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COMPRENDERE IL MONDO

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Immanuel Wallerstein

Comprendereil mondo

Introduzione all’analisidei sistemi-mondo

Asterios EditoreTrieste

Traduzione di Marina Errico

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Prima edizione: settembre 2006Seconda edizione: gennaio 2013

© Immanuel WallersteinTitolo originale: World-Systems Analysis: An Introduction

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ISBN: 978-88-95146-75-1

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Indice

Ringraziamenti, 11Per iniziare. Comprendere il mondo in cui viviamo, 13

Capitolo 1Le origini storiche dell’analisi dei sistemi-mondo

Capitolo 2Il sistema-mondo moderno come economia-mondo capitalistica.

Produzione, plusvalore e polarizzazione, 47 Capitolo 3

L’ascesa del sistema degli stati. Stati-nazione sovrani, coloniee sistema interstatale, 73

Capitolo 4La creazione di una geocultura. Ideologie, movimenti sociali, scienza sociale, 97

Capitolo 5La crisi del sistema-mondo moderno. Biforcazione, caos e alternative, 117

Glossario, 137Guida bibliografica, 157

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Ringraziamenti

Quando ho deciso di scrivere questo libro, ho ricevuto da partedell’Universidad Internacional Menéndez Pelayo di Santander, inSpagna, un invito a tenere un corso estivo della durata di una set-timana sulla “analisi dei sistemi-mondo”. Il corso si articolava incinque lezioni. I partecipanti erano per buona parte dottorandi egiovani membri di facoltà di università spagnole, perlopiù relati-vamente a digiuno di “analisi dei sistemi-mondo”. Erano circauna quarantina. Ho colto allora l’occasione per proporre unaprima versione dei cinque capitoli di questo libro. E ho beneficia-to delle osservazioni che hanno espresso. Li ringrazio.Quando ho completato la prima stesura di questo libro, ho

chiesto a quattro amici di leggerlo e giudicarlo criticamente.Questi amici sono persone di cui rispetto il giudizio come letto-ri e l’esperienza come docenti. Ma il loro coinvolgimento e laloro adesione all’analisi dei sistemi-mondo erano diversi.Speravo dunque di ricevere una gamma di reazioni, e così èstato. Come accade nel caso di esercizi di questo genere, li rin-grazio per avermi salvato da stravaganze e passaggi poco chia-ri. Mi hanno offerto alcuni saggi suggerimenti, che ho fattomiei. Ma ovviamente ho perseverato nella mia idea di qualegenere di libro ritenessi più utile scrivere, e questi miei amicisono dunque, come sempre, sollevati da ogni responsabilità peraver ignorato alcuni dei loro consigli. E tuttavia il libro è miglio-re grazie all’attenta lettura di Kai Erikson, Walter Goldfrank,Charles Lemert e Peter Taylor.

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Per iniziare. Comprendere il mondo in cui viviamo

I media, e invero gli scienziati sociali, ci ripetono continuamen-te che sono due le cose che, a partire dagli ultimi decenni delventesimo secolo, dominano il mondo in cui viviamo: la globa-lizzazione e il terrorismo. Entrambi ci vengono presentati comefenomeni sostanzialmente nuovi – il primo carico di grandisperanze, il secondo di terribili pericoli. E il governo degli StatiUniti sembra giocare un ruolo cruciale nel promuovere l’uno enel combattere l’altro. Ma ovviamente queste realtà sono realtàglobali, e non solo americane. A ispirare buona parte di questaanalisi è lo slogan che fu di Margaret Thatcher, primo ministrobritannico dal 1979 al 1990: TINA (There Is No Alternative – nonc’è nessuna alternativa). Ci viene detto che non vi è alcunaalternativa alla globalizzazione, alle cui esigenze tutti i governidevono piegarsi. E ci viene detto che non vi è alcuna alternati-va, se intendiamo sopravvivere, all’annientamento impietosodel terrorismo in tutte le sue forme.Questo non è un quadro falso, ma è un quadro molto parzia-

le. Se guardiamo alla globalizzazione e al terrorismo come afenomeni circoscritti nel tempo e nella portata, tenderemo agiungere alla conclusione che si tratti di fenomeni effimeriquanto i giornali. Nel complesso, non saremo allora in grado dicomprendere il significato di questi fenomeni, le loro origini, laloro traiettoria e, cosa più importante, la loro collocazione nelpiù ampio schema delle cose. Tenderemo a ignorarne la storia.Saremo incapaci di ricomporre il quadro, e resteremo regolar-mente sorpresi dal fatto che le nostre aspettative di breve ter-mine saranno disattese.Quanti, negli anni Ottanta, si attendevano che l’Unione

Sovietica sarebbe crollata in maniera così rapida e incruenta,

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come è poi avvenuto? E quanti, nel 2001, si attendevano che illeader di un movimento di cui pochi avevano sentito parlare, al-Qaeda, potesse attaccare così sfrontatamente, l’11 settembre, leTwin Towers di New York e il Pentagono, e causare un tale di-sastro? Eppure, osservati da una prospettiva di più lungo ter-mine, entrambi gli eventi sono parte di uno scenario più ampio,inimmaginabile in anticipo nei dettagli, ma di certo assai pre-vedibile nelle sue linee generali.Il problema dipende in parte dal fatto che questi fenomeni

sono stati studiati in comparti separati, a cui abbiamo datonomi specifici – la politica, l’economia, la struttura sociale, lacultura – senza renderci conto di come questi siano costruzionipiù della nostra immaginazione che non della realtà. I fenome-ni affrontati in questi comparti separati sono così strettamenteintrecciati che ogni comparto presuppone gli altri, ognuno inci-de sugli altri, ognuno risulta incomprensibile senza tener contodegli altri. E, in parte, il problema dipende dal fatto che, nellenostre analisi di ciò che è “nuovo”, e di ciò che non lo è, tendia-mo a dimenticare i tre importanti momenti di svolta del siste-ma-mondo moderno: 1) il lungo sedicesimo secolo, durante ilquale il sistema-mondo moderno ebbe origine come economia-mondo capitalistica; 2) la Rivoluzione Francese del 1789, comeevento di portata mondiale che rende conto della successivasupremazia per due secoli di una geocultura per questo siste-ma-mondo, dominata dal liberalismo centrista; e 3) la rivolu-zione mondiale del 1968, che ha preannunciato la lunga faseterminale del sistema-mondo moderno che oggi stiamo attra-versando, e che ha minato la geocultura liberale centrista cheaveva tenuto insieme il sistema-mondo.Gli studiosi che hanno proposto l’analisi dei sistemi-mondo,

che è l’argomento di questo libro, parlavano di globalizzazionemolto prima che il termine fosse coniato – e tuttavia, non comequalcosa di nuovo, ma come di qualcosa che è stata essenzialeal sistema-mondo moderno sin dal suo emergere nel sedicesi-mo secolo. Abbiamo sostenuto che i distinti comparti di analisi– quelli che nelle università sono chiamati discipline – siano unostacolo, non un aiuto, alla comprensione del mondo. Abbiamo

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sostenuto che la realtà sociale in cui viviamo, e che determinaquali siano le alternative a nostra disposizione, non sia stata larealtà dei molteplici stati nazionali di cui siamo cittadini, maqualcosa di più ampio, che definiamo un sistema-mondo.Abbiamo affermato che questo sistema-mondo ha avuto molteistituzioni – gli stati e il sistema interstatale, le imprese pro-duttive, gli aggregati domestici, le classi sociali, i gruppi identi-tari di ogni genere – e che queste istituzioni costituiscono unamatrice che consente al sistema di operare, ma che allo stessotempo suscita i conflitti e le contraddizioni che lo permeano.Abbiamo sostenuto che questo sistema è una creazione sociale,con una storia, le cui origini necessitano di essere spiegate, i cuimeccanismi di funzionamento devono essere descritti, e la cuiinevitabile crisi terminale deve essere compresa.Nel sostenere tutto questo, non abbiamo sfidato solo gran

parte del pensiero ufficiale di coloro che detenevano il potere,ma anche gran parte del sapere convenzionale prodotto dagliscienziati sociali negli ultimi due secoli. Per questa ragione,abbiamo affermato che è importante guardare in modo nuovonon solo al funzionamento del mondo in cui viviamo, ma ancheal modo in cui pensiamo questo mondo. Gli studiosi dei siste-mi-mondo si considerano dunque impegnati in una fondamen-tale protesta contro i modi in cui abbiamo pensato di conosce-re il mondo. Ma crediamo anche che l’emergere di questamodalità di analisi sia un riflesso, e un’espressione, della prote-sta reale contro le profonde disuguaglianze del sistema-mondo,politicamente così centrali ai nostri giorni.Io stesso mi sono dedicato all’analisi dei sistemi-mondo, e ho

scritto su questo argomento, per oltre trent’anni. Me ne sonoservito per descrivere la storia e i meccanismi del sistema-mondo moderno. Per delineare le strutture del sapere. Ne hodibattuto come metodo e come punto di vista. Ma non avevomai provato a presentare in un lavoro unitario l’insieme di ciòche intendo per analisi dei sistemi-mondo. In questi trent’anni, il particolare tipo di lavoro cui questa

denominazione si riferisce è diventato più comune, e quelli chevi si dedicano più diffusi geograficamente. Tuttavia, si tratta

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ancora di un punto di vista minoritario, e antagonista, all’inter-no del mondo delle scienze sociali storiche. Ho sentito elogiar-lo, attaccarlo, e assai spesso travisarlo e fraintenderlo – a volteda critici ostili e non molto bene informati, ma talvolta da chine se considera sostenitore, o almeno simpatizzante. Ho decisoche avrei voluto spiegare in un unico lavoro quelle che conside-ro le sue premesse e i suoi principi, per fornire una visione oli-stica di una prospettiva che rivendica di essere un appello peruna scienza sociale storica olistica.Questo libro è stato pensato per tre tipi di lettori. È scritto per

il lettore comune che non possiede alcun precedente saperespecialistico. Si potrebbe trattare di uno studente all’inizio dellasua carriera universitaria, o di un lettore del grande pubblico.In secondo luogo, è scritto per i dottorandi in scienze storico-sociali che vogliano una seria introduzione alle questioni e alleprospettive che vanno sotto il nome di analisi dei sistemi-mondo. E infine, è scritto per lo studioso esperto che desidericonfrontarsi con il mio specifico punto di vista, in una comuni-tà di studiosi giovane, ma in crescita.Il libro inizia con la ricostruzione di un percorso che a molti

lettori sembrerà tortuoso. Il primo capitolo è un’analisi dellestrutture del sapere del sistema-mondo moderno. È un tentati-vo di spiegare le origini storiche di questa modalità di analisi. Èsolo a partire dal secondo capitolo, e fino al quarto, che analiz-zeremo i meccanismi effettivi del sistema-mondo moderno. Edè infine nel quinto capitolo, l’ultimo, che discuteremo del pos-sibile futuro che ci si sta presentando, e dunque delle nostrerealtà attuali. Alcuni lettori preferiranno saltare direttamente alquinto capitolo, facendone il primo. Ma se ho strutturato l’ar-gomentazione nell’ordine che ho detto, è perché credo fer-mamente che per comprendere le ragioni dell’analisidei sistemi-mondo, il lettore, o la lettrice (anche quel-li giovani e alle prime armi), debbano “disapprende-re” buona parte di quanto hanno appreso dalle scuoleelementari in avanti, e che è quotidianamente avvalo-rato dai mass media. È solo confrontandoci direttamentecol modo in cui siamo giunti a pensare così come facciamo che

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potremo iniziare a liberarcene, per pensare secondo modalitàche credo ci permetteranno di analizzare in modo più convin-cente e utile i nostri dilemmi contemporanei.I libri vengono letti da persone diverse in maniera diversa, e

suppongo che ciascuno dei tre gruppi di lettori per cui questolibro è pensato lo leggerà differentemente. Posso solo augurar-mi che ciascun gruppo, ciascun singolo lettore, lo trovi utile.Questa è una introduzione all’analisi dei sistemi-mondo. Nonpretende di esserne una summa. Il libro si propone di affronta-re l’intera gamma di questioni, ma senza dubbio alcuni lettoririterranno che alcuni temi siano assenti, altri eccessivamenteenfatizzati, e naturalmente che alcune delle mie argomentazio-ni siano semplicemente errate. Il libro vuole essere un’introdu-zione a un modo di pensare, e dunque è anche un invito a undibattito aperto, al quale spero che ciascuno dei tre gruppi dilettori prenderà parte.

