la comunicazione il più possibile com-piuta del pensiero medesimo.

Il punto di vista indicato, e l'annunziato metodo

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esprime. La virtù non s'insegna, più che non s'insegni ilgenio: per lei è il concetto tanto infruttifero, e solo vale-vole come strumento, quanto è infruttifero per l'arte. Al-trettanto stolti saremmo nell'attenderci, che i nostri siste-mi morali e le nostre etiche suscitassero uomini virtuosi,nobili e santi, come nel chiedere alle nostre estetiche disuscitare poeti, scultori, musici.

La filosofia non può in nessun caso fare altro, se nonchiarire e spiegare ciò che è dato; recare alla limpida,astratta conoscenza della ragione, sotto ogni rispetto eda ogni punto di vista, quell'essenza del mondo che aciascuno si esprime intelligibile in concreto, ossia comesentimento. Ora, come nei tre libri precedenti s'è cercatod'operar questo passaggio alla consapevolezza razionalenel modo generico proprio della filosofia, e muovendoda altri principi; così nel presente libro sarà in egualmodo considerata la condotta dell'uomo: il quale aspettodel mondo dovrebbe non solo, secondo osservai, pergiudizio soggettivo, ma anche oggettivo, essere riguar-dato come di tutti il più importante. Mi terrò in questofedele al metodo finora seguito; mi fonderò su quantoho esposto innanzi, come necessaria premessa; anzi pro-priamente quell'unico pensiero, che forma il contenutodi tutta la mia opera, svolgerò in relazione con la con-dotta umana, come l'ho svolto fin qui in relazione contutti gli altri oggetti: venendo così a far l'ultimo sforzoch'io posso, per la comunicazione il più possibile com-piuta del pensiero medesimo.

Il punto di vista indicato, e l'annunziato metodo

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d'indagine, già lasciano capire che in questo libro di eti-ca non bisogna attendersi ad alcuna prescrizione, ad al-cuna teoria dei doveri: ancor meno vi sarà formulato unprincipio morale universale, quasi universale ricetta perla produzione di tutte le virtù. Né discorreremo di un«dovere assoluto», perché questo, secondo si esponenell'Appendice, contiene una contraddizione; né di una«legge per la libertà», che si trova nello stesso caso. Ingenere non discorreremo punto di dovere: poiché si par-la così a bambini e a popoli in istato d'infanzia, ma nona coloro che han resa propria tutta la cultura di un'etàfatta maggiorenne. Gli è pure una contraddizione ches'afferra con mano, proclamar libera la volontà e tuttaviaprescrivere a lei leggi, in base alle quali ella deve vole-re: – «deve volere!» – come chi dicesse: ferro fatto dilegno! Invece, come appare da tutto il nostro modo divedere, è la volontà non soltanto libera, bensì onnipo-tente: da lei procede non pure la sua condotta, ma ancheil suo mondo; e quale ella è, tale appare la sua condotta,tale appare il suo mondo: sua conscienza di sé sonoquella e questo, e null'altro: ella determina se stessa, edetermina con ciò condotta e mondo: perché nulla è fuo-ri di lei, e condotta e mondo sono lei medesima. Cosìsoltanto ella è veramente autonoma; eteronoma è invecesecondo ogni altra concezione. Il nostro sforzo filosofi-co può appena pervenire a interpretare e spiegare la con-dotta dell'uomo, le massime sì diverse, anzi contraddit-torie, di cui quella condotta è vivente espressione, inrapporto con le considerazioni che abbiam fatte finora,

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d'indagine, già lasciano capire che in questo libro di eti-ca non bisogna attendersi ad alcuna prescrizione, ad al-cuna teoria dei doveri: ancor meno vi sarà formulato unprincipio morale universale, quasi universale ricetta perla produzione di tutte le virtù. Né discorreremo di un«dovere assoluto», perché questo, secondo si esponenell'Appendice, contiene una contraddizione; né di una«legge per la libertà», che si trova nello stesso caso. Ingenere non discorreremo punto di dovere: poiché si par-la così a bambini e a popoli in istato d'infanzia, ma nona coloro che han resa propria tutta la cultura di un'etàfatta maggiorenne. Gli è pure una contraddizione ches'afferra con mano, proclamar libera la volontà e tuttaviaprescrivere a lei leggi, in base alle quali ella deve vole-re: – «deve volere!» – come chi dicesse: ferro fatto dilegno! Invece, come appare da tutto il nostro modo divedere, è la volontà non soltanto libera, bensì onnipo-tente: da lei procede non pure la sua condotta, ma ancheil suo mondo; e quale ella è, tale appare la sua condotta,tale appare il suo mondo: sua conscienza di sé sonoquella e questo, e null'altro: ella determina se stessa, edetermina con ciò condotta e mondo: perché nulla è fuo-ri di lei, e condotta e mondo sono lei medesima. Cosìsoltanto ella è veramente autonoma; eteronoma è invecesecondo ogni altra concezione. Il nostro sforzo filosofi-co può appena pervenire a interpretare e spiegare la con-dotta dell'uomo, le massime sì diverse, anzi contraddit-torie, di cui quella condotta è vivente espressione, inrapporto con le considerazioni che abbiam fatte finora,

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nel modo stesso in cui abbiam cercato d'interpretare glialtri fenomeni del mondo, recandone l'essenza più inti-ma nel dominio della limpida conoscenza astratta. Lanostra filosofia affermerà in ciò quella stessa immanen-za, affermata nelle considerazioni precedenti: non userà,venendo meno alla grande dottrina kantiana, le formedel fenomeno, di cui è espressione universale il princi-pio di ragione, come un bastone da salto, per oltrepassa-re il fenomeno, che solo dà a quello un senso, e appro-dare allo sconfinato dominio delle vuote finzioni. Que-sto reale mondo della conoscibilità, nel quale noi stiamoe che sta in noi, rimane non soltanto materia, ma limitedel nostro studio: ed è sì ricco di contenuto, che non po-trebbe esaurirlo neppur l'indagine più profonda, di cuifosse capace lo spirito umano. Poiché adunque il mondoreale, conoscibile, non lascerà mai argomento e realtàvenir meno alle nostre considerazioni etiche, come giànon ne lasciò mancare alle considerazioni precedenti;nulla ci sarà più inutile che il far ricorso a vuoti, negati-vi concetti, e poi far credere a noi stessi d'aver dettoqualcosa, quando con solenne cipiglio abbiam parlatod'«assoluto», d'«infinito», di «soprasensibile», e diquant'altre pure negazioni consimili possan darsi ancora(ουδεν εστι, η το της στερησεως ονοµα, µετα αµυδραςεπινοιας.— nihil est, nisi negationis nomen, cum obscu-ra notione. Jul. or. 5); in luogo delle quali si potrebbedir, più brevemente, «nubicuculia» (νεφελοκοκκυγία).Piatti di tal fatta, ben coperti ma vuoti, non avremo noibisogno di mettere in tavola. Insomma, anche qui come

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nel modo stesso in cui abbiam cercato d'interpretare glialtri fenomeni del mondo, recandone l'essenza più inti-ma nel dominio della limpida conoscenza astratta. Lanostra filosofia affermerà in ciò quella stessa immanen-za, affermata nelle considerazioni precedenti: non userà,venendo meno alla grande dottrina kantiana, le formedel fenomeno, di cui è espressione universale il princi-pio di ragione, come un bastone da salto, per oltrepassa-re il fenomeno, che solo dà a quello un senso, e appro-dare allo sconfinato dominio delle vuote finzioni. Que-sto reale mondo della conoscibilità, nel quale noi stiamoe che sta in noi, rimane non soltanto materia, ma limitedel nostro studio: ed è sì ricco di contenuto, che non po-trebbe esaurirlo neppur l'indagine più profonda, di cuifosse capace lo spirito umano. Poiché adunque il mondoreale, conoscibile, non lascerà mai argomento e realtàvenir meno alle nostre considerazioni etiche, come giànon ne lasciò mancare alle considerazioni precedenti;nulla ci sarà più inutile che il far ricorso a vuoti, negati-vi concetti, e poi far credere a noi stessi d'aver dettoqualcosa, quando con solenne cipiglio abbiam parlatod'«assoluto», d'«infinito», di «soprasensibile», e diquant'altre pure negazioni consimili possan darsi ancora(ουδεν εστι, η το της στερησεως ονοµα, µετα αµυδραςεπινοιας.— nihil est, nisi negationis nomen, cum obscu-ra notione. Jul. or. 5); in luogo delle quali si potrebbedir, più brevemente, «nubicuculia» (νεφελοκοκκυγία).Piatti di tal fatta, ben coperti ma vuoti, non avremo noibisogno di mettere in tavola. Insomma, anche qui come

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per il passato ci guarderemo dal raccontare storie gabel-landole per filosofia. Imperocché noi siamo d'avviso,che da una filosofica cognizione del mondo sia oltreogni misura lontano chi pensi di poterne coglier l'essen-za, e sia pur sotto i più bei trucchi, storicamente. E que-sto è il caso, non appena nel concetto, che colui ha delmondo in sé, venga a trovarsi un qualsiasi divenire, oesser divenuto, o esser per divenire; e un prima e poi ac-quisti la pur minima importanza, e quindi in modo pale-se o nascosto si cerchi e trovi un principio e una fine delmondo, e una via da quello a questa. Codesto isterico fi-losofare da il più spesso una cosmogonia, la quale con-sente molte varietà, ma può dare anche un sistema diemanatismo, una dottrina della caduta; oppure, se dispe-rando dei vani tentativi per quelle strade si riduce aprenderne un'altra, ultima, dà viceversa una teoriadell'eterno divenire, del nascere, del sorgere, del balzaralla luce dalle tenebre, dall'oscuro fondo, dal fondo deifondi, dal fondo senza fondo, e quanti sono vaniloqui dital sorta. Tutte cose le quali si tolgono di mezzo conl'osservare, che essendo un'eternità intera, ossia un tem-po infinito, già trascorsa fino all'attimo presente, tuttoquel che può e deve accadere deve anche essere già ac-caduto. Poiché codesta filosofia storica, per quante arievoglia darsi, prende, come se Kant non fosse mai esisti-to, il tempo per una determinazione della cosa in sé: es'arresta quindi a ciò che Kant chiama fenomeno, in op-posizione alla cosa in sé, e Platone chiama il divenireche mai non è, in opposizione all'essere che mai non di-

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per il passato ci guarderemo dal raccontare storie gabel-landole per filosofia. Imperocché noi siamo d'avviso,che da una filosofica cognizione del mondo sia oltreogni misura lontano chi pensi di poterne coglier l'essen-za, e sia pur sotto i più bei trucchi, storicamente. E que-sto è il caso, non appena nel concetto, che colui ha delmondo in sé, venga a trovarsi un qualsiasi divenire, oesser divenuto, o esser per divenire; e un prima e poi ac-quisti la pur minima importanza, e quindi in modo pale-se o nascosto si cerchi e trovi un principio e una fine delmondo, e una via da quello a questa. Codesto isterico fi-losofare da il più spesso una cosmogonia, la quale con-sente molte varietà, ma può dare anche un sistema diemanatismo, una dottrina della caduta; oppure, se dispe-rando dei vani tentativi per quelle strade si riduce aprenderne un'altra, ultima, dà viceversa una teoriadell'eterno divenire, del nascere, del sorgere, del balzaralla luce dalle tenebre, dall'oscuro fondo, dal fondo deifondi, dal fondo senza fondo, e quanti sono vaniloqui dital sorta. Tutte cose le quali si tolgono di mezzo conl'osservare, che essendo un'eternità intera, ossia un tem-po infinito, già trascorsa fino all'attimo presente, tuttoquel che può e deve accadere deve anche essere già ac-caduto. Poiché codesta filosofia storica, per quante arievoglia darsi, prende, come se Kant non fosse mai esisti-to, il tempo per una determinazione della cosa in sé: es'arresta quindi a ciò che Kant chiama fenomeno, in op-posizione alla cosa in sé, e Platone chiama il divenireche mai non è, in opposizione all'essere che mai non di-

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viene; s'arresta a ciò, insomma, che gl'Indiani chiamanoil velo di Maja. E quest'è appunto la conoscenza vinco-lata al principio di ragione, con la quale mai non si giun-ge all'essenza intima delle cose, ma non si fa che perse-guire all'infinito i fenomeni, muovendo intorno senzafine e senza meta, come fa lo scoiattolo nella gabbia aruota; finché per avventura stanchi alla fine o sopra osotto in un punto qualsiasi ci si ferma, e si pretende difar rispettare questo punto anche dagli altri. La veraconsiderazione filosofica del mondo, ossia quella chec'insegna a conoscere l'essenza intima, e ci conduce cosìdi là dal fenomeno, è appunto quella che non chiede ildonde e il dove e il perché, ma sempre e in tutto doman-da esclusivamente il che cosa del mondo: ossia quella,che le cose considera non già in una lor qualunque rela-zione, non già nel loro principiare e finire, non già in-somma secondo una delle quattro forme del principio diragione; ma viceversa ha per oggetto proprio quel cheavanza, quando abbiamo tolto via tutta la conoscenzasottomessa al principio medesimo, quel che in tutte lerelazioni si manifesta senza esser da loro dipendente,l'essenza del mondo ognora eguale a se stessa, le ideedel mondo. Da tal conoscenza essenziale procede, comel'arte, anche la filosofia; anzi, come vedremo in questolibro, ne procede pur quella disposizione dell'animo, chesola conduce alla vera santità e alla redenzione del mon-do.

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viene; s'arresta a ciò, insomma, che gl'Indiani chiamanoil velo di Maja. E quest'è appunto la conoscenza vinco-lata al principio di ragione, con la quale mai non si giun-ge all'essenza intima delle cose, ma non si fa che perse-guire all'infinito i fenomeni, muovendo intorno senzafine e senza meta, come fa lo scoiattolo nella gabbia aruota; finché per avventura stanchi alla fine o sopra osotto in un punto qualsiasi ci si ferma, e si pretende difar rispettare questo punto anche dagli altri. La veraconsiderazione filosofica del mondo, ossia quella chec'insegna a conoscere l'essenza intima, e ci conduce cosìdi là dal fenomeno, è appunto quella che non chiede ildonde e il dove e il perché, ma sempre e in tutto doman-da esclusivamente il che cosa del mondo: ossia quella,che le cose considera non già in una lor qualunque rela-zione, non già nel loro principiare e finire, non già in-somma secondo una delle quattro forme del principio diragione; ma viceversa ha per oggetto proprio quel cheavanza, quando abbiamo tolto via tutta la conoscenzasottomessa al principio medesimo, quel che in tutte lerelazioni si manifesta senza esser da loro dipendente,l'essenza del mondo ognora eguale a se stessa, le ideedel mondo. Da tal conoscenza essenziale procede, comel'arte, anche la filosofia; anzi, come vedremo in questolibro, ne procede pur quella disposizione dell'animo, chesola conduce alla vera santità e alla redenzione del mon-do.

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§ 54.I tre primi libri avranno fatto veder chiaramente e si-

curamente, spero, che nel mondo quale rappresentazionela volontà ha il proprio specchio, in cui se stessa cono-sce, per gradi progressivi di limpidità e di compiutezza;de' quali il più alto è l'uomo. Ma l'essere dell'uomo rag-giunge la sua piena espressione sol mediante la seriecoerente delle sue azioni. E il conscio nesso delle azioniè reso possibile dalla ragione, che da mezzo all'uomo didominarne con lo sguardo il complesso in abstracto.

La volontà considerata in se stessa è inconsciente: èun cieco, irresistibile impeto, qual noi già vediamo ap-parire nella natura inorganica e vegetale, com'anche nel-la parte vegetativa della nostra propria vita. Sopravve-nendo il mondo della rappresentazione, sviluppato per ilsuo servigio, ella acquista conoscenza del proprio voleree di ciò ch'ella vuole, che altro non è se non il mondo, lavita, così come si presenta. Perciò il mondo fenomenicol'abbiam chiamato specchio della volontà, e sua oggetti-tà: e ciò che la volontà sempre vuole è la vita, appuntoperché questa non è altro che il manifestarsi di quel vo-lere per la rappresentazione; perciò è tutt'uno, e sempli-ce pleonasmo, quando invece di «volontà» senz'altro di-ciamo «volontà di vivere».

Essendo la volontà la cosa in sé, l'interna sostanza,l'essenza del mondo, mentre la vita, il mondo visibile, ilfenomeno è solamente lo specchio della volontà; ne vie-ne che il fenomeno accompagna la volontà sì fedelmen-

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§ 54.I tre primi libri avranno fatto veder chiaramente e si-

curamente, spero, che nel mondo quale rappresentazionela volontà ha il proprio specchio, in cui se stessa cono-sce, per gradi progressivi di limpidità e di compiutezza;de' quali il più alto è l'uomo. Ma l'essere dell'uomo rag-giunge la sua piena espressione sol mediante la seriecoerente delle sue azioni. E il conscio nesso delle azioniè reso possibile dalla ragione, che da mezzo all'uomo didominarne con lo sguardo il complesso in abstracto.

La volontà considerata in se stessa è inconsciente: èun cieco, irresistibile impeto, qual noi già vediamo ap-parire nella natura inorganica e vegetale, com'anche nel-la parte vegetativa della nostra propria vita. Sopravve-nendo il mondo della rappresentazione, sviluppato per ilsuo servigio, ella acquista conoscenza del proprio voleree di ciò ch'ella vuole, che altro non è se non il mondo, lavita, così come si presenta. Perciò il mondo fenomenicol'abbiam chiamato specchio della volontà, e sua oggetti-tà: e ciò che la volontà sempre vuole è la vita, appuntoperché questa non è altro che il manifestarsi di quel vo-lere per la rappresentazione; perciò è tutt'uno, e sempli-ce pleonasmo, quando invece di «volontà» senz'altro di-ciamo «volontà di vivere».

Essendo la volontà la cosa in sé, l'interna sostanza,l'essenza del mondo, mentre la vita, il mondo visibile, ilfenomeno è solamente lo specchio della volontà; ne vie-ne che il fenomeno accompagna la volontà sì fedelmen-

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te, come l'ombra il corpo; e dov'è volontà, sarà pur vita,mondo. Alla volontà di vivere è adunque la vita assicu-rata; e fin quando pieni siamo della volontà di vivere,non dobbiamo trovarci in ansia per la nostra esistenza –neppure in vista della morte. Vediamo bensì l'individuonascere e perire: ma l'individuo è soltanto fenomeno,non esiste se non per la conoscenza irretita nel principiodi ragione, nel principio individuationis: in virtù di que-sto invero riceve la propria vita come un dono, vien fuo-ri dal nulla, soffre poi per morte la perdita di quel dono,e al nulla fa ritorno. Ma noi vogliamo invece considerarla vita filosoficamente, ossia nelle sue idee; e troveremoallora che né la volontà, la cosa in sé di tutti i fenomeni,né il soggetto del conoscere, quegli che guarda tutti i fe-nomeni, da nascita e morte sono in alcun modo toccati.Nascita e morte toccano per l'appunto al fenomeno dellavolontà, ossia alla vita; e di questa è proprio il manife-starsi in individui, i quali nascono e periscono come ef-fimere apparenze, palesantisi nella forma del tempo, diciò che in sé nessun tempo conosce, ma deve tuttavianel modo suddetto manifestarsi, per oggettivare il suovero essere. Nascita e morte toccano in egual manieraalla vita, e si fanno equilibrio come reciproche condizio-ni l'una dell'altra: o, se si preferisce il termine, comepoli di tutto il fenomeno vitale. La più saggia di tutte lemitologie, l'indiana, ciò esprime attribuendo a quel me-desimo Dio, che simboleggia la distruzione e la morte(come Brama, il più peccaminoso e basso Dio della Tri-murti, simboleggia la generazione, la nascita, e Visnu la

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te, come l'ombra il corpo; e dov'è volontà, sarà pur vita,mondo. Alla volontà di vivere è adunque la vita assicu-rata; e fin quando pieni siamo della volontà di vivere,non dobbiamo trovarci in ansia per la nostra esistenza –neppure in vista della morte. Vediamo bensì l'individuonascere e perire: ma l'individuo è soltanto fenomeno,non esiste se non per la conoscenza irretita nel principiodi ragione, nel principio individuationis: in virtù di que-sto invero riceve la propria vita come un dono, vien fuo-ri dal nulla, soffre poi per morte la perdita di quel dono,e al nulla fa ritorno. Ma noi vogliamo invece considerarla vita filosoficamente, ossia nelle sue idee; e troveremoallora che né la volontà, la cosa in sé di tutti i fenomeni,né il soggetto del conoscere, quegli che guarda tutti i fe-nomeni, da nascita e morte sono in alcun modo toccati.Nascita e morte toccano per l'appunto al fenomeno dellavolontà, ossia alla vita; e di questa è proprio il manife-starsi in individui, i quali nascono e periscono come ef-fimere apparenze, palesantisi nella forma del tempo, diciò che in sé nessun tempo conosce, ma deve tuttavianel modo suddetto manifestarsi, per oggettivare il suovero essere. Nascita e morte toccano in egual manieraalla vita, e si fanno equilibrio come reciproche condizio-ni l'una dell'altra: o, se si preferisce il termine, comepoli di tutto il fenomeno vitale. La più saggia di tutte lemitologie, l'indiana, ciò esprime attribuendo a quel me-desimo Dio, che simboleggia la distruzione e la morte(come Brama, il più peccaminoso e basso Dio della Tri-murti, simboleggia la generazione, la nascita, e Visnu la

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conservazione), attribuendo a Shiva, dico, in pari tempoil collare di teschi ed il Lingam, simbolo della genera-zione, la quale si presenta quivi adunque come adegua-mento della morte. La qual cosa significa, che genera-zione e morte sono per natura correlati, che a vicenda sineutralizzano e sopprimono. Ed è lo stesso pensiero, cheGreci e Romani indusse a ornare i preziosi sarcofagicome ancora li vediamo, con feste, danze, nozze, cacce,lotte d'animali, baccanali, ossia con rappresentazioni delpiù impetuoso ardore vitale: ardore che non solo essi cimostrano in codeste scene festive, ma perfino in gruppivoluttuosi, arrivando fino all'accoppiamento di satiri e dicapre. Loro scopo era palesemente quello di rivolgere lamente dalla morte dell'individuo compianto all'immortalvita della natura, e con ciò indicare, sia pure senz'averneastratta conscienza, che tutta la natura è fenomeno edanche adempimento della volontà di vivere. Forma di talfenomeno sono tempo, spazio e causalità, e quindi, perlor mezzo, individuazione; la qual cosa fa sì, che l'indi-viduo debba nascere e morire; ma essa non tocca la vo-lontà di vivere, della cui manifestazione l'individuo nonè che un singolo esempio o saggio, più che il complessodella natura non venga toccato dalla morte di un indivi-duo. Poiché non l'individuo, ma la specie sola importaalla natura, la quale per la conservazione della specie siaffatica con ogni sforzo, a quella provvedendo con sìlarga prodigalità, mediante la smisurata sovrabbondanzadei germi e la gran forza della fecondità. Invece l'indivi-duo non ha per lei valore alcuno, perché tempo infinito,

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conservazione), attribuendo a Shiva, dico, in pari tempoil collare di teschi ed il Lingam, simbolo della genera-zione, la quale si presenta quivi adunque come adegua-mento della morte. La qual cosa significa, che genera-zione e morte sono per natura correlati, che a vicenda sineutralizzano e sopprimono. Ed è lo stesso pensiero, cheGreci e Romani indusse a ornare i preziosi sarcofagicome ancora li vediamo, con feste, danze, nozze, cacce,lotte d'animali, baccanali, ossia con rappresentazioni delpiù impetuoso ardore vitale: ardore che non solo essi cimostrano in codeste scene festive, ma perfino in gruppivoluttuosi, arrivando fino all'accoppiamento di satiri e dicapre. Loro scopo era palesemente quello di rivolgere lamente dalla morte dell'individuo compianto all'immortalvita della natura, e con ciò indicare, sia pure senz'averneastratta conscienza, che tutta la natura è fenomeno edanche adempimento della volontà di vivere. Forma di talfenomeno sono tempo, spazio e causalità, e quindi, perlor mezzo, individuazione; la qual cosa fa sì, che l'indi-viduo debba nascere e morire; ma essa non tocca la vo-lontà di vivere, della cui manifestazione l'individuo nonè che un singolo esempio o saggio, più che il complessodella natura non venga toccato dalla morte di un indivi-duo. Poiché non l'individuo, ma la specie sola importaalla natura, la quale per la conservazione della specie siaffatica con ogni sforzo, a quella provvedendo con sìlarga prodigalità, mediante la smisurata sovrabbondanzadei germi e la gran forza della fecondità. Invece l'indivi-duo non ha per lei valore alcuno, perché tempo infinito,

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infinito spazio, e, in tempo e spazio, infinito numero dipossibili individui, sono il regno della natura; quindiella è ognor pronta a lasciar cadere l'individuo, il qualenon solo in mille modi, per i più piccoli accidenti, èesposto alla rovina, ma alla rovina è fin da principio de-stinato e dalla natura stessa condotto, a partir dall'istan-te, in cui esso è servito alla conservazione della specie.Apertissimamente esprime in ciò la natura medesimaquel grande vero, che le idee soltanto, e non gli indivi-dui, hanno effettiva realtà, cioè sono compiuta oggettitàdella volontà. Ora, essendo l'uomo la natura stessa, nelpiù alto grado della sua autoconscienza, e la natura nonessendo se non l'oggettivata volontà di vivere, puòl'uomo, che abbia bene afferrato questa concezione e visi tenga stretto, consolarsi a giusta ragione della mortesua e degli amici suoi, contemplando l'immortal vitadella natura, la quale è lui stesso. Così va dunque intesoShiva con il Lingam, e così quegli antichi sarcofagi, iquali con le lor figure della più fervida vita ammonisco-no il dolorante contemplatore: Natura non contristatur.

Che nascita e morte vadano considerate come alcun-ché spettante alla vita, ed essenziale a codesto fenomenodella volontà, risulta anche dal fatto, che l'una e l'altra cisi presentano semplicemente come espressioni, elevate apiù alta potenza, di ciò, in cui pur tutta la rimanente vitaconsiste. Questa invero è in tutto e per tutto nient'altroche un perenne mutar della materia in un fisso permanerdella forma: e non altra è la caducità degli individui difronte all'eternità della specie. La continuata nutrizione

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infinito spazio, e, in tempo e spazio, infinito numero dipossibili individui, sono il regno della natura; quindiella è ognor pronta a lasciar cadere l'individuo, il qualenon solo in mille modi, per i più piccoli accidenti, èesposto alla rovina, ma alla rovina è fin da principio de-stinato e dalla natura stessa condotto, a partir dall'istan-te, in cui esso è servito alla conservazione della specie.Apertissimamente esprime in ciò la natura medesimaquel grande vero, che le idee soltanto, e non gli indivi-dui, hanno effettiva realtà, cioè sono compiuta oggettitàdella volontà. Ora, essendo l'uomo la natura stessa, nelpiù alto grado della sua autoconscienza, e la natura nonessendo se non l'oggettivata volontà di vivere, puòl'uomo, che abbia bene afferrato questa concezione e visi tenga stretto, consolarsi a giusta ragione della mortesua e degli amici suoi, contemplando l'immortal vitadella natura, la quale è lui stesso. Così va dunque intesoShiva con il Lingam, e così quegli antichi sarcofagi, iquali con le lor figure della più fervida vita ammonisco-no il dolorante contemplatore: Natura non contristatur.

Che nascita e morte vadano considerate come alcun-ché spettante alla vita, ed essenziale a codesto fenomenodella volontà, risulta anche dal fatto, che l'una e l'altra cisi presentano semplicemente come espressioni, elevate apiù alta potenza, di ciò, in cui pur tutta la rimanente vitaconsiste. Questa invero è in tutto e per tutto nient'altroche un perenne mutar della materia in un fisso permanerdella forma: e non altra è la caducità degli individui difronte all'eternità della specie. La continuata nutrizione

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e riproduzione si distingue dalla nascita soltanto per ilgrado; e soltanto per il grado si distingue la continuataescrezione dalla morte.

La prima di codeste analogie si mostra, nel modo piùsemplice e chiaro, nella pianta. Questa è unicamente laripetizione costante di uno stesso impulso, della sua piùsemplice fibra, che si aggruppa in foglia e ramo; è un si-stematico aggregato di piante consimili, l'una con l'altrasostenentisi, la cui costante riproduzione è il suo unicoimpulso: per soddisfarlo appieno ella da ultimo ascende,attraverso la scala delle metamorfosi, fino al fiore e alfrutto, compendio del suo essere e della sua aspirazione,nel quale per la via più breve consegue ciò ch'era suameta unica, e d'un tratto compie in mille ciò ch'avea finoallora operato in un solo esemplare: la riproduzione dise stessa. Il suo sviluppo prima di pervenire al frutto staa questo, come la scrittura alla stampa. Evidentemente ilmedesimo accade pur tra gli animali. Il processo nutriti-vo è un perenne generare, il processo generativo è unanutrizione innalzata a più alta potenza: la voluttà nel ge-nerare è il benessere, elevato a più alta potenza, del sen-timento vitale. E d'altra parte la escrezione, il continuoesalare e rigettar materia, è il medesimo di quel ch'è inpiù alta potenza la morte, l'opposto della generazione. Ecome in ciò basta a noi conservar la forma, senza rim-pianto per la rigettata materia, così dobbiamo in egualmaniera contenerci, quando per morte accade in più altapotenza e nella totalità, ciò che ciascun giorno e ciascu-na ora accade in parte con l'escrezione: come siamo in-

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e riproduzione si distingue dalla nascita soltanto per ilgrado; e soltanto per il grado si distingue la continuataescrezione dalla morte.

La prima di codeste analogie si mostra, nel modo piùsemplice e chiaro, nella pianta. Questa è unicamente laripetizione costante di uno stesso impulso, della sua piùsemplice fibra, che si aggruppa in foglia e ramo; è un si-stematico aggregato di piante consimili, l'una con l'altrasostenentisi, la cui costante riproduzione è il suo unicoimpulso: per soddisfarlo appieno ella da ultimo ascende,attraverso la scala delle metamorfosi, fino al fiore e alfrutto, compendio del suo essere e della sua aspirazione,nel quale per la via più breve consegue ciò ch'era suameta unica, e d'un tratto compie in mille ciò ch'avea finoallora operato in un solo esemplare: la riproduzione dise stessa. Il suo sviluppo prima di pervenire al frutto staa questo, come la scrittura alla stampa. Evidentemente ilmedesimo accade pur tra gli animali. Il processo nutriti-vo è un perenne generare, il processo generativo è unanutrizione innalzata a più alta potenza: la voluttà nel ge-nerare è il benessere, elevato a più alta potenza, del sen-timento vitale. E d'altra parte la escrezione, il continuoesalare e rigettar materia, è il medesimo di quel ch'è inpiù alta potenza la morte, l'opposto della generazione. Ecome in ciò basta a noi conservar la forma, senza rim-pianto per la rigettata materia, così dobbiamo in egualmaniera contenerci, quando per morte accade in più altapotenza e nella totalità, ciò che ciascun giorno e ciascu-na ora accade in parte con l'escrezione: come siamo in-

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differenti nel primo caso, così non dovremmo sbigottircidavanti al secondo. Sotto questo rispetto apparisce al-trettanto stolto il pretender la durata della propria indivi-dualità, la quale vien sostituita da altri individui, quantoil pretendere che perduri intatta la materia del nostrocorpo, la quale da materia nuova è continuamente sosti-tuita. Imbalsamare i cadaveri non è meno stolto, che nonsia il conservare con cura i propri escrementi. Per ciòche tocca la conscienza individuale congiunta con l'indi-viduale corpo, si avverta ch'essa viene quotidianamenteinterrotta in modo completo dal sonno. Il sonno profon-do non è, nel tempo della sua durata, diverso dalla mor-te, in cui sovente va a finire, per esempio, nei casi di as-sideramento; diverso n'è soltanto per l'avvenire, ossiaper la possibilità del risveglio. La morte è un sonno, nelquale si dimentica l'individualità: ma tutto il rimanentesi risveglia, o piuttosto non s'è mai addormentato85.

85 Anche l'osservazione che segue può servire, a chi non la trovi eccessiva-mente sottile, per farsi chiara la persuasione, che l'individuo è soltanto ilfenomeno, e non la cosa in sé. Ciascuno individuo è, da un verso, soggettodel conoscere, ossia integrante condizione per la possibilità di tutto il mon-do oggettivo; e dall'altro, singolo fenomeno della volontà, di quella stessa,che si oggettiva in ogni cosa. Ma questa duplicità del nostro essere nonpoggia sopra un'unità per sé esistente: che in tal caso noi potremmo dive-nir consapevoli di noi stessi in noi stessi, indipendentemente dagli oggettidel conoscere e del volere. E questo non possiamo: perché non appena, vo-lendo tentare, scendiamo in noi stessi e, drizzando la conoscenza verso ilnostro interno, vogliamo renderci di noi consci appieno, ci perdiamo in unvuoto senza fondo, simili a cava sfera di vetro dal cui vuoto parli una voce,della quale non è possibile trovar nella sfera una causa; e mentre facciamoper ghermire noi stessi, rabbrividendo non afferriamo altro che un vanofantasma.

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differenti nel primo caso, così non dovremmo sbigottircidavanti al secondo. Sotto questo rispetto apparisce al-trettanto stolto il pretender la durata della propria indivi-dualità, la quale vien sostituita da altri individui, quantoil pretendere che perduri intatta la materia del nostrocorpo, la quale da materia nuova è continuamente sosti-tuita. Imbalsamare i cadaveri non è meno stolto, che nonsia il conservare con cura i propri escrementi. Per ciòche tocca la conscienza individuale congiunta con l'indi-viduale corpo, si avverta ch'essa viene quotidianamenteinterrotta in modo completo dal sonno. Il sonno profon-do non è, nel tempo della sua durata, diverso dalla mor-te, in cui sovente va a finire, per esempio, nei casi di as-sideramento; diverso n'è soltanto per l'avvenire, ossiaper la possibilità del risveglio. La morte è un sonno, nelquale si dimentica l'individualità: ma tutto il rimanentesi risveglia, o piuttosto non s'è mai addormentato85.

85 Anche l'osservazione che segue può servire, a chi non la trovi eccessiva-mente sottile, per farsi chiara la persuasione, che l'individuo è soltanto ilfenomeno, e non la cosa in sé. Ciascuno individuo è, da un verso, soggettodel conoscere, ossia integrante condizione per la possibilità di tutto il mon-do oggettivo; e dall'altro, singolo fenomeno della volontà, di quella stessa,che si oggettiva in ogni cosa. Ma questa duplicità del nostro essere nonpoggia sopra un'unità per sé esistente: che in tal caso noi potremmo dive-nir consapevoli di noi stessi in noi stessi, indipendentemente dagli oggettidel conoscere e del volere. E questo non possiamo: perché non appena, vo-lendo tentare, scendiamo in noi stessi e, drizzando la conoscenza verso ilnostro interno, vogliamo renderci di noi consci appieno, ci perdiamo in unvuoto senza fondo, simili a cava sfera di vetro dal cui vuoto parli una voce,della quale non è possibile trovar nella sfera una causa; e mentre facciamoper ghermire noi stessi, rabbrividendo non afferriamo altro che un vanofantasma.

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Prima d'ogni altra cosa dobbiamo ben persuaderci,che la forma del fenomeno della volontà, ossia la formadella vita o della realtà, è invero il solo presente, nonl'avvenire, né il passato: questi esistono unicamente nelconcetto, unicamente nella concatenazione della cono-scenza, in quanto ella segue il principio di ragione. Nelpassato nessun uomo è vissuto, e nell'avvenire nessunovivrà: il presente solo è forma d'ogni vita, ed è sicurodominio, che alla vita non può mai essere strappato. Ilpresente è ognora qui, col suo contenuto: l'uno e l'altrotengon fermo, senza vacillare; come l'arcobaleno sullacascata. Imperocché alla volontà è la vita, alla vita ilpresente sicuro e certo. È vero, che se pensiamo ai tra-scorsi millennii, ai milioni d'uomini che in quelli visse-ro, ci domandiamo: Che cosa furono? che cosa ne è ac-caduto? Ma dobbiamo invece richiamarci alla memoriail passato della nostra esistenza personale, e vivacemen-te riprodurcene le scene nella fantasia, e poi domandarciancora: Che cosa è stato tutto ciò? che cosa ne è accadu-to? La stessa sorte è toccata al nostro passato e alla vitadi quei milioni. O dovremmo noi pensare, che il passatoacquisti un'esistenza nuova, per avere avuto il suggellodella morte? Il nostro individuale passato, anche il piùprossimo, quello di ieri, non è più che un sogno dellafantasia, fatto di nulla, e così è il passato di tutti queimilioni d'esseri. Che cosa fu? che cosa è? La volontà: dicui è specchio la vita; e il conoscere scevro di volontà,che in quello specchio limpidamente la volontà vede ri-flessa. Chi non ancora ha ciò compreso, o non vuole

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Prima d'ogni altra cosa dobbiamo ben persuaderci,che la forma del fenomeno della volontà, ossia la formadella vita o della realtà, è invero il solo presente, nonl'avvenire, né il passato: questi esistono unicamente nelconcetto, unicamente nella concatenazione della cono-scenza, in quanto ella segue il principio di ragione. Nelpassato nessun uomo è vissuto, e nell'avvenire nessunovivrà: il presente solo è forma d'ogni vita, ed è sicurodominio, che alla vita non può mai essere strappato. Ilpresente è ognora qui, col suo contenuto: l'uno e l'altrotengon fermo, senza vacillare; come l'arcobaleno sullacascata. Imperocché alla volontà è la vita, alla vita ilpresente sicuro e certo. È vero, che se pensiamo ai tra-scorsi millennii, ai milioni d'uomini che in quelli visse-ro, ci domandiamo: Che cosa furono? che cosa ne è ac-caduto? Ma dobbiamo invece richiamarci alla memoriail passato della nostra esistenza personale, e vivacemen-te riprodurcene le scene nella fantasia, e poi domandarciancora: Che cosa è stato tutto ciò? che cosa ne è accadu-to? La stessa sorte è toccata al nostro passato e alla vitadi quei milioni. O dovremmo noi pensare, che il passatoacquisti un'esistenza nuova, per avere avuto il suggellodella morte? Il nostro individuale passato, anche il piùprossimo, quello di ieri, non è più che un sogno dellafantasia, fatto di nulla, e così è il passato di tutti queimilioni d'esseri. Che cosa fu? che cosa è? La volontà: dicui è specchio la vita; e il conoscere scevro di volontà,che in quello specchio limpidamente la volontà vede ri-flessa. Chi non ancora ha ciò compreso, o non vuole

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comprenderlo, deve alla domanda fatta più sopra, intor-no al destino delle generazioni trapassate, aggiungerequest'altra: perché proprio lui, lui che interroga, ha lagioia di posseder questo prezioso, fuggitivo presente,che solo è reale, mentre quelle centinaia di generazioni,e perfino gli eroi e i sapienti delle età trascorse, sono ca-duti nella notte del passato e perciò ridotti a nulla,quand'egli, col suo insignificante io, esiste di fatto? Opiù brevemente, ma senza diminuir la stranezza dellacosa: perché questo presente, il suo presente, si ha pro-prio ora e non fu invece già da tempo? Con queste do-mande strane, vede il suo essere e il suo tempo come in-dipendenti l'uno dall'altro, e quello come gettato in que-sto; egli ammette in verità due presenti, l'uno dei qualiappartiene all'oggetto, l'altro al soggetto, e si stupisceper il caso felice della loro coincidenza. Ma in verità(come si vede nel mio scritto sopra il principio di ragio-ne), il presente è formato soltanto dal punto d'incontrodell'oggetto, la cui forma è il tempo, col soggetto, chenon ha per forma nessun modo del principio di ragione.Ora, ogni oggetto è volontà, in quanto questa è divenutarappresentazione, e il soggetto è il necessario correlatodell'oggetto; ma oggetti reali si danno soltanto nel pre-sente; passato e futuro contengon semplici concetti efantasmi, sì che il presente è l'essenzial forma del feno-meno della volontà, e da questa inseparabile. Il presentesolo è ciò che sempre esiste, e incrollabile perdura.Mentre, guardato empiricamente, esso è quanto v'ha dipiù soggettivo, all'occhio metafisico, il quale guarda ol-

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comprenderlo, deve alla domanda fatta più sopra, intor-no al destino delle generazioni trapassate, aggiungerequest'altra: perché proprio lui, lui che interroga, ha lagioia di posseder questo prezioso, fuggitivo presente,che solo è reale, mentre quelle centinaia di generazioni,e perfino gli eroi e i sapienti delle età trascorse, sono ca-duti nella notte del passato e perciò ridotti a nulla,quand'egli, col suo insignificante io, esiste di fatto? Opiù brevemente, ma senza diminuir la stranezza dellacosa: perché questo presente, il suo presente, si ha pro-prio ora e non fu invece già da tempo? Con queste do-mande strane, vede il suo essere e il suo tempo come in-dipendenti l'uno dall'altro, e quello come gettato in que-sto; egli ammette in verità due presenti, l'uno dei qualiappartiene all'oggetto, l'altro al soggetto, e si stupisceper il caso felice della loro coincidenza. Ma in verità(come si vede nel mio scritto sopra il principio di ragio-ne), il presente è formato soltanto dal punto d'incontrodell'oggetto, la cui forma è il tempo, col soggetto, chenon ha per forma nessun modo del principio di ragione.Ora, ogni oggetto è volontà, in quanto questa è divenutarappresentazione, e il soggetto è il necessario correlatodell'oggetto; ma oggetti reali si danno soltanto nel pre-sente; passato e futuro contengon semplici concetti efantasmi, sì che il presente è l'essenzial forma del feno-meno della volontà, e da questa inseparabile. Il presentesolo è ciò che sempre esiste, e incrollabile perdura.Mentre, guardato empiricamente, esso è quanto v'ha dipiù soggettivo, all'occhio metafisico, il quale guarda ol-

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tre le forme dell'intuizione empirica, si mostra comel'unico Permanente, il Nunc stans degli scolastici. Prin-cipio e fondamento del suo contenuto è la volontà di vi-vere, o la cosa in sé, – che siamo noi stessi. Ciò chesempre nasce e perisce, mentre o è già stato o sarà in fu-turo, appartiene al fenomeno come tale, in virtù delleforme di questo, che rendono possibile il cominciare e ilfinire. Bisogna dunque pensare: Quid fuit? Quod est.Quid erit? Quod fuit. E si prenda l'espressione nel sensopreciso della parola, intendendo non già simile bensìidem. Imperocché alla volontà è certa la vita, alla vita ilpresente. Quindi può anche dire ognuno: «Io sono unavolta per tutte signore del presente, e per tutta l'eternitàquesto mi accompagnerà come la mia ombra: perciò nonmi maraviglia il come esso sia venuto fino a me, e comeaccada che ora appunto sia qui». Possiamo paragonare iltempo a un cerchio che gira senza fine: la parte ognoradiscendente sarebbe il passato, quella sempre ascenden-te, il futuro: il punto in alto, indivisibile, che la tangentetocca, sarebbe il presente, che non ha estensione: comela tangente non ruota col cerchio, così non ruota il pre-sente, il punto di contatto dell'oggetto, di cui è forma iltempo, col soggetto, che non ha forma, perché non ap-partiene al dominio conoscibile, bensì d'ogni conoscibi-le è condizione. Oppure: il tempo somiglia a un'infrena-bile corrente, e il presente a una roccia, contro cui quellasi frange, senza pervenire a trascinarla con sé. La volon-tà, come cosa in sé, non è sottomessa al principio di ra-gione più che non vi sia sottomesso il soggetto della co-

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tre le forme dell'intuizione empirica, si mostra comel'unico Permanente, il Nunc stans degli scolastici. Prin-cipio e fondamento del suo contenuto è la volontà di vi-vere, o la cosa in sé, – che siamo noi stessi. Ciò chesempre nasce e perisce, mentre o è già stato o sarà in fu-turo, appartiene al fenomeno come tale, in virtù delleforme di questo, che rendono possibile il cominciare e ilfinire. Bisogna dunque pensare: Quid fuit? Quod est.Quid erit? Quod fuit. E si prenda l'espressione nel sensopreciso della parola, intendendo non già simile bensìidem. Imperocché alla volontà è certa la vita, alla vita ilpresente. Quindi può anche dire ognuno: «Io sono unavolta per tutte signore del presente, e per tutta l'eternitàquesto mi accompagnerà come la mia ombra: perciò nonmi maraviglia il come esso sia venuto fino a me, e comeaccada che ora appunto sia qui». Possiamo paragonare iltempo a un cerchio che gira senza fine: la parte ognoradiscendente sarebbe il passato, quella sempre ascenden-te, il futuro: il punto in alto, indivisibile, che la tangentetocca, sarebbe il presente, che non ha estensione: comela tangente non ruota col cerchio, così non ruota il pre-sente, il punto di contatto dell'oggetto, di cui è forma iltempo, col soggetto, che non ha forma, perché non ap-partiene al dominio conoscibile, bensì d'ogni conoscibi-le è condizione. Oppure: il tempo somiglia a un'infrena-bile corrente, e il presente a una roccia, contro cui quellasi frange, senza pervenire a trascinarla con sé. La volon-tà, come cosa in sé, non è sottomessa al principio di ra-gione più che non vi sia sottomesso il soggetto della co-

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noscenza, il quale poi finalmente in un certo senso è lavolontà medesima, o la sua manifestazione. E come allavolontà è certa la vita, suo proprio fenomeno, così è cer-to anche il presente, unica forma della vita reale. Nonabbiamo dunque da indagar né il passato innanzi la vita,né il futuro dopo la morte: invece come unica forma incui la volontà si svela dobbiamo conoscere il presente86.Tale forma non verrà mai meno alla volontà, ma neppurquesta a quella. Chi s'appaga quindi della vita qual è, chiin tutte guise la vita afferma, può fiducioso considerarlacome infinita, e il timor della morte bandire come un in-ganno, che a lui inspiri lo stolto timore di poter un gior-no perdere il presente, e gli ponga innanzi agli occhi laprospettiva di un tempo senza presente: inganno che nelrispetto del tempo corrisponde all'altro nel rispetto dellospazio, per cui ciascuno nella propria fantasia ritiene ilposto della sfera terrestre da lui occupato essere il puntosuperiore della sfera stessa, e tutto il rimanente vede aldisotto. Proprio così collega ciascuno il presente con lapropria individualità, e ritiene abbia con questa ognipresente a cessare; e passato ed avvenire siano senzapresente. Ma, come sulla sfera terrestre ogni dove sta di-sopra, così pure è presente la forma d'ogni vita; e il te-mer la morte, perché questa ci strappa il presente, non èpiù saggio che il temer si possa scivolare giù dal globo

86 Scholastici docuerunt, quod aeternitas non sit temporis sine fine aut prin-cipio successio; sed Nunc stans; i. e. idem nobis Nunc esse, quod eratNunc Adamo: i. e. inter nunc et tunc nullam esse differentiam. (HOBBES,Leviathan, e. 46).

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noscenza, il quale poi finalmente in un certo senso è lavolontà medesima, o la sua manifestazione. E come allavolontà è certa la vita, suo proprio fenomeno, così è cer-to anche il presente, unica forma della vita reale. Nonabbiamo dunque da indagar né il passato innanzi la vita,né il futuro dopo la morte: invece come unica forma incui la volontà si svela dobbiamo conoscere il presente86.Tale forma non verrà mai meno alla volontà, ma neppurquesta a quella. Chi s'appaga quindi della vita qual è, chiin tutte guise la vita afferma, può fiducioso considerarlacome infinita, e il timor della morte bandire come un in-ganno, che a lui inspiri lo stolto timore di poter un gior-no perdere il presente, e gli ponga innanzi agli occhi laprospettiva di un tempo senza presente: inganno che nelrispetto del tempo corrisponde all'altro nel rispetto dellospazio, per cui ciascuno nella propria fantasia ritiene ilposto della sfera terrestre da lui occupato essere il puntosuperiore della sfera stessa, e tutto il rimanente vede aldisotto. Proprio così collega ciascuno il presente con lapropria individualità, e ritiene abbia con questa ognipresente a cessare; e passato ed avvenire siano senzapresente. Ma, come sulla sfera terrestre ogni dove sta di-sopra, così pure è presente la forma d'ogni vita; e il te-mer la morte, perché questa ci strappa il presente, non èpiù saggio che il temer si possa scivolare giù dal globo

86 Scholastici docuerunt, quod aeternitas non sit temporis sine fine aut prin-cipio successio; sed Nunc stans; i. e. idem nobis Nunc esse, quod eratNunc Adamo: i. e. inter nunc et tunc nullam esse differentiam. (HOBBES,Leviathan, e. 46).

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della Terra, sul quale per fortuna ci si trovi ora proprioal punto superiore. All'oggettivazione della volontà è es-senziale la forma del presente, che qual punto senzaestensione divide il tempo di qua e di là infinito, e im-mobilmente sta fermo, pari a un eterno meriggio, senzala rinfrescante sera; così come il sole in realtà arde sen-za interruzione, mentre in apparenza cade nel seno dellanotte. Perciò, quando un uomo teme la morte come an-nientamento di sé, gli è come se altri pensasse poter ilsole alla sera lamentarsi: «Ahimè! io sprofondonell'eterna notte»87. E viceversa: chi è oppresso dai pesidella vita, chi la vita bensì vorrebbe, e la vita afferma,ma ne ha in orrore i tormenti, e soprattutto più non satollerare il duro destino, che a lui proprio è toccato, que-sti non ha da sperar liberazione nella morte, né si puòsalvare col suicidio: sol con falsa illusione lo trae a sél'oscuro, freddo Orco qual porto di riposo. La terra sivolge dal giorno verso la notte; l'individuo muore; ma ilsole brilla senza posa in eterno meriggio. Alla volontà di

87 Nei Colloqui con Goethe di Eckermann (2a ed., vol. I, p. 154) dice Goe-the: «II nostro spirito è un essere d'indistruttibile natura, è una forza attivad'eterno in eterno. È simile al sole, che ai nostri occhi mortali par che tra-monti, ma in realtà non tramonta mai, e continua perenne a risplendere».Goethe ha presa l'immagine da me, non io da lui. Senza dubbio l'adopera,in questo discorso fatto il 1824, per effetto d'una reminiscenza, forse in-consapevole, del passo qui sopra, il quale si trova con le stesse parole nellaprima edizione, a p. 401; e ritorna colà a p. 528, come qui in fine del § 65.Quella prima edizione fu inviata a Goethe nel dicembre 1818; nel marzo1819 mi fece partecipar da mia sorella per lettera il suo plauso, a Napoli,dove allora mi trovavo, ed incluse un foglio, sul quale aveva segnato i nu-meri di alcune pagine che a lui maggior mente eran piaciute: aveva dunqueletto il mio libro.

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della Terra, sul quale per fortuna ci si trovi ora proprioal punto superiore. All'oggettivazione della volontà è es-senziale la forma del presente, che qual punto senzaestensione divide il tempo di qua e di là infinito, e im-mobilmente sta fermo, pari a un eterno meriggio, senzala rinfrescante sera; così come il sole in realtà arde sen-za interruzione, mentre in apparenza cade nel seno dellanotte. Perciò, quando un uomo teme la morte come an-nientamento di sé, gli è come se altri pensasse poter ilsole alla sera lamentarsi: «Ahimè! io sprofondonell'eterna notte»87. E viceversa: chi è oppresso dai pesidella vita, chi la vita bensì vorrebbe, e la vita afferma,ma ne ha in orrore i tormenti, e soprattutto più non satollerare il duro destino, che a lui proprio è toccato, que-sti non ha da sperar liberazione nella morte, né si puòsalvare col suicidio: sol con falsa illusione lo trae a sél'oscuro, freddo Orco qual porto di riposo. La terra sivolge dal giorno verso la notte; l'individuo muore; ma ilsole brilla senza posa in eterno meriggio. Alla volontà di

87 Nei Colloqui con Goethe di Eckermann (2a ed., vol. I, p. 154) dice Goe-the: «II nostro spirito è un essere d'indistruttibile natura, è una forza attivad'eterno in eterno. È simile al sole, che ai nostri occhi mortali par che tra-monti, ma in realtà non tramonta mai, e continua perenne a risplendere».Goethe ha presa l'immagine da me, non io da lui. Senza dubbio l'adopera,in questo discorso fatto il 1824, per effetto d'una reminiscenza, forse in-consapevole, del passo qui sopra, il quale si trova con le stesse parole nellaprima edizione, a p. 401; e ritorna colà a p. 528, come qui in fine del § 65.Quella prima edizione fu inviata a Goethe nel dicembre 1818; nel marzo1819 mi fece partecipar da mia sorella per lettera il suo plauso, a Napoli,dove allora mi trovavo, ed incluse un foglio, sul quale aveva segnato i nu-meri di alcune pagine che a lui maggior mente eran piaciute: aveva dunqueletto il mio libro.

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vivere è certa la vita: la forma della vita è un presentesenza fine; né importa il come nascano e periscano neltempo gl'individui, fenomeni dell'idea, comparabili a so-gni fugaci. Il suicidio ci apparisce già da questo un'azio-ne vana e quindi stolta: e quando saremo progrediti piùoltre nella nostra indagine, ci si presenterà in una luceancor più sfavorevole.

I dogmi mutano, e il nostro sapere è illusorio, ma lanatura non sbaglia: il suo corso è sicuro, ed ella non locela. Ogni cosa è tutta in lei, ed ella è tutta in ogni cosa.In ciascun animale ha ella il suo centro: ogni animale hatrovato sicuramente la propria via dell'essere, come si-curamente la troverà per uscirne: frattanto vive senzatema di annientamento e libero da preoccupazioni, sor-retto dalla conscienza di essere egli la natura medesima,e come lei eterno. Soltanto l'uomo trae seco in concettiastratti la certezza della propria morte: tuttavia questa,ed è molto strano, può angustiarlo solo per momenti iso-lati, quando una circostanza la richiama alla fantasia.Contro la poderosa voce della natura può la riflessioneben poco. Anche in lui, come nell'animale che non pen-sa, impera come durevole stato quella certezza, prove-niente dalla più intima conscienza, ch'egli è la natura, èil mondo medesimo; per la qual certezza il pensiero del-la morte sicura e mai lontana nessun uomo inquieta visi-bilmente, che ciascuno invece vive come dovesse viverein eterno. E questa condizione di cose va tanto lontano,da potersi dire che nessuno abbia una vera, vivente per-suasione della certezza della propria morte, perché altri-

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vivere è certa la vita: la forma della vita è un presentesenza fine; né importa il come nascano e periscano neltempo gl'individui, fenomeni dell'idea, comparabili a so-gni fugaci. Il suicidio ci apparisce già da questo un'azio-ne vana e quindi stolta: e quando saremo progrediti piùoltre nella nostra indagine, ci si presenterà in una luceancor più sfavorevole.

I dogmi mutano, e il nostro sapere è illusorio, ma lanatura non sbaglia: il suo corso è sicuro, ed ella non locela. Ogni cosa è tutta in lei, ed ella è tutta in ogni cosa.In ciascun animale ha ella il suo centro: ogni animale hatrovato sicuramente la propria via dell'essere, come si-curamente la troverà per uscirne: frattanto vive senzatema di annientamento e libero da preoccupazioni, sor-retto dalla conscienza di essere egli la natura medesima,e come lei eterno. Soltanto l'uomo trae seco in concettiastratti la certezza della propria morte: tuttavia questa,ed è molto strano, può angustiarlo solo per momenti iso-lati, quando una circostanza la richiama alla fantasia.Contro la poderosa voce della natura può la riflessioneben poco. Anche in lui, come nell'animale che non pen-sa, impera come durevole stato quella certezza, prove-niente dalla più intima conscienza, ch'egli è la natura, èil mondo medesimo; per la qual certezza il pensiero del-la morte sicura e mai lontana nessun uomo inquieta visi-bilmente, che ciascuno invece vive come dovesse viverein eterno. E questa condizione di cose va tanto lontano,da potersi dire che nessuno abbia una vera, vivente per-suasione della certezza della propria morte, perché altri-

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menti non potrebb'essere una sì gran differenza tra lasua disposizione d'animo e quella d'un condannato amorte; ma che l'uomo, pur riconoscendo quella certezzain abstracto e teoricamente, la mette in disparte comealtre verità teoriche, inservibili nella pratica, senza pun-to accoglierla nella sua vivente conscienza. Chi benconsideri questa particolarità dello spirito umano, vedràche le sue spiegazioni psicologiche, fondate sull'abitudi-ne o sull'adattamento all'inevitabile, non sono in nessunmodo sufficienti, e che la ragione è quella, più profonda,indicata. Con quella va pur spiegato, perché in tutti itempi, presso tutti i popoli si trovino e stiano in onoredogmi d'un qualsivoglia perdurar dell'individuo dopo lamorte, sebbene le prove dovessero sempre esserne in-soddisfacenti, mentre forti e numerose son le prove delcontrario; anzi, il contrario veramente non ha bisogno diprove, bensì da un intelletto sano vien riconosciutocome un fatto, e come tale confermato dalla fiducia, chela natura né smentisce né erra, ma la sua azione e il suoessere apertamente manifesta, o addirittura ingenuamen-te esprime: mentre siamo noi stessi che col nostro va-neggiare l'intorbidiamo, per ricavarne arzigogolando ciòche ai nostri occhi miopi per l'appunto si confà.

Ma la verità, che ora abbiamo recata a chiara con-scienza, che, per quanto il singolo fenomeno della vo-lontà abbia nel tempo principio e nel tempo fine, la vo-lontà stessa come cosa in sé non viene da ciò punto toc-cata, e neppure il correlato d'ogni oggetto, il conoscentee mai conosciuto soggetto; e similmente il fatto che alla

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menti non potrebb'essere una sì gran differenza tra lasua disposizione d'animo e quella d'un condannato amorte; ma che l'uomo, pur riconoscendo quella certezzain abstracto e teoricamente, la mette in disparte comealtre verità teoriche, inservibili nella pratica, senza pun-to accoglierla nella sua vivente conscienza. Chi benconsideri questa particolarità dello spirito umano, vedràche le sue spiegazioni psicologiche, fondate sull'abitudi-ne o sull'adattamento all'inevitabile, non sono in nessunmodo sufficienti, e che la ragione è quella, più profonda,indicata. Con quella va pur spiegato, perché in tutti itempi, presso tutti i popoli si trovino e stiano in onoredogmi d'un qualsivoglia perdurar dell'individuo dopo lamorte, sebbene le prove dovessero sempre esserne in-soddisfacenti, mentre forti e numerose son le prove delcontrario; anzi, il contrario veramente non ha bisogno diprove, bensì da un intelletto sano vien riconosciutocome un fatto, e come tale confermato dalla fiducia, chela natura né smentisce né erra, ma la sua azione e il suoessere apertamente manifesta, o addirittura ingenuamen-te esprime: mentre siamo noi stessi che col nostro va-neggiare l'intorbidiamo, per ricavarne arzigogolando ciòche ai nostri occhi miopi per l'appunto si confà.

Ma la verità, che ora abbiamo recata a chiara con-scienza, che, per quanto il singolo fenomeno della vo-lontà abbia nel tempo principio e nel tempo fine, la vo-lontà stessa come cosa in sé non viene da ciò punto toc-cata, e neppure il correlato d'ogni oggetto, il conoscentee mai conosciuto soggetto; e similmente il fatto che alla

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volontà di vivere è sempre certa la vita: tutto ciò non vaconfuso con quelle dottrine della persistenza individua-le. Imperocché alla volontà, considerata come cosa insé, com'anche al puro soggetto del conoscere, all'eternoocchio del mondo, non tocca un perdurare più che nontocchi un perire, queste essendo determinazioni che val-gono solamente nel tempo, mentre quelli stanno fuoridel tempo. Perciò l'egoismo dell'individuo (di questosingolo fenomeno della volontà illuminato dal soggettodel conoscere) può dalla nostra concezione suespostatanto poco alimento e conforto ricavare per il suo desi-derio di esistere in un tempo infinito, quanto poco ne ri-cava dal conoscer che dopo la sua morte il rimanentemondo esterno seguiterà nondimeno a esistere nel tem-po; il che esprime proprio la stessa concezione di sopra,ma da un punto di vista oggettivo e quindi temporale.Imperocché è bensì vero, che ogni individuo è effimerosolo in quanto fenomeno, mentre come cosa in sé è fuoridel tempo, e perciò non ha fine; ma pur soltanto comefenomeno è distinto dalle altre cose del mondo, mentrecome cosa in sé esso è la volontà, che in tutto si palesa,e la morte cancella l'illusione che separa la sua con-scienza dall'universale: questa è la vera eternità. Il suonon esser toccato dalla morte è proprietà di lui in quantocosa in sé, mentre per il fenomeno coincide col perma-nere del rimanente mondo esteriore88. Da ciò procede

88 Nel Veda questo pensiero è espresso col dire, che quando un uomo muore,la sua vista si confonde col sole, il suo odorato con la terra, il suo gustocon l'acqua, il suo udito con l'aria, la sua parola col fuoco, e così via (Ou-

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volontà di vivere è sempre certa la vita: tutto ciò non vaconfuso con quelle dottrine della persistenza individua-le. Imperocché alla volontà, considerata come cosa insé, com'anche al puro soggetto del conoscere, all'eternoocchio del mondo, non tocca un perdurare più che nontocchi un perire, queste essendo determinazioni che val-gono solamente nel tempo, mentre quelli stanno fuoridel tempo. Perciò l'egoismo dell'individuo (di questosingolo fenomeno della volontà illuminato dal soggettodel conoscere) può dalla nostra concezione suespostatanto poco alimento e conforto ricavare per il suo desi-derio di esistere in un tempo infinito, quanto poco ne ri-cava dal conoscer che dopo la sua morte il rimanentemondo esterno seguiterà nondimeno a esistere nel tem-po; il che esprime proprio la stessa concezione di sopra,ma da un punto di vista oggettivo e quindi temporale.Imperocché è bensì vero, che ogni individuo è effimerosolo in quanto fenomeno, mentre come cosa in sé è fuoridel tempo, e perciò non ha fine; ma pur soltanto comefenomeno è distinto dalle altre cose del mondo, mentrecome cosa in sé esso è la volontà, che in tutto si palesa,e la morte cancella l'illusione che separa la sua con-scienza dall'universale: questa è la vera eternità. Il suonon esser toccato dalla morte è proprietà di lui in quantocosa in sé, mentre per il fenomeno coincide col perma-nere del rimanente mondo esteriore88. Da ciò procede

88 Nel Veda questo pensiero è espresso col dire, che quando un uomo muore,la sua vista si confonde col sole, il suo odorato con la terra, il suo gustocon l'acqua, il suo udito con l'aria, la sua parola col fuoco, e così via (Ou-

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che l'intima conscienza, non altro che sentita, di quantoabbiamo or ora elevato a chiara cognizione, impediscebensì, come s'è detto, che il pensiero della morte avvele-ni la vita al consapevole essere razionale, essendo taleconscienza la base di quell'ardore vitale, che sorreggeciascun vivente, e lo fa procedere animoso nell'esisten-za, quasi morte non fosse, almeno fin tanto ch'egli ha lavita innanzi agli occhi e alla vita è rivolto; ma non im-pedisce tuttavia che quando la morte si presenta all'indi-viduo o nella realtà o anche soltanto nella fantasia, equesto deve guardarla in faccia, un tremendo terrore locolga, ed esso cerchi in tutte le maniere di sfuggire. Per-ché al modo che quando la sua conoscenza era rivoltaalla vita come tale, doveva di questa riconoscer l'eterni-tà, così, quando la morte gli si fa innanzi, deve ricono-scerla per quel ch'essa è, la temoral fine del singolo fe-nomeno temporale. Ciò che temiamo nella morte, non èpunto il dolore: in parte, perché questo sta di qua dallamorte; in parte, perché sovente dal dolore ci rifugiamonella morte, come d'altronde all'opposto affrontiamo tal-volta il più atroce dolore, sol per isfuggire un momentoalla morte, fosse pur rapida e lieve. Distinguiamo adun-que dolore e morte come due mali affatto diversi; ciò,che nella morte temiamo, è in realtà la fine dell'indivi-duo, che tale apertamente ci si palesa la morte; e poi chel'individuo è la volontà di vivere medesima, in una sin-

pnek'hat, vol. I, pp. 249 sgg.) e inoltre con l'uso che, in una speciale ceri-monia, il morente ceda i suoi sensi e tutte le sue capacità al figlio, come acolui nel quale devono sopravvivere (ibid., vol. II, pp. 82 sgg.).

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che l'intima conscienza, non altro che sentita, di quantoabbiamo or ora elevato a chiara cognizione, impediscebensì, come s'è detto, che il pensiero della morte avvele-ni la vita al consapevole essere razionale, essendo taleconscienza la base di quell'ardore vitale, che sorreggeciascun vivente, e lo fa procedere animoso nell'esisten-za, quasi morte non fosse, almeno fin tanto ch'egli ha lavita innanzi agli occhi e alla vita è rivolto; ma non im-pedisce tuttavia che quando la morte si presenta all'indi-viduo o nella realtà o anche soltanto nella fantasia, equesto deve guardarla in faccia, un tremendo terrore locolga, ed esso cerchi in tutte le maniere di sfuggire. Per-ché al modo che quando la sua conoscenza era rivoltaalla vita come tale, doveva di questa riconoscer l'eterni-tà, così, quando la morte gli si fa innanzi, deve ricono-scerla per quel ch'essa è, la temoral fine del singolo fe-nomeno temporale. Ciò che temiamo nella morte, non èpunto il dolore: in parte, perché questo sta di qua dallamorte; in parte, perché sovente dal dolore ci rifugiamonella morte, come d'altronde all'opposto affrontiamo tal-volta il più atroce dolore, sol per isfuggire un momentoalla morte, fosse pur rapida e lieve. Distinguiamo adun-que dolore e morte come due mali affatto diversi; ciò,che nella morte temiamo, è in realtà la fine dell'indivi-duo, che tale apertamente ci si palesa la morte; e poi chel'individuo è la volontà di vivere medesima, in una sin-

pnek'hat, vol. I, pp. 249 sgg.) e inoltre con l'uso che, in una speciale ceri-monia, il morente ceda i suoi sensi e tutte le sue capacità al figlio, come acolui nel quale devono sopravvivere (ibid., vol. II, pp. 82 sgg.).

