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Leonardo G. Luccone | Oblique Studio 2009

Attraversare il velo senza romperloIntervista ad Alcìde Pierantozzi

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Attraversare il velo senza romperloIntervista ad Alcìde Pierantozzi

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perché la letteratura è anzituttoun luogo della mente. Credo peròche uno scrittore scelga i paesag-gi anche in base alle parole che liraccontano, e se si lascia illumi-nare dalla parola “palma”, alloraecco: nel suo libro ci sarannodelle splendide palme.

Beh, allora nel tuo immaginarionarrativo ci sono i serpenti, lebisce, preferibilmente in coppia,c’è un inventario di piante e ver-zure ricchissimo, c’è un singolareattaccamento ai lavori della terra– singolare per uno della tua età.Detta così, per chi non ti ha letto,ne viene fuori la descrizione di unnarratore agreste, e naturalmentenon è così. Ti ricordi, una delleprime cose che t’ho detto dopoaver letto Uno in diviso è che miricordavi Tozzi? Dimmi ancora di

Luccone: Alcìde, una delle cose che mi colpisce di più della tua scritturaè la capacità di riprodurre il tuo mondo – i Natali – in quasi tutti i pae-saggi della tua narrativa. È proprio la forza dei segni della terra dove seicresciuto a venir fuori prepotente e ingombrante e l’avviluppo di storieche devi aver vissuto lì a Colonnella, nella Vallecupa, un posto che misembra così strano e fantasmagorico, poche case sparse tra il mare, ilTronto e la montagna, tutto il marchigiano lì a due passi ma pur sempreAbruzzo, e un tessuto connettivo di storie, lingua dura e tradizione.Pierantozzi: La prima cosa che posso dire con certezza dei miei luoghi,è proprio che essi sono luoghi strani. L’Abruzzo del parco nazionale, oquello dei monti dannunziani dista molti chilometri da Colonnella – ilpaesino di tremila anime in cui sono cresciuto. Colonnella sorge sul maree davanti al fiume Tronto, ma anche le Marche di San Benedetto, chesono così vicine, sono in realtà assai lontane dalle Marche “alte” diPesaro, Ancona, Senigallia… Diciamo che sono cresciuto in una terra dimezzo, dove si parla una lingua dura e sguaiata, fatta di moltissime voca-li aperte. D’altronde se c’è una cosa che da sempre ossessiona la miascrittura, è proprio l’amore per i contrasti linguistici: mi riesce abbastan-za naturale mischiare elementi letterari con dettagli artificiali, alti e bassi,proprio perché vengo da questa zona di confine, dove la natura selvag-gia e il cemento dei grossi centri commerciali e delle fabbriche sembra-no convivere in una misteriosa sintonia. Non so fino a che punto un“luogo reale” possa condizionare la scrittura di un narratore, anche

«Questo, per me, è la letteratura: una bestia che si insinua nei luoghi più sottili e nascosti,dove l’occhio umano non può arrivare»

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questi animali e delle credenze che hanno popolatola tua infanzia e rispuntano ogniddove quando scri-vi. Ah, non ti dimenticare delle Paure.È vero. Ma forse per spiegare il motivo di queste scel-te immaginifiche dovrei partire da cosa è per me laletteratura, o meglio da cosa è la pianificazione dellasostanza letteraria, che nel mio caso tende da sempre(e ti assicuro che questa non è una scelta, ma proprioun’impossibilità a chiudere qualsiasi narrazione) aun’opera unica, con la grande ambizione di terminar-la in una sola pubblicazione: tutti i miei libri, fra cin-quant’anni, saranno un unico racconto, che porterànel titolo semplicemente il mio nome. O questo,almeno, è il sogno del sottoscritto. Non entro nellospecifico della questione, che magari affronteremopiù tardi con molta più esattezza (l’argomento è com-plessissimo), però, di fatto è iniziato tutto con unafrase chiarificatrice, che è l’incipit di Uno in diviso:“Furono i serpenti a rovinarmi la vita”. A dire il verouna frase poco meditata, gettata dall’inconscio. Inquesti due anni mi sono chiesto spesso perché sia par-tito da una immagine di questo tipo; e d’altronde,

