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Pronti? Racconti della scuola Sinopoli Ferrini 2017

editing a cura di Agrin Amedì, Alice Felci e Enrico Valenzi referente del progetto di scrittura creativa: prof.ssa Paola Spinelli

© copyright dei rispettivi autori.

Impaginazione e grafica di Luigi Annibaldi

www.omero.it

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Odio i topi. Sono un topodi Elisa Di Giorgio

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Al mattino mi svegliai e, d’improvviso, mi sembrò tuttomolto più grande: il cuscino era venti volte me. Provai adalzarmi ma i miei movimenti si traducevano in piccoliscatti nervosi. Non capivo, finché non vidi una lunga coda,grazie alla luce offerta da uno spiraglio del piumone. Rab-brividii. Quella era la coda di un ratto e quella coda eraattaccata al mio corpo. D’istinto cercai di uscire dalle co-perte, seguendo la poca luca proveniente dallo spiraglio, esubito provai a chiamare mamma; ma al posto del suonome venne fuori uno squittio. Non riuscivo proprio aspiegarmi tutto ciò e, anche se ero in una situazione moltostrana e complessa, era comunque mattina e io avevofame. Mi ricordai di un cartone animato che vedevo dabambina e il cui protagonista era proprio un topo sma-nioso di formaggio. Allora pensai che magari sarei potutaandare in frigo a prendere un pezzettino di quella fontinache ci avevano regalato, ma che non avevamo mai aperto.

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La mia stanza però aveva la porta chiusa. Tentai in tutti imodi di uscire ma ogni mio sforzo era inutile: ero troppopiccola e non avevo più le mie braccia per aprire la porta.

Mi ricordai che il giorno prima a scuola non avevo fi-nito la merenda e speravo che mamma si fosse dimenticatadi toglierla dallo zaino. Così vi entrai: era tutto buio, mariconobbi dall’odore la frutta secca. Con le zampette tra-scinai fuori il contenitore. Inizia a rosicchiare il tappo finoa quando quest’ultimo si aprì. Con i miei dentini da rodi-tore divorai tutto. A questo punto, soddisfatta la fame,avevo sete. Rientrai nella cartella e spinsi fuori anche labottiglietta, ma l’acqua era finita tutta. Gironzolai per lastanza cercando di farmi venire un’idea e all’improvvisovidi l’umidificatore del termosifone, salii sulla sedia poisulla scrivania e finii dritta dritta dentro il contenitoredell’acqua. Dopo aver bevuto non riuscivo più a uscireperché per mia sfortuna l’umidificatore era stretto e diforma cilindrica. Grazie alle mie abilità di topolino, però,dopo qualche peripezia riuscii a risalire lungo il gancettodi ferro attaccato al termosifone. Mi ritrovai così a giron-zolare per la stanza. I miei peluche ora sembravano deimostri e cominciai a correre sbattendo qua e là… Mi sen-tivo triste, persa e sola. Non avevo nessuno con cui parlare,volevo solo piangere... E poi mi chiesi: “ma i topolini,piangono?”

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Il mio picchioElisa Di Giorgio

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Ogni sera, prima di addormentarmi, sentivo un rumoreprovenire dal corridoio. Era molto strano, sembrava quasiche qualcuno stesse bussando al muro. Io non avevo maiavuto coraggio di alzarmi dal letto e andare a vedere cosafosse, fino a quella sera. Sul comodino tenevo una diquelle lucine a forma di fantasma, la presi in mano, strin-gendola, come quando la ricevetti in regalo da mamma epapà. Feci un gran respiro e uscii dalla stanza. Ero spa-ventata quanto curiosa. A ogni passo che facevo il rumoreera sempre più forte. Illuminando il corridoio, il rumoremi condusse fino al ripostiglio: aprii la porta e mi trovaifaccia a faccia con un picchio. All’inizio ero impaurita emi chiesi cosa ci facesse un uccellino in casa mia, anchese dopo un po’ tutto quello spavento, miscelato al suo tin-tinnio, scomparve. Lo guardai a lungo, era bellissimo: leali, il dorso e la coda erano neri, con delle strisce bianchesulle penne. Il ventre, i fianchi e il sottocoda erano an-

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ch’essi bianchi; mentre testa, collo e petto erano di colorerosso, con una banda nera fra occhi e il becco. Quest’ul-timo era lungo, a forma di cono gelato e nero, mentre lezampe erano di color grigio e gli occhi bruno scuro. Sem-brava che in quel momento quello più spaventato fosselui. Mi venne in mente un libro sui picchi che lessi qualcheanno prima e quindi, per fargli vedere che non gli avreifatto nulla di male, andai in cucina e presi delle nocciole.Quando gliele portai ne misi due vicino a lui e ne mangiaiuna pure io. Lui mi guardò attentamente e dopo un po’ siavvicinò, mangiò e ingoiò tutto insieme. Dopo quell’in-contro meraviglioso, non volevo più dormire da sola: ilquel picchio, e lui solo, mi avrebbe potuta aiutare a ripren-dere sonno. Così mi avvicinai e gli allungai un dito odo-roso di nocciole. Lui picchiettò su questo e ritrassi la manoper il dolore, portandolo alla bocca. Rimisi la mano nelsacchetto di nocciole e gliela offrii nuovamente. A quelpunto, con un saltello conciso, salì sopra. Il cuore mi bat-teva forte ma mi sforzai di non fare movimenti bruschiper non spaventarlo, e mi diressi verso la camera da letto.Chiusi la porta alle mie spalle e, forse per il rumore, il pic-chio volò sulla libreria, cominciando a picchiettare. Tuttoa un tratto, quel rumore non mi sembrò più spaventoso,anzi mi face sentire meno sola. Sorridendo, alla fine ce-detti al sonno. Al mattino mi svegliai e lo cercai, ma lui

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non c’era più. Lo sconforto mi pervase fino ai piedi e alzaigli occhi: un buco nuovo nella libreria mi spinse ad alzarmiper carpirne l’origine: vi trovai tre nocciole. E il mio sor-riso.

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Chiudo la portadi Tommaso Ciullo

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Ogni sera, proprio quando mi infilo sotto le coperte ecerco di prender sonno, un rumore simile a un tintinniodi monete che cascano su un piano metallico mi tiene sve-glio. Poi si interrompe e a questo segue un leggero scric-chiolio. Nelle sere passate, la mia curiosità era tanta, malo era anche la paura, per cui ho sempre rinunciato a sco-prire quale fosse l’origine di quel rumore. Ma ora ho de-ciso: questa sera non sarà lo stesso!

Così mi alzo e cerco di capire da quale stanza provengalo strano rumore e noto che, avvicinandomi alla cucina,questo si fa sempre più intenso. È buio, ma decido di nonaccendere la luce per non svegliare nessuno. Così apro laporta del frigorifero per sfruttare la sua luce e proprio inquel momento il rumore sembra ancora più forte di prima.Mi abbasso per guardare tra i suoi ripiani e la vedo: unapiccola palla di pelo nascosta dietro un cespo d’insalatacon due occhietti impauriti, sta lì a fissarmi. Ma riesco a

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vederla solo per pochi secondi perché, preso dall’agita-zione, chiudo di colpo il frigo e corro sotto le coperte.

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Animali fantastici1B

Il disgustorsodi Viola Di Lorenzo

Il disgustorso è un orso curiosamente diffuso, anche sepoco conosciuto: odia il miele perché è assolutamente ve-gano e superschizzinoso.

Celiacallinadi Elisa Di Giorgio

Trattasi di una gallina celiaca che rifiuta orzo, fru-mento, grano e cereali facendo impazzire il fattore con ri-chieste alimentari assurde.

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L’asinoetadi Elisa Di Giorgio

È un asino che gira per la fattoria recitando poesie diLeopardi, Shakespeare e Dante facendo annoiare a mortetutti gli altri animali.

La gazzamica di Tommaso Ciullo

Si tratta di una sottospecie di uccello comunementechiamato “gazza ladra”: la sua peculiarità consiste nel sot-trarre dai nidi delle gazze ladre gli oggetti da loro rubati,per poi riportarli alle case dei proprietari.

Il rinostendino di Tommaso Ciullo

In Sud Africa, solo in prossimità di laghi, è possibileosservare un animale molto curioso: il rinostendino. È unrinoceronte molto pigro che sta sempre vicino a un lago,così da non doversi muovere neanche di un centimetroquando ha sete. La nonna giraffa, che non ci vede tanto

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bene, quando finisce di lavare i panni nel lago, confondeil grande corno del rinoceronte con uno stendino e così lousa per stendere il bucato.

La zebrazoodi Tommaso Ciullo

Famosa per le sue fughe, ha girato tutti gli zoo delpaese e in un modo o nell’altro riesce sempre ad evadere.Per sua sfortuna, le guardie riconoscono ogni volta il suovestito da prigioniera e la rimandano in cella.

Il cangallodi Sofia Saggiorato

Il cangallo è il vero protettore dei pollai, perché puòmettere una volpe in fuga abbaiando; e per questo motivoè molto ricercato dai contadini.

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Chiupicchiodi Giordana Vista

A differenza di tutti gli altri picchi (che di solito fannoi buchi negli alberi), il chiupicchio al posto di fare i buchi,con la sua tenacia, li chiude.

Bruchieredi Leonardo Matos

Il bruco-cameriere, comunemente detto “bruchiere”,con le sue molte zampe riesce a servire contemporanea-mente tutte le persone

Il pennagallodi Elisa Di Giorgio

È un gallo che ama staccarsi le penne intingerle nel-l’inchiostro e scrivere bellissime storie.

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Momenti di trascurabile felicitàdi Leonardo Matos

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Quando bevi la Coca cola e le bollicine ti vanno nelnaso.

Quando chiami qualcuno al cellulare che non rispondee poi ti richiami nello stesso istante.

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Momenti di trascurabile felicitàdi Viola Di Lorenzo

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Quando appendi le ciliegie alle orecchie come orec-chini.

Quando ti infili i biscotti Bucaneve nelle dita come sefossero anelli e poi li mangi.

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Strani rumori in casadi Leonardo Matos

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Ogni sera sento degli strani suoni provenire dalla cu-cina. Questa volta mi faccio coraggio e decido di andare acapire cosa succede. Vado con la torcia del cellulare perfarmi luce, mi dirigo in cucina. Man mano che mi avvicinoil rumore diventa sempre più forte. Sembra provenire dallavandino. Guardo meglio e vedo spuntare un piccolotopo. Riesco a illuminarlo solo per un secondo: è biancocon dei sottili baffetti grigi. Sembra innocuo. Inizia a par-lare e mi dice che è venuto a cercare da mangiare perchécasa sua è distrutta. Lo caccio via con una pedata perchémi fa impressione.

Quando al mattino vado in cucina vedo che sul frigoc’è attaccato un biglietto di scuse. Capisco perché soloquando vedo più della metà del frigo vuota.

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Forse un vampirodi Dario Vittorini

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L’eco dei rumorosi saluti dei miei amici si era ormaispento e nella mia via, stretta e lunga, non si sentiva piùnulla. M’incamminai verso casa mia, passai sotto un lam-pione e fui felice di vederne la luce tranquillizzante. Stavoper citofonare ai miei genitori, quando da dietro l’angolosbucò un bizzarro micetto, ben curato ma maleodorante.Lo seguii con lo sguardo fino a quando non sparì dietro auna vecchia macchina parcheggiata. In quel momento miaccorsi che lì dietro c’era qualcuno. Mi colpirono gli occhiscintillanti, penetranti e smisurati. Una specie di sestosenso mi rivelò la sua inquietante presenza come infausta,decisi perciò di stare in guardia e di salire al più presto acasa. Ma il bizzarro personaggio, con voce femminile pro-fonda, mi apostrofò dicendo: “Non aver paura, non ti faròdel male, ti voglio solo parlare.” Io mi paralizzai. La mi-steriosa figura decise di mostrarsi e uscì dal riparo dellamacchina. Era una ragazza con la faccia pallida e gli arti

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nodosi e simili a quelli delle bambole antiche. Notavo be-nissimo un odore sulfureo che scaturiva dal suo corpo, si-mile a quello del gatto di prima. Tanto che pensaiall’assurdità che lei e il gatto fossero una cosa sola. Il suoaspetto era anche attraente. O forse la ragazza lo era perqualcosa di interno. “Chi sei? Mi hai spaventato.”

“Non mi hai mai vista, ma io sì. Sono la tua nuova vi-cina di casa.”

“Strano allora che la tua faccia mi sia nuova. Che midevi dire?”

“Come è stata la festa?”“E tu che ne sai? Spero che tutto questo non sia per

chiedermi questa stupidaggine.”“Ti volevo solo conoscere perché poi non potrò più

farlo. Addio.”“Ciao.” Le risposi, restando stupito dalla sua ultima

misteriosa frase.Se ne andò a grandi passi, dei balzi, e attraversò la

strada vuota fino al suo pesante portone che spalancòsenza sforzo. Io citofonai ai miei e salii a casa pensierosoe un po’ intimorito.

Per un po’ di giorni ripensai a quella sera, al gatto, albuio e alla ragazza. Mi domandavo se fosse arrivata percaso o se mi stesse aspettando. Un giorno mi affacciai dallafinestra e la vidi rientrare nel suo palazzo. Pochi minuti

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dopo al telegiornale diedero il nefasto annuncio dellamorte di un ragazzo ritrovato dissanguato nel nostro quar-tiere. Un brivido mi attraversò la schiena. La sensazionesempre più terribile che lei c’entrasse qualcosa mi facevainorridire. Non volevo crederci. Ormai pensavo semprepiù spesso a quella sera e all’effetto che mi aveva procuratola vista di quella strana ragazza. Una mattina la vidi chesaltava dalla finestra del primo piano del palazzo di fronteal mio. Un volo di quattro metri senza farsi neanche ungraffio. Avevo sempre più paura di quella ragazza. Cercavodi controllare la sua finestra per capire se era o meno incasa, così da uscire per evitare di incontrarla. Ma un po-meriggio la incrociai. Era pomeriggio e per fortuna instrada c’era gente. Cercai di evitarla ma lei mi si avvicinòridacchiando. “Che hai paura di me?” Per un momento mipentii di aver pensato tante cose brutte su di lei. “Ma chedici. Sono un maschio e non ho paura di una ragazza cheè pallida come il latte.”

