Pani

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PANI Tradizione e prospettive della panificazione in Sardegna

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Una guida completa del pane di Sardegna

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P A N ITradizione e prospettive della panificazione in Sardegna

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P A N ITradizione e prospettive della panificazione in Sardegna

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Indice

© 2005 ILISSO EDIZIONI - Nuorowww.ilisso.it

ISBN 88-89188-54-5

La pubblicazione di questo volume è stata resa possibile grazie al sostegno del BANCO DI SARDEGNA S.p.A. e della FONDAZIONE BANCO DI SARDEGNA

Collana di ETNOGRAFIA E CULTURA MATERIALE

Coordinamento Paolo Piquereddu

Coordinamento redazionale Anna Pau

Grafica e impaginazione Ilisso edizioni

Progetto grafico copertina Aurelio Candido

Referenze fotografiche Le fotografie sono state appositamente realizzateper questo volume da Pietro Paolo Pinna e fanno parte dell’ARCHIVIO ILISSO,al quale appartengono anche le fotografie di Mario De Biasi, SebastianoSatta, Salvatore Mura, Max Leopold Wagner e le immagini n. 36, 81, 511.

Le seguenti foto appartengono agli archivi: n. 1 ARCHIVI ALINARI; n. 42 AR-CHIVIO CONTRASTO; nn. 38, 40, 61, 74-75, 111-116, 581, 635 ARCHIVIO MA-RIANNE SIN-PFÄLTZER; n. 24 ARCHIVIO FULVIO ROITER; nn. 469, 472-475 ARCHI-VIO ISRE.

È vietata ogni ulteriore riproduzione e duplicazione

Un sentito ringraziamento è rivolto ai panificatori, il cui lavoro ha permes-so la pubblicazione di questo volume, e a tutti coloro che hanno collabo-rato a vario titolo, in particolare: il Museo della Vita e delle Tradizioni Po-polari Sarde di Nuoro, negli addetti alla gestione e nella persona deldirettore generale dell’ISRE Paolo Piquereddu; le due Soprintendenze per iBeni Archeologici della Sardegna, nelle persone dei soprintendenti France-sco Nicosia e Vincenzo Santoni; il Civico Museo Archeologico “Genna Ma-ria” di Villanovaforru nella persona del curatore Ubaldo Badas; il CivicoMuseo Archeologico alle Clarisse di Ozieri nella persona del direttore Lu-crezia Campus; il Museo Civico “Casa Atzori” di Paulilatino nelle personedei componenti la Società Cooperativa “Archeotour”; il Museo delle Tradi-zioni Agroalimentari “Casa Steri” di Siddi nella persona del direttore AnnaMaria Steri; il Museo Etnografico di Sant’Antioco nelle persone dei compo-nenti la Società Cooperativa “Archeotour”; il Comune di Muravera nellapersona del Sindaco Salvatore Piu; la Pro Loco di Olmedo nella personadel presidente Massimo Meloni; la Pro Loco di Ussassai nella persona delpresidente Maria Serrau; la Società Cooperativa “Forum Traiani” di Fordon-gianus; il Comitato del 2005 per i festeggiamenti di San Marco di Lei; ilPriore di San Giovanni Battista di Fonni Roberto Marceddu; Marianne Sin-Pfältzer per la premurosa disponibilità; Salvatore Ferrandu per la fonda-mentale opera di supporto e consulenza relativamente a Thiesi, Cheremulee Bessude; Anna Maria Cabras, Gianluca Corsi, Bianca Moncelsi, LuisaMonne, Giuseppina Rosa e Antonietta Sanna per la preziosa competenza;Angelo Aste, Giovanni Maria Demartis, Anna Pia e Stefano Demontis, Cate-rina Dessì, Stefania Farris, Ivo Serafino Fenu, Giuseppe Fogarizzu, SimonaFrau, Franco Fresi, Silvana Frongia, Graziella Manconi, Salvatore Novellu,Mena Orrù, Giovanna e Pasqua Palimodde, Vincenzo Palimodde, famigliaPiras, Teresa Piu, Luisa Putzu, la Società Cooperativa Teatro “Fueddu e Ge-stu”, Maria Spissu Nilson, Fulvio Stellino, Venturino Vargiu e Graziella Mat-ta, per il generoso sostegno; Maria Piliu per la consultazione al corredo fo-tografico della sua tesi di laurea; Maria Pasqua Carta, Giovanna Chessa,Maria Francesca Cocco, Costantino Corongiu, Giovanna Maria Manca, Vit-torina Manca, Mariedda Pes, Santeddu Putzolu per la ricerca relativa a Se-dilo; il Mulino Sulis di Samugheo; la Panetteria “Da Graziella” di Nuoro.

7 PANI DI SARDEGNAAlberto Mario Cirese

19 LA CULTURA DEL PANE NELLA SARDEGNA TRADIZIONALEGiulio Angioni

52 IL PANE IN SARDEGNA DALLA PREISTORIAALL’ETÀ ROMANATatiana Cossu

60 GRANO E PANE NELLA SARDEGNA GIUDICALEBarbara Fois

63 L’ETERNA CONTESA DEL GRANOFrancesco Manconi

67 I PANI DELLA TRADIZIONEGiannetta Murru Corriga

230 LA MOLA ASINARIA: UNA COMPLESSA MACCHINAANIMALEMaria Gabriella Da Re

233 LE MOLE ASINARIE DECORATEMargherita Coppola

236 PANE DI GHIANDE: UN’INTERVISTA DI VENTI ANNI FAMaria Teresa Mazzella

239 IL MAIS IN SARDEGNAGerolama Carta Mantiglia

242 PERCHÉ L’ORZO DIVENTI PANE. I SAPERI FEMMINILI PERDUTIGiannetta Murru Corriga

248 IL PANE DI SAN GIOVANNIPaolo Piquereddu

253 LA CANDELARÌA DI ORGOSOLOPaolo Piquereddu

259 IL PANE DEI POVERI DI SAN COSTANTINOMaria José Meloni

262 I PANI E LA FESTA DI SAN MARCO A LEIFranca Rosa Contu

270 SU PANE ’E SANTU TILIPPU DI CUGLIERIGian Franco Farina

274 SU CRISPÈSU: ARTE POPOLARE FIGURATIVA E PLASTICAIN SU PAN’E SA COJA ORROLESELucia Marrocu Ortu

280 LA FÉSTA DE IS BAGADÍUS A SIURGUSGiulio Angioni

285 FARE IL PANE A VILLAURBANAMirella Tatti, Sebastiano Chighini

289 QUOTIDIANITÀ E CERIMONIALITÀNEI PANI PER I BAMBINIAnna Lecca

315 IL PANE RACCONTATORoberto Randaccio

329 IL PANE NARRATO DAL POPOLOChiarella Addari Rapallo

340 GRANO, FARINA E PANE NELLA MEDICINA POPOLARENando Cossu

343 IL LESSICO DEL PANEGiovanni Lupinu

357 PAROLE E FORME DEL PANE IN SICILIA PER UNPOSSIBILE CONFRONTO CON I PANI DELLA SARDEGNAAntonino Cusumano

373 IL PANE A LIEVITAZIONE NATURALE: UN ALIMENTO DA RISCOPRIREGiovanni Antonio Farris, Manuela Sanna, Maria Cristina Dore, Mariella Dettori

383 L’EVOLUZIONE DELLA COLTURA DEL GRANO DUROIN SARDEGNA: ASPETTI VARIETALI E QUALITATIVIMarco Dettori, Mario Lendini

391 IL PANE FRA TRADIZIONE E MERCATOSergio Lodde

402 LA RIPROPOSTA DELLA TRADIZIONE: CONTINUITÀ E NUOVE PROSPETTIVEVladimira Desogus

410 INDICE DELLE LOCALITÀ E DEI PANIFICATORI

412 BIBLIOGRAFIA (a cura di Maria Teresa Mazzella)

418 AVVERTENZE REDAZIONALI

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Felice fu, davvero, quel momento in cui scoprii, scoprim-mo, i pani sardi: bellezza, e non soltanto cibo, sia purprezioso. E di lì nacque lo scritto Per lo studio dell’arteplastica effimera in Sardegna che più oltre si ristampa.Alla fine degli anni Cinquanta, mezzo secolo fa, gli stu-di sulle tradizioni sarde erano certo già vivi anche inSardegna, ed anche con frutti egregi. Non c’era ancoraperò, nell’isola, un insegnamento universitario di Storiadelle Tradizioni popolari: il primo venne attivato infatti aCagliari, facoltà di Lettere e Filosofia, nel dicembre del1957. Iniziò allora la mia pendolarità sarda, poi durataquindici anni. E subito mi parve che – fermo restando ilcarattere generale dell’insegnamento: tutte le tradizioni enon quelle sarde soltanto – l’incarico imponesse ancheun preciso dovere che dirò isolano: progettare e realizza-re rilevamenti e spogli sistematici che, anche con l’impe-gno degli studenti, dessero basi documentarie più ricchee salde agli studi sulle tradizioni sarde. Venne così confi-gurandosi il progetto che chiamai Repertorio e AtlanteDemologico Sardo, e che dal 1964 ebbe nel BRADS ilsuo Bollettino. Strumento principe del Repertorio furonoovviamente i questionari, avviati fin dal 1960 con natu-rale varietà di oggetti. Tra gli altri ci fu anche il pane:un tema che all’inizio fu presente per ragioni sistemati-che e non per suo proprio spicco o rilevanza; inoltre ilquestionario – redatto nel 1965 ed intitolato Tipi e le de-nominazioni del pane – considerò il pane soprattutto inquanto prodotto fabrile e in quanto cibo: tipi di farina edi lievito, modi di preparazione e di cottura, e simili.Tuttavia subito ci si impose, senza però che ce ne avve-dessimo, quella che poi ebbi a chiamare la “biplanarità”dei pani, e cioè il loro valere ed agire come segno oltreche come alimento. Nel questionario infatti ci furonoanche domande sulle “forme”, passando così all’altrafaccia: dal pane che nutre al pane che dice. Ovviamente,per documentare le forme, il questionario chiese che i ri-levamenti fornissero anche fotografie e disegni. E furonoappunto le fotografie – primissime quelle dei pani di SanSperate procurate da Assunta Schirru e pubblicate inparte nel primo numero del BRADS, 1966 – che detteroalla ricerca una decisiva svolta: in pura levità di forme,

i pani di Sardegna ci abbagliarono, il tema divennecentrale, e prese il via un fervido lavoro collegiale, don-ne nelle loro case a dar vita all’arte, e studenti e studen-tesse in esercitazioni e tesi. Così negli angusti armadi avetri del nostro corridoio, in Facoltà, cominciarono adallinearsi, prima, ed a stiparsi poi, le trine, i merletti, itrafori, i dischi, i rami, i pastorali, le croci di pane: unaraccolta preziosa che, dopo averla per anni curata edaccresciuta, Enrica Delitala ha infine donato al museodell’ISRE di Nuoro perché, fuori dagli stipi, goda della lu-ce e dello spazio cui ha diritto. Dal fervore della scoperta nacque anche un libro, Pla-stica effimera in Sardegna: i pani, che Enrica Delitala,Chiarella Rapallo, Giulio Angioni ed io pubblicammonel 1973 con la cura grafica di Tonino Casula: quasicinquanta bellissime immagini di pani, splendidi. E perquel libro (ristampato poi nel 1976 ma ormai, credo,introvabile) scrissi una nota, Per lo studio dell’arte pla-stica effimera in Sardegna, che cronologicamente si tro-va a coincidere con il chiudersi della mia pendolaritàsarda. Ma, in sé e nel mio itinerario di studio, quellanota non chiuse: aprì. Di lì a poco la ristampai – Arteplastica effimera: i pani sardi, 1977 – e in un Poscrittodissi di quella “bivalenza o bifunzionalità o biplana-rità” che i pani di Sardegna mi avevano rivelato con illoro “essere per un verso alimento o sussistenza e perl’altro forma e segno”. E furono proprio questi concettiche, riverberandosi sulle considerazioni museografiche,mi portarono ad associare gli “oggetti” e i “segni” finnel titolo stesso del libro in cui ristampai la nota: Og-getti, segni, musei. Ed in appresso altrettanto avvenne,nei contenuti oltre che nel nome, sia negli scritti dedi-cati a Segnicità, fabrilità, procreazione, tra il 1979 e il1984, sia in quelli che, nel 1994, Pier Giorgio Solinas egli altri amici senesi riunirono in Il dire e il fare nelleopere dell’uomo. Tornando oggi su queste remote cose, mi accade di con-siderare che la mia parabola sarda, 1957-72, si aprì esi chiuse con l’incontro (anzi la scoperta, per me) didue singolari e affascinanti specializzazioni culturalidell’isola. La prima fu quella del lucido gioco metrico dimutos, muttettus, trintasex, chimbantachimbe ed altro,su cui tanto felice tempo spesi fin dai miei primi giornisardi. La seconda fu poi quella del nitido svariare dei

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Pani di SardegnaAlberto Mario Cirese

1. Cottura del pane, Tratalias, 1914-15 (foto Vittorio Alinari).1

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2. Cartoncino augurale del Natale 2001, realizzato da Alberto Mario Cirese.

