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CNEL Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro Atti del Convegno PENSIONI E STATO SOCIALE: ITALIA E SVEZIA A CONFRONTO Roma, 25 giugno 2003

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CNEL Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro

Atti del Convegno

PENSIONI E STATO SOCIALE:

ITALIA E SVEZIA A CONFRONTO

Roma, 25 giugno 2003

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INDICE

APERTURA DEI LAVORI............................................................................3 PIETRO LARIZZA..................................................................................... 3

SESSIONE I: PENSIONI............................................................................5 ELSA FORNERO....................................................................................... 5

Problemi aperti nella transizione previdenziale italiana................................ 5 SANDRO GRONCHI.................................................................................10

Sistemi a ripartizione equi e sostenibili: modelli teorici e realizzazioni pratiche.......................................................................................................10

OLE SETTERGREN ..................................................................................16 Aspetti chiave della riforma pensionistica svedese ....................................16

Interventi programmati..........................................................................23 PIERPAOLO BARETTA..............................................................................23 LAURA PENNACCHI.................................................................................26 GIULIO DE CAPRARIS .............................................................................29 PIERO GIARDA ......................................................................................31

SESSIONE II: STATO SOCIALE ...............................................................35 LENA LARSSON......................................................................................35

La sicurezza sociale in Svezia: un quadro generale ...................................35 TITO BOERI ..........................................................................................37

Meno pensioni, più welfare ...................................................................37 ALBERTO BRAMBILLA..............................................................................45

La riclassificazione della spesa pensionistica italiana nell’ambito del conto economico della protezione sociale .........................................................45

Interventi programmati..........................................................................51 BENIAMINO LAPADULA ...........................................................................51 ADRIANO MUSI......................................................................................53 GIOVANNI MAGLIARO .............................................................................55 PAOLO SESTITO ....................................................................................58

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APERTURA DEI LAVORI

PIETRO LARIZZA

Presidente del CNEL

Come avete visto dal programma, il tema è molto semplice, per modo di dire. È un'analisi razionale su due sistemi, quello italiano - e parlo del sistema contributivo - e quello svedese, largamente collaudato ed anche migliorato. Un altro confronto su un elemento caratteristico della nostra regione europea è quello della qualità e della estensione dello stato sociale.

Noi abbiamo avviato questa iniziativa - l'Ufficio di Presidenza, d'accordo con l'apposita Commissione e il professor Gronchi che ha mantenuto tutti i collegamenti, compresi i relatori svedesi - per tentare un'operazione assai audace nel nostro paese. Cioè non parlare di ciò che vorremmo o di ciò che riteniamo sia la verità - con a volte una alta dose di improvvisazione propagandistica in un senso o nell'altro - ma parlare in senso razionale, anzi in termini scientifici, di un tema che risponde certamente a ragioni sociali e politiche, intorno al quale tutti i giorni ci sono discussioni, confronti e spesso liti politiche. Tutti i giorni gli organi di informazione commentano e intervengono sul tema, però manca l'elemento fondamentale per capire di cosa parliamo, cioè la conoscenza scientifica.

Io, che pure ho trattato per molto tempo le questioni previdenziali e dello stato sociale, negli ultimi tempi mi sono accostato al problema chiedendo proprio elementi che prima non erano in mio possesso, non solo quelli della razionalità ma anche quelli del carattere scientifico che c'è dietro alcune norme e alcune scelte che abbiamo fatto. Sicuramente, il sistema contributivo che abbiamo inserito nel 1995 obbedisce a leggi scientifiche non discutibili; sicuramente risponde ad una legge politica un'altra verità che invece viene sistematicamente ignorata. Ho letto anche di recente una serie di articoli che fanno risalire questa scelta al '95, peraltro con una specie di atto di accusa verso il Governo dell'epoca per aver segnato quella linea di demarcazione fra quelli che avevano 18 anni di contributi e quelli che non li avevano ancora raggiunti, dimenticando tutti che la questione che fissava una prima soglia di differenza contributiva era nata nel 1992, con il Governo Amato.

Nel governo del 1992 nacque la prima divisione, che allora era a 15 anni, tra lavoratori, tra il sistema retributivo accanto al sistema contributivo e soprattutto la diversità di calcolo. Quindi siamo in un percorso che è stato costruito con un confronto sociale spesso con grandi scontri sociali e che portò nell'arco degli anni che vanno dal '92 al 1997 il nostro paese a realizzare tre riforme delle pensioni. Tutte queste riforme furono concordate e prima discusse con il sindacato. Mi rendo conto che non si può fermare l'insistenza della discussione ancora aperta, sempre sullo stesso tema, capisco molto di meno quando insistendo nella discussione sullo stesso tema si fa costante riferimento all'Europa. Mi sento di dire, anche perché a quell'epoca facevo quel mestiere, che quando in Europa si parlava d'altro da noi avevamo già iniziato la stagione delle riforme. Nel '92, nel '95 e nel '97 ne abbiamo fatte tre. Per una certa competenza non scientifica ma sicuramente di esperienza posso dire che alcune riforme di cui si parla ora e che stanno provocando scontri in giro per l'Europa noi le abbiamo adottate otto anni fa ed in maniera più incisiva di quanto non vengano proposte ora.

Quindi operiamo in un sistema in cui credo che la conoscenza esatta, la conoscenza scientifica, siano importanti e non a caso i dati saranno esposti da professori particolarmente esperti nella materia, certamente non influenzati ed influenzabili da ragioni politiche, i quali quindi ci potranno dare un quadro esatto della situazione così come si è determinata e dei problemi che ancora esistono - perché qualche problema esiste - magari di natura diversa da quelli di cui si parla.

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Quindi l'incontro di oggi ha queste caratteristiche. Ci sono molti interventi programmati, negli intervalli previsti sia in mattinata sia oggi pomeriggio. Iniziamo il confronto vero e proprio dando la parola per prima alla professoressa Elsa Fornero che è professore straordinario di economia politica presso l'università di Torino e direttore del C.E.R.P. È stata membro della commissione ministeriale per la verifica del sistema previdenziale ed autore di numerosi iscritti in materia di risparmio delle famiglie, indebitamento pubblico, previdenza sociale, mercati assicurativi e fondi pensione. Inoltre è anche editorialista del Sole 24 ore e nel 2003 ha vinto il premio INA per gli studi in materia assicurativa. A lei il piacere di introdurre i lavori.

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SESSIONE I: PENSIONI

ELSA FORNERO

Docente di Economia politica all’Università di Torino

Problemi aperti nella transizione previdenziale italiana

Ringrazio anzitutto per l’invito a tenere una relazione in questo convegno

incentrato non già sulla riforma del sistema previdenziale italiano, bensì sul confronto tra due diverse modalità di applicazione dello stesso fondamentale principio per la determinazione delle pensioni, ossia il calcolo contributivo con capitalizzazione nozionale. Probabilmente le persone nel pubblico che già mi hanno ascoltata in altre occasioni sentiranno cose non nuove. D'altronde credo che nel mio pensiero in tema di pensioni non ci siano stai mai grossi cambiamenti, almeno per quanto attiene alle base fondamentali dell’architettura previdenziale.

Ringrazio il presidente per aver sottolineato che la mia è una posizione scientifica e quindi indipendente da influenze politiche. La posizione degli economisti, sul tema della previdenza, infatti, non dovrebbe cambiare a seconda del colore politico degli interlocutori.

Ciò non significa, ovviamente, che vi sia un sistema pensionistico universalmente valido, indipendentemente da circostanze storiche e da condizionamenti istituzionali e sociali. Anzi, come docente, comincio sempre i miei corsi insegnando che in economia non esiste determinismo, non ci sono “leggi immutabili”, né esiti necessariamente scontati. Ritengo che questo principio si applichi anche al sistema previdenziale; sono convinta che tale sistema si debba ispirare a princìpi, ma ritengo altresì – e questo è stato sottolineato anche nelle parole del presidente – che in questo caso, poiché la struttura del sistema previdenziale riflette il modo in cui è fatta la società, entri necessariamente in gioco anche la componente del consenso.

Tornando ai principi, è possibile individuarne alcuni che definiscono le caratteristiche di un “buon” sistema previdenziale: su di essi dovrebbero fondarsi il disegno e, pertanto, anche le riforme. Questi principi sono:

- la sostenibilità finanziaria; - l’equità tra ed entro le generazioni - l'assenza di effetti distorsivi sulle scelte di lavoro e di risparmio.

Nonostante appaiano come principi ovvi, sono però di difficile applicazione,

come è dimostrato dal fatto che erano fortemente disattesi nel sistema precedente alle riforme degli anni ’90 e continuano ad esserlo ampiamente nel lungo periodo di transizione che ci porterà al nuovo regime contributivo a capitalizzazione nozionale, anche adottato dalla Svezia (ma con una transizione assai inferiore).

1. La sostenibilità finanziaria è un concetto sul quale gli economisti spesso si

soffermano, poiché non si tratta di un concetto immediato. Essa non è infatti da interpretarsi ovviamente anno su anno; posto che un sistema sia, come il nostro, finanziato con i contributi sociali (esistono sistemi che sono finanziati con una tassazione generale, ma non voglio in questa sede entrare nel merito della questione) non è necessario che il sistema debba generare tante risorse quante sono le prestazioni in ogni anno. La sostenibilità si misura invece nel tempo, come tendenza all’equilibrio finanziario e al rispetto del cosiddetto “vincolo di bilancio intertemporale”.

Il sistema italiano pre-riforma presentava un grave disavanzo sistematico. Per molto tempo tale sistema non si è basato su proiezioni di lungo termine; al

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contrario, i calcoli erano se non improvvisati, quantomeno abbastanza miopi. Le proiezioni nel tempo del sistema previdenziale – cominciate proprio su impulso di alcuni studiosi come il prof. Gronchi – sono state poi recepite e rielaborate dagli esperti della Ragioneria Generale dello Stato.A queste proiezioni si deve la sensibilizzazione politica al sistema dell’insostenibilità.

Dopo le riforme degli Anni ‘90, lo squilibrio finanziario è fortemente diminuito, diventando più tollerabile. Tuttavia, se si guarda al futuro prossimo, ad esempio fino al 2030 (però è possibile andare anche oltre) e si valutano gli effetti delle riforme, torniamo a esprimere dubbi sulla sostenibilità di lungo termine proprio della transizione. Premetto che non tutti riconoscono e accettano la validità di queste proiezioni, sostenendo che nei prossimi cinquant’anni possono esserci forti cambiamenti nelle dinamiche demografiche. D’altra parte, i demografi assicurano che tale evoluzione è sostanzialmente prevedibile, e che i cambiamenti, considerando anche il fattore immigrazione, sono limitati entro scenari realistici.

Osserviamo dunque, nella tabella 1, i disavanzi del sistema previdenziale in percentuale del PIL, calcolati tenendo conto delle riforme già fatte e della loro lenta applicazione1.

Tabella 1 Disavanzi in % del Pil

Anni FPLD A&C DP Totale* 2000 2.03 0.18 1.15 4.09 2010 2.46 0.42 1.13 4.55 2020 2.56 0.59 1.18 4.68 2030 2.56 0.60 1.24 4.60 2040 1.57 0.35 0.60 2.62 2050 0.29 0.15 0.20 0.69

* Comprensivo dei valori relativi ai coltivatori diretti.

Nella tabella si osservano disavanzi intorno al 4,4-5% del PIL nei prossimi 30 anni e, successivamente, valori che, in virtù delle riforme approvate, convergono, ma non si assestano sullo zero neanche nel 2050. Ciò vuol dire – immagino che questo tema sarà affrontato in particolare dal professor Gronchi – il sistema non andrà in equilibrio finanziario neanche nel 2050 e probabilmente neanche nel 2060, ciò che suggerisce l’opportunità di interventi non soltanto per correggere la transizione, ma anche per correggere il futuro regime.

Spesso, durante i dibattiti sulle riforme previdenziali, mi è stato domandato se era poi così grave portare avanti tale disavanzo e se non ci si poteva permettere invece di mantenerlo. La mia risposta è: forse sì, è possibile. Dalle cifre presentate, il paese non risulta sull’orlo di una crisi finanziaria, poiché le riforme fatte sino ad ora conferiscono al sistema la direzione giusta verso una riduzione del disavanzo. Sarebbe possibile quindi prevedere di attingere periodicamente al bilancio generale – sotto forma di tagli ad altre spese oppure di rinunce ad abbattimenti delle imposte – per integrare gli ammanchi del bilancio previdenziale.

Questo è probabilmente fattibile, ma non senza costi. Nella mia attività di insegnamento spiego molto spesso che in economia esiste sempre un trade-off. In questo caso, esiste infatti anche la necessità di favorire la crescita – che al momento sembra essere in fase di rallentamento. La crescita non si promuove con misure congiunturali di breve termine (come l’aumento delle spese), ma investendo in capitale umano, in ricerche, in infrastrutture. Le risorse per tali investimenti saranno tuttavia tanto minori quanto maggiore è l’assorbimento per la spesa pensionistica. Come paese, dunque, siamo nella condizione di potere sostenere

1 Elaborazioni del CeRP su dati della Ragioneria Generale dello Stato.

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questo disavanzo, pur rispettando i parametri ristretti di Maastricht e del patto di stabilità. Le conseguenze sul funzionamento complessivo dell’economia però potranno essere pesanti.

2. Un secondo requisito di un buon sistema previdenziale, soprattutto se

pubblico, è il rispetto dell'equità. Anche in questo caso, nella definizione del termine esiste molta ambiguità. Il sistema previdenziale, dal nostro punto di vista, ha lo scopo di trasferire risorse dall'età lavorativa all'età anziana. Come tale, il sistema deve essere efficiente, ossia non sprecare risorse, non generare costi inutili.

La società ha inoltre il dovere di farsi carico delle necessità degli individui più deboli, o più sfortunati, in termini di carriere lavorativa e di reddito. Tale compito, a mio parere, non deve gravare sul sistema previdenziale. Infatti, quanto più tale sistema viene utilizzato per scopi di assistenza e di redistribuzione, tanto meno esso sarà efficace nel raggiungere l’obiettivo per cui è preposto, ossia di fornire delle buone pensioni.

Per di più, la redistribuzione attuata dal sistema previdenziale non è basata sulla tassazione generale, bensì sui contributi, che a loro volta gravano sul costo del lavoro. Quindi, anche sotto questo profilo, sarebbe preferibile finanziare la redistribuzione di tipo assistenziale con una tassazione che colpisca anche i redditi da capitale e non solo i redditi da lavoro.

Inoltre, in nome della redistribuzione equa il nostro sistema previdenziale ha creato molte ingiustizie, difficilmente accettabili sotto ogni criterio di equità. Abbiamo ancora, nella lunga transizione verso il regime contributivo, un sistema previdenziale che dà di più a quelli che hanno di più, non perché hanno versato di più, ma perché sono più fortunati. Questa non è una redistribuzione equa, socialmente accettabile.

Mi sembra che un criterio accettabile di equità per il sistema previdenziale debba essere quello dell'equità attuariale. Il sistema previdenziale deve trattare allo stesso modo carriere contributive diverse, ancorandosi a parametri oggettivi come l'ammontare dei contributi versati e l’età di pensionamento. Ovviamente, devono essere ammesse delle eccezioni, come quelle per i lavoratori usuranti, ma le eccezioni possono essere giustificate soltanto da giustizia, di compensazione di un divario o di una perdita.

Occorre dunque che il sistema previdenziale si occupi solo di ciò per cui è preposto, ossia di assicurare delle buone pensioni e lasci la redistribuzione a meccanismi trasparenti basati sul finanziamento con tassazione generale. In questo modo, si può evitare che alcuni individui o lobby ottengano trattamenti privilegiati.

Un’analogia alla quale ricorro spesso è la seguente: quando dobbiamo spiegare che cosa ha piegato l'inflazione italiana diciamo che un elemento fondamentale è stata l’indipendenza della Banca d’Italia dal governo e l’assunzione di una piena responsabilità nei confronti del suo ruolo, con abbandono di altri obiettivi che creavano solo ambiguità nel suo ruolo istituzionale. L'obiettivo della Banca centrale è quello di tutelare la moneta, non quello di ridistribuire il reddito, di favorire l'occupazione o di riequilibrare il Sud rispetto al Nord. Quelli sono obiettivi importanti, rilevanti, che però competono alla politica generale. La chiarezza sul ruolo istituzionale della banca centrale è stato un fattore fondamentale per ridurre l’inflazione italiana.

Analogamente il sistema previdenziale deve svolgere il ruolo che gli compete, non occuparsi delle ristrutturazioni industriali o darsi obiettivi di generale tutela sociale. Questi altri obiettivi debbono essere raggiunti attraverso altri strumenti, altri schemi di assicurazione sociale.

Empiricamente, il nostro sistema è ancora lontano dall’equità attuariale, sia entro, sia tra le generazioni. Come si può osservare, si è fatta una distinzione tra il regime contributivo pro rata e il contributivo. Guardiamo alla tabella 2, che

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presenta indicatori di convenienza economica alla partecipazione al sistema previdenziale per diverse generazioni; nel nostro modello, le coorti che riceveranno la pensione calcolata con il metodo pro rata partono dal '58, quelle del contributivo partono dal '78. Tra gli altri dati, la tabella riporta una misurazione (realizzata con ipotesi del tutto ragionevoli) del valore attuale (net present value ratio, NPVR) delle prestazioni, rapportato al valore attuale dei contributi versati. Tabella 2 Indicatori di convenienza

Regime Coorti TIR TS NPVR Retrib. 1943 3.25 68.3 143 1948 3.06 70.4 136 1953 2.83 71.1 127

Pro rata 1958 2.31 64.7 109 1963 2.07 62.9 102 1968 1.85 60.1 95 1973 1.58 57.6 88 Contrib. 1978 1.57 57.5 87 1983 1.57 57.5 87

Nota: TIR: tasso interno di rendimento; TS: tasso di sostituzione; NPVR: Net present value ratio

Nell’ultima colonna possiamo vedere, su 100 lire di contributi versati, il

valore attuale dell’importo “restituito” dal sistema previdenziale. Posto che 100 sia il valore attuale di contributi, alle coorti del retributivo il sistema restituisce 143, con un rendimento buono, equivalente al 3,25 reale. Alle coorti del nuovo sistema, quelle giovani, saranno invece assegnate 88 lire sulle 100 versate. Ciò significa che queste generazioni sono penalizzate, subiscono una “tassazione netta” dal sistema.

Qualcuno potrebbe affermare che le ipotesi sottostanti a queste stime sono arbitrarie. Per le elaborazioni, si è ipotizzato un tasso di crescita del PIL, che è il valore adottato come tasso a cui capitalizzare i contributi nel sistema previdenziale pubblico, dell'1,5% (che, fra l'altro, è il tasso di riferimento adottato nella riforma Dini). Inoltre ogni volta che si attualizza, occorre considerare un tasso di sconto che porti a oggi i valori futuri. Noi abbiamo adottato il 2%. Però, se la ripartizione genera un interesse dell’1,5 e la capitalizzazione il 2, un individuo che aderisca ad un piano di risparmio che dà l'1,5% mentre da un’altra parte potrebbe guadagnarne il 2, perde ogni anno un rendimento pari allo 0,5% sui contributi versati.

3. Il terzo elemento che definisce un buon sistema previdenziale è l’assenza

di distorsioni, di forme occulte di tassazione. Varie distorsioni sono invece ancora presenti nel sistema italiano. La più macroscopica è, di nuovo, quella insita nella formula retributiva, caratteristica del sistema previdenziale ante riforma e della transizione. Che cosa si intende per effetti distorsivi del meccanismo a ripartizione? Il sistema previdenziale vive di contributi, per cui è essenziale incoraggiare la gente a lavorare in modo che si creino redditi e su questi redditi si paghino contributi. Paradossalmente, invece, tale sistema, anziché incoraggiare il lavoro dei lavoratori anziani, lo scoraggia, tassandone la prosecuzione. Nella Tabella 3, nelle prime tre righe sulle tre colonne, è evidenziato il valore della perdita, in termini di tassazione implicita sul reddito annuo da lavoro, che subiva una persona nata nel 1943 con 35 anni di contribuzione se decideva di lavorare un anno in più: essa ammonta al 43% della retribuzione annua (di nuovo, si tratta di ipotesi, ma sono pronta a discuterle). Con 37 anni si perde il 50%, con 40 il 72%. Questi calcoli non sono fatti sui flussi dell’anno, bensì guardando al futuro: se si decide di lavorare un anno in più, si paga un anno di contributi in più; il valore della pensione cresce, ma ovviamente si

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riceverà il beneficio pensionistico per un anno in meno. Si considera, pertanto, la perdita sulla ricchezza previdenziale e la si rapporta al reddito annuo. Tabella 3 La “tassa” sul proseguimento del lavoro (in % della retrib. lorda)

Anni di contribuzione

Regime Coorti 35 37 40 Retrib. 1943 43 52 72 1948 52 59 72 1953 53 61 72

Pro rata 1958 29 29 29 1963 20 20 20 1968 11 11 10 1973 4 3 2 Contrib. 1978 4 3 2 1983 4 3 2

I lavoratori fanno calcoli di questo tipo? Probabilmente no, però in economia si prendono in considerazione individui razionali, i quali, anche senza fare calcoli complessi, intuiscono le perdite e tendono a evitarle. Se, nel caso in cui si abbia il diritto di andare in pensione, ci si trova di fronte a una perdita in caso di prolungamento dell’attività lavorativa, si decide ovviamente per la pensione.

Se si considerano approssimativamente valide le cifre indicate nella tabella, la riduzione contributiva promessa nella delega pari all’intera aliquota contributiva (il 33 per cento circa della retribuzione lorda), non basterà a compensare il lavoratore di questa perdita, che verrà soltanto ridotta. Ecco perché si prevede che gli incentivi saranno scarsamente efficaci.

Il dibattito sulle possibili correzioni è aperto. L'applicazione del pro rata, ossia l’introduzione del nuovo metodo contributivo a partire da oggi per tutti i lavoratori, indipendentemente dal resto della vita lavorativa, avrebbe avuto un senso, anche in termini di equità, nel 1995. Oggi questa misura non è più neanche scarsamente efficace.

E’ stata proposta anche un’applicazione rigorosa del metodo contributivo. Ciò significa applicare tale metodo anche al passato, ossia operare una correzione al ribasso per le pensioni di anzianità nella transizione. In altri termini, usando un gergo giornalistico, vuol dire disincentivare l'uscita riducendo la pensione di anzianità. In questo caso, però si vanno a toccare dei diritti acquisiti, delle promesse fatte dallo Stato. A questo proposito, la tabella 4 mi sembra molto interessante.

Tabella 4 Vita attesa alle diverse età

Maschi (Fonte: ISTAT e RG)

Età 1964-67 1990 1996 RG48 52 22.42 24.94 26.10 29.47 54 20.80 23.23 24.37 27.76 56 19.25 21.57 22.68 25.91 58 17.76 19.97 21.02 24.17 60 16.35 18.42 19.42 22.46 62 15.01 16.94 17.89 20.78 64 13.74 15.52 16.41 19.12

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Le pensioni di anzianità sono state introdotte in linea generale negli anni '60. Osserviamo la tavola di mortalità dell'ISTAT riferita al periodo '64-'67. La vita attesa a 52 anni è di 22,42 anni. Secondo la tavola di mortalità RG48 - oggi ampiamente usata dalle compagnie di assicurazione - 22 anni corrispondono oggi a 60 anni di età. Questo vuol dire che quando è stata fatta quella promessa pensionistica, un individuo che andava in pensione a 52 anni aveva una vita attesa di 22. Oggi se andasse in pensione alla stessa età avrebbe una vita attesa di 29. Ciò significa che tale individuo percepirà la pensione per 7 anni in più e tale pensione sarà pagata dalle nuove generazioni. Piuttosto che venire meno ad una promessa, a me sembra invece che la correzione delle pensioni di anzianità equivalga a “spalmare” quella promessa su un periodo più lungo; tuttavia, la proposta ha incontrato sinora una grandissima opposizione.

Anche l'età minima di pensionamento fissata a 57 anni nel metodo contributivo è da discutere. A mio parere, non ha senso che tale limite resti fisso, perché sappiamo che da qui al 2005 la vita attesa aumenterà. Quindi se adesso ha un senso andare in pensione come minimo a 57 anni, nel 2050 avrà un senso andare in pensione probabilmente da 64 a 70 anni. Il limite inferiore andrebbe pertanto indicizzato alla longevità, mentre quello superiore potrebbe essere abolito.

Molti hanno sostenuto che la riforma del '95 non sia una buona riforma. La

mia impressione è che quella riforma sia invece buona, anche se ovviamente non perfetta, come nessuna d’altronde può esserlo. Fra l'altro, nel 2005 dovrebbe esserci un appuntamento importante: infatti, in quella data saranno passati dieci anni dall'avvio della riforma e quindi dovrebbe avere luogo la revisione dei coefficienti di trasformazione applicati in sede di determinazione della pensione. Indipendentemente dagli interventi che potranno essere presi per correggere gli squilibri e le distorsioni che ancora caratterizzano la transizione, potrà essere quello il momento nel quale si potranno correggere le manchevolezze dell’applicazione del nuovo regime contributivo: dalla discrepanza tra aliquota effettiva e aliquota di comp uto alla costanza della pensione in termini reali durante il periodo di godimento. Problema quest’ultimo che è particolarmente caro al Prof. Gronchi, al quale lascio la parola. PRESIDENTE. Interviene ora il professor Sandro Gronchi, con cui si è organizzato questo confronto. Il professor Gronchi è professore ordinario di economia politica presso l’università di Roma “La Sapienza”; dal 1985 al 1998 è stato consulente della Ragioneria Generale dello Stato sui temi previdenziali ed in questa veste ha fatto parte del team di cui si è avvalso il governo Dini per predisporre il progetto di riordino del sistema pensionistico, cosa che conosco abbastanza. Dal 2001 è consulente sugli stessi temi della presidenza del CNEL. È autore della ricerca svolta nel 1993, nell’ambito del rapporto di consulenza con la ragioneria generale dello Stato.

SANDRO GRONCHI

Docente di Economia politica all’Università di Roma “La Sapienza”

Sistemi a ripartizione equi e sostenibili: modelli teorici e realizzazioni pratiche

Chi ha avuto la pazienza di dare un'occhiata al lavoro presentato oggi si sarà

reso conto della sua mole, spero non soltanto vista in termini di pagine compilate. In questa sede mi rimane pressoché impossibile, quand'anche il nostro coordinatore

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mi desse tutto il tempo disponibile per la mattinata, affrontare tutte le questioni discusse e analizzate. Mi devo concentrare necessariamente su uno, forse se ci sarà il tempo due temi che a me sembrano i più cruciali e importanti.

Il primo è quello della indicizzazione, un tema sul quale sono tornato tante volte - lo ricordava Elsa Fornero poc'anzi nel corso della sua relazione - ma non è in quei termini soltanto che vorrei parlare della questione. Anzi non è affatto in quei termini che vorrei parlarne, non è in termini di pensione d'annata che vorrei affrontare il problema, anche se in chiusura mi riservo di fare un cenno anche a questa questione per la quale vengo spesso menzionato.

Vorrei cominciare col dire che nonostante sia stato fatto poco per spiegare agli italiani una riforma così epocale come quella del 1995, a 8 anni di distanza credo siano state per lo più comprese le finalità che lo schema contributivo intende perseguire: da un lato l'equità - è stato più volte ricordato questa mattina - intesa come equivalenza attuariale fra la pensione goduta e la contribuzione versata; dall'altro la sostenibilità intesa come la capacità del sistema pensionistico di adattare la spesa al gettito contributivo corrente e ai mutevoli andamenti che questo possa avere in dipendenza di cicli tanto demografici quanto economici.

Temo però che pochi abbiano compreso le modalità o le ragioni con o per le quali tali obiettivi possono essere raggiunti. Si potrebbe pensare che l'incomprensione dei fondamenti teorici e dei tecnicismi dello schema contributivo non sia così importante. Come è emerso dalla relazione di Settergren, essi sono piuttosto complessi e non si può pretendere che questa complessità sia pienamente dominata dal grande pubblico e neppure dalla maggioranza degli addetti ai lavori. Si potrebbe dire che ciò che importa è che vi sia il consenso politico sulle finalità sopra ricordate mentre gli strumenti potrebbero essere lasciati agli specialisti. Mi pare di capire - mi smentisca Settergren se così non stanno le cose - che nonostante i momenti di difficoltà da lui poc'anzi ricordati, sia stata esattamente questa l'esperienza svedese: il Parlamento approvò i principi incaricando i tecnici, il pension group di cui Settergren parlava poc'anzi, di trovare il modo di realizzare quei principi. In Italia l'approccio tecnocratico non mi pare sia stato possibile e sul rigore spesso incompreso hanno prevalso talvolta la mediazione politica talvolta l'arbitrarietà.