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CAPITOLO 1Le origini storiche

dell’analisi dei sistemi-mondo

L’analisi dei sistemi-mondo ha avuto origine nei primi anniSettanta come nuova prospettiva di indagine sulla realtà sociale.Alcuni dei suoi concetti sono stati in uso per lungo tempo, altrisono nuovi, o almeno definiti in modo nuovo. I concetti possonoessere compresi solo nel loro tempo. E questo è ancor più veroper le prospettive nel loro insieme, i cui concetti assumonosignificato perlopiù nella loro relazione reciproca, nel modo incui costituiscono un insieme. Le nuove prospettive, inoltre, sonodi solito meglio comprese se le si considera come una protestacontro quelle precedenti; una nuova prospettiva afferma sempreche la precedente, e al momento più accettata, sia per alcuniaspetti significativi inadeguata, o fuorviante, o tendenziosa, cherappresenti dunque più un ostacolo alla comprensione dellarealtà sociale che uno strumento per analizzarla.Come ogni altra prospettiva, l’analisi dei sistemi-mondo si è

articolata su dibattiti e critiche precedenti. In un certo sensopressoché nessuna prospettiva può mai essere del tutto nuova.Di solito qualcuno, decenni o secoli prima, ha detto qualcosa dianalogo. Dunque, quando parliamo di una prospettiva definen-dola nuova, è possibile che sia semplicemente il mondo ad esse-re per la prima volta pronto a considerare seriamente le ideeche essa esprime, e forse anche che tali idee siano state riorga-nizzate in modo da renderle più plausibili e alla portata di unpubblico più ampio.La storia dell’emergere dell’analisi dei sistemi-mondo è

incorporata nella storia del sistema-mondo moderno e dellestrutture del sapere affermatesi come parte del sistema stesso.È più proficuo far risalire gli inizi di questa particolare storianon agli anni Settanta del ventesimo secolo, ma alla metà deldiciottesimo. L’economia-mondo capitalistica esisteva ormaida circa due secoli, e l’imperativo dell’incessante accumulazio-

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ne di capitale aveva generato un bisogno di costante innovazio-ne tecnologica, e una costante espansione delle frontiere – geo-grafiche, psicologiche, intellettuali, scientifiche.Questo generò un pressante bisogno di comprensione del

modo in cui l’uomo conosce, e di discutere su come fosse possi-bile farlo. La millenaria rivendicazione delle autorità religiosedi essere depositarie esclusive della via certa alla conoscenzadella verità aveva già trovato, nel sistema-mondo moderno, isuoi oppositori. Alternative secolari (cioè non religiose) anda-vano sempre più prendendo piede. I filosofi si erano votati aquesto compito, sostenendo che l’uomo potesse giungere allaconoscenza attraverso l’uso del proprio intelletto, piuttosto cheaccettando verità rivelate dalle autorità religiose o dai testisacri. Filosofi come Cartesio e Spinoza – per quante differenzevi fossero fra di essi – erano entrambi impegnati nel tentativodi relegare il sapere teologico alla sfera privata, isolandolo dalleprincipali strutture della conoscenza.Mentre i filosofi sfidavano i dettami dei teologi, affermando

che gli esseri umani potessero distinguere il vero attraversol’uso diretto delle proprie facoltà razionali, un crescente nume-ro di studiosi concordava nel giudizio sul ruolo dei teologi, masosteneva che la cosiddetta “intuizione filosofica” fosse, inquanto fonte di verità, altrettanto arbitraria della rivelazionedivina. Essi insistevano nell’accordare priorità alle analisiempiriche della realtà. Quando Laplace, agli inizi del dicianno-vesimo secolo, scrisse un libro sulle origini del sistema solare,Napoleone, a cui l’opera venne presentata, osservò che in quelvoluminoso lavoro Dio non era stato menzionato nemmeno unavolta. Al che Laplace replicò: «Non ho bisogno di questa ipote-si, Maestà». Questi studiosi avrebbero assunto il nome di scien-ziati. Va tuttavia ricordato che, almeno fino alla fine del diciot-tesimo secolo, non esisteva, quanto alle modalità di definizionedel sapere, alcuna netta distinzione tra scienza e filosofia. Aquel tempo Immanuel Kant trovava del tutto appropriato tene-re lezioni di astronomia e poesia, come pure di metafisica, escrisse persino un libro sulle relazioni tra gli stati. Il sapere eraancora considerato un terreno unitario.Fu in questo periodo, sul finire del diciottesimo secolo, che si

consumò ciò che viene oggi definito come il “divorzio” tra filo-sofia e scienza. E a esserne gli artefici furono i sostenitori delle“scienze” empiriche. Essi affermarono che l’unica via alla “veri-

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tà” fosse quella della formulazione di teorie induttive, basatesulle osservazioni empiriche, e che tali osservazioni dovesseroessere eseguite in modo da consentire ad altri di ripeterle suc-cessivamente e, in questo modo, di verificarle. Essi sosteneva-no che la deduzione metafisica fosse speculativa, e che nonavesse quindi alcun valore di “verità”, rifiutando pertanto diconsiderarsi come “filosofi”.E fu ancora a partire da questo momento, e anzi in larga parte

come risultato di questo cosiddetto divorzio, che nacque l’uni-versità moderna. Sorta sull’impianto dell’università medievale,quella moderna costituisce di fatto una struttura ben diversa. Adifferenza della prima, dispone di docenti retribuiti e a tempopieno che, per la maggior parte, non sono più chierici, e chesono raggruppati non semplicemente in “facoltà”, ma in “dipar-timenti” o “cattedre” all’interno delle stesse facoltà, con ciascundipartimento che afferma di essere la sede di una particolare“disciplina”. Gli studenti seguono corsi di studio che li condu-cono al conseguimento di titoli accademici definiti dal diparti-mento a cui i loro studi afferiscono. L’università medievale aveva quattro facoltà: teologia, medi-

cina, legge e filosofia. Ciò che avvenne nel diciannovesimo seco-lo fu che, quasi ovunque, la facoltà di filosofia fu divisa in alme-no due facoltà distinte: una rivolta allo studio delle “scienze”, el’altra a quello di altre materie, talvolta definite come “studiumanistici”, talvolta come “arti” o “lettere” (o in entrambi imodi), e talvolta ancora conservando il vecchio nome di “filoso-fia”. L’università stava sancendo l’istituzionalizzazione di quel-le che C. P. Snow avrebbe in seguito definito le “due culture”;due culture antagoniste, entrambe convinte di costituire l’unicomodo, o comunque il migliore, per accedere alla conoscenza. Lescienze ponevano l’accento sulla ricerca empirica (se non giàsperimentale) e la verifica delle ipotesi; gli studi umanisticiinvece sull’intuizione empatica, in seguito definita come com-prensione ermeneutica. L’unico lascito dell’originaria unità traquesti due saperi si riscontra oggi nel fatto che, tanto in ambitoscientifico che umanistico, il PhD, doctor of philosophy, è ilmassimo titolo accademico offerto dalle università.Le scienze negarono dunque agli studi umanistici la capacità

di cogliere la verità. Nella precedente epoca del sapere unico, laricerca del vero, del buono e del bello era strettamente intreccia-ta, se non identica. Da questo momento, invece, gli scienziati

CAP. 1. LE ORIGINI STORICHE21

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affermarono che il loro lavoro non aveva nulla a che fare con laricerca del buono o del bello, per rivolgersi esclusivamente aquella del vero. La ricerca su ciò che è buono e ciò che è bellovenne lasciata ai filosofi, molti dei quali, dal canto loro, concor-darono con questa divisione del lavoro. La divisione del saperein due culture significò così anche la creazione di una solida bar-riera tra la ricerca del vero e quella del buono e del bello, che giu-stificherà poi la pretesa degli scienziati di essere “avalutativi”.Nel diciannovesimo secolo le facoltà scientifiche si divisero in

una molteplicità di ambiti di studio, definiti come discipline:fisica, chimica, geologia, astronomia, zoologia, matematica ecosì via. Le facoltà umanistiche si divisero in ambiti di studioquali la filosofia, gli studi classici (ossia greco, latino e lettera-ture antiche), la storia dell’arte, la musicologia, le lingue e le let-terature nazionali e quelle di altre zone linguistiche.Il problema più spinoso fu quello di decidere in quale facoltà

occorreva collocare lo studio della realtà sociale. L’urgenza diquesto studio fu imposto dalla Rivoluzione Francese del 1789 edal conseguente sconvolgimento culturale che essa generò nelsistema-mondo moderno. Gli eventi francesi diffusero due ideedecisamente rivoluzionarie: la prima era che il cambiamentopolitico non fosse un fatto eccezionale o bizzarro ma che fosseinvece normale e, dunque, costante; la seconda era che la“sovranità” – il diritto dello stato ad assumere decisioni auto-nome all’interno del proprio territorio – non risiedesse in(appartenesse a) un monarca o in un’assemblea legislativa manel “popolo”, che, esso solo, era in grado di legittimare un siste-ma politico.Entrambe queste idee attecchirono e furono ampiamente

adottate, malgrado i capovolgimenti politici che la stessaRivoluzione subì. Se il cambiamento politico doveva essere oraconsiderato un fatto normale, e la sovranità risiedeva nel popo-lo, improvvisamente divenne necessario per tutti comprenderecosa spiegasse la natura e il ritmo del cambiamento, e in chemodo il “popolo” giungesse, o potesse giungere, alle decisioniche si diceva prendesse. Sono queste le origini sociali di quelleche successivamente furono definite scienze sociali.Ma che cos’erano le “scienze sociali” e come si collocavano

nel nuovo conflitto fra le “due culture”? Siamo di fronte a que-siti di non facile soluzione, e si potrebbe anzi sostenere cherisposte soddisfacenti non siano ancora state date. Ciò che all’i-

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nizio si osservò fu che le scienze sociali tesero a collocarsi ametà strada tra le “scienze pure” e gli “studi umanistici”. A metàstrada, ma non a proprio agio. Gli scienziati sociali, infatti, nonelaborarono una terza via alla conoscenza, distinta dalle altredue, ma piuttosto si divisero fra quanti propendevano per unavisione “scientifica”, o “scientista”, della scienza sociale, equanti invece propendevano per una visione “umanistica”. Lescienze sociali sembravano legate a due cavalli che le tiravanoin direzioni opposte, lacerandole.La più antica delle scienze sociali è sicuramente la storia, una

pratica e una denominazione che risalgono a migliaia di anni fa.Nel diciannovesimo secolo la storiografia fu interessata da una“rivoluzione”, associata al nome di Leopold Ranke, che coniò laparola d’ordine secondo cui la storia doveva essere scritta wiees eigentlich gewesen ist (come era realmente accaduta). Ciòche Ranke denunciava era la tendenza degli storici a indulgereall’agiografia, narrando storie, talvolta inventate, che celebra-vano monarchi o paesi, e proponeva invece una storia più scien-tifica, che rifuggisse speculazioni e leggende.Ranke proponeva anche un metodo specifico per poter scri-

vere una storia di questo tipo – cercare cioè resoconti degliavvenimenti che risalissero alla stessa epoca degli avvenimentiche descrivevano. Tali documenti sarebbero poi stati conserva-ti in quelli che chiamiamo archivi. Nello studiare i documentinegli archivi, i nuovi storici partivano dal presupposto che iprotagonisti del tempo non avessero scritto per i futuri storici,ma che avessero rivelato ciò che realmente pensavano in quelmomento, o almeno ciò che volevano gli altri credessero.Naturalmente gli storici ben sapevano che questi documentiandavano maneggiati con cautela, per verificare che non vi fos-sero inganni, ma, una volta appurato questo, questi documentierano considerati scevri dall’importuna distorsione dello stori-co che li avrebbe utilizzati. Per minimizzare ulteriormente ledistorsioni, gli storici sostenevano che solo la storia del “passa-to” potesse essere scritta, e non quella del “presente”, poichéscrivere sul presente comportava inevitabilmente subire il con-dizionamento delle passioni del momento. In ogni caso, gliarchivi (che erano controllati dalle autorità politiche) raramen-te venivano “aperti” allo storico se non dopo un lungo periodo(dai cinquanta ai cento anni), per cui questi non aveva comun-que accesso, di norma, ai documenti importanti relativi al pre-

CAP. 1. LE ORIGINI STORICHE23

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sente. (Alla fine del ventesimo secolo, molti governi sono statimessi sotto pressione dalle opposizioni affinché aprissero i loroarchivi in tempi assai più brevi. E se aprirli ha dato dei risulta-ti, è anche vero che i governi hanno trovato nuovi modi per pro-teggere i propri segreti.)A dispetto di questa inclinazione più “scientifica”, i nuovi stori-

ci scelsero tuttavia di collocarsi nelle facoltà umanistiche, piutto-sto che in quelle scientifiche. Questo potrebbe apparire strano,dal momento che questi storici si stavano allontanando dai filo-sofi per via delle loro asserzioni speculative. Ancora, gli storicierano empiristi, per cui si sarebbe potuto credere che si sentisse-ro più affini agli scienziati naturali. Ma il loro essere empiristi siaccompagnava a una grande diffidenza verso le generalizzazionisu larga scala. Non si proponevano di giungere alla formulazionedi leggi scientifiche, o anche di ipotesi, ma sostenevano spessoche ogni singolo “avvenimento” andasse analizzato nei terminidella sua storia specifica. Affermavano che le dinamiche socialifossero ben diverse dai fenomeni fisici studiati dagli scienziatipuri, per via del fattore dell’intenzionalità umana, e proprio l’en-fasi su quello che oggi chiamiamo agire umano li condusse a con-siderarsi “umanisti” piuttosto che “scienziati”.Ma quali eventi meritavano la loro attenzione? Gli storici dove-

vano prendere delle decisioni sugli oggetti di studio. Il fatto chefacessero affidamento su documenti scritti di epoche passate giàcondizionava il loro possibile ambito di studio, poiché i docu-menti degli archivi erano perlopiù scritti da persone legate allestrutture politiche – diplomatici, funzionari pubblici, leader poli-tici. Questi documenti poco dicevano sui fenomeni non connessia vicende di carattere politico o diplomatico. Inoltre, questoapproccio presupponeva che gli storici studiassero un’area nellaquale esistevano documenti scritti. Nella pratica, dunque, gli sto-rici del diciannovesimo secolo tesero a studiare innanzi tutto illoro paese, e poi gli altri paesi considerati “nazioni storiche”, ter-mine con il quale sembrava ci si riferisse a quelle nazioni la cuistoria poteva essere documentata negli archivi.Ma in quali paesi si trovavano questi storici? La quasi totali-

tà (verosimilmente il 95 percento) si concentrava in sole cinquearee: la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e le diversezone che avrebbero poi costituito la Germania e l’Italia.Pertanto, la storia che per prima fu scritta e insegnata fu la sto-ria di queste cinque nazioni. Si poneva poi un’ulteriore questio-

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ne da risolvere: che cosa si sarebbe dovuto includere nella sto-ria di paesi come la Francia o la Germania? Quali erano i loroconfini, geografici e temporali? La maggior parte degli storicidecise di farne risalire la storia il più indietro possibile, e diadottare i confini territoriali del presente, o perfino quelli che aquel tempo erano reclamati come tali. La storia della Franciaera dunque la storia di tutto ciò che era accaduto all’interno deiconfini della Francia così come erano definiti nel diciannovesi-mo secolo. Ciò era naturalmente arbitrario, ma serviva a unoscopo – rafforzare i sentimenti nazionalisti dell’epoca – e fudunque una pratica incoraggiata dagli stati stessi. Nondimeno, il fatto che gli storici si dedicassero esclusiva-

mente allo studio del passato fece sì che avessero ben poco dadire sulle situazioni che i loro paesi affrontavano nel presente.E i leader politici avvertirono la necessità di maggiori informa-zioni sulla contemporaneità. Nuove discipline si svilupparono aquesto scopo. E furono principalmente tre: l’economia, la scien-za politica e la sociologia. Perché dovevano tuttavia esserci trediscipline per lo studio del presente ma solo una per quello delpassato? Perché l’ideologia liberale dominante del diciannove-simo secolo sosteneva che la modernità fosse definita dalla dif-ferenziazione di tre sfere sociali: il mercato, lo stato e la societàcivile. Le tre sfere operavano, si asseriva, secondo logiche diffe-renti, ed era bene mantenerle separate l’una dall’altra – nellavita sociale e quindi in quella intellettuale. Esigevano di esserestudiate con modalità distinte, specifiche per ciascuna sfera - ilmercato dagli economisti, lo stato dagli scienziati della politica,e la società civile dai sociologi.Di nuovo si pose la questione: come giungere a un sapere

“oggettivo” su queste tre sfere? Qui la risposta fu diversa daquella fornita dagli storici. In ciascuna di queste discipline, ilpunto di vista che andò imponendosi fu che questi ambiti dellavita – il mercato, lo stato e la società civile – erano governati daleggi che potevano essere individuate attraverso l’analisi empi-rica e la generalizzazione di tipo induttivo. Questa era esatta-mente la stessa posizione assunta dagli scienziati naturalirispetto ai loro oggetti di studio. Definiamo dunque queste trediscipline nomotetiche (volte cioè alla ricerca di leggi scientifi-che) in contrapposizione alla disciplina idiografica, quale la sto-ria aspirava ad essere – cioè una disciplina che aveva il suo fon-damento nell’unicità dei fenomeni sociali.

