PERVINCA PACCINI VIOLA - autodafe-edizioni.com · Prendi la mia mano. Quelli si spaventeranno...

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PERVINCA PACCINI VIOLA

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PERVINCA PACCINI

VIOLA

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ESTRATTO DA:

Violadi Pervinca Paccini

© 2011 Autodafé Edizioni srl, Milano

ISBN 978-88-97044-18-5

www.autodafe-edizioni.com

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Viola

6 marzo 1973 (l’alba)Prendimi la mano, Giulia. Guardami. Che fai? Perché non mi guardi?

Piangi? State tutti piangendo, lì dietro quei vetri. Ma non c’è da piangere;tu non mi lascerai andare, lo so bene. Fra un momento verrai qui,staccherai tutti questi tubi, questi aghi che violano il mio corpo, miaiuterai ad alzarmi – perché sì, è vero, mi sento debole, solo un tantinoperò – e mi porterai a casa. Papà e mamma staranno un po’ da noi e poiresteremo sole, ma non avremo paura, non abbiamo mai paura quandosiamo insieme, abbracciate nello stesso letto, come quando eravamopiccole; ti aliterò in faccia dopo aver mangiato l’insalata intrisa d’aceto etu ti arrabbierai, ridendo come sempre.

Prendi la mia mano, Giulia. Non permettere che mi trascininolontano. Come faresti? Ti dai tante arie, ma sei la sorella piccola, haibisogno di me. Come faresti ad alzarti ogni mattina, a riprendere in manola vita ogni giorno: gli esami, le sconfitte, l’amore, la tristezza. E i coretticon chi li farai? E che sapore avranno le unghie rosicchiate? Che saporeavranno i perché senza risposta; bisogna essere in due per trovare lerisposte. E di domande ne abbiamo tante io e te, non è vero?

E poi, Giulia, pensa a quando resterai sola senza i nostri genitori…no, non posso andarmene, bambina piccolina, patatina… non possolasciarti.

Cosa aspetti? Vieni qui e aiutami ad alzarmi. Fai in fretta perché il miocorpo diventa sempre più pesante e come potrai sollevarmi se non tisbrighi?

Non voglio andarmene, Giulia. Voglio correre incontro al vento chemi sputa in faccia gli aghi di ghiaccio dell’inverno e rotolarmi sulla sabbiabollente che sa di mare e ascoltare le conchiglie che soffiano, nell’orecchiodi chi non ha fretta, le loro leggende antiche. Voglio respirare i prati e lapuzza della città: Buenos Aires, Venezia, San Babila. Quante volte, Giulia,il cuore nel cuore, gli occhi fissi sugli stessi sogni, quante volte l’abbiamopercorsa a piedi?

Tienimi con te, sorella mia. Costringi le mie palpebre ad aprirsi. Nonpermettere che si chiudano su tutto quello che deve ancora accadere. Io

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ho fame di vita, ho fame di tutto. Voglio disperarmi, innamorarmi,maledire Dio, pretendere che mi ascolti.

Non mi vedi, Dio. Oppure fai finta di non vedermi. O forse non esisti.E allora, arrangiati! Posso fare a meno di te.

E tu, Giulia, che cazzo aspetti? Molla quel sacchetto che tieni stretto.Perché ti attacchi a quei quattro stracci, i vestiti che mi hanno tolto quandosono arrivata in questo posto di merda?

Sbrigati, Giulia. Prendi la mia mano. Quelli si spaventerannosicuramente di fronte alla tua fermezza. Non so chi siano, però mi stannodicendo di andare con loro. Oh, ma io non mi lascio certo convincere dailoro sorrisi velati d’ombra; glielo dirò che ho tante cose da fare e poi diròloro anche che mia sorella arriverà da un minuto all’altro e che è bene chenon si facciano trovare qui perché lei si arrabbierebbe sicuramente.

E come farai con le bamboline? Non hai mai imparato a drappeggiaregli stracci come fossero abiti da sera. No, lo vedi anche tu che non possolasciarti sola. Chissà cosa mi combineresti! Ti vedo già davanti allospecchio mentre di malavoglia ti prepari per uscire: il reggiseno, bianco,rigido, quasi una corazza, le mutande alte, pudiche, il reggicalze… Equando gli amici ti chiederanno Viola dov’è? Come mai non è venuta?Come te la caverai, Giulia?

Lo capisci da te che devi sbrigarti. Non c’è un minuto da perdere,Giulia.