La ricerca presentata oggi mi ha offerto anche l'occasione di approfondire lo schema contributivo svedese del quale in Italia si sa ancora oggi ben poco, qualcosa di più dopo avere appena sentito la splendida relazione di Settergren. Spero che il lavoro presentato oggi sia in qualche modo ambivalente, non nel senso che si potrebbe ironicamente pensare del termine, ma nel senso che possa servire non solo agli italiani per conoscere la riforma svedese ma anche agli svedesi per conoscere la riforma italiana; augurabilmente servirà anche a tutta quella crescente popolazione di studiosi che in campo internazionale prestano attenzione al modello contributivo e alle sue realizzazioni pratiche, cozzando però contro l'indisponibilità di materiali in lingua inglese che riguardino l'Italia.

L'analisi della riforma svedese è stata possibile solo grazie alla preziosa collaborazione dei cortesissimi "informatori ", tra i quali considero annoverare non solo Settergren, il relatore di oggi ma anche Budrun Henson del National Social Insurance Board, la cui pazienza è stata davvero infinita nel rispondere ogni volta alle petulanti richieste di approfondimento.

I risultati hanno ripagato, mi pare, il lavoro svolto consentendo di verificare la stupefacente identicità delle idee che, in assenza totale di contatti, nascevano contestualmente nei primi anni '90 in Italia e in Svezia; dallo stupore non sembra essersi ancora ripreso un politologo americano che si occupa di trasmissione internazionale delle idee, il professor Michael Oliver, il quale mi scrive dicendo che trova di grande interesse la nascita contestuale del modello contributivo in due Paesi diversi ed insiste con più di un pizzico di scetticismo, col chiedermi se davvero bisogna credere alla storia dell'assenza totale di contatti tra gli intellettuali italiani e

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svedesi. Stupisce altresì che, neppure a riforme fatte, siano mai state costruite

occasioni come quella di oggi, spero che essa inauguri una stagione di fruttuosi contatti che possano stimolare ed aiutare i governi dei due Paesi in una materia come quella della implementazione della pratica del modello contributivo in cui, a mio modo di vedere, resta specialmente in Italia ancora molto da fare. In un contesto nel quale le pensioni e più in generale l'invecchiamento demografico sempre più vengono proposti come temi europei, l'intensificazione dei contatti tra i due Paesi può aiutare a creare le condizioni affinché il semestre di presidenza italiano possa essere l'occasione per far apprezzare il modello contributivo al resto d'Europa.

A questo proposito vorrei citare le parole di un grande economista americano, che molti conosceranno, Martin Felstein, che in un libro ancora fresco di stampa ha accusato la maggior parte dei Paesi europei fra i quali Francia, Germania e Spagna di avere fin qui soltanto giocato con le riforme delle pensioni, realizzandone di scarsamente significative o non realizzandone affatto. Per tali Paesi è ora, secondo Felstein, di imparare, cito le sue parole, dalle esperienze svedese e italiana. Si tratta di un grande riconoscimento che proviene da uno dei maggiori fautori della capitalizzazione oltre che da un economista di grande prestigio internazionale da sempre ascoltato dai governi degli Stati Uniti d'America.

Certamente il riconoscimento di Felstein non mancherà di suscitare nel mondo ulteriore interesse per il modello contributivo e quindi anche, spero, per la nostra modesta ricerca.

Entro ora nel vivo della relazione, venendo al punto che più mi interessa e che riguarda il meccanismo di indicizzazione adottato dallo schema contributivo italiano. Con lo stesso linguaggio che usavo dieci anni fa e che mi pare sia riecheggiato anche qui questa mattina, vorrei esordire ricordando che il modello contributivo concepisce il sistema a ripartizione come una banca virtuale: ad ogni lavoratore la banca intesta un conto corrente sul quale sono prima depositati i contributi e dal quale sono poi prelevate le prestazioni, le annualità di pensione. I conti, lo ricordava Settergren sono fruttiferi ed è fondamentale comprendere che ogni anno la banca virtuale deve accreditare su tutti i conti lo stesso tasso di interesse; è proprio l'uniformità dell'interesse a garantire l'equità e cioè la parità di trattamento fra i correntisti. La sostenibilità è garantita dalla scelta di questo tasso uniforme, la quale deve ricadere sulla crescita percentuale della base imponibile della contribuzione previdenziale e perciò sull'aggregato macroeconomico rappresentato dai redditi del lavoro dipendente e autonomo. Si può dimostrare - e lo fa in modo nuovo e spero stimolante la ricerca che viene proposta quest'oggi - che erogando un interesse esattamente uguale alla crescita dei redditi da lavoro, la banca virtuale riesce ogni anno a subire prelievi, cioè a pagare pensioni, in misura esattamente uguale almeno ai depositi, cioè alle contribuzioni che in quello stesso anno riceve; in questo senso la crescita dei redditi da lavoro dà la misura esatta dell'interesse sostenibile.

Mi rendo conto che il teorema può non essere intuitivo e dare perciò adito all'incredulità o allo scetticismo, peraltro ripetutamente manifestatomi da taluno, ma spero si condivida che il compito della ricerca scientifica non è precisamente quello di produrre risultati ovvi o banali che già siano alla portata di tutti. Sia in Italia che in Svezia l'interesse sostenibile non è stato propriamente identificato nella crescita dei redditi da lavoro, piuttosto si sono scelte delle approssimazioni: in Italia si è scelta la crescita del prodotto interno lordo, confidando nella sostanziale sostenibilità di lungo periodo e nel rapporto fra i due aggregati; in Svezia si è scelto il tasso di crescita del reddito da lavoro medio anziché aggregato che però, come ci ha appena spiegato Settergren, viene annualmente corretto con la pregevole procedura attuariale, il balance meccanism di cui Settergren medesimo è l'ideatore.

Tornando all'equità, ho detto che essa è garantita dall'uniformità

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dell'interesse erogato dalla banca virtuale, sostenibile o no che sia questo interesse; a maggior ragione l'interesse deve essere lo stesso per lavoratori e pensionati, all'una e all'altra popolazione di correntisti la banca deve accreditare il medesimo tasso. Ciò premesso il mio punto è che la riforma italiana ha violato questa esigenza fondamentale di equità prevedendo che ai pensionati sia erogato un interesse diverso da quello erogato agli altri lavoratori. Per dimostrare l'infondatezza delle tesi contrarie e quindi la fondatezza della mia, devo accennare sia pure con semplicità ad alcuni tecnicismi, già peraltro discussi da Settergren poc'anzi, che riguardano il trade off fra la prima annualità di pensione e l'indicizzazione delle annualità successive.

Descrivo prima il caso standard, il caso di default si potrebbe dire con linguaggio mutuato dalla informatica. Il caso di default è quello in cui le annualità di pensione non ancora indicizzate sono ottenute spalmando il montante contributivo sull'intera durata della pensione e perciò ove non sia prevista la reversibilità della rendita sulla speranza di vita al pensionamento. L'indicizzazione è identica all'interesse sostenibile perché essa è proprio la modalità con cui tale interesse è erogato dalla banca virtuale ai pensionati, mentre agli attivi è erogato in forma muta e cioè in forma di aumento del montante contributivo di cui poi gli attivi si accorgeranno soltanto al pensionamento, i pensionati se ne accorgono subito perché ricevono in forma di indicizzazione l'interesse sostenibile; questo era il caso di default. In alternativa a questo caso, il modello contributivo consente di anticipare ai pensionati una parte dell'interesse sostenibile, uso questo linguaggio a me non congeniale, perché lo trovo efficace e perché me lo insegnò Geroldi quando lavoravamo insieme su queste questioni. Preferisco personalmente parlare di deviation rate, come ricordava Settergren, ma quel modo di vedere le cose troppo tecnico finisce col non dare il senso che invece è più chiaro usando questo altro tipo di linguaggio.

Allora dicevo in alternativa al caso di default, il modello contributivo consente di anticipare ai pensionati una parte dell'interesse sostenibile loro spettante dal pensionamento in poi, in modo da accrescere la prima annualità di pensione e perciò garantire un tasso di sostituzione più generoso, più precisamente il coefficiente di trasformazione è accresciuto oltre il valore rappresentato dal reciproco della speranza di vita. In tal caso all'indicizzazione resta il compito di conguagliare l'interesse sostenibile ovvero di erogarne la parte residua. Questa via tatticamente utile per ottenere consenso sociale fu scelta sia dalla Svezia che dall'Italia: in Svezia fu anticipato l'1,6% del rendimento sostenibile e in Italia l'1,5%; tuttavia mentre la riforma svedese delineò un'indicizzazione perfettamente coerente con la scelta di anticipare parzialmente l'interesse sostenibile, l'Italia dimenticò per strada la scelta compiuta e anziché rivalutare le pensioni in ragione della crescita del PIL diminuito dell'1, 5%, la riforma del '95 si limitò del tutto estemporaneamente a confermare i criteri di rivalutazione formulati in occasione della precedente riforma del '92.

Ricordo a tutti che questi criteri prevedono: forme automatiche di indicizzazione ai prezzi che garantiscono il pieno recupero dell'inflazione per le pensioni di importo più basso e il recupero parziale per quelle di importo più alto; ulteriori forme discrezionali di rivalutazione, che i governi sono autorizzati a concordare con le organizzazioni sindacali. A onor del vero dal '92 ad oggi a tali ulteriori rivalutazioni discrezionali non si è fatto mai ricorso a meno di non voler ricomprendere in esse gli aumenti recentemente concessi dal governo in carica alle pensioni inferiori a 516 euro mensili. Ciò non toglie che le rivalutazioni discrezionali sono esplicitamente consentite dall'ordinamento, anzi occorre aggiungere che la riforma del '95 è intervenuta imponendo perfino una sorta di obbligatorietà delle medesime, sia pure espressa in termini estremamente vaghi con decorrenza dal 2009 per le pensioni di importo modesto fino a 10 milioni di vecchie lire.

Per avere collaborato all'impianto della riforma contributiva come consulente

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del tesoro ed aver vissuto le frenetiche vicende del '95 a fianco di Piero Giarda che ci onora della sua presenza oggi, che era allora speciale sottosegretario di un dicastero retto ad interim dal presidente del consiglio, per tutto questo posso testimoniare, Giarda me ne darà conferma, che la ragione di questo errore cruciale trova origine nella presunta inaccettabilità sociale di un doppio regime di indicizzazione; quello in vigore dal ‘92 sopra ricordato avrebbe dovuto sopravvivere per le pensioni retributive, mentre quello nuovo (il PIL meno l'1,5%) avrebbe dovuto entrare in vigore per le pensioni contributive. I due regimi avrebbero dovuto coesistere per essere applicati non solo ad individui diversi ma perfino ad uno stesso individuo tenuto conto delle pensioni miste in parte retributive in parte contributive da liquidare nel lungo periodo transitorio.

In Svezia la stessa preoccupazione, di evitare cioè la convivenza di regimi di indicizzazione diversi, fu risolta in modo opposto e cioè estendendo alle pensioni retributive fino allora indicizzate ai prezzi, l'indicizzazione propria di quelle contributive, rendimento sostenibile meno nel caso loro l'1,6%; la scelta svedese appare razionale pur sembrandomi che il doppio regime potrebbe essere ben tollerato da lavoratori maturi che abbiano consapevolmente accettato le logiche della riforma contributiva. Invece la scelta italiana appare una inammissibile fuga all'indietro che pur di evitare temporanee differenze non esitò a compromettere in via definitiva l'impianto stesso dello schema contributivo. Ma quali saranno le reali conseguenze di questo regime di indicizzazione sbagliato? In altre parole tale regime è solo antiestetico limitandosi a determinare un brutto salto logico nella architettura complessiva della macchina contributive italiana oppure avrà conseguenze economiche impedendo alla macchina stessa di raggiungere le sue mete?

La risposta dipende in primo luogo da quanto i governi saranno in grado di evitare le rivalutazioni discrezionali in aggiunta a quelle automatiche. Se tali rivalutazioni discrezionali saranno del tutto evitate, mediamente le pensioni avranno indicizzazioni di poco inferiori ai prezzi, perciò se il PIL crescesse stabilmente intorno alle 1, 5% in termini reali, l'errore logico avrebbe scarse conseguenze economiche; ma se le ulteriori rivalutazioni discrezionali saranno concesse, allora le conseguenze saranno pesanti impedendo sia la sostenibilità che l'equità del sistema. Infatti da un lato l'interesse sostenibile sarà ampiamente sforato e dall'altro i pensionati riceveranno un interesse superiore a quello degli attivi, in occasione di ogni perequazione una tantum che i governi dovessero concedere.

A questo secondo proposito non deve indurre in errore il fatto che tutti i partecipanti al sistema non sfuggono alla sorte che li vede prima attivi poi pensionati; infatti l'interesse medio, più correttamente il rendimento implicito sarebbe diverso per individui che ripartissero diversamente il loro tempo fra il lavoro e la pensione: ad esempio scegliendo una diversa età di pensionamento o entrando ad età diverse nel mercato del lavoro.

Per comprendere la probabilità delle rivalutazioni discrezionali e perciò quanto il sistema sia minato dall'errore logico che ho denunciato, osservo che l'indicizzazione delle pensioni ai soli prezzi, in presenza di pensioni nuove che in virtù della formula contributiva tendono a crescere ogni anno alla stessa velocità dei salari unitari, determina il fenomeno delle pensioni d'annata e cioè della diversificazione per anno di decorrenza, ad esempio se i salari, e perciò le nuove pensioni, crescessero al 2% all'anno in termini reali fra pensioni liquidate a 10 o 20 anni di distanza l'una dall'altra potrebbero intercorrere forbici dell'ordine rispettivamente dei 20 - 25% o del 45 - 50%; in queste condizioni è facile comprendere che i governi non potranno resistere a lungo, le rivalutazioni discrezionali saranno necessarie per perequare le pensioni d'annata ed il sistema fallirà pesantemente i suoi obiettivi.

Apro una parentesi per ricordare a Elsa che poc'anzi rammentava le

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previsioni tanto del suo centro quanto della ragioneria generale dello stato, che le une e le altre sono ottenute scontando che sia possibile evitare le ulteriori rivalutazioni cioè la perequazione delle pensioni d'annata. Se ci comportassimo diversamente e ammettessimo scenari plausibili diversi da questo, la gobba non sarebbe il 16% del PIL ma sarebbe il 23% del PIL, basterebbe immaginare una indicizzazione sia pur parziale ai salari, una rincorsa sia pur parziale delle pensioni rispetto ai salari.

La tollerabilità sociale delle pensioni d'annata è una spada di Damocle che incombe anche sulla testa dello schema contributivo svedese, stante la scelta di accrescere il tasso di sostituzione anticipando addirittura l'1,6 anziché il nostro leggermente più modesto 1,5% dell'interesse sostenibile. Tuttavia e il loro vantaggio è tutto qui, ai lavoratori svedesi è stato spiegato che le pensioni d'annata, più precisamente la bassa indicizzazione che le genera, sono il prezzo da pagare per godere di tassi di sostituzione più generosi. So poi che in Svezia la scelta di anticipare l'1, 6% è stata anche condizionata dall'esigenza di contenere l'indicizzazione delle pensioni retributive che, come già ho detto, non doveva essere diversa da quella delle pensioni contributive; in Italia le cose sono andate diversamente nel senso che è stata assunta una indicizzazione assolutamente esogena e quindi per così dire di ordine o di origine contrattuale.

Continuo a pensare che per la Svezia come per l'Italia la soluzione alla duplice esigenza di evitare le pensioni d'annata e di non deprimere i tassi di sostituzione, sia quella di consentire ai lavoratori di scegliere liberamente la quota dell'interesse sostenibile da anticipare e perciò l'indicizzazione con essa coerente; è vero che questo potrebbe produrre fenomeni di selezione avversa in grado di squilibrare il sistema, specie in presenza di pensioni al superstite di reversibilità non opportunamente trattate. Non entro in ulteriori dettagli, ma si tratterebbe, a mio modo di vedere, di squilibri per nulla commensurabili, quindi di gran lunga inferiori a quelli generati dalle perequazioni discrezionali cui accennavo poc'anzi.

A prescindere dal rischio rappresentato dalle pensioni d'annata, la sostenibilità e l'equità dello schema contributivo italiano sono a rischio anche per la semplice ragione che, in presenza di un rapido calo della popolazione in età attiva, non vi è alcuna garanzia che la crescita del PIL possa davvero mantenersi all'1,5%, pur in presenza di crescite robuste della produttività e del tasso di partecipazione. Se nei prossimi decenni il PIL reale crescesse mediamente all'1% anziché all'1, 5%, per le ragioni tecniche che ho indicato, la banca virtuale finirebbe per erogare ai pensionati un interesse di mezzo punto superiore a quello sostenibile.

Infine vorrei spendere una parola a favore del rigore che a me sembra voglia anche dire buonsenso. La scelta italiana di una indicizzazione esogena slegata dal rendimento sostenibile e dalla quota di esso anticipata nella prima annualità di pensione ingenera la convinzione assurda che lo schema contributivo si qualifichi solo per la formula di calcolo della pensione, che deve risultare dal prodotto di un montante contributivo per un coefficiente di trasformazione e non anche per un preciso e coerente meccanismo di rivalutazione della pensione stessa. Non è casuale la ricorrente richiesta di indicizzazioni superiori all'inflazione che da destra e da sinistra viene periodicamente formulata senza sospettare che lo schema contributivo non consente alcuna libertà di scelta. Perfino i governi che respingono quelle richieste anche facendo semplici orecchie da mercante sembrano unicamente preoccupati dagli effetti che il loro accoglimento avrebbe sul bilancio dello Stato e non anche dalla loro infondatezza od estraneità rispetto alle logiche del modello pensionistico che il Parlamento votò nel '95 a larghissima maggioranza.

Temo che per lasciare spazio al dibattito debba interrompere qui la mia relazione. Avrei voluto parlare anche dei coefficienti di trasformazione, della loro attendibilità così come in Italia fu possibile calcolarli. Questa attendibilità forse non è così garantita e non lo sarà neppure in futuro se non si incarica il servizio statistico nazionale di procedere e provvedere alla raccolta dei dati necessari per i

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loro calcoli. Vorrei parlare anche dell'aggiornamento eccessivamente diradato nel tempo

e anche della mancata assegnazione per coorte dei coefficienti stessi così come accade in Svezia, la quale cosa pone problemi di legittimità costituzionale perché appunto non assegnare coefficienti ad una coorte significa implicitamente attribuire a membri della stessa coorte speranze di vita differenti.

Avrei voluto parlare della differenza tra le aliquote di computo e quelle di finanziamento, differenza che non ha ragion d'essere e che è un tradimento del principio di corrispettività che è fondamento stesso del modello contributivo. Avrei voluto dire, ma lo ha già fatto per me Elsa Fornero, che la decontribuzione proposta dal governo in carica è null'altro che un ampliamento della forbice fra aliquota di computo e aliquota di finanziamento e questa volta l'ampliamento non è di 0,3 punti come fu nel '95 ma è molto più consistente, quindi tale da infliggere un colpo pressoché mortale all'idea stessa contributiva, al fondamento stesso del modello che invece anche la maggioranza ora al governo contribuì a varare con il voto, se ben ricordo, in quell’anno 1995. Chiudo qui per mancanza di ulteriore tempo. Concludo però osservando che senza la collaborazione del professor Sergio Nisticò della Università di Cassino questa ricerca non sarebbe mai stata possibile. Mi ha offerto occasioni di confronto intellettuale che sono state preziose, spero, per me e per lui.

OLE SETTERGREN

National Social Insurance Board – Stockholm

Aspetti chiave della riforma pensionistica svedese

Grazie per avermi invitato, insieme ai miei colleghi, a Roma. Può essere che la Svezia abbia un buon programma pensionistico ma non abbiamo una città come Roma, così bene strutturata, e mi piacerebbe molto scambiarla con il nostro schema pensionistico.

Vi illustrerò una presentazione dello schema svedese, suddiviso in tre sezioni. Tratterò il processo di riforma politico, o alcuni aspetti di esso; quindi dirò qualcosa a proposito degli obiettivi dello schema; infine spenderò la maggior parte del tempo della mia presentazione sul progetto di questo schema.

E’ stato un processo politico molto lungo, in Svezia. È iniziato già nel 1991, quando ci fu un cambio di governo in Svezia, fatto molto raro perché normalmente il partito socialdemocratic o è sempre al governo.

Nel 1991 prese il potere un governo di centro-destra che aveva nella propria agenda l’idea di riformare il sistema svedese. Il governo socialdemocratico precedente aveva affrontato questo argomento, quindi il terreno era parzialmente preparato per questo processo. Molto rapidamente, già nel 1992, venne pubblicata una bozza per il nuovo sistema pensionistico che conteneva dettagli anche specifici che sarebbero dovuti essere trasformati in legge successivamente. E’ sorprendente come la legislazione abbia seguito questa bozza, composta da 89 pagine che tratteggiavano il nuovo schema pensionistico. In Svezia pensammo che fosse molto innovativo ed assomiglia molto al sistema pensionistico italiano che avete riformato circa nello stesso periodo.

Il lavoro continuò: nel 1994 il governo presentò altri dettagli della riforma e nello stesso anno vi fu un accordo politico tra i 5 partiti più grandi del Parlamento per predisporre la riforma. Con un processo legislativo molto raro, questi principi vennero portati nel Parlamento per essere sottoposti al voto. Normalmente in Svezia il Parlamento vota soltanto sulle leggi. In questo caso il Parlamento votò per i principi da introdurre nella nuova riforma. La ragione fu che non c’era abbastanza

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tempo per sviluppare la nuova legislazione, cosa che avrebbe richiesto due anni. Per evitare che questo progetto decadesse e per dargli maggiore forza, i partiti politici pensarono che sarebbe stato necessario renderlo ufficiale con una decisione del Parlamento, senza legislazione. Inoltre, con un modo di affrontare il progetto molto raro in Svezia, venne organizzato un gruppo di implementazione guidato dal ministro per gli affari sociali; cosa molto rara in Svezia perché normalmente un ministro non tratta mai questi dettagli.

Nel 1994 vi fu un nuovo importante cambio di governo. Il partito socialdemocratico tornò al potere ma poiché questo partito era stato parte della decisione di riformare lo schema pensionistico, nulla realmente accadde nel processo di riforma. Quindi ci volle molto più tempo di quello che pensammo per sviluppare la legislazione; vennero impiegati circa 3 anni per formulare il nuovo schema e venne presentato al parlamento nel 1998. Ci fu una legislazione ulteriore nel 2000 per i “buffer funds”, visto che ci sono “buffer funds” nello schema pensionistico svedese “pay-as-you-go”; questi hanno rappresentato la componente parzialmente finanziata. Nel 2001 l’ultimo punto della legislazione venne presentato al Parlamento: questo riguardava il meccanismo di bilancio, che rende il sistema completamente stabile da un punto di vista finanziario.

Lo schema è iniziato ad essere implementato con successo dalla prima metà del 1995, ma dal 2003 è completamente implementato e funzionante. La nuova tecnologia informatica che amministra il sistema è anche completa.

Può essere interessante dire qualcosa a proposito di cosa imparammo dal gruppo di lavoro sulle pensioni, guardando indietro a questo processo, e perché è stato un successo. Possiamo dire che è stato un successo almeno fino ad oggi, visto che l’ultima parte amministrativa che è stata introdotta secondo la nostra opinione è ben progettata. Una delle ragioni principali è che venne scelta da questo gruppo di lavoro una direzione chiara fin dall’inizio. La stabilità finanziaria era la priorità principale e questa divenne una sorta di priorità sociale in Svezia: se non era finanziariamente stabile, non sarebbe stato considerato socialmente un buon sistema perché se non è stabile qualcuno avrebbe dovuto pagare il conto prima o poi. Quindi la stabilità finanziaria viaggiava in parallelo con la stabilità sociale. Inoltre il processo è stato guidato da personalità di alto livello: politici di rango scelti tra tutti i partiti partecipanti. Ministri prima di tutto, ma poi anche alcune delle più spiccate personalità in Svezia sono state coinvolte in questo progetto. È stato un grande piacere lavorare in questo gruppo di lavoro perché ogni cosa è stata preparata per essere testata, in una cornice piuttosto rigorosa, perché tutto ciò che era nel progetto doveva essere finanziato. Ogni richiesta da parte dei politici doveva essere finanziata in qualche modo, perché c’era una limitazione a proposito della quantità di soldi che potevano essere considerati nello schema. Era anche un gruppo piuttosto piccolo: 7 politici ed un ufficio di segreteria relativamente piccolo, composto però da alcuni dei migliori esperti in Svezia. Io non ero quindi in quel gruppo; c’erano buoni legislatori e buoni economisti.

Inoltre non c’era nessuno troppo rigido in questa negoziazione. Potreste pensare che la Svezia è una nazione del consenso, ma è stata una negoziazione molto dura. Eppure non c’era nessuno in quella stanza che non partecipava alla trattativa, che era lì soltanto per prendersi cura dei propri interessi di partito.

Una delle spinte maggiori alla riforma era che la instabilità finanziaria del vecchio sistema era evidentemente dimostrata. Venne anche convincentemente dimostrato come il vecchio sistema fosse iniquo perché produceva una distribuzione molto caotica e non sistematica del reddito. Questa fu la ragione per cui i sindacati in Svezia parzialmente supportarono la riforma e parzialmente rimasero neutrali; nessuno combatté contro la riforma. Se i sindacati in Svezia si fossero battuti contro la riforma, questa non sarebbe stata presentata al Parlamento. Penso che fosse una situazione simile a quella italiana.

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Inoltre la riforma non riguardava il taglio dei costi; la riforma consisteva nel creare un sistema stabile finanziariamente. In un’ipotesi di sviluppo economico e demografico, il nuovo schema sarebbe più costoso del vecchio schema. Potremmo dire che questa ipotesi è poco realistica, ma c’è stato lo studio di uno scenario in cui il nuovo schema darà la stessa pensione media rispetto al vecchio schema; questo era uno scenario in cui il vecchio schema era finanziariamente stabile. Questo diede quindi forza ai politici di discutere a proposito di questa riforma delle pensioni, perché negli scenari demografici ed economici in cui il nuovo schema darebbe una pensione più bassa del vecchio schema, il vecchio schema avrebbe richiesto una contribuzione più alta. C’erano anche alcuni scenari in cui il nuovo schema avrebbe fornito pensioni più alte del vecchio schema. Quindi questa riforma delle pensioni non riguardava il taglio dei costi ma si proponeva di riposizionare il ruolo del Governo nel fornire le pensioni. Questa è stata anche la ragione per cui il processo di riforma si è concluso con un successo. Devo ammettere che la riforma non è completamente supportata dalla popolazione; credo che l’abbiano più o meno accettata. Non c’è entusiasmo tra la gente a proposito di questo cambiamento di schema pensionistico.

L’Italia l’ha già fatta, quindi avete già sperimentato molti di questi problemi. In Svezia abbiamo avuto parecchi problemi di tecnologia informatica, che sono costati molti soldi. Penso sia stata una fortuna che la riforma abbia richiesto così tanto tempo perché ha reso possibile dare una buona qualità alla legislazione, e questo penso sia importante perché ci sono solo poche possibilità di predisporla bene. Penso anche che questo processo, dove i principi erano stati stabiliti per prima cosa, abbia dato il tempo di produrre una legislazione di alta qualità. Ma non è stata una vicenda priva di problemi perché questo lungo tempo di gestazione è stato un grande pericolo per un compromesso politico, quale si era realizzato in Svezia. La riforma giunse ad essere quasi annullata in diverse fasi. Ci fu una stabilità politica tra il 1996 ed il 1997, quando i dettagli della legislazione vennero preparati. Come sapete, sia Dio che il diavolo coabitano nei dettagli; quindi è stato molto difficile per i partiti politici concordare su questi dettagli. Ci fu inoltre una resistenza piuttosto sorprendente da parte del ministro delle finanze. Questo ministero aveva in Svezia, alla metà degli anni ’90, un enorme deficit e questa riforma delle pensioni incrementava il costo da parte del governo nel breve periodo e lo diminuiva nel lungo periodo. Approvare questa decisione in un momento in cui il budget era così sbilanciato dimostra quanto decisi fossero i politici che partecipavano al gruppo di lavoro sulla riforma. Nel partito socialdemocratico ci fu stata una forte resistenza contro la riforma ma questa è stata più o meno superata alla fine.

