Percorsi le tappe che ogni giovane di allora – anni venti...

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9 Percorsi le tappe che ogni giovane di allora – anni venti e anni trenta doveva percorrere: balilla, avanguardista, giovane fascista, premilitare; tappe scandite da un giuramento: "Nel nome di Dio e dell'Italia giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se è necessario col mio sangue la causa della rivoluzione fascista". Qui sotto, un documento che certifica la mia iscrizione alla G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio), la quale faceva parte del P.N.F. (Partito Nazionale Fascista), iscrizione allora obbligatoria per chi andava a scuola o al lavoro. Le 4 lire della carta bollata corrisponde- vano ad una buona mezza giornata di paga di un manovale. Certifica- to di un certo valore, questo.

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Percorsi le tappe che ogni giovane di allora – anni venti e annitrenta ― doveva percorrere: balilla, avanguardista, giovane fascista,premilitare; tappe scandite da un giuramento:

"Nel nome di Dio e dell'Italia giuro di eseguire gli ordini del Ducee di servire con tutte le mie forze e se è necessario col mio sangue lacausa della rivoluzione fascista".

Qui sotto, un documento che certifica la mia iscrizione alla G.I.L.(Gioventù Italiana del Littorio), la quale faceva parte del P.N.F.(Partito Nazionale Fascista), iscrizione allora obbligatoria per chiandava a scuola o al lavoro. Le 4 lire della carta bollata corrisponde-vano ad una buona mezza giornata di paga di un manovale. Certifica-to di un certo valore, questo.

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Un altro documento del 1939 dice che non sono sposato né ebreo.Soltanto non ebreo continuo ad essere.

Ecco il LIBRETTO PERSONALE che mi diedero a Vittorio Veneto,mentre frequentavo l’ultimo anno di liceo scientifico.

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Sul verso della copertina c’è il

Le iniziali delle righe formano DISCIPLINA. Gran bella invenzione,la disciplina: chi può imporla non deve spiegazioni a chi la subisce.

L’anamnesi dice che non ho abusi di vita, né intossicazioni volut-tuarie, che non ho subìto traumi dopo i 14 anni, che non ho i denti delgiudizio, che sono alto m 1,82 e peso 75 Kg; che ho sviluppo muscola-re armonico, sviluppo massa corporea quasi normale, che sonomediolineo. Per il resto tutto normale. Giudizio generico: robusto.

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E anche, dico io e vedi qui sotto, discreto tiratore.

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“Sotto la naia l’unica cosa dritta è il manico del badile, che do-vrebbe essere curvo”. “Non esiste l’inferno, basta la naia”.

Queste sono due delle tante che allora dicevano sulla naia, suquesto pianeta strano e affascinante, inevitabile come la pioggia,necessario per farti uomo, subìto con rassegnazione e ricordato consollievo e orgoglio.

Naia: un centimetro di fucile non lucidato a specchio ed eccogiorni di consegna; non parliamo poi di un bottone mancante allagiubba o di fascia ventriera non messa.

Naia: ignorare quello che non si sa; si serve la Patria anche facen-do la guardia ad un bidone vuoto; il superiore ha sempre ragionespecialmente quando ha torto; l’iniziativa personale consiste nella piùstretta osservanza degli ordini ricevuti; pieno restando ad ognuno ildiritto di fare il proprio dovere.

La naia esige disciplina, come succede in tutti gli eserciti seri; soloche il nostro aveva tre colpe: era invecchiato, era povero e stavaimmobile. Di qui certe sue stranezze e, su queste, il fiorire di battute eil formarsi di leggende reggimentali. Peraltro tanto spiritose dasembrare inventate e messe in giro per attirare simpatie. E le frasetteche spesso rinforzavano ordini o pareri? Dette e ripetute con tantaconvinzione da diventare spiritose davvero. "Avanti adagio, quasiindietro". "Rapidi! Come se piovesse". "Il rancio? Ottimo e abbondan-te, disse. E vomitò". “Alla prossima adunata, il primo che arrivaultimo, fosse anche in cento, io ci traggo, nasca quel che vuolnascare”.

Naia: pianeta strano e assurdo, però anche prevedibile quindirassicurante: “NAIA, DOLCE NAIA".

Naia: così era sentito dalle reclute lombardo-venete il “neuer” chenell’esercito austro-ungarico indicava il “nuovo” soldatino chiamatoalle armi.

Naia, con la i, non con la j. Naja è genere del cobra indiano:perché complicarci la vita? Naia, non nagia.

Ed ora? Ora siamo al buco nero e il pianeta naia vi è scomparsocon l’ultima cartolina precetto. Per sempre. Anzi no: la naia è sospesa,tecnicamente è in sonno. Ma riprenderà vita, vedrete: è naia. Io laricordo volentieri (come ci si compiace di un intervento chirurgicosuperato), ma non ci piango sopra: “il bello della naia è quandofinisce”, o quando scompare provvisoriamente, come ora.

Scrivendo queste pagine, quel pianeta ho rivissuto con intensitàperché ci ero entrato pienamente convinto. Noi giovanissimi eravamopassati da un entusiasmo all’altro: Uomo della Provvidenza, trasvola-ta di Balbo, bonifiche, battaglia del grano (“Italiani, amate il pane,cuore della casa, profumo della mensa, gioia dei focolari. Rispettateil pane, sudore della fronte, orgoglio del lavoro, poema di sacrifi-cio.”).

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Nastro azzurro del Rex, Carnera, mondiali di calcio, record diAgello, conquista dell’Impero, Faccetta nera, autarchia batte iniquesanzioni quaranta a zero, treni in orario, guerra di Spagna, oro allaPatria, libro e moschetto, culto dei muscoli, salti mortali, saggiginnici, campi dux e alalà.

L’entusiasmo era cominciato, per me studentino alla quarta gin-nasio, il giorno in cui mi trovai all’inaugurazione della Casa delMutilato di Pordenone. Avrebbe parlato, queste le ammirateinformazioni, avrebbe parlato il grande mutilato Carlo Delcroix,presidente nazionale dell’Associazione Mutilati e Invalidi.

Occhialoni neri sistemati a nascondere occhiaie vuote, moncheri-ni al posto delle mani, fu impressionante. E suggestiva la sua voce. Everità le sue parole. Era la primavera del 1935.

Alla folla che gremiva la piazza, silenziosissima, spiegò la scrittache compariva sul frontone della Casa del Mutilato:

QUO FATA TRAHUNT RETRAHUNTQUE SEQUAMUR QUIC-QUID ERIT,

SUPERANDA OMNIS FORTUNA FERENDO ESTSono versi dell’Eneide, disse, versi del poema che narra “quanto

errò e quanto sofferse” Enea, obbligato a partire, su alcune navi conguerrieri e famiglie, dalla sua Troia distrutta, obbligato a partire perandare alla ricerca della terra dove fondare una città dalla quale ungiorno sarebbero usciti i fondatori di Roma. Obbligato a partireperché così voleva il Fato. Ma dopo sette anni, infiniti giri, lunghesoste e perdita di navi, il pio Enea era turbato: doveva o no continuareil viaggio?

A lui un vecchio, con faccia da ispirato, proclamò: – Dovunque ilFato indica e spinge, là bisogna andare, a qualunque costo!

Ecco, disse l’oratore, questo è il senso delle parole che si leggonolassù. (Pausa)

In quei lontanissimi anni – stiamo parlando di trenta e passasecoli fa – credevano al Fato e ad esso tutti obbedivano.

Come mai (pausa), come mai oggi mettiamo così bene in vistaproprio quei versi quasi fossero ancora un comandamento? (Altralunga pausa.)

Ripeto: come mai oggi mettiamo così bene in vista quelle parolequasi fossero ancora un comandamento?

(Ansiosa attesa nostra)Ma quei versi sono un comandamento! Anche oggi bisogna crede-

re al Fato, che è il Regime, e quelle parole proclamano che ad essodobbiamo obbedire! Orgogliosamente obbedire!

Verità le sue parole, dicevo, e difatti mi prepararono l’animo alletrionfali certezze ed ai sacri entusiasmi che sarebbero stati, negli anniseguenti, bene alimentati da scuola, radio, giornali, manifestazioni,

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perentorie scritte sui muri. E noi, sui muri, il giorno della visita dileva scrivemmo:

VIVA IL 1921 CLASSE DELLA VITTORIALe nostre certezze ed i nostri entusiasmi vennero fatti confluire in

una grande parola: Italia. E l’Italia era la Patria. Fu così che lacartolina precetto mi trovò orgoglioso di credere, di obbedire e dicombattere. Per me andare sotto la naia fu come entrare nel Risorgi-mento, in un pulitissimo Risorgimento scolastico. Avevo sentito unasola campana, solo la voce del regime, e vivevo il sistema non sapendoche tutto poteva essere diverso.