Il freddo, quel freddo che ha incominciato a mordermi là, al parco, e ilbuio posso forse sopportarli, ma non il nulla, non questo vuoto. Che faquel medico… si avvicina a voi, non sento ciò che dice… maledizione aquesto vetro! Ma voi non ascoltatelo, non credete a una sola delle sueparole; io sto bene, ho solo bisogno che tu, Giulia, venga qui e mi aiuti asollevarmi, solo un pochino, poi posso farcela anche da sola.

Perché scoppiate a piangere? Molla quel sacchetto, Giulia e vieni qui…io sto bene… dammi solo la tua mano… non credetegli… non credetegli!Vi sta raccontando solo palle… sto bene vi dico, sono solo un po’ debole.Ecco, lo vedete anche voi: mi manderanno a casa. Tra poco. Stanno giàstaccando questi stupidi fili… è sparito il bip, quello che ti trapana ilcervello e non ti lascia sognare. Mi manderanno a casa, ve l’avevo detto…Sbrigati, Giulia, prima che cambino idea. Oh cristosanto, Giulia, non puoiabbandonarmi e io non posso lasciarti sola… sbrigati Giulia… sbrigati…

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PRIMO MOVIMENTO

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18 gennaio 1973Se ne stava lì.Lo sguardo fra le lunghe ciglia scure di trucco. Lo sguardo divorato

dalla nostalgia di un domani che non sarebbe arrivato. Quello sguardospalancato scagliava gli ultimi brandelli di vita verso il cielo di ghiaccio,come per catturarlo nella ragnatela disordinata di immagini che avrebbetrascinato con sé nella notte.

Incredulo. Uno sguardo d’acqua, l’acqua di certi mari del sud, d’unverde cristallo, trasparente e cangiante. Si scioglieva nell’umido scorreredi una lacrima ed essa accarezzava il profilo del volto, quindi dileguava nelrivolo sottile di sangue che scivolava pigro dal labbro, giù fino al mento,per poi distillare in gocce come di vino annacquato che atterravanosilenziose fra la gola e lo scollo, in un languore ovattato.

Se ne stava lì. Immobile. Con il suo sguardo di nulla.La donna se ne stava lì sul selciato del viottolo che correva tutto intorno

al giardino e cingeva l’intero edificio: una villa d’epoca, indifferente airumori del traffico cittadino che l’assediavano.

L’abito verde, un abito elegante, costoso, lievemente scomposto, l’orloappena sollevato sul ginocchio delicato, la smagliatura della calza comeuna lunga e dolorosa cicatrice sulla gamba sinistra. Il sangue andavaimpadronendosi dei capelli biondi, spegnendone i bagliori dorati. Alcuneciocche giacevano inerti, scompigliate, ma ancora morbide e luminose;altre, in un groviglio rossastro, stridevano, dure, sporche, indecenti, con lapelle bianca non ancora offesa dall’omologazione della morte che cancellale differenze su visi di bambocci con i quali nessuno vuole più giocare.

Se ne stava lì. Con la sua giovinezza testarda. Con le labbra dischiuseper liberare l’urlo che non aveva trovato voce durante quel volo d’angeloverso il selciato.

Se ne stava lì rivendicando il diritto a un perché. Se ne stava lì con ilsuo sguardo di vetro fisso verso l’alto, fra le rare chiazze di verdedell’inverno. Fisso su quel balcone, su quell’uomo che si affacciava allabalaustra, attonito, senza quasi riconoscere il manichino scomposto chegiaceva a terra.

Poi, i domestici. Asia, la governante, ammutolita, non riusciva ad

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avvicinarsi alla padrona. Fu scossa dal grido della cameriera sopraggiuntaalle sue spalle: un grido singhiozzante, cupo di terrore e stridulo dimeraviglia, che andò poi modulandosi in un guaito interminabile equerulo. Uno degli uomini corse a chiamare aiuto, l’altro cercò di capire:seguendo la traiettoria di quegli occhi rivolti al cielo, guardò in alto. Ilbalcone era deserto. La sirena, l’ambulanza. La sera, più nulla, solo traccedi gesso sul suolo e qualche cenno di sangue.

E in quel momento, in quel preciso momento, proprio mentre ladonna bionda precipitava dal balcone verso il suo destino, tu, Viola,andavi gridando la tua rabbia ingenua feroce, sincera. Fluivi nel corteocolorato e disordinato, fra i tuoi compagni, con Giulia, con i tuoi amici.Celebravi i riti della gioventù, la gioventù dei no ad ogni costo, anche sefra quei no sa che potrebbe trovare cittadinanza anche qualche forse.Liberavi la tua ribellione fra i palazzi di una Milano solidale e ostile nellostesso tempo: Buenos Aires, Venezia, San Babila. Con Giulia. Il cuore nelcuore, gli occhi fissi sugli stessi sogni. Con Giulia, con gli altri: BuenosAires, San Babila. E poi più oltre, fino allo slargo e alle insegne familiaridi piazza Santo Stefano.

