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Presenza e assenza di Dio nel mondo contemporaneo Dialogo tra il cardinale Gianfranco Ravasi e Giuseppe Zaccaria Introduzione e conclusioni di Armando Torno PADOVA UNIVERSITY PRESS

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Presenza e assenza di Dionel mondo contemporaneo

Dialogo tra il cardinale Gianfranco Ravasi

e Giuseppe Zaccaria

Introduzione e conclusionidi Armando Torno

PADOVA UNIVERSITY PRESS

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Gianfranco Ravasi

Biblista, dal 1989 al 2007 è stato prefetto della Biblioteca-Pinaco-teca Ambrosiana. Autore di cir-ca 150 volumi, da anni collabora regolarmente con giornali e tele-visioni. Creato cardinale nel 2010, è presidente del Pontificio Con-siglio della cultura e della Pontifi-cia Commissione di archeologia sacra.

Armando Torno

Giornalista e scrittore, collabora con il Corriere della sera e Radio 24. Specializzato in cultura e mu-sica, si è occupato a più riprese del tema della fede; tra i suoi libri: Senza Dio? (1994), Piccolo ma-nuale per perdere la fede (1995), La scommessa. Puntare tutto su Cristo? (2010).

Giuseppe Zaccaria

Allievo di Enrico Opocher, è pro-fessore ordinario di Teoria gene-rale del diritto e dal 2009 rettore dell’Università di Padova. Nei suoi studi si è occupato in particolare dell’ermeneutica giuridica. Il suo ultimo libro, La comprensione del diritto, è stato pubblicato nel 2012.

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Occasional PapersParole che lasciano il segno

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©2013 Padova University PressUniversità degli Studi di Padovavia VIII Febbraio, 2 - Padovawww.padovauniversitypress.it

Editing e realizzazioneRelazioni pubbliche Università di PadovaImmagine copertinaelaborazione grafica di Franca CecchinatoFotografieMassimo Pistore

StampaTipografia Nuova Jolly - Rubano (PD)nel mese di dicembre 2013

ISBN 978-88-97385-83-7Tutti i diritti riservati

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Università degli Studi di PadovaPalazzo Bo, 11 giugno 2013

PADOVA UNIVERSITY PRESS

Presenza e assenza di Dionel mondo contemporaneo

Dialogo tra il cardinale Gianfranco Ravasi

e Giuseppe Zaccaria

Introduzione e conclusionidi Armando Torno

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Gianfranco Ravasi,Giuseppe Zaccaria e Armando Torno

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Tra le illustri figure che nel corso di quasi otto secoli

hanno studiato o insegnato a Padova, molte hanno

avuto un ruolo importante sia nella storia della Chie-

sa cattolica, sia in quella del pensiero laico. Quanto

alle prime, basterà ricordare insigni teologi e intellet-

tuali come Alberto Magno, Niccolò Cusano, Gaetano

da Thiene, Francesco di Sales e Antonio Rosmini o pro-

tagonisti di spicco nel campo sociale come quelle di

Giuseppe Toniolo e più di recente Giovanni Nervo.

Padova è stata però anche l’università di Marsilio,

il primo nel medioevo a teorizzare la separazione tra

Prefazione

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stato e chiesa, e di Fra Paolo Sarpi, che per la sua stre-

nua opposizione alla curia romana vide i suoi scritti

condannati all’indice. La patavina libertas è poi cono-

sciuta in tutto il mondo per l’opera di Galileo, che pur

senza mai rinnegare la sua fede, per la sua fedeltà al

rigore scientifico fu processato dall’inquisizione roma-

na. Del resto qui aveva studiato anche il suo opposi-

tore: il cardinale Roberto Bellarmino, con cui peraltro

Galileo mantenne sempre rapporti cordiali.

È in questo intrecciarsi di storie e di significati che

vanno individuate le ragioni di questo incontro fra

il rettore dell’Università di Padova e Sua Eminenza il

cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio

Consiglio della cultura, tenutosi lo scorso 11 giugno

nell’aula magna dell’Ateneo con la collaborazione di

un intellettuale e giornalista della levatura di Armando

Torno.

L’intuizione di un “cortile dei gentili”, come spazio

aperto di confronto con la cultura laica – inaugurato

da Benedetto XVI e tuttora proseguito e sviluppato nel

pontificato di Francesco – vede nel cardinale Ravasi

la mente ispiratrice e l’infaticabile animatore. Come la

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Chiesa avverte il bisogno di misurarsi con la modernità

e le sue diverse manifestazioni, così anche una gran-

de istituzione laica, quale è oggi l’Università di Padova,

sente l’opportunità, o addirittura l’urgenza, di misurarsi

con le tematiche proprie della prospettiva religiosa.

Due mondi, quello della ricerca scientifica e del-

la fede, distinti, ma che non possono fare a meno di

dialogare. Se è vero che la civiltà in cui viviamo non

può essere compresa senza il cristianesimo, allo stesso

modo anche i credenti oggi non possono più ignora-

re, nel loro percorso personale e collettivo, le conqui-

ste del pensiero laico. Del resto, nella stessa visione

cristiana Dio si fa in qualche modo nascosto (il Deus

absconditus della tradizione) per rispettare la libertà

dell’uomo. Una libertà etica, ma anche spirituale e in-

tellettuale, che trova una delle sue massime espressio-

ni nella ricerca scientifica. Se c’è qualcosa che questo

dialogo vuole in qualche misura significare è che, al

di là delle etichette, ogni dialogo sincero poggia in-

nanzitutto sul riconoscimento della matrice di umanità

che ci accomuna. Noi tutti continuamente interpellati,

quali che siano le spiegazioni che troviamo, da quel-

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Gianfranco Ravasi, Giuseppe Zaccaria e Armando Torno

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le che Immanuel Kant indicava come le due grandi

meraviglie per lo spirito umano: il cielo stellato sopra

e la legge morale dentro di noi.

Giuseppe Zaccaria

Rettore dell’Università di Padova

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Presenza e assenza di Dio

nel mondo contemporaneo

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“Presenza e assenza di Dio nel mondo contempora-

neo” è un argomento che forse potrà sembrare largo,

forse potrà sembrare immenso, però è un argomento di

grande attualità, perché ci siamo lasciati alle spalle un

secolo che pensava di poter fare a meno di Dio e che,

chiudendosi, si è accorto che senza Dio non si poteva

capire la storia, non si poteva capire la filosofia, forse

non si poteva capire nemmeno l’uomo stesso. La gran-

de assenza di Dio, invocata da molti, è diventata una

presenza che ha coinvolto tutti gli uomini, e in questo

secolo il discorso continua attraverso la filosofia, attra-

Introduzione di Armando Torno

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verso le diverse discipline, attraverso la stessa scienza.

A ogni domanda abbiamo scoperto che dietro molte

questioni, proprio dietro anche alla stessa incertezza o

alla stessa certezza dell’uomo, c’è sempre qualcosa

che riguarda e collega l’uomo con il trascendente.

Oggi, a dibattere su questi temi, è con noi il cardina-

le Gianfranco Ravasi, noto oltre che per la sua cultura,

anche per essere un biblista e per aver avviato il “Cortile

dei Gentili”. Era il 12 febbraio del 2011 e a Bologna si

apriva l’incontro tra credenti e non credenti: gli uni, per

capire le ragioni degli altri, hanno cominciato un dia-

logo che sta continuando nel mondo intero. Il cardinal

Ravasi è appena arrivato da Marsiglia, dove si è aperto

un ideale dialogo, per interposta persona, tra Camus e

Ricoeur: dialogo che ora è richiesto negli Stati Uniti, in

America del Sud, in Asia e in tutta Europa e sta conti-

nuando a mietere successi proprio perché la domanda

su Dio, la domanda di Dio, la domanda intorno a Dio è

una delle questioni centrali del nostro tempo.