3. Ramo di pane con fiori e uccelli, Simaxis, 1986.

religiosamente aprendo la teca agli occhi amici, per glo-riarmi di così raro oggetto e per gioire di stupefatti sguar-di, trovavo sempre al loro perfetto posto, librati, i lieti ra-mi con uccelli e fiori che con tanto raffinata levità quelpane finge. Finché poi una volta, or fa tre anni, mi venneidea di condividerne l’immagine con altri, ed in assenzadi più adeguati mezzi, stolidamente usai lo scanner, pog-giando la fragile scultura a faccia in giù sul vetro. L’esitofu per un verso quasi disastroso e per l’altro entusia-smante. Una prima immagine riuscì assai bella e il panesuperò la prova indenne. Ma in quella foto era persa laverticalità della sagoma arborea, ed il pane sembravapiuttosto raffigurare qualcosa di orizzontale come, cheso, un’aiuola. Volevo invece, ed era giusto, che la verti-calità dell’albero non scomparisse, e ripetei perciò l’ope-razione cambiando la collocazione della scultura sul ve-tro. Mutati gli equilibri, però, il pur lieve peso del panene spezzò due rametti. Disastro, appunto; ma la sorte mifu, come altre volte, amica: i rametti si disposero congrazia ai piedi della pianta, staccati dalla brezza e nonstroncati dall’uragano. L’immagine tutta poi, come benmostra la foto, risultò morbida e lieve, quasi aggiungen-do valenze all’originale. A conclusione del lieto e triste e forse vano divagarevalga l’augurio che, umile e intensa, la bellezza deipani di Sardegna trovi occhi e cuore, ancora, in chiviene appresso.

Roma, novembre 2005

lettori in modi che ne consentissero la più viva e im-mediata godibilità. Ma poi non ne fu nulla. E credoche ormai continuerà così: da parte mia per legge dinatura, e da parte altrui per manco d’amore;

Ventanas funti tristes,Birdieras in dolu…

Ma qualche malinconia viene anche dal poi, se è veroche, per far eseguire pani nell’antico stile, talvolta è oc-corso mostrare alle panificatrici il nostro libro del 1973.La demagogia degli agit-prop – credo si debba dura-mente dirlo contro le dimenticanze –, quella demagogia,allora, accusò noi e i nostri musei demologici di far ope-ra di rapina e spoliazione culturale ai danni del ‘popo-lo’. Oggi è chiaro che fummo proprio noi, i rapinatori, asalvare nei grigi corridoi della Facoltà memorie che per-fino il popolo ha perduto. Ma qui mi fermo: di continua-zioni, scomparse, riprese ed oblii so assai poco (e mi sistringe il cuore al pensiero che il mondo che fu nostromuoia anche negli aspetti di umanità e amore e dolcez-za di cui ci nutrimmo). Perciò non mi azzardo a tocca-re il tema, e mi rifugio nel mondo cui appartenni, deipani antichi: cui dedico appunto due foto.La prima è una composizione che realizzai nel 2001,quando ferocia esterna e connivenze nostrane mi spin-sero a riprendere l’uso di quegli auguri natalizi che dadecenni avevo abbandonato. A tema scelsi una somi-glianza che da tempo mi aveva stupito: quella tra la cro-ce che la luce disegna sul muro di una chiesa sarda e lacroce in cui furono foggiati tanti pani isolani. Così aduna foto dell’oculo del transetto destro della chiesa diSanta Maria di Corte di Sindia affiancai quelle di duepani, l’uno di Mores e l’altro di Siurgus: architettura pa-ni croci. Nascono curiosità: la quasi identità di forme èun caso? o c’è stato un comune modello? o sono le formeche per propria misteriosa forza erompono? Ma, transettie fantasie a parte, viene da chiedersi, importuni, se i pa-ni di Sardegna non avrebbero meritato che qualcuno,magari tra i suoi figli, le studiasse da vicino, quelle for-me, critico o storico d’arte, demologo o che so mai altro.Il transetto della foto è a Sindia, i due pani sono al mu-seo dell’ISRE di Nuoro, vittoriosi ancora, lo spero, controle ingiurie del tempo. È invece in casa mia, a Roma, edin stato di conservazione fino a poco fa perfetto, il paneraffigurato nell’altra foto che unisco. Opera delle felicimani di Peppina Solinas, questo pane mi giunse da Si-maxis, Oristano, per il tramite di Maria Teresa Mazzellaquando discusse a Roma la sua tesi sui pani sardi, nel1986: buon lavoro il suo, e partecipazione estrema, lamia, a quei lavori del Repertorio sardo che ormai eranoda anni così ben guidati da Enrica Delitala (che perl’occasione, è caro ricordarlo, da Cagliari venne a tene-re di persona la sua correlazione). Quel pane di Simaxis è durato a lungo indenne, ermeti-camente chiuso com’era (ed è) nella scatola di vetro incui lo stivò in soffice coltre l’autrice. Cosicché ogni volta,

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pani in plastiche forme che tanto mi colpì in appresso.Versificazione e modellazione, l’impasto e le parole: duemondi espressivi tra loro affini oltretutto perché sonoambedue del tutto “inutili”: che è il proprio, appunto,della bellezza. Civiltà assai alta, dunque, e tanto piùper il fatto d’essere fiorita da così aspre durezze di vita. Ma ai ricordi lieti si accompagna anche il rammaricoper cose non fatte. Due altri specifici modi isolani dicreare bellezza mi parvero allora strettamente affiniai versi e ai pani, ed altrettanto ricchi: il ballo e le tes-siture (iteranti anch’essi, come i mutos e i pani). Ma lisfiorai appena, da lungi. Ancor più debbo dolermi perun progetto che, pur se tracciato, non ebbe poi vita.Dedicai allora alla logica dei metri sardi tempi lunghidi studio, faticosi ma felici. A fianco però di questeanalisi che miravano a cogliere e capire il fascino delcostruire metrico sardo c’era l’abbandono alle imma-gini: al loro fascino in sé. E così progettai (ed un edi-tore continentale, importante, accettò l’idea) una an-tologia dell’Arte del trobear, come ebbi a chiamarla:mutos e tutto il resto presentati a un pubblico vasto di

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I pani a corredo del presente saggio, figg. 4-17, e quelli alle figg. 380, 383, 549 e 556, fanno parte della raccolta della Cattedra di Storia delle Tradizioni popolari della facoltà di Lettere e Filosofia di Cagliari, attualmente conservati al Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde di Nuoro. Si tratta di una preziosa documentazione messa insieme tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, grazie al puntuale lavoro degli studenti e dei laureandi guidati dalla prof.ssa Enrica Delitala.

4. Tunda, 33 cm, Busachi, anni Sessanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.Si tratta di un pane realizzato per il Capodanno, sul qualevenivano modellate scene legate alle attività pastorali oagricole. Il pane, dopo esser stato benedetto, veniva tagliato dal capofamiglia che teneva per sé il primo pezzo e destinava il secondo al bestiame o ai campi.

5. Cabuànnu, 22 cm, Noragugume, anni Sessanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.Pane donato dai ricchi proprietari ai propri lavoranti, pastori e contadini, in occasione del Capodanno. Ai pastori era destinato quello con la raffigurazione del recinto per il gregge (sa mandra), mentre i contadiniavevano un cabuànnu con l’aia (s’arzola).

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SARDEGNA: PANI ARCHITETTURA CROCI

SU CABUDEPANE PER CAPODANNO

MORES (SS)

OCULO DEL TRANSETTO DESTROSANTA MARIA DI CORTE - SINDIA

ARREGULAPANE PER LA FESTA DE IS BAGADIUSSIURGUS (CA)

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renza di quanto accade per il legno o l’osso, i colori epersino la creta, la materia su cui si opera è integral-mente e giornalmente familiare, e le tecniche per padro-neggiarla, dall’impasto fino alla cottura, sono patrimoniousuale e generalizzato fin dall’infanzia, così che la mo-dellazione figurativa dei pani non è altro che un prolun-gamento, un raffinamento e insomma una applicazionespecifica di capacità e di competenze già di per sé abi-tuali e universalmente divulgate. Qualcosa di simile ac-cade certo anche per altre arti femminili, ad esempioquelle esercitate con fili, trame e orditi; ma come è evi-dente, i tempi richiesti da coperte e tappeti sono assaipiù lunghi, gli investimenti più onerosi, le competenzee le tecniche più specializzate, e le scadenze più radedelle occasioni, potenziali o di fatto, che invece si offro-no o si offrivano alla modellazione dei pani con i ritmisettimanali o quindicinali delle infornate.Ne risulta, a ben guardare, che tra tutte le arti dette po-polari quella della modellazione figurativa dei pani è lapiù prossima per condizioni, modalità e prodotti allapoesia di formazione e tradizione orale. Nella poesia po-polare, infatti, la materia dell’espressione, ossia la lingua,non esce dal bagaglio delle disponibilità abituali e divul-gate, ed anche in questo caso può dirsi che la messa informa metrica (versi, rime, strofe) è un prolungamento,un raffinamento e insomma una applicazione specifica diprocedimenti o capacità già altrimenti disponibili. Ora èproprio per questa familiarità e generale utilizzabilitàdella materia con cui se ne costruisce l’espressione che

Per lo studio dell’arte plastica effimera in Sardegna*Rimasta finora nell’ombra, e priva comunque della rino-manza che ha investito tanti altri fenomeni isolani, l’artedella modellazione figurativa e ornamentale dei pani –esercitata quasi esclusivamente a mano libera e senzastampi – sembra invece costituire uno dei tratti culturalipiù intrinseci e rappresentativi della condizione sarda.Non che arti e prodotti consimili siano mancati o man-chino, altrove o in altri tempi, tanto nella vita popolarequanto a livello culto. Ma qui il fenomeno ha innanzitutto di proprio una celebritas, se così può dirsi, cui èdifficile trovare riscontro in altri luoghi: una frequenza,una abbondanza, una vitalità sorprendenti, lungo unfittissimo succedersi di occasioni, non solo solenni o fe-stive ma anche umilmente feriali e quotidiane, e peraree di diffusione che sembrano coprire densamentetutta l’isola. E questa rilevanza di proporzioni esalta, erende peculiarmente significativo, quel che la modella-zione figurativa dei pani mostra anche altrove, ma inmodi tanto più radi e meno rilevanti: la sua compene-trazione diffusa e intima con la trama normale del vive-re, con i tempi, i luoghi, le forme e i contenuti delleabitudini domestiche e comunitarie, il suo parteciparvi(e il suo essere partecipata) con immediatezza così allivello della produzione come a quello della fruizione.In altre parole, il figurativo e la figurazione escono dallasia pur relativa eccezionalità che invece s’accompagnadi solito alla maggior parte delle arti dette popolari (eche è così nettamente di norma in quelle culte). A diffe-

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7. Pane de arzola, 20 cm, Dualchi, anni Sessanta,Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.

8. Pane de pramma, 25 cm,Macomer, anni Sessanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.Realizzato per la domenica delle Palme; questo soggetto è diffusissimo in tutta l’Isola.

6. Pane de arzola, 22 cm,Dualchi, anni Sessanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.

* Testo del 1973 con lieviaggiustamenti e il Poscritto del 1977.

la poesia popolare risulta essere quella che è: ripetibileo riproducibile, e ripetuta o riprodotta, in identità o va-rietà di situazioni, adattabile al loro mutare in una ine-sauribile serie di varianti che ciascuno produce o puòprodurre a suo modo, perché ciascuno dispone piena-mente dei mezzi che consentono non solo di usare i te-sti ma anche di intervenire su di essi. Ed altrettanto ac-cade, o quasi, anche con i pani modellati, pure essiripetibili e ripetuti in serie di varianti che ciascuna dellemanipolatrici può produrre a suo modo perché ciascu-na dispone delle tecniche e delle competenze occorren-ti per fare, disfare e insomma produrre le figure.Ma tra i due campi, quello della poesia di formazione etradizione orale e quello della figurazione dei pani, c’èuna ulteriore somiglianza. Nell’uno e nell’altro caso lamateria dell’espressione non è durevole; se i modelli cuici si ispira o le immagini che si pongono in essere hannouna loro lunga continuità nel tempo, brevissimo e sostan-zialmente effimero è invece il loro attualizzarsi attraversoi mezzi materiali che costituiscono il supporto o il veico-lo dell’espressione: l’oralità per la poesia, e l’impasto disua natura consumabile per i pani. Ma come accade perl’effimero della poesia popolare, che è riattualizzabile avolontà, con o senza varianti, così è pure per i prodottidi quella vera e propria arte plastica effimera che è la

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Così accade che in Sardegna la modellazione dei panirealizzi per la figurazione plastica quella condizione so-cio-culturale che altrove si riscontra pienamente solo nelcampo della formazione e tradizione orale dei testi: il fat-to che non ci sia (ancora) una separazione sociale tra chiproduce e chi usa, tra l’artista e il fruitore. Condizione inverità arcaica, ormai, e non certo recuperabile per la viadelle immaginazioni che sognano impossibili ritorni;

9. Coccoi a puppia, 15 cm, Dualchi, anni Sessanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.Si preparava per le bambine il giorno della panificazione.

10. Coccoi a puppia, 15 cm, Dualchi, anni Sessanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.

11. Sa manu in chinta, 20 cm, Nughedu San Nicolò, anni Sessanta,Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.Pane per il Capodanno destinato alle bambine.

