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Guerra e pace nel Corano Paolo Branca

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Guerra e pace nel Corano

Paolo Branca

Di fronte a fatti come quelli dell’11 settembre 2001, all’or-rore e all’indignazione conviene affi ancare un’approfondita rifl essione sul mondo culturale nel quale ha potuto crescere un odio tanto assoluto e distruttivo. Dire che non è una guerra di religione né uno scontro di civiltà resta insuffi ciente e soprat-tutto non spiega perché proprio nel mondo musulmano siano situate le centrali operative e siano maturate le giustifi cazioni ideologiche di quanto è successo. Si tratta di capire come mai l’islam possa essere così facilmente ed effi cacemente strumentalizzato a questo scopo e fi no a questi eccessi.La felice mediazione che i primi musulmani seppero fare in passato tra la loro civiltà e altre grandi tradizioni, come la persiana e la bizantina, non si è altrettanto riprodotta nei confronti della modernità. Ma dire che l’islam e i musulmani siano «per loro stessa natura» fanatici e aggressivi è un giu-dizio sbrigativo e molto discutibile. Il contatto ravvicinato, che le migrazioni e la globalizzazione impongono, necessita di opportune rifl essioni e aperture al confronto. Sebbene faticoso e talvolta sconfortante, è uno sforzo irrinunciabile: non certo nel senso banale di un generico «vogliamoci bene», né tanto meno di un fuorviante sincreti-smo, ma come indispensabile confronto sull’essenza delle no-stre rispettive identità religiose senza pretendere di ignorare gli altri o di ridurli forzatamente alla propria misura.

insegna lingua e letteratura araba presso l’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano. Relatore in numerosi seminari di studio sull’islam presso prestigiose istituzioni come la Pontifi cia Universitas Urbaniana, l’Institut du Monde Arabe di Parigi e mol-te sedi universitarie italiane ed estere, accanto ai temi classici dell’islamologia, ha trattato in particolare le problematiche del rapporto islam-mondo moderno, con speciale riferimento ai fenomeni del fondamentalismo e del riformismo musulmani.Tra i suoi libri ricordiamo: I musulmani, Bologna 2000; Il Corano, Bologna 2001; Moschee inquiete, Bologna 2003 e Yalla Italia! Le vere sfi de dell’integrazione di arabi e musulmani nel nostro Paese, con prefazione di Gad Lerner, Roma 2007.

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Paolo Branca

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Hiwâr - Dialogo1

Collana diretta daEdoardo Scognamiglio

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GUERRA E PACE NEL CORANO

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ISBN 978-88-250-2764-8

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La collana «Hiwâr - Dialogo» nasce dall’esigenza di approfondire in ambito non solo teologico, ma pure storico-critico, socio-politico, culturale e spirituale, il dialogo islamo-cristiano. I saggi proposti raccolgono

le firme di esperti e di ricercatori impegnati concretamente nel-l’esperienza dell’incontro tra cristiani e musulmani. Le temati-che sono presentate in modo semplice, con linguaggio chiaro e immediato. Il logo, progettato dall’artista irakeno Khalil Wisam Pekandi, esprime questo significato: «perché non si spenga la fiamma del dialogo». Il logo riproduce artisticamente le lettere arabe che compongono il termine Hiwâr nella forma di due volti che si incontrano.

In copertina:Moschea Blu di Amman (Giordania)

Prima edizione digitale 2010

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Introduzione

Di fronte a fatti come quelli dell’11 settem-bre 2001, come ad altri spaventosi atti di terro-rismo, al comprensibile orrore e alla legittima indignazione conviene affiancare un’approfon-dita riflessione sul brodo di coltura nel quale ha potuto crescere un odio tanto assoluto e distrut-tivo. Dire che non è una guerra di religione né uno scontro di civiltà resta insufficiente e so-prattutto non spiega perché proprio nel mondo musulmano siano situate le centrali operative e siano maturate le giustificazioni ideologiche di quanto è successo. Certamente una grande potenza – specialmente se è rimasta l’unica in campo – ha numerosi nemici e contro di essa converge l’animosità di molti, ma non è un ca-

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so se alla fine chi ha scagliato materialmente l’attacco lo ha fatto, presumibilmente, al grido di «Allahu akbar». Mi sembra banale, a questo proposito, richiamare che il suicidio, per l’islam come per molte altre religiosi, è considerato un peccato… La storia insegna che quando si com-batte in nome della fede, si finisce per conside-rarsi in guerra contro l’impero del male e ogni riguardo per sé e per gli altri viene fatalmente accantonato.

