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Partecipazione e strumenti di policy nei processi di implementazione. Mutazione, adattamento e resistenza nel caso di una politica (urbana) partecipata. di Daniela Luisi Paper for the Espanet Conference “Sfide alla cittadinanza e trasformazione dei corsi di vita: precarietà, invecchiamento e migrazioni” Università degli Studi di Torino, Torino, 18 - 20 Settembre 2014 Dottore di ricerca in “Sistemi Sociali, Organizzazione, Analisi delle Politiche Pubbliche” (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”) e Ricercatore Isfol [email protected]

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Partecipazione e strumenti di policy nei processi di implementazione.

Mutazione, adattamento e resistenza nel caso di una politica (urbana) partecipata.

di

Daniela Luisi

Paper for the Espanet Conference “Sfide alla cittadinanza e trasformazione dei corsi di vita:

precarietà, invecchiamento e migrazioni” Università degli Studi di Torino, Torino, 18 - 20 Settembre 2014

Dottore di ricerca in “Sistemi Sociali, Organizzazione, Analisi delle Politiche Pubbliche” (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”) e Ricercatore Isfol [email protected]

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Introduzione

Molte esperienze di policy sono solite confrontarsi con due fasi principali di quello che è definito il

“ciclo di vita” delle politiche pubbliche: la fase decisionale, in cui si formano le scelte di policy, e la

misurazione dei sui risultati (quando le politiche producono degli effetti). La teoria delle fasi, che ha

lungamente informato l’analisi delle politiche pubbliche, pone come condizione essenziale per il

buon funzionamento degli interventi il presupposto che gli obiettivi siano chiari, le regole per

l’attuazione siano ben definite e ci sia una buona misurazione dei risultati. Il suo superamento

avviene attraverso il riconoscimento della fase dell’implementazione e della sua natura evolutiva e

l’idea (propria dell’approccio incrementale) che i programmi sono continuamente ridefiniti dal

momento che gli obiettivi di policy cambiano, inevitabilmente, nel corso della loro realizzazione. Il

contesto dell’implementazione rappresenta quindi non solo una fase rilevante in quello che è

comunemente definito il “ciclo di vita della politica”, ma anche un approccio di analisi che, a partire

dalla distanza e dalla messa in discussione degli obiettivi di policy (non perché aprioristicamente

sbagliati, ma perché esposti alla loro “traduzione” e, quindi, al loro cambiamento), individua uno

specifico spazio di azione nel quale gli interventi prendono forma, si modificano e producono

risultati diversi da quelli attesi. È attraverso la pratica della messa in opera che le idee (gli obiettivi e

gli strumenti identificati dai policy makers) apportano dei cambiamenti e questi avvengono proprio

perché attori, valori e contesti ne determinano le condizioni di realizzazione.

L’analisi di un’esperienza di policy partecipata realizzata in un contesto urbano periferico nella

città di Torino è centrata sulle modalità attraverso cui i diversi attori (decisori, abitanti e operatori

street level) “modificano” un programma in tre diversi quartieri1.

A dare forma alle idee in una esperienza partecipata c’è il ruolo affidato agli abitanti ma anche

agli operatori, che affiancano i percorsi di attuazione e interpretano il rapporto tra aspettative e

valori (degli abitanti), tra azioni e scelte politiche (dei policy maker). Nei diversi contesti gli attori

troveranno delle modalità per interpretare un’idea di policy (quella inclusiva) e fornirne un

valore/senso alle azioni nelle quali sono inseriti. Nelle diverse interazioni che si stabiliscono tra

abitanti e street-level worker, e nelle forme di uso del sapere dal basso, saranno individuate diverse

traiettorie di cambiamento della policy.

1 Il paper restituisce parte dei risultati della tesi di Dottorato di Ricerca in Scienze Sociali Applicate, curriculum “Sistemi Sociali,

Organizzazione e Analisi delle Politiche Pubbliche”, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, XXIII ciclo.

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Partecipazione e strumenti di policy

Sono molte le modalità attraverso cui è possibile dare voce alla “forza civilizzatrice dell’ipocrisia”

(Elster, 1998) prodotta nei processi deliberativi e sperimentare azioni partecipative in ambiti di

policy differenti (Bobbio, 2006; Allegretti, 2010). Questa diversità permette di porre l’attenzione

non solo sulle arene decisionali, ma di considerare la partecipazione come strumento di policy,

espressione di quello che Lascoumes e Le Galés (2004) chiamano “il governo attraverso gli

strumenti”. Per Capano e Lippi (2010) parlare di strumenti di policy vuol dire occuparsi delle

politiche pubbliche strictu sensu, dal momento che queste possono essere intese come uno

“strumento dell’esercizio dell’autorità pubblica per risolvere problemi collettivamente intesi come

pubblici” (Capano e Lippi, 2010: 5). La scelta dello strumento di policy implica tuttavia non solo una

scelta da parte dei decisori, ma anche una rappresentazione del suo funzionamento, espressione

della razionalità decisionale: si configurano effetti attesi, si definisce la teoria del programma e del

cambiamento ad essi sottesa (Weiss, 1998).

Le innovazioni degli strumenti di policy sono intese come un cambiamento di paradigma tra un

vecchio modo di governare di tipo razionalista (government + burocrazia) e uno nuovo di carattere

concertativo (governance + modalità partecipative, negoziali, contrattuali) che racchiude elementi

di stratificazione, ibridazione e contaminazione (Capano e Lippi, 2010). Si tratta di strategie che

introducono strumenti innovativi (la concertazione, la partecipazione, il contratto) ma non

sostituiscono a pieno quelli precedenti, piuttosto li trasformano, li integrano, li problematizzano

(nel peggiore dei casi, si sovrappongono). Nell’attribuire un valore trasformativo alle pratiche

partecipative e nell’individuazione degli apprendimenti (istituzionali, individuali, collettivi) la

partecipazione come strumento di policy, oltre a incidere sui processi decisionali, può essere in

grado di retroagire sulla struttura delle relazioni sociali e sui contenuti degli interventi: permette di

identificare un processo che può rispondere a specifici problemi e modificare la struttura delle

relazioni tra gli attori.

In che modo? Contrariamente alla letteratura che considera gli aspetti inclusivi come

strumenti in funzione della loro “tecnica”, la partecipazione può essere considerata uno strumento

di policy non perché è espressione di una “tecnologia” di governo ma perché è in grado di veicolare

modalità di attivazione di risorse latenti, nella messa in discussione di frame consolidati e nella

produzione di nuove rappresentazioni politiche e sociali. La partecipazione diventa una modalità di

scelta dell’attore pubblico, che si esercita attraverso delle “strategie” (che riguardano sia i metodi

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scelti dal decisore sia quelle messe in campo dagli attori) e può prevedere l’uso di figure terze, che

operano tra cittadini e istituzioni.

Non si tratta di introdurre elementi di disturbo o di “regolazione” di processi spontanei né

tanto meno di introdurre figure tecniche. Certo, come accade per le esperienze deliberative, anche

quelle partecipative rischiano di ridursi a un adempimento (quindi, di rispondere a un tecnicismo

politico), così come l’introduzione di elementi di mediazione può avere il limite di istituzionalizzare

quelle esperienze che poco incidono sulle decisioni pubbliche e che restano innovative solo sul

piano formale. Tuttavia, può accadere che determinati livelli e tipologie di mediazione non

riconducibili all’ambito del tecnicismo possano favorire i processi partecipativi e innescare

meccanismi di cambiamento.

