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Palaver Giuseppe Valentini S.J. Passeggiate storiche nell'Alta Albania Da Tirana al Matja 1 Fig. 1 - Tirana – La Pianura (© Franco Tagliarini) Tirana è posta all’estremità sud-orientale d’una stretta e fertile pianura che, volgendo in direzione nord, nord-ovest quasi a profilo di cornucopia, essendo limitata a levante dall’alta catena Dajti-Bërrari, quota 1269, Mali i Krus – Monti di Kurbini – Montagna d’Alessio, e a ponente dal lungo sistema di colline 1 Pubblicato in “Drini – Bollettino mensile del Turismo albanese”, n. 1, Anno II, Tirana, marzo 1941, pp. 1-3. 89 Palaver ( ), n. , -6 e-ISSN 2280-4250 DOI 10.1285/i22804250v3i1p http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento

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Palaver

Giuseppe Valentini S.J.

Passeggiate storiche nell'Alta Albania

Da Tirana al Matja1

Fig. 1 - Tirana – La Pianura (© Franco Tagliarini)

Tirana è posta all’estremità sud-orientale d’una stretta e fertilepianura che, volgendo in direzione nord, nord-ovest quasi aprofilo di cornucopia, essendo limitata a levante dall’alta catenaDajti-Bërrari, quota 1269, Mali i Krus – Monti di Kurbini –Montagna d’Alessio, e a ponente dal lungo sistema di colline

1 Pubblicato in “Drini – Bollettino mensile del Turismo albanese”, n. 1, Anno

II, Tirana, marzo 1941, pp. 1-3. 89

Palaver 3 n.s. (2014), n. 1, 89-160e-ISSN 2280-4250 DOI 10.1285/i22804250v3i1p89http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento

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che la separa dalla pianura di Durazzo, va sboccare largamentesul golfo del Drin fra Alessio e Capo Rodoni.

Tutta la parte più meridionale, più ristretta della pianura finoalquanto a nord del parallelo di Croia si chiama Pianura diTirana (la Tyranna Planities del Barlezio)2, al di là in su pianurae poi riva del Matja (gli Aemathiae campi di Barlezio).

Il panorama che si gode da Tirana è veramente delizioso fra ilvario aspetto delle colline alberate a sinistra e la ben coltivatapianura a destra cui sovrastano i monti grandiosi, soffusi nelpomeriggio d’una luce madreperlacea piena di nostalgia. Mal’interesse storico comincia dopo la puntata che si fa tra lecolline al bivio di Vora.

Di là una bella catena di colline amene d’ulivi ci accompagnasulla sinistra, dominata da un vecchio torrione sgraziatamenteimberrettato da una specie di spegnitoio di latta negli ultimitempi di Zog: è Preza, antico castello che Barlezio chiamaOppidum Parthinorum nella supposizione che ivi avesse il suocentro l’antico popolo illirico.

Egli ci racconta anche che esso sarebbe stato diroccato altempo della guerra civile fra Cesare e Pompeo. Crescerebbe ilnostro interesse per l’aereo castello se potessimo in qualchemodo verificare l’asserzione qui e là ripetuta che lassù sisarebbe rifugiato il profugo Senato Romano venuto con Pompeoda Tessalonica a Durazzo e troppo minacciato in città quandoCesare ne tagliò fuori il suo rivale: allora nel toponimo attuale diPreza (leggi Presa) con un po’ di buona volontà potremmo

2 Marino Barlezio, umanista albanese. (Scutari 1450 circa – Roma 1512

circa). Sacerdote cattolico, compagno di Giorgio Castriota Skanderbeg e suo

biografo (Historia de vita et gestis Skanderbegi, Epirotarum principis.

Partecipò alla difesa di Scutari durante l’assedio dei Turchi nel 1478, di cui

diede la narrazione nell’opera “De obsidione Scodrensi” [Nota di Franco

Tagliarini].

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rintracciare un «Praesidium» romano. Certo è suggestivopensare a quei barbogi e zoppicanti resti del parlamentarismoromano che si affacciano ai merli del castrum per spiare secoloro che si avanzano con noi sulla nostra via non siano gliorridi legionari del nascente impero.

Fig. 2 - Preza – Basamenti greci sul pendio dell’antica città (© FrancoTagliarini)

Fig. 3 - Preza – Panorama (© Franco Tagliarini)

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Fig. 4 - Preza – Il Mastio (© Franco Tagliarini)

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Fig. 5 - Preza – Torrione sud-ovest del Castello (© Franco Tagliarini)

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Ma venendo a più nota epopea, attraversiamo qui quel campodove insistentemente e accanitamente vennero a misurasi laforza inesauribile dell’Oriente romano con il valore intrepidodell’occidente albanese e veneziano.

Fig. 6 - Preza – Torre angolare (© Franco Tagliarini)

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Come venendo da Tirana abbiamo rifatto la via che percorrevagià Skanderbeg quando dal suo nido di Croia marciava incontroagli invasori che penetravano da Ochrida per Sfetigrado ePetrela, così qui siamo nel cuore di quella Tyranna Planities,campo aperto alla mobile tattica dei 600 cavalieri scelti delCastriota.

Preza, castelluccio con quattro bravi torrioni angolari,dall’alto del suo mastio – quello che torreggia ancora lassù –corrispondeva per via di segnali e di fuochi col mastio di Croiache già ben vediamo biancheggiare sulla costa della suaformidabile montagna sulla nostra destra. Forse lassù a Preza,mentre le campane cantavano a stormo e i guerrieri dietro leferitoie calavano le visiere, nella chiesetta innalzavano trepidelitanie le clarisse di cui si ha memoria che esistesse un conventoin questi dintorni.

Fig. 7 - Preza – La pianura tra Luza e Zeza (© Franco Tagliarini)

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Fig. 8 - Kruja – La pianura verso Mëndikli (© Franco Tagliarini)

Ai suoi piedi, il 6 settembre 1477, si combatté tra Veneti eAlbanesi da una parte e turchi dall’altra l’infausta battaglia chedecise le sorti di Croia: comandava la piazza Pietro Vitturi edaveva ai suoi ordini il connestabile Giuliano da San Scorbaro e ilvoivoda Vuk Curani (leggi: Tzurani); l’esercito che veniva alsoccorso era diviso in due corpi: uno alla pianura verso il mareal comando di Francesco Contarini col pagatore Giacomo daMosto: l’altro, forte di più di 2.000 uomini, veniva da Scutari eAlessio con Antonazzo Deci e Lodovico da Castello di Tiferno

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connestabili che conducevano 500 cavalleggeri italiani, Carolinocon Leone Illirico che conducevano la fanteria pure italiana, eNicolò Dukagjini che conduceva gli ausiliari albanesi.

Il turco, forte di 8.000 uomini, era accampato press’a poco aZezë. Lo scontro avvenne a mezzogiorno tra Luzë e Zezë. Iveneto-albanesi probabilmente congiuntisi nella mattinata,tenevano la cavalleria in quadrato: ai cavalieri turchi cheavanzavano e retrocedevano in incessanti attacchi e ritirate, inostri opponevano la fanteria che usciva dal quadrato, colpiva icavalli al fianco e si ritirava subito al sicuro entro il quadrato; intanto anche gli archibugieri e i balestrieri facevano strage tra ibarbari, finché questi al tramonto presero la fuga verso Tiranalasciando gli accampamenti al saccheggio dei vincitori; alloraanche gli assediati fanno una sortita e s’impadroniscono di duefortini ben forniti di provvigioni che gli assedianti avevanoposto a cavaliere della strada che conduce da Zezë a Croia. Mamentre, calata la notte, i comandanti si consultano se pernottareo no nel campo turco, e, secondo l’usanza stradiotica, glialbanesi vi si danno al saccheggio, tornano i turchi e ve litrovano così inetti alla resistenza da farli fuggire colpendo amicie nemici; la fanteria rimase circondata, la cavalleria messa infuga fino all’Ishmi e per i boschi e le paludi, perdendo, altre apiù d’un migliaio di uomini, lo stesso comandante Contarini evari connestabili. Alla fine dell’anno la città era perduta.Procediamo ora per la strada rendendoci ragione de visu delleposizioni; poi ci fermeremo un po’ a ricostruire gli avvenimentidegli assedi di Croia e delle movimentate battaglie che vi sicombatterono intorno al tempo di Skanderbeg.

Sulla nostra destra, a sud di Zezë, sul meridiano di quota 198,una collinetta quasi isolata fa da ultimo baluardo della montagnaproprio di fronte a Preza: è Mënikli (rectius: Mëndikli) il

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Munticleus o Monticlus del Barlezio, che serviva alloSkanderbeg di spia avanzata e di trampolino per le sue fulmineeincursioni agli accampamenti turchi.

Ci mettiamo già in direzione del bivio per Croia: bencampeggiante sul sipario verde ulivo della costa di fronte a noi,si vede lo sparso gregge delle casette della Croia odierna vigilatedal torrione; ma chi andasse su dal bivio vedrebbe che stannodisposte intorno al masso del Castello, scosceso dal costonedella montagna per via d’una paurosa spaccatura.

Fig. 9 - Kruja – Situazione attuale [1940] (© Franco Tagliarini)

Passata Luzë, fra la strada ed il gomito dell’Ishmi, possiamoben constatare come non dev’essere stata comoda impresa pergli eserciti turchi, costantemente molestati da calate di cavallidell’inafferrabile Skanderbeg, il passaggio per questo sboccodella pianura di Tirana, se al paese è rimasto il significativonome di Dervendi (la Sfilata).