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gola oggettivazione, tutto l'esser suo contro la morte siribella. Ma, dove in siffatta maniera il sentimento ci la-scia senza difesa, può nondimeno subentrare la ragione,e per massima parte vincere le ripugnanze di quello, ele-vandoci ad una considerazione più alta, dove noi, invecedel singolo, abbiamo davanti agli occhi il tutto. Perciòuna cognizione filosofica dell'essenza del mondo, laquale fosse pervenuta fino al punto in cui ci troviamonella nostra indagine, ma non andasse più oltre, già po-trebbe superare i terrori della morte: nella misura, in cuila riflessione avesse per un dato individuo il sopravven-to sul diretto sentire. Immaginiamo un uomo, che le ve-rità finora esposte abbia ben fissate nella mente, ma nonsia insieme arrivato, né per esperienza propria, né pervisione larga delle cose, a riconoscer come essenziali inogni vita un diuturno dolore, bensì nella vita trovi soddi-sfazione, e ci si senta a suo pieno agio, e con tranquillariflessione desideri veder continuata indefinitamente lasua vita, quale fu in passato, o aver sempre nuovo prin-cipio. E sia il suo ardor vitale sì grande, che per le gioiedel vivere egli accetti volenteroso tutti i fastidi e lepene, a cui il vivere è soggetto. Un tale uomo starebbe«con salde ben midollate ossa sulla bene arrotondata,durabile terra», e non avrebbe nulla da temere: armatodella conoscenza, che noi gli diamo, indifferente guar-derebbe la morte sulle ali del tempo rapida appressante-si, contemplandola come una falsa apparenza, un impo-tente fantasma, che può far paura ai deboli, ma nessunaforza ha su quegli, che sa d'esser egli medesimo quella

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gola oggettivazione, tutto l'esser suo contro la morte siribella. Ma, dove in siffatta maniera il sentimento ci la-scia senza difesa, può nondimeno subentrare la ragione,e per massima parte vincere le ripugnanze di quello, ele-vandoci ad una considerazione più alta, dove noi, invecedel singolo, abbiamo davanti agli occhi il tutto. Perciòuna cognizione filosofica dell'essenza del mondo, laquale fosse pervenuta fino al punto in cui ci troviamonella nostra indagine, ma non andasse più oltre, già po-trebbe superare i terrori della morte: nella misura, in cuila riflessione avesse per un dato individuo il sopravven-to sul diretto sentire. Immaginiamo un uomo, che le ve-rità finora esposte abbia ben fissate nella mente, ma nonsia insieme arrivato, né per esperienza propria, né pervisione larga delle cose, a riconoscer come essenziali inogni vita un diuturno dolore, bensì nella vita trovi soddi-sfazione, e ci si senta a suo pieno agio, e con tranquillariflessione desideri veder continuata indefinitamente lasua vita, quale fu in passato, o aver sempre nuovo prin-cipio. E sia il suo ardor vitale sì grande, che per le gioiedel vivere egli accetti volenteroso tutti i fastidi e lepene, a cui il vivere è soggetto. Un tale uomo starebbe«con salde ben midollate ossa sulla bene arrotondata,durabile terra», e non avrebbe nulla da temere: armatodella conoscenza, che noi gli diamo, indifferente guar-derebbe la morte sulle ali del tempo rapida appressante-si, contemplandola come una falsa apparenza, un impo-tente fantasma, che può far paura ai deboli, ma nessunaforza ha su quegli, che sa d'esser egli medesimo quella

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volontà, la cui oggettivazione o immagine è il mondointero; quegli, cui rimangono perciò sicuri sempre lavita ed il presente, la vera, l'unica forma del fenomenodella volontà; quegli, cui nessun passato o avvenire infi-nito, nel quale e' non si trovasse, può sbigottire, poichéli considera come il vano miraggio ed il velo di Maja;quegli, che non dovrebbe quindi temer la morte, più cheil sole non tema la notte. A questa concezione innalzaKrishna nella Bhagavat Gita il suo principiante discepo-lo Arjuna, allorché questi alla vista dell'esercito prontoper la battaglia (circa nella stessa guisa di Serse) coltoda pensosa tristezza sbigottisce e vorrebbe desister dallalotta, per iscongiurar la distruzione di tante migliaia divite: a quella concezione lo innalza Krishna, e la mortedelle migliaia non val più a trattenerlo: egli dà il segnaledella battaglia. La stessa concezione esprime il Prome-teo di Goethe, soprattutto quando dice:

Qui io sto, uomini formoA immagine di me,Una razza, che eguale mi siaNel soffrire, nel piangere,Nel godere e rallegrarsi,E di te non curarsi,Come me!89.

89 Hier sitz'ich, forme MenschenNach meinem Bilde,Ein Geschlecht, das mir gleich sei,Zu leiden, zu weinen,Zu geniessen und zu freuen sich,

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volontà, la cui oggettivazione o immagine è il mondointero; quegli, cui rimangono perciò sicuri sempre lavita ed il presente, la vera, l'unica forma del fenomenodella volontà; quegli, cui nessun passato o avvenire infi-nito, nel quale e' non si trovasse, può sbigottire, poichéli considera come il vano miraggio ed il velo di Maja;quegli, che non dovrebbe quindi temer la morte, più cheil sole non tema la notte. A questa concezione innalzaKrishna nella Bhagavat Gita il suo principiante discepo-lo Arjuna, allorché questi alla vista dell'esercito prontoper la battaglia (circa nella stessa guisa di Serse) coltoda pensosa tristezza sbigottisce e vorrebbe desister dallalotta, per iscongiurar la distruzione di tante migliaia divite: a quella concezione lo innalza Krishna, e la mortedelle migliaia non val più a trattenerlo: egli dà il segnaledella battaglia. La stessa concezione esprime il Prome-teo di Goethe, soprattutto quando dice:

Qui io sto, uomini formoA immagine di me,Una razza, che eguale mi siaNel soffrire, nel piangere,Nel godere e rallegrarsi,E di te non curarsi,Come me!89.

89 Hier sitz'ich, forme MenschenNach meinem Bilde,Ein Geschlecht, das mir gleich sei,Zu leiden, zu weinen,Zu geniessen und zu freuen sich,

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Ed alla stessa concezione ancora potrebbero la filoso-fia di Bruno e quella di Spinoza condurre chi non si sen-tisse disturbato o scosso nella persuasione dai loro errorie difetti. La filosofia di Bruno non contiene una vera eti-ca, e quella ch'è nella filosofia di Spinoza non nascepunto dall'essenza della sua dottrina, bensì, pur essendoin sé apprezzabile e bella, v'è collegata sol con deboli etroppo visibili sofismi. Alla concezione suddetta final-mente perverrebbero forse molti uomini, se la loro co-noscenza andasse di pari passo con il loro volere, ossiase liberi d'ogni falso miraggio, fossero in grado d'averchiara e limpida conscienza di sé. Imperocché qui sta,per la conoscenza, la base dell'intera affermazione dellavolontà di vivere.

La volontà afferma se stessa, s'è detto: mentre nellasua oggettità, ossia nel mondo e nella vita, la sua propriaessenza viene a lei data compiutamente e limpidamente,codesta conoscenza non impedisce punto il suo volere;anzi appunto quella vita in siffatto modo conosciuta vie-ne anche come tale dalla volontà voluta, con cognizione,in maniera consapevole e meditata, come prima era vo-luta senza cognizione, quale cieco impulso. Il contrario,la negazione della volontà di vivere, si mostra quando,raggiunta quella cognizione, la volontà finisce; allor chei singoli fenomeni conosciuti non agiscono più comemotivi della volontà, ma invece tutta intera la cognizio-

Und dein nicht zu achten,Wie ich!

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Ed alla stessa concezione ancora potrebbero la filoso-fia di Bruno e quella di Spinoza condurre chi non si sen-tisse disturbato o scosso nella persuasione dai loro errorie difetti. La filosofia di Bruno non contiene una vera eti-ca, e quella ch'è nella filosofia di Spinoza non nascepunto dall'essenza della sua dottrina, bensì, pur essendoin sé apprezzabile e bella, v'è collegata sol con deboli etroppo visibili sofismi. Alla concezione suddetta final-mente perverrebbero forse molti uomini, se la loro co-noscenza andasse di pari passo con il loro volere, ossiase liberi d'ogni falso miraggio, fossero in grado d'averchiara e limpida conscienza di sé. Imperocché qui sta,per la conoscenza, la base dell'intera affermazione dellavolontà di vivere.

La volontà afferma se stessa, s'è detto: mentre nellasua oggettità, ossia nel mondo e nella vita, la sua propriaessenza viene a lei data compiutamente e limpidamente,codesta conoscenza non impedisce punto il suo volere;anzi appunto quella vita in siffatto modo conosciuta vie-ne anche come tale dalla volontà voluta, con cognizione,in maniera consapevole e meditata, come prima era vo-luta senza cognizione, quale cieco impulso. Il contrario,la negazione della volontà di vivere, si mostra quando,raggiunta quella cognizione, la volontà finisce; allor chei singoli fenomeni conosciuti non agiscono più comemotivi della volontà, ma invece tutta intera la cognizio-

Und dein nicht zu achten,Wie ich!

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ne, maturata con l'afferrar le idee, dell'essenza del mon-do, il quale rispecchia la volontà, diventa un quietivodella volontà stessa, e così la volontà liberamente si sop-prime. Questi concetti affatto sconosciuti, e difficilmen-te comprensibili in questa forma generica, diventerannochiari, spero, con l'esposizione, che tosto seguirà, dei fe-nomeni, o, nel caso nostro, modi di agire, ne' quali da unlato s'esprime l'affermazione, nei suoi diversi gradi, edall'altro la negazione. Imperocché entrambe procedonobensì dalla conoscenza, ma non da quella astratta, che sirivela in parole, bensì da una conoscenza vivente, laquale unicamente si rivela nei fatti e nel tenore di vita; erimane indipendente dai dogmi, che in proposito, comeconoscenza astratta, occupano la ragione. Semplicemen-te l'una e l'altra esporre, e recare a limpida conoscenzadella ragione, può essere mio scopo: e non prescrivere oraccomandar questa o quella; il che sarebbe stolto nonmeno che inutile, perché la volontà è in sé assolutamen-te libera, da sola determina se stessa, né sono leggi perlei. Questa libertà e la sua relazione con la necessitàdobbiamo nondimeno in primo luogo, e prima di proce-dere alla suindicata esposizione, illustrare e in manieraprecisa determinare; e inoltre sulla vita, la cui afferma-zione o negazione forma il nostro problema, avanzarealcuni pensieri generici, riferentisi alla volontà e ai suoioggetti. Da tutto tutto ciò verrà a noi alleviata la cono-scenza, che ci proponiamo, del valore etico delle azioni,a seconda della loro più intima essenza.

Poiché, come s'è detto, tutta quest'opera non è se non

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ne, maturata con l'afferrar le idee, dell'essenza del mon-do, il quale rispecchia la volontà, diventa un quietivodella volontà stessa, e così la volontà liberamente si sop-prime. Questi concetti affatto sconosciuti, e difficilmen-te comprensibili in questa forma generica, diventerannochiari, spero, con l'esposizione, che tosto seguirà, dei fe-nomeni, o, nel caso nostro, modi di agire, ne' quali da unlato s'esprime l'affermazione, nei suoi diversi gradi, edall'altro la negazione. Imperocché entrambe procedonobensì dalla conoscenza, ma non da quella astratta, che sirivela in parole, bensì da una conoscenza vivente, laquale unicamente si rivela nei fatti e nel tenore di vita; erimane indipendente dai dogmi, che in proposito, comeconoscenza astratta, occupano la ragione. Semplicemen-te l'una e l'altra esporre, e recare a limpida conoscenzadella ragione, può essere mio scopo: e non prescrivere oraccomandar questa o quella; il che sarebbe stolto nonmeno che inutile, perché la volontà è in sé assolutamen-te libera, da sola determina se stessa, né sono leggi perlei. Questa libertà e la sua relazione con la necessitàdobbiamo nondimeno in primo luogo, e prima di proce-dere alla suindicata esposizione, illustrare e in manieraprecisa determinare; e inoltre sulla vita, la cui afferma-zione o negazione forma il nostro problema, avanzarealcuni pensieri generici, riferentisi alla volontà e ai suoioggetti. Da tutto tutto ciò verrà a noi alleviata la cono-scenza, che ci proponiamo, del valore etico delle azioni,a seconda della loro più intima essenza.

Poiché, come s'è detto, tutta quest'opera non è se non

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lo sviluppo di un pensiero unico, ne deriva, che tutte lesue parti hanno la più stretta connessione tra loro, e nonsolo ciascuna sta in necessaria relazione con quella, cheimmediatamente precede, e quindi quella sola vuol pre-sente al lettore come immediata premessa, secondo ac-cade in tutte le filosofie, le quali consistono in una seriedi deduzioni; ma ogni parte dell'opera intera è con tuttele altre connessa, e le presuppone. Si richiede adunque,che dal lettore sia ricordato non soltanto ciò che imme-diatamente precede, ma tutta la trattazione anteriore: sìche di volta in volta egli possa sempre riannodarne ogniparte alla pagina che ha davanti, stianvi pur molt'altrecose frammezzo. Ammonimento, che anche Platone hafatto al suo lettore, per i tortuosi avvolgimenti dei suoidialoghi, che il pensiero fondamentale riprendon soldopo lunghi episodi, ma da ciò appunto fatto più limpi-do. Da parte nostra è tale ammonimento necessario, per-ché il frazionar l'unico nostro pensiero in molte conside-razioni è bensì il solo modo che abbiamo di comunicar-lo, ma è un dar forma artificiosa e non naturale al pen-siero stesso. A render più facile l'esposizione e l'intendi-mento giova l'aver distinto, in quattro libri, quattro prin-cipali punti di vista, come giova l'attentissimo ravvicinarciò che è affine e omogeneo: tuttavia la materia non per-mette assolutamente un andare in linea retta, come fa ilprocedimento storico, ma invece rende necessariaun'esposizione più complicata. E questa, a sua volta, ri-chiede un ripetuto studio dell'opera; soltanto così divie-ne chiaro il nesso d'ogni parte con ciascun'altra, e alla

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lo sviluppo di un pensiero unico, ne deriva, che tutte lesue parti hanno la più stretta connessione tra loro, e nonsolo ciascuna sta in necessaria relazione con quella, cheimmediatamente precede, e quindi quella sola vuol pre-sente al lettore come immediata premessa, secondo ac-cade in tutte le filosofie, le quali consistono in una seriedi deduzioni; ma ogni parte dell'opera intera è con tuttele altre connessa, e le presuppone. Si richiede adunque,che dal lettore sia ricordato non soltanto ciò che imme-diatamente precede, ma tutta la trattazione anteriore: sìche di volta in volta egli possa sempre riannodarne ogniparte alla pagina che ha davanti, stianvi pur molt'altrecose frammezzo. Ammonimento, che anche Platone hafatto al suo lettore, per i tortuosi avvolgimenti dei suoidialoghi, che il pensiero fondamentale riprendon soldopo lunghi episodi, ma da ciò appunto fatto più limpi-do. Da parte nostra è tale ammonimento necessario, per-ché il frazionar l'unico nostro pensiero in molte conside-razioni è bensì il solo modo che abbiamo di comunicar-lo, ma è un dar forma artificiosa e non naturale al pen-siero stesso. A render più facile l'esposizione e l'intendi-mento giova l'aver distinto, in quattro libri, quattro prin-cipali punti di vista, come giova l'attentissimo ravvicinarciò che è affine e omogeneo: tuttavia la materia non per-mette assolutamente un andare in linea retta, come fa ilprocedimento storico, ma invece rende necessariaun'esposizione più complicata. E questa, a sua volta, ri-chiede un ripetuto studio dell'opera; soltanto così divie-ne chiaro il nesso d'ogni parte con ciascun'altra, e alla

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fine tutte insieme s'illuminano a vicenda e splendono inpiena chiarità90.

§ 55.Che la volontà come tale sia libera, già risulta dal fat-

to che a nostro modo di vedere ella è la cosa in sé, la so-stanza di tutti i fenomeni. Questi li sappiamo invece intutto soggetti al principio di ragione, nei suoi quattromodi: e conoscendo noi, che necessità ed effetto di unadata causa sono concetti identici, e convertibili, tutto ciòche è fenomeno, ossia oggetto per il soggetto conoscen-te in quanto individuo, è per un verso causa, e per l'altroeffetto; e in quest'ultima qualità è determinato necessa-riamente, né può quindi esser diverso da quel che è. Tut-to il contenuto della natura, il complesso dei suoi feno-meni, è adunque assolutamente necessario, e la necessi-tà di ogni parte, di ogni fenomeno, di ogni fatto si puòciascuna volta scoprire, dovendosi trovar la causa, dacui quelli come effetti provengono. Ed a ciò non v'ha ec-cezione: consegue dall'illimitato potere del principio diragione. Ma d'altra parte questo mondo medesimo, intutti i suoi fenomeni, è per noi anche oggettità della vo-lontà; la quale, non essendo né fenomeno né rappresen-tazione o oggetto, bensì cosa in sé, non è al principio diragione, forma d'ogni oggetto, sottomessa: e quindi nonè determinata come effetto da una causa, e non conoscenecessità, ossia è libera. Il concetto di libertà è dunque90 Si vedano i capp. 41-44 del secondo volume [pp. 479-585 del tomo II

dell'ed. cit.].

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fine tutte insieme s'illuminano a vicenda e splendono inpiena chiarità90.

§ 55.Che la volontà come tale sia libera, già risulta dal fat-

to che a nostro modo di vedere ella è la cosa in sé, la so-stanza di tutti i fenomeni. Questi li sappiamo invece intutto soggetti al principio di ragione, nei suoi quattromodi: e conoscendo noi, che necessità ed effetto di unadata causa sono concetti identici, e convertibili, tutto ciòche è fenomeno, ossia oggetto per il soggetto conoscen-te in quanto individuo, è per un verso causa, e per l'altroeffetto; e in quest'ultima qualità è determinato necessa-riamente, né può quindi esser diverso da quel che è. Tut-to il contenuto della natura, il complesso dei suoi feno-meni, è adunque assolutamente necessario, e la necessi-tà di ogni parte, di ogni fenomeno, di ogni fatto si puòciascuna volta scoprire, dovendosi trovar la causa, dacui quelli come effetti provengono. Ed a ciò non v'ha ec-cezione: consegue dall'illimitato potere del principio diragione. Ma d'altra parte questo mondo medesimo, intutti i suoi fenomeni, è per noi anche oggettità della vo-lontà; la quale, non essendo né fenomeno né rappresen-tazione o oggetto, bensì cosa in sé, non è al principio diragione, forma d'ogni oggetto, sottomessa: e quindi nonè determinata come effetto da una causa, e non conoscenecessità, ossia è libera. Il concetto di libertà è dunque90 Si vedano i capp. 41-44 del secondo volume [pp. 479-585 del tomo II

dell'ed. cit.].

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propriamente concetto negativo, essendo il suo contenu-to nient'altro che negazione della necessità, ovvero delrapporto di causa ed effetto, conforme al principio di ra-gione. Ora, qui ci sta innanzi nel modo più palese ilpunto d'eliminazione d'un grande contrasto, l'unione dilibertà e necessità, onde sovente s'è in questi tempi par-lato, ma, per quanto io mi sappia, non mai con chiarezzae proprietà. Ciascuna cosa è in quanto fenomeno, inquanto oggetto, assolutamente necessaria: ma la stessacosa è in sé volontà, e questa è del tutto libera in eterno.Il fenomeno, l'oggetto, è necessariamente e immutabil-mente determinato nella catena delle cause e degli effet-ti, la quale non può avere interruzione alcuna. Ma l'esse-re in genere di questo oggetto, e la maniera del suo esse-re, ossia l'idea che vi si palesa, o, con altre parole, il suocarattere, è fenomeno immediato della volontà. Per la li-bertà ch'è propria, di codesta volontà, esso potrebbe nonessere, o anche essere originariamente e sostanzialmenteaffatto diverso; nel qual caso l'intera catena, della qualeesso è un anello, ma che a sua volta è fenomeno dellamedesima volontà, sarebbe tutt'altra. Ma da che ha presoad esistere, l'oggetto è entrato nella serie delle cause edegli effetti, vi è determinato con necessità, né puòquindi più diventare un altro, ovvero modificarsi, néuscir dalla serie, ovvero sparire. L'uomo è, come ognialtra parte della natura, oggettità della volontà: perciòquanto s'è detto vale anche per lui. Come ciascuna cosanella natura ha le sue forze e qualità, che a un dato sti-molo reagiscono in un dato modo, e costituiscono il suo

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propriamente concetto negativo, essendo il suo contenu-to nient'altro che negazione della necessità, ovvero delrapporto di causa ed effetto, conforme al principio di ra-gione. Ora, qui ci sta innanzi nel modo più palese ilpunto d'eliminazione d'un grande contrasto, l'unione dilibertà e necessità, onde sovente s'è in questi tempi par-lato, ma, per quanto io mi sappia, non mai con chiarezzae proprietà. Ciascuna cosa è in quanto fenomeno, inquanto oggetto, assolutamente necessaria: ma la stessacosa è in sé volontà, e questa è del tutto libera in eterno.Il fenomeno, l'oggetto, è necessariamente e immutabil-mente determinato nella catena delle cause e degli effet-ti, la quale non può avere interruzione alcuna. Ma l'esse-re in genere di questo oggetto, e la maniera del suo esse-re, ossia l'idea che vi si palesa, o, con altre parole, il suocarattere, è fenomeno immediato della volontà. Per la li-bertà ch'è propria, di codesta volontà, esso potrebbe nonessere, o anche essere originariamente e sostanzialmenteaffatto diverso; nel qual caso l'intera catena, della qualeesso è un anello, ma che a sua volta è fenomeno dellamedesima volontà, sarebbe tutt'altra. Ma da che ha presoad esistere, l'oggetto è entrato nella serie delle cause edegli effetti, vi è determinato con necessità, né puòquindi più diventare un altro, ovvero modificarsi, néuscir dalla serie, ovvero sparire. L'uomo è, come ognialtra parte della natura, oggettità della volontà: perciòquanto s'è detto vale anche per lui. Come ciascuna cosanella natura ha le sue forze e qualità, che a un dato sti-molo reagiscono in un dato modo, e costituiscono il suo

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carattere, così l'uomo ha pure il carattere suo, secondo ilquale i motivi provocano le sue azioni con necessità. Edè in questo modo d'agire, che si palesa il suo carattereempirico; mentre in questo poi si palesa il suo carattereintelligibile, la volontà in sé, della quale egli è fenome-no determinato. Ma l'uomo è della volontà il fenomenopiù perfetto; il quale, per sussistere, com'è dimostratonel secondo libro, dovè essere illuminato da un sì altogrado di conoscenza, che in questa si rese possibile ad-dirittura, come abbiam veduto nel libro terzo, una ripro-duzione in tutto adeguata dell'essenza del mondo, sottola forma della rappresentazione; il che si ha mediante lapercezione delle idee, ed è il vero specchio del mondo.Nell'uomo adunque può la volontà pervenire alla pienaconscienza di sé, alla chiara ed esauriente cognizionedel suo proprio essere, quale nel mondo intero si rispec-chia. Dall'effettiva presenza di codesto grado di cogni-zione procede l'arte, come abbiam visto nel libro cheprecede. Ma alla fine di tutto il nostro studio risulterà,che mediante la cognizione medesima, quando la volon-tà la riferisce a se stessa, diventa possibile una soppres-sione e autonegazione della volontà, nel suo fenomenopiù perfetto: sì che la libertà, la quale altrimenti, spet-tando solo alla cosa in sé, non può mai mostrarsi nel fe-nomeno, stavolta anche nel fenomeno si rivela; e soppri-mendo l'essenza che del fenomeno è base, mentr'essopur continua a durare nel tempo, genera un dissidio delfenomeno con se medesimo, e perciò appunto ci offre icasi di santità e di abnegazione. Tutto questo si potrà in-

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carattere, così l'uomo ha pure il carattere suo, secondo ilquale i motivi provocano le sue azioni con necessità. Edè in questo modo d'agire, che si palesa il suo carattereempirico; mentre in questo poi si palesa il suo carattereintelligibile, la volontà in sé, della quale egli è fenome-no determinato. Ma l'uomo è della volontà il fenomenopiù perfetto; il quale, per sussistere, com'è dimostratonel secondo libro, dovè essere illuminato da un sì altogrado di conoscenza, che in questa si rese possibile ad-dirittura, come abbiam veduto nel libro terzo, una ripro-duzione in tutto adeguata dell'essenza del mondo, sottola forma della rappresentazione; il che si ha mediante lapercezione delle idee, ed è il vero specchio del mondo.Nell'uomo adunque può la volontà pervenire alla pienaconscienza di sé, alla chiara ed esauriente cognizionedel suo proprio essere, quale nel mondo intero si rispec-chia. Dall'effettiva presenza di codesto grado di cogni-zione procede l'arte, come abbiam visto nel libro cheprecede. Ma alla fine di tutto il nostro studio risulterà,che mediante la cognizione medesima, quando la volon-tà la riferisce a se stessa, diventa possibile una soppres-sione e autonegazione della volontà, nel suo fenomenopiù perfetto: sì che la libertà, la quale altrimenti, spet-tando solo alla cosa in sé, non può mai mostrarsi nel fe-nomeno, stavolta anche nel fenomeno si rivela; e soppri-mendo l'essenza che del fenomeno è base, mentr'essopur continua a durare nel tempo, genera un dissidio delfenomeno con se medesimo, e perciò appunto ci offre icasi di santità e di abnegazione. Tutto questo si potrà in-

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tendere appieno soltanto alla fine del presente libro. Perora non si fa che accennare genericamente, come l'uomoda tutti gli altri fenomeni della volontà si distingua, pelfatto che la libertà, ossia indipendenza dal principio diragione, la quale spetta unicamente alla volontà comecosa in sé e sta col fenomeno in contrasto, in lui puònondimeno apparire anche nel fenomeno, dov'ella tutta-via di necessità si presenta come un dissidio del feno-meno da se medesimo. In questo senso non può nonsolo la volontà in sé, ma perfino l'uomo esser chiamatolibero, e distinto così da tutti gli altri esseri. Ma, comeciò sia da intendere, apparirà chiaro nel seguito; e peradesso ancora dobbiamo lasciare del tutto in dispartequesto argomento. Imperocché preme piuttosto metterein guardia contro l'errore, che le operazioni dell'uomosingolo, determinato, non siano soggette a necessità disorta, ossia la forza del motivo sia meno certa che la for-za della causa, ovvero la conseguenza dedotta dalle pre-messe. La libertà della volontà come cosa in sé non sitrasmette punto in modo diretto al suo fenomeno, pre-scindendo, come s'è detto, dal caso accennato più sopra,che fa eccezione; neppur là dove essa raggiunge il gradomassimo di visibilità, ossia neppure all'animale ragione-vole, che abbia carattere individuale, cioè alla persona.Questa non è mai libera, per quanto sia fenomeno di unalibera volontà; perché appunto di tal libero volere ella ègià il fenomeno determinato; e con l'entrar, che questofa nella forma di tutti gli oggetti, nel principio di ragio-ne, frange l'unità di quella volontà in una pluralità di

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tendere appieno soltanto alla fine del presente libro. Perora non si fa che accennare genericamente, come l'uomoda tutti gli altri fenomeni della volontà si distingua, pelfatto che la libertà, ossia indipendenza dal principio diragione, la quale spetta unicamente alla volontà comecosa in sé e sta col fenomeno in contrasto, in lui puònondimeno apparire anche nel fenomeno, dov'ella tutta-via di necessità si presenta come un dissidio del feno-meno da se medesimo. In questo senso non può nonsolo la volontà in sé, ma perfino l'uomo esser chiamatolibero, e distinto così da tutti gli altri esseri. Ma, comeciò sia da intendere, apparirà chiaro nel seguito; e peradesso ancora dobbiamo lasciare del tutto in dispartequesto argomento. Imperocché preme piuttosto metterein guardia contro l'errore, che le operazioni dell'uomosingolo, determinato, non siano soggette a necessità disorta, ossia la forza del motivo sia meno certa che la for-za della causa, ovvero la conseguenza dedotta dalle pre-messe. La libertà della volontà come cosa in sé non sitrasmette punto in modo diretto al suo fenomeno, pre-scindendo, come s'è detto, dal caso accennato più sopra,che fa eccezione; neppur là dove essa raggiunge il gradomassimo di visibilità, ossia neppure all'animale ragione-vole, che abbia carattere individuale, cioè alla persona.Questa non è mai libera, per quanto sia fenomeno di unalibera volontà; perché appunto di tal libero volere ella ègià il fenomeno determinato; e con l'entrar, che questofa nella forma di tutti gli oggetti, nel principio di ragio-ne, frange l'unità di quella volontà in una pluralità di

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azioni, la quale non di meno a causa dell'unità, sita fuordel tempo, di quel volere in sé, si presenta regolarecome una forza di natura. Ma poiché tuttavia quel liberovolere è, che si rende visibile nella persona e in tutta lasua condotta, stando a questa come il concetto sta alladefinizione, così va pure ogni singolo atto della personamedesima attribuito alla libera volontà, e come tales'annunzia immediatamente alla conscienza: perciò,com'è detto nel libro secondo, si ritiene ognuno libero apriori (ossia, nel caso attuale, in virtù del suo sentimen-to originario) in tutte le azioni sue; nel senso che a lui,in ciascun dato caso, ogni azione sia possibile. E solo aposteriori, per esperienza e per meditazione dell'espe-rienza, riconosce che la sua condotta risulta determinatacon necessità dell'incontro del carattere coi motivi. Di làproviene, che i più rozzi uomini, seguendo i loro senti-menti, sostengano nel modo più vivo la piena libertàdelle singole azioni, mentre i grandi pensatori di tutti itempi, anzi perfino le dottrine religiose più profonde,l'abbiano negata. Tuttavia a quegli, cui s'è reso chiaroche l'intera essenza dell'uomo è volontà, e ch'egli mede-simo non è che fenomeno di questa volontà, fenomenoavente il principio di ragione per forma necessaria, co-noscibile già dal soggetto stesso, la quale in questo casosi presenta come legge della motivazione, a quegli undubbio circa la possibilità di non compiere una certaazione, dato un certo carattere e un certo motivo, farà lostesso effetto che un dubbio sull'eguaglianza fra i tre an-goli d'un triangolo e due retti. La necessità di ciascuna

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azioni, la quale non di meno a causa dell'unità, sita fuordel tempo, di quel volere in sé, si presenta regolarecome una forza di natura. Ma poiché tuttavia quel liberovolere è, che si rende visibile nella persona e in tutta lasua condotta, stando a questa come il concetto sta alladefinizione, così va pure ogni singolo atto della personamedesima attribuito alla libera volontà, e come tales'annunzia immediatamente alla conscienza: perciò,com'è detto nel libro secondo, si ritiene ognuno libero apriori (ossia, nel caso attuale, in virtù del suo sentimen-to originario) in tutte le azioni sue; nel senso che a lui,in ciascun dato caso, ogni azione sia possibile. E solo aposteriori, per esperienza e per meditazione dell'espe-rienza, riconosce che la sua condotta risulta determinatacon necessità dell'incontro del carattere coi motivi. Di làproviene, che i più rozzi uomini, seguendo i loro senti-menti, sostengano nel modo più vivo la piena libertàdelle singole azioni, mentre i grandi pensatori di tutti itempi, anzi perfino le dottrine religiose più profonde,l'abbiano negata. Tuttavia a quegli, cui s'è reso chiaroche l'intera essenza dell'uomo è volontà, e ch'egli mede-simo non è che fenomeno di questa volontà, fenomenoavente il principio di ragione per forma necessaria, co-noscibile già dal soggetto stesso, la quale in questo casosi presenta come legge della motivazione, a quegli undubbio circa la possibilità di non compiere una certaazione, dato un certo carattere e un certo motivo, farà lostesso effetto che un dubbio sull'eguaglianza fra i tre an-goli d'un triangolo e due retti. La necessità di ciascuna

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singola azione ha con sufficienza illustrato Priestley nel-la sua Doctrine of philosophical necessity; ma il coesi-stere di questa necessità con la libertà del volere in sé,ossia fuori del fenomeno, l'ha per il primo dimostratoKant91, il cui merito è in ciò particolarmente grande, fa-cendo la distinzione tra carattere intelligibile ed empiri-co. Distinzione, che io in tutto e per tutto mantengo, es-sendo il primo la volontà come cosa in sé, in quanto simanifesta in un determinato individuo, e in un determi-nato grado; ed essendo l'altro questa manifestazione me-desima, qual ella si presenta con la condotta, nel tempo,e già con la propria forma corporea, nello spazio. Perchés'intenda bene la relazione loro, nessuna espressione valmeglio di quella usata nel mio scritto introduttivo: il ca-rattere intelligibile di un uomo doversi considerarecome un atto di volontà, che sta fuori del tempo, ed èquindi indivisibile e immutabile; mentre il fenomeno diquello, sviluppato e frazionato nel tempo e nello spazioe in tutte le forme del principio di ragione, è il carattereempirico, quale si palesa sperimentalmente in tutta lacondotta e in tutta la vita dell'uomo medesimo. Cometutto l'albero non è che il fenomeno sempre ripetutodell'unico e identico impulso, il quale nel modo piùsemplice si presenta nella fibra e si ripete nell'aggrega-mento di fibre, onde risultano foglia, picciuolo, ramo,tronco, essendovi facilmente riconoscibile: così tutte le

91 Critica della ragion pura, prima ed., pp. 532-58; quinta ed., pp. 560-86; eCritica della ragion pratica, quarta ed., pp. 169-79; ed. Rosenkranz, pp.224-31.

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singola azione ha con sufficienza illustrato Priestley nel-la sua Doctrine of philosophical necessity; ma il coesi-stere di questa necessità con la libertà del volere in sé,ossia fuori del fenomeno, l'ha per il primo dimostratoKant91, il cui merito è in ciò particolarmente grande, fa-cendo la distinzione tra carattere intelligibile ed empiri-co. Distinzione, che io in tutto e per tutto mantengo, es-sendo il primo la volontà come cosa in sé, in quanto simanifesta in un determinato individuo, e in un determi-nato grado; ed essendo l'altro questa manifestazione me-desima, qual ella si presenta con la condotta, nel tempo,e già con la propria forma corporea, nello spazio. Perchés'intenda bene la relazione loro, nessuna espressione valmeglio di quella usata nel mio scritto introduttivo: il ca-rattere intelligibile di un uomo doversi considerarecome un atto di volontà, che sta fuori del tempo, ed èquindi indivisibile e immutabile; mentre il fenomeno diquello, sviluppato e frazionato nel tempo e nello spazioe in tutte le forme del principio di ragione, è il carattereempirico, quale si palesa sperimentalmente in tutta lacondotta e in tutta la vita dell'uomo medesimo. Cometutto l'albero non è che il fenomeno sempre ripetutodell'unico e identico impulso, il quale nel modo piùsemplice si presenta nella fibra e si ripete nell'aggrega-mento di fibre, onde risultano foglia, picciuolo, ramo,tronco, essendovi facilmente riconoscibile: così tutte le

91 Critica della ragion pura, prima ed., pp. 532-58; quinta ed., pp. 560-86; eCritica della ragion pratica, quarta ed., pp. 169-79; ed. Rosenkranz, pp.224-31.

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azioni dell'uomo non sono che la manifestazione ripetu-ta ognora, al quanto diversa sol nella forma, del suo ca-rattere intelligibile; e l'induzione risultante dalla sommadi quegli atti ci dà il carattere empirico di lui. Ma nonmi metterò qui a riprodurre, rimaneggiandola, l'esposi-zione magistrale di Kant, bensì faccio conto che sia giàconosciuta.

Nel 1840 ho trattato a fondo e distesamente l'impor-tante capitolo sulla libertà del volere, nella mia premiatamemoria per concorso su quel tempo; ed ho soprattuttoscoperta la cagione dell'inganno, per cui si crede di tro-var nell'autoconscienza, come fatto reale, un'assoluta li-bertà del volere data empiricamente, ovvero un liberumarbitrium indifferentiae: che proprio a ciò mirava, acuta-mente, il problema messo a concorso. Nel mentre io rin-vio adunque il lettore a quello scritto, e così pure al cap.10 della memoria sui problemi fondamentali dell'etica,pubblicata insieme con l'altra sotto il titolo I due proble-mi fondamentali dell'etica, tralascio qui l'imperfetta ar-gomentazione sulla necessità degli atti volitivi, data nel-la prima edizione; e voglio invece chiarire ancora conuna breve spiegazione l'inganno esposto più sopra, cheha come premessa il 19° capitolo del nostro secondo vo-lume e non poteva quindi trovarsi nella memoria citata.

Se prescindiamo dal fatto, che essendo la volontà,come vera cosa in sé, per sua natura alcunché di origina-rio e di indipendente, deve anche nell'autoconscienza ilsentimento di quella originarietà e indipendenza accom-pagnare i suoi atti, sebbene essi quivi siano già determi-

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azioni dell'uomo non sono che la manifestazione ripetu-ta ognora, al quanto diversa sol nella forma, del suo ca-rattere intelligibile; e l'induzione risultante dalla sommadi quegli atti ci dà il carattere empirico di lui. Ma nonmi metterò qui a riprodurre, rimaneggiandola, l'esposi-zione magistrale di Kant, bensì faccio conto che sia giàconosciuta.

Nel 1840 ho trattato a fondo e distesamente l'impor-tante capitolo sulla libertà del volere, nella mia premiatamemoria per concorso su quel tempo; ed ho soprattuttoscoperta la cagione dell'inganno, per cui si crede di tro-var nell'autoconscienza, come fatto reale, un'assoluta li-bertà del volere data empiricamente, ovvero un liberumarbitrium indifferentiae: che proprio a ciò mirava, acuta-mente, il problema messo a concorso. Nel mentre io rin-vio adunque il lettore a quello scritto, e così pure al cap.10 della memoria sui problemi fondamentali dell'etica,pubblicata insieme con l'altra sotto il titolo I due proble-mi fondamentali dell'etica, tralascio qui l'imperfetta ar-gomentazione sulla necessità degli atti volitivi, data nel-la prima edizione; e voglio invece chiarire ancora conuna breve spiegazione l'inganno esposto più sopra, cheha come premessa il 19° capitolo del nostro secondo vo-lume e non poteva quindi trovarsi nella memoria citata.

Se prescindiamo dal fatto, che essendo la volontà,come vera cosa in sé, per sua natura alcunché di origina-rio e di indipendente, deve anche nell'autoconscienza ilsentimento di quella originarietà e indipendenza accom-pagnare i suoi atti, sebbene essi quivi siano già determi-

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nati – l'illusione d'una libertà empirica del volere (inluogo della libertà transcendentale, che solo gli si puòattribuire), proviene dalla situazione isolata e subordina-ta dell'intelletto di fronte alla volontà: situazione espostanel capitolo 19° del secondo volume, specialmente alnumero 3. Perché l'intelletto apprende le risoluzioni del-la volontà solo a posteriori, ed in maniera empirica.Quindi non ha, al momento di scegliere, nessun dato persaper ciò che la volontà deciderebbe. Non entra nellaconoscenza dell'intelletto il carattere intelligibile, in vir-tù del quale, dati questi o quei motivi, una sola decisio-ne è possibile, e perciò necessaria; ma soltanto il carat-tere empirico gli divien noto a grado a grado, per i suoisingoli atti. Sembra perciò alla conoscente conscienza(all'intelletto) che, in un dato caso, siano alla volontàdue opposte risoluzioni in pari modo possibili. Invece ècome se davanti a una sbarra fissata verticalmente mascossa nel suo equilibrio e oscillante si dicesse che «puòabbattersi a destra o a sinistra»; il qual «può» non hatuttavia che un valore soggettivo, e in verità vuol dire:«secondo i dati che a noi constano»; mentre oggettiva-mente è la caduta già in modo necessario determinata,non appena ha principio l'oscillazione. Similmente è ladecisione della propria volontà sol per il suo osservato-re, ossia il proprio intelletto, indeterminata, e quindi re-lativa e soggettiva; mentre in se stessa e oggettivamente,ad ogni scelta che si offra, la decisione è già determinatae necessaria. Ma codesta determinazione non sale allacoscienza, se non con la decisione che ne deriva. Ne ab-

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nati – l'illusione d'una libertà empirica del volere (inluogo della libertà transcendentale, che solo gli si puòattribuire), proviene dalla situazione isolata e subordina-ta dell'intelletto di fronte alla volontà: situazione espostanel capitolo 19° del secondo volume, specialmente alnumero 3. Perché l'intelletto apprende le risoluzioni del-la volontà solo a posteriori, ed in maniera empirica.Quindi non ha, al momento di scegliere, nessun dato persaper ciò che la volontà deciderebbe. Non entra nellaconoscenza dell'intelletto il carattere intelligibile, in vir-tù del quale, dati questi o quei motivi, una sola decisio-ne è possibile, e perciò necessaria; ma soltanto il carat-tere empirico gli divien noto a grado a grado, per i suoisingoli atti. Sembra perciò alla conoscente conscienza(all'intelletto) che, in un dato caso, siano alla volontàdue opposte risoluzioni in pari modo possibili. Invece ècome se davanti a una sbarra fissata verticalmente mascossa nel suo equilibrio e oscillante si dicesse che «puòabbattersi a destra o a sinistra»; il qual «può» non hatuttavia che un valore soggettivo, e in verità vuol dire:«secondo i dati che a noi constano»; mentre oggettiva-mente è la caduta già in modo necessario determinata,non appena ha principio l'oscillazione. Similmente è ladecisione della propria volontà sol per il suo osservato-re, ossia il proprio intelletto, indeterminata, e quindi re-lativa e soggettiva; mentre in se stessa e oggettivamente,ad ogni scelta che si offra, la decisione è già determinatae necessaria. Ma codesta determinazione non sale allacoscienza, se non con la decisione che ne deriva. Ne ab-

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biamo perfino una prova empirica, quando ci sta davantiuna scelta difficile e importante, e tuttavia soggetta auna condizione che noi speriamo, ma che non s'è ancoraavverata; sì che lì per lì non possiamo far nulla, e dob-biamo attender passivamente. Allora prendiamo a riflet-tere qual sarà la nostra decisione, quando si saranno pre-sentate le circostanze, che ci permettano libera azione escelta d'un partito. Il più sovente a favor dell'uno parlapiù forte la lungi veggente, ragionevole riflessione; ed afavor dell'altro la spontanea inclinazione. Fino a quandonoi, costretti, restiamo passivi, sembra che la parte dellaragione abbia il sopravvento; ma già prevediamo conqual violenza l'altra parte ci tirerà, non appena sarà ve-nuto il momento d'agire. Fino allora ci siamo affaticati,con fredda meditazione del pro e contro, a porre nellamiglior luce i motivi dell'una e dell'altra parte, affinchèciascuno possa agire con tutta la sua forza sulla volontà,quando sarà il momento, e un errore da parte dell'intel-letto non abbia per avventura a disviare la volontà, fa-cendo ch'ella si risolva altrimenti da come si risolvereb-be quando tutto vi avesse egualmente influito. Ma que-sto limpido prospettare i contrastanti motivi è tutto ciòche l'intelletto può far per la scelta. La scelta vera essol'attende con la medesima passività, con la medesimacuriosità intenta, come se attendesse quella d'una volon-tà estranea. Ben possono a lui, dal suo punto di vista,entrambe le risoluzioni apparire come egualmente possi-bili: questa è appunto l'illusione dell'empirica libertà delvolere. Che in modo affatto empirico entra la risoluzio-

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biamo perfino una prova empirica, quando ci sta davantiuna scelta difficile e importante, e tuttavia soggetta auna condizione che noi speriamo, ma che non s'è ancoraavverata; sì che lì per lì non possiamo far nulla, e dob-biamo attender passivamente. Allora prendiamo a riflet-tere qual sarà la nostra decisione, quando si saranno pre-sentate le circostanze, che ci permettano libera azione escelta d'un partito. Il più sovente a favor dell'uno parlapiù forte la lungi veggente, ragionevole riflessione; ed afavor dell'altro la spontanea inclinazione. Fino a quandonoi, costretti, restiamo passivi, sembra che la parte dellaragione abbia il sopravvento; ma già prevediamo conqual violenza l'altra parte ci tirerà, non appena sarà ve-nuto il momento d'agire. Fino allora ci siamo affaticati,con fredda meditazione del pro e contro, a porre nellamiglior luce i motivi dell'una e dell'altra parte, affinchèciascuno possa agire con tutta la sua forza sulla volontà,quando sarà il momento, e un errore da parte dell'intel-letto non abbia per avventura a disviare la volontà, fa-cendo ch'ella si risolva altrimenti da come si risolvereb-be quando tutto vi avesse egualmente influito. Ma que-sto limpido prospettare i contrastanti motivi è tutto ciòche l'intelletto può far per la scelta. La scelta vera essol'attende con la medesima passività, con la medesimacuriosità intenta, come se attendesse quella d'una volon-tà estranea. Ben possono a lui, dal suo punto di vista,entrambe le risoluzioni apparire come egualmente possi-bili: questa è appunto l'illusione dell'empirica libertà delvolere. Che in modo affatto empirico entra la risoluzio-

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ne, come un tratto finale, nella sfera dell'intelletto; tutta-via essa proviene dalla natura intima, dal carattere intel-ligibile della volontà individuale nel suo conflitto concerti dati motivi; e quindi ha forza d'assoluta necessità.In ciò l'intelletto non può altro fare, che lumeggiar daogni parte e ben chiaro la natura dei motivi, ma non giàdeterminare la volontà medesima; essendo questa a luiinaccessibile, anzi, come abbiamo veduto, insondabile.

Se un uomo potesse, in pari circostanze, agire unavolta in un modo e una volta in modo diverso, ciò signi-ficherebbe essersi la sua volontà frattanto mutata; e lavolontà starebbe adunque nel tempo, che sol nel tempopuò aversi mutazione. Sarebbe, così, o la volontà unsemplice fenomeno, oppure il tempo una determinazio-ne della cosa in sé. Quindi la contesa intorno alla libertàdell'azione individuale, intorno al liberum arbitrium in-differentiae, rientra propriamente nella quistione se lavolontà stia o no nel tempo. Se ella, come appar dimo-strato dalla dottrina kantiana e da tutta la mia esposizio-ne, è la cosa in sé, fuori del tempo e d'ogni altra formadel principio di ragione, non soltanto deve l'individuoagire in egual modo in casi eguali, non soltanto ogni suamala azione sarà sicura garanzia d'altre innumerevoli,che egli deve compiere e non può tralasciare: ma ben sipotrebbe anche, come dice Kant, sol che fossero cono-sciuti appieno il carattere empirico e i motivi, prevedereil futuro, come si prevedono eclissi di sole o di luna.Come è conseguente la natura, così è il carattere: ciascu-na singola azione deve essergli conforme, come ogni fe-

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ne, come un tratto finale, nella sfera dell'intelletto; tutta-via essa proviene dalla natura intima, dal carattere intel-ligibile della volontà individuale nel suo conflitto concerti dati motivi; e quindi ha forza d'assoluta necessità.In ciò l'intelletto non può altro fare, che lumeggiar daogni parte e ben chiaro la natura dei motivi, ma non giàdeterminare la volontà medesima; essendo questa a luiinaccessibile, anzi, come abbiamo veduto, insondabile.

Se un uomo potesse, in pari circostanze, agire unavolta in un modo e una volta in modo diverso, ciò signi-ficherebbe essersi la sua volontà frattanto mutata; e lavolontà starebbe adunque nel tempo, che sol nel tempopuò aversi mutazione. Sarebbe, così, o la volontà unsemplice fenomeno, oppure il tempo una determinazio-ne della cosa in sé. Quindi la contesa intorno alla libertàdell'azione individuale, intorno al liberum arbitrium in-differentiae, rientra propriamente nella quistione se lavolontà stia o no nel tempo. Se ella, come appar dimo-strato dalla dottrina kantiana e da tutta la mia esposizio-ne, è la cosa in sé, fuori del tempo e d'ogni altra formadel principio di ragione, non soltanto deve l'individuoagire in egual modo in casi eguali, non soltanto ogni suamala azione sarà sicura garanzia d'altre innumerevoli,che egli deve compiere e non può tralasciare: ma ben sipotrebbe anche, come dice Kant, sol che fossero cono-sciuti appieno il carattere empirico e i motivi, prevedereil futuro, come si prevedono eclissi di sole o di luna.Come è conseguente la natura, così è il carattere: ciascu-na singola azione deve essergli conforme, come ogni fe-

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nomeno accade secondo la legge naturale: la causa, nelfenomeno, e il motivo, nell'azione, sono semplicementegli impulsi occasionali, com'è dimostrato nel secondo li-bro. La volontà, di cui è fenomeno l'intero essere el'intera vita dell'uomo, non può in un caso particolarevenir meno a se stessa, e ciò che l'uomo vuole in com-plesso, vorrà pur sempre di volta in volta.

L'affermazione d'una libertà empirica del volere, d'unliberi arbitrii indifferentiae, è strettissimamente connes-sa col fatto d'aver posto l'essenza dell'uomo in un'anima,la quale in origine sarebbe un essere conoscente, anziproprio astrattamente pensante, e solo in seguito ancheun essere volitivo: attribuendo così alla volontà naturasecondaria, mentre secondaria è invece la conoscenza.La volontà fu perfino considerata come un atto di pen-siero e identificata col giudizio; particolarmente peropera di Cartesio e Spinoza. Ciascun uomo sarebbeadunque diventato quel ch'egli è, solo per effetto dellasua conoscenza. Al mondo e' verrebbe come una nullitàmorale; quivi conoscerebbe le cose, e si risolverebbe al-lora a esser questo o quello, ad agire così o così; potreb-be, anche in seguito a nuova conoscenza, scegliere unanuova linea di condotta, ossia diventare affatto un altro.Inoltre, quando così fosse, ei dovrebbe un oggetto rico-noscer per buono, e come tale volerlo, invece che primavolerlo, e sol per effetto di codesto suo volere, chiamar-lo buono. Secondo la mia concezione fondamentale, tut-to ciò è un capovolger lo stato vero delle cose. La vo-lontà è l'elemento primo e originario; la conoscenza non

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nomeno accade secondo la legge naturale: la causa, nelfenomeno, e il motivo, nell'azione, sono semplicementegli impulsi occasionali, com'è dimostrato nel secondo li-bro. La volontà, di cui è fenomeno l'intero essere el'intera vita dell'uomo, non può in un caso particolarevenir meno a se stessa, e ciò che l'uomo vuole in com-plesso, vorrà pur sempre di volta in volta.

L'affermazione d'una libertà empirica del volere, d'unliberi arbitrii indifferentiae, è strettissimamente connes-sa col fatto d'aver posto l'essenza dell'uomo in un'anima,la quale in origine sarebbe un essere conoscente, anziproprio astrattamente pensante, e solo in seguito ancheun essere volitivo: attribuendo così alla volontà naturasecondaria, mentre secondaria è invece la conoscenza.La volontà fu perfino considerata come un atto di pen-siero e identificata col giudizio; particolarmente peropera di Cartesio e Spinoza. Ciascun uomo sarebbeadunque diventato quel ch'egli è, solo per effetto dellasua conoscenza. Al mondo e' verrebbe come una nullitàmorale; quivi conoscerebbe le cose, e si risolverebbe al-lora a esser questo o quello, ad agire così o così; potreb-be, anche in seguito a nuova conoscenza, scegliere unanuova linea di condotta, ossia diventare affatto un altro.Inoltre, quando così fosse, ei dovrebbe un oggetto rico-noscer per buono, e come tale volerlo, invece che primavolerlo, e sol per effetto di codesto suo volere, chiamar-lo buono. Secondo la mia concezione fondamentale, tut-to ciò è un capovolger lo stato vero delle cose. La vo-lontà è l'elemento primo e originario; la conoscenza non

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sopraggiunge che più tardi, appartenendo al fenomenodella volontà, come strumento di questa. Ciascun uomoè quindi quel ch'egli è, per la sua volontà, e il suo carat-tere è originario; essendo il volere la base del suo esse-re. Dalla sopravveniente conoscenza apprende, nel corsodell'esperienza, ciò ch'egli è; ossia, apprende a conosce-re il proprio carattere. Se stesso conosce adunque per ef-fetto e in conformità della natura del suo volere: e nongià vuole, secondo l'antica concezione, per effetto e inconformità del suo conoscere. Se questa fosse vera, ba-sterebbe ch'egli riflettesse sul come più gli piacerebbeessere, e così sarebbe: tale è la libertà del volere, secon-do la concezione suddetta. La quale adunque consistepropriamente nel ritener che l'uomo si faccia da sé, nellaluce della conoscenza. Io viceversa dico: l'uomo si fa dasé prima d'ogni conoscenza, e questa interviene per darlume a quel ch'è già fatto. Quindi non può l'uomo deci-der d'esser fatto in un modo piuttosto che altrimenti, népuò diventare un altro: bensì egli è, una volta per sem-pre; e quel che sia, conosce successivamente. Pei segua-ci della vecchia dottrina, egli vuole ciò che conosce; perme, conosce quel che vuole.

I Greci chiamarono il carattere ηθος, ed ηθος le mani-festazioni del carattere, ossia i costumi; ma questa paro-la deriva da εθος, abitudine: la scelsero quindi per indi-care metaforicamente la costanza del carattere con la co-stanza dell'abitudine. Το γαρ ηθος απο του εθους εχειτην επωνυµιαν. ηθικη γαρ καλειται δια το εθιζεσθαι (avoce εθος, i. e. consuetudo, ή̃θος est appellatum: ethica

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sopraggiunge che più tardi, appartenendo al fenomenodella volontà, come strumento di questa. Ciascun uomoè quindi quel ch'egli è, per la sua volontà, e il suo carat-tere è originario; essendo il volere la base del suo esse-re. Dalla sopravveniente conoscenza apprende, nel corsodell'esperienza, ciò ch'egli è; ossia, apprende a conosce-re il proprio carattere. Se stesso conosce adunque per ef-fetto e in conformità della natura del suo volere: e nongià vuole, secondo l'antica concezione, per effetto e inconformità del suo conoscere. Se questa fosse vera, ba-sterebbe ch'egli riflettesse sul come più gli piacerebbeessere, e così sarebbe: tale è la libertà del volere, secon-do la concezione suddetta. La quale adunque consistepropriamente nel ritener che l'uomo si faccia da sé, nellaluce della conoscenza. Io viceversa dico: l'uomo si fa dasé prima d'ogni conoscenza, e questa interviene per darlume a quel ch'è già fatto. Quindi non può l'uomo deci-der d'esser fatto in un modo piuttosto che altrimenti, népuò diventare un altro: bensì egli è, una volta per sem-pre; e quel che sia, conosce successivamente. Pei segua-ci della vecchia dottrina, egli vuole ciò che conosce; perme, conosce quel che vuole.

I Greci chiamarono il carattere ηθος, ed ηθος le mani-festazioni del carattere, ossia i costumi; ma questa paro-la deriva da εθος, abitudine: la scelsero quindi per indi-care metaforicamente la costanza del carattere con la co-stanza dell'abitudine. Το γαρ ηθος απο του εθους εχειτην επωνυµιαν. ηθικη γαρ καλειται δια το εθιζεσθαι (avoce εθος, i. e. consuetudo, ή̃θος est appellatum: ethica

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ergo dicta est απο του εθιζεσθαι, sive ab assuescendo),dice Aristotele (Eth. magna, i, 6, p. 1186, e Eth. End., p.1220, e Eth. Nic., p. 1103, ed. berlinese). Stobeo attesta:οί δε κατα Ζηνωνα τροπικως˙ ηθος εστι πηγη βιου, αφ’ής αί κατα µερος πραξεις ρεουσι (Stoici autem, Zenoniscastra sequentes, metaphorice ethos definiunt vitae fon-tem, e quo singulae manant actiones). II, cap. 7. Nelladottrina cristiana troviamo il dogma della predestinazio-ne, riferentesi alla scelta della grazia o della dannazione(San Paolo, Epist. ai Romani, 9, 11-24); dogma natoevidentemente dal concetto che l'uomo non muti, e lasua condotta nella vita, ossia il suo carattere empirico,non sia che la manifestazione del carattere intelligibile,lo sviluppo di ben definite tendenze, già nel bambinoevidenti e immutabili: sì che all'uomo già dalla nascitasia la sua condotta precisamente determinata, ed in so-stanza rimanga la medesima fino all'ultimo. Questo èpure il concetto nostro, ma non m'assumo certo di soste-nere le conseguenze, che vennero dall'unione di tal con-cetto giustissimo coi dogmi, che lo avevan precedutonella dottrina ebraica, e che generarono la difficoltàmassima, l'eternamente indistricabile nodo gordiano, in-torno a cui s'aggira la più gran parte delle dispute eccle-siastiche. Una tal difesa è assai male riuscita perfinoall'apostolo Paolo, col suo apologo del vasaio, introdottoper questo fine: il risultato sarebbe quello espresso neiversi che seguono:

Tema gl'Iddii

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ergo dicta est απο του εθιζεσθαι, sive ab assuescendo),dice Aristotele (Eth. magna, i, 6, p. 1186, e Eth. End., p.1220, e Eth. Nic., p. 1103, ed. berlinese). Stobeo attesta:οί δε κατα Ζηνωνα τροπικως˙ ηθος εστι πηγη βιου, αφ’ής αί κατα µερος πραξεις ρεουσι (Stoici autem, Zenoniscastra sequentes, metaphorice ethos definiunt vitae fon-tem, e quo singulae manant actiones). II, cap. 7. Nelladottrina cristiana troviamo il dogma della predestinazio-ne, riferentesi alla scelta della grazia o della dannazione(San Paolo, Epist. ai Romani, 9, 11-24); dogma natoevidentemente dal concetto che l'uomo non muti, e lasua condotta nella vita, ossia il suo carattere empirico,non sia che la manifestazione del carattere intelligibile,lo sviluppo di ben definite tendenze, già nel bambinoevidenti e immutabili: sì che all'uomo già dalla nascitasia la sua condotta precisamente determinata, ed in so-stanza rimanga la medesima fino all'ultimo. Questo èpure il concetto nostro, ma non m'assumo certo di soste-nere le conseguenze, che vennero dall'unione di tal con-cetto giustissimo coi dogmi, che lo avevan precedutonella dottrina ebraica, e che generarono la difficoltàmassima, l'eternamente indistricabile nodo gordiano, in-torno a cui s'aggira la più gran parte delle dispute eccle-siastiche. Una tal difesa è assai male riuscita perfinoall'apostolo Paolo, col suo apologo del vasaio, introdottoper questo fine: il risultato sarebbe quello espresso neiversi che seguono:

Tema gl'Iddii

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L'umana razza!Han nelle eterneMani il potere:Possono usarloCome a lor piace92.

Ma siffatte considerazioni sono in verità estranee alnostro soggetto. Più appropriati saranno alcuni chiari-menti sul rapporto tra il carattere e la conoscenza, nellaquale stanno tutti i motivi di quello.

I motivi, che determinano la manifestazione del carat-tere, ossia l'azione, sul carattere medesimo agiscono peltramite della conoscenza. Ma la conoscenza è mutevole,sovente oscilla tra errore e verità, sebbene di regola ven-ga sempre più a rettificarsi, se pure in grado assai diver-so, col proceder della vita. Perciò è possibile, che lacondotta di un uomo venga osservabilmente cambiata,senza che si possa inferirne un cambiamento del suo ca-rattere. Quel che l'uomo veramente e genericamentevuole, l'aspirazione del suo più intimo essere e la meta,a cui seguendo quell'aspirazione egli è diretto, tutto ciònon possiamo mai modificare né con influenze esterioriné con ammonimenti: per riuscirvi, dovremmo rifarlo dipianta. Seneca dice benissimo: velle non discitur, mo-

92 Es fürchte die GötterDas Menschengeschlecht!Sie halten die HerrschaftIn ewigen Handen:Und können sie brauchenWie's ihnen gefàllt.

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L'umana razza!Han nelle eterneMani il potere:Possono usarloCome a lor piace92.

Ma siffatte considerazioni sono in verità estranee alnostro soggetto. Più appropriati saranno alcuni chiari-menti sul rapporto tra il carattere e la conoscenza, nellaquale stanno tutti i motivi di quello.

I motivi, che determinano la manifestazione del carat-tere, ossia l'azione, sul carattere medesimo agiscono peltramite della conoscenza. Ma la conoscenza è mutevole,sovente oscilla tra errore e verità, sebbene di regola ven-ga sempre più a rettificarsi, se pure in grado assai diver-so, col proceder della vita. Perciò è possibile, che lacondotta di un uomo venga osservabilmente cambiata,senza che si possa inferirne un cambiamento del suo ca-rattere. Quel che l'uomo veramente e genericamentevuole, l'aspirazione del suo più intimo essere e la meta,a cui seguendo quell'aspirazione egli è diretto, tutto ciònon possiamo mai modificare né con influenze esterioriné con ammonimenti: per riuscirvi, dovremmo rifarlo dipianta. Seneca dice benissimo: velle non discitur, mo-

92 Es fürchte die GötterDas Menschengeschlecht!Sie halten die HerrschaftIn ewigen Handen:Und können sie brauchenWie's ihnen gefàllt.

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strando con ciò di anteporre la verità ai suoi cari Stoici,che ammonivano διδακτην ειναι την αρετην (doceri pos-se virtutem). Dall'esterno si può influir sulla volontàsolo mediante motivi. Ma questi non posson mai mutarela volontà medesima, che su lei hanno potere solo a con-dizione ch'ella sia qual è. Il lor potere si riduce adunquea modificare la strada della sua aspirazione; ossia a farch'ella cerchi per un'altra via quel che immutabilmentes'è proposto. Ammonimenti, o più retta conoscenza, in-somma tutti gl'influssi esteriori, possono bensì avvertirlad'aver sbagliato nei mezzi, e far ch'ella persegua pertutt'altra via, o addirittura in tutt'altro oggetto, il medesi-mo scopo, a cui già mirava secondo la propria intimanatura: ma non posson mai fare ch'ella voglia davverocosa diversa da quella fino allora voluta; la quale rimaneimmutabile, essendo per l'appunto tutt'uno con quellavolontà medesima, che altrimenti dovrebbe esser sop-pressa. Invece la mutevolezza della conoscenza, e quin-di della condotta, va tant'oltre, che la volontà si sforza diraggiungere il suo scopo immutabile, per esempio il pa-radiso di Maometto, or nella vita reale, ora in un mondoimmaginario; disponendo a ciò i mezzi opportuni, equindi nel primo caso adoprando astuzia, violenza e in-ganno, nel secondo astinenza, giustizia, elemosina, pel-legrinaggio alla Mecca. Ma per questo non è mutata lasua aspirazione, e tanto meno egli stesso. Quindi, anchese il suo operare può esser molto diverso in diverse epo-che, è il suo volere tuttavia rimasto il medesimo. Vellenon discitur.

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strando con ciò di anteporre la verità ai suoi cari Stoici,che ammonivano διδακτην ειναι την αρετην (doceri pos-se virtutem). Dall'esterno si può influir sulla volontàsolo mediante motivi. Ma questi non posson mai mutarela volontà medesima, che su lei hanno potere solo a con-dizione ch'ella sia qual è. Il lor potere si riduce adunquea modificare la strada della sua aspirazione; ossia a farch'ella cerchi per un'altra via quel che immutabilmentes'è proposto. Ammonimenti, o più retta conoscenza, in-somma tutti gl'influssi esteriori, possono bensì avvertirlad'aver sbagliato nei mezzi, e far ch'ella persegua pertutt'altra via, o addirittura in tutt'altro oggetto, il medesi-mo scopo, a cui già mirava secondo la propria intimanatura: ma non posson mai fare ch'ella voglia davverocosa diversa da quella fino allora voluta; la quale rimaneimmutabile, essendo per l'appunto tutt'uno con quellavolontà medesima, che altrimenti dovrebbe esser sop-pressa. Invece la mutevolezza della conoscenza, e quin-di della condotta, va tant'oltre, che la volontà si sforza diraggiungere il suo scopo immutabile, per esempio il pa-radiso di Maometto, or nella vita reale, ora in un mondoimmaginario; disponendo a ciò i mezzi opportuni, equindi nel primo caso adoprando astuzia, violenza e in-ganno, nel secondo astinenza, giustizia, elemosina, pel-legrinaggio alla Mecca. Ma per questo non è mutata lasua aspirazione, e tanto meno egli stesso. Quindi, anchese il suo operare può esser molto diverso in diverse epo-che, è il suo volere tuttavia rimasto il medesimo. Vellenon discitur.