L’esperienza oggetto del presente contributo pone questo principio alla base della definizione

di una politica urbana e, in particolare, della sua implementazione. Il programma è il Contratto di

quartiere2, che prevede azioni di riqualificazione degli edifici e degli spazi abitativi in tre quartieri di

edilizia residenziale pubblica della città di Torino3, mentre il riferimento alla partecipazione come

strumento di policy riguarda una fase specifica (implementazione), una responsabilità (affidata a un

gruppo di abitanti) e l’introduzione di figure terze che accompagnano le azioni di riqualificazione e

quelle di attivazione degli abitanti.

I livelli di mediazione negli strumenti di policy partecipativi possono assumere diversi significati

in quanto sono anch’essi portatori di strategie come gli attori istituzionali e i cittadini: la loro

peculiarità sta nel non frapporsi tra le parti, e nell’individuare le modalità attraverso cui innescare

delle capacità nuove nei cittadini e nel fare emergere quelle nascoste. In contesti “fragili” come

quello oggetto di studio del presente lavoro di ricerca, le figure di mediazione possono

rappresentare un ostacolo o possono essere mal viste dagli abitanti: possono essere percepite

come modalità intrusive o peggiorative perché possono mettere in discussione atteggiamenti

consolidati nel rapporto con le istituzione e nella gestione del bene pubblico. É bene considerare,

inoltre, che in contesti specifici che agiscono su quartieri di edilizia residenziale pubblica, la

percezione del bene collettivo (o comune) coincide con il bene “di pochi”, di un gruppo di cittadini,

2 Il Contratto di Quartiere (introdotto dal Ministero dei Lavori pubblici nel luglio 1998 e nel 2003 dal Ministero delle Infrastrutture e

dei Trasporti) è un programma di rigenerazione urbana e sociale di quartieri di edilizia residenziale pubblica caratterizzati da degrado fisico e disagio sociale. Il CdQ oltre a non avere valenza urbanistica, si caratterizza per due aspetti principali: il finanziamento statale, affidato ai Comuni, è rivolto esclusivamente a opere di edilizia sovvenzionata prevedendo modalità sperimentali (sia nelle soluzioni abitative che nell’inclusione di modalità partecipative); insieme agli obiettivi di recupero edilizio ed urbanistico i CdQ prevedono finalità di recupero sociale e cercano, attraverso il coinvolgimento diretto di associazioni, enti non profit, operatori locali attivi nel settore dei servizi, di avviare interventi nel campo del disagio sociale.

3 I quartieri coinvolti sono: Mirafiori Nord (CdQ di “Via Dina”), tra Lucento e le Vallette (CdQ di “Via Parenzo”) e Barriera Milano (CdQ

di “Via Ghedini”).

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che antepongono il loro “status” di inquilini (spesso con modalità orientate al vittimismo o

all’assistenzialismo) a quello di cittadini.

Nel riferirci alla partecipazione come strumento di policy Fareri (1998) individua tre principali

gruppi di “idee” sul coinvolgimento degli abitanti, che si sviluppano in base al diverso valore (più o

meno rilevante) attribuito al coinvolgimento di stakeholders-esperti e dei cittadini, dal quale

emergono specifici orientamenti e rischi (tabella 1). A margine di questi quattro tipi, e sulla base

dell’esperienza partecipava analizzata, è possibile definirne un quarto, chiamato “situato”, in cui la

partecipazione come strumento di policy è intesa come un’opportunità: è nella complessità dei

processi e nella loro realizzazione che si definiscono le responsabilità dell’azione pubblica (del

decisore che sceglie di includere gli abitanti in un processo di policy) e le capacità/volontà dei

cittadini di accogliere questa opportunità, di modificarla o problematizzarla.

Un primo approccio trova origine nella policy community delle politiche ambientali in cui un

ruolo rilevante è giocato dai rappresentati dei movimenti ambientalisti. Secondo questa idea, il

sostegno alla partecipazione è condizionato da convinzioni radicate: la partecipazione è necessaria

in quanto una maggiore presenza di cittadini (e delle associazioni che li rappresentano o che

dovrebbero rappresentarli) nei processi decisionali è in grado di indirizzare le azioni a favore della

protezione dei beni comuni. Tale posizione parte dal presupposto che gli approcci bottom-up siano

da perseguire perché gli attori di livello centrale esprimono interessi particolaristici, diversamente

dagli attori locali. Una conseguenza di questi approcci riguarda il carattere ideologico della

partecipazione, dietro il quale possono nascondersi interessi di soggetti locali forti, come le

organizzazioni ambientaliste, considerate portatrici delle opinioni dei cittadini (negando così, in

parte, il carattere bottom-up della partecipazione). Il conflitto diventa centrale nella risoluzione di

problemi di policy: si riconosce la complessità intrinseca delle azioni e la partecipazione, aperta

all’inclusione dei movimenti, può aumentare tale complessità anche in chiave fortemente

conflittuale.

Si tratta di un approccio che, in parte, può richiamare l’esperienza americana del community

organizing, supportata da organizzatori di comunità (community organizer) che agiscono su base

territoriale seguendo una precisa convinzione ideologica, al di fuori di mandati politici e, quindi,

lontani dall’obiettivo della creazione di consenso. La natura inclusiva e abilitante delle loro attività

(coinvolgimento delle comunità e loro attivazione per superare problemi sociali e ineguaglianze) fa

in modo che queste figure abbiano valenza politica dal momento che il loro obiettivo è quello di

mantenere alto il livello del conflitto nell’arena politica, per contrastare in modo esplicito le forme

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inique di gestione delle risorse da parte di politici eletti in un sistema di democrazia

rappresentativa.

Un’idea “debole” della partecipazione può essere centrata sull’ideologia del metodo o sulla

retorica dell’inclusione dei cittadini nei processi decisionali. La partecipazione è intesa come un

tecnicismo, strumentale al raggiungimento di obiettivi prefissati: si assume che possa ridurre la

complessità decisionale e arginare il conflitto, inteso come un ostacolo per l’efficacia delle politiche

e dei fallimenti degli stessi processi partecipativi. La partecipazione è necessaria perché persegue

un principio di maggiore equità nella formazione delle scelte pubbliche e perché permette di

risolvere il conflitto attraverso la possibilità di instaurare accordi tra gli attori coinvolti. In questa

prospettiva, tuttavia, il coinvolgimento degli abitanti è considerato marginale e da “regolare”.

Tabella 1. Tipologia di approcci sull’ “idea” di partecipazione nei processi decisionali

Idea di partecipazione

Valore attribuito alla partecipazione

Ruolo e coinvolgimento di stakeholder/attori

istituzionali e di esperti

Ruolo e coinvolgimento

dei cittadini Orientamenti (e rischi) prevalenti

Orientata al conflitto

Elevato + +

Stravolgimento della logica bottom up e prevalenza di quella top-down degli stakeholders o dei movimenti (possibili effetti perversi negativi sottesi il carattere non locale dell’associazionismo o dei movimenti).

