Racconti l'Adige 2009

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l treno non l’avevo mai preso. Nemmeno sapevo che esistesse una cosa così. Fino a quando alla mamma non avevano consegnato quella lettera piena di timbri e sigilli. Lei l’aveva letta molto in fretta, appoggiandola quindi sulla credenza, come se scottasse. Mi aveva cercato con lo sguardo, ma io mi ero nascosto davvero bene sotto quelle scale. Lei si era messa a sedere e, come al solito, aveva cominciato a piangere, con il fazzoletto premuto contro la bocca, come se il pianto fosse una ferita da tamponare. È strano, ma a me tra il piangere e il ridere non mi sembra che si siano poi tutte ’ste differenze. Il petto saltella, il respiro si fa grosso; pure le lacrime sono le stesse. Mi aveva detto che no, non era di papà quella lettera. Oramai era quasi un anno che non scriveva. Da quando era scoppiata la guerra. Adesso che ci penso, anche a lui era arrivata una lettera, quella volta. Solo che non si era messo a piangere. Per forza, i papà non lo fanno mai. Il Renzino, il mio compagno di banco, mi ha detto che lui una volta suo padre ce l’ha visto piangere, eccome. Era successo una sera che era tornato dall’osteria con una faccia scura. Molto più scura del solito. La faccia che può fare chi si è giocato la casa al tressette. Ma a parte il papà del Renzino, non esiste che un uomo pianga. Le mamme, invece. Per loro ogni occasione è buona per frignare. nche in treno, quella volta, invece che guardare tutte quelle cose incredibili là fuori dal finestrino, lei non trovava di meglio che sospirare e infilare un’avemaria dopo l’altra. Io, invece, lo spettacolo al di là del vetro non me lo sarei perso per niente al mondo. Il treno non l’avevo mai preso, l’ho già detto. Come potevo immaginare che esistesse una cosa così? Una carrozza che, senza nemmeno un cavallo davanti, va talmente veloce da farti girare la testa. Anche se, se devo essere sincero, a me sembrava che il treno stesse fermo e fosse tutto il resto a muoversi e a cambiare di posto. Le montagne, A I beh, quelle erano sempre le stesse. Si muovevano piano piano. I prati, piuttosto, le case, gli animali e le persone che stavano vicine ai binari. Riuscivo a distinguerli per un attimo, giusto il tempo per capire di cosa si trattasse e poi via. Cancellati, risucchiati da un vento strano. I miei preferiti, però, erano gli alberi. Soprattutto quelli vicino ai binari. Piegavo la testa per scorgerli là davanti e, poi, in un secondo me li ritrovavo a fianco, un attimo prima di svanire. Era come se tronchi, chiome e rami venissero risucchiati verso l’alto. Sparivano, insomma, all’improvviso, come se partissero per un mondo misterioso che stava dietro le montagne oppure, chissà, al di là delle stelle. Tentare di domandare spiegazioni alla mamma era inutile. Quella continuava a pregare sfregando tra le dita i grani del rosario. Di certo non aveva tempo adesso per la mia curiosità. In fretta e furia aveva raccattato poche cose – biancheria, un sapone, qualche maglione – senza distogliere lo sguardo dalla lettera appoggiata sulla credenza. No, non era stato papà a scriverla, e nemmeno parlava di lui eppure dovevamo lo stesso partire. Entro due ore avremmo dovuto presentarci alla stazione. Avevo preso tra le mani la lettera e con lo sguardo mi ero aggirato tra quegli strani segni che a scuola insegnano a decifrare, maledicendo il fatto di essere ancora troppo piccolo per riuscire a leggere. Di fronte alle mie insistenze, la mamma aveva detto che quella roba l’aveva scritta l’Imperatore. Insomma, le solite scemenze che sparano i genitori quando vogliono solo che la pianti lì di rompere. Non si prendono nemmeno la briga di dire qualcosa di originale e credibile. La prima cosa che passa loro per la testa, zac, eccotela lì! Te la spiattellano tranquilli, sicuri che ti berrai fino all’ultima parola. Beata sicurezza. Doveva essere bello grande quel posto. L’angolo di cielo dove se ne andavano a finire tutti quegli alberi viaggiatori. Chissà se si ripiantavano in qualche maniera, o continuavano allegramente a galleggiare nell’aria come aquiloni. Forse proprio come quei cervi volanti di cui mi raccontava papà, prima che partisse. Mi diceva che i l’Adige l’Adige soldati li usano per fare segnalazioni. Ci attaccano, annodati alla bell’e meglio, i proclami o gli avvisi, lanciandoli con il vento favorevole e quindi lasciandoli cadere al momento voluto. Certo, gli avevo risposto, che si divertono un bel po’ questi soldati durante la guerra. Pure con gli aquiloni si mettono a giocare. Papà mi aveva sorriso e poi era uscito sulla veranda ad accendersi una sigaretta, senza dirmi nemmeno una parola. iù guardavo la mamma, la sua faccia afflitta, più mi domandavo come possano i grandi non far caso a certe meraviglie. Anche gli altri passeggeri – due donne, qualche militare, uomini con grandi baffi – se ne stavano seduti a parlare trascurando di lasciarsi stupire da quanto stava avvenendo alle loro vite. Voglio dire, questa macchina incredibile che ci accoglieva tutti e ci fiondava a grande velocità verso nord, non faceva loro nessun effetto. Mi domando come facciano i grandi ad avere sempre qualcosa d’altro a cui pensare. Non fermano mai lo sguardo su nulla. Secondo me se una cosa non la guardi, se non le presti un po’ d’attenzione, quella P cosa non esiste nemmeno. Perciò, anche mia madre, delle volte, prepara una crostata, ma non ci pensa mica al momento in cui se la potrà mangiare: a quanto sarà deliziosa. Non ci crederete se vi dico che mentre è ancora lì sbatte le uova e si infarina le mani, sta già con la testa al piatto che dovrà lavare. Tutti così, i grandi. Pure quei due spilungoni seduti di fronte a me. Li stavo osservando già da un po’. Magri e ben vestiti. Grandi riccioli di baffi su per tutta la faccia. Buona parte delle parole che dicevano io non la capivo mica: per capirci, era quel genere di parole che spara il curato quando è di buzzo buono, tipo alla domenica di Pasqua o nel giorno del santo patrono. «Prerogativa», «confisca», «sopruso» e compagnia cantante. Non per dire, ma se a me mi dici certi termini mi fai ridere da matti. Come se un saltimbanco rischiasse l’osso del collo a furia di capriole e piroette. Non so perché, ma assistere a certe scene mi fa scompisciare dalle risate. Così, dimenticandomi degli alberi volanti e di tutto il resto, senza accorgermene più di tanto, mi ero avvicinato a questi due distinti signori, senza preoccuparmi che il suono della mia risata potesse in qualche modo arrecare loro disturbo. Anche perché, siamo sinceri: non è mica vietato ridere. I due signori interruppero la loro conversazione e dedicarono, per un momento, ogni attenzione al sottoscritto. C’era nei loro sguardi un misto di curiosità e di fastidio. Insomma, mi guardavano come di solito si guarda un poveretto a cui sia capitata una disgrazia. La mamma, naturalmente, non perse tempo. Con la velocità di un fulmine, mi piombò addosso e mi diede uno scappellotto. Benedetta donna, non serviva certo metterci tutta quella forza. Ma lei lo aveva fatto soprattutto per una ragione teatrale, per dare ai due ben vestiti una prova immediata delle sue qualità di madre severa, premurosa e attenta. Sì, teatro puro. Ci mancavano solo gli applausi. Intanto, me n’ero beccato uno di quelli giusti e la testa mi doleva da matti. Per fortuna uno dei due passeggeri, il più spilungone dei due, si schierò subito dalla mia parte. Con modi molto gentili disse alla mamma che non c’era bisogno di punirmi a quel modo. Non li disturbavo mica. Anzi. In un momento tragico come quello, era tanto di conforto sentire riecheggiare la voce squillante e innocente di un pargolo. «Conforto», «pargolo»: altre parole difficili, insomma. Trattenni a fatica le risa. Quando l’uomo disse il suo nome – anche questo incomprensibile per me – la mamma si irrigidì. Quasi si mise sull’attenti. Poi si inchinò in avanti, come davanti al tabernacolo. «Vuoi vedere che adesso gli bacia pure le mani», pensai con preoccupazione. No, niente baci. Si mise il solito fazzoletto sulla bocca e fece la faccia insopportabile di quando sta per scoppiare a piangere. Lo spilungone doveva averle chiesto notizie a riguardo della nostra destinazione e quella aveva spifferato tutto, senza un attimo di esitazione. Che rabbia mi faceva. A me non aveva detto nemmeno una parola e adesso, al primo che le capitava davanti – ’sto qua con il nome strano – aveva fatto un resoconto dettagliatissimo. Addirittura gli aveva mostrato la lettera che ci era arrivata al mattino. Lo spilungone scosse la testa e le disse di non preoccuparsi, che per quanto rientrava nelle sue «competenze», si sarebbe «prodigato» affinché la nostra «dignità» non venisse «lesa». Non so che dire in mia discolpa, ma l’ennesima scarica di paroloni fu irresistibile. Davanti a quei due, seri come stoccafissi, feci di tutto per non scoppiare a ridere. Trattenni il respiro, mi tappai il naso con due dita. Provai anche a mettermi la faccia tra le mani. Solo che il signore con i baffi interpretò il mio gesto come un momento di commozione e mi accarezzò la testa, compatendomi. Naturalmente, tutto ciò rese ancora più spassosa la scena, al punto che mi vidi costretto a simulare davvero un pianto disperato, lasciando che il petto mi saltellasse intanto che la risata scaricava qualcosa del suo forte potenziale. Mai come quella volta mi tornò utile, insomma, la somiglianza tra il ridere e il piangere. Anzi, feci una scoperta non da poco. Esisteva un modo per scacciare via la tristezza, ed era talmente semplice e a portata di mano che mi meravigliava un sacco essere il primo ad averlo scoperto. Bastava solo ridere di più. eh, se proprio volete saperlo, riuscii a farla franca. Certo, mi riferisco alla questione che mi scappava da ridere e tutto il resto. Mi complimentai con me stesso per la piccola impresa e, mentre la mamma mi sussurrava qualcosa a proposito dei due signori – «podestà», «deputato», ecc. –, io ero tornato ad affacciarmi sul panorama: tutto uno spostarsi di case e montagne, con gli alberi più veloci di tutti. Alla stazione ci radunarono tutti. Un po’ come si fa con le pecore. Mancavano solo i bastoni e il cane. Anche se ad abbaiare ci pensavano due o tre soldatacci grossi e grassi che puzzavano di grappa, vino o non so cosa. Sbraitavano, ordinandoci di stare zitti e fermi, anche se nessuno aveva voglia di muoversi né di parlare. I due ben vestiti del treno si fecero largo tra la folla e cominciarono a cantargliele a ’sti qua in divisa. Dicevano che non era il modo di trattare la gente, che avrebbero protestato contro chi di dovere per quello che stava accadendo. Lo spilungone, nonostante fosse certamente il più timido tra i due, B tirò fuori un vocione da cantante d’opera, gorgheggiando che lui era un deputato, consigliere comunale di Trento, ecc. e che voleva subito parlare con il luogotenente: il capoccia, insomma. Quello che dava gli ordini in mezzo a quel quarantotto. llora, si fece avanti questo tarchiatello, talmente basso che i mustacchi gli arrivavano quasi alle ginocchia. Diede a gran voce una notizia che ci stroncò un po’ tutti, me compreso, per quanto ne potevo capire di certe cose. Per farla breve, l’Italia ci aveva dichiarato guerra. Il Parlamento sarebbe stato chiuso a breve. I consigli comunali, Trento compresa, erano sospesi. Un sacco di belle novità, insomma. In più, per l’amico dello spilungone – che scoprii essere il vicepodestà del capoluogo – ci fu una sorpresa supplementare. Il luogotenente gli disse di considerarsi arruolato. Non vi dico la faccia di quello a sentire certi ragionamenti. Una mazzata, insomma. Liquidati in quattro e quattr’otto quei due, venne il nostro momento, nel senso che i soldati presero ad urlare nomi e cognomi del gregge. A turno, quindi, si lasciava la massa informe degli sfollati e ci si metteva a disposizione di un tizio in divisa. Un po’ come a scuola, solo che invece della maestra, c’era ’sto bellimbusto che puzzava di grappa. Ci portarono in uno stanzone là vicino e ci fecero sedere. Dissero che nel giro di qualche ora saremmo ripartiti, verso la destinazione assegnata. Domandai alla mamma cos’era ‘sta roba e lei per tutta risposta mi sparò un nome strano, mai sentito prima: Mitterndorf. Per dirne una, avrebbe potuto anche dirmi Zanzibar o Nuova York, per me sarebbe stato esattamente lo stesso. Mi aspettavo di tutto, insomma. Meno ciò che stava per accadere. Perché ad un certo punto fece il suo ingresso nel nostro stanzone un tizio tutto fasciato, zoppicante, che attirò la mia attenzione. Non tanto per la divisa o per le macchie di sangue sulle bende, quanto per il fatto che i tratti del suo volto mi ricordavano in tutto e per tutto quelli del mio papà. A dire la verità, a guardarlo bene, sembrava più vecchio del mio papà. Tutte quelle rughe, la faccia sofferente. Senza la chiassosa reazione della mamma, che gli saltò addosso come un grillo, non lo avrei mai detto che quello fosse davvero il mio vecchio. Anche perché, le lacrime che gli solcavano la faccia, fecero crollare ogni mia convinzione riguardo al fatto che i papà non piangessero. Il Renzino aveva proprio ragione. Alla prima occasione glielo avrei detto. Inutile negarlo. Anche io ero contento fino alle lacrime. Papà mi spupazzò con discrezione, stando attento alle ferite. Mi domandò se ero contento del fatto che era tornato e che ci saremmo andati assieme in quel posto dal nome strano. Cavolo se ero contento. Ma soprattutto non vedevo l’ora di rimontare sul treno, piazzarmi davanti al finestrino e mostrare al papà tutte quelle meraviglie là fuori. A IL RACCONTO Sabato i dubbi di due fidanzatini Mi aveva detto che no, non era di papà quella lettera Oramai era quasi un anno che non scriveva Da quando era scoppiata la guerra Pino Loperfido gli alberi volare Il bambino 14 sabato 22 agosto 2009 15 sabato 22 agosto 2009 24 maggio 1915: l’Italia è in guerra contro Vienna Degasperi e i trentini sfollati n queste pagine pubblichiamo l’ottavo racconto di Pino Loperfido che accompagnerà i lettori tutta l’estate, ogni sabato. Ecco i titoli dei prossimi e una succinta anticipazione dell’autore. Giusto dietro la curva del cuore: seguire il proprio cuore o i propri ideali? Per i due fidanzatini, persi nella notte bianca, è difficile decidere. Anche vinto il nemico è qualcuno: sbirciando dalla finestra l’arrivo del terrorista. La scoperta della sua inaspettata umanità. La volta che le bombe suonarono Bach: L’esperienza del dono di I sé nella tragedia della guerra, tra arte e distruzione.Ogni giorno è la festa del papà: quell’uomo è un mito per milioni di italiani, ma è mio padre. Solo mio. Pino Loperfido ha pubblicato «Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis» (2001), «Caro Alcide» (2003) e il romanzo «Teroldego» (2005). Alla fine di settembre uscirà il nuovo romanzo «Le meccaniche dell’infelicità», come i precedenti edito da Curcu & Genovese. Il libro racconterà un inquietante Trentino del futuro e il titolo è stato deciso in un referendum indetto su Facebook. che guardava unedì 24 maggio 1915. Settantamila trentini vengono sfollati, onde lasciare libero il fronte di guerra. Il deputato Alcide Degasperi e il vicepodestà di Trento, Francesco Menestrina, si recano a Salisburgo per domandare spiegazioni in merito a quella deportazione. Alla stazione di Innsbruck vengono bloccati dal luogotenente Toggenburg che notifica a Degasperi lo scioglimento del consiglio comunale e la dichiarazione di guerra da parte italiana; a Menestrina addirittura il richiamo alle armi. L A sinistra e sopra i protagonisti del racconto rievocati dai disegni di Giordano Pacenza. Nelle altre foto, profughi trentini nel 1915; in alto, a destra, De Gasperi in Austria all’inizio del ’900 con Endrici e altri conterranei

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Racconti l'Adige 2009

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l treno non l’avevo mai preso.Nemmeno sapevo cheesistesse una cosa così. Fino aquando alla mamma nonavevano consegnato quella

lettera piena di timbri e sigilli. Leil’aveva letta molto in fretta,appoggiandola quindi sullacredenza, come se scottasse. Miaveva cercato con lo sguardo, ma iomi ero nascosto davvero bene sottoquelle scale. Lei si era messa asedere e, come al solito, avevacominciato a piangere, con ilfazzoletto premuto contro la bocca,come se il pianto fosse una ferita datamponare. È strano, ma a me tra ilpiangere e il ridere non mi sembrache si siano poi tutte ’ste differenze.Il petto saltella, il respiro si fagrosso; pure le lacrime sono lestesse.Mi aveva detto che no, non era dipapà quella lettera. Oramai eraquasi un anno che non scriveva. Daquando era scoppiata la guerra.Adesso che ci penso, anche a lui eraarrivata una lettera, quella volta.Solo che non si era messo apiangere. Per forza, i papà non lofanno mai. Il Renzino, il miocompagno di banco, mi ha dettoche lui una volta suo padre ce l’havisto piangere, eccome. Erasuccesso una sera che era tornatodall’osteria con una faccia scura.Molto più scura del solito. La facciache può fare chi si è giocato la casaal tressette. Ma a parte il papà delRenzino, non esiste che un uomopianga. Le mamme, invece. Per loroogni occasione è buona perfrignare.

nche in treno, quellavolta, invece cheguardare tutte quellecose incredibili là fuoridal finestrino, lei non

trovava di meglio che sospirare einfilare un’avemaria dopo l’altra. Io,invece, lo spettacolo al di là delvetro non me lo sarei perso perniente al mondo.Il treno non l’avevo mai preso, l’hogià detto. Come potevo immaginareche esistesse una cosa così? Unacarrozza che, senza nemmeno uncavallo davanti, va talmente veloceda farti girare la testa. Anche se, sedevo essere sincero, a me sembravache il treno stesse fermo e fossetutto il resto a muoversi e acambiare di posto. Le montagne,

A

Ibeh, quelle erano sempre le stesse.Si muovevano piano piano. I prati,piuttosto, le case, gli animali e lepersone che stavano vicine aibinari. Riuscivo a distinguerli perun attimo, giusto il tempo percapire di cosa si trattasse e poi via.Cancellati, risucchiati da un ventostrano. I miei preferiti, però, eranogli alberi. Soprattutto quelli vicinoai binari. Piegavo la testa perscorgerli là davanti e, poi, in unsecondo me li ritrovavo a fianco, unattimo prima di svanire. Era comese tronchi, chiome e rami venisserorisucchiati verso l’alto. Sparivano,insomma, all’improvviso, come separtissero per un mondo misteriosoche stava dietro le montagneoppure, chissà, al di là delle stelle.Tentare di domandare spiegazionialla mamma era inutile. Quellacontinuava a pregare sfregando trale dita i grani del rosario. Di certonon aveva tempo adesso per la miacuriosità. In fretta e furia avevaraccattato poche cose – biancheria,un sapone, qualche maglione –senza distogliere lo sguardo dallalettera appoggiata sulla credenza.No, non era stato papà a scriverla, enemmeno parlava di lui eppuredovevamo lo stesso partire. Entrodue ore avremmo dovutopresentarci alla stazione. Avevopreso tra le mani la lettera e con losguardo mi ero aggirato tra queglistrani segni che a scuola insegnanoa decifrare, maledicendo il fatto diessere ancora troppo piccolo perriuscire a leggere. Di fronte alle mieinsistenze, la mamma aveva dettoche quella roba l’aveva scrittal’Imperatore. Insomma, le solitescemenze che sparano i genitoriquando vogliono solo che la pianti lìdi rompere. Non si prendononemmeno la briga di dire qualcosadi originale e credibile. La primacosa che passa loro per la testa,zac, eccotela lì! Te la spiattellanotranquilli, sicuri che ti berrai finoall’ultima parola. Beata sicurezza.

Doveva essere bello grande quelposto. L’angolo di cielo dove se neandavano a finire tutti quegli alberiviaggiatori. Chissà se siripiantavano in qualche maniera, ocontinuavano allegramente agalleggiare nell’aria come aquiloni.Forse proprio come quei cervivolanti di cui mi raccontava papà,prima che partisse. Mi diceva che i

l’Adige l’Adige

soldati li usano per faresegnalazioni. Ci attaccano, annodatialla bell’e meglio, i proclami o gliavvisi, lanciandoli con il ventofavorevole e quindi lasciandolicadere al momento voluto. Certo,gli avevo risposto, che si divertonoun bel po’ questi soldati durante laguerra. Pure con gli aquiloni simettono a giocare. Papà mi avevasorriso e poi era uscito sullaveranda ad accendersi unasigaretta, senza dirmi nemmeno unaparola.

iù guardavo la mamma, lasua faccia afflitta, più midomandavo comepossano i grandi non farcaso a certe meraviglie.

Anche gli altri passeggeri – duedonne, qualche militare, uomini congrandi baffi – se ne stavano seduti aparlare trascurando di lasciarsistupire da quanto stava avvenendoalle loro vite. Voglio dire, questamacchina incredibile che ciaccoglieva tutti e ci fiondava agrande velocità verso nord, nonfaceva loro nessun effetto. Midomando come facciano i grandi adavere sempre qualcosa d’altro a cuipensare. Non fermano mai losguardo su nulla. Secondo me seuna cosa non la guardi, se non lepresti un po’ d’attenzione, quella

Pcosa non esiste nemmeno. Perciò,anche mia madre, delle volte,prepara una crostata, ma non cipensa mica al momento in cui se lapotrà mangiare: a quanto saràdeliziosa. Non ci crederete se vidico che mentre è ancora lì sbattele uova e si infarina le mani, sta giàcon la testa al piatto che dovràlavare. Tutti così, i grandi. Pure quei duespilungoni seduti di fronte a me. Listavo osservando già da un po’.Magri e ben vestiti. Grandi ricciolidi baffi su per tutta la faccia. Buonaparte delle parole che dicevano ionon la capivo mica: per capirci, eraquel genere di parole che spara ilcurato quando è di buzzo buono,tipo alla domenica di Pasqua o nelgiorno del santo patrono.«Prerogativa», «confisca», «sopruso»e compagnia cantante.Non per dire, ma se a me mi dicicerti termini mi fai ridere da matti.Come se un saltimbanco rischiasse

l’osso del collo a furia di capriole epiroette. Non so perché, maassistere a certe scene mi fascompisciare dalle risate. Così,dimenticandomi degli alberi volantie di tutto il resto, senzaaccorgermene più di tanto, mi eroavvicinato a questi due distintisignori, senza preoccuparmi che ilsuono della mia risata potesse inqualche modo arrecare lorodisturbo. Anche perché, siamosinceri: non è mica vietato ridere.I due signori interruppero la loroconversazione e dedicarono, perun momento, ogni attenzione alsottoscritto. C’era nei loro sguardiun misto di curiosità e di fastidio.Insomma, mi guardavano come disolito si guarda un poveretto a cuisia capitata una disgrazia.La mamma, naturalmente, nonperse tempo. Con la velocità di unfulmine, mi piombò addosso e midiede uno scappellotto. Benedettadonna, non serviva certo metterci

tutta quella forza. Ma lei lo avevafatto soprattutto per una ragioneteatrale, per dare ai due ben vestitiuna prova immediata delle suequalità di madre severa, premurosae attenta. Sì, teatro puro. Cimancavano solo gli applausi.Intanto, me n’ero beccato uno diquelli giusti e la testa mi doleva damatti.Per fortuna uno dei due passeggeri,il più spilungone dei due, si schieròsubito dalla mia parte. Con modimolto gentili disse alla mamma chenon c’era bisogno di punirmi a quelmodo. Non li disturbavo mica. Anzi.In un momento tragico comequello, era tanto di conforto sentireriecheggiare la voce squillante einnocente di un pargolo.«Conforto», «pargolo»: altre paroledifficili, insomma. Trattenni a faticale risa.Quando l’uomo disse il suo nome –anche questo incomprensibile perme – la mamma si irrigidì. Quasi si

mise sull’attenti. Poi si inchinò inavanti, come davanti altabernacolo. «Vuoi vedere cheadesso gli bacia pure le mani»,pensai con preoccupazione.No, niente baci. Si mise il solitofazzoletto sulla bocca e fece lafaccia insopportabile di quando staper scoppiare a piangere. Lospilungone doveva averle chiestonotizie a riguardo della nostradestinazione e quella avevaspifferato tutto, senza un attimo diesitazione. Che rabbia mi faceva. Ame non aveva detto nemmeno unaparola e adesso, al primo che lecapitava davanti – ’sto qua con ilnome strano – aveva fatto unresoconto dettagliatissimo.Addirittura gli aveva mostrato lalettera che ci era arrivata almattino.Lo spilungone scosse la testa e ledisse di non preoccuparsi, che perquanto rientrava nelle sue«competenze», si sarebbe«prodigato» affinché la nostra«dignità» non venisse «lesa».Non so che dire in mia discolpa, mal’ennesima scarica di paroloni fuirresistibile. Davanti a quei due,seri come stoccafissi, feci di tuttoper non scoppiare a ridere.Trattenni il respiro, mi tappai ilnaso con due dita. Provai anche amettermi la faccia tra le mani. Soloche il signore con i baffi interpretòil mio gesto come un momento dicommozione e mi accarezzò latesta, compatendomi.Naturalmente, tutto ciò rese ancorapiù spassosa la scena, al punto chemi vidi costretto a simularedavvero un pianto disperato,lasciando che il petto mi saltellasseintanto che la risata scaricavaqualcosa del suo forte potenziale.Mai come quella volta mi tornòutile, insomma, la somiglianza tra ilridere e il piangere. Anzi, feci unascoperta non da poco. Esisteva unmodo per scacciare via la tristezza,ed era talmente semplice e aportata di mano che mimeravigliava un sacco essere ilprimo ad averlo scoperto. Bastavasolo ridere di più.

eh, se proprio voletesaperlo, riuscii a farlafranca. Certo, mi riferiscoalla questione che miscappava da ridere e

tutto il resto. Mi complimentai conme stesso per la piccola impresa e,mentre la mamma mi sussurravaqualcosa a proposito dei duesignori – «podestà», «deputato»,ecc. –, io ero tornato ad affacciarmisul panorama: tutto uno spostarsidi case e montagne, con gli alberipiù veloci di tutti.Alla stazione ci radunarono tutti.Un po’ come si fa con le pecore.Mancavano solo i bastoni e il cane.Anche se ad abbaiare ci pensavanodue o tre soldatacci grossi e grassiche puzzavano di grappa, vino onon so cosa. Sbraitavano,ordinandoci di stare zitti e fermi,anche se nessuno aveva voglia dimuoversi né di parlare.I due ben vestiti del treno si fecerolargo tra la folla e cominciarono acantargliele a ’sti qua in divisa.Dicevano che non era il modo ditrattare la gente, che avrebberoprotestato contro chi di dovere perquello che stava accadendo. Lospilungone, nonostante fossecertamente il più timido tra i due,

B

tirò fuori un vocione da cantanted’opera, gorgheggiando che lui eraun deputato, consigliere comunaledi Trento, ecc. e che voleva subitoparlare con il luogotenente: ilcapoccia, insomma. Quello chedava gli ordini in mezzo a quelquarantotto.

llora, si fece avantiquesto tarchiatello,talmente basso che imustacchi gli arrivavanoquasi alle ginocchia.