Le mie intenzioni spavalde non andarono da nessunaparte. La sua faccia si oscurò e per un momento la suaespressione corrucciata la fece sembrare una vecchia. Ebbipaura del suo sguardo che diventava sempre più animale-sco. Scappai, cercando di passare tra la ragazza e il muro.Ma nel farlo mi graffiai sulla parete del palazzo. Una goc-cia di sangue cadde ai piedi del muro giallo. Lei si fermò,

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si inginocchiò e la leccò. Poi mi guardò il braccio ferito esi avventò contro di me. Stava passando un signore che ciguardò terrorizzato. Senza parole mi guardò scappare in-seguito da quella strana ragazza per la stretta e lungastrada dai muri gialli, mentre il fantomatico gattino ci os-servava con gli occhi spalancati e pieni di luce riflessa dalsole tramontante.

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Le ali dei ragazzidi Stefano D’Auria

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‘Ho deciso’, mi dissi, ‘non lo dirò ai miei genitori, loscopriranno da soli’.

Le piume rosse dietro la schiena erano sempre più foltee tenerle nascoste mi dava tanto dolore. Speravo fosse unfenomeno passeggero e invece continuavano a crescere.Le nascondevo con accortezza, ma spesso laceravano ma-gliette e golf. Poi una notte avvertii un dolore mai sentitoprima, come se il mio corpo si stesse sviluppando. Andaiin bagno e mi specchiai. Due grandi ali rosse si scuotevanosenza che io riuscissi a fermarle. Come avessero vita pro-pria. Forse perché ero molto emozionato e impaurito. ‘Seho le ali’, pensai, ‘dovrò volare’. Non mi piaceva l’idea divolare perché avevo paura di perdermi nella vastità delcielo. All’alba andai nel cortile di casa, mi tolsi il pigiamae la maglietta e provai a lanciarmi in volo ma ogni voltasbattevo contro i rami degli alberi e mi ritrovavo a terraconfuso e graffiato. A colazione mia sorella mi guardò in

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modo strano perché avevo il viso graffiato dai rami per imiei goffi tentativi di volo. Invece mio padre sorridendomi disse “Ehi, albatros, ti stai sviluppando ragazzo mio,tra un po’ ti sentirai come se avessi le ali e così volerai sem-pre più lontano da casa”. La sua battuta mi sembrò strana.Era una metafora, niente di più, e alludeva alla mia etàsempre più matura. Però mi fece effetto e mi diede corag-gio. La mattina dopo mi svegliai di nuovo presto e tornaiin cortile. Dovevo trovare dei pensieri positivi per riuscirea volare. Gli alberi mi circondavano minacciosi. Pensai‘Potrò vedere tutto dall’alto e nessuno mi darà più fasti-dio’. Ma non funzionava. Mi davo la spinta con le gambema le ali restano piegate su se stesse. Pensai ancora ‘Potròstare con gli uccelli e planare sul mare.’ Ancora niente. Poiimmaginai mio padre che mi salutava e mi incoraggiava.E allora pensai ‘Potrò renderti fiero di me!’.

Nello stesso tempo mi accorsi che mio padre era scesoanche lui in cortile ed era appoggiato al tronco di un al-bero e mi guardava, in attesa che io trovassi la forza peralzarmi in volo. Successe tutto in un attimo. Le ali rossesi aprirono e brillarono al primo sole del mattino. Mi stac-cai da terra, afferrai mio padre e lo sollevai. Riuscivo a te-nerlo! Lo posai sulle mie ali e lo sentii ridere e capii chela libertà non era pericolosa. Risi anch’io, facendo brillareancora di più le mie ali di fuoco.

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1500 battiti al minutodi Luca Pagnacco

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Sono strane. Mi danno fastidio. Sono ali. Non mihanno rapito gli alieni. Nessuno mi ha infilato in un bariledi rifiuti radioattivi. Semplicemente avevo due tumori eriuscimmo a curarli e inevitabilmente mi caddero i capelli.Quando iniziarono a ricrescere, però, cominciò a pru-dermi la schiena. Pensai fosse una cosa normale, ma cosìnon era. Mi stavano crescendo le ali. Sono le ali di una li-bellula, quindi sono brutte e sono quattro. Guardando illato positivo, se mai dovessi imparare a volare, avrei il dop-pio della forza. Per di più sono facili da nascondere. Seavessi le ali di un albatro sarebbe davvero impossibile farlo.

All’inizio non volevo dirlo a nessuno. Ma i miei geni-tori e mio fratello se ne accorsero. Mi madre sostenevache io dovessi semplicemente amputarle e insabbiare lafaccenda. Ma io stavo dalla parte di mio padre: dovevoimparare a volare. A mio fratello non importava un gran-ché. Alzò la testa solo quando gli dissi che forse l’avrei

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portato a fare un giro, un giorno. O meglio, una notte. Laprima volta che provai le ali al lago di Bracciano, andai afinire dentro l’acqua. Mi misi così a fare delle ricerchesulle libellule e scoprii che le ali le usano principalmenteper tenersi in aria, mentre per spostarsi usano gli sposta-menti di peso, come dei minuscoli elicotteri. Scoprii cheuna libellula batte le ali 1500 volte al minuto.

Era bellissimo poter vedere la propria città dall’alto,sentirsi padrone di tutto, avvertire la brezza che percorretutto il corpo, e volare leggeri. Ma ci sono anche dei latinegativi: stare in aria è uno sforzo immane e per di più inalto non c’è molto ossigeno e quindi fatico molto a recu-perare la forze. Molte volte mi capita di non riuscire astare in aria e di cadere giù, fino a che non trovo le forzeper non andare dritto sul terreno. Eh sì, a volte cado pureapposta perché è divertente, ma anche molto pericoloso.Col passare del tempo la voce sulle mie ali di libellula si èsparsa. E allora mi vengono fatte le domande più strane.La più folle di tutte è se le mie ali sono abbastanza resi-stenti da essere usate come vassoi. A scuola mi prendonoin giro e si portano dietro barattoli di insetticida o paletteschiacciamosche. Ho iniziato a pensare di tagliare via leali. Ma proprio nel momento in cui ero pronto con unpaio di enorme cesoie mio padre mi fermò. E volò insiemea me.

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Un gioco antico, molto divertentedi Vittoria Solano

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Caro diario, oggi sono andata a scuola con papà nella sua nuova

macchina. Ha un’antigravità molto più potente di primae un reattore arc spaziale, ma le altre macchine ci rallen-tano durante il percorso e papà dice un sacco di parolacce.Arrivata a scuola niente di interessante, a parte il fatto chela nuova atmosfera comprata dalla terra fa rizzare i capellidella prof. Molto divertente, lo ammetto. Tornata a casaho preso il tubo gravitazionale e sono scesa in cucina amangiare fragole sotto mercurio e un toast al burro di ara-chidi e plutonio perché poi sarei dovuta andare dalla miaamica Kirbruk che abita lontano e il plutonio, si sa, daforza e velocità. Kirbruk, è un nome non molto comune,vero? Ma per un aliena va più che bene! Lei ha un fisicoatletico simile al nostro, una carnagione leggermente ver-dina e graziosi riccioli verdi. Porta sempre un vestitinoviola metallizzato con un’alta cinta fucsia. Sono salita sullo

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skylet (uno skateboard senza ruote) e ho cominciato a di-rigermi verso casa di Kirbruk. Mi sono imbattuta in unabellissima collina che a prima vista sembrava molto stabilee così ho deciso di salirci sopra per fare un bel freestylecon lo skylet. Mentre salivo velocemente sulla collina sen-tivo dei brutti rumori. Ero a conoscenza di alcune collinepresenti nella campagna di Townsville che erano come deiconi vuoti al centro, ma non avrei mai immaginato chequella collina fosse proprio una di queste. Lo skylet usaun forte campo magnetico che fa molta pressione sul suoloe difatti, poco dopo, la collina si è aperta con una voraginenel terreno facendomi cominciare una lunga discesa nelvuoto. Era un crepaccio profondissimo e finalmente, dopotanti secondi di caduta libera, sono atterrata su un cumulodi cianfrusaglie. Ho tirato fuori dallo zaino la mia torciabionica, l’ho shakerata per pochi secondi e l’ho lanciatalontano. La lugubre grotta si è riempita di luce rivelan-domi un intero mondo fatto di oggetti per me sconosciuti.Uno su tutti mi ha incuriosita. Era un oggetto di formasferica, altamente colorato e gonfiato con ossigeno per far-gli assumere questa strana forma, buffa. Buffissima! Eramolto simile alla stratosfera mignon con cui di solito gio-cano i cani. Le stratosfere mignon però sono bianche e,se si è fortunati si possono trovare in varie sfumature digrigio. Ma questo oggetto aveva colori super sgargianti

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che non avevo mai visto così vividi, nemmeno sull’arco-baleno, nella scomposizione della luce attraverso l’acqua.Le stratosfere mignon poi sono piccole e dure, adatte aicani, mentre questo oggetto era grande, paffuto e mor-bido. A che serviva questo oggetto? Il cumulo di cianfru-saglie su cui ero seduta non era molto stabile e infatti haceduto facendomi scivolare e sfuggire dalle mani lo stranooggetto. Mentre rotolava giù per la montagna di detritil’oggetto aveva una bizzarra andatura. Stava rimbalzando!Forse era un antico gioco. Corsi giù per la montagna dicianfrusaglie e dopo una corsa frenetica riuscii di nuovoad afferrare l’oggetto. In quello stesso punto ho ritrovatolo skylet e con un po’ di propulsione in più sono riuscita atirarmi fuori da quel posto bizzarro. Quando sono arrivatadalla mia amica Kirbruk lei era arrabbiata con me per ilritardo spaventoso. Ma io le ho mostrato la sfera coloratache avevo con me e gliel’ho lanciata addosso. Per lei è statoun gioco da ragazzi afferrarla. Come aliena ha due bracciapiù di me. Quando me l’ha tirata indietro, la sfera mi èarrivata addosso con una velocità che mi ha fatto indie-treggiare di due metri. Ci siamo messe a ridere. La sferacolorata ora è diventato il nostro gioco preferito.

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Un amico immaginariodi Linda Cuva

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Ciao, io sono Sara. Ho i capelli biondi, sono di mediastatura e posso passare attraverso le pareti, posso volare,teletrasportarmi… Ah, giusto, quasi dimenticavo: sonoun’amica immaginaria. La ragazza che mi ha creata sichiama Cloe. Io sono l’amica immaginaria di Cloe daquando lei ha più o meno sei anni. Questo spiega perchéio porti un vestito rosa da principessa, delle scarpe coltacco e una coroncina. È tutto un po’ scomodo ma in quat-tro anni mi ci sono abituata. All’inizio la mia amicizia conCloe era solo un motivo di divertimento per lei. Insommaquale bambino piccolo non ha un amico imma-ginario?Solo che da quando ci siamo trasferiti dalla Grecia non èpiù così. La famiglia di Cloe ha sempre avuto un po’ diproblemi economici. Negli ultimi anni però sono aumen-tati, tanto che abbiamo dovuto trasferirci in Italia. Finoad ora Cloe era sempre stata troppo affezionata a me per

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farmi sparire, ma ora che siamo qui sento che c’è un altromotivo. Cloe ha appena iniziato la prima media e non staandando benissimo. I voti non sono molto alti perché co-munque passare dal greco all’italiano non è facile. Non haamici oltre me perché non riesce a socializzare con gli altri,è sempre più chiusa in se stessa e parla solo con me. I ge-nitori sono ogni giorno più preoccupati, ma io no. A mepiace il fatto che lei sia emarginata. Infatti si è riavvicinatamoltissimo a me. Quando eravamo in Grecia, lei non stavaquasi più con me. Sì, mi voleva bene, ma avendo superatola “fase dell’amico immaginario” stava cominciando a met-termi da parte. Ma ora, con questo problema della socia-lizzazione, non ha amici e quindi sta solo con me.

Sono passati quasi due mesi da quando io e Cloe siamopiù vicine e sinceramente mi sento molto meglio. Primacominciavo a svanire perché Cloe non mi calcolava più,non aveva bisogno di me.

Stamattina sono più felice del solito. Oggi Cloe mi haportato a scuola con lei. Arrivata davanti scuola con Cloe,noto che ci sono moltissimi ragazzi che parlano e scher-zano insieme, si divertono insomma. Mancano ancoracinque minuti al suono della campanella e Cloe si è andataa sedere su un muretto isolato. Comincio a pensare chesia veramente troppo emarginata dagli altri. Mentre sono

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assorta nei miei pensieri sento la campanella. Stanno periniziare le lezioni e quindi comincio a prepararmi men-talmente a sei ore di noia. Sì, sono una fantasia, ma ancheio mi stanco. In classe vedo che tutti ridono e scherzanocon il compagno di banco. Tutti, tranne Cloe, ovviamente.Entra la prof, tutti si alzano, comincia la lezione. Durantequelle ore, oltre a domandarmi a che cosa sarebbe mai ser-vito nella vita il flauto dolce, a parte a spaccare i timpani,penso a Cloe. A come ho sbagliato con lei. La missionedi un amico immaginario è proteggere e aiutare il ragazzoche lo ha immaginato, io invece stavo solo aiutando mestessa. Al suono della campanella mi accorgo che Cloeguarda con occhi pieni di ammirazione una ragazza chesi chiama Marta. Ho ancora cinque ore per pensare acome far avvicinare Marta a Cloe, così da poterla far so-cializzare. A ricreazione vedo Cloe che viene bullizzata,le rubano la merenda e la prendono in giro per il fatto cheè greca. Mentre penso al modo di farla pagare a quei ra-gazzi vedo che Cloe non è l’unica a essere presa in giro.Anche Marta è presa di mira dai bulli, non perché è grecaovvio, ma perché è bassa. La più bassa della scuola. Eccoperché Cloe la guardava! Ora devo solo fare in modo chesi parlino.

Tornata a casa chiedo a Cloe se posso andare con lei ascuola anche doma-ni, mi dice di sì e va a fare i compiti.

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La mattina succede la stessa cosa del giorno prima, questavolta però guardo anche Marta che, come Cloe, è sedutain un angolo, sola. Mi metto a parlare con Cloe e la spingoa parlare con Marta. “Il mio italiano non è ancora perfettoe io mi vergogno di andare a parlare con qualcuno, ancheperché le poche volte che provo scappano tutti”.

Provo a convincerla, ancora e ancora, fino a che a ri-creazione non va a parlarle. Ce l’ho fatta! Ora vado aspiarle… In fondo sono anche affari miei, no?

