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Principi di base della chirurgia SEZIONE I

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Principi di base della chirurgia

S E Z I O N E I

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1 C A P I T O L O

S O M M A R I O

CENNI STORICI

Dai primissimi tempi in cui venne praticata fino alla fine del XIX secolo, la chirurgia conobbe un’evoluzione molto modesta. Per tutte quelle migliaia di anni, le operazioni chirurgiche continua-rono sempre a incutere terrore, ad avere spesso esiti fatali e a provocare frequentemente infezioni. Nei tempi che precedettero l’introduzione di scienza, anestesia e misure antisettiche, gli inter-venti erano eseguiti solo in caso di estrema necessità e non avevano niente in comune con quanto siamo abituati a vedere oggi: pa-zienti pienamente coscienti, trattenuti o persino legati per evitare che fuggissero dalla lama spietata del chirurgo. Tutte le volte che il chirurgo, o almeno la persona che si definiva tale, eseguiva un intervento, lo faceva su un disturbo visibile (cioè, sulla cute e appena sotto la superficie, sugli arti o nella bocca).

Fino alla fine del XIV secolo, le terapie chirurgiche erano affi-date a barbieri-chirurghi a malapena istruiti e ad altre figure iti-neranti che avevano sposato la causa della chirurgia. Ostracizzati dai medici con istruzione universitaria e di origine aristocratica, che aborrivano l’idea di utilizzare le mani nel proprio lavoro, questi devoti ma oscuri adepti del mestiere della chirurgia ebbero il merito di assicurare la sopravvivenza di quella vocazione, tra-mandandola di padre in figlio. I “cerusici” itineranti incidevano ascessi, riparavano fratture semplici, medicavano ferite, estraevano denti e, in rare occasioni, amputavano falangi, arti, mammelle. Intorno al XV secolo, i medici di alto lignaggio cominciarono a mostrare interesse per l’arte della chirurgia. Con l’evolversi delle tecniche chirurgiche, armati di lama, sia medici provenienti da ceti privilegiati sia fannulloni girovaghi legavano arterie per curare aneurismi facilmente accessibili, asportavano tumori visibili di grandi dimensioni, eseguivano trapanazioni, inventavano metodi ingegnosi per ridurre le ernie incarcerate e strozzate, ed effettua-vano colostomie e ileostomie rudimentali con la semplice incisio-ne cutanea di una massa intraddominale in espansione, che altro non era che lo stadio finale di un blocco intestinale. I maneggiatori di bisturi più intraprendenti allargavano la loro attività alla cura delle fistole anali, dei calcoli alla vescica e della cataratta. Nono-

stante la crescente audacia e ingenuità dei “cerusici”, di norma non venivano praticati gli interventi chirurgici sulle cavità corpo-ree (ossia, addome, cranio, articolazioni e torace) e, se tentati, presentavano innumerevoli pericoli e insuccessi.

Nonostante la natura terrificante dell’intervento chirurgico, nell’era prescientifica la chirurgia era considerata un capitolo im-portante all’interno della Medicina (in questo capitolo, il termine “Medicina” indica la professione nella sua totalità e “medicina” indica la medicina interna, come specialità distinta da chirurgia, ostetricia, pediatria, ecc). Sembra essere un paradosso, considerata la limitata attrattiva della chirurgia dal punto di vista tecnico, spiegato dal fatto che le procedure chirurgiche erano eseguite per disturbi che era possibile osservare sulla superficie del corpo, ma di fatto veniva effettuata una diagnosi anatomica “oggettiva”. Le persone che eseguivano le operazioni chirurgiche vedevano quello su cui bisognava intervenire (ad es. foruncoli infiammati, ossa rotte, protuberanze tumorali, ferite dolorose, dita e arti necrotici, denti marci) e affrontavano il problema nel modo più razionale che i tempi consentissero.

Coloro che praticavano la medicina interna somministravano una cura più “soggettiva” delle malattie, di cui non vedevano né comprendevano l’eziologia. È difficile trattare i sintomi di malattie come l’artrite, l’asma, il diabete e l’insufficienza cardiaca quando è assente la comprensione scientifica di ciò che ne costituisce le basi patologiche e fisiologiche. È stato solo nel XIX secolo, con i progressi in anatomia patologica e fisiologia sperimentale, che i professionisti della medicina interna furono in grado di cogliere un punto di vista terapeutico più vicino a quello dei chirurghi, non dovendo più trattare segni e sintomi alla cieca. Analogamente ai chirurghi che intervenivano su malattie che potevano essere descritte fisicamente, i medici ormai si prendevano cura dei pa-zienti basandosi su meccanismi fisiopatologici “oggettivi”.

I chirurghi non ebbero mai bisogno di una rivoluzione diagno-stica e patologica/fisiologica simile a quella dei colleghi internisti. A dispetto dell’incompletezza delle loro conoscenze, i chirurghi dell’era prescientifica, dispensando con approccio sistematico am-putazioni e asportazioni, riuscivano a volte a curare applicando

Nascita della chirurgia moderna: panoramicaIra Rutkow

“Se non esistesse il passato, la scienza sarebbe mito, un deserto la mente umana. Il male prevarrebbe sul bene e le tenebre ricoprirebbero il volto della morale e della scienza”.

Samuel D. Gross (Louisville Review 1:26–27, 1856)

Cenni storiciConoscenza dell’anatomia umanaControllo dell’emorragiaControllo del dolore

Controllo delle infezioniAltri progressi che contribuirono

al sorgere della chirurgia modernaAscesa della “chirurgia scientifica”

Era modernaDiversitàSviluppi futuri

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CAPITOLO 1 Nascita della chirurgia moderna: panoramica 3

Vesalio nacque a Bruxelles da una famiglia che godeva di stretti legami con la corte del Sacro Romano Impero. Completò gli studi di medicina in Francia nelle università di Montpellier e Parigi, e per un breve periodo insegnò anatomia, non lontano dalla casa natale a Leuven. Dopo diversi mesi di servizio come chirurgo nell’esercito di Carlo V (1500-1558), a ventitré anni accettò un incarico come professore di anatomia presso l’Università di Pado-va, dove rimase fino al 1544, quando rassegnò le dimissioni per diventare medico alla corte di Carlo V e, in seguito, del figlio di quest’ultimo, Filippo II (1527-1598). Infine, Vesalio fu trasferito a Madrid, ma per vari motivi, tra cui presunti problemi con le autorità dell’Inquisizione spagnola, progettò di fare ritorno alle sue ricerche accademiche. Prima ancora, però, nel 1563, Vesalio salpò per un pellegrinaggio di un anno in Terrasanta. Durante il viaggio di ritorno, il vascello su cui viaggiava colò a picco e Vesalio naufragò con altri sulla piccola isola di Zante, nel Peloponneso, dove successivamente morì a causa del freddo, della fame e per gli effetti di una grave malattia, probabilmente tifo.

I sette anni trascorsi da Vesalio a Padova lasciarono un segno indelebile nell’evoluzione della medicina, e in particolare della chirurgia. Le sue dissezioni di corpi umani, ampiamente pubbli-cizzate, richiamavano folle enormi, e Vesalio era continuamente chiamato in altre città italiane a fare dimostrazioni di anatomia, che culminarono tutte nella pubblicazione del Fabrica. Come avviene per la maggior parte delle opere rivoluzionarie, il libro attrasse critiche ed elogi, e il giovane Vesalio fu vittima di veementi attacchi da parte di alcuni dei più famosi studiosi di anatomia dell’epoca. Ai suoi numerosi detrattori, l’impetuoso Vesalio con-trattaccava con risposte intemperanti che non aiutavano nel por-tare avanti il suo lavoro. In preda a una crisi di rabbia, Vesalio diede fuoco a inestimabili manoscritti e disegni.

con sicurezza le proprie tecniche. Nonostante la loro destrezza, fu solo con il diffondersi della rivoluzione in campo medico negli anni 1880-1890, con l’adozione di tecniche asettiche e altre sco-perte che sarebbero arrivate da lì a poco, come radiografia, trasfu-sioni di sangue e le sezioni congelate, che la chirurgia divenne una specialità. Ci vorranno, tuttavia, ancora molti decenni, ben oltre l’inizio del XX secolo, e il verificarsi di vari eventi di natura am-ministrativa e organizzativa, prima che la chirurgia potesse essere considerata una professione vera e propria.

La spiegazione della lenta ascesa della chirurgia va ricercata nel procrastinarsi dell’evoluzione di quattro elementi chiave (co-noscenza dell’anatomia, controllo dell’emorragia, controllo del dolore e dell’infezione), molto più importanti delle abilità tecni-che per la realizzazione di un intervento chirurgico. Erano pre-requisiti che dovevano essere compresi e accettati prima che un’o-perazione chirurgica potesse essere considerata un’opzione tera-peutica praticabile. I primi due elementi cominciarono a essere affrontati nel XVI secolo e, sebbene la chirurgia traesse enorme beneficio dalle scoperte, si fermò alla parte esteriore del corpo, mentre dolore e infezione continuarono a inficiare l’intervento chirurgico e l’outcome del paziente. Durante i successivi trecento anni, furono pochi i miglioramenti precedenti alla scoperta dell’anestesia nel 1840 e al riconoscimento dell’antisepsi chirur-gica negli anni tra il Settanta e Ottanta del XIX secolo. La suc-cessiva espansione dell’approccio chirurgico scientifico portò a iniziative di natura manageriale e socioeconomica (programmi standardizzati di istruzione e formazione chirurgica post laurea, laboratori di ricerca chirurgica sperimentale, riviste specializzate, libri di testo, monografie e trattati, ordini professionali ed enti abilitanti) che promossero il concetto di professionalità. Negli anni Cinquanta, il risultato fu l’unificazione della professione, caratterizzata da una natura pratica e accademica. Di seguito, riportiamo alcuni momenti salienti della nascita della moderna chirurgia, in particolare il processo di individuazione dei quattro elementi chiave che portarono a considerare l’intervento chirur-gico una scelta terapeutica praticabile.

CONOSCENZA DELL’ANATOMIA UMANA

Sebbene le conoscenze di anatomia siano il requisito principale di un intervento chirurgico, fu solo nella metà del XVI secolo, all’apice del Rinascimento europeo, che giunse il primo grande contributo alla comprensione della struttura del corpo umano. Ciò poté avvenire quando i papi Sisto IV (1414-1484) e Clemen-te VII (1478-1534) abolirono il divieto secolare imposto dalla Chiesa di dissezionare i corpi umani e autorizzarono lo studio dell’anatomia sui cadaveri. Andrea Vesalio (1514-1564) (Fig. 1.1) conquistò la ribalta degli studi di anatomia con il suo celebre trattato De Humani Corporis Fabrica Libri Septem (1543). Il trattato rompeva con il passato e forniva descrizioni del corpo umano più dettagliate di quanto non fosse mai stato fatto nei trattati che lo avevano preceduto. Correggeva false credenze dif-fuse in anatomia millenni prima a opera di figure autorevoli di epoca greca e romana, in particolare Galeno (129-199 d.C.), le cui idee fuorvianti, successivamente appoggiate dalla Chiesa, era-no basate sulla dissezione di animali e non di esseri umani. Ri-voluzionario quanto le sue osservazioni anatomiche, Vesalio era fermamente convinto che la dissezione dovesse essere effettuata a opera degli stessi medici. Si trattava di un ripudio esplicito della secolare consuetudine che considerava la dissezione un compito ripugnante, che poteva essere eseguito esclusivamente da indivi-dui della classe inferiore, mentre il medico aristocratico sedeva su un alto scranno a leggere ad alta voce un trattato di anatomia vecchio di secoli.

FIGURA 1.1 Andrea Vesalio (1514-1564).

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controllare l’emorragia durante un’operazione chirurgica. Così come per Vesalio, il ruolo di Paré è importante nella storia della chirurgia, perché segna anche la rottura definitiva tra pensiero chirurgico e tecniche degli antichi con l’ingresso in un’era più moderna. I due si conoscevano, poiché entrambi erano stati con-vocati per prestare cure a Enrico II (1519-1559), vittima durante un torneo di un colpo di lancia alla testa che gli fu fatale.

Paré nacque in Francia e, fin da giovane, fu apprendista presso vari barbieri-cerusici ambulanti. Completò la formazione a con-tratto a Parigi, dove lavorò come assistente chirurgo/medicatore nel famoso Hôtel Dieu. Dal 1536 fino a poco prima della sua morte, Paré lavorò come chirurgo dell’esercito (accompagnò gli eserciti francesi durante le loro spedizioni militari), continuando a esercitare la professione civile a Parigi. La reputazione di Paré fu così grande che quattro re di Francia, Enrico II, Francesco II

La popolarità del Fabrica di Vesalio era dovuta alle eccezionali illustrazioni del libro. Per la prima volta, disegni dettagliati del corpo umano erano opportunamente integrati da accurate dida-scalie. I disegnatori, che si ritiene provenissero dalla scuola vene-ziana di Tiziano (1477-1576), ideavano illustrazioni accurate dal punto di vista scientifico e belle dal punto di vista artistico. Le xilografie, con i loro maestosi scheletri e gli uomini dalle membra scorticate e muscolose sullo sfondo di paesaggi rurali e urbani, hanno rappresentato il canone iconografico dei testi anatomici per diversi secoli.