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Vorrei partire dalla storia dell’Università di Padova,

per dire che sempre nella sua storia, un’università che

vanta ottocento anni di storia, è stata spazio, crocevia

di dialogo, di intreccio pluralistico tra diverse esperienze,

scientifiche naturalmente, ma anche esistenziali, anche

culturali, anche intellettuali. Un luogo, cioè, che è stato

in grado di fecondare efficacemente un confronto tra

ragioni diverse, nel reciproco rispetto tra diverse visioni,

tra diverse prospettive. In questa storia plurisecolare cre-

do che molto i credenti siano stati debitori nei confronti

del pensiero critico: in particolare al pensiero della rivo-

Giuseppe Zaccaria

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luzione scientifica, al Cinquecento – l’anno d’oro della

cultura in questo Ateneo – improntata appunto dal sa-

pere scientifico. Ma credo anche, per la verità, che mol-

to i non credenti siano stati debitori della storia e dell’e-

sperienza cristiana.

E allora penso che, indubbiamente, si debba par-

tire da questo. Con Benedetto Croce non possiamo

non dirci cristiani, se è vero che l’esperienza, la cultura

dell’occidente è completamente e profondamente

impregnata dai principi ebraici e cristiani, ma altret-

tanto indubbiamente non possiamo non dirci laici,

almeno nel senso di Claudio Magris quando sostiene

che la laicità è la capacità di distinguere ciò che è

dimostrabile razionalmente da ciò che è, invece, og-

getto di fede. O anche nel senso di Galileo o di Fra

Paolo Sarpi, di cui mi piace ricordare un’affermazione,

la prima di Galileo, molto nota, cioè «La Bibbia insegna

ad andare in cielo e non com’è fatto il cielo», e l’altra,

quella di Paolo Sarpi, meno nota, che dice «Non si pos-

sono incontrare e urtarsi, se non quei che camminano

per la medesima via, ma quei che vanno per diverse

strade non possono né urtarsi, né incomodarsi. Il regno

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di Cristo non è di questo mondo, ma in cielo, però la

religione cammina per via celeste e il Governo di Sta-

to per via mondana e però non puoi mai incomodare

l’altro». Quindi una distinzione di piani, che è il presup-

posto della laicità. Ma anche questo reciproco arric-

chirsi di fede e di laicità, che è avvenuto in passato e

che avviene anche oggi e che presuppone, implica

sia per i credenti, sia per i non credenti, di abbandona-

re l’arroganza di formule dogmatiche, di rigidità ideo-

logiche, di semplificazioni propagandistiche che poi,

alla fine, si rivelano zelanti e non di più, che tendono

a far erigere muri, a far erigere barriere divisorie, ad

assumere invece un atteggiamento diverso, un atteg-

giamento che deve essere di onestà intellettuale, di

umiltà, sempre essenzialmente consapevole del fatto

che il credere e non credere rientrano nell’ambito di

una libera scelta personale. Da questo punto di vista

è chiaro che la verità imposta è inconciliabile con il

rispetto delle singole identità e della libertà che è pro-

pria alle singole identità.

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Il sottile confine tra credere e non credere

La fede religiosa, così come l’atto di incredulità, non

sono mai dovuti, sono sempre scelte libere. D’altra par-

te, possiamo anche dire che la crescita delle interroga-

zioni, la crescita dell’ascolto, lo sforzo del comprendere,

ma anche del comprendersi, implicano appunto di non

assolutizzare le proprie convinzioni nel confronto con gli

altri. E qui allora forse dobbiamo dire che su questo ter-

reno di dialogo che accomuna credenti e non credenti,

questo confine presunto tra credenti e non credenti si

rivela come un confine che non è mai rigido, che non

è mai invalicabile, che non è mai dotato, per così dire,

di cippi definitivi, ma è uno spazio in cui possiamo rico-

noscere la compresenza di fede e di non credenza, di

adesione esistenziale, ma anche di dubbio.

Una compresenza, mi piace ricordarlo, di cui d’al-

tronde si trova ampia traccia in alcuni testi biblici, basti

ricordare l’esempio del Libro di Giobbe, credente di for-

za straordinaria, ma che propone in termini molto radi-

cali la domanda sul dolore, sul male, sulla giustizia e che,

soprattutto, è ripetutamente attraversato dal dubbio,

dalle lacerazioni dell’oscurità e del non senso. Ma negli

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stessi racconti evangelici si parla di Cristo stesso che, in-

chiodato sulla croce, pochi istanti prima di morire viene

colto da un sentimento di smarrimento e di dubbio e, ci-

tando il salmo 22, grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai

abbandonato?». Ci sono, quindi, precedenti importanti

anche nel momento dello smarrimento e del dubbio.

Vorrei anche ricordare che all’Assemblea Costituen-

te il nostro Concetto Marchesi, che fu rettore di questo

ateneo, disse questa frase molto forte: «Ho sempre re-

spinto, nella mia coscienza, l’ipotesi atea. Dio è nella

luce della rivelazione per chi crede, nell’inconoscibile e

nell’ignoto per chi non è stato toccato da questo lume

di grazia». Con questo voglio sottolineare che di fronte

all’insondabilità del mistero che attraversa ogni vita, ma

anche la storia e il cosmo, ogni coscienza che pensi non

può non avvertire un senso di fragilità, un senso di insuf-

ficienza. Ma ciò implica, una volta di più e a maggior

ragione, di prendere sul serio tanto le ragioni del crede-

re, quanto le ragioni dell’incredulità. Non soltanto: vorrei

approfondire ancora questo punto, perché se si adotta

il metodo di ricercare ciò che unisce e non ciò che di-

vide, cioè di reperire gli elementi di convergenza e non

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gli elementi di contrapposizione, possiamo forse ricono-

scere che ciò che accomuna davvero credente e non

credente è precisamente la questione del senso, cioè

una base comune che interpella tutte le nostre coscien-

ze e ci induce a sollevare lo sguardo dall’indifferenza,

dall’immediatezza di una società come quella attuale,

che tende sempre di più a ripiegarsi su se stessa, ad ap-

piattirsi sul presente, ad appiattirsi sull’effimero, per aprirsi

invece a interrogazioni che siano un po’ più profonde,

cioè a istituire un confronto con un oltre, con un altrove

e, in definitiva, non perdere la categoria, il concetto e la

speranza stessa del futuro.

Voglio anche sottolineare che è una speranza, quel-

la del futuro, che in effetti attraversa tutta l’esperienza

dell’ebraismo e la tradizione ebraica, nei confronti del

quale la nostra tradizione, la nostra cultura, la nostra ci-

viltà, direi la nostra stessa vita democratica, sono perma-

nentemente debitrici, a partire dal radicamento di quel-

la tradizione ebraica nel modello dell’esodo, evento di

liberazione dalla schiavitù, trasmesso di generazione in

generazione e come elemento fondativo della stessa

identità ebraica, ma anche come richiamo e paradig-

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ma duraturo, per non dire perenne, per tutte le istanze di

liberazione da ogni forma di asservimento.

Tutto questo per dire che l’uomo, sia esso creden-

te, sia esso non credente, si alimenta costantemente di

dubbi. E ha scritto a questo riguardo Norberto Bobbio,

che dalla parte laica è certamente autore tra i più pro-

fondi e che si è più interrogato su questo tema: «Se fede

laica vuol dire fede nell’uomo, mi domando se questa

non sia altrettanto soggetta al dubbio quanto quella

religiosa. Allora non resta che il senso del mistero, che

può essere angoscioso, ma è l’ultimo termine cui giunge

la nostra ragione. Non è forse questo senso del mistero

che unisce profondamente e indissolubilmente gli uomi-

ni della fede nell’uomo e quelli della fede religiosa?».