prima di Uno in diviso, io mi ero occupato solo dicritica letteraria e avevo scritto qualche pessima poe-sia: non avevo che una preparazione teorica rispettoalla letteratura, il che voleva dire non essere ancorauno scrittore. Chiaramente il serpente, che tornaanche nell’Uomo e il suo amore e in Casamatta (eche è sempre in coppia: ma non saprei dirti perché)altro non è che un simbolo dell’inesplicabile, oltreche una chiara missiva metafisica: questo, per me, è laletteratura: una bestia che si insinua nei luoghi piùsottili e nascosti, dove l’occhio umano non può arri-vare. Il serpente è l’elemento che attraversa il velo;anzi, esso si lascia avvolgere dal velo – ma questoanche l’insetto, il topolino, il verme – senza squarciar-lo, e ora che procedo nella conversazione mi rendoconto che queste sono in fondo le intenzioni della let-teratura assoluta, da Omero fino a Kafka: entraresotto il velo che copre le cose senza rompere il velo.Per rompere il velo, che poi altro non è che la realtàstessa, intervengono condizioni diverse dell’umano,spesso fallaci nella loro grandezza, quali possonoessere la scienza, la pedagogia, e la filosofia. Maanche questo lo affronterei più tardi. Quanto allacampagna, di sicuro sono stato influenzato dal terri-torio di cui parlavamo, sebbene le mie scelte linguisti-che vadano certamente verso una contaminazioneagreste, ma anche verso una morfosintassi voluta-mente “di norma”, e che quindi non si ripiega mai aidialetti o ai vernacoli (che comunque io apprezzomoltissimo). D’altronde, benché possa sembrarefuorviante, esiste un genere di letteratura ben precisoper indicare questo modo di procedere, ed è appun-to il genere maccheronico. Probabilmente c’è unavenatura maccaronica in quello che scrivo, ed essatestimonia il debito che ho verso lo scrittore italianoche più ho amato, il più grande che abbiamo avuto,vale a dire Gadda. Che poi la mia infanzia sia statapopolata di mostri, perché la campagna ha di magni-fico la metamorfosi, e se di giorno è un luogo lumino-so e infinito, di notte diventa un luogo spaventoso –se appunto sia stata popolata di mostri ha un’impor-tanza relativa. Solo il gusto per l’orrorifico, per certitoni gotici, nonché per il sangue e per le viscere, vienetutto dalla mia terra. Ma è un orrore ben lontanodalla violenza. Il termine violenza non mi appartiene,perché esso può riguardare soltanto un uomo di città,anzi un illetterato di città. Di fatto se la violenza è una

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«La cosiddetta spontaneità non ha niente a che vedere con la letteratura,

e se è una spontaneità di ripiego non può che rivelarsi una spontaneità molto goffa»

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effrazione o forzatura degli istinti: nella scienza, nellareligione, nella filosofia; se è questo, la campagna e laletteratura vanno di pari passo proprio nell’anti-vio-lenza; entrambe si rifiutano di squarciare il velo –lasciando che esso resti ciò che è – né lo forzano inqualche modo: semplicemente lo attraversano.