Il primo sistema di tecnologia informatica fallì e l’implementazione di quello schema fu rinviata; a quel tempo questo fu un grave problema ma oggi credo che nessuno lo ricordi. Ci sono stati anche problemi con il nuovo sistema di tecnologia informatica per il nuovo NDC, piano pensionistico “pay-as-you-go”. È stato un processo piuttosto costoso, quello per costruire la nuova amministrazione, ma alla fine ha funzionato, anche se ci sono stati problemi e rinvii. Anche questa legislazione sul meccanismo di bilancio è stata spesso rinviata e molto criticata.

Perché questo sistema pensionistico funziona così bene in Svezia è un mistero. Non è per nulla caratteristico della politica svedese, è piuttosto atipico. La politica delle pensioni in Svezia è stata molto “bi-partisan” e dura tra i partiti. La decisione fatidica fu di riformare il sistema in un clima di consenso e di cooperazione politica, cosa che è molto rara in Svezia, per evitare scontri politici aperti sulla riforma delle pensioni. Se ci fosse stato uno scontro tra i partiti politici, quelli che avessero osteggiato la riforma avrebbero vinto le elezioni successive. Questa penso quindi fu la ragione principale per cui il processo di riforma ebbe successo.

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Penso anche che il suo tasso di innovazione – a quel tempo non sapevamo cosa avevate realizzato in Italia – fu un’altra ragione del suo successo, perché diede una cornice certa alla riforma e stabilizzò il processo. Rappresentò inoltre un nuovo territorio dove nessun partito politico era stato; fu un’idea nuova, non appoggiata precedentemente ed in modo preferenziale da nessun partito politico. Sarebbe stato difficile per un partito politico rinunciare alle proprie idee sulle pensioni per le idee di qualche altro partito; ma poiché questo schema era nuovo, nessuno poteva accampare alcun diritto su di esso. Quindi, di nuovo per caso, successe che i politici giusti si interessarono a questo processo di riforma e la riforma delle pensioni divenne il loro progetto per fare carriera. Oggi ci sono ancora le stesse persone che lavorano per finalizzare alcuni dettagli; sono quindi stati coinvolti in questo processo per più di 10 anni e sono personalità piuttosto particolari.

Ci furono 4 cambi di governo, il primo nel 1991 quando venne eletto un governo di centro-destra, un altro nel 1994 quando il partito socialdemocratico tornò al potere. Penso che se questo partito non fosse tornato al governo nel 1994, non sarebbe stato capace di reggere la pressione all’interno del partito; se fossero stati all’opposizione, avrebbero potuto facilmente far cadere l’accordo. Ma poiché erano al governo, sono stati obbligati ad attenersi al patto che avevano sottoscritto.

Parliamo ora di alcuni degli obiettivi della riforma. Come ho detto, l’obiettivo principale era la stabilità finanziaria; tutto il progetto di riforma svedese è ossessionato dalla stabilità finanziaria. C’era inoltre una stretta relazione tra la stabilità finanziaria e la credibilità del comitato di riforma del governo. Quindi questo è l’aspetto sociale della stabilità finanziaria. Una particolare attenzione è stata riservata alla trasparenza: ad un livello più ristretto, gli individui dovevano sapere cosa potevano aspettarsi dallo schema e quindi tutta la distribuzione del reddito prevista nello schema doveva essere trasparente. Se fosse stata trasparente, sarebbe stato più semplice dimostrare la sua efficienza, questa era l’idea dietro la richiesta di trasparenza. Un terzo obiettivo era quello di massimizzare l’equilibrio tra generazioni. Non puoi farlo in modo perfetto in un mondo imperfetto, ma puoi farlo nel modo migliore possibile. Inoltre bisognava produrre la sicurezza di un reddito base, che è naturalmente anche lo scopo di tutti gli schemi pensionistici.

Lo schema è finanziariamente stabile per 5 ragioni. Una viene dal sistema italiano-svedese, per cui la contribuzione è uguale al credito pensionistico che ottieni nello schema. Inoltre c’è una rivalutazione del saldo in conto, una percentuale di ritorno della contribuzione in base al salario medio. Questo fornisce una certa stabilità finanziaria ma nel modo in cui è stato realizzato fornisce una stabilità maggiore. C’è inoltre una conversione del “conto teorico” che ogni individuo acquisisce. Così la pensione è calcolata come una annualità, dividendo questo “capitale teorico” per l’aspettativa di vita considerata dall’anno in cui l’individuo sceglie di andare in pensione. C’è poi questo 1,6% ma tornerò dopo su questo argomento. C’è quindi una rivalutazione della pensione con lo stesso indice che rivaluta i conti ma c’è una riduzione del 1,6% che è stato imputato qui.

Questi quattro fatti forniscono un alto grado di stabilità finanziaria ma non la totale stabilità. C’è un sistema automatico di bilanciamento che garantisce la stabilità finanziaria ma non è la stabilità finanziaria anno per anno, come è stato menzionato prima, e non credo si dovrebbe scegliere questo tipo di stabilità.

Questo NDC ID funziona praticamente come un conto in banca. Se per esempio un lavoratore inizia a lavorare a 25 anni e sceglie di andare in pensione a 65 anni, il 60% del reddito – in corone svedesi perché non ci siamo ancora convertiti all’euro – è estratto dallo schema “pay-as-you-go”, lo schema NDC. Il 2,5% è estratto da una nuova componente completamente finanziata della quale non parlerò a lungo; consiglierei inoltre di non introdurre questa componente in un nuovo schema. Un ulteriore 16% è aggiunto al “conto teorico” – lo chiamiamo “teorico” perché i soldi non sono accumulati nel conto ma sono utilizzati per pagare

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i redditi di coloro che vanno in pensione – ma la contribuzione pagata è sommata. C’è anche una sorta di indicizzazione di queste contribuzioni, un ritorno di queste contribuzioni. Se depositi i soldi sul tuo conto in banca ti aspetti di ricevere un tasso di interesse; lo stesso principio si applica a questo NDC “conto teorico”. Quando un individuo va in pensione, la somma del conto è divisa per l’aspettativa di vita; l’aspettativa di vita è decisa anno per anno ed è scritto nella legislazione come misurare l’aspettativa di vita; quindi non è un fattore di conversione scritto nella legge ma è un insieme di regole per calcolare questo parametro. Questa aspettativa di vita è divisa da un indice pari a 1,6% – o “tasso di deviazione”, come è chiamato nel sistema italiano, dove è pari ad 1,5%. Anche in Svezia era pari ad 1,5% ma in una nuova negoziazione durante il 1996-1997 è stato sfortunatamente innalzato ad 1,6%, anche se saremmo dovuti rimanere al tasso di 1,5%.

Si ottiene quindi questo denominatore; è una sorta di inverso del tasso di conversione. Se si divide 1 per 15.7 si ottiene il tasso di conversione. Penso che sia più pedagogico avere un denominatore come questo perché assomiglia all’aspettativa di vita e c’è soltanto la differenza dovuta al tasso di interesse. È quindi facile capire cosa succede. Si divide quindi questo conto per questo denominatore per ottenere il valore della pensione. Per ogni gruppo di nascite questa aspettativa di vita sarà probabilmente diversa poiché è misurata annualmente.

Questo è un esempio del modo in cui il sistema NDC funziona. È piuttosto semplice. Perché imputare questo 1,6% quando il “conto teorico” è trasformato in una pensione reale? Se il tasso di interesse computato fosse stato dello 0%, il tasso di rimpiazzo inizialmente sarebbe stato relativamente basso e poiché ci aspettiamo che i redditi cresceranno più rapidamente dei prezzi al consumo, il valore reale della pensione si dovrebbe incrementare ogni anno anche se non ce ne accorgeremmo perché avremmo indicizzato questo valore con l’aumento medio dei salari. Ma i salari medi tendono a crescere, in termini reali. Non venne considerata questa come una intelligente distribuzione dell’annualità del ciclo di vita di un pensionato; così computando questo interesse dell’1,6% si ottiene questo sviluppo del valore reale della pensione, se la crescita media dei salari è esattamente 1,6%. Naturalmente non sappiamo se questo valore sarà esatto in futuro, ma se dovesse esserlo, questo sarà lo sviluppo. Se il tasso di crescita dovesse essere maggiore del tasso di interesse computato, le pensioni nello schema svedese si svilupperanno in modo da incrementare il loro valore in termini reali. Se il tasso di crescita dovesse essere inferiore all’1,6%, lo sviluppo reale delle pensioni sarà negativo. Quindi c’è il rischio che il valore delle pensioni diminuirà in termini reali e dipende dal tasso di crescita dei salari medi.

In Svezia questo argomento non è stato dibattuto così tanto, la qual cosa è sorprendente perché si tratta di un grande cambiamento nell’indicizzazione delle pensioni. Le organizzazioni sono state ottimistiche a proposito del futuro della crescita svedese. Pensarono che questo cambio nell’indicizzazione sarebbe stato positivo per i pensionati. È difficile predire se questo sarà vero o no. Negli ultimi due anni, la nuova indicizzazione ha prodotto pensioni più alte rispetto a quelle che avrebbe prodotto la vecchia indicizzazione.

Tornando a questo processo di calcolo della pensione, per il quale si divide il “conto teorico” per l’aspettativa di vita, cosa significa in termini pratici per le pensioni? Prendiamo il caso di un gruppo di nascite del 1940 ed un gruppo di nascite del 1990. I primi andranno in pensione nel 2005 e gli altri nel 2055, considerando che andranno in pensione a 65 anni. In Svezia non si è obbligati ad andare in pensione a 65 anni; si può lavorare fino ad 80 anni e ci saranno nuovi crediti pensionistici se si continua a lavorare. Vediamo cosa succede al dividendo annuale progettato. Coloro i quali sono nati nel 1940 avranno un dividendo annuale progettato di 15,7; coloro i quali sono nati nel 1990 avranno un dividendo annuale progettato pari a 18,2. Quindi il dividendo annuale è il 13% più alto in questo caso;

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quelli nati nel 1990 riceveranno il 13% in meno di pensione, per lo stesso “capitale teorico”, rispetto a quelli nati nel 1940. Stiamo parlando di pensione su base annuale; in pratica riceveranno in totale gli stessi soldi perché ci si aspetta che vivranno più a lungo, ma su base annuale riceveranno meno soldi, esattamente il 13% di meno.

Qual è quindi l’età in cui devono andare in pensione per neutralizzare l’effetto dell’allungamento della vita media sulla pensione? Guardando nel diagramma, relativamente a quelli nati nel 1940, è chiaro che quelli nati nel 1990, per cancellare questo –13% hanno bisogno di lavorare 26 mesi di più. Dovrebbero quindi andare in pensione a 67 anni, se vogliono avere la stessa pensione annuale di quelli nati nel 1940. L’incremento nell’aspettativa di vita sarà di 41 mesi per quelli nati nel 1990, quindi passeranno comunque più tempo in pensione, rispetto a quelli nati nel 1940; ed avranno la stessa pensione annuale, se rinviano il loro pensionamento. Quindi il progetto in un certo senso è esposto al rischio che l’aspettativa di vita cresce; la popolazione attiva è esposta a questo rischio. Però la popolazione in pensione, dopo i 65 anni, non è esposta a questo rischio.

Talvolta si pensa in modo errato che lo schema NDC non permetta la redistribuzione del reddito, invece la consente. Dipende da come si definisce il reddito pensionabile ed in Svezia, attualmente, l’83% del reddito pensionabile consiste in salari e redditi da lavoro indipendente. Ci sono anche previsioni per reddito pensionabile dovuto a bambini, anni, inabilità, benefici, malattia, disoccupazione, benefici parentali. La contribuzione su questi tipi di reddito è pagato su base annuale dal governo allo schema pensionistico. Penso sia molto importante riconoscere che il governo paga questi soldi su base annuale quindi l’operazione è molto trasparente e ben contabilizzata.

Ho detto che uno degli obiettivi del nuovo schema era quello di fornire una sicurezza base del reddito. Questo è realizzato da una componente garantita che bilancia le pensioni collegate al reddito. Quindi quelli che avranno pochi soldi nella vita lavorativa, riceveranno comunque una pensione di dimensione relativamente modesta ma sarà comunque una pensione. Questa pensione inoltre non è indicizzata alla crescita media dei salari ma è indicizzata con i prezzi al consumo. Quindi queste pensioni avranno una certa stabilità, mentre quelli con una pensione più alta sono esposti ai rischi dello schema NDC. I costi delle pensioni garantite sono finanziati, su base annuale, attraverso le entrate fiscali generali ovvero dal budget del governo e non attraverso le contribuzioni dello schema pensionistico. Questo è un principio importante: lo schema contributivo è pienamente contributivo mentre gli elementi ridistribuivi dello schema sono finanziati dal governo attraverso le entrate fiscali generali.

Gli schemi pensionistici però non sono soltanto meccanici; le persone vogliono sapere quanto varrà la loro pensione. Osservando la diapositiva, prendiamo il caso di persone nate nel 1938 ed altre nate nel 1990. Il tasso di rimpiazzo è la pensione media in relazione al reddito medio nell’anno in cui questi gruppi di nascite andranno in pensione. Il periodo di transizione in Svezia è molto più rapido che in Italia ed il vecchio schema sarà esaurito in un periodo di 20 anni. Si può vedere che con il nuovo schema NDC il tasso di rimpiazzo diminuisce drasticamente; c’è anche una componente finanziata ma si può vedere che c’è ancora un calo significativo nel tasso di rimpiazzo. Questo è però principalmente spiegato dall’incremento progettato nell’aspettativa di vita. Se questo gruppo di persone nate nel 1990, che si pensa vivranno 3 anni di più, in media, rispetto al gruppo di nascite del 1938, rinvieranno il loro pensionamento, la loro pensione, in termini di tasso di rimpiazzo, sarà praticamente stabile. Potete immaginare che coloro i quali volevano questa riforma sono stati molto felici di vedere questa immagine perché si dice che il nuovo schema darà in media lo stesso tasso di rimpiazzo del vecchio schema, in uno scenario in cui l’aspettativa di vita sarà la

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stessa del 1994. Questa immagine indica che questa affermazione è vera nel nuovo schema.

Penso che salterò queste diapositive a proposito del meccanismo automatico di bilancio perché sono un po’ troppo orientate verso l’aspetto tecnico, anche se sono interessanti. Può essere calcolata una sorta di “necessità del fondo” anche in un sistema “pay-as-you-go” e il meccanismo di bilancio può essere utilizzato a questo scopo. C’è un leggero consolidamento del nuovo schema pensionistico svedese, con un surplus pari all’1%. Se si valuta il flusso delle contribuzioni sommato al “buffer fund”, sono l’1% più grandi della capacità di pensione. Calcolando lo stato delle contribuzioni con questo metodo che è stato sviluppato in Svezia, aggiungendo il “buffer fund” e dividendo per la capacità di pensione si ottiene il rapporto di bilancio, una sorta di bilancio di solvenza dello schema “pay-as-you-go”. Se questo rapporto è pari ad 1, l’indicizzazione è realizzata con l’indice del reddito. Se il rapporto di bilancio scende sotto ad 1, questo è attivato per produrre una indicizzazione più lenta. Se dopo questa attivazione il rapporto torna superiore ad 1, il meccanismo di bilancio fornisce una indicizzazione più veloce delle pensioni, fino al livello al quale le pensioni sono riportate al loro valore originario. Se questo non è chiaro, lo capisco completamente. Questa era una presentazione molto rapida.

Spero di aver mostrato che l’obiettivo di stabilità finanziaria è stato raggiunto. L’ho soltanto indicato per voi ma penso sia vero. Ritorno all’obiettivo della trasparenza e dell’eguaglianza tra le generazioni pensionistiche. C’è anche questa pensione garantita che è stata formulata per garantire la sicurezza di un reddito base. Questi sono i due obiettivi dello schema dei quali mi sono occupato. Se parliamo di eguaglianza tra le generazioni, questa è ottenuta con l’avere un tasso di contribuzione fisso. Se tutte le generazioni pagano la stessa percentuale del loro reddito al sistema, e se queste contribuzioni sono indicizzate alla crescita media dei redditi, al “buffer fund”, al bilancio automatico, tutte queste componenti lavorano insieme per stabilizzare il tasso di rimpiazzo o il valore netto dei benefici sulle contribuzioni. Così si realizza quindi l’eguaglianza tra le generazioni, anche se non è garantito che sarà completamente vero in quanto dipende principalmente dallo sviluppo demografico in Svezia. Si cerca però di realizzarla il meglio che sia possibile, con la restrizione di un tasso di contribuzione fisso.

Per quanto riguarda l’obiettivo della trasparenza, è spiegato abbastanza chiaramente attraverso questa “busta arancione”. Si tratta di un simbolo ben conosciuto ora in Svezia; è stato spedito ormai da 5 anni a tutta la popolazione attiva – una piccola popolazione, in base agli standard italiani – pari a circa 5 milioni di persone. Si tratta di un documento personale che mi fornisce informazioni sul saldo nel mio “conto teorico”; mi informa su quanto, me stesso ed i miei impiegati, abbiamo contribuito; mi dice quanto “bonus di sopravvivenza” ho ottenuto. Sono quelli del mio gruppo di età che sfortunatamente sono morti l’anno scorso ed io ho ereditato una parte del loro saldo nel “conto”. C’è inoltre espressa l’indicizzazione, sono segnate le spese amministrative e posso infine leggere il mio saldo corrente. Ogni persona riceve questo modello. L’interesse da parte della gente è diverso. Secondo statistiche l’80% o 90% delle persone apre la busta e questo è considerato un successo per una istituzione pubblica. Dentro c’è anche una proiezione della mia pensione, se dovessi ritirarmi dal lavoro a 61 anni, a 65 anni oppure a 70 anni; la proiezione è inoltre fornita per due tassi di crescita nei salari medi: 0% e 2%. Questo serve quindi ad informare gli individui su cosa significherà questo piano pensionistico NDC per loro. Ad un livello più ampio, in questi due anni c’è stato un rapporto annuale sullo schema pensionistico pubblico che è più o meno un normale rapporto di bilancio dello stato. Speriamo quindi di essere in grado di gestire adeguatamente questo schema pensionistico e penso che questo rapporto annuale renda lo schema il più trasparente nel mondo di oggi.

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Questo era ciò che volevo dire a proposito dello schema pensionistico svedese. Ci sono ulteriori informazioni nel website del National Social Insurance Board; è possibile scaricarle e ci sarà anche la versione in inglese del rapporto annuale 2002, che dovrebbe essere pubblicato a breve. Avviene normalmente in aprile, quindi abbiamo avuto la pubblicazione del rapporto svedese per il 2002 nell’aprile di quest’anno. Grazie.

Interventi programmati

PIERPAOLO BARETTA

CISL

Mi complimento anzitutto con il professor Gronchi e con il professor Nisticò per la ricerca fatta. Mi dispiace soltanto che non abbiamo avuto modo di poter offrire un contributo allo studio in via preventiva.

La verifica politica sta seguendo un itinerario non propriamente innovativo. Più che affrontare il tema della sostenibilità del sistema previdenziale e della sua equità, si cerca di risolvere i problemi immediati della finanza pubblica, come ha già ricordato la professoressa Fornero nel suo intervento, confondendo quindi la serietà di un dibattito sulla riforma del sistema previdenziale italiano con il problema della pur necessaria sistemazione dei conti pubblici.

Devo dire sinceramente - e lo dico non tanto ai presenti quanto agli assenti – che non si può parlare tutti i giorni di pensioni. Uno dei più efficaci sistemi di incentivazione all’uscita anticipata dal mercato del lavoro, per chi ha maturato i requisiti per il pensionamento di anzianità, è proprio questo dibattito continuo ed esasperato in base al quale, ormai, l’opinione pubblica ha maturato la convinzione che i governi e i sindacati (anche se resistono), cambieranno le regole del gioco. Sono ormai due anni che assistiamo a questo scenario. Fin dal momento dell'insediamento del Governo quasi ogni giorno, sistematicamente, il dibattito politico torna sulla questione previdenziale, creando quel clima di incertezza che alimenta dubbi e paure nell'opinione pubblica. Tutto questo, peraltro, non ha prodotto nemmeno un serio negoziato con le parti sociali.

La seconda considerazione è che abbiamo perso sostanzialmente otto anni di tempo per attuare, compiutamente, la riforma del sistema previdenziale prospettata dalla legge 335/95 con lo sviluppo della previdenza complementare, così necessaria per sostenere il tasso di sostituzione delle generazioni più giovani, le più pesantemente colpite dalla riforma. Otto anni che non saranno più recuperati e questo va tenuto presente nell’equilibrio di una nuova discussione sul tema previdenziale.

La terza considerazione riguarda la data del 2005. Fra due anni è, infatti, prevista una verifica sull'applic azione e sugli effetti della riforma "Dini" anche, eventualmente, per meglio adeguarla alle mutate esigenze sociali. Ecco perché il lasso di tempo che ci separa dalla verifica del 2005 potrebbe essere utilizzato - più che per continuare a lanciarci accuse reciproche senza che questo produca, peraltro, alcun risultato - per prepararci adeguatamente a quell'appuntamento, creando un clima costruttivo capace di dare qualche risposta alle problematiche che qui sono emerse.

Voglio dire velocemente quelli che sono, allo stato attuale, i punti fermi della nostra riflessione. A me pare difficile immaginare, in questo momento, di procedere ad un’ulteriore riduzione del tasso di sostituzione. Sono sempre propenso ad accettare, come punto fermo, la sostenibilità finanziaria e sono altrettanto interessato a discutere del costo del lavoro. Ma, credo che si debba anche tener conto del tasso di sostituzione come uno dei parametri di riferimento della

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discussione. Il tasso di sostituzione è stato ridotto con la "Dini"; peraltro non c’è nemmeno una percezione generale dell'entità esatta di questa riduzione. Siamo a livelli di copertura previdenziale, per i lavoratori che andranno in pensione nei prossimi anni, già sufficientemente ridotti e sappiamo soprattutto che la vera iniquità è rappresentata dal tasso di sostituzione delle giovani generazioni (cioè dei lavoratori assunti dopo il 31/12/95) che sono già nel mercato del lavoro o che vi stanno entrando.

E ci sarebbe, peraltro, anche la necessità di riflettere a fondo sulle implicazioni dell’introduzione di ulteriori flessibilità nel mercato del lavoro, visto che - in ogni caso - ciò ridimensiona la stabilità contributiva legata al lavoro dipendente di tipo tradizionale.

Quindi, anche per questa banale ragione, oltre a quelle che ho già ascoltato dai relatori e che, ovviamente, non fatico a condividere, non possiamo considerare praticabile la decontribuzione proposta dal Governo nel disegno di legge delega in materia previdenziale. Poiché, però, vi è il problema, per le imprese, di ridurre il costo del lavoro per aumentare la competitività, questo si può affrontare, ma prospettando altre soluzioni al riguardo. Del resto l'aliquota di finanziamento del sistema previdenziale del 32,70%, per i lavoratori dipendenti, forse è onerosa in termini assoluti per le imprese ed i lavoratori, ma non è eccessiva rispetto alla necessità di sostenere il tasso di sostituzione. Si può affrontare, quindi, il problema della riduzione del costo del lavoro ma non agendo sul contributo I.V.S. del 32,70%. Inoltre, dobbiamo fare in modo di portare, da subito, ad almeno il 20% la contribuzione di ingresso al sistema previdenziale per tutte le forme di lavoro autonome ed atipiche. Oggi i co.co.co. sono al 14%, gli associati in partecipazione sono ancora a zero (anche se il disegno di legge delega li associa ai coordinati e continuativi): si potrebbe immaginare che sia urgente portare anche la loro aliquota di contribuzione al 20%.

Se adottassimo un'unica aliquota contributiva di ingresso nel mercato del lavoro, per tutte le forme di lavoro non dipendente che sono sotto al 20%, potremmo avviare velocemente la chiusura della forbice fra l’aliquota contributiva e l’aliquota di computo.

Dobbiamo avviare la previdenza complementare. Non mi attardo adesso sul tema dell' obbligatorietà o meno, perché, personalmente, forzando forse un po’ il pensiero della professoressa Fornero, ritengo che se parliamo di pensione con due gambe, tutte e due le gambe devono essere in grado di camminare con qualche strutturalità.

Ad ogni modo, la posizione che la CISL ha assunto è contraria alla obbligatorietà ed è favorevole ad una formula di incentivo strutturato all'adesione come il "silenzio-assenso".

Sono, anche, convinto che bisogna porsi seriamente il problema dell’innalzamento dell’età pensionabile. Questa discussione è ormai matura dato che l'aspettativa di vita media nel nostro Paese è aumentata molto negli ultimi anni. Oggi l'età media effettiva di pensionamento, in Italia, è di 59,4 anni contro i 59,9 anni della media europea. Una differenza, francamente, minima che non giustifica l'accanimento terapeutico con il quale esponenti della maggioranza di Governo, ogni giorno, affrontano il problema, generando, con questo atteggiamento, un clima di diffidenza e di paura nell'opinione pubblica e, quindi, quell'incentivo indiretto alla fuga dal lavoro, non appena possibile, di cui parlavo sopra. Purtroppo non esiste una campagna fatta insieme dalle parti sociali, dagli studiosi e dal Governo, a favore dell'innalzamento effettivo dell’età pensionabile; esiste un litigio sul "come" innalzare la media italiana. Noi siamo contrari alla obbligatorietà e favorevoli agli incentivi, contrari ai disincentivi. Se ci fosse una campagna positiva che spiegasse ai lavoratori che si può restare al lavoro in maniera non forzata, magari anche un solo anno o due in più, penso che otterremo risultati significativi.

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Saremo sufficientemente convincenti se il Paese spiega a se stesso che ha degli obiettivi e lo fa in maniera non necessariamente coercitiva.

Perché siamo contrari ai disincentivi? Perché sono inefficaci, per la semplice ragione – pensiamo al contributivo pro-rata – che non convincono nessuno a non andarsene il prima possibile visto che il taglio della pensione sarebbe, in ogni caso, basso e quindi tale da non giustificare una permanenza nell'attività lavorativa. L’unico disincentivo vero è una batosta; ma possiamo permetterci una batosta, visto che il tasso di sostituzione è già sufficientemente basso? Invece è meglio parlare della certific azione che darebbe quella certezza necessaria o di "formule incentivanti". Aggiungo che potremmo limitarci ad adottare questo sistema per promuovere una campagna di formule incentivanti, insistere sulla certificazione della posizione previdenziale e sospendere qui, per il momento, ogni ulteriore intervento in materia previdenziale, tanto fra due anni ci dobbiamo rivedere e potremmo constatare, per quella data, l’efficacia o meno di queste manovre, sapendo che fra due anni la discussione riguarderà anche i coefficienti di trasformazione.

Ho l’impressione, concludendo, che la maggioranza politica non si sia resa conto dell’effetto che ha avuto l’operazione, peraltro per metà fallita, dei 516 euro di pensione minima per tutti. I 516 euro per tutti (giusto, tutti devono avere una soglia base e la relazione del professore svedese è stata molto interessante in proposito) ha creato un disequilibrio perché ci sono lavoratori che con 35 anni di contributi versati hanno maturato 600, 700, 800 euro mensili di pensione e si vedono, improvvisamente, quasi raggiunti da coloro che, invece, hanno contribuito al sistema in misura molto più ridotta, o nulla, creando una confusione anche sociale. Con questo voglio dire che non sono contrario all’idea che ci sia una soluzione di base, ma se per caso avessimo una soluzione per tutti, affidata alla fiscalità generale con l'attribuzione di una soglia minima di sussidio garantito, facendo partire l'obbligo e la copertura del sistema contributivo solo da quella soglia in sù, probabilmente allora potremmo anche ridurre il contributo del 32,70% e potremmo immaginare una soluzione di riequilibrio complessivo. Ma è questo il dibattito? E' di questo che si sta parlando? Lo dico per fare osservare che ci sarebbero altre possibilità, se si resta nell’ambito del rapporto fra equità e sostenibilità, di parlare anche di riforme.

