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1 Igino Maggiotto POESIA, FORSE Prefazione di Andrea de Manincor

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Igino Maggiotto

POESIA, FORSE

Prefazione di Andrea de Manincor

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PREFAZIONE

Io non ho mai scritto per pre-fari, cioè per “dire prima” di qualcosa che verrà detto in seguito.

Primo problema: che dire prima?

Poi: le pre-fazioni sono solitamente barbose, noiose annotazioni che non interessano ad alcuno, in

quanto tutti, approcciando un libro, vogliono andare al succo della questione, cioè al libro stesso.

Dai, non raccontiamoci balle: le prefazioni, a parte quando si vuol essere accorti studenti

universitari, o si vuol fare gli accademici che non vogliono sbagliare il tiro, sempre pronti alla

“citazione da”, sono una gran rottura di scatole. L’autore della prefazione passa presto nel

dimenticatoio, una scocciatura di cui si fa volentieri a meno.

Secondo problema: ci sarà qualcuno disposto a leggere il “detto prima”?

Tento di darmi anche delle risposte – vantaggio del prefatore: egli è unico, non interpellabile

giudice della parte che gli spetta; egli si fa e si dà le risposte: magnifico potere! – e così comincio a

risolvermi il secondo problema.

Dunque, penso che il mio “detto prima” verrà letto quantomeno dai collaterali, consanguinei,

parenti e amici comuni, quelli che nella considerazione di qualunque scrittore assurgono a rango di

primi lettori forti della fatica fantastica, quelli a cui rivolgiamo un pensiero per un’ occhiata

benevolmente critica. Oppure, ‘sti collaterali parenti etc., li immagino spinti a cercare nella

prefazione qualcosa che conforti la loro ulteriore lettura. Qualcosa che gli dica: “Il libro è un bel

libro, è una roba fatta bene, scritta bene e patapim e patapam!”

E poi scopriranno che non c’era bisogno, il libro è bello, punto e basta. Quello che ci racconta in

forma di sparsa poesia è bello. E allora si chiederanno perché il prefatore abbia dato alle stampe

certe scemenze!

Ecco che la risoluzione del secondo problema introduce naturaliter quella del primo: il “detto

prima” saranno solo ‘ste scemenze?

Porca vacca, diamoci un tono confacente alla cosa. Diciamo anche qualcosa di serio …

E allora. Ho frequentato Igino artisticamente a partire dalla primavera del 2002, ma lo avevo

conosciuto già bene una decina d’anni fa, attivo assessore alla cultura del Comune di San Giovanni

Lupatoto – non so se gli fa piacere che lo ricordi, ma io sono il prefatore quindi, Igino, silenzio!

Sapevo che suonava la fisarmonica, tra l’altro da gran professionista; non sapevo che scrivesse

poesie e narrazioni dal tono malinconicamente buzzatiano e l’occasione per leggerle, anche

pubblicamente, mi veniva data una domenica pomeriggio da Ugo Brusaporco, critico

cinematografico, scrittore … Una rivelazione. Corbezzoli, è bravo ‘sto Maggiotto – Igino silenzio,

ricorda! Dico ciò che voglio.

Insomma, cominciamo a collaborare: partecipa ad uno spettacolo scritto da me, tratto da Piero

Marcolini – “Il porto della memoria” – e poi scriviamo insieme per la presentazione spettacolare del

CD “Serenata a San Giovanni”, per l’evento estivo “C’era una volta San Giovanni, Il Racconto dei

suoni”, per “La fabbrica delle idee” … Ed imparo. Mi porta dentro la storia del paese – io non sono

di San Giovanni, ci sono venuto ad abitare proprio in quel 2002, e mi ci sento a casa – mi fa

conoscere storie, luoghi, persone .. soprattutto persone.

Credo di aver capito questo, in particolare, di Igino: che gli interessano le persone; e delle persone

gli interessa tutto: la loro follia, i loro lucidi sogni e le loro meschinerie. E l’origine: più sono

umili e vere più son belle, le persone di Igino. Più sono dialetti anche diversi che s’incontrano in

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una zona franca linguistica costituita dal suo stesso dialetto –un veronese puro e sonoro, scabroso -

più sono belle, le persone di Igino.

Le persone lo ispirano: lo incantano e lo disincantano.

Io non sono un critico letterario, per cui mi soffermo a ciò che, per senso ed epidermide, mi

restituisce emozione – aggiungerei, anche per deformazione professionale.

Igino Maggiotto scrive roba che emoziona: scrive di gente e di anarchia, di sentimenti che ti fanno

rimanere attaccato alla tradizione, alla vita che non si rinnega e si accetta in toto. Scrive di

condivisone di affetti, senza diventare fanaticamente romantico, un po’ foscoliano. Anzi, c’è un

rigore quasi volteriano, uno sguardo illuminista anche nell’emozione. Uno sguardo che fa pensare

cose alte a partire dall’osservazione del quotidiano.

Il quotidiano fatto di persone.

Insomma, Igino Maggiotto scrive bene e di belle cose. Sorride, burla e piange. Qualità che tutte

apprezzo in un bravo scrittore. E visto che sono il prefatore, la mia parola vrrà qualcosa, o no?

A questo punto, spero d’aver assolto al mio compito in maniera inutilmente discreta.

E risolti i miei problemi, proporre a tutti – collaterali parenti etc. e non – la lettura delle pagine che

seguiranno.

Stop.

Andrea de Manincor

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L’ULTIMA STAGIONE

Fu il silenzio

per lungo tempo

la mia poesia.

Molti rumori

intorno

come muraglie.

Bocche aperte,

libri di sapienti,

libri di legge.

Cioè scaffali

di parole contro

la gente povera.

Cullerò scrivendo

l’ultima stagione.

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A COSA SERVE

A cosa serve un altro libro di poesie?

Chissà quanta gente che ama scrivere si è fatta questa domanda e chissà quali risposte si è data.

Anch’io mi sono posto la stessa domanda e questa è la risposta che mi sono dato: un altro libro di

poesie forse serve a confortare qualcuno, come è servito a confortare chi l’ha scritto e forse serve

anche a dare un po’ di speranza. La speranza di essere compresi e di comprendere, quindi di sentirsi

meno soli.

Mi sono anche detto che un libro di poesie, scritto come si scrivono le poesie, è sempre pesante

perché rappresenta squarci di sensazioni spesso molto diverse tra loro, talvolta anche contrastanti,

così chi legge si trova presto stanco nella migliore delle ipotesi o nauseato nella peggiore.

Per cercare di evitare sia l’una che l’altra, ma più per vedere cosa ne saltava fuori, ho pensato di

inserire, ogni tanto, qualche divagazione, recuperando anche racconti pubblicati su giornali locali

ed altri usati in spettacoli teatrali, oltre ad alcuni versi inseriti nel cd “Serenata a San Giovanni” e

mai stampati. In modo che la divagazione diventi una ciàcola, magari avendo nella testa una musica

che l’accompagna e intorno il calore degli amici.

Pensandoci bene, alla fine, questo non è un vero libro. Sono soltanto dei fogli messi insieme perché

non vadano persi. Senza contare che è tutto da vedere se ci si possa trovare della poesia.

Qualche volta, forse.

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VOGLIONO

Vogliono farmi ridere,

ma io non voglio ridere.

Voglio vivere.

Vogliono farmi piangere,

ma io non voglio piangere.

Voglio amare.

Vogliono farmi correre,

ma io non voglio correre.

Voglio andare.

Vogliono insegnarmi,

ma io non voglio imparare.

Voglio conoscere.

(dal cd “Serenata a San Giovanni”)

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REGOLE

Cominciano subito a metterci in fila e ad applicarci un’etichetta. Fin dalla nascita abbiamo il codice

fiscale. Appena un po’ cresciuti, avanti con la scuola materna. Grembiulini, altre file, altre etichette

e subito le regole. Da questo momento sarà tutto un crescendo fino alla denuncia dei redditi.