Il lavoro di Vesalio spianò la strada a un’ampia ricerca sull’a-natomia umana, su cui fece luce una più piena comprensione della circolazione sanguigna. Nel 1628, William Harvey (1578-1657) mostrò che il cuore agisce come una pompa che spinge il sangue attraverso le arterie e, a rientrare, attraverso le vene, seguendo un circuito chiuso. Sebbene Harvey stesso non fosse un chirurgo, la sua ricerca ebbe conseguenze enormi sull’evoluzione della chirur-gia, in particolare per quanto riguarda i legami di quest’ultima con l’anatomia e l’esecuzione degli interventi chirurgici. Nel XVII secolo, i legami tra anatomia e chirurgia si fecero ancora più stretti con la comparsa di esperti chirurghi-anatomisti.

Fu tra il XVIII secolo e la prima metà del XIX secolo che i chirurghi-anatomisti giunsero a fare le loro osservazioni più ri-marchevoli. Ogni Paese poteva vantare le proprie figure eminenti: in Olanda Govard Bidloo (1649-1713), Bernhard Siegfried Albi-nus (1697-1770) e Pieter Camper (1722-1789). Albrecht von Haller (1708-1777), August Richter (1742-1812) e Johann Frie-drich Meckel (1781-1833) lavoravano in Germania; Antonio Scarpa (1752-1832) in Italia; in Francia i chirurghi più noti erano Pierre-Joseph Desault (1744-1795), Jules Cloquet (1790-1883) e Alfred Armand Louis Marie Velpeau (1795-1867). Fu però soprattutto grazie agli sforzi di numerosi chirurghi-anatomi-sti britannici che si instaurò una tradizione di eccellenza nella ricerca e nel l’insegnamento.

William Cowper (1666-1709) fu uno dei primi e più noti chirurghi-anatomisti inglesi e il suo allievo, William Cheselden (1688-1752), istituì nel 1711 a Londra il primo corso strutturato di anatomia chirurgica. Nel 1713, fu pubblicato il libro di Che-selden Anatomy of the Human Body, che divenne così popolare da avere almeno tredici edizioni. Alexander Monro (primo) (1697-1767) fu allievo di Cheselden e in seguito fondò un centro di insegnamento di anatomia-chirurgia a Edimburgo, che passò suc-cessivamente prima sotto la guida di suo figlio Alexander (secondo) (1737-1817) e poi del nipote Alexander (terzo) (1773 -1859). A Londra, John Hunter (1728-1793) (Fig.1.2), considerato tra i più grandi chirurghi di tutti i tempi, divenne famoso come chirur-go-anatomista comparativo, mentre suo fratello, William Hunter (1718-1783), fu un ostetrico di successo, autore di un celebre atlante intitolato Anatomy of the Human Gravid Uterus (1774). Sempre due fratelli, John Bell (1763-1820) e Charles Bell (1774-1842), furono attivi a Edimburgo e a Londra, dove le loro squisite stampe di anatomia esercitarono una duratura influenza. Già a metà del XIX secolo, l’anatomia chirurgica si era completamente affermata come disciplina scientifica. Tuttavia, poiché la chirurgia stava diventando una professione sempre più impegnativa, erano sempre di meno i chirurghi-anatomisti autori di atlanti anatomici e libri di testo di chirurgia illustrati, a cui si dedicava invece l’a-natomista a tempo pieno.

CONTROLLO DELL’EMORRAGIA

Sebbene a Vesalio vada il merito di aver diffuso una maggiore comprensione dell’anatomia umana, fu Ambroise Paré (1510-1590) (Fig. 1.3), suo contemporaneo, a proporre un metodo per

FIGURA 1.2 John Hunter (1728-1793).

FIGURA 1.3 Ambroise Paré (1510-1590).

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CAPITOLO 1 Nascita della chirurgia moderna: panoramica 5

namento e l’altro per coagulare. L’apparecchio fu progettato da William Bovie (1881-1958), un fisico, che collaborò con Cushing allo sviluppo di punte di metallo intercambiabili, punti di acciaio e anelli di filo metallico che potevano essere fissati a un supporto con impugnatura a pistola sterilizzabile, che aveva la funzione di indirizzare la corrente elettrica. Mentre gli intoppi elettrici e di progettazione venivano via via risolti, l’elettrobisturi Bovie diven-ne uno strumento che prometteva di aprire la strada a nuovi sviluppi: quasi un secolo dopo, rimane uno strumento fondamen-tale nell’armamentario del chirurgo.

CONTROLLO DEL DOLORE

Nell’era prescientifica, l’incapacità dei chirurghi di effettuare in-terventi senza procurare dolore era una delle più atroci proble-matiche della medicina. Per paura della spietata lama del chirur-go, spesso i pazienti si rifiutavano di sottoporsi a un intervento chirurgico necessario o lo rimandavano ripetutamente. Era per questo motivo che il chirurgo, nell’impugnare il bisturi, era più preoccupato di completare velocemente la procedura che non di praticare una dissezione accurata. Le sostanze narcotiche e sopo-rifere, come l’hashish, la mandragora e l’oppio, seppur utilizzate per migliaia di anni, si rivelavano tutte inutili. Non sembrava vi fosse possibilità di affrancare l’intervento chirurgico dalla soffe-renza. Era questo uno dei motivi per cui l’esplorazione chirurgica sistematica di addome, cranio, articolazioni e torace dovette attendere.

Il miglioramento delle conoscenze anatomiche e delle tecniche chirurgiche rese ancora più urgente la ricerca di metodi sicuri per rendere il paziente insensibile al dolore. A metà degli anni Trenta del XIX secolo era stato già scoperto l’ossido di azoto, e i cosiddetti gas esilaranti stavano diventando una moda tra i giovani, che si divertivano con i piacevoli effetti collaterali della sostanza. Dopo qualche annusata, si perdeva il senso dell’equilibrio e dell’inibizio-ne, e minima era anche la sensazione di dolore, anche quando si andava a urtare contro qualche oggetto. Alcuni medici e dentisti capirono che le qualità antidolorifiche del protossido di azoto sarebbero potute tornare utili in interventi chirurgici ed estrazioni di denti.

Un decennio più tardi, Horace Wells (1815-1848), un dentista del Connecticut, aveva fatto completamente sua l’idea di usare il protossido di azoto per l’anestesia inalatoria. All’inizio del 1845, si recò a Boston per condividere le proprie scoperte con un collega dentista, William T.G. Morton (1819-1868), nella speranza che le conoscenze di Morton tra l’élite medica della città portasse a una dimostrazione pubblica di estrazione indolore di un dente. Morton presentò Wells a John Collins Warren (1778-1856), pro-fessore di chirurgia a Harvard, che lo invitò a mostrare la sua scoperta dinanzi a una classe di studenti di medicina, uno dei quali si offrì volontariamente per farsi estrarre un dente. Wells gli somministrò il gas e afferrò il dente. Improvvisamente, lo studen-te, che avrebbe dovuto essere sotto l’effetto dell’anestetico, lanciò un urlo di dolore. Dopo fischi e risate, si sollevò un boato di di-sapprovazione. Il povero Wells fuggì dall’aula, inseguito da nume-rosi astanti che profferivano a gran voce che quello che avevano visto era “roba da ciarlatani”. Per Wells fu troppo. Rientrato a Hartford, vendette casa e studio dentistico.

Morton, tuttavia, aveva compreso il potenziale pratico dell’idea di Wells e prese a cuore la causa della chirurgia indolore. Non fidandosi dell’ossido nitrico, cominciò a testare l’etere solforico, un composto che secondo un suo collega medico, Charles T. Ja-ckson (1805-1880), avrebbe potuto funzionare meglio come ane-stetico inalatorio. Confidando nel consiglio, Morton studiò le proprietà della sostanza, perfezionando allo stesso tempo le tecni-

(1544-1560), Carlo IX (1550-1574) ed Enrico III (1551-1589), lo scelsero come loro primo chirurgo. Pur essendo un barbiere-ce-rusico, Paré fu successivamente nominato membro del College St. Côme di Parigi, una pomposa confraternita di medici e chirurghi con istruzione universitaria. La forza carismatica di Paré e il cla-more dei suoi trionfi clinici favorirono il riavvicinamento tra i due gruppi, che fu all’origine dell’ascesa della chirurgia in Francia.

Ai tempi di Paré, si faceva comunemente ricorso ad applica-zioni di cauteri od olio bollente o di entrambi per curare una ferita e controllare un’emorragia. Tale consuetudine era dovuta a una convinzione medica risalente all’epoca di Ippocrate: le malattie che le medicine non curano, le cura il ferro, se non le cura il ferro le cura il fuoco e se non le cura nemmeno il fuoco, sono incurabili. Paré cambiò idea quando, su un campo di battaglia vicino a To-rino, le scorte di olio bollente si esaurirono. Incerto sul da farsi, preparò un miscuglio di tuorlo d’uovo, olio di rosa (una miscela di petali di rosa macinati e olio di oliva) e trementina, con cui trattò i rimanenti feriti. Nei giorni successivi, osservò che le ferite dei soldati medicati con la nuova miscela non erano né infiam-mate né doloranti quanto le ferite trattate con olio bollente. Non molto tempo dopo, abbandonò l’uso dell’olio bollente.

Paré si mise alla ricerca di altri metodi per la cura delle ferite e l’emorragia incontrollata. La soluzione arrivò con la legatura, l’introduzione della quale si rivelò un punto di svolta nell’evolu-zione della chirurgia. Gli esordi della tecnica di legare i vasi san-guigni sono avvolti nel mistero, e se i primi a farvi ricorso siano stati i cinesi, gli egizi, i greci o i romani è una questione di mera congettura storica. Una sola cosa è certa: la legatura cadde nel dimenticatoio per lungo tempo, tanto da indurre Paré a ritenere la tecnica applicata nel corso di un’amputazione assolutamente originale, se non proprio di ispirazione divina. Progettò persino un antesignano della moderna pinza emostatica, uno strumento per stringere chiamato bec de corbin, becco di corvo, per control-lare l’emorragia durante la manipolazione del vaso.

Come spesso avviene per le idee innovative, i suggerimenti di Paré sulle legature non furono immediatamente accolti per motivi diversi: dalla mancanza di assistenti esperti a cui affidare il com-pito di esporre i vasi sanguigni, all’ampio numero di strumenti richiesti per ottenere l’emostasi. Bisogna tenere presente che nell’era preindustriale, gli strumenti chirurgici erano fatti a mano con costi di manifattura elevati. Di conseguenza, si ricorse rara-mente alle legature per controllare le emorragie, in particolare durante le amputazioni, finché non furono disponibili altri stru-menti che consentissero di ottenere un’emostasi temporanea. Ciò avvenne solo all’inizio del XVIII secolo, quando Jean-Louis Petit (1674-1750) inventò il tourniquet ad avvitamento. Il dispositivo inventato da Petit esercitava una pressione diretta sull’arteria prin-cipale dell’arto da amputare e garantiva un controllo dell’emorra-gia a breve termine che consentiva di posizionare in modo accu-rato le legature. Il nuovo tipo di sutura e i tourniquet conobbero entrambi una crescente fortuna fino alla fine del XVIII e durante il XIX secolo: i chirurghi cercavano di praticare legature in tutti i vasi sanguigni presenti nel corpo umano. Tuttavia, nonostante l’abbondanza di strumenti eleganti e di nuovi materiali di sutura (dalla pelle di daino al crine di cavallo), non si era in grado di ottenere un controllo soddisfacente dell’emorragia, specie in ope-razioni chirurgiche delicate.

A partire dal 1880, cominciarono le prime sperimentazioni con dispositivi elettrici per la cauterizzazione. Per quanto goffi, furono proprio questi elettrocateteri di prima generazione a velocizzare l’esecuzione di un intervento chirurgico. Nel 1926, Harvey Cu-shing (1869-1939), professore di chirurgia a Harvard, sperimentò un dispositivo chirurgico meno ingombrante che conteneva due circuiti elettrici separati, uno per incidere il tessuto senza sangui-

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zione di un agente anestetico per via endovenosa (il tiopentale sodico), che, oltre a dimostrarsi tollerabile per i pazienti, ovviava al problema della sensibilizzazione dell’albero tracheobronchiale ai vapori anestetici.

CONTROLLO DELLE INFEZIONI

L’anestesia contribuì a rendere più allettante la possibilità di ricor-rere alle cure chirurgiche. Agire in fretta non era più la preoccu-pazione principale. Tuttavia, per quanto la scoperta dell’anestesia avesse contribuito a ovviare alla questione del dolore durante le operazioni chirurgiche, l’evoluzione della chirurgia non poteva dirsi completa fino a quando non fosse stato risolto il problema delle infezioni postoperatorie. Anche se non si fosse trovato un modo per mitigare il dolore, gli interventi chirurgici si sarebbero eseguiti comunque, anche se con molta difficoltà. La stessa cosa non valeva per le infezioni: in assenza di antisepsi e asepsi, la morte era l’esito più probabile delle procedure chirurgiche.

Furono in molti a dare un contributo fondamentale alla nascita della chirurgia moderna, e per gli sforzi compiuti nel controllare l’infezione chirurgica con l’antisepsi spicca tra loro il chirurgo inglese Joseph Lister (1827-1912) (Fig. 1.5). La ricerca di Lister si basò sulle scoperte del chimico francese Louis Pasteur (1822-1895), che aveva studiato il processo di fermentazione, dimostran-do che era causato dalla crescita di microrganismi viventi. A metà degli anni Sessanta del XIX secolo, Lister ipotizzò che “germi” invisibili o, come diventeranno noti, i batteri, fossero all’origine delle difficoltà di guarigione delle ferite dei pazienti sottoposti a intervento chirurgico. Per prevenire la suppurazione, propose di applicare alla ferita una soluzione antibatterica e di rivestire il sito con una benda impregnata con lo stesso liquido germicida.

