PROSPETTIVE DI LAVORO PASTORALE · Queste prospettive di lavoro pastorale sono state costruite...

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Santa Maria degli Angeli – Assisi, 23-26 giugno 2008 P P R R O O S S P P E E T T T T I I V V E E D D I I L L A A V V O O R R O O P P A A S S T T O O R R A A L L E E DON VITTORIO NOZZA DIRETTORE DI CARITAS I TALIANA

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Santa Maria degli Angeli – Assisi, 23-26 giugno 2008

PP RR OO SS PP EE TT TT II VV EE DD II LL AA VV OO RR OO PP AA SS TT OO RR AA LL EE

DON VITTORIO NOZZA

DIRETTORE DI CARITAS ITALIANA

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PP RR OO SS PP EE TT TT II VV EE

DD II LL AA VV OO RR OO PP AA SS TT OO RR AA LL EE

PREMESSA -1- “Un uomo scendeva da …” Lc. 10,30

NEL TEMPO E NEL TERRITORIO tempo e territorio: luoghi di grandi cambiamenti culturali e sociali

-2- “Lo vide e n’ebbe compassione …” Lc. 10,33

NELLA SOCIETÀ, I VOLTI una molteplicità di volti e storie di povertà e fragilità

-3- “… Abbi cura di lui …” Lc. 10.35

LE OPERE DI CARITÀ DELLA e NELLA CHIESA una molteplicità di opere a servizio di volti e storie povere e fragili

-4- “… Va’ e anche tu fa’ lo stesso” Lc. 10,37

IL BENE COMUNE le opere della politica a servizio della giustizia

CONCLUSIONE

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PP RR OO SS PP EE TT TT II VV EE

DD II LL AA VV OO RR OO PP AA SS TT OO RR AA LL EE

Premessa

Appare sempre più urgente assumere la fatica di individuare e di offrire strumenti per realizzare lo slancio missionario che segna i propositi delle Chiese in Italia, oggi. Al desiderio di stare con amore tra le case, di andare dentro le case, di frequentare le ordinarie relazioni tra le persone occorre dare braccia e gambe concrete. “La Chiesa è nel mondo, dentro la storia. Ogni parrocchia è presenza di Chiesa in un dato territorio …”. “… Ogni parrocchia ha senso per annunciare il Vangelo di sempre e per spezzare l’unico pane eucaristico in quel luogo, in quel momento storico, con le attese e i problemi, le fatiche e le speranze, i valori e le contraddizioni di quelle persone. In una città o in un piccolo paese, nella periferia di una grande metropoli o in una vallata di montagna la parrocchia è Chiesa che accoglie il bisogno di socialità della gente e le paure della solitudine; che fa i conti con le spinte al consumismo, i messaggi deresponsabilizzanti dei mass media, i localismi e gli individualismi” (Da questo vi riconosceranno ..., n.3 e 18). Si impone, pertanto, la necessità di moltiplicare e qualificare i luoghi di incontro con gli uomini del nostro tempo, di scoprire, sperimentare e proporre nuove forme di ascolto, osservazione e condivisione con le persone.

Un anno fa a Montecatini Terme, concludendo il 31° Convegno nazionale delle

Caritas diocesane, ci siamo detti che i processi di animazione alla testimonianza comunitaria della carità si realizzano attraverso una molteplicità di azioni che mirano a sollecitare e attivare diversi mondi e specificità locali. Queste, e tant’altre, sono le azioni comuni ai diversi ambiti d’impegno delle Caritas diocesane: dal servizio civile al laboratorio Caritas parrocchiali, dal tavolo delle politiche sociali alle progettualità 8xmille, dai centri di ascolto ai vari strumenti e luoghi dell’osservazione permanente, dai microprogetti ai grandi interventi in emergenza e sviluppo in territori internazionali, dalla difesa dei diritti alla condivisione di opere di promozione umana e sviluppo con popolazioni di altra etnia e fede religiosa. L’avvio di un centro di ascolto, la realizzazione di uno studio sulle povertà, la mappatura delle risorse presenti sul territorio, ma anche la valorizzazione della scelta di servizio civile di alcuni giovani, la proposta di sostegno economico ad un progetto di cooperazione internazionale, un centro diurno, un progetto per i rifugiati, una mensa per i senza dimora, un centro di accoglienza per donne sfruttate, la presenza nel campo rom, il comunicato per denunciare inadempienze gravi. Tutto deve essere intenzionalmente finalizzato, secondo una progettualità graduale, ad aiutare la Chiesa, il territorio e le realtà in esso presenti a costruire relazioni, a comprendere la realtà in cui si muovono, a conoscere e far conoscere risorse, fatiche ed esigenze, ad attivare le risorse presenti a partire dai bisogni, a proporre azioni e ad accompagnare percorsi per moltiplicare attenzioni, sensibilità, risposte, esperienze di giustizia e solidarietà, accompagnamento alla difesa dei diritti, ... È tempo, insomma, di lavorare per fare sì che ciò che realizziamo in termini di ascolto, osservazione, discernimento, opere non rimanga nei dossier, nei rapporti annuali, nei bilanci, ma entri nell’anima delle comunità e dei

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territori, aiutandoli a crescere a loro volta nella capacità di evangelizzare attraverso l’ascolto, l’osservazione, il discernimento e le opere.

Queste prospettive di lavoro pastorale sono state costruite tenendo presente un piccolo

passaggio dell’enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI “Il programma del cristiano - il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù - è «un cuore che vede». Questo cuore vede dove c'è bisogno di amore e agisce in modo conseguente” (DCE,31b). Camminando dentro questo programma di Gesù, del samaritano e del cristiano è possibile imbattersi in quattro incroci che ci permettono e ci impegnano a portare ad unità ed a consegnarci una prima serie di riflessioni ricavate dall’intenso cammino che come organismi pastorali Caritas abbiamo in atto, in questi anni, nelle Chiese locali e nei territori e dai numerosi contributi che ci sono stati offerti dal confronto con i relatori di questo 32° Convegno.

-1- “Un uomo scendeva da …” Lc.10,30

NEL TEMPO E NEL TERRITORIO tempo e territorio: luoghi di grandi cambiamenti culturali e sociali

Nel tempo e nei territori, dove quotidianamente si sviluppa la vita, sono in atto grandi cambiamenti culturali e sociali che mettono in risalto la presenza di vere e proprie strutture di peccato, sia culturali che sociali. Il cambiamento nel modo di vivere il tempo, con l’appiattimento sulla dimensione del presente di gran parte della nostra vita, impoverita dalla perdita del passato e quindi della memoria, ma anche del futuro e quindi della speranza. La nostra è una società impoverita di memoria e di speranza. Memoria e speranza sono invece elementi essenziali dell’esperienza cristiana. Per chiunque, ma soprattutto per chi opera nel cammino di vita di tante persone segnate da povertà, disperazione, disagio ed emarginazione, da bisogno materiale, relazionale e spirituale. Il cambiamento nell’ambito della comunicazione, della grande comunicazione – un fenomeno a tutti evidente –, ma anche della micro comunicazione, quella che lega tra loro le persone nella quotidianità. È questa una grande sfida che ci impegna a ripensare il nostro modello di comunicazione, relazione, ascolto e dialogo nel contesto quotidiano. La dimensione sempre più multiculturale della nostra società. La multiculturalità ormai ci circonda, attraverso la presenza fisica di volti nuovi, che portano dietro di sé storie, etnie, culture, religioni diverse dalla nostra e attraverso i mezzi di comunicazione, che ci permettono di entrare in contatto con i “villaggi” di tutto il mondo. Come orientarci? Come coniugare insieme accoglienza, giustizia, solidarietà, legalità, testimonianza, dialogo e annuncio? Il cambiamento radicale nel nostro rapporto con la materia. Il nostro corpo anzitutto e l’ambiente tutto intorno a noi. Entrambi sono interessati da un processo di artificialità, costruente da una parte ma anche distruttiva (distruggiamo non solo la natura, ma anche i corpi, quelli più indifesi, quelli ancora non nati, …). Come salvare e servire lo specifico umano, la dimensione personale, l’intuizione profondamente cristiana del concetto di persona, l’unità di spirito e di corpo? Crescono i segnali, sempre più consistenti e preoccupanti, a riguardo di: un diffuso bisogno e di una carenza di relazioni umane significative; forme di violenza strisciante o palese all’interno delle famiglie e dei gruppi sociali di piccola o grande entità; diffusione di criminalità organizzata e degrado di vasti territori; abdicazione di moralità e forme estreme di

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offesa alla dignità della persona (es. pedofilia, tratta di persone a scopo di sfruttamento, bullismo, ...); l’affermarsi di una marginalità che rischia di divenire strutturale quando deriva da mancanza cronica di lavoro e casa, da sfruttamento, crimine, perdita del senso e del valore della vita e delle relazioni. Inoltre preoccupante è: la caduta della coscienza sociale, come percezione dell’intreccio tra bene personale e bene comune, e conseguente rinuncia all’impegno per la città dell’uomo; il calo della tensione partecipativa, con una percezione della politica sempre più lontana dai bisogni della gente e dalla quotidianità delle esperienze; incerto cammino verso nuove impostazioni di stato sociale, col pericolo di far pagare ai più deboli la carenza di risorse e le spinte neoliberiste, nell’illusione che il mercato basti a soddisfare ogni esigenza di equità e solidarietà.

I contesti - nazionale, europeo e mondiale - mettono in risalto dei comportamenti umani negativi che, protratti e ripetuti nel tempo ed entrati nelle abitudini, si conformano come stratificazioni che danno luogo a vere e proprie strutture culturali e sociali.

Oggi, nel contesto – nazionale, europeo e mondiale - perdura l’abitudine di uccidere, cioè

di non rispettare la vita o di considerarla come una variabile dipendente da altri valori ritenuti superiori: la guerra, in tutte le sue espressioni, è la struttura che rivela il massimo di devastazione umana. Perdura l’abitudine di rubare, cioè di comportarsi in modo ingiusto e scorretto nei confronti del bene e dei beni altrui e, soprattutto, del bene e dei beni di tutti. Gli esempi possibili sono tanti, ma due bastano a rendere l’idea perché sono tratti da un’attualità che brucia: il primo attiene alla globalizzazione, cioè il processo economico che moltiplica la ricchezza del mondo, ma la distribuisce in modo talmente diseguale da accrescere l’ingiustizia e da alimentare quella che la Populorum progressio di Paolo VI chiamava “la collera dei poveri”. L’altro esempio riguarda l’inosservanza dei doveri inderogabili di solidarietà sui quali si basa ogni architettura di coesione sociale (es. l’evasione fiscale, la falsificazione dei bilanci, il vanto per tutto ciò).

Ancora nel contesto – nazionale, europeo e mondiale - di oggi perdura l’abitudine di mentire, cioè di parlare e operare non secondo verità ma secondo convenienza. Si pensi alle manipolazioni dell’informazione, alle costanti dimenticanze nei confronti di conflitti e sfruttamenti di ogni tipo, alla rappresentazione conformistica di eventi e personaggi a vantaggio di poteri o interessi costituiti. Il fenomeno è grave, molto grave. Inoltre, oggi, perdura l’abitudine di dimenticare o di negare la presenza dei poveri. E’ questo probabilmente il risultato di tutte le altre abitudini. La civiltà della ricchezza non può sopportare una convivenza sgradevole e perciò nega o tende a negare l’esistenza dei poveri, addirittura a farli sparire sotto il tappeto, a spostarli fuori dai circuiti del vivere ordinario, a fermarli in mare o ad espellerli.