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Perché i motivi agiscano, si richiede non soltanto laloro esistenza, ma anche l'esser conosciuti: perché,come dice l'eccellente espressione degli scolastici, giàricordata, causa finalis movet non secundum suum essereale, sed secundum esse cognitum. Perché, ad esempio,si palesi il rapporto, che reciprocamente hanno in undato uomo egoismo e compassione, non basta che costuipossegga delle ricchezze e vegga la miseria di altri; eglideve anche sapere, che cosa può farsi con la ricchezza,sia per sé, sia per altri; e non solo rappresentarglisil'altrui pena, ma deve anch'egli sapere che cosa sia pena,e pur che cosa sia gioia. Tutto ciò non saprebbe egli for-se tanto bene in un primo incontro, quanto in un secon-do; e se in occasione simile agisce differentemente, que-sto dipende solo dall'esser diverse, in realtà, le circo-stanze: soprattutto nella parte che dipende dal suo cono-scimento; anche se paiano esser le medesime. Comel'esser ignorate toglie a circostanze effettivamente esi-stenti ogni maniera d'azione, così posson d'altra partecircostanze affatto immaginarie agire al modo delle rea-li; non solo per effetto d'una illusione isolata, ma anchenel loro complesso, e durevolmente. Se per esempio unuomo viene fermamente convinto che ogni buona azio-ne gli sarà a cento doppi ripagata nella vita futura, code-sta persuasione vale e vige come una sicura cambiale alunghissima scadenza, ed egli per egoismo può dare,come, sotto altri riguardi, per egoismo prenderebbe. Nécon ciò è cambiato: velle non discitur. In virtù di questogrande influsso della conoscenza sulla condotta, pur ri-

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Perché i motivi agiscano, si richiede non soltanto laloro esistenza, ma anche l'esser conosciuti: perché,come dice l'eccellente espressione degli scolastici, giàricordata, causa finalis movet non secundum suum essereale, sed secundum esse cognitum. Perché, ad esempio,si palesi il rapporto, che reciprocamente hanno in undato uomo egoismo e compassione, non basta che costuipossegga delle ricchezze e vegga la miseria di altri; eglideve anche sapere, che cosa può farsi con la ricchezza,sia per sé, sia per altri; e non solo rappresentarglisil'altrui pena, ma deve anch'egli sapere che cosa sia pena,e pur che cosa sia gioia. Tutto ciò non saprebbe egli for-se tanto bene in un primo incontro, quanto in un secon-do; e se in occasione simile agisce differentemente, que-sto dipende solo dall'esser diverse, in realtà, le circo-stanze: soprattutto nella parte che dipende dal suo cono-scimento; anche se paiano esser le medesime. Comel'esser ignorate toglie a circostanze effettivamente esi-stenti ogni maniera d'azione, così posson d'altra partecircostanze affatto immaginarie agire al modo delle rea-li; non solo per effetto d'una illusione isolata, ma anchenel loro complesso, e durevolmente. Se per esempio unuomo viene fermamente convinto che ogni buona azio-ne gli sarà a cento doppi ripagata nella vita futura, code-sta persuasione vale e vige come una sicura cambiale alunghissima scadenza, ed egli per egoismo può dare,come, sotto altri riguardi, per egoismo prenderebbe. Nécon ciò è cambiato: velle non discitur. In virtù di questogrande influsso della conoscenza sulla condotta, pur ri-

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manendo immutata la volontà, accade che solo a poco apoco si sviluppi il carattere e vengano in luce i suoi varitratti. Perciò apparisce esso in ogni età della vita diver-so: ed alla vivace, impetuosa giovinezza può seguireuna posata, misurata, virile maturità. Specialmente illato cattivo del carattere si manifesta col tempo semprepiù; ma talora invece le passioni, a cui ci abbandonam-mo nella giovinezza, vengono più tardi spontaneamentefrenate, sol perché si sono allora mostrati alla conoscen-za i motivi che possono far loro ostacolo. Ed è perciòche noi tutti siamo, in sulle prime, innocenti: la qualcosa significa che noi non conosciamo, né altri conosce,il lato cattivo della nostra propria natura: solo incontran-dosi coi motivi questo si palesa, e solo col tempo entra-no i motivi nella nostra conoscenza. Alla fine imparia-mo a conoscere noi stessi, come affatto diversi da quelche ritenevamo a priori; e sovente abbiamo di noi me-desimi orrore.

Rimorso non proviene mai dall'essersi mutata la vo-lontà (cosa impossibile), bensì la conoscenza. Ciò chev'ha d'essenziale e di proprio in quanto io ho potuto perl'innanzi volere, debbo volere oggi ancora; perché iomedesimo sono codesta volontà, la quale sta fuor deltempo e fuor del mutamento. Non posso quindi pentirmimai di ciò che ho voluto, ma posso bensì di ciò che hofatto; perché, da falsi concetti guidato, ho fatto cose nonconformi alla mia volontà. L'accorgersene, in grazia dipiù esatta conoscenza, costituisce il rimorso. Ciò nons'estende per avventura soltanto al saper vivere, alla

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manendo immutata la volontà, accade che solo a poco apoco si sviluppi il carattere e vengano in luce i suoi varitratti. Perciò apparisce esso in ogni età della vita diver-so: ed alla vivace, impetuosa giovinezza può seguireuna posata, misurata, virile maturità. Specialmente illato cattivo del carattere si manifesta col tempo semprepiù; ma talora invece le passioni, a cui ci abbandonam-mo nella giovinezza, vengono più tardi spontaneamentefrenate, sol perché si sono allora mostrati alla conoscen-za i motivi che possono far loro ostacolo. Ed è perciòche noi tutti siamo, in sulle prime, innocenti: la qualcosa significa che noi non conosciamo, né altri conosce,il lato cattivo della nostra propria natura: solo incontran-dosi coi motivi questo si palesa, e solo col tempo entra-no i motivi nella nostra conoscenza. Alla fine imparia-mo a conoscere noi stessi, come affatto diversi da quelche ritenevamo a priori; e sovente abbiamo di noi me-desimi orrore.

Rimorso non proviene mai dall'essersi mutata la vo-lontà (cosa impossibile), bensì la conoscenza. Ciò chev'ha d'essenziale e di proprio in quanto io ho potuto perl'innanzi volere, debbo volere oggi ancora; perché iomedesimo sono codesta volontà, la quale sta fuor deltempo e fuor del mutamento. Non posso quindi pentirmimai di ciò che ho voluto, ma posso bensì di ciò che hofatto; perché, da falsi concetti guidato, ho fatto cose nonconformi alla mia volontà. L'accorgersene, in grazia dipiù esatta conoscenza, costituisce il rimorso. Ciò nons'estende per avventura soltanto al saper vivere, alla

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scelta dei mezzi e al giudizio se un dato scopo convengaalla mia propria volontà, ma anche al dominio etico insenso vero e proprio. Posso per esempio aver agito conpiù egoismo di quanto sia conforme al mio carattere,fuorviato da esagerate rappresentazioni della necessitàin cui mi trovavo, o anche dall'astuzia, falsità, malvagitàaltrui, o anche dalla mia precipitazione; ovvero mancan-za di riflessione; determinato da motivi non già chiara-mente conosciuti in abstracto, ma semplicemente intui-ti, sotto l'influenza del presente e della commozione chene risultò: così forte, che a dir vero non possedevo piùl'uso della mia ragione. In questo caso, il ritorno della ri-flessione non è se non rettificata conoscenza, dalla qualepuò sorgere rimorso, che poi si manifesta ognora nel ri-mediare al mal fatto, fin dove sia possibile. Va tuttaviaosservato, che per illuder noi stessi ci predisponiamoapparenti precipitazioni, le quali in realtà sono atti me-ditati in segreto. Perché nessuno inganniamo e lusin-ghiamo con sì fini artificii quali usiamo per noi medesi-mi. Può darsi anche il caso opposto: un eccesso di fidu-cia verso altri, o ignoranza del valore relativo da attri-buire ai diversi beni della vita, o un qualsiasi dogmaastratto, al quale io cessi poi di prestar fede, possonoavermi indotto ad agire con meno egoismo di quanto ilmio carattere richieda; preparandomi così rimorsod'altra natura. Sempre è adunque il rimorso rettificataconoscenza del rapporto tra l'azione e il vero e propriointento. Come alla volontà manifestantesi nel solo spa-zio, ossia con la semplice figura, resiste la materia già

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scelta dei mezzi e al giudizio se un dato scopo convengaalla mia propria volontà, ma anche al dominio etico insenso vero e proprio. Posso per esempio aver agito conpiù egoismo di quanto sia conforme al mio carattere,fuorviato da esagerate rappresentazioni della necessitàin cui mi trovavo, o anche dall'astuzia, falsità, malvagitàaltrui, o anche dalla mia precipitazione; ovvero mancan-za di riflessione; determinato da motivi non già chiara-mente conosciuti in abstracto, ma semplicemente intui-ti, sotto l'influenza del presente e della commozione chene risultò: così forte, che a dir vero non possedevo piùl'uso della mia ragione. In questo caso, il ritorno della ri-flessione non è se non rettificata conoscenza, dalla qualepuò sorgere rimorso, che poi si manifesta ognora nel ri-mediare al mal fatto, fin dove sia possibile. Va tuttaviaosservato, che per illuder noi stessi ci predisponiamoapparenti precipitazioni, le quali in realtà sono atti me-ditati in segreto. Perché nessuno inganniamo e lusin-ghiamo con sì fini artificii quali usiamo per noi medesi-mi. Può darsi anche il caso opposto: un eccesso di fidu-cia verso altri, o ignoranza del valore relativo da attri-buire ai diversi beni della vita, o un qualsiasi dogmaastratto, al quale io cessi poi di prestar fede, possonoavermi indotto ad agire con meno egoismo di quanto ilmio carattere richieda; preparandomi così rimorsod'altra natura. Sempre è adunque il rimorso rettificataconoscenza del rapporto tra l'azione e il vero e propriointento. Come alla volontà manifestantesi nel solo spa-zio, ossia con la semplice figura, resiste la materia già

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da altre idee, in questo caso le forze naturali, dominata,e di rado lascia apparire in tutta la sua purezza e limpi-dità la figura che qui tendeva a farsi visibile; così la vo-lontà, che si rivela solo nel tempo, ossia con azioni, tro-va analogo ostacolo nella conoscenza, che a lei di radofornisce esatti i dati, per modo che l'azione non riesceben corrispondente alla volontà, e quindi ci prepara il ri-morso. Il rimorso proviene perciò sempre da conoscenzafattasi più retta, e non da mutazione della volontà, che èimpossibile. Il tormento della coscienza per un attocommesso è tutt'altro che rimorso: è dolore per l'averconosciuti noi stessi nel nostro vero essere, ossia nellanostra volontà. Si fonda sulla certezza d'aver tuttora lamedesima volontà. Fosse questa mutata, e fosse quindisemplice rimorso il tormento della coscienza, questo ca-drebbe da sé: imperocché l'accaduto non potrebbe piùdare inquietudine, riflettendo le manifestazioni d'unavolontà, la quale non è più quella dell'uomo che si èpentito. Chiariremo più oltre ampiamente il valore deltormento di coscienza.

L'influsso che la conoscenza, in quanto mezzo deimotivi, esercita non proprio sulla volontà medesima, masul suo manifestarsi nelle azioni, è anche base del prin-cipale divario tra l'azione dell'uomo e quella dell'anima-le, essendo in entrambi diverso il modo di conoscere.L'animale ha soltanto rappresentazioni intuitive; l'uomo,per via della ragione, possiede anche rappresentazioni,astratte, o concetti. Ora, sebbene animale e uomo venga-no con pari necessità determinati dai motivi, l'uomo ha

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da altre idee, in questo caso le forze naturali, dominata,e di rado lascia apparire in tutta la sua purezza e limpi-dità la figura che qui tendeva a farsi visibile; così la vo-lontà, che si rivela solo nel tempo, ossia con azioni, tro-va analogo ostacolo nella conoscenza, che a lei di radofornisce esatti i dati, per modo che l'azione non riesceben corrispondente alla volontà, e quindi ci prepara il ri-morso. Il rimorso proviene perciò sempre da conoscenzafattasi più retta, e non da mutazione della volontà, che èimpossibile. Il tormento della coscienza per un attocommesso è tutt'altro che rimorso: è dolore per l'averconosciuti noi stessi nel nostro vero essere, ossia nellanostra volontà. Si fonda sulla certezza d'aver tuttora lamedesima volontà. Fosse questa mutata, e fosse quindisemplice rimorso il tormento della coscienza, questo ca-drebbe da sé: imperocché l'accaduto non potrebbe piùdare inquietudine, riflettendo le manifestazioni d'unavolontà, la quale non è più quella dell'uomo che si èpentito. Chiariremo più oltre ampiamente il valore deltormento di coscienza.

L'influsso che la conoscenza, in quanto mezzo deimotivi, esercita non proprio sulla volontà medesima, masul suo manifestarsi nelle azioni, è anche base del prin-cipale divario tra l'azione dell'uomo e quella dell'anima-le, essendo in entrambi diverso il modo di conoscere.L'animale ha soltanto rappresentazioni intuitive; l'uomo,per via della ragione, possiede anche rappresentazioni,astratte, o concetti. Ora, sebbene animale e uomo venga-no con pari necessità determinati dai motivi, l'uomo ha

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nondimeno in più dell'animale una completa facoltà discelta; la quale spesso venne anche presa per una libertàdel volere nei singoli atti, mentre non è se non la possi-bilità di un conflitto combattuto fino in fondo tra piùmotivi, de' quali il più forte determina alla fine con ne-cessità il volere. Occorre a ciò, che i motivi abbian pre-so la forma di pensieri astratti; perché sol per mezzo diquesta è possibile una vera e propria deliberazione, os-sia il pesare gli opposti motivi d'agire. Nell'animale puòla scelta aver luogo soltanto tra motivi presenti all'intui-zione, sì che essa è limitata alla stretta sfera della sua at-tuale, intuitiva apprensione. Perciò la necessità, onde ilvolere è determinato dal motivo, necessità eguale aquella dell'effetto, data la causa, può solo presso gli ani-mali esser mostrata intuitivamente e immediatamente,avendo qui anche lo spettatore davanti agli occhi nellastessa immediatezza i motivi e l'effetto loro; mentrenell'uomo quasi sempre i motivi sono rappresentazioniastratte, delle quali non è partecipe lo spettatore; e perfi-no a colui, che agisce, il conflitto dei motivi nasconde lanecessità dell'azione. Imperocché solamente in abstrac-to possono più rappresentazioni, in forma di giudizi ocatene d'illazioni, coesistere nella conscienza, e poi, li-bere da ogni determinazione temporale, l'una control'altra agire, finché la più forte predomini sulle rimanen-ti e determini la volontà. Questa è la perfetta facoltà discelta, o capacità di deliberazione, privilegio dell'uomodi fronte all'animale; per essa fu all'uomo attribuita li-bertà del volere, ritenendosi che il suo volere sia un

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nondimeno in più dell'animale una completa facoltà discelta; la quale spesso venne anche presa per una libertàdel volere nei singoli atti, mentre non è se non la possi-bilità di un conflitto combattuto fino in fondo tra piùmotivi, de' quali il più forte determina alla fine con ne-cessità il volere. Occorre a ciò, che i motivi abbian pre-so la forma di pensieri astratti; perché sol per mezzo diquesta è possibile una vera e propria deliberazione, os-sia il pesare gli opposti motivi d'agire. Nell'animale puòla scelta aver luogo soltanto tra motivi presenti all'intui-zione, sì che essa è limitata alla stretta sfera della sua at-tuale, intuitiva apprensione. Perciò la necessità, onde ilvolere è determinato dal motivo, necessità eguale aquella dell'effetto, data la causa, può solo presso gli ani-mali esser mostrata intuitivamente e immediatamente,avendo qui anche lo spettatore davanti agli occhi nellastessa immediatezza i motivi e l'effetto loro; mentrenell'uomo quasi sempre i motivi sono rappresentazioniastratte, delle quali non è partecipe lo spettatore; e perfi-no a colui, che agisce, il conflitto dei motivi nasconde lanecessità dell'azione. Imperocché solamente in abstrac-to possono più rappresentazioni, in forma di giudizi ocatene d'illazioni, coesistere nella conscienza, e poi, li-bere da ogni determinazione temporale, l'una control'altra agire, finché la più forte predomini sulle rimanen-ti e determini la volontà. Questa è la perfetta facoltà discelta, o capacità di deliberazione, privilegio dell'uomodi fronte all'animale; per essa fu all'uomo attribuita li-bertà del volere, ritenendosi che il suo volere sia un

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semplice risultato delle operazioni intellettive, senza cheun determinato impulso serva all'intelletto di base; men-tre, in verità, la motivazione non fa che agir sulla baseed a condizione del determinato impulso di lui, che è in-dividuale, ossia è un carattere. Una più ampia esposizio-ne di quella capacità deliberativa, e della derivante va-rietà dell'arbitrio umano e animale, si trova nell'opera Idue problemi fondamentali dell'etica (1a ed., pp. 35sgg.), alla quale rinvio dunque per tale soggetto.D'altronde codesta capacità deliberativa dell'uomo ap-partiene anch'essa alle cose, che fanno la sua vita tantopiù tormentosa di quella degli animali; perché i nostrimaggiori dolori in genere non stanno nel presente, comerappresentazioni intuitive o sentimento immediato, ben-sì nella ragione, come concetti astratti, torturanti pensie-ri, da cui è affatto libero l'animale, che vive soltanto nelpresente, e quindi in invidiabile assenza di pensiero.

La suesposta dipendenza dell'umana capacità delibe-rativa della facoltà del pensare in abstracto, e quindi delgiudicare e dedurre, sembra esser quella che ha traviatotanto Cartesio quanto Spinoza, facendo loro identificarle decisioni della volontà con la facoltà di affermare enegare (che è il giudizio), dal che Cartesio dedusse esserla volontà, secondo lui indifferentemente libera, respon-sabile anche di ogni errore teorico. Spinoza ne dedusseinvece esser la volontà determinata necessariamente daimotivi, come il giudizio dalle ragioni93; il che ha del re-

93 CART., Medit., 4. SPIN., Eth., parte II, prop. 48 et 49, caet.

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semplice risultato delle operazioni intellettive, senza cheun determinato impulso serva all'intelletto di base; men-tre, in verità, la motivazione non fa che agir sulla baseed a condizione del determinato impulso di lui, che è in-dividuale, ossia è un carattere. Una più ampia esposizio-ne di quella capacità deliberativa, e della derivante va-rietà dell'arbitrio umano e animale, si trova nell'opera Idue problemi fondamentali dell'etica (1a ed., pp. 35sgg.), alla quale rinvio dunque per tale soggetto.D'altronde codesta capacità deliberativa dell'uomo ap-partiene anch'essa alle cose, che fanno la sua vita tantopiù tormentosa di quella degli animali; perché i nostrimaggiori dolori in genere non stanno nel presente, comerappresentazioni intuitive o sentimento immediato, ben-sì nella ragione, come concetti astratti, torturanti pensie-ri, da cui è affatto libero l'animale, che vive soltanto nelpresente, e quindi in invidiabile assenza di pensiero.

La suesposta dipendenza dell'umana capacità delibe-rativa della facoltà del pensare in abstracto, e quindi delgiudicare e dedurre, sembra esser quella che ha traviatotanto Cartesio quanto Spinoza, facendo loro identificarle decisioni della volontà con la facoltà di affermare enegare (che è il giudizio), dal che Cartesio dedusse esserla volontà, secondo lui indifferentemente libera, respon-sabile anche di ogni errore teorico. Spinoza ne dedusseinvece esser la volontà determinata necessariamente daimotivi, come il giudizio dalle ragioni93; il che ha del re-

93 CART., Medit., 4. SPIN., Eth., parte II, prop. 48 et 49, caet.

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sto il suo valore, ma tuttavia si presenta come una con-clusione esatta da false premesse.

La dimostrata varietà del modo onde l'animale el'uomo vengono mossi da motivi, estende di molto lasua influenza sull'essere d'entrambi, ed è causa precipuadel profondo e visibilissimo divario nella loro esistenza.Che mentre l'animale vien sempre mosso da una rappre-sentazione esclusivamente intuitiva, s'affatica l'uomo adescludere del tutto questo genere di motivazione, e farsicondurre soltanto da rappresentazioni astratte; traendoin ciò tutto il possibile vantaggio dal suo privilegio dellaragione, e, senza dipender dal presente, non già l'effime-ro godimento o dolore scegliendo o fuggendo, ma consi-derando dell'uno e dell'altro le conseguenze. Nella piùparte dei casi, all'infuori delle azioni affatto insignifi-canti, ci determinano motivi astratti, pensati, e non giàimpressioni momentanee. Quindi è per noi ogni singolaprivazione abbastanza lieve a sopportare nel momento,ma orribilmente grave ogni rinunzia: perché quella toc-ca soltanto l'attimo che fugge, questa invece toccal'avvenire, e chiude in sé privazioni innumerevoli, dellequali è l'equivalente. La causa del nostro dolore, comedella nostra gioia, per lo più non sta adunque nel realepresente, ma sol negli astratti pensieri: sono questi, chespesso ci gravano insopportabilmente, e creano pene, difronte alle quali assai piccole sono tutte le sofferenzedell'animalità, poi che il nostro stesso dolore fisico nonviene spesso neppur sentito vicino a quelle; ed anzi, sof-frendo di violenti dolori morali, noi ci produciamo dolo-

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sto il suo valore, ma tuttavia si presenta come una con-clusione esatta da false premesse.

La dimostrata varietà del modo onde l'animale el'uomo vengono mossi da motivi, estende di molto lasua influenza sull'essere d'entrambi, ed è causa precipuadel profondo e visibilissimo divario nella loro esistenza.Che mentre l'animale vien sempre mosso da una rappre-sentazione esclusivamente intuitiva, s'affatica l'uomo adescludere del tutto questo genere di motivazione, e farsicondurre soltanto da rappresentazioni astratte; traendoin ciò tutto il possibile vantaggio dal suo privilegio dellaragione, e, senza dipender dal presente, non già l'effime-ro godimento o dolore scegliendo o fuggendo, ma consi-derando dell'uno e dell'altro le conseguenze. Nella piùparte dei casi, all'infuori delle azioni affatto insignifi-canti, ci determinano motivi astratti, pensati, e non giàimpressioni momentanee. Quindi è per noi ogni singolaprivazione abbastanza lieve a sopportare nel momento,ma orribilmente grave ogni rinunzia: perché quella toc-ca soltanto l'attimo che fugge, questa invece toccal'avvenire, e chiude in sé privazioni innumerevoli, dellequali è l'equivalente. La causa del nostro dolore, comedella nostra gioia, per lo più non sta adunque nel realepresente, ma sol negli astratti pensieri: sono questi, chespesso ci gravano insopportabilmente, e creano pene, difronte alle quali assai piccole sono tutte le sofferenzedell'animalità, poi che il nostro stesso dolore fisico nonviene spesso neppur sentito vicino a quelle; ed anzi, sof-frendo di violenti dolori morali, noi ci produciamo dolo-

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ri fisici solo per distogliere con ciò dai primi l'attenzio-ne: tale è il motivo per cui, nel massimo dolore morale,ci strappiamo i capelli, battiamo il petto, laceriamo ilvolto, rotoliamo per terra; tutte cose che propriamentenon sono se non violente distrazioni da un pensiero chepare intollerabile. Appunto perché il dolore morale, es-sendo di gran lunga il maggiore, ci rende insensibili aldolore fisico, diventa facilissimo il suicidio al disperato,o a chi è consumato da un morboso travaglio, anche secostui per l'innanzi, in condizioni tranquille, davanti alpensiero del suicidio s'arretrava sbigottito. Similmentela pena e la passione, ossia il travaglio del pensiero,consumano il corpo più spesso e più a fondo che le sof-ferenze fisiche. Perciò dice a ragione Epitteto: Ταρασσειτους ανθρωπους ου τα πραγµατα, αλλα τα περι τωνπραγµατων δογµατα (Perturbant homines non res ipsae,sed de rebus decreta) (V), e Seneca: «Plura sunt, quaenos terrent, quam quae premunt, et saepius opinionequam re laboramus» (Ep. 5). Anche Eulenspiegel sati-reggiava benissimo la natura umana, quando in salita ri-deva, in discesa piangeva. Perfino bimbi, che si son fattidel male, non piangono per il dolore, ma piangonoquando li si compiange, per il pensiero, in tal manierasuscitato, del dolore. Così gran divarii nell'agire e nelsoffrire provengono dalla varietà nel modo di conoscen-za animale ed umano. Inoltre il presentarsi del limpido edeciso carattere individuale, che soprattutto distinguel'uomo dall'animale, avendo quest'ultimo quasi unica-mente il carattere della specie, è in egual modo determi-

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ri fisici solo per distogliere con ciò dai primi l'attenzio-ne: tale è il motivo per cui, nel massimo dolore morale,ci strappiamo i capelli, battiamo il petto, laceriamo ilvolto, rotoliamo per terra; tutte cose che propriamentenon sono se non violente distrazioni da un pensiero chepare intollerabile. Appunto perché il dolore morale, es-sendo di gran lunga il maggiore, ci rende insensibili aldolore fisico, diventa facilissimo il suicidio al disperato,o a chi è consumato da un morboso travaglio, anche secostui per l'innanzi, in condizioni tranquille, davanti alpensiero del suicidio s'arretrava sbigottito. Similmentela pena e la passione, ossia il travaglio del pensiero,consumano il corpo più spesso e più a fondo che le sof-ferenze fisiche. Perciò dice a ragione Epitteto: Ταρασσειτους ανθρωπους ου τα πραγµατα, αλλα τα περι τωνπραγµατων δογµατα (Perturbant homines non res ipsae,sed de rebus decreta) (V), e Seneca: «Plura sunt, quaenos terrent, quam quae premunt, et saepius opinionequam re laboramus» (Ep. 5). Anche Eulenspiegel sati-reggiava benissimo la natura umana, quando in salita ri-deva, in discesa piangeva. Perfino bimbi, che si son fattidel male, non piangono per il dolore, ma piangonoquando li si compiange, per il pensiero, in tal manierasuscitato, del dolore. Così gran divarii nell'agire e nelsoffrire provengono dalla varietà nel modo di conoscen-za animale ed umano. Inoltre il presentarsi del limpido edeciso carattere individuale, che soprattutto distinguel'uomo dall'animale, avendo quest'ultimo quasi unica-mente il carattere della specie, è in egual modo determi-

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nato dalla scelta tra più motivi, possibile solo mediante iconcetti astratti. Che solo dopo precedente scelta sono lerisoluzioni diverse nei diversi individui un segno del ca-rattere individuale di questi, in ciascuno variato; mentrel'azione dell'animale dipende solo dalla presenza, o as-senza, dell'impressione, premesso poi che questa sia perla sua specie un motivo. Perciò finalmente nell'uomosoltanto è la decisione, e non il semplice desiderio, unvalido segno del suo carattere, per lui stesso e per gli al-tri. Ma la risoluzione diventa certa, per lui stesso comeper gli altri, solamente con l'azione. Il desiderio è sem-plice effetto necessario dell'impressione presente, sia peruno stimolo esterno, sia per una passeggera disposizioneinteriore; ed è quindi così immediatamente necessario eprivo di riflessione come l'agir delle bestie: perciò espri-me, a mo' di questo, il carattere della specie, e nonl'individuale. Ossia mostra ciò che l'uomo in genere, enon l'individuo, che prova quel desiderio, sarebbe capa-ce di fare. L'azione soltanto, come quella che già per es-sere un atto umano richiede sempre una certa riflessio-ne, e perché l'uomo di regola è signore della propria ra-gione, e quindi è riflessivo, ossia si risolve secondo mo-tivi astratti pensati, è l'espressione della massima intelli-gibile della sua condotta, il risultato del suo interno vo-lere; e sta come una consonante della parola, che indicail suo carattere empirico, il quale a sua volta non è chel'espressione temporale del suo carattere intelligibile.Perciò in uno spirito sano gravano la coscienza sola-mente azioni, e non desiderii e pensieri. Imperocché so-

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nato dalla scelta tra più motivi, possibile solo mediante iconcetti astratti. Che solo dopo precedente scelta sono lerisoluzioni diverse nei diversi individui un segno del ca-rattere individuale di questi, in ciascuno variato; mentrel'azione dell'animale dipende solo dalla presenza, o as-senza, dell'impressione, premesso poi che questa sia perla sua specie un motivo. Perciò finalmente nell'uomosoltanto è la decisione, e non il semplice desiderio, unvalido segno del suo carattere, per lui stesso e per gli al-tri. Ma la risoluzione diventa certa, per lui stesso comeper gli altri, solamente con l'azione. Il desiderio è sem-plice effetto necessario dell'impressione presente, sia peruno stimolo esterno, sia per una passeggera disposizioneinteriore; ed è quindi così immediatamente necessario eprivo di riflessione come l'agir delle bestie: perciò espri-me, a mo' di questo, il carattere della specie, e nonl'individuale. Ossia mostra ciò che l'uomo in genere, enon l'individuo, che prova quel desiderio, sarebbe capa-ce di fare. L'azione soltanto, come quella che già per es-sere un atto umano richiede sempre una certa riflessio-ne, e perché l'uomo di regola è signore della propria ra-gione, e quindi è riflessivo, ossia si risolve secondo mo-tivi astratti pensati, è l'espressione della massima intelli-gibile della sua condotta, il risultato del suo interno vo-lere; e sta come una consonante della parola, che indicail suo carattere empirico, il quale a sua volta non è chel'espressione temporale del suo carattere intelligibile.Perciò in uno spirito sano gravano la coscienza sola-mente azioni, e non desiderii e pensieri. Imperocché so-

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lamente le nostre azioni ci tengono innanzi lo specchiodella nostra volontà. L'azione più sopra accennata, pun-to meditata, ed effettivamente commessa nel cieco im-peto, è in un certo modo un che di mezzo tra il semplicedesiderio e la decisione: quindi essa mediante vero pen-timento, ma che si mostri anche in azione, può comeuna linea mal disegnata venir soppressa nell'immaginedella nostra volontà; la quale immagine è la nostra vita.Del resto può qui, come un singolare raffronto, trovarluogo l'osservazione, che il rapporto tra desiderio e attoha un'analogia affatto fortuita, ma precisa, con quelloche passa tra distribuzione elettrica ed elettrica comuni-cazione.

In virtù di tutta codesta indagine sulla libertà del vo-lere e su quanto vi si riferisce, troviamo che, sebbene lavolontà in sé e fuor del fenomeno si possa chiamar libe-ra, anzi onnipotente, vien poi nei suoi singoli fenomeniilluminati dalla conoscenza, ossia negli uomini e neglianimali, determinata da motivi, contro i quali ciascuncarattere reagisce sempre nello stesso modo, regolar-mente e necessariamente. Vediamo l'uomo, in graziadella sopraggiuntagli conoscenza astratta, o di ragione,avere in più dell'animale una facoltà di scelta, la qualetuttavia fa di lui un campo di battaglia per il conflittodei motivi, senza sottrarlo al loro dominio; essa è condi-zione quindi, perché il carattere individuale si manifestiappieno, ma non va punto considerata come libertà delvolere singolo, ossia indipendenza dalla legge di causa-lità; la cui necessità si estende all'uomo come ad ogni al-

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lamente le nostre azioni ci tengono innanzi lo specchiodella nostra volontà. L'azione più sopra accennata, pun-to meditata, ed effettivamente commessa nel cieco im-peto, è in un certo modo un che di mezzo tra il semplicedesiderio e la decisione: quindi essa mediante vero pen-timento, ma che si mostri anche in azione, può comeuna linea mal disegnata venir soppressa nell'immaginedella nostra volontà; la quale immagine è la nostra vita.Del resto può qui, come un singolare raffronto, trovarluogo l'osservazione, che il rapporto tra desiderio e attoha un'analogia affatto fortuita, ma precisa, con quelloche passa tra distribuzione elettrica ed elettrica comuni-cazione.

In virtù di tutta codesta indagine sulla libertà del vo-lere e su quanto vi si riferisce, troviamo che, sebbene lavolontà in sé e fuor del fenomeno si possa chiamar libe-ra, anzi onnipotente, vien poi nei suoi singoli fenomeniilluminati dalla conoscenza, ossia negli uomini e neglianimali, determinata da motivi, contro i quali ciascuncarattere reagisce sempre nello stesso modo, regolar-mente e necessariamente. Vediamo l'uomo, in graziadella sopraggiuntagli conoscenza astratta, o di ragione,avere in più dell'animale una facoltà di scelta, la qualetuttavia fa di lui un campo di battaglia per il conflittodei motivi, senza sottrarlo al loro dominio; essa è condi-zione quindi, perché il carattere individuale si manifestiappieno, ma non va punto considerata come libertà delvolere singolo, ossia indipendenza dalla legge di causa-lità; la cui necessità si estende all'uomo come ad ogni al-

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tro fenomeno. Fino al punto indicato, adunque, e non ol-tre, va il divario che la ragione, o conoscenza medianteconcetti, fa nascere tra il volere umano e l'animale. Maqual tutt'altro fenomeno della volontà umana, all'anima-lità affatto estraneo, possa prodursi, quando l'uomo ab-bandona l'intera, al principio di ragione sottomessa co-noscenza delle singole cose in quanto tali, e medianteconoscenza delle idee egli va oltre il principium indivi-duationis, ove un effettivo palesarsi della vera e proprialibertà della volontà come cosa in sé diventa possibile,sì che il fenomeno finisce col trovarsi in un certo dissi-dio con se medesimo, espresso con la parola abnegazio-ne, ed anzi alla fine l'in-sé del suo essere viene soppres-so: questa verace ed unica immediata manifestazionedella libertà della volontà in se stessa, anche nel feno-meno, non ancora può qui venire esposta chiaramente,bensì formerà da ultimo l'oggetto della nostra indagine.

Intanto, dopo che ci si è fatta chiara, attraverso le pre-senti dimostrazioni, l'immutabilità del carattere empiri-co, in quanto essa è semplice manifestazione del caratte-re intelligibile posto fuori del tempo; e così pure la ne-cessità, con cui le azioni procedono dall'incontro del ca-rattere coi motivi: dobbiamo ora in primo luogo rimuo-vere una deduzione che molto facilmente se ne potrebbetrarre a favore delle nostre tendenze riprovevoli. Doven-dosi considerare il nostro carattere come estrinsecazionetemporale d'un atto di volontà posto fuori del tempo, equindi indivisibile e immutabile, ossia di un carattere in-telligibile, da cui immutabilmente è determinato e con-

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tro fenomeno. Fino al punto indicato, adunque, e non ol-tre, va il divario che la ragione, o conoscenza medianteconcetti, fa nascere tra il volere umano e l'animale. Maqual tutt'altro fenomeno della volontà umana, all'anima-lità affatto estraneo, possa prodursi, quando l'uomo ab-bandona l'intera, al principio di ragione sottomessa co-noscenza delle singole cose in quanto tali, e medianteconoscenza delle idee egli va oltre il principium indivi-duationis, ove un effettivo palesarsi della vera e proprialibertà della volontà come cosa in sé diventa possibile,sì che il fenomeno finisce col trovarsi in un certo dissi-dio con se medesimo, espresso con la parola abnegazio-ne, ed anzi alla fine l'in-sé del suo essere viene soppres-so: questa verace ed unica immediata manifestazionedella libertà della volontà in se stessa, anche nel feno-meno, non ancora può qui venire esposta chiaramente,bensì formerà da ultimo l'oggetto della nostra indagine.

Intanto, dopo che ci si è fatta chiara, attraverso le pre-senti dimostrazioni, l'immutabilità del carattere empiri-co, in quanto essa è semplice manifestazione del caratte-re intelligibile posto fuori del tempo; e così pure la ne-cessità, con cui le azioni procedono dall'incontro del ca-rattere coi motivi: dobbiamo ora in primo luogo rimuo-vere una deduzione che molto facilmente se ne potrebbetrarre a favore delle nostre tendenze riprovevoli. Doven-dosi considerare il nostro carattere come estrinsecazionetemporale d'un atto di volontà posto fuori del tempo, equindi indivisibile e immutabile, ossia di un carattere in-telligibile, da cui immutabilmente è determinato e con-

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formemente a cui s'esprime nel suo fenomeno (il carat-tere empirico) quanto v'ha d'essenziale nella nostra con-dotta, ossia il contenuto empirico di essa; mentre l'ines-senziale di codesto fenomeno, l'esterno atteggiamentodella nostra vita, dipende dalle forme in cui si presenta-no i motivi; si potrebbe concluderne, che sia fatica vanail lavorare a un miglioramento del proprio carattere, o ilresistere alla forza delle cattive tendenze: tal che megliosarebbe sottomettersi all'ineluttabile, e immediatamentecedere a ogni inclinazione, sia pur malvagia. Ma le cosestanno a questo proposito come stanno per la teoriadell'ineluttabile destino e della conseguenza derivatane,detta αργος λογος, e a' nostri giorni fatalismo musulma-no: la cui refutazione, quale si attribuisce a Crisippo, èesposta da Cicerone nel libro de fato, capp. 12, 13.

Che sebbene tutto si possa considerar come irrevoca-bilmente predeterminato dal destino, ciò non accade senon mediante la concatenazione delle cause. In nessuncaso può esser destinato, che si abbia un effetto senza lasua causa. Non è già predeterminato, adunque, un fattoqualsiasi senz'altro: ma come effetto di cause preesisten-ti; non l'effetto solo, cioè, ma anche i mezzi, cui essodovrà succedere come risultato, per disposizione del de-stino. Mancando i mezzi, manca sicuramente anche il ri-sultato: questo e quelli sempre secondo la determinazio-ne del destino, che tuttavia noi veniamo a conosceresolo dopo l'evento. Come gli eventi saranno sempreconformi al destino, ossia all'infinita concatenazionedelle cause, così saranno le nostre azioni conformi sem-

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formemente a cui s'esprime nel suo fenomeno (il carat-tere empirico) quanto v'ha d'essenziale nella nostra con-dotta, ossia il contenuto empirico di essa; mentre l'ines-senziale di codesto fenomeno, l'esterno atteggiamentodella nostra vita, dipende dalle forme in cui si presenta-no i motivi; si potrebbe concluderne, che sia fatica vanail lavorare a un miglioramento del proprio carattere, o ilresistere alla forza delle cattive tendenze: tal che megliosarebbe sottomettersi all'ineluttabile, e immediatamentecedere a ogni inclinazione, sia pur malvagia. Ma le cosestanno a questo proposito come stanno per la teoriadell'ineluttabile destino e della conseguenza derivatane,detta αργος λογος, e a' nostri giorni fatalismo musulma-no: la cui refutazione, quale si attribuisce a Crisippo, èesposta da Cicerone nel libro de fato, capp. 12, 13.

Che sebbene tutto si possa considerar come irrevoca-bilmente predeterminato dal destino, ciò non accade senon mediante la concatenazione delle cause. In nessuncaso può esser destinato, che si abbia un effetto senza lasua causa. Non è già predeterminato, adunque, un fattoqualsiasi senz'altro: ma come effetto di cause preesisten-ti; non l'effetto solo, cioè, ma anche i mezzi, cui essodovrà succedere come risultato, per disposizione del de-stino. Mancando i mezzi, manca sicuramente anche il ri-sultato: questo e quelli sempre secondo la determinazio-ne del destino, che tuttavia noi veniamo a conosceresolo dopo l'evento. Come gli eventi saranno sempreconformi al destino, ossia all'infinita concatenazionedelle cause, così saranno le nostre azioni conformi sem-

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pre al nostro carattere intelligibile; ma, come non abbia-mo cognizione anticipata di quello, così non ci è dato diguardare a priori dentro di questo; bensì unicamente aposteriori, con l'esperienza, veniamo a conoscere tantogli altri quanto noi stessi. Se il nostro carattere intelligi-bile comporta, che noi prendiamo una buona risoluzionesolo dopo lunga lotta contro un'inclinazione cattiva, bi-sogna che questa lotta preceda e che se ne attenda lafine. La riflessione sull'immutabilità del carattere,sull'unità della sorgente, da cui derivano tutte le nostreazioni, non ha potere d'indurci a precorrere, a favordell'una o dell'altra parte, la decisione voluta dal caratte-re: solo a decisione presa, potremo vedere di qual fattanoi siamo, e specchiarci nelle nostre azioni. Da ciò ap-punto è spiegata la soddisfazione oppure l'angoscia, concui guardiamo indietro al cammino percorso nella nostravita: soddisfazione e angoscia non procedono dall'esiste-re tuttora quelle azioni trapassate; che esse sono svanite,furono e non sono più; ma la lor grande importanza pernoi proviene dal loro significato, proviene dall'esser co-deste azioni l'immagine del carattere, lo specchio dellavolontà, contemplando il quale noi conosciamo il nostropiù intimo io, il nocciolo della nostra volontà. Poichéquesto non ci è noto in antecedenza, ma soltanto dopo,ci tocca affaticarci e combattere nel tempo, affinchèl'immagine, che veniamo a creare con le nostre azioni,riesca tale, che la sua vista ci rassereni il più possibile, enon ci travagli. Ma il valore di questa serenità o ango-scia sarà, come dicemmo, indagato in appresso. A que-

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pre al nostro carattere intelligibile; ma, come non abbia-mo cognizione anticipata di quello, così non ci è dato diguardare a priori dentro di questo; bensì unicamente aposteriori, con l'esperienza, veniamo a conoscere tantogli altri quanto noi stessi. Se il nostro carattere intelligi-bile comporta, che noi prendiamo una buona risoluzionesolo dopo lunga lotta contro un'inclinazione cattiva, bi-sogna che questa lotta preceda e che se ne attenda lafine. La riflessione sull'immutabilità del carattere,sull'unità della sorgente, da cui derivano tutte le nostreazioni, non ha potere d'indurci a precorrere, a favordell'una o dell'altra parte, la decisione voluta dal caratte-re: solo a decisione presa, potremo vedere di qual fattanoi siamo, e specchiarci nelle nostre azioni. Da ciò ap-punto è spiegata la soddisfazione oppure l'angoscia, concui guardiamo indietro al cammino percorso nella nostravita: soddisfazione e angoscia non procedono dall'esiste-re tuttora quelle azioni trapassate; che esse sono svanite,furono e non sono più; ma la lor grande importanza pernoi proviene dal loro significato, proviene dall'esser co-deste azioni l'immagine del carattere, lo specchio dellavolontà, contemplando il quale noi conosciamo il nostropiù intimo io, il nocciolo della nostra volontà. Poichéquesto non ci è noto in antecedenza, ma soltanto dopo,ci tocca affaticarci e combattere nel tempo, affinchèl'immagine, che veniamo a creare con le nostre azioni,riesca tale, che la sua vista ci rassereni il più possibile, enon ci travagli. Ma il valore di questa serenità o ango-scia sarà, come dicemmo, indagato in appresso. A que-

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sto luogo spetta invece ancora la seguente, per sé stante,considerazione.

Accanto al carattere intelligibile e all'empirico ne varicordato un terzo, da entrambi diverso, il carattere ac-quisito, che si acquista vivendo, con l'uso del mondo; edi questo si parla, quando un uomo è lodato per aver ca-rattere, o biasimato per mancarne. Si potrebbe in veritàritenere, che il carattere empirico, come fenomeno delcarattere intelligibile, essendo immutabile, e, come ognifenomeno naturale, in sé conseguente, anche l'uomo do-vrebbe similmente apparir sempre eguale a se stesso econseguente; né aver quindi necessità di acquistare arti-ficialmente un carattere mediante esperienza e riflessio-ne. Ma altro è il caso dell'uomo: e, pur essendo ognora ilmedesimo, non sempre tuttavia comprende se stesso,bensì sovente si misconosce, fin quando non abbia in uncerto grado acquistata la vera e propria conoscenza disé. Il carattere empirico è, come semplice istinto natura-le, in sé irragionevole: anzi, le sue manifestazioni ven-gono per di più dalla ragione turbate; e maggiormenteturbate, per quanta maggior riflessione e forza di pensie-ro ha l'uomo. Imperocché queste gli tengono ognora da-vanti ciò che all'uomo in genere, in quanto carattere del-la specie, s'appartiene, e sì nel volere, sì nell'oprare è alui possibile. In tal modo gli è resa più difficile la com-prensione di quel che veramente egli vuole e può per ef-fetto della individualità propria. Trova in sé le disposi-zioni per tutte, siano pur diverse, le umane tendenze eforze; ma il vario grado di quelle nella sua individualità

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sto luogo spetta invece ancora la seguente, per sé stante,considerazione.

Accanto al carattere intelligibile e all'empirico ne varicordato un terzo, da entrambi diverso, il carattere ac-quisito, che si acquista vivendo, con l'uso del mondo; edi questo si parla, quando un uomo è lodato per aver ca-rattere, o biasimato per mancarne. Si potrebbe in veritàritenere, che il carattere empirico, come fenomeno delcarattere intelligibile, essendo immutabile, e, come ognifenomeno naturale, in sé conseguente, anche l'uomo do-vrebbe similmente apparir sempre eguale a se stesso econseguente; né aver quindi necessità di acquistare arti-ficialmente un carattere mediante esperienza e riflessio-ne. Ma altro è il caso dell'uomo: e, pur essendo ognora ilmedesimo, non sempre tuttavia comprende se stesso,bensì sovente si misconosce, fin quando non abbia in uncerto grado acquistata la vera e propria conoscenza disé. Il carattere empirico è, come semplice istinto natura-le, in sé irragionevole: anzi, le sue manifestazioni ven-gono per di più dalla ragione turbate; e maggiormenteturbate, per quanta maggior riflessione e forza di pensie-ro ha l'uomo. Imperocché queste gli tengono ognora da-vanti ciò che all'uomo in genere, in quanto carattere del-la specie, s'appartiene, e sì nel volere, sì nell'oprare è alui possibile. In tal modo gli è resa più difficile la com-prensione di quel che veramente egli vuole e può per ef-fetto della individualità propria. Trova in sé le disposi-zioni per tutte, siano pur diverse, le umane tendenze eforze; ma il vario grado di quelle nella sua individualità

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non gli si fa chiaro senza esperienza; e quand'egli inveroha dato opera a soddisfar le aspirazioni, che sole al suocarattere sembrano conformi, sente tuttavia, soprattuttoin qualche momento e in talune disposizioni, la spintaverso aspirazioni addirittura opposte e inconciliabili conle prime; e quelle, se le prime vuol seguire indisturbato,devono essere soffocate appieno. Poiché, come il nostrofisico andare sulla terra è sempre una linea, e giammaiuna superficie, così dobbiamo nella vita, quando affer-riamo qualcosa e vogliamo possederla, innumerevoli al-tre lasciarne, rinunziandovi, a destra e sinistra. Non cipossiamo risolvere a ciò, e invece andiamo afferrando,come bimbi al mercato, tutto quanto ci seduce al passag-gio; allora gli è lo sforzo insensato, di trasformare inuna superficie la linea della nostra via; andiamo corren-do a zig-zag, vagolando come fuochi fatui qua e là, enon perveniamo a nulla. O, per usare un'altra immagine,come, secondo la teoria hobbesiana del diritto, origina-riamente ciascuno ha un diritto sopra ciascuna cosa, masu nessuna esclusivo; e quest'ultima si può pervenire adavere tuttavia su talune cose, col rinunziare al propriodiritto su tutte le rimanenti, mentre gli altri fanno lostesso per ciò che noi abbiamo scelto; così proprio acca-de nella vita, dove noi una qualunque aspirazione deter-minata, sia essa verso godimento, onore, ricchezza,scienza, arte o virtù, possiamo allora soltanto seguirecon serietà e con fortuna, quando abbiam fatto gettod'ogni aspirazione estranea a quella, e rinunziato a tuttoil resto. A tanto non basta né il semplice volere, né, in

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non gli si fa chiaro senza esperienza; e quand'egli inveroha dato opera a soddisfar le aspirazioni, che sole al suocarattere sembrano conformi, sente tuttavia, soprattuttoin qualche momento e in talune disposizioni, la spintaverso aspirazioni addirittura opposte e inconciliabili conle prime; e quelle, se le prime vuol seguire indisturbato,devono essere soffocate appieno. Poiché, come il nostrofisico andare sulla terra è sempre una linea, e giammaiuna superficie, così dobbiamo nella vita, quando affer-riamo qualcosa e vogliamo possederla, innumerevoli al-tre lasciarne, rinunziandovi, a destra e sinistra. Non cipossiamo risolvere a ciò, e invece andiamo afferrando,come bimbi al mercato, tutto quanto ci seduce al passag-gio; allora gli è lo sforzo insensato, di trasformare inuna superficie la linea della nostra via; andiamo corren-do a zig-zag, vagolando come fuochi fatui qua e là, enon perveniamo a nulla. O, per usare un'altra immagine,come, secondo la teoria hobbesiana del diritto, origina-riamente ciascuno ha un diritto sopra ciascuna cosa, masu nessuna esclusivo; e quest'ultima si può pervenire adavere tuttavia su talune cose, col rinunziare al propriodiritto su tutte le rimanenti, mentre gli altri fanno lostesso per ciò che noi abbiamo scelto; così proprio acca-de nella vita, dove noi una qualunque aspirazione deter-minata, sia essa verso godimento, onore, ricchezza,scienza, arte o virtù, possiamo allora soltanto seguirecon serietà e con fortuna, quando abbiam fatto gettod'ogni aspirazione estranea a quella, e rinunziato a tuttoil resto. A tanto non basta né il semplice volere, né, in

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sé, il potere: un uomo deve anche sapere ciò che vuole,e sapere ciò che può: solo così mostrerà carattere, e riu-scirà a qualcosa di buono. Prima di giungere a questaconsapevolezza, egli, malgrado la natural conseguenzadel carattere empirico, è nondimeno privo di carattere;e, sebbene trascinato dal suo demone debba restar fedelea se stesso e percorrer la sua via, non seguirà una lineadiretta, bensì oscillante e disuguale; esiterà, devierà, tor-nerà sui propri passi, preparando a sé pentimento e dolo-re. Tutto questo, perché nel grande e nel piccolo tantecose vede come possibili e raggiungibili dall'uomo, etuttavia non sa quanto di ciò a lui solo s'adatti, e possada lui venir compiuto o anche semplicemente goduto.Invidierà quindi taluno per una situazione e per condi-zioni, che sono bensì adatte al carattere di quegli, manon al suo, e nelle quali si sentirebbe infelice, o addirit-tura non potrebbe reggere. Imperocché come il pescesolamente nell'acqua, l'uccello solamente nell'aria, latalpa solamente sotto la terra sta bene, così ogni uomosta bene solamente nell'atmosfera a lui propizia; peresempio, l'aria della corte non è respirabile per tutti. Permancanza di sufficiente giudizio a questo propositomolti compiranno ogni sorta di tentativi destinati a falli-re, faranno in caso particolare violenza al proprio carat-tere, mentre in generale dovranno pure seguirlo; e quan-to avranno in tal modo, contro la natura propria, fatico-samente raggiunto, non darà loro alcun piacere; quantoavranno in tal maniera appreso, resterà cosa morta; per-fino sotto il rispetto morale un'azione troppo nobile per

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sé, il potere: un uomo deve anche sapere ciò che vuole,e sapere ciò che può: solo così mostrerà carattere, e riu-scirà a qualcosa di buono. Prima di giungere a questaconsapevolezza, egli, malgrado la natural conseguenzadel carattere empirico, è nondimeno privo di carattere;e, sebbene trascinato dal suo demone debba restar fedelea se stesso e percorrer la sua via, non seguirà una lineadiretta, bensì oscillante e disuguale; esiterà, devierà, tor-nerà sui propri passi, preparando a sé pentimento e dolo-re. Tutto questo, perché nel grande e nel piccolo tantecose vede come possibili e raggiungibili dall'uomo, etuttavia non sa quanto di ciò a lui solo s'adatti, e possada lui venir compiuto o anche semplicemente goduto.Invidierà quindi taluno per una situazione e per condi-zioni, che sono bensì adatte al carattere di quegli, manon al suo, e nelle quali si sentirebbe infelice, o addirit-tura non potrebbe reggere. Imperocché come il pescesolamente nell'acqua, l'uccello solamente nell'aria, latalpa solamente sotto la terra sta bene, così ogni uomosta bene solamente nell'atmosfera a lui propizia; peresempio, l'aria della corte non è respirabile per tutti. Permancanza di sufficiente giudizio a questo propositomolti compiranno ogni sorta di tentativi destinati a falli-re, faranno in caso particolare violenza al proprio carat-tere, mentre in generale dovranno pure seguirlo; e quan-to avranno in tal modo, contro la natura propria, fatico-samente raggiunto, non darà loro alcun piacere; quantoavranno in tal maniera appreso, resterà cosa morta; per-fino sotto il rispetto morale un'azione troppo nobile per

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il loro carattere, venuta non da un puro, immediato im-pulso, ma da un concetto, da un dogma, perderà ognivalore, ai loro stessi occhi, per l'egoistico pentimentoche le succederà. Velle non discitur. Come dell'irremovi-bilità dei caratteri altrui ci rendiamo persuasi sol conl'esperienza, e prima di persuadercene crediamo infantil-mente di poter con ragionevoli argomentazioni, con pre-ghiere e suppliche, con esempio e generosità, indurre al-tri a smuoversi dalla sua natura, a cambiare il suo modod'agire, a discostarsi dal suo modo di pensare, o addirit-tura d'allargare le sue capacità; così ci accade anche difronte a noi medesimi. Solo per esperienza possiamo ap-prendere ciò che vogliamo e ciò che possiamo; prima,non lo sappiamo, non abbiamo carattere e dobbiamo so-vente venir rigettati, da duri urti esteriori, sulla nostravia. E quando alla fine l'abbiamo appreso, allora s'è con-seguito quel che nel mondo si chiama carattere, ossia ilcarattere acquisito. Il quale non è altro che la conoscen-za il più possibile compiuta della propria individualità: èl'astratta, e quindi limpida consapevolezza del propriocarattere empirico, e della misura e direzione delle suecapacità intellettuali e corporee, ovvero di tutte le forzee debolezze della propria individualità. Questo ci mettein grado di adempiere con riflessione e metodo il com-pito individuale, in sé immutabile, che per l'innanzi sre-golatamente abbandonavamo alla natura; e le lacune,che capricci o debolezze nostre producevano, riempirecon l'aiuto di saldi concetti. La condotta, resa assoluta-mente necessaria dalla nostra natura individuale, venia-

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il loro carattere, venuta non da un puro, immediato im-pulso, ma da un concetto, da un dogma, perderà ognivalore, ai loro stessi occhi, per l'egoistico pentimentoche le succederà. Velle non discitur. Come dell'irremovi-bilità dei caratteri altrui ci rendiamo persuasi sol conl'esperienza, e prima di persuadercene crediamo infantil-mente di poter con ragionevoli argomentazioni, con pre-ghiere e suppliche, con esempio e generosità, indurre al-tri a smuoversi dalla sua natura, a cambiare il suo modod'agire, a discostarsi dal suo modo di pensare, o addirit-tura d'allargare le sue capacità; così ci accade anche difronte a noi medesimi. Solo per esperienza possiamo ap-prendere ciò che vogliamo e ciò che possiamo; prima,non lo sappiamo, non abbiamo carattere e dobbiamo so-vente venir rigettati, da duri urti esteriori, sulla nostravia. E quando alla fine l'abbiamo appreso, allora s'è con-seguito quel che nel mondo si chiama carattere, ossia ilcarattere acquisito. Il quale non è altro che la conoscen-za il più possibile compiuta della propria individualità: èl'astratta, e quindi limpida consapevolezza del propriocarattere empirico, e della misura e direzione delle suecapacità intellettuali e corporee, ovvero di tutte le forzee debolezze della propria individualità. Questo ci mettein grado di adempiere con riflessione e metodo il com-pito individuale, in sé immutabile, che per l'innanzi sre-golatamente abbandonavamo alla natura; e le lacune,che capricci o debolezze nostre producevano, riempirecon l'aiuto di saldi concetti. La condotta, resa assoluta-mente necessaria dalla nostra natura individuale, venia-

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mo a formularla in massime chiaramente conosciute, anoi ognora presenti, secondo le quali noi quella prati-chiamo sì consapevolmente, come fosse una condottaappresa, senza mai venir confusi da una passeggera di-sposizione o da un'impressione momentanea, senza ve-nire inceppati dall'amaro o dal dolce di un singolo inci-dente occorso per via, senza incertezza, senza esitazio-ne, senza inconseguenze. Non più, come novizi, aspette-remo, proveremo, andremo a tentoni, per vedere ciò chepropriamente vogliamo e ciò che possiamo; questo ci ènoto una volta per sempre, in ogni scelta abbiamo prin-cipii generali da applicare ai casi singoli, e subito venia-mo alla decisione. Conosciamo la nostra volontà in ge-nere, e non ci lasciamo sviare né da disposizioni fugaciné da pressioni esterne, a prendere in un caso particolareuna decisione che sia contraria alla nostra volontà gene-rica. Conosciamo egualmente la natura e la misura dellenostre forze e delle nostre debolezze, e ci risparmieremocosì molti dolori. Che in verità non esiste godimento senon nell'uso e sentimento delle proprie forze, e il mag-gior dolore è la riconosciuta mancanza di forze, là dovese n'avrebbe bisogno. Avendo bene indagato dove le no-stre forze stiano, e dove le nostre debolezze, sviluppere-mo, useremo, cercheremo di adoprare in tutti i modi lenostre spiccate naturali attitudini, sempre volgendocidalla parte ove queste giovano e hanno valore; ma rigi-damente e con dominio di noi stessi evitiamo gli sforzi,a cui da natura abbiamo poche disposizioni: ci guardere-mo dal tentar ciò che in nessun modo ci riuscirebbe.

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mo a formularla in massime chiaramente conosciute, anoi ognora presenti, secondo le quali noi quella prati-chiamo sì consapevolmente, come fosse una condottaappresa, senza mai venir confusi da una passeggera di-sposizione o da un'impressione momentanea, senza ve-nire inceppati dall'amaro o dal dolce di un singolo inci-dente occorso per via, senza incertezza, senza esitazio-ne, senza inconseguenze. Non più, come novizi, aspette-remo, proveremo, andremo a tentoni, per vedere ciò chepropriamente vogliamo e ciò che possiamo; questo ci ènoto una volta per sempre, in ogni scelta abbiamo prin-cipii generali da applicare ai casi singoli, e subito venia-mo alla decisione. Conosciamo la nostra volontà in ge-nere, e non ci lasciamo sviare né da disposizioni fugaciné da pressioni esterne, a prendere in un caso particolareuna decisione che sia contraria alla nostra volontà gene-rica. Conosciamo egualmente la natura e la misura dellenostre forze e delle nostre debolezze, e ci risparmieremocosì molti dolori. Che in verità non esiste godimento senon nell'uso e sentimento delle proprie forze, e il mag-gior dolore è la riconosciuta mancanza di forze, là dovese n'avrebbe bisogno. Avendo bene indagato dove le no-stre forze stiano, e dove le nostre debolezze, sviluppere-mo, useremo, cercheremo di adoprare in tutti i modi lenostre spiccate naturali attitudini, sempre volgendocidalla parte ove queste giovano e hanno valore; ma rigi-damente e con dominio di noi stessi evitiamo gli sforzi,a cui da natura abbiamo poche disposizioni: ci guardere-mo dal tentar ciò che in nessun modo ci riuscirebbe.

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Solo chi è giunto a questo, sarà sempre con piena consa-pevolezza tutto intero se stesso, né mai da se stesso saràlasciato in asso, poi che sempre ha saputo di che fossecapace. Proverà dunque sovente la gioia di sentire leproprie forze, e raramente avrà il dolore d'esser richia-mato alle proprie debolezze: umiliazione che forse pro-duce il peggior dolore morale. Molto meglio si può sop-portare di veder limpidamente la propria sfortuna, che lapropria inettitudine. Una volta che noi siamo resi consa-pevoli appieno delle nostre forze e debolezze, non tente-remo più di mostrare capacità che non abbiamo, nongiocheremo con falsa moneta, perché alla fine codestaciurmeria vien pure a fallire. Essendo l'uomo intero unsemplice fenomeno della sua volontà, nulla può darsi dipiù stolto che, rimuovendosi dalla riflessione, voler es-ser altro da quel che si è: poi che gli è una diretta con-traddizione della volontà da se medesima. Imitare quali-tà e caratteristiche altrui è molto più vile che portare al-trui vesti: che il giudizio sulla nostra insignificanza vie-ne così pronunziato da noi stessi. Conoscenza della pro-pria natura e delle sue capacità d'ogni maniera e dei suoiinalterabili confini è sotto questo rispetto la più sicuravia, per arrivare alla maggior possibile soddisfazione dise medesimo. Imperocché vale per le circostanze inter-ne, quel che vale per le esterne, non essere a noi nessunconforto più efficace che la piena certezza dell'immuta-bile necessità. Non tanto ci strazia un male, che ci abbiacolti, quanto il pensiero delle circostanze, le quali avreb-bero potuto stornarlo; nulla quindi conferisce a tranquil-

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Solo chi è giunto a questo, sarà sempre con piena consa-pevolezza tutto intero se stesso, né mai da se stesso saràlasciato in asso, poi che sempre ha saputo di che fossecapace. Proverà dunque sovente la gioia di sentire leproprie forze, e raramente avrà il dolore d'esser richia-mato alle proprie debolezze: umiliazione che forse pro-duce il peggior dolore morale. Molto meglio si può sop-portare di veder limpidamente la propria sfortuna, che lapropria inettitudine. Una volta che noi siamo resi consa-pevoli appieno delle nostre forze e debolezze, non tente-remo più di mostrare capacità che non abbiamo, nongiocheremo con falsa moneta, perché alla fine codestaciurmeria vien pure a fallire. Essendo l'uomo intero unsemplice fenomeno della sua volontà, nulla può darsi dipiù stolto che, rimuovendosi dalla riflessione, voler es-ser altro da quel che si è: poi che gli è una diretta con-traddizione della volontà da se medesima. Imitare quali-tà e caratteristiche altrui è molto più vile che portare al-trui vesti: che il giudizio sulla nostra insignificanza vie-ne così pronunziato da noi stessi. Conoscenza della pro-pria natura e delle sue capacità d'ogni maniera e dei suoiinalterabili confini è sotto questo rispetto la più sicuravia, per arrivare alla maggior possibile soddisfazione dise medesimo. Imperocché vale per le circostanze inter-ne, quel che vale per le esterne, non essere a noi nessunconforto più efficace che la piena certezza dell'immuta-bile necessità. Non tanto ci strazia un male, che ci abbiacolti, quanto il pensiero delle circostanze, le quali avreb-bero potuto stornarlo; nulla quindi conferisce a tranquil-

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larci, come il considerar l'accaduto dal punto di vistadella necessità, secondo cui tutti gli eventi accidentaliappariscono strumenti d'un sovrano destino, sì che noiriconosciamo il male occorsoci come prodotto inelutta-bilmente dal conflitto di circostanze interne ed esterne.Il fatalismo, adunque. In verità noi ci lamentiamo e in-furiamo sol fin quando abbiamo speranza con ciò o diinfluire su altri, o di eccitare noi stessi ad uno sforzoinaudito. Ma ragazzi e adulti sanno benissimo rasse-gnarsi, non appena vedano chiaramente che il male è ir-reparabile:

θυµόν ὲνὶ στὴθεσσι φίλον δαµάσαντες ὰνάγκη(Animo in pectoribus nostro domito necessitate).

Noi somigliamo agli elefanti presi prigionieri, i qualiper molti giorni orrendamente infuriano e lottano, finquando scorgono che tutto è vano, e quindi d'un trattocalmi offrono il collo al giogo, per sempre domati. Sia-mo come il re David, il quale, mentre ancora viveva suofiglio, incessantemente investiva Jehovah con suppliche,e disperatamente si dimenava: ma, non appena il figliofu morto, non ci pensò più. Di qui proviene, che innu-merevoli mali permanenti, come deformità, miseria,bassa condizione, bruttezza, spiacevole luogo di resi-denza, siano da innumerevoli uomini sopportati affattoindifferentemente, né vengano più sentiti, come cicatriz-zate ferite, sol perché questi uomini sanno che interna oesterna necessità non lascia quivi adito a mutamento;mentre i felici non comprendono come si possan sop-

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larci, come il considerar l'accaduto dal punto di vistadella necessità, secondo cui tutti gli eventi accidentaliappariscono strumenti d'un sovrano destino, sì che noiriconosciamo il male occorsoci come prodotto inelutta-bilmente dal conflitto di circostanze interne ed esterne.Il fatalismo, adunque. In verità noi ci lamentiamo e in-furiamo sol fin quando abbiamo speranza con ciò o diinfluire su altri, o di eccitare noi stessi ad uno sforzoinaudito. Ma ragazzi e adulti sanno benissimo rasse-gnarsi, non appena vedano chiaramente che il male è ir-reparabile:

θυµόν ὲνὶ στὴθεσσι φίλον δαµάσαντες ὰνάγκη(Animo in pectoribus nostro domito necessitate).

Noi somigliamo agli elefanti presi prigionieri, i qualiper molti giorni orrendamente infuriano e lottano, finquando scorgono che tutto è vano, e quindi d'un trattocalmi offrono il collo al giogo, per sempre domati. Sia-mo come il re David, il quale, mentre ancora viveva suofiglio, incessantemente investiva Jehovah con suppliche,e disperatamente si dimenava: ma, non appena il figliofu morto, non ci pensò più. Di qui proviene, che innu-merevoli mali permanenti, come deformità, miseria,bassa condizione, bruttezza, spiacevole luogo di resi-denza, siano da innumerevoli uomini sopportati affattoindifferentemente, né vengano più sentiti, come cicatriz-zate ferite, sol perché questi uomini sanno che interna oesterna necessità non lascia quivi adito a mutamento;mentre i felici non comprendono come si possan sop-

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portare quei mali. Ora, come con l'esterna, così conl'interna necessità nulla ci riconcilia tanto bene, quantol'averne chiara contezza. Quando abbiamo una volta persempre conosciuto chiaramente sì le nostre buone quali-tà e forze, sì i nostri difetti e debolezze, e conformemen-te a tal conoscenza abbiam segnata a noi la nostra meta,e ci siam rassegnati all'irraggiungibile, sfuggiamo conciò nel più sicuro modo, finché la nostra individualità loconsente, all'amarissimo tra tutti i mali, al malcontentodi noi stessi, inevitabile conseguenza del non conoscerla propria individualità, della falsa opinione e della pre-sunzione che ne deriva. Agli amari capitoli, in cui è rac-comandata la cognizione di sé, si applica eccellentemen-te il distico ovidiano:

Optimus ille animi vindex laedentia pectusVincula qui rupit, dedoluitque semel.

E ciò basti intorno al carattere acquisito, il quale inve-ro non tanto importa per l'etica propriamente detta,quanto per la vita sociale; ma la cui illustrazione andavaqui posta presso quella del carattere intelligibile edell'empirico, come terza specie coordinata. Sulle primeabbiamo dovuto indugiare con un esame alquanto piùesteso, per renderci chiaro come la volontà sia in tutti isuoi fenomeni soggetta alla necessità, pur potendo non-dimeno esser chiamata in se stessa libera, anzi onnipo-tente.

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portare quei mali. Ora, come con l'esterna, così conl'interna necessità nulla ci riconcilia tanto bene, quantol'averne chiara contezza. Quando abbiamo una volta persempre conosciuto chiaramente sì le nostre buone quali-tà e forze, sì i nostri difetti e debolezze, e conformemen-te a tal conoscenza abbiam segnata a noi la nostra meta,e ci siam rassegnati all'irraggiungibile, sfuggiamo conciò nel più sicuro modo, finché la nostra individualità loconsente, all'amarissimo tra tutti i mali, al malcontentodi noi stessi, inevitabile conseguenza del non conoscerla propria individualità, della falsa opinione e della pre-sunzione che ne deriva. Agli amari capitoli, in cui è rac-comandata la cognizione di sé, si applica eccellentemen-te il distico ovidiano:

Optimus ille animi vindex laedentia pectusVincula qui rupit, dedoluitque semel.