L’ultima considerazione riguarda l’Europa. C’è questa grande bagarre su ciò che è giusto fare insieme e su ciò che l'Europa ci chiede o non ci chiede di fare. Io penso che sia inevitabile discutere di welfare europeo. E penso che convenga, almeno ai sindacati dei lavoratori, come fu per l’inflazione, porre il problema ora e anticipare questa difficile discussione per la costruzione di un sistema di welfare europeo che io chiamo la "Lisbona del Welfare". Questo però deve essere fatto in un quadro di riferimento non strumentale, ma finalizzato ad un sistema anche di comparazione e valutazione equa dello stato attuale di livello europeo.

Il rapporto che faccio con la situazione svedese non lo faccio sulle pensioni; lo voglio fare sul sistema tributario. Che senso ha andare avanti su un progetto di riduzione del carico fiscale quando siamo ad un PIL così basso e corriamo quindi il rischio evidente che un'ulteriore riduzione delle imposte e delle tasse finisca per tagliare il welfare e i servizi o, addirittura, di tagliare le pensioni nell'immediato, al di fuori di un quadro organico di risistemazione o riforma, come quello che qui si sta seriamente discutendo? Non voglio in questo momento fare battaglie politiche, voglio solo dire: si sospenda la riforma fiscale fino a tempi migliori e ci si concentri, semmai, su una discussione sul welfare, del tipo di quella che comincia ad emergere anche qui questa mattina, sapendo che abbiamo già davanti scadenze prefissate che ci consentiranno poi di fare anche qualche ragionamento più strutturale.

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LAURA PENNACCHI

Deputato, Democratici di Sinistra (Testo non riveduto dal relatore)

Io ringrazio per questa iniziativa di cui purtroppo non potrò seguire successivamente i lavori perché devo tornare alla Camera dove siamo impegnati in votazioni. Ringrazio per questa iniziativa perché è la prima volta francamente che abbiamo l'occasione di porre a confronto questa singolare coincidenza di vedute, di azioni che si produsse a metà degli anni '90 tra i tentativi riformatori della Svezia e i tentativi, i risultati riformatori dell'Italia e di discutere delle caratteristiche che i sistemi riformati in modo fortemente analogo in Svezia e in Italia oggi presentano ed anche dei necessari adattamenti che possono richiedere. Questa felice opportunità mi porta a dire in primo luogo che sono più che d'accordo con il professor Gronchi quando rivendica l'originalità dell'iniziativa che si tenne e della riflessione che l’ha preceduta in Italia. Potrei, con una battuta scherzosa, dire che come persona fisica potrei andare dal professore americano di cui parlava il professor Gronchi perché si convinca che in effetti nel '94 e in tutta la metà del '95 (la riforma fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale l'8 agosto del 1995), noi non sapevamo che in Svezia il processo avesse assunto un andamento così fortemente analogo. Conoscevamo - io ero prima firmataria con Luigi Berlinguer che era allora presidente del mio gruppo parlamentare del disegno di legge di riforma delle pensioni dei democratici progressisti federativi (così allora ci chiamavamo) - da cui poi la legge 335 prese fondamentalmente le mosse e l'impianto.

Io con gli altri che lavoravano con me ignoravo che la Svezia avesse intrapreso quella strada. Invece conoscevamo bene e ad essi ci eravamo ispirati, eravamo in rapporto, con i lavori dei professori italiani, il professor Gronchi qui presente, della professoressa Fornero, del professor Castellino e di altri che avevano nel tempo ragionato sul mantenimento di sistemi a ripartizione trasformandone però la metodologia di calcolo per passare da un sistema retributivo a un sistema contributivo con enormi vantaggi. Insisto su questo perché questa veramente è l'unica cosa assolutamente dimostrata in termini di correzione fino all'annullamento della regressività redistributiva che aveva il sistema retributivo. Quindi c’è stata questa originalità.

Sono anche d'accordo con il professor Gronchi: sarebbe interessante non liquidare - anche se ormai il passato è abbastanza passato – questa esperienza. Sono anche d’accordo che fu fatto troppo poco per spiegare ai lavoratori italiani la novità di quella riforma e i cambiamenti che essa avrebbe prodotto. Penso che converrebbe tornarci su perché è significativo che la politica, le forze politiche oggi stiano disimparando - e a mio parere lo stanno disimparando sempre di più e sempre più drammaticamente - una funzione che è stata loro propria che è una funzione pedagogica, che è importante, che non è di solo assecondamento delle pulsioni animali che la società civile, la società in generale esprime. Fu fatto troppo poco, però voglio anche ricordare l'assoluta originalità del lavoro che venne fatto dalle forze sociali. Le organizzazioni sindacali che assunsero quel modello di riforma andarono ad un referendum che fu sottoposto a tutti i lavoratori italiani e a tutti i pensionati italiani per chiedere se volevano questa riforma, sapendo che questa riforma purtroppo voleva dire che molte promesse irresponsabilmente fatte ai lavoratori e ai pensionati italiani dovevano essere rimesse in discussione. Si trattava di una rimessa in discussione della promessa pensionistica futura, non dei livelli al momento conseguiti, si trattava insomma di qualcosa di molto duro e le organizzazioni sindacali ebbero questo coraggio, le persone accettarono questo cambiamento radicale e la riforma poté essere votata.

Si cita sempre l’obiettivo di sostenibilità finanziaria e l'obiettivo di equità saldamente connessi. Si deve aggiungere che era già presente allora - e tanto più

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lo diventa oggi, quando l'Unione Europea assume esplicitamente questa issues come fondamentale - l'obiettivo dell'adeguatezza delle prestazioni che poi i pensionati avrebbero avuto.

Una sottolineatura vorrei fare sulla sostenibilità finanziaria; mi pare assolutamente ineccepibile ciò che la professoressa Fornero e il professor Gronchi hanno ora ricordato. Vorrei sottolineare che a noi legislatori e al gruppo tecnico che lavorò presso il Ministero del Lavoro, allora retto da Tiziano Treu, era presente non tanto un obiettivo in sé di equilibrio (quello era l’obiettivo finale e infatti tutte le previsioni a tutt'oggi dicono che alla fine c'è, anche il rapporto tra contributi e prestazioni torna in equilibrio, in un processo molto lungo) quanto un obiettivo intermedio che era la stabilizzazione della quota della spesa pensionistica sul PIL perché il problema più grave che si poneva per l'Italia, a differenza della Svezia, la quale certamente aveva primariamente un problema di adeguamento del sistema pensionistico alle grandi trasformazioni avvenute, era quello di una esplosione della spesa pensionistica che avrebbe raggiunto - i dati ce lo dicevano e lo dicono tutt’oggi - senza interventi il 23% del PIL. Nel '95-'96 eravamo intorno al 14% del PIL. Questa spesa senza interventi avrebbe raggiunto il 23% del PIL, quindi c'era davvero un'esplosione, una dinamica gravissima che si connette - perché va spiegata - alle specificità della spesa pensionistica e welfaristica in generale italiana perché a differenza della Svezia, la spesa pensionistica italiana aveva raggiunto i livelli che a tutt'oggi appaiono troppo alti.

Anticipo qui un aspetto della discussione che sarà fatta oggi pomeriggio sul rapporto pensioni-welfare in generale: bisogna chiederci perché ci sono questi livelli e se poi non sono davvero così alti se andiamo a scorporare all'interno le varie componenti perché la previdenza era stata usata per tutte le finalità e per finalità molto improprie, per esempio per fare politica industriale, con i prepensionamenti, ed era stata usata per lottare la povertà con la pensione sociale e con – se vogliamo mettere dentro la spesa pensionistica generale - il dilagare della spesa per invalidità.

D’altro canto, dicevo poc'anzi, che questa spesa non è poi così elevata nemmeno tutt'oggi se andiamo a vedere alcuni fattori che solo apparentemente sono statistici, come il fatto che abbiamo nella nostra spesa pensionistica gli artigiani perché abbiamo deciso a un certo punto di estendere il sistema pensionistico pubblico agli artigiani. La Germania non ha gli artigiani nel suo sistema pensionistico. Quindi non c'è tanto da stupirsi che la Germania abbia oggi l'11, il 12% di spesa pensionistica ed abbia un’enorme spesa sociale complessiva che oggi è costretta a contenere e riformare. Inoltre in quella spesa non appaiono tutti i benefici fiscali che lo Stato tedesco dà agli artigiani perché facciano una pensione a capitalizzazione, per non parlare della componente fiscale. E’ noto che se potessimo usare lo stesso sistema di calcolo, se avessimo lo stesso sistema di fiscalità che grava sul nostro sistema pensionistico, la nostra spesa a tutt'oggi si ridurrebbe di 2,5 punti quindi non di poco.

Questa complessità della situazione italiana spiega anche la lunghezza del periodo di transizione che poi però non è così sterminatamente lungo perché se ho osservato bene i grafici che ci ha mostrato il professor Settergren sulla Svezia, il sistema svedese andrà a regime con le coorti nate a partire dal 1960. Questo significa - se facciamo un calcolo molto all'ingrosso – e sommiamo a 60-65 anni (ma realtà poi dobbiamo forse non fare questa somma così grossolana) che arriviamo ad un regime che viene raggiunto intorno al 2025, ma un regime parziale, perché ci sono poi tutte le altre coorti che vengono a maturazione e anche per il nostro sistema questo parziale regime si raggiunge intorno al 2025-2030, per cui il regime totale sarà raggiunto, secondo le previsioni, nel 2050.

Un altro punto su cui vorrei soffermarmi sono gli obiettivi che appunto la riforma si è prefissa. Abbiamo detto: equità, sostenibilità e adeguatezza. Sull'adeguatezza bisogna insistere e bisogna chiedersi: questa stabilizzazione della

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spesa pensionistica sul PIL - obiettivo intermedio più che raggiunto, perché alla fine del periodo di previsione la spesa dovrebbe essere appena pari al 13% del PIL quindi meno del 14% circa da cui partiamo, nel 1994-95 - come si raggiunge? Si raggiunge per due leve, come dice continuamente la ragioneria: per un effetto numero, si riduce il numero delle pensioni e per un effetto importo, si riducono le prestazioni. Come ricordava Baretta poc'anzi si riducono di moltissimo. Possiamo davvero - io sono assolutamente d'accordo con lui - sostenere che c'è un margine per abbassare ulteriormente il saggio di sostituzione e dunque le prestazioni finali che mediamente scenderanno al 50% dell'ultima retribuzione per i lavoratori dipendenti e al 30% per gli indipendenti? Io credo che questo spazio non ci sia, né penso che l'adeguatezza possa trovare una soluzione abbassando le prestazioni e accelerando fortemente lo sviluppo della previdenza complementare e quindi come somma totale delle due componenti che lasci la somma della prestazione attuale inalterata.

Non penso che sia così, penso che sia doveroso lavorare per avere un maggiore sviluppo della previdenza complementare. Non possiamo stravolgere il rapporto tra i due pilastri, perché vorrebbe dire ignorare che tale cambiamento sarebbe scaricato totalmente sui lavoratori. Guardate cosa sta succedendo sui mercati finanziari internazionali, sui mercati azionari. Non vorrei - professor Gronchi, mi appello alla sua grande attenzione in modo tale che tutti gli aspetti siano tenuti in gioco - che la sordina cadesse proprio su questo, su quello che sta accadendo, sul fatto che la General Motors non ha praticamente la possibilità di pagare le pensioni oggi o sul fatto che con i fondi 401 k le persone dopo vent'anni si trovano senza pensione, questa è oggi la situazione.

Vorrei sottolineare ciò che si agita nella delega. Sono totalmente d'accordo con il vostro giudizio molto negativo sulla decontribuzione perché stravolge l'impianto del modello contributivo e a quel proposito vorrei anche aggiungere - dirlo proprio voi, da cui ho imparato tanto - che non sono stati errori, sono state scelte politiche, quelle che abbiamo fatto, quando abbiamo deciso di adottare il sistema contributivo in termini di una correzione semi attuariale e non adottando principi totalmente attuariali perché noi, le funzioni redistributive e solidaristiche proprie dei sistemi a ripartizione le volevamo mantenere. Qui c’era un dissenso e rimane tuttora, io personalmente continuo ad avere un dissenso sia con il professor Gronchi che con la professoressa Fornero, per esempio in ordine al fatto che la reversibilità o che l'età a cui debbono andare in pensione le donne possa essere modificata.

La decontribuzione però stravolge totalmente, come già fa, la situazione. Professor Gronchi, questo andrebbe molto più denunciato: i 516 euro al mese annunciati per 7,5 milioni di persone che poi non sono poi stati concessi sono veramente altro che ferita, altro che compromissione. La ferita è ancora più grave con la decontribuzione.

Ma c'è un altro aspetto: si apre una falla nelle finanze pubbliche, negli equilibri di bilancio che trovo colpevole che non venga denunciato con la forza con cui tutto questo deve essere denunciato.

Chiudo sottolineando un ultimo aspetto (questo aprirebbe forse un'altra riflessione) che riguarda non solo il fatto che se l'invecchiamento attivo lo vogliamo perseguire - e io sono la prima firmataria di un emendamento che con la finanziaria del 2001 già aveva introdotto un articolo della finanziera che si chiamava invecchiamento attivo, quindi io ritengo che debba essere perseguito - abbiamo il problema di aumentare anche per quella via il tasso di attività e il tasso di popolazione attiva. Badate che stanno crescendo e hanno implicazioni gravi sui sistemi pensionistici anche i problemi che riguardano i redditi tout court; la produttività del lavoro in questo paese è cresciuta. Potrei mostrarvi dei grafici su cui ho appena lavorato; siamo a tutt'oggi a livelli superiori rispetto a quella degli Stati Uniti, il costo del lavoro è uno dei più bassi dei paesi sviluppati. Si tratta di

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dati innegabili pubblicati su Business Week e su un'infinità di altre documentazioni, le retribuzioni nette stanno diminuendo, i guadagni di produttività sono stati tutti incamerati dai profitti, senza che questo si traducesse in maggiori investimenti perché anche gli investimenti declinano. Qui ci sono problemi grandi, dalla macroeconomia alla microeconomia, che coinvolgono anche i sistemi pensionistici e vorrei che la vostra vigilanza, la vostra attenzione si esprimesse anche su questi temi.

GIULIO DE CAPRARIS

Centro Studi Confindustria (Testo non rivisto dal relatore)

Grazie Presidente, anch'io come Laura Pennacchi vorrei fare innanzitutto i complimenti al CNEL per aver organizzato un convegno su un tema ad alto rischio di ripetitività come quello sulle pensioni in modo molto stimolante, portando degli elementi molto interessanti che possono arricchire il dibattito italiano, il dibattito anche politico sull'argomento. Vorrei fare un intervento molto essenziale. Sono rimasto colpito da molte cose dette, anche da molte cose che sono rimaste nella relazione e che il tempo a disposizione non ha consentito di esprimere.

Una prima considerazione che a me pare molto interessante di questo confronto e che sta nella relazione di Gronchi e che credo sia tra le cose che Gronchi non ha avuto il tempo di dire ma che è stata accennata anche di striscio nell’intervento di Elsa Fornero, riguarda il tema della transizione, della durata della transizione. Per quanto riguarda l'esempio svedese, la differenza rispetto all'Italia è notevole. C'è una tabella molto interessante a pagina 48 della relazione di Gronchi che vi inviterei a guardare che rende in maniera molto evidente conto di quanto sia differente la lunghezza del periodo di transizione nella riforma svedese e in quella italiana. Il confronto non è facile perché nella riforma italiana si fa riferimento all'anzianità maturata dalle persone al momento della riforma, in quella svedese si dice semplicemente: le persone nate prima del ’38 sono fuori, quelle dopo il ‘38 sono dentro, con dei correttivi. Se uno si inventa una figura tipo come viene fatto in questa tabella, ha un’idea molto evidente. A quanto pare, il 7% degli occupati è stato in Svezia escluso dalla riforma, in Italia il 40%.

Naturalmente quando si fanno questi confronti bisognerebbe anche sapere - credo questo sia un argomento di approfondimento - come era il sistema svedese ante riforma e post riforma, cioè che cosa le persone perdevano o guadagnavano nei due casi e lo stesso per l’Italia, però questo è un dato importante per due ragioni secondo me: la prima è che, data questa scelta iniziale, si capiscono poi alcuni problemi, ad esempio quello delle indicizzazioni. Come diceva Gronchi, in Svezia non si sono posti il problema di un cambiamento radicale del sistema di indicizzazione, ma questo era dovuto anche al fatto che si trattava, per quanto riguarda il sistema pre riforma, di un gruppo di persone destinato a diminuire rapidamente per via dell'evoluzione naturale della demografia. E’ un gruppo chiuso che non si alimenta. In Italia invece il gruppo delle persone ante riforma verrà alimentato per i prossimi 20-30 anni ed è chiaro che non si poteva fare un doppio regime. Quindi ecco già una scelta per la transizione che impatta su un problema così delicato come quello dell’indicizzazione.

L'altra ragione evidente per cui questa scelta ha la sua rilevanza è che poi in Italia noi parliamo di una riforma che di fatto non è nella realtà delle cose, è una riforma che è stata votata, approvata, viene implementata nei suoi principi costitutivi, ma che non viene di fatto applicata se in realtà circa metà della forza lavoro ne è fuori. Noi vedremo le prime pensioni con il nuovo sistema nel 2030 o

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giù di lì, in Svezia credo le vedranno molto prima di noi. Quindi noi abbiamo un dibattito sul futuro e sul futuribile. Questo è un primo elemento.

L'altro aspetto di riflessione riguarda l'aliquota; diceva prima Baretta, dobbiamo chiudere le forcelle che esistono. La cosa che colpisce è che - anche qui gli approfondimenti sono necessari – il sistema pubblico svedese ha un’aliquota di contribuzione del 14,8%, in Italia è del 33%. Bisognerebbe vedere quali sono i tassi di sostituzione. In queste pregevoli relazioni che sono state portate alla nostra attenzione su questo punto non c'è molto. Ho cercato di documentarmi un po', mi sembra che non esistano grandissime differenze tra il tasso di sostituzione della riforma italiana a regime e quella svedese attuale. Sottolineo questo punto non pensando alla nostra tradizionale posizione che vede sempre con grande interesse qualunque possibilità di ridurre le aliquote contributive; lo sottolineo con interesse per esempio rispetto ai problemi di efficienza che sottolineava prima la dottoressa Fornero.

Questa differenza 15-33, non è tanto spiegata dai problemi di livello della prestazione quanto dal fatto che nel 33% di contribuzione italiana ci sono poi la necessità di finanziare molte cose che fino a un certo punto hanno a che vedere con il funzionamento di un sistema pensionistico inteso nel suo stretto senso del termine. Noi finanziamo in teoria una parte dell'invalidità che in Svezia mi sembra di capire sia fuori; c'è il problema delle pensioni ai superstiti. Ci sono tutta una serie di elementi che contribuiscono notevolmente a vanificare quel rapporto diretto e percepibile in maniera trasparente per gli assicurati tra quello che pagano e la prestazione che ricevono che è poi alla base di questa trasparenza, e di molti degli aspetti positivi che si possono in punto di teoria agganciare ad un sistema contributivo. Quindi anche in questo caso ci sono molti elementi di riflessione.

Non sono solo questi elementi di finanziamento di altre finalità sociali che esprimono la differenza; una gran parte della differenza è anche dovuta all'età minima di pensionamento nei due sistemi. E’ evidente che se io ho un'età bassa come in Italia di 57 anni, in Svezia è di 61-63, siccome il sistema pensionistico deve comunque garantire un certo livello minimo di reddito, è evidente che se metto la soglia di ingresso a 57 anni, anche se la gente ha lavorato 35 anni, devo poi avere un livello di contribuzione elevato per poter cumulare quel montante di capitalizzazione che mi permette poi di ricevere una rendita annuale per la durata della mia vita residua. Questo è il problema illustrato nella relazione di Settergren quando spiegava come le diverse coorti dei nati in diversi anni che con la riforma perderanno con il progressivo decremento del tasso di sostituzione, possono poi recuperare quella perdita soltanto lavorando di più, quindi andando in pensione più tardi. Esattamente c’è lo stesso problema.

Quindi di nuovo diciamo noi abbiamo un 15% che si confronta con un 33%. Questa è una parte dei nostri problemi che il dibattito attuale dovrebbe cercare di affrontare in termini scevri da eccessiva passione politica.

Molto interessante - non se ne è parlato assolutamente - è la questione di come in Svezia sia stato risolto il problema dei fondi pensione, della parte integrativa a capitalizzazione. E’ spiegato un po’ nella relazione di Gronchi, ma sarebbe interessante approfondirlo, se il CNEL vuole continuare in questa interessante opera di confronto. Mi sembra che il sistema svedese in pratica prevede un livello obbligatorio di fondi a capitalizzazione che sono soltanto fondi aperti, in cui i lavoratori possono passare da un fondo all'altro, possono contribuire a più di un fondo contemporaneamente. Esiste un’autorità pubblica che cerca di preservare alcuni beni pubblici come evitare che i fondi si facciano concorrenza impropria e centralizzare il meccanismo dei versamenti. Non è questa la cosa interessante, la cosa interessante è che c'è un altro pilastro in Svezia. C’è tutta l’area dei fondi di natura contrattuale, categoriale, corporativa e quant'altro. Quindi mentre quello che noi stiamo cercando di forzare nel letto di Procuste del secondo pilastro, molto intelligentemente loro lo hanno espanso su due pilastri perché poi

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questa è l'impressione che ho: la previdenza, la pensione non può che essere, sia essa ripartizione o a capitalizzazione, un qualcosa che riguarda istituzioni di tipo collettivo. In Italia invece abbiamo questo fenomeno per cui abbiamo un pilastro pubblico, poi un pilastro privato in cui devono convivere in maniera impossibile fondi di origine contrattuale o di altra storia e fondi aperti, poi il terzo pilastro, dell'individualismo italiano, è il risparmio individuale in qualche modo tutelato, fiscalmente favorito. Mi sembra interessante questa idea in cui invece i tre pilastri del sistema previdenziale sono tutti in qualche modo di tipo collettivo.

Infine un’ultima cosa molto interessante di Settergren è l’esposizione ex post di tutto il processo con cui si è arrivati alla riforma. I politici danno le linee guida, il Parlamento le vota, gli esperti a stretto contatto dei politici forniscono la traduzione tecnica di queste linee guida. Sul piano formale questo è più o meno il processo italiano; quante commissioni sono state fatte in Italia su questo argomento? Tantissime. Anche qui l'accordo politico è stato raggiunto secondo delle linee guida, è stata fatta una legge delega, quindi sul piano formale il processo è esattamente lo stesso. Però quello di nuovo che colpisce nelle due esperienze è che nel caso italiano c'è stata poi alla fine – dove sia il problema io non lo so - una assai insufficiente attenzione a quelle che si chiamano le tecnicalità di questo problema. Baretta giustamente diceva prima: tra due anni abbiamo il momento importante della verifica. Noi arriveremo a questa verifica senza che ci sia in realtà un’idea chiara di come i coefficienti siano stati calcolati, non dico neanche “debbano” essere calcolati, per cui anche questo diventa poi un momento di confronto sindacale e politico su una materia che non necessariamente debba andare a complicare un dibattito politico già di per sé complicato. Ma, quel che è peggio, non essendovi queste linee guide tecniche, gli organismi che poi sono preposti alla elaborazione di un’informazione che non è un bene libero che sta lì gratis - ne accennava prima la dottoressa Fornero quando si chiedeva, ad esempio, come si dividono i tassi di mortalità fra le classi sociali, tema molto importante ai fini della discussione dell'equità – non sono in grado di raccogliere i dati importanti sull'argomento. Forse ci potranno essere degli studiosi che lo fanno, ma non c'è nulla di preordinato e programmato. Quindi di nuovo corriamo il rischio di arrivare a una verifica per cui poi, per la mancanza di basi tecniche pur esse importanti, la discussione politica, certamente importantissima, finisce per prevalere oltre quello che è il suo giusto preminente ruolo.

PIERO GIARDA

Docente di Scienza delle Finanze all’Università Cattolica di Milano Ringrazio il Presidente e il professor Gronchi per l’insistenza che ha voluto

usare nell’indurmi ad essere presente a questo interessante Convegno. Farò solo qualche rapido commento, scusandomi sin da ora per qualche eccesso di riferimenti personali.

1. Il primo commento riguarda la mia memoria di professore di scienza delle finanze. Nel 1895-96 apparve un importante saggio di K. Wicksell, un grande economista svedese dal titolo, lo cito in inglese anche se venne originariamente scritto in tedesco, A New principle of just taxation, che conteneva anche un elaborato commento ai lavori di U. Mazzola, un professore italiano di scienza delle finanze, sugli sviluppi recenti della teoria della finanza pubblica. Questo approccio portava in primo piano la regola del quid pro quo tra entrate e spese pubbliche, ovvero il principio di corrispondenza tra contribuzioni e benefici; trattava inoltre della capacità dei sistemi politici, dei Parlamenti, delle loro regole di votazione e delle maggioranze, di tradurre concretamente in atto questi principi. La tematica veniva ripresa, più tardi, da un altro economista svedese, E. Lindhal. Poiché

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l’originatore di questa nuova impostazione era stato, anni prima, di un professore austriaco, questo insieme di proposizioni venne da lì in avanti conosciuto come la teoria volontaristica austro-italo-svedese della finanza pubblica. Mi piace ricordare che oggi stiamo parlando di una innovazione nel campo dell’ordinamento previdenziale, basata sul principio di corrispondenza tra contribuzioni e benefici, che è stata scritta, in Italia e in Svezia, chissà dove sono esattamente le priorità temporali, negli intorni del 1995. Una simbiosi intellettuale che riemerge esattamente 100 dopo tra due culture che, apparentemente, hanno alle spalle valori e tradizioni diverse.

2. Il secondo commento riguarda la diversità dei tempi e delle procedure attraverso le quali due paesi, Italia e Svezia, hanno sostituito il metodo di calcolo delle pensioni, passando dal metodo cosiddetto retributivo (basato sulle sole retribuzioni degli ultimi anni della vita lavorativa) al metodo contributivo. Da quanto si è sentito oggi, in Svezia le riflessioni, le simulazioni, le discussioni con le parti sociali hanno occupato un periodi quasi sei anni. In Italia, dal primo apparire sulla scena politica dell’idea del metodo contributivo (forse una proposta di legge della sinistra politica, nell’autunno del 1994) alla approvazione della legge 335/1995 non passano più di 10 mesi, dall’autunno 1994 all’agosto 1995. Di questi 10 mesi ne ho vissuto personalmente almeno tre da protagonista: insieme al Presidente Dini e al Ministro Treu ho discusso per circa tre mesi con i leader sindacali dei contenuti della riforma. Molto più tempo venne dedicato alla analisi e alle soluzioni da proporre per la lunga fase di transizione della riforma – trattamento delle pensioni di anzianità in particolare – di quanto ne venne dedicato al disegno della struttura del metodo contributivo. La partecipazione ai gruppi di lavoro di vario livello costruiti per generare o acquisire il consenso tra le varie organizzazioni sociali, mi fece penetrare in alcuni, non tutti, i misteri del nuovo metodo di calcolo della pensione.

Il processo con cui la riforma venne costruita fu molto articolato, riunioni interminabili a tutti i livelli, elaborazioni tecniche di ogni genere e natura, con l’aiuto delle strutture dell’INPS, del Ministero del Tesoro, del Ministero del Lavoro; qualche nottata passata al centro di calcolo del Ministero del Tesoro per costruire simulazioni su diversi profili individuali di età, livello e dinamica delle retribuzioni; discussioni interminabili sulla aliquota contributiva, sulle tavole di sopravvivenza, sulla intensità della indicizzazione (ai prezzi o ai salari), sulla questione uomini-donne, sul tasso di rendimento da utilizzare per il calcolo del montante, sul tasso di sconto da utilizzare per i futuri benefici pensionistici, il grado di copertura dell’ultimo salario per il lavoratore rappresentativo, e tante altre ancora.

Il professor Gronchi che credo abbia responsabilità non piccole per avere portato il metodo contributivo all’attenzione della politica italiana e che svolgeva funzioni di consulente dei Ministeri del Tesoro e del Lavoro, cercava di tenere la barra della riforma nella direzione giusta, ma proponeva e difendeva una soluzione – quella dell’indicizzazione delle future pensioni al salario monetario, anziché alla sola inflazione – che non poteva avere, in quelle circostanze, un seguito politico.