Naturalmente le infestazioni prodotte da queste strutture di peccato non sono incurabili. Esistono gli antidoti educativi, culturali, sociali, economici e politici per contrastarne gli effetti e rimuoverne le cause. Ma prima occorre una seria presa di coscienza dell’esistenza e della gravità della situazione e della conseguente necessità di mettere in atto adeguati interventi correttivi in ogni campo. Sicuramente, in conseguenza delle incentivazioni privatistiche della cultura dominante, nella dimensione locale della vita comunitaria si accentuano, nella fase attuale, tendenze di chiusura autarchica e di arroccamento sociale. E così le solidarietà si accorciano sempre più, non vanno al di là di ciò che si può vedere con i propri occhi e misurare con i propri passi. Una tendenza questa, sempre più accentuata, alla recinzione dei territori.

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Un moltiplicarsi di affermazioni, di intenzioni e di decisioni che incrementano l’orientamento ad attuare una sorta di principio di indesiderabilità per chi bussa alla porta e di riconduzione generalizzata dell’immigrazione alla questione sicurezza. Pare che il vero fine di queste norme non sia tanto il contenimento degli ingressi, quanto l'interdizione dei processi di integrazione secondo un criterio dominato dalla difesa di un'identità. Qui al pacchetto sicurezza va contrapposto un pacchetto integrazione ricco di azioni capaci di far stare la diversità dentro un sentire e vivere unitario.

E’ giusto anche notare che si tratta di riflessi italiani di una perturbazione europea. Ma ciò non riduce la gravità della tendenza. Oggi crescono movimenti con venature xenofobe, non circoscritte a piccole realtà estreme, ma diffuse e confuse anche in forze moderate. Cresce anche la tensione a livello locale intorno alle Caritas diocesane e ai servizi da loro promossi ogni qualvolta esse parlano o agiscono in difesa dei diritti umani dei poveri, degli immigrati e dei diversi. A riguardo di ciò ci si deve interrogare circa i cambiamenti culturali in atto. E’ evidente che il solo appello – pur necessario – ai valori presenti nella cultura istituzionale e nel diritto internazionale (si prenda il caso dell’asilo) non sono considerati ormai valori comuni. Esistono più voci, nell’informazione, nella cultura, nelle forze politiche, che spingono a forme più o meno raffinate, di diffidenza, intolleranza, contrasto, violenza. Su questi e altri fronti (giustizia minorile, tossicodipendenze, tratta, handicap, salute mentale, carcere, usura, …) vi è la necessità di una rinnovata e alta tensione pedagogica.

-2- “Lo vide e n’ebbe compassione …” Lc.10,33

NELLA SOCIETA’, I VOLTI una molteplicità di volti e storie di povertà e fragilità

Conoscendo le molteplici espressioni di carità e solidarietà, di promozione umana e di giustizia presenti nei nostri territori, legate soprattutto alla vita ordinaria, mi limito qui ad evidenziare alcune principali situazioni di persone in situazione di povertà materiale, relazionale e di senso che possono essere colte e decifrate nei nostri territori nella misura in cui le varie espressioni della società sono presenti con molteplici azioni di attenzione, incontro, ascolto, relazione e osservazione. 2.1. Le povertà e le fragilità economiche.

L’Italia non è il posto dell’uguaglianza e nemmeno quello delle opportunità. Più di altri paesi europei, essa presenta grandi differenze fra chi vive in un discreto benessere, chi tutti i giorni lotta per non oltrepassare la soglia della povertà e chi dentro la povertà ci sta da tempo e non intravede segnali di novità e di speranza per il futuro. Il desiderio e l’ambizione di fare il salto sociale, di passare da una condizione all’altra, è più difficile da realizzare da noi che altrove.

Il paese Italia appare come un paese vulnerabile, con tante, troppe fragilità: i conti pubblici, un’imbarazzante divergenza tra nord e sud che invece di diminuire aumenta, la tragica carenza di innovazione, ma anche le elevate disuguaglianze sociali ed economiche. Il reddito non è distribuito in modo equo, si concentra ai vertici in mano di pochi ed è diluito alla base. C’è un salto, dunque, che separa chi sta bene da chi sta male. Ma a

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differenza di quanto successe nel dopoguerra, c’è anche una scarsa possibilità di veder migliorare, nel corso della vita, la propria condizione. Ad esempio: non cala il tasso di povertà, che riguarda l’11,1% del totale delle famiglie e circa 7,6milioni di persone; il disagio è presente soprattutto al sud (dove quasi il 39% dei nuclei familiari si colloca nelle fasce di reddito più basse, contro il 12% del nord), nelle famiglie numerose e in quelle dove ci sono disoccupati e fra gli anziani soli. Ancora. Le misure delle privazioni risultano essere imbarazzanti per un numero sempre più ampio di persone e famiglie: nel meridione il 13,5% delle famiglie confessa di non potersi permettere un pasto adeguato ogni due giorni e in generale – in tutto il paese – a non mangiare in modo adeguato è il 17,5% dei nuclei familiari; quasi l’11% non può riscaldare in modo accettabile la propria casa; il 39% non fa nemmeno una settimana di vacanza all’anno; l’affitto della casa, nelle famiglie a reddito basso, consuma, in media, il 30,7% delle entrate. 2.2. Le povertà e le fragilità familiari (donne, minori, anziani e disabili).

La povertà e la fragilità sconvolge le famiglie. Ci sono famiglie povere di verità, amore, speranza, senso e di valore da dare al proprio vissuto. Sono famiglie che di per sé ‘ignorano di soffrire’ a causa della mancanza di beni e valori superiori, profondi, spirituali quali: le relazioni tra i componenti del nucleo familiare, la comunione profonda e il dialogo tra le persone, la comune progettualità del vivere, la libertà interiore di fronte alle molteplici proposte del mondo. Ci sono famiglie povere e disagiate materialmente, prese ogni giorno dall’esigenza, urgenza di trovare soluzione ai bisogni primari. Sono famiglie che, per la loro stessa indigenza, sono come inceppate in problemi di penosa sopravvivenza. I genitori assillati dall’urgenza del bisogno materiale, dalla risposta da dare ai bisogni primari (mangiare, vestire, abitare, studiare, …) finiscono per trascurare ogni altro nutrimento sociale, culturale e spirituale per sé e per i figli. Ci sono famiglie povere di relazioni, appartenenza e socialità. Sono famiglie che vivono ai margini delle comuni strutture e aggregazioni, sia civili che ecclesiali, come spesso avviene per le famiglie di immigrati, nomadi, carcerati, profughi, dei meno dotati, fino a configurarsi con la classificazione di “famiglie a rischio”: droga, violenza, usura, prostituzione, disunioni, separazioni, conflittualità costanti, …

Si può essere poveri e fragili di soldi e si può essere poveri e fragili di diritti. Si è poveri di diritti quando si vive in una condizione di cittadinanza negata, o limitata, cioè quando si è presenti ma invisibili agli occhi della società. Titolari sì di diritti formali, come quello di voto, ma non dei diritti sostanziali di accesso e di fruizione delle opportunità che la società offre, o dovrebbe offrire in modo ugualitario, a tutte le persone che espongano determinate situazioni di bisogno.

Le donne in difficoltà. Ciò riguarda le condizioni di dipendenza economica e familiare, l’uso del tempo (la doppia presenza, di donna casalinga e donna lavoratrice), la disparità nella disponibilità delle risorse socioeconomiche e delle opportunità. E’ fondamentale far crescere il confronto tra le condizioni del disagio femminile e le risposte che ad esso si danno in ordine alla povertà vera e propria, alla maternità solitaria, alla molteplici manifestazioni di violenza, alla prostituzione, all’immigrazione. Esiste un sommerso con cui bisogna misurarsi cercando di guardare le cose anche dal punto di vista femminile. E’ questa una ricerca e una lettura tutta da fare, tutta da costruire in modo serio e puntuale. Poiché la fragilità ha un volto sempre più femminile.

I minori in condizione di disagio. La problematica merita un cenno particolare anche per la bruciante attualità della materia. Una serie di fondamentali bisogni del soggetto in

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formazione non possono essere esauditi dal giudice o dai servizi ma possono essere appagati solo da un incontro tra chi si affaccia alla vita e un altro, adulto, capace di ripiegarsi su di lui, di coglierne la richiesta di aiuto, di lasciarsi coinvolgere in un cammino comune, di dare risposte in qualche modo esaustive alle domande non verbalizzate del ragazzo. Provocazioni forti su cui riflettere che portano ad immaginare una nuova cultura dell’infanzia e dell’adolescenza, in cui si rivaluti appieno la figura di un educatore che sappia muoversi nel labirinto delle tante apparenti proposte di libertà che circondano i giovani, libertà a cui non si accompagna una liberazione.

Le persone disabili: in termini di diritti di cittadinanza esse avvertono gli stessi bisogni delle persone non disabili, ma, la loro situazione esige che a tali bisogni le risposte debbano essere fornite con modalità personalizzate e diverse dalle altre, pur se con strutture e servizi comuni per la soddisfazione dei bisogni di tutti. Con questo approccio vanno prese in esame le modalità con cui le strutture ordinarie della società rispondono ai bisogni dei disabili negli ambiti: dell’istruzione sia nell’età scolare che nell’età adulta, dell’abitazione quando si tratti di disabili adulti fuori dalla famiglia, del lavoro, dell’integrazione sociale, dell’assistenza sanitaria e pensionistica e dei servizi sociali. E qui emerge lo scarto tra il dettato delle leggi, che in Italia sono complessivamente avanzate, e l’effettiva fruizione dei diritti così riconosciuti.

Gli anziani e le famiglie monoparentali. In 17 Paesi europei – compresa l’Italia, in particolare il centronord – gli anziani sono fra i più poveri della società, per le pensioni troppo esigue e per la facile solitudine e trascuranza nei loro confronti. È particolarmente critica la situazione delle famiglie monoparentali soprattutto al femminile. Queste, insieme agli anziani, rappresentano le categorie principali di persone che vivono sotto la soglia della povertà. Si trovano nelle stesse difficoltà le famiglie con due o tre figli. Il problema viene accentuato per gli alloggi inadeguati e l’impossibilità di accedere agli asili nido per i bambini. I bassi salari, l’instabilità dell’impiego, la disuguaglianza tra uomini e donne, i servizi di aiuto all’infanzia inadeguati, sono elementi che avvicinano sia le famiglie monoparentali che quelle numerose al rischio di povertà cronica.

Le famiglie e le responsabilità genitoriali. La famiglia, per assumere le responsabilità che la caratterizzano, ha bisogno di una comunità che abbia cura di essa, anche attraverso servizi che non siano solo per la famiglia ma anche e soprattutto con la famiglia. Se è vero infatti che la felicità non dipende dai servizi sociali, è vero anche che questi possono contribuire in modo incisivo a rimuovere disparità e dislivelli ed a consentire l’accesso alla normalità della vita sociale. Occorre far fronte ai rischi di caduta di tutela, con particolare riguardo a quelle situazioni e contesti sociali deboli, che non riescono da soli a far valere i propri diritti di cittadinanza. 2.3. Le povertà e le fragilità giovanili: scolastiche e lavorative.

La povertà e fragilità invade i saperi, attacca il lavoro, nega futuro ai giovani. Ci sono due diritti, scuola e lavoro, che vanno seriamente considerati come diritti fondamentali di chi, giovane, deve costruirsi il futuro. Non ci sarà vera ripresa economica finché la politica non riuscirà a conciliare le esigenze del massimo profitto proprie del mercato con quelle della massima espansione dell’istruzione e del lavoro. Il tasso di alfabetizzazione e le spese finalizzate all’educazione si riflettono nell’uso delle tecnologie informatiche. Sappiamo come le tecnologie sono sempre più fondamentali al giorno d’oggi. E qui le differenze sono enormi.

