Rada Ivekovic. La Balcanizzazione Della Ragione

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m o il IVENOVIC

LA BALCANIZZAZIONE D ELLA RAGIONE

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© 1995 manifestolibri srl via Tomacelli 146 - Roma

Traduzione: M. Angelucci, A. Di Genova, K. Höppnes, M. Naja, P. Virno

Prima edizione Discount manifestolibri luglio 1999

ISBN 88-7285-176-9

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INDICE

Introdu2Ìone. Dopo oltre tre anni di guerra 7

Pluralità delle culture e democrazia 13

Nazioni, nazionalità, nazionalismi 19

Riflessioni in margine alla guerra europea del 1992 31

La civiltà della morte 49

Nazioni e ragioni 69

Il soggetto 83

La nuova democrazia. Con le donne o senza di loro? 97

Le donne, il nazionalismo e la guerra 121

In nome di una storia più antica 141

Memorie cancellate 145

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DOPO OLTRE TRE ANNI DI GUERRA

L ’otto marzo del 1988, quando già nuvole minacciose incombevano sul mio paese, divenuto nel frattempo i miei paesi, pubblicavo nel settimanale allora indipendente di Zaga­bria, Danas, la mia rubrica della settimana intitolata «Compa­trioti transrepubblicani». La rileggo oggi come premonitrice. Vi si trovava già l’angoscia e il presentimento di quello che sarebbe potuto accadere, così come quella scelta a favore della tolleranza che non avrebbe avuto corso negli sviluppi succes­sivi. Gli eventi non ci hanno sostenuto, noi non nazionalisti. La lacerazione era già profonda.

Continuo a credere che allora non fosse ancora irrepa­rabile. In ogni modo non è stata ricucita, ma approfondita da tutti; e oltre ai fattori interni jugoslavi del momento, l’incapa­cità della comunità internazionale (o delle diverse comunità internazionali) ha contributo violentemente a mantenerla e allargarla dall’esterno.

Oggi, la situazione è la seguente: dopo oltre tre anni di guerra, la Serbia (aggressore principale) e la Croazia (aggres­sore più modesto) si fanno la guerra sul e per il territorio bosniaco. La comunità internazionale (l’Europa che attraver­so questo processo si costruisce come soggetto politico e per cui questa guerra, come altre, è costitutiva; le Nazioni unite; la Nato; i paesi musulmani) sembra avere accettato definiti­vamente il principio di partizione della Bosnia-Erzegovina. E questo sembra valere anche per i negoziati condotti da Jimmy Carter.

I soli a non accettare questo sono gli abitanti stessi del­la Bosnia-Erzegovina, la popolazione civile di cui nessuno ha domandato il parere. E a non accettarlo sono anche quei post-jugoslavi che sono stati privati del loro precedente nome collettivo (jugoslavi) e che, senza essere nazionalisti di una parte o dell’altra, si vedono usurpata la propria vecchia iden­tità culturale e di cittadinanza dal grande aggressore che rivendica il nome di Jugoslavia. A non accettarlo sono, infi­

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ne, quelli, tra i bosniaci, che rifiutano una identificazione etnica o religiosa (che siano di origine cattolica, musulmanao ortodossa), come anche tutti quegli abitanti della ex Jugo­slavia che non accettano di definirsi sul piano «nazionale» sebbene siano stati forzatamente «definiti» dal punto di vista della loro cittadinanza, senza essere consultati.

Privare qualcuno del nome è pesante sul piano simbo­lico e materiale, che si tratti di individui o di gruppi, (si ricor­da la sostituzione dei nomi coi numeri nei campi di concen­tramento). È qualcosa che testimonia della volontà e dell’agi- re che si prefigge lo scopo di sterminare, di eliminare, l’indi­viduo o la collettività in questione. Nondimeno, la comunità internazionale ha accettato molto rapidamente questo princi­pio all’opera nello spazio jugoslavo.

Lo ha applicato, in un primo tempo, agli jugoslavi non nazionalisti che hanno perso così il loro nome e non sono mai stati riconosciuti come interlocutori, e poi, molto più concre­tamente e violentemente, in Bosnia-Erzegovina, collaborando con l’aggressore, soprattutto con quello principale, collabo­rando, in sostanza, al progetto e al principio di frammentazio­ne della Bosnia-Erzegovina.

Durante l ’evoluzione della guerra con i suoi diversi pia­ni di «pacificazione», la comunità internazionale non ha mai dato ascolto ai bosniaci trans-nazionali o trans-etnici (quanti eufemismi per non dire «razza»: nazionalità, etnia, religione), come non aveva prestato orecchio ai post-jugoslavi non nazio­nalisti. Nello stesso tempo, mettendolo con le spalle al muro, ha contribuito ad allontanare sempre di più il governo bosniaco dal modello transnazionale e multiculturale (che, tuttavia, ancor’oggi rappresenta d ’ufficio); questo attraverso una anticipazione e la creazione di sana pianta di un sedicente integralismo islamico in Bosnia-Erzegovina. In Occidente, per esempio, le forze bosmache vengono correntemente chiamate «le forze musulmane». Ciò appartiene ad un malessere gene­rale che si traduce in un allargamento su scala mondiale della demonizzazione dell’Islam. La crescita dell’integralismo (lad­dove si manifesta) non ne è che l’altra faccia, dovuta anch’es- sa a una risposta all’Occidente, o almeno al modello di modernizzazione che esso ha imposto al pianeta.

Oggi i russi bombardano Grozny in Cecenia. In occi­dente, pur inquietandosene, nondimeno lo si considera un affare interno russo. E non a caso: per troppo tempo questa

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ultima guerra nei Balcani è stata considerata come un affare interno jugoslavo, e in seguito serbo.

Una volta ammessi il principio della violenza e quello della conquista militare di territori non v’è più mezzo di fer­mare la violenza né l’occupazione di territori. E c’è da scom­mettere che l’incendio non si limiterà alla Bosnia e alla Cece- nia. Bisognava fermare la violenza (la guerra) in Jugoslavia fin dalle aggressioni in Slovenia e Croazia, e probabilmente anco­ra prima (tramite mezzi di sostegno economico, aiuti alla riconversione strutturale e politica). Bisognava prevenire la guerra in Bosnia-Erzegovina e, in ogni caso, fermarla, anche con la forza, ai suoi primi passi. Questo si doveva farlo non solo per conservare semplicemente la Jugoslavia o la Bosnia- Erzegovina, ma per il principio stesso, e perché, in fin dei conti, tutto questo costa già alla comunità internazionale assai più di quanto non le sarebbe costato un intervento all’inizio del conflitto. Poiché ne va almeno dell’Europa, oltre che della Bosnia o della Cecenia (e, presto o tardi, di altri paesi lontani ed esotici).

Tuttavia non c’è soluzione puramente militare, neanche massiccia. Ogni intervento militare che (presto o tardi - trop­po tardi, purtroppo) si rivelerà necessario, sarà insufficiente se non sarà preceduto, accompagnato e seguito da una solu­zione politica globale almeno per la regione balcanica. Ma oggi, più probabilmente mentre l ’incendio dilaga nello spazio euroasiatico, servirebbe una soluzione globale per tutti i paesi dell’Europa dell’Est. E mi spingerei addirittura oltre: ora che il processo si è messo irreparabilmente in moto, non vi sarà pace in Bosnia-Erzegovina, se non si risolverà il problema globale del rapporto Est-Ovest. Lo si credeva estinto con la guerra fredda, ma la guerra fredda ha lasciato il posto a una guerra guerreggiata. E ancora non basta: a lungo termine non si daranno soluzioni locali (Bosnia-Erzegovina, Cecenia, ecc.) senza una ridefinizione globale dei rapporti tra l’occidente e i paesi musulmani, fino al terzo mondo. Ma è di un ordine mondiale che qui stiamo parlando.

Non ci si può attendere da nessun gruppo di contatto negoziale che esso risolva il problema della Bosnia e porti la pace in questo paese, vittima in molteplici forme, perché la guerra in Bosnia è una guerra (almeno) europea. Iniziata come guerra d’aggressione locale, con le sue cause e i suoi istigatori interni a quello che era stato lo spazio jugoslavo, è

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divenuta una guerra europea nel momento stesso in cui l’Eu­ropa non si è assunta le sue responsabilità, rifiutando di capi­re che questa guerra andava costituendone l’assetto attraver­so un processo pagato col sangue delle popolazioni civili bosniache e l’esilio di centinaia di migliaia di ex jugoslavi.

La Bosnia-Erzegovina resisterà alla spartizione imposta dai suoi vicini e dalla comunità internazionale. La sua popo­lazione non accetterà la frammentazione. E in questo sarà sostenuta da tutto ciò che resta, nell’area jugoslava, di opi­nione pubblica e di individui democratici, antinazionalisti, oppositori della guerra (ma partigiani, per necessità, di una guerra difensiva e di liberazione). I bosniaci che si rifiutano di essere ridotti a musulmani, cattolici o ortodossi, incarna­no, nel nostro paese, quel nocciolo di resistenza con il quale molti tra noi si identificano. Essi rappresentano anche ciò che molti di noi hanno perso perdendo un paese comune (culturalmente, soprattutto), e che non è stato necessaria­mente rimpiazzato dagli stati indipendenti (con o senza vir­golette), che ci sono stati dati. Non vi sono ormai che i bosniaci che ci possano riunire; tutto il resto, tutti gli altri, ci separano, noi che siamo nati in uno stesso paese e portiamo oggi passaporti diversi. Le nuove frontiere tagliano in due le famiglie e attraversano ciascuno/a di noi incidendo una profonda ferita, una piaga che affligge tanto le collettività quanto gli individui.

Tutto ciò non ha niente a che vedere, né è questo il mio proposito, con un qualche desiderio di ripulitura o restaurazione del regime della fu Jugoslavia. Ma, anche così come era, (meritando delle analisi critiche che ancora manca­no), la Jugoslavia crollata nel 1991 era comunque assai migliore della guerra e di ciascuno dei regimi che avrebbero preso piede sul suo territorio. Non è più sufficiente che ci si prometta un futuro migliore, come ai tempi del socialismo; in passato è già stato meglio e tutto questo è stato distrutto.

All’origine della guerra jugoslava vi sono tanto cause interne che globali di crisi, e, certamente, un concorso di condizioni storiche: il crollo simbolico del muro di Berlino e, apparentemente, della dicotomia Est-Ovest (resta tutto da vedere...), l ’esaurirsi dei principii di legittimazione dei regimi dell’Est e, in particolare per la Jugoslavia, l ’esaurirsi della legittimazione fondata sulle conquiste antifasciste della seconda guerra mondiale e sull’ideologia operaia, ecc. Sul

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piano più specificamente interno si possono annoverare: il crollo politico strutturale e la sparizione, apparentemente improvvisa, della base economica comune (che riusciva a fronteggiare tutti i crediti internazionali, salvo, forse, quelli concessi da quanti fornivano e continuano a fornire armi e ideologia all’esercito, sempre meno federale, a cominciare dall’armata che fu rossa); il partito-stato che in Serbia possie­de, come bene ha mostrato la storica Latinka Perovic, radici anteriori ai comunisti, che risalgono al partito radicale (nazio­nal-popolare) del diciannovesimo secolo la complicità tra un vecchio patriarcato, radicato in profondità, la paura del­l’Occidente accompagnata dalla necessità contraddittoria di attribuirsi una identità occidentale moderna e la perdita di valori (precedenti) dovuta al crollo generale in cui il naziona­lismo si è insediato per occupare il vuoto ideologico; l’incon­sistenza degli intellettuali e l ’aggregazione di molti fra loro al carro del nazionalismo, offerta allettante dei nuovi dirigenti, seguita da una attiva collaborazione. Questa consiste in una sorta di rifondazione storica ottenuta tramite il rimaneggia­mento delle mitologie e l’elaborazione di una ideologia statal- nazionale, l’intento di offrire uno stato indipendente alla pro­pria nazione, elemento di grande rilievo in Serbia (il sogno assassino e suicida della Grande Serbia) e in Croazia, dove in un primo momento si è manifestato come semplice volontà di indipendenza dalla Serbia, poi come difesa dall’aggressione, infine come intento, pur camuffato, di spartire con la Serbia territori bosniaci2.

Il crollo della Jugoslavia (il minore dei mali in questa storia) è stato seguito quasi necessariamente dalla guerra (il peggiore dei mali). Il «quasi» discende dalla molteplicità di cause, fra cui quelle appena enumerate. Ma perché il quasi necessariamente prendesse effettivamente corpo ci sarebbe voluto il concorso di tutti gli elementi che attengono a quanto abbiamo chiamato la comunità internazionale, la quale non ha capito che in Bosnia-Erzegovina ne andava della propria sorte e non «solamente» del destino di quella terra.

L ’Europa continua a prendere forma, a ricostituirsi e ricostruirsi nel sangue, attraverso le sue frontiere dell’Est. Continua ad accettare che siano il conflitto, la violenza, la guerra a definirle, ad esserne costitutive. Bisogna davvero, una volta di più, aspettare che le bombe ci piovano sulla testa per capirlo? Appena all’inizio della guerra bosniaca, il gioraa-

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lista di Sarajevo Zlatko Dizdarevic diceva: «per la Bosnia- Erzegovina è forse troppo tardi, ma ancora non è troppo tardi per l’Europa». Permettendo la guerra e lo spadroneggiare dei terroristi ai suoi margini, tentando di trattenerli all’esterno, l’Europa si comporta come se attendesse per sé stessa la fata­lità del «troppo tardi».

Come spiegare questo accecamento, se non con l’as­senza stessa di un soggetto politico Europa, quel soggetto che, in effetti, si costituisce solo attraverso questa violenza e, per questo, non può e/o non vuole giudicarla?

I testi qui raccolti, pubblicati nel corso degli anni della guerra jugoslava contemporanea, registrano le tribolazioni nella riflessione di un soggetto coinvolto, non quelle di uno specialista della questione jugoslava. Essi seguono le tappe di questa guerra e alcuni dei fenomeni che vi hanno condotto o che la hanno alimentata. Nel corso del tempo, l ’interesse è impercettibilmente scivolato verso la Bosnia-Erzegovina, focolaio della crisi attuale. In fin dei conti, questi scritti testi­moniano di una impotenza che si trasforma in disperazione, poi di una disperazione che si trasforma in rabbia e in volontà di resistenza e che, un giorno, grazie a molti individui e collet­tività che la manifesteranno, si trasformerà, forse, in forza. La forza di sostenere una Sarajevo, libera, unita e luogo di citta­dinanza, una Bosnia-Erzegovina libera, unita e luogo di citta­dinanza, per rifiutare la spartizione, l’apartheid, la guerra e la distruzione, ovunque esse compaiano.

Parigi, dicembre 1994

NOTE

1 Vedere l’intervista «Modernizzazione senza modernità», rila­sciata da L atinka P erovic a Olivija Rusovac in Republika, n. 103, p p . 5-6, novembre 1994, Belgrado.

2 Vedere a questo proposito il testo di Josip Zupanov pubblicato in Gospodarstvo, n. 63, settembre 1994 e ripreso in Republika, n. 103. Egli vi avanza l’ipotesi, assai plausibile per la Croazia, della sostituzione dell’i­dea di «interesse storico» della classe operaia con una ideologia statal- nazionale eretta a principio di legittimazione (e mostra, in effetti come il termine radnik, «operaio», sia stato oggi rimpiazzato dal termine djelat- rtik, «operatore»).

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PLURALITÀ DELLE CULTURE E DEMOCRAZIA

Sono jugoslava: una specie in via di estinzione. Le ori­gini etniche, vere o immaginarie, come pure le appartenenze religiose, dimenticate o occultate per molto tempo, vengono ora esibite con fierezza. Ho sempre abitato a Zagabria, al numero 5 di Piazza delle Vittime del Fascismo. Ma il nuovo potere croato ha deciso di cambiare il nome a questa piazza, infischiandosene delle migliaia di firme raccolte in segno di protesta per la designazione prescelta: Piazza dei Sovrani Croati. Il centro della piazza è occupato da un padiglione rotondo, il museo della Rivoluzione: più che un semplice tra­sferimento, su di esso incombe la minaccia di liquidazione totale. Prima che sia smantellato, andrò lì a cercare foto e documenti di guerra: i miei genitori e i loro familiari sono stati partigiani, qualcuno ci ha lasciato la pelle. Di fronte al mio palazzo, nel luogo in cui oggi (ironicamente) è situata la casa dello studente, c’era la polizia fascista. Mia madre ci passava davanti con mio fratello bambino, nel tentativo di scorgere mio padre prigioniero attraverso le finestre del seminterrato.

I regimi cancellano la memoria, istituiscono per decre­to un’altra storia: siamo all’ora zero dell’anno uno.

II processo di disintegrazione della Jugoslavia è stato caratterizzato dai nazionalismi, dagli sciovinismi feroci e accaniti di tutte le parti in campo. Abbiamo eletto «democra­ticamente» governi di estrema destra. Non difendo Y ancien regime socialista. E morto e sepolto. Il punto è un altro: sia­mo preda di ideologie retrograde, aberranti, sul piano storico procediamo a marcia indietro. E necessario andare a ritroso per potere avanzare? Infine, e nonostante tutto, ha ancora un senso parlare di Storia?

Idee e politiche reazionarie discriminatorie, nonché totalitarie e dogmatiche, hanno ripreso piede tra noi con tan­to più vigore, quanto meno si era sviluppata un’autentica democrazia, un minimo di individualismo e di opinione pub­blica. Non si è tardato ad abbracciare impunemente ogni sorta di programma nazionalista, razzista, fascista, misogino:

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un fenomeno senza precedenti.Tutto questo valga a introdurre una riflessione che

vorrebbe mettere in rapporto la necessità storica con un cer­to nichilismo o pensiero debole contemporaneo (penso a Gianni Vattimo, ma anche ad altri). Vattimo parla della fine di quella storicità che sarebbe il nostro destino, non di fine della storia. Il fatto di detronizzare la Storia dal suo rango di regina delle scienze occidentali è legato alla difficoltà di sta­bilire un fondamento ontologico. Occorrerebbe dunque accettare un’ontologia debole.

Vattimo cerca di mettere a fuoco un concetto nichilista di democrazia. La democrazia sarebbe la storia del venir meno delle fondazioni. Questo venir meno coincidere’bbe con l’emancipazione, che passa attraverso una demitologizza- zione. Il potere non è più centralizzato né concentrato in un luogo (ciò che Foucault aveva già diagnosticato), e la lotta per la nuova microdemocrazia deve adattarsi alla situazione: le lotte locali prevarranno sulla guerra totale: l’obiettivo non è più centrale, ma diffuso.

Viene spontaneo rimproverare a Vattimo, come del resto a Jean-François Lyotard, un relativismo dei valori che ci lascia nell’impossibilità di decidere chi tra i deboli meriti aiuto e perché. E questo il rimprovero rivolto dal pensiero marxista, e non lo trovo del tutto infondato: in effetti il rela­tivismo suscita problemi, soprattutto in etica. Senonché, io vorrei fissare l ’attenzione su un nodo in qualche modo preli­minare all’etica: quello dell’identificazione e dell’istituzione delle differenze. Ritorno al mio esempio jugoslavo: ogni nazione decide di autolegittimarsi pretendendo di non tener conto delle altre. I dirigenti croati vanno in giro per il mondo ripetendo che Serbi e Croati appartengono a «civiltà» diffe­renti! I movimenti nazionalisti, più o meno intensamente tali a seconda che siano al potere o all’opposizione, che ora riem­piono quasi tutta la scena politica, si fanno concorrenza esi­gendo per il loro «Stato», per la loro «Nazione», il massimo di sovranità possibile. Il ritornello è lo stesso in Serbia, in Croazia, in Slovenia, in Macedonia: non abbiamo niente a che vedere con gli altri, che sono tutti dei primitivi e perico­losi criminali di guerra, o dei sottosviluppati; il solo modo di proteggerci da loro è di rientrare in quella Europa cui solo noi veramente apparteniamo e di liberarci da questo abbrac­cio «fraterno» e di affermare la sovranità dello Stato croato

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(o serbo, o sloveno), nel quale la nazione croata (o serba, o slovena) sarà sovrana richiamandosi alle sue «origini millena­rie»: il sangue, la cultura, la tradizione dei suoi antenati (sem­pre maschili, sia detto per inciso). I discorsi di questi nazio­nalismi sono esattamente gli stessi, solo il segno varia. Tra l ’uno e l’altro non v’è connessione se non, come direbbe Lyotard, attraverso la negazione. Tutti questi discorsi suona­no ugualmente assurdi, o ugualmente plausibili, ma, nel secondo caso, ciascuno a esclusione di ogni altro. Ciò suscita problemi, giacché questa specie di ragionamento si fonda sulla contrapposizione esasperata. Una volta che questa si dissolvesse, cosa resterebbe? Apparentemente, tutto sarebbe andato a posto se i diversi stati jugoslavi, come amano chia­marsi ora, fossero stati uninazionali.

Ora è chiaro che il preteso fondamento di ogni nazione jugoslava risiede nel «nemico». E come dire che l’identità nazionale serba, o croata, o altra ancora, non ha svabhàva (per riprendere il concetto del filosofo buddista indiano Nâgârdjuna, vissuto tra il primo e il secondo secolo). Non meno di Vattimo o di Lyotard, Nâgârdjuna sarebbe favorevo­le a una ontologia debole. Il fatto che una «(id)entità» sia pri­va di natura propria (svabhàva), il fatto che essa debba far conto sull’altra per affermarsi, ha per risultato un niente deontologizzante, che non rientra in un nichilismo affermati­vo, appartenendo piuttosto a un nichilismo contemplativo, impegnato nella riduzione noematica, che spesso è più como­do chiamare relativismo. Per dirla in sanscrito, si tratta di un nichilismo la cui realizzazione o la cui coscienza (nel senso di awareness) avrebbe per esito la prajnà (evidenza diretta) anzi­ché la vijhàna (coscienza mediata).

Ecco ciò che mi rallegra: anche gli sciovinismi non jugoslavi restano senza fondamento.

La Storia non è finita. Perché l ’assenza di fondazione (attraverso l’atto stesso di una «fondazione» etnica o nazionale - ma sappiamo da Michel Serres che la sola effettiva fondazio­ne consiste nell’assenza di fondazione) e la decomposizione della Jugoslavia non corrispondono in alcun modo a una democratizzazione. O forse bisogna pensare che ci si arriverà dopo un passaggio obbligato attraverso la guerra civile? Se così è, ci sarebbero molte correzioni da apportare allo schema della democratizzazione in quanto decomposizione delle fondazioni:

1. O reintrodurre non soltanto la Storia, ma forse

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anche la storicità. Ciò equivarrebbe a dire che il caso jugosla­vo, balcanico, non è inscrivibile nella post-istoria. Nella pre­istoria, allora, l ’assenza di fondazioni e la dispersione del potere non implicherebbero affatto la democrazia, quanto piuttosto una cieca repressione.

2. O affermare che il quadro concettuale proposto è troppo astratto per giudicare situazioni concrete. Soluzione fin troppo semplice.

3. O pretendere che l’assenza di fondazioni funzioni come democrazia solo quando è consapevole e riconosciuta (riconosciuta da tutti coloro che sono della partita). Si tratta di una pluralità di voci che dovrebbero riconoscersi recipro­camente, ammettendo che non vi è altra fondazione che que­sta. Il consenso comunicativo consisterebbe nell’accordarsi tutti sul fatto che il consenso non è davvero possibile: questo è ancora un metaracconto per Lyotard? Ciò che qui costitui­rebbe un problema per Lyotard, il metaracconto, non lo sarebbe per Nâgârdjuna. A giudizio di quest’ultimo, il meta- racconto sarebbe, come ogni proposizione al livello prece­dente, squalificato e di fatto eliminato dal suo contrario (e viceversa). Questo gesto ancora filosofico di Nâgârdjuna non cerca di oltrepassare il pensiero, ma piuttosto di smontarlo. Evidentemente, le preoccupazioni di Nâgârdjuna sono pura­mente logiche e analitiche, non sociali o politiche come quel­le dei nostri contemporanei. Il risultato è, però, una impossi­bilità di pronunciarsi sullo statuto ontologico delle cose.

4. Per qualificare il caso jugoslavo potrei anche, mi sembra, tornare a Vattimo, al suo discorso sui livelli storico­umanitari di tolleranza. Suppongo che Lyotard pensi qualco­sa di analogo allorché non riesce a (o rifiuta di) fondare teo­ricamente la sua preferenza per i «deboli».

Vorrei pertanto far valere un caso di «livello umanita­rio di tolleranza» che si potrebbe quasi rinunciare a chiamare «storico» (secondo una concezione più tradizionale della Storia), tanto esso sembra immutabile e valevole in tutti i casi particolari di ingiustizia. Si tratta delle donne. A tal proposi­to, ci sono differenze ben più complicate o fondamentali di quanto non siano quelle tra Serbi e Croati.

La situazione contemporanea in Jugoslavia definisce o inventa e rende assolutamente prioritarie le pretese differen­ze etnico-internazionali: si reinventano barriere esteriori e interiori. In un paese in cui tutti vivono mescolati da sempre,

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la «sovranità» ha il suo punto di appoggio in una identità nazionale che esclude le altre (e guai a chi non ha alcuna pre­tesa territoriale: al pari degli infelici zingari, costui sarà dimenticato): la nazione avrà la meglio sull’individuo, sul cit­tadino, sul genere (la differenza sessuale) eccetera.

La costitutiva pluralità delle culture non significa ancora democrazia. La democrazia non può avere un segno distintivo nazionale. Non può essere serba o croata o francese: semplice- mente è o non è. La pluralità non le basta. La molteplicità di voci, racconti regionali e ragioni (Lyotard) non è di per se stes­sa democratica. Potrebbe essere anche l’opposto.

Vi è poi un’altra fondamentale e più elementare ragio­ne per dire che non conosciamo un’autentica democrazia: questa è un concetto radicato in una tradizione che ha sem­pre escluso metà del genere umano, e continua a escluderlo.

Come le altre «minoranze», per esempio gli albanesi jugoslavi agli occhi dei nazionalisti serbi, o i serbi agli occhi dei nazionalisti croati, la donna avrebbe diritto alla democrazia (e, nel migliore dei casi, vi sarebbe rappresentata) solo se potesse provare la sua appartenenza alla specie umana secondo il modello maschile (o serbo, o...). Ma ciò è sempre impossibile da provare per chi, in quello stesso contesto, è ammesso solo in quanto è assente: in quel contesto che esclude.

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NAZIONI, NAZIONALITÀ, NAZIONALISMI

Ci sentiamo impotenti e sconvolti davanti all’esplosio­ne dei nazionalismi, soprattutto davanti alla loro ampiezza nell’Europa dell’Est, che si appresta a diventare l’Est del­l’Europa. L ’Europa vi è immediatamente coinvolta. E in gio­co, nel nuovo risvegliarsi dei nazionalismi, brutale e minac­cioso, l ’identità stessa dell’Europa: essa è costretta a interro­garsi nuovamente su di sé, tanto più che questi avvenimenti si producono alla sua periferia, che ormai tende a volerla definire nel suo stesso centro. L ’Est dell’Europa rinvia al centro un’immagine di essa (dell’essere stesso dell’Europa, fino a ieri occidentale) che rischia di rovesciarla. L ’Europa è infatti messa a confronto insieme con se stessa e con l’Altro. L ’Altro dell’Europa, cioè il suo Est, mostra ora come non sia altro che l ’Altro dello stesso, cioè dell’Europa come si dava a vedere, come essa si autorappresentava.

L ’Europa si sdoppiava in realtà in due figure comple­mentari: l ’Altro dell’Europa e l’Europa stessa, propriamente detta '. Le guerre nazionaliste recenti o imminenti rendono trasparente, ora, il meccanismo di appropriazione del mondo che è insito nei suoi processi di rappresentazione.

Proponendosi al tempo stesso come identità (il se stes­so) e differenza (l’altro), come il se stesso e il riflesso specula­re di sé, l ’Europa in realtà propone un sistema concettuale per il mondo come lei lo vede. Un quadro in cui lei terrebbe tutte le posizioni chiave così come il loro contrario: il centro e la periferia, il diritto e il rovescio, ma non certo nello stesso modo. Essa propone una dinamica della sperimentazione del mondo di cui essa sarebbe all’origine.

Le figure dell’Altro (Altro dall’Occidente, Altro dal­l ’Europa) sono molteplici, appaiono in momenti storici diversi a seconda delle circostanze, ma sono sempre, in un modo o nell’altro, soggette ad essere escluse. Questa partico­lare figura dell’Altro, insieme interna ed esterna, non era apparente né particolarmente visibile all’Europa (occidenta­le) stessa fino a poco tempo fa. Accade dunque che l’Europa produca involontariam ente una dinam ica e delle

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«differenze» che le sfuggono. Le conosciamo bene le figure dell’Altro: la «donna» e l ’«Oriente», in particolare, sono volentieri sfruttate dai filosofi contemporanei. C ’è sempre una parte di investimento dell’inconscio nella figura dell’al­tro, c’è sempre in lui, in parte, un pericolo di emancipazione rispetto allo Stesso, e dunque di minaccia costante per lo stesso o per la sua chiara identità. La figura dell’Altro extra­europeo, orientale o altro, è una figura che turba l’Europa, che la mette in discussione. Si sarebbe potuto credere, soprattutto poiché numerosi filosofi contemporanei sono in preda a un nuovo orientalismo 2, che l’Altro orientale avreb­be scosso i fondamenti e l ’imperialismo concettuale dell’Eu­ropa. Ma la caduta del muro di Berlino ha messo in luce una figura dell’Altro parente della stessa Europa, l’Altro intraeu- ropeo, che era dapprima meno visibile e tenuto all’esterno. E dunque perché lui è più vicino e somigliante che l ’Europa sarà minacciata più profondamente. In effetti, questo Altro dell’Europa che è il suo Est, è una figura ambigua, che mette in gioco l’identità dell’intero continente: dov’è il confine tra Oriente e Occidente? In ogni punto (Ivo Andric ). Dov’è il confine tra l’Europa e l ’Asia in questa continuità rapprensen- tata dall’Eurasia, solo vero continente? E dov’è la differenza tra l’Est e l’Oriente? Non si è più sicuri che esista. L ’Altro europeo solleva la questione dell’Altro asiatico.

Alcuni filosofi occidentali hanno spesso visto una posi­tiva minaccia per l ’imperialismo bianco e occidentale nei nuovi soggetti politici: movimenti di liberazione del Terzo mondo, studenti del ’68, donne, Jugoslavia, Cina, Cuba ecc., queste e altre sono state le speranze teoriche e politiche dei filosofi impegnati. Le nazionalità dell’Europa dell’Est erano a stento previste in questo ruolo. Nondimeno esse affiorano, esplodono e si trovano a essere veri e propri soggetti politici benché in generale non siano viste con simpatia da una tradi­zione della sinistra intellettuale (e ci sono a questo proposito dei buoni motivi).

Ci sarebbe da fare l’analisi storica, che direbbe quanto l’esplosione dei nazionalismi sia la dimostrazione di un ritar­do storico (causato dalla repressione) e non rappresenti quin­di storicamente nulla di nuovo (questa assenza di progresso starebbe proprio a confermare il progredire della storia). Ma lascio queste discussioni a qualcuno più competente.

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IL NAZIONALISMO COME ASSENZA DI COMUNICAZIONE

Vorrei qui invece occuparmi d’altro: dell’idea stessa della dif­ferenza, del carattere manicheo del pensiero europeo e, in generale, occidentale. In questo senso, i nazionalismi nemici, sempre complementari e al tempo stesso inconciliabili, sono profondamente europei. Un nazionalismo ne chiama un altro, produce il nazionalismo opposto, ne ha bisogno per alimen­tarsi e sopravvivere. I nazionalismi stanno bene solo insieme, e «insieme» in questo caso vuol dire «in conflitto». Essi si costruiscono l’un l’altro, l’identità di ciascuno dipende da ciò che investe direttamente nell’identità dell’altro. In questo caso più che in altri, l’Altro non è se non l’Altro di se stesso, tanto più che si tratta, come in questa circostanza, non solo di «vicini» ma di parenti stretti, che parlano la stessa lingua.

Sull’altra nazionalità vengono sempre proiettati gli attributi più negativi che la nazionalità in questione, nella nuova mitologia che si crea di sana pianta, non vuole venga­no attribuiti a lei. L ’altro viene demonizzato, e lo stesso acca­de per l’inverso, si tratta di un caso di controversia irriducibi­le (Lyotard), dove entrambe le parti non accettano né una misura comune né un arbitraggio esterno: non ci sono meta- posizioni, né posizioni neutrali praticabili.

La posizione neutrale è, da ciascun fronte, assimilata a quella del nemico. Il linguaggio, o meglio la lingua che non comunica nulla, è spesso la stessa per le due parti, semplice- mente con i nomi scambiati, il discorso degli uni appare come il positivo rispetto al negativo del discorso degli altri. Esistono solo il bianco e il nero, nessuna sfumatura sembra più possibile. Si perde del tutto qualsiasi facoltà critica e ana­litica, qualsiasi spessore storico, compresa una reale com­prensione di quelle che sono le differenze in questione. Per­ché le differenze ostentate e rivendicate, chiaramente risento­no e vivono dell’immaginario e della mitologia rimaneggiati. Disgraziatamente esse producono anche la dimensione del simbolico, che, questo sì, incide sul futuro dei rapporti. Non sono più possibili lo scambio, la comunicazione.

Vorrei sapere, e mi pongo la questione a margine di questa riflessione, chi è concretamente responsabile dell’in­terruzione della comunicazione fra Belgrado e Zagabria.Non lo sapremo mai. È però evidente che ciò che è percepito dai nazionalismi come una delle maggiori minacce, è la libera

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comunicazione, la circolazione dell’informazione.Di qui la guerra dei media, altrettanto responsabile

delle atrocità che la guerra delle armi, di qui l’autismo in cui ogni nazionalismo, ormai incapace di discutere, si rinchiude. Il nazionalismo può definirsi come l’assenza della comunica­zione.

La mancanza assoluta di comunicazione, è la guerra, che è anche l’assenza assoluta di democrazia, l’assenza asso­luta di cultura. E nella guerra che l’individuo, lo voglia o no, è scavalcato da questa istanza «superiore» che è la nazione. Il pericolo del fascismo è immediato e senza transizione. Nes­sun accordo è più possibile, perché l’accordo implicherebbe il tacito riconoscimento di una possibile metaposizione, di un sistema comune (imposto da qualcuno). O meglio, esiste un solo paradossale accordo possibile, che è l’accordo sull’as­senza di accordo: la controversia.

E il parossismo dell’autismo. Un accordo, se ancora fosse possibile, testimonierebbe di un potere e un giudizio unilaterale che nessuno, in questo frangente, riconosce più. Per questo ognuna della parti propone il suo accordo, quello che le conviene ma che non può essere accettato dall’altra parte, poiché il posto che vi si propone all’altro è un posto di subordinato o di schiavo.

Il sedicente accordo proposto è così una falsificazione, perché non fa che giustificare in anticipo le ingiustizie pro­poste. Ognuno diffida dell’accordo proposto dall’altro, sapendo che è falso.

Ulteriori miglioramenti proposti nell’ambito di uno degli accordi non sono più accettabili, anche se vanno incon­tro all’Altro - alla richiesta del quale si è dovuto cedere -, perché la fiducia era già preliminarmente perduta. Allora, nel disegno di mitizzare la storia per un uso futuro, è l ’altra nazionalità ad essere accusata di quelle stesse atrocità di cui lei ci accusa (e il principio non cambia se l’una è all’attacco e l’altra è costretta in difesa). La ragione, il criterio sono rim­piazzati da formule stereotipate: di esse, una potentissima immagine continuamente ripetuta è quella del sacrificio richiesto per la causa.

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IL «SACRIFICIO» PER LA SALVEZZA DELLA NAZIONE

Il sacrificio chiesto per la salvezza della nazione sembra essere diverso nel caso degli uomini e delle donne. Agli uomi­ni si chiede di far la guerra, di uccidere e di farsi uccidere. Alle donne, si chiede di partorire più figli possibile, di farsi da parte e, periodicamente ma secondo tradizioni molto diverse fra loro, le donne sono sottoposte alla «prova del fuoco» 3.

Il sacrificio (rituale e coltivato dalla tradizione, o seco­larizzato e dunque non avvertito come tale, come succede in Occidente) è in realtà un momento di fondazione, di rifonda­zione, e permette di rifarsi una verginità. Questo momento di autofondazione è prezioso perché permette al soggetto in divenire (ma solo se è maschio), di prendere in mano il pro­prio destino, di assumere un atteggiamento attivo, di liberar­si dell’oppressione precedente respingendola. Il sacrificio implica anche il recuperare il tempo, il padroneggiare la tem­poralità, la possibilità di sfuggire al tempo storicizzato. Ecco cosa dice Georges Bataille, un Bataille notevolmente nicciano (ma sono le sue argomentazioni che ci interessano in questa sede, non una discussione su Bataille), riguardo al tempo del sacrificio: «quel tempo fa entrare l’uomo direttamente nel movimento del mondo dell’esistenza concreta» A. Bataille si è interessato al tempo estatico in una prospettiva di salvezza o di fuga dalle costrizioni quali che siano. La sua concezione di trasgressione delle opposizioni, che si vuole diversa dalla sin­tesi hegeliana (alla quale resta comunque debitrice) ci interes­sa: infatti mette in campo le due opposizioni che si propone di superare in un’altra dimensione, in un tempo estatico che implica di necessità il sacrificio. Così, «il tempo estatico può trovarsi solo nella visione delle cose che il gusto del rischio puerile fa entrare nel campo delle apparenze: cadaveri, nudità, esplosioni, sangue versato, abissi, fulmine, sole...» 5. Tutto accade come se, a partire da questa posizione, la guerra fosse un tentativo per esorcizzare il tempo che ci imprigiona, come il sacrificio che, d’altra parte, affascina Bataille e con l’i­dea del quale il filosofo gioca. Al di là della sua ambiguità al riguardo, egli evoca con precisione ciò che rappresenta la guerra in termini di «cultura»: è il sacrificio purificatore, che rimuove il tempo, e dunque necessario alla costituzione del­l’identità tanatologica é. Così Bataille: «La guerra, nella misu­ra in cui è volontà di assicurare l’eternità di una nazione - la

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nazione che è sovranità ed esigenza d’inalterabilità, autorità del diritto divino e Dio stesso - rappresenta la disperata osti­nazione dell’uomo a opporsi alla potenza esuberante del tem­po e a trovare la sicurezza in una erezione immobile e vicina al più sterile sonno. Le nazioni e i militarismi rappresentano il tentativo di negare la morte riducendola alla componente di una gloria senza angosce. 1.

Ogni nazionalismo propone una teoria della salvezza, salvezza data da un’istanza superiore (la nazione, l ’etnia) con la quale identificarsi. Il meccanismo è lo stesso di quello del­le religioni: amarsi in Dio (o nella nazione, in un leader poli­tico), identificandosi con lui. Coloro che non si conformano a questa norma sono i disadattati, le minoranze, quelli che sono davvero minacciati: la donna, l’ebreo, lo straniero, ecc. Essi non condividono l’utopia dello stesso linguaggio, non condividono la stessa esperienza del mondo che è global­mente proposta e sulla quale si fonda la struttura globale del­l’oppressione.

I nazionalismi fanno appello al territorio e al sangue, all’essenza dell’etnia in qualche modo contaminata dall’Al­tro, e diffondono con queste idee una sorta di ultramateriali­smo e al tempo stesso di ultraspiritualismo, o più semplice- mente di essenzialismo primitivo e piatto che riduce la cultu­ra a un epifenomeno, invocandola e dandole dei tratti nazio­nali. (Riducendo la cultura, come d’altra parte la democrazia, a delle caratteristiche etniche, il nazionalismo diviene in realtà etnocida in quanto distruttore della cultura). Nella sua essenza il nazionalismo rifiuta lo scambio nel campo del materiale e dello spirituale.

IL RIFIUTO DELLA LOGICA MANICHEA

In questo scambio, se avvenisse, si potrebbe invece trovare un momento benefico e positivo: la continuità fra gli opposti, fra gli oppressori e gli oppressi, tra aggressori e aggrediti, tra serbi e croati, tra colonizzati e colonizzatori. Ma per poter prendere in considerazione la continuità, e l’in­teresse comune (che è quello della vita), bisogna anche capi­re il peso degli elementi psicologici, anche di massa. Basta far riferimento all’interiorizzazione della repressione, alla rimo­zione, anche al livello delle scelte di civilizzazione, come han­

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no potuto fare, ad esempio, Gandhi, Franz Fanon oppure, ai giorni nostri, Ashis Nandy 8, per rendersi conto della posta in gioco. Così Ashis Nandy ha potuto studiare l ’ampiezza della devastante interiorizzazione del complesso della colo­nizzazione e degli atteggiamenti dei coloni attraverso gli stes­si colonizzati. La letteratura della diaspora letteraria indianalo testimonia, come ad esempio Salman Rushdie 9 che non accetta più divisioni manichee e per il quale la speranza del mondo riposa su un «terzo», e che propone una mescolanza tra il carnefice e la vittima affinché cessi l’esclusione10.

Un gran numero di scrittori tra i migliori parla della necessità di superare il dualismo (che riporta sempre al monologo) per favorire l’intermediazione delle culture e del­le strutture psichiche. È uno sforzo che mira non soltanto a far rientrare i nuovi soggetti politici nel solo quadro storico e storicizzante proposto dal pensiero dominante (occidentale e, all’origine, europeo), ma anche a ristrutturare, trasformare questo quadro, proporne un altro. E non è un caso se è sem­pre più spesso la concezione del tempo e della storia unili­neare ad essere messa in discussione e capovolta da questa letteratura, dal momento che si tratta di scrittori fra le lingue, che partecipano a due o più codici culturali. Si tratta di una posizione (scomoda certo, ma quanto ricca!) intermedia fra due identità, di una posizione che si trova contemporanea­mente nelle due facce dello specchio. Rushdie quasi lo teo­rizza: vittime e carnefici, colonizzatori e colonizzati insieme rappresentano al tempo stesso la generazione dei figli di quelli che, nei paesi ex-coloniali, hanno preso il potere al momento dell’indipendenza e hanno tentato di instaurare un nuovo ordine. E dunque una generazione che non ha e che non avrà il potere (in questo essa si avvicina in qualche modo alla generazione che visse nel secondo dopoguerra in Euro­pa, dell’Est e dell’Ovest): era necessario che una generazione partecipe di due culture arrivasse alla scrittura. Si può dimo­strare, con i romanzi di Rushdie (e in particolare con Grimus e I figli della mezzanotte), che la struttura del racconto, lo svi­luppo delle concatenazioni, seguono la struttura delle cosmogonie indiane, mentre la sua visione del mondo che struttura le storie corrisponde alla cosmologia indiana. Ma molto esplicitamente, nel libro che porta questo titolo, Rush­die affronta il problema della vergogna, un complesso psico­logico proprio delle culture (ex-)coloniali e oppresse, votate

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a fare il confronto fra la cultura autoctona e quella della «metropoli». E allo stesso tempo un problema che attraversa il rapporto con la lingua e la scrittura. Si tratta di passare attraverso le lingue, di accettare immediatamente la lingua come traduzione. «Io sono fra l’altro uno nato sull’altro ver­sante», dice Rushdie: ci si perde qualcosa, ma qualcosa comunque si guadagna. Si tratta di demistificare la lingua dell’Altro, di esprimere in una lingua ciò che a lui è estraneo e insospettabile. In questa impresa, lo scrittore si «dà» alla lingua e a ciò che, in essa, resta inespresso. La scrittura e la traduzione si fondano sulla stessa insufficienza della traduzione/traslazione. Il limite dell’indicibile (takallouf) non sarà eliminato, sarà spostato, ma ciò contribuirà a chiarire il nostro soggetto da più prospettive. La scrittura incorpora la differenza, la attesta. Per comprendere una cultura, dice Rushdie, bisogna prestare attenzione a ciò che di essa resta intraducibile. E tutti gli scritti di Rushdie, di Naipaul e di molti altri testimoniano questo malessere e lo incorporano. È una letteratura che si è dedicata a superare la «vergogna» e l’infamia del confronto manicheo, del dualismo inculcato alle culture oppresse. A questo scopo, nei Versetti satanici, Rush­die getta le basi per una cultura transcontinentale, transna­zionale, nell’invenzione della tropicalizzazione di Londra. Il mondo di Rushdie non è affatto manicheo e ciò gli deriva dalla sua eredità indiana: noi tutti siamo attraversati dal bene e dal male. Lo scrittore e i suoi scritti incorporano questo paradosso esistenziale al quale tutti siamo votati.

