Per le vittime civili della guerra - EMERGENCY n°1, febbraio 1995

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QUESTI FOGLI nascono anzitutto da un obbligo verso i molti che in forme diverse si sono sentiti coinvolti dalle iniziative di EMERGENCY. Oltre a informare e dar conto, si vor- rebbe anche riflettere: mettere in lu- ce e in discussione il senso, gli scopi, i modi di un’iniziativa di pace e uma- nitaria. Perciò questi fogli voglion essere uno spazio aperto a chiunque intenda fornire un proprio apporto. K  ABUL , A FGANISTAN: ogni mese diecimila civili sono feriti in una delle tante guerre di- menticate. Ogni anno, milioni di innocenti soffrono le conseguenze di guerre di cui ignorano le ragioni, a volte l’esistenza. Non hanno voce né diritti, volti anonimi di donne e bambini la cui vita viene segnata per sempre dalla follia dei si- gnori della guerra, alle soglie del Duemila. Emergency nasce per occuparsi di loro, le vitti- me, anzi le vittime civili dei conflitti, perché credia- mo che chi fa le guerre abbia, in ogni caso, pesanti responsabilità. Come si spiegherebbe altrimenti che i civili inermi rappresentino oggi più del novanta per cento delle vittime di ogni conflitto? Emergency non si occupa di «cooperazione» né di «aiuto allo sviluppo», ma di stabilire interventi di emergenza, di supporto alla vita, in favore dei civili vittime della guerra. Emergency è una organizzazione laica, privata e politicamente indipenden te. Abbiamo visto più volte i danni derivanti dalla commistione tra politica e aiu- ti, tra aiuti e affari. In Italia, la Cooperazione gestita dal Ministero degli Esteri è l’esempio più macroscopi- co di questo modo politico di intendere gli aiuti. Si apre così la strada al clientelismo e alla corruzione. Emergency ritiene che i progetti di intervento debbano essere decisi esclusivamente in base a considerazioni di tipo tecnico e umanitario, perciò rifiuta finanziamenti governativi. I nostri fondi ven- gono direttamente dalla solidarietà della gente, cui rendiamo conto, anche attraverso questo giornale. Gli interventi umanitari debbono essere gestiti da professionisti. Non è solo questione di evitare i co- siddetti viaggi-spettacolo, quelli che di volta in volta regalano barre di cioccolato a bambini malnutriti, o si concludono con lo sbarco di qualche politico all’aeroporto di Fiumicino, con due «negretti» in braccio per la gioia dei fotografi. C’è bisogno urgente di intervenire, da esperti, in modo efficace, con metodi di lavoro e tecnologie appropriate. C’è bisogno, in altre parole, di andare al di là del «voler rendersi utili» per essere utili dav- vero. Le pillole anoressizzanti (quelle che tolgono l’appetito!) distribuite agli affamati del Corno d’Afri- ca per «alleviarne le sofferenze», o i sofisticati moni- tors regalati a ospedali africani dove manca l’elettricità, son lì a testimoniarlo. Portare aiuto a chi soffre le conseguenze dei con- flitti. Senza dimenticare, però, che dietro i razzi, le bombe e i mitra c’è chi tira il grilletto, chi le armi le ha prodotte o vendute, e c’è infine chi alimenta la logica dell’odio e delle guerre. Promuovere una cultura di pace e di solidarietà è allora un altro modo concreto di aiutare le vittime delle guerre. E’ quel che possiamo, anzi dobbiamo fare nei cosiddetti Paesi sviluppati. 1 FEBBRAIO MARZO 1995 • SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE 50% MI Nell’attesa, questo primo numero risulta di necessità espressione di chi in qualche modo è “addentro” l’attività. Le poche persone che se fossero prive d’ironia si definirebbero «redazione» han notato che chiunque di loro scrivesse manifestava opinioni già maturate come comuni. Una ragione questa per sollecitare contributi diversi; ma, insieme, una gradevole constatazione: tra assilli finanziari e urgenze organizzative s’è vissuta anche un’esperienza di cultura. Per questo gli articoli prodotti dalla “redazione” non sono firmati: che dei pensieri, financo delle parole, non si riesca tra noi a stabilire quali siano di chi, ci par bello, soprattutto perchè è vero. P e r l e v i t t i me  civili  della guerra  Nella foto una famiglia Cecena in fuga verso Gudermes, a sud di Grozny 

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7/31/2019 Per le vittime civili della guerra - EMERGENCY n°1, febbraio 1995

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QUESTI FOGLI nascono anzitutto da

un obbligo verso i molti che in forme

diverse si sono sentiti coinvolti dalle

iniziative di EMERGENCY.

Oltre a informare e dar conto, si vor- 

rebbe anche riflettere: mettere in lu- 

ce e in discussione il senso, gli scopi,

i modi di un’iniziativa di pace e uma- 

nitaria. Perciò questi fogli voglion

essere uno spazio aperto a chiunque

intenda fornire un proprio apporto.

K ABUL , A FGANISTAN: ogni mese diecimila

civili sono feriti in una delle tante guerre di- 

menticate. Ogni anno, milioni di innocenti

soffrono le conseguenze di guerre di cui

ignorano le ragioni, a volte l’esistenza. Non hanno

voce né diritti, volti anonimi di donne e bambini la

cui vita viene segnata per sempre dalla follia dei si- 

gnori della guerra, alle soglie del Duemila.

Emergency nasce per occuparsi di loro, le vitti- 

me, anzi le vittime civili dei conflitti, perché credia- 

mo che chi fa le guerre abbia, in ogni caso, pesantiresponsabilità. Come si spiegherebbe altrimenti che

i civili inermi rappresentino oggi più del novanta

per cento delle vittime di ogni conflitto?

Emergency non si occupa di «cooperazione» né

di «aiuto allo sviluppo», ma di stabilire interventi di

emergenza, di supporto alla vita, in favore dei civili

vittime della guerra.

Emergency è una organizzazione laica, privata e

politicamente indipendente. Abbiamo visto più volte

i danni derivanti dalla commistione tra politica e aiu- 

ti, tra aiuti e affari. In Italia, la Cooperazione gestita

dal Ministero degli Esteri è l’esempio più macroscopi- 

co di questo modo politico di intendere gli aiuti. Si

apre così la strada al clientelismo e alla corruzione.

Emergency ritiene che i progetti di intervento

debbano essere decisi esclusivamente in base a

considerazioni di tipo tecnico e umanitario, perciò

rifiuta finanziamenti governativi. I nostri fondi ven- 

gono direttamente dalla solidarietà della gente, cui

rendiamo conto, anche attraverso questo giornale.

Gli interventi umanitari debbono essere gestiti da

professionisti. Non è solo questione di evitare i co- 

siddetti viaggi-spettacolo, quelli che di volta in volta

regalano barre di cioccolato a bambini malnutriti,

o si concludono con lo sbarco di qualche politico

all’aeroporto di Fiumicino, con due «negretti»

in braccio per la gioia dei fotografi.

C’è bisogno urgente di intervenire, da esperti, inmodo efficace, con metodi di lavoro e tecnologie

appropriate. C’è bisogno, in altre parole, di andare

al di là del «voler rendersi utili» per essere utili dav- 

vero. Le pillole anoressizzanti (quelle che tolgono

l’appetito!) distribuite agli affamati del Corno d’Afri- 

ca per «alleviarne le sofferenze», o i sofisticati moni- 

tors regalati a ospedali africani dove manca

l’elettricità, son lì a testimoniarlo.

Portare aiuto a chi soffre le conseguenze dei con- 

flitti. Senza dimenticare, però, che dietro i razzi, le

bombe e i mitra c’è chi tira il grilletto, chi le armi le

ha prodotte o vendute, e c’è infine chi alimenta la

logica dell’odio e delle guerre.

Promuovere una cultura di pace e di solidarietà è

allora un altro modo concreto di aiutare le vittime

delle guerre. E’ quel che possiamo, anzi dobbiamo

fare nei cosiddetti Paesi sviluppati.

N ° 1 F E B B R A I O M A R Z O 1 9 9 5 • S P E D I Z I O N E I N A B B O N A M E N T O P O S T A L E 5 0 % M I

Nell’attesa, questo primo numero risulta di necessità espressione di chi in qualche modo è “addentro” l’attività.

Le poche persone che se fossero prive d’ironia si definirebbero «redazione» han notato che chiunque di loro scrivesse

manifestava opinioni già maturate come comuni. Una ragione questa per sollecitare contributi diversi; ma, insieme, una

gradevole constatazione: tra assilli finanziari e urgenze organizzative s’è vissuta anche un’esperienza di cultura.

Per questo gli articoli prodotti dalla “redazione” non sono firmati: che dei pensieri, financo delle parole, non si riesca

tra noi a stabilire quali siano di chi, ci par bello, soprattutto perchè è vero.

Per le vittime 

civili della guerra 

• Nella foto

una famiglia

Cecena in fuga

verso Gudermes,

a sud di Grozny 

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La finedopoguerra

La guerra moderna è facile da pubbli-cizzare: combatti per un anno in un pae-se e ne rovini due per un secolo.

Non è secondaria, tra le «virtù» dellaguerra moderna, questa sua vita «ultra-terrena», al di là cioè degli scontri sul ter-reno: un «durare eterno» oltre sé stessa.

DOPOGUERRA ABOLITO

«Dopoguerra» è parola da conversazio-ni al circolo ufficiali: i militari che «fan-no», «conducono» la guerra possono an-che tra loro raccontarsi che un certo gior-no è finita.

Per chi deve invece limitarsi a subirla,

la guerra continua a tempo indetermina-to: nell’aver perso tutto, nel trovarsi esuli,

scomparse o in estinzione. Il militareodierno tende a somigliare sempre di piùa un ingegnere elettronico che aicontadini strappati ai campi e alle stalleper morire intorno al Piave o nella ritiratadi Russia.

Il nuovo soldato non è più la «carne damacello» che si diceva: è un bene da con-siderare prezioso per quanto costa adde-strarlo, specializzarlo, aggiornarlo. Il nuo-vo soldato è un notevole investimento: èquesto il suo valore, di qui la necessità difarlo rendere, non sprecarlo, conservarlo.

SOFISTICATI E BRUTALI

La guerra «tecnologicamente avanza-ta», del resto, sempre meno richiedemasse sterminate di fanti. Molte armi,spesso le più efficaci e terribili, agisconoda sé o comandate a distanza.

Per «soldato moderno» si pensa, ovvia-mente, al professionista del «primo mon-do». Altra cosa sono i combattenti localidel mondo che chiamiamo «terzo».

Quando alle armi moderne, resedisponibilissime da interessi commercia-li, vengono applicate le tradizioni dell’ar-co o del machete, ne derivano unaviolenza inspiegabile e un’incredibilebrutalità.

Chi davvero vinca una guerra o chi la

perda non risulta da qualche documentointernazionale; la sconfitta sta nelle im-possibili condizioni di vita cui una delleparti o molto spesso entrambe le partisono condannate per dieci, cinquanta,cent’anni.

EMIGRANTI E RIFUGIATI

 A seguito delle guerre, in zone del terzo(o quarto) mondo, popolazioni interespinte dal terrore e dalla disperazionecompiono spostamenti di centinaia dichilometri. Queste migrazioni non posso-no avere il carattere di veloce «andata eritorno». Il fenomeno dei rifugiati, per sua

FRA LE VITTIME DELLA GUERRA MODERNA IL 90% NON SONO COMBATTENTI. QUESTE VITTI-

ME CIVILI NON SONO COLPITE PER «TRAGICI ERRORI» O «FATALITA’». I NON COMBATTENTI E

LE STRUTTURE DELLA VITA CIVILE SONO I VERI OBIETTIVI E I DESTINATARI DELLE DISTRU-

ZIONI COMPIUTE DALLA GUERRA MODERNA. IL «SOLDATINO», IL «FANTACCINO» SON FIGURE

2

UN’ARMA CHE COLPISCE 

ININTERROTTAMENTE 

ANCHE SENZA ESPLODERE 

M I N E

profughi, rifugiati, mutilati, nella neces-sità di rispondere anche ai bisogni deimolti che la guerra ha reso incapaci diesistenza autonoma. Per le popolazionicivili il «dopoguerra» è stato abolito.

Un decisivo «alimento per la vita eter-na» della guerra sono le mine antiuomo.Queste armi non soltanto uccidono omutilano 15.000 persone l’anno. Tanto illoro brillare quanto il loro semplice resta-re sul terreno rendono la guerra indefini-tamente presente: non nel ricordo o insimbolo, ma nella realtà, imprimendo se-

gni definitivi e indelebili.

DURATA DELLA GUERRA 

E TEMPO DEGLI AFFARI

Quando cinque, dieci, vent’anni dopola cessazione ufficiale delle ostilità restauccisa una donna mentre raccoglie legna,un bambino viene mutilato mentre gioca,o un contadino si ritrova improvvisamen-te cieco, non è successa una disgrazia; s’ècompiuto un processo in corso ed è giun-to ad attuazione un piano.

E in verità è arrivato a conclusioneanche un ottimo affare: il costo di unamina antiuomo è risibile a fronte del dan-no che ne deriva al «nemico» (15.000 lirecirca, di fronte a una spesa media di1.000.000 per disinnescarla).

Quest’arma mantiene la sua funziona-lità per parecchi anni e nell’essere collo-cata sul terreno ha già raggiunto il suoscopo, garantito il suo rendimento.

Quando esplode, se non uccide produ-ce un invalido, creando così un handicapanche per la società che dovrà accollarse-ne le difficoltà, l’«improduttività».