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L'aumento del numero di disoccupati di lungo periodo, la presenza crescente di giovani in cerca di occupazione, il fenomeno relativamente recente della disoccupazione al femminile e, allo stesso tempo, il crescente coinvolgimento nella disoccupazione di uomini di classi di età media, hanno prodotto il costituirsi di nuove situazioni di rischio e di vulnerabilità, verso le quali i tradizionali strumenti di protezione sociale non sono sembrati in grado di svolgere un'adeguata funzione protettiva e preventiva. Queste situazioni incentivano, come effetti collaterali, la tossicodipendenza, l’alcolismo e il disorientamento generalizzato. 2.4. Le povertà e le fragilità immigratorie (immigrati, rifugiati, richiedenti asilo, rom).

Riflettere e confrontarci sui viaggi della speranza e la globalizzazione e sulle strategie di integrazione è uno straordinario test per capire di quale idea di società, politica, città, comunità sociale e religiosa noi siamo portatori. Tutto questo però impone un minimo di rigore intellettuale e una capacità di leggere complessivamente il fenomeno. Tutti noi sappiamo che i processi sociali e culturali sono lenti, hanno bisogno di cura, di accompagnamento, di costante aggiustamento del loro percorso. E chiunque ha il compito di occuparsene deve imparare i tratti di quella pazienza affettuosa, e se necessaria, severa che accompagna con cura lo sviluppo, la promozione e la crescita di una cultura dell’accoglienza, della giustizia, della legalità, dell’integrazione, dell’intercultura.

Principali caratteristiche della loro presenza sono: donne, minori e famiglie. Una ripartizione territoriale diseguale ma a tutto campo; un crescente protagonismo spetta ai piccoli contesti urbani, dove la vita è più agevole anche sotto il profilo socio-economico. Si è di fronte ad una presenza consistente e radicata: e, a questo punto, non si tratta solo di decidere sui meccanismi riguardanti l’ingresso, il soggiorno, il mercato occupazionale, ma anche di concordare obiettivi validi per una società interculturale e multietnica.

È comunque opportuno non trascurare alcuni elementi di complessità, che caratterizzano il quadro migratorio nazionale: la provenienza dei cittadini immigrati: dai cinque continenti con oltre 200 nazionalità. Ne consegue un’accentuata diversificazione di culture e appartenenze, che rendono di fatto la nostra una società multiculturale e multietnica. La presenza di rifugiati, richiedenti asilo e vittime di situazioni di guerra. La condizione diffusa di irregolarità. L’attuale normativa non facilita l’ingresso e soprattutto la permanenza regolare di immigrati sul territorio nazionale per cui, molto spesso, anche chi entra in Italia attraverso vie legali si trova, successivamente, a cadere nell’irregolarità. La presenza in continuo aumento della seconda generazione. I figli degli immigrati, nati in Italia o arrivati in tenera età, tendono ad identificarsi con i loro coetanei italiani e raramente immaginano il proprio futuro nel paese di origine dei genitori. La trasformazione dello stile di vita di alcune etnie di nomadi e la particolare situazione di emarginazione dei nomadi provenienti dalla Romania.

Permangono nodi politici. L’impegno dell’Unione Europea nel promuovere politiche comuni in materia di immigrazione e asilo, è ancora fortemente condizionato dalla scarsa volontà dei singoli Stati membri di attenuare la propria sovranità nazionale. Le politiche sull’immigrazione, a distanza di alcuni decenni dall’inizio di questo fenomeno, sono anche in Italia ancora orientate principalmente verso l’emergenza, il contenimento e il controllo. Negli ultimi anni ha continuato a pesare una condizione di precarietà esistenziale del cittadino immigrato e della sua famiglia in particolar modo nei primi anni di permanenza in Italia. Nel contempo si è rafforzata la strumentalizzazione politica dell’immigrazione. In molte occasioni, infatti, gli immigrati sono diventati ostaggi di una politica e di un informazione

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faziosa che ha preferito accentuare e generalizzare gli aspetti critici e problematici del fenomeno piuttosto che valorizzarne i punti di forza, condizione, questa, che rischia di consolidare nell’opinione pubblica una percezione negativa del migrante e della sua esperienza nel paese. In questo quadro si innestano politiche per l’integrazione deficitarie, per nulla meditate e pianificate sul lungo periodo. Non mancano i nodi sociali. La percezione generalizzata presso l‘opinione pubblica che l’immigrazione è di per sé un problema, dando luogo in alcuni casi ad atteggiamenti di aperta ostilità, spesso alimentata da un’informazione incompleta e fuorviante da parte dei media. Il lavoro degli immigrati, che svolgono per lo più attività usuranti e mal retribuite e, spesso senza un regolare contratto di lavoro; la riduzione, in non pochi casi, a vere e proprie forme di schiavitù, sia tra le mura domestiche che nei cantieri, nell’agricoltura o nei laboratori artigianali. Gli ostacoli nell’accesso a lavori qualificati, sia per la difficoltà di far accertare il valore dei titoli e delle competenze acquisiti altrove, ma anche per mettere a frutto i diplomi ottenuti in Italia. La preclusione a molti figli di immigrati di carriere professionali qualificate, dovuta anche ad un percorso scolastico che in alcuni casi ne penalizza le effettive capacità di sviluppo. Il diffuso e pesante problema abitativo. La difficoltà a reperire alloggi, motivata spesso dalla non disponibilità dei proprietari verso gli stranieri e dall’obbligo amministrativo di adeguarsi a standard abitativi non richiesti ai cittadini italiani, costituisce, insieme alla nascita di veri e propri ghetti urbani in diverse città italiane, un’emergenza non più rinviabile. Il fenomeno della criminalità. Il necessario superamento dell’equazione immigrato uguale criminale, non deve far dimenticare che, comunque, una significativa percentuale di cittadini immigrati ha problemi con la giustizia. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta, però, di persone in posizione irregolare e per di più condannate per reati di lieve entità. Gli immigrati regolari delinquono percentualmente meno degli italiani. La valorizzazione del bagaglio culturale degli immigrati che raramente viene riconosciuto e che, al contrario, nel percorso di integrazione dell’immigrato può rivestire un ruolo fondamentale. La difficoltà dei servizi a occuparsi degli immigrati all’interno del loro contesto familiare e sociale. I problemi di molte famiglie immigrate nell’affrontare e risolvere i conflitti tra gli stili di vita della cultura di origine con quelli della società locale. La vulnerabilità fisica e psichica di alcuni immigrati, a causa delle difficili condizioni di vita, alla quale non corrisponde sempre un adeguato supporto sanitario. L’incontro tra fedeli di religioni diverse non è sempre connotato da atteggiamenti di apertura reciproca e dalla volontà di valorizzare l’importanza del dialogo interconfessionale e interreligioso. La presenza, tra gli immigrati - individui, famiglie e comunità - di sentimenti di frustrazione e di risentimenti per un’esistenza in molti casi precaria e lontana dalle loro aspettative. Questa situazione porta spesso a sentire in maniera ancora più penosa la nostalgia dei propri affetti e della propria terra. 2.5. Le povertà e le fragilità totalizzanti (carcerati, malati di mente, …).

Il carcere, uno stigma che separa dalla società. Chi vive l’esperienza del carcere, avverte la solitudine in modo lacerante, poiché sente su di sé non solo la separazione dalla società ma anche lo stigma ed il disprezzo della stessa. Questo segna una separazione totale dal mondo, un distacco che getta l’individuo, in modo angosciante, nell’abisso della deprivazione affettiva, familiare, lavorativa, in breve in un contesto totalizzante, dove la perdita della libertà, fin dai primi momenti dell’ingresso, viene marcata da azioni che egli

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non può più gestire in modo autonomo in quanto totalmente dipendente dalla volontà altrui.

Per molti, l’unica nota di speranza costituisce il collegamento con la famiglia, quando il trauma dell’arresto non ne ha compromesso i rapporti. Ma vi è una buona fetta della popolazione detenuta che non può contare neppure su questo sollievo e per i quali la realtà della solitudine risulta ancora più devastante: ci sono coloro le cui famiglie vivono la detenzione del congiunto come una vergogna insopportabile; ci sono quelli le cui mogli si sono stancate di attendere, di sopportare da sole una responsabilità familiare sempre più gravosa.

Drammatica risulta essere la situazione dei detenuti extracomunitari, la cui posizione viene ulteriormente aggravata dalla loro condizione di stranieri: non possono comunicare in alcun modo con le famiglie d’origine, tranne tramite qualche lettera sporadica; per chi non conosce l’italiano, si aggiunge la difficoltà della lingua; subiscono la diffidenza dei compagni di detenzione, a causa delle evidenti differenze culturali e religiose; possono accedere con difficoltà alle misure alternative, non avendo una dimora stabile e potendo con molta difficoltà reperire un datore di lavoro disponibile ad offrire un impiego. Oltretutto, per molti di essi, la detenzione è vissuta come il fallimento totale di un progetto di vita, inaugurato nella prospettiva di migliori condizioni di vita in Italia, naufragato nelle difficoltà di una società altamente competitiva e selezionatrice, vanificato nella certezza di un espulsione, in base alle condanne subite.

I malati di mente una presenza da riconoscere. Nelle nostre comunità abitano persone con sofferenze mentali: sono i tanti considerati ‘strani’ che entrano nelle chiese, stanno nelle strade, chiedono aiuto, ben lontani però dall’essere in condizioni di chiedere di essere curati per una malattia mentale. La sfida non sta tanto nel produrre servizi speciali (pur necessari e doverosi), ma nel cominciare a domandarsi: chi sono, cosa fare per loro, come esprimere la giusta vicinanza, come ridurre l’isolamento, la sofferenza e l’emarginazione, come fare spazio alla loro presenza.

Una presenza che ha bisogno di corretta informazione e sensibilizzazione. Tale opera è irrinunciabile in tema di sofferenza mentale perché determina lo smantellamento dei tanti pregiudizi che accompagnano la vita dei malati e dei loro familiari. La malattia mentale, infatti: fa paura; ci chiama in causa come persone più che come erogatori di qualcosa; ci impone di fare i conti con noi stessi, con le nostre questioni irrisolte, con le nostre regole rigide e immodificabili, con i nostri fantasmi, con le nostre angosce, con i nostri limiti. La sofferenza mentale è più che una povertà: essa impone domande radicali sul senso stesso della nostra vita. La paura, l’intolleranza, l’esclusione sono atteggiamenti che si nutrono di disinformazione.

Una presenza bisognosa di prevenzione. Siamo in una fase della storia del nostro paese e delle nostre città in cui i meccanismi di socialità e la qualità delle relazioni è messa in forse da diversi fattori: i fenomeni di urbanizzazione (non sempre guidati correttamente), gli stessi tempi della vita delle città, i crescenti ritmi lavorativi, il senso di insicurezza, rendono sempre meno scontata l'esistenza di comunità locali coese, solidali e ricche di serene relazioni. La solitudine urbana, la parcellizzazione sociale, la difficoltà a incontrarsi nelle città, al di là dei luoghi di consumo urbani, debbono in qualche misura interrogarci. Non si tratta qui di mitizzare comunità locali del passato, ma chiederci seriamente se le politiche urbanistiche, le innovazioni nel settore commerciale, i piani regolatori dei tempi cittadini, alcune politiche di contrasto alla povertà e all’esclusione, rappresentino

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un’effettiva risposta allo sfaldarsi della comunità locale o, addirittura, possano rappresentare fattori di sfaldamento, di vissuti sempre più separati-distanti tra loro, di desolidarizzazione.