Lister era nato in una benestante famiglia londinese di religione quacchera, nel 1848 aveva conseguito la laurea in medicina presso l’University College e quattro anni più tardi era stato nominato membro del Royal College of Surgeons. Non molto tempo dopo si era trasferito a Edimburgo, dove divenne assistente di James Syme

che di inalazione. Nell’autunno del 1846, era pronto a dimostrare i risultati dei suoi esperimenti al mondo e implorò Warren di fornirgli un’occasione pubblica. Il 16 ottobre, in un pienissimo anfiteatro operatorio del Massachusetts General Hospital, il teso Morton, dopo aver anestetizzato un uomo di vent’anni, si rivolse a Warren e gli disse che era tutto pronto. Gli sguardi della folla silenziosa seguivano ogni singola mossa del chirurgo. Warren af-ferrò un bisturi, fece un’incisione di quasi otto centimetri e aspor-tò dal collo del paziente un piccolo tumore vascolare. Per venti-cinque minuti, gli spettatori osservarono frastornati e increduli l’intervento indolore effettuato dal chirurgo.

Difficile dire se i presenti in quell’anfiteatro fossero coscienti di aver appena assistito a uno degli eventi più importanti della storia della medicina. È certo che Warren, pieno di ammirazione, pronunciò le cinque parole più famose della chirurgia americana: “Signori, questa non è ciarlataneria”. Nessuno sapeva cosa fare o dire. Warren si rivolse al suo paziente e gli chiese più volte se avesse sentito qualcosa. La risposta fu un no: nessun dolore, nessun fa-stidio, niente. Poche scoperte in campo medico sono state così prontamente accettate come l’anestesia inalatoria. La notizia dello storico evento si diffuse rapidamente, mentre cominciava una nuova era nella storia della chirurgia. Nel giro di qualche mese, l’etere solforico e un altro agente inalatorio, il cloroformio, erano usati negli ospedali di tutto il mondo.

L’adozione dell’anestesia inalatoria favorì la ricerca di altre tecniche che permettessero di rendere indolore gli interventi chi-rurgici. Nel 1885, William Halsted (1852-1922) (Fig. 1.4), pro-fessore di chirurgia al Johns Hopkins Hospital di Baltimora, dichiarò di aver fatto ricorso alla cocaina e all’anestesia per infil-trazione (blocco nervoso) con grande successo in più di mille interventi chirurgici. Contemporaneamente, James Corning (1855-1923), un chirurgo di New York, compì i primi esperi-menti sull’anestesia spinale, che furono presto ampliati dal tede-sco August Bier (1861-1939). Verso la fine degli anni Venti, l’anestesia spinale e l’anestesia epidurale erano ampiamente usate negli Stati Uniti e in Europa. Il grande passo successivo nel pro-gresso della chirurgia indolore avvenne nel 1934, con l’introdu-

FIGURA 1.4 William Halsted (1852-1922). FIGURA 1.5 Joseph Lister (1827-1912).

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fossero memorabili e durassero in alcuni casi oltre tre ore. Fu solo alla metà degli anni Ottanta del XIX secolo che la chirurgia ame-ricana cominciò a fare propri i principi dell’antisepsi. Lo stesso accadde nel Paese natale di Lister, dove fu accolto inizialmente da una fortissima opposizione, a capo della quale si trovava il gine-cologo Lawson Tait (1845-1899).

Nel corso degli anni, i principi di antisepsi di Lister fecero largo alla definizione dell’asepsi, ovvero l’eliminazione totale dei batteri. Il concetto di asepsi fu portato avanti con vigore da Ernst von Bergmann (1836-1907), professore di chirurgia a Berlino, fautore della sterilizzazione a vapore (1886) come metodo ideale per eliminare i germi. Verso la metà degli anni Novanta del XIX secolo, tecniche antisettiche e asettiche alquanto raffinate si erano fatte strada nella maggior parte degli anfiteatri chirurgici ameri-cani ed europei. Ogni dubbio sulla validità dei concetti di infe-zione della ferita di Lister fu fugato sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale. La tecnica asettica era praticamente im-possibile da realizzare sui campi di battaglia. Furono Alexis Carrel (1873-1944) (Fig. 1.6), chirurgo franco-americano vincitore del premio Nobel, e il chimico inglese Henry Dakin (1880-1952) a sviluppare il metodo preziosissimo del trattamento delle ferite mediante débridement chirurgico e irrigazione con una soluzione antisettica.

Una volta accettate le tecniche antisettiche e asettiche come elementi di routine della pratica chirurgica, fu inevitabile che altre norme di comportamento prendessero piede: in particolare, l’uso di cuffie, copricapi, maschere, tende, camici e guanti di gomma. Fino al 1870, i chirurghi non usarono guanti, non solo perché non era stato riconosciuto il concetto della presenza dei batteri sulle mani, ma anche perché nessuno era stato in grado di progettare un guanto veramente funzionale. La situazione cambiò nel 1878, quando a un impiegato dell’India-Rubber Works del Surrey, in Inghilterra, fu concesso il brevetto britan-nico e statunitense per la fabbricazione di un guanto chirurgico che aveva la “delicatezza del tatto”. Si ignora chi sia stato il primo chirurgo a richiedere che i guanti di gomma flessibile fossero regolarmente indossati per ogni operazione chirurgica. A Halsted si attribuisce generalmente il merito di averne diffuso l’utilizzo, anche se l’idea dei guanti di gomma fu pienamente accettata solo negli anni Venti del XX secolo.

(1799-1870). La relazione mentore-discepolo che si instaurò tra i due fu rafforzata dal matrimonio di Lister con la figlia di Syme, Agnes (1835-1896). Cedendo alle insistenze del suocero, Lister fece domanda per diventare professore di chirurgia a Glasgow. I nove anni che vi avrebbe trascorso si sarebbero rivelati il periodo più importante nella carriera di Lister come chirurgo-uomo di scienza.

Nella primavera del 1865 un collega raccontò a Lister della ricerca di Pasteur sulla fermentazione e la putrefazione. Grazie alla familiarità con il microscopio (suo padre era stato l’ideatore della lente acromatica e tra i fondatori della moderna microscopia), Lister fu tra i pochi chirurghi del suo tempo in grado di compren-dere di prima mano le scoperte di Pasteur sui microrganismi. Forte di questa conoscenza, Lister dimostrò che una ferita era già piena di batteri quando il paziente arrivava in ospedale.

Consapevole che il calore elevato non poteva essere utilizzato come metodo per eliminare i batteri nei pazienti, si avvalse invece dell’antisepsi chimica, facendo inizialmente ricorso al cloruro di zinco e ai solfiti, per poi optare in modo definitivo per l’acido carbolico (fenolo). Già nel 1866, Lister spargeva su ferite e bende acido carbolico puro, che spruzzava anche sul tavolo operatorio e nella zona circostante a esso. L’anno seguente, scrisse una serie di articoli sulla sua esperienza, in cui spiegava come il pus in una ferita non fosse una componente normale del processo di guarigione (erano questi i tempi del “pus lodevole”, quando si credeva errone-amente che quanto più cospicua fosse la suppurazione, tanto me-glio fosse per la ferita). Lister apportò numerose modifiche alle proprie tecniche di medicazione, alle modalità di applicazione, alla scelta della soluzione antisettica, abbandonando completamente l’acido carbolico in favore di altre sostanze germicide. Non dava importanza allo strofinamento delle mani, ma si limitava a immer-gere le dita in una soluzione di fenolo e composto corrosivo, essen-do erroneamente convinto che lo strofinamento provocasse delle lesioni nei palmi delle mani in cui sarebbero proliferati i batteri.

Un secondo importante progresso promosso da Lister fu lo sviluppo di suture riassorbibili sterili. Lister riteneva che all’origine di gran parte della suppurazione nelle ferite vi fosse la contami-nazione delle legature. Per prevenire il problema, ideò una sutura riassorbibile impregnata di fenolo. Non trattandosi di una legatura permanente, era possibile tagliarla corta e cucire saldamente la ferita, eliminando la necessità di far passare i capi della sutura attraverso l’incisione, una pratica chirurgica che si era perpetuata fin dai tempi di Paré.

Per diverse ragioni, il processo di accettazione delle idee di Lister su infezione e antisepsi fu lento e discontinuo. Innanzitutto, le numerose modifiche apportate in fase di elaborazione del me-todo crearono una certa confusione. In secondo luogo, il “listeri-smo”, come esercizio tecnico, era complicato e richiedeva molto tempo. Ancora, i primi tentativi di ricorrere all’antisepsi da parte di altri chirurghi furono segnati da miserevoli fallimenti. Infine, e fu questo il motivo principale, presupposto dell’accettazione del listerismo era la comprensione della teoria dei germi, una tesi che i maestri del bisturi abituati a pensare in modo pratico erano ri-luttanti a riconoscere.

I primi a riconoscere, come gruppo di professionisti, l’impor-tanza della batteriologia e delle idee di Lister furono i chirurghi tedeschi. Nel 1875, Richard von Volkmann (1830-1889) e Johann Nussbaum (1829-1890) si espressero favorevolmente sui tratta-menti con metodi antisettici da loro stessi applicati alle fratture composte. Non lontano dalle loro posizioni, era il francese Just Lucas-Championière (1843-1913). L’anno seguente, Lister si recò negli Stati Uniti, dove tenne un discorso all’International Medical Congress tenutosi a Philadelphia, a cui seguirono altre lezioni a Boston e New York. Tuttavia, i chirurghi americani non furono convinti dal messaggio di Lister, sebbene le sue presentazioni FIGURA 1.6 Alexis Carrel (1873-1944).

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fratello minore del famoso economista John Maynard Keynes), che costruì un’unità portatile di refrigerazione, che consentiva l’effettuazione delle trasfusioni sul campo di battaglia. Nel 1937, Bernard Fantus (1874-1940), direttore del Dipartimento di far-macologia e terapia presso il Cook County Hospital di Chicago, sviluppò ulteriormente il concetto di conservazione del sangue, con la creazione della prima “banca del sangue” all’interno di un ospedale negli Stati Uniti.

Nonostante il successo nello stoccaggio e nell’esecuzione delle prove crociate, persistevano le reazioni immunitarie. A questo proposito, un altro importante passo in avanti fu compiuto nel 1939, quando Landsteiner identificò il fattore Rh (così chiamato per la sua presenza nel macaco Rhesus). Allo stesso tempo, Charles Drew (1904-1950) (Fig. 1.7), chirurgo presso la Columbia Uni-versity, dimostrò che il sangue poteva essere separato in due com-ponenti principali, globuli rossi e plasma, e che quest’ultimo poteva essere congelato per la conservazione a lungo termine. La sua scoperta portò alla creazione di banche del sangue su larga scala, utilizzate specialmente dai militari durante la Seconda guer-ra mondiale. La conservazione del sangue fu oggetto di un ulte-riore miglioramento nei primi anni Cinquanta, quando le fragili bottiglie di vetro furono sostituite da borse di plastica resistente.

Sezione congelataL’introduzione dell’anestesia e dell’asepsi permise ai chirurghi di eseguire operazioni chirurgiche tecnicamente più impegnative, obbligandoli a migliorare le proprie capacità diagnostiche. Tra le tecniche che andarono a rafforzare le abilità di problem-solving dei chirurghi, annoveriamo la sezione congelata, un’innovazione che diventò in seguito un caposaldo della chirurgia scientifica. Nel tardo XIX secolo e nei primi anni del XX secolo, per “patologia chirurgica” si intendeva semplicemente la conoscenza da parte del chirurgo delle basi della patologia e la sua capacità di riconoscere le lesioni sulla superficie del corpo. Così come era avvenuto per i chirurghi-anatomisti, i chirurghi-patologi, ad esempio il londinese

Nel 1897, Jan Mikulicz-Radecki (1850-1905), un chirurgo polacco-austriaco, ideò una maschera di garza monostrato da in-dossare durante l’intervento chirurgico. Un assistente modificò la maschera, posizionando due strati di mussola di cotone su una struttura metallica per allontanare la garza dalle labbra e dal naso del chirurgo. Si trattò di una modifica fondamentale, considerato che un microbiologo tedesco aveva dimostrato che le goccioline cariche di batteri provenienti da bocca e naso aumentavano le probabilità di infezione della ferita. Il silenzio in sala operatoria divenne una caratteristica cardine della chirurgia all’inizio del XX secolo. All’incirca nello stesso periodo, quando si giunse all’ulte-riore conclusione che la protezione garantita dalle maschere dimi-nuiva se si portava la barba, tramontarono i giorni in cui i chirur-ghi facevano sfoggio in strada di folte barbe e lunghi baffi.