“Ehi… io sono Cloe…” “Ciao… sì comunque so chisei…” “Bene… allora… ti va di uscire dopo scuola?” “Sìcerto… Allora a dopo.”

Sono riuscita a rimediare a uno sbaglio enorme inmeno di due giorni. Non sono un mito? Sono molto fieradi me. Sono le 15:30 ed è l’ora dell’appuntamento conMarta. Io uscirò con loro, ma loro non lo sanno, ovvia-mente.

È passato quasi un mese e le uscite tra Marta e Cloesono sempre più frequenti, stanno diventando molto ami-che, e io sempre più trasparente. So che ormai non possopiù fare nulla, la mia scomparsa è inevitabile. Ho decisodi parlarne con Cloe, che, ovviamente, è con Marta. Laprovo a chiamare, ma fa finta di nulla. Decido di aspettare,appena Marta se ne andrà le parlerò.

Non so cosa dirle, o come dirglielo. Mi faccio coraggio

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e le dico che sto diventando sempre meno visibile e chevoglio passare un’ultima giornata con lei. Cloe annuisce,ha le lacrime agli occhi. Le ho anche io. Andiamo a pren-dere un gelato, lei ama il gelato, anche a me sembra buono,non che io lo abbia mai mangiato, e come potrei. Laguardo, lei mi guarda. Le arriva un messaggio, lo legge, èdi Marta, dice così: “Grazie davvero per esserci stata perme, sei la mia migliore amica”.

Sono felice, sono riuscita nel mio scopo. Farle trovareun’amica, una vera amica, concreta, che tutti possano ve-dere.

“È stato bello, addio Cloe”. L’ho salutata così, non sose mi ha sentita, ma so per certo che si accorgerà della miaassenza appena distoglierà gli occhi dal quel messaggio.Non posso far altro che essere felice per Cloe, per la miaCloe. Magari, prima o poi, qualcuno mi immaginerà dinuovo. Magari ritornerò a essere un’amica immaginaria.Per ora sono solo felice per quello che sono riuscita a fare.

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La ragazzina dai capelli rossidi Martina Corradini

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Oggi è il 26 aprile ed è il compleanno di Matteo. Iosono il suo miglior amico. Anche se sono un amico im-maginario. Lui è sempre simpatico e vivace ma per qual-che ragione è escluso da tutti i suoi compagni di classe. Iopenso che sia dovuto al fatto che si è trasferito da pocodall’Africa ed è visto come quello ‘diverso’. Io e lui ci co-nosciamo da quando è nato perché siamo venuti al mondolo stesso giorno, quindi esattamente 8 anni fa. Lui è unbellissimo ragazzino con i suoi capelli mori e gli occhimarroni che si intonano molto al colore di carnagione.Ogni giorno a scuola viene preso in giro e quando tornaa casa inizia a piangere per pomeriggi interi, fino a quandoragiona che un amico alla fine ce l’ha, cioè io, Mike. Unostrano essere fatto di immensa felicità è tenerezza, e infi-nitamente morbido, come un marshmallow. Infatti unotra i miei soprannomi è proprio quello. Matteo anche oggiè stato preso in giro. Siccome è il suo compleanno, hanno

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detto che gli avrebbero fatto un regalo dopo scuola, cioèl’avrebbero picchiato. Il gruppetto di ragazzini in que-stione è quello che ha per capo Claudio. Il mio amico du-rante la rissa ha chiesto aiuto a me e io ho provato a dargliuna mano, solo che essendo un amico immaginario nonho potuto fare proprio niente, a parte dargli qualche con-siglio su come evitare i colpi con le braccia davanti al viso.Invece una ragazzina con i capelli rossi e piena di lentig-gini lo ha salvato dicendo a Claudio che la mamma lostava chiamando. Questa bambina si chiama Sara e a menon piace perché ritengo che non ha nessun diritto di im-mischiarsi. Anzi dopo è addirittura venuta a casa nostra.Quando Matteo mi ha presentato a lei, Sara ha detto cheera matto e ne ha iniziato a parlare con i genitori di Mat-teo, che hanno deciso di portarlo dallo psicologo. A menon piace lo psicologo perché so che tutti gli amici im-maginari li caccia in un altro mondo, il mondo degli amiciscordati. Purtroppo domani ci andrà e io ho molta pauradi perderlo.

Matteo oggi è andato dallo psicologo e io ho avuto deipiccoli cambiamenti. Ogni tanto diminuisco di grandezzae perdo colorito. Tra me e me ho deciso che devo parlaci,devo dirgli che sta per perdermi, che sta crescendo e chese mi vuole ancora con sé deve smetterla di andare dallopsicologo.

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Matteo entra nella sua stanza e si accorge che sonomolto triste.

- Perché sei triste? - mi chiede.- Ho deciso di parlarti di una questione seria, ma devi

promettermi di non interrompermi. Non devi più andaredallo strizzacervelli, perché per colpa sua sto iniziando asparire. Quindi decidi se vuoi me o la ragazzina.

- Cosa c’entra lei? - mi ha chiesto arrabbiato Matteo- Lei non vuole che io stia con te, è per questo che ha

detto di me ai tuoi. Sara lo sapeva che ti avrebbero man-dato dallo psicologo. Ed era anche convinta che lo psico-logo mi avrebbe cacciato. Quindi o me o lei.

- Ma lo sai che io non ho amici oltre a lei.- Perché io non sono un tuo amico? E oltretutto ci co-

nosciamo da sempre. Ma se vuoi lei a me sta bene - dissiin tono secco e deciso.

- Non era questo quello che volevo dire, è che ormaisono grande per giocare con te, è passato troppo tempoda quando giocavamo ai soldatini o da quando facevo isalti sulla tua pancia, quelli sì che erano bei tempi.

- E non ci saranno più. Visto che hai deciso, io tolgo ildisturbo - dissi con le lacrime agli occhi.

- Però prima posso darti un ultimo abbraccio stellare? - Certo che puoi, mio piccolo soldatino.Quell’abbraccio era molto più di un semplice addio.

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Svanii, sciogliendomi nei ricordi del mio piccolo amico.Ormai diventato più grande e sicuro di sé.

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Un’amicizia sanguinosadi Giacomo Falessi

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Forse ero troppo stanco per vedere la realtà, ma quellasera al parco sentii una voce strana, un misto fra una voceinfantile, annoiata e appassita. Mi avvicinai e provai aguardare meglio. Non c’era nessuno. Però quando mi vol-tai vidi una ragazzina sui dodici anni come me, che mi fis-sava. Le feci una smorfia antipatica, come a dirle ‘chescherzo stupido’. Ma lei continuò a fissarmi. Aveva la pellechiara come un foglio. Le dissi “Ciao” con tono scocciatoe me ne andai. Qualche secondo dopo una nebbiolina im-provvisa se la portò via. Il pomeriggio seguente, doposcuola, tornai al parco per vedere se quella strana ragazzinafosse ancora lì. C’era. Stavolta era incappucciata e copertanonostante il caldo, come se non volesse prendere nem-meno un raggio di sole. Le andai vicino curiosa di rive-derla, lei si voltò e mi guardò con occhi gialli venati disangue. Mi sussurrò “Tu, morirai.” Io mi misi a rideremeccanicamente. Quando calmai la risata, lei non c’era

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più. Era la seconda volta che spariva sotto i miei occhi. Laritrovai sull’altalena del parco sempre con la sua aria af-flitta. Le andai vicino con molta cautela e le chiesi comesi chiamava. Lei mi parve borbottare “Silvia.” Mi sedettisu una panchina accanto a lei e provai a fare conoscenza.Lei mi raccontò che ero il primo ragazzino che si azzar-dava a parlarle. Per diversi giorni di seguito ci rivedemmoal parco. Un giorno mentre correvamo mi tagliai con delfilo spinato e iniziai a perdere sangue da un polpaccio. Sil-via sembrò pietrificata. Ma poi venne verso di me conocchi animaleschi, sembrava impossessata da una partedella sua natura che credevo scomparsa. Si stava prepa-rando all’assalto finale, ma con un grande sforzo mentaleriuscì a dirmi “Ti amo, scappa, corri più lontano che puoi,non devi restare vicino a me.” Io esitai, ma poi mi decisivedendola spiccare un grande balzo. Arrivato a casa michiusi in camera mia e mi tamponai la ferita. L’amavotroppo per poterla perdere quindi decisi di andarla a tro-vare nel solito posto nel parco. La trovai stesa a terra, sve-nuta. La scossi, e quando riaprì gli occhi mi sorrise. Miguardò a lungo con sguardo malinconico e innamorato.Poi mi morse sul collo. La mia vista si ingrigì. L’unica cosacolorata era la mia Silvia, la mia adorata vampira. Il restodel tempo lo passai senza pensare più alla morte perchéormai ero diventato immortale, come la mia Silvia. E non

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rinunciavamo a passeggiare di notte mano nella mano nelparco dove ci eravamo conosciuti.

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Il cervello è l’ultimo a moriredi Francesca Evangelisti

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La mente di Anna era in tilt. Confusa. Tutte le altreparti del corpo si erano affezionate al cervello. Era semprepronto ad aiutarli a muoversi e ad agire correttamente.Adesso però , mentre la ragazza dormiva profondamente,la sua testa continuava a disperarsi. “È tutta colpa mia”,stava dicendo. “Luca non ci avrebbe mai lasciate se nonavessi avuto la brillante idea di incoraggiare Anna a dirgliche il nuovo taglio di capelli non gli dona. Lo sanno tuttiche tutte le sue idee vengono analizzate da me. Sono unorgano inutile!”

Le labbra anch’esse molto dispiaciute, si unirono ai la-menti del cervello. “Non è tutta colpa tua” gemettero. “Sesolo fossimo più carnose e morbide, adesso forse saremmoal cinema con lui!”

I denti, che erano rimasti sconvolti dalla situazione, in-tervenirono rabbiosamente. “Come ha osato mollarci?!”gridarono arrabbiati. “Non abbiamo certo portato l’appa-

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recchio fisso per niente! Se non sa apprezzarci, che vadadal dentista!”

“A noi, quel Luca non è mai piaciuto!”. I piedi comin-ciarono a parlare, unendosi alla conversazione. “Tutte leparti del corpo hanno ricevuto almeno un complimentoda lui, tranne noi!”

“È vero!” concordarono le unghie stizzite. “Soppor-tiamo tutti i giorni lo smalto, senza mai venire apprez-zate!”

“Beh”, intervennero polemicamente gli occhi, “Non ècerto colpa nostra, siamo bellissimi, col mascara poi…In-somma, se vogliamo dare la colpa a qualcuno…diamolaalla pancia!”

“Cosa ci posso fare!”. Questa scoppiò in lacrime, chesi manifestarono sotto forma di sudore. “So di non essereperfetta, ma non serve a nulla incolparmi, dato che peresempio…ehm…ci sono le ascelle che puzzano terribil-mente tutto il giorno!”. Le ascelle stavano per rispondereper le rime, ma il cervello le interruppe bruscamente. “At-tenzione! Anna si sta svegliando, e questa volta sento chelei penserà solo al suo Luca, quindi toccherà a noi dirigereil suo corpo, in completa autonomia!”. Poi, più gentil-mente, aggiunse:” E per farlo avrò bisogno del vostro aiutoe dei vostri consigli, quindi, posso contare su di voi?”

Un mormorio di assenso circolò rassicurando il cer-

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vello, che sembrava aver ripreso il controllo.“Ok, adesso, occhi, apritevi. Gambe, giù dal materasso

e poi… su! Bene! Cosa fa di solito Anna? Oh, giusto! ve-stiti”. E così, mentre la volontà di Anna si dedicava astruggersi dal dolore, il suo cervello e le altre parti delcorpo, nonostante fossero anch’ essi molto dispiaciuti, co-ordinavano le funzioni quotidiane.

Intanto però non tutto stava andando a gonfie vele.“Oh, insomma!” sbuffò il cervello spazientito. “Cos’hannoche non va questi pantaloni?” “Stai scherzando?” esclama-rono le gambe sbalordite. “Tesoro, dobbiamo riconquistareun ragazzo, non una capra.” “Giusto!” concordarono lebraccia. “Dobbiamo mettere assolutamente mettere il ve-stitino rosso.” “Assolutamente no! Quel vestito mi fa sem-brare enorme!” disse la pancia risoluta. Il cervello proposeallora la felpa azzurra, ma venne anche quella boicottata.“Ma fai sul serio? È di almeno quattro taglie in più! E poi,è pure sporca!” dissero gli occhi.

Allora il cervello si infuriò. “Adesso basta! Non fate chepeggiorare le cose! Prendete quei jeans, quella magliettabordeaux e quella felpa nera, e dritti in bagno! Filare!”. Inbagno però, altro problema.

“Non possiamo rinunciare al mascara!” Protestaronogli occhi. Il cervello cercò di essere comprensivo.

“Capisco, ma è complicato da mettere e da togliere, e

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poi è quasi secco e…” “Ma chi se ne importa dal mascara!”ululò infuriato il naso. “Qualcuno ha notato lo spaventosopunto nero che ho qui?” “Finitela! Per oggi niente ma-scara, né crema anti brufoli.” disse il cervello severo e, cono senza il consenso di tutti, condusse il corpo in cucina,davanti alla tavola della colazione, dove torreggiavano bi-scotti, merendine, cereali e latte. Il cervello optò per unpo’ di corn flackes, da versare nel latte. “Ma che è ‘stacosa?” protestò la pancia. “Non mi riempirò solo di latte efiocchi di cereali! Voglio almeno una merendina!” “Nonpensi di essere già abbastanza grossa?” la presero in girogli occhi. “Vabbè, fate come volete. Fatemi pure morire difame.” borbottò la pancia di rimando, e si chiuse in un si-lenzio offeso. “Su, dai muoviamoci, dobbiamo andare ascuola!” disse il cervello per incitarli. Il corpo di Anna sialzò in fretta e furia, andò a prendere lo zaino e uscì dicasa. Per fortuna, la scuola era vicina, e il cervello nontrovò problemi a condurli fino alla classe. Le amiche sa-lutarono, la lingua rispose prontamente proprio comeavrebbe fatto Anna, le gambe si piegarono nel sedersi sellasedia, e i gomiti si appoggiarono al banco, come al solito.Entrò l’insegnante di educazione fisica, e il cervello diquesto non fu molto contento. “Speriamo di non combi-nare casini” sospirò. “Ehiiiiiiiiii!!!” esclamarono gli occhieccitati. “Luca ci sta guardando!” “Oh mamma, è vero!”