12. Lazzaru, 15 cm, Zeddiani, anni Sessanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.Pane preparato durante la Quaresima, diffuso soprattutto nella Sardegna centrale, in particolare nell’oristanese.

modellazione dei pani: anch’essi, con varianti o invaria-ti, sono riattualizzabili a volontà (pur se non altrettantoliberamente, per la minore disponibilità, e per il costo,della materia).Ecco dunque perché sembra che nell’isola divenga ca-ratterizzante ciò che altrove resta più episodico e menonettamente indicativo: in Sardegna la modellazione deipani rende la figurazione plastica quasi altrettanto quoti-diana che i versi o la modellazione metrica. E per chisappia quanto abbia contato e ancora conti nella vitapopolare dell’isola il gioco vertiginoso delle costruzionimetriche (che non trova quasi riscontro altrove), apparechiaro come la versificazione e la plastica effimera deipani costituiscano, per la Sardegna, due caratterizzanti“specializzazioni culturali”, tra le quali esistono inoltresottili ma innegabili rapporti: basti qui ricordare che tan-to nell’uno quanto nell’altro campo, oltre alle tecnichedi esecuzione, sono di generalizzata disponibilità ancheterminologie specializzate che identificano con rigorosaprecisione procedimenti, prodotti, immagini, figure ecc.

tuttavia condizione da riconsiderare per misurare i costidell’avanzamento, per individuare le cause reali dellasua scomparsa e per progettarne la futura ricostituzionenei modi reali che soli la consentono.Di questa riconsiderazione fa parte anche l’indaginesulle ragioni per le quali la Sardegna si è trovata tra l’al-tro ad essere il luogo di due specializzazioni culturalicosì suggestive e insieme marginali come la versifica-zione e l’arte plastica effimera; ma è discorso che inquesta sede non può neppure accennarsi. Sarà inveceopportuno segnalare rapidamente qualche tema d’inda-gine più specificamente legato al problema della mo-dellazione dei pani.Come s’è accennato, tanto in materia di poesia oralequanto nel campo della figurazione effimera, la ripetibi-lità variata e il carattere effimero dei prodotti hanno tut-tavia alle spalle la durevolezza di modelli, di schemi, diprocedimenti costruttivi, metrici in un caso e plastico-fi-gurativi nell’altro. Di questi schemi o modelli si sono giàcompiuti studi numerosi e approfonditi per quel che ri-

guarda la poesia orale, sarda o non sarda. Non altrettan-to è invece accaduto in materia di arti popolari, sianoesse sarde o meno; e ciò soprattutto per il fatto che inquesto campo manca quella molteplice densità di va-rianti che viceversa si ha per i canti. Ora la modellazio-ne plastica dei pani offre, in Sardegna, proprio quel chein genere mancava, e dunque fornisce un’opportunità diindagini la cui importanza non sfuggirà certo a quanti sioccupano della figurazione, non soltanto a livello popo-lare. Sembra cioè possibile almeno avviare, anche incampo di figurazioni tradizionali e popolari, quella arti-colata identificazione di forme e di stili, di livelli e di de-rivazioni, di rapporti interni alla tradizione e di imitazio-ni da modelli culti ecc. che finora sembrava riservatasolo ai tanto più avanzati studi sulla poesia popolare.Ma questo tipo d’indagine non potrà limitarsi a trasferiremeccanicamente nel campo della figurazione i procedi-menti già usati per la poesia popolare. E ciò è tanto piùvero in quanto il settore in cui si viene ad operare è quel-lo dei pani modellati. Finora infatti abbiamo sottolineato

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il carattere figurativo che i pani assumono in Sardegna;ma non è possibile dimenticare che si tratta di pani iquali, prima d’essere materia plastica, sono innanzituttoe soprattutto materia alimentare. Esiste dunque una deci-siva differenza nei confronti della poesia. In quest’ultimala materia dell’espressione, e cioè la lingua, serve già adesprimere ed a comunicare, anche prima che venga sot-toposta a quelle elaborazioni e modellazioni che opera-no il passaggio alla speciale forma comunicativo-espres-siva che è poi la poesia; per i pani modellati, invece, lamateria dell’espressione, ossia l’impasto, non serve diper sé alle funzioni comunicative ed espressive che in-vece assolve dopo la modellazione: modellandola dun-que le si aggiunge qualcosa di diverso e di eterogeneorispetto alla sua funzione o destinazione di base. Quelche si aggiunge è il valore di “segno”, per cui il paneche di norma deve essere soltanto “buono da mangiare”diventa anche “buono a comunicare”, e cioè capace diveicolare immagini o più esattamente significati che so-no diversi dal semplice ed elementare significato di esse-re se stesso, e cioè pane da mangiare. E questi significa-ti, di cui i pani figurativamente modellati diventano isignificanti, sono complessi; non solo perché alle figura-zioni che possiamo dire naturalistiche (le riproduzioni digreggi e pastori, ad esempio) si aggiungono figurazioniche dirò metaforiche (come ad esempio il cosiddetto

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13. Su coro, 21 cm, Ittireddu, anni Sessanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.Pane nuziale.

14. Pane ischeddadu, 18 cm, Chiaramonti, anni Sessanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.Pane lucidato (tramite veloce spennellatura di acqua calda durante la cottura), modellato per le occasioni festive.

“bastone di Dio”), ma anche e soprattutto perché le va-rie figurazioni, oltre a veicolare l’immagine dell’oggettoraffigurato, “significano” o rappresentano anche le occa-sioni specifiche in cui le figurazioni vengono prodotte: ilcapodanno, ad esempio, o le nozze.Il reperimento, la distinzione e il collegamento di questifasci di significazioni costituiscono dunque una impresacomplessa che è da condurre su strade che gli studi dipoesia popolare hanno di solito trascurato, anche perchéla natura del loro oggetto ne segnala meno la necessità.Seguendo invece queste strade, come per loro proprianatura ci richiedono i pani modellati, si entra in mododeciso nel campo della semiologia, qui generalmente in-tesa come la scienza dei segni e della significazione; epiù specialmente ci si trova di fronte al fondamentale pro-blema della “cerimonialità”, intesa come il procedimentoper il quale, in certe occasioni o in certi settori e livellidell’agire socio-culturale, le “cose” non debbono soltanto“servire” al loro uso primario (gli abiti a vestire e i pani anutrire), ma debbono anche “significare” (gli abiti a vei-colare una certa immagine di sé, i pani a rappresentaresoggetti e a rappresentare feste). Ed in questo quadro piùgenerale tornerà di nuovo a proporsi il problema piùspecifico dei modi e delle ragioni in cui e per cui la Sar-degna ha così fortemente cerimonializzato i pani, e per-ché lo abbia fatto per la via della modellazione figurativa.Ma per affrontare in modo serio i temi che siamo venutiindicando occorrono approfondimenti documentari e af-finamenti analitici che ancora mancano. Per numerosiche appaiano gli esemplari di pani fotograficamente ri-prodotti nel volume Plastica effimera in Sardegna: i pa-ni, essi tuttavia non sono che una parte di quelli di cuidispone la collezione di pezzi e di fotografie che la Cat-tedra di Storia delle Tradizioni popolari della facoltà diLettere di Cagliari ha costituito con la cooperazione deglistudenti; e quella collezione è estremamente esigua ri-spetto a quanto s’è prodotto e si produce ancor oggi inSardegna. Inoltre debbono considerarsi come appenaavviati o abbozzati i necessari lavori di sistemazione e dianalisi dei materiali: ordinamenti per aree e per forme,individuazione delle occasioni, precisazioni dei rapportitra nomi e tipi, riconoscimento delle connessioni con al-tri prodotti figurativi culti o popolari ecc. Tuttavia passiimportanti si sono già fatti, così nell’Ottocento e fino al-la seconda guerra mondiale, come nelle rilevazioni enelle indagini condotte negli anni più recenti.Il volume sull’arte sarda della modellazione dei pani cuiqui ci riferiamo vuole essere appunto una ricapitolazionedel lavoro fin qui condotto, intesa come avvio per quelli

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da condurre. Ed è perciò che contiene, cronologicamen-te ordinati, gli scritti più importanti che da La Marmora aWagner o da Grazia Deledda a Salvatore Cambosu sonostati dedicati all’argomento, e vi aggiunge quelli dovutialla più giovane leva di ricercatori, e principalmente vol-ti alla sistemazione dei documenti disponibili e alla pro-gettazione di ulteriori rilevazioni sistematiche. Le tavolefotografiche sono poi precedute da una prima sommarialista bibliografica.

Occorre dire, ma non certo per semplice obbligo forma-le, che il merito della pubblicazione va alle autrici deipani modellati, anche se purtroppo non è stato possibi-le segnarne ad uno ad uno i nomi; e subito dopo vaagli studenti e alle studentesse che hanno lavorato conintelligenza e pazienza, sul campo e in biblioteca, fin daquando, nel 1966 il Bollettino del Repertorio e dell’Atlan-te Demologico Sardo (BRADS) avviò la prima inchiestasui tipi e le denominazioni del pane in Sardegna.

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PoscrittoVorrei qui notare, servendomi anche di quanto ho scrit-to nella introduzione al già ricordato libro di A. Uccel-lo, che la bivalenza o bifunzionalità o biplanarità delpane (e cioè il suo essere per un verso alimento o sus-sistenza e per l’altro forma e segno) non caratterizza so-lo i prodotti cerimoniali ma si manifesta in qualche mo-do anche in quelli normali o quotidiani.Se da un lato, infatti, nei prodotti cerimoniali il valore dialimento e la funzione di sussistenza continuano a per-manere, anche se travalicati e quasi sopraffatti dalla com-ponente formale, dall’altro lato il valore di forma e la fun-zione di segno restano anche quando si tratti del puro esemplice prodotto quotidiano, e cioè quando la compo-nente alimentare e di sussistenza è assolutamente premi-nente. Anche per i pani normali una forma c’è sempre,ed ha certi suoi canoni non trasgredibili: quante mai volteil pane non sarebbe più visto e sentito come pane se nonavesse le forme (profili, spessori, dimensioni, ecc.) che leesigenze o le abitudini o le condizioni socio-culturali diquesto o quel gruppo gli hanno assegnato?Il discorso ovviamente potrebbe e dovrebbe estendersianche ad altri prodotti alimentari; né forse sarebbe deltutto inutile considerare, per differenza, i prodotti cheinvece restano “informi” (conserve ad esempio), e quelliche, pur potendo restare informi, venivano o vengono“messi in forma” (il burro e i suoi famosi stampi).Comunque, per il pane la forma risulta coessenziale an-che sul piano della quotidianità. Si apre perciò il pro-

blema di individuare i fattori che (in generale o di voltain volta) concorrono a determinarla. Schematicamente(e rompendo il nesso che li lega e li condiziona reci-procamente) potrebbero riconoscersi almeno tre livelli:a) quello che per brevità possiamo chiamare tecnico-ma-teriale (per es. i tipi di impasto, di cottura, di forno, ecc.);b) quello che convenzionalmente possiamo dire socio-logico (la provenienza o la destinazione del prodottopongono loro proprie esigenze formali in rapporto allaconservabilità, alla trasportabilità e simili, con particolarivariazioni, ad esempio, tra pastori e contadini oltre che,naturalmente, tra ricchi e poveri);c) quello infine che potremmo dire ideologico in sensolato, e che esprime o impone predilezioni o obblighi perquesto o quel modello (nel che andrebbe anche consi-derato che ci sono “aree di diffusione” delle forme delpane anche normale, e che queste aree tendono talora acoincidere con quelle di altri fatti socio-culturali; del restoanche il pane di bottega si distingue e denomina spessocon riferimento a luoghi, siano essi città o regioni).Lo schema indicato è estremamente povero e sconnes-so. Mi pare tuttavia che già basti a suggerire l’idea cheuna indagine reale si troverebbe a dover constatare chenella modellazione sono presenti – in gradi diversi econ diversa incidenza, ma contemporaneamente – siacoercizioni che libertà di scelta. Il che si connette alproblema della variabilità culturale che certo esiste, ecerto ha latitudini assai ampie, ma che tuttavia non puòidealisticamente immaginarsi come illimitata, se è vero

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15. Pane de cojuados noos, 28 cm, Ittireddu, anni Sessanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.Pane nuziale intagliato (piccadu) e lucidato (ischeddadu).

16. Bàculu de Santu Macàriu, 19 cm, Ghilarza, anni Sessanta,Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.Pane a forma di bastone pastorale; veniva preparato il 2 gennaio in occasione della festa di San Macario.

17. Bacchiddu ’e Deu, 18 cm, Nughedu San Nicolò, anni Sessanta,Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.Bastone di Dio donato ai bambini durante la questua di Capodanno. Si tratta di una tipologia diffusa in numerosi paesi della Sardegna.

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che mai può svincolarsi da condizioni oggettive sostan-zialmente universali.Su terreno del tutto diverso, ma già altrove accennato inquesta stessa raccolta, vorrei infine notare che il più vi-vace interesse che negli ultimi anni si è manifestato peri pani e simili (dal volume sardo a quelli già ricordati diV. Teti e A. Uccello) in qualche modo si lega al fattoche la produzione, la modellazione e l’uso dei pani tra-dizionali costituisce una delle espressioni più diretta-mente rappresentative di quella ormai sconvolta conti-nuità tra vita domestica, vita lavorativa e vita associatache così a lungo è stata la caratteristica centrale dellacondizione contadina tradizionale: non è un caso, né sitratta di semplice adeguazione a comodi schemi, chetanto il lavoro di Uccello quanto, per una sua parte,quello di Teti, si articolino lungo le tappe del ciclo dellavita o dell’anno, per la via delle nascite e delle morti,dei pellegrinaggi o delle celebrazioni agricole stagionali.