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Fig. 10 - Il masso con la spaccatura verso la montagna (© Franco Tagliarini)

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Ed aggiungeva pericoli il bosco di Mamuras ora devastato, incui entriamo. L’ha raso al suolo senza pietà la Società Inag; maancora nel 1924 era ben rigoglioso; troppo rigoglioso anzi,perché Ahmet Zogu, ministro dimissionario, di fronteall’offensiva parlamentare oppositaria, vi trovò buon gioco adimostrare l’incapacità del governo succedutogli, mandandovi isuoi sicari, che, abbattuti alcuni tronchi sulla via, fermaronol’auto della Croce Rossa Americana e ne massacrarono afucilate i rappresentanti.

Da Tirana al Matja (2ª parte)3

Fig. 11 - Lissos e Acrolissos dall’Arbën [1940] (© Franco Tagliarini)

Da Mamuras un sentiero su per le pendici, se volete, vicondurrà a Shmrifa (S. Maria) a 7 km. Dalla strada maestra: erauna bella chiesetta a tre navate, lunga venticinque passi a largadieci nella navata centrale e quattro in ciascuna delle laterali; èancora in piedi per metà, con vestigia d’affreschi nell’abside:otto vescovi e santi e sette medaglioni di profeti; a fianco su unaroccia un resto di campanile in cotto. Ora è una desolata meta di

3 Pubblicato in “Drini – Bollettino mensile del Turismo albanese”, n. 2, Anno

II, Tirana, aprile 1941, pp. 1-6.

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pellegrinaggio tra i secolari cipressi, i soliti indici infallibili divecchio sagrato cristiano; però ancora, cristiani e mussulmani civengono con le loro offerte per la Madonna di Settembre.

Tutto invita a credere che questa fosse la cattedrale delladiocesi Arbanense: vero è che più tardi troviamo la residenza diquel vescovo, più al nord nella regione di Kurbini, ma nonmancano accenni che faccian credere si tratti ivi d’una sede difortuna; qui invece siamo in pieno Arbën, in interessanteregione, cioè, che in modo un po’ misterioso avrebbe dato ilnome d’Arbënia (poi Albania) a tutto il Paese.

Procediamo e volgendoci a guardare a sinistra fra le paludivediamo una delle tante località che ci risuscitano un nome deipiù storici d’Albania: Golemja, un feudo dei Golemi, curiosonome dinastico la cui origine si perde nella notte storica delMedio Evo: finché un nuovo Muzaka (e, possibilmente, un po’più attendibile del vecchio) non si scoprirà perché ci guidi neldedalo delle origini dinastiche albanesi; non sapremo, se i tantiGolemi che appaiono ex abrupto ad ogni svolta della storia diquesta nazione, fossero dei Comneni di nobile origine bizantinao dei Guglielmi (Gulami) di fiera schiatta normanna.

Spingendo lo sguardo più in là e un po’ indietro: una lungacatena di colline corre e degrada sull’orizzonte verso il mare: lamontuosa e boscosa ossatura della penisola di Rodoni (MaliKerçakës – Mali Muzhllit), la quale chiude a sud nel suoamplesso la baia del Drino e del Matja. Era una volta la regione,ricca di conventi e di castellucci feudali, della forte tribù deiRedoni: laggiù fra loro, Skanderbeg, aveva uno dei suoiricettacoli, non meno utile dell’alta montagna, quando si tenevafuori di Croia per molestare gli assedianti; tra loro, minacciato ditradimento, trovava la più riposante sicurezza, e costruiva iltorrione di Qurril; tra loro, dopo la sua morte, alla fine del ‘400 i

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Veneziani trovarono buona corrispondenza e il figlio diSkanderbeg il suo piede a terra per lo sfortunato tentativo dirisorgimento.

Sulla destra invece abbiamo davanti a noi la vasta tribù deiKurbini, l’unica, forse, di tutte le tribù dell’alta Albania che cisia nota fin dall’era antica, o almeno l’unica il cui nomeincontriamo non troppo alterato negli storici antichi. Difatti, ciracconta Livio, che la piazza forte che si trovava presso i«Caravantini» fu una di quelle che Gentio, re d’Illiria, si studiòd’avere a sua disposizione contro i Romani nel 168 a.C.; vimandò suo fratello (che per una curiosa coincidenza si chiamavaCaravanzio), ma questi, appunto, qui trovò resistenza, tanto chegli fu impossibile accorrere in aiuto del fratello incalzato aritirarsi da Lissos (Alessio) e minacciato d’assedio in Scutari,sicché Gentio, credendosi ormai destituito di soccorso, perdettesperanza e capitolò.

Ora, osservata di passaggio la finale «ini», che è identica in«Caravantini» e «Kurbini» (come anche in «Scodrini», che era iltribule degli abitanti di Scodra, ora Scutari), abbiamo le dueradicali karab (ant) e «kurb» entrambe non accentate: facilmentele due «a» non accentate hanno perduto chiarezza, riducendosi laseconda a una insensibile «e» muta, e la prima ad «u» per effettodella «r» che segue una «e» semimuta, gruppo che – come ènoto – facilmente in bocca albanese si sente come «u», con unultimo facile passaggio da «v» a «b», abbiamo appunto «kurb»,come volevasi dimostrare; schematicamente:

K a r a vK ë r ë vK u r b

La teoria è del defunto insigne letterato e linguista scutarinoD. Andrea Mjedja, e si scuserà se forse sarà riuscita termino

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logicamente inesatta in bocca a un profano della chimicalinguistica: - Procediamo.

Poco più oltre un inconfondibile odore di uova fradice ciavverte che siamo a Zeja e attraversiamo il rigagnolo d’acquasolforosa chiamato appunto l’Acqua Marcia o Fetida (Uji iQelbët od anche Uji i Barrdhë), le Aquae Albulae del Barlezio.In questa regione una traduzione erudita del clero cattolicoalbanese, ben provvista però di fondamento toponomasticolocale, pone una antica città di Sebaste, di cui rimangonoconsiderevoli fondazioni sulla cima detta Kalaja Gjytet (ilCastello Cittadella, se pur questo non è il castello deiCaravantini); la stessa tradizione vorrebbe che qui fosse vescovoe subisse il martirio San Biagio, quello tanto invocato contro ilmal di gola, e che anche i noti Santi Quaranta Martiri di Sebastequi abbiano avuto la corona.

Vero è che comunemente la Sebaste di San Biagio e dei SantiQuaranta viene collocata in Armenia, non senza del resto trovareconsiderevoli difficoltà storiche e geografiche; ma si osserva cheda Armenia ad Arbënia (nome di questa regione) lo scambio puònon essere stato tanto difficile, tanto più che Armenia era benpiù nota: certo qui la topografia – grotta di S. Biagio, MonteArgeo sovrastante palude ghiacciata (quella formata dalle AcqueFetide sotto la strada), terme (di cui sembra rimangano vestigia)– vi resta a capello a tutte le esigenze degli Atti dei Martiri,inoltre la diffusione del culto di San Biagio è qui notevolissima,come si può rilevare dall’uso che si fa di tal nome come nome dipersona e come toponimo, nonché dal buon numero di chieseche gli sono dedicate in tutta l’alta Albania fino a Ragusa chel’ebbe patrono ab immemorabili; così pure i Santi Quarantahanno buoni testimoni d’antico culto a cominciare da qui (pocopiù oltre sulla via vi è la località Sh’Katraqind, i Santi

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Quattrocento, per iperbole popolare) fino a Saranda (AgioiSaranda, Santi Quaranta, ora Porto Edda) con la grandiosabasilica ad essi dedicata. Si aggiunga che in tutti questi dintorni,fino a Laç e oltre, si sono rinvenuti numerosi tumuli conabbondanti suppellettili romane accompagnate da monete diSettimio Severo, di Diocleziano e di Massimino Daza.

Si apre ora ai nostri occhi il bel paesuccio medioevale, degnod’un presepio umbro, sparso di dignitose casine simili acastellucci bianchi sulla fosca costa della collina boscosa. Sivede che siamo nella regione classica del feudalismo albano-angioino, la regione di quei baroni albanesi con cui tantetrattative intavolava e tanta politica faceva a base di zecchini edi pezze di scarlatto Venezia dagli ultimi tempi dei Topia in poi.Questa – si chiama Gjolmi o Gjonëmi (la «Sylva Jonimorum»del Barlezio) – dev’essere stata o la culla dinastica o almeno unodei ricettacoli più sicuri di questa forte famiglia di baroni distrada alla normanna, che diedero tanti grattacapi ai rettoriveneti col loro lungo altalenare fra Venezia e i suoi nemici orivali, finché trasferitasi a Scutari, diede agli stabilimenti dellaSerenissima i più prodi e fidi cavalieri e lasciò il suo nome albarbacane davanti alla porta principale di quel castello.

Sulla sinistra vediamo Fusha e kuqe (la pianura rossa) un altrodei buoni agguati di Skanderbeg fra paludi e canali, e, allamarina, il porticino di Patok, famoso già nel Medio Evo,specialmente come emporio di sale e di derrate, col nome diSuffada e Suffaday (erroneamente Semfadag).

Ancora un po’ e siamo a Laç, uno dei veri feudi di Dukagjini(qui probabilmente di quelli del ramo di Perlati). C’è una chiesamedioevale circondata di pretenziose tradizioni: c’è chi lavorrebbe consacrata ai tempi di Skanderbeg, c’è chi siaccontenta che la consacrazione sia avvenuta per opera d’un

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gruppo di vescovi albanesi reduci dal Concilio di Trento. Certo èche il convento dei Francescani vi era già da antica data e fuanzi a lungo noviziato; ora è celebrato santuario di S. Antonio diPadova.

