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Mariachiara Giorda - Alfonso Marini - Francesca Sbardella

Prospettive cristiane /2/

Abiti monastici

Edizioni Nuova Cultura

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Mariachiara Giorda - Alfonso Marini - Francesca Sbardella

Prospettive cristiane/2/Abiti monastici

a cura di Alessandro Saggioro

Quaderni di simbologia del vestire - 4

Direzione

Alessandro Saggioro

Redazione

Sergio Botta, Marta Rivaroli

In copertina: foto dell’abito di S. Chiara tratta da La sostanza dell’effimero. Gli abiti degli Ordini religiosi in Occidente. Catalogo [della mostra curata da M. Mercalli e G. Rocca], Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo (18 gennaio-31 marzo 2000), a c. di G. Rocca, Roma 2000, p. 319.

(Le immagini sono riprodotte a fini esclusivamente didattici. L’editore resta a disposizione di eventuali aventi diritto)

Copyright © 2007 Edizione Nuova Cultura – Roma

Composizione grafica a cura della redazione dei Q

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Indice

Premessa ...................................................................................................................... 7 Capitolo 1 - La veste come fattore di identità nel monachesimo egiziano delle origini di Mariachiara Giorda ............................................................. 9 1. Introduzione ........................................................................................................... 9 2. L’abito monastico nelle fonti letterarie ............................................................. 11 3. Le vesti monastiche ............................................................................................. 20 4. Riflessioni conclusive .......................................................................................... 28 Capitolo 2 - Il non-abito religioso di Francesco d’Assisi di Alfonso Marini ........................................................................................................ 33 Capitolo 3 - L'abito agito nella pratica religiosa claustrale di Francesca Sbardella ................................................................................................. 63 1. Premessa ............................................................................................................... 63 2. Processi di costruzione identitaria .................................................................... 65 3. Confini del silenzio .............................................................................................. 71 4. Movimenti silenziosi, controllati, depotenziati ............................................... 78 5. La performatività dell’abito ............................................................................... 86

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Capitolo 2 Il non-abito religioso di Francesco d’Assisi

Volse adunqua sancto Francesco, illuminato da Christo, che l’habito suo exteriore fosse ad lettera in forma de la croce. Onde ipso insegnone et monstrone, per exemplo et per parola, la forma et la misura dello habito suo, la longhezza et la larghezza et la qualità, quanto alla viltà et quanto al colore, et secondo che testimoniavano frate Leone, frate Bernardo, frate Masseo et li altri soi compagni, i quali dicevano che essi havevavo receuta la forma dello habito da lui et monstravala per opere. Quanto alla materia, insegnone che dovesse essere de panno vile, de colore ceneritio, overo pallido, per representare la palideza del corpo de Christo morto. Et che fosse el panno tanto grosso, che tenga caldo al corpo et che possa bastare una thonica repezzata dentro et de fore al frate sano. Et che sia de tanta longheza, che essendo cento1, non remanga piega sopra la centura et non tocchi terra. La longheza delle maniche fino a le ponte delle deta, sì che copra le mani et non le passi. La largheza loro sia tanta, che la mano ne possa intrare et uscire liberamente. El cappuccio sia quadro et tanto longo, che copra la faccia, sì che l’habito representi la forma de la croce et per la sua viltà predichi lo desprezamento de ogni mundana gloria et de ogni ornamento vano. Et monstri el frate minore esser morto et crucifixo al mundo, et che sia coprimento della nuditate et della necessitade et preservamento del freddo del corpo delli amatori della povertade et segno delli professori della humilitade et vero inditio de portare lo improperio della croce de Christo. Ad laude de Christo, amen.

1 Cinto.

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Così descrive l’abito minoritico, secondo le intenzioni di Francesco, la Vita del povero et humile servo de Dio Francesco2, volgarizzando ad litteram attorno alla metà del sec. XIV quanto pochi anni prima aveva scritto Angelo Clareno nell’Historia septem tribulationum Ordinis Minorum (di poco anteriore al 1330)3. Ci troviamo di fronte alla minuziosa descrizione di un abito religioso, come tale uguale per tutti i membri dell’Ordine, la cui forma ha un espresso significato simbolico, che può riscontrarsi anche nelle singole parti, almeno in relazione a simbologie morali. Perché sia segno di amore della povertà l’abito non deve eccedere in nulla, né in lunghezza né in larghezza, quanto al corpo e quanto alle maniche. Il Clareno fa risalire questa descrizione a Francesco attraverso la testimonianza dei suoi compagni

2 A cura di M. Bigaroni, Introduzione di A. Marini, Santa Maria degli Angeli –

Assisi 1985, pp. 85-86, cap. 28 (Pubblicazioni della Biblioteca Francescana Chiesa Nuova-Assisi, 4). Va ricordato - in relazione al titolo di questo volume (Abiti monastici) che da un punto di vista canonico i Frati minori non sono monaci, ma mendicanti: non hanno l’obbligo della stabilitas loci anzi sono itineranti, svolgono compiti pastorali, hanno una struttura centralizzata, alle dirette dipendenze del papa. Ciò non toglie che da un punto di vista diciamo di antropologia o tipologia religiosa, in ottica non soltanto cristiana, essi possano rientrare nella categoria dei “monaci”.

3 Historia septem tribulationum Ordinis Minorum, ed. O. Rossini, Introduzione e commento di H. Helbling, Roma 1999 (Angeli Clareni Opera II, Fonti per la storia dell’Italia medievale, Rerum Italicarum Scriptores, 2). In contemporanea con questa edizione critica, attesa da tempo, se n’è avuta una seconda: Liber chronicarum sive tribulationum Ordinis Minorum, a cura di Giovanni Boccali, Introduzione di Felice Accrocca, trad. italiana a fronte di M. Bigaroni, S. Maria degli Angeli-Assisi 1999 (Pubblicazioni della Biblioteca Francescana Chiesa Nuova-Assisi, 8). Il brano citato è ovviamente in entrambe le edizioni, nella settima tribolazione, pp.307-308 nell’ed. Rossini; pp. 758-760 nell’ed. Boccali. Sull’abito di Francesco e dell’ordine minoritico vi è una piccola bibliografia, per la quale v. oltre. Ricordo subito F. Rossetti, L’abito francescano, Frigento (AV), Edizioni Casa Mariana, 1989, un volume di oltre 250 pp., che però ha un impianto non critico, ma volto a evidenziare, per così dire, una “spiritualità” dell’abito francescano.

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più prestigiosi, inserendo anche una citazione dal Testamento del santo: «tunica una, intus et foris repeciata»4.

Indubbiamente Francesco era stato attento all’abito, che

manifestava esteriormente la scelta da lui fatta, ma non proprio secondo la concezione del Clareno, che pure – personaggio eminente degli Spirituali – si poneva in una linea di rigida osservanza dell’intentio del fondatore5. Francesco, più di un secolo prima della stesura dell’Historia septem tribulationum, era stato certamente deciso anche sull’abito, ma meno rigido quanto ai particolari e meno legato ad una uniformità minuziosa. Quando aveva iniziato il suo cammino di conversione, già prima del 1206, si trovava inserito in un mondo in

4 Testamentum 16, in Francesco d’Assisi, Scritti, Padova 2002, p. 434: i frati nei

primi tempi si accontentavano «di una sola tunica, rappezzata (o repezzata, nella trad. trecentesca, cioè con i buchi ricoperti con pezze) dentro e fuori». Degli scritti di Francesco si hanno varie edizioni, sono ovviamente presenti in Fontes Franciscani e in traduzione italiana nelle Fonti francescane (per entrambe queste opere v. più avanti, nota 8). L’ed. di riferimento, anche se da revisionare in più punti, è quella di Kajetan Esser, Die Opuscula des hl. Franziskus von Assisi. Neue textkritische Edition, Grottaferrata, Ad Claras Aquas (Quaracchi), 1976 (ed. italiana col testo critico latino seguito dalla traduzione: Gli scritti di s. Francesco d’Assisi, Padova 1982); ed. più maneggevole, ma con testo latino anche nelle introduzioni, Caietanus Esser, Opuscula sancti patris Francisci Assisiensis, Grottaferrata 1978. Opera di più studiosi è la recente ed. critica cit. in inizio di questa nota (Scritti), di cui mi servirò nel presente lavoro. In questo ampio panorama editoriale (al quale vanno aggiunti almeno gli Opuscula s. Francisci et scripta s. Clarae Assisisensium, ed. G. Boccali, con trad. italiana a fronte, Assisi 1978) mi sembra poco utile La letteratura francescana, I, Francesco e Chiara d’Assisi, a cura di C. Leonardi, Milano 2004 (con una ulteriore trad. italiana a fronte).