Si riconosce il ruolo della complessità che si realizza attraverso il conflitto, considerato uno strumento in grado di facilitare la risoluzione dei problemi.

Posizione ideologica della partecipazione.

Schiacciata dall’ideologia del metodo

Debole + -

La partecipazione, intesa come tecnicismo o strumento politically correct, aiuta a ridurre il conflitto.

La complessità dei processi negoziali è risolta nell’uso di specifiche tecniche partecipative e nel debole coinvolgimento dei cittadini.

La partecipazione è inserita entro processi lineari.

Rifiuto della partecipazione

Nullo - -

La partecipazione non serve.

Il sapere tecnico non costituisce il riferimento esclusivo per la costruzione di soluzioni efficaci.

I cittadini non possono sostituirsi ai politici e ai decisori.

Situata Agency -/+ +/-

L’amministrazione sceglie di introdurre un elemento di complessità: un soggetto terzo, considerato uno “straniero competente”.

I cittadini trovano modalità per incidere sui processi decisionali e di attuazione (facendo valere le proprie competenze tecniche), ma possono innescarsi situazioni conflittuali.

Il decisore riconosce la complessità e la responsabilità della partecipazione: si sottopone a processi di confronto nei quali difendere, mettere alla prova, ridefinire le scelte di policy.

L’inclusione degli abitanti nei processi di policy non rappresenta di per sé un vantaggio per

quei decisori che non attribuiscono ai cittadini competenze in grado di aggiungersi o sostituirsi a

quelle degli esperti, o dei decisori. In questo approccio, in cui il valore attribuito alla partecipazione

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è nullo, il sapere tecnico – dei cittadini e degli esperti- non rappresenta un riferimento esclusivo per

la costruzione di soluzioni efficaci e il contributo apportato dai cittadini è considerato irrilevante

(prevale il primato della politica).

La partecipazione può rappresentare, invece, un valore aggiunto quando è intesa in modo

situato, ovvero, quando è in grado di veicolare saperi dal basso e quando queste istanze si

traducono, anche attraverso un difficile percorso di confronto, in micro-azioni che incidono sui

processi decisionali e di attuazione. In questo caso, l’atteggiamento da parte delle istituzioni è

fondamentale. Occorre infatti che i decisori accettino la dialettica e che rispettino il processo

partecipativo escludendo strumentalizzazioni o finalità tecniche strettamente legate

all’ampliamento del consenso, introducendo piuttosto degli elementi di complessità attraverso

soggetti terzi (e neutri) o sperimentando specifiche modalità di coinvolgimento degli abitanti.

A partire dal concetto di “Stato situato” elaborato da Storper e Salais (1997, cit. in Bifulco,

2011)4, è possibile parlare di partecipazione situata nell’esperienza dei Contratti di quartiere

oggetto del presente lavoro. La partecipazione, così intesa, mette in luce la rilevanza dell’azione

pubblica e delle strutture di coordinamento a livello locale; non si identifica in una semplice

“richiesta di consenso” ma si realizza in un processo riflessivo, in cui in cui “si mettono in opera le

libertà effettive” (Bifulco, 2011: 411).

Nell’approccio riflessivo l’attenzione si focalizza sull’interazione tra gli esiti dell’azione, l’azione

stessa e la conoscenza generata dall’azione: l’azione situata è quindi orientata ad affrontare

problemi pratici. Occorre che decisori/amministratori/attuatori siano fisicamente attivi sia nella

definizione dei dispositivi partecipativi che nella loro applicazione pratica, non sfuggendo al dialogo

ma immergendosi in esso e favorendo, così, forme di apprendimento reciproco. É quanto emerge

dai presupposti e dalle dinamiche che hanno informato le esperienze di partecipazione in tre

quartieri di edilizia residenziale pubblica nella Città di Torino. Gli apprendimenti passano non solo

attraverso la difficile attività di negoziazione per apportare dei cambiamenti agli interventi di

riqualificazione, ma anche attraverso il confronto diretto con soggetti istituzionali, in un contesto

“paritario” nel quale possono essere accolte e riconosciute le competenze dei cittadini, possono

aprirsi finestre di opportunità, o delinearsi delle chiusure.

L’idea di un uso “situato” della partecipazione ci porta a riflettere su due aspetti, quello della

mediazione e del conflitto. L’uso dei processi partecipativi può determinare una serie di

4 Nella classificazione proposta da Storper e Salais (1997) lo “Stato assente” protegge il bene comune da interventi esterni e forme di

azione collettiva, mentre lo “Stato esterno” ha il monopolio della definizione di bene comune e di quello che deve essere fatto per il bene di ognuno (Bifulco, 2011: 410).

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complicazioni che riguardano la governance, i meccanismi di legittimità e di rappresentatività.

Occorre considerare la difficile sintesi tra le matrici dell’azione pubblica (interessi economici,

autorità pubblica e network cooperativi) e gli aspetti ordinari del disegno e dell’implementazione

delle politiche locali (d’Albergo, 2003), e di venire a patto con le condizioni alla base delle pratiche

partecipative e delle modalità attraverso cui si realizzano. Diventa quindi rilevante il ruolo attribuito

ai soggetti in grado di veicolare “terzietà”: istituzioni, meccanismi istituzionali e soggetti mediatori

possono rappresentare un fattore centrale nell’analisi delle esperienze partecipative.

Tra i rischi della promozione della democrazia partecipativa dall’alto (il rischio è quello di

essere orientata al consenso o di creare un cortocircuito populista) o dal basso (in questo caso il

rischio è quello di non entrare in raccordo con le istituzioni) Bobbio nota come, in realtà, alla

democrazia partecipativa “serve anche un contributo dall’esterno, ossia da parte di attori che si

trovano al di fuori della mischia” (Bobbio 2006:21). Nelle esperienze partecipative e negli interventi

di riqualificazione urbana in aree periferiche si tratta di introdurre animatori o accompagnatori

sociali che curano l’attuazione dei percorsi di partecipazione con l’intento di arginare le “finalità

numeriche del tecnicismo”. Il processo partecipativo “orientato all’uso” non può quindi fare a meno

di un soggetto terzo che sia allo stesso tempo capace e neutrale e che si configuri come uno

“straniero competente” (Bobbio, ibidem).

Sul tema del conflitto occorre sottolineare il valore attribuito al rapporto che si viene a creare

tra cittadini e istituzioni, diversamente da quanto previsto o “scongiurato” nei processi deliberativi.

La conflittualità tra amministrazione e partecipanti può essere considerata un aspetto quasi

“naturale” essendo una delle finalità della democrazia partecipativa l’emersione (e la risoluzione)

delle conflittualità provocate, o che si prevede potranno nascere, in seguito all’azione

amministrativa (Bobbio, 2010). La democrazia partecipativa, quindi, non è (come potrebbe

sembrare ai teorici della deliberazione) un “esercizio freddo di ragione: ha invece come sue

componenti, entrambe essenziali, tanto la necessità di argomentazione delle opposte ragioni,

quanto la mobilitazione attorno alle posizioni dei partecipanti” (Allegretti 2010: 35 – corsivo

dell’autore).