Diede a gran voce una notizia checi stroncò un po’ tutti, mecompreso, per quanto ne potevocapire di certe cose. Per farlabreve, l’Italia ci aveva dichiaratoguerra. Il Parlamento sarebbe statochiuso a breve. I consigli comunali,Trento compresa, erano sospesi.Un sacco di belle novità, insomma.In più, per l’amico dello spilungone– che scoprii essere il vicepodestàdel capoluogo – ci fu una sorpresasupplementare. Il luogotenente glidisse di considerarsi arruolato.Non vi dico la faccia di quello asentire certi ragionamenti. Unamazzata, insomma.

Liquidati in quattro e quattr’ottoquei due, venne il nostro momento,nel senso che i soldati presero adurlare nomi e cognomi del gregge.A turno, quindi, si lasciava la massainforme degli sfollati e ci si mettevaa disposizione di un tizio in divisa.Un po’ come a scuola, solo cheinvece della maestra, c’era ’stobellimbusto che puzzava di grappa.Ci portarono in uno stanzone làvicino e ci fecero sedere. Disseroche nel giro di qualche orasaremmo ripartiti, verso ladestinazione assegnata. Domandaialla mamma cos’era ‘sta roba e leiper tutta risposta mi sparò unnome strano, mai sentito prima:Mitterndorf. Per dirne una, avrebbepotuto anche dirmi Zanzibar oNuova York, per me sarebbe statoesattamente lo stesso. Mi aspettavodi tutto, insomma. Meno ciò chestava per accadere. Perché ad uncerto punto fece il suo ingresso nelnostro stanzone un tizio tuttofasciato, zoppicante, che attirò lamia attenzione. Non tanto per ladivisa o per le macchie di sanguesulle bende, quanto per il fatto chei tratti del suo volto mi ricordavanoin tutto e per tutto quelli del miopapà. A dire la verità, a guardarlobene, sembrava più vecchio delmio papà. Tutte quelle rughe, lafaccia sofferente. Senza lachiassosa reazione della mamma,che gli saltò addosso come ungrillo, non lo avrei mai detto chequello fosse davvero il mio vecchio.Anche perché, le lacrime che glisolcavano la faccia, fecero crollareogni mia convinzione riguardo alfatto che i papà non piangessero. IlRenzino aveva proprio ragione. Allaprima occasione glielo avrei detto.Inutile negarlo. Anche io erocontento fino alle lacrime. Papà mispupazzò con discrezione, standoattento alle ferite. Mi domandò seero contento del fatto che eratornato e che ci saremmo andatiassieme in quel posto dal nomestrano. Cavolo se ero contento. Masoprattutto non vedevo l’ora dirimontare sul treno, piazzarmidavanti al finestrino e mostrare alpapà tutte quelle meraviglie làfuori.

A

IL RACCONTO

Sabato i dubbi di due fidanzatini

Mi aveva detto che no, non era

di papà quella letteraOramai era

quasi un annoche non scriveva

Da quando era scoppiata la guerra

� Pino Loperfido

gli alberivolare

Il bambino

14 sabato 22 agosto 2009 15sabato 22 agosto 2009

24 maggio 1915: l’Italia è in guerra contro Vienna

Degasperi e i trentini sfollati

n queste paginepubblichiamo l’ottavoracconto di Pino Loperfido

che accompagnerà i lettori tuttal’estate, ogni sabato. Ecco i titolidei prossimi e una succintaanticipazione dell’autore.Giusto dietro la curva del cuore:seguire il proprio cuore o ipropri ideali? Per i duefidanzatini, persi nella nottebianca, è difficile decidere.Anche vinto il nemico èqualcuno: sbirciando dallafinestra l’arrivodel terrorista. La scoperta dellasua inaspettata umanità.La volta che le bombe suonaronoBach: L’esperienza del dono di

I sé nella tragedia della guerra,tra arte e distruzione.Ognigiorno è la festa del papà:quell’uomo è un mito permilioni di italiani, ma è miopadre. Solo mio. Pino Loperfidoha pubblicato «Ciò che non sipuò dire. Il racconto del Cermis»(2001), «Caro Alcide» (2003) e ilromanzo «Teroldego» (2005).Alla fine di settembre uscirà ilnuovo romanzo «Le meccanichedell’infelicità», come iprecedenti edito da Curcu &Genovese. Il libro racconterà uninquietante Trentino del futuro eil titolo è stato deciso in unreferendum indetto suFacebook.

che guardava

unedì 24 maggio 1915. Settantamila trentini vengono sfollati,onde lasciare libero il fronte di guerra. Il deputato AlcideDegasperi e il vicepodestà di Trento, Francesco Menestrina, si

recano a Salisburgo per domandare spiegazioni in merito a quelladeportazione. Alla stazione di Innsbruck vengono bloccati dal luogotenenteToggenburg che notifica a Degasperi lo scioglimento del consigliocomunale e la dichiarazione di guerra da parte italiana; a Menestrinaaddirittura il richiamo alle armi.

L

A sinistrae soprai protagonistidel raccontorievocatidai disegnidi GiordanoPacenza.Nelle altrefoto, profughitrentini nel 1915;in alto, adestra,De Gasperiin Austriaall’inizio del ’900con Endricie altri conterranei

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a pioggia era un reticoloindistricabile, fatto diminuscole e trasparentibarre verticali. A caso,andavano ad infrangersi

sui tetti, sul selciato, sui corrimanoin legno. Antonio e Marco nontrovarono di meglio da fare chestarsene in quella cameretta delpalazzo che si affacciava sul paese,a far passare il tempo giocando adadi. Ogni tanto i due si fermavanoe lanciavano un’occhiata verso itetti delle case là sotto, tanto pervedere se il paese di Ala c’eraancora o era stato spazzato via daltemporale.La stanza era situata in unaposizione strategica. Era una sortadi sala di comando da cui, senzafatica, si riusciva a tenere sottocontrollo chi andava e veniva ecosa faceva all’interno di PalazzoTaddei. Sporgendosi verso est,infatti, i due ragazzi erano in gradodi godere di una chiara panoramicadel cortile interno. Affacciandosidalla finestrella posta asettentrione, la vista era ottima sulsalone principale. Per non parlaredella posizione strategica rispettoalle scale: bastava scendere diqualche gradino, tendere benel’orecchio, per far sì cheimprovvisamente il palazzo nonavesse più segreti per loro.I francesi arrivarono che era quasisuonato mezzodì. Un gransferragliare di catene, ruote ferratee spade frammisto allo scalpicciodei cavalli catturò subitol’attenzione dei due ragazzini. Nonera una sorpresa. Che quellisarebbero presto giunti non eramistero per nessuno in paese. Ma lostesso, come sovente avvieneallorquando ci si dà un gran da fareper prepararsi al sopravvenire diuna forte emozione, Antonio eMarco trasalirono per quanto i loroocchi stavano ora vedendo.

icono che sia possibileentusiasmarsi, gioire eperfino provarecommozione nell’ascoltodi un racconto. Non è

difficile prestarvi fede, fare propriaogni singola frase, fino quasi aintesserla nelle fitte trame delproprio essere. Rendere, insomma,ogni parola di quanto ci venganarrato parte integrante di se stessie della propria vita. Tutto ciò senza

D

Lla necessità di toccare con gli occhiogni singolo elemento dellanarrazione. Tuttavia, trovandosi poi– per caso o in seguito ad un impetodi volontà – a tu per tu con unprotagonista di quel racconto,oppure visitando di persona unambiente lì così realisticamentedescritto, si è costretti a scoprireche la fede che si era prestatanell’ascolto era solo un effimero eprovvisorio placet. Unaconcessione amichevole chenascondeva una riserva. Ciòavviene per ogni sorta di racconto:dalla più breve delle fiabe fino allapiù articolata e antica delle storie,ad esempio quella che sta alla basedel Cristianesimo.Per questa ragione, quando i dueamichetti, non visti, videroquell’omone barbuto in catene nonpoterono fare a meno di trasalire. DiAndreas Hofer avevano sentitoparlare a lungo, soprattutto durantel’anno che si era appena concluso.Si erano anche entusiasmativenendo a conoscenza delle gestache costui pare avesse compiuto inogni angolo del Tirolo.Naturalmente non v’era motivo didubitare nell’ascolto di certe storie.Nessuno si permetteva di metternein dubbio la veridicità oppure,addirittura, di diffidare della realeesistenza di questo Hofer; eppurevederlo adesso, in carne ed ossa,nel cortile di Palazzo Taddei,bagnato fradicio, umiliato dalcapestro, oltre a renderlo ancorapiù umano di quanto lo si sarebbepotuto immaginare, effondeva unapena che stringeva il cuore.Nelle loro menti di bambini,Antonio e Marco facevano ancorafatica a classificare le categorie delbene e del male. Amico e nemico,nella vergine indole di un cucciolodi uomo, erano concetti chetendevano ad avvicinarsi talmente,a sfiorarsi e quindi a fondersi l’unonell’altro fino ad annullarsi e aperdere, così, ogni possibilesignificato.Il contrasto tra l’immobilità delprigioniero e la memoria delle gestaraccontate tendeva a fissare anchealtri principi, come l’eroismo, lafedeltà, la passione; ma cogliere ilsignificato di tali concettirichiedeva una maturità che i dueragazzi erano ancora lungi dalconquistare. Cosicché nella lorovisione acerba della realtà, tali

l’Adige l’Adige

principi perdevano forma e sifacevano tenui immagini che solo atratti lanciavano impulsi al cervello,provocando piccole scariche diadrenalina che Antonio e Marcointerpretavano, però, a modo loro,come solo un bambino è in grado difare. Delimitando ogni reazione delproprio corpo alle ludiche formedel gioco.Ecco perché la vista di quelprigioniero barbuto li faceva riderecosì tanto, adesso. Al punto che,spostandosi sulla finestrella asettentrione, nel seguire i passipesanti del condannato, dovetterotamponarsi la bocca con deglistracci per mantenere il segretodella loro privilegiata posizione.

ra, il salone da pranzo, ungrande rettangolo il cuilato più corto erapressappoco un terzo diquello lungo. Pertanto la

presenza del grande tavolo,sebbene accostato ad una dellepareti, sommata al gran numero disoldataglia presente, inficiava ognilibertà di movimento e costringevai presenti a vere e proprie acrobazieper potersi spostare da un puntoall’altro della stanza. Il prigioniero venne introdotto albanchetto, ma nessuno parvecurarsi più di tanto di lui. Anzi. I più

E

avevano già cominciato adaffondare i denti nei succulentistinchi di maiale, tra urla disoddisfazione e sollievo. Aleggiavanella stanza una strana euforia,come se l’animalesco rimpinzarsicompensasse non solo il drammapersonale dell’uomo barbuto e ditutti i suoi seguaci, rimasti senzaguida. Il gaudio del convito avevaanche una pretesa ben più ampia:quella di celare dietro alcunibrandelli di maiale e litri diMarzemino lo scempio chel’umanità pareva intenzionata afare di se stessa mediante la logicaperversa della guerra. C’era un chedi mostruoso nelle urla di gioia enei brindisi che si levavano a quellatavola.Andreas Hofer aveva lo sguardofiero e un po’ furbo di chi ha laverità in tasca, all’insaputa di tutti.Un viatico che pareva dargli forza.

Lo rendeva diverso, incapace disubire il giogo di alcune debolezzeumane come l’umiliazione, laprivazione della libertà, la fame.Tanto è vero che alcuni loinvitarono – un po’ per pietà, unpo’ per divertimento – a sedersicon loro, per consumare quello cheavrebbe potuto rivelarsi uno degliultimi pasti della sua breveesistenza. In realtà conoscevanobene la lealtà di quest’uomo neiconfronti della religione; sapevanoche essendo venerdì mai egliavrebbe acconsentito a mangiaredella carne.Infatti, il prigioniero rifiutò e la suadignità fu talmente intensa dairraggiarsi tra i presenti come unaluce. Buggerati dalla loro stessabaldanza, i soldati abbassarono ilvolume della voce fino a farne unsommesso mormorìo che, a suavolta, si sciolse in silenzio non

appena Hofer fece un’unica, precisae lapidaria richiesta: di poterpregare nei pressi del caminetto.Antonio e Marco riuscironosoltanto ad intuire l’importanzastorica della scena a cui stavanoassistendo. Percepirono, grazie allapresenza di quell’uomo, studiandole curiose reazioni della propriaanima, di essere portatori di altrisentimenti. I loro imberbi corpicinierano macchine, un complessosistema di trasformazionedell’energia che, però, celava anchequalcos’altro. Un cuore, adesempio, che palpitava in quelmomento. Lanciava impulsi chesegnalavano una gamma completadi sentimenti che negli anni avenire avrebbero potuto fiorire: labontà, l’anelito alla giustizia, lafede, la pietà. Tuttavia Antonio eMarco erano solo due ragazzinipersi nei meandri della pubertà e

non avevano gli strumenti pertradurre lo strano linguaggio usatodal proprio piccolo cuore.Tutto ciò che la giovane etàpermetteva loro di fare era dimeravigliarsi. Sgranarono gli occhicon la stessa voracità con cui Hofersgranava il rosario. Quell’ossessivoripetere invocazioni alla Madre diDio, con un vocione da orco, sortìun effetto comico. I due ragazzirisero. Ma erano, le loro, risa dicommiserazione e di profondatristezza. Pur senza saperlo,Antonio e Marco nascondevanodietro gli sghignazzi un intenso einterminabile pianto sconsolato.

l primo dei due a riaprire gliocchi fu Marco. Il sonno è unasospensione dello stato dicoscienza durante il qualel’organismo recupera energia;

uno stato di riposo fisico epsichico, caratterizzatodall’assenza, completa o parziale,della coscienza e della volontà, dalrallentamento delle funzionineurovegetative. Si può capire cosìcome in fondo il risveglio sia moltosimile ad una sorta di piccolotrauma. Anche il ragazzo,istintivamente, tentò di opporreresistenza a quel vorticosorisucchio verso la realtà.Un odore di fumo e carboneconsumato aveva appesantitol’aria. Marco svegliò subito Antonioe assieme commentarono lasorpresa per l’essersiaddormentati a quel modo sullescale. Altresì, tentarono dicomprendere che ora fosse,restando in attesa dei rintocchi delcampanile.Il salone era deserto. Sul tavolo iresti dei bagordi: pezzi di carne,tocchi di pane, piccole pozze divino. I partecipanti alla crapula sierano dissolti. Con tuttaprobabilità erano adesso distesiscompostamente su un durogiaciglio a consumare il pesantesonno degli ubriachi.Non v’era traccia nemmeno delprigioniero. Dovevano averloportato di sotto. In una delle stanzedella cantina in cui i francesiavevano allestito una sorta di celladi detenzione.Marco tossì. Antonio lo seguì aruota. L’odore di bruciato sirendeva ora tangibile anche alsenso della vista sotto forma di unanebbia infida, talmente sottile dafar pensare ad un momentaneodisturbo visivo anziché al prodottodella combustione. I due simossero, dunque, in cerca di unafinestra e quindi di una boccata diaria pulita. Pur essendo ancora intenera età conoscevano bene glieffetti mortali di certe esalazioni.Ogni inverno, in paese, sicontavano diverse morti causatedal fumo. La rigidezza dellastagione, il freddo intensoportavano sovente la gente asottovalutare la pericolosità dicerti metodi di riscaldamento.Antonio e Marco respirarono forte,affacciandosi sul cortile. I loropolmoni abbrancarono l’aria dellanotte con voracità, alla stregua diun assetato che d’incanto si ritrovidavanti ad una rigogliosa sorgente.Ma non fecero a tempo a gustarsi ilsollievo perché, nello stessoistante in cui il campanile batté letre qualcosa attirò la loroattenzione al centro del cortile

I

sottostante.Pochi istanti, giusto il temponecessario affinché le pupille siabituassero all’oscurità, e simostrò a loro una scena singolare.Una figura umana si aggirava concircospezione là sotto. Andava oradi qua ora di là, come se nonsapesse esattamente cosa fare.Quegli era di sicuro l’AndreasHofer, il generale «Barbone» di cuisi parlava tanto; lo stesso che lasera prima aveva sdegnosamenterifiutato la cena preferendoaffidarsi alla consolazione dellapreghiera. Stava dunque fuggendo.Antonio diede di gomito all’amico esi domandò se era il caso disorridere o meno, optando infineper una neutrale inespressività. Difronte ad un tale contrasto disentimenti, i due scoprirono di nonavere una posizione precisariguardo alle sorti dell’Hofer. Se dauna parte, l’indole ribelledell’adolescenza li spingeva atenere per lui, a sostenere cioèqualcuno che si opponeva allaprepotenza e combatteva, controogni logica, le soverchianti forzedell’invasore, dall’altra un diversoaspetto di quel barbuto eroe liinvitava a tenersene alla larga.C’era, infatti, in Hofer un che diselvatico e misterioso. Qualcosache richiamava alla mente le paureancestrali dell’umanità, quelle cioèche la civiltà, le consuetudini e lereligioni erano fino ad allorariuscite ad addomesticare.Considerazioni che trovaronoconferma nell’udire la vocegutturale di quello che chiamava agran voce i soldati. Un tono basso esgraziato che ruppe il silenzio einformò i due ragazzi dellaparadossalità di quella situazione.Perché dunque Hofer non se l’eradata a gambe? Non era dunque lafuga l’obbiettivo di quella sortitanotturna.

ncora stordita dal moltovino bevuto, lasoldataglia accorse conla sorpresa dipinta suivolti. Che ci faceva

dunque il prigioniero da solo,libero, nel cortile? Ma soprattuttoperché diavolo aveva avvertito latruppa del suo momentaneo statodi libertà? Era curioso osservarecome i francesi non sapessero benese incatenare e percuotere l’Hofer opendere dalle sue labbra.Evidentemente ogni dubbio vennesubito sciolto perché, dopo unabreve consultazione, tuttiaccorsero verso l’interno delpalazzo e in un baleno trasseroall’esterno due soldati esanimi.Dovevano essere quelli i carcerieridell’Hofer intossicati di sicuro dalleesalazioni della grande caldana dibraci presente nel palazzo.Dunque il tirolese aveva preferitoalla facile fuga la salvezza di quelledue vite. Pur strattonandolo,adesso, e insultandolo i francesi loguardarono con uno sguardonuovo. Non era ammirazione,quanto piuttosto meraviglia per lealtezze vertiginose che talvolta ilbene riesce a raggiungere,cambiando inaspettatamentel’esistenza delle persone. AndreasHofer era un nemico. Tuttavia,quella notte, il suo gesto avevainsegnato a tutti che anche vinto ilnemico può essere qualcuno. Ecome tale è degno di rispetto.

A

IL RACCONTO

Sabato le «bombe» di Bach

Antonio e Marco non trovarono

di meglio da fareche starsene

in quella cameretta del palazzo

che si affacciavasul paese, a far passare

il tempo giocando a dadi

� Pino Loperfido

il nemicoè qualcuno

10 sabato 5 settembre 2009 11sabato 5 settembre 2009

Il 2 febbraio 1810 il tirolese era prigioniero dei francesi

Quando Hofer pernottò ad Ala

n queste paginepubblichiamo il decimoracconto di Pino Loperfido,

scrittore che accompagna i lettori dell’Adige lungo tuttal’estate, con una storia ognisabato. Ecco i titoli dei prossimiracconti e un’anticipazionedell’autore sui loro contenuti.La volta che le bombesuonarono Bach: L’esperienzadel dono di sé nella tragediadella guerra, tra arte edistruzione.Ogni giorno è la festa del papà:quell’uomo è un mito permilioni di italiani, ma è miopadre. Solo mio.Pino Loperfido ha pubblicato

I «Ciò che non si può dire. Ilracconto del Cermis» (2001),«Caro Alcide» (2003) e ilromanzo «Teroldego» (2005).Alla fine di settembre usciràil nuovo romanzo, «Lemeccaniche dell’infelicità»,come i precedenti edito daCurcu & Genovese, ambientatoin Trentino: le oltre quattrocentopagine del romanzo raccontanosette giorni della vitadi Giacomo Andreatti, 48 anni,medico di base con l’hobbydella scrittura che torna nellasua città natale, dopo un lungoesilio, in seguito alla morte delvecchio padre, notissimoesponente politico.

Anche vinto

enerdì, 2 febbraio 1810. L’eroe tirolese Andreas Hofer viene scor-tato in catene e condotto dai francesi ad Ala, per passare la not-te a Palazzo Taddei. Lo storico locale Antonio Bresciani Borsa,

allora ragazzino, assiste non visto al passaggio dell’Hofer assieme alsuo amico di giochi, figlio del proprietario del palazzo.Il generale «Barbone» rifiuta la cena, preferendo pregare. Durante la not-te, anziché darsi alla fuga, salverà clamorosamente dalla morte i duesoldati francesi incaricati di sorvegliarlo, quasi uccisi dal monossidosprigionato da una caldana di braci.

