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Persona e Stato

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SECOLARIZZAZIONE E POLITICA - 16 MARZO 2007

11 Secolarizzazione e politicadi Francesco Botturi

• Il senso della secolarizzazione• Storia paradigmatica della secolarizzazione• Dall’ateismo al nichilismo• Secolarizzazione e politica

24 Laicità e secolarizzazione. Il cristianesimo contemporaneo tra agostinismo e illuminismo criticodi Massimo Borghesi

• Fondamentalismo e laicità. Il cristianesimo sotto accusa• Illuminismo dogmatico e illuminismo critico• Agostinismo e neoilluminismo. Due modelli di dialogo

EVOLUZIONE DEL DIRITTO - 1 GIUGNO 2007

39 Un recupero per il diritto: oltre il soggettivismo modernodi Paolo Grossi

• Su “moderno” e “post-moderno” nella storia del diritto

Indice

PREFAZIONEdi Mons. Massimo Camisasca

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• Alcune precisazioni preliminari intorno al “soggetto”, al “soggettivismo”,all’“atomismo soggettivistico”

• Alle radici del soggettivismo moderno• Lungo l’itinerario dell’individualismo moderno: il giusnaturalismo fra idea-

lità e ideologia• L’illuminismo giuridico e la sua antinomia di fondo fra dispotismo statale e

individuazione di diritti universali• La riduzione del paesaggio giuridico moderno: la vanificazione delle

dimensioni collettiva e sociale dell’individuo• Astoricità e asocialità della modernità giuridica: la scelta per l’astrattezza• Qualche riflessione conclusiva: per un recupero della complessità del dirit-

to nella complessità della società

53 Il nuovo Principe e i nuovi dirittidi Luca Antonini

• Chi è oggi il Principe?• Verso nuovi diritti sociali fondati sulla sussidiarietà• L’ambigua frontiera dei nuovi diritti• L’attacco alla visione dignitaria dei diritti umani• Il commercio dei diritti umani: un mercato parassitario• Verso una nuova ragionevolezza dei diritti umani fondamentali

IL DIBATTITO CATTOLICO TRA LE DUE GUERRE15 GIUGNO 2007

67 La moderna nozione di Stato: percorsi e problemidi Evandro Botto

• La questione• La genesi e i lineamenti dello Stato moderno• Implicazioni problematiche e sviluppi dell'idea moderna di Stato• Lo Stato nel Magistero sociale della Chiesa

79 Persona e Stato. Il pensiero dei cattolici fra le due guerre mondiali di Maria Bocci

• Un punto di partenza: l’antiliberalismo• Il confronto con l’idealismo: per un nuovo Stato etico?• Lo Stato necessario. Spiritualizzare la politica

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Prefazione

* Superiore generale della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo

Ogni uomo è portato a percepire il proprio tempo come un tempo dicambiamento. Di questa esperienza siamo forse avvertiti in modo parti-colarissimo proprio noi, chiamati a vivere un’epoca in cui il cambia-mento, in tutte le sue più varie e contraddittorie accezioni, sembra esse-re la cifra quotidiana dell’esistenza: di volta in volta subìto, sollecitato,voluto, paventato, desiderato, deprecato, giudicato repentino o tardo. Ilcambiamento, insomma, si mostra in tante peculiarità quanti sono i suoiriflessi su ciascuno, e non appare dunque irrilevante specificare qualedei suoi possibili “nomi”, a mio avviso, si riveli oggi e per noi come ilpiù significativo. Così, mi sembra necessario constatare che, in realtà, lanostra è un’epoca in cui il cambiamento assume un nome denso di sti-moli: rifondazione. Parlo di rifondazione e non di crisi, perché, per i cristiani, il momentostorico in cui sono immersi costituisce sempre una provocazione daaffrontare con realismo costruttivo. Le ragioni di lamento, finanche disconforto, sono tante, ma altrettanto infeconde. Dobbiamo, invece, rico-noscere che a noi è affidata una responsabilità creativa. Questo compi-to non deve essere misurato in base alla capacità di rispondere imme-diatamente a tutte le problematiche poste dal contesto attuale, perchéuna simile fretta ci costringerebbe entro un orizzonte piccolo e alla fineinfecondo. Né il nostro compito può disperdersi in una frammentarietàdi risposte. Occorre, innanzitutto, il coraggio e la pazienza di rinvenirei termini nuovi e generali che conducano a una sintetica visione espli-cativa della contemporaneità, al di là delle facili precomprensioni. Inquesta direzione si muovono i sei interventi qui raccolti. L’intervento di Massimo Borghesi coglie un punto cruciale: «Nel dibat-tito odierno sul rapporto tra religione e laicità si coglie un progressivo

di Mons. Massimo Camisasca*

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radicalizzarsi di posizioni che non favoriscono né il dialogo, né la com-prensione critica dei problemi». E infatti un’autentica «comprensionecritica dei problemi» non può condurre al facile e consueto «sistemabinario della doppia equazione: illuminismo laico=democrazia; cristia-nesimo=fondamentalismo»1. Sistema binario, riduzione dualistica, chenon riesce ad andare al di là di una caricatura del cristianesimo, così darestringere ridicolmente la dialettica contemporanea a uno scontro traoscurantismo e tradizionalismo, da una parte, e tra illuminismo e pro-gresso, dall’altra. Massimo Borghesi critica questa semplicistica con-trapposizione e cita, a sorpresa, Paolo Flores d’Arcais, che riconoscecome il momento attuale non sia caratterizzato da uno scontro tra ragio-ne e fideismo, bensì da «una dialettica sul terreno dell’illuminismo, nonfuori da esso […]. Questa è l’orgogliosa convinzione dell’idea cattolicae di Ratzinger, che ritiene la Chiesa non solo custode di una maiuscolae onnicomprensiva Verità, ma anche paladina di un “retto” illumini-smo»2. Andando oltre l’ironia, il direttore di Micromega coglie nelsegno. La dialettica, infatti, oggi s’instaura tra due illuminismi: unodogmatico e autocelebrativo, in grado unicamente di continuare a pro-spettare l’assoluta autonomia soggettiva della ragione; l’altro critico eaperto, che riconosce nel criterio dell’homo mensura e nel valore nor-mativo del soggetto non la soluzione, ma il problema. Proprio dallacapacità di riconoscere il problema, che Paolo Grossi efficacemente sin-tetizza nell’esigenza di una riscoperta della «necessaria dimensioneoggettiva del soggetto»3, tutti gli interventi qui raccolti individuanonella modellistica del razionalismo astratto il cuore delle aspirazioni edelle illusioni della modernità, continuamente dissolte dalla crisi post-moderna. Francesco Botturi s’interroga circa l’essenza storico-teoretica dellasecolarizzazione moderna. La sua tesi è che «la secolarizzazione moder-na prende avvio dalla crisi del valore universale […] dell’evento stori-co concreto particolare, la persona e la vicenda di Gesù di Nazareth […]come principio di senso e di rigenerazione dell’umano universale»4. Lascissione tra ragione e fede è allora un dramma tutto interno al cristia-nesimo, allorquando, per una complessa congiuntura storica, di cuiRiforma e guerre di religione sono gli elementi principali, la fede non è

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stata più considerata dagli stessi cristiani capace di costituire un ele-mento di coesione universale. Sorge così l’indicazione di una nuova viadella razionalità incaricata non più di porsi come finestra di fronte all’i-potesi della totalità svelata e offerta da Cristo, ma di additare i principiuniversali finalmente condivisibili. È l’epoca dell’etiam si Deus nondaretur, della ragione che rifiuta il valore universale della fede e, conessa, il valore universale dell’umanesimo cristiano, inteso come l’admi-rabile commercium tra la natura umana, aperta originariamente all’e-vento di Cristo, e la grazia, giudizio e compimento delle potenzialità edell’aspirazione dell’uomo. Secolarizzazione come dramma interno alcristianesimo, osserva dunque Botturi. Secolarizzazione come drammainterno al cattolicesimo, rilevo io: un cattolicesimo che, incapace divedere nella separazione tra fede e ragione l’essenza del problema, para-dossalmente s’impegna a mettere tra parentesi l’unità concreta che èl’uomo-creatura di Dio (e addirittura qualcosa di più, con la rivelazio-ne-evento di Cristo, principio ricapitolatore della totalità), per assumereun paradigma teologico estrinsecista, in cui natura e sopranatura diven-gono due ordini separati, completi e autonomi. Da un lato si crede checoncetti come «natura pura» e «diritto puramente naturale» presentinouna maggiore fecondità nel dialogo con i non credenti, dall’altro si com-mette l’errore esiziale di adottare la parallela separazione della ragionedalla fede. Si combatte così il razionalismo assumendone la premessacorrosiva: l’“epoché” della fede eletta a presunto metodo privilegiato,“necessario” e più fecondo per liberare la ragione e attraverso di essaattingere l’identità dell’uomo, stabilire la dinamica dei suoi rapporti,determinare la specificità del suo destino. Invero, in questo dialogo trachi si definisce incredulo e chi, pur dichiarandosi credente, prescindedalla fede per affermare istanze «solamente» naturali, si contrappongo-no, finendo poi per radicalizzarsi, o, all’opposto, per confondersi, dueposizioni incapaci di avviare un confronto autentico. Di questo limite è ben conscio Luca Antonini, il quale avverte comeappaia difficile, per correggere l’attuale scriteriata corsa che confonde idiritti con i desideri, la «semplice rievocazione tout court della grandetematica del diritto naturale»5. Antonini si riferisce alla posizione diJoseph Ratzinger che, prima ancora di divenire Benedetto XVI, a più

7PREFAZIONE

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riprese ha accennato al rischio che l’argomento di diritto naturale possarivelarsi uno strumento «spuntato»6. Infatti, la riflessione teologica delXX secolo, soprattutto grazie all’opera di Henri De Lubac, ha benmostrato tutti i limiti del paradigma duale «dell’ordine spirituale e del-l’ordine temporale», per usare la terminologia di Jacques Maritain. Simile impostazione, intorno agli anni Trenta e Quaranta, ebbe un note-vole centro d’elaborazione nella scuola dell’Università Cattolica diMilano, come spiega nel suo intervento Maria Bocci. Dalla separazionedi piani e competenze si giunge alla dottrina che concepisce le «realtàterrene» e, in primis, lo Stato come entità munite di un fondamentometafisico proprio, autonomo e indipendente. «A partire da tali premes-se, Lazzati sarebbe arrivato a collegare la salvezza personale alla voca-zione politica, perché la felicità eterna dipende dal contributo dato dailaici cattolici alla costruzione della città terrena»7. Sempre Maria Boccisottolinea: «Si può notare che questa sarebbe la strada che avrebbe por-tato il dossettismo a sostenere che non si è uomo se non si è cittadino, eche anzi la perfetta cittadinanza terrena costituisce il passaporto perquella celeste»8. Pensatori come Dossetti e Lazzati vedono lo Stato,inserito all’interno di un sistema morale e razionale che gli conferiscevalore in sé e per sé, «non come strumento di aggregazione appartenen-te al regno dei mezzi, ma come passaggio indispensabile alla realizza-zione del regno dei fini»9. Conclude, allora, Maria Bocci: «Questa por-zione del mondo cattolico ha probabilmente contribuito alla riduzionedel cristianesimo a religione politica, affidata non al popolo cristiano enemmeno al pluralismo sociale, bensì ad avanguardie intellettuali, illu-minate dalla propria capacità progettuale e sempre tormentate dallanecessità di rieducare il popolo italiano a ideali di perfezione religiosa epolitica, ai quali invece si dimostra costantemente inadeguato»10.Utile a sottolineare ulteriormente questo punto si rivela l’intervento diEvandro Botto. Dopo aver ricostruito la vicenda storica che ha condot-to alla formazione dello Stato, creazione moderna caratterizzata dal-l’accentramento del potere in un’istanza tendenzialmente unitaria edesclusiva, Botto indica nel Magistero sociale della Chiesa il luogo overeperire «le linee di una critica per molti versi penetrante della modernaimmagine dello Stato, e suggerire i termini di una possibile rifondazio-

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ne di esso»11. Nei quattro principi cardinali della Dottrina sociale catto-lica (primato della persona, centralità della famiglia e delle libere asso-ciazioni, principio di solidarietà e principio di sussidiarietà) sarà semprepossibile scoprire una parola profetica contro ogni concezione messia-nica, onnipotente e onnicomprensiva del potere politico e dello Stato. Nella lettera enciclica Deus caritas est si legge: «Senz’altro la fede hala sua specifica natura di incontro con il Dio vivente, un incontro che ciapre nuovi orizzonti molto al di là dell’ambito proprio della ragione. Maal contempo essa è una forza purificatrice per la ragione stessa. Partendodalla prospettiva di Dio, la libera dai suoi accecamenti e perciò l’aiuta aessere meglio se stessa. La fede permette alla ragione di svolgere inmodo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio. Equi si colloca la Dottrina sociale cattolica: essa non vuole conferire allaChiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro che noncondividono la fede prospettive e modi di comportamento che appar-tengono a questa. Vuole semplicemente contribuire alla purificazionedella ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giustopossa, qui e ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato»12. Questeparole di Benedetto XVI sintetizzano perfettamente il percorso che si èvoluto fin qui tratteggiare e costituiscono un’efficace luce sintetica concui leggere i sei interventi raccolti.

9PREFAZIONE

1 Cfr. l’intervento di M. Borghesi, p. 24.2 Ibid, p. 26.3 Cfr. l’intervento di P. Grossi, p. 50.4 Cfr. l’intervento di F. Botturi, p. 11.5 Cfr. l’intervento di L. Antonini, p. 63.6 Ibid.7 Cfr. l’intervento di M. Bocci, p. 92.8 Ibid, p. 89.9 Ibid, p. 87.

10 Ibid, p. 93.11 Cfr. l’intervento di E. Botto, p. 74.12 Benedictus P.P. XVI, Deus caritas est, Roma 25/12/2005, n. 28.

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Il senso della secolarizzazione

Il mio tema ha come preoccupazione fondamentale di mettere in luce le poten-zialità del concetto di secolarizzazione, con qualche particolare attenzione allosviluppo della questione politica. Per quanto riguarda la secolarizzazione, la cosa fondamentale su cui vorreiporre l’attenzione è la tesi che essa non può essere trattata solo come una risul-tanza storico-empirica, ma anche, e forse soprattutto, come un’essenza stori-co-teoretica, che come tale ha una genesi ideale e una logica di svolgimento.Il problema critico è di sapere quale sia tale essenza storico-teoretica. Nonritengo che vada identificata come tale con due posizioni tipiche e molto auto-revoli sull’argomento1: la secolarizzazione come grandiosa metafora storicadella “riduzione al secolo”, secondo il modello canonistico: trasferimento oespropriazione di categorie/valori cristiani a favore di realtà mondane oppurela secolarizzazione come “autoaffermazione” (Selbstbehauptung), invenzionedi un mondo secolare in modo semplicemente indipendente e alternativo al cri-stianesimo. A me sembra che queste due pur autorevoli e importanti ipotesiinterpretative non colgano qualcosa di più essenziale della questione.Credo, infatti, che l’essenza storica da cui possono provenire anche i processisopra ricordati sia piuttosto la scissione della singolarità cristiana, scissionein particolarità di fede e universalità religiosa (e poi razionale). La tesi è, cioè,che la secolarizzazione moderna prende avvio dalla crisi del valore universa-le della singolarità cristiana. Uso la terminologia della “singolarità” come lauserebbe Kierkegaard, per esprimere appunto (centro la visione illuministicaalla Lessing) l’eccezionalità e la peculiarità cristiane consegnate in un eventostorico concreto particolare, la persona e la vicenda di Gesù di Nazareth, chela coscienza cristiana ortodossa ha sempre interpretato come principio di sensoe di rigenerazione dell’umano universale.Questa è anche l’essenza dell’umanesimo cristiano, inteso come circolaritàdella natura umana, concepita originariamente come aperta all’evento singola-re di Cristo, e della grazia, a sua volta interpretata come salvaguardia e garan-zia delle doti della comune natura umana; umanesimo cristiano inteso, dunque,

Secolarizzazione e politicadi Francesco Botturi *

* Ordinario di Filosofia Morale, Università Cattolica di Milano

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come circolo tra la singolarità eccezionale di Cristo e l’universalità umana.Ora, dire secolarizzazione vuol dire indicare il processo che si è messo in motodalla scissione del singolare in “particolare” (cristiano) e “universale” (reli-gioso/umano), non più conciliati, perché uniti nella singolarità eccezionale diCristo, bensì prima separati e poi contrapposti. Quindi - si potrebbe dire inmodo essenzialissimo - la fede non più come elemento di coesione universale.Questa scissione è come una scissione atomica, che provoca un’irradiazionelunga, permanente e irreversibile. Noi ci troviamo oggi alla periferia storica diquesto processo che si è dilatato nel tempo. Evidentemente con delle mutazio-ni.Due affermazioni importanti. La prima è che questo processo di scissione chedà luogo alla secolarizzazione è essenzialmente drammatico; la seconda èl’impossibilità di identificare l’essenza della secolarizzazione (piuttosto cheuno dei suoi effetti) con un’aggressione al cristianesimo. Il processo di seco-larizzazione non nasce come un’aggressione al cristianesimo, ma piuttostocome un’implosione storica della fede cristiana stessa, un dramma inizial-mente tutto interno al cristianesimo. All’origine non c’è un nemico esterno(fantasmaticamente “la modernità”, come ha pensato a lungo l’“antimoderno”cattolico), bensì una sindrome complessa di fattori epocali, di cui però la crisiprotestante e la crisi conseguente delle guerre di religione sono fattori princi-pali. In quello stesso periodo storico, d’altra parte, a livello etico-antropologico lascoperta del pluralismo culturale poneva inediti problemi alla tradizionaleimmagine di uomo; in particolare la notizia del Nuovo Mondo americano equella degli antichissimi mondi dell’Egitto, dell’India, della Cina portavanoalla scoperta di costumi barbari in contraddizione con l’universale legge natu-rale o di raffinate civiltà sorte al di fuori dell’influsso ebraico-cristiano e scon-volgenti per la loro antichità le cronologie bibliche. Mentre a livello intellet-tuale, la crisi dell’unità del sapere, cioè delle sue forme fondamentali (tradi-zione scolastica, polimazia umanistica, nuova scienza), nessuna delle qualicapace di offrire un principio di sintesi riconosciuto, metteva in scacco riferi-menti culturali millenari.Ma la questione radicale era quella religiosa per lo scandalo a essa annesso: lamedesima fede, per secoli il principio di unità e di costruzione dell’uomo euro-peo, diventava il principio della divisione e della disgregazione dell’Europa.Ma se la fede non può esser più l’elemento di coesione universale, sia a livel-lo speculativo, sia a quello pratico, è urgente reperire un nuovo denominatorecomune. La crisi dell’umanesimo cristiano esige perciò la ricerca e l’inven-

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zione di nuove sintesi culturali, di altre vie e altre garanzie di universalità, incui gli uomini possano convergere, comunicare e progettare la loro storia al diqua - se non al di là o contro - della fede cristiana. La ricerca di nuovi univer-sali antropologici concepiti come esterni o estranei alla fede, questo segna ilprincipio epistemologico e l’inizio storico del processo sistematico di secola-rizzazione culturale.Lo testimonia efficacemente un intellettuale napoletano del XVII secolo, talFrancesco d’Andrea, giurista e uomo di cultura, aperto alle voci più nuove delsuo secolo. In un suo Manoscritto filosofico ci documenta con precisione ilsentimento di unità che la cultura europea andava coltivando al di qua dellebarriere confessionali, divenute ostacolo all’unità: «il Verulamio (Bacone),l’Obbesio (Hobbes), il Bayle e qualche altro», osserva D’Andrea, sono tra imolti che «son vissuti separati dalla nostra religione»; ma non si può dimenti-care «che essendo oggi già le scienze uscite da que’ confini ne’ le quali letenean ristrette le Scuole, e passeggiando liberamente per tutta l’Europa, sisono rese comuni anche a quei che circa la religione tengon da noi diversi sen-timenti. I quali ben posson consentire con noi, circa le scienze e dissentir nelledivine»2.Ciò stabilisce una nuova e preventiva estraneità dell’opera della ragionerispetto alla fede cristiana, una spontanea tendenza secolarizzante della cultu-ra moderna - quasi pensiero pensante prima che pensiero pensato - su cui nontarda a innestarsi l’autogiustificazione teorica di un atteggiamento “naturali-stico”, in cui la fede è valutata solo come esterna/estranea all’opera dellaragione, e quindi come a essa alternativa. La tensione del pensiero religiosomoderno (Pascal, Malebranche e Vico, Kierkegaard e Rosmini) starà nel con-testare il presupposto che ogni istanza di verità e di valore superiore alla ragio-ne naturale costituisca per questa una minaccia. Questo istinto di difesa dellaragione moderna sembra diventare invece il suo destino: essa, come diceMaritain, finisce per credere di difendere la sua dignità ponendo «un’inimici-zia insormontabile» tra sé e il mistero3.

Storia paradigmatica della secolarizzazione

Inizia così una reazione a catena che giunge ai nostri giorni attraverso scon-volgimenti interni vastissimi. C’è una certa continuità attraverso grandi pas-saggi: dalla secolarizzazione alla fase acuta dell’ateismo ottocentesco, al pas-saggio progressivo verso il nichilismo. Tre momenti di un unico grande pro-cesso epocale, di cui noi stiamo vivendo gli esiti estremi, forse l’esaurimento.

13SECOLARIZZAZIONE E POLITICA

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Dunque, è in gioco - come già dicevo - una visione drammatica della moder-nità o, meglio, della seconda modernità, che merita di essere sottolineata sottoun duplice profilo. Da una parte per sfatare la visione manualistica, eulogica-autocelebrativa, della modernità quale cammino, rettilineo o dialettico, positi-vo verso il trionfo della sua razionalità; dall’altra, per integrare la visione “cat-tolica” della modernità - aggiornata e confermata dai documenti pastorali delConcilio Vaticano II (in particolare la costituzione Gaudium et spes) -, la cuichiave di lettura si limita al rapporto tra razionalismo e ateismo, facendo diquesto il cardine interpretativo della modernità stessa. L’implicito di tale visio-ne è che la secolarizzazione sia piuttosto un fatto rilevante sì, ma solo di costu-me, evitandosi così di porre il problema speculativo del nichilismo (categoriasignificativamente quasi assente dal magistero ecclesiastico fino a oggi).D’altra parte, l’interpretazione della secolarizzazione moderna nella prospetti-va dei teorici della “teologia della secolarizzazione” (come D. Boehoeffer, F.Gogarten, H. Cox, J. Robinson) non fu sufficientemente critica nel discerneretra l’effetto positivo di riappropiazione da parte della coscienza cristiana di unplesso di categorie e valori (sintetizzabili nell’idea della “autonomia delle real-tà terrene”) e la tendenza complessiva del processo secolarizzante al secolari-smo anticristiano.Il processo di secolarizzazione dà luogo, dunque, a una storia paradigmaticadegli atteggiamenti moderni nei confronti del cristianesimo.1) Il primo atteggiamento che viene a definirsi in concomitanza con la crisi

dell’idea di umanesimo cristiano è di riduzione privatistica della religione,incentrata sull’idea della soggettività privata della fede e della confessiona-lità pubblica della religione. Come hanno documentato gli studi di M. DeCerteau, la fede, eredità ancora viva nella coscienza e nell’esperienza euro-pea, è riconosciuta nel contesto dell’esistenza, ma come componente sog-gettiva, opzione “confessionale” senza relazione significativa con la veritàdel mondo. A sua volta, la religione, oggettivazione della fede, è ricondottaa momento pratico del conformismo sociale, subordinato al potere pubbli-co: la religione ha il compito di inculcare lo spirito di obbedienza e di garan-tire l’ordine pubblico. Come dice De Certeau, «la religione comincia a esse-re percepita dall’esterno. Viene collocata nella categoria del costume, o inquella delle contingenze storiche». Nuovi fenomeni “religiosi” come l’atei-smo, la stregoneria o certe forme di mistica, nel loro apparire sincrono, «tra-ducono anche il fatto che le Chiese non sono più capaci di dare alla vitasociale dei fenomeni integrativi. Divise fra loro e al loro interno, le Chiesesi localizzano. Non forniscono più al pensiero o alla pratica l’enunciato di

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leggi generali». In questa situazione, la funzione politica della religione habuon gioco nel prevalere: un’assiomatica dell’azione occorre e «la ragionedi Stato viene a colmare il vuoto regolando i comportamenti»4. Le riflessio-ni cartesiane sulla religione come modo del conformismo sociale o le dot-trine hobbesiane e spinoziane sulla funzione politica del cristianesimo costi-tuiscono esempi assai eloquenti in proposito.

2) Ma l’atteggiamento privatistico ha necessariamente il valore di un transito-rio compromesso, incapace di rispondere alla pretesa totalizzante e univer-salistica del cristianesimo. Così, là dove non c’è opposizione frontale neiconfronti del cristianesimo, come nel caso dell’ateismo libertinismo e delmaterialismo illuminista, un secondo atteggiamento si delinea: la ricom-prensione della religione e del cristianesimo come parti di una totalità razio-nale più vasta. Tale atteggiamento ha due forme principali, legate tra loro dauna certa logica consecutività.

La prima forma è piuttosto limitativa e consiste nell’identificazione del con-tenuto essenziale del cristianesimo con un insegnamento etico, anzi con l’e-spressione compiuta e insuperabile dell’eticità. «Il dogma è niente, la moraleè tutto», scriveva Rousseau a Voltaire: infatti, aggiungeva, «non abbiamo lastessa fede, abbiamo almeno la stessa morale», dal momento che la moralefornisce principi universali, mentre i dogmi e le credenze appartengono alcampo delle particolarità5. Similmente, nell’articolo “Foi” dell’Encyclopédieou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, si legge: «Lamorale ha il sopravvento sulla fede [...] poiché quasi tutta la morale [...] hauna natura immutabile e durerà per l’eternità, quando la fede non sussisteràpiù e verrà cambiata in convinzione [soggettiva]»6. Con Lessing e Kant avvie-ne il passaggio dalla contrapposizione di etica e fede alla loro identificazio-ne. Nel cristianesimo, la coscienza etica dell’umanità tocca il suo vertice el’età moderna, proprio perché educata nella tradizione cristiana, giunta oraalla sua maturità, è in grado di riappropriarsi per via razionale dei grandi con-tenuti (etici) del cristianesimo. Così, ciò che prima in modo immaturo eraoggetto dell’obbedienza infantile della fede, ora viene accolto con autonomaargomentazione razionale: la religione può essere recepita entro i limiti dellapura ragione.La seconda forma di ricomprensione del cristianesimo ne tenta una più ampiae profonda ripresa, che coglie della fede cristiana anche le dimensioni metafi-sica e storica, emarginate dal pensiero illuminista.È la posizione idealista, e in particolare hegeliana, che parte dal riconosci-mento che l’essenza del cristianesimo non si riduce a un codice etico o all’ec-

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celso esemplare storico dell’idea morale universale, ma è «religione assoluta»,compiuta rivelazione dell’uomo nella sua relazione metafisica e storica al divi-no. Il cristianesimo sarà allora la forma religiosa per eccellenza della coscien-za metafisica dell’umanità, cioè espressione mitologica dell’identità metafisi-ca dell’umano e del divino e allegoria della piena autorivelazione dell’Uomo-Dio.Come dice W. Pannenberg, «nessuno dei grandi pensatori moderni si è tantoadoperato quanto Hegel a rimettere la religione cristiana sul trono usurpatodall’Illuminismo, e questo senza far leva su una potenza estranea, ma sul dirit-to stesso della religione e della rivelazione cristiana»7. Contro la riduzione illu-minista e pietista del contenuto della religione cristiana a insegnamento mora-le o a esperienza spirituale e contro la reazione della “teologia del sentimento”(Gefühlstheologie) alla Schleiermacher, Hegel mette in luce la densità specu-lativa del cristianesimo come momento terminale della storia dell’Assolutonella sua manifestazione mondana e quindi come religione della “riconcilia-zione” (Versöhnung) del finito e dell’infinito8. Bisogna insistere su questaforma della secolarizzazione, che coincide con il momento di massima valo-rizzazione culturale del cristianesimo da parte dello stesso pensiero laicomoderno; infatti, la fase successiva (atea) della secolarizzazione dipende inprofondità dalla Aufhebung idealistico-hegeliana del cristianesimo ed è com-prensibile veramente solo come suo esito e insieme dissoluzione.Il pensiero idealista non è dunque un pensiero irreligioso, ma è piuttosto filo-sofia e religione del divino immanente. La realtà storica è sviluppo e manife-stazione dello Spirito assoluto ed è quindi intrinsecamente divina. Mentre ilcristianesimo coincide con quel momento dello sviluppo storico in cui questoprende coscienza della sua essenza divina. In tal senso, come afferma B.Croce, «il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbiacompiuta». Tutte le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni,in quanto ebbero riferimento alla concezione dell’uomo avviata dal cristiane-simo, «non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana, in relazione didipendenza da lei, a cui spetta il primato perché l’impulso originario fu e per-mane il suo»9. E l’impulso nuovo portato dal cristianesimo nella storia dell’u-manità fu un inedito senso dell’universalità spirituale, uno sconosciuto senti-mento della dignità dell’uomo e della sua vocazione a essere il centro delmondo. Nell’Incarnazione, infatti, il cristianesimo ha annunciato l’abolizionedella distanza di Dio dall’uomo, anzi la loro identità, della quale l’«assolutospiritualismo» idealista è il pensiero compiuto: in esso l’uomo celebra la suainteriorità allo Spirito Assoluto.

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La differenza con la filosofia dell’Assoluto sta nel fatto che il cristianesimo, inquanto religione, ha dato al mondo il senso dello Spirito in una forma ancoramitologica, in cui ciò che è proprio della vita del Soggetto spirituale è attri-buito a fatti empirici oggettivi, come avviene nelle forme rituali, ecclesiasti-che, istituzionali della fede cristiana, in particolare cattolica. Per questo, l’es-senza del cristianesimo va ripresa e superata, cioè demitizzata, in una formasuperiore, in cui il suo contenuto metafisico, autenticamente spirituale, vengaliberato dalla scorza mitico-sacrale premoderna.La secolarizzazione idealista è dunque una secolarizzazione ancora religiosa,nei contenuti e negli intendimenti; ma per sua logica intrinseca, essa costitui-sce il perfetto contrario dell’umanesimo cristiano. In quanto sottopone il signi-ficato della fede a una misura esterna e superiore, rovescia il senso della signo-ria di Cristo: tutto ciò che è di Cristo e della sua Chiesa viene attribuito allaRagione umana e al suo divenire storico come Spirito. Il significato universa-le della singolarità cristiana diviene attributo del soggetto razionale. Siamo alpunto della parabola, in cui secondo K. Barth «l’uomo è rimasto solo nelgioco, in quanto egli solo è divenuto soggetto, mentre Cristo è divenuto suopredicato»10.