Attraverso l’allargamento delle aspettative sottese i processi partecipativi la sindrome NIMBY

(Not In My Back Yard), considerata dal punto di vista teorico come un fallimento delle pratiche

partecipative (perché prevalentemente orientata al conflitto e non alla maturazione di percorsi

deliberativi) può veicolare, invece, la messa a disposizione di competenze culturali dei cittadini sulla

base delle quali l’oggetto della protesta diventa suscettibile di entrare non tanto nel gioco della

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conflittualità sociale, quanto nel confronto con i decisori (Vitale, 2009; Trom, 1999). In una

situazione di conflitto, l’effetto di chiusura e di resistenza rispetto ad un insediamento ritenuto

pericoloso può creare momenti di confronto tra abitanti e istituzioni: si tratta, in questo caso, di un

“fallimento” della partecipazione che nasconde un’opportunità (di collaborazione, di dialogo, di

fiducia) per cittadini e amministrazione. Ciò che si produce nella dinamica del conflitto dipende, non

a caso, dal contesto istituzionale e dal tipo di mediazioni attivate da attori con responsabilità

pubblica.

Parlare di uso situato della partecipazione vuol dire anche introdurre il concetto di uso della

conoscenza, prodotta dal confronto interattivo che genera apprendimenti reciproci tra le parti. La

usable ordinary knowledge, oltre ad essere un prodotto della messa in opera dei processi, si

caratterizza come processo collettivo basato sull’interazione - a volte sul conflitto, e non solo come

percorso individuale - in grado di incidere sui processi di policy (Fareri, 1998; Lindblom e Cohen,

1979). Nel caso dei processi partecipativi delle politiche urbane, è dalla conoscenza ordinaria che

emergono punti di vista “nuovi e diversi”, che gli abitanti costruiscono nel percorso partecipativo.

Come sottolinea Allegretti (2010), la democrazia partecipativa sarà tanto più convincente quanto

più i cittadini ordinari riusciranno a impadronirsi delle componenti tecniche dei problemi e a

misurare le proprie argomentazioni tenendo conto di esse. Il terreno della discussione e della

negoziazione si misura quindi in luoghi definiti, nelle assemblee ma anche in laboratori ristretti in

cui si possano discutere, argomentare, mediare diversi punti di vista, di cittadini, istituzioni e tecnici.

La partecipazione, intesa come “situata”, riguarda inoltre la nozione di controllo (si pensi alle

forme di audit civico). Secondo questa prospettiva, la partecipazione ha bisogno di essere

convalidata anche attraverso una verifica della messa in opera delle decisioni (Lanzalaco, 2011;

Moro, 2009). É “evidente l’importanza che la società svolga o partecipi al controllo, tanto più che la

mancanza di seguito delle decisioni toglierà fiducia nella democrazia rappresentativa e la porrà in

crisi” (Allegretti 2010: 42)5.

Abbiamo visto come il riferimento alla partecipazione come strumento di policy riguardi non

solo le modalità attraverso cui possono essere messe in pratica singole esperienze, o le dimensioni

(della mediazione, del conflitto, del controllo) entro le quali agisce (o può agire) ma anche le

condizioni attraverso cui si possono attivare meccanismi di cambiamento (l’uso situato visto in

5 Emerge un ulteriore tema della democrazia partecipativa: sia nel caso della “cittadinanza attiva” (e della valutazione civica come

strumento di azione) che nel caso delle esperienze partecipative in paesi in via di sviluppo (esperienze maggiormente orientate alla salvaguardia di diritti fondamentali), si assume che “control by citizens over their collective affairs and equality between citizens in the exercise of that control, are the key of democratic principles” (Beetham, 1999: 3).

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precedenza) e le risorse che essa può attivare. Utilizzare (scegliere) un metodo, uno strumento, una

modalità partecipativa da parte del decisore vuol dire sviluppare un’idea di policy che sostanzia

l’azione pubblica. L’esperienza oggetto del presente contributo è quella di una politica urbana

(Contratto di quartiere) realizzata in tre quartieri di edilizia residenziale pubblica della città di

Torino. La partecipazione degli abitanti è avvenuta nella fase di attuazione degli interventi di

riqualificazione degli spazi abitativi e di quelli di uso comuni (cortili), mentre le modalità inclusiva si

è articolata lungo due direttrici: la costituzione di un gruppo di abitanti (‘rappresentanti di cantiere’)

responsabili del della ‘verifica’ dei lavori di riqualificazione e l’uso di figure terze per accompagnare

l’intero processo inclusivo.

L’uso di un gruppo ristretto, un microcosmo eletto e legittimato ad agire con una specifica

assunzione di responsabilità non è casuale, ma risponde all’idea di coinvolgere gli abitanti di

contesti non solo fragili ma con retaggi culturali propri di una diversa concezione della

partecipazione e del suo uso conflittuale. È parte dei contesti analizzati il rimando a una specifica

concezione del conflitto, in cui si oppongono gruppi sociali ben definiti, inseriti del ciclo di protesta

operaia e dei movimenti degli anni ‘60 e ‘70. In quegli anni a Torino i conflitti, e i movimenti che li

sostenevano, avevano una forte matrice operaia, riguardavano l’accesso ai beni e servizi collettivi

(come la casa) e godevano di notevoli aperture politiche.

Attraverso la costituzione di un gruppo ristretto di abitanti inseriti in un percorso partecipato

(comitato di cantiere) l’amministrazione si pone l’obiettivo di ridefinire un rapporto tra abitanti e

istituzioni attive nella gestione dell’edilizia residenziale pubblica (il Comune e l’Agenzia Territoriale

per la Casa – ex IACP), di introdurre degli elementi di innovazione e di far entrare gli abitanti nei

processi di attuazione di una politica, per comprenderne modalità di azione e realizzazione, e per

rapportarsi con le potenzialità (e i limiti) dei processi partecipativi.

Il ruolo dei ‘mediatori’: street-level worker e uso delle competenze degli abitanti nell’attuazione di una politica urbana partecipata

Il percorso di attuazione delle politiche pubbliche deve confrontarsi con due distinti termini di

paragone: il cambiamento che avviene nel corso della loro messa in opera e l’influenza esercitata

sulla loro ‘traduzione’ da parte di soggetti diversamente coinvolti nei processi di implementazione.

È parte dell’analisi delle politiche pubbliche considerare il concetto di implementazione e di

traduzione come due facce di uno stesso processo, che ha acquisito nel corso del tempo una

rilevanza sempre maggiore nella comprensione dei risultati prodotti dalle politiche. O meglio, alla

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base dell’interesse per l’implementazione c’è il riconoscimento dell’esistenza di un anello mancante

fra il processo decisionale e l’analisi dei risultati.

I tanti contributi forniti da diversi autori allo studio dell’attuazione hanno come punto di forza

l’importanza attribuita al processo di messa in opera distinto da quello di decisione e degno di

essere studiato separatamente. La prima generazione di studi sull’implementazione, nata negli Stati

Uniti negli anni Settanta, è centrata sul contributo di Pressman e Wildavsky (1984) e di Bardach

(1977), e sugli orientamenti in cui si pone l’enfasi sui fattori determinanti il fallimento di un

programma e il conseguente riconoscimento del valore di elementi di ‘controllo’.