ALTRI PROGRESSI CHE CONTRIBUIRONO AL SORGERE DELLA CHIRURGIA MODERNARaggi XTra gli altri progressi che favorirono l’ascesa della chirurgia mo-derna vi fu la scoperta dei raggi X a opera di Wilhelm Roentgen (1845-1923). Professore di fisica all’Università di Würzburg in Germania, alla fine di dicembre del 1895 presentò all’Ordine dei Medici della città un articolo sulle radiazioni elettromagnetiche. Roentgen stava studiando la fotoluminescenza dei sali metallici che erano rimasti esposti alla luce, quando notò un bagliore verdastro provenire da uno schermo che era stato verniciato con una sostanza fosforescente e che si trovava su uno scaffale a circa 3 metri di distanza. Giunse pertanto a comprendere che esiste-vano dei raggi invisibili (che chiamò raggi X) in grado di attra-versare oggetti in legno, metallo e altri materiali. Ancora più importante, questi raggi erano in grado di penetrare anche i tessuti molli del corpo, e questo faceva sì che le ossa, più dense, rimanessero impresse su una lastra fotografica appositamente trattata. Così come era già avvenuto per l’anestesia inalatoria, l’importanza dei raggi X fu riconosciuta immediatamente. Nel marzo del 1896 furono riconosciuti i primi contributi riguardanti l’uso della roentgenografia nella pratica medica negli Stati Uniti. In breve tempo, le applicazioni della nuova scoperta in chirurgia si moltiplicarono, dalla diagnosi e localizzazione di lussazioni e fratture, alla rimozione di corpi estranei e al trattamento di tu-mori maligni.

TrasfusioniFino alla fine del XIX secolo, vennero riferite notizie sporadiche di trasfusioni di sangue, tra queste quella compiuta da Halsted su sua sorella in seguito a un’emorragia postparto con sangue estratto dalle sue stesse vene. Tuttavia, fu solo nel 1901, quando il medico austriaco Karl Landsteiner (1868-1943) scoprì i principali gruppi sanguigni umani, che la trasfusione di sangue divenne una pratica meno rischiosa. George Crile (1864-1943), noto chirurgo di Cle-veland, fu l’autore della prima operazione chirurgica, durante la quale si fece ricorso a una trasfusione di sangue e il paziente so-pravvisse per cinque anni.

L’ultimo passo necessario per far sì che le trasfusioni divenissero un mezzo facilmente accessibile fu lo sviluppo di un metodo per impedire la coagulazione del sangue, a cui si arrivò negli anni immediatamente precedenti alla Prima guerra mondiale, quando il chirurgo newyorchese Richard Lewisohn (1875-1962), insieme con altri, dimostrò che, aggiungendo citrato di sodio e glucosio come anticoagulante e refrigerandolo, il sangue poteva essere con-servato per diversi giorni. Grazie a questa scoperta, apparve fatti-bile la realizzazione di una banca del sangue, come riuscì a dimo-strare Geoffrey Keynes (1887-1982), noto chirurgo britannico (e FIGURA 1.7 Charles Drew (1904-1950).

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delle procedure chirurgiche di base, ossia la chirurgia di addome, cranio, articolazioni e torace. Tale trasformazione si realizzò non solo grazie al radicale cambiamento della figura del chirurgo, ma anche perché era mutato irreversibilmente il rapporto tra medici-na e scienza: settarismo e ciarlataneria, frutto di un primitivo dogmatismo medico, non erano più sostenibili entro i confini dell’indagine scientifica.

Ciononostante, i chirurghi conservarono un persistente senso di disagio professionale e sociale, e continuarono a essere oggetto di detrazione da parte di alcuni medici che li descrivevano come degli sconsiderati che svolgevano un mestiere manuale inferiore. Era naturale, quindi, che i maestri del bisturi cercassero di dissipare le paure e l’incomprensione che i loro colleghi e l’opinione pub-blica nutrivano nei confronti dell’ignoto chirurgico, propagandan-do le procedure chirurgiche come una componente del nuovo armamentario della medicina degna di essere accettata. Non fu un compito facile, soprattutto perché i timori suscitati nei pazienti dalle conseguenze negative, dolore e complicanze, delle operazioni chirurgiche superavano di gran lunga la consapevolezza che esse fossero in grado di arrestare processi patologici devastanti.

Era evidente che le basi scientifiche della chirurgia, per essere dimostrate, avevano bisogno di concetti teorici, modelli di ricerca e applicazioni cliniche. L’impegno profuso nel realizzare nuove procedure chirurgiche si basava sulla chirurgia sperimentale e sulla creazione di laboratori di ricerca chirurgica. Inoltre, fu necessario dare una base scientifica incontrovertibile alle raccomandazioni per l’intervento chirurgico, ed essa fu costituita da dati empirici raccolti e analizzati in base a standard accettati a livello nazionale e internazionale, e non dalle congetture di qualcuno. I chirurghi dovevano anche dimostrare di avere un’uniformità organizzativa e manageriale, senza venire meno alle norme culturali e professio-nali del tempo.

Il considerevole numero di problematiche richiese nuove ini-ziative di tipo amministrativo, tra cui l’istituzione di enti di auto-disciplina e abilitazione. Con l’istituzione di una scuola di specia-lizzazione, di programmi di formazione post laurea standardizzati e di associazioni professionali, i chirurghi dimostrarono il serio intento di voler essere considerati una specialità distinta all’interno della medicina tradizionale. Inoltre, fece la sua comparsa un tipo di letteratura dedicata: riviste specializzate per la tempestiva divul-gazione di novità riguardanti la ricerca e le tecniche in campo chirurgico. A metà del XX secolo, grazie a queste iniziative, fu conseguito un notevole risultato in ambito chirurgico: l’accetta-zione della chirurgia da parte della società come un’attività scien-tifica a pieno titolo e dell’intervento chirurgico come un’autentica necessità terapeutica.

La storia della trasformazione socioeconomica e della trasfor-mazione in professione della chirurgia moderna fu diversa da Paese a Paese. In Germania, il processo di unificazione economica e politica sotto il dominio prussiano offrì nuove e illimitate op-portunità a medici e chirurghi, in particolare quando il governo decretò che per l’abilitazione all’esercizio della professione non bastava la semplice laurea in medicina. Dal punto di vista acca-demico, vennero raggiunti notevoli risultati nelle università statali generosamente sovvenzionate, dove celebri professori di chirurgia portavano avanti una serie imponente di programmi di formazio-ne chirurgica (come avveniva anche per altre discipline mediche). Quanto raggiunto a livello nazionale dai chirurghi tedeschi diven-ne presto di dominio internazionale, e dal 1870 alla Prima guerra mondiale le università tedesche rappresentarono centri di eccel-lenza in chirurgia, riconosciuti a livello mondiale.

Con la fine della Prima guerra mondiale, venne meno il ruolo dell’Impero austro-ungarico e della Germania come leader mon-diale della chirurgia. Con il conflitto era andata distrutta gran

James Paget (1814-1899) e il celebre viennese Theodor Billroth (1829-1894) (Fig. 1.8), furono gli autori dei principali libri di testo e si misero alla guida della branca.

Nel 1895, Nicholas Senn (1844-1908), professore di patologia e chirurgia al Rush Medical College di Chicago, raccomandò che un “microtomo in congelamento” fosse usato come ausilio dia-gnostico durante un’operazione chirurgica. Tuttavia, i primi mi-crotomi erano dispositivi rozzi e il congelamento portava a distor-sioni inaccettabili della morfologia cellulare. Si ovviò al problema con l’elaborazione di metodi più sofisticati per l’indurimento del tessuto, in particolare i sistemi ideati da Thomas Cullen (1868-1953), un ginecologo del Johns Hopkins Hospital, e Leonard Wilson (1866-1943), direttore del Dipartimento di patologia alla Mayo Clinic. Tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, periodo in cui la patologia era in procinto di essere rico-nosciuta come specialità medica e l’influenza del chirurgo-patolo-go era in declino, grazie al sostegno di Joseph Bloodgood (1867-1935), eminente chirurgo di Baltimora e tra i primi apprendisti di Halsted, si giunse a utilizzare di routine la sezione congelata durante un’operazione chirurgica.

ASCESA DELLA CHIRURGIA SCIENTIFICA

Durante i primi decenni del XX secolo, le interazioni tra politica, scienza, economia, società e progressi tecnici prepararono il terre-no per quella che sarebbe diventata una spettacolare vetrina dei progressi compiuti in chirurgia. I chirurghi portavano cuffie, abiti e maschere dall’aspetto antisettico e di colore bianco, bianchi erano gli indumenti fatti indossare ai pazienti, i tessuti che avvol-gevano i tavoli operatori e i contenitori di metallo in cui si im-mergevano gli strumenti e che contenevano soluzioni antisettiche nuove e migliorate. Tutto era pulito e ordinato, e l’intervento chirurgico stesso non era più considerato una questione affidata al caso. Tale era la portata delle innovazioni, che prima della fine della Prima guerra mondiale (1918) vennero enunciati i cardini

FIGURA 1.8 Theodor Billroth (1829-1894).

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Uniti, Halsted insisteva su un modello più chiaramente definito di organizzazione e divisione dei compiti. Gli specializzandi po-tevano contare su un volume più ampio di materiale operatorio, un contatto più stretto con questioni di pratica clinica e un gra-duale aumento di autorità e responsabilità clinica in se stessi piuttosto che nel professore. Halsted puntava alla formazione di insegnanti di chirurgia di eccellenza, e non semplicemente di chirurghi competenti. Fu in grado di dimostrare ai suoi specializ-zandi che la ricerca basata su principi anatomopatologici e fisio-logici, affiancata dalla sperimentazione condotta su animali, con-sentiva lo sviluppo di procedure sofisticate.

Dimostrando a una comunità professionale e a un’opinione pubblica spesso diffidenti che esisteva un’innegabile sequenza sco-perta-progresso che legava il laboratorio di ricerca sperimentale alla sala operatoria, Halsted riuscì a sviluppare un sistema dalle caratteristiche ben precise, che fu presto definito “scuola di chi-rurgia” e, ancor più importante, i principi di chirurgia che pro-pugnava guadagnarono il valore di un imprimatur scientifico am-piamente riconosciuto e accettato. E va al taciturno e riservato Halsted, più che a qualsiasi altro chirurgo, il merito di aver portato la chirurgia dagli anfiteatri sudici e melodrammatici del XIX se-colo nelle sale operatorie silenziose e pulite del XX secolo.

Seppure Halsted sia ritenuto l’“Adamo” della chirurgia ameri-cana, i suoi primi assistenti furono solo diciassette. Tra le caratte-ristiche che definivano il suo programma, infatti, vi era anche un periodo in carica indefinito per il primo assistente. Era convinto che solo una persona fosse in grado di sopravvivere alla ripida ascesa della piramide della specializzazione, e solo una volta in un certo numero di anni. Dei primi assistenti di Halsted, molti di-vennero docenti di chirurgia presso altre istituzioni, dove loro stessi avviarono programmi di specializzazione: Harvey Cushing a Harvard, Stephen Watts (1877-1953) nel Virginia, George Heuer (1882-1950) e Mont Reid (1889-1943) a Cincinnati e Roy Mc-Clure (1882-1951) all’Henry Ford Hospital di Detroit. Già negli anni Venti, negli Stati Uniti erano oltre una dozzina le scuole di chirurgia nello stile di Halsted. Tuttavia, il rigoroso stile gerarchico (ossia un primo assistente/capo specializzando con durata indefi-nita della nomina) costituiva l’aspetto limitante del modello di internato proposto da Halsted e che, in un’epoca in cui migliaia di medici chiedevano a gran voce di essere riconosciuti come specialisti in chirurgia, ne impedì l’ampia adozione. Per questo motivo, egli influì sul numero di chirurghi specialisti in modo meno significativo di quanto si possa pensare.

È innegabile che la triade dei principi educativi di Halsted, conoscenza delle scienze di base, ricerca sperimentale e responsa-bilità progressiva verso il paziente, sia diventata una caratteristica preminente, nonché permanente, dei programmi di formazione chirurgica negli Stati Uniti. Tuttavia, già alla fine della Seconda guerra mondiale la maggior parte delle scuole di specializzazione in chirurgia era organizzata attorno a una meno rigida struttura di avanzamento a rettangolo, adottata da Edward Churchill (1895-1972) presso il Massachusetts General Hospital a partire dagli anni Trenta. Questo stile di istruzione e formazione chirurgica fu la risposta ai nuovi standard nazionali promossi dall’American Medi-cal Association (AMA) e dall’American Board of Surgery.

Nel 1920, il Council on Medical Education dell’AMA pubbli-cò per la prima volta un elenco di 469 policlinici con 3.000 tiro-cini “approvati”. L’aggiornamento annuale di questa guida diven-ne una delle più importanti e meglio pubblicizzate attività dell’A-MA e rappresentò per gli amministrativi del sevizio sanitario il primo database nazionale dettagliato. Il coinvolgimento dell’AMA nell’istruzione e formazione post laurea si ampliò sette anni più tardi, quando pubblicò un elenco di 1.700 scuole di specializza-zione riconosciute in diverse specialità mediche e chirurgiche, tra

parte dell’Europa, se non nelle caratteristiche fisiche, nella sua passione per la ricerca scientifica e intellettuale, e questo deter-minò un vuoto a livello internazionale nella formazione chirur-gica, nella ricerca e nella terapia. Fu naturale, pertanto, che i chirurghi provenienti dagli Stati Uniti, la nazione industrializzata meno colpita psicologicamente e fisicamente dall’esito della guer-ra, riempissero questo vuoto. Fu così che ebbe inizio l’ascesa della chirurgia americana all’attuale posizione di leadership mondiale. Nelle pagine che seguono, si riportano alcune informazioni sul processo di trasformazione e professionalizzazione della moderna chirurgia americana.