Dall’ateismo al nichilismo

Culmine della parabola, la secolarizzazione idealista è anche un momentointrinsecamente instabile. La ricomprensione metafisica del cristianesimo aprecon logica facilità all’ateismo: se il cristianesimo, e in generale la religione,non sono che un momento della coscienza di sé da parte dell’umanità, al cul-mine della sua autocoscienza critica, nella sua piena auto-manifestazione,l’uomo si scopre solo con se stesso: la religione non è che il momento miticodella sua identità, quando questa è scopertamente raggiunta, la trascendenzareligiosa appare per ciò che essenzialmente è, “alienazione” dello Spirito da sestesso. Se l’immanenza metafisica è perfetta, allora è anche priva di Dio inquanto alterità fondante, ed è, perciò, in questo senso a-tea. Diventa alloralogico il passaggio, compiuto dalla Sinistra hegeliana, alla considerazione del-l’alterità religiosa non più solo come forma mitica provvisoria, ma anche eanzitutto come forma alienata e patologica della coscienza. Di qui la lotta con-tro tutte le forme della trascendenza per la realizzazione integralmente com-piuta, speculativa e pratica, dell’immanentizzazione del senso.La vita è aperta all’ateismo costruttivo, che nelle sue varie forme vedrà ormainella religione un momento, forse inevitabile (Feuerbach), ma patologico

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(Marx), della vita dello spirito: sintomo di problemi irrisolti da parte della sog-gettività individuale e sociale.In questa forma antagonista e sostitutiva dell’ateismo già si configura unmodo del nichilismo che è annullamento delle forme residue, metafisiche edetiche, di trascendenza e come estensione di tale impresa alla totalità degliaspetti dell’esistenza umana, da quello individuale (Stirner) a quello storico-sociale (Feuerbach e Marx). È la fase del nichilismo che Nietzsche chiama“passivo” o “reattivo”, in cui l’assoluto umano vuole sostituirsi a quello divi-no.Ma se non vi è Assoluto, anche il soggetto che dispone della realtà è finito efallibile (individuale o collettivo che sia): l’ateismo giunto a piena consape-volezza di sé non è prometeico. L’anima più profonda dell’ateismo modernonon è la negazione di Dio e la delegittimazione, individuale e sociale, dellareligione; ma non sta neppure nella pretesa della ragione a porsi come misu-ra originaria ed esauriente della realtà, a essere proporzionata alla totalità delreale, essendone l’origine. Bensì disporre della realtà senza perseguire oattuare una totalità di senso o di valore, ma solamente come esercizio di unpotere che non invoca alcuna giustificazione, che non dipende da alcuna fina-lità, che non è interno ad alcun ordine regolatore.Secondo Del Noce, l’ateismo che raggiunge la realtà storica si rovescia inqualcosa di affatto diverso dal prospettato neoumanesimo; si fa piuttosto irre-ligione pragmatica, tecnicismo ingegneristico, relativismo. All’ateismomoderno, infatti, è essenziale il cambiamento dell’idea di uomo e la necessi-tà del suo farsi mondo; ma all’atto del suo attuarsi l’uomo nuovo si scopreessere essenzialmente un soggetto di potere11. L’ateismo si realizza piuttostocome nichilismo e in specie come tecnicismo tecnocratico, in cui si vorrebberealizzare l’idea della perfetta conciliazione del volere umano con il diveniredel mondo; così che l’idea nuova di uomo finisce per identificarsi con l’e-quazione di tecnica e natura, secondo cui la tecnica può essere in perfettaequivalenza con la natura secondo un principio di trasformabilità illimitata.Secondo Nietzsche, l’essenza del nichilismo compiuto è il nichilismo come«volontà di potenza»: non ricerca del potere, ma esercizio della potenza chederiva dalla piena conciliazione del volere con il divenire del mondo. Il nichi-lismo realizzato è piuttosto dionisismo e non sostituzione di un assoluto umanoo umanitario all’assoluto divino (il «nichilismo reattivo»), non l’occupazioneda parte dell’uomo del posto di Dio, ma la negazione del «posto» (come affer-ma G. Deleuze) e la liberazione di un’energia di affermazione senz’altro fon-damento che se stessa («nichilismo attivo»)12.

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Opportunamente, F. Lyotard ha scritto che caratteristica del post-moderno, inquanto nichilista, è la caduta dei «grandi racconti»: abolite le categorie di tota-lità, unità e fine, ogni spiegazione ultima perde senso. Forse l’unica cifra del-l’esistenza possibile per il nichilismo è la cifra del gioco: senza verità e valo-re, fondati nella realtà eccedente il soggetto, né la contemplazione, né l’azio-ne finalizzata hanno valore, ma solo l’agire fine a se stesso; come il gioco, chedotato di regole al suo interno, non vuole però realizzare nulla oltre se stesso,al di là del suo stesso esercizio.Di qui un orientamento postmetafisico o, comunque, non-trascendentistico, incui sono rifiutati tutti i criteri che conducono a una rappresentazione dell’es-sere e dell’esistente in termini di unificazione e di perfezione, di partecipazio-ne e di totalizzazione. In questo senso, il nichilismo contemporaneo è appuntopost-moderno, coincide cioè con la “caduta dei grandi racconti” e la propostadi forme culturali senza “archetipi”.Con ciò il nichilismo critico contemporaneo non vuole essere la ricezione pas-siva dell’esito dissolutorio della vicenda occidentale, ma il suo superamentopositivo: non bisogna confondere - come spesso avviene - l’oggetto dellariflessione nichilistica contemporanea con la sua intenzione. Se, infatti, le mol-teplici forme del nichilismo contemporaneo hanno un’attitudine comune, que-sta consiste probabilmente, in negativo, nella critica alla sottrazione di positi-vità del reale, che appunto la tradizione metafisica e la mentalità tecnica occi-dentali avrebbero operata, e, in positivo, nel primato accordato all’idea di“evento” (piuttosto che di dato, di struttura, di principio, ecc.) e a quella di“finitezza” dell’essere: dunque, il nichilismo si propone oggi quale riscatto delpositivo nell'eventualità finita.

Secolarizzazione e politica

La vicenda della secolarizzazione moderna è intimamente intrecciata con lacosa politica e non casualmente, dal momento che l’anima della secolarizza-zione è la questione dell’universale antropologico e l’universale pratico umanoimplica la questione dell’organizzazione del mondo umano. La politica (con alcentro l’idea dello Stato) è per questo uno dei grandi “universali” della seco-larizzazione. Le grandi proposte politiche totalizzanti (non necessariamentetotalitarie), in base a un’idea di ritotalizzazione del mondo secondo una certavisione olistica della politica, sono tipiche della modernità. La visione politicaolistica (e le grandi ideologie che ne derivano nel XX secolo) prosegue finchéregge la modernità.

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Di particolare importanza per il progetto politico della modernità è la linea chenasce con Hobbes, in un ambito filosofico in cui non si dà la pretesa di unanuova fondazione universalistica, ma, al contrario, se ne teorizza la rinuncia.In cui cioè, l’esperimento della secolarizzazione è svolto all’insegna dellanegazione dell’universale. La filosofia hobbesiana, infatti, si caratterizza perun rigoroso nominalismo logico e materialismo ontologico, in cui il primato èdato all’esperienza sensibile particolare, alla passione soggettiva e alla ragio-ne è riservata una funzione sussidiaria e non fondativa: la ragione deve aggiu-stare i conti della sensibilità; come dirà Hume, «la ragione è schiava delle pas-sioni».A livello della costruzione politica si evidenzia che l’universalità razionale nonviene meno, ma come esito secondario e con risultato convenzionalistico: loStato è artificio. Alla radice sta una figura antropologica nuova, quella del“soggetto utilitario” (per utilizzare la terminologia di G. Abbà), che specificaquella dell’individualismo “possessivo” di Macpherson. Che cos’è il soggettoutilitario? Diversamente dal soggetto razionalistico poi illuministico, poi idea-listico, che è soggetto pensato secondo un’idea di totalità antropologica, il sog-getto utilitario si concepisce come intrinsecamente scisso e si accetta così; sog-getto scisso tra il logos e il pathos, scisso tra una funzione secondaria razio-nale (di ponderazione e di costruzione) e un principio passionale, impermea-bile e impenetrabile alla ragione. L’antropologia del soggetto utilitario giu-stappone un’energetica e un’eidetica, di cui è possibile e necessaria (allasopravvivenza) solo una reciproca funzionalità estrinseca. Viene meno in uncolpo solo l’antichissimo ideale occidentale dell’uomo come capace di virtù; èabolita come tale l’idea classica umanistica della virtù, cioè di quella meta-morfosi antropologica che consiste nella sintesi affettiva e cognitiva dell’uma-no, meglio nell’elaborazione razionale degli affetti, sulla base del presuppostoche l’uomo abbia un’affettività penetrabile dall’opera della ragione e quindisintetizzabile in una figura terza che è quella della virtù morale. Il soggetto uti-litario, invece, concepisce l’individualità come dominata da un ferreo movi-mento di autoappetizione. È un’autoappetizione senza finalità che non sia lasua conferma e la sua conservazione. Quindi un atomo passionale destinatoall’aggregazione e disaggregazione, fondamentalmente vocato al conflitto conle altre individualità.Quindi non c’è bene antropologico in senso proprio, non c’è neppure un benecomune politico. Piuttosto, il nuovo tema fondativo del politico è il conflitto.Infatti, il principio dell’esistente è il principio fisico della conservazione del-l’energia, diremmo noi. Il vivente umano è caratterizzato dalle passioni, di cui

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la principale è quella del potere, come dice espressamente il Leviatano. Il pote-re non è in funzione di qualche bene da acquisire, ma ha scopo in se stesso,perché il potere non è altro che l’adattamento continuo delle condizioni pergarantire la sopravvivenza. Colpisce del discorso di Hobbes l’idea di soprav-vivenza come categoria fondamentale dell’esistenza. Rispetto all’umanesimoclassico è un’idea sconvolgente il primato del moto conservativo, cioè l’ideache l’esistenza umana non ha niente da guadagnare vivendo, ma semplice-mente è un moto “meccanico” la cui unica cura è di conservare se stesso. Lostato di natura, infatti, è in Hobbes lo stato del dispiegamento spontaneo dellepassioni e del possesso e dello scontro delle passioni e dei possessi, e la ragio-ne è il calcolo artificiale necessario per conseguire lo scopo delle passioni conminor perdita possibile. Di qui la sua nota dottrina giuridico-politica.Questa metamorfosi della soggettività in senso utilitario è alla radice delle piùpersuasive dottrine politiche moderne e anche contemporanee. Nel contempo-raneo è scarna la diretta ripresa della dottrina hobbesiana, ma diffusissimo neè l’influsso come accettazione e pratica di una serie di presupposti inclusi nellafigura del soggetto utilitario. Il discorso hobbesiano ha una sua ampia storia inlinea retta e una storia dialettica molto più vasta. Basti pensare alla sua ripre-sa all’interno della spiritualità e della teologia giansenista nel Seicento, nellaforma dell’antropologia dell’“amor proprio” (in specie P. Nicole, i cui Essaisde morale ebbero un’enorme diffusione per lungo tempo), che ritornando inInghilterra diventa - con la mediazione dell’idea dei “vizi privati e pubblichevirtù” di Mandeville - il principio antropologico prossimo del liberalismo clas-sico. L’idea fondamentale che viene trasmessa e rielaborata è l’idea dell’auto-possesso, dell’amor proprio come passione inestirpabile e immutabile, rispet-to alla cui struttura è possibile qualche tecnica che renda possibile la convi-venza di individui asociali, che permetta una “socievole insocievolezza” (perusare a termini invertiti una formula di Kant, che ben risentì di questa tradi-zione di pensiero). Quindi il primato del negativo nella vita comune, sociale epolitica.La novità della dottrina dell’amor proprio in ambito giansenista rispetto aHobbes, e quindi nel liberalismo, è l’idea che non un potere autoritario sovra-no può unicamente regolare la convivenza degli esseri dominati dall’amor pro-prio, bensì una capacità di autoregolazione dello stesso amor proprio.Autoregolazione che avviene attraverso la finzione, la “dissimulazione” diatteggiamenti caritatevoli, che permettono di perseguire la condotta autointe-ressata con il consenso sociale, in un reciproco non dichiarato ricatto; la pas-sione, dunque, si accompagna con un ragionamento, un calcolo razionale dei

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costi, che permette di moderarla senza sospenderla. Tutto ciò porta all’idea,poi largamente dominante, della neutralizzazione del politico, come luogo incui si devono neutralizzare le passioni, e dove comunque non c’è assoluta-mente la questione di un bene comune qualitativo, sostantivo, ecc., ma solo diperseguimento di interessi.Non è difficile vedere qui l’intelaiatura dell’individualismo sociale moderno,che prosegue in gran parte delle teorie dell’azione dell’agente razionale, anco-ra dominante nella maggior parte delle dottrine economiche di matrice libera-le. Con il passaggio alla postmodernità, cioè con la crisi dei progetti moderniuniversalistici, le varie forme del neoliberalismo prendono linfa dal modelloche abbiamo chiamato del soggetto utilitario, che in questo senso mostra diessere il più longevo e capace di tragittarsi al di là della crisi della modernitàe del suo processo secolarizzante. Problematiche come quelle dell’individua-lismo, del proceduralismo, della democrazia senza valori e loro riflessi entrole questioni della laicità dello Stato, del multiculturalismo, ecc., testimonianodi un’eredità moderna che prosegue. Da questo punto di vista il dibattito deglianni Ottanta tra neoliberali e neocomunitari è sintomatico della riaffermazio-ne di un’idea di neutralizzazione della politica e di riduzione formalistica delpubblico, a cui si è contrapposta una risorgente coscienza (più ampia deicomunitaristi; cfr. il capability approach di Sen e Nussbaum e le dottrine del-l’etica delle virtù) delle componenti antropologicamente forti e solistiche, ben-ché non più in senso sostitutivo e concorrente con quelle religiose (donde unaripresa della problematica del rapporto tra religione e politica), ma anche nel-l’incertezza a riguardo della possibilità di universali antropologici.Il processo della secolarizzazione è terminato: quali le sorti della postsecola-rità?

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1 K. Löwith, Significato e fine della storia, Comunità, Milano 1963; H. Blumenberg, La legit-timità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992.

2 F. D’Andrea, Manoscritto filosofico, fol. 63, cit. in B. De Giovanni, Filosofia e diritto inFrancesco D’Andrea. Contributo alla storia del previchismo, Giuffrè, Milano 1958, p. 108.

3 J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 1974, p. 108.4 M. De Certeau, La scrittura della storia, Il Pensiero scientifico, Roma 1977, pp. 162, 164

e 166.5 Lettera citata in P. M. Masson, La religion de Jean-Jacques Rousseau, Hachette, Paris 1916,

t. II, p. 48.6 Encyclopédie, Genêve 1778, t. XVII, p. 1019.7 W. Pannenberg, Questioni fondamentali di teologia sistematica, Queriniana, Brescia 1975,

p. 520.

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8 Cfr. C. Fabro, La dissoluzione razionalistica dell’Uomo-Dio e la sintesi idealisticadell’Uomo-Dio, in P. Parente, Cristo vivente nel mondo, Coletti, Roma 1956, pp. 279-399.

9 B. Croce, Perché non possiamo non dirci cristiani, Laterza, Bari 1942, pp. 5, 9.10 K. Barth, La teologia protestante del XIX secolo, Jaca Book, Milano 1972, vol. 2, p. 151.

L’affermazione è fatta dall’Autore con particolare riferimento a Schleiermacher.11 A. Del Noce, L’epoca della secolarizzazione, Giuffrè, Milano 1968, pp. 93 e ss.12 Cfr. in questo senso le cose migliori in G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, Puf, Paris

1970.

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Fondamentalismo e laicità. Il cristianesimo sotto accusa

Nel dibattito odierno sul rapporto tra religione e laicità, si coglie un progressi-vo radicalizzarsi di posizioni che non favoriscono né il dialogo, né la com-prensione critica dei problemi. Dopo l’11 settembre 2001, a seguito dello scon-tro tra radicalismo islamico e Occidente “cristiano”, si sono moltiplicate leprese di distanza preoccupate per l’invadenza della dimensione religiosa nellavita pubblica. Un’invadenza che sarebbe testimoniata, in Italia, dal peso eser-citato dalla Chiesa nel condizionare il dibattito politico su questioni comel’uso delle cellule staminali, la fecondazione assistita, il matrimonio tra coppieomosessuali, l’eutanasia, ecc… Di fronte a questa influenza, una parte dell’in-tellighenzia “laica” reagisce richiamandosi ai principi dell’illuminismo epaventando il ritorno di un integralismo e di un fondamentalismo religiosoforiero di rischi per la vita democratica1. Nel dibattito, l’orizzonte “militante”fa velo alla delucidazione della complessità della situazione presente e tende,inevitabilmente, a semplificare la posizione dei protagonisti che sono in gioco.Ciò che in realtà non regge è il sistema binario della doppia equazione - illu-minismo laico=democrazia, cristianesimo=fondamentalismo - a cui si vuoleridurre la dialettica contemporanea. Questo quadro non regge per almeno tremotivi.Il primo è dato dalla prospettiva, errata, per cui dopo l’11 settembre il mondosarebbe piombato nella lotta “religiosa”, nello scontro tra i “tre monoteismi”(islamico-ebraico-cristiano) con l’eccezione dell’Europa laica, tollerante epoliteista. È la lettura suggerita, tra gli altri, da Jacques Derrida. Per essa, noiassistiamo al «confronto tra due gruppi la cui connotazione religiosa rimanemolto forte. Da un lato la sola grande potenza “democratica” di tipo europeoal mondo, che mantiene la pena di morte nel proprio sistema penale e, mal-grado la separazione di principio tra Stato e religione, mantiene un riferimen-to biblico (innanzitutto cristiano) fondamentale nel discorso ufficiale della

Laicità e secolarizzazione. Il cristianesimocontemporaneo tra agostinismo e illuminismo criticodi Massimo Borghesi *

* Ordinario di Filosofia Morale, Università di Perugia

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politica e dei suoi leaders politici. “God bless America”. […] Dall’altro lato, efrontalmente contrapposto, è un “nemico” che si identifica esso stesso comeislamico, come islamismo integralista o fondamentalista»2.Secondo Derrida, lo scontro attuale, che divide il mondo, è quindi «tra due teo-logie politiche stranamente sorte da uno stesso ceppo o dal terreno comune diuna rivelazione che chiamerei abramica»3. È la conferma della tesi per cui laradice del conflitto presente risiede nell’intolleranza propria della posizionemonoteistica, anche se l’autore riconosce come molti, siano essi islamici o cri-stiani, non si identificano con tale intolleranza. Di fronte a essa, Derrida spera«che ci sarà, in Europa o in una certa tradizione moderna dell’Europa, al prez-zo di una decostruzione che sta ancora cercando la sua strada, la possibilità diun altro discorso o di un’altra politica, di un’uscita da questo doppio pro-gramma teologico-politico»4. Auspicando la “decostruzione” del doppio asso-lutismo teologico-politico, quello islamico e quello cristiano, quale via dellatolleranza europea, Derrida dimentica come questa strada è stata in realtà per-corsa, dopo l’11 settembre, da una prospettiva essa stessa religiosa. È statoGiovanni Paolo II, il pontefice romano, a opporsi in ogni forma allo “scontrodi civiltà” auspicato da più parti, anche da coloro che laicamente volevano“esportare la democrazia”. Il Papa, opponendosi alla guerra in Iraq, ha contri-buito in modo determinante a “secolarizzare” il conflitto, a togliere a esso ognialibi ideologico-religioso. Il quadro che presuppone lo scenario odierno comedominato dalla lotta tra i monoteismi, uniti nella comune intolleranza, appare,con ciò, insostenibile. Il cattolicesimo non rientra nello schema predisposto dachi vuole la religione relegata nella sfera dell’assolutismo cui si contrapponela tolleranza e il relativismo “laico”.La seconda ipotesi che non regge, nello scenario di uno scontro tra religione etolleranza, è che vi sia oggi in Europa, come dovrebbe mostrare la Spagna, unconflitto tra la democrazia in quanto tale e il cristianesimo. Come osservaGianni Vattimo, «la democrazia è un valore cristiano, nella tradizione occi-dentale, come cristiano è lo stesso termine “laico”, che indica lo stato delpopolo di Dio, di coloro che in esso non sono preti. Ciò non esclude che unalaicità come valore si sia determinata anche in tradizioni culturali e religiosediverse; ma di fatto noi predichiamo lo stato laico perché siamo eredi di unatradizione che ha alla sua base la parola di Cristo: “Date a Cesare quel che èdi Cesare”, e le interpretazioni e applicazioni che, anche a costo di una lottaaccanita contro i preti, ne hanno dato laici cristiani (talvolta senza sapersi tali)per costruire lo stato moderno»5. Vattimo esprime la sua persuasione in oppo-sizione al testo di Gian Enrico Rusconi, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cat-

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tolici e la democrazia, nel quale trova luogo una sorta di riattualizzazione dellaposizione di Hans Kelsen sulla inconciliabilità tra cristianesimo e democrazia6.Una posizione chiaramente polemica che si inscrive nella secolare contesa traguelfi e ghibellini che, a fasi alterne, segna il dibattito storico-politico in Italia.La terza ipotesi che non regge è quella per cui il momento attuale sia caratte-rizzato, con il pontificato di Benedetto XVI, dallo scontro tra oscurantismo eilluminismo. È la tesi di coloro che paventano oggi in Italia la crisi dei valori“laici”, il rischio di un’egemonia cattolica a fronte di un orizzonte culturalecontrassegnato dallo scetticismo e dal nichilismo. In prima fila troviamo qui larivista Micromega e il suo direttore Paolo Flores d’Arcais. Anche qui, tuttavia,al di là dell’uso polemico delle parole, c’è la chiara consapevolezza che la dia-lettica attuale non è tra ragione e oscurantismo, bensì tra due modelli di ragio-ne di cui uno riconosce l’apporto della fede, l’altro si oppone decisamente atale contributo. «È una dialettica sul terreno dell’illuminismo, non fuori daesso», come scrive Flores d’Arcais commentando l’impostazione “storica” delGesù di Nazareth di Joseph Ratzinger, «vincere, anche in coerenza logica esapere critico - oltre che sul piano del “senso” e della Salvezza , ovviamente -le pretese della cultura storica dominante, utilizzando i suoi stessi strumentimetodologici e i materiali di indagine a disposizione: questa è l’orgogliosaconvinzione dell’idea cattolica di Ratzinger, che ritiene la Chiesa non solocustode di una maiuscola e onnicomprensiva Verità, ma anche paladina di un“retto” illuminismo. […] Una convinzione da prendere sul serio, una sfida acui la cultura laica non può sottrarsi, visto che viene chiamata a un confrontosul terreno che gli è più proprio e irrinunciabile, quello della valutazione criti-ca di tutti i dati disponibili»7. Confessione e concessione importante, quella diFlores d’Arcais, poiché riconosce implicitamente come il terreno del conten-dere non sia quello dominato dall’opposizione della ragione al fideismo, comeaccade nei confronti dell’islamismo radicale. Al contrario, nell’ambito cattoli-co la sollecitazione della fede è portata sul terreno stesso della ragione8. Comeafferma lo stesso Benedetto XVI, la «critica della ragione moderna dal suointerno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba tornare indie-tro a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna.Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido, viene riconosciutosenza riserve»9. Non si tratta di un riconoscimento di fatto, conseguente allapresa d’atto del corso storico, ma di diritto. «Il cristianesimo, fin dal principio,ha compreso se stesso come la religione del Logos, come la religione secondoragione. Non ha individuato i suoi precursori in primo luogo nelle altre reli-gioni, ma in quell’illuminismo filosofico cha ha sgombrato la strada dalle tra-

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dizioni per volgersi alla ricerca della verità e verso il bene, verso l’unico Dioche sta al di sopra di tutti gli dèi. In quanto religione dei perseguitati, in quan-to religione universale, al di là dei diversi Stati e popoli, ha negato allo Statoil diritto di considerare la religione come una parte dell’ordinamento statale,postulando così la libertà della fede. Ha sempre definito gli uomini, tutti gliuomini senza distinzione, creature di Dio e immagine di Dio, proclamandonein termini di principio, seppure nei limiti imprescindibili degli ordinamentisociali, la stessa dignità. In questo senso, l’illuminismo è di origine cristianaed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristia-na. Laddove il cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tra-dizione e religione di Stato. Nonostante la filosofia, in quanto ricerca di razio-nalità - anche della nostra fede - sia sempre stata appannaggio del cristianesi-mo, la voce della ragione era stata troppo addomesticata. È stato ed è meritodell’illuminismo aver riproposto questi valori originali del cristianesimo e averridato alla ragione la sua propria voce. Il Concilio Vaticano II, nella costitu-zione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ha nuovamente evidenziatoquesta profonda corrispondenza tra cristianesimo e illuminismo, cercando diarrivare a una vera conciliazione tra Chiesa e modernità, che è il grande patri-monio da tutelare da entrambe le parti»10.

Illuminismo dogmatico e illuminismo critico

La riflessione di Ratzinger, il modo peculiare in cui egli pone il rapporto trafede e ragione, obbliga l’illuminismo a venire allo scoperto. Ciò che ne emer-ge è una «dialettica dell’illuminismo» che vede attualmente al suo internoquello che potremmo chiamare un illuminismo “dogmatico”, proteso a defini-re l’assoluta autonomia di una ragione che il post-moderno dissolve a ogniistante, e un illuminismo “critico”, consapevole dei “limiti” della ragione e deiproblemi posti dalla secolarizzazione moderna. Mentre il primo è autocelebra-tivo e vede solo le patologie della fede, il secondo riconosce, con lealtà, anchele patologie della ragione. Al presente la corrente dogmatica si richiama, comeideologia legittimante, al naturalismo, una sorta di neodarwinismo addomesti-cato, filantropico, in cui sono rigorosamente celate le possibili conseguenzemaltusiane o nietzschiane, che trova in Micromega il punto di raccolta e di sin-tesi11. La laicità, misurata sul metro di una “natura” modificata o potenzial-mente modificabile dalla tecnica, diventa qui un orientamento fluido a geo-metria variabile. Donde l’inevitabile connessione tra laicità e relativismo. Ilpensiero laico, come osserva Rusconi, «non sa più che cosa sia esattamente la

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natura, dove incomincia e dove finisce la vita, il concetto stesso di organismoumano, di persona, ecc. Ma qui s’instaura la differenza decisiva: il laico è allaricerca di nuove “verità” che sono “relative”, nel senso che dipendono dailivelli di conoscenza scientifica, senza con ciò perdere di vista il criterio eticofondamentale sintetizzato nella formula kantiana dell’“uomo come fine e maicome mezzo”»12. Ora quel «senza perdere di vista», che per Rusconi costitui-sce una sorta di comando implicito in ogni variare dei valori, è, in realtà, l’e-lemento che fa la differenza tra l’illuminismo critico e quello dogmatico.Quest’ultimo presuppone, infatti, come assicurato il valore normativo del sog-getto, il che non è affatto certo; vede la soluzione là dove c’è il problema. Ilpunto di vista “relativo”, indotto dall’orizzonte della sperimentazione scienti-fica, investe infatti anche il piano assiologico: la persona da fine ultimo deca-de, progressivamente, a mezzo. Questa “decadenza” viene sottovalutata dal-l’illuminismo dogmatico poiché questi, fermo alla pregiudiziale antireligiosa,continua a vedere nell’alleanza con la scienza, come già nel Settecento, illuogo della propria legittimazione. Non si avvede, in tal modo, come nel con-testo odierno i rischi per l’autonomia del soggetto provengano non dallaChiesa, quanto piuttosto dalle applicazioni indiscriminate di tecnologie scien-tifiche a cui il processo di secolarizzazione ha tolto ogni possibile limitazione.Nell’avvertenza di ciò, l’illuminismo è indotto a ripensarsi, a comprendere inmodo nuovo il volto della ragione in un’era “post-secolare”13. Da qui muove lariflessione recente di Jürgen Habermas, posteriore all’11 settembre 2001.Habermas, ultimo erede della critica al positivismo proprio della “Scuola diFrancoforte”, si interroga sui rischi di «una genetica liberale»14. Ne Il futurodella natura umana, l’autore riprende l’etica della soggettività di Kierkegaard- il poter essere sé stessi - come termine di paragone inattuale, a fronte dell’e-tica del genere portata dalle biotecnologie. La programmazione genetica tende,infatti, a togliere la «contingenza finora indisponibile»15 dell’essere umano.Una contingenza che è «una condizione indispensabile al poter-essere-se-stes-si e alla natura fondamentalmente egualitaria delle nostre relazioni interperso-nali»16. Il venir meno di questa condizione è manifesto nel caso di un’ipoteti-ca progettazione del genoma dei figli da parte dei genitori. «A quel punto, ifigli potrebbero chiedere conto e ragione ai creatori del loro genoma, e consi-derarli responsabili per le conseguenze, a loro avviso indesiderate, di una certadisposizione iniziale della loro storia di vita»17. Siamo, con ciò, proiettati inuna situazione nuova. «Con la decisione irreversibile che una certa personaprende nei riguardi della dotazione “naturale” di un’altra persona, nasce unrapporto interpersonale mai visto prima. Questo rapporto, di tipo nuovo, feri-