Una presenza che chiede giustizia. La comunità è chiamata a vigilare per fare giustizia, perché siano riconosciuti e garantiti i diritti e sia promossa la giustizia per i malati di mente. La comunità è chiamata ad interrogarsi profondamente su situazioni così complesse confinate ai margini: dall’indifferenza e dal disimpegno della società e dai facili pregiudizi di tantissime persone. Questa azione che promuove giustizia chiede la messa in atto di diversi percorsi: cercare di operare come mediatori tra la famiglia e i servizi sanitari territoriali; cercare di convincere il malato e la sua famiglia a farsi aiutare ad affrontare la difficile situazione; far sì che tutto sia finalizzato a dare attenzione e rilevanza ai bisogni di chi non è stato riconosciuto, ascoltato e accolto; seguire la realizzazione e il consolidamento dei servizi territoriali di prevenzione, cura e riabilitazione; sperimentare nuovi progetti che siano in grado di provvedere ai bisogni dei malati di mente svincolandoli dalla sempre facile istituzionalizzazione; vigilare perché siano stanziati adeguati fondi per la sanità pubblica; consolidare il ruolo e la funzione dei Dipartimenti di salute mentale; favorire la presenza fondamentale di organismi di partecipazione dell’utenza, dei familiari e delle associazioni di volontariato e di tutela dei diritti dei cittadini; prendersi cura della grave situazione di facile negazione della dignità umana delle persone ricoverate negli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG); prendersi cura dei numerosi malati di mente che popolano il mondo carcerario italiano per i quali la riforma dell’assistenza psichiatrica sembra non aver fatto breccia tra quelle mura.

-3- “… Abbi cura di lui …” Lc.10.35

LE OPERE DI CARITA’ DELLA E NELLA CHIESA una molteplicità di opere a servizio di volti e storie povere e fragili

Quasi infantili nella loro formulazione di vecchio catechismo polveroso. Il loro appeal è ormai così scarso che neppure nelle prediche tradizionalistiche vi si ricorre più. Tutti utilizzano termini via via di moda: condivisione, solidarietà, promozione umana, … Ma le opere, nella loro geometria semplificatoria e non sfiorata dal dubbio (qui il corpo, là l’anima; qui i bisogni materiali, là quelli spirituali, tutto compreso nei magici e mnemonici ‘sette più sette’), rappresentano davvero, con sconcertante puntualità, l’elenco delle necessità umane fondamentali di sempre. Solo la quattordicesima opera, ‘pregare Dio per i vivi e per i morti’, sottintende una fede religiosa. Tutte le altre indicano un atteggiamento etico realistico: di fronte alle componenti brutte dell’esistenza umana, bisogna sporcarsi le mani. Di fronte a un corpo e a una vita che soffre, qualunque sia la ragione, se amo vivere devo fare qualcosa, perché quel corpo funziona come il mio, quella vita vale quanto la mia, e star male non piace a nessuno. Al cuore e all’intelligenza di ogni uomo e donna la capacità di giudizio per scegliere ‘il come’.

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3.1. Le opere di misericordia: la ‘carità di popolo’, nell’oggi. La tradizione cristiana indica con la denominazione opere di misericordia alcuni gesti e azioni concrete che il cristiano è invitato a compiere a favore del prossimo bisognoso nel corpo e nello spirito. Sono notissime, a livello popolare, soprattutto quelle corporali; un po’ meno quelle spirituali, tutt’altro che superflue però soprattutto nella società attuale, dove alle povertà di carattere economico si sono aggiunte quelle immateriali, attinenti alla situazione spirituale delle persone intesa nel senso più ampio del termine. Sono opere, cioè azioni concrete in risposta a bisogni concreti, misurate su di essi, così come vengono colti nell’immediatezza dei rapporti quotidiani. Per compierle non serve l’organizzazione, basta la sensibilità personale. Sono i gesti di amore e bontà che rendono diversa la vita, riscattandola dal male dell’indifferenza ed immettendovi quei germi di bene che lo Spirito Santo suscita nell’animo umano, soprattutto a contatto con le situazioni di sofferenza. Va sottolineata l’importanza fondamentale di una carità che permea di sé la vita quotidiana mediante l’esercizio delle opere di misericordia. Esse hanno il vantaggio di essere accessibili ai cristiani e agli uomini e alle donne di buona volontà di ogni condizione, non esclusi i poveri e di privilegiare il rapporto interpersonale, sfuggendo così al pericolo di una carità anonima che lascia indifferente sia chi la compie che colui che la riceve. La pratica delle opere di misericordia non giova solamente a coloro che ne sono destinatari immediati: essa promuove più di quanto si pensi – soprattutto se diventa costume, stile, scelta di vita – una nuova qualità di vita e di rinnovamento della società dal di dentro. Ce lo ricorda il Concilio là dove afferma: “Coloro che credono alla carità divina, sono da Cristo resi certi che la strada della carità è aperta a tutti gli uomini. … Egli ammonisce a non camminare sulla strada della carità solamente nelle grandi cose, bensì e soprattutto nelle circostanze ordinarie della vita” (Gaudium et spes,38). Oggi l’uomo sulla strada non ha solo dei tratti individuali ma è icona di una molteplicità di volti, di situazioni e di problemi che non possono non interpellarci; per cui la tentazione di scansarli non è diversa né meno responsabile di quella che scavalca la situazione della porta accanto. La posta in gioco è grande e sporcarsi le mani non può essere ridotto al solo cerchio dei rapporti che frequentiamo ogni giorno: è giunto il tempo di educare a spezzare ogni steccato, di qualunque genere esso sia, per dar vita ad un uomo capace di rendere abitabile per tutti la comune casa, ad incominciare da quelli che vi sono dentro in modo disumano se non infraumano. La cattedra degli ultimi (Mt.5,1-12), parola sempre donata da Dio all’oggi della Chiesa, deve ritrovare ogni credente e provocare ogni uomo e donna di buona volontà ad accoglierne le urgenze, gli appelli ineludibili e ad operare per tradurre la veridicità del comune credere e sperare cosicché la stessa cattedra, se inascoltata, non si traduca alla fine in tribunale (Mt.25,31-46). Si impone quindi il ritorno dei volti che stimoli a non eludere il bisogno concreto, incarnato, scolpito in vite e storie di milioni di uomini e donne che abitano le nostre periferie, i paesi e le città. È un fiume umano tuttora dimenticato da una programmazione politica e sociale che non ha l’uomo al centro. Sono i ‘grandi assenti’ non solo dalla storia dell’uomo ma anche da una pastorale che abbia il coraggio di ripartire dagli ultimi. Tradurre pastoralmente le opere di misericordia può sembrare quasi un esercizio di poco conto soprattutto se, per la quotidianità di alcuni fatti e/o di non poche emergenze, ci si misura con quelle ‘materiali’. Ma qui non si tratta semplicemente di un’azione di ‘ritinteggiatura’ – anche ben fatta – ma di appoggiare su basi sicure il ritorno dall’esilio di ogni opera – spirituale e materiale, superandone la stessa dicotomica distinzione – che a tutt’oggi sembra caratterizzarle. E l’esilio da cui debbono uscire è di duplice stampo: da un lato è che deve essere l’intera comunità cristiana a farsi interprete e protagonista delle

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opere di carità e, dall’altro, si rende necessaria un’azione comune dei cristiani – oltre a quella individuale – affinché diventino ‘ponte’ tra quanto celebrano e ascoltano con quanto in amore vivono quotidianamente in un mondo che, forse, sta conoscendo la sua più bassa soglia di solidarietà. La Caritas, a tutti i livelli, è la traduzione immediata di un solido amore per qualsiasi ‘paria’ di questo mondo, caduto nelle mani dei ladroni di turno e che, proprio per questo, ha minori possibilità di vivere una vita degna dell’uomo. Nella storia della Chiesa, dai suoi albori ad oggi, il ‘prendersi cura’ degli svantaggiati è forse il sacramento più costante e la traduzione più fedele che senza le opere dell’amore la fede è morta (Gc.2,17). Ciò che importa è comprendere che l’opera non è vera se non ridice la Parola di Cristo, se non celebra il suo Mistero d’amore, se non costruisce una Comunità di comunione che impegna ad essere poveri con i poveri. Anche la chiesa è chiamata – nei fatti – ad essere Chiesa povera. 3.2. Le opere di carità della e nella comunità ecclesiale.

Il lavoro di verifica e riflessione che insieme abbiamo realizzato in questo anno pastorale ci ha portato, non senza fatiche, a recuperare e attualizzare attorno alle opere quanto definito lo scorso anno sull’animazione pastorale al senso della carità. Una scalata ripida, appena affrontata, nel tentativo di riappropriarci di uno stile di animazione e progettazione socio-pastorale fatto di conoscenza, cura e tessitura in rete delle opere ecclesiali. Dopo 37 anni di cammini Caritas, dobbiamo riconoscerlo, siamo più che mai sospesi nell’impegnativa ricerca dell’impasto tra fare ed animare. Il nodo dei nodi, infatti, sembra ancora risiedere nell’identità dell’organismo pastorale Caritas così come percepito non tanto e solo dai parroci, dagli operatori pastorali, dai Vescovi, quanto dai noi Direttori e collaboratori delle Caritas diocesane.

Sollecitati da povertà e ingiustizie, sempre più gravi e urgenti, rischiamo di dimenticare che i poveri e non i servizi, l’amore e non le prestazioni, sono i luoghi attraverso cui Dio parla e provoca il mondo. E che all’organismo pastorale Caritas è chiesto di costruire ponti sopratutto tra Dio, che parla e si impone attraverso i poveri, e la comunità ecclesiale e il territorio. E proprio la comunità sembra essere, oggi, il destinatario meno gratificante del servizio delle Caritas diocesane. Esiste, infatti, un diffuso riconoscimento – sebbene non privo di una certa dialettica – delle azioni dell’Organismo da parte delle istituzioni pubbliche e delle realtà del territorio. La facilità di rapporti con i soggetti civili rispetto a quelli ecclesiali è ravvisata dalla maggior parte delle Caritas diocesane. D’altra parte, è difficile mettere in discussione l’impegno ampio e concreto di servizio ai poveri, da esse espresso, a fronte del crescere, in quantità e qualità, di azioni di contrasto alle povertà materiali, relazionali e di senso che si incontrano ogni giorno nelle locande della carità: centri di ascolto, di accoglienza e accompagnamento, di difesa dei diritti, di liberazione e promozione umana. Luoghi in cui si realizzano le opere promosse dalle Caritas diocesane. Eppure, tutto questo sembra non facilitare, a volte addirittura ostacolare, l’animazione delle parrocchie al senso di carità, rischiando di non aver chiara la natura di un organismo pastorale istituito, invece, per aiutarle ad essere più compiutamente se stesse.

Le opere parlano. E come parlano. Ma non sempre dicono ciò che vorremmo in termini di animazione, di evangelizzazione. Certo è, che ci deve interrogare il tipo di immagine di organismo pastorale che spesso ci restituiscono le parrocchie, gli uffici pastorali diocesani e, non ultime, tutte le opere ecclesiali. Quella, a volte, di una struttura

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elefantiaca, con disponibilità economiche provenienti da fonti anche istituzionali (amministrazioni pubbliche, Conferenza episcopale italiana, …) percepite lontane dalle parrocchie; di una realtà che sviluppa un attivismo a volte invadente: che chiede aiuto, rimprovera carenze, esige coinvolgimento; di un insieme di servizi in cui trovano poco spazio le persone semplici, uomini e donne di buona volontà, che pur vorrebbero crescere e servire gratuità nella testimonianza di carità. Questa risulta essere, contemporaneamente, una questione di trasmissione e di ricezione del messaggio da cui dipende, di fatto, la capacità da parte delle opere di evangelizzare.