5 Per una sintesi della storia dell’Ordine dei Minori G. G. Merlo, Nel segno di san Francesco. Storia dei frati Minori e del francescanesimo sino agli inizi del XVI secolo, Padova 2003, oltre al classico Gratien de Paris, Histoire de la fondation et de l’évolutione de l’Ordre des Frères Mineurs au XIIIe siècle, Roma 19822 con bibliografia aggiornata da M. D’Alatri e S. Gieben (Bibliotheca Seraphico-Capuccina, 29; Paris 19281). V. anche l’ed. postuma di R. Manselli, I primi cento anni di storia francescana, a c. di A. Marini, Cinisello Balsamo 2004.

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cui la professione religiosa aveva forme ben precise e l’abito religioso evidenziava immediatamente l’appartenenza ad una specifica famiglia: i monaci neri erano i benedettini tradizionali, i monaci bianchi i cistercensi, per fare gli esempi più noti6. L’abito, nella mentalità medievale, doveva mostrare lo status di chi lo indossava, e ciò valeva anche per quanti avessero iniziato un cammino di penitenti, in forme protette dalla Chiesa senza appartenenza a famiglie religiose. In tale condizione venne a trovarsi forse lo stesso Francesco7.

6 La sostanza dell’effimero. Gli abiti degli Ordini religiosi in Occidente. Catalogo

[della mostra curata da M. Mercalli e G. Rocca], Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo (18 gennaio-31 marzo 2000), a c. di G. Rocca, Roma 2000. Tra i molti interventi di questa ampia e davvero utile pubblicazione, ve n’è uno richiamato immediatamente dal titolo del mio presente articolo: A. Borràs i Feliu, Il «non abito» dei Chierici regolari, pp. 103-104. Il contesto storico ed il significato di tale non-abito sono però profondamente differenti dal caso di Francesco d’Assisi, anzi direi all’opposto: in periodo tridentino l’assenza di un abito particolarmente distintivo per i chierici regolari vuole soltanto non distinguerli troppo dai chierici secolari, quindi sottolineare sì un’appartenenza più ampia del loro ordine religioso, ma sempre nell’ambito del clero, sicché quell’abito identificava immediatamente lo status clericale di chi lo indossava.

7 Non è agevole indicare pochi studi biografici su Francesco d’Assisi. Si vedano l’opera ancora postuma di R. Manselli, San Francesco d’Assisi. Editio maior, a cura di M. Bartoli, Cinisello Balsamo 2002 (ed. minor Roma 1980 e successive ristampe); G. Miccoli, Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di un’esperienza cristiana, Torino 1991; senza dimenticare il classico inizio della “questione francescana”, Paul Sabatier, Vie de saint François d’Assise, Paris 1894 (con varie edizioni successive e relative traduzioni italiane, la più recente delle quali, se non vado errato, è a cura di L. Bedeschi, Milano 1978, serie Oscar L 263, dall’ed. Paris, Fischbacher, 1931, ma assolutamente priva dell’iniziale studio critico delle fonti dell’ed. francese). Molti storici si sono cimentati con la figura del Poverello, ricordo l’agile biografia di F. Cardini, Francesco d’Assisi, Milano 1989, ed il libretto di C. Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Torino 1995. Per la situazione religiosa al passaggio tra sec. XII e XIII rinvio a due classici: M. D. Chenu, La théologie au douzième siècle, Paris 1976 (trad. it. La teologia nel XII secolo, Milano 1986); H. Grundmann, Religiöse Bewegungen im Mittelalter…, Berlin 19351, Darmstadt 1961 (trad.it. da quest’ultima, Movimenti religiosi nel Medioevo…, Bologna 1970, con Introduzione di R. Manselli,

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Il non-abito religioso 37

La situazione dello storico di Francesco d’Assisi non è certo quella

di chi debba destreggiarsi tra la scarsità delle fonti. La notorietà raggiunta in vita dal santo, la protezione e l’interesse da parte del papato di promuovere lo sviluppo del suo Ordine e la diffusione del suo culto, i contrasti sorti tra i suoi frati mentre egli era ancora in vita e, dopo la sua morte, anche in relazione alla memoria storica del fondatore, hanno portato ad una varietà e ricchezza di fonti agiografiche e documentarie, se non unica, certo particolare. Il problema per lo storico è quello di trovarsi di fronte a testimonianze non sempre omogenee ed a volte contrastanti, sicché dalla fine dell’Ottocento ha avuto origine la «questione francescana», che ha in parte ripreso o perpetuato i contrasti interpretativi del sec. XIII. La «questione francescana» riguarda i rapporti tra le diverse fonti su Francesco d’Assisi, principalmente del Duecento, sicuramente agiografiche ma che – al di là dei criteri dell’epoca – possono anche in parte definirsi “biografiche”. Si tratta di un problema non soltanto filologico, ma fortemente ideologico e quindi – per lo storico – interpretativo, poiché le diverse fonti sono legate a diversi momenti ed a diverse esigenze dell’Ordine dei Minori, oltre che a diversi gruppi più o meno contrapposti al suo interno. Basti ricordare che in meno di quarant’anni, dalla morte di Francesco nel 1226 alla Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio nel 1263, si hanno due vite “ufficiali” di Tommaso da Celano (commissionate la prima dal papa Gregorio IX per la canonizzazione di Francesco del 1228 e terminata attorno al 1229, la seconda dal ministro generale dell’Ordine Crescenzio da Iesi per decisione del Capitolo Generale di Genova del

pp. XI-XX). Per i penitenti G. Casagrande, Un Ordine per i laici. Penitenza e penitenti nel Duecento, in Francesco d’Assisi e il primo secolo di storia francescana, Torino 1997, pp. 237-255. Questo libro è complessivamente utile, con interventi su diversi aspetti della storia francescana del ’200, da Francesco e Chiara all’evoluzione dell’Ordine all’iconografia, ecc.

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1244, terminata nel 1247), una vita di Giuliano da Spira per i frati studenti all’Università di Parigi alla metà degli anni Trenta ed almeno tre legendae non ufficiali risalenti in vario modo a compagni del Santo: il De inceptione (o Anonymus Perusinus) attorno al 1240; la Legenda trium sociorum e la Legenda antiqua Perusina (o Compilatio Assisiensis) risalenti al 1246., Dopo la composizione della Legenda maior (commissionata dal Capitolo generale di Narbona del 1260 ed approvata dal Capitolo di Pisa del 1263), che avrebbe dovuto offrire un’immagine univoca di Francesco e pacificare così l’Ordine, nel 1266 il Capitolo generale di Parigi decise che tutte le legendae precedenti dovevano essere distrutte, cosa che si fece con molto impegno, provocando in alcuni casi seri problemi filologici per le moderne edizioni critiche8.

La moderna «questione francescana» ebbe inizio con il primo biografo moderno di Francesco, il pastore calvinista Paul Sabatier, allievo di Ernest Renan, che nella sua Vie de saint François d’Assise del 1894 offrì un’interpretazione del Santo in contrasto con alcuni aspetti della Chiesa del suo tempo, provocando significativi consensi ma anche forti opposizioni, soprattutto da parte di membri degli ordini francescani; l’interpretazione si appoggiò su una rinnovata metodologia nell’uso delle fonti – soprattutto la necessità di partire dagli scritti di Francesco per vagliare l’attendibilità delle agiografie – e sulla scoperta ed utilizzazione di testimonianze andate trascurate o perdute. Anche la produzione storiografica sulla «questione francescana» è molto ampia e vari atti di convegni, sintesi e studi particolari sono stati dedicati all’argomento, in maniera più ampia a

8 Vi sono varie edizione delle fonti francescane, quella complessiva (compresi

gli scritti di Francesco e di Chiara d’Assisi), che riproduce precedenti edizioni critiche con nuove introduzioni ma senza riportarne gli apparati, è Fontes Franciscani, a c. di E. Menestò e S. Brufani et alii, S. Maria degli Angeli-Assisi 1995. Eviterò di rinviare alle pp., indicando soltanto capitoli o paragrafi che si possono trovare con la stessa numerazione nelle varie edizioni latine o traduzioni italiane (la più recente: Fonti francescane. Nuova edizione, a cura di E. Caroli, Padova 2004, anche questa con varie introduzioni).

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partire dal 19739. D’altronde, essendo tale questione direttamente collegata all’uso delle fonti, ogni storico che voglia confrontarsi con Francesco d’Assisi non può non averne approfondita conoscenza. Oggi – pur nelle diversità che arricchiscono la discussione storiografica – vi sono punti metodologici di base che avvicinano la comunità dei francescanisti, primo fra tutti il criterio – indicato, come si è detto, già dal Sabatier alla fine del sec. XIX - di partire dagli scritti di Francesco, che non sono molti, ma sono significativi; si accompagna a questo il lavoro di decodificazione delle fonti agiografiche, cioè il tentativo critico di saper leggere al di là della superficie dei singoli autori, collocando la loro trattazione all’interno dei loro schemi mentali, culturali, ideologici10.