Da soldato feci il mio dovere, come mille e mille altri giovani,molti dei quali fino alla morte. Come mille e mille altri giovani, patiilontananze, fatiche, fame, paure, malattie. Orgogliosamente.

Concedetemi ora un ricordo singolare. Era il 1938. Al mio paeses’era acquartierato un reparto militare ed io, avanguardista entusia-sta, subito legai con quei ragazzi. Uno mi diede tre cartucce conproiettile di legno, roba da addestramento, e non ebbe difficoltà aprestarmi il moschetto per andarle a sparare. Solo che io in tascaavevo dodici cartucce vere datemi il giorno prima da un altrosoldatino. Sì, certi nostri militari erano davvero infantilmenteincoscienti. Quasi come me che, moschetto a spalla, attraversai lapiazza fiero e tranquillo sotto gli occhi di tutti, raggiunsi la zonacimitero, classica per simili imprese, e cominciai a sparare, smettendosolo quando mi giunsero dai campi urla di qualcuno che sentivaproietti fischiargli vicino.

LA TAPPA DI MILANO ― Partiti per Aosta dal distretto militare diSacile con fascia al braccio e foglio di viaggio in tasca, Cesare DellaGaspera, Piero Prataviera ed io arrivammo a Milano la sera tardi.Invece di aspettare la coincidenza del giorno dopo alle 11 su qualchepanchina della stazione (come doveroso, pensavo io, per ogni reclutadegna di tal nome) i due miei compagni di viaggio (ancora intrisi diborghesia?) decisero di andare in albergo.

― Un albergo che mio padre conosce! ― decise Piero.― E’ un albergo a quattro stelle. Taxi! Taxi!Ma in quell'albergo dissero che non c'era posto (forse perché ci

avevano visto con la fascia di reclute al braccio?). E cominciammo acorrere e a ricorrere per la città col tassista che scendeva, chiedeva etornava dicendo che era pieno, che scendeva, chiedeva (o facevafinta?) e tornava, che scendeva, chiedeva e tornava. Alla finetrovammo e finimmo tutti e tre su un capacissimo letto stile bisnon-na.

Mentre stavamo addormentandoci, un aggeggio elettrico che sitrovava sull'alto dell'alta testiera cominciò a ronzare forte. Insisten-temente. Il portiere, chiamato e subito venuto, armeggiò con dei fili elo fece tacere. Dieci minuti dopo, la faccenda riprese. E in capo a

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mezz'ora anche. Quando tacque definitivamente (il furibondo portiereaveva fatto un lavoro radicale), armeggiai io e gli ridiedi voce. Per unpaio di volte. Sempre mobilitando il portiere. La mattina dopo tiraisul prezzo della stanza (17 lire a testa!) adducendo il disturbo sofferto.Il tentativo, non riuscito, suscitò sguardi di riprovazione dei commili-toni. Che, scommetto, neanche in quel momento capirono il motivodei miei armeggii notturni. Ma loro non avevano solo cinquanta lirein tasca. Prima del taxi.

AD AOSTA ― L'art. 113 del Testo Unico, Legge sul reclutamento,concedeva agli studenti (universitari o all'ultimo anno delle scuolesuperiori) di "ritardare la presentazione alle armi".

La circolare 40026 del 15.12.1940 revocò tale "ammissione alrinvio" e agli studenti di cui sopra rese possibile la domanda diarruolamento con rinuncia al corso allievi ufficiali (allora obbligatorioper chi ne avesse titolo). Domande furono presentate e così moltiuscirono dal limbo scolastico per salire a veder le stelle, anzi lestellette, del paradiso militare; quelli destinati alle truppe alpine,nelle caserme di Belluno, di Gorizia e di Cuneo. Succedeva fra ildicembre del 1940 e il gennaio del 1941.

Una seconda circolare, la 4080/B/21 del 10.2.1941, annullò l'am-missione al rinvio già concessa agli studenti del 1921, che pertantofurono chiamati alle armi; quelli destinati alle truppe alpine vennerospediti ad Aosta e, ad Aosta, detta circolare mandò anche quelli diBelluno, Gorizia e Cuneo. Con grande rabbia dei medesimi, comevedremo.

Fu così che alla caserma Testafochi, alla caserma Chiarle e allacolonia elioterapica giunsero milleseicento giovanotti passabilmenteimbranati, passabilmente allegri, passabilmente entusiasti. Furonoinquadrati in due Battaglioni Alpini Universitari e in altrettanteBatterie Alpini Universitari (BAU BAU). Era il 2 marzo del 1941 e,come previsto dalla circolare 4080, cominciava il corso preparatorioAllievi Ufficiali di Complemento.

Ma i "vecchi" di Belluno, Gorizia e Cuneo, ecco il motivo della lororabbia, da quel corso si sentivano fregati, giacché nel frattempo laguerra sarebbe finita.

Infatti il corso durò quattro mesi. Quattro maledetti bellissimimesi. Indimenticabili.

Indimenticabili non perché le prime notti dormimmo, si fa perdire, su pavimenti coperti da un magro straterello di paglia (questa ènaia normale, che non lascia ricordi); e neppure indimenticabili per legavette lavate in cortile con sabbia e acqua gelida, o per le scarpinatemassacranti (anche questa è naia naturalis).

Indimenticabili perché, allora? Perché dopo tutti questi decennieccoci qua “Ragazzi di Aosta '41”.

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Ad Aosta nessuno ci aspettava fino a due ore prima dell'arrivo eper qualche tempo vagolammo per camerate e cortili in borghese(vagolammo in borghese noi del '21; guardati con palese disgustodagli "anziani" di Belluno, Gorizia e Cuneo, già con pantaloniaccuratamente sgualciti, fasce gambiere impeccabili e orgogliosepacche sul cappello); poi ci vestirono.

CORREDO. Due mostrine; due asciugatoi; un bastone alpino; unaborraccia; una borsa completa per pulizia; tre paia di calze di lana;due camicie di flanella; un cappello di feltro per truppe alpine; uncappuccio di lana a maglia; due colletti di flanella grigioverde; unacorreggia per pantaloni; una cravatta di lana a maglia; un cucchiaio diferro; una custodia per spazzola da capelli; un farsetto a maglia; unpaio di fasce gambiere; una fascia ventriera; tre fazzoletti; unaforchetta; una gavetta; una giubba di panno grigioverde; un cinturinoper giubba di panno grigioverde; un paio di guanti di lana; unamantellina; due mutande di tela; una nappina; occhiali da neve; duepaletti per telo da tenda; un paio di pantaloni di panno grigioverde;due parti di bastone per telo da tenda; un piastrino di riconoscimen-to; un sacchetto di tela per galletta; un sacco di tela impermeabile pertruppe alpine; un sacco per vestiario, biada e oggetti personali; unpaio di scarponi per truppe alpine; una spazzola da scarpe e davestimenta; una spazzola per capelli; 4 stellette metalliche; un paio distivaletti; una tazza; un fucile '91; una sciabola baionetta; una borsa dicuoio; spallacci; ganci per spallacci; cinghia da fucile; cinturinomodello 89; giberna da alpini; bandoliera per giberna; fibbia percinturino; due bottoni ganci ottone.

In quei quattro mesi la nostra preparazione militare fu seria: ordinechiuso, avanti marc, dietro front, passo-ò, squadra alt. Poi cantate,marce settimanali (col supplizio delle fasce gambiere che sbrodolavanosugli scarponi), addestramento al combattimento, classici balzi inavanti, istruzione alle armi. Entrammo in confidenza con parole strane:

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congegni di caricamento e sparo, bipiedi, zigrinature, linea di mira cheparte dall'occhio, sfiora il mirino e colpisce il bersaglio, falsi scopi ecariche di lancio. Del fucile '91 e della mitragliatrice Breda ci esercitam-mo allo smontaggio e al rimontaggio, i fanatici anche ad occhi bendaticon gare sul filo dei secondi. Imparammo che il fucile non si passa, ma silancia, con severa punizione al maldestro destinatario che lo lasciacadere. Quattro volte andammo al poligono col fucile modello '91 e ilcaporale Augusto ebbe la qualifica di tiratore di seconda classe.Scarsotta, caro il mio Augusto, scarsotta per un futuro avvocato.

Quattro lezioni di tiro e, fra il 15 marzo e il 14 maggio, una vaccina-zione antivaiolosa e tre antitifiche: fila in cortile, soldato infermiere (si faper dire) che disinfetta la parte sinistra del petto, passo avanti, altroinfermiere che pianta l'ago, passo avanti, medico che inietta, passoavanti, terzo infermiere che toglie l'ago, passo avanti e rimetterecamicia. Pochi gli svenuti. Per tutti ogni volta due giorni di riposo confebbre anche a 40 gradi e mammellona dolorante. Naia, questa sì,memorabilis. E molto poco tripudians. Però sicuramente efficaci evalide, quelle punture, difatti loro malgrado eccoci qua ancora vivi.Meno uno, rimasto lì tramortito e fermo a subire una seconda iniezione.