Fig. 12 - Laçi – La Chiesa [1940] (© Franco Tagliarini)

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Fig. 13 - Laçi – La Chiesa di San Giorgio – Affresco [1940] (© FrancoTagliarini)

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Fog. 14 - Laçi – La Chiesa di San Giorgio – Il retroaltare [1940] (© FrancoTagliarini)

Un po’ più in là, a circa cinque chilometri dalla strada sulladestra, c’è Delbinishti (toponimo di cui si sospetta una parentelacon Tumenistus che in Barlezio è il nome del monte che lesovrasta e ora si chiama Mali i Skanderbegut) succeduta, comeresidenza dei vescovi di Arbëni e poi degli Arcivescovi diDurazzo, a S. Veneranda (Shna Prendja) di Kurbini che si trovapiù in dentro ancora d’una decina di chilometri, già importanteabbazia.

Riconosciuto il terreno, rifacciamoci ora indietro ericostruiamo alcuni dei principali episodi dell’epopea che sisvolse intorno a Croia.

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Fig. 15 - Laçi – La Chiesa di S. Elena [1940] (© Franco Tagliarini)

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Fig. 16 - Odisé Paskal – Testa di Skanderbeg (© Franco Tagliarini)

Proprio qui, fra Miloti e Delbinishti dove ormai ci troviamo,venne attirato da Skanderbeg per tutta la valle del Matjal’esercito turco che accompagnava il suo nipote traditore HamzaCastriota nel luglio del 1457. La mattina di quel giorno, comepratico del paese, s’era spinto a saccheggiare la campagna, finoa Suffada (Patok) riportandone, oltre al sale di quell’emporio, unpo’ di viveri, i primi che riuscisse a raggranellare per tutta laregione da Dibra in qua, ben ripulita in antecedenza dalprovvido Skanderbeg. Fino a quel momento questi non avevaritenuto opportuno dar segno di vita, giudicando difficilecogliere all’impensata un uomo come Hamza, sveglio di sua

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natura e cresciuto proprio alla sua scuola. Qui, invece, sempreosservando, di nascosto ma da presso, come soleva, ogni fattodel nemico, dalla montagna vide che la straordinariascorpacciata, consentita dalla preda del mattino, in quel tropicalemeriggio di luglio, tra i grassi vapori della piana, produceva isuoi effetti; qua e là giacevano i corpi dei turchi oppressidall’afa, dal cibo e dal sonno; sveglie poche guardie e pochicapitani che, raccolti a consiglio con Hamza e col Pascià nellatenda di quest’ultimo, stavano decidendo d’andare a tentareCroia.

Allora il Castriota, lasciato il grosso della sua truppa allependici del Monte, con pochi uomini corse a fare un colpo dimano o una finta dalla parte opposta. Alla fuga d’una sentinelladalla guardia sorpresa, che si salvò correndo e gridando per ilcampo, questo comincia a allarmarsi; Skanderbeg alloracomanda l’assalto generale; scende dal monte il grossodell’esercito, da nord accorre impetuoso e urlando senza posacome suole Mojs Golem Dibra con la cavalleria, da un altro latoTanusio Topia, Peico Emanuele e Giovanni Stressio con lafanteria e gli archibugieri si fanno sotto; e tutti ben distribuitid’ogni lato, bene armati d’un numero straordinario di trombe edi tamburi da far credere che un esercito innumerevole di tuttal’Albania e fors’anche di Venezia si fosse raccolto a prendere inmezzo l’armata turca. Inutilmente Hamza badava a gridare aisuoi che egli ben conosceva le poche forze di Skanderbeg e isuoi soliti stratagemmi; inutilmente pagava di persona. Tutto futravolto nella fuga e nella strage fin giù alle Acque Bianche, lequali, uccisivi i resti degli scampati, avrebbero meritato in quelgiorno, dice il Barlezio, il nome di Acque Rosse. Solo il Pascià(probabilmente Ishak Evronos, luogotenente del gran visirMahmud per il governo di Rumili) riuscì a scampare grazie a

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quella che, con curioso termine ciceroniano, il Barlezio chiama«pernicitas equi» e noi dovremmo dire, sit venia verbo, «lagambezza del suo cavallo» ossia la velocità del corsiero; Hamzafu fatto prigioniero, e il resto della truppa turca diede gran dafare agli albanesi per seppellirla per questi campi.

Veniamo ora all’assedio di Croia del 1450 sotto Sultan Murat.Il campo turco era posto a semicerchio sotto le pendici, nellapianura fra Micio e Zezë detta allora Tirana Minore. Skanderbegaveva posto il suo centro operazione sul Monte di Croia (Mali iKrus); non monte di Kranja come dice Fan Noli seguendo unosbaglio di stampa del Barlezio che poi si corregge. Si hamemoria che durante il primo assalto alle mura, Skanderbegcalando dal monte con 5.000 cavalieri scelti invase il campo ene fece man bassa finché dovette ritirarsi non senza pericolo perla sua vita. Poi lasciando sulla montagna solo un presidio di 500cavalieri con Tanusio Topia e Mojs Golem Dibra, trasferì il suocampo a Mëndikli, donde a poco meno d’un chilometro potevapiù da vicino assillare il nemico: di là nottetempo, appena ebbesentore che, secondo l’intesa, Dibra calava coi suoi ad allarmareil campo turco da una parte, egli lo assalì, lo devastò e vi fecestrage dall’altra, e senza che si osasse inseguirlo, trasportò le suetende alle pendici boscose del Rodoni verso l’Ishmi dovefacilmente, per mare, veniva rifornito di viveri dai Veneziani diDurazzo. Di là fece un altro bel colpo di notte andando asorprendere il campo nemico dalla parte di Mëndikli; poiritirandosi, si tirò dietro il grosso della truppa turca, mentreMojs Golem Dibra entrava dall’altra parte e devastava ognicosa; trascinato il nemico su per gli erti pendii e fattogli il fiatogrosso, appena ebbe un rinforzo, che attendeva, li ricacciò giù asassate e a frecciate malconcio, si ritirò sulla montagna dove fuvisto l’indomani scopertamente ad intendesi con gli assediati.

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Lassù lo cercarono poco dopo i messi del Sultano con propostedi pace, ma non ve lo trovarono; lo cercarono a Ishmi, masempre era irreperibile, finché, fattisi accompagnare daprigionieri albanesi a cui promisero libertà, per mezzo di questiriuscirono a scovarlo a Fusha e Kuqe dove aveva trasportatol’accampamento.

Il Castriota li ascoltò, e, benché rispondesse con fiero rifiuto,li convitò a lauto pranzo, ma però subito partiti i messi, trasferìle sue tende sulla montagna. Di là, avuta notizia d’una malattiadel Sultano, dopo due primi assaggi d’incursione nel campoturco, la terza notte prese le mosse dalla pianura di Tirana indirezione sud-nord per dare impeto alla carica della cavalleriaper la rasa campagna; ma l’oscurità troppo profonda portatadalle nubi che copersero il cielo, non permisero né agli albanesidi avanzare fin sotto le trincee, né ai turchi allarmati dalcalpestio della carica di uscire in piano; allora Skanderbeg con100 scorridori a cavallo s’avanzò a provocarli, e a forza dipunzecchiare riuscì a tirarsene dietro un distaccamento per poispezzettarlo e ricacciarlo; finalmente, fattosi un po’ di barlumeverso mattina, i turchi mandarono un reparto sulle pendici atagliargli la ritirata verso la montagna dove stava Mojs Golemidi presidio: Skanderbeg, che lo prevedeva aveva già disposto ilcombattimento su due fronti per poi frantumare i nemici ericacciarli; i Turchi resistettero quanto poterono, finché, nonvenendo loro soccorsi, dovettero ritirarsi in disordine riportandogravi danni. Poco dopo venne tolto l’assedio.

Quando nell’agosto del 1466, il Sultano Maometto lasciòall’assedio di Croia Ballaban Pascià, che aveva occupato ilsempre minaccioso Mali Krus, Skanderbeg, aiutato daiVeneziani e fornito d’esercito raccogliticcio, preparò un pianod’accerchiamento verso la montagna presidiata dalle milizie di

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Ballabano; Lekë Dukagjini, presumibilmente da Rodoni, eNicolò Moneta, scutarino, coi veneti e dalmatini da Alessio peril Bosco degli Jonima dovevano assalire contemporaneamente ilnemico. Ma ecco che il Castriota riceve notizia della venuta diun altro corpo di spedizione che veniva giù, probabilmente, perla valle del Matja, e s’era attestato sulle Montagne di Bulgerisulla destra di quel fiume evidentemente per tagliare lecomunicazioni con Alessio e Scutari s’era attestato sulleMontagne di Bulgeri più che per congiungersi con il fratello,come pensa il Barlezio, allora, mossosi celermente di notte,scaccia il presidio turco dalla montagna e di là mostra i dueprigionieri al Pascià: questi, disperato, ordina un assaltosupremo alle mura e rimane ucciso; i resti del suo esercito siritirano in rotta verso Tirana e di là riescono ad evadere a fatica.Salutiamo questa pianura e questi colli dell’Arbën, così ricchi distoria e d’eroismo.

Dal Matja ad Alessio4

Siamo ormai nella valle del Matja, al suo sbocco verso lapiana e il mare. È una delle più temibili vie d’invasione che findai remoti tempi minacciavano Durazzo, Alessio e tuttal’Albania centrale.

Di qua si ricorda che scese Filippo V di Macedonia mossosiad occupare il baluardo illirico-romano di Alessio, di quavedemmo che scese l’esercito turco guidato dal traditore Hamza,nipote di Skanderbeg.

4 Pubblicato in “Drini – Bollettino mensile del Turismo albanese”, n. 3, Anno

II, Tirana, maggio 1941, pp. 4-9.