Ma le mine antiuomo inesplose agisco-no a loro volta, e agiscono ininterrotta-mente: sono una costante minaccia ter-roristica, rendono i campi non coltivabili,impraticabili i sentieri, inutilizzabili interiterritori.

Le mine antiuomo non soltanto hannonatura, dura fin che durano le ostilità e i motivi delle ostilità.Spesso però chi ha compiuto quel cammino una volta non è ingrado di ripercorrerlo. La permanenza «provvisoria» del rifugia-to si protrae e si converte in una situazione di fatto definitiva.

Un territorio viene abbandonato mentre un altro si ritrovasovraffollato: con danno di entrambi; con la possibilità chela nuova situazione sia fonte di nuovi attriti o scontri; con lacertezza di un presente e un futuro comunque più difficili edisagiati del passato.

la possibilità di colpire; colpiscono già, e continuativamente,per il fatto di essere una possibilità.

Della guerra moderna si può decidere l’inizio; ma per come ècombattuta continua a tempo indeterminato, sottraendo que-sto suo durare a qualsiasi volontà o decisione.

L’aspirazione illuministica alla pace perpetua non è statasolamente trascurata o disprezzata. L’irrisione di quel sogno haprodotto il suo simmetrico contrario: l’utopia negativa dellaguerra senza fine.

La nuova strategia militare offre un mondo deserto inabitabile anche per i sopravvissuti 

del

E M E R G E N C Y

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numero impressionante di mutilati e diinvalidi.

NEGLI ALTRI PAESI

La Convenzione delle Nazioni Unitesulle «armi indiscriminate» è stata ratifi-cata da 46 Paesi.

Sono 19 i Paesi che hanno adottato unamoratoria sulla esportazione delle mineantiuomo: Argentina, Belgio, Canada,Francia, Germania, Gran Bretagna,Grecia, Israele, Italia, Olanda, Polonia,Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca,Russia, Spagna, Stati Uniti, Sudafrica,Svezia, Svizzera.

I diversi Paesi hanno adottato iniziativetra loro diverse: la Svizzera, ad esempio,ha bloccato le esportazioni limitatamenteagli Stati che non hanno ratificato la Con-venzione ONU.

1995: REVISIONE DEL PROTOCOLLO

Dal 23 settembre al 15 ottobre 1995 sisvolgerà una conferenza di revisione dellaconvenzione del 1980. L’Italia vi parteci-perà a pieno titolo, non da sempliceosservatore come sarebbe accaduto inassenza di ratifica.

Lavori preparatori sono già in corso.Le organizzazioni umanitarie interna-

zionali che sul problema delle mine com-piono interventi e dispongono di unanotevole esperienza chiedono di poterepartecipare in forme attive a questi lavori.

Su questa scadenza occorre mantenereviva l’attenzione dell’opinionepubblica, con una campagnad’informazione e sensibilizza-

zione simile a quella che nelcorso del ’94 ha indotto il parla-

mento e il governo ad assumereiniziative e decisioni

rinviate ed eluseper oltre un de-cennio.

Si sono invece svolte considerazioniall’apparenza “realistiche”, ipotizzandoche il tutto si riducesse alla cessione di«quote di mercato».

LA CONVENZIONE ONU

Il Senato (27 settembre 1994) e la Ca-mera (6 dicembre 1994) hanno votato undisegno di legge di ratifica della Conven-zione ONU del 10 ottobre 1980 sulle«armi ad effetti indiscriminati», che com-

prende il protocollo sulle mine. L’appro-vazione è avvenuta quasi all’unanimità.Nella discussione si sono sottolineate lenecessità di interventi di sminamento edi riconversione produttiva e di controllisul rispetto delle decisioni politiche daparte delle industrie, sia per la produzio-ne, sia per la commercializzazione.

Non ha invece trovato spazio il tema,proprio e specifico di EMERGENCY,dell’aiuto sanitario alle numerosissimevittime delle mine antiuomo. Vi ha sol-tanto fatto cenno un deputato che recen-temente ha visitato il Mozambico, rife-rendo di una constatazione diretta di un

Dopo la «campagna» in Italia, appuntamento a Ginevra in autunno 

LE MINE

DEL FUTURO:

«INTELLIGENTI»

Imilitari fanno il loro

mestiere, i fabbrican- 

ti di armi sono

imprenditori, e chi le

vende semplice mer- 

cante. Tutti insieme,

con l’eventuale

aggiunta di qualche

politico a far da porta- 

voce, sono però capa- 

ci di infamie straordi- 

narie. Tutti insieme

sono capaci di escogi- 

tazioni incredibili

per la conservazione

e l’evoluzione della

loro specie. Così nasce

l’idea delle «mine intel- 

ligenti», armi “dolci”,

umane, che si autodi- 

struggono o che

diventano inoffensive

dopo un certo tempo.

Così potranno vendere

«prodotti» più sofisticati

e quindi più costosi; ne

venderanno anche di

più, visto che le mine

intelligenti bisognerà

pur rimpiazzarle, una

volta fuori uso.

L’idea è geniale.

Perché funzioni e

consegua i suoi scopi

“filantropici” basterà

impartire istruzioni alle

nuove mine ad autodi- 

struzione, che del re- 

sto sono «intelligenti»

e impareranno presto.

Dovranno accertarsi,

prima di esplodere,

che intorno non ci sia

nessuno.

Le mine a inattivazio- 

ne, invece, che nonesplodono da sole, se

ne stanno lì, inerti pez- 

zi di plastica, a far da

natura morta. I bambi- 

ni potranno giocare

tranquilli. Certo, per 

maggior sicurezza,

dovranno prima con- 

trollare che le mine

siano ormai innocue,

come si fa con la data

di scadenza del latte

fresco. Se poi, calpe- 

standone una, qualcu- 

no di loro verrà fatto a

pezzi, si sarà comunque

ottenuto qualcosa di

utile: l’informazioneche il luogo non era

ancora adatto a diven- 

tare un campo di cal- 

cio. Sarebbe bastato

rinviare la partita...

Come si vede, l’idea,

potrebbe funzionare:

resta solo da risolvere

qualche problema.

Tutti insieme, i promo- 

tori delle mine intelli- 

genti potrebbero

compiere un primo

passo, per garantire

«la qualità del prodotto»

che vogliono commer- 

cializzare: svolgere

una rigorosa speri- 

mentazione nei campi

da golf o nei parchi

delle loro ville, al ripa- 

ro dagli occhi indiscre- 

ti della concorrenza.

LAVORO

 ANCHE

SENZA MINE

Il Consiglio di fabbrica

della Valsella e il

sindacato bresciano

denunciano che nes- 

sun disegno di legge è

stato approntato per 

dare seguito alle indi- 

cazioni parlamentari.

Le “inerzie attendiste”

della Valsella e del

governo alimentano

la preoccupazione

che si miri soltanto a

lasciar trascorrere del

tempo per tornare poi

a una produzione

bellica: eventualmente

di mine «della terza ge- 

nerazione», dotate

d’un dispositivo di

autodistruzione.

Denunciando i rifiuti

della Valsella a iniziati- 

ve congiunte di studio

e progettazione

per la produzione

alternativa, il sindacato

annuncia che intende

comunque elaborare

al riguardo un’autono- 

ma proposta.

3

• La Valmara 69,

modello “di punta”

della Valsella,

una delle più micidiali

mine antiuomo.

Ferisce e mutila

anche a 300 metri.

Nella pagina

a fianco:

la PFM-1

di produzione

sovietica,

detta anche

«mina farfalla».

Decine di migliaia

di bambini afgani

hanno perso le mani

o la vista per aver gio- 

cato con questo oggetto.

L’ItaliadelboomUN’AZIONE UMANITARIA

DISINNESCARE 

TRAFFICANTI E GENERALI 

I

N EVIDENTE CONNESSIONE CON LA SUA SPECIFICA AZIONE UMANITARIA PROPRIAMENTE MEDICO-sanitaria, EMERGENCY si è impegnata per la messa al bando delle mine antiuomo.La «campagna» con quest’obiettivo è stata promossa e condotta da organizzazioni

umanitarie e pacifiste, laiche e cattoliche, in diverse forme.Così la produzione e la diffusione d’idee come anche la promozione di iniziative al

riguardo avevano il problema di raggiungere il cosiddetto «grande pubblico».EMERGENCY ha costituito l’occasione per avere questo contatto. Un chirurgo che daanni interviene in contesti di guerra può narrare mille episodi: non peraltro come sol-tanto «conosciuti» ma come «vissuti».Son casi che riguardano vecchi, bambini,militari, donne, guerriglieri... E tutti i tipidi ferite, di mutilazioni, di sofferenze,venuti fisicamente a contatto con lapersona fisica che ne sta parlando e chete li fa, così, quasi «toccare con mano».Questa situazione comunicativa hafornito a EMERGENCY l’occasione dicontribuire in modo decisivo alla campa-gna sulle mine antiuomo.

L’OPINIONE PUBBLICA 

Il contatto con il grande pubblico èavvenuto attraverso il programma«Maurizio Costanzo Show». Che questocontatto abbia poi conseguito una note-vole continuità, si deve indubbiamenteanche al coinvolgimento personale e allasensibilità di Maurizio Costanzo e deisuoi collaboratori.

Grazie all’attivarsi di una catena d’ini-ziative che ha coinvolto diverse migliaiadi persone, si sono ottenuti l’attenzionedella stampa nonché l’ascolto del parla-mento e del governo.

Ospite di Maurizio Costanzo nel conte-sto di questa campagna, il ministro delladifesa ha anticipato che il governo italia-no avrebbe sollevato l’argomento

nell’incontro del «G-7» a Napoli, nel lu-glio 1994. Ciò che in effetti è avvenuto.

PARLAMENTO E GOVERNO

Il senatore Edo Ronchi, che fin dall’ini-zio ha condiviso e appoggiato questa ini-ziativa, si è assunto l’impegno di pro-muovere iniziative parlamentari al ri-guardo. Ed è Ronchi il primo dei 166 se-natori, appartenenti a tutti i gruppi politi-ci, firmatari e presentatori di una mozio-ne sull’argomento.

Questo documento sottolinea in primoluogo la necessità che l’Italia ratifichi laconvenzione ONU del 1980 che imponelimitazioni in tema di mine.

Il 2 agosto 1994 questa mozione è statavotata ed approvata quasi all’unanimità

dal senato.Pochissimi i voti non favorevoli, nonmotivati peraltro da una diversa valuta-zione sulla natura delle mine antiuomo.

M I N E

E M E R G E N C Y

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rie, lenzuola insanguinate, tutto il pensabile e altro ancora (ab-biamo trovato anche ossa umane). Abbiamo ingaggiato alcuni

locali, le prime persone incontrate (qualcuno di questi inprecedenza aveva lavorato all’ospedale), offrendo in cambio ci-bo e qualche soldo: in pochi giorni eravamo una trentina. E’ du-rata una settimana, questa prima ripulitura: molto approssima-tiva, in assenza d’acqua corrente e di elettricità, nell’impossibi-lità di lavorare oltre le 17.30 per mancanza di luce.

Malati ci saranno stati anche mentre voi provvedevate alle pu- 

lizie...

Già dai primi giorni, appena s’è visto qualche movimento at-torno all’ospedale, la voce della riapertura è corsa e abbiamo ri-

cevuto richieste alle quali decisamenteancora non potevamo rispondere. Dirot-tavamo le persone ferite alla Croce Rossa. Addirittura un gruppo di ragazzini (ra-gazzini soldati) ci ha portato un vecchioferito direttamente in casa.

Perché nel frattempo avevate trovato

casa: un problema che a Kigali si risol- 

ve più in fretta che a Milano o a Roma,

pare.

In questo momento sì. Ti ho detto chela città è semideserta. Moltissimi sonofuggiti. Le stragi hanno spesso distruttointere famiglie, gruppi parentali al com-

non mi consentiva certo di avere idee chiare.Qualche giorno prima di partire, avevo incontrato a Bruxelles

esponenti del FPR, rappresentanti del governo in carica. In cari-ca, s’intende, nel solo senso possibile in quelle condizioni: unapura e semplice situazione di fatto, diciamo pure di forza.

Non è che con questi rappresentanti in Europa del FPR si siaconcluso granché. Qualche chiarimento su Emergency, sul suoscopo di aiuto alle vittime civili. Domandano come ci saremmocomportati di fronte a militari feriti e rispondo che li

avremmo evidentemente curati, con totale, dichiarato disinte-resse per la loro appartenenza all’una o all’altra delle parti inconflitto. Tutto qui.

Il risultato sostanziale di quell’incontro è stato comunque un

consenso del FPR allo svolgimento della missione in Ruanda.

E con il governo, all’arrivo, abbiamo preso contatto. I ministridella sanità e dell’integrazione sociale ci hanno chiesto diriaprire la chirurgia del Centre Hospitalier.

Una soluzione ai problemi logistici, in

qualche modo.

Potevamo pensarlo prima di vederel’ospedale. Era completamente abbando-nato e in condizioni, se possibile, anchepeggiori del resto della città. All’internos’erano svolti massacri. Era servito da ri-fugio per una delle parti in conflitto - lamilizia hutu, probabilmente - e per que-sto era stato luogo di combattimenti, col-

pito da obici e mortai. Non un vetro allefinestre, danni alle pareti, sfondata buo-na parte del tetto. Anche di lì, natural-mente, erano passati professionisti e di-lettanti del saccheggio.

Stai dicendo che il saccheggio è una

pratica diffusa, quasi ufficializzata.