E mentre quel tonfo definitivo assorbiva i rumori della vita e spegnevail futuro di Nicole, tu stringevi la mano di Giulia, sentivi il suo ditopassare sulle tue unghie rosicchiate, provare piacere nel graffiarsi un pococome una conferma di essere insieme, vive, giovani, disubbidienti, felici.

***

Raggiunsi lo studio di Frediano. A Londra avevo acquistato per lui unlibro antico di dagherrotipi. Risaliva al 1861. Gli avrebbe fatto piacere.

Lo trovai con Marianna; immersi in vecchi giornali e pile di fotodatate. Mi salutarono distrattamente.

«Questa può andare bene?»«Non so.» Marianna sembrava dubbiosa. «Ci vorrebbe qualcosa di più

specifico.»«Allora? Non si saluta nemmeno?»«Sì, sì, ciao… Stiamo cercando le illustrazioni per la mia tesi, ma non

riusciamo a trovare niente che vada bene.»«Qual è l’argomento?»«Il sistema giudiziario italiano negli anni Settanta; e, in particolare,

due processi.»

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«E in questo casino sperate di trovare qualcosa?»«Ci proviamo. Comunque qui non c’è casino. Io so benissimo dove

mettere le mani!»Mentre parlava, Frediano aveva svuotato un cassetto rovesciandone il

contenuto per terra e, perfettamente a suo agio nella confusione, si eramesso a gattonare tra un fascicolo e l’altro.

«Come non detto!» Mi accomodai sul divano sfogliando alcune rivistein attesa che finissero. «Ti ho portato un regalo.»

«Ah sì? Non aspettare che ti ringrazi. Era il meno che potessi fare!»sghignazzò acido, senza neppure guardarmi.

«Se la pensi in questo modo, me lo riporto via.» Sempre così, conFrediano: motti di spirito e battute irritanti si aggrovigliavano secondol’umore.

«E dai che scherzavo. Grazie. Cos’è?»Stavo leggendo e non sentii le sue parole.«Ehi, sei sordo? Il regalo. Cos’è? Cosa mi hai portato?»«Un libro antico. Di fotografie.»Un lungo fischio di sorpresa e compiacimento: «Devi averne

guadagnati di soldi!»«Non c’è male. Ma guarda un po’…» non potei nascondere la

sorpresa.«Che c’è?»Gli mostrai un articolo firmato da Frediano Bozzetti e da una certa

Giulia Lantini, completato da due foto: il testo e le immagini si riferivanoa una manifestazione antifascista indetta negli anni settanta dalmovimento studentesco.

«Ah, sì, Giulia. Si lavorava spesso in coppia: lei scriveva e io scattavo.Le foto non sono un granché... ero agli inizi. Fiorenzo invece cercava dipiazzare gli articoli. Girava anche qualche super-8. Alcuni erano davverobuoni.»

«Fiorenzo?»«Sì, il mio socio. Fra l’altro era anche il fidanzato di Giulia. Non ti

ricordi di lui?»«No. Forse non l’ho nemmeno conosciuto. E neanche questa Giulia.

Probabilmente non ero ancora a Milano.»«Fammi vedere!» Marianna mi tolse il giornale di mano mentre

Frediano si rialzava e faceva una pausa sfogliando il libro che gli avevoportato.

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«Questo gingillo costa sicuramente un patrimonio. Devi essere proprioinnamorato di me!»

«Può essere» risposi stando allo scherzo. «Ehi, Marianna, hai perso lalingua?» mi rivolsi alla ragazza.

«No, è che questa foto, non so… è come se… bah, sarà una miaimpressione.»

«A me sembra una bella immagine di una manifestazione: bandiere,facce convinte, barbe, eskimo… Insomma, non manca niente.»

«Ma!? Si direbbe che ci sia qualcosa fuori posto. Però non so cosa.»«Vediamo un po’.» Frediano si appropriò della rivista e cominciò a

studiarla. «Forse è strana per te» si rivolse a Marianna.«Osservazione acuta! O è un modo gentile per dirmi che sono un po’

fuori?»Che grinta!, pensai. Marianna lavorava al centro antiviolenza insieme

ad Alda, la moglie di Frediano. Mi era sempre sembrata una ragazzafragile. E invece…

«Voglio solo dire che forse c’è un particolare che hai già visto daqualche altra parte» insistette Frediano.

