PROFILE - 2012

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Collettiva di artisti presso En Plein Air arte contemporane

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PROFILE - PROGETTO MAIONESE 15ma edizioneCuratori: Elena Privitera, Marco Filippa

http://www.epa.it

Organigramma Associazione Culturale En Plein Air: Presidente - Elena Privitera Vicepresidente - Marco Filippa Segretaria - Carla Bertolino

Courtesies:Prof.Mario Marchiando Pacchiola Conservatore della Collezione Palazzo Vittone Città di Pinerolo

Luigi Aghemo concessione di Graziella DottiAlessia Clema concessione: Galleria “Il Fondaco” Associazione Culturale - Bra

Credits fotografici e video:Enrico CombaMarco Lampis

Margherita Levo RosenbergFrancesco Muro

Flavio Romualdo GarofanoRedha Sbaihi

Shai Epstein per Osnat Belkind Scheps

Ringraziamenti:Joel Angelini

Albert BusquetsEnrico CombaAda D’OnofrioDitta GianaddaMarco LampisAurelio MessaAngela Muro

Con il Patrocinio di:

Con il Contributo di:

ALIDA Boutique_Pinerolo - Gruppo CERUTTI_Pinerolo - COPY POINT_PineroloCompagnia di Assicurazione NOBIS - L’ORA GIUSTA_Pinerolo - Ristorante LA POSTA_Cavour

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Omaggio a RONIT DOVRAT

Dove si può vivere (Installazione)

La Lezione di Ebraico della Dovrat è un percorso emozionale, attraverso l’alfabeto,tradotto in esperienza del confl itto. Il Dove si puo’ vivere non è una domanda ma invita a cercare rispostee ad affi darle, a futura memoria, alla valigetta del migrante. Le tre scale sono insieme metafora biblica e sostanza viva e caduca; fi liformi e precariamente appoggiate al muro, duettano con le loro ombre in questo teatro del pensieroche affi da alla vita le soluzioni sempre momentanee.Fai ciò che devi, accada quel che puo’potrebbe chiosare questo discorso in progress che l’artista ci propone.

Marco Filippa

(I linguaggi del mediterraneo - estratto dal catalogo - En Plein Air 2007)

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PROFILEPRESENTAZIONE di Paolo PivaroAssessore alla Cultura del Comune di Pinerolo

L’attenzione e la passione con cui l’Associazione En Plein Air porta avanti il progetto ALFABETO MORSO dedicato alle nuove forme di comunicazione, si evidenziano anche in questa mostra collettiva di arte contemporanea 2012 dal titolo in lingua inglese “PROFILE”, nella quale trovano spazio elementi di ricerca e di indagine sul tema affascinante dell’iden-tità.

Si tratta di un’operazione volta a presentare forme comunicative e linguaggi finalizzati alla conoscenza dell’essere uma-no e della realtà in un contesto culturale in cui l’individuo è colto nella dimensione dell’esistere e non del vivere e dove l’arte non è più discorso, relazione, non s’inquadra più in un’estetica o in una filosofia, per diventare intenzionalità ope-rativa.

L’arte contemporanea se da un lato rinuncia alla funzione che aveva avuto nella civiltà della conoscenza, che dal co-noscere faceva dipendere l’agire, dall’altro assume pienamente il ruolo dell’azione poiché la realtà storica del ‘900 ha dimostrato ampiamente che la virtù razionale ha perduto la battaglia contro le politiche del furore e della forza e che l’utopia della ragione è destinata a soccombere di fronte al realismo del potere.

L’arte è così ricondotta ad un livello pre-linguistico e pre-tecnico in cui l’opera è materia non formata, ma tuttavia animata e significante; in tale contesto l’arte non ha più rapporto con la società, le sue tecniche, il suo linguaggio, ma è regres-sione dall’oggetto, è esistenza allo stato puro.

La produzione artistica non è più quindi solo il mezzo con cui si esplicitano le sensazioni, ma una sostanza sensibile, un frammento di realtà in cui si esprime il dramma del nostro essere al mondo e tuttavia estraniati dal mondo

Oggi viviamo nel mondo dell’immagine e dei consumi dove tutto è mercificato, la sola cosa che può fare l’artista è di produrre immagini che non siano mercificabili e che si sottraggano ai normali di processi di consumo. In tale contesto va riscoperta l’importanza della ricerca artistica e della comunicazione attraverso i segni da parte degli artisti che cercano la loro autonomia , una ricerca estetica che sempre meno si configura come “arte” e sempre più come “scienza e tecnica dell’immagine”.

La caratteristica della ricerca appare oggi caratterizzata dall’immaginazione, cioè pensare e conoscere attraverso le immagini, una sequenza di immagini di cui nessuna può considerarsi privilegiata, più significativa delle altre.

L’impegno di En Plein Air di dare voce ad artisti che intendono proporre nuovi linguaggi espressivi e che contribuiscono a presentare la realtà da punti di vista diversi, è una luce che, seppure tra le mille difficoltà che la situazione economica attuale presenta, ci consente di aprire lo sguardo verso nuovi confini della creatività e dell’immaginazione artistica lon-tana dalle forme del consumismo.

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ETTORE GIOVANNI MAYIntensa brevissima paraboladi Mario Marchiando PacchiolaConservatore della Collezione Civica di Palazzo Vittone-PineroloC’è un’attenzione molto speciale per questo ragazzo dall’intensa, brevissima parabola.C’è curiosità per la sua morte, ma è soprattutto la sua arte che ci carpisce, che ci attanaglia.Nella sua breve vita, venti anni, fatta di fatiche e di sofferenze, di entusiasmi e di profondissime delusioni, si eleva la passione per la pittura in modo eccezionale. Pochi anni di produzione che, date le premesse, preludevano a risultati di alto livello.Ma il destino, quella stanchezza di vivere che sfociò nel suicidio, lo aveva segnato.Pochi anni, dicevamo: pittoricamente l’anno di grazia potrebbe essere quel 1922, anno che precede la morte, ma ric-co di stimoli e suggestioni, dalle atmosfere di una Torino notturna, deserta e bagnata dalla luce di lampioni a scorci di paesaggio solare. Soprattutto quell’uomo assopito resta il suo capolavoro più conosciuto per l’eloquenza di una forza interiore nonostante la rilassatezza del soggetto umano, ricco di vibrazioni cromatiche a pastello.Ancora di più si rimane attratti dalla sua pittura nei due autoritratti ad olio concepiti, il primo nel 1922, appunto, il secondo nel tragico anno della morte.Un ritratto su fondo scuro da artista di altri tempi, serio nei suoi 19 anni, quasi sdegnoso ed altezzoso l’uno, caratterizza-to dallo sguardo frontale composto da sciabolate di colore, essenziali e dinamiche dove la serietà dà ancora più spazio alla rabbia e a quel senso di maledizione che lo accompagna, l’altro.Forse nel ritratto della primavera del 1923 c’è già il presagio, la fine della parabola, perché nell’ottobre sarà già tutto finito.“Spesso il male di vivere ho incontrato”(E.Montale)“Non ho più la forza di lottare” scriverà in una lettera estrema al fratello Cesare.Era rimasto deluso dei commenti ai suoi quadri che definisce “orribili…che brutta figura che faccio …Sono un vile” e in un’altra parte “conosco ciò che potrei fare…avrei fatto vedere ciò che so fare e sarei riuscito a fare il Pittore, e sarei stato grande: conosco le mie forze!”Il tempo ha riconosciuto il valore di questo ragazzo. Quel ritratto ci richiama che c’è da farsi perdonare il giudizio affret-tato e superficiale, le prospettive illusorie, le promesse mancate.C’è da ristabilire fiducia. Bisogna ritrovare la luce e trasmetterla a tutti.

Il tempo ha riconosciuto il valore di questo ragazzo. Quel ritratto ci richiama che c’è da farsi perdonare il giudizio affret-tato e superficiale, le prospettive illusorie, le promesse mancate.C’è da ristabilire fiducia. Bisogna ritrovare la luce e trasmetterla a tutti.

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Ivano Sossella

Orietta Brombin

UNO, NESSUNO E CENTOMILA... OTTANTOTTO PROFILES.di Marco Filippa

Credo che Profile possa iniziare in qualche modo, almeno per me, da quella che noi chiamiamo la cripta. Dal salo-ne principale si scende in una stanza voltata a botte. Que-st’anno ci sono due installazioni: una visiva e l’altra uditiva ma sarebbe meglio dire audio, perché non ha in sé un in-teresse veramente sonoro, ma finisce per diventare il leit-motiv della mostra. Quella visiva è una presenza assente (l’ombra della porta di una cella carceraria proiettata sul pavimento) perché è un’opera che accetta di vivere dell’hic et nunc (qui e ora), come quella audio. Quella audio è il do-cumento di un momento specifico su facebook: una voce generata automaticamente da un software elenca in ordine alfabetico nomi di persone di tutto il mondo che hanno reso pubblica la ricerca negli elenchi (profili) di facebook duran-te la registrazione sonora. Non credo si conoscano Ugo Giletta (audio) e Ivano Sossella Usw (visivo), ma qui s’in-contrano comunque e direi che sono in buona compagnia per aprire il discorso avviato.

Iniziato con Ettore Giovanni May, con il Lombroso, con la scienza del profiling, vissuto molto spesso in rete, ma non solo. Durato diversi mesi… progettato per arrivare all’1 settembre e presentarsi a tutti.

Risaliamo dalla cripta e continuiamo il nostro viaggio che ha molti livelli e ha scatenato molte reazioni nello spirito del dialogo; e questa è sempre cosa buona e di solito anche giusta. Ottantotto artisti di due ne ho parlato. Ottantotto modi di affrontare il tema dentro la propria koinè o, come avrebbe detto Ferdinand de Saussure, dentro la propria parole: altri direbbero dentro la propria esperienza umana e poi artistica. Orietta Brombin con i suoi piccoli canti ci infatua, con il suo sottile gioco circolare col tempo ci aiu-ta a capire l’inganno delle apparenze per sostare, almeno per un attimo, nella piena presenza. Alessia Clema nelle sue teste (memoria) ci offre un altro punto di vista concen-trato sul volto dematerializzato nelle trasparenze, in cui si addensano le cose scelte per rappresentarsi; in qualche modo sono degli autoritratti i suoi, di altre persone però. Quanti registri, tecniche, regole, emozioni, pensieri… idee circolano; quanti modi di rispondere al progetto. Gian Car-lo Giordano continua a rivitalizzare il suo espressionismo

figurativo con un pungente ritratto (del suo amico Mario Pizza) scandito da cromie energetiche. Paolo Bovo incen-tra il suo profile nel dialogo tra uomo e donna, in una se-quenza ritmicamente cadenzata tra disegno e pittura. Con forse ci rincontreremo Marco Lampis affida alle sfumature dei grigi la sua figura primordiale sospesa tra passato e futuro mentre Martha Niewenhuis sceglie lo specchio nel suo narcisistico giro di boa pittorico, come sempre fluen-te e poetico. Siamo ancora nel salone principale dell’En Plein Air e il lavoro di Vered Gersztenkorn ci fa precipitare in un assemblaggio brut (avrebbe detto Dubuffet): segni e figure primitive ma profondamente contemporanee. Per molti versi sulla stessa linea, ma con esiti diversi, la pittura di Miguel Leal sfigura il reale con ironia, stilizzandolo, co-gliendo l’umana crudeltà come se ci dicesse: - l’uomo non è buono, al massimo può diventarlo. Con l’opera non sono sola Marina Pepino affida ai suoi ritrovamenti la costruzio-ne scultorea: un’asse affumicato su cui gravitano dei

sassi, probabilmente levigati dal mare, sostenuti da un filo di rame sottoposto a corrosione vitale. E poi ancora pittura, quella precisa e ipnotica di Elisa Cella dove l’uno e il tutto fanno l’insieme o ancora l’intimo dialogare con la propria ombra in un giorno e in un’ora precisa di Andrea Nisbet nel suo appartamento oppure lo stratificarsi di trasparenze che celano una figura nel lavoro di Tere Grindatto e infine le stratigrafie mnemo-pittoriche di Katerina Dramitinou, testimoni incessanti di umana verità.