E questa non è certo poesia.

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RICONOSCIMENTI

Che m’importa

se il paese dorme!

Venga dato

un premio all’amico

che tradisce

e venga castigato

lo stupido che crede.

A quelli che chiamano

parcella il furto

si prepari un busto

di pietra dura.

Ma l’altare eccelso

venga riservato

alla figura

dell’Ipocrita Ignoto.

Prepari il prete

incenso in quantità

da soffocarli tutti

con immensa bontà.

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VIENE UNO

Viene uno

a raccontare

di popoli lontani,

viene un altro

a ricordare

di tempi lontani,

un altro ancora

a rivelare

di spazi lontani,

e molti altri ancora

a dire

di verità da credere,

di misteri da amare.

Annullando il pensiero,

annullando il desiderio,

soffocando domande rabbiose.

Invoco impossibili Dialoghi,

imploro la Speranza

di non lasciarmi solo.

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SAGRA

Vedo tristezza

nella folla della sagra

ammaestrata

da finti suonatori.

L’odore di olio fritto

accompagna la via

stipata di bancarelle

che vendono malinconia.

Piangono i bambini

per le giostre crudeli

nei giri sempre più brevi,

come la festa dei padri

che il freddo sole

chiude in faccia alla sera.

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E’ NATO UN POETA

Qualche giorno fa, sulla porta di una piccola casa, è apparso un fiocco azzurro. Tenero annuncio

della speranza più grande. La gente del quartiere, gli amici, i parenti, tutti uniti a festeggiare. E lui

subito a farsi sentire con l’unico mezzo a disposizione.

Quando nasce un bambino, nasce un poeta. Attorno a lui tutto contribuisce a trasformare un fatto

biologico in un evento straordinario. Che ci sia il sole, che piova o soffi il vento, ogni presenza

naturale partecipa alla festa, ciascuna alla sua maniera. Dalle rondini che volteggiano sopra la casa

ai fiori che assumono nuovi colori, dagli alberi che sventolano la bandiera del mondo alle nuvole

che inventano nuove coreografie.

Le persone che vengono a far visita scrutano il nuovo arrivato cercando somiglianze e

commentando. Qualcuno azzarda previsioni sul futuro, altri si limitano agli auguri. I genitori

addolciscono le nuove preoccupazioni con le speranze più semplici e genuine.

Ci penserà il tempo, ci penserà il mondo a trasformare il piccolo poeta in un uomo, carico di pesi e

di responsabilità.

Sarà fortunato, molto fortunato, se percorrendo il cammino della vita, gli rimarrà anche solo una

briciola della poesia del primo giorno

(da “Il nuovo lupo”-2004)

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TIEPIDA LUCE

Tiepida luce

dalla finestra

sulle stanche braccia

lasciate al riposo

sopra il cuscino.

Accanto al silenzio

un lungo pensiero.

Provo a leggere

un vecchio libro

ma sono distratto

dal tuo respiro.

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TRASFIGURAZIONE

C’è una novità.

Una canzone

senza musica.

Una poesia

senza parole.

Un muto

silenzio.

(lunga pausa)

Ma,

dopo,

una goccia,

due gocce…

e il silenzio diventa musica

e la musica diventa poesia.

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Succede, talvolta, che i fatti di cronaca ci colgano di sorpresa e ci lascino una pesante sensazione di

smarrimento. Sentendo del suicidio di una coppia di adolescenti, ho cercato di superare questo

sentimento e ho provato a capire, raccontandolo. Come se ad ascoltare fossero loro, come se

potessero confermare quello che ho creduto di comprendere, entrando nella loro anima così simile

alla mia, alla loro età. E siccome la Speranza è oggi la mia compagna, spero che i ragazzi che

eventualmente dovessero leggere queste righe capiscano che quando se ne va uno di loro, è l’intero

Universo a perdere qualcosa.

IL SILENZIO, FINALMENTE

(dal manifesto del Cineclub di Verona -Dicembre 2003)

Quella nebbiolina sottile che attraversa la faccia sembra fatta apposta per insinuare, in questa

stagione, una situazione di fastidioso malessere, come se all’improvviso venisse a mancare un

sostegno. Il calore del sole, forse. O quel respiro del vento che talvolta aiuta a camminare.

La solita gente frettolosa, carica di pacchi di plastica, pare disinteressarsi del mondo. Troppo

occupata nelle manovre di parcheggio o a cercare la fila più scorrevole in mezzo a pattuglie bene

organizzate di avversari sempre più svelti ad occupare gli spazi. Bambini piagnucolosi aggrediti da

madri inferocite dall’ansia di non fare in tempo.

Di non fare in tempo.

Le sere, lunghissime, cominciano presto. Prima che arrivi l’ora della discoteca, c’è tempo per la

solita noia. Pizza negli appositi locali di concentramento e groviglio di motorini in attesa.

Televisori accesi che nessuno guarda. Purchè mostrino gente in movimento. Le immagini devono

muoversi, non possono stare ferme.

Chissà se stasera cambia qualcosa.

Al cinema c’è il quarto episodio del solito sbruffone che viene dal futuro a spiegare quanto siamo

arretrati noi che veniamo dal passato e dobbiamo ancora imparare tutto. Al costo di una ventina di

milioni. Di dollari, naturalmente. Che adesso sembrano non valere più niente perché l’euro dei

finanzieri è diventato un mostro ingoiando paghe e pensioni, ma che comunque permettono ai

furbacchioni della California di costruirsi nuove ville con piscine sempre più grandi, alla faccia dei

gonzi che pagano il biglietto delle multisale.O quello dello stadio, che è anche peggio. Dove i più

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fessi sono quelli che guardano la partita. Quei poliziotti col giubbotto meritano una lezione e allora

via di corsa a spaccare qualche vetrina o la faccia stronza di qualcuno dell’altra curva.

Chissà se stasera cambia qualcosa.

La mano nella mano e camminare. C’è qualcuno con cui stare e provare un sentimento forte,

strano, potente, misterioso. Quelli di una volta lo chiamavano amore, una parola insulsa che serve a

raccontare le scopate, non certo quegli strambi discorsi di quel Petrarca o dei suoi seguaci. Non

importa, si cammina e si decide.

Non è una sera come le altre. Si capisce da come si muove la gente. Dev’essere successo qualcosa.

In Iraq, forse, oppure in Afghanistan o in Palestina. Non importa dove, ma qualcosa è successo. A

scuola si parla di queste cose e i ragazzi sono attenti, capiscono di essere sovrastati da qualcosa di

poco chiaro. Gli insegnanti provano a spiegare, a discutere, ma lo stesso non si arriva a capire. I

giornali scrivono tanto ma non dicono niente. Chi è pagato dalla Destra parla come quelli di destra e

chi è pagato dalla Sinistra parla come quelli di sinistra. La libertà vera esiste solo nella mente dei

filosofi. E dei poeti, purchè non vengano premiati nei concorsi letterari. Allora discutiamo fra noi,

anche se non siamo documentati. Non fa niente, discutiamo lo stesso. Dobbiamo, almeno noi,

parlare!

Ma siamo soltanto in due, stasera, e parliamo di noi come fossimo uno solo. Perché gli altri, tutti gli

altri, anche gli amici, non capiscono, non possono capire. Che ne sanno del coraggio che serve per

fare il salto? Che ne sanno della nostra paura che ci prende la gola e strozza l’urlo che vorremmo

lanciare al mondo. Cazzo! Ma dov’è il mondo? E cosa avranno da ridere, quelli? Alcuni hanno

ammazzato i genitori e i fratelli, altri hanno ammazzato i figli e nessuno sa perché. Centinaia di

persone sono pagate per fare leggi contro la gente ed altre migliaia sono pagate per andare in giro a

portare la pace col mitra. E i carri armati che sparano su case che sono già macerie.