Per la strettezza dei tempi posti dal calendario politico (la riforma doveva essere fatta entro l’estate 1995), la discussione e l’analisi finirono per lasciare in ombra o dare soluzioni scorrette a tanti piccoli e grandi problemi pratici. La discussione e l’analisi sugli aspetti tecnici venne compressa in pochissimo tempo. Come risultato, la legge del 1995, oggi più di allora, ha bisogno di essere sistemata negli aspetti tecnici del computo della pensione spettante al lavoratore, anche nella soluzione a regime.

3. Il terzo commento riguarda alcuni aspetti di fondo della riforma, cioè l’aliquota contributiva, l’età di pensionamento e la questione della previdenza complementare. L’aliquota del 33% assunta come base per un sistema contributivo è troppo elevata. Bisogna ricordare che, nelle prime versioni, si era ipotizzata una aliquota del 27% mettendo a carico della fiscalità generale quanto fosse necessario per definire livelli di pensione che non fossero troppo dissimili, per il lavoratore tipo,

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dal grado di copertura dell’ultimo salario prodotto dal metodo retributivo. Se ho capito bene il paper di Settergren, l’aliquota di riferimento del primo pilastro in Svezia è pari al 18,5% (che si confronta con il nostro 33% a cui si deve aggiungere l’incidenza delle quote annuali del TFR, pari al 6,5% circa del salario). Alti contributi, data la domanda di lavoro, determinano bassi salari: questa è l’eredità macroeconomica che la riforma del 1995 ha lasciato all’economia italiana, con i conseguenti pasticci che ciò ha prodotto nel testo del disegno di legge delega presentato dal governo attuale, quando riduce i contributi previdenziali per i nuovi assunti senza precisare il destino delle future pensioni.

Sull’età di pensionamento e sulla questione delle pensioni di anzianità, sono ormai più di 10 anni che se ne discute. Il sindacato continua a mantenere sul tema una propria intransigenza. Già nel 1992, ai tempi della riforma proposta dal governo Amato, l’innalzamento dell’età di pensionamento riguardò solo le pensioni di vecchiaia, anche se il disegno di riforma anche allora era partito per includervi anche una età minima anagrafica o di contribuzione per le pensioni di anzianità. Alte aliquote contributive e bassa età di pensionamento sono, ancora oggi, le due facce brutte del nostro sistema pensionistico. L’opposizione al passaggio immediato a una fase di transizione graduale dal vecchio al nuovo regime – che avrebbe richiesto l’introduzione immediata del cosiddetto pro-rata – fa il paio con l’opposizione alla modifica graduale delle regole d’accesso alla pensione di anzianità.

Connessa è pure la questione della previdenza complementare, sulla quale, questa volta insieme mondo politico e mondo sindacale, pongono tanta enfasi e sembrano porre tante speranze. Data l’aliquota del metodo contributivo a regime e data l’attuale regime dell’età di pensionamento, la previdenza complementare è un bene di lusso, un oggetto riservato a pochi e desiderato da pochi. Ha lo stesso rilievo, uso consapevolmente una espressione paradossale, che l’opera lirica ha nel mondo dello spettacolo e dei media di oggi.

Un commento infine sulla questione dei giovani, dell’ingresso nel mercato del lavoro. Nel corso delle discussioni sulla riforma del sistema previdenziale del 1995, risultò evidente che le organizzazioni sindacali e la maggioranza che sosteneva il governo Dini non avrebbero accettato una modifica significativa del regime delle pensioni di anzianità. Divenne allora urgente individuare altre fonti da cui reperire le risorse finanziarie che la legge finanziaria del 1994 (quella del primo governo Berlusconi) aveva assegnato al futuro intervento sulle pensioni da realizzare entro il 30 giugno 1995. Venne proposto, credo da Cofferati e D’Antoni – il Presidente Larizza non era entusiasta della cosa – di sottoporre a prelievo contributivo del 10% i redditi di lavoro autonomo dei soggetti che non erano iscritti a nessun regime previdenziale (lavoro occasionale, collaborazioni coordinate e continuative, ecc.). Il Tesoro stimò inizialmente che il gettito di tale contributo nel 1996 sarebbe stato non superiore ai 300 miliardi di vecchi lire. Dopo varie discussioni, anche con miei personali accertamenti presso il Ministero delle finanze, si stimò che la base imponibile poteva essere di 30.000 miliardi di lire e che, forse non subito, a regime, il gettito avrebbe potuto raggiungere i 3.000 miliardi. Esattamente quanto bastava per fare quadrare i conti. Nacque così il contributo del 10% che, dopo una lunga fase di avvio, produce oggi un gettito significativo per la finanze dell'INPS. Forse quella del contributo del 10% fu la decisione che ebbe sul sistema economico italiano le conseguenze di maggior peso, maggiore degli effetti immediati della riforma del regime pensionistico. Senza una piena avvertenza delle conseguenze economiche e sociali, con quella decisione, presa alla fine della trattativa tra governo e sindacati, venne introdotta una straordinaria riforma delle regole di ingresso dei giovani sul mercato del lavoro. Il ruolo assunto dalle collaborazioni coordinate e continuative, santificate dal riconoscimento loro dato con la legge di riforma, è stato, negli anni successivi al 1995, di grandissimo rilievo. L’ingresso sul mercato del lavoro italiano è stato di fatto liberalizzato in modo che non ha uguali

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in altri paesi europei. Si è creata, nel mercato del lavoro, una grande giungla di regole, una grande disparità di trattamento dei giovani.

In conclusione quindi, la riforma pensionistica del 1995, con l’introduzione del metodo contributivo, deve ritenersi una buona riforma, con tanti aspetti positivi. Ha bisogno di affinamenti e aggiustamenti tecnici per renderla, nel lunghissimo periodo, coerente con i suoi fondamenti teorici. Avrebbe bisogno di un lavoro continuo e paziente di revisione. Imparando o copiando un po’ quanto è avvenuto in Svezia, la determinazione dei parametri tecnici potrebbe anche essere parzialmente sottratta al dibattito politico. Ha bisogno anche di qualche robusto intervento sui suoi parametri fondamentali, quelli che definiscono il prelievo sul salario e i livelli delle prestazioni, per renderli compatibili con gli equilibri macro-economici.

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SESSIONE II: STATO SOCIALE PRESIDENTE. Passiamo alla seconda sessione dei nostri lavori. Il sottosegretario Brambilla arriverà più tardi; ora sta rispondendo ad un’interrogazione al Senato al posto del Ministro Maroni. Darei la parola alla dottoressa Lena Larsson del National Social Incindence Board, per un quadro generale sulla sicurezza sociale in Svezia.

LENA LARSSON

National Social Insurance Board – Stockholm

La sicurezza sociale in Svezia: un quadro generale

Vi fornirò una panoramica sulla assicurazione sociale in Svezia oggi e riguarderà i soldi utilizzati dal sistema. Inizierò con gli scopi finanziari e quindi mi soffermerò un poco sugli aspetti evolutivi negli ultimi 10-15 anni.

A proposito dei costi. Prezzi correnti: la spesa è aumentata dai 93 miliardi del 1980 ai 363 miliardi del 2001. Questa è una nazione con circa 9 milioni di persone ed un PIL di 2.200 miliardi nel 2001. Questo incremento è stato particolarmente rapido tra il 1985 ed il 1991, ma all’inizio degli anni ’90 l’incremento si è livellato e tra il 1996 ed il 1998 è caduto in basso. Questo fu dovuto essenzialmente ad una riduzione dei livelli di beneficio negli schemi di assicurazione parentale e di assicurazione malattia, ed anche perché abbiamo trasferito la responsabilità dei costi delle medicine all’autorità di sanità. Nel 1999 la spesa iniziò a salire ancora, questa volta a causa di un incremento nella spesa dell’assicurazione malattia e delle pensioni di anzianità. I costi dell’assicurazione malattia sono continuati ad aumentare e stanno ancora aumentando oggi.

Se esprimiamo l’evoluzione nel valore monetario del 2001, la spesa in quell’anno è stata superiore quasi del 46% rispetto al 1980. Come abbiamo speso questi soldi? Il supporto finanziario per gli anziani consiste in circa il 49% della spesa, il supporto ai disabili ed ai malati in circa il 32%; il supporto finanziario alle famiglie ed ai bambini in circa il 14%; il restante 5% riguarda altri pagamenti, incluse le spese per il mercato del lavoro e l’amministrazione dell’assicurazione sociale: si tratta di un piccolo organismo chiamato “azione contro la salute-malata”, ma tornerò in seguito su questo argomento.

Come misura del ruolo che l’assicurazione sociale gioca nella vita di ogni giorno in Svezia, possiamo dire che di 100 corone spese per necessità private, 20 corone provengono dall’assicurazione sociale. Se osserviamo la spesa in relazione con l’economia nazionale, possiamo vedere che, fino al 1992 compreso, i pagamenti come parte del PIL sono cresciuti, in modo particolarmente rapido dal 1980. Nel 2002 la spesa era pari a circa il 16% del PIL, livello simile a quello della fine degli anni 1970.

Se devo parlare dell’evoluzione del sistema, per circa 100 anni, l’evoluzione riguardava esclusivamente l’espansione: nuovi schemi, nuovi benefici. Alla fine degli anni ’80 comunque, emerse la necessità di creare schemi più qualificati per adattarsi ai cambiamenti economici, demografici, dei nuclei familiari e del mercato del lavoro. Vi sono state fornite informazioni sulla riforma delle pensioni precedentemente ed io mi concentrerò su altre sfide che abbiamo affrontato e che stiamo affrontando ancora oggi.

Il primo schema che doveva essere modificato era lo schema pensionistico per i superstiti. Prima del 1990, solo donne e bambini fino all’età di 18 anni avevano diritto alla pensione per i superstiti, nella forma di pensione per le vedove o pensione per i bambini. A causa del cambiamento nei nuclei familiari e nel mercato del lavoro, i legislatori sentirono la necessità di predisporre adattamenti

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per riflettere meglio la situazione. Così la pensione per le vedove venne abolita, anche se dopo un lungo periodo di transizione. Oggi la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è praticamente uguale a quella degli uomini. Molte famiglie hanno due persone che guadagnano e l’uguaglianza tra i sessi è stata un obiettivo nell’agenda politica per parecchio tempo; quindi il fatto che gli uomini non avessero diritto ad una pensione per i superstiti non era in accordo con la visione politica.

Quindi il nuovo schema consiste in una pensione di aggiustamento che è pagabile ai superstiti per il periodo di un anno; il beneficio è relativo ai diritti della persona deceduta rispetto alla pensione pubblica. Questo periodo di un anno fu poi ridotto a 6 mesi nel 1997, il che provocò il taglio del 50% nel numero di persone che ricevevano questa pensione ad un dato momento. Esiste anche una pensione di aggiustamento estesa nello schema, pagabile ai superstiti che hanno bambini fino all’età di 12 anni. Come potete vedere, non molte persone ricevono questi due tipi di pensioni. Questo a causa della regola del periodo di transizione, nel quale le pensioni per le vedove sono ancora pagate a circa 400.000 vedove, quindi questo grafico riflette la situazione per vedove e vedovi che erano sposati nel 1990 o dopo.

L’intenzione principale dello schema pensionistico per i superstiti era quella di focalizzarsi sulla sicurezza finanziaria per i bambini. Questi ricevono una pensione correlata ai diritti pensionistici del genitore fino all’età di 17 anni.

Un altro schema che è molto studiato attualmente e lo è stato negli ultimi tempi è lo schema pensionistico per malattia. Durante gli ultimi anni, l’assenteismo dovuto a malattia è salito di circa il 100%. Questo sviluppo è stato studiato con attenzione prima delle elezioni generali dell’anno scorso ed è ancora osservato con cura. Anche all’inizio degli anni ’90 c’era un alto livello di assenze per malattia; il trend è stato quindi interrotto con diverse contromisure. Venne introdotto un periodo di due settimane nel quale il datore di lavoro pagava i giorni di malattia agli impiegati malati; venne inoltre introdotto un giorno di attesa e furono ridotti i livelli di beneficio. Una disoccupazione crescente fu anche un fattore che ebbe qualche impatto sullo sviluppo.

Dopo che il trend venne spezzato, l’assenteismo diminuì per diversi anni, ma dal 1997 il parametro è cresciuto piuttosto drasticamente, di circa il 100% come dicevo. Potete vedere che i numeri differiscono parecchio per le donne, e le donne rappresentano circa il 60% di questo incremento. In media, il 5% della popolazione è malata ogni giorno. In particolare sono aumentati i casi di lunga degenza (sono circa raddoppiati in numero). Questo aumento ha attivato diverse contromisure per spezzare questo trend; alcune sono già state implementate, altre sono ancora in fase di progettazione. Per esempio, stiamo cercando nuove vie per ottenere analisi miglio ri del rapporto tra il luogo di lavoro e la salute. Stiamo avviando programmi di collaborazione tra attori differenti, come gli uffici dell’assicurazione sociale, i datori di lavoro e così via; stiamo lanciando campagne di informazione. La qualità è un'altra area e appena poche settimane fa il Parlamento ha deciso un taglio dei costi attraverso un’estensione del periodo di malattia pagato dal datore di lavoro da due a tre settimane. Il governo ha stabilito come obiettivo quello di combattere l’assenteismo per malattia e l’intenzione è quella di dimezzare il numero di giornate di malattia pagate nel 2008, in rapporto alla situazione attuale.

Può sembrare che la Svezia sia andata dall’espansione ai tagli, invece alcune aree si stanno ancora espandendo. La sicurezza finanziaria per le famiglie ed i bambini è stata per molti anni uno dei fondamenti della politica del welfare svedese; lo schema attuale venne introdotto nel 1974 e consiste in diversi benefici destinati a promuovere le nascite, fornendo supporto economico ed altri supporti alle famiglie. La maternità è disponibile, in caso di nascita o di adozione, per un totale di 450 giorni. Per i primi 360 giorni il beneficio è correlato alla perdita di reddito dei genitori e per gli altri 90 giorni vengono erogate 60 corone al giorno, che rappresentano una quantità molto bassa di soldi. Ciascuno dei genitori è legittimato ad avere una certa quantità di giorni di beneficio e possono scambiare

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questi giorni tra loro in piena libertà, eccetto per 30 giorni ciascuno che sono chiamati il mese del padre ed il mese della madre.

Le donne hanno utilizzato la maternità in maniera molto più considerevole degli uomini. Nel 2001, 467.000 persone hanno ricevuto il beneficio; il 60% di queste erano donne.

Ho menzionato prima che l’uguaglianza tra i sessi è un obiettivo importante in Svezia; fin dalla metà degli anni ’80 c’è stata la dichiarata intenzione del governo di far sì che più padri spendessero più tempo con i propri bambini. Questo può essere ottenuto in diversi modi: uno è quello di programmare incentivi negli schemi, come per esempio il mese del padre. Se il padre decide di non prendere questi 30 giorni, questi vanno persi. Un’altra via è quella delle campagne di informazione. Questa immagine è tratta da quella più famosa realizzata fino ad oggi ed anche quella che ha avuto più impatto tra la gente. Fu realizzata nel 1985 e dice “Papà in paternità”; l’uomo nella foto non era un uomo comune svedese, ma era un campione di sollevamento pesi e uno degli uomini più attraenti che si potevano trovare in Svezia negli anni ’80.

Abbiamo però ancora una lunga strada da percorrere. La tabella precedente illustra quanti padri prendono la paternità, ma lo fanno comunque per un periodo molto ridotto rispetto alle donne. In media chiedono soltanto pochi giorni; le donne contano per circa l’86% del totale dei giorni di maternità chiesti nel 2001. Il numero di giorni era più alto nel 1992, a causa di un boom delle nascite; può darsi che torneremo a quel punto perché il tasso di natalità sta c rescendo di nuovo. Il numero di giorni presi dagli uomini è stato relativamente stabile negli ultimi 10 anni ma è evidente che il rapporto di giorni presi dagli uomini rispetto a quelli presi dalle donne sta crescendo comunque lentamente.

Voglio concludere la mia presentazione ripetendo alcune delle cose che ho detto ed anche aggiungendo un paio di cose che non ho menzionato prima ma che credo sia importante dire oggi. L’importanza dell’assicurazione sociale nell’economia nazionale. Si tratta del 16% del PIL. Spendiamo circa 379 miliardi l’anno. L’assicurazione sociale conta per il 25% dei consumi privati. Le contribuzioni dei datori di lavoro e degli impiegati contano per circa il 77%; le tasse dal bilancio dello stato contano per circa il 20-22% del finanziamento. La maggior parte dei benefici sono correlati al reddito e sono pensati per coprire la perdita di reddito in differenti situazioni. Grazie.

TITO BOERI

Università Bocconi di Milano e Istituto Universitario Europeo

Meno pensioni, più welfare

Questa mattina avete parlato di pensioni e di riforma dei sistemi

pensionistici, prendendo come riferimento soprattutto i problemi di sostenibilità di lungo periodo del sistema previdenziale italiano, comparandolo con le riforme svolte, con una transizione molto più breve in Svezia. Ne avete parlato con particolare riferimento alle distorsioni sul mercato del lavoro e al peso che contributi al sistema pensionistico così elevati possono avere sul mercato del lavoro.

Io vorrei occuparmi di una questione molto importante, nella quale troviamo forse le ragioni ultime di una riforma che deve essere completata in Italia, ragioni che si ricollegano molto bene alle questioni che abbiamo appena sentito su che cosa un sistema di protezione sociale dovrebbe fare e su quali tipi di schemi dovrebbe finanziare. Un messaggio mi sforzerò di dare: il peso eccessivo che la spesa pensionistica ha sul PIL nel nostro Paese è tale da spiazzare altri programmi che

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dovremmo invece cercare di introdurre in Italia. Mi baserò sul lavoro svolto insieme a Roberto Perotti, dell’Istituto Universitario Europeo, che ha un titolo provocatorio, ma che vuole dare un messaggio di fondo: fin quando spenderemo così tanto in pensioni, sarà difficile avere un vero e proprio sistema di welfare come quello che dovremmo cercare di istituire nel nostro Paese.

Vi enuncerò i passi che vorrei esporre nel tempo che mi è stato assegnato, stabilendo anzitutto alcuni criteri di massima che possano ispirare qualsiasi proposta di riforma. In Italia si discute spesso di riforme e di sistemi di protezione sociale prendendo alcuni pezzettini alla volta, mai in modo organico e completo e senza specificare quali sono gli obiettivi di fondo che ci si propone di raggiungere. Dirò qualcosa su questo tema.

Poi cercherò di dire qualche cosa sugli aspetti distributivi delle pensioni. Ci sono stati moltissimi studi, in Italia, sulle pensioni, sulla loro sostenibilità di lungo periodo, sul loro costo, ma molto poco si è detto sulle proprietà distributive della previdenza pubblica. Anche su questo tema cercherò di dare un contributo.

Dirò qualcosa sulle tendenze e i profili della povertà in Italia rispetto agli altri paesi dell’Unione Europea, mostrando che il profilo della povertà nel nostro Paese è diverso da quello di mo lti altri stati dell’Unione.

Spenderò poi qualche parola su esperienze recenti fatte in Italia, dove molti sono stati i tentativi e i piccoli esperimenti compiuti per andare nella direzione di creare un sistema di welfare. Le lezioni che qui possiamo apprendere sono soprattutto in negativo, ma è importante tenere conto anche di queste.

Infine fornirò un dettaglio delle proposte che io e Perotti ci sentiamo di formulare.

I criteri. Anzitutto ci sono una serie di vincoli di cui bisogna tenere conto nel formulare qualsiasi proposta di riforma dello stato sociale in Italia. I primi vincoli sono quelli macroeconomici e di bilancio e non solo provengono dall’Unione Monetaria europea, ma sono anche interiorizzati dalle stesse famiglie. Si parla spesso di riforma fiscale e di riduzione del prelievo fiscale nel nostro Paese. Molta è la letteratura - comincia a essercene anche sul nostro Paese - che mostra come le famiglie, quando non sono convinte del fatto che le riduzioni del carico fiscale si accompagnino anche a delle vere e proprie riduzioni della spesa, non interpretano queste riduzioni come qualcosa che dà loro maggiore disponibilità e potere d’acquisto. Quindi, riforme e riduzioni del carico fiscale che non siano accompagnate anche da riduzioni della spesa tendono ad avere effetti molto limitati sulla domanda. Ne abbiamo avuto una dimostrazione con gli sgravi IRPEF introdotti dalla Finanziaria 2003. Lo stesso Tremonti ha riconosciuto che le famiglie li hanno “messi in banca”. Anche in un disegno di politiche espansive per combattere l’andamento ciclico e rilanciare l’economia queste misure sono assolutamente poco efficaci. Allora, dobbiamo in primis tenere conto che abbiamo dei vincoli macroeconomici di bilancio molto stringenti che non possiamo sfuggire; quindi, se vogliamo espandere alcune componenti della spesa sociale dobbiamo per forza agire su altre componenti non necessariamente di spesa sociale, ma comunque di spesa pubblica.

Il secondo criterio, importante proprio in virtù di questi vincoli macroeconomici, è che se vogliamo avere dei sistemi e delle prestazioni universali, dobbiamo anche garantire alcune forme di selettività. I due principi, che sembrano una contraddizione in termini, in realtà devono procedere di pari passo. Abbiamo bisogno di regole d’accesso comuni, uguali per tutti, ma selettive, cioè in grado di selezionare soprattutto i soggetti che hanno maggiormente bisogno di queste prestazioni.

Terzo criterio. Dobbiamo cercare di agire sulle interazioni tra i diversi strumenti e le diverse politiche, perché esistono molte sinergie tra strumenti diversi. Ce ne sono alcuni che fanno le stesse cose in modo differente. Quindi dobbiamo sempre scegliere strumenti migliori. Per esempio, c’è stata molta

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discussione nel nostro Paese sui regimi di protezione dell’impiego e sui costi del licenziamento. Molte volte si è discusso di questo senza tenere conto che ci sono altri strumenti, spesso più efficaci, che servono a tutelare i lavoratori contro il rischio del mercato e contro il pericolo di perdere il posto di lavoro: ad esempio, i sussidi di disoccupazione che, a mio giudizio, nel nostro Paese sono gravemente sottosviluppati.

Quarto aspetto. Occorre andare aldilà delle tutele meramente giuridiche, quelle che sono scritte su carta e in leggi che spesso non vengono applicate, cercando di introdurre tutele vere che prevedono soprattutto indennità di tipo pecuniario, risarcimenti. Per questo, ritengo che nel nostro Paese sarebbe importante muoversi rapidamente verso la creazione di un sistema vero di ammortizzatori sociali.

Quinto aspetto. Bisogna tenere conto anche dei vincoli amministrativi, che sono molto stringenti; non devono diventare una giustificazione per non fare nulla, ma ogni volta che si pensa a riformare lo stato sociale, bisogna pensare a mettere insieme un’amministrazione che sia in grado di gestirlo. Al tempo stesso bisogna tenere conto dei costi legati alle riforme. La tradizione del nostro Paese di operare delle microriforme, dei piccoli aggiustamenti marginali, è perversa perché carica di oneri le amministrazioni, le quali devono adattarsi a questi microcambiamenti che poi hanno effetti molto limitati, col risultato che spesso le riforme costano di più di quello che possono ottenere. Introduciamo schemi che costano di più dal punto di vista amministrativo che per l’ammontare delle prestazioni che vengono introdotte.

Ultimo criterio. Occorre partire dalla specificità del profilo della povertà e del mercato del lavoro in Italia, che ha delle peculiarità rispetto al panorama europeo.

L’obiettivo di fondo di una proposta organica di riforma dello stato sociale in Italia che ci sentiamo di formulare e di sottoporre alla discussione è quello di tornare all’obiettivo principale e prioritario di un sistema di protezione sociale: ridurre la povertà contenendo il più possibile gli effetti distorsivi sull’offerta di lavoro. Spesso questa finalità principale dei sistemi di protezione sociale viene dimenticata e si discute su altri aspetti che, a mio giudizio, sono relativamente secondari rispetto a questo criterio che dovrebbe essere dominante sugli altri.

Comincerò a dire qualcosa sulle proprietà distributive dello stato sociale italiano e in particolare sulle pensioni. Nel nostro libro affermiamo che ci vogliono meno pensioni per due ragioni.

1) Perché le pensioni assorbono i due terzi della spessa sociale in Italia e, senza riforme, prendendo le proiezioni di spesa previdenziale nel lungo periodo e mantenendo inalterato il livello della spesa sociale sul PIL (visto che gli italiani non sembrano disposti ad ulteriori aumenti di tasse), nel giro di 15 anni la percentuale di spesa sociale occupata dalle pensioni salirà dai due terzi ai tre quarti della spesa sociale complessiva. Quindi una prima ragione per intervenire è che il costo delle pensioni spiazza altri schemi di spesa, altre prestazioni sociali.

2) La seconda ragione, altrettanto importante, che comprende alcuni aspetti poco studiati nel nostro Paese, è che le pensioni non solo tolgono risorse per schemi apertamente distributivi e di lotta alla povertà, ma operano redistribuzioni che, per larga parte, sono ancora perverse. Stiamo andando molto lentamente verso il sistema Dini, che non opera redistribuzioni perverse; però abbiamo ancora un’eredità di redistribuzioni perverse presente nel nostro sistema previdenziale; eredità che va soprattutto a favore di categorie con maggiore potere contrattuale, che accentua i divari retributivi per livello di istruzione, che fa sì che le pensioni coprano, rispetto agli altri paesi, una percentuale relativamente bassa (ve lo documenterò sulla base di dati comparabili a livello europeo) di famiglie povere e una percentuale relativamente alta di famiglie ricche. Anche in questo senso la

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redistribuzione opera al contrario. Queste iniquità rimarranno presenti fino a quando la transizione al nuovo sistema, quello introdotto dalla riforma Dini, sarà completa. Vi mostro due tabelle che documentano queste mie affermazioni. La prima

riguarda il grado di copertura delle pensioni, cioè la percentuale di persone in diverse fasce di reddito che riceve delle pensioni, che mostriamo sia per alcuni gruppi di paesi europei che per l’Italia (ultime due colonne a destra della tabella). Vi forniamo questo dato per quintili: c’è il 20 per cento della popolazione con i redditi più bassi, seguito dal 20 per cento successivo con redditi un po’ più alti; poi c’è il 20 per cento della popolazione più ricco. Negli altri paesi quello che tipicamente succede è che le fasce di reddito più basse hanno una maggiore copertura delle pensioni. Soprattutto il secondo quintile, che comprende gente che ha lavorato e quindi ha acquisito il diritto ai trattamenti pensionistici, ha una maggiore copertura. Aumentando il reddito delle persone, diminuisce il grado di copertura delle pensioni pubbliche (i soggetti hanno altre forme previdenziali integrative).

In Italia, invece, accade esattamente il contrario: il grado di copertura delle pensioni aumenta con l’aumentare del reddito. Le cose migliorano lievemente quando, invece di prendere come riferimento il singolo individuo, si prende in considerazione la famiglia nel suo complesso. Le proprietà redistributive sono sempre peggiori di quelli dei paesi nordici o dello stesso Regno Unito, se compariamo la situazione dei primi due quintili con quella dei livelli di reddito più alto.

Un discorso analogo si può fare se, invece che al numero delle pensioni, guardiamo agli ammontare delle stesse e li rapportiamo al reddito personale, calcolando i tassi di sostituzione per diverse persone. Ci rendiamo conto che anche qui, passando dai quintili di reddito più basso ai quintili di reddito più alto, il tasso di sostituzione, anziché diminuire, in Italia tende ad aumentare (o quanto meno diminuisce molto meno che in altri paesi), il che vuol dire che in rapporto al reddito, sono soprattutto le classi di reddito più alte che ricevono.

Quindi, non solo le pensioni occupano una quota importante della spesa sociale impedendo di finanziare altri schemi palesemente redistributivi, ma addirittura operano al loro interno, con il loro funzionamento, redistribuzioni perverse, operando nella direzione opposta a quella di ridurre le disuguaglianze.