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Fig. 17 - Miloti – Ponte Vittorio Emanuele III sul Matja (© FrancoTagliarini)

Il paese, nella sua toponomastica, sembra conservare qualchericordo in «Bulgri», la regione montagnosa che vediamo difronte a noi sulla destra del fiume: forse, passando di là i Bulgariche si spinsero fino a Durazzo, vi lasciarono una colonia.

Guardando in quella direzione, al di là del vastissimo greto,contempliamo la serie delle ultime pendici che accompagnano ilMatja fino al mare. Alla sinistra di chi guarda la più alta di esse(riconoscibile dalla nuova strada serpeggiante che ne taglia lacosta) a un certo punto della sella si distingue la chiesa diBëdhana (toponimo riferito qua e là con le grafie inesatte diPedana, Pezana, Pilana, Pdhona) è una costruzioncinamedioevale che per i resti dei suoi affreschi merita d’esserevisitata dall’amatore d’arte bizantina.

Sull’ultimo colle, brullo e rossastro, la solita tradizionepopolare che riferisce anche qui nel passato esserci state tantecase «da poter passare per vasto tratto il micio di tetto in tetto»,

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ci mette sull’attenti non si tratti forse d’una antica città o almenocastello. Anche la sua stessa posizione, come ultimo contraffortea custodia d’uno sbocco di valle in pianura, ci ricorda appuntol’antica consuetudine locale di sfruttare tali posizioni per lacostruzione di città-castelli.

E di fatto ci narra Livio che nell’anno 168 a.C., Gentio, ultimore illirico, messosi in difesa contro i Romani e spedito suofratello ad occupare la regione fin verso Caravantis (Kurbini)alla sinistra del Matja, per sostenere la spedizione, tentò diappostarsi ad una città, cinque miglia lontana da Alessio,chiamata Bassania, mentre la sua flotta teneva il mare e la costain soggezione. Ma i bassanii erano alleati dei Romani (come delresto tutta la popolazione illirica) e non vedevano troppo di buonocchio il re beone e fratricida, mentre non avevano che dalodarsi del giusto governo romano; perciò chiusero le porte infaccia a lui che veniva con belle promesse e s’accinsero asostenerne l’assedio.

Il pretore Anicio, sicuro di loro, non s’affrettò a portare direttoaiuto ma diede addosso alla flotta genziana, sbarazzando così lacosta fra la Boiana e la Voiussa dalla continua minaccia disbarchi e saccheggi, e costringendo Gentio, rimasto scoperto alfianco verso il mare, a ritirarsi precipitosamente a Scutari. CosìBassania rimase libera.

Si domanda ora dove fosse l’antica Bassania. Vecchi scrittori,tratti in inganno da un’apparente somiglianza di nomi, cedetterodi ravvisarla in Elbasan.

Ma, oltre al sapersi che questa città è turca di nome come dicostruzione e che la città che ne occupava il posto in epocaromana si chiamava non Bassania ma Scampa, da Alessio aBassania si misuravano cinque miglia, mentre fino a Elbasan ladistanza è ben maggiore; né si comprende come avrebbe potuto

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Gentio avventurarsi tanto lontano con pericolo d’essere tagliatofuori per opera del presidio romano di Durazzo, mentre suofratello – da lui spinto innanzi – si sarebbe dovuto accontentaredi giungere fino a Kurbini.

E poi quale relazione con le operazioni navali potrebbe avereuna città tanto all’interno come Elbasan? Per tali ragioni ilPatsch (e già altri prima di lui) opinavano per Bëdhana, la cuiposizione corrisponde a tutti i dati. Osservava inoltre F. AndreaMjedja che anche foneticamente i due toponimi sicorrispondono: ridotta alla primitiva forma «Ba» la prima sillabaora indebolitasi in «Bë» con e muta secondo il vezzo moderno,rimane la differenza «ssadha»; ma è noto che il latino, povero disegni come di suoni, riproduceva alla meno peggio i nomistranieri col suo alfabeto, e in particolare si sa che per riprodurreun suono gallico affine all’attuale «dh» albanese, ricorrevaall’esse. Ecco come Bassania non è altro che una trascrizionelatina di Badiana.

Siamo giunti al bello e lungo ponte Vittorio Emanuele III sulMatja, fatto costruire anni fa dalla Società per la ValorizzazioneEconomica dell’Albania. Oltrepassatolo, la strada si biforca; conun’ora di tempo disponibile, prendendo il ramo di destra che vasu per la valle del Matja e poi per quella del Fandi suo affluente,possiamo fare una escursione fino a Robigu, antico monasterodell’Ascensione che, come altri santuari dello stesso nome inAlbania, sta appollaiato in cima a un colle isolato e acuminato inmodo caratteristico. Accedendovi, si ha l’impressioned’accostarsi a un fiero castelluccio medioevale ancora inefficienza. La chiesetta non grande, e a varie riprese manomessa,conserva ancora nei belli affreschi dell’abside la parte centrale epiù significativa di quello che doveva essere un grande poemaartistico dell’Eucarestia. Al centro il Redentore e intorno, in

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sapiente disposizione aderente all’architettura, la Madonna, SanGiovanni Battista, le teorie degli Apostoli che vengono devotiall’invito «accipite et manducate, accipite et bibite», nonmancano altri santi e l’abate costruttore della chiesa. Il fattodelle scritture latine e non indubbi segni stilistici danno a vedereche l’opera apparentemente bizantina, è di mano d’artistaoccidentale, uno di quelli che si diffondevano dalla Dalmazialatina molto addentro nell’Albania. Comunemente si affermache la distruzione della chiesa precedente avvenuta l’anno 1267per mano di Andrea Vrana, il dominio di re Manfredi inDurazzo e poi quello di Urosio.

Dall’alto dello spianato la vista spazia largamente nella vallecome da un vertiginoso osservatorio aereo presentando un mistosuggestivo di grandioso, di bello orrido, di tranquilla pace neglioliveti e nei campi.

Ritornati sulla nostra via, oltrepassata la sella di Bëdhana ediscesi per paurosi zigzag di nuovo in piano, si va costeggiandola cosiddetta Montagna d’Alessio, sistema di colline carsiche,molto tormentate e pittoresche con i loro ulivi, i ciuffi divegetazione rupestre verdescura, le casette solitarie di pietra. Èla sede delle Quattro Bandiere della Tribù di Zhuba, una forte efiera tribù che da qualche secolo è indissolubilmente legata conle Cinque Bandiere di Mirdita. Se è vero che la casa deiGjomàrkaj sia discendente dei Dukagijni, il fatto si potrebbespiegare ricordando come appunto in Alessio i Dukagjiniavevano il loro centro principale fino alla fine del secolo XIV.

La strada che noi facciamo dev’essere stata seguita da FilippoV di Macedonia, quando nel 213 a.C., con un viaggio di duegiorni, «superate la fauci dell’Artaxano (Matja)», venne adoccupare Alessio.

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La drammatica descrizione della sua impresa, quale si trova inPolibio, ci permetterà di ricostruire gli avvenimenti sul posto, edanche a meglio determinare gli antichi toponimi.

Già da qualche punto della strada lungo la «pianura di Tirana»e l’Arben, ed ora tanto più da vicino, lo sguardo del viaggiatoreè attirato da un alto colle isolato a pan di zucchero che svetta asettentrione; anche questo oggi porta il nome del Redentoreossia dell’Ascensione. Ora a fianco di lui, sulla nostra sinistra,scorgiamo anche una altra collina, notevolmente più bassa, dallacima piatta coronata di mura. Polibio ci permetterà, comevedremo, di asserire senz’altro che la collina bassa era la coloniamurata siracusana di Lissos (ora Alessio) fondata da Dionigi ilVecchio mentre sul colle dell’Ascensione, ora coronato da una«tyrbe» o marabutto venne eretta l’Acropoli, Acrolissos. Solomolti secoli dopo l’Acrolissos venne definitivamenteabbandonata, quando i Veneziani le trovarono ormai troppo incattivo stato per ricostruirla, ed eressero o rinforzarono ilcastello a coronamento della bassa collina della città.

Ai tempi di Filippo i Romani avevano affidata la città muratae l’Acropoli alla popolazione illirica fedelissima, benché forsenon ancora sostenuta da una colonia romana, e in fama di gentebellicosa.

Il re macedone, avvicinandosi come noi facciamo, edosservando l’elevata ed inaccessibile posizione dell’Acropoli,disperò senz’altro di poterla mai acquistare per forza, si spinseinnanzi a riconoscere il terreno.

Tra l’Acropoli e la città s’avvalla leggermente una nonangusta sella, che a quell’epoca era coperta di boscaglia. Qui sifermò l’attenzione di Filippo che vi imperniò la sua azione.

Dopo una prima scaramuccia d’assaggio e una giornata diriposo, prima che spuntasse l’alba, mandò a coprirsi all’ombra

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della boscaglia sulla sella, il grosso del suo esercito bene istruitosul da farsi.

Fattosi giorno, egli girò dall’altro lato la collina della cittàverso il Drino, e spinse all’assalto un non forte gruppo di armatileggeri a tentare i difensori, numerosissimi, perché vi si eranoraccolti volontari Illiri anche da lontano. Dopo valorosascaramuccia, gli assalitori si ritirano presso i loro compagni inpiano e, inseguiti dagli Illiri, tutti insieme fingono unadisordinata fuga verso il mare.

I difensori dell’Acropoli, – pochi, perché il luogo si difendevada sé – osservando dall’alto tale spettacolo non stettero allemosse e, prima tentennando ai richiami del dovere, poi di corsa,attratti dalla speranza di preda, abbandonano la guardia e sigettano giù all’inseguimento.

Tanto si attendeva Filippo, buon conoscitore di quest’antico ebrutto vizio del soldato illirico che tante sventure causò allanazione: dopo un primo e magnifico impeto vittorioso, darsi acorpo morto al bottino.

