PICCOLA BIBLIOTECA DI LETTERATURA INUTILE 13 · come opera d’arte (Socle du Monde,1961),è stato...

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PICCOLA BIBLIOTECA DI LETTERATURA INUTILE 13

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PICCOLA BIBLIOTECADI LETTERATURA INUTILE

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PICCOLA BIBLIOTECA DI LETTERATURA INUTILE

IDEA E CURA DI GIOVANNI NUCCI

In collaborazione con la Fondazione Piero Manzoni, Milano

La Fondazione Piero Manzoni è rappresentata da Hauser & Wirth

Per tutte le opere di Piero Manzoni © Fondazione Piero Manzoni, Milano

© 2018 GAFFI EDITORE IN ROMA

ITALOSVEVO®

ISBN

978-889-9028-26-8

ANDREA CORTELLESSA

MONSIEUR ZERO

26 LETTERE SU MANZONI, QUELLO VERO

ITALOSVEVOTRIESTE – ROMA

Pittore milanese, ma geniale.Skiantos, Merda d’artista

Fra i Manzoni preferisco quello vero, Piero.Baustelle, Un romantico a Milano

«Fra i Manzoni preferisco quello vero, Piero». Così –in pieni anni Zero – cantavano, quieti e caustici, i Bau-stelle di Un romantico a Milano. Un’improntitudine checonosce almeno un precedente, non temperato dasimile ironia (ma dall’amarezza giustificata dallo scri-vere a un anno dalla morte dell’artista ventinovenne),nelle parole di Arturo Schwarz: «Se i Manzoni saran-no ricordati, non credo sarà di certo per merito del-l’Alessandro, autore del romanzo più servile e anoni-mo dell’Ottocento, piuttosto sarà grazie alle rarequalità di Piero Manzoni. Mente libera e indipenden-te per eccellenza, che troppo presto ha abbandonatoquesta nostra Italia B.B. (borghese e bigotta)».

L’Italia e Piero Manzoni, già; un rapporto controver-so. Quella che Emilio Villa – a sua volta mai sentitositroppo a proprio agio entro i suoi confini – preferivachiamare «Ytalia», sino a poco tempo fa, non era maistata troppo generosa con questo «pittore milanese, ma

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geniale» (così cantato, invece, dagli Skiantos). Le pre-cedenti retrospettive, quasi tutte dovute all’energia diGermano Celant (che ha indicato con decisione, inlui, l’antecedente diretto di minimali concettuali epoveristi), non erano riuscite a costituire l’opera diManzoni in oggetto di studio condiviso (non è un casoche quasi tutte le pubblicazioni monografiche – a par-te l’incunabolo del sodale Vincenzo Agnetti – abbia-no dovuto attendere l’occasione del cinquantenariodella scomparsa, febbraio 2013, e della grande mostradi lì a poco portata a Palazzo Reale, a Milano, a curadi Flaminio Gualdoni e Rosalia Pasqualino di Ma-rineo, nipote dell’artista e direttrice della Fondazioneche porta il suo nome). La prima di queste retrospet-tive, anzi, tenutasi per volontà di Palma Bucarelli aRoma, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel’71, fu oggetto di memorabile scandalo: con interro-gazione parlamentare di deputato democristiano esa-sperato, reiterate discussioni pubbliche, sfilata di te-stimonianze a difesa ecc. (Davvero un peccato cheManzoni non si sia potuto godere lo spettacolo; e tan-ti saluti al dogma postmodernista secondo il quale,dopo quelle delle avanguardie storiche, nessuna tra-sgressione ha più senso perché nessuna più in gradod’infrangere alcun veto.)