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La Sardegna è nel mezzo delle terre mediterranee delgrano e del pane. Anche in quest’isola, come nel restodel Mediterraneo, secondo l’espressione di FernandBraudel, il grano è re.1

La Sardegna è nel pieno geografico e storico (verosimil-mente anche preistorico) di un’area del mondo dove ilpane è soprattutto stato e, in misura riconoscibile, è an-cora il fondamento della vita, come altrove lo sono, elo sono stati, il riso, il mais, il miglio, i tuberi. Nel Medi-terraneo il pane come base alimentare, e quindi fonda-mento della vita materiale è anche scaturigine di idee edi pratiche religiose, per lo meno dai tempi della cri-stianizzazione, e dunque la Sardegna risulta coinvoltain quella vicenda preistorica, protostorica e storica do-ve vale l’antica sineddoche che dice pane per dire cibo,e vita, e dove in molti si prega ancora Dio dicendo:dacci oggi il nostro pane quotidiano.«Prima, se c’era il pane, c’era già tutto. In italiano, si sa,si dice pane e si dice anche companatico. In sardo sidice pane e si dice ingaùngiu che vuol dire companati-co. Anche qui c’è pane e companatico. Anche se qui ilcompanatico è sempre stato poco, qui da noi, e se c’erail pane era già molto, era già tutto. In altri luoghi forseil companatico era importante quanto il pane, o anchepiù del pane. Ma qui niente era importante quanto ilpane. Basta guardare la campagna: lo spazio più gran-de era per il grano, il grano comandava tutto, e tutto gliruotava intorno: pascoli, viti, alberi.La campagna era per il grano. Ai tempi suoi, quando ilSalvatore andava a piede in terra, viveva in luoghi co-me questi. E sapeva che cos’è il pane, per l’uomo. È luiche ci ha insegnato a pregare per il pane nostro quoti-diano. Lui ha passato la vita in luoghi che non doveva-no essere diversi: dal vangelo lo si capisce bene. Sono iluoghi del pane, del vino, dell’olio. Ma specialmentedel pane. Per questo nella messa è il pane che si dicediventa nostro Signore, e il vino diventa sangue suo, eha stabilito di dare ai moribondi l’olio santo.C’è tutto, se c’è il pane. Un bicchiere di vino, quandoc’è, va bene, e meglio ancora se c’è una fetta di salsicciao un morso di formaggio. Ma non c’è niente, se non c’è

il pane. Il pane di grano, però, perché il pane dev’esse-re di grano. E del grano niente si perde, niente si butta,a cominciare dalle stoppie e dalla paglia per gli anima-li. Sulla paglia di grano è stato coricato il Salvatore ap-pena nato in questo mondo. E la passione del granoassomiglia alla passione e morte di Cristo: tutt’e due al-la fine dei tormenti diventano pane per la fame nostra.Per questo prima al pane si portava rispetto e amore:era considerato cosa santa. Si diceva buono come il pa-ne, di uno veramente buono.Al pane si davano tante forme diverse, di fiori e difrutti e di tutte le cose belle e buone. E per ogni festac’era il suo pane speciale. Era l’ornamento della casa el’orgoglio della sua padrona. I luoghi più puliti eranoquelli dove si faceva il pane, a cominciare dal tavolo edai recipienti. E dove si conservava la pasta per fareda lievito al pane della prossima volta era come il po-sto dove dormiva un figlio stimato. Si toccava con ma-ni pulite, il pane, e si maneggiava con grande rispetto.Non si buttavano i resti. E il pane duro che si riportavacome resto dalla campagna, bisognava mangiarlo perprimo, perché era doppiamente santo. Così si diceva aibambini che si buttavano sul più molle.C’era venerazione per il pane. Al pane si chiedeva quasiperdono per doverlo mangiare. E guai se il pane cadevain terra, e se mai cadeva, devi baciarlo appena raccolto.Il pane insaporisce il companatico, più di quanto ilcompanatico insaporisce il pane. Adesso però il panenon è più quello di prima. È diventato più importante ilcompanatico. E forse è meglio così. Ma chi ha conosciu-to i tempi di prima non capisce com’è possibile trattarlocome adesso, diventato quasi l’ultimo dei cibi, che seresta neppure i cani lo vogliono più. E se lo butti a ma-re, nemmeno i pesci».2

Questo testo, registrato più di trent’anni fa, è stato det-to da un vecchio sardo che rifletteva, dal punto di vistadei modi di alimentarsi, sui mutamenti recenti e allorafortemente in fieri verso una modernità sarda che acose fatte sembra rivelarsi ormai piena postmodernità,dopo una dubbia modernità qui variamente detta, negliultimi secoli, rifiorimento e rinascita.Eppure la Sardegna, come terra e come realtà antropica,continua ad avere nel mondo un’immagine di diversitàprofonda, di luogo della differenza come altri pochi

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La cultura del pane nella Sardegna tradizionale Giulio Angioni

18. La cottura del pane, Tonara, 1955 (foto Mario De Biasi).18

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nel mondo euromediterraneo. Un tempo, sia da dentroche da fuori dell’isola, era ritenuta un luogo di diffe-renza molto spesso, prevalentemente negativa, anchedal punto di vista dei modi locali dell’alimentazione.Da qualche decennio l’isola gode di considerazionepositiva, soprattutto in quanto luogo turistico, e in piùpensato non di massa, a immagine di luoghi come laCosta Smeralda, che quel vecchio contadino chiame-rebbe forse luoghi del companatico.Dal punto di vista delle caratteristiche basilari dell’ali-mentazione, la Sardegna dunque è abitata “da sempre”da mangiatori di pane. Eppure, anche dal punto di vi-sta dei “fondamenti” dell’alimentazione basata sul panee su altri derivati del grano, la differenza della Sarde-gna in Europa è certamente un dato e una constatazio-ne, ancora oggi, oltre che un sentimento soggettivodella maggior parte dei sardi. Vaga diversità, forse so-prattutto come luogo di naturalezza o naturalità, genui-nità, arcaicità, primitività, preistoria vivente, luogo in-contaminato, remotezza ed esotismo; diversità comeatemporalità o come temporalità non lineare e non ir-reversibile bensì ciclica e che si ritrova e si rinnovanella naturalità delle stagioni e delle generazioni; e poicome silenzio, solitudine e sublime dei primordi, neisuoi spazi selvaggi e incontaminati, e dunque comevacanza dall’urbano odierno, in una natura idillica e inuna società che appare ancora ricca di colore localeanche per i modi dell’alimentazione, dove per arrivareal pane, e a ciò che serve per farlo coi giusti ingre-dienti e con le belle forme, si deve abbandonare moltodei miti dell’originalità e dell’arcaicità incontaminata.Anche dal punto di vista della cultura alimentare laSardegna è stata considerata, fino a pochi decenni ad-dietro, sia in modo molto positivo, sia in modo drasti-camente negativo, e i costumi alimentari, insieme conl’insularità, sono stati a volte annoverati tra i mali tipicidell’isola, che quando erano in comune con altre terredi queste latitudini erano (e in parte sono ancora) con-siderati più gravi e tipici che altrove in Europa: malaria,talassemia, favismo, echinococcosi, arretratezza, analfa-betismo, miseria, banditismo, precarietà alimentare… e,a proposito proprio del pane, la Sardegna era il luogodove si mangiava pane di ghiande, o dove si mangiavapane di terra, insomma dove si panificava impropria-mente. A fare un inventario delle lodi e delle detrazionidel pane sardo negli ultimi due o tre secoli, quasi sicu-ramente prevalgono però le lodi, persino le esaltazioni.E le detrazioni appaiono facilmente esagerazioni o equi-voci, come la nomea dei sardi mangiatori di terra, che siusava in effetti nella catena operativa della confezionedel “pane” di ghiande, tipico dell’Ogliastra, dove purerimane più tipico e fondamentale il pane di grano, e se-condariamente il pane d’orzo, come nel resto della Sar-degna, che se si identifica nei mediterranei mangiatoridi pane, si diversifica dai mangiatori di pane di altri ce-reali che non siano il grano e, al peggio come per guer-re e carestie, l’orzo.

La storia stessa, tutta la storia della Sardegna se non an-che la sua preistoria, può essere riordinata in una se-quenza che veda il grano e il pane al centro delle suevicende, a cominciare dal suo essere “granaio” fenicio-punico e romano. Nell’isola il pane resta anche nel pre-sente un elemento basilare della vita materiale, in quan-to “base” dell’alimentazione, ma anche della coscienzadi sé, o dell’identità, se è vero che il pane, nei suoi tipie nelle sue forme e occasioni, è sentito come tale siaper i sardi nel loro insieme, sia per singole zone all’in-terno dell’isola. Infatti la Sardegna, dal punto di vista diquesto suo alimento basilare e cibo per antonomasia, sipotrebbe non troppo tendenziosamente suddividere nel-la zona centro-meridionale della pagnotta e nella zonacentro-settentrionale del pane a sfoglia più o meno sotti-le e croccante, che è invalso l’uso di chiamare pane ca-rasau. E anche in fatto di pane, o meglio di pani, comeaccade per la situazione linguistica e per altri aspetti del-la vita dei sardi, si possono identificare certe zone “ibri-de” per lo più intermedie, che magari possono vantarela ricchezza della compresenza dei due modi della pani-ficazione tradizionale sarda, di quella meridionale deno-minabile del civràxu e coccói e anche di quella centro-settentrionale denominabile del pane carasau. I modi dell’alimentazione sono stati spesso messi incorrelazione con l’indole dei popoli, secondo l’adagioche si è ciò che si mangia. Oggi che anche ciò che inSardegna si è detto a lungo fatalismo sta per diventarecosa del passato, svanito insieme con il suo corollarioche il fatalismo fosse retaggio della stirpe, eredità ge-netica, o anche, con ciò che si è diventati a causa diciò che si è mangiato, o mangiato in modo insufficien-te: i sardi sarebbero allora mangiatori di pane cometutti i mediterranei, ma con le stigmate della carenza,della scarsezza del pane, pur essendo “granaio” dei va-ri grandi e piccoli imperi mediterranei. Nella mutazione dell’atteggiamento dei sardi verso ilmondo e la vita, e dei non sardi verso l’isola, certa-mente ha avuto la sua parte la fine di mali storici comela povertà, che è prima di tutto e soprattutto scarsitàdel pane. Il pane a sufficienza per quasi tutti, il panein senso letterale e non indicante la parte per il tuttoperché il pane a sufficienza è già tutto, o quasi, rendedifficile oggi la denigrazione indiscriminata del muta-mento di questi ultimi decenni, mutamento che se sivuole vedere in positivo è perché anche qui è finita lamillenaria generalizzata precarietà alimentare, la mise-ria materiale tradizionale, il pane scarso in pace e inguerra, le male annate e le carestie ricorrenti e cicliche,rese più tragiche dall’isolamento. Difficile non vederele conseguenze dell’isolamento lungo millenni di pre-carietà alimentare, nonostante l’isola sia stata per lopiù piuttosto al centro che alla periferia di traffici chein misura importante o addirittura fondamentale sono

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19-20. Lavori nell’aia, Nuoro, ante 1908 (foto Sebastiano Satta).

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testimone, sebbene molto meno che nel passato, disingoli tratti e di interi complessi culturali che caratte-rizzano la Sardegna in modi ancora peculiari anche infatto di alimentazione, soprattutto al di là della recentespettacolarizzazione turistica di forme della vita tradi-zionale sarda più o meno reinventata proprio mentrese ne proclama la genuinità preservata. In un contestodel genere si riesce così a esportare fuori dell’isola, deiprodotti alimentari sardi, a parte il pecorino sardo ro-mano e alcuni vini, quasi solo il pane carasau.Le specificità sarde, come per altri luoghi simili non soloper la loro geografia, sono state e sono tuttora spesso

opinione che la Sardegna sia uno dei luoghi italiani, epiù in generale euromediterranei, più conservativi e ar-caizzanti, non è ancora oggi priva di fondamento. È dif-ficile esagerare sul carattere basilare e quasi totalizzantedel pane nella realtà dell’alimentazione e nell’immagi-nario collettivo dei sardi, e questa presenza fondante, ecerto troppo spesso ossessiva in assenza, sebbene con-divisa con le popolazioni mediterranee e dei dintorni,può essere considerata un carattere peculiare non solodei modi tradizionali dell’alimentazione in Sardegna,ma anche della cultura sarda nella sua totalità e valoreidentitario. Il semplice visitatore può ancora adesso farsi

stati movimenti di granaglie e anche di prodotti dellapanificazione, come il biscotto della gente di mare. Ep-pure si esagererebbero certamente le conseguenze del-l’isolamento se non si vedessero le convergenze col re-sto delle genti e delle terre mediterranee proprio nelleforme dell’alimentazione, qui dove le condizioni geo-grafiche non meno delle vicende storiche ne hannofatto, tra tutte le isole mediterranee, fino a pochi de-cenni addietro, quella meno esposta agli influssi e agliscambi culturali.Ma anche dal punto di vista nutrizionale, e in particola-re considerando il pane come alimento di base, l’antica

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21. Trebbiatura con giogo di buoi, Campidano, 1955-58 (foto Mario De Biasi).

22-23. Trebbiatura con cavallo, Campidano di Oristano, 1955-58 (foto Mario De Biasi).