Chi manca dalla capitale potrebbe nonessere più in nessun luogo frequentato dai vivi; chi l’ha abban-donata e sta da qualche parte potrebbe anche non tornare perusare quello che ha lasciato. Chi è rimasto, spesso, non ha nulla:avesse disposto di mezzi, avrebbe provveduto a mettersi al sicu-ro con la fuga.

Se parlare di saccheggio ti pare eccessivo, diciamo che siassiste a un proficuo incontro tra beni senza consumatori econsumatori senza beni.

 Attorno a questi “beni prelevati” s’è anche sviluppato uncommercio fiorente e in varie forme vivace. Così, potrestiaffittare un’automobile e poi incontrare per strada un signoreun po’ perplesso che con molta cortesia ti domanda che ci faicon la sua macchina.

Saccheggiato o «prelevato», vi si chiedeva di riattivare un o- 

spedale da ogni punto di vista malridotto.

Si trattava, per cominciare, di far le pulizie, rimuovere mace-

AFRICA

Ruandadopo il macheteK

IGALI CI È APPARSA, COME SI DICE, UNA CITTÀ FANTASMA, STRADE QUASI

DESERTE, CASE VUOTE. PARTENDO, IL 18 LUGLIO, SAPEVAMO SOLTANTO CHE

 AVREMMO TROVATO MALATI DA CURARE. SUL RESTO AVEVAMO UN’OPINIONE

 VAGA DALLA STAMPA, DALLE TELEVISIONI. LA RAPIDA INCURSIONE DI GIUGNO

4

igali è una capitale. E- ra fornita un po’ ditutto, quando sonocominciati gli «eventi»

(«les événements»: sul posto si dice così; si prefe- risce non parlare di guerra o di massacri). Sequalcuno cerca qualcosa, basta che lo faccia sa- pere, lasciando che “si sparga la voce”. Qualcu- no intenzionato a venderla si farà sicuramente

vivo. I “magazzini” si alimentano con quel che èstato abbandonato dalla gente che, volonta- riamente o no, è sparita. La moneta è il francoruandese: quattrocento per un dollaro a metàluglio. Poi, al progressivo ricomparire degli stra- nieri, il cambio è salito fino a raddoppiare: due- cento franchi per un dollaro a novembre.

I giorni, i problemi, i risultati dell’intervento a Kigali,conversazione con Gino Strada 

Anche ossa umane tra i rifiuti 

K MERCI

EUFEMISMI

MONETA 

•Nella pagina a lato,

il reparto maternità

dell’ospedale di

Kigali, riaperto dal

team di EMERGENCY.

IMBOSCATI

CHI,

QUANTI, DOVE

Gli imboscati sonopopolazioni. Primadei massacri, gliabitanti del Ruanda

erano circa 7 milioni e

mezzo. Circa 1 milionesono i morti. I rifugiati,soprattutto in Zaire,Tanzania e Burundi,sono stimati in oltre2 milioni. Dei restanti4 milioni circa, almeno1 milione (c’è chi dice1 e mezzo) se ne stan- no nascosti nel territo- rio che era statooccupato dai francesi,ripartiti il 21 agosto: lacosiddetta area «tour- quoise». Dopo i fran- cesi il controllo è statoaffidato dall’ONU atruppe africane.

Scelta forse non moltoilluminata.È una zona vasta, co- perta da foreste, e tuttisi guardano benedall’approfondire checosa vi succeda.Questi imboscati sonoHutu, appartengonocioè alla parte maggiori- taria dei ruandesi, accu- sata anche dall’ONU di aver dato l’avvio ai massacridopo averli programmati. Questa è fino a oggi laparte sconfitta. Si ritiene che si stiano riorganizzan- do militarmente. La loro ricomparsa sulla scenapotrebbe determinare una ripresa degli «eventi».

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7/31/2019 Per le vittime civili della guerra - EMERGENCY n°1, febbraio 1995

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pleto. Di molte case, come in generale di molti beni, mai nessu-

no potrà più rivendicare la proprietà. Il governo stesso ci avevasuggerito di “guardarci intorno”: quando avessimo scelto unacasa vuota per abitarci, avrebbe ratificato la nostra situazione.

Nel corso di questa ricerca, per strada, mi son sentito chia-mare da un tale, con ogni evidenza un italiano, che mi avrebbepoi comunicato di chiamarsi Giancarlo Davite. Aveva in Ruandauna farmacia, e tornava per vedere che cosa ne fosse stato dopoessere fuggito all’inizio dei massacri. Mi riconosceva per avermivisto al Maurizio Costanzo Show e ci proponeva di essere ospitiin casa sua mentre cercavamo una soluzione più stabile.

Siamo suoi ospiti per qualche giorno, finché incontriamo unbelga, un avvocato, che aveva a sua volta lasciato Kigali quandosi sono profilati gli scontri e a sua volta tornava per rendersiconto della situazione. Non intendeva rimanere, però. Ci siamocosì accordati con lui, che ci ha affittato la sua casa e quella, lìaccanto, di suo fratello, a canoni di vera affezione. Sono a pochiminuti di macchina dall’ospedale (abbiamo affittato unaberlinetta e un pulmino, che poi hanno circolato con gli stemmidi Emergency).

Una curiosità che serve a capire l’ambiente. Nel giardino dicasa dell’avvocato belga, abbiamo individuato una bomba amano, che è poi stata asportata dai militari, e una mina antiuomo,rimasta dov’era, accuratamente isolata da una recinzione: farlabrillare creava molti inconvenienti; disinnescarla e rimuoverla

era troppo complesso e rischioso.

Questo insediamento, con stemmi, bandiere e tanto di monu- mento alla mina, vi avrà resi più visibili, quasi ufficializzati.

Le sollecitazioni e le richieste di intervento si sono fatte sem-pre più pressanti e ci hanno costretto a considerare chiusa lafase di pulizia e di preparazione prima del previsto. Anche pri-ma del ragionevole, devo dire. Un reparto di chirurgia si è trova-to di fatto aperto per la semplice ma decisiva ragione che non sipoteva farne a meno. Il numero e la condizione dei malati che civenivano portati non consentiva più di “dirottarli”, sia pur prov-visoriamente.

Il primo agosto, poi, l’ospedale della Croce Rossa ha deciso ditrasferire da noi i “suoi” feriti di guerra.

Se capisco le abitudini e i tabù dell’ambiente, in questo vostro

mondo un fatto del genere è del tutto inconsueto, forse uni- 

co. Quasi un riconoscimento internazionale. Questo compor- 

tamento della Croce Rossa si spiega anche con la conoscenza

personale?

Indubbiamente, ci si conosce da anni e si sono affrontate in-sieme situazioni veramente difficili. Ma quel che si fa non ha diprima intenzione un valore simbolico. Le decisioni nascono davalutazioni concrete, da uno stato di necessità. La Croce Rossaha trasferito da noi alcuni malati perché da noi appariva più ele-vata la probabilità di una cura adeguata.

l governo attuale si è in- 

sediato promettendo si- curezza ed escludendorese di conti e discrimi- 

nazioni tra etnie, cercando di avere al suo inter- no rappresentanti degli hutu. S’è impegnato a in- staurare tribunali per giudicare i fatti avvenuti e achiedere la presenza di osservatori internazionali.Ha moltiplicato gli appelli per il rientro dei ruan- desi rifugiati nei paesi vicini. L’ONU gli ha datomolto credito. Questi messaggi  non hanno rag- giunto i destinatari. Ci sono anche difficoltà ba- nali forse, ma determinanti. Al confine con lo Zai- re, ad esempio, non arriva la radio governativa equella che si può ascoltare diffonde notizie e invi- ti del tutto opposti, diffidenti verso il governo econtrari alla pacificazione.

I

LA PACE:

PROPOSITI

DIFFICOLTA’ 

CONTINUA NELLA PAGINA SEGUENTE

Un ospedale senz’acqua corrente 

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Sta di fatto che ci troviamo subito con una trentina di malati.Si cucina all’aperto con pentoloni sul fuoco a legna, e non è chesi possa andare troppo oltre il riso e i fagioli secchi bolliti.

 Abbiamo percorso le più svariate vie d’approvvigionamento,sia per i generi alimentari, sia per i mezzi necessari all’attivitàmedico-chirurgica. Qualcosa ovviamente avevamo con noi findall’inizio; qualcosa si è potuto acquistare. Qualcosa abbiamochiesto alla Croce Rossa e ad altre orga-nizzazioni umanitarie.

Dici «abbiamo chiesto» come se fosse

tutt’uno con l’ottenere.Dire che lì si sperimenta un mondo

ideale sarebbe un’idiozia senza pari, perla non banale circostanza che è il posto diuna guerra spaventosa. E’ vero però chesi è naturalmente impegnati a collabora-re, a capire e rispettare ognuno l’attivitàdegli altri in maniere assolutamente sco-nosciute alla vita «normale», accorta, cal-colatrice, conflittuale, spesso ordinaria-mente meschina di qui.

Torniamo all’ospedale, con i primi ma- 

lati.

I malati, sì, ma non quelli soltanto. Unmalato non è mai solo. Per un posto-lettooccupato, una famiglia - quella del mala-to - si piazza a vivere nei dintorni dell’o-spedale o negli ambienti tuttora inutiliz-

zati dell’edificio. Questa corte dei miraco-li è ovviamente a carico nostro per il cibo,che da un’altra parte non troverebbe.

 A questo punto l’attività medico-chirur- 

gica comincia ad assumere una certa

regolarità.

Bisognerebbe considerare regolare lamancanza d’acqua corrente, regolare chesi operi senza elettricità, senza poterecioè utilizzare la strumentazione che pu-re esiste; o senza poter determinare ilgruppo sanguigno del malato; senza san-gue per le trasfusioni, senza globuline an-titetaniche (due dei sette morti che ab-biamo avuto son morti di tetano; un altrodi shock emorragico). Questa situazione èdurata circa un mese, tutto agosto.

E’ difficile anche considerare normale

che malati «in trazione», che dunque nonsi possono troppo agevolmente spostare,se ne stiano nel letto con l’ombrello inmano quando piove, perché il tetto èsfondato.

In ogni caso, è vero che si comincia adare un qualche ordine all’attivitàdell’ospedale, alla nostra maniera di af-frontare i problemi.

 Abbiamo dei feriti «nuovi», colpiti daordigni ed esplosioni di varia natura e su-bito ricoverati. Elevato il numero di feritida mine antiuomo: mediamente più didue al giorno. E la città è semideserta:questa media è inferiore a quella ipotiz-zabile per il tempo di pace, con la città ri-popolata.

I feriti «vecchi», colpiti all’incirca dallestesse armi di quelli «nuovi», sono peròrimasti a lungo nascosti nella foresta o al-trove: per qualche motivo a loro notonon ritenevano opportuno di rendersitroppo presto reperibili. Alcuni di questimalati si sono trascinati per settimane

AFRICA

Anche i medici militari scoprono che le vittime di guerra sono le donne, i vecchi, i bambini 

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con fratture esposte senza essere medica-ti o curati. Puoi immaginare le infezioni.In questa categoria rientrano i casi di altridue morti: un anziano arrivato all’ospe-dale con una peritonite d’una decina digiorni e una donna paraplegica di guerrarimasta probabilmente molto a lungosenza aiuto, completamente stremataquando è arrivata da noi.

Il governo vi dice riapritemi il Centre

Hospitalier. E va bene. Ma per parte sua che cosa fa di concre- 

to?

Se sia concreto, e quanto, non saprei. Posso solo dire di quelche ho visto. Gli interventi mirano soprattutto a una riorganiz-zazione che, in mancanza di risorse, si limita a un incasella-mento burocratico di quel che succede per iniziativa d’altri,indipendentemente dal governo stesso. Sono stati tempestiva-mente nominati un direttore e un amministratore dell’ospeda-le. Da loro formalmente dipendeva quel centinaio di persone(servizi tecnici, cucina, lavanderia, personale del reparto chirur-gia e del blocco operatorio) che Emergency ha stipendiato pertutta la durata della missione. Tutto all’apparenza è chiaro: que-

ualcuno, a Kigali, sostie- ne che i pochi rientratinon sono rifugiati di que- st’ultimo anno, ma profu- 

ghi di dieci o quindici anni fa: non sconfitti di a- desso, ma antichi amici dei vincitori odierni. Didifficoltà nel rientro, addirittura di scontri o dinuovi massacri, parla sempre più spesso la stam- pa internazionale. A Kigali circolano voci pocorassicuranti. Ci sono notevoli perplessità anchetra i rappresentanti dell’ONU. Le istituzioni inter- nazionali hanno ridimensionato le loro aspettati- ve e la loro disponibilità verso il governo di Kigaliche ha accentuato il proprio isolamento. Verso leorganizzazioni umanitarie - verso tutte - l’at- teggiamento governativo è cambiato: a una so- stanziale apertura alla collaborazione, pare su- bentri una generalizzata diffidenza. L’estraneità

Q

DUBBI

E

DIFFIDENZE

• Distrribuzione

di cibo in un campo

di profughi ruandesi

a Goma, in Zaire.

ste persone hanno una connessione sostanziale operativa connoi e hanno una connessione formale e burocratica con diretto-re e amministratore dell’ospedale. Nei fatti - è intuibile - questa«situazione chiara» produce difficoltà e disfunzioni.

 Accade ad esempio che noi siamo obbligati per disposizioniministeriali ad assumere gli ex dipendenti dell’ospedale. Sequalcuno di questi non fa nulla, nemmeno atto di presenza,l’autorità esclusivamente burocratica non ha occasione di av-vertire la cosa come un inconveniente.