Dove andrà il nostro amore? Sì, il nostro amore che soltanto noi conosciamo perché l’abbiamo

provato davvero. Non ce ne frega niente degli altri. Meglio, così avranno qualcos’altro da discutere.

Chiameranno i soliti esperti attorno al ciambellano della televisione e spiegheranno a tutti perché

l’abbiamo fatto. Lo sapranno, loro. Siamo noi a non saperlo, eppure qualcosa ci spinge a farlo. Una

forza grande, enorme, più grande della paura.

Il treno passa a grande velocità in questo tratto. Corre sopra un terrapieno. Per arrivare alle rotaie

bisogna salire dei gradini. Il cuore batte forte, la salita è ripida, manca il respiro. Vedi quelle luci,

laggiù, e pensi che ci sarà qualcuno in quelle case e domani sarà intervistato dai giornalisti che gli

chiederanno se non ha visto niente. E i nostri amici diranno che non sapevano niente, come se non

ci conoscessero, come se non ci fossimo mai parlati, come se non sapessero di noi.

Stringimi, amore, ho paura di non farcela. Più forte, ancora più forte, facciamo presto. Il

macchinista non deve vederci. Possiamo ancora tornare indietro e tuffarci in discoteca in mezzo al

casino. Ridere come pazzi e ingoiare un paio di pastiglie per sballare un cervello che non vuol

saperne di darsi una calmata. Le tempie scoppiano. Ancora tre passi, forse quattro. Non si sente

niente. Un cane, lontano, comincia ad abbaiare. I cani sentono i rumori prima di noi e senz’altro ha

sentito qualcosa. Dev’essere il nostro treno. Ma ancora non si vede.

Quando irrompono i fari non c’è più tempo. Tocca a noi, dài, salta!

Cosa è stato, stanotte, che si è portato via due anime ancora bambine? Agli incidenti, ormai, siamo

abituati. Si tratta soltanto di sapere quanti sono stati questo fine settimana. Tanto che non

pubblicano più quelle sadiche fotografie di lamiere contorte imbrattate di sangue che una volta

piacevano così tanto ai direttori dei giornali. Ma questi! Questi non sono i soliti morti. Questi ci

urlano nelle orecchie e il loro urlo è straziante! Qualcuno dice che hanno trovato quello che

cercavano.

Il silenzio, finalmente.

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AMICI

Vi rivedrò tutti,

amici del mio tempo,

e vi abbraccerò forte.

Vi racconterò

cosa è stato qui

e della strada al fiume,

fonte della nostra

età di sole.

Del grande platano

con braccia larghe

ad accogliere il gioco

e indicare il passo.

Suonerò per voi

musiche nuove

dal sapore antico

e leggerò pagine

dei nostri poeti.

Ma anche vi dirò

di occhi falsi,

di mani ipocrite

sudate

nel molle saluto

del potere.

Di speranze sepolte

in villette a schiera

dai cancelli ringhianti.

Di stelle raminghe

perse nella notte,

come diceva

l’ignota canzone.

Abbracciandovi forte

tutto questo vi dirò,

amici del mio tempo.

(dal cd “Serenata a San Giovanni)

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VENTO DI SICILIA

Il vento di Sicilia ha portato echi di poeti greci e lente melodie lontane.

Nella nostra mente “moderna” nascono suoni e canzoni giunte dal tempio di Afrodite. Ecco il

syrtakis che incontra la milonga e la nuova musica che nasce diventa l’abbraccio degli oceani.

Basta una fisarmonica per superare barriere impossibili a storici e scienziati ed arrivare a percepire

l’anima del mondo.

Intanto la folla balla a passo di papera sulla propria miseria.

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L’ATTESA

Soffriamo di claustrofobia.

Prigionieri

su questo pianeta,

che sembra soltanto girare

e invece procede

inflessibile

sempre nella stessa direzione.

Non si può

tornare indietro,

si deve andare

sempre più in là.

Cerchiamo grandi spazi

ed impossibili silenzi,

qualche volta trovando

brandelli di libertà,

ma spariscono in fretta,

inghiottiti

dall’incalzare dei giorni.

Non si può

scegliere di nascere

e non si può

scegliere di non morire.

Come dire che le vere scelte

non ci appartengono.

Dobbiamo accontentarci

di sognare.

Inventando la Speranza

e prendendola per mano,

inventando la musica

e le amiche arti.

Aspettiamo insieme,

se volete.

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-----------INTERVISTA A UN BARBONE-----------

(da “Il Sentiero” – Ottobre 1990)

Se ne stava sdraiato in mezzo ai giardini, sotto la torre. Aveva passato la notte così, dentro un sacco

di juta, di quelli che non si vedono più in giro da tempo. Un paio di cespugli lo riparavano dalla

strada e filtravano i suoni, attutendoli.

C’era, infatti, un silenzio insolito per quell’ora del mattino, come se la convulsa vita di tutti i giorni

non riuscisse ad arrivare fino a lui. S’era appena svegliato e guardava il cielo, incuriosito, per

scoprire che cosa gli avrebbe riservato il giorno che stava per cominciare.

Alcuni oggetti sparsi vicino a quell’improvvisato giaciglio dovevano avere un motivo particolare

per partecipare a quella silenziosa assemblea. Una bicicletta senza catena, una valigia di cartone, un

fagotto di stoffa, un bastone, un paio di vecchi occhiali da sole di celluloide infilati nello spago che

teneva chiusa la valigia.

“Buon giorno!”

Mi accorgo di averlo spaventato e cerco di rimediare con un sorriso.

“Buon giorno”.

Risponde scrutandomi poco convinto. Poi fa: “E’ uno del Comune?”

“No, sono qui per parlare con lei”.

Si avvicina per osservarmi meglio e mi trovo al cospetto di uno sguardo intenso, penetrante, con

una luce che si può cogliere solo nelle persone che hanno raggiunto un equilibrio vero.

“No, non è un burocrate”, sentenzia, “le manca la faccia. E nemmeno un poliziotto, perché

non ne ha il fisico”.

“Grazie. Si tratta di un’inchiesta che sto facendo per un giornale. Ma lei, da come si

esprime, non sembra…”

“Un barbone, vuol dire? Guardi che si può diventare barboni anche per scelta, oltre che per

disgrazia. Mentre burocrati si diventa solo per disgrazia”.

“Cosa le hanno fatto?”

“A me niente. Ma si guardi attorno e veda i disastri che vanno combinando”.

La voce forte, chiara, di uno abituato a discutere e ad esprimere le proprie convinzioni con

fermezza. Continua:

“Che razza di giornale è il suo, se si occupa di gente come me? Guardi che è sulla strada

sbagliata. Non venderà niente e il suo capo la prenderà a calci”.

“Non ce l’ho un capo. Il giornale è fatto da un gruppo di amici e non per far soldi”.

Si mette in ginocchio sedendosi sui polpacci. Infila gli occhiali da sole come se fosse abbagliato. E

chiede:

“Vuol dirmi che c’è gente, in questo paese, che fa delle cose solo perché gli piace farle? E’

questo che vuol farmi credere?”

“Non voglio farle credere niente. Le dico le cose come stanno”.

“Allora non è un giornalista”. Ride, aggiungendo: “ma lei è proprio di questo paese?”

“Certo. Da almeno trecento anni. Documentato. Perché?”

“Perché quelli di questo paese non fanno le cose per niente. E non solo quelli, purtroppo.

Vede che è inutile venire a parlare con me. Non le sto dicendo niente di nuovo. A meno che, per

lei,non sia una novità sentir parlare di scalate ai posti dove ci sono posti da amministrare”.

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Tutto mi sarei aspettato, fuorché di sentirmi fare discorsi simili da un barbone. Gli chiedo il motivo

della sua scelta. Alza la faccia al cielo e apre le braccia:

“Amico mio, guardi lassù. Vede quelle nuvole? Come se la spassano nelle celesti praterie!”