Perché non avere “una preparazione teorica rispettoalla letteratura” vuol dire non essere uno scrittore?È un’affermazione molto forte, sai quanti scrittorinon sarebbero più scrittori e quanti cominceranno adire che la scrittura è spontaneità, ispirazione blablacip cip e che ci sono esempi di grandissimi scrittorisenza alcuna preparazione d’alcun tipo (bisognereb-be però fare i nomi), figuriamoci se teorica.Quali? Sapresti indicarmi un solo grandissimo scrit-tore che non abbia una buona preparazione teorica?Certamente sono possibili alcune lacune conoscitiveanche in uno scrittore di ottima statura, quali peresempio il senso di una analogia corretta e della lin-guistica (oltre a tutte le questioni strutturalisticheimposte dall’accademia), oppure l’ordine nella sceltadelle letture, perché chiaramente la preparazione diuno scrittore ruota attorno alla sua scrittura, e maiattorno a un gusto generale della conoscenza. Ma aquesto punto bisogna chiedersi cosa intendiamo perpreparazione teorica. Io intendo in primo luogo unaconoscenza almeno discreta delle letterature europeeottocentesca e novecentesca, con almeno un paio diaffondi – che possiamo chiamare amori – per un paiodi autori (e che sia Kafka o Dostoevskij, poco impor-ta), e successivamente una conoscenza ottimale dellestrutture sintattiche, lessicali della lingua che si parlae scrive, cui si aggiunge lo studio di quello che a mioparere è il fondamento di un testo, ossia il tono.Fondamentale è l’interesse per i dialetti. Ma a questopunto, tornando alla questione dei due amori, chiun-que ami Kafka non può non amare Henry James, echi ama Henry James può forse non interessarsi aLandolfi? C’è amante di Landolfi che non tremi difronte alla prosa di Manganelli? E se prima abbiamoamato Henry James, come possiamo non leggere ilPoe tradotto da Manganelli? Chiaramente Manga-nelli ci riconduce a Gadda… Accanto a Gadda cisono Pasolini, c’è Arbasino, c’è Busi. Vedi, è così cheavviene il più grande miracolo della cultura umana!Ma a questo punto, se il lettore è in primo luogo

scrittore (perché essere scrittori è da sempre e persempre, trattandosi di un miracolo metafisico), comepuò esso scrittore non approfondire l’amore perquesti altri scrittori anche attraverso lo studio critico:leggendo Emilio Cecchi, Cesare Garboli, DanteIsella, Pietro Citati, Praz e Contini? (Poi, dalla criti-ca, in un attimo si finisce nella filosofia). Davantiall’amore che questi critici mostrano per i testi affron-tati – perché se c’è un elemento che su tutti caratte-rizza una buona critica, questo è senz’altro l’amoreper la letteratura, che è sempre un amore infinito – loscrittore non pretenderà forse la traduzione migliore?Assolutamente sì; e questo è un problema che inItalia si fa sentire moltissimo, perché le buone tradu-zioni appartengono solo all’Adelphi e alla Garzanti,sebbene con le dovute eccezioni, e per il resto ci tro-viamo di fronte testi illeggibili, sconnessi, malconci,sbrindellati e stonati. Allora arriverà l’amore perl’editoria, e questo amore per l’editoria spingerà loscrittore a cercare libri sempre più rari – dunque sidedicherà al collezionismo. Ecco, questo per mesignifica prepararsi alla letteratura: per la quale ci sidovrebbe preparare come per la morte: con assolutoterrore, e altrettanto assoluto abbandono. Chi nonpretende tutto questo dalla letteratura, non solo nonè uno scrittore, perché appunto non possiede l’amo-re, né di fatto l’aspirazione al coraggio che viene forsepiù dai grandi libri che dalla vita “reale”, ma è ancheun cattivo lettore – il che è peggio. La cosiddettaspontaneità non ha niente a che vedere con la lettera-tura, e se è una spontaneità di ripiego non può cherivelarsi una spontaneità molto goffa, di cui le paginedi molti libri sono piene zeppe e di fronte alla qualeil buon lettore getta immediatamente la spugna, dopopoche righe. Non ho mai creduto all’ispirazione, cheanche per Baudelaire era uno stato di infinita concen-trazione e nient’altro, cosa ben diversa dallo scribac-chiare versi melensi in riva al mare. E d’altronde, sepure l’ispirazione esistesse, il grande scrittore dovreb-be trattarla in modo molto strano, accogliendola erespingendola al tempo stesso. Credo che se l’amoreper la letteratura è assoluto, lo scrittore possa passaresopra a molti sacrifici, primo fra tutti il sacrificio eco-nomico – perché i libri, “molti” libri costano –, e poiil sacrificio di un tavolo duro al quale appoggiarsi perlavorare, ore ed ore, oltre che una dose massiccia dicaffè per tenersi svegli durante la notte.