La seconda generazione è animata da un dibattito tra gli approcci definiti top-down e bottom-

up. Se il modello top-down concepisce l’implementazione come una esecuzione gerarchica di

obiettivi di policy stabiliti dai livelli centrali (Mazmanian e Sabatier, 1983), quello bottom-up

enfatizza le strategie quotidiane messe in atto dai soggetti chiamati a implementare le politiche, gli

street-level bureaucrat (Lipsky, 1980). Se gli approcci top-down puntano la loro principale enfasi

sull’abilità dei decisori nell’individuare obiettivi chiari e nel controllare la fase di implementazione,

quelli bottom-up individuano nei burocrati i principali attori della realizzazione degli interventi e

concepiscono l’implementazione come una negoziazione tra attori coinvolti nel processo. La terza

generazione, infine, cerca di creare un ponte tra i due approcci attribuendo maggiore enfasi al

disegno della ricerca applicata alla fase di implementazione (Goggin, 1990; de Leon, 1999; O’ Toole,

2000)6.

Un aspetto che accomuna i diversi contributi è la messa in discussione dell’idea prevalente

secondo cui l’azione politica agisce con mandati chiari e gli amministratori mettono in atto le

politiche in accordo con le intenzioni dei policy maker (Hill e Hupe, 2002). Wildavsky parla di

implementazione come processo evolutivo in cui i programmi sono continuamente ridefiniti

(Majone e Wildavsky, 1979; Browne e Wildavsky, 1983) abbracciando l’idea (propria dell’approccio

incrementale) che gli obiettivi di policy cambiano, inevitabilmente, nel corso della loro realizzazione.

Il riconoscimento di un valore trasformativo è associato non solo alla processualità ma agli attori

coinvolti e, in particolare, alle figure ultime poste a stretto contatto con i destinatari degli

interventi.

Da questa breve disamina emergono alcune criticità degli approcci top-down. Prevale il

linguaggio normativo e l’implementazione è un semplice processo amministrativo in cui si ignorano

6 Mentre la maggior parte degli studi sull’implementazione sono stati realizzati negli Stati Uniti, la seconda generazione ha trovato importanti esempi di ricerca in Europa (in cui, tra l’altro, si fa strada una letteratura focalizzata sull’implementazione nell’ambito degli studi sui processi di integrazione europea e di rescaling).

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gli aspetti di contesto (o si cerca di eliminarli). Diversamente, negli approcci bottom-up, la

discrezionalità dei soggetti chiamati ad attuare gli interventi rappresenta un fattore di successo (e di

cambiamento) dell’intervento rigettando così l’idea che le politiche sono definite al livello centrale e

gli attuatori debbano essere dei semplici esecutori (Berman, 1978). Secondo Berman (1978)

l’implementazione si realizza su due livelli: un macro livello in cui gli attori centrali escogitano un

programma di governo e un micro livello in cui le organizzazioni locali reagiscono ai piani “calati

dall’alto”, elaborano un proprio programma e lo implementano. Ovvero, attraverso l’attuazione

danno vita al programma. Il cambiamento è considerato un valore e non un rischio da controllare,

mentre la discrezionalità è considerata un beneficio dal momento che i “burocrati locali” sono vicini

ai reali problemi dei fruitori dei servizi e degli interventi e i fattori di contesto possono condizionare

le regole fissate dall’alto – rendendo difficile ai policy makers il controllo del processo. L’autonomia

degli operatori sociali e l’interazione tra operatori e cittadini sono alla base della peculiarità degli

street-level bureaucrat (Lipsky, 1980).

Gli street-level bureaucrat teorizzati da Lipsky sono degli operatori dei servizi, devono

confrontarsi con le regole dell’organizzazione alla quale appartengono e che riescono a ‘deviare’

attraverso l’esercizio della discrezionalità. Brodkin (2003), estende l’ambito di applicazione alla

complessità del welfare e delle politiche sociali e individua la street-level research come metodo di

analisi delle azioni in cui sono coinvolti soggetti che producono le politiche in settori diversi:

pubblico, quasi-pubblico, agenzie private, no-profit. Questa estensione porta l’autrice a riflettere

non solo sull’evoluzione della figura dello street-level bureaucrat, ma individuare nelle politiche di

welfare come un particolare contesto all’interno del quale tali figure agiscono non solo, e non

tanto, all’interno di contesti organizzativi ma in diversi setting in cui la dimensione pratica e

relazione sono prioritarie rispetto a quella normativa.

Il low-level in cui opera lo street-level bureaucrat è stretto tra obiettivi del management,

domande degli utenti e interessi dei burocratici: l’opportunità analitica, in questo quadro

concettuale e teorico, era quello di esaminare la politica come “prodotto” e i fattori responsabili dei

risultati (successi/fallimenti). Diversamente dallo street-level bureaucrat, che agisce ‘tradendo’ (con

la discrezionalità propria del suo ruolo) le norme imposte gerarchicamente, lo street-level worker

esamina e agisce strategicamente in una dimensione pratica, in cui sono determinanti le interazioni

con i destinatari/cittadini (Brodkin, 2000). Tale cambio di prospettiva, oltre a segnalare una perdita

di primato della dimensione gerarchico/normativa rispetto a quella cognitiva/esperenziale nei

processi di policy, porta a riconsiderare il ruolo della discrezionalità ad opera degli street level

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worker, i quali realizzano le politiche (azioni di portata politica – polcy politics) in contesti pubblici

come in quelli del no-profit.

Nel caso delle politiche partecipate di rigenerazione urbana, l’introduzione di figure che si

inseriscono tra amministrazione e cittadini (tra idea di policy e destinatari chiamati a fornire un

contributo alla sua definizione/realizzazione) è spesso associata a supporti tecnici e all’adozione

conseguente di strumenti tecnici di governo. Nell’esperienza di policy analizzata, invece, tale

interazione si è sviluppata nella fase di attuazione della politica, ed è parte della politica stessa dal

momento che il ricorso a figure terze non rappresenta una scelta per depoliticizzare un percorso

partecipato ma per rafforzare i legami e la ‘comprensione’ stessa della politica da parte degli

abitanti coinvolti.

Gli operatori esperti inseriti in processi di implementazione di carattere partecipato, sono un

mezzo presentato dai decisori come neutro. In questa apparente neutralità, gli operatori adottano

delle strategie spinte anche da fattori di contesto, che permettono di attivare bisogni e capacità

degli abitanti (Fareri, 2000). Tale azione non avviene all’interno di uno spazio neutro ma si svolge in

un contesto politico e istituzionale, chiamato a rispondere e confrontarsi su opzioni e problemi non

considerati (oppure non risolti). Non si tratta quindi di depoliticizzare un’azione, ma di

problematizzarla in chiave partecipata e di farlo utilizzando delle figure di attivazione e di rottura.