E ciò basti intorno al carattere acquisito, il quale inve-ro non tanto importa per l'etica propriamente detta,quanto per la vita sociale; ma la cui illustrazione andavaqui posta presso quella del carattere intelligibile edell'empirico, come terza specie coordinata. Sulle primeabbiamo dovuto indugiare con un esame alquanto piùesteso, per renderci chiaro come la volontà sia in tutti isuoi fenomeni soggetta alla necessità, pur potendo non-dimeno esser chiamata in se stessa libera, anzi onnipo-tente.

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§ 56.Questa libertà, questa onnipotenza, di cui l'intero

mondo visibile, suo fenomeno, è manifestazione ed im-magine, e progressivamente si svolge secondo le leggiche porta seco la forma della conoscenza – può anche, epropriamente là ove a lei, nel suo più perfetto fenome-no, è venuta la conoscenza in tutto adeguata del suo pro-prio essere, novellamente manifestarsi: o nel volere an-cor qui, al vertice della riflessione e della consapevolez-za di sé, quel che già da cieca e di sé inconscia voleva, ein tal caso la conoscenza, sia particolare, sia generale,rimane per lei sempre motivo; oppur, viceversa, codestaconoscenza diventa a lei un quietivo, il quale ogni vole-re sopisce e cancella. Si ha così l'affermazione o nega-zione, già più sopra genericamente stabilita, della volon-tà di vivere; la quale, essendo rispetto alla condottadell'individuo una generica, non particolare manifesta-zione della volontà, non altera con modificazioni lo svi-luppo del carattere, né trova la sua espressione in singoliatti; bensì o con un sempre più forte rilievo di tutta lacondotta precedente, o all'opposto con la soppressionedi quella, esprime in forma vivente la massima che, die-tro conoscenza alfine raggiunta, la volontà liberamenteha fatto sua. Il più chiaro svolgimento di tutto ciò, prin-cipal soggetto di quest'ultimo libro, ci è ora alquanto al-leviato e preparato dalle considerazioni sulla libertà, sul-la necessità e sul carattere, che sono venute qui a inter-calarsi; ma più sarà, se, discostandosi ancora una volta

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§ 56.Questa libertà, questa onnipotenza, di cui l'intero

mondo visibile, suo fenomeno, è manifestazione ed im-magine, e progressivamente si svolge secondo le leggiche porta seco la forma della conoscenza – può anche, epropriamente là ove a lei, nel suo più perfetto fenome-no, è venuta la conoscenza in tutto adeguata del suo pro-prio essere, novellamente manifestarsi: o nel volere an-cor qui, al vertice della riflessione e della consapevolez-za di sé, quel che già da cieca e di sé inconscia voleva, ein tal caso la conoscenza, sia particolare, sia generale,rimane per lei sempre motivo; oppur, viceversa, codestaconoscenza diventa a lei un quietivo, il quale ogni vole-re sopisce e cancella. Si ha così l'affermazione o nega-zione, già più sopra genericamente stabilita, della volon-tà di vivere; la quale, essendo rispetto alla condottadell'individuo una generica, non particolare manifesta-zione della volontà, non altera con modificazioni lo svi-luppo del carattere, né trova la sua espressione in singoliatti; bensì o con un sempre più forte rilievo di tutta lacondotta precedente, o all'opposto con la soppressionedi quella, esprime in forma vivente la massima che, die-tro conoscenza alfine raggiunta, la volontà liberamenteha fatto sua. Il più chiaro svolgimento di tutto ciò, prin-cipal soggetto di quest'ultimo libro, ci è ora alquanto al-leviato e preparato dalle considerazioni sulla libertà, sul-la necessità e sul carattere, che sono venute qui a inter-calarsi; ma più sarà, se, discostandosi ancora una volta

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dal soggetto primo, avremo innanzi rivolta la nostra at-tenzione alla vita medesima, volere o non voler la qualeè la grande quistione. E ciò in maniera, da cercar di co-noscere in generale, che cosa propriamente venga allavolontà medesima, la quale in tutto è di questa vita lapiù intima essenza, dalla propria affermazione, e come efino a che punto tale affermazione l'appaghi, anzi possaappagarla; in breve, che cosa genericamente e sostan-zialmente sia da considerare come suo stato in questomondo che è suo, ed a lei sotto ogni rispetto appartiene.

In primo luogo desidero, che si richiami qui la consi-derazione con cui abbiamo chiuso il secondo libro, in-dottivi dalla domanda colà formulata, intorno alla metae allo scopo della volontà. Invece di trovar risposta, cirisultò evidente che la volontà, in tutti i gradi del suo fe-nomeno, dai più bassi ai più alti, manca affatto d'un fineultimo e d'uno scopo; continuamente aspira, perchéaspirare è la sua unica essenza, a cui non pone terminealcun fine raggiunto; non è quindi capace d'alcun appa-gamento finale, e solo per una costrizione può esser trat-tenuta, ma in sé si estende nell'infinito. Questo vedem-mo nel più semplice di tutti i fenomeni naturali, nellagravità, che non ha posa nel tendere e non cessa di pre-mere verso un punto centrale senza estensione, il cuiraggiungimento segnerebbe l'annientarsi di essa e dellamateria: non cessa, foss'anche l'universo tutto concen-trato in una densa sfera. Questo vediamo ancora neglialtri fenomeni semplici della natura: il solido tende, sialiquefacendosi o dissolvendosi, alla fluidità, dove tutte

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dal soggetto primo, avremo innanzi rivolta la nostra at-tenzione alla vita medesima, volere o non voler la qualeè la grande quistione. E ciò in maniera, da cercar di co-noscere in generale, che cosa propriamente venga allavolontà medesima, la quale in tutto è di questa vita lapiù intima essenza, dalla propria affermazione, e come efino a che punto tale affermazione l'appaghi, anzi possaappagarla; in breve, che cosa genericamente e sostan-zialmente sia da considerare come suo stato in questomondo che è suo, ed a lei sotto ogni rispetto appartiene.

In primo luogo desidero, che si richiami qui la consi-derazione con cui abbiamo chiuso il secondo libro, in-dottivi dalla domanda colà formulata, intorno alla metae allo scopo della volontà. Invece di trovar risposta, cirisultò evidente che la volontà, in tutti i gradi del suo fe-nomeno, dai più bassi ai più alti, manca affatto d'un fineultimo e d'uno scopo; continuamente aspira, perchéaspirare è la sua unica essenza, a cui non pone terminealcun fine raggiunto; non è quindi capace d'alcun appa-gamento finale, e solo per una costrizione può esser trat-tenuta, ma in sé si estende nell'infinito. Questo vedem-mo nel più semplice di tutti i fenomeni naturali, nellagravità, che non ha posa nel tendere e non cessa di pre-mere verso un punto centrale senza estensione, il cuiraggiungimento segnerebbe l'annientarsi di essa e dellamateria: non cessa, foss'anche l'universo tutto concen-trato in una densa sfera. Questo vediamo ancora neglialtri fenomeni semplici della natura: il solido tende, sialiquefacendosi o dissolvendosi, alla fluidità, dove tutte

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le sue forze chimiche diventano libere; mentre la solidi-tà è come una loro prigione, in cui vengono chiuse dalfreddo. Il liquido tende allo stato gassoso, nel quale to-sto passa, non appena sia libero da ogni pressione. Nes-sun corpo è senza affinità, ossia senza un suo tendere;ovvero senza desiderio e bramosia, come direbbe JakobBöhm. L'elettricità propaga nell'infinito la sua internascissione, pur se la massa terrestre ne assorbe l'effetto. Ilgalvanismo è egualmente, finché la pila vive, un atto in-cessantemente senza scopo rinnovato di scissione e diriconciliazione. Appunto un consimile diuturno tendere,non mai soddisfatto, è la vita della pianta, un incessantesvilupparsi, attraverso forme sempre più elevate, finchéil punto ultimo, il seme, diventi alla sua volta principio.E questo si ripete all'infinito: mai un termine, mai defi-nitivo appagamento, mai un riposo. In pari tempo ram-menteremo, dal secondo libro, che ovunque le svariateforze naturali e forme organiche si contrastano la mate-ria in cui vogliono spiccare, ciascuno possedendo soloquel che all'altro ha rapito; e così viene alimentato unperenne battagliar per la vita e la morte, dal quale ap-punto sgorga precipuamente la resistenza, che ognoratien frenata quell'aspirazione, ond'è costituita l'essenzapiù intima di tutte le cose. E questa preme invano, matuttavia non può venir meno alla propria natura, e si tor-menta, fin quando il suo fenomeno perisce, mentre tostoaltri ne afferrano avidi il posto e la materia.

Da tempo conoscemmo quest'aspirazione, costituentel'in-sé di ogni cosa, come identica e tutt'una con ciò che

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le sue forze chimiche diventano libere; mentre la solidi-tà è come una loro prigione, in cui vengono chiuse dalfreddo. Il liquido tende allo stato gassoso, nel quale to-sto passa, non appena sia libero da ogni pressione. Nes-sun corpo è senza affinità, ossia senza un suo tendere;ovvero senza desiderio e bramosia, come direbbe JakobBöhm. L'elettricità propaga nell'infinito la sua internascissione, pur se la massa terrestre ne assorbe l'effetto. Ilgalvanismo è egualmente, finché la pila vive, un atto in-cessantemente senza scopo rinnovato di scissione e diriconciliazione. Appunto un consimile diuturno tendere,non mai soddisfatto, è la vita della pianta, un incessantesvilupparsi, attraverso forme sempre più elevate, finchéil punto ultimo, il seme, diventi alla sua volta principio.E questo si ripete all'infinito: mai un termine, mai defi-nitivo appagamento, mai un riposo. In pari tempo ram-menteremo, dal secondo libro, che ovunque le svariateforze naturali e forme organiche si contrastano la mate-ria in cui vogliono spiccare, ciascuno possedendo soloquel che all'altro ha rapito; e così viene alimentato unperenne battagliar per la vita e la morte, dal quale ap-punto sgorga precipuamente la resistenza, che ognoratien frenata quell'aspirazione, ond'è costituita l'essenzapiù intima di tutte le cose. E questa preme invano, matuttavia non può venir meno alla propria natura, e si tor-menta, fin quando il suo fenomeno perisce, mentre tostoaltri ne afferrano avidi il posto e la materia.

Da tempo conoscemmo quest'aspirazione, costituentel'in-sé di ogni cosa, come identica e tutt'una con ciò che

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in noi, dov'essa si manifesta con la maggior chiarezza,alla luce della più piena conscienza, si chiama volontà.La sua compressione mediante un ostacolo, che si mettefra lei e una sua mira, chiamiamo quindi dolore; vice-versa il suo conseguir la mira chiamiamo appagamento,benessere, felicità. Cotali denominazioni possiamo purriferire ai fenomeni del mondo privo di conoscenza, piùdeboli di grado, ma nell'essenza identici. Questi vedre-mo allora presi da perenne soffrire, senza durabile felici-tà. Perché ogni aspirare proviene da mancanza, da in-soddisfazione del proprio stato: è quindi dolore, finchénon sia appagato; ma nessun appagamento è durevole,anzi non è che il principio di una nuova aspirazione.L'aspirazione vediamo ovunque in più forme compressa,diuturnamente pugnando; quindi sempre come dolore.Non ha termine l'aspirare, non ha dunque misura e ter-mine il soffrire.

Ma quel che così sol con più acuta attenzione ed a fa-tica scopriamo nella natura priva di conoscenza, limpidoci appare nella conoscente, nella vita animale; il cui pe-renne soffrire è facile a dimostrarsi. E, senza indugiarein codesto grado intermedio, ci volgeremo là, dove, dal-la più luminosa conoscenza rischiarato, tutto nel modopiù chiaro si disvela: nella vita dell'uomo. Imperocchécome il fenomeno della volontà diventa più compiuto,così diventa anche più e più palese il dolore. Nella pian-ta non è ancora sensibilità, e quindi punto dolore: ungrado certamente tenue di sofferenza è insito negli ani-mali infimi, infusori e radiari; perfino negl'insetti è la

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in noi, dov'essa si manifesta con la maggior chiarezza,alla luce della più piena conscienza, si chiama volontà.La sua compressione mediante un ostacolo, che si mettefra lei e una sua mira, chiamiamo quindi dolore; vice-versa il suo conseguir la mira chiamiamo appagamento,benessere, felicità. Cotali denominazioni possiamo purriferire ai fenomeni del mondo privo di conoscenza, piùdeboli di grado, ma nell'essenza identici. Questi vedre-mo allora presi da perenne soffrire, senza durabile felici-tà. Perché ogni aspirare proviene da mancanza, da in-soddisfazione del proprio stato: è quindi dolore, finchénon sia appagato; ma nessun appagamento è durevole,anzi non è che il principio di una nuova aspirazione.L'aspirazione vediamo ovunque in più forme compressa,diuturnamente pugnando; quindi sempre come dolore.Non ha termine l'aspirare, non ha dunque misura e ter-mine il soffrire.

Ma quel che così sol con più acuta attenzione ed a fa-tica scopriamo nella natura priva di conoscenza, limpidoci appare nella conoscente, nella vita animale; il cui pe-renne soffrire è facile a dimostrarsi. E, senza indugiarein codesto grado intermedio, ci volgeremo là, dove, dal-la più luminosa conoscenza rischiarato, tutto nel modopiù chiaro si disvela: nella vita dell'uomo. Imperocchécome il fenomeno della volontà diventa più compiuto,così diventa anche più e più palese il dolore. Nella pian-ta non è ancora sensibilità, e quindi punto dolore: ungrado certamente tenue di sofferenza è insito negli ani-mali infimi, infusori e radiari; perfino negl'insetti è la

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capacità di sentire e di soffrire ancor limitata: solo colperfetto sistema nervoso dei vertebrati la si presenta inalto grado, e sempre più alto, quanto più l'intelligenza sisviluppa. Nella stessa misura dunque, onde la conoscen-za perviene alla chiarezza, e la conscienza si eleva, cre-sce anche il tormento, che raggiunge perciò il suo mas-simo grado nell'uomo; e anche qui tanto più, quanto piùl'uomo distintamente conosce ed è più intelligente. Que-gli, in cui vive il genio, soffre più di tutti. In questo sen-so, ossia rispetto alla conoscenza in genere, e non già alsemplice sapere astratto, io intendo e adopro qui queldetto del Kohelet: Qui auget scientiam, auget et dolo-rem. Tal preciso rapporto tra il grado della conscienza equel dolore ha oltremodo bellamente espresso in un di-segno quel filosofo pittore, o dipingente filosofo, che fuTischbein. La superior metà del suo foglio rappresentadonne, alle quali vengono rapiti i figli, e che in diversigruppi e atteggiamenti manifestano il profondo maternodolore, angoscia, disperazione, variamente; l'inferiormetà del foglio mostra, in affatto pari disposizione e ag-gruppamento, pecore, a cui si portano via gli agnellini:sì che a ogni umana testa, a ogni umano atteggiamentosulla metà superiore del foglio, corrisponde là sottoun'animalesca analogia. E quivi si vede chiaramente,come il dolore possibile all'ottusa conscienza animale sicomporti di fronte al possente strazio, che solo fu resopossibile dalla limpidità del conoscere, dalla chiaritàdella conscienza.

Studieremo perciò nell'umana esistenza l'intimo ed

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capacità di sentire e di soffrire ancor limitata: solo colperfetto sistema nervoso dei vertebrati la si presenta inalto grado, e sempre più alto, quanto più l'intelligenza sisviluppa. Nella stessa misura dunque, onde la conoscen-za perviene alla chiarezza, e la conscienza si eleva, cre-sce anche il tormento, che raggiunge perciò il suo mas-simo grado nell'uomo; e anche qui tanto più, quanto piùl'uomo distintamente conosce ed è più intelligente. Que-gli, in cui vive il genio, soffre più di tutti. In questo sen-so, ossia rispetto alla conoscenza in genere, e non già alsemplice sapere astratto, io intendo e adopro qui queldetto del Kohelet: Qui auget scientiam, auget et dolo-rem. Tal preciso rapporto tra il grado della conscienza equel dolore ha oltremodo bellamente espresso in un di-segno quel filosofo pittore, o dipingente filosofo, che fuTischbein. La superior metà del suo foglio rappresentadonne, alle quali vengono rapiti i figli, e che in diversigruppi e atteggiamenti manifestano il profondo maternodolore, angoscia, disperazione, variamente; l'inferiormetà del foglio mostra, in affatto pari disposizione e ag-gruppamento, pecore, a cui si portano via gli agnellini:sì che a ogni umana testa, a ogni umano atteggiamentosulla metà superiore del foglio, corrisponde là sottoun'animalesca analogia. E quivi si vede chiaramente,come il dolore possibile all'ottusa conscienza animale sicomporti di fronte al possente strazio, che solo fu resopossibile dalla limpidità del conoscere, dalla chiaritàdella conscienza.

Studieremo perciò nell'umana esistenza l'intimo ed

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essenziale destino della volontà. Ciascuno ritroverà fa-cilmente nella vita dell'animale le stesse condizioni, sol-tanto più deboli, espresse in gradi diversi; e, guardandoanche la sofferente animalità, avrà di che convincersiabbastanza che sostanzialmente ogni vita è dolore.

§ 57.In ogni grado, che la conoscenza illumina, apparisce a

sé la volontà come individuo. Nell'infinito spazio e infi-nito tempo vede l'umano individuo se stesso come fini-to, e per conseguenza, come una quantità evanescente difronte a quelli, in essi gettata; e, per la loro sconfinatez-za, ha sempre un relativo quando e dove della sua esi-stenza, non mai assoluto: perché il suo luogo e la suadurata sono parti finite di un infinito e di un illimitato. Ilsuo vero e proprio essere è soltanto nel presente, la cuinon trattenuta fuga verso il passato è un perenne passarnella morte, un perenne morire; che la sua vita trascorsa,prescindendo dalle sue eventuali conseguenze nel pre-sente, com'anche dalla testimonianza che dà della volon-tà di lui, la quale v'è dentro impressa, è già del tuttochiusa, morta, e ridotta a nulla: quindi ragion vuole chegli sia indifferente, se angosce o gioie fossero il conte-nuto del suo passato. Il presente sfugge ognora dalle suemani diventando passato: l'avvenire è affatto incerto esempre corto. È dunque la sua esistenza, anche se guar-data soltanto sotto l'aspetto formale, un perenne precipi-tar del presente nel morto passato, un perenne morire.

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essenziale destino della volontà. Ciascuno ritroverà fa-cilmente nella vita dell'animale le stesse condizioni, sol-tanto più deboli, espresse in gradi diversi; e, guardandoanche la sofferente animalità, avrà di che convincersiabbastanza che sostanzialmente ogni vita è dolore.

§ 57.In ogni grado, che la conoscenza illumina, apparisce a

sé la volontà come individuo. Nell'infinito spazio e infi-nito tempo vede l'umano individuo se stesso come fini-to, e per conseguenza, come una quantità evanescente difronte a quelli, in essi gettata; e, per la loro sconfinatez-za, ha sempre un relativo quando e dove della sua esi-stenza, non mai assoluto: perché il suo luogo e la suadurata sono parti finite di un infinito e di un illimitato. Ilsuo vero e proprio essere è soltanto nel presente, la cuinon trattenuta fuga verso il passato è un perenne passarnella morte, un perenne morire; che la sua vita trascorsa,prescindendo dalle sue eventuali conseguenze nel pre-sente, com'anche dalla testimonianza che dà della volon-tà di lui, la quale v'è dentro impressa, è già del tuttochiusa, morta, e ridotta a nulla: quindi ragion vuole chegli sia indifferente, se angosce o gioie fossero il conte-nuto del suo passato. Il presente sfugge ognora dalle suemani diventando passato: l'avvenire è affatto incerto esempre corto. È dunque la sua esistenza, anche se guar-data soltanto sotto l'aspetto formale, un perenne precipi-tar del presente nel morto passato, un perenne morire.

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Ma ora guardiamola anche sotto l'aspetto fisico; è chiaroche, come il nostro camminare si sa essere nient'altroche un costantemente trattenuto cadere, così la vita delnostro corpo è un costantemente trattenuto morire, unamorte sempre rinviata: e nello stesso modo, per conclu-dere, l'attività del nostro spirito è un costante allontanarela noia. Ciascun respiro rimuove la morte ognora pre-mente, con la quale noi veniamo così a combattere intutti i minuti; come la combattiamo, a maggiori interval-li, con ciascun pasto, ciascun sonno, ciascun riscalda-mento, e così via. Alla fine la morte deve vincere: per-ché a lei apparteniamo già pel fatto d'essere nati, ed ellanon fa che giocare alcun tempo con la sua preda, primad'inghiottirla. Frattanto continuiamo la nostra vita congrande interesse e gran cura, fin quando è possibile,come si gonfia più a lungo e più voluminosamente chesi può una bolla di sapone, pur con la ferma certezza chescoppierà.

Già vedemmo la natura priva di conoscenza avere persuo intimo essere un continuo aspirare, senza meta esenza posa; ben più evidente ci apparisce quest'aspira-zione considerando l'animale e l'uomo. Volere e aspirareè tutta l'essenza loro, affatto simile a inestinguibile sete.Ma la base d'ogni volere è bisogno, mancanza, ossia do-lore, a cui l'uomo è vincolato dall'origine, per natura.Venendogli invece a mancare oggetti del desiderio,quando questo è tolto via da un troppo facile appaga-mento, tremendo vuoto e noia l'opprimono: cioè la suanatura e il suo essere medesimo gli diventano intollera-

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Ma ora guardiamola anche sotto l'aspetto fisico; è chiaroche, come il nostro camminare si sa essere nient'altroche un costantemente trattenuto cadere, così la vita delnostro corpo è un costantemente trattenuto morire, unamorte sempre rinviata: e nello stesso modo, per conclu-dere, l'attività del nostro spirito è un costante allontanarela noia. Ciascun respiro rimuove la morte ognora pre-mente, con la quale noi veniamo così a combattere intutti i minuti; come la combattiamo, a maggiori interval-li, con ciascun pasto, ciascun sonno, ciascun riscalda-mento, e così via. Alla fine la morte deve vincere: per-ché a lei apparteniamo già pel fatto d'essere nati, ed ellanon fa che giocare alcun tempo con la sua preda, primad'inghiottirla. Frattanto continuiamo la nostra vita congrande interesse e gran cura, fin quando è possibile,come si gonfia più a lungo e più voluminosamente chesi può una bolla di sapone, pur con la ferma certezza chescoppierà.

Già vedemmo la natura priva di conoscenza avere persuo intimo essere un continuo aspirare, senza meta esenza posa; ben più evidente ci apparisce quest'aspira-zione considerando l'animale e l'uomo. Volere e aspirareè tutta l'essenza loro, affatto simile a inestinguibile sete.Ma la base d'ogni volere è bisogno, mancanza, ossia do-lore, a cui l'uomo è vincolato dall'origine, per natura.Venendogli invece a mancare oggetti del desiderio,quando questo è tolto via da un troppo facile appaga-mento, tremendo vuoto e noia l'opprimono: cioè la suanatura e il suo essere medesimo gli diventano intollera-

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bile peso. La sua vita oscilla quindi come un pendolo, diqua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà isuoi veri elementi costitutivi. Tal condizione s'è dovutasingolarmente esprimere anche col fatto, che quandol'uomo ebbe posti nell'inferno tutti i dolori e gli strazi,per il cielo non rimase disponibile se non appunto lanoia.

Ma il permanente aspirare, ond'è costituita l'essenzad'ogni fenomeno della volontà, ha nei gradi superioridell'oggettivazione il suo primo e più general fondamen-to, pel fatto che quivi la volontà a se stessa appare comeun corpo vivo, con l'obbligo ferreo di nutrirlo: e ciò chedà impero a quest'obbligo, gli è appunto l'esser codestocorpo nient'altro se non la stessa oggettivata volontà divivere. L'uomo, come la più compiuta oggettivazione diquella volontà, è per conseguenza anche il più bisogno-so di tutti gli esseri: è in tutto e per tutto un volere, unabbisognare reso concreto, è il concremento di mille bi-sogni. Con questi egli sta sulla terra, abbandonato a sestesso, incerto di tutto fuor che della propria penuria edelle proprie necessità: l'ansia per la conservazione diquell'esistenza, fra tante sì gravi e ogni giorno rinnovan-tisi esigenze, riempie di regola l'intera vita umana. Vi sicollega immediatamente la seconda imperiosa brama,quella di continuare la specie. In pari tempo minaccianol'uomo da ogni parte i più svariati pericoli, per isfuggireai quali occorre permanente vigilanza. Con cauto passo,e ansiosamente spiando intorno, va egli per la sua via,perché mille accidenti e mille nemici lo insidiano. Così

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bile peso. La sua vita oscilla quindi come un pendolo, diqua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà isuoi veri elementi costitutivi. Tal condizione s'è dovutasingolarmente esprimere anche col fatto, che quandol'uomo ebbe posti nell'inferno tutti i dolori e gli strazi,per il cielo non rimase disponibile se non appunto lanoia.

Ma il permanente aspirare, ond'è costituita l'essenzad'ogni fenomeno della volontà, ha nei gradi superioridell'oggettivazione il suo primo e più general fondamen-to, pel fatto che quivi la volontà a se stessa appare comeun corpo vivo, con l'obbligo ferreo di nutrirlo: e ciò chedà impero a quest'obbligo, gli è appunto l'esser codestocorpo nient'altro se non la stessa oggettivata volontà divivere. L'uomo, come la più compiuta oggettivazione diquella volontà, è per conseguenza anche il più bisogno-so di tutti gli esseri: è in tutto e per tutto un volere, unabbisognare reso concreto, è il concremento di mille bi-sogni. Con questi egli sta sulla terra, abbandonato a sestesso, incerto di tutto fuor che della propria penuria edelle proprie necessità: l'ansia per la conservazione diquell'esistenza, fra tante sì gravi e ogni giorno rinnovan-tisi esigenze, riempie di regola l'intera vita umana. Vi sicollega immediatamente la seconda imperiosa brama,quella di continuare la specie. In pari tempo minaccianol'uomo da ogni parte i più svariati pericoli, per isfuggireai quali occorre permanente vigilanza. Con cauto passo,e ansiosamente spiando intorno, va egli per la sua via,perché mille accidenti e mille nemici lo insidiano. Così

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camminava nelle foreste, e così cammina nella vita civi-lizzata: non v'ha per lui sicurezza di sorta:

Qualibus in tenebris vitae, quantisque periclisDegitur hocc'aevi, quodcunque est!

Lucr., II, 15.

La vita dei più non è che una diuturna battaglia perl'esistenza, con la certezza della sconfitta finale. Ma ciòche li fa perdurare in questa sì travagliata battaglia non ètanto l'amore della vita, quanto la paura della morte, laquale nondimeno sta inevitabile nello sfondo, e può aogni minuto sopravvenire. La vita stessa è un mare pie-no di scogli e di vortici, cui l'uomo cerca di sfuggire conla massima prudenza e cura; pur sapendo, chequand'anche gli riesca, con ogni sforzo e arte, di scam-parne, perciò appunto si accosta con ogni suo passo, edanzi vi drizza in linea retta il timone, al totale, inevitabi-le e irreparabile naufragio: alla morte. Questo è il termi-ne ultimo del faticoso viaggio, e per lui peggiore di tuttigli scogli, ai quali è scampato.

Ma qui ci si presenta subito come molto notabile, cheda un lato i dolori e strazi dell'esistenza possono facil-mente accumularsi a tal segno che la morte stessa, nelfuggir la quale consiste l'intera vita, diviene desiderata,e spontaneamente le si corre incontro; dall'altro, che nonappena miseria e dolore concedono all'uomo una tregua,la noia è subito vicino tanto, che quegli per necessità habisogno d'un passatempo. Quel che tutti i viventi occupae tiene in molto, è la fatica per l'esistenza. Ma dell'esi-

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camminava nelle foreste, e così cammina nella vita civi-lizzata: non v'ha per lui sicurezza di sorta:

Qualibus in tenebris vitae, quantisque periclisDegitur hocc'aevi, quodcunque est!

Lucr., II, 15.

La vita dei più non è che una diuturna battaglia perl'esistenza, con la certezza della sconfitta finale. Ma ciòche li fa perdurare in questa sì travagliata battaglia non ètanto l'amore della vita, quanto la paura della morte, laquale nondimeno sta inevitabile nello sfondo, e può aogni minuto sopravvenire. La vita stessa è un mare pie-no di scogli e di vortici, cui l'uomo cerca di sfuggire conla massima prudenza e cura; pur sapendo, chequand'anche gli riesca, con ogni sforzo e arte, di scam-parne, perciò appunto si accosta con ogni suo passo, edanzi vi drizza in linea retta il timone, al totale, inevitabi-le e irreparabile naufragio: alla morte. Questo è il termi-ne ultimo del faticoso viaggio, e per lui peggiore di tuttigli scogli, ai quali è scampato.

Ma qui ci si presenta subito come molto notabile, cheda un lato i dolori e strazi dell'esistenza possono facil-mente accumularsi a tal segno che la morte stessa, nelfuggir la quale consiste l'intera vita, diviene desiderata,e spontaneamente le si corre incontro; dall'altro, che nonappena miseria e dolore concedono all'uomo una tregua,la noia è subito vicino tanto, che quegli per necessità habisogno d'un passatempo. Quel che tutti i viventi occupae tiene in molto, è la fatica per l'esistenza. Ma dell'esi-

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stenza, una volta che sia loro assicurata, non sanno checosa fare: perciò il secondo impulso, che li fa muovere,è lo sforzo di alleggerirsi dal peso dell'essere, di render-lo insensibile, di «ammazzare il tempo», ossia di sfuggi-re alla noia. Quindi vediamo, che quasi tutti gli uominial riparo dei bisogni e delle cure, quand'abbiano alla finerimosso da sé tutti gli altri pesi, si trovano esser di pesoa se stessi, e hanno per tanto di guadagnato ogni ora chepassi, ossia ogni sottrazione fatta a quella vita appunto,per la cui conservazione il più possibile lunga avevanofino allora impiegate tutte le forze. E la noia è tutt'altroche un male di poco conto: che finisce con l'imprimerevera disperazione sul volto. Essa fa sì che esseri, i qualitanto poco s'amano a vicenda, come gli uomini, tuttaviasi cerchino avidamente, e diviene in tal modo il princi-pio della socievolezza. Anche contro di essa, come con-tro altre universali calamità, vengono prese pubblicheprecauzioni, e già per ragion di stato; perché questomale, non meno del suo estremo opposto, la fame, puòspingere gli uomini alle maggiori sfrenatezze: panem etcircenses vuole il popolo. Il severo sistema penitenziariodi Filadelfia fa strumento di punizione la semplice noia,per mezzo di solitudine e inazione: ed è sì terribile, chegià ha condotto i reclusi al suicidio. Come il bisogno è ilperpetuo flagello del popolo, così è flagello la noia perle classi elevate. Nella vita borghese è rappresentata dal-la domenica, come il bisogno dai sei giorni di lavoro.

Tra il volere e il conseguire trascorre dunque interaogni vita umana. Il desiderio è, per sua natura, dolore: il

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stenza, una volta che sia loro assicurata, non sanno checosa fare: perciò il secondo impulso, che li fa muovere,è lo sforzo di alleggerirsi dal peso dell'essere, di render-lo insensibile, di «ammazzare il tempo», ossia di sfuggi-re alla noia. Quindi vediamo, che quasi tutti gli uominial riparo dei bisogni e delle cure, quand'abbiano alla finerimosso da sé tutti gli altri pesi, si trovano esser di pesoa se stessi, e hanno per tanto di guadagnato ogni ora chepassi, ossia ogni sottrazione fatta a quella vita appunto,per la cui conservazione il più possibile lunga avevanofino allora impiegate tutte le forze. E la noia è tutt'altroche un male di poco conto: che finisce con l'imprimerevera disperazione sul volto. Essa fa sì che esseri, i qualitanto poco s'amano a vicenda, come gli uomini, tuttaviasi cerchino avidamente, e diviene in tal modo il princi-pio della socievolezza. Anche contro di essa, come con-tro altre universali calamità, vengono prese pubblicheprecauzioni, e già per ragion di stato; perché questomale, non meno del suo estremo opposto, la fame, puòspingere gli uomini alle maggiori sfrenatezze: panem etcircenses vuole il popolo. Il severo sistema penitenziariodi Filadelfia fa strumento di punizione la semplice noia,per mezzo di solitudine e inazione: ed è sì terribile, chegià ha condotto i reclusi al suicidio. Come il bisogno è ilperpetuo flagello del popolo, così è flagello la noia perle classi elevate. Nella vita borghese è rappresentata dal-la domenica, come il bisogno dai sei giorni di lavoro.

Tra il volere e il conseguire trascorre dunque interaogni vita umana. Il desiderio è, per sua natura, dolore: il

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conseguimento genera tosto sazietà: la mèta era solo ap-parente: il possesso disperde l'attrazione: in nuova for-ma si ripresenta il desiderio, il dolore: altrimenti, seguemonotonia, vuoto, noia, contro cui è la battaglia altret-tanto tormentosa quanto contro il bisogno. Quando desi-derio e appagamento si susseguono senza troppo brevi esenza troppo lunghi intervalli, n'è ridotto il soffrire,ch'entrambi producono, ai minimi termini, e se n'ha lapiù felice vita. Imperocché quel che fuori di ciò si po-trebbe chiamar la parte più bella, la più pura gioia dellavita, appunto perché ci solleva sull'esistenza reale e citrasmuta in sereni spettatori di questa: ossia il puro co-noscere, cui ogni volere è estraneo, il godimento delbello, il genuino piacere dell'arte, richiedendo attitudinigià rare, è dato solo a pochissimi, ed anche a' pochissimisoltanto come un effimero sogno. E la più elevata forzaintellettuale fa proprio costoro capaci di ben maggiorisofferenze, di quante non possano mai sentire i più ottu-si, e inoltre solitarii li lascia tra esseri molto da loro di-versi: sì che pur quel vantaggio si compensa. Ma allapiù parte degli uomini sono le gioie puramente intellet-tuali inaccessibili; del piacere, che consiste nel puro co-noscere, sono quasi affatto incapaci: in tutto sono confi-nati nel volere. Quindi, se cosa alcuna vuol destar laloro attenzione, esser per loro interessante, deve (e ciò èinsito nel valore stesso della parola) stimolare in qual-che modo la loro volontà, sia pur soltanto per un remotoe anche meramente possibile rapporto con lei; la volontànon può mai restare affatto fuori del gioco, perché

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conseguimento genera tosto sazietà: la mèta era solo ap-parente: il possesso disperde l'attrazione: in nuova for-ma si ripresenta il desiderio, il dolore: altrimenti, seguemonotonia, vuoto, noia, contro cui è la battaglia altret-tanto tormentosa quanto contro il bisogno. Quando desi-derio e appagamento si susseguono senza troppo brevi esenza troppo lunghi intervalli, n'è ridotto il soffrire,ch'entrambi producono, ai minimi termini, e se n'ha lapiù felice vita. Imperocché quel che fuori di ciò si po-trebbe chiamar la parte più bella, la più pura gioia dellavita, appunto perché ci solleva sull'esistenza reale e citrasmuta in sereni spettatori di questa: ossia il puro co-noscere, cui ogni volere è estraneo, il godimento delbello, il genuino piacere dell'arte, richiedendo attitudinigià rare, è dato solo a pochissimi, ed anche a' pochissimisoltanto come un effimero sogno. E la più elevata forzaintellettuale fa proprio costoro capaci di ben maggiorisofferenze, di quante non possano mai sentire i più ottu-si, e inoltre solitarii li lascia tra esseri molto da loro di-versi: sì che pur quel vantaggio si compensa. Ma allapiù parte degli uomini sono le gioie puramente intellet-tuali inaccessibili; del piacere, che consiste nel puro co-noscere, sono quasi affatto incapaci: in tutto sono confi-nati nel volere. Quindi, se cosa alcuna vuol destar laloro attenzione, esser per loro interessante, deve (e ciò èinsito nel valore stesso della parola) stimolare in qual-che modo la loro volontà, sia pur soltanto per un remotoe anche meramente possibile rapporto con lei; la volontànon può mai restare affatto fuori del gioco, perché

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l'esser loro sta di gran lunga più nel volere che nel cono-scere: azione e reazione è il loro unico elemento. Le in-genue manifestazioni di questa lor natura si possono co-gliere anche in piccolezze e in fatti ordinari: per esem-pio, scrivono nei luoghi notabili, che vanno a visitare, illoro nome, per così reagire, per agire sul luogo, poi cheil luogo non ha agito su di loro; inoltre non sanno facil-mente contentarsi di contemplare un esotico, raro ani-male, ma devono stuzzicarlo, provocarlo, scherzare conesso, per sentire nient'altro che azione e reazione. Quelbisogno d'eccitazione della volontà si mostra soprattuttonell'invenzione e nella pratica del giocare alle carte, chebenissimo esprime l'aspetto lamentevole dell'umanità.

Ma per quanto la natura, per quanto la fortuna abbiaoperato; chiunque noi siamo, e qualunque cosa posse-diamo; il dolore ch'è essenza della vita non si lascia ri-muovere:

Πηλειδης δ’ω̣µωξεν, ιδων ουρανον ευρον(Pelides autem ejulavit, intuitus in coelum latum).

E ancora:Ζηνος µεν παις ηα Κρονιονος, αυταρ οιζυνΕιχον απειρεσιην(Jovis quidem filius eram Saturni!, verum aerumnamHabebam infinitam).

Gl'incessanti sforzi di bandire il dolore non servonoche a mutarne l'aspetto. Questo è dapprima mancanza,bisogno, ansia per la conservazione della vita. Quando

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l'esser loro sta di gran lunga più nel volere che nel cono-scere: azione e reazione è il loro unico elemento. Le in-genue manifestazioni di questa lor natura si possono co-gliere anche in piccolezze e in fatti ordinari: per esem-pio, scrivono nei luoghi notabili, che vanno a visitare, illoro nome, per così reagire, per agire sul luogo, poi cheil luogo non ha agito su di loro; inoltre non sanno facil-mente contentarsi di contemplare un esotico, raro ani-male, ma devono stuzzicarlo, provocarlo, scherzare conesso, per sentire nient'altro che azione e reazione. Quelbisogno d'eccitazione della volontà si mostra soprattuttonell'invenzione e nella pratica del giocare alle carte, chebenissimo esprime l'aspetto lamentevole dell'umanità.

Ma per quanto la natura, per quanto la fortuna abbiaoperato; chiunque noi siamo, e qualunque cosa posse-diamo; il dolore ch'è essenza della vita non si lascia ri-muovere:

Πηλειδης δ’ω̣µωξεν, ιδων ουρανον ευρον(Pelides autem ejulavit, intuitus in coelum latum).

E ancora:Ζηνος µεν παις ηα Κρονιονος, αυταρ οιζυνΕιχον απειρεσιην(Jovis quidem filius eram Saturni!, verum aerumnamHabebam infinitam).

Gl'incessanti sforzi di bandire il dolore non servonoche a mutarne l'aspetto. Questo è dapprima mancanza,bisogno, ansia per la conservazione della vita. Quando

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sia riuscito, il che è assai difficile, lo scacciare il dolorein questa sua forma, ecco che tosto si ripresenta in millealtre, variando secondo età e circostanze, come istintosessuale, appassionato amore, gelosia, invidia, odio,paura, ambizione, avarizia, infermità, ecc. ecc. E se fi-nalmente non riesca a trovar via in nessun'altra forma,viene sotto la malinconica, grigia veste del tedio e dellanoia, contro cui si tentano rimedii variati. Quando poi sipervenga da ultimo a discacciare anche quelli, sarà diffi-cile che accada senza riaprir con ciò la via al dolore inuna delle precedenti forme, e ricominciar così il ballo daprincipio; imperocché tra dolore e noia viene ogni vitaumana di qua e di là rimbalzata. Per disanimante che siaquesta considerazione, voglio tuttavia richiamare acces-soriamente l'attenzione sopra un suo lato, dal quale sipuò attingere conforto, o anzi addirittura trarre forse unastoica indifferenza per il proprio male. Che la nostra in-tolleranza di esso procede massimamente dal fatto, chenoi lo riteniamo venuto per caso, provocato da una cate-na di cause, la quale potrebbe agevolmente essere diver-sa. Per il male immediatamente necessario e affatto uni-versale, come è per esempio la necessità della vecchiaiae della morte e di molti quotidiani disagi, non usiamorattristarci. È piuttosto il considerar l'accidentalità dellecircostanze, le quali ci produssero un dolore, che dà aquesto il pungolo. Se invece abbiamo conosciuto, che ildolore come tale è inerente all'essenza della vita, od èinevitabile, ed unicamente la sua figura, la forma in cuisi presenta, dipende dal caso; che insomma il nostro do-

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sia riuscito, il che è assai difficile, lo scacciare il dolorein questa sua forma, ecco che tosto si ripresenta in millealtre, variando secondo età e circostanze, come istintosessuale, appassionato amore, gelosia, invidia, odio,paura, ambizione, avarizia, infermità, ecc. ecc. E se fi-nalmente non riesca a trovar via in nessun'altra forma,viene sotto la malinconica, grigia veste del tedio e dellanoia, contro cui si tentano rimedii variati. Quando poi sipervenga da ultimo a discacciare anche quelli, sarà diffi-cile che accada senza riaprir con ciò la via al dolore inuna delle precedenti forme, e ricominciar così il ballo daprincipio; imperocché tra dolore e noia viene ogni vitaumana di qua e di là rimbalzata. Per disanimante che siaquesta considerazione, voglio tuttavia richiamare acces-soriamente l'attenzione sopra un suo lato, dal quale sipuò attingere conforto, o anzi addirittura trarre forse unastoica indifferenza per il proprio male. Che la nostra in-tolleranza di esso procede massimamente dal fatto, chenoi lo riteniamo venuto per caso, provocato da una cate-na di cause, la quale potrebbe agevolmente essere diver-sa. Per il male immediatamente necessario e affatto uni-versale, come è per esempio la necessità della vecchiaiae della morte e di molti quotidiani disagi, non usiamorattristarci. È piuttosto il considerar l'accidentalità dellecircostanze, le quali ci produssero un dolore, che dà aquesto il pungolo. Se invece abbiamo conosciuto, che ildolore come tale è inerente all'essenza della vita, od èinevitabile, ed unicamente la sua figura, la forma in cuisi presenta, dipende dal caso; che insomma il nostro do-

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lore attuale riempie uno spazio, nel quale, se quello nonfosse, immediatamente un altro subentrerebbe, per oraimpedito dal primo; che quindi, in sostanza, ben pocopotere ha su noi il destino; allora potrebbe una cotal ri-flessione, facendosi persuasione vivente, portar seco unnotevole grado di stoica imperturbabilità, e diminuirl'angosciosa inquietudine per il nostro bene. Ma in realtàuna sì efficace signoria della ragione sopra il dolore di-rettamente sentito, la si trova di rado, o mai.

D'altronde codesta considerazione sull'inevitabilitàdel dolore, e sul fatto che un dolore scaccia l'altro, e cheil dolore nuovo interviene con lo sparir dell'antico, po-trebbe condurci alla paradossale, ma non stolta ipotesi,che in ciascun individuo la misura del dolore in lui so-stanziale venga una volta per sempre determinata dallasua natura: la qual misura né potrebbe rimaner vuota, nésuperata, per varia che fosse la forma del dolore. Il suosoffrire o godere non sarebbe quindi determinato puntodal di fuori, ma solo da quella misura, da quella disposi-zione, la quale bensì potrebbe, per lo stato fisico, averqualche diminuzione o accrescimento secondo le epo-che, ma in complesso resterebbe la medesima e non al-tro sarebbe, se non ciò che si chiama il temperamentodell'individuo, o, meglio, il grado in cui questi, secondos'esprime Platone nel primo libro della Repubblica, èεΰκολος oppure δύσκολος, ossia d'animo leggero o gra-ve. In favor di questa ipotesi non soltanto parla la bennota esperienza, secondo cui i grandi dolori ci rendonoaffatto insensibili ai minori, e, viceversa, nella assenza

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lore attuale riempie uno spazio, nel quale, se quello nonfosse, immediatamente un altro subentrerebbe, per oraimpedito dal primo; che quindi, in sostanza, ben pocopotere ha su noi il destino; allora potrebbe una cotal ri-flessione, facendosi persuasione vivente, portar seco unnotevole grado di stoica imperturbabilità, e diminuirl'angosciosa inquietudine per il nostro bene. Ma in realtàuna sì efficace signoria della ragione sopra il dolore di-rettamente sentito, la si trova di rado, o mai.

D'altronde codesta considerazione sull'inevitabilitàdel dolore, e sul fatto che un dolore scaccia l'altro, e cheil dolore nuovo interviene con lo sparir dell'antico, po-trebbe condurci alla paradossale, ma non stolta ipotesi,che in ciascun individuo la misura del dolore in lui so-stanziale venga una volta per sempre determinata dallasua natura: la qual misura né potrebbe rimaner vuota, nésuperata, per varia che fosse la forma del dolore. Il suosoffrire o godere non sarebbe quindi determinato puntodal di fuori, ma solo da quella misura, da quella disposi-zione, la quale bensì potrebbe, per lo stato fisico, averqualche diminuzione o accrescimento secondo le epo-che, ma in complesso resterebbe la medesima e non al-tro sarebbe, se non ciò che si chiama il temperamentodell'individuo, o, meglio, il grado in cui questi, secondos'esprime Platone nel primo libro della Repubblica, èεΰκολος oppure δύσκολος, ossia d'animo leggero o gra-ve. In favor di questa ipotesi non soltanto parla la bennota esperienza, secondo cui i grandi dolori ci rendonoaffatto insensibili ai minori, e, viceversa, nella assenza

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di dolori grandi, anche le minime molestie ci tormenta-no e contristano; ma l'esperienza ci ammonisce ancora,che se una grande sventura, la quale ci faceva rabbrivi-dire solo a pensarla, è effettivamente sopravvenuta, ilnostro animo resta nondimeno, tosto superato il primoschianto, pressoché immutato; e così, all'opposto, dopol'avvento d'una felicità a lungo sognata, non ci sentiamoin complesso e alla lunga notevolmente meglio e piùsoddisfatti di prima. Il momento solo in cui quelle muta-zioni si presentano ci scuote con particolar forza, siacome profondo dolore, sia come alta gioia; ma questa equello rapidamente svaniscono, perché si fondavano so-pra un'illusione. Sorgono invero non già dall'immediata-mente attuale godere o patire, ma dall'aprirci un nuovoavvenire, che viene in essi anticipato. Sol prendendo aprestito dall'avvenire hanno potuto essere sì anormal-mente intensi: e quindi non durano. In favor dell'ipotesiformulata, per cui, come nel conoscere, così anche nelsentimento del soffrire o del godere una grandissimaparte è soggettiva e determinata a priori, possono anco-ra essere addotte come prove le osservazioni, secondo lequali l'umana gaiezza, o tristezza, palesemente non dacircostanze esteriori è determinata, da ricchezza o con-dizione sociale; poiché noi incontriamo altrettante facceliete tra' poveri, quanto tra' ricchi: e inoltre, i motivi pe'quali accadono i suicidii sono così profondamente di-versi; non potendo noi indicare nessuna sventura grandeabbastanza da dover provocare con molta verosimiglian-za in ciascun carattere il suicidio, e poche tanto piccole,

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di dolori grandi, anche le minime molestie ci tormenta-no e contristano; ma l'esperienza ci ammonisce ancora,che se una grande sventura, la quale ci faceva rabbrivi-dire solo a pensarla, è effettivamente sopravvenuta, ilnostro animo resta nondimeno, tosto superato il primoschianto, pressoché immutato; e così, all'opposto, dopol'avvento d'una felicità a lungo sognata, non ci sentiamoin complesso e alla lunga notevolmente meglio e piùsoddisfatti di prima. Il momento solo in cui quelle muta-zioni si presentano ci scuote con particolar forza, siacome profondo dolore, sia come alta gioia; ma questa equello rapidamente svaniscono, perché si fondavano so-pra un'illusione. Sorgono invero non già dall'immediata-mente attuale godere o patire, ma dall'aprirci un nuovoavvenire, che viene in essi anticipato. Sol prendendo aprestito dall'avvenire hanno potuto essere sì anormal-mente intensi: e quindi non durano. In favor dell'ipotesiformulata, per cui, come nel conoscere, così anche nelsentimento del soffrire o del godere una grandissimaparte è soggettiva e determinata a priori, possono anco-ra essere addotte come prove le osservazioni, secondo lequali l'umana gaiezza, o tristezza, palesemente non dacircostanze esteriori è determinata, da ricchezza o con-dizione sociale; poiché noi incontriamo altrettante facceliete tra' poveri, quanto tra' ricchi: e inoltre, i motivi pe'quali accadono i suicidii sono così profondamente di-versi; non potendo noi indicare nessuna sventura grandeabbastanza da dover provocare con molta verosimiglian-za in ciascun carattere il suicidio, e poche tanto piccole,

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che nessun'altra di egual peso non l'abbia già altra voltaprovocato. Se dunque il grado della nostra letizia o ma-linconia non è tuttodì il medesimo, ciò attribuiremo, invirtù di quest'opinione, non al mutar delle circostanzeesterne, ma a quello dello stato interno, delle condizionifisiche. Che quando si produce una vera, se pur sempretemporanea, elevazione della nostra gaiezza, sia pur finoalla gioia, questo suol essere senz'alcuna ragione este-riore. Sì, sovente vediamo il nostro dolore provenir soloda un determinato fatto esterno, e solo da questo siamovisibilmente oppressi e turbati: allora crediamo che, seesso venisse meno, ne seguirebbe la massima contentez-za. Ma è un'illusione. La misura del nostro dolore e be-nessere è in complesso, secondo la nostra ipotesi, deter-minata soggettivamente per ogni istante, e in rapportoad essa è ogni esterna cagione di turbamento appena ciòch'è pel corpo un vescicante, verso il quale traggono tut-ti gli umori cattivi, che altrimenti restan dispersi pel cor-po. Il dolore nel nostro essere, prodotto da un dato moti-vo per questo spazio di tempo, e quindi non rimovibile,sarebbe senza quella determinata causa esteriore di sof-ferenza distribuito in cento punti, e comparirebbe in for-ma di cento piccole molestie e fastidi a proposito dicose, che invece allora trascuriamo del tutto, perché lanostra capacità di soffrire è già riempita da quella penacentrale, che tutta la sofferenza altrimenti dispersa haconcentrata in un punto. A ciò corrisponde anchel'osservazione, che se alla fine una grande, conturbanteangoscia ci vien tolta dal petto mediante un esito felice,

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che nessun'altra di egual peso non l'abbia già altra voltaprovocato. Se dunque il grado della nostra letizia o ma-linconia non è tuttodì il medesimo, ciò attribuiremo, invirtù di quest'opinione, non al mutar delle circostanzeesterne, ma a quello dello stato interno, delle condizionifisiche. Che quando si produce una vera, se pur sempretemporanea, elevazione della nostra gaiezza, sia pur finoalla gioia, questo suol essere senz'alcuna ragione este-riore. Sì, sovente vediamo il nostro dolore provenir soloda un determinato fatto esterno, e solo da questo siamovisibilmente oppressi e turbati: allora crediamo che, seesso venisse meno, ne seguirebbe la massima contentez-za. Ma è un'illusione. La misura del nostro dolore e be-nessere è in complesso, secondo la nostra ipotesi, deter-minata soggettivamente per ogni istante, e in rapportoad essa è ogni esterna cagione di turbamento appena ciòch'è pel corpo un vescicante, verso il quale traggono tut-ti gli umori cattivi, che altrimenti restan dispersi pel cor-po. Il dolore nel nostro essere, prodotto da un dato moti-vo per questo spazio di tempo, e quindi non rimovibile,sarebbe senza quella determinata causa esteriore di sof-ferenza distribuito in cento punti, e comparirebbe in for-ma di cento piccole molestie e fastidi a proposito dicose, che invece allora trascuriamo del tutto, perché lanostra capacità di soffrire è già riempita da quella penacentrale, che tutta la sofferenza altrimenti dispersa haconcentrata in un punto. A ciò corrisponde anchel'osservazione, che se alla fine una grande, conturbanteangoscia ci vien tolta dal petto mediante un esito felice,

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tosto subentra un'altra al suo posto, la cui materia giàc'era tutta, ma non poteva entrar come angoscia nellaconscienza, perché questa non aveva capacità disponibi-le per lei, sì che quella materia d'angoscia rimaneva ap-pena come oscura, inosservata parvenza nebbiosaall'estremo limite del suo orizzonte. Ma tosto che lo spa-zio è libero, ecco questa materia pronta farsi subito in-nanzi, e occupare il trono della dominante(πρυτανευουσα) angoscia del momento: pur se, nellasua sostanza, è molto più leggera che la materia diquell'angoscia svanita; nondimeno sa tanto gonfiarsi, dafarlesi eguale in apparente grandezza, e in tal modo,come precipua angoscia del momento, riempie appienoil trono.

Smisurata gioia e molto vivo dolore si ritrovano sem-pre soltanto nella stessa persona: imperocché l'una ècondizione dell'altro, ed entrambi poi han per condizio-ne una vivacità grande dello spirito. Entrambi sono pro-dotti, come or ora vedemmo, non dal puro presente, mada anticipazione dell'avvenire. Ed essendo il dolore allavita essenziale, ed anche, nel suo grado, determinatodalla natura del soggetto, sì che subitanee modificazioninon possono, essendo sempre esteriori, mutare veramen-te quel grado; ne viene, che all'eccessivo giubilo o dolo-re sempre è base un errore e vaneggiamento: onde quel-le due sovreccitazioni dell'animo si potrebbero evitarcon l'intendimento. Ogni immoderato giubilo (exultatio,insolens laetitia) poggia sempre sull'illusione d'aver tro-vato alcunché nella vita, che non vi si può punto trovare,

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tosto subentra un'altra al suo posto, la cui materia giàc'era tutta, ma non poteva entrar come angoscia nellaconscienza, perché questa non aveva capacità disponibi-le per lei, sì che quella materia d'angoscia rimaneva ap-pena come oscura, inosservata parvenza nebbiosaall'estremo limite del suo orizzonte. Ma tosto che lo spa-zio è libero, ecco questa materia pronta farsi subito in-nanzi, e occupare il trono della dominante(πρυτανευουσα) angoscia del momento: pur se, nellasua sostanza, è molto più leggera che la materia diquell'angoscia svanita; nondimeno sa tanto gonfiarsi, dafarlesi eguale in apparente grandezza, e in tal modo,come precipua angoscia del momento, riempie appienoil trono.

Smisurata gioia e molto vivo dolore si ritrovano sem-pre soltanto nella stessa persona: imperocché l'una ècondizione dell'altro, ed entrambi poi han per condizio-ne una vivacità grande dello spirito. Entrambi sono pro-dotti, come or ora vedemmo, non dal puro presente, mada anticipazione dell'avvenire. Ed essendo il dolore allavita essenziale, ed anche, nel suo grado, determinatodalla natura del soggetto, sì che subitanee modificazioninon possono, essendo sempre esteriori, mutare veramen-te quel grado; ne viene, che all'eccessivo giubilo o dolo-re sempre è base un errore e vaneggiamento: onde quel-le due sovreccitazioni dell'animo si potrebbero evitarcon l'intendimento. Ogni immoderato giubilo (exultatio,insolens laetitia) poggia sempre sull'illusione d'aver tro-vato alcunché nella vita, che non vi si può punto trovare,

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ossia durevole riposo dei torturanti, ognora rinascentidesideri o affanni. Da ogni singola illusione di tal fattabisogna più tardi inevitabilmente far ritorno, e poi,quando scompare, pagarla con dolori altrettanto amari,per quanto gioia aveva recato il suo apparire. Somigliasotto questo rispetto interamente ad un'altura, dalla qua-le si possa venir giù solo cadendo; perciò la si dovrebbeevitare: ed ogni improvviso, immoderato dolore è pro-prio nient'altro che la caduta da una cotale altezza, losvanire d'una tale illusione: e quindi questa è condizionedi quello. Si potrebbero perciò evitare entrambi, qualorasi avesse sopra di sé il potere di veder con tutta chiarez-za le cose, sempre nel loro complesso e nella lor con-nessione, e fermamente guardarsi dall'attribuir loro ineffetti il colore, che si vorrebbe avessero. L'etica stoicamirava soprattutto a liberar l'animo da tutta codesta illu-sione e dalle sue conseguenze, e dargli invece incrolla-bile imperturbabilità. Di quest'intendimento è pienoOrazio, nella celebre ode:

Aequam memento rebus in arduisServare mentem, non secus in bonis

Ab insolenti temperatamLaetitia.

Ma il più delle volte vogliamo sottrarci alla conoscen-za, simile ad amara medicina, che il dolore è essenzialealla vita, e quindi non dal di fuori fluisce in noi: bensìciascuno ne porta nel suo proprio interno l'inesauribilesorgente. Noi cerchiamo piuttosto ognora una singola

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ossia durevole riposo dei torturanti, ognora rinascentidesideri o affanni. Da ogni singola illusione di tal fattabisogna più tardi inevitabilmente far ritorno, e poi,quando scompare, pagarla con dolori altrettanto amari,per quanto gioia aveva recato il suo apparire. Somigliasotto questo rispetto interamente ad un'altura, dalla qua-le si possa venir giù solo cadendo; perciò la si dovrebbeevitare: ed ogni improvviso, immoderato dolore è pro-prio nient'altro che la caduta da una cotale altezza, losvanire d'una tale illusione: e quindi questa è condizionedi quello. Si potrebbero perciò evitare entrambi, qualorasi avesse sopra di sé il potere di veder con tutta chiarez-za le cose, sempre nel loro complesso e nella lor con-nessione, e fermamente guardarsi dall'attribuir loro ineffetti il colore, che si vorrebbe avessero. L'etica stoicamirava soprattutto a liberar l'animo da tutta codesta illu-sione e dalle sue conseguenze, e dargli invece incrolla-bile imperturbabilità. Di quest'intendimento è pienoOrazio, nella celebre ode:

Aequam memento rebus in arduisServare mentem, non secus in bonis

Ab insolenti temperatamLaetitia.

Ma il più delle volte vogliamo sottrarci alla conoscen-za, simile ad amara medicina, che il dolore è essenzialealla vita, e quindi non dal di fuori fluisce in noi: bensìciascuno ne porta nel suo proprio interno l'inesauribilesorgente. Noi cerchiamo piuttosto ognora una singola

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causa esterna, quasi un pretesto, al dolore che mai danoi si rimuove; come l'uomo libero si forma un idolo,per avere un signore. Imperocché infaticabilmente an-diamo di desiderio in desiderio, e sebbene ogni soddi-sfazione raggiunta, per quanto ci promettesse, tuttavianon ci appaga, anzi il più sovente non tarda a mostrarcicome un mortificante errore, non vediamo, ciò malgra-do, che attingiamo con la botte delle Danaidi, e invececorriamo incontro a desiderii sempre nuovi:

Sed, dum abest quod avemus, id exsuperare videturCaetera; post aliud, quum contigit illud, avemus;Et sitis aequa tenet vitai semper hiantes.

Lucr., III, 1095

E così o continua all'infinito, oppure, il che è più raro,e presuppone già una certa forza di carattere, continuafin quando capitiamo in un desiderio, che non può esse-re appagato, ed a cui tuttavia non si rinunzia: allora gli ècome se avessimo quel che cercavamo, cioè qualcosache in ogni istante possiamo accusar come sorgente deinostri mali, invece d'accusarne la nostra propria natura,e per cui noi, in dissidio col nostro destino, veniamo incompenso riconciliati con la nostra esistenza, allonta-nandosi di nuovo la cognizione, che a codesta esistenzasia essenziale il dolore, e impossibile un vero appaga-mento. La conseguenza di quest'ultima maniera di svi-luppo è una cotal disposizione malinconica, il perpetuoportar con sé un unico, grande dolore, e il derivantenedisdegno di tutti i minori dolori o godimenti; quindi una

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causa esterna, quasi un pretesto, al dolore che mai danoi si rimuove; come l'uomo libero si forma un idolo,per avere un signore. Imperocché infaticabilmente an-diamo di desiderio in desiderio, e sebbene ogni soddi-sfazione raggiunta, per quanto ci promettesse, tuttavianon ci appaga, anzi il più sovente non tarda a mostrarcicome un mortificante errore, non vediamo, ciò malgra-do, che attingiamo con la botte delle Danaidi, e invececorriamo incontro a desiderii sempre nuovi:

Sed, dum abest quod avemus, id exsuperare videturCaetera; post aliud, quum contigit illud, avemus;Et sitis aequa tenet vitai semper hiantes.

Lucr., III, 1095

E così o continua all'infinito, oppure, il che è più raro,e presuppone già una certa forza di carattere, continuafin quando capitiamo in un desiderio, che non può esse-re appagato, ed a cui tuttavia non si rinunzia: allora gli ècome se avessimo quel che cercavamo, cioè qualcosache in ogni istante possiamo accusar come sorgente deinostri mali, invece d'accusarne la nostra propria natura,e per cui noi, in dissidio col nostro destino, veniamo incompenso riconciliati con la nostra esistenza, allonta-nandosi di nuovo la cognizione, che a codesta esistenzasia essenziale il dolore, e impossibile un vero appaga-mento. La conseguenza di quest'ultima maniera di svi-luppo è una cotal disposizione malinconica, il perpetuoportar con sé un unico, grande dolore, e il derivantenedisdegno di tutti i minori dolori o godimenti; quindi una

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condizione già più degna, che non sia il continuo correrein caccia di sempre nuovi fantasmi, il che è molto piùcomune.

§ 58.Qualsiasi soddisfacimento, o ciò che in genere suol

chiamarsi felicità, è propriamente e sostanzialmentesempre negativo, e mai positivo. Non è una sensazionedi gioia spontanea, e di per sé entrata in noi, ma semprebisogna che sia l'appagamento d'un desiderio. Imperoc-ché desiderio, ossia mancanza, è la condizione prelimi-nare d'ogni piacere. Ma con l'appagamento cessa il desi-derio, e quindi anche il piacere. Quindi l'appagamento ola gioia non può essere altro se non la liberazione da undolore, da un bisogno: e con ciò s'intende non solo ognivero, aperto soffrire, ma anche ogni desiderio, la cui im-portunità disturbi la nostra calma, e perfino la mortalenoia, che a noi rende un peso l'esistenza. Ora, è diffici-lissimo raggiungere e menare a compimento alcunché: aogni nostro proposito contrastano difficoltà e fatichesenza fine, e a ogni passo si accumulano gli ostacoli.Quando poi finalmente tutto è superato e raggiunto,nient'altro ci si può guadagnare, se non d'essere liberatida una sofferenza, o da un desiderio: quindi ci si trovacome prima del loro inizio, e non meglio. Direttamentedato è a noi sempre il solo bisogno, ossia il dolore. Inve-ce l'appagamento e il piacere non li possiamo conoscereche mediatamente, per ricordar la passata sofferenza e

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condizione già più degna, che non sia il continuo correrein caccia di sempre nuovi fantasmi, il che è molto piùcomune.

§ 58.Qualsiasi soddisfacimento, o ciò che in genere suol

chiamarsi felicità, è propriamente e sostanzialmentesempre negativo, e mai positivo. Non è una sensazionedi gioia spontanea, e di per sé entrata in noi, ma semprebisogna che sia l'appagamento d'un desiderio. Imperoc-ché desiderio, ossia mancanza, è la condizione prelimi-nare d'ogni piacere. Ma con l'appagamento cessa il desi-derio, e quindi anche il piacere. Quindi l'appagamento ola gioia non può essere altro se non la liberazione da undolore, da un bisogno: e con ciò s'intende non solo ognivero, aperto soffrire, ma anche ogni desiderio, la cui im-portunità disturbi la nostra calma, e perfino la mortalenoia, che a noi rende un peso l'esistenza. Ora, è diffici-lissimo raggiungere e menare a compimento alcunché: aogni nostro proposito contrastano difficoltà e fatichesenza fine, e a ogni passo si accumulano gli ostacoli.Quando poi finalmente tutto è superato e raggiunto,nient'altro ci si può guadagnare, se non d'essere liberatida una sofferenza, o da un desiderio: quindi ci si trovacome prima del loro inizio, e non meglio. Direttamentedato è a noi sempre il solo bisogno, ossia il dolore. Inve-ce l'appagamento e il piacere non li possiamo conoscereche mediatamente, per ricordar la passata sofferenza e

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privazione, venuta meno all'apparire di quelli. Da ciòproviene, che dei beni e vantaggi, che possediamo in ef-fetti, non siamo punto ben persuasi, né li apprezziamo,bensì ci sembra naturale l'averli; che essi ci letizianosolo indirettamente, con l'impedir sofferenze. Bisognaaverli perduti, per sentirne il pregio: perché il bisogno,la privazione, il soffrire è la sensazione positiva, che simanifesta direttamente. Perciò anche ci rallegra il ricor-do di angustia, malattia, bisogni superati, che tal ricordoè l'unico mezzo per godere dei beni presenti. Nemmenoè da negare, che sotto questo rispetto e dal punto di vistadell'egoismo, il quale è la forma della volontà di vivere,lo spettacolo o la descrizione di mali altrui ci dà soddi-sfazione e piacere appunto per quella via, secondo espri-me in bel modo e sincero Lucrezio, al principio del se-condo libro:

Soave, mari magno, turbantibus æquora ventis,E terra magnum alterius spectare laborem:Non, quia vexari quemquam est jucunda voluptas;Sed, quibus ipse malis careas, quia cernere suave est.

Tuttavia ci si mostrerà in seguito, che questa manieradi gioia, proveniente da siffatta mediata conoscenza delnostro benessere, sta molto vicina alla sorgente dellavera e propria malvagità positiva.