 Accade ad esempio che gli ex dipendenti dell’ospedale sianoconsiderati “per principio” personale specializzato: anche

chi - ti giuro che è capitato -, dovendo rilevare la temperatura auna malata, le ha piazzato sotto l’ascella una provetta per gli e-sami del sangue.

Queste "finezze" comunque sono successive. Stavamo ancora

varando un primo padiglione di chirurgia.

Nelle prime settimane l’attività medi-co-chirurgica s’è sovrapposta ai lavori dipulizia per aprire un secondo padiglione.I posti-letto disponibili sono così saliti a120. Abbiamo immediatamente avuto iltutto esaurito, con quel po’ di “indotto”che ti dicevo.

Nel frattempo c’è stato l’«arrivano i no- 

stri».

La parte dei «nostri» spetta al contin-gente medico-militare australiano, cheaveva il compito specifico di approntareun ospedale per le truppe ONU. Efficien-

tissimi e dotati di grandi mezzi, s’impos-sessano di una parte dell’ospedale nonutilizzata da noi e la rimettono rapida-mente in sesto.

Nel contesto di questi loro lavori, risol-vono anche nostri problemi vitali. Si ag-giusta il tetto, abbiamo finalmenteelettricità e acqua corrente. Si attiva la la-vanderia: una necessità assoluta, perché iteli monouso si esauriscono rapidamen-te. Cominciamo a funzionare davvero apieno regime, anche perché le due équi-pes chirurgiche australiane non hannogranché da fare e vengono spesso a lavo-rare con noi, che ne abbiamo bisogno.Oltretutto, chi non ha girato un po’ con laCroce Rossa tra i dannati della Terra nonha idee tanto chiare sulla «chirurgia di

guerra». Gli australiani vogliono fare e-sperienza, imparare; noi abbiamo biso-gno di aiuto. Ci intendiamo a meraviglia.Oltre al lavoro, ci offrono materiale sani-tario. Ci offrono anche rispetto e amici-zia. Adesso, questi medici parlano di fon-dare Emergency in Australia.

Gli australiani attorno all’ospedale non

sono soltanto militari-medici. Sono an- 

che militari-militari.

La parte non medica del contingenteaustraliano garantisce, come si dice, la

«sicurezza» intorno all’ospedale. Per come e quanto sono arma-ti questi “protettori”, l’ospedale è probabilmente inespugnabileper ciascuna delle parti in lotta; nessuna delle due lo sceglieràcome campo di battaglia o di provocazione.

Ho capito, comunque, a che cosa pensi quando parli di “mili-tari-militari”. Certo, un’organizzazione umanitaria che in qual-che modo si affida alla protezione delle armi è una stranezza,un’incongruenza. E’ facile intuire il nostro disagio. Ma non vo-glio mentire e posso dirti sinceramente, a nome di tutti quantieravamo là, che sarebbe stato molto più difficile e disagevole la-vorare senza questa “sicurezza” alle spalle.

In ogni caso, anche quest’ombrello contribuisce a fornire un

Malati a letto con l’ombrello sotto la pioggia 

e un tetto 

sfondato 

’attuale governo ha pro- clamato con insistenza econ grande enfasi l’impe- gno a svolgere i processi

per genocidio alla presenza di osservatoriinternazionali, eventualmente anche davanti atribunali internazionali. E’ tutt’altro l’atteggiamen- to per quel che concerne i crimini di guerra: si ri- fiuta decisamente che vengano giudicati da untribunale internazionale. Il governo intende cosìsottoporre a giudizio fatti che hanno avuto comeprotagonisti principali (si vorrebbe esclusivi) glisconfitti. Intende però sottrarre ad analogo giu- 

dizio il comportamento nella guerra civile di chia oggi risulta vincitore.Il governo è inoltre del tutto elusivo di fronte allarichiesta di fissare una data per elezioni da svol- gere con il controllo di organismi internazionali.Prendere e mantenere il potere sembra un obiet- tivo di valore superiore a quello di creare un si- stema di garanzie e condizioni di convivenza trale diverse etnie.In riferimento a quest’assenza di prospettiva, laBanca Mondiale rifiuta crediti e finanziamenti.

LGENOCIDIO

CRIMINI

DI GUERRA 

ELEZIONI

delle organizzazioni umanitarie alle vicende politiche interne del paese nelquale intervengono è assoluta: si tratta di un impegno sempre rispettato in

forma rigorosissima. La diffidenza verso le organizzazioni umanitarie prelu- de o si affianca non a qualche iniziativa «ufficiale» politica o militare, ma aqualche situazione discutibile proprio dal punto di vista dei diritti umani.Questo “rinchiudersi in sé” del governo non prepara certo la pacificazione.Denota piuttosto insofferenza verso possibili testimoni di ciò che si prepara.

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AFRICA

Venti neonati ogni giorno nel nuovo reparto maternità sono la sola traccia di futuro 

•Kigali, sulla strada

verso l’aeroporto.

 Anche in Ruanda

decine di migliaia

di mine antiuomo;

contesto stabilizzato dell’attività sanita- 

ria. Diciamo che si è ormai «a regime».

E così si continua sino a fine ottobre,

quando la missione si avvia a conclu- 

sione. Come e perché si stabilisce, un

giorno, che la missione è finita?

Non è che si concluda una missione oper scelta o per necessità: delle due l’una.Dopotutto questi interventi sono scelte inrisposta a necessità. Non ci sono ovvia-mente regole o paradigmi: ci si deve assumere la responsabilitàdi decidere nella situazione.

Nel caso concreto del Ruanda, avevamo pensato a tre mesi eci siamo rimasti qualcosa di più. Ci avevano chiesto di riattivarel’ospedale ed è stato fatto. La condizione di emergenza, imme-diatamente a ridosso degli «eventi», è superata (in ottobre i feritidi guerra sono progressivamente diminuiti).

Il guaio è che molti segni suggeriscono di aspettarsi una ri-presa dell’emergenza. Uno di questi segni, indubbiamente, è ladiminuita “ospitalità” per gli stranieri in genere (dunque ancheper le organizzazioni umanitarie).

I corrispondenti di giornali e televisioni quest’estate poteva-

no muoversi liberamente, addirittura vi-sitare carceri e intrattenersi con i prigio-nieri. Oggi un giornalista deve otteneresempre più complicati permessi e spessodeve muoversi con “visite guidate”.

Si può levare un proiettile da un pol- 

mone o suturare una ferita anche sen- 

za essere circondati da affetti go- 

vernativi o simpatie ministeriali.

Un clima di collaborazione può nonessere indispensabile per gli interventi di

emergenza, ma lo è per formulare e at-tuare progetti più articolati e duraturi.

Tra governo e organizzazioni interna-zionali, umanitarie e non, è venuto amancare ben più che una «corrisponden-za d’amorosi sensi».

La permanenza a Kigali, a quel punto ein quelle condizioni, non soltanto sareb-be stata sempre meno sicura; sarebbe an-che risultata sempre meno utile.

Il ritorno ha avuto i suoi momenti di“colore”, ma tutto sommato è stato tran-quillo. Ha fornito anche l’occasione di u-no scambio d’idee con rappresentantidell’Unicef in vista di prossime missioni.

Qui comunque ci occupiamo di un bi- 

lancio dell’operazione-Ruanda. Puoi

fornire, almeno in generale, le dimen- 

sioni dell’attività? Abbiamo ripristinato l’ospedale: dap-

prima in senso fisico, con opere di mura-tura. Sotto il profilo medico-chirurgicoabbiamo riaperto due padiglioni dichirurgia, le sale operatorie e attivato ilreparto di maternità.

Nel clima e nell’ambiente di una chi-rurgia che deve rimediare a distruzionicompiute su esseri umani, assistere aquindici-venti parti ogni giorno è stata u-na delle esperienze più belle. E delle piùpreoccupanti, però: le donne, anche nellamaternità, sono destinatarie “privilegia-te” delle sofferenze della guerra.

Tra l’inizio d’agosto, quando abbiamocominciato a operare, e l’inizio di no-vembre, gli interventi sono stati più di

600. Una media giornaliera ricavata daquesti dati non avrebbe granché senso: lecondizioni e le possibilità si sono troppo modificate in questoarco di tempo che include i primissimi giorni. I morti, ti ho giàdetto, sono stati sette.

Nei dintorni dell’1%. Parliamo di chirurgia di guerra, esercita- 

ta in una fase iniziale con mezzi di fortuna, su malati, quelli

che hai chiamato «vecchi», curabili solo in ritardo...

Questi calcoli e ragionamenti si fanno solo a distanza di spa-zio e di tempo. Sul momento e sul posto non ti viene in mentedavvero di dire «non ho sbagliato, ho fatto il possibile, non ècolpa mia».

Quando la scheggia di una mina uccide un bambino deva-standogli il cervello, non ti resta niente da precisare. Se guardipoi in faccia sua sorella, una ragazza di diciott’anni, puoi sìpensare che senza il tuo lavoro non sarebbe viva: ma non puoidimenticare che vivrà senza gambe.

Tutto quello che succede in guerra, se lo guardi dal punto divista principale, è sempre orrendo.

Cercare “consolazioni” in aspetti umanamente ricchi, mo-menti emotivamente intensi... si può; puoi anche trovarne,senz’altro. Ma soffermarti su questo ti sembrerebbe indecente:come se usassi la sofferenza che incontri per costruirti intornouno scenario, un teatrino, per giocare.

’ONU ha una norma rigidamente rispettata:considera certo e comunica solo ciò che le risultaper constatazione e accertamento diretti. E le car- te dell’ONU dicono di almeno 200 uccisi la set- 

timana. Amnesty International denuncia diverse migliaia di uccisioni. Lastampa internazionale sostiene che si sono verificati massacri di profughisulla via del rientro. Per quanto elastici e relativi si considerino i concettidi legalità e di diritti umani, non è possibile impiegarli nel descrivere ilRuanda di oggi. Un esempio piccolo ma “coinvolgente”. Al Centre Ho- 

LCHE COSA 

SUCCEDE

OGGI

7

spitalier riaperto da Emergency lavoravanodue medici ruandesi che da un certo giornonon si sono più visti. La Croce Rossa Interna- zionale li ha trovati in carcere. Nessuno sa diredi che cosa precisamente siano accusati. Chela pacificazione sia difficile è evidente. Ma nonpare che qualcuna delle parti davvero la cer- chi. Che la persegua l’azione del governo èsempre più difficile da credere: nemmeno ilformalismo necessariamente un po’ ipocritadelle diplomazie finge più di pensarlo. La mag- gioranza hutu mira con ogni evidenza a unanon impossibile rivalsa.

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 Anzitutto vi è una evidente rivalità politico-ideologica tra le piùimportanti fazioni partitico-militari afgane, acuita dalle sfrenateambizioni di leadership tra i capi a livello centrale e locale.Basti pensare per questo aspetto alla competizione tra forzequali la Jemiat-e-Islami che fa capo al “moderato” BuranhuddinRabbani e la Hezb-e-Islami che ha nell’“estremista” GulbuddinHekmatyar il proprio tragico corifeo. Ma oggi, come ieri, non sitratta più di una guerra ideologico-religiosa per il potere tra fa-zioni fondamentaliste più o meno rivali. La risposta principaleva cercata a più livelli.

DALL’IMPERO ZARISTA ALL’«INFLUENZA» SOVIETICA 

In primo luogo vi è tutta la storia dell’Afganistan come stato“feudale” creato dalla dinastia dei durrani dalla metà del XVIII

secolo ad oggi. Si tratta di uno stato non nazionale, ma pluriet-nico, fondato sulla prevalenza dell’elemento etnico pashtu, inperenne instabile equilibrio tra le varie confederazioni tribali elocali facenti capo ai durrani e ai ghilazay.Questo fattore attraversa tutta la storia dell’Afganistan,“stato-cuscinetto” tra impero zarista e impero britannico delleIndie, fino ed oltre la definizione della «linea Durand» nel 1893.Le stesse rivalità tribali che hanno condotto al rovesciamentodel regno di Mohammed Zahir Shà e all’instaurazione della re-pubblica del principe Mohammed Daud Khan hanno attraver-sato anche le lotte di fazione del Pdpa (comunista).Proprio la terribile guerra di liberazione tra il 1979 e il 1989 contutte le sue vittime e “pulizie etniche” ha determinato profondisquilibri etnici e tribali tra le componenti afgane.Sono state le popolazioni pashtu le principali vittime delle de-portazioni e delle migrazioni. Tali eventi hanno lasciato deivuoti che sono stati colmati, particolarmente a Kabul, ma nonsolo, dagli elementi etnici tajiki, di lingua persiana, facenti capo

principalmente alla Jamiat-e-Islami e a quelli uzbeki, di linguaturca, facenti capo alle milizie del generale Dustam, sicuramen-te foraggiato dal regime del vicino Uzbekistan ex sovietico.Le tortuose vicende dell’indipendenza delle repubblicheex sovietiche dell’Asia Centrale e la sanguinosa guerra civile inTajikistan (non ancora conclusa) non sono certo estranee aiconflitti interafgani.Da oltre due anni lo scontro tra pashtu da un lato con alternealleanze con uzbeki e con gli sciiti di Hezb e Wahdat contro lacomponente tajika sta avendo come epicentro la capitale Kabul.Relativamente risparmiati dalla guerra, hanno preso piede aKabul gli sciiti e gli ismailiti che rivaleggiano in potenza militarecon i sunniti di varia denominazione etnica.

