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Dalla cosa alla causa (della rivoluzione) Di qualche tecnica di raccolta delle virgole per fare il punto sugli scritti di Gianni-Emilio Simonetti 1. "Dalla causa alla cosa della rivoluzione" Gianni-Emilio Simonetti ha accompagnato questi ultimi decenni con una ricca e variegata produzione poligrafica non facilmente classificabile. Non ha mai nascosto l'ambizione di imporsi come teorico di "matrice" situazionista, sebbene proprio dai situazionisti (ma non soltanto) sia stato minacciato a causa di tali velleità. Tuttavia questa non è stata l'unica sua ambizione, dato che Simonetti era stato, ed è attivo tuttora in altri e svariati ambiti e progetti "intellettuali": da quello artistico (Fluxus), a quello editoriale, dalla musica contemporanea alla moda, dalla gastrosofia alla clinica psichiatrica, prescindendo dai diversi altri che inevitabilmente ci saranno stati e che non mi sono noti. In questa breve rassegna, non essendo in grado di ripercorrere sistematicamente la cronologia e le tappe di una così multiforme attività tuttora non conclusa, proverò a rileggere alcuni testi, probabilmente tra i più significativi, del 1

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Dalla cosa alla causa (della rivoluzione)

Di qualche tecnica di raccolta delle virgole per fare il punto sugli scritti di Gianni-Emilio

Simonetti

1. "Dalla causa alla cosa della rivoluzione"

Gianni-Emilio Simonetti ha accompagnato questi ultimi decenni con una ricca e variegata produzione poligrafica non facilmente classificabile. Non ha mai nascosto l'ambizione di imporsi come teorico di "matrice" situazionista, sebbene proprio dai situazionisti (ma non soltanto) sia stato minacciato a causa di tali velleità. Tuttavia questa non è stata l'unica sua ambizione, dato che Simonetti era stato, ed è attivo tuttora in altri e svariati ambiti e progetti "intellettuali": da quello artistico (Fluxus), a quello editoriale, dalla musica contemporanea alla moda, dalla gastrosofia alla clinica psichiatrica, prescindendo dai diversi altri che inevitabilmente ci saranno stati e che non mi sono noti.

In questa breve rassegna, non essendo in grado di ripercorrere sistematicamente la cronologia e le tappe di una così multiforme attività tuttora non conclusa, proverò a rileggere alcuni testi, probabilmente tra i più significativi, del

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poliedrico autore, ponendone in rilievo qualche aspetto più suggestivo, perché, il più possibile, essi parlino e si commentino da sé.

Gianni-Emilio Simonetti è stato, in una delle sue molteplici imprese, direttore editoriale di "Arcana Editrice". Per queste edizioni, nel 1971, curò la pubblicazione del volume "... ma l'amor mio non muore", che gli valse una certa notorietà. In quell'occasione, organizzando quel collage parecchio composito di materiali diversissimi, se gli era riuscito di confezionare un plateale oltraggio al "senso comune" dell'epoca, minori erano state le preoccupazioni di ordine "teorico". Esse trovarono sfogo, due anni dopo (nel 1973), nel volume (edito da "Arcana", nella collana "Nuova critica") intitolato "Dalla causa alla cosa della rivoluzione". Il sottotitolo recitava: "Soggettività della cultura alternativa giovanile e movimento reale del proletariato".

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Lo scritto prende le mosse, apparentemente in medias res, con queste parole:

"Quell'identità fra produzione e consumo, che Marx lega con l'immediatamente anche, e la sua reciprocità: il consumo è produzione, salva nella sua unità immediata la loro immediata dualità.

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Ecco perché là dove più nulla sfugge al mercato il tema dialettico non è più la produzione, ma innanzi tutto la distruzione materiale."

In questo esordio si richiamano in nota due passaggi di "Per la critica dell'economia politica" di Marx.

Il testo continua così:

"Infatti, in un momento come quello che attraversiamo, caratterizzato dallo scontro violento di classe, la teoria diventa 'produttiva' nella misura in cui è critica e non affermativa, capace d'inceppare la logica totale dello sviluppo e di produrre un'azione pratica ad essa conforme: un'azione, cioè, radicale nel senso della separazione definitiva dalla società della separazione."

Attraverso questo passaggio il lettore, posto di fronte a una fuorviante "apparente ingenuità", si renderà conto che è necessario essere "circospetti, pedanti di fronte a quello che sembra il destino storico del pensiero".

Lo scritto dunque, in poche righe, pone già delle fatali questioni. Ma, per nostra fortuna, "il fatto che Marx ci mostri i frutti dei processi di reificazione come un dato assolutamente reale, non vuol dire che essi siano, solo per questo, irreversibili". Infatti, "non siamo di fronte ad una realtà naturale, ma ad una realtà 'storica' del dominio di classe, dunque ad una realtà

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transitoria". Questo passo è segnato da una nota che rimanda alla tesi n. 78 di "La società dello spettacolo" di Guy Debord in cui si dice che tutte le correnti teoriche del movimento operaio rivoluzionario sono uscite da un confronto critico con il pensiero hegeliano. L'accenno ad Hegel si spiega anche con la citazione dalla "Fenomenologia dello spirito" che introduce il primo capitolo dello scritto di Simonetti, citazione che afferma: "Similmente, la diversità è piuttosto il limite della cosa; essa è là dove la cosa cessa, o è ciò che questa non è".

Lo scopo che si propone Simonetti è subito individuato nella seconda tesi dove afferma che "la negazione del mondo della merce (...) ha condotto l'universo spettacolare della cosiddetta cultura alternativa giovanile a sottovalutare la truffa che persa la coscienza di classe, la percezione storica del reale, l'esistenza della classe venga di fatto confutata, dimenticando che essa resta là, come limite, dove la intransigenza del mondo materiale borghese riafferma la ferrea logica dei rapporti di produzione."

Da qui si evince il compito che si dà il teorico: "Da qui il nostro compito di misurare il peso che la soggettività della cultura giovanile ha nella realtà di quel movimento esecutore testamentario più che semplice 'erede della filosofia tedesca', in altre parole denunciare lo scaltrito conformismo giovanile così come esso appare di fronte allo

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spettacolo del generale collasso della società borghese".

Il teorico ha dunque individuato nella cultura giovanile underground una falsa opposizione alla società borghese. La cultura giovanile è un Kulturalgebeite ("un frutto tipico dell'avanguardia borghese", qualcosa come delle "baruffe ideologiche con la società borghese").

"Il generale collasso della società borghese" però, nella tesi n. 5 del primo capitolo, si manifesta, "con le parole di Lukàcs" e "ad un esame più preciso", come "un mero potenziamento della quantità e dell'intensità della vita quotidiana della società borghese". Non solo: "di fronte al trionfo dello scambio, alla degradazione di ogni rapporto a merce noi sappiamo che l'apologia dell'immediatezza diventa essa stessa menzogna, ideologia". Peccato, perché le prime parole dello scritto di Simonetti invocano, proprio con una simile "immediatezza", la "distruzione materiale", che rientra verso la fine del volume come apologia del gesto.

"Il progetto non sono le barricate della cultura, ma la 'cultura' delle barricate, tale da incidersi profondamente nella coscienza di tutti come la definitiva separazione dal mondo della separazione. Altrimenti ha buon gioco perfino l'ironia di Adorno per le aspirazioni festaiole dell'SDS quando ricordava agli studenti tedeschi come 'contro coloro che detengono e

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amministrano le bombe i barricamenti sono inutili'. La nostra ironia non stupisca (...)".

"La 'cultura' delle barricate", scrive Simonetti, deve giungere a tutti, altrimenti l'ironia di Adorno, e per mezzo di essa l'ironia dello stesso Simonetti, avranno buon gioco... Troppa ironia, decisamente.

"I giovani sono l'avanguardia priva di coscienza di una nuova coscienza", cioè "non si può colpire l'alienazione sotto forme alienate a loro volta o surrogatizie".

Quindi bisognerà dare ai giovani ciò che non possiedono. Inoltre Simonetti scrive che "dobbiamo rilevare un rapporto dialettico molto stretto fra l'aspirazione alla libertà dei giovani e il carattere puramente formale di questa libertà".

"Per colmo d'ironia" aggiunge l'autore "la difficoltà di cogliere il presunto rapporto fra questo status giovanile e il movimento reale del proletariato è proprio nell'immediatezza", e il distacco è "metafora di quell'amaro distacco dal business che solo il business rende possibile". A queste considerazioni seguono delle deduzioni che vorrebbero suggerire l'analisi della trasformazione della società primitiva in "Per la critica dell'economia politica" di Marx al commercio delle soft-drugs e di magazines e posters. "L'aridità del nostro discorso non sorprenda" ripete Simonetti, evidentemente

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preoccupato (e più che mai desideroso) di stupire il lettore.

Simonetti giostra fra Hegel, Marx, Lukàcs, Adorno ed altri ancora, seguendo un movimento ternario che procede in questo modo:

a) prima un richiamo all'autore ed al testo, come in questo esempio: "Vale la pena, a questo punto, ricordare il Marx della Critica là dove ha cura di sottolineare come la produzione non produce solo l'oggetto del consumo, ma anche il modo di consumo, essa produce non solo oggettivamente, ma anche soggettivamente con la conseguenza che la produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale";

b) poi la giustapposizione creativa delle fonti in un nuovo ordine: "(...) Infatti, noi sappiamo che l'unicità del sistema borghese è fittizia e che solo arretrando all'autoconoscenza di sé come merce si può mettere in crisi la sua apparente contraddizione per la quale la coscienza di sé come un 'essere in sé' è generatrice di quella convinzione che intensifica la produttività e il consumo e che sembra reagire dialetticamente al reale livellamento autoritario dello scambio";

c) infine il rientro, con la citazione di un altro maestro: "E questo è anche il senso morale di quell'aforisma adorniano che recita: nella fungibilità universale la felicità e legata - senza eccezioni - a ciò che non è fungibile".

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Il procedimento si ripete, con qualche variante, per tutto il libro:

a) Se Hegel poteva ancora dire di fronte ad una ipotesi di storicità che l'idea come tale è la realtà (Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia) a noi, oggi, non resta che sottolineare l'ironia di una realtà che come tale è soltanto un'idea;

b) infatti di fronte alla storicità che s'allontana, il quotidiano diventa il facile terreno delle istituzioni che concatenano e stratificano il reale fino a livello di spettacolo, uno spettacolo che poggia su un edificio che non ha più nulla a che fare con la storia.

c) Sarebbe come paragonare Palazzo Pitti ad un grattacielo di New York (H. Lefebvre, La fine della storia).

Il rituale delle citazioni assume le sembianze di un gioco piuttosto sfacciato, ed infinitamente replicato:

"Con le parole di Lukàcs ...".

"Glossando il Marx dei Manoscritti noi possiamo dire ...".

"Con quella cautela che qualche anno fa Fortini descriveva come l'astuzia della colomba, il candore della serpe".

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"Nell'ambito strumentale che Adorno acutamente ha intravisto quando scriveva ...".

"Perfino l'apologia del furtarello nel supermercato, cantata da Abbie Hoffman ...".

"Di nuovo dobbiamo fare ricorso ad Hegel".

"Come emerge in modo straordinariamente chiaro dall'ultimo Hegel".

"Facciamo nostre le supposizioni del Korsch".

"Ancora più decisa è la presa di posizione del Gombin".

"Già il Marx dell'Ideologia tedesca se la prende con simili boutades".

"Alla luce dell'avviso contenuto nell'Ideologia tedesca ...".

"Già nell'intuizione marxiana dell'hegelismo appare ...".

"Cadere nell'equivoco significa abdicare alla logica di quel processo che fa dire a Marx ...".

"Quella intuizione geniale che Hegel fa risalire a Lessing di una educazione del genere umano ...".

"Con le parole di Hyppolite che glossa Hegel attraverso Marx ...".

"La chance di raggiungere la verità (Fenomenologia dello spirito) è già modello di

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quel barrage che in Lukàcs perfeziona le 'armi spirituali' della propria lotta".

Come scrive Lukàcs, i problemi della legalità e dell'illegalità sono soltanto mere accidentalità nel progetto rivoluzionario dei comunisti".

Nel libro capita che Vaneigem ed Hegel spieghino simultaneamente il leninismo:

"Di nuovo, il leninismo non è altro che 'la révolution expliquée à coups de fusil aux marins de Cronstadt et aux partisans de Makhno. Une idéologie' (Traité de savoir-vivre à l'usage des jeunes générations). O con Hegel: 'ciò che lo spirito vuole è raggiungere il suo proprio concetto, ma esso stesso se lo oscura, si inorgoglisce e gode di questo estraniarsi a se stesso' (Lezioni sulla filosofia della storia)".

Nel libro ricorrono svariate puntualizzazioni (come quelle già riportate in cui si invita il lettore a non stupirsi), tra le quali ne scelgo alcune che cominciano con lo stesso avverbio:

"Qui non si sta facendo l'apologia della deduzione; di fatto il problema si riallaccia, sia pure nell'ottica particolare della condizione di marginalità, al tema generale di quel 'progresso' che rischia di diventare una chimera se soltanto si perde di vista il carattere contradditorio che questo progresso può prendere, anche lì dove, l'individualità, può riuscire menomata dal fatto che qualcuno prenda partito per se stesso".

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"Qui sotto accusa è quella soggettività che per quieto vivere si è lasciata trascinare nella logica di regole di gioco che si vorrebbero arbitrarie solo per poter governare con una prassi che è già routine della storia borghese".

"Come dice Lacan, qui non stiamo riprendendo il commercio della paccottiglia, smerciata per nietzscheana, della menzogna della vita, in questa condizione - condizione in cui principi e lacchè concorrono uniti - la menzogna intenzionale non viene sbattuta fuori dalla porta della storia semplicemente volendolo".

"Qui si invoca la capacità del lettore di non rimanere vittima della propria debolezza: la narrazione di ciò che è la vita deve smettere di risolversi in un falso ciclo d'avventure!"

Nel libro sono presenti tuttavia alcune fiammeggianti e concise espressioni (si tratta perlopiù di citazioni altrui, come questa di Adorno: "scaltrezza ed oscurantismo sono ancor sempre la stessa cosa"), ma ce ne sono alcune senza virgolette, come le seguenti:

"La finzione della libertà è la massima ingiuria a cui siamo sottoposti".

"Di nuovo il tema è il salto qualitativo, nel quale solo il proletariato sa riconoscersi ...".

"Il proletariato che reclama onorari esagerati: la vita ...".

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La rabbia proletaria, che si va generalizzando, addita la prigionia come il rovescio della sua debolezza".

"Dunque, che fare? (...) diventare bandito!

Quest'ultima frase (il botto finale) arriva a conclusione del libro, che aveva acquisito una sua fisionomia più marcata della semplice denuncia dell'ideologia giovanilista, proprio rincorrendo l'apologia della delinquenza, ma sempre in compagnia di Hegel e di Lukàcs :

"Il teppismo e in specie il teppismo giovanile, sia esso di recupero o nuovo, è la trincea violenta e soggettiva di quell'avanguardia giovanile che vede nel proprio vandalismo creativo le condizioni attuali per contrastare la liquidazione forzata dell'individuo sotto la spinta prepotente dell'oggettività dello sviluppo storico borghese e delle condizioni infami che esso detta universalmente".

"Come l'operaio è il prodotto del capitale così la criminalità è l'operaio che si sottrae al capitale".

"La rivoluzione proletaria è, invece, la rivoluzione brutta, scomposta, selvaggia, 'perché al posto della frase è subentrata la mostruosità della cosa' (Internazionale Situazionista n. 1)".

"Bisogna saper leggere con attenzione dietro la sete di rapina del proletariato perché se da una parte essa esprime l'immediatezza radicale del 'ad

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ognuno secondo i suoi bisogni', dall'altra parte specifica criticamente 'la soluzione che Marx indica nelle sue tesi su Feuerbach: la conversione della filosofia nella praticità' (Lukàcs, Storia e coscienza di classe)".