Sicché Manzoni – che espresse la sua “contesta-zione” per la prima volta con una fuga in autostopa diciannove anni in giro per il Belgio e la Francia; eche in vita espose per lo più in Olanda Svizzera e Da-nimarca – sinora è stato preso sul serio assai più all’este-ro che da noi. Lui che ha spinto il dispositivo du-champiano sino all’estremo, firmando il mondo intero

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come opera d’arte (Socle du Monde, 1961), è stato il pri-mo artista nato “globale” (e non divenuto tale con lafama, al modo poniamo di Picasso o de Chirico): chesin dall’inizio, cioè, ha pensato mondialmente la suaarte. Così “anticipando” non solo l’autoiconizzazionedi Warhol ma pure lo spatial turn di Alighiero Boetti.

Proprio Villa, che nel ’59 lo ospitò nella sua galleriaromana, Appia Antica (con catalogo firmato da unLeo Paolazzi non ancora Antonio Porta), fu tra i pri-mi a rendersi conto che quel tizio spuntato dal nullatre anni prima, quel ragazzo sempre un po’ sovrappe-so (se dipingo in bianco – se ne uscì una volta – è per-ché sono sempre a dieta) cogli occhi troppo spalanca-ti e la testa troppo tonda, non era solo un burlone dabar, un rampollo di buona famiglia stufatosi degli stu-di e con sin troppa voglia di far colpo sulle ragazze,uno sprovveduto senz’arte né parte – insomma un fal-lito. Eppure è proprio questa la parola che risuonanella prima pagina del diario giovanile, documentofondamentale (risalente al biennio ’54-55, quandoManzoni tenta la carta del trasferimento a Roma, perstudiare filosofia alla Sapienza: solo per tornare un’al-tra volta all’ovile di famiglia, pure in quel caso con lepive nel sacco) che, conosciuto sino a poco tempo fasolo per sparse citazioni, Electa ha pubblicato inte-gralmente nel 2013 a cura di Gaspare Luigi Marco-ne (il quale ha altresì il merito di aver raccolto, in unprezioso libretto Abscondita, tutti gli Scritti in un mo-do o nell’altro riconducibili all’artista: testi per lo piùgià noti ma dei quali sono riportate anche le redazio-ni preliminari e le varianti nelle diverse pubblicazio-ni): «mi sento un fallito in pittura, un fallito in tutto».

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La bruciatura di fallire come colpo di frusta decisivo.Lo avrebbe detto meglio di tutti, di lì a qualche anno,Samuel Beckett: «Fallire di nuovo. Fallire meglio dinuovo. O meglio peggio. Fallire peggio di nuovo. An-cora un po’ peggio di prima» (un testo di Beckett è fraquelli pubblicati sul primo numero di «Azimuth», larivista alla quale Manzoni dà vita con Enrico Castel-lani nel ’59; e secondo Coca Frigerio, che all’epoca stu-diava a Brera, l’idea dell’Achrome sarebbe venuta a Pie-ro, nel ’57, vedendo le scene e i costumi d’una recitastudentesca di En attendant Godot).

Sentirsi uno Zero, essere trattato da tutti come unoZero. Nelle ultime pagine del Diario Manzoni tentapure la strada della poesia, senza troppa convinzione.Pochi versi scomposti, gli ultimi però eloquenti: «Chealtro possiamo fare | oltre mangiare e bere | forsepensare | al deserto di cani | o al vuoto oscuro | del-l’indomani? || noi, cani randagi | noi, nati per starenel buio». Le testimonianze bruciano come schiaffi:«La gente malignava: “Può permettersi di fare tuttoperché è ricco, perché è un conte”, ricorda JohnnyRicci. “La gente entrava alle sue mostre e ne uscivaridendo”, affonda il coltello Sergio Dangelo. “Tutti cel’avevano col Manzoni”, sancisce Enrico Baj. “Dice-vano che non capiva niente, che era un ritardato, cheera uno schifoso: poi morì giovanissimo, e divennebravo, bravissimo per tutti e i suoi quadri andaronoalle stelle”». Dal disprezzo alla consacrazione, insom-ma – secondo la profezia di Cézanne fatta propria daEdoardo Sanguineti, fare dell’avanguardia un’«arteda museo» –: un processo che va di pari passo con l’in-nalzarsi appunto alle stelle delle quotazioni di mercato