Tiri, punture, marce, ordine chiuso, cioè addestramento formale,ma anche lezioni in aula.

Qui mi spalancano orizzonti impensabili. I piedi, ad esempio. Quellidell'alpino sono roba del governo, quindi da trattare con riguardo. Negliscarponi devono essere infilati avvolti entro le pezze da piedi con curasapiente et amorosa: se alla rivista dopo una marcia scoprono una piaga,biglietto di punizione. E il taglio delle unghie? Una scienza! Guaiaccorciarle troppo, mai soprattutto agli angoli: rischiano d'incarnarsi,con relativi danni a sacro materiale governativo.

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La lezione sulle unghie la ricordo bene e ancora oggi mi ci attengoscrupolosamente, anche se con fatiche sempre maggiori e doloretti allaspina dorsale: sapete com’è, rientrato in pieno possesso dei piedi, miritrovo con una schiena sempre più, ahimè, della mia età. Ciò non toglieche faccia la mia brava ginnastichetta giornaliera: con la punta delledita, a ginocchia ben dritte, tocco la punta delle scarpe una ventina divolte. Poi le infilo.

E la borraccia? È sempre il tenente Gobbi che parla: ― Da essanon si poppa succhiando ma, in bocca, si versa come in un bicchiere,appena appena appoggiando l'imboccatura al labbro inferiore, gomitoportato all'altezza del naso, testa bene indietro, occhi al cielo: lo stilefa l’alpino.

E sotto bombardamento bisogna tenere la bocca aperta, non perla meraviglia ma per equilibrare la pressione sui timpani. Qui, con lasolita incoscienza giovanile, devo aver fatto il furbo ed eccomi sordocome due talpe.

Ho sotto gli occhi il fascicolo APPUNTI DI TOPOGRAFIA e, in men-te, i calcoli atroci tipo: se quattro millimetri corrispondono a centometri, quanti chilometri ecc. ecc. Ogni tanto ci aizzavano a conoscerel'equidistanza di una carta ed allora mi buttavo a dividere la differen-za di livello fra due curve quotate per il numero degli intervallicompresi fra le due curve stesse ed ecco l'istruttore soddisfatto. Iltutto durante lunghe ore pomeridiane.

E studio di percorsi su carte topografiche. A saperle usare, cidiceva non più Gobbi ma Sapino, fai miracoli. Ne avrei avutoconferma in Montenegro un anno e mezzo dopo, addirittura da carteaustroungariche, quindi gioielli di accuratezza: durante una notte dinebbia, gira che ti gira per boschi e sentieri, la testa del battaglioneExilles riuscì a raggiungere la propria coda.

All’appendice del LIBRETTO PERSONALE, DOVERI E FACOLTA' DELMILITARE IN CONGEDO sta scritto che questo, se la sua classe èrichiamata alle armi, deve raggiungere la sede indicatagli "compiendoil percorso a piedi". A piedi. Non è detto per quale motivo, ma la naianon deve spiegazioni. È naia.

Comunque sia, il percorso a piedi di cui sopra nessuno di noi lofece perché nessuno di noi fu richiamato, ma semplicementetrattenuto. Allo scadere del diciottesimo mese.

Fu sempre accuratamente evitato ogni discorso che sapesse diindottrinamento politico, ma quando tornarono i pochi superstiti delBtg Cervino se ne parlò con ammirazione, come se scopo della guerrafosse quello di andarci per farsi uccidere.

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La PALESTRA DI ROCCIA è una paretina alta tre metri e lungauna ventina, in località Porosan. C’insegnano a percorrerla inorizzontale: ― Mano e mano, piede e piede sono quattro appoggi: tredevono essere fermi se, da una parete vera, volete tornare …

A me vengono a dirlo che da ragazzotto godevo le vacanze estivenei boschetti vigonovesi passando da albero ad albero senza liane.

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Aosta aprile 1941

Ad Aosta stampammo giornalini. La Prima compagnia, che avevala nappina azzurra, stampò LA PRIMULA AZZURRA; la Terzastampò FA FÜM; la Quarta, LARGO ALLA QUARTA; la Prima, laSeconda e la Quinta stamparono il numero unico LA VA A STRAPPI.

La 2a compagnia, del corso luglio ottobre, NAIA TRIPUDIANS.

Queste pubblicazioni rispecchiano (e come non potrebbero eperché non dovrebbero?) lo spirito dei nostri quasi vent'anni, tantogiovane e non ancora deluso.

Molti dei disegni qui riportati sono presi da quei giornalini.GAVA (o gavetta), ma anche piatto fondo, zuppiera, tazzina,

insalatiera, fruttiera, anfora, boccale, catino e bidè. Serve per ilfamoso scherzo che se me lo fanno un'altra volta ammazzo qualcu-no.

MAROCHE (o pagnotte): Sempre due. C'è chi le accarezza dinotte. Bisogna che cominci anch'io perché è già una settimana che lamattina non me le trovo più. Hanno mollica detersiva.

Quello che sa l'alpino. Che, porca miseria, a lui tocca sempre laporzione di rancio più piccola. Che la mitragliatrice Breda pesa kg19,700. Che quando era burgo, lui di donne ne aveva così. Che lui inmontagna non lo frega nessuno. Che di ordine chiuso con i suoi dietrofront e squadra alt ne ha piene le scatole.

In LARGO ALLA QUARTA troviamo un articolo che ci riporta al"dramma" dei primi giorni di Aosta: l'incontro-scontro fra i "volonta-ri" ed i "chiamati alle armi del '21". Ne riportiamo qualche riga (conrigoroso rispetto "de il" testo).

"Quando siamo capitati qui tra voi, vi avremmo mangiati. Nonci piacevate, ecco; e se potevamo umiliarvi, lo facevamo. Come se diconseguenza ci innalzassimo noi ne la vostra e ne la nostra stima. Viricordate la prima sera di "libera"? Appena usciti da la porta, duegruppi distinti: di qua i volontari, di là quelli del '21. E così sempre,

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anche al rancio. Quando arrivammo qui ― non so se lo sappiate ―abbiamo fatto il diavolo a quattro per restare tutti insieme, performare un plotone a parte, per non essere mescolati a voi."

Come mai tanto dispitto?Già malvolentieri venuti ad Aosta perché si erano arruolati per

combattere (per combattere subito, non per seguire uno stupido corsopiù lungo della guerra), i volontari, sotto la naia da un paio di mesi, sierano visti intruppare ― alla pari! ― con reclute di primissimo pelo."Veci " e "bocia" insieme! Veci scaldatissimi insieme con bociadisposti sì ad accettar la naia ma non a forzare il destino. E con bocia,udite udite, considerati volontari benché nessunissima domandad'arruolamento avessero fatto! No, non potevano, i volontari-volontari, avere rapporti con volontari figli di circolare. Sarebbe statoaccettare un'assurdità che andava contro il buon senso.

In verità, altre persone di buon senso potevano obiettare chenessuna colpa aveva il '21 di una circolare che imponeva corsi avolontari e regalava qualifiche di volontario. Ma fa ragionar tra loropersone di buon senso.

Di buon senso, una volta tanto, pare che sia stata la naia: man-dandoli al corso, metteva i volontari-volontari in condizione di serviremeglio la Patria e, qualificando volontari i chiamati alle armi del '21,in certo qual modo li risarciva di un rinvio annullato.

Volontari? In realtà i politici avevano sì presentato un disegno dilegge tendente a far riconoscere la qualifica di volontario agli studentiche rinunciavano al rinvio, ma i senatori militari erano riusciti abocciarlo: volontario è chi si arruola senza obblighi di leva, non chirinuncia ad un privilegio come il rinvio, tra l'altro ancora possibilesolo perché non era stata proclamata la mobilitazione generale.

La bocciatura al Senato, straordinaria considerati i tempi, futenuta accuratamente nascosta e l'equivoco rimase e rimane.

Dei nostri, i volontari a pieno titolo anagrafico (la loro classe nonera ancora sotto le armi) furono i venticinque del 1922 e RurikSpolidoro del 1923. Comunque sia, il dispitto nei confronti del '21 nonpoteva durare e non durò. L'articolo continua: ― Ma un giorno citrovammo in tre o quattro a discorrere con voi e cominciammo conil riconoscere che "in fondo son buoni figlioli".

Per tanto generoso riconoscimento il '21 ancora ringrazia.Di mio, perché nessuna memoria vada persa, ma soprattutto

perché mi piacerebbe risvegliare antichi umori, aggiungo, qui avanti,

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― PAROLE E ... "FATTA" ―

Eravamo un po' giù di corda noi tre quella sera, giù di corda cometutti i soldatini del mondo quando pensano a casa, e finivamo diconsumare la libera uscita a un tavolo del "Covo degli Arditi".