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sce la nostra sensibilità morale, in quanto rappresenta una sorta di corpo estra-neo nei rapporti di riconoscimento giuridicamente istituzionalizzati dellesocietà moderne. Nella misura in cui Tizio prende per Caio una decisione irre-versibile, intervenendo in profondità nelle sue predisposizioni organiche,viene compromessa quella simmetria della responsabilità sussistente, in lineadi principio, tra persone libere ed uguali»18. Viene cioè a crearsi una situazio-ne asimmetrica per cui una «certa persona adulta continuerebbe a dipendereciecamente dall’irreversibile decisione di un’altra persona»19. Un processo,questo, che investe l’intera sfera di applicazione dell’eugenetica nella misurain cui trapassa da curativa, pienamente legittima, a “migliorativa” della specie.Per essa la “selezione” degli embrioni, il loro “uso” per fini bio-medici, divie-ne pienamente giustificato. Con ciò, si entra però in un orizzonte che segna ilprimato della «ragione strumentale» che nella «reificazione embrionale»20

vede solo il primo passo per una mercificazione complessiva dell’esistente.«Se si accetta come normale la generazione e l’impiego di embrioni ai finidella ricerca medica, si trasforma anche la percezione culturale della vitaumana prenatale, con il risultato di rendere sempre meno affilato il sensoriomorale che stabilisce i limiti entro cui far valere il calcolo “costi-benefici”.Oggi noi avvertiamo ancora come oscena questa prassi di reificazione. Ci chie-diamo anzi se vorremmo davvero vivere in una società in cui il rispetto narci-sistico delle preferenze personali venga affermato al prezzo di un’insensibilitàverso i fondamenti normativi e naturali della vita»21. Questa richiesta tende,tuttavia, a divenire obsoleta nella misura in cui interessi economici e secola-rizzazione convergono verso il medesimo risultato. «Il cocktail esplosivo didarwinismo e liberismo che si era diffuso tra Ottocento e Novecento all’ombradella pax britannica sembra oggi rinascere sotto il segno di un neoliberalismoglobalizzato»22. Un processo, questo, accompagnato, come sempre, da unaideologia cucita ad hoc. «Un pugno di intellettuali psichicamente crollati cercadi leggere il futuro nei fondi di caffè di un post-umanesimo naturalisticamen-te declinato. Sul cosiddetto “muro del tempo” essi vorrebbero contrapporre“ipermodernità” a “ipermoralità”; in realtà, non fanno altro che continuare atenere i motivi di una stucchevole “ideologia tedesca”. Fortunatamente, questaelitaria presa di congedo dalla “illusione egualitaria” e dal discorso della giu-stizia non sembra ancora capace di contagiare le masse»23.L’orizzonte nietzschiano dei nuovi programmatori, tesi a creare un uomonuovo in laboratorio, fa sì che l’eugenetica tenda a relativizzare il concetto diindividuo, come essere nuovo non progettato, le cui caratteristiche dipendonodalla casualità naturale. «In questo quadro, l’etica del poter-essere-se-stessi

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diventa una delle tante alternative. La sostanza di questa autocomprensioneetica non può più affermarsi contro le soluzioni concorrenti in base ad argo-menti soltanto formali»24. Con ciò, però, viene meno uno dei pilastri dell’au-tonomia moderna. La relazione di radicale dipendenza, che l’eugenetica con-sente, del soggetto futuro dalle decisioni degli individui attuali, pregiudica lecondizioni (naturali) che consentono lo svolgersi e l’attuarsi di soggettivitàautonome e libere. La critica alla genetica “liberale” non è, allora, una criticareazionaria e antimoderna, ma volta a «tutelare condizioni di mantenimentoproprie della autocomprensione pratica della modernità»25. La riflessione diHabermas è cioè volta a enucleare le condizioni che permettono, nel quadroattuale, il mantenimento dell’illuminismo. Condizioni che si oppongono all’al-leanza con il naturalismo, poiché proprio tale alleanza è la causa del declinodell’autonomia del soggetto. Per potersi conservare, l’illuminismo deve, allo-ra, rinnovarsi. La mera “ripetizione” della forma settecentesca lo condanna aessere “dogmatico”, a rinunziare alla ragion critica a favore di quella stru-mentale, positivistica. La modernità, per non soccombere al proprio potere,deve farsi «riflessiva»26, esprimere «un illuminismo che si accerta criticamen-te dei propri limiti»27. L’autocomprensione dei limiti della ragione, sul model-lo kantiano, non si limita, però, a sancire l’autonomia della ragione rispettoalla fede e alla religione. Essa riflette anche sul processo di secolarizzazionedella ragione a partire dall’orizzonte religioso. Le certezze moderne, che stan-no dietro all’idea di autonomia e del valore della soggettività, sono certezzeche provengono da un alveo religioso. La secolarizzazione per un aspetto,spesso senza riconoscerlo, ha usufruito di tale alveo; per un altro, ha concorsoalla sua progressiva dissoluzione. Per questo, rispetto all’età dei Lumi, il pro-blema del rapporto ragione-fede si pone in termini rovesciati. Il processo nonva più dalla fede alla ragione, secondo un iter di emancipazione dalla tutelaecclesiastica divenuta ingombrante, ma dalla ragione alla fede, lungo la traiet-toria di una genealogia “religiosa” della ragione moderna. Se il moderno gua-dagna la sua autonomia nell’uscita dal religioso, oggi può conservare tale auto-nomia solo riguadagnando il rapporto con la dimensione di senso propria delmondo della fede. La secolarizzazione non intacca, infatti, solo la fede maanche l’apriori teologico che sta dietro alle certezze della ragione moderna edel soggetto moderni. L’illuminismo, che presume di essere il “soggetto” dellasecolarizzazione, si trova ad essere “oggetto” della medesima. Alla luce di ciò,il dialogo tra ragione e fede assume il significato non solo di “apertura” dellaragione, ma anche di “riscoperta” della ragione. Riscoperta delle premesse teo-logiche che stanno dietro alle certezze della ragione. La compenetrazione tra

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cristianesimo e metafisica greca ha promosso «un’appropriazione di contenu-ti genuinamente cristiani da parte della filosofia. Quest’opera di appropriazio-ne si è sedimentata in reti concettuali normativamente cariche quali: responsa-bilità, autonomia e giustificazione, o storia e memoria, nuovo inizio, innova-zione e ritorno, o emancipazione e adempimento, alienazione, interiorizzazio-ne e incarnazione, individualità e comunità. Essa ha bensì trasformato il lorosenso originariamente religioso, ma non l’ha deflazionato ed esaurito fino asvuotarlo. La traduzione della somiglianza dell’uomo con Dio nella pari digni-tà di tutti gli uomini, da rispettare incondizionatamente, è una siffatta traspo-sizione salvifica»28.Questa “trasposizione” è, secondo Habermas, quanto oggi viene richiestonello spazio pubblico della società “post-secolare”. Fatta salva la distinzioneliberale tra Stato e società civile, Habermas può infatti valorizzare, in formanon hegeliana, l’affermazione di Ernst-Wolfgang Böckenförde, per cui «loStato liberale, secolarizzato, vive di presupposti che esso di per sé non puògarantire»29. Declinata nel quadro democratico, questa affermazione porta aconcludere che «una modernizzazione deviante della società nel suo com-plesso potrebbe benissimo infiacchire il vincolo democratico e logorare queltipo di solidarietà da cui lo Stato democratico deve totalmente dipendere pursenza poterla imporre per legge»30. Contrariamente allo Stato liberale, lo Statodi diritto democratico presuppone un bene comune «che non può essererichiesto per legge», una solidarietà che non può essere «imposta a coman-do»31. Di qui il confronto con i mondi di senso in cui tale solidarietà è viva.Un confronto tra laici e credenti inteso come un «processo complementare diapprendimento»32. L’obbligo della “traduzione” dei contenuti e dei valoriderivanti da una tradizione religiosa, come condizione di legittimità sul pianopubblico, non riguarda solo la coscienza credente, ma anche quella “laica”.«Da essa si attende l’esercizio di una frequentazione autoriflessiva dei limitidell’Illuminismo»33. Il non credente non può presumere di iscriversi al rangoprivilegiato del “laico”, come se ciò lo esonerasse dall’obbligo della tradu-zione pubblica della propria posizione. Anche a lui compete l’onere dellacomprensione delle ragioni dell’“altro”. «Per il cittadino insensibile alla reli-gione ciò significa l’invito nient’affatto banale a definire il rapporto tra fedee scienza autocriticamente, nella prospettiva del sapere del mondo. L’attesadi un perdurante disaccordo tra fede e scienza merita infatti il predicato di“ragionevole” solo quando alle convinzioni religiose venga riconosciutoanche dal punto di vista del sapere secolare uno status epistemico che non èsemplicemente irrazionale. Nella sfera pubblica politica, perciò, le immagini

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naturalistiche del mondo, dovute a una elaborazione speculativa di informa-zioni scientifiche, e che hanno rilevanza per l’idea etica di sé dei cittadini,non godono prima facie di preminenza rispetto a concezioni filosofiche o reli-giose concorrenti. La neutralità ideologica dell’autorità statale, che garantiscepari libertà etiche a ogni cittadino, non è conciliabile con la generalizzazionepolitica di una visione laicistica del mondo. I cittadini laicizzati, nella misurain cui si presentano come cittadini dello Stato, non hanno la facoltà di nega-re in linea di principio un potenziale di verità alle immagini religiose delmondo, né di contestare ai cittadini credenti il diritto di contribuire a pubbli-che discussioni in linguaggio religioso. Una cultura politica liberale può addi-rittura aspettarsi dai cittadini laicizzati che partecipino a iniziative volte a tra-durre contributi rilevanti dal linguaggio religioso in una lingua pubblicamen-te accessibile»34.

Agostinismo e neoilluminismo. Due modelli di dialogo

Con Habermas, l’illuminismo si stacca dal naturalismo positivistico e diviene“critico”, volto a mantenere le condizioni moderne dell’autonomia del sogget-to pregiudicate da un illuminismo che si vuole assoluto. Lungo questa linea, inaccordo alla riflessione di Max Horkheimer - ma anche di Walter Benjamin -,la teoria critica incontra la dimensione religiosa35. Questo incontro, tra illumi-nismo e cristianesimo, si svolge oggi a partire da due prospettive. L’una, con-trassegnata dall’esigenza di salvaguardare il modello “democratico”, è quellaindicata da Habermas. L’altra, propria di taluni esponenti dell’intellighenziaitaliana (E. Galli della Loggia, G. Ferrara, M. Pera, G. Quagliariello), vede laprevalenza di un modello liberale. Una prospettiva contrassegnata dalla criti-ca al progressismo che rimane a tratti sorpresa di fronte alla libertà dellaChiesa che, come nel caso delle due guerre contro l’Iraq o sulla questioneisraelo-palestinese, non coincide sempre con il blocco “occidentale”. Le duelinee, quella democratica e quella liberale, si incontrano nella tutela dei pre-supposti che stanno dietro al liberalismo moderno anche se si dividono, poi,nel giudizio storico-politico. La linea di Habermas aggiunge, al quadro libera-le, l’attenzione alle condizioni che consentono il “bene comune”, la solidarie-tà democratica. In ciò essa ritrova il tema classico delle “virtù politiche”,secondo una traiettoria che ha più di un punto in comune con quella di CharlesTaylor.In entrambe le direzioni, comunque, l’autocritica non reazionaria dell’illumi-nismo rende possibile un dialogo con la fede. A esso corrisponde, simmetrica-

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mente, il dialogo tra fede e illuminismo, che è al centro della riflessione diJoseph Ratzinger, prima ancora di divenire Benedetto XVI36. Un dialogo ori-ginale nella misura in cui proviene da un teologo “agostiniano”, dal qualesarebbe lecito attendersi una posizione fideista, scarsamente attenta verso laragione e i valori della modernità. In realtà, proprio nel modo peculiare con cuiRatzinger ha sempre letto Agostino, dalla tesi giovanile su Volk und HausGottes in Augustins Lehre der Kirche37 in avanti, egli ha trovato nel modelloagostiniano delle duo civitates, esemplificato nel De civitate Dei, il paradigmaideale del rapporto tra Chiesa e mondo, fede e sfera secolare. Un modello néteocratico né integralistico, rispettoso dell’autonomia della civitas mundi,anche se bisognoso, come la storia s’incaricherà poi di dimostrare, di corre-zioni e di integrazioni. Come è detto in Chiesa, ecumenismo e politica: «Lacivitas Dei non può diventare una realtà statale empirica, come già Agostinoaveva visto con chiarezza, al contrario dei suoi tardivi interpreti; essa resta inquesto senso non empirica. Lo Stato a sua volta può essere sempre e soltantocivitas terrena. Nonostante siano riconoscibili in Agostino anche delle lineeche mirano ad afferrare questo concetto in senso neutrale rispetto ai valori, ilsuo concetto della civitas terrena è assai vicino a quello di uno stato demonia-co, e a ogni modo non riflette con sufficiente precisione una vera base positi-va per uno Stato terreno. Questioni analoghe si potrebbero porre, anche se par-tendo da altre angolazioni, quanto alla dottrina dei due regni di Lutero. La teo-logia cattolica aveva, a dir il vero, trovato fin dalla metà del Medioevo, attra-verso l’assunzione di Aristotele e della sua idea di diritto naturale, un concet-to positivo non messianico dello Stato profano. Ma poi aveva caricato questodiritto naturale di tali e tanti contenuti cristiani che era andata perduta la neces-saria capacità di compromesso, e lo Stato non poteva così essere accettatoentro gli essenziali confini della sua profanità. Si lottava per mete eccessive eci si rovinava la strada del possibile e del necessario»38.La ripresa del modello agostiniano implica, in tal modo, il suo ripensamentoalla luce della storia medievale e moderna. Grazie a esso, il paradigma delledue città, offerto da Agostino ne La città di Dio, può tornare di singolare attua-lità39. In termini ideali, ciò significa: possibilità di incontro tra agostinismo eilluminismo. Questa possibilità è prefigurata da Agostino allorché tra i tre tipidi teologia enucleati da Varrone - theologia mythica, theologia civilis, theolo-gia naturalis - opta «con sì incondizionato - si può dire sorprendentemente -dalla parte della theologia naturalis»40. Ciò «che stupisce è che senza la mini-ma esitazione Agostino attribuisce al cristianesimo il suo posto nell’ambitodella “teologia fisica”, nell’ambito della razionalità filosofica»41. Il cristianesi-

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mo assume come interlocutore non il mito ma il logos, non l’immaginazionema la ragione. Trasferito nel contesto contemporaneo, questo dialogo tende aduplicarsi, conformemente all’orizzonte proprio delle duo civitates, secondodue modelli, distinti e complementari.Il primo, quello agostiniano, delinea la dinamica propria della civitas Dei, unadinamica segnata dalla “grazia” di incontri significativi. Si tratta di una pro-spettiva “trans-politica”, che trascende schieramenti e configurazioni ideolo-giche, che ha di mira essenzialmente la persona, l’altro nel suo destino, neldesiderio di significato e di felicità che accompagna l’esistenza. La riduzioneideologica del cristianesimo, l’identificazione con una determinata posizioneculturale, tende a coprire questa “apertura”, a impedire la tensione universaledell’agape che è rivolta al prossimo in quanto tale. In questo senso, l’orizzon-te della civitas Dei, che vive pellegrina e mescolata con la città terrena, è tesoa rimuovere i fattori che tendono a complicare l’incontrabilità del cristianesi-mo. Le condizioni supplementari di appartenenza alla comunità cristiana -ideologiche, politiche e, talvolta, anche morali - non possono essere dirimen-ti. L’incontro cristiano è tale solo se è “gratuito”, libero, non vincolato a pre-giudiziali e a precondizioni. Questa sovrana libertà pro-voca a una risposta,suscita il pari, la scommessa di Pascal richiamata da Ratzinger ne L’Europa diBenedetto42.Oltre al piano della grazia, quello della civitas Dei, vi è però anche il pianodella natura, la civitas mundi. Qui l’aggiornamento del modello agostinianonon passa attraverso Pascal, la cui realpolitik ha molte analogie con Lutero eHobbes; può passare invece attraverso una certa rivisitazione di Kant. La pro-spettiva kantiana, nella concezione che ne ha Habermas, consente di criticareil naturalismo salvando, nell’idea dell’uomo come fine, il nucleo personalisti-co derivato dalla secolarizzazione cristiana. Un kantismo nuovo può costitui-re l’orizzonte di pensiero qualificante lo spazio pubblico di confronto tra laicie cristiani. Troviamo qui l’illuminismo “critico”, dialogante con la fede, ilquale, da un lato, tutela l’autonomia e la laicità della città terrena e, dall’altro,ha cura di salvaguardare i “presupposti antropologici” dell’agire sociale la cuiforma è retaggio dell’eredità cristiana. Sul terreno pubblico dello Stato di dirit-to democratico, la controversia oggi è di tipo etico-antropologico. Il richiamoa Kant ha il significato di un limite rispetto ai processi di reificazione e di mer-cificazione indotti dal positivismo naturalistico. Si tratta di un richiamo chemantiene il suo valore all’interno di una cornice ben delimitata: quella deldibattito pubblico delle società democratiche. Se da questa sfera ci spostiamoal piano esistenziale, l’inattualità di Kant è palese. Non è un caso che lo stes-

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so Habermas, ne Il futuro della natura umana, si richiami a Kierkegaard, cioèa un autore in cui il significato dell’io si precisa solo nel rapporto con il Tuinfinito del Dio cristiano.Nel delineare il rapporto tra cristianesimo, democrazia, laicità, siamo pertan-to posti dinnanzi ad almeno due modelli di riferimento. Il che, ovviamente,non esclude la possibilità di altri paradigmi. Modelli che implicano due dina-miche, tra di loro né escludenti né coincidenti. La formula di Maritain «distin-guere per unire» trova qui la sua possibilità di ripresa43. Pascal e Kant, dapunti di vista diversi, indicano due modalità dell’azione cristiana nel mondo.Per la prima, il cristianesimo guadagna la sua universalità nella gratuità diincontri che comunicano un destino eterno; per la seconda, in gioco sono lecondizioni di pace e di salvaguardia della dignità della vita proprie della cittàterrena. Condizioni di pace delle quali, secondo Agostino, beneficia anche lacivitas Dei pellegrina sulla terra. Si tratta di due modelli complementari, maanche formalmente distinti. L’accadere della fede non dipende dall’impegnosociale e politico. Ciò nondimeno anche lo svolgimento della vita associata,secondo un criterio pur minimale di bene comune e di giustizia equa, è unacondizione positiva per il libero svolgimento della vita ecclesiale e per l’esi-stenza di tutti.

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1 G. E. Rusconi, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, Einaudi, Torino2000; Non abusare di Dio, Rizzoli, Milano 2007; G. Giorello, Di nessuna Chiesa. La liber-tà del laico, Cortina, Milano 2005; G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, BrunoMondadori, Milano 2005; C.A. Viano, Laici in ginocchio, Laterza, Bari 2006; E. Lecaldano,Un’etica senza Dio, Laterza, Roma-Bari 2006; T. Pievani, Creazione senza Dio, Einaudi,Torino 2006; G. Preterossi (a cura di), Le ragioni dei laici, Laterza, Bari 2006.

2 Cfr. Autoimmunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida, in G.Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida,Laterza, Bari 2003, p. 126.

3 Ibid.4 Ibid., p. 127.5 G. Vattimo, Grazie a Dio sono ateo, «Reset», n. 65, marzo-aprile 2001, p. 55.6 «Nel mio libro critico, rivisitandola, la tesi classica di Hans Kelsen che, ai suoi tempi, rite-

neva in linea di principio democrazia e verità religiosa tra loro incompatibili. Eppure ina-spettamente questa tesi, considerata obsoleta, sta acquistando una drammatica attualità perla qualità dei problemi ora sul tappeto» (G. E. Rusconi, Come se Dio non ci fosse?, «Reset»,cit., p. 47). Nel suo volume, Rusconi corregge, parzialmente, la prospettiva del suo studioprecedente, Possiamo fare a meno di una religione civile?, nel quale al cattolicesimo, inItalia, per una serie di motivi (promozione del volontariato, della solidarietà sociale, oppo-sizione morale al terrorismo e alla mafia, lotta al secessionismo a favore dell’unità nazio-nale) veniva riconosciuto il ruolo di “supplenza” di una “religione civile”, altrimenti assen-

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te nel panorama culturale. Un riconoscimento messo, successivamente, in discussione. «Manel corso della riflessione ho visto i limiti insuperabili di questa supplenza, osservando davicino (complice anche l’esibizione dell’anno giubilare) l’uso selettivo e strumentale concui la Chiesa sceglie e interpreta i “diritti fondamentali”; ho constatato gli equivocidell’“ecumenismo dei valori” che unisce solo epidermicamente laici e cattolici che poi siscoprono di fatto profondamente divisi nell’interpretazione e nella messa in pratica di alcu-ni “diritti fondamentali”» (G. E. Rusconi, Come se Dio non ci fosse?, cit., p. 47). Si puòosservare come , più o meno in parallelo con il misconoscimento di Rusconi, l’identifica-zione tra cattolicesimo e “religione civile” venga accolta da Marcello Pera (M. Pera, J.Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Mondadori, Milano2004, pp. 86-87).

7 P. Flores d’Arcais, Gesù e Ratzinger tra storia e teologia, in «Micromega», n. 3, 2007, p. 6.8 È quanto afferma l’anonimo estensore del pamphlet Contro Ratzinger, per il quale «la forza

di Benedetto XVI è quella della certezza ispirata dalla sapienza, è quella della ragione; rap-presenta, insomma, il segno della residua autorità della filosofia occidentale». Con«Ratzinger, per la prima volta, e in modo nuovo rispetto a Wojtyla, il pensiero della Chiesasi specchia nella modernità, ereditandone la forza, ma anche molti limiti. La modernitàcostituisce, d’altra parte, la fonte stessa della sua strana capacità di parlare ai contempora-nei». Per l’autore, «rinunciare alla forza della filosofia, permettere che un principe dellaChiesa si presenti come la più alta autorità non soltanto sulle questioni di fede, ma anchenel pensiero, costituisce l’errore più grande di chi, anche a sinistra, cercando disperatamenteun appiglio fermo in un’epoca antideologica, è disposto a concedere alla religione, se decli-nata secondo un linguaggio razionale, l’ultima parola sulle fondamentali domande postedalla storia».

9 Benedetto XVI, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni (Università di Regensburg,12/09/2007), in Benedetto XVI, Chi crede non è mai solo, Cantagalli, Siena 2006, p. 28.

10 J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Siena 2005, pp. 57-59.

11 Si confrontino «l’Almanacco di filosofia», n. 4, 2005, dedicato a “La natura umana”, e«l’Almanacco delle scienze», n. 2, 2007, dedicato all’evoluzionismo. Come consulentefigura Telmo Pievani, l’autore di Creazione senza Dio, cit., e di In difesa di Darwin. Piccolobestiario dell’antievoluzionismo all’italiana, Bompiani, Milano 2007.

12 G.E. Rusconi, Come se Dio non ci fosse?, cit., p. 48.13 Cfr. K. Eder, Europäische Säkularisierung - ein Sonderweg in die postsäkulare

Gesellschaft?, in «Berliner Journal für Soziologie», n. 3, 2002, pp. 331-342.14 J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino

2002.15 Ibid., p. 16.16 Ibid.17 Ibid.18 Ibid., pp. 16-17.19 Ibid., p. 17.20 Ibid.21 Ibid., p. 23.22 Ibid., p. 24.23 Ibid.

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37LAICITÀ E SECOLARIZZAZIONE

24 Ibid., p. 18.25 Ibid., p. 28. Ciò porta Habermas a chiedersi «se possiamo giustificare la tutela di predispo-

sizioni genetiche integre, non manipolate, facendo appello alla indisponibilità (unverfüg-barkeit) dei fondamenti biologici della nostra identità personale. La tutela giuridica potreb-be trovare espressione in una sorta di “diritto a un patrimonio genetico non compromessoda interventi artificiali”. Un diritto che è già stato proposto dal Consiglio di Europa e chenon pregiudicherebbe affatto la liceità di una genetica negativa in sede terapeutica».L’indisponibilità della vita umana “prepersonale”, viene distinta da Habermas dalla invio-labilità, moralmente vincolante e giuridicamente tutelata della persona.

26 Ibid.27 J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 43.28 Ibid., p. 15.29 E. W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione. Dallo stato moderno all’Europa unita,

Laterza, Roma-Bari 2007, p. 53. È a partire dalla tesi di Böckenförde che si è sviluppato ildibattito tra Habermas e il cardinal Ratzinger sulle fonti di legittimazione dello Stato con-temporaneo e sul ruolo della religione nella società secolarizzata. Per Habermas si veda ilprimo saggio di Tra scienza e fede, cit., pp. 5, 8-9, 11, 15. Il testo, dal titolo Fondamentipre-politici dello Stato di diritto democratico?, costituisce la relazione del dialogo tenutocon il cardinal Ratzinger il 19/01/2004 (Cfr. J. Habermas, J. Ratzinger, Ragione e fede indialogo, Marsilio, Venezia 2005). Per Ratzinger, il richiamo a Böckenförde era già avvenu-to in una conferenza del 1984, a Monaco, dal titolo Christliche Orientierung in der plura-listischen Demokratie? Die Unversichtbarkeit des Christentums in der modernen Welt, inH. Schambeck (a cura di), Pro fide et iustizia, Schambeck, Duncker & Humblot, Berlin1984, pp. 747-761 (trad. it., Orientamento cristiano nella democrazia pluralistica? Sullairrinunciabilità del cristianesimo nel mondo moderno, in J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismoe politica, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1987, pp. 190-206. Su Böckenförde cfr. p.191). Sul rilievo della tesi di Böckenförde nel dibattito teologico-politico contemporaneo siveda il dossier di «Reset», n. 101, maggio-giugno 2007, pp. 5-44, dedicato a “La societàpost-secolare”.

30 J. Habermas, Tra scienza e fede, cit., p. 11.31 Ibid., p. 9.32 Ibid., p. 16.33 Ibid., p. 17.34 Ibid., pp. 18-19 . Il dialogo di Habermas con la religione è oggetto di analisi critica da parte

di Gian Enrico Rusconi (Confronto a tre [tedeschi] sul post-secolare, in «Reset», n. 101,cit., pp. 8-11). Secondo Rusconi, «Habermas ammette che il buon funzionamento dellademocrazia richiede risorse pre-politiche: ma si tratta di atteggiamenti culturali o mentalitàpresenti nella società civile ovvero nelle sue “forme di vita”, che non possono pretendere divalere come fondamenti normativi dello Stato costituzionale». Un’affermazione, questa,non vera poiché, come si è visto, la distinzione habermassiana tra inviolabilità della perso-na e indisponibilità dei fondamenti genetico-biologici della medesima, una distinzione chetende ad avere valore giuridico, rimanda, in qualche modo, non solo alla nozione kantianadell’“uomo come fine”, ma anche a quella di “creaturalità” richiamata nel saggio Fede esapere, contenuto ne Il futuro della natura umana. D’altra parte, dopo poche righe, Rusconiaggiunge che «Habermas scrive che lo Stato liberale non può scoraggiare i credenti e lecomunità religiose dall’esprimersi come tali anche politicamente, “perché non sa se altri-

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menti la società secolare non si priva di importanti risorse di fondazione di senso”. Non èuna concessione da poco per una concezione “proceduralista” della democrazia». Unaconcezione che supera, appunto, quanto Rusconi affermava in precedenza: che perHabermas la posizione religiosa rimarrebbe confinata nel “mondo della vita”, pre-politico.L’autore minimizza la concezione habermassiana sullo spazio pubblico, dove non solo laconcezione religiosa, ma anche quella laica, deve declinarsi attraverso una “traduzione”comunicativa. Rusconi perviene a dire che una delle condizioni poste dal pensatore tedescoalle religioni per poter partecipare al processo democratico è l’«accettazione dell’autoritàdella scienza». Laddove, come si è visto, la critica a una certa ideologia della scienza, allapretesa del naturalismo di affermarsi come laico, è al centro della riflessione di Habermas.In realtà, Rusconi non dice nulla sulla critica habermassiana alla manipolazione genetica.Sorvola, in tal modo, sul processo che porta a pensare a un illuminismo “riflessivo”, al con-seguente dialogo tra ragione e fede. Sul possibile contenuto epistemico della religione scri-ve che «in realtà, l’assenza nelle considerazioni del filosofo francofortese di concreti riferi-menti pratici, impedisce di verificare l’effettiva consistenza o rilevanza di quanto dice».Una conclusione liquidatoria ottenuta al termine di un’analisi che trascura per intero il con-tenuto della riflessione di Habermas: la critica all’equazione tra illuminismo e naturalismo.L’impressione è che Rusconi semplifichi ad arte poiché non gradisce gli sviluppi recenti delpensiero habermassiano. Una riflessione che, da un lato, fa emergere come obsoleta lanozione rusconiana di “religione civile”, e, dall’altro, non può essere etichettata come didestra o reazionaria.

35 Per i richiami a Horkheimer e Benjamin si veda J. Habermas, Il futuro della natura umana.I rischi di una genetica liberale, cit., p. 108.

36 Per il dialogo con Habermas si veda J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, cit., pp. 65-81.Per il dialogo con Pera si veda J. Ratzinger, Senza radici, cit., pp. 97-122.

37 Trad. it. J. Ratzinger., Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino, Jaca Book, Milano 1978.38 J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica, cit., pp. 198-199.39 Si veda AA. VV., Il potere e la grazia. Attualità di sant’Agostino, Omicron, Roma 1998. Per

gli interventi di presentazione del volume, a cura di G. Andreotti e di S.E. cardinal J.Ratzinger, si cfr. «30 Giorni», n. 10, 1998, pp. 56-68.

40 J. Ratzinger, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, cit., p. 276.41 J. Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli,

Siena 2003, pp. 177-178.42 J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto, cit., pp. 63, 110.43 J. Maritain, Distinguere per unire: i gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1974. Per una

ripresa di tale formula nel quadro dei rapporti tra cristianesimo, cultura, religione si vedaM. Borghesi, Secolarizzazione e nichilismo. Cristianesimo e cultura contemporanea,Cantagalli, Siena 2005, pp. 109-195.

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Su “moderno” e “post-moderno” nella storia del diritto

L’aggettivo “post-moderno” campeggia nel titolo del nostro incontro e qual-cuno potrà avere avuto un moto di insofferenza a causa dell’uso e dell’abusoche oggi se ne fa. Sono il primo a dolermene, soprattutto perché troppo spes-so è un riferimento genericissimo, privo di contenuti, e pertanto inutile, taloraculturalmente rischioso.Non è così per la storia del diritto, dove la modernità appare come un cantierefreneticamente impegnato a disegnare certezze indiscutibili, le quali, proprioperché concepite quale approdo ultimo e insuperabile dell’umana ricerca, sitraducono in posizioni e affermazioni dommatiche e assiomatiche (io direimitologiche); dove, marcatamente dopo i rivolgimenti conseguenti alla primaguerra mondiale, comincia - e sempre più si ingigantisce - un periodo di dis-cussioni e di ripensamenti, fino ad arrivare all’odierno momento quando noigiuristi viviamo sulla nostra pelle la crisi profonda che investe il terreno dellefonti (o, meglio, la corazza rigida entro la quale la modernità le aveva costret-te).Sul piano storico-giuridico, la dialettica moderno/post-moderno si connota,dunque, per contenuti effettivi, segnalando l’affiorare e l’espandersi di incri-nature che giungono a minare le fondamenta del vecchio edificio dommatico,segnalando però anche le tenaci resistenze opposte da principi e soluzionigabellati come conquiste supreme e oggetto di credenze e di culti.La presente relazione, voluta dall’amico Luca Antonini precisamente all’avviodi questo suo felice convegno, vuol mettere a fuoco un nodo centrale di que-ste resistenze, un nodo che ha costituito e costituisce tuttora una sorta di pla-gio per la coscienza del giurista italiano e che dobbiamo affrettarci a scioglie-re - o, almeno, a tentar di sciogliere - se si vuol liberamente corrispondere alleesigenze e richieste del nostro tempo. L’operazione, culturale ma poi anchetecnica, assumerà la sostanza di un decisivo recupero per il diritto, di un allen-tamento delle pesanti strettoie a cui la modernità lo aveva condannato.