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La realtà purtroppo è fatta da ciò che dovrebbe esse-re letto e amato e che non è né letto né amato.Gadda lo leggono pochissimi, pochissimi potrebbe-ro raccontarti cosa succede nella Cognizione deldolore, quasi nessuno sa chi è Mattioni, o cosa hafatto Niccolò Gallo. Anche i miei scrittori angloame-ricani preferiti non è che se la passino meglio:Moody vende in Italia qualche migliaio di copiequando va bene e capolavori come Rosso americanoo Il velo nero si trovano solo via internet, DeLillo ePynchon si trovano quel tanto, anzi quel poco, danon far gridare allo scandalo ma da quando mi sonoperso la mia copia dell’Arcobaleno della gravità – èun bel po’ di tempo ormai – non riesco più a trovar-lo in libreria. La critica? Mamma mia. Dove sono iPaolo Milano, i Grazia Cherchi, i Geno Pampaloni,i Cesare Garboli dei nostri giorni? Ho trovato paz-zesco il vuoto che c’è stato intorno al tuo L’uomo eil suo amore. Un silenzio di tomba. E pensare cheUno in diviso aveva avuto una quarantina di pezzi.Cosa è successo secondo te? Perché Uno in diviso èstato così esaltato? E perché L’uomo e il suo amorenon è stato affrontato?Iniziamo da Gadda. Iniziamo dallo scrittore immensoche è stato Gadda, più immenso di Calvino, probabil-mente il più grande scrittore italiano dopo Manzoni.Chiaramente Gadda non è uno scrittore facile, né lasua grandezza è una grandezza geometrica come quel-la di Kafka. Ho avanzato un paragone con Calvinoproprio perché quest’ultimo aveva nei confronti diGadda le perplessità che in genere nutre il criticoverso lo scrittore, e non quelle che ha lo scrittore peri suoi colleghi (aggiungo anche che non c’è letteratu-ra, senza perplessità): troviamo da una parte un uomocauto, ironico, consapevolissimo di essere uno scritto-re, ma anche di esserlo per volontà altrui: per volontàdi quella Italia: oggi Calvino non avrebbe alcun suc-cesso; e dall’altra si muove a fatica un omone bizzar-ro, ingegnere di professione, capito esclusivamentedai giovani intellettuali, che a un certo punto si inven-ta una lingua, accumula, ammassa: uccide il nichili-smo del novecento, e inserisce la metafisica nella lin-gua. Quando penso a quello che ha fatto Gadda, micommuovo. Io sono convinto che la leggerezza di cuiparla Calvino nelle Lezioni, per esempio, e che moltisostengono mancare a qualsiasi cosa io abbia scrittofinora (chiaramente non azzardo nessun genere di

paragone con questi scrittori), sia in realtà la leggerez-za di Gadda. Non c’è niente di più leggerodell’Adalgisa, almeno per come Calvino intende l’ag-gettivo leggero, cioè per la dissoluzione della materia.Quello che in Gadda è un apparato di complicazionemorfosintattica (ma attenzione, perché la nostra lin-gua è quella lingua, e non quella di Vittorini o Levi) siaggiunge a una rielaborazione dei dialetti che si nutredi una ulteriore componente, ben più importanterispetto alla leggerezza, ossia la frivolezza. Gadda erafrivolo, presuntuoso, trascendente, basso: per questoè stato uno scrittore immenso. Quanto a Mattioni, saidi toccare un nervo scoperto. Mattioni è per me unoscrittore dalla levatura indescrivibile, quale sono statiGadda e Landolfi in capacità linguistiche e affondimetafisici, e pari alla Ortese per l’incanto. Parlaredell’Uomo e il suo amore dopo essermi riferito aquesti grandi autori è quasi oltraggioso, ma sul per-ché sia stato così poco affrontato – anzi, per nienteaffrontato, perché i pezzi che sono usciti non nehanno compreso che la natura marginale – mi inte-ressa davvero poco: posso attribuire il silenzio a unaragione molto semplice: il libro non è stato letto per