Il grosso dell’esercito filippino uscì allora dal bosco, scalò ilcolle dell’Acropoli, e disfattosi dei pochi rimastivi – se pur cen’erano – l’occupò stabilmente, circondandola di buoni posti diguardia.

A un dato segno i fuggenti si rivolgono e ricacciano glialessansiensi che son costretti a tornare in città dove siasserragliano. Altrettanto vorrebbero fare quelli dell’Acropoli alloro posto, ma appena presa la salita, incappano nei posti diguardia che tagliano loro la via. L’Acropoli era perduta!L’indomani, dopo fiero assalto, anche la città era nelle mani diFilippo.

Come si vede, se l’Acropoli, come alcuni credono, fosse stataal posto dell’attuale castello, tutta questa strategia mancherebbe

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di fondamento topografico, perché tra questo colle e il fiumenon c’è spazio alcuno. Una difficoltà però si trova ancora:avendo varie volte tentato l’ispezione girando rasente e intornoal cocuzzolo dell’Acropoli in aereo, non si poté scorgervi tracciedi rovine, come altri asseriscono di aver potuto notarviandandovi di persona; vero è che anche altre antiche costruzionierette con la stessa pietra calcare del monte in altre località, unavolta diroccate, si sono confuse con la montagna in modoirriconoscibile. Invece sembra di poter riconoscere unappariscente tracciato di strada forse romana su per la costa,aperto con grandi scarpature a zigzag nella roccia.

Guardando ora invece verso il mare, osserviamo una vastapiana paludosa, formata evidentemente dal delta del Drino. Finoa tutto il Medioevo, una buona parte di essa deve essere statacompresa dai due rami con i quali il fiume sboccava nel golfomentre ora è tutto un dedalo; e lo sta a dimostrare il toponimo,fin d’allora attestato e tuttora sussistente di Isola d’Alessio(Ishulli i Lezhes). Quando nel 1479 i Veneziani dovettero cederela città col castello incendiato ai Turchi, si riserbarono comeultimo piede a terra appunto quest’Isola, già precedentementepreparata nonostante la malaria, e fortificata con trincee,terrapieni e gabbioni; così, contro i cannoni, serviva meglio checon le mura di pietra, ed è da calcolare che sia uno dei primipassi della nuova arte di fortificazione contro l’artiglieria basatosu materiale da costruzione molle, mentre l’altro basato sulprofilo pentagonale del bastione data da una trentina d’anniprima, e tuttavia i Veneziani che ben le conoscevano, non si saperché, non lo posero in queste regioni.

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Fig. 18 - Alessio – Porta meridionale del Castello (Foto Studio Marubi,

Scutari 1940)

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Fig. 19 - Alessio – Vecchie Shkreliane al bazar [1940] (© Franco Tagliarini)

Il Sultano insisteva ad ogni occasione per escluderli anchedall’Isola che gli sembrava una spina piantata sul fianco, ma essifacevano precisamente orecchio da mercante perché, oltreall’importanza strategica dell’approdo vi aveva cominciato afiorire un buon mercato: con Antivari e Dulcigno da una parte eDurazzo dall’altra, potevano dire d’avere ancora il controllocommerciale dell'alta e media Albania, dopo averne perduto ildominio politico.

Le trattative andarono a lungo per anni e anni. Nel 1504 sidovette mandare a Costantinopoli il segretario Zorzi Negro con

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l’istruzione di ceder l’isola quando proprio non si potesse piùresistere, il che si verificò, ma di ritorno, Zorzi provvidamente siammalò e morì a Corfù; non ci voleva di meglio per il Senato,che, pretestando la mancanza di relazione del suo segretariosulle condizioni della consegna, poté procrastinare fino al 1506,quando dopo lunghe e drammatiche discussioni protrattesi pergiorni e settimane, dovette finalmente... procrastinare di nuovo.

Non si sa resistere alla tentazione di riportar qui l’ingenua,realistica e commovente relazione che ne fa nel suo diario ilbuon mercante veneto Girolamo Priuli:

«Il Signor Turcho veramente non restava cum grande

instantia solecitar il Statto Veneto, che l’voleva al tutto aver

quella citade de Alessio, chussi chiamata, in Albania, perché

se diceva che in la conclusione dela pace li era stata concessa

et che uno loco de pochissimo momento, et, anchora che se

chiamava citade, tamen hera di pochissimo momento et locho

quassi senza persone et si poteva chiamare deshabitatto. Et,

anchora che di sopra io abbia scripto di questa difficultade de

rendere questo locho al Sig. Turcho, che l’fusse nel Senato

disputato assai, tamen, al tutto volendo il Sig. Turcho tantto

grande signor averllo, bisognava ali Padri Veneti, inclinato

capite, restituirlo, perché le forze venete non potevano

resistere ala potentia grande turchesca. Tamen questi Padri

Veneti, quali sempre desiderando la indusia et prolungar piui

che potevanno retiravano la cossa in longum et per simil

caussa non mandavanno il Baylo a Costantinopoli, perché

non sapevanno con quale modo potessenno mandare il Baylo

a Costantinopoli et che l’fusse accepto al Gran Signore, non

volendo contentarlo de darli questo locho de Alessio, et

tamen per forza lo convenivanno darlo al suo dispecto.

Donde che iterum in el Conseglio di Pregadi furonno sopra

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grande disputazione in questa materia. Tandem, post multa,

fo deliberato de differire et prolungare piui che se poteva. Et

per questa cauxa ettiam, non expedivanno lo Baylo a

Costantinopoli che l’saria al proposito per poter intendere i

andamenti et progressi di quello Signore».

Fig. 20 - Isola di Alessio – Veduta [1940] (© Franco Tagliarini)

In realtà il Sultano con la sua insistenza dimostrava diattribuire all’Isola di Alessio molto maggiore importanza chenon fingesse, e da parte veneta il Provveditore Bon giustifica letergiversazioni del Senato col narrarci che «persa questa insula,è persa tuta la riviera che più non se dié sperar meter el pié inAlbania».

Finalmente cedettero. e diedero ordine alla ritirata, ordinandod’asportare con le artiglierie anche i fedeli abitanti che vennerodegnamente collocati in territorio veneto come i loro fratelli diScutari.

Da allora in poi nell’Isola desolata i fossi si riempirono, iterrapieni tornarono in melma, e nessuna traccia più ricorda al

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pescatore e al cacciatore di anitre l’ultimo baluardo di Veneziasulle rive del Drino.

Alessio5

Fig. 21 - Alessio – L’abitato attuale [1940] (© Franco Tagliarini)

L’abitato attuale che si stende tra il piede della collina e lasponda del Drino occupa il posto dell’antico mercato lungo ilporto fluviale; più in là, in un’insenatura ora quasi tutta interrata,fra Alessio e l’attuale porto di S. Giovanni di Medua, c’eraanche il porto marittimo, chiamato ninfeo.

La posizione è delle più favorevoli, strategicamente ecommercialmente. Due buoni porti, sufficienti per le necessitàdegli antichi navigli, ben custoditi contro imprese nemiche dallealture che loro sovrastano, retroterra ricco di prodotti agricoli(pianura di Zadrima) e minerari (territorio dei Pirusti,probabilmente l’attuale Medizia meridionale); strade importanti

5 Pubblicato in “Drini – Bollettino mensile del Turismo albanese”, n. 4, Anno

II, Tirana, maggio 1941, pp. 1-2.

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che vi fanno capo, una fluviale (il Drino), l’altra terrestre perDagno (ora Vau i Dejës) dove si biforcava andando da un lato aScutari, dall’altro su per la valle del Drino ad Apicaria (Puka) eNaisso (Nish in Serbia) e di là a Singidunum (Belgrado).

Non è quindi meraviglia che gli Illiri vi avessero collocata unadi quelle caratteristiche fortificazioni che essi annidavanosempre sull’ultima altura allo sbocco di ogni valle, e nonpotrebbe certo meravigliare, che intraprendendo Dionigi ilvecchio di Siracusa una politica imperiale adriatica, vi ponessel’occhio e vi conducesse una colonia che fu poi fiorente esontuosa.

Vero è che taluno potrebbe mettere in dubbio se la coloniadionisiaca sia questa nostra Lissos oppure Lissa nellaDalmazia e non senza buoni argomenti, non ultimo, benchénegativo, quello che finora in Alessio non si è trovata unamoneta dell’epoca di provenienza siracusana. Inoltre lafastosa descrizione degli edifici d’una tale colonia che ci daPolibio, sarebbe piuttosto da attribuire alla metropoli. Il fattoè però che le rovine affioranti ancor oggi su per il decliviodella collina dove sorge il castello e dove allora sorgeva lacittà attestano indubbiamente che l’arte greca vi fiorì e nefece un magnifico centro urbano. Ai prossimi scavi l’ultimaparola.

Comunque l’impero di Siracusa nell’Adriatico nonsopravvisse al suo fondatore, Dionigi il vecchio.

Alessio col resto dell’Illiria andò soggetta all’alterna vicendadel dominio ora dei re illiri residenti in Scutari, ora dei remacedoni.

Accennavamo alla mancanza di materiale numismaticosiracusano dioniseo in questa regione; abbiamo però qualchepezzo più tardivo di Agatocle, e soprattutto, della moneta locale,

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forse autonoma, di epoca e d’arte macedonia. Vi predominano isimboli di Giove, la capra e il fulmine.

Una breve escursione su per il colle è quanto mai interessante,fra i magnifici basamenti di marmo bianco degli antichi edifici,fin su al castello veneziano.

Venezia difatti, che, per ragioni commerciali e strategiche,riteneva Alessio «l’occhio destro di Durazzo», appena fupadrona di questo grande emporio, si adoperò per poteracquistare anche la città del Drino, comprandola dai Dukagjiniche scesi dalla vicina Kalimeti da forse due secoli vi avevanoposto la capitale dei loro vasti feudi.