"Qui siamo, allora, proprio nell'occhio del tifone, siamo di fronte al riconoscimento di una nuova caratteristica della lotta contro il capitale: la spontaneità criminale".

"Contrariamente ai piccoli-borghesi che scambiano la rivoluzione con quella beatitudine che sottrae le forze alla realizzazione, i proletari sanno bene che la cosa 'sporca' che essi producono con il loro 'lavoro' sulla storia è di per sé la violenza che non lascia spazio agli ideali; osserva acutamente Hegel: l'unità stessa degli individui è violenza, violenza sul mondo borghese".

"La cosa della rivoluzione 'è il passaggio da questa (moderazione) nella opposta determinatezza, ed è infine un'effettualità la quale è data per coscienza' (Hegel, Fenomenologia dello spirito)".

"Lo zelo con il quale abbiamo difeso la 'causa' non è l'entusiasmo disinteressato di colui che prende le parti di quanti stanno andando in rovina e allo stesso tempo nasconde - forte del suo ruolo tecnico di intellettuale, per quello che può valere, poi, una tale miserabile condizione! - dietro la

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costante esortazione all'insurrezione 'il tacito richiamo alla strapotenza dei collettivi e dei gruppi con cui nessuno ha interesse di guastarsi' (Adorno, Minima Moralia)".

"Possiamo valutare il rischio e assumerlo personalmente nell'indicarlo ai 'pollicini' della storia, perché fino a quando la realtà del mondo borghese sussiste ciò che la nega parla anche per la verità, e di fronte alla menzogna generale dell'ideologia diventa un correttivo la menzogna che la denuncia, nella misura in cui, oggi, il funzionamento dell'apparato economico esige anche una direzione delle masse che non sia in alcun modo disturbata dall'individuazione. La Volante Rossa; le rappresaglie contro la Fiat del partigiano Danilo, figlio della barriera industriale; la banda Cavallero, con il delirio lucido e intelligente del suo leader, le Brigate Rosse, la banda XXII Ottobre e Mario Rossi, l'Arancia Meccanica, sono solo i punti di passaggio che testimoniano dell'irrazionalità dell'adattamento sociale e assiduo alla realtà, che diventa - nel suo stupore - agli occhi degli uomini, se non è combattuto, più ragionevole della ragione".

Quest'ultima sequela è doppiata da una nota esplicativa piuttosto ampia. Le note, a piè di pagina, sono molto numerose, ed in molte delle quali si trovano degli spunti suggestivi, come nella nota sulla "Gemeinwesen": "La Gemeinwesen marxiana è la comunità che si

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realizza nel fatto pratico della distruzione della 'comunità fittizia' del capitale e del suo modo di manifestarsi: l'economia". Ma ce ne sono così tante altre che non è possibile soffermarvisi, senza finire per riscriverne tutta la costellazione nell'opera di Simonetti. Ancora una, la nota su Comontismo: "L'estremismo radicale dei Comontisti, spesso sfociato in quelle che si chiamano azioni esemplari, ha di recente sollevato la velenosa critica di alcuni scellerati autodefinitisi 'marxisti-leninisti' che, incapaci di operare dei distinguo al di là delle miserabili categorie ideologiche della politica, li hanno accusati di avventurismo e d'infamie varie, alcune delle quali, tutto sommato, tornano ad onore e vanto di questo come di ogni estremismo coerente".

Sulla "cultura" si sofferma Simonetti in un capitolo dell'opera, e per spiegarsi bene egli cita Adorno esplicitamente (la stessa citazione compare senza virgolette altrove nel testo, e l'ho già riportata):

"Per dissolvere l'eventuale dubbio di un'abitudine retorica nell'uso di questa parola diciamo che ogni eventuale utilizzazione in senso riflessivo, cioè verso noi che scriviamo, può essere intesa - nei limiti di una discreta approssimazione - nell'ambito strumentale che Adorno ha intravisto quando scriveva: 'se chiamiamo realtà materiale il mondo del valore di scambio e cultura tutto ciò che rifiuta di accettare il suo dominio, questo

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rifiuto è senza dubbio apparente finché quella realtà sussiste: ma poiché il libero ed equo scambio è di per sé menzogna, ciò che lo nega parla anche per la verità: e di fronte alla menzogna del mondo delle merci diventa un correttivo la menzogna che lo denuncia' (Minima Moralia)".

È singolare che un testo del genere non abbia ricevuto una risposta adeguata al suo sforzo di provocazione? Non credo. Si può pensare che l'ingombrante e sferragliante massa di citazioni e l'aggrovigliata matassa dell'esposizione siano riuscite a distrarre o a stordire il lettore, anche il più malevolo.

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2. "Contro l'ideologia del politico"

Attribuirò i testi firmati con lo pseudonimo "Bernard Rosenthal" a Gianni-Emilio Simonetti, e a lui soltanto. Mi è di conforto l'introduzione di Carlo Romano ad "Agguati", una breve raccolta di articoli pubblicata da Graphos di Genova. Carlo Romano afferma che i testi firmati con lo pseudonimo Bernard Rosenthal sono del solo Simonetti, anche se attorno a Simonetti gravitava un gruppo (tra cui lo stesso Carlo Romano e Pinni Galante e Pasquale Alferj ed altri ancora) che costituiva il polo italiano della rivista francese "Errata", e sempre con Simonetti questo gruppo collaborava per alcuni testi pubblicati per "Arcana Editrice", e questo gruppo fece pubblicare qualche libro all'editore La Pietra.

Bernard Rosenthal risulta come l'autore di una raccolta di pamphlet usciti "all'insegna di una 'fronda' che ha stormito fra l'autunno del 1974 e la tarda primavera del 1976"; così è scritto nell'introduzione a "Miseria della politica", il volume edito da "La Pietra" nel 1978, che raccoglie questi pamphlet.

Di seguito si trova scritto che i testi sono "purgati dalle polemiche". Vi era stata polemica perché Gianni-Emilio Simonetti aveva aperto il primo di questi pamphlet ("Contro l'ideologia del politico") "giustapponendo una frase del delatore

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Girotto, detto 'fratello mitra', a un passo" di "Cronaca di un ballo mascherato" di Giorgio Cesarano, Piero Coppo e Joe Fallisi. Cesarano scriveva (in una nota del gennaio 1975 a "Ciò che non si può tacere" scritto con Paolo Faccioli) che, in questo modo, "Simonetti vorrebbe schiacciare la critica sul terreno della delazione" e inoltre "la medesima vocazione alla politica della calunnia spinge impudentemente Simonetti ad esquiparare il concetto di specie (Gattung) con quello di razza (mai sfiorato, ovviamente, in alcuno dei nostri scritti se non nella congrua denotazione negativa". Si può notare che Cesarano non si riferisce mai allo pseudonimo Bernard Rosenthal.

Bernard Rosenthal è universalmente noto come personaggio de "La cospirazione" di Paul Nizan, ma per non tralasciare un effimero indizio bisognerebbe interpretare cosa suggeriscono le iniziali, ammesso che qualcosa vogliano suggerire.

Sempre nell'introduzione alla raccolta edita da La Pietra, Simonetti accenna a un "nonnulla di entusiasmo" che conforta l'autore ("chi li ha scritti"), "per i loro effetti pratici, o se si preferisce, per la loro veggenza". Tuttavia questi non sono la stessa cosa.

L'autore si smarca dall'obiezione di "scrittura difficile", giustificandosi con queste parole:

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"Noi ci rivolgiamo contro un dominio capitale con le sole armi della ragione dialettica, anche per conto di coloro che non possono scrivere, senza pretendere nessun mandato. Allora che ognuno si ritrovi! Perché questa apparente difficoltà di lettura misura la profondità di una offensiva (oppure, ridete, di una sconfitta) che non deve mettere a disagio - anche se poco c'importa - il 'movimento', quanto l'avversario con il quale ci fronteggiamo".

Chi scrive contro il dominio non scrive "per conto di coloro che non possono scrivere" senza voler porre la propria candidatura alla loro guida, e non fa ricorso alla retorica della preterizione. E poi, perché mai un'apparente difficoltà di lettura dovrebbe misurare la profondità di un'offensiva? E perché mai l'avversario sarebbe messo a disagio da quest'apparente difficoltà di lettura? Perché non ne capirebbe le intenzioni o gli obbiettivi?

Inoltre B. Rosenthal giustifica (giustificazione "non necessaria") la pena che si è dato di cavalcare i due secoli fra la furia giacobina e la fenomenologia hegeliana, ecco perché "la storia francese, più di altre storie civili, e la filosofia tedesca s'affacciano ad ogni pagina". Questo incessante affacciarsi va inteso dunque "contro quelli che temono la violenza della ragione più dell'astuzia armata della piazza: gli sbirri e i loro mandanti". Osserviamo un eroico Bernard Rosenthal misurarsi con le armi della ragione

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dialettica contro il dominio capitale: "Sappiamo bene che il sogno di ogni ministro di polizia è di schiaffare all'Asinara chi legge!"

Per il resto, a conclusione dell'introduzione, Rosenthal scrive, con gusto del paradosso, che "la nostra debolezza fa ridere perché sorprende l'avversario per il suo rigore", si tratta di "lasciare dei segnali perché qualcun altro si ritrovi riconoscendoci". Ma dice anche di saper bene che "l'altro non c'è", e che quest'assenza brillerà fino a quando non sarà l'atto a brillare, cioè fino a quando la critica "non diventa atto esemplare".

"Così, la critica tesse la sua tela, e questa è la sua autonomia". Intanto, "le cronache poliziesche non si nutrono che delle disavventure di reclute ubriache". Ecco che B. Rosenthal trasfigura gli ingenui! Stravolta la loro ingenuità dall'essere nient'altro che "reclute ubriache"; perduti in disavventure, perché reclute, perché ubriache! Cesarano, nel passo citato in precedenza, scriveva invece di "epigoni, votati, dall'ingenuità stessa della loro passione catturata, a un dramma che non cessa di incrementare l'atrocità" e di un Simonetti che giustifica "l'apologia dei terroristi".

In nota all'introduzione alla raccolta dei pamphlet, Simonetti scrive: "L'anonimato (che il protagonista della 'Cospirazione' di Nizan ci ha assicurato e che qui conserviamo in virtù della sua trasparenza) ci salvò dalle vendette dell'apparato".

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"Contro l'ideologia del politico" (datato ottobre 1974) comincia stabilendo che la critica "tace sulla rivoluzione come su ciò di cui non si può parlare". La critica non è "speranza progettuale di alcunché". "La condizione umana non ha un progetto di specie o di razza" (qui si deve cogliere l'allusione alla razza nel passo di Cesarano).

"La critica insegna che nulla può durare (sulla carta o nella realtà fa lo stesso) per cui dobbiamo abbandonare l'idea di poter mettere al riparo delle verifiche le asserzioni critiche che essa produce".

Immediatamente falsa è l'illusione di una 'certezza senza precedenti storici' come indicavano Cesarano-Coppo-Fallisi; immediatamente falsa è dunque, nella "cartografia ideologica", "l'autogestione generalizzata". "Estremo sogno di cui s'invoca il topos, ma si spara sulle tendenze rivoluzionarie dei suoi abitanti, giacché le Brigate Rosse altro non rappresentano!"

Immediatamente dopo la frase sopra menzionata sugli "abitanti" del "topos", segue una battuta di Totò, tratta da "Fifa e Arena", che accompagna un

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deturnamento del celebre stratega prussiano: "la guerra non è finita, è sospesa".

Proseguo, collezionando una serie di passi del pamphlet:

"Il furto è solo la risposta sommaria e disarmata alla meccanica dello scambio. La sua naturalezza non ci tragga in inganno: è di fatto, se non altro, poco pratico!" Di questo giudizio, mi incuriosisce la particella pronominale proclitica, cioè il "non ci tragga in inganno". Nei due libri esaminati finora, Simonetti usa costantemente la prima persona plurale, il "noi". Dunque è lui ad essere tratto in inganno? Rammentava a se stesso di non farsi più ingannare da questa "naturalezza"? Da questa naturalezza "poco pratica"?

"Esiste, a tutt'oggi, una vistosa coupure fra lo sviluppo critico dell'investigazione sul reale e le sue conclusioni. Come abbiamo compreso, esse non possono essere che provvisorie". Nella stessa tesi, Rosenthal cita di R. Garaudy, "L'itinéraire d'Aragon", questa frase: "Tutte le volte che il proletariato si volge a considerare criticamente il passato, immediatamente egli anticipa nella sua quotidianità le speranze dell'89: il terrore subito!"

"Che senso ha rappresentare la forma raggiunta del comunismo ancora come conseguenza di un 'fatto' che è la rivoluzione? può la critica anticipare nel 'dire' ciò che non si è ancora

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manifestato nel fatto? Chi garantisce la qualità di questa rappresentazione?"

"Lo ripetiamo, ieri, la critica delle armi delle Brigate Rosse o della Rote Armee Fraktion esprimeva il meglio dello strumento del politico come conclusione della politica e lo esprimeva proprio là dove il terrorismo interpreta la qualità negativa dell'universo spettacolarizzato, oggi la complessità del reale ha concluso con questi residui, la critica restituisce la lotta ai soggetti che si riconoscono in essa, e questo manifestarsi della critica, qui, non è altro che un fare i conti con il senso dei modelli antropometrici finiti della società borghese e con il loro uso". In questa frase Cesarano ravvisava la pericolosa volontà di Simonetti di compiacere "a tutti i clienti" ("l'infamia gli si ritorce contro"), l'impazienza o semplicemente la volontà di non fare i conti con il terribile disastro che si andava profilando, con "la potenzialità più tossica del terrorismo quale modello operativo generalizzabile" (Cesarano, "Ciò che non si può tacere").

"Compito della critica è quello di spezzare questa conseguenzialità fra il fatto della rivoluzione e il manifestarsi del comunismo come avveramento del fatto stesso, in un certo modo. Ciò era contenuto anche nell'analisi marxiana prima che diventasse marxismo. Così come nell'Ideologia tedesca, anche qui il metodo della critica è negativo, meglio, apagogico".

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"Questa qualità, nella fattispecie dell'accadere della lotta in atto intorno a noi, è la violenza".

"Infatti la violenza esprime in modo empirico nel fittizio ciò che nel reale realmente nega".

"Le teorie sull'autogestione postulano un mondo migliorato, la critica afferma soltanto che sarà diverso (un altro)".

"La nostra critica è qui la critica di questo esito come di qualcosa che possa essere pre-visto nelle intenzioni che la lotta manifesta accadendo (forma di misticismo diffusa fra gli anarchici), e critica della forma di questo esito come un riflesso condizionato, una forma d'invarianza, proiezione irrigidita della coscienza degli individui, eccetera, o al limite risposta in cui sono sospese tutte le questioni che albeggiano all'orizzonte della metafisica".

"Insomma. Ciò che la mano sinistra ha voluto affermare in queste pagine è la raggiunta presunzione che la critica non deve nulla ai suoi modelli anteriori". Allora, che cosa avrà voluto affermare la mano destra?

"Se si vuole, facciamo nostre le parole di Saint-Just: la rivoluzione è raggelata. Tutti i suoi principi sono indeboliti, non rimangono che berretti rossi portati dall'intrigo. Da questo momento tutto è ancora da giocare".

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"Nell'abbandonare l'autogestione rivendichiamo l'autonomia". Ecco indicata quell'autonomia, già menzionata nell'introduzione alla raccolta dei pamphlet pubblicata da La Pietra. Ma questa autonomia, era solo compiacenza verso la più celebre, coeva, "Autonomia" operaista?

"Noi affermiamo solamente la complessità della cosa del mondo giacché vogliamo prendere l'abitudine - qui, ora - a tessere la lingua dei fatti che realmente sappiamo far av-venire". Di quali fatti parla l'autore che non cessa di dire "noi"?

Diversi sono i riferimenti in "Contro l'ideologia del politico" a Toni Arno, principale estensore della rivista "Errata":

1) "Sottolinea Arno" che "la tentazione di parlare del proletariato con gli strumenti che indicano la compiutezza classista della borghesia è forte".