Sull’abito abbiamo la possibilità di confrontare i primi agiografi

con gli scritti di Francesco; le biografie poi (non gli scritti del Santo) sono particolarmente interessanti proprio per un momento particolare, quello della scelta dell’abito, che può configurarsi anche

9 Mi limito a ricordare il primo dei convegni della rinata Società Internazionale

di Studi Francescani (fondata all’inizio del sec. XX anch’essa dal Sabatier): La «questione francescana» dal Sabatier ad oggi. Atti del I Convegno internazionale (Assisi, 18-20 ottobre 1973), Assisi 1974; e due libri recenti: J. Dalarun, La Malavventura di Francesco d’Assisi. Per un uso storico delle leggende francescane, Milano 1996; F. Accrocca, «Viveva ad Assisi un uomo di nome Francesco». Un’introduzione alle fonti biografiche di san Francesco, Padova 2005. V. anche l’ampio lavoro di F. Uribe, Introducción a las hagiografías de san Francisco y santa Clara de Asís (siglos XIII y XIV), Murcia 1999, traduz. italiana: Introduzione alle fonti agiografiche di san Francesco e santa Chiara d’Assisi (secc. XIII-XIV), Assisi – S. Maria degli Angeli 2002.

10 Particolarmente significativi R. Manselli, Nos qui cum eo fuimus. Contributo alla questione francescana, Roma 1980, e G. Miccoli, Francesco d’Assisi. Realtà e memoria, cit. Sui rapporti tra la metodologia di questi due storici v. F. Accrocca, Francesco e le sue immagini. Momemti della evoluzione della coscienza storica dei frati Minori (secoli XIII-XIV), Padova 1997, con la Postfazione di J. Dalarun (pp. 233-252) e la mia recensione in «Archivum Franciscanum Historicum» 92 (1999), pp. 423-427.

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come un cambio11. In quest’ultimo caso il passaggio verrebbe a identificarsi con quello della scelta vocazionale definitiva di Francesco (anche se la sua vita è stata un succedersi di conversioni e adattamenti, per cui il termine definitivo va preso davvero in senso relativo). Il confronto tra gli agiografi deve tener conto che in questo passaggio probabilmente ci si trova di fronte a due diverse forme dello stesso episodio, per cui i racconti non dovrebbero essere giustapposti. Tuttavia, ciò è meno importante ai nostri fini, relativi a comprendere le motivazioni della scelta dell’abito12. Mentre sono molto utili alcune tuniche di Francesco conservate come reliquie13, non

11 Si è soffermato in particolare sul cambio dell’abito e sul suo significato per la

vocazione di Francesco Th. Desbonnets, Dalla intuzione alla istituzione. I francescani, Milano 1986, pp. 11-27 (ed. or. De l’intuition à l’institution, Paris 1983). Sull’abito francescano vi sono alcuni studi ed interventi, ma di solito si concentrano su quello ormai codificato o oggetto di contrasto tra le diverse correnti minoritiche, come S. Gieben, Per la storia dell’abito francescano, in «Collectanea Franciscana» 66 (1996), pp. 431-478; E. Boaga, L’abito degli Ordini mendicanti, in La sostanza dell’effimero, cit., pp. 97-101. Sintetico ma corretto (per lo più sulla linea del Desbonnets, op. cit.) G. Rocca, L’abito di s. Francesco d’Assisi, paragrafi a-c, in La sostanza dell’effimero, cit., pp. 319-321, con utili indicazioni bibliografiche, alle quali possono aggiungersi B. Bruni, La rozza tonaca, in «Frate Francesco» 1 (1924), pp. 307-312, e B. Mariani, Un documento di Vallombrosa sull’abito di san Francesco e dei francescani, «Frate Francesco» 50 (1983), pp. 95-99; quest’ultimo però non risulta utile.

12 In questa breve analisi dell’abito di Francesco prendo in considerazione – oltre agli scritti del Santo - soprattutto le due Vite di Tommaso da Celano, il De inceptione (Anonymus Perusinus), la Legenda trium sociorum e la Legenda antiqua Perusina (Compilatio Assisiensis), cioè le opere più antiche, mentre non è utile, a mio avviso, quanto scrive più tardi Bonaventura nella Legenda maior (né, per una rapida trattazione, Giuliano da Spira, sul quale peraltro vi sono pochi studi). Ho usato più o meno gli stessi criteri nel mio Sorores alaudae. Francesco d’Assisi, il creato, gli animali, S. Maria degli Angeli-Assisi 1989 (Collectio Assisiensis, 16), cui rinvio per una comprensione più ampia delle mie posizioni storiografiche in ambito francescanistico.

13 V. la riproduzione fotografica e l’analisi in G. Rocca, L’abito di s. Francesco d’Assisi, cit., pp. 319-320.

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possono offrire il loro apporto le fonti iconografiche – che negli ultimi tempi hanno mostrato tutta la loro potenzialità14 - perché posteriori alla canonizzazione di Francesco e contemporanee ai momenti della rapida istituzionalizzazione dell’Ordine e della sua clericalizzazione15, che non poterono non avere ripercussioni proprio sull’abito e sulla sua rappresentazione nelle immagini. Tuttavia la mancanza di indicazioni precise sulla sua forma nelle regole francescane e la storia stessa dell’Ordine fanno rimanere a lungo una certa elasticità: se nel 1240 Gregorio IX interviene per difendere la specificità dell’abito minoritico, col divieto per altre congregazioni di imitarlo, ancora Benedetto XI (1303-1304) non dà norme sulla forma della tunica francescana, rinviando alle decisioni dell’Ordine nelle sue Costituzioni16.

Il primo a trattare dell’abito di Francesco è Tommaso da Celano,

agiografo ufficiale su commissione del papa Gregorio IX nonché primo biografo del santo, nella Vita beati Francisci, che nella tradizione successiva sarà detta Vita prima17. Lo schema del suo racconto può essere preso come base per la nostra esposizione. L’abito scandisce tutte le tappe della conversione di Francesco. Portato dal padre in giudizio davanti al vescovo, il santo rinuncia a tutti i suoi beni restituendo tutto a Pietro di Bernardone e spogliandosi totalmente, anche delle mutande, sicché Guido I lo copre con il suo pallium (da intendersi in questo caso come manto). Rifiutati gli abiti del secolo,

14 C. Frugoni, Francesco, un’altra storia, Genova 1988; K. Krüger, Un santo da guardare: l’immagine di san Francesco nelle tavole del Duecento, in Francesco d’Assisi e il primo secolo di storia francescana, cit., pp. 145-161.

15 G. G. Merlo, Nel nome di san Francesco, cit., passim, parla di sacerdotalizzazione ed intitola il cap. III L’istituzionalizzazione delle metamorfosi, p. 135.

16 E. Boaga, L’abito degli Ordini mendicanti, cit., pp. 100 e 97-98. 17 Il più recente ed aggiornato studio è opera di R. Michetti, Tommaso da Celano

e il paradosso della minoritas. La Vita beati Francisci di Tommaso da Celano, Roma 2004 (Nuovi Studi Storici, 66).

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Francesco si allontana da Assisi «cum semicinctiis involutus» (avvolto con dei cenci), giunto ad un monastero, vi si trattiene qualche giorno coperto «in sola vili camisia» (di un solo vile camiciotto), trattato male, sì che «nullum posset vel vetustum acquirere indumentum» (non poteva procurarsi nemmeno un vecchio indumento). Dovendo lasciare quel monastero per necessità, arriva a Gubbio, dove da un amico «sibi tuniculam acquisivit» (ottenne una piccola tunica, Vita prima, 16).

Fin qui gli abiti di Francesco non hanno alcuna connotazione religiosa, non sono immagine o rappresentazione di uno stato o di una scelta, se non del rifiuto dei ricchi abiti che egli portava nel secolo («Iam enim cum semicinctiis involutus pergeret, qui quondam scarulaticis utebatur…»18). Va notato che Tommaso da Celano, oltre ad essere l’agiografo ufficiale, è anche un frate con formazione letteraria e teologica di tipo tradizionale, quindi non è sospetto se presenta degli abiti non classificabili in schemi canonici. Successivamente, secondo il suo racconto, tornato ad Assisi, Francesco si diede all’assistenza dei lebbrosi ed al restauro di chiese, attività cui nel periodo si dedicavano altre persone che rientravano tra i penitenti19. Tommaso non fa riferimento ad un abito particolare indossato dal santo, o meglio non lo descrive mentre racconta queste esperienze, limitandosi ad annotare «mutato habitu»; ma dirà poco più avanti che Francesco passò ad indossare «quasi eremiticum… habitum» (Vita prima, 21). Fino a questo momento sembra che Francesco non abbia ancora avuto un contatto forte e decisivo con la parola del Vangelo.