Come dicevo prima, quando si guarda alla famiglia anziché all’individuo le cose migliorano leggermente perché la famiglia, in Italia, in tutti questi anni, ha supplito alle carenze di un sistema di protezione sociale e agli interventi redistributivi dello Stato. Lo ha fatto redistribuendo al suo interno. Tuttavia riteniamo che questa funzione non possa continuare a lungo e che sia una funzione parziale, perché se la redistribuzione tra famiglie è iniqua, anche la redistribuzione all’interno della famiglia non può rimediare a questa iniquità. Inoltre, abbiamo una tendenza demografica, la diminuzione della numerosità delle famiglie, che rende molto più difficile la redistribuzione intrafamiliare (che ha tra l’altro forti economie di scala e quindi ha bisogno di avere famiglie numerose per essere efficiente). La disoccupazione adulta è in aumento e c’è stata una forma di polarizzazione dell’occupazione e della disoccupazione, per cui se prima avevamo molte famiglie miste in cui c’erano persone senza lavoro e persone che lavoravano, con possibilità di redistribuire dalle seconde alle prime, ormai abbiamo un mercato del lavoro in cui ci sono famiglie dove nessuno lavora e altre in cui tutti lavorano; quindi è molto più difficile operare la redistribuzione all’interno della famiglia. Poi abbiamo costi molto forti della redistribuzione intrafamiliare legati a due fattori principali. Il primo è la partecipazione femminile al mercato del lavoro, che viene molto ridotta dal fatto che spesso sono le donne a dover svolgere la funzione redistributiva all’interno del nucleo familiare, a prendersi cura dei figli e anche a tenerli in casa a lungo. Il secondo è che la funzione di ammortizzatore sociale assegnata alla famiglia tende a

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scoraggiare anche la mobilità dei giovani nel nostro Paese; quindi, pur avendo un mercato del lavoro così squilibrato, che offre molte opportunità di impiego al Nord e registra un’alta disoccupazione al Sud, la mobilità dei giovani italiani è molto limitata. Anche questo aspetto viene documentato nel libro, dove mostriamo che il fatto di ricevere una pensione in famiglia e poi di redistribuirla al suo interno tende a scoraggiare gli spostamenti dei giovani. Questo è abbastanza comprensibile perché, per poter beneficiare delle prestazioni in natura che la famiglia concede, si deve dividere la stessa abitazione, e questo impedisce ai giovani di spostarsi e di andare laddove le opportunità di impiego sono maggiormente presenti. Quindi il ruolo della famiglia come ammortizzatore sociale ha costi di efficienza che non vanno assolutamente sottovalutati, oltre ad essere sempre più difficile da attuare.

Anche altri schemi palesemente diretti a ridurre la povertà, come l’assistenza sociale, nel nostro Paese hanno delle proprietà redistributive del tutto inadeguate. Qui documentiamo come viene assegnata l’assistenza sociale in Italia. Ci si aspetta che l’assistenza abbia un profilo nettamente decrescente rispetto al reddito e che si concentri nelle fasce più basse. Bene, queste stime, che mostrano la probabilità di ricevere trasferimenti di assistenza sociale, ci documentano che da noi l’effetto del reddito sulla probabilità di ricevere prestazioni di assistenza sociale è molto minore che negli altri paesi. Inoltre, in Italia, vi sono caratteristiche che in principio dovrebbero agire contro la probabilità di ricevere assistenza sociale: per esempio, il fatto di possedere un titolo di istruzione elevato, o terziario, che dovrebbe essere un fattore che riduce questa probabilità. Invece nel nostro Paese questo coefficiente è positivo. Anche questo aspetto ci dà l’idea di programmi di assistenza sociale che hanno un livello molto inadeguato di targeting, cioè che raggiungono molto meno che altrove le famiglie che sono effettivamente bisognose di aiuto. Un discorso del genere potrebbe essere fatto, e lo facciamo nel libro (ma qui non c’è tempo di parlarne) per altri programmi di spesa sociale, dove mostriamo che ci sono proprietà di targeting insoddisfacenti. Ci sono problemi di regole, spesso complicate, ma anche problemi di implementazione e attuazione di queste regole.

Passo al terzo gruppo di considerazioni. Nel nostro Paese ci sono profili di povertà molto specifici di cui dobbiamo tenere conto. Anzitutto dobbiamo essere consapevoli del fatto che la povertà, sia assoluta, che relativa, cioè in proporzione al reddito mediano, in Italia è aumentata negli ultimi 25 anni e inoltre è più persistente che altrove, cioè si rimane poveri più a lungo. Incide di meno sugli anziani e di più sui giovani, rispetto a quello che accade in altri paesi europei. Abbiamo poi un fenomeno, più recente, di polarizzazione dell’occupazione e della non occupazione, che naturalmente crea problemi di povertà molto più seri che in passato, anche per persone che sono in età lavorativa. C’è un rischio di povertà particolarmente elevato non in singles, come in altri paesi, ma in coppie, soprattutto con figli, in cui un solo genitore lavora. Quindi la partecipazione femminile in questo senso può essere un potente fattore di lotta alla povertà, in Italia. C’è un rischio di povertà elevato in coppie in cui nessuno lavora, soprattutto se non ci sono pensioni. Questo pone anche un problema di ammortizzatori sociali per persone che hanno più di 55 anni e che non hanno diritto e accesso alle pensioni. Soprattutto le pensioni non coprono i disoccupati tra i 50 e i 65 anni e coprono relativamente poco le famiglie con i figli. D’altra parte non c’è da stupirsi, visto che non è questa la finalità principale delle pensioni, finalità che invece è di altri schemi che non esistono da noi.

Queste sono alcune tabelle che vi mostrano come sia diversa la situazione italiana rispetto a quella degli altri paesi dell’Unione Europea. Si tratta di dati comparabili. Qui calcoliamo il tasso di povertà relativo per fasce di età. Un numero superiore significa che per quel determinato gruppo c’è un rischio di povertà più elevato che per la media della popolazione. Avete questa statistica sia per l’Italia che per gli altri paesi, con la relativa comparazione. Per esempio, le persone tra i

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51 e i 65 anni che non ricevono pensione, in Italia hanno un tasso di povertà relativo dell’1,55 e negli altri paesi appena superiore a 1. Quindi da noi, per queste persone, la probabilità di essere povere è significativamente più forte che in altri paesi.

D’altro lato, le persone di età superiore a 65 anni hanno un rischio di povertà molto più basso di 1 – pari a 0,65 – inferiore a quello che si registra in altri paesi.

Come dicevo, c’è un forte rischio di povertà nelle famiglie dove ci sono due adulti, di cui uno solo lavora, e che hanno tanti figli, soprattutto nelle famiglie che ne hanno più di tre. Il problema della povertà, meno rilevante nei single rispetto a quello che accade negli altri paesi, è invece serio in famiglie in cui c’è una sola persona che lavora e dove ci sono figli. Soprattutto la presenza dei figli è associata alla povertà, in Italia.

Il quarto punto che mi proponevo di sviluppare – semmai lo approfondiremo nella discussione – riguarda un esperimento importante di cui discutiamo tutti nel libro: il reddito minimo di inserimento, che ha rappresentato il tentativo di introdurre uno strumento nuovo nel nostro Paese, con un sistema che corrispondesse a quei criteri che enunciavo all’inizio, “universale” e “selettivo al tempo stesso. Prima di abbandonare completamente questa esperienza, dovremmo quanto meno farne oggetto di un serio dibattito pubblico. È stata un’opportunità mancata perché non è stato dato a questo strumento un vero design sperimentale: non si sono raccolti dati sistematici sui beneficiari seguendo quello che succedeva loro; non ci sono state direttive precise date alle amministrazioni al riguardo; anche i criteri di selezione sono stati spesso sbagliati; si è ricorso allo strumento dell’autocertificazione, chiaramente inadeguato. Si è proceduto successivamente ad estendere il raggio di applicazione dello strumento in modo assolutamente privo di nazionalità, per esempio ai comuni coinvolti nei patti territoriali, una scelta che non ha alcuna giustificazione economica. È stata fatta una valutazione dello strumento che poi è sparita dalla circolazione; per anni non se ne è saputo più nulla. Adesso è disponibile un rapporto di sintesi, ma il rapporto complessivo non è disposizione dei comuni mortali. Secondo il Libro Bianco sul welfare un programma di questo tipo dovrebbe essere finanziato a livello locale o regionale, il che equivale chiaramente a una cancellazione dello strumento in quanto non è possibile concepire, in Italia, forme di assistenza e di lotta alla povertà di tipo universale che non siano finanziate centralmente. Infatti, il 70 per cento dei poveri risiede nel Sud, dove le regioni hanno meno disponibilità per finanziare questi strumenti.

Le nostre proposte, che vi elenco, sono discusse in dettaglio nel libro. Proponiamo di introdurre: 1) un istituto, comune a tutti i paesi dell’Unione Europea ad eccezione dell’Italia e della Grecia (esiste anche in Svezia, ad esempio), che è quello del reddito minimo garantito, che porti gli individui a salire al di sopra di una soglia di reddito prestabilita, chiaramente graduata in base alle caratteristiche del nucleo familiare; 2) un sussidio al reddito di chi lavora, che verrebbe dato a chi riceve retribuzioni relativamente basse, incentivando alla partecipazione e al tempo stesso redistribuendo, accompagnato ad un salario minimo intercategoriale (istituto che esiste altrove, ma non in Italia e che servirebbe ad impedire che questi sussidi vengano integralmente assorbiti dal datore di lavoro anziché dal lavoratore); 3) sussidi di disoccupazione generalizzati, con grado di copertura nettamente superiore a quello degli attuali sussidi ordinari di disoccupazione; 4) sussidi per l’assistenza ai minori, l’assicurazione contro l’invalidità e l’assistenza continuativa; 5) programmi di attivazione e di reinserimento per i beneficiari dei vari strumenti. Ci rendiamo conto, infatti, che esiste un problema molto serio di abuso di questi istituti e che ci vuole un amministrazione che faccia pressione sui beneficiari spingendoli a cercare un lavoro. Nella misura in cui non c’è cooperazione da parte loro occorre prevedere anche l’applicazione di alcune sanzioni nei confronti di coloro i quali non collaborano con l’amministrazione nella ricerca attiva di un posto di lavoro, seguendo

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esperienze molto significative che ci sono state al riguardo in paesi come l’Olanda, la Svezia e il Regno Unito.

Vorrei dire due cose sul reddito minimo garantito, che forse rappresenta, tra tutte, la proposta più rilevante. Questo dovrebbe essere uno strumento destinato ai poveri che non lavorano, graduato in base alle dimensioni del nucleo familiare e all’età, quindi diretto non solo ai giovani ma anche agli adulti, e dovrebbe sostituire quella pletora di strumenti che abbiamo nel nostro stato sociale, ciascuno di dimensioni molto piccole, ma molto numerosi (qui si riporta l’elenco delle prestazioni da sostituire). Dovrebbe sostituire anche le pensioni sociali e le integrazioni al minimo. So che fra poco il sottosegretario Brambilla ci parlerà del suo disegno di riclassificazione della spesa pensionistica in cui si propone di scorporare queste componenti dalla contabilità dei sistemi previdenziali pubblici. A mio giudizio, si potrà fare un’operazione di quel tipo in modo significativo quando accadrà che gli strumenti palesemente redistributivi delle pensioni siano gestiti separatamente da un’amministrazione che si basi su regole comuni per tutti, che tengano conto anche dell’età e non siano così manipolabili politicamente, come succede attualmente. Finché rimangono nell’alveo attuale, non ha molto senso separare queste componenti dal resto della spesa pensionistica. Il reddito minimo garantito non dovrebbe andare solo ai giovani – dicevo - al contrario di quello che è stato per il reddito minimo di inserimento. Quindi dovrebbe tenere conto non soltanto del reddito, ma anche del patrimonio, nella scelta dei beneficiari, essere integrato con misure di attivazione, prevedere premi per i figli, per i disabili e per i genitori soli e poi essere finanziato centralmente, con una quota e una forma di cofinanziamento per responsabilizzare le amministrazioni a livello locale. Occorrerebbe, infine, trovare anche un sistema per monitorare attentamente l’utilizzo che le amministrazioni locali fanno di questo strumento e quindi creare degli incentivi alle amministrazioni locali per una buona gestione dello stesso.

Un altro strumento che dovremmo introdurre nel nostro Paese, che in parte avevamo già con gli assegni familiari (ma anche qui le prestazioni erano numerose e poco indirizzate alle persone con salari e retribuzioni basse) è quello dei sussidi al reddito di chi lavora. Non ho tempo di entrare nel dettaglio. Semmai ne parleremo nel corso della discussione. Un’alternativa a questi sussidi potrebbe essere quella di avere delle esenzioni contributive. Dei sussidi per i salari più bassi beneficerebbero principalmente i lavoratori del Sud, dove sono concentrati i salari meno elevati, favorendo anche un disegno di decentramento su base territoriale della contrattazione, e ne beneficerebbero anche le donne che lavorano, che mediamente hanno degli sconti retributivi del 15 per cento nel nostro Paese. Però questi sussidi ai salari bassi devono essere stabiliti con regole uniformi sul territorio nazionale e non essere utilizzati come strumenti di politica industriale per favorire alcuni settori rispetto ad altri. Ci vorrebbero regole precise e prestabilite.

Pensiamo che a questi sussidi dovrebbe accompagnarsi anche un salario minimo, per evitare che per alcuni lavoratori, questa decontribuzione o questo sussidio venga completamente assorbito dal datore di lavoro, traducendosi soltanto in una riduzione del costo del lavoro e non in un aumento del reddito netto del lavoratore. Il salario minimo dovrebbe avere questa funzione, oltre a quella di spingere nella direzione di un decentramento della contrattazione, che ritengo sia molto importante nel nostro Paese.

Tutto questo dovrebbe accompagnarsi a politiche di attivazione efficaci che stimolino il lavoratore che beneficia del reddito minimo garantito piuttosto che il soggetto che percepisce il sussidio di disoccupazione a cercare attivamente un impiego, prevedendo anche delle sanzioni ove non vi fosse questa cooperazione.

Bisognerebbe usare le politiche attive in modo più mirato nel nostro Paese. Noi spendiamo più nelle politiche attive che nelle politiche passive, ma non facciamo nessuna valutazione seria di questi strumenti. Molte risorse, ad esempio, vengono destinate alla formazione, ma non sappiamo esattamente quanto siano

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davvero efficaci queste politiche. Si sono fatti alcuni sforzi negli ultimi anni per migliorare il monitoraggio delle politiche attive, sicuramente importanti nel processo di coordinamento a livello europeo, ma manca ancora una cultura di valutazione seria. Sulla base dell’esperienza internazionale, più che sulla base del caso italiano, sui cui si sa ancora troppo poco, purtroppo, pensiamo che le politiche attive andrebbero indirizzate verso gruppi specifici, sui quali possono essere più efficaci, come si è dimostrato all’estero. Si tratta di concentrare gli strumenti, per esempio, sulle donne che rientrano nel mercato del lavoro dopo periodi di maternità, o sui disoccupati giovani a breve, per i quali tanti programmi sono stati sperimentati con successo altrove.

Accanto a queste politiche ci vogliono forme che ne rendano possibile l’attuazione, anche ricorrendo al deterrente delle sanzioni. Se non c’è cooperazione nella ricerca di un impiego, dovrebbe essere possibile ridurre l’ammontare di un sussidio, applicare sanzioni monetarie per i beneficiari, implementandole senza avere periodi di contenzioso troppo lunghi, altrimenti perderebbero qualsiasi efficacia.

Abbiamo poi cercato di fare delle stime di quanto costerebbe questa rivoluzione nel sistema di protezione sociale italiano. I costi non sono irrisori – anche per questo è difficile portare avanti queste riforme – ma neanche così elevati, come talvolta si sente dire, quindi richiedono degli aggiustamenti non marginali del sistema. Però riteniamo che sia giusto e preferibile cercare di porsi obiettivi abbastanza ambiziosi, con interventi che modificano effettivamente le cose, quando si deve toccare un sistema così importante sul quale c’è molta legittima sensibilità politica da parte dell’opinione pubblica, anziché continuare nella tradizione del nostro Paese dei piccoli aggiustamenti incrementali e marginali che costano di più amministrativamente rispetto agli strumenti che introducono.

Per i sussidi di disoccupazione, per i quali prevediamo una riforma ben più ambiziosa di quella prevista nel Patto per l’Italia, con una durata di 24 mesi, tenendo conto delle durata di disoccupazione nel nostro Paese e dando un tasso di rimpiazzo tra il 65 e il 55 per cento, decrescente con la durata della disoccupazione, abbiamo calcolato un costo di circa 3 miliardi di euro in più.

Il reddito minimo garantito, che da 400 euro, per cominciare, dovrebbe, a nostro giudizio, salire ad almeno 500 euro per un individuo che viva solo, dovrebbe costare attorno ai 9 miliardi di euro.

Il sussidio condizionato all’impiego o il sussidio per i salari bassi sostituirebbero, a nostro giudizio, molte delle politiche attive che vengono utilizzate oggi in modo assai dubbio, quindi potrebbero essere introdotti a costo zero; vi sarebbe semplicemente un cambiamento di destinazione delle risorse.

Lo stesso dicasi per i sussidi alla famiglia, che sostituirebbero, accorperebbero, razionalizzerebbero molti degli schemi esistenti.

In sostanza calcoliamo che il costo di questa operazione sarebbe tra 1 punto e 1 punto e mezzo del PIL. Quindi un costo non modesto, anche se non alto quanto le cifre che spesso si sentono dire.

Sappiamo che le pensioni oggi sono in disavanzo per un importo pari a circa il 3,3 per cento del PIL. Quindi ci rendiamo conto di quali altri schemi le pensioni finiscano per sottrarci. È presumibile che una parte di queste risorse si possa ottenere con interventi di contenimento della spesa pensionistica, quelli di cui abbiamo parlato questa mattina, di accelerazione della transizione alla riforma Dini. Altre si potrebbero ottenere da altri capitoli di spesa corrente.

L’importante è porsi questo problema e formulare ogni proposta pensando alla sua copertura finanziaria. Abbiamo un’altra tradizione perniciosa in questo Paese: quella dei libri bianchi che parlano di tante cose con grandi progetti ambiziosi, definizioni e questioni di principio che vengono sollevate, ma in cui non si va mai a fondo sulla copertura e sui costi di queste operazioni. Quando si

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formulano le proposte, bisogna sempre cercare le fonti per finanziarle e proporre le due cose insieme.

ALBERTO BRAMBILLA

Sottosegretario di Stato al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali

La riclassificazione della spesa pensionistica italiana nell’ambito del conto economico della protezione sociale

Grazie, Presidente. Purtroppo, non ho sentito le relazioni di questa mattina; ho ascoltato soltanto quella del Prof. Boeri, che stimo e che è un amico. La sua relazione, però, mi ha lasciato perplesso. Alcune delle sue affermazioni sicuramente fatte in buona fede, ma pare che: 1) non tengono conto della situazione di questo Paese; 2) non tengono conto di quella che sarà la situazione dei paesi industrializzati tra 6/7 anni; 3) sono condizionate dai numeri che si usano ( e che io sono andato a verificare) di EUROSTAT. I dati di EUROSTAT sono quelli pubblicati nella relazione generale sulla situazione economica del Paese. L’ISTAT prende i dati e li manda all’EUROSTAT e noi facciamo le nostre figuracce. Da un sacco di tempo. In sostanza non mi pare che le cose stiano come lui dice. Boeri ha parlato di redistribuzione perversa delle pensioni, sostenendo che prendono di più quelli che hanno i redditi più alti e di meno quelli che hanno i redditi più bassi. Questa situazione è poi stata comparata con quella dell’Europa. Ma in Europa abbiamo dei sistemi di finanziamento che vanno dal 5/6 (1/6) per cento del salario fino al 33 per cento, come nel caso italiano. È evidente che se le pensioni si finanziano con la fiscalità generale, poi si devono correlare i redditi. Però, se una persona paga il 33 per cento per tutta la sua vita su 180 milioni di reddito, non gli si può dire alla fine che prenderà la pensione minima. È logico che le cose stiano così. Quindi l’effetto redistributivo perverso si ha se gli stati europei versano tutti il 33 per cento e alla fine, di questo 33 per cento, si stabilisce che una parte non sono contributi, ma tasse. Allora, meglio metterli nelle tasse. Insomma, è un concetto che non condivido.

Boeri ha parlato di piccoli aggiustamenti. Chiamiamo “piccoli” gli aggiustamenti che abbiamo fatto nel 1992, nel 1995 e nel 1997 quando con la legge Prodi sono stati equiparati i pubblici ai privati? A me risulta che in Francia stessero facendo le barricate fino all’altro ieri per contestare aggiustamenti come questi!

Dai nostri conti risulta che il sistema previdenziale italiano, con i classici metodi, prima del 1992 andava verso i 6 milioni di miliardi di debito previdenziale e che oggi lo abbiamo riportato in equilibrio. Mi rendo conto che il periodo transitorio, di cui parleremo dopo, forse è un po’ troppo lungo, ma questo è stato un compromesso che si è dovuto trovare quando si è fatta la riforma delle pensioni. Quindi non definirei proprio piccoli questi passi.

Boeri dice che le pensioni presentano un disavanzo del 3 per cento sul PIL, cifra che grosso modo corrisponde a 75.000 miliardi di vecchie lire. Non è vero. Le gestioni in generale presentano degli squilibri, che però sono tollerabili. Il resto è costituito dai finanziamenti, che quest’anno ammontano a circa 120.000 miliardi di vecchie lire, alla GIAS per tutta una serie di situazioni assistenziali. Quindi il disavanzo non dipende dalle pensioni, anche se bisogna sempre tenere conto della nostra situazione storica. Quando si parla di disavanzo ci si deve chiedere se esso è dovuto al fatto che oggi un soggetto che paga 1 riceve 5, o al fatto che ci si deve portare dietro una situazione ereditata in 50 anni. E poiché è stato deciso che un giovane che paga 100 prenderà 100, se gli va bene, la risposta è che il disavanzo c’è perché, fino ad alcuni anni fa, si è promesso troppo. Nella commissione

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cosiddetta Brambilla, per testimoniarlo, abbiamo esaminato quanti anni di pensione sono coperti dai contributi pagati. Nel 1968, quando un lavoratore autonomo pagava 7.780 vecchie lire in cifra fissa all’anno, come era pensabile che egli potesse avere una pensione? Abbiamo appurato che un lavoratore autonomo che abbia cominciato a lavorare nel 1960 e sia andato in pensione nel 1995, si pagherebbe con il proprio montante rivalutato ai tassi degli interessi dei titoli di Stato (quindi ai tassi più generosi che l’Italia abbia mai riconosciuto) 3 anni di pensione. Per arrivare a pagarsi 10 anni di pensione, bisogna che il soggetto abbia cominciato a lavorare intorno al 1980, con una speranza di vita diretta e indiretta di 27 anni.

Nel fare i conti, abbiamo visto che nel 2035, ancora il 51 per cento della spesa deriverà dalle promesse ante riforme. Su quelle non possiamo intervenire più di tanto. Possiamo dire che da domani quel sistema non vale più, ma ci porteremo avanti questo peso ancora fino al 2035.

A proposito di riforma delle pensioni bisognerebbe domandare a chi ne parla di riempire l’affermazione di contenuti e chiedergli da dove partiamo. Se si risponde che l’unica soluzione possibile e immaginabile è l’abolizione delle pensioni di anzianità, si parte con il piede sbagliato. Se si dice che la riforma è già stata fatta, cosa che io sostengo da sempre, e che forse il periodo transitorio è lungo, perché si arriva al 2015 o al 2018, che la situazione attuale (stante anche quella economica, che non è delle migliori) richiede che si debba andare verso un’accelerazione, rispondo che non ho sentito affrontare da nessuno degli esperti che hanno parlato, il punto dirimente: il sistema contributivo si basa sul fatto che i contributi sono fortemente correlati alle prestazioni. Allora, se si punta sul sistema contributivo, non si può registrare che più di 2 milioni di persone versano il 20 per cento, quando in realtà pagano il 16,5. In questo modo si accumulano ogni anno 4.000 miliardi di vecchie lire di debito che si dovrebbero scrivere e qualcuno dovrebbe versare.

Dovrei compiere una verifica di quanto incidono le contribuzioni figurative sull’intero sistema. I modelli sono cose piuttosto complicate e quindi vi prego di prendere con le pinze i numeri. I nostri attuali calcoli dell’incidenza della contribuzione figurativa sulle pensioni viaggiano su importi annuali di 30/40.000 miliardi di vecchie lire. Questi sono gli argomenti.

Poi, si può studiare uno strumento che correli la permanenza al lavoro anche in funzione della speranza di vita. Non mi scandalizzo se dopodomani mi dicono che, nel ragionamento di dieci anni prima la speranza di vita era X, mentre oggi è X + 4. Se mantengo gli stessi parametri e gli stessi coefficienti di trasformazione, le stesse regole del contributivo, ovviamente sono in disequilibrio perché devo finanziare 4 anni in più; quindi devo di nuovo riportare il sistema in equilibrio. Su questi temi posso cominciare a ragionare, con calma. Se lo poniamo in questi termini, vuol dire che anche l’aumento dell’età è correlato, si spera, alla permanenza dei giovani nell’ambito del sistema scolastico. Finché abbiamo delle regioni come il Veneto, il Friuli e alcune parti dell’Emilia Romagna, dove la gente va a lavorare a 15 anni, la somma di 15 + 40 (di lavoro di fabbrica o di ufficio) fa 55. A questo punto, diventa complicato sostenere, come fa qualcuno che lo ha scritto anche oggi su Il Sole 24 Ore, che tutti dovrebbero andare in pensione a 65 anni e dire alla persona che ha lavorato in una fabbrica, o in un ufficio, timbrando il cartellino per 40 anni: “Guarda, che devi lavorare altri 10 anni”. Siccome le persone, che non sono tutte sceme, pensano di non avere il secondo tempo della vita, ma di avere soltanto il primo, vorrebbero almeno evitare di presentarsi a San Pietro un minuto dopo aver timbrato l’ultimo cartellino e cercare, negli ultimi anni, di svolgere anche altre attività, oltre al lavoro: magari fare volontariato, oppure leggere e studiare, o pescare.

Quando si parla di questi argomenti bisogna avere sott’occhio i dati e sotto controllo le situazioni. Ci sono alcune problematiche tecniche da affrontare. Qui vedo due degli interlocutori che hanno percorso tutto il ciclo delle riforme e sanno benissimo che se tocchiamo quei 5, 6, 7 punti tecnici si può arrivare a perfezionare

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la riforma, al netto dell’obiezione di Sandro Gronchi, che è pur sempre valida, cioè al netto della possibilità di partire con pensioni basse indicizzandole di più, invece che partire nel modo in cui abbiamo fatto (ma quella è stata una scelta; varrebbe la pena discuterne). Penso che una revisione di quel tipo possa portare a buoni risultati.

A me preme molto osservare che non facciamo un bell’effetto quando comunichiamo a EUROSTAT che, su 100 euro di spesa pensionistica, 70/71 vanno alle pensioni e che quindi sulle pensioni spendiamo l’ira di Dio. Nel D.P.E.F. l’anno scorso è stato ripreso uno studio, per il quale io ho avuto i siluri del Ministero e della Ragioneria solo perché ho riportato tra virgolette quello che era scritto: “la spesa per le pensioni, ottenuta sommando le varie funzioni, è pari al 17,2 per cento del PIL e rappresenta il 70,6 per cento del totale della spesa per prestazioni sociali”. La questione aveva un precedente nel passato. La Commissione Onofri, nel 1995 aveva sostenuto che per ogni 100 euro la spesa per le pensioni era pari al 65 per cento. Quindi, dal 1995 ad oggi la spesa è aumentata dal 65 al 70,6.

A questo punto la conclusione è logica: se dovessimo spendere tutti questi soldi in pensioni, saremmo matti; dobbiamo cercare di ridurre la spesa! Allora, cerchiamo di vedere bene come essa è configurata. Anzitutto all’interno ci sono delle spese per la protezione sociale, molte spese non sono menzionate: il T.F.R. l’indennità di fine rapporto, o altre indennità equipollenti stanno nella spesa per pensioni. Questo istituto c’è solo in Italia e ha avuto anche una funzione di “ammortizzatore sociale”, perché quando la gente veniva lasciata a casa, con la liquidazione poteva vivere qualche mese. Però quello è un onere che non c’è, finanzia un certo istituto e non si può certo mettere nella spesa di vecchiaia. Mi si può dire che, sommando i contributi obbligatori, i contributi per le prestazioni temporanee e il contributo per il TFR , in Italia abbiamo una spesa abbastanza ampia. Ma non si può mettere il T.F.R. lì dentro.