Che cosa aggiungere a queste parole di Bobbio?

Aggiungerei che ciascuno, sia il credente, sia il non cre-

dente, può – sia pure in termini diversissimi – rivolgere a

Dio un interrogativo, e l’interrogativo è: esisti? In que-

sto senso ricordo quanto sostiene un grande pensatore

ebraico, Franz Rosenzweig, secondo cui la domanda re-

lativa all’esistenza di Dio è la domanda per eccellenza.

Forse, almeno da un punto di vista esistenziale, Dio esiste

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solo se lo cerchiamo, indipendentemente dal fatto di

trovarlo. Ma ciò che caratterizza l’essere umano è più

ampiamente un’interrogazione, un’interrogazione sor-

giva, sia questa religiosa, ma anche scientifica, anche

filosofica, anche poetica, anche artistica. Per tutti gli uo-

mini questo aspetto dell’interrogare e dell’interrogarsi è

un terreno di impegno comune: il gusto del conoscere,

del cercare il non conosciuto e di interrogarsi su questo.

Infine, la prima lettera di Giovanni ha un passag-

gio molto noto, «nessuno ha mai visto Dio», per riferirsi

a un’assenza, l’assenza di Dio, che diviene condizione

della sua possibile presenza da cui deriva tutta la tema-

tica del deus absconditus, ma che è anche una neces-

saria difesa da qualunque indebita riduzione di Dio, da

qualunque indebita entificazione di Dio o identificazio-

ne di Dio con qualche cosa di specifico e storicamente

determinato.

Credo che in questo spazio di assenza di Dio, nel sen-

so di una sua non visibilità materiale, si possa attingere

a Il Piccolo Principe di Saint-Exupéry che diceva: però

si può vedere solo con il cuore. Teniamolo presente. In

questo spazio possono benissimo convivere sia coloro

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che hanno Dio nel loro orizzonte, sia coloro che non lo

hanno. Naturalmente i dubbi che si ricollegano a questa

assenza, a questa non evidenza di Dio, possono avere

un carattere molto diverso, di una fede-fiducia costan-

temente da cercare, da riconquistare per il credente e,

invece, di una tensione all’apertura verso l’altro e alla

riflessione conseguente per il non credente, ma in realtà

si può dire che entrambi, credente e non credente, si

interroghino su come vivere, su come la vita vada af-

frontata per essere vissuta in modo degno. Ed è un’idea,

questa, che credo non possa essere meglio espressa di

quanto fece Dietrich Bonhoeffer nel luglio del 1944 nella

sua cella nel campo di concentramento di Flossenbürg,

quando dice: «il nostro diventare adulti ci riconduce a

riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione

davanti a Dio. Dio ci fa conoscere che dobbiamo vivere

come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio».

Il ritorno del religioso e e il multiculturalismo

Vorrei poi provare a focalizzare un po’ di più la nostra

attenzione spostandoci sulla situazione culturale che

caratterizza le società post industriali dell’occidente.

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Certamente esiste la banalizzazione, l’indifferenza, cer-

tamente ci sono fenomeni come quelli che abbiamo

ricordato, ma c’è un dato forse più strutturale, più di

fondo, cioè queste società si connotano anche per l’e-

spandersi irreversibile di un processo di secolarizzazione,

un processo che viene da lontano (ricordo a tal propo-

sito, alla metà degli anni Sessanta, Harvey Cox, con il

famoso e fortunato volume su La città secolare), che ha

comportato in tutti i settori della vita sociale, oltre che

nel mondo delle idee, la progressiva emancipazione del

pensiero religioso, a partire dal postulato dell’autonomia

della soggettività dell’individuo.

Vorrei dire che alcuni secoli dopo si è paradossal-

mente realizzata quella che possiamo dire una profezia,

in qualche misura, di Ugo Grozio, quando diceva che

dovevamo prevedere l’autonomia dei diritti degli indi-

vidui anche se ammettessimo che Dio non esistesse, la

famosa formula etsi deus non daretur. Questa formu-

la, concepita addirittura nel Seicento, può sintetizzare

molto bene il fenomeno contemporaneo della secola-

rizzazione: quindi c’è un dato strutturale con cui, sia il

modello del credente, sia il modello del non credente,

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in tutte le sue tipologie, si deve misurare, ed è il dato

della società post religiosa, che in qualche misura è

un dato strutturale.

Poi il Novecento, o meglio l’ultimo scorcio del No-

vecento, ha visto l’emergere di forti fenomeni di segno

apparentemente opposto: da una parte il ritorno delle

religioni, fenomeno ancora da approfondire, ma mi li-

mito a dire che è di non facile interpretazione perché

ha forme molteplici e anche, talora, sfuggenti. Perché

in quello che è lo smarrimento della crisi delle ideolo-

gie, delle grandi narrazioni del Novecento (ricordiamo il

marxismo), il secolo della negazione di Dio, dei totalita-

rismi, si sono però poi, nell’ultima parte del Novecento,

sviluppati orientamenti ideali, orientamenti di gruppo

individuali volti a un recupero della centralità del fatto

religioso, ma in forma molto ambigua, molto sfuggen-

te, molto difficile da definire, perché molto spesso que-

sto ritorno alle religioni non è necessariamente vissuto

come un ritorno alle forme religiose tradizionali, custodi-

te cioè dalle religioni e dalle istituzioni religiose storiche.

E qui abbiamo una serie di filoni diversi, cioè istanze di

risveglio religioso, probabilmente autentico, ma anche

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rinnovamento carismatico, ma anche una forte presen-

za di forme di fondamentalismo che rivendicano un ruo-

lo egemonico del religioso nella vita civile.

Sarebbe molto interessante anche riflettere sull’idea

che banalmente viene definita degli “atei devoti”, ossia

quella componente non credente che vuole però im-

porre in maniera fondamentalistica una presenza nella

vita sociale. È interessante che a quel laicismo, diciamo

pure rozzo, di certe forme di negazionismo provocato-

rio come quelle di Dawkins, si vadano sostituendo for-

me più raffinate che rivendicano ateismo, ma dicono in

qualche modo che comunque la religione può essere

una risorsa di coesione sociale e di solidarietà.

Un ultimo punto, infine, è certamente rappresentato

dal fatto che, anche per le tendenze migratorie, per tutti

questi fenomeni che conosciamo e che in parte sono

amplificati da strumentali azioni propagandistiche, cer-

tamente c’è però un panorama attuale strutturale che

è di grande pluralismo delle fedi e delle credenze che

sono presenti in uno stesso contesto geografico. Il pun-

to che mi interessa sottolineare è che molto raramen-

te queste fedi diverse auspicano di porsi in dialogo tra

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loro; raramente lo fanno e riescono a porsi in dialogo,

per cui il rischio è quello della Babele contemporanea,

dove ciascuno sta al suo posto secondo il modello del

multiculturalismo inglese, che peraltro è un modello rela-

tivistico, cioè un modello che relativizza ogni verità.

Direi che da questo punto di vista non siamo più in

presenza di un’idea univoca di Dio, perché queste fedi

diverse evocano e invocano diverse idee di Dio e for-

se dovremmo interrogarci su un tema: una maggiore

presenza del religioso, una maggiore presenza delle

fedi, può in qualche misura facilitare il dialogo sul fat-

to religioso? Il contesto di oggi appare estremamente

più complesso, perché in passato avevamo una mag-

giore semplificazione dei soggetti presenti e coinvolti e

anche una maggiore omogeneità. Oggi questi model-

li del passato agiscono in un contesto profondamente

modificato,che rende semmai più difficile il confronto e

la chiarificazione.