La pittura e la figurazione, e per certi versi non poteva es-sere diversamente, dominano la scena di questa mostra; del secondo appuntamento di Alfabetomorso (2011), di questo voler indagare il presente dall’identità, dai codici binari in cui ci muoviamo, dalla rappresentazione del sé, le nuove identità liquide (come direbbe il sociologo Zygmunt Bauman), di questa contemporaneità sfuggente in peren-

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Alessia Clema

ne crisi e trasformazione. E non può che contemplare an-che la dimensione del trapasso perché la morte è parte della vita, che ci piaccia o no e Marco Lavagetto, proprio per questo, ha disseminato di segni, sapientemente ironi-ci, l’esposizione: dai Portacenere a Eternitè fino alla lapi-de (The gateway of cemetery planet) o all’Incidente n°2 su cui vigila un feticcio scaramantico ingabbiato in un piccolo tempio (Nekronos) degno di un moderno rituale vudù. E le sue presenze, dal cortile, si spingono fino alla stanza nera (un nuovo spazio inaugurato per quest’occasione) dove time after time scandisce un tempo infinito (figurativamente rovesciato non a caso) misurando lo spazio scuro in cui coesistono perfettamente molte opere di altri artisti. L’in-stallazione cinemà di Marina Buratti con i suoi fotogrammi autobiografici; oppure quella di Alex Lo Vetro che ci pro-pone, con una tecnica mirabile, un insieme di allegorie fan-tasmagoriche arcaiche e archetipiche. Su un altro piano si muove Francesco Sambo con le sue estroverse e giocose immagini decorate con carte primitivamente contempora-nee. Una piccola opera pittorica, di Akab Raxas, sceglie la classica foto di classe per parlarci del suo presente,

della serie noi siamo ciò che siamo stati mentre Jean Paul Charles affida a un assemblaggio pittorico/digitale la sua partecipazione a Profile. Angelo Barile raccoglie il suo intervento pittorico (anche nelle dimensioni), con due eleganti figure/fantasma dipinte con un fare surrealistico neo-pop. Joel Angelini con un’eco forse pirandelliana ci propone due maschere neo-primitive, elegantemente resti-tuite al presente. Posate in preziose teche, le ossa di Erika Lecchi, raccontano un viaggio atavico dentro l’umanità. Moho apparentemente sembra voler deformare solo il vol-to nelle sue figure ma, avvicinando lo sguardo, entriamo nella sua visione del mondo espressa con la pittura. Con i suoi studi visionari Mario Ernesto Laratore riempie le sue tele di presenze umane, simbolicamente ammassate sen-za un apparente ordine, come accade spesso nei sogni. E nella sostanza impalpabile dei sogni aleggia l’immagi-ne impressa nel suo movimento di Valter Luca Signorile, nell’eco alchemica di un oro primigenio. Prima di uscire dalla stanza ci lasciamo catturare dai pensieri fumosi di Marco Casolino e dal suo satiro evanescente. Usciamo

dalla stanza nera (forse metafora della caverna platonica) e continuiamo il nostro peregrinare. I delicati ritratti di Cri-stina Saimandi, incorniciati da un’abnorme trama di ferro arrugginito, evaporano l’umano per condensarlo nelle sue tracce segniche. Su un altro fronte si muove Giusy Sculli dedita ad ascoltare l’anziana Lucia nel suo universo dome-stico sovraccarico di tutto il suo mondo. Fannidada con la loro teoria di monitor suggellano un presente di tanta gente che fa domande dappertutto e, a loro modo, aggiungono una riflessione visiva che è ancora una domanda: l’arte non da risposte ma sicuramente ne offre. E le risposte di Patrizia Chiarbonello sono una possibilità tra le tante che questa mostra ci offre.

Scendiamo le scale a riposarci un po’ nel prato. Fil rou-ge, ideata da Tea Taramino, è un’architettura leggera, una struttura che dipende dalla corporeità, dalle scelte dei par-tecipanti ed è pensata come occasione per sperimentare alcuni aspetti dell’interdipendenza esistente fra fattori

spaziali, temporali, caratteristiche ambientali e qualità per-sonali dei partecipanti e quindi è un’installazione che rinun-cia all’identità individuale per giocarsi sul piano relaziona-le. Tra i fili dell’erba fuoriesce appena I.D. di Francesco Muro, un’installazione delicata di lastre biancastre in cui s’intravvedono tracce umane: ancora una riflessione visiva sul post mortem, senza enfasi o ironia, questa volta. Dal-l’orizzontalità alla piena verticalità terrena di Carla Crosio con la sua installazione polimaterica che ha scelto per rac-contarsi. L’identità è l’incipit di questa mostra, nelle sue infinite de-clinazioni. L’identità è sicuramente al centro dei linguaggi virtuali dei social network e della rete in genere: nickname, password ci identificano nel compilare form per partecipa-re a newsletter o social network. Il problema dell’identità, in un mondo sempre meno determinato nei confini geografici

Gian Carlo Giordano

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Paolo Bovo

e geopolitici, rivela in se la necessità di riconoscersi in una comunità che è sempre meno identitaria e si sgretola in miriadi di appartenenze fragili.

Samuele Papiro con i suoi 1738 disegni ha scelto di rac-contarsi, dal suo concepimento all’oggi: un diario settima-nale votato a fissare l’impermanenza e quindi ad accettarne, anche, la caducità. Ed è ancora, in altro modo, l’ossessio-ne per la numerologia a condurre Loredana Vairo alle sue ventidue emozioni babeliche ordinate come in un archivio in una cartellina. Roberta Sanfilippo sembra voler rivela-re le sue identità, fissandone una, nell’aleggiare sognante degli elementi (acqua e aria) l’altra, contrappunto, nella caducità del dolore. Chen Li si diletta magistralmente in un’intervista con se stessa, fra trasparenze di pagine pre-cise e lievi al contempo, come un ideogramma della vita. I pinerolesi Marco da Rold e Sabina Villa affrontano il tema pittoricamente, recuperando, a modo loro, il primo ‘900. Francoise Nasica chiude il cerchio con i suoi segni forti strappati sul bianco: un’equazione espressionista, un ossi-moro praticamente. Andrei Dorokhin ci trasporta nei suoi incubi cromatici senza apparente via d’uscita. Nel candore bianco di una stanza Mario Paqualotto con il suo video (nello spirito della psicomagia di Jodorowsky) mette in atto un’azione tautologica e metaforica al contempo.

Entriamo in un’altra stanza e l’atmosfera muta completa-mente. Sul fondo campeggiano le opere di Moira Franco, i suoi doppi, le sue carte intelate che potrebbero essere ispirate da Matteo 6,3: la tua mano sinistra non sappia ciò che fa la tua destra; l’apparenza e il pensiero, la pelle e l’anima… nei suoi esercizi di stile rivitalizza la pittura e lei come altri non hanno paura di essere pittori per essere artisti. Non ne ha paura Elisa Filomena, con la sua me-tamorfosi eseguita a olio su tavola; Daniele Duò utilizza

il medium pittorico con iper-realismo poetico racchiuden-do nel titolo un intento morale: se solo sapessi ascoltare, sentiresti che fa più rumore un battito d’ali di una farfalla, che tutto il vociare del mondo. Barbara Bonfilio costrui-sce le sue figure come trame da parati, in una lucida per-fezione quotidiana, alla ricerca di un racconto iconico da belle époque contemporanea. Agnese Casolani sceglie invece la fotografia per farci precipitare nel suo infernale antro teatrale immaginifico. Antonella Casazza costruisce il suo profile su una scala infantile con il suo deposito di memorie femminili. Di altre memorie, ci parla la ragazza senza mani di Carmen Colibazzi, recuperando la fiaba dei Grimm affronta un tema molto contemporaneo, con la sua camicia di forza, alludendo a un’altra consapevolezza da ricercare attraverso la ritualità dei gesti alla ricerca di se stessi. Osnat Belkind Scheps ha portato un suo lavoro di-rettamente da Tel Aviv, appeso al chiodo il giorno dell’inau-gurazione: un giocoso viaggio in se stessa, formato indu-striale, coloratissimo ed elettrizzato. L’eleganza certosina di crossing, di Margherita Levo Rosenberg, ci porta nella dimensione onirica di una matericità post-concettuale. Mi-chela Ezechiela Riba, come una secessionista contem-poranea, propone il suo polittico pittorico denso d’ironia e simboli attraverso le molteplici sfaccettature di psiche e le sorelle. L’aria si scioglie nei dettagli di Ioanna Spanaki, addensandosi nei grumi pittorici che diventano segnici vol-ti e siamo pronti per uscire dalla stanza e scendere, poco più in la, nella cantina dove convivono, in amabile contra-sto, gli alfabeti smile di Rosanna Giani (precisi e gioiosi reperti comunicativi di una socialità liquida) con un pinoc-chio appeso di Francesca Casolani (incarnazione vivente da teatro di figura) e il volto antico di Caty Briganti, come sempre frutto di un assemblaggio sapiente di materiali di recupero.