E difatti nel 1393 Alessio era veneziana e tale rimaseininterrottamente e fedelmente fino al 1479. Venezia la governòper mezzo di un provveditore, lasciando il governo comunale aun «voivoda degli uomini d’Alessio».

L’antico castello romano era già fin d’allora talmente malridotto da non potersi più parlare di restauro. Venezia glienesostituì uno al posto dell’antica città, ed è quello che oggi ancorasussiste, rimaneggiato qua e là dai turchi.

Ma purtroppo, oltre alle mura di cinta, nessun monumento piùci attesta gli storici eventi che resero Alessio uno dei santuaridella storia nazionale albanese: non la cattedrale di S. Nicolòsede episcopale già nel IV secolo. Ivi, ospiti di Venezia, sidebbono essere radunati a parlamento i principi albanesi quandoSkanderbeg nel 1443 ritornato in patria, li chiamò a formare unalega contro il turco e ne venne nominato capo. Ivi l’eroe, venutoa concertarvi un’ultima campagna d’accordo con i veneziani fucolpito da una tardiva infezione di malaria autunnale e ne fucondotto a morte nel gennaio del 1468. Il suo corpo giacque inquesta cattedrale finché le ossa venerate non vennero dispersedagli invasori dopo solo undici anni.

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La popolazione di Alessio, romanizzata già ai tempi di Liviotanto da costituire un «oppidum civium romanorum» rimasetiepidamente latina fino al secolo XV come Durazzo, Scutari,Dulcigno, Antivari e le città della Dalmazia: del linguaggio iviusato, affine ma distinto dal veneto, abbiamo interessantidocumentazioni nei «capitoli» o istanze presentate da quellacomunità al Senato veneto. Però anche la popolazione albanesedel suburbio e del circondario gareggiò in fedeltà allaSerenissima con i latini della città: ancora nel 1571, mentre sipreparava la battaglia di Lepanto, le popolazioni di questidintorni, organizzate da qualcuno della famiglia dei Dukagjini,si preparavano a cacciare i turchi dal castello e a consegnarlo aVenezia, e l’avrebbero anche fatto se fossero stati sostenuti.

Dopo il ponte, passiamo sotto il rifatto ospizio dei PP.Francescani, una vecchia tradizione vuole che S. Francesco,tornando dall’Oriente, qui di passaggio si sia trattenutofondando l’Ospizio e dando così origine al francescanesimoalbanese. Certo i francescani cominciano ad apparire inAlbania sin dai primi tempi.

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Fig. 22 - Alessio – Ospizio Francescano, Chiesa [1940] (© Franco

Tagliarini)

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Da Alessio a Scutari6

Entriamo ora nella fertile e bella piana della Zadrima.Rivolgendo lo sguardo ad Alessio che abbiamo lasciata,possiamo nuovamente godere della vista di Lissos città edell’Acrolissos. Le domina la maestosa montagna di Velia,classico nome che ricorda la Velia di Lucania. Qualerelazione ci sarà tra le due?

Fig. 23 - Balldreni – Drini, Montagna d’Alessio, Acrolissos e il Castello(© Franco Tagliarini)

Il primo paese che incontriamo è Balldreni, antico toponimoche significa «fronte di Drino», che difatti il Drino andiamocosteggiando. Ora è solo un toponimo; nel passato fu fiorentevillaggio, feudo ambito dei Dukagjini in compenso dei terreniche venivan loro guasti dai turchi; la chiesetta che sorgesull’ultimo speron di colline è tra le antiche della regione, edall’Ippen viene assegnata al secolo XIV; una lapidetta

6 Pubblicato in “Drini – Bollettino mensile del Turismo albanese”, n. 4, Anno

II, Tirana, giugno 1941, pp. 3-4.

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sull’abside all’esterno, ci attesta la devozione dei Dukagjini delramo dei Perlati che ve la posero nel 1462, quando già da 59anni godevano di quel feudo:

ANO.D. MCCCCLXIIMEMTO DNE FAMULUMTVV PERLAFARUM CUM

OlbSVISAM

Ricordati, Signore, dei tuoi servi i Perlati con tutti i loro amici.

Fig. 24 - Balldreni – Rovine (© Franco Tagliarini)

I loro amici di Balldreni con tutti i loro discendenti sonoora morti e le loro casette dirute sono sparse per la collinadesolata: quel che non fecero i turchi, i «sangui» e la malariain tre secoli, lo fece il colera al principio del secolo scorso, ela povera Balldreni con la sua chiesetta sta a guardare mestalo sbocco della micidiale palude che marcisce fra le due filedi colline pietrose.

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Fig. 25 - Balldreni – La chiesetta (© Franco Tagliarini)

Ora si costeggia la catena calcarea detta di Kakarriqi dalpaesello che le sta ai piedi verso la metà: impressionantegruppo di bicocche di sasso, che qualche decennio fa, cosìcampate a strapiombo sulla strada, davano il brivido aipasseggeri e alle carovane che vi passavano a cavallo. Erastata anch’essa un paesino di qualche importanza e feudo deiDukagjini con Balldreni; la chiesetta è un po’ della stessaepoca e stesso tipo. Anche Kukli che vediamo addossata allacollina un po’ più in là del punto dove la strada se ne staccaha avuto una più numerosa popolazione e un certo numero dipiccoli feudatari sotto i Veneziani.

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Fig. 26 - Kakarriqi – La chiesa (© Franco Tagliarini)

Procedendo adesso in pianura ci si fa incontro aBarbullushi, il paese, diremmo noi, di S. Barbara. Barbarossidicevano i Veneziani, benché di S. Barbara non ci siaricordo. Invece su una minuscola pendice a destra dellastrada prima di abbandonare del tutto il paese, vediamorestaurata una chiesuola, piccina di mole ma gloriosa di granmemorie.

All’epoca veneziana Barbullushi era fiorentissima dinumerosa popolazione e di molti di quei piccoli feudataridetti «proniari» che in compenso delle terre «di comun» chegodevano in concessione servivano in guerra coi loro uominie i cavalli da buoni stradioti; allora la chiesa era servita danumeroso clero costituito in capitolo, con a capo un arcipretecol titolo di Crosignor (forse qualche cosa come il«monsignore») dotato di ricche rendite e di prezioseesenzioni. Più tardi, sotto il turco, escluso il vescovo diScutari dalla sua residenza in città, questa chiesina che per

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coincidenza era dedicata a S. Stefano come la cattedrale, lasostituì e fu arricchita di indulgenze e privilegi; qui risiedetteil grande vescovo Bogdani, il più dotto degli scrittorialbanesi del secolo XVII, ma fu l’ultimo perché dovettefuggirne perseguitato dai beg e agà mussulmani che avevanosostituito i proniari veneziani.

Fig. 27 - Barbullushi – La chiesa (© Franco Tagliarini)

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Passando fra alcune leggere collinette, sbocchiamo in altrosettore della pianura del Drin, e vediamo di fronte una bellacollina verdeggiante ai cui piedi spicca una bella chiesa: èBushati ultimo termine a cui si spingeva la vasta estensionedelle vigne dei signori scutarini nel medio evo; ciò le valevaanche il nome di Bulchia (campagna) grande. Ivi si vuolesiasi rifugiato un rampollo dei Cernovichi signori di Zeta eMontenegro, dando origine a una famiglia che nel secoloXVIII, impadronitasi di Scutari e svincolatasi quasi del tuttodal gioco di Stambul, si fece un posto nella storia appuntocome Bustatli.

Fig. 28 - Bushati e Zemnjana (© Franco Tagliarini)

Con tutto il fasto e le comodità che richiedevano le usanzeturche del tempo, e che la ricchezza commerciale di Scutariallora permetteva, questa specie di culla dinastica dei vesir diScutari divenne un vero luogo di piacere che avrebbe volutogareggiare nel suo piccolo con le ville nei dintorni di

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Stambul; giardini e bagni, frutteti e vigne e tenute di caccia,tutto rovinò e scomparve con la caduta dei Bushatli,lasciando solo un ricordo nelle leggende e nellatoponomastica.

Il gruppo di basse colline verso cui ci avviamo dopoBushati risponde al nome di Beltoja, la Blatomia medioevale.

Fig. 29 - Beltoja – La collina (© Franco Tagliarini)

È una delle posizioni strategiche che ebbero la maggioreimportanza in tutti gli assedi di Scutari. Nel 1478, allasommità di questi colli piantava le tende Maometto II e di làdominava con lo sguardo l’immenso suo accampamentosparso in tutta la Zadrima fino alla Drinassa che scorre aipiedi del castello di Scutari; su questa cima, allora alberata eamena va inquadrata la grande tela del Veronese che sulsoffitto del salone del Senato in Palazzo Ducale ricorda aVenezia la fedeltà scutarina.

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Fig. 30 - Beltoja – La chiesa (© Franco Tagliarini)

Dentro per le vallette che solcano i fianchi della collina fraBeltoja e Berditza nella notte del 9 febbraio 1813 stavano inagguato i turchi e i dibrani di Esad pascià Toptani chesostenevano l’assedio di Scutari; i serbi, mossi da Bushati inaiuto dei montenegrini, venivano con la solita fiduciaboriosa, quando, impigliatisi ai reticolati, cominciarono asentire la fitta grandine delle mitragliatrici appostate, lafucileria, i cannoncini micidiali; ma, ostinati come sempre,tentavano e ritentavano, quando dalla loro e nostra destra,cominciarono a sentirsi avviluppati dovettero ceder lasciandopoco più di 250 prigionieri e il resto, un migliaio, di morti; lacollina brulla e giallastra che sfioriamo alla nostra sinistra ètutto un cimitero.