DAL CONFLITTO INTERETNICO AL CONFLITTO INTERSOGGETTIVO

Vorrei citare a questo proposito Ashis Nandy: «Traen­do spesso ispirazione dalle tradizioni moniste delle loro reli­gioni, dai miti e dalle tradizioni alternative che hanno effetti­vamente saputo frenare (benché a loro volta non senza mali) la violenza fra gruppi umani e mettere dei limiti all’oggettiva- zione degli esseri viventi, le civiltà del Terzo Mondo hanno protetto con cura la concezione secondo la quale il male non può mai essere chiaramente definito, c’è sempre una conti­nuità tra l’aggressore e la vittima, liberarsi dall’oppressione non è soltanto liberarsi da un agente esterno di oppressione, ma è, in ultima analisi, liberarsi da una parte di se stessi. Una

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tale proposta può essere considerata come collaborazionismoo vigliaccheria; ma si può anche vederla come una corrente più umana del pensiero politico e sociale» n. Partendo da questa analisi, l’autore vede la scelta non violenta di Gandhi come un’alternativa al manicheismo: «Gandhi agiva come agisce chi è cosciente che i sistemi sono sinergici, che si muo­vono sulla base della concorrenza autodistruttrice e della sete del potere, del controllo e del maschilismo, costringendo le vittime dell’oppressione ad interiorizzare le norme del siste­ma, in modo tale che quando esse risultano vincitrici sui loro sfruttatori, ricostruiscono un sistema all’interno del quale prevalgono le norme precedenti. Così il suo concetto di non cooperazione diede alle vittime un nuovo scopo. Gandhi sot­tolineò che il fine dell’oppresso dovrebbe essere non quello di diventare un cittadino di prima classe del mondo dell’op­pressione, invece che essere al secondo o al terzo posto, ma di diventare cittadino di un mondo alternativo dove avrà la speranza di riconquistare l’autenticità umana. Egli diventa così uno che non partecipa al gioco degli oppressori» n. Così, dice ancora Nandy, «(Gandhi) ha sempre lottato per trasformare e spostare la lotta contro l’oppressione dal con­flitto interetnico al conflitto intersoggettivo» u.

Analogamente, il nazionalismo nemico non può mai essere una soluzione a un altro nazionalismo, benché questa sia la risposta più frequente. Insieme, non possono che pro­durre la guerra. Per liberarsi dal nazionalismo, bisognerebbe poter uscire dalla sua logica, non fomentarla a cominciare da se stessi. Se siamo obbligati a difenderci, non facciamolo in nome della nazionalità, ma in nome del diritto puro e sempli­ce alla difesa e aliavita.

«In effetti, si può affermare che la prassi gandiana rap­presenta lo sviluppo naturale e logico della critica sociale radi­cale, poiché insiste sul fatto che la continuità fra vittima, oppressore e osservatore deve realizzarsi nell’azione e che bisogna rifiutarsi di agire come se alcuni elementi in un sistema oppressivo fossero puri o non moralmente contaminati» 14, dice Ashis Nandy, continuando: «Così, nessuna di queste cate­gorie può dirsi pura. Così, anche quando una simile cultura si sfascia, l’atteggiamento psicologico del vittimismo e del privi­legio permane e produce una cultura seconda che solo appa­rentemente è indenne da violenza e oppressione. Non ricono­scere questo fatto conduce ineluttabilmente a collaborare con

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la violenza e l’oppressione nelle loro forme più sottili...» 15.L ’etnocentrismo verso il proprio passato è ben più

pericoloso che l’etnocentrismo dell’antropologo occidentale, dice Nandy, poiché quest’ultimo è solo un sintomo, mentre quello resta attivo ma nascosto: «i morti non si ribellano, e non possono smentire nulla» If’, dice ancora Nandy. Si è più facilmente ciechi di fronte al nazionalismo (o al razzismo) che si annida nel nostro ambiente che non a quello degli altri rivolto contro di noi.

È quindi necessario prendere le distanze dal proprio nazionalismo, se non altro per non essere vittime del nazionali­smo avversario, così da poter conservare lo spirito critico e le capacità di analisi e di percezione, per non essere ridotti al manicheismo guerriero. La comunicazione e l’interrelazione sono, dice ancora Nandy, ormai più augurabili dell’assenza di comunicazione, anche se rischiano di essere accusate di impe­dire l’indipendenza.

Una comunicazione transnazionale, transculturale, transcontinentale non sarà mai possibile se non si rigetta il dualismo manicheo. Questa comunicazione presuppone uno spirito critico, esercitato non solo nei confronti dell’Altro, ma anche verso se stessi.

Prendiamo un esempio pratico attinto dalla tragedia jugoslava: la Croazia è aggredita (su questo non c’è dubbio) dai militari dell’esercito ex-federale, i cui interessi coincidono (anche se sempre di meno) con gli interessi del governo ser­bo, che coltiva l’idea di una Jugoslavia mutilata o di una gran­de Serbia. Di qui la guerra, che è, per parte croata, una guerra di difesa. La polizia del governo croato, trasformata in eserci­to croato per necessità di guerra, ha perduto la città di Vuko­var (e potrebbe perdere Osijek, da dove gli abitanti potrebbe­ro essere cacciati). Questo fatto ha suscitato la protesta dell’e­strema destra, che trova che il governo croato sia stato troppo morbido. Si è profilato in quell’occasione il pericolo di un colpo di stato di estrema destra (ancora più a destra del governo). L ’opposizione di sinistra, o ciò che restava di essa, decideva allora che non bisognava più criticare il governo per non fornire argomenti agli estremisti. Dunque, quello che ancora si rendeva chiaro in questa prudenza dell’opposizione, era la divisione manichea della scena politica. Una critica sfu­mata e al di fuori delle considerazioni tattiche e strategiche non è accettata da nessuno. Così si mette al primo posto un

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interesse nazionale, poiché tutti si sono nel frattempo omolo­gati a causa della guerra, invece che mettere al primo posto l’interesse puro e semplice di fermare la guerra.

La pace, la non-violenza, la vita, non possono essere definite in termini nazionali, o lo sono solo in modo imper­fetto. L ’omologazione nazionale, dovuta alle atrocità, impe­disce l’articolarsi e l’esistere stesso di una valida opposizione, appiattisce lo spirito critico e il discernimento, e fa sì che la logica della guerra (della contrapposizione) sia largamente accettata. E impossibile, nel caso di una tale visione in bian­co e nero, conservare lo spirito critico verso la propria parte, quando per il bene di una politica della non-violenza biso­gnerebbe invece insistere su una differenza della differenza. Occorre uscire da una riduzione del problema a contrapposi­zione di nazionalità, e procedere a una critica ancor più radi­cale, cioè alla critica della stessa logica nazionalista, ovvero del quadro proposto.

Ma l’omologazione dovuta alla guerra e alle sofferenze reali delle popolazioni massacrate e delle città distrutte ha fatto sì che questo discorso non possa essere recepito nell’im­mediato e forse non possa esserlo per molto tempo. Essa ha ugualmente trasformato i pacifisti nel nemico numero uno di un nazionalismo esasperato, quali che ne fossero le cause. I pacifisti sono effettivamente percepiti, da entrambe le parti, come appartenenti al campo dell'Altro.

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NOTE

1 V. J a cq u es D e r r id a , L ’A utre Cap, su ivi de La démocratie ajournée, Minuit, Paris 1991.

2 Al proposito, vedi R ada I vekovic, Critique de la raison postmo­derne, Noël Blandin, Paris 1992.

3 Le streghe in Europa; sati presso i Rajputs in India; le donne assassinate dalla famiglia quando non portano la dote sperata, in alcune zone periferiche di recente urbanizzazione dell’India del Nord; a questo proposito vedi C atherine C lém ent , Le Goût du miel, Grasset, Paris 1987, e La Syncope. Philosophie du ravissement, Grasset, Paris 1990.

4 G e o rg e s B a t a i l le , Propositions sur la mort de dieu, per la rivista «Acéphale», in «Papiers Acéphale», pp. 47-76, dattiloscritto, Biblioteca Nazionale di Parigi, Mss. nouv. acq. fr. 15952.

5 G eorges B ataille, op. cit., p ar. 8.6 Vedi K laus T hew eleit, Männerphantasien I-II, Frankfurt a. M.

1981.I G e o rg e s B a t a i l le , op. cit., p a r 9.8 The Intimate Enemy. Loss and Recovery o f Self under Coloniali­

sm, Oup, Delhi 1983; Tradition, Tiranny and Utopias. Essays in the Poli­tics o f Awareness, Oup, Delhi 1987.

5 Di S alman R ushdie vedi Grimus, Granada, London 1977; I figli della mezzanotte, Garzanti, Milano 1984; La vergogna, Garzanti, Milano 1985; I versi satanici, Mondadori, Milano 1989.

10 Vedi M ichel S erres, da Rome. Le livre des fondations, Grasset, Paris 1983, fino a Tiers instruit, Bourin, Paris 1991.

II Gandhi, Marx, Freud. Vers une utopie du Tiers monde, in «Détours d ’écritures», n. 1/1991, «Sud profond», pp. 53 sgg.

12 A. N andy, op. cit., p. 54.13 Ivi, p. 55.14 Ivi, p. 56.15 Ivi, p. 57.16 Ivi, p. 59.

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RIFLESSIONI IN MARGINE ALLA GUERRA EUROPEA DEL 1992

Sono incline a pensare che in Europa, Est incluso, sia attualmente in gioco una scelta tra la democrazia e il suo contrario. Sosterrò questa tesi riferendomi a ciò che accade nei paesi ex-socialisti, ma soprattutto riferendomi alla Jugo­slavia. Gli esempi che proporrò per illustrarla non atterranno solo al piano teorico.

Vi parlerò dei nazionalismi e dei loro numerosi ingre­dienti. Riguardo a paesi come la Jugoslavia, la Moldavia, l’Al­to Karabach - in cui le nazioni si fanno guerra, continuo a credere che l’origine e la posta in palio delle violenze non abbiano a che vedere con le differenze etniche, e nemmeno soltanto con l ’eredità del comuniSmo.

Il soggetto occidentale, in quanto identità definita dal­l’appartenenza a una comunità (Gemeinschaft), ha per princi­pio costitutivo l’esclusione dell’Altro (dell’altra comunità). Assurta al rango di soggetto, la nazione procede da una sorta di totemismo (si cessa di nutrirsi dei membri dello stesso gruppo) e conduce a un autismo di gruppo. L ’esclusione (lo sfruttamento, la distruzione) dell’Altro non è un effetto con­tingente della soggettivazione: è inerente a essa Si tratta di una violenza fondatrice che non attinge all’ordine del razio­nale. Semmai, l’esclusione costruisce una «nuova» raziona­lità. Il soggetto si forma mediante l’identificazione dell’indi­viduo con una istanza «superiore» (e in tal modo l’individuo rinuncia alla propria particolarità e specificità). Le relazioni tra individui all’interno di un gruppo siffatto passano esclusi­vamente attraverso l’istanza superiore: amiamo il nostro vici­no solamente in quanto membro dello stesso gruppo, per esempio la nazione; ovvero amiamo il nostro prossimo «in Dio», come accade nel monoteismo. Questo principio supe­riore, che permette l ’integrazione del gruppo e nel quale sono investite tutte le identità individuali, ha pretese di uni­versalità. E come dire che esso pretende, dapprincipio, di applicarsi a tutti gli individui. Questo accade nei periodi (storici) di straordinaria minaccia economica, esistenziale e

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identitaria. La nuova identità collettiva si forma mediante la negazione di tutti coloro che sono espulsi al suo margine esterno, che non corrispondono alla norma proposta. In tal modo, si rifiuta la nostra origine con e nell’Altro, e l’identità è ricavata da una presunta origine nello Stesso, nell’Uno. In un periodo di crisi acuta, questo conflitto si «risolve» con la guerra, che è l’ambito specifico in cui si costituisce il sogget­to (soprattutto il soggetto maschile) del mito dell’eroe epico. La fondazione mitologica nello Stesso è (ri)formulata in un discorso di violenza contro l’altro e gli altri, e per contraccol­po (contraccolpo soprattutto culturale) in una violenza su di sé e sul proprio gruppo. Sono aggrediti in modo particolare i luoghi in cui ha origine la commistione, cioè i luoghi della cultura (giacché cultura e meticciato sono tutt’uno). Ecco il motivo per cui, in Jugoslavia, sono le città a subire per prime la distruzione. Le città: luoghi di nascita della mescolanza, delPincrocio di differenze, della cultura. Nuove città sorgono sulle rovine delle città precedenti, che annientiamo man mano che si forma questa nuova identità. Come accadde a Roma. Dal punto di vista storico, non si tratta di un ritorno alla seconda guerra mondiale, o al Medioevo, come si è cer­cato di spiegare la guerra in corso nei paesi jugoslavi: siamo di fronte a un rigurgito della «preistoria», piuttosto che a un suo ritorno. La violenza ha dimensioni impensabili durante le grandi crisi della civiltà, come l’attuale.

Anziché come conflitto tra nazioni, questa guerra (o queste guerre) potrebbe essere descritta come una guerra contro le città, condotta da forze retrograde ostili alle città: ma anche come una guerra del maschile contro il femminile.O ancora: come una guerra contro la società gestita dalle comunità. L ’appello alla nazione non è altro che la proposta derivata e secondaria di una ideologia improvvisata, che copre un vuoto ideologico (vuoto prodotto dall’esaurimento del discorso comunista o del suo effetto ipnotico sulle mas­se). Sul piano psicologico, il richiamo alla nazione rappresen­ta una regressione fino al luogo di una identificazione prima­ria (per il bambino: il padre e la madre; per il credente: Dio, ecc.). La regressione psicologica squalifica d’un colpo solo la regressione (o progressione) storica immaginata, sulla quale non conviene speculare visto il carattere sospetto del «pro­gresso» conseguito. La stessa identità maschile collettiva si è sempre formata così: in un soggetto dominante pensato

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come neutro. (Nella società patriarcale, l’identità maschile è posta come universale; nel monoteismo si presenta come neutra dal punto di vista sessuale - a dispetto del carattere maschile di Dio - e come divina). Dopo tutto, le donne non hanno lo stesso Dio, per dirla con Luce Irigaray 2 . Né lo stesso Dio tra loro, né, per ragioni differenti, lo stesso degli uomini. Ciò significa che le donne non hanno mai avuto un Dio che fosse secondo il loro modello e allo stesso tempo divino per tutti, e neutro per di più. O che fosse universale. Un essere femminile e universale non esiste nel nostro siste­ma simbolico. Ciò che più conta è che le donne e gli uomini non hanno la stessa genealogia (ancora Irigaray): la figlia nasce dallo stesso, il figlio dal differente. Poiché non hanno avuto un’istanza superiore che sia stata, al tempo stesso, fedele alla loro immagine e universale, le donne non si sono mai costituite in soggetto storico al modo degli uomini, cioè come soggetto dominante. Con la conseguenza che il genere femminile resta distinto, nella grammatica e nel pensiero. Per esempio, l’umanità universale della donna deve essere espli­citamente sottolineata se appena la si vuole articolare. Non è autoevidente. Le donne non solo non si sono costituite quali soggetti storici, ma neanche lo possono; così, la premura e i consigli di certi filosofi a questo riguardo (con la raccoman­dazione di astenersene) sono superflui. Il punto è che le don­ne, in questo, non sono sostenute né confermate dalla storia.Il soggetto (maschile, dominante) è sorretto nella sua costitu­zione dalla storia universale in quanto storia sua propria. Non è dunque questione di scelta. Allo stesso modo che il regime ecologico proposto e imposto dai paesi detti svilup­pati implica che i sottosviluppati, se occorre, rinuncino allo sviluppo.

Nella loro portata storica, il nazionalismo e la guerra devono essere collegati alla storia della soggettivazione occi­dentale e al soggetto storicamente dominante (quello maschi­le). Ma ciò non esclude affatto che, con apparente contraddi­zione, delle donne o perfino delle femministe divengano nazionaliste. Quando si schierano a favore del nazionalismo, si ha una identificazione degli individui-donne con la stessa istanza «superiore» (violenta nella sua struttura e maschile soltanto a causa delle circostanze storiche). In qualche modo, l’identificazione femminile con la nazione è falsa, in quanto è

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l ’identificazione con il Padre (simbolico), il Leader politico, ossia con Y Altro genealogico, mentre l’identificazione dell’uo­mo con quello è una identificazione con lo Stesso genealogico che esige la negazione dell’Altro. L ’identificazione femminile con un principio superiore universale (e maschile) non impli­ca, strutturalmente, l’esclusione, ma l’inclusione dell’Altro, mentre l’identificazione maschile la esige. E per questo che le donne si identificano meno degli uomini con la nazione, e, quando nondimeno vi si identificano, esse accettano meno degli uomini la violenza. (D’altronde, le donne sono da sem­pre inclini all’autodistruzione piuttosto che a esternare la vio­lenza). Infine: la violenza in guerra dovrebbe esser messa in rapporto con le altre forme di violenza tradizionalmente maschili nei confronti dei deboli o dei diversi. E addirittura strabiliante che il confronto sia tanto raro. È necessario cogliere la guerra e la distruzione nella loro naturale conti­nuità con la violenza inflitta alle donne e ai bambini3.

Ciò è facilitato dall’analisi dei conflitti in quanto con­flitti tra città e non-città (campagne, montagne, popolazioni non urbanizzate e non acculturate, refrattarie e nemiche del­le città). Questo consente parimenti di percepire nello stesso contesto il disagio delle periferie e il vandalismo urbano. In queste violenze il razzismo e il nazionalismo sono secondari, la vera questione è economica e culturale. Il vero conflitto è di tipo comunitario.

Il nazionalismo, o meglio, la nazionalità, è sempre stato anche il veicolo di un desiderio di cittadinanza. Pertanto, in paesi misti come la Jugoslavia, è difficile pensare tanti Stati- nazione quante sono, o saranno, le nazioni, se non si vuole pensarli della grandezza di un distretto come quello di Pari­gi, con deportazioni, migrazioni e massacri. Dopo la catastro­fe del socialismo e la conseguente disfatta dello Stato, il con­flitto, visto nella prospettiva della nazione, consiste nel fatto che, numericamente, ci sono molte più nazioni che Stati. La cristallizzazione delle nuove forme di convivialité, che richie­derà anni se non decenni, ci obbligherà probabilmente, se una scelta di democrazia è compiuta, a rinunciare alla cittadi­nanza basata sulla nazionalità a favore di una cittadinanza basata sull’individuo. La guerra dei nazionalismi è il caos del­la violenza cieca. Lo Stato, che (tra l’altro) è pur esso violen­za, codifica quest’ultima, la controlla, la contiene, fa anch’es- so uso dell’esclusione, sia sul confine esterno che su quello

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interno. Mantiene bene o male un equilibrio precario tra comunità e società.

Passo ora al mio esempio pratico: dopo la seconda guerra mondiale ci fu, in Jugoslavia, un flusso spettacolare e precipitoso, mal calcolato e non frenato, dalle campagne ver­so le città, dalle province verso la metropoli. Belgrado fu par­ticolarmente investita da queste ondate di immigranti disa­dattati e infelici, accorsi soprattutto dalle provincie limitrofe, e spesso alimentate dai serbi di Croazia, di Bosnia Erzegovi­na e del Montenegro, insomma delle regioni povere. Accad­de lo stesso, in minor misura, negli altri centri urbani e nelle altre repubbliche. E sempre esistita, via via accrescendosi, una ostilità tra la minoranza di cittadini (e borghesi) originari e i nuovi venuti che riuscirono a prendere d’assalto le istitu­zioni e l’amministrazione, come pure le cariche direttive. Soprattutto Belgrado, ma anche gli altri centri, continuò a fomentare per anni questo conflitto latente. Al principio e alla radice, tale conflitto era chiaramente economico e cultu­rale. (Anche coloro che arrivavano a Zagabria provenivano dalle regioni povere della Dalmazia e dell’Erzegovina, ugual­mente limitrofe). Dovunque, la componente che sarebbe divenuta la più bellicosa, in crisi di identità, e che ben presto non ebbe altro con cui identificarsi se non la nazione, era formata da questi nuovi venuti dalle regioni limitrofe, dalla periferia e dai paesi misti. Ciascuno accolse i suoi (serbi o croati), i suoi «esterni» in qualche modo; da questi provin­ciali provennero in seguito i nazionalisti più accaniti delle due parti. Essi furono spinti a ciò naturalmente dalla loro inadattabilità alla città, che non fece alcuno sforzo per socia­lizzarli. Spesso furono indotti a scegliere come occupazione l’esercito, per ragioni economiche ma anche psicologiche. È così che Belgrado (comprese le strutture dello Stato federale) fu dominata in gran parte dai serbi provenienti da altre regioni, sentiti come un corpo estraneo: costoro (non i serbi di Serbia) rappresentarono la maggior parte dei quadri supe­riori dell’armata federale al tempo della Jugoslavia socialista. Anche in Croazia, la guerra difensiva reclutò sempre più croati delle regioni limitrofe; e la guerra non dichiarata con­dotta in Bosnia Erzegovina contro i serbi mobilitò soprattut­to croati erzegovini, in buona misura volontari.

È dunque soprattutto questa armata - federale, ma ali­mentata da quella specifica componente che sono gli immi­

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grati appena giunti in città dalle regioni di frontiera - che dichiarò la guerra, o che vi si accanì dopo che la Slovenia e la Croazia ebbero manifestato una volontà secessionista. Il con­flitto città/campagne, cioè delle campagne e delle periferie contro la secolare cultura delle città (Dubrovnik, Sarajevo, Mostar, Vukovar e tante altre), è principalmente un conflitto economico e culturale. La prima generazione dei disadattati venuti in città, a un basso livello di vita urbana, desiderosi di ricchezza e di rapidi aiuti, spesso non aveva altra soluzione che l’esercito. E così che si giunge all’autismo delle nazioni, che è omicida e suicida a un tempo. La nazione è un concetto a cui ci si aggrappa allorché il centro è andato in pezzi, non appena si mette in moto la violenza.

Distruggere le città, senza alcuna logica anche solo militare, significa per questa gente prendere definitivamente il potere (abbattendo l’assetto precedente); significa distrug­gere la minaccia rappresentata dall’Altro (urbano, misto, col­to, impuro). Non hanno niente da perdere e andranno fino in fondo. Come dice Zivojin Karapesic: «Nulla è più sempli­ce della distruzione (non richiede alcuna conoscenza prelimi­nare), e nulla è più impressionante (trasforma l’immagine). Non si deve dimenticare che il nuovo venuto dalle campagne era già stato vittima della divisione delle terre e del fantasma della povertà, dei raccolti perduti e degli anni di penuria»E il risultato di una industrializzazione affrettata e poco meditata, di una negligenza nei confronti delle campagne (sebbene quest’ultima fu minore in Jugoslavia che negli altri paesi socialisti).

Una volta attizzata la violenza (ed essa lo è stata verbal­mente), a ogni tappa sono stati scelti i peggiori scenari: ha preso piede una specie di estetica negativa del terribile e del­l’insostenibile. Trasmessa in diretta dalla televisione, l’imma­gine ha giocato un ruolo centrale nell’istigazione alla vendet­ta. Si sono viste persone apparentemente pacifiche che, dal­l’oggi al domani, invocavano vendetta.

E troppo semplice imputare, come ora si fa spesso, il nazionalismo e i suoi conflitti soltanto agli errori ideologici del regime socialista. Il nazionalismo è, almeno in pari misu­ra, il risultato del confronto di questo stato di cose con il modello occidentale: incarnazione del desiderio socialista come pure del brutale colpo che l’introduzione dell’econo- mia di mercato ha sferrato al livello di vita. Al contrario, si

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potrebbe sostenere che la Jugoslavia aveva rispettato in larga misura le differenze nazionali, traducendole anche in organizzazione politica, territoriale e, di riflesso, economica. «Così i comunisti hanno di volta in volta condannato, repres­so e alimentato i nazionalismi - scrive Michel Roux -. Con questa attitudine ambivalente, sono stati essi stessi, in parte, a preparare la crisi attuale» 5. Non c’è dubbio che le questio­ni nazionali non erano risolte in modo soddisfacente, ma questo vale per tutte le nazionalità. Pertanto, il sentimento nazionale non era né represso né tabù; a venire repressa era l’espressione del nazionalismo che inclinava al separatismo (a partire dal 1981 nel Kossovo), o allo sciovinismo, alla discri­minazione, al sollevamento di massa (in Croazia, nel 1971).

Ma il nazionalismo conduce alle guerre di fondazione, alla violenza fondatrice e senza legge. Se non mi sbaglio, l ’an­tagonismo nazionale è, oggi, ciò attorno a cui si cristallizzano identità allo scopo di giustificare a posteriori la violenza. La nazione non è la causa né la ragione della guerra: la storia contiene sia esempi di ostilità tra le etnie che esempi di coesi­stenza secolare. Per quanto una nuova mitologia nazionale faccia appello alla storia, quest’ultima, come tale, non può provare niente. La nazione è il modo con cui si articola un conflitto più profondo..

Nella disintegrazione politica e soprattutto economica del paese, gli interessi particolari di ciascun gruppo hanno guadagnato terreno rispetto agli interessi comuni. Per esem­pio, l’interesse comune a tutti nella ex-Jugoslavia, il più evi­dente e il meno riconosciuto, sarebbe fermare la guerra. Sarebbe la pace. Siamo di fronte a una guerra stile Poi Pot, o stile rivoluzione culturale cinese (le campagne contro le città). Il mito nazionale di fondazione o rifondazione va di pari passo con il desiderio di distruggere l’altro. La fondazio­ne è un divenire soggetti nel senso occidentale del termine, e tende a darsi una identità mediante l’annientamento dell’Al­tro. Le violenze cui assistiamo sono forse il segno di un gran­de mutamento d’epoca. E del tutto possibile che il movimen­to contagi in qualche modo l’Occidente. Se ne vedono i segni non solo nei nazionalismi e separatismi occidentali, ma anche nella ripresa dell’estrema destra e nell’eredità dell’imperiali­smo e del colonialismo occidentali, passando attraverso l’or­dinamento economico nord-occidentale. La Jugoslavia non è una eccezione: facciamo tutti parte di una civilizzazione omi­

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cida e autodistruttrice, di una civilizzazione mortifera.Può sembrare un paradosso dire che uno scacco eco­

nomico è stato alla base dei conflitti nazionali in Jugoslavia, perché quest’ultima era il più aperto di tutti i paesi socialisti e, per la sua struttura e i suoi scambi economici, il più vicino, almeno sembrava, a una integrazione europea. Ma, come ha detto Gérard Raulet, «l’esclusione è diventata bisogno d’in­tegrazione». Più facilmente che in altri casi, la Jugoslavia, grazie alle sue istituzioni e alla sua economia, avrebbe potuto collegarsi rapidamente alla costruzione dell’Europa, se il gesto prevalente di quest’ultima non fosse stato quello dell’e­sclusione. Da più di venti anni, dal 1948 se si vuole, la Jugo­slavia aveva avviato il processo di avvicinamento: indipen­denza dal blocco dell’Est, non allineamento, tentativi di autogestione e, soprattutto, precoce decentralizzazione politi­ca ed economica. D ’altronde, è questo ciò su cui poggiava il prestigio della Jugoslavia, e io non rinnegherò la speranza in quella via alternativa intermedia, che essa rappresentò.

Ma questa grande armée federale, di cui ho già sottoli­neato l’origine economica e culturale, fu trasformata, al tem­po di Tito, in un piedistallo personale dell’autocrate. «Una volta morto il capo, ciò che era stato solo il suo piedistallo acquisì la forza di un agente indipendente», scrive Latinka Perovic 6. Solo dopo il colpo, e a conflitto già iniziato, l’ar­mata identificherà i propri interessi con quelli della politica ufficiale serba. Essi non corrisponderanno mai agli interessi dello stesso popolo serbo, sicché vi è il pericolo di una immi­nente guerra civile nella stessa Serbia. Il ritorno dell’armata (che ha perso la guerra in Slovenia, in Croazia, in Bosnia- Erzegovina) in Serbia, il suo peso come quello dei rifugiati, delle sanzioni e della catastrofe economica inducono a pen­sare all’eventualità di una guerra civile. Vi è un pericolo ana­logo anche in Croazia, allorché ci sarà stata una smobilitazio­ne, e soprattutto dopo la guerra in Erzegovina. Questi distruttori di città si rivolgeranno contro le «loro» capitali non appena non avranno più niente da conquistare. D ’al­tronde non sanno fare altro che la guerra 1. Tutto ciò lascia pensare che i 45 anni di pace che abbiamo vissuto (era la mia età al momento dell’esplosione) sono stati alquanto eccezio­nali nelle nostre condizioni.

La distruzione delle città acquista in effetti un caratte­re rituale, giacché essa fonda questa nuova identità. E così

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che un comandante militare tra quelli che attaccarono Dubrovnik, un certo Vucurevic, ha potuto proclamare che i Serbi avrebbero costruito «una Dubrovnik ancora più bella e più antica». Il fatto è che il rituale di fondazione in questione (la distruzione di Dubrovnik) ha il potere di invertire il corso del tempo, di ricominciare il tempo da zero o di farlo avanza­re nel senso opposto, come avviene assurdamente in questa guerra devastatrice. La violenza fondatrice contro le città, per quanto poco civile possa sembrare, è in realtà un atto di rifondazione, di ristrutturazione culturale. E visibilmente una trasgressione, ma si conferma in quanto cultura (cultura guerriera, certo) mediante il rapporto che intrattiene anzitut­to con la cultura stessa. Nella sua autoconferma, annulla la trasgressione che commette. Conferma il tradizionale gesto occidentale: la creazione umana, cioè la cultura, viene alla luce a prezzo di un sacrificio. Il sacrificio è vissuto ogni volta come il sacrificio dello Stesso (di noi stessi), anche quando con ogni evidenza è l’altro a esserne la vittima. L ’annienta­mento dell’Altro si trasforma necessariamente, in un secondo tempo, in una autodistruzione. In questo vi è qualcosa che si presenta come spettacolo teatrale e passa attraverso l’imma­gine e la rappresentazione, qualcosa che proviene dall’esteti­ca del sacrificio. La tradizionale convinzione occidentale che occorra pagare il più alto prezzo per l’arte, poggia su una logica di prostituzione, o sulla logica perversa del capitalismo (uso ora questo termine nel senso di Lyotard più che in quel­lo di Marx). In base a questa logica, l ’atto creativo, o anche l’esperienza estetica, è qualcosa di quasi demoniaco, di dia­bolico, ed esige la redenzione. L ’estetica sconfina in qualche modo nell’etica. L ’artista, o anche colui che prova piacere, deve «giustificarsi», cosa che non può fare in modo soddisfa­cente nell’economia del sacrificio estetico. Quest’ultima sta­bilisce il canone e il valore dell’opera, normalizzando così l’arte e l’artista. Ormai, bisognerà mettersi fuori dalla legge (estetica) per scuotere; ma, in parallelo, sorgerà una estetica del relativo, ovvero, come ha detto Lyotard, «non c’è più cul­to, soltanto cultura» 8. Uapriori dell’estetica (il gusto, il bello, il sublime), ossia ciò che è.fuori dalla legge del sacrificio, sor­ge in maniera paradossale dal soggetto. Per l’istituzione e l’e­sistenza di una comunità, anche in estetica, così come per la costituzione del soggetto che partecipa allo stesso processo, occorre investire insieme, e investire sé medesimi, in una

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istanza superiore e unificatrice. L ’apriori, epicentro delle vio­lenze future, figura come un «centro vuoto», sottraendosi alla legge nel momento stesso in cui la fonda, o ne fonda una nuova. Il soggetto in divenire è sostenuto dalla propria assen­za di e dal potere, e dal suo «difetto» di forza costitutiva. Per questo sostengo che tale soggetto si identificherà con la nazione soltanto in un secondo tempo. La logica dell’estetica (in quanto campo isolato), o Inestetica della guerra», è la medesima logica che presiede all’economia platonica dell’E­ros come mancanza; in amore, vi è trasporto per ciò che è assente: immortalità, oggetto di desiderio, oggetto d ’arte. Quando manca, ciò che è desiderato deve venir prodotto, e proprio questo si paga. Il difetto non fa che collegarsi all’ec­cesso. Bisogna offrire qualcosa in cambio di ciò che è deside­rato, e questo qualcosa è (simbolicamente o realmente) il corpo umano, il cui sacrificio, occultato, rimane invisibile nel risultato. E in qualche modo ciò che «precede» (ma forse il termine temporale non è il più indicato, qui) e consente il sacrificio, cioè la spartizione (la differenziazione), mai appa­rendovi (il semiotico o l’ignobile di Kristeva). C’è minaccia.

Il creatore, il nuovo soggetto in formazione, ha modo di proclamarsi martire della propria impresa, mentre rende gli altri sue vittime. Egli sposta il soggetto/oggetto del sacrifi­cio poiché ne è l ’autore esterno alla scena: nel senso che, apparentemente, non riproduce se stesso come proprio pro­dotto. Da qui la possibilità di manipolare e di riciclare le mitologie. Il soggetto è l’autore di questa scena di esclusione alla seconda potenza (identificazione con la nazione), ma può esserlo soltanto perché è stato già deciso in suo favore. Una decisione con la quale si sente solidale: egli amministra la disposizione che lo privilegia. Così, il mito di rifondazione serba poggia sul culto della sconfitta degli stessi Serbi in Kossovo, nel 1389. Non sono più in questione, in questa estetica del sacrificio, il tragico e la trasgressione (come in Bataille). A differenza che in quest’ultimo, la posta in gioco non è il piacere, il godimento prodotto dalla trasgressione di una legge. Qui tutto avviene all’interno di un ordine, anche l’oltrepassamento della norma. E l ’autismo. Il quadro gene­rale, il limite della legge, è sospinto all’indietro, verso un punto lontano sul limitare del pensabile. La violenza contro le altre comunità è impensabile, insostenibile, e, proprio per questo, fondatrice. L ’estetica del sacrificio è molto più per­

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versa e complicata, filosoficamente anche più esigente, per­ché essa conduce il pensiero a misurarsi con la propria assen­za, con il proprio niente (in presenza del corpo). La logica del sacrificio poggia sul gesto dell’esclusione forzata, che invoca e interdice l’Altro nel momento stesso in cui lo nomi­na (nominando il «nemico»). La fondazione assente è sosti­tuita da una rifondazione volontarista che assolve esattamen­te il medesimo ruolo (si tratta di una ontologia sbarrata), e funge da foglia di fico a questa stessa assenza di fondazione. Essa livella le differenze (radendo al suolo le città, epurando etnicamente alcune regioni) dopo averle esasperate.

I miti di fondazione che giustificano la violenza e sor­gono dallo spazio estetico del terribile non servono soltanto da foglia di fico. Servono parimenti a dissimulare l’autentica posta in gioco, economica ed esistenziale, del conflitto. Il tra­gico circolo vizioso che induce l’autodistruzione si manifesta in azioni visibili, dunque esteriorizzate. Tutti possono vedere l’immagine della città rasa al suolo, prova tangibile che «noi» esistiamo: noi, che la distruzione abbiamo eseguito. Mentre la tragedia di Sarajevo diviene un oggetto mediatico, ossia è tradotta in estetica negativa, passa sotto silenzio il fatto che l’aggressore serbo è riuscito ad aprirsi un corridoio verso le Krajina in Croazia e in Bosnia; che i croati hanno conquistato e proclamato, in Erzegovina, una repubblica croata erzobo- sniaca, che ha per capitale Mostar, a nord di Dubrovnik. L ’immagine della distruzione ha la funzione di velare la realtà. Ciò che la rappresentazione mediatica degli avveni­menti di Sarajevo dissimula è la spartizione di fatto della Bosnia-Erzegovina.

È concepibile una ontologia della violenza, anche là dove la violenza fa le veci dell’ontologia? Sebbene non si trat­ti di una ontologia in senso stretto, tentare di tratteggiarla significa mettere in crisi ogni strumentalizzazione della rela­zione di violenza. Allo stesso modo, scrive Geneviève Tance- lin-Clancy in Estetica della violenza 9, «non si può, a rigore, costituire una estetica della violenza, poiché la violenza si sottrae fin da principio allo spazio che la sua estetica deter­mina». Ma tratteggiarla, permette di rendersene conto. II fat­to è che il senso della storia è una metafora dell’esistenza. La violenza è primordiale, giacché in essa si annida un disperato tentativo di riannodare, ricucire, ricostituire il Tutto. Al tem­po stesso, osserva Tancelin-Clancy, «la violenza restituisce

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all’uomo l’incertezza dei suoi fini, l'indiscernibilità dei suoi vissuti e delle sue istanze. Egli diventa ‘poeta nella violenza che dispiega contro la storia moderata e non inquietante’». La relazione di violenza, dice l’autrice più oltre, fa sì che in lui si liberi l ’energia, e che egli riconosca il carattere inaffer­rabile della propria finalità. L ’uomo cessa così di essere inter­prete, divenendo intransigente.

La violenza è il perno tra due dimensioni, l’intermedia­rio tra l’ordine antico e l’ordine nuovo: è essa stessa il punto zero, ossia la presenza in quanto assenza (del corpo). La vio­lenza si autocostituisce come eccezione in tema di violenza: infatti, oltre quella fondatrice, nessun’altra violenza è per­messa; da qui il conflitto con chi oppone resistenza. Essa propone un’altra rappresentazione, che precede (struttural­mente e temporalmente) il «cogito» e la soggettivazione, in qualche modo fondandoli. Da qui scaturisce il ruolo inaggi­rabile che l’immagine televisiva ha in questa guerra. Certo, si tratta di una stravagante immortalità realizzata nella morte. Essa fa apparire l’impensabile e il mostruoso ,0. Quest’ultimo diviene così un elemento costitutivo dell’umanità, e mette l’essere umano di fronte alla distruzione implicata fin da subito dalla produzione (compresa la sua stessa produzione). La violenza prodotta dal mostruoso non può essere interrot­ta, dice Kamper, ma, nel migliore dei casi, dimenticata. L ’o­blio può diventare così (al di fuori di qualsiasi prospettiva etica) una strategia. A liberarci dal mostruoso non può essere che un’etica della singolarità (Kamper), ossia, come dicevo, la futura cittadinanza in un paese misto non potrà poggiare sulla nazionalità, tanto che la si intenda nel senso originario della nazione-etnia 11 della «questione nazionale» (narod, in serbocroato), quanto nel senso di un «secondo nazionalismo [...] legato all’idea (nuova) di ‘democrazia’». In quest’ultimo caso, la cittadinanza non potrà poggiare sul «secondo nazio­nalismo dell’Europa dell’Est», perché la democrazia non può venir definita in termini nazionali. Non può esserci democra­zia nazionale. Certo, il concetto di democrazia deve essere ripensato nel corso di questo grande rivolgimento europeo. Non soltanto essa non può venir definita in termini naziona­li, o sessuali, ma, probabilmente, non potrà essere concepita in termini di genere (umano). (Non vi è alcuna buona ragio­ne, a parte il fatto che vi apparteniamo, che non è in sé una buona ragione, di preferire il genere umano ad altre specie.)

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È dalla ragione stessa, sostiene ancora Kamper, che proviene il disconoscimento della ragione umana. Dunque, è dalla ragione stessa che trae origine la violenza. La democrazia, pertanto, deve contentarsi (ma è già più di quanto non fac­cia) di proteggere e di assecondare gli interessi e le libertà delle diverse minoranze, ovvero di tutti coloro che non si conformano al modello umano. In qualche modo, nello svi­luppo di un’etica del singolare e di una cittadinanza dell’in­dividuo (e non della nazione), l ’umanità deve rinunciare all’imperialismo del suo genere. Va da sé che, in tal senso, la nuova democrazia comporta un’ecologia; in stretto rapporto tra loro, democrazia ed ecologia si oppongono invece al pro­cesso di soggettivazione (comunitario) e di individuazione.

Il malessere dei nostri paesi scaturisce da un più profondo conflitto tra l’antico concetto di democrazia (occi­dentale) e l’immediato bisogno di un altro, nuovo, tipo di democrazia, che corrisponda alle necessità della transizione e della trasformazione. L ’introduzione brusca e brutale dell’e­conomia di mercato (vagheggiata dalla classe dirigente dell’E ­st, che sta trasformandosi in classe possidente, al pari della classe dirigente occidentale) si è dimostrata impossibile, ed è proprio questo tentativo abortito che ha condotto alla situa­zione ben nota. Nello svolgimento degli eventi, il nazionali­smo irrompe in un secondo tempo, nel momento della disin­tegrazione economica, per riempire il vuoto di istanze supe­riori, riempimento che permette di ricompattare una comu­nità priva di coesione dacché più non funzionano Stato e società. Il prezzo da pagare è molto elevato, e non porta alla democrazia, perché, in seno alla comunità ricompattata, l’indi­viduo avrà rinunciato in una misura maggiore che nel passato (quando la rappresentazione era differente) proprio a ciò di cui avrebbe bisogno per contribuire a una democrazia: la sua identità. L ’identità, e la differenza, che potrebbero essere (e in Jugoslavia lo sono state, per 45 anni) una fonte di ricchezza culturale, e non solo culturale, sono abbandonate a vantaggio della sola dimensione comune (l’identità nazionale). La nazio­ne (nel senso etnico) si libera mediante la violenza, si costitui­sce in antagonismo con le altre nazioni. Essa porta a credere (e una parte della storia europea, presa fin troppo a esempio, porta a crederci) alla possibilità/necessità di creare Stati-nazio­ne etnicamente puri in territori caratterizzati da millenari meticciati: mentre è evidente che questo non è possibile.