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Ciò non impedisce che in Sardegna siano ancora moltia condividere, anche perché forse resta ancora moltoad alimentarla, l’idea forte seppure vaga e perfino miti-ca di una sua unicità incomparabile con qualunque al-tro luogo al mondo soprattutto nei modi di cibarsi, uni-cità identificata così spesso nei formaggi pecorini e incerti vini rossi, nell’agnello e nel maialetto arrosto e co-sì via, ma soprattutto nei vari tipi di pane, identificazio-ne così forte da essere del tutto ovvia e scontata, chenon ha bisogno di solito neppure di essere esplicitata.

Eppure potremmo considerare che se l’alimentazione,e quindi in Sardegna il pane, è uno degli aspetti e de-gli indici più significativi di un modo di vivere, e se èuno dei tratti più identitari, il mutamento sopravvenutonell’ultimo mezzo secolo in Sardegna ha avuto, tra l’al-tro, come conseguenza e come diceva il vecchio con-tadino trexentese, che, pur restando un elemento im-

portante dell’alimentazione e uno dei tratti identitaripiù forti e ovvi, il pane non è più tanto come prima “ilpane” sinonimo di cibo, sebbene “il pane” continui perinerzia a essere detto in luogo del cibo, dell’alimenta-zione, per sineddoche o per antonomasia. Se è vero che la Sardegna è mutata di recente nei suoimodi di vivere, anche nelle zone interne e più monta-ne, è anche vero che la Sardegna continua ad apparire,come scriveva Maurice Le Lannou più di mezzo secolofa, un antico paese rurale,5 e con un suo importante pa-storalismo. Specialmente le zone interne centrali e mon-tane continuano a essere quelle di un tempo, e cioècontinuano a essere pastorali. È anzi un aspetto dellaloro mutazione il fatto che sono diventate sempre piùpastorali, sempre più dedite alla monocultura ovinaoggi sempre meno brada. In particolare, nel caso del-la montagna e della sua antica pastorizia ovina, si trat-ta di una tendenza che è venuta realizzandosi massic-ciamente da un secolo a questa parte, cioè a partiredalla caseificazione industriale, per opera di grossisti edi casari laziali e abruzzesi, cioè con la produzione in

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24. Ventilatura sull’aia, 1955 (foto Fulvio Roiter).

assolutizzate, quasi collocate fuori dalla storia, anche daparte dei sardi, e vengono anche spiegate astrattamentecome frutto specifico di una unicità radicale, di una cul-tura originariamente autoctona e inalterata nonostante laSardegna abbia subito influssi acculturativi e persino de-culturativi più o meno violenti per almeno due millennie mezzo, in tempi storici. Lo si è fatto e lo si fa ancoraanche per il pane, che certamente accomuna la Sarde-gna ai mediterranei, che sono tutti più o meno mangia-tori di pane, in nome di sue peculiarità che comunquerestano tali nella considerazione locale, cioè identitarie,e quindi almeno tendenzialmente esclusive. Così la Sardegna anche nell’alimentazione tradizionale,o in ciò che ne resta, continua a meravigliare il visita-tore con forti impressioni di conservazione inalterata.Mentre, quando nell’isola si rimpiangono gli aspetti diun passato finito da pochissimo ma già così remoto, sirimpiange il cibo di un tempo, sempre considerato ge-nuino, e quindi il pane. Anche dal punto di vista deimodi dell’alimentazione, resta vero che i tempi dell’in-fanzia di chi oggi in Sardegna è adulto o anziano ap-paiono distanti e diversi più di quanto i tempi dellasua infanzia sono distanti e diversi dai tempi dei nura-ghi o giù di lì. L’isolamento ha certamente avuto come conseguenza laconservazione anche nella cultura alimentare, ma, cosìcome relativo è stato l’isolamento, relativa è stata laconservazione, in questi ultimi tempi come nei secolipassati, con accelerazioni e ristagni anche per quantoriguarda in particolare la cultura alimentare, che certa-mente qui si è basata sul pane per lo meno durante lamaggior parte dei secoli del millennio appena trascorso.E infatti tutte le tradizioni alimentari sarde, colte e po-polari, se analizzate con un minimo di documentazionestorica, mostrano vicende complicate di innovazione,innesto, trasformazione, abbandono, reviviscenza, sin-cretismo: mostrano insomma uno spessore e una con-crezione storica, oltre che una variabilità sociale e spa-ziale interna all’isola, che non risparmia neppure l’uso oil costume più lungamente considerato come esclusivo,e sentito come qualcosa che ai diretti interessati pareancora oggi indispensabile, pena la rinuncia a ciò che sisarebbe sempre stati. E ciò continua ad accadere, seb-bene nella prospettiva storica si dissolvano ben presto imiti dell’autoctonia e della conservazione inalterata, co-sì come cadono subito le assolutizzazioni dell’arcaicità,dell’isolamento e dell’immobilità. È difficile, infatti, tene-re per certa l’autoctonia dei tipi del pane carasau quan-do se ne constatino le notevoli similitudini con tipi dipane della costa africana e mediorientale del Mediterra-neo, che fanno piuttosto pensare a una coinè non solodi mangiatori di pane, ma anche a una coinè di alcunitipi e forme predominanti di pane, come quelli che inSardegna oggi è invalso l’uso di denominare collettiva-mente pane carasau, considerato con qualche ragioneil pane tipico del pastore, di lunga durata anche pluri-mensile, adatto alle sue lunghe assenze da casa.

Come per la malaria, ancora per esempio, male nonesclusivo di quest’isola ma proverbialmente tipico del-la Sardegna, che può essere considerata prova dei rap-porti esterni e dei mutamenti nel tempo, se è vero chedebbono essere stati uomini venuti da fuori a impor-tarla (e certuni nominano a questo proposito i fenici),così come sono stati uomini venuti da fuori a estirparla(gli americani della Rockefeller Foundation nell’ultimodopoguerra),3 così potrebbe dirsi dell’uso alimentare difarinacei macinati, fermentati e cotti in forme solide epiù o meno durature. Rimane infatti un’ipotesi di lavo-ro importante che così come agricoltura e allevamentoprovengono nell’isola da fuori, così in particolare lacoltura di cereali per la panificazione sia di importazio-ne. Come dappertutto per ogni forma di vita e per suoisingoli aspetti, anche per l’alimentazione sarda basatada secoli immemorabili sul pane, sono infatti gli statiintermedi della doppia polarità tra isolamento e coin-volgimento e tra conservazione e trasformazione chemeglio servono a rendere conto delle caratteristichedei modi di vita anche più remoti in quest’isola. Senzadi che, anche e soprattutto per il pane, alimento prin-cipale dei sardi, uscirebbero fuori dal campo e reste-rebbero misteriose certe caratteristiche importanti co-me la convergenza col resto del mediterraneo (e anchedell’Europa non mediterranea), l’abbondanza e la com-plessità degli apporti, le influenze esterne successive ele grandi differenze all’interno dell’isola.Non è caratteristica esclusiva della Sardegna, ma si puòdire di quasi tutti i tratti della cultura sarda di ogni tempoabbastanza documentabile, comunque si può dire ancheper la cultura alimentare, e quindi anche per il pane,che si constata subito un contrasto forte tra una grandediscontinuità e varietà culturale interna all’isola, da unaparte, e il suo apparire tuttavia come sostanzialmenteunitaria se la cultura alimentare sarda nel suo complessosi paragona con l’esterno. Per chi ci vive è però rilevan-te che la Sardegna, così come presenta una discontinuitàgeografica notevole, presenta anche una sua interna di-scontinuità alimentare, che va di pari passo con una va-rietà socio-economica, a volte perfino con la varietà lin-guistica.4 Ciò è da vedersi anche come conseguenza,ancora oggi ma soprattutto nel passato, di una grandedifficoltà di circolazione interna, oltre che della scarsitàdi comunicazione verso l’esterno. E tuttavia, ribadiamolo, se visto in rapporto col mondoesterno, questo «piccolo continente remoto», come lodefinisce l’antropogeografo francese Maurice Le Lan-nou, possiede una forte individualità culturale, primadi tutto nelle forme produttive basilari della cerealicol-tura e della pastorizia ovina, e quindi dell’alimentazio-ne. Ed è un fatto importante che questa individualitàpare entrare in crisi proprio quando i tratti culturali ap-parentemente più sardi si paragonano con l’esterno, inambito europeo e soprattutto euromediterraneo. Allorai tratti culturali sardi mostrano più somiglianze e coin-cidenze che peculiarità ed esclusività.

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Sardegna del pecorino sardo romano, che verso la finedell’Ottocento entra nel mercato mondiale e ci restaconservando ancora oggi prezzi buoni e che perciòincoraggiano la prosecuzione e l’espansione dell’atti-vità pastorale ovina.6 Forse soprattutto come conse-guenza di questa spinta all’aumento della produzionedel latte per la produzione del pecorino sardo-romano,la Sardegna interna e specialmente la montagna hannoperso durante il Novecento alcune altre attività nonpastorali un tempo presenti e a volte anche fiorenti eimportanti, come la cerealicoltura, la viticoltura, l’orti-coltura, l’arboricoltura, l’artigianato del legno, l’apicol-tura. E ciò è andato a tutto vantaggio della pastorizia,della monocultura pastorale, come si dice spesso inSardegna,7 ma non a detrimento della centralità alimen-tare del pane.È difficile dire quanto la monocultura pastorale equi-valga a una progressiva e massiccia degradazione eco-logica e anche antropica specialmente della montagna,dove già l’insediamento umano ha da secoli una presalabile sul territorio. È indubbio però che, a mano amano che si risale indietro nel tempo, le attività deisardi anche di montagna si mostrano più diversificate,

25-26. Trebbiatura, Campidano di Oristano, 1955-58 (foto Mario De Biasi).

femminile, mentre il gregge passava in eredità per li-nea maschile.10 Oggi, di queste zone un tempo fitta-mente coltivate a orto, più o meno distanti dagli abitatisoprattutto in ragione della presenza di fonti o di corsid’acqua, oltre che in ragione della qualità del terreno,non resta molto di più che il ricordo e qualche traccianella toponomastica locale.11 Queste annotazioni sull’usodel suolo sardo in luoghi considerati molto conservativicome quelli montani delle Barbagie sono utili per nonimmaginare un passato in cui il territorio fosse usatoproduttivamente in una monocultura pastorale onnipre-sente e perenne, ma anche per produrre cereali per lapanificazione come il grano e l’orzo. Non è un casoche la vecchia Nuoro fosse suddivisa in tre parti, quellaborghese, quella contadina e quella pastorale, tutti con-sumatori di pane come alimento base.Anche se a volte si accompagna tranquillamente conl’idea di una conservazione tenace, è invalso quasi l’usodi parlare di catastrofe antropologica,12 o comunque didarla per scontata, specialmente per la Sardegna inter-na, riferendosi alle mutazioni sopravvenute dall’ultimodopoguerra in poi. Il salto infatti è stato notevole, e si èprodotto un mutamento mai visto prima in tempi storicinell’isola; mutamento vissuto, una volta tanto, in sinto-nia col resto dell’Europa mediterranea, come già accen-nato, e per aspetti non secondari in sintonia col resto

dell’Europa più evoluta. Non fosse che per questo, ècomprensibile che in Sardegna a volte si rimpianganogli aspetti di un passato finito da pochissimo ma già co-sì remoto, e che si riesce a preservare o a rivitalizzare,e a vendere al turista, soprattutto nell’alimentazione. In tema di atteggiamenti verso la tradizione che scom-pare e la modernità che sopraggiunge, da ultimo anchecon la panificazione industriale e comunque con lascomparsa quasi totale della panificazione domestica fa-miliare, non è raro anche qui il giudizio manicheo: percui il bene a volte può essere visto solo nella tradizionee il male nei mutamenti già consolidati o che si annun-ciano; oppure, viceversa, il male può essere visto nellatradizione locale e il bene solo in ciò che viene da fuo-ri; purché sia un fuori nordoccidentale, e non quel tan-to di misera Africa o Est Europa che ora arriva anchenei paesi un tempo più isolati e impervi della Sardegnainterna, magari a svolgere antichi mestieri contadini epastorali. È difficile negare che ci siano buone ragioniper atteggiarsi sia nell’uno sia nell’altro modo, né c’è dameravigliarsi che i due giudizi possano convivere nellamentalità collettiva, specialmente dei sardi dell’interno,che sono forse, anche se non sempre, più conservatori,e che perciò sono portati a porsi oggi con più urgenzae chiarezza il problema della conservazione e del muta-mento anche degli usi alimentari. Per l’intera Sardegna,

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per quanto riguarda lo sfruttamento coordinato dellerisorse del territorio, sebbene in montagna sia da pre-sumere che la pastorizia soprattutto ovina, ma anchecaprina, bovina e suina, siano state “da sempre” atti-vità importanti, più o meno prevalenti, e che sianostate una specializzazione locale sebbene non esclusi-va, però mai così pervasiva come a partire dagli ultimianni dell’Ottocento con l’inizio dell’industrializzazionedella caseificazione ovina per produrre pecorino ro-mano per il mercato mondiale e in particolare norda-mericano. È allora importante notare che, sebbenenon nelle forme specializzate e massicce della pianurae della collina, anche in montagna c’erano forme disfruttamento coordinato del suolo che contemperava-no le esigenze della pastorizia con quelle di una po-vera cerealicoltura;8 e specialmente nella montagnapiù alta, l’uso del territorio come pascolo convivevacon forme anche molto intensive di orticoltura, comeè il caso delle pendici del Gennargentu, nei territori dicomuni montani quali Tonara, Desulo, Fonni, Gavoi inprovincia di Nuoro.9 In territori come quelli citati e inaltri del massiccio del Gennargentu, per esempio, l’or-ticoltura stagionale aveva una sua notevole importanzaeconomica e sociale, tanto più che si trattava per lopiù di un’attività, di un compito prettamente femmini-le. E qui i terreni orticoli passavano in eredità per linea