Ritorna sulla terra e aggiunge:

E dietro quelle siepi, sente cosa c’è? Una dannatissima pestilenziale processione di motori

avvelenati. E dentro quelle bare di latta, sa chi c’è? Gente alienata, senza vita, senz’anima. La loro

speranza è quella di arrivare in attivo alla fine del mese per partecipare all’asta dei Bot, inventata da

altra gente ancora più schizofrenica che crede di essere eterna. Ma non hanno ancora capito che

siamo tutti in affitto, che di nostro non c’è un accidente di niente? Perfino il caldo raggio del sole e

la carezza fresca della luna ci spettano finchè dura l’usufrutto. E dovrei spendere tutto per i Bot e i

Ciccitì? No, amico mio. Io mi sono salvato e mi spiace per tutti voialtri”.

“Non c’era un altro modo?”

“Sì, molti altri, ma tutti rischiosi”. Ride ancora: “e comportano tutti l’obbedienza, cosa che

contrasta dannatamente con la libertà”.

“D’accordo. Però dovrà pur pensare a vivere” – azzardo.

“Non è il vivere che dà pensiero”. Si fa serio: “E il morire. Perché finisce la libertà. Vede,

amico, che anche quella ce l’abbiamo in prestito? E pensare che c’è chi la spende per comprare, ad

esempio, un posto di lavoro, una lottizzazione di terreni, perfino un loculo al cimitero. Mentre in

altri paesi si muore nel suo nome, qui viene degradata al servizio di correnti, come le chiamano

adesso. I latini erano circondati dai “clientes”, i neo-latini dai ruffiani. Ma fanno sempre parte della

stessa categoria”.

“Non è un po’ severo?”

“Severo, dice? Ma da quale angolo del Limbo spunta, lei? Per fare il mestiere bisogna

saperle, le cose. No, lei non è un giornalista!”

“Ha ragione. Non lo sono affatto. Però nemmeno lei è un barbone”.

“Anche questo è vero. Sono un’invenzione”.

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CODICI

E’ un ordine

e gli ordini

non si discutono. Perché?

E’ un dogma

e i dogmi

non si spiegano. Come le malattie?

E’ una legge

e le leggi

vanno rispettate. Come le opinioni?

Piantala!

Anarchico!

Blasfemo! No.

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SOPRA UN CUSCINO GIALLO

(in ricordo del Maestro Sprea)

Fu in una stanza opaca

dove giungeva voce

del giorno di mercato.

Dalla finestra l’argine

e una baracca

vestita di ramaglie

e fiori spinati.

Udiva cantilene

e bambini giocare,

vedeva ombre lunghe

salire le scale.

Aveva paura

e non parlava.

Pensava alle fate

e sentiva una mano

sui capelli.

Si ricordò degli angeli

e cominciò a pregare

nel modo che sapeva.

Col pensiero

ancora vivo

suonò tutta la notte

in attesa della luce.

Quando venne

lo trovò addormentato

sopra un cuscino giallo.

(dallo spettacolo “C’era una volta San Giovanni”- Luglio 2004)

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PREGHIERA BLASFEMA

La lunga

dritta

linea del tempo

che sembrava lontana

ora è qui

a ricordare.

Mentre piangono,

soffrono,

muoiono,

il sole ride

e dipinge fiori.

Vieni, musica,

regalo dell’artista

mio fratello.

Vieni

da chi ti ama.

Il cielo

e le sue stelle

non hanno bisogno di te.

La mia bestemmia

è una preghiera

al padre assente

e impassibile.

(dal cd “Serenata a San Giovanni”)

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UFFICIO POSTALE

Non ho mai capito perché le gente in fila dietro di me sia così interessata a quello che faccio. Per

pagare la bolletta devo prima trovare il portafoglio e poi tirar fuori i soldi. Se manca della moneta

devo cercarla nel portamonete di pelle che di solito tengo in un’altra tasca. Mi ci vogliono anche gli

occhiali perché le monete sono piccole e non riesco a distinguerle. La signora che fino a poco fa

spingeva delicatamente, adesso finge di parlare al telefonino:

“Non credo di fare in tempo. Qui non si muovono!”

So bene che sta parlando di me, ma non posso rispondere perché lei sembra parlare con qualcun

altro. Allora non dico niente e ci metto ancora più tempo a trovare le monetine e a firmare il modulo

perché la penna non scrive e devo cercarne un’altra.

“Ecco, prenda questa”. Anche l’impiegata allo sportello collabora perché la biro che mi allunga si

rompe passando sotto il vetro. La firma è un’impresa ma alla fine ci riesco.

“Ecco, signora, la sua pazienza ha vinto”. Quando voglio sono ironico. La risposta è un grugnito.

Chissà cosa farà oggi da mangiare.

Fuori c’è il sole e le panchine della piazza sono tutte occupate dagli anziani che hanno finito la fila

prima di me.

(da “Il nuovo lupo”-2005)

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UNA MOSTRA AL RICAMIFICIO

Sopra le scale,

accanto alla porta,

un orologio

fermo e storto.

A misurare,

finalmente,

il vero tempo.

Due bambini

ad ascoltare una maestra

e un vecchio a raccontare.

La campana,

fuori,

ha suonato.

Sembrava che sapesse.

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GABBIANO SPORCO

(in ricordo di un poeta barbone)

Se n’è andato

sputando tabacco

dentro un cappotto

saturo di fumo.

Bestemmiava alla luna

troppo chiara

che lo prendeva in giro.

Non aveva voglia

di guardare

l’acqua fredda e lontana

e nemmeno la gente

con i pacchi di plastica.

Voleva solo respirare

sulla pietra

più alta del ponte

con le braccia aperte al cielo.

Era un gabbiano sporco

e non sapeva volare.

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LA GRANDE PRATERIA-----------------

(da “Il Sentiero” – Settembre 1990)

In alcuni particolari momenti, e solo in quelli, si comprende che la nostra vita, come concentrazione

e limitazione di tempo e spazio, è un inganno continuo che distoglie dalle verità dell’infinito.

Eppure sono verità che ritornano ad imporsi ogni volta che le barriere del tempo e dello spazio si

aprono, mosse da energie misteriose, davanti ai nostri occhi increduli e affascinati. Momenti in cui

riusciamo a vedere bene come il prima e il dopo sono la stessa cosa e il dove è sempre davanti a noi

raccolto.

Il sentiero che s’insinua nel pascolo alto non conduce in un posto preciso, ma si confonde con la

prateria fino a farne parte e così, chi crede di seguirlo per la curiosità di vedere dove va a finire, ad

un certo punto si ferma perplesso perché si accorge di non star più percorrendo un itinerario, ma

vagando senza alcun punto di riferimento. E’ allora che si rende conto della verità. Come immerso

in un improvviso bagliore, sente di non essere più solo perché accanto a lui si vanno raccogliendo

tutti coloro che, nei vari spazi segnati da quello che convenzionalmente chiamiamo tempo, sono

passati-passano da quel non-sentiero.

Alcune grosse pietre, interrompendo il mare verde, testimoniano col loro silenzio millenario la

memoria universale. La loro verità è sempre la stessa e uomini di ogni epoca, di fronte a loro, hanno

fatto le stesse scoperte. Prima increduli e titubanti, poi sicuri d’aver capito e le loro verità resteranno

valide anche tra mille anni, quando altri uomini, perdendosi nel non-sentiero, scopriranno il non-

tempo e il non-spazio. O meglio scoprono, perché quei nostri antenati-futuri “sono” insieme a noi

sul monte, “sono” insieme a noi dovunque. Il monte, infatti, a diretto contatto col cielo, si dilata fino

a comprendere l’orizzonte che non è affatto un termine, ma la proiezione di un’immagine

primordiale.