«Può darsi. È come se ci fosse qualcosa che non c’entra niente con lamanifestazione, qualcosa che non dovrebbe stare lì. Ma insomma, saràsuggestione.»

Il citofono ci interruppe.«Stai aspettando qualcuno?» chiesi a Frediano.«A quest’ora no di certo» rispose lanciando un’occhiata all’orologio a

muro che segnava le sette.«Sono io che aspetto qualcuno… Ernesto. L’ho invitato a cena.»

Visibilmente imbarazzata, Marianna si alzò per andare ad aprire.Guardai Frediano che, alzando le spalle, filosofeggiò: «Così è la vita,

vecchio!»«Ah, sei qui anche tu, Gabriele… Io e Marianna… noi…»«Sì» lo interruppi «ti ha invitato a cena. Spero che cucini bene.

Divertitevi! Hai chiuso il laboratorio?»Ero sorpreso e riuscivo a dire solo fesserie.«Certo, è tutto a posto.»Marianna e Ernesto! Non avevo mai pensato a loro. Non in quei

termini, voglio dire. Però la cosa non mi dispiaceva affatto; anzi, a pensarcibene, ero contento.

«Mi faresti una copia?» Marianna si era rivolta a Frediano.

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«Ah, ma allora questa foto ti perseguita!»«Quale foto?» Ernesto era andato alle spalle di Frediano per vedere di

che si trattava. «Bella! È la manifestazione di venerdì scorso?»L’ingenuità di Ernesto ci fece ridere.«Questa è la prova che ci so fare!» gongolò Frediano sventolando la

rivista.«Oppure che Ernesto non capisce niente di fotografia» lo freddò

Marianna.«O forse che deve mettere gli occhiali» gli diedi il colpo di grazia. «Ma

non vedi come sono vestiti questi?» indicai a Ernesto le persone della foto.«E la rivista è un po’ vecchiotta, non ti pare?»

«Bene, cara Marianna: se la pensi così, niente copia.»«E dai, Fredi! Scusami! Sì, ci sai fare, sei un grande… davvero, però

fammi la copia.»«E va bene, bambina. Ti farò la grazia. Passa domani.»«Evvai! Però adesso filiamo, Ernesto; è tardi.»«Non mi aiuti a rimettere a posto?»«Non ho tempo.»Così dicendo, trascinò via Ernesto mentre Frediano gridava: «Non

prima delle sei, però! Mah… Chissà cosa ci vede, Marianna!»«Come?»«La foto. Cosa c’è di strano in questa foto? Che manifestazione sarà, poi?

Ah, sì, c’è scritto nell’articolo. Era il 18 gennaio del ’73. Senti un po’ qui:“Anche a Milano un vasto arco di forze democratiche ha dato vita ad unamobilitazione antifascista di notevole ampiezza. All’appello del Comitatopromotore, che raccoglieva i più noti esponenti dell’intellettualità e dellacultura milanese, ha risposto con entusiasmo un gran numero di operai,lavoratori e studenti…” Che delirio quel periodo! Seminavo rullini un po’dappertutto. Non tenevo niente in casa; io e gli altri sfigati che abitavanocon me ci aspettavamo da un momento all’altro lo sgombero della polizia.Stavamo in un appartamento occupato. Non sarebbe stato igienico farsipescare con del materiale che scottava: ci voleva poco, per quelli della questura,a farlo diventare un reato. Noi, poi, eravamo tutti schedati.»

«E Fiorenzo?»«Viveva con i suoi. Avevano idee un tantino diverse: gli avrebbero

scaraventato dalla finestra tutto quello che, secondo loro, puzzava dicomunista; forse si sarebbe salvato il Corriere della sera, ma non ne sonotanto sicuro.»

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«Ti piaceva giocare alla rivoluzione, vero?» ridacchiai pensandolo alleprese con una specie di guardie e ladri.

«Giocare un cazzo! Erano tempi duri, quelli. Ma che ne sa uno comete che sapeva solo studiare e mangiare ostie!»

«Certo che è un piacere discutere con te. Tolleranza zero! Come allora.E non solo per la zazzera» allusi alla sua chioma folta, scura e ricciutanonostante l’età. «Con l’aggravante che non hai più vent’anni. Ma non seicresciuto, sei solo invecchiato.»

«Io sono coerente. Tu invece? Prima pretino, poi laico, comunista eadesso sei un mezzo imprenditore. Ne hai fatta di strada, complimenti! Ioquello che ero, sono restato. Fotografo la realtà, la documento, la critico,la rivolto in tutti i modi per capirla, per farla capire.»