Standardizzazione della formazione post laurea in chirurgia e programmi di tirocinioPer il chirurgo americano della fine del XIX secolo, qualsiasi ten-tativo di apprendimento era una questione di volontà personale con limitate opportunità pratiche. Sebbene esistessero le cosiddet-te cliniche universitarie, non vi erano chirurghi impegnati nell’in-segnamento a tempo pieno. La pratica chirurgica in queste strut-ture consisteva nell’assistere i chirurghi nel loro giro visite e osser-vare gli interventi chirurgici, con un’esperienza pratica minima. Limitata, se non proprio inesistente, era anche l’integrazione di diagnosi chirurgica e trattamento. In fin dei conti, la maggioranza dei chirurghi americani era autodidatta e, pertanto, poco propensa a trasmettere inestimabili competenze faticosamente conquistate a colleghi più giovani, destinati a diventare concorrenti.

Al contrario, il sistema tedesco di formazione chirurgica riusciva a unire le scienze di base con l’insegnamento clinico pratico grazie al coordinamento di accademici a tempo pieno. Lo spirito di com-petizione tra i giovani chirurghi in formazione cominciava tra i banchi delle scuole di medicina, e solo i più dotati e determinati erano premiati. Una volta completato il tirocinio, che prevedeva di solito un periodo in un laboratorio di scienze di base, il giovane medico, se fortunato, avrebbe ricevuto la richiesta di diventare as-sistente di un professore di chirurgia. A questo punto, il futuro chirurgo veniva lanciato nell’agone per diventare primo assistente, quello che chiameremmo oggi specializzando capo (anziano). Non vi era la possibilità di avanzare per gradi dal fondo alla cima della scala gerarchica e, di fatto, solo pochi sarebbero diventati primo assistente, carica che avrebbero tenuto stretta fino a che non fossero stati chiamati a dirigere una cattedra di chirurgia all’università o, stanchi di aspettare, non si fossero dedicati all’attività privata. Era un dedalo di programmi di istruzione e formazione, in cui da grandi chirurghi si formavano altri grandi chirurghi, e furono questi uomini, con le loro scuole di chirurgia, a dare a Halsted l’ispirazione e la struttura concettuale di cui aveva bisogno per creare il sistema americano di istruzione e formazione in chirurgia.

Halsted era nato da una famiglia newyorchese benestante e aveva goduto della migliore istruzione possibile: ebbe precettori privati per la formazione elementare, frequentò il collegio alla Phillips Andover Academy e si laureò a Yale nel 1874. Tre anni più tardi conseguì la laurea in medicina presso il College of Physicians and Surgeons di New York (ora Columbia University) e subito dopo completò un tirocinio di diciotto mesi presso il Bellevue Hospital. Le conquiste del mondo medico tedesco spingevano decine di migliaia di medici americani a studiare all’estero. A questo pellegri-naggio si unì anche Halsted, che trascorse gli anni dal 1878 al 1880 nelle università di Berlino, Amburgo, Kiel, Lipsia, Vienna e Würz-burg. La netta differenza tra i sistemi di educazione e formazione in campo chirurgico tedesco e americano saltava agli occhi.

La specializzazione in chirurgia che Halsted conseguì al Johns Hopkins Hospital nel 1889 fu una perpetuazione dell’approccio tedesco. Nel suo programma, il primo nel suo genere negli Stati

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su animali negli Stati Uniti, l’Hunterian Laboratory of Experi-mental Medicine, dal nome del famoso Hunter. Halsted esigeva che nel suo laboratorio vigesse la medesima eccellenza della sala operatoria dell’ospedale e Cushing aveva assicurato al suo mentore che il suo volere sarebbe stato rispettato. Così come Halsted, Cushing era un insegnante particolarmente esigente e volle essere certo che l’Hunterian, in cui vi erano gabbie per animali sia all’in-terno sia all’esterno, aree isolate per progetti di ricerca e una grande stanza centrale con diversi tavoli operatori, fosse caratte-rizzato da un rigoroso ambiente accademico in cui gli studenti imparavano a pensare come chirurghi “investigatori”, mentre ac-quisivano le basi della tecnica chirurgica. Per gli specializzandi di Halsted, il periodo all’Hunterian divenne parte integrante della loro istruzione e formazione chirurgica.

Altri chirurghi americani alla fine del secolo dimostrarono interesse per la ricerca chirurgica sperimentale (il libro di Senn, Experimental Surgery, il primo libro apparso in America sull’argo-mento, fu pubblicato nel 1889, e il famoso trattato di Crile, An Experimental Research into Surgical Shock, fu pubblicato nel 1899), ma le loro indagini scientifiche non furono condotte con la mo-dalità rigorosa tipica dell’Hunterian. Cushing continuò ad avva-lersi dell’Hunterian per la sua ricerca neurochirurgica e in seguito trasferì l’idea di un laboratorio di ricerca chirurgica a Boston, dove diverse generazioni chirurgiche più tardi, Joseph Murray (1919-2012), lavorando a fianco del professore di chirurgia del Moseley di Brigham, Francis D. Moore (1913-2001) (Fig. 1.10), vinse il premio Nobel nel 1990 per Fisiologia o Medicina grazie al lavoro sul trapianto di organi e cellule nel trattamento delle malattie umane, in particolare il trapianto di rene.

Un altro chirurgo americano fu insignito del premio Nobel. Charles Huggins (1901-1997) (Fig. 1.11) era nato in Canada, ma si era laureato alla Harvard Medical School e aveva completato la formazione in chirurgia presso la Michigan University. Mentre lavorava nel laboratorio di ricerca chirurgica della Chicago Uni-versity, Huggins scoprì che la terapia antiandrogenica, che preve-

cui anestesia, dermatologia, ginecologia e ostetricia, medicina, neuropsichiatria, oftalmologia, ortopedia, otorinolaringoiatria, patologia, pediatria, radiologia, chirurgia, tubercolosi e urologia. Da parte dell’AMA si trattò di una dichiarazione pubblica di so-stegno al concetto di specializzazione, una decisione politica chia-ve che influenzò profondamente il futuro professionale dei medici negli Stati Uniti e la somministrazione stessa delle cure.

Laboratori di ricerca chirurgica sperimentaleHalsted era convinto che la ricerca sperimentale fosse per gli specializzandi un’opportunità per valutare i problemi chirurgici in modo analitico, una finalità educativa che non poteva essere rea-lizzata semplicemente con la componente assistenziale. Nel 1895, organizzò un corso di chirurgia sugli animali in cui insegnava agli studenti di medicina come effettuare incisioni chirurgiche e usare tecniche antisettiche e asettiche. Le lezioni erano molto frequen-tate e, diversi anni dopo, Halsted chiese a Cushing, che aveva da poco completato la specializzazione al Hopkins e trascorso del tempo in Europa, affinando le sue capacità di ricerca sperimentale con i futuri premi Nobel Theodor Kocher (1841-1917) (Fig. 1.9) e Charles Sherrington (1857-1952), di diventare il responsabile del corso di chirurgia e del laboratorio sperimentale.

Cushing, il più famoso degli assistenti di Halsted, si era laure-ato a Yale e alla Harvard Medical School. Successivamente, sareb-be diventato professore di chirurgia a Harvard e primario di chirurgia del Peter Bent Brigham Hospital, di recente costruzione. Le conquiste in campo clinico di Cushing sono leggendarie, non ultime la descrizione degli adenomi basofili dell’ipofisi, la scoperta dell’aumento della pressione sanguigna sistemica causata da un aumento della pressione intracranica e l’elaborazione di grafici dell’etere per la sala operatoria. Altrettanto degni di nota, i nume-rosi successi di Cushing al di fuori del mondo della scienza me-dica, il principale dei quali fu un premio Pulitzer in biografia o saggio autobiografico nel 1926 per la sua opera in due volumi Life of Sir William Osler.

Cushing trovava limitato lo spazio dedicato alle lezioni di chirurgia e persuase i fiduciari dell’università ad autorizzare fondi per costruire il primo laboratorio per la ricerca chirurgica condotta

FIGURA 1.9 Theodor Kocher (1841-1917). FIGURA 1.10 Francis D. Moore (1913-2001).

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SEZIONE I Principi di base della chirurgia12

Per i chirurghi degli Stati Uniti, la pubblicazione nel 1885 degli Annals of Surgery segnò l’inizio di una nuova era, per molti versi guidata dal contenuto stesso della rivista. Gli Annals divennero parte integrante del processo di avanzamento delle scienze chirur-giche e le loro pagine racchiudono una cronaca della storia della chirurgia negli Stati Uniti più accurata di qualsiasi altra fonte scritta. La rivista rimane il più antico periodico in lingua inglese a tutt’oggi pubblicato e dedicato esclusivamente alla chirurgia. Altre riviste specializzate in chirurgia fecero presto la loro com-parsa e, insieme agli atti pubblicati delle nuove associazioni di specialisti, si rivelarono cruciali nello stabilire linee guida scienti-fiche ed etiche della professione.

Non meno importanti per la diffusione della conoscenza chi-rurgica furono libri di testo, monografie e saggi, attraverso i quali i chirurghi americani diffondevano il proprio know-how, e così come era avvenuto per le pubblicazioni specializzate, queste ope-re, non di rado in più di un volume, fecero la loro prima appa-rizione negli anni Ottanta del XIX secolo. Il messaggio al mondo chirurgico internazionale del Principles and Practice of Surgery, opera in tre volumi per un totale di tremila pagine di David Hayes Agnew (1818-1892), professore di chirurgia presso l’University of Pennsylvania, era che i chirurghi americani avevano qualcosa da dire e che erano pronti a sostenere le loro convinzioni. Quasi nello stesso periodo, John Ashhurst (1839-1900), che sarebbe succeduto ad Agnew all’University of Pennsylvania, stava scriven-do il suo International Encyclopedia of Surgery in sei volumi (1881-1886), il primo manuale chirurgico firmato da più autori. L’En-cyclopedia ebbe un successo editoriale immediato e fu anche il primo testo di chirurgia al quale diedero il proprio contributo chirurghi europei e americani. L’opera editoriale di Ashhurst fu presto seguita dal testo An American Text-Book of Surgery (1892) scritto da Keen, il primo saggio di chirurgia scritto da vari autori, tutti di origine americana.

Questi testi sono i progenitori della presente pubblicazione. Nel 1936, Frederick Christopher (1889-1967), professore associato di chirurgia presso la Northwestern University e primario di chirurgia dell’ospedale di Evanston nell’Illinois, promosse la compilazione del Textbook of Surgery. Il Textbook, che Christopher descriveva

deva l’orchiectomia o la somministrazione di estrogeni, consentiva di ottenere una regressione a lungo termine in pazienti con carci-noma avanzato della prostata. Queste osservazioni furono alla base delle terapie dei tumori maligni mediante manipolazione ormo-nale e gli valsero l’assegnazione del premio Nobel per la Fisiologia o Medicina nel 1966.

L’Hunterian ebbe un’influenza duratura, diventando un model-lo ampiamente accettato da molti responsabili di ospedali univer-sitari e direttori di scuola. Esso diede il via a una tradizione di ri-cerca sperimentale che continua a caratterizzare i moderni program-mi di istruzione e formazione in chirurgia americani, e le ripercussioni di tale modello continuano a rendersi esplicite all’Owen H. Wangensteen Forum dell’American College of Surge-ons, dedicato ai problemi chirurgici fondamentali, che si tiene durante il Congresso annuale. Owen H. Wangensteen (1898-1981) (Fig. 1.2) fu per diverso tempo professore di chirurgia presso l’U-niversity of Minnesota, e grazie a lui il Dipartimento divenne un centro di eccellenza per l’innovativa ricerca sperimentale e clinica.

Riviste specializzate, manuali, monografie e saggiI progressi scientifici contribuirono alla nascita di un corpus di conoscenze mediche e chirurgiche autorevole e in rapido sviluppo. La diffusione tempestiva di queste informazioni nella pratica chi-rurgica divenne sempre più dipendente dalla pubblicazione di riviste mediche settimanali o mensili. I medici negli Stati Uniti si rivelarono dei maestri nella promozione di questo nuovo stile di giornalismo e, verso la fine degli anni Settanta del XIX secolo, il numero di pubblicazioni periodiche dedicate al settore della me-dicina presenti negli Stati Uniti era quasi superiore a quello dell’intera Europa. Tuttavia, la maggior parte delle riviste mediche era destinata a fallire presto, a causa di budget limitati e di un numero ristretto di lettori. Sebbene nelle testate comparissero sempre le parole “chirurgia”, “chirurgico” o “scienze chirurgiche”, nessuno di questi giornali era dedicato alla chirurgia come specia-lità. Di fatto, non erano in tanti quelli che volevano o potevano permettersi di svolgere la professione di chirurgo a tempo pieno. Fino a quasi tutti gli anni Ottanta del XIX secolo, quando furono finalmente accettati la teoria dei germi e i concetti listeriani di antisepsi, infatti, un chirurgo non poteva operare prevedendo in maniera ragionevole un successo. Quando questo avvenne, la spinta verso la specializzazione guadagnò forza, grazie all’aumento del numero delle procedure e dei chirurghi a tempo pieno.

FIGURA 1.11 Charles Huggins (1901-1997).

FIGURA 1.12 Owen H. Wangensteen (1898-1981).