Ecco perché, raccolti sulle simboliche pietre della nostra storia, ci troviamo tutti riuniti, quelli che

vivono e quelli che non vivono.

Tutto comprende, infatti, la Grande Prateria, anche la negazione. Quella, per capirci, di coloro che

credono di gestire un qualche potere sugli altri. Non comprendono l’ironia della pietra che non ride

mai e che raccoglie sorniona la polvere dei loro passi inutilmente frettolosi.Vivono ancora nel

tempo e nello spazio che è stato loro assegnato, senza ribellarsi. Anzi, sembrano far di tutto per

restringere sia l’uno sia l’altro creando ridicole barriere di ogni tipo.

Dovrebbero salire più spesso sulla Grande Prateria, in cima alla montagna. Vedrebbero da soli

quanto sono minuscole le loro case e assurdi i loro cancelli. Forse capirebbero che “vestito di

silenzio è il giorno che tutti gli altri contiene” e che la sua attesa è fatta di frammenti visibili solo ad

occhi che, quando si chiudono, guardano ancor meglio.

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FIORE NELLA PIETRA

Dove il sentiero

diventa prato

ecco le pietre.

Immobili.

Grandi.

Impassibili.

Memoria universale.

Silenzi millenari.

Dure da guardare.

Da una fessura,

un fiore.

Gigantesca sfida.

Senza radici,

senza terra,

senza cura.

Come farfalla,

per un solo giorno

vince.

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ANGELI

So che state aspettando.

Ancora un poco,

angeli miei,

ancora un poco.

Anch’io da tanto

aspetto una risposta.

Nessuna primavera,

nessuna estate

me l’ha data.

Nessuna domenica,

nessun lunedì

e nessun aprile.

A mezzanotte,

qualche volta,

quando accoglie la luna

la mia fisarmonica,

per un attimo immenso

vi sento,

angeli miei.

Come da sempre insieme

vi parlo

stringendo mani

di luce.

Fin che l’osceno camion

raccoglie i rifiuti

e disperde i sogni

nella discarica

di un altro

assurdo giorno.

(dal cd “Serenata a San Giovanni”)

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AUTORITA’

In Italia, per suonare in un luogo pubblico, bisogna pagare la Siae, mostro burocratico che divora

qualsiasi iniziativa spontanea. Se ad un gruppo di amici viene in mente di cantare accompagnati da

una chitarra, c’è il rischio che all’improvvisato chitarrista venga confiscata buona parte dello

stipendio del mese, ammesso che ne abbia uno. In Italia, se si suona dieci minuti dopo le ore undici

di sera, nel giro dei successivi dieci minuti possono arrivare i carabinieri, allertati

dall’immancabile nevrotico vicino.

Quando l’Italia era molto più povera ed ignorante, non era raro ascoltare, in piena notte, dolcissime

serenate. Non risulta che funzionari dello Stato prendessero provvedimenti. Il massimo che

rischiavano i romantici suonatori era beccarsi una doccia fuori programma, gentilmente offerta da

qualche scorbutico genitore di qualcuna delle ragazze destinatarie dei teneri messaggi d’amore.

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IL SILENZIO DEL CIELO

Non conosco parole

uguali al silenzio

del cielo.

Respiro del tempo

lontano

dal groviglio umano.

Nubi alte a mostrare

mondi dipinti

dal vecchio sole

che nessuna pietà

osa fermare.

Perenne inganno

di nuovi orizzonti

ancora in attesa.

Trombe di profeti

dai possenti annunci

a coprire

la dolce melodia

dell’albero di mele rosse.

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PANCHINE

Anche oggi c’è il sole e le panchine della piazza sono sempre occupate dagli anziani.

Ma oggi non è come al solito.

La campana, ieri, ha suonato ed oggi nel gruppo c’è una testa bianca in meno.

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STORIE

Quel che riva

el pianse disperà

come se ‘l savesse.

Ma quei darente

i ride

e i bate le mane.

Scomissia

‘na storia nova,

bela,

tuta difarente.

Piena de fiori,

de colori,

de amici contenti

che salta e core,

de aqua da spiansàr,

de foghi da tacàr,

de basi e caresse,

de cansonete alegre,

de maestre che no crìa.

De useleti che canta,

de cieli blu,

de morose inamorè.

Poco distante,

in silensio,

‘n’altra storia l’è finìa

e nissuni se nà ‘corto.

Epure anca quela

l’era stà ‘na bela storia.

Tanto,

tanto tempo prima.

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DIALETTO

Ecco che rispunta il dialetto. Come una rondine che torna e sa dove andare. Come un pensiero che

gira e gira fin che riconosce il posto, la gente e quindi il linguaggio.

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EL TEMPO

Par sbaglio

qualchedun

à desligà el tempo.

Come un spianssìso

l’è scapà

sbregando la luce

e i ani

che come sdinse

vegnèa su s-ciocàndo

da foghi ancora vivi.

Ci s’avèa tacà

ai ricordi

l’à ciapà ‘na scossa

che l’à fato

oltàr indrìo

e adesso no ‘l sa

cossa la sia

‘sta voia tuta nova

de cantar,

de ciapàr farfale.

Come se gnente

fusse stà,

come se fusse vera

che la gente te vol ben.

Come se fusse

ancora primavera.

Ci gavarà el coraio,

adesso,

de dirghe

che l’è finìa?

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AL PORTO

Nel posto dove

il canale torna fiume

giunge voce antica

di gente

senza orma alla vista.

Ma se al logico pensiero

sembra misterioso andare,

s’aprono alla musica

squarci d’intuito

chiari a questo sole

che lento ci accompagna

al rifugio di una notte

da tempo preparata

alla danza

di scintillanti stelle.

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UOMINI

Uomini,

che il lavoro

senza immaginazione

vi fa morti,

alzatevi!

La pietra

che chiudeva la vita

è rotolata via.

Rimanga ai banchieri

la conta.

Alzatevi,

uomini!

Siete vivi.

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FRATELLI

So bene che il tempo renderà queste parole inutile polvere. Ma so anche che basterà un solo

momento di una sola persona, un solo pensiero di uno qualsiasi dei miei fratelli per essere ancora

vivo e cioè per fare ancora parte di questo grande abbraccio che mi contiene assieme a tutti gli altri

esseri che non possono parlare e che sento così vicini.

Sono fratello di Gesù e della pietra del fiume, sono fratello di Francesco e del papavero

dell’argine, sono fratello di Maria e della luna, sono fratello di Krishnamurti, del poeta barbone e

del pescatore di perle.

Lo sappia chi conta i soldi per mestiere. Chi li conta per povertà lo sa già.

Lo sappiano quelli che s’inchinano, ma lo sappiano anche quelli che hanno inventato

l’inchino e la genuflessione.

Se io sono fratello di quelli, quali sono i fratelli di questi?

A rispondere dovrebbe essere il giusto ma, in questo mondo che mi tiene prigioniero, ho

conosciuto la bontà, la generosità e l’amore, mai la giustizia. Quella, infatti, esiste soltanto nel

nostro pensiero che non si rassegna al brutto se vede il bello, al malato se vede il sano, al piccolo se

vede il grande.

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FESTA CON FIORI

Era festa in strada

e c’era un ricco

circondato

da guardie del corpo.

Una ragazza

aveva per lui dei fiori,

ma non potè passare.

Tornò indietro

quasi schiacciata

e molti petali

volarono

sulla mia giacca.