È questa una visione che orienta le prospettive di lavoro al ripensamento complessivo dell’impegno di promozione delle opere, attraverso lo sviluppo di precise progettualità a partire: ▪ dalla certezza che senza opere non si anima, non si forma la coscienza, non si plasmano i

vissuti, gli stili e le scelte di vita. Se l’evangelizzazione non è riducibile alla sola trasmissione di sapere, ma è l’incontro del Vangelo di Gesù con la cultura dei contesti di vita, l’identità del cristiano e della Chiesa non può formarsi a tavolino. Nell’azione ciascuno trova conferma o smentita a ciò che pensa di essere, verificando la propria fedeltà al Vangelo;

▪ dalla convinzione che le opere buone e belle sono quelle capaci di evangelizzare. Sono stili, atteggiamenti, attenzioni, azioni che, come un ponte, facilitano l’incontro tra l’uomo, la comunità, il territorio, la Chiesa e Dio. Opere che nascono nella comunità, dalle relazioni corte, dalla condivisione dei vissuti, dall’esperienza concreta di servizio. Ma soprattutto tornano alla comunità restituendo e moltiplicando:

- conoscenza come possibilità di ascolto, comprensione, riconoscimento dei volti, delle storie, della cultura di un territorio;

- condivisione come possibilità di integrazione per il bene comune e contaminazione feconda con altri soggetti;

- accompagnamento dei singoli e dei gruppi (le comunità dentro la comunità) dentro l’esperienza cristiana e autenticamente umana,dell’incontro, della condivisione, della responsabilità, della partecipazione e del servizio.

Quale è allora lo specifico che ci affanniamo a cercare per le nostre opere? Su quali

criteri valutare la bontà e la bellezza delle opere promosse dalle Caritas? Il punto è che alle Caritas non compete di per sé la realizzazione di opere migliori delle altre, ma di azioni e opere che aiutino la Chiesa a vivere e realizzare opere buone e belle. Ci è chiesto, cioè, di operare per la cura dell’anima, del cuore, dello stile e delle prassi delle opere della nostra Chiesa, utilizzando o attivando anche alcune specifiche opere pensate, progettate e sperimentate dall’organismo pastorale Caritas. È un compito che abbiamo trascurato per molto tempo e che non possiamo continuare a trascurare. Non è questa una questione accessoria, che possiamo scegliere di disattendere, perché senza questa cura non è possibile l’animazione al senso e alla testimonianza comunitaria della carità. Ed è anzi nella capacità di far parlare questi fatti e renderli significativi e simbolici per i poveri, per la comunità e il territorio che consiste buona parte del servizio di animazione e della funzione prevalentemente pedagogica che le Caritas sono chiamate ad esprimere.

Qui di seguito alcune prime prospettive, di per sé indicate da esperienze già in atto

presso alcune realtà diocesane, che possono orientare questa aspirazione alla concretezza.

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3.2.1. PRIMA PROSPETTIVA

LA CURA DELLE REALTÀ SOCIALI PROMOSSE DALLE CARITAS

Un anno fa, concludendo a Montecatini Terme il 31° Convegno nazionale delle Caritas diocesane, abbiamo riconosciuto la necessità di fare un passo indietro rispetto alla pura gestione di proprie opere e servizi per poter assumere pienamente il mandato di animazione di tutte le opere ecclesiali della propria Chiesa locale. Non si tratta di abbandonare quanto avviato e promosso negli anni, ma di proporre percorsi sostenibili per governare efficacemente l’esistente e proiettarsi verso il futuro.

Per prima cosa è necessario riconoscere la fatica del gestire che anche le Caritas diocesane stanno vivendo con sofferenza e pesantezza. Le questioni gestionali, organizzative, di relazione con il pubblico non vanno demonizzate, ma neanche affrontate in modo semplicistico e superficiale. Non è questione di poco conto, né irrilevante ai fini dell’animazione, poiché anche il modo con cui la Chiesa gestisce le opere, dice al mondo il modo di essere Chiesa. Conosciamo, purtroppo, gli esiti dolorosi e disastrosi di gestioni ingenue e poco accorte, se non decisamente scorrette e ingiuste. D’altro canto, non è da tutti sapersi districare tra contratti, gestione del personale, sicurezza, bilanci, …

Qui, due sembrano essere i principali ambiti di lavoro da sviluppare nei prossimi

anni pastorali.

a) La cura delle realtà sociali promosse dalle Caritas

Le Caritas diocesane hanno promosso negli anni numerose associazioni e cooperative per la gestione di servizi ai poveri e, forse in misura minore, la realizzazione di attività di sensibilizzazione, contribuendo in maniera significativa anche allo sviluppo della formazione degli operatori sociali. Si tratta spesso di realtà nate nelle parrocchie o a livello diocesano, che si richiamavano esplicitamente ai valori cristiani. Ma c’è il rischio che, con il tempo, organizzandosi in forme molto strutturate e assumendo impegni anche in collaborazione con le istituzioni pubbliche, abbiano perso il riferimento alla comunità, il legame con il territorio, la centralità della persona e soprattutto dei più poveri, il coinvolgimento dei mondi del volontariato, … pur continuando a mantenere quei ‘privilegi’ di immagine dovuti all’originario legame con le Chiesa. Quale cura, quale accompagnamento, quale cammino educativo garantire perché queste realtà, promosse a livello ecclesiale, travolte dagli oneri quotidiani, non perdano i grandi ideali, le motivazioni e i legami originari?

È il momento questo di individuare, al riguardo, e di mettere in atto risposte chiare e azioni conseguenti anche in collaborazione con altri soggetti della pastorale diocesana. Alle Caritas compete il riconoscimento e la valorizzazione di queste esperienze in ordine alla crescita della testimonianza e alla promozione di una cultura di gratuità, partecipazione e corresponsabilità. Si tratta di favorire percorsi di incontro, scambio e formazione; di promuovere luoghi di elaborazione e maturazione di una cultura cristiana che può avere straordinarie potenzialità di contaminazione di quel mondo ‘laico’ che spesso la Chiesa fatica ad incontrare. «L’evangelo infatti non può penetrare profondamente nella mentalità, nel costume e nell’attività di un popolo, se manca la presenza attiva dei laici» (AG, 21). Accompagnare questa presenza per l’animazione cristiana delle realtà sociali è una sfida educativa che le Caritas non possono ignorare.

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b) Il coordinamento degli enti gestori

L’Istruzione in materia amministrativa della CEI è molto chiara a riguardo dei rapporti tra Caritas diocesana ed il soggetto cui la Diocesi affida la gestione delle attività caritative: «esso non deve sostituire l’ufficio Caritas, cui compete l’azione di promozione e di coordinamento, ma deve piuttosto costituirne uno strumento operativo» (n.90). Dai primi tentativi di costruire un banca dati degli enti gestori e dall’ascolto delle quasi 200 Caritas diocesane incontrate durante gli incontri con le Delegazioni regionali Caritas (febbraio-aprile 2008), si ricava la sensazione che tra Caritas diocesane ed enti gestori ci sia di frequente una sovrapposizione operativa, anche se non formale. Le motivazioni risiedono senz’altro nel notevole impulso dato allo sviluppo di queste realtà diocesane dalle progettualità legate all’8xmille. Ma nei prossimi anni sarà necessario monitorare l’evolversi di queste situazioni per garantire a ciascuna delle realtà in gioco il pieno sviluppo della propria identità a servizio della pastorale diocesana e del territorio.

Certo è che parliamo di due realtà ecclesiali strettamente legate, che possono illuminarsi reciprocamente. L’ente gestore non può ‘correre da solo’. Esprime infatti, più o meno consapevolmente, il volto della Chiesa locale di cui finisce per gestire non solo le questioni più strettamente ‘amministrative’, ma l’ordinario dell’esperienza caritativa. In questo senso è una, se non la prima, opera ecclesiale di cui la Caritas diocesana deve aver cura. È chiaro, allora, che non si tratta di appaltare un servizio sociale ad un soggetto efficiente ed affidabile, ma di promuovere uno scambio fecondo tra due realtà con compiti diversi e complementari (l’una l’anima e l’altro la mano) nella promozione della testimonianza comunitaria della carità. La sfida di animare al senso della carità attraverso le opere chiama in causa direttamente anche gli enti gestori. Qual è il loro punto di vista? Quali fatiche incontrano? Quali esigenze hanno? Sembra importante assumere questi e altri interrogativi promuovendo spazi in cui condividere e maturare valori, chiarire compiti, confrontare esperienze, definire prassi, riorganizzare sistemi. Si tratta anche di valorizzare le competenze di queste entità, in particolare nell’ambito della progettazione e delle prassi amministrative. Con queste finalità, secondo gli orientamenti assunti dalla Presidenza, il programma di attività di Caritas Italiana per l’anno pastorale 2008/2009 prevede l’avvio e la sperimentazione di un Coordinamento nazionale degli enti gestori delle Chiese locali.

3.2.2. SECONDA PROSPETTIVA

PER UNA CHIESA E UNA SANTITÀ «DI POPOLO»

La capacità di essere inseriti in un contesto, lo abbiamo definito e sostenuto lo scorso anno, è il primo elemento dell’animazione. Solo dall’interno di una chiesa e di un territorio, infatti, si possono cogliere le loro dinamiche e facilitarne l’attivazione. Perché, nel suo realizzarsi, un processo di animazione non solo prevede, ma esige l’attivazione e la responsabilizzazione di tutti i soggetti in gioco (parrocchie, territori e tutte le realtà che li compongono). Occorre domandarsi in che misura le opere provochino questo movimento nelle persone e nei gruppi e quanto, invece, le nostre proposte non si riducano alla richiesta di adesione a progetti e attività già stabilite in luoghi lontani da quelli in cui si vive il quotidiano. Il rischio, infatti, è quello di restare su un livello puramente istituzionale, con opere ridotte a qualcosa di cui prendere visione, forse anche da ammirare, ma dall’esterno, quasi come un monumento da visitare.

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L’orientamento da sviluppare, per moltiplicare i soggetti e le opportunità di evangelizzazione, e di conseguenza servire meglio i poveri, sembra essere legato al recupero di un forte radicamento territoriale delle opere. Si tratta di promuovere il decentramento delle opere, passando dal livello diocesano a quello zonale, cittadino, parrocchiale. È importante sottolineare che le opere non solo sono della comunità, ma anche per la comunità, capaci di edificare la vita del cristiano e della comunità al pari della Parola e dell’Eucaristia. Il punto è che tutti hanno il diritto di imparare ad amare per essere davvero umani e davvero cristiani. È per la comunità, in primo luogo, che l’opera deve dire Vangelo.

Alle Caritas diocesane è chiesto di promuovere un processo di interiorizzazione per cui l’opera entra nella comunità, ne diventa parte costitutiva, rendendola non solo visibile ma riconoscibile e porzione generata ed integrata nella vita della comunità. Non si tratta, dunque, di garantirsi presso le parrocchie i volontari per ampliare un servizio a livello diocesano, né di moltiplicare opere ‘su scala industriale’ – cioè tutte uguali e in numero elevato, come spesso si corre il rischio di voler fare con i centri di ascolto, i luoghi dell’accoglienza, le mense, ... Occorre invece facilitare il riconoscimento, il senso di appartenenza nei confronti di un’esperienza di carità da parte delle persone che abitano quel territorio. Su questo fronte possono giocare un ruolo fondamentale i Laboratori diocesani per la promozione delle Caritas parrocchiali, attivando in primo luogo gli animatori pastorali nella ricerca e nella valorizzazione delle espressioni di carità già presenti nella comunità e nel territorio.