2) ... "il significato deliberativo dell'evidenza che Arno pone all'uscita della trappola sulla debolezza presente che è intorno a noi".

3) "Questa evidenza è indicata nelle 'Linee Generali' della rivista 'Errata' come l'autonomia finalmente raggiunta dalla questione sociale dopo essere stata a lungo prigioniera dell'economia e della politica".

4) ... "usando le parole di Toni Arno" ...

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5) "Questo bisogno di comunismo, ha scritto Arno, si conosce là, come comprensione della situazione, dove la storia lo permette, e provoca in modo insistente la scoperta del vero".

6) "Alla Lip - ha scritto 'Errata' - le trombette dell'autogestione hanno coabitato senza imbarazzo con le rivendicazioni del lavoro salariato sotto gli occhi del padrone compiaciuto di questi operai capaci di sbrogliarsela con le proprie mani".

*

Già nel precedente "Dalla causa alla cosa della rivoluzione" si poteva leggere, in una nota, un passo di Toni Arno, tratto da un "testo manoscritto" del 1972, dal titolo "Que sont les amants devenus". Sempre in una nota allo stesso volume (le note raddoppiano il volume, e si può praticare una sorta di deriva tra di esse) si trova una citazione dalla "Sacra Famiglia" di Marx. Un passo interessante: "Agli occhi della quiete del conoscere, l'amore è una passione astratta; si intende secondo l'uso del linguaggio speculativo, per il quale il concreto si chiama astratto e l'astratto concreto. Per l'astrazione, l'amore è la fanciulla straniera, senza passaporto dialettico, e viene perciò espulsa dalla polizia critica del paese". In "Contro le ideologie del politico", tra

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le frequenti note retoriche che inframmezzano gli scritti di Simonetti, si legge: "Ci sia dato atto: noi non sottovalutiamo le anfibolie ...".

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3. "La critica, ein anderer schauplatz"

Il secondo pamphlet inserito nella raccolta "Miseria della politica", porta questo titolo: "La critica, ein anderer schauplatz" (datato novembre 1974, gennaio 1975).

Con questo testo la prosopopea di Simonetti raggiunge nuovi traguardi.

Fin dalle prime righe: "Torniamo al nostro manuale dei nodi, ai gorghi della vita corrente. Un garbuglio sciolto dalla critica sul quale è inciampata la teoria è quello che fa di questa maskara un atteggiamento vissuto ...".

Ma poco oltre si trova un piccolo capolavoro sui generis: "O per dirla col gergo dei liceali: il limite di f(x) per x che tende a c - dove c è la teoria e x la socialità in quanto argomento della funzione. Vediamo che solo assegnando a x un particolare valore noi verifichiamo la legge di corrispondenza di cui la critica riconosce la sua proponibilità, ma non garantisce la sua rigorosità".

Un altro cameo è il passo dedicato alla storpiatura del cognome Vaneigem in "Vaneigam" dalla casa editrice De Donato, quando pubblicò le "Banalità di base": " ... Su questa copertina il desiderio di castrazione supera lo stesso desiderio omosessuale dei suoi redattori

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(la pluralità che diventa singolare femminile), infatti la 'e' della copula (e si tenga a mente quell'accento che c'è ma non si vede) divenuta forma del complemento di moto a luogo dice della distanza dal talamo della critica che costoro non hanno mai avuto il coraggio di coprire. Fuori di metafora, e una volta tanto ci conforti il linguaggio dei militari che la chiamano così, la copertina è la coperta sulla quale costoro, non osando accopularsi nella passione, hanno fatto nella regressione come il bambino del racconto freudiano che nel tagliare un rametto si era tagliato il dito e con esso, fino al giorno dell'analisi, i coglioni. Non ci sono altre parole per dire di quel tacere che è subentrato - ammettiamolo - al refuso tipografico ...".

Altri exploits, qualcuno tra i tanti:

"Perché se è vero che la prima metà della mela è morsa dalla scienza dei positivisti, la seconda metà è la manna della metafisica".

"Qui siamo andati paro-paro con Adorno, ma la mano che scrive saltella per lo sghignazzo sull'imprévu".

"Intanto sia chiaro come il soggetto che ha liquidato in sé le ideologie del vissuto fittizio fa di questa liquidazione (ideologica) il supporto dei propri fantasmi, supporto che fa maturare l'ontologismo come un bisogno, il morto nel transfert del bridge lacaniano che rende legittime

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alcune strategie, ma che irrigidisce mortalmente ogni tattica. L'impotenza della vecchia guardia radicale oramai fa da proverbio alle scatole di cioccolatini".

"La prova engelsiana del budino (rinviata sine die) ...".

"... questo seme è il Kant che s'accapiglia con Platone: gli opposti reali e positivi che riaffermano il loro maggiorasco agli opposti negativi della dialettica platoniana, che già li vide irreali (Undinge)".

"Per dirla come si canta, sulla scia della negazione Marx pose la classe operaia nei Grundrisse, un 'non' la cui natura è il tutto capitalistico".

"Con furbizie da scientologhi, pasticciando coll'analisi matematica, risolvono con il tratto di penna del 'più' e del 'meno' avanti e indietro le lettere dell'alfabeto il galop dell'opposizione ...".

"Intanto crollano le impalcature della ridondanza".

In mezzo a questi (ed altri) exploits (con le stesse parole di B. Rosenthal: "nel suo parlar-lapsus il giudizio come conclusione addivenuta a un senso finale"), si possono leggere alcune affermazioni più nette ("La scrittura parla più del dovuto"):

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"Tanto per raccapezzarci, che cosa produce la critica? Il bisogno di comunismo, la socialità".

"L'oro della critica è l'eredità dei diseredati".

"La critica, nella trama, si rinnova (là dove le teorie si sviluppano) per propria forza e (a dispetto di quelle) per attrito con ciò con cui si misura. Ecco il perché dei suoi bagliori che incendiano le città a tratti. Qui il piombo non è il tema, ma il tessuto".

"Ecco perché lo spirito (o in famiglia: il proletariato) guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell'assoluta devastazione".

"La critica vive del rischio che è rifiuto della stasi, della passività diplomatica della politica e si pone realmente come la chiarezza nella quale si produce il crollo della realtà spettacolarizzata".

"L'eccesso - valga come denuncia fino all'estrema conseguenza del teppismo: la politica - è il primato dell'avvenire su ciò che sta intorno a noi con il predicato di corrente, il quotidiano inteso nella sua forma storica. In ciò è il tradimento concreto della vita come fondo inalienabile della questione per il comunismo".

"La critica evacua le antiche promesse ...".

"La critica si sviluppa nella sua epifania, appare divenendo, diviene dentro la vita corrente, fa brillare la socialità".

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Le ultime parole del pamphlet sono queste: "... l'assioma della critica è la violenza, anche". Queste parole ripetono un messaggio che compariva già all'inizio dello scritto, e che richiama un contenuto espresso altrove e in precedenza da Simonetti: "Abbiamo già visto come l'epifania della critica è - nelle condizioni attuali - anche immediatamente offensività".

*

Un pizzico di romanticismo eroicizzante rosenthaliano: "L'aurea (il colore lo ha già deciso il coltello) che accompagna la solitudine dei radicali significa che di reale nel suo processo la critica non incontra che l'impossibile". E comunque "la realtà, di per sé, è assente", e la critica ha spaccato "il fenomeno del mondo" in due parti: "realtà e reale".

Ma nell'introduzione alla raccolta dei pamphlet Rosenthal aveva scritto: "noi amiamo l'incontro perché questo - valga ai duri d'orecchio - è proprio il secondo fine della critica". Ma forse soltanto il terzo, il quarto, o il decimo: "Essere ignorati da tutti gli altri è il nostro sogno di enragés". Sarebbe stato semplice esaudire il desiderio - bastava non sognare di pubblicare pamphlet.

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La polemica con Cesarano, Coppo e Fallisi si ripropone anche in questo pamphlet. Di seguito eccone due accenni, ma ce ne sono altri:

- la "sventura dei teorici", "quelli dalla tendenza icariana a volare nel futuro della qualità delle proprie proiezioni paranoiche: la specie da farsi (in questo caso il volo è il nuotare del feto), l'autogestione, la passione, la vita quotidiana ridotta a isterica ideologia del sedicente vissuto".

- nota n. 9: "Si allude alla perla ciclostilata di un quidam autore del testo 'Preliminari ad una psicopatologia del non vissuto quotidiano', e in particolare alle pagine 10 e 11". Il "quidam" è Piero Coppo.

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4. "Le mani di Karl Radek"

Una questione di vocali marca una ripetizione tra il terzo pamphlet ("Le mani di Karl Radek", datato aprile 1975) della raccolta edita da La Pietra e il secondo ("La critica, ein anderer schauplatz").

In "Le mani di Karl Radek" si legge: "Diversamente dalla differance, dove la 'a' si scrive ma non si pronuncia, nel penis di Adamo c'è tutta la poena (chi ci ascolta la immagini nella grafia latina) per quella 'o' che non si pronuncia ma si legge: la prima vocale di ogni sovversione, l'Opposizione ...".

Nel precedente pamphlet si leggeva invece: "(Noti il culturame borghese, come la 'differanza' di Jacques Derrida è proprio questa differenza pratica che chiamiamo vita, giacché nell'apposizione dei termini noi abbiamo fatto diventare la 'a' una 'o': un'opposizione reale)".

Il "penis di Adamo" richiama un'impressione visiva nell'osservare la volta della Cappella Sistina: "ci pare di poter dire che Eva sedotta dai consigli della donna-serpente a cui tende la mano sinistra s'appresta a fellicare il pene di Adamo". D'altronde con una specie di fantasma si apre il testo di Simonetti, quel fantasma di Radek, di cui si vedono solo le mani, rievocato da Franco Fortini in un suo saggio: "Come per le mani di

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Radek anche la fellatio di Eva è cancellata dalle pagine del significato facendosi sintomo di un clivaggio tra l'esprimibile e ciò che appare".

"Queste mani parlano: sono il supporto del sintomo dentro il quale la furia del negativo - con infantile crudeltà - il diverso che l'opposizione mostra nel suo divenire".

Il problema è il rapporto tra la critica e la scrittura. L'astuzia del dominio, dice Simonetti, trasforma il dire della critica in "una trama artificiale che vanamente anela all'opposizione e a fatica diviene antipatia".

"Nella trama della scrittura il rerale si condensa".

"Presa alla lettera, l'opposizione deve essere difesa nella sua esperienza contro l'esperienza del mondo che l'ha preceduta".

"Rischiamo di finire alla tavola dei freudo-marxisti dove ogni rimosso è rimesso. Vomitato".

Già negli altri pamphlet si poteva cogliere, in alcune scelte lessicali, e nelle citazioni stesse, l'importanza della lettura di Lacan, che traspare da queste righe, scelte come esempio e che non esauriscono di certo i numerosissimi rimandi a Lacan e alla psicoanalisi presenti nel pamphlet (e pensare che Simonetti scrive che la critica deve colpire "l'aurea" della psicanalisi, quando di quest'aurea è impregnata ogni frase del suo testo!):

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1) "Siamo ancora lontani, dunque, dalla lacaniana promessa di poter intendere la formula dell'inconscio che è il discorso dell'Altro".

2) "La psicanalisi oggi rilancia la politica".

3) "Invece, le mandrie di pseudolacaniani che da Bari a Padova s'accapigliano sul verbo del padre, recuperano nell'immondezzaio dell'ideologia, nel processo, il soggetto e i suoi precedenti biografici come l'oggetto privilegiato, una chincaglieria sul banco del negozio di scambio".

4) "... alla golosità dei giovani psicanalisti ...".

5) "Qui psicanalisi e critica imboccano strade differenti: per la psicanalisi è il luogo della Spaltung, per la critica questo è il ritorno della vita corrente nell'alveo della socialità".

6) "... l'aneddoto che vuole prima del maggio '68 Lacan dire a bassa voce che 'il reale è l'impossibile', ma dopo il maggio costringe uno dei suoi favoriti, il Leclaire, a rivendicarglielo come uno slogan".

7) "Ancora, che cosa vuol dire che una certa psicanalisi si spaccia come politica? Niente altro che ora essa si sente matura come ideologia".

8) "... quella limpida argomentazione che vuole simboliche le strutture del reale dentro le quali l'individuo cosiddetto normale trova conforto alle condotte reali".

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9) "Qui s'invera il pactum sceleris con la psicanalisi".

10) "Invece, restituendo il protagonista alla politica la psicanalisi ne avvalora la funzione e si rende complice di quel tacere che è l'altra faccia del dire".

11) "Dalla biologia alla furbizia lacaniana della latenza pulsionale, stallo dell'io ...".

12) "Ricordiamo ai pedanti che applicando il principio d'identità diremo contro Freud e con le parole di Lacan che la misura del suo genio è nell'aver riconosciuto sotto il nome di 'istinto di morte' la pulsione dell'io".

13) "È in questo senso che la critica si muove contro la psicanalisi e s'ingegna a colpire, prima ancora che le sue terapie, la sua aurea".

14) "Il contenuto rimosso di una rappresentazione o di un pensiero, scrive Freud nel suo saggio sulla Verneinung, può penetrare nella coscienza a condizione di farsi negare".

15) "La formula che conclude, nello spazio in esame, che la differenza è il discorso dell'altro spezza, per dirla con un lacanismo, il panne dell'opposizione che condivide la menzogna dello stallo del sociale".

16) "Questo mostrarsi del puro altro dell'A si mostra solo per dileguarsi".

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17) "Lo stesso Freud ha sottolineato come una rimozione è qualcosa d'altro di un giudizio che rigetta e sceglie".

18) "Il protagonista, insomma, è l'oggetto finalmente in questione".

19) "Questo mutare della sostanza individuale, metafora militare della metafora del diventar altro lacaniano dell'avversario".

20) "Nel cerchio dell'ideologia (lo abbiamo sperimentato sulla pelle, sia nella politicità che dentro i meandri del weberismo) il soggetto fittizio è spinto dalla civiltà a vivere al di sopra dei suoi mezzi. Questi, ben inteso, nota Lacan, sono mentali".

21) "Al congresso di Bonneval Lacan disse, a questo proposito: lo sviluppo della psicologia (e, noi, aggiungiamo, anche di certo psicanalismo) illustra il suo progresso".

In questa orgia lacaniana si salvano, in quanto autori citabili, i soliti Hegel e Adorno.

Come testimonianza sulla retorica di Simonetti si può segnalare questo passo: "In questo boudoir, ma solo qui, si può sostenere l'astuzia dell'opposizione che rischia i peccati di gola della contraddizione. Come se l'ideologia non avesse, di fatto, da tempo, falsificato il principio di contraddizione. 'A' è 'B' e 'A' non è 'B' diventano entrambi veri. inutilmente la dialettica ha messo

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in guardia su questo affaire. La contraddizione è il non-identico sotto l'aspetto dell'identità, dice Adorno, il primato del principio di contraddizione nella dialettica misura l'eterogeneo rispetto al pensiero basato sull'unità".

Ma c'è anche dell'altro, che si fa interessante (come denegazione):

"Il sogno che è un rebus, ha scritto Freud, bisogna prenderlo alla lettera, proprio come la rivoluzione che non è la notte in cui tutte la vacche sono grigie"

"La dialettica aveva mostrato alla critica la struttura aporetica del soggetto".

"La vita corrente vuole troppo perché ha lasciato dietro di sé tutte le manque".

"Che dedurne? Che l'impossibile e dunque il reale, invece, è soltanto il prodotto giorno per giorno, atto per atto, dentro la vita corrente".

"Nella defezione della vita corrente la socialità non migliora, anzi, di fatto svanisce".

"La cultura, per esempio, come la confrontiamo nella tradizione della modernità fino ai nostri giorni è sempre stata omogenea con il dominio. Essa è sopravvissuta come ideologia dentro la Kultur e come Kultur dentro le ideologie".