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LA LEGGENDA DEL FIUME

(dalla rappresentazione al Porto di San Giovanni Lupatoto-Giugno e Settembre 2003)

In quel tempo questo posto era alquanto diverso da come si presenta oggi. Non c’erano gli

argini e il fiume scorreva libero nella campagna. Alcuni rami secondari circondavano il villaggio di

San Zuane Lovatoto il quale, essendo situato su un piano terrazzato, era al sicuro dalle inondazioni

che allora erano assai frequenti. Un braccio consistente passava anche da Ca’ dei Massi, così

chiamata dai sassi che rotolavano spinti dalla corrente. Oggi quella località ha preso un ridicolo

nome italianizzato: Camacici. Altri rivoletti scendevano verso Vallese, Palù e Zevio attraversando

la campagna di Palustrella e la Campagnola di Raldon. L’Adige era quindi padrone incontrastato

del territorio e gli abitanti dovevano stare ai suoi ordini. Poteva stare tranquillo per dei mesi e poi,

improvvisamente, scatenarsi con furia devastatrice. La gente lo sapeva e sopportava pazientemente,

ben sapendo che quella era comunque la sua ricchezza.

In questo posto c’era la capanna di un barcarolo che vi viveva assieme ai suoi sei figli,

quattro femmine e due maschi.La moglie era morta dando alla luce l’ultima bambina.

La famiglia viveva di pesca e del pedaggio che si faceva pagare il barcarolo trasportando i

viandanti da una parte all’altra del fiume. Il lavoro era discreto perché questi luoghi erano

frequentati da mercanti, soldati, frati e braccianti che andavano ovunque ci fosse del lavoro da fare.

Un giorno l’uomo dovette recarsi in città per acquistare un attrezzo e s’incamminò di buon

mattino per la stradicciola che costeggiava il fiume per arrivare fino alle porte di Verona. Prima di

andarsene, aveva salutato i figli con mille raccomandazioni di non avventurarsi in barca perché

certe nuvole sopra le montagne non promettevano niente di buono. I due giovanotti gli avevano

assicurato la loro sorveglianza e le ragazze avevano promesso che non avrebbero fatto sciocchezze.

Sembrava grande, quel giorno, il sole e deciso a voler accompagnare il mondo nel suo

meccanico girare. La mattina presto, per esempio, aveva illuminato in maniera discreta osservando

la natura mentre lentamente si svegliava. Poi s’è messo a scaldare un po’ di più per contribuire ad

accelerare il meccanismo che aveva messo in moto.

Ora troneggiava serafico proprio nel bel mezzo dell’azzurro, a segnalare che il giorno era

entrato nel suo segno affinché tutto si compisse.

Le colline erano ben disegnate, anche se alcune macchie scure le sovrastavano minacciose.

Dietro ai monti, poi, era tutto nero. In Trentino doveva piovere a dirotto. Un anziano contadino, in

campagna, spingeva senza fretta una carriola, accompagnato da un bambino che gli saltellava

intorno.

Sul fiume, vicino alla riva, l’acqua disegnava un mulinello gorgogliante che sembrava

vivere una sua vita e pronto a raccontare una sua storia. Alcuni rami di un cespuglio si allungavano

fino alla superficie contribuendo, con un cadenzato movimento, ad arricchire la già straordinaria

figura a spirale.

Dicono che il tempo è galantuomo, ma come può esserlo, se confonde tutto?

Questo, quando è stato? Ieri o duecento anni fa? Dev’essere ieri, perché intorno si sente

ancora lo stesso profumo. Il gioco del tempo stravolge i pensieri, confonde le situazioni, trasfigura

le immagini.

Bisogna riuscire a fermare quel mulinello. E’ lui che conduce il gioco e fa ritornare tutto al

punto di partenza per poi allontanarlo di nuovo.

Dov’è il passato, se tutto è così presente e attuale? E si vede già il futuro, perché se ne

percepiscono ovunque i segni.

Partito il padre, i due giovanotti si misero a zappare un pezzo di terra che stava dietro alla

capanna e le ragazze cominciarono a lavare dei panni in una piccola ansa nascosta dalle canne.

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Dopo un poco, ebbero l’idea di fare un giro in barca. Non c’erano mai andate da sole ed

avevano una gran voglia di libertà. Sole, in mezzo al fiume, sembravano padrone della vita e della

felicità. Non si erano accorte che nel frattempo i nuvoloni, si erano spostati dalle montagne ed ora

stavano lì, sopra le loro teste. Quando si accorsero del pericolo, era troppo tardi. Un’onda immensa

travolse la barca e il fiume le inghiottì in un attimo. Appena un grido sentirono i fratelli, un grido

soltanto e si gettarono in acqua a morire insieme.

Tutti.

Quella sera, la disperazione era la regina di questo posto.

Ci vuole coraggio per resistere al suo consiglio, ci vuole coraggio di fronte al fascino dei

tormenti, quando insegnano a stravolgere ogni gioia in malinconia, ogni nostalgia in rimpianto, ogni

speranza in ricordo.

Il dio del fiume ebbe pietà di quel padre ed uscì dalle acque per promettergli che i suoi figli

sarebbero vissuti ancora. Proprio lì, dove lui li aveva salutati per l’ultima volta.

Sono ancora qui, accanto a noi. Le quattro pioppe sono le figlie del barcarolo che hanno

assunto un’altra forma di vita e i due platani, forti e robusti, sono i figli maschi.

Appena dopo l’imbrunire, in questo posto magico, si sente parlare e qualche volta anche

cantare.

Ma per sentire, bisogna credere nella poesia.

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AUTUNNO IN LESSINIA

Prima del grande sonno

esplodono i colori.

Trema il pensiero

ingannato

da un cielo troppo sereno

che invita al volo.

Intorno a cadenti muri

dipinge la vigna

e il filare di ciliegi.

Sopra i prati

ancora verdi

deboli foglie

attendono fragili

il ritorno del vento.

I passi lenti

di un vecchio

dimenticato dalla storia

seguono il sentiero

che lo porta a casa.

Inutile aspettare.

Ormai è sera

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IL GRANDE PLATANO

(da “Il Sentiero” – Luglio 1988)

Accanto ad un ponticello sulla Contarina, proprio sul ciglio, s’ergeva maestoso il Grande

Platano. I lunghi rami sembravano abbracciare tutta la campagna, dall’Ausetto all’Adige, e le foglie

ombreggiavano un lungo tratto della stradicciola che, partendo dalla chiesa, conduceva fin

sull’argine, tra filari di alberi e spesse siepi che nascondevano alla vista le coltivazioni.

Ai lati del ponte, due muretti servivano da panca a chi passava da quelle parti e si voleva

riposare all’ombra, godendo anche della frescura di quell’acqua incredibilmente limpida, che

scorreva allegramente fra due argini erbosi. Ci si poteva accomodare anche sulle grosse radici,

accavallate ed attorcigliate in modo tale da fornire numerosi posti tanto accoglienti da potercisi

dormire.

In certe ore della giornata, subito dopo mezzogiorno e nel tardo pomeriggio prima del

tramonto, si poteva trovare, seduto su quelle radici, il vecchio col bastone. Impossibile dire quanti

anni avesse. La pelle rugosa assomigliava alla corteccia del platano, tanto da non poter distinguere

se si trattava di una persona o di un alto ramo dell’albero abbassatosi fin quasi a terra ad osservare il

mondo più da vicino.

Conosceva molte cose, quel vecchio. Raccontava di certi cavalieri passati in armi da quelle

parti e di carri con sopra personaggi strani che giravano il mondo cercando misteriose pietre. Storie

che sembravano riferirsi ad almeno cinque secoli addietro. Storie d’amore, anche. Gli luccicavano

gli occhi quando raccontava di quei due innamorati che erano scappati da casa per poter stare

insieme e si erano fermati proprio lì, dov’egli si trovava, a riposarsi e a scambiarsi tenere effusioni.

“Ci sa se i à catà un posto, chei fiòi. I era tanto strachi e i se volèa tanto ben”.