Che ogni felicità sia di natura soltanto negativa, e nonpositiva; che non possa quindi esser mai durevole appa-gamento o letificazione, ma sia sempre nient'altro che li-berazione da un dolore o bisogno, al quale o un nuovo

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privazione, venuta meno all'apparire di quelli. Da ciòproviene, che dei beni e vantaggi, che possediamo in ef-fetti, non siamo punto ben persuasi, né li apprezziamo,bensì ci sembra naturale l'averli; che essi ci letizianosolo indirettamente, con l'impedir sofferenze. Bisognaaverli perduti, per sentirne il pregio: perché il bisogno,la privazione, il soffrire è la sensazione positiva, che simanifesta direttamente. Perciò anche ci rallegra il ricor-do di angustia, malattia, bisogni superati, che tal ricordoè l'unico mezzo per godere dei beni presenti. Nemmenoè da negare, che sotto questo rispetto e dal punto di vistadell'egoismo, il quale è la forma della volontà di vivere,lo spettacolo o la descrizione di mali altrui ci dà soddi-sfazione e piacere appunto per quella via, secondo espri-me in bel modo e sincero Lucrezio, al principio del se-condo libro:

Soave, mari magno, turbantibus æquora ventis,E terra magnum alterius spectare laborem:Non, quia vexari quemquam est jucunda voluptas;Sed, quibus ipse malis careas, quia cernere suave est.

Tuttavia ci si mostrerà in seguito, che questa manieradi gioia, proveniente da siffatta mediata conoscenza delnostro benessere, sta molto vicina alla sorgente dellavera e propria malvagità positiva.

Che ogni felicità sia di natura soltanto negativa, e nonpositiva; che non possa quindi esser mai durevole appa-gamento o letificazione, ma sia sempre nient'altro che li-berazione da un dolore o bisogno, al quale o un nuovo

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dolore oppur languore, vuota nostalgia e noia deve se-guire; è provato anche in quel fedele specchiodell'essenza del mondo e della vita, che è l'arte, e soprat-tutto nella poesia. Che ogni poesia epica o drammaticaha soltanto capacità di rappresentare uno sforzo, un'aspi-razione attiva, una lotta per la conquista della felicità, enon mai la felicità stessa durevole e compiuta. Conduceil suo eroe attraverso mille traversie e pericoli fino allamèta: appena questa è raggiunta, lascia tosto cadere ilsipario. Che altro non le resterebbe, se non mostrare chela luminosa mèta, in cui l'eroe sognava di trovare la feli-cità, era una beffa; e quando l'ha toccata, egli non si tro-va meglio di prima. Poiché una vera, durevole felicitànon è possibile, non può nemmeno essere oggettodell'arte. È vero, che l'idillio precisamente si propone dirappresentarla: ma si vede, appunto, che l'idillio cometale non si può reggere. Sempre, nelle mani del poeta, odiventa epico, ed è allora semplicemente un epos dipoco rilievo, intessuto di piccoli dolori, piccole gioie, epiccoli sforzi: e questo è il caso più frequente; o si ridu-ce a poesia descrittiva, descrive la bellezza della natura,cioè propriamente il puro conoscere fuor della volontà,che invero è in effetti il solo bene reale, cui né sofferen-za né bisogno precede, né rimorso, né dolore, né vuoto,né tedio necessariamente segue. Ma un tal bene non puòriempir tutta la vita, bensì appena qualche istante. Quelche vediamo nella poesia, ritroviamo nella musica, nellacui melodia già riconoscemmo, genericamente espressa,la più intima storia della volontà resa consapevole di sé,

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dolore oppur languore, vuota nostalgia e noia deve se-guire; è provato anche in quel fedele specchiodell'essenza del mondo e della vita, che è l'arte, e soprat-tutto nella poesia. Che ogni poesia epica o drammaticaha soltanto capacità di rappresentare uno sforzo, un'aspi-razione attiva, una lotta per la conquista della felicità, enon mai la felicità stessa durevole e compiuta. Conduceil suo eroe attraverso mille traversie e pericoli fino allamèta: appena questa è raggiunta, lascia tosto cadere ilsipario. Che altro non le resterebbe, se non mostrare chela luminosa mèta, in cui l'eroe sognava di trovare la feli-cità, era una beffa; e quando l'ha toccata, egli non si tro-va meglio di prima. Poiché una vera, durevole felicitànon è possibile, non può nemmeno essere oggettodell'arte. È vero, che l'idillio precisamente si propone dirappresentarla: ma si vede, appunto, che l'idillio cometale non si può reggere. Sempre, nelle mani del poeta, odiventa epico, ed è allora semplicemente un epos dipoco rilievo, intessuto di piccoli dolori, piccole gioie, epiccoli sforzi: e questo è il caso più frequente; o si ridu-ce a poesia descrittiva, descrive la bellezza della natura,cioè propriamente il puro conoscere fuor della volontà,che invero è in effetti il solo bene reale, cui né sofferen-za né bisogno precede, né rimorso, né dolore, né vuoto,né tedio necessariamente segue. Ma un tal bene non puòriempir tutta la vita, bensì appena qualche istante. Quelche vediamo nella poesia, ritroviamo nella musica, nellacui melodia già riconoscemmo, genericamente espressa,la più intima storia della volontà resa consapevole di sé,

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la più segreta vita, aspirazione, sofferenza, gioia, il flus-so e riflusso dell'umano cuore. La melodia è sempre unadeviazione dal tono fondamentale, con mille strani andi-rivieni, fino alla più dolorosa dissonanza, indi ritorna daultimo al tono fondamentale, che esprime l'appagamentoe il rasserenarsi della volontà, ma col quale non c'è piùin seguito altro da fare, e prolungato a lungo generereb-be solo una pesante e inespressiva monotonia, analogaalla noia.

Tutto quanto dovevano chiarire queste considerazio-ni, l'irraggiungibilità di durevole soddisfazione e il valo-re negativo d'ogni felicità, trova spiegazione in ciò ch'èmostrato alla fine del secondo libro; che cioè la volontà,di cui è oggettivazione la vita umana come ogni feno-meno, è un aspirar senza mèta e senza fine. L'improntadi questa infinità troviamo stampata anche in tutte leparti del suo intero fenomeno, dalla forma più generaledi questo, spazio e tempo senza fine, al più perfetto ditutti i fenomeni, alla vita e all'ansia degli uomini. Si pos-sono teoricamente ammettere tre estremi della vita uma-na, e considerarli come elementi della vita realmenteumana. In primo luogo, il poderoso volere, le grandipassioni (Ragia-Cuna). Apparisce nei grandi caratteristorici; è rappresentato nell'epos e nel dramma: ma puòmostrarsi anche in una piccola sfera, perché la grandez-za degli oggetti si misura qui solo secondo il grado, incui quelli muovono la volontà, e non secondo i loro rap-porti esterni. Indi, in secondo luogo, il puro conoscere,il percepir le idee, che ha per condizione una conoscen-

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la più segreta vita, aspirazione, sofferenza, gioia, il flus-so e riflusso dell'umano cuore. La melodia è sempre unadeviazione dal tono fondamentale, con mille strani andi-rivieni, fino alla più dolorosa dissonanza, indi ritorna daultimo al tono fondamentale, che esprime l'appagamentoe il rasserenarsi della volontà, ma col quale non c'è piùin seguito altro da fare, e prolungato a lungo generereb-be solo una pesante e inespressiva monotonia, analogaalla noia.

Tutto quanto dovevano chiarire queste considerazio-ni, l'irraggiungibilità di durevole soddisfazione e il valo-re negativo d'ogni felicità, trova spiegazione in ciò ch'èmostrato alla fine del secondo libro; che cioè la volontà,di cui è oggettivazione la vita umana come ogni feno-meno, è un aspirar senza mèta e senza fine. L'improntadi questa infinità troviamo stampata anche in tutte leparti del suo intero fenomeno, dalla forma più generaledi questo, spazio e tempo senza fine, al più perfetto ditutti i fenomeni, alla vita e all'ansia degli uomini. Si pos-sono teoricamente ammettere tre estremi della vita uma-na, e considerarli come elementi della vita realmenteumana. In primo luogo, il poderoso volere, le grandipassioni (Ragia-Cuna). Apparisce nei grandi caratteristorici; è rappresentato nell'epos e nel dramma: ma puòmostrarsi anche in una piccola sfera, perché la grandez-za degli oggetti si misura qui solo secondo il grado, incui quelli muovono la volontà, e non secondo i loro rap-porti esterni. Indi, in secondo luogo, il puro conoscere,il percepir le idee, che ha per condizione una conoscen-

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za emancipata dal servigio della volontà: la vita del ge-nio (Sattva-Guna). Finalmente, in terzo luogo, la massi-ma letargia della volontà, e quindi della conoscenza chene dipende: vuota aspirazione, paralizzante noia (Tama-Guna). La vita individuale, lungi dal permanere in unodi codesti estremi, appena raramente li tocca, ed il piùspesso non è che fiacco e vacillante appressarsi ora aquesta ora a quella parte, un povero volere oggetti me-schini, che ognora si rinnova e così ci sottrae alla noia.È davvero incredibile, come insignificante e priva disenso, vista dal di fuori, e come opaca e irriflessiva, sen-tita dal di dentro, trascorra la vita di quasi tutta l'umani-tà. È un languido aspirare e soffrire, un sognante trabal-lare attraverso le quattro età della vita fino alla morte,con accompagnamento d'una fila di pensieri triviali. Gliuomini somigliano a orologi, che vengono caricati ecamminano, senza sapere il perché; ed ogni volta, cheun uomo viene generato e partorito, è l'orologio dellavita umana di nuovo caricato, per ancora una volta ripe-tere, frase per frase, battuta per battuta, con variazioniinsignificanti, la stessa musica già infinite volte suonata.Ciascun individuo, ciascun volto umano e ciascuna vitanon è che un nuovo breve sogno dell'infinito spirito na-turale, della permanente volontà di vivere; non è cheuna nuova immagine fuggitiva, che la volontà tracciaper gioco sul foglio infinito dello spazio e del tempo, la-sciandola durare un attimo appena percettibile di fronteall'immensità di quelli, e poi cancellandola, per dar luo-go ad altre. Nondimeno, e in ciò è l'aspetto grave della

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za emancipata dal servigio della volontà: la vita del ge-nio (Sattva-Guna). Finalmente, in terzo luogo, la massi-ma letargia della volontà, e quindi della conoscenza chene dipende: vuota aspirazione, paralizzante noia (Tama-Guna). La vita individuale, lungi dal permanere in unodi codesti estremi, appena raramente li tocca, ed il piùspesso non è che fiacco e vacillante appressarsi ora aquesta ora a quella parte, un povero volere oggetti me-schini, che ognora si rinnova e così ci sottrae alla noia.È davvero incredibile, come insignificante e priva disenso, vista dal di fuori, e come opaca e irriflessiva, sen-tita dal di dentro, trascorra la vita di quasi tutta l'umani-tà. È un languido aspirare e soffrire, un sognante trabal-lare attraverso le quattro età della vita fino alla morte,con accompagnamento d'una fila di pensieri triviali. Gliuomini somigliano a orologi, che vengono caricati ecamminano, senza sapere il perché; ed ogni volta, cheun uomo viene generato e partorito, è l'orologio dellavita umana di nuovo caricato, per ancora una volta ripe-tere, frase per frase, battuta per battuta, con variazioniinsignificanti, la stessa musica già infinite volte suonata.Ciascun individuo, ciascun volto umano e ciascuna vitanon è che un nuovo breve sogno dell'infinito spirito na-turale, della permanente volontà di vivere; non è cheuna nuova immagine fuggitiva, che la volontà tracciaper gioco sul foglio infinito dello spazio e del tempo, la-sciandola durare un attimo appena percettibile di fronteall'immensità di quelli, e poi cancellandola, per dar luo-go ad altre. Nondimeno, e in ciò è l'aspetto grave della

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vita, ognuna di tali immagini fugaci, ognuno di tali insi-pidi capricci dev'essere pagato dalla intera volontà di vi-vere, in tutta la sua violenza, con molti e profondi dolo-ri, e in ultimo con un'amara morte, a lungo temuta, fi-nalmente venuta. Per questo ci fa così subitamente ma-linconici la vista d'un cadavere.

La vita d'ogni singolo, se la si guarda nel suo com-plesso, rilevandone solo i tratti significanti, è sempre in-vero una tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha ilcarattere della commedia. Imperocché l'agitazione e iltormento della giornata, l'incessante ironia dell'attimo, ilvolere e il temere della settimana, gli accidenti sgrade-voli d'ogni ora, per virtù del caso ognora intento a bruttitiri, sono vere scene di commedia. Ma i desideri sempreinappagati, il vano aspirare, le speranze calpestate senzapietà dal destino, i funesti errori di tutta la vita, con ac-crescimento di dolore e con morte alla fine, costituisco-no ognora una tragedia. Così, quasi il destino avesse vo-luto aggiungere lo scherno al travaglio della nostra esi-stenza, deve la vita nostra contenere tutti i mali dellatragedia, mentre noi non riusciamo neppure a conservarla gravità di personaggi tragici, e siamo invece inevita-bilmente, nei molti casi particolari della vita, goffi tipida commedia.

Ma per quanto i grossi e piccoli tormenti riempianoogni vita umana, tenendola in perenne inquietudine emoto, non possono tuttavia coprir l'insufficienza dellavita rispetto alla soddisfazione dello spirito, e il vuoto el'insulsaggine dell'esistenza, né bandire la noia, ch'è

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vita, ognuna di tali immagini fugaci, ognuno di tali insi-pidi capricci dev'essere pagato dalla intera volontà di vi-vere, in tutta la sua violenza, con molti e profondi dolo-ri, e in ultimo con un'amara morte, a lungo temuta, fi-nalmente venuta. Per questo ci fa così subitamente ma-linconici la vista d'un cadavere.

La vita d'ogni singolo, se la si guarda nel suo com-plesso, rilevandone solo i tratti significanti, è sempre in-vero una tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha ilcarattere della commedia. Imperocché l'agitazione e iltormento della giornata, l'incessante ironia dell'attimo, ilvolere e il temere della settimana, gli accidenti sgrade-voli d'ogni ora, per virtù del caso ognora intento a bruttitiri, sono vere scene di commedia. Ma i desideri sempreinappagati, il vano aspirare, le speranze calpestate senzapietà dal destino, i funesti errori di tutta la vita, con ac-crescimento di dolore e con morte alla fine, costituisco-no ognora una tragedia. Così, quasi il destino avesse vo-luto aggiungere lo scherno al travaglio della nostra esi-stenza, deve la vita nostra contenere tutti i mali dellatragedia, mentre noi non riusciamo neppure a conservarla gravità di personaggi tragici, e siamo invece inevita-bilmente, nei molti casi particolari della vita, goffi tipida commedia.

Ma per quanto i grossi e piccoli tormenti riempianoogni vita umana, tenendola in perenne inquietudine emoto, non possono tuttavia coprir l'insufficienza dellavita rispetto alla soddisfazione dello spirito, e il vuoto el'insulsaggine dell'esistenza, né bandire la noia, ch'è

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sempre pronta a empire ogni pausa lasciata dall'ango-scia. Di là è venuto, che lo spirito umano, non ancoracontento delle angosce, amarezze e occupazioni impo-stegli dal mondo reale, si crea per di più, in forma dimille variate superstizioni, un mondo immaginario, colquale si affatica in tutti i modi, dissipandovi e tempo eforze, non appena il mondo reale gli lasci un riposoch'egli non sa gustare. Codesto è anche spessissimo, inorigine, il caso di quei popoli, cui la dolcezza del climae del suolo fa agevole la vita; soprattutto degli Indù, epoi dei Greci, dei Romani, e più tardi degl'Italiani, Spa-gnuoli e così via. Demoni, Dei e santi si crea l'uomo apropria immagine; a essi devono incessantemente veniretributati sacrifizi, preci, adornamento di templi, voti econseguenti offerte, pellegrinaggi, saluti, addobbo delleloro immagini, etc. Il loro culto s'intreccia dappertuttocon la realtà, anzi l'oscura: ogni avvenimento della vitavien preso allora come un effetto dell'azione di quegliesseri: i rapporti con loro riempiono metà della vita, ali-mentano diuturnamente la speranza e diventano spesso,pel fascino dell'illusione, più interessanti dei rapporticon la vita reale. Sono l'espressione e il sintomo deldoppio bisogno, che spinge l'uomo da una parte versoaiuto e sostegno, dall'altra verso occupazione e passa-tempo: e quand'anche operino spesso all'opposto controil primo di codesti bisogni, facendo sì che, in caso disventure e pericoli, vengano e tempo prezioso e forzenon già usati a difendersene, bensì vanamente sciupatiin preghiere e sacrifizi, appunto per questo servono an-

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sempre pronta a empire ogni pausa lasciata dall'ango-scia. Di là è venuto, che lo spirito umano, non ancoracontento delle angosce, amarezze e occupazioni impo-stegli dal mondo reale, si crea per di più, in forma dimille variate superstizioni, un mondo immaginario, colquale si affatica in tutti i modi, dissipandovi e tempo eforze, non appena il mondo reale gli lasci un riposoch'egli non sa gustare. Codesto è anche spessissimo, inorigine, il caso di quei popoli, cui la dolcezza del climae del suolo fa agevole la vita; soprattutto degli Indù, epoi dei Greci, dei Romani, e più tardi degl'Italiani, Spa-gnuoli e così via. Demoni, Dei e santi si crea l'uomo apropria immagine; a essi devono incessantemente veniretributati sacrifizi, preci, adornamento di templi, voti econseguenti offerte, pellegrinaggi, saluti, addobbo delleloro immagini, etc. Il loro culto s'intreccia dappertuttocon la realtà, anzi l'oscura: ogni avvenimento della vitavien preso allora come un effetto dell'azione di quegliesseri: i rapporti con loro riempiono metà della vita, ali-mentano diuturnamente la speranza e diventano spesso,pel fascino dell'illusione, più interessanti dei rapporticon la vita reale. Sono l'espressione e il sintomo deldoppio bisogno, che spinge l'uomo da una parte versoaiuto e sostegno, dall'altra verso occupazione e passa-tempo: e quand'anche operino spesso all'opposto controil primo di codesti bisogni, facendo sì che, in caso disventure e pericoli, vengano e tempo prezioso e forzenon già usati a difendersene, bensì vanamente sciupatiin preghiere e sacrifizi, appunto per questo servono an-

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cor meglio al secondo bisogno, mediante quella fantasti-ca comunicazione con un sognato mondo di spiriti. Equesto è il frutto, tutt'altro che disprezzabile, d'ogni su-perstizione.

§ 59.Siamo ormai persuasi a priori, per le generalissime

considerazioni fatte, per avere investigato i primi fonda-menti elementari della vita umana, che questa già persua generica disposizione è incapace d'ogni vera felicità,anzi è essenzialmente un dolore in molteplici forme, euno stato al tutto infelice. Potremmo adesso suscitarequesta persuasione molto più vivacemente in noi, se,procedendo più a posteriori, venissimo a esaminare casimeglio determinati, presentassimo immagini alla fanta-sia, e volessimo con esempi raffigurare il martirio senzanome, che esperienza e storia ci offrono, da qualunqueparte si guardi, e sotto qualsivoglia aspetto s'investighi.Ma il capitolo non avrebbe mai fine, e ci allontanerebbedal punto di vista della generalità, che è essenziale allafilosofia. Inoltre una cotale analisi potrebb'esser forsetenuta per semplice declamazione sull'umana miseria,come se ne son fatte tante, e come tale accusata d'essereunilaterale, perché procederebbe da fatti singoli. Da co-desto rimprovero e sospetto va perciò esente la nostraaffatto fredda e filosofica dimostrazione, procedentedall'universale, e condotta a priori, dell'inevitabile dolo-re radicato nell'essenza della vita. La conferma a poste-

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cor meglio al secondo bisogno, mediante quella fantasti-ca comunicazione con un sognato mondo di spiriti. Equesto è il frutto, tutt'altro che disprezzabile, d'ogni su-perstizione.

§ 59.Siamo ormai persuasi a priori, per le generalissime

considerazioni fatte, per avere investigato i primi fonda-menti elementari della vita umana, che questa già persua generica disposizione è incapace d'ogni vera felicità,anzi è essenzialmente un dolore in molteplici forme, euno stato al tutto infelice. Potremmo adesso suscitarequesta persuasione molto più vivacemente in noi, se,procedendo più a posteriori, venissimo a esaminare casimeglio determinati, presentassimo immagini alla fanta-sia, e volessimo con esempi raffigurare il martirio senzanome, che esperienza e storia ci offrono, da qualunqueparte si guardi, e sotto qualsivoglia aspetto s'investighi.Ma il capitolo non avrebbe mai fine, e ci allontanerebbedal punto di vista della generalità, che è essenziale allafilosofia. Inoltre una cotale analisi potrebb'esser forsetenuta per semplice declamazione sull'umana miseria,come se ne son fatte tante, e come tale accusata d'essereunilaterale, perché procederebbe da fatti singoli. Da co-desto rimprovero e sospetto va perciò esente la nostraaffatto fredda e filosofica dimostrazione, procedentedall'universale, e condotta a priori, dell'inevitabile dolo-re radicato nell'essenza della vita. La conferma a poste-

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riori è facile averla dovunque. Ciascuno, che si sia sve-gliato dai primi sogni di giovinezza, e abbia osservato lapropria e l'altrui esperienza, e guardato intorno nellavita, nella storia del passato e del tempo suo, come infi-ne nelle opere dei grandi poeti, troverà per risultanza,quando un pregiudizio incancellabilmente impresso nonparalizzi il suo giudizio, che quest'umano mondo è il re-gno del caso e dell'errore, i quali senza pietà vi impera-no, nelle grandi come nelle piccole cose; e accanto aquelli agitano inoltre follia e malvagità la sferza. Di làderiva, che ogni cosa buona si faccia strada solo a fatica,e alcunché di nobile e di saggio ben raramente vengaalla luce, raggiungendo efficacia o attenzione; mentrel'assurdo e lo stolto nel dominio del pensiero, il trivialee lo scipito nel dominio dell'arte, il malvagio e l'insidio-so nel dominio delle azioni, soli tengono il campo, ap-pena turbati da brevi interruzioni. E viceversa l'eccellen-za in ogni genere è sempre un'eccezione, un caso tra mi-lioni; sì che, quando s'è manifestata in un'opera durevo-le, questa, dopo esser sopravvissuta al rancore dei suoicontemporanei, rimane isolata, e la si conserva come unaerolite, caduto da un ordine di cose diverso da quelloche qui regna. Per ciò che tocca poi la vita individuale,ogni storia di vita è una storia di dolore; che ogni corsovitale è, di regola, una prolungata serie di grandi e pic-cole sventure, che ciascuno cela del suo meglio, perchésa come altri raramente ne proverebbero simpatia ocompassione, bensì quasi sempre soddisfazione, veden-do un'immagine delle pene da cui sono essi in quel mo-

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riori è facile averla dovunque. Ciascuno, che si sia sve-gliato dai primi sogni di giovinezza, e abbia osservato lapropria e l'altrui esperienza, e guardato intorno nellavita, nella storia del passato e del tempo suo, come infi-ne nelle opere dei grandi poeti, troverà per risultanza,quando un pregiudizio incancellabilmente impresso nonparalizzi il suo giudizio, che quest'umano mondo è il re-gno del caso e dell'errore, i quali senza pietà vi impera-no, nelle grandi come nelle piccole cose; e accanto aquelli agitano inoltre follia e malvagità la sferza. Di làderiva, che ogni cosa buona si faccia strada solo a fatica,e alcunché di nobile e di saggio ben raramente vengaalla luce, raggiungendo efficacia o attenzione; mentrel'assurdo e lo stolto nel dominio del pensiero, il trivialee lo scipito nel dominio dell'arte, il malvagio e l'insidio-so nel dominio delle azioni, soli tengono il campo, ap-pena turbati da brevi interruzioni. E viceversa l'eccellen-za in ogni genere è sempre un'eccezione, un caso tra mi-lioni; sì che, quando s'è manifestata in un'opera durevo-le, questa, dopo esser sopravvissuta al rancore dei suoicontemporanei, rimane isolata, e la si conserva come unaerolite, caduto da un ordine di cose diverso da quelloche qui regna. Per ciò che tocca poi la vita individuale,ogni storia di vita è una storia di dolore; che ogni corsovitale è, di regola, una prolungata serie di grandi e pic-cole sventure, che ciascuno cela del suo meglio, perchésa come altri raramente ne proverebbero simpatia ocompassione, bensì quasi sempre soddisfazione, veden-do un'immagine delle pene da cui sono essi in quel mo-

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mento immuni. E forse non si darà mai il caso che unuomo, al termine della sua vita, se capace di riflessionee in pari tempo sincero, desideri di ricominciarla; ma in-vece ben più volentieri sceglierà il completo non essere.Il contenuto essenziale del celeberrimo monologonell'Amleto è, ridotto in breve, questo: il nostro stato ècosì miserabile, che un completo non essere dovrebbesenz'altro essergli preferito. Ora, se il suicidio ci portas-se veramente al non essere, sì che l'alternativa «essere onon essere» ci stesse innanzi nel pieno significato dellaparola, sarebbe assolutamente da scegliere, come unadesiderabilissima conclusione (a consummation devou-tly to be wish'd). Ma in noi è qualcosa, che ci dice, nonstare il fatto così; tutto non sarebbe finito, la morte nonè un assoluto annientamento. Corrisponde a ciò quantoattesta il padre della storia94, né mai fu contraddetto daallora, non essere esistito uomo alcuno, il quale piùd'una volta non abbia desiderato di non vedere il dì se-guente. Quindi la brevità della vita, tanto spesso lamen-tata, potrebbe forse essere quel che la vita ha di meglio.Se finalmente a ciascuno si volessero porre sottocchiogli orrendi dolori e strazi, a cui è la sua vita perenne-mente esposta, lo coglierebbe raccapriccio: e se si con-ducesse il più ostinato ottimista attraverso gli ospedali, ilazzaretti, le camere di martirio chirurgiche, attraversole prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi,pei campi di battaglia e i tribunali, aprendogli poi tutti i

94 ERODOTO, VII, 46.

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mento immuni. E forse non si darà mai il caso che unuomo, al termine della sua vita, se capace di riflessionee in pari tempo sincero, desideri di ricominciarla; ma in-vece ben più volentieri sceglierà il completo non essere.Il contenuto essenziale del celeberrimo monologonell'Amleto è, ridotto in breve, questo: il nostro stato ècosì miserabile, che un completo non essere dovrebbesenz'altro essergli preferito. Ora, se il suicidio ci portas-se veramente al non essere, sì che l'alternativa «essere onon essere» ci stesse innanzi nel pieno significato dellaparola, sarebbe assolutamente da scegliere, come unadesiderabilissima conclusione (a consummation devou-tly to be wish'd). Ma in noi è qualcosa, che ci dice, nonstare il fatto così; tutto non sarebbe finito, la morte nonè un assoluto annientamento. Corrisponde a ciò quantoattesta il padre della storia94, né mai fu contraddetto daallora, non essere esistito uomo alcuno, il quale piùd'una volta non abbia desiderato di non vedere il dì se-guente. Quindi la brevità della vita, tanto spesso lamen-tata, potrebbe forse essere quel che la vita ha di meglio.Se finalmente a ciascuno si volessero porre sottocchiogli orrendi dolori e strazi, a cui è la sua vita perenne-mente esposta, lo coglierebbe raccapriccio: e se si con-ducesse il più ostinato ottimista attraverso gli ospedali, ilazzaretti, le camere di martirio chirurgiche, attraversole prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi,pei campi di battaglia e i tribunali, aprendogli poi tutti i

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sinistri covi della miseria, ove ci si appiatta per nascon-dersi agli sguardi della fredda curiosità, e da ultimo fa-cendogli ficcar l'occhio nella torre della fame di Ugoli-no, certamente finirebbe anch'egli con l'intendere diqual sorte sia questo meilleur des mondes possibles.Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se nonda questo nostro mondo reale? E nondimeno n'è venutoun inferno bell'e buono. Quando invece gli toccò di de-scrivere il cielo e le sue gioie, si trovò davanti a una dif-ficoltà insuperabile: appunto perché il nostro mondonon offre materiale per un'impresa siffatta. Perciò nongli rimase se non trasmetterci, in luogo delle gioie para-disiache, gli ammaestramenti, che a lui furono colà im-partiti dal suo antenato, dalla sua Beatrice, e da differen-ti santi. Da ciò apparisce abbastanza chiaro, di qual na-tura sia questo mondo. È vero bensì che nella vita uma-na, come in ogni cattiva mercanzia, il lato esterno è ma-scherato con falso splendore: sempre si cela ciò che sof-fre; mentre quanto può ciascuno procacciarsi di pompa edi lustro porta in evidenza, e quanto più interna conten-tezza gli manca, tanto più desidera nell'opinione altruipassare per felice. A tanto giunge la stoltezza: e l'opinio-ne altrui è una mira essenziale per le fatiche di tutti, seb-bene la sua completa insignificanza sia già di per séespressa dal fatto che in quasi tutte le lingue la parolavanità, vanitas, significa in origine il vuoto e il nulla.Ma anche sotto codesto orpello possono gli affanni dellavita crescere in tal modo (e ciò accade tutti i giorni), chela morte, d'ordinario temuta soprattutto, viene ghermita

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sinistri covi della miseria, ove ci si appiatta per nascon-dersi agli sguardi della fredda curiosità, e da ultimo fa-cendogli ficcar l'occhio nella torre della fame di Ugoli-no, certamente finirebbe anch'egli con l'intendere diqual sorte sia questo meilleur des mondes possibles.Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se nonda questo nostro mondo reale? E nondimeno n'è venutoun inferno bell'e buono. Quando invece gli toccò di de-scrivere il cielo e le sue gioie, si trovò davanti a una dif-ficoltà insuperabile: appunto perché il nostro mondonon offre materiale per un'impresa siffatta. Perciò nongli rimase se non trasmetterci, in luogo delle gioie para-disiache, gli ammaestramenti, che a lui furono colà im-partiti dal suo antenato, dalla sua Beatrice, e da differen-ti santi. Da ciò apparisce abbastanza chiaro, di qual na-tura sia questo mondo. È vero bensì che nella vita uma-na, come in ogni cattiva mercanzia, il lato esterno è ma-scherato con falso splendore: sempre si cela ciò che sof-fre; mentre quanto può ciascuno procacciarsi di pompa edi lustro porta in evidenza, e quanto più interna conten-tezza gli manca, tanto più desidera nell'opinione altruipassare per felice. A tanto giunge la stoltezza: e l'opinio-ne altrui è una mira essenziale per le fatiche di tutti, seb-bene la sua completa insignificanza sia già di per séespressa dal fatto che in quasi tutte le lingue la parolavanità, vanitas, significa in origine il vuoto e il nulla.Ma anche sotto codesto orpello possono gli affanni dellavita crescere in tal modo (e ciò accade tutti i giorni), chela morte, d'ordinario temuta soprattutto, viene ghermita

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con avidità. O addirittura, se il destino vuol mostraretutta la sua malizia, anche quel rifugio può esser chiusoa chi soffre; e questi, nelle mani di nemici infelloniti, ri-manere esposto a lunghi, lenti martiri senza scampo. In-vano il tormentato chiede allora aiuto a' suoi Dei: rima-ne implacabilmente in preda al suo destino. Ma codestaimpossibilità di scampo è appunto lo specchio dell'indo-mabilità del suo volere, di cui è oggettità la sua persona.Come non può una forza esterna mutare o sopprimerequesto volere, così non può alcuna forza estranea libe-rarlo dai tormenti, che produce la vita, la quale è feno-meno di quel volere. Sempre l'uomo è ridotto a contarsu se stesso, e in ogni cosa e nella sostanza delle cose.Invano si forma Dei, per mendicare e carpire con adula-zioni ciò che solo può dargli la sua forza di volontà. Seil Vecchio Testamento aveva fatto del mondo edell'uomo l'opera d'un Dio, si vide il Nuovo Testamentocostretto, per insegnar che salvezza e redenzione dal do-lore di questo mondo può solo dal mondo stesso partire,a far di quel Dio un uomo. La volontà dell'uomo è, e ri-mane, ciò da cui tutto per l'uomo dipende. Saniassi,martiri, santi d'ogni fede e nome, hanno spontaneamentee volentieri sofferti quei martiri, perché era in loro sop-pressa la volontà di vivere; fin la lenta distruzione delsuo fenomeno fu quindi a loro gradita. Ma non voglioanticipare il discorso che dovrà venire in seguito. Nonposso però tenermi dal dichiarare, che a me l'ottimismo,quando non sia per avventura il vuoto cianciar di cotalisotto la cui piatta fronte non altro alberga se non parole,

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con avidità. O addirittura, se il destino vuol mostraretutta la sua malizia, anche quel rifugio può esser chiusoa chi soffre; e questi, nelle mani di nemici infelloniti, ri-manere esposto a lunghi, lenti martiri senza scampo. In-vano il tormentato chiede allora aiuto a' suoi Dei: rima-ne implacabilmente in preda al suo destino. Ma codestaimpossibilità di scampo è appunto lo specchio dell'indo-mabilità del suo volere, di cui è oggettità la sua persona.Come non può una forza esterna mutare o sopprimerequesto volere, così non può alcuna forza estranea libe-rarlo dai tormenti, che produce la vita, la quale è feno-meno di quel volere. Sempre l'uomo è ridotto a contarsu se stesso, e in ogni cosa e nella sostanza delle cose.Invano si forma Dei, per mendicare e carpire con adula-zioni ciò che solo può dargli la sua forza di volontà. Seil Vecchio Testamento aveva fatto del mondo edell'uomo l'opera d'un Dio, si vide il Nuovo Testamentocostretto, per insegnar che salvezza e redenzione dal do-lore di questo mondo può solo dal mondo stesso partire,a far di quel Dio un uomo. La volontà dell'uomo è, e ri-mane, ciò da cui tutto per l'uomo dipende. Saniassi,martiri, santi d'ogni fede e nome, hanno spontaneamentee volentieri sofferti quei martiri, perché era in loro sop-pressa la volontà di vivere; fin la lenta distruzione delsuo fenomeno fu quindi a loro gradita. Ma non voglioanticipare il discorso che dovrà venire in seguito. Nonposso però tenermi dal dichiarare, che a me l'ottimismo,quando non sia per avventura il vuoto cianciar di cotalisotto la cui piatta fronte non altro alberga se non parole,

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sembra non pure un pensare assurdo, ma anche iniquodavvero, un amaro scherno dei mali senza nome patitidall'umanità. Né si pensi, poi, che la fede cristiana siafavorevole all'ottimismo; che per contro negli Evangelile parole mondo e male sono usate quasi come sinoni-mi95.

§ 60.Or che abbiamo terminate entrambe le spiegazioni,

ch'era necessario intercalare, intorno alla libertà dellavolontà in sé, insieme con la necessità del suo fenome-no, e intorno alla sorte di lei nel mondo, che ne rispec-chia l'essenza (mondo nella cognizion del quale elladeve affermarsi o negarsi); or possiamo portare a mag-gior chiarezza quest'affermazione o negazione, che piùindietro esaminammo e spiegammo sol genericamente,con l'esporre le maniere di condotta, in cui quelle trova-no la loro espressione, e considerarle nel loro intimo si-gnificato.

L'affermazione della volontà è il volere stesso perma-nente, non turbato da nessuna conoscenza, qual suolriempire la vita dell'uomo in generale. Essendo già ilcorpo dell'uomo l'oggettità della volontà, quale questaappare in un dato grado e in un dato individuo; così ilsuo volere svolgentesi nel tempo è quasi la parafrasi delcorpo, il commento che illustra il senso del tutto e dellesue parti; è un altro modo di presentarsi della stessa cosa95 Si veda il cap. 46 del secondo volume [pp. 591-608 del tomo II dell'ed.

cit.].

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sembra non pure un pensare assurdo, ma anche iniquodavvero, un amaro scherno dei mali senza nome patitidall'umanità. Né si pensi, poi, che la fede cristiana siafavorevole all'ottimismo; che per contro negli Evangelile parole mondo e male sono usate quasi come sinoni-mi95.

§ 60.Or che abbiamo terminate entrambe le spiegazioni,

ch'era necessario intercalare, intorno alla libertà dellavolontà in sé, insieme con la necessità del suo fenome-no, e intorno alla sorte di lei nel mondo, che ne rispec-chia l'essenza (mondo nella cognizion del quale elladeve affermarsi o negarsi); or possiamo portare a mag-gior chiarezza quest'affermazione o negazione, che piùindietro esaminammo e spiegammo sol genericamente,con l'esporre le maniere di condotta, in cui quelle trova-no la loro espressione, e considerarle nel loro intimo si-gnificato.

L'affermazione della volontà è il volere stesso perma-nente, non turbato da nessuna conoscenza, qual suolriempire la vita dell'uomo in generale. Essendo già ilcorpo dell'uomo l'oggettità della volontà, quale questaappare in un dato grado e in un dato individuo; così ilsuo volere svolgentesi nel tempo è quasi la parafrasi delcorpo, il commento che illustra il senso del tutto e dellesue parti; è un altro modo di presentarsi della stessa cosa95 Si veda il cap. 46 del secondo volume [pp. 591-608 del tomo II dell'ed.

cit.].

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in sé, di cui è già fenomeno anche il corpo. Potremmoquindi, invece che affermazione della volontà, dire af-fermazione del corpo. Il tema fondamentale di tutti glisvariati atti di volontà è il soddisfacimento dei bisogni,che dall'esistenza corporale nella sua salute sono insepa-rabili, e già nel corpo hanno la loro espressione e si ri-ducono alla conservazione dell'individuo, alla continua-zione della specie. Ma mediatamente, per questo mezzo,i più molteplici motivi acquistano impero sulla volontà,e producono i più diversi atti di volontà. Ognuno di que-sti è solo un saggio, un esempio, della volontà genericaqui manifestantesi: di qual natura sia tal saggio, qualparvenza abbia il motivo e quale comunichi ad esso, nonè distinzione essenziale; essenziale è soltanto, che al-cunché si voglia, e l'intensità del volere. La volontà puòdiventar visibile solo in relazione coi motivi, comel'occhio soltanto nella luce mostra la sua forza visiva. Ilmotivo sta davanti alla volontà come un multiformeProteo: promette ognora piena soddisfazione, estinzionedella sete della volontà; ma una volta raggiunto, eccolotosto riapparire in altra forma, ed in essa eccitar daccapola volontà, sempre secondo il grado di vivezza che que-sta possiede, e la sua relazione con la conoscenza; gradoe relazione, che appunto mediante codesti saggi edesempii diventano palesi come carattere empirico.

Fin dall'inizio della sua conscienza, l'uomo si trova inatto di volere, e la sua conoscenza rimane di regola incostante relazione con la sua volontà. Egli cerca dappri-ma di conoscere appieno gli oggetti del volere, quindi i

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in sé, di cui è già fenomeno anche il corpo. Potremmoquindi, invece che affermazione della volontà, dire af-fermazione del corpo. Il tema fondamentale di tutti glisvariati atti di volontà è il soddisfacimento dei bisogni,che dall'esistenza corporale nella sua salute sono insepa-rabili, e già nel corpo hanno la loro espressione e si ri-ducono alla conservazione dell'individuo, alla continua-zione della specie. Ma mediatamente, per questo mezzo,i più molteplici motivi acquistano impero sulla volontà,e producono i più diversi atti di volontà. Ognuno di que-sti è solo un saggio, un esempio, della volontà genericaqui manifestantesi: di qual natura sia tal saggio, qualparvenza abbia il motivo e quale comunichi ad esso, nonè distinzione essenziale; essenziale è soltanto, che al-cunché si voglia, e l'intensità del volere. La volontà puòdiventar visibile solo in relazione coi motivi, comel'occhio soltanto nella luce mostra la sua forza visiva. Ilmotivo sta davanti alla volontà come un multiformeProteo: promette ognora piena soddisfazione, estinzionedella sete della volontà; ma una volta raggiunto, eccolotosto riapparire in altra forma, ed in essa eccitar daccapola volontà, sempre secondo il grado di vivezza che que-sta possiede, e la sua relazione con la conoscenza; gradoe relazione, che appunto mediante codesti saggi edesempii diventano palesi come carattere empirico.

Fin dall'inizio della sua conscienza, l'uomo si trova inatto di volere, e la sua conoscenza rimane di regola incostante relazione con la sua volontà. Egli cerca dappri-ma di conoscere appieno gli oggetti del volere, quindi i

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mezzi per raggiungerli. Fatto questo, sa quel che gli toc-ca di fare, e d'ordinario non tende ad altro sapere. Atti-vamente agisce: la conscienza di lavorar sempre per loscopo della sua volontà lo regge e mantiene operoso: ilsuo pensiero va soltanto alla scelta dei mezzi. Tale è lavita di quasi tutti gli uomini: vogliono, sanno ciò chevogliono, vi tendono con tanto successo, quanto basta aproteggerli dalla disperazione, e con tanto insuccesso,quanto occorre a proteggerli dalla noia e dalle sue con-seguenze. Di là viene una certa letizia, o almeno tran-quillità, a cui né ricchezza né povertà nulla propriamen-te tolgono: che il ricco e il povero godono non ciòch'essi hanno, che, come s'è mostrato, agisce sol negati-vamente; ma ciò che con la loro attività sperano di con-seguire. Vanno innanzi dandosi da fare, con molta gravi-tà, e anzi con aria d'importanza: non altrimenti fanno iloro giuochi i ragazzi. È sempre un'eccezione, quando ilcorso d'una tal vita è deviato per effetto d'un conoscereindipendente dal servigio della volontà, e rivoltoall'essenza del mondo in genere: sia che se ne produca ilbisogno estetico della contemplazione, o il bisogno mo-rale della rinunzia. I più incalza attraverso l'esistenza iltravaglio, senza lasciare loro tempo a riflessione. Soven-te, all'opposto, la volontà s'infiamma ad un grado, che digran lunga trascende l'affermazione del corpo: grado chepoi vivaci slanci e poderose passioni rivelano, nelle qua-li l'individuo non pure afferma il suo proprio essere, maquel degli altri nega, e cerca di sopprimere, dovegl'intralcia la via.

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mezzi per raggiungerli. Fatto questo, sa quel che gli toc-ca di fare, e d'ordinario non tende ad altro sapere. Atti-vamente agisce: la conscienza di lavorar sempre per loscopo della sua volontà lo regge e mantiene operoso: ilsuo pensiero va soltanto alla scelta dei mezzi. Tale è lavita di quasi tutti gli uomini: vogliono, sanno ciò chevogliono, vi tendono con tanto successo, quanto basta aproteggerli dalla disperazione, e con tanto insuccesso,quanto occorre a proteggerli dalla noia e dalle sue con-seguenze. Di là viene una certa letizia, o almeno tran-quillità, a cui né ricchezza né povertà nulla propriamen-te tolgono: che il ricco e il povero godono non ciòch'essi hanno, che, come s'è mostrato, agisce sol negati-vamente; ma ciò che con la loro attività sperano di con-seguire. Vanno innanzi dandosi da fare, con molta gravi-tà, e anzi con aria d'importanza: non altrimenti fanno iloro giuochi i ragazzi. È sempre un'eccezione, quando ilcorso d'una tal vita è deviato per effetto d'un conoscereindipendente dal servigio della volontà, e rivoltoall'essenza del mondo in genere: sia che se ne produca ilbisogno estetico della contemplazione, o il bisogno mo-rale della rinunzia. I più incalza attraverso l'esistenza iltravaglio, senza lasciare loro tempo a riflessione. Soven-te, all'opposto, la volontà s'infiamma ad un grado, che digran lunga trascende l'affermazione del corpo: grado chepoi vivaci slanci e poderose passioni rivelano, nelle qua-li l'individuo non pure afferma il suo proprio essere, maquel degli altri nega, e cerca di sopprimere, dovegl'intralcia la via.

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La conservazione del corpo mediante le sue stesseforze è un così minimo grado dell'affermazione dellavolontà, che se ci si fermasse volontariamente a questo,noi potremmo ritener cessata, con la morte del corpo,anche la volontà che in esso si manifestava. Ma già lasoddisfazione dell'istinto sessuale va oltre l'affermazio-ne della nostra esistenza, la quale empie un sì breve spa-zio di tempo, e afferma la vita oltre la morte individuale,per un tempo indefinito. La natura, sempre vera e conse-guente, e in questo punto addirittura ingenua, ci disvelaapertamente l'intimo significato dell'atto generativo. Lanostra conscienza, la vivacità dell'istinto, c'insegna chein codesto atto s'esprime la più risoluta affermazionedella volontà di vivere, pura e senza ulteriore aggiunta(come per avventura sarebbe la negazione d'altri indivi-dui); e così nel tempo e nella serie causale, ossia nellanatura, appare quale effetto dell'atto una nuova vita: dicontro al generatore viene a porsi il generato, diverso daquello nel fenomeno, ma in sé, nell'idea, identico adesso. È quindi per codesto atto, che le generazioni deiviventi si collegano l'una con l'altra in un tutto, e si per-petuano. La generazione è, per ciò che tocca il generan-te, semplice espressione e simbolo della sua risoluta af-fermazione della volontà di vivere; per ciò che tocca in-vece il generato, essa non è punto la cagione della vo-lontà che in lui si manifesta, non conoscendo la volontàin sé né vera causa sostanziale, né effetto; bensì è, comeogni causa, soltanto l'occasione pel manifestarsi di code-sta volontà in un dato tempo e in un dato luogo. In

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La conservazione del corpo mediante le sue stesseforze è un così minimo grado dell'affermazione dellavolontà, che se ci si fermasse volontariamente a questo,noi potremmo ritener cessata, con la morte del corpo,anche la volontà che in esso si manifestava. Ma già lasoddisfazione dell'istinto sessuale va oltre l'affermazio-ne della nostra esistenza, la quale empie un sì breve spa-zio di tempo, e afferma la vita oltre la morte individuale,per un tempo indefinito. La natura, sempre vera e conse-guente, e in questo punto addirittura ingenua, ci disvelaapertamente l'intimo significato dell'atto generativo. Lanostra conscienza, la vivacità dell'istinto, c'insegna chein codesto atto s'esprime la più risoluta affermazionedella volontà di vivere, pura e senza ulteriore aggiunta(come per avventura sarebbe la negazione d'altri indivi-dui); e così nel tempo e nella serie causale, ossia nellanatura, appare quale effetto dell'atto una nuova vita: dicontro al generatore viene a porsi il generato, diverso daquello nel fenomeno, ma in sé, nell'idea, identico adesso. È quindi per codesto atto, che le generazioni deiviventi si collegano l'una con l'altra in un tutto, e si per-petuano. La generazione è, per ciò che tocca il generan-te, semplice espressione e simbolo della sua risoluta af-fermazione della volontà di vivere; per ciò che tocca in-vece il generato, essa non è punto la cagione della vo-lontà che in lui si manifesta, non conoscendo la volontàin sé né vera causa sostanziale, né effetto; bensì è, comeogni causa, soltanto l'occasione pel manifestarsi di code-sta volontà in un dato tempo e in un dato luogo. In

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quanto cosa in sé, non è la volontà del generante diversada quella del generato: che unicamente il fenomeno, enon la cosa in sé, è soggetto al principio individuationis.Con quell'affermazione che va oltre il nostro corpo, finoalla produzione fenomenica di un corpo nuovo, sono an-che dolore e morte, in quanto appartenenti al fenomenodella vita, novellamente affermati; e la possibilità dellaredenzione, che può venir da una più perfetta capacità diconoscere, è in tal caso proclamata infeconda. Qui sta laprofonda ragione della vergogna onde si cela il trafficogenerativo. Questo concetto è rappresentato miticamen-te nel dogma della dottrina cristiana, secondo il qualenoi tutti siamo partecipi del peccato di Adamo (che evi-dentemente non era se non la soddisfazione della vogliasessuale), e per esso andiamo soggetti a soffrire e mori-re. Con ciò quella dottrina va oltre il modo di vederefondato sul principio di ragione, e penetra l'ideadell'uomo; l'unità della quale viene ricostituita dal suofrazionamento negl'innumerevoli individui, mediante ilvincolo della generazione che tutti li riunisce. Vede cosìda un lato ogni individuo come identico ad Adamo, alrappresentante dell'affermazione della vita, e in questaqualità destinato al peccato (peccato originale), al dolo-re, e alla morte: dall'altro lato, la conoscenza dell'idea lefa apparire ogni uomo come identico al Redentore, aquegli che rappresenta la negazione della volontà di vi-vere, e sotto questo rispetto partecipe del sacrificio diLui, per merito di Lui redento, e salvato dai vincoli delpeccato e della morte, ossia del mondo (Epist. ai Roma-

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quanto cosa in sé, non è la volontà del generante diversada quella del generato: che unicamente il fenomeno, enon la cosa in sé, è soggetto al principio individuationis.Con quell'affermazione che va oltre il nostro corpo, finoalla produzione fenomenica di un corpo nuovo, sono an-che dolore e morte, in quanto appartenenti al fenomenodella vita, novellamente affermati; e la possibilità dellaredenzione, che può venir da una più perfetta capacità diconoscere, è in tal caso proclamata infeconda. Qui sta laprofonda ragione della vergogna onde si cela il trafficogenerativo. Questo concetto è rappresentato miticamen-te nel dogma della dottrina cristiana, secondo il qualenoi tutti siamo partecipi del peccato di Adamo (che evi-dentemente non era se non la soddisfazione della vogliasessuale), e per esso andiamo soggetti a soffrire e mori-re. Con ciò quella dottrina va oltre il modo di vederefondato sul principio di ragione, e penetra l'ideadell'uomo; l'unità della quale viene ricostituita dal suofrazionamento negl'innumerevoli individui, mediante ilvincolo della generazione che tutti li riunisce. Vede cosìda un lato ogni individuo come identico ad Adamo, alrappresentante dell'affermazione della vita, e in questaqualità destinato al peccato (peccato originale), al dolo-re, e alla morte: dall'altro lato, la conoscenza dell'idea lefa apparire ogni uomo come identico al Redentore, aquegli che rappresenta la negazione della volontà di vi-vere, e sotto questo rispetto partecipe del sacrificio diLui, per merito di Lui redento, e salvato dai vincoli delpeccato e della morte, ossia del mondo (Epist. ai Roma-

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ni, 5, 12-21).Un'altra mitica rappresentazione del nostro concetto

intorno all'appagamento sessuale, visto come afferma-zione della volontà di vivere di là dalla vita individuale,come un lasciarsi cader preda della vita con quell'atto, oquasi come un rinnovato impegno verso la vita stessa, èil mito greco di Proserpina; alla quale era ancor possibi-le il ritorno dal mondo sotterraneo, fintanto che ella nonne avesse gustati i frutti: ma che a quel mondo apparten-ne intera, non appena ebbe gustata la melagrana.Dall'incomparabile narrazione, che Goethe fa di questomito, ne risulta ben chiaro il significato, soprattuttoquando, immediatamente dopo l'assaggio della melagra-na, improvviso irrompe l'invisibile coro delle Parche:

Tu sei nostra!Digiuna dovevi ritornare:Ed il morso nel pomo ti fa nostra96.

È notevole che Clemente Alessandrino (Strom., III, c.15) esprima la cosa con la stessa immagine e gli stessitermini: Οί µεν ευνουχισαντες ὲαυτους απο πασηςαµαρτιας, δια την βασιλειαν των ουρανων, µακαριοιούτοι εισιν, οι̃ του κοσµου νηστευοντες (Qui se castra-runt ab omni peccato, propter regnum coelorum, ii suntbeati, a mundo jejunantes).

L'istinto sessuale si conferma essere la risoluta, la più

96 Du bist unser!Nüchtern solitesi wiederkehren:Und der Biss des Apfels macht dich unser!

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ni, 5, 12-21).Un'altra mitica rappresentazione del nostro concetto

intorno all'appagamento sessuale, visto come afferma-zione della volontà di vivere di là dalla vita individuale,come un lasciarsi cader preda della vita con quell'atto, oquasi come un rinnovato impegno verso la vita stessa, èil mito greco di Proserpina; alla quale era ancor possibi-le il ritorno dal mondo sotterraneo, fintanto che ella nonne avesse gustati i frutti: ma che a quel mondo apparten-ne intera, non appena ebbe gustata la melagrana.Dall'incomparabile narrazione, che Goethe fa di questomito, ne risulta ben chiaro il significato, soprattuttoquando, immediatamente dopo l'assaggio della melagra-na, improvviso irrompe l'invisibile coro delle Parche:

Tu sei nostra!Digiuna dovevi ritornare:Ed il morso nel pomo ti fa nostra96.

È notevole che Clemente Alessandrino (Strom., III, c.15) esprima la cosa con la stessa immagine e gli stessitermini: Οί µεν ευνουχισαντες ὲαυτους απο πασηςαµαρτιας, δια την βασιλειαν των ουρανων, µακαριοιούτοι εισιν, οι̃ του κοσµου νηστευοντες (Qui se castra-runt ab omni peccato, propter regnum coelorum, ii suntbeati, a mundo jejunantes).

L'istinto sessuale si conferma essere la risoluta, la più

96 Du bist unser!Nüchtern solitesi wiederkehren:Und der Biss des Apfels macht dich unser!

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forte affermazione della vita, anche pel fatto che perl'uomo naturale, come per l'animale, esso è il fine ulti-mo, il supremo scopo della vita sua. Sua prima aspira-zione è conservar se stesso: e non appena v'ha provve-duto, non tende più ad altro che alla continuazione dellaspecie: più in là di questo non può, in quanto sempliceessere naturale, aspirare. Anche la natura, la cui essenzaintima è appunto la volontà di vivere, trascina con ognisua possa l'uomo, come l'animale, alla continuazionedella specie. Ella ha con ciò raggiunto lo scopo, a cuil'individuo poteva servirle, ed è oramai affatto indiffe-rente al suo perire; che a lei, come alla volontà di vive-re, soltanto la conservazione della specie importa, el'individuo è un nulla. Poiché nell'istinto sessuale l'inti-ma essenza della natura, la volontà di vivere, nel modopiù forte si palesa, dissero gli antichi poeti e filosofi –Esiodo e Parmenide – con molto senso, che Eros è ilPrimo, il Creatore, il Principio, dal quale ebbero originetutte le cose. (Si vegga Arist. Metaph., I, 4). Ferecide hadetto: Εις ερωτα µεταβεβλησθαι τον Δια, µελλονταδηµιουργειν (Jovem, cum mundum fabricare vellet, incupidinem sese transformasse). Proclus ad Plat. Tim. 1.III. Un'estesa trattazione di questo soggetto abbiamoavuta di recente da G. F. Schoemann, De cupidine co-smogonica, 1852. Anche la Maja degl'Indiani, della qua-le è opera e tessuto l'intero mondo apparente, viene pa-rafrasata con la parola amor.

I genitali sono, molto più di qualsivoglia altra partedel corpo, alla semplice volontà e non alla conoscenza

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forte affermazione della vita, anche pel fatto che perl'uomo naturale, come per l'animale, esso è il fine ulti-mo, il supremo scopo della vita sua. Sua prima aspira-zione è conservar se stesso: e non appena v'ha provve-duto, non tende più ad altro che alla continuazione dellaspecie: più in là di questo non può, in quanto sempliceessere naturale, aspirare. Anche la natura, la cui essenzaintima è appunto la volontà di vivere, trascina con ognisua possa l'uomo, come l'animale, alla continuazionedella specie. Ella ha con ciò raggiunto lo scopo, a cuil'individuo poteva servirle, ed è oramai affatto indiffe-rente al suo perire; che a lei, come alla volontà di vive-re, soltanto la conservazione della specie importa, el'individuo è un nulla. Poiché nell'istinto sessuale l'inti-ma essenza della natura, la volontà di vivere, nel modopiù forte si palesa, dissero gli antichi poeti e filosofi –Esiodo e Parmenide – con molto senso, che Eros è ilPrimo, il Creatore, il Principio, dal quale ebbero originetutte le cose. (Si vegga Arist. Metaph., I, 4). Ferecide hadetto: Εις ερωτα µεταβεβλησθαι τον Δια, µελλονταδηµιουργειν (Jovem, cum mundum fabricare vellet, incupidinem sese transformasse). Proclus ad Plat. Tim. 1.III. Un'estesa trattazione di questo soggetto abbiamoavuta di recente da G. F. Schoemann, De cupidine co-smogonica, 1852. Anche la Maja degl'Indiani, della qua-le è opera e tessuto l'intero mondo apparente, viene pa-rafrasata con la parola amor.

I genitali sono, molto più di qualsivoglia altra partedel corpo, alla semplice volontà e non alla conoscenza

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soggetti: anzi, la volontà vi si mostra pressoché altret-tanto indipendente dalla conoscenza, quanto nelle partiche, dietro semplici stimoli, servono alla vita vegetativa,alla riproduzione; parti in cui la volontà agisce cieca,come nella natura priva di conoscenza. Imperocché ilgenerare non è che una riproduzione trapassata in unnuovo individuo, quasi riproduzione in seconda potenza,come la morte non è che escrezione in seconda potenza.In conseguenza di tutto ciò i genitali sono il vero e pro-prio fuoco della volontà, e quindi il polo opposto al cer-vello, al rappresentante della conoscenza, ossia all'altraparte del mondo, al mondo come rappresentazione.Quelli sono il principio conservatore della vita, che vitasenza fine assicura al tempo; e in tal qualità furon daiGreci venerati nel Phallus, dagl'Indiani nel Lingam, iquali sono adunque il simbolo dell'affermazione dellavolontà. La conoscenza invece rende possibile la sop-pressione del volere, la redenzione mediante libertà, ilsuperamento e l'annientamento del mondo.

Già al principio di questo quarto libro abbiamo este-samente studiato, come la volontà di vivere abbia daguardare nella sua affermazione il proprio rapporto conla morte: questa non la tocca, perché sta nella vita comealcunché d'implicito in lei, e che a lei spetta. Alla mortefa da eguale contrappeso il suo opposto, la generazione;la quale, malgrado la morte dell'individuo, assicura e ga-rantisce per sempre la vita alla volontà di vivere. Per ciòesprimere, diedero gl'Indiani il Lingam come attributo alDio della morte Shiva. Colà abbiamo pure dimostrato

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soggetti: anzi, la volontà vi si mostra pressoché altret-tanto indipendente dalla conoscenza, quanto nelle partiche, dietro semplici stimoli, servono alla vita vegetativa,alla riproduzione; parti in cui la volontà agisce cieca,come nella natura priva di conoscenza. Imperocché ilgenerare non è che una riproduzione trapassata in unnuovo individuo, quasi riproduzione in seconda potenza,come la morte non è che escrezione in seconda potenza.In conseguenza di tutto ciò i genitali sono il vero e pro-prio fuoco della volontà, e quindi il polo opposto al cer-vello, al rappresentante della conoscenza, ossia all'altraparte del mondo, al mondo come rappresentazione.Quelli sono il principio conservatore della vita, che vitasenza fine assicura al tempo; e in tal qualità furon daiGreci venerati nel Phallus, dagl'Indiani nel Lingam, iquali sono adunque il simbolo dell'affermazione dellavolontà. La conoscenza invece rende possibile la sop-pressione del volere, la redenzione mediante libertà, ilsuperamento e l'annientamento del mondo.

Già al principio di questo quarto libro abbiamo este-samente studiato, come la volontà di vivere abbia daguardare nella sua affermazione il proprio rapporto conla morte: questa non la tocca, perché sta nella vita comealcunché d'implicito in lei, e che a lei spetta. Alla mortefa da eguale contrappeso il suo opposto, la generazione;la quale, malgrado la morte dell'individuo, assicura e ga-rantisce per sempre la vita alla volontà di vivere. Per ciòesprimere, diedero gl'Indiani il Lingam come attributo alDio della morte Shiva. Colà abbiamo pure dimostrato

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come chi stia con piena consapevolezza fermo nella ri-soluta affermazione della vita, guarda senza paura lamorte.

Su ciò adunque non altre parole. Senza chiara consa-pevolezza, la maggior parte degli uomini è di questosentimento, e afferma costantemente la vita. Come spec-chio di tale affermazione sussiste il mondo, con indivi-dui innumerabili, in tempo infinito e infinito spazio, einfinito dolore, tra generazione e morte senza fine. Madi ciò da nessuna parte è lecito alzare altri lamenti: per-ché la volontà esegue a sue spese la grande tragedia ecommedia, ed è anche il suo proprio spettatore. Il mon-do è per l'appunto quello che è, perché la volontà, di cuiesso è fenomeno, è quella che è; perché la volontà cosìvuole. Per i dolori la giustificazione è che la volontà an-che quivi afferma se stessa; e quest'affermazione è giu-stificata e compensata dal fatto, che la volontà quei do-lori patisce. Ci si apre già qui un'occhiata sulla eternagiustizia, in complesso; in seguito la conosceremo piùda vicino e più chiaramente anche nel particolare. Tutta-via occorre prima parlare della giustizia temporale oumana97.

§ 61.Ci sovviene, dal secondo libro, che nella natura inte-

ra, in ogni grado dell'oggettivazione della volontà, ne-cessariamente era una lotta perenne tra gli individui di97 Si veda il cap. 45 del secondo volume [pp. 586-90 del tomo II dell'ed.

cit.].

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come chi stia con piena consapevolezza fermo nella ri-soluta affermazione della vita, guarda senza paura lamorte.

Su ciò adunque non altre parole. Senza chiara consa-pevolezza, la maggior parte degli uomini è di questosentimento, e afferma costantemente la vita. Come spec-chio di tale affermazione sussiste il mondo, con indivi-dui innumerabili, in tempo infinito e infinito spazio, einfinito dolore, tra generazione e morte senza fine. Madi ciò da nessuna parte è lecito alzare altri lamenti: per-ché la volontà esegue a sue spese la grande tragedia ecommedia, ed è anche il suo proprio spettatore. Il mon-do è per l'appunto quello che è, perché la volontà, di cuiesso è fenomeno, è quella che è; perché la volontà cosìvuole. Per i dolori la giustificazione è che la volontà an-che quivi afferma se stessa; e quest'affermazione è giu-stificata e compensata dal fatto, che la volontà quei do-lori patisce. Ci si apre già qui un'occhiata sulla eternagiustizia, in complesso; in seguito la conosceremo piùda vicino e più chiaramente anche nel particolare. Tutta-via occorre prima parlare della giustizia temporale oumana97.

§ 61.Ci sovviene, dal secondo libro, che nella natura inte-

ra, in ogni grado dell'oggettivazione della volontà, ne-cessariamente era una lotta perenne tra gli individui di97 Si veda il cap. 45 del secondo volume [pp. 586-90 del tomo II dell'ed.

cit.].

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tutte le specie, e con ciò appunto si esprimeva un intimocontrasto della volontà di vivere con se medesima. Nelgrado supremo dell'oggettivazione anche quel fenomenosi presenterà, come ogni altro, con maggiore chiarezza,e si lascerà quindi indagare più addentro. A tal fine an-dremo in primo luogo a rintracciar nella sua sorgentel'egoismo, quale origine di tutte le lotte.

Tempo e spazio chiamammo principium individuatio-nis, perché sol per loro mezzo, ed in loro, è possibilepluralità dell'identico. Sono le forme essenziali della co-noscenza naturale, ossia procedente della volontà. Lavolontà deve quindi manifestarsi ovunque in pluralitàd'individui. Ma questa pluralità non tocca la volontà insé, bensì i suoi fenomeni: è intera e indivisa in ciascunodi essi, e si vede intorno innumerabili volte ripetutal'immagine della sua propria essenza. Ma codesta, ch'èla vera realtà, ella non trova tuttavia direttamente se nondentro di sé. Perciò vuole ciascuno aver tutto per sé,vuol tutto possedere, o almeno dominare, ed ogni cosa,che gli si opponga, vorrebbe distruggere. A ciò s'aggiun-ge, negli esseri conoscenti, che l'individuo rappresenta ilsoggetto conoscente, contiene cioè il mondo intero; os-sia, che tutta la natura all'infuori di lui, e quindi anchetutti i rimanenti individui, esistono soltanto nella suarappresentazione; soltanto come di sua rappresentazioneegli n'è consapevole, ossia sol mediatamente, e comed'alcunché dipendente dal suo proprio essere individua-le; che venendogli meno la conscienza, per necessità glivien meno anche il mondo; vale a dire, l'esistere o non

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tutte le specie, e con ciò appunto si esprimeva un intimocontrasto della volontà di vivere con se medesima. Nelgrado supremo dell'oggettivazione anche quel fenomenosi presenterà, come ogni altro, con maggiore chiarezza,e si lascerà quindi indagare più addentro. A tal fine an-dremo in primo luogo a rintracciar nella sua sorgentel'egoismo, quale origine di tutte le lotte.