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sussurrarono le labbra. “Mantenete la calma!” ordinò ilcervello, ma anche lui si sentiva piuttosto eccitato.

“Andiamo, su! In fila!” disse la prof., interrompendo imormorii eccitati delle parti del corpo. Tutta al classe scesein silenzio le scale, e scese in palestra. “Ok ragazzi, oggicominceremo subito a giocare a pallavolo. Fate le squa-dre.” Disse la prof. Il cervello decise di dirigersi verso laparte opposta di Luca, che continuava a guardarla. Ilcorpo di Anna prese posizione in campo. Il cervello in-tanto rifletteva. “Quanto può andare avanti questa situa-zione? Tre giorni, al massimo quattro non di più. Nonposso certo…” I pensieri vennero interrotti da un grido diun ragazza. “Anna! Attenta! La palla! Spos…”

La schiacciata colpì in pieno la testa di Anna. Il cer-vello, prima che il corpo svenisse, vide Luca che correvaverso di loro, che gridava il nome della ragazza, che di-ceva…

“Come posso essere stato così stupido”, stava dicendoLuca. Per Anna fu come svegliarsi da un sogno. L’ultimacosa che ricordava era di aver letto un messaggio diLuca…c’era scritto…ah, giusto. Che tra loro non potevapiù funzionare. Ma non poteva essere vero. Lui era lì, lastava tenendo per mano e stava parlando al telefono…”Pronto, parlo con la madre di Anna…?...Sì, sono Luca,

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vede è successo che…”Anna smise di ascoltare, e chiuse gli occhi. Che strano,

stava pensando. Sentiva, oltre al dolore del bernoccolo,come un calorino nella testa, come se… come se fosse fe-lice sia dentro che fuori. Come se dentro di lei qualcunostesse esultando. Come se… Anna sorrise a un pensierotanto sciocco. Come se qualcosa dentro di lei fosse ingrado di litigare, provare sentimenti, avere antipatie e sim-patie, avere delle opinioni. Come se dentro di lei ci fossequalcosa animata di vita propria.

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Meglio il presentedi Alessandro Bettucci

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Mario era un ragazzo di 16 anni che viveva nel 1990.Era un appassionato di scienza fin da quando era bam-bino. Pensate che quando era piccolo aveva fatto caderetutti i capelli al padre anche se il suo intento era quello difarglieli crescere.

I suoi esperimenti finivano sempre per fallire. Il suo sogno era di diventare il più grande scienziato

di tutti i tempi, però prima doveva vincere qualche premioe per questo partecipava ogni anno alla gara di scienze chela scuola proponeva. Purtroppo non era mai riuscito a vin-cere anche se proponeva delle belle idee. Così un giornodecise di costruire una macchina del tempo per andare nelfuturo e provare a diventare lì il più bravo. Decise di infil-trarsi in un laboratorio di un scienziato : entrato trovò unamacchina del tempo già costruita a cui mancava la fontedi energia. Ora Mario era molto avvantaggiato verso il suoscopo finale perché la macchina non la doveva costruire.

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Mario visto che era un ottimo osservatore aveva notatoche lo scienziato aveva al collo una strana collana verde,all’inizio pensò che fosse un amuleto poi si accorse cheera sferico e capì che era la fonte di energia. Di notte glielatolse dal collo la mise nel suo apposito posto e spinse laleva. D’un tratto si ritrovò in uno sgabuzzino. Mariopensò di essere tornato nel passato visto che il laboratorionon c’era più. Tutto deluso uscì fuori e vide delle macchinevolanti, marciapiedi mobili, robot ovunque.

Era arrivato finalmente nel futuro. La prima cosa chefece fu trasformare quel magazzino in un laboratorio dovepoter creare delle invenzioni per cui potesse essere accla-mato. In una settimana aveva tutto; in questa società sipoteva avere tutto bastava che ci fosse un buon motivo. Ilsuo progetto fu approvato e si mise subito al lavoro perinventare un oggetto che potesse racchiudere tutti i libridi scuola però molto più leggero. Quando propose almondo il “tecno-book”, così l’aveva chiamato tutti comin-ciarono a ridere, Mario si sentì umiliato anche se non ca-piva il motivo di tutte quelle risate. I cittadini dopo averripreso fiato gli dissero che era già stato inventato e sichiamava e-book. Il ragazzo non si scoraggiò e continuònell’impresa: decise di puntare più in alto. Aveva decisoche avrebbe fatto vedere a tutti la sua macchina del tempo.Proprio mentre la stava per spostare ecco che si attivò e

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comparve lo scienziato che l’aveva costruita. Il signore glidisse che qualsiasi cosa volesse creare loro già ce l’avevanogià e che era inutile rimanere ancora in quegli anni. Cosìdecise di viaggiare indietro nel tempo perché lì era sicuroche le sue invenzioni non esistessero già. Così il giornodopo entrò nella macchina del tempo, spinse la leva nelverso il lato opposto e partì. Arrivato nel passato affittòuna stanza e creò di nuovo l’e-book usando stavolta ilnome giusto. La gente rimase sconvolta e cominciòun’enorme produzione di tablet dove era possibile usarel’e-book ma anche dei giochi e navigare su internet. Lasua seconda invenzione fu il televisore dove si potevanovedere dei programmi e questo conquistò la gente. Le per-sone ritenendolo un vero genio cominciarono a chiedergliun’enormità di cose: un robot per cucinare, un robot peril giardino, uno per la casa, uno per la spesa e tantissimealtre cose. Mario dopo un mese di durissimo lavoro sipentì e pensò che era meglio se rimaneva uno scienziatonon bravo; decise allora di ripartire per il presente entrònella macchina tirò la leva e tornò nel suo amato 1990.

Era rimasto un problema però….. era cambiato tuttoperché aveva modificato il passato. Adesso doveva tornareindietro nel tempo a rimettere a posto le cose.

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L’ascella di BritneyFlaminia Pagnozzi

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Ciao mi presento sono la sconosciuta ascella destra diBritney Spears. Sono depressa perché non appaio mai intv, a differenza del resto del corpo e del faccino che mi staproprio antipatico.

La tanto acclamata Britney Spears riesce a danneg-giarmi in tutti i modi, ad esempio mi fa sempre morire difreddo a causa dell’elevata frequenza di depilazione. Inol-tre non capisco che bisogno c’è a nascondermi, tra l’altrosenza farmi vedere neanche ai suoi fan. Lei dovrebbe mo-strarmi al mondo intero, essere fiera di me ma a quantopare l’unica che riesce a capirmi è la mia gemellina Mollyposta sul lato sinistro della star.

Voglio far capire a Brit che anche io e i miei peli face-vamo parte del suo corpo e che non poteva escluderci, perfarlo ero disposta anche ad usare maniere poco carine. Perprima cosa sollecitai le ghiandole responsabili della cre-scita dei peli a produrne il più possibile. Dopo due giorni

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io e Molly ne avevamo così tanti da poter competere conla foresta amazzonica. La reazione da parte della cantanteera stata immediata: prese subito un appuntamento dal-l’estetista il prima possibile. Capii subito che avevo pocomeno di una settimana per convincerla a rinunciare e adaccettare me e la mia sorellina. Così ogni giorno piangevoe piangevo, in pratica sudavo, sperando di farle suscitaredei sensi di colpa o per lo meno di ostacolarla in qualchemodo. Un giorno come tanti si guardò allo specchio perpiù di un’ora ed io riuscii ad intravedere il suo sguardo da“Non so che fare”, così proprio quando stavo per cedere aquegli occhi dolci e a rassegnarmi per quanto riguardavail mio destino, successe. Il miracolo che non credevo pos-sibile avvenne: finalmente si rese conto di quanto io eMolly la volevamo bene. Qualche minuto dopo chiamòl’estetista e disdisse, successivamente fece la stessa cosacon la sua manager e la convinse a farle usare durante iconcerti dei vestiti a fascia in modo tale da non nascon-derci. All’inizio del primo concerto tutti erano perplessima poi si fecero crescere anche loro i peli delle ascelle.

Questo fenomeno divenne mondiale e così tutto il pia-neta visse per sempre felice e fiero dei peli donati dallanatura umana.

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Ilaria sono le setteEleonora Capodanno

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“Ilaria sono le 7.00 ti devi alzare! Devi andare a scuola!”urlò mia madre.

Di cattivo umore mi recai al bagno dove mi vestii e mitruccai. Dopo aver fatto le solite azioni mattutine andaifaticosamente in cucina dove mi aspettava la mia schifosatazza di latte. Io odiavo il latte!! I miei genitori non capi-scono che mi fa venire il mal di pancia! Bevvi silenziosa-mente quel liquido biancastro da voltastomaco. “Ila oggihai il corso di inglese?” disse mia mamma. “No oggi hokarate!” risposi seccata. I miei genitori non si ricordanomai i miei impegni e secondo me non è una cosa normale!

“Tesoro io e papà ti dobbiamo dire una cosa: abbiamodeciso di separarci, sai ora tu hai 17 anni, sei abbastanzagrande e noi abbiamo aspettato tutti questi anni solo perte.” Non potevo crederci, erano rimasti insieme solo perme! Ma se non si ricordano neanche le cose che non mi

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piacciono e i miei impegni figuriamoci se sono rimasti in-sieme solo per me! Che assurdità, era furiosa!

Non capivo sembravano felici insieme e invece mi sba-gliavo.

Arrabbiata mi alzai dal tavolo e mi si rovesciò tuttoquello schifoso latte addosso (ci mancava solo quello!) econ tutti i vestiti zuppi presi lo zaino e uscii di casa senzaguardare nessuno. Decisi di non andare in quell’orribilescuola di questo orribile paesino sperduto.

L’unica cosa che mi piaceva era il mare che nei mo-menti peggiori mi donava tranquillità. Decisi di recarmilì e mentre correvo mi scontrai con un ragazzo che avevaun corpo davvero perfetto. Mi aiutò ad alzarmi e ci fis-sammo per una manciata di secondi. Aveva degli occhicolor verde smeraldo e i capelli corti castano chiaro.Mamma mia era proprio bello.

Fu lui a rompere il silenzio “Tutto apposto ti sei fattamale? Scusami stavo andando a scuola correndo dato chesono in ritardo e non ti ho vista” “tranquillo è tutto appo-sto” risposi un po’ imbarazzata “Ti ho già visto a scuolatu vai al 4 anno del liceo vero in 4° F? io sono Federico efrequento l’ultimo anno. Come mai stai scappando?”quando pronunciò il suo nome lo riconobbi subito: erauno dei migliori giocatori della squadra di calcio dellascuola, adorato da tutte le ragazza del liceo. Non mi ri-

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cordavo che fosse così perfetto! Non capivo perché si in-teressava dei miei problemi, fino a poco tempo fa non midegnava neanche di uno sguardo. Certo io ero stata messanel gruppo degli sfigati, ma questi sono dettagli. Allorarisposi: “Ma perché ti interessa tanto? Io sono una ragazzanormale e non una di quelle super fighe che ti gironzolanoattorno” risposi seccamente. “Ti osservo da giorni ovvia-mente tu non te ne sei mai accorta! Sai sei davvero inte-ressante oltre ad essere molto bella. Quando ho parlato dite ai miei compagni all’inizio mi hanno preso in giro poiin seguito hanno cambiato idea. Non mi importa cosapensano è la mia vita e basta. La vivo come voglio. Co-munque ora mi puoi dire perché scappi. Vorrei aiutartioltre a conoscerti.” Non potevo crederci: lui, un figo paz-zesco che mi reputava interessante?! No, non era possibilestavo di sicuro sognando.

Ilaria svegliati è solo un sogno! Cercai di darmi dei piz-zicotti ma niente! Tra paretesi non mi ero neanche accortache eravamo arrivati in spiaggia! Decisi allora di raccon-targli tutto “non sono andata a scuola perché stamattina imiei genitori mi hanno annunciato la loro separazione einsomma non l’ho presa bene e allora ho deciso di venirea pensare qui” lui fece un azione inaspettata mi prese lamano e la strinse con la sua poi mi accarezzò la guancia.

Capii che forse stava nascendo qualcosa tra di noi. Lui

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dopo un po’ distolse lo sguardo e disse: “Scusa non volevomi sono fatto prendere dall’emozione. Mi dispiace per ituoi genitori ma ti assicuro che a me è successo di peggio.È una storia un po’ triste” all’ultima frase la sua voce sispense allora fui io a prendergli le mani: “ti prego raccon-tami la tua storia” “posso sembrare un ragazzo perfetto manon è così io l’ho fatto solo per proteggere la mia famigliadi cui quasi nessuno conosce la storia. Tu sei una delleprime a cui la racconto. Successe tutto quando andavo allemedie, io frequentavo l’ultimo anno mentre mia sorellaera al primo anno. Noi abitavamo in un’altra città e i mieigenitori erano conosciuti da tutti. Un giorno mio padretornò a casa turbato e iniziò a bere. Il giorno seguentefuggì di casa, lasciandoci soli con nostra madre. Dopoqualche mese lei ha ottenuto un’offerta di lavoro in questacittà e ci siamo trasferiti qui. Quando arrivai ricominciaitutto d’accapo.” Era davvero una storia triste. Il mio pro-blema era davvero ridicolo al confronto della sua storia.“Io ho raccontato questo fatto a te perché sembravi dav-vero disperata e impaurita e ti volevo far capire che esistedi peggio ed è un bene che i tuoi genitori si lascino invecedi fingere di essere innamorati solo per te. All’inizio nonsarà facile ma poi vedrai che tutto si risolverà e almenoavrai tutti e due i genitori” riprese. Pensai che dopo tuttonon era così terribile e aveva ragione: avrei dovuto soste-

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nerli per la loro scelta. Decisi allora di non essere più incollera con loro anzi quando sarei tornata a casa li avreiabbracciati e li avrei rassicurati.

All’improvviso Federico mi accarezzò la guancia e siavvicinò a me. Mi diede un leggero bacio sulle labbra. Unbacio tranquillo e dolce.

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I Super-Vecchidi Sofia Tiberi

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“Pino, dobbiamo rimettere insieme la banda!” disseGino, il vecchio incandescente, come lo chiamavano gliamici, “vecchi” anche loro, ma “speciali” come lui. “Cosa?Non ho acceso l’apparecchio acustico!” disse Pino, oLaser-Man, come si faceva chiamare da giovane. A causadel suo della sua abilità era costretto a portare sempre gliocchiali - di una speciale lega in titanio, che riuscivano aschermare il raggio incandescente; purtroppo una voltaaveva bruciato per sbaglio le tende preferite della moglie,e così lei lo aveva lasciato e lui aveva abbandonato labanda, che senza il suo collante, si era sciolta qualchetempo dopo.