Ascoltandolo, più di una volta veniva il dubbio che a parlare non fosse lui, ma il Grande

Platano che tutto aveva visto, tutto aveva sentito, da molti, molti anni. Sembra incredibile ma,

quando il vecchio parlava, alcuni rami si muovevano in modo tale da dare l’impressione di voler

confermare le sue parole. Alla storia degli innamorati le foglie tremavano leggermente, con

dolcezza, come per farsi accarezzare dal vento. I movimenti del vecchio erano simili a quelli della

pianta. Quando si alzava, appoggiandosi a quel suo lungo bastone, sembrava che anche il platano

s’alzasse in piedi, perché i suoi rami si mettevano subito in movimento. In effetti, un venticello

leggero lo accompagnava quando decideva di andarsene. Guardava intorno e poi in alto come per

un saluto,poi s’incamminava, lentamente, nella sera.

Quando brillava la luna, le grosse radici assumevano, nell’ombra, sembianze umane, simili a

quelle di un vecchio inginocchiato a pregare. Qualcuno, lontano, intonava una nenia. Una serenata,

una ninna nanna, un canto liturgico. O tutto questo insieme.

Certamente non sapevano niente di tutto questo, quelli che un giorno commisero l’orribile

delitto. Credevano semplicemente di tagliare un albero e invece si macchiavano di un duplice

omicidio. Da quel giorno, infatti, il vecchio non si vide più.

Vengono i brividi, oggi, a passare di là. Sembra di sentire dei lamenti uscire dalla terra. E’ il

vento che passa sotto il ponte e s’incunea in quello che è rimasto delle vecchie radici.

Eppure, a volte, quei suoni assomigliano proprio a delle voci e, in certe sere d’estate, a

sussurri d’innamorati.

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PARLARE D’AMORE

Se davvero

vogliamo

parlare d’amore,

chiudiamo gli occhi

e ascoltiamo.

Sentiremo

la vita pulsare,

sentiremo

il respiro andare

e il cuore morire.

Una mano

sul viso

e il volo

di un pensiero

parleranno per noi,

se davvero

vogliamo

parlare d’amore.

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UNA SERA, NEL VIALE

(da “Il Sentiero”-Aprile 1989)

Ho visto un uomo, una sera, camminare solitario. Le mani dietro la schiena, il passo lento, lo

sguardo attento e carico d’interrogativi come se stesse cercando qualcosa e s’accorgesse d’avere

sbagliato strada. La solita lunga nauseante fila d’automobili con i fari accesi stava, come sempre,

ferma al semaforo e lo scrutava minacciosa. L’uomo ne era evidentemente infastidito, quasi

intimorito, ed alzò il bavero del cappotto come per proteggersi. Non faceva freddo eppure

l’atmosfera assurda di quel luogo metteva i brividi.

Dall’altra parte della strada giungeva un suono metallico che poteva anche assomigliare ad

un ritmo musicale, ma non si capiva bene perché era continuamente interrotto da una gracchiante ed

immatura voce umana che, in modo del tutto impertinente e beffardo, annunciava che da qualche

parte si vendeva non so che cosa e che tutti avrebbero fatto bene ad andarci.

Non aveva sbagliato strada, quell’uomo. Aveva sbagliato tempo. Cercava un viale alberato,

carico di luci, di suoni, di volti amici, ma non poteva trovarlo. Il posto era quello, non c’era alcun

dubbio: ne riconosceva la siepe che univa i filari dei platani, alcuni dei quali avevano dei segni

caratteristici ancora visibili; ricordava persino alcune buche della strada, e certi ciuffi d’erba

sembravano essere ancora quelli, orientati a mattino per cogliere i primi raggi del sole. Tutto,

insomma, stava al suo posto, ma l’uomo era solo nel viale alberato: accanto a lui non c’era più

nessuno.

Eppure lì era incominciata la sua vita come quella dei suoi amici e di tutte le altre persone

del paese. Era passeggiando per quel viale che aveva incontrato i primi sguardi, che aveva

scambiato le prime impacciate frasi. Ed era sempre lì che aveva imparato a conoscere la sua gente.

La domenica pomeriggio era una festa di suoni e di colori. “Nemo a far du passi sul vial”, si

diceva. E si ritrovavano tutti come ad un appuntamento mai fissato, ma conosciuto. La fine delle

“Funzioni” in chiesa era annunciata da un allegro concerto di campane che aveva anche il

significato del “rompete le righe”. Cominciava quindi un’incredibile sfilata alla quale nessuno

sapeva sottrarsi. I vecchi, che facevano fatica a camminare, si accomodavano sulle panchine

osservando attentamente l’evolversi della situazione. Le ragazze si riunivano in gruppi e

s’incamminavano tenendosi a braccetto in atteggiamento apparentemente difensivo ma carico di

messaggi, che i destinatari non sempre riuscivano a cogliere. Quanto a costoro, svolazzavano

attorno come rondini al calar del sole, ma i suoni che uscivano dalle loro bocche non

assomigliavano affatto al cinguettìo degli uccelli, impegnati com’erano a dimostrare la loro

incipiente, anche se incerta, virilità.

I vecchi sembravano pensare ad altro e, invece, osservandoli bene, si capiva che anche loro

partecipavano al gioco. Passando, si poteva infatti sentire qualche ironico commento

sull’abbigliamento e su altri particolari che potevano risvegliare in loro qualche lontano ma in

distruggibile ricordo. Per i bambini, poi, problemi non ce ne sono mai stati: loro e la baraonda

facevano tutt’uno.

Al calar della sera, ogni cosa assumeva contorni diversi e l’atmosfera diventava più pacata,

più serena. Sparivano alcune figure, come quelle dei bambini e dei vecchi, e ne comparivano altre.

Quella era l’ora delle coppie più mature che sembravano scegliere quei momenti per godere un po’

di tranquillità, dopo aver provveduto a sistemare ogni cosa al suo posto. Gli altoparlanti dei cinema

divulgavano romantiche canzoni e questo contribuiva a creare nuovi impulsi, nuova vitalità.

Questo era quanto andava cercando il nostro uomo, quella sera, e adesso sappiamo perché

non poteva trovarlo. E’ da tanto tempo, ormai, che “quel” viale non esiste più. Abbiamo ancora, è

vero, gli alberi, la siepe, le buche nell’asfalto, i ciuffi d’erba. Ma “quella” gente non c’è più,

inghiottita in un mondo nel quale non c’è più tempo né spazio.

Ecco perché alzava il bavero del cappotto, quell’uomo, quella sera. E perché si sentiva

impaurito da quella lunga minacciosa fila di fari senz’anima. Non riusciva a comprendere cos’era

accaduto, o meglio, lo capiva anche troppo bene ma non sapeva spiegarsi come e perché. Non era il

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semplice e naturale mutamento degli entusiasmi giovanili; era la consapevolezza della distruzione

di un mondo al posto del quale non era stato creato niente di umano.

Improvvisamente tutto cambiò. L’impertinente voce metallica dall’altra parte della strada

smise finalmente di gracchiare. Il semaforo diventò verde e i fari minacciosi si allontanarono.

Attraverso i rami dei platani s’intravvedeva adesso qualcosa che assomigliava ad un raggio di luna.

Da una casa vicina si levò alto e squillante il pianto di un bambino.

Non tutto era perduto.

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CRISTALLI

Ora che credi

finalmente

nella poesia,

guarda i cristalli

dipinti dal cielo.

Ma fai piano

perché si possono rompere.

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LA SOLITA VOGLIA

Adesso che sono andato avanti un po’, rispunta la solita voglia di buttar via tutto, come

sempre.

Perché? Già, perché!

Perché so che le parole sono scritte sull’acqua e non rimarrà niente. Allora interviene il

ragionamento: ma anche di tutto il resto non rimarrà niente. Dei cartellini timbrati, delle fatture,

degli estratti-conto delle banche, delle circolari, delle leggi, dei soldi, del sangue, delle ossa e degli

amici traditori.

E allora perché suoni? Che la tua musica dura ancora meno! E perché vai fin sopra al

cavalcavia a vedere il tramonto?