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campi di coltivatori si toccano, ma continente solo inminiatura, dove questi due mondi ostili sono in contat-to strettissimo, questa minaccia è sempre presente; nonc’è forse regione del Mediterraneo che abbia conosciu-to conflitti più aspri tra pastori e contadini».14

Come si vede, il geografo francese riesce anche a farnascere da questo conflitto le usanze comunitarie sardedella rotazione agraria incentrata sul grano, cioè di vi-dazzone e paberile, della comunella e del barracellatoe altro ancora, ma fa anche nascere il dubbio che dauna situazione così conflittuale possano nascere istitu-zioni che tendono a un’armonizzazione, compreso ilbarracellato, vera istituzione militare di polizia ruraleche sopravvive qua e là ancora oggi per salvaguardarei campi di grano. All’idea della lotta millenaria tra con-tadino e pastore in Sardegna si accompagna un’altraidea portante del senso comune sulla Sardegna, che LeLannou poteva ricavare più o meno esplicitamente damolte pagine e da molti discorsi spontanei intorno aiproblemi della convivenza di queste due grandi attivitàtradizionali mediterranee in Sardegna: all’idea del gran-de e onnipervasivo conflitto tra pastore e contadino siaccompagna infatti l’altra idea della prevalenza dell’atti-vità pastorale in quest’isola. E anche su questo Le Lan-nou è chiaro e netto: «La Sardegna è una terra di pasto-ri; l’economia pastorale è di gran lunga l’attività più

importante di quest’isola, che, su una superficie che èla tredicesima parte di quella italiana, ospita un quartodei suoi ovini. Queste greggi, sempre in movimento,sono dappertutto. Eppure, nelle pianure e sugli altipia-ni terziari della Sardegna meridionale, delle zone este-se, coltivate quasi tutte a grano, gli resistono: lì ci sonovillaggi più piccoli, ma più fittamente disseminati suterreni più fertili, e delle comunità in cui il contadinoha più prestigio del pastore. Quali sono i rapporti traquesto piccolo mondo di coltivatori e le vaste estensio-ni di pascoli che lo circondano? Quali furono soprattut-to, nel passato, questi rapporti?».15

Ora, la Sardegna era ed è sicuramente una delle terremediterranee dove è massima la presenza dei pastoridi ovini e di caprini. Ciò che colpisce l’occhio esternoeuropeo è l’inusitata presenza delle greggi soprattuttodi pecore. Ed ecco formarsi di solito l’idea tenace del-la prevalenza territoriale e demografica del pastore,

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27. Il carico della paglia, Campidano di Oristano, 1955-58 (foto Mario De Biasi).Al termine della trebbiatura la paglia viene raccolta per essere conservata e utilizzata prevalentemente nelle stalle per il bestiame.

28-29. Mola asinaria, Campidano di Cagliari, 1955-58 (foto Mario De Biasi).

infatti, come per luoghi simili, si tratta di una trasfor-mazione che non poteva non essere contraddittoria espesso dilacerante, e tanto più contraddittoria e dilace-rante è stata e continua a essere la mutazione dei modidella vita materiale a partire dall’alimentazione, doveprima tutto si produceva per l’autoconsumo e dovetutto adesso si vende e si compra, anche nelle zonepiù interne, investite da modi e da aspirazioni di vitapiù difficilmente realizzabili che in altre zone più acces-sibili dall’industria o dal turismo soprattutto balneare, ecomunque meno isolate. È luogo comune indicare an-che il turismo (lodandolo o accusandolo) tra le causedi mutamento. E in effetti il turismo muta drasticamentei modi di vita anche in Sardegna, il turismo interno nonmeno di quello esterno. Oggi le attività turistiche, oltreche intraprese lavorative, sono anche qui la parte mag-giore del tempo libero, che fino a ieri era soprattuttotempo sacro, sagra, banchetto: il turismo l’ha reso pro-fano, era comunitario e l’ha reso privato. E anche il tu-rismo in Sardegna si alimenta molto del richiamo a unatradizione popolare di solito definita e pretesa genuinasoprattutto nel cibo. Niente di particolare in questo. So-lo che specialmente in luoghi come la Sardegna si pre-tende di offrire intatto proprio ciò che il turismo piùcontribuisce ad intaccare. Alla disponibilità del turistasi riserva e si volge il “portatore” locale di sardità, chesi adatta a diventarne simbolo anche come persona,recitando così spesso la parte del sardo verace che of-fre cose veraci specialmente in materia di gastronomiatradizionale. Una sorta di spettacolarizzazione turisticastanno infatti subendo molte attività produttive tradizio-nali e del tempo libero festivo, con sagre del pane ecene in ovile. Nella Sartiglia oristanese, per esempio,scelta degli attori della manifestazione, riti, cerimonie equestue formano un agglomerato di resti di riti e diconcezioni religiose di varia genesi e antichità, ma spes-so indicanti origini agrarie. Anche per questo è statooggetto di curiosità erudite e di dispute etimologizzantie funzionalistiche, dal frazerismo al freudismo. Ma oggiè soprattutto uno spettacolo per turisti, come la sfilatadi Sant’Efisio a Cagliari, quella del Redentore a Nuoro,la Cavalcata Sarda a Sassari e altre ancora. E se il cum-ponidori, il cavaliere personaggio principale della Sarti-glia oristanese, è salutato dal suo popolo con lancio digrano e se durante le cerimonie della Sartiglia si esibi-scono pani di molto elaborata fattura, anche nella sfila-ta di Sant’Efisio a Cagliari o in quella del Redentore aNuoro, l’esibizione di forme elaborate di pane è cosache non manca mai neppure oggi, così come non man-ca ogni volta che si voglia celebrare una qualche formadi “come eravamo”, anche nelle cerimonie private dellenozze, con residui tenaci di concezione e consumo dipane degli sposi.

In una terra di pastori sembrerebbe strano o eccessivoparlare di alimentazione basata sul pane e sui farinacei.Ma è proprio la dominanza e la centralità pansarda del

pane a indurre a precisazioni, non proprio del sensocomune, a proposito delle due grandi attività tradizio-nali della cerealicoltura e della pastorizia, del pane edel formaggio. Come nel resto del Mediterraneo, quiesistevano ed esistono ancora forme di pastoralità bra-da, cioè non contadina, non stanziale, più o meno mo-bile. In Sardegna come in tutto il Mediterraneo meri-dionale e mediorientale infatti è piuttosto rara la figuradel pastore-allevatore che sia cioè anche coltivatore-contadino, mentre le due attività, quella pastorale equella contadina, sono di solito disgiunte, sono specia-lizzazioni individuali esclusive: chi è pastore di normanon è anche contadino e chi è contadino di normanon è anche pastore. Sebbene con eccezioni, questa èla situazione che appare più tipica e in qualche modocaratterizzante, rispetto all’Europa soprattutto non me-diterranea, che ha sviluppato da circa un millennio for-me di allevamento e di agricoltura congiunte e stretta-mente interconnesse a livello microaziendale. Ne risultache la concorrenza tra pastori e contadini, o meglio trale esigenze spaziali dell’agricoltura cerealicola e le esi-genze spaziali della pastorizia mobile debbano esserecontemperate, in un gioco lungo e diuturno di armo-nizzazione non sempre riuscito. La concorrenza, anzi la lotta, tra pastori e contadini inSardegna, è luogo comune e tema conduttore di Pâ-tres et paysans de la Sardaigne di Maurice Le Lannou,13

libro ricco di idee generali, come questa della concor-renza tra pastori e contadini, che è quasi come dire trapane e formaggio, tra pane e companatico. La concor-renza disarmonica tra le due grandi attività tradizionalidei sardi, nella ricostruzione storico-geografica di LeLannou, risulta fondante di importanti fenomeni, di tut-ta una storia di lunga durata, e che in parte dura ancheoggi. In una pagina riassuntiva di Pastori e contadini,Le Lannou scrive: «Tutte queste testimonianze suggeri-scono la conclusione: gli usi comunitari della Sardegnasono la conseguenza d’una stringente necessità ches’impose agli abitanti dei villaggi nel periodo di confu-sione che seguì alla caduta dell’Impero romano: impe-dire l’invasione delle colture, necessarie alla sopravvi-venza, da parte delle greggi nomadi. L’isolamento deivillaggi prescriveva imperiosamente che ognuno pro-ducesse grano a sufficienza. Ma anche la vita pastoraleera, in Sardegna, soggetta a necessità imperiose, fruttodell’insularità. Manca lo spazio per migrazioni produ-centi: la grande transumanza è impossibile e il rilievopoco accentuato non offre agli svantaggi del clima unrimedio sufficiente, tale che lo spostamento stagionaledelle greggi in altitudine possa garantire loro di nonmorire di fame. Paragoniamo le possibilità pastoralidella Sardegna con quelle, per esempio, della Spagna.La penisola iberica ha conosciuto un nomadismo pa-storale d’un’ampiezza notevole, che si esercitava suspazi così vasti che i villaggi non avevano da temere,per le loro culture, la minaccia delle greggi. In questocontinente che è la Sardegna, dove steppa pastorale e

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adibite ad attività particolari, come gli orti (camp. e log.ortu), che si trovano già spesso dentro l’abitato e si pro-tendono poi verso la più vicina campagna, di solito benchiusi da siepi o muri (camp. e log. cresura, lat. clau-sura). Altre porzioni speciali del territorio immediata-mente adiacente all’abitato sono le aie (camp. argiòla,log. argiola, nuor. arjòla, lat. areola), luoghi dove sisvolgono i lavori agricoli sull’aia, che è comune, spessodi proprietà comune, mai chiusa, ma riservata di solitoal pascolo del bestiame domito dei contadini che lausano, spesso con rigida esclusione delle greggi ovine. I chiusi poi si ritrovano in zone più o meno distantidall’abitato, ma di solito tendenti a restare il più vicinepossibili alla bidda, e delimitano e proteggono dallegreggi erranti le vigne e altri più o meno minuscoli ap-pezzamenti di colture arboree (mandorlo, olivo). La zo-na più ampia dei campi aperti (terras abertas) soggettialla rotazione biennale (grano-leguminose oppure gra-no-maggese) è invece il luogo dove più direttamente epiù o meno armoniosamente si conciliano le esigenzedella coltivazione e quelle dell’allevamento ovino. Do-po il raccolto il pastore, di solito secondo le regole del-la comunella, fa entrare il gregge nelle stoppie, e sem-pre secondo le stesse regole usa i maggesi e gli incoltipiù o meno temporanei. Regole della comunella e sistema di rotazione sonostrettamente connessi e sono il risultato dell’accomoda-mento tra le esigenze agrarie e quelle pastorali. Chiuso

e aperto, pascolo e coltura, coltura e maggese, usi co-munitari e proprietà privata, custodia e difesa costitui-scono in Sardegna un groviglio storico-sociale che hasue caratterizzanti peculiarità, pur nelle profonde somi-glianze con molte altre zone europee anche non medi-terranee. Il groviglio è notevole, ma appare subito di-panabile intorno a un fulcro: il dover contemperare leattività agricole con quelle pastorali, e principalmente ildover produrre pane, senza il quale nemmeno in Sar-degna si concepisce una vera e normale alimentazione. Si è già accennato al fatto che l’attività agricola preva-lente, la cerealicoltura, si esercita in campi aperti sog-getti a rotazione biennale obbligatoria (obbligatoriasoprattutto per contemperare le esigenze agricole conquelle pastorali) mentre l’arboricoltura (viticoltura, oli-vicoltura e mandorlicoltura in particolare) si esercita

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30. Bambini di Desulo (foto Clifton Adams in National geographic, gennaio 1923).

31. Preparazione del pane carasau, Bono (foto Clifton Adams in National geographic, gennaio 1923).I grandi dischi di pasta ancora da infornare vengono coperti con deiteli stretti e lunghi, realizzati con diversi materiali da paese a paese,ma prevalentemente in lino o lana.

32. Impasto per il pane, Desulo, 1955 (foto Mario De Biasi).Due donne lavorano la pasta dentro il grande contenitore chiamato issíu, prima di passarla alla terza donna che conclude la preparazione sopra il tavolino basso, sa mesighedda.

della predominanza economica della pastorizia, dellaonnipervasività del genere di vita pastorale, e quindianche di costumi alimentari dove prevalga il latte e ilatticini insieme con la carne fresca e conservata. Masenza scomodare le statistiche, il massimo che si possadire sull’importanza della presenza del pastoralismo edell’alimentazione carnea in Sardegna è che una grossaminoranza di pastori percorre e sfrutta come sua lamaggior parte degli spazi dell’isola, inserendosi anchein tutti gli interstizi delle altre attività, secondo i moduliantichi della pastorizia brada che ha bisogno in mediadi un ettaro di terreno per ogni capo di bestiame ovi-no. E anche dalla lettura del libro di Le Lannou intornoa questa terra condivisa da contadini e da pastori inmaniera certo non sempre armonica, anzi spesso disar-monica se non proprio tesa, risulta una situazione, al-meno per i secoli del Medioevo e dell’Età moderna,non così conflittuale. In tempi storici non risulta una si-tuazione di conflitto tale, e a memoria d’uomo e ancoraoggi le cronache ci mostrano che i casi di violenzaomicida si dànno più tra pastori stessi che tra pastori econtadini. Più in generale, e dal punto di vista delle tra-dizioni alimentari, i paesi sardi erano comunità almenopotenzialmente autonome, organizzate economicamen-te e socialmente per bastare a se stesse.