Nel recupero di questa dimensione più ‘artigianale’ – cioè originale, irripetibile, fortemente personalizzata e ricca di differenziazioni (a seconda delle parrocchie e dei territori) - anche la scelta della configurazione giuridica della realtà chiamata a gestire un’opera può chiaramente indicare una responsabilità comunitaria. In proposito sembrano particolarmente significative le esperienze di intese tra parrocchie che, da un lato aiutano a distinguere l’opera da un’intuizione o da un carisma personale, e dall’altro consentono forme più consone agli oneri derivanti anche dalla gestione di una serie di servizi. 3.2.3. TERZA PROSPETTIVA

METODO E PROGETTUALITÀ PER CONOSCERE, CURARE, TESSERE IN RETE LE OPERE ECCLESIALI

Conoscere, curare e tessere in rete le opere. Siamo arrivati a questa declinazione dell’animazione al senso della carità attraverso le opere per rispondere all’esigenza, emersa lo scorso anno, di esplicitare e di riempire di nuovi significati l’ostico termine e la faticosa azione del coordinamento. La questione di fondo, però, è come, con quale metodo e quali strumenti, realizzare con nuove prassi questo servizio da offrire a tutte le opere della Chiesa locale. Aprendo i lavori di questo 32° Convegno, il Presidente S. Ecc.za Mons. Merisi ci ha inviatati a considerare «la difficoltà a sperimentare il metodo pastorale per l’animazione (e quindi le azioni e i percorsi educativi) non solo rispetto ai poveri e alle povertà, ma anche per e con la Chiesa e il territorio, e quindi con le opere ecclesiali».

Abbiamo appena cominciato a considerare alcune progettualità che possono far crescere e Caritas Italiana e le Caritas diocesane in questa direzione. Su una cosa è necessario intendersi: conoscere le opere non significa solo contarle, mapparle, anche se può essere questo un inizio, ma occorre capire come sono. Nell’esperienza delle Caritas diocesane gli spunti per una conoscenza delle esperienze ecclesiali di carità sono spesso

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casuali, legati alla contingenza dei bisogni o delle opportunità di incontro, spesso all’emergenza. Molto, soprattutto nei piccoli contesti, è basato su rapporti personali. In genere, però, manca l’intenzione di approfondirne la conoscenza, l’ascolto, la relazione, la progettualità comune. Non significa che non si avverta l’esigenza di una rete di rapporti ordinari. Le Caritas, anzi, avvertono con preoccupazione la mancanza di conoscenza delle opere che non aiuta a farsi carico delle persone in difficoltà e povertà ed espone al rischio di creare doppioni, sprecare risorse, concentrare risposte su territori e bisogni senza percepire i vuoti di attenzione.

Si registra piuttosto una sorta di smarrimento di fronte alla mancanza di indicazioni certe. Da dove cominciare? Negli anni, abbiamo maturato una significativa capacità di ascolto, di relazione ricca di intenzionalità educativa con i poveri. Un patrimonio di atteggiamenti che può contaminare in maniera significativa la relazione con le opere ecclesiali. Si tratta allora di assumere con le opere la stessa scelta e lo stesso stile vissuto, ormai da decenni, con i poveri. Scelta e stile caratterizzati dalla:

▪ volontà di esserci e di fermarsi, di investire tempo e risorse in questo impegno di ascolto, osservazione, relazione e discernimento delle opere. Essenziale è riconoscere che l’incontro non è solo un momento formale in cui si compone la ‘lista della spesa’, un elenco di cose (progetti, bisogni, servizi, …) da fare. Spesso è tempo, non perso, ma sparso, seminato a piene mani, solo per scoprirsi, riconoscersi e comprendersi;

▪ umiltà di mettersi alla scuola di tutte le opere che avranno pure grossi limiti e fatiche, ma posseggono anche un patrimonio ricchissimo di esperienza e tradizione nel servizio della carità. È un’opportunità preziosa per arricchire la pastorale di attenzioni che le Caritas da sole non potrebbero sviluppare, se non correndo il rischio di espandersi a dismisura per poter avere ‘le mani in pasta’ su ogni bisogno;

▪ la lucidità di liberarsi dall’ansia di ‘controllo’ nei confronti delle opere, per assumere il ruolo di chi può dare loro luce, visibilità, nuova forza e valore all’interno della comunità, della pastorale diocesana e dell’intero territorio a servizio dei più poveri.

Tutto questo comporta probabilmente anche una verifica e una revisione, da parte

delle Caritas diocesane, della propria cultura dell’osservazione. Abbiamo raccolto abbastanza energie per uscire dall’incubatore della raccolta dati dei centri di ascolto e realizzare un servizio di osservazione che possa andare a vantaggio della pastorale diocesana. Non si tratta di abbandonare le prassi acquisite, che anzi necessitano di sempre maggiore cura e dedizione, ma di allargare lo sguardo per cogliere le povertà anche fuori dal mondo alla nostra portata, osservandole attraverso le opere di carità della Chiesa locale. Ciò è necessario anche per rafforzare le nostre rappresentazioni delle povertà, che rischiamo di percepire sempre nello stesso modo, offrendo proposte di contrasto sempre uguali a se stesse.

Inoltre, è necessario completare il lavoro con una sapiente lettura delle risorse disponibili nel territorio. Per le Caritas è il momento di riscoprire la vocazione a far emergere e a rivelare agli occhi della comunità il bello e il buono che la anima.

Queste considerazioni aprono nuove prospettive di sviluppo per i luoghi pastorali propri di ogni Caritas diocesana. Due progetti, in particolare, possono essere utilizzati come volano in tal senso:

▪ il IV Censimento delle opere ecclesiali realizzato dalla Consulta nazionale delle opere socio-assistenziali, che può diventare una preziosa occasione di conoscenza

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‘porta a porta’ delle opere ecclesiali se saremo capaci di superare la logica del puro conteggio che in passato, a fronte di un notevole dispendio di energie, non ha offerto significativi contributi alle pastorali diocesane;

▪ i Dossier regionali sulle povertà, che possono diventare strumento efficace di animazione se costruiti in un’ottica di partecipazione e finalizzati non solo all’azione di ‘denuncia’ in un momento (conferenza stampa), ma alla verifica e al cambiamento della cultura e delle prassi che caratterizzano la comunità ecclesiale, civile e l’intero territorio.

3.2.4. QUARTA PROSPETTIVA

IL LAVORO DI RETE PER COSTRUIRE COMUNITÀ

Sebbene la cultura della rete sia ancora molto carente, le ‘reti’ sono sentite come necessarie. Secondo il vecchio adagio per cui ‘l’unione fa la forza’, di fronte al crescere delle situazioni di bisogno, delle problematiche, dei livelli di complessità e specializzazione, aumenta l’esigenza di lavorare insieme per disporre e valorizzare il numero maggiore di risorse. Per la Chiesa e per l’organismo pastorale Caritas, però, la rete non ha solo un valore utilitaristico o efficientista in ordine alla risposta ai bisogni, che pure può essere un buon punto di partenza. Lavorare in rete e di rete può diventare una precisa scelta pastorale, come ci ricordano i Vescovi nel IV capitolo della Nota pastorale dopo Verona. Una scelta improntata alla comunione, corresponsabilità, collaborazione, nella ricerca dello «stile che valorizza ogni risorsa e ogni sensibilità, in un clima di fraternità e di dialogo, di franchezza nello scambio e di mitezza nella ricerca di ciò che corrisponde al bene della comunità intera». C’è un modo di tradurre il lavoro di rete che le Caritas sono chiamate a servire alle opere, che esprime la cura dell’ecclesialità delle opere stesse: «La Chiesa comunica la speranza, che è Cristo, soprattutto attraverso il suo modo di essere e di vivere nel mondo. Per questo è fondamentale curare la qualità dell’esperienza ecclesiale delle nostre comunità, affinché esse sappiano mostrare un volto fraterno, aperto e accogliente, espressione di un’umanità intensa e cordiale».

All’organismo pastorale Caritas, dunque, il mandato richiede di assumere uno sguardo complessivo sulle opere non per ricondurle a sé, ma per aiutare il Vescovo a ricondurle all’unità e alla comunione ecclesiale, salvaguardando - e anzi valorizzando per il bene della Chiesa - le diverse specificità. Per realizzare tutto questo non si può prescindere dalla consapevolezza chiara del mandato e dalla libertà da ‘interessi’ particolari. Già lo scorso anno abbiamo paventato i rischi di entrare ‘in concorrenza’ con le altre realtà ecclesiali sul piano della gestione dei servizi. Certamente, impegnate nel servizio degli ultimi, nella ricerca di risposte per bisogni ignorati o sconosciuti, le Caritas hanno molta credibilità da spendere. Ma è necessario fuggire la tentazione dell’identitario, della chiusura in una reale o presunta eccellenza. Ai fini dell’animazione l’esemplarità non è sufficiente, occorre essere fortemente fecondi, riproducibili e contaminare il contesto in cui ci si colloca. Si tratta, forse, anche di scegliere quali opere tra tutte le possibili è opportuno realizzare per facilitare, o perlomeno non compromettere, questo tipo di relazioni. Lavorare di rete, infatti, per le Caritas non è una tecnica, ma un modo di dire e fare Chiesa, di costruire testimonianza comunitaria della carità. Ed è per questo motivo che facilitare l’incontro, l’espressione, il protagonismo delle opere ecclesiali è parte essenziale del mandato di animazione del senso della carità affidato al compito pastorale dell’organismo Caritas.

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Il luogo, proposto nei decenni scorsi, in cui le Caritas diocesane realizzano questo servizio, è la Consulta delle opere e degli organismi socio-caritativi. Ferma restando la necessità di rivisitare il ruolo delle Caritas e rilanciare il ruolo della Consulta, anche a livello regionale, emerge l’esigenza di offrire forme altre di collegamento: luoghi di incontro, confronto e lavoro unitario, liberi da vincoli di rappresentanza. Sul modello dei coordinamenti dei centri di ascolto parrocchiali diverse Caritas diocesane stanno sperimentando con successo la promozione di tavoli tematici. Sono spazi nei quali opere simili condividono valori, linee, impostazioni, metodo, fatiche, a volte anche progetti comuni. Maturano modalità comuni e unitarie di servizio e di interlocuzione con gli altri soggetti del territorio. Sono veri e propri laboratori di comunione, assai significativi anche sul piano del ‘frutto’ di servizio sociale, che nei prossimi anni sarà necessario valorizzare e sviluppare. Certo è che per tessere questo tipo di reti servono tempo e competenze. È importante non trascurare la pianificazione del lavoro nelle Caritas diocesane rispetto a questo passaggio, lavorare con gradualità sull’organizzazione e ridistribuire le risorse disponibili. 3.2.5. QUINTA PROSPETTIVA

LA QUESTIONE DEL SOSTEGNO ECONOMICO

Ferma restando l’importanza, vitale per la Chiesa, di promuovere una testimonianza personale e comunitaria fatta soprattutto di stili, atteggiamenti e scelte che moltiplicano le manifestazioni di gratuità, amore e solidarietà nei territori, è innegabile che le opere strutturate, altrettanto importanti in termini di “case e scuole di carità”, sono fortemente dipendenti dalla disponibilità di risorse materiali ed economiche. Allora, per parlare concretamente di cura e tessitura in rete delle opere non si può prescindere dalla questione economica. Le esigenze oggettive di finanziamento, infatti, espongono le opere ecclesiali – comprese quelle promosse dalle Caritas – a forti rischi di snaturamento. Occorre custodire la capacità delle opere di testimoniare un modo diverso, da quello istituzionale, nell’interpretare la vita e nel farsi carico dei bisogni dell’uomo. Un’opera ecclesiale non può rifiutare un disabile non autosufficiente perché la sua assistenza comporterebbe un insostenibile aggravio economico. Il criterio, l’ordine delle opere ecclesiali non può essere dettato solo dalla disponibilità dei contributi. Non si tratta semplicemente di andare avanti senza operatori retribuiti. Non si ribadirà, mai abbastanza, l’esigenza di coniugare il valore e le esperienze di gratuità – che è comunque fatto vocazionale, non riducibile alla questione economica - e l’esigenza di garantire continuità e competenze professionali nel servizio di carità (cfr. DCE). La questione va posta in termini di responsabilità comunitaria: se un’opera è ecclesiale, è anche la comunità che direttamente deve farsene carico (cfr. Nicora). E alle Caritas compete promuovere questo processo di riconoscimento e presa in carico da parte della comunità e del territorio.