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Ecco dove, tra l’altro, il socialismo ha fallito: ha perso l’occasione di trasformare la mescolanza etnica e culturale in un vantaggio, cioè in una ricchezza e in uno strumento di integrazione. Il meticciato era un’eredità culturale in quei ter­ritori, prima del socialismo, ma quest’ultimo non l’ha elabora­ta né sviluppata. L ’appiattimento culturale socialista, l’antiin- tellettualismo, l’atteggiamento avverso alla cultura, come la messa in mora della religione, mortificarono la ricchezza delle differenze. In questo egualitarismo culturale immiserente, le differenze furono considerate secondarie o riprovevoli. Non­dimeno, questo gesto del socialismo è, in se stesso, profonda­mente europeo: è il risultato di un atteggiamento ostile nei confronti della differenza. Sua origine è la patologica passione per l’identità dell’Europa.

Esso va di pari passo con un’altra attitudine europea, quella di definirsi ogni volta tracciando le frontiere con l’Est. (Con l’Est, perché l’Europa è priva di una frontiera geografica con l’Asia: da qui la sua inquietudine circa l’identità.) Un solo movimento spinge la Slovenia e la Croazia a separarsi, la Ser­bia a demonizzare l’Islam o gli albanesi, e l’Europa a volersi costituire in una identità sovranazionale e a chiudere le sue frontiere a noialtri. Mentre si fa appello alla nazione, confon­dendo quest’ultima con la democrazia e la libertà, ci si richia­ma alla saggezza «transnazionale» dell’unità europea, come se non si trattasse di una sola e medesima inclinazione. Pertanto, è l’unità «transnazionale» dell’Europa che traccia le proprie frontiere un po’ troppo a Ovest per i «nostri» gusti («noi» vorremmo tutti essere inclusi...). L ’identità europea già fun­ziona, e sempre più funzionerà (in rapporto al Terzo mondo e ai paesi ex-socialisti), come un nazionalismo; e come tale si costituisce (e si costituirà). L ’Europa stenta a vedere, e noi a immaginare, quale forma prenderà la nuova statuizione delle frontiere, e quale sarà l’effetto delle molteplici guerre dell’Est, che continueranno a propagarsi e ben presto minacceranno l’Occidente. Giacché l’Europa occidentale, se non l’Occiden­te, entra poco alla volta in guerra tramite la Jugoslavia.

È difficile pensare l ’impensabile. Quest’epoca segna finalmente la fine di un ordine, l’ordine socialista. Ma poiché esso, bisogna pur dirlo, non è altro che un prodotto dell’or­dine occidentale e capitalistico, vi è sempre complementarità tra l’uno e l’altro. Siamo di fronte alla morte lenta e globale dei due ordini presi insieme? O all’assimilazione, dolorosa e

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più lenta ancora, dell’uno all’altro? Bisognerebbe riuscire a pensare, ora, una ristrutturazione globale e complementare dei due sistemi-fratelli. L ’Occidente non potrà erigere un muro attorno a sé, tentando di ristrutturare il solo Est. Lo attesta la fallita ristrutturazione del Terzo mondo all’interno di un nuovo ordine economico. E per questo che la defini­zione di Adam Michnik, secondo la quale il nazionalismo sorge «come stadio supremo del comuniSmo», sembra trop­po sbrigativa. Una analisi più approfondita mostra che il nazionalismo trae origine dall’incontro tra socialismo e capi­talismo, nell’era del «postcomunismo» e di fronte alla diffi­coltà (o impossibilità? Come saperlo?) di occidentalizzare l’Est. A fomentare il conflitto sono, insieme, la volontà di tra­sformare il socialismo in capitalismo e l’impossibilità di rea­lizzare subito questa trasformazione.

L ’affermazione secondo la quale la Jugoslavia non è mai esistita, se non come mero artificio, non basta a spiegare il nazionalismo: è una falsa verità. Come dice Edgar Morin, «nei fatti, la Jugoslavia è esistita [...]» 12. Parimenti, la Jugo­slavia socialista si è costruita sull’antifascismo e l ’unità. Secondo Michel Roux, «tra i due movimenti di resistenza, ha avuto la meglio quello dei comunisti perché esso non faceva direttamente leva su alcun nazionalismo e perché poteva di fatto unificare tutti i popoli jugoslavi in un movimento di lot­ta antifascista di liberazione nazionale» 13. Bisognerà tener conto di una causalità multipla e circolare nell’ingranaggio delle violenze jugoslave.

La scomparsa del nome «Jugoslavia», e di «jugoslavo» (quando non è un appellativo per designare l’aggressore), mostra che il problema non è, in se stesso, etnico-nazionale.Il silenzio sul nome «Jugoslavia», l’assenza dal corrente lin­guaggio guerresco e politico di una gran parte della popola­zione ex-jugoslava che non può definirsi in termini nazionali, indicano assai bene l’angustia dell’analisi manichea che divi­de il mondo in bianco e nero (serbo e croato). Coloro che, per scelta o essendo di famiglie miste (tra i due e i quettro milioni sul totale di ventidue milioni di abitanti della ex-Jugo­slavia), non possono dirsi serbi o croati o ... ma non possono neanche più dirsi jugoslavi, perché questa denominazione li identificherebbe con l ’aggressore, sono spariti dalla scena. Non avendo più nome, essi hanno perso la voce, non «esisto­no» più in questa rifondazione «ontologica» attuata tramite

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la violenza. E non è un caso se essi sono le vittime silenziose (la popolazione civile) della guerra in corso. A chi non ha più nome né identità riconosciuta (dato che a essere riconosciute sono ormai soltanto le identità nazionali), non resta che la distruzione del proprio corpo; e tale distruzione non farà rumore. Per questo, nonostante la rappresentazione mediati- ca della distruzione di Sarajevo, non sempre si ode la voce dei suoi abitanti.

Sia chiaro: la violenza discende dalla soggettivazione operatasi nella e grazie alla guerra; in un eccesso, non in difet­to di soggetto collettivo e soggettivazione. È insensato dire, come spesso si sente, che «queste nazionalità (e questi Stati) non sono mai stati soggetti, e ora questo fatto viene in luce». La Jugoslavia è stata, eccome, un soggetto al tempo di Tito e del non allineamento terzomondista; così come soggetti sono state le sue nazionalità in base alla decentralizzazione sancita dalla costituzione. Ma, in quel caso, si trattava di un tipo par­ticolare di rappresentazione della soggettività, che ha fatto il suo tempo, sconquassato dagli avvenimenti di cui stiamo par­lando. Ciò non implica affatto che un altro tipo di rappresen­tazione porterebbe di per se stessa alla democrazia. In qual­che modo, la rappresentazione resta sempre un genere infeli­ce di mediazione, che reprime l’immediatezza della singola­rità personale. E per questo che non bisogna aspettarsi una soluzione della trasformazione dell’Est in base al modello occidentale (si passerebbe soltanto a un altro tipo di rappre­sentazione); né d’altronde, bisogna credere che tale trasfor­mazione sia possibile. Se lo fosse, non ci sarebbe stata la guerra.

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NOTE

1 A questo riguardo cfr. R en é G ira rd , La violence et le sacré, Grasset, Paris 1992, e M ic h e l Serres, Rome. Le livre des fondations, Grasset, Paris 1991.

2 Cfr. L u c e I r ig a ra y , «Femmes divines», in Sexes et Parents, Minuit, Paris 1987.

5 Su questo cfr. Arms and the Woman. War, Gender and Literary Representation, ed. by H. M. Cooper, A. Ausländer, S. Merrill Squier, The Uncp, Chapel Hill and London 1989.

4 Republika. List gradjanskog samooslobodjenja, Beograd, IV (1992), 45 (1-16 giugno), p. 32.

5 M ich e l R oux, Guerre ävile et enjeux territoriaux en Yugoslavie, in «Hérodote», n. 63, ottobre-dicembre 1991, p. 23.

6 «Neslavni jubilej», in Republika..., cit., p. 2.7 Cfr. il magnifico testo di B o gd an B o gd an o v ic , Il massacro ritua­

le delle città, pubblicato in italiano su «il manifesto», 16.6.1992.8 Je a n -F ra n ç o is L y o t a r d , Des dispositifs pulsioneis. Bourgois,

Paris 1973,2“ ed. 1980, p. 112.5 Tesi di dottorato inedita. Sarà pubblicata presso le edizioni

Noël Blandin.10 Monstre, m ostro : ciò che è m ostrato . D ietm ar Kamper, Der ein­

gebildete Mensch. A uf dem Wege zu einer singulären Ethik." A proposito di questa distinzione cfr. Jean -F ran ço is G ossiaux ,

Yugoslavie: éthnies ou nationalisme?, in «Libération», 2.7.1992.12 In «Le Monde», 6.2.1992.13 M ich e l Roux, op. cit.

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LA CIVILTÀ DELLA MORTE

All’interno della civiltà della valle dell’Indo, il grande fiume dell’ovest del subcontinente indiano che si trova attual­mente in Pakistan, un tempo, prima dell’arrivo delle tribù indoeuropee guerriere e distruttrici, erano fiorenti le città degli autoctoni, certamente Dravidi. Erano città-stato, costruite in mattoni, dall’urbanistica invidiabile e l’organizza­zione sociale apparentemente complessa, i cui abitanti, stru­tturati su un modello matrilineare, si dedicavano al commer­cio e l’agricoltura. Gli scavi indicano che raggiunsero l’apo­geo del loro sviluppo probabilmente tra il 4000 e il 2000 a.C.I quartieri della città corrispondevano alla struttura socio-eco­nomica della popolazione, strade particolari ospitavano deter­minate categorie di artigiani, e gli abitanti, già all’epoca, pos­sedevano un sistema fognario sotterraneo e un sistema d ’irri­gazione per innaffiare i campi vicini.

Queste città cessarono di prosperare dopo che furono rapidamente distrutte dall’ondata di tribù nomadi e pastorali indoeuropee di tipo patrilineare che le sottomisero, e detteroil proprio nome (Bharat) e la loro impronta all’India attuale.I nuovi arrivati erano guerrieri, militarmente molto potenti, dediti al pascolo del bestiame, soprattutto bovini. Dal punto di vista storico, non è affatto certo che furono loro a distrug­gere le ricche città di Mohenjo Darò, Harappa, e le altre. Ma anche se non fossero stati loro, si trovavano a un livello mol­to basso di sviluppo della cultura materiale ed erano privi di tradizioni urbane. Portavano con sé soltanto beni mobili: parte del nucleo degli inni vedici (tradizione orale), armi, vacche e un’organizzazione sociale tra le più potenti. Non sapevano costruire e non si stabilirono all’interno delle città. Si accampavano sulle loro rovine e, come fanno oggi «i libe­ratori» (i distruttori) di Vukovar, Mostar o Sarajevo, fabbri­cavano all’aperto ripari provvisori in legno, materiali di for­tuna, mattoni d’argilla e cespugli, quando non avevano un posto dove insediarsi.

La nuova civiltà, di cui essi erano i padri fondatori, - gli autoctoni all’interno di questa non erano ammessi se non

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di mala voglia e in quanto individui assoggettati - avrà le sue radici nel rito del sacrificio della vita. Il sacrificio sarà tuttavia rappresentato simbolicamente sempre come il sacrificio di noi stessi, nascondendo il sacrificio reale dell’Altro, degli altri. Per un popolo di guerrieri e soldati, la cosa va da sé. Il sacrifi­cio fonda e rinnova il mondo, riconduce il momento presente in ilio tempore, cioè riporta il tempo al suo inizio. Il tempo e la storia iniziano con «noi». Le rovine delle case straniere sono seppellite, dimenticate, l’erba le ricopre. Era «prima del­l’inizio del tempo», prima di «noi». La nuova civiltà comincia con la violenza, supera il vuoto in direzione dell’aldilà, dell’i­nizio cosmico. La distruzione delle città è seguita, o meglio è preceduta, rispettivamente, dai miti cosmogonici della fonda­zione e dalla retorica collegati entrambi al ruolo privilegiato della «nostra» tribù, quindi «dei nobili», miti che giustificano la distruzione. Anche gli antichi avevano le loro guerre «mediatiche» descritte nei miti della creazione e dell’origine (oggi, abbiamo la televisione). Questi rappresentando il lega­me con l’aldilà, una sorta di trascendenza collettiva in quanto supporto immaginario, sono la garanzia dell’esistenza così come della negazione dell’Altro. Proprio come la genealogia (maschile, la sola che conti) nega necessariamente la discen­denza materna. Perché tale discendenza - più evidente di quella maschile - si congiunge a quest’ultima ma non si riesce più a decifrare nel codice dominante. Se noi potessimo farlo, la «nostra» origine ci apparirebbe nell’Altro (uomo o donna), si scoprirebbe la discontinuità della discendenza maschile. Si scoprirebbe infatti che la cultura è innanzitutto frutto di un incrocio, di un métissage. Le città sono, proprio in quanto tali, la sede della cultura e, necessariamente, un incrocio. Il sistema simbolico trova qui il suo ruolo chiave e l’occasione per definire i rapporti di forza e di potere. La proclamazione di un fondamento e di un inizio, nel sacrificio, ha il compito di nascondere il fatto che non c’è nessun fondamento (eccetto nell’Altro e dunque al di fuori di «noi»), e di attutire la con­statazione che la violenza non ha giustificazioni, tranne che nel desiderio dell’oppressore. La guerra è il sacrificio per eccellenza. Se il ruolo degli Altri nella «nostra» cultura ci fos­se chiaro, ci risulterebbe comprensibile anche che è quest’Al- tro, e non noi, ad essere offerto in sacrificio. I miti della fon­dazione, tuttavia, presentano sempre il sacrificio dell’Altro come il sacrificio di noi stessi.

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Stabilendosi nel subcontinente indiano e espandendosi sempre più lontano verso sud-est, i nuovi arrivati sono pro­gressivamente passati dallo stato nomade a quello sedentario. Ma non hanno imparato né a fabbricare i mattoni né a costruire (e questo, per secoli). Hanno continuato ad improvvisare i loro effimeri ripari con materiali deperibili e casuali.

Soltanto i luoghi destinati ai sacrifici, fondamentali non nel senso fisico del termine, ma metafisico, dovevano essere edificati con materiali solidi, secondo le regole della nuova geometria teologica, planimetrie e progetti sacri del mondo, concentrati attorno all 'axis mundi che attraversa lo spazio sacrificale rappresentante l’universo. Questi ripari venivano costruiti con i mattoni dissotterrati dalle rovine delle città antiche ed è così che, pur senza volerlo riconoscere, essi stessi entravano a far parte del métissage e traevano la loro origine dalla negazione dell’Altro '. La nuova civiltà si nutriva anche fisicamente della vecchia. I selvaggi sono arrivati, hanno cac­ciato i civilizzati, e sopra le tombe di quest’ultimi, hanno innalzato le loro dimore con l’orgoglio dell’ignoranza.

Poco importa che questa sia storia indiana e non nostra. Le nazioni eroiche e bellicose non hanno mai tratto nulla dalla propria storia, e ancor meno da quella altrui.

Come tutti gli jugoslavi, sapevo che la guerra era immi­nente, l’avevo vista prepararsi nei media, nel corso degli ulti­mi quattro o cinque anni. Ma come tutti gli jugoslavi, non volevo credere al suo accadere. Ora, penso che proseguirà fino allo sterminio finale, e anche oltre. In questi quattro o cinque ultimi anni, siamo stati preparati alla guerra attraver­so la manipolazione dei miti della fondazione e dell’origine. Ognuno l’ha fatto per la sua parte, ma soprattutto, fin dall’i­nizio, l’ha fatto la parte «serba» (metto il termine tra virgo- lette perché credo che in nessun caso un popolo come tale sia responsabile della guerra: dopo l’«Ottava sessione» del comitato centrale del partito comunista della Serbia, questo colpo di stato speciale del Partito tramite cui Slobodan Milosevic è giunto al potere, sono i dirigenti e i mezzi d’informazione da loro controllati ad avere la responsabilità di tutto, in particolare la televisione ufficiale e «Politica»). Lo scenario era tipicamente fascista: si è parlato del pericolo corso dal popolo (serbo), della sua bontà, della sua illustre antichità e del valore dei suoi monuiBêfflïfïésfcifttenzioni di

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«genocidio» che avevano le altre nazioni. È così che è nato il pericolo corso dal popolo (serbo), in «na terribile profezia di autorealizzazione. I miti della fondazione e dell’omogeneiz­zazione nazionale, degli uni, hanno innescato lo stesso pro­cesso negli altri, i «nemici», che sono stati creati in questo modo. Si sono spaventate le popolazioni, abbrutito ognuno con la pretesa supremazia della propria cultura in rapporto a quella del vicino. Si è cominciato a parlare di Stati e di primi re, le ossa di questi re hanno circolato nei paesi o si è favoleg­giato intorno ai mitici primi eroi e codici di leggi, le chiese e le storiografie apocrife si sono mescolate, c’è stato un rilancio delle pubblicazioni sulla storia nazionale (in tutti i campi). La dimensione nazionale è divenuta la più importante e pro­gressivamente l ’unica, ed ha nascosto tutte le altre differenze, in modo pardcolare quelle individuali. Ha messo fuori gioco e completamente allontanato il cittadino, la cittadina, le dif­ferenze di sesso, di classe e ogni altra.

I capi hanno cominciato a interessarsi allo stupro «su una base nazionale» (affermando che «i loro» violentano le «nostre» donne), quando lo stupro come tale e all’interno d ’un medesimo popolo - crimine da tempo molto diffuso - non li aveva mai interessati. La retorica del Focolare, in accordo con la civiltà della morte, era partita: i nostri focolari si spengono, gli altri popoli si moltiplicano all’eccesso pro­prio mentre il nostro muore di «peste bianca»: le «nostre donne» non fanno abbastanza figli, e quelle degli «altri» ne hanno troppi.

Ho passato tutta la mia vita tra Belgrado, dove sono andata a scuola e dove mio marito lavorava, e Zagabria, dove ho terminato gli studi e lavorato. Durante la guerra di una settimana in Slovenia, ero a Zagabria, poi, nel luglio ’91 sono partita per le vacanze e per motivi di lavoro, alla volta di Bel­grado e, da lì, ho seguito la guerra in Croazia. Allorché la situazione si è inasprita al punto che non potevo più viaggia­re né in aereo né in treno, il 15 agosto 1991, ho preso uno degli ultimi autobus per Zagabria. Quando la guerra è inizia­ta per davvero, io non ho mai potuto credere che stesse pren­dendo quelle dimensioni distruttrici, benché l ’avessi vista accadere. A partire dall’insopportabile propaganda condotta dal regime serbo contro i Croati, e da quella, inqualificabile, del regime croato contro i Serbi, avrei dovuto comprendere che la guerra si era insinuata profondamente fra noi e che

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non avrei più visto Goran nel nostro paese comune. Gli attacchi dell’esercito un tempo federale sono cominciati (in Croazia), prima di tutto in Slavonia. A Zagabria gli abitanti sono stati preparati alla guerra facendo salire la temperatura: propaganda, istigazione all’isteria collettiva, istruzioni per organizzare i rifugi e vivere in tempo di guerra. Spinta dalla paura, la gente ha accettato con una fretta sorprendente di collaborare e, con ciò, ha acconsentito alla guerra. C ’erano poche teste fredde (da qualsiasi parte ci si trovasse). Ho disapprovato questi preparativi di guerra e, più tardi, la follia che spingeva gli zagrebini nelle cantine o nei rifugi ogni volta che sentivano le sirene, quando Zagabria non è mai stata bombardata. Non sono mai scesa al rifugio (in molti non l’hanno fatto), pensando che bisognava conservare un mini­mo di dignità umana. Qualche settimana fa, quando a Saraje­vo la psicosi collettiva della guerra e le prime esplosioni era­no appena cominciate, il mio amico, lo scrittore Dzevad Karahasan, mi ha assicurato che non sarebbe più sceso nel rifugio per le stesse ragioni, che avrebbe continuato a scrive­re al suo tavolo, e mi ha invitata a riparare a Sarajevo, dove la gente non voleva la guerra, e dunque non sarebbe scoppiata. E vivo Dzevad? Non sappiamo cosa sia successo a quelli che amiamo in Bosnia, chi è vivo, chi è morto. A Mostar, la casa della madre di Goran è stata distrutta. Mostar è stata rasa al suolo come Vukovar, ci dicono ora. Sarajevo anche, racconta qualche raro testimone....

Dzevad, sarei scesa al rifugio se le bombe fossero cadu­te intorno a me, se mi avessero bombardato, ma a Zagabria la situazione era differente da quella attuale di Sarajevo, face­vano ululare le sirene per spaventarci e seminare il panico, ma tutto era calmo.

Non credevo neanche che stessero per attaccare Zaga­bria. Oggi, sono stupita che non l’abbiano fatto, quando vedo con quale facilità radono al suolo le città della Croazia e della Bosnia-Erzegovina. Quando hanno iniziato a bombar­dare sistematicamente Osijek e le altre città, ho capito che niente avrebbe impedito che bombardassero anche Zagabria, poiché non esiste nessuna barriera morale. Certo, si potreb­bero dire molte cose sugli altri partecipanti alle guerre balca­niche; qui, non ci sono innocenti. In Croazia come in Bosnia, si è riprodotto il medesimo scenario. La difesa nazionale ha preteso che l’esercito, un tempo federale e via via sempre più

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serbo, si ritirasse, ma nello stesso tempo bloccava le caserme e sparava sull’esercito appena faceva un gesto perché aveva l’intenzione di portar fuori le armi e il materiale. C ’era molto malcontento sia da una parte che dall’altra. Ma la responsa­bilità e l’errore sono tuttavia proporzionali alla roz2ezza del­l ’armamento e l’esercito aveva l’armamento più rozzo e l’ha utilizzato. Là dove tutti sono colpevoli, il più colpevole è colui che aggredisce, e che possiede e manovra la forza più grande.

La città si è involgarita, militarizzata, chiusa da barrica­te di metallo e di cemento; un grosso nastro adesivo bruno è stato incollato sulle vetrine durante la notte per non farle rompere in caso d’esplosione, sacchi di sabbia di produzione cinese (la guerra s ’importa) sono stati gettati davanti alle por­te, alle finestre. Alcuni spaventapasseri in camicia nera e in tuta m im etica hanno invaso le strade, si è parlato di «ripulire» il territorio (eliminando gli altri), profughi scon­volti e senza tetto hanno cominciato ad affluire con il loro fagotto striminzito, le finestre si sono oscurate, la notte, la luce è stata spenta, al tramonto abbiamo smesso di uscire, e le sirene che risuonavano più volte al giorno ci hanno impe­dito di condurre una vita normale, di approvvigionarci e di lavorare. Non si poteva fare più niente, comprare niente, del resto, non c’erano più i soldi, anche le banche non ne conse­gnavano più. Tutto è diventato nero, ci siamo arresi, e siamo divenuti dei lombrichi, la notte. Non era il caso di dire, come faceva la propaganda ufficiale, che l’unico colpevole era l ’al­tro schieramento. Chi avesse voluto, avrebbe potuto vedere come contribuivamo alla guerra, foss’anche difensiva. (Senza contare la provocazione, l’odio, lo sciovinismo, il separati­smo che si accanivano anche da questa parte). Ogni parte del conflitto incarnava il diavolo per l ’altra, che a sua volta proiettava su quella tutto ciò che c’era di più spregevole in lei. A causa delle sirene e dell’interruzione della circolazione, come per gli obblighi militari recentemente instaurati per gli uomini, non si poteva né uscire dalla città, né telefonare tra Serbia e Croazia. Ancora non si può. Ho potuto sentire di nuovo la voce di Goran soltanto una volta giunta all’estero, da dove posso chiamarlo, e non ci siamo potuti vedere fino a quando ci siamo ritrovati tutti e due a Parigi.

Qualsiasi cosa è meglio della guerra. E sebbene in Bosnia il rapporto di forze sia molto più chiaro che in Croa­

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zia, sebbene sia evidente che i nostri cento anni comuni di futura vergogna e la nostra tragedia attuale provengano dal­l’esercito e dagli imbrogli di Milosevic, non posso né con­dannare né odiare i Serbi in generale, e sono allergica a ogni odio generale e di principio nei confronti di qualsiasi popolo, come del resto a ogni generalizzazione. Sono d’accordo con Pascal Bruckner quando dice: «Penso che sia un errore iden­tificare un intero popolo con il suo regime (...). La condanna del regime che attraverso la sua politica d’ostinazione e di terrore ha generato non soltanto Vukovar, ma anche molte altre distruzioni, non può essere messa in relazione con la condanna di tutto un popolo» 2.

Bruckner dice anche che la distruzione di Vukovar gli ha aperto gli occhi (lì ha potuto vedere chi era l’aggressore e chi la vittima). Da parte nostra, lo si sapeva da tempo. Ma almeno chi era aperto alle informazioni provenienti da fonti diverse, abituato a leggere tra le righe e pronto ad ascoltare i racconti dei testimoni, riusciva a fare alcune distinzioni: si sapeva che con Vukovar si giocavano almeno due sporchi giochi al momento della distruzione della città da parte dei Serbi. E che, purtroppo, gli uni come gli altri avevano le loro «ragioni» perché tutto si svolgesse così come si è svolto. La parte serba aveva la sua logica di distruttrice di città; quella croata, la logica della vittima che avrebbe avuto finalmente una prova pubblica per attirare la protezione mondiale (come sperava invano) e arrivare alla «sovranità», il sogno autistico delle nazioni di recente costituzione, dei politici e profittatori di guerra. Tutto questo agisce come un male radi­cale secondo l ’interpretazione lacaniana3 che Slavoj Zizek dà del nazionalismo, cioè come un male che precede la scelta fra ciò che è bene e ciò che è male. Si tratta in effetti di un para­dosso che nasce dalla confusione dei livelli tra i quali si svi­luppa l ’intreccio. Il soggetto (politico) non s’identifica qui con la Legge ma con la sua trasgressione. Non si basa sulla legge ma la rimette in questione e gode della sua trasgressio­ne preliminare, del suo rigetto, identificandosi con il Grande Altro. Minare l’identificazione fondamentale in un gruppo (per il tramite della legge) è una vera sovversione, un piacere speciale. Il nazionalismo appare così come un difetto di fun­zionamento inerente al sistema, e come tale, ne diventa la condizione imprescindibile. Con questo procedimento, si distrugge dunque la fondazione esistente e se ne pone una

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nuova come postulato. Così il luogo più in alto è un luogo vuoto di potere. Questo spazio vuoto viene occupato - dal nazionalismo, male nazionale radicale. In tal modo, il male precede il bene come pulsione di morte. La scelta tra il bene e il male non è primaria. La scelta primaria si svolge tra male radicale e subordinazione (al gruppo, alla Legge). La scelta del male radicale rende possibile la soggettività. Noi abbia­mo già scelto il male nella misura in cui siamo soggetti. Il risultato qui non è 0 (zero, niente), ma una nuova Legge. Quindi, il potere legale si fonda sull’assolutezza del crimine.La nazione resta così pre-moderna, come necessaria condi­zione per l’istituzione della nuova Legge.

Purtroppo, la logica «serba», nel caso della distruzione delle città durante la guerra, sì e mostrata «più efficace», nes­suno ha aiutato la Croazia né Vukovar. Le vittime sono state molto più numerose di quanto fosse necessario perché la «logica croata» non ha lasciato che la popolazione partisse, mentre la gente serba era già stata trasferita prima che le città venissero rase al suolo. Vukovar non mi ha aperto gli occhi (come a Bruckner) circa i colpevoli e le vittime (queste non si trovano mai unicamente dove le cerchiamo), ma, in modo del tutto pragmatico, mi ha aperto gli occhi sul fatto che niente può fermare gli aggressori e che quindi non c’è nessu­na ragione per non bombardare anche Zagabria, essendo Iovvio che le categorie morali non entrano affatto in gioco. .Ancor oggi, guardando al passat«, mi meraviglio che non abbiamo bombardato Zagabria. Non era pericoloso. Zaga- ;bria, come d ’altronde Belgrado, si distruggerà da sola, dal suo interno, il terrorismo è evidentemente iniziato. Prenden­do Sarajevo per bersaglio, è ovvio, essi attualmente mirano al cuore della Jugoslavia, al suo nucleo caldo, il più vulnerabile, i il punto dove la Jugoslavia è più vicina a se stessa, più somi­gliante a se stessa nel senso del métissage. La Bosnia era un luogo d’incrocio e di mescolanza di culture, è per questo che coloro che appartengono ad una cultura, ad una (sola) nazio- ;ne vogliono distruggerla. Azzerano così le differenze e la mescolanza. !

Con la distruzione delle città, si nega la cultura che è j ovunque, soprattutto in regioni con popolazione mista come le nostre, frutto di un incrocio e del reciproco e fecondo scam bio di d ifferenze. Ecco l ’obiettivo dei nuovi «purificatori». Non si tratta soltanto di distruggere le città,

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ma le città in quanto gigantesco pentolone (bosniaco) della cultura in cui sono mescolati ingredienti e spezie tra i più vari.

Non posso non citare un brano del discorso che Bogdan Bogdanovic ha tenuto alla tavola rotonda di Belgrado il 25 aprile 1992:

Coloro che compiono orrori e distruggono le città non sono più sol­tanto dei fantasmi che s ’incontrano nei libri; essi sono vivi e vegeti e si trovano tra noi. Non ci resta che domandarci da quale abisso del­l’anima popolare sono nati e dove vanno. Su quali false premesse si fonda la loro rappresentazione del mondo? Quali sono le immagini che li ossessionano e di che natura sono?

Qual è il morbido album che sfogliano? È chiaro che non è il libro idilliaco che custodisce la memoria della città. H primitivo non accet­ta che qualcosa abbia potuto esistere «prima di lui», la sua eziologia è semplice, esclusiva, unica, soprattutto quando è stata elaborata in modo sistematico, grazie agli slogan pronunciati nei caffè. Riconosco che è difficile descrivere i fenomeni che qui si stanno evocando. Per­ché essi si situano senza dubbio oltre ogni descrizione. È per tale motivo che bisogna considerare queste riflessioni come una sorta di cupa diagnosi personale che mi permette, con il soccorso dell’intui­zione, di cercare nell’animo dei primitivi qualcosa che assomigli all’antica e archetipica paura della città, così come la si riscontra nel­le epoche passate che riferiscono delle loro conquiste. Soltanto... un tempo, molto tempo fa, si trattava di una specie di «santa paura» che veniva quindi sottoposta a regole, soffocata. Oggi si può parlare uni­camente di sfrenate rivendicazioni di bassissimo livello.Mi sembra di individuare nell’animo im pazzito dei distruttori di città una sinistra preoccupazione nei confronti di tutto ciò che è urbano, e dunque nei confronti delle complicate serie semantiche dello spirito, della m orale, del linguaggio, del gusto, dello stile. Voglio ricordare che la parola «urbanità» dal XIV secolo ha lo stes­so significato nella maggior parte delle lingue europee: l’educazione, la coerenza, l ’accordo tra il pensiero e la parola, la parola e i senti­menti, i sentimenti e i gesti, ecc. Per qualcuno che non è in grado di sottostare alla legge dell’urbanità, la cosa più facile da fare è liqui­darla, molto semplicemente.

La sorte che hanno subito Vukovar, Mostar, Bascarsija, la città vec­chia di Sarajevo, mi ricorda in modo funesto quello che ha già corso il rischio di essere Belgrado. Non penso che nuovi invasori appariran­no sotto le mura di Kalamegdan, per distruggerla. Temo i nostri capi come distruttori. Poiché le città non si annientano solo dall’esterno, fisicamente; si possono distruggere anche spiritualmente, dall’inter­no. È questa la variante più certa. Con la forza delle armi, l ’invasore

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ci costringerà ad accettarlo come concittadino. Nelle nostre condizio­ni e nelle regioni balcaniche dove le migrazioni non sono un fenome­no raro, il pericolo si configura in modo netto. Le analogie sono ine­sorabili. Se consideriamo, ad esem pio, che la lotta di liberazione nazionale, durante la Seconda Guerra mondiale, rappresentò anch’es­sa un grande esodo, una migrazione armi alla mano, una specie di contributo coatto della popolazione non urbana alle città, possiamo immaginare in tutta tranquillità le conseguenze della ripresa di un medesimo scenario. C ’è chi fra noi certamente ricorda fin nei minimi dettagli a cosa assomigliò questa salutare rigenerazione delle città4.

D’altronde, non è solo in questo testo che Bogdanovic parla, post festum se si può dire, del fenomeno della distru­zione delle città. Egli ha dedicato la sua vita alla riflessione sulla distruzione e la costruzione di città, ma richiamando qui il loro annientamento rituale, come tutti noi, con impo­tenza, guarda da vicino i distruttori all’inizio dell’opera.

Tutto ciò è molto normale, diranno René Girard, Michel Serres e le teoriche del femminismo, ma è la prima volta che la nostra generazione si confronta con questo pro­blema.

In Bosnia-Erzegovina, coloro che detestano le città sono i papani (papa), e coloro che le amano rappresentano la raja. La raja (termine che indicava il popolo durante la domi­nazione turca), è per il momento annientata, le città rase al suolo: Mostar, Sarajevo, Foca, Doboj, e molte altre, anche in Croazia. Gli abitanti che rimangono, quelli sfuggiti miracolo­samente alla morte e alle migrazioni di massa, scontano la carestia, le ultime ortiche sono state mangiate, i bambini muoiono, stipati negli scantinati, per mancanza di cibo, Sarajevo è bloccata, l ’aeroporto è fuori servizio, le forze ser­be di Karadzic acquartierate sulle colline vicine tengono la città in pugno. La gente lascia la città a piedi, si spara sulle colonne di civili.

Quando l’India e il Pakistan si sono divisi nel 1948, durante una sanguinosa guerra fratricida, i treni che traspor­tavano gli sfortunati profughi partivano in tutte e due le dire­zioni. I musulmani andavano verso il Pakistan e gli abitanti del Sind verso l’India. I convogli arrivavano a destinazione, colmi di gente sgozzata.. ..(Fu altrettanto sanguinoso anche il più recente distacco del Bangladesh). Khunshwant Singh descrive in modo magistrale quei terribili avvenimenti nel suo libro, A train to Pakistan.

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È di questo genere di urbanità, di civiltà, che si parla oggi nei paesi jugoslavi, in India, nell’ex Unione sovietica, ovunque si rinnovi lo zelo nazionale o religioso e la politica della pulizia (che del resto vanno di pari passo). Ciò si verifi­ca ovunque la matrice di base, etnica e culturale, sia mista. Le differenze, invece di trasformarsi in vantaggi, cosa che potenzialmente sono - perché arricchiscono -, vengono di nuovo negate - in nome della differenza specifica (di un gruppo). Si accetta la differenza, quest’idea uscita dal 1968, bella certo, ma imprecisa, senza mettere però in rapporto tutte le diversità con la propria, anzi, al contrario, la differen­za trionfa come principio di discriminazione nei confronti dell’Altro e di ciò che è diverso. Quando nel 1968 e più tardi negli anni ’70, in pieno movimento femminista, si levò la parola d’ordine «viva la differenza!», ne ho presentito tutta l ’ambiguità e ho attirato l’attenzione su questo. Perché avrebbe potuto aspirare alla democrazia così come essere una parola d’ordine dell 'apartheid, e l’apartheid generalizza­to, più che tra i bantustan, infierisce su di noi.

Non è così certo che la disgregazione del socialismo sia solo questo e nient’altro. Senza addentrarsi in analisi che indubbiamente mostrerebbero le molteplici cause di questi drammatici avvenimenti, temo che lo scenario più probabile sia quello dell’inselvaggimento totale e della vampata di disor­dini razziali, etnici, nazionali, di destra (tendenze politiche e livelli di sviluppo tutti confusi) sia nell’Europa dell’ovest che negli Stati Uniti. L ’incendio potrebbe ben allargarsi. Alla disgregazione del socialismo come forma particolare del capi­talismo succede forse quella del capitalismo come origine del socialismo. Si tratterebbe esattamente dello stesso fenomeno. Le rivolte razziali a Los Angeles erano un fenomeno così radi­calmente diverso da quello prodottosi nella Jugoslavia di oggi e che minaccia di espandersi ai Balcani e all’Europa? Direi che l’unica differenza risiede forse nella potenza economica grazie alla quale l’Occidente può difendere il suo arroccamento più a lungo del socialismo, che ha fallito. E, naturalmente, rinforzar­lo con la repressione. E, nonostante ciò sembri paradossale, questa difesa, questa scelta contro l’incrocio e la mescolanza si realizzerà malgrado l’unione europea. Quando si renderà necessario per difendersi dalle «orde selvagge dell’Est» (in apparenza non è cambiato niente storicamente per quanto riguarda questa paura immaginaria d’una invasione dall’Est), il

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nazionalismo europeo «sovra-nazionale» (a cui tende l’Europa con la sua unificazione), si esprimerà con la difesa dei valori della «nostra» civiltà, quindi della civiltà europea. Del resto, l’Europa ha un’esperienza di molti secoli in questo campo e non è innocente. La storia del colonialismo, e l’eurocentrismo culturale in cui ci troviamo tuttora, non erano nient’altro che questo. L ’unica soluzione non sperimentata dalla civiltà e quindi (chissà) la sola con un senso, potrebbe essere la scelta cosciente dell’incrocio, ma in nessun caso quella della cultura nazionale.

Anche il regime socialista in Jugoslavia è stato cieco per quanto riguarda questa scelta e non vi ha riflettuto. La scelta dell’incrocio delle culture è maturata senza che se ne jaccorgesse, come un dono che non meritava, che il regime non ha coltivato né sviluppato in vista d ’una nuova possibi­lità di preservare la comunità. E questo perché non possiede né teoria né linguaggi. In un certo senso, sempre involonta­riamente, è stato rafforzato dalla politica di non-allineamento ■ e dal legame con il Terzo mondo, detestato all’epoca del nazionalismo per le stesse ragioni di purismo nazionale. Il jcalderone jugobosniaco ignorava cosa si stesse tramando alle tsue spalle, nel bene e nel male. j

La raja, in Bosnia-Erzegovina, rappresenta la semplice fpopolazione di città, quella che costituisce la città, nel senso !positivo e senza presunzione. E la massa, ovvero quella che Jviene considerata come tale, ma che si oppone al gregarismo, 'poiché il concetto di raja è prodotto dall’interno della stessa e porta con sé la giusta resistenza alla massificazione e all’omo- jgeneizzazione. La raja ha una naturale e innata coscienza di jclasse, che non è marxista, ma è legata alla vita reale, la raja !guarda con humor e disprezzo, forse con un filo di fatalismo, jal potere, la raja, prudentemente, non partecipa al governo. j La raja non ha etichette nazionali e non appartiene ad un gruppo ideologico e determinato in senso nazionale. Vicina al jproletariato o in parte simile ad esso, tuttavia non vi si identi- }fica completamente perché la sua esistenza non si gioca sol- }tanto nella componente dei rapporti di produzione, ma anche |nella vita locale e urbana, quella dei caffè (che qui è la princi- jpale forma di «vita pubblica»). In parte, la raja è schiva e si ipreserva così, mediante la solidarietà, conservando nel suo !insieme uno spazio per l’individualità di fronte all’esterno, !per il concetto e il nome. Ma essere la raja non è un atteggia- I

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mento politico, la raja non è un soggetto politico, perché (a differenza del proletariato) essa è sempre composta da indivi­dui e non pretende l’universalità. La raja è una popolazione civilizzata, con una cultura urbana, che viene tormentata dalla vita e/o dal potere, e sulla quale ora cadono le bombe. La raja è composta da Serbi, Musulmani, Croati, Ebrei, tutti insieme.I loro interessi (salvare la vita stessa) sono comuni, si assomi­gliano.

I papd (o papam), nel linguaggio offensivo della raja, sono i selvaggi delle montagne che non conoscono la città e che non vi hanno mai vissuto (come noi indo-europei prima dell’attacco al subcontinente indiano). I papd sono papd (per la raja), indipendentemente dalla loro nazionalità. Perché la nozione di papak appartiene anche all’apparato concettuale della raja. Ma i papd vengono dai villaggi che molto più delle città (con popolazione mista per definizione) sono etnica­mente «puri» o «più puri» e, cosa ancora peggiore e più evi­dente in questa guerra, i papd si sono divisi, secondo tale principio, in unità militari e paramilitari, per distruggere una volta per tutte la mescolanza e l ’incrocio delle culture che erano l’unica chance del territorio. Chiamati collettivamente papd dalla raja, i papani appaiono spesso (ma non sempre) divisi secondo il principio etnico e nazionale. Questo nome collettivo ha tuttavia un senso per loro, a dispetto delle diffe­renze: essi condividono (in questo caso) l’ostilità nei confron­ti della civiltà urbana e ciò a prescindere dalle diverse nazio­nalità. La popolazione delle città è troppo mista, infatti, per­ché si possano bombardare solo i Musulmani o altri, allora si bombardano tutti quelli che ci vivono. E interessante notare che i papd sono considerati all’inizio come individui e non come un’orda (benché si rischi presto di associarli al calpe­stio degli zoccoli di un bestiame devastatore - in serbocroa­to, la parola papak indica gli zoccoli dei ruminanti), e questo, nelle attuali circostanze, è un modo di vederli molto cavalle­resco. La raja è capace di dimostrare una tale magnanimità poiché le sue fila sono da sempre rinforzate e ingrossate dai papani e la raja accetta di primo acchito la mescolanza. La raja, mai sottomessa al gregarismo, non accusa l’altro, nono­stante gli eventi dimostrino che l’avrebbe meritato.

La Bosnia-Erzegovina è distrutta, schiacciata, i dirigen­ti serbi («jugoslavi») e croati se la contendono e se la sparti­scono. Le formazioni paramilitari, gli estremisti di una parte

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e dell’altra, devastano il paese, si combattono per i loro terri­tori e li «purificano» sul piano nazionale, cacciando con invi­sibili e impossibili migrazioni, perlopiù a piedi, i gruppi di sventurati profughi che hanno perduto la loro famiglia, la casa e i beni. Queste colonne di persone vengono massacrate lungo la strada, è difficile oggi fuggire dalla Bosnia per rag­giungere un luogo sicuro. Sembra che l’Europa e le Nazioni Unite per il momento abbiano abbandonato la Jugoslavia al suo destino, e la stessa cosa hanno fatto gli Stati Uniti. Que­sto paese povero, che ha perduto la sua importanza strategi­ca (nel senso in cui la si intendeva una volta) con il crollo dell’Urss, non ha alcun interesse per loro. Ma non sono abbastanza lungimiranti. Perché, se oggi si tratta delle nostre frontiere, è probabile che domani sia il turno delle vostre, la cosa è certa. Se oggi le tribù guerriere hanno dilagato qui, domani saranno tra voi. Che ne sarà delle nostre migrazioni in Occidente (chi fermerà questo flusso? Ricordiamoci le immagini dei boat-people albanesi, l’anno scorso, e il modo in cui le autorità italiane li hanno accolti!), della vostra estre­ma destra e dei suoi discorsi xenofobi, del vostro marciume interno, degli schiavi della miseria e della povertà, della gente di colore e degli altri esclusi che nascondete nelle periferie sotto le spoglie della finta prosperità e della libera concor­renza? Sarà sufficiente che qualcuno sollevi il coperchio della pentola, come è accaduto recentemente a Los Angeles, affin­ché anche voi abbiate la vostra «Bosnia», la libanizzazione e la balcanizzazione oppure la jugoslavizzazione. L ’unica cosa che vi è venuta in mente fino a questo momento è stata di chiudere e difendere le vostre frontiere, creare un cordone sanitario tra voi e noi. In questo modo non fate che ripetere il secolare gesto che ha condotto a tutto ciò. Niente di nuovo è stato inventato. Nessuno ha osato coscientemente e su gran­de scala, coltivare, curare e sviluppare la mescolanza rispet­tando le differenze, poiché i confini e i muri non si trovano soltanto nelle geografie politiche, ma anche nelle teste.I paesi jugoslavi sono devastati, si prepara la guerra civile in Serbia. Le trincee sono scavate, le armi ripartite e il popolo che non si è nutrito coi miti della fondazione e dell’origine, soffre. Coloro che disprezzano le città vietano la memoria, la continuità al di fuori di essi. Come nella guerra descritta nel Mahâbhârata, la vittima è una sostituzione. La vittima viene sostituita, quelli che vengono sacrificati «ci» rimpiazzano per

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non farci inserire nella continuità dell’altro, o per farci rubare e usurpare un posto. La vittima muore al «nostro» posto, e noi cerchiamo (con il mito della fondazione, con la nazione) di dimostrare una trascendenza e di sfuggire così alla morte. «L ’origine è quindi il punto oltre il quale non si risale. L ’ori­gine è la scatola nera verso cui nulla ritorna» scrive Michel Serres 5. Roma è una città eretta sulla lapidazione, sulla distruzione delle antiche colonie, sulle tombe e sulla sofferen­za delle vittime (la cui lingua non ha senso, non viene compre­sa, nel discorso dominante), sul massacro. È questa la fonda­zione. Non si tratta di una rinnovata offensiva del Medioevo, è un fenomeno preistorico integrato nella storia dell’umanità, e perciò è anche il segno della modernità.