Tempo e spazio chiamammo principium individuatio-nis, perché sol per loro mezzo, ed in loro, è possibilepluralità dell'identico. Sono le forme essenziali della co-noscenza naturale, ossia procedente della volontà. Lavolontà deve quindi manifestarsi ovunque in pluralitàd'individui. Ma questa pluralità non tocca la volontà insé, bensì i suoi fenomeni: è intera e indivisa in ciascunodi essi, e si vede intorno innumerabili volte ripetutal'immagine della sua propria essenza. Ma codesta, ch'èla vera realtà, ella non trova tuttavia direttamente se nondentro di sé. Perciò vuole ciascuno aver tutto per sé,vuol tutto possedere, o almeno dominare, ed ogni cosa,che gli si opponga, vorrebbe distruggere. A ciò s'aggiun-ge, negli esseri conoscenti, che l'individuo rappresenta ilsoggetto conoscente, contiene cioè il mondo intero; os-sia, che tutta la natura all'infuori di lui, e quindi anchetutti i rimanenti individui, esistono soltanto nella suarappresentazione; soltanto come di sua rappresentazioneegli n'è consapevole, ossia sol mediatamente, e comed'alcunché dipendente dal suo proprio essere individua-le; che venendogli meno la conscienza, per necessità glivien meno anche il mondo; vale a dire, l'esistere o non

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esistere di questo diventano per lui termini equivalenti enon distinguibili. Ogni individuo conoscente è adunquein verità, e si riconosce per tale, tutta intera la volontà divivere, ovvero l'in-sé del mondo medesimo; ed è anchela condizione integrante del mondo quale rappresenta-zione. È per conseguenza un microcosmo, che s'ha davalutare egualmente come il macrocosmo. La naturastessa, sempre e ovunque veritiera, fin dall'origine eall'infuori d'ogni riflessione gli fa semplicemente e di-rettamente sicura tale conoscenza. Ora, con entrambe lenecessarie determinazioni surriferite si spiega comeogni individuo, per quanto infinitamente piccolo nellosterminato mondo e quasi evanescente nel nulla, si fac-cia nondimeno centro dell'universo, la propria esistenzae il proprio benessere consideri innanzi a ogni altracosa, anzi, dal punto di vista naturale, ogni altra cosa siapronto a sacrificare a codesta esistenza; pronto a di-struggere il mondo, sol per conservare un po' più a lun-go il suo proprio io, che è appena una goccia nel mare.Tale disposizione è l'egoismo, proprio d'ogni cosa nellanatura. Ma esso è pure la via, per cui l'interno contrastodella volontà con se medesima perviene alla più terribilemanifestazione. Imperocché questo egoismo si fondaper essenza sul riferito antagonismo tra microcosmo emacrocosmo: cioè sul fatto che l'oggettivazione dellavolontà ha per forma il principium individuationis, sìche la volontà in egual modo si riflette in numero infini-to d'individui; intera e compiuta sotto i due aspetti (vo-lontà e rappresentazione) in ciascuno di essi. Mentre

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esistere di questo diventano per lui termini equivalenti enon distinguibili. Ogni individuo conoscente è adunquein verità, e si riconosce per tale, tutta intera la volontà divivere, ovvero l'in-sé del mondo medesimo; ed è anchela condizione integrante del mondo quale rappresenta-zione. È per conseguenza un microcosmo, che s'ha davalutare egualmente come il macrocosmo. La naturastessa, sempre e ovunque veritiera, fin dall'origine eall'infuori d'ogni riflessione gli fa semplicemente e di-rettamente sicura tale conoscenza. Ora, con entrambe lenecessarie determinazioni surriferite si spiega comeogni individuo, per quanto infinitamente piccolo nellosterminato mondo e quasi evanescente nel nulla, si fac-cia nondimeno centro dell'universo, la propria esistenzae il proprio benessere consideri innanzi a ogni altracosa, anzi, dal punto di vista naturale, ogni altra cosa siapronto a sacrificare a codesta esistenza; pronto a di-struggere il mondo, sol per conservare un po' più a lun-go il suo proprio io, che è appena una goccia nel mare.Tale disposizione è l'egoismo, proprio d'ogni cosa nellanatura. Ma esso è pure la via, per cui l'interno contrastodella volontà con se medesima perviene alla più terribilemanifestazione. Imperocché questo egoismo si fondaper essenza sul riferito antagonismo tra microcosmo emacrocosmo: cioè sul fatto che l'oggettivazione dellavolontà ha per forma il principium individuationis, sìche la volontà in egual modo si riflette in numero infini-to d'individui; intera e compiuta sotto i due aspetti (vo-lontà e rappresentazione) in ciascuno di essi. Mentre

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adunque ogni individuo è dato a se medesimo, diretta-mente, come tutta quanta la volontà e tutta quanta la ca-pacità rappresentativa, i rimanenti individui gli son datisol come rappresentazioni sue; perciò importa a lui ilproprio essere e la propria conservazione più di tuttol'altro insieme. Alla propria morte guarda ciascunocome alla fine del mondo, e invece accoglie come unacosa abbastanza indifferente quella dei suoi conoscenti,s'egli non v'è per avventura interessato di persona. Nellaconscienza salita al suo più alto grado, la conscienzaumana, deve anche l'egoismo, come la conoscenza, ildolore, la gioia, aver toccato il vertice più alto, e devenel modo più terribile palesarsi il contrasto degli indivi-dui, da esso determinato. Ciò vediamo dappertutto, nelpiccolo come nel grande; ciò vediamo ora sotto l'aspettoterrificante, nella vita di grandi tiranni e uomini scelle-rati, e nelle guerre che devastano il mondo, ora sottol'aspetto ridicolo, dov'è fatto tema di commedia; e inparticolar modo si rivela nella presunzione e nella vani-tà, le quali Rochefoucault ha come nessun altro colto erappresentato in abstracto: tale ci appare nella storia delmondo e nella nostra propria esperienza. Ma nel modopiù evidente balza fuori, non appena una qualche turbadi uomini sia sciolta da ogni legge e ordinamento: allorasi mostra subitamente con tutta evidenza il bellum om-nium contra omnes, che Hobbes, nel primo capitolo Decive, mirabilmente ha descritto. Appare, che non soltan-to ciascuno cerca di rapire all'altro ciò ch'egli stessovuol avere, ma spesso addirittura v'ha chi, per accresce-

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adunque ogni individuo è dato a se medesimo, diretta-mente, come tutta quanta la volontà e tutta quanta la ca-pacità rappresentativa, i rimanenti individui gli son datisol come rappresentazioni sue; perciò importa a lui ilproprio essere e la propria conservazione più di tuttol'altro insieme. Alla propria morte guarda ciascunocome alla fine del mondo, e invece accoglie come unacosa abbastanza indifferente quella dei suoi conoscenti,s'egli non v'è per avventura interessato di persona. Nellaconscienza salita al suo più alto grado, la conscienzaumana, deve anche l'egoismo, come la conoscenza, ildolore, la gioia, aver toccato il vertice più alto, e devenel modo più terribile palesarsi il contrasto degli indivi-dui, da esso determinato. Ciò vediamo dappertutto, nelpiccolo come nel grande; ciò vediamo ora sotto l'aspettoterrificante, nella vita di grandi tiranni e uomini scelle-rati, e nelle guerre che devastano il mondo, ora sottol'aspetto ridicolo, dov'è fatto tema di commedia; e inparticolar modo si rivela nella presunzione e nella vani-tà, le quali Rochefoucault ha come nessun altro colto erappresentato in abstracto: tale ci appare nella storia delmondo e nella nostra propria esperienza. Ma nel modopiù evidente balza fuori, non appena una qualche turbadi uomini sia sciolta da ogni legge e ordinamento: allorasi mostra subitamente con tutta evidenza il bellum om-nium contra omnes, che Hobbes, nel primo capitolo Decive, mirabilmente ha descritto. Appare, che non soltan-to ciascuno cerca di rapire all'altro ciò ch'egli stessovuol avere, ma spesso addirittura v'ha chi, per accresce-

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re d'un trascurabile incremento il proprio benessere, tut-to il bene o la vita dell'altro distrugge. Questa è l'espres-sione suprema dell'egoismo, i cui fenomeni, sotto tale ri-spetto, possono venir superati soltanto da quelli dellamalvagità vera e propria, la quale affatto disinteressata-mente, senz'alcun proprio vantaggio, cerca il danno e ildolore altrui. Ma di ciò in seguito. Con questo scopri-mento della fonte dell'egoismo si ponga a riscontro ladescrizione di esso, fatta nella mia memoria per concor-so a premio, intorno al fondamento della morale, § 14.

Una tra le principali sorgenti del dolore, il quale ab-biamo veduto essenzialmente ed inevitabilmente conna-turato a tutta la vita, non appena questa in realtà e condeterminata figura si mostri, è quella Eris, la lotta fragl'individui tutti, l'espressione del dissidio interiore, dacui è travagliata la volontà di vivere, e che per mezzodel principii individuationis viene alla luce: mezzo bar-baro di render visibile direttamente e crudamente taledissidio sono le lotte tra gli animali. In questo originariocontrasto risiede una sorgente inesauribile di dolore,malgrado le misure che si son prese per combatterlo, eche ora esamineremo da vicino.

§ 62.Fu già spiegato, che la prima e semplice affermazione

della volontà di vivere non è se non l'affermazione delproprio corpo, ossia esplicazione della volontà medianteatti nel tempo, fin dove il corpo, nella sua forma e natu-

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re d'un trascurabile incremento il proprio benessere, tut-to il bene o la vita dell'altro distrugge. Questa è l'espres-sione suprema dell'egoismo, i cui fenomeni, sotto tale ri-spetto, possono venir superati soltanto da quelli dellamalvagità vera e propria, la quale affatto disinteressata-mente, senz'alcun proprio vantaggio, cerca il danno e ildolore altrui. Ma di ciò in seguito. Con questo scopri-mento della fonte dell'egoismo si ponga a riscontro ladescrizione di esso, fatta nella mia memoria per concor-so a premio, intorno al fondamento della morale, § 14.

Una tra le principali sorgenti del dolore, il quale ab-biamo veduto essenzialmente ed inevitabilmente conna-turato a tutta la vita, non appena questa in realtà e condeterminata figura si mostri, è quella Eris, la lotta fragl'individui tutti, l'espressione del dissidio interiore, dacui è travagliata la volontà di vivere, e che per mezzodel principii individuationis viene alla luce: mezzo bar-baro di render visibile direttamente e crudamente taledissidio sono le lotte tra gli animali. In questo originariocontrasto risiede una sorgente inesauribile di dolore,malgrado le misure che si son prese per combatterlo, eche ora esamineremo da vicino.

§ 62.Fu già spiegato, che la prima e semplice affermazione

della volontà di vivere non è se non l'affermazione delproprio corpo, ossia esplicazione della volontà medianteatti nel tempo, fin dove il corpo, nella sua forma e natu-

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ra disposta a' suoi fini, rappresenta la stessa volontà spa-zialmente – e non oltre. Codesta affermazione si dimo-stra sotto specie di conservazione del corpo, usando aciò tutte le forze di esso. A lei si collega direttamente lasoddisfazione dello stimolo sessuale; anzi, questa appar-tiene a quella, in quanto i genitali al corpo appartengo-no. Perciò la volontaria, da nessun motivo determinatarinunzia alla soddisfazione di quello stimolo, è già unrinnegar la volontà di vivere, è una spontanea autosop-pressione di esso stimolo in seguito a sopravvenuta co-noscenza che agisce come quietivo: perciò tal rinnega-mento del proprio corpo si presenta già come un'opposi-zione della volontà contro il suo proprio fenomeno. Im-perocché sebbene qui il corpo oggettivi nei genitali lavolontà della propagazione, questa non viene tuttaviavoluta. Appunto perciò, ossia per essere rinnegamento osoppressione della volontà di vivere, tale rinunzia è unagrave e dolorosa vittoria su noi stessi; ma di questo saràdetto in seguito. Ora, mentre la volontà presentaquell'autoaffermazione del proprio corpo in un numeroinfinito d'individui coesistenti, può, in grazia dell'egoi-smo connaturato in ciascuno, molto facilmente in un in-dividuo andar oltre codesta affermazione, fino alla nega-zione della stessa volontà, manifestantesi in un altro in-dividuo. La volontà del primo irrompe nei confinidell'altrui affermazione di volontà, sia in quanto l'indivi-duo l'altrui corpo distrugge o ferisce, sia in quanto co-stringe le forze dell'altrui corpo a servir la volontà pro-pria, invece della volontà che in quello stesso altrui cor-

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ra disposta a' suoi fini, rappresenta la stessa volontà spa-zialmente – e non oltre. Codesta affermazione si dimo-stra sotto specie di conservazione del corpo, usando aciò tutte le forze di esso. A lei si collega direttamente lasoddisfazione dello stimolo sessuale; anzi, questa appar-tiene a quella, in quanto i genitali al corpo appartengo-no. Perciò la volontaria, da nessun motivo determinatarinunzia alla soddisfazione di quello stimolo, è già unrinnegar la volontà di vivere, è una spontanea autosop-pressione di esso stimolo in seguito a sopravvenuta co-noscenza che agisce come quietivo: perciò tal rinnega-mento del proprio corpo si presenta già come un'opposi-zione della volontà contro il suo proprio fenomeno. Im-perocché sebbene qui il corpo oggettivi nei genitali lavolontà della propagazione, questa non viene tuttaviavoluta. Appunto perciò, ossia per essere rinnegamento osoppressione della volontà di vivere, tale rinunzia è unagrave e dolorosa vittoria su noi stessi; ma di questo saràdetto in seguito. Ora, mentre la volontà presentaquell'autoaffermazione del proprio corpo in un numeroinfinito d'individui coesistenti, può, in grazia dell'egoi-smo connaturato in ciascuno, molto facilmente in un in-dividuo andar oltre codesta affermazione, fino alla nega-zione della stessa volontà, manifestantesi in un altro in-dividuo. La volontà del primo irrompe nei confinidell'altrui affermazione di volontà, sia in quanto l'indivi-duo l'altrui corpo distrugge o ferisce, sia in quanto co-stringe le forze dell'altrui corpo a servir la volontà pro-pria, invece della volontà che in quello stesso altrui cor-

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po si palesa; come, per esempio, quando alla volontà,palesantesi in forma d'altrui corpo, le forze di codestocorpo sottrae, e con ciò accresce la forza a servizio dellavolontà propria oltre i termini naturali di questa; sì cheafferma la volontà propria oltre il suo proprio corpo,mediante negazione della volontà manifestantesi in uncorpo estraneo. Quest'irrompere nei confini dell'altruiaffermazione di volontà fu chiaramente conosciuto daipiù remoti tempi, e il suo concetto espresso con la paro-la ingiustizia. Imperocché le due parti interessate rico-noscono istantaneamente la cosa; non già, invero, comel'abbiamo qui esposta in limpida astrazione, bensì comesentimento. Chi subisce l'ingiustizia sente l'irrompernella sfera dell'affermazione del suo proprio corpo, me-diante negazione di essa da parte di un individuo estra-neo, sotto forma d'un dolore diretto e morale, affatto di-stinto e diverso dal male fisico, provato in pari tempoper l'azione stessa, o dal rammarico del danno. D'altraparte, a quegli che commette l'ingiustizia si affaccia lacognizione ch'egli è, in sé, la volontà medesima, la qua-le anche in quell'altro corpo si manifesta, e nell'un feno-meno s'afferma con tale veemenza, da farsi negazioneappunto della volontà stessa nell'altro fenomeno, oltre-passando i confini del proprio corpo e delle sue forze;quindi egli, considerato come volontà in sé, combatteper l'appunto con la sua veemenza contro se medesimo,se medesimo dilania; anche a lui s'affaccia questa cogni-zione istantaneamente, non già in astratto, ma comeoscuro sentimento: e questo è chiamato rimorso, ossia,

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po si palesa; come, per esempio, quando alla volontà,palesantesi in forma d'altrui corpo, le forze di codestocorpo sottrae, e con ciò accresce la forza a servizio dellavolontà propria oltre i termini naturali di questa; sì cheafferma la volontà propria oltre il suo proprio corpo,mediante negazione della volontà manifestantesi in uncorpo estraneo. Quest'irrompere nei confini dell'altruiaffermazione di volontà fu chiaramente conosciuto daipiù remoti tempi, e il suo concetto espresso con la paro-la ingiustizia. Imperocché le due parti interessate rico-noscono istantaneamente la cosa; non già, invero, comel'abbiamo qui esposta in limpida astrazione, bensì comesentimento. Chi subisce l'ingiustizia sente l'irrompernella sfera dell'affermazione del suo proprio corpo, me-diante negazione di essa da parte di un individuo estra-neo, sotto forma d'un dolore diretto e morale, affatto di-stinto e diverso dal male fisico, provato in pari tempoper l'azione stessa, o dal rammarico del danno. D'altraparte, a quegli che commette l'ingiustizia si affaccia lacognizione ch'egli è, in sé, la volontà medesima, la qua-le anche in quell'altro corpo si manifesta, e nell'un feno-meno s'afferma con tale veemenza, da farsi negazioneappunto della volontà stessa nell'altro fenomeno, oltre-passando i confini del proprio corpo e delle sue forze;quindi egli, considerato come volontà in sé, combatteper l'appunto con la sua veemenza contro se medesimo,se medesimo dilania; anche a lui s'affaccia questa cogni-zione istantaneamente, non già in astratto, ma comeoscuro sentimento: e questo è chiamato rimorso, ossia,

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più precisamente nel caso sopraddetto, sentimento dellacommessa ingiustizia.

L'ingiustizia, il cui concetto abbiamo così analizzatonella più generica astrazione, si esprime in concreto nelmodo più compiuto, più caratteristico e più tangibile colcannibalismo: questo è il suo tipo più chiaro ed eviden-te, l'orrenda immagine del massimo contrasto della vo-lontà con se medesima, nel grado supremo della sua og-gettivazione, che è l'uomo. Subito dopo viene l'assassi-nio: al cui compimento segue perciò il rimorso, del qua-le abbiamo indicata or ora in maniera astratta e arida lasignificazione, immediatamente, con terribile evidenza;ed alla pace dello spirito reca un colpo insanabile per lavita intera; essendo il nostro orrore per l'assassinio com-messo, com'anche il nostro arretrarci davanti all'assassi-nio da commettere, prodotto dallo sconfinato attacca-mento alla vita, che penetra ogni essere vivente, appuntoin quanto è fenomeno della volontà di vivere (del resto,quel sentimento che accompagna l'atto dell'ingiustizia edel male analizzeremo in seguito più distesamente, e in-nalzeremo alla limpidità del concetto). Sostanzialmenteidentica all'assassinio, e sol per grado diversa, è da con-siderarsi la consapevole mutilazione, o anche semplicelesione del corpo altrui, o addirittura ogni colpo inferto-gli. Inoltre si manifesta l'ingiustizia nella sottomissionedell'altrui individuo, nel costringerlo a schiavitù; e final-mente nell'attacco contro l'altrui proprietà; il quale, ovela proprietà stessa si consideri come frutto del lavorodell'aggredito, è in sostanza identico al ridurre a schiavi-

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più precisamente nel caso sopraddetto, sentimento dellacommessa ingiustizia.

L'ingiustizia, il cui concetto abbiamo così analizzatonella più generica astrazione, si esprime in concreto nelmodo più compiuto, più caratteristico e più tangibile colcannibalismo: questo è il suo tipo più chiaro ed eviden-te, l'orrenda immagine del massimo contrasto della vo-lontà con se medesima, nel grado supremo della sua og-gettivazione, che è l'uomo. Subito dopo viene l'assassi-nio: al cui compimento segue perciò il rimorso, del qua-le abbiamo indicata or ora in maniera astratta e arida lasignificazione, immediatamente, con terribile evidenza;ed alla pace dello spirito reca un colpo insanabile per lavita intera; essendo il nostro orrore per l'assassinio com-messo, com'anche il nostro arretrarci davanti all'assassi-nio da commettere, prodotto dallo sconfinato attacca-mento alla vita, che penetra ogni essere vivente, appuntoin quanto è fenomeno della volontà di vivere (del resto,quel sentimento che accompagna l'atto dell'ingiustizia edel male analizzeremo in seguito più distesamente, e in-nalzeremo alla limpidità del concetto). Sostanzialmenteidentica all'assassinio, e sol per grado diversa, è da con-siderarsi la consapevole mutilazione, o anche semplicelesione del corpo altrui, o addirittura ogni colpo inferto-gli. Inoltre si manifesta l'ingiustizia nella sottomissionedell'altrui individuo, nel costringerlo a schiavitù; e final-mente nell'attacco contro l'altrui proprietà; il quale, ovela proprietà stessa si consideri come frutto del lavorodell'aggredito, è in sostanza identico al ridurre a schiavi-

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tù. La spoliazione sta alla schiavitù, come la sempliceferita sta all'assassinio.

Imperocché proprietà, la quale non si strappi all'uomosenza ingiustizia, può, secondo la nostra spiegazionedell'ingiustizia, esser soltanto quella che l'uomo ha con-quistata con le proprie forze: strappandogliela, veniamoa sottrarre le forze del suo corpo alla volontà in codestocorpo oggettivata, per farle servire alla volontà oggetti-vata in un altro corpo. Invero l'autor dell'ingiustizia, me-diante assalto non dell'altrui corpo, ma di una cosa ina-nimata, da quel corpo affatto diversa, irrompe tuttavianella sfera dell'altrui affermazione di volontà, solo inquanto con la cosa sono quasi confuse e identificate leforze e l'attività del corpo stesso. Ne segue che ogni ge-nuino, ossia ogni morale diritto di proprietà, poggia inorigine unicamente sull'acquisto mediante il lavoro;come già s'ammetteva press'a poco generalmente ancheprima di Kant, e addirittura come già esprime chiara-mente e bellamente il più antico di tutti i codici: «I sag-gi, cui è nota l'antica età, dichiarano che un campo colti-vato appartiene a colui il quale ne rimosse gli sterpi, lonettò ed arò; come un'antilope appartiene al primo cac-ciatore che l'abbia ferita a morte» – Leggi Manu, IX, 44.Solo con l'affievolimento senile di Kant posso spiegarmitutta la sua dottrina del diritto, singolare intreccio di er-rori germinati l'un dall'altro, ed il fatto ch'egli vogliafondare il diritto di proprietà sulla presa di possesso.Come mai potrebbe la semplice affermazione della miavolontà, d'escluder altri dal possesso d'una cosa, costi-

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tù. La spoliazione sta alla schiavitù, come la sempliceferita sta all'assassinio.

Imperocché proprietà, la quale non si strappi all'uomosenza ingiustizia, può, secondo la nostra spiegazionedell'ingiustizia, esser soltanto quella che l'uomo ha con-quistata con le proprie forze: strappandogliela, veniamoa sottrarre le forze del suo corpo alla volontà in codestocorpo oggettivata, per farle servire alla volontà oggetti-vata in un altro corpo. Invero l'autor dell'ingiustizia, me-diante assalto non dell'altrui corpo, ma di una cosa ina-nimata, da quel corpo affatto diversa, irrompe tuttavianella sfera dell'altrui affermazione di volontà, solo inquanto con la cosa sono quasi confuse e identificate leforze e l'attività del corpo stesso. Ne segue che ogni ge-nuino, ossia ogni morale diritto di proprietà, poggia inorigine unicamente sull'acquisto mediante il lavoro;come già s'ammetteva press'a poco generalmente ancheprima di Kant, e addirittura come già esprime chiara-mente e bellamente il più antico di tutti i codici: «I sag-gi, cui è nota l'antica età, dichiarano che un campo colti-vato appartiene a colui il quale ne rimosse gli sterpi, lonettò ed arò; come un'antilope appartiene al primo cac-ciatore che l'abbia ferita a morte» – Leggi Manu, IX, 44.Solo con l'affievolimento senile di Kant posso spiegarmitutta la sua dottrina del diritto, singolare intreccio di er-rori germinati l'un dall'altro, ed il fatto ch'egli vogliafondare il diritto di proprietà sulla presa di possesso.Come mai potrebbe la semplice affermazione della miavolontà, d'escluder altri dal possesso d'una cosa, costi-

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tuire a ciò un immediato diritto? È chiaro, chequest'affermazione abbisogna alla sua volta d'una basedi diritto; mentre invece Kant ammette ch'ella sia un di-ritto di per sé. E in qual modo allora agirebbe con ingiu-stizia, nel significato morale, colui il quale non rispet-tasse quelle pretese all'esclusivo possesso di un oggetto,fondate unicamente sulla lor propria dichiarazione? Per-ché dovrebbe turbarlo in tal caso la sua coscienza? es-sendo tanto chiaro, e facile a comprendere, che non vipuò essere alcuna legittima presa violenta di possesso,ma semplicemente una legittima approvazione, conse-guimento dell'oggetto, con l'impiegarvi forze che origi-nariamente ci appartengono. Quando, per esempio, unoggetto viene mediante un qualsivoglia sforzo altrui, siapur minimo, coltivato, migliorato, protetto contro i ri-schi, conservato, e si riducesse pur codesto sforzo a co-glier dal ramo o sollevar dal suolo un frutto selvatico, èpalese che chi s'attacca secondo a tale oggetto toglie alprimo il risultato del lavoro ch'egli vi ha speso, e fa cheil corpo di questi serva alla propria volontà, invece che aquella di lui, afferma la sua propria volontà oltre la sferadel fenomeno a lei spettante, e nega la volontà dell'altro:ossia, commette ingiustizia98. Viceversa il semplice go-dimento d'un oggetto, senz'alcun lavoro o difesa del me-desimo contro la distruzione, non costituisce diritto su98 A fondamento del diritto naturale di possesso non occorre dunque ammet-

tere due basi giuridiche concomitanti, quella della detenzione accantoall'altra della formazione; la seconda è sempre sufficiente. Soltanto non èbene appropriata la parola formazione, perché l'impiego d'un qualsiasi la-voro intorno a un oggetto non è necessario che sia sempre un dargli forma.

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tuire a ciò un immediato diritto? È chiaro, chequest'affermazione abbisogna alla sua volta d'una basedi diritto; mentre invece Kant ammette ch'ella sia un di-ritto di per sé. E in qual modo allora agirebbe con ingiu-stizia, nel significato morale, colui il quale non rispet-tasse quelle pretese all'esclusivo possesso di un oggetto,fondate unicamente sulla lor propria dichiarazione? Per-ché dovrebbe turbarlo in tal caso la sua coscienza? es-sendo tanto chiaro, e facile a comprendere, che non vipuò essere alcuna legittima presa violenta di possesso,ma semplicemente una legittima approvazione, conse-guimento dell'oggetto, con l'impiegarvi forze che origi-nariamente ci appartengono. Quando, per esempio, unoggetto viene mediante un qualsivoglia sforzo altrui, siapur minimo, coltivato, migliorato, protetto contro i ri-schi, conservato, e si riducesse pur codesto sforzo a co-glier dal ramo o sollevar dal suolo un frutto selvatico, èpalese che chi s'attacca secondo a tale oggetto toglie alprimo il risultato del lavoro ch'egli vi ha speso, e fa cheil corpo di questi serva alla propria volontà, invece che aquella di lui, afferma la sua propria volontà oltre la sferadel fenomeno a lei spettante, e nega la volontà dell'altro:ossia, commette ingiustizia98. Viceversa il semplice go-dimento d'un oggetto, senz'alcun lavoro o difesa del me-desimo contro la distruzione, non costituisce diritto su98 A fondamento del diritto naturale di possesso non occorre dunque ammet-

tere due basi giuridiche concomitanti, quella della detenzione accantoall'altra della formazione; la seconda è sempre sufficiente. Soltanto non èbene appropriata la parola formazione, perché l'impiego d'un qualsiasi la-voro intorno a un oggetto non è necessario che sia sempre un dargli forma.

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di esso più che non costituisca diritto al possesso esclu-sivo l'affermazione della propria volontà. Se quindi unafamiglia ha essa sola esercitata la caccia in una riserva,sia pure durante un secolo, ma senz'avervi introdotto al-cun miglioramento, non può senza morale ingiustiziacontrastarla a un intruso straniero, che voglia perl'appunto colà andare a caccia. Il cosiddetto diritto delprimo occupante, secondo il quale per il semplice godi-mento avuto di un oggetto si pretende di avere in più an-che una ricompensa, ossia un esclusivo diritto al godi-mento futuro, è moralmente del tutto infondato. A chi suesso unicamente s'appoggia potrebbe il nuovo venutoopporre con molto miglior diritto: «Appunto perché tugià sì a lungo ne hai goduto, è giusto che ora anche altrine godano». Di ogni cosa, che non si presti a lavoro al-cuno, sia per miglioramento, sia per difesa contro i ri-schi, non può aversi esclusivo possesso moralmente fon-dato, se non mediante volontaria cessione da parte ditutti gli altri, o come ricompensa di servigi altrimentiprestati; il che già presuppone una comunità governatada convenzioni, ossia lo Stato. Il diritto di possesso mo-ralmente fondato, quale s'è dedotto più sopra, dà per suanatura al possessore un diritto sulla cosa posseduta al-trettanto illimitato, quanto è quello ch'egli ha sul propriocorpo; ne viene, ch'egli può trasmettere il suo possesso,per mezzo di cambio o donazione, ad altri; i quali alloraposseggono l'oggetto col suo medesimo diritto morale.

Venendo a ciò che concerne in genere l'attuazionedell'ingiustizia, questa può farsi mediante violenza, o

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di esso più che non costituisca diritto al possesso esclu-sivo l'affermazione della propria volontà. Se quindi unafamiglia ha essa sola esercitata la caccia in una riserva,sia pure durante un secolo, ma senz'avervi introdotto al-cun miglioramento, non può senza morale ingiustiziacontrastarla a un intruso straniero, che voglia perl'appunto colà andare a caccia. Il cosiddetto diritto delprimo occupante, secondo il quale per il semplice godi-mento avuto di un oggetto si pretende di avere in più an-che una ricompensa, ossia un esclusivo diritto al godi-mento futuro, è moralmente del tutto infondato. A chi suesso unicamente s'appoggia potrebbe il nuovo venutoopporre con molto miglior diritto: «Appunto perché tugià sì a lungo ne hai goduto, è giusto che ora anche altrine godano». Di ogni cosa, che non si presti a lavoro al-cuno, sia per miglioramento, sia per difesa contro i ri-schi, non può aversi esclusivo possesso moralmente fon-dato, se non mediante volontaria cessione da parte ditutti gli altri, o come ricompensa di servigi altrimentiprestati; il che già presuppone una comunità governatada convenzioni, ossia lo Stato. Il diritto di possesso mo-ralmente fondato, quale s'è dedotto più sopra, dà per suanatura al possessore un diritto sulla cosa posseduta al-trettanto illimitato, quanto è quello ch'egli ha sul propriocorpo; ne viene, ch'egli può trasmettere il suo possesso,per mezzo di cambio o donazione, ad altri; i quali alloraposseggono l'oggetto col suo medesimo diritto morale.

Venendo a ciò che concerne in genere l'attuazionedell'ingiustizia, questa può farsi mediante violenza, o

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mediante insidia; che, dal punto di vista morale, sostan-zialmente sono la stessa cosa. In primo luogo ènell'assassinio moralmente tutt'uno, se io mi servo delpugnale o del veleno; e così in ogni lesione corporale. Irimanenti casi di ingiustizia si posson tutti ridurre al fat-to che io, con l'attuar l'ingiustizia, obbligo l'individuoestraneo a servir la mia volontà, in luogo della sua; adagir secondo la mia, e non secondo la sua. Tenendo lavia della violenza, conseguo questo risultato mediantecausalità fisica; tenendo la via dell'insidia, lo conseguoinvece mediante motivazione, ossia causalità procuratadalla conoscenza; col porre innanzi alla volontà altruimotivi illusori, in virtù dei quali l'individuo ingannato,credendo di seguir la volontà sua, segue la mia. Poichéil terreno in cui stanno i motivi è la conoscenza, io pos-so arrivare a quel risultato solo falsando l'altrui cono-scenza, e questa falsificazione è la menzogna. Essa ten-de ognora a influire sull'altrui volontà; e non sull'altruiconoscenza sola, in sé e in quanto tale, ma sulla cono-scenza come mezzo, ossia in quanto determina la volon-tà. Imperocché il mio stesso mentire, procedendo dallamia volontà, ha bisogno d'un motivo: ma tale può essersoltanto la volontà altrui, non l'altrui conoscenza in sé eper sé; poi che questa come tale non può aver mai un in-flusso sulla volontà mia, né, per conseguenza, muoverla,né essere un motivo dei suoi fini: bensì tale può essereunicamente l'altrui volere ed agire; e l'altrui conoscenzainvece non è tale se non mediatamente. Ciò vale nonsolo per tutte le menzogne sgorgate da un palese vantag-

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mediante insidia; che, dal punto di vista morale, sostan-zialmente sono la stessa cosa. In primo luogo ènell'assassinio moralmente tutt'uno, se io mi servo delpugnale o del veleno; e così in ogni lesione corporale. Irimanenti casi di ingiustizia si posson tutti ridurre al fat-to che io, con l'attuar l'ingiustizia, obbligo l'individuoestraneo a servir la mia volontà, in luogo della sua; adagir secondo la mia, e non secondo la sua. Tenendo lavia della violenza, conseguo questo risultato mediantecausalità fisica; tenendo la via dell'insidia, lo conseguoinvece mediante motivazione, ossia causalità procuratadalla conoscenza; col porre innanzi alla volontà altruimotivi illusori, in virtù dei quali l'individuo ingannato,credendo di seguir la volontà sua, segue la mia. Poichéil terreno in cui stanno i motivi è la conoscenza, io pos-so arrivare a quel risultato solo falsando l'altrui cono-scenza, e questa falsificazione è la menzogna. Essa ten-de ognora a influire sull'altrui volontà; e non sull'altruiconoscenza sola, in sé e in quanto tale, ma sulla cono-scenza come mezzo, ossia in quanto determina la volon-tà. Imperocché il mio stesso mentire, procedendo dallamia volontà, ha bisogno d'un motivo: ma tale può essersoltanto la volontà altrui, non l'altrui conoscenza in sé eper sé; poi che questa come tale non può aver mai un in-flusso sulla volontà mia, né, per conseguenza, muoverla,né essere un motivo dei suoi fini: bensì tale può essereunicamente l'altrui volere ed agire; e l'altrui conoscenzainvece non è tale se non mediatamente. Ciò vale nonsolo per tutte le menzogne sgorgate da un palese vantag-

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gio personale, ma anche per quelle prodotte da puramalvagità, la quale voglia pascersi delle dolorose conse-guenze d'un errore altrui da lei generato. Perfino la sem-plice fanfaronata mira, mediante l'aumento di stima chene viene, o una più favorevole opinione da parte deglialtri, ad esercitare un'influenza più o meno grande sulloro volere ed agire. Il rifiutarsi a dire una verità, ossia,in genere, a un'asserzione, in sé non costituisce un torto;mentre invece è tale ogni credito aggiunto a una menzo-gna. Chi allo smarrito viandante si rifiuta d'additar labuona via, non gli fa alcun torto; glielo fa quegli che lomette sulla via falsa. Da quanto s'è detto risulta che ognimenzogna, al pari d'ogni violenza è, in quanto tale, tor-to; avendo in quanto tale per fine di allargare il dominiodella mia volontà su altri individui, cioè di affermar lavolontà mia negando la loro, proprio come fa la violen-za. Ma la più compiuta menzogna è il patto infranto;perché quivi tutte le determinazioni suriferite sono rac-colte compiutamente e limpidamente. Invero, quando iostringo un patto, la prestazione che altri mi promette è,direttamente ed esplicitamente, il motivo della mia, chedovrà tosto seguire. Le promesse vengono scambiateconsapevolmente, e in tutta forma. La verità della di-chiarazione fatta con quelle da ciascuno si intende chestia in suo potere. Se l'altra parte rompe il patto, essam'ha ingannato e, insinuando nella mia conoscenza mo-tivi solo illusori, ha diretto la mia volontà secondo i pro-pri fini, ha esteso il dominio della volontà propria sopraun altro individuo, e quindi ha compiuto una vera e pro-

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gio personale, ma anche per quelle prodotte da puramalvagità, la quale voglia pascersi delle dolorose conse-guenze d'un errore altrui da lei generato. Perfino la sem-plice fanfaronata mira, mediante l'aumento di stima chene viene, o una più favorevole opinione da parte deglialtri, ad esercitare un'influenza più o meno grande sulloro volere ed agire. Il rifiutarsi a dire una verità, ossia,in genere, a un'asserzione, in sé non costituisce un torto;mentre invece è tale ogni credito aggiunto a una menzo-gna. Chi allo smarrito viandante si rifiuta d'additar labuona via, non gli fa alcun torto; glielo fa quegli che lomette sulla via falsa. Da quanto s'è detto risulta che ognimenzogna, al pari d'ogni violenza è, in quanto tale, tor-to; avendo in quanto tale per fine di allargare il dominiodella mia volontà su altri individui, cioè di affermar lavolontà mia negando la loro, proprio come fa la violen-za. Ma la più compiuta menzogna è il patto infranto;perché quivi tutte le determinazioni suriferite sono rac-colte compiutamente e limpidamente. Invero, quando iostringo un patto, la prestazione che altri mi promette è,direttamente ed esplicitamente, il motivo della mia, chedovrà tosto seguire. Le promesse vengono scambiateconsapevolmente, e in tutta forma. La verità della di-chiarazione fatta con quelle da ciascuno si intende chestia in suo potere. Se l'altra parte rompe il patto, essam'ha ingannato e, insinuando nella mia conoscenza mo-tivi solo illusori, ha diretto la mia volontà secondo i pro-pri fini, ha esteso il dominio della volontà propria sopraun altro individuo, e quindi ha compiuto una vera e pro-

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pria ingiustizia. Su ciò si fondano la legittimità morale ela validità dei contratti. Ingiustizia mediante violenzanon è per chi la commette tanto obbrobriosa, quanto èl'ingiustizia mediante insidia; perché quella attesta forzafisica, la quale, in ogni circostanza, fa grande effetto su-gli uomini; mentre questa, andando per via obliqua, èprova di debolezza, ed abbassa chi la compie, sì comeindividuo fisico che come individuo morale; ancor piùlo abbassa, in quanto menzogna e inganno possono riu-scire solo a condizione, che chi li adopra manifesti inpari tempo ripugnanza e disprezzo verso tali armi, perguadagnarsi fiducia, e la sua vittoria sta nel farsi attri-buire la lealtà che non possiede. La profonda ripugnan-za, che malizia infedeltà e tradimento destano ognora,viene dall'esser fedeltà e lealtà il vincolo, che ricongiun-ge esteriormente in unità la volontà sparpagliata nellafolla degli individui, ponendo così un limite alle conse-guenze dell'egoismo prodotto da quel frazionamento. In-fedeltà e tradimento spezzano quest'ultimo vincoloesterno, e aprono con ciò alle conseguenze dell'egoismoun campo senza confini.

Nella concatenazione del nostro pensiero abbiamotrovato il contenuto del concetto d'ingiustizia nella parti-colar natura dell'azione, con cui un individuo tanto allar-ga l'affermazione della volontà manifestantesi nel suocorpo, da farne la negazione della volontà manifestante-si nei corpi altrui. Abbiamo anche mostrato con esempiaffatto generici i limiti ove ha principio il dominiodell'ingiusto, determinandone insieme le gradazioni,

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pria ingiustizia. Su ciò si fondano la legittimità morale ela validità dei contratti. Ingiustizia mediante violenzanon è per chi la commette tanto obbrobriosa, quanto èl'ingiustizia mediante insidia; perché quella attesta forzafisica, la quale, in ogni circostanza, fa grande effetto su-gli uomini; mentre questa, andando per via obliqua, èprova di debolezza, ed abbassa chi la compie, sì comeindividuo fisico che come individuo morale; ancor piùlo abbassa, in quanto menzogna e inganno possono riu-scire solo a condizione, che chi li adopra manifesti inpari tempo ripugnanza e disprezzo verso tali armi, perguadagnarsi fiducia, e la sua vittoria sta nel farsi attri-buire la lealtà che non possiede. La profonda ripugnan-za, che malizia infedeltà e tradimento destano ognora,viene dall'esser fedeltà e lealtà il vincolo, che ricongiun-ge esteriormente in unità la volontà sparpagliata nellafolla degli individui, ponendo così un limite alle conse-guenze dell'egoismo prodotto da quel frazionamento. In-fedeltà e tradimento spezzano quest'ultimo vincoloesterno, e aprono con ciò alle conseguenze dell'egoismoun campo senza confini.

Nella concatenazione del nostro pensiero abbiamotrovato il contenuto del concetto d'ingiustizia nella parti-colar natura dell'azione, con cui un individuo tanto allar-ga l'affermazione della volontà manifestantesi nel suocorpo, da farne la negazione della volontà manifestante-si nei corpi altrui. Abbiamo anche mostrato con esempiaffatto generici i limiti ove ha principio il dominiodell'ingiusto, determinandone insieme le gradazioni,

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dalle massime alle minime, con pochi concetti fonda-mentali. Da ciò risulta, che originario e positivo è il con-cetto dell'ingiusto: mentre l'opposto concetto del giustoè derivato, negativo. Imperocché non alle parole dobbia-mo tenerci, ma ai concetti. In verità, non si sarebbe maifatta parola del giusto, se non vi fosse l'ingiusto. Il con-cetto di giustizia contiene semplicemente la negazionedell'ingiustizia, e in esso viene compresa ogni azione,che non sia trasgressione del confine su esposto, ossianegazione dell'altrui volontà per maggiore affermazionedella propria. Quel confine partisce adunque, rispetto auna determinazione puramente e semplicemente morale,l'intero campo delle azioni possibili in azioni ingiuste ogiuste. Un'azione che non vada a ficcarsi, al modo spie-gato più sopra, nella sfera dell'affermazione della volon-tà altrui, tale affermazione negando, non è ingiusta. Per-ciò il negare aiuto in caso di stringente necessità altrui,l'indifferente contemplar chi muore di fame, mentre noistiamo nell'abbondanza, è bensì crudele e perverso, manon è un far torto: soltanto si può dir con tutta certezza,che colui il quale è capace di spingere a tal punto la suainsensibilità e durezza, sicuramente saprà compiere an-che ogni ingiustizia, non appena le sue voglie lo chieda-no e nessuna costrizione l'impedisca.

Il concetto di diritto, come negazione dell'ingiusto, hanondimeno trovato la sua principale applicazione, e sen-za dubbio anche la sua prima origine, nei casi in cui ten-tata ingiustizia viene impedita con violenza: il quale im-pedimento alla sua volta non può essere ingiustizia, ben-

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dalle massime alle minime, con pochi concetti fonda-mentali. Da ciò risulta, che originario e positivo è il con-cetto dell'ingiusto: mentre l'opposto concetto del giustoè derivato, negativo. Imperocché non alle parole dobbia-mo tenerci, ma ai concetti. In verità, non si sarebbe maifatta parola del giusto, se non vi fosse l'ingiusto. Il con-cetto di giustizia contiene semplicemente la negazionedell'ingiustizia, e in esso viene compresa ogni azione,che non sia trasgressione del confine su esposto, ossianegazione dell'altrui volontà per maggiore affermazionedella propria. Quel confine partisce adunque, rispetto auna determinazione puramente e semplicemente morale,l'intero campo delle azioni possibili in azioni ingiuste ogiuste. Un'azione che non vada a ficcarsi, al modo spie-gato più sopra, nella sfera dell'affermazione della volon-tà altrui, tale affermazione negando, non è ingiusta. Per-ciò il negare aiuto in caso di stringente necessità altrui,l'indifferente contemplar chi muore di fame, mentre noistiamo nell'abbondanza, è bensì crudele e perverso, manon è un far torto: soltanto si può dir con tutta certezza,che colui il quale è capace di spingere a tal punto la suainsensibilità e durezza, sicuramente saprà compiere an-che ogni ingiustizia, non appena le sue voglie lo chieda-no e nessuna costrizione l'impedisca.

Il concetto di diritto, come negazione dell'ingiusto, hanondimeno trovato la sua principale applicazione, e sen-za dubbio anche la sua prima origine, nei casi in cui ten-tata ingiustizia viene impedita con violenza: il quale im-pedimento alla sua volta non può essere ingiustizia, ben-

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sì è diritto: anche se la violenza impiegatavi, consideratain se stessa e isolatamente, sarebbe ingiustizia, e quivenga giustificata sol dal suo motivo, diventando diritto.Se un individuo nell'affermazione della sua volontà vatanto lontano, da irrompere nella sfera dell'affermazionedi volontà inerente alla mia persona in quanto tale, eviene con ciò a negar l'affermazione mia, il mio difen-dermi da tale violenza è solo un negar quella negazione;e quindi, da parte mia, non altro è che l'affermar la vo-lontà per essenza e originariamente manifestantesi nelmio corpo, e già implicite esprimentesi col semplice fe-nomeno del corpo stesso: non è quindi ingiustizia, bensìdiritto. Il che vai quanto dire: io ho allora un diritto, dinegar quella negazione con ogni forza atta a toglierla dimezzo; diritto che, si vede facilmente, può arrivare finoall'uccisione dell'individuo estraneo, il cui atto a miodanno, quale premente violenza esteriore, può essereimpedito mediante una reazione alquanto più forte diesso, senza commettere ingiustizia di sorta, e quindi condiritto; imperocché tutto quanto vien fatto da parte miasta sempre esclusivamente nella sfera dell'affermazionedi volontà inerente alla mia persona come tale, e già inlei espressa (sfera che è il teatro della battaglia); né ir-rompe nella sfera altrui: sì che è solo negazione dellanegazione, ossia affermazione e non negazione. Io possoadunque, senza ingiustizia, costringer la volontà estra-nea che nega la volontà mia quale si manifesta nel miocorpo e nell'uso delle forze di esso per la propria conser-vazione, senza negare io perciò un'altrui volontà conte-

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sì è diritto: anche se la violenza impiegatavi, consideratain se stessa e isolatamente, sarebbe ingiustizia, e quivenga giustificata sol dal suo motivo, diventando diritto.Se un individuo nell'affermazione della sua volontà vatanto lontano, da irrompere nella sfera dell'affermazionedi volontà inerente alla mia persona in quanto tale, eviene con ciò a negar l'affermazione mia, il mio difen-dermi da tale violenza è solo un negar quella negazione;e quindi, da parte mia, non altro è che l'affermar la vo-lontà per essenza e originariamente manifestantesi nelmio corpo, e già implicite esprimentesi col semplice fe-nomeno del corpo stesso: non è quindi ingiustizia, bensìdiritto. Il che vai quanto dire: io ho allora un diritto, dinegar quella negazione con ogni forza atta a toglierla dimezzo; diritto che, si vede facilmente, può arrivare finoall'uccisione dell'individuo estraneo, il cui atto a miodanno, quale premente violenza esteriore, può essereimpedito mediante una reazione alquanto più forte diesso, senza commettere ingiustizia di sorta, e quindi condiritto; imperocché tutto quanto vien fatto da parte miasta sempre esclusivamente nella sfera dell'affermazionedi volontà inerente alla mia persona come tale, e già inlei espressa (sfera che è il teatro della battaglia); né ir-rompe nella sfera altrui: sì che è solo negazione dellanegazione, ossia affermazione e non negazione. Io possoadunque, senza ingiustizia, costringer la volontà estra-nea che nega la volontà mia quale si manifesta nel miocorpo e nell'uso delle forze di esso per la propria conser-vazione, senza negare io perciò un'altrui volontà conte-

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nuta in eguali confini, a desister da codesta negazione:ossia ho, in siffatta misura, un diritto di coercizione.

In tutti i casi nei quali io ho un diritto di coercizione,un pieno diritto di usar violenza contro gli altri, possoegualmente, secondo le circostanze, opporre all'altruiviolenza anche l'astuzia, senza commettere ingiustizia;ed ho quindi un vero e proprio diritto alla menzogna,nella stessa misura in cui ho diritto alla coercizione vio-lenta. Perciò, chi assicuri al malandrino che lo sta fru-gando, di non aver null'altro su di sé, agisce con pienodiritto; così anche colui, il quale attiri con una menzo-gna in cantina il ladro entratogli di notte in casa, e ve lorinchiuda. Chi sia trascinato prigione da malfattori, peresempio, da pirati barbareschi, ha il diritto, per liberarsi,di ucciderli non soltanto con aperta violenza, ma anchecon inganno. Similmente una promessa strappata con di-retta violenza corporale non lega in nulla; perché quegli,che subisce una tal costrizione, può con pieno diritto li-berarsi di chi gli usa violenza, con l'uccisione, nonchécon l'insidia. Chi non può riprender con la forza il benerubatogli, non commette ingiustizia se lo riacquista coninganno. Perfino, se taluno dissipa al gioco il denaro chem'ha involato, ho diritto di barare a suo danno: perchéquanto io gli tolgo, già mi appartiene. Chi ciò volessenegare, dovrebbe ancor più negar la legittimità dell'insi-dia guerresca, la quale è addirittura una menzogna inazione, e conferma il motto della regina Cristina di Sve-zia: «Le parole degli uomini non vanno calcolate pernulla: grazia se si può credere ai loro atti». Così da pres-

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nuta in eguali confini, a desister da codesta negazione:ossia ho, in siffatta misura, un diritto di coercizione.

In tutti i casi nei quali io ho un diritto di coercizione,un pieno diritto di usar violenza contro gli altri, possoegualmente, secondo le circostanze, opporre all'altruiviolenza anche l'astuzia, senza commettere ingiustizia;ed ho quindi un vero e proprio diritto alla menzogna,nella stessa misura in cui ho diritto alla coercizione vio-lenta. Perciò, chi assicuri al malandrino che lo sta fru-gando, di non aver null'altro su di sé, agisce con pienodiritto; così anche colui, il quale attiri con una menzo-gna in cantina il ladro entratogli di notte in casa, e ve lorinchiuda. Chi sia trascinato prigione da malfattori, peresempio, da pirati barbareschi, ha il diritto, per liberarsi,di ucciderli non soltanto con aperta violenza, ma anchecon inganno. Similmente una promessa strappata con di-retta violenza corporale non lega in nulla; perché quegli,che subisce una tal costrizione, può con pieno diritto li-berarsi di chi gli usa violenza, con l'uccisione, nonchécon l'insidia. Chi non può riprender con la forza il benerubatogli, non commette ingiustizia se lo riacquista coninganno. Perfino, se taluno dissipa al gioco il denaro chem'ha involato, ho diritto di barare a suo danno: perchéquanto io gli tolgo, già mi appartiene. Chi ciò volessenegare, dovrebbe ancor più negar la legittimità dell'insi-dia guerresca, la quale è addirittura una menzogna inazione, e conferma il motto della regina Cristina di Sve-zia: «Le parole degli uomini non vanno calcolate pernulla: grazia se si può credere ai loro atti». Così da pres-

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so il limite del giusto sfiora quello dell'ingiusto! Del re-sto, credo superfluo dimostrare, che tutto ciò concordaappieno con quanto è detto più sopra intorno all'illegitti-mità della menzogna come della violenza: può ancheservir d'illustrazione alle singolari teorie sopra la men-zogna necessaria99.

In virtù di tutto quanto ho esposto finora, torto e dirit-to sono semplicemente determinazioni morali; tali, cioè,che abbian valore rispetto alla considerazione dell'uma-na attività in se stessa, e in rapporto all'intimo significa-to di codesta attività in sé. Questo valore si rivela diret-tamente nella conscienza, in primo luogo, per il fattoche l'agire contro giustizia è accompagnato da un inter-no rammarico, il quale in chi commette l'ingiustizia è laconscienza, semplicemente sentita, dell'eccessiva forzaonde s'afferma in lui la volontà, arrivando fino al puntodi negare il fenomeno della volontà altrui. E l'autordell'ingiustizia, essendo bensì distinto come fenomenodella sua vittima, le è nondimeno identico nell'essenza.L'ulteriore esplicazione di codesto intimo significatod'ogni fenomeno potrà seguire solo più tardi. Per un al-tro verso, chi patisce l'ingiustizia è dolorosamente con-sapevole della negazione della propria volontà, qualeessa volontà è già espressa mediante il corpo di lui, ed isuoi naturali bisogni, pel cui appagamento la natura lofa contar sulle forze di questo corpo medesimo. Anche è

99 L'ulteriore sviluppo della filosofia del diritto qui tracciata si trova nellamia opera Sul fondamento della morale, § 17, pp. 221-230 della prima edi-zione, 216-26 della seconda.

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so il limite del giusto sfiora quello dell'ingiusto! Del re-sto, credo superfluo dimostrare, che tutto ciò concordaappieno con quanto è detto più sopra intorno all'illegitti-mità della menzogna come della violenza: può ancheservir d'illustrazione alle singolari teorie sopra la men-zogna necessaria99.

In virtù di tutto quanto ho esposto finora, torto e dirit-to sono semplicemente determinazioni morali; tali, cioè,che abbian valore rispetto alla considerazione dell'uma-na attività in se stessa, e in rapporto all'intimo significa-to di codesta attività in sé. Questo valore si rivela diret-tamente nella conscienza, in primo luogo, per il fattoche l'agire contro giustizia è accompagnato da un inter-no rammarico, il quale in chi commette l'ingiustizia è laconscienza, semplicemente sentita, dell'eccessiva forzaonde s'afferma in lui la volontà, arrivando fino al puntodi negare il fenomeno della volontà altrui. E l'autordell'ingiustizia, essendo bensì distinto come fenomenodella sua vittima, le è nondimeno identico nell'essenza.L'ulteriore esplicazione di codesto intimo significatod'ogni fenomeno potrà seguire solo più tardi. Per un al-tro verso, chi patisce l'ingiustizia è dolorosamente con-sapevole della negazione della propria volontà, qualeessa volontà è già espressa mediante il corpo di lui, ed isuoi naturali bisogni, pel cui appagamento la natura lofa contar sulle forze di questo corpo medesimo. Anche è

99 L'ulteriore sviluppo della filosofia del diritto qui tracciata si trova nellamia opera Sul fondamento della morale, § 17, pp. 221-230 della prima edi-zione, 216-26 della seconda.

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consapevole, in pari tempo, che senza commettere in-giustizia potrebbe opporsi in tutti i modi a quella nega-zione, se non gliene mancasse la forza. Cotal valore pu-ramente morale è l'unico, che diritto e ingiustizia abbia-no per l'uomo come uomo (non come cittadino nelloStato); l'unico, quindi, che sussisterebbe anche nello sta-to di natura, senz'alcuna legge positiva; l'unico, che co-stituisce la base e il contenuto di tutto quanto s'è perciòchiamato diritto naturale, ma meglio si chiamerebbe di-ritto morale: estendendosi il suo valore non già al subi-re, alla realtà esterna, ma solo all'agire e alla consapevo-lezza del proprio volere individuale, che l'agire fa nasce-re nell'uomo; consapevolezza, che si chiama coscienza.La quale nello stato di natura non in tutti i casi può farsivalere anche al di fuori, sopra altri individui, ed impedi-re che violenza regni in luogo del diritto. Nello stato dinatura dipende invero semplicemente da ciascuno, dinon agire in nessun caso con ingiustizia, ma non già dinon subire in nessun caso ingiustizia, poiché ciò dipen-de da quella forza esteriore che ci è toccata. Perciò sonoi concetti di giusto e ingiusto bensì validi anche per lostato di natura, e punto convenzionali; ma quivi valgonosol come concetti morali, per l'autoconscienza che cia-scuno ha della propria volontà. Ovvero sono, sulla scaladei differentissimi gradi d'intensità, con cui la volontà divivere s'afferma negli individui umani, un punto fermo,simile al punto di congelazione nel termometro: il pun-to, ove l'affermazione della volontà propria diventa ne-gazione dell'altrui, ossia con l'agire ingiustamente indica

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consapevole, in pari tempo, che senza commettere in-giustizia potrebbe opporsi in tutti i modi a quella nega-zione, se non gliene mancasse la forza. Cotal valore pu-ramente morale è l'unico, che diritto e ingiustizia abbia-no per l'uomo come uomo (non come cittadino nelloStato); l'unico, quindi, che sussisterebbe anche nello sta-to di natura, senz'alcuna legge positiva; l'unico, che co-stituisce la base e il contenuto di tutto quanto s'è perciòchiamato diritto naturale, ma meglio si chiamerebbe di-ritto morale: estendendosi il suo valore non già al subi-re, alla realtà esterna, ma solo all'agire e alla consapevo-lezza del proprio volere individuale, che l'agire fa nasce-re nell'uomo; consapevolezza, che si chiama coscienza.La quale nello stato di natura non in tutti i casi può farsivalere anche al di fuori, sopra altri individui, ed impedi-re che violenza regni in luogo del diritto. Nello stato dinatura dipende invero semplicemente da ciascuno, dinon agire in nessun caso con ingiustizia, ma non già dinon subire in nessun caso ingiustizia, poiché ciò dipen-de da quella forza esteriore che ci è toccata. Perciò sonoi concetti di giusto e ingiusto bensì validi anche per lostato di natura, e punto convenzionali; ma quivi valgonosol come concetti morali, per l'autoconscienza che cia-scuno ha della propria volontà. Ovvero sono, sulla scaladei differentissimi gradi d'intensità, con cui la volontà divivere s'afferma negli individui umani, un punto fermo,simile al punto di congelazione nel termometro: il pun-to, ove l'affermazione della volontà propria diventa ne-gazione dell'altrui, ossia con l'agire ingiustamente indica

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il grado della sua vivacità congiunto col grado dell'irre-timento della conoscenza nel principio individuationis(il quale è la forma della conoscenza posta per intero alservigio della volontà). Chi voglia ora porre da canto laconsiderazione puramente morale degli atti umani, o ne-garla, e gli atti stessi guardar soltanto sotto il rispetto delloro effetto esteriore e del loro successo, potrà inverochiamar con Hobbes giustizia e ingiustizia convenziona-li determinazioni, arbitrariamente assunte, e punto esi-stenti all'infuori della legge positiva; né mai potremmonoi fargli intendere per esteriore esperienza ciò che nonall'esteriore esperienza s'appartiene. Così al medesimoHobbes, il quale caratterizza in modo singolarissimoquel suo pensiero affatto empirico, negando nel suo li-bro De principiis geometrarum tutta la matematica puravera e propria, e ostinato affermando avere il puntoestensione, e aver larghezza una linea, non potremometter mai sotto gli occhi un punto senza estensione euna linea senza larghezza, per provargli l'a priori dellamatematica, più di quanto possiamo fargli intendere l'apriori del diritto: perché egli si è asserragliato controogni conoscenza non empirica.

La pura filosofia del diritto è dunque un capitolo dellamorale, e si riferisce in modo diretto soltanto all'azioneche si compie, non già a quella che si subisce. Che solola prima è esplicazione della volontà, e la morale nonconsidera se non la volontà. Il subire è un semplice acci-dente: solo in via indiretta la morale può considerarlo,ed esclusivamente per dimostrare, che quanto si fa con

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il grado della sua vivacità congiunto col grado dell'irre-timento della conoscenza nel principio individuationis(il quale è la forma della conoscenza posta per intero alservigio della volontà). Chi voglia ora porre da canto laconsiderazione puramente morale degli atti umani, o ne-garla, e gli atti stessi guardar soltanto sotto il rispetto delloro effetto esteriore e del loro successo, potrà inverochiamar con Hobbes giustizia e ingiustizia convenziona-li determinazioni, arbitrariamente assunte, e punto esi-stenti all'infuori della legge positiva; né mai potremmonoi fargli intendere per esteriore esperienza ciò che nonall'esteriore esperienza s'appartiene. Così al medesimoHobbes, il quale caratterizza in modo singolarissimoquel suo pensiero affatto empirico, negando nel suo li-bro De principiis geometrarum tutta la matematica puravera e propria, e ostinato affermando avere il puntoestensione, e aver larghezza una linea, non potremometter mai sotto gli occhi un punto senza estensione euna linea senza larghezza, per provargli l'a priori dellamatematica, più di quanto possiamo fargli intendere l'apriori del diritto: perché egli si è asserragliato controogni conoscenza non empirica.

La pura filosofia del diritto è dunque un capitolo dellamorale, e si riferisce in modo diretto soltanto all'azioneche si compie, non già a quella che si subisce. Che solola prima è esplicazione della volontà, e la morale nonconsidera se non la volontà. Il subire è un semplice acci-dente: solo in via indiretta la morale può considerarlo,ed esclusivamente per dimostrare, che quanto si fa con

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l'unico fine di non patire un'ingiustizia, non è atto ingiu-sto. Quel capitolo della morale, sviluppato, avrebbecome contenuto la precisa determinazione del limite,fino al quale un individuo può arrivare nell'affermazionedella volontà già oggettivata nel suo corpo, senza checodesta affermazione diventi negazione di quella volon-tà medesima, rilevantesi in un altro individuo; ed inoltredovrebbe determinar le azioni, che andando oltre il limi-te sopraddetto sono ingiuste, e tali quindi da poter essereimpedite senza commettere ingiustizia. Sempre rimar-rebbe così oggetto dell'indagine l'azione sola.

Ma nell'esperienza esteriore, come accidente, si pre-senta il fatto dell'ingiustizia patita: e vi si manifesta piùlimpido che altrove, come già fu detto, il fenomenodell'opposizione della volontà di vivere contro se stessa,risultante dalla pluralità degli individui e dall'egoismo;l'una e l'altro determinati dal principio individuationis,che è la forma del mondo quale rappresentazione per laconoscenza individuale. Abbiamo anche visto più sopra,che un'assai gran parte del dolore inerente all'umana vitaha in quel contrasto degl'individui la sua perenne sor-gente.

Ma la ragione, a tutti codesti individui comune, laquale fa sì ch'essi non conoscano, come gli animali, sol-tanto il caso singolo, ma anche la connessione dell'insie-me, in astratto, ha presto insegnato loro a conoscer lasorgente di quel male, e li ha richiamati a considerare imezzi di farlo minore, o, quando fosse possibile, di sop-primerlo, mediante un sacrificio comune, che tuttavia

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l'unico fine di non patire un'ingiustizia, non è atto ingiu-sto. Quel capitolo della morale, sviluppato, avrebbecome contenuto la precisa determinazione del limite,fino al quale un individuo può arrivare nell'affermazionedella volontà già oggettivata nel suo corpo, senza checodesta affermazione diventi negazione di quella volon-tà medesima, rilevantesi in un altro individuo; ed inoltredovrebbe determinar le azioni, che andando oltre il limi-te sopraddetto sono ingiuste, e tali quindi da poter essereimpedite senza commettere ingiustizia. Sempre rimar-rebbe così oggetto dell'indagine l'azione sola.

Ma nell'esperienza esteriore, come accidente, si pre-senta il fatto dell'ingiustizia patita: e vi si manifesta piùlimpido che altrove, come già fu detto, il fenomenodell'opposizione della volontà di vivere contro se stessa,risultante dalla pluralità degli individui e dall'egoismo;l'una e l'altro determinati dal principio individuationis,che è la forma del mondo quale rappresentazione per laconoscenza individuale. Abbiamo anche visto più sopra,che un'assai gran parte del dolore inerente all'umana vitaha in quel contrasto degl'individui la sua perenne sor-gente.

Ma la ragione, a tutti codesti individui comune, laquale fa sì ch'essi non conoscano, come gli animali, sol-tanto il caso singolo, ma anche la connessione dell'insie-me, in astratto, ha presto insegnato loro a conoscer lasorgente di quel male, e li ha richiamati a considerare imezzi di farlo minore, o, quando fosse possibile, di sop-primerlo, mediante un sacrificio comune, che tuttavia

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vien vantaggiosamente compensato dal profitto che atutti ne deriva. Per quanto gradevole sia invero all'egoi-smo individuale, capitandone il caso, il commettereun'ingiustizia, tale atto ha nondimeno un correlato ne-cessario nel patir che altri fa l'ingiustizia medesima,avendone un grande dolore. E quando la ragione, consi-derando genericamente, si innalzò sul punto di vista uni-laterale dell'individuo a cui appartiene, sciogliendosi perun istante dal vincolo che a lui la lega, vide che il godi-mento, provato da ciascuno individuo per l'atto ingiustocommesso, è superato ognora da un dolore relativamen-te più grande, che prova chi quell'atto subisce. E vide,inoltre, come tutto essendo in ciò affidato al caso, cia-scuno avrebbe avuto da temere, che a sé il doloredell'ingiustizia sofferta toccasse ben più frequente delpiacere per un'eventuale ingiustizia commessa. E la ra-gione ne ricavò che, tanto per diminuire il male su tuttidisteso, quanto per distribuirlo quanto più fosse possibi-le uniformemente, il migliore e unico mezzo fosse ri-sparmiare a tutti il dolore di subire l'ingiustizia, per que-sta via: rinunziar tutti anche al piacere di commetterla.Questo mezzo adunque, che l'egoismo per mezzo dellaragione facilmente trovò, e gradatamente perfezionò,procedendo con metodo e abbandonando il proprio uni-laterale punto di vista, è il contratto sociale o la legge.

L'origine, ch'io qui gli assegno, esponeva già Platonenella Repubblica. In verità è tale origine essenzialmentel'unica, e posta dalla natura della cosa. Né può lo Statoaverne avuta altra, in nessun paese, che gli è appunto

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vien vantaggiosamente compensato dal profitto che atutti ne deriva. Per quanto gradevole sia invero all'egoi-smo individuale, capitandone il caso, il commettereun'ingiustizia, tale atto ha nondimeno un correlato ne-cessario nel patir che altri fa l'ingiustizia medesima,avendone un grande dolore. E quando la ragione, consi-derando genericamente, si innalzò sul punto di vista uni-laterale dell'individuo a cui appartiene, sciogliendosi perun istante dal vincolo che a lui la lega, vide che il godi-mento, provato da ciascuno individuo per l'atto ingiustocommesso, è superato ognora da un dolore relativamen-te più grande, che prova chi quell'atto subisce. E vide,inoltre, come tutto essendo in ciò affidato al caso, cia-scuno avrebbe avuto da temere, che a sé il doloredell'ingiustizia sofferta toccasse ben più frequente delpiacere per un'eventuale ingiustizia commessa. E la ra-gione ne ricavò che, tanto per diminuire il male su tuttidisteso, quanto per distribuirlo quanto più fosse possibi-le uniformemente, il migliore e unico mezzo fosse ri-sparmiare a tutti il dolore di subire l'ingiustizia, per que-sta via: rinunziar tutti anche al piacere di commetterla.Questo mezzo adunque, che l'egoismo per mezzo dellaragione facilmente trovò, e gradatamente perfezionò,procedendo con metodo e abbandonando il proprio uni-laterale punto di vista, è il contratto sociale o la legge.

L'origine, ch'io qui gli assegno, esponeva già Platonenella Repubblica. In verità è tale origine essenzialmentel'unica, e posta dalla natura della cosa. Né può lo Statoaverne avuta altra, in nessun paese, che gli è appunto

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codesta maniera di nascita, codesta finalità, a farne unoStato; ed è poi indifferente se in questo o in quel popolol'abbia preceduto la condizione d'una moltitudine di sel-vaggi indipendenti (anarchia), o di schiavi dominati perarbitrio dal più forte (dispotismo). Nell'un caso enell'altro non s'aveva Stato: lo Stato sorge solo mediantequel comune accordo; ed a seconda che tale accordo siapiù o meno puro da anarchia o dispotismo, è anche loStato più o meno perfetto. Le repubbliche tendonoall'anarchia, le monarchie al dispotismo, e la via inter-media della monarchia costituzionale, che per ovviare aquei mali s'è escogitata, tende al predominio delle fazio-ni. Per fondare uno Stato perfetto, si deve incominciardal creare esseri, cui Natura consenta di sacrificare ilbene proprio al bene pubblico. Ma frattanto qualcosa giàs'ottiene, dall'esservi una famiglia, il cui bene sia daquello del paese affatto inseparabile: sì che ella, almenonelle cose essenziali, non possa mai vantaggiar l'unosenza l'altro. Qui sta la forza e il pregio della monarchiaereditaria.