“Ho detto che dobbiamo ricomporre la vecchia squa-dra!” urlò Gino, con le fiamme che gli uscivano dalle orec-chie; a quel punto il compare capì, strabuzzò gli occhi edisse: “Ma stai scherzando?! Lino non riesce nemmeno astare in piedi, va sempre in giro con quel motorino a quat-

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tro ruote modificato per il quale è stato quasi arrestato pereccesso di velocità! Per non parlare di Amanda, lei va ingiro con il deambulatore, ma è ancora arzilla, pensa cheha picchiato un tizio che le voleva rubarle la borsetta, illadro è finito all’ospedale, e io la sono dovuto andare aprenderla in commissariato!”.

Gino rispose un po’ spazientito: “Ma allora non sainiente? Quel tizio che abbiamo sbattuto in prigione cin-quant’anni fa è evaso. In tutti questi anni ha costruito unostrano macchinario che lo ha fatto scomparire come permagia. Secondo Doc è una macchina del tempo!”

Pino rimase a bocca aperta e scuotendo la testa disse:“Okay mi hai convinto, adesso chiamo gli altri e gli dicodi farsi trovare al laboratorio del nostro genio il primopossibile.”. Circa una mezzora dopo scesero da fantasticopandino di Pino e ad attenderli c’erano Amanda e Lino.“Ehi ragazzi!” disse Gino, ma la donna, dai modi un po’bruschi, rispose: “Oh, ma per favore, ti sembriamo cosìgiovani?” si vedeva che era ancora arrabbiata per l’ ultimascorribanda che avevano tentato qualche tempo prima,non era andata tanto bene. Prima che scoppiasse una rissavinta sicuramente dalla vecchietta grazie ai suoi poteri, ar-rivò Doc, il tecnico della cricca, che con aria annoiatadisse: “Volete seguirmi dentro, o volte sporcare il mionuovo zerbino di sangue?” senza fiatare i quattro lo segui-

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rono dentro. “Sapevo che sareste venuti prima o poi, equindi ho dei giocattolini da mostrarvi” in fila indiana die-tro di lui si avvicinarono a un motorino apparentementenormale, ma a Lino brillavano già gli occhi. “Vedete que-sto è un’ unità di trasporto per anziani” cominciò Doc“Apparentemente innocuo, dentro contiene due turbore-attori convertibili durante la crociera a velocità superso-nica a statoreattori tramite un particolare complesso divalvole e tubi che bypassano i compressori e le turbine. Inquesta modalità genera un complesso sistema d’onded’urto che rallentano successivamente l’aria aumentan-done la pressione…” probabilmente avrebbe continuato,ma Gino intervenne: “In parole povere?”, Doc borbottòqualcosa, ma poi rispose: “È il motore del SR-71”. A quelpunto Lino aveva gli occhi fuori dalle orbite e la bava allabocca, così Amanda, grazie alla sua super-forza, se lo ca-ricò sulla spalla e seguì Doc al tavolo da lavoro, al centrodel quale giaceva un’armatura tutta nera. Il genio riattaccòil discorso: “Questa è una cosuccia per il nostro vecchiettoincandescente, più che altro è una misura di sicurezza pervoi altri, vi protegge da eventuali sbalzi di temperaturadovuti alla particolare conformazione…” vedendo le faccecontrariate dei compari si interruppe: “Okay, passiamooltre; questi che ho in mano sono occhiali a specchio perPino, sono in una speciale lega di uranio non fissile, sta-

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bile. Sono molto leggeri, è come non averli. Qui invecec’è l’elmo che mi avevi chiesto tanto tempo fa, Amanda.”I cinque passarono in un’altra stanza. “Questa invece è laluce dei miei occhi, è la Luxor 2.5, mi manca poco per fi-nirla se tornate domani…” “Un tagliaerba?” esclamaronotutti e quattro insieme, Doc risentito rispose: “L’ho trovatoin garage e non sapevo come utilizzarlo.” si giustificò “Maadesso fareste meglio ad andare, siete fuori allenamento,dovete recuperare almeno quarant’anni di poltrona e te-levisione!” aggiunse con voce maligna. Qualche minutodopo la banda era alla vecchia stazione abbandonata.Gino, ancora risentito per la chiacchierata con Doc, dissecon voce imperiosa: “Mi costa ammetterlo, ma siamo fuoriallenamento quindi, per te, Amanda, ci sono tutti i vagoniche vuoi da sollevare. Per te, Lino, fatti un po’ di giri conil tuo nuovo motorino e prendici la mano. Per te, Pino,squaglia qualunque cosa inanimata che vedi. E io vado aprendere a palle di fuoco il vecchi treno.” Si separarono.La mattina dopo si incontrarono tutti nel giardino delgenio, intorno alla Luxor 2.5, pronti per partire per unviaggio attraverso il tempo per riacciuffare quel birbantedi tedesco, scappato con la “Valigetta Atomica” per farpartire le testate nucleari contro l’America, per conto dichissà quale politico dal nome impronunciabile. Doc partìcon tutte le spiegazioni e le raccomandazioni possibili e

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immaginabili, ma Amanda come al solito impaziente, eragià con il dito sopra al pulsane di avviamento. Il tagliaerbapartì a tutta birra con i cinque attaccati e pochi secondidopo tutto sparì avvolto da una piega dimensionalebianca-verdognola. E, a quello che a loro sembrò un bat-tito di ciglia, si ritrovarono nello stesso giardino di cin-quant’anni ringiovanito. Tutti si girarono verso Amanda,che si strinse nelle spalle e disse: “Non intendevo portarecon noi anche il genietto. Ma adesso il problema non sonoio, ma è dove troviamo quell’insulso ladruncolo?” Tutti sistrinsero nelle spalle tranne Doc che disse: “È ovvio! Inun luogo dove non potrebbe destare sospetti, come unparco!” Montarono tutti sul motorino di Lino, che diedeil gas. In pochi secondi arrivarono al parco più grandedella città, dove, a velocità normale, ci sarebbe voluto al-meno un quarto d’ora. A rotta di collo entrarono nell’areabambini, e intravidero dietro una panchina un vecchio chearmeggiava con una valigetta di pelle nera. Era lui, maquando alzò gli occhi non c’erano più dubbi. Il viso erasciupato a causa di tutto quel tempo trascorso in prigione,ma gli angoli della bocca erano piegati in un sorriso dia-bolico. Poco prima di partire avevano messo a punto unpiano: Amanda lo avrebbe preso da dietro e intrappolatoin una morsa d’acciaio poi Gino gli avrebbe messo le ma-nette che Pino avrebbe squagliato e poi, dopo essere stato

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legato come un salame, lo avrebbero buttato nel cestinoda trasporto del motorino di Lino. Tutto andò secondo ilpiano, tranne che il dispositivo dentro la valigetta era giàstato attivato. Tutti entrarono nel panico, a parte lo scien-tifico e metodico Doc, che si chinò sulla valigetta con lafronte aggrottata: “Devo solo risolvere questo algoritmo…e il gioco è fatto!” Ma di tempo non ce n’era, il cronometrodel dispositivo segnava 20 secondi. Poi 10.5.3.2.1. Nes-suno si sarebbe aspettato una cosa del genere dal genio,ma tirò una forte manata al display della bomba che, nonsi sa come, si interruppe proprio sullo zero. Tutti sgrana-rono gli occhi puntandoli sul loro salvatore, che borbottò:“Ops”.

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Mamma vado a vivere con Andreadi Francesca Evangelisti

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“Vado a vivere con Andrea” dissi. I miei genitori siscambiarono un’ occhiata d’intesa, lo facevano semprequando a loro parere dicevo una stupidaggine. “Non è unadecisione un po’ affrettata?” chiese mia madre con il tonoche si usa coi bambini piccoli. “Voglio dire, Andrea è unbravo ragazzo certo, ma…”

“Ma cosa?” domandai, tagliente. “Ma non pensi che tusia troppo piccola per andare a vivere con il tuo fidanzato?”disse mio padre con gentilezza tattica. “Ho quasi dician-nove anni, e sono in grado di badare a me stessa e di pren-dere le mie decisioni!” esclamai. “Non sono più la vostrapiccola Giorgia, sono maggiorenne ormai, e tra poco co-mincerò anche a lavorare, quindi potete anche rispar-miarmi la predica sui soldi e su come farò a tirare avanti.Inoltre, anche Andrea ha un lavoro, non avremo bisognodi niente, e comunque io non vi stavo chiedendo il per-messo, vi stavo comunicando la mia decisione!”

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Mi alzai di scatto e uscii dalla stanza sbattendo laporta.

In camera mia cominciai a preparare la valigia. Ora chenon ero più al cospetto dei miei genitori, non mi sentivopiù così tanto sicura di me. Insomma, fino ad ora nonavevo passato che cinque notti di seguito lontano da casamia, e, in effetti, sapevo a mala pena preparare un piattodi pasta. Inoltre non credevo che Andrea se la cavasse me-glio di me nell’organizzazione domestica. Aveva solo dueanni più di me!

Immersa in questi pensieri, quasi non mi accorsi del-l’entrata di mia madre nella stanza. Sentii la spavalderiarisorgere in me, sfoggiai alla mamma un sorriso sma-gliante e le chiesi: “Mamma, c’è qualcosa che non va?”.Lei esitò, sembrava a disagio. Poi mi chiese, ansiosa,:” Civerrai a trovare, vero?”. Mi accorsi che aveva gli occhi pienidi lacrime. “Certamente, mamma!” esclamai e poi le diediun abbraccio. Sembrava veramente distrutta. Mi sorrise,e poi uscì dalla camera. Questa cosa mi confuse. Non pen-savo che mi avrebbero lasciato andare così facilmente.Come un automa, ricominciai a mettere i vestiti nella va-ligia, ma la mia mente era altrove. Finii verso mezzanotte.Avevo riempito due grosse valigie, ed ero veramente esau-sta. Andrea mi sarebbe venuto a prendere verso le otto,domattina. Mi misi a letto e mi addormentai subito.

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Quando il giorno dopo la sveglia suonò, alle sette, mi sem-brò di aver chiuso gli occhi un secondo prima. Mi alzai,assonnata. Poi vidi le valigie, e l’eccitazione ebbe l’effettodi una doccia fredda. Mi vestii, e andai in cucina per farecolazione. I miei erano già usciti, era lunedì e loro lavora-vano, ma mia madre mi aveva lasciato un latte caldo e unmuffin al cioccolato, la mia colazione preferita. Mangiaitutto in fretta e furia, poi mi misi sul divano e aspettaiquello che mi sembrò il quarto d’ora più lungo della miavita. Poi il citofono suonò, e io corsi a rispondere. Era An-drea, ovviamente. Gli aprii, e aspettai che salisse le scaleappoggiata alla porta. Quando lo vidi, ci salutammo affet-tuosamente, poi lui entrò in casa, prese le valigie e le caricòsulla sua jeep. “Allora, Giorgie, pronta a lasciare il nidod’infanzia?” chiese in tono scherzoso.

“Scherzi? «pronta» è il mio secondo nome!” esclamaiio. Ridemmo entrambi, lui mise in moto e partimmo.Guardai la mia vecchia casa che si allontanava, e provaiuno strano senso di nostalgia.

Andrea dovette accorgersene, perché al semaforo miprese la mano e mi sorrise con sicurezza. Tutti i miei dubbisvanirono. Insomma, cosa stavo rimpiangendo? Genitoriultraprotettivi, divieti di ogni genere, scenate se tornavotardi. Adesso, niente di tutto questo. Ero libera e indipen-dente. Mi sentivo veramente felice. Arrivammo a casa di

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Andrea. Viveva in un appartamento con soggiorno, cu-cina, una camera da letto, che avremmo condiviso, unbagno e un piccolo ripostiglio. Era perfetto. “Bene piccolaadesso io devo andare al lavoro, tu sistema le tue cose, am-bientati, fà come se fossi a casa tua, io tornerò verso lequattro di pomeriggio. Se mi cerchi comunque sai dovetrovarmi, in ogni caso ti lascio il numero fisso del bar”, midisse, poi mi diede un bacio, mi salutò e uscì. Mi ritrovaiimmersa nel silenzio. Mi sentivo un po’ spaesata. Ero stataa casa di Andrea solo tre volte, e adesso mi ritrovavo a vi-verci. Sospirai, andai nella stanza da letto e cominciai atirare fuori i vestiti dalle valigie, e a sistemarli nell’arma-dio. Questo lavoro mi occupò tutta la mattinata. Perpranzo mi preparai un panino con quello che Andreaaveva in dispensa, poi ebbi un’ idea geniale. Perché nonpreparare un aperitivo, solo per noi due, per festeggiare ilmio arrivo a casa sua?

Piena di ottimismo, presi la giacca, i soldi e uscii. Erauna bellissima giornata, e io ero molto fiduciosa.

Andai al supermercato più vicino, e comprai della cocacola, del crodino, un po’ di patatine, noccioline, salamini,e della pasta da cucinare per cena. Tornai a casa veramentesoddisfatta di me. Guardai l’ora. Le due e un quarto.Prima di cominciare a preparare gli avrei fatto un’altra sor-presa: avrei riordinato la sua stanza e pulito bagno e cu-

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cina. Non ero mai stata così entusiasta di fare le pulizie.Spolvera di qua, piega un vestito di là, si fecero le tre. Giu-sto in tempo per pulire il bagno.

Alle quattro meno un quarto, ero davvero soddisfattadi me. Avevo lucidato il bagno a fondo, e la camera daletto di Andrea era ordinatissima. Ed ero anche in anti-cipo. Mi sedetti nervosamente sul divano, ansiosa.

Dovevo smetterla di sentirmi un ospite. Era casa miaquella, ora.