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E ancora fu posta posta la questione: dove concentrare lo stu-dio dei fenomeni contemporanei? Gli studiosi delle scienzesociali nomotetiche si trovavano perlopiù negli stessi cinquepaesi degli storici, e allo stesso modo studiarono principalmen-te i loro paesi d’appartenenza (o fecero tutt’al più comparazio-ni tra questi cinque). Certo, ciò veniva ricompensato social-mente, ma questi studiosi addussero anche un argomentometodologico per motivare questa scelta. Sostennero che ilmodo migliore per evitare distorsioni fosse servirsi di datiquantitativi, e che nell’immediato tali dati si trovavano contutta probabilità nei loro paesi. Inoltre, argomentarono che, sesi assumeva l’esistenza di leggi generali che governano il com-portamento sociale, non sarebbe allora stato un problema dovestudiare questi fenomeni, poiché ciò che era vero in un luogo ein un tempo era vero in ogni luogo e in ogni tempo. Perché dun-que non studiare i fenomeni per i quali erano disponibili i datipiù attendibili – ossia i più quantificati e replicabili?Gli scienziati sociali avevano un ulteriore problema. Le quat-

tro discipline (la storia, l’economia, la sociologia e la scienzapolitica), nel loro insieme, non studiavano in realtà che una pic-cola porzione di mondo. Ma, nel diciannovesimo secolo, le cin-que nazioni stavano imponendo il loro dominio coloniale sumolte altre parti del mondo, e con altre ancora intrattenevanorelazioni commerciali e talvolta combattevano guerre. Sembròcosì importante studiare anche il resto del mondo. Eppure, ilresto del mondo appariva per certi versi differente, e sembròinappropriato servirsi di quattro discipline rivolte all’Occidenteper studiare parti del mondo che non erano considerate“moderne”. Di conseguenza, nacquero due ulteriori discipline.Una di queste fu chiamata antropologia. I primi antropologi

studiavano popolazioni soggette al dominio coloniale, reale o defacto. Partivano dalla premessa che i gruppi cui dedicavano iloro studi non disponessero della tecnologia moderna, non pos-sedessero propri sistemi di scrittura e non avessero religioniche si erano diffuse all’esterno del gruppo stesso. Tali gruppierano chiamati genericamente “tribù”: gruppi relativamentepiccoli (in termini di popolazione e di superficie occupata), conun insieme condiviso di usanze, una lingua comune e, in alcunicasi, una comune struttura politica. Nel linguaggio del dician-novesimo secolo, erano considerate popolazioni “primitive”.Una delle condizioni necessarie per studiare queste popola-

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zioni era che finissero sotto la giurisdizione di uno stato moder-no, che garantiva l’ordine e la sicurezza dell’antropologo.Poiché tali popolazioni erano culturalmente assai diverse da chile studiava, la modalità principale d’indagine fu quella chiama-ta “osservazione partecipante”, secondo la quale il ricercatorevive per un certo periodo fra la popolazione, cercando diapprenderne la lingua e di comprendere l’intera gamma degliusi e costumi. L’antropologo, o l’antropologa, spesso si servivadi intermediari locali in qualità di interpreti (sia linguistica-mente che culturalmente). Questa pratica fu chiamata scritturaetnografica, e si basava sul “lavoro sul campo” (contrapposto allavoro in biblioteca o in archivio).Si assumeva che questi popoli non avessero “storia”, se non

quella seguita all’imposizione dall’esterno di un regime moder-no, che aveva prodotto un “contatto culturale” e quindi un certocambiamento culturale. Questo mutamento implicava che l’et-nografo cercasse di norma di ricostruire le usanze così comequeste erano prima del contatto culturale (che di solito era rela-tivamente recente), e si assumeva poi che tali usanze fossero esi-stite per un tempo immemorabile, fino all’imposizione del domi-nio coloniale. Gli etnografi servirono per molti versi ai modernidominatori stranieri come principali interpreti delle popolazioniche governavano. Riformulavano in un linguaggio comprensibi-le ai colonizzatori stranieri il fondamento razionale alla base deicomportamenti consuetudinari. Si resero perciò utili ai governicoloniali fornendo informazioni che potevano rendere i gover-nanti più competenti su ciò che potevano e non potevano fare (onon dovevano fare) nella loro amministrazione.Il mondo, tuttavia, non era formato solo dagli stati “moderni”

e dalle cosiddette popolazioni primitive. Vi erano vaste regionial di fuori dall’area pan-europea che possedevano ciò che neldiciannovesimo secolo era chiamata una “civiltà avanzata” – adesempio la Cina, l’India, la Persia, il mondo arabo. Tutte questezone avevano alcune caratteristiche comuni: la scrittura, unalingua principale che veniva utilizzata nella scrittura, e una solareligione “mondiale” dominante, che non era tuttavia ilCristianesimo. La ragione di queste caratteristiche comuni eramolto semplice. Tutte queste aree erano state nel passato, e inalcuni casi continuavano a essere, la sede di “imperi-mondo”burocratici che si erano estesi su vaste aree, sviluppando quin-di una lingua comune, una religione comune e molte usanze

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comuni. Questo è ciò che si intendeva nel chiamarle “civiltàavanzate”. Nel diciannovesimo secolo tutte queste regioni condivideva-

no un’altra caratteristica. Esse non erano più tanto forti mili-tarmente e tecnologicamente quanto il mondo pan-europeo. Ilmondo pan-europeo le considerava dunque non “moderne”.Era tuttavia evidente che i loro abitanti non corrispondevanoalla descrizione di popolazioni “primitive”, nemmeno secondo iparametri pan-europei. Il problema dunque era come dovesse-ro essere studiate, e che cosa se ne dovesse studiare. Poiché essierano culturalmente così diversi dagli europei, poiché i lorotesti erano scritti in lingue così diverse da quelle dei ricercatorieuropei, e ancora poiché le loro religioni erano così differentidal Cristianesimo, sembrava che dedicarsi a questi studi doves-se comportare un lungo e paziente processo di acquisizione dicompetenze rare e misteriose, se si ne voleva comprendereabbastanza. Le conoscenze filologiche furono di particolareaiuto nel decifrare gli antichi testi religiosi. Chi acquisì questeparticolari competenze cominciò a definirsi Orientalista, defini-zione derivata dalla classica distinzione Occidente-Oriente dalungo tempo presente nella tradizione intellettuale europea.E cosa studiavano gli Orientalisti? In un certo senso, si potreb-

be dire che anch’essi si dedicassero all’etnografia; cercavano cioèdi descrivere l’ampia gamma di usanze di cui venivano a cono-scenza. Ma, per la maggior parte, le loro erano etnografie nonbasate sul lavoro sul campo, ma piuttosto derivate dalla letturadei testi. La domanda che continuava a fare da sfondo era comespiegare che queste “civiltà avanzate” non fossero “moderne”come il mondo pan-europeo. La risposta che gli Orientalisti par-vero fornire era che vi fosse qualcosa nella articolata cultura diqueste civiltà che ne aveva “congelato” la storia, e ne aveva resoimpossibile il cammino verso la “modernità”, che era stato inve-ce percorso dal mondo cristiano occidentale. Ne conseguiva chequesti paesi necessitassero dunque l’aiuto del mondo pan-euro-peo per muoversi verso la modernità.Gli antropologi-etnografi, nello studiare le popolazioni primi-

tive, e gli Orientalisti, nello studiare le civiltà avanzate, avevanoun denominatore epistemologico comune. Entrambi mettevanoin evidenza le particolarità dei gruppi che studiavano, piuttostoche analizzarne le caratteristiche umane generiche. Pertanto essisi sentivano a proprio agio più sul versante idiografico della con-

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troversia che su quello nomotetico. Per la maggior parte, nellascissione delle due culture, si collocarono nel campo ermeneuti-co e umanistico piuttosto che in quello scientifico.Il diciannovesimo secolo vide il diffondersi e il riprodursi,

dove più dove meno, delle strutture dei dipartimenti e dellequestioni qui evidenziate – in un’università dopo l’altra, in unpaese dopo l’altro. Le strutture del sapere stavano prendendoforma, e le università offrivano loro ospitalità. Inoltre, gli stu-diosi di ciascuna disciplina cominciarono a darsi strutture orga-nizzative extra-universitarie per consolidare la propria posizio-ne. Crearono riviste per le loro discipline. Fondarono associa-zioni nazionali e internazionali per le loro discipline. Crearonoperfino nuove categorie di classificazione bibliografica per sud-dividere i testi che affrontavano argomenti presumibilmente dicompetenza delle loro discipline. Nel 1914 le etichette eranodivenute abbastanza comuni; e continuarono a diffondersi e aprevalere largamente almeno fino al 1945, e per molti versianche fino agli anni Sessanta.Nel 1945, tuttavia, il mondo subì trasformazioni di grande

rilevanza, e, di conseguenza, questa configurazione delle disci-pline della scienza sociale venne sfidata in modo significativo. Inquell’epoca accaddero tre cose. In primo luogo, gli Stati Unitidivennero l’indiscussa potenza egemone del sistema-mondo, e illoro sistema universitario divenne di conseguenza il più influen-te. In secondo luogo, i paesi di quello che si iniziava allora a chia-mare Terzo Mondo divennero luoghi di agitazione politica e diautoaffermazione geopolitica. In terzo luogo, la combinazione diun’economia-mondo economicamente in espansione e di unaconsistente crescita delle tendenze democratiche portò a unastraordinaria espansione del sistema universitario mondiale (intermini di facoltà, studenti e numero di università). Questi trecambiamenti in rapida successione scardinarono le ben definitestrutture del sapere che si erano sviluppate e consolidate nelcorso dei cento o centocinquanta anni precedenti.Si consideri prima di tutto l’impatto dell’egemonia statuni-

tense e dell’autoaffermazione del Terzo Mondo. Verificandosiinsieme fecero sì che la divisione del lavoro all’interno dellescienze sociali – storia, economia, sociologia e scienza politicaper lo studio dell’Occidente; antropologia e orientalismo per ilresto del mondo – risultasse a dir poco inutile agli attori politi-ci statunitensi. Gli Stati Uniti avevano bisogno di studiosi in

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grado di analizzare l’ascesa del Partito Comunista Cinese piùche di studiosi che sapessero decifrare i testi del Taoismo; distudiosi che potessero interpretare la forza dei movimentinazionalisti africani o la crescita di una forza lavoro urbana piùche di studiosi che sapessero ricostruire i modelli di parenteladelle popolazioni Bantu. E in questo né gli Orientalisti né glietnografi potevano essere di grande aiuto. Una soluzione c’era: formare storici, economisti, sociologi e

scienziati della politica che studiassero ciò che stava accadendoin queste altre parti del mondo. Ciò fu all’origine di una inven-zione statunitense – gli “area studies” – che ebbe un enormeimpatto sul sistema universitario statunitense (e quindi mon-diale). Ma come era possibile riconciliare ciò che sembravaessere per sua natura relativamente “idiografico” – lo studio diun’“area” geografica o culturale – e le pretese “nomotetiche” dieconomisti, sociologi, scienziati della politica e ora perfino dialcuni storici? Un’ingegnosa soluzione intellettuale a questodilemma venne alla luce: il concetto di “sviluppo”.Il concetto di sviluppo, nell’uso che si affermò dopo il 1945, si

fondava su un meccanismo esplicativo già noto, la teoria deglistadi. Chi si serviva di questo concetto assumeva che le singoleunità – le “società nazionali” – si sviluppassero tutte fonda-mentalmente nello stesso modo (soddisfacendo in questo modol’esigenza nomotetica) ma con ritmi differenti (riconoscendocosì le differenze che sembravano esserci tra gli stati in quelmomento). Oplà! Si sarebbero così potuti introdurre concettispecifici per studiare gli “altri” nel presente, sostenendo intan-to che, alla fine, tutti gli stati sarebbero diventati più o menouguali. Questo gioco di prestigio aveva anche un risvolto con-creto. Implicava che gli stati “più sviluppati” potessero offrirsicome modello per quelli “meno sviluppati”, incitandoli a impe-gnarsi in una sorta di imitazione, e promettendo all’orizzontetenori di vita più elevati e forme di governo più liberali (“svi-luppo politico”).Questo ovviamente fu un utile strumento intellettuale per gli

Stati Uniti, il cui governo e le cui fondazioni fecero tutto il pos-sibile per incoraggiare la diffusione degli area studies nelleprincipali università (ma anche in quelle meno importanti).Certo, era l’epoca della Guerra Fredda tra Stati Uniti e UnioneSovietica. E l’Unione Sovietica riconosceva una cosa positiva,quando ne vedeva una. E così a sua volta adottò il concetto di