Ritorniamo in casa e, prima ancora di salire le scale, gu-stiamoci i volti anemici di Marco Rea fatti di sostanza cro-matica tumefatta e livida e i ritratti di Anna Frida Madia che ritroveremo con altre opere nella mostra, con un ri-tratto elisabettiano (omaggio all’artista Mikhail Vrubel) neo-citazionista ma irrorato di autentica necessità pittorica, la stessa, ma con esiti completamente diversi, di Giuseppe Bombaci con la sua serie di autoritratti scarnificati: piccole tavole di una rinata pittura che non cessa, dagli anni ’80 in poi, di regalarci emozioni forti. Come quelle impresse nelle tele di Gabriela Bodin e, infatti, ne è testimonianza autentica, l’autoritratto di Luigi Stoisa datato 1985, già tra catrame e olio. Altri esiti, di una figurazione informale, quel-li del canadese Ian Gamache oppure quelli, di una primi-tività rinnovata, della spagnola Rosa Ubeda o ancora le insonni visioni di Oxana Mahnac, sui bordi dell’incubo. Di veloci e taglienti segni tracciati col carboncino, sono i ritrat-ti di Vincenzo Corcelli mentre il profilo di Redha Sbaihi oscilla tra la perfezione naturalistica di un’ombra e la forma umana che diviene oggetto. Caterina Bruno evapora nel-le trasparenze dell’acquarello il suo profile. Continuando con la pittura la stanza di Hubert Duprilot ci proietta nelle sue babeliche visioni di umana decadenza cui fa da con-

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Marco FilippaDocente di Discipline Grafico-Pubblicitarie e Storia dell’Arte

Vice-Presidente di En Plein Air - arte contemporanea

Marco Lampis

trappunto la severa precisione delle strutture di relazione di Luciano Gaglio e, per continuità tecnologica, Ridha Dhib costruisce i suoi ritratti con i codici QR (Quick Read). Tobia Ravà col suo bacio specchiante ci proietta, con sapiente ironia, tra i due popoli nella babele numerologica umana.La fotografia, nell’arte contemporanea, occupa da tempo uno spazio autonomo, e Alessandra Baldoni la incarna di visionarietà plumbea e vitale al contempo mentre Andrea Alborno, ci regala da un suo tour fotografico in Kenya, un frame dinamico della sua strega in un’azione probabilmen-te sciamanica. Veronica Bronzetti col suo dittico esplora le dualità dell’esistenza studiate attraverso l’autoritratto. Augusto Cantamessa, nel suo b/n di assoluta purezza, scandaglia l’animo umano attraverso la superficie del volto e infine Flavio Romualdo Garofano con le sue autoripro-duzioni ai confini con la sparizione. Nadia Magnabosco costruisce un autoritratto in forma d’abito, dove fa coesi-stere le sue infinite identità. Claudio Rotta Loria, con la sua collezione di profili, ci propone una sorta di tableau vivant tutto interno ai suoi equatori.

Uno spazio a sé è l’installazione SPACCATA ideata da Elena Privitera dedicata a Solidea Ruggero: i mille volti di questa meravigliosa creatura sospesa tra la sua parola scritta e declinata. Due ritratti la raccontano: uno pittori-co, di Matthias Brandes e uno fotografico di Gaia Merlini Calcagni. Due modi eccellenti di fissare la sua immagine, nel caleidoscopio delle sue interpretazioni.

Resta il penultimo capitolo da raccontare di Profile, quel-lo video. Alcuni video, come quello di Mario Pasqualotto, sono proposti su piccoli monitor all’interno della mostra, altri sono ospitati in una sala di proiezione. In Kill the dif-ference Marco Casolino, come sempre autoreferenzia-le, si erge a salvatore dell’umanità e delle sue devianze e compie ironicamente un viaggio purificatore. Francesco Arena, Antonio Lorenzo Falbo e Sara Grazio con esiti completamente diversi, da tutti i punti di vista, indagano la relazione umana e i flussi emozionali che la governano. Ma-ria Korporal sceglie l’esperienza onirica per parlare di se e dell’incessante nostro rinascere continuamente. Sukyun Yang & Insook Ju ci propongono due video-animazioni ruvide, per molti versi stordenti nel loro ripetere gesti privi di un senso compiuto ammaliandoci nel loro ritmo vorti-coso. Carmen Colibazzi nel suo video, liberata dalla sua camicia di forza, prende coscienza dell’altro fuori e dentro di noi verso alla ricerca di una presenza autentica. Nel vi-deo facce, di Marco Lavagetto, un fiume di volti sfigurati dal tempo esplora la dimensione umana nella sua identità fugace e, come recita la citazione iniziale, non c’è volto che non sia sul punto di cancellarsi (Marco Flaminio Rufo). Infine Celeste Taliani affida a un’animazione pittorica le sue riflessioni visive su Pinocchio mentre Lino Strangis sviluppa, con i mezzi dell’audiovisione digitale, l’enorme potenziale comunicativo, con le sue indubbie ambiguità, impresso nella celebre immagine di Rene’ Magritte: ceci n’est pas une pipe.

Il primo settembre è stato una giornata ricca. Movimen-

tata, nonostante il clima autunnale inclemente. Quattro momenti di azione in diretta in cui ciò che accade, acca-de, non esiste in un altro momento. Uno teatrale, Mai My May a cura di Sandra Morero, Franco Bergoin e Fan-tasmagoria moderna, dedicato a Ettore Giovanni May. Uno poetico, un reading vivo della poetessa Silvia Rosa con il fotografo Fabio Trisorio. Tramage Mixture Lignes et Mouvement : Qu’est-ce et qui se trame? di Ridha Dhib è una performance avvolgente dentro le linee di luce che il corpo di Elizabeth Celle scava nella ragnatela intessuta dall’artista. E nelle trame leggere di Federico Galetto, nel suo fluido Vj che ci aiuta ad arrivare alla notte, si conclude la giornata d’inaugurazione e inizia la mostra o, meglio, il progetto Profile.

Un progetto come questo poteva far scaturire, in tempi confusi come i nostri, l’anima superficiale e quindi tutti gli apparati decorativi dell’apparenza imperante della società dello spettacolo pienamente compiuta dove tutti aspirano a diventare divi (la visione di Guy Debord ha superato ogni sua aspettativa) o, come avrebbe detto il filosofo irlandese George Berkeley: essere è venire percepiti. Gli ottantotto artisti invitati hanno invece risposto scandagliando i loro umori percettivi, sondandoli con le loro est-etiche resti-tuendoci una polis artistica plurale e democratica da cui emerge l’incessante necessità di ricercare. A modo nostro, tutti insieme siamo approdati alla Qohèlet (letteralmente dall’Ebraico: adunare in assemblea) e, si sa, nella dialetti-ca tra bene e male dell’Ecclesiaste biblico, la conclusione è chiara: vanitas vanitatum (vanità delle vanità): ognuno tragga le proprie conseguenze.

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Elisa Cella

Martha Niewenhuis Miguel Leal

Marina Pepino

Vered Gersztenkorn

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Elisa Cella Andrea Nisbet

Tere Grindatto

Katerina Dramitinou

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Marco Lavagetto Marina Buratti

Alex Lo Vetro Francesco Sambo

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Akab Raxas

Jean Paul Charles

Angelo Barile

Joel Angelini

Erika Lecchi

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I l mio personale prologodi Elena Privitera

Che ci fanno: csi, criminal minds, Lombroso, Solidea, Elena, Ettore May, esse/i, una guaina e Solidea… con una mostra unica dell’enpleinair?

È il mio fil noir, o filo spinato su cui cammino che ora tento di spiegare.

Tutti i giorni. un canale televisivo, incessante da miami a los angeles, da berlino a new york, mi inonda di interrogativi, doppie personalità, esse/i, assassini e soprattutto trame diaboli-che che si intersecano, tra la psicologia e il paranormale, nella frenesia di interpretare i comportamenti umani.Chi si nasconde dietro l’uomo comune che si affaccia al mondo come un personaggio già scritto, sempre uguale, indifferente, finché non scatta una virgola un punto una domanda scatenante.Tutti i giorni . Sfioro una vetrina luminosa con una pubblicità “Solidea” ..la super guaina carnosa color pelle di ultima generazione ideale.. (a cosa mi chiedo tiene solo caldo...)

Elena, io. Tutti i giorni. Scorro e scivolo sulle onde della rete, vedo osservo e m’in-canto, un museo a “cielo aperto “un oceano ..

E qui incontro Solidea, e penso alla mia guaina color carne tanto decantata, un presagio...lo so c’è da ridere………...

Giorno dopo giorno la vedo e la sento, scrive, appare m’il-lumina di parole e musica, di musica e parole, scritte e urlate, dal palco dalla sua cucina, davanti alla webcam, o su un marciapiede, leggo e mi chiedo chi è Solidea?

Chi sono i tanti amici, si fa per dire, che ho qui su questo network, amiamo le stesse cose? Viviamo la stessa vita, qualcuno o nessuno...?Impossibile rispondermi. E allora nell’oscuro mondo di fa-cebook, decido di indagare e parto da solidea, la donna che si “denuda” tra noi, che ci parla e si esprime tra dubbi e certezze bisbigliando o urlando, non importa, è Lei e noi con lei.E intanto scivolano dall’etere sui “muri” inesistenti imma-gini di tante solidee, in bianco e nero o a colori, catturate, rapite dai suoi splendidi amici, tutti presi dal carisma, dalla tenerezza forte e umana, della grande autrice interprete di un mondo apparentemente teatrale, forse, io dico vero, e quanto è vero!.

Ho seguito il suo postarsi, commenti, link, ed ho capito.Tempo fa scrissi a me stessaE solidea?Idea solida, parole scritte sulla carne viva, urlate dalla pelle fino a noiNon importa quali siano, è tanto e molto di più La carne racconta come un papiro antico srotolato, e la voce urla e geme e sussurra e c’incanta e ci tocca cor-

de antiche, qui su facebook oggi: vediamo, ascoltiamo, mangiamo e ci nutriamo velocemente, notizie informazioni sciocchezze, ma la vera realtà traspare, tra le maglie delle rete, attimo per attimo, giorno dopo giorno mi son chiesta, ma chi è solidea? Profile per me è questo, tentare di individuare la vera ani-ma e quanto ci si conosca intimamente.

Spaccata racconta di una vita quella di solidea, come tante altre vite, quando ti alzi e ti incammini, quando sai che non “sai” nulla e non lo saprai mai, quando pensi di aver tutto chiaro, al primo passo esiti, al secondo, tacchi a spillo o paperine, vai, una donna va .

Le immagini generose di tanti autori ci mostrano una so-lidea, mille solidee, tutti hanno visto in lei la donna dagli occhi bruni antichi, piccola o grande, non importa… non l’ho mai incontrata, ma è qui..

Il filmato raccoglie una parte delle immagini che vari autori le hanno dedicato, ho chiesto loro un commento due pa-role, facile a pensarlo difficile realizzarlo.Due parole o mille sarebbero poche o nulla, quindi saremo noi con loro a leggere l’emozione di chi ha impresso e fer-mato nel tempo solidea .

Lo dedico a Solidea e a tutte le donne perché come recita una pubblicità..noi valiamo.

Elena PriviteraPresidente di En Plein Air - arte contemporanea

Ideatrice e anima del Progetto “Maionese” dal 1997

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S P A C C A T A Dedicato a Solidea Ruggiero

Ideato da Elena PriviteraImmagini di Solidea Ruggiero degli autori:

Massimo Barberio / Sabrina Bartolozzi / Rita Vitali Rosati / Massimiliano Bartolini / Luca BortolatoFabrizio Carotti / Paola Castagna / Flavio Romualdo Garofano / Lucio Patone / Massimo Festi / Nicola Fasolato Tiziano Scaboro / Marco Casolino / Noil Klune (Toni Zappone) / Sara Genny Michetti / Dante Marcos Spurio Luca Traini / Andre Te / Gaia Merlini Calcagni

Musica video dei compositori: SPACCATA - Mauro Crivelli IO CHE NON CONOSCO LA VERGOGNA - Lucio Lambertelli e Paolo Erica DI-STANZE - Madì

Produzione filmato di Enrico Comba e Marco Lampis

SPACCATA di Solidea Ruggiero

Chiedimi del linguaggio con cui parlano le cose. Chiedimi se esiste un modo di sovrapporci, e diventare infallibili. Chiedimi se hai ragione quando mi senti spaccata.