Abbiamo studiato la questione e abbiamo visto quali sono i problemi che questo modo di comunicare genera sia all’interno che all’esterno. All’interno, la prima reazione è quella di dire: “Aboliamo le pensioni di anzianità”, la seconda è quella di chiedere riforme, senza peraltro riempire di contenuti questo concetto, la terza è un’ulteriore domanda di assistenza sociale (e qui sono di nuovo in disaccordo con l’amico Boeri), la quarta è che si continua a insistere sul fatto che in Italia siamo poveri e che mancano i sussidi (francamente, girando l’Italia, non colgo questa realtà, oppure vedo questo fenomeno come un fatto marginale, fisiologico), con evidenti tensioni.

Quali reazioni determinano questa rappresentazione distorta? Il Fondo Monetario, l’OCSE, l’Unione Europea ci chiedono di mettere mano al sistema pensionistico, perché non è possibile che più del 70 per cento della spesa se ne vada in pensioni. Che cosa possiamo fare in questa situazione?

Due mesi fa, in un’audizione presso la Commissione bilancio del Senato della Ragioneria, il Ragioniere Generale dello Stato ha affermato che quest’anno abbiamo un altro problema rilevante: la spesa per pensioni è aumentata dell’X per cento (adesso non ricordo il numero; poniamo che sia il 3 per cento). Sempre il Ragioniere, a domanda risponde che la spesa è aumentata perché c’è stato l’intervento delle pensioni per portarle ad un 1 milione al mese. In quella occasione non potevo parlare, ma dentro di me ho pensato che eravamo punto e a capo. Insomma, per l’aumento delle pensioni sociali a 1 milione al mese si è usato il veicolo INPS perché questo soggetto ha una modalità di pagamento. Non si va certo a costituire un altro ente che paghi i sussidi. Allora, come si dà questo incremento a 1 milione al mese? Si consultano e si prendono in considerazione le tecniche di riclassificazione europee, dove sono inclusi i sussidi alla famiglia, i sussidi per la lotta all’esclusione sociale e via dicendo. Se si dà un aumento di 200/250 euro – come peraltro è stato dato in passato, nella precedente legislatura - sulle pensioni sociali e sugli assegni sociali, si dà perché si ritiene che una persona con quel

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reddito sia a rischio di esclusione sociale. Si compie una verifica, che poi potrà essere buona o non buona. Nell’ultima fase ci siamo fidati dell’autocertificazione, anche se io avevo qualche dubbio. Però se cominciamo a dire che l’aumento delle pensioni a 1 milione al mese genera un aumento della spesa pensionistica e quindi dobbiamo toccare il capitolo pensioni perché è troppo alto, di nuovo non ci capiamo.

Abbiamo pertanto cominciato a individuare assieme all’INPS quelle funzioni che a noi non sembrano pensioni. Se l’articolo 38 della Costituzione dice che agli ultrasessantacinquenni sprovvisti di reddito bisogna dare qualcosa perché non è civile farli morire di fame – e mi pare una cosa giusta – ci siamo inventati la pensione sociale prima e poi abbiamo cambiato la denominazione in “assegno sociale”, ma il concetto è quello. Dove metto questa spesa? Nelle pensioni. Già nel 1995, poiché la dizione “pensione sociale” suonava male, abbiamo pensato di chiamarla “assegno sociale”, sperando che chi faceva la somma e classificava la spesa in funzione della denominazione, leggendo “assegno” si sarebbe chiesto se metterlo nelle pensioni o da un’altra parte e che forse lo avrebbe messo da un’altra parte.

L’integrazione al trattamento minimo. In passato abbiamo avuto una situazione di gente che ha veramente versato pochissimi contributi. Allora, se il nostro sistema pensionistico è basato sulla fiscalità generale, tutto quello che sto dicendo non vale niente, perché è chiaro che uno paga le tasse in base alla sua situazione reddituale, familiare, prende un assegno che uguale per tutti e poi, se è stato bravo e ha fatto qualcosa di integrativo prende di più. Ma se noi abbiamo puntato su un sistema che prevede, oltre alle imposte, anche un sistema di contribuzione, la pensione dovrebbe, teoricamente, essere allineata ai contributi; altrimenti abbiamo sbagliato la denominazione “contributi sociali”; dovevamo chiamarli “tasse addizionali”.

Se faccio il conteggio e vedo che ho svariati milioni derivanti da posizioni previdenziali che, nella pensione cosiddetta a calcolo, non arrivano al minimo, guardo un po’ i redditi di queste persone e glieli integro, però non come pensione; glieli integro perché queste persone hanno avuto una vita lavorativa sfortunata, non sono riuscite a versarsi nemmeno 20 anni (ce ne vogliono 16 per avere la pensione minima) e purtroppo in 40 anni di vita lavorativa non sono riuscite a mettere via nulla. Breve parentesi. Se abbiamo tanti milioni di persone che non hanno la pensione o che hanno la pensione integrata, significa che queste non hanno pagato nemmeno le tasse; se avessero pagato le tasse, avrebbero versato anche i contributi. Quando facciamo questi ragionamenti dobbiamo avere sempre presente, come stella polare, il fatto che a differenza della Finlandia e della Svezia, dove il sommerso è un dato fisiologico o poco più, l’Italia ha tra il 22 per cento e il 30 per cento (15%) di sommerso. Non so se le stime più reali siano quelle dell’OCSE o quelle degli ispettori francesi (l’equivalente del SECIT) o le nostre dell’ISTAT, ma non è una cosa di poco conto avere in media un quarto del PIL (1/5) (che non è una fetta di piccole dimensioni) occultato. È ovvio che in questa quota occultata non si pagano i contributi. Quindi il sistema, che di contributi vive, va in crisi.

Lo stesso ragionamento vale sulle maggiorazioni sociali e anche sui lavoratori agricoli. Il nostro Paese era basato sul settore primario, dove molta gente non ha mai pagato una lira di contributi. Oggi abbiamo 2 milioni di pensionati agricoli a fronte di 700.000 attivi. Non dico che questa gente volesse evadere i contributi, dico, però, che non li ha pagati, perché la situazione prima era questa, perché ai tempi del mio povero papà, quando andavano ancora con il carretto e l’asino dai paesi a Milano a portare la verdura e la frutta, non usavano pagare i contributi. La gente aveva altri problemi: se nevicava, non c’era la strada asfaltata. A quella gente dobbiamo dare qualcosa ma questa gente costa.

Il versamento di pensioni a persone che non hanno mai pagato niente ha contribuito a fare l’Italia in cui noi viviamo.

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Gli assegni familiari. Anche questa è una cosa che c’entra poco con le pensioni. Potremmo andare avanti per molto con questo ragionamento, ma non voglio tediarvi. Morale della favola, secondo la nostra riclassificazione, dal 70,4 per cento dovremmo scendere al 52 per cento circa. Non voglio dire che ho solo cercato di dare un contributo che eviti all’Italia una brutta figura anche quando non appare giustificato dai numeri. Siamo sempre ultimi e andiamo pure a mettere dentro i 25.000 miliardi di vecchie lire di TFR per dire: “Questi li spendiamo nella vecchiaia”. Un vero autogol!

La mia impressione è che l’Italia è sostanzialmente allineata con la media europea, in termini di spesa pensionistica. Obiezione: ma gli altri, ad esempio gli spagnoli, hanno molte integrazioni al minimo nel conto delle pensioni. Benissimo, vorrà dire che la nostra spesa che prima era 70 è diventata 52 e che gli spagnoli arriveranno da 52 a 49.

Questo ragionamento, peraltro, è un portato della Commissione. Quando scrivemmo alla Commissione (all’epoca fummo molto criticati per questo passaggio) io proposi una Maastricht del welfare in generale a livello europeo. Infatti, non posso pensare che questioni come la sanità, l’assistenza, le pensioni siano una qualcosa che debba essere gestito a livello europeo. Non posso pensare che qualcuno, come negli accordi di Lisbona, mi fissi le età e mi dica che si va in pensione a 65 anni. Un Paese industrializzato che vuole promuovere sviluppo e ricerca e vuole generare futuro per i giovani deve anche domandarsi: quanto può essere l’incidenza della spesa del welfare sul PIL affinché un paese sia in grado di generare risorse da destinare alla tecnologia, agli investimenti, alla ricerca e all’istruzione? Questo richiede la partecipazione di tutti. Il mio concetto di welfare era proprio questo. Abbiamo meccanismi di calcolo che ci dicono che la media dei 15 è pari al 26,4 per cento, come incidenza della spesa sociale sul PIL. Io non so se questo sia un dato giusto, sbagliato, equo. Si decida. Si faccia uno studio e si dica che un paese, per esempio, se spende più del 25 per cento, quindi più di un quarto del PIL, in spesa corrente per l’assistenza, non è abbastanza competitivo, oppure si dica che è possibile arrivare fino al 30 per cento perché tanto va bene lo stesso. Insomma, l’idea è quella di studiare questo argomento. Ma per arrivare a questo occorre che l’Europa, rifletta bene sui sistemi di classificazione e che si preoccupi di vederli rispettati. Se leggiamo le statistiche di EUROSTAT, spesso esse dicono che i paesi a, b, c e d non forniscono la spesa per la formazione, che il paese x non fornisce la spesa per gli ammortizzatori sociali, che il paese y mette le pensioni da qualche altra parte.

Allora, se vogliamo ragionare e fare una Maastricht del welfare, la pregiudiziale è quella di avere prima uno schema di classificazione della spesa sociale standard che dia chiare indicazioni e che faccia una specifica delle voci: pensioni pagate da contributi e pensioni non pagate da contributi, pensioni obbligatorie del sistema di base e pensioni del sistema complementare. Non si può fare di tutta l’erba un fascio. Per esempio, nei nostri dati vengono inserite le pensioni che pagano le cosiddette banche che prima erano pubbliche e poi sono state via via privatizzate. Quello che paga il Fondo Pensioni delle CARIPLO, l’Istituto San Paolo di Torino, la Cassa di Risparmio di Biella o quella di Firenze saranno fatti loro. Si tratta di accordi fatti tra loro e il personale e non sono certamente pensioni di base. Però, poiché prima del 1991 tutte queste banche erano pubbliche, nella contabilità dello Stato ci sono alcuni punti di spesa che si riferiscono a quelle pensioni e che sarebbe bene togliere. Altrimenti dovremmo allargare il quadro e metterci anche le pensioni complementari provenienti da altre parti.

In conclusione: 1) dobbiamo dedicarci alla riclassificazione; 2) dobbiamo pensare a valutare l’impatto del welfare.

Devo dare ragione a Pietro Larizza: se non si fanno queste operazioni, criticabili finché si vuole (ma ci si può sempre lavorare sopra), continueremo ad avere i tromboni che tutti giorni ci suonano l’orchestra della riforma delle pensioni,

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perché, giustamente, non esaminando i conti nel dettaglio e leggendo soltanto il dato del 70 per cento dicono: “E’ troppo, è da matti, dobbiamo riformare”.

Un’ultima rapida osservazione. Riguarda la provocazione fatta prima da Larizza quando ha affermato che non ho detto tutta la verità. In effetti ho voluto fare un’ulteriore provocazione: mi sono rivolto all’ISTAT e ho chiesto perché scrivevano che il sussidio alla disoccupazione è solo dello 0,5 per cento, che quello delle famiglie in maternità è poco, quasi niente, che il sussidio alla casa è pari allo zero e che il sussidio per “altro” (per “altro” intendasi esclusione sociale, dove non classificata altrove) è stranamente pari allo zero. Abbiamo effettuato una seconda verifica e abbiamo chiesto ai grandi comuni come Roma, Milano, o Bologna: “Se date quattro case alla povera gente che non può pagarsi l’affitto, se distribuite servizi suppletivi, se avete il pulmino che porta gli alunni che sono in condizioni disagiate a scuola, se il comune paga la mensa scolastica, se c’è l’assistente sociale che ha due macchine, in quale conto mettete tutti questi servizi?”. La risposta è stata che mettevano tutto nelle spese generali! Secondo la definizione Sespros, cioè la differenza tra gli affitti di mercato delle case appartenenti ad Enti Pubblici e quello che realmente si incassa (abbiamo dovuto depurare i dati perché nella parte di incasso ci sono alcune voci che non andrebbero contabilizzate) spendiamo lo 0,7% del PIL che dovrebbe essere aggiunto al 24,4% che noi dichiariamo. Per l'assistenza sociale erogata dagli enti locali, prendendo per campione soltanto Roma e Milano, risulta un ulteriore 0,8% di PIL. Anche questa è un'ulteriore provocazione, un sasso nello stagno: chi è più bravo di me (e ce ne sono una caterva) studi il problema e venga a dirci se va bene o meno. Nella nuova ipotesi potremmo arrivare ad una spesa del 27%, ma io sono più propenso a ritenere che saremo più vicini al 29% di spesa sociale rapportata al prodotto interno lordo.

Ad onor del vero, una fascia di paesi non contabilizza gli assegni sociali. Le pensioni sono al netto del carico fiscale, mentre noi abbiamo un'incidenza del carico fiscale pari all'1,65%. Se la mia stima fosse 24,4 e 27, dovrei anche dire che bisogna togliere il carico fiscale relativo al carico sociale che lo Stato indica solo nel documento che l'INPS manda ai pensionati. Lo Stato dice loro : "io ti dico che ti do cento figurativamente, in realtà ti do ottantacinque perché quindici li prendo dalle tasse". Il dato in questione quindi, depurato dalle tasse diventa un 25 % che però nei conteggi che stiamo raffinando diventa più vicino al 27%. In conclusione due cose: la prima è che occorre classificare bene la spesa e disporre di buoni dati di base (quanto realmente si spende).La seconda a proposito di quanto sentivo prima su Nord e Sud. Ora, mentre sulle pensioni non si discute che debbano essere centralizzate, quindi ci deve essere un istituto di sicurezza sociale come è nei paesi federali e confederali, per quanto riguarda l'assistenza io penso, pur con dei meccanismi di perequazione di solidarietà, di redistribuzione – ma non voglio dire di più - che debba essere il più vicino possibile al locale. Ricorderò sempre l'esempio dell'assegnazione delle case popolari e della sommossa di abitanti perché un inquilino possedeva una Porsche: il paese si è adirato, è andato dal sindaco facendo presente che forse a Roma poteva sfuggire la Porsche ma che lui doveva averla inevitabilmente vista.

L'altro episodio da citare è quello di mezzo paese che si solleva perché dice che non è pensabile che una volta assegnata la casa, non si produca più reddito: la casa me la dà il comune, prendo la pensione sociale, ho quei benefici, io vado a pesca, cosa lavoro a fare?

Diamo le prestazioni sociali che debbono essere veramente misurate e valutate a livello locale, ma devono essere date a chi ne ha veramente bisogno e non per tutta la vita; posso sussidiare uno che è stato disoccupato ma non per venti anni, al massimo per sei mesi, dopodiché bisogna che questo si trovi qualcosa da fare.

Bisogna anche tener conto di altri aspetti. Non voglio introdurre l'altra riclassificazione sui bilanci regionali, ma bisogna tener conto di quelli che sono i

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differenziali regionali. Li abbiamo riclassificati dal 1980 ad oggi e su questi bisognerà pur ragionare. Se ragioniamo sui numeri, forse possiamo fare delle cose utili per il paese.

Interventi programmati

BENIAMINO LAPADULA

CGIL

Cominciamo dalle indiscrezioni, Giarda ne ha fatta una su i capi del sindacato. Giarda, il ministro del lavoro, a volte anche il Presidente del Consiglio si vedevano, in segreto, inseguiti da giornalisti in scooter. Io ne faccio altre due, su come è avanzata l’idea del sistema contributivo: anche io come Laura Pennacchi sono pronto a testimoniare che le due discussioni in Italia e in Svezia si sono svolte parallelamente, si conosceva qualcosa ma nulla di più. Il professor Gronchi mi chiese di organizzare nel 1994 un seminario con i nostri rappresentanti in Europa e chiedemmo al nostro rappresentante in Svezia cosa stesse succedendo, ci disse che una Commissione stava lavorando, ma che non c’era ancora nulla di concreto. Noi invece in Italia avevamo avviato già da tempo un dibattito concreto sul sistema contributivo, mentre quello teorico si era svolto ancora prima. C’è dunque una primogenitura da rivendicare.

L’altra indiscrezione riguarda il sottosegretario Brambilla: vorrei ricordare che fu lui durante l'ultima fase del governo Berlusconi ad inserire nel protocollo Governo-sindacati che fu firmato dopo gli scioperi e la grande manifestazione di Roma, un riferimento al sistema contributivo: in quel protocollo c'è una formulazione che prefigura il nuovo sistema pensionistico che poi è stato concordato con il governo Dini.

Credo che sia molto importante e che venga ripristinata la verità storica sul fatto che il nostro Paese è stato antesignano nell’introduzione del nuovo sistema. Il professor Gronchi ancora una volta ha riproposto i suoi rilievi sulla riforma. Grazie al sindacato però, gli obiettivi fondamentali del nuovo sistema sono stati compresi dai lavoratori italiani. Abbiamo tenuto decine di migliaia di assemblee, un referendum e lavoratori e pensionati sanno che questo nuovo sistema ha la caratteristica di connettere molto strettamente la pensione all'ammontare dei contributi e alla data anagrafica di pensionamento. Queste due novità credo che siano state comprese abbastanza.

Per quanto riguarda il tema indicizzazioni, credo che debba essere mantenuta aperta una discussione. C'è un elemento di illusione finanziaria nella prima rata, che incorpora una quota di crescita del PIL futuro. Il professor Gronchi propone l'idea dell'opzione tra una prima rata più alta e una più bassa ma indicizzata alla crescita del PIL; ragioniamoci, non chiuderei il discorso. Occorre però tener conto che oggi qualsiasi elemento che rimetta in discussione le indicizzazioni potrebbe innescare una rivendicazione che il paese non sarebbe in grado di sopportare. Sono convinto che al momento bisogna procedere per via fiscale prevedendo trattamenti fiscali connessi all'età. Questo governo ha però cancellato la norma che prevedeva un trattamento fiscale agevolato al raggiungimento del settantacinquesimo anno di età; e questo è grave perché i problemi che esponeva prima il professor Gronchi sono reali, a fronte di una riduzione del valore effettivo delle pensioni, che si rivalutano soltanto sulla base dell'andamento dei prezzi, sorgono questioni serie, soprattutto per i pensionati a reddito più basso.

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Sull'incentivo-disincentivo al lavoro abbiamo già parlato con la professoressa Fornero: in questa sede lo stesso ministero del lavoro ha presentato uno studio importante sulle propensioni al pensionamento degli anziani. Non è vero poi che le persone abbiano sempre un atteggiamento razionale come pensano troppo spesso gli economisti, altrimenti non si spiegherebbe, mi si perdoni la battuta, perché un docente univers itario raramente rinunci a tutta la permanenza possibile al lavoro che la legge gli dà, anche quando da un punto di vista pensionistico non avrebbe più l'interesse a restare. E' evidente che non c'è soltanto un calcolo razionale, si permane al lavoro se il lavoro è gratificante, si cerca di fuggire se il lavoro è particolarmente ripetitivo e non soltanto se usurante. Non basta guardare un lato del problema così come non si può pensare che tutto dipenda dal lavoratore. Vediamo le comparazioni a livello europeo: un conto sono le età legali di pensionamento, un conto sono quelle di ritiro effettivo dal lavoro. Su queste punte la convergenza è molto forte in tutta Europa. Bisogna vedere quanto effettivamente la gente riesce a restare sul mercato del lavoro. Le imprese non fanno formazione oltre una certa età, non c'è una formazione permanente durante tutto l'arco della vita. Anche qui ci sono delle differenze. Il confronto con il modello svedese, ad esempio, sarebbe importante farlo a tutto campo e ci accorgeremmo che la Svezia, che pure ha conosciuto un momento di difficoltà economica non trascurabile, grazie ad investimenti massicci nella ricerca e nella formazione, giocando sulla qualità competitiva, si può permettere uno stato sociale pesante e regge benissimo il confronto internazionale. Potremmo parlare anche della Finlandia, un paese che si poteva considerare fino a qualche anno fa arretrato e che ha investito massicciamente sulla qualità e sull'occupazione.

Non mi convince, quindi, l'amico Giarda che si è soffermato su un aspetto, seppure importante, che è quello del costo del lavoro, su cui bisognerebbe anche indagare meglio perché le cose sono un po’ più complesse. Quando si danno delle percentuali sul costo del lavoro bisogna indagare meglio, si vedrebbe che le differenze non sono così grandi, neanche con gli Stati Uniti. Esistono dei lavori di Paolo Onofri e altri approfondimenti fatti da Artoni che ci dicono che poi certe esigenze se non si affrontano in un modo vengono risolte in un altro modo ed allora ci sono salari più elevati per far fronte ad una spesa privata più forte. Si può avere la preferenza di un modello rispetto ad un altro. Personalmente rimango dell'idea che i sistemi pubblici, sia nella previdenza che nella sanità, siano più efficienti di quelli privati. Però la discussione intorno a questi argomenti è più che legittima, ma non facciamo raffronti sbagliati. Certe esigenze devono comunque essere affrontate pur se con modelli diversi; alcuni sono indubbiamente più inefficienti di altri, basti pensare alla sanità negli Stati Uniti e al tentativo, purtroppo fallito di Clinton, di riformarla.

Veniamo agli aspetti che verranno esaminati oggi pomeriggio. Tito Boeri, sottolinea lo spiazzamento che la spesa pensionistica rispetto ad altre politiche sociali. Io sono per seguire il metodo Brambilla, bisogna che ci confrontiamo sui dati e ne veniamo a capo. Non credo che abbia ragione Alberto Brambilla, quando, ricostruendo i conti, dice che l'Italia in Europa si colloca ai livelli medi per quanto riguarda la spesa sociale. Penso che non sia così, ma penso anche che bisogna fare quell’accertamento che lui dice. Sono anche preoccupato, aggiungo, per le politiche del governo, perché è evidente quello che è successo l’anno scorso: a fronte di una riduzione del carico fiscale a livello centrale, si è compressa la finanza locale e quel welfare a cui faceva riferimento Brambilla è stato tagliuzzato, compresso, compromesso; quel welfare è importante ma non dà diritti certi a tutti gli italiani. Bisognerebbe avere dei livelli essenziali, fondamentali per tutto il paese. Penso però che il vero spiazzamento sia dato dall’ammontare del debito pubblico; se noi andiamo a vedere, è proprio questo ammontare del debito pubblico che produce quel maggiore onere per interessi che, sommato alla spesa ufficiale, ci dà la media europea. Stiamo sotto perché ad un certo punto, invece di procedere

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parallelamente sul terreno della costruzione del welfare e sul terreno fiscale, abbiamo lavorato in deficit spending, accumulando un debito che adesso ci comporta oneri da sostenere.

Credo che sia da approfondire sicuramente il quadro di raffronto, però sarebbe un’illusione quella di pensare che con il mero spostamento di risorse all’interno della spesa sociale, noi costruiamo le politiche che Boeri ci suggeriva, che sono politiche europee. Per fare questo occorrono risorse aggiuntive: si tratta poi di discutere come adattare le politiche europee all’Italia perché abbiamo una componente di economia sommersa e informale più grossa degli altri paesi, quindi quando facciamo i raffronti sulla povertà, dobbiamo sapere che ci muoviamo in un quadro che è connotato da molta economia sommersa, da molta evasione fiscale. Boeri ci ha proposto un modello europeo, si tratta di vedere come adattarlo, è un fatto di civiltà: penso però che sarebbe una illusione pensare che si possa procedere ad una riduzione del carico fiscale e alla creazione di quel modello semplicemente spostando i pesi dalla previdenza ad altri comparti. Se si universalizza, si modernizza, si europeizza, come dice Boeri, aumenta anche il costo. Se affrontiamo la disoccupazione per tutti i cittadini italiani allo stesso modo e questo non costa di meno, costa di più. Non è immaginabile offrire ai lavoratori delle grandi imprese coperture distanti da quelle medie europee; oggi ce l’hanno sotto forme diverse, sono molto più ridotte per altri, ma non bisogna farsi illusioni: quello che dobbiamo fare è un’operazione di verità e di una lenta costruzione riformista che non si improvvisa. Naturalmente – concludo - non aiuta il fatto che si continui, come dice Baretta, a parlare di pensioni nel modo dissennato con cui lo si fa in questo paese.

ADRIANO MUSI

UIL

Voglio fare solo quattro considerazioni, rapide, ringraziando il CNEL per questa ulteriore occasione di confronto, anche se queste occasioni ci aiutano soltanto a rafforzare i nostri convincimenti, affinando magari i ragionamenti.

Le quattro considerazioni: la prima è la riclassificazione. Senza ripetere le valutazioni fatte dal sottosegretario Brambilla, vorrei riflettere su quanto ho letto sul quotidiano della Confindustria. Dividere la previdenza dall’assistenza, fare la riclassificazione della spesa sarebbe un falso problema. Sentivo, poi, da ultimo, il professor Boeri, dire che: pensioni sociali e integrazioni dal minimo, in questa fase non ha senso scorporarle dalla spesa previdenziale. Allora mi chiedo perché fino all’altro ieri, fino a quando non c’è stata questa rappresentazione offerta dal sottosegretario Brambilla, c’era questo problema della spesa previdenziale? Nel momento in cui il sottosegretario ha dimostrato che bisogna saper distinguere la spesa previdenziale dalla spesa assistenziale, il problema è diventato: la spesa pubblica mentre il resto sarebbe solo una partita di giro.

E’ inutile fare riclassificazione, si tratta comunque di spesa. Il problema, quindi, è di ridurre la spesa pubblica. Una valutazione che occorre tener presente per capire la razionalità con cui in questi anni siamo venuti progredendo nella discussione circumnavigando la previdenza.

Nell’89 si era decisa una legge che divideva la previdenza dall’assistenza ma si è continuato a non fare questa divisione. Perché, nel momento in cui viene fatta questa operazione che tiene conto anche del metodo di valutazione eurostat, tutto diviene un falso problema?

Perché sono sempre le istituzioni bancarie o di emanazione bancaria a fare queste valutazioni? ”A pensare male - diceva Andreotti - si fa peccato, però a volte ci si azzecca”.

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Questa prima valutazione pone più problemi politici che tecnici consapevoli che molte volte i problemi tecnici servono soltanto a supportare le tesi politiche. Bisogna allora capire qual è la tesi politica.

La seconda considerazione è legata alla sostenibilità. Giustamente, il sottosegretario Brambilla, poneva un quesito: quale può essere l’incidenza del welfare sul PIL perché un paese possa continuare a progredire e considerarsi positivo? Io penso però che dovremmo porci un altro tipo di domanda, pensando anche agli uomini ed alle donne di questo paese, e dire: qual è la previdenza pubblica che si reputa costituzionalmente dignitosa per una persona anziana che termina il proprio lavoro? Pensare di ridurre ulteriormente il milione e trecentomila lire di pensione media di un lavoratore oggi è un problema di dignità delle persone? Il problema della ridistribuzione della ricchezza, tenendo conto dei tanti condoni e di tutte le sanatorie fiscali, è tema ancora all’o.d.g. per il governo?

Il problema è capire perché, per lo stato sociale, si è così rigorosi sulla sostenibilità finanziaria e non si pensa mai alle persone, alle donne, agli uomini ed anche a quale paese vogliamo consegnare alle future generazioni.

Future generazioni per le quali bisogna fare due ulteriori considerazioni. La prima è relativa alle affermazioni del Presidente della Camera che ha rilevato come occorra evitare di penalizzare i giovani. P, allora, erché non ha detto una parola sulla decontribuzione? La decontribuzione è, esattamente, la penalizzazione dei giovani relativamente alla previdenza pubblica.

La seconda considerazione prende spunto da un’osservazione della dottoressa Fornero. Mi ricordo che nella palazzina qui accanto la dottoressa ha presentato una ricerca commissionata dal ministero del lavoro. La dottoressa ha testimoniato come la propensione al pensionamento di questo Paese sia condizionata dai datori di lavoro. Molti lavoratori italiani, infatti, per non dire la stragrande maggioranza, sono costretti a lasciare il posto di lavoro all’età di 55 anni perché vengono licenziati, non perché vogliano andare in pensione. Se questa è la realtà, se questa è l’analisi, che senso ha affermare che bisogna applicare disincentivi a coloro che vengono licenziati e che – come ha giustamente ricordato il professor Boeri - non riescono, poi, a trovare un nuovo lavoro tra i 55 e i 64 anni di età?