Gli omicidi, dapprima, formano una serie, la famiglia fondatrice ha inizio, essa fornisce un’immagine globale: la madre è seppellita, un gemello linciato, l’altro fatto a pezzi. Questa serie continua, fino a Giulio Cesare, fino alla nascita del cristianesimo, e oltre. È la fonda­zione corrente, che ritorna nel tempo e potrebbe servire per la delimi­tazione delle ere e delle epoche. Difficilmente viene evidenziata. L ’ar­roganza della nostra cultura risente del suo barbaro fondamento6.

L ’Europa costruisce, rinforza, definisce e ridefinisce invano la sua frontiera orientale. L ’Eurasia è fisicamente un continente, e l’Asia si estende fino a una Londra tropicalizza­ta (Salman Rushdie). La macchina dell’odio, della fondazio­ne e della scrittura della storia nazionale è ovunque la stessa e semina la morte.

Ogni anno, a Ahmedabad divampano nuovi incendi di negozi e di baracche, quando il corteo induista chiamato rathyatra scende in strada. Sui grandi carri antichi, vengono condotte le statue del dio Jagannath e della sua corte, sono gli stessi fedeli a drarle con le corde, scortati da una folla esultan­te. Ma la processione passa per il quartiere musulmano, vicina alle botteghe dei sarti, degli artigiani, in gran numero poveri, ai quali si aggiungono anche alcune donne. Basta il lancio di un sasso, eterno atto di provocazione, affinché scoppi la vio­lenza e le botteghe e le case s’infiammino, mentre si dà il via all’invasione delle case, al saccheggio, allo stupro, all’assassi­nio, alla tortura. I poliziotti guardano i combattimenti selvaggi da una distanza rispettabile e per la maggior parte del tempo non intervengono, i camion che hanno scortato il dio dalla sua

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uscita hanno fatto preliminarmente il pieno di pietre, benzina e armi, «nel caso che». Restano le macerie fumanti, poveri incapaci di rialzarsi, che hanno perduto i loro attrezzi e le loro botteghe, senza più mezzi di sostentamento né case, senza più la merce comprata e le materie prime che devono pagare, sen­za sostegni. Ogni anno, l ’evento si ripete, i sopravvissuti o coloro che sono sfuggiti alla battaglia capitolano e vengono spediti in campi provvisori e malsani (anche le case lo sono generalmente, ma nei campi è peggio e più pericoloso, a causa delle epidemie). Numerosi sono quelli che non vogliono ritor­nare nelle loro case, pur se ne resta ancora qualcosa. A volte, i campi medesimi diventano il bersaglio degli attacchi, alcune famiglie li hanno subiti durante gli anni. Lo Stato organizza qualche volta campi per i profughi o assegna loro un contribu­to, un piccolo aiuto e un riparo - questo fomenta la gelosia dei poveri dei villaggi circostanti o di quelli d’appartenenza nazio­nale e religiosa opposta, e la violenza continua... Come nel quartiere di Tilak-Vihar, a Delhi, dove gli appartamenti sono stati assegnati alle famiglie delle vedove Sik, dopo le grandi violenze perpetrate ai loro danni in seguito all’assassinio di Indira Gandhi nel 1984 per mano di due Sik. Le rappresaglie trascinano altre rappresaglie che trascinano altre rappresaglie ancora ecc... la triste monotonia del massacro si ripete all’infi­nito. Le famiglie colpite hanno ottenuto le abitazioni (e le vedove, la promessa mai mantenuta di un impiego) nei dintor­ni dei tuguri della miserabile colonia di Hariana, che non han­no mai ricevuto il minimo aiuto e che per questo motivo scari­cano la loro rabbia contro gli «usurpatori» che si sono appena insediati. Dall’altro lato della colonia, molto vicino, sono state sistemate senza riflettere (o intenzionalmente?) le abitazioni per i profughi induisti del Punjab sfuggiti alle violenze dei Sik. Queste colonie non possono coabitare. Dopo il massacro di passeggeri induisti su un autobus a Muktsar, in Punjab, nel 1986, da parte di presunti terroristi, si è assistito, a Delhi, a nuovi pogrom contro i Sik e i musulmani. Ci sono stati scontri tra gli abitanti di Tikar Vihar e un gruppo di Hariana giunto dai tuguri vicini. Due abitanti sono rimasti uccisi nel corso di una sparatoria della polizia. Una donna dice, impotente: «Uno dei miei figli è Sik, l’altro, induista, dimmi, figlia mia, con quale devo vivere?». La tradizione vuole che, nelle buo­ne famiglie induiste, almeno un figlio diventi Sik, che si con­verta. Attualmente, in Punjab, è diventata una cosa impossi­

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bile, il sangue viene versato da tutte le parti. Furibondi, i gio­vani integralisti Sik minacciano, uccidono, attaccano, bracca­no i venditori di alcool e carne. Con l’intimidazione, sono riusciti a far scomparire in un batter d’occhio questi negozi così come le edicole di giornali (non Sik) da tutto il Punjab. Il tempio d’oro di Amritsar è il rifugio di pericolosi assassini armati. Vogliono il Kalistan, uno stato sovrano, «puro» dal punto di vista nazionale e religioso. Vista la piega che pren­dono gli avvenimenti, essi possono spuntarla. Nell’India «no- n-violenta», gruppi politici di ogni parte, piccoli e grandi, avvelenati dalla religione e dal nazionalismo, seminano il ter­rore, chiedono la separazione, uccidono. La situazione è la stessa nei paesi circostanti: il governo dello Sri-Lanka ha bombardato per due giorni Jaffna e il suo ospedale, l’unico della regione, nella sua provincia del nord. L ’ospedale colpi­to per otto volte, ha dovuto chiudere. Gli autonomisti tamil hanno piazzato bombe nei luoghi pubblici, massacrato bus interi di civili che viaggiavano verso Trincomalee o verso altrove. Quando la violenza scoppia, non ci sono domande, né spiegazioni, né salvezza, né niente che provi chi ha comin­ciato (è sempre l’altro), né accordi. Non c’è che l’accecamen­to, la follia, la crudeltà, la sete di sangue, il fanatismo. La logica del gruppo, quale esso sia, è determinata dall’apparte­nenza e dalla nazionalità d ’origine, e si fonda sul sacrificio di innocenti: più ci sono «nemici» e meglio è, perché è così che si giunge alla fondazione e la loro morte è la prova della loro colpevolezza. L ’aggressore lascia volentieri la sua firma sul luogo del crimine, s’iscrive nel luogo del massacro ed entra in tal modo in un luogo vuoto rimuovendo il ricordo di chi è stato ucciso. La morte, come segno o traccia, come surplus di violenza (perché è inutile e superflua), garantisce la sua iscri­zione. Ecco come l’aggressore, o il suo gruppo, si autolegitti­ma. L ’omicidio per il suo autore è una «elevazione» sulla sca­la ontologica: senza violenza, egli non esiste - dal momento che esiste solo in quanto bruto. Ogni identità passa attraver­so l’Altro, ma diventa paradossale quando distrugge questo Altro - che è sempre l’Altro da noi. Da qui, la logica della morte. «Io» - al posto di chi è stato ucciso. Le vittime inno­centi non sono errori dovuti alla mancanza di precisione del­la violenza; sono, al contrario, indispensabili e previste dal procedimento. L ’aggressore vive nel presente, «dà un senso alla sua vita» («dà un senso alla guerra», secondo le afferma­

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zioni nazionaliste serbe) nell’immediato, e non neU’awenire, non lascia la valutazione del senso della vita e dei suoi intri­ghi a un domani o a un altro. Anzi, si tratta di qualcosa di completamente staccato dal tempo e dal contesto, un fatto che il contesto stesso definisce con un grande zero. Il carnefi­ce interiorizza la sua vittima, si nutre del suo sangue, assorbe il senso della sua vita scoperto con la sua morte. L ’aggressore si sforza di dare alla sua vita un senso «più alto», non accetta i valori correnti, rimette in discussione l ’ordine esistente: si crea da solo i suoi punti di riferimento - uccidendo. Più la vittima è innocente e più l’atto abominevole è efficace e l’ag­gressore raggiunge uno stato elevato nella struttura simbolica appena riorganizzata. A causa di una qualche perversità o ingenuità, la parola sanscrita smarana, che significa (testual­mente) memoria, comprende anche la parola marana, agonia.

Parigi, 24 maggio 1992

Postilla: l ’ultima parte del testo, che riferisce delle violenze a Ahmedabad, scritta a Bénares nel 1987, è stata qui aggiunta a titolo d’informazione.

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NOTE

1 Si veda: D ebipbasad C hatopadhyaya , History of Science and Technology in Ancient India. The Beginnings, introduzione di J . Needham, Calcutta 1986.

2 P a s c a l B ru c k n er , Vukovarski prelom, «Vreme» (Belgrado),4.5.1992, p . 26 .

’ S lavo] Z izek, Il sogno del nazionalismo spiegato dal sogno del male radicale, relazione al Collegio internazionale di filosofia, Parigi,23 .5 .1992.

4 B o gd an B ogdanovic' Il massacro rituale delle città, cit.5 M ich e l Serres, Rome. Le livre des fondations, cit., p. 33.6 Ivi, p. 123.

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NAZIONI E RAGIONI

Potremmo forse dire che nella guerra jugoslava ogni nazionalità ha la sua propria «ragione» e che secondo ogni logica, esse si «equivalgono». «Avere la propria ragione» potrebbe qui definirsi purtroppo anche con l’espressione inglese dall’accezione appena differente - «to have one’s own mind». Dal momento che si è scelto di preferire in qualsiasi caso il proprio gruppo rispetto agli altri e dal momento che ogni gruppo ha deciso così, si possono stabilire le «regole» su due livelli. Al livello di tutti i gruppi presi insieme e visti dall’interno, queste logiche, queste ragioni, si equivalgono. Ma al livello di ogni gruppo preso separatamente, non posso­no affatto equivalersi, si escludono l’un l’altra. Si potrebbe affermare che i malintesi nascono quando la logica di ogni nazione non riconosce quella di tutte le nazioni. Sulla spiag­gia delle nazioni, infatti, non c’è un posto al sole per tutti.

L ’ex-Jugoslavia venne appropriatamente chiamata uno snakepit (fossa dei serpenti) da alcuni giornali americani. E quello che noi siamo diventati: un groviglio di vipere. O meglio, il male assoluto. Ho visto il film spettacolare e terri­bile di Werner Herzog sulle conseguenze della guerra nel Golfo. II suo titolo è Lezioni di tenebra. Il più delle volte, gigantesche torce in uno spazio apocalittico arroventato, e poi, la penosa e sovrumana estinzione di quei pozzi, di quella pianura sprofondata nel petrolio, impantanata nel catrame, satura di colla scura, distrutta forse per sempre. Come sem­plici spettatori lontani, anche se compassionevoli, eravamo al riparo dal fetore insostenibile e dallo straordinario calore bollente. Uno dei segmenti del film («Protuberanze») mostra in dettaglio i sussulti d’una superficie di liquido nero ripresa da molto vicino, con le spesse nubi vischiose, grigie e pregne di morte assoluta. I cumuli petroliferi al sole per la ripresa del cameraman di Herzog, con i loro bordi dorati, rimanda­no un’immagine quasi barocca, di secessione, di ineluttabilità come la fine del mondo realizzata. Dopo il giudizio universa­le. Colori a volte simili a quelli di Turner, e penso ai quadri

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più rari, scuri e contrastati (un contrasto causato dal sole die­tro la nuvola), ovviamente se si dimentica di che cosa si trat­ta. E così che immagino il nono girone dell’inferno. Herzog accompagna tutto ciò con la sua voce monotona dall’accento tedesco (l’effetto è calzante), leggendo in inglese alcuni pas­saggi dell’Apocalisse con sottofondo di Wagner. Mi ricorda vagamente, e non proprio a proposito, Senza sole di Chris Marker, ma molto più temibile, più patetico. Senza sole aveva una dolcezza interna, una rassegnazione, quel film era una certezza e un raccoglimento, non necessariamente un ammo­nimento. Questo qui, della rassegnazione non mostra che la sofferenza e l ’impotenza. Nella sua muta condanna dell’orro­re, ritorna su un’etica che Marker, credo, escludesse dalle sue intenzioni (sebbene raggiunse una incontestabile etica dell’estetica). Il compimento, l ’apice della distruzione, del­l’orrore stesso, quelle Lezioni di tenebra. Non c’è nessun commento politico. Non ce n’è bisogno. Lo spettatore sa di essere esposto al culmine del male. Il pericolo non è il pieno sole, sono le zone d’ombra. Mi chiedo se Herzog tornerà in Bosnia. Chissà.

Come laicizzare di nuovo il concetto di nazione? Come sradicarlo da quello che è diventato, una giustificazione della violenza e dell’assenza di democrazia? In fin dei conti, i nazionalismi non sono necessariamente il nostro destino e questo non avrebbe dovuto contenere la fatalità delle nazio­nalità. Neanche nell’Europa post-nazionale. E non credo affatto alle fatalità storiche. La nazionalità avrebbe potuto essere soltanto un’identità fra molte, e bisognerà proprio che un giorno ritorni a questa possibilità se noi non ci uccidere­mo tutti. L ’epurazione etnica è già compiuta. Ma la naziona­lità non può coprire tutto l’orizzonte né divenire la sola iden­tità e l ’unica legittimazione dei nuovi Stati. Se lo diventa, sarà questa, la nazionalità (o la «nazionalità»), il criterio inconte­stato di ogni estromissione. La nazionalità è una visione par­ziale del mondo, mentre nel nazionalismo viene universaliz­zata. Ma si tratta d ’una universalità falsa e abusiva. La nazio­ne, che è all’origine dell’esperienza moderna della democra­zia europea \ è ugualmente legata sia al sistema liberale mon­diale che al «totalitarismo liberale mondiale» 2.

Si potrebbe porre in margine una questione importan­te di cui non vediamo bene ancora la portata. Poiché ci sono

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troppe nazionalità per troppo pochi Stati possibili, non è for­se soprattutto il concetto di Stato ad essere chiamato in causa con l’esplosione degli odi e delle guerre nazionaliste?

Lo Stato-nazione, cioè lo Stato a nazionalità unica, è un’idea assurda in un paese misto, se deve designare un’iden­tità etnica. Almeno è così che i capi di guerra comprendono il concetto di Stato-nazione e di nazionalità: identità e origine etnica comune, criterio della pulizia etnica.

E così anche che interpretano il modello francese, al quale essi talvolta si riferiscono. L ’idea dello Stato-nazione concepita in tal modo conduce necessariamente alla violenza. Da qui, almeno due possibilità: la prima, quella messa in pra­tica, la «pulizia etnica», che comporta in poco tempo che il paese non sia più misto. E la seconda: il concetto (se ne esiste uno) di Stato potrebbe forse cambiare alla luce di nuovi avvenimenti. Si avrebbero allora (al termine delle guerre in corso) una quantità di mini-stati etnicamente più o meno puri e all’inizio certamente autistici, in parte Stati regionali, con ossessioni identitarie di sovranità e, peggio, di soggetti­vità collettiva e di legittimità.

Ritengo che i due movimenti stiano per realizzarsi e che non sia finita per l’Europa, e non solo per l’Europa. È molto probabile, intanto, che i nuovi Stati ritornino in breve tempo a una ristrutturazione o federazione regionale imposta dal­l’imperativo economico e dalle necessità di comunicazione. Ma a che prezzo di distruzione, di vite umane e regressione storica! Perché le città saranno distrutte, come è evidente già da ora, mentre il processo democratico è sempre stato legato all’urbanizzazione. E questa sarà tutta da ricreare! E, cosa ancora peggiore, popolazioni intere saranno state massacrate.

E necessario distinguere tra Stato e nazione o, se si vuole, (per una maggiore chiarezza terminologica), tra lo Sta­to e la nazionalità. Il problema non si presenta in un paese uninazionale, non si pone nella tradizione dello Stato-nazio- ne, dove c’è una identità sottintesa, sebbene ambigua e per nulla innocente, fra le due cose. Ma è importante che noi, non potendo seguire questo modello, affrontiamo il proble­ma. La nazionalità non scomparirà. Non potrebbe tuttavia essere ricondotta ad un concetto giuridico, istituzionale, cul­turale, piuttosto che all’assoluta identificazione dell’indivi­duo con il suo gruppo attraverso l ’abdicazione dell’indivi­dualità? (Questo, è vero, appartiene al campo della cultura,

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anche se «incolta». Così come appartiene ad una psicopato­logia delle masse). Dal punto di vista storico, la costituzione della nazione e della nazionalità in Europa è in rapporto con l’esperienza della democrazia, al contrario dell’identità ses­suale che, ad esempio, nel caso delle donne, non ha alcuna comunanza con la nazionalità, se non quella della negazione del femminile e della donna attraverso il nazionalismo. La nazionalità (nel nazionalismo) tende a livellare tutte le altre

differenze. Ma farle sparire non significa affatto restituire loro la parità o l ’uguaglianza. Significa semplicemente la subordinazione di altre differenze alla nazionalità. Inoltre, la pluralità, le differenze, non rappresentano di per se stesse una garanzia per la democrazia. Sono solo una realtà peraltro non decisiva in termini di giustizia e di democrazia. Lo slo­gan di sinistra del ’68 «viva la differenza» venne parimenti utilizzato come motto dell 'apartheid. Ma dovrebbe verificarsi il contrario: la democrazia, per essere tale, dovrebbe garanti­re l’espressione delle pluralità. Pertanto, sia in senso pratico che politico, è senza dubbio molto più difficile fare spazio, in una medesima cornice, per molti piuttosto che per uno. La nazione è la prima cornice dell’evoluzione della democrazia moderna (purtroppo, l’opposto non è vero). E forse questa la ragione per cui la nazione, non a caso, viene invocata dalle società postcomunitarie e dagli Stati in estinzione, come garante del passaggio alla democrazia. Ma la nazione, nel senso di nazionalità, non è il garante tanto atteso. Il contrario avrebbe forse potuto esser vero in determinate condizioni, se la democrazia occidentale non fosse stata quella che è, cioè una falsa universalizzazione e una «democrazia» limitata con­cepita soltanto per alcuni, se questa può ancora definirsi democrazia. Non fu mai, in effetti, fin dalle sue origini gre­che, concepita per tutti, ma soltanto per alcuni: le donne ne erano completamente escluse, così, come gli schiavi e gli stra­nieri. Per l’esclusione dunque erano validi diversi principi. L ’abusiva identificazione della nazione (nazionalità) con la democrazia, sostenuta dai nazionalismi, non è che una conse­guenza logica di una democrazia siffatta, cioè della democra­zia occidentale incompleta. Questa, di conseguenza, è intesa in modo parziale dai nazionalisti: così la democrazia dei Ser­bi, o ancora la democrazia croata, come se il concetto di «democrazia» potesse sopportare epiteti nazionali, come se questa non fosse una contradictio in adjecto. Ora sembra

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ovvio che, mentre l’idea di nazione minaccia di distruggere l’Eurasia prima di ricostruirla (forse) attraverso lunghe, spos­santi e molteplici guerre, noi dovremmo inventare un nuovo concetto di democrazia, o rifondarlo. Sarebbe da ripensare con una nuova attenzione rivolta non soltanto ai diritti del­l’individuo, ma anche a quelli delle minoranze. Perché, in ogni contesto, sono proprio le minoranze ad essere minaccia­te. Il problema nasce anche dalla difficoltà che s ’incontra nel definire la minoranza nelle situazioni, molto frequenti, dove non c’è nessuna maggioranza.

Non è solo l’Europa dell’Est a crollare, non è in scacco solo il socialismo: l’Europa dell’Ovest, che amava considerar­si l’Europa intera, è sconvolta, l’insieme della costruzione binaria affonda necessariamente quando crolla uno dei due termini.

L ’Europa sarà, presto o tardi, obbligata a guardare il suo Altro, i suoi Altri, in faccia. Questo Altro è proprio il suo, prodotto dall’esclusione come dall’interiorizzazione rie­laborata. L ’Europa si è sempre autodeterminata nella sua storia ridefinendo le proprie frontiere verso l’Est e, infine, verso l’Asia. Non si è lasciata accerchiare dall’Altro, perché questo Altro (che sia l’Europa deE’Est o decisamente l’Asia) non gli si rivela mai (tra i suoi fantasmi) come co-soggetto. Tutt’al più come vuoto, assenza. E qui d’altronde la distanza che può esserci tra i fantasmi che popolano una mitologia autofondatrice e la pratica della politica. In questa, dopo decenni di guerra fredda e dopo il disgelo, venne il momento del riconoscimento di un potenziale soggetto nell’Altro, essenzialmente alla fine del duetto patetico che ha avvelenato il nostro secolo: con la perestrojka e il grande amore tra Est ed Ovest dell’ultima ora. Vi ha contribuito anche lo spaven­to, perché Est ed Ovest sono necessariamente dei vasi comu­nicanti. E impensabile che i cambiamenti abbiano avuto luo­go da una parte senza interferire con l’altra. La questione infine è tecnico-geografica, e nella storia quella di sempre: dove passeranno le nuove frontiere che delimitano l’Europa e che l’Europa si darà, incorreggibile? Al momento, stanno per essere create attraverso i paesi jugoslavi e i diversi focolai di guerra.in corso nell’ex Urss. Poco a poco, attraverso que­sti conflitti, si stabilisce chi sarà all’interno e chi resterà disperatamente al di fuori delle frontiere dell’Europa. L ’Eu­ropa resta selettiva, non cambierà affatto la sua posizione.

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Meccanismo questo che la ferisce sempre profondamente, con le guerre, poiché l’Altro escluso è nello stesso tempo un prodotto proprio. La follia dei nazionalismi non è che la messa in opera di tale principio. La condizione e lo sbocco naturale del nazionalismo è la guerra. Esso si costruisce un supporto con il lavoro di intellettuali cui è affidata la creazio­ne di nuovi miti di fondazione. Viene rifiutato l ’eterogeneo affinché la creazione possa affermarsi a partire dall’uguale e per giustificare la violenza contro l’altro. L ’idea che si realiz­za è «la democrazia solo per noi», a spese degli altri, la «giu­stizia per il ‘nostro’ popolo» (poco importa quale: si equival­gono e purtroppo nessuno è al riparo dal nazionalismo, ognuno può sprofondarci di nuovo. Sembrerebbe che niente sia scontato in questo campo). D ’altronde il nazionalismo è essenzialmente, e non per caso, misogino e razzista. Al tempo stesso, il nazionalismo radicale (necessariamente belligeran­te) non ha altri significati se non l’autodistruzione. Nei perio­di di tragedia storica come quello recente, quando anche la Serbia sembrava scivolare verso una guerra civile dopo aver incendiato il resto dei Balcani, la salvezza - nel senso mode­sto di «minor male» - può consistere nell’essere «puniti» dagli altri, piuttosto che distruggersi da soli. Eppure siamo convinti che l ’Europa non punirà la Serbia, proprio a causa dell’insicurezza delle sue frontiere ad Est. Forse è un rischio troppo grande. Tutt’al più lo farà troppo tardi. Non bisogne­rebbe pertanto perdere di vista alcune allarmanti analogie storiche, come la guerra di Spagna, la cessione della Cecoslo­vacchia a Hitler, il patto Stalin-Hitler. Non abbiamo ancora visto la fine degli avvenimenti che viviamo.

Filosoficamente, il concetto di democrazia limitata, definita (nella filosofia indiana l ’aggettivo corrispondente sarebbe visista), che ne è la variante diffusa anche se incon­fessata, si esprime ugualmente attraverso la relazione sogget- to-oggetto e attraverso la difficoltà che consiste, per il sogget­to occidentale, nel considerare e accettare l’altro come co­soggetto e non soltanto come oggetto. L ’altro sfugge costan­temente al soggetto e si allontana verso l’orizzonte. Per il soggetto, in qualche modo, esso finisce nel vuoto, al di là o al di qua dell’oggetto, cioè diventa inaccessibile. Ciò si determi­na potenzialmente fin dai primordi del pensiero filosofico, ma più esplicitamente con Kant e a partire da lui. Gli oggetti

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esistono a prescindere dal soggetto, quindi esternamente ad esso. Non è la caratteristica del soggetto quella di esistere come un dato per la riflessione, meno che mai come presenza di fronte ad un altro soggetto. Questo è affare per l’oggetto, che è dato per l ’altro. Il soggetto sarà una presenza per la quale l’esistenza è in qualche modo eterogenea ed esterna. La riflessione trova qui il suo limite, proprio come la ragione buddista, piegandosi davanti al paradosso esistenziale, pen­sando di non poterlo risolvere o aggirare senza contraddizio­ni o semplicemente con il linguaggio. Certo, il confine potrebbe essere interiorizzato dalla ragione, riconoscendo il paradosso dell’indicibile o dell’inconscio. Ma ciò (l’interio­rizzazione del confine dell’altro, come modo di pensare) non deve coprire tutto se non si vuole finire in una simmetria livellante dove gli opposti si equivalgono. È vero che la «ragion serba» (la logica, la democrazia «serbe») resiste. Funziona benissimo nello scenario secondo cui i serbi sareb­bero soli al mondo. Ma dal momento che quella ragione vie­ne assolutizzata, universalizzata, dal momento che si rivela impermeabile a ogni relativizzazione, non può che capovol­gersi in nulla e allora la «ragione croata» (la logica, la demo­crazia «croate») resiste ugualmente, in quanto ragione auti­stica. Con l’assolutizzare e universalizzare un unico princi­pio, curiosamente, si finisce per riconoscere necessariamente la relatività di tutti i valori.

È stato questo il gesto di auto-fondazione e di costru­zione d’identità della ragione occidentale: darsi un altro dal soggetto, un altro da sé, disporre e fabbricare così il mondo degli oggetti intorno a sé (spazio compreso). Il soggetto è in qualche modo gravido dell’altro che, contemporaneamente, custodisce al suo interno e soffre nel liberarlo in un mondo altro e autonomo dove quello, a sua volta, diventerebbe sog­getto. Così il soggetto teme la relazione anche se abbozzata e porta l’eterogeneo in sé, ammalandosene. E il caso dell’Euro­pa con il suo altro, i suoi altri: l’Europa dell’Est divenuta l’Est dell’Europa, l’Asia, le altre nazioni. In questo scollamento da sé si fanno strada necessariamente i nostri tempi.

E quindi il medesimo fantasma (e il medesimo perico­lo) che porta l’Europa a definirsi sempre attraverso le fron­tiere dell’Est e in Oriente, e nello stesso tempo a includere l’Est/Oriente. L ’Est/Oriente rappresentò tanto il fantasma del temibile nel «pericolo giallo», nella satanizzazione del

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comuniSmo, quanto l’inibito oggetto del desiderio nei diffe­renti stereotipi dell’Asia felice, dell’induismo e del mistici­smo salutare. Il rischio del confine è grande, il rischio dell’in­determinato anche, poiché conduce al delirio. Ma ciò mostra chiaramente che la ragione dell’uno non è che il delirio del­l ’altro, e che le ragioni dei fratelli nemici si escludono reci­procamente. Il punto di vista dell’uno non ha alcun valore per l’altro. Da qui, in una situazione di nazionalismo acuto, l’incapacità di criticare o soltanto di individuare il «proprio» nazionalismo e, contemporaneamente, l’estrema sensibilità al nazionalismo degli altri. La diagnostica del nazionalismo è infatti denunciare sempre e unicamente il nazionalismo nemico e restare ciechi di fronte al proprio. Anche la lotta contro il nazionalismo passa in primo luogo per la resistenza al nazionalismo del proprio gruppo.

Si può uscire dal binomio soggetto-oggetto? Si può concepire che l’altro non sia soltanto oggetto, preda, mate­riale? Si può, per dirlo in modo diverso, giungere al dialogo? Si può arrivare a stabilire un terzo spazio di riflessione e costruzione tra i due? Ciò sembra necessario. Questo spazio va ridefinito, poiché i termini sono cambiati con la comparsa di nuovi soggetti politici: le nazioni. Il rapporto non è quindi a due, sarà invece a più voci e lo spazio si riorganizza. In par­te il soggetto pretende di costituirsi ugualmente in spazio (lo Stato nell’accezione geografica), in modo che sia lo Stato a controllare la diffusione (ad esempio) dei segni di guerra o ideologici.

Il nazionalismo si richiama alla storia, reinventandola (e utilizzandola) per i suoi propri fini, cioè riscrivendone i nuovi miti della fondazione (fondazione che esclude l’altro) che hanno il compito di legittimare la preferenza per la «nostra» nazione. Un’apparenza di continuità del gruppo è sostenuta con forza, apparenza di continuità politica che non è, infatti, che la continuità dell’incarnazione del sacro, rappre­sentato dalla persona del dirigente politico e dal corpo della nazione. Questo fatto rimanda ad una concatenazione di incarnazioni del re divino, come nel nuovo nome della strada centrale che attraversa Belgrado, chiamata al tempo del socialismo «via del maresciallo Tito», ribattezzata ora «via dei governanti serbi»: proprio in questo nome che sembre­rebbe negare il passato, si riconosce invece la continuità del­l’incarnazione del sacro (perché Tito fu egualmente un diri­

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gente dei Serbi). D leader politico incarna nello stesso tempo il re-divino e l’eroe mitico fondatore della comunità, l’uomo della Rivelazione, il padre (l’autorità), il salvatore, il messia, e raggiunge così la tanto sperata immortalità, accessibile infine, attraverso il suo intermediario, al suo popolo.

Il popolo coltiverà il mito del suo sacrificio come, per esempio, i Serbi coltivano il mito della loro sconfitta in Kos- sovo, 600 anni fa. In misura minore (perché si tratta di storia contemporanea), ciò è vero sia per l ’interpretazione dei Serbi del loro ruolo nei confronti dei Croati in questa guerra, sia per la spiegazione dei Croati della loro situazione nei con­fronti dei Serbi. Ognuno si vive come vittima, e martire, nes­suno come aggressore. O piuttosto, la vittimizzazione «giusti- fica», «scagiona» l’aggressione che diventa atto eroico, mai disfatta. Perché, nella guerra che «noi» facciamo all’altro, sia­mo sempre noi ad essere vittime e sacrificati e ciò permette che «noi» prendiamo le armi. Identificandosi con la figura del padre e dunque con la continuità, il guerriero reinterpre­ta l’aggressione (non nominata) come sacrificio proprio (piut­tosto che come distruzione dell’altro), quindi come atto eroi­co. L ’identificazione con la figura paterna (che equivale al principio superiore che viene interiorizzato) è controbilancia­ta dall’odio per l’avversario o per il capo del gruppo nemico, una figura paterna divisa in due tipologie (il buono e il catti­vo), proprio come la società terrestre3. La divisione tra i buo­ni e i cattivi «giustifica» da sola la violenza, beninteso contro i «malvagi»: ma in questo pensiero binario, i cattivi non sia­mo mai noi. Gli dei e gli eroi degli uni sono i demoni e gli anti-eroi degli altri. Nel folklore dei popoli belligeranti vicini, essi portano spesso il medesimo nome, ma con segni contrari, come nelle leggende e nella poesia epica popolare dei Serbi e degli Albanesi, o meglio nell’interpretazione ufficiale e diffu­sa dei ruoli di Rama e di Ràvana nel ciclo del Râmâyana in India del Sud. H popolo «eletto» è il «nostro popolo», quello che non era sotto la torre di Babele, quello che ha potuto mettersi in salvo, con l’arca di Noè, ad esempio. Il nazionali­smo presuppone così un’immagine di migrazione collettiva e di trapianto di linguaggi, come sostiene Umberto Eco 4. Per­ché l’Arca poteva approdare su rive lontane. La propria lin­gua in tal caso è la lingua madre o quella che le è più vicina, è universale, è perfetta e appartiene naturalmente al popolo eletto, toccato dalla grazia divina. Ogni oltraggio, foss’anche

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dei più innocenti, a questa unità, unicità straordinaria, diven­ta allora un «sacrificio» della «nostra» parte.

In questo procedimento di logica binaria, non è soltan­to l’altro a essere sacrificato, ma soprattutto il terzo, spesso confuso con questo e reso invisibile nel conflitto: come tale

0 viene decisamente soppresso. Le voci in opposizione della dialettica s ’escludono, è vero, reciprocamente, e non possono essere ascoltate sulla stessa frequenza. Una rappresenta la negazione dell’altra, il senso di una non trova significato nel sistema dell’altra. Tuttavia, insieme coprono lo spazio comu­ne, il mondo, divenuto campo di battaglia. Insieme, soppri-

° mono il tempo (attraverso la rifondazione dei loro rispettivi miti) e il luogo del loro conflitto. Basti osservare cosa accade in Bosnia-Erzegovina: un accordo tra la Croazia e la nuova Jugoslavia, piuttosto che allietarci, dovrebbe aprirci gli occhi sul sacrificio del terzo nascosto nel sacrificio dell’altro, mascherato, questo, come sacrificio di se stesso. E il terzo è la Bosnia. In Bosnia-Erzegovina, indipendentemente dal fatto che sia le poste in gioco che le forze militari siano ineguali (essendo i serbi meglio equipaggiati), sono stati la Serbia e la Croazia a darsi battaglia sul territorio bosniaco, devastandolo e massacrandone gli abitanti. Ciò corrisponde allo schema che Michel Serres descrive come lo schema del terzo istruito-, «l’incertezza del conflitto rappresenta la natura ambigua del­la coppia: ci sono soltanto due belligeranti che la vittoria, senza più dubbi, condurrà a uno spareggio. Ma in terza posi­zione, esterno alla loro schermaglia, noi recupereremo un ter­zo luogo, il pantano, dove la lotta rimane invischiata»5.

Serres parla di «battaglia soggettiva» (tra soggetti) là dove gli avversari, individui o nazioni, s ’affrontano, ma di «conflitto oggettivo qui, fra due organismi senza nome né statuto giuridico, perché lo spettacolo fenomenale del dialo­go chiassoso e infiammato li nasconde sempre e distrae la nostra attenzione» 6. Infatti, il terzo escluso (ma «istruito») non si è mai elevato allo statuto di soggetto. Non avendo sta­tuto, l’esistenza (giuridica) non gli viene riconosciuta. Serres tenta di elevare l’oggetto, la natura, l’altro, alla dignità di sog­getto, dal momento che nella contesa jugoslava, anche prima del ricorso alle armi, si era incapaci di percepire l’altro, indi­viduo o nazionalità, come soggetto uguale, co-soggetto. Ser­res opera soprattutto per un riconoscimento ancora troppo civile del diritto dei terzi, ma si tratterebbe comunque di

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riconoscere i diritti di altri-secondi, perché i due si manife­stano insieme, l’uno nascosto nell’altro. (Nessun dubbio che per Serres ci siano qui tracce di lumi - o forse di romantici­smo - nell’idealizzazione della natura, ma questo è un pro­blema diverso). Serres può così scrivere: «D ’ora in avanti intendo per contratto naturale il riconoscimento, perfetta­mente metafisico, di ogni collettività, che vive e lavora nell’i­dentico mondo globale di tutti gli altri; non soltanto ogni collettività politica raggruppata sotto un contratto sociale, ma anche qualsiasi soggetto collettivo, militare, commerciale, religioso, industriale..., unito da un contratto scientifico» 7. Si accenna là, fra l’altro, ad una critica della logica del duali­smo esacerbato. La divinizzazione (della figura del proprio padre, per esempio) condurrà necessariamente alla satanizza- zione (della figura del padre dell’altro; o della madre). Le sfaldature che così si vengono a formare sono sempre irrepa­rabili.

Esiste tuttavia nella mitologia indiana un’importante popolazione di divinità dall’ambigua e contraddittoria sim­bologia, chiamate talvolta dagli studiosi «gli dei criminali» 8. Questi sono portatori, come Bhairava (il «terribile») in Nepal e a Benares, di segni ambivalenti. Sono nello stesso tempo protettori e minacciosi, rifiutano di aderire al duali­smo che divide il mondo, favoriscono la continuità esisten­ziale invece della spartizione teorica e astratta. E un altra scelta di civiltà, quella per un mondo che si sforza di supera­re le rotture e le inimicizie attraverso un principio di armonia e la complementarità delle differenze piuttosto che attraverso la loro esasperazione. Certo, è vero che ciò non ha mai porta­to maggior pace delle scelte occidentali di conflittualità, e questo mi sembra un problema interessante in sé, ma inadat­to alla nostra circostanza. Preme invece sapere che niente è al riparo da una ricaduta nella violenza e che non esistono garanzie sicure nemmeno nelle tradizioni contro quest’even­tualità, in Oriente come in Occidente. Ma potrebbe avere senso ricercare tali garanzie in ciò che una mente umana non pregiudiziale può offrire. Questo tocca le frontiere esterne- interne che l’uomo si è dato (soprattutto in Occidente) nella sua storia antropologica (essendo tali frontiere più sfumate nelle tradizioni non-antropocentriche, come l’indiana 9 e in quelle asiatiche in generale). Nella contrapposizione estemo-

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interno (noi-l’altro) lo spirito oscilla tra due poli, ma fa conto, per un forte condizionamento culturale, in anticipo sulla tota­lità e su un campo unitario, non sopportando l’estraneità indeterminata.

Così la totalità che, unica, permette la ripartizione che gli garantisce una visione d ’insieme, non sopporta neanche ciò che nasce al suo interno. E l’immagine stessa delle nazio­ni e il modo in cui esse si rapportano all’interno di una comunità più vasta (per esempio, Stato misto, federazione, confederazione, ecc.) a far sì che le loro particolari articola­zioni possano essere considerate tutte allo stesso livello. I nazionalisti non tollereranno mai questo genere di totalità.

Riassumo, cercando di riflettere su quali eventi si sarebbero sviluppati in differenti scenari, dove non si è sceltolo sterminio dell’altro. Nello scenario attuale, ognuno ha la sua propria «ragione», poiché non si ascoltano gli altri o non si è ascoltati. Serbi e Croati hanno dunque entrambi la loro ragione. I Bosniaci, solo in parte musulmani, possiedono an eh’essi la loro ragione, ma questa rappresenta il lato occul­to dell’opposizione: non è percepibile. Il linguaggio della pace non è compreso in quello della guerra. C’è come una sovrapposizione. Due elementi opposti e un terzo occultato. Entrambi pretendono di essere universali e ciò comporta la | necessità del dominio. Di una nazione sull’altra o su tutte le ; altre. L ’idea di Stato-nazione, nei nuovi stati che stanno j nascendo, si fonda su questo desiderio: far prevalere la ragio- , ne della propria nazione. La ragione dell’una sarà la morte 1 dell’altra. Per affermare la democrazia, bisogna uscire dallo i schema soggetto-oggetto e dirigersi verso un differente rap- | porto. E non semplicemente verso una pluralità qualsiasi, ma ’ verso un altro tipo di relazione. Una relazione che superi le rifondazioni di una storia necrofila.

Parigi, 3 maggio 1992

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NOTE

1 J o e l Rom an, L ’Europe sera nécessairement postnationale, «Le Monde», 15.9.1992, p. 2

2 M ich e l O n fro y , Les années renégates, «Le Monde des débats», ottobre 1992, p. 4.

3 Da Ivan C olovic, F ranco F ornari, The Psychoanalysis o f War, Anchor Press, Garden City 1974; ho tratto molti concetti da questo testo.

4 Nelle sue conferenze al Collège de France del 1992.5 M. S erres, Le Contrat naturel, Bourin, Paris 1990, pp. 13-14; si

veda anche Le Tiers-instruit, Bourin, Paris 1991.6 Ivi, pp. 24-25.7 Ivi, p. 78.8 Si vedano i lavori di E lisabeth C halier-V isuvalingam.9 A proposito dell’indifferenza indiana per un mondo antropo­

centrico vedi W. H albfass, Antropologica! Problems in Classical Indian Philosophy, in Beiträge zur Indienforschung, Museum für indische Kunst, Berlin 1977.

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IL SOGGETTO

L ’identità del soggetto occidentale si basa sulla comu­ne appartenenza di diversi individui ad un collettivo, sull’e­sclusione di ciò che è altro. Perciò, l’emarginazione (repres­sione, eliminazione) dell'altro non è un effetto collaterale o casuale. Il soggetto si costituisce a partire dall’identificazione degli individui con un’istanza «superiore», per esempio con una nazione, per la quale essi rinunciano alla loro individua­lità. All’interno di un gruppo costituito in questo modo, le relazioni tra gli individui passano per l’istanza superiore (amiamo il prossimo solo perché membro dello stesso grup­po, per esempio della stessa nazione, o ci amiamo «in dio», se siamo adepti di una religione monoteistica). Questo prin­cipio superiore, nel quale investono tutte le identità indivi­duali, ossia tutti gli individui, si fonda su una pretesa di uni­versalità. Ciò significa che include, in linea di principio, tutti. E un fenomeno che si verifica nei momenti (storici) di minac­cia (sia economica o esistenziale sia dell’identità). La nuova identità (collettiva) si costituisce attraverso la negazione di coloro che sono stati spinti al suo margine estremo, cioè quelli che non corrispondono al modello dominante prescrit­to. Ciò che viene negato è la nostra origine nell 'altro e con l'altro, mentre l’identità viene fatta derivare dalla pretesa di una nascita comune, da ciò che è uguale a se stesso [aus dem Selben], unico. In caso di crisi eccezionali questo conflitto viene espresso attraverso la guerra, che ha, in particolare, la funzione di definire il soggetto maschile attraverso il mito degli eroi epici. Il mito dell’origine comune [im Selben] viene rafforzato attraverso atti di violenza contro Valtro. In modo particolarmente violento vengono attaccate le località che hanno un’origine mista, cioè i luoghi della cultura, perché cultura è sempre mescolanza, métissage. Le città sono quelle aggredite per eccellenza, perché sono i luoghi di nascita della mescolanza, dei contrasti variopinti, della cultura. In genere le città sorgono sulle rovine di quelle che le hanno precedute, delle città di coloro che noi annientiamo, nel dare corpo ad una nuova identità, si pensi a Roma. Dal punto di vista stori­

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co, oggi non abbiamo a che fare con una ricaduta nella seconda guerra mondiale o addirittura nel medioevo - come qualcuno anche ha suggerito a proposito della guerra in ; Jugoslavia si tratta piuttosto del ritorno della preistoria. Nei tempi di crisi della civiltà particolarmente profonde, come sono quelli odierni, la violenza assume dei connotati inimmaginabili. Quella cui assistiamo oggi non è tanto una divisione nazionale quanto piuttosto un’altra cosa: questa guerra o queste guerre si possono descrivere meglio come : delle guerre di non-città - nel senso di un elemento ostile alla civiltà e alla cultura - contro città. Il richiamo alla nazione non serve qui ad altro che a colmare, con un’ideologia abborracciata in fretta, il vuoto ideologico che l’esaurimento dell’ideologia comunista ha lasciato.