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CAPITOLO 1 Nascita della chirurgia moderna: panoramica 13

rurgia scientifica aveva permesso di acquisire. Tuttavia, le sole ca-pacità in sala operatoria non erano sufficienti a fare sì che la chi-rurgia si distinguesse come professione. Una disciplina, per essere considerata una professione, deve esercitare un controllo esclusivo sulle competenze di coloro che la svolgono e convincere l’opinione pubblica che si tratta di abilità peculiari e affidabili (deve svolgere, cioè, la funzione di un monopolio). Per la comunità in generale, la nozione di fiducia è considerata un criterio fondamentale dello status professionale, e per ottenere e mantenere tale fiducia un gruppo professionale deve avere piena giurisdizione sulle politiche di ammissione ed essere in grado di imporre regole e dimissioni a qualsiasi associato che non si attenga a determinate norme di comportamento. Alla ricerca di riconoscimento professionale e perfezionamento, nel corso della prima metà del XX secolo i chi-rurghi americani fondarono associazioni professionali autodiscipli-nate ed enti per l’abilitazione alla professione.

Intorno al 1910, si era al culmine del conflitto tra medici ge-nerici e specialisti in chirurgia. Con l’introduzione di tecniche chirurgiche sempre più sofisticate, i medici-chirurghi privi di for-mazione o incompetenti erano visti come una minaccia per le vite dei pazienti e la stessa reputazione della chirurgia. Quell’anno, Abraham Flexner (1866-1959) pubblicò il suo famoso rapporto, che riformava l’istruzione medica negli Stati Uniti. Così come il manifesto di Flexner, che lasciò un segno indelebile in una forma-zione medica più orientata al progresso e degna di fiducia, l’isti-tuzione tre anni più tardi dell’American College of Surgeons era intesa a far comprendere ai medici generici i limiti rispetto alle loro capacità in ambito chirurgico e mostrare all’opinione pubbli-ca che un gruppo ben organizzato di chirurghi specializzati era in grado di eseguire interventi in modo affidabile e sicuro.

L’istituzione dell’American College of Surgeons ha modificato profondamente l’evoluzione della chirurgia negli Stati Uniti. Sorto sul modello del Royal College of Surgeons inglese, irlandese e scozzese, l’American College of Surgeons stabiliva linee guida pro-fessionali, etiche e morali per ogni medico che praticasse la chirur-gia e conferiva ai suoi membri il titolo di Fellow dell’American College of Surgeons (FACS). Per la prima volta, esisteva un’orga-nizzazione nazionale che, proprio perché riservata soltanto ai chi-

come un’“esposizione trasversale del meglio della chirurgia ameri-cana”, divenne in poco tempo uno dei testi di base di chirurgia più popolari negli Stati Uniti. Christopher curò l’opera per altre quattro edizioni fino al 1956, quando passò il testimone a Loyal Davis (1896-1982) (Fig. 1.13), professore di chirurgia presso la Northwestern University. Davis, che aveva anche conseguito un dottorato di ricerca in scienze neurologiche e aveva studiato con Cushing a Boston, era un instancabile ricercatore chirurgico e autore prolifico. Oltre a essere responsabile per la sesta, settima, ottava e nona edizione di quello che divenne noto come il Chri-stopher’s Textbook of Surgery, dal 1938 al 1981, Davis fu anche redattore capo della nota rivista Surgery, Gynecology and Obstetrics (negli ultimi anni della sua vita, Davis guadagnò ulteriore noto-rietà come suocero del presidente Ronald Reagan). Nel 1972, il controllo editoriale del manuale, ribattezzato il Davis-Christopher Textbook of Surgery, passò a David Sabiston (1924-2009) (Fig. 1.14), professore di chirurgia alla Duke University. Sabiston era un cardiochirurgo e chirurgo vascolare fautore dell’innovazione, che nel corso della sua carriera aveva rivestito diverse cariche im-portanti, tra cui la presidenza dell’American College of Surgeons, dell’American Surgical Association, del Southern Surgical Associa-tion e dell’American Association for Thoracic Surgery. Responsa-bile di tutte le edizioni dalla 10a alla 15a del Davis-Christopher Textbook, Sabiston fu per venticinque anni anche redattore capo degli Annals of Surgery. Nel 2000, in occasione della 16a edizione, Courtney M. Townsend, Jr. (1943), professore di chirurgia presso l’University of Texas Medical Branch di Galveston, diventò respon-sabile editoriale del ribattezzato Sabiston Textbook of Surgery: The Biological Basis of Modern Surgical Practice. Vede la partecipazione di Townsend anche la presente 20a edizione di questa ormai cele-berrima opera, editata per la prima volta da Christopher più di otto decenni fa, e che detiene il primato di numero di edizioni e di longevità tra i manuali di chirurgia americani.

Ordini professionali e abilitazione alla professioneNegli anni Venti la chirurgia ormai cominciava a essere considerata dalla società americana una “professione”. All’origine della specia-lizzazione vi erano le competenze tecniche che l’ascesa della chi-

FIGURA 1.13 Loyal Davis (1896-1982). FIGURA 1.14 David Sabiston (1924-2009).

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a un ordine garantiva il livello di competenza del professionista, mentre i limiti di specializzazione stabiliti delimitavano l’ambito clinico della specialità. Ad esempio, nel 1936, i medici generici fondarono un ordine che ricoprì l’intero ambito della medicina interna, il che garantì un controllo rigoroso da parte della specialità sulle sottospecialità nascenti, come cardiologia, endocrinologia, gastroenterologia, ematologia e malattie infettive. Il percorso segui-to dalla chirurgia fu più difficile e segnato da divisioni. Già prima che fosse creato un ordine per la pratica generica della chirurgia, erano stati creati comitati distinti per sottospecialità come otori-nolaringoiatria, chirurgia del colon-retto (1935), oftalmologia, ortopedia (1935) e urologia (1935). La presenza di ordini per le sottospecialità chirurgiche lasciava aperta una questione spinosa: quale sarebbe stato il destino del chirurgo generale?

A metà degli anni Trenta, una fazione di giovani chirurghi generali, guidata da Evarts Graham (1883-1957), decise di espri-mere il proprio dissenso rispetto allo scarso rigore dei criteri di ammissione all’American College of Surgeons. Graham era pro-fessore di chirurgia presso la Washington University di St. Louis, nonché celebre scopritore della colecistografia. Egli dimostrò il legame tra sigarette e cancro ed eseguì il primo intervento riuscito di pneumonectomia one-stage (e il destino volle che, accanito fumatore, morisse di cancro al polmone). A partire dagli anni Trenta e fino alla fine degli anni Cinquanta, Graham rivestì un ruolo dominante nelle manovre politiche della chirurgia america-na. Graham e i suoi sostenitori avevano espresso ai dirigenti dell’American College of Surgeons i propri piani per organizzare un ordine certificato per chirurghi generali. I rappresentanti dell’American College of Surgeons accettarono a malincuore di cooperare e nel 1937 fu fondato l’American Board of Surgery.

Nonostante la speranza che grazie a esso si arrivasse a formulare una procedura di abilitazione per la branca chirurgica nella sua interezza, in realtà gli effetti dell’American Board of Surgery furono limitati. Da parte di Graham non mancarono i tentativi di intessere alleanze tra l’American Board of Surgery e gli ordini delle sotto-specialità chirurgiche per limitarne i poteri, ma fu uno sforzo vano. Per gli ordini delle sottospecialità chirurgiche le gratificazioni for-mative e finanziarie garantite dalle loro abilitazioni erano motivo sufficiente per conservare uno status distinto dai chirurghi generali. L’American Board of Surgery non acquisì mai il controllo sulle sottospecialità chirurgiche, né fu in grado di conquistare una po-sizione dominante per la branca chirurgica nella sua interezza. A tutt’oggi sono pochi gli interessi economici e politici che accomu-nano la chirurgia generale e le sue varie sottospecialità, e di conse-guenza l’attività di lobby dei chirurghi è divisa e inefficiente.

Nonostante gli inizi confusi e controversi del processo che portò alle abilitazioni da parte degli ordini, l’istituzione di questi ultimi fu foriera di importanti cambiamenti nell’organizzazione della sanità negli Stati Uniti. Lo status professionale e l’autorità clinica garantiti dall’abilitazione conferita da un ordine furono un modo per distinguere branche e sottobranche mediche, facilitando il rapido sviluppo delle specializzazioni. Già nel 1950 quasi il 40% dei medici negli Stati Uniti si riteneva uno specialista a tempo pieno e oltre il 50% di loro era in possesso dell’abilitazione di un ordine. Non passò molto tempo che l’abilitazione cominciò a essere richiesta dagli ospedali come qualifica per i medici che volevano entrare a far parte del personale o avere l’autorizzazione a ricoverare i propri pazienti.

ERA MODERNA

I trent’anni di espansione economica che seguirono alla Seconda guerra mondiale mutarono radicalmente le caratteristiche della chirurgia, in modo particolare negli Stati Uniti. Nel giro di poco

rurghi, li univa per scopi di natura educativa, socioeconomica e politica. Sebbene fosse stata fondata più di tre decenni prima, l’American Surgical Association era costituita da un piccolo gruppo di chirurghi d’élite più anziani e non era intesa a diventare un fronte di lobbismo nazionale. Vi erano anche associazioni di chirurghi a livello regionale, tra cui la Southern Surgical Association (1887) e la Western Surgical Association (1891), caratterizzate però da linee guida di appartenenza meno restrittive rispetto all’American Col-lege of Surgeons e che, a causa delle loro differenze geografiche, non furono in grado di favorire un’unità su scala nazionale.

Poiché l’integrità della professione medica è in gran parte ga-rantita dal controllo esercitato sulla competenza dei suoi membri, la questione dell’abilitazione dei medici e dei limiti di esercizio della professione (sulla base della specializzazione), imposti dal governo o autoimposti su base volontaria, divenne di cruciale importanza. I governi avevano iniziato a stabilire standard di abilitazione più severi, ma le loro leggi non distinguevano in modo adeguato il medico generico dallo specialista. L’assenza di regole e regolamenti ad hoc per la pratica medica specialistica re-stava un problema serio. Professionisti eminenti si resero conto che, se non vi fosse stata una disciplina di regolamentazione degli specialisti, ben presto ci avrebbero pensato le agenzie federali o statali, una situazione che pochi medici auspicavano. La pressione proveniva anche da ambienti estranei a quelli professionali. I pa-zienti, che per cure mediche e chirurgiche basate su metodi scien-tifici necessitavano sempre più spesso dei medici, non erano in grado di determinare chi fosse qualificato a eseguire una determi-nata procedura: l’abilitazione nazionale poteva stabilire uno stan-dard minimo, e l’appartenenza ad associazioni professionali poco severe non sembrava offrire molte garanzie sulle competenze.

Già alla fine della Prima guerra mondiale, per la maggior parte delle specialità chirurgiche (e mediche) erano state fondate società scientifiche sullo stile dell’American College of Surgeons. Quest’ul-tima associazione, seppur creata con l’intento di distinguere i chirurghi a tempo pieno dai medici generici, inizialmente, per la premura di ampliare il numero di adesioni, prevedeva criteri di ammissione scarsamente selettivi e dieci anni dopo la fondazione i fellow dell’American College of Surgeons erano oltre settemila. Per l’ammissione era richiesta la capacità di eseguire un intervento chirurgico e poco si guardava alla solidità delle conoscenze medi-che generali, che dovevano essere alla base della capacità di valu-tazione del chirurgo stesso. Inoltre, per l’ammissione non erano previsti esami o colloqui. Nonostante queste pecche, fu grazie all’American College of Surgeons che l’opinione pubblica comin-ciò a capire meglio il concetto di medico specializzato in chirurgia. L’esistenza stessa di un’associazione come l’American College of Surgeons dimostrava che i chirurghi a tempo pieno erano supe-riori ai medici generici e al loro approccio part-time alla chirurgia, e allo stesso tempo rafforzava l’autorità professionale e la compe-tenza clinica del medico specializzato in chirurgia.

Nonostante la presenza di organizzazioni come l’American Col-lege of Surgeons, mancava un organismo centrale forte che coordi-nasse le attività; i tentativi di indirizzare verso la specializzazione in medicina continuarono in modo confuso e disordinato. In risposta a questo approccio scompaginato, alle crescenti pressioni esterne e alle lotte di potere interne, le specialità diedero vita a organizzazioni proprie che permettessero di identificare gli specialisti autentici. Si trattava di gruppi autogovernati e autodisciplinati che divennero noti come “ordini”, e che cominciarono a valutare i candidati con esami scritti e orali, e colloqui di persona.

Il primo ordine fu fondato per oftalmologia nel 1917, a cui seguì la fondazione degli ordini di otorinolaringoiatria (1924), ostetricia e ginecologia (1930), pediatria (1933), psichiatria e neu-rologia (1934), radiologia (1934) e patologia (1936). L’iscrizione

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CAPITOLO 1 Nascita della chirurgia moderna: panoramica 15

sponsorizzarono insieme il SOSSUS (Study on Surgical Services for the United States). Si trattò di una vastissima analisi della professione chirurgica condotta al fine di esaminare se stessa e il proprio ruolo nel futuro del sistema sanitario degli Stati Uniti. La relazione in tre volumi dello studio (1975) conteneva un resocon-to redatto da una sottocommissione di ricerca chirurgica in cui si indicavano i progressi più importanti raggiunti in chirurgia tra il 1945 e il 1970.