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(il 6 dicembre 2016 una casa d’aste di Milano ha bat-tuto una lattina di Merda d’artista a 275.000 euro: cir-ca trecento volte più del controvalore in oro che allu-sivamente Manzoni, per ciascuna di esse, pretendeva).Il che completa appunto il teorema sanguinetiano:per il quale quella al mercato e quella al museo sonodestinazioni congiunte dell’opera d’arte nella moder-nità compiuta (cioè – Sanguineti non avrebbe maidetto, ma noi possiamo parafrasare – nella postmo-dernità). L’entusiasmo manifestato per Manzoni daDamien Hirst, al riguardo, parla assai chiaro.

Perché la più “seria” ricerca artistica e il più sarcasti-co sberleffo – e anche auto-sberleffo, come quando deli-beratamente si dà in pasto alla goliardia dei Filmgior-nali di Gian Paolo Maccentelli – in Manzoni vannosempre di pari passo. È verissimo che alle sue mostre siride (con calore se ne consiglia la visita a chi coltivi pen-sieri crucciosi): in caso contrario, sarebbero un falli-mento. In questo Manzoni non potrebbe essere piùdistante dall’ascesi mistica e metafisica che insegue ilsuo predecessore più diretto (e che più gli crea proble-mi), Yves Klein. Le icone e i riti (il culto delle reliquie,la comunione, la transustanziazione), che gli vengonoda una religiosità “rientrata” ma mai del tutto esor-cizzata (un po’ come in Manganelli, lo scrittore chepiù gli è vicino) – come si vede bene nelle pagine piùtormentate del Diario – sono da Manzoni parodiati eletteralmente profanati (per dirla con Agamben).Rimessi in scena, cioè, decontestualizzati e dunquecapovolti: evocati e negati insieme, con stellare ironia.Lo stesso si dà coi suoi “precedenti” in senso propria-mente artistico, da Duchamp a Klein passando per

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Burri e Fontana. A tutti loro Manzoni deve qualcosa, datutti è in realtà sovranamente indipendente: come ogniartista “forte”, ha spiegato Harold Bloom, che abbiacombattuto e vinto la propria angoscia dell’influenza.

Zero era, in quegli anni, la Zona di riferimento. I gio-vani artisti tedeschi e olandesi che sono i compagnid’avventura più cari di Manzoni, i suoi coetanei chelavorano nel suo stesso campo (il monocromo come viad’uscita “in sottrazione” dall’informel, la tabula rasa deivalori formali ereditati, il disincanto col quale guar-dare al mondo dei contenuti politici, spirituali e senti-mentali), si riuniscono per qualche anno in un movi-mento che si dà il nome di Gruppo ZERO, appunto (oNul). Nel 1953 Roland Barthes aveva pubblicato ilseminale Le degré zéro de l’écriture, che segnava per la let-teratura la scoperta del «neutro», di una tabula rasavaloriale che coincideva con una zona di infinite possi-bilità d’esplorazione. La «riduzione dell’io» predicatada Alfredo Giuliani nell’introduzione all’antologia deiNovissimi, nel ’61, e variamente praticata dai cinquepoeti ivi raccolti, va a ben vedere nella medesima di-rezione. Non è un caso che proprio i poeti Novissimisiano stati i suoi unici compagni di viaggio italiani (aparte Villa e il complice segreto Vincenzo Agnetti):su «Azimuth» Manzoni pubblica i testi poetici diBalestrini e Porta allora, come detto, ancora Paolaz-zi (suoi compagni di scuola all’istituto gesuita milane-se Leone XIII, poi rincontrati al bar Jamaica), e quel-li di Pagliarani (nel quale si sarà imbattuto invecedurante le interminabili scorribande notturne, fuoridalla redazione dell’«Avanti!»); la prima voce entro lasua bibliografia critica, a presentare una collettiva a