Se la morale mira esclusivamente all'azione giusta oingiusta, e può, a quegli il quale sia per avventura riso-luto di non fare atto ingiusto, stabilir nettamente i confi-ni delle sue operazioni; la dottrina dello Stato, invece, lascienza della legislazione, mira soltanto all'ingiustiziapatita, né mai si occuperebbe dell'ingiustizia commessa,se non fosse per l'ognor necessario correlato di questa,ossia la patita: la quale è l'oggetto della sua attenzione,quasi il nemico contro cui ella si affatica. Ove si potesse

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codesta maniera di nascita, codesta finalità, a farne unoStato; ed è poi indifferente se in questo o in quel popolol'abbia preceduto la condizione d'una moltitudine di sel-vaggi indipendenti (anarchia), o di schiavi dominati perarbitrio dal più forte (dispotismo). Nell'un caso enell'altro non s'aveva Stato: lo Stato sorge solo mediantequel comune accordo; ed a seconda che tale accordo siapiù o meno puro da anarchia o dispotismo, è anche loStato più o meno perfetto. Le repubbliche tendonoall'anarchia, le monarchie al dispotismo, e la via inter-media della monarchia costituzionale, che per ovviare aquei mali s'è escogitata, tende al predominio delle fazio-ni. Per fondare uno Stato perfetto, si deve incominciardal creare esseri, cui Natura consenta di sacrificare ilbene proprio al bene pubblico. Ma frattanto qualcosa giàs'ottiene, dall'esservi una famiglia, il cui bene sia daquello del paese affatto inseparabile: sì che ella, almenonelle cose essenziali, non possa mai vantaggiar l'unosenza l'altro. Qui sta la forza e il pregio della monarchiaereditaria.

Se la morale mira esclusivamente all'azione giusta oingiusta, e può, a quegli il quale sia per avventura riso-luto di non fare atto ingiusto, stabilir nettamente i confi-ni delle sue operazioni; la dottrina dello Stato, invece, lascienza della legislazione, mira soltanto all'ingiustiziapatita, né mai si occuperebbe dell'ingiustizia commessa,se non fosse per l'ognor necessario correlato di questa,ossia la patita: la quale è l'oggetto della sua attenzione,quasi il nemico contro cui ella si affatica. Ove si potesse

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concepire un atto ingiusto, col quale non fosse d'altraparte congiunta un'ingiustizia sofferta, lo Stato conse-guentemente non lo punirebbe in nessun modo. Inoltre,poiché nella morale è oggetto di considerazione ed uni-ca realtà l'animo, l'intenzione, per essa la volontà risolu-ta di commettere ingiustizia, quando pur sia arrestata eresa impotente da una forza estranea, equivale in tuttoall'ingiustizia effettivamente commessa; e la moralecondanna nel suo tribunale, come ingiusto, chiquell'intenzione aveva. Viceversa lo Stato non toccanoanimo e intendimento, sol come tali, né punto né poco;bensì solamente l'atto (sia esso poi tentato o compiuto),in ragione del suo correlato, del patire, che ne vienedall'altra parte: per lo Stato è una realtà l'azione, il fattoaccaduto; l'intendimento, il volere non s'indaga se nonin quanto da esso vien reso manifesto il significatodell'atto. Quindi lo Stato non vieterà ad alcuno di medi-tar permanentemente violenza omicida o veleno a dannoaltrui, non appena sia persuaso che il timore della penacapitale e della tortura arresteranno sempre gli effetti diquell'intenzione. E lo Stato non ha pur minimamente ilfolle proposito di distruggere l'inclinazione all'ingiusti-zia, la malvagia intenzione; bensì ad ogni possibile im-pulso verso il compimento di un torto vuol porre accan-to una prevalente ragione di non commetterlo, la qualconsiste nell'ineluttabile punizione: perciò è il codicepenale un elenco, il più possibile completo, di contro-motivi opposti a tutte le azioni delittuose presuppostecome possibili. La scienza statale, o legislazione, per

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concepire un atto ingiusto, col quale non fosse d'altraparte congiunta un'ingiustizia sofferta, lo Stato conse-guentemente non lo punirebbe in nessun modo. Inoltre,poiché nella morale è oggetto di considerazione ed uni-ca realtà l'animo, l'intenzione, per essa la volontà risolu-ta di commettere ingiustizia, quando pur sia arrestata eresa impotente da una forza estranea, equivale in tuttoall'ingiustizia effettivamente commessa; e la moralecondanna nel suo tribunale, come ingiusto, chiquell'intenzione aveva. Viceversa lo Stato non toccanoanimo e intendimento, sol come tali, né punto né poco;bensì solamente l'atto (sia esso poi tentato o compiuto),in ragione del suo correlato, del patire, che ne vienedall'altra parte: per lo Stato è una realtà l'azione, il fattoaccaduto; l'intendimento, il volere non s'indaga se nonin quanto da esso vien reso manifesto il significatodell'atto. Quindi lo Stato non vieterà ad alcuno di medi-tar permanentemente violenza omicida o veleno a dannoaltrui, non appena sia persuaso che il timore della penacapitale e della tortura arresteranno sempre gli effetti diquell'intenzione. E lo Stato non ha pur minimamente ilfolle proposito di distruggere l'inclinazione all'ingiusti-zia, la malvagia intenzione; bensì ad ogni possibile im-pulso verso il compimento di un torto vuol porre accan-to una prevalente ragione di non commetterlo, la qualconsiste nell'ineluttabile punizione: perciò è il codicepenale un elenco, il più possibile completo, di contro-motivi opposti a tutte le azioni delittuose presuppostecome possibili. La scienza statale, o legislazione, per

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questo suo fine torrà a prestito dalla morale il capitolo,che costituisce la filosofia del diritto, e che oltre a darl'intimo significato del giusto e dell'ingiusto ne determi-na i netti confini; ma esclusivamente per adoprarne ilrovescio, e tutti quei termini, che la morale pone comeinsormontabili da chi non voglia commettere ingiustizia,considerar sotto l'aspetto opposto: come termini, il cuivalicamento da parte d'altri non va tollerato, se non sivuol patire ingiustizia, e da cui s'ha il diritto di respinge-re altrui. Tali termini vengono così sotto codesto rispet-to, fin dove si può passivo, barricati dalle leggi. Ne ri-sulta che, come molto argutamente lo storico fu definitoun profeta a rovescio, così è un moralista a rovescio ilgiurista; e quindi anche la scienza del diritto in sensoproprio, ossia la dottrina dei diritti, che si possono affer-mare, è una morale a rovescio nel capitolo, in cui questainsegna i diritti che non si possono violare. Il concettodell'ingiustizia e della sua negazione, della giustizia, ilquale è in origine concetto morale, diventa giuridico tra-sportando il punto di partenza dall'aspetto attivo al pas-sivo, ossia mediante un capovolgimento. Ciò, aggiuntoalla dottrina giuridica di Kant, il quale molto falsamentederiva dal suo imperativo categorico l'istituzione delloStato come un dovere morale, ha prodotto anche nell'etàpiù moderna di tanto in tanto il singolarissimo errore,che lo Stato sia un istituto per l'incremento della morali-tà, nasca da un tendere verso di essa e sia quindi rivoltocontro l'egoismo. Come se l'interno animo, l'eternamen-te libero volere, al quale soltanto si riferiscono moralità

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questo suo fine torrà a prestito dalla morale il capitolo,che costituisce la filosofia del diritto, e che oltre a darl'intimo significato del giusto e dell'ingiusto ne determi-na i netti confini; ma esclusivamente per adoprarne ilrovescio, e tutti quei termini, che la morale pone comeinsormontabili da chi non voglia commettere ingiustizia,considerar sotto l'aspetto opposto: come termini, il cuivalicamento da parte d'altri non va tollerato, se non sivuol patire ingiustizia, e da cui s'ha il diritto di respinge-re altrui. Tali termini vengono così sotto codesto rispet-to, fin dove si può passivo, barricati dalle leggi. Ne ri-sulta che, come molto argutamente lo storico fu definitoun profeta a rovescio, così è un moralista a rovescio ilgiurista; e quindi anche la scienza del diritto in sensoproprio, ossia la dottrina dei diritti, che si possono affer-mare, è una morale a rovescio nel capitolo, in cui questainsegna i diritti che non si possono violare. Il concettodell'ingiustizia e della sua negazione, della giustizia, ilquale è in origine concetto morale, diventa giuridico tra-sportando il punto di partenza dall'aspetto attivo al pas-sivo, ossia mediante un capovolgimento. Ciò, aggiuntoalla dottrina giuridica di Kant, il quale molto falsamentederiva dal suo imperativo categorico l'istituzione delloStato come un dovere morale, ha prodotto anche nell'etàpiù moderna di tanto in tanto il singolarissimo errore,che lo Stato sia un istituto per l'incremento della morali-tà, nasca da un tendere verso di essa e sia quindi rivoltocontro l'egoismo. Come se l'interno animo, l'eternamen-te libero volere, al quale soltanto si riferiscono moralità

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o immoralità, si potesse dal di fuori modificare, e per in-flusso esterno mutare! Ancor più stolto è il teorema, se-condo il quale lo Stato è condizione della libertà nelsenso morale e quindi della moralità: mentre invece lalibertà risiede di là dal fenomeno, altro che di là dalleumane istituzioni! Lo Stato, come ho detto, è sì poco ri-volto contro l'egoismo in genere e in quanto tale, che vi-ceversa per l'appunto dall'egoismo è originato: daquell'egoismo bene inteso, metodicamente procedente,salito dal punto di vista individuale al generale, e as-sommante in sé l'egoismo di tutti. A servizio di questo èlo Stato: poggiando sulla retta premessa, che non sia daattendersi moralità pura, ossia un giusto agire per princi-pi morali; che se così non fosse, esso diventerebbe su-perfluo. Non punto, adunque, contro l'egoismo, bensìesclusivamente contro gli effetti dannosi dell'egoismo,che dalla folla degli individui egoisti si producono asvantaggio reciproco di tutti, e ne turbano il benessere, èlo Stato rivolto: il quale a tal benessere mira. Perciò di-ceva già Aristotele (De Rep., III): Τελος µεν ουν πολεωντο ευ ζη̣ν˙ τουτο δε εστιν το ζη̣ν˙ ευδαιµονως και καλως(Finis civitatis est bene vivere, hoc autem est beate etpulchre vivere). Anche Hobbes ha giustissimamente e inmodo eccellente esposto quest'origine e finalità delloStato, quali vengono d'altronde espresse dall'antico prin-cipio di tutti i gli ordinamenti statali, salus publica su-prema lex esto. Se lo Stato raggiungesse appieno il suofine, produrrebbe lo stesso effetto come se universal-mente regnasse perfetta giustizia d'intenzioni. Ma l'inti-

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o immoralità, si potesse dal di fuori modificare, e per in-flusso esterno mutare! Ancor più stolto è il teorema, se-condo il quale lo Stato è condizione della libertà nelsenso morale e quindi della moralità: mentre invece lalibertà risiede di là dal fenomeno, altro che di là dalleumane istituzioni! Lo Stato, come ho detto, è sì poco ri-volto contro l'egoismo in genere e in quanto tale, che vi-ceversa per l'appunto dall'egoismo è originato: daquell'egoismo bene inteso, metodicamente procedente,salito dal punto di vista individuale al generale, e as-sommante in sé l'egoismo di tutti. A servizio di questo èlo Stato: poggiando sulla retta premessa, che non sia daattendersi moralità pura, ossia un giusto agire per princi-pi morali; che se così non fosse, esso diventerebbe su-perfluo. Non punto, adunque, contro l'egoismo, bensìesclusivamente contro gli effetti dannosi dell'egoismo,che dalla folla degli individui egoisti si producono asvantaggio reciproco di tutti, e ne turbano il benessere, èlo Stato rivolto: il quale a tal benessere mira. Perciò di-ceva già Aristotele (De Rep., III): Τελος µεν ουν πολεωντο ευ ζη̣ν˙ τουτο δε εστιν το ζη̣ν˙ ευδαιµονως και καλως(Finis civitatis est bene vivere, hoc autem est beate etpulchre vivere). Anche Hobbes ha giustissimamente e inmodo eccellente esposto quest'origine e finalità delloStato, quali vengono d'altronde espresse dall'antico prin-cipio di tutti i gli ordinamenti statali, salus publica su-prema lex esto. Se lo Stato raggiungesse appieno il suofine, produrrebbe lo stesso effetto come se universal-mente regnasse perfetta giustizia d'intenzioni. Ma l'inti-

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ma essenza, l'origine di codeste due condizioni di cosesarebbero l'una l'opposto dell'altra. Imperocché nel se-condo caso s'avrebbe, che nessuno voglia compiere in-giustizia; nel primo, invece, che nessuno voglia patireingiustizia; e a tal fine sarebbero appieno adoprati imezzi opportuni. Così può la medesima linea venir trac-ciata da opposte direzioni, e un animale da preda con lamuseruola è innocuo come un erbivoro. Ma più in là diquesto punto lo Stato non può andare: non può quindimostrarci un aspetto pari a quello, che risulterebbe dagenerale, reciproca benevolenza ed amore. Poiché, comeabbiamo or ora notato che esso, per propria natura, nonvieterebbe un atto ingiusto, dal quale non risultassedall'altra parte alcun patimento d'ingiustizia, ed ogni in-giustizia vieta sol perché tale condizione sarebbe impos-sibile; così viceversa assai volentieri farebbe sì, confor-memente alla propria tendenza rivolta al benessere ge-nerale, che ciascuno ricevesse benevolenza e ogni ma-niera d'atti d'amor del prossimo; se nondimeno anchequesti atti ricevuti non avessero un correlato inevitabilenella prestazione di benefizi e di opere altruistiche. Mainvece ogni cittadino dello Stato vorrebbe in ciò assu-mere la parte passiva, e nessuno l'attiva; e quest'ultimaper nessun motivo si potrebbe pretenderla dall'uno piut-tosto che dagli altri. Perciò si può imporre il negativosoltanto, che appunto costituisce il diritto, e non il posi-tivo, che va sotto il nome di doveri d'amore, o doveriimperfetti.

La legislazione toglie a prestito, come s'è detto, la

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ma essenza, l'origine di codeste due condizioni di cosesarebbero l'una l'opposto dell'altra. Imperocché nel se-condo caso s'avrebbe, che nessuno voglia compiere in-giustizia; nel primo, invece, che nessuno voglia patireingiustizia; e a tal fine sarebbero appieno adoprati imezzi opportuni. Così può la medesima linea venir trac-ciata da opposte direzioni, e un animale da preda con lamuseruola è innocuo come un erbivoro. Ma più in là diquesto punto lo Stato non può andare: non può quindimostrarci un aspetto pari a quello, che risulterebbe dagenerale, reciproca benevolenza ed amore. Poiché, comeabbiamo or ora notato che esso, per propria natura, nonvieterebbe un atto ingiusto, dal quale non risultassedall'altra parte alcun patimento d'ingiustizia, ed ogni in-giustizia vieta sol perché tale condizione sarebbe impos-sibile; così viceversa assai volentieri farebbe sì, confor-memente alla propria tendenza rivolta al benessere ge-nerale, che ciascuno ricevesse benevolenza e ogni ma-niera d'atti d'amor del prossimo; se nondimeno anchequesti atti ricevuti non avessero un correlato inevitabilenella prestazione di benefizi e di opere altruistiche. Mainvece ogni cittadino dello Stato vorrebbe in ciò assu-mere la parte passiva, e nessuno l'attiva; e quest'ultimaper nessun motivo si potrebbe pretenderla dall'uno piut-tosto che dagli altri. Perciò si può imporre il negativosoltanto, che appunto costituisce il diritto, e non il posi-tivo, che va sotto il nome di doveri d'amore, o doveriimperfetti.

La legislazione toglie a prestito, come s'è detto, la

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dottrina pura del diritto, ossia dottrina intorno all'essen-za ed ai limiti del diritto e del torto, dalla morale, peradoprarla capovolta secondo i fini proprii, che alla mo-rale sono estranei, e su questa base stabilire la legisla-zione positiva coi mezzi per sostenerla, ossia lo Stato.La legislazione positiva è adunque la dottrina morale deldiritto puro, applicata a rovescio. Quest'applicazionepuò accadere con riguardo alle speciali condizioni e cir-costanze di un determinato popolo. Ma sol quando la le-gislazione positiva nella sostanza è costantemente gui-data dal principio del diritto puro, ed ogni sua sanzioneha nella dottrina del diritto puro la propria base, può dir-si che codesta legislazione siffattamente formata siadavvero un diritto positivo, e lo Stato un'associazionegiuridica: Stato nel vero senso della parola, istituzionemoralmente ammissibile, e non immorale. In caso con-trario la legislazione positiva è viceversa il fondamentodi una positiva ingiustizia, è essa medesima un'ingiusti-zia imposta, pubblicamente ammessa. Di tal fatta è ognidispotismo, e la costituzione della più parte degli Statimusulmani; di tal natura sono perfino talune parti dimolte costituzioni, come per esempio la schiavitù, il la-voro obbligato, e così via. La dottrina pura del diritto, odiritto naturale, anzi meglio diritto morale, sta, neppursempre a rovescio, a base d'ogni legislazione giuridicapositiva, come la matematica pura sta a base d'ogniramo dell'applicata. I punti più importanti della dottrinapura del diritto, quali la filosofia deve trasmetterli, peifini suddetti, alla legislazione, sono i seguenti: 1. Spie-

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dottrina pura del diritto, ossia dottrina intorno all'essen-za ed ai limiti del diritto e del torto, dalla morale, peradoprarla capovolta secondo i fini proprii, che alla mo-rale sono estranei, e su questa base stabilire la legisla-zione positiva coi mezzi per sostenerla, ossia lo Stato.La legislazione positiva è adunque la dottrina morale deldiritto puro, applicata a rovescio. Quest'applicazionepuò accadere con riguardo alle speciali condizioni e cir-costanze di un determinato popolo. Ma sol quando la le-gislazione positiva nella sostanza è costantemente gui-data dal principio del diritto puro, ed ogni sua sanzioneha nella dottrina del diritto puro la propria base, può dir-si che codesta legislazione siffattamente formata siadavvero un diritto positivo, e lo Stato un'associazionegiuridica: Stato nel vero senso della parola, istituzionemoralmente ammissibile, e non immorale. In caso con-trario la legislazione positiva è viceversa il fondamentodi una positiva ingiustizia, è essa medesima un'ingiusti-zia imposta, pubblicamente ammessa. Di tal fatta è ognidispotismo, e la costituzione della più parte degli Statimusulmani; di tal natura sono perfino talune parti dimolte costituzioni, come per esempio la schiavitù, il la-voro obbligato, e così via. La dottrina pura del diritto, odiritto naturale, anzi meglio diritto morale, sta, neppursempre a rovescio, a base d'ogni legislazione giuridicapositiva, come la matematica pura sta a base d'ogniramo dell'applicata. I punti più importanti della dottrinapura del diritto, quali la filosofia deve trasmetterli, peifini suddetti, alla legislazione, sono i seguenti: 1. Spie-

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gazione dell'intimo e proprio valore nonché dell'originedei concetti di giusto e d'ingiusto, e della loro applica-zione e del loro posto nella morale. 2. Deduzione del di-ritto di proprietà. 3. Deduzione del valore morale deicontratti: essendo questo il fondamento morale del con-tratto sociale. 4. Spiegazione dell'origine e finalità delloStato, della relazione di codesta finalità con la morale, edella conseguente trasposizione della dottrina moraledel diritto, invertita, alla legislazione. 5. Deduzione deldiritto penale. Il rimanente contenuto della teoria del di-ritto non è se non l'applicazione di quei principii, piùprecisa determinazione dei confini del giusto edell'ingiusto per tutte le possibili contingenze della vita,le quali vengono perciò riunite e suddivise sotto specialiriguardi e titoli. In queste dottrine particolari s'accorda-no quasi del tutto i manuali del diritto puro: sol nei prin-cipii suonano assai diversi; imperocché i principii sonosempre in relazione con qualche sistema filosofico. Orache noi, in conformità del sistema nostro, abbiamo espo-sto in forma breve e generica sì, ma tuttavia netta e chia-ra, i primi quattro di quei punti essenziali, ci tocca anco-ra di parlar nello stesso modo del diritto penale.

Kant gettò la falsissima affermazione, che fuori delloStato non esista alcun diritto perfetto di proprietà. Se-condo la deduzione fatta più sopra, esiste invece pro-prietà anche nello stato di natura, con pieni diritti natu-rali, ossia morali; la quale non può senza ingiustizia ve-nire offesa, e senza ingiustizia può esser difesa finoall'estremo. Invece è certo, che fuori dello Stato non c'è

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gazione dell'intimo e proprio valore nonché dell'originedei concetti di giusto e d'ingiusto, e della loro applica-zione e del loro posto nella morale. 2. Deduzione del di-ritto di proprietà. 3. Deduzione del valore morale deicontratti: essendo questo il fondamento morale del con-tratto sociale. 4. Spiegazione dell'origine e finalità delloStato, della relazione di codesta finalità con la morale, edella conseguente trasposizione della dottrina moraledel diritto, invertita, alla legislazione. 5. Deduzione deldiritto penale. Il rimanente contenuto della teoria del di-ritto non è se non l'applicazione di quei principii, piùprecisa determinazione dei confini del giusto edell'ingiusto per tutte le possibili contingenze della vita,le quali vengono perciò riunite e suddivise sotto specialiriguardi e titoli. In queste dottrine particolari s'accorda-no quasi del tutto i manuali del diritto puro: sol nei prin-cipii suonano assai diversi; imperocché i principii sonosempre in relazione con qualche sistema filosofico. Orache noi, in conformità del sistema nostro, abbiamo espo-sto in forma breve e generica sì, ma tuttavia netta e chia-ra, i primi quattro di quei punti essenziali, ci tocca anco-ra di parlar nello stesso modo del diritto penale.

Kant gettò la falsissima affermazione, che fuori delloStato non esista alcun diritto perfetto di proprietà. Se-condo la deduzione fatta più sopra, esiste invece pro-prietà anche nello stato di natura, con pieni diritti natu-rali, ossia morali; la quale non può senza ingiustizia ve-nire offesa, e senza ingiustizia può esser difesa finoall'estremo. Invece è certo, che fuori dello Stato non c'è

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diritto di pena. Ogni diritto di punire è fondato unica-mente sulla legge positiva, la quale prima dell'atto com-piuto ha sancito per questo una pena; la cui minaccia,come contromotivo, dovrebbe prevaler su tutti gli even-tuali motivi di quell'atto. Codesta legge positiva si deveconsiderare come sanzionata e riconosciuta da tutti i cit-tadini dello Stato. Si fonda dunque sopra un patto comu-ne, al cui adempimento in ogni circostanza, ossia all'ese-cuzione della pena da una parte e al sofferimento di essadall'altra, i membri dello Stato sono vincolati: perciò lapena può con diritto venire imposta. Conseguentementel'immediato fine della pena nel singolo caso è adempi-mento della legge come d'un contratto. Ma scopo unicodella legge è il trattenere, col timore, dalla violazionedegli altrui diritti: poi che appunto, perché ciascuno siaprotetto contro l'ingiustizia, ci si è riuniti nello Stato, ipesi del suo mantenimento assumendo su di sé. La leggeadunque e la sua esecuzione, la pena, sono essenzial-mente rivolte al futuro, non al passato. Ciò distinguepena da vendetta, la quale ultima è motivata esclusiva-mente dal fatto accaduto, ossia dal passato, in quantotale. Ogni imposizione di dolore fatta, senza mirare alfuturo, per un'ingiustizia commessa, è vendetta, e nonpuò avere altro fine, se non confortare se stesso del malesofferto, mediante la vista di un male altrui, da noi ca-gionato. Ciò costituisce cattiveria e crudeltà, né si puòeticamente giustificare. L'ingiustizia, che altri compieverso me, non mi dà minimamente il diritto di commet-tere ingiustizia a suo riguardo. Pagar male con male,

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diritto di pena. Ogni diritto di punire è fondato unica-mente sulla legge positiva, la quale prima dell'atto com-piuto ha sancito per questo una pena; la cui minaccia,come contromotivo, dovrebbe prevaler su tutti gli even-tuali motivi di quell'atto. Codesta legge positiva si deveconsiderare come sanzionata e riconosciuta da tutti i cit-tadini dello Stato. Si fonda dunque sopra un patto comu-ne, al cui adempimento in ogni circostanza, ossia all'ese-cuzione della pena da una parte e al sofferimento di essadall'altra, i membri dello Stato sono vincolati: perciò lapena può con diritto venire imposta. Conseguentementel'immediato fine della pena nel singolo caso è adempi-mento della legge come d'un contratto. Ma scopo unicodella legge è il trattenere, col timore, dalla violazionedegli altrui diritti: poi che appunto, perché ciascuno siaprotetto contro l'ingiustizia, ci si è riuniti nello Stato, ipesi del suo mantenimento assumendo su di sé. La leggeadunque e la sua esecuzione, la pena, sono essenzial-mente rivolte al futuro, non al passato. Ciò distinguepena da vendetta, la quale ultima è motivata esclusiva-mente dal fatto accaduto, ossia dal passato, in quantotale. Ogni imposizione di dolore fatta, senza mirare alfuturo, per un'ingiustizia commessa, è vendetta, e nonpuò avere altro fine, se non confortare se stesso del malesofferto, mediante la vista di un male altrui, da noi ca-gionato. Ciò costituisce cattiveria e crudeltà, né si puòeticamente giustificare. L'ingiustizia, che altri compieverso me, non mi dà minimamente il diritto di commet-tere ingiustizia a suo riguardo. Pagar male con male,

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senz'altra mira, non è cosa da giustificarsi moralmentené in altro modo in virtù di qualsivoglia principio ragio-nevole; ed il jus talionis, eretto a principio indipendenteed a finalità ultima del diritto penale, è vuoto di senso.Perciò è in tutto priva di base e assurda la teoria di Kantintorno alla pena, concepita qual semplice compensazio-ne per la compensazione. E nondimeno la viene ancorfuori negli scritti di molti giuristi, in mezzo a ogni ma-niera di frasi pompose, che si riducono a una vuota fila-strocca, come ad esempio: venire il delitto per mezzodella pena espiato, neutralizzato, cancellato, e così via.Ma nessun uomo ha la facoltà di stabilirsi giudice ecompensatore in senso puramente morale, ed i misfattidi un altro punire con dolori da sé causati, ed a quegliimporre così espiazione per ciò che ha fatto. Questa sa-rebbe arrogantissima presunzione; onde il detto biblico:«Mia è la vendetta, esclama il Signore, e voglio io com-pensare». Ha bensì l'uomo il diritto di provvedere allasicurezza della società; ma ciò può accadere solo me-diante interdizione di tutti quegli atti che indica la paro-la «criminale», per impedirli col mezzo dei contromoti-vi, che sono le minacciate pene; la qual minaccia puòavere efficacia sol con l'esecuzione, quando il caso sia,malgrado l'interdizione, avvenuto. Che perciò scopo del-la punizione o più precisamente della legge punitiva, siail trattenere altrui col timore dal compiere un reato, èuna verità così universalmente riconosciuta, anzi di perse stessa luminosa, che in Inghilterra fu perfino giàespressa nell'antica formula d'accusa (indictment), di cui

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senz'altra mira, non è cosa da giustificarsi moralmentené in altro modo in virtù di qualsivoglia principio ragio-nevole; ed il jus talionis, eretto a principio indipendenteed a finalità ultima del diritto penale, è vuoto di senso.Perciò è in tutto priva di base e assurda la teoria di Kantintorno alla pena, concepita qual semplice compensazio-ne per la compensazione. E nondimeno la viene ancorfuori negli scritti di molti giuristi, in mezzo a ogni ma-niera di frasi pompose, che si riducono a una vuota fila-strocca, come ad esempio: venire il delitto per mezzodella pena espiato, neutralizzato, cancellato, e così via.Ma nessun uomo ha la facoltà di stabilirsi giudice ecompensatore in senso puramente morale, ed i misfattidi un altro punire con dolori da sé causati, ed a quegliimporre così espiazione per ciò che ha fatto. Questa sa-rebbe arrogantissima presunzione; onde il detto biblico:«Mia è la vendetta, esclama il Signore, e voglio io com-pensare». Ha bensì l'uomo il diritto di provvedere allasicurezza della società; ma ciò può accadere solo me-diante interdizione di tutti quegli atti che indica la paro-la «criminale», per impedirli col mezzo dei contromoti-vi, che sono le minacciate pene; la qual minaccia puòavere efficacia sol con l'esecuzione, quando il caso sia,malgrado l'interdizione, avvenuto. Che perciò scopo del-la punizione o più precisamente della legge punitiva, siail trattenere altrui col timore dal compiere un reato, èuna verità così universalmente riconosciuta, anzi di perse stessa luminosa, che in Inghilterra fu perfino giàespressa nell'antica formula d'accusa (indictment), di cui

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oggi ancora si serve nei processi criminali l'avvocatodella corona; la quale termina: «if this be proved, you,the said N. N., ought to be punished with pains of law,to deter others from the like crimes, in all time coming»100. Servire al futuro è ciò che distingue la pena dallavendetta; e la pena ha questa finalità sol quando vieneapplicata come esecuzione di una legge; la quale esecu-zione, solo siffattamente annunziandosi come inevitabi-le in ogni altro caso futuro, dà alla legge la forza d'inti-midazione in cui sta appunto la sua finalità. Qui un kan-tiano immancabilmente osserverebbe, che secondo que-sto modo di vedere il delinquente punito viene adoprato«sol come mezzo». Ma questo principio, così infatica-bilmente ripetuto da tutti i kantiani, «che si debba sem-pre trattar l'uomo sol come fine, mai come mezzo», èbensì un principio che suona con aria d'importanza, equindi appropriatissimo per tutti coloro, i quali amanod'avere una formula, che tolga loro la fatica di continua-re a pensare; tuttavia guardato alla luce è una sentenzaoltremodo vaga, indeterminata, la quale per ciascuncaso, in cui debba essere applicata, richiede dapprimaparticolare spiegazione, determinazione e modificazio-ne, mentre, presa così in maniera generica, è insufficien-te, poco concludente, e per di più problematica. L'assas-sino, che per virtù di legge è consacrato alla pena capi-tale, deve invero ed a buon diritto essere usato come

100 Se questo è provato, allora dovrete voi, il nominato N. N., subire la penalegale, perché siano trattenuti altri dal commettere simili delitti in tutto iltempo futuro.

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oggi ancora si serve nei processi criminali l'avvocatodella corona; la quale termina: «if this be proved, you,the said N. N., ought to be punished with pains of law,to deter others from the like crimes, in all time coming»100. Servire al futuro è ciò che distingue la pena dallavendetta; e la pena ha questa finalità sol quando vieneapplicata come esecuzione di una legge; la quale esecu-zione, solo siffattamente annunziandosi come inevitabi-le in ogni altro caso futuro, dà alla legge la forza d'inti-midazione in cui sta appunto la sua finalità. Qui un kan-tiano immancabilmente osserverebbe, che secondo que-sto modo di vedere il delinquente punito viene adoprato«sol come mezzo». Ma questo principio, così infatica-bilmente ripetuto da tutti i kantiani, «che si debba sem-pre trattar l'uomo sol come fine, mai come mezzo», èbensì un principio che suona con aria d'importanza, equindi appropriatissimo per tutti coloro, i quali amanod'avere una formula, che tolga loro la fatica di continua-re a pensare; tuttavia guardato alla luce è una sentenzaoltremodo vaga, indeterminata, la quale per ciascuncaso, in cui debba essere applicata, richiede dapprimaparticolare spiegazione, determinazione e modificazio-ne, mentre, presa così in maniera generica, è insufficien-te, poco concludente, e per di più problematica. L'assas-sino, che per virtù di legge è consacrato alla pena capi-tale, deve invero ed a buon diritto essere usato come

100 Se questo è provato, allora dovrete voi, il nominato N. N., subire la penalegale, perché siano trattenuti altri dal commettere simili delitti in tutto iltempo futuro.

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semplice mezzo. Perché la sicurezza pubblica, scopoprincipale dello Stato, è da lui turbata anzi soppressa, sela legge rimane ineseguita: lui, la sua vita, la sua perso-na devono essere ora il mezzo per l'esecuzione della leg-ge, e quindi per la restaurazione della pubblica sicurez-za; e un mezzo egli diviene a pieno diritto, per l'adempi-mento del contratto sociale, che da lui medesimo, inquanto egli era cittadino dello Stato, aveva avuto san-zione, e per effetto del quale, col fine d'aver sicurtà digodere la propria vita, la propria libertà, i propri posses-si, aveva questa vita, questa libertà, questi possessi datiin pegno. Ed il pegno è ora scaduto. La teoria della penaqui esposta, che balza evidente per ogni sana ragione, èin verità sostanzialmente un pensiero tutt'altro che nuo-vo; bensì un pensiero quasi messo al bando da nuovi er-rori, sì ch'era necessario chiarirlo limpidissimamente. Lasua spiegazione è, nella sostanza, già contenuta in ciòche a tal proposito dice Puffendorf, De officio hominiset civis, 1. 2, cap. 13. Vi si accorda egualmente Hobbes,Leviathan, capp. 15 e 28. Ai nostri giorni l'ha sostenuta,come si sa, Feuerbach. La si trova d'altronde già nei det-ti dei filosofi antichi: Platone l'espone chiaramente nelProtagora (p. 114, ed. Bip.), e anche nel Gorgia (p.168), e finalmente nell'undecimo libro delle Leggi. Se-neca esprime appieno il pensiero di Platone e la teoria ditutte le pene nelle brevi parole: «Nemo prudens punit,quia peccatum est; sed ne peccetur» (De Ira, I, 16).

Abbiamo dunque conosciuto nello Stato il mezzo,mediante cui l'egoismo armato di ragione cerca di sfug-

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semplice mezzo. Perché la sicurezza pubblica, scopoprincipale dello Stato, è da lui turbata anzi soppressa, sela legge rimane ineseguita: lui, la sua vita, la sua perso-na devono essere ora il mezzo per l'esecuzione della leg-ge, e quindi per la restaurazione della pubblica sicurez-za; e un mezzo egli diviene a pieno diritto, per l'adempi-mento del contratto sociale, che da lui medesimo, inquanto egli era cittadino dello Stato, aveva avuto san-zione, e per effetto del quale, col fine d'aver sicurtà digodere la propria vita, la propria libertà, i propri posses-si, aveva questa vita, questa libertà, questi possessi datiin pegno. Ed il pegno è ora scaduto. La teoria della penaqui esposta, che balza evidente per ogni sana ragione, èin verità sostanzialmente un pensiero tutt'altro che nuo-vo; bensì un pensiero quasi messo al bando da nuovi er-rori, sì ch'era necessario chiarirlo limpidissimamente. Lasua spiegazione è, nella sostanza, già contenuta in ciòche a tal proposito dice Puffendorf, De officio hominiset civis, 1. 2, cap. 13. Vi si accorda egualmente Hobbes,Leviathan, capp. 15 e 28. Ai nostri giorni l'ha sostenuta,come si sa, Feuerbach. La si trova d'altronde già nei det-ti dei filosofi antichi: Platone l'espone chiaramente nelProtagora (p. 114, ed. Bip.), e anche nel Gorgia (p.168), e finalmente nell'undecimo libro delle Leggi. Se-neca esprime appieno il pensiero di Platone e la teoria ditutte le pene nelle brevi parole: «Nemo prudens punit,quia peccatum est; sed ne peccetur» (De Ira, I, 16).

Abbiamo dunque conosciuto nello Stato il mezzo,mediante cui l'egoismo armato di ragione cerca di sfug-

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gire ai suoi proprii perniciosi effetti rivolgentisi controse medesimo; ciascuno favorisce il bene di tutti, perchévi vede compreso il bene suo proprio. Ove lo Stato rag-giungesse appieno il suo fine, potrebbe aversi da ultimo,poiché esso mediante le forze umane in sé congiunte saognor più trarre a suo servigio anche la rimanente natu-ra, con la rimozione d'ogni maniera di mali alcunchéd'analogo al paese di Cuccagna. Ma per un verso esso ètuttora sempre lontano da questo termine; per l'altro in-numerevoli mali, alla vita necessariamente inerenti,manterrebbero come prima la vita in dolore; tra i quali,fossero pur tutti gli altri eliminati, da ultimo la noia oc-cuperebbe ogni posto da quelli lasciato; per un altro ver-so ancora la discordia degli individui non può mai dalloStato esser tolta in tutto di mezzo, che essa stuzzica nelpiccolo, dov'è interdetta nel grande, ed infine Eris, feli-cemente cacciata dall'interno, si volge ancora al di fuori:bandita per mezzo dell'ordinamento civile dalle contesedegli individui, ritorna dall'esterno in forma di guerradei popoli, e pretende allora in grosso e tutto in una vol-ta, come debito accumulato, le sanguinose vittime, chemediante saggia provvidenza le si erano sottratte singo-larmente. E ammesso finalmente, che tutto ciò si potessesuperare e toglier di mezzo, con una saggezza fondatasull'esperienza di millennii, il risultato ultimo sarebbel'eccesso di popolazione sull'intero pianeta; terribilemale, che oggi solo un'audace fantasia riesce a rappre-

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gire ai suoi proprii perniciosi effetti rivolgentisi controse medesimo; ciascuno favorisce il bene di tutti, perchévi vede compreso il bene suo proprio. Ove lo Stato rag-giungesse appieno il suo fine, potrebbe aversi da ultimo,poiché esso mediante le forze umane in sé congiunte saognor più trarre a suo servigio anche la rimanente natu-ra, con la rimozione d'ogni maniera di mali alcunchéd'analogo al paese di Cuccagna. Ma per un verso esso ètuttora sempre lontano da questo termine; per l'altro in-numerevoli mali, alla vita necessariamente inerenti,manterrebbero come prima la vita in dolore; tra i quali,fossero pur tutti gli altri eliminati, da ultimo la noia oc-cuperebbe ogni posto da quelli lasciato; per un altro ver-so ancora la discordia degli individui non può mai dalloStato esser tolta in tutto di mezzo, che essa stuzzica nelpiccolo, dov'è interdetta nel grande, ed infine Eris, feli-cemente cacciata dall'interno, si volge ancora al di fuori:bandita per mezzo dell'ordinamento civile dalle contesedegli individui, ritorna dall'esterno in forma di guerradei popoli, e pretende allora in grosso e tutto in una vol-ta, come debito accumulato, le sanguinose vittime, chemediante saggia provvidenza le si erano sottratte singo-larmente. E ammesso finalmente, che tutto ciò si potessesuperare e toglier di mezzo, con una saggezza fondatasull'esperienza di millennii, il risultato ultimo sarebbel'eccesso di popolazione sull'intero pianeta; terribilemale, che oggi solo un'audace fantasia riesce a rappre-

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sentarsi101.

§ 63.Abbiamo conosciuta la giustizia temporale, che ha

sua sede nello Stato, quale compensatrice o punitrice; eabbiam visto, ch'essa divien giustizia solo riguardo alfuturo; imperocché senza tale riguardo ogni punizione ecompensazione d'un delitto sarebbe ingiustificata, anzisarebbe non altro che l'aggiunta di un secondo male almale accaduto, senza ragione e significato. Tutt'altracondizione si ha con la giustizia eterna, già innanzi ri-cordata; la quale regge non lo Stato, bensì il mondo, nondipende da umani ordinamenti, non è soggetta al caso edall'errore, mai insicura, oscillante ed errante, bensì infal-libile, ferma e sicura. Il concetto della compensazioneracchiude già il tempo in sé: quindi non può l'eterna giu-stizia punire con determinata misura; non può, come lagiustizia penale, concedere dilazioni e fissar termini, e,sol per mezzo del tempo sanando il misfatto con le catti-ve conseguenze di esso, del tempo aver bisogno per sus-sistere. La pena dev'esser qui col misfatto siffattamentecongiunta, da formare tutt'uno.

Δοκειτε πηδα̣ν τ’αδικηµατ’ εις θεουςΠτεροισι, κα̉πειτ’ εν Διος δελτου πτυχαιςΘνητοις δικάζειν: Ουδ’ ό πας ουρανος,Διος γραφοντος τας βροτων άµαρτιας,Εξαρκεσειεν, ουδ’ εκεινος αν σκοπων

101 Si veda il cap. 47 del secondo volume [pp. 609-23 del tomo II dell'ed.cit.].

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sentarsi101.

§ 63.Abbiamo conosciuta la giustizia temporale, che ha

sua sede nello Stato, quale compensatrice o punitrice; eabbiam visto, ch'essa divien giustizia solo riguardo alfuturo; imperocché senza tale riguardo ogni punizione ecompensazione d'un delitto sarebbe ingiustificata, anzisarebbe non altro che l'aggiunta di un secondo male almale accaduto, senza ragione e significato. Tutt'altracondizione si ha con la giustizia eterna, già innanzi ri-cordata; la quale regge non lo Stato, bensì il mondo, nondipende da umani ordinamenti, non è soggetta al caso edall'errore, mai insicura, oscillante ed errante, bensì infal-libile, ferma e sicura. Il concetto della compensazioneracchiude già il tempo in sé: quindi non può l'eterna giu-stizia punire con determinata misura; non può, come lagiustizia penale, concedere dilazioni e fissar termini, e,sol per mezzo del tempo sanando il misfatto con le catti-ve conseguenze di esso, del tempo aver bisogno per sus-sistere. La pena dev'esser qui col misfatto siffattamentecongiunta, da formare tutt'uno.

Δοκειτε πηδα̣ν τ’αδικηµατ’ εις θεουςΠτεροισι, κα̉πειτ’ εν Διος δελτου πτυχαιςΘνητοις δικάζειν: Ουδ’ ό πας ουρανος,Διος γραφοντος τας βροτων άµαρτιας,Εξαρκεσειεν, ουδ’ εκεινος αν σκοπων

101 Si veda il cap. 47 del secondo volume [pp. 609-23 del tomo II dell'ed.cit.].

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Πεµπειν έκαστω ̣ζηµιαν˙ αλλ’ή ΔικηΕνταυθα που 'στιν εγγυς, ει βουλεσθ’ όρα̣ν.Eurip., ap. Stob. Ed. i, e. 4(Volare penis scelera ad aetherias domusPutatis, illic in Jovis tabulariaScripto referri: tum Jovem lectis superSententiam proferre? – sed mortaliumFacinora cœli, quantaquanta est, regiaNequit tenere; nec legendis JuppiterEt puniendis par est. Est tamen ultio,Et, intuemur, illa nos habitat prope).

Ora, che una tal divina giustizia veramente esistanell'essenza del mondo, risulterà presto luminosamenteappieno, da tutto il nostro pensiero finora svolto, a chi loabbia afferrato.

Il fenomeno, l'oggettità dell'unica volontà di vivere èil mondo, in tutta la molteplicità delle sue parti e figure.L'essere, e il modo dell'essere, nel tutto come in ciascu-na parte, è costituito solo dalla volontà. Essa è libera,essa è onnipotente. In ogni cosa appare la volontà, qualeessa medesima in sé e fuori del tempo si determina. Ilmondo non è che lo specchio di questo volere; ed ognilimitazione, ogni male, ogni tormento, che il mondocontiene, appartengono all'espressione di ciò che la vo-lontà vuole: sono quali sono, perché essa così vuole. Èrigorosa giustizia, quindi, che ogni creatura sopportil'essere in genere, e quindi l'essere della sua specie edella sua particolare individualità, interamente com'essaè, e in condizioni quali esse sono, in un mondo quale

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Πεµπειν έκαστω ̣ζηµιαν˙ αλλ’ή ΔικηΕνταυθα που 'στιν εγγυς, ει βουλεσθ’ όρα̣ν.Eurip., ap. Stob. Ed. i, e. 4(Volare penis scelera ad aetherias domusPutatis, illic in Jovis tabulariaScripto referri: tum Jovem lectis superSententiam proferre? – sed mortaliumFacinora cœli, quantaquanta est, regiaNequit tenere; nec legendis JuppiterEt puniendis par est. Est tamen ultio,Et, intuemur, illa nos habitat prope).

Ora, che una tal divina giustizia veramente esistanell'essenza del mondo, risulterà presto luminosamenteappieno, da tutto il nostro pensiero finora svolto, a chi loabbia afferrato.

Il fenomeno, l'oggettità dell'unica volontà di vivere èil mondo, in tutta la molteplicità delle sue parti e figure.L'essere, e il modo dell'essere, nel tutto come in ciascu-na parte, è costituito solo dalla volontà. Essa è libera,essa è onnipotente. In ogni cosa appare la volontà, qualeessa medesima in sé e fuori del tempo si determina. Ilmondo non è che lo specchio di questo volere; ed ognilimitazione, ogni male, ogni tormento, che il mondocontiene, appartengono all'espressione di ciò che la vo-lontà vuole: sono quali sono, perché essa così vuole. Èrigorosa giustizia, quindi, che ogni creatura sopportil'essere in genere, e quindi l'essere della sua specie edella sua particolare individualità, interamente com'essaè, e in condizioni quali esse sono, in un mondo quale

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esso è, governato dal caso e dall'errore, temporaneo, ef-fimero, ognora sofferente: e qualunque sorte le tocchi,qualunque le possa toccare, sarà sempre giustizia. La re-sponsabilità dell'essere e della costituzione del mondopuò essa solamente, e nessun altro, portare: poiché comepotrebbe un altro assumerla per sé? Se si vuol vedereciò che gli uomini, moralmente considerati, sono in tuttoe per tutto, si consideri in tutto e per tutto il loro destino.Esso è penuria, miseria, strazio, tormento e morte.L'eterna giustizia impera: s'essi non fossero, presi collet-tivamente, così dappoco, non sarebbe neppure il lor de-stino, collettivamente preso, così triste. In questo sensopossiamo dire: il mondo stesso è il giudizio universale.Se si potesse mettere in un piatto di bilancia tutto il do-lore del mondo, e tutta la colpa del mondo nell'altra, labilancia starebbe sicuramente in bilico.

Certo che alla conoscenza, quale essa, dalla volontàin proprio servizio generata, si forma nell'individuo inquanto tale, il mondo non appare come da ultimo si di-svela all'osservatore, ossia come oggettità dell'una e uni-ca volontà di vivere, che è l'individuo medesimo; inveceil velo di Maja, come dicono gl'Indiani, turba lo sguardodell'inconscio individuo: a lui, in luogo della cosa in sé,apparisce solo il fenomeno nel tempo e nello spazio, nelprincipio individuationis, e nelle rimanenti forme delprincipio di ragione. In questa limitata cognizione nonvede l'essenza delle cose, che è unica, bensì i suoi feno-meni, distinti, disgiunti, innumerevoli, contraddittori.Gli apparisce allora il piacere come alcunché di affatto

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esso è, governato dal caso e dall'errore, temporaneo, ef-fimero, ognora sofferente: e qualunque sorte le tocchi,qualunque le possa toccare, sarà sempre giustizia. La re-sponsabilità dell'essere e della costituzione del mondopuò essa solamente, e nessun altro, portare: poiché comepotrebbe un altro assumerla per sé? Se si vuol vedereciò che gli uomini, moralmente considerati, sono in tuttoe per tutto, si consideri in tutto e per tutto il loro destino.Esso è penuria, miseria, strazio, tormento e morte.L'eterna giustizia impera: s'essi non fossero, presi collet-tivamente, così dappoco, non sarebbe neppure il lor de-stino, collettivamente preso, così triste. In questo sensopossiamo dire: il mondo stesso è il giudizio universale.Se si potesse mettere in un piatto di bilancia tutto il do-lore del mondo, e tutta la colpa del mondo nell'altra, labilancia starebbe sicuramente in bilico.

Certo che alla conoscenza, quale essa, dalla volontàin proprio servizio generata, si forma nell'individuo inquanto tale, il mondo non appare come da ultimo si di-svela all'osservatore, ossia come oggettità dell'una e uni-ca volontà di vivere, che è l'individuo medesimo; inveceil velo di Maja, come dicono gl'Indiani, turba lo sguardodell'inconscio individuo: a lui, in luogo della cosa in sé,apparisce solo il fenomeno nel tempo e nello spazio, nelprincipio individuationis, e nelle rimanenti forme delprincipio di ragione. In questa limitata cognizione nonvede l'essenza delle cose, che è unica, bensì i suoi feno-meni, distinti, disgiunti, innumerevoli, contraddittori.Gli apparisce allora il piacere come alcunché di affatto

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diverso dal dolore; in un uomo vede l'aguzzino e l'assas-sino, in un altro il paziente e la vittima, distinte comedue unità indipendenti sono per lui la cattiveria e la sof-ferenza. Vede taluno vivere nella gioia, nella sovrabbon-danza, nei piaceri, e contemporaneamente altri morire dipenuria e di freddo innanzi alla sua porta. Allora si do-manda: dov'è la compensazione? Ed egli medesimo, nelviolento impulso della volontà, che è sua origine e suaessenza, si aggrappa ai piaceri e ai godimenti della vita,vi si tiene fortemente stretto, non sapendo, che appuntoper questo atto della sua volontà egli afferra e stringe asé tutti quei dolori e tormenti della vita, alla cui vistarabbrividisce. Vede la sofferenza, vede la malvagità nelmondo: ma lungi dal riconoscere, che entrambe nonsono se non diverse facce del fenomeno dell'unica vo-lontà di vivere, le crede molto diverse, anzi addiritturaopposte, e cerca spesso mediante la malvagità, ossia ca-gionando il male altrui, di sfuggire al dolore, alla soffe-renza del proprio individuo, circoscritto nel principioindividuationis, ingannato dal velo di Maja. Imperoc-ché, come sull'infuriante mare che, per tutti i lati infini-to, ululando montagne d'acqua innalza e precipita, siedein barca il navigante e sé affida al debole naviglio; cosìsiede tranquillo, in mezzo a un mondo pieno di tormen-ti, il singolo uomo, poggiandosi fidente sul principio in-dividuationis, ossia sul modo onde l'individuo conoscele cose, in quanto fenomeno. Lo scofinato mondo, pienodi mali ovunque, nell'infinito passato, nell'infinito futu-ro, è a lui straniero, anzi è a lui come una fiaba: la sua

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diverso dal dolore; in un uomo vede l'aguzzino e l'assas-sino, in un altro il paziente e la vittima, distinte comedue unità indipendenti sono per lui la cattiveria e la sof-ferenza. Vede taluno vivere nella gioia, nella sovrabbon-danza, nei piaceri, e contemporaneamente altri morire dipenuria e di freddo innanzi alla sua porta. Allora si do-manda: dov'è la compensazione? Ed egli medesimo, nelviolento impulso della volontà, che è sua origine e suaessenza, si aggrappa ai piaceri e ai godimenti della vita,vi si tiene fortemente stretto, non sapendo, che appuntoper questo atto della sua volontà egli afferra e stringe asé tutti quei dolori e tormenti della vita, alla cui vistarabbrividisce. Vede la sofferenza, vede la malvagità nelmondo: ma lungi dal riconoscere, che entrambe nonsono se non diverse facce del fenomeno dell'unica vo-lontà di vivere, le crede molto diverse, anzi addiritturaopposte, e cerca spesso mediante la malvagità, ossia ca-gionando il male altrui, di sfuggire al dolore, alla soffe-renza del proprio individuo, circoscritto nel principioindividuationis, ingannato dal velo di Maja. Imperoc-ché, come sull'infuriante mare che, per tutti i lati infini-to, ululando montagne d'acqua innalza e precipita, siedein barca il navigante e sé affida al debole naviglio; cosìsiede tranquillo, in mezzo a un mondo pieno di tormen-ti, il singolo uomo, poggiandosi fidente sul principio in-dividuationis, ossia sul modo onde l'individuo conoscele cose, in quanto fenomeno. Lo scofinato mondo, pienodi mali ovunque, nell'infinito passato, nell'infinito futu-ro, è a lui straniero, anzi è a lui come una fiaba: la sua

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infinitesima persona, il suo presente privo d'estensione,il suo momentaneo benessere hanno soli realtà ai suoiocchi; e per conservarli fa di tutto, fin quando una mi-glior conoscenza non gl'illumini la vista. Fino alloravive appena nella più intima profondità della sua con-scienza l'oscurissimo sentore, che quel mondo non glisia poi veramente tanto straniero, bensì abbia con luiuna relazione, dalla quale il principium individuationisnon può proteggerlo. Da codesto presentimento vienequell'invincibile terrore, comune a tutti gli uomini (efors'anche agli animali più intelligenti) che li coglieall'improvviso, quando per un caso purchessia smarri-scono la guida del principii individuationis, allorché ilprincipio di ragione in una qualunque delle sue formesembra avere un'eccezione: per esempio, quando pareche si produca una mutazione senza causa, o un mortoritorni, o in qualsiasi maniera il passato o il futuro sifaccian presenti, o il lontano vicino. L'orribile sbigotti-mento per tali cose si fonda sul fatto, che essi si smarri-scono rispetto alle forme conoscitive del fenomeno, lequali sole tengono distinto il lor proprio individuo dalresto del mondo. Ma tale distinzione sta semplicementenel fenomeno, e non nella cosa in sé: su ciò appuntopoggia l'eterna giustizia. In effetti ogni godimento tem-porale si basa ed ogni saggezza si muove sopra un terre-no minato. Godimento e saggezza proteggono l'uomodalle sventure e gli procacciano piaceri; ma la personali-tà è semplice fenomeno, e la sua varietà dagli altri indi-vidui, nonché l'esser priva dei dolori che questi soppor-

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infinitesima persona, il suo presente privo d'estensione,il suo momentaneo benessere hanno soli realtà ai suoiocchi; e per conservarli fa di tutto, fin quando una mi-glior conoscenza non gl'illumini la vista. Fino alloravive appena nella più intima profondità della sua con-scienza l'oscurissimo sentore, che quel mondo non glisia poi veramente tanto straniero, bensì abbia con luiuna relazione, dalla quale il principium individuationisnon può proteggerlo. Da codesto presentimento vienequell'invincibile terrore, comune a tutti gli uomini (efors'anche agli animali più intelligenti) che li coglieall'improvviso, quando per un caso purchessia smarri-scono la guida del principii individuationis, allorché ilprincipio di ragione in una qualunque delle sue formesembra avere un'eccezione: per esempio, quando pareche si produca una mutazione senza causa, o un mortoritorni, o in qualsiasi maniera il passato o il futuro sifaccian presenti, o il lontano vicino. L'orribile sbigotti-mento per tali cose si fonda sul fatto, che essi si smarri-scono rispetto alle forme conoscitive del fenomeno, lequali sole tengono distinto il lor proprio individuo dalresto del mondo. Ma tale distinzione sta semplicementenel fenomeno, e non nella cosa in sé: su ciò appuntopoggia l'eterna giustizia. In effetti ogni godimento tem-porale si basa ed ogni saggezza si muove sopra un terre-no minato. Godimento e saggezza proteggono l'uomodalle sventure e gli procacciano piaceri; ma la personali-tà è semplice fenomeno, e la sua varietà dagli altri indi-vidui, nonché l'esser priva dei dolori che questi soppor-

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tano, dipendono dalla forma del fenomeno, dal princi-pio individuationis. Secondo la vera essenza delle cose,ciascuno ha da considerar come propri tutti i dolori delmondo, anzi tutti i dolori possibili avere come reali persé, fin quando egli è deliberata volontà di vivere, ossiaafferma con ogni forza la vita. Per la conoscenza, chevede più lontano del principii individuationis, una vitatemporale felice, donata dal caso, o a lui strappata consaggezza, fra dolori innumerevoli altrui, è nient'altro cheil sogno d'un mendico, in cui questi si vegga re, ma perapprendere al risveglio, che solo una fuggitiva illusionel'aveva separato dai dolori della sua vita.

Allo sguardo circoscritto nella conoscenza che segueil principio di ragione, nel principio individuationis, sisottrae l'eterna giustizia: quello non ha punto cognizionedi lei, a men che non la consegua mediante finzioni.Vede il malvagio, che ha commesso misfatti e crudeltàd'ogni maniera, vivere nei piaceri e uscirsene indisturba-to dal mondo. Vede l'oppresso trascinare una vita pienafino all'ultimo di dolori, senza che si mostri un vendica-tore, un compensatore. Ma l'eterna giustizia sarà com-presa sol da colui, che si eleva su quella conoscenzaprocedente sulla traccia del principio di ragione e legataai singoli oggetti: da colui, che conosce le idee, penetracon l'occhio oltre il principium individuationis, e com-prende che alla cosa in sé non toccano le forme del fe-nomeno. Questi solamente, in grazia della stessa cono-scenza, può comprendere la vera essenza della virtù, se-condo ci verrà presto chiarito in rapporto con la presente

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tano, dipendono dalla forma del fenomeno, dal princi-pio individuationis. Secondo la vera essenza delle cose,ciascuno ha da considerar come propri tutti i dolori delmondo, anzi tutti i dolori possibili avere come reali persé, fin quando egli è deliberata volontà di vivere, ossiaafferma con ogni forza la vita. Per la conoscenza, chevede più lontano del principii individuationis, una vitatemporale felice, donata dal caso, o a lui strappata consaggezza, fra dolori innumerevoli altrui, è nient'altro cheil sogno d'un mendico, in cui questi si vegga re, ma perapprendere al risveglio, che solo una fuggitiva illusionel'aveva separato dai dolori della sua vita.

Allo sguardo circoscritto nella conoscenza che segueil principio di ragione, nel principio individuationis, sisottrae l'eterna giustizia: quello non ha punto cognizionedi lei, a men che non la consegua mediante finzioni.Vede il malvagio, che ha commesso misfatti e crudeltàd'ogni maniera, vivere nei piaceri e uscirsene indisturba-to dal mondo. Vede l'oppresso trascinare una vita pienafino all'ultimo di dolori, senza che si mostri un vendica-tore, un compensatore. Ma l'eterna giustizia sarà com-presa sol da colui, che si eleva su quella conoscenzaprocedente sulla traccia del principio di ragione e legataai singoli oggetti: da colui, che conosce le idee, penetracon l'occhio oltre il principium individuationis, e com-prende che alla cosa in sé non toccano le forme del fe-nomeno. Questi solamente, in grazia della stessa cono-scenza, può comprendere la vera essenza della virtù, se-condo ci verrà presto chiarito in rapporto con la presente

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trattazione; sebbene per la pratica della virtù non siapunto domandata codesta conoscenza in abstracto. Chiadunque è pervenuto alla suddetta conoscenza, intendechiaramente che, essendo la volontà l'in-sé di tutti i fe-nomeni, l'affanno inflitto altrui o personalmente soffer-to, la malvagità e il dolore colpiscono pur sempre l'una eidentica essenza; anche se i fenomeni, in cui questa equella condizione si manifestano, esistono come indivi-dui distinti e addirittura separati da tempi e spazii lonta-ni. Intende, che la differenza da ciò che produce il dolo-re a ciò che deve sopportarla è semplice fenomeno e nontocca la cosa in sé, ossia è la volontà in entrambi viven-te; la quale, ingannata dalla conoscenza avvinta al suoservigio, se stessa disconosce, in uno dei propri fenome-ni cercando accresciuto benessere, mentre nell'altro pro-duce gran dolore; e così con violento impulso, ficca identi nella sua carne medesima, non sapendo che ogno-ra se stessa unicamente ferisce, palesando in tal modo,per il mezzo dell'individuazione, il contrasto interiorech'ella trae nel suo intimo. Il tormentatore e il tormenta-to sono tutt'uno. Quegli erra nel non ritenersi partecipedel tormento, erra questi nel non ritenersi partecipe dellacolpa. Ove si aprissero a entrambi gli occhi, quegli, cheinfligge dolore, conoscerebbe di vivere in tutto quantosul vasto mondo patisce tormento e invano si chiede, sedotato di ragione, perché sia stato chiamato a esistere insì grandi dolori, che non sa d'aver meritati; e il tormen-tato conoscerebbe, che ogni malvagità, la quale vienecommessa o fu un giorno commessa sulla terra, procede

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trattazione; sebbene per la pratica della virtù non siapunto domandata codesta conoscenza in abstracto. Chiadunque è pervenuto alla suddetta conoscenza, intendechiaramente che, essendo la volontà l'in-sé di tutti i fe-nomeni, l'affanno inflitto altrui o personalmente soffer-to, la malvagità e il dolore colpiscono pur sempre l'una eidentica essenza; anche se i fenomeni, in cui questa equella condizione si manifestano, esistono come indivi-dui distinti e addirittura separati da tempi e spazii lonta-ni. Intende, che la differenza da ciò che produce il dolo-re a ciò che deve sopportarla è semplice fenomeno e nontocca la cosa in sé, ossia è la volontà in entrambi viven-te; la quale, ingannata dalla conoscenza avvinta al suoservigio, se stessa disconosce, in uno dei propri fenome-ni cercando accresciuto benessere, mentre nell'altro pro-duce gran dolore; e così con violento impulso, ficca identi nella sua carne medesima, non sapendo che ogno-ra se stessa unicamente ferisce, palesando in tal modo,per il mezzo dell'individuazione, il contrasto interiorech'ella trae nel suo intimo. Il tormentatore e il tormenta-to sono tutt'uno. Quegli erra nel non ritenersi partecipedel tormento, erra questi nel non ritenersi partecipe dellacolpa. Ove si aprissero a entrambi gli occhi, quegli, cheinfligge dolore, conoscerebbe di vivere in tutto quantosul vasto mondo patisce tormento e invano si chiede, sedotato di ragione, perché sia stato chiamato a esistere insì grandi dolori, che non sa d'aver meritati; e il tormen-tato conoscerebbe, che ogni malvagità, la quale vienecommessa o fu un giorno commessa sulla terra, procede

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da quella volontà, che costituisce anche l'essere suo, cheanche in lui si manifesta. Mediante codesto fenomeno eper la sua affermazione egli ha preso su di sé tutti i do-lori, che da tale volontà promanano; e giustamente lisoffre fin quando egli è quella volontà. Da questa cono-scenza muove il veggente poeta Calderón in La vita èsogno:

Pues el delito mayorDel hombre es haber nacido102.

Come non dovrebbe essere una colpa, poi che per unaeterna legge sopra v'incombe la morte? Calderón nonfece che esprimere in quel versetto il dogma cristianodel peccato originale.

La vivente conoscenza dell'eterna giustizia, del bilan-ciere, che inseparabilmente congiunge il malum culpaecol malo poenae, richiede completa elevazione sulla in-dividualità e sul principio che la fa possibile: essa rimar-rà quindi alla più parte degli uomini ognora inaccessibi-le, com'anche l'affine cognizione pura e limpidadell'essenza di tutte le virtù, la quale verrà tosto chiarita.Perciò i sapienti primi padri del popolo indiano l'espres-sero, sì, nei Veda, i quali eran permessi soltanto alle trecaste rigenerate, ossia nella dottrina esoterica, diretta-mente, fin dove concetto e lingua l'afferrano e la loromaniera d'esposizione, ancora immaginativa e ancherapsodica, consente; ma nella religione popolare, o dot-

102 Poiché il delitto maggioreDell'uomo è l'esser nato.

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da quella volontà, che costituisce anche l'essere suo, cheanche in lui si manifesta. Mediante codesto fenomeno eper la sua affermazione egli ha preso su di sé tutti i do-lori, che da tale volontà promanano; e giustamente lisoffre fin quando egli è quella volontà. Da questa cono-scenza muove il veggente poeta Calderón in La vita èsogno:

Pues el delito mayorDel hombre es haber nacido102.

Come non dovrebbe essere una colpa, poi che per unaeterna legge sopra v'incombe la morte? Calderón nonfece che esprimere in quel versetto il dogma cristianodel peccato originale.