V

A sinistrae soprai protagonistidel raccontonei disegnidi GiordanoPacenza;a destra,un ritrattodi Hofere palazzo Taddei ad Ala;in alto a sinistra,un’altra vedutadell’edificio;a destra, scenadella fictionsulla figuradel patriotacombattentetirolese

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colpi della contraerea sisusseguivano rapidi, comein certe esagitate sinfonie.Certi pezzi di musica chead ascoltarli fanno pensare

che il compositore doveva avere unqualche tipo di problema. Forse eraincazzato perché il padrone di casagli aveva aumentato un’altra voltal’affitto. Oppure a causa di unadelle solite scenate della consorte.Un artista è pur sempre un uomo,maledizione! Così sparare suipropri simili e far deflagrare notesu un pentagramma sono attivitàmolto più simili di quanto si possapensare. Che ci potesse essere un’armoniaanche in una sventagliata diproiettili, era, quella mattina, fuordi dubbio. Insomma, proiettiliinfiniti sparati verso l’alto, un po’alla viva-il-parroco, nella speranzadi tirar giù uno di queibombardieri. Salve che erano ilpreludio ad una pioggia un po’speciale. Una grandinata d’acciaiopronta a sventrare la città, acolpirla al cuore e lasciarla senzafiato.Trento stava in attesa come i propriabitanti. Una posizione scomodaispirata dalla paura. Una posaplastica, un passo di danzainsegnato da Mastro Terrore. Cosedifficili da spiegare a chi non si èmai trovato in mezzo al pantanodella guerra. Qualcosa che da unmomento all’altro può spezzare lecatene della normalità etrasportare la realtà nei territoriinesplorati della non vita.

l Rizzo aveva quattordici anni.Lo chiamavano così per via deicapelli, crespi come setole dirame. Una zazzera piuttostoinsolita per un trentino. Tanto

insolita che qualcuno si eraavventurato nel ricercare esoticipadri segreti tra i suoi antenati. IlRizzo era un teppistello. Siarrabattava rubacchiando qualcosaqua e là. Più di una volta era statobeccato ad arraffare sementi oqualche gallina. Una volta loavevano colto in flagrante mentretentava, in maniera peraltromaldestra, di portarsi via un carrocon tanto di cavallo.I colpi a lui non facevano paura. Lagente correva verso i rifugi con ilterrore dipinto sul volto. Il Rizzofischiettava cercando di stare a

I

I tempo con la contraerea. Facevaeco alle detonazioni, fornendoneuna versione caricaturale, comeuna personale parodia.C’era l’allarme. Le vie deserte.Alcuni fraticelli vagavano tra lemacerie alla ricerca di feriti,mormorando ipnotichegiaculatorie. Domine, salva nos.Domine, salva nos. Tutta la città erastata colpita. La zona oltre ilFersina, la chiesa del Santissimo,l’ospedale, il Torrione, il Noviziato,l’ex asilo Pedrotti, l’albergoBologna, la chiesa dell’Annunziata.Poi San Martino e via Brennero.Ovunque polvere, rovine e il piantodei colpiti.La casualità del bombardamentoera la stessa del Destino. Puòtoccare a te come può non farlo.Ma questa volta la bomba caddevicino. Molto vicino. Non servivaessere un soldato per capirlo. Lospostamento d’aria aveva mandatoil Rizzo con il sedere all’aria. Ilmondo era improvvisamenteruotato, prendendosi gioco di ognilegge dell’equilibrio. Allo scoppio,perentorio e secco, era seguito unostrano silenzio. Quindi un rombosmorzato. Pareva la voce catarrosadell’ordigno che domandava alRizzo: «Prova a farlo adesso ilcretino».La paura è un’emozione

l’Adige l’Adige

organizzata soprattutto dall’istintoche ha come obiettivo lasopravvivenza dell’individuo a unapresunta situazione di pericolo.Cose che insegnano i libri. Siscatena ogni volta si presenti unpossibile rischio per la propriaincolumità, e di solito accompagnaun’accelerazione del battitocardiaco e delle principali funzionifisiologiche di difesa.

na delle reazioni istintivealla paura è lo stupore.Ma trovarsi di fronte aciò che rimane di unproprio simile una volta

svanita la vita può risultaretalmente incomprensibile allamente, da suggerire gestiincontrollati quali la fuga.Il Rizzo fece trenta, quaranta metriin un battito di ciglio, ma poi sifermò. Con il cuore saltellante inpetto. La visione che lo avevasconvolto era ancora dietro di lui.Nulla si era mosso. Le membraaccartocciate e sanguinantiappartenevano a un ragazzo, più omeno della sua stessa età, chestava in posizione fetale, come se ilcapolinea della breve esistenza loavesse riportato in un certo sensoall’origine. Alla stasi liquida che loaveva avvolto prima di venire almondo. La fine come il suo inizio.

UEd era la pietà a provocare quellasorta di nausea che dalla boccadello stomaco si irraggiava in ogninervo e nel cuore del ragazzo.Indigesta quella pietà, comepolenta cementificata che, anzichénutrire, contamina corpo e spiritocon il morbo della pellagra.Le schegge delle bombe si eranodivertite a tagliuzzare qua e là lemani, la faccia, il collo. Ognimuscolo era abbandonato,sconfitto, svuotato. A parte lamano destra. Muscoli, tendini,estensori e adduttori contratti, ledita avviluppate attorno ad unpacchettino verde ornato da unfiocco rosso. Un curioso oggettolargo una trentina di centimetri espesso un nulla di millimetri. Unpezzo della carta si eradanneggiato nella deflagrazione. IlRizzo strappò quanto rimaneva,tolse il fiocco e si ritrovò in manoquesta cosa nera e rotonda. Alcentro una curiosa etichetta rossa,

con il disegno di un cane e di ungrammofono. In bella calligrafia cistava scritto: «Johann SebastianBach - Brandenburg Concerto #1 InF, BWV 1046. Grande orchestrasinfonica Stokowski – 1942». Stava per andarsene, il Rizzo,gettando via quella cosa inutile,quando dalla carta verde spuntòfuori un bigliettino. Sopra cistavano un nome, un indirizzo e unsemplice messaggio di buoncompleanno. Matilde Marchetti, ilCantone, Trento. Tanti cari auguriper la nostra cara nonna. Lungavita e felicità.

l Rizzo si chiuse il portone allespalle con la segreta speranzache quel gesto potessemetterlo al sicuro dalfinimondo che stava

cambiando i connotati alla città.Nell’atrio del palazzo i colpiarrivavano leggermente attutiti. Èdifficile pensare a come a volte le

I

apparenze siano capaci diingannarci. Parte del palazzo era infiamme, eppure una strana pacesottraeva al clamore delle vampe eal fumo, portato via da un ventoleggero.L’appartamento era molto grande.Ammobiliato con classe, come siconveniva, insomma, ad unafamiglia benestante.La signora camminavaaccompagnandosi con il ticchettìodi un sottile bastone di legnobianco. Teneva la testa sollevataverso l’alto, come se attraverso lesottili fessure sotto alle cigliapotesse ricevere gocce di luce. Allepareti erano appesi grandi quadricircondati da cornici dorate; vierano raffigurati uomini dallosguardo fiero, donneelegantemente acconciate, quindipanorami rupestri. Le pesantitende di broccato favorivano unacerta oscurità degli ambienti. Icandelabri reggevano candele

intonse. Una lampada da tavolo inottone si pavoneggiava nella suainutilità con l’alloggiamento per lalampadina vuoto e impolverato.«Nino, sei tu?».La voce era rauca e sottile, comeappartenesse a qualcuno che èvivo per miracolo. Ma chi non loera, vivo per miracolo, in quelfrangente? Il Rizzo stava perrispondere subito che no, non eralui Nino. Nemmeno lo sapeva chifosse questo Nino. Se si trovava lìera solo perché aveva lettoquell’indirizzo sul biglietto e neaveva cercato un riscontro tra levie della città. Già scuoteva il capo,con un mezzo rispettoso sorriso,pronto a chiarire sul nascere ilgrottesco malinteso. Lui era ilRizzo, non Nino. Eppure qualcosaimpedì alle sue corde vocali diarticolare le parole. Come uncavallo che in procinto di saltareun ostacolo si blocchi di colpo,mandando all’aria il cavaliere e lasua prestanza.«Nino, sei tu?».No, non c’era più tempo dirispondere. La signora Matilde eraormai davanti a lui e già gli toccavail volto per vederlo, dato che gliocchi li teneva chiusi. La scenaaggiungeva nuova sorpresa allostrano quarto d’ora del ragazzo,trasportandolo in uno di queivicoli in cui spesso la realtà si va aficcare per non farsi piùriconoscere.«Hai fatto tardi. Ti aspettavomezz’ora fa. Sei il solito birbante.Siediti. Hai sete?» Una grossabrocca colma d’acqua comparvenelle mani della signora. «Sapevoche avrebbero colpitol’acquedotto, così ne ho messa unpo’ da parte. Non me la fanno micaa me quegl’inglesi della malora».Il Rizzo bevve avidamente. La golasecca si ristorò sotto l’insperatogetto liquido. In apnea, il ragazzopensò a qualcosa di molto similealla Provvidenza, cercando didargli una forma. Ma poi si accorsedell’oggetto che teneva ancoranella mano. Lo sollevò. Lo misenelle mani della signora Marchettiche quindi lo palpò, lo esplorò conle dita e commentò la consegnacon un largo sorriso che mostrò

una bianchissima chiostra di dentiperfettamente allineati.«Che caro ragazzo. La mamma mel’aveva preannunciato che miavresti portato un regalo,quest’oggi. Vieni, vieni con me chelo mettiamo subito su.»Matilde posò il disco sul piatto egirò una manovella, quindiabbassò la puntina e orientò latromba in ottone. Un frusciomisterioso si infilò nei padiglioniauricolari dei presenti. Unozigrignare che aveva l’aria di unapresentazione, un preludio almiracolo che stava per avvenireportato nell’aria da sei archi, seifiati, clavicembalo e un magicocorno da caccia. Una detonazionemusicale da cui il Rizzo si lasciòferire volentieri. Non aveva maiavuto occasione di perdersi incerte frivolezze come i concertisinfonici.

on aveva mai pensato auna cosa tanto inutile.Eppure adesso ne eraaffascinato e nonriusciva a staccare i

piedi dalla posizione cheoccupava. E non esisteva più nullaattorno. Solo violini e armonia,tanta. Non guerra, non gentestipata nei rifugi, non chiesebombardate, ma pace e serenità.«Tu non puoi immaginare, Ninocaro, quanto tenevo a questosettantotto giri.» Disse Matilde.«Tua madre deve aver fatto i saltimortali per procurarselo…».Gli faceva bene sentirsi benvoluto,riconosciuto, amato. Era belladunque la vita. E se fino a quelgiorno l’aveva odiata l’esistenzaera solo perché aveva avuto lasfortuna di non conoscerla, cosìcome non aveva conosciuto suamadre, né il calore di un’amicizia. Il Rizzo si accucciò accanto allasignora come un cagnolino. Sileccò le ferite nutrendosi di quelleantiche note, di quei codicimusicali che corrispondevano aidesideri del suo cuore. E gliparlavano di ciò che era buono perlui. Gli parlavano di Dio.Spesso le storie insegnano che ilmondo non è fatto a nostraimmagine e somiglianza. Ciregalano la sensazione chepossano esistere altre vite, altrepossibilità oltre a quella presente.Il Rizzo la stava vivendo, ora, unastoria. Aveva il privilegio di viveredoppiamente, di scoppiare di vitafino a non poterne più. Lo sguardodi Matilde, benché cieco, sotto lementite spoglie di una formalecortesia, comunicava disperazioneframmista a speranza. «Lo so chenon sei Nino, maledizione»,parevano urlare i due solchi scurisotto gli occhi. «Lo so che Nino èmorto, ci è rimasto sotto le bombedegli inglesi, cosa credi?»,annunciavano le linee che dallabocca scendevano fin sul collo. «Soanche che hai paura, piccolosconosciuto. E non vedi l’ora diandartene da qui. Di lasciarti allespalle questa vecchia pazza che simuove e parla come un fantasma». «So tutto. Conosco ogni cosa, caroragazzo. Ma ti prego. Resta ancoraun po’. Solo un poco. Domine,salva nos. Questa musica ètalmente bella…».

N

IL RACCONTO

Sabato, un figlio e suo padre

I colpi della contraerea si susseguivano rapidi,

come in certe esagitate sinfonie

Certi pezzi di musicache ad ascoltarli fanno

pensare che il compositore doveva avere

qualche problema

� Pino Loperfido

suonaronoBach

La volta

12 sabato 12 settembre 2009 13sabato 12 settembre 2009

L’attacco aereo su Trento

n queste paginepubblichiamo l’undicesimoracconto di Pino Loperfido,

lo scrittore trentino che staaccompagnando i lettoridell’Adige lungo tutta l’estate2009, con una storia nuova ognisabato.La serie si concluderà sabatoprossimo con il raccontointitolato Ogni giorno è la festadel papà, che così vienedescritto in una breveanticipazione fatta dall’autore:«Quell’uomo è un mito permilioni di italiani, ma è miopadre. Solo mio».Pino Loperfido ha pubblicato«Ciò che non si può dire. Il

I racconto del Cermis» (2001),«Caro Alcide» (2003) e ilromanzo «Teroldego» (2005).Alla fine di settembre usciràil nuovo romanzo, «Lemeccaniche dell’infelicità»,come i precedenti edito daCurcu & Genovese, ambientatoin Trentino: le oltrequattrocento pagine delromanzo raccontano settegiorni della vitadi Giacomo Andreatti, 48 anni,medico di base con l’hobbydella scrittura che torna nellasua città natale, dopo un lungoesilio, in seguito alla morte delvecchio padre, notissimoesponente politico.

che le bombeabato 13 maggio 1944. Attorno all’una del pomeriggio, seiondate di attacchi aerei angloamericani colpisconoripetutamente l’abitato di Trento per circa venti minuti.

Maggiormente colpite dal bombardamento alleato sono piazzaDuomo, Largo Nazario Sauro, Via San Martino e Cognola. I morti sono centotrentanove. Numerosi gli incendi causati dagli ordigni. Brucia, ad esempio, casaBertagnolli al Cantone, dove si è voluto ambientare questoimmaginario episodio.

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Qui accanto un’istantaneascattata durantebombardamenti su Trento; nelle altre foto,dall’alto, i segni delle bombein piazza Duomo,alla stazionedella funivia per Sardagna,nel quartiere San Martinoe in via Perini; nelle illustrazionia sinistra e sopra,il racconto vistodal disegnatoreGiordano Pacenza

Sabato 13 maggio 1944 il bombardamento angloamericano

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ssere bambini toglie unsacco di opportunità eprivilegi, ma presentaanche alcuni vantaggi.Questo pensò Felix mentre

infilandosi agevolmente tra legambe dei manifestanti riuscì aguadagnare la prima fila. Aprocurargli il brivido lungo laschiena non fu il frescolinodell’inverno oramai alle porte, mal’emozione di potersi godere lospettacolo tutto intero. Lasonnacchiosa città aveva finalmentequalcosa di eccitante da proporre aisuoi abitanti. Un’occasione da nonlasciarsi sfuggire, dunque.Innsbruck non era Parigi, non avevadunque i pregi della grande città,tuttavia, essendo troppo estesa perpoter meritarsi l’appellativo dipaese, non presentava neppure ipregi del piccolo borgo dimontagna. Felix aveva dunque laconsapevolezza di vivere in unindefinito conglomerato di case,strade e persone, un coacervo diumanità e architetture che perconvenzione si erano concentrati inquell’insignificante puntodell’universo.Ma quel giorno la città indolentepresentava un programma frizzante.Appena sveglio, Felix aveva fattofinta di non prestare attenzione aidiscorsi che suo fratello andavafacendo. Preparandosi per recarsiall’università, come quasi tutti igiorni, Georg, questo il suo nome,aveva lasciato intendere chequalcosa di grosso sarebbeavvenuto. Come il cagnolinoscodinzolando segue la tracciaolfattiva che potrebbe condurlo alcibo, così Felix si era vestito in tuttafretta mettendosi alle calcagna diGeorg. Non era riuscito però atogliersi dalla testa le insolite paroleche il fratello aveva pronunciatoappena sveglio.Era accaduto che, diversamente daquanto avveniva di solito, Georgnon era balzato sul letto delfratellino per farlo alzare. QuandoFelix si era voltato verso il suogiaciglio lo aveva visto con losguardo fisso alle travi del soffitto,

Ele mani intrecciate dietro la testa.Con la bocca a forma di cuore,fischiettava un qualche motivettoappena percettibile.Felix, dunque, messosi a sedere,allarmato dall’eccessiva tranquillitàdi Georg, gli aveva domandato cosadiavolo stesse facendo, immobilecome uno stoccafisso.Georg aveva girato gli occhi verso dilui e con un mezzo sorriso gli avevadomandato: «Ci pensi mai allamorte, tu?».Eh, no che non ci pensava. Felixaveva solo nove anni. Quelli eranopensieri per i quali nella mente di unbambino non c’era spazio. Vitrovavano posto un sacco di altrecose: colori, giochi, forme bizzarre,progetti astrusi, ma la morte era unconcetto troppo lontano e oppostoalla vitalità di un piccolo uomo.Ecco perché fra le cose piùinaccettabili che possano accaderesono proprio certi lutti a farpreferire, tutto ad un tratto,un’accomodante pazziaall’incresciosa realtà.«Ci pensi mai alla morte, tu?» aveva

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domandato Georg. Poi era tornato acontare i legni della mansarda.Superato lo smarrimento iniziale,Felix era balzato sul suo letto eaveva cominciato a canzonarlo.Aveva il diritto di farlo. Tutti ibambini hanno questo alibi: unasorta di accesso esclusivo allafelicità. Un privilegio che li rendetanto diversi, quasi una specie a sé.Spesso gli adulti gliene fanno unacolpa e percepiscono tantoentusiasmo come un’insolenza, unfastidio da sopprimere quantoprima a forza di rimproveri, richiamie scapaccioni assortiti.

a parte sua, Georg nonfaceva che ripensare alsogno che l’aveva agitatoquella notte. Avessedovuto raccontarlo,

sarebbe stato davvero arduotradurre in parole il teatro di ombre,visioni e lampi che il cervello gliaveva fatto credere di vedere. Lostesso vi era, nella foresta di ipotesi,una logica. Un filo narrativomisconosciuto che gli aveva lasciato

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un vago senso di angoscia, come unresiduo velenoso che rischia didepositarsi sul cuore. Per sempre. Ameno che non lo si cacciasse fuori,quel disagio, espettorandolo sottoforma di rabbia, attraverso violentifiotti di adrenalina.A giudicare dalle urla e daglisguardi accesi, un po’ tutti i ragazziconvenuti davanti all’Albergo «RosaBianca» avevano sintomi simili alsuo. Gli italiani si erano barricati làdentro. Vigliacchi bravi a parlare,che se la danno a gambe quando è ilmomento di menare le mani, dimostrare al cielo quanto si è uominioppure no.Georg si guardò attorno. Lacomplicità della folla inferocita lorafforzava. L’energia che sitrasmetteva tra quei giovani corpisomigliava a qualcosa di malefico eoscuro; una caricatura dellagiustizia. L’università avevaconcesso agli italiani di poter usarela propria lingua in aula, durantecerte lezioni. Quella mattinaavevano festeggiato, in manieraesagerata e insolente, com’era lorosolito. Si erano presi gioco deicolleghi di lingua tedesca,irridendoli, facendone teatralmentetanti buffoni alla cortedell’Imperatore. Tuttavia non eraquesto il vero motivo di tantofurore.

La diversità è una bomba a tempo ilcui innesco è nelle mani dichiunque. L’unico artificiere è ladeflagrazione. Non esistenessun’altra strada.Guardali lì, ora, quei conigli, mentremostravano i loro occhi impauritida dietro le tende dell’albergo,guardando con terrore la vita chestava loro toccando vivere. Ladecadenza della società li illudevadi poter trasformare ogni desiderioin un diritto, dove la diversità nonera più un punto di partenza perguardare il mondo con altri occhi,ma una maledizione da combatterein maniera ossessionata erancorosa.

er Felix, invece, era tuttoun gioco. Lacontrapposizione etnica, ilpericolo di una zuffaimminente, gli sguardi

severi dei gendarmi: ogni cosa erafabbrica e motore di una vitalitànuova. Anche i pugni che suofratello e gli altri studenti austriacitendevano minacciosi in direzionedegli italiani, pur mostrando in tuttaevidenza i sintomi della reazioneviolenta, potevano nascondere unloro aspetto ludico. Il poterricondurre ogni aspetto del male edel cinismo entro i confini delgaudio era un altro dei privilegi di

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quell’età. Pur non conoscendone lacausa, Felix si godeva gli effetticlamorosi che l’essere bambinicomportava.Guardava Georg e provava adimitarne le smorfie e scimmiottarnele urla. E poi il silenzio el’espressione di sorpresa, infine,quando una calma improvvisascese sulle fazioni contrapposte.Come quando un rumore attira d’untratto la nostra attenzione e ci favoltare il capo ora di qua ora di làalla ricerca della fonte sonora, conla speranza di dareimmediatamente una spiegazione alfragoroso evento, così ognistudente si lanciò nell’esplorazionedei dintorni per capire a cosa eradovuta l’improvvisa tregua.Gli era che un paio di italiani sierano fatti avanti, agitando le maninel gesto di domandare un po’ dicalma. Quello più basso portava unpizzetto appuntito, i capelliarruffati, l’aria truce di chi vorrebbeincutere rispetto. L’altro, più alto emagro, portava degli occhialini pince-nez appoggiati su un nasolungo e sottile. Il mento appuntito ele orecchie a sventola, più alcuneprecoci rughe, contribuivano a dareal ragazzo una curiosa faccia davecchio.Doveva trattarsi dei capi di quelgruppo di facinorosi. Felix carpiva

mozziconi di frasi sussurrate tra lafolla. Il primo pare si chiamasseCesare Battisti e facesse ilgiornalista. Il secondo guidava glistudenti cattolici del Trentino, taleAlcide De Gasperi. Dueimbrattacarte con una parlantinamica da ridere, insomma. TuttaviaFelix era sicuro che il fratellone ed isuoi compagni non si sarebberofatti incantare tanto facilmente.L’incontro avvenne all’incirca ametà strada tra il cordone disicurezza dei gendarmi e l’Albergoalla Croce Bianca dove il resto degliitaliani se ne stava rintanato. Ilbambino tentò di immaginare cosasi sarebbero detti. Le parole chepossono sciogliere una matassatanto intricata gli eranosconosciute. La diplomazia era perlui solo una dei tanti terminiincomprensibili che i grandi siostinano a farsi uscire dalla bocca,tanto per darsi un tono; oppure,solo per nascondere i sentimentidietro un paravento fatto di parole.Quel Battisti e quel De Gasperidisegnavano strane figuregeometriche nell’aria, muovendo lebraccia in tutte le direzioni.Mostravano la sicurezza di chi sacon precisione ciò che vuoleottenere e ha la certezza che lastrada intrapresa per giungereall’obbiettivo sia proprio quellagiusta.

eorg assisteva alletrattative conl’ottimismo che siportano dietrodeterminati momenti

della giornata o certi periodi storici.Così come, infatti, al mattino lospirito pare caricarsi di vibrazionipositive, l’avere vent’anni all’iniziodi un secolo tanto importante comeil Novecento concedeva alcuneillusioni: ad esempio quella dipoterlo vivere per intero quelsecolo. Come se la curiositàpotesse bastare, da sola, adallungare la vita degli esseri umani,a trasportarla indenne alle soglie diun futuro inimmaginabile.Insomma, i due fratelli, con più omeno consapevolezza, erano felici.Sentivano la vita vibrare. Un flussodi energia e sangue troppo grandeper le ridicole dimensioni del corpoe così era per ogni partecipante alla

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disfida. Come poteva, dunque, unpotenziale tanto dirompentespegnersi nel silenzio di una strettadi mano? La miccia era oramaiaccesa e troppo corta per potersperare di scongiurare l’esplosione.Quando la folla prese a vorticare,come foglie secche prigioniere di unpiccolo uragano, Georg percepìqualcosa. Uno strano buco nellostomaco, come una falla in unabarchetta oramai al largo, quando ilporto è divenuto troppo lontano daraggiungere. E quel sognomaledetto riprese a tormentarlo, lopungolò, diede una spallata a tuttigli ideali e le fantasie che l’inizio delsecolo aveva trasmesso ai suoiabitatori.Gli italiani uscirono in massadall’albergo. La loro venuta assunsele sembianze di una carica.Felix abbandonò la sua posizioneper arrampicarsi su un albero egodersi lo spettacolo della violenzasenza correre inutili rischi. Da lìriusciva a vedere tutto. I gendarmiche tentavano di riorganizzarsi perriportare la situazione all’ordine. Glistudenti che a gruppi di due o tre sispintonavano urlando. Tra lororivide pure i due capi, Battisti e DeGasperi, riluttanti ad abbandonarele speranze di una soluzionepacifica. E poi c’era Georg. Fermo.In mezzo a tutti. Come seimprovvisamente fosse divenutoinvisibile agli altri.Tra il colpo e la caduta al suolopassò un tempo molto breve,troppo perché Felix potesse riuscirea seguirne l’origine e ladestinazione. Vedere il corpo di suofratello disteso sul selciato erainaccettabile alla sua coscienzaimberbe e irragionevole. Era comese il destino lo avesse preso permano e gli stesse domandando coninsistenza: «E allora, come lamettiamo adesso con tutta questafelicità?».Felix non aveva risposto alladomanda di Georg, se ci pensasse ono alla morte. Per forza che adessoci pensava. Ce l’aveva davanti:unica, definitiva. Mai doma, la suafollia di bambino, anzichéaggrapparsi alla pietà o ad unareligione, tanto per non impazzire,lo portò a odiare quel fratellocaduto. Perché morendo lo stavatrascinando fuori da un mondodorato. Le colpe erano tutte deigrandi. Sin da quando avevanocominciato a premiare i più piccoliper le «loro» aspettative. E i bambiniavevano imparato in fretta:pezzettino per pezzettino, la loroistintività era stata barattata ognigiorno con un complimentodiverso, seguito da un sorrisocompiacente. Quello era il prezzo.Far felici i grandi diventandoesattamente come loro: cinici esuperficiali. Anche lui lo avrebbefatto. Avrebbe dimenticato tuttaquella felicità.I gendarmi intanto avevanodisperso la folla. Attorno al mortoerano rimasti pochi coraggiosi. Traloro, quei due italiani. Quello colpizzetto parve guardare con fastidioal corpo esanime; lo studenteaustriaco ucciso dalla pallottolavagante era per lui motivo didisagio profondo e inspiegabile.L’altro italiano, quello con gliocchialini, si fece il segno dellacroce e chinò il capo, mormorandoqualche oscura preghiera.