Un recupero per il diritto: oltre il soggettivismo modernodi Paolo Grossi *

* Ordinario di Storia del diritto medievale e moderno, Università di Firenze e socio nazionaledell’Accademia dei Lincei

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Alcune precisazioni preliminari intorno al “soggetto”, al “soggettivi-smo”, all’“atomismo soggettivistico”

“Oltre il soggettivismo moderno” è l’insegna che sta nel nostro titolo; e può,di primo acchito, sembrare una bestemmia, perché può far credere che sivoglia espropriare al soggetto quella centralità al cuore dell’ordinamento giu-ridico, che è stata riacquisita a lui dopo le devastazioni aberranti delle dittatu-re novecentesche.Vale, quindi, la pena che si precisi subito nel modo più fermo qual è l’oggettodella relazione: è il soggettivismo inteso come uno dei “torti” del diritto moder-no (riprendiamo così il titolo del convegno), è il soggettivismo nel suo aspettonegativo di atomismo soggettivistico, di esasperazione della dimensione sogget-tiva, fino a ridurre e sacrificare la multiforme complessità dell’ordine giuridico.

Alle radici del soggettivismo moderno

Tutto questo ha radici antiche e si origina alle fondazioni stesse della moder-nità, in quel Trecento quando la civiltà medievale subisce i primi violenti scos-soni, cominciano a essere discussi i suoi valori basilari ed emerge riottosaun’antropologia nuova tendente a rivederli tanto profondamente da capovol-gere lo stesso rapporto uomo/cosmo/società.Il primato dell’oggettivo domina il paesaggio socio-giuridico medievale: per-corso da una perenne sfiducia nell’individualità solitaria, si affida il singolo algrembo protettivo della natura delle cose e della comunità, pensandolo e iden-tificandolo sempre al centro dei molteplici assetti comunitari in cui la societàsi articola, siano essi la famiglia e gli aggregati sovrafamiliari, la Chiesa intutte le sue sfaccettature, le corporazioni professionali e assistenziali, le orga-nizzazioni sociali e politiche. L’attenzione prevalente della civiltà medievale èsul contesto in cui l’individuo si colloca, è sulla nicchia in cui esso si situa,trova protezione e possibilità concreta di vita, a tal punto che il fondamento ditutta la costruzione giuridica è nei molti volti assunti da un’organizzazionesquisitamente comunitaria1.Ma che avviene di tanto corrosivo nel XIV secolo da far scricchiolare un edi-ficio lentamente calato nella coscienza collettiva e nelle pieghe più ripostedella società durante otto secoli di penetrante radicazione?Noi siamo avvezzi a pensare al Trecento come a un acme dei secoli medieva-li, abbacinati dal fulgore che ci ostentano con pienezza di messaggio la storiadelle arti plastiche e la storia letteraria: per me fiorentino, Dante, Boccaccio e

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Giotto sono lì a dimostrarlo. Quelli trecenteschi sono, invece, decenni che ciindicano uno sconquasso profondo sol che si modifichi l’angolo di osserva-zione, puntando il nostro occhiale sulle vicende a livello strutturale, guardan-do a cosa avviene sul terreno della storia agraria alimentare demografica, sulterreno basso ma determinante della vita quotidiana degli uomini.Per motivi che in questa sede non è possibile indagare, sono decenni di care-stie e di epidemie con una generale presenza demolitiva, quella della fame2. Edè ovvio che la coscienza collettiva sia spinta a riconoscere nei pilastri portan-ti del vecchio ordine degli pseudo-valori di cui sbarazzarsi appena possibile;cose e comunità hanno tradito, non sono riuscite a garantire la sopravvivenza;si impone una rinnovazione essenziale del vecchio assetto socio-giuridico pun-tando su valori decisamente nuovi.Il Trecento è una singolare maturità di tempi: alla crisi strutturale risponde conimmediatezza di sforzo costruttivo una riflessione teologica e filosofica, checerca di disegnare un’antropologia completamente rinnovata: si punta sull’in-dividuo, ma gli si può dar fiducia solo se lo si libera dalle catene che per trop-po tempo lo hanno tenuto prigioniero. La nuova antropologia ha un caratterespiccatamente liberatorio. Liberazione dalla natura brutale, liberazione daitanti lacci sociali. Le dispute filosofiche, che arrivano ad avere pienezza divoce durante il corso del secolo, se si trascurano i fuorvianti orpelli scolasticie se le si colgono nel nucleo essenziale del loro messaggio, a questo mirano:isolare il soggetto dal mondo e sul mondo, riconoscendolo capace di cercare etrovare all’interno di sé il modello interpretativo della realtà.Il soggetto medievale, interpretato con fedeltà e puntualità da San Tommaso,è un uomo intelligente, identificato soprattutto nella sua dimensione raziona-le, munito soprattutto della conoscenza, che lo proiettava al di fuori di sé, conun gesto di umiltà intellettuale che lo inseriva nel reale e lo rendeva tributariodel reale.L’uomo nuovo, che saranno prevalentemente i francescani a disegnare, è indi-viduato in un soggetto che ama e vuole, che tra le molte dimensioni psicolo-giche punta sulla più autonoma, sulla più auto-referenziale - la volontà -, perreperirvi un’identità ma anche la propria cifra vincente. Tutto sembra interio-rizzarsi, risolversi all’interno del soggetto, che conclama il suo distacco meta-fisico dal mondo e reclama la propria libertà sul mondo. Ed è illuminante comeviene cementata questa ritrovata libertà: è auto-determinazione della volontàed è concepita come dominium3.Si dirà che non siamo di fronte a qualcosa di nuovo, che tutta la storia cultu-rale dell’Occidente è segnata da una scelta proprietaria, che già nel diritto clas-

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sico il dominium non ha soltanto una grossa valenza politica, ma è strettamen-te collegato con la libertà del soggetto. Ciò non sarebbe smentibile. Il nuovo,però, che si profila da questo fertile Trecento in poi, sta nella omnivalenza deldominium, che diventa la generale categoria interpretativa della realtà inter-soggettiva ma altresì di quella intrasubbiettiva; accanto al dominium rerumassistiamo all’enfatizzazione del dominium sui, di quella proprietà prima chela Divinità ha inserito dentro di me a tutela della mia esistenza individua, cheè contrassegnata da una formidabile forza espansiva e che fa di me un perso-naggio vocato a dominare il mondo cosmico e sociale.Libertà come dominium, l’intrasubbiettivo concepito come un insieme di mec-canismi proprietari; prende forma quel carattere tipizzante della modernità,che sarà proprio la commistione fra essere e avere, fra me e mio, con l’avereindividuato quale contributo all’essere.

Lungo l’itinerario dell’individualismo moderno: il giusnaturalismo fraidealità e ideologia

È nel cambiamento dell’angolo di osservazione e nella scoperta di nuovi valo-ri portanti, avviati - l’uno e l’altra - nella rivoluzione trecentesca, che hacominciamento concreto il processo edificatorio della modernità, un processoche troverà consolidazione piena nei due secoli successivi e che investirà di sé- e modificherà fino a capovolgerne l’impianto - le diverse dimensioni e mani-festazioni della civiltà occidentale.Si parla genericamente, per il Quattrocento e per il Cinquecento, di umanesi-mo, ed è contrassegno corretto se a una qualificazione generica si dà la sostan-za di un insieme di scelte e di soluzioni che hanno - tutte - una piattaformaaccentuatamente individualistica: è umanistica e individualistica la più genui-na riforma religiosa, che vuole liberare il soggetto dall’oppressione dellasocietà sacra, che vuole instaurare un colloquio diretto del soggetto con laDivinità e con i testi rivelati, perché lo ritiene capace e meritevole di pienafiducia; è umanistico e individualistico l’assillo letterario a spazzar via dal pro-prio orizzonte culturale i risultati devianti della palude medievale e, sbaraz-zandosi dell’ingombro di un periodo storico ritenuto riduttivamente “età dimezzo”, media aetas, riandare alla grecità e latinità classiche dove il soggettoindividuo campeggia in tutta la sua autonomia vitale; è umanistico e indivi-dualistico questo stesso assillo nel drappello dei nuovi giuristi che, senza alcu-na comprensione per il travaglio costruttivo della scienza giuridica medievale,rifiutando le manipolazioni dei bizantini, tenta di disegnare il volto autentico

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del diritto romano-classico; è umanistico e individualistico il rivolgimentopolitico che, liberandosi dei decrepiti universalismi ecclesiali e imperiali,punta su una nuova individualità, il soggetto forte “Stato”, immedesimato inquel modello di uomo che è il nuovo Principe.Sul piano della storia del diritto, questa svolta individualistica, propria dellematrici umanistiche della modernità, si avvalorerà e anche si incrudirà in senoalle due grandi correnti di pensiero e di azione dominanti pressoché in tuttaEuropa nei secoli successivi, giusnaturalismo e illuminismo giuridico, chedalla riflessione umanistica traggono la loro genesi prima e la loro carica rivo-luzionaria.Giusnaturalismo, infatti, nel suo significato essenziale, è soprattutto ricercadell’uomo, dell’uomo genuino liberato dalle incrostazioni che la storia hadeposto sulla sua pelle alterandolo e anche soffocandolo nella sua indipenden-za e libertà. Quel riandare allo stato di natura, quell’insistenza sullo stato dinatura primigenio che può sembrare - alla prima - un di-vertimento ingenuo disapienti totalmente privi di agganci con la realtà, rappresenta - al contrario - ilfrutto della callidissima strategia dei nuovi intellettuali alla ricerca di fonda-zioni solide, fondazioni intoccabili, per la società moderna e per la dominanzain essa del ceto emergente borghese4.Lo stato di natura, un paradiso terrestre che non è mai esistito sulla faccia dellaterra, assumeva, nel suo aspetto di riscoperta e ritrovata purezza originaria, ilrango di modello per ogni civiltà storica, anche se la purezza si concretava inun supremo artificio manipolato ad arte dall’ideologia dei giusnaturalisti; dimodello, e pertanto di limite all’esercizio del potere politico da parte di ognipresente e futuro detentore.Abbiam detto “ideologia”, e deliberatamente, perché si fingeva di disegnare unpaesaggio veritiero, mentre - sotterraneamente - si cercava di dare tutela a pre-cisi interessi cetuali. Lo stato di natura, infatti, era connotato come pre-politi-co, anzi pre-sociale, e vi scorrazzavano individui singoli, senza catene al collo,liberi e indipendenti, che solo in prosieguo avrebbero per ragioni di opportu-nità dato vita a formazioni sociali e politiche avviando il processo della storiaumana; individui liberi e indipendenti grazie al dominium che una generosa(anche se vaghissima) Divinità aveva voluto quale loro carattere inabdicabile.È chiaro: individui privi di carnalità storica, semplici modelli immersi nelvuoto pneumatico di una libresca pre-storia. Da una siffatta modellistica sca-turivano, però, due conseguenze gravi, volute in tutta la loro gravità: il model-lo di uomo era lì, ed era lì il progetto originario d’Iddio in tutta la sua purez-za, un progetto che la vicenda storica era chiamata a rispettare; il modello, pro-

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prio perché non ha nulla a che fare con una creatura in carne e ossa, lungi dal-l’essere confuso nella contingenza della quotidianità, è un’entità astratta, cioè,come ben segnala l’etimo latino, abs-tracta, separata e isolata dal contesto sto-rico popolato di uomini carnali e di fatti, e astratti sono i rapporti che mette inopera.Comincia, in questa grandiosa fucina giusnaturalistica, quel culto dell’astrat-tezza, quel ragionar per modelli e su modelli, che sarà uno dei tratti più distin-tivi della modernità giuridica. E sarà un’astrattezza pervicacemente persegui-ta fino a ieri, giacché era l’efficacissimo strumento che, sotto la parvenza diun’assoluta innocuità, isolava e cementava l’individuo ed eliminava formal-mente ogni differenziazione sociale a tutto scapito del soggetto economica-mente debole, a tutto guadagno del soggetto economicamente forte: la nuovauguaglianza, precisamente perché uguaglianza soltanto giuridica e cioè merapossibilità di uguaglianza fattuale, nella sua astrattezza non disturbava il pin-gue borghese e lasciava ai nulla-tenenti il miraggio di un sogno praticamenteirraggiungibile.Grazie all’astrattezza, l’individuo moderno si trasformava in un micro-cosmoauto-referenziale fornito di una costellazione di interessi e di diritti individua-li, taluni dei quali assurgevano a situazioni soggettive perfette inviolabili daqualsivoglia potere politico. Fra queste, prima di tutte, la proprietà privata,interiore ed esteriore, intrasoggettiva e intersoggettiva, strettamente connessaalla natura stessa dell’uomo e pertanto intangibile.Si aggiunga una necessaria postilla: i primi assestamenti qualificabili corret-tamente come capitalistici, che cominciano a delinearsi nell’Europa delsecondo Cinquecento, marciano verso una stessa direzione. Se “capitalismo”ha il volto prevalente di una società (e di una mentalità) fondata sull’avere,sull’accumulo di ricchezza, assumendo l’avere e il suo accumulo quale pos-sibile scopo di un’intera operosità di vita e relegando tra le superstizioni gliscrupoli e i tormenti del vecchio mercante medievale, è ovvio che l’esaspera-to individualismo proto-moderno venisse a identificarsi con il progetto capi-talistico di fondazione del nuovo homo oeconomicus; ed è altrettanto ovvioche l’individualismo ritenesse congenialissimo l’assetto capitalistico dellanuova Europa.L’avere, infatti, rende barriera insormontabile i confini di un’individualità,approfondendo il fossato che separa me da te, dagli altri. Non hanno forsesempre insegnato i giuristi occidentali, nel solco della bimillenaria tradizioneromanistica, che la proprietà è, nella sua essenza, ius excludendi omnes alios?

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L’illuminismo giuridico e la sua antinomia di fondo fra dispotismostatale e individuazione di diritti universali

Abbiam detto più sopra: giusnaturalismo e illuminismo giuridico; ed è così.L’illuminismo giuridico altro non è se non la prosecuzione, nell’itinerariodella modernità, del grande progetto giusnaturalistico, e anche il suo compi-mento a livello di fonti del diritto. Le cosiddette carte settecentesche dei dirit-ti e la maestosa edificazione codificatoria di tutte le branche dell’ordine giu-ridico, o si debbono ai fervori di scienziati e legislatori di pretta matrice illu-ministica, o hanno per presupposte le illuministiche scelte di fondo.Tra queste scelte ve n’è una che sviluppa, ma anche deforma e tradisce, leoriginarie premesse giusnaturalistiche: ed è l’idealizzazione del Principe e,insieme, la sua gigantizzazione, la fiducia piena riposta in lui quale sogget-to superiore al di sopra delle passioni, l’affidamento a lui conferito del com-pito delicatissimo di leggere la natura delle cose e tradurla in regole giuridi-che.In una civiltà ormai largamente secolarizzata, continuando un alone di sospet-to a circondare il papismo romano ed essendo pertanto improponibile lascia-re alla Chiesa l’individuazione del diritto naturale così com’era nella rifiuta-ta tradizione medievale, il nodo fu sciolto ripetendo nel Settecento una sceltache era già stata effettuata due secoli prima dai riformatori protestanti sulpiano religioso: così come, allora, si preferì affidare il governo delle Chiesenazionali al Sovrano locale pur di porre un argine fermo alla riconquista papa-le, così, ora, si dà al Principe di decrittare e leggere i principi del diritto natu-rale e fissarli in testi autorevoli.Io ho ripetutamente sottolineato in questa scelta una delle più gravi antinomiedella modernità giuridica5, nel momento in cui si faceva esprimere da unPrincipe che non era più l’Imperatore fornito di una potestà globale, da unPrincipe che era ormai un Sovrano particolare, da una pluralità di Sovraniparticolari e con leggi nazionali ristrette a uno specifico territorio statale,quella che doveva invece essere la voce della comunità universale.L’illuminismo giuridico non faceva, però, che raccogliere la linea di tenden-za - già da noi accennata - ben presente nei movimenti individualizzatorinazionalistici post-medievali. Il nuovo Principe, il Principe moderno, è lì chenasce, ed è lì che comincia a trasfigurarsi rispetto alla vecchia e rifiutataimmagine medievale: il suo potere non si identifica più nella iurisdictio, cheè certamente una sintesi potestativa ma che trova il suo fulcro nello ius dice-re, ossia in una potestà dalla valenza giudiziale; e di questo potere il nervo

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riposto non è più nella vecchia aequitas, nel rendere giustizia, secondo unmodulo risalentissimo della regalità. Il nuovo Principe è il Sovrano descrittoa fine Cinquecento nelle pagine crude ma fedeli di Bodin e di Montaigne; unre di Francia che fa ciò che gli piace, che crea norme misurandole solo sullasua volontà e sul suo libito, come è nitidamente dimostrato dai formulari can-cellereschi con cui quelle norme si concludono: «car tel est nostre plaisir»6.Ed è un Sovrano che, dopo essersi scrollato di dosso ogni lembo del vecchiomantello universalistico e aver reclamato per sé un’individualità perfetta el’indipendenza da qualsivoglia potentato terreno, rifiuta di ridursi a ius dice-re e pretende di creare lui il diritto nel proprio Stato, proponendosi semprepiù, in un itinerario lento e lungo ma continuo, quale conditor iuris, qualelegislatore.Il Sovrano illuminato e illuminante del Settecento ne è l’erede legittimo, macon questa rilevantissima differenza: non è più solo questione di arbitrio e dipiacere, bensì di una latitudine di poteri legittimata dalla sua penetrantissimacapacità di visione, capacità di lettura delle regole “naturali” traducendole inregole “positive”. Tuttavia, sia nel Principe della bodiniana “Republique”, sianei despoti illuminati, il potere, al di là delle teorizzazioni formali, si risolvein un soggettivismo esasperato.

La riduzione del paesaggio giuridico moderno: la vanificazione delledimensioni collettiva e sociale dell’individuo

La conclusione che si deve trarre e che è opportuno sottolineare si assomma inuna verità tanto elementare e troppo spesso misconosciuta o elusa: il paesag-gio giuridico della modernità è semplice, anzi semplicissimo. Con l’immedia-ta precisazione che la semplicità è frutto di una riduzione drastica, che la com-plessità propria a ogni ordine giuridico è stata costretta a contrarsi in uno sce-nario dove attori sono unicamente dei soggetti individui, da un lato il macro-soggetto politico, dall’altro il micro-soggetto privato.La società, nella sua globalità e complessità, c’è e non potrebbe non esserci,ma resta come un sottofondo inerte a cui si è tolta ogni possibilità di manife-starsi e di esprimersi giuridicamente; la società resta un groviglio di fatti brutiche non hanno, di per sé, la forza di diventare diritto senza l’ausilio del micro-soggetto privato nel suo ambito negoziale o del macro-soggetto pubblico nelsuo ambito normativo generale.La semplicità del paesaggio giuridico moderno soffre di artificiosità; più chesemplice, il paesaggio è semplicistico7.

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Nessuna evoluzione nelle nostre costruzioni giuridiche ci rappresenta questapuntualizzazione meglio della teorizzazione ottocentesca che la giuspubblici-stica fa sullo Stato/persona. L’assolutismo politico appartiene al passato, alme-no in buona parte dell’Europa occidentale, e si sta mettendo a punto nell’offi-cina fertile dei giuristi il nuovo edificio dello Stato liberale di diritto; al cuoredi esso sta la conclusione teorica di cui qui si discorre, e che ha uno scopo pri-mario: separare Stato e società con la demarcazione più netta possibile; affer-mare il primato dello Stato sulla società, affermare un super-soggetto politi-co/sociale, ridurre lo scenario giuridico a un’azione dove solo i soggetti indi-vidui hanno un ruolo8.Si tende alla cancellazione delle società intermedie. Per la perfetta realizza-zione di un siffatto progetto socio/politico/giuridico, esse sono inevitabilmen-te un ingombrante impedimento che, incarnando dei filtri mediativi tra indivi-duo fisico e Stato/persona, condizionano l’uno e l’altro e attenuano di parec-chio la libera espansione dell’uno e dell’altro. La civiltà giuridica borghese,che esige forti Stato e individuo abbiente, ciascuno con un proprio ordine pote-stativo, ma ambedue in strettissima simbiosi, non può tollerare al suo internodelle proiezioni sociali in grado di mettere a rischio la robustezza dell’edificiofaticosamente costruito, robustezza che ha la chiave di volta nella sua ridottis-sima semplicità.Come si diceva più sopra, il paesaggio è artificiosamente semplice, ma anchenecessariamente semplice: la semplicità è il frutto di una sapiente strategia. Siha un autentico raggrinzimento del diritto sorretto da due precise direttrici difondo.Sul piano del macro-soggetto si esaurisce nella volontà del titolare del poteresupremo, si manifesta come comando, come espressione di superiorità, comepotere. Le fonti si chiudono in una piramide rigidamente gerarchica, con lacompleta eliminazione di ogni espressione pluralistica. Infatti, solo un ferreomonismo giuridico può garantire il controllo di un diritto, che ancora alla finedell’antico regime conservava un suo volto plurale in forza della vincolazio-ne al ventre largo e profondo della società. Esso deve coincidere con la volon-tà del potere supremo e deve - pertanto - essere pensato, voluto, prodotto inalto.Nasce da qui la condanna senza appello di quella fonte materna, incarnantesinella ripetizione di un fatto, proveniente dal basso e strisciante sempre ade-rente alla terrestrità dell’esperienza quotidiana. E si capisce l’orgoglio e lasoddisfazione di Robespierre, espressione genuina del nuovo progetto giuri-dico, quando, nel colmo del momento giacobino della Rivoluzione, annuncia

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ai francesi la loro liberazione dagli impacci fattuali delle consuetudini imme-morabili e proclama, con accenti messianici, una nuova vita giuridica guida-ta e disciplinata unicamente da principi9; se, infatti, era non agevole control-lare il pullulare sparso delle consuetudini, era invece nella piena potestà deititolari della sovranità conformare i principi secondo il progetto che essi ave-vano in testa.Ma non era soltanto il materiale consuetudinario a finire in soffitta: scienza egiurisprudenza pratica subiranno la stessa sorte, perché, fonti primarie nellacomplessità giuridica dell’antico regime, erano state chiamate a tecnicizzare,definire, in qualche modo categorizzare l’informe sedimentazione usuaria erappresentavano un rischio a causa delle capacità autonomistiche di un ceto dicompetenti agguerriti. Certo, poiché la legge - ormai fonte unica - va applica-ta, non si potrà fare a meno dei giuristi, ma si toglierà loro ogni libertà di azio-ne riducendo il dottrinario nella prigione dell’esegesi e il giudice nelle stret-toie di un sillogismo incatenante.Sul piano del micro-soggetto, il diritto si sfaccetta in una raggiera di posizio-ni rigorosamente individuali: semplici interessi che si concretano in semplicifacoltà, interessi ritenuti maggiormente vitali che si concretano in situazioniqualificate (poteri e diritti soggettivi). Viene però cancellata quella dimensio-ne collettiva, che aveva consentito nel comunitarismo medievale e post-medie-vale il conferimento di un minimo di forza sociale al soggetto singolo (soprat-tutto all’uomo qualunque senza patrimonio e senza potere); mentre viene mini-mizzata la sua dimensione sociale, o trasformata e alterata nella riduzione arapporti inter-individuali. Il risultato raggiunto (e che si voleva raggiungere) èl’isolamento dell’entità individuale restringendo i suoi rapporti esterni a sem-plici relazioni con altre entità individuali.Mi sia consentita una postilla a quest’ultima puntualizzazione: una siffattavisione individualistica è un’onda lunga che arriva a lambire abbondantemen-te il nostro presente. Mi riferisco a quel documento, di indubbia rilevanza,chiamato comunemente “carta di Nizza” e ora divenuto parte integrante del“Trattato che adotta un progetto di Costituzione” per l’Unione Europea: inesso è chiara un’impostazione individualistica, che ha radici settecentesche eche permea di sé il tessuto della “Carta”; dove le posizioni che vengono garan-tite sono, con un’eccessiva prevalenza, sempre riferite a soggetti individuali;addirittura anche quando si riferiscono al bambino, giustamente tutelato, macon una tutela che appare considerarlo di per sé e quasi isolarlo dalla comuni-tà familiare10.

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Astoricità e asocialità della modernità giuridica: la scelta per l’astrat-tezza

Cominciamo a trarre qualche riflessione conclusiva dal nostro discorso.Un paesaggio popolato e segnato da individualità. La macro-individualità poli-tica, realizzatasi nello Stato/persona e concretizzatasi sempre - anche in asset-ti formalmente democratici - in un compiuto apparato potestativo. La micro-individualità privata, fortificata nella sua spiccata auto-referenzialità dallacoincidenza fra cittadino (cioè il cittadino che conta, che può votare in base alsuo censo11) e homo oeconomicus, quel proprietario fornito di un suo territorioautonomo dove il contratto è legge tra le parti (articolo 1134 del Code civil),blandito e protetto dallo Stato come personaggio affidantissimo e sicura garan-zia per l’ordine pubblico12.Vi era, poi, una scelta fondamentale della modernità giusnaturalistica, che pare-va fatta apposta per cementare ancor più il rinserrarsi delle varie individualità:quella per l’astrattezza, ossia il ragionar su modelli e per modelli, conseguentealla de-storicizzazione e de-fattualizzazione giusnaturalista e illuminista.Astratto dalla società - lo abbiamo detto - era lo Stato/persona, e teorizzatacome generale rigida astratta era la sua manifestazione normativa, la legge;legge uguale per tutto un popolo di crassamente disuguali, primo passo nelsuperamento delle vecchie inique disuguaglianze cetuali, ma soltanto un primopasso che, appagandosi di una conclamazione puramente retorica di ugua-glianza, manteneva una sua sostanza punitiva per il socialmente debole, ilpovero, l’ignorante, cioè per la stragrande maggioranza.Astratto il più possibile dalla società era il singolo, pensato e risolto come sog-getto unitario, erede diretto dei disincarnatissimi modelli svolazzanti nel para-diso terrestre del diritto naturale, irrobustito da questa astrattezza esattamentenella sua auto-referenzialità (che era il risultato voluto e inseguito).La scelta, che abbiamo ora segnalato e che è un segnale sonoro della moder-nità giuridica, ne provoca immediatamente un’altra a livello di manifestazionee comunicazione del diritto: regole astratte, ossia non contaminate dalla fat-tualità quotidiana, regole generali e rigide, che cioè non si piegano alle circo-stanze particolari e pretendono di avere una proiezione unitaria prescindendodalla mobilità e accidentalità del terreno storico, possono e debbono avereun’immobilizzazione scritta in un testo cartaceo impermeabile al mutamento erefrattario all’incidenza della usura storica. E, in perfetta coerenza, la civiltàgiuridica borghese è civiltà di déclarations, di carte, di Codici, che galleggia-no impassibili al di sopra del divenire storico.

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Il quadro descritto con serenità critica ha qualche aspetto positivo: all’inargi-nabile alluvionalità dello ius commune si è contrapposta un’ammirevole siste-maticità; all’allarmante incertezza si è sostituito un insieme di regole certissi-me; all’oscurità e caoticità delle vecchie fonti dottrinali e giurisprudenziali siè sostituito un sistema dall’ossatura razionale con norme limpide nel dettato edefficaci nella concisione.Ma un rischio ha perennemente percorso la modernità: rinnegando l’intrinse-ca storicità del diritto, si è operato un innaturale distacco con l’esperienza econ l’ambiente. Rischio che, in momenti improntati a maggiore staticità, hapotuto anche restare sepolto ma che è, invece, esploso quando la virulenza e larapidità del mutamento socio/economico ha messo a nudo il soffocamento ditante forze e la snaturazione del diritto da ordinamento rispettoso a prigionecostringente.Ciò è avvenuto a fine Ottocento con l’emergere di una società di massa, con lacrescita economica, con la rivoluzione tecnica, generando un filo corrosivoche ha percorso tutto il Novecento giuridico. Alla complessità crescente dellasocietà corrispondeva malamente e inadeguatamente un ordine giuridico sem-plice ma distaccato e artefatto, incapace di realizzare una funzione autentica-mente ordinante.

Qualche riflessione conclusiva: per un recupero della complessità deldiritto nella complessità della società

Torniamo alle nostre battute iniziali: è certamente inabdicabile assumere il sog-getto a perno dell’ordinamento giuridico. Il diritto, nato nella storia umana per-ché frutto della storia umana, non può che avere una finalità essenziale: è statogenerato hominum causa né potrà mai abdicare da questa consegna rigorosa.Il soggetto, però, che il diritto rispetta, tutela, incentiva, non può essere l’indi-viduo microcosmo della modernità, ma piuttosto una persona in carne e ossaimmersa al centro di un tessuto relazionale di diritti e di doveri, sempre pen-sata in dialettica con l’altro e inserita in formazioni sociali che la arricchisco-no e ne incrementano lo spessore. Il soggetto deve ritrovare le sue naturaliradici per poter ritrovare un ruolo protagonistico nell’attuale complessità; e ciòsarà possibile se si vorrà deporre quel soggettivismo esasperato che è stato ladivisa e il programma della modernità.Bisogna riscoprire la necessaria dimensione oggettiva del soggetto, la qualenon può che concretarsi nella riscoperta di tre dimensioni radicali (cioè di radi-ci profonde): una dimensione comunitaria che lo costringa a fare i conti con

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l’alterità e con interessi sovrastanti la propria egoistica ed edonistica indivi-dualità; la dimensione della tradizione che, rendendo il soggetto anello di unacatena che arriva fino a lui, lo riporti alla virtù dell’umiltà e dell’ascolto; ladimensione della natura delle cose quale ulteriore lezione di umiltà e ulterioreinvito all’ascolto.Il moderno soggetto di diritto, così disarticolato, così sradicato, è bene relegar-lo in un passato che non è più presente e che non potrà mai diventare futuro.Tutto sarà più facile, se cominciamo ad abituarci a una visione del diritto piùcome ordinamento che come potere13.Ordinamento: una nozione preziosa, dove soggettivo e oggettivo si integranoe si armonizzano per arrivare a un diritto capace di seguire lo svolgersi e ilmutarsi del mondo sociale senza fargli violenza.Di questo recupero abbiamo bisogno nell’attuale profonda crisi delle fonti chestiamo vivendo, crisi che taluno, ancora posseduto da antichi plagi e fermo suantiche certezze, pessimisticamente reputerà rovinosa, che io invece reputofertile e gremita di futuro sol che si abbia tra le mani una bussola sicura duran-te una navigazione che si presenta costellata di difficoltà. Il salvataggio, a mioavviso (e l’ho scritto e detto con assoluta chiarezza14), sta nel deporre unavisione potestativa del diritto, che lo immiserisce, lo riduce, perché lo conse-gna interamente nelle trame di una dimensione acutamente soggettivistica.Oggi vi è l’esigenza di ben altro: una visione schiettamente ordinamentale puòdare respiro al diritto, può fargli recuperare la percezione della complessità e,in tal modo, corrispondere appieno al suo ruolo di sempre, che non è di con-trollare ma di ordinare il sociale.