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"... non c'è più nessun 'io' da difendere".

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Una "metafora da giardiniere": "Con il lavoro del negativo, infatti, vengono annullati soltanto il contenuto riflesso dell'opposizione dialettica, le sue scorie, le ridondanze, la gramigna (se si vuole una metafora da giardiniere), non certo - allora - le platonacee difese dall'anticrittogamico della critica". Ma le "platonacee" (che ritornano anche in seguito, nell’espressione figurata: “la tenacia filosofica delle platonacee”), naturalmente, sono state scelte come esempio perché nel testo compare anche il filosofo greco:

a) "Per dirla con Platone ...".

b) "... come apprendiamo da Platone ...".

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5. "Bannalità di base"

Di questo pamphlet, il quarto della raccolta (datato dicembre 1975), il titolo è stato oggetto di un refuso di stampa. Appare scritto, nel volume, "Banalità" invece del corretto "Bannalità", sia nell'indice che a pagina 65, come titolo del saggio. Nell'Errata corrige si legge: "Una banalità: nel titolo a pag. 65 si legga 'bannalità' che è tutt'altra cosa". Ma vi è una dimenticanza: l'indice.

"Tenga conto il lettore dei nodi che l'analisi taglia per arrivare a conclusione ...". Questo avviso richiama alla mente il "nostro manuale dei nodi" che apre "La critica, ein anderer schauplatz".

"L'espandersi rapidissimo dell'ideologia politica ha depistato le spinte insurrezionali fuori dal loro alveo storico, dalla loro conclusione: la rivoluzione sociale".

"Un'osservazione sul '48. A Parigi gl'insorti impararono a proprie spese cosa vuol dire passare da 'eroi' a 'barbari' nel giro di una notte".

"L'emergere della bannalità, il diventare politico della rivoluzione sociale sconvolge le attese insurrezionali del cuore degli uomini. Delira il reale, fantasma la società".

"La farsa dentro le lacrime".

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"Ma la critica insegna che la rivoluzione non è soltanto il souper fraternel delle dolci notti del maggio, la realizzazione fittizia di un cambiamento qualsiasi, bensì lo sbocco del processo radicale della storia che non si compie al di là degli uomini e dei loro desideri, ma a partire da questi e fra gli uomini. In tal senso la critica è il terrore all'ordine del giorno, la lanterna che illumina la strada e al tempo stesso serve da forca a chi si oppone al cambiamento radicale".

*

Spigolatura: Un lungo passo, recintato da un'altrettanto lunga parentesi, che comincia con questo pseudo-avvertimento: "Non occorre cadere nella trappola dell'estremismo", termina con queste parole: "Nel cozzo, le scintille incendiano i covoni dell'immaginazione: sotto il Terrore un popolano di Parigi si confezionò un paio di baffi con i peli della fica della principessa di Lamballe. Forse doveva l'ispirazione all'invito di Diderot d'impiccare la nobiltà con le budella degli ecclesiastici. Eccesso d'immaginazione, si dirà, o di terrore? Basterebbe un giorno a Wall Street o a Las Vegas per fare baffi e barbe di tal genere per un'intera compagnia d'attori".

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La presunzione di B. Rosenthal: "Le nostre idee nella testa di tutti: i saccheggi di massa che accompagnano la nascita dell'economia della penuria non sono una fuga dalla realtà, ma una fuga nella realtà". Nella prima proposizione il verbo è implicito (così crede di intendere il lettore), ma effettivamente non c'è (ed è una misura di protezione individuale); nel periodo che segue il lettore deve pensare che le "idee" (entrate) "nella testa di tutti" siano i "saccheggi di massa", ma in realtà ciò che si legge è una questione che riguarda soltanto delle diverse ipotesi, se la "fuga" avvenga "dalla" o "nella realtà".

"Quale socialità? Nel Kunsthistorisches Museum di Vienna è conservata la tempera su tavola di Pieter Brueghel, Giochi di fanciulli. ottantaquattro giochi diversi, ci avviciniamo ...". ("Ci avviciniamo" era uno slogan di The Angry Brigade).

"La politica chiama ciechi e irresponsabili i gesti (spontanei) di rivolta, le insurrezioni disperate, perché deve negare la chiaroveggenza della vita corrente".

"La politica si fa avanti a colmare il vuoto della socialità".

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"Ai caduti il nostro canto d'amore con il sangue agli occhi. Da Rosa a Margherita, onore a la fleur recisa per il comunismo".

"La critica può cominciare come una psico-analisi del dominio. Questo sogno diventa leggibile nella scrittura. Rimuovere il rimosso, delirare il dominio, in-scriverlo, dargli un corpo. Assaggiarlo, infine. Giustiziarlo".

"La critica rifiuta tutta l'eredità delle passate teorie della politica, anche se considera aurorali alcune esperienze: in primis, alle nostre spalle, quella dell'I.S.".

"La critica, da parte sua, è contro tutte le interpretazioni e le neutralità della vita corrente, in cui (af)fonda, non naufraga".

"Ma nell'epoca dello spettacolo generalizzato che cos'è la festa? (Fargli la festa?)".

Rileggendo i pamphlet di "Miseria della politica" non sembra del tutto fantasioso riconoscere, in controluce, nella "vita corrente", nella "socialità", nella "critica" e nelle "conclusioni" le generalità estreme di un'apologia sotterranea, ma non del tutto nascosta ed occulta, del terrorismo, quando contemporaneamente la critica radicale situazionista (Guy Debord, Gianfranco Sanguinetti) invece riconosceva, nella cosiddetta "lotta armata", la riuscita manipolazione del nemico, la spettacolarizzazione del confronto, l'irreggimentamento delle sensibilità,

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l'incarcerazione delle passioni, l'annientamento delle differenze.

B. Rosenthal si dipinge come la Sibilla, mal ripagata dalla canaglia rissosa: "Non a caso il moltiplicarsi delle teorie rivoluzionarie indica a chiare lettere l'horror vacui che si nasconde dietro la politica ridotta a rappresentazione della differenza. La rissosità canagliesca a cui siamo fatti costantemente cenno è che da tempo la critica non dà neppure il soldino bucato per il ramo d'oro della Sibilla".

"Rovesciare l'astratto: (Le teorie incitano all'imitazione, la più fedele possibile, dei loro modelli di sviluppo. La critica incita semplicemente all'invenzione). La critica è oltre la varietà delle forme insurrezionali, ma non le rinnega".

Tante idee confuse: il compito della critica. Ecco la rivelazione: "La scrittura critica, del resto, è difficile da comprendere dal punto di vista della politica, nonostante, come dice Alice, riempia la testa di idee. Non riesco a capire quali siano, comunque, qualcuno ha ucciso qualcosa, questo è chiaro".

Lo spettacolo corrente: "Così, si constata, davanti agli emblemi dello spettacolo l'unica immagine che per reazione si consolida è quella della vita corrente".

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"Chi esita a colpire (per capovolgere) i rapporti di produzione denuncia la sua fedeltà alle ideologie che lo ritengono impossibile".

"Da nessuna parte è dimostrato che la critica debba trovarsi in armonia con il reale, anzi, l'attrito aumenta con l'accentuarsi della sua complessità".

"Una vita appassionata non ha nulla a che vedere con la passione della vita". Si dovrebbe dedurne che una vita "appassionante" sia prerogativa dello spettacolo, versione popolare.

Bernard Rosenthal, il post-censore: "Quando la critica afferma la propria contrarietà al terrorismo, di fatto riafferma la qualitas del negativo: il terrore". Nella pagina precedente B. Rosenthal scriveva che "censori e brigatisti" stanno di lato alla "pietra angolare dell'unica utopia possibile: il comunismo", ed essi sono "il suo passato prossimo". Ecco come Bernard Rosenthal avrebbe voluto liquidare "Censor", e in quale compagnia.

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"... il materialismo dialettico sorregge l'umanità con una premessa morale: la socialità. La prossima volta sarà peggio!"

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I primati dell'arte

(non solo le scimmie dipingono ...)

"Il caso dell'arte moderna è paradossale, è più facile farla che scriverne, ma tutti si ostinano ad affermare il contrario". Così si legge nell'Esergo de "L'arte moderna dopo le avanguardie storiche" di Gianni-Emilio Simonetti (testo datato dicembre 1994). Nella tesi n. 54 si legge inoltre che "oggi gli artisti sono dappertutto, ma non ci sono più gli uomini per portare a compimento il destino dell'arte". Di quest'autore, artista e poligrafo, proverò a presentare qualche passaggio (pochi) tratto da alcuni testi dedicati all'arte e ad alcuni suoi facitori marginali (non artisti, dunque).

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1. L'insensato

Nell'opera citata si sommano e si accumulano, sovrapponendosi, numerose asserzioni sull'insensato che, se nelle fiabe i sassolini, le molliche, i fili di lana consentono di ripercorrere un tracciato labirintico, qui l'insieme delle affermazione costituisce, è, il labirinto, ed esse conducono ad un altro effetto, a cercarlo tra le figure retoriche, come d'iperbole, risonante come un fragore martellante, di certo eccessivo. Elencherò buona parte di queste asserzioni, ma non tutte! Si deve dire che, spesso, esse si presentano nelle forme elementari di soggetto (l'insensato, of course), copula e nome del predicato, oppure predicato verbale e complemento oggetto:

"L'insensato, questa percezione soggettiva che il senso comune ha dell'arte moderna, non è di per sé astratto".

"L'insensato appare veritiero nelle sue parti nello stesso movimento per il quale è falso di per sé".

"L'insensato accentua la distanza dell'arte moderna da quella antica".

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"Per il fatto di apparire per ciò che l'insensato è, l'arte moderna ha un senso che esclude ogni risvolto dialettico".

"La degradazione dell'esperienza da parte dell'insensato deprime da un lato la riflessione, dall'altro la sensazione con il risultato d'impoverire il linguaggio e la percezione cosciente del mondo".

"Uno degli aspetti propri dell'azione dell'insensato sulle arti è costituito dalla banalizzazione delle contraddizioni della sensibilità individuale".

"All'arte moderna è riservato il compito di sottomettere gli individui all'insensato nello stesso modo con il quale l'economia politica falsifica i loro desideri e li sottomette all'imperio delle sue merci".

"L'insensato può apparire un carattere arcaico dell'arte se lo consideriamo come un'espressione tesa a sormontare il reale, di fatto è il più moderno nel suo servile adattamento agli stilemi della forma spettacolo".

"L'insensato tende ad accumularsi, come le merci".

"L'insensato si legittima sempre più a misura in cui cresce ciò che lo spettacolo esige per la sua liturgia".

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"L'insensato è l'astrazione che si fa concretezza per ricomporre l'unità del reale sotto il segno dello spettacolo".

"L'insensato fiorisce sulla disintegrazione delle forme anteriori della socialità e del vissuto e si rafforza con il collasso di ciò che un tempo appariva sensato all'esperienza del mondo".

"L'arte moderna, sotto l'apparenza compiuta dell'insensato, sembra restituire agli individui più di quanto essi abbiano investito in essa".

"L'insensato, di per sé, non è che dettaglio e accumulo di dettagli che si fanno immagine".

"Con l'insensato l'arte, dopo le avanguardie storiche, ha mostrato - senza pudori - il mondo com'è".

L'oppio dell'insensato nutre i consumatori di merci astratte nello stesso tempo in cui si acuiscono tutte le loro privazioni reali".

"L'insensato è molto di più di un riflesso della banalizzazione del mondo reale".

"L'insensato concorre a gerarchizzare i consumi culturali".

"Come l'analfabetismo è stato superato azzerando la cultura sui nuovi standard della conoscenza mediale, così il gusto è stato svaporato

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azzerandolo sull'insensato, ben sapendo che conoscenza e gusto si deteriorano insieme".

"Dell'arte, di cui si è perso da tempo il senso, è il consumo che basta a se stesso, in un contesto nel quale la massa delle merci in circolazione, diventando sempre più insensata, fa sì che ciò che è già di per sé insensato diventi una merce privilegiata".

"Mediante il consumo dell'insensato si attua un immaginario consenso che sospende ogni divisione reale tra realtà e arte moderna".

"L'impostura del godimento estetico è ciò che rende impudente l'insensato".

"L'insensato si perpetua riproducendosi, senza contraddirsi".

"Nell'incessante movimento dell'insensato si sgretola ogni ordine statico ed ogni illusione di un tempo vissuto, esso non sopravvive alle credenze che l'hanno suscitato, di conseguenza deve essere continuamente riciclato".

"L'insensato, come sovrastruttura della glaciazione storica, irride ogni ricerca di un senso dell'essere e di un suo compimento per suo tramite".

"L'insensato è un enunciato dichiarativo che non può essere ricondotto che a se stesso, ostile ad ogni pensiero che vuole diventare prassi".

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"L'insensato è anche il sembiante visibile di una utopia che pretende che l'arte sia separata dalla storia e al di sopra del movimento del tempo".

"C'è da osservare che da qualche tempo i veri poteri non si disperano più dei loro cattivi risultati, piuttosto, s'indispettiscono del fatto che essi possono diventare visibili. L'insensato concorre a rimediare a questo fastidio".

"Con l'insensato nulla più è memorabile. Nulla ha più né mensura, né spessore".

"La natura di merce dell'arte moderna consente all'insensato di essere contemporaneamente prodotto e materia prima di nuove opere d'arte che s'impongono a loro volta sul mercato come sua espressione. Una produzione di merci a mezzo di merci sempre più scadenti".

"C'è, tuttavia, qualcosa che la cultura dell'insensato non riesce a realizzare a dispetto di quello che molti pretenderebbero da essa: una nuova monumentalità in grado di commemorare le sue tragiche vittorie sul passato che essi hanno distrutto".

"L'insensato non è una espressione particolare del consumo dell'arte, ma del consumo in tutta la sua estensione".

"L'insensato appare come una paralisi storica della memoria che orienta la coscienza del tempo vissuto, una sua banalizzazione che fa regredire

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questo tempo ad uno stadio prelogico, simile a quello geometrizzante della schizofrenia".

"Nel contesto urbano della modernità i musei sono divenuti luoghi di consumo concentrato di non-senso".

"Più l'insensato diventa una espressione della coscienza reificata più squillanti diventano i colori dell'arte moderna, più grande la distanza dalla vita corrente, più inutile il suo povero linguaggio".

"L'insensato, espressione di una società che non ha una storia vissuta, non ha barriere assiologiche".

"Il consumo dell'insensato è facilitato dalle abitudini che lo spettatore ha contratto nell'ambito più generale dei consumi della società dello spettacolo".

"La critica d'arte moderna è, nel migliore dei casi, una apologia dell'eccedenza descrittiva del negativo. prolifera parassitariamente sull'insensato e sa mostrarsi indignata di ogni buon senso che la deplora con ciò che essa difende".

"Il segreto dell'insensato è condiviso da tutti".

"La pretesa onestà dell'insensato sostenta l'illusione dell'arte moderna di poter essere considerata razionale in sé".

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"Il concetto di non-senso che racchiude l'arte moderna nell'ambito della forma spettacolo va ben oltre la banale constatazione di una crisi delle arti".

"Per svuotare di senso il concetto critico d'insensato basta volgarizzarlo in una qualsivoglia poetica nella quale esso appare come una astrazione che spiega tutto".

"Nell'insensato svaniscono tutti i nomi e i generi che sopravvivono soltanto come etichetta mercantile".

"Da una parte le ideologie, come volontà astratta dell'universale, si materializzano nell'insensato. Dall'altra, l'evidenza, fa svanire dall'insensato ogni traccia particolare di esse".

"L'evidenza dell'insensato nell'arte moderna - che fa della rappresentazione una illusione nell'illusione - non può farci dimenticare che esso domina dappertutto la cultura e la unifica nella forma spettacolo".