Per ingannare il tempo, accesi la tivù. Guardavo conti-nuamente l’orologio, ma alle quattro di Andrea nessunatraccia. Quattro e cinque, idem. Alle quattro e venti decisidi chiamarlo. Segreteria telefonica. Adesso ero davveropreoccupata. Cercai nuovamente di distrarmi con la tele-visione, ma invano. Alle cinque, sentii finalmente girarela chiave nella toppa. Quando entrò, mi alzai in piedi ecorsi ad abbracciarlo. Notai che aveva un’aria affranta.“Cosa è successo?” chiesi squadrandolo. Lui si lasciò ca-dere sul divano, e si prese la testa tra le mani. “Mi hannolicenziato”, disse con aria triste. “Oh, no!” esclamai, di-spiaciuta. Andai a sedermi vicino a lui, cercando di con-solarlo. Il pomeriggio non stava andando proprio secondoi miei piani. “Come mai?” domandai. “Quel bastardo delproprietario mi ha fatto un discorso sul fatto che dato cheerano in crisi, dovevano diminuire il personale. Detto que-

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sto si è scusato e mi ha mandato via con una liquidazioneche non può mantenerci che per pochi giorni.” Scosse latesta con disapprovazione. “Tu quando inizi a lavorare?”mi chiese poi. “Tra due settimane” dissi con un fil di voce.Le cose non si mettevano tanto bene. “Giorgia, ascoltami”.Si rivolse a me con tono solenne, e capii che era serio per-ché lui non mi chiamava mai con il mio nome di batte-simo. “Fino a che tu non incominci a lavorare, dobbiamoridurre le spese, capito? Non possiamo permetterci disprecare i pochi soldi che abbiamo.” Detto questo, midiede un bacio sulla fronte e aggiunse più gentilmente:“Affido a te i soldi. Siamo nelle tue mani”.

Mi porse una busta bianca. Io la presi, stupita. Gli do-mandai il motivo del suo ritardo, ma non ne cavai fuoriniente perché rispose molto vagamente. Poi mi ricordaidell’ aperitivo. “Ehi, Andrè?” mi rivolsi a lui in tono ma-lizioso. “Ho una sorpresa per te!”. Andai in cucina, e luimi seguì un po’ mestamente. Quando vide la tavola tuttaapparecchiata per lo spuntino, si rabbuiò. “Hai avuto un’ottima idea, Gio, ma adesso non possiamo più permettercidi sprecare soldi in questo modo. Che faremo quando isoldi saranno finiti? Dobbiamo stare più attenti! Inoltredomani devo pagare l’affitto e presto arriveranno la bol-lette!” mi rimproverò lui. “Scusa” dissi, mortificata. Andreasi sedette al tavolo e disse: “Però, dato che hai comprato

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questa roba, almeno un crodino potremmo bercelo, o no?”.Io sorrisi, ne presi due e li stappai. Gliene diedi uno, e be-vemmo insieme. Il resto decidemmo di metterlo da parte.Alla fine non era andata così male, pensai.

Si erano fatte le cinque e mezza. Cominciai a preoc-cuparmi sulla cena. Non ero una brava cuoca.

“Allora… che ne pensi della pasta al burro?” “Umh…ok…” disse lui, dubbioso. Misi l’acqua a bollire. Quandobollì, ci buttai la pasta. Quando fu pronta, ci misi il burroe la portai a tavola. Lui, constatai sorpresa, non c’era.

Lo trovai spalmato sul divano, con una birra in manoche nascose prontamente sotto il cuscino pensando chenon l’avessi vista. Stava guardando una partita di calcio, ein quel momento mi ricordò molto mio padre, che,quando c’era la partita, non si schiodava per nulla almondo dal sofà.

“Ehi Andrea, è pronto” gli dissi allegramente. “Sst! Faisilenzio per favore!” esclamò lui.

“Ok…vuoi venire a mangiare? È pronto!” dissi a bassavoce, ma mi accorsi che lui non mi stava ascoltando af-fatto. “Passa quella palla, incapace!!! Non vedi che è li-bero? Vai, corri, ippopotamo!” urlò rivolto alla tv. Miaccorsi di aver sottovalutato questa sua passione per il cal-cio. “Ti ho detto che è pronto!” gridai arrabbiata. “Prefe-risci me o la partita?” gli domandai. “Si, tesoro, sei

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bellissima” mi disse. “Tira, bello mia tira, e… Rete!Rete-eeee!!!”

Si mise a fare capriole e a correre per la stanza. Io loguardavo allibita. Poi cominciò la pubblicità. Finalmente,con il fiatone, si rivolse a me: “Cosa stavi dicendo, pic-cola?”. Decisi di mantenere la calma. “Per la decima volta:È pronto da mangiare!” “Oh, scusa, Giorgina, arrivo su-bito”. Mi avviai in cucina, dove appresi che la pasta erafredda e che il burro si era solidificato formando sui pezzidi pasta una spessa e disgustosa copertura! Non avevo al-cuna voglia di mangiare quello schifo, anche perché avevolasciato cuocere troppo la pasta, ed ora oltre che freddaera anche molle. Con un sospiro mi lasciai cadere sullasedia. Non potevo buttarla e farne altra, non ne avevo an-cora, e poi, come aveva detto Andrea, non potevamo faresprechi. Cominciai a mangiare. Era davvero uno schifo.Andrè entrò in cucina. “Cos’è questa roba? Vomito di pe-cora?” chiese costernato. “Beh, se fossi venuto subito, forsel’avresti mangiata calda!” esclamai. “E comunque,” mentii“Non è affatto male”. Ne presi un’altra forchettata, e luimi imitò. Finì la sua porzione di intruglio in silenzio, poisi alzò dicendo che era stanco e che sarebbe andato a dor-mire. Qualcosa mi disse che i piatti li avrei lavati da sola.

Quando finii, andai in camera da letto. Andrea era sulletto, leggeva un libro. Mi misi accanto a lui. “Cosa farai

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domani?”. “Farò delle telefonate. Cercherò un lavoro dagliannunci sui giornali. Tu invece?” “Io penso che domanimattina andrò in palestra per un’oretta, tranquillo me lapagano ancora i miei genitori. Poi farò un po’ di spesa.”“Ah senti, dato che esci, puoi andare dall’autoricambi perritirare un pezzo di ricambio per la mia jeep?” mi do-mandò. “Certo” dissi. “Di che pezzo si tratta?” “Oh, nonha importanza; tu dì solamente che ti manda AndreaGuaroni”. Gli augurai la buonanotte, feci per mettermi adormire. “Giorgia?”. Si rivolse a me, esitante. “Mi dispiaceche oggi non sia stata esattamente la giornata che vole-vamo, ma fidati che recupereremo!” “Certamente! Ma An-drea, tu non farti questi problemi e non scusartiassolutamente, è stata una giornata pesante per entrambi,per te soprattutto” dissi, anche se i suoi commenti sul-l’aperitivo e sulla cena mi avevano ferita. “Ok, piccola…buonanotte. Ti voglio bene” mi disse lui. Confortata daquelle parole, piombai in un sonno profondo e tormen-tato, e sognai Andrè che mi rincorreva gridando:” Corri,ippopotamo!” .

Quando mi svegliai, mi accorsi che era piuttosto tardi.Guardai l’orologio: le nove e mezza. Cavolo! Avevo dor-mito davvero troppo. Mi alzai prevedendo che Andrea mistesse aspettando al tavolo della colazione da parecchiotempo. E invece no. Andrea ronfava accanto a me, e da

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lui proveniva un sommesso russare. Con un brontolio, co-minciai a fare il caffè, anche se lo odiavo, ma a lui piaceva;inoltre, non c’era latte. Sospirai guardando la dispensa se-mivuota dove non c’erano biscotti né tantomeno muffinal cioccolato. In angolo comparivano solo delle galletteintegrali che parevano scadute da tempo. Pazienza. Datoche non c’era altro, oggi ci saremmo mangiati quelle.

Le presi e le misi sul tavolo, poi andai a farmi una ve-loce doccia con acqua tiepida e a vestirmi.

Quando, alle dieci e un quarto, pulita e vestita, tornaiin cucina, trovai una sottospecie di baccalà. Cioè, era An-drea, ma aveva la faccia così insonnolita, intontita e im-pastata di sonno, che aveva tutta l’ aria di essere unbaccalà. “Buongiorno” lo salutai, “Alla buon’ora!”. Lui mirispose con un grugnito che suonò più o meno come unsaluto. “Allora” dissi cercando di fare conversazione. “Oggigiornata di tutto riposo”. Andrè neanche alzò lo sguardo.Perfetto, era diventato un baccalà veramente. Mi alzaidalla tavola, un po’ offesa. Poi ricordai di avere dei pro-grammi per quel giorno. “Ehi, io vado in palestra, ci ve-diamo verso l’ora di pranzo, metti tu a posto qui?” “Sì…sì… vai pure… a dopo”. Perfetto, aveva riacquistato ildono della parola.

Uscii di casa, e non sapevo perché, avevo voglia dipiangere. Cominciai a camminare velocemente. Per for-

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tuna, la palestra era vicina. Uscii da lì esausta, ma nonostante questo andai fino al

supermercato e, nonostante mi fossi promessa di noncomprare troppa roba, trenta minuti dopo uscii dal nego-zio con due pesanti buste. Ero davvero stremata. Feci perandare a casa, poi mi ricordai del pezzo di ricambio dellajeep. Chiamai Andrea.

“Pronto…? Andrè…? Ieri non mi hai detto dove sitrova l’ autoricambi…” “Oh si, che sbadato!” disse attra-verso il telefono. “Ma sei sicura di volerci andare?” “Sissi,tranquillo, mi fa pure piacere!” gli risposi, anche se nonera affatto vero. “Sei grande!” esclamò lui, e io mi sentiidavvero orgogliosa. “Allora si trova… a via Giannoni nu-mero 45”. Mi sgonfiai come un palloncino. Era dall’altraparte della città, e per arrivarci avrei dovuto prendere dueautobus. “Ok, a dopo” dissi flebilmente, e chiusi la telefo-nata. Mi trascinai verso la fermata del bus, constatandoche quello che dovevo prendere era appena passato. Misedetti sotto la pensilina, su una squallida panchina so-vraffollata. Accanto a me una signora molto grassa stavamangiando un gelato mentre parlava animatamente al te-lefono, sputacchiando dappertutto mentre diceva qual-cosa. Peggio di così non poteva andare. E invece no! Ilmio autobus stava arrivando, e anche se durante il viaggiofui spiaccicata tutto il tempo contro la signora grassa, presi

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la coincidenza giusto in tempo e arrivai a via Giannonisenza altri incidenti. Ero stanchissima, braccia e gambemi facevano un male cane ma avevo recuperato un po’ diottimismo e di buona volontà. Così entrai nell’autori-cambi e chiesi il pezzo. Il tizio sparì un attimo e tornòpoco dopo con pacco enorme con scritto “fragile”. Lopresi. Era piuttosto pesante di suo, senza contare cheavevo anche le buste della spesa dietro. Mi ero trasformatain un animale da soma umano.

Arrivai a casa quarantacinque minuti dopo, grondantedi sudore. Stavo letteralmente per stramazzare al suolo.

Aprii la porta e la prima cosa che vidi fu che la cucinaera esattamente come l’avevo lasciata e che non c’eraniente di pronto sul fornello. Poi vidi Andrea, comoda-mente steso sul divano che guardava la tv, e in quel mo-mento giuro che volevo solamente ucciderlo. Cercai dicalmarmi. Dopotutto, probabilmente aveva passato lamattinata a fare telefonate a datori di lavoro.

Comunque, appena mi vide spense l’apparecchio. Miavvicinai e toccai il vecchio televisore: era rovente, comese fosse stato acceso per parecchie ore. Strinsi gli occhicon fare indagatore. “E così” gli dissi, “Non hai né messoa posto, né preparato il pranzo”. A quanto pare lui non siaspettava che gli dicessi una cosa del genere, perché di-venne paonazzo e cominciò a balbettare giustificazioni. In

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quel momento però ero troppo stanca anche per discutere.Me ne andai dritta in camera da letto. Stavo per sbatterela porta dietro di me, quando mi arrivò la voce di Andreache mi chiedeva:” Ehi tesoro, niente pranzo?”.

Sentii l’energia che mi scorreva nelle vene. Mi girailentamente. “Se lo vuoi, preparatelo da solo” sibilai.

“Cosa hai detto?” chiese lui allibito. “Ho detto che hofinito di essere la tua schiava!” esclamai. Furiosa, corsiverso la tavola della cucina, presi le tazze che lui non siera neanche degnato di mettere nel lavandino e le scara-ventai a terra. “Oggi io ho preparato la colazione, sonoandata in palestra, ho fatto la spesa, mi sono fatta mezzacittà a piedi con venti chili di roba in mano, poi torno ecoso trovo? Te che hai passato la giornata a guardare latelevisione e a dormire! Sai che c’è? Me ne vado! Trovatiun’altra donna di servizio!” urlai, come indemoniata. Stavoper aggiungere un altro paio di cose, quando suonaronoalla porta. Andai ad aprire. Mi si presentò davanti una ra-gazza tutta labbra infuocate e abiti succinti. “Scusa” dissescuotendo i capelli biondi, “Cerco Andrea. Ieri ha dimen-ticato questo” mi mostrò un orologio, “A casa mia. Possotrovarlo qui?”. Questa fu la goccia che fece straripare ilvaso. Se prima ero arrabbiata, adesso la mia furia era pa-ragonabile ad una tempesta. Chiusi la porta in faccia allabiondona, corsi verso Andrea, che intanto si era alzato, e

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gli diedi un cazzotto su un occhio. Poi uno sull’altro. Poigli diedi una ginocchiata in mezzo alle gambe. Lo lasciaia contorcersi dal dolore sul pavimento. Andai nell’altrastanza, buttai alla rinfusa la roba nelle valigie, e, senza de-gnarlo di uno sguardo, feci per uscire quando mi venneun’idea geniale. Presi la lattina di coca cola dal frigo, laaprii e uscii di casa. La biondona era ancora sul pianerot-tolo. Versai tutta la bibita sui suoi capelli. Lei mi guardòcome se fossi un mostro, e scappò via piangendo. Mi se-detti sulle scale del palazzo. Potevo sentire sia i gemitidella ragazza sia quelli di Andrea.

Con un sorriso cretino stampato sulle labbra, presi iltelefono, composi un numero e aspettai.

“Pronto, mamma?”

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L’odore della torta di meledi Elisa Iapino

3H

Sono tre settimane che nonna non c’è più. La cerco negli sguardi dei passanti e nei sorrisi tra la

folla, ma non è la stessa cosa. Nonna si chiamava Anna ese ne è andata via troppo presto. Presto perché non si èmai pronti a salutare una persona per sempre, non baste-rebbe una vita per essere pronti. A lei dedico il mio futuro,quello che sono diventata e quello che diventerò cre-scendo. Perché lei c’è sempre stata. Non pensava due voltead invitarmi a casa per passare del tempo con me. Perchéle faceva piacere, si sentiva meno sola con noi nipoti ac-canto, era tutto un po’ più facile.