IL RACCONTO

Un paio di italiani si erano fatti avantiagitando le mani

nel gesto di domandare un po’di calma

Quello più basso portavaun pizzetto appuntito

L’altro, più alto e magro,portava degli occhialini

� Pino Loperfido

colpa di esserefelici

12 sabato 25 luglio 2009 13sabato 25 luglio 2009

Giovedì 3 novembre 1904, la «guerra» fra gli universitari

Giurisprudenza parla italiano

L’imperdonabile

iovedì 3 novembre 1904. Ad Innsbruck viene inaugurata la Facol-tà di Giurisprudenza di lingua italiana. Gli studenti trentini festeg-giano assieme ad alcuni deputati, mangiando all’Albergo Croce

Bianca. In strada, intanto, si ingrossa un gruppo di studenti contestato-ri di lingua tedesca, tenuti a bada dai soldati del reggimento Tiroler Kai-serjäger di cui fanno parte molti trentini. È uno di loro, Luigi Menotti diBorgo Valsugana, a trafiggere mortalmente con una baionetta il pittoreAugusto Pezzei. Gli studenti trentini vengono tradotti in carcere, sottrat-ti in extremis al linciaggio. Tra loro, Alcide De Gasperi e Cesare Battisti.(Nella pagina a fianco, nella foto in alto, gli studenti trentini scarcerati:De Gasperi è il secondo da sinistra, Battisti il secondo da destra. Qui so-pra, i partecipanti alle lotte universitarie di Innsbruck riuniti vent’annidopo, nel 1924, al castello del Buonconsiglio; in alto a destra, De Gasperi).

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Un nuovo romanzoper Pino Loperfido

Giordano Pacenzagrafico di successo

Fra sette giorni la fine di Hofern queste pagine il quinto racconto di Pino Loperfido (accom-pagnato da due disegni di Giordano Pacenza); racconti che ciaccompagneranno lungo tutta l’estate, ogni sabato. Ecco i ti-

toli dei prossimi e una succinta anticipazione dell’autore.Il prezzo salato di chi viene al mondo: le acrobazie mentali di unsoldato negli istanti che precedono la fucilazione del condannato.Il destino aveva una voce di bimba: la fede nel trascendente a vol-te fa brutti scherzi. E dove è finita quella bimba dai riccioli biondi?Il bambino che guardava gli alberi volare: il treno, esperienza ma-gica per un bimbo. Anche se è appena stato sfollato.Giusto dietro la curva del cuore: seguire il proprio cuore o i pro-pri ideali? Per i due fidanzatini, persi nella notte bianca, è diffi-cile decidere.Anche vinto il nemico è qualcuno: sbirciando dalla finestra l’arri-vo del terrorista. La scoperta della sua inaspettata umanità.

Gli ultimi due racconti, ancora avvolti dal mistero, s’intitoleranno «La volta che le bombe suonarono Bach» e «Ogni giorno è la festadel papà».

Iino Loperfidoha pubblicato«Ciò che non

si può dire - Il racconto delCermis» (2001),«Caro Alcide»(2003) e ilromanzo«Teroldego»(2005). Entro lafine di quest’annouscirà il nuovoatteso romanzointitolato«Le meccanichedell’infelicità»

P iordanoPacenza,37 anni,

ha studiato a Trento e Firenzee si occupa di grafica e illustrazioneeditoriale;ha ricevutonumerosiriconoscimenti e premi in ambitonazionale e vive a Vigolo Vattaro

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Innsbruck 1904

Sopra, i fattidi Innsbrucknel disegno di AchilleBeltrameapparso sulla«Domenicadel Corriere»dell’epoca; a sinistraCesareBattisti,a destra De Gasperi

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uante volte te lodevo dire checerte porcherie tunon le devileggere. Pensavi

di farmela anche stavolta, eh?Guarda che tua madre non è unacretina, sai. Ah, ma la colpa è tuttadi quel debosciato di tuo padre. Sicomporta ancora come fosse unragazzino. Sempre con questa storiadella politica, il socialismo, l’Italia…Ma quale Italia? Cosa abbiamo daguadagnarci a passare dalla parte dicerti pezzenti? Un pugno di mosche,ecco cosa. Tuo padre è un illuso,proprio come i suoi amici saputelliche stanno al giornale. Ah, maquesta volta mi sente, sai? Lasciarein giro certi fogli scandalosi, con unbambino per casa. Com’è che siintitola? L’amante del Cardinale!Capisci bene che è una porcheria… ICardinali sono dei santi. Sono isuccessori degli apostoli, capisci? Tipare che qualcuno possa davverocredere a certe fandonie? Senti qua:…il giovane Carlo Emanuele nonaveva molta voglia di fare il principee ancor meno il Principe dellaChiesa. Invaghitosi della giovanevicina Claudia Particella arrivòanche, dopo aver ben meritato inmissioni diplomatiche per il Papa eper gli Asburgo, a richiedere piùvolte la dispensa per poter sposarela giovane… Ma ti puoiimmaginare… La bella ragazza…».Federico continuava a toccarsi leguance: gli pareva scottasserotalmente che da un momentoall’altro avrebbero potuto prenderefuoco. Quando sua madre erapiombata in casa e l’aveva sorpresoimmerso nella lettura di quelloscabroso romanzo avrebbe volutosprofondare per la vergogna. Perfortuna, troppo presa dallaramanzina, quella non aveva potutonotare la sua eccitazione esoprattutto non aveva avutoaccesso ai suoi pensieri più intimi esegreti. Era proprio lì, infatti, giustodietro alla curva del cuore, che ilragazzo teneva ben nascosta la suapassione, la tempesta che stavadando una forma alla suagiovinezza. Uno sconvolgimentoormonale riconducibile ad un voltoben preciso. E ad un nome: Claudia.Il fatto che la ragazza – quasi vicinadi casa, abitava infatti quattroportoni più in là lungo la contradaTodesca – portasse lo stesso nome

Q« dell’eroina di quel romanzo nonfaceva che attizzare la brace delsentimento.Federico osservò sua madre che,seduta sul letto, senzaaccorgersene, aveva diluito il suoaccesso di ira perdendosi un pocotra le pagine proibite.Contravvenendo ad ogni regolaeducativa, trasgrediva dunque iprincipi professati a gran voce, pocoprima, innanzi al figlio. Quellacuriosa stasi, pausa nella battaglia,dava pertanto modo al ragazzo dianalizzare ogni turbamento che daqualche giorno lo stava devastando,nel corpo e nell’anima. Ciò che piùlo incuriosiva erano le prerogativemoleste e fastidiosedell’innamoramento. Il mal dipancia, ad esempio. L’inappetenza el’inedia a cui costringeva nonpotevano essere ricondotti aqualcosa di piacevole. L’amoredoveva essere un processo dellastessa natura della conversionereligiosa o politica. Le persone siinnamorano quando sono pronte amutare, ad iniziare una nuova vita. Apensarci bene, tra il sentimentoprovato nei confronti di Claudia, lafede cattolica della madre e iprofondi ideali socialisti del padrec’erano solo delle differenzeapparenti. In tutti tre i casi vi eral’adesione ad una collettività che siriconosceva negli stessi valori,gruppi coesi da una grandissimasolidarietà. Nel suo caso, si trattavadi una collettività minima, formatada due sole persone: un ragazzo euna ragazza.

ostacolarel’avvicinamento diFederico e Claudia, oltreal bigottismo della madredel primo, vi erano

ragioni famigliari, di ordine sociale,o meglio ideologico. Il padre dellaragazza era molto vicino al clero;bazzicava il giornale di Alcide DeGasperi ed oltre ad essere uncattolico intransigente, sostenevasenza paura l’idea che l’Imperatoregodesse di una specie di imprimaturdivino: una patente che gli avevaassegnato in un sol colpoun’incontestabile supremaziapolitica e un’indiscutibile autoritàmorale.Era, di contro, il papà di Federicouno di quei facinorosi che andavanodietro alle idee di Cesare Battisti,

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l’Adige l’Adige

direttore del giornale «Il Popolo», edel suo pupillo Benito Mussolini: unromagnolo capitato da qualchemese in città che si arrabattava traun impiego alla Camera del lavoro eil mestiere di giornalista e scrittore.Feroce anticlericale, era di fattiopera sua il romanzo che stavadando scandalo in tutto il Trentino eche «Il Popolo» stava pubblicando apuntate.Era quantomeno curioso che unacittà piccola come Trento covassenel suo ventre tali e tanti fomiti diintellettualismo, di passionepolitica, di attaccamento ai destinidell’umanità. Era quella l’epoca incui le persone trovavano ancorasacrosanto farsi carico di un’idea e,gratuitamente, difenderla per tuttala vita. I giornali erano i cuoripulsanti di un’anima culturale. Casee palazzi parevano vibrare tanto eral’impeto di giustizia che ognuno siportava dentro.Naturalmente, anche a causa deldistacco proprio della sua età,Federico interpretava certi interessialla stregua di capricci senza senso.Quando ad esempio sentiva il padrefare certi discorsi sul socialismotratteneva a stento il riso. Noncapiva come nella vita uno potessededicarsi ad altro che non fossel’amore. Il dolcissimo dolore che loaffliggeva da quando Claudia eraentrata giocoforza nella sua vita diragazzo. Al dissesto psichico che lotormentava non v’era altro rimedioche correre immediatamente da lei eperdersi tra le sua braccia, baciarlafino a farsi dolere le labbra e la

lingua. Federico non aveva dubbi:l’amore era come una malattia a cuinessun medico può porre rimedio.Anche il più grande luminare delpianeta, di fronte ad un fenomenodel genere, poteva solo allargare lebraccia e arrendersi alla forza delcuore.Così anche quel pomeriggio, con lascusa di andare a comprare il salein una certa bottega, Federico siappostò sotto le finestre della casadi lei. Infilandosi due dita in bocca,produsse un sibilo molto sottile eintenso, che si interrompeva aintervalli regolari. Era il segnaleconvenuto. Un codice sonoro allacui traduzione avevano accessoloro due soltanto.Claudia comparve ben presto sulla

soglia del portone. Prese per manoFederico e ve lo trascinò all’interno.I due ragazzi si strinsero conmeraviglia. La stessa sorpresa chepuò provare chi si troviall’improvviso davanti ad unfenomeno inspiegabile. Con ladifferenza, questa volta, che il tuttoavveniva nei misteriosi circuiti deiloro corpi di adolescenti, dovetruppe di ormoni impazzitilanciavano il loro attacco allaragione. Federico provò a dire qualcosa, madalla bocca uscivano solo mugugni,parole mozzicate. La verità era chenon c’era proprio nulla da dire. Soloabbandonarsi alla gioia. L’energiache li attraversava era talmenteforte da spaventarli. I loro corpi si

alteravano, cambiavano forma:un’inspiegabile metamorfosi che,quel giorno, li agitò talmente dapersuaderli ad abbandonare il nidocomodo e a cercare il contatto conla folla, il riscontro con la realtà.Giusto un attimo prima diabbandonarsi alla più controllatadelle follie.

i era in piazza uno stranofermento. Una folla digiovani vociantimaramaldeggiavaattorno al complesso

monumentale dedicato all’Alighieri.Urla di scherno, qualchebestemmia. Altri lanciavano uovache impattando contro l’obbiettivofacevano sbocciare una macchia di

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colore fucsia.Federico e Claudia assisteronodivertiti allo spettacolo. Prorupperoin una sonora risata nello scoprirequal era l’oggetto di tanta derisione.Proprio ai piedi di un pensosoMinosse, i dimostranti avevanoappeso un fantoccio di coloreverde. Il viso era disegnato inmaniera posticcia ed imprecisa,tuttavia alcuni particolarilasciavano intuire l’identità delpersonaggio che si intendeva lìevocare. La barba lunga e fluente, legrosse sopracciglia e soprattutto ilbuffo cappello piumato nonlasciavano dubbi sul fatto che ilfeticcio impiccato fosse nientemenoche Andreas Hofer, l’eroe tirolese acui le autorità, proprio in queigiorni, stavano dedicando una seriedi celebrazioni, a cento anni esattidalla rivolta contro i francesi.I ragazzi osservarono attentamentela scena. Studiarono ogniparticolare, come se fossero lì perstendere una relazione precisa deglieventi. La rabbia di tutti quegliuomini incravattati e vestiti di neroaveva un che di profondamenteatavico. Raccontava le profonditàdell’istinto umano, la violenza e ilmale che molte volte gli uomini siportano nel petto, come unbagaglio leggero, celato dai battitidel cuore.

vvenne che sulla cittàscese il buio. E tale restò,considerato che nessunlampione si accese.Anche nelle botteghe e

nei caffè si corse ai ripari dandofuoco ad alcune candele. Cosadunque stava accadendo? Ad ognicrocicchio, gruppi di uomini edonne discutevano animatamentesui destini oscuri che liattendevano. Scese la notte e pertutti fu come se si trattasse dellaprima notte dell’umanità. Una pauranuova serpeggiò per le strade diTrento. La stessa paura cheprobabilmente provarono i nostriprogenitori il giorno in cui,dall’antro di una caverna, videro ilsole sparire per la prima volta: micalo potevano sapere che sarebbetornato il mattino dopo.Federico e Claudia carpironoqualche conversazione escoprirono che era in atto una sortadi sollevazione popolare. La parola«sciopero» veniva pronunciata piùvolte, con la perentorietà di unasciabolata. Non solo gli operaidell’azienda elettrica, ma pure ifornai avrebbero incrociato lebraccia. E il motivo della protestarestava incomprensibile. Enemmeno interessava più di tantoai nostri giovani protagonisti chevidero nell’insolita oscurità enell’eccitazione generale un invitopressante a cogliere i fruttidell’intimità.Nella via principale, quella cheportava al Duomo, altri incravattatisi esibivano nel lancio delle uovacolorate. Questa volta il bersaglionon era un fantoccio, ma la facciatadi un elegante palazzo. Federico sorrise quando un uomoalto e magro gli mise in mano unuovo, invitandolo a colpire quellache definì «il covo dei baciapile».Senza pensarci due volte, il ragazzoportò il braccio all’indietro, caricòle fasce muscolari dell’arto,lasciando che l’energia chimicaprodotta dal corpo fluisse suquell’oggetto tondeggiante e quindisfociasse in un’esplosione di

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energia cinetica. Ma qualcosa lotrattenne. Lentamente, Federicoriportò il braccio in posizione diriposo. Claudia, che già si erapreparata a godersi lo spettacolobalistico, domandò spiegazioni conlo sguardo al suo fidanzatino. Eraun’occhiata carica di rimprovero edi delusione. Le donne spessochiedono agli uomini di compiereper loro conto azioni che essestesse non hanno il coraggio o ladecenza di fare. Sapeva bene,Claudia, che dietro quelle finestre viera anche la scrivania di suo padre.Tuttavia quella che a prima vistapoteva apparire una nemesi storicaovvero il risultato dell’imperiturocontrasto tra padri e figli, tra unagenerazione e l’altra, non derivavada ragioni dettate dell’odio, bensìda un’inconscia forma di invidia.Federico, infatti, senza saperlo,invidiava del genitore la sicurezzacon cui abbracciava la causasocialista; il fatto che in essa egliavesse trovato il propulsore dellapropria esistenza. Claudia, invece,del padre invidiava la calma, quellacapacità quasi disumana di nonprendere mai decisioni senza primameditarle. E poi ne invidiava la fedecattolica e il senso del mistero:l’esperienza più bella e profondache un uomo possa fare, negli anniche gli tocca vivere.Il profondo disagio filiale cheaccomunava i due ragazzi avevafatto fino ad allora da collante.Aveva corroborato il sentimentoamoroso. Li aveva rassicurati sulfatto che la decisione di dedicarsil’uno all’altra per tutta la vita eraquella giusta.Eppure, nel clamore della nottebianca, elettrizzata dalle urla degliscioperanti, Federico e Claudia siaccorsero che c’era qualcosadentro di loro che remava indirezione opposta. Giusto dietro lacurva del cuore, un granello dimalvagità o di idealismo operavaaffinché ognuno andasse per la suastrada, laddove la ragione avrebbepotuto condurli. L’uovo pieno divernice che il ragazzo continuava asoppesare nella mano era la chiavedella contesa. Pertanto quando Federico si ritrovòsotto gli sguardi incrociati della suaamata e di suo padre, accorso nelfrattempo con gli scioperanti, forsenon colse l’importanza del gestoche si stava apprestando acompiere. La folla muggiva. Glioperai dell’azienda elettrica, fornai,netturbini inneggiavano aMussolini, il compagno giornalistache, proprio quel giorno, le autoritàaustriache avevano costrettoall’esilio. Un tale fermento avevareso la città irriconoscibile, come semilioni di uova piene di vernicefossero improvvisamente piombatesu Trento cambiandone il volto.Federico portò indietro il braccio escagliò l’uovo con tutta la forza chepoteva. Suo padre sorrisecompiaciuto. Claudia, invece,incurvò la bocca verso il basso echinò il capo. Il suo fidanzato laabbracciò ridendo. Lei provò unostrano moto di repulsione. Ebbe lapercezione che il loro amore nonsarebbe stato più lo stesso daquella notte in poi. Il gesto di libertàche Federico aveva compiutoesprimeva non la grandezza, bensìl’infinita debolezza della libertàstessa. Era proprio questo ildramma: la più alta ricchezzadell’uomo poteva generarne anchela più oscura miseria.

IL RACCONTO

Sabato prossimo, Hofer ad Ala

Il padre della ragazza bazzicava il giornale di Alcide De Gasperi,

quello di Federico era uno dei facinorosiche andavano dietro

alle idee di Cesare Battisti

� Pino Loperfido

la curvadel cuore

10 sabato 29 agosto 2009 11sabato 29 agosto 2009

27 settembre 1909: Mussolini accompagnato al confine

Trento e Rovereto al buio

n queste pagine pubblichiamoil nono racconto di Pino Loper-fido; racconti che ci accompa-

gneranno lungo tutta l’estate, ognisabato. Ecco i titoli dei prossimie un’anticipazione dell’autore.Anche vinto il nemico è qualcuno:sbirciando dalla finestra l’arrivodel terrorista. La scoperta dellasua inaspettata umanità.La volta che le bombe suonaronoBach: L’esperienza del dono di sénella tragedia della guerra, tra ar-

I te e distruzione.Ogni giorno è lafesta del papà: quell’uomo è unmito per milioni di italiani, ma èmio padre. Solo mio. Pino Loperfido ha pubblicato «Ciòche non si può dire. Il raccontodel Cermis» (2001), «Caro Alcide»(2003) e il romanzo «Teroldego»(2005). Alla fine di settembre usci-rà il nuovo romanzo, «Le mecca-niche dell’infelicità», come i pre-cedenti edito da Curcu & Genove-se.

Giusto dietro

unedì 27 settembre 1909. Benito Mussolini, redattore capo de «IlPopolo», autore del dileggiatorio romanzo «L’amante del Cardina-le», viene accompagnato al confine (nella foto al cippo di Ala, sa-

lutato da alcuni compagni socialisti). È la fine della sua permanenza nelTrentino austriaco. I dimostranti socialisti girano per le strade di Tren-to e di Rovereto, cantando la Marsigliese, agitando bandiere rosse, esor-tando i commercianti allo sciopero. Le due città restano così, per un gior-no, senza luce e senza pane (nella foto in alto a sinistra, un comizio diCesare Battisti).

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I giovani «duellanti»Alcide De Gasperi (a sinistra) e Cesare Battisti (a destra); sopraCastel Toblino,visto dall’artistaBasilio Armani,dove secondo la leggenda si sarebbero tenutigli incontri amorosifra ClaudiaParticella e il cardinale CarloEmanuele Madruzzo

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volte aveva lasensazione che il mondolo tenesse d’occhio.Perfino in quelmomento, mentre tra le

inferriate era lui a sbirciare al di làdel muro, verso il paese, verso ilcortile di quella casa verde. Quelmoccioso aveva pressappoco lasua età, eppure si faceva ancoracoccolare come un infante. Suopadre arrivava la sera, quasisempre alla stessa ora, al calar delsole, sempre con la medesimadivisa nera indosso. La scena erasempre la stessa. Un abbracciosdolcinato, buffetti e carinerie dafar rivoltare lo stomaco. Se questoè tutto ciò a cui serve un padre,allora meglio non averlo. Questopensava Albino mentre, con gliocchi bassi, cercava i sassolinimigliori. Dovevano essere dellagiusta misura. Né troppo grandi nétroppo piccoli. Quanto più rotondipossibile. Non ne mancavanoattorno alla chiesetta diSant’Antonio. Quando la scorta erasufficiente, allora il ragazzopassava all’azione, colpendo lacampanella posta sull’edificiosacro. Il tintinnio mandava unattimo in confusione quelli dellecase vicine, che avevano la vitaregolata su quel suono metallico. Iltempo è definito comel’osservazione della realtà in basealla differenza tra passato e futuro.In parole semplici non esiste. È lapista immaginaria costruita per faratterrare i velivoli delle nostreesistenze che altrimenti sarebberodestinati a schiantarsi sulle roccedell’insensatezza. Albino certiragionamenti ce li aveva benpresenti, ma non li sapeva dire.Già, proprio così: che bisognoc’era di dirli?Via col sassolino, allora. Presa lacampanella. Eccotene un altro.Colpita un’altra volta. Come unafuria giungeva allora la Maria,nervosa al limite della bestemmia.Pronta a menare le mani a fronte diun’azione tanto blasfema eterroristica. «O mi dai il soldino otiro sassi alla campanella» lacanzonava Albino, supportato daun paio di monelli con cui usavafar comunella. La Maria conoscevaabbastanza la vita da sapere comeandavano governate certe forzeeversive come l’adolescenza. Perquesto agitò il bastone prima di

Ainfrangerlo sulla testa di quei trescavezzacollo. La minacciapreviene, la punizione provoca.Buona la prima.

o. Avere un padre nonsignifica nulla. Avere unpadre non sempresignifica avere qualcunoche ti vuole bene e che è

disposto a tutto per te. Perdiventare padre basta un minuto,per diventare un buon padre nonbasta tutta la vita. Albino spiava ilcortile di quella casa verde eintanto si costruiva ragionamentiarditi, ragnatele mentali dalle qualiamava lasciarsi penzolare, inattesa che prendesse forma lasolita scena di baci e abbracci.Cosa c’avranno da festeggiaretanto appassionatamente? Nonpuò essere sempre la festa delpapà. Ogni giorno, voglio dire.Sopramonte era, a quel tempo, unpiccolo comune autonomo,composto da un pugno di case unpo’ attorno alla chiesaparrocchiale, altre allineate lungovia Veggiara e via Praiolo. Un’altramanciata di edifici era arroccata inlocalità Dossolo. Tempi di magrache si protraevano da un bel pezzosuggerivano nel frattempo dicambiare aria. Qualcuno se nescendeva a Trento, altriallungavano di un pelo il viaggio ese ne andavano in America, a fareche cosa non si sa.«O mi dai il soldino o tiro sassi alla

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l’Adige l’Adige

campanella». Eccolo. Ci risiamo.«Ma tua madre non ti dice niente?»,lo rimbrottavano i paesani, pertutta quella guasconeria. L’ariasicura di chi sta per aprire ilmondo in due. Quell’orgoglio, laforza. E poi i lineamenti, quegliocchi, gli zigomi. Ma sai che quelbocia assomiglia proprio a… Va là,va là. Brutti scherzi fa il caldo.

cecchini, voglio dire: massì,dai, quei sacramenta dallamira infallibile. Il nomignolo loavevano tirato fuori i soldatiitaliani per definire la

soldataglia di Cecco Beppe. A direla verità, non si sa se fossero gliaustriaci ad essere molto precisi ogli italiani una manica di incapaci.Fatto sta che Albino se la sentivaripetere spesso questa parola. I tiricontro la campanella erano semprepiù perfetti. Affinata la tecnica, nonrestava che assegnare una valenzaa quel gesto: l’ontologia delmonello. Undici anni, santo cielo,eppure guarda che traiettorie,quale precisione e sicurezza.Che strano, quel giorno la Marianon si faceva vedere. Di solitoscattava come una molla a difesadel decoro e della buonaeducazione. «Stai a vedere che èschiattata, finalmente. Lo fanno intanti», pensò malignamente Albino,«perché non potrebbe capitarepure a lei?».Così bighellonando, fischiettando,trascinandosi dietro, nella testa,

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tutto un groviglio di fantasieindicibili, il ragazzo zompettòverso la piazza, e chi non ti videproprio di fronte alla canonica? LaMaria che conversavaanimatamente con gli altripaesani. Non era schiattata,dunque. Anzi, pareva più in formache mai. Gesticolava, raccoglievacommenti, mimava alcuneespressioni facciali e poi unacaduta con tanto di smorfia didolore. «Non sarà schiattata, ma leha dato sicuramente di volta ilcervello» congetturò il ragazzino.Che ci stava a fare, infatti, inmezzo alla piazza, circondata dadecine di persone, comeun’attrice? È presto detto.Era accaduto che il parroco,scendendo nel capoluogo di buonora, aveva acquistato il giornale e,vista la notiziona in prima pagina,era subito corso in paese adannunciare la dolente novella aifedeli.Albino si fece largo, sgomitò fino aquando non riuscì ad appoggiare ilnaso sul foglio scritto fitto fittoche per titolo portava «Corrieredella Sera». Più sotto, una cronacaaccorata che, chissà perché, loriguardava da vicino. Molto davicino. «La Storia ha rischiato diarrestarsi, ieri sera, a Bologna. IlDuce stava inaugurando il nuovostadio sportivo il Littorialenell’ambito dellacommemorazione della "marcia suRoma"; su una macchina scopertastava andando alla stazionequando un colpo di pistola glilacerava la sciarpa dell’ordinemauriziano. Dietro alla macchinadi Mussolini, che proseguiva, ungruppo di squadristi di LeandroArpinati (tra cui anche Italo Balbo)si buttava sul presunto attentatoree giustamente lo linciava: ilcadavere mostrerà quattordicipugnalate, un colpo di rivoltella etracce di strangolamento».Altro che festa del papà. La festa«al» papà, al suo papà, avevapensato di fargliela qualcun altro.Un altro moccioso come lui.Sconosciuto. Un nemico. Diverso.Perché il nemico lo è sempre. Perforza. Altrimenti, beh, metti che inguerra a un certo punto i soldatiavessero l’impressione di staresparando contro uomini tropposimili a loro stessi. Potrebbero,magari, rendersi conto di quantosia assurda una guerra, di come inun conflitto si nasconda unapuerilità che lo rende quasi ungioco, giocato per conto diqualcun altro, al prezzo dellapropria pelle. In guerra un soldato

ha bisogno di trovarsi davanti adun nemico, un diverso, uno cheparli un’altra lingua. Così quandodeve ammazzare, imprigionare oumiliare non si fa venire straniscrupoli di coscienza.