Nel locale, molto ampio (si trovava nello scantinato del munici-pio), c'era una gran bella calma ― educato il muoversi, educato ilparlare ― come se non ci fosse quel pienone di alpini; il fatto è che lìdentro c'erano quasi solo cappelloni, vale a dire soldati al primissimostadio, con addosso ancora molti difetti borghesi, come, appunto,comportamenti da persone civili nelle osterie. Per la cronaca, quellierano alpini degli appena formati due battaglioni universitari. Grandecalma, dunque, nel locale e noi tre potevamo starcene indisturbati coni nostri pensieri di soldatini.

Ma ecco laggiù in fondo scoppiare un fragoroso batter di maniaccompagnato da robustissime voci: ― Di-scor-so! Di-scor-so!! Di-scor-so!!!

Tutti, per forza, ci voltammo da quella parte: una bella compagniadi amiconi, ben sistemata intorno a un paio di tavoli gloriosamenteingombri di bottiglie, si rivolgeva al proprio oratore (le compagnie diamiconi un oratore l'hanno sempre) e chiedeva una prestazioned'opera; il sollecitato non si fece pregare più di tanto, si alzò ― gli altritacquero, noi continuammo a farlo ― e cominciò a parlare.

Parlò ― ovviamente ― secondo lo stile dell'epoca, stile al qualenoi tutti eravamo ― ovviamente ― abituati; e parlò ― ovviamente ―da euforica recluta qual era: propositi, auspici, minacce, immancabilicertezze e via enfatizzando.

Ai due tavoli, battimani e brindisi.Gli rispose un amicone ― la risposta in circostanze simili è

d'obbligo ― e rispose laudando, ribadendo, approfondendo.Battimani e brindisi.Un terzo ritenne doveroso precisare che non solo, ma anche ed

inoltre. Battimani e brindisi.Seguirono un quarto, un quinto e altri ancora (caso, o fortuna,

aveva riunito intorno a quei tavoli una discreta quantità di oratori dicompagnia), e tutti parlarono, parlarono, parlarono. Parlarono conentusiasmo, un entusiasmo indubbiamente sincero, ma anche conl'aria di voler impartire, a chi non poteva fare a meno di sentirli, unalezioncina di patrie virtù: noi faremo questo, noi faremo quello, noicosì, noi cosà, noi ... noi ... noi ... Colpa delle bottiglie? Anche. Ma nonper questo risultavano simpatici; non a me, per lo meno: mi avevanostrappato ai quieti pensieri del natio paesello e non accennavano asmettere di ascoltarsi. Parole, parole, parole.

Tante parole, mi venne fatto di pensare, tante parole dopo il gransilenzio di due giorni prima, quando il battaglione Monte Cervino era

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partito per la Grecia e tutta la città, tutta la vallata, era accorsa a fareala dalla caserma alla stazione.

– Fino a cento metri dalla stazione, aveva mandato a dire il co-mandante, per non creare impacci al battaglione durante le operazio-ni di salita sulla tradotta.

E l’ordine era stato disciplinatamente rispettato.Durante il passaggio dei soldati, da quelle siepi di mamme, di

padri, di mogli, di figli, di fratelli, sorelle, parenti, amici, non una vocesi era levata, non un nome era stato detto, un richiamo lanciato: Aostaera rimasta in silenzio a guardare i propri figli che partivano per laguerra. In un silenzio impressionante.

E qui adesso tutto ‘sto gran parlare. Che sarebbe stato anchesopportabile (i tempi erano quelli, ci avevano cresciuto a pane eretorica e, ripeto, alle parole gonfie eravamo abituati), sopportabileanche da me nonostante la mezza arrabbiatura che oramai avevoaddosso, se l'ennesimo oratore ad un certo punto non fosse venutofuori a proclamare ― voce bella, rauca al punto giusto, petto in fuori emascella contratta ― a proclamare che essi erano volontari (applau-si), anzi, Volontari con la vi maiuscola! (applausi, applausi, applausi)

L'affermazione mi parve un tantino esagerata: le nostre classierano sotto la naia da gran tempo, le nostre classi avevano combattu-to in Francia, stavano combattendo in Grecia, noi eravamo lì, da poco,dopo aver goduto più o meno lunghi rinvii del servizio militare equelli pretendevano di chiamarsi Volontari con la vi maiuscola!L'affermazione mi parve un tantino esagerata e dal profondo deipolmoni mi salì, irresistibile, un fischio che più robusto non potevofare.

Un fischio in quell'ambiente ammodo! Il primo a scandalizzarmifui io: già così logora la mia educazione borghese dopo appena cinquegiorni di naia! Ma anche a compiacermi: ero una recluta dall'assorbi-mento rapido.

L'attenzione in sala, che languiva a quote decisamente basse, ebbeuna brusca impennata e un brivido di speranza ― anche le reclutesono uomini ― serpeggiò fra i tavoli: ora succede qualcosa!

Invece non successe niente. L'oratore ed i suoi commensali nonfecero una piega: un attimo d'interruzione, a me occhiate piùindagatrici che aggressive, poi quello riprese il suo dire come se ilfischio non l'avesse riguardato. Fu più breve degli altri, però, e dopodi lui non parlò più nessuno, ma forse perché avevano detto tutto, operché oramai l'ora volgeva, tanto è vero che qualcuno in salacominciava ad alzarsi per rientrare in caserma.

Anche noi tre, Cesare Della Gaspera, Napoleone Barzan ed io,dopo un po' decidemmo che era tempo e ci aggregammo alla frottache usciva; la giornata era finita e il pagliericcio ci aspettava.

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Appena fuori, fatti sì e no tre passi nel buio della strada, sentii unagran botta al mento e un velo nero mi calò sugli occhi, subito riempitodi scintille. Non si finisce mai d'imparare: fino a quel momento avevocreduto che "vedere le stelle" in seguito ad un colpo fosse un modo didire.

Prima che l'ultima scintilla si spegnesse, una voce mi soffiòall'orecchio, e mi parve lontanissima, che il mio fischio era statoun'offesa per i volontari, che il pugno datomi era di sfida e chepertanto dovevo battermi.

Questi Volontari con la vi maiuscola! Avrebbero potuto tranquil-lamente pestarmi, pestare magari i miei due incolpevoli compagni ditavolo (e alpini normali proprio questo avrebbero fatto, da personeserie, da persone che badano al risultato), invece eccoli qua con unasingolar tenzone. Residui borghesi, si diceva.

Queste considerazioni naturalmente le feci in seguito, a faccendaconclusa; in quel momento avevo altro per la testa, anzi, a dire il vero,per la testa non avevo proprio niente: mano premuta contro lamascella indolenzita, m'ero imbambolato a osservare con quantacelerità soldati in grigioverde andavano formando quadrato intorno ame, un quadrato come quelli che ci avevano insegnato a fare nelcortile della caserma intorno al sergente istruttore (e poi dicono chesotto la naia non s'impara niente); solo che io sergente non ero e lì, inmezzo al quadrato, insieme con me c'era un alpino alto e grosso così,in maniche di camicia, che saltellava, lanciava pugni al vento, fintava,si muoveva sul tronco, come fanno i pugili quando si scaldano; sequello si stava scaldando, dimostrava gran dimestichezza con lamateria.

Strano però che potesse saltellare così sicuro sull'acciottolatodella strada. E senza rumore di chiodi. Lo guardai ai piedi: ma avevascarponi Vibram! Scarponi Vibram, i gioielli da montagna proibiti almio borsellino! Peccato quel buio: non potevo neanche vedere seerano del tipo predisposto per gli attacchi da sci.

Una voce mi strappò ai Vibram: togliessi cappello, mantellina,giubba e baionetta. Presto.

Come? Che aveva detto? Solo in quel momento mi resi conto diquel che i Volontari volevano: volevano me; volevano il mio olocau-sto, per dirla con una parola così spesso udita nei loro discorsi diprima; il mio olocausto sull'altare della vi maiuscola ad opera del pesomassimo che mi stava ballonzolando davanti.

Mi guardai in giro con un'assurda speranza: torno torno, cupa,massiccia, inesorabile, si ergeva una muraglia di mantelline. Nulla dafare.

Passai il cappello al silenziosissimo amico Cesare, con ciò nomi-nandolo mio secondo; gli passai mantellina, giubba e baionetta,accuratamente evitando d'incontrare i suoi occhi per non leggervi

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quanto già sapevo. E fui anch'io in maniche di camicia. Che freddo,però. Certo erano dovuti al freddo i brividi che si ostinavano acorrermi su e giù per la schiena. E che buio. Troppo buio davvero perun incontro di pugilato. Ma eravamo in guerra, le norme sull'oscura-mento erano rigidissime ed era impensabile chiedere che togliesserola carta blu all'unica lampadinetta della strada, quella posta all'entra-ta del Covo.