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Bergamo e poi a Bologna, è quella addirittura delmaestro del gruppo, Luciano Anceschi; a Leo Pao-lazzi Villa dà incarico di presentare Manzoni in occa-sione della mostra all’Appia Antica. È un air de famil-le, una complicità che non necessita di tantespiegazioni – e che non verrà meno neppure a poste-riori: Porta scriverà una poesia per Manzoni ancoranell’84 (alla Biennale di Venezia diretta da MaurizioCalvesi), ma già alla morte dell’artista, senza peraltrocitarlo, scrive in forma visiva un poemetto (poi “tra-sposto” linearmente) che reca il titolo quanto maiallusivo di Zero (e lo commenta, su «Marcatré» conun testo dal titolo barthiano, Il grado zero della poesia).«Sono un raffinato signore niente», scrive PM nelDiario, e aggiunge (prefigurando l’ominoso exploit disette anni dopo): «Sono… siamo tutti merda».

L’azzeramento perpetrato da Manzoni era taleanche nei confronti della politica. Almeno nei con-fronti dell’epica e del tragico d’argomento resisten-ziale, allora d’ordinanza. Anche di questo, nelle pagi-ne del Diario, si trova più di una traccia tatuata nellamemoria, di fatti visti cogli occhi nella prima adole-scenza («la brutalità dell’uomo che uccide, del colo-no che massacra, e l’orrore dell’uomo che viene ucci-so»; il padre e gli zii materni che s’impegnano con laResistenza, nascondono armi e stampati, la casa per-quisita dai tedeschi…), che gli dettano un’adesionescomposta, tutta emotiva, ai valori resistenziali e an-che comunisti («i dittatori bisogna attaccarli via per ipiedi sulla pubblica piazza […]. Per liberarci dal fa-scismo, dalla guerra, dalla violenza, bisogna uccider-li, ucciderli tutti»). Tutto questo, nell’opera matura, è

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spazzato via – cancellato con un gesto netto e chirur-gico. Azzerato, appunto. In una delle prime intervi-ste, a Adele Cambria, dice sprezzante: «La politica?Non ha nessun significato per noi, noi viviamo in unmondo avveniristico!».

Ma è invece assolutamente politica, quest’arte, daun altro punto di vista: per come interpreta cioè inmodo inaudito, hanno visto Francesca Alinovi e poiNancy Spector, l’allora nascente «sistema dell’arte»(come sarebbe poi stato definito). La provocazionedelle provocazioni, quella cui tuttora resta legato ilnome di Manzoni nell’immaginario collettivo, èovviamente la Merda d’artista. Fu questo il gesto chepagò caro, Manzoni; quello che gli alienò la maggiorparte delle simpatie, in città, di chi sino a quelmomento aveva guardato a lui come a un inoffensi-vo buontempone. (È un fatto che quando prova aesporle a una collettiva cogli amici Zeristi in Dani-marca, le ominose lattine, si scatena un putiferio per-sino con loro.) È in ogni caso un gesto di non ritor-no, l’episodio chiave nella sua demistificazione deldispositivo feticista su cui si fonda l’arte (non solo, ascanso di equivoci, quella contemporanea). Come hascritto Spector, la decostruzione più radicale fra quel-le da lui compiute è proprio quella del «rapporto del-l’artista con i propri mezzi di produzione»: accoglien-do le nozioni di feticcio tanto di Freud che di Marx,Manzoni registra con spietatezza davvero annichilen-te «la collisione prodotta tra valore estetico e valoredi scambio». Non solo: «Sopprimendo ironicamen-te la separazione tra artisti e opere d’arte» (il propriocorpo esposto, il proprio corpo ridotto a reliquia),

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nonché quella «tra spettatore e opera d’arte» (i visi-tatori della performance che ingeriscono le Uova “firma-te” dall’artista con la propria impronta digitale; gliutenti della Base magica che possono arbitrariamentedecretare “arte” chiunque e qualunque cosa a parti-re dalle loro stesse persone), Manzoni «demistifica lacredenza prettamente modernista che il lavoro arti-stico sia lavoro non alienato».