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stadi dello sviluppo. Certo, gli studiosi sovietici cambiarono laterminologia per esigenze retoriche, ma il modello di baserimase lo stesso. Operarono tuttavia un cambiamento significa-tivo: l’Unione Sovietica, non gli Stati Uniti, era utilizzata comestato modello.Guardiamo ora cosa accade mettendo insieme l’impatto degli

area studies con l’espansione del sistema universitario.Espansione significava che un maggior numero di persone aspi-rava a conseguire un dottorato di ricerca. Questa sembrava unacosa positiva, ma non si dimentichi il requisito secondo cui unatesi di dottorato deve fornire un contributo “originale” al sape-re. Ogni ulteriore persona impegnata nella ricerca significavauna difficoltà sempre maggiore nell’essere originali. Questa dif-ficoltà stimolò, all’interno delle accademie, appropriazioni dicontributi da altri ambiti di studio, poiché si riteneva che l’ori-ginalità si potesse trovare all’interno delle discipline. In ognidisciplina si iniziarono a costruire sub-specializzazioni in argo-menti che precedentemente erano appartenuti ad altre discipli-ne. Ciò portò a una consistente sovrapposizione e all’erosionedei solidi confini tra discipline. Vi erano ora sociologi politici estorici sociali, e ogni altra immaginabile combinazione.Le trasformazioni del mondo reale influenzarono le modali-

tà di autodefinizione da parte degli studiosi. Le discipline chesi erano in precedenza specializzate sul mondo non-occidenta-le si ritrovarono a essere considerate con una certa diffidenzapolitica nei paesi che avevano tradizionalmente studiato. Diconseguenza, il termine “Orientalismo” scomparve progressi-vamente, e quelli che erano precedentemente stati orientalistidivennero spesso storici. L’antropologia fu costretta a ridefini-re il suo centro di interesse in maniera assai radicale, poichésia il concetto di “primitivo” sia la realtà che si supponevarispecchiasse stavano scomparendo. In un certo senso, gliantropologi “tornarono a casa”, iniziando a studiare anche ipaesi da cui la gran parte di essi proveniva. Come per le altrequattro discipline, anche gli antropologi avevano ora per laprima volta colleghi di facoltà che si specializzavano in partidel mondo delle quali i loro percorsi di studio non si erano maiinteressati in precedenza. L’intera distinzione tra aree moder-ne e non-moderne si stava sgretolando.Tutto questo da un lato portò a una crescente incertezza sulle

verità tradizionali (si è parlato talvolta di “confusione” all’inter-

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no delle discipline), dall’altro creava spazio, nella messa in dis-cussione che investiva alcune di queste verità, anche per le vocipiù eretiche, soprattutto quelle dei sempre più numerosi stu-diosi provenienti dal mondo non-occidentale o di chi apparte-neva alla generazione di studiosi occidentali recentemente for-matisi all’interno degli area studies. Nelle scienze sociali, nelperiodo fra il 1945 e il 1970 furono quattro i dibattiti che crea-rono le premesse per l’emergere dell’analisi dei sistemi-mondo:quello sul concetto di centro-periferia elaborato dallaCommissione Economica delle Nazioni Unite per l’AmericaLatina (ECLA) e la susseguente formulazione della “teoria delladipendenza”; quello sull’utilità del concetto marxiano di “modoasiatico di produzione”, che ebbe luogo tra gli studiosi comuni-sti; il dibattito tra gli storici dell’Europa occidentale sulla“transizione dal feudalesimo al capitalismo”; il dibattito sulla“storia totale” e il trionfo della scuola storiografica delleAnnales in Francia e poi in molte altre parti del mondo.Nessuno di questi dibattiti era completamente nuovo, ma tuttiacquisirono rilevanza in questo periodo, generando una sfida dinotevole portata alle scienze sociali, come queste si erano svi-luppate fino al 1945.Il concetto di centro-periferia fu un contributo essenziale

degli studiosi del Terzo Mondo. È vero, vi erano stati alcunigeografi tedeschi negli anni Venti che avevano proposto qual-cosa di analogo, così pure alcuni sociologi rumeni negli anniTrenta (ma la Romania aveva una struttura sociale simile aquella del Terzo Mondo). Ma fu solo col lavoro di Raúl Prebische dei suoi “giovani turchi” latino-americani all’ECLA, negli anniCinquanta, che questo tema divenne un interesse rilevantedella riflessione della scienza sociale. L’idea di base era moltosemplice. Il commercio internazionale non era, si sosteneva, uncommercio tra eguali. Alcuni paesi erano economicamente piùforti di altri (il centro) ed erano dunque in grado di condurre gliscambi in modo che il plusvalore fosse trasferito dai paesi piùdeboli (la periferia) verso il centro. Alcuni avrebbero in seguitodefinito questo processo “scambio ineguale”. Questa analisisuggeriva un rimedio all’ineguaglianza: azioni da parte deglistati della periferia per istituire meccanismi che equilibrasserolo scambio nel medio periodo.Ovviamente, questa semplice idea tralasciava un enorme

numero di dettagli. E diede perciò vita a energici dibattiti. Vi

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furono dibattiti tra i suoi sostenitori e quelli che difendevanouna visione più tradizionale del commercio internazionale,come quella proposta da David Ricardo nel diciannovesimosecolo, secondo cui se tutti perseguissero i propri “vantaggi com-parati”, tutti otterrebbero i massimi benefici. Ma vi furonodibattiti anche tra gli stessi sostenitori del modello centro-peri-feria. Come funzionava? Chi davvero traeva vantaggio dalloscambio ineguale? Quali misure sarebbero state efficaci per con-trastarlo? E fino a che punto queste misure richiedevano un’a-zione politica piuttosto che una regolamentazione economica?Fu a partire da quest’ultimo tema che i teorici della dipen-

denza svilupparono delle versioni rivedute dell’analisi centro-periferia. Molti sostenevano che la rivoluzione politica sarebbestata un requisito necessario per ogni concreta azione di ridu-zione delle disuguaglianze. La teoria della dipendenza, come sisviluppò in America Latina, in apparenza si presentava innan-zitutto come una critica alle politiche economiche messe in attoe raccomandate dalle potenze occidentali (in particolare dagliStati Uniti). Andre Gunder Frank coniò l’espressione “lo svilup-po del sottosviluppo” per descrivere gli effetti delle politichedelle grandi corporation, degli stati più importanti delle areecentrali e delle agenzie interstatali che promuovevano il “liberocommercio” nell’economia-mondo. Il sottosviluppo era consi-derato non come una condizione originaria, la cui responsabili-tà era imputabile ai paesi che erano sottosviluppati, ma comeuna conseguenza del capitalismo storico.Ma le teorie della dipendenza criticavano anche, e forse in

misura ancora maggiore, i partiti comunisti dell’AmericaLatina. Questi partiti avevano sposato una teoria degli stadidello sviluppo che sosteneva che i paesi dell’America Latinaerano ancora feudali o “semi-feudali”, e dunque non avevanoancora sperimentato una “rivoluzione borghese”, che si ritene-va dovesse precedere una “rivoluzione proletaria”. Ne facevanoderivare che le forze radicali dell’America Latina dovessero col-laborare con la cosiddetta borghesia progressista per giungerealla rivoluzione borghese, in modo tale che successivamente ilpaese avrebbe potuto procedere verso il socialismo. I dependi-stas, ispirati come molti altri dalla rivoluzione cubana, sostene-vano che la linea ufficiale dei comunisti fosse una mera varian-te di quella ufficiale del governo statunitense (costruire innan-zitutto stati liberali borghesi e una classe media). Essi si oppo-

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sero alla linea dei partiti comunisti teoreticamente, argomen-tando che gli stati latino-americani fossero già parte integrantedel sistema capitalista e che dunque ciò di cui vi era bisogno erala rivoluzione socialista subito.Nel frattempo, in Unione Sovietica, nei paesi comunisti

dell’Europa dell’Est, e all’interno dei partiti comunisti italiano efrancese, iniziava un dibattito sul “modo di produzione asiati-co”. Quando Marx aveva delineato, assai brevemente, l’insiemedegli stadi delle strutture economiche attraverso cui l’umanitàsi era sviluppata, vi aveva aggiunto una categoria che trovò dif-ficile collocare nella progressione lineare che stava descriven-do. La chiamò “modo di produzione asiatico”, usando questaespressione per descrivere i grandi imperi burocratici e auto-cratici che si erano storicamente affermati quantomeno in Cinae in India. Si trattava appunto delle “civiltà avanzate” degliOrientalisti, i cui scritti Marx aveva letto.Negli anni Trenta Stalin decise che questo concetto non era di

suo gradimento. Evidentemente pensava che si sarebbe potutousarlo per descrivere sia la storia della Russia che il regime dicui egli era ora a capo. Si impegnò così a rivedere il pensiero diMarx, semplicemente eliminando questo concetto dall’ambitodella discussione legittima. Questa omissione creò non pochedifficoltà agli studiosi sovietici (e ad altri studiosi comunisti).Questi dovettero forzare i termini dell’argomentazione per ren-dere le categorie di “schiavitù” e di “feudalesimo”, che eranorimaste lecite, calzanti per diverse fasi della storia della Russiae di altre realtà asiatiche. Ma con Iosif Stalin non era possibilediscutere.Quando Stalin morì, nel 1953, molti studiosi colsero l’occa-

sione per riaprire la discussione e suggerire che forse qualcosanel pensiero originario di Marx era stato trascurato. Ma, cosìfacendo, riaprirono la discussione sull’inevitabilità degli stadidi sviluppo e dunque sullo sviluppismo come cornice analitica eindirizzo politico. Ciò costrinse questi studiosi a impegnarsi inun nuovo confronto con la scienza sociale non marxista delresto del mondo. Sostanzialmente, questo dibattito fu l’equiva-lente accademico del discorso del 1956 di Krusciov, alloraSegretario Generale del Partito Comunista dell’UnioneSovietica (PCUS), al ventesimo Congresso del Partito, col qualedenunciò il “culto della personalità” di Stalin e ammise gli“errori” di quella che era stata in precedenza una politica insin-

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dacabile. Come il discorso di Krusciov, anche il dibattito sulmodo di produzione asiatico riaprì la strada al dubbio, e incri-nò la rigida eredità concettuale del cosiddetto marxismo orto-dosso. E rese possibile un nuovo sguardo alle categorie analiti-che del diciannovesimo secolo, e infine persino a quelle dellostesso Marx.Contemporaneamente, tra gli storici economici occidentali si

stava svolgendo un dibattito sulle origini del capitalismomoderno. La gran parte dei protagonisti si consideravano mar-xisti, ma non erano sottoposti alle costrizioni dei partiti. Ildibattito ebbe origine con la pubblicazione, nel 1946, del librodi Maurice Dobb Studies in the Development of Capitalism.Dobb, inglese e marxista, era uno storico dell’economia. PaulSweezy, un economista marxista americano, scrisse un articoloche sfidava la spiegazione proposta da Dobb di ciò che entram-bi definivano “la transizione dal feudalismo al capitalismo”. Inseguito molti altri sarebbero intervenuti nella disputa. Per quelli che nel dibattito condividevano la posizione di

Dobb, la questione si poneva in termini di spiegazioni endoge-ne versus spiegazioni esogene. Dobb individuava le radici dellatransizione dal feudalesimo al capitalismo in elementi interniagli stati, in particolar modo in Inghilterra. Sweezy fu accusatoda Dobb e dai suoi sostenitori di accordare eccessiva importan-za ai fattori esterni, e soprattutto ai flussi commerciali, e diignorare il ruolo fondamentale dei cambiamenti nella strutturadella produzione, e quindi dei rapporti di classe. Sweezy e altrireplicarono con la tesi secondo cui l’Inghilterra era di fattoparte di una vasta regione euro-mediterranea, le cui trasforma-zioni spiegavano ciò che era accaduto in Inghilterra. Sweezy siservì di dati empirici tratti dal lavoro di Henri Perenne (storicobelga non-marxista e progenitore della scuola storiograficadelle Annales, che aveva brillantemente argomentato che l’a-scesa dell’Islam avesse portato a un’interruzione delle rottecommerciali con l’Europa occidentale e alla sua stagnazioneeconomica). Coloro che condividevano la tesi di Dobb sosten-nero che Sweezy stesse sopravvalutando l’importanza del com-mercio (una cosiddetta variabile esterna) e trascurando il ruolocruciale dei rapporti di produzione (una cosiddetta variabileinterna).Il dibattito fu importante per diverse ragioni. Innanzi tutto,

sembrava avesse implicazioni politiche (come le tesi dei depen-

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distas). Le conclusioni sui meccanismi della transizione dalfeudalesimo al capitalismo avrebbero potuto avere implicazionisu una presunta transizione dal capitalismo al socialismo (comein effetti alcuni di coloro che presero parte al dibattito sosten-nero espressamente). In secondo luogo, il dibattito, nel suocomplesso, indusse molti economisti a prestare maggioreattenzione ai dati storici, aprendosi così ad alcune delle que-stioni sollevate dal gruppo delle Annales in Francia. In terzoluogo, il dibattito si incentrò essenzialmente sull’unità di anali-si, sebbene questa espressione non venne mai usata. Il fronte diSweezy sollevava obiezioni su quanto fosse significativo utiliz-zare un paese, proiettato indietro nel tempo, come l’unità al cuiinterno l’agire sociale doveva essere analizzato, piuttosto cheadottare unità più estese al cui interno esisteva una divisionedel lavoro (come l’area euro-mediterranea). In quarto luogo,proprio come il dibattito sul modo di produzione asiatico,anche questo ebbe la conseguenza di rompere il guscio di unaversione del marxismo (che analizzava solo i rapporti di produ-zione, e solo all’interno dei confini degli stati) diventata piùun’ideologia che un tema di studio aperto al dibattito.I partecipanti a questo dibattito erano quasi tutti studiosi

anglofoni. Il gruppo delle Annales, di contro, nacque in Franciae per lungo tempo ebbe risonanza solo in quelle aree del mondoaccademico che maggiormente subivano l’influenza della cultu-ra francese: l’Italia, la penisola Iberica, l’America Latina, laTurchia e alcune regioni dell’Europa dell’Est. Il gruppo delleAnnales si era costituito negli anni Venti come reazione, guida-ta da Lucien Febvre e Marc Bloch, contro la tendenza estrema-mente idiografica ed empirista della storiografia francese domi-nante, che era inoltre dedita quasi esclusivamente alla storiapolitica. Il gruppo delle Annales sostenne diverse controargo-mentazioni: la storiografia doveva essere “totale” – doveva cioèguardare al quadro integrato dello sviluppo storico in tutti gliambiti sociali. Di certo i fondamenti economici e sociali di que-sto sviluppo erano considerati più importanti della superficiepolitica, ed essi potevano inoltre essere studiati sistematica-mente, e non solo negli archivi. E generalizzazioni di lungoperiodo sui fenomeni storici erano di fatto sia possibili cheauspicabili.Negli anni tra le due guerre, l’influenza della scuola delle