L'arbitro, un Volontario sulla cui scelta non era stato chiesto ilparere né tampoco ottenuto il benestare del mio secondo (piccoloneo, questo, sul Candido Vessillo dei Volontari), un arbitro eccessi-vamente sbrigativo secondo me ― tipo da sacrificare con tranquillitàun cristiano pur di non fare tardi al contrappello ― senza nemmenoaccennare ad un qualunque discorsetto preliminare, obbligatorio,credo, in frangenti simili (altro neo sul C.V. dei V.), l'arbitro, ripeto,diede il segnale d'inizio.

Non sto a dire quello che provai nell'istante in cui fra me e il fato(o dovrei dire Fato?) non ci fu più nessun diaframma, nessunadistanza, niente, neanche una briciola di tempo. Fino a quel momentoc'era stato il pugno e c'era tempo. C'era stato il quadrato e le Vibramda osservare e c'era tempo. Il cappello e il resto da togliere e c'eratempo. Il via da dare e c'era tempo. Ora il tempo era finito. Terribile.

Oggi posso anche sorridere di quelle mie sensazioni, ma se tornonei panni miei di allora, ragazzo non ancora ventenne fuori casa dacinque giorni, intrappolato come un sorcio in un quadrato disconosciuti, costretto a battersi, si fa per dire, contro uno che non gliconcedeva nessunissima speranza, ebbene non riesco a trovare nellafaccenda motivi d'ilarità.

A distanza di tanti anni invece, lasciatemelo dire, ancora mi com-piaccio di non aver cercato scuse o tentato di aprire trattative; ancorami compiaccio di non aver neanche lontanamente pensato ad unaresa al primo pugno. Sarebbe stato, tra l'altro, un comportamentopochissimo degno d'un alpino. E tale io mi sentivo, pur se ancora inbozzolo. Assorbimento rapido, dicevo prima.

Disperatamente consapevole che seguendo le vie canoniche avreiincontrato un ben miserando destino, decisi di tentare un trucco,chiamiamolo così, che tante volte era riuscito contro gli amici quando,ragazzotti ignudi e infangati giù per le marcite a sguazzare, si giocavaalla lotta: mi lanciai di scatto con le mani vistosamente aperte adartiglio come per graffiargli il viso e, mentre l'avversario, disorientatoda un gesto così lontano dai canoni della noble art (cui peraltro ilfrettoloso arbitro non aveva fatto cenno), alzava braccia e testa persottrar le vergini gote a tanta minaccia, lo abbracciai ai fianchisguarniti e gli piantai il mento nella fontana della gola. Presarudimentale, la mia, come sa bene il più modesto dei lottatori, maredditizia giacché si è troppo vicini per essere colpiti, e dici poco, e

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perché si toglie all'avversario movimento e fiato; insistendo poi consufficiente ostinazione a tirare a sé con le braccia, magari anche versol'alto, e a spingere a fondo col mento (non potete immaginare quantodolorosa sia una punta di mento premuta lì, alla base del collo),l'abbrancato finisce per cadere indietro. Così almeno succedeva giùper le marcite del mio paese in caldi pomeriggi di luglio. Che la cosa siripetesse sull'acciottolato di Aosta in quella fredda sera di marzo eratutto da vedere.

Il campione dei Volontari infatti era robusto proprio com'eraapparso in principio e, pur così sorpreso e svantaggiato, resistevabravamente, tanto che rimanemmo lì, immobili come cariatidi e tesiin uno sforzo mortale, per un tempo infinito.

Non potevo cedere, assolutamente non dovevo.Feci ricorso a tutte le mie forze, chiesi alle braccia, d'altronde non

proprio esili, il massimo che potevano dare, e qualcosa di più; alpovero mento, ancora dolorante per il pugno, il massimo dellasopportazione, e qualcosa di più, ancora un attimo, un poco di più,ancora, ancora ... e il campione dei Volontari crollò a terra riverso.Con me che non mancai di pesargli sopra, non fu una caduta morbida,la sua, e, forse, sull'acciottolato batté anche la nuca; fatto sta cherimase lì come in croce, probabilmente col suo bravo velo neropopolato di scintille; rimase lì quel tanto che mi bastò per agguantar-gli ben bene la camicia sulle spalle, una mano qua e una là a bracciache s'incrociavano, e quando mostrò di riaversi, cominciai a pesarglicon gli avambracci sulla gola graduandogli avaramente il passaggiodell'aria.

Tentò di far qualcosa, l'infelice asfittico, qualcosa come il ponte oaltro del genere, robe da manuale, per intenderci, ma i suoi pateticisforzi si mutarono quasi subito in pressanti segnali di resa.

Avevo vinto! Mi rialzai. Avvolto in un tragico silenzio entro ilquadrato di statue, a passi lenti, controllati, raggiunsi il mio secondo.Rimisi baionetta. Rimisi cappello. Giubba. Mantellina. Il tutto sempreadagio, sempre con lentezza innaturale. Ostentazione? Arrogantemessaggio intimidatorio? Certamente sì, dovettero pensare gliimpressionati astanti, ivi compreso il mio non ancora loquacesecondo.

Ma si trattava di altro e ne parlo adesso per la prima volta. Eraaccaduto che, nel momento del massimo sforzo, quando ai muscoliavevo chiesto tutto e qualcosa di più, uno di essi muscoli avevaceduto. Forse già provato dalla potente emozione iniziale, uno di essimuscoli (quello addetto alla chiusura intestinale) aveva ceduto elasciato uscire, quasi del tutto, un cilindrotto di roba tiepida e dura,dura come solo le pagnotte militari dell'epoca sapevano generare; ilqual cilindrotto (“fatta”, appunto, in braghe, quasi) era rimasto lì,mezzo fuori e mezzo dentro, a farmi calcolare ogni mossa, pena la sua

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totale fuoruscita; era rimasto lì, fastidiosissimo tappo benedetto, a trattenere il resto del materiale che mi tumultuava in pancia minacciosamente liquido.

E ad ammonirmi che di quel fatto non avevo da menare chi sa qual vanto.

Dopo l'ammissione ufficiale che quelli del '21 erano "buoni figlio-li", la pace scese tra noi allievi. Fummo così in grado di fare fronte comune contro i soldati "normali" trovati in loco, per i quali noi, tutti noi, eravamo "quelli che avevano voluto la guerra" e tale convinzione ci esprimevano con musi duri, invettive, quando non con pesanti scherzi e, unendo l'utile al dilettevole, con furtarelli. Qui pace non cercammo.

Pace avevo cominciato a non cercare la sera dell'arrivo quando, disagevolmente ma tranquillamente sdraiato sulla paglia, ero stato colpito ai piedi dai calci di un caporalone alto così e alticcio cosà, che, alle mie rimostranze, aveva preso a minacciare di portarmi al corpo di guardia.

Lo presi in parola sfidandolo, quello non poté più ritirarsi e, arri-vati al detto corpo di guardia, forte dei miei vestiti, sgualciti ma sempre borghesi, e delle mie sacrosante ragioni, impiantai un casino tale che il sergente fu ben lieto di rimandarmi in camerata.

E quella volta del rancio col tonno? Un tonno nauseante anche per noi che avevamo già fatto la bocca rassegnata, un tonno che mangiammo senza inutili commenti. Gli effetti scoppiarono durante la notte: epica diarrea collettiva, cessi ingolfati e adiacenze da starci attenti a mettere i piedi. Quel tonno (già scartato perché guasto) era stato una vendetta dei cucinieri contro chi “aveva voluto la guerra”. La pagarono cara: dal primo all’ultimo furono spediti al fronte.

Gli artiglieri, troppo occupati con falsi scopi e goniometri, ad Aosta non stamparono giornalini. Geo Motta li riscattò creando questo distintivo con mulo che batte l’ambio.

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Scrive Santino Manzi, ad Aosta della 2a Btr: ― Mascheroni suona-va la fisarmonica molto bene, tanto che il maggiore Cocchi, inoccasione delle escursioni più impegnative, gli faceva caricare lo zainosu un mulo a patto che portasse a spalla la fisarmonica e, giunti invetta, suonasse. Ne uscivano cantate formidabili che erano per tuttistimolo e ristoro dopo le fatiche della salita.

Canta l’alpino: L'artiglieria è nostra sorella, noi sulla cima e leisulla sella … E si sente rispondere: L’artiglieria conferisce dignità aciò che altrimenti sarebbe una volgare zuffa.

DECA ― Ricordate quanto prendevamo di deca? Alfredo Cartellisì. Dovete sapere che, sfruttando chi sa quali protezioni (e certamentedopo venduta la vaca mora), il detto riuscì a farsi nominare capo-squadra. Incredibile ma vero: caposquadra della 3° squadra del 1°plotone della 1a compagnia! Andremo a fondo ma intanto andiamoavanti.