E’ per questo che chiediamo di rendere coerenti le scelte politiche, alla realtà dei problemi. Abbiamo la deformazione di guardare prima alle persone, agli esseri umani e poi analizziamo i conti e cerchiamo di capire se ognuno partecipa alla solidarietà in base al reddito, alla ricchezza, alle disponibilità finanziarie ed ai capitali realmente posseduti. Prima però bisogna considerare le persone; capire a quale tipo di pensione hanno diritto.

Una terza considerazione è relativa alla contribuzione, quella del 32,7% che sentivo dire essere molto alta. Vogliamo sapere quante imprese realmente pagano, non il 32,7, ma il 23% consapevoli che la differenza la mette il lavoratore dipendente; (l’8,7 lo paga il lavoratore dipendente).

Quante imprese pagano il 23% verificando tutte le agevolazioni, le decontribuzioni, le fiscalizzazioni che vengono fatte e che incidono sul costo del lavoro?

Evitiamo di essere complici di una generalizzazione falsa fondata sull’affermazione che le imprese pagano il 33%. Il lavoratore il suo 9% comunque lo paga. Chi risparmia è soltanto il datore di lavoro.

L’ultima osservazione è quella riguardante il completamento della riforma. Se fin dal 1995 avessero attuato gli incentivi per poter andare in pensione su libera scelta del lavoratore, molto probabilmente, ci troveremmo con otto anni di sperimentazione sulla propensione reale dei lavoratori ad andare in pensione. Invece non è mai stata attuata questa possibilità di individuare incentivi seri per poter fare una scelta non condizionata dal datore di lavoro. Per di più la previdenza complementare non si è realizzata. Se si fosse resa esigibile, senza che ne venisse

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impedito dai datori di lavoro l’utilizzo del trattamento di fine rapporto, essendo il salario differito di proprietà dei lavoratori, molto probabilmente avremmo avuto otto anni di risultati tangibili della previdenza complementare che avrebbe reso più facilmente comprensibile ai lavoratori il ruolo della complementarità ed il legame tra previdenza pubblica e previdenza complementare.

Il fatto che non sia ancora decollata, il fatto che ci siano lavoratori italiani che hanno perso otto anni di previdenza complementare non più recuperabile è un ulteriore problema nei tanti problemi. Mi chiedo e vi chiedo, pertanto, se il problema oggi è di discutere come fare una nuova riforma o se non è di attuare la riforma del ‘95 in maniera seria e rigorosa.

Avanzo qui una richiesta al CNEL: distribuire a tutti gli organismi internazionali. compresi il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea oltreché a tutti i Consiglieri il testo che l’allora nel ’97, ministro del tesoro Ciampi presentò sulla sostenibilità nel sistema finanziario della previdenza italiana fino al 2050. Un documento elaborato dal ministro del tesoro Ciampi volutamente in inglese per evitare che la traduzione tradisse i burocrati di Bruxelles. Sarebbe utile che il CNEL lo mettesse a disposizione insieme alla documentazione di oggi e la mandasse a tutti. Così forse aiuterebbe a rifare una “operazione verità” sul sistema previdenziale italiano.

Non vorrei che la divisione fra previdenza ed l’assistenza, oltre che fare chiarezza concettuale sulla contabilità che richiamava il presidente Larizza, non venisse colta nel suo significato di scelta politica. La previdenza è coperta da contributi mentre per l’assistenza il Governo deve scegliere cosa deve assistere e come assisterlo. Non vorrei che dentro una manomissione della contabilità previdenziale si scegliessero delle forme assistenziali che diventano clientelari dal punto di vista politico. Faccio degli esempi. Ad oggi, 2002, nella contabilità Inps ancora figurano interventi assistenziali che non si capisce perché debbano pesare solo sul lavoro dipendente privato e non sull’intera collettività nazionale. Se è giusto pagare per trattamenti speciali di disoccupazione ai lavoratori agricoli 3000 miliardi, bisogna capire se bisogna pagarli soltanto con i contributi dei lavoratori privati oppure se devono essere coperti dalla solidarietà dell’intera collettività nazionale attraverso la fiscalità. Bisogna capire se le prestazioni economiche di maternità per 1700 miliardi devono pagarle soltanto i lavoratori privati o è una scelta di politica della famiglia fatta dal Governo. Bisogna capire se le maggiorazioni dell’anzianità contributiva riconosciute alienabili per 700 miliardi sono una scelta che deve ricadere sul lavoro privato o è una scelta che deve ricadere su tutta la collettività nazionale. Se pagare il sussidio di disoccupazione ai lavoratori impegnati in attività socialmente utili (400 miliardi di vecchie lire) è una scelta che deve ricadere sul lavoro privato o è una scelta che deve dipendere su tutta la collettività nazionale.

Quando il professor Tito Boeri fa le proposte di rimodulazione dell’intervento sull’assistenza, penso che faccia una proposta che riguarda la contabilità nazionale, non l’Inps e non le prestazioni previdenziali dell’Inps, ma la fiscalità generale. Quindi dire di dividere previdenza e assistenza non è un fatto contabile, è un fatto di assunzione di responsabilità di cosa si vuole fare in presenza di una politica di socialità vera. Questo è il problema e quindi non è solo un problema di chiarezza contabile.

GIOVANNI MAGLIARO

UGL

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Credo che innanzitutto sia doveroso ringraziare chi ha pensato di tenere questo convegno, cioè il CNEL, perchè ha dimostrato un tempismo eccezionale : proprio mentre noi stiamo affrontando qui questi argomenti, oggi o domani si decideranno alcune cose nell’ambito del sistema previdenziale italiano. E’ pur vero che questo tormentone della riforma previdenziale è ricorrente, ogni tanto ricompare e quindi siamo capitati un’altra volta in questo turno.

Vorrei dire prima di ogni altra cosa che su questo argomento c’è un grosso problema di comunicazione, di distorsione della comunicazione, di difficoltà da parte di un qualsiasi cittadino di capirci qualche cosa. Non sono un tecnico, quindi il mio intervento sarà centrato su alcuni aspetti di tipo politico anche in riferimento alla legge delega che è in discussione al Senato. E allora è necessario mettere preliminarmente alcuni punti fermi: il primo punto fermo è che l’Italia è l’unico paese europeo in cui negli ultimi dieci anni ci sono state ben tre riforme delle pensioni, con tre differenti governi. E sono state riforme non di facciata, non aggiustamenti, ma di portata strutturale.

Nella risoluzione del Consiglio Europeo di fine marzo, credo del 21, c’è un espresso riconoscimento dello sforzo che l’Italia ha fatto per controllare le sue dinamiche previdenziali e viene riconosciuto il grande passo che è stato fatto nel passaggio, sia pure graduale, verso un sistema contributivo che viene ritenuto una modernizzazione efficiente del primo pilastro e anche un primo passo verso la sostenibilità finanziaria di tutto il sistema.

La dinamica della spesa previdenziale in questo momento è così allarmante come qualcuno ci vorrebbe far credere? Noi non lo crediamo, la mia organizzazione sindacale non lo crede. Per quanto riguarda i livelli della spesa pensionistica non dovremo finire mai di ringraziare il sottosegretario Brambilla per il lavoro che ha fatto, lo studio sulla spesa distinta tra previdenza e assistenza rappresenta una grande opera di chiarificazione su questo punto.

Con questo si vuol dire che non ci sono problemi nel campo previdenziale? No, certamente ci sono dei problemi, connessi al fatto che, fortunatamente, la vita si è allungata e che nel contempo vi è un calo di natalità.

Sappiamo quali sono i problemi, però credo che un primo problema abbastanza serio è questo: quando fra 20 o 25 anni andranno in pensione i lavoratori ai quali verrà applicato completamente il sistema contributivo, questi lavoratori avranno una pensione pari al 50-55% dell’ultima retribuzione. Quindi è chiaro che si rende già da oggi necessario intervenire per rimediare a questo aspetto. Noi che siamo più avanti con l’età siamo abituati ad un pensione che in certi casi era il 100% della retribuzione, il 90%, l’80%.

E’ chiaro che bisogna intervenire per spingere la previdenza integrativa, su questo siamo d’accordo con il disegno governativo. Ma come spingere per la previdenza integrativa, per quello che si chiama il cosi detto secondo pilastro? Dato che qui si parla di pensioni e stato sociale, Italia e Svezia a confronto, voglio sottolineare il tipo di informazione che viene data in Svezia ai singoli contribuenti, ai giovani, a quelli che andranno in pensione fra 20 anni: periodicamente si invia loro a casa un conteggio preciso, non come si fa da noi dove ci dicono quanti contributi abbiamo. In Svezia no, lì viene fatta una previsione e gli dicono: tu hai versato un tot, fra tanti anni quando andrai in pensione, tenendo conto dell’andamento previsionale dell’economia e di altri fattori avrai presumibilmente questa pensione. Questo è fondamentale perché facendo un lavoro serio di questo genere, un lavoro di informazione seria, l’interessato deciderà allora se gli conviene optare per una pensione integrativa o rimanere ancora a lavorare perché avrà questi vantaggi.

E qui passiamo al secondo punto del disegno governativo cioè al proposito di spingere i lavoratori a restare occupati perché, come sappiamo tutti, questo rappresenterebbe un grosso vantaggio per le casse previdenziali.

Però c’è modo e modo di ottenere questo risultato. Il lavoro fondamentale, a mio parere, è di convincere, di fare un’opera di convincimento basata su incentivi

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seri, cioè su misure tali da convincere la persona che ha i requisiti per andare in pensione a rimanere a lavorare ancora per qualche anno.

La previdenza lavorativa - lo sappiamo dai dati Comit- attualmente riguarda un milione e trecentosessantamila iscritti ai fondi pensione. Questo è ancora poco, ci deve essere una incentivazione verso la pensione integrativa derivante però da una scelta consapevole, agevolata. Quindi va fatta un’adeguata informazione sulle prospettive, sui rischi, sui tipi di fondi pensione che scioperano sul mercato, perché oggi c’è sia un grande disorientamento nei lavoratori che pur favorevoli a crearsi una pensione complementare non sanno a chi rivolgersi, non sanno bene quali sono le prospettive e quali sono i rischi.

Non ci sembra assolutamente accettabile la previsione governativa del conferimento obbligatorio del TFR alla previdenza complementare : al di là di aspetti giuridici che peraltro sono anche delicati perché sappiamo tutti che la natura del TFR è quella di salario differito, di una funzione mista retributiva e previdenziale, il TFR ha un tasso di rivalutazione assicurato (nel 2002 è stato del 3,4) e noi non possiamo confiscare i risparmi o la retribuzione differita in maniera coercitiva.

Non è male ricordare quello che suggerisce la relazione del Consiglio europeo in merito alle misure idonee a garantire pensioni sicure e sostenibili: primo fra tutti l’aumento del tasso di occupazione, e noi siamo uno dei paesi in Europa con il minor tasso di occupazione, soprattutto per quello che riguarda le donne e le persone più anziane. E poi l’emersione del lavoro nero: siamo un paese anomalo, perché quando si sottrae al bilancio previdenziale un quarto, o un quinto delle entrate, si creano delle turbative. Inoltre bisognerebbe evitare il ricorso frequente che c’è stato nei prepensionamenti, che sono delle forme di ammortizzatori sociali, scaricate però sulla spesa previdenziale.

Siamo contrari ovviamente a disincentivi, cioè a misure coercitive che vengono chiamate così eufemisticamente ma che in realtà sono misure che tolgono di fatto ai lavoratori diritti acquisiti: Diciamoci la verità : se la disincentivazione deve raggiungere lo scopo deve in sostanza cambiare le regole del gioco.

C’è anche un altro punto che bisogna affrontare, anche se molto sinteticamente, quello della decontribuzione per i nuovi assunti: questa è una misura in aperta contraddizione con quello che dovrebbe essere lo scopo della legge, perché da un lato si dice che il sistema in prospettiva si avvia verso una sostenibilità difficile, dall’altro lato si propone una misura che viene poi a destrutturare la previdenza finanziaria pubblica, viene a creare un vuoto. Dato che la legge delega prevede che i livelli della pensione rimangano uguali, dovrebbe essere lo Stato ad intervenire per sanare questo buco. Sappiamo come vanno queste cose: se si attuerà questa misura, fra qualche anno ricominceranno le solite discussioni perché c’è il buco nelle casse e quindi bisogna fare un’altra riforma. Né sembra credibile la tesi di chi sostiene che con questa misura, dato che il costo del lavoro per i nuovi assunti verrebbe a diminuire molto, si otterrebbe un aumento dell’occupazione tale da consentire poi di fronteggiare questa spesa superiore.

Un’ultima osservazione - e poi concludo - più di carattere generale : c’è stato uno spostamento dell’impostazione sul problema della previdenza. Fino a qualche tempo fa si sosteneva che era il sistema previdenziale che in prospettiva poteva creare dei problemi, che non teneva. Adesso si è spostato il tiro, si è cominciato a dire da qualcuno che la competitività del sistema produttivo italiano non è buona e che esistono ingenti risorse che potrebbero essere destinate allo sviluppo ma invece vengono assorbite dalla previdenza. C’è qualcuno che dice: cerchiamo di risparmiare sulla previdenza in modo liberare risorse che potranno essere utili per il rilancio economico, cioè per l’innovazione, la ricerca, la formazione, eccetera.

Anzitutto dobbiamo tenere presente che stiamo parlando di una cosa molto delicata, stiamo parlando di un problema sociale di grande importanza, di grande rilevanza, che interessa milioni di persone, che hanno lavorato e lavorano una vita,

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che hanno delle sacrosante aspettative. Questo deve essere il primo punto che bisogna tenere presente quando si affronta questo ordine di problemi.

E poi siamo proprio così sicuri che le cause della situazione indubbiamente critica che attraversa il sistema produttivo italiano quanto a competitività siano da ricondursi al sistema previdenziale?

Ho letto oggi sul giornale che ieri il Governatore della Banca d’Italia ha detto che per il vero risanamento delle finanze pubbliche, in vista di un rafforzamento della competitività ecc. è necessario un aumento di produttività del servizio pubblico, cioè la razionalizzazione, l’efficacia del settore pubblico. Su questo argomento, su quali sono le cause della attuale situazione del sistema produttivo italiano, ci sono studi, analisi. L’ultimo è questo, l’ho comprato ieri e sto cominciando a leggerlo, un libro di Luciano Gallino:”La scomparsa dell’Italia industriale”, dove mi sembra, da quello che ho incominciato a leggere, si faccia un’analisi abbastanza pepata, ma tutto sommato realistica, delle cause di questa situazione. Credo che nessuno di questi studi, nessuna di queste analisi dia la colpa al sistema previdenziale: collegare i problemi del sistema Italia in genere con la spesa previdenziale credo che sia una operazione, oltre che inaccettabile politicamente e sul piano sociale, anche arbitraria sul piano economico e scientifico.

PAOLO SESTITO

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali

Il mio intervento in questa sede vuole semplicemente fornire alcuni chiarimenti tecnici. Non spetta a me, in quanto tecnico, rappresentare a livello politico istituzionale il Ministero del Lavoro e delle Politic he sociali, che era del resto ben più autorevolmente rappresentato dal sottosegretario Brambilla. Attenendomi strettamente al mio ruolo esclusivamente tecnico e non politico, presenterò delle brevi considerazioni, dei chiarimenti, concludendo con alcuni punti che mi sembrano dati di fatto incontrovertibili rispetto alle tematiche dibattute nel pomeriggio.

Negli interventi precedenti si sono contrastate le tesi di chi sosteneva che in Italia vi sarebbe troppa spesa pensionistica e poca spesa assistenziale, con necessità di un riequilibrio che includa interventi sul sistema pensionistico, e quelle di chi invece sosteneva come nella spesa pensionistica si annidi in realtà una elevata componente di spesa assistenziale. Sono questi i due poli del contendere nel dibattito del pomeriggio. E’ rispetto a questi che credo utile presentare dei chiarimenti. Questi sono utili perché mi pare che parte del dibattito ora ricordato confonda due diversi piani analitici: il tradizionale dibattito interno, tutto italiano, di individuazione all’interno del sistema pensionistico di ciò che è previdenziale – da finanziare con contributi in una logica assicurativa - e di ciò che è assistenziale – finanziabile anche per il tramite della fiscalità generale - con gli schemi di classificazione adottati da Eurostat, schemi che in quanto tali nulla hanno a che fare con la distinzione, come intesa in Italia, tra previdenza e assistenza. Il punto che vorrei sottolineare non afferisce alla validità intrinseca del dibattito interno italiano e della distinzione tra previdenza ed assistenza, distinzione che pure qualcuno critica perché si ritiene priva di senso la contrapposizione tra rischio di sopravvivenza – quello in quanto tale coperto dalle prestazioni previdenziali – e rischio di sopravvivenza in una condizione di povertà o con una storia lavorativa (e connesso accumulo di contributi) “povera” – da coprire con le componenti assistenziali2. Il punto qui rilevante è più banalmente quello che la classificazione

2 Per un lavoratore agli inizi della propria carriera lavorativa entrambi i rischi sono presenti ed i contributi accantonati in una logica puramente assicurativa hanno una ragion d’essere rispetto ad entrambi i rischi.

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della spesa sociale fornita da Eurostat di per sé nulla ha a che fare con l’individuazione delle componenti assistenziali. Le cifre di Eurostat spesso citate nel dibattito sul livello della nostra spesa pensionistica fanno infatti riferimento alla così detta funzione di old age, funzione in cui si assommano tutte le spese di protezione sociale che afferiscono agli anziani3; se poi queste siano a titolo assistenziale o meno, Eurostat non ce lo dice in prima battuta, anche se implicitamente lo approssima in un altro modo, di cui parleremo dopo, poiché nella classificazione Eurostat si distingue tra trattamenti - quale che sia la funzione dei trattamenti in questione, ovverosia la tipologia di rischio coperta – che sono soggetti alla prova dei mezzi, e quindi per definizione operanti selettivamente a favore dei più poveri, e trattamenti non means tested.

Il fatto che la spesa italiana, nei dati Eurostat (vedremo dopo che vi è comunque una sovrastima in proposito), risulti concentrata nella funzione vecchiaia, denota come il rischio di sopravvivenza sia particolarmente coperto. Ciò è un dato del tutto indipendente dal come la copertura finanziaria sia poi ottenuta, ché vi sono sistemi in cui la copertura di tale rischio è integralmente, e non in via residuale, coperto dal sistema fiscale, ed il nesso a livello individuale o categoriale di contributi e prestazioni può poi essere più o meno forte. Sovrapporre alla distinzione tra le diverse funzioni- rischi coperti dalle spese di protezione sociale il dibattito nostro interno sulla natura previdenziale o assistenziale della spesa, genera solo confusione.

Altra cosa è rilevare come, all’interno dello schema classificatorio Eurostat, abbiano rilevanza alcune delle considerazioni che già prima ricordava il sottosegretario Brambilla. In particolare, nella funzione vecchiaia Eurostat tradizionalmente inserisce il TFR, che è voce che nulla ha a che fare con la copertura del rischio di vecchiaia. Verrebbe anzi da dire che è proprio la natura non pensionistica dell’attuale TFR che sottosta ai problemi di un suo utilizzo a fini pensionistici, ché il suo utilizzo a questi fini ovviamente comporta un mancato utilizzo ad altri fini. Che oggi il TFR non abbia una destinazione pensionistica rispetto al rischio di vecchiaia è evidente dalle cifre Inps che ci dic ono che anche per i lavoratori cinquantenni, per soggetti che sono cioè in prossimità del pensionamento, gli anni del TFR accumulato sono in media dieci o dodici, il che dipende dal fatto che parte rilevante del TFR viene utilizzato prima della pensione, nel momento in cui il lavoratore abbia cambiato datore di lavoro (per processi di mobilità volontaria o involontaria). Anche indipendentemente da tale considerazione empirica, la natura di importo accumulato e spettante anche agli eredi (e non secondo le regole proprie delle reversibilità dei trattamenti pensionistici) ben chiariscono come l’inserimento del TFR nella spesa per la funzione di vecchiaia sia una implementazione scorretta dello schema classificatorio di Eurostat.

Eliminare dalla funzione vecchiaia il TFR riduce il bias pensionistico del sistema italiano ma non lo elimina. Va inoltre ricordato che non è al dato Eurostat, erroneamente inclusivo del TFR, che fanno riferimento le valutazioni relative alla sostenibilità degli andamenti della spesa pensionistica.

Ovviamente, una componente rilevante dei differenziali di reddito tra individui sarà ascrivibile alle differenze sistematiche nella dotazione di capitale umano di questi e non alle effettive realizzazioni del processo stocastico dei redditi da lavoro, come tali per definizione non conoscibili all’avvio della carriera lavorativa. Peraltro, anche quelle stesse differenti dotazioni nel capitale umano, ad esempio nelle abilità innate dei diversi individui, sono in taluni approcci alla redistribuzione ottimale per via fiscale (si pensi a Rawls) interpretabili come realizzazioni stocastiche rispetto alle quali avrebbe senso definire sulla base di un principio assicurativo una politica redistributiva dai più ricchi (perché più fortunati e quindi più abili) ai più poveri (perché meno fortunati e meno abili). 3 In particolare si ricorda che i trattamenti di invalidità sono, e non solo in Italia, riclassificati tra quelli pensionistici laddove intervengano a favore di soggetti oltre una data soglia di età.

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Tornando alla dimensione della spesa pensionistica, è da ricordare un altro elemento già sottolineato dal Sottosegretario Brambilla. Nel discutere della caratterizzazione pensionistica (ma non del livello totale) della spesa sociale è in effetti da metter in conto una ulteriore riduzione: attesa anche la natura in parte residuale della funzione “assistenza” (che include in realtà anche le voci non altrimenti classificabili e che quindi residuano dopo aver individuato le funzioni vecchiaia e sopravvivenza, salute, disoccupazione, invalidità, abitazione e famiglia), è infatti plausibile che le spese assistenziali, in parte rilevante gestite a livello comunale e provinciale, siano sottovalutate nelle valutazioni ISTAT. Personalmente ritengo che le stime che il sottosegretario Brambilla derivava dalla considerazione di alcuni grandi comuni possano essere fuorvianti in senso opposto – tenuto conto del fatto che le spese assistenziali locali sono più rilevanti nei comuni di grandi dimensioni. In attesa dei risultati di una nuova rilevazione diretta sui comuni che ISTAT, Ragioneria generale dello Stato e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali avvieranno nei prossimi mesi è però difficile precisare l’entità della sottostima della spesa sociale complessiva e della distorsione nella sua caratterizzazione pensionistica. Plausibilmente, questa caratterizzazione perciò è da ritenere come effettiva.

Questione diversa è invece quella che attiene un altro dei dati sottolineati dal sottosegretario Brambilla, il fatto cioè che nella spesa dell’old age vi siano molti trasferimenti aventi natura di integrazione al redito. In effetti, spesso si contrappongono i sistemi di welfare scandinavo e anglosassone, che, pur profondamente diversi tra loro, sono accomunati dall’avere pensioni di vecchiaia con un accentuato carattere ridistribuivo per via della presenza di una pensione di base indipendente dai redditi e dai contributi versati - ai sistemi invece basati su regole retributive o contributive che, in maniera più o meno accentuata e su una base più individuale (tendenza recente) o categoriale (come nei sistemi continentali, cd. bismarckiani), correlano retribuzioni e/o contribuzioni ai trattamenti pensionistici. In questa contrapposizione, si trascura in realtà il fatto che anche in Italia, nonostante le regole retributive (e/o contributive nella prospettiva della riforma Dini), una fetta rilevante della spesa nei confronti degli anziani abbia caratteristiche redistributive: un punto e mezzo di PIL è dato da interventi che hanno una natura di integrazioni al reddito degli anziani e che, in una maniera forse troppo causidica Eurostat, non classifica tra quelli sottoposti alla prova dei mezzi perché integrazioni di schemi pensionistici che in quanto tali non sono sottoposti alla prova dei mezzi. Se - alla luce del fatto che le integrazioni sono in quanto tali sottoposte alla prova dei mezzi poiché intervengono solo laddove i redditi, totali o pensionistici, rientrino in un dato tetto – si aggiungono tali voci alla spesa per anziani sottoposta alla prova dei mezzi risulta parzialmente da rivedere la caratterizzazione del sistema pensionistico italiano. Il problema però non attiene la caratterizzazione più o meno pensionistica del sistema italiano di welfare ma la caratterizzazione interna della spesa pensionistica in quanto tale, al cui interno operano componenti di contrasto della povertà, componenti che invece sono molto scarse all’interno delle voci non pensionistiche (quelle che operano nei confronti dei non anziani) della spesa sociale.

Alla luce di questi chiarimenti metodologici, mi pare che si possano individuare tre dati di fatto incontrovertibili, dati di fatto da cui poi partire per dibattere sul che fare.

Anche grazie alla caratterizzazione sopra ricordata delle spese pensionistiche, le situazioni di povertà non sono in Italia, o per lo meno lo sono molto meno che negli altri paesi europei, correlate positivamente con l’età; la povertà e le situazioni di disagio sociale non sono concentrate tra gli anziani, vi sono condizioni di povertà e disagio tra la popolazione anziana, ma queste riguardano fasce particolari, riguardano soggetti molto anziani, soli, che hanno problemi fisici o di mancanza di reti e di relazioni sociali, ma non riguardano la

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popolazione anziana in quanto tale. La povertà in Italia - lo ricordava Tito Boeri - è legata più ad altri fenomeni, è fortemente legata all’assenza di lavoro o alla presenza di un solo lavoratore in famiglia.

Secondo dato di fatto. Se consideriamo la classificazione funzionale della spesa definita da Eurostat (pur depurando da quella che appare esser una indebita trattazione del TFR) o se consideriamo la distribuzione della spesa sociale per classi di età, appare indubbio che in Italia la spesa sociale sia concentrata in maniera abnorme tra i soggetti che superano i cinquanta anni di età.

Il terzo dato di fatto che mi sembra incontrovertibile è che l’Italia nel confronto internazionale non ha soltanto un basso tasso di occupazione in generale ma ha in particolare un deficit occupazionale tra la popolazione oltre i 50 anni. Su questo punto le cose sono in parte migliorate, specialmente nella fascia 50-54 anni. Incidentalmente questo forse vuol dire che le riforme fatte ed il pur graduale elevamento dei requisiti d’accesso alla pensione (di anzianità e di vecchiaia) siano state efficaci: perché non è difficile immaginare che questo elevamento dell’occupazione della fascia tra i 50 e i 54 anni sia legato alle riforme del sistema pensionistico e sia legato in parte a dati demografici di più lungo termine dovuti al fatto che progressivamente i cinquantenni sono persone che sono entrate nel mercato del lavoro un po’ dopo, e quindi con minore accumulo di requisiti contributivi, rispetto ai cinquantenni di dieci anni fa.

Questi tre mi sembrano dati di fatto incontrovertibili e dai quali possano discendere alcune priorità nelle azioni di politica economica nell’azione da intraprendere. Se si vuole intervenire sulla povertà in un paese a basso tasso di occupazione e elevata incidenza di lavoro sommerso, evidentemente serve concentrare l’attenzione su politiche che rendano conveniente il lavoro. Quindi vi è qui una difficoltà, anche se è un problema da porsi, di come garantire e di come disegnare sistemi di intervento di ultima istanza che non vadano contro quell’obiettivo e vi è una seconda priorità generale che è quella di indurre più elevati tassi di partecipazione e di disoccupazione nella popolazione dei cinquantenni. Le riforme pensionistiche del passato, anche nella loro definizione a regime, hanno in parte bypassato quel problema, nel senso che garantiscono una sostenibilità del sistema (tra l’altro solo molto lentamente e non senza problemi impliciti di finanziamento da qui a 20-30 anni), ma lo fanno rendendo neutrale l’effetto delle scelte lavorative degli individui, nel senso che gli individui potranno continuare ad andare in pensione anche relativamente presto ma sempre più pagandone le conseguenze. Questo ultimo elemento neutralizza gli effetti finanziari di quelle scelte e quindi renderà il sistema finanziariamente sostenibile, ma forse non è l’opzione migliore dal punto di vista sociale, poiché il rischio è di avere tanti pensionati e pensioni unitarie basse, con problemi prospettici di adeguatezza sociale delle pensioni medesime.