Vita e arte vengono a coincidere perfettamente, sen-za residui. Ma anziché redimere la vita con l’arte, comeavevano sognato le avanguardie storiche, è l’arte che siconforma del tutto, senza attenuanti, alle dinamicheche dobbiamo subire nella vita. Quello di Manzoni èun realismo, allora, tanto paradossale quanto integrale.C’è un episodio che racconta Nanda Vigo e, come sidice, se non è vero è ben trovato. Quando Manzoniprende a realizzare degli Achromes ricoprendo di caoli-no non più tele da parete ma oggetti quotidiani, quel-lo straniato in maniera più memorabile è la classica“michetta” milanese. Un giorno un panettiere di Bre-ra, vicino al suo studio, lo apostrofa: «Perché non mi faun ritratto in cambio di brioche e panini?». Manzoniallora prende le michette sbiancate e gliele mostradicendo: «T’ho fatto il ritratto». Quell’alienazione di cuiallora tanto si parlava (sino a farsi luogo comune e per-sino marcetta goliardica, presso gli amici letterati comeUmberto Eco ed Emilio Isgrò), Manzoni è capace diritrarla – è il caso di dire – senza farla tanto lunga: colgesto più semplice e icastico.

La sorte di Manzoni – l’uomo-Zero – pare ripeterequella di un personaggio d’invenzione, Silas Cursitor,protagonista di una novella di Paul Morand scritta

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negli anni Trenta (e nel 1944 curiosamente tradottada un giovane Michelangelo Antonioni), Monsieur Zeroappunto. Questo spregiudicato speculatore finanzia-rio, all’indomani della Grande Crisi, vede d’un trattocrollare il suo impero («il danaro era improvvisamen-te divenuto idiota, traditore, malvagio; padrone chetradisce il suo servo, re che tradisce il suo ministro») ese stesso trasformarsi nell’«uomo più maledetto degliStati Uniti». È così costretto a fuggire dalla giustiziache lo bracca facendo il giro del mondo, cambiandoidentità di continuo, saltando freneticamente da unaereo a una nave, correndo a perdifiato da New Yorkalla Riviera, da Tangeri in Lussemburgo… per con-cludere infine questo suo «insensato periplo intorno alnulla» nel paese fra tutti più piccolo, il Liechtenstein.Arrivato al capolinea, Cursitor cessa d’esistere comeessere umano «per risuscitare sotto forma d’una ra-gione sociale»: al momento di spirare, e sparire, «spor-ge una mano dalle lenzuola e trionfalmente la tendeformando, col pollice e l’indice, uno zero». (Quelloche è, fra l’altro, pure il segno di ok, va tutto bene.) Com-mentano Deleuze e Guattari come sia questa l’imma-gine che meglio dà conto del divenire estremo, del«divenire-impercettibile»: «la fine immanente del di-venire, la sua formula cosmica» (nel quale coesistonol’«anorganico», l’«asignificante» e l’«asoggettivo»).

L’autoestinzione cui si dirigono irresistibilmente tan-to Klein che Manzoni, in questo sì gemelli anorgani-ci asignificanti e asoggettivi (l’uno muore a trentaquattroanni il 6 giugno del ’62, l’altro a ventinove il 6 febbra-io del ’63), dice di vite letteralmente divorate dall’arte:questa sorta di moltiplicatore di energie che però –

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come nell’immagine topica che verrà riassunta coneloquenza memorabile dal personaggio di Tyrell nelBlade Runner di Ridley Scott: «La luce che arde col dop-pio di splendore brucia per metà tempo» – letteral-mente brucia coloro che quell’energia si trovino adalbergare. «Bisogna conoscere sé stessi e poi sacrificar-si», aveva scritto nel Diario.