a Maria aveva le lacrimeagli occhi, adesso.Andava dicendo chequell’uomo era tantobuono. Non avrebbe

meritato certamente di morire inmodo così poco eroico. Albino nonsapeva cosa pensare. I suoi giornili viveva sempre allo stesso modo:come se da un momento all’altroavesse dovuto svegliarsi,scoprendo che tutto il mondoimmaginato fino a quel momentoera appunto questo: un mondoimmaginato soltanto. La vita,quella vera, stava da un’altraparte. In un altro paese, su unastella, nel corpo e nella testa diqualcun altro.E gli sguardi che ora lo scrutavanoe lo bagnavano di commiserazioneerano insopportabili. Siproteggevano così, i compaesani.Si facevano scudo col dispiacerecontro i possibili interrogativi diAlbino. Non che essi fosseroresponsabili della condizione delragazzo, tuttavia vi era lo stessouna premura, un senso del dovereche li costringeva a provare penaper lui. Ma cosa poteva domandarloro, Albino. Facevano dunquecosì paura le domande di unragazzino? Era quindi vero quantoandava dicendo quel famosopoeta, che è nel momento in cui ipiccoli ci interrogano che capiamodi essere veramente soli?Quell’uomo, Benito AmilcareAndrea, quello di cui parlava ilgiornale, non aveva nulla datemere. Suo figlio era troppolontano per poterlo impensierire,per dargli noia con tutte lequestioni legate allaresponsabilità, all’etica e allapedagogia. Naturalmente a frontedi un’intera nazione che tirava unsospiro di sollievo per loscampato pericolo dell’attentato,ce n’era un’altra che lo faceva soloper adulazione, per tenersi buonoil potere. Oppure per paura e pervigliaccheria.No. Avere un padre non significanulla, specie se sei costretto adividerlo con qualche altromilione di italiani e tu, tra l’altro,italiano lo sei solo per un pelo. Inun angolo di mondo, in mezzo auna manciata di case anonime, nelposto più piccolo dell’universo.Figlio di uno che fa impazzire le

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folle e di una che fa impazzire solose stessa. E suo figlio.Albino guardava quegli sguardi. LaMaria, il parroco, l’oste, ilcarrettiere, la levatrice. Era loscontro fra due diverse solitudini:la prima dettata dallasopravvivenza, la seconda dallascelta della diversità.

l dispetto può diventare unareligione, un lavoro nonretribuito, un hobbyparticolarmenteappassionante, soprattutto

quando resta l’unica strada percertificare la propria esistenza invita.Anche quella mattina Albino preseposto davanti alla chiesetta diSant’Antonio, affilò le armi e aprì ilfuoco. I rintocchi della campanellasi rincorrevano tra i cortili diSopramonte, quindi – come ariacalda – risalivano su, verso lependici del Monte Bondone enessuno le sentiva più. Il fatto chela Maria non giungesse arimbrottarlo regalava ad Albino unmaggior vigore. Sapeva che non loavrebbero linciato per quel gesto.Non avrebbe fatto la fine del suocoetaneo di cui avevano scritto sulgiornale. Però venire ignorato gliprocurava lo stesso un dolore, senon altro perché lasciavaintravedere un giudizio. Laconclusione del lungoragionamento attraverso il qualela società arriva a catalogare unindividuo, annoverandolo conforza in questo o in quest’altrogirone, decidendo la stazione didiscesa lungo il percorsodell’esistenza. Pur senza avernepiena coscienza, Albino conoscevai nomi di quelle stazioni e sapevache dopo la stazione «diversità»c’era il capolinea: la pazzia.Ma dove correvano esattamentequei binari? Forse al di là delmuro, verso il paese, verso ilcortile di quella casa verde. Quelmoccioso aveva pressappoco lasua età, eppure si faceva ancoracoccolare come un infante. Suopadre arrivava la sera, quasisempre alla stessa ora, al calar delsole, sempre con la medesimadivisa nera indosso. Il solitoabbraccio sdolcinato, buffetti ecarinerie da far rivoltare lostomaco. Se questo è tutto ciò acui serve un padre, allora meglionon averlo… Anche se, ad Albinoadesso non sarebbe dispiaciutoaverne uno anche per meno. Soloper una carezza o uno sguardobuono. Quel signore in divisaaveva la faccia di tutti i papà delmondo. Anche del suo. E poi nonaveva quell’aria da matta dellamamma. Sì. Adesso sì, lo potevaaffermare con certezza. Urlarlo almondo intero che avere un padresignificava tutto a quell’età. Perquesto, in un momento in cui ilsuo «rivale» era assente, si sentìautorizzato ad avvicinarglisi, aprenderne la mano. È strano, ma l’uomo non sisorprese più di tanto. Non più diquanto lo sorprese la sua stessaimmagine riflessa nello specchio.Divisa, fez e la camicia nera.Albino lo vide sorridere, scuotereil capo e quindi sbuffare come unalocomotiva. Faceva saltare gliocchi dallo specchio al viso delragazzo, come fosse indeciso suquale fosse lo spettacolo piùdegno di nota. Alla fine optò per lospecchio. «Che pagliacciata!»,commentò.

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IL RACCONTO

Ida Dalser e Mussolini, tutto cominciò in un salone di bellezza

Sul foglio scritto fitto fittoche per titolo portava«Corriere della Sera»

c’era una cronacaaccorata

che, chissà perché,lo riguardava da vicino

Molto da vicino

Quell’uomo,Benito Amilcare Andrea,

quello di cui parlava il giornale, non aveva

nulla da temereSuo figlio

era troppo lontano per poterlo impensierire

Avere un padre non significa nulla,

specie se sei costretto a dividerlo con qualche altro milione di italiani e tu, tra l’altro, italiano lo sei solo per un peloFiglio di uno che fa impazzire le folle e di una che fa

impazzire solo se stessaE suo figlio

� Pino Loperfido

è la festadel papà

12 sabato 19 settembre 2009 13sabato 19 settembre 2009

Protagonista Anteo Zamboni,15 anni,di famiglia anarchica

Bologna1926:attentatoal Duce

da Irene Dalser (1880 – Venezia, 11 dicembre1937) fu, secondo la ricostruzione del giorna-

lista trentino Marco Zeni e come descritto nellememorie di Rachele Mussolini, una delle com-pagne di Benito Mussolini, e secondo più stori-ci ne fu anche la moglie.Nata a Sopramonte, facente allora parte dell’Im-pero Austroungarico, e figlia del sindaco del pae-se, si diplomò a Parigi in medicina estetica perpoi trasferirsi a Milano ed aprire un salone dibellezza sul modello francese. A Milano ripreseuna relazione con Mussolini, che conosceva già.Secondo alcuni storici Benito Mussolini e IdaDalser avrebbero contratto un matrimonio reli-gioso, anche se di questo evento non esistono

I registrazioni nei documenti ufficiali. Dalla lororelazione nacque (l’11 novembre 1915) BenitoAlbino Mussolini, che è stato riconosciuto dalpadre (vi è un documento notarile che provaquesto riconoscimento) e ne avrebbe assunto ilcognome. Benito Mussolini pare abbia accetta-to anche notevoli somme da lei, come pure daiconiugi Sarfatti, per finanziare la sua attività po-litica. Ida Dalser avrebbe dichiarato anche diaver partecipato ad incontri con agenti francesiche promettevano finanziamenti al giornale diMussolini (Il Popolo d’Italia) in cambio del suoimpegno a favore dell’entrata in guerra dell’Ita-lia. Allo scoppio della guerra Benito Mussolinisi arruolò. Contestualmente si unì con un’altra

Ogni giorno

unedì 1 novem-bre 1926, nel pic-colo borgo trenti-

no di Sopramonte giun-ge la notizia dell’atten-tato a Benito Mussolinia Bologna, da parte di Anteo Zamboni (a sini-stra, in una foto d’infan-zia), quindicenne di fa-miglia anarchica. L’un-dicenne Albino, nipotedel vecchio borgoma-stro Albino Dalser, ap-prende la novità agita-to da sentimenti contra-stanti.

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Nella foto a destraIda Dalser con la sorellaAdelina; a sinistraBenito Mussolini.Sopra, a destra,GiovannaMezzogiorno (Ida) e Filippo Timi (il giovane Benito)nel film «Vincere»;in alto, Ida Dalsercon il figlioBenito Albino.I disegni sonodi Giordano Pacenza

donna, Rachele Guidi, con un regolare matrimo-nio civile avvenuto il 17 dicembre 1915 duran-te una degenza all’ospedale di Treviglio. Dopola Marcia su Roma, Mussolini, ormai arrivato alpotere, sembra abbia cercato di cancellare letracce della sua relazione con Ida Dalser, cheperò non si sarebbe rassegnata al ruolo di ex-amante e pretendeva di essere riconosciuta co-me prima moglie del duce. Ida Dalser subì unlungo periodo di stretto controllo da parte dellapolizia locale, e venne internata nel manicomiodi Pergine Valsugana e poi di S. Clemente a Ve-nezia, dove morì nel 1937. Il figlio Benito Albi-no venne internato nel manicomio di MilanoMombello dove morì il 26 agosto 1942.

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l paese senza uomini era comeuna stalla senza mucche.Faceva uno strano effettogirare per le stradinepolverose e incontrare solo

donne, bambini e persone anziane.Delfo e gli altri monelli quasi non loricordavano più cosa significasse laparola «papà». Rammentavano amalapena che molti mesi primaspesso se l’erano sentita uscire dibocca: a volte sussurrata, a volteurlata, tra i campi, altre voltemasticata con rabbia erisentimento. Ora facevano fatica atrovare delle sembianze checorrispondessero al curiosotermine bisillabico. I volti di queigenitori partiti per il frontestraniero erano oramai sfocati eindefiniti, le loro voci una flebileeco di cui restavano solo brandellinella memoria.C’era un grande fermento nellapiazza. Sulla strada che portava alcapoluogo s’era radunata la folla.Le donne, con l’eterna ariaindaffarata, ci tenevano a farcredere di essere lì solo per caso.Un errore di percorso le avevacostrette a sostare sulla via. Ivecchi, invece, erano sul posto dadiverse ore. Fin da quando eragiunta al loro debole udito lanotizia che da lì sarebbe passato ilTraditore. Quella che in principioera parsa come poco più di unachiacchiera, con il passare deiminuti aveva assunto consistenza,tramutandosi in ipotesi, prima, equindi in certezza, quandoqualcuno aveva origliato alla portadel comando militare, stanziatoproprio in paese.Ora tutti volevano toccare con gliocchi ciò che stava accadendo.Avevano l’impellente necessità dipresenziare di persona all’eventoper poter finalmente prestar fedead esso. Vi sono, infatti, situazioni acui la nostra mente talvolta sirifiuta di credere. Se pure avessimole prove e le garanzie necessarieper poterlo fare, senza un confortovisivo ci resterebbe nell’anima unbriciolo di scetticismo cheimpedirebbe la piena adesione allaverità.Pare che il Traditore fosse statopreso sul Monte Corno e nonavesse opposto la benché minimaresistenza all’arresto. Si diceva chelo avrebbero portato subito aTrento per un primo interrogatorio,quindi sarebbe stato il Parlamentoa decidere sulla sua sorte. I colleghideputati avrebbero dovutosentenziare sul destino di quellosciagurato.

Ielfo continuava asaltellare ora su unagamba, ora sull’altra.L’eccitazione generaleche aveva sfigurato il

piccolo abitato lo aveva contagiatoinesorabilmente. Non sapeva nulladegli ormoni che il suo cervellostava sintetizzando, né dellescariche di adrenalina che gligonfiavano il flusso sanguigno.L’unica cosa che il ragazzo sapevaera che si sentiva bene. Per lui, lostress dell’attesa era solamente unagioia, un parente lontano dellafelicità.La cattura di un nemico era sempreuna festa. Gliel’aveva detto la suamamma, quella mattina. Al che lui,con naturalezza, si era incaponitonella richiesta di spiegazioni inmerito a quel termine: «nemico».Niente di più semplice per lamamma, controbattere. Per unadonna che aveva prestato il suouomo all’Impero, il nemico era chiquello stesso uomo non avrebbeesitato ad ucciderlo. Pocoimportava che parlasse la stessalingua. Poco importava che fosseaddirittura un deputato, votato dalpopolo, che anziché preoccuparsi

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l’Adige l’Adige

In queste foto, Cesare Battistifra i gendarmi scortato al luogodell’esecuzione, al Castello del Buonconsiglio:è il 12 luglio 1916. Sotto,il cadavere dell’irredentista

L’IRREDENTISTA E IL RAGAZZINOCesare Battisti e Delfo, protagonisti del racconto di Pino Loperfido,visti dall’artista trentinoGiordano Pacenza

di proteggere quel popolo stesso,di tutelarne i diritti, di puntellarnela dignità, non ci aveva pensato duevolte prima di cambiare il coloredella propria divisa. Quel tizio eraun nemico del suo papà: questocontava per Delfo, e null’altro.Per questo attendeva sulla stradapolverosa, assieme a tutto il paese.Un istinto animale portava quellagente a godere del male altrui. Lifaceva stare meglio, cioè,constatare quanto gli altri stesseropeggio, a volte molto peggio di loro.Erano pronti, adesso, a urlare, alanciare cose. A domandare al reole ragioni di quella vita bastarda,come se caricare le propriedomande e frustrazioni sulle debolispalle di quel disgraziato li avrebbeimprovvisamente assolti dai doveridell’esistenza. Visto che Dio avevadeciso comunque di non farsivedere, non restava che appigliarsiai suoi segni, alle manifestazioniimperscrutabili della sua eternavolontà.Un brusio di maggiore intensitàseguì all’avvistamento, da parte deipiù attenti, di una piccola nube dipolvere, qualche centinaio di metripiù giù, verso sud. Il Traditore

stava arrivando.

a valle era austera, lunga estretta, eppureaccogliente, premurosa,perché nella sua formaallungata pareva

accompagnare i viaggiatori,consigliare la retta via versoTrento. Il fiume Adige, chescorreva sornione, aveva l’ariafurbetta di chi la sa lunga; facevacome certuni padroni di casa che,pur senza fartelo pesareoltremodo, vogliono sottolineareogni volta che in quel posto tu seisolo un ospite e come tale seitenuto a comportarti.Lo portavano giù in silenzio. Lamontagna alle spalle diventavasempre più piccola e distante. Losguardo perso nel nulla.L’espressione tesa e concentrata.Più della sua sorte, di cosa glisarebbe accaduto a questo punto,delle sorti infauste del suo disegnosovversivo, un pensiero gli ronzavanella testa. Lo attraversava ilsospetto che la gratuitàdell’amicizia non sia piùpraticabile nell’età adulta. Un veroamico lo si può riconoscere nelmomento in cui non si è in grado dispiegare perché lo sia, così come èdifficile spiegare perché si ama ladonna o l’uomo della propria vita.Esiste, cioè un punto nella vita incui l’amicizia si vincola ad unoscopo preciso: un’alleanza nellavoro, una condivisione di certiideali, la collaborazione riguardo aun progetto. È come se l’amiciziafosse un’occasione consolatoriaper l’uomo che però ha una data discadenza. Da quella data in poi, ildestino è quello di essere soli.I primi insulti gli erano arrivatilungo il sentiero. Alcuni malgari,intenti a governare il pascolo dellevacche, gli avevano lanciato controle frecce avvelenate dell’ingiuria.Tuttavia la sua sicurezza non erastata per il momento scalfita. Lacertezza di avere la verità dallapropria parte era stata più forte diqualsiasi maledizione. Si ritenevaun uomo libero. Uno che ha fatto lasua scelta di campo e condecisione ha virato, invertendo larotta della propria esistenza.Esiste negli esseri umani questaenorme capacità di autoassolversianche di fronte all’evidenzadell’errore. Il Traditore lo sapeva.Sapeva bene, insomma, che il benee il male non possono mai staredalla stessa parte. Ciononostanteaveva abbracciato la sua causa.Dolorosamente. Perché stringere asé gli ideali dell’irredentismo, dellaseparazione del Trentinodall’Impero, era stato comestringere al petto nudo uncespuglio di rovi.Rovereto, oramai lontana, era solouna macchia sospesa nel verde deirigogliosi vigneti che arredavano lavalle. I carri dei contadiniaffaccendati sfrecciavano a destrae a manca alzando tanta di quellapolvere che c’erano momenti in cuiquasi non si respirava più. Oddìo,«sfrecciavano» è solo un modo didire. Perché la strada che dallacittà del Leno si incuneava versonord, oltre ad essere larga poco piùdi un budello, era tortuosa comeun dannato serpente.

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ldeno era una pentola inebollizione. Gli anzianifecero esplodere la lororabbia al grido di«remengo», la

maledizione più grave che si possalanciare ad un proprio simile. IlTraditore era davanti a loro. Soloqualche anno prima era statograzie al loro voto se era statoeletto al Parlamento di Vienna. Il

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manichino impolverato edincatenato che a passi lentiattraversava il paese avevaraccolto la fiducia di tutti, incambio della promessa di portare iloro desideri e i loro sogni davantialla volontà imperiale. Ed invece,guardalo adesso. Con la divisa delnemico addosso. Mentre gli altrideputati – Degasperi, Tonelli,Conci e compagnia – tiravano perla giacca Francesco Giuseppe,domandando garanzie per la gentetrentina, battendo il pugno sulloscranno parlamentare peraffermare le ragioni di un popolo,lui aveva ritenuto più giusto saltareil fossato.Diceva di farlo per liberare ilTrentino dall’invasore, affinché itrentini potessero approdare allaloro legittima Patria. Eppurenessuno glielo aveva chiesto.Nessuno sentiva la necessità diuna liberazione. Tutta la libertàche avrebbe voluto regalare, con laquale desiderava riempire lestrade, i campi, le stanze di ognicasa, di ogni paese, i trentini cel’avevano già. E le urla che glivenivano rivolte contro losottolineavano una, dieci, centovolte, con una veemenza che nonpoteva lasciarlo certo indifferente,fino a fargli venire un dubbio. No,non uno qualsiasi. Ma il piùterribile e pesante che possavenire ad un uomo: quello di averesbagliato tutto. Per questoguardava alla sua discesa versoTrento, a questa sorta di tristetransumanza, con rassegnazione,con un’irragionevole quiete.Come il figliol prodigo torna a casa,con la coda tra le gambe, dopoaverne combinate di tutti i colori,

così egli rincasava dopo la bravatadi essersi giocato la vita. Tornavaal punto di partenza come unmonello che stavolta l’hacombinata grossa per davvero.Come una moneta falsa tra le manidel falsario. Come un’anima incerca di perdono si presenta alcospetto di Dio.

elfo se lo trovò davantiall’improvviso. I soldatidi scorta dovevanofirmare alcune carte eper qualche minuto

lasciarono il prigioniero in balìa dise stesso e della folla inferocita. Mafu solo il ragazzo, con un passosconsiderato, a lanciarglisi contro.Si arrestò a pochi centimetri dalsuo volto. Sentiva il lezzo delsudore. Il rancido fetore dellapaura. La barba ed i baffi sporchi,le mani incatenate, l’elmetto daitaliano lasciato sul capo come unacoreografica corona di spine.Delfo contemplò la meraviglia e loscandalo del male. Avrebbe potutocolpirlo, lanciargli un sasso, unpugno di sabbia negli occhi o soloun malvagio improperio. Tuttaviatrovò più utile porgli una domanda.Poco importava che ad essanessuna risposta sarebbe seguita.Come una preghiera. Come i milleinterrogativi che ogni giorno siconsegnano al cielo. Non serve unarisposta, perché essa è tutt’unocon la domanda. È già lì dentro.Il Traditore non lo sapeva dovefosse il papà di quel ragazzino,poteva solo immaginarlo. Ma nonera una semplice informazionelogistica quella che Delfo gli stavadomandando, bensì le ragioni ditanto dolore e di tanta sofferenza.Il motivo a causa del quale si eraritrovato a vivere proprio neglianni più brutti della storia delmondo. Il Traditore, per un attimo solo, futentato di rispondergli. Dicimentarsi nella costruzione di unareplica; inerpicarsi in uno di queiragionamenti che fino a pochi mesiprima avevano contribuito acreargli l’effimera fama diintellettuale.Uno strattone dei soldati quasi glistaccò le mani dai polsi. La follacominciava a disperdersi, a tornarealle occupazioni di ogni giorno,sazia di umiliazione. Il Traditorefece pochi passi e, prima discomparire all’orizzonte, si voltòun’ultima volta verso Delfo, cheimperterrito rimaneva con i piedipiantati sulla strada. I suoi occhierano due lumini nel buio delgiorno. Due lance nel costato delTraditore. La luce di quelle pupillegli fece male. Molto più maledell’umiliazione edell’improvvisata forca che, di lì apoco, avrebbe posto fine alla suatragica vita.

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IL RACCONTO

Pino Loperfido, dal Cermis a Fellini

I vecchi erano sul postoda diverse ore

fin da quando era giuntaal loro debole udito la notizia che da lìsarebbe passato

il Traditore

Il Traditore non lo sapevadove fosse il papà di quel ragazzino,

poteva solo immaginarloMa non era una semplice

informazione logisticaquella che Delfo

gli stava domandando,bensì le ragioni di tanto dolore

e di tanta sofferenza

� Pino Loperfido

Una monetafalsa

torna sempreindietro

Aldeno 1916

14 sabato 27 giugno 2009 15sabato 27 giugno 2009

Il deputato schierato con l’Italia

Quando Cesare Battistipassò con il «nemico»

unedì, 10 luglio 1916. Durante un’azionenella notte sul Monte Corno, nel Gruppodel Pasubio, il deputato Cesare Battisti,

passato dalla parte del nemico italiano, vienecatturato e tradotto a Trento. Durante il tragittoverso il capoluogo è coperto di insulti e di spu-ti dalla folla inferocita. Ad Aldeno, ad esempio,un gruppo di monelli lo fa oggetto di scherno edi derisione.Sopra e in alto a sinistra, due foto di quel 10 lu-glio: qui, Battisti fra i gendarmi scende dal Mon-te Corno; a sinistra l’irredentista, incatenato, inuna pausa ad Aldeno.

L

ino Loperfido ha pub-blicato «Ciò che non sipuò dire - Il racconto del

Cermis» (2001), «Caro Alci-de» (2003) e il romanzo «Te-roldego» (2005). Tra i più im-portanti successi teatrali, «Ilcuoco di Mozart» e «Viva Ro-ta… Viva Fellini». È capore-dattore del mensile «Trenti-noMese» e collabora con lepagine culturali de «l’Adige».I suoi libri sono pubblicati daCurcu & Genovese. Entro la fine del 2009 è previ-sta l’uscita del nuovo attesoromanzo, «Le meccanichedell’infelicità».Info: www.pinoloperfido.it.