Dal punto di vista psicologico, il richiamo alla nazione corrisponde alla regressione ad una forma di identificazione primaria (quella che nel bambino avviene con la madre e il padre, nel credente con Dio). L ’identità maschile collettiva (che nelle società patriarcali è data come universale) si è sem- pre formata secondo lo schema di un soggetto pensato come dominante e neutrale. Le donne invece, per dirla con Luce Irigaray, non hanno in comune «lo stesso dio», né tra di loro (per un verso), né con gli uomini (per l ’altro). Le donne non hanno mai avuto un dio fatto a loro immagine e che, nello stesso tempo, sia stato riconosciuto tale (cioè divino) da tutti, vale a dire universalmente. Donne e uomini non hanno nean­che la stessa genealogia, perché sia il figlio che la figlia nasco­no dalla madre, e quindi la figlia dal proprio stesso sesso, il figlio dall 'altro. Siccome le donne non hanno mai avuto una comune istanza superiore che nello stesso tempo corrispondes­se alla loro immagine e che possedesse un valore universale, non si potevano costituire come soggetto (storico), per essere più precisi, come soggetto dominante, allo stesso modo degli uomini. Perciò il sesso femminile viene marcato nel pensiero e nel linguaggio: se si vuole parlare del genere umano femmi­nile, lo si deve sottolineare espressamente. Nelle grammati­che delle nostre lingue il sesso maschile è il più forte, quello portante: il lato maschile viene pensato come centrale e uni­versale. Non possiamo pensare il femminile (nel linguaggio del soggetto maschile, storicamente dominante) come dimen­sione universale, ma solo come dimensione marcata (per mezzo del sesso) e quindi esclusivamente come dimensione

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particolare. Non basta dire che le donne non si sono mai costituite come un soggetto storico: esse non avrebbero potuto farlo. Perciò sono superflui le preoccupazioni e i con­sigli di alcuni filosofi che vogliono dissuadere le donne da un simile obiettivo: non essendo le donne, in questo, sostenute dalla storia, il pericolo non sussiste. Al contrario, il soggetto maschile viene confermato dalla sua storia (nel senso di sto­ria universale) addirittura quando, come raccomandano alcu­ni filosofi postmoderni, prende intenzionalmente le distanze dal soggetto forte. Però non si tratta di una questione di scel­ta. Filosofe e filosofi femministi affermano insieme che le donne non possono rinunciare a «personificare la loro sog­gettività». In modo simile, una eco-dittatura, come viene proposta e consigliata dai paesi sviluppati ai paesi sottosvi­luppati, implica, per questi ultimi, - nelle condizioni date - una rinuncia allo sviluppo. Il nazionalismo e la guerra posso­no, nella loro dimensione storica, essere collegati con la sto­ria della soggettività occidentale e con il soggetto - maschile- in essa dominante. Ma ciò non significa affatto che non si possa pensare un’apparente contraddizione ideologica, per la quale anche le donne - e addirittura le femministe - possono diventare nazionaliste e scioviniste. Qui si tratta dell’identifi­cazione di individui femminili con quella stessa «istanza superiore», che certo, nella sua struttura, è prima di tutto violenta, ma che in conseguenza di determinate circostanze storiche è anche maschile. In un certo senso l ’identificazione femminile con la nazione fallisce: essa è l’identificazione con il padre (simbolico), il dirigente, perciò con l’Altro genealo­gico, mentre l’identificazione maschile avviene con l ’uguale [mit dem selben] nel segno del rifiuto dell’Altro. L ’identifica­zione femminile con il principio superiore perciò non impli­ca strutturalmente un rifiuto dell’altro, mentre quella maschile si basa precisamente su questo. Per tale motivo le donne tendono meno degli uomini alla violenza nell’identifi­cazione con la nazione e nelle manifestazioni di sciovinismo. E in definitiva, si devono vedere in connessione la brutalità maschile nella guerra contro gli altri e le forme tradizionali maschili di violenza nei confronti dei fisicamente e social­mente più deboli o diversi. Bisogna vedere la guerra e lo ster­minio nella loro naturale continuità con la violenza contro donne e bambini, con le percosse, lo stupro e le diverse for­me di teppismo.

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IL SACRIFICIO

Il sacrificio giustifica e rinnova il mondo, proietta l’«ora» in ilio tempore, riporta all’inizio la ruota del tempo. Tempo e storia iniziano «con noi». Le rovine di case estranee sono seppellite, dimenticate, coperte dall’erba. Esistevano «prima dell’inizio del tempo», «prima di noi». All’inizio di una civiltà nuova sta in genere la violenza; con essa viene superato il vuoto che ci separa dalla preistoria, dall’inizio cosmico. Miti di fondazione cosmogonici, accoppiati con una retorica adeguata e con il ruolo privilegiato della «nostra» tribù, cioè «dei nobili», vanno di pari passo con la distruzio­ne delle città, o - osservando la cosa con sguardo retrospetti­vo - in realtà la precorrono. Questi miti dovrebbero giustifi­care la distruzione. I predecessori avevano anch’essi le loro guerre «mediali», si pensi al mito della creazione e dell’origi­ne (oggi è la televisione ad assumere questa funzione). Tali miti rappresentano il legame con l’aldilà, una specie di tra­scendenza collettiva, l’illusione di un bastione; essi sono una garanzia per l ’esistenza, nel momento in cui viene negato l’al­tro. Così come la genealogia maschile (l’unica che abbia valo­re) nega obbligatoriamente la linea materna. Perché è evi­dente che la linea femminile completa quella maschile, solo che non è permesso esprimere questo fatto nel codice domi­nante. Se fosse visibile, si vedrebbe la «nostra» origine nel­l’altro (negli altri) e non si potrebbe più negare la disconti­nuità maschile. In altre parole, si scoprirebbe che la cultura è soprattutto métissage, mescolanza.

Il sistema simbolico ha qui un ruolo chiave e dà l’op­portunità di ristabilire i legami di potere e dominio. La pro­clamazione dell’origine e dell’inizio nel sacrificio dovrebbe celare il fatto che l ’origine può essere solo nell 'altro, cioè al di fuori di noi, e che la violenza non trova mai una giustificazio­ne se non nella volontà del violento. La guerra è un sacrificio par excellence. Se si vedesse il ruolo degli altri nella «nostra» cultura, allora si potrebbe anche riconoscere che è quest’altro ad essere sacrificato e non noi. I miti di fondazione rappre­sentano il sacrificio deWaltro sempre come se fosse il nostro.

Alla fine si realizza il «nostro stesso» sacrificio nella glorificazione della sconfitta (per esempio nel mito serbo di Kosovo), si realizza in una forma inquietante di self-fulfilling prophecy.

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I miti di fondazione e l’omogeneizzazione nazionale evocano in coloro che si sentono appartenenti ad una nazio­ne la stessa cosa che negli altri - nei «nemici», che sono stati costituiti con lo stesso atto di giustificazione mitologica. I popoli sono intimoriti. Dovunque regna l’istupidimento indotto dalla fede nei vantaggi presunti della propria cultura rispetto alla cultura del vicino. Si possono ad un tratto senti­re storie di fondazioni di stati e di primi re, le cui ossa vengo­no portate in giro per tutto il paese; oppure vengono inven­tate storie di primi sovrani mitici e di libri della legge. Poi si intromettono le chiese ed entrano in gioco le falsificazioni della storia, e da tutte le parti c’è un’inflazione di letteratura concernente la storia nazionale. La dimensione più impor­tante e quasi unica è quella nazionale. Essa copre tutte le altre diversità, soprattutto quelle individuali. Fa sparire il cit­tadino, la cittadina, l’individuo, i sessi e le differenze di clas­se, spinge tutto il resto sullo sfondo.

Emerge una «cultura» della morte. L ’uccidere come segno o traccia, come eccesso di violenza, assicura al violento un posto stabile nel tempo e nella storia. Questa è l’autolegit- timazione del violento o del suo gruppo. L ’assassinio significa per chi lo commette l ’ascesa nella scala ontologica: senza vio­lenza egli non esiste, se esiste esiste solo come violento. Ogni identità passa attraverso l’altro, ma il paradosso, in questo caso è, che quest’altro (il quale è sempre l’altro, dentro noi stessi) viene distrutto. Da qui deriva la «logica» della morte. L ’«Io» si mette al posto dell’assassinato. Le vittime innocenti non sono il risultato di un attacco calcolato male, sono al contrario necessarie e previste sin dall’inizio. Il violento vive in modo totale nell’ora presente, «conferisce istantaneamente senso alla sua vita» («conferisce senso alla guerra», come si usa dire nel dibattito nazionalistico serbo), non gli interessa il futuro. Non vuole rimandare o cedere a qualcun altro la valu­tazione del senso della sua vita e delle sue azioni. Al contra­rio, il suo è un atto che si trova al di fuori di qualsiasi conte­sto, un atto che marca il proprio contesto con un grande zero. Il nemico incarna la sua vittima, si nutre del suo sangue, assorbe il suo senso della vita, che viene alla luce solo con la morte. Il violento cerca di conferire un senso «più profondo» alla propria vita, rifiuta i valori vigenti, mette in questione il

LA CULTURA DELLA MORTE

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sistema esistente, procurandosi da solo - con l’assassinio - le sue referenze. Più è innocente la vittima, più l’atto è disgusto­so, più esso è efficace e conferisce al violento una condizione superiore nel sistema simbolico dei tempi nuovi.

LA GUERRA IN EUROPA

E terribile che il culto della morte sia ancorato, come elemento determinante, al pathos nazionale. Esso ha fatto cadere il popolo serbo nella più profonda agonia. Il regista di Belgrado Dusan Makavejev parla di «estasi del desiderio del­la morte» e analizza «il piacere dell’anticipazione di una stra­ge enorme», che si lascia realizzare nel modo migliore in una guerra fratricida. Questa anticipazione si mostra nell’opera e nei discorsi politici del poeta epico nazionale Dobrica Cosic : «I serbi perdono durante la pace e vincono durante la guerra». Questo stato di cose risalta in modo particolarmente chiaro nello spirito e nell’idea del Tempo della morte, che non a caso è il titolo di un suo libro e contemporaneamente l’evocazione pessimistica della sventura da parte di questo poeta del sangue e della terra. Le sue idee si realizzano in pieno quando Dobrica Cosic diventa presidente della nuova Jugoslavia mutilata. Il cerchio si chiude, come una spirale della morte, con lo stesso tema con il quale si è aperto - con un’ipostasi della morte. Creature come Cosic stanno all’inizio ed alla fine. Questo è l’autismo di un sistema che viene governato dalla morte. Da partigiano ed ex nemico di Tschetnik, Cosic si è «evoluto» in ideologo del nazionalismo serbo militante e si è creato in Milosevic il proprio apparat­chik. Individui del suo stampo incarnano quanto c’è di mostruoso nell’uomo al confine tra socialismo e caos nazio­nalistico. La cosa grave in questo non è il fatto che una tale figura decida, nell’inferno della guerra, sulla vita umana, ma che lui e altri intellettuali del suo tipo, abbiano prodotto que­sto inferno con un lavoro sistematico, instancabile ed effica­ce. Alimentando incessantemente i miti nazionali di fonda­zione, attizzando l’odio verso gli altri e facendo schietta pro­paganda di guerra. Esistono numerosi rappresentanti di que­sto tipo tra gli scrittori e gli intellettuali serbi, sebbene non tutti si siano resi colpevoli a questo riguardo. Ma dall’asso­ciazione degli scrittori serbi e dal circolo dei filosofi costitui­tosi intorno all’ex giornale dei dissidenti Praxis nonché da

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circoli analoghi sono emerse alcune delle figure preminenti del nazionalismo serbo, figure-guida, che oggi si possono tro­vare sia tra coloro che detengono il potere sia tra gli espo­nenti dell’opposizione nazionalistica. Dobrica Cosic stesso tende oggi, paradossalmente, ad essere nello stesso tempo partecipe tanto del potere quanto dell’opposizione, e questo gli riesce perché da entrambe le parti è presente un forte nazionalismo. Per fortuna non tutta l’opposizione è di ten­denza nazionalistica. Gli «intellettuali con una coscienza nazionale» giocano il ruolo, che hanno imposto essi stessi, di guardiani della memoria nazionale, invece di voler essere semplici custodi della cultura. Perché né la cultura né la democrazia possono essere nazionaliste.

La perversione del sistema, che Milosevic ha giustifica­to, fa sì, nello stesso tempo, che la voce degli intellettuali, ai quali ripugna il nazional-socialismo attuale, sia stata comple­tamente neutralizzata al di fuori di Belgrado e che non trovi nessun ascolto. Nonostante essi costituiscano a Belgrado una cerchia rispettabile e neppure tanto piccola (il circolo di Bel­grado, l ’alleanza dei cittadini serbi, il movimento della pace, una parte degli studenti), non hanno nessuna influenza signi­ficativa sul pubblico più vasto. Anche al di fuori dei confini serbi non si vuole prestare ad essi nessun ascolto per cattiva disposizione nei loro confronti.

Nel modo descritto dell’incarnazione della morte, della violenza e della guerra si pone specificamente, in Serbia, la responsabilità di un tipo intellettuale. Questo però non vale per tutti! Ci sono oggi numerosi esempi positivi di opposizio­ne, ma purtroppo è un fatto che nel «Putsch» avvenuto nel corso dell’«ottava conferenza dell’alleanza serba dei comuni­sti», attraverso il qùàfe~Milosevic, nel 1987, è arrivato al pote­re, solo pochi hanno levato la loro voce contro il totalitari­smo. Innanzi tutto Bogdan Bogdanovic. A questo piccolo gruppo, almeno nei due anni successivi, non si è unito quasi nessuno. A causa della paura e della censura, in Serbia le voci dell’opposizione non hanno potuto articolarsi. Esse erano costrette a trovare ascolto per vie traverse, nelle altre repub­bliche, e in questo modo contribuivano indirettamente all’a­cutizzazione del conflitto. Nel frattempo si è prodotta una breccia nei media. Questi sono oggigiorno, nel luglio 1992, molto più indipendenti in Serbia che in Croazia. Ma la libertà che viene concessa alle reti televisive e radiofoniche indipen­

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denti, alla rivista Vreme e al giornale Borba, come pure alle trasmissioni da Sarajevo, si basa su un calcolo: si è visto che simili fonti di informazione non hanno nessuna influenza e che non ottengono nessuna eco in Serbia, fuori Belgrado. Purtroppo questo vale anche per la Croazia, che non è stata in grado di valorizzare l ’opposizione serba non-nazionalista, ad eccezione di quando poteva essere strumentalizzata. I media hanno, partendo dalla Serbia, preparato la guerra almeno da metà degli anni ottanta. Nelle altre repubbliche ci si è immediatamente adeguati, assumendo un atteggiamento analogo. Ancora una volta gli intellettuali hanno avuto un ruolo importante in tutto questo. In Serbia ciò ha coinciso con la realizzazione di un testo, dal titolo Memorandum, nel­l’ambito dell’Accademia Serba delle Scienze e dell’Arte, nel quale era prefigurata la scissione della Jugoslavia a vantaggio di una grande Serbia. Al collettivo degli scrittori apparteneva chiaramente anche Dobrica Cosic. Per illustrare il ruolo di questi intellettuali, si deve sapere che 57 (su 90) di questi membri dell’Accademia, nel giugno 1992, hanno sottoscritto un testo nel quale muovevano a Milosevic il rimprovero di aver perso tutti i vantaggi delle guerre precedenti.

Non esiste un nazionalismo isolato, che non provochi alcuna reazione. L ’escalation in direzione della guerra si è trasmessa, col segno opposto, anche ai media delle altre repubbliche e province. Il nazionalismo crea per forza altri nazionalismi, e questo avviene più su un piano contenutisti- co-strutturale che secondo una cronologia definita. In base al proprio punto di vista si può sempre dimostrare che è stato l'altro, ad iniziare per primo. Per detto motivo una discussio­ne di questa questione in certe circostanze fomenta ulterior­mente l’ostilità. Per accertare di volta in volta la dimensione della responsabilità, ci si dovrebbe domandare chi sia a disporre del maggior potere nel settore militare e in quello dei media. In Croazia, regione che è stata attaccata e che come la Bosnia-Erzegovina giace ancora in macerie, è stato molto più difficile dare voce alle idee contro la guerra, per­ché ogni forma di pacifismo è stata equiparata all’aggressione e alla mancanza di patriottismo. Il grado di omogeneizzazio­ne nazionale è molto alto e la possibilità di un’articolazione dell’opposizione è minore. L ’aggressione militare ha messo in rilievo la raison d’Etat e si è sovrapposta non solo ai pro­blemi della democrazia nella stessa Croazia, ma tra l ’altro

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anche all’esistenza di un revanscismo sia individuale sia pro­vocato dalla guerra, come pure al fatto della vessazione e del­l’espulsione di cittadini di nazionalità serba. Casi di questo genere vengono sempre considerati delle «eccezioni», invece di risolverli definitivamente con misure di protezione efficaci e con regolamenti. In Croazia non si riesce ad identificare cosi facilmente l’opposizione come in Serbia: essa appare di meno. Finora però non è chiaro se disponga anche di un potenziale minore. Una serie di piccoli partiti regionali è diventata il punto di incontro delle più diversificate forze non nazionalistiche. Da queste fila ci si potrà attendere, in futuro,lo sviluppo di idee democratiche e un impegno combattente per sostenerle - solo che questo purtroppo non si verificherà molto presto. L ’isolamento dei media, infatti, fa sì che non venga udita la voce della modesta, ma pure esistente, opposi­zione dei non nazionalisti. I media vengono controllati dallo stato e dal partito di centro che detiene il potere e sono - per esprimersi con moderazione - strutturati in modo molto con­servatore; vengono limitati e sottoposti sistematicamente a divieti, mentre i loro giornalisti devono soffrire diverse forme di persecuzione.

Nel governo attuale in Croazia - come anche in Serbia- sono presenti intellettuali, che in parte si sono convertiti dal comuniSmo al nazionalismo o che derivano direttamente dalle file dei nazionalisti; ma solo pochi di loro, che occupa­no rilevanti posizioni di potere, sono realmente di grande importanza locale (per quanto il «calibro» dei poeti nazionali serbi sia stato poi anche sopravvalutato). Più frequentemente si incontra il caso di scrittori ed intellettuali che soffiano all’unisono nel corno nazionalistico, per così dire in coro, senza che nessuno lo abbia richiesto in modo esplicito; si accontentano in cambio di onori o di un posto nei media nazionali. Questo, alcuni di loro, sotto il vecchio regime lo avrebbero ottenuto con maggiore difficoltà. Molti tuttavia detenevano già una posizione di rilievo e desideravano ora conservarla, anche se per questo dovevano seguire un nuovo orientamento. Ciò che suscita costernazione nei confronti di una parte dell’intellighenzia è proprio questa conversione, la disponibilità a rinunciare al proprio punto di vista individua­le e con questo anche al ruolo fondamentale degli intellettua­li, che è quello di opporre sempre una resistenza individuale all’interno della cultura.

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Le conseguenze terribili dell’omogeneizzazione nel campo della cultura, della letteratura e dell’educazione si vedranno chiaramente, nella loro globalità, solo fra alcuni anni, quando si farà un bilancio

In Croazia - almeno finora - non ha fatto sentire la sua voce nessun circolo di intellettuali o di scrittori (con l’eccezio­ne di alcune singole personalità) disposto ad impegnarsi sia contro la guerra sia contro il nazionalismo, e dunque critico contro ogni forma di nazionalismo - indipendentemente dal fatto che sia serbo, croato o di altra estrazione E sempre il nazionalismo degli altri che viene sottoposto al fuoco incro­ciato della critica. I diversi tipi di nazionalismo richiedono certamente un’analisi differenziata: hanno in fondo provocato delle conseguenze diverse. In ogni caso si deve partire dall’as­sunto basilare, che niente può giustificare la violenza. Natural­mente non si tratta di equiparare la vittima e il colpevole. Il compito degli intellettuali, a questo proposito, è proprio quel­lo di distinguere. Però la resistenza degli intellettuali antina­zionalisti, che non si fanno attaccare davanti al carro naziona­listico, si manifesta solo come resistenza individuale. Tra l’al­tro anche perché essi incontrano una certa difficoltà ad avere accesso ai media. Chiunque si esprima in questo modo - in genere scrittori e giornalisti, spesso anche donne - deve subi­re duri attacchi da parte dei media e di altri intellettuali. Vie­ne regolarmente prodotta una valanga di denunce, accuse di tradimento nazionale e travisamenti di affermazioni incrimi­nate. Erano simili le condizioni in Serbia immediatamente dopo il colpo di stato di partito nel 1987. A mio modo di vedere, le opinioni dell’opposizione democratica e antinazio­nalistica, in particolare quelle degli intellettuali, potranno tro­vare espressione solo in una fase successiva. La condizione più importante per questo è la cessazione della guerra e con ciò una diminuzione della spinta all’omogeneizzazione nazio­nale. Se la guerra non era bastata per indurre tutti a dare pro­va di lucidità nelle loro valutazioni, l ’esempio della distruzio­ne della Bosnia-Erzegovina ha aperto gli occhi a molte perso­ne anche in Croazia. Da una parte, qualcuno ha riconosciuto la totale incapacità dei serbi di contenere l ’aggressione. Dal­l’altra, si è capito che in Bosnia-Erzegovina si difendono con le armi anche gli interessi croati che coincidono con quelli bosniaci, quantunque ci si venga a trovare insieme davanti ad una superiore potenza militare (quella serba). E diventato

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evidente che nessuno è senza colpa. Probabilmente durerà ancora un po’ il tempo di incubazione di una resistenza non nazionalistica degli intellettuali, ma certamente non sarà eter­no. In fin dei conti, si è provato che nel caso degli intellettua­li succede esattamente quello che succede nel caso di tutti gli altri esseri umani e che non c’è nessuna ragione per ritenerli migliori. Loro/noi sono/siamo in gran parte responsabili del­la piega che hanno preso finora gli eventi. Loro/noi non sono/non siamo stati in grado di riconoscere in tempo che l’istigazione nazionalistica avrebbe portato direttamente alla guerra.

Negli altri territori delPex-Jugoslavia la situazione degli intellettuali è in parte più difficile (per esempio in Kosovo), in parte più facile (come per esempio in Slovenia). Ma in una situazione nella quale la parola d’ordine «demo­crazia» serve abbastanza frequentemente come veicolo per il nazionalismo, il criterio è sempre il reale rapporto di forza tra nazionalismo e democrazia. In Kosovo, il cui problema continua essere irrisolto, è stata escogitata da parte dei serbi una «soluzione» radicale: sono stati aboliti i media in lingua albanese, le scuole e gli ospedali con personale albanese sono stati chiusi, migliaia di lavoratori albanesi sono stati licenzia­ti, e fra questi tutto il corpo insegnante e gli intellettuali. In queste condizioni non si può parlare di libertà del lavoro intellettuale o dell’opinione pubblica. Questa è interamente spaccata dal punto di vista nazionale.

In Slovenia esiste una libertà abbastanza grande nel settore dei media. Si possono ascoltare le notizie del giorno da Sarajevo, cosa che è molto importante per via della guerra bosniaca (è possibile anche in Serbia, però solo a Belgrado). Si discute di una partecipazione percentuale dei singoli parti­ti allo spazio informativo, e aumenta gradualmente l’apertura nei confronti delle altre culture jugoslave (cosa impensabile per esempio in Serbia e in Croazia).

In Bosnia-Erzegovina, Yutel, il tentativo di una tra­smissione televisiva sovranazionale, è riuscita ad affermarsi a lungo. Tv-Sarajevo, per un tempo considerevole, ha espresso posizioni moderate, cioè ha messo a confronto per lo meno diversi punti di vista tra di loro. Questo ha avuto una certa im portanza anche per il pubblico al di fuori della Bosnia-Erzegovina. Questa guerra viene condotta, non da ultimo, per le reti televisive, per la televisione in quanto tale.

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Su questo, per fare un esempio, si concentra anche la lotta dell’opposizione a Belgrado.

I nuovi stati, coinvolti o no nella guerra, si isolano e tendono alla «purezza» nella cultura e a rifiutare il contribu­to di altre culture. Il discorso ufficiale della cultura è diventa­to da tutte le parti un discorso di sangue e terra, un’intermi­nabile litania nazionale, anche se non sempre nazionalistica. Nella maggior parte dei casi nessuno ritiene di dovere nulla a nessuno. In questo quadro si inserisce un purismo linguistico che divide le due varianti della stessa lingua (la serba e la croata, paragonabili con Vbindu e Yurdu in India e Pakistan). Le «traduzioni» dal serbo al croato, come si possono trovare da tempo sui giornali, sono grottesche e in genere di qualità pietosa. Vengono eseguite da pasticcioni che non sono mini­mamente in grado di misurarsi con gli autori che essi cercano in questo modo di «correggere». Così compaiono, per esem­pio, delle affermazioni autentiche di autori serbi in versione croata, nella stampa croata, ma solo quando hanno qualcosa da dire contro la Serbia e presto non saranno più pubblicate a causa dell’embargo. La lingua serba è riuscita a difendersi più a lungo contro un tale purismo, però anch’essa ha dovu­to cedere alla pressione dell’«interesse nazionale». In futuro, nelle scuole croate, la scrittura cirillica sarà insegnata altret­tanto poco quanto lo saranno i testi serbi degli scrittori serDi, e lo stesso accadrà in Serbia a proposito dei testi e degli auto­ri croati. In Serbia ci si irrigidisce più che mai sul cirillico come unica scrittura permessa. In questo modo vengono separate le culture. Così per esempio, poco tempo fa è stata emanata la seguente «direttiva per le biblioteche delle scuole elementari»: «La collezione dei libri di consultazione deve contenere manuali (enciclopedie, lessici, vocabolari, abbece­dari, atlanti, bibliografie ecc.) esclusivamente nell’edizione croata». Tutti ci possiamo immaginare quale impoverimento comporta un simile atteggiamento per l’intera cultura di un paese - in particolare per la nostra generazione - nel quale esisteva finora una variante linguistica che veniva compresa da tutti. Se però la divisione prosegue con questi ritmi, allora la separazione nella lingua e nella cultura - tendenzialmente sostenuta dalla politica ufficiale - sarà presto raggiunta in modo definitivo. A questa (non) politica culturale danno mano, naturalmente, oltre alla burocrazia statale, anche molti intellettuali: è ancora difficile valutare il grado di responsabi­

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lità degli intellettuali sia per quanto riguarda il danno fatto alla cultura sia per ciò che concerne la devastazione generale dei nostri paesi.

Il ruolo degli intellettuali non è certo esclusivamente negativo. Esso potrà svilupparsi in modo completo solo nel periodo successivo alla guerra. Gli intellettuali avranno anche una grande responsabilità nella ricostruzione dei paesi, come anche nel gettare una testa di ponte in senso culturale e in altri sensi. Perché l’economia e la sopravvivenza quotidia­na richiederanno una nuova apertura di paesi e confini.

In ultima analisi, la guerra attuale non è una guerra tipicamente jugoslava, ma una guerra europea, a prescindere dal fatto che l’Europa voglia ammetterlo o meno: ripropone un gesto di emarginazione, che è tipicamente europeo. La linea centrale di frattura non si trova tra noi e l ’Europa ma all’interno dell’Europa e in ognuno di noi. Gli intellettuali dei nostri paesi sono caduti (in parte per loro propria distra­zione) in una condizione nella quale tutti i loro legami reci­proci si sono spezzati, in cui non riescono più a comunicare tra di loro, nella quale si trovano ad essere vittime di un col­lasso semantico (entro, ma anche fra, i rispettivi ambienti). Gli intellettuali della Croazia e della Serbia, per esempio, - anche quando sono d’accordo tra di loro nel rifiuto dell’ag­gressione e della guerra -, possono, per adesso, comunicare reciprocamente solo attraverso l’estero. Non li si aiuta né innalzando quelle mura che l’Europa incomincia a costruire intorno ai nostri paesi, né stringendo una specie di cordone sanitario intorno a noi, o proponendo lo spostamento ad est di quei confini, per mezzo dei quali l’Europa si è da sempre definita. Il compito dei nostri intellettuali e di quelli dei pae­si europei consisterà, non da ultimo, nello smascherare quel­la strategia che vuole creare un’identità europea per mezzo dell’emarginazione.

Parigi, 19 luglio 1992

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LA NUOVA DEMOCRAZIA: CON LE DONNEO SENZA DI LORO?

Nessun sistema politico, di qualsiasi tipo, è stato finora in grado di trovare una formula per includere le donne nelle proprie strutture, o anche solo per permettere la loro parteci­pazione in modo minoritario. Sembra perciò che l ’assenza, o la presenza in misura irrisoria, delle donne, sia la più costan­te caratteristica comune di tutti i sistemi politici. In questo i partiti della sinistra non fanno eccezione: uno degli errori storici di questi partiti è stato proprio quello di trascurare il problema del ruolo della donna, e ciò è vero sia dei partiti che sono stati al governo che di quelli che sono stati all’op­posizione (incluse le formazioni politiche nate dopo il 1968), sia per quel che riguarda i paesi occidentali che quelli ex­socialisti.

La sola conclusione che si può trarre di fronte a questo fenomeno è che tutti i sistemi sociali e politici sono fondati sull’esclusione delle donne. L ’esclusione delle donne dalla vita pubblica (alcune eccezioni, tollerate, sono sempre state possibili come conferma della regola) è stata la base, e non solo la conseguenza, dei sistemi politici fino ad oggi esistenti. Ciò vale anche per la vita interna dei partiti - dominata sem­pre dagli uomini - e si è verificato anche nella nuova situa­zione politica, caratterizzata dalla presenza di più partiti, che si è sviluppata nei paesi della ex Jugoslavia, a riconferma del fatto che l’esperienza del Partito Unico non è stata sotto que­sto aspetto un caso particolare. D ’altro canto il Partito Unico aveva almeno una modesta idea, di ispirazione egualitaria, in favore dell’inclusione delle donne, che esprimeva una esigen­za di principio, se non una reale volontà in questo senso. (L’«Associazione delle Forze Riformistiche», che era apparsa come l’ultima speranza per il mantenimento di un terreno politico comune in Jugoslavia prima della sua definitiva frammentazione, si comportava per lo più nello stesso modo: non era esplicitamente ed in misura sufficente impegnata per la donna, pur tentando genericamente di «includerla». Lo stesso si può dire riguardo a ciò che resta delle forze di sini­

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stra dopo il crollo del paese). Negli attuali partiti nazionalisti (di governo o di opposizione), non vi è neanche questa astratta tendenza egualitaria: molti di essi hanno anzi nei confronti della donna politiche di discriminazione in senso negativo. Alcuni partiti o organizzazioni più piccole hanno avuto un atteggiamento o un programma più decisamente positivo riguardo alle donne, seppure a volte non dichiarato esplicitamente (per esempio in Serbia il Partito social-demo­cratico, il Ujdi - L ’«Associazione Per l ’Iniziativa Democrati­ca in Jugoslavia» - , i Riformisti). Ma questo era stato più semplice per loro, per il fatto che essi erano, e sono rimasti, lontani dall’avere alcuna possibilità di vincere le elezioni. Esempi in questo senso provenienti dalla Serbia erano parti­colarmente numerosi quando cominciavo questo questo lavoro, al tempo della - troppo breve - campagna elettorale del novembre 1990, durante la quale il movimento femmini­sta manifestamente tentava di lottare contro l’indottrinamen­to fascista delle donne che era allora la tendenza dominante. Le donne diedero luogo ad un movimento politico «dell’ulti­mo minuto» - come avveniva a molti in quel periodo -, nel momento stesso in cui compresero che erano divenute l’o­biettivo del discorso dei nazionalisti; questo riguardò diversi gruppi femminili o femministi come «Femminismo», «Don­na e Società», «La Lobby delle Donne», l’«Sos - Telefono»,il «Parlamento delle Donne», il «Partito delle Donne» (Zest) e «Lesbiche», tutti attivi a Belgrado, e le attiviste e i gruppi femministi a Novi Sad, l ’allora «Movimento Democratico delle Donne» di Kragujevac, e probabilmente molti altri gruppi.

In realtà, mano mano che le ideologie nazionaliste, le politiche aggressive verso gli altri, le tendenze religiose e con­servatrici, così come le spinte autonomiste propagate attraver­so i media, assorbivano, divenendone egemoni, tutta la vita politica, i gruppi di donne o femministi reagivano in modo simile in tutte le repubbliche dove esisteva in qualche forma una tradizione femminista (principalmente la Croazia, la Slo­venia, la Serbia): da un’attività di tipo specificamente femmi­nista essi passarono velocemente ad un’attività pacifista e antinazionalista. Ma si trattava per lo più dell’élite più consa­pevole, formata dalle femministe delle città, peraltro insignifi­cante dal punto di vista numerico. La guerra nei paesi della Jugoslavia ha avuto almeno il «merito» di mobilitare le donne

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su questioni che vanno oltre quelle di tipo puramente femmi­nista (se una distinzione netta in questo senso sia mai stata possibile, fatto di cui dubito), e di portare molte femministe inattive allo scoperto, attraverso l’attività pacifista. In genera­le, ciò che viene messo oggi alla prova - e nonostante il fatto che le donne e il movimento femminista siano state riportate indietro di molto rispetto alle condizioni storiche e alle con­quiste raggiunte nella ex-Jugoslavia - , è la qualità e la reale portata dell’idea di democrazia coltivata dalla modesta oppo­sizione antinazionalista. Parlerò in seguito del legame tra il movimento femminista e quello pacifista.

Nessuno ha pensato finora di verificare l’idea di demo­crazia, di cui adesso tanto si parla, in rapporto alla questione del sesso o genere. Sfortunatamente, tutte le forme di demo­crazia conosciute fino ad oggi si sono dimostrate fallimentari sotto questo aspetto: una democrazia che non permette la partecipazione della metà della popolazione (in questo caso le donne) non è una democrazia, eppure è questo che viene di fatto proposto sotto una tale denominazione. In definitiva si tratta della tradizione della «democrazia» occidentale: cioè un sistema esclusivamente maschile.

Ma il fatto è che le donne sono dei potenziali votanti (biracice e non biraci)\ in un senso più ipotetico esse sono anche possibili candidati (kandidatkinje e non k&ndidati). La loro specificità viene sempre occultata e dimenticata, nell’a­stratta universalità rispecchiata da termini come «uomo» e «candidato». Fino a quando la dimensione normativa e repressiva in cui si trova l’umanità delle donne (in corrispon­denza con il modello maschile, che si presume neutrale) non verrà disvelata, la democrazia rimarrà sempre solo maschile. Nella realtà che oggi concretamente si offre, la democrazia è «accessibile» a coloro che si inseriranno, o potranno e sapranno come inserirsi, nell’organizzazione sociale e nella gerarchia di valori che sono dominanti, il che significa accet­tare a priori e inconsapevolmente l’ineguaglianza, attraverso la trappola di una astratta uguaglianza come fatto di principio. Non dimentichiamo infatti che non tutti sono uguali in par­tenza, e non tutti hanno le stesse possibilità. E 1’ «ugua­glianza» applicata a coloro che non sono dall’inizio uguali equivale ad una ingiustizia. Ciò è vero di tutte le minoranze e delle donne, essendo queste ultime analoghe ad una mino­ranza anche se da essa diverse, in quanto costituiscono poco

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più della metà della popolazione. Ciò di cui le donne hanno veramente bisogno è che vengano riformulate le leggi, che vengano introdotti meccanismi di differenziazione in positi­vo, che vi sia una politica di affermazione (ma non di privile­gio), e la possibilità di diventare esse stesse i soggetti (e non il semplice oggetto, come è sempre accaduto) della legge e del­la politica.

Un partito che adottasse questa linea di pensiero nei paesi Jugoslavi (finora non ve ne è stato alcuno), avrebbe del­le buone possibilità di successo. Se un progetto di questo genere fosse sufficientemente elaborato e fedelmente messo in pratica, io credo che un partito veramente universale (dal punto di vista dei sessi), che tenesse conto dei problemi delle donne, e con la possibilità di fare una campagna abbastanza lunga (cosa che non si è potuta verificare per le elezioni nelle diverse repubbliche jugoslave), potrebbe guadagnare voti femminili. E questi voti sarebbero di più di quelli che verreb­bero persi nell’elettorato maschile e conservatore. Anche i partiti della sinistra hanno invece sempre fatto i loro calcoli temendo di perdere l’appoggio delle donne conservatrici, e allo stesso tempo non cercando di preparare le condizioni per un voto progressista di massa delle donne (questo impliche­rebbe il fatto di dare loro qualcosa). Che il voto progressista delle donnç, sia qualcosa su cui si potrebbe veramente conta­re è un fatto che non può essere dimostrato, in quanto si trat­ta di una strada mai percorsa nella storia. Nessuno ha mai voluto fare una scelta in questa direzione, il che ha a che fare con il fatto che è in definitiva solo l’uomo, e non la donna, che fa politica, nel senso tradizionale. Nel caso della ex-Jugo- slavia, anche i partiti più accettabili hanno saputo pensare alla donna in modo solo strumentale (e dell’ultima ora) per avere dei voti, mentre mai si è considerata la donna in fun­zione di un progetto teso a una politica di reciprocità e con­sapevolezza, e per far nascere e sviluppare un ’opinione pub­blica femminile, come parte della complessiva opinione pub­blica. Un partito progressista e non nazionalista che volesse contare anche sull’appoggio delle donne dovrebbe: 1) avere un programma specifico e con proposte concrete per la don­na, oltre ad un buon programma generale; 2) pianificare e incentivare l’organizzazione sul piano socio-politico della opinione pubblica femminile. In tempi di profonda insicu­rezza sociale ed esistenziale, di guerra e di nazionalismo

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aggressivo, ciò potrebbe essere realizzato in modo relativa­mente veloce, perchè l ’insoddisfazione e l’impazienza delle donne è grande e cresce sempre di più, e una parte impor­tante delle masse femminili non vuole appoggiare alcuna politica nazionalista o militarista, pur non avendo alcuna organizzazione (ciò vale anche per gli uomini) a cui rivolger­si. Solo i partiti nazionalisti, che incitavano alla guerra, e le chiese si sono rivolti alle donne, richiamandosi al loro ruolo tradizionale. Dopo le elezioni che si sono svolte nelle diverse repubbliche, queste forze stanno cercando di eliminare dalla legislazione i modesti «diritti delle donne» che erano stati ottenuti con il socialismo.

Ma, come minimo, questi diritti dovrebbero essere mantenuti, e l ’obiettivo delle donne dovrebbe essere ora ancora più alto: il diritto a essere riconosciute pienamente dalla Legge stessa (e non solo ad avere limitati « diritti delle donne»). Solo questo infatti potrebbe garantire una differen­ziazione in senso positivo. Quanto infatti siano precari (poi­ché circoscritti) i diritti delle donne, è dimostrato attualmen­te dagli sviluppi che si sono avuti negli ex paesi socialisti: i diritti della donna storicamente non sono mai stabili, posso­no essere minacciati in qualsiasi momento e aboliti in modo del tutto arbitrario dagli uomini (maschi). La Legge, dopo­tutto, non è di origine divina nè neutrale; dietro di essa vi è un soggetto e un arteficie umano: storicamente questo è di sesso maschile. Le donne e le minoranze figurano solo come oggetti della legge, posti all'interno di uno schema costruito dal soggetto che è storicamente dominante. Finché non cer­chiamo di sviluppare e di mettere in pratica una concezione di inter-soggettività pluralistica, e cioè finché non smantellia­mo e non ricreiamo la struttura stessa della Legge (con tutte le conseguenze pratiche, politiche, sociali che ciò comporta) le donne (o altri soggetti in una analoga situazione) rimarran­no subordinate al potere maschile.

Nessuno si indirizza normalmente alle donne, e storica­mente non esistono canali riconosciuti attraverso i quali le donne possano comunicare tra loro. Non esiste qualcosa come l’opinione pubblica femminile (come parte della gene­rale opinione pubblica), mentre ciò che viene normalmente inteso come opinione pubblica normalmente è senza dubbio l’opinione prevalentemente maschile. Solo il movimento delle donne ha dato rilevanza a questo problema: la comunicazio­

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ne, l’informazione, la disinformazione, sono cose che riguar­dano unicamente gli uomini; le donne costituiscono semplice- mente il premio, l’oggetto o lo strumento di battaglie che avvengono solo tra di essi. Esse non partecipano a queste bat­taglie, alle quali sono invece subalterne: perciò la lotta non appartiene in alcun modo alla donna, almeno fino al momen­to in cui essa non sarà accettata come soggetto partecipante, fino al momento in cui cioè le regole stesse del gioco non cambieranno. Nessun partito nei Balcani è pronto a far que­sto, ad eccezione delle organizzazioni delle donne, ad esem­pio il «Partito delle donne» (Zest) nel periodo delle votazioni in Serbia; ma questo partito ovviamente aveva la funzione di attirare l’attenzione sulle donne relativamente ai loro proble­mi più generali. È necessario che, come obiettivo di civiltà, cerchiamo di raggiungere il punto di non ritorno in cui il fem­minile, così come il maschile, possa essere pensato come uni­versale (ma, ovviamente, non imposto come modello). Dopo tutto l’uomo è una donna come ogni altra, non è vero?

Le donne non si sentono responsabili per la tragica situazione che si è verificata nei paesi Jugoslavi, perchè esse sono state rese storicamente non responsabili, in quanto non hanno avuto potere. In rapporto alla loro situazione subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, le donne hanno subito una grave regressione, iniziata già prima della attuale guerra civile: la loro presenza nella politica è andata sempre più diminuendo, ed esse sono ovviamente del tutto assenti nel­l’ambito militare.

Al tempo delle elezioni in Croazia, la percentuale delle donne candidate era solo del 6%, e, dopo queste votazioni, complessivamente uno scarso 4% di deputate donne sedeva nel primo parlamento Croato. La «Lista delle donne» a Zagabria non ha avuto successo alle prime elezioni pluripar­titiche, e le cose non sono andate molto meglio nelle prime elezioni in Slovenia, sebbene alla fine un 10% di donne facesse ingresso nel Parlamento, dominato al 90% dai maschi. Le elezioni con più partiti in Serbia davano luogo alla presenza di un 1% di candidate donne nel Parlamento. Che si sia trattato di una coalizione di partiti nazionalisti e di centro destra, come in Slovenia e Croazia (in quest’ultimo paese iniziando con una più netta vittoria dell’«Alleanza Croata Democratica Nazionalista») o della predominanza di un unico partito nazionalista (il Partito Socialista della Ser­

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bia, ovvero gli ex comunisti), i governi e gli orientamenti generali in tutte queste tre repubbliche della ex-Jugoslavia erano, e sono, conservatori riguardo ai diritti delle donne, lasciando un ampio spazio alla retorica clericale su questo tema.