Alla morte di Manzoni Lucio Fontana – il quale sindall’inizio ne aveva riconosciuto la genialità – dichia-rò che con le Linee, in particolare, si era arrivati allafine dell’arte. Intendendo dire che con Manzoni ha finel’idea di quadro, certo, e più in generale l’idea dioggetto di valore: il manufatto evapora nel concetto.E con esso perdono altresì di senso, in arte, le catego-rie di originalità, autenticità, verità. Finiva l’arte, allo-ra – o piuttosto cominciava? Di un indubbio prota-gonista del moderno si poté dire che era parsaun’alba quello che era stato, in effetti, un tramonto.Di Piero Manzoni, quello vero, con ogni probabilità èpiù giusto dire il contrario.

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ALFABETO

PM realizza diverse versioni dell’Alfabeto. Del ’58 è unatela sulla quale viene passata la consueta pellicola dicaolino incolore e vengono poi stampigliate in inchio-stro nero, con l’ausilio della mascherina, le prime quat-tro lettere appunto dell’alfabeto; nello stesso anno sonoconcepite due delle Tavole di accertamento pubblicate poiin serie, da Scheiwiller, nel ’62 (con le prime sette lette-re, stavolta, in inchiostro nero e rosso); al ’59 risale uncollage (in preparazione di una serigrafia mai realizza-ta) con le prime cinque lettere ritagliate da una paginadi «Azimuth» e incollate su un altro foglio di carta; in-fine, nel ’61, un’ultima Tavola di accertamento viene sta-volta indirizzata alla rivista croata Gorgona (progetto eserie definitiva, con l’alfabeto che prosegue sino all’ul-tima delle ventisei lettere per ricominciare poi dalla A).Come le date del Calendario, opera pure del ’58, l’Alfa-beto è il segno più preciso della tabula rasa che prelimi-narmente PM ha inteso fare (e alla quale resterà fede-le sino alla fine: se è vero che a un libro potenziale, unlibro del tutto azzerato, Piero Manzoni life and works, cor-risponde l’ultimo suo progetto – realizzato appenapostumo da Jes Petersen ! Zero). Non un testo dota-to di qualche senso, dunque, ma la semplice attestazio-ne di un sistema di segni acquisito: un alfabeto, ap-punto (in uno spirito non troppo diverso, nel ’64, daGastone Novelli, Achille Perilli, Alfredo Giuliani eGiorgio Manganelli verrà fondata una rivista dal titoloGrammatica ! Novissimi; diversa invece la matrice diScritto sul muro, libro d’artista pubblicato da Novelliall’inizio del ’58). Giustamente Mario Bertoni ha indi-cato in questo PM «l’artista che più si avvicina a unaproblematica che sfiora la poesia visiva». Se infatti con

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questo linguaggio elementare PM si rifiuta di dire alcun-ché (! Essere), ciò non significa che egli non scriva. Lascrittura gli appartiene da sempre: se è vero che nellepagine del Diario giovanile si dice a più riprese indecisotra lo scrivere, appunto, e il dipingere. Ma resterà sem-pre nella sua produzione, la scrittura, «intesa comemacrocategoria antropologica che contiene parole,lettere, segni» (Marcone): le etichette sui tubi delleLinee o sulle scatolette della Merda d’artista sono scrit-te e fanno parte integrante delle opere; così comeautografa è la firma che PM appone sulle stesse eti-chette, sui corpi umani delle Sculture viventi o suimoduli prestampati delle Carte d’autenticità (! Fetici-smo/Firma). Persino al di là della propria volontà,vivendo si lasciano tracce. E anche scritta è la tracciache lascia PM.