*

L'insensato, che pare la cifra dominante ovunque su tutto e tutti, si presenta in effetti non soltanto come un concetto eccessivo, ma eccessivamente, nel testo citato. Nelle "Glosse a l'arte moderna dopo le avanguardie storiche" (datato agosto

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1995), dopo il tuonare fragoroso delle citazioni precedenti, e sebbene il fracasso si faccia appena meno ossessivo, del cosiddetto concetto d'insensato, si può dire che, se non si manifesta come buco nero, non è meno torbido e vischioso di prima. Ecco ancora alcune (non tutte!) delle citazioni dell'insensato:

*

"L'insensato è il risultato di questo processo in cui l'espressione come effetto della sensazione - lungi dall'inverare la rappresentazione - viene mutilata in modo da rendere evanescente ogni autonomia del soggetto per suo tramite e volgersi in fatalismo".

"L'insensato agisce sull'espressione riducendo la sua adeguatezza e la sua resistenza all'abisso dell'immediatezza".

"Il tutto e il contrario di tutto sono la stessa cosa".

"Molti alibi favoriscono l'insensato".

"L'insensato non solo ha eliminato i generi, le tecniche e la filogenesi dell'opera, ma anche le categorie. Dissolvendo il vero nel falso, sull'esempio dello spettacolo, l'insensato ha determinato la scomparsa di ogni ragione estetica".

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"Non si deve credere che l'insensato sia una negazione dell'arte".

"La povertà espressiva dell'insensato non può essere valutata qualitativamente né essere considerata una crisi".

"Per lo storicismo hegeliano l'insensato è un esito contraddittorio del romanticismo".

"La pedagogia dell'insensato si comprende appieno se si considera che là dove la società non è ancora totalmente integrata alla forma spettacolo l'idea sola di questa libertà spaventa".

"L'insensato si manifesta sempre come un eccedere perché costituisce una risposta ad un bisogno fittizio".

"L'insensato, infatti, confonde deliberatamente il vero nel falso affinché l'illusione raggiunga il suo colmo, capovolgendo il reale".

"Nell'arte moderna l'insensato occupa il posto di quello che una volta era definito il significato metafisico dell'arte".

"Lo spettacolo è la Gestalt dell'insensato".

"L'inconsistenza espressiva dell'insensato - spesso in contrasto con la grandiosità surrettizia dell'opera d'arte - è una prova in negativo che la forma spettacolo è tutt'altro di un abuso del

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mondo visivo che deve rientrare nei suoi termini".

"L'esserci dell'insensato non è propriamente in ciò che le opere d'arte moderna rappresentano, ma in quello che occultano".

"Nella divulgazione dell'insensato gli specialisti mantengono accuratamente lontano da ogni discussione la circostanza che l'arte moderna non è più di per sé veridica e che ciò che annuncia come evoluzioni fondamentali non sono di più di una incessante circolazione, senza storia, di pittoresche inezie mercantili sempre uguali".

"L'arte moderna favorita dalla velocità di riproduzione dell'insensato non solo ha falsificato buona parte dei documenti che costituiscono le ragioni storiche delle avanguardie che hanno inaugurato il ventesimo secolo, ma è riuscita a spacciarsi come un progresso da queste".

"L'insensato è un pensiero proiettivo che risulta estraneo al postulato della coerenza e quindi alla realtà che in esso si riflette".

"L'insensato induce ad una comprensione astratta dei rapporti sociali concorrendo a far sparire la loro essenza nell'arbitrio e a sconnetterne il fine pratico".

"L'insensato può monopolizzare il significato in una società in cui lo spettacolo monopolizza il reale".

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"L'insensato gioca il ruolo di garante formale di ogni avanguardia avendo acquisito il diritto di sussumere la creatività soggettiva come una propria essenza".

"Le ideologie del nonsenso tendono a far collimare le esasperazioni della soggettività con le teorie estetiche del loro tempo".

"Nella società dello spettacolo l'insensato è anche una compensazione mercantile dell'alienazione".

"Proprio perché nello spettacolo si nasconde il nulla l'insensato non nasconde nulla".

"L'insensato lusinga la condizione artistica e la inganna fino al punto di farle credere, per il fatto di sembrare d'avanguardia, di essere rivoluzionaria".

"L'insensato induce alla convinzione di una soggettività artistica espressa da un'arte dalla quale l'artista deduce il possesso di una totalità esclusiva".

"Nell'arte moderna l'insensato ha tra le sue deleghe d'impedire il formarsi di una teoria capace di cogliere la totalità del suo stesso oggetto, così che ogni suo possibile divenire è lacerato sul nascere".

"L'insensato ingenera l'illusione di poter comprendere i caratteri definitivi del vero a

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livello della prassi derivandola dall'ideologia delle scienze".

"Negli spazi interiori della modernità il nonsenso è ora diventato una fenomenologia del decoro".

"L'insensato è divenuto una forma eccessiva dell'evidenza che la necessità del senso obbliga a vedere come qualcosa d'altro".

"Nello spettacolo l'insensato capovolge l'impotenza formale dell'arte in potenza dell'immaginario, una impotenza forzosa che accentua la separazione reale tra significato e realtà".

"Alla lunga l'insensato tende ad essere costrittivo perché l'arte moderna è dominata sempre più dall'occasionalità che comprime le condizioni che la rendono credibile".

"All'insensato si chiede ora di giustificare sotto il profilo formale la perdita di peso dei generi e delle opere nella determinazione del valore di fronte alle risorse immateriali dello spettacolo".

"L'insensato lungi dall'esiliare l'arte moderna nell'altrove dei privilegi di un'élite è un dispositivo che concorre alla globalizzazione dello spettacolo integrato".

"Gestire l'insensato non significa solo gestire l'ordine simbolico che struttura e somma i frammenti sparsi della vita corrente, ma gestire il

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loro movimento, l'alterazione che li struttura in eventi ed episodi dominati dalla tautologia".

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2. Le scimmie pittrici

Se le scimmie dipingono (e bene), gli umani non sanno che farsene dei pastelli di cera (se non mangiarseli). L'episodio avviene nel 1980 in una scuola elementare di Harlem. Nel tempo impiegato dal maestro a distribuire i fogli ed a spiegare cosa dipingere, un terzo della classe aveva provato ad assaggiare i pastelli e cinque li avevano ingeriti. La grande stagione della pittura delle scimmie è stata quella compresa tra il 1950 e il 1964 (il suo apogeo nel 1957 , con l'esposizione a Londra, presso l'Institute of Contemporary Art, di Paintings by Chimpanzees), scrive Simonetti in "La pittura e le scimmie pittrici" (datato ottobre 1993). Forse fu colpa dell'action painting o dell'espressionismo astratto se una trentina di scimmie conquistarono un posto nella storia dell'arte. Simonetti riporta il giudizio di Dalì, per il quale la mano di Jackson Pollock non era all'altezza di quella degli scimpanzé. Nel decimo paragrafo dell'articolo citato, Simonetti descrive i tre stadi in cui evolve la pittura degli scimpanzé, ma se egli ne parla ("la loro pittura è un affare che riguarda esclusivamente la nostra cultura"), sbrigata la curiosità personale sull'argomento, l'obiettivo del discorso si presume che sia il deteriorarsi di "conoscenza e gusto" ("ogni pretesa di giudizio, che non sia quella degli esperti prezzolati, appare adesso come una stravaganza"), ovvero la crisi dell'arte moderna dove "il vero è soltanto una

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fastidiosa tautologia del niente". La cosiddetta arte può solo educare al falso.

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3. Il principio attivo

Nello "Schizzo su un particolare progresso dell'alienazione sociale" (1998), nella tesi 5.1 si legge che la pratica di controllare lo stato della mente raggiunge il suo culmine nel 1952 con l'introduzione in psichiatria della cloropromazina e qualche anno dopo delle benzodiazepine. "Le benzodiazepine rappresentano in assoluto il farmaco di cui più si abusa nel mondo, tanto che la storia della follia non può più essere raccontata, né in teoria, né in pratica, senza queste sostanze che ne sono parte integrante. Con esse il controllo è uscito dall'istituzione totale e si è diffuso nel territorio. Negli Stati Uniti nel 1955 gli internati nei manicomi erano circa seicentomila, vent'anni dopo si erano ridotti a poco più di centocinquantamila, di contro, la popolazione che fa uso di psicofarmaci è aumentata di venti volte e il suo tasso di crescita non tende a diminuire".

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4. Trou

Simonetti, in "Quando la scuola incontra l'affezione mentale: il buco di Matisse" (1998), scrive che, davanti al fait pictural, i soggetti inconciliabili, e resi uguali da "un'antropologia totalitaria", sono "il fanciullo, il folle e il primitivo". Egli riferisce che a Roma una bambina, alla mostra di Matisse, rivolgendosi alla maestra chiedeva perché ci fosse un buco nel quadro. Ritrovare l'oggetto perduto è ritrovare la chose, das Ding ed essa è rappresentata da un buco, da un vuoto. La totalità abita nel buco (Simonetti cita Lacan in francese: "si la totalité n'est pas pensable, du moins ne serait-elle pas inimaginable et le trou serait son lieu"). La bambina rimane senza risposta e Lacan perentorio dice: "Personne ne sait ce que c'est, ce trou". Ma Simonetti forse lo sa.

2 giugno 2005

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La vivibilità del negativo:Qualcosa su Riccardo D'Este

Se si fosse mai costituito un Club degli Incorreggibili (vedi nota), Riccardo D'Este ne avrebbe fatto parte, per quella parte tenuta con coerenza nelle file dell'opposizione più intransigente. Senza averlo mai frequentato, mi propongo, con questa nota, di presentare qualcosa di ciò che scrisse a vantaggio della critica radicale.

Insieme con Gabriele Pagella, Riccardo D'Este firmò nel gennaio del 1993 un pamphlet dal titolo Quel ramo dell'ago di Narco (ed. 415). La tesi prima dell'argomentazione era la seguente: “La droga è una merce al più alto livello di concentrazione economica e spettacolare”. Nel libello si affrontavano, tra gli altri, i temi del proibizionismo, della legalizzazione e della liberalizzazione, ma infine:“La droga è palesemente una merce, come tutto è palesemente una merce. L'ipotesi savia a cui ci rifacciamo è proprio questa: considerarla per ciò che è ed è perciò che, considerandola una merce, le si vuole togliere quell'eccellenza specifica assegnatale dal proibizionismo, dagli interessi alla sua supervalorizzazione, dalle ideologie e dalle cosiddette morali. Sostenere, come

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sosteniamo, che le droghe andrebbero vendute, tutte, liberamente in drogherie ed affermare risolutamente che questo solo fatto risolverebbe molti dei problemi accessori determinati dal suo attuale status, e che abbiamo analizzato sopra, non significa affatto che noi amiamo il libero mercato, né il mercato tout court, né la società del capitale che fonda il mercato, né che ci siamo convertiti ad una qualche ideologia liberista. Significa semplicemente dire le cose come stanno e porre i presunti riformatori di fronte alle loro responsabilità.

Nessuna battaglia, almeno da parte nostra, per il trionfo della merce. Ma una battaglia durissima contro tutti coloro che pretendono che la droga sia e continui ad essere una merce eccellente, con i guasti che tutti conosciamo.

Se la libertà reale sarà la fuoriuscita dal mondo dominato dalla merce, è pur vero che la schiavitù reale sta nel non chiamare le cose con il loro nome.”

Comunque sia, l'esito del pamphlet di Pagelle e D'Este era già stato espresso nella “Premessa”, con queste parole chiarissime: “Questo è un pamphlet di battaglia, per la libertà e per la liberazione. Continuando nel tracciato inesausto ed inesauribile del DIFENDERE E DIFFONDERE LA LIBERTA' OVUNQUE.”

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Sarà forse superfluo, ma va ricordato che D'Este non era nuovo all'argomento citato giacché, nel 1990, insieme con altri compagni, aveva curato per le edizioni Nautilus, la pubblicazione di Intorno al Drago. La droga e il suo spettacolo sociale.

Se, ovviamente, non ho la pretesa di svolgere un panegirico della libertà che ne comprenda e sciolga la varietà dei significati - tanto meno da contrapporre ad un'opinione, altra e diversa (?), della libertà, come quella, implicita ed esplicita, nel discorso di D'Este -, non trovo tuttavia necessario condividere le sue conclusioni sul drago. Se a lui e a Pagella appariva conveniente che la merce-droga fosse desacralizzata - perché si svestisse di quell'ipervalorizzazione ideologica che soprattutto nel proibizionismo si rivela, perché diventi finalmente ciò che è, cioè una merce qualunque nel mercato delle merci -, dico ed affermo che questa storica impressa la compiano, da soli, i modernizzatori del capitale, ma non i suoi affossatori.

D'altronde non mi sogno di chiedere la liberalizzazione completa della vendita delle armi da fuoco, per un'altra desacralizzazione in nome della libertà. In nome dell'ovvio, invece, rimarrà da farsi, secondo me, qualche distinzione, perché ci sono sul mercato, legale o nero, merci e merci.

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Lo ripeto: la liberalizzazione del mercato è un obiettivo che riguarda i gestori della decomposizione planetaria, ma la guerra contro l'universalità della merce, contro l'essere-merce delle cose, delle idee (e delle persone) e contro la nihilazione del pianeta pertiene alla critica radicale.

In una società liberata, saranno forse tutti liberi di fare qualunque cosa? Non lo penso proprio. Per questo non mancheranno dei futuri censori, e le antinomie della libertà, prima o poi, si presenteranno, e presenteranno il conto a furbi e ingenui, e bisognerà rifletterci sopra, per tempo.

In un altro testo (Abolire il carcere, ovvero come sprigionarsi, Nautilus, Torino, 1990) Riccardo D'Este scriveva:“D'altronde è assai arduo, anche teoreticamente, ipotizzare una società che sia del pari una a-società, una comunità, quale che sia, che non si dia delle leggi o delle regole per la convivenza dei molti e che, dunque, non presupponga, almeno concettualmente, dei trasgressori, ed è assolutamente ridicolo costruire un castello ideologico fondato su idee del tutto improbabili come quello della bontà intrinseca dell'uomo (quando sappiamo che ogni uomo è il precipitato di determinate composizioni sociali) o della forza della Natura e della sua capacità di autoregolamentarsi, quando, se vogliamo essere onesti, manco sappiamo più cosa voglia dire

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natura, al di là delle elegie nostalgiche, però assai moderne ed amministrative, tinte di verdognolo.”

In quel testo, sul carcere, D'Este conclude scrivendo: “Mai mi si sentirà dire che, in Italia, la legge di riforma detta Gozzini sia giusta e bella, anzi sempre da me si sentiranno delle critiche radicali. Nello stesso tempo faccio quel poco che posso affinché tutti i detenuti ne usufruiscano il più possibile e, se vi sono spazi effettivi, essa venga migliorata, il che vuol dire s/peggiorata. Mai nessuno mi vedrà in campo a favore delle riforme, ma sempre mi si vedrà in azione affinché le riforme già promulgate vengano estese al massimo.”

Ma, secondo me, battersi per l'abolizione del carcere non è la stessa cosa che battersi per la liberalizzazione del drago. Da una parte ci sono delle vite imprigionate e dall'altra una merce da s/valorizzare e gettare sul mercato libero della concorrenza.

Nel testo citato, D'Este affermava anche: “Credo che questa società vada scossa dalle sue fondamenta - economiche, sociali, ambientali, mentali, strutturali - e che questa trasformazione radicale la si possa metaforizzare come non il rovesciamento di un guanto (comunque protezione da qualcosa, seppure con il segno rovesciato). Credo, peraltro, che un'associazione

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societaria, come si è storicamente determinata, non sia inevitabile, mentre è impossibile prescindere, anche in via ipotetica, da comunità umane, di soggetti, in qualche modo in rapporto tra di loro o federate. Credo, infine, che queste comunità possano fare a meno di leggi nella misura in cui esprimono una effettiva dialettica tra le diversità. Ma tutto questo è di là da venire e la vecchia talpa sembra stanca di scavare.”