I partiti nazionalisti e conservatori vedono la donna, nel migliore dei casi, all’interno di una prospettiva di «prote­zionismo» legislativo, che ha la funzione di proteggere la maternità, attraverso una politica demografica tesa a assicu­rare che il maggior numero possibile di bambini nascano a «noi», mentre allo stesso tempo la crescita demografica degli «altri» deve essere disincentivata. Così l ’aborto è stato inco­raggiato per le «loro» donne, e sono state introdotte per «loro» tasse per chi ha un quarto figlio (similmente in Serbia, già prima della divisione della Jugoslavia, politiche notevol­mente diverse erano dirette verso le donne serbe o albanesi), mentre dall’altra parte vi è stata chiaramente una tendenza a limitare o impedire l ’aborto e la contraccezione per le «nostre» donne, e a incoraggiare le famiglie con un quarto figlio (esempio di questo è stata la benedizione ufficiale delle famiglie con molti bambini nella Cattedrale di Zagabria nel 1990, subito dopo le elezioni). Sono previsti anche tentativi di introdurre tasse aggiuntive per coloro che non hanno figli tra la «nostra» popolazione, nel momento in cui ci sentissimo «demograficamente minacciati». Tentativi in questo senso sono stati fatti in Croazia dopo le prime elezioni pluripartiti­che, dove le organizzazioni delle donne hanno reagito con una forte opposizione (ad esempio l’«Associazione Indipen­dente delle Donne», 1’«Associazione per la Donna Oggi», i gruppi femministi di Zagabria), ed anche in Serbia già prima delle elezioni, dove la «Lobby delle Donne» aveva aspramen­te criticato la proposta di una «Risoluzione per il Rinnova­mento della popolazione», voluta dalle autorità di Belgrado.

Tutto questo viene accompagnato da una insistente propaganda di spirito patriarcale in favore dei valori tradizio­nali, tesa a limitare i pochi «diritti delle donne» finora rag­giunti, attraverso una aperta e rinnovata condanna della con­vivenza e della possibilità di avere figli al di fuori del matri­monio. Le donne devono essere rimandate a casa a causa del­la crisi ecomomica, e per poter riservare il lavoro in modo preferenziale ai rifugiati, ai militari e ai mutilati che ritornano dalla guerra civile. Vi è una tendenza esplicita al fatto che

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queste ideologie conservatrici trovino una loro diretta attua­zione nelle nuove legislazioni e costituzioni (tendenza che incontra un notevole successo). Le donne dovrebbero, tra tutte le altre cose, mantenere il loro diritto a disporre esse stesse dei loro corpi e delle loro menti, dovrebbero essere riconosciute come le uniche che possono - e hanno il diritto di - decidere se avere bambini o meno, prima e indipenden­temente da ogni interesse nazionale. Il diritto individuale dovrebbe sempre essere prioritario rispetto a ogni preteso diritto «nazionale». Ma, evidentemente, i diritti delle donne non sono in alcun modo considerati tra i diritti umani ele­mentari.

Un buon esempio per illustrare questa svolta conserva­trice della politica nei confronti della donna, è quello della tendenza oggi dominante in Croazia, anche se ciò non signi­fica necessariamente che i regimi negli altri stati della ex- Jugoslavia si comporterebbero in modo migliore. Il Vice- Ministro per la ricostruzione, Anto Bakovic, ha illustrato un preliminare «Progetto per il Rinnovamento Morale e Demo­grafico della Croazia» (Koncept demografske i moraine obno- vern Hrvatske) in cui si legge quanto segue:

Il programma comprenderà un impegno per la trasformazione della famiglia di oggi nella famiglia Croata del futuro che deve avere tre o quattro bambini. L a battaglia contro l’aborto comporta l ’educazione sul piano medico, etico ed umano delle persone, così come la crea­zione di condizioni socio-economiche di vita per cui le donne non abbiano alcun motivo di abortire.La lotta contro la mentalità avversa alla vita: è urgente depurare i testi medici, scolastici, la televisione, la stampa, e tutti i documenti che datano dai tempi del totalitarismo comunista, di tutti gli ele­menti che dimostrano un atteggiamento contrario alla vita.Attività favorevole alle nascite di questo Ministero: produrre film popolari, video ed audio cassette, adesivi, manifesti che sponsorizza­no l’incremento demografico.La nuova politica per la famiglia: la Croazia deve promulgare leggi adeguate e garantire le condizioni per far sì che la vocazione suprema nella Repubblica sia la vocazione della madre allevatrice di figli.L e madri che lavorano dovrebbero essere escluse dall’impiego nelle fabbrich e e da altri lavori per esse inadeguati. C iò forn irebbe migliaia di posti di lavoro in più.Il celibato dovrebbe essere represso, perchè la attuale situazione demografica peggiora progressivamente a causa di un nuovo male,

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rappresentato dai matrimoni in tarda età, contratti tra i 35 e i 50 anni da coppie che hanno solo un bambino o rimangono senza figli. La nuova politica fiscale non incoraggerà il celibato, ma privilegerà le coppie sposate con figli.La tutela morale della famiglia: La Repubblica deve combattere, attraverso le leggi e il condizionamento politico, qualsiasi cosa sia contro il matrimonio e contro la famiglia.O ccorre lottare contro la pornografia, la prostituzione infantile e imporre restrizioni a sale cinematografiche private e video-club.La dignità della maternità dovrebbe essere pubblicamente enfatizza­ta, rispettata e propagandata, e dovrebbe essere introdotta una nuo­va festa nazionale: il Giorno della M adre Croata.I criteri per concedere i divorzi dovrebbero essere molto più severi nel caso di matrimoni con figli.La tutela sociale dei bam bini: l ’im piego di bam binaie dovrebbe essere limitato al minimo e poi gradualmente del tutto abbandonato, facendo sì che i bam bini stiano per i primi due anni con le loro madri.Dovrebbe essere elaborato un progetto per istituire cooperative per l’infanzia per bambini dai due ai sei anni.II rinnovamento morale della società: la Croazia è oggi libera, ma la società croata attuale è malata, nel senso che l’anima della nazione soffre di molti danni perpetrati dal vecchio regime; questi sono comportamento asociale, rifiuto del lavoro, mancanza di responsabi­lità, corruzione, un atteggiamento negativo verso lo Stato e ciò che è di proprietà statale, l’uso di bestemmie e parolacce e la corruzione della morale della gente attraverso la stampa ed altri mass-media. D opo una così grande distruzione materiale e spirituale e dopo tan­ta incertezza, la società croata sta entrando in Europa, come una società libera e sovrana. È necessario organizzare una ‘Settimana Sociale C roata’, durante la quale si riuniranno più o meno cento ‘Croati saggi, onesti e patriottici’, per indicare le nostre future pro­spettive, fornendo così un aiuto al Governo, al Parlamento e ai lea­der nel rinnovamento etico della gente Croata e di altri cittadini del­la Repubblica.

Complementare alla linea apertamente clericale del Vice-Primo Ministro, è l’atteggiamento dello stesso Cardina­le Franjo Kuhraric. Egli dice infatti in una lettera al Presi­dente del Parlamento:

... È necessario che urgentemente si abolisca la legge sulla regola­mentazione medica relativa alla decisione libera sulle nascite, o che la si sostituisca con una nuova. Per noi credenti, quella legge è con­tro D io e contro gli uomini; essa è contraria alla nuova Costituzione

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1della Repubblica della Croazia, secondo la quale ‘ogni essere umano ha il diritto alla vita’. Tale legge è l’espressione di una concezione materialistica dell’uomo, e perciò di una visione del tutto errata del­la vita umana, della persona e della sessualità, ed è il risultato di una mentalità che è oggi molto diffusa nel mondo, e che conduce ad una civiltà basata sulla morte. Dato che tale mentalità è molto radicata anche in Croazia, ed è ampiamente appoggiata dai mass-media, cre­diamo sia necessario spiegare la nostra richiesta più nel dettaglio, e la proponiamo alla considerazione di tutti gli uomini di buona volontà.... Crediamo che sia nostro dovere affermare chiaramente e con determinazione la nostra difesa del diritto a nascere degli esseri umani che sono stati concepiti. Il tragico destino di decine di migliaia di bambini non nati in Croazia, uccisi dall’aborto, non deve lasciare indifferenti gli animi delle persone di buona volontà. Que­sto fenomeno è stato fatto passare sotto silenzio, o è stato perfino giustificato richiamandosi a diverse ragioni, e il diritto all’aborto è stato considerato come qualcosa che appartiene alla donna. L ’abor­to è la negazione della dignità della donna e dell’amore materno; il male è il male, e compierlo non potrà mai divenire un diritto.... Crediamo che la nuova legislazione croata dovrebbe distinguere nettamente tra il diritto a una procreazione libera e responsabile e il problema dell’aborto. Il metodo usato per una procreazione respon­sabile (nella pianificazione della famiglia) è quello del rispetto del ciclo della fertilità, che significa astensione dalla vita coniugale nei giorni fertili.... È questo il modo in cui la dignità umana, e la dignità della ses­sualità, vengono rispettate. La contraccezione non naturale, che sia ottenuta con rimedi di tipo chimico o meccanico, perfino con risul­tati abortivi, è una grave offesa alla dignità e trasforma la persona umana in un oggetto di soddisfazione egoistica. L ’amore autentico è contrario a tutto ciò. L ’aborto che viene inflitto intenzionalmente è un male oggettivo sia dal punto di vista dell’individuo che dal punto di vista sociale, e dovrebbe essere visto in questa prospettiva dalla legislazione.... Caro Signor Presidente del Parlamento Croato, sottopongo que­sta richiesta e questa dichiarazione dei vescovi croati, come Pastore della Chiesa in Croazia, alla vostra attenzione e alla coscienza del Parlamento. Sono convinto che un argomento così serio sarà esami­nato dal Parlamento con responsabilità di fronte a Dio, alla storia e agli uomini, che verranno tratte le adeguate conclusioni, che sarà approvata una nuova legge, la quale sarà veramente espressione del­la tutela della vita e di ogni essere umano dal momento del suo con­cepimento fino alla morte. 1

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Questa tendenza ad abolire i diritti elementari delle donne, ha dato luogo a una crescente preoccupazione nelle donne e nei giovani. E veramente la società nel suo comples­so sta subendo un’influenza sempre maggiore da parte della Chiesa; da vari punti di vista (nell’educazione, nella politica culturale, nei mass-media, nella politica interna), ma in pri­mo luogo relativamente alle donne, questa tendenza è vera­mente allarmante. Tutto quello che nella legislazione era sta­to raggiunto in favore della donna sarà probabilmente abbandonato. Le due lunghe citazioni che ho riportato non hanno bisogno di commenti: esse sono caratteristiche degli orientamenti ufficiali degli stati che si sono appena formati. È difficile dire se le donne riusciranno a combattere tutto questo; perchè le decisioni di interesse generale, così come quelle che specificamente riguardano le donne, sono prese da una piccola minoranza di uomini che siedono nel Parla­mento, e che sono inoltre spesso molto più vecchi di quelle donne di cui essi decideranno il destino.

La nuova democratizzazione della vita politica, che dovrebbe derivare dalla presenza di molti partiti, avviene molto lentamente ed è in realtà incerta e limitata. E ciò è vero, per diversi motivi, di tutte le aree di quella che era un tempo la Jugoslavia, ma soprattutto dei paesi che sono coin­volti in una guerra, essendone colpiti direttamente o come invasori. Infatti nessuna democrazia è pensabile con la guer­ra: le sfumature sono eliminate, le differenti opinioni non sono permesse, ogni diversa tendenza, in particolare quella non nazionalista, viene stigmatizzata. Ma soprattutto, più di quanto non fosse vero per quella che - potendo vedere ora la cosa ad una «distanza di sicurezza» - sembra essere la demo­cratizzazione dei vecchi regimi totalitari dell’Europa dell’Est, non vi è democrazia per le donne. Questo è confermato anche dalle recenti esperienze di altri paesi ex socialisti, dove vi è la minaccia che le donne siano private di alcuni dei loro pochi e più elementari «diritti delle donne» (che sono fondamental­mente il diritto di voto, quello di poter scegliere tra mater­nità e aborto, quello di un uguale salario: gli ultimi due sono oggi particolarmente in pericolo). Un partito politico che volesse contare sull’appoggio della metà (femminile) della popolazione, dovrebbe garantire questi diritti già raggiunti nell’epoca socialista, per quanto modesti e scontati essi siano, e assicurarne di nuovi e più ampi, ovviamente nella direzione

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di riconfermare e migliorare ulteriormente gli strumenti pro­pri di uno stato di diritto. E strano che nessun partito politi­co abbia pensato a questo, e mi ha stupito in modo particola­re che anche quello che era l’ultimo (e d’altro canto dispera­to e destinato all’insuccesso) tentativo di salvare una qualche integrità del territorio jugoslavo - cioè 1’«Associazione delle Forze Riforniste» - non abbia fatto una scelta in questo sen­so, visto il suo bisogno di voti. Ma per questo sarebbe stato necessario indirizzarsi alle masse femminili come ad un grup­po che rappresentava un obiettivo, ed offrire loro qualcosa. Qualsiasi altra cosa, incluso il silenzio nei loro confronti, era de facto una manipolazione, derivata dalla falsa universalità del discorso politico in generale. Il difetto che caratterizzava tutti i partiti si sarebbe potuto trasformare nel vantaggio di quel partito che avesse pensato alle donne, sapendo che tutti gli altri non sono stati in grado di indirizzarsi ad esse come ad un obiettivo. Il partito che avesse voluto tenere conto del­le donne, avrebbe dovuto dichiarare per quali cose era pron­to a lottare in loro nome, sapendo che la crisi economica avrebbe colpito loro per prime, che le difficoltà della vita di ogni giorno ricadono soprattutto sulle donne, così come il peso di prezzi sempre più alti, del doppio lavoro, e soprattut­to il peso della guerra (e si potrebbe specificare in quali modi la guerra e l ’atteggiamento guerrafondaio colpiscono in modo particolare le donne). Non è possibile affrontare alcu­na questione relativa all’economia senza una comprensione del suo impatto sulle donne in rapporto all’insieme; l’incer­tezza politica ed economica, la guerra hanno conseguenze particolarmente pesanti per loro, e le coinvolgono in un modo specifico. Le donne sono stanche e arrabbiate: esse potrebbero essere mobilitate - e si stanno mobilitando - contro la guerra. Ma nessun discorso politico nuovo nei loro confronti è minimamente in vista.

La situazione delle donne è ugualmente negativa, per diverse ragioni, nelle repubbliche coinvolte dalla guerra così come in quelle che sono state da essa fino ad oggi risparmia­te. Vi sono anche specificità e differenze, che ad uno sguardo più ravvicinato dovrebbero essere prese in considerazione. Alcune di queste caratteristiche specifiche sono dovute alle piccole, ma significative, differenze esistenti nella legislazione riguardante la donna nelle regioni della Jugoslavia prima del­la guerra civile (ad esempio, solo in Slovenia veniva ricono­

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sciuto ad una donna che fosse stata stuprata dal marito il diritto che questo fosse condannato); altre, più rilevanti, sono dovute alle ampie differenze esistenti nello sviluppo generale e negli standard di vita dei vari paesi. Sono le donne che hanno sulle loro spalle la maggior parte del peso sociale, psicologico, materiale della vita di ogni giorno; questo avvie­ne più che per qualunque altra ragione a causa del loro dop­pio lavoro (lavoro svolto a casa e fuori), fenomeno che riguarda ogni parte del territorio jugoslavo. Ma nelle regioni0 Repubbliche meno sviluppate del paese, questa pressione sulle donne è ancora più forte, a causa della miseria materiale e arretratezza culturale esistenti. Le donne in questi luoghi realmente lottano per la più elementare sopravvivenza della famiglia - o di ciò che rimane di essa dopo che la popolazio­ne maschile è stata inviata in guerra - , garantendo il sostenta­mento materiale e psicologico.

Prendiamo come esempio le apparizioni dei partiti politici nelle trasmissioni serali della televisione serba duran­te le elezioni del 1990. La somiglianza nel loro modo di pre­sentarsi era impressionante in tutti i casi, e solo i Socialdemo­cratici, l’Ujdi («Associazione per l’Iniziativa Democratica in Jugoslavia»), e in una certa misura i Verdi, facevano eccezio­ne a questa regola: solo questi pochi partiti ebbero una o due donne a rappresentarli in televisione. Alle donne regolar­mente viene riservato di parlare alla fine della trasmissione, generalmente su temi culturali, ed esse vengono spesso inter­rotte o zittite dai loro colleghi più «politici» quando il tempo sta per scadere, seppure hanno un minuto per dire qualcosa. La maggior parte dei partiti non parla mai della donna, non ha programmi che la riguardano, e quelli che si riferiscono ad essa (tranne il caso dei partiti sopra menzionati) la conce­piscono solo nel suo ruolo di madre, in contrasto con l’affer­mazione generale che essi considerano la donna come avente uguali diritti.

Ma le cose non vanno meglio in nessuna delle altre repubbliche della ex Jugoslavia. L ’ideologia misogina ha oggi grandi possibilità di ricevere una consacrazione sul piano delle leggi, ed è fortemente attiva, sull’onda del revival nazio­nalistico e delle tendenze alla moralizzazione. Se lottiamo per1 diritti umani fondamentali delle donne in Croazia - ci avvertono paternalisticamente -, stiamo di fatto applauden­do al «loro complotto contro la Croazia», e ci troviamo

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ovviamente dalla parte dei nazionalisti serb i2. O, viceversa (qual è la differenza?), se appoggiamo l’equiparazione di coppie sposate e non sposate, stiamo prendendo parte alla specifica «guerra contro la Serbia» \

Contemporaneamente, le bozze per le costituzioni, ma anche le costituzioni stesse della Slovenia e della Croazia come stati indipendenti e sovrani, riservano alla donna un ruolo ghettizzato, menzionandola solo in relazione alla sua funzione materna (Art. 51, 75 della costituzione slovena). La versione non ancora ufficiale del 1990 della costituzione croa­ta parla di « il matrimonio e la famiglia come la base morale e naturale della società»! (Art. 62), stabilendo i criteri arbitrari della «moralità» e della «natura», e altrove della «salute» (la versione ultima di «moralità» nell’Art. 16 della costituzione ufficiale ). Comunque, nella sua versione finale, la Costituzio­ne Croata ha eliminato la definizione citata di matrimonio e famiglia, e ora dice solo: «la famiglia è sotto la speciale tutela della Repubblica. Il matrimonio e le relazioni legali all’interno del matrimonio, la convivenza e la famiglia sono regolate dalla legge» (Art. 61). Come nel caso dell’aborto, la questione è demandata alle leggi. Sotto questo aspetto, la Costituzione Croata è volutamente ambigua, contemplando la possibilità che la vecchia legge sull’aborto come diritto di decidere sulla propria maternità sia abolita. Così, l’articolo 21 della nuova Costituzione recita testualmente: «Ogni essere umano ha il diritto alla vita. Non esiste la pena capitale nella Repubblica della Croazia». H modo di concepire questa legge dipenderà chiaramente dall’interpretazione che viene data del significato di quell’«essere umano». Ad esempio, come è illustrato dalla precedente citazione, il Cardinale intende dire essere umano «dal concepimento alla morte». L ’ambiguità del paragrafo della Costituzione che abbiamo citato indica una chiara ten­denza a limitare o vietare in futuro la contraccezione e l’abor­to (e così ad abolire il diritto delle donne a decidere per sè stesse). Tale limitazione arriva più tardi, a tempo debito e attraverso la legislazione, con l ’affermazione che le leggi dovrebbero essere in accordo con la Costituzione (che già prevede tali nuove leggi). Così l ’Art. 56 della Costituzione recita che i «diritti che concernono la nascita, la maternità e la cura dei bambini, saranno regolati dalla legge».

Vi è qui abbastanza spazio per un progetto complessi­vo che riporta le donne indietro ad una situazione di totale

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dipendenza dagli uomini. Il fatto che vi sia la presenza di un maggior numero di paragrafi che riaffermano in principio l’uguaglianza dei generi, delle diverse nazionalità, delle cre­denze religiose ecc. di fronte alla legge, non ci deve sviare. È infatti chiaro perfino da questi articoli (ad esempio l ’articolo 14) che l’«universalità» («tutti») non si applica alle donne, perfino quando questo viene espressamente dichiarato: si parla di «cittadini» solo nella forma maschile (gradjani), mentre si dice che tutti (i cittadini maschi) devono essere considerati uguali dal punto di vista della razza, del genere, ecc. (Riguardo al genere ovviamente questo è particolarmen­te assurdo, e mostra come il femminile non possa mai essere concepito come realmente universale: esso può rappresenta­re solo una eccezione). Similmente, nello stesso tempo la Costituzione Slovena poneva come principio fondamentale la «santità della vita», ed era imprecisa rispetto al diritto di aborto (Art. 52), il che si rivelerebbe utile nel momento in cui si decidesse di abolire questo diritto, specialmente perchè concede «l’obiezione per ragioni di coscienza» (Art. 45), che potrebbe essere interpretata come il diritto per il medico di rifiutarsi di praticare l’aborto. L ’articolo 63 della Costituzio­ne Croata, inoltre, afferma che «i figli hanno il dovere di curarsi dei loro genitori anziani o debilitati», mentre tutti sappiamo che una tale cura in generale viene sempre deman­data alla donna. Su questo tema, ciò che è ancora più allar­mante è la manifesta intenzione da parte dello Stato di lavarsi le mani di ogni possibile dovere verso la salute dei suoi citta­dini più vecchi e verso la sicurezza sociale. Ed infine la Costi­tuzione (Croata) recita che «Il servizio militare e la difesa della Repubblica è il dovere di tutti i cittadini abili», usando di nuovo la forma maschile, sebbene la lingua possieda entrambe le forme. Sono solo uomini i cittadini, e non donne (gradjanka sarebbe la forma femminile)? Se è così, la Costi­tuzione si rivela come qualcosa che non è riferibile o applica­bile alle donne4. Di fatto, il «cittadino donna» è menzionato per la prima volta fuori dal contesto (il che mostra che tale concetto non viene preso seriamente) nella «Legge Costitu­zionale concernente gli emendamenti alla Legge Costituzio­nale per l’Approvazione della Costituzione della Repubblica di Croazia» (pubblicata il 14-11-1991), nell’Art. 6, par. e, dove si dice che ogni cittadino o cittadina (gradjanìn ili gradjanka) ha il diritto di decidere a quale gruppo etnico,

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gruppo nazionale o minoranza egli o ella voglia appartenere.Dopo la Seconda Guerra Mondiale, vi era il 30% di

donne nei diversi corpi statali e governativi della Jugoslavia, e questo era dovuto in parte all’esistenza di una quota fissa, ma in parte anche all’autorità di cui esse godevano per il ruo­lo significativo che avevano svolto nella guerra di Liberazio­ne. Negli attuali stati della ex-Jugoslavia le donne sono di nuovo completamente scomparse dalla scena (la presenza di poche «donne alibi» non fa che confermare questa regola): praticamente non vi sono donne nei governi, e ve ne è solo qualcuna nei parlamenti. E una tale siuazione viene sancita dalle leggi ogni volta che se ne abbia la possibilità.

L ’economia di mercato e di tipo competitivo, diretta inizialmente a salvare la Jugoslavia dalla crisi, e in seguito i diversi stati emersi dalla divisione del paese, non si è mai veramente realizzata, eccetto in parte nella Slovenia. Non vi può essere alcun progresso economico dove vi è la guerra e non è possibile alcuno scambio, dove i mercati si chiudono invece di aprirsi e ogni forma di complementarità si inter­rompe. Ma, se la pace dovesse arrivare (cosa che io spero), saremmo subito in grado di vedere che l’economia di merca­to di per sè non favorisce automaticamente le donne, i loro diritti o il loro progresso (e viceversa). «Non è il momento giusto» per le rivendicazioni delle donne o femministe (come se ci fosse mai stato un momento giusto). Molte cose sono più importanti e vengono prima delle necessità delle donne; per il momento, nei discorsi retorici ufficiali, l ’«interesse nazionale» ha la precedenza.

Le donne riconoscono un interesse comune (comune a tutti gli ex Jugoslavi) come prioritario ad ogni altro: questo interesse comune è la pace.

Naturalmente, questa logica perversa potrebbe essere vista in una prospettiva opposta, per il cambiamento, e per il nostro bene comune, se 1’«interesse della nazione» non venisse identificato, come sempre è accaduto finora nella sto­ria, con un interesse dominante che storicamente è stato - ed è tuttora - maschile, ma se potesse essere identificato con l’interesse femminile. Ma non importa se l’interesse «nazio­nale» sia concepito, come per lo più avviene oggi, come nazionale in un senso stretto, che implica l’ostilità verso gli altri, o se sia concepito, come un tempo, in senso socialista e riferito alla autogestione del paese: la «nazione» è comunque

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un falso universale, come ogni altro.Mentre le donne della ex-Jugoslavia si trovano ora in

una condizione molto arretrata rispetto a quella in cui si tro­vavano con il modello di sviluppo socialista (anch’esso falsa­mente universale) per quel che riguarda il loro status dal punto di vista politico, economico, legislativo, esse sono rimaste al punto di prima riguardo al livello di civilizzazione: il livello cioè dei Balcani patriarcali, militarizzati, portati alla guerra, dove si produce un eccesso di ormoni aggressivi. Nel­la vita di ogni giorno, le donne dei paesi jugoslavi sono ricac­ciate indietro passo dopo passo verso la terra di nessuno dei fantasmi nazionali, dove vengono loro inflitte sofferenze reali e non fantasmatiche: la guerra in generale, la violenza nella famiglia, la violenza fisica sulla donna e sui bambini, l’abuso dei bambini, l’incesto forzato, la molestia sessuale, la violen­za diffusa ovunque, il furto, la miseria, l ’emigrazione, le case e le città distrutte, la morte. Questa è solo la parte visibile dell’iceberg: ogni tipo di aggressività verso gli altri (diretta all’altra nazione naturalmente, ma presente anche all’interno della comunità stessa), verso chiunque abbia diverse idee o atteggiamenti, viene oggi permessa, e non vi sono più limiti. In parte questa aggressività insita nella nostra popolazione maschile, e in modo più generalizzato nelle nostre culture, non è una sorpresa per le femministe, specialmente non lo è ad esempio per le attiviste del «Telefono Rosso Sos», nato per aiutare le donne e i bambini che vengono picchiati (introdotto a Zagabria dal 1988, e a Belgrado qualche tempo più tardi).

Sfortunatamente, permane ancora nell’opinione pub­blica una visione banalizzata di questi problemi relativi alla violenza, così come un’idea stereotipata negativa delle attivi­ste femministe, in modo tale che le donne impegnate in que­sto tipo di azione non hanno mai ricevuto l’incoraggiamento che meritavano, nè ha ricevuto attenzione l’attività che esse svolgevano. Nella condanna di questi fenomeni, così come nel supportare i movimenti pacifisti e femministi, deve essere riconosciuto il legame esistente tra la molto diffusa violenza «domestica» verso le donne (verso chi è più debole in gene­rale), e l’esplosione della guerra in Jugoslavia: non è affatto un caso che questi fenomeni compaiano adesso contempora­neamente. E naturalmente questo argomento dovrebbe esse­re approfondito. Ma lasciatemi prima illustrare ancora alcuni

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esempi riguardanti le donne o la violenza contro le donne per spiegare il mio discorso.

Una nuova proposta di legge in Croazia mostra l’inten­zione che casi di violenza che avvengono nella famiglia non vengano esaminati pubblicamente. Ciò significherebbe solo il tentativo di essere concilianti verso la violenza che avviene in privato, direbbe un’analisi femminista. E infatti le donne vogliono che, come regola, questi casi siano discussi pubbli­camente, eccetto quando sia la vittima a chiedere il contrario. Le donne affermano che dovrebbe essere lo Stato a combat­tere la violenza nella famiglia, e che è lo Stato che dovrebbe garantire il rispetto e la dignità dell’immagine pubblica della donna. E ciò a cui ci riferiamo qui non è in particolare la pornografia. Per quanto riguarda quest’ultima, sarebbe meglio, rispetto alla censura, che si permettesse ai gruppi di donne di giudicare e spiegare questo fenomeno in aumento. Ma sfortunatamente, la situazione attuale è tale che è possibi­le e permesso, su tutte le pubbliche scene jugoslave, che si esprima qualsiasi affermazione sessista, aggressiva, fascista, offensiva contro le donne (o contro altri soggetti), senza che per questo vi siano sanzioni o una pubblica condanna da parte di nessuno. Ma cos’è l’aggressione verbale in confronto alla violenza fisica? Eppure l’una conduce all’altra, come è stato ben dimostrato dall’atteggiamento guerrafondaio, e dal modo in cui è stata propagandata la guerra attraverso i media durante gli ultimi cinque anni (e ciò è accaduto da ogni par­te). È similmente permesso che si esprima qualsiasi opinione razzista o sciovinista senza che vi sia alcuna conseguenza: si deve solo scegliere da che parte stare. Quando si tratta di violenza verso le donne (che sia verbale o meno), queste si sono sempre sentite, e oggi ancor di più, prive di qualsiasi tutela; esse non hanno mai avuto qualcosa in cui poter confi­dare per la propria difesa, e a cui potessero affidare la salva- guardia dei propri diritti. Vi è attualmente (siamo nel 1992, mentre la guerra in Bosnia ed Erzegovina è più distruttiva, e la guerra in Croazia non è affatto al termine) un implicito «stato di emergenza» riguardo alla morale, alle leggi, alla sicurezza personale del cittadino, poiché la Nazione ha la prevalenza assoluta non solo sulle cittadine-donne, ma anche sui cittadini-uomini. E interessante notare che la caccia alle streghe che vi è oggi in Croazia (costituita da volgari attacchi sui giornali contro alcuni intellettuali sospettati di non

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conformarsi al sentimento nazionalista imperante) è oggi principalmente diretta contro le donne.

È vero che è più facile attaccare chi è più debole, seb­bene alcune delle giornaliste in questione siano anche delle donne; ma è anche vero probabilmente che questi attacchi significano che la donna è percepita in una certa misura come un soggetto politico, il che rappresenta in sè un feno­meno nuovo. In Serbia, al contrario, tutta la retorica aggres­siva militare e di guerra è qualcosa che viene diretto solo agli uomini, mentre le donne non ricevono alcuna attenzione dal punto di vista politico.

Le donne devono difendere lo stato di diritto, per esse­re sicure che la Nazione non abbia la totale priorità sui loro interessi individuali, interessi che la Nazione considera come propri, dato che il corpo della donna fornisce i soldati, e la riproduzione della famiglia al più basso prezzo. Riguardo al loro status, le donne insistono sui loro diritti relativi alla pro­creazione, e sul diritto di base a decidere del proprio corpo e della propria individualità (ad esempio nella «Dichiarazione sui diritti relativi alla procreazione», di un gruppo femmini­sta di Zagabria). Riaffermando i loro diritti nel campo della procreazione, le donne vogliono opporsi alla politica demo­grafica in favore delle nascite, che, in modo scandaloso, con­ta e mette a confronto i «nostri bambini» (considerati sem­pre troppo pochi) con i «loro bambini» (considerati sempre troppo numerosi), e che intende esercitare un controllo sulla nazione che pesa tutto sulle donne, dimenticando che anche gli interessi della specie possono essere garantiti solo rispet­tando i diritti della donna come individuo. Questi diritti non dovrebbero mai venire minacciati.

Sembrano esservi, grosso modo, tre stadi nel tratta­mento delle donne dal punto di vista delle leggi. Storicamen­te, il primo stadio è quello di una discriminazione legale in senso negativo, che è più o meno precedente all’esperienza dei paesi del capitalismo avanzato e di quelli ex-socialisti, sebbene le donne in questi ultimi siano chiaramente di fronte al pericolo di tornare indietro a quel punto. Le donne nella maggior parte di questi paesi (dell’Europa dell’Est e dell’O­vest) si trovano ora in nuovo stadio, quello dell ’astratta ugua­glianza sul piano di principio (de jure, ma non de facto), degli uguali diritti insomma, o egalitarismo. In questo stadio però l’aspetto della norma e quello reale, effettivo, differiscono, in

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quanto le donne, sebbene uguali dal punto di vista dei diritti e dei principii, non hanno le stesse possibilità dell'uomo, perchè il loro punto di partenza è diverso. Ed è per questo che lo status delle donne è un problema sociale. Le «nuove democrazie» nell’Est (dell’Europa), che sono peraltro benve­nute sotto molti altri aspetti, stanno praticamente riducendo al minimo, e mantenendo ad un livello strettamente prima­rio, le garanzie democratiche che riguardano le donne, e in questo momento, o per il futuro, non stanno offrendo alle donne niente di nuovo, di migliore, o di progressivo. Vi è adesso il pericolo reale, a causa del così evidente ritorno ad una retorica tradizionale nazionale e nazionalista, che le don­ne negli ex-paesi socialisti siano ricacciate indietro al primo stadio, storicamente superato, della discriminazione vera e propria. E forse questo pericolo non sussiste solo per questi paesi, se guardiamo a come il diritto all’aborto viene rimesso in discussione negli Stati Uniti, ed ovunque oggi. L ’obiettivo delle donne, ma anche di tutte le forze progressiste antina­zionaliste, dovrebbe essere quello di raggiungere il terzo sta­dio del loro status, quello cioè della differenziazione in senso positivo e dell’azione affermativa.

La differenziazione in senso positivo non significa che si nega lo stato di diritto, ma al contrario costituisce uno svi­luppo e un perfezionamento di esso. Ma perchè ciò sia possi­bile, è essenziale che le rivendicazioni non siano unicamente limitate ai «diritti delle donne», sebbene questi non dovreb­bero essere mai abbandonati, ma riguardino il diritto e la possibilità da parte delle donne di accedere alla Legge in quanto tale: le donne devono costitursi come soggetto politi­co, e come soggetto e non solo oggetto della Legge. Dagli anni settanta in poi, un modesto, sebbene determinato, movimento delle donne si era mosso in questa direzione, pri­ma in Jugoslavia, e ora in quello che è il paese dopo le molte­plici divisioni, nelle diverse ex repubbliche che formavano una volta la nazione. Questo movimento è stato indebolito dall’attuale guerra o dalle varie guerre, ma ha buone ragioni e possibilità di svilupparsi ulteriormente. Il suo massimo obiettivo sarebbe una possibilità di civilizzazione, che non è stata mai sperimentata fino ad ora nel mondo. Ma il suo obiettivo minimale e più immediato, nelle circostanze odier­ne, che non sono dovute alle donne, è quello di fermare la guerra, le uccisioni e la distruzione.

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In realtà, la guerra era scoppiata prima in Slovenia (giugno 1991), poi in Croazia, dove ancora non è finita (set­tembre 1991), ed infine in Bosnia-Erzegovina (aprile 1992). La rete esistente tra le organizzazioni di donne e di gruppi femministi, era stata l’ultima a riuscire a mantenere i necessa­ri contatti tra una repubblica e l’altra, superando l’impossibi­lità di comunicare, di telefonare, di viaggiare, di spedire la posta. Questi contatti erano preziosi e praticamente gli unici esistenti. In modo abbastanza naturale, la rete delle donne si era trasformata in un movimento pacifista contro la guerra, a cui si erano aggiunti o avevano dato il loro supporto quegli uomini che avevano potuto o avevano avuto il coraggio di appoggiarlo. Gli uomini venivano chiamati alla guerra: o essi vi andavano, e in quel caso erano automaticamente esclusi, oppure si rifiutavano di andare, ma in questo caso erano costretti a nascondersi e non potevano apparire in pubblico. Il movimento pacifista a Belgrado, di entità limitata ma comunque importante, era formato principalmente da donne. Queste erano anche le sole che potevano viaggiare liberamen­te; gli uomini non potevano lasciare i loro luoghi di residenza a causa del controllo militare, e l ’organizzazione delle loro partenze per l’estero o per altre parti del paese era spesso lasciata alle donne, che potevano agire più liberamente. Era­no le donne che si occupavano della vita clandestina nella famiglia o nella società, che potevano attraversare la frontiera per prendere la benzina quando questa mancava, e che infine organizzavano l’aiuto ai rifugiati che emigravano e alle popo­lazioni colpite dalla guerra. Era, in maniera abbastanza com­prensibile, più difficile dare un’organizzazione alle tendenze pacifiste in Croazia, perchè quel paese era stato attaccato. Ma anche lì, specialmente quando la tensione si era allentata a Zagabria, riuscì ad emergere un’attività pacifista, insieme ad un’azione politica di tipo anti-nazionalista; anche in questo caso il ruolo delle donne era stato centrale. Le donne sono state di primaria importanza anche nelle manifestazioni con­tro la guerra in Slovenia, e senza dubbio questo sarà vero anche per la Bosnia-Erzegovina. Ma il capitolo che riguarda la resistenza in questo paese deve ancora essere scritto.

Chiaramente, finché la guerra continua le donne non possono perseguire i loro massimi obiettivi: come ogni altro soggetto, esse sono state riportate indietro di decine di anni dalla guerra. Ma ancora una volta, come è accaduto nella

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Seconda Guerra Mondiale, le donne usciranno da questa tra­gedia con una maggiore consapevolezza, e con la certezza - così come con la forza che ne deriva - , che questa non era la loro guerra.

In qualche modo, non è mai «il momento giusto» per le richieste delle donne: nella nostra tradizione patriarcale altri problemi sono sempre più urgenti. Ma, dall’esperienza socialista in poi, noi sappiamo ormai cosa sono le «priorità»: esse non sono stabilite da noi ma da coloro che ci governano, e rappresentano la scusa di sempre per non prendere in con­siderazione le rivendicazioni dei più deboli. Le donne della ex-Jugoslavia ripeterebbero questo errore, se permettessero che ancora una volta i problemi della loro condizione venis­sero messi da parte come «non prioritari».

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NOTE

1 Entrambe le citazioni sono da «Novi Vjesnik», 17- 5- 1992, p.17 B.

2 R adovan Stipetic, Dan m danom, «Vjesnik», 9-11-1990, Zagreb.’ S lobodanka A st , Zene dolale, «Vreme», 12-11-1990, Beograd.4 La documentazione è in: V esna P u sic , Gradjanin bez zastite,

«Danas», 30-10-1990, e S lavenka D rakulic, intervento al convegno del Csce a Berlino, 15-11-1990, «Le donne e la nuova democrazia in Jugosla­via». Per quel che riguarda la Costituzione Croata, così come le sue Leggi Costituzionali, si veda Ustav Republike Hrvatske, 2* ed., Narodne novine, Zagreb 1992.

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LE DONNE, IL NAZIONALISMO E LA GUERRA «Fate l’amore, e non la guerra» 1

Come bambini, eternamente privati dell’amore mater­no, i popoli si raccontano delle storie, per credervi e situare in modo rassicurante il loro io quotidiano all’in­terno di uno spazio e di una durata immaginari. Ma, in modo ancor più persistente, per tutta la loro vita non cessano mai di elaborare una mitologia, un profilo idea­le della loro anima nazionale, insomma una cultura, che serve a organizzare la vita di ogni individuo in modo conseguente. Di tutti questi fantasmi, quello della nascita comprende in sè tutti gli altri, poiché, in man­canza di antenati la cui esistenza sia storicamente pro­vata, occorre darsi dei genitori degni del destino che ci si è assegnati.(Jacques Pezeu-Massabuau, L ’éternel incompris ou Les Japonais en quête d’une appellation d’origine).

Il movimento inglese delle suffragette si interruppe bru­scamente quando una contraddizione divenne storicamente rilevante, quella che può essere riassunta nella frase « le donne come membri della specie umana e come espressione della diffe­renza e della singolarità». Questa contraddizione si è manifesta­ta con l’avvento della Prima Guerra Mondiale, quando le suf­fragette divennero operaie nelle fabbriche, e furono liberate dalle prigioni come ricompensa per la loro tendenza «patriotti­ca», e per l’abbandono dell’attività femminista e della lotta per il diritto di voto alle donne. Che cosa successe inizialmente quando due diversi interessi entrarono in conflitto (gli «inte­ressi delle donne» e quelli della nazione, di cui esse non erano che una parte)?

La Prima Guerra Mondiale - scrive Jane Marcus - in Inghilterra ha praticamente distrutto il movimento femminista, uno straordinario movimento di massa che aveva lottato per quasi mezzo secolo per ottenere la giustizia politica e l’eguaglianza riguardo all’educazione, al diritto di voto, alla legislazione sul matrimonio e il divorzio, alla tutela dei bambini, alle norme sul lavoro2.