Ho smesso sì di lottare inutilmente. Io non ricordo molto. Non ho mai avuto buona memoria. E’ così son salva. Non ricordo nemmeno le parole dette poco fa. Ho voluto cambiarmi senza mai riuscirci, mi hanno insegnato i sensi di colpa e la rabbia che ti lasciano. Non subisco il fascino del potere e bevo a tavoli di stolti quasi sempre, che siano essi coscienti o meno. Sono braccata in un moto che ho accettato perchè lo volevo, l’ho cercato, perchè è il mio. Inutilmente mi chiedo cosa farò, perchè lo stò già facendo e riesco a distinguermi ed anche ad accettarmi a volte, ma non a smettere di pensare però. Penso sempre troppo. Non sono mai stata uguale eppure o vissuto stessi circoli.

E allora farò da me, non penserò che al niente, non inventerò più modi per reagire. Sarò battuta, plasmata, senza più segnali o cenni d’esistenza. Sarò così, inerme, con un pulsare spento.

Eppure i solchi, li vedevo lucidi su di me. Mappature dell’io, a ricordare il tracciato, il lasciato, il desiderato, che non c’è più. E poi, seguendo le impronte, capire che tutto è congiunzione, tutto è ritorno. Non è sacrifico una cicatrice: è solo tutto quello che rimane. Tutto quello che mi somiglia. Se fossi stata intera, sarebbe mancato qualcosa.

Matthias Brandes

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Moho Mario Ernesto Laratore

Valter Luca Signorile

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Viviamo un tempo che scorre come un fiume in piena, in un paesaggio che dilata i suoi confini, a perdita d’occhio; dob-biamo segnare ogni passo per ritrovare, un giorno, la via del ritorno. L’incontro, l’incrocio di sguardi con il passante di turno, nel quale, in altre epoche, ci si poteva rispecchiare, nel villaggio globale diventa esperienza straniante che, l’accelerazione temporale di quest’epoca della storia, trasforma in stimolo depersonalizzante.

Ogni nuovo vento ci spinge in altra direzione e dobbiamo stare attenti per non disperdere ogni nostro pensiero, ogni nostra memoria, ogni nostra intenzione.

Per questo, di tanto in tanto, abbiamo bisogno di riscrivere chi siamo, mettere radici – paradossalmente – sulla linea di confine che la vita ci costringe a percorrere senza sosta.

Credo che l’arte rappresenti l’unica terra di mezzo dove si possono mettere radici e proteggere, ognuno, il confine della sua propria identità che si nutre d’interezza e ricomposizione. Penso all’arte come luogo metaforico dove depositare oggetti affettivo/transizionali, frammenti di linguaggio, schegge emotive, stralci della memoria; arte come spazio di liber-tà espressiva e d’integrazione di elementi divergenti, trasformabili in simboli della nostra relazione col mondo e con la vita che ci capita di vivere.

L’opera d’arte si presenta allora come la risposta ad una richiesta d’interezza, il frutto di un “collasso” degli elementi disgregati nella memoria, una ri-composizione che costruisce il dialogo intimo con se stessi, segna un punto fermo nella nostra storia, ci restituisce in equilibrio con l’esistenza ed apre a nuovi percorsi.

Questi versi e l’opera omonima, Margherita Crossing, raccontano di un problema di radicamento che non ha potuto trovare appiglio nel mondo esterno, non nel mondo interno ma in quella terra di confine che chiamo “arte”

Genova 31 marzo 2012

Margherita Crossing

Mi scusi signore, abita qui la poesia?No, che cosa glielo fa pensare?Ho visto due sassi e un aquiloneimmersi nella conversazioneSi davano del tu?No, ma c’era un cammelloE ci hanno parlato?No, ma lo guardavanocome lo avessero conosciuto!E lei che ha fatto?Per un attimo, mi sono sperdutopoi mi hanno fatto tenerezzaI sassi? Il cammello?No, le impronte di un piede bambinolì vicino.Lei mi confonde!Mi perdoni, non volevoma era dolce, gentile, accoglienteSe non la incontravoa chi lo raccontavo?

Margherita Levo Rosenberg, settembre 2007a Maria Cellesi, la mia splendida psicoanalista

CROSSINGdi Margherita Levo Rosenberg

Margherita Levo Rosenberg

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Marco Casolino Cristina Saimandi

Giusy Sculli

Fannidada

Patrizia Chiarbonello

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FIL ROUGE Architettura temporanea e relazionale.Ideazione e conduzione di Tea TaraminoCostruzione collettiva in canne di bambù, fettuccia e cor-dino di cotone rosso, materiali naturali vari. Dimensioni e rivestimento variabili in relazione al numero dei costruttori, al luogo e alle stagioni. Una struttura che dipende da pre-senza, corporeità, scelte e sensibilità dei partecipanti ed è pensata come occasione per sperimentare alcuni aspetti dell’interdipendenza esistente fra fattori spaziali, temporali, caratteristiche ambientali e qualità personali degli interve-nuti.

Gruppo di lavoro 2012Maria Luisa Boscolo, Fabrizia Canavese, Vincenzo Cannil-lo, Marcello Corazzi, Federico Ricetto, Angela Robert, Tea Taramino del Progetto Forme in Bilico, Circoscrizioni 1 e 8Roberta Billè e Katia Lombardi, artiste volontarie per il pro-getto Arte Plurale

Concetti costruttiviIl nastro rosso, elemento simbolico di continuità e relazio-ne, qui usato come traccia di fondazione della costruzio-ne è marcato ad intervalli di un metro da numeri posti in progressione. Ritmo, intervallo e dimensione corporea dei partecipanti sono gli elementi caratterizzanti la struttura per mettere a fuoco l’importanza della relazione fra assenza/presenza, regolare/irregolare, continuo/discontinuo, fattori influenti nella strutturazione di un insieme o di un messag-gio. La statura e l’apertura delle braccia sono gli elementi per determinare la larghezza del proprio modulo, (compo-sto da sei canne di bambù unite a formare un arco) Questa scelta sottolinea l’importanza di ognuno nella costruzione comune quanto la necessità di accordare misure, somi-glianze e differenze per realizzare una struttura organica. Le sei canne di ogni modulo sono divise in parti secondo i criteri proporzionali della sezione Aurea. Per stabilire la re-lazione spaziale di ognuno - rispetto al nastro, al territorio e alle persone - si procede, in modo ludico, con un sorteggio adoperando una numerazione superiore alla quantità dei partecipanti, i numeri non estratti hanno la funzione di crea-re dei vuoti e quindi degli intervalli nella struttura. Tenendo il nastro rosso - rappresentante sia il legame di gruppo sia il segno da lasciare sul terreno - ogni partecipante, in suc-cessione, ha un margine relativo di movimento nell’orienta-mento del proprio modulo. In questa operazione la facoltà di scelta della disposizione spaziale di ognuno è vincolata alla posizione di chi sta davanti. Queste operazioni sono precedute da un’osservazione del luogo e da una riflessio-ne comune sui criteri di occupazione dello spazio.

L’opera è aperta all’intervento del pubblico. I fili rossi possono essere infittiti tessendo ulteriori trame che progressivamente intensificano la costruzione. Inoltre sono stati predisposti dei moduli in bambù e cordino rosso da agganciare come rivestimento della struttura. Tali elementi sono concepiti come corpo unificante e nello stesso come tempo spazio definito per accogliere il tratto distintivo delle individualità. Ogni partecipante, tessendo o inserendo nel-la trama di corda dei moduli, i materiali a disposizione, può

contribuire alla caratterizzazione dell’edificio.

Chi siamo: Progetto Forme in BilicoUna circolazione di idee tra il mondo educativo, dell’ar-te, della scuola e della terapiaGruppo, aperto alla partecipazione e allo scambio, costi-tuito dal personale e dai frequentatori dei laboratori comu-nali: Forma e materia: sperimentazione sull’uso creativo dei materiali (in particolare metalli) finalizzata alla realiz-zazione di monili e oggettistica d’arte. Circoscrizione 1, Via Dego 6, 10129 Torino, Tel. 011/4437124, e-mail: [email protected] La Galleria: disegno, pittura, fotografia, cinema di animazione e video di documentazio-ne. Collezione storica cittadina di Arte Irregolare. Organiz-zazione e cura di eventi, esposizioni e/o workshop all’inter-no e in altri ambiti in particolare Arte Plurale, Circoscrizione 8, C.so Sicilia 53, 10133 Torino, tel. 0114429264, e-mail: [email protected]; [email protected]

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Marco Da Rold

Carla Crosio Samuele Papiro

Roberta Sanfilippo

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Francesco Muro Loredana Vairo

Mario Pasqualotto

Sabina Villa

Andrei Dorokhin

Marco Da Rold

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LE STESSE COSE RITORNANO *di Tiziana Conti

“L’uomo senza identità”. Potremmo modificare in questo modo il titolo di una delle opere fondamentali del ‘900, “L’uomo senza qualità” di Robert Musil, adeguandolo op-portunamente al nostro tempo. Come afferma il germani-sta Cesare Cases, vi si tratta “della riduzione della realtà a irrealtà e degli avvenimenti al loro aspetto spettrale”. Vi si fa riferimento ad un’ epoca storica ben precisa, impre-gnata di decadenza, quella della dissoluzione dell’Impero asburgico e, con essa, al crollo di valori secolari, primo tra tutti la tradizione. Di qui lo sfacelo dello spirito, alla deriva, senza alcun modello di riferimento, nel baratro di una crisi senza precedenti.Nel mondo contemporaneo il grande accusato è la glo-balizzazione, con tutte le sue implicazioni, in primis la di-sintegrazione dell’io e il disgregarsi delle coscienze. Ma conviene fare qualche passo indietro, se si vuole gettare uno sguardo sulla complessità di una situazione difficile che si trascina ormai da decenni e che pare non voler re-gredire affatto.In “Essere e tempo” (1935) Il filosofo Martin Heidegger af-ferma che il mondo è un progetto e che esistere significa vivere nel progetto. Tuttavia l’uomo, “scagliato” nel mon-do, è circondato dalle cose, e i suoi rapporti con gli altri sono segnati dalla cura. In questo modo l’autenticità del progetto si trasforma inesorabilmente nell’anonimità, dove tutto è reso ufficiale: il linguaggio, che dovrebbe essere autentico, si trasla, di conseguenza, in un protocollo co-struito su convenzioni. L’osservazione sul linguaggio ri-sulta assolutamente attuale: nel mondo contemporaneo: la parola non è l’espressione dell’originarietà dello spirito, quanto piuttosto il veicolo di dati piatti e omogenei, funzio-nali all’uso.Il secondo nodo tematico che si palesa è costituito dal parossismo, che contrassegna il reale, in un inestricabile groviglio di costruzione e annientamento. L’onnivora ve-locità con la quale il nuovo si sviluppa, testimonia di una dimensione tecnologica cresciuta a dismisura, nel segno di una sfida continua, manifestazione di un’Onnipotenza (virtuale) che non segna mai il passo. L’ossessività deriva proprio dall’impulso violento di realizzare tutto ad ogni co-sto, nella cifra di un sensazionalismo ad oltranza. La tecnologia si è sviluppata progressivamente come una aggressiva “anti-natura”: manipolazione del codice gene-tico, chirurgia ad effetto, biotecnologia, microprocessori, generazioni sempre più perfette di computer, telefoni cel-lulari. I-Pad, I-Phone. Esiste ancora una corrispondenza tra l’io fisico e l’io psichico? Il soggetto è tuttora in grado di “comprendere” il senso di ciò che incontaminato?Se da un lato siamo assediati dall’esasperazione tecno-logia, su un altro piano, interagente, si assiste alla resa senza condizioni alla speculazione finanziaria, alle lobby fagocitanti dei grandi magnati, alla tirannia del potere po-litico ed economico. E’ lo “spazio oscuro” dentro al quale Georges Bataille ritiene che l’uomo sia intrappolato. Sono i “simulacri”, che secondo Jean Baudrillard avviluppano la realtà contemporanea in un universo di “simulazioni”: a domande dirette si risponde con le modalità della selffilling