Le avverse fazioni si affrontano a suon dicannonate e gragnuole di missili tra unquartiere e l’altro della capitale.Recenti testimonianze affermano chegran parte di Kabul è stata rasa al suolo eche centinaia di migliaia di abitanti sonoridotti alla disperazione, mentre la vitaquotidiana, già non florida, è regredita alivelli da età della pietra. Altre centinaia dimigliaia hanno dovuto abbandonare lacapitale e trovare rifugio in altre regioni.

del Partito democratico del popolo afgano (comunista) capeg-giate rispettivamente da Nur Mohammed Taraki con Hafizullah Amin e da Babrak Karmal con Najibullah.Il progressivo successo delle forze della resistenza islamica afga-na combinato con la lotta fratricida all’interno del movimentocomunista aveva indotto l’Unione Sovietica di Breznev eGromyko a imbarcarsi in un’avventura che nel giro di qualcheanno si sarebbe dimostrata fatale per l’intero impero di Mosca.Perché l’Urss fece questo madornale errore?Le spiegazioni sono molteplici. Indubbiamente l’ultimo periododel regno di Breznev fu caratterizzato da una tendenza espan-sionistica che copriva malamente le crescenti crepe sociali, po-litiche ed economiche dell’impero comunista.D’altro canto i sovietici temevano, non senza fondamento, cheil collasso del fragile regime comunista da loro incoraggiato

avrebbe finito per tracimare pericolosamente dalle montagnedell’Afganistan nelle contrade dell’Asia Centrale Sovietica.Se Mosca ha finito per perdere un impero fra le terre dell’HinduKush, non meno salato, anzi tragico, è stato il prezzo pagato daipopoli afgani in un decennio di resistenza antisovietica.Le cifre non sono tuttora chiare. Ma si ritiene che circa un milio-ne di persone abbiano perso la vita tra il 1979 e il febbraio 1989.

Oltre cinque milioni di esseri umanisono stati costretti a trovare un pre-cario rifugio all’estero, per circa trequinti in Pakistan e i restanti in Iran.

L’EREDITA’ DELL’INVASIONE

 Ad oltre cinque anni dal ritiro sovie-tico, milioni di profughi restanoall’estero mentre campagne e pa-scoli afgani restano devastati.

 Ancora oggi, anche laddove infuriala guerra civile tra fazioni islamiche,migliaia di persone e di bambini ri-mangono vittime o finiscono stor-piati dai milioni di mine antiuomogentilmente disseminate ovunque

dai sovietici durante un decennio.Proprio l’uso indiscriminato delle mine in Afganistan, con laguerra Iraq-Iran, è stato l’evento che ha sensibilizzato settoriimportanti dell’opinione pubblica a questa tragedia di unaguerra che si vendica, soprattutto sui più deboli e inermi, anchea distanza di anni e decenni. Ambienti non tradizionalmente pacifisti hanno cominciato acapire che le mine, proprio perché armarelativamente semplice e a buon merca-to, sono assai più pericolose di altristrumenti sofisticati di morte. Perchénell’aprile 1992, quando fu rovesciatoquanto restava del regime comunista diSayyed Mohammed Najibullah, la guer-ra civile è proseguita con particolare ac-canimento tra le fazioni islamiche? Anche a questo interrogativo le rispostesono più d’una.

A S I A

S

ONO PASSATI QUINDICI ANNI DALL’INVASIONE SOVIETICA DELL’AFGANISTAN

NEGLI ULTIMI GIORNI DEL 1979, QUANDO DA NOI SI CELEBRAVA IL VEGLIONE

DI SAN SILVESTRO. LA GUERRA CIVILE AVEVA PRESO IL VIA A FINE APRILE 1978,CON IL COLPO DI STATO GUIDATO DALLE FAZIONI KALQ E PARCHAM

8

ra il 1978 e il 1979, un colpo

di stato militare ha affidato il

potere a un Consiglio della ri- 

voluzione , dominato dal Parti- 

to democratico popolare  (Pdp) e sostenuto dalle truppe

sovietiche che nel dicembre ‘79 invadono e occupano il

territorio afgano.

Spontaneamente o con il sostegno dall’estero, numerosi

gruppi islamici, tra loro molto diversi e potenzialmente ri- 

vali, si ritrovano insieme a combattere contro l’invasione

dei sovietici e contro il governo del Pdp. Questi combat- timenti conoscono una progressione di intensità e un

sempre maggiore coinvolgimento internazionale, che si- 

gnifica una sempre più abbondante disponibilità di armi.

In definitiva un numero sempre maggiore di vittime.

Dieci anni di guerriglia contro i sovietici e il governo poi, alla fine, tutti contro tutti 

 T1. RIVOLUZIONE

INVASIONE

GUERRIGLIA 

•Nella pagina a lato,

un mujaheddin

afgano a Kabul:

il figlio in braccio,

il kalashnikov a tracolla.

Afganistaneterna guerra santa

ETNIE E IDEOLOGIE 

IN LOTTA PERENNE 

PER IL PREDOMINIO 

2. GLI OSPEDALI

 AL DI QUA 

DEI CONFINI

L’asprezza della con- 

trapposizione non

consente un’intesa

tra le parti, nem- 

meno a fini stretta- 

mente umanitari. Il

Comitato Internazionale

della Croce Rossa

(CICR) non riesce ad

aprire ospedali in terri- 

torio afgano. Le cittàpakistane di Peshawar 

e di Quetta sono le

sedi di ospedali per i

feriti della guerra

provenienti dalla zona

settentrionale (Kabul,

 Jalalabad...) e dal sud

(Kandahar...). L’ assi- 

stenza alle vittime si

svolge al di qua dei

confini afgani. A quei

confini i malati arriva- 

no come possono . Ed

è intuibile la differenza

di possibilità. Un solda- 

to regolare ferito può

arrivare al confine coi

mezzi di trasportodell’esercito. Un guerri- 

gliero dispone di mino- 

ri mezzi, ma può con- 

tare sui componenti

del suo gruppo e di

un’organizzazione che

con il tempo si viene

perfezionando e arric- 

chendo. I feriti civili so- 

no accompagnati alla

frontiera da parenti o

amici, su un carretto,

se un parente c’è e un

carretto è disponibile...

Risultano così esclusi

dall’assistenza i malati

meno raggiungibili o

meno strategici , o me- 

no interessanti dal pun- 

to di vista della guerra,

che anche qui infierisce

maggiormente su chi

non combatte.

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A S I A

Kabul 1995: gli abitanti trascorrono il terzo inverno senza elettricità, viveri e medicine 

3. NASCE

UN OSPEDALE

 A KABUL

Nel 1987 una nuo- 

va Costituzione e

un nuovo presi- 

dente della Re- 

pubblica (Najibullah),

nel 1988 nuove elezio- 

ni danno un assetto

stabile al governo.

Il processo per la for- 

mazione di un gover- 

no provvisorio in esilio

(sarà costituito nel feb- 

braio ‘89) conferisce

un’analoga stabilità ai

ribelli combattenti. Si

configurano così inter- 

locutori visibili e sensi- 

bili alla propria imma- 

gine internazionale,

con i quali la Croce

Rossa può stabilire

intese e regole.

Le attività del CICR si

trasferiscono in territo- 

rio afgano.

Kabul diventa il centrodegli interventi medici

rivolti alle vittime della

guerra. Tutt’intorno al- 

la capitale, posti di pri- 

mo soccorso per i feriti

combattenti e civili.

L’ospedale gode della

extraterritorialità, an- 

che gli appartenenti

alle forze governative

vi entrano solo disar- 

mati. I malati arrivano

coi mezzi del CICR, i

guariti sono riaccom- 

pagnati ai luoghi

di provenienza: le inte- 

se raggiunte garanti- 

scono che leoperazioni di attraver- 

samento dei confini

si svolgano pacifica- 

mente.

5. «CATASTROFE

UMANITARIA 

IRREVERSIBILE»

 JON ERA UN IN- 

FERMIERE ISLAN- 

DESE CHE LAVO- 

RAVA IN AFGA- 

NISTAN, IN ZO- 

NA DI GUERRA,

PER LA CROCE

ROSSA INTERNA- 

ZIONALE.

Nei giorni assurda- 

mente, crudel- 

mente felici della

presa di Kabul, il

fuoco reale che uccide

è stato quel che altro- ve sarebbero i fuochi

d’artificio; la vittoria s’è

festeggiata con sacrifi- 

ci umani. Dall’autunno

‘92 portare soccorso

alla popolazione di

Kabul è divenuto

pressoché impossibile.

Con un allarmato

appello, il CICR vede

imminente una

«catastrofe umanitaria

irreversibile» e riferisce

di 17.000 feriti a Kabul

nel settembre ‘94.

In ottobre 24.000.

La politica dei grandi

stati interviene soloper difendere interessi

rilevanti. Probabilmen- 

te è mediocre l’interes- 

se per decine di

migliaia di feriti.

Le marsine dei diplo- 

matici tendono per 

loro natura a non

sciuparsi, e di fronte

ai mercanti d’armi

restano inerti.

Senza un invasore da

demonizzare, senza

petrolio da comprare

e da vendere, stampa

e televisioni non trova- 

no interessante quel

che accade, in una

città ridotta a macerie

da una «guerra santa»,

a un popolo che muo- 

re, indifferente ormai

anche all’indifferenza.

Ogni giorno un’”usci- ta” per raccogliere

i feriti, prestare se

necessario le prime

cure, accompagnarli

all’ospedale.

Un lavoro di sempre,

nei posti di sempre

(in guerra tutto è

tanto precario che

una regolarità di

qualche mese merita

di chiamarsi sempre ).

Per compiere gli

stessi interventi, con

la stessa ambulanza,

con le stesse insegne

della Croce Rossa

Internazionale, Jon èpartito anche il 22

aprile 1992: il giorno

che non è tornato,

perché è stato ucciso.

Non per errore o

disgrazia. Jon è stato

ucciso senza

nemmeno il rispetto

che si accorda a un

nemico che si odia.

E’ stato ucciso con

una raffica di

kalashnikov sparata

a bruciapelo mentre

stava ripartendo per 

condurre i feriti in

ospedale.

Il responsabile, un

giovane mujaheddin,

ha poi spiegato:

«Il mio mullah mi ha

ordinato di uccidere

gli infedeli».

l 25 aprile 1992 Kabul è

presa dai mujaheddin.

Con l’eccezione delle

truppe di Massud, tutti

gli altri raggruppamenti di armati sono molto ca- 

suali, disorganizzati e sottratti a qualsiasi codice o

disciplina. Sono spesso di combattenti che aveva- 

no conosciuto soltanto la loro montagna, e di

quella un solo versante. Improvvisamente si tro- 

vano in città. Per la prima volta vedono donne

che se ne vanno da sole per strada, che non ve- 

stono il tradizionale burkha che nasconde com- 

pletamente il volto. Per la prima volta vivono si- 

tuazioni nelle quali la proibizione dell’alcool co- 

nosce qualche eccezione. Lo sconvolgimento di

fronte alle novità è forte. Il fanatismo ha condot- 

to persino a gettare vetriolo in viso alle donne

non velate o a distruggere in ospedale le botti- 

glie di disinfettanti alcolici.

I4. LA PRESA 

DELLA 

CAPITALE

9

Nella fase attuale, semplicemente, nonesiste più nemmeno quel simulacroafgano che era sopravvissuto alla guerra.Non si può chiamare governo la finzioneformale di Rabbani né il potere dei vari signori della guerra neiquartieri di Kabul o in altre regioni meno sfortunate.Non stupisce quindi che dopo tre lustri di conflitto civile laguerra sia diventata, come altrove nel Terzo e Quarto mondo,essa stessa un mestiere e una fonte di lavoro.E’ infatti in questa situazione di anarchia che in Afganistan èritornata a prosperare, anzi si è geometricamente moltiplicatala coltivazione del papavero da oppio e la produzione di eroina.Secondo le valutazioni dello Un Drug Control Programme(Undcp) le regioni afgane confinanti con il Pakistan stanno di-ventando il grande polo esportatore di eroina alternativo al fa-moso Triangolo d’Oro tra Thailandia e Birmania.I papaveri forniscono non solo oppio, ma anche foraggio per ilbestiame, sapone e olio per cottura e rappresentano una coltura

assai più redditizia del grano o delle altrederrate alimentari.Dopo il ritiro delle truppe sovietiche edopo la fine della guerra fredda e del

bipolarismo il mondo ha cessato di interessarsi all’Afganistan.Con il ritiro di tutte le ambasciate da Kabul si sono rarefatti, pernon dire quasi annullati, anche i programmi di aiuto umanitarioed economico.Il finanziamento allo sminamento delle campagne potrebberappresentare un sostegno all’occupazione e una risorsa peruna popolazione immiserita e potrebbe accompagnarsi all’aiu-to alle coltivazioni di derrate alternative al papavero da oppio.Mentre prosperano sulla guerra e sul contrabbando mafie diogni tipo a base etnica, tribale o politica a cavallo tra ex Urss, Afganistan e Pakistan sarà estremamente difficile richiamarel’attenzione internazionale sul dramma che le popolazioni afga-ne continuano a vivere alle soglie del Duemila.

Pietro Somaini

SINGOLARE PRODOTTO 

DELLA GUERRA

IL PAPAVERO D’OPPIO 

E M E R G E N C Y

7/31/2019 Per le vittime civili della guerra - EMERGENCY n°1, febbraio 1995

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Si è ricominciato a lavorare nei campi, in una provincia trale più minate del mondo. Lo si può ben capire osservando ilnumero di mutilati che si incontrano per le strade, che in mol-ti casi camminano appoggiandosi a bastoni o a rudimentalistampelle.

L’ospedale, così come il centro ortopedico, che era statocostruito dalla Croce Rossa Internazionale, sono distrutti. Nonc’è un chirurgo, a Kuito. I feriti vengono operati da un volonte-roso infermiere locale, e le complicanze postoperatorie sononaturalmente tante e gravi.