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l’eccessiva lunghezza, cui si aggiunge la giovane etàdel suo autore. La conseguenza è questa: è giovane,cosa avrà da dire in mille pagine? Qui si entra in undiscorso complesso, se la letteratura ha a che vederecon la vita esteriore. Sì o no? La mia risposta è un nocategorico. Uno in diviso era un romanzetto breve,scottante, non dava nemmeno fastidio a nessuno per-ché era uscito in piccola tiratura con un piccolo edi-tore, quindi è iniziato il toto-futuro dei pubblicisti(quello di critico è un appellativo che oggi lascio soloa Pietro Citati ed Emanuele Trevi, e pochissimialtri): che cosa farà? Dove andrà? Il caso dell’Uomoe il suo amore è stato diverso, il libro è uscito conRizzoli in una tiratura abbastanza alta, ma d’altrondeche cosa avrebbero potuto dire? Come si fa a critica-re un libro così? E non perché sia un libro bello o riu-scito, per carità, ma L’Uomo e il suo amore è un libroche serve per creare un silenzio, e se avessi pubblica-to mille pagine bianche sarebbe stata la stessa cosa.Ho avuto quello che mi interessava, la conferma di

Emanuele Severino, Trevi, uno splendido pezzo delfilosofo Elio Matassi, ma per il resto – tutta quella sfil-za di segnalazioni sui vari settimanali, non solo non miinteressano, ma mi infastidiscono anche. Io non credoche tutti i libri vadano discussi e chiacchierati, tanto-meno letti, ci sono libri che hanno la loro grandezzanel silenzio che creano dopo le prime dieci pagine.Chiaramente è un silenzio attorno al cuore del roman-zo, cioè attorno alla sua natura più vera, perché la let-teratura è sempre il silenzio della perplessità e dellariflessione, e mai può essere letteratura se porta con-ferma di qualcosa a chi legge. Poi, del contorno siparla, come si è parlato dell’Uomo e il suo amore, mache importanza può avere? Hai mai letto i libri cherecensiscono i giornalisti? Passano da Pulsatilla adArbasino come se fossero la stessa cosa! Chiamano“gratuito” ogni eccesso, come se la letteratura potesseessere non-gratuita; definiscono “autocompiaciuta”

qualsiasi lingua che esondi dalla mezza dozzina di ter-mini che conoscono, come se la letteratura non fosse diper sé, da sempre e per sempre, solo ed esclusivamen-te autocoscienza. Parlano di “troppa carne al fuoco”quando sentono il pensiero (e guai a chi non parli diquello che conosce molto bene, e da vicino), come seun libro potesse comporsi di un paio di argomentuc-ci, e non di mille, duemila vortici che si incrociano eilluminano a vicenda come stelle binarie. Parlano di“noia” e “complessità” e, colmo dei colmi, qualcunoha mai pensato che queste cose si chiamano tono eritmo? Parlano di personaggi poco reali, perchéhanno una visione della letteratura come mero reso-conto della realtà. Tutto questo è schifoso. E comun-que una recensione non fa vendere che tre o quattrocopie in più all’editore, e dal punto di vista commer-ciale di fatto non smuove nulla. Ma se proprio devodirla tutta, io non scrivo nemmeno per essere letto.Amo troppo intensamente la letteratura assoluta perpoter accettare le sciocchezze che scrivo.