Nella nostro caso, il disegno partecipativo è stato definito in funzione dell’attuazione degli

interventi, nell’interazione tra abitanti e realizzazione concreta dei lavori. L’accompagnamento si

muove su alcune attività principali: la comunicazione (comunicare ai cittadini gli avanzamenti dei

lavori di cantiere e di riqualificazione degli edifici); l’animazione (realizzare eventi, promuovere un

buon livello di vivacità territoriale); il recupero di situazioni di particolare disagio; l’inclusione degli

abitanti nella realizzazione degli interventi. Gli operatori sono figure professionali che appartengono

in genere al mondo del terzo settore; lavorano in team multidisciplinari per formazione e

competenze (architetti, sociologi, educatori, operatori sociali); lavorano prevalentemente facendo

leva su risorse quali l’ascolto, la pazienza nell’accogliere le lamentele (prima, e spesso unica,

reazione da parte degli abitanti), la flessibilità nell’inventarsi competenze (può accadere che un

operatore architetto impegnato nel mediare tra conflitti emergenti tra abitanti delle palazzine da

ristrutturare e impresa costruttrice si improvvisi psicologo, o che cerchi di approfondire eventuali

condizioni di disagio). Sono fisicamente (e quotidianamente) presenti nei quartieri per risolvere

problemi di carattere pratico (i lavori di riqualificazione degli edifici riguardano gli spazi comuni ma

anche quelli abitativi) e di natura sociale (irregolarità abitative, integrazione sociale di migranti, casi

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di devianza sociale); organizzano incontri pubblici nei quartieri di discussione sull’esecuzione degli

interventi di riqualificazione; organizzano azioni formative che coinvolgono gli abitanti su dinamiche

di gruppo per migliorarne le capacità di rapportarsi con attori istituzionali; accompagnano gli

abitanti coinvolti nell’esperienza partecipata di ‘verifica’ dei lavori di riqualificazione degli edifici e

degli spazi comuni; guidano gli abitanti nella formulazione di richieste/proposte; valorizzano le

conoscenze degli abitanti (conoscenze tacite e non) per la soluzione di problemi specifici e nella

individuazione di soluzioni innovative.

In questo modo, si rompe il tecnicismo della partecipazione attraverso una diversa concezione

dei saperi esperti: né scienziati/studiosi accreditati che offrono un bagaglio di conoscenze

‘normato’, né tecnocrati o alti funzionari pubblici che per le loro esperienze e conoscenze sul

funzionamento della macchina amministrativa possono giudicare alcune scelte come praticabili

oppure no (Mozzana e Polizzi, 2013). Tali figure non sono tecnici nelle due accezioni ma ne

richiamano una terza, che si propone al di fuori dell’expertise ma dentro la conoscenza dei

fenomeni e i processi di implementazione e programmazione: si propongono di rompere la

macchina amministrativa e far passare conoscenze esperte, dal basso. Sono portatori di un sapere

interessato non a fornire competenze ma a fare in modo che queste si formino man mano, e ad

utilizzare le competenze presenti nel “fare” (più che nel far fare o nel lasciar fare).

Il ruolo degli operatori, nell’accezione di street-level worker, assume una valenza specifica

considerando l’ambito di applicazione degli interventi, ovvero quartieri di edilizia residenziale

pubblica, con risorse scarse e dove, storicamente, il tema della partecipazione è entrato nella sfera

del conflitto politico. In che modo, quindi, tali figure agiscono nei processi partecipativi e in che

modo riescono a modificare orientamenti, percezioni e comportamenti degli abitanti? Il loro

contributo consiste nel costruire una conoscenza comune in processi di mediazione degli interessi.

Ovvero, usano le conoscenze degli abitanti per rimodulare una coscienza comune: le competenze

degli abitanti diventano un veicolo per qualificare un percorso negoziale, parte dell’azione pubblica

partecipata. In contesti deprivati, il ruolo dei mediatori diventa quindi quello di dare senso a nuove

rappresentazioni cognitive: legano le conoscenze pratiche a quelle ampie del progetto; non

agiscono da esperti (non trasferiscono le loro conoscenze pre-costituite a persone che ne sono

prive) ma da ‘connettori’.

Nell’analizzare le basi informative delle esperienze di democrazia deliberativa e le dimensioni

del capability approach, Salais (2009) utilizza il concetto “go-between” diverso da quello di

“traduttore” per riferirsi a figure che usano la conoscenza per creare un ponte tra i mondi degli

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individui. Nella nostra storia tali conoscenze, prodotte nelle pratiche dei processi di

implementazione e direttamente riferite alle competenze degli abitanti (formali e informali),

permettono di connettere aspettative e aspirazioni con gli obiettivi degli attori istituzionali.

Nel creare un ponte, negoziale e conflittuale, tra abitanti e amministrazione, gli street-level

worker fanno leva sulle basi cognitive degli abitanti per complicare quelle normative e dare

forma/orientare valori e aspirazioni embedded.

Strategie partecipative: mutazione, adattamento e resistenza

Gli studi sulla street-level bureaucracy non si sono focalizzati solo sul ruolo degli street-level

bureaucrat all’interno delle organizzazione ma sulle modalità attraverso cui rispondono a un

mandato esercitando una discrezionalità all’interno di strategie (Brodkin, 2012). È possibile

individuare due diverse narrazioni alla base delle azioni degli street-level bureaucrat: state-agent e

citizen-agent. Nel primo caso la sfida è quella di seguire le regole e servire gli utenti, nel secondo la

sfida consiste nel cambiare le ‘regole’ per rispondere ai bisogni dei cittadini (de Quadros Rigoni,

2013). Appartengono a questa seconda categoria gli street-level worker descritti in precedenza e

che, nell’esperienza del Contratto di quartiere, oltre a rispondere a bisogni degli abitanti

accompagnano un percorso partecipato e supportano processi negoziali tra abitanti e

amministrazione.

La ricostruzione dei meccanismi alla base dell’implementazione delle tre esperienze del

Contratto di quartiere ha riguardato l’analisi dello strumento partecipativo e del ruolo del servizio di

accompagnamento7. In contesti in cui le spinte a partecipare possono essere controverse, o del

tutto assenti per limiti individuali e sociali degli abitanti emerge la difficile gestione della

partecipazione (Borghi, 2006).

Sulla base dell’interazione tra operatori e abitanti/rappresentanti di cantiere è possibile

sintetizzare le tre esperienze in una tipologia di strategie, considerando gli approcci prevalenti

adottati dagli operatori (nella mediazione e nella discrezionalità alla base dei loro comportamenti) e

dai rappresentanti (nell’ottenere dei cambiamenti) (tab. 2). Le tre strategie, lette nella loro

7 L'osservazione si è strutturata attraverso due modalità: una partecipante, in cui non ero chiamata a interagire con gli operatori o gli

abitanti ma semplicemente a osservarli nei loro contesti di azione, e una partecipata, in supporto all'attività degli operatori, oppure, ho potuto interagire direttamente con loro al di fuori dei contesti 'ufficiali' di osservazione - come gli orari di chiusura del laboratorio o nella fase finale dei diversi incontri collettivi. Le interviste agli operatori, ai rappresentanti, ai decisori e agli esperti hanno seguito una traccia semi-strutturata, con l’obiettivo di esplorare le dimensioni rilevanti della partecipazione, della mediazione e dei cambiamenti che gli abitanti riuscivano ad apportare; di far emergere questioni chiave, elementi determinati il cambiamento (di spinta, di ostacolo o azioni significative) e le specifiche attribuzioni di senso degli intervistati rispetto al loro ruolo e alla loro idea di attuazione e di partecipazione.

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complessità, restituiscono tre diverse modalità di attuazione di uno strumento di policy, centrate su

forme di adattamento, mutazione e di resistenza, messe in atto tanto dagli operatori e dagli

abitanti.