La questione di fondo è piuttosto quella di capire come mai l’islam possa essere così fa-cilmente ed efficacemente strumentalizzato a questo scopo e fino a questi eccessi. Più o meno esplicitamente da molte parti si sostiene la tesi che esso vi sia incline per sua stessa natura. In altre parole, l’integralismo non sarebbe soltanto un’espressione deviata e aberrante di una tra-dizione religiosa che si poggia su tutt’altri fon-damenti, ma troverebbe in questa delle cause predisponenti, se non addirittura i presupposti della sua stessa esistenza. Citare qualche ver-setto coranico e ricordare qualche tragico even-to prodottosi nel corso della storia a sostegno di questa teoria è un gioco da ragazzi. Resta, però, da spiegare come da simili presupposti si sia potuta sviluppare una civiltà plurisecolare che ha saputo dare ben altre prove di sé, anche nel-

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lo specifico campo della «tolleranza» (benché allora non si chiamasse così) in materia di reli-gione, concedendo per esempio uno statuto di «protezione» agli ebrei – così come ai cristiani, in quanto monoteisti – in tempi nei quali altro-ve non erano usati nei loro confronti altrettanti riguardi. Il fatto è che quelli furono, per l’islam, i secoli del Rinascimento, seguiti e non prece-duti – come accadde per noi – dai tempi oscuri della decadenza. Se l’epoca moderna ha poi innescato dinamiche di rinnovamento anche nel mondo musulmano, lo ha fatto a prezzo di una sudditanza prima politica (con il colonialismo) e in seguito, comunque, economica e culturale rispetto all’Occidente.

La felice mediazione che i primi musulmani seppero fare in passato tra la loro civiltà e altre grandi tradizioni, come la persiana e la bizan-tina, non si è altrettanto facilmente riprodotta per varie ragioni nei confronti della modernità. I rapporti di forza non erano più i medesimi, la fiducia in se stessi aveva lasciato spazio allo smarrimento, il peso di una tradizione inaridita e cristallizzata toglieva elasticità e baldanza… Oltretutto l’Occidente, curandosi più dei propri interessi immediati che dell’immagine di sé che promuoveva presso gli altri popoli, si presenta-va con l’ambiguo volto di un predicatore di no-

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bili principi cui era però assai poco fedele fuori da casa sua. In un primo tempo, la tendenza a cercare di assimilare quegli aspetti della mo-dernità che potevano essere utili e non troppo dirompenti in contesti sociali ancora piuttosto arcaici, comunque prevalse, nonostante la resi-stenza degli ambienti tradizionalisti. Ideologie come il nazionalismo e lo stesso socialismo fu-rono adottate talvolta in modo entusiasta, ma lasciando irrisolto il nodo di una loro autentica assimilazione che si armonizzasse con valori e tendenze locali, invece che limitarsi ad affian-carli in una miscela instabile e potenzialmente esplosiva.

A peggiorare le cose si aggiunsero annosi conflitti locali – primo fra tutti quello arabo-israeliano – la cui mancata soluzione ha fini-to per esasperare gli animi. La serie infinita d’insuccessi politico-militari, l’impressionante crescita demografica, le responsabilità di classi dirigenti incapaci e corrotte alimentano così un disperato bisogno di rivalsa. Se si tiene conto poi che in questa parte del mondo la democra-zia, la libertà di associazione e di espressione, i diritti umani sono quasi del tutto assenti, non si fatica a capire come la religione resti l’unico linguaggio praticabile per esprimere il proprio disagio. Tanto più che gli stessi governi la uti-

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lizzano come strumento di legittimazione, ali-mentando nelle scuole di ogni ordine e grado il mito di un islam statico e atemporale, non interessato da alcuna evoluzione poiché perfet-to e immutabile, quindi non criticabile al pari dei suoi tutori ufficiali. È logico, quindi, che chi combatte contro tali regimi e contro i lo-ro alleati stranieri finisca per richiamarsi agli stessi principi, sia perché sono genuini e non d’importazione, sia perché risultano gli unici utilizzabili, sia infine per la loro efficacia: so-no inossidabili, richiamano spontaneamente la simpatia della gente comune, forniscono una legittimazione almeno equivalente a quella dei governi in carica. Se poi ricordiamo che non di rado questi ultimi hanno favorito i gruppi islamici radicali per liquidare altri oppositori interni di diversa matrice, potremo constatare che anche il cinismo di chi scherza col fuoco ha la sua importanza…