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«In ginocchio! Suona la campanella: si stanno por-

tando i sacramenti a un Dio che muore». Così, in modo

paradossale, il poeta tedesco dell’Ottocento Heinrich

Heine rappresentava l’avanzata della “morte di Dio”

che, in forma ancor più drammatica, avrebbe poi de-

scritto il suo connazionale e contemporaneo Friedrich

Nietzsche con la celebre scena della Gaia scienza, in

cui un uomo grida per le strade l’annunzio ferale: «Dio è

morto! Noi lo abbiamo ucciso e le nostre mani gronda-

no del suo sangue!». Ebbene, questo ateismo dramma-

Gianfranco Ravasi

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tico – che, per altro, ha sollecitato persino una “teologia

della morte di Dio” – attualmente si rivela piuttosto raro.

Incredulità, idolatria, assenza

Vorremmo a questo punto proporre – sulla scia di

quel grande codice della nostra cultura che è pur sem-

pre la Bibbia – tre modelli di anti-religiosità che talora pa-

radossalmente si racchiudono o persino si ammantano

di religiosità.

Il primo è quello dell’incredulità: essa nega la pre-

senza di Dio nella storia e, quindi, si rifiuta di accettarne

la norma etica trascendente e di adeguarsi a una sua

volontà. In questa linea va il noto grido dello “stolto” del

Salmo 14/53: «Non c’è Dio!». Il senso dell’affermazione

non è quello di una negazione teorica e programmati-

ca, quanto piuttosto quello sconcertante della scoperta

della mancanza di una presenza divina da rispettare e

temere qui e ora, nelle vicende della storia umana.

Sotto questo schema potremmo rubricare oggi la

più consistente tipologia dello pseudo-ateismo attua-

le, quella della cosiddetta indifferenza religiosa. Essa si

basa su una lettura della storia nella cui superficie Dio

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è assente. La sua figura risulta del tutto irrilevante, non

genera drammi, non è principio di scelte morali esigenti,

è lasciato nel limbo delle presenze eteree. Non lo si com-

batte, ma lo si ignora perché considerato come un dato

“disturbante” e inattuale. Come scriveva ironicamente

il filosofo canadese Charles Taylor, nel suo saggio sulla

Secular Age contemporanea, se Dio dovesse entrare

nella nostra società, al massimo gli si chiederebbero

i documenti.

Il secondo modello è quello dell’idolatria: esso più si

avvicina al vero concetto “drammatico” e forte di atei-

smo. Non c’è bisogno di illustrarne le caratteristiche tan-

to è costante nelle Scritture, da un lato, la tentazione di

sostituire a Dio un oggetto o se stessi e, d’altro lato, la cri-

tica e la polemica anti-idolatrica dei profeti, dei sapienti,

dei testimoni di Dio. È in pratica la sostituzione della tra-

scendenza con un dato storico immanente. San Paolo

ne bolla con veemenza la contraddizione nel capitolo 1

della Lettera ai Romani, quando accusa i pagani di aver

scambiato la verità divina con un comodo sistema che

genera alla fine libertinismo e degradazione morale.

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In forma nobile l’idolatria moderna è l’identificazio-

ne di principi costitutivi e dinamici interni all’essere e alla

storia stessa come unica ragione esplicativa: si pensi al

materialismo dialettico di stampo marxiano, ma persino

anche allo Spirito immanente nell’essere stesso, motore

della storia, secondo la concezione idealistica hegelia-

na apparentemente “religiosa”, oppure si consideri l’u-

manesimo ateo che pone l’uomo come misura e senso

di tutto l’essere. Non è, quindi, solo l’auto-adorazione

dell’uomo autosufficiente o la banale venerazione di

oggetti simbolici, come accade nell’idolatria folcloristi-

ca o nel consumismo secolaristico. Sotto questa cate-

goria si possono classificare anche tanti modi elaborati e

sofisticati contemporanei che escludono la trascenden-

za divina.

Ma c’è una terza proposta che si rivela sorprendente

e persino “religiosa”. È l’assenza provocatoria di Dio, il

suo silenzio che genera la domanda capitale: «Dov’è

Dio?», come attestano spesso le suppliche dei Salmi bi-

blici: «Le lacrime sono mio pane giorno e notte, mentre

mi dicono tutto il giorno: Dov’è il tuo Dio?» (42,4): «Per-

ché i popoli dovrebbero dire: Dov’è il loro Dio?» (79, 10).

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Questa domanda apparentemente “atea” nasce sia

nella persona in crisi di fede, sia nel credente autentico

che rimane sconcertato di fronte al Dio muto e assen-

te, soprattutto quando incombe lo scandalo del trionfo

del male.

La Bibbia è, al riguardo, molto significativa. C’è, in-

fatti, una figura come il Qohelet che incarna la crisi di

un uomo che si trova davanti a un mondo indecifrabi-

le, spoglio di un senso percepibile, scandito dal vuoto

(habel, “vanità, fumo, vuoto”), con domande che sal-

gono verso un cielo muto e che ricadono su chi le lan-

cia. Ma c’è anche il credente puro come Giobbe, che

ribadisce la sua volontà di avere una risposta dal vero

Dio, taciturno e indifferente, e non una ricetta apologe-

tica preconfezionata dagli amici teologi, stanchi difen-

sori d’ufficio della religione. E invece: «Io grido verso di

te e tu non rispondi!». Eppure, alla fine, questa assenza

si rivela feconda e si trasforma in una presenza e in un

incontro (42,5: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei

occhi ti vedono»). È paradossale, ma anche Gesù Cristo,

il Figlio di Dio, per essere veramente uomo, passa attra-

verso questa stessa esperienza del silenzio del Padre, sia

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nel Getsemani, sia sulla croce, svelandone perciò la mi-

steriosa positività.

È, allora, necessario, quando si affronta il tema

dell’ateismo, operare una serie di distinzioni: l’incredulità

è l’indifferenza agnostica, l’idolatria è l’ateismo sistema-

tico, l’assenza è il mistero del divino “incomprensibile”.

Proprio attraverso questa schematizzazione si può intuire

quanto complessi siano i problemi teorici e pratici per il

credente che ne derivano. Un conto, infatti, è entrare in

un confronto serrato – ideale e argomentato – con un

ateismo coerente e cosciente, capace anche di una

sua etica autonoma, come avveniva nell’Ottocento col

marxismo e il razionalismo illuministico e idealistico. Da

questo confronto-scontro nessuno dei due contendenti,

allora, ne era uscito indenne e gli esiti erano stati preziosi

per entrambi.

Solo per fare un esempio, nell’Otto-Novecento at-

traverso il duello col marxismo, la Chiesa ha maturato

la coscienza dell’importanza della questione sociale

(la Rerum novarum e le altre encicliche sociali), mentre il

marxismo ha visto profilarsi il post-marxismo con un filoso-

fo come Ernst Bloch che affermava il rilievo straordinario

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dell’Esodo come testo fondante della liberazione e il

cristianesimo come seme di trasformazione della storia

(già il titolo di una sua opera era emblematico: Ateismo

nel cristianesimo) con la carica di una tensione radicale

(il Principio speranza).