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Scutari7

A chi viene con noi dal sud, Scutari si presenta come chiusada maestoso e terribile sipario: sulla sinistra scende verso di leila brulla catena che partendo dal Rumia si ferma col Taraboshsulla Bojana; a destra, lontano, il bel monte pittoresco diSheldija, coronato di grandi e solitarie chiome di peri; ilBarlezio l’aveva battezzato col curioso nome di monteSardonico dalla antica Sarda episcopale che gli sta alle spalle;esso da nord e il Monte di S. Marco da sud col castello di Dagnoin cima, custodiscono, come i piloni di una porta di ferro, losbocco del Drino in pianura; se il vile castellano Salamon nonavesse abbandonato Dagno nel 1474 l’esercito turco non sarebbepotuto dilagare da questa parte.

Fra il Tarabosh e il Sardonico si stende una cortina di collipetrosi, il più alto che sembra posto di fronte a noi a sbarrarciil passo, con la sua sagoma squadrata e coronata di mura e isuoi fianchi a picco, giustificava l’esclamazione del sultano:l’aquila ha ben scelto il suo nido.

Nell’antichità e nel medioevo la città si stendeva per lependici, guardata dal castello che le offriva rifugio in caso diguerra; all’epoca veneziana, siccome la guerra o almeno laminaccia era incessante, l’abitato da prima era rimastodeserto, poi addirittura diroccato perché non offrisse riparoagli assalitori che dovevano venir colpiti liberamente su per ifianchi lisci del macigno. Rifiorì poi in due secoli di pace frai fichi e i melograni che verdeggiano al piede, finché nelsecolo XVIII la malaria lo spopolò spingendo la popolazionenell’altra pianura che ora noi non vediamo.

7 Pubblicato in “Drini – Bollettino mensile del Turismo albanese”, n. 5, Anno

II, Tirana, luglio 1941, pp. 1-4.

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Fig. 31 - Scutari – Il castello visto da sud (© Franco Tagliarini)

Passato il ponte sulla Drinassa si sfila fra la collina delcastello e la Bojana, salutati, come prima vedetta di Scutari dalmoderno santuario della Madonna del Buon Consiglio, che sichiama qui Madonna di Scutari perché l’antica tradizione vipone la prima sede di quella sacra immagina di Genazzano checome palladio della città se ne allontanò quando oramai fusegnata l’ora dell’invasione barbarica.

Brutta ma vivissima e interessantissima accoglienza a chiviene fa la città col suo vecchio bazar di catapecchie che siostina a vegetare come erbaccia di palude in riva alla Bojana:ma che variopinti fiori si schiudono in quest’erbaccia i giorni dimercato! Stoffe e vestiti multicolori, ricami d’oro e d’argentosciorinati al sole o rutilanti nella penombra delle botteguccefarebbero trattenere il pittore fino a sera dimenticando la città.

Scutari se ne sta più il là in pianura, moderna d’età, anticadi stile. A destra e a sinistra delle arterie principali, tutte in

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direzione sud – est – nord – ovest, si stendono i quartierisilenziosi, dalle stradette chiuse fra muriccioli da cuisporgono la testa, i cespugli di rose e di glicine, qui e là unmuro chiuso fino al sommo coronato da un ampio sporto ditetto dalla travatura istoriata, e più in là un monumentaleportone di pietra viva con minacciose feritoie per i nemici,due bei sedili a nicchia per i bravi e una tettoia per ibenvenuti che vengono a battere alla porta ospitale.

Fig. 32 - Scutari – Tipica casa scutarina (© Franco Tagliarini)

Chi ci entra si trova in un ameno brolo fiorito o carico dimore, di melograne, di grappoli secondo la stagione, intornoal bel pozzo di pietra come se ne vedono nei campielli diVenezia, ma dalle acque freschissime. La casa vi è nascostatra il verde, sicché chi si fa a contemplare la città dall’altodei colli la vede come un immenso verziere.

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Fig. 33 - Scutari – Portone fortificato (© Franco Tagliarini)

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Fig. 34 - Scutari – Casa Kakarriqi, Podestà: Brolo con vera di pozzo (©

Franco Tagliarini)

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Le case, di pianta e talora anche del tipo della casa venezianadi campagna, son fatte di robusta muratura ma leggere dicopertura, povere di comodità moderne, ma anche ricche di tuttigli agi e di tutto il fasto un po’ veneziano e un po’ turco del ‘700di qui.

Fasto molto semplice e molto solido invero: tutto l’ornatodell’edificio è costituito di lavori in legno di pino scolpito;vasti soffitti degni di saloni principeschi del ‘500 italiano;infissi e armadi a muro e stipetti degni di sagrestiemonumentali ora del ‘400 ora del ‘600 dei teatini. Ora sonoscomparsi, ma prima i tappeti e i cuscini lussuosi e le caraffedi Murano completavano la decorazione.

Fig. 35 - Scutari – Casa di Ymer Ramadani, Vetrina intarsiata (© FrancoTagliarini)

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Scutari, Scodra nella trascrizione latina semplificatrice, maora Shkodra nella pronuncia albanese, fu già la città degli IlliriLabeati che diedero anche il nome al vicino lago «palusLabeatis», e più tardi capitale di quei re Illiri che stesero il lorodominio da Codroipo nel Friuli fino ad Ambracia alle porte dellaGrecia.

Fu indipendente fino al secolo II a.C. e da allora, vinto Gentio,fu, non colonia in punizione della sua resistenza, ma oppidumcivium romanorum; numerosi ex legionari vi debbono esservenuti a coltivar le terre, e si può credere che abbiano costituitoun pagus nella fertile pianura tra il castello e le colline dette oradi Bardhaj, prima che il Kiri la devastasse; oggi la località sichiama Rëmâj, nel ‘700 Remani o Romani; la popolazione finoal 1479 in città fu latina di lingua e di rito; per farsi un’idea dellatenace tendenza latina in questa regione Prevalitana – come sichiamò nel tardo impero – di fronte alle influenze bizantine,basta osservare fra tutte le sottoscrizioni greche dei Padri delConcilio di Efeso quell’unica che vi spicca in tutte lettere latine:SENECION EPISCOPUS SCODRINAE CIVITATISSUBSCRIPSI.

Poiché ecclesiasticamente Scutari va computata fra le piùantiche sedi episcopali della cristianità e fu anche metropoliprima di perdere nel secolo VII tale grado a vantaggio diDioclea e d’Antivari, ora, da mezzo secolo e più, a buon dirittol’ha riacquistata.

L’invasione slava del medioevo la coinvolse e ne fece pervario tempo l’appannaggio del principe ereditario di casaNemanja che risiedeva a poca distanza dalla città, nel luogo chei veneziani seguitarono a chiamare «la corte dello imperador»,nella regione che ora, forse in ricordo di tali principi che si

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adornavano del vecchio titolo illirico di Jupani, si chiamaCubani.

Col declinar di casa Nemanja nel XIV secolo, non si sa come,ne prese il retaggio in tutta la Zeta con capitale in Scutari lafamiglia dei Balscia, venuta non si sa donde.

Comunque, fosse franca o serba o albanese, essa si tenne acavallo fra il mondo slavo e quello latino, e quanto a Scutari, nefece la capitale di quasi tutta l’Albania, spingendo il propriodominio fino a Valona.

Ma il turco era troppo forte anche per una casa Balscia, equesta nel 1396 dovette vendere a Venezia «il nido dell’aquila»,con Dulcigno, Drivasto e Dagno, salvo poi a tornare adomandarla con le armi e gli intrighi fino al 1422 quandol’ultimo Balscia si spense.

E Venezia vi rimase, dobbiamo dire generosamente perchépochi erano gli introiti (dogane e concessioni di privative sullepescherie) e immense le spese per le fortificazioni, l’esercito e lapolitica d’avvicinamento dei signorotti del paese. Il Governo eraaffidato a un «rettore solenne» che portava il titolo di conte ecapitano in tempo di pace e di provveditore in Albania in tempodi guerra. L’amministrazione comunale, il tribunale di pace equello civile entro i limiti d’una data somma, erano affidati alSenato cittadino secondo le consuetudini della terra.

Dopo un terribile assedio nel 1474, e un altro più spaventosoancora nel 1478, non vinta per forza d’armi benché stremata diuomini e di provviste, la fedele Scutari fu ceduta al turco pereffetto della pace generale del 1479; la popolazione in massa siritirò nella terraferma di Venezia dove si sparse in tutto ilVeneto e popolò i recenti castelli di Gradisca e Palmanova.Allora all’antica popolazione latina fu sostituita una coloniaturca. Ma pian pianino, fin dal principio del secolo XVII, la

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popolazione cristiano-albanese dei dintorni cominciò ariaccostarsi alla città; parte si impiantò nei sobborghi di Casenaal di là della Bojana; parte, senza mutar fede, prese servizionell’esercito alla custodia del castello; parte si islamizzò e vennea rinsanguare la popolazione cittadina; poi nel ‘700, seguendol’esempio del viceconsole veneto Duodo (originario albaneseritornato nella madrepatria) iniziò la nuova città a nord, neisobborghi di Top-hana, Paruzza e Remani, traendosi dietroanche il resto degli abitanti vessati dalla malattia nell’anticasede.

Il Governo che per vario tempo veniva affidato aisangiacbeghi e poi ai pascià inviati da Istanbul, finì per rimanereereditario nella famiglia dei Bemolli di Peja (Ipek), che lotennero per vari anni circa la metà del secolo XVIII, e poi deiBushatli che si resero quasi indipendenti assumendo ilpretenzioso titolo di Visir, ed estendendo il proprio dominio finoalla media Albania dove portarono la guerra alle altre famigliebeilicali del paese come i Toptani e i Tepeleni. Da allora il nomedegli «scodrani», come li chiama il Foscolo, rimase per i Toschinome di terrore. E anche col Montenegro si scambiarono nonpoche sciabolate e centinaia di teste rimasero in mano delnemico dall’una e dall’altra parte.