Un lavoro che vide il tentativo di un gruppo di chirurghi americani, appartenenti a ogni specialità e provenienti dall’ambito sia accademico sia privato, di valutare l’importanza relativa dei progressi compiuti nella propria area di competenza. I chirurghi generali ritennero che avessero importanza primaria il trapianto del rene, gli innesti di segmenti vascolari, l’iperalimentazione en-dovenosa, l’emodialisi, la vagotomia e l’antrectomia per la cura dell’ulcera peptica, la rianimazione a torace chiuso per l’arresto cardiaco, l’effetto degli ormoni sul cancro e la chemioterapia to-pica delle ustioni. Importanza secondaria fu attribuita alla che-mioterapia per il cancro, all’identificazione e al trattamento della sindrome di Zollinger-Ellison, alla tecnica dello shunt portocava-le, alla ricerca sulla risposta metabolica al trauma e alla chirurgia endocrina. La colectomia per la colite ulcerosa, l’endoarteriecto-mia, il catetere a palloncino di Fogarty, il drenaggio con suzione continua delle ferite e lo sviluppo di cateteri endovenosi perma-nenti rivestivano un’importanza di terzo ordine.

Per quanto riguarda le altre specialità chirurgiche, i contributi della ricerca ritenuti di primaria importanza furono i seguenti: in chirurgia pediatrica la terapia combinata per il tumore di Wilms; in neurochirurgia lo shunt per idrocefalo, la chirurgia stereotassica e la microchirurgia, l’uso di corticosteroidi e diuretici osmotici per l’edema cerebrale; in ortopedia la sostituzione totale dell’anca; in urologia i condotti ileali e l’uso di ormoni per la terapia del cancro della prostata; in otorinolaringoiatria l’intervento chirurgico per la sordità conduttiva; in oftalmologia la fotocoagulazione e la chirurgia retinica; in anestesiologia lo sviluppo di anestetici non infiammabili, i rilassanti dei muscoli scheletrici e l’uso di misura-zioni dei gas e del pH del sangue arterioso.

Tra le altre innovazioni ritenute avere importanza di secondo e terzo ordine: in chirurgia pediatrica la patogenesi e il trattamen-to della malattia di Hirschsprung, lo sviluppo delle protesi della parete addominale per onfalocele e gastroschisi, e la chirurgia per l’atresia dell’ano; in chirurgia plastica le protesi in silicone e in Silastic, la chirurgia della labioschisi e della palatoschisi, e la chi-rurgia delle anomalie craniofacciali; in neurochirurgia la cordoto-mia percutanea, la stimolazione della colonna dorsale per la tera-pia del dolore cronico e la chirurgia per gli aneurismi al cervello; in chirurgia ortopedica lo strumentario della barra di Harrington, la placca a compressione, l’osteotomia pelvica per la dislocazione congenita dell’anca e la sinoviectomia per l’artrite reumatoide; in urologia il trattamento del reflusso vescicoureterale, la diagnosi e il trattamento dell’ipertensione renovascolare e la chirurgia per l’incontinenza urinaria; in otorinolaringoiatria la rimozione trans-labirintica del neurinoma acustico, la chirurgia conservativa per il cancro della laringe, la rinosettoplastica, la miringotomia e il tubo di ventilazione per l’otite media sierosa; in oftalmologia l’angio-grafia con fluoresceina del fondo oculare, la microchirurgia intra-oculare, l’oftalmoscopia binoculare indiretta, la crioestrazione del cristallino, il trapianto della cornea e lo sviluppo delle lenti a contatto; in anestesia i progressi nell’anestesia ostetrica e la com-prensione del metabolismo degli anestetici volatili.

In tutti questi casi, si trattava di progressi importanti per la crescita della chirurgia, ma gli sviluppi clinici che più affascinaro-no l’immaginazione collettiva e rappresentarono il vanto della chirurgia del secondo dopoguerra furono l’ascesa della chirurgia

tempo, la Medicina divenne un grande business, e le cure medi-che si trasformarono rapidamente nel più grande settore di cre-scita della società. Furono eretti ampi complessi ospedalieri, non solo a simbolo del progresso scientifico raggiunto nelle cure, ma anche a dimostrazione della forza del boom americano nel dopo-guerra. Mai prima di allora la società aveva visto nelle scienze chirurgiche un prezioso bene nazionale, messo in evidenza dall’ampia espansione della professione e dal fitto numero di chirurghi distribuiti in tutti gli Stati Uniti. I grandi ospedali di aree metropolitane e urbane istituirono programmi di istruzione e formazione chirurgica, e non avevano difficoltà ad attrarre specializzandi. I salari dei chirurghi erano altissimi, e gli ameri-cani subivano il fascino emotivo che aleggiava attorno alla sala operatoria. Serie televisive, film, romanzi e le non poco frequenti trasmissioni televisive dal vivo di interventi cardiochirurgici ri-chiamavano l’attenzione del profano.

Fu un’epoca emozionante per i chirurghi americani, segnata da importanti progressi compiuti sia in sala operatoria sia nell’attività di laboratorio. Progresso a cui seguirono vari primati in chirurgia generale tra gli anni Trenta e Quaranta: il lavoro sullo shock chi-rurgico di Alfred Blalock (1899-1964) (Fig. 1.15), l’introduzione della duodenopancreatectomia per il cancro del pancreas a opera di Allen Oldfather Whipple (1881 -1963) e la decompressione meccanica dell’occlusione intestinale mediante un apparato aspi-rante di Owen Wangensteen. La sovrabbondanza di nomi celebri rende difficile l’indicazione dei contributi resi alla chirurgia dopo la Seconda guerra mondiale, al punto da trasformare in un com-pito arduo e ingrato qualsiasi tentativo di compiere una selezione ragionata di personalità rappresentative e delle loro importanti opere. Il dilemma fu risolto all’inizio degli anni Settanta, quando l’American College of Surgeons e l’American Surgical Association

FIGURA 1.15 Alfred Blalock (1899-1964).

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e vascolare, operò nella ricerca e nella formazione medica, si di-stinse per le abilità politiche nel mondo medico internazionale e rivestì per lunghissimo tempo la carica di rettore del Baylor Col-lege of Medicine. Fu un pioniere nell’uso delle protesi in Dacron per la sostituzione e la riparazione dei vasi sanguigni, inventò la pompa ruotante, sviluppò un dispositivo di assistenza ventricolare e creò una prima versione di quello che in seguito divennero i MASH (Mobile Army Surgical Hospital), le unità chirurgiche mobili dell’esercito americano. DeBakey fu un influente consiglie-re del governo federale per le politiche sanitarie e ricoprì la carica di direttore del President’s Commission on Heart Disease, Cancer, and Stroke durante l’amministrazione Johnson.

Come riferito nel SOSSUS, quando fu chiesto loro quali fos-sero stati i progressi di primaria importanza per la loro specialità per il periodo 1945-1970, i chirurghi cardiotoracici indicarono il

cardiaca e del trapianto di organi, ambiti che insieme segnarono il nuovo corso della chirurgia. Il cuore esercita un fascino che esula completamente dall’ambito della medicina. Storicamente nelle arti, nel costume, in letteratura, filosofia, religione e scienza, il cuore ha rappresentato la sede dell’anima e la fonte della vita stessa. Per questo atteggiamento reverenziale, qualsiasi intervento chirurgico sull’organo nobile fu a lungo ritenuto inammissibile.

Nonostante i trionfi significativi della sutura di una ferita di pugnale al pericardio a opera di Daniel Hale Williams (1856-1931) nel 1893 e del riuscito intervento di Luther Hill (1862-1946) su una lesione che aveva penetrato una camera cardiaca nel 1902, fu solo negli anni Quaranta che si affermò una chirurgia cardiotoracica condotta in sicurezza. Durante la Seconda guerra mondiale, Dwight Harken (1910-1993) acquisì una vasta espe-rienza sul campo di battaglia nella rimozione di proiettili e schegge all’interno o vicino al cuore e ai grossi vasi. Basandosi sull’espe-rienza accumulata in guerra, Harken e altri pionieri della chirur-gia, tra cui Charles Bailey (1910-1993), ampliarono l’ambito di azione della chirurgia intracardiaca con lo sviluppo di interventi per la stenosi della valvola mitrale. Nel 1951, Charles Hufnagel (1916-1989), che lavorava presso il Georgetown University Me-dical Center, progettò e inserì la prima valvola cardiaca protesica funzionante in un uomo. L’anno seguente, Donald Murray (1894-1976) completò il primo intervento riuscito di sostituzione della valvola aortica mediante innesto omologo.

Più o meno allo stesso tempo, Alfred Blalock, professore di chirurgia alla Johns Hopkins, in collaborazione con Helen Taussig (1898-1986), pediatra, e Vivien Thomas (1910-1985), direttore dei laboratori di ricerca chirurgica dell’ospedale, sviluppò una procedura per il trattamento dei difetti congeniti dell’arteria pol-monare. L’anastomosi succlavio-polmonare di Blalock-Taussig- Thomas per aumentare il flusso sanguigno ai polmoni di un bambino affetto da tetralogia di Fallot si rivelò un evento impor-tante per l’ascesa della chirurgia moderna. Non si trattò soltanto di una conquista pionieristica di carattere tecnico, ma rappresentò anche la possibilità per molti bambini gravemente malati di avere un’esistenza relativamente normale. Sono innegabili i benefici, in particolare in termini di immagine, di un’impresa chirurgica come questa sulla crescita della chirurgia americana.

Nonostante i crescenti successi, i chirurghi che effettuavano gli interventi al cuore dovevano fronteggiare il problema dell’imponen-te quantità di sangue che scorre nell’area della dissezione, ma anche quello dell’incessante movimento alterno del battito cardiaco. Fino a quando questi problemi non fossero stati risolti, non sarebbe stato possibile uno sviluppo ulteriore di tecniche complesse di riparazione cardiaca. John H. Gibbon Jr. (1903-1973) (Fig. 1.16) risolse il problema, ideando una macchina che avrebbe svolto la funzione del cuore e dei polmoni mentre il paziente era sotto anestesia, in so-stanza pompando sangue ricco di ossigeno attraverso il sistema circolatorio, bypassando il cuore in modo che si potesse operare sull’organo con più facilità. Il primo intervento a cuore aperto riu-scito nel 1953, effettuato avvalendosi di una macchina cuore-pol-mone, diede alla chirurgia uno storico contributo.

Il trattamento chirurgico della coronaropatia acquisì slancio durante gli anni Sessanta e già nel 1980 gli interventi cardiaci eseguiti ogni anno per le insufficienze coronariche erano più nu-merosi che per tutti gli altri tipi di cardiopatia. Sebbene l’inter-vento di bypass delle arterie coronarie eseguito nel 1967 da René Favaloro (1923-2000) presso il Cleveland Clinic sia comunemen-te considerato il primo intervento chirurgico riuscito per corona-ropatia, un intervento simile era stata completato tre anni prima da Michael DeBakey (1908-2008) (Fig. 1.17), ma fu riportato soltanto nel 1973. DeBakey è probabilmente il chirurgo america-no più noto dell’era moderna. Era un rinomato chirurgo cardiaco

FIGURA 1.16 John H. Gibbon, Jr. (1903-1973).

FIGURA 1.17 Michael DeBakey (1908-2008).

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sentate da chirurghi afroamericani erano spesso oggetto di lun-gaggini, il che lascia supporre che i rigetti su base razziale fossero una tacita pratica in gran parte degli Stati Uniti.

A metà degli anni Quaranta, Charles Drew, direttore del Di-partimento di chirurgia alla Howard University School of Medi-cine, dichiarava di aver rifiutato la proposta di aderire all’American College of Surgeons perché riteneva che l’associazione chirurgica, che avrebbe dovuto rappresentare la categoria a livello nazionale, non aveva ancora cominciato ad ammettere regolarmente chirur-ghi afroamericani capaci e adeguatamente qualificati. Da quel momento in poi all’interno della professione furono compiuti notevoli progressi verso una maggiore uguaglianza razziale, come dimostrato dalla carriera di Claude H. Organ Jr. (1926-2005) (Fig. 1.18), eminente editore, docente e storico. Due delle sue pubblicazioni, l’opera in due volumi A Century of Black Surgeons: The U.S.A. Experience e l’autorevole Noteworthy Publications by African-American Surgeons mettevano in evidenza i numerosi con-tributi dei chirurghi afroamericani al sistema sanitario statuniten-se. Inoltre, come redattore capo multilustre dell’Archives of Surgery e come presidente dell’American College of Surgeons e direttore dell’American Board of Surgery, Organ esercitò un’influenza enor-me sull’indirizzo intrapreso dalla chirurgia americana.

Uno dei molti aspetti della storia della chirurgia a cui non si ri-serva la dovuta attenzione riguarda il ruolo delle donne. Fino a non molto tempo fa, le possibilità per una donna di ricevere una forma-zione avanzata in chirurgia erano strettamente limitate. La ragione principale risiedeva nel fatto che, fino alla metà del XX secolo, solo pochissime donne potevano vantare un’esperienza in sala operatoria che consentisse loro di diventare dei mentori competenti. Senza modelli di ruolo e con un accesso limitato al lavoro in ospedale, ogni possibilità per le poche donne che esercitavano la professione di medico di specializzarsi in chirurgia sembrava preclusa. Per questa ragione, rispetto agli uomini, le donne chirurgo erano costrette a perseguire carriere diverse e a inseguire obiettivi di successo perso-nale divergenti per raggiungere la soddisfazione professionale.