Il terreno sociale “oltre le leggi” è tutto da inventare, perché l'accenno a una effettiva dialettica tra le diversità fa pensare ad una individuazione coerente delle sanzioni che sia altra cosa da quella somministrazione di pena in seguito a giudizio e applicazione di leggi, che tutti conosciamo. Ma la talpa dovrà ricominciare a scavare e i dominati a riflettere sull'uscire dalla gabbia economica.

In un altro testo, firmato, tra gli altri, anche da Riccardo D'Este, ma precedente quelli citati sopra, perché risale al 1983, si possono leggere queste frasi:

“Abbiamo già detto che la liberazione è per noi un percorso, un processo che va tentato e praticato da subito. Aggiungiamo che non può trattarsi di un percorso lineare, ma di una serie di salti, di rotture, anche di forzature: di più che la possibile realizzazione futura di legami liberi di

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comunità passa necessariamente attraverso la forza di sperimentazione attuale, l'intelligenza di sapersi situare fuori e contro i valori dominanti, addirittura oltre ad essi; nessun utopismo però, nessuna idea di falansterio (tanto meno nelle miserabili versioni moderne di volontari ghetti che mai depassano la ragione codificata e l'accettazione supina dell'esistente) e quindi nessuna isola felice: se di isola si tratta, cerchiamo l'isola non trovata, anzi pretendiamo di inventarla! Quello che si intende per sperimentazione concreta di libertà e di comunità é tutto dentro la dinamica dell'opposizione ostinata all'esistente societario. La libertà, infatti, può essere sperimentata solo attraverso le forme di negazione materiale dell'illibertà sociale o comunque introiettata individualmente; la comunità reale può essere pre-vissuta come comunità di intenti, di tensioni, di agire. Ciò non è permesso. Per questo la trasgressione assume valenza positiva, seppur degna di smitizzazione e soprattutto di non fissazione. La trasgressione in sé non porta valori comunque umani, ma ne nega altri codificati; se essa, però, si trasforma in riaffermazione differente di ciò che prima ha rifiutato non é altro che forma recuperata, produttiva di comportamento sociale controllabile. La trasgressione cui noi ci riferiamo è quella che contiene tanto la negazione del presente quanto l'allusione al futuro. Non ci interessano certo i ladri che si fanno banchieri né i banchieri che diventano ladri! La trasgressività

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è quanto, pur prodotto dalla società, tende ad affermare caratteri diversi, antagonici, di comunità. Quando si contrappone il concetto di comunità reale a quello di società - come che si sia storicamente manifestata - non è certo per riprodurre una sorta di guerra di tutti contro tutti, l'homo homini lupus di lontana memoria, né tanto meno per ricordare nostalgicamente le società-comunità primitive (poiché allora effettivamente i due termini si confondevano tra di loro). L'appartenenza reciproca, il riconoscimento delle differenze e la loro corretta valutazione, il superamento di appiattimenti egualitarizzanti, la riscoperta dell'originalità singola e collettiva contro il processo di identificazione: ecco i caratteri dell'essere-vivere comunità, ecco quanto è stato sottomesso e soggiogato dalla forma-società. Perché, siamo chiari, la società umana, se può apparire concetto fascinoso, è d'altronde storicamente e concettualmente falso. Società è patto, regolamentazione, insieme di diritti-doveri, accettazione sì delle possibili diversità ma, nel contempo, loro codificazione, sicché solo alienando parte di sé e del proprio interesse l'uomo può addivenire alla convenzione societaria.

L'anticipazione dei caratteri di comunità non è utopistica seppur, letteralmente, appare utopica, nel senso che oggi non esiste in alcun luogo. Ma anche questo è solo parzialmente vero; non esiste in nessun luogo in modo codificato o istituzionalizzato, proprio perché la sua natura è

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ribelle al codice e alle istituzioni; è esistita invece sul filo del tempo, nei tentativi rivoluzionari della storia, ed esiste, ancorché sommersa, nelle esperienze di ri-aggregazione liberatoria che contengono grossi elementi di disgregazione del già-costituito, del già formalizzato.

L'anticipazione di cui parliamo è di natura duplice: da un lato si evidenzia come eccesso, come negazione di ciò che esiste e disaffezione originale ad esso; dall'altro si esprime come innovazione della qualità dei rapporti tra i soggetti implicati in questa forma di ostilità all'esistente. Le relazioni umane che si determinano nella terra di nessuno sottratta al controllo possono divenire effettiva anticipazione dei caratteri sopra detti. Attenzione però, questo è possibile solo quando la trasgressione, l'affermazione di sé nuova e la capacità di comunicare il vissuto si intrecciano strettamente tra loro. (...)

L'anticipazione di cui parliamo è presto definita: è la pratica di agire libertà dentro le chiusure imposte. Ciò avviene in modi volta a volta singolari dentro i territori del capitale - e tutti lo sono - e soprattutto quel potente veicolo di controllo sociale, ma nel contempo di sua possibile negazione, che è la metropoli, la città che invade con i suoi nessi ed i suoi rapporti tutti gli spazi circostanti. (...)

La soluzione sociale che vogliamo proporre è tutta dentro questa pratica dell'anticipazione,

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questo prodursi di tensioni tra vari segmenti sociali e, soprattutto, riguardo la vettorialità rivoluzionaria che in molte lotte, ancorché limitate o scomposte, è visibile da lettori attenti.” (le frasi citate sono tratte da Ogni uomo deve avere delle buone ragioni per alzarsi al mattino, che è inserito in Italia 1983 prigionieri politici, processi, progetti, Edizioni Cooperativa Apache - gli autori, che si trovavano a Fossombrone nel febbraio-marzo 1983, sono ANGELO MONACO, BRUNO PEIROLO, CESARE MAINO, CLAUDIO WACCHER, DARIO CORBELLA, ERMANNO COLLEDA, GRAZIANO ESPOSITO, JUAN SOTO PAILLACAR, LUCA FRASSINETI, MASSIMO DOMENICHINI, RICCARDO D'ESTE)

Quello su cui dissento è sostanzialmente il tono, perché fa riferimento ad un'ideologia dell'eccesso, e oltre a ciò a una generale trasgressività, ad un antagonismo bellicoso, che costituiscono più un limite che un punto di forza per un reale progetto di superamento di questa società, che si deve smettere di presentare come un affare esclusivo di guerrieri.

Quando Riccardo D'Este concludeva il suo Qualcosa (il testo è datato 3 novembre 1994 – in Italia è stato pubblicato dal centro di documentazione porfido), dava queste indicazioni:

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“Che cosa fare, dunque, contro l'iterazione del nulla, contro la dominazione dell'inorganico, contro l'assenza di un qualche centro (tutto è necroticamente diffuso, anche se effettivamente ci sono soggetti specifici che si incaricano di dirigere e controllare la necrosi) contro cui scagliarsi? La domanda, in apparenza senza possibilità di risposta, una qualche risposta invece ce l'ha: la rivolta dell'organico (dei corpi) in ogni situazione possibile, la massima resistenza, in ogni campo, al neomoderno e nessuna collaborazione con qualsivoglia espressione di esso, l'attacco virulento al Nihil organizzato, costruendo senso e sua comunicazione. Non si possono fornire delle indicazioni più precise. Ma alcune ipotesi sono già fin d'ora chiare:* rifiutarsi di assumere i termini della politica comunemente intesa e della democrazia come costitutivi di una qualche azione sovvertente o trasformativa;* respingere ogni possibile lusinga della partecipazione alla cosiddetta società civile: purtroppo ci siamo già dentro quando lavoriamo, quando pensiamo di godere del tempo libero, quando giocoforza sopportiamo il dominio;* cominciare, o continuare, a vivere smodatamente usando questa categoria come criterio.”

Ritengo che queste indicazioni siano condivisibili, a parte quell'avverbio

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(“smodatamente”) perché il vivere la propria vita, sono affari miei, e tuoi: lettrice o lettore.

1 luglio 2006

Nota

Il nome Club degli Incorreggibili era una delle firme pensate dal gruppo di detenuti, autore del testo sopra citato, Ogni uomo deve avere delle buone ragioni per alzarsi al mattino, che così ricorda la questione della firma collettiva, poi, a dire il vero, rifiutata “per l'estrema varietà dei soggetti” firmatari:

“Tra un bicchiere e l'altro, ne avevamo trovate anche di buone. Da un irridente e sorridente club degli incorreggibili - incorreggibili nel tentare innovazioni e sperimentare intelligenza, a dispetto di tutto, art. 90 compreso - ad un più enigmatico ma, svelato il mistero, simpaticissimo gli amici del solitone (chiamasi solitone un'onda che, a differenza delle consorelle, non si infrange né si spezza o interrompe, continuando a riprodursi a lungo, quasi inesauribilmente, pur modificandosi. Il fenomeno fu rilevato per la prima volta da un gentiluomo inglese dell'800 che, cavalcando lungo un canale, si accorse di questa onda curiosa, desueta ed ostinata; oggi,

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per la miseria utilitaristica della scienza, le leggi del solitone sono studiate da molti matematici e fisici e trovano implicazioni nelle onde elettromagnetiche nonché applicazioni nel campo delle fibre ottiche e del laser).Diciamo la verità: queste ed altre possibili sigle ci divertivano parecchio, e divertirci per noi è molto!”

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La tiepida sopravvivenza

Né apocalisse né rivoluzione

Quasi un'allegoria, così è da intendere la "figura" che dà il titolo al presente articolo, già una storia quella che l'allegoria raffigura (ma che non sarà l'oggetto di questo articolo). Mi riferisco qui al testo di Francesco "kuki" Santini, "Apocalisse e sopravvivenza", il cui sottotitolo recita: "Considerazioni sul libro Critica dell'utopia capitale di Giorgio Cesarano e sull'esperienza della corrente comunista radicale in Italia". Non so se altri testi affrontino con uguale intensità intrinseca la questione cruciale dell'esperienza di organizzazioni, di gruppi, di persone, in un rapporto direttamente bruciante con un autore ed i suoi libri. Il narratore di "Apocalisse e sopravvivenza" parla al plurale, il soggetto singolare-plurale dice “noi”; questo noi ha curato la pubblicazione della "Critica dell'utopia capitale" di Giorgio Cesarano, questo noi ha fondato l'Accademia dei Testardi e ha pubblicato tre numeri della rivista “Maelström”, questo noi appartiene al Centro d'Iniziativa Luca Rossi; di questo noi viene tracciato un percorso, narrata una storia.“In questo testo ci proponiamo d’inquadrare l’attività di Cesarano nel suo periodo storico, contribuendo a una delimitazione critica dell’ambiente collettivo di cui egli faceva parte. Ciò al fine di collocare meglio noi stessi nel

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presente, chiarendo il nostro rapporto con l’esperienza rivoluzionaria del recente passato, arma teorica necessaria per affrontare la situazione che ci circonda, che richiede la capacità di resistere e durare in condizioni complessivamente ostili, in un modo per alcuni aspetti simile a quello dei rivoluzionari dei primi anni Settanta.”

Ma quanto è cambiata la situazione nel periodo in cui scrive Santini (“luglio 1994”)?

“L’orizzonte storico che abbiamo davanti è talmente cambiato rispetto agli anni Sessanta e Settanta, che l’esperienza rivoluzionaria di allora è ormai storica.”

E a chi scrive? Santini, parlando al plurale, dichiara di voler stabilire una dialettica “con tutte le presenze rivoluzionarie (peraltro assai circoscritte) che ci circondano”.

Ma, infine perché scrivere, perché indirizzarsi a quelle presenze ormai assai circoscritte? Perché,dice l'autore, “i contenuti che essa [la “corrente comunista radicale”] ha sviluppato nella sua breve storia vanno studiati, integrati e approfonditi, anche allo scopo di dare una delimitazione storica definitiva al suo apporto. Anche se il bilancio di questa esperienza critica è per noi, ora, largamente positivo, i conti col passato vanno chiusi.” In questa breve citazione compaiono in corteo la storia (due volte, come

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sostantivo e come aggettivo), il passato e l'esperienza.

Questa insistenza marca in modo indelebile il testo con una connotazione, con una marca affettiva che potrebbero ostacolare, intrecciandovisi, il progetto di storicizzazione dell'esperienza vissuta. Si tratta di provare a rispondere come potrebbe essere altrimenti. Qualcuno dovrà provarci.

Il momento da cui si diparte (da cui si il problema si annoda, verrebbe invece da dire) l'analisi di Santini è individuato nel suicidio di Giorgio Cesarano: “All’epoca del suicidio, la sua attività teorica era in pieno svolgimento. La sua ricerca era aperta e fu troncata di netto dalla morte, mentre si svolgevano dure polemiche ed erano ancora possibili fruttuose collaborazioni e nuovi incontri.”

A ribadire la percezione di un dramma (e, sottintesa, di una colpa) nella morte di Cesarano, serva questo breve passaggio: “Gli anni Settanta sono spezzati in due dal suicidio di Giorgio Cesarano.”

Ma che accadeva in quel periodo? “Nella primavera del ’75, i giovani di Quarto Oggiaro erano già impegnati nelle piazze (insieme alla nascente Autonomia Operaia); a Milano riapparivano, anche se solo per pochi giorni, le barricate. Per tutto il ’75, e il ’76, si manifestarono, in vari episodi, aggregazioni

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spontanee di radicali, che già costituivano un punto di riferimento per numerosi giornalini apparsi in quel periodo in varie città d’Italia. Ai reduci del lungo ciclo di lotte degli anni Sessanta si sommava finalmente un buon numero di giovani; la corrente radicale tornava a farsi sentire, attraeva inoltre parecchi scontenti dell’Aut. Op., nelle università, nelle assemblee e nelle piazze; alla vigilia del ’77 si apprestava a essere nuovamente una presenza critica centrale che godeva di una diffusa rete di contatti.”

In quella situazione, scrive Santini, “la mancanza di Cesarano si fece sentire: alla crescita numerica non corrispose una crescita teorico-critica”. Secondo Santini, il completamento e la pubblicazione della “Critica dell'utopia capitale” (se il suo autore fosse rimasto in vita) avrebbero costituito un valido antidoto alla diffusione dell'ideologia francese che imperversò nel 1977. Il discorso di Santini salda, come si notava programmaticamente già a partire dal sottotitolo, degli eventi collettivi, in un certo modo epocali, al destino singolare di un individuo (Giorgio Cesarano), ma quell'intreccio e questa influenza erano effettivamente (corrispondono ad un'analisi realistica?) così vincolanti nello svolgimento dei fatti propri di quell'epoca? Che cosa fa ritenere all'autore che quegli eventi avrebbero potuto svolgersi diversamente e produrre un altro esito? Il problema è propriamente radicale, nel senso che

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investe dall'interno la prospettiva individuata dall'autore, il punto di vista del narratore.

Il punto di vista adottato da Santini è quello di una piccola, circoscritta, comunità (la corrente comunista radicale), in nome della quale egli parla, e dalla quale egli non manca mai di ricordare che Cesarano (per quanto una singola molecola) era riconosciuto come l'esponente teorico principale.

Secondo questa prospettiva, si deve dare per scontato che la presenza di Cesarano fosse decisiva. Ma così diventa altrettanto decisivo (e fatale) il gesto del suicidio, che priva una generazione di rivoluzionari del suo leader (la qual cosa per una corrente che non dovrebbe avere né padri né maestri in materia di rivolte risulta essere probabilmente una contraddizione). Si finisce per colpevolizzare la scelta estrema di Cesarano, per toglierle quella libertà che il gesto in sé orgogliosamente rivendicava pur nella innegabile sconfitta che, al tempo stesso, denunciava. Santini così inquadra la questione: “Al di là della sua vicenda individuale, questo atto disperato è radicato nei limiti di una corrente che poco tempo dopo avrebbe dimostrato la propria crisi”. Ma sono gli stessi giudizi presenti nella riflessione di Santini a mostrare come gli interni e profondi limiti del milieu radicale vengano raddoppiati allo specchio della fragilità del suo maître-à-penser e quindi a rivelare come quella vicenda individuale non sia stata affatto

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superata (come d'altronde i diversi numerosi accenni muti a varie altre vicende personali, soltanto implicite nel discorso, indicano che esse pure non siano state affatto superate).