Uno degli incarichi del caposquadra era ritirare la deca dei suoiuomini e distribuirla. E tutti i capisquadra ritiravano e distribuivano;Ubaldo A. capo della seconda, per esempio; e Adelchi B. dell'ottava; eUlisse B. della nona, la mia. Ritirava e distribuiva perfino BenedettoB. della dodicesima. Lui, il Cartelli, invece no: ritirava ma nondistribuiva: prima esigeva ricevuta firmata. E quei fogli ancoraconserva.

Allora, vi è venuta in mente la deca da caporale? Era ventuna lirae novantacinque centesimi. Gran bei soldi per chi aveva solo quelli.Ma perché, caro il mio Alfredo, in uno dei tuoi fogli (che impruden-temente mi hai fatto avere in fotocopia), di fronte a un dovuto di21,95 i tuoi uomini hanno firmato per 19,45? Perché?

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27 marzo. Puntatina alla capanna Margherita: due orette su perun canalone ripidissimo. Gambe e polmoni promossi, ma all’arrivochiedono il premio d’un bel riposino.

“Capanna Margherita”: non sarà come quella vera sul Rosa (forsela chiamano così per affettuosa ironia), ma certo è un elegante chalet,e stupendo è il laghetto che ha di fronte. Sulla sinistra risplende unripidissimo declivio coperto di neve; è una tentazione irresistibile ealcuni si spingono fin là per una discesa. Roba da sci estremo. Unoimpone subito la propria classe. È veramente in gamba.

Un mese dopo ― siamo nel pieno fulgore delle leggi razziali ―questo alpino, in gamba ma ebreo, ci dirà che ha cambiato cognome.A fine corso andrà al Btg Morbegno e cadrà in Russia.

Onore a Te, sottotenente italiano Alberico (Levi) Pizzòcaro.

BATTAGLIONE MAMME – Lo ricordate? Ricordate le mamme ditanti nostri commilitoni che, trepide e decise, avevano occupato a mo’di Quartier Generale un intero albergo di Aosta? Che ogni seraattendevano i rispettivi figli per il bagnetto, la cena (o il biberon?), ilrapportino giornaliero e il piano d’azione per il giorno dopo? Che,eroiche e piene di ogni ben di dio, detti figli seguivano nelle marce, coltaxi fin dove possibile e a piedi fino alla prima sosta? Per l'amorosocontrollo della maglietta di lana e il travaso del suddetto ben di dioentro gli zaini dei suddetti figli? Care dolci mamme.

Che vedemmo anche a Bassano. Care eterne mamme.

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RANCIO – Fin dalla prima sera noi della Testafochi andammo ariceverlo nel cortile di una caserma vicina, già degli alpieri, e qui,

dipinta sul muro, ci accolse una frase siglata con la m mussoliniana:“L’ANIMALE DA BATTAGLIA NON MANGIA”.

Alle scritte sui muri eravamo abituati e le accettavamo senzadiscutere, ma questa mi sembrò più che altro bizzarra; sopra la portadi una cucina, poi, addirittura ironica; era chiaro che da un suocontesto l’avevano tolta mani inesperte. Forse quelle di un marescial-lo addetto ai viveri, magari in vena di risparmi?

Le attese del rancio sono lunghe e lasciano il tempo di pensare.Bizzarra, ironica ma, con quella perentoria emme sotto, da prende-

re sul serio, quindi imbarazzante: perbacco, mi trovavo là perdiventare buon combattente, diciamo pure un animale da battaglia,avevo molta fede nelle scritte sui muri però altrettanta fame. Comedovevo comportarmi? Mangiare o non mangiare? Un bel dilemma.

Belli, del resto, erano anche i tempi: il rancio, ad esempio, dovevoconsumarlo nel cortile e in piedi. Con niente su cui poggiare duepagnotte, gavetta con i tubi, coperchio con secondo, gavettino convinetto. Rancio in piedi! Improvvisamente mi si accesero in testa dueparolette, le aggiunsi alla frase e, miracolo, essa ottenne un significa-to, diciamo così, ancora più incomprensibilmente mistico ed io laliberazione dal dilemma: sì, ora potevo buttarmi a lavorare dicucchiaio in piena serenità, certo di non compromettere il mio futurobelluino. Giunto il mio turno, con un tranquillo sorriso tesi mani,gavetta, coperchio e gavettino. Quali le due paroline miracolose?“L’ANIMALE DA BATTAGLIA NON MANGIA STANDO SEDUTO”Mi guardai attorno: no, nessuno mostrava di essere arrivato a tanto.In quel momento capii di essere una recluta fuori ordinanza e difatti,certamente ancora unico, trovai affascinante la sabbia, ammucchiatavicino al ruscello, che dovevo usare per pulire la gavetta.Un commilitone mi giunse accanto e prese a fissarmi. Che voleva?Smisi di sfregare la sabbia nella gavetta e mi drizzai. Egli indicò lascritta e disse: - Non puoi giustificarla!Mi aveva letto nel pensiero? Sì, mi aveva letto nel pensiero.- Non puoi giustificarla: è stupida.Vittorio Modigliani (in quel momento neanche lo conoscevo, ma inseguito saremmo diventati amici) non continuò il discorso e prese lasua manciata di sabbia.

Domenica, 30 marzo, RANCIO SPECIALE: risotto, due uovasode, insalata con salsa di cipolla, arancia.

L’insalata di Aosta! A braccia la rimestavano i cucinieri dentro ibidoni. Proprio lì, davanti a noi che stavamo ad aspettare, bene in fila,impotenti e affascinati. A braccia. Impegnatissimi, sempre i cucinieri,col petto nudo e villoso, a non far cadere a terra neanche una foglia.

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E il formaggio? Le profonde ditate in quel formaggio molliccio efetido che ti sbattevano entro il coperchio della gavetta?

”FALSO AUTENTICO” chiama Peppino Prisco questo biglietto dipermesso fregato in bianco, con molti altri, dalla pur sorvegliatissimafureria e trasformato in buono per otto razioni di rancio. Come moltialtri. Vi spiegate, adesso, perché troppe volte i tubi nuotavano scarsinel vasto brodo?

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BAIONETTA ― Troppa fretta ebbe quella sera nello slacciarsi lacintura (ma il bisogno urgeva) e così il fodero con relativa baionettadalla cintura gli si sfilò e cadde; un pluff tragicamente flaccido glidisse che era arrivato sulla poltiglia che s'allargava immota un metroe mezzo sotto le viscide assi sulle quali stava appollaiato; le romanti-che ombre della prima sera erano già calate, eppure Giovanni, conraccapriccio, riuscì a vedere l'arma affondare e, lentamente, inesora-bilmente, sparire: l'Italia era rimasta con 7.999.999 baionette. Dovevaprovvedere.

Corse in camerata (il suo bisogno? trattenuto in loco: avrebbeappesantito la situazione), corse in camerata per una racchetta da scie due amici. Trovò l'una e gli altri. Inginocchiato a tre spanne dall'orlodi una fossa igienica maledettamente larga e profonda (scavata anorma della miglior ingegneria campale: alla S.C.M.A. facevamo lecose seriamente), Ennio ed Enzo che gli premevano sui polpacci a farda contrappeso (è sui bisogni che si riconoscono gli amici; fra l'altro,Peressutti doveva a Giovanni particolare riconoscenza per via dellamantella: gliel'avevano fregata e lui, Casarotto, adocchiato unattaccapanni riccamente fornito in un caffè bene di Aosta, glieneaveva procurato un'altra, ovviamente migliore, subito marcandolain segno di proprietà con un foro di sigaretta in basso a sinistradopo la terza piega; ma non divaghiamo), si lasciò andare lentamen-te in avanti e venne a trovarsi dalla cintola in su nel vuoto, sopra unapalude graveolente, densa, di un marrone deciso anche se chiazzatoda pezzi di carta seminghiottiti. Visto da qualche spanna, lo spettaco-lo era affascinante, ma non si lasciò distrarre: il dovere chiamava.

Braccia in avanti (― Enzo, Ennio, mi raccomando!!), lavorò diracchetta e quasi subito localizzò l'oggetto delle sue brame (hamanina sensibile, Giovanni); riuscì a recuperarlo e dopo mezz'ora difurioso rubinetto si ritrovò pulita anche la coscienza: aveva riportatole itale baionette ai fatidici otto milioni.

IL FUCILE

Alle Rocce Nere, tardo pomeriggio, esercitazioni di tiro con ilbuon vecchio '91. Ultimo della compagnia, Clavarino sparò i suoi colpie i segnalatori sbandierarono un vergognoso "Viva l'Italia": cioèneanche un bersaglio.