Un conto è, invece, l’indifferenza–incredulità che

mette in questione sia la fede autentica e operosa, sia

l’ateismo severo e impegnato. Essa è simile a una neb-

bia difficile da diradare, non conosce ansietà o doman-

de, si nutre di stereotipi e banalità, accontentandosi di

vivere in superficie, sfiorando i problemi fondamentali,

secondo l’ormai notissima immagine del Diario del filo-

sofo danese Soeren Kierkegaard: «La nave è in mano

al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del

comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo

domani». I mezzi di comunicazione di massa ci insegna-

no tutto sulle mode e i modi di vivere, ma ignorano il

significato dell’esistere, l’inquietudine della ricerca inte-

riore, le interrogazioni sull’oltre e sull’“altro” rispetto a noi

e al nostro orizzonte.

Un conto, infine, è avere a che fare con una notte

dello spirito in cui Dio è assente. Eppure se ne sente la

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mancanza: già il filosofo Martin Heidegger nei Sentieri

interrotti notava che la «vera povertà del mondo è

quando non si sente più la mancanza di Dio come man-

canza». Chi avverte e soffre per il vuoto intimo, anela

alla verità, alla bellezza e all’amore, pur non posseden-

doli; chi obbedisce alle ingiunzioni della propria coscien-

za, pur avendo sopra di sé cieli apparentemente vuoti o

al massimo affollati soltanto dai satelliti della tecnica, è

come se accettasse già l’Essere assoluto di Dio, pur af-

fermando il suo agnosticismo (si ricordi la famosa tesi del

“cristiano anonimo” suggerita dal teologo Karl Rahner).

Questa esperienza dell’assenza divina, per altro, può

appartenere non solo alla stessa fede – che è talora si-

multaneità di luce e di tenebra, di certezza e di dub-

bio – ma persino alla mistica, come è testimoniato dalle

pagine indimenticabili di S. Giovanni della Croce sulla

“notte dello spirito” o dalle riflessioni ardite di Meister

Eckhart sul rapporto tra Dio e il nulla o dai versi incande-

scenti di Angelo Silesio.

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Il dialogo: incontro lungo la frontiera

«Mi manca la fede e, quindi, non potrò mai essere

un uomo felice, perché un uomo felice non può avere

il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato

verso una morte certa… Non ho ereditato il ben celato

furore dello scettico, il gusto del deserto caro al razio-

nalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso, allora,

gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui du-

bito». Aveva soltanto 31 anni ed era già al culmine del

successo; eppure il 4 novembre 1954 si era tolto la vita,

e forse la chiave di questa resa fallimentare era da cer-

care proprio nelle righe che abbiamo citato dalla sua

opera Il nostro bisogno di consolazione. Stiamo parlan-

do di uno scrittore svedese di “culto”, Stig Dagerman,

che illumina in modo esplicito il senso di un dialogo tra

atei e credenti.

Interrogarsi sul significato ultimo dell’esistere non

coinvolge, certo, lo scettico sardonico e sarcastico che

ambisce solo a ridicolizzare asserti religiosi. Tra l’altro, uno

che di ateismo s’intendeva come il filosofo Nietzsche

non esitava a scrivere nel Crepuscolo degli dei (1888)

che «solo se un uomo ha una fede robusta, può indul-

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gere al lusso dello scetticismo». Neppure il razionalista,

avvolto nel manto glorioso della sua autosufficienza co-

noscitiva, vuole correre il rischio di inoltrarsi sui sentieri

d’altura della sapienza mistica, secondo una grammati-

ca nuova che partecipa del linguaggio dell’amore, che

è ben diverso dalla spada di ghiaccio della pur impor-

tante ragione pura. Né è interessato a questo dialogo

l’ateo confessante che, sulla scia dello zelo ardente del

marchese de Sade della Nouvelle Justine (1797), presen-

ta il suo petto solo al duello: «Quando l’ateismo vorrà dei

martiri, lo dica: il mio sangue è pronto!».

L’incontro tra credenti e non credenti avviene quan-

do si lasciano alle spalle apologetiche feroci e dissa-

crazioni devastanti e si toglie via la coltre grigia della

superficialità e dell’indifferenza, che seppellisce l’aneli-

to profondo alla ricerca, e si rivelano, invece, le ragio-

ni profonde della speranza del credente e dell’attesa

dell’agnostico. Ecco perché si è voluto pensare da par-

te del Pontificio Consiglio della Cultura a un “Cortile dei

gentili”, sulla scia di una sollecitazione di Benedetto XVI

durante un suo discorso rivolto alla Curia Romana nel

dicembre 2009. Lasciamo da parte la denominazione

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storica che ha solo una funzione simbolica, evocando

l’atrio che nel tempio di Gerusalemme era riservato ai

“Gentili”, i non ebrei in visita alla città santa e al suo san-

tuario. Fermiamoci, invece, sul suo aspetto tematico,

così come lo fa balenare Dagerman. Uno degli intellet-

tuali ebrei più aperti del I secolo dopo Cristo, Filone di

Alessandria d’Egitto, artefice di un dialogo tra ebraismo

ed ellenismo – quindi secondo i canoni di allora, tra fe-

deli jahvisti e pagani idolatrici – definiva il sapiente con

l’aggettivo methórios, ossia colui che sta sulla frontiera.

Egli ha i piedi piantati nella sua regione, ma il suo sguar-

do si protende oltre il confine e il suo orecchio ascolta le

ragioni dell’altro.

Per attuare questo incontro ci si deve armare non

di spade dialettiche, come nel duello tra il gesuita e il

giansenista del film La via Lattea (1968) di Buñuel, ma

di coerenza e rispetto: coerenza con la propria visione

dell’essere e dell’esistere, senza slabbramenti sincretisti-

ci o sconfinamenti fondamentalistici o approssimazioni

propagandistiche; rispetto per la visione altrui alla quale

si riservano attenzione e verifica. Si è, invece, incapaci

di ritrovarsi su quel confine tra i due cortili simbolici del

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tempio di Sion, l’atrio dei Gentili e quello degli Israeliti,

quando ci si arrocca solo in difesa dei propri idoli. Ne

L’Adolescente (1875) Dostoevskij, sia pure con la pas-

sione del credente, li identificava con chiarezza. Da un

lato, infatti, affermava che «l’uomo non può esistere sen-

za inchinarsi … Si inchinerà, allora, a un idolo di legno o

d’oro, o del pensiero … o di dèi senza Dio». D’altro lato,

però, riconosceva che vi sono «alcuni che sono davvero

senza Dio, solamente fanno più paura degli altri, perché

vengono col nome di Dio sulle labbra». Ecco la tipologia

comune a coloro che non si fermeranno a dialogare su

quella frontiera: chi è convinto di aver già in sé tutte le

risposte e di doverle solo imporre.

Questo, però, non significa che ci si presenta soltanto

come mendicanti, privi di qualsiasi verità o concezione

della vita. Ponendomi per congruenza sul territorio del

credere a cui appartengo, vorrei solo evocare la ric-

chezza che questa regione rivela nei suoi vari panora-

mi ideali. Pensiamo al raffinato statuto epistemologico

della teologia come disciplina dotata di una sua coe-

renza, alla visione antropologica cristiana elaborata nei

secoli, all’investigazione sui temi ultimi della vita, della

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morte e dell’oltrevita, della trascendenza e della storia,

della morale e della verità, del male e del dolore, della

persona, dell’amore e della libertà; pensiamo anche al

contributo decisivo offerto dalla fede alle arti, alla cul-

tura e allo stesso ethos dell’Occidente. Questo enorme

bagaglio di sapere e di storia, di fede e di vita, di spe-

ranza e di esperienza, di bellezza e di cultura è posto

sul tavolo di fronte al “Gentile” che potrà, a sua volta,

imbandire la mensa della sua ricerca e dei suoi risultati

per un confronto.