Annales fu assai trascurabile. Improvvisamente, dopo il 1945, si

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estese, e, sotto la guida di Fernand Braudel, leader della secon-da generazione, finì per dominare la scena storiografica inFrancia e poi in molte altre parti del mondo. Iniziò per la primavolta a farsi strada nel mondo anglofono. Dal punto di vista isti-tuzionale, il gruppo delle Annales sovrintese alla creazione diuna nuova istituzione universitaria a Parigi, fondata sulla pre-messa che gli storici dovessero fare tesoro e integrare i contri-buti delle altre, tradizionalmente più nomotetiche, disciplinedella scienza sociale, e che queste a loro volta dovessero proce-dere in maniera più “storica” nel loro lavoro. L’epoca braude-liana rappresentò un attacco sia intellettuale che istituzionale altradizionale reciproco isolamento delle discipline della scienzasociale.Braudel suggerì un linguaggio sui tempi sociali che giunse a

modulare il lavoro successivo. Criticò la storia “dominata daglieventi” o episodica (histoire événementielle), formula con cuiindicava la tradizionale storiografia politica, idiografica edempirista, definendola “polvere”. Polvere in un duplice senso:perché parlava di fenomeni effimeri; e perché entrava negliocchi, impedendo di vedere le reali strutture sottostanti. Macriticò anche la ricerca di verità senza tempo, eterne, conside-rando il lavoro esclusivamente nomotetico di molti scienziatisociali come mitico. Tra questi due estremi, pose l’attenzione sualtri due tempi sociali che le due culture avevano trascurato: iltempo strutturale (o le strutture fondamentali di lunga durata,ma non eterne, che soggiacevano ai sistemi storici), e i processiciclici all’interno delle strutture (o andamenti di medio periodo,come le espansioni e le contrazioni dell’economia-mondo).Braudel mise in rilievo anche la questione dell’unità di analisi.Nella sua opera principale, sottolineò che il Mediterraneo delsedicesimo secolo, che stava analizzando, costituiva una “eco-nomia-mondo” (économie-monde), e fece della storia di questaeconomia-mondo l’oggetto del suo studio.Questi quattro dibattiti ebbero tutti luogo tra gli anni

Cinquanta e Sessanta. Si tennero perlopiù separatamente,senza riferimenti reciproci, e spesso all’insaputa l’uno dell’altro.Eppure, nell’insieme, rappresentarono la principale critica alleesistenti strutture del sapere. Questo sconvolgimento intellet-tuale fu seguito dallo shock culturale delle rivoluzioni del ’68. Equegli eventi ricomposero il quadro. La rivoluzione mondialedel 1968 naturalmente riguardò soprattutto una serie di impor-

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tanti questioni politiche: l’egemonia degli Stati Uniti e la loropolitica mondiale, che li aveva trascinati nella guerra delVietnam; l’atteggiamento relativamente passivo dell’UnioneSovietica, che i contestatori del 1968 consideravano “collusa”con gli Stati Uniti; l’inefficacia dei movimenti tradizionali dellaVecchia Sinistra nell’opporsi allo status quo. Discuteremo que-ste questioni in seguito.In questo tumulto, tuttavia, i contestatori del ’68, che aveva-

no la loro base più forte nelle università, iniziarono anche a sol-levare alcune questioni sulle strutture del sapere. Dapprimasollevarono obiezioni sul diretto coinvolgimento politico deglistudiosi universitari in un lavoro che rafforzava lo status quomondiale – come nel caso dei fisici che conducevano ricerche afini bellici e degli scienziati sociali che fornivano contributi aglisforzi contro-rivoluzionari. Successivamente posero il proble-ma degli ambiti di ricerca trascurati. Nel campo delle scienzesociali, questo si traduceva nelle storie dimenticate di moltigruppi oppressi: le donne, le “minoranze”, le popolazioni indi-gene, i gruppi con inclinazioni o abitudini sessuali alternative.E alla fine, iniziarono a sollevare questioni relative alle episte-mologie soggiacenti alle strutture del sapere.Fu a questo punto, nei primi anni Settanta, che si iniziò a par-

lare espressamente dell’analisi dei sistemi-mondo in quantoprospettiva. L’analisi dei sistemi-mondo era un tentativo dicombinare coerentemente l’interesse per l’unità di analisi, quel-lo per i tempi sociali e la preoccupazione per le barriere cheerano state erette fra le diverse discipline della scienza sociale.L’analisi dei sistemi-mondo implicò innanzi tutto la sostitu-

zione della usuale unità di analisi, che era lo stato nazionale,con un’unità di analisi definita “sistema-mondo”. Nel comples-so, gli storici avevano fino ad allora analizzato le storie nazio-nali, gli economisti le economie nazionali, gli scienziati dellapolitica le strutture politiche nazionali, e i sociologi le societànazionali. Gli studiosi dei sistemi-mondo si mostrarono scetti-ci, mettendo in dubbio che questi oggetti di studio esistesserorealmente, e in ogni caso che fossero i più utili come luoghi del-l’analisi. Al posto degli stati nazionali come oggetto di studio,introdussero i “sistemi storici” che, si sosteneva, erano esistitifino a quel momento in sole tre varianti: minisistemi; e “siste-mi-mondo” di due tipi – economie-mondo e imperi-mondo.Si osservi il trattino d’unione in sistema-mondo e nelle sue

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due sottocategorie, economie-mondo e imperi-mondo. Porrequesto trattino significava sottolineare che non ci si stava rife-rendo a sistemi, economie, imperi del mondo (intero), ma asistemi, economie, imperi che sono un mondo (ma è di certopossibile, e di fatto abituale, che non comprendano l’interoglobo). Questo è un primo concetto cruciale da comprendere.Significa che i “sistemi-mondo” si riferiscono a un ambito spa-ziale/temporale che taglia trasversalmente molte unità politi-che e culturali, rappresentando un’area integrata di attività eistituzioni che obbediscono ad alcune regole sistemiche.In effetti, ovviamente, il concetto venne applicato inizialmen-

te soprattutto al “sistema-mondo moderno” che, si argomenta-va, aveva assunto la forma di una “economia-mondo”. Questoconcetto adattò l’uso che Braudel ne aveva fatto nel suo libro sulMediterraneo, e lo combinò con l’analisi centro-periferia dell’E-CLA. La tesi sostenuta era che l’economia-mondo moderna fosseun’economia-mondo capitalistica – non la prima economia-mondo di sempre ma la prima economia-mondo a sopravvive-re per un periodo così lungo e a prosperare, e a far questodiventando appunto interamente capitalistica. Se la zona daconsiderare capitalistica non era più uno stato ma piuttostoun’economia-mondo, allora la cosiddetta spiegazione internadella transizione dal feudalesimo al capitalismo, avanzata daDobb, aveva poco senso, poiché implicava che la transizione siverificasse più volte, stato per stato, all’interno dello stessosistema-mondo.In questa modalità di formulazione dell’unità di analisi vi era

un ulteriore richiamo a idee precedenti. Karl Polanyi, storicoeconomico ungherese (e in seguito britannico), aveva insistitosulla distinzione di tre forme di organizzazione economica, cheaveva definito: reciprocità (una sorta di dare e prendere diret-to), redistribuzione (in cui i beni si muovevano dal basso dellascala sociale fino al vertice, per essere poi in parte restituitiverso il basso), e mercato (in cui lo scambio avveniva in formamonetaria in uno spazio pubblico). Le categorie dei tipi di siste-mi storici – minisistemi, imperi-mondo ed economie-mondo –sembravano essere un altro modo per esprimere le tre forme diorganizzazione dell’economia di Polanyi. I mini-sistemi si ser-vivano della reciprocità, gli imperi-mondo della redistribuzionee le economie-mondo degli scambi di mercato.Anche le categorie di Prebisch vennero incorporate.

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Un’economia-mondo capitalistica era considerata caratterizza-ta da una divisione assiale del lavoro tra processi produttivicentrali e processi produttivi periferici, che dava luogo a unoscambio ineguale che avvantaggiava chi era impegnato nei pro-cessi produttivi centrali. Poiché questi processi avevano la ten-denza a concentrarsi in alcuni paesi, si poteva far uso di unaformula sintetica parlando di zone centrali e zone periferiche (operfino di stati centrali e stati periferici), purché si tenesse pre-sente che erano i processi produttivi e non gli stati a essere cen-trali e periferici. Nell’analisi dei sistemi-mondo, centro-perife-ria è un concetto relazionale, non una coppia di termini reifica-ti, che hanno cioè significati intrinseci distinti.Che cosa rende un processo produttivo centrale o periferico?

Si finì con l’osservare che la risposta risiedeva nel grado di rela-tivo monopolio o di relativo libero mercato di particolari pro-cessi. I processi relativamente monopolizzati erano di granlunga più remunerativi di quelli di libero mercato. Ciò ha resopiù ricchi i paesi nei quali sono stati localizzati più processi cen-trali. E, dato il potere ineguale dei beni monopolistici rispetto aquelli che avevano molti produttori sul mercato, il risultatofinale dello scambio tra prodotti centrali e periferici è stato untrasferimento di plusvalore (qui inteso come una quota consi-stente degli effettivi profitti derivanti dalle molteplici produzio-ni locali) verso quegli stati che vantavano un numero consi-stente di processi centrali. L’influenza di Braudel fu cruciale sotto due aspetti. In primo

luogo, nel suo più recente lavoro su capitalismo e civiltà,Braudel avrebbe insistito sulla netta separazione tra la sfera dellibero mercato e la sfera dei monopoli. Egli definì capitalismosoltanto quest’ultima e sostenne che il capitalismo, lungi dal-l’essere equivalente al libero mercato, era il “contro-mercato”.Questo concetto segnò un attacco diretto, sia sostanziale cheterminologico, alla assimilazione operata dagli economisti clas-sici (incluso Marx) tra mercato e capitalismo. In secondo luogo,l’importanza accordata da Braudel alla molteplicità dei tempisociali e la sua enfasi sul tempo strutturale – ciò che definiva lalongue durée – divennero centrali nell’analisi dei sistemi-mondo. Per gli studiosi dei sistemi-mondo, la longue durée erala durata di uno specifico sistema storico. Generalizzazioni sulfunzionamento di un tale sistema avrebbero così scongiurato ilpericolo di dare l’impressione che si stessero affermando verità

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senza tempo, eterne. Se questi sistemi non erano eterni, ne con-seguiva allora che avessero degli inizi, delle vite durante le qualisi “sviluppavano”, e delle transizioni finali.Da un lato, questo punto di vista ribadì con forza l’idea secon-

do cui la scienza sociale dovesse essere storica, considerando ifenomeni sul lungo periodo e su larga scala. Ma aprì anche, oriaprì, l’intera questione delle “transizioni”. Dobb e Sweezy ave-vano proposto spiegazioni assai diverse della transizione dalfeudalesimo al capitalismo, ma condividevano il punto di vistasecondo cui, quale che fosse la spiegazione della transizione,questa fosse un evento inevitabile. Tale convinzione rifletteva lateoria illuministica del progresso, che aveva permeato sia ilpensiero liberale classico che il pensiero marxista classico. Glistudiosi dei sistemi-mondo iniziarono a essere scettici riguardol’inevitabilità del progresso. Considerarono il progresso comeuna possibilità più che una certezza. Si chiesero se si potessemai descrivere come progresso la costruzione di un’economia-mondo capitalistica. Questo sguardo scettico consentiva loro diincludere in una descrizione della storia umana le realtà di queisistemi che erano stati raggruppati sotto l’etichetta di “modo diproduzione asiatico”. Non vi era più bisogno di chiedersi sequeste strutture si trovassero in qualche punto particolare di untracciato lineare della storia. E ci si poteva ora chiedere perchéla transizione dal feudalesimo al capitalismo fosse anzi avvenu-ta (come se la possibilità che avrebbe potuto non verificarsifosse un’alternativa concreta), non assumendo la sua inevitabi-lità e guardando semplicemente alle sue cause immediate.Il terzo elemento dell’analisi dei sistemi-mondo fu la non

osservanza dei tradizionali confini delle scienze sociali. Gli stu-diosi dei sistemi-mondo indagarono i sistemi sociali totali sullalongue durée. Si sentirono pertanto liberi di analizzare elemen-ti che erano stati un tempo considerati di competenza esclusivadegli storici o degli economisti o degli scienziati della politica odei sociologi, e di farlo all’interno di un’unica cornice analitica.L’analisi dei sistemi mondo che ne risultò non fu multidiscipli-nare, dal momento che questi studiosi non riconoscevano lalegittimità intellettuale delle singole discipline. Il loro lavoroera unidisciplinare.Naturalmente, l’insieme di queste tre critiche – sistemi-

mondo in sostituzione degli stati come unità di analisi, accentosulla longue durée e approccio unidisciplinare – rappresenta-

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vano una sfida a molti principi sacri. Era del tutto prevedibileche ci sarebbe stato un contrattacco. Che giunse, immediato evigoroso, da quattro direzioni: i positivisti nomotetici, i marxi-sti ortodossi, i teorici dell’autonomia degli stati e quelli del par-ticolarismo culturale. La critica principale di ciascuno di questiera che le loro rispettive premesse di base non erano stateaccettate dagli studiosi dei sistemi-mondo. Ciò è senza dubbioesatto, ma non costituisce certo un’argomentazione intellet-tualmente decisiva. I positivisti nomotetici argomentarono che l’analisi dei siste-

mi-mondo fosse sostanzialmente una narrazione, dal momentoche il suo teorizzare era basato su ipotesi che non erano stateverificate rigorosamente. Di fatto, hanno spesso sostenuto chemolte delle proposizioni dell’analisi dei sistemi-mondo nonsiano confutabili, e quindi intrinsecamente non valide. In parte,questa è una critica all’insufficiente (o inesistente) quantifica-zione della ricerca. In parte, è una critica all’insufficiente (o ine-sistente) riduzione di situazioni complesse a variabili semplici echiaramente definite. In parte, è una proposta per l’intromis-sione di premesse di valore nel lavoro analitico.Naturalmente, si tratta di fatto del capovolgimento della cri-

tica che gli studiosi dei sistemi-mondo hanno mosso al positivi-smo nomotetico. Essi ribadiscono che, invece di ridurre situa-zioni complesse a variabili più semplici, va compiuto uno sfor-zo per rendere complesse e per contestualizzare tutte le cosid-dette variabili semplici al fine di comprendere le situazionisociali concrete. Gli studiosi dei sistemi-mondo non sono con-trari alla quantificazione in sé (quantificano ciò che può essereutilmente quantificato), ma (come la vecchia barzelletta dell’u-briaco ci insegna) ritengono che non si debba cercare la chiavepersa solo sotto il lampione solo perché la luce è migliore (dovesi trovano più dati quantificabili). Occorre andare alla ricercadei dati più appropriati in funzione del problema intellettuale;non si sceglie il problema in funzione della disponibilità di datiquantitativi e rigorosi. Questo dibattito può sembrare un dialo-go fra sordi. In fin dei conti, non si tratta di un’astratta questio-ne sulla metodologia corretta, ma si tratta di capire chi, tra glistudiosi dei sistemi-mondo e i positivisti nomotetici, sia ingrado di offrire spiegazioni più plausibili della realtà storica equindi far più luce sul cambiamento sociale di larga scala e dilungo periodo.