Non butto più via niente.

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QUELLI DELLA ROBA

Quelli che hanno tanta roba hanno anche il pensiero del testamento e chiamano l’avvocato

accanto al letto per gli ultimi consigli.

E il prete perché non si sa mai.

Non c’è niente da ridere.

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TORNA I POETI

Piàn.

Piàn.

Pantofole ai piè,

par no far rumòr,

a ris-cio de sbrissiàr,

torna i poeti.

I dise robe,

par che i vegna

da distante,

e i era sconti

dedrìo al muro,

spetàndo.

Adesso i torna

stufi

de star al scuro

guardando

crèssere gramegna

e stofegàr i fiori.

Fenghe posto

ai poeti

che ne consòla

e metèmo i àseni

al so posto.

In stala.

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LA POESIA

La poesia, o quello che è, ha un suo ciclo vitale come tutte le cose del mondo ed è soggetta

alla casualità degli eventi al pari delle persone che la creano.

Può nascere in un castello o in mezzo a un campo di polenta, può vivere da ricca in pagine

eleganti o campare da povera sopra un tavolo da osteria accompagnata dalla chitarra stonata di un

barbone. Può essere vestita di una lingua impeccabile o soltanto coperta dagli stracci di un dialetto

che nessuno vuole più indossare.

Può morire dimenticata in un’antologia e può essere cantata per secoli perché ha colpito il

cuore della gente.

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VI AMO PERCHE’

Vi amo, poeti

che fin qui

mi avete fatto

compagnia.

Vi amo perché.

Anche se avete

sognato soltanto

e nulla

spiegato mai,

vi amo, poeti,

vi amo perché.

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AD UNA CONFERENZA

Hanno detto

e intorno teste

facevano sì.

E’ triste

essere soli

a non capire.

Forse perché

ascoltavo con gli occhi

soltanto.

Mentre il pensiero

fuggiva

aggrappato al suono

della campana.

Domani il giornale.

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ALL’USCITA DA SCUOLA

Volano bambini

da scuola

verso teneri abbracci.

Sembra una casa

la piazza

colma di suoni

dove l’albero amico

apre i suoi rami

al gioco.

Sulla panchina un vecchio

guarda nel tempo

respirando piano.

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IN STABILIMENTO

Aveva 11 anni quando vide per la prima volta il viale delle magnolie. Le scuole erano

appena finite e doveva cominciare a lavorare “in stabilimento”. Era questo il nome con cui in paese

era conosciuto il cotonificio “Festi & Rasini”.

Doveva iniziare il turno alle cinque del mattino. Gli occhi non volevano saperne di stare

aperti e camminava come un automa. Arrivata all’inizio del viale, rimase incantata da quella

meraviglia. Un concerto di uccelli l’accolse e si fermò in mezzo al viale guardando in alto, fra gli

alberi. La torre del Lolo, in fondo, si ergeva maestosa sopra i capannoni e sorvegliava tutto severa e

imponente. Incuteva rispetto e timore, come un’autorità che controlla ma anche protegge.

“Descàntete, buteleta, che gh’è da nar a timbrar el cartelìn. A farte ciapàr usèi ghe pensèn

noantri!”

Non capiva le parole di quell’uomo grande e grosso che le aveva messo una mano sulla

spalla. Scappò di corsa verso un gruppo di donne che stavano per entrare in fabbrica. Erano appena

scese dalla carretta che veniva da Raldon e ridevano.

“Vegni qua che te spiego”, le disse un’anziana, ma quel giorno non capì niente. Non ci mise

molto, nei giorni successivi, a capire che quello che si annunciava come un paradiso, in realtà era un

luogo pieno di insidie. Oltre a lavorare dieci ore al giorno, bisognava difendersi dalle manacce dei

capi e di qualche compagno di lavoro. Ma bisognava lavorare perché a casa c’era bisogno. Sempre

sotto, ai Rini, agli Aspi e alle Rocche in mezzo al caldo e al fracasso, per poche lire. Le pulizie e le

ore straordinarie non venivano pagate e i capi non erano mai contenti.

In poco tempo era già grande, una donna, anche se aveva ancora tanta voglia di giocare. Ma

il suo tempo del gioco era finito presto.

Oggi i capannoni non ci sono più perché la fabbrica si è trasferita e non c’è più neanche la

torre. E’ stata abbattuta da speculatori mai sazi, nell’inerzia di politicanti avidi e codardi.

E’ rimasta soltanto una parte del viale delle magnolie e del parco. Sembra quasi un miracolo.

Gli uccelli cantano come allora, ma oggi hanno altre storie da raccontare.

(dallo spettacolo “Ai Cotoni” – Luglio 2003)

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NOTTURNO

In fondo

e oltre ancora

fari notturni

cercano

sotto grovigli

di stelle

una via.

Dalle finestre

di case quadrate

fumose luci

e gràcule voci.

Nel fondo nascosto

del giardino

accende la lucciola

intero un trifoglio.

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IL GRANDE SPIRITO

“Che cos’è la vita? Lo sfavillare di una lucciola nella notte, il respiro sbuffante di un bisonte

nell’inverno, la breve ombra che scorre sopra l’erba e si perde dentro il sole”. Questo diceva

tanti anni or sono Piede di Corvo, mio ideale fratello di sangue.

Noi viviamo in un posto molto lontano da quello dove viveva lui e molte lune sono trascorse

dal suo tempo, eppure le sue parole giungono ancora fresche nei nostri cuori. Come se le avesse

appena pronunciate. Perché la poesia è universale, dirà qualcuno, ed è la verità. Oppure perché

sentiamo ancora forte il bisogno di ascoltare la natura e anche questo è vero.

Ma non sarà anche perché il Grande Spirito che tutto comprende è dentro di noi?

(da “Il Nuovo Lupo” – 2004)

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DOVE

Non mi convince

il mistico

radioso paradiso

e disprezzo

lo stupido inferno.

Altri posti

dove andare immagino

e vedo il rischio

perenne di perdermi

nell’infinito niente.

Tra scribini giullanti

e molli unti burofanti

urlo ogni giorno

la mia libertà

e piango ogni sera

la parte che se ne va.

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FREDDO MATTINO

(canzone)

Freddo mattino lucente

dal sasso più alto del ponte

giungono voci lontane

come di liberi voli.

Volti coperti di nebbia

mandano segni incompresi

sopra dal ferro e dal muro

piovono croste di sabbia.

Sebbene ci fosse la voglia

non si può mai tornare

più oltre quella soglia

dove l’immagine appare.

E se ancora volesse qualcuno

provare a ricordare

dietro al campo di nessuno

vendono ancora buon vino.

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FARFALLE

Parevano farfalle

ed erano schegge

di vetro calpestate.

Da finestre dipinte

c’era un giorno

terrazza d’ombra

a raccontare.

Dopo l’estate

fu subito chiaro

che le farfalle

non c’erano più.

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IL TURNO DI NOTTE

Piovono ancora

confuse note

dal balcone gocciolante

dove torna

il passero a mangiare.

Staccandosi a turno

dal muro

battono un secchio di latta

come un tamburo.

E torna

la vecchia canzone

delle finestre chiuse

e dietro ai vetri

aspetti

il primo fanale

che guida la fila

del turno di notte.

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CHIAMALO AMORE

Quando voli nel pensiero

non esiste confine

e nessuna misura

di tempo.

Comprendi soltanto

d’appartenere

all’energia del cosmo.

Insieme al fiore di roccia,

alla danza del mare,

al grido del gabbiano.

Non chiamarla illusione

che non esiste

e nemmeno sogno

da dimenticare.

Chiamalo amore.

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ANCHE SE

Alla fine

ho vuotato le tasche

e non c’era più niente.

Sempre più lontani

la luna e il paese

come il profumo

di viole

perse nell’erba.

Quello che dovevo dire

l’ho detto.

Anche se.