«Per farla diventare quello che vuoi tu: la fotocopia degli anni settanta.Sei un nostalgico!»

«Ma va là, va là… piantala!»«Fammi vedere questo accidenti di foto, che è meglio.» Gli strappai il

giornale dalle mani. Restammo così, sigillati in un silenzio pesante. Succedeva. Lui acido,

io ruvido, litigavamo spesso. La nostra amicizia però aveva resistito a ognidiscussione. Frediano aveva bisogno di condividere tutto con gli amici:idee, sarcasmo, cultura, sentimenti. Io ero diverso; avevo bisogno dei mieispazi, di momenti esclusivamente miei.

Lo sentii alzarsi e aggirarsi per lo studio mentre fingevo di analizzare lafoto. Fu allora che, un po’ perché continuavo ad averla davanti, un po’ perpassare il tempo, cominciai a esaminarla con maggiore attenzione. Ilgruppo di studenti che sfilava in corteo in via Larga rasentava ilmarciapiede lungo il quale sostavano diverse persone, curiosi o passantiche attendevano il momento propizio per attraversare la strada. In primopiano i manifestanti: due ragazze piuttosto carine, un giovane scuro dicapelli, con la barba e un eskimo chiaro, e un altro che reggeva unabandiera di Al Fatah; le labbra dischiuse, stavano forse cantando olanciando slogan. Alle loro spalle un ragazzo in piedi sul pianale di unfurgoncino e con il viso parzialmente coperto da un megafono. Sul latosinistro, verso l’università, due studentesse vendevano giornali e sullosfondo, oltre il cordone dei manifestanti, una donna con un cagnolino inbraccio, un vecchio che teneva un bambino per mano, una coppia di mezzaetà, alcuni poliziotti e un uomo che salutava il corteo con il pugno chiuso.

«C’è il caffè.»

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Era il suo modo di troncare ogni lite. Un semplice richiamo e la tazzalasciata in cucina. C’è il caffè. Bastava questo a Frediano. Come se miavesse detto: ehi, amico, ma chi ce lo fa fare? Smettiamola lì che è meglio!

«Gennaio del ’73, hai detto?» chiesi sorseggiando lentamente dallatazza fumante. Accidenti se era buono quel caffè. Frediano doveva avercelamessa tutta.

«Sì, 18 gennaio del ’73.»«Io arrivai a Milano proprio quell’anno, solo un po’ più tardi, alla fine

dell’estate. Una data che non si può dimenticare: 11 settembre, il giornodel colpo di stato in Cile.»

«Oggi non ci pensa più nessuno al colpo di stato in Cile. Questa è unadata che ormai appartiene agli Stati Uniti e ai suoi morti. Quelli cilenisono finiti nella storia, un po’ troppo in fretta. Ma fammi preparare lacopia per Marianna, prima che me ne dimentichi; altrimenti la senti,domani!»

Rincasai tardi, quella sera. Ero tornato in laboratorio: dovevo smaltirela litigata con Frediano e sapevo che il lavoro mi avrebbe aiutato.

Li trovai sotto casa, in macchina. Mi aspettavano. Marianna fu la prima a parlare: «Ho scoperto il mistero della foto.»«Cosa? Ah sì, la foto. E allora?»«È una storia troppo complicata. Non ci fai entrare?» Indicò il portone.«Ma è tardi, Marianna, è quasi mezzanotte. E poi domani si lavora.»«Ho capito. Non ti interessa. E poi, alla tua età bisogna andare a letto

presto!»Brava, a pungermi sul vivo: «No, un momento! Va bene. Non più di

mezz’ora, però.»«Ottimo, Gabriele!» sorrise eccitato Ernesto mentre entravamo in casa.«Non te ne pentirai. È una gran bella storia quella che sto per

raccontarti.»«Dunque?»Si scambiarono un’occhiata. La tipica occhiata da cotta, pensai. Non

solo, però. Circolava fra loro un’aria di complicità; gli occhi di Mariannasembravano perfino un po’ umidi, come se la commozione li avesseattraversati.

«Ti stavo dicendo della foto. C’è un tipo che conosco; o, almeno, sochi è.»

«Quale tipo? C’erano diverse persone.»

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«Il ragazzo con la barba. Non ne sono ancora certa al cento per cento.Devo aspettare domani quando Fredi mi darà la copia che mi hapromesso.»

«Così potrai confrontarla con l’altra» intervenne Ernestoingarbugliando ancora di più il racconto.

«Con l’altra? C’è un’altra foto? Io ero rimasto a quella dellamanifestazione.»