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Più tardi, verrà riconosciuto il diritto di voto alle don­ne, in gran parte come premio per il loro comportamento durante la guerra. La guerra e il nazionalismo furono usati come argomenti per allontanare dal femminismo, nel senso che si chiese alle donne di scegliere tra il femminismo e lo sforzo richiesto dalla guerra, tra la loro identità femminile e la loro identità nazionale e di Stato. E questo divise il movimen­to femminista: si verificò una rottura tra le donne che mante­nevano le loro posizioni pacifiste e quelle che volevano soste­nere gli uomini, e lavoravano nelle industrie di armi o guida­vano le ambulanze al fronte. Di fatto le femministe pacifiste furono una minoranza: eppure, in modo evidente, la guerra era un fatto «fraterno», e non «sororale». Sarebbe semplicisti- co affermare che gli uomini erano tutti a favore della guerra e le donne tutte per la pace, ma gli «interessi» dichiarati di una guerra sono sempre determinati dal genere dominante; perché il sistema del genere dominante viene reso totale e, conse­guentemente, è considerato come neutro dal punto di vista dei generi, come universale «umano»: la sua stessa supposta «neutralità» ne costituisce la forza. Anche se le donne sem­brano più pacifiste, e i movimenti pacifisti esistenti nei paesi in guerra sono animati dalle donne mentre gli uomini ne sono esclusi, anche se le donne usano ricorrere alle armi molto meno degli uomini, esse sono comunque, in una certa misura, (anche quando inconsciamente) complici della guerra, perché il sistema in quanto tale è determinato dal gruppo dominante. (Ma, precisamente, così come l’ordine simbolico è in sé sem­pre a favore del soggetto dominante, la complicità delle don­ne, proprio per il suo carattere sistematico, non deve essere sopravvalutata; in un certo senso, qualsiasi cosa il soggetto più debole faccia, questo può essere, e sarà, utilizzato a suo svan­taggio). E necessario analizzare il carattere complementare di ciò che è simbolicamente in gioco nella macchina militare per gli uomini, per le donne e per entrambi allo stesso tempo, perché il genere è, senza dubbio, un principio essenziale del­l'organizzazione della macchina militare. Ciò nonostante, i ruo­li degli uomini e delle donne in questo non sono univoci, nel senso che la differenza di sesso non corrisponde necessaria­mente nella guerra alla differenza di ruoli derivata dal genere. Sebbene non tutti gli uomini (forse neanche la maggioranza di essi) si identifichino con la guerra, le istituzioni che permetto­no e promuovono la guerra sono nel loro insieme esse stesse

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organizzate in base a delle relazioni di potere che privilegiano il genere più forte socialmente, politicamente, storicamente, militarmente eçç.. È questa la ragione per la quale passiamo dire che il «sistemà» (politico e simbolico) è «maschile», volendo intendere che il genere storicamente dominante è quello maschile (e non nel senso che la colpa o la responsabi­lità di ciò ricada su ogni uomo in particolare, o sulla sua mascolinità in quanto tale). Il genere è anche il principio orga­nizzatore delle relazioni di potere nella società, e, dunque, il principio organizzatore basilare della società anche in ciò che essa ha di estremo, il nazionalismo e la guerra, dato che il nazionalismo radicale sembra, alla fine del ventesimo secolo, condurre naturalmente alla guerra. La storia continua a essere dalla parte di coloro che sono dominanti (dal punto di vista del genere, politico, ecc.) in quanto gruppo, perfino quando questi desiderano liberarsi del loro potere e fanno chiaramen­te degli sforzi in questo senso. La sola volontà di abbandonare dei privilegi posseduti storicamente, non è sufficiente a per­mettere di disfarsene in modo radicale: questi privilegi sono attaccati al gruppo dominante come un «karma», perché il presente deriva dal passato. E anche un po’ inutile la preoccu­pazione per il pericolo insito nel ricorso ad un «essenzialismo» di tipo opposto, quando si descrive la situa­zione sociale e storica dei più deboli, semplicemente perché questi, nel rovesciamento dell’insieme delle istituzioni, non saranno sostenuti da una storia globale che sia la loro propria storia. Inoltre, sul piano dell’ordine simbolico, relativo agli stereotipi culturali e sociali utilizzati nell’ideologia militarista, nella propaganda di dominio della macchina militare, e nella nuova mitologia elaborata a questo fine, ogni elemento del discorso è in realtà «sessuato», ogni termine, ogni espressione, ogni concetto usato riceve nella pratica un «valore» di tipo sessuale, con una chiara preferenza per gli attributi maschili piuttosto che femminili. Tutto ciò è perfino troppo chiaro per essere ripetuto: gli uomini sono i bravi soldati che difendono le loro donne, l’eroe nazionale è un uomo, le donne non sono altro che le madri dei figli e dei soldati, gli uomini si sacrifica­no per la nazione e rappresentano l’esempio ideale del model­lo nazionale, essi possiedono il dovere e il privilegio del ricor­so alle armi. A volte, si dice che le donne costituiscono una rappresentazione della nazione attraverso una figura femmini­le, ma ciò serve solo per poter meglio assicurare e confermare

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il fatto che esse non rivestono alcun ruolo pubblico, politico,0 di altro tipo. Se non fosse per il coraggio (caratteristica maschile) dei «nostri ragazzi», la nazione incorrerebbe nel disastro.

La situazione attuale nei paesi jugoslavi era prevedibi- le: lì dove il pacifismo può avere un senso (prima di tutto in Serbia, in Croazia, e anche, in una certa misura, in Slovenia),1 movimenti pacifisti e gli aiuti umanitari locali sono soprat­tutto organizzati dalle donne (la ragione di questo solo par­zialmente risiede nel fatto che gli uomini che disertano non possono far parte pubblicamente di un movimento, perché sarebbero catturati e rinviati al fronte). Coloro che devono difendersi, che sono direttamente aggrediti, bombardati (in Bosnia-Erzegovina), non hanno la scelta del pacifismo, devo­no battersi per la loro stessa vita.

Una situazione analoga a quella che ho descritto riguar­do alla Prima Guerra Mondiale si è prodotta con la caduta del socialismo. Lungi dal non presentare problemi, lo statuto della donna in numerosi paesi «socialisti» dell’Europa Orientale (non la Romania, ben inteso, ma la Rdt e la Jugoslavia ad esempio) era formalmente (legalmente), sotto molti aspetti e fatte le debite proporzioni, migliore di quello esistente in Occidente; in particolare, ciò è vero per quel che riguarda i diritti relativi alla procreazione, quelli relativi alla collettività, e un minimo di servizi sociali in aiuto al lavoro della donna nella famiglia. Non voglio dire con questo che la situazione effettiva della donna fosse veramente migliore; non è infatti possibile fare un paragone. Ma esisteva nell’Europa Orientale una ten­denza egalitaria generale, che non era in modo primario diret­ta in senso specificamente femminista, ma della quale lo statu­to delle donne aveva beneficiato. In questi paesi, insieme agli uomini, le donne hanno desiderato, ed hanno operato per, la caduta di quel socialismo che aveva loro accordato tali diritti. Questo fenomeno è stato particolarmente notevole in Germa­nia Est, dove le donne si sono fortemente battute per conser­vare i diritti acquisiti con il socialismo, che venivano minaccia­ti con il ritorno al capitalismo. Le donne hanno desiderato con­temporaneamente la fine del socialismo e il mantenimento di quei diritti che il socialismo aveva loro riconosciuto. La stessa cosa si è ripetuta riguardo alla partecipazione delle donne nel­la Lega Lombarda e in altre organizzazioni politiche di tipo analogo. Il paradosso nasce dall’incertezza delle donne nella

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scelta della loro identità di gruppo, della loro posizione in quanto «soggetti» 3. La situazione è simile a quella della Prima Guerra Mondiale; il movimento delle suffragette in Gran Bre­tagna e il movimento femminista in alcuni dei paesi dell’Euro­pa Orientale si assomigliano. In entrambi i casi, un movimento che lottava per i diritti umani specifici delle donne ha smesso di esistere, in ragione di obiettivi politici «più urgenti». Alcu­ne delle femministe dell’Europa Orientale si sono lasciate coinvolgere da un anticomunismo radicale, altre si sono impe­gnate (per motivi in parte analoghi) in movimenti dichiarata- mente nazionalisti, altre ancora sono rimaste legate a degli ideali socialisti che in questa parte del mondo non sono neces­sariamente progressisti - in quanto possono anche diventare nazionalisti in senso aggressivo (come nel caso serbo) -, infine un piccolo numero di donne sono rimaste a parte e indipen­denti. Ma, per contro, sia una parte considerevole del movi­mento femminista organizzato, che un aspetto importante di una nuova coscienza femminista, sono confluiti all’interno dei nuovi movimenti pacifisti, o li hanno creati, là dove si temono guerre civili o guerre di conquista territoriale, o dove queste sono già in atto. In entrambi i casi (quello della Gran Bretagna ieri, quello di alcuni degli ex paesi socialisti oggi) i movimenti femministi sono divisi e hanno bisogno di essere riorganizzati. La posta in gioco è piuttosto alta - non solo per le donne, ma anche attraverso di esse -, riguardo alla democrazia, in parti­colare in quei paesi dell’Europa Orientale in cui le donne stan­no perdendo l’uno dopo l’altro quei diritti umani che erano stati loro formalmente riconosciuti ai tempi del socialismo.

Possiamo qui sostenere l’ipotesi di base che il nazionali­smo radicale è costituito da un meccanismo di opposizioni binarie, manichee, e che a lungo termine esso conduce necessa­riamente alla guerra. Si potrebbe ancora affermare che le don­ne sono meno angosciate, rispetto agli uomini, riguardo ai loro confini interni e ai limiti del loro corpo, ed hanno di conse­guenza un atteggiamento più tranquillo riguardo alle frontiere esterne (politiche), e che entrambi questi fatti hanno a che fare con l’identità, e con il modo in cui il soggetto (chi agisce) è costruito. Le donne sono, da un punto di vista sia biologico che sociale, più aperte verso l’accettazione dell’Altro dentro di sé (per l’atto sessuale e la gravidanza); esse sono abituate, sul piano sociale, a perdere il proprio nome di famiglia (o a non possedere un nome di famiglia), la loro genealogia è diversa da

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quella degli uomini, nel senso che, se sia l’uomo che la donna nascono da una donna, i maschi nascono da un essere dell’al­tro sesso mentre le femmine da uno dello stesso. Ritornerò su tutti questi aspetti più oltre.

Le guerre fratricide (Bruderkrieg, bratoubilacki rat), sono guerre che, con i loro stessi termini, evocano in alcune lingue una divisione di generi, e certamente una struttura familiare: sono i fratelli che fanno la guerra. Di fatto, che cosa fanno le sorelle nel frattempo (oltre a fare delle calze per gli amati soldati e assistere i feriti, come vuole lo stereoti­po)? Nel momento in cui vi sono delle lotte rivoluzionarie che portano i più svantaggiati a impadronirsi del potere di un paese o di un gruppo dominante che viene sconfitto, le donne, come altri gruppi, hanno qualche possibilità di pren­dersi una parte della torta.

Per le donne - scrive Margaret H. Higonnet - la lotta per passare dalla subalternità all’uguaglianza è necessariamente un atto di insu­bordinazione, che deve perciò essere assimilato al regicidio, alles­sassimo del pater populi, più che al fratricidio. 4

Ma non sembra che vi sia spazio per le donne nelle guerre fratricide (anche se le fazioni in lotta, per motivi tattici, non sempre vogliono considerare queste guerre come tali). Del resto alcuni autori, tra cui Higonnet stessa, pensano che le guerre (di questo tipo) siano anche guerre contro il femminile,o che possano essere interpretate in questo modo.

Quando dico che questo tipo di guerre sono guerre contro il femminile (inteso come principio), non voglio dire che esse siano necessariamente dirette contro le sole donne, sebbene in alcuni casi ci siano state, e ci siano oggi, guerre dove le atrocità commesse nei confronti delle donne sono di una crudeltà estrema, come avviene nella attuale guerra in Bosnia-Erzegovina. Le donne tradizionalmente sono usate, sia per quel che riguarda i loro corpi che il loro essere socia­le, come mezzo per inglobare in sè l’altro, e porsi in una inte­razione costante con esso; esse non si sentono particolarmen­te minacciate dal problema dei confini, a meno che non ven­gano attaccate. Le donne sono il luogo di tutti i luoghi (Iriga-

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ray). Tradizionalmente, esse si adattano più facilmente alle altre culture, dimenticano le loro origini quando (come spes­so accade) si sposano in un’altra comunità, sono abituate ad abbandonare il loro cognome e perfino a volte il loro nome (per esempio nella cultura indiana), come rappresentazione simbolica del cambiamento di identità. Non è che le donne non possano definirsi che attraverso una famiglia (espressio­ne che si riferisce a questo fatto in negativo), ma è che, anche nel loro rapporto con il proprio io, esse sono, più che gli uomini, socialmente aperte alla relazione con l’altro (defini­zione più in positivo). I confini rappresentano sempre per la donna dei legami, più che degli ostacoli alla relazione; la separazione tra lo spazio interno e lo spazio esterno è per lei meno radicale, in quanto più facilmente si muove contempo­raneamente nelle due dimensioni, o passa dall’una all’altra. Il mondo «esterno» della famiglia nel quale le donne abitual­mente si situano, è, allo stesso tempo, uno spazio «interno» per la società nel suo insieme; ciò non deve essere compreso in modo deterministico, come un fatto che pertiene alla «natura» o al «destino» della donna, votata a rimanere per sempre in questa posizione sociale. Al contrario, per tutti gli esseri umani, l ’interazione continua del «biologico» e del «sociale» rende difficile, inutile, e fuor di proposito afferma­re che qualcosa sia «naturale» o all’inverso «sociale».

E una caratteristica della specie umana che la natura (umana) sia sociale, così come lo è il fatto che la società sia naturale. L ’argomento biologico (così come l ’argomento sociale), non può essere utilizzato contro qualcuno, allo stesso modo in cui una ingiustizia o una discriminazione passata non può rendere legittima una ingiustizia presente o futura. È questo il motivo per il quale l’affermazione che definisce la donna come «luogo di tutti i luoghi» non deve essere inter­pretata in senso biologico, ma in senso simbolico, nel senso cioè di un ordine simbolico riformulato, nel quale le donne avrebbero una loro voce anch’esse, e sarebbero rappresenta­te, oltre che rappresentanti. Nei «fantasmi dell’uomo» si ritrova ancora tutto un immaginario riguardante il pericolo esistente, per l ’individuo maschio o per la mascolinità in

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quanto tale, nelVattraversare le frontiere per incontrare l ’Al­tro, e anche i miti della procreazione attraverso il principio del potere maschile (mito della «vagina dentata», di Atena nata direttamente da Zeus, senza madre, ecc.).

Così, sul piano simbolico, le donne rappresentano più degli uomini uno spazio dove avviene l’incontro, la mescolan­za, l ’incrocio, la contaminazione. Senza dubbio, più che la donna in sè, è questo incontro, questo «mischiarsi» - che le donne accettano, creano, e rappresentano (come principio femminile) - , che viene combattuto nella donna, da coloro che vogliono purificare le loro origini, «liberarle» dell’Altro, negare l’Altro. L ’aggressore non solo distrugge l’incontro, ma, con questo stesso gesto, se ne appropria, in quanto potere di creazione. La creazione, sia in senso culturale che biologico, avviene nell’incontro, donde il desiderio di divenirne padroni, e la necessità di controllare le donne, che ne sono il modello. Le città sono il luogo dove la cultura si forma, e la cultura è necessariamente derivata dall’incontro, in quanto presuppone già la cultura stessa, e non può mai nascere come tabula rasa. Nonostante ciò il nazionalismo radicale, in modo paradossale, e suicida, rivendica una cultura della tabula rasa. L ’aggressore jugoslavo in questa guerra insensata e autodistruttiva, costrui­sce un «Noi» nazionale che è rigorosamente maschile, sessista, razzista; maschile fino all’esclusione di qualsiasi cosa e di chiunque sia Altro, immagine di guerriero alla maniera di Rambo con una fraternità rude, sessualmente aggressiva e raz­zista (vedi ad esempio i canti militari razzisti non solo contro II nemico nazionale, ma anche contro i membri non-europei delle forze di pace d e ll’Onu, che vengono chiamati «scimmie»). La città non è il luogo dal quale questi nuovi «eroi» provengono: nel caso migliore, essi provengono dalle periferie tristi del socialismo, e non hanno mai conosciuto la vita cittadina più sofisticata, con una maggiore influenza fem­minile. La vita cittadina è simbolicamente percepita come una vita da «castrati», perché ritenuta facile e confortevole rispet­to alla vita dura della campagna. Il nuovo eroe odia la città perché la invidia. Egli è stato educato secondo il modo di dire eroico tradizionale «non fare la femmina», e cioè «non essere vigliacco», e vorrebbe distruggere quel luogo che non com­prende e che non lo ha mai accettato, affermando così il pro­prio desiderio di autoprocreazione e il suo sogno autistico. In questo senso, quelle guerre sono sul piano simbolico anti-fem-

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minili, e, in diversi modi, esse sono anche nel concreto anti­femminili. Questo non deve portarci a concludere che le don­ne ne sono le sole vittime, poiché tutta la popolazione ne è vit­tima, senza distinzioni di sesso, o di nazione. In quanto vitti­me reali (lo sono molto spesso), e non solo simboliche, le don­ne sono oggetto in modo specifico di un cattivo trattamento, di atrocità, di stupri ecc. Lo stupro è per lo stupratore un modo per riappropriarsi di questo «potere dell’incontro» che è proprio della donna. E un fatto che nella o nelle attuali guer­re dei Balcani, come in molte altre guerre, le donne esercitano incomparabilmente minore violenza, manifestano più compas­sione e un maggiore desiderio di aiutare o comprendere l’altra parte. Sul piano pratico, esse organizzano per quanto possibi-t le la resistenza alla violenza dello Stato, e fanno ciò che £>osso- j no per portare aiuto umanitario.

Consideriamo adesso più precisamente il ruolo dei modelli di pensiero binari rispetto al nazionalismo e alla guer­ra. Non sono io la sola a ritenere che, nel pensiero binario, sono particolarmente evidenti due elementi tra loro collegati. Innanzitutto il modo di pensare binario nasconde, dietro una simmetria di principio apparente, una struttura asimmetrica: infatti, uno dei termini della simmetria è subordinato, e l’altro dominante; tra questi non esiste dunque un vero parallelismo. In secondo luogo, il termine subordinato è automaticamente pensato come femminile e imperfetto, e il termine dominante come maschile e perfetto. Una tale rappresentazione precede la riflessione, è inerente al pensiero occidentale stesso, è qual­cosa che si verifica automaticamente, a meno che non venga specificamente interrogato l’inconscio. Tale modo di pensare binario è stato mantenuto, coltivato, e sviluppato nella nostra tradizione intellettuale fino al punto di divenirne parte inte­grante: esso si realizza anche nelle opposizioni che vengono espresse dal nazionalismo e nelle guerre.

In uno studio di notevole interesse, Barbara Freeman cita il pensiero di Elaine Scarry:

La guerra rappresenta un confronto nel quale i partecipanti si divido­no in due campi opposti, e intraprendono una azione che ha come scopo finale di designare una delle parti come vincitrice e l’altra come vinta... Nel momento in cui decidono di entrare in guerra, i parteci­panti accettano di entrare in un rapporto di dualità autodistruttiva ... una relazione formale duale che, nella stessa potenza della sua impla-

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cabile affermazione della dualità, trova il mezzo per la propria autoe­liminazione, e per essere sostituita con le condizioni della singolarità. In questo un primo momento maggiormente significativo è, nell’en­trata in guerra, il passaggio dalla situazione di molteplicità alla situa­zione di dualità; un secondo momento è, alla fine della guerra, il pas­saggio dalla situazione di dualità a quella di unicità. 5

La differenza di sesso o genere 6 è asimmetrica in più maniere, in particolare nel suo modo di funzionare nell’ordi­ne simbolico e nella rappresentazione. Il fatto che gli uomini e le donne abbiano una diversa genealogia è importante: nascendo da una madre, le bambine nascono da qualcuno del proprio stesso sesso, i bambini da qualcuno del sesso diverso. Una gran parte degli insegnamenti della psicoanalisi derivano dalla considerazione di questo semplice fatto, di questa manifestazione primaria e basilare dell’esistenza di una asimmetria che è contemporaneamente biologica e socia­le. La cosa più importante per il nostro discorso è l’identifi­cazione, nel nazionalismo, con la figura del padre (il Padre della Nazione) che, sul piano psicologico, rappresenta una regressione (identificazione con il genitore, con l’origine). Questa identificazione di tipo regressivo con una istanza «superiore», più «vecchia» (e la risultante scomposizione della figura del padre in una figura positiva e una negativa), significa anche, per gli uomini, il rifugio nello stesso sesso, e, per le donne, nel sesso diverso. In entrambi i casi (dato che sia gli uomini che le donne possono divenire nazionalisti), è attraverso tale identificazione che si forma una «comunità» (ma non una «società»): questa nasce in opposizione all’altra comunità, quella del paese vicino, all’interno di una relazione binaria e, per la donna, duplice (doppio vincolo, double- bind). La relazione è duplice per le donne perché queste si sottomettono al gruppo, e perché l’interesse nazionale può essere contrario al loro interesse come donne, e anche in quanto, identificandosi con il padre, esse si identificano con il diverso, essendo così allo stesso tempo fedeli e infedeli al simbolo del padre e alla loro propria rappresentazione di se stesse. Le donne incarnano la contraddizione sia fisicamente che socialmente; è attraverso (o al prezzo) dell’interesse di un individuo (donna) che l’interesse di tutta la specie viene rag­giunto, perché sono le donne che fanno i bambini.

La divisione della figura del padre significa che il

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«loro» leader (il leader dell’altro gruppo etnico) è il «cattivo padre», mentre il «nostro» è quello «buono». Questi gruppi che nascono dall’identificazione con un personaggio più grande, si danno, come avviene nella religione, una autorità «superiore»; ogni individuo sacrifica a questa la propria iden­tità personale, come se fosse sottomesso ad un pesante super-io. I gruppi che in questo modo si formano, presto si chiame­ranno «nazionalità» e vorranno essere uno Stato-nazione, per ricevere dall’esterno quella ossatura di cui la loro struttura interna manca (Theweleit). Ciò che realmente costituisce la loro identità è la violenza esercitata contro gli altri. La diffe­renza notevole è ancora, anche in questo caso, quella che, nel­l’identificazione con la figura del padre, sussiste tra uomini e donne. Questa identificazione significa per gli uomini l’esclu­sione dell’Altro, perché essi si identificano con l’Uguale, men­tre per le donne implica un paradosso, perché queste devono identificarsi con il diverso-, il nazionalismo per la donna non significa esclusione dell’altro (sesso), ma coesistenza con que­sto, in quanto l’identificazione con la figura del padre com­porta essa stessa l ’incontro di elementi diversi, l’inclusione, ed è rappresentata simbolicamente come una forma di «incesto», accettato e autorizzato. (Mussolini o Hitler rappresentavano, per le donne, l’amante ideale e irraggiungibile, e, nello stesso tempo, il padre; ciò avveniva senza che l’incesto e la contrad­dizione sul piano concettuale ponessero apparentemente un problema, proprio come accade con la figura di Dio). All’op­posto, per gli uomini (i soldati per eccellenza), la fedeltà alla figura del padre si riafferma nel suo stesso principio, si realiz­za nella «purezza» e si rappresenta simbolicamente come omosessualità accettata e accettabile, il che non impedisce comunque agli uomini di avere delle relazioni sessuali con le donne. Le donne vengono allora disprezzate, la relazione con esse è svalorizzata, come avviene nella tradizione socratica e platonica, se si segue la lettura che di essa viene data dalle fem­ministe e da Foucault. Inoltre, per la donna il nazionalismo non significa l’essere generati (simbolicamente) dall’Uguale, in quanto l’identificazione è con la figura del padre, e non della madre: esso significa allora una procreazione simbolica nel/con l’Altro. Sul piano simbolico, e spesso anche pratico, il naziona­lismo delle donne è meno feroce e sanguinoso, il che non vuol dire che esso sia meno forte del nazionalismo nel suo insieme. Sostengo contemporaneamente che la violenza è un elemento

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essenziale delle tendenze fondamentali del nazionalismo radi­cale (maschile), e che la socializzazione delle donne rende que­ste meno violente. In più, il diverso investimento simbolico che le donne hanno riguardo al nazionalismo, fa sì che esse siano meno disposte all’uso della violenza per difenderlo. La riap­propriazione della sua origine da parte del nazionalista maschio, è necessariamente una rivendicazione che si situa nel­lo stesso tempo al livello simbolico «nazionale» e a quello «ses­suale», poiché «origine» significa nascita, e l’ideale nazionalista si forma a partire dalla volontà di una origine o «nascita della nazione», molto «antica», e «pura». Le donne o la nascita da queste, per il nazionalista maschio, non possono garantire una origine pura, in quanto la donna rappresenta di per sé, simbo­licamente, il mischiarsi. Ciò spiegherebbe anche l’esclusione dell’Altro nell’ambito della cultura (cioè della tradizione); i nazionalisti hanno infatd bisogno di miti di fondazione, e que­sti miti abitualmente parlano della «nascita della nazione», e della «nostra» cultura, più antica, migliore, «maschile», «eroi­ca». La dimensione sessuale rende possibile (e struttura) una forma molto importante del pensiero (e della dominazione sul piano politico!), e anche uno dei meccanismi della costruzione simbolica del potere: il gruppo dominante detiene il potere di rappresentazione. D Dio padre o il Padre della Nazione (o altre ' figure come il leader politico ecc.) è incarnato nel Figlio, nel­l’Uomo, suo vero rappresentante e sua vera immagine.

Allo stesso modo, i rappresentanti politici (in Parlamen­to, nella vita pubblica) appartengono a quel gruppo che risponde a - o meglio, produce - quella norma, e cioè l’uomo, bianco e potente; tutti coloro che appartengono a gruppi diversi sono falsamente o mal rappresentati, o non possono avere alcuna rappresentanza, o, qualora l’abbiano, compaiono come eccezioni che confermano la regola. Ma questa defor­mazione nel modo di essere rappresentati non è apertamente riconosciuta: nel sistema rappresentativo, gli uomini (la nor­ma) rappresentano allo stesso tempo gli uomini, cioè l’Uguale, e le donne, cioè l’Altro. Chiaramente essi non possono rap­presentare la specificità del diverso. Tra il rappresentante e il rappresentato e tra l ’uomo e la donna, esiste la stessa asimme­tria: il primo termine è più «forte» del secondo (anche gram­maticalmente), perché appare ai due estremi di una equazione e. anche, ad un livello più alto di totalizzazione, come nella lingua francese (il termine simbolicamente più forte appare a

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due livelli, e quindi due volte):

uomo = uomo e donna

Le donne figurano nella rappresentazione come l’oggetto, come ciò che è rappresentato (il significato) dal rappresen­tante (il significante); esse sono relegate in una posizione di silenzio, poiché c’è qualcuno che parla al loro posto. La loro situazione dal punto di vista politico è sconcertante; è certa­mente meglio essere rappresentati dall’altro che non essere rappresentati affatto (è questa l’alternativa reale) ma sarebbe ancor meglio rappresentarsi da sé. Il sistema rappresentativo può rivelarsi sfavorevole o favorevole alle donne (o ad altro gruppo sociale più debole), a seconda di chi sia ad avere il ruolo di rappresentante, e del suo modo di esercitare tale ruolo. Per le donne, essere rappresentate significa anche sempre, e a priori, essere co-rappresentate in modo asimme­trico, e comporta quindi l’inclusione, più che l’esclusione.

Principio fondamentale del nazionalismo (maschile), l’esclusione dell’Altro significa chiaramente la negazione del­l’origine nel e con l’altro/gli altri: rivendicazione di purezza e monismo contemporaneamente nazionale e sessuale. La cau­sa nazionale viene sempre formulata in termini sessuali (la nostra nazione è «eroica», «leale», «morale», «maschile», mentre l’altra nazione è «non virile», «vile», «femminile», «disonesta»). Nel pensiero binario, uno dei termini opposti viene regolarmente rappresentato come femminile, l ’altro come maschile, e il femminile costituisce il termine negativo fin dai Pitagorici, come Aristotele riporta nell ’Etica nicoma- chea. Vi sono più sistemi di opposizioni binarie non in tutto simili, ma tutti essenzialmente sessuati, e che sono stati tra­mandati nel corso di tutta la storia del pensiero occidentale come tale. Le opposizioni hanno un carattere sessuale anche quando non menzionano esplicitamente la differenza sessua­le (come in buono/cattivo, destra/sinistra, quadrato /rettan­golo ecc.). Sebbene l’aspetto sessuale possa sembrare stru­mentale a quello nazionale, nondimeno esso fonda e struttura l’idea di purezza nazionale che, in ultima analisi, sembra di tipo sessuale; una tale rivendicazione è anche suicida per il suo autismo totale, perché la vita va avanti necessariamente nel e con l ’altro. La purificazione del mondo o, semplice- mente, di ciò che ci circonda, minaccia pericolosamente la

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nostra esistenza e la nostra sicurezza, e anche la possibilità stessa di rinnovamento.

E questa la posizione ufficiale nella quale la Serbia si è posta nel corso delle attuali guerre nei Balcani (come quella della Bosnia-Erzegovina): una strana, morbosa celebrazione della morte, attuata ignorando che la morte dell’Altro prima o poi porta alla nostra morte, poiché noi nasciamo necessaria­mente dall’Altro, l ’altro sesso, l’altra persona e conseguente­mente anche l’altra cultura. «Nascere dall’Altro» è qualcosa che può essere concepito anche in senso simbolico, e non uni­camente biologico: l’incontro di elementi diversi, e non il soli­psismo monistico, è fruttuoso sul piano culturale e biologico. Per ottenere qualcosa di nuovo, un elemento nuovo, abbiamo bisogno di un incontro, del mischiarsi degli elementi esistenti.

Ben inteso, le ragioni filosofiche dell’identificazione del­la nazione con una figura maschile sono più profonde ancora, e molto note: nel nostro ordine simbolico, solo il maschile è universalizzabile, mentre ciò non è mai possibile per il femmi­nile (l’universalizzazione essendo, come la rappresentazione, un’altra forma di pensiero che stabilisce un rapporto diretto con il potere, poiché il pensiero è, anch’esso, un modo per dominare il mondo). E questo il motivo per il quale non esiste alcuna figura di divinità femminile che sia paragonabile a quel­la del Dio Padre, né alcuna che possa essere universale (e rite­nuta sessualmente neutra) e, allo stesso tempo, modellata unica­mente sul sesso femminile. La stessa cosa si può dire della figu­ra di colui che si vorrebbe il leader nazionale.

L ’atteggiamento suicida non è volontario o apertamen­te cosciente: esso deriva dal tentativo folle di generare se stes­si, da se stessi, e di non dovere niente a nessuno. Si tratta in realtà di un tentativo di controllare la procreazione e di assu­merla su di sè: poiché questo non è possibile fisicamente, lo sarà simbolicamente 1.

Che la Nazione (in realtà lo Stato), venga spesso identi­ficata con una figura femminile, è un fatto che non ci deve stupire: spesso le figure femminili incarnano ed esprimono sim­bolicamente l’ideale, come nel caso della Madre patria, e, nel­le antiche religioni, della divinità femminile locale. Ma il fatto che la donna «incarni» degli ideali, al fine di giustificarli, non significa che ciò che viene in questo modo incarnato, il princi­pio o il meccanismo rappresentato, sia femminile: occorre distinguere tra chi è il rappresentante di un certo ideala e l’i­

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deale rappresentato. La personificazione femminile di grandi ideali come «Libertà», «Nazione», «Saggezza», «Madre Patria», «Purezza», ecc. è frequentemente usata come prete­sto per escludere le donne da ciò che realmente è in gioco, e questo vale tanto per le mitologie tradizionali che per la politi­ca dell’epoca contemporanea. Le pretese raffigurazioni «fem­minili» di queste grandi idee maschili, non hanno niente a che vedere con qualsiasi cosa riguardi l’esperienza di vita quoti­diana femminile. Questi principi «femminili» funzionano, in una relazione di potere e dominazione, in favore di una strut­tura che, nel complesso, non è altro che l’estensione globale del ruolo socialmente «forte». Del resto, che sia la Thatcher o Major a governare, vediamo bene che si tratta della stessa struttura: in entrambi i casi, il meccanismo è quello di una linea di discendenza «maschile», che trasmette contempora­neamente il nome e il potere all’interno di una «origine simile», dove l’Altro - la linea di discendenza femminile - garantisce la continuità alla discontinuità maschile.

Non bisogna credere troppo all’idea, qualche volta ripresa da alcune femministe, che la nazionalità (la nazione) che viene aggredita «è la donna». Questo si è detto della Croa­zia: secondo questo modo di pensare, «la Croazia viene violen­tata, essa è dunque di sesso femminile». La Croazia, come ogni altro Stato o nazione, può essere simbolicamente rappre­sentata (nel sistema simbolico patriarcale che noi tutti condivi­diamo) come donna; come ho detto, i grandi ideali sono orga­nizzati in modo tale che una figura femminile «incarna» sul piano simbolico un’attività o un ideale maschile-, questi non sono la rappresentazione di una realtà propria della donna, ma di una esperienza maschile. Vi è una eccessiva tendenza a iden­tificare la donna con la vittima. La coppia vittima-aggressore è sì una opposizione binaria, e, come ogni altra opposizione, è in una certa misura simbolicamente «sessuata», ma le opposi­zioni binarie non funzionano tutte nello stesso modo; la «guer­ra tra i sessi» non sembra avere le stesse modalità di funziona­mento della guerra nazionalista. Innanzitutto, come abbiamo visto, per gli uomini (essi si identificano con l’Uguale identifi­candosi con il Padre della Nazione) l’origine dal e con l’Altro deve essere rifiutata, cosa che non vale per le donne. Parallela- mente, dal momento che il primo oggetto d’amore, la madre, è per la donna l’Uguale, essa è stata sul piano sociale molto incoraggiata ad aprirsi all’Altro, ed è a questo particolarmente

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predisposta dal modo di funzionare del suo corpo. Gli uomi­ni, nel momento in cui scelgono il nazionalismo, la violenza e la guerra, vanno incontro ad un processo nel complesso inver­so: il loro primo oggetto d ’amore è l’Altro (la madre), essi devono imparare a disfarsi di questo amore al fine dell’esclu­sione di tutto ciò che è diverso. Questo accade anche nel caso della rivolta contro l’ordine sociale; è qui che appare il ruolo della «fraternità», la cui prima funzione è di eliminare «le sorelle», e prima di tutto le sorelle della stessa nazionalità. H primo nemico della «fraternità» si situa nel gruppo, è l’Altro al proprio interno, la donna che simbolicamente è in sè stessi o il principio femminile 8. Anche le donne che appartengono allo stesso gruppo nazionale saranno quindi oppresse (il nazionali­smo ha infatti un atteggiamento oppressivo verso la donna), nel momento in cui si vuole eliminare il principio femminile sul piano simbolico, e la dimensione femminile che è nell’uo­mo stesso. E per questo motivo che la concezione della nazio­ne aggredita come «donna», aggredita da una nazione vicina «uomo», è erronea, sebbene lo stupro sia un fenomeno abitua­le delle guerre. Certamente vi è la guerra tra i sessi, ma questa guerra si svolge all’interno di una nazione o nazionalità, e non primariamente tra due diversi gruppi nazionali (sebbene la guerra tra i sessi sia particolarmente manifesta nelle atrocità della guerra tra nazioni). E, in generale, la guerra tra i sessi è una guerra nella guerra, ms non una guerra parallela, nella quale ogni segmento della guerra nazionale troverebbe un suo corrispondente nella guerra tra i sessi. Il fenomeno è ancor più complesso perché le donne sono complici a tutti i livelli, sia nella parte più visibile che in quella più occulta della guerra, che esse vi collaborino attivamente o meno. L ’insieme del sistema, la macchina militare, è una struttura estremamente vasta e onnicomprensiva; essa viene messa in moto molto tem­po prima che le parti arrivino alle armi.

La confusione riguardo al soggetto - o all’identità - è comunque generale, e non esclusiva della donna. Tutti appar­teniamo contemporaneamente a diversi tipi di «Noi», che sono in relazione con diverse dimensioni della vita. Sembra anche che, in modo abbastanza diffuso, in tutto il mondo, ci si preoc­cupi di meno per le cose di interesse comune e generale, e per i valori veramente universali: interessi comuni e valori universali sono sostituiti dagli interessi privati dominanti. Il nazionalismo sembra - in questa fine di XX secolo - più diffuso, e le riven­

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dicazioni etniche più frammentate. Allo stesso tempo, se si fa affidamento sugli sforzi lenti e difficili dell’Europa e delle Nazioni Unite, vediamo che una sorta di governo internaziona­le è in via di costituzione. Il mondo, dopo la caduta del Sociali­smo, diviene sempre più unipolare (Nord-Occidentale); a que­sta tendenza verso l’unipolarità, oppone resistenza con accani­mento (e inconsciamente) la frammentazione nazionale, etnica, religiosa. Il problema della frammentazione è che essa non conosce limiti. Il principio della autodeterminazione deve, in modo urgente, essere riconsiderato dalla comunità internazio­nale (ma, ahimè, chi è qui il soggetto, chi dovrebbe far ciò?), tenendo conto delle possibilità di esistenza delle nuove nazioni sul piano economico, culturale, regionale. Dove si situa il pun­to di equilibrio tra lo Stato-nazione, che troppo spesso esprime il predominio di un gruppo etnico, che ha il potere economicoo di altro tipo, e la pulsione suicida del nazionalismo dei grup­pi minori, che rivendicano l’indipendenza nazionale? Yoshika- zu Sakamoto descrive così l’attuale situazione:

L ’epoca seguita alla Guerra Fredda mi sembra caratterizzata da un ‘disordine ordinato’, una combinazione paradossale di tendenza alla stabilità per quel che riguarda l’organizzazione generale, e di disor­dine nel contenuto stesso di questo nuovo ordine. Nel complesso, il mondo è divenuto più omogeneo (omologazione sul piano militare, estensione dell’economia di mercato capitalistica a praticamente tut­to il mondo, diffusione generalizzata del nazionalismo, diffusione della democrazia). Ma nello stesso tempo i nuovi conflitti sono sem­pre più numerosi9.

Il problema può anche essere posto al livello del lin­guaggio stesso: a chi si riferiscono le donne quando dicono «Io/Noi»? Quando, in effetti, noi diciamo «Noi»? 10 La ricer­ca compiuta da Luce Irigaray negli ultimi anni, in particolare sulla sintassi, mostra che le donne generalmente non si situano al centro dello spazio definito dal loro discorso; esse pongono più domande di quanto non facciano affermazioni; il loro sog­getto è esitante, aperto all’interazione con l’Altro, orientato verso l’Altro, e in una posizione di attesa nei suoi confronti. Questo «Altro» è in effetti per la donna soprattutto un «egli». Quanto al soggetto maschile, questo è spesso in una posizione dominante, non attende lo scambio, si pone al centro della scena e si rivolge maggiormente ad un altro uomo. Una rifles­sione recente di Pierre Achard ci suggerisce qualche idea sulla

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questione quando tratta del «Noi allargato», cioè il «Noi» che si ha quando il locutore include, in modo implicito, il destina­tario nel «Noi» da lui usato. In un enunciato di tipo locale, il locutore occupa una posizione di potere; è il fenomeno abitua­le del «Noi statale». Scrive Pierre Achard:

Così, l’idea di nazione compare quando si incontra qualche difficoltà tra la politica pratica e coloro che ne sono coinvolti. Per esempio, nel momento in cui un «Noi» allargato ritiene di meritare un suo pro­prio Stato, differente da quello nel quale si trova. O, per prendere un esempio frequente nei ‘nuovi’ Stati post-coloniali, quando lo Stato non può contare su un «Noi» allargato precedente, e deve costruirne in qualche modo uno, attraverso ciò che viene chiamato «sviluppo». (...) In conseguenza, gli Stati moderni sono considerati legittimi (nonostante le molteplici differenze all’interno delle loro proprie isti­tuzioni), in quanto parlano in nome di un gruppo umano di cittadini, e il loro potere deve esercitarsi su un territorio. Così, attraverso lo Stato, si crea un fenomeno di appropriazione del territorio da parte dei gruppi umani n.

Anche qui nuovamente la cosa interessante è la posizio­ne un po’ diversa in cui si trovano le donne. Sebbene le donne siano in generale, astrattamente, destinatarie di un «Noi» allar­gato statale e nazionale, la grammatica, la struttura dell’enun­ciazione e la sintassi mostrano che queste non rientrano nel modello dominante del soggetto-locutore; al massimo, esse possono confermare gli uomini in quella posizione. Le forme maschili sono considerate come (sessualmente) neutre: espres­sioni astratte e neutre denotano in realtà dei contenuti maschi­li. Questo aspetto è stato largamente discusso ed è ben noto. Nel caso del «Noi» allargato utilizzato da un locutore ufficiale per includere non solo gli uomini ma anche le donne, chiara­mente gli uni e le altre non sono inclusi nello stesso modo. Le donne sono infatti incluse soprattutto formalmente, e in un modo paradossale che non risponde mai alla loro specificità (esse sono così considerate come eccezioni), mentre gli uomini sono inclusi de facto, in ragione della loro vera immagine presa come il modello (nell’esempio che ho portato, le donne e gli uomini manifestamente non possono identificarsi affatto nello stesso modo nel Dio Padre o nel Padre della Nazione). In un qualsiasi discorso concreto, «Noi» può, beninteso, denotare un semplice gruppo circostanziale, che sia aperto o chiuso. Non tutti i «Noi» sono necessariamente «Noi» nazionali, e

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facciamo tutti parte, contemporaneamente, di diversi gruppi (quello dei vicini, o dei mancini, degli ispanisti, dei compagni di classe, dei sagittari, di quelli che hanno meno di trentanni, dei presbiti, di quelli che sono brillanti, o un po’ pigri, amanti dei gatti, membri di una famiglia, o di un club di nuoto). Ma, in tempo di crisi, emerge una identità come identità nazionale, sentita come un «Noi». Le donne non ne fanno mai parte se non in modo imperfetto, e, nello stesso tempo, ne fanno parte in modi specifici (e non generali): come madri di soldati (sco­nosciuti), infermiere per esempio, o, se esse «appartengono» al nemico, come puttane adatte soltanto ad essere violentate (e che lo desiderano). E quindi del tutto naturale che il linguag­gio rispecchi questa differenza. La donna è la personificazione della Nazione, o la Nazione è femminile, proprio perché le don­ne non ne fanno veramente parte, ma solo in maniera laterale. È questo il motivo per il quale gli uomini, sotto la maschera della neutralità e dell’universalità, sono i principali agenti del nazionalismo: l’appartenenza delle donne alla nazione è sem­pre subordinata. Ed è anche il motivo per cui, nella prospetti­va della politica e del pensiero tradizionale, «Noi, Donne» non può essere un progetto politico credibile: nell’ordine simboli­co (patriarcale) esistente, «Noi, Donne» non può essere uni­versale, applicabile come neutro nello stesso tempo agli uomi­ni e alle donne, cosicché un uomo possa dire «Io sono una donna come un’altra /un altro».

Parigi - New York dicembre 1992, gennaio 1993

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NOTE

1 Una versione leggermente diversa di questo testo è stata pubbli­cata in inglese nella rivista «Hypatia», che aveva proposto all’autrice una riflessione su questo tema.

2 Ja n e M arcu s, «Corpus/Corps/Corpse: Writing the Body in/at War», in Arms and the Woman. War, Gender, and Literary Representation, ed. by Helen M. Cooper, Adrienne Munich, Susan Merril Squier, The Uni­versity of Nord Carolina Press, Chapel Hill and London 1989, p. 129.

3 La Lega Lombarda, come in questo momento altre leghe politi­che del Nord d’Italia, esprime una forte tendenza al separatismo econo­mico, che si manifesta in una rivendicazione di decentralizzazione o di federalismo. La Lega predica il rifiuto di investire in un progetto di svi­luppo comune, che comprenda in particolare il Sud meno sviluppato. L ’atteggiamento politico della Lega è pieno di alterigia riguardo al Sud d’Italia, ed è anche conservatore riguardo alle donne ed ad altri temi.

4 M a rg a r e t H . H igo n n et, «Civil Wars and Sexual Territories», in Arms and the Woman, cit.

5 E la in e S carry , The Body in Vain. The Making and Undmaking of the World, Oxford, New York 1985, cit. in B arb ara Freem an, «Epi­taphs and Epigraphs: ‘The End(s) o f Man’», in Arms and the Woman, cit., p. 305.

6 La distinzione sesso/genere, usata e ancora utilizzabile nei paesi di lingua inglese, è molto utile da diversi punti di vista, ma, per altri aspetti, costituisce forse un peso teorico e una costruzione dogmatica. In vari casi questa distinzione è difficilmente sostenibile: essa conduce a ciò che, sempre nei paesi anglosassoni, viene chiamato 1’«essenzialismo», piuttosto che a riconoscere il fatto che noi non sappiamo - e importa poco sapere - dove si situa esattamente il confine tra la natura e la cultu­ra. Nello stesso tempo, la distinzione sesso/genere riguarda chiaramente gli strumenti di tipo concettuale, ma non il soggetto in sè di cui si parla. Nel complesso il dibattito su questo tema mi sembra non interessante, si tratta di un falso problema.

7 Per una elaborazione filosofica di questo argomento, si veda P e te r S lo t e r d i jk , Eurotaoismus. Zur Kritik der Politischen Kinetik, Su h rk am p , Frankfurt a/M. 1989.