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1 Per uno sguardo sintetico rinviamo a P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza,Roma-Bari 2006.

2 Per un primo orientamento può essere utile la lettura di M. Montanari, La fame e l’abbon-danza-Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, Roma-Bari 2003.

3 Ne abbiamo trattato in P. Grossi, L’inaugurazione della proprietà moderna, Guida, Napoli1980.

4 Cfr. P. Grossi, Modernità politica e ordine giuridico, in Assolutismo giuridico e diritto pri-vato, Giuffrè, Milano 1998.

5 Ibid.6 Rinvio a quanto ebbi modo di puntualizzare con maggiore ampiezza nel saggio Giustizia

come legge o legge come giustizia? Annotazioni di uno storico del diritto, in Mitologie giu-ridiche della modernità, Giuffrè, Milano 2005 (seconda edizione accresciuta), p. 28 e ss.

7 Il primo giurista a rilevarlo con forza è Santi Romano in certi suoi penetranti saggi costitu-zionalistici scritti tra fine Ottocento e primi Novecento. Lo abbiamo sottolineato come

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momento di preziosa (e rara) riflessione critica in Scienza giuridica italiana-Un profilo sto-rico 1860/1950, Giuffrè, Milano 2000.

8 Si leggano le pagine, al solito acutissime, di G. Berti, La parabola della persona Stato (edei suoi organi), in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», n.11, 1982/83.

9 Cfr. P. Grossi, Le molte vite del giacobinismo giuridico. Ovvero: la “carta di Nizza”, il pro-getto di “Costituzione europea” e le insoddisfazioni di uno storico del diritto, ora inMitologie giuridiche della modernità, cit., p. 135.

10 Da ultimo, abbiamo distesamente esaminato e valutato il contesto della “Carta” nel saggiocitato alla nota precedente (pp. 141 e ss.). Ma si veda anche P. Grossi, L’ultima carta deidiritti, in G. Vettori (a cura di), Carta europea e diritti dei privati, Cedam, Padova 2002, ein Diritti, nuove tecnologie, trasformazioni social. Scritti in memoria di Paolo Barile,Cedam, Padova 2003.

11 Si vedano le stringentissime e documentatissime pagine di un saggio famoso di GaetanoSalvemini, uscito nell’immediato secondo dopoguerra, sul carattere pseudo-democraticodello Stato liberale italiano, dove, per troppi decenni dopo l’unità politica, si respinge l’i-dea di un suffragio universale: G. Salvemini, Fu l’Italia prefascista una democrazia?, «IlPonte», 1952.

12 Come dimostra la retorica mielosa con cui, anche in severissimi trattati di indole tecnica,viene descritto il proprietario. Un esempio emblematico è offerto da J. B. V. Proudhon,Traité du domaine de propriété, Lagier, Dijon 1839, nn. 57, 58, 59, 62.

13 P. Grossi, Il diritto tra potere e ordinamento, Editoriale Scientifica, Napoli 2005.14 L’ho scritto nel saggio citato alla nota precedente; l’ho detto nella mia lectio doctoralis

bolognese: Santi Romano, Un messaggio da ripensare nella odierna crisi delle fonti, incorso di stampa a cura della Spisa di Bologna su «Rivista trimestrale di diritto e proceduracivile».

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Per inserirmi sull’excursus e sulle argomentazioni esposte con grande luciditàda un autorevole maestro come Paolo Grossi, cercherò di attualizzare dalpunto di vista costituzionalistico due coordinate sulle quali si è sviluppato inchiave storico-ricostruttiva il suo intervento: il “Principe” e i diritti. Cercheròquindi di rispondere a due domande che si pongono con forza nel contestodella postmodernità. Chi è oggi il “Principe”, di fronte alla crisi della sovrani-tà tradizionale indotta dalla globalizzazione, e dove si situa la frontiera deinuovi diritti che stanno emergendo in alcune legislazioni nazionali e nellaprassi internazionale.

Chi è oggi il Principe?

Per effetto della globalizzazione, il mondo sta cambiando, con epocali trasfor-mazioni che coinvolgono e quasi trascinano via uno dei concetti cardine elabo-rati dalla scienza politica e giuridica moderna: l’idea di sovranità. I riflessi diquesto cambiamento sono notevoli rispetto agli assetti istituzionali tradiziona-li; la stessa democrazia ne è coinvolta.Uno dei più autorevoli teorici della democrazia, Robert Dahl, ha infatti eviden-ziato il cambiamento avvenuto, precisando che oggi ci troveremmo di frontealla terza trasformazione della storia della democrazia1.Il primo passaggio fu quello dell’evoluzione, nel V secolo a. C., delle Città-Stato non democratiche in Democrazie e Repubbliche. Il secondo passaggio èstato quello della trasformazione della democrazia assembleare delle Città-Stato nella democrazia rappresentativa dello Stato nazionale. Quella che eranata come democrazia diretta, usufruibile nel piccolo spazio della polis, si tra-sformò, cioè, nella democrazia indiretta dei “grandi spazi”, ormai troppo vastiper consentire un esercizio efficace della consultazione popolare diretta su tuttele questioni inerenti alla vita politica.Il terzo passaggio sarebbe quello attuale, dove, a fronte della crisi degli Stati-Nazione, si assiste al sorgere di organismi sovranazionali e transnazionali(Unione Europea, Organizzazione mondiale del commercio, Fondo monetariointernazionale, ecc.), che assumono un peso sempre maggiore erodendo le

Il nuovo Principe e i nuovi dirittidi Luca Antonini *

* Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Padova. Vicepresidente della Fondazioneper la Sussidiarietà

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sovranità nazionali, ormai inadeguate - se lasciate a se stesse - a gestire ledimensioni dei problemi aperti dalla globalizzazione. Gli Stati nazionali devo-no, cioè, cedere quote di sovranità a favore di altre organizzazioni per non per-derla completamente2. Esemplificativo è quanto accadde nel 1992 per effettodelle speculazioni di Soros sulla Lira, quando l’Italia venne espulsa dal Sistemamonetario europeo con conseguenze disastrose sull’economia, che si risollevòsolo a prezzo di una durissima terapia di risanamento, inclusiva di misure dra-coniane come l’imposta straordinaria del sei per mille su tutti i depositi banca-ri degli italiani.Tuttavia, i nuovi “sovrani globali” (rectius: “quasi sovrani globali”) non hannouna legittimazione democratica analoga a quella dei Parlamenti nazionali (nes-sun cittadino elegge i membri dell’Organizzazione mondiale del commercio odel Fondo monetario internazionale) o, in ogni caso, scontano deficit di demo-craticità (per esempio, a livello europeo i veri poteri decisionali spettano allaCommissione o al Consiglio e solo in minima parte al Parlamento, l’unico orga-no eletto direttamente dai cittadini europei). Eppure, le decisioni di questi nuovipoteri pubblici globali, pur privi di una constituency democratica - perlomenodiretta -, producono effetti rilevantissimi sulla vita dei cittadini degli Statinazionali: si pensi all’ingerenza che può esercitare il Fondo monetario interna-zionale su un’economia nazionale colpita da una crisi valutaria, oppure a comel’ammissione nel 2001 della Cina nell’Organizzazione mondiale del commer-cio abbia determinato uno “tsunami” economico sui mercati dei Paesi europei3.Il terzo passaggio della storia della democrazia risulta quindi problematico4.Mentre nella trasformazione delle Città-Stato in Stati-Nazione la democrazia,nella metamorfosi da diretta a indiretta, riuscì a conservare la sua essenza gra-zie all’introduzione del principio rappresentativo (l’elezione di rappresentanti),all’apertura dello spazio globale consegue un destino meno felice. SecondoDahl, il paradigma della democrazia nello spazio globale diventa quello plato-nico del «governo dei custodi», segnando una deriva autoritaria che il passag-gio dai piccoli ai grandi spazi era invece riuscito a esorcizzare attraverso il prin-cipio rappresentativo.Il dilemma tra efficienza e partecipazione democratica si è quindi risolto a sca-pito di quest’ultima, dal momento che la crescita di influenza delle organizza-zioni sovrannazionali e internazionali mette progressivamente a repentaglio ilcircuito della rappresentanza politica così come era stato costruito nello Stato-Nazione.Rispetto a questo fenomeno, un antidoto può essere però rappresentato siadallo sviluppo, a livello dei nuovi poteri globali, dei meccanismi di accounta-

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bility propri della democrazia deliberativa5 (diritto di essere auditi, alla moti-vazione, ecc., cioè diritti di partecipazione più spostati sul lato amministrativoche su quello politico), sia attraverso quella rivalutazione politica della socie-tà civile implicita nel principio di sussidiarietà. «Vi è infatti nel principio disussidiarietà una carica innovativa […] che investe […] l’essenza stessa dellademocrazia, lo sviluppo dei suoi valori»6.

Verso nuovi diritti sociali fondati sulla sussidiarietà

In questo contesto, una delle leve per «democratizzare la democrazia» è quin-di il principio di sussidiarietà, che può costituire un valore costituzionale ido-neo a colmare, almeno in parte, la lacuna aperta dalla globalizzazione attra-verso l’erosione delle potenzialità del principio rappresentativo.Da questo punto di vista, è utile precisare che lo Stato costituzionale aveva giàsuperato l’identificazione della democrazia con il mero principio rappresenta-tivo7, perché il principio di democraticità si è strutturato integrando il princi-pio rappresentativo con valori costituzionali indisponibili alla stessa maggio-ranza pur democraticamente eletta. Con le Costituzioni del secondo dopo-guerra è quindi avvenuto il superamento della nozione meramente numeri-co/relativista del principio di democraticità: attraverso la previsione di libertà,valori e diritti, sono stati stabiliti limiti valoriali al mero principio di maggio-ranza.Queste Costituzioni, inoltre, hanno chiarito che, assieme alle libertà civili epolitiche, occorre perseguire anche l’obiettivo dell’eguaglianza sostanziale perrimuovere quegli ostacoli che, di fatto, impedirebbero la piena partecipazionepolitica: è evidente che un’elezione svolta in un contesto dove la maggioranzadella popolazione fosse analfabeta non potrebbe definirsi sostanzialmentedemocratica.La garanzia dei diritti sociali, che ha consentito l’evoluzione verso questonuovo livello della democrazia, è avvenuta attraverso l’edificazione dei siste-mi di welfare, che hanno permesso la diffusione di alti livelli di protezionesociale. La grande sfida del Novecento è stata quindi il superamento dell’e-guaglianza solo formale dello Stato liberale e l’incremento della libertà“mediante lo Stato”.Per conseguire questo obiettivo, il Novecento ha però sposato la soluzionehobbesiana dell’ordine sociale, come evidenzia Donati8. Il welfare del mondofordista si è infatti sviluppato sulla contrapposizione moderna (hobbesiana) frapubblico (Stato) e privato (il mercato dell’homo homini lupus)9, dove «pubbli-

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co» veniva poi spesso assiomaticamente associato a «morale», e «privato» a«immorale» proprio per escluderne la valenza a fini sociali: poiché della socia-lità della persona umana non ci si può fidare, si limita il pluralismo sociale ela rilevanza delle formazioni sociali intermedie.Si tratta di un’impostazione che continua a condizionare il dibattito: mentre siè disposti a teorizzare a oltranza la libertà di scelta nell’ambito privatisticodelle preferenze individuali (libertà sessuale, libertà di morire, libertà di abor-tire, ecc.), riguardo all’ambito pubblicistico delle preferenze sociali (libertà discelta tra servizio pubblico e privato) permangono forti resistenze.Tuttavia, è proprio a questo livello che si apre oggi la sfida per rianimare lademocrazia: la sfida del passaggio dalla «libertà mediante lo Stato» (paradig-ma dei primi diritti sociali) a quella della «libertà mediante la società»10 (para-digma dei nuovi diritti sociali).Siamo in una fase di transizione, che origina dalla crisi dei presupposti. Siaffaccia quindi all’orizzonte una soluzione alternativa all’antropologia negati-va di tipo hobbesiano, dove l’uomo è un lupo e la gabbia statale consente laconvivenza civile. La crisi della sovranità statale obbliga al realismo e impo-ne il recupero di una visione positiva dell’uomo, dei suoi desideri originali11,dei suoi diritti. Partire dalla considerazione che l’uomo «sia un essere ferito e debole, maintrinsecamente capace di comportamenti altruistici, solidali o almeno nonauto-interessati, ovvero di scambi umani»12, permette di identificare e recupe-rare, dopo un’epoca di affossamento ideologico, l’eredità di un’antica tradi-zione che ha caratterizzato lo sviluppo della società europea e di riscoprirlanella prospettiva della post-modernità.Cambiano i presupposti e con questi il metodo: mentre un’antropologia nega-tiva porta a sviluppare dinamiche repressive, una positiva privilegia quelle pre-miali; favorisce il passaggio dalle logiche assistenzialistiche a quelle di svi-luppo delle “capacitazioni”13; tende a considerare il cittadino, prima che uncontrollato della Pubblica amministrazione, come una risorsa della collettivi-tà; considera l’interesse generale (cioè il bene comune) non più come mono-polio esclusivo del potere pubblico, ma come un’auspicata prospettiva dell’a-gire privato14.Da questo punto di vista, le implicazioni costituzionali sono rilevanti: peresempio, l’articolo 118 della Costituzione impone ai pubblici poteri di valo-rizzare le iniziative dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di atti-vità di «interesse generale»; nel nuovo articolo 119, inoltre, il federalismofiscale viene impostato in chiave responsabilizzante (la perequazione ordina-

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ria avviene rispetto alle capacità fiscali e non riguardo ai bisogni) e non piùmeramente assistenzialistica, fino a permettere di configurare una nozione di«risorse autonome»15 nel senso appena accennato di attiva cittadinanza. Da questo punto di vista, si affaccia all’orizzonte la possibilità di una nuovaprogettualità politica e istituzionale: per esempio, l’applicazione del principiodi sussidiarietà consente di superare quella forma perversa di governance percui il monopolio pubblico della decisione di spesa per i servizi sociali haspesso favorito gli interessi dei fornitori - burocrati, sindacalisti, ecc.- anzi-ché quelli dei destinatari. È innegabile che, protetti da una rendita di posizio-ne, i fornitori dei servizi hanno spesso utilizzato l’apparato a loro vantaggio,mentre gli utenti non hanno avuto alcuna voce in capitolo. Nel tradizionalemodello “burocratico impositivo” il cittadino, infatti, si è visto restituire intermini di servizio quello che aveva pagato con l’imposizione fiscale, dimi-nuito però del costo burocratico della gestione di questo transfer. Il serviziopubblico erogato in una situazione di sostanziale monopolio ha quindi facil-mente risentito anche di uno scadimento qualitativo, ma l’opzione per un ser-vizio “privato”, diverso da quello offerto dall’ente pubblico (eventualmenteritenuto inefficiente), ha dovuto essere pagata (da chi ne aveva la facoltà) conrisorse ulteriori rispetto a quelle già prelevate dall’imposizione fiscale.Quest’assetto poteva ancora risultare tollerabile quando il sistema riuscivacomunque a garantire protezione sociale. Oggi, di fronte alle nuove e forti esi-genze di ridimensionamento della spesa pubblica e ai paradossi prima evi-denziati, si apre la necessità di un ripensamento del catalogo stesso dei dirit-ti sociali. Nel contesto del welfare tradizionale, dove si annidano ormai vere e proprietrappole della povertà16, il trade-off del patto costituzionale, nella sua versionehobbesiana, si è infatti spezzato. Il passaggio al modello di welfare sussidiarioconsente allora di riformularlo recuperando un maggiore tasso di libertà e diefficacia nel soddisfacimento dei diritti sociali. In questo senso, come ha pre-cisato Zagrebelsky, la norma sulla sussidiarietà introdotta nell’articolo 118della Costituzione può rappresentare addirittura una modifica della forma diStato, l’emergere cioè di un nuovo patto costituzionale fondato su una visionediversa del nostro essere società17.Il traguardo di una maggior equità può discendere dall’enucleazione, per lavia di interpretazione costituzionale, di un catalogo di nuovi diritti socialicostruiti sulla base del principio di sussidiarietà (ex articolo 118 dellaCostituzione) e strutturati in modo da recuperare equità e libertà al sistema.Tra questi si possono indicare, per esempio: il diritto all’esenzione fiscale del

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Familienexistenzminimum; il diritto alla completa esenzione fiscale dellespese che attengono ai bisogni primari dell’esistenza; il diritto alla direttadestinazione di una parte delle imposte a favore di soggetti non profit (peresempio, il cinque per mille); il diritto alla libertà di scelta tra servizio pub-blico e servizio privato; il diritto a un “quasi mercato” dove agenti pubblici eprivati non profit possano concorrere in condizione di parità allo svolgimen-to di «attività di interesse generale», sotto il controllo pubblico sulle presta-zioni erogate (in questa direzione si muove peraltro anche la proposta di unsistema di “servizi di interesse generale” su cui sta lavorando l’UnioneEuropea); il diritto alla promozione delle capacità, anziché all’assistenziali-smo.Si tratta di un catalogo di diritti sociali che traduce in modo organico la valen-za democratica del principio di sussidiarietà, intesa come una delle “forme” diesercizio della sovranità popolare cui fa riferimento l’articolo 1 dellaCostituzione italiana18.Per esempio, il cinque per mille, al quale già nel primo anno dalla sua intro-duzione ha aderito più del 60% dei contribuenti italiani, ha costituito unaforma di democrazia diretta fiscale, in quanto i contribuenti hanno potuto indi-care l’ente cui si voleva devolvere la quota della propria imposta: la spesa effi-ciente è stata premiata e quella inefficiente tagliata in base a decisioni assuntedal basso, dai cittadini. È un esempio emblematico di come le applicazioni delprincipio di sussidiarietà possano anche sgravare la politica da compiti chemeglio possono essere assolti dalla società. Da questo punto di vista, senz’al-tro indovinata appare la proposta, avanzata da alcuni consigli regionali, di rad-doppiare con risorse regionali le destinazioni del cinque per mille operate daicontribuenti.

L’ambigua frontiera dei nuovi diritti

Oggi il dibattito sui diritti umani spesso trascende l’impostazione tradizionalee si concentra sulla frontiera dei “nuovi diritti” emergenti. Questa, tuttavia,deve essere attentamente considerata, perchè può costituire un terreno ambi-guo, minato dal rischio che dietro l’apparente allargamento della sfera dellelibertà paradossalmente si nascondano presupposti, per certi aspetti, totalitari.Il controllo democratico sulla genesi di alcuni dei nuovi diritti che si stannoaffermando è, infatti, a volte deficitario, perché la loro introduzione avvieneinnanzitutto a quei livelli dell’ordinamento (internazionale, comunitario o giu-risdizionale) dove minori sono le possibilità di incidenza della sovranità popo-

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lare e maggiori invece le possibilità di condizionamento di potenti lobby. Inoltre, la caratterizzazione dei nuovi diritti spesso prescinde dalla visionedignitaria che è stata alla base della Dichiarazione universale sui diritti umanidel 1947: basti pensare alla recente “riabilitazione” della pedofilia in Olanda,rubricata tra le tendenze possibili e giuridicamente tutelabili, al punto che lapromozione della pedofilia è divenuta alla base del programma del partitopolitico Nvd (sigla che sta per «amore per il prossimo, libertà e diversità»).Oppure alla sentenza di quel tribunale tedesco di Kassel che ha applicato unapena mite, con una condanna a metà strada tra l’omicidio e l’eutanasia, per unatto di cannibalismo in relazione all’uccisione di un uomo che aveva dato lasua disponibilità a essere mangiato con un annuncio su internet.Se in nome della libertà si può giungere a questi estremi, altrettanti interroga-tivi pone la pretesa di certe teorie scientiste di negare l’opportunità di un con-trollo democratico sulle possibilità dell’evoluzione scientifica, che sarebbechiamata a rispondere solo a se stessa: in Gran Bretagna il governo ha cedutoalle pressioni per creare embrioni misti uomo animale (i cosiddetti embrionichimera).Sempre in Gran Bretagna, le disposizioni sulla nuova “legge sull’eguaglianza”impediscono agli orfanotrofi cattolici la possibilità di rifiutare, in nome del-l’obiezione di coscienza, di assegnare bambini a coppie omosessuali.L’obiezione di coscienza oggi è peraltro su più fronti messa in discussione: sipensi al recente documento dell’E.U. Network of Independent Experts onFundamental Rights - un gruppo di esperti istituito dall’Unione Europea permonitorare e riferire sulle materie attinenti ai diritti umani - che intima aigoverni degli stati europei uno specifico dovere di limitare il diritto all’obie-zione di coscienza dei medici e che ha avuto un ruolo fondamentale nella moti-vazione della recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che hadichiarato la legge polacca sull’aborto in contrasto con la Corte stessa. Eppure, proprio la possibilità dell’obiezione di coscienza su temi eticamentesensibili rappresenta il confine sul quale si misura la reale cifra democratica diun ordinamento che riconosce il carattere convenzionale delle determinazionidella maggioranza, senza pretendere che queste assumano il rango di criteri diverità assoluta, al punto da imporli escludendo la possibilità di non aderire:alle regole si chiede obbedienza, alla verità adesione.Come ricordava Giovanni Paolo II, al centro del dibattito contemporaneo è «ladisputa sull’humanum» in quanto tale, che non avviene nel contesto di una cul-tura umanistica, ma in quello di un prevalente orientamento nichilista, chefacilita la diffusione di “diritti insaziabili”. Nella coppia, nella famiglia, nella

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malattia o nella morte si utilizza in maniera crescente la qualificazione di“diritto” per descrivere aspetti della vita rispetto ai quali è discutibile parlaredi “diritti”: sono più semplicemente possibilità, opzioni, facoltà. Ogni grupporivendica il “suo diritto”, dimenticando che ogni nuovo diritto crea un nuovoe correlativo dovere per qualcun altro o comunque un’incisione di altri valori.Soprattutto, si tende alla normativizzazione del desiderio, quasi che il rivesti-mento legislativo del desiderio potesse misticamente assicurarne il compi-mento. Intrappolati nel miraggio di questo inganno, i nuovi diritti rischiano solo dicreare nuove infelicità.

L’attacco alla visione dignitaria dei diritti umani

La moltiplicazione dei diritti, anche i più aberranti sul piano sociale, apparecome il risultato del parossismo soggettivistico di fondo che sembra caratte-rizzare la postmodernità. L’evoluzione del sistema giuridico sembra dimostra-re un progressivo venir meno della capacità del diritto di essere ordinamento,per configurarsi invece come potestas: il primato tende a passare dalla cono-scenza alla volontà, dal riconoscimento di un ordine ragionevole all’identifi-cazione del diritto con ciò che un soggetto è in grado di far diventare legge.Da questo punto di vista, l’evoluzione, come denuncia Mary Ann Glendon,sembra evidenziare addirittura un’aggressione in atto, condotta nel nome dellelibertà individuali, contro una visione dei diritti dell’uomo basata sul concettodi dignità. Mary Ann Glendon precisa, infatti, come la “visione dignitaria” dei diritti,decisamente presente nelle Costituzioni europee del dopoguerra, sia stata allabase dei lavori che le Nazioni Unite avviarono nel 1947 per giungere allaDichiarazione universale sui diritti umani, dal momento che un consenso dif-fuso non poteva essere ritrovato assumendo la visone individualista anglo-americana o quella collettivista sovietica. «All’epoca del secondo grandemomento dei diritti nella scia del secondo conflitto mondiale, fu il modellobasato sul concetto di dignità ad avere maggiore influenza sulla maggior partedei nuovi strumenti nazionali e transnazionali che vennero elaborati in quelperiodo, e quindi sulla maggioranza delle Costituzioni e delle leggi sui dirittidei cittadini attualmente in vigore nel mondo».La grande attrazione esercitata da questo modello è dimostrata dal fatto che laDichiarazione universale venne approvata senza nessun voto contrario. Ma,successivamente, si è verificata una svolta inquietante: a partire dagli anni

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Settanta è iniziato un duro attacco all’impostazione dignitaria e laDichiarazione universale è stata ridotta a un semplice menù dal quale staccarei singoli diritti, senza considerare più la matrice unitaria della dignità intornoalla quale ruotava in modo sistematico l’intera Dichiarazione.In questo processo si è inserita la pressione di potenti lobby, che ne hannoapprofittato per utilizzare il progetto dei diritti umani per i loro fini particola-ri. Molti di questi gruppi, «in particolare quelli i cui programmi sono politi-camente impopolari nei rispettivi Paesi, ritengono che i diritti dell’uomointernazionali forniscano siti di produzione off-shore dove i loro programmipossono essere impacchettati come nuovi diritti e rispediti a casa con l’eti-chetta di “norme internazionali”. Poiché alcuni dei nuovi diritti propostierano in conflitto con diritti già esistenti, fu solo questione di tempo primache gli attivisti iniziassero a parlare di “decostruire e riconfigurare la struttu-ra dei diritti dell’uomo”»19. Il modello basato sul concetto di dignità, con lesue disposizioni a tutela della famiglia, divenne allora il bersaglio principaledei loro sforzi. In questo modo, si è offerta un’opportunità eccezionale ai potenti e ricchigruppi d’interesse, che da quel momento hanno capito bene come la via perportare avanti le loro rivendicazioni, piuttosto che quella del consenso demo-cratico nei propri Paesi, fosse quella dell’influenza delle Corti e delle sediinternazionali. Le lobby hanno così potuto catturare e piegare ai loro fini il pre-stigio del progetto sui diritti umani universali. Questa tattica è venuta allo sco-perto negli anni Novanta, quando la delegazione europea alla Conferenza delledonne a Beijing ha proposto di rimuovere la parola «dignità» dai documentidella conferenza, insieme a tutti i rimandi alla Dichiarazione universale suidiritti umani in tema di matrimonio, famiglia, libertà religiosa, e diritti deigenitori. Il fatto che fossero proprio i delegati europei a sostenere questo assal-to alla dignità, è apparsa come una cosa del tutto sbalorditiva, dal momentoche «il linguaggio che costoro cercavano di eliminare dai documenti delleNazioni Unite era sostanzialmente identico a quello delle disposizioni conte-nute nelle Costituzioni dei loro rispettivi Paesi».La conclusione di Mary Ann Glendon è quindi che «agli albori del TerzoMillennio, le decisioni inerenti i diritti dell’uomo rischiano di degenerare inuna cacofonia. Le dichiarazioni sui diritti dell’uomo corrono il rischio didiventare semplici bacheche dove questo o quel gruppo di interesse cerca diapporre il suo nuovo diritto preferito, senza preoccuparsi minimamente dicome esso possa minare le condizioni necessarie per il conseguimento di unaeffettiva libertà»20.

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Il commercio dei diritti umani: un mercato parassitario

Si assiste, intanto, allo sviluppo di una prassi di commercio transnazionale didiritti umani, dove si alimentano pratiche interpretative che agiscono «comeparassiti» perché traggono «linfa dalla universalità dei diritti umani per giusti-ficarsi», ma in realtà non ne condividono i presupposti ontologici di dignità euniversalità che ne hanno fondato il valore. È utile a questo riguardo riportareil lucido contributo di Paolo Carozza, che evidenzia le gravi conseguenze diquesto nuovo “mercato” dei diritti umani che si è creato a livello della giuri-sprudenza transnazionale attraverso l’uso/abuso di procedure comparative. «Sitratta di un mercato di ideologie, e non di ideali. Esso allontana l’interpreta-zione e l’evoluzione del contenuto dei diritti umani dai fatti concreti di ciò cheè favorevole o meno al benessere dell’uomo in tempi e territori diversi. Al con-trario, privilegia preferenze culturali e politiche altamente contingenti rispettoalla genuina esperienza umana. In secondo luogo, si tratta di un mercato gesti-to da una circoscritta elite culturale. Il libero movimento dei diritti umanisenza la dignità e l’universalità quali reali e concreti punti di riferimento apreil mercato proprio a ciò che le norme sui diritti umani erano inizialmente fina-lizzate a limitare e disciplinare»21. Da questo punto di vista, «le istituzioni didiritto internazionale e costituzionale (molte delle quali sono nettamente edeliberatamente escluse dal circuito della responsabilità politica popolare)esercitano un enorme controllo sul commercio internazionale dei diritti umani,così come una piccola manciata di soggetti non governativi, che sono diventa-ti attori dello stesso mercato. Il mondo dei diritti umani, quindi, spesso asso-miglia a un’oligarchia piuttosto ristretta, in cui il dissenso e la differenziazio-ne sono fortemente limitate»22.Si tratta, peraltro, di un mercato affetto da «amnesia storica e culturale. La cir-colazione dei diritti umani si svolge senza alcun riferimento reale al modo incui la dignità umana e il bene comune sono stati ricostruiti e realizzati in con-creto nelle diverse civiltà nel corso della storia. Così si incoraggia l’ignoranzadelle identità storiche e l’omogeneizzazione delle culture. Non c’è alcun postoin questo mercato per il riconoscimento di un pluralismo legittimo nella spe-cificazione dei principi di base dei diritti umani»23.Infine, è un mercato di «autoritarismo burocratico, a discapito della ragionepratica e della politica. Costituisce, cioè, un esempio di ciò che Pierre Manentdeplora come depoliticizzazione delle nostre società, in quanto il commerciotransfrontaliero dei diritti umani riesce a rimuovere le questioni maggiormen-te dibattute e difficili dell’etica politica e sociale dalla sfera della deliberazio-

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ne razionale collettiva, ponendole nelle mani di istituzioni che sono molto piùestranee dal processo, confuso ma imprescindibile, di confronto reciproco,convincimento e decisione che si svolge negli ordinamenti democratici»24.