Intanto, già naturalmente ben collocata, e divenuta capitale divasta regione, Scutari, specialmente per merito dei mercanticattolici – chè i mussulmani pensavano solo allo jatagan – avevavisto rifiorire il suo commercio. Il governo di Istanbul dal 1831ne fece la capitale di un vilajet e la sede di forti stanziamentimilitari, sicché le carovane scutarine ebbero campo di spingersifino al Mar Nero, e le borse dei mercanti fornitori siimpinguavano, mentre i rappresentanti della bella industria

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locale andavano a vender tessuti cuoi e argenterie ad Ancona,Venezia e Trieste; fu forse l’epoca più pingue per la città.

Le guerre balcaniche, la ferrovia di Salonicco, ilprogressivo ritagliamento del retroterra a favore della Serbiae del Montenegro, fecero scomparir tutto e Scutari, diventatala vedetta settentrionale d’Albania dall’assedio montenegrinodel 1912-13 in poi, rimase una delle più immiserite città dellosventurato paese.

In compenso, la sua cultura latina e nazionale, fiorentenegli storici istituti diretti dai PP. Francescani e Gesuiti larende pur sempre la città culturale silenziosa ma irresistibilenella sua influenza.

Fig. 36 - Scutari – Collegio Saveriano, Vetrina con libri antichi (Foto

Kel Marubi)

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Fig. 37 - Scutari – Collegio Saveriano, Biblioteca (Foto Studio Marubi)

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Il castello di Scutari8

Per comprendere l’importanza di Scutari, riandarne la storia,sentirne tutto il fascino, bisogna salire al Castello.

Quello che ora vediamo è, in qualche parte irriconoscibile,il castello serbo medioevale; nella sua gran massa il castelloè veneziano, ricostruito su disegno di Andrea e FrancescoVenier e Melchiorre da Imola nel 1458; qualche restauro equalche aggiunta vi fecero poi i turchi.

Fig. 38 - Scutari – L’antico Castello – Missione Geo-Topografica

Italiana in Albania, Settembre 1937 (© Franco Tagliarini)

Vi si sale per ripida serpeggiante via dal bazar, che in parteè l’antica selciata veneziana.

8 Pubblicato in “Drini – Bollettino mensile del Turismo albanese”, n. 6, Anno

II, Tirana, agosto 1941, pp. 1-3.

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Fig. 39 - Scutari – Il Castello visto dal bazar (© Franco Tagliarini)

Fig. 40 - Scutari – Rampa di accesso al Castello (© Franco Tagliarini)

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Alla nostra sinistra la catena delle più basse colline viene acongiungersi con una sella a quella del castello; la più prossimasi chiama di Kara Hasan ossia del Nero Hasan Pascià che venneall’assalto da quest’unico lato meno scosceso.

In capo alla svolta della sella, abbiamo la pittoresca visionedella Zadrima e, sotto i nostri piedi il blocco elegante della«Moschea di Piombo» dalle molte cupole.

Fig. 41 - Scutari – La Moschea di piombo e il Drin (© Franco Tagliarini)

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La prima, coronata già dal leone di S. Marco, ora non neconserva che la coda; all’interno, dalle volte a prova di bomba,cola l’acqua ricca di calcare che va rivestendo i macigni di uncandido strato stalattitico; la leggenda popolare li riveste delpoetico ricordo della principessa che immurata quale vittimapropiziatoria per la costruzione, avrebbe ottenuto che le silasciasse scoperto un seno per allattare il suo bambino; e ledonne scutarine vi vennero a lungo a cercare il farmacogalattoforo.

Tra la prima e la seconda porta possiamo contemplare davicino il mastio, il più elegante dei resti veneziani, e poipenetriamo nell’interno.

Rivolgendoci a guardare. Questa prima cinta ci si presentacome una potente cortina interrotta a destra della porta da undente o piattaforma e più in là da una torre rotonda, immortalatanell’assedio del 1474 dalla resistenza eroica del capitano venetoCarlino. All’estrema nostra sinistra doveva esserci un belvedere,ma ora è demolito per effetto del terremoto del 1906.

Il primo spiazzo in cui ci troviamo è diviso dall’interno permezzo d’una potente cortina fortificata, richiestadall’esperienza che nel primo assedio turco deve averdimostrato che lo spiazzo unico e raso che si mostra inpendio tutto aperto alla collina di Kara Hasan, si dava troppoindifeso ai tiri dell’artiglieria; perciò lo si deve aver diviso ametà con questa specie dei diaframma.

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Fig. 42 - Scutari – La seconda porta di entrata del Castello (© Franco

Tagliarini)

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Fig. 43 - Scutari – Cattedrale veneziana all’interno del Castello (©

Franco Tagliarini)

Fig. 44 - Scutari – Cattedrale veneziana all’interno del Castello – Interno(© Franco Tagliarini)

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Oltrepassatolo, notiamo a destra un edificio dalla formacuriosa. Non è altro che l’antica cattedrale divenuta poi moscheae infine deposito di polveri. La costruzione, molto modesta,orientata grosso modo a ponente come di rito, è serba, o megliogotica, secondo lo stilo importato da una delle regine francheche entrarono in casa Nemanja.

Però il robusto portico di severo rinascimento che lafiancheggia a nord-ovest è veneziano; il minareto mozzodell’angolo venne impiantato sulla base d’un membrodell’antica fabbrica che sarà stato il battistero o la sacrestia.

Fig. 45 - Scutari – Moschea all’interno del Castello (© FrancoTagliarini)

L’ultimo e più protetto recinto del castello costituiva di solitola castellaneria, che qui, comandandovi un capitano, si chiamòcapitaneria.

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Nell’interno ci si osserva il massiccio palazzo del contecapitano a sinistra. Nel cortile deve essere avvenuto l’epicoepisodio di Antonio Loredan provveditore durante l’assediodel 1474, che all’esercito e al popolo stremato dalla sete etumultuante, stracciatesi le vesti, propose gli squarciassero ilpetto e ne bevessero il sangue, ma resistettero un solo giornoancora: l’indomani il turco partì!

Fig. 46 - Maometto II all’assedio di Scutari – Copia ad acquerello del

bassorilievo nella facciata della Scuola degli Albanesi a Venezia (©Franco Tagliarini)

All’ultima estremità c’è un belvedere che giustifica ameraviglia il suo vocabolo militare, perché tra i tanti beipanorami che offre questa altura esso ci presenta il più bello e ilpiù interessante.

Di qui possiamo contemplare la vasta cerchia di monti checircondano Scutari. Lontane ad est le Alpi Albanesi e ilMontenegro; a sud est i Monti dei Dukagijni, il Monte

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Sardonico, il San Marco di Dagno. la Mirdizia. Più vicino ilTarabosh che nel 1912-1913 ben dimostrato in modo terribilequanto bene il Coronelli l’avesse battezzato col vago vocabolodi «monti che battono Scutari»; più in basso in pianura i colli diBushati e di Berdiza e Beltoja.

Scutari è tutta circondata dalle acque quasi come un’isola.Qui sotto il lago e il suo emissario la Bojana; dall’altra partedella catena delle colline vien giù dai monti il Kiri, che alloro piede si congiunge con la Drinassa, ramo del Drino, chevien da Dagno e va a gettarsi nella Bojana: sono le viefluviali.

Delle vie di terra, una viene da Alessio per Bushati, ed èquella che è attualmente aperta; anticamente veniva invece aipiedi delle Montagne di Mirdizia, pagava la dogana a Dagno,e di là prendeva verso Scutari.

Fig. 47 - Scutari – Vivaio della pesca e Castello (© Franco Tagliarini)

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Fig. 48 - Scutari – Lago e faro (© Franco Tagliarini)

Fig. 49 - Scutari – Il fiume Kiri visto dal Castello (© Franco Tagliarini)

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Lungo la Bojana, sulla sua destra viene la via che dal portodella Bocca della Bojana, per la medioevale Sovacia aiuta unpo’ anch’essa il traffico. Verso la montagna da una parte lastrada verso Podgorizza e il Montenegro (via di Dioclea), inmezzo quella di Drivasto per il ponte di Mesi, verso sud-estquella di Dagno che conduceva nella Mesia romana, ossia nellaSerbia.

Si comprende ora l’importanza di questo nodo, e sicomprendono le guerre che vi si svolsero.

Dalle strade che scendono dai monti, sboccarono in pianura lemoltitudini turche, someggiando a dorso di cammelli bronzo earnesi per fondere i cannoni; si distesero nella Zadrima e vi siaccamparono; occuparono le alture dei dintorni, tagliando lecomunicazioni con Drivasto che fu ridotta a intendersi conScutari per mezzo di segnali luminosi; posero corpi di guardialungo la Bojana, e nella pianura in riva al lago impiantarono lefonderie dei cannoni; ancora oggi questa si chiama «tophana», lafabbrica delle artiglierie.

Alla Bojana venivan su le marciliane e perfino le galeevenete al soccorso; per il Tarabosh e colle barchette per illago veniva pure Ivan Cernovicchio.

E quassù si combatteva sotto il nugolo delle frecce (cen’era abbastanza da riscaldare i forni per un pezzo) e sotto lagrandine delle immense palle di pietra dei mortai, che tuttosfondavano; per fortuna, meno i pochi edifici principali di cuisi vedono ancora i resti, l’abitato era costituito di casucce dilegno, poco danno se andavano a male, e la gente viveva neisotterranei.

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