Da un simile incontro non si esce mai indenni, ma

reciprocamente arricchiti e stimolati. Sarà un po’ para-

dossale, ma potrebbe essere vero quello che Gesualdo

Bufalino scriveva nel suo Malpensante (1987): «Solo negli

atei sopravvive oggigiorno la passione per il divino». Una

lezione, quindi, e un monito per lo stesso fedele abitu-

dinario, affidato a formule dogmatiche, senza lo scavo

del comprendere intelligente e vitale. Sull’altro versante

si potrebbe immaginare l’epigrafe di una delle tombe

dell’Antologia di Spoon River (1915): «Io che qui giaccio

ero l’ateo del villaggio, loquace, litigioso, versato negli

argomenti dei miscredenti. Ma in una lunga malattia

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lessi le Upanishad e il Vangelo di Gesù. Ed essi accesero

una fiaccola di speranza e di intuizione e di desiderio

che l’Ombra, guidandomi tra le caverne del buio, non

poté estinguere. Ascoltatemi, voi che vivete nei sensi

e pensate solo attraverso i sensi: l’immortalità non è un

dono ma un compimento. E solo coloro che si sforzano

molto potranno ottenerla».

L’“incredulità” del credente e la “fede” dell’ateo

Si deve, allora, affermare – sempre in questa linea e

sulla scia della metafora della frontiera – che il confine,

quando si dialoga, non è una cortina di ferro invalicabi-

le. Non solo perché esiste una realtà che è quella della

“conversione” e qui assumiamo il termine nel suo signifi-

cato etimologico generale e non nell’accezione religio-

sa tradizionale. Ma anche per un altro motivo. Credenti

e non credenti si trovano spesso sull’altro terreno rispetto

a quello proprio di partenza: ci sono, infatti, come si suol

dire, credenti che credono di credere, ma in realtà sono

increduli e, viceversa, non credenti che credono di non

credere, ma il loro è un percorso che si svolge in quel

momento sotto il cielo di Dio. A questo proposito vorrem-

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mo solo suggerire un paio di esempi paralleli, anche se

distribuiti sui due campi. Partiamo dal credente e dalla

componente di oscurità che la fede comporta, soprat-

tutto quando si allarga il sudario del silenzio di Dio, come

abbiamo già avuto occasione di indicare parlando

dell’ateismo come assenza di Dio (genitivo soggettivo).

Facile è pensare ad Abramo e ai tre giorni di marcia

sull’erta del monte Moria, stringendo la mano del figlio

Isacco e custodendo nel cuore lo sconcertante impe-

rativo divino del sacrificio (Genesi 22); oppure possiamo

ricorrere alla lacerante e fluviale interrogazione del già

citato Giobbe; o ancora al grido dello stesso Cristo in

croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

O tanto per scegliere un emblema moderno, tra i tanti

possibili, alla “notte oscura” di un mistico altissimo come

san Giovanni della Croce e, per venire a noi, al dramma

del pastore Ericsson in crisi di fede, nel film Luci d’inverno

(1962) di Ingmar Bergman. Scriveva giustamente un te-

ologo francese, Claude Geffré: «Su un piano oggettivo

è evidentemente impossibile parlare di una non creden-

za nella fede. Ma sul piano esistenziale si può arrivare a

discernere una simultaneità di fede e di non credenza.

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Ciò non fa che sottolineare la natura stessa della fede

come dono gratuito di Dio e come esperienza comuni-

taria: il vero soggetto della fede è una comunità e non

un individuo isolato».

Spostiamoci ora sull’altro versante, quello dell’ateo

e delle sue oscillazioni. Il suo stesso anelito, testimonia-

to ad esempio dal citato Dagerman, è già un percorso

che s’inoltra nel mistero, a tal punto da configurarsi in

preghiera, come è testimoniato da questa invocazione

di Aleksandr Zinov’ev, l’autore di Cime abissali (1976):

«Ti supplico, mio Dio, cerca di esistere, almeno un poco,

apri i tuoi occhi, ti supplico! Non avrai da fare altro che

questo, seguire ciò che succede: è ben poco! Ma, o

Signore, sforzati di vedere, te ne prego! Vivere senza te-

stimoni, quale inferno! Per questo, forzando la mia voce

io grido, io urlo: Padre mio, ti supplico e piango: Esisti!».

È la stessa supplica di uno dei nostri poeti contempo-

ranei più originali, Giorgio Caproni (1912-1990): «Dio di

volontà, Dio onnipotente, cerca, / (Sforzati!), a furia di in-

sistere, / – almeno – di esistere». È significativo che il Con-

cilio Vaticano II abbia riconosciuto che, obbedendo alle

ingiunzioni della sua coscienza, anche il non credente

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può partecipare della risurrezione in Cristo che «vale non

solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini

di buona volontà, nel cui cuore invisibilmente lavora la

grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti… Perciò dobbia-

mo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di

venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero

pasquale» (Gaudium et Spes n. 22).

In ultima analisi l’ostacolo che si leva per questo dia-

logo-incontro è forse uno solo, quello della superficialità

che stinge la fede in una vaga spiritualità e riduce l’atei-

smo a una negazione banale o sarcastica. Per molti, ai

nostri giorni, il “Padre nostro” si trasforma nella caricatura

che ne ha fatto Jacques Prévert: «Padre nostro che sei

nei cieli, restaci!». O ancora nella ripresa beffarda che

il poeta francese ha escogitato della Genesi: «Dio, sor-

prendendo Adamo ed Eva, / disse: Continuate, ve ne

prego, / non disturbatevi di me, / fate come se io non

esistessi!». Far come se Dio non esistesse, etsi Deus non

daretur, è un po’ il motto della società del nostro tempo:

chiuso come Egli è nel cielo dorato della sua trascen-

denza, Dio (o la sua idea) non deve disturbare le nostre

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coscienze, non deve interferire nei nostri affari, non deve

rovinare piaceri e successi.

È questo il grande rischio che mette in difficoltà una

ricerca reciproca, lasciando il credente avvolto in una

lieve aura di religiosità, di devozione, di ritualismo tradi-

zionale, e il non credente immerso nel realismo pesante

delle cose, dell’immediato, dell’interesse. Come annun-

ciava già il profeta Isaia, ci si ritrova in uno stato di ato-

nia: «Guardai, ma non c’era nessuno; tra costoro nessu-

no era capace di consigliare, nessuno c’era da interro-

gare per avere una risposta» (41,28). Il dialogo è proprio

per far crescere lo stelo delle domande, ma anche per

far sbocciare la corolla delle risposte. Almeno di alcune

risposte autentiche e profonde.

Emil Cioran, della “razza degli atei”

E ora, in questa linea del dialogo tra credenti e agno-

stici attorno alle domande “ultime”, com’è appunto

quella su Dio, proponiamo due esempi emblematici

contemporanei, tra i tanti possibili. Iniziamo con quello

di uno scrittore ateo di grande impatto emotivo e teori-

co. «Io sono uno straniero per la polizia, per Dio, per me

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stesso». È forse questa la più lapidaria e folgorante carta

d’identità di Emil Cioran, nato l’8 aprile 1911 a Rasinari,

nella Transilvania rumena. Come è noto, questo inclas-

sificabile scrittore-pensatore nel 1937, a 26 anni, migrò a

Parigi, ove condusse il resto della sua vita fino alla mor-

te avvenuta nel 1995. Straniero, quindi, per la sua pa-

tria d’origine, che aveva cancellato dalla sua anagrafe

personale, abbandonandone anche la lingua. Straniero

per la nazione che l’aveva ospitato, a causa del suo co-

stante isolazionismo: «Sopprimevo dal mio vocabolario

una parola dopo l’altra. Finito il massacro, una sola rima-

se come superstite: Solitudine. Mi risvegliai appagato».