L’appoggio fornito ai fondamentalisti in Af-ghanistan perché combattessero i russi rien-tra in questo genere di cose. I jet che si sono schiantati contro le Torri gemelle e il Pentago-no venivano da questa galassia, così come le sconcertanti manifestazioni di giubilo di alcuni ricordano la simpatia che i cafoni del nostro meridione riservavano ai briganti: poco impor-

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tava che si trattasse di ladri e assassini, poiché erano gli unici a contrastare in qualche modo l’arroganza di uno stato insensibile, estraneo e opprimente.

Dati questi presupposti, c’è quasi da mera-vigliarsi del fatto che il radicalismo musulmano sia comunque ancora un movimento minorita-rio rispetto alla massa dei fedeli dell’islam. Si tratta di oltre un miliardo di persone che vivo-no ed esprimono la loro appartenenza religiosa in forme diversissime: considerarli un blocco monolitico sotto il vessillo del fondamentalismo significherebbe dare a quest’ultimo l’immerita-to titolo di rappresentante legittimo e ufficiale dell’intero islam. È esattamente ciò a cui punta, e potrebbero favorirlo in questo reazioni ecces-sive che indurrebbero a un compattamento del fronte musulmano.

Che l’islam e i musulmani siano «per loro stessa natura» fanatici e aggressivi è quindi un giudizio sbrigativo, molto discutibile e dagli ef-fetti devastanti, se non altro perché contropro-ducenti. Molti passi coranici sono spesso citati per dimostrarlo, da parte di persone che il testo sacro dell’islam lo conoscono poco, magari an-che da qualcuno che non lo aveva mai aperto prima ma si è limitato a consultarlo per l’occa-sione, trovando alcuni brani che confermavano

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le proprie tesi precostituite e ignorando del tut-to parti di ben diverso tenore.

Nella Bibbia non mancano passi in cui, nei confronti degli avversari, si ricorre a toni ana-loghi se non addirittura peggiori: «O Babilonia devastatrice, sia benedetto chi sfracelli i tuoi figli sopra una roccia!» recita il Salmo 137 (vv. 8-9) e per vantare la superiorità di un re sull’al-tro non si esita a esclamare: «Saul uccise i suoi mille e Davide i suoi diecimila» (per ben tre volte nel primo Libro di Samuele: 18,7; 21,11; 29,5). Vogliamo dedurne che ebraismo e cri-stianesimo predicano l’annientamento fisico o il disprezzo morale per tutti coloro che appar-tengono ad altre religioni? I testi sacri, grazie al cielo, non sono catechismi, e pretendere di dedurre da singole frasi o episodi la natura vera e profonda del loro messaggio è un’operazione truffaldina che ignora secoli di storia per ap-piattirsi su un’interpretazione meramente let-terale, propria, tra l’altro, dei tanto vituperati fondamentalisti.

Portando alle estreme conseguenze simili premesse si finirebbe per dire – come ormai fanno in molti – che sono le religioni stesse a costituire un pericolo per la pace tra i popoli, dimenticando che – non proprio molto tempo fa – ideologie a-religiose quando non apertamente

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anti-religiose hanno saputo produrre massacri ed ecatombi ben peggiori di quelle perpetrate in nome di qualsiasi fede. Siamo, insomma, in pieno territorio di banali e squallidi pregiudizi reiterati in nome di una presunta superiorità del laicismo sulla religiosità.

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Alle origini del jihâd

Sorto nel cuore dell’antica Arabia, l’islam ha trovato nella lingua e nella cultura di questa terra i suoi primi e principali veicoli di trasmis-sione e propagazione. La diffusione del credo islamico, che avvenne con sorprendente rapidi-tà dopo la morte del Profeta, ben oltre i confini della penisola desertica che l’aveva visto sorge-re, incorporò nella comunità musulmana nuove popolazioni le quali non avrebbero tardato a mettere in discussione la supremazia araba che in un primo tempo aveva dominato incontrasta-ta in ogni settore. Spinto dalla sua stessa affer-mazione, l’islam si trovò, quindi, a sviluppare sempre di più le caratteristiche proprie di una

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religione universale e di una civiltà pluralistica, incompatibili con il monopolio di una particola-re etnia e di una determinata cultura sulle altre che erano confluite nel suo seno.