Due sollecitazioni, tra le tante emerse dai nostri lavori. ▪ Negli ultimi anni, a seguito della disponibilità delle risorse dell’8xmille, si fatica a

cogliere un impegno costante, seppur faticoso, da parte delle Caritas diocesane sul fronte dell’educazione delle comunità anche attraverso la proposta di partecipazione attiva e corresponsabile nel sostegno delle opere ecclesiali (es. la cura dell’opera della colletta).

▪ Anche la gestione dell’8xmille assegnato alle Diocesano potrebbe beneficiare di una rilettura a partire da questi criteri. «Al direttore della Caritas spetta, in particolare

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proporre al Vescovo diocesano l’ordine di precedenza delle somme da destinare alla carità, in considerazione delle necessità emergenti». (cfr. Istruzione in materia amministrativa, n.90). Questo compito è affidato in considerazione del fatto che la Caritas diocesana è finalizzata alla «promozione e al coordinamento di tutte le attività caritative diocesane» (cfr. Istruzione in materia amministrativa, n.89).

3.2.6. SESTA PROSPETTIVA

LA QUESTIONE EDUCATIVA

Il percorso dello scorso anno ci ha condotto ad illuminare la figura dell’animatore pastorale Caritas. Colui che, partendo da qualsiasi ambito di presenza ed impegno, potremmo dire da qualsiasi opera, è capace di utilizzarla, a mo’ di leva, per la finalità prioritaria che è quella di animare al senso della carità la comunità e il territorio. L’animatore è chiamato a ‘far parlare’ le opere ecclesiali, aiutandole a realizzare azioni che mirino a sollecitare e attivare diversi mondi e specificità locali: l’informazione e la sensibilizzazione; la promozione di reti, pastorali e non; la proposta di esperienze di servizio; la promozione di luoghi di confronto, discernimento e verifica per diffondere una cultura di carità, solidarietà, attenzione e servizio. L’animatore sa vedere e sa ricollocare le singole esperienze nel tutto della storia di carità della Chiesa locale. Cura che nessuno ne rimanga escluso. Accompagna la capacità delle opere di generare ed educare nuovi cristiani. «La fede cristiana – infatti - è una fede operosa che chiede e chiama alla responsabilità e dove anche le opere – intese come strumenti, strutture, azioni ed esperienze – diventano un luogo storico in cui cresce la salvezza che Dio regala al mondo, un luogo educativo per riconoscere la salvezza oggi» (Perego).

Su questo fronte, alcune questioni interrogano con particolare insistenza la funzione prevalentemente pedagogica propria delle Caritas diocesane:

a. la formazione dell’operatore (dipendente o volontario)

Un rapporto di complementarietà lega la figura dell’animatore (che orienta il suo servizio prevalentemente alla comunità) e quella dell’operatore (prevalentemente speso nel servizio diretto ai poveri). Molta della capacità educativa delle opere ecclesiali, infatti, passa attraverso la figura dell’operatore e dentro la relazione che costruisce con le persone che serve e quelle con cui lavora. Non a caso, aprendo i lavori del 32° Convegno, il Presidente S. Ecc.za Mons. Merisi ha sottolineato che per garantire la ‘bontà’ di un’opera è necessario accompagnare la ‘bontà’ dell’operatore, capace di condividere prima che di erogare una prestazione, di rendere testimonianza di carità nel servizio.

Per le Caritas diocesane si tratta di concepire una formazione intesa non solo come trasmissione di competenze, ma soprattutto come percorso di accompagnamento della vita attraverso esperienze educative che conducano all’interiorizzazione dei valori cristiani. La cura della competenza professionale, intesa come capacità di realizzare correttamente un servizio, deve integrarsi con l’attenzione a rivelare progressivamente all’operatore il povero come ‘luogo’ di discernimento vocazionale e di incontro con Dio. Il monitoraggio, la supervisione, la verifica e l’elaborazione comunitaria dell’esperienza di servizio rappresentano, in questo senso, passaggi essenziali della formazione degli operatori. Fondamentale, inoltre, è il sostegno motivazionale e spirituale in contesti spesso molto impegnativi sul piano relazionale e poco gratificanti – ammettiamolo – in termini strettamente professionali. È necessario, infine, strumentare gli operatori rispetto

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all’apertura delle opere al territorio e alle comunità di riferimento, sviluppando le capacità di comunicazione e lavoro in rete.

b. il metodo pedagogico per le opere

La questione del rapporto con il mondo richiama immediatamente la necessità di curare particolarmente la significatività relazionale delle opere ecclesiali. Nel prossimo anno saremo impegnati a capire quali progettualità, quali proposte offrire per promuovere presso le opere il metodo pastorale per l’animazione. Attraverso i Centri di ascolto, gli Osservatori delle povertà e delle risorse e i Laboratori di promozione delle Caritas parrocchiali abbiamo molto da offrire in termini di competenze relazionali, supporto alla progettazione, capacità di lettura del contesto e verifica delle prassi. Ma abbiamo anche molto da attingere e da valorizzare in termini educativi, offrendo il patrimonio delle opere per la formazione dei presbiteri, delle famiglie, dei giovani, …

c. il rapporto tra carità e giustizia

Nella gestione dei rapporti con la comunità e il territorio, anche nel lavoro sviluppato insieme durante l’anno pastorale, è emersa costantemente la questione della «relazione tra il necessario impegno per la giustizia e il servizio della carità» (DCE). «L'amore sarà sempre necessario, anche nella società più giusta» (DCE). E tuttavia, il rischio di assumere deleghe improprie, di perpetuare e rafforzare condizioni che generano povertà e sofferenza, è sempre presente. Servire la «gloria di Dio», che è l’uomo vivente, significa adoperarsi per la giustizia, anzitutto perché abiti le opere della Chiesa. Si tratta di lavorare in termini di tutela dei diritti, denuncia delle oppressioni, individuazione e lotta delle «strutture di peccato», liberazione e promozione dei poveri. Senza dimenticare che il contribuire a «far sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato» (DCE), significa anche educare l’intelligenza e la volontà delle persone perché le esigenze della giustizia diventino non solo comprensibili, ma soprattutto realizzabili.

-4- “… Va’ e anche tu fa lo stesso” Lc.10,37

IL BENE COMUNE L’opera della politica e dell’educare al bene comune

a servizio della giustizia Premessa

Lo scenario di riferimento è dato dal Concilio Vaticano II, e in particolare dalla Gaudium et Spes, che segna un rapporto nuovo tra Chiesa e mondo, che potremmo dire ‘sacramentale’. Da alcuni testi del magistero sociale pre e post-conciliare: Giovanni XXIII, nella Mater et Magistra, Paolo VI, nella Populorum progressio, Giovanni Paolo II, nella Centesimus annus. Dalle prospettive pastorali della Chiesa Italiana elaborate al Convegno di Verona e sintetizzate nella relativa Nota pastorale. Dalla Settimana Sociale dei Cattolici italiani tenutasi a Pisa su ‘Il bene comune’.

In questo scenario di riferimento, il concetto di bene comune e di bene integrale dell’uomo non è slegato dalla persona, dalla comunità e dalla città e va considerato sul

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piano culturale e della cittadinanza, che è partecipazione, condivisione, inclusione, interdipendenza. 4.1. L’opera della politica per il bene comune (vedi Note dalle assemblee tematiche)

“Se la politica è la scienza e l’arte di costruire la città dell’uomo a misura d’uomo” (Lazzati), per orientare l’opera della politica è necessario ripartire dalla persona. Non è questione di poesia e retorica, poiché la stessa legittimazione della politica si gioca sul terreno della concretezza (Papisca). Senza pretese di dare soluzioni o facili risposte, ci siamo interrogati su quale contributo poter offrire ad un’opera in evidente crisi di credibilità. Perché per realizzare l’opera della politica occorre attrezzarsi a partire dagli incontri di ogni giorno, da una servizio quotidiano, dalla conoscenza dei volti e delle storie dei poveri e della comunità. Abbiamo scelto di lasciarci arricchire da altri modelli di animazione, esperienze di servizio, sguardi sulla realtà, progettualità a servizio delle persone dentro i nostri territori. Tra tutte quelle possibili, ci siamo concentrati su alcune tematiche che intercettano direttamente l’azione quotidiana delle Caritas diocesane, senza esaurirla. a. Sfide e prospettive dell’integrazione

L’immigrazione sta cambiando il mondo in cui ci muoviamo. Il mercato del lavoro, la scuola, i giovani, le politiche sociali. Gli atti formali della politica, anche a livello europeo, non garantiscono affatto gli immigrati da forme diverse, manifeste o striscianti, di discriminazione.

Nei Centri di Ascolto e di accoglienza, ogni giorno, verifichiamo che il lavoro costituisce la principale molla dei flussi migratori, ma anche uno delle opportunità più significative dei processi di integrazione. Eppure a fronte del dilagare di una visione dell’immigrazione positiva se e in quanto funzionale al mercato del lavoro, la discriminazione, la precarietà, il sommerso, lo sfruttamento caratterizzano l’esperienza professionale della maggior parte degli immigrati.

Occorre riportare il mercato del lavoro ad una condizione di legalità, superando la tendenza a ridurne il significato a sinonimo di sicurezza e/o ordine pubblico, e recuperando invece la sua più piena accezione di rispetto di regole chiare ed efficaci. Ma il contesto esige anche un nuovo orizzonte di impegno educativo e di accompagnamento: è necessario sviluppare nuove forme di coinvolgimento delle seconde generazioni di immigrati, per aiutarle a recuperare una prospettiva di futuro libera dai condizionamenti dovuti all’esperienza lavorativa dei genitori. b. Dal piano nazionale di contrasto alla povertà, alle politiche locali

Ragionare sulle politiche non è altra cosa dal “fare” pastorale. La Chiesa è chiamata, infatti, ad offrire elementi per favorire la crescita consapevole delle comunità e lo sviluppo della solidarietà. A monte, è necessario maturare consapevolezza sul fatto che non è possibile costruire un piano nazionale efficace di contrasto alla povertà senza il coinvolgimento e l’attivazione, dall’interno e dal basso, dei contesti locali. Nel contempo, la sostenibilità delle politiche locali in tal senso è vincolata alla capacità dei territori di superare chiusure autoreferenziali, integrandosi in una prospettiva nazionale.

Occorre vigilare sul buon uso delle risorse destinate al bene comune. Si tratta soprattutto di promuovere un sistema di politiche sociali orientato allo sviluppo delle

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competenze, perché le persone possono fruire dei diritti solo nella misura in cui diventano soggetti attivi dei propri percorsi di vita.