PGiordano Pacenza si occupa di grafica e illustrazioneeditoriale;ha ricevuto numerosiriconoscimenti e premi in ambito nazionalee vive a VigoloVattaro

GiordanoPacenza

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icono che tutto ciò cheesiste nella vita sialimitato a quello che sene può raccontare. Comea dire che tutto il resto è

solo un accessorio, uno dei moltiscarti di produzione dell’esistenza.Ma sì, dai, tutti giochi di parole chepossono far girare la testa ad unbambino di nove anni, nonostante ibambini di giochi se ne intendanopiù di chiunque altro.Per poter raccontare una storiacome questa sei costretto asopravviverle. Descrivere lo stranosorriso che aveva la mamma, quelpomeriggio di marzo. L’ariabirichina che quasi le stavacambiando i connotati. Non era dalei. No, proprio non era da leiconcedersi espressioni faccialidiverse dalla compunzione. Lamaschera dell’angoscia indossata ilgiorno in cui sapemmo che papàera morto non permetteva grandivariazioni sul tema.Era andata che un giorno, la guerraancora in corso, si era presentatoun soldato dell’imperialregioesercito e ci aveva consegnato unapergamena. Ci stava scritto cheLorenzoni Adamo, classe ‘85, eradisperso sul fronte dei MontiCarpazi, presumibilmente decedutosotto i colpi del nemico. Certetegole sono capaci di stroncarti lacarriera di uomo. Io e la mamma,tuttavia, lì per lì, avevamo rettol’urto. Intendiamoci: pianti a nonfinire, strepiti e stridore di denti,ma in qualche giorno era finita lì.Stop alle lacrime. Ce n’eravamofatti una ragione, insomma. Lacancellazione di papà dallo stato difamiglia era stata attenuata in partedal grande quadro cheappendemmo in soggiorno, con lapergamena, con la medaglia e lafirma illeggibile dell’Imperatore.Con una strana acrobazia mentale,mi ero convinto che papà, in fondo,ci fosse ancora. Aveva solo mutatoforma corporea. Era diventato piùsottile e quadrato e noi l’avevamoappeso al muro. Quando si èbambini si è in grado di dare unagiustificazione a tutto. Perfinoall’assurdità della vita.Ciò che, al contrario, non riuscivo aspiegarmi quel pomeriggio era lafaccia della mamma. Grande la miameraviglia a vederla tanto serena.Dopo così tanto tempo. Stavaseduta al tavolo, con le mani giunte,i palmi rivolti verso il basso, come anascondere qualcosa.«Oggi si fa festa» disse con un filo divoce. Al contempo sollevò le mani,permettendomi di vedere lagiustificazione di quanto avevaappena detto. Aguzzai la vista. El’olfatto.Un pezzo di lucanica. Un pezzopiccolo. Molto piccolo. Lacaricatura di un salame che, vistaattraverso il filtro della miseria,assurgeva a feticcio della più purafelicità. Aveva ragione, la mamma.La festa poteva dunque avereinizio. Fu masticando quelle fettesottili come particole, lasciandoche il grasso animale si sciogliessein bocca, nella tempesta salivareprovocata da tanta sapidità, cheper la prima volta pensai aqualcosa che si poteva definire

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come il mio futuro. Gli anni avenire, insomma. Non mi eraancora successo di pensare ad altrimomenti della mia esistenza chenon fossero l’istante che stavovivendo. Gustando quel salame,giuravo a me stesso che avrei fattodi tutto affinché una tale delizia nonfosse mai mancata alla mia tavoladi adulto. In fondo, a parte l’esserediventati italiani, non vedevograndi sciagure all’orizzonte. Laguerra era finita, ripulite le strade,spento ogni clamore e i morti eranostati tutti sepolti. Papà compreso,forse. Potevo permettermi quel chei grandi definivano «ottimismo».Animato dalla piacevole sorpresa diessere tra i primi a poterimmaginare una vita migliore diquella dei propri genitori.

a prima cosa che pensai,sentendo che qualcunostava battendo alla porta,fu che la lucanica eraoramai in salvo nel mio

pancino. Lì dentro, il tesorettogastronomico era oramai al sicuro.

L

l’Adige l’Adige

Nella foto a sinistra, la vittoria vista dal celebre disegnatore Achille Beltrame per la copertina della «Domenica del Corriere»; sotto, un Kaiserjäger di vedetta in montagna

I tre disegni di queste pagine portano la firma di Giordano Pacenza; in alto a sinistra,Trento liberata: è il 3 novembre1918 e la gente affolla via Belenzani

Fu quindi con grande tranquillitàche andai ad aprire. Tolsi il ferro eabbassai la maniglia, attraversatoperò dal sottile brivido di curiositàche si può provare quandoqualcuno domanda di poter entrarein casa tua.«Chiedi chi è!» sentii ordinare dallamamma, ma ormai avevo giàspalancato l’uscio sulla faccia dafesso dello Svizzero.Poteva avere una trentina d’anni,ma la sua pelle già tutta raggrinzita,i denti marci e l’andaturaclaudicante lo annoveravano didiritto nelle schiere poco angelichedella terza età. Dire che fosse loscemo del villaggio sarebbealquanto riduttivo, perché loSvizzero era «lo scemo» pereccellenza. La sua fama dicantastorie, ubriacone emolestatore si era allargata benpresto anche ai paesi vicini,regalandogli una poco invidiabilenotorietà.Cosa ci facesse ora, davanti a casamia, era un mistero che andavasvelato al più presto. Così non mi

curai troppo della cortesia e dellebuone maniere domandandoglicosa diavolo andasse cercando.«Avete qualcosa da mangiare?»domandò tutto d’un fiato, intedesco.Io mi voltai verso la mamma. Ciscambiammo un sorriso carico dicomplicità pensando alla deliziache avevamo appena mandato giù.Gli risposi che no, non avevamonemmeno una briciola di paneraffermo. Niente di niente.Insomma, non stavamo messi tantomeglio di lui.Ma lui non mollò la presa. Mipropose una sorta di scambio. Segli avessi dato qualcosa da metteresotto i denti, lui mi avrebbeconfidato un segreto che potevarendermi felice. Io e la mammaridemmo di gusto. Ma qualefelicità… Era o non era lo Svizzeroin persona l’uomo che ci stavaparlando? Che ne poteva sapere luidella felicità? Gli feci segno che no,un patto del genere non miinteressava nemmeno un po’. Lesue erano le promesse di unpovero disgraziato sconvolto dallafame. Eppure, senza volerlo, scorsinei suoi occhi una luce benevola.Un lampo di sincerità che mi gonfiòil cuore di mille piccoli germogli disperanza, ognuno pronto asbocciare da un momento all’altro.L’idiota è un rivoluzionario: le sueidee sono le sue azioni. Aosservarlo si resta increduli.

Lo Svizzero aveva delle percezioniche andavano oltre noi. Era comese il suo comportamento facesseintuire, in quel momento, a me e amia madre, l’esperienza di unmondo assoluto, senza limiti. Lanostra tendenza a censurarlo, atoglierlo dal novero degli uomini, ciaveva impedito fino a quelmomento di cogliere lacompassione presente nei suoigesti e nelle sue parole; laconsapevolezza della grandearmonia dell’esistenza.Per tutti questi motivi decisi didargli credito. Sfidando gliimproperi della mamma, spalancaila credenza e afferrai un pezzo dipane ormai raffermo. Lo Svizzero siaccese come una lampada. Feceper strapparmi il pane, maabilmente me lo misi dietro laschiena. Prima doveva dirmi tutto.Svelarmi ogni dettaglio di questaricetta della felicità.«Ho visto l’Adamo» disse connoncuranza. Con la stessarilassatezza con cui si può dire unadelle tante banalità che ci esconodi bocca durante una giornata. Lamamma scattò in piedi. Ma il suonon era un moto di speranza, bensìdi rabbia. Sentir parlare del maritoin certi termini equivaleva adessere insultata. Un’offesa pesante.Riaccendere una speranza oramaisopita aveva la stessa gravità dellospegnerla definitivamente.Lo Svizzero mentiva. Ne eravamo

convinti. C’era tanto di certificatodi morte là davanti, appeso almuro, con la bella firmadell’Imperatore. Lorenzoni Adamo,classe ’88, era morto. Cosa c’era dipiù ineluttabile della morte?Così lo Svizzero si mise a spiegare.Come ogni giorno stava scendendosulla strada che porta a Trento,quando si era affannato adinseguire un coniglio che, chissàcome, gli si era parato davanti. Sulviottolo che sale verso lamontagna, lo Svizzero aveva scortoqualcuno dietro alcuni cespugli. Siera avvicinato e lì, non visto, avevariconosciuto l’Adamo. Bianco involto, vestito di stracci, brandellidi una divisa da Kaiserjäger. Loaveva chiamato, ma quello non siera nemmeno voltato, continuandoa vagare senza direzione, come unfantasma. Così, aveva pensato dimettere a frutto la notizia,barattandola con un tozzo di pane.È proprio vero che ad osservare unidiota si resta increduli.

estammo così aguardarci, madre e figlio,incapaci di confessarcil’un l’altra la tempestache ci stava

sconvolgendo nell’anima. Anzi,sforzandoci di restare indifferentialle parole dello Svizzero, trovandoriparo dietro l’armatura di uncinismo che davvero poco aveva diumano.Ci ingegnammo a incanalare lenostre vite nell’usuale corsoquotidiano. Tornammo, in pratica,ad aspirare a nulla di più che adun’onesta normalità. Qualsiasicosa che ci facesse munificamentedimenticare la nostra vera identitàe i nostri sogni, e ci facesse sololavorare per produrre e riprodurree, quindi, per sfamarci. La mammaavrebbe ripreso i suoi lavori diricamo e cucito per conto dellesignore del paese, io avrei studiatoun poco di geografia e dimatematica. Poi ci saremmo infilatinel letto, molto presto come alsolito, abbandonandoci al teneroabbraccio dei sogni. Il mattinodopo già non avremmo ricordatopiù nulla di quanto avvenuto. La

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vita è un fiume facile da navigare,basta avere una barca sicura econoscere il segreto per affidarsialla corrente.Allo stesso tempo, ripensando alleparole dello Svizzero, non era cosìfacile rinunciare alla vagapromessa di una gioia, sebbene sitrattasse di una promessachiaramente falsa ed infondata.Passarono diversi minuti. La serascendeva dolcemente sulla valle,regalando riflessi coreografici adogni cosa. I rintocchi del campanileecheggiavano, perdendosi nelsilenzio della montagna.Un nuovo rumore alla porta misottrasse ai pensieri in cui eroimmerso. Abbandonai il quadernoa quadretti per farmi nuovamenteciambellano di casa. La mamma,invece, non si era mossa di unmillimetro. «Di nuovo quelloscemo» aveva detto. Lo Svizzeroera tornato sui suoi passi perraccontarci qualche nuovapanzana e aveva pensato discroccarci altre ammuffiteleccornie. Attraverso la sottilebarriera legnosa lo esortai adandarsene. Ci aveva sconvoltoabbastanza con le sue stupidaggini.Ma per tutta risposta giunsero altricolpi. Questa volta non un elegantee sincopato toc-toc, bensì unosciancato sbattere, scalciare,strofinarsi pesantemente sullaporta.«Chiedi chi è!» sentii ordinarenuovamente dalla mamma. Questavolta seguii la suaraccomandazione e prima di aprirefeci come mi aveva detto. Ma nongiunse nessuna risposta.Allora aprii, pronto a mandare aquel paese la faccia da fesso delloSvizzero. Era la sua fisionomia cheil mio cervello, attraverso il nervoottico, stava prospettando al mioorgano visivo. Era come se lovedessi già.Ma la figura sulla soglia noncorrispondeva a quanto previsto.Gli occhi erano più incavati, leguance erano due palloni sgonfi.Addosso portava una giaccastrappata in più punti e pantalonirappezzati più volte, alla bell’emeglio. Quello che più miimpressionò fu il colore del volto.Mi ricordò i fogli del mio quaderno.Non doveva esserci più alcunflusso sanguigno sotto quella pelleaccartocciata. Lorenzoni Adamo,classe ’85, doveva averli lasciatitutti lassù, sui Monti Carpazi, i suoiglobuli rossi. Conficcati nella terrafredda delle trincee, assieme allamaschera della morte che si erarifiutato di indossare.Nel nome di ognuno è nascosto undestino. Adamo – mio padre – era ilprimo uomo a mettere piede in unmondo che aveva cambiatobandiera. Adesso la nostra tragedianon era più quella di aver perso unpadre ed un marito, ma quella piùumiliante di aver perso la guerra.Papà non la smetteva di osservarcistranito, come se si aspettasse danoi chissà quale spiegazione. Forseriguardo al fatto di essere ancoravivo. O perché diavolo davamol’impressione di non gradirenemmeno un po’ quell’insperatoritorno. Eravamo italiani. Questaera l’unica spiegazione che potevaesigere da noi. Presto o tardiavremmo dovuto dargliela.

IL RACCONTO

Sabato prossimo, Mussolini e De Gasperi

Quello che m’impressionò fu il colore del volto

Mi ricordò i fogli del mio quaderno

Non doveva esserci più alcun flusso sanguigno

sotto quella pelleLorenzoni Adamo, classe ’85,

doveva averli lasciati tuttilassù, sui Monti Carpazi,

i suoi globuli rossi

� Pino Loperfido

ma ormaieravamoitaliani

La guerra è finita

12 sabato 4 luglio 2009 13sabato 4 luglio 2009

1914-1918: IL PRIMO CONFLITTO MONDIALE

I soldati trentini sul fronte russodivisi fra il Regno e l’Imperatore

n queste pagine il secondo raccontodi Pino Loperfido; racconti che ci ac-compagneranno lungo tutta l’estate,

ogni sabato. Ecco i titoli dei prossimi euna succinta anticipazione dell’autore.Non c’è peggior sordo di chi non ci sente: igrandi ideali politici di un padre riman-gono inascoltati.La solitudine di chi guarda le stelle: chi sinasconde al secondo piano della malga?Le indagini di un piccolo detective.L’imperdonabile colpa di essere felici: lamorte è sempre un argomento difficileda proporre al proprio fratello maggiore.Il prezzo salato di chi viene al mondo: leacrobazie mentali di un soldato negliistanti che precedono la fucilazione delcondannato.Il destino aveva una voce di bimba: la fede

I nel trascendente a volte fa brutti scher-zi. E dove è finita quella bimba dai riccio-li biondi?Il bambino che guardava gli alberi volare:il treno, esperienza magica per un bim-bo. Anche se è appena stato sfollato.Giusto dietro la curva del cuore: seguire ilproprio cuore o i propri ideali? Per i duefidanzatini, persi nella notte bianca, è dif-ficile decidere.Anche vinto il nemico è qualcuno: sbircian-do dalla finestra l’arrivo del terrorista.La scoperta della sua inaspettata umani-tà.

Gli ultimi due racconti, ancora avvolti dalmistero, s’intitoleranno «La volta che lebombe suonarono Bach» e «Ogni giorno èla festa del papà».

Giordano Pacenza(nella foto a sinistra)si occupa di graficae illustrazioneeditoriale;ha ricevuto numerosiriconoscimentie premiin ambitonazionalee vive a VigoloVattaro

GiordanoPacenza

Papà è tornato

urono circa 55mila i soldati trentini che combatterono sotto le in-segne dell’Impero austroungarico sul fronte russo della Galizia edei Monti Carpazi (nella foto), durante la prima fase della Grande

Guerra. Circa diecimila vi troveranno la morte.In seguito alla dichiarazione di guerra da parte dell’Italia, dispersi nel-la vastità dell’Impero zarista, alcuni fecero una scelta irredentistica e,raccolti nel campo di Kirsanov, nell’ottobre 1916 furono – in tre scaglio-ni successivi – avviati verso l’Italia, dove giunsero attraverso il Balti-co, l’Inghilterra, la Francia. Altri, bloccati in Siberia, deviarono versola Manciuria, da Pechino, attraverso il Pacifico, e da San Francisco giun-sero a Genova. Un’altra parte si arruolò nei cosiddetti Battaglioni Ne-ri, entrando a far parte del Corpo di Spedizione Italiano in Medio Orien-te, ritornando a casa quando la guerra era già da tempo finita, in unTrentino oramai di fatto italiano.

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l mio vecchio spesso fa le cosesolo per dare un dispiacere aqualcun altro. Alla mamma adesempio. Per questo quellavolta mi aveva trascinato in

birreria. Giusto per fare un dispettoa quell’altra. E magari farle venireun colpo. Non scherzo mica.L’aveva proprio detto uscendo dicasa e sbattendo la porta: «Che levenga un colpo». L’avevo sentitocon queste mie orecchie. Quant’èvero che ho tredici anni, quasiquattordici.E la birreria – dovete credermi sullaparola – non è un gran posto per unragazzino. C’è un sacco di fumo, lebestemmie volano ad altezzad’orecchie e qualche volta puòcapitarti di incappare in qualcherissa di quelle giuste. Sebbenequella frequentata dal mio vecchionon sia esattamente «quel» generedi locale dove gli uomini vanno afar passare il tempo e a imbottirsidi birre medie. A differenza di certebettole, qui ci viene solo chi è ingrado di dare un senso a quello chedice. E vi dirò di più. Le discussionisono all’ordine del giorno. Certo,anche a casa mia, ma non è a «quel»genere di discussioni che mi storiferendo. Qui si parla di come va ilmondo, si leggono i giornali, siinvitano certi capoccioni e dire laloro: proprio come a teatro.Dovreste sentirli i paroloni che sisparano addosso, i grandi idealiche si fanno e poi si disfannoall’ombra delle caraffe piene dischiuma. I salari, gli orari di lavoro,i diritti dei contadini. Robe che sela mamma dovesse un giornotrovarsi a mettere la testa quidentro direbbe una delle sue frasipreferite: «Questa è proprio unagabbia di matti».

ur essendo il nostrotavolo abbastanza indisparte, lo vedevamobene il tizio che stavaparlando: un certo

Mussolini. Testa rotonda, frontemolto alta, sguardo da duro, unforte accento italiano. Se devo dirlatutta, più che parlare sbraitava elanciava improperi all’indirizzo delsuo avversario che ancora non siera presentato. Già, avete capitobene. Ho detto proprio avversario.Perché, come mi ha spiegato il miovecchio, è così che funzionano gliincontri qua dentro. Due uomini

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Iespongono le loro tesi, ovviamentecontrapposte, e combattono unabattaglia a colpi di parole. Se adesempio, il primo sostiene che laterra è tonda, l’altro devedimostrare che una simile tesi èsbagliata, provando a tutti ipresenti come al contrario il nostropianeta sia solo una specie dilenzuolo steso nello spazio. Sichiama «contraddittorio».Mentre Mussolini continuava amandargliele a dire a preti, monacie compagnia bella, mio padreassentiva con un impercettibilemovimento del capo. Ad ognibattuta dell’oratore, si voltavaverso di me e buttava lì un «giusto»,«è vero», «parole sante» e via diquesta solfa. Non per dire, ma a medi quanto guadagnava un mezzadroo a quanto ammontasse l’utile delproprietario di una fabbrica nonpoteva fregarmene di meno. Così

l’Adige l’Adige

A sinistra,Mussolini nel 1909salutato dai compagnisocialistial momentodi lasciare il Trentino;sopra,De Gaspericon Sturzo e Cavazzoni

accolsi con sollievo l’arrivo alnostro tavolo di un giovane, che misi sedette accanto senza direnemmeno una parola. Un cafonefatto e finito. Maleducato proprio,considerato che non si degnònemmeno di rispondere al salutodel mio vecchio, che comunque, daparte sua, non parve dare moltaimportanza a certi convenevoli.Anzi, dimostrò di apprezzare moltola presenza del nuovo arrivato, alpunto da eleggerlo sul campointerlocutore ufficiale al posto delsottoscritto. Beh, volete saperecosa dissi tra me? Contenti loro…

ridava talmente, ’stoMussolini, che a un certopunto m’era pure venutoil dubbio che fosse unaspecie di cantante o

qualcosa del genere. E l’incontro acui ero stato portato con la forza

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altro non fosse che un concerto.Così, tanto per farmi un’ideaprecisa, cercai di andare dietro aquello che diceva, ma ci capiipoco. Spesso mi succede questacosa con gli adulti: quella di nonriuscire a capire un’acca di quelloche dicono.Il mio vecchio, invece, assorbiva leparole di Mussolini come unaspugna. Poi, a intervalli regolari sivoltava verso il nostro silenziosocompagno di tavolo, e faceva unaspecie di riassunto di ciò che avevaappena sentito. A sottolineare ipassaggi più apprezzati, provava ametterci un po’ di farina delproprio sacco linguistico; beh, ilrisultato non era proprio deimigliori. Poi magari, si accorgeva didire assurdità e subito si affrettavaa metterci una pezza. Ma comedice sempre la mamma: «La pezza èpeggio del buco».

Quell’altro, con lo sguardo spento,il cappello calato sugli occhi,annuiva senza espressione. Ilminimo indispensabile per darci lacertezza di essere ancora vivo. Nonera chiaro quanto apprezzasse iriassuntini del mio vecchio. Per lomeno non parevano disturbarlo.Era già qualcosa.«Mussolini ha ragione. Noilavoratori siamo sfruttati comebestie. I padroni si ingrassano sullanostra pelle. Era ora che qualcunole dicesse queste cose. A noisocialisti tocca rimboccarci lemaniche e darci da fare per ilnostro avvenire. Troppo comodoper i cattolici demandare tutto alCreatore. Stanno sempre alamentarsi e ad aspettare che lamanna giunga loro direttamentedal cielo».Concluso il comiziuolo, padre efiglio ci voltammo verso lo

sconosciuto, ansiosi di scoprire seci avrebbe finalmente fatto sentireil suono della sua voce. Sperai chetemi tanto scottanti glisciogliessero la lingua; non tantoperché me ne fregasse qualcosa,quanto perché il tizio cominciavaad inquietarmi. Quegli occhisgranati, la smorfia appenapercettibile che gli teneva sollevatala parte sinistra della bocca…Voglio dire: non è normalecomportarsi così. Ma ahimè,nemmeno la giustizia sociale loinvogliò a rivolgerci la parola.

nche le donne.Che la finiscano dirompere unabuona volta. Cisarà un motivo se

il padreterno ha fatto noi maschipiù intelligenti e forti. Sì, beh,padreterno per modo di dire,

perché non ci credo mica io, sa?Non me la fanno i preti con tutte lestorielle che raccontano in chiesa.E insomma, anche mia moglie,dovrebbe finirla una volta per tuttedi avanzare certe pretese. Non sose lei è sposato, ma io posso direcon certezza che in casa è il maritoche deve prendere le redini. Devefarsi rispettare. Soprattutto se ha acuore i destini dell’umanità e deilavoratori. Come Mussolini,insomma. Non so se mi sonospiegato».Il tizio sorseggiava la sua birra etaceva. Abbassavaimpercettibilmente il capo inquello che assomigliava moltovagamente a un cenno d’assenso.Ma non diede al mio vecchioalcuna soddisfazione. Dal cantosuo, papà cominciava ad averneabbastanza di una taleintransigenza. Iniziò a sospettarecose strane a riguardo del suointerlocutore: che fosse uncattolico infiltrato, un poliziottosotto mentite spoglie, una spiaecclesiastica. Ma soprattuttosoffriva della mancanza di unriscontro, di un contraddittorio, diqualcuno che commentando le sueparole certificasse la sua dignità.Strani pensieri allora mibalenarono in testa. Pensai aldiverso peso che possono avere leparole a seconda che sianocondivise o meno. E poi mi spinsipiù in là, a riflettere sul senso chepuò avere la vita delle personequando non c’è nessun altro ariscontrarla, a fare da sponda, arispondere a domande e necessità.Quanto inutile poteva essere unessere umano in assenza di unproprio simile. Un po’ come unospecchio che nel momento in cuinon trova più nessuno da rifletterediviene l’oggetto più inutile diquesta terra.«Quanto è difficile» riprese il miovecchio «e lei sarà d’accordo conme, affrontare i problemi di tutti igiorni senza la comodaconsolazione della fede. La nostrascelta di vivere senza credere innulla merita rispetto, perchécoraggiosa, anzitutto. Preti e devotidovrebbero levarsi il cappellodavanti ad un ateo, complimentarsicon lui. Non crede?».Puntammo nuovamente gli occhiaddosso allo sconosciuto, che sistropicciò un poco gli occhi e poici guardò con sorpresa, come sesolo in quel momento siaccorgesse della nostra presenza.Abbozzò un mezzo sorriso.Il mio vecchio mi diede di gomito emi investì con uno sguardointerrogativo. Una luce nei suoiocchi mi svelava tutta la

frustrazione dell’inascoltato. Peruna volta che tirava fuori buoniargomenti e riusciva ad esporlianche in una forma discretamentecorretta… Insomma, la delusionecominciò a pervaderlo come unapioggia che bagnava solo lui, làdentro.Attorno a noi, infatti, l’entusiasmoera generale. Mussolini avevaumiliato il rappresentante deicattolici, un certo De Gasperi,sommergendolo di improperi,costringendolo a filare via con lascusa che rischiava di perdere iltreno. Nella birreria in cui si stavacelebrando il trionfo del socialismosi consumava il piccolo drammadel mio vecchio, troppo timido perplatee con più di due spettatori,sfrontato e comiziale in faccia afaccia sufficientemente defilati.Insomma, primattore nel deserto ecomparsa nel via vai.

insipienza del nostrodirimpettaio eradivenuta oramaiintollerabile. Quelloche il mio vecchio si

preparava a sferrare adesso avevatutta l’aria di essere l’ultimoassalto. Il tentativo estremo discardinare il silenzio diquell’incosciente che non sirendeva minimamente conto diavere tra le mani la dignità di unpadre di famiglia. Era tempo diassaltare la trincea.«L’operaio diviene tanto più poveroquanto maggiore è la ricchezza cheegli produce. È questa la fregatura.L’operaio così si sente un uomosolo nelle sue funzioni animali –mangiare, bere, procreare – mentresi sente un animale nel lavoro, cioèin quella che dovrebbe essereun’attività tipicamente umana. Laproprietà privata non fa altroche…».«Ecco dove ti eri cacciato dunque.Sono due ore che ti cerco!», unanziano signore interruppebruscamente la sparata finale delmio vecchio, prendendo losconosciuto per le spalle ecostringendolo ad alzarsi. «Te l’hodetto mille volte di non allontanartisenza avvertire…».Il nuovo arrivato ci osservò un po’stranito. È comprensibile. Lacuriosità doveva averci deformato ilineamenti. Dovevamo apparirglicome due esseri affamati dispiegazioni. È per questo motivoche non ci fece attenderenemmeno un secondo.«Chiedo scusa se vi haimportunati» disse il vecchio. Poi,senza farsi vedere dal figliopicchiettò l’indice della manodestra sull’orecchio. Un gestoinequivocabile che ridussel’orgoglio del mio vecchio a unmucchio di macerie.Il sordomuto e suo padre uscironodalla birreria un attimo prima cheMussolini concludesse il suoconcerto. La birreria si scrollò didosso ogni responsabilità sociale eriprese le consuete attività ludichee di intrattenimento.Papà era distrutto. Pareva l’unicoreduce di una guerra invisibile,avvolto in un silenzio spaventoso.Pensai di dover fare qualcosa pertirarlo su, per fargli capire che infondo ciò che gli era accaduto erasolo frutto del caso, non avevasignificati simbolici. Mi animai dibuona volontà e, con uno sforzo,cercai di acchiappare la scia delleparole dette a quel tavolo.«Papà…».«Che diavolo vuoi?».«Cos’è che fa la proprietà privata?».Il mio vecchio mi guardò afflitto.Pochi secondi che duraronoun’eternità.«Cammina, va là, che la mamma ciaspetta». sospirò, alla fine,regalandomi un insperato sorriso.