Marianna estrasse dalla borsa un’istantanea in bianco e nero e me laporse. Raffigurava due giovani, un ragazzo e una ragazza, abbracciati. Leiassomigliava terribilmente a Marianna. Non c’erano dubbi.

«Tua madre?»«Sì.» La sua voce si era fatta dolce. «Teneva questa foto sulla credenza.

Da sempre. Era importante, per lei.»«E il ragazzo?»«Guardalo bene» suggerì Ernesto. «Non ti ricorda qualcuno?»Sapevo dove voleva arrivare. «Il ragazzo della manifestazione?»«Già» rispose Marianna mentre Ernesto annuiva.Guardai la foto. Il viso del giovane, senza barba, sembrava più affilato

di quello dell’altro e i capelli, corti e meno folti, mostravano qualche filobianco sulle tempie.

«Mi sembra più vecchio.»«E allora? Le due foto potrebbero essere state scattate in tempi diversi.

Mia madre mi raccontò di una persona, di un ragazzo con cui era stataprima di sposarsi. Si chiamava Basilio. L’epoca doveva essere quella dellamanifestazione o, al massimo, due o tre anni dopo. Sicuramente prima del’78, quando mia madre sposò quell’altro e poco dopo nacqui io. In quelmomento lei e Basilio dovevano essersi già persi di vista da un pezzo,altrimenti quello stronzo di mio padre l’avrebbe ammazzata.» Mariannaparlò tutto d’un fiato come per fare in fretta. Aveva ancora paura delpassato.

Mi concentrai sull’immagine che avevo davanti, mentre Ernestoabbracciava la ragazza, che stemperò l’emozione soffiandosirumorosamente il naso.

«Bisognerebbe metterle una vicino all’altra» osservai senza alzare losguardo per non farli sentire in imbarazzo.

«Domani. Se la persona è la stessa, è una bella coincidenza, ti pare?»Ernesto mi guardava senza togliere il braccio dalle spalle di Marianna. Mipiacque questo gesto con il quale mi faceva partecipe dei suoi sentimenti.

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«Certamente.» Sorrisi alla ragazza mentre le restituivo l’istantanea.«Oggi pomeriggio, nello studio di Frediano, guardando la foto della

manifestazione non ci ho fatto caso, non mi è venuta in mente lasomiglianza con questa.»

«Pensi che questo ragazzo sia Basilio?»«Non sono sicura, ma credo di sì. Tu metteresti in cornice una foto

qualunque di cui non ti frega niente? E poi mia madre la spolverava tuttii giorni… forse per accarezzarla. A volte l’ho vista prenderla in mano eguardarla. Insomma, ho immaginato… desiderato…»

«Cosa?»«Che Basilio fosse mio padre. Ma, facendo due conti, ho subito capito

che non era possibile.»«A parte la coincidenza, verificare domani che il ragazzo della

manifestazione è Basilio non ti darebbe qualche certezza in più rispetto aquesto, mi pare di capire.»

«Nessuna certezza. Mi darebbe la conferma che credeva nelle stessecose in cui credeva mia madre. Chissà! Forse con lui è stata felice.»

Per un momento riempimmo la stanza del nostro silenzio. Un silenziobuono, che ci faceva sentire bene. Marianna mi abbracciò salutandomi.Alzò lo sguardo su di me: con un dito rincorsi una lacrima che stava perraggiungere il suo labbro e l’asciugai.

Il ragazzo della manifestazione e quello dell’istantanea eranopresumibilmente la stessa persona, che rispondeva al nome di Basilio.Marianna ingoiò l’emozione e riprese il lavoro per concludere la tesi.

Quanto a me, conobbi qualcuno. Fu fra i mille volti di un corteo cheil suo viso prese consistenza. Quell’incontro cambiò la mia vita, per sempre.

Era il 25 aprile.Piazza San Babila brulicava di gente e il corteo si snodava a perdita

d’occhio lungo corso Venezia, mentre, dal lato opposto, la testa era ormaigiunta in piazza del Duomo. Aspettavo Frediano che si era allontanato perfotografare la marea di bandiere, gonfaloni e striscioni che ondeggiava sullafolla. Le foto avrebbero corredato la memoria che avevo appena terminatodi leggere – appunti di una ex sessantottina sua vecchia amica – e il tuttosarebbe stato pubblicato su una delle riviste con le quali lui collaborava.