Eppure nessuno studio serio relativo al-l’islam può esimersi dal considerare l’ambiente geografico, umano e culturale nel quale questa religione ha avuto la sua origine.

La personalità del nomade è un dono del de-serto. Sull’esempio dell’ambiente nel quale vive, egli è al tempo stesso avaro e generoso, impa-ziente e longanime, aspro e dolce. La sua vita d’ogni giorno è fatta di contrasti come le soli-tudini ch’egli attraversa: sabbie ardenti e ricche oasi. Quest’esistenza errante insegna a non avere fretta, a usar pazienza e a rassegnarsi. Una per-manente privazione dà a tutti i suoi atti e gesti un retrogusto d’amarezza: la sua gaiezza reca l’impronta della malinconia, e nei suoi godimenti passeggeri egli mantiene presente ai suoi occhi la futilità dell’esistenza. Filosofo a modo suo, egli ha saputo elaborare, per meglio governarsi nella vita, una sublime saggezza antica fatta di pessi-mismo e rassegnazione […]. Ma quest’esistenza monotona porta in sé tutti i contrasti. Agitata da un’immaginazione fertile e possente, essa si colo-ra di tutti gli eccessi della vita urbana. Il nomade sogna la gloria, i fatti grandiosi, la magniloquen-za, tutto ciò che può suscitare il meraviglioso […]. Tutto ciò che lo tormenta durante la sua lunga solitudine, egli lo realizza in un sogno a occhi aperti e se lo rappresenta come vissuto. È

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coraggioso senza cedimenti, irreprensibilmente generoso, caritatevole, ospitale, libero nella sua musa come libero nella sua persona1.

1. L’epoca preislamica o dell’ignoranza

La religiosità dell’epoca preislamica, cono-sciuta dai musulmani col nome di Jâhiliyya ov-vero tempo dell’«ignoranza», è spesso presen-tata, tanto nei testi islamici quanto nelle divul-gazioni occidentali come «rozza», «primitiva» o «superficiale». Studi più accurati e approfonditi a tale riguardo hanno in parte rivisto l’idea del-l’«indifferentismo religioso dei beduini», non mancando di sottolineare forme di culto e strut-ture di rapporto col sacro piuttosto articolate che non ci proponiamo qui di analizzare nel dettaglio, ma che vanno almeno brevemente richiamate, poiché il ben più complesso e so-fisticato edificio dell’islam ha trovato i propri fondamenti in esse non meno che negli apporti delle precedenti tradizioni religiose monotei-

1 J. chElhod citato in N. anghElEScu, Linguaggio e cultura nella civiltà araba, Torino 1993, pp. 121-122.

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stiche alle quali esso stesso esplicitamente si riallaccia.

Come in altre religioni antiche, anche in quella dell’Arabia preislamica l’aspetto pratico e istituzionale prevaleva su quello dogmatico: piuttosto che di fronte a un sistematico insieme di credenze ci troviamo in presenza di un com-plesso di atteggiamenti, costumi e tradizioni. Così, come i sedentari offrivano agli dei i pro-dotti della terra, i nomadi erano soliti sacrificare capi di bestiame o ne consacravano alle divini-tà alcuni che marchiavano in genere fendendo loro un orecchio: si trattava principalmente di cammelle che non venivano più né montate né tosate e il cui latte era riservato agli ospiti e ai bisognosi. Alcuni sacrifici di animali erano compiuti per ottenere una grazia, per scioglie-re un voto o, più semplicemente, si trattava di una quota di greggi o mandrie particolarmente numerose riservata a tale scopo.