La vivente conoscenza dell'eterna giustizia, del bilan-ciere, che inseparabilmente congiunge il malum culpaecol malo poenae, richiede completa elevazione sulla in-dividualità e sul principio che la fa possibile: essa rimar-rà quindi alla più parte degli uomini ognora inaccessibi-le, com'anche l'affine cognizione pura e limpidadell'essenza di tutte le virtù, la quale verrà tosto chiarita.Perciò i sapienti primi padri del popolo indiano l'espres-sero, sì, nei Veda, i quali eran permessi soltanto alle trecaste rigenerate, ossia nella dottrina esoterica, diretta-mente, fin dove concetto e lingua l'afferrano e la loromaniera d'esposizione, ancora immaginativa e ancherapsodica, consente; ma nella religione popolare, o dot-

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trina exoterica, l'hanno comunicata sol miticamente. Larappresentazione diretta la troviamo in varie guiseespressa nei Veda, il frutto della più alta conoscenza esapienza umana, il cui nocciolo è finalmente pervenutoa noi nelle Upanishad; espressa particolarmente nel fat-to, che davanti allo sguardo del discepolo si fanno sfila-re per ordine tutti quanti gli esseri del mondo, viventi einanimati, e per ciascuno viene ripetuto quel detto ch'èdivenuto una formula e si chiama, come tale, mahava-kya: Tatoumes, o, più esattamente tat tvam asi, che si-gnifica: questo tu sei103. Ma al popolo questa grande ve-rità venne tradotta, fin dove esso poteva afferrarla con lapropria limitazione, nel modo di conoscenza retto dalprincipio di ragione; il qual modo, per sua natura, nonpuò punto accoglier tale verità pura ed in sé, che anzi stacon essa in diretta opposizione, bensì ne ha ricevuto unsurrogato nella forma del mito. Il surrogato era suffi-ciente come regola per l'azione, rendendo afferrabilemediante rappresentazione figurata il valore etico diquella, pur nella forma di conoscenza regolata dal prin-cipio di ragione, che a tal valore rimane eternamentestraniera. E codesto è lo scopo di tutte le dottrine reli-giose, essendo esse in genere rivestimenti mitici delleverità impenetrabili dalla rozza mente umana. Quel mitosi potrebbe in questo senso chiamare, nel linguaggio diKant, un postulato della ragion pratica: ma come taleconsiderato ha il grande vantaggio di non contenere nes-

103 Oupnek'hat, vol. I, pp. 60 sg.

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trina exoterica, l'hanno comunicata sol miticamente. Larappresentazione diretta la troviamo in varie guiseespressa nei Veda, il frutto della più alta conoscenza esapienza umana, il cui nocciolo è finalmente pervenutoa noi nelle Upanishad; espressa particolarmente nel fat-to, che davanti allo sguardo del discepolo si fanno sfila-re per ordine tutti quanti gli esseri del mondo, viventi einanimati, e per ciascuno viene ripetuto quel detto ch'èdivenuto una formula e si chiama, come tale, mahava-kya: Tatoumes, o, più esattamente tat tvam asi, che si-gnifica: questo tu sei103. Ma al popolo questa grande ve-rità venne tradotta, fin dove esso poteva afferrarla con lapropria limitazione, nel modo di conoscenza retto dalprincipio di ragione; il qual modo, per sua natura, nonpuò punto accoglier tale verità pura ed in sé, che anzi stacon essa in diretta opposizione, bensì ne ha ricevuto unsurrogato nella forma del mito. Il surrogato era suffi-ciente come regola per l'azione, rendendo afferrabilemediante rappresentazione figurata il valore etico diquella, pur nella forma di conoscenza regolata dal prin-cipio di ragione, che a tal valore rimane eternamentestraniera. E codesto è lo scopo di tutte le dottrine reli-giose, essendo esse in genere rivestimenti mitici delleverità impenetrabili dalla rozza mente umana. Quel mitosi potrebbe in questo senso chiamare, nel linguaggio diKant, un postulato della ragion pratica: ma come taleconsiderato ha il grande vantaggio di non contenere nes-

103 Oupnek'hat, vol. I, pp. 60 sg.

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sun elemento, che non ci stia davanti agli occhi nel do-minio della realtà, e quindi può tutti i suoi concetti do-cumentare con intuizioni. Il mito, a cui alludo, è quellodella migrazione delle anime. Esso insegna, come tutti idolori, che nella vita s'infliggono ad altri esseri, in unavita successiva su questo stesso mondo devono esserescontati precisamente coi medesimi dolori; e ciò va tan-to lontano, che chi uccide anche un semplice animale,rinascerà un giorno nel tempo infinito con la forma dicodesto animale e subirà la stessa morte. Insegna, checattiva condotta trae con sé una futura vita, in questomondo, in forma d'esseri miseri e spregiati; che si rina-scerà quindi in caste inferiori, o donna, o animale, o Pa-ria, o Ciandala, o lebbroso, o coccodrillo e così via. Tut-ti gli affanni che il mito minaccia, documenta con intui-zioni tratte dalla vita reale, mediante creature dolorose,le quali neppur sanno come abbiano meritata la lorpena; e non gli abbisogna di prender per appoggio nes-sun altro inferno. Come ricompensa invece promette ri-nascita in forme migliori e più nobili, quale bramano,quale sapiente, quale santo. La più alta ricompensa, cheattende gli animi più nobili e la più compiuta rassegna-zione, ricompensa concessa anche alla donna, che in set-te vite successive volontariamente sia morta sul rogo delmarito, come all'uomo la cui bocca pura non abbia maipronunziato una sola menzogna, può il mito esprimerlasolo negativamente nel linguaggio terreno, mediante lapromessa tanto spesso ripetuta, di non più rinascere:«non adsumes iterum existentiam apparentem». Oppure

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sun elemento, che non ci stia davanti agli occhi nel do-minio della realtà, e quindi può tutti i suoi concetti do-cumentare con intuizioni. Il mito, a cui alludo, è quellodella migrazione delle anime. Esso insegna, come tutti idolori, che nella vita s'infliggono ad altri esseri, in unavita successiva su questo stesso mondo devono esserescontati precisamente coi medesimi dolori; e ciò va tan-to lontano, che chi uccide anche un semplice animale,rinascerà un giorno nel tempo infinito con la forma dicodesto animale e subirà la stessa morte. Insegna, checattiva condotta trae con sé una futura vita, in questomondo, in forma d'esseri miseri e spregiati; che si rina-scerà quindi in caste inferiori, o donna, o animale, o Pa-ria, o Ciandala, o lebbroso, o coccodrillo e così via. Tut-ti gli affanni che il mito minaccia, documenta con intui-zioni tratte dalla vita reale, mediante creature dolorose,le quali neppur sanno come abbiano meritata la lorpena; e non gli abbisogna di prender per appoggio nes-sun altro inferno. Come ricompensa invece promette ri-nascita in forme migliori e più nobili, quale bramano,quale sapiente, quale santo. La più alta ricompensa, cheattende gli animi più nobili e la più compiuta rassegna-zione, ricompensa concessa anche alla donna, che in set-te vite successive volontariamente sia morta sul rogo delmarito, come all'uomo la cui bocca pura non abbia maipronunziato una sola menzogna, può il mito esprimerlasolo negativamente nel linguaggio terreno, mediante lapromessa tanto spesso ripetuta, di non più rinascere:«non adsumes iterum existentiam apparentem». Oppure

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come l'esprimono i Buddhisti, che non ammettono né iVeda né le caste: «Tu raggiungerai il Nirvana, ossia unostato, in cui non sono quattro cose: nascita, età, malattiae morte».

Non mai un mito s'è accostato più strettamente, nonmai s'accosterà alla verità filosofica, cui sì pochi uominipossono salire, come fa questa remotissima dottrina delpiù nobile e più antico popolo; nel quale essa, per quan-to in molte parti tralignata, regna nondimeno tuttoracome fede generale ed ha sulla vita un effettivo influsso,oggi come quattro millenni or sono. Questo non plus ul-tra di rappresentazione mitica hanno quindi di già Pita-gora e Platone accolto con ammirazione, e trattodall'India, o dall'Egitto, e onorato, e applicato, e, nonsappiamo fino a qual punto, essi stessi creduto. Noi in-vece spediamo oramai ai bramani, clergymen inglesi efratelli moravi esercenti la tessitura, per ammonirli com-passionevolmente d'una verità superiore e spiegar loro,che son creati dal nulla, e che di ciò devono con gratitu-dine rallegrarsi. Ma ci succede come a chi tira una pallacontro una roccia. In India non potranno metter mai ra-dice le nostre religioni: la sapienza originaria dell'umangenere non sarà soppiantata dagli accidenti successi inGalilea. Viceversa torna l'indiana sapienza a fluire versol'Europa, e produrrà una fondamentale mutazione nelnostro sapere e pensare.

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come l'esprimono i Buddhisti, che non ammettono né iVeda né le caste: «Tu raggiungerai il Nirvana, ossia unostato, in cui non sono quattro cose: nascita, età, malattiae morte».

Non mai un mito s'è accostato più strettamente, nonmai s'accosterà alla verità filosofica, cui sì pochi uominipossono salire, come fa questa remotissima dottrina delpiù nobile e più antico popolo; nel quale essa, per quan-to in molte parti tralignata, regna nondimeno tuttoracome fede generale ed ha sulla vita un effettivo influsso,oggi come quattro millenni or sono. Questo non plus ul-tra di rappresentazione mitica hanno quindi di già Pita-gora e Platone accolto con ammirazione, e trattodall'India, o dall'Egitto, e onorato, e applicato, e, nonsappiamo fino a qual punto, essi stessi creduto. Noi in-vece spediamo oramai ai bramani, clergymen inglesi efratelli moravi esercenti la tessitura, per ammonirli com-passionevolmente d'una verità superiore e spiegar loro,che son creati dal nulla, e che di ciò devono con gratitu-dine rallegrarsi. Ma ci succede come a chi tira una pallacontro una roccia. In India non potranno metter mai ra-dice le nostre religioni: la sapienza originaria dell'umangenere non sarà soppiantata dagli accidenti successi inGalilea. Viceversa torna l'indiana sapienza a fluire versol'Europa, e produrrà una fondamentale mutazione nelnostro sapere e pensare.

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§ 64.Ma ora procediamo dalla nostra posizione non mitica,

bensì filosofica, dell'eterna giustizia, alle connesse con-siderazioni sul valore etico dell'azione e della coscienza,la quale è il conoscimento sentito di quel valore. Vogliosolo, in questo luogo, richiamar dapprima l'attenzione sudue particolarità dell'umana natura, le quali posson con-tribuire a render chiaro come ciascun uomo abbia laconsapevolezza, almeno come sentimento oscuro,dell'essenza di quella eterna giustizia, e del suo fonda-mento, ch'è l'unità e l'identità della volontà in tutti i suoifenomeni. Affatto indipendentemente dallo scopo, chedimostrammo aver lo Stato nell'infliggere la pena, scoposu cui poggia il diritto punitivo, quando una cattivaazione è stata commessa dà soddisfazione non soloall'offeso (il quale di solito è acceso da sete di vendetta),ma anche allo spettatore più indifferente, il vedere chequegli, il quale cagionò altrui un dolore, patisca a suavolta dolore in egual misura. A me pare che qui si espri-ma nient'altro se non la conscienza di quella eterna giu-stizia; conscienza che tuttavia da una mente non purifi-cata vien tosto malcompresa e falsata; perché questa, ir-retita nel principio individuationis, cade in un'anfiboliadi concetti, e pretende dal fenomeno ciò che spetta soloalla cosa in sé. Né comprende, come in sé l'offensore el'offeso siano tutt'uno, e sia una medesima essenza laquale, non riconoscendo se stessa nel suo proprio feno-meno, porta tanto l'affanno quanto la colpa. Invece, do-

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§ 64.Ma ora procediamo dalla nostra posizione non mitica,

bensì filosofica, dell'eterna giustizia, alle connesse con-siderazioni sul valore etico dell'azione e della coscienza,la quale è il conoscimento sentito di quel valore. Vogliosolo, in questo luogo, richiamar dapprima l'attenzione sudue particolarità dell'umana natura, le quali posson con-tribuire a render chiaro come ciascun uomo abbia laconsapevolezza, almeno come sentimento oscuro,dell'essenza di quella eterna giustizia, e del suo fonda-mento, ch'è l'unità e l'identità della volontà in tutti i suoifenomeni. Affatto indipendentemente dallo scopo, chedimostrammo aver lo Stato nell'infliggere la pena, scoposu cui poggia il diritto punitivo, quando una cattivaazione è stata commessa dà soddisfazione non soloall'offeso (il quale di solito è acceso da sete di vendetta),ma anche allo spettatore più indifferente, il vedere chequegli, il quale cagionò altrui un dolore, patisca a suavolta dolore in egual misura. A me pare che qui si espri-ma nient'altro se non la conscienza di quella eterna giu-stizia; conscienza che tuttavia da una mente non purifi-cata vien tosto malcompresa e falsata; perché questa, ir-retita nel principio individuationis, cade in un'anfiboliadi concetti, e pretende dal fenomeno ciò che spetta soloalla cosa in sé. Né comprende, come in sé l'offensore el'offeso siano tutt'uno, e sia una medesima essenza laquale, non riconoscendo se stessa nel suo proprio feno-meno, porta tanto l'affanno quanto la colpa. Invece, do-

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manda di riveder anche l'affanno in quello stesso indivi-duo a cui tocca la colpa. Quindi vorrebbero i più preten-dere ancora, che un uomo fornito d'un alto grado di mal-vagità, grado che può trovarsi in molti uomini, ma noncongiunto come in costui con altre qualità, il quale pernon comune forza d'ingegno fosse agli altri di gran lun-ga superiore e quindi indicibili dolori procurasse a mi-lioni d'uomini, per esempio come conquistatore; vorreb-bero pretendere, dico, che un tal uomo espiasse quandoche sia e comunque tutti quei dolori con una misura didolori eguale. Imperocché non sanno, che in sé il tor-mentatore e i tormentati sono tutt'uno, e la medesimavolontà, mediante la quale questi esistono e vivono, èpur quella, che nel tormentatore apparisce, e che appun-to per mezzo di lui perviene alla più chiara manifesta-zione della propria essenza, e che soffre negli oppressicome nell'oppressore, anzi soffre in quest'ultimo tantopiù, quanto più alta chiarezza e limpidità ha la conscien-za di lui, e più grande veemenza ha la sua volontà. Chetuttavia codesta disposizione a chiedere tal forma di giu-stizia cessi d'ottenebrare la conoscenza più approfondi-ta, non più imprigionata nel principio individuationis,conoscenza da cui viene ogni virtù e nobiltà d'animo, di-mostra già l'etica cristiana, la quale vieta senz'altro dirender male per male e fa operare l'eterna giustizia comefosse nel dominio della cosa in sé, diverso dal fenomeno(«Mia è la vendetta, io voglio punire, dice il Signore»:Rom., 12, 19).

Un carattere molto più sorprendente, ma anche molto

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manda di riveder anche l'affanno in quello stesso indivi-duo a cui tocca la colpa. Quindi vorrebbero i più preten-dere ancora, che un uomo fornito d'un alto grado di mal-vagità, grado che può trovarsi in molti uomini, ma noncongiunto come in costui con altre qualità, il quale pernon comune forza d'ingegno fosse agli altri di gran lun-ga superiore e quindi indicibili dolori procurasse a mi-lioni d'uomini, per esempio come conquistatore; vorreb-bero pretendere, dico, che un tal uomo espiasse quandoche sia e comunque tutti quei dolori con una misura didolori eguale. Imperocché non sanno, che in sé il tor-mentatore e i tormentati sono tutt'uno, e la medesimavolontà, mediante la quale questi esistono e vivono, èpur quella, che nel tormentatore apparisce, e che appun-to per mezzo di lui perviene alla più chiara manifesta-zione della propria essenza, e che soffre negli oppressicome nell'oppressore, anzi soffre in quest'ultimo tantopiù, quanto più alta chiarezza e limpidità ha la conscien-za di lui, e più grande veemenza ha la sua volontà. Chetuttavia codesta disposizione a chiedere tal forma di giu-stizia cessi d'ottenebrare la conoscenza più approfondi-ta, non più imprigionata nel principio individuationis,conoscenza da cui viene ogni virtù e nobiltà d'animo, di-mostra già l'etica cristiana, la quale vieta senz'altro dirender male per male e fa operare l'eterna giustizia comefosse nel dominio della cosa in sé, diverso dal fenomeno(«Mia è la vendetta, io voglio punire, dice il Signore»:Rom., 12, 19).

Un carattere molto più sorprendente, ma anche molto

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più raro nell'umana natura, esprime quell'aspirazione atrarre l'eterna giustizia nel dominio dell'esperienza, ossiadell'individuazione; e in pari tempo è indice d'una con-sapevolezza sentita, ma non ancora limpida, del fattoche, come ho detto più sopra, la volontà di vivere recitaa proprie spese la grande tragedia e commedia, e che lamedesima ed unica volontà vive in tutti i fenomeni. Talecarattere è il seguente. Vediamo talvolta un uomo peruna grande iniquità subita, o di cui forse è stato sempli-ce testimone, infuriarsi a tal segno, che impegna la suapropria vita, consapevolmente e senza possibile salvez-za, per prendere vendetta di chi quell'iniquità ha com-messa. Lo vediamo per esempio ricercare durante anniun potente oppressore, ucciderlo alfine e quindi morireegli medesimo sul patibolo, come aveva preveduto, eche anzi spesso non aveva punto cercato d'evitare; aven-do la sua vita conservato valore per lui soltanto comemezzo per la vendetta. Specialmente fra gli spagnoli sitrovano questi esempi104. Se noi adunque osserviamo at-tentamente lo spirito di quella sete di compensazione, latroviamo assai differente dalla vendetta comune, chevuole mitigare il male sofferto mediante la vista delmale provocato. Troviamo, anzi, che il suo scopo meritad'esser chiamato non tanto vendetta quanto punizione:

104 Quel vescovo spagnolo, che nell'ultima guerra avvelenò con-temporaneamente, alla propria tavola, se stesso ed i generalifrancesi, appartiene a questa categoria, come molti fatti avve-nuti nella stessa guerra. Esempi si trovano anche presso Mon-taigne, lib. 2, cap. 12.

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più raro nell'umana natura, esprime quell'aspirazione atrarre l'eterna giustizia nel dominio dell'esperienza, ossiadell'individuazione; e in pari tempo è indice d'una con-sapevolezza sentita, ma non ancora limpida, del fattoche, come ho detto più sopra, la volontà di vivere recitaa proprie spese la grande tragedia e commedia, e che lamedesima ed unica volontà vive in tutti i fenomeni. Talecarattere è il seguente. Vediamo talvolta un uomo peruna grande iniquità subita, o di cui forse è stato sempli-ce testimone, infuriarsi a tal segno, che impegna la suapropria vita, consapevolmente e senza possibile salvez-za, per prendere vendetta di chi quell'iniquità ha com-messa. Lo vediamo per esempio ricercare durante anniun potente oppressore, ucciderlo alfine e quindi morireegli medesimo sul patibolo, come aveva preveduto, eche anzi spesso non aveva punto cercato d'evitare; aven-do la sua vita conservato valore per lui soltanto comemezzo per la vendetta. Specialmente fra gli spagnoli sitrovano questi esempi104. Se noi adunque osserviamo at-tentamente lo spirito di quella sete di compensazione, latroviamo assai differente dalla vendetta comune, chevuole mitigare il male sofferto mediante la vista delmale provocato. Troviamo, anzi, che il suo scopo meritad'esser chiamato non tanto vendetta quanto punizione:

104 Quel vescovo spagnolo, che nell'ultima guerra avvelenò con-temporaneamente, alla propria tavola, se stesso ed i generalifrancesi, appartiene a questa categoria, come molti fatti avve-nuti nella stessa guerra. Esempi si trovano anche presso Mon-taigne, lib. 2, cap. 12.

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poi che in lei si ritrova propriamente l'intento di un'azio-ne sul futuro, mediante l'esempio, e senza alcun fine diproprio vantaggio, né per l'individuo vendicatore, per-ché esso vi soccombe, né per una società, la quale fog-gia a sé con leggi la sicurezza; che essendo quella penainflitta da un singolo, non dallo Stato, e neppure in ese-cuzione d'una legge, colpisce invece sempre un'azione,che lo Stato non voleva e non poteva punire, e di cui di-sapprova la pena. Mi sembra che lo sdegno, il qualespinge un siffatto uomo sì lungi oltre i confini d'ogniegoismo, balzi dalla più profonda con scienza, che essosia la volontà stessa di vivere, la quale in tutti gli esseri,in tutti i tempi si rivela; che ad esso il più lontano avve-nire appartenga in egual maniera che il presente, e nonpossa essere indifferente. Affermando questa volontà,pretende che nello spettacolo, in cui è rappresentatal'essenza di lei, non riapparisca una così mostruosa ini-quità, e vuole, con l'esempio d'una vendetta contro laquale non esiste difesa, che il timor della morte non trat-tiene il vendicatore, sbigottire ogni malfattore futuro. Lavolontà di vivere, pure affermandosi ancora, non si legaqui più al singolo fenomeno, all'individuo, bensì abbrac-cia l'idea dell'uomo e vuol conservarne il fenomenopuro da codesta mostruosa, rivoltante iniquità. È unraro, significante, anzi elevatissimo tratto di carattere,mediante il quale il singolo si sacrifica, aspirando a farsibraccio dell'eterna giustizia, di cui ancora disconosce lavera essenza.

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poi che in lei si ritrova propriamente l'intento di un'azio-ne sul futuro, mediante l'esempio, e senza alcun fine diproprio vantaggio, né per l'individuo vendicatore, per-ché esso vi soccombe, né per una società, la quale fog-gia a sé con leggi la sicurezza; che essendo quella penainflitta da un singolo, non dallo Stato, e neppure in ese-cuzione d'una legge, colpisce invece sempre un'azione,che lo Stato non voleva e non poteva punire, e di cui di-sapprova la pena. Mi sembra che lo sdegno, il qualespinge un siffatto uomo sì lungi oltre i confini d'ogniegoismo, balzi dalla più profonda con scienza, che essosia la volontà stessa di vivere, la quale in tutti gli esseri,in tutti i tempi si rivela; che ad esso il più lontano avve-nire appartenga in egual maniera che il presente, e nonpossa essere indifferente. Affermando questa volontà,pretende che nello spettacolo, in cui è rappresentatal'essenza di lei, non riapparisca una così mostruosa ini-quità, e vuole, con l'esempio d'una vendetta contro laquale non esiste difesa, che il timor della morte non trat-tiene il vendicatore, sbigottire ogni malfattore futuro. Lavolontà di vivere, pure affermandosi ancora, non si legaqui più al singolo fenomeno, all'individuo, bensì abbrac-cia l'idea dell'uomo e vuol conservarne il fenomenopuro da codesta mostruosa, rivoltante iniquità. È unraro, significante, anzi elevatissimo tratto di carattere,mediante il quale il singolo si sacrifica, aspirando a farsibraccio dell'eterna giustizia, di cui ancora disconosce lavera essenza.

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§ 65.Con tutte le considerazioni fatte finora sulle azioni

umane abbiamo preparata l'ultima, e molto alleviato ilcompito che ci rimane: elevare a chiarezza filosofia econcatenare nel nostro sistema il vero significato eticodell'azione, che nella vita si indica con le parole buono ecattivo, con le quali ci s'intende perfettamente.

Ma voglio dapprima ricondurre al lor senso veracequei concetti di buono e cattivo, che dagli scrittori filo-sofici dei nostri giorni vengono trattati, cosa singolaris-sima, come concetti semplici, e quindi non atti ad anali-si alcuna. Questo farò, affinchè non s'abbia per avventu-ra a restare nella nebbiosa illusione, ch'essi contenganopiù di quanto contengono in effetti, e già esprimano insé e per sé quanto occorre al nostro argomento. E possofarlo, perché io stesso son così lontano dal cercarminell'etica un riparo dietro la parola buono, quanto lonta-no fui dal cercarlo finora dietro le parole bello e vero;per poi far credere mediante l'appiccicamento di un – tà– che oggi si pretende ch'abbia una speciale σεµνότης equindi in molti casi può servire, e mediante un'aria so-lenne, d'aver con la formulazione di codeste tre parolefatto più che indicar tre concetti assai ampi ed astratti, equindi punto ricchi di contenuto, i quali hanno ben di-versa origine e diverso valore. A quale uomo invero, cuisian noti gli scritti dei dì nostri, non son venute final-mente a nausea quelle tre parole, per quanto riferentisiin origine a sì nobili cose, allor ch'egli ha dovuto mille

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§ 65.Con tutte le considerazioni fatte finora sulle azioni

umane abbiamo preparata l'ultima, e molto alleviato ilcompito che ci rimane: elevare a chiarezza filosofia econcatenare nel nostro sistema il vero significato eticodell'azione, che nella vita si indica con le parole buono ecattivo, con le quali ci s'intende perfettamente.

Ma voglio dapprima ricondurre al lor senso veracequei concetti di buono e cattivo, che dagli scrittori filo-sofici dei nostri giorni vengono trattati, cosa singolaris-sima, come concetti semplici, e quindi non atti ad anali-si alcuna. Questo farò, affinchè non s'abbia per avventu-ra a restare nella nebbiosa illusione, ch'essi contenganopiù di quanto contengono in effetti, e già esprimano insé e per sé quanto occorre al nostro argomento. E possofarlo, perché io stesso son così lontano dal cercarminell'etica un riparo dietro la parola buono, quanto lonta-no fui dal cercarlo finora dietro le parole bello e vero;per poi far credere mediante l'appiccicamento di un – tà– che oggi si pretende ch'abbia una speciale σεµνότης equindi in molti casi può servire, e mediante un'aria so-lenne, d'aver con la formulazione di codeste tre parolefatto più che indicar tre concetti assai ampi ed astratti, equindi punto ricchi di contenuto, i quali hanno ben di-versa origine e diverso valore. A quale uomo invero, cuisian noti gli scritti dei dì nostri, non son venute final-mente a nausea quelle tre parole, per quanto riferentisiin origine a sì nobili cose, allor ch'egli ha dovuto mille

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volte vedere, come i più inetti all'esercizio del pensarecredano che basti averle emesse, a bocca spalancata econ l'aria d'una pecora inspirata, per aver rivelato unasolenne saggezza?

L'esplicazione del concetto di vero è già data nelloscritto sul principio di ragione, cap. 5, §§ 29 sgg. Il con-tenuto del concetto di bello ha per la prima volta trovatola sua giusta illustrazione in tutto il nostro terzo libro.Ora ricondurremo al suo significato il concetto di buo-no, cosa che può farsi con molto poco. Questo concettoè essenzialmente relativo, e indica la conformità di unoggetto con una qualsivoglia determinata aspirazionedella volontà. Quindi tutto ciò che conviene alla volontàin qualunque delle sue manifestazioni, e soddisfa la suamira, vien pensato sotto il concetto di buono, per quantavarietà vi possa essere nel rimanente. Perciò noi dicia-mo buon cibo, buone strade, tempo buono, buone armi,buon presagio, etc.: in breve, chiamiamo buono tutto ciòche è come noi vogliamo che sia; quindi per l'uno puòesser buono ciò che per l'altro è addirittura l'opposto. Ilconcetto di buono si suddivide in due sottospecie: quellacioè della soddisfazione immediata e quella della me-diata, vale a dire la soddisfazione della volontà nel futu-ro: e sono il piacevole e l'utile. Il concetto opposto vieneespresso con la parola cattivo, e più raramente e astratta-mente con la parola male, che indica così tutto quantonon si confaccia a ciascuna aspirazione della volontà.Come tutti gli altri esseri, che posson venire in relazionecon la volontà, si son poi detti buoni anche uomini, ai

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volte vedere, come i più inetti all'esercizio del pensarecredano che basti averle emesse, a bocca spalancata econ l'aria d'una pecora inspirata, per aver rivelato unasolenne saggezza?

L'esplicazione del concetto di vero è già data nelloscritto sul principio di ragione, cap. 5, §§ 29 sgg. Il con-tenuto del concetto di bello ha per la prima volta trovatola sua giusta illustrazione in tutto il nostro terzo libro.Ora ricondurremo al suo significato il concetto di buo-no, cosa che può farsi con molto poco. Questo concettoè essenzialmente relativo, e indica la conformità di unoggetto con una qualsivoglia determinata aspirazionedella volontà. Quindi tutto ciò che conviene alla volontàin qualunque delle sue manifestazioni, e soddisfa la suamira, vien pensato sotto il concetto di buono, per quantavarietà vi possa essere nel rimanente. Perciò noi dicia-mo buon cibo, buone strade, tempo buono, buone armi,buon presagio, etc.: in breve, chiamiamo buono tutto ciòche è come noi vogliamo che sia; quindi per l'uno puòesser buono ciò che per l'altro è addirittura l'opposto. Ilconcetto di buono si suddivide in due sottospecie: quellacioè della soddisfazione immediata e quella della me-diata, vale a dire la soddisfazione della volontà nel futu-ro: e sono il piacevole e l'utile. Il concetto opposto vieneespresso con la parola cattivo, e più raramente e astratta-mente con la parola male, che indica così tutto quantonon si confaccia a ciascuna aspirazione della volontà.Come tutti gli altri esseri, che posson venire in relazionecon la volontà, si son poi detti buoni anche uomini, ai

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desiderati fini favorevoli, servizievoli, amicamente di-sposti, benefici; buoni adunque nel medesimo senso, esempre con la riserva della relatività di codesto senso,quale si mostra per esempio nella frase: «Costui è buonoverso di me, e non verso di te». Coloro invece, il cui ca-rattere comportava di non porre ostacolo in genere allealtrui aspirazioni, e costantemente erano servizievoli,benevoli, amichevoli, benefici, furon chiamati uominibuoni per cotale relazione della loro condotta con la vo-lontà degli altri. Il concetto opposto s'indica in tedesco,e da forse cent'anni anche in francese, riferendosi ad es-seri conoscenti (animali e uomini) con parola diversa daquella usata per gli esseri privi di conoscenza – ossia laparola böse (malvagio), méchant, mentre in quasi tuttele altre lingue codesto divario non esiste, e κακος, ma-lus, cattivo, bad vengono usati sì per gli uomini sì per lecose inanimate, quando si oppongano ai fini di una de-terminata, individuale volontà. Partita adunque in tutto eper tutto dal lato passivo del buono, l'indagine potevasolo più tardi volgersi all'attivo, e studiar la condottadell'uomo chiamato buono non più in rapporto ad altri,bensì a lui medesimo, proponendosi in particolar modola spiegazione sì della stima puramente obiettiva, chequella condotta visibilmente produceva in altri, sì dellasingolar contentezza di sé prodotta in lui stesso; come,al contrario, dell'intimo dolore, che accompagna la catti-va intenzione, per quanti vantaggi esteriori produca achi la nutre. Ora, di qui ebbero origine i sistemi etici,tanto filosofici quanto religiosi. Gli uni e gli altri cercan

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desiderati fini favorevoli, servizievoli, amicamente di-sposti, benefici; buoni adunque nel medesimo senso, esempre con la riserva della relatività di codesto senso,quale si mostra per esempio nella frase: «Costui è buonoverso di me, e non verso di te». Coloro invece, il cui ca-rattere comportava di non porre ostacolo in genere allealtrui aspirazioni, e costantemente erano servizievoli,benevoli, amichevoli, benefici, furon chiamati uominibuoni per cotale relazione della loro condotta con la vo-lontà degli altri. Il concetto opposto s'indica in tedesco,e da forse cent'anni anche in francese, riferendosi ad es-seri conoscenti (animali e uomini) con parola diversa daquella usata per gli esseri privi di conoscenza – ossia laparola böse (malvagio), méchant, mentre in quasi tuttele altre lingue codesto divario non esiste, e κακος, ma-lus, cattivo, bad vengono usati sì per gli uomini sì per lecose inanimate, quando si oppongano ai fini di una de-terminata, individuale volontà. Partita adunque in tutto eper tutto dal lato passivo del buono, l'indagine potevasolo più tardi volgersi all'attivo, e studiar la condottadell'uomo chiamato buono non più in rapporto ad altri,bensì a lui medesimo, proponendosi in particolar modola spiegazione sì della stima puramente obiettiva, chequella condotta visibilmente produceva in altri, sì dellasingolar contentezza di sé prodotta in lui stesso; come,al contrario, dell'intimo dolore, che accompagna la catti-va intenzione, per quanti vantaggi esteriori produca achi la nutre. Ora, di qui ebbero origine i sistemi etici,tanto filosofici quanto religiosi. Gli uni e gli altri cercan

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sempre di collegare in qualche modo la felicità con lavirtù; i primi, o in virtù del principio di contraddizione,o anche in virtù del principio di ragione, ma sempre so-fisticamente; gli ultimi invece affermando l'esistenzad'altri mondi da quello che può esser conosciutodall'esperienza105.

Viceversa per l'indagine nostra l'intima essenza dellavirtù si rivelerà come una tendenza in direzione affattoopposta a quella che conduce alla felicità, ossia al be-nessere e alla vita.

In virtù di quanto fu detto più sopra, il buono è, con-siderato nel suo concetto, των προς τι,sia è ogni cosa

105 Sia qui osservato incidentalmente, come ciò che da gran forza a ogni dot-trina religiosa positiva, il punto d'appoggio, col quale essa prende fermodominio sugli spiriti, è esclusivamente il suo lato etico: sebbene non diret-tamente come tale, bensì per il fatto che essendo ben collegato e intreccia-to col rimanente dogma mitico, proprio di ciascuna dottrina religiosa, sem-bra spiegabile sol per mezzo di quest'ultimo. Sì che, sebbene il significatoetico delle azioni non sia punto da spiegarsi conformemente al principio diragione, mentre ogni mito segue questo principio, nondimeno i credentitengono il valore etico della condotta ed il suo mito come affatto insepara-bili, anzi come tutt'uno; ed ogni offesa fatta al mito tengono come fattoalla giustizia e alla virtù. Questo va sì lungi, che nei popoli monoteisti atei-smo, ossia assenza di religione, è diventato sinonimo d'assenza di ognimoralità. Ai sacerdoti sono ben graditi codesti scambi di concetti; sol percui effetto potè quell'orribile mostro che è il fanatismo sorgere, e dominarenon soltanto singoli individui oltremodo traviati e malvagi, ma popoli inte-ri, e da ultimo, cosa che per l'onore dell'umanità è accaduta una volta solanella sua storia, incarnarsi nell'Inquisizione. La quale, secondo le più re-centi, finalmente autentiche notizie, solo in Madrid (mentre nel resto dellaSpagna erano molti altri tali religiosi scannatoi) in 300 anni fece morire300 000 persone tra i tormenti, sul rogo, per cose di fede. Questo bisognarichiamare alla memoria d'ogni pio zelatore, ogni volta che voglia alzare lavoce.

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sempre di collegare in qualche modo la felicità con lavirtù; i primi, o in virtù del principio di contraddizione,o anche in virtù del principio di ragione, ma sempre so-fisticamente; gli ultimi invece affermando l'esistenzad'altri mondi da quello che può esser conosciutodall'esperienza105.

Viceversa per l'indagine nostra l'intima essenza dellavirtù si rivelerà come una tendenza in direzione affattoopposta a quella che conduce alla felicità, ossia al be-nessere e alla vita.

In virtù di quanto fu detto più sopra, il buono è, con-siderato nel suo concetto, των προς τι,sia è ogni cosa

105 Sia qui osservato incidentalmente, come ciò che da gran forza a ogni dot-trina religiosa positiva, il punto d'appoggio, col quale essa prende fermodominio sugli spiriti, è esclusivamente il suo lato etico: sebbene non diret-tamente come tale, bensì per il fatto che essendo ben collegato e intreccia-to col rimanente dogma mitico, proprio di ciascuna dottrina religiosa, sem-bra spiegabile sol per mezzo di quest'ultimo. Sì che, sebbene il significatoetico delle azioni non sia punto da spiegarsi conformemente al principio diragione, mentre ogni mito segue questo principio, nondimeno i credentitengono il valore etico della condotta ed il suo mito come affatto insepara-bili, anzi come tutt'uno; ed ogni offesa fatta al mito tengono come fattoalla giustizia e alla virtù. Questo va sì lungi, che nei popoli monoteisti atei-smo, ossia assenza di religione, è diventato sinonimo d'assenza di ognimoralità. Ai sacerdoti sono ben graditi codesti scambi di concetti; sol percui effetto potè quell'orribile mostro che è il fanatismo sorgere, e dominarenon soltanto singoli individui oltremodo traviati e malvagi, ma popoli inte-ri, e da ultimo, cosa che per l'onore dell'umanità è accaduta una volta solanella sua storia, incarnarsi nell'Inquisizione. La quale, secondo le più re-centi, finalmente autentiche notizie, solo in Madrid (mentre nel resto dellaSpagna erano molti altri tali religiosi scannatoi) in 300 anni fece morire300 000 persone tra i tormenti, sul rogo, per cose di fede. Questo bisognarichiamare alla memoria d'ogni pio zelatore, ogni volta che voglia alzare lavoce.

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buona essenzialmente relativa, avendo la sua essenza solnel suo rapporto con una volontà in atto. Bene assolutoè quindi una contraddizione: sommo bene, summum bo-num, significa ancora lo stesso, cioè propriamente il fi-nale appagarsi della volontà, dopo il quale nessun volerenuovo subentri: un ultimo motivo, il cui raggiungimentoproduca una indistruttibile soddisfazione della volontà.Per le considerazioni fatte finora in questo quarto libro,un tal bene non si può concepire. La volontà non puòper qualsivoglia appagamento cessar di ricominciareognora a volere, più di quanto possa il tempo comincia-re o finire: una durevole soddisfazione, che appaghi ap-pieno e per sempre la sua sete, non esiste per lei. Ella èla botte delle Danaidi: non v'ha per lei alcun sommobene, alcun bene assoluto, bensì ognora appena un beneprovvisorio. Ma se frattanto piacesse mantenere un po-sto onorifico a un'antica espressione, la quale per abitu-dine non si vorrebbe del tutto sopprimere, come a unfunzionario emerito, allora si potrebbe chiamar bene as-soluto, summum bonum in modo tropico e figurato, lacompleta soppressione e negazione della volontà, lavera assenza di volontà, che unica per sempre placa esopprime la sete del volere, unica da quella pace la qua-le non può più esser turbata, unica ci redime dal mondo.Di lei tratteremo alla fine di tutta la nostra opera, consi-derandola come unico radicale rimedio della malattia, difronte alla quale tutti gli altri beni non sono che palliati-vi anodini. In tal senso il greco τελος, com'anche il lati-no finis bonorum, corrisponde ancor meglio alla verità.

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buona essenzialmente relativa, avendo la sua essenza solnel suo rapporto con una volontà in atto. Bene assolutoè quindi una contraddizione: sommo bene, summum bo-num, significa ancora lo stesso, cioè propriamente il fi-nale appagarsi della volontà, dopo il quale nessun volerenuovo subentri: un ultimo motivo, il cui raggiungimentoproduca una indistruttibile soddisfazione della volontà.Per le considerazioni fatte finora in questo quarto libro,un tal bene non si può concepire. La volontà non puòper qualsivoglia appagamento cessar di ricominciareognora a volere, più di quanto possa il tempo comincia-re o finire: una durevole soddisfazione, che appaghi ap-pieno e per sempre la sua sete, non esiste per lei. Ella èla botte delle Danaidi: non v'ha per lei alcun sommobene, alcun bene assoluto, bensì ognora appena un beneprovvisorio. Ma se frattanto piacesse mantenere un po-sto onorifico a un'antica espressione, la quale per abitu-dine non si vorrebbe del tutto sopprimere, come a unfunzionario emerito, allora si potrebbe chiamar bene as-soluto, summum bonum in modo tropico e figurato, lacompleta soppressione e negazione della volontà, lavera assenza di volontà, che unica per sempre placa esopprime la sete del volere, unica da quella pace la qua-le non può più esser turbata, unica ci redime dal mondo.Di lei tratteremo alla fine di tutta la nostra opera, consi-derandola come unico radicale rimedio della malattia, difronte alla quale tutti gli altri beni non sono che palliati-vi anodini. In tal senso il greco τελος, com'anche il lati-no finis bonorum, corrisponde ancor meglio alla verità.

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E questo basti intorno alle parole buono e cattivo; venia-mo ora al sodo.

Se un uomo, non appena ne abbia l'occasione e nes-sun potere esterno lo trattenga, è sempre inclinato acommettere ingiustizia, lo chiamiamo cattivo. Secondola nostra spiegazione dell'ingiustizia, ciò significa checostui non solo afferma la volontà di vivere, quale essasi manifesta nel suo corpo, ma in codesta affermazioneva tanto oltre, da negare la volontà manifestantesi in al-tri individui. Egli pretende con ciò le forze loro pel ser-vigio della volontà propria, e l'esistenza loro cerca disopprimere, quando della volontà di lui essi contrarianole aspirazioni. Di ciò è sorgente prima un alto grado diegoismo, la cui essenza fu esposta più sopra. Due coseson qui subito palesi: primo, che in un tale uomo siesprime una volontà di vivere estremamente impetuosa,oltrepassante di gran lunga l'affermazione del suo pro-prio corpo; secondo, che la conoscenza di lui, tutta presadal principio di ragione e prigioniera nel principio indi-viduationis, rimane attaccata alla distinzione completamessa da quello tra la sua persona e tutte le altre. Perciòegli cerca solo il benessere proprio, affatto indifferente aquello di tutti gli altri, il cui essere è a lui del tutto estra-neo, separato dal suo mediante un ampio abisso. Gli al-tri vede egli addirittura come larve senza realtà. E code-ste due note sono gli elementi fondamentali del caratteremalvagio.

Quella grande vivacità del volere è intanto già in sé eper sé una perenne fonte di dolore. Dapprima, perché

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E questo basti intorno alle parole buono e cattivo; venia-mo ora al sodo.

Se un uomo, non appena ne abbia l'occasione e nes-sun potere esterno lo trattenga, è sempre inclinato acommettere ingiustizia, lo chiamiamo cattivo. Secondola nostra spiegazione dell'ingiustizia, ciò significa checostui non solo afferma la volontà di vivere, quale essasi manifesta nel suo corpo, ma in codesta affermazioneva tanto oltre, da negare la volontà manifestantesi in al-tri individui. Egli pretende con ciò le forze loro pel ser-vigio della volontà propria, e l'esistenza loro cerca disopprimere, quando della volontà di lui essi contrarianole aspirazioni. Di ciò è sorgente prima un alto grado diegoismo, la cui essenza fu esposta più sopra. Due coseson qui subito palesi: primo, che in un tale uomo siesprime una volontà di vivere estremamente impetuosa,oltrepassante di gran lunga l'affermazione del suo pro-prio corpo; secondo, che la conoscenza di lui, tutta presadal principio di ragione e prigioniera nel principio indi-viduationis, rimane attaccata alla distinzione completamessa da quello tra la sua persona e tutte le altre. Perciòegli cerca solo il benessere proprio, affatto indifferente aquello di tutti gli altri, il cui essere è a lui del tutto estra-neo, separato dal suo mediante un ampio abisso. Gli al-tri vede egli addirittura come larve senza realtà. E code-ste due note sono gli elementi fondamentali del caratteremalvagio.

Quella grande vivacità del volere è intanto già in sé eper sé una perenne fonte di dolore. Dapprima, perché

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ogni volere, in quanto tale, deriva dalla privazione, ossiadal dolore (perciò, come il lettore ricorderà dal terzo li-bro, il momentaneo tacere della volontà, che si produceappena noi come puro, privo di volontà soggetto del co-noscere – correlato dell'idea – ci abbandoniamo allacontemplazione estetica, è già per l'appunto un elementoprincipale della gioia provata davanti al bello). In secon-do luogo, perché, in forza della causale concatenazionedelle cose, quasi tutte le aspirazioni rimangono inappa-gate, e la volontà viene ben più spesso ostacolata chesoddisfatta; sì che, anche per questo, vivace e forte vole-re trae sempre con sé vivace e forte soffrire. Imperocchéogni soffrire non è null'altro se non inappagato e contra-riato volere: lo stesso dolore del corpo, quando questovien ferito o distrutto, è in quanto dolore unicamentepossibile pel fatto, che il corpo non è se non la volontàmedesima fattasi oggetto. Perciò adunque, poi che mol-to e vivo soffrire da molto e vivo volere è inseparabile,già l'espressione del volto in uomini assai cattivi hal'impronta dell'interno dolore. Quand'anche abbiano rag-giunto ogni felicità esteriore, hanno sempre aspettod'infelici, a meno che non si trovino in uno stato di giu-bilo momentaneo o che s'infingano. Da questo internotormento, che in loro è proprio direttamente essenziale,vien prodotta in ultimo perfino quella gioia del male al-trui, non più causata dal semplice egoismo, ma addirit-tura disinteressata, che è la malvagità vera e propria, esale fino alla crudeltà. Per essa l'altrui dolore non è piùun mezzo a ottenere il conseguimento dei fini della pro-

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ogni volere, in quanto tale, deriva dalla privazione, ossiadal dolore (perciò, come il lettore ricorderà dal terzo li-bro, il momentaneo tacere della volontà, che si produceappena noi come puro, privo di volontà soggetto del co-noscere – correlato dell'idea – ci abbandoniamo allacontemplazione estetica, è già per l'appunto un elementoprincipale della gioia provata davanti al bello). In secon-do luogo, perché, in forza della causale concatenazionedelle cose, quasi tutte le aspirazioni rimangono inappa-gate, e la volontà viene ben più spesso ostacolata chesoddisfatta; sì che, anche per questo, vivace e forte vole-re trae sempre con sé vivace e forte soffrire. Imperocchéogni soffrire non è null'altro se non inappagato e contra-riato volere: lo stesso dolore del corpo, quando questovien ferito o distrutto, è in quanto dolore unicamentepossibile pel fatto, che il corpo non è se non la volontàmedesima fattasi oggetto. Perciò adunque, poi che mol-to e vivo soffrire da molto e vivo volere è inseparabile,già l'espressione del volto in uomini assai cattivi hal'impronta dell'interno dolore. Quand'anche abbiano rag-giunto ogni felicità esteriore, hanno sempre aspettod'infelici, a meno che non si trovino in uno stato di giu-bilo momentaneo o che s'infingano. Da questo internotormento, che in loro è proprio direttamente essenziale,vien prodotta in ultimo perfino quella gioia del male al-trui, non più causata dal semplice egoismo, ma addirit-tura disinteressata, che è la malvagità vera e propria, esale fino alla crudeltà. Per essa l'altrui dolore non è piùun mezzo a ottenere il conseguimento dei fini della pro-

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pria volontà, bensì scopo a se stesso. La precisa spiega-zione di questo fenomeno è la seguente. Essendo l'uomofenomeno della volontà, illuminato dalla più chiara co-noscenza, paragona sempre l'effettivo, provato appaga-mento della sua volontà con quello, solamente possibile,che la conoscenza gli pone davanti agli occhi. Da ciònasce l'invidia: ogni privazione viene infinitamente esa-sperata dall'altrui godimento, e sollevata dal sapere cheanche altri patiscono la privazione medesima. I mali atutti comuni, e dalla umana vita inseparabili, poco citurbano: e similmente quelli che al clima, al paese tuttoappartengono. Il ricordo di mali maggiori, che non sianoi nostri, placa il dolore di questi: attenua i nostri la vistadei dolori altrui. Ora, un uomo preso da un estremo, im-petuoso impeto della volontà, con ardente cupidigia vor-rebbe tutto abbracciare per ispegnere la sete dell'egoi-smo; ma intanto, com'è fatale, deve sperimentar cheogni appagamento è illusorio, né il bene conseguito maicorrisponde a ciò, che il bene desiderato prometteva, os-sia definitivo cessare della rabbiosa sete; perché inveceil desiderio con l'appagamento non fa che mutar di for-ma, e in forma nuova torturare ancora; anzi da ultimo,quando tutte le forme sono esaurite, la sete della volontàpur senza aspirazione consapevole permane, manife-standosi come insanabile martirio, qual sentimento dellapiù atroce desolazione e del vuoto universale. Tutto que-sto, che nei gradi ordinari della volontà, sentito sola-mente in più tenue misura, produce anche solo un gradoordinario di turbamento dell'animo, in colui, che invece

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pria volontà, bensì scopo a se stesso. La precisa spiega-zione di questo fenomeno è la seguente. Essendo l'uomofenomeno della volontà, illuminato dalla più chiara co-noscenza, paragona sempre l'effettivo, provato appaga-mento della sua volontà con quello, solamente possibile,che la conoscenza gli pone davanti agli occhi. Da ciònasce l'invidia: ogni privazione viene infinitamente esa-sperata dall'altrui godimento, e sollevata dal sapere cheanche altri patiscono la privazione medesima. I mali atutti comuni, e dalla umana vita inseparabili, poco citurbano: e similmente quelli che al clima, al paese tuttoappartengono. Il ricordo di mali maggiori, che non sianoi nostri, placa il dolore di questi: attenua i nostri la vistadei dolori altrui. Ora, un uomo preso da un estremo, im-petuoso impeto della volontà, con ardente cupidigia vor-rebbe tutto abbracciare per ispegnere la sete dell'egoi-smo; ma intanto, com'è fatale, deve sperimentar cheogni appagamento è illusorio, né il bene conseguito maicorrisponde a ciò, che il bene desiderato prometteva, os-sia definitivo cessare della rabbiosa sete; perché inveceil desiderio con l'appagamento non fa che mutar di for-ma, e in forma nuova torturare ancora; anzi da ultimo,quando tutte le forme sono esaurite, la sete della volontàpur senza aspirazione consapevole permane, manife-standosi come insanabile martirio, qual sentimento dellapiù atroce desolazione e del vuoto universale. Tutto que-sto, che nei gradi ordinari della volontà, sentito sola-mente in più tenue misura, produce anche solo un gradoordinario di turbamento dell'animo, in colui, che invece

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è fenomeno della volontà spinto fino all'aperta cattive-ria, sviluppa necessariamente un'estrema tortura intima,eterna inquietudine, insanabile dolore. Allora costui cer-ca in modo indiretto quel sollievo, che non può raggiun-gere in modo diretto, ossia cerca di lenire il male suocon la vista dell'altrui, che egli in pari tempo vede comeuna manifestazione della propria forza. Altrui dolore glidiviene scopo in se stesso, è uno spettacolo nel qualeegli esulta: e così nasce il fenomeno della vera e propriacrudeltà, della sete di sangue, che la storia tanto spessoci mostra, nei Neroni, nei Domiziani, nei Robespierre,etc.

Alla malvagità è già affine la sete di vendetta, che ilmale paga col male, non per riguardo al futuro, il checostituisce il carattere della pena, ma solo per il fatto ac-caduto, passato; quindi senza vantaggio; non come mez-zo, ma come fine, per letiziarsi nel tormento, da noistessi inflitto l'offensore. Ciò che distingue la vendettadalla pura malvagità, e in qualche po' la scusa, èun'apparenza di giustizia; in quanto lo stesso atto, chestavolta è vendetta, quando fosse legale, ossia compiutosecondo una regola fissa e notoria, e in seno a una col-lettività, da cui questa fosse sanzionata, si chiamerebbepena, cioè diritto. Fuori delle sofferenze descritte, natecon la malvagità da una stessa radice, l'eccessiva volon-tà, e quindi da quella inseparabili, alla malvagità è anco-ra associata un'altra sofferenza affatto diversa e partico-lare, la quale si fa sensibile ad ogni cattiva azione com-messa, sia poi questa una semplice ingiustizia per egoi-

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è fenomeno della volontà spinto fino all'aperta cattive-ria, sviluppa necessariamente un'estrema tortura intima,eterna inquietudine, insanabile dolore. Allora costui cer-ca in modo indiretto quel sollievo, che non può raggiun-gere in modo diretto, ossia cerca di lenire il male suocon la vista dell'altrui, che egli in pari tempo vede comeuna manifestazione della propria forza. Altrui dolore glidiviene scopo in se stesso, è uno spettacolo nel qualeegli esulta: e così nasce il fenomeno della vera e propriacrudeltà, della sete di sangue, che la storia tanto spessoci mostra, nei Neroni, nei Domiziani, nei Robespierre,etc.

Alla malvagità è già affine la sete di vendetta, che ilmale paga col male, non per riguardo al futuro, il checostituisce il carattere della pena, ma solo per il fatto ac-caduto, passato; quindi senza vantaggio; non come mez-zo, ma come fine, per letiziarsi nel tormento, da noistessi inflitto l'offensore. Ciò che distingue la vendettadalla pura malvagità, e in qualche po' la scusa, èun'apparenza di giustizia; in quanto lo stesso atto, chestavolta è vendetta, quando fosse legale, ossia compiutosecondo una regola fissa e notoria, e in seno a una col-lettività, da cui questa fosse sanzionata, si chiamerebbepena, cioè diritto. Fuori delle sofferenze descritte, natecon la malvagità da una stessa radice, l'eccessiva volon-tà, e quindi da quella inseparabili, alla malvagità è anco-ra associata un'altra sofferenza affatto diversa e partico-lare, la quale si fa sensibile ad ogni cattiva azione com-messa, sia poi questa una semplice ingiustizia per egoi-

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smo, o malvagità pura; e secondo il tempo della sua du-rata si chiama breve rimorso o duratura angoscia dellacoscienza. Chi abbia presente nella memoria quanto sicontiene finora in questo quarto libro, e particolarmentela verità illustrata in principio, che alla volontà di vivereè assicurata ognora la vita stessa, qual semplice immagi-ne e specchio di lei – quegli troverà che, conformementealle considerazioni fatte, il rimorso non può avere altrosignificato se non questo che ora seguirà. Ossia, il suocontenuto, astrattamente espresso, è il seguente, nel qua-le si distinguono due parti, che nondimeno devono daultimo essere riunite e pensate come affatto congiunte.

Per quanto fitto sia il velo di Maja che avvolge l'ani-mo del malvagio, ossia per quanto chiusa sia la prigio-nia di lui nel principio individuationis, in virtù del qualeegli tiene la propria persona come distinta assolutamen-te, e da ogni altra separata mediante un ampio abisso, laqual cognizione, perché è la sola conforme al suo egoi-smo e ne forma il sostegno, egli tien ferma con tutta for-za, essendo quasi sempre la cognizione corrotta dallavolontà, si agita tuttavia nell'intimo della sua coscienzal'occulta sensazione, che un siffatto ordine di cose sianondimeno nient'altro che fenomeno; e che in sé la cosasia tutt'altra. Dividano pur tempo e spazio lui medesimoda altri individui e dai tormenti inenarrabili ch'essi sof-frono, anzi per cagion sua soffrono, e veda egli pur co-storo come affatto stranieri a lui medesimo, tuttavia èl'unica volontà di vivere che in sé, prescindendo dallarappresentazione e dalle sue forme, in essi tutti si pale-

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smo, o malvagità pura; e secondo il tempo della sua du-rata si chiama breve rimorso o duratura angoscia dellacoscienza. Chi abbia presente nella memoria quanto sicontiene finora in questo quarto libro, e particolarmentela verità illustrata in principio, che alla volontà di vivereè assicurata ognora la vita stessa, qual semplice immagi-ne e specchio di lei – quegli troverà che, conformementealle considerazioni fatte, il rimorso non può avere altrosignificato se non questo che ora seguirà. Ossia, il suocontenuto, astrattamente espresso, è il seguente, nel qua-le si distinguono due parti, che nondimeno devono daultimo essere riunite e pensate come affatto congiunte.

Per quanto fitto sia il velo di Maja che avvolge l'ani-mo del malvagio, ossia per quanto chiusa sia la prigio-nia di lui nel principio individuationis, in virtù del qualeegli tiene la propria persona come distinta assolutamen-te, e da ogni altra separata mediante un ampio abisso, laqual cognizione, perché è la sola conforme al suo egoi-smo e ne forma il sostegno, egli tien ferma con tutta for-za, essendo quasi sempre la cognizione corrotta dallavolontà, si agita tuttavia nell'intimo della sua coscienzal'occulta sensazione, che un siffatto ordine di cose sianondimeno nient'altro che fenomeno; e che in sé la cosasia tutt'altra. Dividano pur tempo e spazio lui medesimoda altri individui e dai tormenti inenarrabili ch'essi sof-frono, anzi per cagion sua soffrono, e veda egli pur co-storo come affatto stranieri a lui medesimo, tuttavia èl'unica volontà di vivere che in sé, prescindendo dallarappresentazione e dalle sue forme, in essi tutti si pale-

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sa; ella è, che se stessa disconoscendo, contro sé volgele proprie armi; e mentre cerca con un dei propri feno-meni un maggiore benessere, perciò appunto infligge aun altro il maggior dolore. E l'uomo malvagio è perl'appunto codesta volontà tutta intera, sì ch'ei viene a es-sere non solo il tormentatore, ma anche il tormentato,dal cui dolore egli è separato e si crede libero sol me-diante un sogno illusorio, che ha per forma il tempo e lospazio. Ma il sogno svanisce; ed egli, per forza della ve-rità, deve il piacere pagare col dolore; tutta la sofferenzach'egli conosce solo in quanto possibile, lui colpisce ef-fettivamente, in quanto egli è volontà di vivere; impe-rocché sol per la conoscenza individuale, solo per virtùdel principii individuationis, e non già in sé, sono distin-te possibilità e realtà, lontananza e vicinanza di tempo edi spazio. È questa la verità, che miticamente, ossia con-formata al principio di ragione e tradotta con ciò nellaforma del fenomeno, viene espressa dalla dottrina dellamigrazione delle anime: ma la sua espressione più purada ogni mescolanza l'ha per l'appunto in quell'angosciaoscuramente sentita, eppure inconsolabile, che si chiamarimorso. Ma questo procede inoltre da una seconda, im-mediata conoscenza, con quella prima esattamente con-giunta: ossia dalla conoscenza del vigore, con cuinell'individuo malvagio la volontà di vivere si afferma;vigore che va ben oltre l'individuale fenomeno di lui,fino alla completa negazione della medesima volontà ri-velantesi in altri individui. Quindi l'interno orrore delmalvagio per la sua propria azione, orrore ch'ei cerca di

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sa; ella è, che se stessa disconoscendo, contro sé volgele proprie armi; e mentre cerca con un dei propri feno-meni un maggiore benessere, perciò appunto infligge aun altro il maggior dolore. E l'uomo malvagio è perl'appunto codesta volontà tutta intera, sì ch'ei viene a es-sere non solo il tormentatore, ma anche il tormentato,dal cui dolore egli è separato e si crede libero sol me-diante un sogno illusorio, che ha per forma il tempo e lospazio. Ma il sogno svanisce; ed egli, per forza della ve-rità, deve il piacere pagare col dolore; tutta la sofferenzach'egli conosce solo in quanto possibile, lui colpisce ef-fettivamente, in quanto egli è volontà di vivere; impe-rocché sol per la conoscenza individuale, solo per virtùdel principii individuationis, e non già in sé, sono distin-te possibilità e realtà, lontananza e vicinanza di tempo edi spazio. È questa la verità, che miticamente, ossia con-formata al principio di ragione e tradotta con ciò nellaforma del fenomeno, viene espressa dalla dottrina dellamigrazione delle anime: ma la sua espressione più purada ogni mescolanza l'ha per l'appunto in quell'angosciaoscuramente sentita, eppure inconsolabile, che si chiamarimorso. Ma questo procede inoltre da una seconda, im-mediata conoscenza, con quella prima esattamente con-giunta: ossia dalla conoscenza del vigore, con cuinell'individuo malvagio la volontà di vivere si afferma;vigore che va ben oltre l'individuale fenomeno di lui,fino alla completa negazione della medesima volontà ri-velantesi in altri individui. Quindi l'interno orrore delmalvagio per la sua propria azione, orrore ch'ei cerca di

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celare a se stesso, contiene, oltre quel vago sentimentodella nullità e della pura apparenza sì del principio di ra-gione sì della distinzione, ch'esso mette tra lui e gli altri,contiene, dico, in pari tempo anche la cognizione dellaviolenza della propria volontà, dell'impeto con cui que-sta ha ghermito la vita, e l'ha succhiata. Questa vita ap-punto, di cui egli vede la faccia orrenda nell'angoscia dichi è da lui oppresso; e con la quale è nondimeno cosìstrettamente avvinto, che perciò appunto il più tristo or-rore proviene da lui medesimo, qual mezzo per la com-piuta affermazione della sua propria volontà. Egli si ri-conosce come concentrato fenomeno della volontà di vi-vere, sente fino a qual punto ei sia in potere della vita, equindi anche degli innumerabili dolori, che a questasono essenziali, avendo essa infinito tempo e infinitospazio per cancellare il divario tra possibilità e realtà, etutti i mali da lui per ora sol conosciuti convertire inmali provati. I milioni d'anni delle continue rinascitesussistono in verità soltanto nel concetto, come soltantonel concetto esistono tutto il passato ed il futuro: il tem-po realmente pieno, la forma del fenomeno della volon-tà è solo il presente, e per l'individuo è il tempo ognoranuovo: egli si ritrova sempre come nato allora. Imperoc-ché dalla volontà di vivere è inseparabile la vita, e suaunica forma è l'adesso. La morte (mi si scusi la ripeti-zione del paragone) somiglia al tramonto del sole, ilquale solo in apparenza viene inghiottito dalla notte,mentre in realtà, esso ch'è sorgente unica d'ogni luce,senza interruzione arde, a nuovi mondi reca nuovi gior-

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celare a se stesso, contiene, oltre quel vago sentimentodella nullità e della pura apparenza sì del principio di ra-gione sì della distinzione, ch'esso mette tra lui e gli altri,contiene, dico, in pari tempo anche la cognizione dellaviolenza della propria volontà, dell'impeto con cui que-sta ha ghermito la vita, e l'ha succhiata. Questa vita ap-punto, di cui egli vede la faccia orrenda nell'angoscia dichi è da lui oppresso; e con la quale è nondimeno cosìstrettamente avvinto, che perciò appunto il più tristo or-rore proviene da lui medesimo, qual mezzo per la com-piuta affermazione della sua propria volontà. Egli si ri-conosce come concentrato fenomeno della volontà di vi-vere, sente fino a qual punto ei sia in potere della vita, equindi anche degli innumerabili dolori, che a questasono essenziali, avendo essa infinito tempo e infinitospazio per cancellare il divario tra possibilità e realtà, etutti i mali da lui per ora sol conosciuti convertire inmali provati. I milioni d'anni delle continue rinascitesussistono in verità soltanto nel concetto, come soltantonel concetto esistono tutto il passato ed il futuro: il tem-po realmente pieno, la forma del fenomeno della volon-tà è solo il presente, e per l'individuo è il tempo ognoranuovo: egli si ritrova sempre come nato allora. Imperoc-ché dalla volontà di vivere è inseparabile la vita, e suaunica forma è l'adesso. La morte (mi si scusi la ripeti-zione del paragone) somiglia al tramonto del sole, ilquale solo in apparenza viene inghiottito dalla notte,mentre in realtà, esso ch'è sorgente unica d'ogni luce,senza interruzione arde, a nuovi mondi reca nuovi gior-

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ni, in ogni attimo si leva e in ogni attimo tramonta. Prin-cipio e fine toccano solo all'individuo, per mezzo deltempo, forma del fenomeno individuale per la rappre-sentazione. Fuori del tempo non è che la volontà, la cosain sé di Kant, e la sua adeguata oggettità, ossia l'idea diPlatone. Perciò non dà il suicidio salvazione di sorta: ciòche ciascuno nel suo più intimo vuole, ciò deve egli es-sere: e ciò che ciascuno è, ciò appunto egli vuole. Quin-di accanto alla cognizione soltanto sentita della pura ap-parenza e della nullità delle forme della rappresentazio-ne, per cui vengono distinti gli individui, gli è l'autoco-gnizione della propria volontà e del suo grado quellache dà pungolo alla coscienza. Il corso vitale producel'immagine del carattere empirico, di cui è originale ilcarattere intelligibile, ed il malvagio ha orrore di questaimmagine: sia essa tracciata a grosse linee, sì che ilmondo partecipi al suo proprio orrore, o sia tracciata in-vece in linee così sottili, ch'egli solo le veda: che lui uni-camente essa immagine tocca in modo immediato. Ilpassato sarebbe indifferente, come semplice fenomeno,e non potrebbe angustiare la coscienza, se il caratterenon si sentisse sciolto da ogni tempo e, attraverso iltempo, immutabile, finch'esso non abbia rinnegato semedesimo. Perciò azioni commesse anche da gran pezzopesano pur sempre sulla coscienza. La preghiera: «Nonm'indurre in tentazione», significa: «Non lasciarmi ve-dere che io mi sia». Dalla forza, con cui il malvagio af-ferma la vita, e che gli si manifesta nei dolori da lui in-flitti ad altri, egli misura quanto lontane siano da lui ap-

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ni, in ogni attimo si leva e in ogni attimo tramonta. Prin-cipio e fine toccano solo all'individuo, per mezzo deltempo, forma del fenomeno individuale per la rappre-sentazione. Fuori del tempo non è che la volontà, la cosain sé di Kant, e la sua adeguata oggettità, ossia l'idea diPlatone. Perciò non dà il suicidio salvazione di sorta: ciòche ciascuno nel suo più intimo vuole, ciò deve egli es-sere: e ciò che ciascuno è, ciò appunto egli vuole. Quin-di accanto alla cognizione soltanto sentita della pura ap-parenza e della nullità delle forme della rappresentazio-ne, per cui vengono distinti gli individui, gli è l'autoco-gnizione della propria volontà e del suo grado quellache dà pungolo alla coscienza. Il corso vitale producel'immagine del carattere empirico, di cui è originale ilcarattere intelligibile, ed il malvagio ha orrore di questaimmagine: sia essa tracciata a grosse linee, sì che ilmondo partecipi al suo proprio orrore, o sia tracciata in-vece in linee così sottili, ch'egli solo le veda: che lui uni-camente essa immagine tocca in modo immediato. Ilpassato sarebbe indifferente, come semplice fenomeno,e non potrebbe angustiare la coscienza, se il caratterenon si sentisse sciolto da ogni tempo e, attraverso iltempo, immutabile, finch'esso non abbia rinnegato semedesimo. Perciò azioni commesse anche da gran pezzopesano pur sempre sulla coscienza. La preghiera: «Nonm'indurre in tentazione», significa: «Non lasciarmi ve-dere che io mi sia». Dalla forza, con cui il malvagio af-ferma la vita, e che gli si manifesta nei dolori da lui in-flitti ad altri, egli misura quanto lontane siano da lui ap-

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punto la rinunzia e la negazione di quella volontà, chesono l'unica redenzione possibile dal mondo e dal suomale. Vede, fino a che punto egli al mondo appartieneed è con esso avvinto: il conosciuto dolore altrui non ègiunto a scuoterlo: della vita e del dolore direttamenteprovato egli è in pieno potere. Tralasciamo per ora divedere, se questa diretta prova infrangerà e vincerà laviolenza del suo volere.

Quest'illustrazione del valore e dell'intima essenza delmalvagio, la qual sol come sentimento, ossia non comechiara, astratta conoscenza, è il contenuto del rimorso,acquisterà ancor maggior limpidità e compiutezza me-diante l'analisi, condotta nel medesimo modo, del buo-no, come proprietà dell'umano volere; e poi, da ultimo,della rassegnazione e santità, la quale proviene da quellaproprietà, quand'essa ha raggiunto il grado più alto. Im-perocché i contrari s'illuminano sempre vicendevolmen-te, e il giorno rivela insieme se medesimo e la notte, se-condo ha detto eccellentemente Spinoza.

§ 66.Una morale senza fondamento, ossia un semplice mo-

raleggiare, non può aver effetto, perché non forniscemotivi. Ma una morale che dia motivi, può farlo solocon l'agire sull'amore di sé. Ed il frutto di codesto amorenon ha alcun valore morale. Ne deriva, che per la viadella morale, e della conoscenza astratta in genere, nes-suna genuina virtù può essere prodotta; bensì questa

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punto la rinunzia e la negazione di quella volontà, chesono l'unica redenzione possibile dal mondo e dal suomale. Vede, fino a che punto egli al mondo appartieneed è con esso avvinto: il conosciuto dolore altrui non ègiunto a scuoterlo: della vita e del dolore direttamenteprovato egli è in pieno potere. Tralasciamo per ora divedere, se questa diretta prova infrangerà e vincerà laviolenza del suo volere.

Quest'illustrazione del valore e dell'intima essenza delmalvagio, la qual sol come sentimento, ossia non comechiara, astratta conoscenza, è il contenuto del rimorso,acquisterà ancor maggior limpidità e compiutezza me-diante l'analisi, condotta nel medesimo modo, del buo-no, come proprietà dell'umano volere; e poi, da ultimo,della rassegnazione e santità, la quale proviene da quellaproprietà, quand'essa ha raggiunto il grado più alto. Im-perocché i contrari s'illuminano sempre vicendevolmen-te, e il giorno rivela insieme se medesimo e la notte, se-condo ha detto eccellentemente Spinoza.

§ 66.Una morale senza fondamento, ossia un semplice mo-

raleggiare, non può aver effetto, perché non forniscemotivi. Ma una morale che dia motivi, può farlo solocon l'agire sull'amore di sé. Ed il frutto di codesto amorenon ha alcun valore morale. Ne deriva, che per la viadella morale, e della conoscenza astratta in genere, nes-suna genuina virtù può essere prodotta; bensì questa

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