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Se i positivisti nomotetici danno talvolta l’impressione diinsistere su un insieme asfissiante e asettico di vincoli intellet-tuali, i cosiddetti marxisti ortodossi non sono da meno. Il mar-xismo ortodosso è impantanato nelle figure retoriche dellascienza sociale del diciannovesimo secolo, che condivide con illiberalismo classico: il capitalismo è l’inevitabile progresso oltreil feudalesimo; il sistema di fabbrica è la quintessenza del pro-cesso di produzione capitalistico; i processi sociali sono lineari;la base economica controlla la meno fondamentale sovrastrut-tura politica e culturale. La critica di Robert Brenner, storicodell’economia marxista ortodosso, all’analisi dei sistemi-mondo è un buon esempio di questo punto di vista.La critica marxista all’analisi dei sistemi-mondo sostiene

dunque che, nell’analizzare un asse centro-periferia della divi-sione del lavoro, essa è circolazionista e trascura la base produ-zionista del plusvalore e la lotta di classe tra borghesia e prole-tariato come variabile esplicativa centrale del cambiamentosociale. L’analisi dei sistemi-mondo è accusata di non conside-rare il lavoro non salariato come anacronistico e in via di estin-zione. Ancora una volta, i critici capovolgono le critiche chesono state loro rivolte. Gli studiosi dei sistemi-mondo hannosostenuto che il lavoro salariato è solo una delle molte forme dicontrollo del lavoro all’interno di un sistema capitalistico, enemmeno la più vantaggiosa dal punto di vista del capitale.Hanno sostenuto che la lotta di classe e tutte le altre forme dilotta sociale possono essere comprese e valutate soltanto all’in-terno del sistema-mondo considerato nel suo insieme. E hannosostenuto che gli stati nell’economia-mondo capitalistica nongodono dell’autonomia o dell’isolamento che rende possibiledefinirli come aventi uno specifico modo di produzione.La critica dei sostenitori dell’autonomia degli stati afferma un

po’ il contrario di quella marxista ortodossa. Mentre i marxistiortodossi sostengono che l’analisi dei sistemi-mondo ignora lacentralità determinante del modo di produzione, i sostenitoridell’autonomia degli stati argomentano che l’analisi dei siste-mi-mondo riduce la sfera politica a un ambito le cui realtà deri-vano e sono determinate dalla base economica. Le critiche dellasociologa Theda Skocpol e dello scienziato politico AristideZolberg argomentano in questa direzione, ispirandosi al prece-dente lavoro dello storico tedesco Otto Hintze. Questo grupposostiene che non è possibile spiegare cosa accade a livello stata-

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le o interstatale semplicemente pensando a questi ambiti comeparte di un’economia-mondo capitalistica. Le motivazioni chegovernano l’agire in queste sfere, si afferma, sono autonome erispondono a pressioni altre rispetto al comportamento nelmercato.Infine, con l’emergere dei vari concetti “post” collegati agli

studi culturali, l’analisi dei sistemi-mondo è stata sfidata conargomenti analoghi a quelli usati dai sostenitori dell’autonomiadegli stati. L’analisi dei sistemi-mondo è accusata di derivare lasovrastruttura (in questo caso, la sfera culturale) dalla sua baseeconomica e di trascurare la realtà autonoma e centrale dellasfera culturale (si veda ad esempio la critica del sociologo dellacultura Stanley Aronowitz). Agli studiosi dei sistemi-mondosono imputati gli stessi errori dei positivisti nomotetici e deimarxisti ortodossi, sebbene gli studiosi dei sistemi-mondo siconsiderino critici di entrambe queste scuole di pensiero.L’analisi dei sistemi-mondo è accusata di essere solo un’ulte-riore versione di “grande narrazione”. A dispetto della suarivendicazione di dedicarsi alla “storia totale”, l’analisi dei siste-mi-mondo è tacciata di economicismo, cioè di accordare priori-tà alla sfera economica rispetto alle altre sfere dell’agire umano.A dispetto del suo immediato e forte attacco all’eurocentrismo,è accusata di essere eurocentrica per il fatto di non accettarel’irriducibile autonomia delle differenti identità culturali. Inbreve, di trascurare la centralità della “cultura”.Ovviamente, l’analisi dei sistemi-mondo è di certo una gran-

de narrazione. Gli studiosi dei sistemi-mondo argomentano chetutte le forme di attività del sapere implichino inevitabilmentegrandi narrazioni, ma che alcune di queste riflettano la realtàmeglio di altre. Nel loro insistere sulla storia totale e sull’unidi-sciplinarietà, gli studiosi dei sistemi-mondo rifiutano di sosti-tuire una cosiddetta base culturale a una base economica.Piuttosto, come abbiamo detto, cercano di abolire i confini trale modalità economica, politica e socioculturale di analisi.Soprattutto, gli studiosi dei sistemi-mondo non intendono but-tar via il bambino con l’acqua sporca. Essere contro lo scienti-smo non vuol dire essere contro la scienza. Essere contro il con-cetto di strutture eterne non significa che le strutture (tempo-ralmente circoscritte) non esistano. Ritenere che l’attuale orga-nizzazione delle discipline sia un ostacolo da superare nonsignifica che non esista un sapere (per quanto provvisorio o

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euristico) a cui si perviene collettivamente. Essere contro il par-ticolarismo mascherato da universalismo non significa che tuttii punti di vista siano ugualmente validi e che la ricerca di ununiversalismo pluralista sia futile. Ciò che queste quattro critiche hanno in comune è l’idea che

l’analisi dei sistemi-mondo, nella sua narrazione storica, tacciaun soggetto centrale. Per il positivismo nomotetico, il soggettoè l’individuo, homo rationalis. Per il marxismo ortodosso, ilsoggetto è il proletariato industriale. Per i sostenitori dell’auto-nomia degli stati, è l’uomo politico. Per i teorici dei particolari-smo culturale, ognuno di noi (differente da tutti gli altri) è unsoggetto impegnato in un discorso autonomo con ciascun altro.Per l’analisi dei sistemi-mondo, questi soggetti, proprio come illungo elenco di strutture che si potrebbero enumerare, sono iprodotti di un processo. Non sono elementi atomici primordia-li, ma parte di una mescolanza sistemica da cui emergono esulla quale agiscono. Agiscono liberamente, ma la loro libertà èvincolata dalle rispettive biografie e dalle gabbie sociali di cuisono una parte. Analizzare le proprie gabbie restituisce lorolibertà, fino al livello massimo di libertà che è per loro possibi-le. Nella misura in cui ognuno di noi analizza le nostre prigionisociali, ci libereremo dalle loro costrizioni nella misura in cuipossiamo liberarcene.Infine, va sottolineato che, per gli studiosi dei sistemi-

mondo, spazio e tempo – o piuttosto il composto combinatoSpazioTempo – non sono realtà esterne immutabili che sono inqualche modo just there, e all’interno delle cui cornici esiste larealtà sociale. Gli SpazioTempo sono realtà costruite in conti-nua trasformazione, la cui costruzione è parte integrante dellarealtà sociale che si sta analizzando. I sistemi storici all’internodei quali viviamo sono certo sistemici, ma sono anche storici.Rimangono gli stessi nel tempo, eppure non sono mai gli stessida un minuto all’altro. È un paradosso, ma non una contraddi-zione. L’abilità nel confrontarsi con questo paradosso, che nonpossiamo eludere, è il compito principale delle scienze socialistoriche. E non è un enigma, ma una sfida.

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CAPITOLO 2Il sistema-mondo moderno

come economia-mondo capitalistica. Produzione, plusvalore e polarizzazione

Il mondo in cui oggi viviamo, il sistema-mondo moderno, haavuto origine nel sedicesimo secolo. All’epoca questo sistema-mondo era localizzato solo in una parte del globo, principal-mente in alcune regioni dell’Europa e delle Americhe. Neltempo si è espanso fino a coprire l’intero pianeta. È, ed è sem-pre stato, una economia-mondo. È, ed è sempre stato, un’eco-nomia-mondo capitalistica. Si dovrebbe iniziare spiegandocosa questi due termini, economia-mondo e capitalismo, stianoa indicare. Sarà poi più agevole apprezzare il profilo storico delsistema-mondo moderno – le sue origini, la sua geografia, ilsuo sviluppo temporale e la sua attuale crisi strutturale. Ciò che si intende per economia-mondo (l’économie-monde

di Braudel) è una estesa area geografica al cui interno esiste unadivisione del lavoro e dunque un significativo scambio internodi prodotti di base o essenziali, così come flussi di capitali e dilavoro. Una caratteristica distintiva di un’economia-mondo èche essa non è delimitata da una struttura politica unitaria.Piuttosto, all’interno dell’economia-mondo vi sono moltepliciunità politiche, tenute insieme nel nostro sistema-mondomoderno in un sistema interstatale a maglie larghe. E un’eco-nomia-mondo include molte culture e gruppi – che praticanomolte religioni, parlano molte lingue, e si differenziano nei loromodelli quotidiani. Ciò non significa che questi non sviluppinoalcuni modelli culturali comuni, ciò che definiremo una geocul-tura. Significa invece che, in un’economia-mondo, non c’è daaspettarsi, e non si riscontrerà, omogeneità né politica né cul-turale. Ciò che più di tutto unifica la struttura è la divisione dellavoro che si costituisce al suo interno.Il capitalismo non è la mera esistenza di persone o imprese

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che producono per vendere sul mercato con lo scopo di conse-guire un profitto. Queste persone o queste imprese sono esisti-te per migliaia di anni in ogni parte del mondo. Né una defini-zione sufficiente è data dall’esistenza di individui che lavoranoin cambio di salari. Anche il lavoro salariato è conosciuto damigliaia di anni. Siamo in un sistema capitalistico solo quandoil sistema accorda priorità all’incessante accumulazione di capi-tale. Adottando questa definizione, solo il sistema-mondomoderno è stato un sistema capitalistico. Il concetto di inces-sante accumulazione è assai semplice: significa che individui eaziende accumulano capitale al fine di accumulare ancor piùcapitale, un processo che è continuo e incessante. Affermareche un sistema “accorda priorità” a questa incessante accumu-lazione, significa che esistono meccanismi strutturali attraver-so i quali coloro che agiscono in base ad altre motivazioni sonoin qualche modo penalizzati, e alla fine eliminati dalla scenasociale, mentre coloro che agiscono in base alle motivazioniappropriate vengono ricompensati e, se hanno successo, siarricchiscono.Un’economia-mondo e un sistema capitalistico procedono

insieme. Poiché le economie-mondo mancano del cemento uni-ficante di una struttura politica complessiva o di una culturaomogenea, ciò che le tiene insieme è l’efficacia della divisionedel lavoro. E questa efficacia è una funzione della costanteespansione della ricchezza creata da un sistema capitalistico.Fino all’epoca moderna, le economie-mondo che erano stateformate si disgregavano o venivano trasformate manu militariin imperi-mondo. Storicamente, l’unica economia-mondo aessere sopravvissuta per lungo tempo è stato il sistema-mondomoderno, e questo perché il sistema capitalistico si è radicato econsolidato come sua caratteristica distintiva.Al contrario, un sistema capitalistico non può esistere se non

nel contesto di un’economia-mondo. Si vedrà che un sistemacapitalistico esige una relazione molto particolare tra produtto-ri economici e detentori del potere politico. Se questi ultimisono troppo forti, come in un impero-mondo, i loro interessiprevarranno su quelli dei produttori economici, e l’incessanteaccumulazione di capitale cesserà di essere una priorità. I capi-talisti necessitano di un ampio mercato (per loro i minisistemisono dunque troppo angusti), ma necessitano anche di unamolteplicità di stati, così da poter ottenere i vantaggi del lavo-

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rare con gli stati, ma anche in modo da potersi sottrarre aglistati ostili ai loro interessi in favore di quelli ben disposti neiloro confronti. Solo l’esistenza di una molteplicità di stati all’in-terno di una divisione del lavoro complessiva assicura questapossibilità.Un’economia-mondo capitalistica è un’insieme di molte isti-

tuzioni, la cui combinazione rende conto dei suoi processi, eognuna delle quali è intrecciata alle altre. Le istituzioni fonda-mentali sono il mercato, o piuttosto i mercati; le imprese checompetono sui mercati; la molteplicità di stati, all’interno di unsistema interstatale; gli aggregati domestici; le classi; e i gruppidi status (per usare il termine weberiano, da alcuni ridefinito inanni recenti come “identità”). Tutte queste sono istituzioni crea-te all’interno della cornice dell’economia-mondo capitalistica.Naturalmente, tali istituzioni presentano alcune somiglianzecon istituzioni esistite nei sistemi storici precedenti, alle qualisono stati dati gli stessi nomi, o nomi simili. Ma usare la stessadenominazione per descrivere istituzioni collocate in sistemistorici differenti, molto spesso confonde l’analisi piuttosto chechiarirla. È meglio pensare all’insieme delle istituzioni del siste-ma-mondo moderno come contestualmente peculiare a esso.Iniziamo dai mercati, dal momento che sono di norma consi-

derati la caratteristica essenziale di un sistema capitalistico. Unmercato è sia una concreta struttura locale in cui individui oimprese vendono e comprano beni, sia una istituzione virtualetrans-spaziale in cui avviene lo stesso genere di scambio. Ledimensioni e l’estensione di ogni mercato virtuale dipendonodalle realistiche alternative che si presentano a venditori e com-pratori in un dato momento. In linea di principio, in un’econo-mia-mondo capitalistica il mercato virtuale esiste nell’econo-mia-mondo nel suo insieme. Ma, come vedremo, vi sono spes-so interferenze con questi confini, che creano mercati piùristretti e più “protetti”. Vi sono naturalmente mercati virtualidistinti per ogni merce, così come per i capitali e per i diversitipi di lavoro. Ma si può anche affermare che, nel tempo, esistaun unico mercato mondiale virtuale per tutti i fattori di produ-zione combinati, a dispetto di tutte le barriere che sussistono alsuo libero funzionamento. È possibile pensare a questo merca-to virtuale totale come a una calamita per tutti i produttori e icompratori, la cui forza d’attrazione è un fattore politicocostante nei processi decisionali di ciascuno – stati, imprese,