Interea sanctus Dei, mutato habitu et praedicta ecclesia reparata, migravit ad locum alium iuxta civitatem Assisii, in

18 «Si incammina ormai avvolto in cenci, chi un tempo si serviva di [abiti]

scarlatti», Vita prima, 16. Tutte le traduzioni sono dovute a me, ho cercato di discostarmi meno possibile dal testo latino, in modo da far intendere il più direttamente possibile le parole dei vari autori citati.

19 G. G. Merlo, Tra eremo e città. Studi su Francesco d’Assisi e sul francescanesimo medievale, S. Maria degli Angeli-Assisi 1991.

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quo ecclesiam quamdam dirutam et propemodum eversam reaedificare incipiens, a bono principio non destitit quousque ad perfectum adduceret universa. – Inde vero ad alium se transtulit locum, qui Portiuncula noncupatur, in quo ecclesia beatae Virginis matris Dei antiquitus constructa exstiterat, sed deserta tunc a nemine curabatur. Quam cum sanctus Dei cerneret sic destructam, pietate commotus, quia devotione fervebat erga totius bonitatis matrem, coepit ibidem assiduus commorari. – Factum est autem, cum iam dictam ecclesiam reparasset, conversionis eius annus tertius agebatur. Quo in tempore quasi eremiticum ferens habitum, accinctus corrigia et baculum manu gestans, calceatis pedibus incedebat.20

Tre anni sono trascorsi in varie esperienze, si è dunque attorno al

1209, Francesco è un penitente che indossa un abito con tutti i segni del suo status quasi eremitico: una cinta di cuoio, un bastone e le calzature. Si trattava di una condizione non certo di privilegio, ma rispettata dai fedeli; quest’abito in qualche modo costituiva un piccolo segno di distinzione. Non sappiamo se questa notizia sia stata elaborata da Tommaso per attribuire un qualche status a Francesco all’inizio della sua conversione, poiché le fonti che la riprenderanno dipendono tutte dal Celanese. In ogni caso la Vita prima pone subito il superamento di questo abito, con una scelta del tutto diversa:

20 «Frattanto il santo di Dio, cambiato l’abito e riparata la predetta chiesa [di S. Damiano], si trasferì ad un altro luogo presso la città di Assisi, nel quale cominciando a ricostruire una chiesa distrutta e quasi scomparsa, non abbandonò il buon principio finché non avesse portato tutto a compimento. - Da lì si portò ad un altro luogo, che si chiama Porziuncola, nel quale era stata costruita in antico una chiesa della beata Vergine madre di Dio, ma allora, deserta, non veniva curata da nessuno. Quando il santo di Dio la vide così distrutta, mosso da pietà, perché era fervente di devozione verso la madre di tutta la bontà, cominciò a risiedere continuamente lì. Avvenne così che, dopo aver riparato questa chiesa, correva il terzo anno della sua conversione. In quel tempo, portando un abito quasi eremitico, con una cintura di cuoio ed un bastone in mano, camminava con i piedi calzati», Vita prima, 21.

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Sed cum die quadam Evangelium, qualiter Dominus miserit discipulos suos ad praedicandum, in eadem ecclesia legeretur et sanctus Dei assistens ibidem utcumque verba evangelica intellexisset, celebratis missarum solemniis, a sacerdote sibi exponi evangelium suppliciter postulavit. – Qui cum ei cuncta per ordinem enarrasset, audiens sanctus Franciscus Christi discipulos non debere aurum sive argentum seu pecuniam possidere, non peram, non sacculum, non panem, non virgam in via portare, non calceamenta, non duas tunicas habere, sed regnum Dei et poenitentiam praedicare21, continuo exsultans in spiritu Dei22: «Hoc est, inquit, quod volo, hoc est quod quaero, hoc totis medullis cordis facere concupisco». Festinat proinde pater sanctus, superabundans gaudio23, ad impletionem salutaris auditus, nec moram patitur aliquam praeterire quin operari devotus incipiat quod audivit. Solvit protinus calceamenta de pedibus, baculum deponit e manibus et, tunica una contentus, pro corrigia funiculum immutavit. Parat sibi ex tunc tunicam crucis imaginem praeferentem, ut in ea propulset omnes daemoniacas phantasias: parat asperrimam, ut carnem in ea crucifigat cum vitiis24 et peccatis; parat inde pauperrimam et incultam et quae a mundo nullatenus valeat concupisci. Caetera vero quae audierat, summa cum diligentia, summa cum reverentia facere gestiebat. Non enim fuerat Evangelii surdus auditor, sed laudabili memoriae quae audierat cuncta commendans, ad litteram diligenter implere curabat25.

21 Si tratta di riferimenti incrociati a Mt. 10, 9-10, Mc. 6, 8 e 12, Lc. 9, 2 - 10, 4.

Sono stati fatti vari tentativi per individuare il giorno in cui nella liturgia vi erano simili letture, ma la pluralità dei vangeli citati non permette tale individuazione.

22 Cfr. 1 Cor. 12, 3. 23 Cfr. 2 Cor. 7, 4. 24 Gal. 5, 24. 25 «Ma quando un giorno in questa stessa chiesa si leggeva il Vangelo, come il

Signore mandò i suoi discepoli a predicare, ed il Santo di Dio, assistendo, aveva capito comunque le parole evangeliche, terminata la celebrazione delle solennità della messa, chiese supplichevolvente al sacerdote di spiegargli il vangelo.

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Francesco dunque – secondo Tommaso - si rende conto di indossare un abito in qualche modo religioso e vi rinuncia, abbandonando tutti i segni di distinzione a favore di un abito anonimo quanto ad appartenenza. Il cambio corrisponde ad un passaggio vocazionale: dal penitente al discepolo che attua la sequela Christi nella povertà; si dice spesso che qui Francesco scelga la predicaziore, ma ciò si può dedurre debolmente da questo brano, solo dal riferimento evangelico alla predicazione della poenitentia; quello indossato non è un abito-divisa che – come il precedente era legato all’esperienza eremitica – sia segno della nuova missione della predicazione, quanto un abito che attualizza le indicazioni del Vangelo per l’abbigliamento; non un’attuazione alla lettera, poiché il vangelo non parla di evitare una cintura di cuoio né dice che la tunica debba essere consunta: Francesco infatti – contrariamente a quanto scrive Tommaso in conclusione («ad litteram diligenter implere

Avendogli costui spiegato tutto in ordine, udendo san Francesco che i discepoli di Cristo non devono possedere né oro o argento o denaro, non portare per via borsa, non bisaccia, non pane, non bastone, non avere calzari, non due tuniche, ma predicare il Regno di Dio e la penitenza [o conversione] (Mt 10,7-10; Mc 6, 8-9; Lc 9,1-6), subito, esultando nello spirito di Dio, disse: «Questo è ciò che voglio, questo è ciò che cerco, questo bramo di fare con tutte le fibre del cuore. S’affretta allora il padre santo, sovrabbondando di gioia, a realizzare l’annuncio di salvezza e non sopporta che alcun indugio gli faccia tralasciare di cominciare a compiere fedelmente quanto ha sentito. Immediatamente scioglie dai piedi i calzari, depone dalle mani il bastone e, contento di una sola tunica, sostituisce la cintura con una corda. Da allora si prepara una tunica che presenta l’immagine della croce, perché in essa tenga lontane tutte le tentazioni del demonio: la fa rmolto ruvida, perché in essa crocifigga la carne con i vizi (Gal 5,24) e i peccati; la fa poi poverissima e senza cura e tale che in nessun modo possa essere desiderata dal mondo. Con somma cura, con somma riverenza era impaziente di fare le altre cose che aveva udito. Egli infatti non era mai stato un ascoltatore sordo del Vangelo, ma, affidando ad una encomiabile memoria tutto quello che ascoltava, si preoccupava di adempirlo diligentemente alla lettera», Vita prima 22.

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curabat») – intende lo spirito del Vangelo26, capisce di dover indossare un abito del tutto simile a quello dei poveri del suo tempo (come mostra, ad es., l’uso di una corda per cintura), per essere credibile ai loro occhi. Tommaso sottolinea il richiamo alla croce27, non soltanto però nella forma dell’abito (sulla quale non si sofferma), ma nella sua consistenza: asperrima e poverissima, offrendone un’interpretazione di morale individuale ascetica.