Mi guardavo intorno. Ogni volta era lo stesso: ero sempre in bilico frala sensazione che certe cose non servissero a niente e il bisogno di esserci.Forse era così anche per gli altri. In giornate come quelle succedevano

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fatti strani. Sui treni della metropolitana, contrariamente al solito, quandonemmeno ci si guarda in faccia, gli sguardi si frugavano in cerca di indiziper individuare chi avrebbe preso parte alla manifestazione e per dire apropria volta anch’io sto andando lì. Si rinnovavano lo stuporenell’incontrare qualcuno che non ci si aspettava di vedere e l’eccitazione,quando si scopriva di essere in tanti a scendere alla stessa fermata. Sirespirava la sensazione di fare una cosa giusta. In corteo lungo la banchinadella stazione e poi su, tutti insieme in quelle passeggiate collettive cheriaffermavano la voglia di uscire dall’inedia morale che circolava datempo, dal sonno dei ghetti quotidiani per stiracchiare il cervello e legambe e ritrovare la fame di utopie.

Il Venticinque Aprile dei nostri padri tornava a cinquantotto anni didistanza: giovane, pacato e ribelle, opponendo alla politica urlata lacompostezza del ricordo.

«Fatto! Solito bagno di folla. Un casino pazzesco.» Frediano era giuntotrafelato alle mie spalle.

«Credevo ti fossi perso. Dove diavolo sei andato?»«In piazza. La testa è arrivata in Duomo. Sbrigati! Il comizio è già

iniziato. Dobbiamo cercare di avvicinarci al palco.»Frediano, come sempre, azzannava la vita comunque gli si presentasse.

Si ballava in piazza? E lui ballava. Si leggeva il giornale? Frediano leggeva.Si mangiava un panino? E lui mangiava come se fosse stata l’ultima azionedella sua vita, quella definitiva. C’era il comizio? Guai a perderlo!

Giungere sotto il palco rimase un’illusione. Frediano, come giornalista,avrebbe potuto accedere a postazioni migliori, ma la sua smania dipercorrere il corteo più volte, per riprendere i visi della gente, per curiosarefra slogan, giornali e volantini di ogni genere, per fermarsi a chiacchierarecon quelli che gli piacevano, lo rendeva un giornalista anomalo, pocolegato ai privilegi che la sua condizione gli avrebbe potuto garantire.

Le parole di Aniasi. Un applauso zittì per un attimo le contraddizioniche affaticavano la sinistra alla ricerca di una difficile unità.

Fu allora che la vidi.Non giovane, ma con il piglio di una ragazza, guardava Frediano con

curiosità e nello stesso tempo sembrava rincorrere qualche ricordo checonfermasse i suoi sospetti. Quando lui si girò verso di me per dirmiqualcosa, la donna vide meglio il suo viso.

Allora giunse, caldo e gioioso, il richiamo: «Fredi! Fredi! Sei propriotu!?» Si avvicinò con le braccia aperte e tese in avanti.

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«Giulia! Non è possibile! Ti credevo ormai chissà dove e invece ti seirassegnata anche tu a vivere a Milano!»

Fredi ridusse le presentazioni al minimo indispensabile, come suosolito: «La famosa Giulia… Lui è Gabriele.»

Un cenno di saluto, poi lei continuò: «Famosa? Vuoi dire che sonocosì importante?»

«Sì. Abbiamo ritrovato qualche giorno fa un vecchio articolo, sai, unodi quelli che ci servivano per campare.»

«Vere schifezze, se ci penso!» Il comizio volgeva ormai al termine e i manifestanti lasciavano la piazza

a piccoli gruppi, mentre venivano ripiegate le bandiere. Frediano proposedi bere qualcosa e, prendendoci sottobraccio, ci condusse verso ilCamparino.

La voce di Giulia stentava a farsi largo nel chiasso: «Alla fine tu eAlda… ma se non smettevate mai di litigare!»

«Beh, sai come si dice…»«Il diavolo e l’acqua santa» lo interruppi.«Non proprio santa, direi. Alda è sempre stata un’acqua cheta

piuttosto; tranquilla nella vita quotidiana, ma pronta allo scatto quandomeno te l’aspetti. Ed è rimasta la stessa dopo ventotto anni di convivenzacon me e una figlia.»

«Ah, c’è pure l’erede!»«Sì. Federica. Sono pazzo di lei, anche se è una testona. Ormai ha

venticinque anni, vive per conto suo, con altri disperati, in una cascinasommersa dai cani.»