La crisi della corrente radicale sembra essere inscritta dall'autore in una “biologica” (oggi si direbbe “genetica”) inadeguatezza a vivere secondo i tempi e i ritmi della vita quotidiana, e quella intima (quella più interiore proprietà che contraddistingue il milieu) fragilità non consente di riuscire a vivere nell'epoca della controrivoluzione (del riflusso). In questo lungo passo è espressa quell'impossibilità a durare:

“Nel suo insieme, ponendo al centro dei suoi interessi la critica della vita quotidiana e la sperimentazione di possibilità che conducessero in modo diretto all’estasi, la corrente radicale ha dovuto pagare un prezzo altissimo alla controrivoluzione, subendo inesorabilmente l’autodistruzione degli individui più appassionati, che più autenticamente avevano assaporato la vita e meno potevano adeguarsi al grigiore senza speranza della quotidianità del capitale. A differenza di altre correnti coeve, e allora nostre «nemiche», la tendenza comunista radicale non è stata massacrata dalla repressione, né ha annoverato nelle sue file infami e dissociati, nel complesso non ha rinnegato se stessa. A parte pochissimi che hanno «tradito», passando anche formalmente a collaborare con le ideologie e le organizzazioni politiche del capitale, la maggior

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parte di noi ha abbandonato la prospettiva rivoluzionaria per inerzia e conformismo, o per risentimento accumulato (verso il proletariato che non vuole diventare rivoluzionario o verso i compagni più brillanti e ammirati in cui si riponeva fiducia e che troppo spesso non hanno saputo far seguire alla propria critica intransigente, a volte spietata, dell’esistente, fatti adeguati ad armare di efficacia la loro rabbia). Ma tutti coloro per i quali la passione rivoluzionaria era una forza «biologica», un’energia radicata profondamente nel loro essere, hanno continuato a tessere la tela di Penelope della teoria, e a sperimentare le precarie soluzioni che consentissero di sopravvivere e sottrarsi comunque all’invadenza del presente, appiattito e mistificante. Alcuni si sono buttati in «romantiche» peripezie in Paesi esotici – anche lì tallonati dall’ideologia dell’avventura turistica – altri hanno soddisfatto la propria nostalgia col crimine. Molti sono morti, altri in carcere, quasi tutti comunque «finiti male», come doveva succedere a individui non dotati di ricchezze patrimoniali né di «saper vivere» accumulato, e comunque mai interessati ad aver successo in questo mondo. Per la corrente radicale il peso della repressione diretta è stato relativamente secondario, rispetto all’autentico massacro causato dall’autodistruzione o da forme poco appariscenti di liquidazione sociale (routine poliziesca e terapeutica; regolamenti di conti in seno alla famiglia; emarginazione coatta e

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omologazione alla malavita; assassinio della passione). Da questa vicenda c’è una lezione di vitale importanza da estrarre, tanto più in un’epoca spietatamente cinica e nichilista come l’attuale, che esalta in modo brutale e diretto i valori del capitale, in cui i rivoluzionari sono sottoposti a un martellamento ideologico ossessivo che li spinge a considerare con amarezza e pessimismo la propria inattualità.”

C'è un tocco di romanticismo (e di qualche suo addentellato meno fascinoso) in questa diagnosi, giacché non ci sono da una parte i rivoluzionari e dall'altra i “normali” (cioè i mediocri) esseri umani (loro sì capaci di adattarsi al nichilismo e al cinismo correnti); e gli errori, o comunque li si voglia chiamare, e l'erranza, come possono toccare questi e quelli, quelli e questi ne subiranno le conseguenze con analoga imperturbabilità somministrate. Quella che si sconta vivendo è la stessa vita di tutti, come si dovrebbe ricordare sempre, altrimenti ricompare, al bivio, l'homunculus.

Riannodando in una digressione vari episodi della storia recente del movimento rivoluzionario, Santini scrive:“Il punto centrale nel quale si possono identificare i contenuti caratteristici della corrente comunista radicale è la convinzione di essere entrati in un’epoca in cui lo sviluppo delle forze produttive è tale da consentire un’affermazione

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diretta del comunismo, finalmente al di là dei problemi della transizione e del socialismo: lo sviluppo della scienza, della tecnica, del macchinismo e dell’automazione sono tali da consentire una radicale liberazione dal lavoro. La ricchezza accumulata dal capitale rende possibile una realizzazione immediata del comunismo. Questo contenuto centrale ben corrisponde al senso generale del movimento che «rivoluziona i rivoluzionari», scuote i limiti della loro vita e li apre a una prassi che non segue più in alcun punto gli schemi tradizionali di tattica/strategia, lotta economica/lotta politica, sindacato/partito.”

La questione dell'affermazione diretta del comunismo, nei tempi attuali, o è veritiera o non lo è. Se fosse vera sarebbe stata verificata dalla prassi, oppure dalla prassi sarebbe stata verificata la sua falsità. Santini non differenzia sempre azione sociale e vita quotidiana rivoluzionata, ma se non è impossibile bypassare alcune mediazioni organizzative, ufficiose e no, almeno per un certo periodo, le amarezza della vita quotidiana non consentono salti qualitativi che prevedano l'estasi nei rapporti umani (“la sperimentazione di possibilità che conducessero in modo diretto all’estasi”, scrive Santini), durevolmente, intendo dire. L'autore scrive che, ad un certo punto, all'inizio degli anni '70: “Solo la prossima ripresa del movimento avrebbe riproposto le questioni dinamicamente nella loro reale dimensione. Nel

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frattempo si trattava d’investire con la critica l’interiorità che tendeva a essere colonizzata dal capitale, e tutte le sfere discrete e private, sequestrate dal capitale totale che si stava impossessando degli individui. Di fronte al prossimo riapparire della rivoluzione, era necessario essere pronti avendo forgiato le armi teoriche non più della negatività, ma dell’affermazione e della fondazione teorica del comunismo. La possibilità concreta era quella di arricchire immensamente le nostre armi con l’apporto della tradizione marxiana e bordighiana. Ma da una parte la tendenza immediatista si sarebbe ostinata nella sua utopia, creando Comontismo; dall’altra Cesarano avrebbe prodotto lo sforzo teorico più intenso, assumendo su di sé, vivendole nel suo percorso teorico-pratico, le contraddizioni di tutta la corrente.” In queste parole mi pare di avvertire non soltanto una certa sopravvalutazione del compito della teoria, come se la realtà attendesse di essere descritta da qualche teorico prima di svelare le forme originali del cambiamento, oppure che, per essere percepita come novità, qualcuno (il teoreta) ne debba descrivere quegli abiti nuovi che altrimenti nessun altro avrebbe potuto distinguere, ma anche la sensazione di una sventurata provvidenzialità nell'ultima incarnazione di questa teoria.Santini così scrive:

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“La forza e i limiti di Cesarano stanno nell’aver prodotto una sintesi potente e unitaria della teoria di tutta un’epoca, creando una complessa macchina critica, contenente però anche le contraddizioni di fondo del movimento di cui era espressione. Egli stesso rimase profondamente coinvolto nell’impasse generale. Bruciandosi tutti i ponti alle spalle abbandonò anche la prospettiva collettiva che sarebbe stata necessaria proprio in quel momento. Rinviando a un movimento futuro impregiudicato la soluzione dei problemi incombenti – benché Critica dell’utopia capitale fosse il prodotto e il rispecchiamento di quella situazione –, Cesarano non si pose in modo esplicito e dichiarato il problema dell’attraversamento di una fase di riflusso. L’astrattezza di certe conclusioni di Cesarano è dunque da ricercarsi nella crisi dei comunisti radicali di fronte alla nuova fase di arretramento. La stessa profondità e ricchezza, per contro, del suo pensiero possono offrire gli elementi per spiegare e demistificare il crollo di tutta la corrente, di fronte alle possibilità e alle prove del ciclo di lotte successivo.”Nel rispecchiamento reciproco delle rispettive mancanze, sembra che, non avendo Cesarano affrontato il tema dell'attraversamento della fase di riflusso, questo inevitabile riflusso abbia travolto molti radicali, trascinando nel crollo tutta la corrente.Parlando dell'organizzazione, in uno dei paragrafi più interessanti di “Apocalisse e

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sopravvivenza”, vengono confrontati, come modelli opposti, “Comontismo” ed “Invariance”.Le conclusioni di Santini appaiono nette:“Abbiamo qui esposto due modi di vedere l’organizzazione tipici dell’inizio degli anni Settanta, che possono essere respinti senza rimpianti, a maggior ragione senza alcuna mitizzazione da parte di elementi più giovani. Il primo, quello comontista, è il modello della comunità umana-partito storico-banda di delinquenti. Benché stimabile su di un piano umano (come lo è il suo attuale epigono: il gruppo francese Os Cangaceiros), e sovente interessante per le soluzioni pratico-organizzative-abitative che propose (i rivoluzionari devono vivere «come se» il comunismo fosse già realizzato e possono affrontare solidalmente la terribile lotta per la sopravvivenza, per loro doppiamente dura) è fondato sul risentimento: il proletariato non è rivoluzionario, perciò «noi» (piccolo gruppetto) siamo il proletariato; siamo la comunità umana già realizzata. Ciò porta a valutare dogmaticamente e ideologicamente il proprio operato di setta e a offrire gli sbocchi più disastrosi: dal terrorismo sempre incombente dell’autocritica imposta a ogni gesto e parola, al feticcio della coerenza; dalla sempre possibile regressione politica, causata soprattutto dal fascino dell’azione, alla trasformazione pura e semplice in banda di delinquenti. Il tutto fondato sul ricattatorio feticcio-totem della «pratica», sul

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disprezzo ideologico per la teoria e l’azione lucida. L’altro, quello invariantista, estesosi poi a gran parte della corrente radicale, è il modello dei rapporti tra «teorici». In questo caso l’enorme feticcio-totem della teoria nasconde l’unilateralità di rapporti limitati a una ridottissima élite di «critici». Questo atteggiamento, ora che sono scomparse le illusioni sulla rapida e abbondante «produzione dei rivoluzionari», sarebbe puro e semplice individualismo. In compenso non farebbe altro che appiattirsi sulla realtà in cui i rivoluzionari sono già isolati. Aumentare ancor più la loro attuale impotenza con una tale presa di posizione contro l’organizzazione non avrebbe senso. Il possibile sbocco di chi continuasse ancor oggi, in piena e angosciante atomizzazione dei rivoluzionari, a insistere nella fobia anti-rackettistica o nella esclusività dei rapporti tra pochi eletti (sempre che riuscisse ancora a trovare qualcuno) al livello più alto (e poi: più alto di che?) della teoria, non sarebbe particolarmente stimabile. Mentre oggi è palese che ogni rinascenza dell’attivismo e del militantismo conduce di volata al ritorno nella politica, d’altra parte deve essere chiaro che il feticcio della teoria separata dall’efficacia e dalla pratica collettiva, se possibile organizzata, non offre una prospettiva per niente allettante. I princìpi comunisti, unitamente a una teoria critica vivificata dal confronto con la produzione teorica dell’ultimo

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ventennio e al principale risultato del recente passato – e cioè l’istanza di una rivoluzione della e per la vita, la messa in discussione dei limiti dell’Ego e dell’identità personale (di cui l’opera di Cesarano costituisce un’esauriente ed entusiasmante denuncia), l’esperienza vissuta della rivoluzione nella rivoluzione –, sono le uniche garanzie contro la degenerazione rackettistica, cui non si sfugge con l’isolamento autovalorizzante e tantomeno attraverso vie originali e personali a una presunta creatività.”

Le conclusioni a cui giunge l'autore, nella loro invariata amarezza, conducono sempre allo stesso quadro, alla medesima scena, in cui l'identico eroe è raffigurato solitario (o quasi), sviando lo sguardo però, all'ultimo momento, da quelle manchevolezze che contribuivano (anche esse!) a farne un punto di riferimento esemplare di una fase storica della teoria radicale, di una corrente rivoluzionaria e dunque lo specchio per gli tutti gli altri: “Cesarano fu l’unico a muoversi davvero al più alto livello, producendo una teoria chiara ed esplicita del tutto anti-esoterica, cercando vanamente uno sbocco umano in questo ambiente pseudo-intellettuale, contraddistinto da una fragilità assoluta e da una formidabile incoerenza (se si escludono Piero Coppo e Joe Fallisi, gli unici tra i suoi collaboratori ad aver mantenuto la coerenza rivoluzionaria, senza peraltro aver mai

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nutrito pretese di superiorità derivanti dal possesso della teoria).”Ma se questo frammento di comunità umana (i cosiddetti radicali, comunisti, rivoluzionari), se questa provvisoria Gemeinwesen, frammentata, asfittica e circoscritta com'era, risulta così tanto deludente, perché allora si deve continuare guardare solo ad essa, e solo ad essa rivolgere parola? Infatti Santini riferendosi ad una precisa fase storica del movimento di un ambiente rivoluzionario che “in quanto tale è troppo asfittico”, scrive che appare come “una parodia nostalgica di quello che fu”. Al tempo stesso, come le cause della delusione si mostrano irrisolte se non irrisolvibili, neppure l'ipotesi di una fuoriuscita dalla segregazione della prospettiva in un ambiente fallimentare appare se non risolutiva nemmeno concepibile, se poi l'autore, imperterrito, come se nulla avesse affermato prima, prosegue a narrare le vicende successive di quel milieu, e di quello soltanto.

Quando parla della rivoluzione biologica di Cesarano e Collu (cioè di Apocalisse o rivoluzione), l'autore di Apocalisse e sopravvivenza così conclude: “Nei primi anni Settanta, la consapevolezza che la catastrofe del capitale minaccia realmente la sopravvivenza dell’umanità e del pianeta, e la scommessa disperata e passionale sulla vitalità della specie che ha dato già prova di sé nel ciclo di lotte appena conclusosi, è una caratteristica

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forte, di fondo, che può giustamente costituire una sintesi delle posizioni, pur diversificate, di tutta la corrente radicale all’alba della nuova epoca. La forza dell’alternativa, la vita contro la morte, invece che proletariato contro capitale, è segno della relativa vitalità teorica, ma è anche segno di difficoltà a fondare le proprie ragioni nella contraddizione specificamente sociale. Nel disconoscimento del dato di fatto che a produrla è stato un ben preciso movimento sociale, si annuncia anche l’insterilirsi di tutta la corrente, che, illusoriamente, allucinatoriamente, «alza la posta» delle proprie affermazioni, ma si appresta a vivere il proprio declino e tramonto nel giro di pochi anni.”

Su questo punto ci sarebbe un che da dire, e cioè che l'indicazione immediata e prospettica di una rivoluzione biologica non poteva essere lanciata altrimenti che per abbandonare definitivamente l'orizzonte politico-sociale delle concezioni rivoluzionarie precedenti, e che, con quelle, questa non aveva più niente a che spartire, nessuna eredità e nessun debito. Ma una prospettiva di liberazione della specie umana, quindi non più politica né sociale, non la si rafforzava attardandosi a contare i morti sul terreno disprezzato e abbandonato della politica, non si elaborava una strategia globale unendo il proprio destino alle disavventure degli ultimi soldati dispersi delle concezioni burocratico-militari del passato, sventolando ancora le lacere bandiere di quelle feroci illusioni. Quella che

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Cesarano e Collu avevano cominciato ad elaborare non era una parata nostalgica di vecchie glorie (ed orribili misfatti) e da quell'intuizione poco più che germinale e che stentava a muovere i primi passi doveva seguire un lavoro collettivo di grande impegno e di più vasta diffusione. Questo non fu fatto. Sostanzialmente, le novità che provenivano da Cesarano e Collu non ebbero alcun seguito.