Dicevo sopra che esiste una seconda versione della scelta vocazionale, offerta dal De inceptione (o Anonymus Perusinus), opera composta da un frate (probabilmente di nome Giovanni, compagno di frate Egidio, tra i primi seguaci del Santo) attorno al 1240: qui non si accenna al cambio di abito, anzi in precedenza l’autore, invece di fare riferimento ad un abito quasi eremitico, scrive che Francesco, dopo aver rinunciato agli averi ed essere rimasto nudo sotto la pelliccia del vescovo, tornò a San Damiano «indutus veste vilissima et despecta» (8 c, rivestito di una veste vilissima e spregevole); e ribadisce: «Nudis pedibus ambulans, contemptibili habitu indutus erat, zona quoque vilissima cingebatur» (9 a, camminando a piedi nudi, era vestito di un abito disprezzabile ed era cinto da una cintura anch’essa vilissima). Il

26 A. Marini, “Vestigia Christi sequi” o “imitatio Christi”. Due differenti modi di

intendere la vita evangelica di Francesco d’Assisi, «Collectanea Franciscana» 64 (1994), pp. 89-119; Id., Dalla sequela alla conformitas. Una ricerca su fonti francescane, «Franciscana» 7 (2005), pp. 69-87.

27 Bruni, La rozza tonaca, cit., p. 308, nota che «gli eremiti solevano indossare vestimenta a forma di croce, di cui abbiamo tuttavia il modello tipico nel caratteristico abito dei monaci certosini». A p. 210 Bruni ricorda una tonaca non rozza, ma «linda e ben confezionata», tessuta per Francesco dalle monache di S. Severino Marche, con la lana di una pecorella portata loro dal santo. Però nella Vita prima di Tommaso da Celano, 78, non si dice che Francesco la indossasse, ma solo: «Quam [tunicam] cum magna reverentia et animi exultatione sanctus Dei suscipiens et amplexans, deosculabatur eam, omnes invitans ad tantum gaudium circumstantes» («il santo di Dio, prendendola ed abbracciandola con grande riverenza ed esultanza d’animo, la baciava, invitando a tanta gioia tutte le persone intorno»).

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vangelo non viene ascoltato casualmente durante una messa, ma assistiamo ad un’iniziativa di Francesco: quando si trova - senza volerlo - due seguaci, egli ricorre all’uso popolare delle sortes apostolorum, aprendo tre volte il Vangelo per riceverne indicazioni. Rimane la figura del sacerdote presente all’azione e quale mediatore, probabilmente non soltanto linguistico nelle intenzioni dell’autore.

Videntes autem haec et audientes duo viri de civitate illa, visitatione divinae gratiae inspirati, ad eum humiliter accesserunt. Unus ex iis fuit fratet Bernardus et alius frater Petrus. Et dixerunt ei simpliciter: «Volumus esse tecum de cetero et facere quae tu facis. Dic ergo nobis quod de rebus nostris facere debeamus. Qui, de adventu et voto eorum exsultans, benigne respondit eis: «Eamus et a Domino consilium requiramus» (10 a)28.

Si recano quindi ad una chiesa di Assisi, si inginocchiano in preghiera chiedendo a Dio di mostrare la sua volontà, poi chiedono al prete di mostrar loro il Vangelo. Il libro viene aperto tre volte, le prime due si presenta Mt. 19, 21 (la risposta di Gesù al “giovane” ricco, «Si vis perfectus esse, vade et vende omnia quae habes et da pauperibus et habebis thesaurum un caelo»29) e Mt. 16, 24 («Qui vult venire post me, et cetera»), la terza lo stesso brano sulla missione in povertà che, secondo la Vita prima, Francesco avrebbe ascoltato durante la messa («Nihil tuleritis in via, et cetera», riportabile a Lc. 9, 3).

28 «Vedendo e udendo ciò, due uomini della città di Assisi, ispirati dalla visita

della grazia divina, andarono umilmente da lui. Uno di questi era frate Bernardo e l’altro frate Pietro. Gli dissero con semplicità: “Vogliamo stare con te d’ora in poi e fare quello che fai tu. Dicci dunque cosa dobbiamo fare dei nostri beni”. Egli, esultando per il loro arrivo e il loro desiderio, rispose loro affettuosamente: “Andiamo e cerchiamo consiglio dal Signore”».

29 «Se vuoi essere perfetto, va’ e vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri ed avrai un tesoro nel cielo».

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Postquam vero dicti frater Bernardus et frater Petrus, venditis facultatibus suis earum pretium (ut diximus) pauperibus erogarunt, induti sunt sicut vir Dei beatus Franciscus indutus erat et associati sunt ei (14 a)30.

L’abito è dunque importante anche per l’Anonymus Perusinus, ma fin dall’inizio esso si configura – per Francesco e per i suoi – come una veste assolutamente non di ordine religioso, tanto che la gente non sa chi siano quelle persone che passano per i villaggi esortando a temere ed amare il Signore:

Qui sunt isti et quae verba dicunt? Quidam eorum dicebant quia stulti vel ebrii videntur… Unus eorum dixit: «Propter summam perfectionem Domino adhaeserunt aut insani facti sunt, quia vita corporis eorum desperata videtur. Nudis pedibus ambulant, viles vestes induti sunt, parco cibo utentes» (16 a-b)31.

Per quanto riguarda l’aspetto (quindi la considerazione dell’abito) dei primi frati, vi è una frase ancora più significativa:

Quicumque vero videbant eos, mirabantur dicentes: «Numquam tales religiosos vidimus sic indutos». Omnibus enim aliis habitu et vita dissimiles, silvestres homines videbantur (19)32.

Poco dopo, a Firenze, due frati sono ospitati da una donna nel portico della casa, presso il forno, ma il marito, tornando, apostrofa la

30 «Dopo che i suddetti frate [o fratello] Bernardo e frate Pietro, venduti i loro

averi distribuirono il ricavato ai poveri (come abbiamo detto), si vestirono come era vestito l’uomo di Dio beato Francesco e si unirono a lui».

31 «”Chi sono questi e che parole dicono?”. Alcuni di loro dicevano che sembravano matti o ubriachi… uno di loro disse: “Per l’estrema perfezione si unirono a Dio o diventarono insani, perché la vita del loro corpo sembra disperata. Camminano a piedi nudi, indossano vesti vili, mangiando scarso cibo”».

32 «Chiunque li vedeva, si meravigliava dicendo: “Non abbiamo mai visto religiosi simili così vestiti”. Infatti, dissimili da tutti gli altri nell’abito e nella vita, sembravano uomini selvaggi».

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moglie: «Quare ribaldis istis hospitium contulisti?» (perché hai dato ospitalità a questi malfattori?). La donna non manifesta un’opinione molto migliore dei due vestiti come «ribaldi», ritenendo che, certo, potrebbero anche essere dei ladri: «Ego eos in domo nolui hospitari, sed extra in porticu iacere permisi, nec inde nobis possent aliquid furari, nisi forte ligna» (20 c)33. La mattina dopo si meraviglia di trovarli in chiesa, ma ancora di più si meraviglia del fatto che essi rifiutano il denaro offerto loro da un certo Guido, che «pauperibus quos inveniebat elemosinas tribuebat» (21 b, distribuiva elemosine ai poveri che trovava). Dunque i due frati indossano lo stesso abito dei poveri, senza alcuna distinzione “religiosa”. L’abito non riveste alcuna sacralità, se può essere smembrato per l’unico fine “sacro”, i poveri:

Quando autem ibant per viam et pauperes sibi petentes inveniebant, aliqui ex ipsis, non habentes aliud quod praeberent, de vestimentis suis aliquid pauperibus erogabant. Quidam enim eorum caputium divisit a tunica et pauperi petenti tribuit; alius quoque manicam separavit et dedit; alii vero partem aliquam aliam de tunica sua dabant, ut verbum illud evangelicum observarent: Omni petenti te tribue34 (28 a).

Dopo di ciò, l’Anonymus narra l’approvazione dei Minori da parte di Innocenzo III (1209) e poi lo sviluppo dell’Ordine, con la costituzione delle province (1217) e l’approvazione della regola da parte di Onorio III (1223). Ma non parla più dell’abito, cioè non delinea alcuna sua evoluzione dal non-abito dei primi anni all’abito religioso.