Questa esigenza di organizzazione autarchica potrebbespiegare meglio l’origine delle usanze comunitarie, chein grande misura i sardi hanno in comune con il restodell’Europa anche nella forma più tipica della vidazzo-ne e del paberile, e cioè, in fondo, dell’openfield euro-peo a rotazione biennale o pluriennale intorno alla col-tivazione dei cereali e soprattutto del grano, che inSardegna è quasi solo grano duro. I paesi sardi sonocomunità organizzate per l’autosufficienza, che dalpunto di vista amministrativo sono comuni, e poi ancheparrocchie: comunque, le si pensa di solito come entitàeconomiche autonome, piccole città-stato agropastorali,anche perché spesso sono accentrate e distanti tra loroin modo inusitato in Europa, accentramento abitativoche è certamente una caratteristica, con eccezioni, del-l’habitat sardo. La comunità deve controllare lo spazioin cui abita e da cui trae con il lavoro le sue risorse dalsuolo. Deve controllarlo attraverso modi che Le Lannoue il senso comune locale considerano autoctoni in virtùdel fatto che sono conseguenza di un conflitto origina-rio tra contadini e pastori. Ma è soprattutto attraverso la rotazione agraria biennaleper produrre grano che anche in Sardegna si è cercatodi contemperare agricoltura e pastorizia. E la rotazionenon è un’esigenza di per sé pastorale, ma, in Sardegnacome altrove, è la base di tutti gli usi comunitari ed inparticolare è la base di quella che può essere chiamatanon tanto e non solo concorrenza conflittuale tra conta-dini e pastori, ma esigenza di uso sagace della scarsità,di un suolo povero e minacciato continuamente dai ca-pricci del clima mediterraneo. Si fa in modo, cioè, chela rotazione biennale, obbligatoria (una volta inventatao comunque conosciuta) per dei coltivatori di cereali,diventi anche una risorsa per l’attività della pastorizia,complementare ed altrettanto importante dappertutto inSardegna. Lo spazio che non si coltiva e che rimane amaggese è pascolo, e, finito l’anno agrario, diventa pa-scolo il campo vuoto dopo il raccolto. La distinzione tradizionale sarda così netta tra le duerealtà insediative e produttive della villa (bidda) e delsalto (sartu) si percepisce soprattutto in una forma dirappresentazione rapida e riassunta, e corrisponde auna realtà effettiva riconoscibile e netta nelle sue grandilinee. Ma a guardare più da vicino ci si rende conto del-le gradazioni e delle complicazioni nell’uso dello spazioper le attività agricole e pastorali, e della rete di qualifi-cazioni del territorio dentro cui il contadino e il pastoresi devono muovere con cognizione e accortezza, soprat-tutto il pastore per individuare quei vuoti delle altre atti-vità che per lui sono i pieni del suo lavoro di ricercatoreattento e instancabile dell’erba, del riparo e dell’abbeve-rata per le sue bestie. C’è infatti una gradazione e nonuna soluzione netta di continuità tra luogo abitato econcentrato e luoghi del lavoro agricolo e pastorale. Tra la bidda come luogo dell’abitare e il sartu comeluogo dei campi aperti agricoli e dei pascoli più o me-no permanenti ci sono di solito porzioni di territorio

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33. Impasto per il pane, Desulo, 1955 (foto Mario De Biasi).

34. Trasporto del pane al forno, Desulo, 1955(foto Mario De Biasi).Non tutte le famiglie disponevano del forno e ci si serviva di quello di qualche vicino(ricompensato con un certo quantitativo di pane) o del forno pubblico.

35. Il forno del pane, Desulo, 1955 (foto Mario De Biasi).

36. La cottura del pane, Sulcis, anni Trenta. «Il forno sardo … ha la forma di cupola, che si eleva su una base quadrata di muratura. Nel Nord dell’Isola, dove le piogge sono piùfrequenti, l’apertura del forno si trova di solitonella casa, mentre la cupola sporge fuori dalmuro; nelle regioni meridionali dell’Isola ilforno o è appoggiato alla casa, o, più spesso,sta isolato all’aperto» (M.L. Wagner, La vitarustica, 1996, pp. 156-157).

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in campi chiusi (camp. incresuràus o cungiàus, log.cundzàus, lat. incuneare, o più genericamente terrasserràdas: ma questi cantoni di colture arboree, con-centrati prevalentemente presso le due città di Cagliarie Sassari, non sono importanti quanto altrove nel Me-diterraneo). Questo in generale, anche se in vaste zone del centro-nord dell’isola una ragnatela di muri a secco copretutto il territorio senza altro scopo che la delimitazio-ne della proprietà, dato che i chiusi (tancas o tanca-du, sardizzazione dei catalani tanca e tancat) posso-no essere indifferentemente incolti, e quindi pascoli

per animali di ogni taglia, o sono variamente coltivati.È notevole che in vaste zone dell’isola, specialmentenel centro-sud, questa situazione si è mantenuta an-che dopo la legislazione anticomunitaria e antifeudaledella prima metà dell’Ottocento, tendente alla privatiz-zazione e all’appoderamento con chiusure in partico-lare dei terreni agricoli per produrre grano. Cerealicol-tura (camp. laurèra, catalano llaurar) in Sardegnasignifica da millenni soprattutto coltivazione del granoduro (camp. e log. trigu, nuor. trìdicu, lat. triticum),molto meno dell’orzo, tipico di zone pastorali del cen-tro montano.

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all’uso della terra come luogo della coltivazione del gra-no, secondariamente delle leguminose foraggere chespesso servono anche per l’alimentazione umana, comele fave, i ceci, le lenticchie, i piselli; latte, latticini, carni egrassi animali corrispondono all’uso della terra come pa-scolo del bestiame soprattutto ovino e suino.Le variazioni del paesaggio agropastorale16 suggerisconoancora oggi visivamente quali sono stati i modi di inte-grare questo tipo sistematico di alimentazione basato sulpane e sui farinacei: qualche vigna, e quindi un po’ dicalorie immediatamente utilizzabili con l’uso quasi gior-naliero del vino; qualche orto di impianto soprattutto

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La zona di campi aperti che annualmente si coltiva agrano si distingue nettamente da quella che annual-mente si lascia a maggese (camp. cortùra, lat. cultura,log. bedùstu, lat. vetustus) o, nella rotazione, si destinaalla coltivazione di leguminose annue e specialmentedelle fave, che con la paglia di grano è l’alimento prin-cipale dei buoi da lavoro e anche delle pecore in sta-bulazione invernale. La rotazione biennale delle colture, o di grano-magge-se, è, come s’è detto, obbligatoria, e il sartu che le èdestinato assume due funzioni e due denominazionicorrispettive. Obbliga cioè a dividere il sartu, a partegli impervi incolti e il rado bosco, in due zone inter-cambiabili da un anno all’altro, in vidazzone e in pabe-rile, come si dice comunemente anche nell’italiano diSardegna: vidazzone, camp. bidatsòni, log. bidathoneo aidattone e simili, già nel sardo medievale aydacio-ni e bidathone ; paberile, camp. pabarìli e simili oppu-re passiali, log. pabarile, nuor. paperile, che richiamabene il sardo medievale pauperile. Vidazzone e pabe-rile, come è ovvio, si scambiano annualmente le fun-zioni. Ciò è utile dal punto di vista della coltivazione eserve agli scopi dell’alimentazione. Ma l’obbligatorietàche le zone siano per tutti i coltivatori ben distinte di-pende dalla necessità che le greggi di pecore non dan-

neggino le colture della vidazzone e dal fatto che do-po il raccolto tutta la vidazzone si apra alle greggi chela sfruttano secondo le regole della comunella, sfrutta-mento collettivo dei campi come pascoli da parte deipastori che ne rimuneravano i possessori in ragione diogni capo immesso a pascolare in comunella nei terre-ni agricoli del grano.

Dunque in tutta la Sardegna si ritrova, in una sua speci-ficazione millenaria, l’antica tradizione alimentare medi-terranea, basata sui farinacei, in particolare sul pane esulle paste di grano duro, ma soprattutto sul pane, chedistingue il resto degli alimenti solidi nella categoria “se-condaria” del companatico. Ancora oggi si possono in-travedere le tracce paesaggistiche di un sistema di colti-vazione (allevamento)-alimentazione di tipo prettamentemediterraneo, che prevedeva (e in parte prevede anco-ra) il grano al centro di tutto, poi le leguminose, quindipoca carne, grassi soprattutto vegetali (olio d’oliva) epochi grassi animali (di maiale soprattutto). La sapienzaalimentare e dietetica del contadino e del pastore medi-terraneo qui da noi si è specializzata in modi che pre-sentano forme rigide di funzionamento e che prevedo-no margini di tolleranza. Pane e leguminose fresche esecche infatti corrispondono sotto l’aspetto alimentare

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37. La cottura del pane, Samugheo, anni Dieci-Venti(foto Salvatore Mura).

38. La cottura del pane, Campidano di Cagliari, anni Cinquanta (foto Marianne Sin-Pfältzer).

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in gorteddu, a fetta in coltello), non solo in campagnama anche in casa o in trattoria. Se il pane è la base, ilformaggio è il companatico più usuale, anche più dellasalsiccia e molto più del prosciutto, mentre il lardo oggiè scaduto molto. Si nota che mentre nuove tradizioni,insieme a nuove varietà di formaggio, si stanno impo-nendo, così che per esempio una scelta di formaggitende oggi a chiudere i pasti alla francese, negli spunti-ni di vario tipo e occasione, anche se il pane può man-care, il formaggio non manca, anzi si moltiplica in tipie qualità, e anche in forme, a volte quasi a imitazionedelle mille forme del pane.

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estivo, e quindi un po’ di vitamine; qualche uliveto, equindi un po’ di grassi vegetali dall’olio d’oliva. L’abbondanza di pascoli permanenti e della pastoriziasoprattutto ovina non deve però ingannare sul fattoche la consumazione della carne (d’agnello, di maiale,di pecora) era piuttosto secondaria, per lo più festiva,così come secondaria, rispetto al pane, era pure a vol-te, a parte i periodi di grande penuria, in una terra dipastori, la consumazione del formaggio e di altri lattici-ni; e nell’interno non era frequente il pesce, in un’isolacon scarse tradizioni pescherecce e marinare, se nonnelle peschiere delle lagune costiere intorno a Cagliarie a Oristano. Fino a qualche decennio fa, pane e for-maggio e un bicchiere di vino erano proverbialmenteil pasto ideale di un giorno feriale in campagna, per ilcontadino e per il pastore, pane e minestra la cenaideale casalinga, seduti a tavola, minestra di brodo dicarne e carne bollita o arrosto erano il pasto tipico del-la domenica con tutta la famiglia riunita a tavola im-bandita, e tanto meglio imbandita per le feste: sempreperò con grande abbondanza di pane, senza il quale ilpasto non era normale. Non per nulla in tutta la Sarde-gna la confezione del pane è stata anche un’arte plasti-ca di notevole interesse estetico,17 di grande e punti-gliosa specializzazione femminile.Certamente il formaggio, per lo più secco e stagiona-to, è “da sempre” uno dei principali companatici, se

non il principale, insieme con la salsiccia, col lardo esecondariamente col prosciutto del maiale allevato incasa. Se il sistema sardo di coltivazione, allevamento ealimentazione di tipo prettamente mediterraneo preve-de il grano al centro di tutto, pone il formaggio in posi-zione preminente anche come aspirazione alla norma-lità alimentare non solo in tempi di penuria. Abbiamovisto che erano importanti anche le leguminose, le car-ni, i grassi vegetali e i pochi grassi animali. Bisogna in-sistere sulla sapienza alimentare e dietetica del conta-dino e del pastore mediterraneo che in Sardegna si èspecializzata in modi che presentano forme collaudatedi funzionamento con margini di tolleranza. Il tutto co-stituiva più in generale un sistema complesso di usosagace della scarsità, specialmente alimentare, basatoanche sul riciclaggio puntiglioso dei residui di ogni ti-po di uso e consumo.La funzione del formaggio, del latte e dei latticini si ca-pisce solo all’interno di un sistema siffatto. Come giàaccennato, nell’immaginario tradizionale pane e for-maggio e un bicchiere di vino sono il pasto ideale cam-pestre dei giorni di lavoro, ma non solo. Come per lasalsiccia, ai bambini si insegnava a mangiare il formag-gio lentamente, a piccoli pezzi con grandi pezzi di pa-ne. E i maschi imparavano presto la tecnica del tagliocontemporaneo del pane e del formaggio con il coltel-lo a serramanico, senza altro supporto o posata (a fitta

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39. La lavorazione della pasta, Campidano (foto Clifton Adams in National geographic, gennaio 1923).

40. La lavorazione della pasta, Barisardo, anni Cinquanta (foto Marianne Sin-Pfältzer).A differenza dei paesi dell’interno, l’impasto, qui come in Campidano, avviene su un apposito tavolo, stretto e non troppo alto, sa mesa po fairi su pani, nel centroSardegna chiamato sa mesa ’e suíghere.