8 K la u s T h ew eleit, Männerphantasien, cit.9 Un’intervista con Yoshikaxu Sakamoto, «Le Monde», 2 dicembre

1992.10 Si vedano i lavori recenti di L u ce Ir igaray a proposito del sog­

getto femminile, ad esempio Sexes et genres à travers les langues, Grasset, Paris 1991, e Je, tu, nous. Grasset, Paris 1990.

11 Discourse and Social Praxis as Building up Nation and State, «Discourse and Society», 1, V, 1993.

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IN NOME DI UNA STORIA PIÙ ANTICA

La Slovenia e la Croazia sono state dunque riconosciu­te come Stati sovrani e indipendenti. In conseguenza di ciò, si potrebbero sollevare alcuni problemi diplomatici e di dirit­to internazionale. Perché, ad esempio, non riconoscere tutte le Repubbliche jugoslave allo scopo di fermare l ’esercito ex­federale e i suoi complici in Serbia? Perché aver ceduto alla Grecia e non aver riconosciuto la Macedonia, che molto più della Croazia può rispondere alla definizione di Stato?

In un’intervista su Le Monde (9 luglio 1991), Alain Finkielkraut si dichiara favorevole al separatismo sloveno e contrario a quello corso: «L ’identità francese esiste, mentre non esiste un’identità jugoslava». Chi è Alain Finkielkraut per decidere sulle nostre sorti? Siamo in milioni nati o facenti parte di famiglie miste (i matrimoni misti arrivavano al 12 per cento nel 1988) che ci sentiamo jugoslavi per scelta (pur essendo sloveni, serbi, ecc.), non per campanilismo. I nazio­nalismi e gli sciovinismi hanno trovato libero corso nelle Repubbliche jugoslave, coniugati con le atrocità della guerra e con l’incapacità dimostrata dagli europei nel giudicare la situazione, e hanno volontariamente occultato una delle iden­tità più importanti in Jugoslavia... l’identità jugoslava. Così siamo rimasti noi, noi altri, qualche milione, più numerosi degli sloveni, senza nome, senza luoghi, senza patria e senza Stato. Se tutto ciò fosse accaduto pacificamente, non sarebbe stato tuttavia così grave, Avremmo continuato a essere jugo­slavi culturalmente (lo siamo d’altronde in modo molto forte, dispiaccia pure ai Finkielkraut, ai Kundera e agli altri, il resto è solo provincialismo) e d’elezione. Siamo stati privati della Jugoslavia, della voce e del nome, poiché l’aggressore serbo ha usurpato il nome della Jugoslavia e per noi non è più pos­sibile rivendicarlo. La nostra voce è rimasta inascoltata. Siamo diventati invisibili, impercettibili, inesistenti. La nostra epoca è finita. Ormai, nelle nuove capitali, Zagabria, Lubiana, Bel­grado, comincia una nuova epoca, tutto riparte da zero. I quarantasei anni della nostra vita, la vita di due generazioni della vecchia Repubblica jugoslava vengono cancellati in

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nome di «una storia più antica». Ma chi sosterrà che questa .è meno arbitraria di quella che abbiamo costruito con la nostra esistenza? Chi decide quale storia, al posto di un’altra, avrà corso? E necessario ripetere sempre gli stessi errori? I nazio­nalisti di ogni parrocchia e gli «esperti» ci cancellano con un colpo di spugna e dicono che siamo il frutto di una finzione, di un artificio. Le strade, le piazze, le città dove siamo cresciu­ti sono state ribattezzate senza che sia stato chiesto il nostro parere. E in Croazia, dove i Serbi come i Croati sono morti nella guerra quotidiana, le nostre città sono state distrutte dai bombardamenti. Affermazioni come quella riportata sopra contribuiscono alla liquidazione di una identità, la nostra.

Ogni affermazione sulla differenza positiva e tutta occidentale, europea, degli Sloveni o dei Croati, in contrasto con i Serbi e i Balcani in generale, è in cattiva fede e mette in evidenza la disinformazione storica. Finkielkraut dichiara: «La Slovenia non fa parte del mondo balcanico...». (Le Mon­de, 9 luglio 1991) e Kundera scrive: «Cosa può avere in comune con i Balcani la Slovenia? E un paese occidentale molto vicino all’Italia (...) cattolico (...), per lungo tempo parte dell’impero austro-ungarico, il paese dove il concetto d’Europa centrale (.. ) è più vivo che altrove». Bravo! Direi invece che noi siamo nello stesso tempo europei e, d ’altra parte, balcanici o (poco importa) sloveni, serbi.... In realtà, Finkielkraut, Kundera e compagnia s’ingegnano per tracciare le nuove frontiere orientali dell’Europa, per arginare il «peri­colo balcanico» e persino quello «asiatico». Ma non vedono, non hanno alcuna esperienza dei suddetti paesi e del loro incrocio di culture. Ogni criterio secondo cui la Slovenia o la Croazia apparterrebbero all’Europa (e allora? È un merito?) potrebbe valere per la Serbia e a maggior ragione per la Tur­chia.... Ma l’Europa può pensarsi così lontana? Eccoci quin­di, con terrore, rispediti in Asia! L ’Europa si difende da un Oriente immaginario, con le parole di questi signori.Questi signori incorrono in un secondo equivoco, nel dare per scontato che il cambiamento dello statu quo territoriale, il rico­noscimento dell’indipendenza e la secessione, possano garanti­re il progresso della democrazia. Non è così automatico. La democrazia è innanzitutto la scelta di un modo esclusivamente politico-giuridico per regolare i conflitti (sarà molto più diffici­le, è evidente, negoziare dopo la guerra). L ’ideale nazionale o nazionalista è una cosa, l’ideale democratico è un’altra. Non

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v’è alcun interesse nel confonderli. La democrazia non può essere definita in termini nazionali. Basti pensare alla Svizzera da un lato e alla Romania di Ceaucescu, dall’altro.

Per quanto riguarda la difesa della vittima di un’aggres­sione, questo imperativo è indipendente dal carattere morale attribuito alla stessa vittima, per le sue qualità «democratiche»o altro. Niente giustifica un’aggressione. Spero che siamo tutti d’accordo su questo punto. In questa guerra serbo-croata, la Croazia viene aggredita - ma ciò non le conferisce un premio di democrazia - , in primo luogo dall’esercito federale, dal governo di Milosevic (serbo), poi, da una parte dell’opinione pubblica in Serbia. Ma non dai serbi in generale.

Questa importante sfumatura lascia spazio al pensiero critico e alla libertà intellettuale, e consente che si riconquisti uno sguardo analitico. La guerra dei media e quella delle armi hanno infatti completamente omogeneizzato l’opinione pubblica serba, croata, ecc. (gli jugoslavi erano stati esclusi prima, come i pacifisti), intorno al criterio di appartenenza nazionale. Ogni protagonista si arroccava sulle sue posizioni, accusando l’altro delle peggiori atrocità. Nella guerra dei media, le due parti si equivalevano utilizzando entrambe una propaganda immonda, dimostrando una sorprendente com­plementarità. In quella militare, in compenso, non era possi­bile una simmetria: non è pensabile liquidare senza dar ragione né all’uno né all’altro l’aggressore e l’aggredito che subisce sul suo territorio la guerra. Ma sul campo, Croati e Serbi si sono inflitti e hanno inflitto alle popolazioni civili le stesse atrocità. Nessuno è innocente.

E inoltre inconcepibile sostenere che il nazionalismo sia positivo per i paesi d’Europa dell’Est poiché sono in ritar­do sull’Occidente, e che si sia esaurito nell’Europa dell’Ovest perché questa l ’avrebbe oltrepassato, cosicché non sarebbero ammissibili le secessioni dei Corsi, dei Baschi, degli Irlandesi del Nord, ecc. Questo ambiguo criterio ci elimina tutti, noi altri - milioni ancora una volta - che non possiamo identifi­caci con una nazione dominata dai nazionalismi, e che non vogliamo schierarci con questa o quella bandiera. Poiché costituiremmo delle «piccole nazioni», la cui lingua è scono­sciuta oltre le frontiere, saremmo condannati al nazionali­smo! Coloro che ne hanno un’esperienza diretta, non posso­no accettare che noi siamo, in modo talmente disinvolto,

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destinati a fare marcia indietro, destinati allo scompiglio del­le nostre frontiere (se le nostre sono in causa oggi, le vostre10 saranno domani) e alla guerra. L ’unica soluzione sarebbe stata quella della negoziazione, scendere a compromessi e accordarsi sulla forma della nostra futura democrazia, su una (con)federazione o una unione di Stati indipendenti; sui diritti dei popoli, delle minoranze, degli individui. Il mani­cheismo dialettico dei nazionalismi, dato che sono sempre almeno due ad essere d’accordo, ci ha impedito tutto ciò.

Anche se difensivo e separatista, invece che espansivo,11 nazionalismo è un pericolo. Perlomeno lo è nelle attuali circostanze dei paesi jugoslavi. Porta dritto alla guerra. Soste­nere la purezza, l ’innocenza di tale nazione - in quanto più piccola - implica la proiezione dell’impurità sull’Altro e la sua demonizzazione.

L ’Europa non ha voluto riconoscersi in noi, sebbene noi non facciamo che ripetere il gesto molto europeo, molto puro, molto «bianco» di esclusione dell’Altro. Se i nazionali­smi jugoslavi sono pericolosi, allora i principi fondatori del­l’Europa lo sono altrettanto. Ma questa constatazione non ci autorizza affatto a stabilire criteri di sfasatura storica tra le nazioni, come fa Milan Kundera (Le Nouvel Observateur, 14- 20 novembre 1991), cioè a incitare le piccole nazioni a ripe­tere il gesto di esclusione dell’Altro.

Non dico che non sia forse necessario passare attraver­so le nazioni. Ma, storicamente, in questo non c’è niente di nuovo. Evitare le guerre, civili e non, disinnescando i nazio­nalismi, sarebbe stato inedito in Europa. Poiché, in fin dei conti, vivremo sempre insieme su questi stessi territori. E, per prendere in prestito le parole del giornalista di Vreme, Stojan Cerovic, «quei popoli si rincontreranno di nuovo quando la smetteranno di contemplare il proprio ombelico».

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MEMORIE CANCELLATE

Utilizzo qui i termini di «spazio jugoslavo» e di «paesi jugoslavi» in un senso soltanto geografico e culturale, inclu­dendo la Jugoslavia federale, ma senza connotazioni né rivendicazioni politiche.

E un’owietà lapalissiana dire che ogni nuovo regime fa ripartire il tempo da zero, comincia proclamando l ’Anno Pri­mo. Le sigle, le bandiere, i simboli cambiano, viene proposta una nuova cornice, la storia viene rifondata, riscritta. La memoria delle sventure, delle sofferenze passate, sarà conser­vata solo all’interno del gruppo che le ha vissute. Gli altri non se ne ricorderanno, perché non è gratificante identificar­si con la vittima. La discontinuità viene preferita alla conti­nuità. Strana discontinuità, che nasce sull’assenza della conti­nuità storica «obiettiva», e sull’assenza della memoria, in nome della sua cancellazione stessa.

La mia generazione vive questo per la seconda volta. L ’avvento dello Stato socialista (1945) con il quale la mia generazione è nata come i Figli della mezzanotte dei Balcani, ha fatto in modo che la storia precedente fosse svalutata, dimenticata, reinterpretata. Ogni cancellazione della memo­ria, quella compresa, rappresenta un assassinio culturale (in misura molto maggiore di altri omicidi più evidenti di cui non parlerò qui). Furono cambiati i nomi delle città, quelli delle strade, delle scuole, delle innumerevoli istituzioni e cosìil linguaggio, le denominazioni, i titoli. La mia generazione è cresciuta con questi nuovi nomi. Gli anziani, coloro che era­no già adulti prima della guerra, si ricordano ancora dei nomi antichi e a volte li utilizzano. Ma, nelle medesime espressioni, si notava la differenza fra due mondi. Riconosce­vamo il carattere forzato e artificiale di questo annullamento, sebbene divenuto «naturale» per la nostra generazione. Noi sapevamo che c’era stata una cancellazione della memoria, ma non ne soffrivamo direttamente poiché non si trattava della nostra memoria. L ’avevamo comunque denunciata per principio, nella nostra resistenza intellettuale al regime. Noi non gli eravamo necessari. Ci prendevamo il lusso della criti­

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ca ma anche, assecondando i piaceri masochisti degli intellet­tuali, di denunciare il nostro ruolo ambiguo di vittime e com­plici allo stesso tempo. Noi sapevamo di essere i figli della mezzanotte, i nipoti di Cent’anni di solitudine e della Vergo­gna, e ci riconoscevamo in P. Handke, Th. Bernhard, G. Garcia Marquez, S. Rushdie, negli angosciati, perseguitati, umiliati degli splendidi romanzi di Danilo Kis, di Dzevad Karahasan, tutti i transculturali e transnazionali di questa generazione i cui padri, non loro, avevano fondato i nuovi Stati.

Eravamo consapevoli inoltre del fatto che la nostra situazione, essenzialmente internazionale e cosmopolita (ma ognuna di queste parole è già stata compromessa) era dovuta al nostro indugio, per definizione nomade, fra le lingue e le culture. Nello spazio intermedio, in questa situazione scomo­da perché insicura, avevamo trovato un improbabile assesta­mento nell’incertezza. Credevo che la nostra generazione sarebbe stata risparmiata dalle guerre, che avrebbe avuto questa fortuna.

Giunse il crollo, un processo che per noi al più tardi si può situare nel 1987, il cui simbolo diventerà in breve la caduta del muro di Berlino. Desidero sottolineare che quel muro è stato abbattuto da due parti e che non penso affatto che la causa possa essere stata unicamente la caduta del socia­lismo reale. E la fine (o l’inizio della ristrutturazione) del sistema mondiale della supremazia dell’Occidente, del Nord sviluppato, di cui l’Est d’Europa era solo uno degli elementi costituivi in questo insieme di vasi comunicanti. In tutto ciò, c’è l’Europa che non riesce a definirsi e ritraccia una volta di più le sue frontiere verso l’Est. Ad essere scosso in maniera brutale è il nostro spazio culturale, aperto, internazionale e transnazionale, transeuropeo, transcontinentale.

Fu poi il turno della nostra memoria, memoria della generazione della Prima Repubblica che venne vietata e distrutta. Non solo la Repubblica politica e sociale, ma anche la Repubblica delle lettere e della cultura venne ridotta al silenzio.

Abbiamo riconosciuto il gesto sebbene (o poiché) nella generazione precedente la memoria che veniva custodita era quella dei nostri genitori e non la nostra. Questo ci toccava molto più da vicino perché riguardava il nostro passato, la nostra identità culturale, ora minacciata dall’estinzione. L ’e­

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purazione etnica che avviene nello spazio jugoslavo (o nei paesi jugoslavi, al plurale) e che ha disgraziatamente colpito gran parte della Bosnia (e prima tutte le altre repubbliche un tempo federate) è stata ovunque preceduta, seguita e soste­nuta da una epurazione ideologica e da (un nuovo) genocidio culturale.

CITTÀ, NOMI, TELEVISIONE

La guerra era iniziata prima della guerra stessa. Era già nei media, nel linguaggio, molto prima di aver luogo sul cam­po. Era stata invocata nei discorsi dei politici e degli intellet­tuali. Era stata chiamata, voluta con passione. L ’omologazione nazionale era cominciata fin dalla guerra delle parole, appena la paura si era diffusa. Noi eravamo in cammino verso una ristrutturazione (sempre incompiuta) di valori, verso un cam­biamento d’identità di gruppo, d’identità individuale anche, verso una ricerca di un altro sistema di referenti culturali e sto­rici, verso nuove immagini, verso la fondazione di un nuovo mondo. Il nazionalismo fu così sollecitato, indotto anche, pri­ma che si potesse riconoscere. Si iniziò con il cambiare i nomi, a volte ancor prima dell’insediamento dei nuovi regimi. Questi mutamenti nel linguaggio e nella percezione del significato delle parole ci vennero imposti dai differenti centri della tele­visione, ognuno tutto preso dalla propria propaganda. Si può anche dire, senza alcuna esagerazione, che la televisione ci ha condotto alla guerra. E questa, d’altronde, la principale diffe­renza tra la seconda guerra mondiale e la presente. La televi­sione propose, montò con tutti i pezzi, anticipandole, le storie di violenza degli altri contro di «noi» che dovevano conse­guentemente giustificare la «nostra» violenza contro di loro, lasciando che apparisse come una legittima difesa. Sempre un gradino più in alto della realtà che reinventava, la televisione, portatrice di immagini (e le immagini colpiscono più di qual­siasi altro mezzo di comunicazione) amplificava regolarmente le notizie di violenze (dapprincipio era ancora possibile gon­fiarle) contro di «noi», facendo passare sotto silenzio le violen­ze contro gli altri, ricollegandole a quelle. La violenza reale e ormai irreparabilmente scatenata si trovava in tal modo in concorrenza con le immagini fondamentalmente disoneste della televisione (disoneste perché si trattava di falsa informa­zione) che tentava di riacciuffare a tutta velocità.

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Venivano cambiati i nomi delle città. Si anticipava così la spartizione del territorio che avrebbe avuto luogo durante la guerra, affibbiando, per esempio, un nome «croato», o un altro, a tale città della Bosnia-Erzegovina, malgrado il nome storico entrato nella letteratura. Ma i nazionalisti non hanno niente a che spartire con la letteratura e soprattutto con quel­la degli altri. E i nazionalisti giunsero al potere in tutti i paesi jugoslavi. Si accinsero a fare quello che gli premeva maggior­mente e che si rivelò la cosa più importante ai fini dell’ascen­dente simbolico sulla gente: bandiere, stemmi, simboli, titoli di istituzioni, nomi di strade, furono tutti trasformati in pom­pa magna. Per quanto riguarda i nomi, tutti quelli che poteva­no evocare una parte di storia comune dei popoli jugoslavi o che, semplicemente, non apparivano connotati abbastanza come serbi o croati. A volte, nei casi più accettabili per la popolazione di cui veniva cancellata la memoria precedente, vennero ripristinati nomi che risalivano a prima della secon­da guerra mondiale. D «ritardo» calcolato ma presto riassor­bito della Serbia a questo riguardo, è dovuto al fatto che la Serbia rivendicava ciò che la Croazia ripudiava - una conti­nuità giuridica e storica con la Jugoslavia.

Ma questa rivendicazione, anche del nome di Jugosla­via da parte della Serbia e del Montenegro, aggressori in Croazia e in Bosnia-Erzegovina, è un’usurpazione (a onta del fatto che, in minor misura, ma per lo stesso principio, la Croazia è, sebbene attaccata sul proprio territorio, a sua vol­ta aggressore in Bosnia-Erzegovina). Una categoria di abitan­ti della Jugoslavia precedente perse quindi il suo nome, la sua esistenza simbolica (e dunque reale e politica) e la sua voce. Tutti quelli che (numerose famiglie miste o per scelta culturale) prima si definivano o si sentivano jugoslavi pur senza essere dalla parte dell’aggressore serbo, persero il loro nome, la loro esistenza simbolica. Si può chiamare jugoslavo (nel senso di appartenenza ad uno Stato o nel senso ideologi­co), oggi, solo chi sostiene la politica delle conquiste territo­riali e dell’epurazione etnica della Serbia-Montenegro. E divenuta una definizione odiosa per la maggior parte degli abitanti del paese intero che un tempo portava questo nome. Alcuni milioni di persone sono scomparse dalla rappresenta­zione simbolica e politica perché non hanno nessun territorio da rivendicare, ma soltanto una cultura. Queste persone, all’opposizione di ogni regime nuovo, non compaiono nei

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negoziati sulla pace e non vengono consultate. Ecco un bel­l’esempio della prevalenza del simbolico su tutto il resto. E della forza del nome usurpato dall’aggressore più potente. Nella pulizia etnica e ideologica che caccia gli abitanti centi­naia di miglia lontano dalle loro case, le persone perdono non soltanto parenti e amici, le loro abitazioni e i loro beni, ma anche i loro nomi insieme alla memoria dei loro indirizzi. Alcune famiglie si sono messe in fila per cambiare nome al momento dell’omologazione etnica, quando quelli che porta­vano erano diventati «stranieri» e loro erano divenuti dei facili bersagli. A scuola, dalla fine di un anno alla riapertura seguente, i ragazzi prima di origini miste ritornavano tutti dichiarando, attraverso i loro genitori, di appartenere ad una stessa nazionalità o religione maggioritaria. In altre regioni, venivano ritirati dalla classe o ne venivano cacciati. I profu­ghi arrivavano senza documenti nelle regioni o nelle vecchie repubbliche federali vicine e non avevano alcuna esistenza ufficiale e giuridica, alcuna prova d ’esistenza reale. Le loro città o i loro villaggi sono stati rasi al suolo, le loro strade era­no inesistenti, o meglio erano state ribattezzate. Il passato, il vissuto, la realtà di quelle persone, d’ora in poi, non avrebbe avuto più luogo se non nella memoria individuale. Un’altra storia ufficiale, di Realpolitik, sarebbe stata fabbricata, con il più grande disprezzo per la loro propria storia. Accanto alla morte reale, la più terribile, c’è anche quella simbolica che tutto annienta.

LA RIFOND AZIONE STORICA

Tutti i procedimenti descritti conducono alla rifonda­zione storica. La nazione in nuce si regala dei miti di fonda­zione, reinventandosi una storia autistica e separata da quella dei popoli vicini, e giustifica così il suo gesto di esclusione dell’altro. I miti di fondazione si riferiscono regolarmente e in maniera abusiva alla storia, ad una storia sacra che deve «provare» che «noi» abbiamo sofferto per colpa loro e che è dunque giusto che essi paghino. La motivazione principale è la vendetta, le «prove» storiche sono in linea di massima uni­laterali, malintenzionate, esagerate o decisamente false. Ogni enormità è la benvenuta se accusa il vicino ed è sufficiente, proprio in quanto esagerazione, ad essere considerata come una prova. Il male è sempre dall’altra parte. Così, durante la

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divisione dell’Europa in Est e Ovest, il male era collocato (da entrambe le parti) al di là del muro di Berlino, e il bene, la purezza, al di qua. Al momento del crollo del muro simboli­co, che giunse contemporaneamente alla crisi economica, il nemico viene cercato più vicino e deve essere costruito mediante una nuova esclusione. Nei miti di fondazione, il gruppo nazionale in nuce, che aveva perduto o stava per disfarsi della sua identità precedente, si attribuisce una nuo­va identità attraverso l ’immedesimazione con un’istanza superiore (la Nazione, il Padre della nazione, Dio, ecc.). A tale istanza superiore, l’individuo sacrifica ogni sua propria caratteristica così come ogni sua anteriore appartenenza. Le relazioni degli individui del gruppo passano per questa auto­rità e ciò assicura la disciplina. L ’individuo diviene funziona­le alla comunità e questo significa che egli è pronto a essere mobilitato soprattutto per gli interessi del gruppo: morire per la Nazione, per la Patria, diventa facile, da incoraggiare e augurare. La comunità, così integrata, incorpora non solo tutti i viventi (e nessuno ha diritto ad allontanarsene), ma anche e in primo luogo i morti e i non nati. In tale maniera, si concede un’aura metafisica ed eterna che supera (o ignora) la dimensione storica e precede, idealmente, lo Stato che verrà a fondare. Si invoca spesso la natura, ma non esiste una nazione più o meno naturale. Ognuna rappresenta un’iden­tità e un’unità politica imposta ad una diversità sociale e cul­turale, all’interno della quale nascono, da sempre, nuove for­me centrifughe, pur se una forma si è stabilizzata per un periodo storico più o meno lungo. Soltanto in apparenza una nazione ha solide fondamenta quando per la sua creazione si è dovuto versare molto sangue. Le identità culturali o anche nazionali multiple favorite dagli Stati dell’Occidente (come anche, ad esempio, la stessa Jugoslavia di Tito) costituiscono un equilibrio precario fra la prevenzione e la minaccia di esplosione. L ’esplosione favorirà gli autismi, i particolarismi,i separatismi multipli, 0 ripiegamento sull’identità. E come nota molto bene Mario Vargas Liosa in un articolo intitolato L ’idea di nazione è una finzione politica, «paradossalmente, solo l’internazionalizzazione può garantire il diritto all’esi­stenza di queste piccole culture che tradizionalmente la nazione aveva spazzato via per poter consolidare il mito della sua intangibilità» '. Dunque, non è questo ciò che accade nei paesi dell’ex Jugoslavia per quanto riguarda la cultura. Un’in-

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ternazionalizzazione è certo stata tentata, ma è falsa, perché cerca di aggirare le nazioni più vicine per gettarsi tra le brac­cia di quelle più lontane ma prestigiose. Così i nazionalisti serbi invocano più volentieri la Grecia piuttosto che la Mace­donia, la Russia invece della Croazia o l’Albania. E la Croazia invoca più spesso l’Europa rispetto ai suoi vicini serbi..., ecc.

L ’AUTISMO CULTURALE

I nuovi miti etnogonici fondano nuove piccole nazioni sull’idea di un medesimo sangue e territorio, lingua e religio­ne. Ognuna di queste nazioni il cui sogno d ’indipendenza (d’autodeterminazione dei popoli?) ha attivato la psicopato­logia di massa dell’aggressività contro gli «altri», si trova all’interno di ciò che, prima, era considerato un quadro generale geopolitico e ognuna è quindi ancora più piccola se quel quadro è sul punto di dissolversi. Nuove frontiere si delineano là dove non ce n’erano. I miti etnogonici sono allo stesso tempo sogni di autismo culturale, come se, contraria­mente alla realtà, la cultura non potesse sorgere che nell’as­soluta «purezza» dell’isolamento. Il métissage culturale, spa­zio ordinario della cultura, venne drasticamente censurato. E una tragedia culturale perché si tratta del terreno stesso del métissage, ora spezzato. Le nuove frontiere separano le lin­gue, i legami, le interdipendenze, gli scambi culturali vitali sia per l’insieme delle culture jugoslave che per ciascuna par­te presa singolarmente.

Le nuove tendenze nazionaliste sostenute dai nuovi Stati lasciano che si articolino soprattutto gli elementi folclo­ristici della cultura, riferendoli alla storia nazionale vista come un’epopea. Tutto ciò che portava o potrebbe portare il nome dell’etnia autodesignatasi come l’eletta fra i popoli, è incoraggiato («il mondo intero ci invidia» ha potuto afferma­re recentemente il ministro della cultura di uno di quei Stati, in evidente contrasto con un paese devastato dalla guerra e in preda allo sciovinismo). I programmi scolastici sono epu­rati di tutti gli apporti delle altre lingue e culture jugoslave e dunque indeboliti dall’orgoglio folle e autistico dell’assoluta indipendenza, sogno suicida e assassino. È cosi che dappri­ma a poco a poco e poi in maniera sempre più violenta, le nostre frontiere interne si delinearono e furono nondimeno violate dalle conquiste territoriali. -----

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Si trasformarono da tracciati di legami, congiunzioni, passag­gi in irreparabili linee di separazione. La soppressione delle telecomunicazioni fra i nuovi paesi conferma un’attiva e cul­turalmente assassina (e suicida) volontà di separazione, d’e­sclusione, di purificazione. Atti questi che mai fonderanno una cultura.

UNA RETE DISTRUTTA

Le frontiere (la guerra) hanno distrutto le vite, le fami­glie, le cittadinanze, le fedeltà, per non dire della cultura. Hanno distrutto le reti relazionali. Hanno contribuito a can­cellare la memoria conservata per più di settantanni di vita comune col pretesto di allontanare l’aggressione o l’oppres­sione dell’altro, buttando così anche il bambino insieme all’acqua sporca. Presto non ci sarà più nessuna prova dell’e­sistenza di una cultura. Città, serbatoi di memoria culturale, e necessariamente miste, sono rase al suolo; chi si ricorderà del­la loro esistenza? Dove sono i sopravvissuti di Vukovar? Sono state bruciate le biblioteche, anche una delle più belle, quella di Sarajevo, ricettacolo unico di un raro incrocio di culture, e soprattutto della memoria degli ebrei di Spagna stabilitisi qui0 della cultura musulmana locale, più la cultura dei Serbi o dei Croati. La guerra, le distruzioni, le frontiere, impediscono1 contatti vitali.

Le comunicazioni, le strade, il telefono, tutto interrotto, inesistente. Non c’è più posta e in ogni modo, se i messaggi individuali riescono a passare di mano in mano, non arrivano a destinazione perché le persone sono state uccise o cacciate dalle loro case. Intere popolazioni sono spostate. Gli intellet­tuali di quella che fu la Jugoslavia sono sparpagliati per il mondo, ad Amsterdam, al Cairo, a Vienna, a Parigi, a New York, a Berlino, a Praga e ancora in altri luoghi, senza dubbio a Lubiana, a Belgrado, a Zagabria dove alcuni si sono rifugia­ti. A fatica cercano di riallacciare i contatti gli uni con gli altri, con quelli rimasti nel paese, di rinnovare i legami vitali di una cultura assassinata. Non possono conservare i loro contatti, continuare a lavorare insieme, telefonarsi e scrivere da un paese jugoslavo all’altro. Non soltanto perché le comunicazio­ni sono saltate ma anche perché, in alcuni casi, sarebbero considerati dei traditori e potrebbero mettersi nei guai. I con­tatti possono passare soltanto per l’estero o, nel migliore dei

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casi (questa era ancora la situazione nel mese di aprile del ’93), per la Slovenia. Tutto ciò significa la fine della libera cir­colazione di persone e idee. Il nazionalismo e la guerra che, entrambi, funzionano a colpi di esclusione a partire da un sistema di dicotomie come ha già dimostrato Karl von Clau­sewitz, firmano il certificato di morte delle reti intellettuali e artistiche all’interno dello spazio jugoslavo. Da reti nazionali e interne che erano, si trasformano in reti internazionali ma, allo stesso tempo, esclusivamente internazionali: perché que­ste reti precedentemente jugoslave e multiculturali sono ora discriminate, eliminate in rapporto alle altre comunicazioni internazionali e, quando restano tali, sono volontariamente messe al bando e considerate disdicevoli per i nuovi Stati che preferiscono i contatti con l’esterno (e si stupiscono di trovar­li ugualmente sfilacciati). La mancanza di democrazia nei nuovi Stati (ma non può esserci democrazia finché dura la guerra), la caccia all’uomo generalizzata, soprattutto all’intel­lettuale sulla stampa abusivamente detta «libera», l’epurazio­ne ideologica, la delazione, la diffamazione di quelli che la pensano in modo differente o sono di un’altra origine, il sac­cheggio, l’assenza di uno Stato di diritto, le uccisioni crimina­li, non favoriscono la cultura e ancor meno la ricerca della tol­leranza. La cultura, molto chiaramente, non può essere esclu­siva dell’altro oppure non si tratta di cultura. I nuovi paesi hanno perso l ’equilibrio del controllo sociale. Ci sono in generale tre tipi di controllo sociale: un controllo dall’alto (lo Stato), un controllo orizzontale (l’opinione pubblica, in parte attraverso i media) e un controllo dal basso (la contestazione sociale). Nelle nuove condizioni, il controllo dal basso è represso o molto indebolito, il controllo dall’alto è repressivo e arbitrario ma gli sfuggono molte cose (perché non rappre­senta uno Stato di diritto), mentre il controllo orizzontale è forse il più forte e funziona a partire dall’omologazione come «giustizia» privata di gruppi differenti.

La cultura nazionale è in questo momento ridotta a valori etnici e folcloristici nel senso stretto. E al servizio del­l’ideologia nazionalista. Le qualità presunte del proprio popolo e della sua storia nazionale (ricostruita in ogni tassel­lo dai nuovi di fondazione) vengono esaltate smisuratamente. Gli apparati scenografici delle occasioni ufficiali sono medio­cremente ridotti a soli simboli dell’identità nazionale che, adesso, rimpiazzano i precedenti (anch’essi molto poveri per

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quanto riguarda il loro valore estetico) ma in una quantità ben maggiore. La musica tradizionale è sostituita da canti bellici che esaltano i «nostri», di dubbia qualità musicale e, se non razzisti, pieni di odio verso gli altri.

I musei e le gallerie espongono soltanto i «nostri» (e gli stranieri più lontani possibile, mai ex jugoslavi delle altre repubbliche in passato federate), i teatri non danno più opere dei Croati in Serbia o dei Serbi in Croazia. Gli attori originari di «qui» che hanno recitato un tempo in altri centri jugoslavi sono accusati di tradimento, perseguitati. Non si pubblicano libri di autori che appartengano per semplice origine, vera o supposta, all’altra fazione, a meno che non parlino male del nemico o si siano stabiliti da «noi» e forniscano così un alibi.

Si è espulso il cirillico dalla Croazia e si dà la caccia ai caratteri latini in Serbia... gli esempi sono innumerevoli e vanno tutti nella stessa direzione di chiusura.

LA MESCOLANZA E LA SUA FINE

Gran parte del lavoro intellettuale, così come delle esperienze artistiche del ventesimo secolo, sono nate grazie ad uno scambio inter-jugoslavo. Nella memoria della mia genera­zione, il teatro ne è forse il più spettacolare esempio, poiché il teatro superava con facilità anche le barriere linguistiche tra il macedone, il serbocroato, l’ungherese, la lingua zigana, lo slo­veno, ecc. Gli attori recitavano in diversi centri, in più lingue,i registi lavoravano in più teatri, gli autori venivano spesso recitati in altre lingue e di frequente il pubblico stesso si spo­stava con la scena ambulante. Molti festival infine riunivano tutta questa tribù transnazionale che aveva anche sviluppato un suo stile, una originalità culturale proprio a partire da que­sta feconda mescolanza. Accadeva la stessa cosa con il cinema, tra l’altro perché le repubbliche isolate avevano pochi mezzi e poco pubblico per contribuire allo sviluppo di un’arte così costosa. I migliori oggi si trovano all’estero. Nella cultura, come nell’economia, il mercato comune jugoslavo, lo spazio comune, permettevano uno sbocciare di iniziative che le pic­cole culture autistiche non potranno mai rimpiazzare. La let­teratura, soprattutto quella in lingua serbocroata (chiamata ora croata o serba) parlata in quattro repubbliche, circolava. Le case editrici nelle differenti città erano come nostre, pub­blicavamo spesso presso l’editore della città accanto; nelle

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riviste di altri centri, poiché nessuno è profeta nel suo paese, a volte era più facile. Questo non accadrà più. Prima della guer­ra, era già divenuto più raro, i fondi tendevano a finanziare solo la pubblicazione di scrittori locali. A tutto ciò, bisogna aggiungere le distruzioni operate dalla guerra: le grandi case editrici di Sarajevo non ci accoglieranno più con sollecitudine, quelle del nuovo Stato d’origine non pubblicano più, di prefe­renza, gli scrittori che non si sono schierati ideologicamente dalla parte giusta (ovviamente la «nostra»). Gli scrittori, i migliori, resteranno senza la possibilità di pubblicare nella loro lingua. Gli incontri tra scrittori, traduttori, editori dello spazio jugoslavo non avranno più luogo, i premi letterari ver­ranno assegnati soltanto a scrittori che hanno superato la pro­va dell’epurazione ideologica, culturale. Le associazioni degli umanisti, degli intellettuali di diverse discipline, le accademie, vengono «ripulite» dai loro membri appartenenti ad altre anti­che repubbliche, le associazioni jugoslave, un tempo transre­pubblicane, vengono disciolte con la magnificenza e la forza di celebrazione della cultura claustrofobica resistente ad ogni impermeabilità pluriculturale. Casi emblematici, innalzati all’altezza dell’orgoglio nazionale, vengono creati seguendo l’esempio dell’intellettuale straniero (francese, russo, esempi differenti da commisurare con i differenti Stati) che arriva per «sostenerci», come prova trascendentale della giustizia assoluta e nello stesso tempo indicibile della «nostra» causa. Gli intel­lettuali profughi (nel senso ideologico o nel senso reale e terri­toriale) fungono da alibi. Gli si concede volentieri la parola se pronti a denigrare il proprio regime. Senza comprendere il fatto che così vengono reinseriti ideologicamente, alcuni arri­vano volentieri «qui» per accusare il regime di «laggiù» e ne approfittano poiché, per ragioni ideologiche, non hanno più ascolto nel loro ambiente. Il prezzo da pagare è quello di non attaccare «qui» il regime locale e di non essere per principio contro ogni nazionalismo. Vengono strumentalizzati. E molti intellettuali sono emigrati.

È stata fabbricata anche una paranoia culturale di mas­sa: nessuno (nessun’altra nazione) ci capisce veramente, il mondo intero ci invidia, il mondo intero è maldisposto verso di noi. Poco importa se questa psicopatologia di massa si fonda su premesse contraddittorie, o tanto meglio: è la prova del­l’assurdo.

Agli intellettuali e artisti di alcuni dei paesi in questio­

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ne viene impartito l’ordine di non apparire in manifestazioni all’estero dove colleghi e amici, fino a ieri molto vicini, ma ora appartenenti ad un’altra etnia, manifestano. Sotto la spinta della paura e dell’omologazione nazionale, molti artisti e intellettuali hanno dimenticato la dimensione necessaria­mente individuale e libera del loro lavoro, accettano questa condizione, s’identificano con la ragione di Stato e adottanoil linguaggio nazionalista.

Sono anche stati inventati nuovi codici di comporta­mento. Bisogna capire che tutto ciò accade nei paesi dove non esiste una significativa libertà di stampa (anche se a volte ci sono alcuni stretti e sporadici spazi per la critica, sempre minacciati e molto moderati, spazi che il potere tiene come alibi, ma censurati), dove la televisione (il mezzo più forte) è controllata dai regimi, dove la propaganda nazionalista ha corso libero e dove infuria la guerra.

In queste condizioni l ’intellettuale nazionalista è quello che accusa e riconosce soltanto il nazionalismo degli altri e mai quello della propria parte, e l ’intellettuale antinazionali- sta è quello che, in primo luogo, accusa il nazionalismo del suo popolo in rapporto agli altri e comprende la logica bina­ria dei nazionalismi. Non c’è un nazionalismo migliore.

Lo stesso discorso si può fare, come per la letteratura, il teatro, il cinema, per le arti visive e per gli scambi intellettuali: una volta molto vivaci, oggi inesistenti. In questo momento la Slovenia, ripresasi un po’ dal suo nazionalismo e al riparo dalla guerra diretta, è l’unica a poter accogliere artisti e intellettuali provenienti da altri spazi jugoslavi, col desiderio di rincontrar­si. Bisognerebbe però averne i mezzi; a parte la scelta nazionale che è stata fatta in ogni centro, i nuovi regimi hanno ereditato le peggiori caratteristiche dei disperati e infimi tempi autocrati­ci, e le hanno sviluppate: nepotismo, partitismo, selezione ideologica, corruzione, sparizione di persone, criminalità ordi­naria, mafia dei trafficanti d’armi.

Il regime comunista rispettava il ruolo della professio­nalità. Le istituzioni erano lasciate ai professionisti e ricorre­vano all’apertura e allo scambio con l’estero e gli altri luoghi jugoslavi. Ci sembrava ancora molto poco e ritenevamo che la mobilità culturale, come d ’altronde la mobilità tout court all’interno del paese, lasciasse molto a desiderare. Ci risultava più semplice sapere, a Zagabria o a Belgrado, quale fosse la produzione intellettuale a Milano o a Parigi piuttosto che a

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Skopje e a Pristina. Ci lamentavamo di questa situazione. Ma non la si può paragonare alla claustrofobia generalizzata di oggi. Non soltanto sono stati recisi i legami all’interno del paese, ma anche all’esterno. E non solo a causa della guerra, ma a causa delle politiche (anti)culturali in vigore, per la mancanza di democrazia e dei mezzi (laddove non si dà bat­taglia), e per la meschinità, la limitatezza e la ristrettezza, la mancanza di orizzonti e della libertà di circolazione delle per­sone e delle idee in questo paese. E a causa delle mafie che detengono nelle loro mani il potere culturale per diffondere il verbo nazionale e nazionalista. Venivano in Jugoslavia intel­lettuali e artisti da tutto il mondo. A parte l’intellettuale stra­niero alibi, o quelli che vengono di propria iniziativa per fini umanitari, nessuno viene più. Non solo hanno molte esitazio­ni, cosa comprensibile, ma non sono più invitati e non c’è più niente di culturalmente interessante da offrire loro. Lo scam­bio si è bloccato completamente.

IL GENOCIDIO CULTURALE

Un genocidio culturale si sarà consumato prima, durante e dopo la guerra dei Balcani di questa fine del vente­simo secolo. E chiaro ormai che la Jugoslavia non potrà più rivivere e che dunque la sua cultura comune non potrà conti­nuare ad esistere e a trasmettersi nella stessa maniera. Per una parte, è stata assassinata, e per l’altra, la violenza entrerà una volta di più nella sua storia. Ma una memoria comune, con angolazioni diverse, esiste nella cultura e questa non deve essere distrutta perché rappresenta un patrimonio mon­diale. Tuttavia essa è stata spietatamente rasa al suolo dalla guerra e cancellata da decreti imbecilli i cui autori non com­prendono che ogni cultura s ’inscrive in un’altra. In una for­ma o in un’altra, la cultura trans-jugoslava continuerà ad esi­stere nelle nuove condizioni. In parte, sicuramente all’estero, e anche nello spazio jugoslavo, malgrado le condizioni e non grazie a queste, e nei contatti fra l’estero e il paese. Ma delle persone sono morte, delle reti scomparse, dei legami distrut­ti. In alcune situazioni non possono essere più ricomposti. Nella maggior parte dei casi, ci vuole un grosso sforzo per ricostruire i sistemi di contatto e di comunicazione al fine di salvaguardare nella dignità una memoria. Questa memoria deve essere conservata non solo come un museo, un archivio

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(poiché anche questo si deve fare e in fretta), ma soprattutto come memoria vivente. Deve essere ristabilita, evidenziata, documentata, nutrita dai sopravvissuti individuali, perché non lo sarà più al livello delle nuove istituzioni nazionali e non verrà più salvaguardata dagli altri.

UNA PROPOSTA DI PROGETTO PER LA RICERCA DEI FONDATORI

Se ne avessi i mezzi e sapessi a chi rivolgermi per dei fondi, io proporrei che fossero creati un Istituto internazionale e una Fondazione per la salvaguardia della memoria attiva e passiva, così come per la continuità della cultura comune nello spazio jugoslavo. Rappresenterebbero un contatto di lavoro sia con le istituzioni attuali dei nuovi Stati, sia con gli individui sparsi, e incoraggerebbero le attività artistiche e intellettuali volte a riallacciare i legami fra le differenti lingue e culture. L ’istituto e la fondazione rispetterebbero le particolarità delle culture nel loro desiderio di autonomia, ma si orienterebbero a soste­nere le attività culturali comuni laddove queste non possano essere organizzate sul posto. E molto auspicabile che questo organismo tenda a giocare immediatamente tale ruolo, forse in minor misura, per i Balcani in generale (col rischio di svi­luppare quest’ultima dimensione se necessario), così come per i paesi attigui. E anche auspicabile che essi prevedano per principio la possibilità di una loro trasformazione o del loro semplice scioglimento quando le circostanze lo richiederanno o meglio quando il loro ruolo non sarà più necessario (quan­do, per esempio, la cultura transnazionale dello spazio jugo­slavo non sarà più censurata dai nuovi Stati).

NOTE

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finito di stampare nel mese di luglio 1999 per conto della manifestolibri-roma

dalla grafica ripoli-tivoli