Tabella 2. Strategie di operatori e rappresentanti nelle tre esperienze partecipative

Approccio della mediazione/discrezionalità (strategie degli operatori)

Come i rappresentanti ottengono cambiamenti (strategie dei beneficiari)

Adattamento

Realismo (incentivi pratici)

Attraverso il ridimensionamento delle retoriche del progetto, gli operatori si propongono di rispondere ai bisogni minimi degli abitanti, cercando di superare l’abbandono e il disinteresse ottenendo piccoli risultati ma visibili.

Attraverso il confronto con gli operatori e il dialogo con gli attori istituzionali gli abitanti riescono a ottenere piccoli cambiamenti e a percorrere modalità d’azione diverse dal passato.

Mutazione

Didattica della responsabilità

Accettazione dei limiti del contesto, responsabilizzazione degli abitanti attraverso rotture/spinte alla scelta.

La capacità di mediazione avviene grazie alla valorizzazione delle competenze degli abitanti, i quali sentono di essere riconosciuti per il loro contributo e riescono a ridimensionare così la figura del leader. I rappresentanti di cantiere si propongono di coinvolgere gli abitanti nel rispetto della casa intesa come bene da preservare e conservare.

Resistenza

Tirannia degli obiettivi

L’orientamento del progetto inclusivo irrigidisce la possibile ricerca di soluzioni per rispondere ai bisogni degli abitanti

Prevalgono posizioni individualiste ed emerge la difficoltà nell’individuare problemi comuni, nel formulare richieste puntuali e condivise.

L’esperienza definita del realismo è orientata a veicolare incentivi pratici a fronte delle

difficoltà del contesto: gli operatori decidono di smontare gli obiettivi ambiziosi del progetto

inclusivo, consapevoli delle difficoltà oggettive nel perseguirli in un contesto fortemente disagiato.

La loro attività di mediazione si sviluppa a partire dal “mostrare e affrontare la realtà per quella che

è”, con i grandi problemi quotidiani causati dall’abbandono e dal disinteresse degli abitanti. Gli

operatori scelgono quindi di dedicarsi alla gestione ordinaria dello spazio comune, riuscendo

lentamente ad ottenere dei risultati. Allo stesso modo, gli operatori riescono a mediare con le

figure tecniche dell’amministrazione per creare spazi di confronto sui reali problemi che i

rappresentanti di cantiere sollecitano.

A partire dai piccoli risultati ottenuti e dal dialogo con gli attori istituzionali gli abitanti, pur

riconoscendo le difficoltà dei processi di attuazione e delle maglie strette dei vincoli burocratici,

sperimentano modalità d’azione diverse dal passato.

Nell’esperienza centrata sulla didattica della responsabilità, la discrezionalità degli operatori

riguarda innanzitutto l’accettazione del contesto e delle sue peculiarità, ovvero le condizioni di

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partenza e la forte leadership ereditata dall’esperienza del comitato inquilini8. La mediazione

costante degli operatori e l’accettazione delle competenze mostrate dagli abitanti permettono una

continua verifica dei lavori di riqualificazione, incentivano la segnalazione delle anomalie e facilitano

l’avanzamento di proposte sui cambiamenti da apportare.

Anche se accompagnata e guidata, la partecipazione può produrre delle resistenze. Questo

accade quando gli operatori non riescono ad adattare al contesto attività ed obiettivi di policy ampi

e ambiziosi (da qui la tirannia degli obiettivi), mentre gli abitanti tendono a percepire in modo

passivo la loro presenza, al limite dell’assistenzialismo. Se l’assenza di legami storici e identitari

legati ai comitati inquilini poteva rappresentare un fattore di vantaggio, la difficoltà nell’individuare

problemi da risolvere in una prospettiva condivisa e, soprattutto, collettiva, facilita l’emergere di

posizioni individualiste e un uso distorto dello stesso strumento partecipativo.

Come si risolvono le proteste? Se è vero che può farsi avanti il sostegno dei politici locali i

quali, temendo una perdita di consenso, riescono a fare pressione per la dislocazione del “public

bad” (della Porta, 2004), nelle tre esperienze del CdQ il coinvolgimento dell’amministrazione

avviene in risposta a una esplicita sollecitazione e richiesta di confronto da parte degli abitanti. In

questo senso, grazie anche all’introduzione di un soggetto terzo, le forme di protesta e i contesti

negoziali nei quali si struttura l’esperienza partecipativa, riescono a reindirizzare il vecchio “capitale

politico” e a creare nuove interazioni tra abitanti e istituzioni, capaci di incidere sui processi di

institution building.

Mentre si producono nuove alleanze si creano nuovi confini e si ridefiniscono le distinzioni

“noi-loro” fra gli attori (Vitale, 2009). Questo processo spesso si affianca a meccanismi di

riconoscimento, in cui un’autorità pubblica mette in discussione i presupposti della sue scelte e

cede parte del suo ‘potere’ decisionale per riconoscere e utilizzare un diverso punto di vista. In

questo senso, “prendere sul serio i destinatari” (anche i cittadini che hanno maturato indifferenza e

ostilità verso l’intervento pubblico e gli attori pubblici), ciò che hanno da dire e ciò a cui tengono,

comporta un investimento in percorsi di dialogo e di negoziazione (Lowndes, 2006). Le dinamiche

negoziali, così attivabili:

- riguardano la mobilitazione di idee e interessi e l’assunzione di scelte su problemi collettivi;

8 L'esperienza dei comitati di cantiere si pone in stretto contatto con l'esperienza dei comitati inquilini. Se i comitati (di quartiere, di

cittadini) nascono negli anni Settanta come reazione alla crisi di legittimazione e di efficienza della democrazia rappresentativa, i comitati inquilini nascono in risposta alla mancanza di una politica della casa e alla cattiva gestione dell'edilizia residenziale pubblica. Le finalità e le forme di autogestione, così come avvenuto nella tradizione della lotta politica/sindacale di cui i comitati inquilini sono in parte espressione, esprimono un'attivazione dal basso, in difesa di un bene comune considerato anche un diritto: la casa pubblica.

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- accentuano la natura discorsiva del confronto tra attori, bisogni e progetti. A riguardo

Pinson parla di etica politica che vede nell’accordo, nel consenso costruito nel corso di un

processo dialogico, la garanzia della validità e della legittimità delle decisioni, della loro

accettabilità ma anche della continuità delle interazioni politiche (Pinson, 2009);

- permettono di “equilibrare” il conflitto (piuttosto che eliminarlo) coinvolgendo i potenziali

oppositori nei processi progettuali, favorendo l’attivazione di processi di apprendimento

istituzionale e il rafforzamento delle democraticità delle scelte;

- favoriscono elementi di indeterminazione e tensione che interessano gli strumenti e la loro

messa in opera.

Nel far emergere questioni “tabù” e conflittuali il soggetto terzo può avere una funzione

normalizzatrice o catalizzatrice. Nel riuscire a rispondere ai bisogni di partecipazione, l’operatore

può avere un ruolo di mentore non solo perché riesce a coinvolgere abitanti che, diversamente,

sarebbero rimasti ai margini dell’azione pubblica e dell’esperienza partecipativa, ma perché svolge

una funzione primaria di mediazione, tra attore pubblico e cittadinanza.