33 «Io non li ho voluti ospitare in casa, ma ho permesso loro di stendersi fuori,

nel portico, perché da lì non possano rubarci niente, se non casomai la legna». 34 Lc. 6, 30. «Quando poi andavano per via e trovavano dei poveri che

chiedevano loro, alcuni di loro, non avendo altro da offrire, davano ai poveri qualcosa dei loro abiti. Uno di loro infatti staccò il cappuccio dalla tunica e lo diede ad un povero che chiedeva, anche un altro separò la manica e la diede; altri davano un’altra parte della loro tunica, per osservare quella parola del Vangelo: Da’ a chiunque ti chiede».

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Capitolo 2 50

La Legenda trium Sociorum, opera del 1246 attribuibile ad autore assisano normalmente ben a conoscenza degli avvenimenti35 e forse in rapporto con compagni del Santo, giustappone i due episodi della Vita prima e dell’Anonymus Perusinus, lasciandoci l’interrogativo se si tratti soltanto di operazione letteraria che pone insieme due fonti che narrano in forme diverse lo stesso episodio o se invece si tratti davvero di due momenti diversi, benché simili, il primo (25) riguardante la scelta vocazionale personale36, col conseguente cambio di abito, il secondo (28-29) riguardante la scelta di quella che è diventata una piccola comunità di tre persone. La novità, rispetto all’Anonymus Perusinus, è che Francesco prende da solo il libro chiuso dei Vangeli, nessun prete compare nell’episodio. Per quanto riguarda l’aspetto (quindi la considerazione dell’abito) dei primi frati, torna la significativa notazione di An. Per. 19:

Quicumque autem eos videbant, plurimum mirabantur eo quod habitu et vita dissimiles erant omnibus et quasi silvestres homines videbantur (37)37.

35 Ad esempio è l’unica fonte che – correttamente – pone la prima denuncia del

padre di Francesco contro il figlio ai consoli della città; sono questi che, saputo che Francesco è un penitente e come tale sotto la protezione ecclesiastica, rinviano il padre al tribunale del vescovo (19).

36 Fin dall’inizio del par. 21, in maniera più chiara della Vita prima, l’autore scrive: «Revertensque ad ecclesiam Sancti Damiani gaudens et fervens, fecit sibi quasi heremiticum habitum» (ritornando alla chiesa di San Damiano con gioia e fervore, si fece un abito quasi eremitico). Poi ribadisce (25): «Beatus… Franciscus, ecclesiae Sancti Damiani perfecto iam opere, habitum heremiticum portabat, baculumque manu gestans pedibus calciatis et cinctus corrigia incedebat» (Il beato Francesco, completata l’opera della chiesa di San Damiano, portava un abito eremitico e camminava tenendo in mano un bastone, con i piedi calzati e cinto di una cintura di cuoio). Segue l’episodio dell’ascolto del vangelo «inter missarum solemnia» ed il cambio dell’abito.

37 «Chiunque li vedeva, si meravigliava moltissimo, perché erano dissimili da tutti nell’abito e nella vita e sembravano quasi uomini selvaggi». Nella Leg. 3 Soc. si ritrovano anche gli episodi di An. Per. 20 c – 21 b (38-39) e 28 a (44).

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Nella Vita secunda 15 (più correttamente Memoriale in desiderio animae) del 1247 Tommaso riporterà soltanto quest’episodio della triplice apertura del Vangelo da parte di Francesco insieme a Bernardo: Pietro è omesso, così come la presenza del prete. Non compare alcun riferimento all’abito, ma ciò non risolve il nostro dubbio sull’identità o la diversità dei due racconti, poiché ormai gli studiosi sono d’accordo nel considerare la Vita secunda come integrazione della Vita prima e non come una sua sostituzione: quindi l’episodio dell’ascolto del vangelo durante la messa e del conseguente cambio di abito non aveva bisogno di essere ripetuto e la sua omissione non significa correzione da parte di Tommaso.

Cosa ci dicono gli scritti del santo? Dell’abito ci parlano tre delle sue opere più importanti ai fini documentari: il Testamentum e le due Regole. Nel Testamento Francesco è chiarissimo: i primi compagni vivevano una vita di estrema povertà seguendo formam sancti evangelii, rivelata al santo direttamente da Dio.

Et illi qui veniebant ad recipiendam vitam, omnia que habere poterant dabant pauperibus et erant contenti tunica una intus et foris repeciata cum cingulo et brachis: et nolebamus plus habere (16-17)38.

Qui il testo è chiaro, a mio avviso, anche sul senso dell’abito: nessuno indossa un abito religioso, ma soltanto una tunica rammendata, o meglio rappezzata, con i buchi e le parti lese ricoperte con toppe, con pezze. Era l’abito dei poveri, di quanti cercavano lavoro a giornata, esattamente come i frati della prima comunità, come ribadisce ancora Francesco:

Et ego manibus meis laborabam et volo laborare (20)39.

38 «E quelli che venivano ad abbracciare la vita, davano ai poveri tutto ciò che

potevano avere ed erano contenti di una sola tunica rappezzata dentro e fuori, col cingolo e con le brache: e non volevamo avere di più».

39 «Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare».

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Capitolo 2 52

Le tuniche di Francesco conservate come reliquie dalla tradizione – prima fra tutte quella del Sacro Convento di Assisi – si presentano proprio secondo questa indicazione.

In questo brano del Testamento Francesco usa i verbi all’imperfetto: col passare degli anni e l’espandersi della fraternitas l’abito minoritico rimase un abito non religioso? Non mi pare vi siano testimonianze esplicite su ciò per il periodo 1210-122640; le due regole, sia quella non bullata del 1221 (quindi respinta dalla Curia Romana) sia quella approvata con bolla da Onorio III nel 1223 trattano dell’abito dando indicazioni più precise sul numero di tuniche, sul cappuccio e sui calzari, ma in linea generale prevale una presentazione simile a quella del Testamentum, rivelando una fedeltà sostanziale di Francesco alla sua visione anche nella scelta dell’abito (entrambe le regole sono precedenti al Testamento). I frati che hanno superato l’anno probationis ed hanno promesso obbedienza:

habeant unam tunicam cum caputio et aliam sine caputio si necesse fuerit et cingulum et bracas. Et omnes fratres vilibus vestibus induantur et possint ea repeciare de saccis et aliis peciis cum benedictione Dei… (Regula non bullata, cap. II, De receptione et vestimentis fratrum, 13-14)41;

habeant unam tunicam cum caputio et aliam sine caputio qui voluerint habere. Et qui necessitate coguntur possint portare calciamenta. Et fratres omnes vestimentis vilibus induantur et possint ea repeciare de saccis et aliis peciis cum benedictione Dei (Regula bullata, cap. II, De his qui volunt vitam istam accipere et qualiter recipi debeant, 14-16)42.

40 Non trattano di ciò gli studi sull’abito cit. sopra. 41 «abbiano una sola tunica col cappuccio ed un’altra senza cappuccio, se sarà

necessario, e il cingolo e le brache. E tutti i frati si vestano di vesti vili e possano rappezzarle di sacco ed altre pezze con la benedizione di Dio».

42 «abbiano una sola tunica col cappuccio ed un’altra senza cappuccio, quelli che la vorranno avere. E quanti sono costretti da necessità possano portare i

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Rimane quindi la sottolineatura di un abito sostanzialmente povero, rammendato e rappezzato, con la benedizione di Dio, con scarsa attenzione all’aspetto di uniformità di un abito religioso tradizionale.

Una delle fonti più precoci sul francescanesimo dei primi anni è

costituita da un’eccezionale testimone esterno all’Ordine, Jacques da Vitry, che, dopo aver conosciuto e seguito l’esperienza di alcune beghine nelle Fiandre, venne consacrato vescovo di San Giovanni d’Acri nel 1216 e successivamente creato cardinale. Ci offre testimonianze sui Minori con una lettera ai suoi fedeli delle Fiandre nel 1216, quando scese in Italia per poi andare in Terrasanta; poco dopo anche su Francesco, visto quando nel 1219 si recò dal sultano d’Egitto durante la quinta crociata, in una lettera al papa Onorio III; qui non scrive nulla sull’abito dei frati. Probabilmente al 1221 risale la sua Historia Occidentalis43, in cui torna su Francesco ed i Minori, descrivendo in questo caso anche il loro abito, piuttosto con connotazioni negative (ciò che essi non indossano) piuttosto che positive (che caratteristiche ha):

Haec est religio vere pauperum crucifixi et ordo praedicatorum, quos Fratres Minores appellamus. Vere minores, et omnibus huius temporis regularibus in habitu et nuditate et mundi contemptu humiliores44.

calzari. E tutti i frati si vestano di vestiti vili e possano rappezzarli di sacco ed altre pezze con la benedizione di Dio».

43 Historia Occidentalis, libro II, cap. 32; l’edizione critica è di J. F. Hinnebusch, The Historia Occidentalis of Jacques de Vitry, Fribourg 1972; cito da L. Lemmens, Testimonia minora saeculi XIII de s. Francisco Assisiensi, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1926, pp. 81-82.