Senti qui: “Everybody called him Don Ciccio bynow. He was Officer Francesco Ingravallo, assignedto homicide; one of the youngest and, God knowswhy, most envied officials of the detective section:ubiquitous as the occasion required, omnipresent inall tenebrous matters. Of medium height, ratherrotund as to physique, or perhaps a bit squat, withblack hair, thick and curly, which sprang forth fromhis forehead at the halfway point, as if to shelter histwo metaphysical knobs from the fine Italian sun,he had a somnolent look, a heavy, lumbering walk,a slightly dull manner, like a person fighting a labo-rious digestion; dressed as well as his slender gover-nment salary allowed him to dress, with one or twolittle stains of olive oil on his lapel, almost imper-ceptible however, like a souvenir of the hills of hisMolise”. L’avrai riconosciuto. È l’incipit di Querpasticciaccio brutto de via Merulana nella versione

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«Ma se proprio devo dirla tutta, io non scrivo nemmeno per essere letto. Amo troppo intensamente la letteratura assoluta per poter accettare le sciocchezze che scrivo»

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americana tradotta da uno dei più importanti e sto-rici traduttori dall’italiano William Weaver. Beh, daquanto leggi sembra che lui non abbia capito nulla(o abbia deciso di restituirlo così come attestazionedi sconfitta?) di Gadda. Eppure è uno che ha tradot-to quasi tutto Eco, Calvino, Bassani e molti altri.Cos’è per te la comprensione di un testo? Quandocapisci che un lettore o un critico ha afferrato e gli

rimane quello che volevi dire? Raccontami qualchecaso.Beh, chiaramente tradurre Gadda è molto diverso daltradurre Calvino o Bassani. Ad ogni modo non credoneanche che quella di Weaver sia stata una attestazio-ne di sconfitta; il problema è che la lingua inglese haun altro tono rispetto alla nostra, ed è un tono colquale è letteralmente impossibile tradurre Gadda (o

Manganelli, o Bufalino), ameno che il traduttore nonriscriva il libro. La questione èun’altra: certa letteratura èintraducibile, e andrebbe lettasolo in originale. Poi è anchevero che c’è molta letteraturache può e deve essere tradottameglio, per esempio quellafrancese o quella russa. Maquesto dipende dal talento deltraduttore, che sempre deverestituire il tono originale deltesto, ben sapendo che la resain italiano dovrà comunqueessere ineccepibile sotto i pianisintattici, lessicali e strutturali.Penso a un autore che amomolto, Jean Echenoz, a miogiudizio tradotto in modo sba-gliato da Canobbio perEinaudi, e tradotto meraviglio-samente da Pinotti perAdelphi. Ma la bellezza dellatraduzione di Pinotti sta sem-plicemente nella sua capacitàdi restituire al testo la musicali-tà della versione francese, cui siaggiunge un’eleganza formalemai ostentata, e sempre tratte-nuta. Quello del traduttore èun mestiere difficilissimo e sot-tovalutato. Trovo inconcepibi-le che si parli sempre di editor,che di fatto non servono anulla, e mai di traduttori –quando è chiaro a tutti che leg-giamo la maggior parte dei librisulla loro fiducia.