Diversamente dai processi di depoliticizzazione che caratterizzano il governo delle politiche

urbane (de Leonardis, 2013), l’esperienza osservata insegna che la partecipazione come strumento

di policy diventa azione pubblica nel momento in cui le scelte non si sottraggono alla discussione, al

conflitto e al compromesso; quando si rafforzano i processi di traduzione (e mediazione) degli

obiettivi; quando le scelte sono fondate su criteri di responsabilità (condivisa) e non di mero

compromesso politico.

Riflessioni conclusive

Le politiche urbane partecipate agiscono in contesti delimitati spazialmente e spesso caratterizzati

dal punto di vista politico e culturale. Tanto le idee di policy quanto i soggetti che sono chiamati ad

attuarle (attori pubblici locali, cittadini) agiscono in contesti embedded, e non neutri.

Nell’esperienza analizzata sono le stesse politiche per la casa ad aver modificato orientamenti e

culture prevalenti. Accade quindi che il ricorso ad aspetti negoziali possa portare a un triplice

effetto: i) gli abitanti percepiscono come contraddittorio il ricorso a percorsi regolati di confronto;

ii) può farsi strada un “egoismo” partecipativo; iii) prevale una delusione rispetto alle potenzialità

della partecipazione quando i processi diventano ostici e difficili da gestire.

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Vitale parla di tre terreni di verifica della qualità delle sperimentazioni in senso partecipativo:

la composizione sociale dei cittadini che si riesce a coinvolgere con tali pratiche (guardando a coloro

che meno partecipano, ed è il terreno sul quale sperimentare); la progettualità della partecipazione

e l’assunzione del territorio come ambito d’azione; la sperimentazione di esperienze meno

orientate ad includere “esperti della partecipazione” ma in grado di intersecare i meccanismi

decisionali all’interno di processi istituzionali e amministrativi (senza che diventino esclusivo

possesso di agenzie e organizzazioni di esperti) (Vitale, 2007).

L’introduzione di pratiche inclusive crea nei destinatari aspettative elevate di gestione,

trasparenza e risultati (ma anche di democraticità e socialità) che non vanno deluse. Il punto

principale è che, come dice Regonini (2005), occorre far reagire la democrazia partecipativa con la

democrazia rappresentativa, anche attraverso apprendimenti reciproci veicolati dall’uso

controverso e sperimentale di pratiche partecipative. Si tratta quindi di sperimentare modalità di

partecipazione affinché problemi invisibili o confinati in una dimensione privata possano essere

risolti e affinché gli abitanti possano far parte di un percorso di cambiamento, a partire dalla messa

in gioco delle proprie risorse, materiali e simboliche.

Le tre esperienze analizzate hanno avuto un impatto sulla sfera e istituzionale quando hanno

reso trattabile dall’amministrazione un tema (legato alla manutenzione degli spazi), hanno

modificato i rapporti di potere in modo tale da formare alleanze e far accettare le innovazioni

proposte. Per farlo, è strategico l’uso di figure intermedie, poste come interfaccia diretta con gli

abitanti e capaci di interloquire con l’amministrazione, lontane dalla retorica della tecnica come da

quella politica che si propone di utilizzare la partecipazione come mero strumento per la creazione

di consenso.

Il lavoro di accompagnamento si configura come un servizio di prossimità, di attivazione, di

mediazione e negoziazione svolto da operatori con competenze multidisciplinari, attraverso

un’azione costante di affiancamento e di contatto con le pratiche quotidiane degli abitanti. In

questo quadro, gli operatori hanno la possibilità non solo di ridefinire ruoli e il proprio mandato, ma

di lavorare dentro e fuori le istituzioni, innescando azioni spesso conflittuali. Anche quando il

conflitto non è promosso intenzionalmente è comunque messo in valore, per il suo ruolo di

pressione sulle dinamiche dell’opinione pubblica, ma anche per il potenziale trasformativo delle

relazioni sociali che contiene. Accogliere il carattere trasformativo di una pratica partecipativa vuol

dire, da parte del decisore, accettare l’opportunità di aprirsi a possibili spazi di cambiamento che

avverranno con modalità diverse e non prevedibili, in funzione dell’interazione tra cittadini e

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istituzioni e delle risorse che entrambi saranno in grado (vorranno) mettere in gioco nei singoli

contesti di azione.

L’introduzione di un soggetto terzo nei processi partecipativi ha permesso di far emergere

molte deformazioni che, in passato, avevano connotato negativamente le esperienze partecipative

e che avevano radicalizzato alcune posizioni degli abitanti nei confronti dell’amministrazione. Nel

processo di adattamento sono gli street-level worker a trasformare le azioni e, nel farlo, definiscono

non solo delle strategie di attuazione ma contribuiscono a definire la politica stessa. Dalle strategie

degli operatori emergono infatti diversi orientamenti, parte integrante delle tre esperienze che,

nella tipologia della guida (realismo), dell’educazione (didattica della responsabilità) e

dell’esecuzione (tirannia degli obiettivi) rimandano a diversi orientamenti di policy centrati su tre

asset principali: i) l’individuazione di incentivi pratici ad agire in chiave cooperativa, ii) l’uso delle

conoscenze e delle competenze degli abitanti, iii) il mancato adattamento delle azioni partecipative

al contesto e, quindi, l’incapacità di quest’ultimo di modificare gli obiettivi dell’esperienza inclusiva.

Nel corso dell’implementazione delle azioni di rigenerazione urbana, gli abitanti coinvolti

imparano a misurarsi con i limiti e le potenzialità di cambiamento dei processi partecipativi: questo

accade dove gli operatori agiscono come guida sostenendo le ‘disposizioni’ e le difficoltà degli

abitanti nell’adattarsi alle vischiosità e ai limiti del progetto. Lì dove gli operatori incentivano

esperienze negoziali attraverso una rimodulazione e messa in discussione di convinzioni e

pregiudizi, possono definirsi dei cambiamenti. In un contesto in cui la partecipazione si configura

con modalità non adattive rispetto alle caratteristiche del contesto, invece, è possibile che si

alimenti tra gli abitanti immobilismo e scetticismo sullo strumento inclusivo e sulla sua utilità.

Un’esperienza partecipativa che si propone in chiave inclusiva, non può che essere considerata

per il suo carattere sperimentale, per la sua capacità di modificare i comportamenti, di considerare i

piccoli fallimenti non come un limite ma come un’occasione per ripensare e riconsiderare gli

obiettivi di policy. Secondo questa prospettiva la partecipazione, intesa come strumento di policy,

rappresenta una forma di “sperimentalismo democratico” (Sabel, 2012) in quanto racchiude al suo

interno tre elementi principali: una combinazione di livelli e di attori inseriti nel governo delle

azioni, che si completa nel confronto con gli abitanti; il continuo aggiustamento di obiettivi e

procedure in risposta ai problemi e alle opportunità rilevate, attraverso un continuo processo di

trasparenza e di “review” nel quale sono inclusi gli abitanti; l’uso dei saperi, delle competenze e

delle conoscenze dei soggetti coinvolti, trasformando le conoscenze tacite in conoscenze esplicite

attraverso percorsi negoziali, di cambiamento della policy e dei suoi obiettivi.

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