44 «Questa è davvero la religione [congregazione religiosa] dei poveri del Crocifisso e l’ordine dei predicatori, che chiamiamo Frati Minori. Davvero minori

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Dopo aver indicato le loro caratteristche, proponendo i passi evangelici che abbiamo visto alla base delle scelte di Francesco (presenti soprattutto nella Regula non bullata, anteriore al 1221) ed aver sottolineato il fatto che essi non hanno monasteri, chiese, campi, vigne, animali, case o altri possessi (come sarebbe abituale, invece, per un ordine religioso), continua:

Non utuntur pellibus neque lineis, sed tantummodo tunicis laneis caputiatis, non cappis vel palliis, vel cucullis neque aliis prorsus induuntur vestimentis45.

Contribuisce a rinforzare l’interpretazione del vestito di frate Francesco come non-abito una delle fonti più interessanti, risalente anch’essa al 1246 ed anch’essa ampiamente adoperata da Tommaso nella Vita secunda: la Compilatio Assisiensis (o Legenda antiqua Perusina), con ogni probabilità opera di un gruppo di compagni molto vicini al santo, tra i quali frate Leone. Qui vi sono vari episodi nei quali Francesco dà via il suo mantello46 o le sue tuniche, a poveri o a frati che gli chiedono un ricordo (in quest’ultimo caso le scambia con essi) e vuole che l’abito sia sempre concretamente ed evidentemente povero.

Una volta incontrò due frati francesi che gli chiesero la sua tunica «amore Dei», Francesco se la tolse e la diede loro,

manens nudus per aliquam horam… Nam multotiens sustinebat multam necessitatem et tribulationem, cum daret tunicam suam vel partem alicui; quoniam non poterat tam cito reinvenire vel facere fieri aliam, maxime quia semper volebat

e più umili di tutti i regolari [appartenenti ad ordini religiosi] di questo tempo nell’abito, nella nudità e nel disprezzo del mondo».

45 «non fanno uso di vestiti di pelle o di lino, ma solo di tuniche di lana col cappuccio, non di cappe o mantelli o cocolle e non indossano affatto altri indumenti».

46 Tralascio il dono varie volte fatto del mantello, di cui tratta anche la Vita secunda del Celanese, 86, 87, 88, 89.

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habere et portare pauperculam tunicam de petiis et aliquando eam volebat intus et foris repetiatam: quoniam raro aut numquam volebat habere vel portare tunicam de novo panno, sed ab aliquo fratre acquirebat tunicam suam quam per multos dies portaverat, et etiam quandoque ab uno fratre accipiebat unam partem sue tunice et ab alio alteram; interius vero propter suas multas infirmitates et frigiditates aliquando de novo panno repetiabat illam (cap. 90)47.

Unde nos qui fuimus cum beato Francisco, testimonium perhibemus de ipso, quod erat tante caritatis et pietatis in sua sanitate et infirmitate, non solum erga suos fratres, sed etiam erga pauperes sanos et infirmos, ut necessaria sui corporis, que fratres aliquando cum multa sollicitudine et devotione acquirebant, prius nobis blandiens ut non inde conturbaremur, cum multa letitia interiori et exteriori aliis exhiberet et suo corpori subtraheret, etiamsi sibi valde necessaria. Et propter hoc generalis minister et guardianus eius preceperant ei, ut nulli fratri suam tunicam daret sine eorum licentia; quoniam fratres propter devotionem quam habebant in ipso, aliquando petebant sibi et ipse statim dabat eis, vel ipsemet, cum videret aliquem fratrem infirmitium vel male vestitum, aliquando dabat ei tunicam, aliquando dividebat eam et partem dabat partemque sibi retinebat, quoniam non portabat nec volebat habere nisi tunicam unam (cap. 89)48.

47 Il contenuto di questo brano è ripreso nella Vita secunda 181. 48 «rimanendo nudo per circa un’ora… Infatti molte volte sosteneva grande

necessità e tribolazione, quando dava la sua tunica o una parte a qualcuno; perché non poteva tanto presto ritrovare o farne fare un’altra, soprattutto perché voleva sempra avere e portare una povera tunica di pezze e talvolta la voleva dentro e fuori rappezzata; poiché raramente o mai voleva avere o portare una tunica di panno nuovo, ma da qualche frate prendeva la sua tunica che aveva portato per molti giorni, e talvolta prendeva anche da un frate una parte della sua tunica e da un altro un’altra; dentro, ogni tanto, a causa delle sue molte malattie e per il freddo la rappezzava di panno nuovo (cap. 90). Noi che fummo col beato Francesco diamo su di lui la testimonianza, che era di tanta carità e pietà nella sua salute e

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Capitolo 2 56

Anche in un altro capitolo (91) i compagni raccontano che Francesco cercò di tagliare un pezzo della sua tunica per darlo ad un povero (episodio ripreso dalla Vita secunda 196).

Ma un’altra informazione della Compilatio Assisiensis sembra dirci

qualcosa di più: nei primissimi tempi i frati – almeno a volte - mantenevano ancora l’abito secolare, che quindi non doveva sembrare poi tanto dissimile nel significato dalle rozze tuniche degli altri, nel senso che nessuno indossava un abito “religioso”. Il caso raccontato riguarda una sola persona, ma potrebbe essere indicativo di un uso non isolato, soprattutto se letto insieme alle altre fonti qui presentate:

Quodam tempore in primordio religionis, cum maneret apud Rigum Tortum cum duobus fratribus quos tunc tantum habebat, ecce quidam, qui fuit tertius frater, venit de seculo ad recipiendam vitam eius. Et factum est, dum sic maneret per aliquos dies indutus pannis quos de seculo apportaverat, accidit ut quidam pauperculus veniret ad locum illum querens helemosinam beato Francisco. Beatus Franciscus dixit illi, qui fuit tertius frater: «Da fratri pauperi mantellum tuum». Et

nella sua malattia, non solo verso i suoi frati, ma anche verso i poveri sani e malati, che con molta letizia interiore ed esteriore offriva ad altri le cose necessarie al suo corpo, che a volte i frati procuravano con molta sollecitudine e devozione, sottraendole al suo corpo anche se a lui fortemente necessarie, prima blandendoci perché non ce ne turbassimo. E perciò il ministro generale ed il suo guardiano gli avevano comandato di non dare a nessun frate la sua tunica senza loro permesso; infatti i frati per la devozione che avevano verso di lui, talvolta glie la chiedevano e lui subito la dava loro, o lui stesso, quando vedeva qualche frate malaticcio o vestito male, a volte gli dava la tunica, a volte la divideva e una parte la dava e una parte la teneva per sé, perché non portava né voleva avere se non una sola tunica» (cap. 89).

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statim cum magna letitia tulit illum de dorso suo et dedit illi (cap. 92)49.

Resta dunque una domanda da farsi sull’abito quasi eremiticum di

cui parla Tommaso da Celano ed ignoto all’Anonymus Perusinus: si tratta di una “invenzione” oppure davvero il cambio d’abito iniziale segnò una nuova consapevolezza di Francesco, che lo spinse a rifiutare per sé e per i suoi compagni un abito religioso e dai connotati precisi ed uniformi, se si esclude l’esigenza anche esteriore di povertà? Tale consapevolezza risale all’origine dell’esperienza di Francesco o sopravviene dopo una prima esperienza eremitico-penitenziale, a causa dell’ascolto del Vangelo durante una messa? Si tratta comunque di una consapevolezza che non mi sembra si possa negare e quindi la questione verte su dettagli narrativi e cronologici.

La nostra lettura dell’abito di Francesco d’Assisi offre un ulteriore esempio del rapporto assolutamente libero che l’Assisiate aveva con le realtà giuridiche e della sua concretissima esigenza di autenticità evangelica. Rimane da vedere quanto, in relazione all’abito, dicono le fonti sulla morte del Santo. Su questo momento sono state tramandate varie notizie, che possono anche richiamare la tradizione agiografica sulla morte del fondatore di un ordine religioso50. Tommaso da Celano nella Vita secunda 214-215 scrive tra l’altro:

49 «Un certo giorno ai primordi della religione, quando stava presso Rivotorto

con i due frati soltanto che allora aveva, ecco che venne dal secolo ad abbracciare la sua vita uno che fu il terzo frate. E avvenne che, mentre per alcuni giorni restava così vestito dei panni che si era portato dal secolo, capitò che venisse a quel luogo un poveretto chiedendo l’elemosina al beato Francesco. Il beato Francesco disse a quello che fu il terzo frate: “Da’ il tuo mantello al fratello povero”. E subito con grande letizia lo prese dalla sua spalla e glie lo diede».