Ezio Calosso

cederà. Luanda è un formicaio, più di 3 milioni di persone siammassano in una città che solo due anni fa non passava ilmezzo milione. Tutto intorno, sono cresciute le bidonvilles, ba-racche di legno, cartone e fogli di alluminio arrugginito, senzaservizi né acqua né elettricità.

Non c’è lavoro, molti sono i bambini rimasti senza famiglia,gli «street children» che affollano ormai molte grandi metropolidel Terzo Mondo vivendo, si fa per dire, di espedienti.

Negli ospedali si muore molto più di prima, non c’è assisten-za. I medici guadagnano venti dollari al mese, e un chilo di zuc-chero ne costa cinque. Così cercano anche loro altre fonti diguadagno, nella cosiddetta libera professione: non possonopermettersi di stare a curar la gente. Negli ospedali della capita-le, tre donne su cento muoiono di parto, e in provincia la situa-

zione è ancora peggiore.L’Angola è un paese ricco, o almeno

potrebbe esserlo. Ma il petrolio di Cabin-da o le miniere di diamanti non sembra-no certo servire a ridurre la mortalità in-fantile. Un bambino su tre muore primadi arrivare ai cinque anni.

SI VIVE NELLE STRADE. MINATE

Forse solo ora i disastri della guerrainiziano a rendersi evidenti, e si possonoapprezzare le proporzioni della catastro-fe. Viaggiare per il Paese è molto proble-matico, in molti casi impossibile. In alcu-ni luoghi vi sono ancora scontri a fuoco,le strade sono insicure, non si sa chi lecontrolla, e il rischio di finire su una mina

è sempre in agguato. Ve ne sono quindici milioni inesplose,sparse per l’Angola. Si potrà mai parlaredavvero di dopoguerra? Le organizzazio-ni umanitarie hanno iniziato il lavoro disminamento. «Se la pace durerà - ci diceMike, uno sminatore inglese che lavoracon Halo Trust - finiremo il nostro lavoronel 5.007...». Lo dice scuotendo la testa,lui sa benissimo che l’Angola senza mineresterà un sogno.

 Arriviamo a Kuito, nella provincia diBie, trasportati da un aereo delle Nazioni

Unite. Dall’alto lo spettacolo è impressionante, non più di diecicase hanno conservato il tetto, ci vengono in mente le ripreseaeree di città europee dopo i bombardamenti dell’ultimo con-flitto mondiale. I muri rimasti in piedi hanno un aspetto grotte-sco, crivellati da migliaia di fori di proiettile, e la gente vive lì, traquelle macerie, risultato di una delle più violente battaglie tra leforze dell’MPLA e quelle dell’UNITA.

Kuito è ora una città fantasma, e i villaggi intorno sonocostellati di bianche tendopoli installate dall’Unicef per acco-gliere i rifugiati, gente che ha cercato di scappare dai luoghi dicombattimento.

AFRICA

L

UNIONE FA LA PACE» SI LEGGE SU MOLTI STRISCIONI SPARSI PER LA CAPITALE

LUANDA, E QUALCHE POLITICO ANGOLANO INCOMINCIA A CREDERCI, DOPO VENTI ANNI DI GUERRA. LA GENTE INVECE NON NE PARLA MOLTO: TROPPO

OCCUPATA A CERCAR DI SOPRAVVIVERE, ASPETTA DI VEDERE CHE COSA SUC-

10

ercanti di schiavi d’origi- 

ne iberica furono i primi

europei a conoscere

questo territorio sul finire

del Quattrocento, nell’epoca delle grandi scoper- 

te geografiche. In molte forme, e ripetutamente,

il Portogallo cercò di prendere possesso dappri- 

ma della zona litoranea, in seguito anche di un

più ampio territorio interno.

Il controllo dei portoghesi raggiunse una certa

stabilità solo a metà del Seicento. Una vera domi- 

nazione coloniale si stabilizzò solo agli inizi

dell’Ottocento, dopo una serie di rivolte anti- 

portoghesi durate più di tre secoli. Particolar- 

mente brutali i sistemi di conquista impiegati dai

coloni europei: saccheggio, razzia, sterminio

d’intere popolazioni. Dall’inizio del Seicento eb- 

bero avvio “prelevamento” ed “esportazione” dischiavi.

Quando, nel 1836, la tratta fu ufficialmente abo- 

lita, si calcolò che gli schiavi forniti al Brasile da

questo territorio africano fossero stati almeno

cinque milioni. E’ comunque documentato che

di fatto la tratta si protrasse per tutto l’Ottocento.

La colonizzazione vera e propria si sviluppò nel

secolo scorso e nella prima parte del Novecento,

con un qualche sviluppo nell’agricoltura (cotone,

caffè e zucchero) e nell’industria mineraria (dia- 

manti).

Nelle città di Luanda e Kuito tra parole d’ordine e paura macerie di case e d’uomini 

M1. CINQUE

MILIONI

DI SCHIAVI

•Kuito, nel centro

dell’Angola, una città

tra le più colpite

dalle devastazioni

di un conflitto

ventennale.

2. COLONIALISMO

INDIPENDENZA 

NAZIONALISMO

Negli anni ‘50 e ‘60,

il Portogallo di

Salazar prese atto

della fine dell’epo- 

ca coloniale con molto

ritardo rispetto a Gran

Bretagna, Francia e

Belgio. Nel ‘56 venne

fondato il Movimento

Popolare di Liberazionedell’Angola (MPLA).

 Agostino Neto ne fu il

leader sino alla morte

(1979). Movimento

effettivamente unitario,

il MPLA fu accusato di

essere troppo «di sini- 

stra»: di qui la rottura

della sua unità.

Ne nasce il Fronte Na- 

zionale di Liberazione

dell’Angola (FNLA): a

carattere nazionalista,

ha come primo espo- 

nente Holden Roberto.

Nel ‘66, dall’interno

del FNLA, Roberto è

accusato di eccessivoasservimento all’«impe- 

rialismo americano».

 Jonas Savimbi promuo- 

ve una scissione, e dà

vita all’Unione Nazio- 

nale per l’Indipenden- 

za Totale dell’Angola

(UNITA), mossa da un

certo populismo nazio- 

nalista. Alle ideologie

si sovrappongono le

differenze etniche di

ciascuna formazione.

Nella seconda metà

degli anni 50,

in seguito ai massacri

portoghesi, il MPLA 

passa alla guerriglia.

Il regime di Salazar 

cade il 25 aprile 1974.

L’indipendenza

è proclamata

l’11 novembre 1975.

 Angolaguerra e pace e guerra...

’«

E M E R G E N C Y

7/31/2019 Per le vittime civili della guerra - EMERGENCY n°1, febbraio 1995

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AFRICA

Dopo vent’anni di terrore oggi il sogno della pace somiglia ancora a un incubo 

l presidente dello Zaire,Mobutu, che aveva favo- 

rito l’incontro di giugno,

viene accusato da Savim- 

bi di non essere un mediatore imparziale: prote- 

sta bizzarra, dal momento che lo Zaire aveva

sempre fornito aiuto militare e sostegno logistico

precisamente all’UNITA e che da sempre, in parti- 

colare, grazie ai “buoni uffici” di Mobutu e dello

Zaire venivano inoltrate all’UNITA le armi clande- 

stinamente fornite dagli Usa. Di fronte all’accusa,

Mobutu pone termine alla collaborazione, il che

per l’UNITA costituisce una grave difficoltà.

I5. ROTTURA TRA UNITA 

E ZAIRE

l presidente Bush incon- 

tra Savimbi per indurlo

ad accettare i colloqui di

pace. Nel frattempo,

spinto dall’URSS, il MPLA annuncia la creazione

di un sistema multipartitico. I ministri degli Esteri

USA e URSS Baker e Shevardnadze decidono di

cooperare per un’intesa. E’ designato mediatore

il governo Portoghese. Si scatenano gli ultimi

fuochi di guerriglia, per rafforzare le posizioni sul

territorio nell’imminenza di un «cessate il fuoco».

I6. PRESSIONI

 AMERICANE

E SOVIETICHE

3. L’AVVIO

DELLA GUERRA 

CIVILE

Già nel 1975 i tre

movimenti di libe- 

razione entrano in

conflitto tra loro,

rompendo il patto che

all’inizio dell’anno li

aveva condotti a for- 

mare insieme un go- 

verno provvisorio e a

fondere le forze milita- 

ri. I movimenti cercano

e ricevono appoggi in- 

ternazionali. Gli USA 

sostengono il FNLA sin

dalla fondazione; URSS

e Cuba appoggiano il

MPLA; l’UNITA ha l’ap- 

poggio del Sudafrica.

In favore di FNLA e

UNITA intervengono

militarmente anche

Zaire e Sudafrica, che

intraprende l’invasione

dell’Angola. Lo scontro

militare si risolve a fa- vore del MPLA, col so- 

stegno di truppe cuba- 

ne. L’appoggio del

Sudafrica ad UNITA e

FNLA è una ragione

non trascurabile della

vittoria anche politica

del MPLA, il cui gover- 

no della Repubblica

Popolare dell’Angola

viene riconosciuto da

moltissimi Paesi, ma

non dagli USA. Il FNLA 

progressivamente

scompare o viene rias- 

sorbito dall’UNITA, che

dal 1976, apertamen- 

te appoggiato dal Su- dafrica, è il solo avver- 

sario interno del MPLA.

Si costituisce, nell’eser- 

cito sudafricano, il 32°

battaglione «Buffalo»,

composto da soldati

angolani. In questo

contesto, il MPLA 

appoggia la SWAPO

(Organizzazione dei

popoli africani del

Sud-Est), impegnata

contro l’occupazione

della Namibia da parte

del Sudafrica. La guerra

si protrae fino a tutto il

1983, con tre tentativi,

negli anni 80, d’invasio- 

ne dell’Angola da parte

del Sudafrica, respinti

grazie anche alla pre- 

senza, accanto al MPLA,

delle forze cubane.

7. STIPULATA 

LA PACE

 A LISBONA 

Lisbona, 31 maggio

1991. Dos Santos

e Savimbi firmano

l’accordo che for- 

malmente pone fine

alla guerra civile.

Si prevedono elezioni

multipartitiche sotto

controllo Onu e un

governo in base ai ri- 

sultati elettorali; con- 

gedo di gran parte dei

militari (circa 300.000)

e integrazione dei due

eserciti. La commissio- 

ne congiunta per l’at- 

tuazione degli accordi

dovrà coordinare an- 

che le operazioni di

sminamento.

11

DALLA GUERRA

DI LIBERAZIONE 

ALLA LIBERAZIONE 

DALLA GUERRA

lla fine del 1983 l’ONUchiede al Sudafrica di riti- 

rarsi dall’Angola. Con i

successivi  Accordi di Lu- 

saka il Sudafrica si ritira a condizione che l’Angola

cessi gli aiuti alla SWAPO. Il ritiro dei soldati è

però molto lento e nel 1985 c’è un nuovo tenta- 

tivo sudafricano di invasione, più determinato

dei precedenti, anche per l’appoggio militare

che gli USA forniscono all’UNITA, mettendole a

disposizione molti armamenti, tra i quali anche

missili antiaerei. Questa fase della guerra dura fi- 

no al 1988. Nel novembre ‘87, il presidente su- 

dafricano Botha (futuro premio Nobel per la Pa- 

ce) passa in rassegna le sue truppe in territorio

angolano. Con l’aiuto determinante dei cubani,

l’Angola pone termine a questa fase della guerra

nel 1988, sconfiggendo Sudafrica e UNITA. I suc- 

cessivi colloqui di pace prevedono il ritiro di su- 

dafricani e cubani, mentre la Namibia si fa ga- 

rante dell’indipendenza dell’Angola. Esclusa da

questi colloqui perché rifiutata dal MPLA, l’UNITA 

riprende - grazie di nuovo all’appoggio Usa - a- 

zioni di guerriglia contro l’esercito angolano. In- 

 A 4. TREGUE

FIRMATE

E VIOLATE

tanto, l’URSS fa sapere di non essere disposta a

fornire armi e aiuti all’infinito. Il 22 giugno 1989,

in Zaire, il presidente angolano Dos Santos e il

capo dell’UNITA Savimbi s’incontrano, in seguito

a una proposta di pace avanzata da Dos Santos.

Gli accordi riservati, pare prevedessero l’esilio di

Savimbi e, a questa condizione, l’associazione

dell’UNITA al governo con il MPLA. La decisione

di un immediato «cessate il fuoco» viene conte- 

stata poco dopo da Savimbi: a luglio riprendono

combattimenti e azioni di guerriglia.

E M E R G E N C Y

7/31/2019 Per le vittime civili della guerra - EMERGENCY n°1, febbraio 1995

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PROGETTI

Stiamo lavorando

anche per essere

presto in condizione

di rispondere con la

massima immediatezza

alle necessità urgenti

che potrebbero verifi- 

carsi nel corso di quest’anno.

I problemi da risolvere sono

tanti, a cominciare da quello

finanziario.

Un progetto sanitario

d’urgenza viene a costare in

media 100 milioni al mese.

E visto che abbiamo fatto la

scelta di rifiutare i soldi della

politica, l’impegno risulta

ancora più gravoso.

Dobbiamo approntare

strategie diverse per reperire

i fondi necessari alla gestione

di molti progetti simultanea- 

mente, e accantonare anche

quella riserva che consenta

di lanciare, se necessario,

interventi d’emergenza.