’L

IL RACCONTO

Sabato prossimo, Malga Zonta 1944

Dovreste sentirli i paroloniche si sparano addosso,

i grandi ideali che si fanno

e poi si disfanno all’ombra delle caraffe

piene di schiumaI salari, gli orari di lavoro,

i diritti dei contadini...

� Pino Loperfido

peggior sordodi chinon ci sente

Duello in birreria

12 sabato 11 luglio 2009 13sabato 11 luglio 2009

Merano,domenica 7 marzo 1909

MussolinicontroDe Gasperi

n queste pagine il terzo racconto diPino Loperfido; racconti che ci ac-compagneranno lungo tutta l’esta-

te, ogni sabato. Ecco i titoli dei prossi-mi e una succinta anticipazione del-l’autore.La solitudine di chi guarda le stelle: chisi nasconde al secondo piano della mal-ga? Le indagini di un piccolo detective.L’imperdonabile colpa di essere felici: lamorte è sempre un argomento diffici-le da proporre al proprio fratello mag-giore.Il prezzo salato di chi viene al mondo: leacrobazie mentali di un soldato negliistanti che precedono la fucilazione delcondannato.Il destino aveva una voce di bimba: la fe-de nel trascendente a volte fa brutti

I scherzi. E dove è finita quella bimbadai riccioli biondi?Il bambino che guardava gli alberivolare: il treno, esperienza magica perun bimbo. Anche se è appena stato sfol-lato.Giusto dietro la curva del cuore: segui-re il proprio cuore o i propri ideali? Peri due fidanzatini, persi nella notte bian-ca, è difficile decidere.Anche vinto il nemico è qualcuno: sbir-ciando dalla finestra l’arrivo del terro-rista. La scoperta della sua inaspetta-ta umanità.

Gli ultimi due racconti, ancora avvoltidal mistero, s’intitoleranno «La volta chele bombe suonarono Bach» e «Ogni gior-no è la festa del papà».

ino Loperfidoha pubblicato«Ciò che non

si può dire - Il racconto delCermis» (2001),«Caro Alcide»(2003) e ilromanzo«Teroldego»(2005). Entro lafine di quest’annouscirà il nuovoatteso romanzointitolato «Lemeccanichedell’infelicità»

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Pino Loperfidoe le «meccaniche»

iordanoPacenza,37 anni,

ha studiato a Trento e Firenzee si occupa di grafica e illustrazioneeditoriale;ha ricevutonumerosiriconoscimenti e premi in ambitonazionale e vive a Vigolo Vattaro

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Giordano Pacenzagrafico in carriera

Non c’è

omenica 7 mar-zo 1909. Allabirreria Corona

di Merano, gremita dioperai socialisti, siscontrano in contrad-dittorio Benito Musso-lini, della Camera delLavoro di Trento (pa-gina a fianco, in alto),e Alcide De Gasperi, di-rettore del giornale «IlTrentino» (a destra).

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e stelle erano ancora tuttelì. Come ogni notte, alzaigli occhi al cielo e compiirapidi calcoli, aiutandomicon le braccia, come se

davvero potessi avere la certezzache gli astri luccicanti fossero glistessi della notte prima. «Semprecol naso per aria, tu», mi rimbrottòil nonno. È vero, c’era qualcosanella volta luminescente che miattirava. Non era solo lo spettacolocoreografico ad affascinarmi, o ildesiderio di scoprirci il volto dellamia mamma, ma la convinzione chele stelle avessero qualcosa diimportante da comunicarmi.Qualcosa che aveva a che fare conil mio futuro. E quando si hannonove anni, si sa, di futuro ce n’è inabbondanza là davanti.L’odore di sterco e di paglia miaccolse con l’usuale decisione.Dalle stelle alle stalle il passo erabreve nelle giornate di unapprendista malgaro. Anche se eracurioso chiamarle giornate, quandocominciavano alle quattro delmattino.Presi il mio sgabello a una gamba emi posizionai davanti alla primavacca. Prima di tutto si cominciavacon il pulire la mammella. Il nonnodiceva che bisogna farlo bene e poiasciugare anche meglio, con deipanni molto puliti. Una volta avevosaltato il passaggio e lui si eraarrabbiato come una bestia. Eradiventato talmente rosso chetemetti potesse scoppiare da unmomento all’altro. La mungituranon era un gioco. Era un lavoroserio, da uomini veri. L’operazioneandava fatta in breve tempo, seisette minuti. Otto al massimo.Durante il tempo della mungituranel locale non dovevano verificarsirumori, o cambiamenti repentini ditemperatura, l’animale dovevaessere tranquillo, non subiremaltrattamenti, altrimenti chiudevai rubinetti e addio latte.Nessuno parlava. Solo il rumore deisecchi e del latte che vi venivaversato riecheggiava tra le paretidella stalla. Come sempre faceva ungran caldo là dentro. Il miracoloche avevo tra le mani non riuscivaquasi mai a contrastare lasonnolenza che tendeva ariportarmi verso il mondo deisogni. Ogni tanto la testa mi cadevain avanti. Sbattevo contro il corpodell’animale e venivo destato

Limmediatamente dai suoi rimbrotti.

vuotai il mio bottinoliquido nel secchio e miaccinsi a mungere un’altravacca, quando il nonno mimandò a prendere una

certa caldera rimasta di fuori. Ilpassaggio dalla calura della stalla alfreddo notturno mi sferzò. Lanciaiun’occhiata alla valle là sotto, alpaese e ai prati tutt’attorno. Tuttotaceva. La gran pace gonfiava ilcuore di una sensazione simile allasperanza. Era difficile credere che apoca distanza da lì, c’era gente cheancora si sparava addosso egiocava alla guerra. L’abbracciodella natura aveva davvero lapossenza e la totalità dell’abbracciomaterno, lo stesso potere di fartidimenticare tutto il resto, di ridurrela paura al rango di sciocchezza.Afferrai la caldera, ma la riposi unattimo dopo. In cucina dovevaessere avanzata un po’ di polentadalla sera prima. Non mi sarebbedispiaciuto mandarne giù unboccone. Così, tenendo d’occhiol’ingresso della stalla dalla finestra,lasciandomi guidare dal languoredella fame, mi sedetti e tirai il fiato,addentando l’informe agglomeratogiallo. «Un minuto» giurai a mestesso. Il nonno non si sarebbeaccorto di nulla.A me il sapore della polentarafferma ricordava sempre lamamma. Se ad ogni ricordo ci leghiun odore o un sapore è più difficileche possa improvvisamentesvanire. Il nonno, ad esempio, chesi scorda un sacco di cose, non lavoleva mica capire questa cosa qui.Ogni volta che provavo aspiegargliela lui mi urlava che chinasce malgaro non muore filosofo.

na ciotola che cade sulpavimento, unoscarpone, un colpo ditosse. Due o tre furono leipotesi che lì per lì

formulai per dare una spiegazioneal rumore sordo che quasi mi avevafatto andare di traverso l’ultimoboccone. Mi rizzai in piedi e salii lescale. Erano oramai alcuni giorniche mi sembrava di avvertire dellestrane presenze lassù. Il nonno e glialtri malgari parevano non sentirenulla. Mi avevano dato più volte delvisionario, prospettando punizioniindicibili se solo avessi continuato

U

S

l’Adige l’Adige

a menarla con quella storia.Ma la mia curiosità era più forte diogni possibile sua conseguenza. Mimisi davanti alle assi della porta erimasi in attesa. Ho nove anni, èvero, ma non sono certo un cretino.L’avevo capito che lì si nascondevaqualcuno. Solo non riuscivo acapire le ragioni di tanta reticenzada parte dei malgari. Le ragioni deigrandi poggiano su codici che noibambini possiamo solo intuire.L’urlo sguaiato del nonno perforò ilcristallo del silenzio. Mi precipitaigiù per le scale, afferrando al volola caldera, e mi presentai davanti alui. Una delle fortune di avere unnonno come padre era che i suoiriflessi sono estremamente lenti.Così quando provava a darmi uncalcio ci metteva talmente tantoche io avevo tutto il tempo discansarmi e magari fargli anche unosberleffo. Mi accusò di avermangiato, ma io negai. È la regolaprincipe di noi bambini: negare,negare, negare. Lui infilò una seriedi improperi che si sciolsero in unmezzo sorriso finale. Avevo vinto.Mi passai una mano sulla bocca emi accorsi di avere un pezzetto dipolenta sulla guancia. Ripresi il miosgabello e riattaccai a massaggiaremammelle e a spillare latte, con ilpensiero fisso a quel piano di soprae ai suoi misteriosi abitatori.

uando al mattino misvegliavano per lamungitura, facevosempre molta fatica alasciare il mondo dei

sogni. Era una specie di trauma.Come se qualcuno, ogni volta, miriempisse di botte senza nemmenotoccarmi.«Sempre col naso per aria, tu», mirimbrottò il nonno.Lo spettacolo della volta celesteripagava ampiamente dello sforzodella levataccia. Tuttavia quelmattino percepii un insanomalessere. C’è, infatti, in ogniforma del piacere un retrogustosgradevole, una prerogativa delmale che mina in maniera invisibilequel benessere. Una briciola didisagio che ti impedisce di goderepienamente di ciò che hai davantiagli occhi, sotto ai denti o tra lemani.Quella notte, perdendomi tra le

Qcostellazioni e le galassie lontane,avvertivo uno strano peso sullostomaco, un grumo di angoscia chemi teneva all’erta. Non fu difficilededurre a cosa fosse dovuto tuttociò. Il secondo piano della malga.Non riuscivo a togliermi dalla testache là sopra ci fosse qualcuno.Uomini o forse donne di cui ilnonno e gli altri malgari fingevanodi ignorare la presenza, nonfacendo caso alla miriade di piccolisegnali che provenivano da lassù.Il rumore del latte che finiva nelsecchio mi ricordò il suono di unastoffa che si lacera. La stalla era ilteatro dell’usuale convegnomattutino e io uno degli attori che,imperterrito, continua a restare sulpalco nonostante si sia reso conto,già da un po’, che gli spettatorialtro non sono che una mandria dicatatonici bovini. Che senso avevatutto ciò? Tra noi e le stelle c’erauna distanza enorme, eppure io lepotevo sentire vicine, quasi

toccarle con mano. Peccato chenessuno in quella stalla volessedividere con me questi pensieri.Troppo intenti nel lavoro, siperdevano in parole colme dibanalità o in un silenzio innaturale.Troppo innaturale per un essereche ha facoltà di parola e diraziocinio.Salendo le scale, provai un misto dicuriosità e di paura. In quellostanzone poteva esserci qualcunoche come me aveva voglia diparlare delle stelle, qualcunodisposto a spendere un po’ del suotempo con un bambino di noveanni. Un’anima buona disposta afondere la propria solitudine conun’altra, generando unacompagnia.Abbassai la maniglia tutto tremantee infilai la testa tra l’uscio e laporta. Il rumore di mille respiri micolse quasi di sorpresa. Il riflessodella luna mi restituiva i profili dialcuni volti trasfigurati dal sonno,

la linea dei corpi distesi sugliscomodi giacigli. Feci un passo dentro lo stanzone.Inavvertitamente toccai qualcosacon un piede. Era un oggettometallico, dalla forma allungata,che il buio mi impediva diriconoscere. Mi chinai per tastarlo.Le dita percorsero un sottilecilindro, quindi una specie di rullo,quindi una levetta. Mi rizzai inpiedi in preda al terrore. Non avevomai toccato un fucile prima diallora. Sapevo che si trattava diun’arma micidiale, capace di faremolto male, di uccidere addirittura.La voce mi colse sul punto diritornare sui miei passi. Era roca ebassa. Il suono di una trombaarrugginita.«Non aver paura» mi disse l’uomo.Individuai l’angolo da doveprovenivano le parole. Era avvoltonell’oscurità più totale. Il lampo diun fiammifero mi mostròall’improvviso le sue fattezze.Aveva la barba da fare. Gli occhiincavati. Una lunga cicatrice su unaguancia. Si accese la sigaretta, poila fiamma si spense e di lui rimasevisibile solo la brace: un puntinorosso nel nero della notte.«Avvicinati» mi disse ancoral’uomo. Avevo paura. Ma averscoperto il segreto della malga midava forza, mi faceva sentiregrande. Ero riuscito a risolvere ilmistero e l’avevo fatto da solo.Una volta abituati all’oscurità, gliocchi iniziarono a fornirmimaggiori dettagli del miointerlocutore. Mi parve più vecchiodi quanto avevo immaginato. Miguardava con un’ariacompassionevole, scuotendo atratti il capo e sorridendo, come senon si capacitasse di ritrovarsi unbambino tra i piedi, in quel posto, aquell’ora della notte. Il suo alitosapeva di grappa e di sigarette.«Che ci fai qui?» mi domandò. Fuitentato di girargli la domanda. Chediavolo ci faceva lui, piuttosto,nella malga del nonno, con tuttaquella gente e i fucili. In ogni casomi limitai a dargli una rispostadiligente, come credo si aspettasseda me.«Mungo le vacche» sussurrai con lavoce che mi andava e veniva.Il sorriso dell’uomo si allargò dimolto. Le rughe sul suo volto simoltiplicarono. Cominciò a frugarein uno zaino con una mano sola.L’altra la teneva sotto alla coperta.Poi decise di aiutarsi anche conquella, allora si liberò di quanto,fino a quel momento, doveva avertenuto in pugno: una rivoltella. Mela appoggiò proprio sotto al naso,sul letto di paglia. La guardai comesi può guardare un insettovelenoso.Alla fine, l’uomo tirò fuoriqualcosa. Era un pezzo di carta.Una fotografia un po’ sbiadita.Allungò il braccio per mostrarmela,invitandomi anzi a prenderla tra lemani per osservarla meglio. Unadonna con un grande grembiulebianco teneva per mano unbambino che poteva avere la miaetà.La voce del nonno riecheggiò nelcortile. Urlò talmente il mio nomeche si produsse anche una leggeraeco, giù lungo il sentiero che portaa valle. Feci per correre di sotto,ma l’uomo mi afferrò per unbraccio.«Si chiama come te» mi disse

riferendosi al bambino dellafotografia.«Gli piacciono le stelle?» domandai.L’uomo sorrise, questa volta lo fecerumorosamente. Si mise una manosulla bocca, per non svegliare glialtri. Io però aspettavo unarisposta. Va bene che lo facevoridere, ma quello era ciò che miinteressava sapere. Tuttavia nonavevo più tempo. Dovevo tornaredi sotto e pensare ad una scusaconvincente da fornire al nonno.

odore di sterco e dipaglia si mischiaronoalle battute ed airimbrotti dei malgari.Li ascoltai senza

battere ciglio. Il segreto che avevoappena scoperto mi dava unagrande dignità, mi faceva sentiregrande. Sapevo chi c’era lassù, deifucili e tutto il resto. Non ero piùl’ultima ruota del carro.Massaggiai la mammella ecominciai a mungere con foga. Colpensiero ripercorsi ogni istantedella mia piccola avventura,vagliando ogni movimento, allaricerca di particolari magariperduti lungo la strada dei pensieri.L’uomo non aveva risposto alla miadomanda. Il bambino della foto sichiamava come me, ma non eroriuscito a scoprire se anche a luipiacevano le stelle. Ripensando albreve dialogo di poco prima,provai una sorta di nostalgia. Ladisponibilità di quello e la suaattenzione nei miei confronti miavevano riportato alla mente certitratti del carattere della mamma.Era come se in quella soffitta lerciaio avessi appena parlato con lei enon con uno sconosciuto banditocon la pistola in mano.Con la scusa di svuotare il secchio,mi avventurai nuovamente fuoridalla stalla. Non ci avrei messo cheun secondo. In fondo quell’uomodoveva solo dirmi un sì oppure unno. Poi sarei tornato al miosgabello.Ma quando fui al centro del cortile,qualcosa mi inchiodò al terreno,impedendomi di proseguire in unsenso o nell’altro.I rumori provenivano dal sentiero.La fioca luce dell’alba mi presentòuna scena inaspettata. I soldatitedeschi procedevano spediti nellamia direzione, sbraitando paroleincomprensibili, oscure bestemmiefatte di vocali e consonanti strane.In un secondo mi furono accanto.Uno di loro mi spintonò, facendomiperdere l’equilibrio. Il secchio mi sirovesciò. Guardai desolato ilpiccolo lago bianco che si perdevalentamente nel terreno. Il nonno egli altri uscirono dalla stalla: sullefacce le mille domande di chi nonsa spiegarsi più nulla. Lo scambiodi battute fu violento. I tedeschiagitavano i mitra nemmeno fosseroventagli contro la calura.La disfida ebbe termine, quando ilnonno, con un’espressione terribilealzò il braccio verso il secondopiano della malga, puntando il ditosullo stanzone dove ero stato pocoprima. I soldati corsero su per le scale,urlando come animali. Come ruggiti di una bestia feroce,riecheggiarono i primi spari.Alzai lo sguardo verso il cielo. Laluce aveva dipinto ogni cosa delsuo chiarore. Le stelle non c’eranogià più.

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IL RACCONTO

Sabato prossimo, Innsbruck 1904

Mi misi davantialle assi della porta e rimasi in attesa

L’avevo capito che lì si nascondeva qualcuno

Solo non riuscivo a capire le ragioni di tanta reticenza

da parte dei malgari

� Pino Loperfido

di chi guardale stelle

Malga Zonta 1944

12 sabato 18 luglio 2009 13sabato 18 luglio 2009

Sabato 12 agosto 1944,alle 5 del mattino

Si scatena la furia tedesca

n queste pagine il quarto rac-conto di Pino Loperfido; rac-conti che ci accompagneran-

no lungo tutta l’estate, ogni sa-bato. Ecco i titoli dei prossimi euna succinta anticipazione del-l’autore.L’imperdonabile colpa di essere fe-lici: la morte è sempre un argo-mento difficile da proporre alproprio fratello maggiore.Il prezzo salato di chi viene al mon-do: le acrobazie mentali di un sol-dato negli istanti che precedonola fucilazione del condannato.Il destino aveva una voce di bimba:la fede nel trascendente a voltefa brutti scherzi. E dove è finitaquella bimba dai riccioli biondi?

I Il bambino che guardava gli albe-ri volare: il treno, esperienza ma-gica per un bimbo. Anche se èappena stato sfollato.Giusto dietro la curva del cuore:seguire il proprio cuore o i pro-pri ideali? Per i due fidanzatini,persi nella notte bianca, è diffi-cile decidere.Anche vinto il nemico è qualcuno:sbirciando dalla finestra l’arrivodel terrorista. La scoperta dellasua inaspettata umanità.

Gli ultimi due racconti, ancora av-volti dal mistero, s’intitoleranno «La volta che le bombe suonaronoBach» e «Ogni giorno è la festa delpapà».

La solitudine

abato, 12 agosto 1944. Nella notte i tedeschi circondano le malghedopo il Passo Coe, tra il Veneto e il Trentino, nel territorio di Fol-garia. Verso le cinque del mattino comincia il rastrellamento con

il raduno e l’identificazione delle persone presenti in detto territorio. Po-co dopo i soldati fanno irruzione nella Malga Zonta. Dopo una brevesparatoria, durante la quale trovano la morte alcuni tedeschi, i partigia-ni, occupanti il primo piano dell’abitazione, escono e vengono allinea-ti sotto la tettoia della porcilaia (foto sopra e a sinistra, in alto). Verran-no fucilati poche ore dopo.

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I disegni in questepagine sonodi GiordanoPacenza;nelle foto,a destra il partigianoBruno Viola,trucidato aMalga Zonta;sopra,GermanoBaron,comandantedella brigata«Pasubiana»operativanella zona

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erano diversi odoriche gli riportavanoalla mente la suacasa. Il profumo dellaterra bagnata quando

pioveva in estate, ad esempio. Glieffluvi dell’erba appena tagliata.Oppure la fragranza della legna chescoppiettava nel camino. Ma sututto, l’essenza sublime della pelledi quell’amore di bambina: unmisto di fragola, resina e fiori. Daquando era venuta al mondo,Xavier non aveva avuto molteoccasioni per stare con lei. Anzi.Cinque mesi dopo la sua nascita,era dovuto partire. La nostalgia eraun dolore concreto, legato al coloredei muri, alla forma del tetto, aMichelle, ma soprattutto allapiccola Andrea. Non era dunquequell’anelito indefinito che alcunipoeti avevano avuto la ventura dicantare, bensì il ricordo di queigiorni di felicità trascorsi alfocolare domestico.Eppure, prima di partire per l’Italia,Xavier, pur apprezzando la vita dicasa, si era abbandonato più voltea strani scatti nervosi. Una battutadella moglie, ad esempio, maldigerita. O addirittura il piantonotturno della piccola gli avevanourtato i nervi, facendogli perdere lacalma proverbiale per la quale eraconosciuto un po’ da tutti nelcircondario. Ora, acquartierato inun paese sconosciuto, con unfucile in mano, capiva che lanostalgia è rendersi conto che lecose non erano insopportabilicome potevano essere sembrateallora.E poi c’era dell’altro. La nascitadella figlia aveva acceso nell’animodi Xavier tutta una serie diconsiderazioni sulla vita e sullamorte. Soprattutto sulla seconda.Trovava che il comportamentodell’uomo a suo riguardo eraveramente sorprendente. Unasorta di follia collettiva. In altritermini, tutti sapevano chedovevano morire e non sipreoccupavano affatto di quelloche li aspettava, come se fosse unproblema secondario. Come avevaletto in un libro: «Il mondo è comeun una grande sala da macello, incui ognuno sa che dovrà esseresgozzato e nel frattempo che fa?Gioca a carte».La Rivoluzione era stata per lui unafesta, un riprendersi dall’esistenza

C’ciò che fin dall’inizio gli eraspettato di diritto: il libero arbitrio.Sbarazzarsi una volta per tuttedell’idea di un Dio incombente erastato liberatorio, tuttavia avevalasciato in Xavier le scorie di unrisentimento. Un po’ come avvienequando si è costretti, dal caso odalla prepotenza altrui, adaccettare spiegazioni che non ciconvincono appieno. Il disagio erasopportabile a patto che non siaffrontassero i temi fondamentalidella vita e della morte. Una voltaspazzato Dio sotto al tappeto, i dueconcetti erano stati privati di ognisenso. Ma, al contrario di suamoglie e di molti dei suoicommilitoni, Xavier non riusciva adaddomesticare il disagio che gliscorrazzava nell’anima.Tra le diverse convinzioni che sierano fatte largo in lui, ce n’era unaparticolarmente ardita, ma non perquesto meno credibile di altre.Riguardava il mistero della vita edil suo significato. Dove andavaricercato, ad esempio, il sensodella venuta al mondo della piccolaAndrea? Il miracolo di un’esistenzache prima non c’era e che forsenascondeva un prezzo, un debitoda saldare. Come ogni cosa bella,anche la nascita di un figlio dovevaavere una contropartita. Nonsapere quale essa fosse era il

l’Adige l’Adige

cruccio di Xavier, il pesantefardello che si trascinava dietro dadiversi mesi. A volte si dava dellosciocco. Vedeva i commilitonidivertirsi e sorridere alle banalitàdell’esistenza e si domandava senon era il caso di piantarla lì contutti quei problemi immaginari. Maqualcosa, dentro, gli diceva checosì facendo avrebbe commessoun errore.

quattro chili del moschettoCharleville pesavano comequattro quintali, se solo Xaviersi avventurava a fare certipensieri. Mentre scopriva lo

scodellino porta polvere da sparodel fucile, si contrinse a nondirigere lo sguardo davanti a sé.Sapeva di avere il condannatodavanti, ne percepiva il respiroaffannoso, l’odore della paura,tuttavia aveva deciso: avrebbesollevato gli occhi solo un attimoprima di tirare il grilletto. Lo stessonon poteva fare a meno di rifletteresullo strano malessere che loattraversava. Uccidere quell’uomoera un diritto sancito dalla guerra edella legge. Quell’Andreas Hofer siera macchiato di crimini indicibili,quali la ribellione e la cospirazione.Era sicuro di stare facendo la cosagiusta, ma togliere la vita aqualcuno era disumano al di là di