Santini rievoca le piste (di cui rimanda il racconto, la storia) di una sperimentazione collettiva:

“Nei primi anni Settanta vi fu un grande allargamento della prospettiva e delle fonti teoriche dei rivoluzionari, corrispondente anche a una notevole ricchezza esistenziale e alla sperimentazione di nuove dimensioni. La volontà di realizzazione pratica immediata non trovava più sbocco nelle lotte sociali, e vi era il tentativo di mantenere una dimensione radicale nella vita quotidiana. Le teorie immediatiste trovavano un vasto terreno di applicazione: criminalità, follia, sperimentazioni sessuali corrispondevano alla verità pratica di molti di noi. Sotto forme comunitarie o come avventure individuali, esclusa ormai totalmente dai nostri interessi la «politica», si cercò di passare a una dimensione creativa, affermativa, che corrispondesse alla esigenza teorica prevalente: quella di fondare il comunismo. La ricchezza di queste esperienze sfugge in gran parte alla ricostruzione a

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posteriori, giacché si tratterebbe di discutere peripezie individuali che non sono state mai raccontate. Un notevole peso ebbero anche i movimenti di liberazione sessuale, femministi, omosessuali. Nell’insieme, malgrado i rischi, e le cadute, la portata dell’esperienza complessiva di quegli anni ci pare molto ricca e nel complesso degna del movimento che l’ha preceduta, tanto da meritare, all’occasione, una trattazione a parte.”

Forse quei tentativi (e la ricchezza di quelle esperienze) furono più velleitari che fruttuosi, e quella presunzione che incarnavano - di cui l'immediatismo era la conseguenza -, di travolgere decine di secoli di addomesticamento in un batter di ciglia, avrebbe dovuto essere il primo degli obiettivi di una critica radicale conseguente. In questo senso un inciso di Santini (autobiografico ed autocritico) sul senso e sullo scopo della teoria è, in qualche modo, illuminante:“Poiché la teoria è previsione o non ha ragione di essere, le profezie, fondate su calcoli accurati dei cicli di crisi, formulate da Bordiga negli anni Cinquanta, divennero spontaneamente tra di noi un «articolo di fede» semiserio, in quanto risolvevano tutti i dubbi teorici: una profezia faceva riferimento al ’75, un’altra, maggiormente precisa e specifica, indicava nel ’77 la data di una crisi e di una violenta convulsione del

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capitalismo: per noi, tout court, la data della rivoluzione.”

Santini, nel passo seguente, piuttosto esteso, durante il panegirico dell'autore di Critica dell'utopia capitale, si scopre a parlare in realtà dell'impazienza di Cesarano, mentre scorre l'ampiezza del suo scontro con le invasive e concorrenti ideologie del dominio sull'uomo:“Al rifiuto netto e reciso di continuare la lotta nei modi della «politica rivoluzionaria», che inevitabilmente ci avrebbe integrati all’essere del capitale, non corrispondeva alcun cedimento sul piano individuale. La critica dell’ideologia quotidianista, dell’«ideologia della critica della vita quotidiana», non deve trarre in inganno. Essa non corrispondeva affatto a un ripiegamento nel «privato» o nella dimensione dimessa del «teorico» rivoluzionario. La tensione individuale restava fortissima. Anzi. La «pratica dell’isolamento» costituì una radicalizzazione estrema della dimensione rivoluzionaria, che si sottraeva a ogni compromesso. E continuava a sperimentare l’avventura della passione individuale, del sovvertimento dei rapporti familiari e borghesi, dell’ampliamento in ogni direzione e con ogni mezzo della coscienza. Di questa dimensione Critica dell’utopia capitale costituisce un’esemplificazione cristallina. Nell’opera di Cesarano è assolutamente evidente la tensione cui si sottopone l’individualità stessa del rivoluzionario: il tono drammatico esprime

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come non si tratti certo «solo» di «teoria». L’attacco contro l’identità fittizia è portato a fondo. La critica mette in discussione l’Ego «rivoluzionario» stesso, le sue maschere autovalorizzanti, e i diversi ruoli che deve forzatamente interpretare nella dimensione irreale della sopravvivenza. La vera guerra è una dimensione di cui, sottolineando la natura «biologica» della rivoluzione, si chiarisce, al di là di ogni possibile equivoco, la materialità. È «guerra d’amore»: di carne, sangue, sofferenza ed estasi. Ciò che, di questa dimensione soggettiva specifica, può, dopo tanti anni, e tante disfatte, sfuggire al rivoluzionario che legga oggi Critica dell’utopia capitale è l’esigenza, quasi preliminare, di Cesarano di sfuggire a ogni nuova ideologia. Infatti, mentre lottava a fondo contro la riconciliazione, sotto qualsiasi forma, con la società del capitale, egli doveva mantenere una critica intransigente di quella neo-precettistica rivoluzionaria, di quei nuovi modelli di «stile di vita», che proprio in quegli anni erano ben presenti nell’ambiente a lui più vicino. Ricapitolando, la lotta di Cesarano doveva svolgersi simultaneamente su vari piani: da una parte la critica concreta, la vera guerra, l’affermazione della dimensione più profonda del comunismo, risoluzione di tutte le contraddizioni dello sviluppo della preistoria, «affermazione della specie umana», della vera Gemeinwesen dell’uomo, affermazione «a titolo umano», ma

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che non prescinde assolutamente dalla contraddizione vivente che la sostanzia: l’individuo rivoluzionario, «sospeso» sull’ignoto, ma in movimento con una direzione ben precisa verso l’estasi, l’avventura, la passione, messo alla frusta dalla sua fame di nuovo e di autentico: armato solo di capacità critiche e di creatività, privo di esperienze storiche prefabbricate, incontrava sul suo cammino trappole sempre più numerose. Per cui Cesarano doveva evitare ogni possibile ricaduta in una precettistica della radicalità, in quell’intransigenza formalizzata di cui aveva già potuto constatare gli effetti. Nello stesso tempo aveva ben presente lo stemperarsi del movimento rivoluzionario nella sua dimensione più ampia, mondiale, nelle nuove ideologie fornite dal recupero dello «stile dei Sixties». Se, per esempio, fino al ’67, l’esperienza degli hippies statunitensi aveva costituito un aspetto nuovo e autentico del movimento rivoluzionario, già all’inizio degli anni Settanta il capitale aveva fatto saldamente propria l’ideologia «trasgressiva» degli «alternativi» californiani, e la stava diffondendo su tutti i mercati dell’ideologia. Cesarano affermava il profondo contenuto «individuale» della rivoluzione, la critica implacabile di tutte le forme della quotidianità alienata incorporata definitivamente dalla rivoluzione a partire dagli anni Sessanta; negava l’autonomizzarsi della teoria in dogmatismo terroristico, in quella sorta di falloforia del

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negativo che aveva preso, attorno a lui, la forma di ideologia dell’«illegalità», di elogio del teppismo e del furto; e attaccava la diffusione ormai generalizzata di frammenti di critica della vita quotidiana da parte delle centrali culturali direttamente sottoposte al capitale, che coinvolgeva ampi settori di movimento giovanile già contestatari.”

Un aspetto del panegirico di Santini riguarda il rapporto tra la teoria di Cesarano e l'uso dell'LSD. A partire da questo passo:“La partenza non può essere che l’intuizione folgorante, e in questo senso concretamente e vitalmente iniziatica, del punto di vista della totalità. Questa frase sorprendente balza fuori dalle pagine del libro e dà la dimensione dell’esperienza di Cesarano. Se nelle restanti pagine di questo nostro scritto, per scelta, non si parla di lui se non come singola molecola di un movimento storico e, all’interno di quest’ultimo, come esponente della corrente più radicale e portatrice del più ricco e innovativo apporto teorico, per un momento vogliamo sottolineare la singolarità di Cesarano. «Intuizione folgorante […] del punto di vista della totalità»! Come non pensare, immediatamente all’LSD?”“Varie volte [Cesarano] rimanda all’esperienza-prova dell’acido lisergico”, scrive Santini, che afferma (non pare ironicamente) che Cesarano “si temprava con l’acido lisergico”.

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Uno dei “riferimenti chiarissimi all’LSD” è il seguente, citato dallo stesso Santini (il passo è tratto da “Critica dell'utopia capitale”, pag.31):«Per denaro si “vive” morendo asserragliati nelle case, per vivere si spende sangue sui marciapiedi del denaro. Di stupefacenti sarebbero, secondo i sapienti, avvelenati i selvaggi. Infatti, la droga guadagna spazio, mentre sulla droga guadagna il capitale. Ma la droga allucinogena, quella per intenderci che libera dall’allucinazione della “vita”, con l’abbassare la soglia che filtra cioè economizza le percezioni, attacca direttamente l’economia che impoverisce ciascuno inchiodandolo alla scheda perforata delle percezioni programmate per lui dalle gerarchie del sapere, e, con il consentirgli finalmente di vedere ciò che non aveva mai visto prima, lo dischioda dal “reale”, gli restituisce la verità che gli pertiene. Non può essere, tale verità, che atroce: umiliante e terrifica. Ma definitiva, indimenticabile. Lo strappo non è reversibile, si lamentano i sapienti. Terrorizza, sgomenta, inselvatichisce. Ciò che terrorizza, ciò che sgomenta e ciò che, nei migliori dei casi, inselvatichisce non è, al contrario, che la visione della loro “verità”, di colpo denudata.»

Santini ha contrapposto l'apologia dell'eroina da parte dei Comontisti a quella dell'LSD da parte di Cesarano (ma per farne che, di questa polarizzazione?).

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Su questa china si può notare anche il ricorrere terminologico dell' “estasi” (e della ricerca dell' “esperienza estatica”) nell'autore di Apocalisse e sopravvivenza. Quando, per esempio, esaltando la rivoluzione biologica, scrive che essa “è «guerra d’amore»: di carne, sangue, sofferenza ed estasi.” Quanti dubbi possono scaturire da una sola parola, quando si legge che “la rivoluzione moderna si affaccia sull’abisso degli istinti, dell’inconscio, del rimosso, per spiccare il volo alla ricerca dell’estasi” (!) . Quando Santini squarcia i veli del significato da questa espressione (inquietante) ecco che ne salta fuori:“Il decennio ’67-’77 ha modificato irreversibilmente la soggettività rivoluzionaria e il suo modo di percepirsi. In questo senso torna sul cammino delle tradizioni religiose e della magia, per svelare conoscenze che nei secoli sono state sequestrate dall’esoterismo delle caste dominanti precapitaliste.”

Infine, secondo Santini, che cosa è stato recepito della teoria di Cesarano? E in che modo?Non molto e male. Già il titolo del diciassettesimo paragrafo: “Esaurimento della corrente radicale nel periodo di riflusso” non brilla per ottimismo. La citazione che segue è tratta da quel paragrafo:“Si potrebbero ripercorrere tante vicende individuali, ma sostanzialmente quel che importa sottolineare è l’indebolimento generale della

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corrente rivoluzionaria. In questo senso fu possibile fare un uso «controrivoluzionario» dello stesso Cesarano. Tipica fu la cantonata di coloro che pervennero alla «critica della politica» proprio nel momento in cui – dal ’75 in poi – la situazione sociale cominciava a riaprirsi. Il sabotaggio di «Puzz» fa parte di questo percorso (cfr. i due numeri pubblicati di «Provocazione»). In parte anche come reazione al cripto-gruppo comontista che collaborava con «Puzz» (Comontismo, benché sciolto, continuò a esistere informalmente fino al 1977), alcuni degli animatori della rivista imitarono l’atteggiamento d’«Invariance»: distruzione di ogni forma organizzativa, ancorché informale, nonché di ogni espressione collettiva, per non parlare di azione pratica o d’intervento a fianco dei movimenti sociali di più ampia portata che cominciavano a manifestarsi. Proprio quel rinascere dell’effervescenza sociale che aveva tanto appassionato Cesarano alla fine della sua vita, fu liquidato in quanto «politica» o «nichilismo», una tipica scoperta dei neofiti della teoria radicale.”

Nel diciottesimo paragrafo, Santini accenna al '77 , al riaccendersi della protesta giovanile e alla complessiva debolezza degli elementi radicali al suo interno:

“Si dovette constatare che l’esperienza collettiva di cui avevamo fatto parte, si era esaurita, non

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aveva retto al logoramento del quinquennio precedente. In alcuni aveva prevalso un atteggiamento risentito verso la classe che non aveva «voluto» essere rivoluzionaria. Da cui l’analisi che rinnegava totalmente la concezione della lotta di classe, considerava il proletariato come controrivoluzionario, ed elogiava l’immediatismo, purché aggressivo, violento, folle. Grosso modo è questo atteggiamento psicologico-teorico che avrebbe dato il via al nichilismo attivo, armato. La sfiducia nella classe rivoluzionaria – non più tradita ma traditrice – produsse la sostituzione del proletariato da parte dell’avanguardia rivoluzionaria stessa, che provvedeva a prendere direttamente le armi in prima persona. Questa tendenza provò a ricattare tutti col senso di colpa verso le vittime che ben presto la repressione statale fece nelle sue fila, diffondendosi nelle metropoli dove lo scontro era più duro. Ma ebbe breve durata, dato il suo scarso respiro organizzativo. Più che altro brillò di luce riflessa delle imprese degli stalinisti delle Brigate Rosse. In altri, invece, il ruolo privilegiato assunto dalla teoria generò l’equivoco d’identificare la rivoluzione con la produzione di qualche pamphlet in cui criticare tutto e tutti. Questa tendenza, che aveva i suoi precedenti nel nichilismo passivo già descritto prima, ebbe l’effetto più disastroso: alla passione rivoluzionaria si sostituirono grottesche

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ambizioni intellettualistiche. Tale atteggiamento ebbe la sua più tipica diffusione in paciose realtà di provincia, dove un certo atteggiamento saputo poteva produrre risultati autovalorizzanti. Oppure in altre realtà, al primo affievolirsi del movimento, mancando le occasioni per criticare il gauchisme degli autonomi, la «teoria» dei radicali finì con l’isterilirsi da sola per mancanza di oggetto, e la pratica con l’esaurirsi nel solito isolamento compiaciuto dalla realtà della volgare plebaglia rossa. Entrambe queste tendenze avrebbero potuto trovare il loro antidoto nelle opere di Cesarano, se lo avessero capito. Tra l’altro egli aveva fornito tutti i dati per una critica dei processi di autovalorizzazione dell’Ego e per il rifiuto senza appello delle putride piste dell’arte e della cultura, e in Cronaca di un ballo mascherato – testo scritto insieme a Piero Coppo e Joe Fallisi – aveva prodotto per tempo una critica esauriente dello sviluppo e del destino del lottarmatismo.”

Una voce isolata (come quella di Cesarano) non poteva essere un antidoto ad alcunché (come analogamente, in quello stesso periodo, non furono ascoltati Debord, Sanguinetti o Capa). Come prima di loro non furono ascoltati Bordiga (i “mitici Bordiga e Vercesi - Ottorino Perrone -”) o Pannekoek o molti altri ancora.Delle due tendenze isolate da Santini, la prima, quella affascinata dal lottarmatismo, era la più frastornata e debole, la meno avvertita riguardo

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alla falsa posizione in cui veniva a trovarsi, quella che più superficialmente aveva orecchiato i discorsi di Cesarano o di Invariance o di Puzz-Provocazione.Della seconda, il minimo che si può dire è che non ebbe sufficienti capacità per far avanzare di un passo le intuizioni di Cesarano e per iniziare ad inserirle in quel puzzle (sterminato) che l'autore di Critica dell'utopia capitale aveva in mente (per averne un'idea, basta scorrere l'elenco delle letture e le note, gli appunti che compongono quel libro).Eppure, che nella distruzione delle forme ideologiche e organizzative del passato si conservasse il cuore di un'embrionale comprensione della posta in gioco offerta dalla teoria di Cesarano non può essere escluso senza barare con essa. Proprio in quel rifiuto e non altrove. Ma questo non significava certamente che ci si dovesse fermare a quel punto. Inoltre ci voleva grande pazienza, e ce ne vorrà ancora tanta, affinché prosegua il duro lavoro del negativo e ci si avvicini all'obbiettivo che Cesarano credeva di avere davanti agli occhi, come se fosse a portata di mano.

25 luglio 2007

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