«Cani?»«Sì, cani. Ma anche gatti, canarini, criceti e via dicendo. Ha messo in

piedi una cooperativa che tiene a pensione gli animali.»«Una specie di asilo» intervenni.«Splendido! E Alda?»«Oh, Alda sta bene, lavora… Ma chiamala, ti racconterà tutto. Guai

se lo facessi io! Mi farebbe secco, come minimo. E tu?» «Insegno: un classico! Insegno inglese in un liceo. Niente di eccitante,

come vedi. Vecchia Alda! Sarebbe bello rivederla!»«Dai che organizziamo!» si entusiasmò Frediano.«Che bello ritrovarsi! Mi sembra impossibile che abbiamo potuto

perderci di vista. Siamo cresciuti insieme e poi, d’un tratto, senza unaragione… come se niente fosse…»

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«Fosti tu a sparire» precisò Frediano.«Sì, è vero. D’altra parte bisognava pur crescere; fino a quel momento

avevamo giocato.»«Giocato? Beh, mica tanto! Ne abbiamo fatte di cose, altro che!

Guardati intorno. Guarda quante facce della nostra età. E poi i ragazzi:se vengono in piazza è perché glielo abbiamo insegnato noi, non ti pare?»

«Io non sarei così entusiasta. Partecipare a una manifestazione nonsignifica molto» commentai dubbioso.

L’ironia di Giulia giunse fredda e lapidaria: «Per ogni generazione glianni della propria giovinezza sono unici.»

«Ma quegli anni furono straordinari! In tutto il mondo i giovani…»Giulia lo interruppe: «I giovani fanno casino sempre, per definizione.

Salvo calmarsi quando mettono su famiglia. Guarda i new global. Tisembrano poco convinti? Eppure… aspetta qualche anno e vedrai!»

«E va bene, allora non è successo niente. Probabilmente abbiamosognato! Non c’è stato nessun sessantotto! Anzi, riflettendo bene, anchela Resistenza forse non è esistita, se non per qualche pazzo che ha preferitole montagne all’impero. E sai cosa ti dico? Forse nemmeno i new globalesistono.» Frediano incominciò a gesticolare spazientito, suscitando, conle ultime parole, un’occhiataccia di un giovane rasta.

«Esistono, esistono» rise Giulia. «Poco fa hanno cercato di impedire adun leader sindacale di parlare.»

«Bel colpo!»«Perché, noi cosa facevamo trent’anni fa? Eravamo faziosi, e moralisti

per giunta» gli gettai l’esca.Abboccò: «Tu eri moralista, forse. Tu e i tuoi amici con la sottana.»

Sapevo che non voleva offendermi; Frediano si accendeva come unfiammifero per poi pentirsi e scusarsi. E, dopo tutto, me l’ero cercata.

«Ci risiamo? Ma non sai proprio inventarti niente altro di meglio?Portavo la sottana, ma non il paraocchi. Però adesso smettiamola con lefrasi fatte!»

«Possiamo sempre dedicarci allo sport del momento: il tiro al piattellosugli anni settanta. Pare sia di moda, a destra e a sinistra. Si sentono in girovecchi nomi di allora che si giustificano, quasi si vergognano di averpartecipato a quel sessantotto così infantile e violento – si mettesseroalmeno d’accordo su questo –, con quegli sciocchi che giocavano allarivoluzione. Beh, io non sono un pentito! Oggi sono diverso, ovviamente.Ma non sono un pentito.»

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Giulia gli sorrise con affetto: «Sei buffo quando ti scaldi, come allora.Però sei anche un po’ datato, non credi?»

«Meglio essere datato che avere la memoria corta!»Lei si rabbuiò un poco e, senza parlare, si avviò verso la metropolitana.

La seguimmo; anche Frediano pareva rimuginare i propri pensieri finchénon fu scosso dal suono del cellulare. Mentre era impegnato nellatelefonata, io dovetti scambiare due chiacchiere con alcune persone checonoscevo e salutare un cliente. Quando infine ci guardammo intornoper cercare Giulia, non riuscimmo a vederla.

Frediano alzò le spalle con indifferenza: «Pazienza! È probabile che cisi riveda alla prossima manifestazione. Del resto, ritrovarsi dopo anni puòessere una delusione. Peccato, però, Alda sarebbe stata felice diriabbracciarla e anch’io… Insomma era un’amica, una cara amica.»

Salimmo sulla metropolitana e rimanemmo in silenzio fino almomento di salutarci in prossimità della mia fermata. Un po’ diinsoddisfazione mi rimase addosso. Avevo sperato fino all’ultimo in unapizza insieme o in qualcos’altro che prolungasse la giornata fino a sera edesse un seguito a quell’incontro occasionale.

Trovai in tasca la bozza che avevo letto durante la manifestazione: misembrò un filo sottile che mi collegava a Giulia e la rilessi più volte,mescolando il pensiero di lei con la nostalgia che a volte mi assalivaquando pensavo ai miei anni giovani.

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