prophecy, si gira cioè vorticosamente all’interno di modelli vuoti, nell’estasi della negazione e dell’annientamento.I frammenti che costituiscono l’universo deflagrano in schegge impazzite, che condannano ineluttabilmente l’in-dividuo a esistere nel dominio dell’apparenza, lo riducono a comparsa sul palcoscenico dell’assenza, in una preca-rietà border line. Non solo abbiamo smarrito l’identità; non la cerchiamo più, ingannati dall’idea surrettizia di un’eterni-tà a portata di mano, che si può facilmente raggiungere. E’ difficile rendersi conto che si è prigionieri dell’illusione, che ci si sta muovendo in una palude di sentieri fangosi e che la tanto agognata eternità è soltanto un abisso distruttivo.Da tempo ci siamo lasciati alle spalle “anche” il post-hu-man. Abbiamo realizzato l’”oltrepassamento”. Fatto di una simultaneità temporale che consente di avere tutto-insie-me-subito, plasmato dall’esasperazione mediatica, che ha sostituito la capacità narrativa con una rappresentazione lineare prevedibile. Contano solo gli effetti speciali. Ma l’in-dividuo ha bisogno di altro, ha la necessità di acquisire una consapevolezza del sé che non può prescindere dalla relazione con gli altri. Ha bisogno di libertà, non di arbitrio, di obiettivi formanti, non di vuota esteriorità.Porsi domande cruciali sullo smarrimento, sull’inquietudi-ne, sull’artificiosità di certe scelte, equivale a prendere le distanze dall’omologazione del villaggio globale, e a co-struire nuovi codici etici, senza i quali non è possibile ri-definire e ricostruire l’io. Diversamente potremo ammirare soltanto “una successione di splendori crudeli” (Georges Bataille).

* Il titolo delle mie riflessioni è il titolo di uno dei capitoli dell’“Uomo senza qualità”

Tiziana ContiLaurea in Germanistica e in Filosofia, con specializzazione in Estetica, cum laude e dignità di stampa. Ha scritto diversi saggi

di letteratura tedesca e di arte contemporanea.Nell’ambito dell’arte contemporanea ha curato numerose mostre su incarico di Enti pubblici e di galleristi e collabora con riviste specializzate del settore. E’ attiva in Germania quale ricercatrice

nell’ambito dell’estetica letteraria.

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Elisa Filomena

Daniele Duo’

Moira Franco

Francoise Nasica

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Barbara Bonfilio

Agnese Casolani

Antonella Casazza Carmen Colibazzi

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Osnat Belkind Scheps Michela Ezechiela Riba

Caty Briganti Francesca Casolani

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Ioanna Spanaki

Marco Rea

Rosanna Giani

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Gabriela Bodin

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Nel suo studio su La teoria dei colori, in opposizione al-l’interpretazione dei colori esposta da Newton, che vedeva i colori come un derivato della scomposizione della luce, Goethe sottolinea come i colori nascono dalla relazione tra luce e tenebre, cioè dal processo di ottenebramento della luce da un lato e da quella di chiarificazione della tenebra dall’altro.Se il colore, per Goethe, è azione e passione di luce, esso ha tuttavia un certo valore di Ombra.Inoltre, se il colore percorre sempre una strada esso sarà, nei giorni di sole, e più ancora nelle ore del giorno che pre-cedono il tramonto, seguito da lunghe ombre scure.Nel percorso analitico, sulla strada dell’individuazione, la luce della coscienza illumina sempre di più il nostro pro-cedere, svelando nel contempo l’ombra nascosta nel buio del nostro inconscio.La completezza sta nel riconoscere e ricongiungere gli op-posti. Accogliere ed accettare la propria ombra come par-te naturale di sé, significa poterla utilizzare, convertendo in energia positiva e creativa ciò che prima era percepito come negativo, minaccioso e inaccettabile.

Se la luce in pittura poteva evocare e rivelare la presenza del divino, l’ombra evoca la nostra vergogna, che ci segue e ci perseguita. E tuttavia Ombra è anche riparo, frescura, nascondimento e spazio di riposo e di transito.Attraversare la “linea d’ombra” è una necessità in ogni per-corso creativo. L’Ombra, l’Altrove, il Perturbante, il Doppio sono, da sem-pre, temi propri dell’arte, espressione del tentativo di supe-rare il visibile, rendere presente l’assente, far emergere le varianti, i riflessi, i moti dell’anima.Se la stagione d’Ombra dell’Ottocento, tra le tenebre visive di Goya e Munch e i più rassicuranti chiaroscuri di Renoir , ha rappresentato il culmine di questa ricerca inesauribile, pure in tempi più vicini a noi è possibile ritrovare questo tema, spesso in modo ossessivo, angosciante e ripetitivo.L’imprendibile Ombra, misteriosa e inquietante, spesso si presenta come sembianza della morte. La svalutazione della riflessione religiosa su una vita dopo la morte, accanto al mito dell’onnipotenza scientifica, ha rinforzato l’Ombra della morte, rendendola presupposto sulla quale ogni altro aspetto d’Ombra, ogni altra ango-scia, si regge. In questo senso vorrei soffermarmi sull’opera di Andy Warhol, a cominciare dai ritratti di Marilyn Monroe a cui l’artista inizia a lavorare subito dopo la morte dell’attrice avvenuta la notte tra il 4 e il 5 agosto 1962.In realtà, nel giugno dello stesso anno, Warhol aveva ini-ziato a dipingere, ancora a mano, il primo di una serie di quadri dedicati alla morte. Nel caso specifico l’artista rap-presenta fedelmente, in Death and Disaster, la prima pagi-na del “New York Mirror, dedicata a un disastro aereo che aveva causato la morte di 129 persone.Nel quadro di Warhol la morte viene quasi esorcizzata, di-venta una semplice notizia tra le altre, sostituita dalla cro-naca giornalistica del giorno dopo.

Anche i ritratti di Marilyn Monroe, le cui serie tratte da un’unica foto si susseguono nel corso del tempo, fanno parte della più ampia tematica della morte da cui l’artista viene attratto in modo sempre più ossessivo; l’adozione della tecnica serigrafia permetterà la replica, fredda e ri-petitiva, capace di mantenere in vita il sorriso stereotipato, congelato, dell’attrice defunta, quasi una maschera fune-rea a futura memoria. Pur non avvezzo all’introspezione personale, spesso, nel suo lavoro, Warhol prenderà contatto con il suo “negati-vo”, il suo doppio e con la sua ombra, riproducendola in una serie di serigrafie su carta e su tela. Secondo alcuni critici dell’artista, questa fase è segnata da una fotografia del 1974, in cui compare Andy Worhol e Giorgio de Chirico, che potrebbe ben rappresentare l’immagine di un passaggio di poteri: nella casualità della posa de Chirico trasmette a Warhol il proprio mondo d’om-bra affinché ne diventi il padrone. Alla morte di de Chirico, quattro anni dopo la citata foto, Warhol inizia la serie delle Ombre, che esprime un omag-gio, ma anche una sorta di simbolico assassinio del suo maestro, da cui erediterà non solo trasferimento d’ombre e prolungamento degli enigmi ma anche il gusto della ripeti-zione incessante e l’intuizione della serialità. A tale proposito nell’intervista rilasciata ad Achille Bonito Oliva nell’occasione della mostra romana Warhol verso De Chirico, l’artista dirà: Tutte le mie immagini sono le stes-se…benché al contempo siano anche diverse. Cambiano con la luce dei colori, col movimento e lo stato d’animo…Non è la vita stessa una serie di immagini che cambiano nel loro stesso ripetersi?Ritroviamo in queste parole il carattere dinamico del feno-meno dei colori proposto da Goethe, molto simile al per-corso della psiche, alla camminata terrestre di ogni essere umano che, come singola goccia d’acqua partecipa della grande, incessante, onda dell’umanità, tra le ombre del tramonto e il chiarore di una nuova alba.

IL MORSO NELL’ARTETra luci ed ombredi Vincenzo Ampolo

Vincenzo AmpoloPsicoanalista e Psicologo-Psicoterapeuta

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Mi hai scucito il fianco con dita callosegirato la notte senza stelle né paradiso.Se la verità vive tra le costolee come talpa resta in attesaallora siamo l’ombra del sole piegatamuoviamo parole davanti ai cancelli.Ricordo la stagione dei ciliegigli alberi di gelsi nutrire due amici._______________________________________Mille volte i canti delle magnolieritornano nell’imbrunire al mio respiro.Non temono l’intreccio dei ventiné le linee curve del seno nelle nuvole.Indugiano solo quando l’eco disperata le insegue.’

Inedito (diritti riservati)

Rita Pacilionata a Benevento, Scrittrice, poetessa e sociologa.