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aggregati domestici, classi e gruppi di status (o identità).Questo mercato mondiale totale virtuale è una realtà in quantoinfluenza tutti i processi decisionali, ma non funziona mai com-pletamente e liberamente (ossia senza interferenze). Il mercatototalmente libero funge da ideologia, da mito, e da influsso vin-colante, ma mai da realtà quotidiana.Una delle ragioni per le quali esso non costituisce una realtà

quotidiana è che un mercato completamente libero, qualoradovesse mai esistere, renderebbe impossibile l’incessante accu-mulazione di capitale. Questo può apparire un paradosso, poi-ché è senz’altro vero che il capitalismo non può funzionaresenza mercati, ed è anche vero che i capitalisti affermano abi-tualmente di essere a favore di mercati liberi. Ma di fatto i capi-talisti hanno bisogno non di mercati totalmente liberi, ma piut-tosto di mercati che siano solo parzialmente liberi. La ragione èevidente. Supponiamo che esista realmente un mercato mon-diale in cui tutti i fattori di produzione siano completamenteliberi, come solitamente definito dai nostri manuali di econo-mia – un mercato, cioè, in cui i fattori si muovano senza restri-zioni, in cui vi sia un numero molto grande di compratori e unnumero molto grande di venditori, e in cui vi sia informazioneperfetta (nel senso che tutti i venditori e tutti i compratori cono-scono l’esatta situazione di tutti i costi di produzione). In unmercato perfetto di questo tipo, sarebbe sempre possibile per icompratori contrattare al ribasso con i venditori fino a un livel-lo di profitto assolutamente irrisorio (diciamo nell’ordine di uncentesimo), e questo basso livello di profitto renderebbe il giococapitalistico del tutto privo di interesse per i produttori, elimi-nando le basi sociali essenziali a un sistema di questo tipo. Ciò che i venditori preferiscono sempre è un monopolio, gra-

zie al quale possono creare una differenza relativamente ampiatra i costi di produzione e il prezzo delle vendite, realizzandocosì elevati saggi di profitto. Naturalmente, i monopoli perfettisono estremamente difficili da creare, e rari, ma non lo sono isemi-monopoli. Ciò che più di tutto occorre è il sostegno del-l’apparato di uno stato relativamente forte, in grado di imporreun semi-monopolio. Molti sono i modi per farlo. Uno dei piùimportanti è il sistema di brevetti che riserva i diritti su una“invenzione” per un certo numero di anni. È fondamentalmen-te questo ciò che rende i “nuovi” prodotti quelli più costosi peri consumatori e i più remunerativi per chi li produce.

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Naturalmente, i brevetti sono spessi violati, e in ogni caso allafine scadono, ma nel complesso proteggono un semi-monopo-lio per un certo periodo. Con tutto ciò, una produzione protettadai brevetti solitamente rimane solo un semi-monopolio, poi-ché possono esservi altri prodotti simili sul mercato non coper-ti da brevetto. È questo il motivo per cui la condizione normaledei cosiddetti prodotti guida (cioè i prodotti che sono nuovi eche allo stesso tempo rappresentano una quota importante delmercato mondiale complessivo delle merci) è un oligopoliopiuttosto che un monopolio assoluto. Gli oligopoli sono comun-que sufficienti a conseguire il sospirato alto saggio di profitto,soprattutto perché le diverse imprese spesso si accordano perridurre al minimo la competizione sul prezzo.I brevetti non sono l’unico modo attraverso cui gli stati pos-

sono creare semi-monopoli. Un altro è dato dalle restrizionistatali sulle importazioni e le esportazioni (le cosiddette misureprotezionistiche). Uno ancora dai sussidi statali e dalle agevola-zioni fiscali. La capacità degli stati forti di usare il loro peso perimpedire a quelli più deboli di attuare misure contro-protezio-nistiche ne è ancora un altro. Il ruolo degli stati come compra-tori su vasta scala di alcuni prodotti, disposti a pagare prezziesorbitanti, ancora un altro. Infine, disposizioni che impongo-no un onere fiscale ai produttori possono essere assorbite conrelativa facilità dai grandi produttori ma risultare rovinose peri produttori più piccoli, un’asimmetria che si risolve nell’elimi-nazione di questi ultimi dal mercato e dunque nell’aumento delgrado di oligopolio. Le modalità attraverso cui gli stati interfe-riscono con il mercato virtuale sono così ampie da costituire unfattore essenziale nella determinazione dei prezzi e dei profitti.Senza queste interferenze, il sistema capitalistico non potrebbeprosperare e dunque non potrebbe sopravvivere.Tuttavia, vi sono due caratteristiche anti-monopolistiche

intrinseche a un’economia-mondo capitalistica. Innanzi tutto, ilvantaggio monopolistico di un produttore equivale allo svantag-gio di un altro produttore. I perdenti, naturalmente, lotterannopoliticamente per eliminare i vantaggi dei vincitori. E possonofar questo attraverso una battaglia politica all’interno degli statiin cui si trovano i produttori monopolistici, appellandosi alledottrine di un libero mercato e offrendo sostegno ai leader poli-tici propensi a porre termine a un particolare vantaggio mono-polistico. Oppure lo fanno persuadendo altri stati a sfidare il

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monopolio del mercato mondiale utilizzando il loro potere sta-tale per sostenere produttori competitivi. Entrambi i metodivengono utilizzati. Dunque, nel tempo, ogni semi-monopolio siesaurisce per l’ingresso nel mercato di nuovi produttori.I semi-monopoli, dunque, si auto-estinguono. Ma durano

sufficientemente a lungo (diciamo trent’anni) da assicurare unaconsiderevole accumulazione di capitale a coloro che li control-lano. Quando un semi-monopolio cessa di esistere, i grandiaccumulatori di capitale spostano semplicemente i loro capita-li verso nuovi prodotti guida o verso nuove intere industrieguida. Il risultato è un ciclo di prodotti guida. I prodotti guidahanno vite moderatamente brevi, ma sono costantemente sosti-tuiti da altre industrie guida. In questo modo il gioco continua.Quanto a quelle che erano un tempo industrie guida e chehanno perso il loro splendore, esse diventano sempre più “con-correnziali”, cioè sempre meno redditizie. E questo schema siripete di continuo.Le imprese sono gli attori principali del mercato. Sono abi-

tualmente in competizione con altre imprese che operano nellostesso mercato virtuale. Sono anche in conflitto con quelleimprese da cui acquistano fattori produttivi e con quelle a cuivendono i loro prodotti. Il nome del gioco è quello di ferocerivalità intercapitalistica. E solo il più forte e il più agile soprav-vive. Occorre ricordare che la bancarotta, o l’assorbimento daparte di un’impresa più potente, è il pane quotidiano delleimprese capitalistiche. Non tutti gli imprenditori capitalisticihanno successo nell’accumulare capitale. Tutt’altro. Se tutti viriuscissero, probabilmente ognuno otterrebbe un capitale assaiesiguo. Dunque, i ripetuti “fallimenti” delle imprese non soloeliminano i competitori deboli ma sono una conditio sine quanon dell’incessante accumulazione di capitale. È questo ciò chespiega il costante processo di concentrazione del capitale.Certo, vi è un aspetto negativo nella crescita delle imprese, che

sia in senso orizzontale (nello stesso prodotto), in senso vertica-le (nei differenti livelli della catena di produzione), o in un sensoche può essere inteso come ortogonale (in prodotti di altro tiponon strettamente affini). La dimensione abbatte i costi in virtùdelle cosiddette economie di scala. Ma la dimensione aggiungecosti di amministrazione e coordinamento, e moltiplica i rischidi inefficienze gestionali. L’esito di questa contraddizione è statoun reiterato processo a zigzag di espansione e contrazione delle

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dimensioni delle imprese. Ma non si è affatto trattato di un sem-plice ciclo di alti e bassi. Piuttosto, su scala mondiale vi è stataun aumento secolare nella dimensione delle imprese, secondoun processo storico che, nel complesso, ha funzionato come uningranaggio a cricco, due passi avanti e uno indietro, ininterrot-tamente. La dimensione delle imprese ha anche implicazionipolitiche dirette. Grandi dimensioni conferiscono alle impreseun maggior peso politico, ma le rendono anche più vulnerabiliagli attacchi politici – da parte dei concorrenti, dei loro dipen-denti e dei consumatori. Ma anche in questo caso l’esito è uningranaggio a cricco che si muove verso l’alto, verso una mag-giore influenza politica nel corso del tempo. La divisione assiale del lavoro di un’economia-mondo capita-

listica divide la produzione in prodotti centrali e prodotti peri-ferici. Centro-periferia è un concetto relazionale. Ciò che siintende per centro-periferia è il livello di remuneratività deiprocessi di produzione. Poiché la remuneratività è in relazionediretta al grado di monopolizzazione, ciò che essenzialmenteintendiamo per processi di produzione centrali sono quelli con-trollati da semi-monopoli. I processi periferici sono dunquequelli realmente concorrenziali. Quando si realizza uno scam-bio, i prodotti concorrenziali si trovano in una posizione didebolezza e i prodotti semi-monopolizzati sono in posizione diforza. Il risultato è un costante flusso di plusvalore dai produt-tori di prodotti periferici ai produttori di prodotti centrali. Ciòè stato definito scambio ineguale.Certo, lo scambio ineguale non è l’unico modo per spostare

capitale accumulato dalle regioni politicamente deboli a quellepoliticamente forti. Esiste anche il saccheggio, spesso ampia-mente usato nelle prime fasi di incorporazione di nuove regioninell’economia-mondo (si pensi, ad esempio, ai conquistadores eall’oro delle Americhe). Ma il saccheggio si auto-estingue. È uncaso di uccisione della gallina dalle uova d’oro. Nondimeno, poi-ché le conseguenze sono di medio termine e i vantaggi di brevetermine, il ricorso al saccheggio nel sistema-mondo moderno èancora esteso, sebbene siamo spesso “scandalizzati” nel venirnea conoscenza. La bancarotta della Enron, dopo manovre chehanno spostato somme enormi nelle mani di pochi manager, èin realtà un saccheggio. Quando le “privatizzazioni” delle pro-prietà un tempo statali conducono alla loro concentrazione nellemani di uomini d’affari di stampo mafioso, che abbandonano

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rapidamente il paese lasciandosi alle spalle imprese distrutte, sitratta di saccheggio. Che si auto-estingue, certo, ma solo dopoaver procurato molti danni al sistema produttivo mondiale, einvero alla salute dell’economia-mondo capitalistica.Poiché i semi-monopoli dipendono dal sostegno di stati forti,

sono in gran parte localizzati – giuridicamente, fisicamente e intermini di proprietà – all’interni di questi stati. Vi è dunque unaconseguenza geografica della relazione centro-periferia. I pro-cessi centrali tendono a concentrarsi in pochi stati e a costitui-re la gran parte dell’attività di produzione in tali stati. I proces-si periferici tendono a disperdersi tra un grande numero di statie a costituire la gran parte delle attività di produzione in questistati. Dunque, per esigenze di brevità possiamo parlare di staticentrali e stati periferici, purché si tenga presente che si sta inrealtà parlando di una relazione tra processi di produzione.Alcuni stati hanno una combinazione relativamente bilanciatadi prodotti centrali e periferici. Possiamo definirli stati semipe-riferici. Essi hanno, come vedremo, particolari caratteristichepolitiche. Non ha tuttavia senso parlare di processi produttivisemiperiferici. Siccome, come abbiamo visto, i semi-monopoli si esaurisco-

no, ciò che oggi è un processo centrale diverrà un domani unprocesso periferico. La storia economica del sistema-mondomoderno è piena di dislocamenti, o declassamenti, di prodotti,prima verso i paesi semiperiferici, poi verso quelli periferici. Seintorno al 1800 la produzione tessile era forse il principale pro-cesso di produzione centrale, nel 2000 è palesemente uno deiprocessi di produzione periferici meno redditizi. Nel 1800 iprodotti tessili erano lavorati perlopiù in un numero assai esi-guo di paesi (in particolare in Inghilterra e in alcuni altri paesidell’Europa nord-occidentale); nel 2000 i tessili erano prodottidi fatto in ogni parte del sistema-mondo, in particolare quellipoco costosi. Il processo è stato ripetuto per molti altri prodot-ti. Si pensi al settore siderurgico, o a quello automobilistico, operfino ai computer. Questo genere di dislocamenti non haalcun effetto sulla struttura dal sistema stesso. Nel 2000 vierano altri processi centrali (ad esempio la produzione di aereio l’ingegneria genetica) concentrati in un ristretto gruppo dipaesi. Vi sono sempre stati nuovi processi centrali che hannosostituito quelli divenuti più concorrenziali e poi fuoriuscitidagli stati nei quali erano originariamente situati.