Un aspetto determinante della religione ara-ba antica era inoltre il suo carattere astrale che ha affascinato e impegnato gli studiosi portan-doli a formulare differenti teorie in proposito. I corpi celesti oggetto di maggiore attenzione sembra fossero la luna, il sole e Venere, spesso collegati a idoli e divinità, ma non sempre in modo chiaro e diretto. La loro importanza vie-

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ne d’altra parte confermata anche dal Corano, ove spesso gli astri compaiono in formule di giuramento e nel titolo stesso di alcune sure come quelle della Stella (53), della Luna (54), dell’Astro notturno (86) e del Sole (91). Molto diffusa era la venerazione delle pietre, sulla cui origine e funzione da tempo si discute senza che una teoria possa né debba necessariamente prevalere sulle altre escludendole. Forse all’ini-zio si trattava semplicemente delle pietre su cui venivano compiuti i sacrifici o che delimitavano lo spazio di un luogo di culto, ma in seguito e specialmente nei centri urbani si è vista la loro evoluzione formale in veri e propri idoli.

Questo progresso «plastico», probabilmen-te determinato da influssi esterni, non ha però comportato un’autentica evoluzione nella con-cezione del rapporto col sacro espressa nelle forme di culto tributate a tali divinità. Non di rado anche alcuni alberi condividevano con le pietre un’analoga funzione sacrale, per cui non sorprenderà trovare nelle tradizioni islamiche relative alla vita del Profeta anteriore all’inizio della sua missione il racconto del misterioso saluto rivoltogli da ogni sasso e ogni pianta al suo passare. A quella di pietre e alberi si affian-cava la collettiva e impersonale presenza dei jinn, sorta di demoni o spiriti del deserto, la cui

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funzione nelle credenze dei nomadi è probabil-mente meno tipica e sicuramente meno centrale di quanto si è spesso voluto credere. Anche gli antenati erano oggetto di venerazione e special-mente gli eroi eponimi delle tribù ricevevano forme di culto che rispecchiavano l’importanza delle genealogie nella struttura sociale. Non si può escludere che gli idoli venerati nelle singole località derivassero a volte da jinn o da antenati assurti al grado di divinità, ma più spesso si tratta della personificazione di forze della natu-ra (come Quzah dio della tempesta), di divinità astrali (come al-Lât – letteralmente «la dea» – e al-`Uzzâ – «la possente» – legate al pianeta Venere) o correlate alla sorte dell’uomo, come Manât, dea del destino.

Non intendiamo sviluppare uno studio si-stematico che richiederebbe di risalire alla poe-sia araba antica e a fonti storiche preislamiche, ampiamente citate in opere di maggior respiro alle quali rimandiamo il lettore2. Ci limiteremo,

2 Cf. M. Khadduri, War and peace in the law of Islam, Baltimore 1955; B. Scarcia amorEtti, Tolleranza e guerra santa nell’islam, Firenze 1974; V. Fiorani PiacEntini, Il pen-siero militare nel mondo musulmano, 3 voll., Roma 1991-1994; C. décobErt, Le mendiant et le combattant, Paris 1991; P. créPon, Le religioni e la guerra, Genova 1992; A. morabia, Le Gihad dans l’islam médiéval, Paris 1993.

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invece, ad analizzare l’uso del termine jihâd e degli altri derivati dalla stessa radice nel Co-rano e nella Carta di Medina. Anche in questi limiti notevolmente ristretti credo tuttavia che l’indagine potrà offrire interessanti spunti di riflessione dai quali emergerà con chiarezza co-me, lungi dall’esprimere una presunta aggressi-vità connaturata all’islam, il jihâd in particolare e più in generale i conflitti che hanno segnato gli inizi di questa religione rientrassero tra i meccanismi propri della società araba antica attraverso i quali si regolavano i rapporti tra differenti gruppi e si mettevano alla prova le loro alleanze. La diffusione e il consolidamento dell’islam presso i suoi primi seguaci, per molti aspetti tanto simile anche a una rivoluzione po-litica oltre che religiosa e culturale, non poteva quindi rimanere estranea a tali dinamiche.

Qualcosa di analogo d’altra parte si può dire anche per altre manifestazioni tipiche della società beduina quali la vendetta e la razzia: la prima infatti costituiva una sorta di garanzia senza la quale «l’existence deviendrait impos-sible au milieu du désert»3 mentre la secon-da rappresentava una forma di ridistribuzione delle ricchezze funzionale alle condizioni della

3 H. lammEnS, Le Berceau de l’islam, Roma 1914, p. 246.

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Finito di stampare nel mese di settembre 2009Villaggio Grafica – Noventa Padovana, Padova