Verso una nuova ragionevolezza dei diritti umani fondamentali

Per un importante contributo al dibattito, è utile riprendere un recente saggiodi Antonino Spadaro sulla ragionevolezza dei diritti fondamentali, in base allaquale si potrebbe giungere a distinguere oggi «due tipi di situazioni giuridichesoggettive: i diritti “pseudo-fondamentali” (tali perché davvero solo storico-contingenti o coincidenti con meri desideri: non casualmente, a ben vedere,essi nemmeno sono esplicitati nelle principali dichiarazioni internazionali),che purtroppo sono irragionevoli; i diritti fondamentali “autentici”, tali perché,oltre a essere previsti dalle dichiarazioni internazionali, risultano compatibilicon le principali antropologie personaliste che “fanno” il crogiuolo culturaledell’Occidente (una delle quali - non l’unica - è quella cristiana), i quali inve-ce sono largamente ragionevoli (e quindi tendenzialmente non presuntuosi,non tirannici)»25.La ragionevolezza viene quindi presentata come la “chiave di volta” delladistinzione: «Ogni qual volta un presunto diritto fondamentale è iper-soggetti-vo (incompatibile con altri, non praticabile, ecc.), esso tuttalpiù resta un sem-plice diritto, ma più spesso è soltanto una situazione giuridica soggettiva mera-mente “tollerata”. Più precisamente, poiché esso non appare ragionevole, certonon è un diritto fondamentale, ossia costituzionale (e, con ciò, meritevole dellarelativa maggior tutela). Per converso, quando un diritto è relazionale e inter-soggettivo (compatibile con altri, praticabile, ecc.), esso appare ragionevole equindi è qualificabile come fondamentale, ovvero: costituzionalmente merite-vole di tutela».Da più punti di vista, quindi, si evidenzia la necessità di recuperare la neces-saria dimensione oggettiva del soggetto, in altre parole, l’esigenza di indivi-duare un parametro comune da contrapporre all’esaltazione di tutti i bisogni etutti i desideri. In questa riscoperta può essere individuato un antidoto efficace al rischio delparossismo su cui si sta sviluppando la selva - e il traffico - dei “diritti insa-ziabili”: «quanti delitti in nome della libertà», constatava Madame deRoland26.A tal riguardo, non sembra troppo produttiva la semplice rievocazione toutcourt della grande tematica del diritto naturale27. Si richiede invece, pur in

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quella linea, una nuova elaborazione e nuove proposte per resistere alla deri-va “disumana” a cui oggi sembra esposta l’esperienza del diritto puramentelegale.Da questo punto di vista, appare necessario «riguadagnare un accesso all’e-sperienza e alle evidenze che le sono proprie»: «interrogare l’esperienza»28 perriscoprirvi quelle esigenze ed evidenze elementari che denotano la strutturaumana.Dal punto di vista antropologico, non si può trascurare allora il contributo aldibattito della postmodernità che ha offerto Luigi Giussani attraverso l’elabo-razione della nozione di “esperienza elementare”, per valorizzare il «comples-so di evidenze ed esigenze originali con cui l’uomo è proiettato dentro il con-fronto con tutto ciò che esiste»29.Negli ultimi secoli, la categoria di “esperienza” è stata infatti intesa secondoun’accezione soggettivistica, da cui pareva impossibile uscire per darle unsignificato obiettivo, anche per quanto attiene ciò che non è misurabile secon-do discipline quantitative. «Giussani, riprendendo in modo originale categoriedel realismo cristiano, ha reinterpretato questo termine proponendo la nozionedi esperienza elementare, cioè l’insieme di esigenze ed evidenze fondamenta-li che costituiscono - usando il linguaggio biblico - il “cuore” di ogni uomo, lasua faccia interiore, a qualunque epoca, luogo o etnia appartenga. Le eviden-ze ed esigenze di verità, di giustizia, di bellezza esperibili da ogni singolo,sono la radice antropologica dei diritti naturali e offrono la chiave epistemolo-gica per “giudicare” e verificare la validità delle diverse antropologie. […]L’esperienza elementare è il fattore che accomuna ogni cultura che ponga alcentro l’uomo. È quella che un credente chiama “scintilla di Infinito” e cheanche un agnostico o un ateo possono definire come “irriducibilità della per-sona”. Questo è comunque il punto da cui sarebbe interessante partire per rico-struire una filosofia e una teoria della conoscenza, dove si riscatti la parola“esperienza” dall’interpretazione riduttiva data dall’empirismo e dal soggetti-vismo»30.Si apre, in questa prospettiva, la possibilità di recuperare tutta la soggettività,propria dell’anelito della modernità, senza però decadere nel soggettivismo,perché si individua un criterio fondamentale di giudizio, che, se è tutto inter-no al soggetto e al suo dramma esistenziale, è altresì oggettivo, sostanzial-mente uguale in ogni uomo: «È solo qui, in questa identità ultima dellacoscienza, il superamento dell’anarchia. L’esigenza della bontà, della giusti-zia, del vero, della felicità costituiscono il volto ultimo, l’energia profonda concui gli uomini di tutti i tempi e di tutte le razze accostano tutto»31.

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La riscoperta della dimensione oggettiva della soggettività umana, recuperatafavorendo il metodo di interrogare l’esperienza elementare, piuttosto che quel-lo di attingere alle ideologie o ai luoghi comuni, potrebbe permettere quindi diapprofondire in termini di valore, sul piano giuridico, la nozione - acutamentesuggerita da Spadaro - di ragionevolezza, consentendo così di sviluppare ulte-riormente la considerazione che porta a ritenere fondamentali solo i dirittiumani ragionevoli, non altrettanto e allo stesso modo, invece, alcuni di quelliche oggi si inseriscono nel novero dei nuovi “diritti insaziabili”.È una prospettiva sulla quale appare oggi “ragionevole” incamminarsi.

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1 R. A. Dahl, Efficienza dell’ordinamento “versus” effettività della cittadinanza: un dilemmadella democrazia, in M. Luciani (a cura di), La democrazia alla fine del secolo. Diritti,eguaglianza, nazione, Europa, Laterza, Bari 1994, pp. 9 e ss.

2 S. Cipollina, I confini giuridici del tempo presente. Il caso del diritto fiscale, Giuffrè,Milano 2003, pp. 32 e ss.

3 Cfr. G. Tremonti, Rischi fatali. L’Europa vecchia, la Cina, il mercatismo suicida: come rea-gire, Mondadori, Milano 2005, pp. 11 e ss.

4 Cfr. L. Morlino, Democrazie e democratizzazioni, Il Mulino, Bologna 2003. 5 Cfr. S. Cassese, Oltre lo Stato, Laterza, Bari 2006, p. 316 G. Arena, Cittadini attivi. Un altro modo di pensare all’Italia, Laterza, Bari 2006, pp. 163

e ss.7 C. Pinelli, Spunti di riflessione per un approfondimento del rapporto tra multilevel consti-

tutionalism e principi fondativi degli ordinamenti nazionali, in P. Bilancia (a cura di),Federalismi e integrazioni sopranazionali nell’arena della globalizzazione, Giuffrè,Milano 2006.

8 Cfr. P. Donati, Sussidiarietà e nuovo welfare: oltre la concezione hobbesiana del benesse-re, in G. Vittadini (a cura di), Che cosa è la sussidiarietà. Un altro nome della libertà,Guerini e Associati, Milano 2007.

9 S. Zamagni, Un’idea di Europa: il modello sociale europeo, in corso di pubblicazione.10 M. Galdi, Il ruolo del Terzo settore nella realizzazione dei diritti sociali in Europa, in S.

Prisco (a cura di), Unione Europea e limiti sociali al mercato, Giappichelli, Torino 2002, p.94.

11 L. Giussani, L’io, il potere, le opere. Contributi da un’esperienza, Marietti 1820, Genova2000, pp. 94 e ss.

12 P. Donati, Sussidiarietà e nuovo welfare: oltre la concezione hobbesiana del benessere, cit.13 A. Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori,

Milano 2000, p. 79. 14 Cfr. P. de Carli, L’emersione giuridica della società civile, Giuffrè, Milano 2006.15 Cfr. L. Antonini, G. Vitaletti, L’urgenza del federalismo fiscale e la proposta dell’Alta

Commissione, in «Federalismo Fiscale», n. 1.16 Cfr. L. Antonini, Il principio di sussidiarietà e la cifra democratica del patto costituziona-

le, in G. Vittadini (a cura di), Che cosa è la sussidiarietà. Un altro nome della libertà, cit.

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17 G. Zagrebelsky, Le fondazioni di origine bancaria, Atti dei convegni Lincei, Roma 2005,p. 136.

18 «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti stabiliti dallaCostituzione». Cfr. L. Antonini, Sussidiarietà fiscale. La frontiera della democrazia,Guerini e Associati, Milano 2005.

19 M. A. Glendon, La visione dignitaria dei diritti sotto assalto, in L. Antonini (a cura di), Iltraffico dei diritti insaziabili, Milano, 2007.

20 Ibid. 21 P. Carozza, Il traffico dei diritti umani nell'età post moderna, in L. Antonini (a cura di), Il

traffico dei diritti insaziabili, cit.22 Ibid.23 Ibid.24 Ibid.25 A. Spadaro, Dall’indisponibilità (tirannia) alla ragionevolezza (bilanciamento) dei diritti

fondamentali. Lo sbocco obbligato: l’individuazione di doveri altrettanto fondamentali, inL. Antonini (a cura di), Il traffico dei diritti insaziabili, cit.

26 A. Barbera, Il fondamento dei diritti fondamentali, tra crisi e frontiere della democrazia, inL. Antonini (a cura di), Il traffico dei diritti insaziabili, cit.

27 Cfr. J. Ratzinger, J. Habermas, Etica, religione e Stato liberale, Morcelliana, Brescia 2005,dove Ratzinger accenna al rischio che l’argomento del diritto naturale possa rivelarsi unostrumento “spuntato”.

28 C. Di Martino, Le evidenze dell’esperienza, in Famiglia e DiCo: una mutazione antropolo-gica, «Quaderni della Sussidiarietà», n. 1, 2007.

29 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2003, pp. 8 e ss.30 G. Vittadini (a cura di), Che cosa è la sussidiarietà. Un altro nome della libertà, cit. 31 Ibid.

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La questione

Si parla ormai da tempo di «crisi dello Stato», o più precisamente di «crisidello Stato moderno», come di un dato di fatto difficilmente contestabile1. Cisi trova invece di fronte a posizioni fortemente divergenti, quando si tratta dipassare dalla constatazione di tale crisi al tentativo di identificarne la natura ele cause, e di prospettarne le possibili vie d’uscita.Semplificando, si può dire che da un lato stanno coloro che considerano l’o-dierna crisi dello Stato imputabile, in tutto o in parte, a una sorta di latitanzadello Stato stesso, che non eserciterebbe con sufficiente energia i suoi compi-ti di promozione, di orientamento e di regolamentazione della vita sociale; dal-l’altro lato troviamo invece quanti sostengono che la crisi dipenda dall’ecces-siva invadenza di cui lo Stato si sarebbe reso responsabile nei confronti dellasocietà, finendo per soffocarla, per fagocitarla, per compromettere la varietà ela ricchezza delle sue espressioni e delle sue articolazioni.Il presente contributo non entrerà direttamente nel merito di tale dibattito,prendendo posizione per l’una o per l’altra delle due tesi. Del resto, esse nonsono forse così radicalmente alternative come potrebbe apparire a prima vista:si potrebbe infatti rilevare come lo Stato risulti spesso latitante laddove la suapresenza sarebbe più necessaria, in quanto difficilmente sostituibile, e inva-dente laddove potrebbe e dovrebbe invece “fare un passo indietro”, ricono-scendo e valorizzando l’autonomo apporto e la capacità costruttiva di altri sog-getti sociali. Qui ci si limiterà dunque a un tentativo di chiarificazione - stori-ca e teorica insieme - della nozione di Stato, nella speranza che ciò consentadi impostare anche il problema del rapporto tra Stato e società in modo un po’meno semplicistico di quanto solitamente non accada.A tale scopo, si tratta di riconoscere preliminarmente che lo Stato, almeno nel-l’accezione in cui solitamente usiamo questo termine, è una creazione moder-

La moderna nozione di Stato: percorsi eproblemi*di Evandro Botto**

* Viene qui riproposto, con modifiche e integrazioni, il testo già apparso con il titolo Crisidello Stato e dottrina sociale della Chiesa, in G. Ancarani (a cura di), Il Master: Governodelle istituzioni e amministrazione pubblica, Franco Angeli, Milano 1999, pp. 98-109.

** Ordinario di Storia del pensiero filosofico, Università Cattolica di Milano

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na2: esso è infatti sostanzialmente sconosciuto non solo alle formazioni socia-li dell’antichità, per alcune delle quali si è potuto addirittura parlare di «socie-tà senza Stato», ma alla stessa società medievale, per la quale si può e si deveparlare di forme specifiche di organizzazione del potere, riconoscendo tuttaviacome esse abbiano ben poco a che fare con lo Stato modernamente inteso.Nelle pagine che seguono, cercherò in primo luogo di ricostruire a grandi lineel’idea di Stato che si è venuta affermando lungo l’epoca moderna. Evidenzieròpoi le difficoltà e le contraddizioni alle quali essa ha dato luogo. Mostrerò,infine, come tali difficoltà e contraddizioni siano state ben diagnosticate dalMagistero sociale della Chiesa: il quale, dunque, almeno nella formulazioneorganica assunta a partire dall’ultimo scorcio dell’Ottocento, merita di esserericonsiderato anche sotto questa luce, cioè come critica non estrinseca - einsieme come positiva proposta di rifondazione - della moderna nozione diStato, della nozione stessa di società, e dei loro reciproci rapporti. Concluderòsottolineando l’attualità di tale proposta e accennando agli ostacoli vecchi enuovi che essa incontra oggi sul suo cammino.

La genesi e i lineamenti dello Stato moderno

Quando oggi parliamo di Stato, facciamo generalmente riferimento a un ordi-namento politico della società che ha incominciato lentamente a prender formain Europa fin dalla seconda metà del Duecento, che è giunto a maturazione frail Cinquecento e il Seicento, e che - passando attraverso una serie di crisi suc-cessive e di relativi riaggiustamenti -, è arrivato fino a noi, affermandosi comela forma di organizzazione del potere propria dell’intero mondo civile con-temporaneo. Né mancano, fra gli studiosi, coloro che considerano lo Statomoderno ormai morto e sepolto, o per lo meno agonizzante, e ritengono per-ciò che esso sia già stato sostituito, o stia per essere sostituito, da un modellodel tutto nuovo di organizzazione politica della società.Ma andiamo con ordine e chiediamoci: quali sono i lineamenti tipici delloStato moderno? O, in altri termini: che cosa differenzia radicalmente questanuova forma di ordinamento della società dai sistemi politici propri del mondoantico e di quello medievale? «L’elemento centrale di tale differenziazione - èstato scritto - consiste, senza dubbio, nel progressivo accentramento del pote-re»: più precisamente, «nella tendenza al superamento del policentrismo delpotere in favore di una concentrazione del medesimo in un’istanza tendenzial-mente unitaria ed esclusiva». «La storia della nascita dello Stato moderno è lastoria di questa tensione: dal sistema policentrico e complesso delle signorie di

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origine feudale si giunge allo Stato territoriale accentrato e unitario», «attra-verso l’emergere, sulle diverse antiche “signorie” di cui in origine constava ilnuovo “territorio”, di un momento sintetico di decisione e di governo, rappre-sentato dal signore territoriale, cioè dal principe, in capo al quale l’antica,generica signoria a contenuto prevalentemente personale si trasforma in sovra-nità a contenuto sempre più marcatamente politico»3.Nelle mani del principe si vengono così assommando poteri assai più numero-si e più ampi di quelli di cui disponevano i sovrani dei regni feudali medieva-li. Per di più, tali poteri possono essere esercitati con straordinaria efficacia, inforza dei nuovi strumenti di governo di cui il principato incomincia ad avva-lersi: si pensi al graduale costituirsi, non solo di un esercito e di una diploma-zia permanenti, ma anche di una schiera di «aiutanti» del principe, cioè di fun-zionari esperti di amministrazione e di diritto, che prefigurano l’avvento dellamoderna burocrazia.L’assolutismo4 già si delinea come il contrassegno tipico dello Stato moderno:il principe, infatti, si dichiara superiorem non recognoscens, attribuendo a taleformula - peraltro già utilizzata in età medievale - un significato del tuttonuovo: dichiara cioè di non riconoscere nell’ambito del proprio territorio nes-sun potere che stia al di sopra del suo, sia esso quello del pontefice o quellodell’imperatore, quello delle antiche signorie terriere di matrice feudale o quel-lo dei moderni Stati nazionali che via via si vanno costituendo. Il nuovo signo-re territoriale si proclama inoltre legibus solutus: contrariamente ai signori feu-dali, che si consideravano tenuti a rispettare l’antico diritto consuetudinariomedievale, il moderno principe non si ritiene vincolato al rispetto delle leggi,dal momento che egli stesso le pone e può dunque cambiarle a proprio piaci-mento.È indubbio che il processo di formazione del nuovo ordinamento politico5, chesi sviluppa fra il XIII e il XVI secolo, risulti strettamente connesso, da un latoalle profonde trasformazioni economiche, attraverso le quali viene alla ribaltala nuova classe sociale destinata a dominare l’epoca moderna, cioè la borghe-sia, dall’altro alle movenze di un pensiero filosofico-politico sempre più incli-ne a sottolineare la distinzione e l’autonomia del potere temporale rispetto aquello spirituale, approdando - con Machiavelli e con i teorici della «ragion diStato»6 - alla rescissione dei tradizionali legami fra politica e religione, e per-sino fra politica e morale.Non potendo ripercorrere qui questo tragitto, neppure per accenni, limitiamo-ci a rilevare che in questa fase storica, che potremmo definire «premoderna»,esistono almeno due importanti fattori, che risultano ancora capaci di conte-

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nere entro limiti ben precisi le tendenze accentratrici e assolutiste del nuovosistema politico, che viene gradualmente delineandosi: l’unità della fede reli-giosa, che è anche principio di coesione sociale entro e oltre i conflitti chesempre più frequentemente insorgono fra i diversi ceti sociali, o fra l’uno el’altro di essi e l’autorità del monarca; l’articolazione della società per «ceti»o per «ordini» (cioè per organismi che raggruppano gli individui che occupa-no la stessa posizione all’interno dell’edificio sociale), ciascuno dei quali godedi un margine più o meno ampio di autonomia, rappresentato dai «diritti» edalle «libertà» che gli sono riconosciuti o concessi dal principe stesso, in cam-bio dei servizi che esso rende all’intera comunità.Il panorama muta radicalmente con il Cinquecento. Con la Riforma protestan-te viene meno l’unità della fede religiosa, che fino a quel momento aveva con-tribuito ad allontanare gli eccessi dell’assolutismo incipiente, assicurando alcorpo sociale una sostanziale unità e al tempo stesso un’ampia varietà di formeautonome di associazione e di organizzazione. Le guerre di religione, che lace-rano l’Europa fra il XVI e il XVII secolo, sospingono a loro volta al rifiuto diqualsiasi fondamento religioso dell’ordine politico e della convivenza sociale,e alla ricerca di una giustificazione integralmente laica e mondana di essi.È qui che termina la preistoria dello Stato moderno e incomincia la sua storiavera e propria. Con i politiques francesi, e con il più noto di essi, Jean Bodin(l’autore dei Six livres de la République7), abbiamo infatti la prima compiutateorizzazione di uno dei concetti chiave della moderna dottrina dello Stato: ilconcetto di sovranità 8, concetto che per Bodin implica quelli di unità, unicità,perpetuità e assolutezza del potere politico.Anche in questo caso si deve riconoscere che, se è vero che già il Medioevoaveva fatto uso del termine sovrano (se non di quello di sovranità), ciò che oramuta profondamente è il significato del termine. «La parola sovrano, nelMedioevo, indicava semplicemente una posizione di preminenza, e cioè coluiche era superiore, in un preciso sistema gerarchico, per cui anche i baronierano sovrani nelle loro baronie. Nella grande catena della società feudale, checonnetteva in un ordine verticale i diversi ceti e le varie classi, dal re, attra-verso una serie infinita di mediazioni, al più umile suddito, a ogni grado cor-rispondeva un preciso status, connotato da una serie di diritti e di doveri, chenon poteva essere unilateralmente violato. Questo ordine gerarchico trascen-deva il potere, perché modellato su un ordine cosmico: a nessuno era consen-tito di violarlo, e tutti trovavano in esso una garanzia dei propri diritti.L’avvento dello Stato sovrano spezza questa lunga catena, questa serie com-plessa di mediazioni in cui si articola il potere, per lasciare uno spazio vuoto

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fra il re e il suddito, riempito ben presto dall’amministrazione, e per contrap-porre un sovrano, che mira sempre più all’onnipotenza e al monopolio delpolitico o del pubblico, a un individuo sempre più solo e disarmato, ridotto allasfera privata»9.Il trattato bodiniano, tuttavia, pur contenendo già la precisa formulazione diquesta idea dello Stato sovrano, presenta ancora - come è stato detto - una«stretta analogia di struttura» con la Politica aristotelica. È invece ThomasHobbes l’autore che «fa tabula rasa di tutte le opinioni precedenti», affron-tando in termini del tutto nuovi «il problema cruciale del fondamento e dellanatura dello Stato»: sicchè «si può a buon diritto parlare, a cominciare daHobbes, di un modello giusnaturalistico, che viene adottato, se pure con note-voli variazioni, per lo meno sino a Hegel incluso-escluso, da alcuni tra i mag-giori filosofi politici dell’età moderna»10.Come è noto, Hobbes ritiene che ci si possa sottrarre al disordine sociale eall’insicurezza che esso comporta solo attraverso un accordo, in forza delquale ci si sottomette a un potere comune, rinunciando a tutti i propri diritti,eccetto che al diritto alla vita, e ricevendo in cambio dallo Stato la garanzia cheesso provvederà a difendere e a salvaguardare con ogni mezzo la vita dei sin-goli. «Fuori dello Stato - scrive Hobbes - è il dominio delle passioni, la guer-ra, la paura. la povertà, l’incuria, l’isolamento, la barbarie, l’ignoranza, labestialità. Nello Stato, è il dominio della ragione, la pace, la sicurezza, la ric-chezza, la decenza, la socievolezza, la raffinatezza, la scienza, la benevolen-za»11.

Implicazioni problematiche e sviluppi dell’idea moderna di Stato

Alcune osservazioni si impongono, a proposito del tragitto fin qui ripercorso,sia pure a grandissime linee. In primo luogo,va notato che ci si viene a trova-re di fronte a una sempre più marcata enfatizzazione dello Stato, a una vera epropria “divinizzazione” di esso. Lo Stato sovrano viene concepito come “diomortale” non solo da Hobbes - dall’assolutista Hobbes, che ha coniato la for-mula, identificando lo Stato con il potere illimitato del monarca -, ma anche daautori come Spinoza e Rousseau, che non esitano a dichiarare la loro prefe-renza per una forma di Stato in cui sovrano non sia il monarca, ma il popolo.Anche in questo caso, non si hanno dubbi sul fatto che il potere esercitato dalpopolo su ciascuno degli individui che lo compongono debba essere un pote-re assoluto, senza limiti. «Come la natura dà a ciascun uomo un potere asso-luto su tutte le sue membra - scrive Rousseau -, il patto sociale dà al corpo poli-

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tico un potere assoluto su tutte le sue, ed è questo stesso potere che, direttodalla volontà generale, porta [...] il nome di sovranità»12.Siamo qui alle Origini della democrazia totalitaria, per dirla con il titolo di unbel libro di J. L. Talmon13, nel quale si mostra bene come ciò che conferiscealla democrazia rousseauiano-giacobina la sua caratteristica attitudine totalita-ria (differenziandola dunque dalla democrazia liberale, anch’essa nata dal senodella modernità, e sulla quale torneremo fra poco) sia proprio quella conce-zione messianica, onnipotente e onnicomprensiva, del potere politico e delloStato, che era stata teorizzata dai fautori dell’assolutismo monarchico, e che il«democratico» Rousseau aveva recepito senza apportarvi modificazionisostanziali. Del resto, assai prima di un politologo contemporaneo come ilTalmon, il nostro Rosmini aveva acutamente annotato che «può trovarsi l’as-solutismo più eccedente in qualsivoglia democrazia». «Infatti - aveva spiega-to il pensatore roveretano - il principio dell’assolutismo consiste nell’ammet-tere la volontà del sovrano per unico e supremo fonte delle leggi. Che il sovra-no sia un individuo, o più, o tutto il popolo, questo è indifferente»14.Una seconda implicazione problematica della moderna assolutizzazione delloStato, alla quale si è già fatto cenno poco sopra, è identificabile nella tenden-za al monopolio della vita sociale. Nella misura in cui tale tendenza si accom-pagna all’ascesa dello Stato moderno, essa comporta l’annientamento - oalmeno la marginalizzazione, la privatizzazione - di tutte le formazioni socia-li tradizionalmente collocate in una posizione intermedia fra l’individuo e loStato stesso. «Una volta costituito lo Stato - è stato efficacemente rilevato -,ogni altra forma di associazione, compresa la Chiesa, per non parlare delle cor-porazioni o dei partiti o della stessa famiglia, delle società parziali, cessa dal-l’aver qualsiasi valore di ordinamento giuridico autonomo»15. E se è ancoraHobbes ad affermare questa tesi nel modo più crudo e perentorio, fino a soste-nere che gli enti intermedi «sono come tanti Stati minori nelle budella di unomaggiore, simili a vermi negli intestini di un uomo naturale»16, si potrebbefacilmente mostrare come, anche su questo punto, Spinoza e soprattuttoRousseau non siano da meno. Non ci si deve stupire, dunque, dell’accanimen-to con il quale, di lì a poco, i rivoluzionari francesi si sforzeranno di elimina-re tutte quelle formazioni sociali che non acconsentano a ricevere dal nuovoStato il loro diritto a esistere e le concrete norme cui conformare la loro esi-stenza.Alla radicalizzazione dell’assolutismo politico sul piano dottrinale fa riscontroil suo perfezionamento sul piano istituzionale: la «società per ceti», che, comesi è visto, aveva caratterizzato la preistoria dello Stato moderno, temperando-

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ne le istanze accentratrici e assolutiste, pur già presenti, appare ormai più come«pietra di inciampo» che come «pietra di costruzione» del nuovo ordine poli-tico. Così il monarca tende a sottrarre progressivamente ai ceti il loro pesopolitico, rafforzando nel contempo l’apparato amministrativo, attraverso ilquale egli esercita quel potere sempre più esclusivo e impersonale, che èappunto il potere dello Stato. Se si guarda infatti alla fisionomia matura chequest’ultimo presenta a partire dal Seicento, «si constata facilmente l’impor-tanza decisiva assunta dall’estensione numerica del personale professional-mente impegnato nel sistema politico. Lo “Stato (moderno)” è sempre più loStato dei “burocrati”. L’antica ristretta “équipe di governo” si allarga senzaposa, associando a chi realmente “decide” e “comanda”, chi soltanto “aiuta” e“serve”, guidato, più che dal gusto del potere, dalla caccia alle “rendite politi-che” (paghe “garantite”, ed altri vantaggi “pubblici”)»17.Insistere, come si è fatto fin qui, sulla caratteristica configurazione dello Statomoderno come Stato assoluto, non significa evidentemente ignorare che «frail primo Settecento inglese e il primo Ottocento francese, l’Europa ha [...] sco-perto ed elaborato una struttura politico-sociale costituzionale suscettibile disvilupparsi e di trasformarsi in democrazia rappresentativa»18. Né significa sot-tovalutare l’importanza delle dottrine che hanno preparato e favorito l’avven-to del costituzionalismo19: si pensi da un lato a Locke e al suo tentativo di limi-tare la sovranità dello Stato attraverso l’affermazione di diritti naturali del-l’uomo, che il potere politico non può violare, ma deve rispettare e promuo-vere; e d’altro lato a Montesquieu e alla sua ben nota teoria della separazionedei poteri, concepita proprio in funzione antiassolutista. E tuttavia, pur senza sottovalutare la portata della svolta che dalla monarchiaassoluta ha condotto allo Stato rappresentativo, si deve riconoscere che «sulpiano istituzionale ben poco mutò nel passaggio dall’antico al nuovo regime;anzi, i tratti essenziali dello Stato moderno furono ulteriormente perfezionati erafforzati, in corrispondenza con il carattere tecnico assunto dal governo e dal-l’amministrazione»20. Si aggiunga che anche sul piano teorico, accanto oall’interno degli sviluppi stessi del costituzionalismo, si assiste - in particola-re con Hegel, pur fautore della monarchia costituzionale - alla celebrazionedello Stato come «il razionale in sé e per sé», con la conseguenza che «l’indi-viduo stesso ha oggettività, verità ed eticità soltanto in quanto è un membrodel medesimo»21. Paradossalmente, il marxismo stesso, che pure si serviràdella distinzione hegeliana fra «società civile» e «Stato» per capovolgere ilrapporto gerarchico che Hegel aveva stabilito fra i due ambiti e per avanzarela prospettiva della «estinzione dello Stato», porterà acqua al mulino del più

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ferreo statalismo con la dottrina della «dittatura del proletariato»22, che, perquanto teorizzata come espediente transitorio, finirà per essere praticata comeil contrassegno permanente del «socialismo reale».

Lo Stato nel Magistero sociale della Chiesa

Nel quadro complesso e contraddittorio delle teorie politiche e delle concreterealtà politico-istituzionali cui si è appena fatto cenno, in bilico tra costituzio-nalismo liberale e totalitarismo statuale, è il Magistero sociale della Chiesa -si ricordi che proprio sul finire dell’Ottocento esso viene costituendosi comecorpo dottrinale specifico ed organico23 - a elaborare le linee di una critica permolti versi penetrante della moderna immagine dello Stato, e a suggerire i ter-mini di una possibile rifondazione di esso.Un primo e fondamentale principio attorno a cui ruota la Dottrina sociale dellaChiesa, non privo di rilevanti implicazioni in ordine al problema che qui ciinteressa, è indubbiamente quello che afferma il primato della persona rispet-to alla società e allo Stato. «Secondo questo principio la persona ha dei dirittioriginari che non le vengono da nessuna istituzione, sia essa politica o econo-mica o, anche, religiosa, ma che discendono direttamente dalla sua proprianatura, che è quella di essere stata creata a immagine e somiglianza di Dio»24.Assai più che la nozione moderna di individuo, tale idea di persona contestaradicalmente l’autointerpretazione assolutistica che lo Stato tende a dare di sé,come già aveva ben visto ancora il Rosmini, che da un lato definiva la perso-na «il diritto sussistente», dall’altro richiedeva allo Stato di non «invadere», dinon «menomare» i diritti della persona, ma di intervenire piuttosto a «regola-re la modalità» del loro esercizio25.Un secondo principio, che la Dottrina sociale della Chiesa elabora fin dai suoiinizi, e che non è certo meno gravido di conseguenze del primo per ciò checoncerne la revisione critica della moderna nozione di Stato e le prospettive disuperamento di essa, è quello del primato della famiglia e delle libere asso-ciazioni rispetto allo Stato. «Che se l’uomo, se la famiglia - argomenta LeoneXIII nella Rerum novarum -, entrando a far parte della società civile, trovas-sero nello Stato non sostegno, ma ostacolo, non tutela, ma diminuzione deipropri diritti, la società sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare». Nellastessa enciclica, a proposito delle molteplici «società particolari», che gliuomini tendono a costituire a motivo della «propria debolezza» e della «natu-rale inclinazione» che li sospinge gli uni verso gli altri, il Pontefice ricorda che«non può [...] lo Stato arrogarsi su quelle competenza alcuna, né rivendicarne a

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sé l’amministrazione, ha invece il dovere di rispettarle, conservarle, e, se occor-re, difenderle». «Ma quanto diversamente accade - esclama Leone XIII -,soprattutto ai nostri tempi! In molti luoghi e in molti modi lo Stato ha leso idiritti di tali comunità, avendole sottoposte alle leggi civili, o private di perso-nalità giuridica, o spogliate dei loro beni»26.L’affermazione del primato del persona, e poi anche della famiglia e delle libe-re associazioni, nei confronti dello Stato, non significa tuttavia che quest’ulti-mo debba limitarsi a «lasciar fare», secondo la formula tipica di certo liberali-smo, ad astenersi da ogni forma di intervento nell’ambito della vita sociale. Alcontrario, un altro dei cardini del pensiero sociale della Chiesa, il principio disolidarietà, fa obbligo allo Stato di prestare il proprio aiuto ai singoli e allecomunità; ma esso risulta strettamente congiunto con il principio di sussidia-rietà, mediante il quale - quasi anticipando la critica oggi ricorrente nei con-fronti dello Stato «assistenziale» - si stabiliscono il metodo e i limiti della soli-darietà dovuta dallo Stato ai cittadini. Lo Stato deve certamente farsi caricodelle fondamentali esigenze o dei fondamentali diritti che le persone e i grup-pi sociali non possono realizzare da soli, afferma Pio XI nella Quadragesimoanno. «Ma deve tuttavia restare saldo - continua il Pontefice - il principioimportantissimo della filosofia sociale: che siccome non è lecito togliere agliindividui ciò che essi possono compiere con la forza e l’industria propria peraffidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più altasocietà ciò che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insie-me un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; per-chè l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello diaiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già di distrug-gerle e di assorbirle»27.I princìpi appena ricordati, costantemente ribaditi anche nelle formulazioni piùrecenti dell’insegnamento sociale della Chiesa, sembrano godere oggi di unampio consenso; tuttavia se ne sottolinea da più parti l’astrattezza, la generici-tà28. Al contrario, sembra di poter dire, anche sulla base dei pochi cenni ai qualiabbiamo dovuto limitare qui il nostro riferimento al Magistero sociale dellaChiesa, che esso contiene alcuni degli elementi essenziali atti a sviluppare unacritica pertinente e una positiva proposta di rettifica, non solo delle preteseassolutistiche dello Stato moderno, ma anche di quei tratti illiberali, totalitari,per i quali lo stesso Stato “liberale” contemporaneo, dall’Ottocento in poi, si èsovente presentato come l’erede e il continuatore della modernità, piuttostoche come il protagonista di una svolta radicalmente innovativa, in un sensoautenticamente liberale e democratico.