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BIANCO

Achromes s’intitolano, a partire dal ’59, i lavori “daparete” di PM. Il termine era già stato impiegato,l’anno precedente, nel manifesto Essentialisme dell’ar-tista belga Jef Verheyen, amico di PM e di Lucio Fon-tana, nel quale si polemizzava con la presunta prima-zia di ! Klein («non è Yves Klein che “inventa” lamonocromia o l’acromia. Ventinove anni prima, PaulKlee ha sancito il principio: “Dipingere nero”»), cosìin realtà attestando la profonda angoscia dell’influen-za patita da questa couche. Anche l’uso della grafia edella pronuncia francese, da parte di PM (che all’ini-zio parlava invece di Superficie acroma), non può dirsiinnocente. Se Klein si fa pubblicità come «Yves le mo-nochrome», con tipica «rivalità d’avanguardia» PMvorrà superarlo ponendosi, al contempo, in una posi-zione insuperabile (Kazarian). Piuttosto che all’essen-zialismo – appunto – del monocromo kleiniano, le cuimatrici sono suprematiste e mistiche, il lavoro di PM

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rinvia a un’idea di negazione (l’alfa privativo), disvuotamento del colore (! Vuoto/Virtuale); cosìcome le Afonie sonore progettate da PM nel ’61 – «perorchestra e pubblico» e «per cuore e fiato» – nello“svuotare” il suono s’iscrivono all’insegna del Silencedi John Cage: quello che per Celant è «il personag-gio chiave degli anni Cinquanta», come tramite del-la lezione di ! Duchamp. Un riferimento più diret-to (soprattutto per i primi Achromes, sculture nelle qualiil caolino – il loro materiale “neutro”, conosciuto daPM nei laboratori di ceramica di Albisola, dove servi-va a rivestire i manufatti prima di introdurli nel for-no – viene steso su oggetti riconoscibili come ami dapesca e pesi da bilancia) può essere fatto, piuttosto,agli Erased Paintings primi anni Cinquanta di Rau-schenberg (che di Cage era stato allievo al Black Moun-tain College; opere di Rauschenberg e Jasper Johnsvengono pubblicate, nel settembre del ’59, sul primonumero di «Azimuth»); Man with White Shoes è il titolodi un combine painting del ’54 di Rauschenberg al quale,come ha visto Raffaella Perna, PM può essersi ispirato,nel ’61, per la Scarpa destra di Franco Angeli; strettamentecontemporanei sono invece (The Legend of Lot è del ’58)i plaster di George Segal (quelli su cui ironizzerà Mar-tin Scorsese in After Hours…), nei quali viene gramma-ticalizzata – e monumentalizzata – questa via alla can-cellazione-preterizione. Una suggestione, come a tantialtri artisti del tempo, può essere venuta a PM dal laco-nismo ilarotragico di Samuel Beckett. Ricorda l’amicaCoca Frigerio, all’epoca a Brera, che nel ’57 PM l’ac-compagnò alle prove d’una recita studentesca di Enattendant Godot, le cui scene comprendevano fra l’altro

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delle maschere rivestite di garza, gesso, colla e appun-to caolino; e che subito PM entrò in cartoleria a pro-curarsi il necessario. Ma gli Achromes conseguono laloro paradossale pienezza solo su parete: se l’elegan-za quasi calligrafica delle pieghe orizzontali richiamain modo evidente l’essenzialità dei Concetti spaziali(invece in verticale) di Fontana, in uno di essi – che,più irregolare, evoca la superficie spiegazzata d’un len-zuolo (o d’una Sindone) – la memoria non può noncorrere a un altro totem ingombrante, Alberto Burri,la cui prima personale a Milano si tiene alla galleria

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Il Naviglio, di Carlo Cardazzo, nel gennaio del ’57(proprio del ’57 è Two Shirts, esposto quell’anno allaprima grande antologica americana, curata da Swee-ney al Carnegie Institute di Pittsburgh). Nell’agostodel ’60, al critico catalano Juan Eduardo Cirlot, scri-ve PM: «Burri e Fontana sono gli unici due pittori ita-liani, secondo me, che abbiano fatto realmente qual-cosa».

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