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Concordo sul fatto che dei traduttori si parla troppopoco. Secondo me meritano di andare in copertina.Sugli editor però esageri. Ce ne sono di bravi e silen-ziosi. Un esempio è Cristina Tizian che ti ha lancia-to. Perché una buona volta non racconti come seiarrivato al sì per la pubblicazione della tua operad’esordio? Mi pare di non averlo mai letto da nessu-na parte.D’accordo, forse ho parlato in modo un po’ precipi-toso. È vero che ci sono editor bravissimi, io stesso,almeno per quella che è la mia esperienza, ho incon-trato degli ottimi professionisti. Però voglio anchedire che la figura dell’editor, così come viene raccon-tata, sta avendo negli ultimi anni un’importanza fuoriluogo. Un editor è necessario nella misura in cui ilromanzo da lavorare è già “quasi” perfetto, e non perscriverlo insieme all’autore. Perché nessuno scrittorelascerebbe mettere le mani sul proprio lavoro da untecnico, fatte salve le dovute eccezioni: errori logici,strafalcioni, cadute di tono. Invece io sento in girostorie raccapriccianti di romanzi interamente riscritti,che poi non sono nemmeno riscritti bene. Eppure c’èsempre più questo vecchio adagio negli ambienti edi-toriali, “è bravo, ma abbiamo dovuto rifare tutto”.Ennò, se avete dovuto rifare tutto vuol dire che è unasino, mi verrebbe da dire. È letteralmente impossibi-le entrare nel tono di uno scrittore e modificarlo, ilche non significa che non siano ben accetti i consiglidi un occhio esterno, anzi. Ma per me l’editor idealeresta fondamentalmente un amico con cui parlare diletteratura. Quel che è successo a me con CristinaTizian. L’ho incontrata nel 2005 alla fiera della picco-la editoria di Roma, lei era reduce della sua esperien-za alla PeQuod di Ancona e stava per aprire unanuova collana di narrativa. Io avevo diciannove anni,avevo nello zaino le prime tre pagine di Uno in diviso.Le leggemmo insieme e lei decise di pubblicarlo così,su due piedi. Il libro uscì in maggio, a giugno mi chia-marono, tra le altre, Einaudi, Rizzoli e Mondadori.Mi ha salvato Piergiorgio Nicolazzini, il mio agente,senza il quale sarei stato così risucchiato dalle que-stioni editoriali da non avere più né la voglia né laforza di scrivere il mio secondo libro.

Quindi tu all’improvviso ti sei trovato nel magicomondo dell’editoria…

Sì, all’improvviso. Ero al primo anno di filosofia,avevo tante idee da mettere su carta. Un giorno,mentre ero in treno, osservai un ragazzo seduto difronte a me che aveva appoggiato la testa contro ilvetro del finestrino. Nel guardare lui e il suo rifles-so ebbi la folgorazione: da lì nacquero i due gemel-li siamesi. Per il mio manoscritto non c’è stato ilclassico percorso che di solito deve seguire l’operadi un esordiente. L’avere trovato un editor validocome Cristina è stato d’aiuto, essenziale. Lei mi haseguito, guidato. Tuttavia il romanzo non è statoscritto di getto: contiene tutte le mie ossessioni diallora, e in un certo senso è un libro che ora rinne-go, è un libro che non riscriverei così o comunquene cambierei molte parti. Sicuramente le ragioni sucui poggia sono metafisiche, a cominciare dalloscopo del libro: doveva essere un romanzo sullaviolenza. Violenza che per me significa forzare lanatura. Quanto a questo, la Tizian è stata bravissi-ma a capirlo e anzi è stata irremovibile sul fatto cheil libro doveva essere lasciato così com’era: non c’èstato alcun lavoro di editing, se non per qualchemodifica minima. È un libro che è stato molto elo-giato, ma laddove ci sono state delle piccole criti-che non erano mai sulle parti violente. D’altrondeè chiaro che la situazione violenta così come vienedescritta è grottesca, irreale: fin dalla prima rigatutto è esagerato, i personaggi devono essere vistiin maniera distaccata, come fossero insetti che simuovono senza destare particolare interesse. Tuttociò che c’è davvero di importante è il messaggiomistico che si cela ovunque, nei simboli (la y deigemelli, la x delle ragazze, l’Ouroboro…). Si puòdire che sia un libro privo di ironia: certo sarebbebastato aggiungere un dettaglio diverso per farlodiventare più leggero, per mostrare la scena sottoun altro punto di vista, ma non era questo il suoobiettivo.

Facciamo un gioco. Quali dei libri che di solito tuttileggono o molti consigliano di leggere tu sconsigli?Non so, in genere detesto i libri che piacciono allacritica. Non mi piacciono McCarthy né Houllebecq,per fare due nomi che non c’entrano nulla l’uno conl’altro, ma che hanno in comune l’approvazionegenerale.

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