Due interventipoeticidi Rita Pacilio

Anna Frida Madia

Luigi Stoisa

Giuseppe Bombaci

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Chen Li

Ian Gamache

Rosa Ubeda Vincenzo Corcelli

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Caterina Bruno

Luciano Gaglio

Oxana Mahnac Redha Sbaihi

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Certo, Emily, non posso che dirla obliqua, visto che non sono una sola ma ben tre, e in passato sono stata diverse altre. Tutto è iniziato quando da ragazzina iniziai a scrive-re racconti, firmandoli Bea Stradivari. Poi fui folgorata da “Orlando” di Sally Potter, tratto dal romanzo della Woolf: era sempre lui, l’androgino cortigiano prediletto da Elisa-betta I, che viaggiava attraverso i secoli indossando sva-riate vesti fino a risvegliarsi, un giorno, donna. In seguito arrivò George Eliot, che in realtà era Mary Anne Evans, ed il suo “Middlemarch: studi di provincia”, e fui colpita dalla sua particolare introspezione psicologica ed ironia in-quietante. Passarono gli anni, mi imbattei nel giornalismo e mi si chiese di firmare i pezzi con un nick name, così ac-cadde. Cambiai nuovamente nome e divenni leicav (leica per la mia passione per la storica macchina fotografica, v. è l’iniziale del mio cognome). Un bel giorno decisi che era tempo di scrivere un romanzo, ma non sarebbe stata una “faccenda normale”: prima ancora di scriverlo, avrei creato il mio alter ego, la mia eroina facendola vivere prima su internet, per avere un riscontro immediato. E così nacque Emma Travet (la precaria sì, ma con stile), su myspace, nel mese di giugno 2007, anche se, nella sua realtà, era già nata il 7 settembre 1982. Sono trascorsi cinque anni, un ro-manzo, tante presentazioni e interviste… lei è diventata più nota di me, spesso la gente quando mi incontra mi chiama Emma, ma io non ci bado più, perché ho superato di gran lunga lo sdoppiamento di personalità, anzi, ne ho creata una terza, che sto testando da qualche mese su www.notenews.it: madaminfrills, la elegantemente perfida che nutre sincera ammirazione per la “Signorina snob” della Valeri. Da dove arriva questo bisogno così profondo di continua-re a volersi autorappresentare, sempre attraverso un’altra? Non saprei, o forse sì… penso abbia radici nel passato, dove la mia mente già creativa pativa la molle vita di pro-vincia e desiderava scappare via, verso altre vite. Spesso ci sono riuscita, viaggiando e trovando le città ideali (Lon-dra, New York), ma il rientro era pesante. Thanx God, ho scoperto internet in una vacanza a Miami e mi si è aperto un mondo. Poi sono arrivati i social newtwork ed ho potu-to mascherarmi, divertendomi, sperimentando le mie tante verità oblique, e ora che ci sono dentro da tempo, perché dovrei uscirne? Si sta così bene qui…

“Dimmi tutta la verità, ma dil la obliqua”(Emily Dickinson)

di Erica Vagliengo

Erica Vagliengo(Pinerolo,1977) www.emmatravet.it

Foto di Angela Grossi

Ridha Dhib

Hubert Duprilot

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Tobia Ravà

Augusto Cantamessa

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Claudio Rotta Loria

Flavio Romualdo Garofano

Alessandra Baldoni

Veronica Bronzetti

Nadia Magnabosco

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Francesco Arena

Andrea Alborno

Celeste Taliani

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(Marco Filippa)Prof. Montaldo siamo felici che abbia accettato la nostra intervista; lei dirige un piccolo-grande museo dedicato a Cesare Lombroso e, in qualche modo, il tema è affine a quello di Profile, la mostra che ci accingiamo a inaugurare. Ho letto, non se sia vero, che dopo la morte di Lombroso, il suo corpo fu sottoposto ad autopsia. In base ai risultati si disse che, secondo le sue stesse teorie, sarebbe stato da ritenere, “affetto da cretinismo perpetuo”. Se questa storia è vera, sembra scaturita da un film di Woody Allen. Battute a parte, può raccontarci qualcosa di questo museo, della sua storia… insomma passo a lei la palla.

(Prof.Silvano Montaldo)Sì, dopo il decesso, il cadavere di Cesare Lombroso fu sottoposto ad autopsia, secondo le sue volontà, da-gli allievi, tra cui Mario Carrara, suo genero. Alcune parti del corpo, tra cui il cervello, furono asportate e sono tuttora conservate, così come lo scheletro, che è esposto in Museo in base alle indicazioni testamenta-rie. Non sono un anatomista, e pertanto non saprei se l’esame autoptico abbia davvero rivelato una sindrome di qualche natura, oppure se anche ciò faccia parte del-le tante leggende fiorite intorno al personaggio e al suo museo. Quest’ultimo è nato come collezione privata, soprattutto a carattere craniologico, intorno al 1859; è cresciuto negli anni pavesi, per seguire il suo proprie-tario a Torino nel 1876. Negli anni successivi avverrà il riconoscimento, da parte dell’Università di Torino e del governo italiano, dell’interesse di questa raccolta, che diventò un vero e proprio museo universitario con il trasferimento nella sede attuale, presso il palazzo de-gli Istituti anatomici, a fine Ottocento. Dopo la morte di Lombroso fu Carrara a succedergli, nell’insegnamento di Antropologia criminale e nella direzione del museo, fino al 1932, quando egli venne radiato da ogni incari-co per essersi rifiutato di giurare fedeltà al fascismo. All’epoca, si pensò addirittura a un trasferimento della collezione a Roma, ma il museo rimase a Torino, ormai sempre più legato agli sviluppi della Medicina legale, più che a quelli dell’Antropologia criminale, che si era

rivelata un campo di ricerca sterile. Con il secondo do-poguerra il museo è andato infatti assumendo sempre più un carattere storico, come documentazione della storia di una disciplina e più in generale di una fase delle scienze dell’uomo in Italia, che ebbe notevole in-fluenza sul piano culturale e anche, in parte, in campo giuridico. La piena consapevolezza dell’importanza di questo giacimento come bene culturale da tutelare e valorizzare si è avuta però solo con la mostra “La scien-za e la colpa. Crimini, criminali, criminologi. Un volto dell’Ottocento”, allestita nel 1985 presso la Mole anto-nelliana. Da quel lavoro ha preso avvio la campagna di catalogazione di tutti i materiali presenti, coordinata da Umberto Levra e dall’allora direttore del museo, Mario Portigliatti Barbos. Infine, grazie all’avvio del progetto Museo dell’Uomo, in collaborazione tra l’Ateneo torine-se, la Città di Torino e la Regione Piemonte, guidato da Giacomo Giacobini, il museo ha trovato una collo-cazione adeguata presso la sede originaria ed è stato aperto al pubblico nel novembre 2009. Sinora, i risultati in termini di pubblico, sia per numero di visitatori, che per l’apprezzamento dell’esposizione, sono molto in-coraggianti. Oggetti delle collezioni lombrosiane sono continuamente richiesti per grandi mostre sulla scienza o sull’arte in Italia e all’estero, mentre si sono rivelate come strumentalizzazioni politiche legate alla ricorren-za del Centocinquantesimo dell’unificazione le polemi-che scagliate da gruppi “neoborbonici” che hanno vo-luto vedere nell’apertura del museo l’espressione di un latente razzismo nei confronti degli italiani del Sud.

(Marco Filippa)Quindi il genero di Lombroso fu tra quei pochi docenti universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo, notizia suggestiva e al contempo interessantissima che mi spinge, con un volo (neppure troppo) pindarico, a cercare possibili parallelismi tra gli anni trenta e il presente, tra la criminologia odierna e un tentativo, seppur superficiale, di analisi antropologica dell’Italia odierna. Tra la criminologia

Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”Pagine di quaderno con disegni di un alienato (foto R. Goffi)

Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso” Sala principale (foto R. Goffi)

INTERVISTA A SILVANO MONTALDOdi Marco Filippa

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mediatica (da Pacciani a Vantaggiato passando per Anna Maria Franzoni) condita da succulenti dibattiti pseudo-scientifici in un paese in cui statisticamente i crimini sono in diminuzione, ma percettivamente la paura amplifica l’in-sicurezza sociale e al contempo le carceri scoppiano e i tri-bunali sono al collasso dopo ormai trent’anni di condanne dalle corti europee e internazionali. Un’ora di antropologia culturale, fin dalla scuola elementare, credo assicurerebbe più coscienza civile a un paese avvitato culturalmente fino al ridicolo. Non è propriamente una domanda, ma piutto-sto una riflessione, quella che offro alla sua libera interpre-tazione. A lei la parola.

(Prof.Silvano Montaldo)Antropologia culturale, certo, non l’antropologia crimi-nale lombrosiana, che non può essere insegnata oggi poiché era una disciplina rivelatasi erronea nelle sue basi scientifiche, e questo è uno degli aspetti fonda-mentali dell’educazione museale che viene fornita al visitatore, sia nello specifico delle teorie lombrosiane, sia più in generale, poiché le certezze scientifiche sono sempre provvisorie, in ogni epoca. Condivido piena-mente anche gli altri aspetti del Suo discorso, ad esem-pio sull’allarme sociale veicolato dai mass media. Nel 1876, quando Lombroso pubblicò la prima edizione del-l’Uomo delinquente, la popolazione italiana era circa un terzo di quella di oggi e gli omicidi erano il triplo. Ciò da un lato dovrebbe indurci ad attenuare il senso di insicu-rezza diffuso, e dall’altro, per lo storico, contribuisce a spiegare il successo che all’epoca riscossero le teorie lombrosiane, poiché sembravano dare una risposta e offrire delle soluzioni a una delle grandi questioni che incombevano sulla vita del giovane Stato italiano.

(Marco Filippa)L’incertezza scientifica ha del resto basi solide nel crite-

Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”Orcio che conteneva l’acqua per i prigionieri delle carceri

“Le Nuove” di Torino (foto R. Goffi).

rio popperiano di falsificabilità; oggi i media tradizionali e i new-media ci offrono potenzialmente strumenti enormi di comunicazione ma non ci assicurano per questo un’auten-tica conoscenza. Un museo come quello da lei diretto ha il pregio di diffondere la conoscenza di cui ce n’è sempre più un gran bisogno. Ho letto, in una nota biografica che la riguarda che, tra le molte cose, ha curato insieme a Gian-carlo Monina, la prima indagine nazionale sull’insegna-mento della storia Contemporanea in Italia. L’importanza della storia per il futuro, ritengo sia un dato fondamentale per la crescita di una comunità. A partire da questa ricerca le chiedo di chiudere l’intervista con un’ampia riflessione e la ringrazio ancora per la disponibilità dimostrata.

(Prof.Silvano Montaldo)Quella ricerca è stata una sorta di censimento sull’in-segnamento della storia contemporanea, un settore specifico all’interno dell’ampio ventaglio di discipline storiche che vengono insegnate nelle università ita-liane. Ne emergevano considerazioni interessanti, ad esempio sulla preponderanza, nei programmi di inse-gnamento, della storia del Novecento su quella del-l’Ottocento, una tendenza che forse è stata in parte e per un breve periodo corretta in occasione del Cento-cinquantesimo dell’unificazione italiana, quando sono apparsi anche molti studi sul Risorgimento e sull’Italia liberale. In generale, però, si deve lamentare un preoc-cupante scollamento tra il livello degli studi accademici e il tipo di comunicazione che viene divulgata da radio, stampa, cinema e televisione. È un po’ come se univer-sità e mass media comunicassero poco, o lo facessero attraverso canali non trasparenti, un problema che può essere addossato solo in parte al mondo accademico, che pure ha le sue responsabilità. Faccio un esempio: una trasmissione radiofonica come il “Bollettino del Ri-sorgimento” realizzata da Radio 24 è stato un ottimo programma sul processo di unificazione, che ha fornito una comunicazione non ingessata, corretta ed effica-ce, ma altri eventi televisivi realizzati in occasione del Centocinquantesimo avrebbero potuto giovarsi delle competenze presenti nelle università italiane, che inve-ce spesso non sono state interpellate.