Lamberti sapeva che se la cavava bene: ― Clavarino! Che fai?― Signor capitano, la luce, il fucile non è quello mio di prima …

Non insistette (come da santo regolamento), ma davvero il fucilenon era più quello suo di prima. Era successo che giorni addietro,rientrato dalla licenza a sera tarda e a magazzino chiuso, non avevapotuto ritirare il corredo; niente zaino, niente pistoch, niente paiassa,

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niente fucile. Solo la mattina dopo aveva potuto avere la sua roba (e inpiù una schiena a strisce grazie alle assi nude e crude del castello sucui aveva dovuto dormire); tutto, ma non il fucile. Che era sparito.Scomparso nel nulla. La naia ha i suoi misteri. Naturalmente eranoseguiti rapporto, inchieste e, per l’interessato, strascichi a non finire;niente carcere a Gaeta, ma nella compagnia ― e poi anche alreggimento ― divenne "Clavarino del fucile". Comunque sia, glieneavevano dato un altro, quello appunto delle infami padelle di cuisopra.

― Non è quello tuo di prima? Dà qua! ― lo fulminò Lamberti.Prese il fucile. Lo osservò. Lo soppesò. Introdusse un caricatore.

Movimenti decisi, essenziali. Prese la mira. Posizione da manuale.Spalla, braccia, testa. Simbiosi uomo arma. Sparò. Clavarino eraaffascinato: stava guardando l'ufficiale che aveva istruito al tiroformidabili pattuglie sciatori. Sparò ancora. Due, tre, sei volte.

La tromba diede il segnale e laggiù un maledetto sbandierò Vival'Italia! Vale a dire, a dire per chi naia non fece, zero punti.

Lamberti si girò verso Clavarino. Per un attimo questi immaginòchi sa che cosa, ma Lui sorrise; dico davvero: il ferreo comandantedella compagnia di disciplina qual era la 6° sorrise e:

― Clavarino, cambia fucile!Clavarino afferrò l'arma al volo. Come da addestramento. Come

Lui si aspettava. Era tornata la normalità.Le prime ombre scendevano sulle Rocce Nere.

MA CHE NOTTE, QUELLA NOTTE

Quando comparvero ― addosso a reclute giustamente messe adormire su ruvidi pagliericci (l'educazione spartana "forma" i soldati!)― quando comparvero, dicevo, "essi" scossero il capo: di seta,colorati, eleganti, squalificavano il corso, teso ad una rude prepara-zione; scossero ancora il capo: insultavano la nobile severità del luogoe dei tempi. No, soldati non potevano indossare leziosi residuiborghesi; non alla Scuola Centrale Militare Alpina, non in tempo diguerra.

"Né burro, né pigiami!" decisero essi, i puri della Quarta; scosserodefinitivamente il capo e la sorte degli eretici indumenti fu segnata.

Con sfottiture, con astuzie, con pressioni, in una settimana neeliminarono parecchi; ma, come tutte le guerre ideologiche, anchequesta ebbe il nucleo degli irriducibili che nel pigiama insistevano avedere, senti senti, non mollezze antimilitariste ma una lecitissimacivile comodità. Alla quale caparbiamente non intendevano rinuncia-re. Intollerabile per i suddetti puri.

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Così una notte scattò l'attacco: improvviso e concertato (unapattuglia qui, una là, una laggiù), compiti accuratamente divisi (iotengo, tu cavi, lui getta), tempi di avvicinamento studiati al secondo,ogni rumore evitato. Roba da manuale, insomma, operazione stileBlitzkrieg (che allora faceva scuola). La sorpresa fu totale, ma, si sacome sono gli irriducibili, le resistenze furono testarde oltre il lecito:divincolamenti, urla, strepiti. Tanti e tanto a lungo che feceroaccorrere l'ufficiale di picchetto, il quale ristabilì l'ordine con unordine: un attenti stentoreo. La luce trovò cinquantasei allievi dellacamerata bene impalati in altrettanti mutandoni e farsetti, vale a direnella prescritta tenuta notturna; ne trovò quattro entro soli farsetti edue dentro niente. Spettacolo non indecente in una caserma, ma fuorinorma quindi l'ufficiale doveva provvedere e provvide. Secondo naia:mandando i sei a fare pista in cortile. Ad assetto invariato.

L'episodio ― strano anche nello stranissimo mondo della naia ―fece il giro delle caserme: tutti a parlarne, tutti a discuterne (gliingenui addirittura a porre il quesito "giusto o non giusto l'ordine";quesito ingenuo, appunto, che sotto la naia non si pone mai, pena lamorte della naia stessa), tutti ad analizzarne gli aspetti: temperaturaesterna, numero di giri in cortile, ampiezza e rumoricci deglisbatacchiamenti, colore finale dell'organo interessato e così via. Fuanche ripreso dal giornale Largo alla Quarta, che lo trasferì, pudica-mente sublimandolo, in campo onirico: "Qual è il sogno ricorrente diGiulio? Avere un bel costumino da notte per quando danno l'attenti incamerata dopo il silenzio".

La notte dei pigiami era entrata nella leggenda della ScuolaCentrale Militare Alpina.

In quanto a Giulio e compagni, arrivando nudi alla meta (quindiin linea con uno degli imperativi del tempo), l'eretico costume danotte si guadagnarono sul campo. O no?

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11 aprile – Sveglia alle 5.30 e partenza per S. Nicolas, dove,schierati sulla piana ancora circondata da neve, con davanti il monteBianco, a sinistra la Grivola e la val di Cogne, dietro l’Emilius e laBecca di Nona, giurammo: "Giuro di essere fedele al re ed ai suoireali successori, di osservare lealmente lo statuto e le altre leggidello stato per il bene inseparabile del re e della Patria".

Giurammo e fummo alpini. E, il giorno dopo, caporali.― Signor Maggiore, le distanze si accorciano! ― proclamò trion-

fante Gigi, carrierista frenetico.― E pensare che vengo dalla gavetta! ― confidò poi agli amici.

Due giorni prima, al sergente maggiore che si stava informandoavevo risposto che, sì, m'intendevo di radio e che sapevo trasmetterecon l'alfabeto Morse. Mi fecero una prova, che superai, e divenni,certo uno dei pochissimi del corso, caporale radiotelegrafista.

Era un risultato di spicco ma non volli farlo pesare, anzi, mante-nendo l'atteggiamento di sempre, feci signorilmente capire aglistupefatti, non dico intimiditi, commilitoni che potevano trattarmicon la familiarità di prima. Adesso spiego, sempre con modestia, ilperché di tanta mia eccellenza.

Durante le vacanze estive del '37, mi ero unito ad un gruppo dipremilitari classe 1917 del mio paese che andavano in bicicletta aPolcenigo per un corso di radiotelegrafia al fine di guadagnarsi,dicevano, una naia da signori nel Genio Radiotelegrafisti. Io, classe1921, pensieri di naia non ne avevo, ma curiosità sì e li avevo seguitiin classe; l'istruttore, ingegnere Luigi Bazzi, mi aveva accolto ed io miero trovato immerso in un mondo affascinante di linee e di punti dacombinare fra loro a significare lettere e cifre; linee e punti datradurre in ticchettii.

Lezioni, prove, riprove, lezioni, prove, riprove, trucchetti mnemo-nici ("ac.ci.den.ti." erano i quattro punti dell'acca, "ac.ci.den.ti a. te."erano i cinque punti della cifra 5), mano sempre più sicura a batteree orecchio sempre più abile a interpretare i ticchettii: dopo un mese,tanto era durato il corso, fui in grado di mandare e di riceveresessanta battute il minuto.

Imparata quell'arte, la SCMA me l'aveva messa da parte: nel fogliomatricolare. Ed io me l’ero tenuta e portata nella vita civile.

Tanto è vero che, rientrando a casa, mi son sempre annunciato alcampanello con la C di Chiamata:linea punto linea punto, vale a dire taa ti taa ti. Cioè — ∙ — ∙

Telegrafista per sempre, insomma.

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Piero Prataviera, Cesare Della Gaspera, Nilo Pes

11 aprile 1941 Giuramento a S. Nicolas

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Il capitano Aldo Rasero Il tenente Antonio Gobbi

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Il 1° Btg Alpini Universitari era formato da tre compagnie, la 1a, la 2a ela 5a, comandante il maggiore Piero Cremese.Il numero unico LA VA A STRAPPI riporta i nomi di tutti gli allievi.Ecco quelli della PRIMA COMPAGNIA, la più meio che ci sia. Vedeteche nomi, che magnifici nomi, a cominciare dal capitano Aldo Rasero,che ci comandava.

1° plotone1a squadra: Domenico Agasso, Ercole Armand, Ercole Balzarini,Federico Barbiero, Domenico Beata Brun, Riccardo Bechis, BenedettoBellina, Renato Bertani, Renzo Boglio, Giorgio Manganotto, GiuseppeNucci, Italo Picchiottini, Antonio Quaglia, Raffaele Ripamonti, AldoKluzer, Mario Bassignana, Attilio Ballarati, Luciano Dusini.