Straniero, infine, per Dio, lui che era figlio di un pre-

te ortodosso. Talmente straniero da iscriversi alla «razza

degli atei», eppure con un’insonne ansia di insegui-

mento nei confronti del mistero divino: «Mi sono sempre

aggirato attorno a Dio come un delatore: incapace di

invocarlo, l’ho spiato». Cioran, infatti, si è appostato a

più riprese per tendere agguati a Dio costringendolo a

reagire e quindi a svelarsi. Significativo è il dialogo che

a distanza intavolò col teologo Petre Tutea. Costui non

aveva abbandonato la sua terra, nonostante 13 anni

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trascorsi nelle prigioni di Ceausescu, né tanto meno la

sua fede, a tal punto da replicare a Cioran così: «Senza

Dio l’uomo rimane un povero animale, razionale e par-

lante, che non viene da nessuna parte, e va non si sa

dove». In realtà, il suo interlocutore non era strettamente

ateo né agnostico, tant’è vero che era giunto al pun-

to di suggerire ai teologi una sua particolare via “esteti-

ca” per dimostrare l’esistenza di Dio. Scriveva, infatti, in

Lacrime e santi: «Quando voi ascoltate Bach vedete

nascere Dio… Dopo un oratorio, una cantata o una

“Passione”, Dio deve esistere… Pensare che tanti teologi

e filosofi hanno sprecato notti e giorni a cercare prove

dell’esistenza di Dio, dimenticando la sola!».

Cioran accusa l’occidente di un delitto estremo,

quello dell’aver estenuata e disseccata la potenza ge-

neratrice del Vangelo: «Consumato fino all’osso, il cri-

stianesimo ha smesso di essere una fonte di stupore e

di scandalo, ha smesso di scatenare vizi e di fecondare

intelligenze e amori». Questo Qohelet-Ecclesiaste mo-

derno si trasforma, allora, in una sorta di “mistico del Nul-

la”, lasciando intravedere il brivido delle “notti dell’ani-

ma” di certi grandi mistici come Giovanni della Croce o

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Angelo Silesio, risalendo fino allo sconcertante cantore

del nesso Dio-Nulla, il celebre Meister Eckhart medie-

vale. «Ero ancora un bambino, quando conobbi per la

prima volta il sentimento del nulla, in seguito a un’illu-

minazione che non riuscirei a definire». Un’epifania di

luce oscura, potremmo dire con un ossimoro usato dal

Giobbe biblico.

«Si ha sempre qualcuno sopra di sé – continuava –,

al di là di Dio stesso si eleva il Nulla». Ma ecco il parados-

so: «Il campo visivo del cuore è: il mondo, più Dio, più il

Nulla. Cioè tutto». E allora questa è la sua conclusione:

«E se l’esistenza fosse per noi un esilio e il Nulla una pa-

tria?». Il Nulla – sempre per ossimoro – diventa il nome di

un Dio, certamente ben diverso dal Dio cristiano, eppure

come lui pronto a raccogliere il male di vivere dell’uma-

nità. Scriveva Cioran, evocando la “psicostasia” dell’an-

tico Egitto, ossia la pesatura delle anime dei defunti per

la verifica della gravità delle loro colpe: «Nel giorno del

giudizio verranno pesate solo le lacrime». Nel tempo

della disperazione, infatti, certe bestemmie – dichiara-

va Cioran, sulla scia di Giobbe – sono “preghiere nega-

tive”, la cui virulenza è accolta da Dio più della com-

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passata lode teologica (l’idea era già stata formulata

da Lutero).

Cioran è, quindi, un ateo-credente sui generis. Il suo

pessimismo, anzi, il suo negazionismo riguarda piuttosto

l’umanità: «Se Noè avesse avuto il dono di leggere il fu-

turo, non c’è alcun dubbio che si sarebbe fatto colare

a picco!». E qui il Nulla diventa il mero nulla, un vuoto

annientamento: «adorare la terra e dirsi che proprio essa

è il termine e la speranza dei nostri affanni, e che sa-

rebbe vano cercare qualcosa di meglio per riposarsi e

dissolversi». L’uomo ti fa perdere ogni fede, è una sorta

di dimostrazione della non esistenza di Dio ed è in que-

sta luce che si spiega il pessimismo radicale di Cioran

che brilla già nei titoli delle sue opere: L’inconveniente

di essere nati, La tentazione di esistere, Sulle cime della

disperazione, Squartamento, Sillogismi dell’amarezza e

così via. E qualche volta è difficile dargli torto, guardan-

do non solo la storia dell’umanità, ma anche il vuoto di

tanti individui che non ha niente del tragico Nulla tra-

scendente: «Di molte persone si può affermare quanto

vale per certi dipinti, cioè che la parte più preziosa è la

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cornice». Ma per fortuna – ed è questa la grande con-

traddizione – esiste, come si diceva, anche Bach…

Albert Camus, “santo senza Dio”

Il 7 novembre 1913 nasceva, in una cittadina dell’Al-

geria che reca lo stesso nome della nostra Mondovì pie-

montese, Albert Camus. Suo padre era un bracciante

che sarebbe morto ancor giovane di lì a poco nella bat-

taglia della Marna; la madre una domestica di origine

spagnola costretta ad allevare da sola i figli. Sarà il mae-

stro elementare di Albert a intuirne la genialità e a soste-

nerlo ottenendogli una borsa di studio nel 1924. Ma non

vogliamo ora né tracciare la biografia di questa straor-

dinaria figura intellettuale del Novecento, né abbozzare

una mappa della sua complessa e ricca produzione let-

teraria e saggistica, nonostante che la sua esistenza sia

stata troncata a soli 46 anni, il 4 gennaio del 1960, in un

incidente stradale.

Nel dicembre 1946 egli fu invitato dai padri dome-

nicani a parlare nel loro convento parigino di Latour-

Maubourg. Il testo di quella conversazione, pubblicato

poi nell’edizione delle sue opere nella “Pléiade”, si con-

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cludeva con queste parole molto significative: «Il mon-

do di oggi chiede ai cristiani di rimanere cristiani. L’altro

giorno, alla Sorbona, rivolgendosi a un oratore marxista,

un prete cattolico diceva in pubblico che anche lui era

anticlericale. Bene: non amo i preti anticlericali, come

non amo i filosofi che si vergognano di se stessi. Perciò

non cercherò di farmi cristiano davanti a voi. Spartisco

con voi lo stesso orrore del male. Ma non spartisco la

vostra speranza, pur continuando a lottare contro que-

sto universo in cui dei bambini soffrono e muoiono».

È proprio sulla scia di tali parole che si comprende un’al-

tra confessione di questo straordinario “Gentile”: «Come

essere santi senza Dio: è questo il solo problema concre-

to che io conosca».

A noi ora interessa cogliere solo qualche squarcio

della sua interrogazione, spesso tormentata, sulla tra-

scendenza. Anni fa, quando mi dedicai all’analisi di quel

capolavoro biblico che è il libro di Giobbe, dovetti ad

esempio riferirmi necessariamente anche al più celebre

romanzo di Camus, La peste (1947): il confronto dialetti-

co tra il gesuita padre Paneloux e il medico ateo Rieux

è un sorprendente “Cortile dei Gentili” attorno al tema

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incandescente del male sul quale, però, si affollerà in

quell’opera un piccolo mondo di altri testimoni, dalla

popolazione di Orano con le sue vittime al delinquente

ricercato Cottard, dall’aristocratico Tarrou al giornalista

Rambert e alla sua amante, da chi lotta a chi si rasse-

gna o si stordisce, dall’approfittatore all’incosciente.