Stiamo inoltre lavorando per 

mettere a punto una logistica

efficace, una rete di contatti

internazionali per favorire

la rapidità degli interventi,

La questione della sicurezza è il principale fattore limitante ogni possibilità di

intervento umanitario in Afganistan. Non si tratta solo di ottenere il consenso

delle fazioni belligeranti prima di poter inviare un team medico-chirurgico. Il

problema vero è che, purtroppo, queste “garanzie politiche” valgono solo nel

momento in cui vengono fornite, e diventano poi lettera morta quando si è

all’interno del Paese. Troppo spesso, infatti, i ragazzini armati di kalashnikov 

non sanno neppure per chi stanno combattendo: figurarsi se conoscono patti

da rispettare e li rispettano. Ci riproponiamo di installare una presenza chirur- 

gica, piazzando un ospedale da campo o riadattando un edificio esistente, il

più vicino possibile ai luoghi dove più intensi sono i combattimenti, Kabul o

zone limitrofe. Abbiamo già preso contatti in tal senso, ma ci vuole tempo.

La tragedia del popolo curdo

sembra destinata a non finire.

Sottoposti a continue rappresa-

glie da parte delle forze armate

di Saddam Hussein, che con le

armi hanno costretto al ritiro

anche molte organizzazioni

umanitarie, i curdi si ritrovano

da soli, in quel territorio semina-

to di milioni di mine - moltissime

italiane - e di ordigni inesplosi di ogni

tipo. L’intervento di EMERGENCY in

Kurdistan dovrebbe iniziare in primavera,

con l’invio di un team specializzato nel

trattamento dei feriti da mina. Ci si

   K

   U   R   D   I   S   T   A   N

   A   F   G   A   N

   I   S   T   A   N

L’ultima tragedia umanitaria in una regione, quella

caucasica, che è già una polveriera. Il conflitto, dopo

Grozny, si è esteso ad altre zone della Repubblica

Cecena e di quelle confinanti.

E gli aiuti umanitari sono stati molto limitati, per ragio-

ni diverse. Innanzitutto la zona, già geograficamente

“difficile”, è stata resa quasi impenetrabile agli aiuti. A 

differenza di quanto è avvenuto in Somalia, si è cercato   C   E   C   E   N   I   A

Un team di EMERGENCY si è

recato in Angola nel dicembre

scorso, per effettuare una ricogni- 

zione dei bisogni più urgenti, e

definire possibili progetti di inter- 

vento. Abbiamo identificato due

programmi possibili, già discussi e

concordati con le autorità locali. Il primo è

di tipo ostetrico-ginecologico, da svolgersi

nella Maternidad Lucrezia Paim , il più gran- 

de reparto ostetrico di Luanda, ove si assi- 

   A   N

   G   O   L   A

   E

   A   N   C   H   E . . .

avvarrebbe del supporto logistico del MAG [Mines Advisory 

Group], organizzazione umanitaria inglese da tempo impegna-

ta nello sminamento di quelle regioni. Per definire gli aspetti

tecnici del progetto chirurgico è prossima una missione di va-

lutazione in Kurdistan.

causa della guerra, in condizioni di salute precarie e che non hanno potuto avere alcun controllo medico duran- 

te la gravidanza. L’ospedale è sovraffollato, mancano mezzi e personale per far fronte a un gran numero di pa- 

zienti in condizioni critiche. EMERGENCY  invierà a Luanda un team di medici e infermieri esperti in ostetricia

e ginecologia, con l’obiettivo ambizioso di dimezzare la mortalità da parto entro 6 mesi dall’inizio dell’intervento.

 Anche quelle donne sono vittime di guerra.Il secondo progetto è chirurgico, e avrà luogo a Kuito, nel centro

dell’Angola. Un team per curare i nuovi feriti da mina e addestrare il personale locale a questa difficile chirurgia,

e per rioperare i vecchi feriti in modo da renderli idonei alla riabilitazione.

Terminata la missione in Ruanda, stiamo preparando altri progetti u- manitari. Abbiamo discusso tra di noi per definire le priorità di in- tervento, cercando soprattutto di prendere in considerazione i Paesi “difficili”, quelli dove più scarsi sono gli aiuti in rapporto ai bisogni.Sono tante, in questi giorni, le tragedie umane che continuano nel silenzio o nell’indifferenza. Vi sono Paesi in conflitto isolati, dove gli aiuti sono quasi inesistenti, dove è difficile entrare, in primo luo- go perché non esiste alcuna garanzia di sicurezza. Vogliamo trovare 

Occorre poi risolvere problemi logistici

complessi, predisporre i collegamenti e i

rifornimenti di materiali per il team chirur- 

gico. Difficoltà non indifferenti, che spe- 

riamo di superare quanto prima, perché

l’Afganistan resta la nostra priorità di

intervento numero uno.

di trattare il problema ceceno come una

questione davvero “interna”.

Il tipo stesso di conflitto, inoltre, combat-

tuto con armi pesanti e strategie militari

convenzionali, non favorisce certo la

possiblità di movimento delle organizza-

zioni di aiuto.

Un team chirurgico di EMERGENCY è

pronto a partire per recarsi a circa 50

chilometri da Grozny, dove migliaia sono

i feriti civili.

Il solo ostacolo all’avvio dell’intervento è

costituito dalle “difficoltà” nell’ottenere

autorizzazioni e visti dalle autorità russe.

rente di questa grande umanità dimen- ticata che sono i civili vittime delle guerre. Per dare, nei limiti delle nostre  possibilità, un contributo di speranza.Questi sono i programmi per il 1995.

12

E’ difficileanche soloudire le vociche chiedonoaiutoE’ anche piùdifficilerispondere

Tradisponibilità

limitatee urgenzadegliinterventiuna guerrada vincere

ste a circa 10mila parti l’anno. Attualmente

la mortalità materna in quell’ospedale è tra

le più elevate al mondo. Vi muore il 3,5%

delle partorienti. Le cause sono molte.

Tante sono le donne rifugiatesi a Luanda a

il modo di arrivarci, per la parte più negletta e soffe- 

un sistema di reclutamento del personale

esperto e di progressivo “training” di nuovi

operatori dell’emergenza.

Questo e altro bolle nella pentola di

EMERGENCY  per il ‘95. Abbiamo davvero

bisogno dell’aiuto, dell’intelligenza e della

disponibilità di tutti.

E M E R G E N C Y

7/31/2019 Per le vittime civili della guerra - EMERGENCY n°1, febbraio 1995

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RENDICONTO

ENTRATE

P R E V I S I O N I 1 ° S E M E S T R E 1 9 9 5

USCITE

 AL 31 DICEMBRE 1994

MISSIONE RUANDA [LUGLIO - NOVEMBRE 1994]

RETRIBUZIONE PERSONALE LOCALE [126 PERSONE]

ED ESPATRIATO [8 PERSONE] ....................... ...........220.320.000

OPERE DI RIPARAZIONE DELL’OSPEDALE ....................21.060.000

APPARECCHIATURE E MATERIALI SANITARI ................64.358.145

 TRASPORTI .................... ....................... .....................19.440.000

LOGISTICA ................................................................17.820.000

 TOTALE................................. ...............342.998.145

PROGETTO CECENIA [BUDGET PER SEI MESI]

STRUMENTI E APPARECCHIATURE CHIRURGICHE,

MATERIALI DI CONSUMO SANITARI ...................... ....................... ...............315.000.000RETRIBUZIONI PERSONALE LOCALE ED ESPATRIATO .................... ................240.000.000

FARMACI ....................................................................................................76.000.000

 TRASPORTI ....................... ....................... ....................... ........................ .....55.000.000

LOGISTICA ..................................................................................................48.000.000

 TOTALE ....................... ....................... ....................... ...........734.000.000

PROGETTO KURDISTAN NORD IRAQ [BUDGET PER SEI MESI]

STRUMENTI E APPARECCHIATURE CHIRURGICHE,

MATERIALI DI CONSUMO SANITARI ..................... ....................... ................235.000.000RETRIBUZIONI PERSONALE LOCALE ED ESPATRIATO ...................... ..............180.000.000

FARMACI......................................................................................................28.000.000

 TRASPORTI ...................... ....................... ....................... ....................... .......36.000.000

LOGISTICA ..................................................................................................30.000.000

 TOTALE........................ ....................... ....................... ............509.000.000

SOPRALLUOGO

IN ANGOLA ........9.600.000

CAMPAGNA CONTRO MINE ANTIUOMO....................…19.724.000

* TESSERE, MANIFESTI,MOSTRE DIFFUSI A LIVELLONAZIONALE [A]

........................6.700.000

* FAX, SPESE POSTALI,

MATERIALE FOTOGRAFICO,CANCELLERIA [B] ..5.411.230

* SEGRETERIA, AMMINISTRAZIONE, SPESEGENERALI [C]........................2.359.000

* STIPENDI [D] ..23.919.000

TOTALE 410.711.375

* SPESE D’ORGANIZZAZIONE: [A]+[B]+[C]+[D] = 38.389.230 [9,35% DEL TOTALE USCITE]

SALDO/DISPONIBILITA’: 433.457.234

844milioni 168.609 410milioni 711.375

FABBISOGNO TOTALE

1miliardo 243.000.000

DEFICIENZE DI CASSA 

809milioni 542.766

E M E R G E N C Y

7/31/2019 Per le vittime civili della guerra - EMERGENCY n°1, febbraio 1995

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COMPAGNIDI VIAGGIO

 A GIORNALISTA che era venuta ad intervistarci, in una Milano ancora addormentata nelleferie, ci stava chiedendo: «Ma come fate a farvi conoscere, insomma quali sono i vostricanali pubblicitari?». Impossibile risponderle, perché il telefono suonava ininterrotta-mente. Dopo mezz’ora, la giornalista aveva risolto da sé il quesito, e si stava appassio-nando alla vicenda ben oltre il suo obiettivo professionale. Perché il “popolo di EMER-GENCY”, che stava all’altro capo del filo, era il più vario, colorito e generoso che si po-tesse immaginare.

 Abbiamo ricevuto centinaia di lettere che chiedevano «fatemi fare qualcosa», ma ab-biamo anche semplicemente registrato il risultato finale di iniziative già fatte. Le cau-sali dei versamenti sul conto corrente postale dicevano, ad esempio: «Abbiamo orga-nizzato la I Festa del Gelato a Servignano, queste sono le 800.000 lire raccolte», oppure

Non occorreva

persuadere,

è bastato

informare.

I mille voltie le voci

della solidarietà

Lsenza volto, che ha mandato sul palco-scenico del Teatro Parioli, il 7 giugno1994, le prime 200.000 lire per un bambi-no mutilato dalle mine, scatenando unagara di solidarietà che non finisce. Ma èanche la Nin, una meravigliosa signorache abita in una piccola città della Lomel-lina, che quando esce a far la spesa si por-ta i depliants di EMERGENCY, quelli congli sguardi dei bambini che son diventatiil nostro simbolo, dice “andiamo bambi-ni”, e va a sensibilizzare i negozianti e gliamici. In fondo, Costanzo e la Nin hannosvolto a modo loro la stessa funzione, so-lo con mezzi diversi e una audiencediversa.

O ancora. Il sorridente impiegato del«Libraccio» dice alla signora che sta pa-gando l’acquisto dei libri: «Ha preso ildepliant?». La signora legge, rilegge, poichiede «E’ là che va messo il contributo?»,

e indica la struttura in plexiglass che dice«EMERGENCY ti chiede la cosa che i suoimedici sentono urlare ogni giorno. Aiu-to». Bravi, i ragazzi del «Libraccio», come itanti pubblicitari che hanno messo a di-sposizione la loro professionalità, come i“miti” del mondo dello sport che scendo-

“siamo le Scaffe di Urbania, abbiamopromosso l’iniziativa “artisti per la pace”,vi mandiamo il ricavato e vogliamo conti-nuare a lavorare con voi», «Ho 91 anni,posso mandarvi questo contributo e viringrazio».

Poi è arrivata Alice, 7 anni e pungentiocchi curiosi, che è voluta venire daPadova a Milano per consegnare diretta-mente un porcellino giallo pesante di

monete per i bambini del Ruanda. La no-stra socia più giovane si chiama Virginia,è appena nata: i suoi genitori hanno chie-sto ai parenti di manifestare la propria fe-licità con una donazione a EMERGENCY,che servisse a bambini che hanno nel lorofuturo l’angoscia della guerra. Benvenuta Virginia, che fortuna nascere con genitoriche ti insegnano la solidarietà come valo-re primario. Quali sono i nostri canalipubblicitari, come chiedeva la giornali-sta? Sono stati il «Maurizio CostanzoShow», ad esempio. Costanzo e suoi col-laboratori, con grande coraggio e impe-gno civile, hanno rotto il muro di omertàche circondava da anni la strage pianifi-cata prodotta dalle mine antiuomo. E lasignora, purtroppo rimasta senza nome e

no in campo con la fascia di EMERGENCY, come gli studenti che nelle giornate di au-togestione espongono la mostra contro le mine antiuomo e la discutono, o come le e-ducatrici degli asili nido o le insegnanti delle scuole di danza che hanno organizzato isaggi di fine anno raccogliendo fondi per bambini che non possono danzare e che nonpossono festeggiare. Compagni di viaggio, che non speravamo di incontrare cosìnumerosi ed entusiasti, che vanno in posta a effettuare versamenti, che sono dispostia partire o che si organizzano qui perché altri possano avere il privilegio di partire.Compagni di viaggio, semplicemente. Alcuni li abbiamo nominati, solo per fare degliesempi. Gli altri mille e mille sanno di essere con noi, a giocare questa scommessacontro la barbarie della guerra e per una cultura di pace che vogliamo preparare per Virginia e Alice, e Kahlil e Mubarak che avranno 10 anni nel Duemila.