2a squadra: Ubaldo Astore, Bruno Berto, Camillo Bertollo,Federico Bettica, Gustavo Biasi, Nicola Bosio, Aristide Bolla,Giuseppe Braglia, Gerolamo Bossi, Filippo Bonavia, Domenico DeMassari, Pietro De Paoli, Renato Perazzoli, Rino Pesavento, RenatoScrinzi, Gastone Beccari, Lorenzo Trotter, Luigi Cariolato.

3a squadra: Alfredo Castelli, Mario Brizzolara, Giovanni Burzio,Luigi Bruno, Pietro Cabutti, Franco Capelli, Paolo Capnist, ErcoleCazzaniga, Felice Ceccarelli, Casimiro Ceroni, Carlo Colombo,Lorenzo Fava, Fiore Lutterotti, Antonio Maini, Guido Postinghel,Rino Garbagna, Giorgio Grasso

2° plotone4a squadra: Pietro Guerriero, Pino Lecce, Faust Bedone,Giuseppe Giannattasio, Gianfranco Corazza, Giuseppe Danni,Arnaldo Cottini, Piero Corbetta, Adelmo D’Alessio, Renato Codicè,Guido Caliceti, Arturo Dall’Olio, Luigi Dall’Armi, Umberto Conti,Giuseppe Cumina, Mario Dell’Acqua, Luigi Coppo

5a squadra: Ezio Filogamo, Piero Ferrario. Cesare Della Gaspera,Aldo Ebranati, Giovanni Vincenzi, Vindice Piras, Carlo Ferro, GiorgioDonalisio, Carlo Ferruglio, Ercole Fioravanti, Giuseppe Ferretti,Franco Osenga, Attilio Fausti, Gino Dellai, Renzo Mazzini, LuigiDonadio, Andrea De Filippi

6a squadra: Gabriele Bagattini, Giancarlo Banchieri, FabioBorelli, Egidio Fontana, Giuseppe Goso, Teresio Goslino, AnteoGiusti, Michelangelo Giusta, Umberto Graziosi, Attilio Lancro,Alfredo Lelli, Giulio Leone, Massimo Leogrande, Stelio Sacchi, GinoTreggiani, Angelo Greselin, Mario Prevete

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3° plotone7a squadra: Emanuele Forzani, Amedeo Guyon, Alberico (Levi)Pizzòcaro, Demetrio Lotti, Lucillo Longo, Aldo Maito, Vito Mantìa,Giancarl0 Marcoli, Enrico Marini, Ezio Martin, Giuseppe Mairano,Enrico Malaman, Ottavio Marchesani, Luciano Marus, GiovanniMolinari, Giorgio Monteverde, Ernesto Marchetti, Rodolfo Tresoldi,Ulderico Rebesco

8a squadra: Adelchi Benedetti, Bassano Bonelli, DalmatoFrattura, Vittorio Fossaluzza, Amedeo Marvelli, Giovanni Maschio,Enrico Massarolli, Ezio Mazzola, Remo Merotto, Orfeo Michelangeli,Vittorio Modigliani, Manlio Morini, Giovanni Malgaretti, LucianoPini, Ciro Paicemi, Gianni Guardiero, Carlo Mordiglia

9a squadra: Ulisse Berti, Giulio Bongianni, Giulio Facchini,Ferdinando Guggeri, Romolo Monti, Tullio Moscardi, Antonio Novo,Licinio Oddicini, Orlando Orlandi, Silvio Pavia, Nilo Pes, FrancoCampari, Giacomo Tarabbia, Giovanni Battista Pellegrini

4° plotone10a squadra: Giorgio Benni, Nazario Boniccioli, Nelson Cenci,Giuseppe De Vecchi, Sergio Pavese, Miro Pianca, Giuseppe Piano,Giovanni Pini, Amabile Pizzigalli, Lorenzo Pieri, Emilio Pietragrua,Gianfranco Piazzotta, Roberto Porzio, Giuseppe Prisco, FerruccioZucca, Luigi Portinari

11a squadra: Andrea Bernardelli, Vittorio Boccazzi, BrunoCammello, Salvatore Fortunato, Umberto Mimiola, Mario Raimondi,Francesco Redoano, Mario Roncador, Mariano Rossi, Trento Salvi,Alberto Roselli, Elfino Sabatini, Ferdinando Scotti, Leopoldo Santi,Antonio Pizzi, Carlo Re, Luigi Salvagno

12a squadra: Benedetto Bartucci, Decio Camera, Gastone Daré,Renato Cella, Antonio Ferri, Giuseppe Menardi, Ubaldo Morgia,Alberto Pastorelli, Cesare Squadrelli, Giorgio Sternini, Danilo Tozzi,Euro Ursotti, Massimo Valenti, Agostino Vanzo, Piero Vecchi, LuigiVenier, Ezio Zannini

A quel tempo risulto residente in via Arnaldo Mussolini.

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9 maggio. Compio vent’anni. E adesso? Mi guardo intorno e non trovoparticolari motivi d'esultanza. Eppure oggi non solo è il giorno delmio compleanno, ma anche la festa dell'Impero, ora fatta diventareGiornata del Soldato.

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22 maggio – È rientrato dall’Albania il Btg Monte Cervino, partitoquando noi si arrivava. Sono tornati in pochi.

27 maggio – Partenza per il campo e arrivo a La Thuile.

Così ci vide Pino Braglia

La Thuile. Il cap. Rasero e la sua 1a compagnia. Foto Ezio Martin

Ci sistemano in una caserma-malga e mi trovo carico di pidocchi,ma così carico che durante il rancio, consumato in cortile, mi devoalzare in piedi e sfregare la schiena contro qualche spigolo. Sempregavetta in mano e cucchiaio in azione, naturalmente: interrompere ilmangiare è poco igienico.

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Raggiungiamo il ghiacciaio del Ruitor, 3.400 metri, uno dei piùgrandi d’Europa.

Qui non mi stupiscono i crepacci blu e profondissimi, nél’immensità del ghiacciaio, ma il fatto che ad un certo punto cominciaa nevicare. In maggio! Per me, uomo di pianura, è semplicementesbalorditivo.

30 maggio – Durante una marcia, ci fermiamo all’Ospizio del PiccoloSan Bernardo e qui dobbiamo prepararci il rancio: addestramentomilitare anche questo, ci avevano detto.

Indifferenti alla storia che riempie gli edifici ed ai cani maestosi che cigirano intorno, diamo inizio all'operazione.

Ci mettiamo a gruppi di tre, tiriamo fuori la legna che avevamoportato nello zaino e, bene applicando gli insegnamenti che pignolis-simi istruttori ci avevano a suo tempo propinato, riusciamo adaccendere il fuoco sotto la gavetta appesa ai nostri bastoni damontagna incrociati in alto a piramide.

Sappiamo benissimo che quassù l'acqua bolle sotto i cento gradi(anche questo ci avevano detto i sergenti istruttori), quindi sappiamoche la cottura andrà per le lunghe. Le cose basta saperle e tuttofunziona. Ai primi bollori versiamo il riso e, consci che una leggefisica sta lavorando per noi, ci mettiamo ad aspettare con ariad'importanza. D'improvviso si leva un ventaccio che fa ondeggiare lagavetta e sparpaglia tizzoni e braci; questo nessuno l'aveva detto: chefare? Riso molto al dente. Esperienza anche questa.

Continuiamo la marcia. La neve è altissima, i pali della correnteelettrica che seguono i tornanti della strada sporgono di punta, i filitra un palo e l’altro sono sepolti e neanche ci accorgiamo di loroquando li superiamo con gli sci.

Il sole è accecante, il riverbero è micidiale e ci dicono di metteregli occhiali da neve.

Sono dischi di legno uniti fra loro da una pezzuola di cuoio etenuti a posto da una cinghietta regolabile che gira intorno alla testa.Sono spessi quasi un centimetro, hanno lunghe fessure orizzontali chepermettono una sorprendente ampiezza di campo visivo e non fannopassare la luce diretta. La naia ha i suoi piccoli miracoli e tuttisalviamo gli occhi dall’abbacinamento e il naso da ustioni perché lapezzuola lo copre tutto; solo qualcuno, di pelle delicatina, rimanearrossato al viso.

Ci alloggiano in una caserma della Guardia alla Frontiera, a 13chilometri dal confine. Che freddo! Un cartello dice che siamo a 1.440metri sul livello del mare e bisogna credergli.

Fatiche, freddo, disagi, arrabbiature, imprecazioni, riso crudo eocchiali di legno: sì, essere alpini è la cosa più bella del mondo.

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Al ritorno dal campo affrontiamo un duro esame con tanto dicommissione fornita di palline bianche e nere: i promossi diventanosergenti e sono avviati a farsi le ossa ai reparti; io al battaglione BorgoSan Dalmazzo, a Cuneo.

Sulla via del Piccolo San Bernardo; sullo sfondo, tratteggiato,il Gran Combin in territorio svizzero,4200 m