Da quando non c’è più la sua casa è vuota, ogni tantoc’entro ancora, per poco però, so che sarà messa in venditaal più presto. Da quando non c’è più non visualizza i mes-saggi che le mando. Dovrò farci l’abitudine, non sarà sem-plice. Rimpiangerò sempre di non averle dimostrato almeglio quanto tenessi a lei e quanto potesse essere impor-

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tante per me. Non posso sopportare l’idea che lei se ne siaandata senza sapere queste cose.

Scendo in garage e ho deciso: la metterò in funzioneoggi.

Parlo della macchina del tempo che non ho mai avutoil coraggio di azionare. Oggi è il giorno giusto. Infilo lachiave nella serratura, mi metto comoda e seleziono il ca-lendario indietro di ventuno giorni, premo l’acceleratoree dopo quelli che potevano sembrare cinque o forse diecisecondi, scendo dalla macchina e chiudo la serranda delgarage.

Torno a casa e incredula chiamo nonna al cellulare,squilla. Finalmente squilla, però non voglio sentirla al te-lefono. Così attacco, afferro le chiavi e corro in casa da lei.

Faccio il primo passo sul tappeto marrone che è all’in-gresso. Sento l’odore dolce della sua famosa torta di melenel forno. Chiedo permesso senza alcuna risposta. Entrodi corsa in cucina e la vedo sorridente girarsi verso di mee venirmi in contro. Non si aspettava la mia visita ed inizioa parlare di fretta, ho paura che il tempo non basti. Allorainizio ringraziandola: grazie per avermi insegnato a ca-dere, ad alzarmi da sola, a farmi le spalle larghe, a cucinare,a giocare a carte, grazie per avermi permesso in tutti questianni di starti accanto e di crescere con te. È’ stupita e fe-lice, mi continua a domandare quale fretta abbia e io non

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faccio in tempo a risponderle che mi cade tra le braccia.La trascino in camera da letto, provo a rianimarla senzasuccesso, chiamo di fretta i miei che arrivano insieme al-l’ambulanza. La portano via in barella, con il tubo dell’os-sigeno in bocca, chiudono gli sportelli, riesco ancora avedere la nonna sdraiata, è tutto molto veloce. Io vorreitanto ma i miei genitori non mi permettono di andare inospedale. Tre giorni dopo entro in reparto con mammanella mano, “Anna è ancora viva” ci dice il medico, “Manon si sveglia da giorni” . Chiedo a mamma di rimanerefuori dalla stanza ed entro da sola. Mi siedo sul bordo delletto, prendo la mano di nonna e la stringo dolcemente.Lentamente nonna apre entrambi gli occhi, quando ormaii miei sono pieni di lacrime salate, ricambia la stretta e midice “Te ne sarò sempre grata.” Lascia la presa, chiude gliocchi di colpo, i vari macchinari li intorno iniziano a im-pazzire, un rumore fisso e acuto, chiamo immediatamentel’infermiere che con forza mi trascina fuori dalla stanza.Se ne era andata.

E il resto della giornata non voglio neanche riviverlo.Salgo in macchina, ventuno giorni dopo, in casa mia: ilsolito silenzio, la solita tranquillità. Ho un peso in menosul cuore adesso, sto meglio, la mancanza però si sente lostesso. Riposa bene nonna.

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Aylan Kurdidi Elisa Iapino

3H

Mi chiamo Aylan Kurdi, ho tre anni e sono nato inSiria. In questo momento c’è la guerra. Chiudo gli occhicon il rumore delle bombe in sottofondo per riaprirli ilgiorno dopo nelle stesse condizioni. Mio fratello ha cin-que anni e si chiama Galip, mi racconta sempre i suoi se-greti e le sue preoccupazioni, si fida molto di me. Mammae papà sono terrorizzati, non vediamo entrare cibo in casanostra da più di una settimana ormai. Galip l’anno scorsoandava a scuola e mi raccontava ogni gioco nuovo che im-parava, mi mostrava tutti i suoi disegni e mi parlava tantodei suoi amici. Io non so neanche cosa sia un amico, pen-savo.

Non sono ancora mai uscito di casa e mi piacerebbetanto scoprire cosa c’è fuori, ma mamma mi ripete che èpericoloso uscire.

Papà non va più a lavoro la mattina, dice che non si di-vertiva con i colleghi.

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Mamma non pulisce più la nostra camera, è sempreimpegnata in altre faccende e rassicura di continuo me eGalip dicendoci che presto tutto questo finirà. Sono mesiche la situazione non migliora, sarebbe bello un giornouscire con Galip ed i suoi amici. Sarebbe bello un giornoche papà mi svegliasse con il sorriso.

A un tratto un botto. Un frastuono così forte che vedo mamma e papà ag-

grapparsi alla parete del bagno. Galip inizia a piangereimpaurito, da fuori voci urlanti e sofferenti.

Le finestre del nostro appartamento sono chiuse damesi.

Oggi mamma mi ha legato alla sedia e raccomandatodi non muovermi.

Dalla cucina osservavo il resto della famiglia preparareuno zainetto con una maglietta pulita ed un cappello peril sole. Io ho una maglietta rossa e un paio di pantaloniblu.

Poco dopo mi hanno preso in braccio e siamo corsiverso la “spiaggia”, così la chiamavano i miei genitori. Èstata la prima volta per me, c’era tanto vento e soprattuttotantissima acqua scura. Non so cosa fosse, aveva l’aspettodi un qualcosa di morbido e spazioso quanto basta percinque persone adulte. Papà ha urlato: “ecco il gommone!”.Evidentemente così si chiamava. Saliamo uno per uno, ci

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ha aiutati un signore con la pelle più scura della nostra,dopo di noi altre persone. Erano tante, tantissime. Sem-bravano non finire più. Eravamo troppi sul gommone.Ognuno si teneva sulla spalla del vicino, l’acqua sembravaferma e calma, mentre sulla terraferma si scatenava l’in-ferno. Pian piano ci allontaniamo galleggiando dalla sab-bia, altra parola pronunciata da mio padre. Tra le bracciadi mia madre, sollevai lo sguardo. Mai vista una cosa si-mile prima d’ora: un’immensa distesa azzurra sopra di noi.Non riuscii a capire dove iniziasse e finisse questo celeste.Il calore del petto di mia madre era piacevole, i movimentisotto di noi un po’ meno. L’acqua iniziò ad agitarsi, ilgommone a scuotersi e improvvisamente papà si tuffò inacqua. Il suo corpo galleggiando si allontanava da noi.Mamma iniziò ad urlare, Galip a piangere ed io che noncapivo la situazione chiusi gli occhi. Mi risvegliai tra lebraccia di uno sconosciuto, non trovavo la mamma, Galipe neanche papà che non era più risalito. Avvertii unaspinta dal lato destro e immediatamente non vidi piùnulla. Il mondo esterno era ovattato, di nuovo sconosciuto.Ero leggero, però, e qualcosa di freddo mi trasportava se-guendo la direzione del vento. Finalmente mi fermo, sentofreddo e sono solo. La mia fronte è ogni tanto bagnatadalla sporca schiuma del mare. Tra i capelli ho la sabbia equalche alga. Vorrei aprire gli occhi e cercare la mamma,

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ma le forze non mi bastano e rimango giù sulla sabbia conla pancia scoperta e gli occhi chiusi.

Perché non sono come gli altri bambini, perché io nonmi diverto?

Ho capito poco di questo viaggio, penso che non faròin tempo a conoscere gli amici di Galip e neanche faròmai uno di quei giochi divertenti che imparava in classe.

Una cosa che però ha cambiato la mia giovane vita c’è:ho visto il cielo, questa distesa infinita di azzurro, grigio,blu, arancione ed anche nero.

Vedere il cielo mi ha fatto sentire un bambino libero: èdurato poco, ma è stato bellissimo.

[Aylan Kurdi 2012 Siria-2/09/2015 Turchia]

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Accettate la prova?di Pierluca Mancini

3H

Un giorno, in una città magica molto lontana da qui,una guerra incombeva su un paese che amava la pace. Unaregina nera ed oscura stava per muovere i suoi eserciti con-tro quel paese. Il giovane re, radunò il suo esercito e partì,con l’intento di fermare i piani distruttivi della regina. Perarrivare nelle sue terre egli dovette attraversare un boscoincantato, abitato da strane creature. Cadde così prigio-niero degli elfi del bosco, disturbati dalla presenza di cosìtante armi. Fu quindi portato dalla signora degli elfi, es-sere di indescrivibile bellezza e saggezza. Questa disse algiovane re: “avete calpestato questo luogo sacro portandocianche le vostre armi, disturbando così la pace dei suoi abi-tanti. Per questo sarete puntiti con la morte.” Poi, dopoun attimo di silenzio, aggiunse: “ma voglio essere generosae darvi la possibilità di rimediare. Se supererete anche unasola delle tre prove a cui vi sottoporrò, allora risparmieròla vita dei vostri soldati e la vostra, e potrete procedere il

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vostro cammino” Dopo un attimo di riflessione, il giovanere accetta con queste parole: “le supererò anche tutte e trese sarà necessario!” La regina, sorridendo, gli parla dellaprima prova: “Come prima prova dovrete catturare, ed uc-cidere, una coppia di ogni uccello che vive nel bosco primache la sabbia contenuta in questa clessidra abbia finito lasua corsa. Fatelo, e sarete liberi. Accettate la prova?” Unodei consiglieri del re disse: “accettate, mio re! Io sono bravoad imitare ogni verso del bosco e con la vostra mira saràuno scherzo superarla.” L’altro consigliere, invece, disse:“sono troppe le specie che vivono in questo bosco, la re-gina lo sa, non accettate mio signore” Dopo un attimo diesitazione, il giovane comunica la sua scelta alla regina:”non posso accettare codesta prova, mia signora, poichénon credo che uccidendo così tante vite se ne possano sal-vare altrettante” La regina, impassibile, prosegue con laseconda prova: “Vedete l’albero sopra cui vivo? È un alberosecolare. E sopravvissuto ad intemperie di ogni genere.Abbattetelo prima che l’ultimo granello di sabbia di que-sta clessidra sia caduto, e sarete liberi. Accettate la prova?”Un consigliere dice al re: “accettate mio signore, siamo uo-mini forti e dando colpi di asce da entrambe le parti, saràun gioco da ragazzi buttarlo giù. “L’altro consigliere, in-vece, gli dice: “non accetti mio signore. Lo ha detto leistessa, è un albero secolare il cui tronco ha resistito a mille

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intemperie. La regina non vi avrebbe mai chiesto di ab-battere il suo trono se non fosse sicura che fallirete.” Ilgiovane re si ferma a pensare per qualche secondo e poitoccando con la mano il tronco dell’albero, e guardandola regina, gli comunica la sua scelta: “non posso accettarequesta prova, mia regina…questo albero è vivo e anche sefallissi nell’impresa gli causerei troppi danni, quanti ne-anche il vento e le tempeste potrebbero causargli.” La re-gina, con aria un po’ seccata, prosegue con la terza prova:“È l’ultima prova, riflettete bene. Vedete il fiume alle vo-stre spalle? Se riuscirete a cambiare il suo corso prima chel’ultimo granello di sabbia di questa clessidra sia sceso, sa-rete liberi. ?” Uno dei consiglieri gli dice:” accetti, mio si-gnore, non ci vuole nulla, l’ho già fatto con delle dighesarà facile”, mentre l’altro consigliere :” ha ragione lui, ciimpiegheremo poco, questa possiamo superarla!”. Il re siavvicina all’acqua per scegliere da dove iniziare i lavori.Dopo qualche minuto, una tartaruga ed un salmone gliparlano: “non cambi il corso dell’acqua, il fiume ci portaal mare, non ci neghi la possibilità di tornare a casa.” Ilgiovane re rimane a lungo a pensare a questa difficilissimascelta, e a decidere se salvare la sua vita o quella della na-tura. Poi, va dalla regina degli elfi annunciando la sua de-cisione: “Mia signora, non posso accettare neanche questaprova, non perché non ne sia in grado, ma perché gli ani-

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mali del fiume non vogliono”. La regina, infuriata, esprimeparole dure: “come volete voi” poi, ordina agli elfi :” chesiano tutti uccisi”,”no, mia signora, “ aggiunge il re “prendala mia vita ma lasci la loro che seguono gli ordini del re efanno solo il loro dovere. Non li punisca per la loro fedeltà.“La regina allora inizia a ridere, seguita da tutti gli elfi chelasciano subito liberi gli uomini, poi, con il sorriso sulvolto, parla con voce gentile al re: “Proseguite pure il vo-stro cammino, mio grande re, nient’ altro vi ostacolerà inquesta foresta. E non mi guardi con aria sorpresa, voi avetesuperato con onore tutte e tre le prove! L’unico modo persorpassarle, infatti, era quello di non affrontarle! Rifiutan-dovi di uccidere i miei animali, le mie piante, i miei pesci,avete dimostrato di essere armati non per attaccare, maper difendervi.”

Così il giovane re poté proseguire il suo cammino versola pace.

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Smagliaturedi Bianca Marchi

3H

“Cos’hai sulle cosce? Cosa sono quei segni che hai suiseni e sui fianchi?”chiedono gli amici della mia proprie-taria.

Lei si chiama Morgana, una ragazza introversa.Qualche mese fa sorrideva sempre e i suoi occhietti

verdi luccicavano di gioia.Ma a luglio, mentre si provava il suo nuovo costume

da bagno, ha notato me e le mie amiche.Siamo delle smagliature e se ci cerchi sul dizionario, ci

troviamo accanto alla definizione “Linea atrofica sullacute”.

Io sono la smagliatura più grande,mi chiamo Violet esono leggermente lucida, di un colorito violetto.

Abito sulla coscia destra, rotonda e grassoccia.Penso di essere bellissima, ma la mia proprietaria mi

odia. Non mi sopporta e cerca sempre di nascondere mee le mie sorelle, utilizzando pantaloni lunghi e coprendoci

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con le mani nervose.È molto imbarazzata e si vergogna moltissimo della

sue smagliature.Per colpa nostra ieri ha pianto, bagnando tutto il cu-

scino rosa.L’altro giorno è andata in piscina con le sue compagne

di classe e provava invidia nel vedere le sue amiche cosìmagre e perfette.