Silvano MontaldoÈ professore associato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia

dell’Università di Torino, dove insegna Storia del Risorgimento, ed è direttore del Museo di Antropologia criminale

“Cesare Lombroso”, che fa parte del Polo museale universitario. Ha all’attivo numerose pubblicazioni sulla storia dell’800 italiano.

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Antonio Lorenzo Falbo

Sukyun Yang & Insook Ju

Maria Korporal Lino Strangis

Sara Grazio

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L’identità come filo conduttore che attraversa un inte-ro evento culturale in cui svariate sono le forme per rap-presentarla è tematica assai complessa perché passibile di molteplici modalità di declinazione. Di cosa parliamo quando parliamo di identità? L’identità si annuncia come parola ambigua e foriera di innumerevoli contraddizioni: si destreggia in precario equilibrio tra omologazione e biso-gno di esprimere un senso di appartenenza che la ancori a una solidità capace di conferirle riconoscibilità sociale.Ciò che si indica con il termine identità racchiude inevi-tabilmente anche un aspetto inquietante perché tende a sfuggire a qualsiasi spiegazione categorica. L’identità è qualcosa che costituisce la personalità di un individuo e lo caratterizza, ma è anche qualcosa di labile e dalle infinite sfaccettature. L’uomo può dissimulare, apparire diverso da ciò che è, costruire la finzione di infinite identità che si inter-secano e sovrappongono e che utilizza al bisogno. Quan-te identità abbiamo per ciascuna circostanza della nostra vita? Il termine si fa confuso e dai confini poco delineati: la maschera è di necessità il complemento speculare del-l’identità: quante ne indossiamo? Il nostro io più recondito rimane nascosto ai più e spesso inconoscibile perfino a noi stessi. E’ inesprimibile e si ammanta di un velo che lo rende socialmente accettabile o rappresentabile agli altri. La verità è che veniamo “catalogati”e“definiti”,ma il margi-ne sfuggente alla razionalità, ciò che non si lascia definire, incasellare, regolamentare, in buona sostanza, la parte di noi che è luce e ombra insieme, che destino ha? Che parte trova nell’articolazione della nostra identità? Ha uno spa-zio per emergere oppure può mutarsi in autodistruzione senza che nessuno mai se ne accorga quando osserva il castello di apparenze che abbiamo edificato seppellendo quella parte di noi perché nessuno la possa neppure intra-vedere? La rappresentazione di sé nelle varie forme d’arte può essere una costruzione fittizia della propria immagine o lasciare velatamente trapelare anche l’abisso oscuro che ci abita. Ci si può dunque domandare se l’arte sia in grado di dare corpo ad un concetto così complesso come quello di identità, o se il tentativo di rappresentarlo non sia ancora una volta l’espediente per rinchiudere in un recinto ciò che difficilmente si lascia imprigionare in una definizione unila-terale e che invece “liquido” e multiforme sguscia da ogni parte. Forse però, esprimendosi per simboli, metafore e al-lusioni, la rappresentazione artistica è uno dei pochi mezzi espressivi che, lungi dal pretendere di indagare il concet-to di identità nella sua esaustiva totalità, ne può tuttavia lasciar emergere proprio la dimensione contraddittoria e fragile, nell’interezza degli aspetti più sfuocati e umbratili che questa parola custodisce dentro.

IDENTIFICAREL ’ I D E N T I T A ’ ?di Anna Clerici

Anna ClericiNata nel 1976, vivo e lavoro a Milano. Sono laureata in filosofia.

Amante della lettura e della scrittura in tutte le sue forme, mi è capitato occasionalmente di scrivere presentazioni di alcuni siti

internet e di opere di giovani artiste.

ME-TEIbridazione foto-poeticaa cura di Silvia Rosa (poetessa) eFabio Trisorio (fotografo)

Madonna Domestica di Silvia Rosa

Rinasco in un vo(l)to di silenzio

all’alba - mi si appannano i sensi –

madonna domestica (mi) prego me stessa

allo specchio la mia chiesa affollata di luce

è una finestra nel vuoto chiusa

sul riflesso di me che non sono.

“Considero la Polaroid l’occhio del sogno. Partendo da questo mio concetto ho sviluppato l’idea base di MeTe e cioè: fotografare i luoghi che ricordassero un mondo lonta-no dalla realtà, un luogo onirico dove il Me e il Te si incon-trano. Ogni immagine è un punto di partenza (una meta).Ma sentivo che mancava qualcosa, un equilibrio “tonale” al tutto. Equilibrio che ho cercato, e che ho trovato, propo-nendo a Silvia Rosa di scrivere su queste mie visioni. Con Silvia abbiamo selezionato e scelto la strada da percorrere per arrivare a MeTe. MeTe è un viaggio verso quei luoghi che abbiamo scoperto nei sogni o nei pensieri ma che non abbiamo mai avuto il coraggio di raggiungere veramente.MeTe è un incontro, è la ricerca di un equilibrio. MeTe è il confronto tra due entità: tra l’anima e il suo fenomeno, che si sfiorano, ma solo asintoticamente. Come l’amore, come tra un uomo e una donna, come tra il Me e il Te, che mai si raggiungeranno.”

Fabio Trisorio

Eventi collaterali: 1 settembre 2012Performance foto-poetica realizzata durante

l’inaugurazione di Profile

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INTERVISTA A SUSANNA SCHIMPERNAdi Marco Filippa

(Marco Filippa)Il tema della mostra di quest’anno, come sai, è Profile. Si può dire di tutto in questo tempo fatto d’identità plurime e del resto la parola “identità” è pericolosamente ambigua: è sempre uguale al plurale come al singolare. Come tutte le cose può diventare un’arma e come tale può dissuadere o ferire… L’identità sessuale, politica, culturale, religiosa… il problema credo sia sempre lo stesso: includere o esclu-dere?

(Susanna Schimperna)Verrebbe naturale dire “includere”. Perché ormai è poli-ticamente corretto, ci suona meglio, ci fa apparire liber-tari. Il problema è che si parla di “inclusione” e “arric-chimento attraverso la diversità” in maniera sempre più superficiale, senza agganci con le situazioni concrete e neppure, dobbiamo ammetterlo se abbiamo appena un po’ di autoconsapevolezza, con quello che veramente sentiamo.Mai quanto oggi siamo stati a rischio di perdere la no-stra identità. Non certo messa in pericolo da chi ha gusti sessuali diversi dai nostri, altra religione, altre tradizioni. La maggior parte di noi non è minimamente scalfita, nella quotidianità, dal contatto con i “diversi”, quelli per i quali ci battiamo e urliamo, sui quali filoso-feggiamo e moraleggiamo. Sono tutte chiacchiere ste-rili, che spostano la paura, autentica e fortissima tanto più è negata, di essere marginali, ininfluenti, impotenti: di non essere, se vogliamo sintetizzare. Profile, dici. Parliamo di Facebook. Una percentuale non indifferente di persone si nasconde dietro nomi inventati. Altri, di numero ancora maggiore, tentano di risultare interessanti e originali descrivendo i loro orientamenti politici e se stessi in modi che francamen-te sono infantili. E per completare il quadro, una spro-positata quantità reagisce violentemente alla minima parola o frase percepita come offesa personale, in un attacco e contrattacco continuo tra individui (quali?) in-vece che tra idee. Ed ecco i meccanismi di esclusione: tu che sei fascista, tu che sei comunista, tu che sei del nord, tu che ami quel coglione di X, tu che vedi i film di quell’altro stronzo di Y. Per offendere si creano catego-rie continuamente, categorie del tutto inventate. Accet-tare la minima cosa che suoni contraddittoria sembra impossibile, si è pronti a rinfacciare una dichiarazione fatta un mese prima pur di bollare, marchiare: esclude-re, in una parola. Escludere in quanto “appartenente a una categoria”.

(Marco Filippa)L’appartenere a un gruppo, una categoria, un clan… que-sto ci assicura, apparentemente, un’identità e più che mai oggi, in un mondo globalizzato, l’esperienza dell’autentici-tà e unicità è improbabile. Proprio per questo diventa più facile, necessario, individuare nemici piuttosto che amici. In Europa, ma non solo in Europa, avanzano populismi, neonazismi… insomma soluzioni salvifiche che identifi-cano con chiarezza (a dir poco superficiale) quelli che ci tolgono il lavoro, che cambiano le nostre abitudini alimen-tari, che sconvolgono i nostri principi religioso-politici…

come sempre è più facile (?) demonizzare piuttosto che comprendere, rifiutare l’inevitabile escalation migratoria piuttosto che cercare di governarla. Ricercare soluzioni provvisorie, parziali, che possono solo nascere da spazi di discussione, credo sarebbe l’unica soluzione praticabile e invece siamo lontani da tutto questo o no?

(Susanna Schimperna)Sottoscrivo integralmente la tua analisi. E rispondo alla tua domanda: siamo lontani e ci allontaniamo sempre di più, in perfetta inconsapevolezza, anzi, nel perfetto equivoco, perché, riallacciandoci a quanto si diceva prima, quando pronunci parole come “ascolto”, “spa-zi di discussione”, “comprensione” non c’è nessuno che abbia da ridire, sono parole-tabù, addirittura finti mantra, si ripetono e si fa altro, si considerano sacre e si disattende del tutto la grande sfida che vogliono esprimere. Ascoltare e comprendere non sono elemen-ti dati una volta per tutte, sono propositi che bisogna impegnarsi a tradurre in realtà con fatica, tra mille con-traddizioni, lottando a volte con se stessi: sono stra-de luminose ma piene di ostacoli, che comportano un cambiamento interiore. Ti cito due esempi di veri sforzi in questo senso, in cui sono coinvolta in prima persona: il movimento “Ascoltateli!”, nato a Torino per iniziativa del professore di filosofia Edoardo Acotto e del gruppo Sereno Regis, e il giornale “Gli Altri”. Il movimento ha cercato, attraverso settimane di protesta nonviolenta in piazza, digiuni a staffetta e coinvolgimento delle più diverse voci che avessero qualcosa da dire contro o pro il Tav Torino-Lione, di pervenire a un “vero” tavolo in cui ci si confrontasse sulle ragioni di questa linea ferroviaria ad alta velocità. Risultato: ottima risposta a livello mediatico e interesse in tutta Italia, ma l’entusia-smo per la riuscita del progetto è stato solo dei NoTav (e nemmeno di tutti, va detto), e il tavolo non si è fatto. “Gli Altri” è al momento, secondo me, l’unico vero gior-nale libertario, dove puoi trovare articoli appassionati in difesa dell’anarchia e dell’antispecismo ma anche in difesa della Minetti, dove c’è un costante dibattito in-terno che si traduce, nel settimanale, nella presenza di firme di persone di estrazione politica molto diversa, e nel sito, aggiornato costantemente, in commenti in cui gli stessi giornalisti polemizzano tra loro con punti di vista spesso opposti (faccio i casi recenti più discussi: la legge sull’omofobia e la figura di Cossiga). Risultato: molti ci detestano, addirittura ci bollano come nemi-ci della sinistra, pericolosi, folli, incomprensibili, e si chiedono “di chi facciamo il gioco”. Ecco la vera ma-nia italiana, e con questo torniamo al tema dell’identità: scoprire quali siano i tuoi loschi intenti aldilà di quelli dichiarati, e catalogarti in base a questi. Loschi intenti supposti o inventati di sana pianta, spesso.