La peste è la punta di un iceberg letterario e spirituale

del mare interiore di Camus, è il suo “Giobbe” intenso e

tragico.

Infatti, la domanda sul male presente nella storia e

resistente a ogni soluzione filosofica lacererà sempre l’a-

nima di questo scrittore. Ne L’Uomo in rivolta del 1951,

testo capitale per la sua tormentata ribellione etica

all’ingiustizia e all’assurdo della vicenda umana, si leg-

ge: «L’uomo deve riparare nella creazione tutto ciò che

è possibile. Dopo di che i bambini continueranno a mo-

rire ingiustamente, anche in una società perfetta. Col

suo più grande sforzo, l’uomo può soltanto proporsi di

diminuire aritmeticamente il dolore del mondo. Ma l’in-

giustizia e la sofferenza rimarranno e, benché limitate,

non cesseranno di essere uno scandalo. Il “perché?” di

Dimitri Karamazov continuerà a risuonare».

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Anni prima, nel 1944, nel dramma Il malinteso egli

aveva messo in scena proprio il silenzio di Dio, come ac-

cadrà anche nel citato romanzo La peste attraverso le

interrogazioni inevase del protagonista, il dottor Rieux.

Nella locanda remota e isolata ove talora la padrona

uccide i viandanti per depredarli, un giorno giunge suo

figlio, fuggito di casa tanto tempo prima e irriconoscibi-

le, con la sposa Maria. Nella notte la madre, per rapinar-

lo dei suoi averi, lo assassina senza la consapevolezza

di colpire suo figlio. Invano al mattino la moglie Maria

grida la sua disperazione a Dio che è simbolicamente

incarnato dal servo sordomuto della locanda: «Abbiate

pietà di me, ascoltatemi, Signore, abbiate pietà di quelli

che si amano e sono stati separati!». E il servo a fatica

biascica: «Mi avete chiamato?». Maria: «Aiutatemi, ho

bisogno d’aiuto, abbiate pietà e vogliate aiutarmi!».

Il servo: «No!». E su questo monosillabo cala il sipario. Un

Dio muto, indifferente e distante dal dramma di vivere

dell’umanità.

È per questo che ne Il Mito di Sisifo (1942) Camus con-

sidererà il suicidio come il problema fondamentale della

filosofia. E scriverà: «La levata, il tram, le quattro ore di

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ufficio o di officina, la colazione, il tram, le quattro ore di

lavoro, la cena, il sonno e lo svolgersi del lunedì, martedì,

mercoledì, giovedì, venerdì e sabato sullo stesso ritmo…

Soltanto che, un giorno, sorge il “perché?”…». È per que-

sto, allora, che egli si pone la questione radicale: «O il

mondo ha un senso più alto, o nulla è vero fuori di tali

agitazioni». Si affaccia, così, la trascendenza che, però,

non è vista come un riparo all’assurdo del presente o

come una narcosi degli interrogativi: «Se c’è un pec-

cato contro la vita, è forse non tanto disperarne, quan-

to sperare in un’altra vita, sottraendosi all’implacabile

grandezza di questa», scriveva in Nozze del 1938. Anzi,

come si legge in uno dei racconti de La Caduta (1956):

«Non aspettate il giudizio finale perché esso si celebra

ogni giorno».

Si fa strada, così, una ricerca di una salvezza intrasto-

rica che conserva, tuttavia, in sé i brividi della trascen-

denza. È, prima, la via della “rivolta” morale espressa nel

citato testo omonimo e drammatizzata con le sue con-

traddizioni ne I Giusti, un’opera del 1950 che ho voluto

riproporre proprio come meditazione spirituale “laica” lo

scorso febbraio nella chiesa del Gesù a Roma. È, poi,

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la via della bellezza: «L’uomo non può fare a meno del-

la bellezza, e la nostra epoca finge di volerlo ignorare.

Essa non vede il bello perché s’irrigidisce per raggiun-

gere l’assoluto e il dominio», si legge nel saggio lette-

rario L’Estate del 1948. E ne L’Uomo in rivolta continua:

«La bellezza non fa rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui

le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza».

Infine, ecco la via dell’amore. Già nel settembre 1937

nei Taccuini annotava: «Dovessi scrivere io un trattato

di morale, avrebbe cento pagine, novantanove delle

quali assolutamente bianche. Sull’ultima poi scriverei:

Conosco un solo dovere ed è quello di amare. A tutto il

resto dico no». Sì, perché «questo mondo senza amore

è un mondo morto e giunge sempre un’ora in cui ci si

stanca delle prigioni, del lavoro, del coraggio per recla-

mare il volto di un essere e il cuore meravigliato della

tenerezza». Potremmo o dovremmo continuare a lungo

a percorrere le pagine di Camus, scoprendo continue

iridescenze cristiane come questa, ancora nel saggio

L’Estate: «Chi non dà nulla non ha nulla. Non essere ama-

to è una sfortuna. Non saper amare è una tragedia». In

conclusione, mi sembrerebbe, però, significativo lasciar

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serpeggiare per lui una domanda radicale che un al-

tro autore di culto del Novecento come Robert Musil ci

ha lasciato nel suo celebre L’Uomo senza qualità: «E se

questa libertà di Dio non fosse altro che la via moderna

verso Dio?».

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Armando Torno

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Se volessimo tentare un riassunto di questo incon-

tro, di questo “Cortile dei Gentili”, non dichiarato ma

effettuato all’ombra e sotto il segno di Galileo in questa

stupefacente Aula Magna, dovremmo forse prendere i

tanti registri che abbiamo sentito questa sera. Ognuno

di essi potrebbe diventare argomento di discussione,

potrebbe diventare motivo per approfondimenti, per

iniziare dei percorsi, dei confronti.

Se volessimo prendere un’immagine, io direi che

quella del volto di una persona amata può indicarci

molto più di quello che forse sospettavamo. Il cardinal

Conclusioni di Armando Torno

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Ravasi, ricordandoci il potere dell’amore, ci spiega ciò

che avviene di fronte al trascendente: di fronte a Dio

non possiamo utilizzare soltanto la ragione, abbiamo

altre motivazioni, altre ragioni, altri percorsi che ci por-

tano poi a soffrire, a negare, ad affermare, a dubitare,

a essere magari diversi o uguali.

Concludendo, questo mi sembra il senso dell’in-

contro di oggi: il poter dire che la presenza e l’assenza

di Dio è qualcosa che riguarda tutti, nessuno escluso.

Tutti dobbiamo parteciparvi.

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Stampato nel mese di dicembre 2013per conto della casa editrice dell’Università di Padova

Padova University Press da Tipografia Nuova Jolly - Rubano (PD)

ISBN: 978-88-97385-83-7

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Occasional PapersParole che lasciano il segno

Collana di saggi brevi e autorevoli che offrono una chiave di lettura ai temi del passato rimasti aperti, danno un significato alle grandi questioni sfidanti del presente, indicano la via per disegnare gli scenari del futuro ancora tutti da inventare.

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Come la Chiesa avverte il bisogno di misurarsi con la modernità e le sue diverse manifestazioni, così anche una grande istituzione laica, quale è oggi l’Università di Padova, sente l’opportunità, o addirittura l’urgenza, di misurarsi con le tematiche proprie della prospettiva religiosa. Ecco una delle ragioni di questo incontro fra il rettore dell’Università di Padova e il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura, tenutosi l’11 giugno 2013 nell’Aula Magna dell’Ateneo con la collaborazione di un intellettuale e giornalista della levatura di Armando Torno.