La capacità delle Caritas diocesane di incontrare e comprendere i contesti, anche attraverso lo sviluppo degli Osservatori delle povertà e delle risorse, può offrire alla Chiesa – soprattutto attraverso le opere ecclesiali - strumenti efficaci per contribuire alla costruzione dei piani di zona, e di forme simili di progettualità politica. Si tratta di opportunità preziose di partecipazione al bene comune, da cogliere con responsabilità. c. Operare per i beni comuni: alleanze per una terra futura

Di fronte alla percezione più chiara della limitata disponibilità di risorse, emergono alcune esigenze:

• anzitutto quella della definizione dei “beni comuni” e della loro natura: la pace, la sicurezza, i saperi, ma anche il clima, la biodiversità, gli ecosistemi, sono beni comuni, tra loro strettamente interdipendenti e fortemente legati alla garanzia e al rispetto dei diritti;

• in secondo luogo, quella di accordarsi circa le modalità di gestione di questi beni, per costruire alleanze funzionali a garantirne la salvaguardia, considerata l’impossibilità di farlo a livello locale e individuale.

Su questi fronti, squisitamente educativi, le Caritas diocesane hanno molto con cui contribuire, a partire dai percorsi di prossimità con quanti subiscono gli esiti di una gestione ingiusta di questi beni.

Si tratta di tematiche complesse, spesso molto tecniche, rispetto alle quali è necessario recuperare la centralità dei legami relazionali. La condivisione e la compartecipazione dei cittadini sono requisiti fondamentali per garantire risultati concreti, anche sui temi ambientali. È dalla consapevolezza dell’interdipendenza reciproca, infatti, che deriva una maggiore responsabilizzazione. Ed è dalla responsabilità che derivano forme nuove di mutualità ad integrazione dei sistemi di politiche sociali. d. Opere e sviluppo locale: Chiesa e Sud Italia

Lo sviluppo economico è connesso alla prossimità ed alla coesione sociale, non alla disuguaglianza e alla sperequazione. Solo partendo da questo presupposto è possibile sperimentare piste operative per superare situazioni di disparità, come quelle localizzate nel Sud del Paese.

In questi anni, attraverso la promozione di realtà sociali, anche grazie a progetti pastorali fortemente innovativi, come il Progetto Policoro, le Caritas hanno contribuito a infrastrutturare il territorio meridionale dal punto di vista sociale. Occorre perseverare in questo impegno, sviluppare sistemi socio-economici solidali, puntando anche a dare concretezza a forme di cooperazione interregionale fra Nord e Sud del Paese. Soprattutto, è importante fare le cose non solo per il Sud, ma anche con il Sud, promuovendo la logica della condivisione e della compartecipazione attraverso il rafforzamento delle competenze. Occorre prevedere dei consessi ulteriori in cui tracciare piste di lavoro sul tema del Sud, avviando un confronto a breve per delineare le strategie da adottare col coinvolgimento di tutte le Caritas. e. Dare un futuro all’Europa: l’opera delle Chiese cristiane

Nel settembre del 2006 abbiamo accolto, tra le cinque prospettive offerte a Caritas Italiana e alle Caritas diocesane dal Consiglio Permanente della CEI, quella di lavorare per

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sostenere “una corretta progettualità e presenza nella più ampia dimensione europea”. È in questa cornice che vanno ormai inserite riflessioni, considerazioni e letture dei temi e delle politiche sociali.

A questo proposito, sentiamo la necessità di conoscere meglio questa realtà, soprattutto per raccogliere e trasferire ai livelli istituzionali competenti le istanze dei cittadini più deboli e contribuire alla costruzione di un’Europa sociale.

Il 2010 sarà l’anno che l’Europa dedicherà alla lotta alla povertà. Anche per le Caritas diocesane questo appuntamento prospetta un biennio ricco di opportunità sul piano educativo. Due, in particolare, i percorsi possibili: • da una parte la promozione di azioni di sensibilizzazione dei contesti locali sul tema

del contrasto della povertà, valorizzando la ricchezza della riflessione sul piano di contrasto nazionale;

• dall’altra stimolando una riflessione, che possa tradursi in ricerca e sperimentazione, sugli strumenti di rilevazione e monitoraggio degli interventi messi in campo.

f. Reti per globalizzare la solidarietà

Nel contesto della globalizzazione la rete è concepibile come una nuova forma di partecipazione nonché come strumento per globalizzare la solidarietà. Dal momento che si danno nuove forme di oppressione, queste richiedono nuove forme di “saperi” per contrastarle. Il tema è tutto ancora da esplorare, poiché per globalizzare la solidarietà occorrono strumenti globali, non ancora sperimentati. Certo è che per trasformare la rete in un sistema, per di più virtuoso, non basta creare delle strutture di solidarietà, occorre viverla come forma di relazione, in cui si verifica ciò che unisce, ciò che c’è di buono e si valorizza il contributo di ciascun soggetto che la compone. Esperienze come i Social Forum, che vedono la partecipazione di realtà diverse, ecclesiali e civili, testimoniano la sostenibilità di tessere efficacemente reti a partire dal basso. 4.2. L’opera della Chiesa: educare ed agire per il bene comune.

Il concetto di bene integrale della persona esige di stare dentro un’ampia scelta educativa che chiede di dare sviluppo ad alcune attenzioni particolari: l’attenzione a ordinare le cose, i beni rispetto al bene, che è la persona; una pari attenzione – come sottolinea il Papa nella Deus caritas est – al corpo (offeso, tradito, umiliato, venduto, violato, abbandonato, …) rispetto all’anima nell’annuncio della novità dell’esperienza cristiana che è attenzione all’unità della persona; la distinzione tra ciò che è immutabile, da ciò che cambia nella storia delle persone, perché non sia la persona a soffrire i cambiamenti, ma i cambiamenti ad adeguarsi alle persone; infine, l’attenzione a una cultura, che impasti l’unità del sapere, assuma l’alterità, rispetti le differenze, eviti ogni chiusura identitaria.

L’educare al bene comune, che è opera di Chiesa, di “un cuore che vede” (DCE, 31b), impegna a percorrere alcune strade necessarie: la strada della scelta preferenziale dei poveri, cioè il ripartire da chi manca, non ha lavoro, soffre, non ha una famiglia, è ferito in tanti modi, … per riordinare la comunità, nel segno della fraternità indicata già dalla comunità apostolica (cfr. Viola). La strada della destinazione universale dei beni, che chiede l’uscita da ogni forma di mercato di alcuni beni essenziali (l’acqua, la terra, l’energia, …) e relazionali (la pace, l’istruzione, l’informazione, la salute, …) per favorire condivisione diffusa. La strada della globalizzazione dei diritti, che interpreta in maniera nuova questo incontro di

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popoli nella mobilità che ormai ogni anno interessa 200 milioni di persone e che in Italia nell’ultimo trentennio ha portato persone di 193 nazionalità diverse, di diverse culture e religioni. La strada di una nuova ‘città’, di un nuovo territorio, di una nuova politica. Una città chiamata a favorire incontri, relazioni, confronto, tutela dei diritti; una città aperta, che considera le persone in una logica di prossimità più che di invisibilità. Una città che rende accessibili a tutti i suoi beni. Una città ripensata a partire dal ‘comune’ come luogo di partecipazione e di crescita di cittadinanza. Una città aperta ai diritti dei deboli che chiede un rinnovamento dello Stato sociale trasformandolo in ‘Stato sociale relazionale’.

Il percorre queste strade chiede e provoca la messa in atto di alcuni percorsi educativi: un primo percorso educativo riguarda la scelta pastorale delle relazioni – così come indicato dal IV Convegno ecclesiale di Verona e dalla relativa Nota pastorale. È una scelta che impegna a ridisegnare la pastorale non solo attraverso la ‘conta’ delle opere, ma attraverso luoghi, storie, occasioni di incontro, ascolto e relazioni con le persone. L’interesse per le persone è il vero ponte che aiuta a costruire comunità e città, partecipazione e cittadinanza. Un secondo percorso educativo riguarda l’uso dei beni. È un invito a ripensare il dono, la colletta in un vissuto personale e comunitario individualista ed egoista. La città va arricchita di storie e itinerari ricchi di esperienze di servizio, di consumi in senso equo, solidale e responsabile, di risparmi in senso etico e globale, di investimenti attenti agli aspetti sociali (casa, sanità, educazione, cultura, …), alla cooperazione internazionale e al rispetto del creato. Un terzo percorso educativo riguarda la povertà. Vanno costruiti percorsi di incontro ascolto, relazione e condivisione con i poveri che aiutino anche ad allargare lo sguardo sul mondo in termini di cooperazione e di sviluppo. Va dato valore alla povertà, ai mezzi poveri, come scelta personale e di comunità. Un quarto percorso educativo riguarda il ritorno alla partecipazione. Il decentramento, i consigli ai diversi livelli, chiedono di investire di più sull’educazione alla comunità e al territorio. Un quinto percorso educativo riguarda l’interculturalità. Vanno percorse nuove strade di condivisione del territorio, della terra e delle case. Le nostre comunità vanno impegnate ad essere ‘laboratori’ di incontro, confronto e scambio per un vivere comune che non voglia escludere. Un sesto percorso educativo riguarda nuovi stili di vita. Va fatta nostra la ‘questione morale’. Va recuperata l’opera della legalità in maniera diffusa: non scegliendo forme di difesa autonoma (la crescita della vendita delle armi leggere lo scorso anno al 18% va in altra direzione), di lavoro nero o sottopagato, di giustizia comprata, di sfruttamento dell’ambiente, di violenza oppressiva e mafiosa, di interessi di parte. Conclusione I luoghi dell’educare al bene comune della Chiesa

Le nostre comunità cristiane, chiamate a vivere ‘dentro’ la storia, a vivere ‘adesso’, non sono estranee all’educazione e alla crescita del bene comune. Tre sono i luoghi e le esperienze forti di una parrocchia in cui, a partire dalla persona, educare al bene comune: ▪ Il luogo eucaristico, domenicale, che impegna ogni domenica nel “per voi” e “per tutti”

come dinamica di dono, gratuità, condivisione, ascolto, apertura alla speranza. Partecipazione alla novità di vita in Cristo. La cultura eucaristica è una cultura del bene comune e della dinamica aperta all’uno-tutti.

▪ Il luogo dell’annuncio. Il documento base della catechesi chiede il passaggio da una catechesi dottrinale a una catechesi esperienziale. I nuovi itinerari e percorsi di catecumenato e di iniziazione cristiana invitano a questo. L’annuncio cristiano oggi

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deve farsi carico di un’educazione al bene comune intesa come essenziale dell’agire e della testimonianza cristiana oggi.

▪ Il luogo della carità. Non c’è comunità che non abbia un segno, un luogo di carità, un’esperienza e un progetto di carità: piccolo o grande. Si tratta di non isolare luoghi, gesti, esperienze di carità dalla crescita e dal rinnovamento di una comunità. Si tratta di ‘ordinare’, organizzare la comunità a partire dalle molteplici opere di ascolto, incontro, relazione e amore per giungere alla caritas.

Questi tre luoghi aiutano a dare casa alla speranza. A partire da questi tre luoghi, da questi tre ‘sacramenti’ (Parola, Eucaristia, Poveri) la comunità ritrova il ‘Bene’, ritrova Dio, ‘vive bene’ (S. Tommaso), si rinnova nella comunione e nella fraternità. Si apre al mondo, evangelizza. Porta salvezza a tutti.