E M E R G E N C Y

EMERGENCY via Bagutta 12, 20121 Milano Tel. 02 76001104-76001093 Fax 02 76003719 

c/c postale n. 28426203 intestato a EMERGENCY 

c/c bancario 19700 della Banca Popolare di Bergamo,

via Manzoni 7, Milano c/c bancario 15423 F della Banca Antoniana,via S. Maria Segreta 5, Milano 

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Non è possibile ringraziarei moltissimi che in diverseforme sostengono EMERGENCY.

E forse non sarebbe rispettoso:sarebbe come separare un «noi»,soggetti aperti alle necessitàe ai bisogni, da un «voi»,marginali, complementari anchenell’avvertire l’urgenza disensibilità e attività umanitarie.Chi più direttamente agisce“sul campo” questo soltantoavverte con chiarezza: d’aver ricevuto un incarico fiduciarioe dover rendere conto di comelo adempie.

 Anche per questo crediamogiusto informare che allosvolgimento delle attività diEMERGENCY hanno contribuitoalcune associazioni, societào loro titolari.Ricordiamo in particolare:

NITAL, NEW REVERSAL SERVICE,KODAK, CLUB DEGLI EDITORI,IL LIBRACCIO, GIORGIO FANTONI,LEGAMBIENTE, LA FABBRICA,LIBRERIE FELTRINELLI.

7/31/2019 Per le vittime civili della guerra - EMERGENCY n°1, febbraio 1995

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pagare sottolineando che si trattava diun regalo, ma le autorità locali furono ir-removibili. Risultato: la nave ripartì co-me era arrivata, scaricò in mare le Mer-cedes a poca distanza dal porto e prose-guì il suo viaggio verso Sud.

In Ruanda, ci sono state proteste daparte di molte agenzie di aiuto, e dopoqualche discussione le autorità ruandesi

hanno convenuto che tassare gli aiutinon era il massimo del “fair play”. Cosìle colonne di camions piene di cibo, fer-me alla frontiera con l’Uganda, hannoripreso fiduciose il loro cammino. Lasorpresa l’hanno avuta alla dogana, difronte alla richiesta di sborsare esatta-mente... 152 dollari. «No, c’è un equivo-co, del problema se ne è discusso e il vo-stro governo si è dichiarato d’accordosul non tassare gli aiuti, chiedete a Kiga-li». Straordinaria la risposta. «Nessun e-quivoco, la tassa non è sugli aiuti, cimancherebbe altro, è sui veicoli!».

Che fare? Ce lo siamo chiesto anchenoi. Anche se non direttamente coin-volti in questa vicenda, visto cheEMERGENCY non si occupava, inRuanda, di trasporto degli aiuti alimen-tari, ci siamo però trovati di fronte aproblemi analoghi.

Una prima considerazione, che meritarispetto: l’importante è che gli aiuti arri-

vino, comunque, perché questo servealle popolazioni bisognose. Certo, nepotrebbero arrivare molti di più, se nonci fosse questa sorta di taglieggiamento,ma in ogni caso si riesce a far qualcosadi utile. E poi, si potrebbe aggiungere,qual è l’alternativa? Scaricare la farinaalla frontiera, come fosse una fiamman-te Mercedes, e fare inversione di marcia?

D’altra parte, se si guarda al problemain termini più generali, esiste in ogni ca-so una enorme sproporzione tra l’entitàdegli aiuti (di quelli reali, se non di quellipossibili) e la dimensione dei bisogni.

Tutte le organizzazioni umanitarie, in-

sieme, riescono a coprire una percen-tuale molto modesta delle necessità deiPaesi del Terzo mondo, prostrati dalleguerre e dalla povertà. Non è forse ilcaso, allora, di intervenire dove gli aiutipossono essere più efficaci, senza dover-ne sperperare una parte consistente intasse o altro? Certo, così facendo si fini-rebbe col penalizzare alcuni popoli soloperché i loro governanti sono più corrot-ti di altri. Ma, anche qui, esiste davverouna alternativa?

Occorrerebbe forse una sorta di codicedi comportamento delle organizzazioniumanitarie, per migliorare la qualitàdell’intervento di ognuna. E sarebbe uti-le che le “regole del gioco” fossero deciseprima, senza possibilità di cambiarle a

partita incominciata. Ma ciò presuppor-rebbe che il mondo degli aiuti fosse dav-vero governato da spirito umanitario,senza interrelazioni con la politica e gliaffari. E si torna daccapo.

I soldi di EMERGENCY provengonodirettamente e solo dalla solidarietà del-la gente. Non crediamo ci sia permesso,in nessun caso, spenderli nel pagare tas-se ad un Governo, specie quando queisoldi si trasformeranno, con ogni proba-bilità, in armi. Per la cronaca: molte a-genzie di aiuto in Ruanda hanno accet-tato di pagare.

Una riflessione, per concludere, cheproponiamo alla vostra attenzione.

Quando si interviene in un Paese, eviene il giorno in cui non si ha più a chefare con la gente e i suoi bisogni, ma conle avidità dei governanti o con i soliinteressi della politica, forse è il momen-to di andarsene. Il problema esiste e ladiscussione è aperta.

L’interventoumanitariodeveassecondare

pretesee aviditàdei governanti? 

IUTI E POLITICA : UN RAPPORTO DIFFICILE, PER ALCUNI (NOI SIAMO TRA QUESTI) IMPOSSIBILE.In ogni caso un problema che non si pone solo qui, nei cosiddetti Paesi sviluppati.In Ruanda, dalla fine di settembre, il nuovo governo ha chiesto che venissero pagati152 dollari USA di tassa per ogni automezzo che entrava nel Paese per portare aiuti.Non si tratta, sia chiaro, di un episodio isolato: avviene così un po’ dovunque, spe-cie in Africa.

Qualche anno fa, il governo di Gibuti chiese che fossero pagate le tasse su unadozzina di automobili, dono del governo tedesco. Si trattava di lussuose Mercedesad uso dei ministri, non di farina per gli affamati. Il capitano della nave rifiutò diA 

IL SI’

E

IL NO

•Bambini ruandesi

in un campo di Goma,

un pugno di farina

per sopravvivere.

7/31/2019 Per le vittime civili della guerra - EMERGENCY n°1, febbraio 1995

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dell’esistenza di queste mine giocattolodestinate perlopiù a nostri coetanei. Siamogiovani, non stupidi. Riusciamo a distin-guere il bene dal male e questo è male».

 Abbiamo voluto far nostre le considera-

zioni che una ragazza di prima media ciha inviato dopo aver visto la mostra diEmergency . Le parole, gli sguardi, le ri-flessioni di molti giovani che comeSusanna hanno visto, accompagnati dailoro insegnanti, i nostri cartelloni ci han-no fatto riflettere.

COMINCIARE DALLA SCUOLA 

 Abbiamo capito che il cambiamento, lasensibilizzazione, la presa di coscienzapossono, forse devono, partire propriodalla scuola.

 Abbiamo capito anche che i giovani vo-gliono prima di tutto «sapere»: è impor-tante fornire dati, informazioni, testimo-nianze, piuttosto che proporre soluzionigià definite. Educare i ragazzi a conoscere

i problemi e a comprendere gli altri è cer-tamente un modo di stimolare l’impegnocivile, un’arma per disinnescare l’aggres-sività del mondo.

Così è nata l’idea di Attenti all’uomo!,una proposta di cultura che abbiamo ela-borato insieme con un delizioso compa-gno di viaggio, Lupo Alberto. Gli stru-menti dell’iniziativa, una specie di “kit”,saranno disponibili da febbraio. Ve li pre-sentiamo.

GUERRA ALLA GUERRA 

 Attenti all’uomo! è il “libro di testo”,che dà anche il nome alla campagna. Unopuscolo tascabile, che sarà disponibileper tutti i ragazzi, realizzato da Guido Sil-ver e dalla redazione di «Macchia Nera».

Una introduzione al problema dei con-flitti moderni: come è cambiata la guerra,chi ne è vittima, e altro ancora. Ma anchecosa fare per «remare contro» questa on-data di barbarie.

Una guida per stimolare a conoscere, acapire e ad agire, naturalmente con lo sti-le, e i disegni, di Lupo Alberto.

so, da dilettanti e dal vero, nei teatri realidi guerra, dove la gente soffre le conse-guenze dei conflitti, spesso senza nean-che sapere perché tutt’intorno si spara esi uccide. Quindici minuti di cassetta in

 VHS da usare per informare e per riflette-re. Volti di bambini e donne, di gentecomune che vive una tragedia quotidia-na, un modo diretto per far capire il pri-mo problema della politica internaziona-le, quello della pace e della guerra, da cuidipende innanzitutto la possibilità di vitae sviluppo dell’uomo.

SAPERE PER AGIRE

 Alcune proposte di solidarietà rispettoalle situazioni più disastrate. Perchéinformarsi e conoscere non è sufficiente,bisogna abituarsi e abituare ad agire, adassumerci, tutti, le nostre responsabilità,piccole o grandi.

Così abbiamo pensato di sottoporre airagazzi i nostri progetti umanitari, di farli

conoscere e di attivare la loro parteci-pazione. E abbiamo voluto proporre loroanche il nostro modo di intendere gli aiu-ti e gli interventi umanitari. Un depliantche illustra principi, obiettivi e metodi dilavoro di Emergency , che propone unaorganizzazione aperta e indipendente,per aiutare al di fuori della politica e degliaffari.

 Attenti all’uomo! è una proposta di la-voro molto flessibile destinata alle scuolemedie inferiori e superiori. Noi ci siamolimitati a fornire alcune “istruzioni perl’uso”, semplici suggerimenti di percorsididattici che ogni insegnante definirà sul-la base della propria esperienza.

Un lavoro di ricerca e insieme una pro-posta di solidarietà che troveranno ampiospazio su questo giornale.

Per ricevere il «kit» con tuttii materiali di questa iniziativa,richiederli a EMERGENCY 

 Tel. [02] 76.001.104 •76.001.093

SCUOLA

all’ uomo! Attenti

Un allarme che è anche invito nella parola d’ordine di Lupo Alberto agli studenti 

LE SCHEDE DIDATTICHE

Le schede riguardano aspetti generalidi alcuni dei più importanti conflittiodierni. Dati geografici, storici, economi-

ci sull’area presa in esame, e sulle radicidel conflitto. Mappe per identificare laposizione geografica del Paese e cono-scerne le caratteristiche.

 Vi si trovano poi alcuni indicatori es-senziali per “inquadrare” il Paese e i suoiproblemi: dal tasso di mortalità infantilee materna al debito estero, dal prodottointerno pro capite alla percentuale di a-nalfabetismo.

Ogni scheda presenta inoltre un “bilan-cio” del conflitto in corso: da quando sicombatte, quanti morti, quante mineinesplose. E una serie di testimonianze dichi ha vissuto il conflitto come vittima,come medico di guerra, come giornalista.Sono poi riportate le ragioni dei bellige-ranti, le risoluzioni dell’ONU, i commentidi esperti.

Tante suggestioni e proposte per me-glio analizzare e comprendere il proble-ma, e per stimolare un impegno.

NEL CUORE DEI CONFLITTINon allarmatevi, è solo una mostra de-dicata alle guerre di oggi. L’ha realizzataFrancesco Garbelli. Un viaggio guidato da«segnali stradali» che conducono nei prin-cipali Paesi in conflitto.

Foto, pannelli e segnali sorretti da sacchidi sabbia che informano visivamente sualcune delle guerre dimenticate: una mo-stra a forma di cuore che si può facilmentemontare nella scuola, o usare per iniziati-ve sul territorio. Un modo immediato perinformare e costringere a riflettere surealtà spesso ignorate o censurate.

LE GUERRE DAL VIVO

Niente immagini da Rambo, ma un fil-mato sulla guerra per sensibilizzare allapace. Sono immagini che abbiamo ripre-

Rivista trimestrale dell’associazione Emergency. Redazione: via Bagutta

12 - 20121 Milano; telefono 02/76001104 - 76001093 - fax 02/76003719.

Direttore responsabile: ROBERTO S ATOLLI. Direttore: C ARLO G ARBAGNATI. Hanno collaborato a questo numero: K ETTY 

 A GNESANI, EZIO C ALOSSO, TERE S ARTI, ROSSELLA SOBRERO, PIETRO SOMAINI, GINO STRADA . Progetto grafico e impaginazio-

ne: V INCENZO SCARPELLINI, GUIDO SCARABOTTOLO. Foto: A RCHIVIO EMERGENCY , GRAZIA NERI, LIDERNO S ALVADOR.

Fotolito: .TOP COLOR . Stampa: LITOGRAFICA CUGGIONO; Registr. al Tribunale di Milano al n° 701 del 31.12.1994.

SONO POPOLARISSIME IN AFGANISTAN, KURDISTAN, CAMBOGIA... «DA NOI NON SE NE SENTE

PARLARE ANCHE SE SIAMO SECONDI NELLA PRODUZIONE MONDIALE... NOI VOGLIAMO SAPER-

NE DI PIU’. PERCHE’ IL PROBLEMA DELLE GUERRE, DELLE ARMI E DELLE MINE NON CI VIENE

SPIEGATO COME LA STORIA E LA GEOGRAFIA?... NESSUNO CI INFORMA, PER ESEMPIO,

• Alcuni “segnali stra- 

dali” di

Francesco Garbelli

e la copertina

di Guido Silver 

per l’iniziativa diEMERGENCY 

rivolta alle scuole.