(Marco Filippa)Conosco Edoardo, è una conoscenza di lunga data, nata anni fa in una scuola di Bra dove eravamo colleghi. Abbia-mo, probabilmente, una visione diversa della “sinistra”: la mia è di matrice liberal-socialista, sono notoriamente Radi-cale (come dico spesso ai miei amici, rischio di essere un

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latitante più che un militante) e il mio approccio al metodo nonviolento nasce nei caldi anni ’70. Quello che però so di Edoardo e che è un grande “ascoltatore” e quindi sa porsi in dialogo in un mondo che sembra voler prospetta-re solo monologhi o pseudo-dialoghi manovrati a tavolino: gli esempi che potrei citare sarebbero infiniti, a partire dai media ma non solo. Del resto, come ci insegnano mae-stri come Ouspensky, a monte di tutto questo, come ha commentato autorevolmente lo studioso Gianfranco Ber-tagni, “Una delle ragioni della divergenza nella nostra vita fra la linea del sapere e la linea dell’essere, in altri termini, la mancanza di com¬prensione che è in parte causa e in parte effetto di questa divergenza, si trova nel linguaggio parlato dalla gente.” Il “piano” dell’ascolto, prima di tutto di se stessi, è forse l’unica via che può assicurarci una ma-turazione in divenire. Un giornale come “Gli altri” (che ho imparato a conoscere grazie a te) mi sembra un’autenti-ca forma di agorà e avremmo un infinito bisogno di spazi come questi per uscire dai ghetti della non conoscenza o, per dirla con Luigi Einaudi, riapprodare al “conoscere per deliberare” perché soltanto in questo modo potrem-mo giungere a sistemi autenticamente democratici dove nessuno demonizza l’Altro ma, anzi, si assicura che l’Altro abbia voce per sviluppare un dialogo vero.

(Susanna Schimperna)La prerogativa di un dialogo vero è più la capacità di ascoltare che quella di esprimersi, e in questo ti seguo perfettamente. Oggi un buon giornale deve ugualmente ascoltare. Persone che scrivono bene ce ne sono mol-te, ma raccogliere opinioni, punti di vista, idee, istan-ze, visioni e sogni, forse persino paure e paranoie dei lettori è fondamentale. Attenzione: non per fomentare i malumori, la voglia di distruzione, la rabbia invidiosa (stile giornalistico e non solo che va molto di moda), ma, al contrario, per dare spazio e quindi legittimare le diversità di pensiero più incredibili. «Conoscere per de-liberare», sì. Conoscenza e capacità di decidere sono oggi parole abusate, ma pochi conoscono e pochi real-mente deliberano in base a ciò che conoscono, men-tre troppo spesso chi sa non ha potere decisionale e chi opera scelte anche fondamentali, che ricadono su tutti noi, non sa (e non è neppure troppo interessato a sapere). Dobbiamo impegnarci a lavorare in questo senso, in un circolo virtuoso di conoscenza-ascolto-dialogo-azione. Quindi conoscere e poi fare. Per usci-re dall’incubo incombente di una conoscenza sterile e di un agire cieco, insensato. Ricordi la celebre frase “la scienza senza coscienza dà frutti avvelenati”? O le-ghiamo insieme tutto, tornando a un modello di uomo rinascimentale come fu Pico della Mirandola, come fu Leonardo che per esempio già considerava l’uccisione degli animali insopportabile, o non solo avveleneremo ancora di più il mondo e “gli altri”, ma, ovviamente, noi stessi.

(Marco Filippa)Non ho proprio nulla da aggiungere e condivido il tuo pen-siero. Grazie Susanna.

Susanna Schimperna

Scrittrice, conduttrice televisiva e radiofonica. E’ nata e vive a Roma.

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Tramage Mixture Lignes et Mouvement: Qu’est-ce et qui se trame?Performance di Ridha Dhib con Elizabeth Celle

Eventi collaterali: 1 settembre 2012Performance realizzata durante l’inaugurazione di Profile

Fotografie di: Flavio Romualdo Garofano

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Eventi Collaterali 1 settembre 2012

Federico GalettoVideo Live Visual Art

(Shots from “LSTFP” & “Slowing Down HJ”)

Concerto per Ettore Giovanni May(Performance teatrale)

Ettore Giovanni May, timido e discreto adolescente, osservatore di nuche, di dormienti.

Gli occhi oltre l’effetto pittorico.Il suo vero ritratto è l’incendio del suo corpo, un generoso rogo d’amore.

Il mondo intorno fa ridere, tanto è buffo.Ma anche uccide.

L’autoritratto è nell’aria che respiriamo, l’estremo dono; Ettore Giovanni May è in giro per la città.

Bergoin Morero Rivieni II

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Eventi Collaterali 6 ottobre 2012

Voci Erranti: Cristiano Ferrua, Daniela Gazzera e Adriana Ribotta

_AZIONI - Performance Teatrale Fotografia di Redha Sbaihi

Per percorrere la via, si deve fare un primo passo, per decidersi a farlo sono necessarie delle trasformAZIONI, e si parte. Lungo il cammino gli incontri e gli eventi provocano delle contaminAZIONI, che cambiano stancano sporcano puliscono o danno forza.

La meta non è importante, indispensabili sono le illuminAZIONI, per non perdersi nel buio.

O forse, per perdersi completamente.

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En Plein Airarte contemporanea

Nel 1994 Elena Privitera attua una sfida: decide di trasfor-mare la propria abitazione, una cascina del ‘700 immersa nella campagna del pinerolese, in una sede dell’Associa-zione Culturale per il tempo libero, ed in particolare per l’arte contemporanea. Si tratta di dare una connotazione concreta ad un’idea già da tempo ben fondata, nella con-vinzione che la scelta sia tanto innovativa quanto necessa-ria. Il nome dell’Associazione, En Plein Air, fa riferimento alla natura come sintomo di armonia interiore: essa diven-ta una cornice efficace per situazioni che sin dall’inizio si sviluppano secondo due direttrici progettuali, la presenza di nomi “storici” e la proposta di artisti giovani. La prima mostra è dedicata a un giovane artista russo che costitui-sce il punto di avvio delle “nuove proposte”: si tratta di Serghej Potapenko che si muove in un ambito pittorico iconico, un universo di echi nel quale le immagini si adden-sano in un intreccio sospeso tra realtà e sogno. Seguono rassegne che alternano figurazione (GianpieroViglino) e astrazione (Giorgio Ramella). Tra il 1995 e la primavera 1998 l’ Associazione propone artisti emergenti quali An-drea Nisbet, Carlo Galfione, Luca Bernardelli accoglien-do al contempo artisti noti Gilberto Zorio, Vasco Are, Robert Gligorov. Una mostra tutta al femminile The world from the female, realizzata nell’autunno 1997, induce ad una riflessione sulla condizione attuale della donna arti-sta, sulla consapevolezza e sulla nuova identità dell’arte al femminile. Di qui prende corpo il Progetto Maionese, interamente ideato da Elena Privitera, cui è strettamente collegata la necessità di ampliare lo spazio fisico della Gal-leria, così’ da poter proporre in contemporanea più eventi. Bice Lazzari, Carol Rama, la giovane Marzia Migliora… Il progetto si articola in diverse “stazioni”: la costruzione di una “galleria” virtuale, capace di soddisfare le esigenze pressanti del mondo on line e la presentazione di una va-sta gamma di espressioni nell’ambito delle arti dalla pittura all’ installazione, alla ceramica, al design, al gioiello, alla fotografia virtuale. Nell’estate 1998: l’evento coincide con l’acquisizione di una cascina contigua a quella originaria, comprensiva di fienile, sottoportico e ampio cortile. Avere uno spazio più grande consente altresì di offrire ospitalità all’artista, così che il suo rapporto con l’associazione diven-ti il punto di riferimento per lo sviluppo di nuovi progetti, all’insegna dell’innovazione e dello scambio di esperienze

con altre realtà culturali: in mostra sono infatti presenti nu-merose artiste straniere. Nelle stagioni successive si alter-nano curatori (Tiziana Conti, Demetrio Paparoni, Luca Beatrice, Guido Curto, Olga Gambari, Lisa Parola, … per citarne alcuni) e tematiche (ogni mostra ha un incipit particolare); artisti emergenti e noti; collaborazioni e in-terazioni con altre realtà culturali (Il Filatoio (Cn) - Museu de Belles Arts de Castellòn–Spagna, …). Con il patrocinio della Regione Piemonte, il sostegno di fondazioni (C.R.T. – Fondazione Sanpaolo) inclusa nel circuito dei Musei Pi-nerolesi l’avventura della ricerca dell’associazione a par-tire dal 2003 sviluppa una sistematica collaborazione tra Elena Privitera e Marco Filippa avviandola con il progetto Insitu: interagendo con la città (installando opere nel cen-tro storico) e al contempo in “galleria”. Nello stesso anno si sperimenta Enpleinvideo una rassegna non-stop di video d’artista riproposta per il 2008 con connotati online. Si svi-luppa il progetto Maionese fino all’edizione del 2010 Work to Work con l’adesione del Prof. Mario Marchiando Pac-chiola Conservatore della Collezione Civica d’Arte di Palazzo Vittone Città di Pinerolo e con eventi collaterali presso il Museo del Mutuo Soccorso il Museo Etnografi-co, sviluppando inoltre una collaborazione con la concer-tista Stefania Salvai e il gruppo teatrale Voci Erranti. Nel 2007 parte il progetto I linguaggi del Mediterraneo: una ricognizione sulla creatività con artisti di vari paesi in una concezione di mediterraneo non ortodossa ma glocale; contemporaneamente si crea il Dipartimento Educazione credendo fortemente al principio didattico-laboratoriale come strumento di conoscenza e interagendo con le scuo-le non solo del territorio. A partire dal 2008, si sviluppano collaborazioni con il Comune di Cavour (realizzando due mostre presso il complesso Abbaziale) e con il Comune di Villafranca Piemonte (presso il Monastero). Il 2011 si caratterizza per il progetto Alfabetomorso con sviluppi an-che fuori dalla propria sede espositiva presso locali non solo del pinerolese. Il patrimonio di mostre, ricerche, crea-tività che caratterizzano questo decennio di En Plein Air è storia documentata con cataloghi e video o mediante il sito http://www.epa.it. Per una cronistoria delle esposizioni si rimanda al link: http://www.epa.it/esposizioni.html.L’archivio virtuale è raggiungibile al link: http://www.epa.it/maionese/artiste/index.html.

arte contemporanea

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