Poi cos’è la perfezione? Niente, è solo un’idea della so-cietà. Io credo che tutti siano perfetti, soprattutto Mor-gana, ma lei non lo capisce.

Mentre le ragazze indossavano dei bikini da favola, leisi sentiva costretta a indossare degli shorts che coprisserole mie amiche.

Ogni sera applica una crema bianca e appiccicosa su dinoi, e certe volte riesco a scorgere delle lacrime che sol-cano i suoi occhi.

Non capisco perché ci odia, in fondo siamo uniche!È tutta colpa delle persone, della televisione e del-

l’umanità.Le hanno fatto credere che deve essere come le altre,

deve avere una pelle “perfetta” e un corpo da sballo.Se solo capisse quanto noi siamo innamorate di lei,

esattamente com’è.Ieri mattina si è svegliata e si sentiva felice, successiva-

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mente ha ricevuto un messaggio di un suo amico che lechiedeva di uscire in centro.

Lei era eccitata e gioiosa, ha scelto i vestiti con cura eha preso un paio di pantaloncini neri.

Ma poi si è ricordata di noi smagliature e ci ha acca-rezzato tristemente, sentendo i solchi e osservando le ci-catrici viola.

Poche ore io e le mie amiche abbiamo fatto una chiac-chierata con la famigliola del Fianco Destro.

Sono così simpatiche! Le figlie si stanno ancora for-mando, e hanno un colorito più opaco e chiaro del nostro.

Abbiamo parlato di quanto siamo stupende e pur-troppo sottovalutate dalla società.

Intanto Morgana sta peggiorando: la situazione si èfatta grave.

Odia l’estate, odia sé stessa e odia noi; ci detesta.Piange sempre e non vede l’ora che inizi la stagione

fredda. Vi rendete conto, l’autunno, l’inverno!?Poco tempo fa adorava giocare e divertirsi, ma ora è

come intrappolata e non riesce a piacersi.È una così bella ragazza.Perché pensa che siamo schifose e rivoltanti? Perché

non capisce le meraviglie che ha sulla pelle?È ottusa e testarda, si paragona sempre agli altri e non

vede il bello in sé.

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Ormai non sa più cosa indossare, perché nuovi gruppidi smagliature sono nati sul suo seno prominente e sullapancia.

Anche oggi ha deciso che non andrà al mare, e hascelto di restare nel suo letto a rivoltarsi nelle lenzuola,bagnate fradicie di lacrime. Quando all’improvviso senteuna macchina che entra nel cortile di casa sua; guardabene e capisce che è sua cugina!

Le corre incontro velocissima e l’abbraccia forte. È pas-sata un’ora, e le due ragazze decidono di andare al mare,nonostante Morgana sia un po’ titubante e nervosa.

Mentre si infilano i costumi, la mia proprietaria e lemie amiche notiamo dei segni violetti sul seno e sullegambe della cugina.

La mia proprietaria è colta di sorpresa, pensava di es-sere l’unica ad avere così tante smagliature.

Osserva bene e nota che la cugina è ancora bellissimae quelle cicatrici la rendono ancora più speciale. Io e lemie sorelle sentiamo il cuore di Morgana battere forteforte, e vediamo un sorriso nascere sulle sue labbra car-nose. La ragazza butta i boxer per terra e si scapicolla giùper le scale, afferrando un bikini viola che si era compratasecoli fa, quando pensava di essere bella e sicura di sé.

È felice come non mai mentre si rimira davanti allospecchio del bagno. Nel riflesso vede una ragazza cresciuta

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e appena abbassa lo sguardo sulle sue cosce, sorride. Unsorriso così sincero e allegro non lo vedevo da tantotempo.

Sono passati un paio di anni e ancora mi ricordo quelgiorno in cui la mia proprietaria imparò ad amare le suesmagliature e sé stessa.

Entrò nel mare felice e libera, senza alcuna insicurezza.Ormai io e le mie amiche stiamo svanendo piano piano

e la pelle di Morgana sta tornando normale, infatti le ci-catrici sono bianche, solo con qualche sfumatura lilla.

Io sono molto triste di dover lasciare la mia padrona,le voglio molto bene e sono cresciuta insieme a lei.

L’altro giorno stava facendo la doccia e ha guardato lesue cosce, notando che molte di noi erano sparite defini-tivamente. Ci ha accarezzato.

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Ripararedi Christian Carella

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Ciao io sono Robert, uno scienziato di 47 anni, o al-meno lo ero. Tutto è iniziato 18 anni fa, quando ho pre-sentato la mia prima creazione, “La macchina del tempo”,purtroppo qualcosa è andato storto, forse per qualche er-rore tecnico e ora sono conosciuto da tutti come un follee per di più responsabile della scomparsa di 2 astronauti.Questo ha determinato la fine della mia carriera, nessunoha più voluto ascoltare o vedere nessuna mia invenzione.Per questo ho dedicato 18 anni della mia vita per riparareal mio errore, per recuperare il lavoro che tanto amo e so-prattutto la dignità. Finalmente il 29 Settembre 2016, hocompletato il mio secondo prototipo della macchina deltempo. Ma stavolta non ci saranno più degli astronauti arischiare per me, forse anche meglio perché la mia co-scienza sta volta non ce l’avrebbe più fatta. Così sono en-trato e ho inserito “La data perfetta”, ovvero una settimanaprima che si terrà la Presentazione, che avverrà il 13

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Marzo 1998. Appena entrato ho azionato la levetta e inun attimo, eccomi immerso in un gigantesco cerchio blu,in quel momento ero tutto stralunato ma fortunatamenteè durato poco più di 10 secondi. Appena svegliato mi sonoritrovato nella mia vecchia casa con quella antica male-detta TV che avevo prima. Questo inizialmente mi rassi-curò leggermente ma al momento di accendere latelevisione per vedere il telegiornale e… Era il 6 Marzo1998. Non ci potevo credere, la prima cosa che mi era pas-sata per la mente in quel momento era di quella di guar-darmi allo specchio e non ho potuto fare a meno chenotare un bel fustaccio di soli 29 anni. Ma non avevotempo da perdere così subito dopo, mi sono messo a la-voro. Sono stato tutta la settimana a casa completando laattuale macchina che mi aveva rovinato la vita con i pro-getti portati dal futuro, non sono uscito di casa per evitaredi incontrare persone che non dovevo conoscere per averemeno ripercussioni sul presente. Ma eccoci finalmente ar-rivati al fatidico giorno, eravamo di nuovo in quel dannato13 Marzo. Ma stavolta il giorno che doveva doveva rovi-narmi la vita, mi rese ricco e famoso, così non ho persotempo e di nuovo immerso in un altro immenso cerchioblu impaziente di vedere come la mia vita fosse cambiata.Mi sono ritrovato in una gigantesca villa, piena di trofeiper scienziati, premi Nobel e quant’altro. L’unica cosa

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però, è che ho trovato 3 ragazzi che dicevano di esseremiei figli, io invece non avevo la minima idea di chi fos-sero…

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Pronto?di Gianluca Morellato

3H

Erano le due di notte quando il telefono iniziò a squil-lare. Chiamai mamma e papà ma subito mi ricordai che,per un’emergenza, erano dovuti andare dai nonni. Sollevaila cornetta e aspettai che qualcuno parlasse, ma nessunorispose. All’ inizio pensai subito ad uno scherzo telefonico,quindi riattaccai. mi girai e ritornai nel mio letto, maprima che mi coricassi il telefono ricominciò a squillare.Rialzai la cornetta e stavolta risposi: “Pronto?”.

Una voce roca e scura rispose, un suono che mi fecegelare il sangue, una voce che non avrei mai dimenticato.“Ciao piccolo, come stai? Mi sei tanto mancato, daquando ti sei trasferito con la tua famiglia, ho dovuto se-guirti e osservare ogni tua piccola mossa…”.

Mi affrettai a rispondere:”Chi sei, perché mi perse-guiti?!”

Sussultai un momento, quel mostro mi stava tortu-rando da più di due anni, e adesso che potevo avere una

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vita, lui era qui, magari anche ad osservarmi. “Dove sei, come hai fatto a trovarmi?”, ormai l’adrena-

lina era in circolo, e il mio cuore stava per crollare. Un rumore di piatti mi attirò, proveniente dalla cucina.

“Scusa, doveva essere una sorpresa.” “Aspetta, che cosa do-veva essere una sorpresa...” Non mi lasciò finire la fraseche si mise a ridere, una risata maligna, non umana. Il te-lefono smise di parlare, intanto una corsa frenetica fecemuovere tutte le stoviglie, quando lo vidi girare l’angolo.Me lo ritrovai davanti, sorridente. Iniziò ad aprire labocca, mostrandomi dei denti lunghissimi e affilati, conun sacco di bava attaccata. Il mostro non aveva ne occhi,ne naso.

Il mio respiro si fece più affannato, iniziai a correre. La mia vita era in pericolo, io ero la preda e lui il cac-

ciatore. Mi voltai, ce l’avevo alle calcagne, lo vidi estrarre un

coltello e lanciarlo verso di me, intanto trovai in fondo alcorridoio il pomello di una porta, la aprii e subito rientraie la richiusi a chiave. Mi appoggia alla porta, un frusciomi accarezzò il viso, girai lentamente la faccia e vidi il col-tello a un centimetro dal mio viso, mentre una piccolaciocca di capelli cadeva a terra.

Non era possibile. Corsi dall’altro lato della stanza, miaccostai al muro.

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Nel buio vidi girare da solo il pomello della porta, mitappai la bocca con la mano, mentre un filo di luce di luceentrava dalla porta ormai aperta.

Entrò e inciampò su uno dei miei giocattoli, da lì mi siaccese una lampadina. Essendo cieco lui non mi può ve-dere, quindi se resto zitto mi potrebbe pensare morto. Ri-masi fermo come un albero e pregai che non misuccedesse niente di niente.

Intanto il mostro si ritrovava in piedi davanti a me, ini-ziò a camminare, il suo piede mi sfiorò la mano, la scostai,ma nel muoverla schiacciai contro il mio corpo uno di queipeluche che schiacciandoli fanno rumori divertenti. Il mo-stro se ne accorse, piombò addosso a me, i nostri visi eranopiù che vicini, e un solo movimento mi avrebbe portato amorte certa.

iniziò ad aprire la bocca, che iniziò ad allargarsi, rag-giungendo la misura esatta della mia faccia. Il fetore iniziòa diffondersi nella stanza e con la mano che mi tappava labocca mi tappai anche il naso. Il suo viso iniziò ad allon-tanarsi dal mio, lasciandomi respirare, quando un rumorelo fece sussultare. Si incamminò fuori dalla stanza. Quelloera il mio unico momento di salvezza. Mi alzai con calmae lo precedetti davanti alla porta che chiusi. Cercai diestrarre il coltello conficcato nel legno. Un verso furiosomi spaventò, mentre, con tutta la forza che avevo tolsi fi-

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nalmente il coltello, lo presi per l’impugnatura e mi na-scosi. Il mostro camminava nel corridoio. Appena vidi lasua ombra uscii dal mio nascondiglio e cercai di impian-targlielo in gola, ma nessun corpo si ritrovò sotto la furiadella mia lama, caddi a terra, il mostro iniziò a ridere.Nella fretta mi rigirai subito e vidi quella cosa piombarmiaddosso con la bocca aperta emettendo un suono stridulo.Impugnai il coltello con tutte e due le mani, tenendo lamano ben ferma, gliela infilzai nel petto, con tutta la forzache avevo; il mostro emise molti gridi, di ogni genere, in-tanto lo spinsi via coi piedi. Mi misi sopra di lui, affon-dandogli di nuovo il coltello nel petto, schizzi di sanguemi arrivavano sulle mani e sulla fronte. Il mostro emise ilsuo ultimo respiro. Lasciai andare il coltello, mi alzai esentii la porta aprirsi. Mamma e papà erano a casa, iniziaia correre verso di loro, li abbracciai più forte che potevo.

Intanto la mamma emise un grido di terrore. “Haivisto, ho ucciso il mostro, l’ho ucciso, ora non ci darà maipiù fastidio!”. Mamma mi allontanò e si mise a correreverso il mostro, papà pure. Dicevano in coro un nome,omas.

Mi avvicinai al mostro, lo guardai bene in faccia, mimisi una mano sulla bocca e indietreggiai lentamente.Mamma in lacrime alzò la testa e mi chiese:”Perché haiucciso tuo fratello, perché?”.

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Indice

Odio i topi. Sono un topodi Elisa Di Giorgio 4

Il mio picchioElisa Di Giorgio 6

Chiudo la portadi Tommaso Ciullo 9

Il disgustorsodi Viola Di Lorenzo 11

Celiacallinadi Elisa Di Giorgio 11

L’asinoetadi Elisa Di Giorgio 12

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La gazzamica di Tommaso Ciullo 12

Il rinostendino di Tommaso Ciullo 12

La zebrazoodi Tommaso Ciullo 13

Il cangallodi Sofia Saggiorato 13

Chiupicchiodi Giordana Vista 14

Bruchieredi Leonardo Matos 14

Il pennagallodi Elisa Di Giorgio 14

Momenti di trascurabile felicitàdi Leonardo Matos 15

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Momenti di trascurabile felicitàdi Viola Di Lorenzo 16

Strani rumori in casadi Leonardo Matos 17

Forse un vampirodi Dario Vittorini 19

Le ali dei ragazzidi Stefano D’Auria 23

1500 battiti al minutodi Luca Pagnacco 25

Un gioco antico, molto divertentedi Vittoria Solano 27

Un amico immaginariodi Linda Cuva 30

La ragazzina dai capelli rossidi Martina Corradini 35

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Un’amicizia sanguinosadi Giacomo Falessi 39

Il cervello è l’ultimo a moriredi Francesca Evangelisti 43

Meglio il presentedi Alessandro Bettucci 49

L’ascella di BritneyFlaminia Pagnozzi 52

Ilaria sono le setteEleonora Capodanno 54

I Super-Vecchidi Sofia Tiberi 59

Mamma vado a vivere con Andreadi Francesca Evangelisti 65

L’odore della torta di meledi Elisa Iapino 80

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Aylan Kurdidi Elisa Iapino 83

Accettate la prova?di Pierluca Mancini 87

Smagliaturedi Bianca Marchi 91

Ripararedi Christian Carella 96

Pronto?di Gianluca Morellato 99