50 J. Dalarun, La mort des saints fondateurs, de Martin à François, in Les fonctions des saints dans le monde occidental (IIIe-XIIIe siècle), Roma 1991, pp. 193-215 (Collection de l’École Française de Rome, 149).

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Confectus… infirmitate illa tam gravi, quae omni languori conclusit, super nudam humum se nudum fecit deponi, ut hora illa extrema, in qua poterat adhuc hostis irasci, nudus luctaretur cum nudo51… Positus sic in terra, saccina veste deposita, faciem solito levavit ad caelum…

…guardianus eius… festinus surrexit et acceptam cum femoralibus tunicam saccinamque cappellulam, dixit ad patrem: «Tunicam istam et femoralia cum cappellula, obedientiae sanctae mandato, a me tibi accomodatam cognoveris. Sed, ut scias te nihil proprietatis in illis habere, dandi haec alicui omnem tibi aufero potestatem». Gaudet sanctus et iubilat prae letitia cordis, quoniam fidem tenuisse dominae paupertati usque in finem se videt. Fecerat enim haec omnia paupertatis zelo, ut nec habitum quidem proprium in fine vellet habere, sed quasi ab altero commodatum. Capellulam vero saccinam portarat in capite, ut cicatrices contegeret pro sanitate oculorum susceptas, cui satis necessarium erat pileum cuiusvis pretiosae lanae suavitate lenissimum52.

51 Frase della tradizione agiografica, risalente a Gregorio Magno, Homiliae in

Aevangelium, 32, 2 (cfr. Migne, Patrologia latina, 76, 1233: «Nudi cum nudo luctari debemus»).

52 «Consumato da quella infermità tanto grave, che diede fine ad ogni malattia, si fece deporre nudo sulla nuda terra, affinché in quell’ora estrema, nella quale il nemico poteva ancora adirarsi, nudo lottasse con il nudo. Posto così in terra, tolta la veste di sacco, come al solito levò la faccia al cielo. Il suo guardiano si alzò prontamente e presa una tunica con i femorali ed un cappelletto di sacco, disse al padre: “Per il comando della santa obbedienza, sappi che questa tunica e i femorali con il cappelletto ti è prestata da me. Ma, perché sappia che tu non hai alcuna proprietà su queste cose, ti tolgo ogni potere di darle ad alcuno”. Il santo gioisce e giubila per la letizia del cuore, perché vede che ha mantenuto la fedeltà alla signora povertà sino alla fine. Infatti aveva fatto tutto ciò per zelo della povertà, perché alla fine non voleva avere nemmeno l’abito proprio, ma come prestato da un altro. Portava poi sul capo il cappelletto di sacco, per coprire le cicatrici ricevute per la salute degli occhi, per la quale era più necessaria una cuffia di preziosa lana delicatissima per morbidezza».

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Sino alla fine, dunque, l’abito costituisce una sorta di problema per Francesco, che nell’estremo momento se ne vuole privare per non avere alcun possesso, tanto che il guardiano deve ricorrere al precetto dell’obbedienza e, con un escamotage, dichiarare al Santo morente che la tunica non gli appartiene e quindi non può darla a nessuno. Non compare in Francesco alcun legame con l’abito dell’Ordine, anzi poco dopo (Vita secunda 217) egli ribadisce che, almeno da morto, deve restare nudo sulla terra, chiedendo ai frati:

«Cum me videritis ad extrema perduci, sicut me nudiustertius nudum vidistis, sic me super humum exponite et per tam longum spatium iam defuncum sic iacere sinatis, quod unius milliarii tractum suaviter quis perficere posset»53.

Il racconto dei compagni nella Compilatio Assisisensis 8 è diverso, senza riferimento alla volontà di Francesco di essere deposto nudo sulla nuda terra. Il Santo ha una cara amica, la nobildonna romana Iacopa dei Settesoli (o dei Sette Sogli, in latino de Septemsoliis), alla quale tramite i frati chiede di mandargli dei dolcetti preparati da lei che gli son sempre piaciuti molto, insieme a

«pannum pro una tunica de panno religioso, qui colori cineris assimiletur, et est tamquam pannus quem faciunt monachi cistercienses54 in ultramontanis partibus55».

Venne scritta la lettera, ma “miracolosamente” frate Iacopa (come veniva chiamata da Francesco) arrivò alla Porziuncola con l’occorrente

53 «Quando mi vedrete condotto agli estremi istanti, come mi vedeste nudo tre giorni fa, così esponetemi sulla terra e lasciatemi così giacere ormai morto per un tempo così lungo che uno possa compiere senza affanno il tratto di un miglio».

54 Il riferimento – che potrebbe intendersi più facilmente come inserzione dell’autore, non appartenente alle parole di Francesco – in ogni caso ha valore solo esplicativo del tipo di colore del panno, non c’è alcuna intenzione di richiamo di un abito religioso cistercense quale abito mortuario.

55 «un panno per una tunica di panno religioso, che assomigli al colore della cenere, ed è come il panno che fanno i monaci cistercensi nelle parti ultramontane».

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che il Santo desiderava, gli ingredienti per i mortarioli (che gli preparò lei stessa) ed il

pannum morticinum, videlicet cinerei coloris, pro tunica… et de panno, quem pro tunica eius apportavit, fecerunt inde fratres tunicam sibi, cum qua sepultus fuit. Et ipsemet iussit fratribus ut deberent consuere saccum super ipsam in signum et exemplum sanctissime humilitatis et paupertatis. Et factum est sicut placuit Deo, ut in illa hebdomada, in qua venit domina Iacoba, beatus Franciscus migraverit ad Dominum56.

Un racconto diverso, dunque, nel quale Francesco anzi si preoccupa di avere un abito mortuario, color della cenere, che richiama in parte quanto Tommaso aveva scritto nella Vita prima 110:

Iussit proinde se superponi cilicio et conspargi cinere, quia terra et cinis mox erat futurus57.

Indubbiamente non si possono giustapporre, a comporre un quadro unico, notizie diverse date da fonti diverse. Qui Tommaso risente di una tradizione ascetica che gli fa introdurre anche il cilicio e parla materialmente di cenere cosparsa sul corpo di Francesco morente. Pur essendo la fonte più antica, probabilmente in questo caso risulta meno attendibile, ma è interessante notare la presenza della cenere come elemento esplicitamente dichiarato mortuario. I compagni possono essere particolarmente attendibili, perché presenti al momento della morte; l’elemento della cenere compare nel colore della tunica mortuaria che Francesco desiderava, sulla quale però si

56 «il panno mortuario, cioè di color cenere, per la tunica; e del panno che aveva

portato per la sua tunica, i frati gli fecero la tunica con la quale fu sepolto. Ed egli stesso comandò ai frati che dovessero cucire un sacco su di essa in segno ed esempio di santissima umiltà e povertà. E come piacque a Dio avvenne che in quella settimana nella quale venne la signora Iacopa, il beato Francesco migrò al Signore».

57 «Ordinò quindi che gli fosse messo sopra il cilicio e fosse cosparso di cenere, perché presto sarebbe diventato terra e cenere».

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dovette cucire la tela di sacco, per mantenere sino alla fine la povertà, insieme all’esempio. In ogni caso anche in questo racconto c’è la non sacralizzazione dell’abito religioso, tanto che Francesco avrebbe chiesto una diversa tunica, di un particolare colore che richiamasse la morte58. Anche se con le pezze cucite sopra, che abbiamo visto preoccupazione costante di Francesco sin dai primi tempi sul modello degli abiti dei poveri reali, per condizione e non per scelta, l’abito mortuario segna per l’ultima volta un cambio. Ed in ogni modo, a quale delle tre fonti si voglia dare la preferenza, mi sembra che anche nei racconti della morte, con maggiore o minore intensità, quello di Francesco si presenti come un non-abito religioso.

Alfonso Marini

Sapienza Università di Roma

58 Questo richiamo alla cenere ci riporta al primo brano citato in apertura,

quello dell’Historia del Clareno nella versione dell’anonima Vita trecentesca. Lì l’abito francescano è indicato del color della cenere per richiamare il pallore del corpo morto di Cristo. L’elemento in comune è dunque il pallore della morte, ma quella che per i compagni è una richiesta di Francesco di un abito particolare nell’estremo ed unico momento della sua morte (e che diviene nella Vita prima vera e propria cenere), agli inizi del Trecento è visto come elemento costante dell’abito francescano, divenuto fisso nei suoi elementi (o almeno in quelli indicati dal Clareno).

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Finito di stampare nel mese di luglio 2007

dal Centro Stampa Nuova Cultura, Roma

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