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Se si pensa infatti ai totalitarismi29, che hanno tragicamente segnato la storiadel secolo appena trascorso (nonostante la svolta rappresentata, sul finire diesso, dal crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo), non si può non rileva-re anche a questo proposito la verità della diagnosi formulata dalla Dottrinasociale della Chiesa, e più in generale dal pensiero sociale cristiano: non si ètrattato di aberrazioni casuali, di accidentali deviazioni dalla parabola evoluti-va propria della moderna nozione di Stato, ma piuttosto della ripresa e dellaradicalizzazione di uno dei motivi centrali dell’assolutismo moderno, quellodella autodivinizzazione del potere politico, della sua presunzione di onnipo-tenza30.Volendo infine concludere con un rapido cenno alla specifica situazione cultu-rale e politica del nostro Paese, dobbiamo da un lato riconoscere che la nostraCostituzione (come del resto quella di numerosi altri Paesi, europei e non)recepisce in buona misura i principi ordinatori della società e dello Stato ela-borati dal Magistero sociale della Chiesa. Ma d’altra parte dobbiamo conveni-re che l’aver inscritto questi principi nella nostra Carta costituzionale nonbasta a renderli concretamente operanti. Occorre che essi siano continuamen-te sottratti al pericolo della dimenticanza, o della pura e semplice riproposi-zione retorica, in cui tendono a sprofondarli una cultura e un costume, cheoscillano fra individualismo e statalismo senza riuscire a intravvedere un’al-ternativa credibile. È un compito - quello di testimoniare la verità e la fecon-dità di quei princìpi - che investe in modo particolare i credenti e che appare,oggi più che mai, decisivo per il destino stesso della nostra civiltà.

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1 Nell’ambito della vastissima letteratura sulla fisionomia e i problemi dello Stato moderno,segnaliamo per il momento due testi, di taglio prevalentemente sociologico: il primo, filo-sofico-politologico G. Poggi, Lo Stato. Natura, sviluppo, prospettive, Il Mulino, Bologna1992; il secondo N. Matteucci, Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, Il Mulino, Bologna1997. Un’agile ricostruzione dell’itinerario percorso dallo Stato moderno, dalle origini sto-riche alla crisi attuale,si trova in P. Pombeni, Lo Stato e la politica, Il Mulino, Bologna1997, e in P. P. Portinaro, Stato, Il Mulino, Bologna 1999.

2 Cfr. U. Cerroni, Società e Stato, in L. Bonanate, M. Bovero (a cura di), Per una teoria gene-rale della politica. Scritti dedicati a Norberto Bobbio, Passigli, Firenze 1986, pp. 107-118(specialmente p. 108).

3 P. Schiera, Stato moderno, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionariodi Politica, Tea, Milano 1990, p. 1129.

4 Cfr. R. Schnur, Individualismo e assolutismo, Giuffrè, Milano 1979. A. Pizzorno, Le radicidella politica assoluta e altri saggi, Feltrinelli, Milano 1993 (soprattutto pp. 43-81).

5 Cfr. J. H. Schennan, Le origini dello Stato moderno in Europa, Il Mulino, Bologna 1976.G. Solari, La formazione storica e filosofica dello Stato moderno, Giappichelli, Torino

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1962. Per il versante della storia delle idee, cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politicomoderno, vol. 2., Il Mulino, Bologna 1989.

6 Si vedano, in argomento, il classico studio di F. Meinecke, L’idea della ragion di Stato nellastoria moderna, Sansoni, Firenze 1977, e M. Viroli, Dalla politica alla ragion di Stato,Donzelli, Roma 1994.

7 J. Bodin, I sei libri dello Stato (1576), a cura di M. Isnardi Parente, vol. 2., Utet, Torino1964-1988.

8 Cfr. B. de Jouvenel, La sovranità, Giuffrè, Milano 1971; A. Tarantino, La sovranità. Valorie limiti, Giuffrè, Milano 1990; L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno. Nascita ecrisi dello Stato nazionale, Anabasi, Milano 1995. Si veda anche la critica della nozione disovranità sviluppata da J. Maritain, L’uomo e lo Stato, Marietti, Genova 2003 (cfr. special-mente il cap. II).

9 N. Matteucci, Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, cit., p. 86.10 N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, in N. Bobbio, M. Bovero, Società e Stato nella filo-

sofia politica moderna, Il Saggiatore, Milano 1979, pp. 44-45.11 T. Hobbes, De cive, X, 1 (cito dalle Opere politiche di Hobbes, a cura di N. Bobbio, Utet,

Torino 1959, p. 211). 12 J. J. Rousseau, Il contratto sociale, II, 4 (cito dagli Scritti politici di Rousseau, a cura di P.

Alatri, Utet, Torino 1970, p. 744).13 Se ne veda la traduzione italiana edita da Il Mulino, Bologna 1967. 14 A. Rosmini, La società ed il suo fine, libro I, cap. XI, in M. D’Addio (a cura di), Filosofia

della politica (1837-1839), Città Nuova, Roma 1997, p. 172.15 N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, in N. Bobbio, M. Bovero, Società e Stato nella filo-

sofia politica moderna, cit., p. 112. 16 T. Hobbes, Leviatano, XXXIX (cito dall’edizione a cura di G. Micheli, La Nuova Italia,

Firenze 1976, p. 327).17 G. Miglio, Genesi e trasformazioni del termine-concetto “Stato”, in AA. VV., Stato e senso

dello Stato oggi in Italia, Vita e Pensiero, Milano 1981, p. 82. Questo scritto di Miglio èstato ora ripubblicato come testo autonomo, a cura di P. Schiera, Morcelliana, Brescia 2007.

18 O. Bariè, Formazione e sviluppo dello Stato moderno nel mondo occidentale, in AA. VV.,Stato e senso dello Stato oggi in Italia, cit., p. 32.

19 In argomento, si vedano fra gli altri: N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà.Storia del costituzionalismo moderno, Utet, Torino 1976; M. Fioravanti, Appunti di storiadelle costituzioni moderne. Le libertà fondamentali, Giappichelli, Torino 1995.

20 P. Schiera, Stato moderno, cit., p. 1133. Sull’argomento, un classico di riferimento è A. DeTocqueville, L’Antico regime e la Rivoluzione (1856), a cura di G. Candeloro, Bur Rizzoli,Milano 1996.

21 G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato incompendio, par. 258 (cito dall’edizione a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 1987, pp.195-196).

22 Cfr. K. Radjavi, La dictature du prolétariat et le dépérissement de l’État de Marx a Lénine,Editions Anthropos, Paris 1975.

23 Fra i numerosi studi su origini e sviluppi della Dottrina sociale della Chiesa, ci limitiamo asegnalare P. De Laubier, Il pensiero sociale della Chiesa cattolica. Una storia di idee daLeone XIII a Giovanni Paolo II, Massimo, Milano 1986. Fra i tentativi di puntualizzazionedello statuto epistemologico della Dottrina, si vedano: M. Cozzoli, Chiesa, Vangelo e socie-

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tà. Natura e metodo della dottrina sociale della Chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)1996; G. Crepaldi, S. Fontana, La dimensione interdisciplinare della Dottrina sociale dellaChiesa. Uno studio sul magistero, Cantagalli, Siena 2006.Per la raccolta dei testi pontifici, si veda I Documenti sociali della Chiesa. Da Leone XIIIa Giovanni Paolo II, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991. Indispensabili, aifini di un lavoro approfondito di studio e di ricerca sulla Dottrina, di cui si avverte a tut-t’oggi la forte carenza, Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio dellaDottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, e Centrodi ricerche per lo studio della Dottrina sociale della Chiesa dell’Università Cattolica delSacro Cuore, Dizionario di Dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e Magistero, Vitae Pensiero, Milano 2004.

24 R. Buttiglione, I cattolici, lo Stato, la politica, in AA. VV., La Dottrina sociale cristiana.Una introduzione, Scuola di Dottrina Sociale, Milano 1988, p. 21. Sulla centralità della per-sona e della relazione persona-società nel Magistero ecclesiale, si veda G. Cottier, Personae società, in AA.VV., L’insegnamento sociale della Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 1988,pp. 38-53.

25 A. Rosmini, Filosofia del diritto (1841-1843), a cura di R. Orecchia, Cedam, Padova 1967-1969 (in particolare vol. III, p. 616 e vol V, pp. 1214 e ss.).

26 Leo P.P. XIII, Rerum novarum, Roma 15/05/1891, nn. 10, 37, 39.27 Pius P.P. XI, Quadragesimo anno, Roma 15/05/1931, n. 80. Il principio si trova ribadito

anche nella più recente delle encicliche sociali, la Centesimus annus di Giovanni Paolo II,del 1991: «Una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di unasocietà di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerlain caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componen-ti sociali, in vista del bene comune» (n. 48).

28 Per un attento esame di questa e di altre obiezioni all’insegnamento sociale della Chiesa,sollevate soprattutto nel corso degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ma almeno inparte ricorrenti anche oggi, si veda A. Bausola, Prolusione, in AA.VV., L’insegnamentosociale della Chiesa, cit., pp. 7-26. Si veda anche O. Höffe, Riflessioni metodiche sullaDottrina sociale della Chiesa, in AA. VV., Il magistero sociale della Chiesa. Principi enuovi contenuti, Vita e Pensiero, Milano 1989, pp. 55-74.

29 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Comunità, Milano 1967.30 Oltre a Ioannes Paulus P.P. II, Centesimus annus, Roma 15/05/1991, nn. 44-46, si veda ora

al riguardo Benedictus P.P. XVI, Deus caritas est, Roma 25/12/2005, n. 28: «Lo Stato chevuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocrati-ca che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente - ogni uomo - ha bisogno:l’amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occor-re, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principiodi sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneitàe vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto».

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Il mio contributo vuole riflettere su un nodo irrisolto della cultura cattolica ita-liana e della sua progettualità politica, nel passaggio tra l’età dei totalitarismie la fondazione della Repubblica democratica, un nodo che probabilmente halasciato tracce profonde, forse sino a oggi. Durante l’ultimo seminario1 qual-cuno le ha indirettamente ricordate, accennando alla mancanza di chiarezzapresente in larga parte del mondo cattolico quando si tenta di individuare checosa sia «pubblico», con tutte le conseguenze che sappiamo, non ultime lemolte ambiguità che storicamente hanno indebolito la capacità di valorizzarela libertà di educazione, nonostante i lunghi decenni di governi democristiani.Vorrei ripartire da quanto ci ricordava Paolo Grossi2 a proposito di quella sortadi eterogenesi dei fini che ha ridotto il giusnaturalismo seicentesco alla scalarimpicciolita dell’individualismo e del positivismo. Con le parole di SantiRomano, di inizio Novecento, Grossi rilevava che il diritto così «chiaro» e«semplice» prodotto dalla civiltà borghese è frutto in realtà di un riduzionismoforzoso. Il risultato è stata la tabula rasa delle formazioni sociali, che in nomedi un astratto modello di uomo, inesistente in natura, ha fondato la modernitàgiuridica sul rapporto fra lo Stato, da una parte, e l’individuo proprietario, dal-l’altra. Il soggetto - affermava Grossi - deve essere al centro dell’ordinamentogiuridico, ma un soggetto incarnato e storicizzato, non enucleato astrattamen-te in base a una modellistica ispirata all’individualismo.La mia riflessione parte proprio da qui, da questo contesto storico, perché dopol’età del liberalismo e del soggettivismo è subentrata un’epoca nuova, all’ap-parenza antitetica, incentrata sull’esasperazione della dimensione sociale o, sipotrebbe dire, organicistica, che per la verità, molto più dell’individualismoliberale, ha condizionato la forma mentis e l’operosità politica di una porzioneimportante del cattolicesimo, capace di influire durevolmente sui destininazionali. Non mi riferisco al cattolicesimo politico più noto o più spendibile,a Sturzo e De Gasperi, per esempio; e nemmeno a persone e ad ambiti cultu-rali spesso avvalorati in sede storiografica come luoghi prioritari ed eccellentidella progettualità cattolica italiana3. Mi riferisco invece a un ambiente piutto-

Persona e Stato. Il pensiero dei cattolicifra le due guerre mondiali?di Maria Bocci *

* Docente di Storia contemporanea, Università Cattolica di Milano

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sto sottovalutato, per una serie di ragioni che hanno a che fare spesso, più checon la sensibilità storica, con la necessità - imposta da biografie politiche o daistanze ideologiche - di innalzare barriere insormontabili tra la vecchia Italiacattolica del ventennio fascista, da un lato, e l’Italia della Costituzione repub-blicana e dei padri costituenti cattolici, dall’altro. Si tratta di un circuito intel-lettuale generalmente liquidato come luogo di mera gestione del potere4, afflit-to da autoritarismo e bloccato da aspirazioni egemoniche che l’avrebbero lega-to a filo doppio al braccio secolare dello Stato fascista, e quindi del tutto fuorigioco dopo il ‘45 e, al contempo, inadeguato ad affrettare la maturazionedemocratica del cattolicesimo italiano5. Questa, in sostanza, l’immagine senzasfumature che grava sulla reputazione dell’ateneo creato da padre Gemelli,perlomeno nel corso dei lunghi decenni in cui le sue vicende hanno coincisocon la biografia del padre fondatore e «rettore a vita»6, immagine che ovvia-mente non può non comportare il disinteresse per i momenti e i passaggi in cuila storia dell’Università Cattolica ha avuto qualche cosa da dire, con i suoipregi e i suoi difetti, alla storia italiana.La mia ipotesi è quella dell’esistenza di una vera e propria scuola che ha for-mato diverse generazioni di cattolici, la cui eredità politica e ideologica hapesato nelle vicende italiane. Credo infatti che l’Università Cattolica sia statauna sorta di fucina ideologica di quello che, sbrigativamente, potremmo defi-nire il cattolicesimo democratico del secondo dopoguerra, che ha influito nelmomento costituente, ha poi alimentato il cosiddetto «patriottismo costituzio-nale»7 e, parallelamente, ha portato avanti l’idea del legame inestricabile tra«riforma religiosa» e consolidamento della democrazia8. Si può anche ricorda-re l’appoggio al centrosinistra, venuto con dieci anni di anticipo da Gemelli edal suo ateneo nonostante il parere contrario di Montini9, e poi la progettazio-ne della sociologia di Trento, proprio all’interno della Cattolica, il ‘68, inizia-to nell’autunno del ‘67 in piazza Sant’Ambrogio; senza entrare nel merito delcontributo che l’Università, pur senza negare le premesse medievaliste, hadato a una certa «modernità», a partire dalla fondazione e dal rilancio di alcu-ne discipline scientifiche.

Un punto di partenza: l’antiliberalismo

Il tema di questo seminario, Persona e Stato, è molto utile per far emergerequesta sorta di anima durevole del cattolicesimo italiano. Il modo di struttura-re il rapporto fra i due termini prevalso dopo la guerra ha infatti attinto, permolti versi, proprio a quella fucina ideologica. Per questo ve ne parlo, anche

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se forse la prospettiva di allora può sembrare superata dal radicalismo indivi-dualista che oggi sembra aver assorbito persino alcuni eredi di questa genea-logia della sinistra cattolica, ribaltandone le premesse, e forse non solo per ilvenir meno definitivo delle speranze nell’avvento della «nuova cristianità»10 oper l’assorbimento degli ultimi risvolti del «progresso», che spesso le è statoconnaturale, ma a causa di un’antropologia già in partenza debole, astratta eambigua, che nel confronto con le più recenti sfide del soggettivismo ha aper-to il varco a derive di cui oggi si notano gli effetti. Io mi soffermo allora sualcune premesse, che mi paiono significative.La domanda da cui sono partita riguarda la «torsione» verso lo Stato11 che èmaturata in quel circuito intellettuale durante il ventennio fascista, favoritadalla «desertificazione del retroterra sociale cattolico» prima imposta dalla dit-tatura12, e poi fatta propria dal sapere un po’ dottrinario della generazione cat-tolica che non era passata attraverso l’esperienza della «cittadinanza socialepre-politica»13 dei tempi dell’intransigentismo, e nemmeno dall’Opera deiCongressi, dalla prima democrazia cristiana o dal Partito Popolare. Perchéquesta torsione verso lo Stato, che si nota nella storia del cattolicesimo italia-no nel corso del Novecento? E perché il dirigismo e la «statalizzazione» dellacultura cattolica, che pure partiva da una significativa estraneità alla dimen-sione politico-statuale veicolata dalla tradizione liberale? Siamo di fronte soloall’assimilazione di spinte ideologiche esterne, che dipende dallo spirito deitempi più che da una trasformazione interna, voluta e consapevole?I protagonisti di questa storia sono suggeriti dalle fonti che ho interrogato: sitratta di carteggi inediti, dell’andamento degli incarichi di docenza all’inter-no dell’ateneo cattolico, delle dispense di corsi universitari degli anni Venti,Trenta e Quaranta e di pubblicazioni e riviste edite da Vita e Pensiero, casaeditrice dell’Università Cattolica. Queste fonti evidenziano legami insospet-tati fra la generazione dei cosiddetti «medievalisti» - Gemelli e Olgiati, anzi-tutto14 - e i futuri «professorini», cresciuti negli anni Trenta sotto la vigile sor-veglianza di padre Gemelli, da lui sostenuti nella carriera accademica e poli-tica, partecipi spesso della sperimentazione vocazionale ideata dal rettore (ilaici consacrati denominati «Missionari della Regalità di Cristo») e soprattut-to presenti in alcuni momenti rilevanti di progettazione e di elaborazioneintellettuale, creati da Gemelli nel corso degli anni Trenta e durante la secon-da guerra mondiale. I nomi sono quelli - per citare solo i più ricorrenti - diGiuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati, Amintore Fanfani,Francesco Vito, Orio Giacchi, Giorgio Balladore Pallieri e Antonio Amorth,insieme al teologo di Venegono Carlo Colombo, consulente di Gemelli in

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materia teologica. Si nota cioè una certa continuità, apparentemente parados-sale, tra il «massimalismo» cattolico dei padri fondatori dell’ateneo, arteficidella polemica contro Sturzo in nome di un’«anima cristiana» che sarebbestata carente nel Partito Popolare15, e i creatori dei successivi distinguo traazione cattolica e azione politica, in base alla separazione di piani e compe-tenze, mutuata, come è noto, dal pensiero maritainiano. Proprio il tema delloStato e della politica sembra collegare le due generazioni non occasional-mente, al di là dei percorsi individuali e delle successive prese di distanza,sottolineate a più riprese da chi ha ritenuto di dover occultare una paternitàspirituale e culturale, quella appunto dei «medievalisti», che per molti versiappariva imbarazzante. È invece significativo un fatto occorso nel 1952:Dossetti si era da poco allontanato dalla politica attiva e Gemelli gli offrivaun nuovo pulpito autorevole da cui parlare, per approfondire e divulgare -come gli scriveva - l’«elaborazione concettuale dello Stato moderno»16. Quelpulpito era la cattedra di diritto pubblico dell’Università Cattolica, che il ret-tore vedeva volentieri occupata dal giovane canonista, già assistente nell’ate-neo prima della guerra. Auspicandone il radicamento stabile in Cattolica,Gemelli doveva aver in mente il famoso intervento di Dossetti al convegnodei giuristi cattolici, dell’anno prima, intitolato Funzioni e ordinamento delloStato moderno: in quella occasione Dossetti aveva rivolto un energico invitoai cattolici a non avere paura dello Stato, nonostante nelle loro carni fosse«scritto il peso di tirannidi subite»; per Dossetti occorreva non limitarne néindebolirne l’autorità con un eccessivo garantismo, perché lo Stato potesseriordinare dall’alto il pluralismo sociale attraverso una vasta capacità pro-grammatoria17. L’apertura di credito del rettore era dunque a questo tipo diindirizzo, mentre invece, e in parallelo, la distanza con De Gasperi sembravaincolmabile, perché - come Gemelli scriveva a Olgiati - De Gasperi era un«uomo buono, ma non [aveva] veduto i problemi»18.Tali orientamenti non si spiegano se non si tiene conto degli interessi matura-ti in epoca fascista, che non hanno solo indirizzato gli intellettuali cattolici allapresa di distanza dalla politica, in favore di un impegno spirituale e formativo,oppure di battaglie per la moralizzazione dei costumi che il regime sembravadisposto a tollerare. In realtà, proprio l’ateneo milanese si è confrontato contematiche politiche e istituzionali che l’hanno progressivamente avviato allariscoperta del valore intrinseco e irrinunciabile dello Stato, a patto che il suocontenuto politico non avesse più nulla a che fare con l’individualismo libera-le. In questo percorso si scorgono diverse tappe, che posso solo riassumere inmaniera schematica, senza accennare a sfumature pur presenti e rilevanti19. Il

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punto di partenza, negli anni Venti, era senz’altro l’antiliberalismo e la criticaallo Stato di diritto, che accomunava questa prospettiva alla precedente batta-glia cattolica contro il liberalismo italiano. Lo schema mentale risentiva delconsueto paradigma controrivoluzionario, che individuava, alle scaturiginidello Stato moderno, una genesi agnostica non condivisibile, e poi si articola-va nella polemica contro l’antropologia borghese, il soggettivismo e l’«uomoastratto» della Dichiarazione dei diritti, e al contempo nella critica all’«uomodeificato» fonte dell’assolutismo, esito di un ordinamento politico che avevaperso il rimando alla trascendenza. L’indebolimento dei vincoli sociali prodot-to dal liberalismo si sarebbe insomma sviluppato in due direzioni, una anar-chica e una statolatrica, entrambe figlie della stessa concezione antropologicae, nei fatti, indirizzate al consolidamento non dei diritti individuali, ma dellalegge del più forte, che tradotta in termini economici significava capitalismosfrenato. In effetti l’etica sociale che si desumeva da tale opposizione alloStato liberale era decisamente anticapitalistica.Ciò che colpisce, tuttavia, è l’accento peculiare che presiede alla rielabora-zione dell’antiliberalismo alimentata nell’ateneo dei cattolici italiani. Lo sicoglie anzitutto in Gemelli e nelle direttive che egli impartiva al gruppo diprofessori e di assistenti cui stava dando vita: a pesare, probabilmente, piùche la tradizione del cattolicesimo sociale ottocentesco era il passato sociali-sta del rettore francescano, che caricava di valenze utopiche la progettualitàpolitica sviluppata nell’ateneo, la quale incominciava a prendere le sembian-ze di un progetto ideologico alternativo, ispirato alla ricerca di una «terzavia» che salvasse dall’individualismo e dal collettivismo, non senza avernemutuato eventuali e nascoste «anime di verità», tramite il metodo dell’«assi-milazione» avvalorato da Francesco Olgiati. L’obiettivo era la realizzazionedell’utopia dello Stato cattolico, ben più radicale e cogente che non una sem-plice moralizzazione dei costumi o una patina di cattolicità formale da appor-re sull’involucro esterno dello Stato liberale. Siamo di fronte, probabilmen-te, a una sorta di «massimalismo» cattolico, che risentiva di un certo astrat-tismo, perché non costituiva una presa di coscienza del fatto che l’esistenzaindividuale si sviluppa attraverso il pluralismo sociale, né mirava anzitutto acogliere l’uomo nel concreto delle relazioni sociali, dei suoi bisogni e delleesigenze che lo caratterizzano, ma partiva dall’assunto della necessità diescogitare un vincolo sociale che costringesse l’individuo a essere quello chedeve essere, secondo un disegno divino che si doveva realizzare come ordi-ne sociale cristianizzato. I rapporti economici e interpersonali e la stessa vitaumana erano cioè da conformare a un modello ideale, contrapposto a quello

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borghese. A questa operazione dovevano naturalmente sovrintendere istitu-zioni statuali rinnovate, che si ispirassero al solidarismo evangelico. Sta quil’origine della polemica contro il partito di don Sturzo, accusato di cripto-liberalismo per il suo programma «minimo», vale a dire non abbastanza con-notato ideologicamente. Il partito cattolico avrebbe dovuto invece farsi cari-co del compito di trasformare radicalmente Stato e società sulla base delledirettive ricavate dal «codice sociale» del Vangelo. Nel Vangelo si scorgevainfatti un codice di vita completo, da trasfondere integralmente nella struttu-ra socio-economica per superare una volta per sempre quella borghese.Quest’ultima - era Gemelli a parlare, ma Lazzati nel secondo dopoguerraavrebbe usato parole molto simili - allontanava i cittadini dalla fede. Salvarel’Italia cattolica significava dunque riformare integralmente le strutture, enon solo per opportunismo, per impedire, per esempio, che i lavoratori ade-rissero al materialismo e all’anticlericalismo: la via maestra per rafforzare lafede degli italiani sembrava quella di farli vivere in strutture cristianizzate,vale a dire conformate alla legge dell’integrazione sociale che si deducevadal Vangelo.Dunque, mentre a sinistra le aperture erano possibili, il sospetto verso il libe-ralismo rimaneva non scalfito. Non la libertà, ma la «liberazione da» (dal biso-gno, dagli ostacoli frapposti al cammino di perfezione…) era il punto di rife-rimento indiscutibile. La libertà - si argomentava - è astratta, perché non puòesserci la libertà di compiere il male e perché non esiste l’uomo isolato dalcorpo sociale. Dunque l’unico abito politico di un cattolico poteva essere quel-lo «progressivo», come si diceva allora; la via per «guadagnare se stessi e ilmondo» passava cioè dal progressismo evangelico. Si trattava anzi di un dove-re di Stato, che interessava la vocazione del cristiano e la salvezza personale.«Rifare cristiano», cioè organicista e solidale, il complesso associato: questo ilcompito della nascente Università Cattolica, che non per nulla si strutturavanella Facoltà di Filosofia, cui spettava l’onere di elaborare l’architettura sta-tuale ideale, e nella Facoltà di Scienze sociali, incaricata di far maturare lecompetenze necessarie a porre in essere il modello delineato in sede filosofi-ca. Medievalismo, insomma, non era melanconico rimpianto per un passatoinesorabilmente trascorso: il mito della «civiltà cristiana» si intrecciava con lavolontà di individuare un modello sociale e culturale alternativo a quello diuna modernità che pareva ormai superata, per trovare la bussola ideologicanecessaria alla conquista del futuro. La distinzione fra azione cattolica e azio-ne politica, imposta dal fascismo, era l’occasione per sviluppare questo pro-getto, rimandandone la fase finale non a causa dell’appagamento nei confron-

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ti dell’attualità politica, ma per predisporre una classe dirigente a sua volta rin-novata, pronta a realizzare l’utopia politica che si vagheggiava.

Il confronto con l’idealismo: per un nuovo Stato etico?