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Il ruolo di ogni stato rispetto ai processi produttivi varia note-volmente in base alla combinazione di processi centrali e peri-ferici al suo interno. Gli stati forti, che detengono una quotasproporzionata di processi centrali, tendono ad accentuare illoro ruolo a protezione dei semi-monopoli dei processi centra-li. Gli stati molto deboli, che detengono una quota sproporzio-nata di processi produttivi periferici, non sono solitamente ingrado di fare molto per incidere sulla divisione assiale del lavo-ro, e di fatto sono perlopiù costretti ad accettare il destino che èstato assegnato loro.Gli stati semiperiferici, che hanno una combinazione relati-

vamente bilanciata di processi produttivi si trovano nella situa-zione più difficile. Subendo la pressione degli stati centrali edesercitando pressione sugli stati periferici, la loro maggiorepreoccupazione è di evitare di scivolare nella periferia e di fareil possibile per salire verso il centro. Nessuna delle due cose èagevole, ed entrambe richiedono una considerevole interferen-za dello stato con il mercato mondiale. Sono questi stati semi-periferici a proporre in maniera più aggressiva e pubblica poli-tiche cosiddette protezionistiche. Sperano in tal modo di “pro-teggere” i loro processi produttivi dalla competizione delleimprese più forti all’esterno, e allo stesso tempo provano amigliorare l’efficienza delle imprese all’interno così da compe-tere meglio nel mercato mondiale. Sono entusiasti destinataridella rilocalizzazione di quelli che sono in precedenza stati pro-dotti guida, che viene oggi definita come conseguimento dello“sviluppo economico”. In questo sforzo, i loro rivali non sonocostituiti dagli stati centrali ma dagli altri stati semiperiferici,ugualmente desiderosi di essere destinatari di una rilocalizza-zione che non può essere diretta nello stesso momento e con lastessa intensità verso tutti gli impazienti aspiranti. Agli inizi delventunesimo secolo, alcuni paesi che con tutta evidenza posso-no essere definiti come semiperiferici sono la Corea del Sud, ilBrasile e l’India – paesi con imprese forti che esportano pro-dotti (ad esempio prodotti siderurgici, automobili e prodottifarmaceutici) verso le aree periferiche, ma che hanno ancheregolarmente relazioni con le aree centrali in qualità di impor-tatori di prodotti più “avanzati”.La normale evoluzione delle industrie guida – la lenta disso-

luzione dei semi-monopoli – è ciò che spiega i ritmi ciclici del-l’economia-mondo. Una importante industria guida costituirà

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un enorme stimolo all’espansione dell’economia-mondo egenererà una consistente accumulazione di capitale. Ma condu-ce abitualmente anche a una più ampia occupazione nell’eco-nomia-mondo, a livelli salariali più elevati e a un senso genera-le di relativa prosperità. Man mano che un numero sempremaggiore di imprese entra nel mercato di quello che un tempoè stato un semi-monopolio, si verificherà una “sovrapproduzio-ne” (ossia una produzione in eccesso rispetto alla domandaeffettiva reale in un dato momento) e di conseguenza una mag-giore competizione sul prezzo (per via della contrazione delladomanda), e dunque una riduzione dei saggi di profitto. A uncerto punto, ciò porterà a un accumulo di prodotti invenduti, edi conseguenza a un rallentamento della ulteriore produzione.Quando questo avviene, è possibile osservare un’inversione

della curva ciclica dell’economia-mondo. Parliamo di stagnazio-ne o recessione nell’economia-mondo. I tassi di disoccupazionecrescono in tutto il mondo. I produttori cercano di ridurre i costial fine di conservare le loro quote sul mercato mondiale. Uno deimeccanismi è la delocalizzazione dei processi produttivi in zoneche storicamente hanno salari più bassi, ossia nei paesi semipe-riferici. Questa dislocazione esercita una pressione sui livelli deisalari nei processi che ancora rimangono nelle zone centrali,dove i salari tendono a loro volta a diventare più bassi. Ladomanda effettiva che era in precedenza insufficiente per viadella sovrapproduzione, diviene ora insufficiente a causa di unadiminuzione dei redditi dei consumatori. In una situazione delgenere, non tutti i produttori risultano necessariamente perden-ti. Nell’oligopolio indebolito la competizione fra i produttori chesi contendono questi processi di produzione aumenta sensibil-mente. Combattono tra loro furiosamente, solitamente con l’aiu-to dei rispettivi apparati statali. Alcuni stati e alcuni produttorihanno successo nell’“esportare disoccupazione” da uno statocentrale agli altri. A livello sistemico vi è una contrazione, maalcuni stati centrali e soprattutto alcuni stati semiperiferici pos-sono apparire in ottime condizioni.Il processo qui descritto – espansione dell’economia-mondo

quando vi sono industrie guida semi-monopolistiche e contra-zione nell’economia-mondo quando vi è una riduzione dell’in-tensità del semi-monopolio – può essere rappresentato comeuna curva ciclica di cosiddette fasi-A (di espansione) e fasi-B (distagnazione). Un ciclo composto da una fase-A seguita da una

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fase-B è talvolta definito come ciclo di Kondratieff, dal nomedell’economista che ha descritto con chiarezza questo fenome-no agli inizi del ventesimo secolo. I cicli di Kondratieff hannoavuto fino ad oggi una durata compresa più o meno tra i cin-quanta e i sessanta anni. La loro durata esatta dipende dallemisure politiche adottate dagli stati per evitare una fase-B, e inparticolare dalle misure tese a conseguire la ripresa da unafase-B puntando su nuove industrie guida in grado di stimolareuna nuova fase-A.La situazione che si presenta alla fine di un ciclo di Kondratieff

non è mai uguale a quella precedente all’inizio del ciclo. Questoperché ciò che viene fatto nella fase-B al fine di uscirne e ritor-nare a una fase-A cambia sotto alcuni aspetti significativi i para-metri del sistema-mondo. I cambiamenti che risolvono il pro-blema immediato (o di breve periodo) di un’inadeguata espan-sione dell’economia-mondo (un elemento essenziale per mante-nere la possibilità dell’incessante accumulazione di capitale)ripristinano un equilibrio di medio periodo ma iniziano a creareproblemi per la struttura nel lungo periodo. Il risultato è ciò chepossiamo definire una tendenza secolare. Una tendenza secola-re andrebbe intesa come una curva la cui ascissa (o asse delle x)indica il tempo e la cui ordinata (o asse delle y) misura un feno-meno registrando la quota dei componenti di un certo gruppoche posseggono una certa caratteristica. Se nel tempo la percen-tuale si muove verso l’alto secondo un andamento complessiva-mente lineare, questo implica per definizione (poiché l’ordinataè espressa in percentuali) che a un certo punto non potrà conti-nuare così. Si parla in questo caso di raggiungimento dell’asin-toto, o punto del 100 percento. Nessuna caratteristica può esse-re attribuita a più del 100 percento di qualsiasi gruppo. Ciòsignifica che nel risolvere i problemi di medio periodo risalendolungo la curva, ci si ritroverà alla fine di fronte al problema dilungo periodo di approssimazione all’asintoto.Suggeriamo un esempio di come ciò funziona in un’econo-

mia-mondo capitalistica. Uno dei problemi che abbiamoriscontrato nei cicli di Kondratieff è che, a un certo punto, iprincipali processi di produzione diventano meno redditizi, equesti processi iniziano a essere rilocalizzati al fine di ridurre icosti. Nel frattempo si verifica un aumento della disoccupazio-ne nelle aree centrali, e questo si ripercuote sulla domanda glo-bale effettiva. Le singole imprese riducono i loro costi, ma, nel

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loro insieme, queste imprese incontrano maggiori difficoltà neltrovare un numero sufficiente di consumatori. Un modo perristabilire un livello sufficiente di domanda globale effettivaconsiste nell’aumento dei livelli di retribuzione dei lavoratoricomuni nelle aree centrali, cosa che si è frequentemente verifi-cata nella parte finale delle fasi-B dei cicli di Kondratieff.Questo crea dunque il tipo di domanda effettiva necessaria aprocurare un sufficiente numero di clienti per nuovi prodottiguida. Ma naturalmente livelli di retribuzione più elevati pos-sono significare profitti più bassi per gli imprenditori. Su scalamondiale ciò può essere compensato dall’espansione, in altreparti del mondo, dell’insieme dei lavoratori salariati, disponibi-li a lavorare a un livello salariale più basso. Ciò può essere fattoincludendo nella manodopera salariata nuove persone, per lequali questo salario più basso rappresenta di fatto un incre-mento del reddito reale. Ma, naturalmente, ogni qualvolta siincludono “nuove” persone nella manodopera salariata, si ridu-ce il numero di quelle che non ne fanno parte. Si giungerà cosìa un momento in cui questo gruppo si sarà di fatto ridotto finoal punto da non esistere più. Si sta per raggiungere l’asintoto.Ritorneremo su questa questione nell’ultimo capitolo, quandodiscuteremo della crisi strutturale del ventunesimo secolo.Ovviamente, un sistema capitalistico richiede che vi siano

lavoratori che offrano lavoro per i processi produttivi. Si affer-ma spesso che questi lavoratori siano proletari, ossia lavoratorisalariati che non dispongono di mezzi di sostentamento alter-nativi (perché non posseggono beni immobili né riserve mone-tarie o di proprietà). Ma questa rappresentazione non è deltutto accurata. Da un lato, è irrealistico pensare ai lavoratoricome a individui isolati. Quasi tutti i lavoratori sono legati adaltre persone in strutture di aggregati domestici che abitual-mente raggruppano individui di entrambi i sessi e di età diver-se. Molte, forse la maggior parte, di queste strutture di aggre-gati domestici possono essere definite famiglie, ma i legamifamiliari non sono necessariamente l’unico modo attraverso cuigli aggregati domestici possono essere tenuti insieme. Gliaggregati domestici hanno spesso una residenza comune, ma difatto meno frequentemente di quanto si pensi.Un tipico aggregato domestico conta dalle tre alle dieci per-

sone che, nel lungo periodo (diciamo trent’anni o giù di lì), met-tono in comune molteplici fonti di reddito al fine di sopravvive-

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re collettivamente. Gli aggregati domestici non sono solitamen-te strutture egualitarie al loro interno, né sono strutture immu-tabili (gli individui nascono e muoiono, entrano a far parte degliaggregati domestici o ne escono, e in ogni caso invecchiano edunque tendono a modificare il loro ruolo economico). Ciò checaratterizza una struttura di aggregato domestico è una certaforma di impegno a procurare un’entrata al gruppo e a parteci-pare al consumo derivante da questa entrata. Gli aggregatidomestici sono ben diversi dai clan o dalle tribù o da altre enti-tà molto grandi ed estese, che spesso condividono identità edoveri di reciproca protezione ma che non condividono abitual-mente i redditi. O se entità estese che agiscono come unità diaggregazione dei redditi esistono, rappresentano una disfunzio-ne per il sistema capitalistico.Occorre in primo luogo chiarire che cosa è compreso dal ter-

mine “reddito”. Nel sistema-mondo moderno esistono infattigenericamente cinque varietà di reddito. E pressoché tutti gliaggregati domestici vanno alla ricerca di, e conseguono, ciascu-na di queste cinque varietà, sebbene in proporzioni differenti(cosa che si rivelerà assai importante). Una forma ovvia è il red-dito da salario, con cui si intende il pagamento (solitamente informa monetaria) da parte di persone esterne all’aggregatodomestico per il lavoro di un componente dell’aggregato dome-stico, svolto all’esterno dell’aggregato domestico in un processoproduttivo. Il reddito da salario può essere occasionale o rego-lare. Può essere la remunerazione del tempo impiegato o dellavoro realizzato (lavoro a cottimo). Il reddito da salario ha, peril datore di lavoro, il vantaggio di essere “flessibile” (il lavorocontinuativo è cioè una funzione dell’esigenza del datore dilavoro), sebbene i sindacati, altre forme di azione sindacale daparte dei lavoratori, e la legislazione statale abbiano spessoposto in molti modi limiti alla flessibilità per i datori di lavoro.Ciononostante, i datori di lavoro non sono quasi mai obbligati aprovvedere al sostentamento a vita di particolari lavoratori. Dicontro, questo sistema comporta per i datori di lavoro lo svan-taggio per cui, in caso di necessità di una forza lavoro più nume-rosa, questa può non essere immediatamente disponibile aessere impiegata, soprattutto se l’economia è in una fase diespansione. Ciò vale a dire che, in un sistema di lavoro salaria-to, il datore di lavoro mette in conto, senza che gli sia richiesto,di pagare i lavoratori in periodi nei quali essi non gli sono

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necessari, in cambio della garanzia che tali lavoratori siano dis-ponibili quando ne ha bisogno.Una seconda ovvia fonte di reddito per l’aggregato domestico

è l’attività di sussistenza. Solitamente si definisce questo tipo diattività in maniera troppo angusta, indicando con questaespressione solo le attività dei residenti nelle zone rurali di pro-duzione per il consumo di beni alimentari e di altri beni neces-sari, senza ricorrere al mercato. Si tratta di fatto di una formadi produzione di sussistenza, un genere di lavoro che ha di certosubito una netta flessione nel sistema-mondo moderno, ragio-ne per la quale si afferma spesso che la produzione di sussi-stenza stia scomparendo. Usando una definizione così ristretta,si trascurano tuttavia le numerose modalità attraverso cui l’at-tività di sussistenza è di fatto in crescita nel mondo moderno.Quando si cucina un pasto o si lavano i piatti a casa, si tratta diproduzione di sussistenza. Quando il proprietario di una casamonta mobili acquistati in un negozio, si tratta di produzione disussistenza. E quando un professionista usa un computer perinviare un messaggio di posta elettronica che, in precedenza,una segretaria (pagata) avrebbe dattilografato, lui, o lei, è impe-gnato in una produzione di sussistenza. La produzione di sussi-stenza costituisce oggi un’ampia parte del reddito degli aggre-gati domestici nelle aree economicamente più prospere dell’e-conomia-mondo capitalistica.Una terza forma di reddito dell’aggregato domestico può

essere genericamente definita piccola produzione di merci. Unapiccola merce può essere definita come un prodotto realizzatoall’interno dei confini dell’aggregato domestico ma venduto incambio di denaro su un mercato più ampio. Questo tipo di pro-duzione continua chiaramente a essere assai diffusa nelle areepiù povere dell’economia-mondo, ma non è del tutto assentealtrove. Nelle zone più ricche è spesso definito free-lancing.Questo genere di attività include non solo la commercializza-zione di beni prodotti (compresi naturalmente i beni intellet-tuali) ma anche il piccolo commercio. Quando un ragazzinovende per strada sigarette o fiammiferi sfusi ai consumatori chenon possono permettersi di comprarli nella normale quantitàprevista dalla confezione, questo ragazzo è impegnato nella pic-cola produzione di merci, dove l’attività di produzione consistesemplicemente nel disfare la confezione più grande e nel por-tarla sul mercato di strada.