Tra innumerevoli difficoltà e grazie all’aiuto di vari chirurghi uomo illuminati, tra cui spiccano William Williams Keen di Phila-delphia e William Byford (1817-1890) di Chicago, nell’America a

bypass cardiopolmonare, la correzione a cielo aperto e chiuso delle patologie cardiovascolari congenite, lo sviluppo di valvole cardia-che protesiche e l’uso di pacemaker cardiaci. Secondo per impor-tanza, il bypass coronarico per la coronaropatia.

Per quanto riguarda la sostituzione di organi non funzionanti o colpiti da patologia, ancora a metà del XX secolo l’idea di ef-fettuare con successo un trapianto rasentava la fantasia scientifica. All’inizio del XX secolo, Alexis Carrel aveva sviluppato tecniche di sutura nuove e rivoluzionarie per l’anastomosi di piccolissimi vasi sanguigni. Usando il suo talento di chirurgo sugli animali di laboratorio, Carrel cominciò a eseguire trapianti di reni, cuori e milza. Dal punto di vista tecnico, la sua ricerca fu un successo, ma alcuni processi biologici sconosciuti portavano sempre al ri-getto dell’organo trapiantato e alla morte dell’animale. A metà del XX secolo, grazie alle ricerche in medicina, si cominciò a chiarire la presenza di reazioni immunitarie di difesa sottostanti e la necessità dell’immunosoppressione come metodo per con-sentire all’ospite di accogliere l’organo trapiantato estraneo. Negli anni Cinquanta, grazie a immunosoppressori di potenza elevata e ad altre moderne metodologie, David Hume (1917-1973), John Merrill (1917-1986), Francis Moore e Joseph Murray apri-rono la strada al trapianto di reni. Nel 1963 fu eseguito il primo trapianto di fegato in un uomo; quattro anni più tardi, Christiaan Barnard (1922-2001) eseguì con successo il primo trapianto di cuore in un uomo.

DIVERSITÀ

L’evoluzione della chirurgia è stata influenzata da pregiudizi etnici, di genere, razziali e religiosi. Queste discriminazioni hanno colpi-to tutti i segmenti della società, in particolare afroamericani, don-ne e alcuni gruppi di immigrati, vittime di ingiustizie che li hanno costretti a lottare per essere ammessi nel mondo della chirurgia. Negli anni Trenta, Arthur Dean Bevan (1861-1943), professore di chirurgia al Rush Medical College e voce di rilievo della chi-rurgia americana, chiese che venissero prese misure restrittive nei confronti di soggetti con cognomi che richiamavano un’origine ebraica, per diminuirne la presenza in Medicina. Sarebbe storica-mente sbagliato negare la tesi, a lungo passata sotto silenzio, so-stenuta dalla comunità medica ebraica, secondo la quale prima degli anni Cinquanta l’antisemitismo fosse particolarmente diffu-so in chirurgia generale rispetto alle altre specialità chirurgiche.

Nel 1868 fu istituito un Dipartimento di chirurgia presso la Howard University. Tuttavia, i primi tre direttori furono tutti protestanti anglosassoni “di razza bianca”. Fu solo nel 1928, con l’assegnazione della cattedra di chirurgia ad Austin Curtis (1868-1939), che il Dipartimento ebbe il suo primo direttore afroame-ricano. Come tutti i medici neri della sua epoca, Curtis fu co-stretto a formarsi in un cosiddetto “ospedale per neri”, il Provi-dent Hospital di Chicago, dove fu posto sotto la tutela di Daniel Hale Williams, il chirurgo afroamericano più influente e stimato dell’epoca.

Avendo poche possibilità di essere ammessi all’AMA o alle società collegate, nel 1895 i medici afroamericani si unirono per fondare il National Medical Association. I chirurghi neri espres-sero un’esigenza ancora più specifica con la creazione nel 1906 della sezione chirurgica del National Medical Association. Sin dal primo momento, alla sezione chirurgica fecero capo cliniche chi-rurgiche di orientamento pratico, che rappresentarono negli Stati Uniti i primi esempi di formazione chirurgica mediante tutor, la cosiddetta “show me”. Quando nel 1913 Williams fu nominato fellow dell’American College of Surgeons, la notizia si diffuse ra-pidamente in tutta la comunità chirurgica afroamericana. Tuttavia, le domande di ammissione all’American College of Surgeons pre- FIGURA 1.18 Claude H. Organ, Jr. (1926-2005).

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chirurghi in futuro potrebbero non riguardare l’ambito clinico, quanto piuttosto una migliore comprensione delle forze sociolo-giche che interessano la pratica della chirurgia. Gli anni più re-centi potrebbero essere considerati come l’inizio di un’esistenza schizofrenica per i chirurghi, acclamati da più parti come esecutori di interventi salvavita complessi e di nuova concezione, e allo stesso tempo ritratti come individui avidi di guadagni dai detrat-tori delle dinamiche economiche del mondo della chirurgia.

Seppur concettualmente incompatibili, sono proprio le caratte-ristiche di alta drammaticità e teatralità della chirurgia a rendere così esigente la società nei loro confronti; i chirurghi vengono in-seriti in una prospettiva in cui appaiono come eroi da un lato e incarnazione di menzogna e avidità dal lato diametralmente oppo-sto. Vi sono la precisione e il carattere definitivo dell’intervento chirurgico, l’aspettativa di successo che circonda ogni operazione, il breve lasso di tempo in cui si evidenzia il risultato, gli alti livelli di reddito della maggior parte dei chirurghi, e infine l’insaziabile curiosità del profano rispetto alla possibilità di incidere “la carne” di un altro essere umano, con il consenso di quest’ultimo. Questi fenomeni, resi ancora più delicati in quest’epoca di mass media e comunicazione istantanea, fanno sembrare i chirurghi più respon-sabili e decisivi dei loro colleghi medici e, contemporaneamente, incarnazione del meglio e del peggio in medicina. In modi prima inimmaginabili, questa vasta trasformazione economica, politica e sociale della chirurgia controlla il destino del singolo chirurgo in una misura che supera di gran lunga la capacità dei chirurghi come forza collettiva di dare un indirizzo alla propria professione.

Gli obiettivi di politica nazionale sono diventati i fattori prin-cipali nel garantire e guidare la crescita futura della chirurgia. La chirurgia moderna è un campo di compromessi, un equilibrio tra costi, organizzazione, progressi tecnici e aspettative. I pazienti saranno costretti a fare i conti con la realtà che, per quanto avan-zata possa diventare la chirurgia, non sarà in grado di risolvere qualsiasi problema di salute. La società dovrà accordarsi su dove debbano essere tirate le linee etiche in riferimento a tutto, dai trapianti del volto alla chirurgia robotizzata e alla terapia genica per le malattie di interesse chirurgico. Resta la domanda delle domande: in che modo consentire ai progressi di scienza, tecno-logia ed etica di intervenire nell’area grigia che divide l’interesse pubblico dall’interesse privato.

Lo studio dell’affascinante storia della nostra professione, con le molte personalità illustri e le eccezionali scoperte scientifiche, potrebbe non aiutarci nella previsione del futuro della chirurgia. Ricordiamo l’osservazione di Theodor Billroth alla fine del XIX secolo: “Un chirurgo che cerca di suturare una ferita al cuore meriterebbe di perdere la stima dei suoi colleghi”. La sfera di cristallo della chirurgia è piuttosto appannata, anche se capire il nostro passato riesce a gettare una luce sulle pratiche cliniche at-tuali e future, e la lezione che riceviamo dalla storia è che la chi-rurgia conoscerà un progresso e una crescita inesorabili. Se i chi-rurghi vorranno essere considerati in futuro qualcosa di più che semplici tecnici, dovranno imparare ad apprezzare di più il valore delle glorie passate della loro professione. Studiamo la nostra storia, comprendiamo il nostro passato e non permettiamo che la ricca eredità della chirurgia vada dimenticata.

BIBLIOGRAFIA SELEZIONATAEarle AS: Surgery in America: from the colonial era to the twentieth century, New York, 1983, Praeger.

Affascinante raccolta di articoli di noti chirurghi apparsi su riviste che tracciano lo sviluppo dell’arte e della scienza chi-rurgica negli Stati Uniti.

cavallo tra i due secoli esisteva di fatto una piccola compagine di donne chirurgo alla quale appartennero Mary Dixon Jones (1828-1908), Emmeline Horton Cleveland (1829-1878), Mary Harris Thompson (1829-1895), Anna Elizabeth Broomall (1847-1931) e Marie Mergler (1851-1901). Il passo verso una piena uguaglianza di genere si compì con il ruolo svolto da Olga Jonasson (1934-2006) (Fig. 1.19), pioniere del trapianto, nel convincere le donne a fare il loro ingresso nella moderna chirurgia dominata da figure maschili. Con la nomina nel 1987 a direttore del Dipartimento di chirurgia dell’Ohio State University College of Medicine, Olga Jonasson di-venne la prima donna negli Stati Uniti a capo di un dipartimento universitario di chirurgia in una scuola di medicina mista.

SVILUPPI FUTURI

La storia si scrive e comprende più facilmente quando se ne è già concluso l’intreccio principale. La chirurgia, però, è in continua evoluzione, e trarre conclusioni definitive sul futuro di tale pro-fessione è un compito difficile che potrebbe portare a risposte affrettate e incomplete. Vero è che diversi millenni di storia rie-scono a darci una chiara idea di che cosa sia stata la chirurgia e di dove si stia dirigendo.

Per tutta la sua ascesa, la pratica della chirurgia è stata ampia-mente definita dai suoi stessi strumenti e dalla manualità che la caratterizza come mestiere. Gli ultimi vent’anni del XX secolo e gli inizi del XXI hanno visto un progresso senza precedenti nello sviluppo di innovazioni nel campo della strumentazione e delle tecniche di imaging. A questi avanzamenti ne seguiranno certa-mente altri: una delle lezioni insegnateci dalla storia della chirur-gia è che il progresso non viene mai meno, almeno per quanto riguarda la tecnologia. Gli interventi chirurgici diventeranno sem-pre più sofisticati, con risultati migliori. Per alcune procedure, alla mano del chirurgo si sostituirà l’automazione del robot. Le scienze chirurgiche, però, non perderanno mai le proprie radici storiche, che le caratterizzano essenzialmente come un’arte manuale.

Per quanto numerosi, i progressi sono stati raggiunti non senza pagare un prezzo sociale, economico e politico. Si tratta di pro-blematiche che fanno passare in secondo piano i trionfi clinici, e questo lascia supporre che i dilemmi che dovranno affrontare i

FIGURA 1.19 Olga Jonasson (1934-2006).

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CAPITOLO 1 Nascita della chirurgia moderna: panoramica 19

Rutkow I: The history of surgery in the United States, 1775–1900, vol 2, San Francisco, 1992, Norman Publishing.Rutkow I: Surgery, an illustrated history, St. Louis, 1993, Mosby-Year Book.Rutkow I: American surgery, an illustrated history, Philadelphia, 1998, Lippincott-Raven.Rutkow I: Seeking the cure: a history of medicine in America, New York, 2010, Scribner.

Con antologie biografiche, illustrazioni a colori e dettagliate narrazioni, questi cinque libri fanno un’analisi dell’evoluzione della chirurgia.

Thorwald J: The century of the surgeon, New York, 1956, Pantheon.Thorwald J: The triumph of surgery, New York, 1960, Pantheon.

Ricorrendo, ad effetto, a un narratore fittizio, in questi due libri l’autore ricostruisce una continuità nella storia della chi-rurgia durante i suoi più importanti decenni di crescita, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX.

Wangensteen OH, Wangensteen SD: The rise of surgery, from empiric craft to scientific discipline, Minneapolis, 1978, University of Minnesota Press.

Non una storia sistematica, ma una valutazione di varie tecniche operatorie e innovazioni tecniche che hanno con-tribuito all’evoluzione della chirurgia o ne hanno causato il rallentamento.

Zimmerman LM, Veith I: Great ideas in the history of surgery, Baltimore, 1961, Williams & Wilkins.

Racconti biografici ben scritti accompagnano diverse letture e traduzioni dalle opere di quasi cinquanta celebri chirurghi di epoche diverse.

Hurwitz A, Degenshein GA: Milestones in modern surgery, New York, 1958, Hoeber-Harper.

Costituito da un cospicuo numero di capitoli che, oltre a contenere informazioni biografiche sui chirurghi, riportano un estratto ristampato o tradotto del contributo più importante che ciascuno di loro ha dato alla chirurgia.

Leonardo RA: History of surgery, New York, 1943, Froben.Leonardo RA: Lives of master surgeons, New York, 1948, Froben.Leonardo RA: Lives of master surgeons, supplement 1, New York, 1949, Froben.

Tre testi che costituiscono un resoconto approfondito di tutta la storia della chirurgia, dall’antichità alla metà del XX secolo. Particolarmente preziose sono le numerosissime biografie di chirurghi famosi e meno famosi.

Meade RH: A history of thoracic surgery, Springfield, Ill, 1961, Charles C Thomas.Meade RH: An introduction to the history of general surgery, Philadelphia, 1968, Saunders.

Due tra le più ambizione opere di sistematizzazione, con ampia bibliografia.

Porter R: The greatest benefit to mankind, a medical history of humanity, New York, 1997, WW Norton.

Sebbene si tratti piuttosto di una storia di tutta la medicina in generale che della chirurgia in particolare, il testo è diven-tato immediatamente un classico e dovrebbe essere una lettura obbligatoria per tutti i medici e chirurghi.

Rutkow I: The history of surgery in the United States, 1775–1900, vol 1, San Francisco, 1988, Norman Publishing.