Un passaggio fondamentale in questo percorso, che consisteva più in unamaturazione intellettuale che nella risultante di concrete opere sociali, è pro-babilmente lo scontro/incontro con l’idealismo gentiliano. Rifiuto e attrazione,messa all’indice e ammirazione, sono i due poli che funzionavano contempo-raneamente nel rapporto fra neoscolastica milanese e idealismo di Gentile. Daun lato, infatti, c’era la critica all’immanentismo e alla statualità del diritto;dall’altro, subentrava un’adesione quasi istintiva, anche se condizionata daalcuni distinguo, all’anti-positivismo e soprattutto allo Stato etico. In quest’ul-timo si scorgeva infatti una sicura garanzia di disciplina sociale, che sembra-va necessaria a impedire la trasformazione della libertà individuale in licenzaantisociale. Lo Stato artefice e garante dell’eticità di individui e società costi-tuiva un centro d’attrazione importante per la neoscolastica; restava aperto,naturalmente, il problema dell’origine della morale, perché lo Stato - si sotto-lineava - non è eticità, ma deve diventare etico riconoscendo una legge mora-le che gli preesiste e alla quale si subordina. Era dunque necessario seguireGentile quando affermava che lo Stato ha una sua coscienza filosofica; la cri-tica anti-indealistica prendeva il via al momento di identificare tale coscienza,non prodotta dallo Stato ma riconosciuta - si sosteneva - nell’«ordine dell’es-sere». Ne derivava un limite all’onnipotenza statale; al contempo, però, loStato etico si riforniva di un consolidamento notevole: risolvendo la debolez-za intrinseca allo Stato di diritto, si dotava di una specie di collante morale chene rafforzava le fondamenta. Con la Conciliazione si poteva appunto ritenereche quello italiano fosse diventato un forte Stato etico: assoggettato all’eticacattolica, appariva lo strumento indispensabile a indirizzare i cittadini verso lavita virtuosa. Lo Stato - sostenevano i neoscolastici - è opera di morale e divirtù; la coercizione sociale serve alla perfettibilità della natura umana20.Vi era però una conseguenza, di difficile composizione all’interno di un uni-verso ideologico che aveva anche acquisito l’aspirazione alla libertà di inse-gnamento, sviluppata a suo tempo in seno all’intransigentismo cattolico e poiinscritta nei cardini sui quali era stato edificato l’ateneo del Sacro Cuore.L’individuazione dello «Stato etico cattolico» finiva infatti per creare una certaantinomia, di cui i neoscolastici dovevano dar conto, perché dava adito all’i-dea che allo Stato spettasse un compito educativo prioritario. È significativo

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un dibattito del 1929 portato avanti nascostamente da Gemelli e da Olgiati, cheera il consigliere più ascoltato dal rettore, specie se erano in gioco le questio-ni più scottanti. Gemelli aveva preparato un articolo sulla libertà di insegna-mento, che mandava a Olgiati per averne un parere. Il tema era affrontato apartire da un’impostazione assai diffusa nella pubblicistica cattolica, vale adire la difesa del diritto educativo della famiglia e della Chiesa e l’idea che loStato ha il dovere di creare le condizioni perché quel diritto possa svolgersi,intervenendo in funzione suppletiva nel caso in cui le comunità educative pri-marie non siano in grado di assolvere le proprie funzioni. La risposta di Olgiatiera però radicale e sconcertante: anzitutto accusava Gemelli di essersi arresoal liberalismo e di aver dimenticato san Tommaso. Lo Stato - affermava Olgiati- ha diritto all’educazione nazionale, anche se non ne detiene il monopolio. Laconcezione cui Gemelli faceva riferimento - continuava - era «astrattissima»:poneva infatti «in tre bei casellari» Chiesa, famiglia e Stato; ma le due socie-tà naturali - la famiglia e lo Stato - non sussistevano l’una divisa dall’altra. PerOlgiati, lo Stato era un «complesso di famiglie (non di individui) unificate dal-l’autorità». E le famiglie avevano il diritto di educare non in astratto, ma inconcreto, cioè in rapporto allo Stato nel quale vivevano. Perché un «comples-so artificiale di famiglie» doveva avere il «diritto di fondare una scuola priva-ta e di educare», mentre quel diritto non doveva essere riconosciuto a «quelcomplesso naturale di famiglie che si chiama Stato?», chiedeva Olgiati21. LoStato, dunque, appariva organismo più «naturale» dei gruppi sociali. Non sitrattava certo di un passaggio di poco conto nelle riflessioni di questi cattolici,ma di un punto nodale che avrebbe impregnato le prospettive, non solo edu-cative, del gruppo che si stava coagulando attorno ai due medievalisti e che daOlgiati acquisiva direttive durevoli e condivise. Da allora in poi le elaborazio-ni della neoscolastica si connotavano per la stretta correlazione fra dimensio-ne personale e dimensione statuale, correlazione che si credeva di non potersciogliere, a pena di compromettere lo sviluppo coerente e integrale della per-sona. Lo Stato era infatti caricato di compiti morali imprescindibili e avevauna sua «missione» religiosa da realizzare.Si trattava ora di delinearne più chiaramente le caratteristiche e le finalità, e diprocurargli una validità intrinseca e incontestabile, da rintracciare nella suastessa essenza. A questo dovevano servire le riflessioni degli anni Trenta, chesviluppavano coerentemente le premesse stabilite prima dall’antiliberalismo epoi dal confronto con l’idealismo. Soccorreva una sorta di attualizzazione disan Tommaso, la cui lezione era ripensata attraverso le ansie di rifondazionedella compagine politica su basi ben diverse da quelle che avevano portato alla

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crisi dello Stato liberale e al tramonto - così perlomeno pareva - del capitali-smo. Le conclusioni, tuttavia, non erano scontate. Ne derivava anzi una riva-lutazione di quello Stato moderno che tante volte era stato contestato: in essosi cominciava a scorgere una certa «provvidenzialità», che era tutta da rivita-lizzare attraverso il benefico contatto tomista, quasi che la civitas aristotelico-tomista potesse essere assimilata allo Stato creato dalla modernità. In questoprocesso interveniva la lettura di Maritain, non escluso Umanesimo integrale,anche se al pensiero maritainiano si attribuiva una valenza politico-statualeforse più intensa del dovuto. Del tomismo, comunque, si faceva una sorta diideologia adatta alla tensioni degli anni Trenta, utile a disegnare i contornidello Stato ideale, cui lo Stato reale avrebbe dovuto uniformarsi per riempirela propria vuotezza ideologica, non con il rimando ai diritti individuali e nem-meno con l’organicismo esasperato dei totalitarismi, ma con l’innesto vivifi-cante della metafisica dell’Essere. L’aggancio era la visione finalistica delreale, che conferiva alle parti la loro piena ragion d’essere all’interno dellatotalità, a seconda di un fine che, pur essendo particolare, doveva essere ordi-nato al bene dell’interno organismo. L’individuo lo si deve guardare nella tota-lità - si insegnava in Cattolica -; lo Stato appartiene a un universo gerarchicoin cui ognuno svolge le funzioni che Dio gli ha assegnato in relazione al tutto,in vista di un bene che, sebbene sia temporale, corrisponde al disegno immes-so nel creato dallo stesso Creatore. Lo «Stato finalistico» era dunque inseritoall’interno di un sistema morale e razionale che gli conferiva valore in sé e persé, non come strumento di aggregazione appartenente al regno dei mezzi, macome passaggio indispensabile alla realizzazione del regno dei fini. I suoicompiti, infatti, avevano a che vedere con la perfezione individuale e sociale,a sua volta condizionata al perseguimento del bene comune. Quest’ultimo, tut-tavia, non consisteva nella somma dei beni dei singoli, ognuno dei quali depo-sitario di diritti di libertà e quindi personalmente responsabile del proprioapporto per consolidare l’aggregato sociale; il bene comune sembrava invecedotato di un grado di perfezione superiore, perché colmava le lacune dei sin-goli, strappandoli da facili egoismi. L’appartenenza allo Stato era insommapassaggio ineliminabile sulla strada del conseguimento del bene personale. LoStato si faceva carico del destino dei suoi membri, della loro felicità ideale eultraterrena, cui erano da sacrificare le felicità individuali, solo parziali ed effi-mere. Proprio per questo i neoscolastici sostenevano che la funzione peculia-re dello Stato è quella di «salvare» sia l’individuo, redimendolo dalle tenta-zioni individualistiche, sia la società, garantendola dalla deriva verso il caos,altrimenti inevitabile. Lo Stato ipotizzato era insomma il principium ordinis di

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una società compatta anche se articolata, in base a un modello teorico che inqualche modo risentiva delle inclinazioni politiche dell’epoca, anche se neammorbidiva le pretese assolutistiche con il rimando a un ordine che non pote-va essere del tutto immanente22.Probabilmente questa prospettiva ha influito nei dibattiti dell’Assemblea costi-tuente, o almeno ha condizionato il contributo che al lavoro delleSottocommissioni portarono i «professorini» di Milano. Il punto di partenzadossettiano, infatti, non era il tentativo di dare riflesso e consolidamento costi-tuzionale alla composizione pluralistica della società italiana. La Costituzione,invece, doveva presiedere alla realizzazione di un corpo organicamente artico-lato in una serie di comunità in cui il cittadino era da includere perché si svi-luppasse ordinatamente. Per questo si prevedevano i successivi cerchi concen-trici del decentramento: si trattava di impegnare la vita del singolo in quelladel corpo, perché le parti (i corpi intermedi) erano giudicate indispensabili perevitare l’atomismo liberale e perché l’azione riformatrice dello Stato abbiso-gnava di vettori che la trasportassero capillarmente, mettendola in opera alivello locale. L’impianto costituzionale avrebbe dovuto costruire un sistemagraduato e gerarchico, superando l’ispirazione individualistica delle Carte delpassato. La Costituzione, del resto, doveva essere cristiana nella sostanza,diventando lo strumento principale per imporre il cristianesimo come costumedi vita, a partire dai rapporti economici e sociali. La legge fondamentale delloStato avrebbe ispirato un ordinamento giuridico capace di riprodurre nel corposociale l’ordine razionale e finalistico dedotto dal tomismo, che conferiva allalibertà individuale il significato di «punto-limite» stabilito dalla legge all’atti-vità del cittadino.Il corrispettivo dello «Stato finalistico» era infatti una concezione di personache contestava il vecchio giusnaturalismo, criticato ripetutamente, persinonelle esercitazioni degli studenti di filosofia del diritto. Da Tommaso - comescriveva Olgiati - si era recepito che il «diritto naturale è ciò che è giusto inforza della natura degli esseri e dei loro reciproci rapporti». Ma come evitareschiavitù e collettivismo, se gli individui sono ordinati alla società e se è l’a-desione all’ordine legale a santificare l’uomo e a inserirlo nell’ordinedell’Essere? Alla domanda si rispondeva, sempre con Tommaso, che l’uomoin quanto individuo di una società è ordinato al bene comune, ma come per-sona è ordinato al suo bene ultimo, che lo Stato deve rispettare. La distinzio-ne fra individuo e persona soccorreva nel punto cruciale di tutto il sistema. Etuttavia prestava anche il fianco a qualche scivolamento, perché la persona - sisosteneva - è tale solo nel rapporto sociale, ed è addirittura inconcepibile come

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individuo isolato. La categoria di persona umana - si scriveva - ricomponel’uomo singolo e quello collettivo e colloca la libertà individuale in una gerar-chia di valori da cui è espulso il libero arbitrio; la persona si afferma nella con-nessione organica e disciplinata con la società e può svilupparsi solo nella col-lettività organizzata. Dunque, lo Stato appariva cristiano se collocava l’indivi-duo all’interno delle relazioni cui egli apparteneva e lo indirizzava al bene del-l’intero organismo. In questa prospettiva, insomma, il fondamento dello Statonon era la persona umana, né tanto meno i suoi diritti, ma si trovava nelle leggidell’Essere, che allo Stato chiedevano di garantire lo sviluppo integrale dellapersona, immettendola nel sistema di relazioni che a entrambi era indispensa-bile. Per difendere il cittadino, lo Stato doveva intervenire nei luoghi e negliintrecci relazionali in cui egli vive e si perfeziona, nelle strutture economichee sociali che presiedono al suo perfezionamento e in cui la persona umana cre-sce e matura. Lo stesso termine «persona», come diceva Lazzati, è traducibilecon l’espressione «in relazione con», una relazione verticale e orizzontale,verso Dio e verso gli altri uomini. Si può notare che questa sarebbe stata lastrada che avrebbe portato il dossettismo a sostenere che non si è uomo se nonsi è cittadino, e che anzi la perfetta cittadinanza terrena costituisce il passa-porto per quella celeste23.Un aiuto veniva dalla dottrina del Corpo mistico, che in questa visione costi-tuiva la linfa metafisica dell’intera costruzione, riconfermandone la strutturagerarchica e organicistica. La legge della solidarietà organica rispecchiava, inmaniera analogica, le relazioni istituite da Cristo fra gli elementi del SuoCorpo, forma perfetta della società, non semplicemente realtà già data, ma uto-pia sociale in via di realizzazione. La società civile sembrava cioè anticipa-zione dell’archetipo ecclesiale. Ben si capiscono, allora, le valenze salvificheattribuite al momento costituzionale e la stessa «religione della Costituzione»,alla quale qualcuno ha affidato persino le sorti del cristianesimo. Proprio per-ché la Costituzione era luogo di connessione di diritti e doveri e coglieva il cit-tadino nella sua vocazione sociale, pareva poterlo introdurre all’adesione alCorpo mistico, pur nella laicità formale sempre riaffermata. Siamo di fronte,probabilmente, a una nuova versione del confessionalismo, non meno rischio-sa di quella della «civiltà cristiana». E paradossalmente proprio a partire datale ottica è stato possibile non il «compromesso» costituzionale, tante volteevocato, ma il vero e proprio incontro ideologico tra dossettismo e sinistratogliattiana. Analoga, infatti, la concezione di libertà concreta e finalizzata,comune l’ansia antiliberale e simili l’organicismo e la volontà di collegare lacittadinanza al lavoro24.

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Lo Stato necessario. Spiritualizzare la politica

Non si può dimenticare che in questo processo avevano influito anche le pro-pensioni corporative degli anni Trenta, rivalutate addirittura da Cronachesociali, sia pure depurate dall’imperialismo fascista. Con il corporativismo e,parallelamente, con lo «Stato sociale» vi erano stati incontri non episodici,nonostante la messa in non cale dei fini da essi perseguiti e il tentativo di orien-tarli all’obiettivo della giustizia sociale. La crisi economica dell’inizio deldecennio sembrava aver dimostrato la validità della ricetta dello Stato cattoli-co: anche la vita economica doveva corrispondere all’ordine etico e razionale,perché non risultasse compromessa la funzionalità dell’intero sistema. Comegià Gemelli e Olgiati ai tempi della polemica contro il popolarismo, negli anniTrenta si ribadiva che l’attività economica è morale, nel senso che può avvici-nare o allontanare l’uomo dal suo destino eterno. Il corporativismo era dunqueinterpretato come un tentativo di ordinare la società a fini non capitalistici e diconformare le scelte economiche a finalità etiche e politiche, a supporto ecompletamento dello Stato etico cattolico. Per questa via, si sarebbe arrivatiall’economia regolata e alla politica di piano, che dovevano mirare non allo«Stato del benessere», peccato d’origine dell’esperimento rooseveltiano, bensìallo «Stato di solidarietà», che incanalasse l’iniziativa individuale verso la rea-lizzazione dei fini sociali. Di nuovo lo Stato appariva la chiave di volta delvivere associato, uno Stato forte e interventista, capace di plasmare l’econo-mia in base a un modello di perfezione sociale, non con l’obiettivo di poten-ziare il benessere dei singoli, ma per conseguire l’integrazione sociale da cuipoteva derivare lo sviluppo della persona umana25.La seconda guerra mondiale avrebbe approfondito le tendenze emerse nelcorso degli anni Trenta, conferendo loro uno sbocco operativo con la previ-sione, che circolava nell’ateneo ben prima del 1943, della fine del regimefascista e dell’auspicata «successione». Un ulteriore passaggio è individuabilenelle riflessioni sviluppate, a partire dal ‘40, da un gruppo di docenti e di assi-stenti durante gli incontri organizzati e presieduti da Gemelli, che si intensifi-carono con il radiomessaggio del 1942 e con la domanda, da esso ribadita, diquale fosse la via per «salvare la persona umana». In questa sede non è possi-bile soffermarsi sulle iniziative pensate in funzione dell’«ordine nuovo» e del-l’elaborazione di un «codice sociale» che fungesse da punto di riferimento perla costruzione dello Stato democratico, con l’acquisizione questa volta - dopol’esperienza del totalitarismo e in piena guerra mondiale - del regime rappre-sentativo e dello Stato di diritto, sempre però all’interno del consueto quadro

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organicista26. Lo raccontano soprattutto le relazioni del ‘44 preparate daAmorth e da Dossetti, che si soffermavano sulle due società naturali indivi-duate a suo tempo da Olgiati, lo Stato e la famiglia, approfondendo il proces-so all’«economicismo» e all’«edonismo» della famiglia borghese, ma al con-tempo portando a compimento la rivalutazione dello Stato contemporaneo,versione più «cristiana» di quello moderno per via di uno spessore sociale chelo rendeva rifugio della debolezza individuale27. Il presupposto di queste con-siderazioni erano però alcune pubblicazioni di Olgiati comparse durante laguerra e dedicate al concetto di giuridicità28. In esse si può scorgere un retro-terra ideologico dell’approccio che gli intellettuali prodotti dell’ateneo avreb-bero avuto nei confronti della ricostruzione e delle dinamiche dello Statodemocratico. Olgiati portava alle estreme conseguenze la concezione finalisti-ca già elaborata negli anni Trenta, arrivando a sostenere l’unità organica diindividuo e Stato, di libertà e autorità, di iniziativa individuale ed esigenzesociali. Nella sua costruzione non c’era posto per alcuna antitesi. Lo Stato,infatti, non dipendeva dalla volontà umana, era valore, non fatto, o meglio«fatto nel quale la razionalità splende e parla», e dunque sviluppo più ampiodelle potenzialità umane. Lo Stato - affermava Olgiati - non può calpestare lapersona, perché negherebbe la sua causa; ma la persona è «inclinata» alloStato, «tipo perfetto della persona morale», «sistema di relazioni morali dota-to di autonomia, volere, aspirazioni». E i cittadini sono le membra di una mol-teplicità unificata. Il posto della persona, insomma, non era al di fuori ma den-tro lo Stato; gli stessi diritti individuali potevano essere salvati solo nel loronesso organico, orientato al bene comune. Tale orientamento, tuttavia, nonaveva in questo caso il significato di regolazione dell’agire sociale della per-sona, né di armonizzazione delle società minori allo scopo comune, a vantag-gio di ogni parte del tutto sociale29: la riflessione di Olgiati alludeva invece auna vera e propria subordinazione, perché - come scriveva - lo «Stato ha qual-cosa di più divino della persona» e delle società minori, le quali trovano sal-vaguardia e tutela nella politicità del diritto30. La difesa della persona umanacoincideva con la creazione di uno Stato in cui diritti e doveri ordinassero lemembra al corpo, facendo scattare il misuratore supremo del composto asso-ciato, vale a dire la giustizia sociale.Non poteva non derivarne una sorta di gigantismo della dimensione politica,anche a prescindere dall’accusa, rivolta a Olgiati da alcuni commentatori cat-tolici, di voler rivestire san Tommaso «secondo il figurino degli Stati totalita-ri»31. In ogni caso, e anche in prospettiva democratica, tali riflessioni facevanodello Stato il protagonista della «nuova cristianità», l’interlocutore privilegia-

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to dell’individuo, se non addirittura il suo salvatore, e l’artefice della cristia-nizzazione delle strutture indispensabile a dar corpo all’utopia evangelica.Uno Stato di tal fatta non poteva non apparire una necessità improrogabile, bendiversa dal «male necessario» del contrattualismo liberale. Redento da benefi-ci germi evangelici immessi dalla prevalenza del partito cattolico, dallaCostituzione democratica e dall’orientamento alla pianificazione, lo Statoacquisiva una sua eticità intrinseca, che lo rendeva lo snodo cruciale per la rea-lizzazione di quello che Maritain chiamava un cristianesimo non decorativo.Si apriva così la strada alla dottrina delle «realtà terrene», anche nella sua ver-sione lazzatiana, che poteva rivendicare il primato della laicità, ricusandoqualsiasi investitura ecclesiastica, non perché venisse meno l’ottica confessio-nale, ma perché attribuiva alle «realtà terrene», a cominciare da quella politi-ca, un fondamento metafisico all’interno dell’universo finalistico dedotto daltomismo. Proprio per questo le «realtà penultime» potevano esigere una auto-nomia di stato, che non richiedeva alcuna delega delle gerarchie e nemmenouna premessa religiosa apposta dall’esterno. Servire Dio coincideva difatti conl’edificazione di una società che ne portasse i lineamenti, pur nella laicità for-male, vale a dire che organizzasse le sue parti in base al disegno di mutualitàe di giustizia sociale32. Il presupposto - come avrebbe osservato Augusto DelNoce - era perfettistico33, partiva cioè dall’idea che la prima vera rivoluzione,quella del Vangelo, fosse garanzia di un progresso indefinito, verso la realiz-zazione di una «città terrena» che avrebbe progressivamente assunto i caratte-ri del Corpo mistico, perfezionandosi di continuo. La laicità della politica erainsomma postulata dalla sua stessa funzione, posseduta per natura, di spiritua-lizzare i rapporti umani, rendendo più sicuro il cammino dell’uomo verso Dioe liberando la persona dagli impacci che la trattenevano dall’essere disponibi-le alla grazia. A partire da tali premesse, Lazzati sarebbe arrivato a collegarela salvezza personale alla vocazione politica, perché la felicità eterna - comesosteneva - dipende dal contributo dato dai laici cristiani alla costruzione dellacittà terrena.Rimanevano alcuni problemi aperti, e non di poco conto: anzitutto la fedeltàallo Stato ideale, primo attore dello sviluppo civile e garante di un progetto diperfezione politica, non ha favorito, nei fatti, il rafforzamento del senso delloStato, nello stesso mondo cattolico che l’ha prodotta. È una considerazionetante volte emersa nel dibattito politico, e a suo tempo rilevata da Arturo CarloJemolo. In una lettera del 1949, Jemolo faceva presente a Gemelli che l’ege-monia del partito cattolico non corrispondeva all’«amore per lo Stato -vagheggiato come la casa avita che si vuole netta ed onorata - proprio agli sta-

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tisti cattolici di altri Stati, dove per secoli il Paese fu cristiano e retto da gover-nanti cattolici»34. Quella elaborata negli anni Trenta e Quaranta era infatti unasorta di cittadinanza metafisica, che puntava sul contenuto ideologico da con-ferire al composto politico, e dunque, in sostanza, sulla propria progettualità.A quest’ultima era ricondotto ogni aspetto del vivere associato. Quella stessaattitudine progettuale finiva peraltro per coltivare nei cittadini attese troppodilatate nei confronti delle capacità salvifiche di un organismo politico che,collocandosi per sua natura nell’ordine ideale, avrebbe dovuto saper corri-spondere a compiti globali di promozione umana. La vocazione politica, inogni caso, trovava alimento nello Stato come dovrebbe essere, non nella real-tà dei rapporti politici e sociali. Al contrario, lo Stato reale avrebbe prodottodelusioni inguaribili, catastrofismi congeniti e abbandoni quasi inevitabili,salvo poi improvvise ricomparse - come quella di Dossetti negli anni Novanta- per mettere in salvo la Costituzione.Ma vi è anche un altro elemento da mettere in luce: questa porzione delmondo cattolico ha probabilmente contribuito alla riduzione del cristianesimoa religione politica, affidata non al popolo cristiano e nemmeno al pluralismosociale, bensì ad avanguardie intellettuali, illuminate dalla propria capacitàprogettuale e sempre tormentate dalla necessità di rieducare il popolo italia-no a ideali di perfezione religiosa e politica, ai quali invece si dimostracostantemente inadeguato. Il cristianesimo, insomma, più che il gratuitomanifestarsi di una vita cambiata, anche nei suoi risvolti sociali, appariva l’i-deologia migliore delle altre (la «terza via»), in funzione di una societàmigliore sempre in fieri e mai realizzata. Anche da questo punto di vista sipotrebbe parlare di una nuova versione della vecchia utopia dello Stato catto-lico, tenuta in vita dalla volontà di trasformare radicalmente la realtà esisten-te per conformarla al proprio modello ideale. Pur muovendo dalla battagliaantiliberale in nome del «realismo» tomista, anche la prospettiva ideologicaalimentata dall’ateneo e dai più giovani eredi della sua lezione ragionava dun-que per modelli, finendo per assumere la forma mentis che pure in partenzacontestava. L’orizzonte era ancora quello della modellistica della modernitàindividuata da Paolo Grossi, che evitava di prendere le mosse dalle «esigen-ze» individuali, e tanto meno di ricondurle a «evidenze» originarie e fondati-ve, valutandole alla stregua di tentazioni che distolgono il singolo dal perse-guire il modello ideale. Forse anche per questo la felicità reale e concreta e lagiustizia possibile, di cui si parlava nello scorso seminario, poco hanno a chevedere con la felicità promessa e assicurata in occasione di certi appuntamentielettorali35.

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1 Il riferimento è al seminario del 1° giugno 2007, a cui sono intervenuti P. Grossi e L.Antonini (pp. 39-66 di questo quaderno).

2 Si veda la relazione di P. Grossi (pp. 39-52).3 Si pensi, per esempio, alla Fuci e al Movimento laureati di Azione cattolica, cui è stato più

volte attribuito un compito rilevante di progettazione politica, nel passaggio tra il fascismoe la fondazione della Repubblica. I rimandi alla storiografia potrebbero essere molteplici.Basti in questa sede ricordare R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica(1929-1937), Il Mulino, Bologna 1979.

4 Tra gli altri, si veda G. Andreotti, Intervista su De Gasperi, a cura di A. Gambino, Laterza,Roma-Bari 1977, p. 31.

5 Ne è convinto G. Cosmacini, Gemelli, Rizzoli, Milano 1985. Con lui concordano parecchistudiosi che si sono occupati di mondo cattolico italiano tra le due guerre, se si eccettuaGiorgio Rumi, autore di importanti contributi apparsi in Milano cattolica nell’Italia unita(Ned, Milano 1983) e in Lombardia guelfa. 1780-1980, (Morcelliana, Brescia 1988). Peruna panoramica della storiografia sull’argomento, mi permetto di rimandare a M. Bocci,Agostino Gemelli rettore e francescano. Chiesa, regime, democrazia, Morcelliana, Brescia,2003, volume che affronta la tematica del rapporto fra Università Cattolica e fascismo avva-lendosi di un ampio scavo documentario.

6 Agostino Gemelli è stato rettore dell’Università Cattolica dal 1921, anno della fondazionedell’ateneo, al 1959, anno della scomparsa del francescano.

7 L. Elia, Dossetti, Lazzati e il patriottismo costituzionale, in A colloquio con Dossetti eLazzati. Intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola (19 novembre 1984), Il Mulino,Bologna 2003, pp. 139-155.

8 P. Scoppola, Dossetti dalla crisi della Democrazia cristiana alla riforma religiosa, in A col-loquio con Dossetti e Lazzati. Intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola (19 novembre1984), cit. pp. 117-135.

9 M. Bocci, Oltre lo Stato liberale. Ipotesi su politica e società nel dibattito cattolico trafascismo e democrazia, Bulzoni, Roma 1999, pp. 439-442, e, ultimamente, E. Versace,Montini e l’apertura a sinistra. Il falso mito del «vescovo progressista», Guerini, Milano2007, pp. 49-56, che utilizza anche documentazione pubblicata e analizzata da chi scrive.

10 P. Scoppola, La «nuova cristianità» perduta, Studium, Roma 1985.11 Lo nota opportunamente A. Ferrari, La preparazione di una classe dirigente nella crisi eco-

nomica e politica (1922-1945), in «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimentosociale cattolico in Italia», n. 2, 1995, pp. 116-117.

12 A. Giovagnoli, La cultura democristiana. Tra Chiesa cattolica e identità italiana. 1918-1948, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 81-87.

13 Così si esprimeva Angelo Mauri in una conferenza del 1906 (si veda «Il Cittadino», n. 22marzo 1906, «I cattolici e la situazione politica». La conferenza dell’avv. Angelo Mauri alTeatro Sociale).

14 Come è noto, Medioevalismo è il titolo dell’editoriale di apertura del primo fascicolo dellarivista «Vita e Pensiero», pubblicato nel dicembre del 1914. Si tratta di un vero e propriomanifesto ideologico del gruppo di intellettuali che ha dato vita all’Università Cattolica.

15 A. Gemelli, F. Olgiati, Il programma del P.P.I. come non è e come dovrebbe essere, Vita ePensiero, Milano 1919.

16 Archivio storico dell’Università Cattolica, Fondo Miscellanea, busta 58, fascicolo 1, sotto-fascicolo 8, lettera di Gemelli a Dossetti del 13 settembre 1952.

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17 G. Dossetti, Funzioni e ordinamento della Stato moderno, in I problemi dello Stato, CinqueLune, Roma 1977, pp. 35-39.

18 Archivio storico dell’Università Cattolica, Fondo Corrispondenza, busta 278, fascicolo458, sottofascicolo 3283, lettera del 1° agosto 1955.

19 Per una riflessione più ampia e documentata si veda M. Bocci, Oltre lo Stato liberale, cit.A questo lavoro rimando anche per le citazioni che seguono, tratte da volumi pubblicati dal-l’editrice Vita e Pensiero e da articoli apparsi nelle riviste dell’Università Cattolica subitodopo la prima guerra mondiale. Gli autori erano soprattutto Gemelli, Olgiati, Cordovani eChiocchetti.

20 In questo caso il rimando è a lavori e contributi, apparsi durante gli anni Venti, di UmbertoPadovani, Olgiati, Gemelli e Cordovani (quest’ultimo autore del volume Cattolicismo eidealismo, Vita e Pensiero, Milano 1928). Si vedano anche gli interventi della neoscolasti-ca milanese al congresso filosofico del 1929 («Rivista di Filosofia Neoscolastica», maggio-agosto 1929, Il VII congresso nazionale di filosofia. Roma - maggio 1929, di G. Bontadini).

21 Archivio storico dell’Università Cattolica, Fondo Corrispondenza, busta 28, fascicolo 29,sottofascicolo 264, lettera di Olgiati a Gemelli dell’11 agosto 1929.

22 Per le fonti cui si fa riferimento si veda M. Bocci, Oltre lo Stato liberale, cit., pp. 177-197.Si tratta soprattutto di lavori e contributi di Olgiati, Gemelli, La Pira, Fanfani, Passerind’Entrèves, Bondioli, Bellini, Oddone, Vito e Gonella.

23 Ibid., pp. 394-403 (interventi di Lazzati, La Pira, Fanfani, Dossetti e Amorth).24 Ibid.25 Ibid., pp. 197-230 (con rimandi soprattutto a Fanfani, Vito e Gemelli). 26 Si veda ibid., pp. 258-264 e 287-326.27 Le relazioni sono conservate dall’Archivio storico dell’Università Cattolica, Miscellanea,

busta 59, fascicolo 1, sottofascicolo 6. Si veda comunque M. Bocci, Oltre lo Stato liberale,cit., pp. 314-316 e 319-320.

28 F. Olgiati, Il concetto di giuridicità nella scienza moderna del diritto, Vita e Pensiero,Milano 1943; Il concetto di giuridicità e San Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano1943; Indagini e discussioni intorno al concetto di giuridicità, Vita e Pensiero, Milano1944.

29 Nel contributo Per una teoria liberale del bene comune, comparso in «Vita e Pensiero» nelfebbraio 1996, Francesco Botturi ha ricordato che Tommaso parlava in questi termini dellacommunitas politica. «Ordinatus», osserva Botturi, è stato tradotto con «bene proportiona-tus» e si riferisce all’armonizzazione operata «dal bene ultimo sociale nei confronti di que-gli aspetti dei diversi beni della persona e delle comunità particolari che sono funzionali altutto».

30 F. Olgiati, Indagini e discussioni, cit., pp. 11 e ss.31 Si veda M. Bocci, Oltre lo Stato liberale, cit., pp. 330-331.32 Ibid., pp. 428-438.33 A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 518 e ss.34 Archivio storico dell’Università Cattolica, busta 220, fascicolo 384, sottofascicolo 2811,

lettera di Jemolo a Gemelli datata 7 dicembre 1949.35 Il riferimento è al dibattito sviluppato nel corso del seminario del 1° giugno 2007.

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