Itutto. Motivi e giustificazionivenivano dopo. C’era nella sottileangoscia che lo attraversava,inquadrato nel plotoned’esecuzione, la prova deimisteriosi codici custoditidall’anima che accomunavanosentimenti come la paura, lanostalgia e l’amore in un afflatoche puntava dritto verso il cielo.Tutto ciò cozzava, però, con gliideali della Rivoluzione. Stridevacon i dettami di quella folliacollettiva. Perché il cielo eravuoto. Napoleone stesso lo avevaspiegato ai suoi soldati. La guerradoveva alimentare se stessa.Bisognava strappare al nemicotutto il necessario, ad esempio lericchezze che li attendevano inItalia.Xavier tolse una cartuccia dallagiberna, strappandola con i denti.Estrasse la pallottola e la tenne inbocca. Alle orecchie giungevaflebile la voce del prete che stava

confessando l’imputato. Tra lemolte parole mozzicate, Xavier necolse alcune, portate dal vento chesoffiava verso il plotone:«misericordia», ad esempio.Ancora, «paradiso», seguito da unodei numerosi «Gesù Cristo».Quanto era ingannevole la suacoscienza di soldato che lospingeva a commuoversi per itermini di una fede sconosciuta,così come era capace di versarelacrime al pensiero della suapiccola Andrea, del miracolo diquell’inerme esistenza, dellafragilità di una creatura tantodolce e innocente.Tenero papà, al lavoro in una terrastraniera, quello che versò un po’di polvere nera nell’appositoscodellino, richiudendolo subitodopo. Quindi mise il moschetto inposizione verticale e versò nellacanna la polvere restante. Infilòcon un dito l’involucro nella boccadella canna, comprimendola con la

bacchetta sfilata dal fucile.Non volendo, Xavier guardò ilcondannato. Si trattò di un attimo.Un lampo che però gli permise dicogliere alcuni tratti di quell’uomo.Le folte ciglia, la barba fluente, lelabbra inarcate nell’inconfondibilecurva della preghiera. La fierezza ela dignità dell’Hofer avevano unacorporeità. Erano quasi palpabili,attraversavano l’aria come unfluido misterioso. Nonostantefosse cosciente di stare vivendo isuoi ultimi istanti, quell’uomoconservava l’aspetto esteriore diun cercatore della verità. Dai suoiocchi traspariva la curiosità di chiè ansioso di dare una forma algrande avvenire che lo attende.Fu studiando quello sguardo,diretto proprio verso di lui, cheXavier capì come la morte diquell’uomo poteva riscattare inqualche maniera la nascita dellapiccola Andrea. Il prezzo di chiviene al mondo che prima o poi

qualcuno, da qualche parte,volente o nolente, dovrà pagare.Dunque ci era arrivato alla fine.L’avere afferrato la verità tutto dasolo, in così poco tempo, non lomeravigliò nemmeno un poco.

avier sfilò la bacchettadalla canna e vi sputò lapalla che già da un po’teneva nella bocca. Unsapore metallico gli

aveva corrotto le papille gustative.Era dunque quello il sapore dellamorte. La morte che, con il suomoschetto, stava per dare.Infilò nuovamente la bacchettanella canna e compresse la palla.Quindi portò finalmente il fucile inposizione di sparo.Armò il cane. Respirò forte e presela mira, se così si poteva definirequella sorta di calcoloapprossimativo che teneva contodel forte rinculo che facevaimmancabilmente alzare la cannanel momento dello sparo. Xavierdecise di concentrarsi sugli stivalidell’Hofer. Ne seguì le curve, nevalutò perfino la fattura,giudicandoli opera di un discretoartigiano. Si avventurò in una lorovalutazione, cercando di capirequanto potevano essere costati aquel delinquente.L’ordine di fuoco arrivòimprovviso. Un gesto istintivodegli indici fece scattare i grilletti.La grande nuvola generata dallacombustione della polvere dasparo oscurò la visuale perqualche secondo. Xavier rimaseimmobile a fissare il terrenodavanti a sé, in attesa di udire iltonfo del corpo del condannato.Ma non percepì nulla. Un silenziogenerale avvolse il plotone. Allora,alzò gli occhi e vide Hoferaccucciato sulle gambe, conun’espressione di sorpresa sulvolto, come se si stessedomandando se fosse davvero

X

tutta lì la morte. Poco dopo si reseconto di essere ancora vivo,nonostante la scarica di piombo,allora fece un commentosarcastico sulla mira del plotone.Fosse stato presente Napoleone, liavrebbe fatti fucilare tutti.Nessuno aveva colpito ilcondannato. L’imprecisione deimoschetti non era una scusanteper soldati tanto esperti, che siaffrettarono a ricaricare. Non eraun’operazione semplice. I piùesperti ci potevano impiegareanche venti secondi.Non volendo, portando di nuovo ilfucile in posizione di tiro, Xavierincrociò ancora lo sguardodell’Hofer. L’empatia che sembravalegarli lo spaventò piùdell’assassinio che, mirapermettendo, stava ora percommettere. Il sentimento che losconvolgeva aveva qualcosa a chefare con la bontà e con la bellezza.Qualcosa a che fare con Dio.La seconda raffica fece cadere ilcondannato, ferendologravemente. Il vento gelido cheattraversava la contrada miscelò isuoi lamenti con il pianto di unneonato che, in una casa là vicino,doveva essere stato svegliato dalfrastuono dei colpi. Xavier viriconobbe i cari accenti dellafiglioletta. Provò un’immensanostalgia che mutò, presto, in unasorta di dolore consolatorio, comequando l’attesa di una catastrofesconvolge quasi più dellacatastrofe stessa, per cui quandoessa giunge davvero è sollievoquello che si prova. Nulla più. Laquiete del poter ricominciare apensare ad un domani.

strano, perché quando ilcaporale diede il colpo digrazia al condannato, ilpianto del misteriosoneonato

improvvisamente cessò. Come unsegnale. Era come se la morte delterrorista tirolese avesse chiusoalcune partite ancora aperte. Imisteriosi percorsi della pietà edella redenzione accompagnaronoXavier nel suo ritorno in caserma. Due settimane dopo il pugnale diuno studente bresciano lotrafiggerà, nei pressi di Verona,durante una banale lite inun’affollata birreria. Sentendo ilfreddo della lama entro di sé,prima di abbandonarsi ai flutti deltrapasso, Xavier coglierà i confinidel suo errore. Perché si renderàconto che a riscattare la nascitadella piccola Andrea non era statochiamato un oscuro brigante a luisconosciuto, bensì proprio coluiche ne deteneva la paternità: luistesso. Una consapevolezza che lorasserenò, lo assolse dai suoi millepeccati di soldato e loaccompagnò nel tortuosocammino verso il Destino, cheebbe inizio solo pochi istantidopo.

È

IL RACCONTO

Sabato la storia di una bimba

La nostalgia era un dolore concreto, legato al colore

dei muri, alla forma del tetto,a Michelle, ma soprattutto

alla piccola AndreaNon era dunque

quell’anelito indefinito che alcuni poeti avevano avuto

la ventura di cantare

� Pino Loperfido

vieneal mondo

Il prezzo salato

10 sabato 1 agosto 2009 11sabato 1 agosto 2009

Martedì 20 febbraio 1810: la fucilazione a Mantova

L’esecuzione di Andreas Hofer

n queste pagine il sestoracconto di Pino Loperfidoche accompagnerà i lettori

con le sue prove narrativelungo tutta l’estate, ogni sabato.Ecco i titoli dei prossimi e unasuccinta anticipazionedell’autore.Il destino aveva una voce dibimba: la fede nel trascendentea volte fa brutti scherzi. E doveè finita quella bimba dai ricciolibiondi?Il bambino che guardava glialberi volare: il treno,esperienza magicaper un bimbo. Anche se èappena stato sfollato.Giusto dietro la curva del cuore:

I seguire il proprio cuore o ipropri ideali? Per i duefidanzatini, persi nella nottebianca, è difficile decidere.Anche vinto il nemico èqualcuno: sbirciando dallafinestra l’arrivodel terrorista. La scoperta dellasua inaspettata umanità.Gli ultimi due racconti, ancoraavvolti dal mistero,s’intitoleranno La volta che lebombe suonarono Bach:L’esperienza del dono di sènella tragedia della guerra, traarte e distruzione. e Ogni giornoè la festa del papà: quell’uomo èun mito per milioni di italiani,ma è mio padre. Solo mio.

di chiartedì, 20 febbraio 1810. Il ribelle Andreas Hofer vieneportato davanti al plotone d’esecuzione verso il bastioneCeresa della caserma della cittadella a Mantova.

Le sue ultime parole si ritiene siano state: «Franz, Franz, questo lodevo a te!», con ciò riferendosi a Francesco I, dal 1804 imperatoreaustriaco, che era passato dalla parte di Napoleone. Verrà ancheriferito tuttavia che Hofer abbia esclamato, dopo che la prima salvasparata dal plotone d’esecuzione aveva mancato il bersaglio: «Ah,come sparate male!».

M

A sinistrae sopra, nellafoto grande,Andreas Hofere la sua«avventura»rievocatidai disegnidi Giordano Pacenza,illustratoretrentinoche si occupadi graficae illustrazioneeditoriale

Page 12: Racconti l'Adige 2009

bambini tiravano sassi nellapalude. Facevano a gara a chiarrivava più lontano. Ungioco, certo, ma in un certosenso era pure un’arte perché

in certe cose o ci eri portatooppure no. Non era così semplice.Innanzitutto si sceglieva il sassogiusto: né troppo leggero nétroppo pesante, di pietra liscia dapoterlo impugnare più facilmente.Si tirava il braccio all’indietrosollevando la gamba sinistra e poi,individuato il «bersaglio», si facevascattare il braccio come una molla.Il sasso volava sulla riva, sulleprime canne e piombava con unrumore sordo nell’acqua sporca eimmobile. Ne scaturiva un piccolozampillo e poi dei cerchiconcentrici che, però, faticavanoad aprirsi in mezzo a tutta quellavegetazione.Tullio Oss aveva a quel tempoventicinque anni, era un belragazzo biondo e pieno di salute.Osservava quei ragazzini dalla suabottega di bottaio che era propriosul limitare dello Spiazzo delleOche. Quella piazzetta segnava iltermine delle paludi che partivanodal Lago di Caldonazzo e sidiramavano senza regola in ognidirezione.Prima di mettersi a fabbricarebotti, gli Oss erano stati canòpi,ossia minatori. Un mestiere duro e malpagato cheli costringeva ad infilarsi per pochelire nella fitta di rete di cunicoli,gallerie, pozzi che a guisa di unagigantesca ragnatela sotterraneapercorrevano il Perginese, laValsugana, la Valle dei Mocheni,fino al Monte Calisio.Era stato Marcello, il papà diTullio, a dire basta. Approfittandodel fatto che i fratelli di sua moglieAurora erano bottai in Val diCembra, aveva aperto una bottegaa Pergine.Così, per sua fortuna, Tullio potevalavorare all’aria aperta e avere lasoddisfazione di essere unartigiano molto ricercato. Il suo eraun mestiere assai utile. La botte,infatti, era utilizzabile non solo peril vino, ma pure per i crauti ed altrecibarie a lunga conservazione. Dalpadre e dagli zii materni, il ragazzoaveva imparato la perizia cherichiede la fabbricazione di questipanciuti contenitori.«Olà, Tullio. Sono pronte quelle

Imie due botticelle? M’avevi dettodi passare oggi».«Sior Federico, mi dispiace. Laprossima settimana mi arriverà illegno da San Martino. Sa com’è,con i crauti bisogna stare attenti, èuna faccenda delicata; il legnodeve essere quello giusto».«Già. Però che sia fra sette giorni. Imiei cavoli non possono aspettaredi più».«Non si preoccupi. Sarà fatto».Tullio riprese a battere con ilmazzuolo sui cerchi. Erano colpiprecisi, dati d’istinto senza doverprendere la mira o fare troppicalcoli. Nel frattempo la mentevagava come una rondine,saltellando tra preoccupazioni epensieri lieti. Pochi questi ultimi,sempre in abbondanza le prime.

l campanile di Santa Mariabatté le dodici. Tullio tirò suun secchio di acqua dal pozzoe si sciacquò le mani. Poi salìlungo la scala di legno esterna

che portava di sopra. Appoggiò ilgrembiule sulla spalliera dellasedia e con un filo di cotone tagliòla polenta in quattro parti talmenteuguali che nemmeno misurandosarebbe stato possibile faremeglio. Il ragazzo afferrò la suarazione e la pose con le mani nellascodella in legno, ricoprendola,poi, con una cucchiaiata di fagiolibollenti.Non poteva, il Tullio, non pensarealla bella Franca che stava perdargli un bambino, e se ne stava alpiano di sopra, sprofondata in unletto. Forse questa era la voltabuona. Pareva essersi accanito ilcielo che già per ben tre volteaveva negato alla coppia laconsolazione di una discendenza.La sua vita sarebbe cambiata.Certo avrebbe continuato alavorare nella bottega del padre,ma sarebbe stato felice perchéindipendente, con una casapropria e la Franca accanto. Glipesava, infatti, dover ancoraobbedire ai suoi a venticinqueanni. Non che non lo ritenessegiusto. Anzi. Per lui onorare lamadre e il padre era il primodovere per un figlio. Però la casasullo Spiazzo de le Oche erapiccolina: una sola stanza permangiare, dormire e fare tutto ilresto era poco anche per uno chesi accontenta di poco.

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l’Adige l’Adige

Non perse tempo Marcello acaricare su un carretto tutti gliattrezzi necessari. Sapeva già datempo di questo importantelavoro, ma fino ad allora si eratrattato solo di voci, chiacchiere acui si può credere come noncredere. Adesso, però, la cosa siera verificata. Marcello avrebbedato il meglio di sé per fare unbuon lavoro nel minor tempopossibile. Se il barone fosse statosoddisfatto gli avrebbe potutochiedere, oltre al denaro, di potertenere a battesimo il nipotino chesarebbe venuto.La strada che da Pergineconduceva al palazzotto era erta,circondata a destra e a manca dauna folta vegetazione dicaducifoglie, latifoglie, tigli, acerisilvestri e castagni. Padre e figlionon dissero una parola per tutto iltragitto. Erano emozionati. Per laprima volta salivano a Susà a casadel barone. Evidentemente la famadei due artigiani, della lorobravura, si era diffusa a macchiad’olio e, vox populi, era giuntaall’orecchio dei signori.Marcello si fermò. Cercò direcuperare il fiato.«Non sono più un ragazzino» dissedetergendosi la fronte con unostraccio.«Non sei nemmeno un vecchio» lo

canzonò il figlio.«Chi l’avrebbe mai detto che ilbarone in persona...».«Una grazia del Signore».«Ave Maria, gratia plena…» i duepregarono per qualche minuto. Lariconoscenza alla Madonna – tuttaPergine era molto devota a Maria –attraverso la preghiera rincuorò idue, intimoriti.Che Tullio non stesse pregandoper motivi lavorativi, lo si capivadalla ruga che come un graffio glipercorreva la fronte. Era piùscavata. L’angoscia per lamaternità traballante della moglienon lo lasciava tranquillo. E glifaceva rabbia non poter fare nulla.Avesse potuto esorcizzare a colpidi martello quel dolore, sarebbestato in grado di fabbricare bottiper tutto il Tirolo.Gli parve irriverente rivolgersidirettamente al padreterno senzanemmeno un sacerdote comeintermediario, facendo

orgogliosamente a meno dellapotenza evocatrice di un tempio.Tuttavia lo fece lo stesso, pursenza riuscire ad articolarepensieri di senso compiuto. Quelcielo vuoto, così azzurro, senzanemmeno l’ombra di un angelo, glipareva fatto di niente. Dov’eradunque il congresso dei santi?Dietro quale nuvola si nascondevala sagoma del Divino?

a gabbia di domandevenne spazzata via dallavoce di una bambina chese ne stava seduta sullastrada a tracciare segni

sulla sabbia del selciato. Potevaavere sei o sette anni. Un ciuffobiondo le cadeva sugli occhi.Indossava un vestitino biancoLa piazzetta di Susà era deserta. Idue artigiani non avevano un’ideaprecisa di dove fosse l’abitazionedel committente. Così si rivolseroalla fanciulla.

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«Abita qui il barone?»La bimba sollevò gli occhichiarissimi e sorrise. «No» disse«qui ci sta la Santa».Lo sguardo di Tullio si illuminò.Come un cielo, dopo il temporale,dimenticati tuoni e fulmini, si aprein mille fessure lasciando filtrareaguzzi raggi di sole; così comequei bagliori inaspettatirasserenano l’anima di chi si erarabbuiato alla mercé delmaltempo, allo stesso modo lasosta davanti alla casa di quelladonna sciolse l’angoscia delragazzo in uno strano sentimentodi speranza frammista a paura.La Santa aveva già compiutodiversi prodigi. In molti laveneravano e le domandavanograzie e intercessioni. Dovevaessere quello uno dei modiattraverso il quale Dio arrivavaagli uomini. Un pensiero lo tentò.Pochi gradini lo separavano daquesta persona straordinaria.

Decise di tentare. La sua più chefede era una speranza moltoegoistica, le sue preghieresomigliavano così tanto ad unatransazione commerciale: tu mi faiquesta grazia ed io… Già, cosaavrebbe potuto dare in cambio diun miracolo?«Non si può salire adesso» disse labimba alzandosi in piedi.«Che vuoi fare?» domandòMarcello al figliolo, intuendo il suoproposito. Così sistemò le bottisotto ad un vòlto e, a bracciaconserte, si sedette su una di esse.«Perché non si può salire?»domandò Tullio alla bimba.Quella scoppiò in una fragorosarisata. Per un attimo, il ragazzopensò a quanto poco di umano cifosse, in fondo, in un’azione comeil ridere.«Ci sta il giornalista. Le sta a faretante di quelle domande…».Un giornalista? La sorpresa fuenorme. Tullio avrebbe trovato piùnormale trovarsi di fronte ad unnegus dell’Africa nera. Ad unaSanta si domandano grazie nondata di nascita e paternità.«E chi è questo giornalista?»,insistette il ragazzo.«Boh, e che ne so? È venuto daTrento. Mi pare che si chiamaMussolini o qualcosa del genere».In quell’istante la porta sispalancò. Un uomo vestito di nero,con una forte stempiatura, gliocchi sporgenti ne uscì con ilcappello in mano, profondendosiin lunghi ringraziamenti. Quandoebbe disceso le scale si trovòfaccia a faccia con il Tullio. Losquadrò da capo a piedi.«Avanti il prossimo» urlacchiò conuno strano accento squillante,vagamente militaresco.

l ragazzo invidiò la serenitàdel giornalista. Dunque facevaquesto effetto trovarsi a tuper tu con la Santa. Gli effettidi venerabilità, probità,

integrità, illibatezza e ogni altroaspetto della soprannaturalebontà divina erano dunque ingrado di vincere ogniprevaricazione del male. Anchequesto Mussolini – se davvero sichiamava così – aveva subito ilbenefico influsso della santità.Bastava osservarne il voltoilluminato da cui traspariva unaprofonda sensazione di pace e disoddisfazione.Presto sarebbe toccato anche alui. Prostrato avrebbe scongiuratola Santa di esaudire il suodesiderio, di far cessare leambasce della sua amata moglie,di concedere loro finalmentel’immensa gioia di abbracciare ilprimogenito.Pensò a quanto era fortunato nelpoter usufruire di una taleopportunità. In fondo era stato unsegno del destino. Trovarsicasualmente sulla rotta della Santaproprio mentre la sua Francaaveva tanto bisogno di un aiutodel cielo. Salendo i pochi gradiniche portavano in casa, Tullioprovò ad immaginare la scena chesi sarebbe trovato davanti,tuttavia non fu in grado di fissarein mente nulla di definito. Vaghicori angelici, tabernacoli viventi,nubi di incenso, fiori in quantità.Ed invece, ciò che i suoi occhividero fu una stamberga sporca edisordinata, impestata da sinistri

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effluvi non proprio celestiali.La Santa stava seduta in manierascomposta, con i capelli arruffatied un’aria molto trasandata. Leciabatte era rotte e la gonnarappezzata. Ciononostante, Tulliosi inginocchiò senza sapere benecosa dire. Ma a parlare fu ladonna. E ciò che le uscì di boccafu quanto di più cattivo le cordevocali di un essere umano siano ingrado di produrre. Con la forza diun tornado, la bestemmia sospinseTullio sulla soglia e quindi giù perle scale.Annichilito, il ragazzo lanciò unosguardo lungo la strada checonduceva al paese. A circa uncentinaio di metri, vide di spallequel giornalista baldanzosodiretto a valle incrociare un’altrafigura che, agile e leggera, stavacorrendo verso Susà. Tulliointerrogò con lo sguardo suopadre e poi decise di prorogarel’appuntamento con la delusioneancora di qualche attimo. Giusto iltempo di capire chi fosse colui chea perdifiato pareva dirigersiproprio verso i due artigiani.Si trattava di un giovincello che,nonostante la corsa in salita, nontradì alcuna fatica né ansimare. Unviso sconosciuto, tropposconosciuto per un paese di cosìpoche anime dove tutta lagioventù si poteva comodamentepassare in rassegna durante idivertimenti nello Spiazzo delleOche.«Corri Tullio, la Franca hapartorito. È un maschio!»«Come è possibile? Ma non èancora il tempo e poi… Lei comesta?».«Sta bene. Ti sta aspettando».Tullio era troppo agitato e feliceper fare alcune ovvieconsiderazioni. Ad esempio, comefaceva quel ragazzo a conoscere ilsuo nome? Che farne delle botti?Lasciare solo Marcello acompletare la consegna oriportarle indietro?Nulla era più importante di suamoglie. Era padre, santo cielo.Quel bimbo benedetto era nato. Ilmiracolo era dunque avvenutoanche senza… A proposito. Avevafatto solo pochi metri, quando siarrestò di colpo e si voltò.Distratto dalla comparsa delgiornalista e da quanto ne eraseguito non aveva più fatto casoalla bambina vestita di biancoincontrata poco prima. Nel sensoche non l’aveva più vista. Ma cheimportava, adesso. Bisognava solocorrere, ora. Fino a farsi scoppiarei polmoni, se necessario.Un passo dietro l’altro, condisciplina, facendo appello aimagazzini di energia che sinascondevano nei muscoli. Ilfruscio del vento si mescolava alsibilo che le orecchieproducevano nello sforzo dellacorsa. Curiose note musicali, il suonodelle mille canne di un organo nelquale era possibile intercettarel’armonia e l’accento di certifonemi impossibili di cui sonocapaci i bambini. Già, proprio unavoce di bimba che lo incitava acorrere ancora più veloce verso ilmiracolo. Per un attimo, Tullio viscorse gli accenti di quellabambina. Poi fu sopraffatto dallagioia e non vi prestò più alcunaattenzione.

IL RACCONTO

Sabato una storia dal treno

I bambini tiravanosassi nella paludeFacevano a gara

a chi arrivava più lontanoTullio Oss era un bel ragazzo e osservava quei ragazzini dalla sua bottega di bottaio

sul limitare dello Spiazzo delle Oche

� Pino Loperfido

una vocedi bimba

Il destino

8 sabato 15 agosto 2009 9sabato 15 agosto 2009

Giovedì 10 giugno 1909: la visita al prete «imbroglione»

Quando Mussolini andò a Susà

n queste pagine il settimoracconto di Pino Loperfidoche accompagnerà i lettori

tutta l’estate, ogni sabato. Ecco ititoli dei prossimi e una succintaanticipazione dell’autore.Il bambino che guardava glialberi volare: il treno,esperienza magicaper un bimbo. Anche se èappena stato sfollato.Giusto dietro la curva del cuore:seguire il proprio cuore o ipropri ideali? Per i duefidanzatini, persi nella nottebianca, è difficile decidere.Anche vinto il nemico èqualcuno: sbirciando dallafinestra l’arrivo

I del terrorista. La scoperta dellasua inaspettata umanità.La volta che le bombe suonaronoBach: L’esperienza del dono disé nella tragedia della guerra,tra arte e distruzione.Ognigiorno è la festa del papà:quell’uomo è un mito per milionidi italiani, ma è mio padre. Solomio. Pino Loperfido hapubblicato «Ciò che non si puòdire. Il racconto del Cermis»(2001), «Caro Alcide» (2003) e ilromanzo «Teroldego» (2005).Alla fine di settembre uscirà ilnuovo romanzo «Le meccanichedell’infelicità», come iprecedenti edito da Curcu &Genovese.

avevaiovedì 10 giugno 1909. Il cronista anticlericale Benito Mussolini(nella foto sopra immortalato ad Ala, nel 1909, con alcunicompagni socialisti), si reca a piedi da Trento a Susà di

Pergine per un reportage su Rosa Broll.È costei la sposa segreta di un prete, don Antonio Prudel, che lacostringe ad impersonare lo scomodo ruolo di Santa.L’infido curato organizza finte apparizioni, sudorazioni di sangue acui i contadini del posto credono puntualmente, organizzando anchenumerosi pellegrinaggi.

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A sinistrae sopra, nellafoto grande,i protagonistidel raccontorievocatidai disegnidi Giordano Pacenza,illustratoretrentinoche si occupadi graficae illustrazioneeditoriale.A destra, bottie il centrostoricodi Pergine

Benito Mussolini da giovane; in alto, a sinistra, veduta di Susà e il castello di Pergine