41. La cottura del pane, Tonara, 1955 (foto Mario De Biasi).

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La modellazione del pane quotidiano e di quello festi-vo speciale in forme molto varie, e il suo uso con fun-zioni di tipo simbolico, magico, cerimoniale, estetico,oltre che alimentare, è usanza largamente diffusa fino anon molto tempo fa in area mediterranea e più in par-ticolare almeno in quasi tutta l’Europa centro-meridio-nale. In Sardegna si tratta però di una forma d’arte pla-stica effimera che ha avuto nei millenni uno sviluppo,non solo peculiare, ma probabilmente superiore, perqualità e quantità di forme e di usi, a quello di qualsia-si altra zona. E ciò vale per l’intera isola, non solo perle zone dove la coltivazione del frumento è l’attivitàprevalente della popolazione a cominciare almeno daitempi della dominazione punica. Nell’isola è pure ca-ratteristica forte che le abilità normali e straordinariedella panificazione, e specialmente della modellazionedei pani speciali per forma e funzioni, siano femminiliin modo quasi esclusivo, mentre sono attività e abilitàquasi solo maschili quelle della coltivazione del granofino al momento dell’immagazzinamento nel granaiodomestico (stauli de su trigu in campidanese).

Non è superfluo descrivere con una qualche minuziale varie fasi della panificazione tradizionale domestica,anche per dare un’idea del grado di “formalizzazione”,dello specializzarsi e del cristallizzarsi in gesti ripetuti eprevedibili delle attività, anche quelle quotidiane, cheè un fenomeno non certo tipico ed esclusivo della Sar-degna popolare tradizionale, ma che caratterizza certa-mente in modo marcato gli aspetti della vita quotidia-na dei contadini e dei pastori sardi. Il grano dovunqueusato in Sardegna per la confezione del pane era gra-no duro, oggi ufficialmente considerato poco adatto al-la panificazione. Il grano si conservava in granai casalinghi, di solito a unpiano alto con solaio in legno. Si descrive ora la catenaoperativa della panificazione nella forma più tipica deipaesi centro-meridionali dell’isola, e più precisamentedella Trexenta e Marmilla, zone di antica e caratterizzan-te produzione di grano. In tutta la Sardegna agropasto-rale, e in parte anche nelle città, fino a oltre la metà delNovecento si panificava in casa, in famiglia, per le ne-cessità del nucleo familiare. Si dava spesso il caso, spe-cialmente nei paesi del Centro montano, di uso di fornicomuni, per esempio a un rione, con una sorta di spe-cializzazione da parte di una donna addetta a questocompito per sé e per altri, con forme di remunerazionein beni e in servizi. Di regola, in ogni casa, per ogni fa-miglia, esisteva l’attrezzatura necessaria: dai cesti e i ca-nestri di vimini (strexu de fenu), alle conche di terracotta(sciveddas), al tavolo per fare il pane, al forno. In parti-colare su strexu de fenu era una parte importante e ne-cessaria del corredo femminile, che comprendeva l’arre-do, il corredo e le attrezzature della casa. Il forno e lamola asinaria per la macinazione del grano erano di so-lito di pertinenza maritale o comunque maschile, comela casa in quanto tale e gli animali.

Nelle zone prevalentemente cerealicole, e nei piccolicantoni di culture specializzate (vite, ulivo, agrumi) delCentro-Sud dell’isola, le case rurali sono state di solitopiuttosto “grandi”, anche quando fossero considerati in-sufficienti i locali adibiti ad abitazione e a laboratoriodomestico. Non si dànno in queste zone casi di coabita-zione tra uomo e animale, se non per eccezione depre-cata (ma la cosa è meno eccezionale nel Nord cereali-colo dove domina la casa di paese elementare). Questacoabitazione non si dà e non è pensata possibile nem-meno per animali da cortile o da lavoro, benché spessoin case povere il mulino domestico mosso dall’asinellopotesse trovarsi nella cucina e non, come è regola e de-siderio, in un locale apposito (sa domu de sa mola, lastanza della mola). Povera veramente era la casa che,oltre alla cucina, non aveva altro che una stanza da let-to per i genitori (dove il letto era sempre presente) eun’altra per il resto della famiglia, dove però potevanomancare veri e propri letti, “sostituiti” da stuoie. Una ca-sa da meno, nel Centro-Sud dell’isola, era rara, tra icontadini, i pastori e gli artigiani, di solito tanto quantopoteva esserlo tra i pochi “borghesi” presenti in questipaesi. Le case ricche invece, sebbene fossero grandi an-che nella parte abitata dalla famiglia, erano grandi nelleloro pertinenze. Dal punto di vista dell’alimentazione,erano fornite il più ampiamente possibile degli annessiper la manifattura domestica alimentare: cucina, pozzo,domu de sa móla (casa della mola asinaria), domu desa farra, casa della farina, cioè luogo apposito per leoperazioni della panificazione, dalla pulitura del granoalla lievitazione, al forno, di solito esterno alla cucina oalla domu de sa farra, o in un suo locale apposito seb-bene di solito con la sua cupola esterna intonacata confango e paglia, lo stesso materiale dei mattoni crudi (là-diri) delle case soprattutto povere. Nella tradizione abi-tativa sarda, dove la casa è anche laboratorio domesticodi quasi tutto quanto occorre alla vita familiare e socia-le, casa ricca e bella è dunque principalmente la casagrande, con grandi cortili e grandi annessi per la mani-fattura domestica, introversa e autosufficiente. Oggi inSardegna dei modi dell’edilizia e dell’urbanistica tradi-zionale, dopo la catastrofe di questi ultimi decenni, re-sta soprattutto la svalutazione ironica delle tradizioniedilizie e abitative, testimoni di una precarietà e di unamiseria che per i più ormai è soltanto ricordo. Tutto sirigetta, meno quest’aspirazione residuale alla massimaampiezza della casa, da accrescere poi nel tempo, manmano che si può, anche come forma d’investimento delrisparmio. Ma nel generale e puntiglioso rifiuto delleforme e dei modi abitativi di un tempo, anche nelle se-conde case al mare, così innovative, non manca quasi

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42. Il trasporto del pane carasau, Oliena, 1962 (foto Henri Cartier Bresson).Dopo la cottura, l’alta pila di carasau, per essere trasportata con più facilità, viene avvolta nei teli utilizzati già durante le fasi di lavorazione della pasta per tenere separate le sfoglie prima di essere infornate. 42

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mai un forno a cupola di forma e materiali più o menotradizionali, dove almeno simbolicamente si intendepreservare forme dell’alimentazione sarda, o presuntatale, compresa a volte la panificazione tradizionale.Già il giorno successivo a quello in cui si finiva di pre-parare il pane si lavava il grano che si sarebbe utilizza-to per preparare la provvista successiva. Il grano lavatosi lasciava asciugare, preferibilmente all’aperto, sparsosu coperte di lana oppure dentro canistéddus, canestridi vimini intrecciati. Dopo circa due giorni si purgava ilgrano dalle impurità non eliminate dal lavaggio, cioè sieseguiva la cerridúra e la prugadúra due diversi tipi dicilíru. Il grano era quindi pronto per essere macinato.L’antica móla asinaria sarda, di cui hanno scritto la mag-gior parte dei viaggiatori sette-ottocenteschi, si usavadappertutto fino agli anni Cinquanta. Prima dell’ultimaguerra era in fase di sparizione, ma i disagi della guerral’hanno fatta ridiventare indispensabile. La móla di soli-to era posseduta, come accadeva per esempio nei paesidella Trexenta e della Marmilla e in genere nelle zonecerealicole anche del Logudoro, probabilmente da circauna famiglia su tre, che di solito era la meno povera,presso la quale macinavano il loro grano, dietro remu-nerazione, coloro che non avevano una móla.La rappresentazione attuale della casa tipica tradiziona-le sarda non sbaglia nel mettere in evidenza i laboratoridomestici per il consumo, grandi e centrali. Ma proprioil modo della loro presenza, che arrivava spesso finoalla loro assenza, insieme con la presenza o l’assenzadegli annessi rustici agricoli come le stalle e i magazzi-ni, era un indice di benessere e di indigenza. Insomma,la situazione mediana nel Novecento, prima della gran-de trasformazione della seconda metà del secolo, e ve-rosimilmente negli ultimi due secoli, mostra una mag-gioranza, o per lo meno una forte minoranza di case edi famiglie carenti proprio in fatto di laboratori dome-stici per la panificazione, cioè di un bene essenziale al-la vita nelle forme tradizionali. La situazione da ritenerepiù tipica in tutta l’isola era probabilmente quella percui tutte o quasi tutte le operazioni della panificazione,compresa la molitura e la cottura al forno, si facevanoin cucina, insieme con molte altre incombenze, anchenon direttamente legate all’alimentazione.Una volta macinato il grano, se ne ricavavano variespecie di farina usando setacci di diverse dimensioni:due specie di fior di farina, detto scétti, due specie dicrusca, detta póddini, due specie di semola, detta sìm-bula. Una delle due specie era più pregiata e più finedell’altra per tutte e tre le qualità di farina. Con lo scéttisi confezionava il pane più comune e perciò di consu-mo giornaliero, detto civráxu. Con la semola più fine sipreparavano i pani più pregiati e di forma più elaborata.Attraverso varie fasi di stacciatura si poteva ottenere an-che una terza qualità di semola, detta sìmbula sceráda,con cui si confezionavano i pani più pregiati in occasio-ne di ricorrenze straordinarie, come le nozze, che quasidappertutto prevedevano il pane degli sposi, o le feste

come la Festa de is bagadìus a Siurgus, qui descritta.Con la crusca più fine si confezionava un civráxu scu-ro considerato di scarso valore, mentre con la cruscapiù grossa, presso le famiglie più abbienti soprattutto,si confezionava un tipo di pane per i cani.La sera prima del giorno stabilito per fare il pane si ese-guiva l’operazione di arremíssi su fromentu, cioè sisquagliava un po’ di pasta fermentata, conservata dal-l’ultima volta per servire da lievito per la volta successi-va badando a che la quantità fosse ben proporzionata,si preparava anche la quantità prevista di sale e di farinedi vario tipo e si pulivano gli strumenti che sarebberostati adoperati; infine si metteva a scaldare una grandequantità d’acqua.Tutti i membri validi della famiglia (e, nelle case deicontadini che utilizzavano mano d’opera dipendente acontratto annuale, anche i serbidóris, i servi, che dor-mivano in casa del padrone) si alzavano molto prestoper proseguire il lavoro. Di solito ciò non avveniva piùtardi delle due del mattino.La prima operazione era quella di cummossái, cioè diimpastare la farina con acqua salata e calda. Si impasta-va prima di tutto la semola più fine per preparare i panipiù pregiati cioè i cosiddetti coccóis e maritzósus, quinditutte le altre qualità di farine per preparare i diversi tipi.Dopo la cummossadúra, la pasta si amalgamava col lie-vito, ormai ridotto a una emulsione, adatta all’impasto. A questo punto si iniziava a ciuéxi, cioè l’operazionepiù faticosa, intorno al grande tavolo (che in ogni cuci-na occupava il posto più riparato e veniva tenuto con lamassima cura: era detto sa mésa po fái su páni, “il tavo-lo per fare il pane”), ciascuno col suo pezzo di pasta, elo stiracchiavano e lo rigiravano, bagnandolo ogni tantocon acqua calda non salata. Questo trattamento era ri-servato però solo alla pasta di semola per i coccóis, chevenivano tanto più buoni e teneri quanto più la pastaveniva lavorata, cioè rimenata.Intanto era trascorsa un’oretta e si faceva qualche mi-nuto di pausa, durante la quale si beveva il “caffè”, aquesto punto tradizionalmente d’obbligo. Questa era laprima parte dell’operazione di ciuéxi.Quando si riprendeva l’opera, venivano assegnati a per-sone diverse tre compiti principali: una parte degli addet-ti iniziava la seconda ciuexidúra, il lavoro di prima ripe-tuto per il pane pregiato, parte iniziava la spongiadúra,cioè manipolava coi pugni chiusi, premendola e impa-standola, la pasta contenuta dentro recipienti di terracot-ta detti scivéddas.Una persona si incaricava di scaldare il forno, soprattuttocon legna o con paglia di fave. Un tempo, e fino a unacinquantina d’anni fa i più poveri, non pochi usavanoraccogliere sterco di bue o di altri animali e ne facevanoprovvista per bruciarlo soprattutto per scaldare il forno.

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43. Processione per Sant’Efisio (foto Franco Stefano Ruju, archivio Imago multimedia).Pane festivo esibito durante la processione di Sant’Efisio.

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due tegole, appoggiate con la parte concava contrap-posta a forma di becco aperto d’uccello, che venivachiuso quando il forno era caldo. Il pavimento interno,che veniva ripulito dalle ceneri del combustibile conerbe verdi (scovas de forru), poteva essere nelle casedei benestanti piastrellato con materiale refrattario incotto o altro, oppure, più spesso, era in terra battuta,con argilla adatta a tenere e irradiare il calore. Per primi si introducevano nel forno caldo, con unapala de forru, i pani meno pregiati, collocandoli nelleparti più esterne; per ultimi, al centro, venivano collo-cati i pani più pregiati ed elaborati. La cottura duravacirca un’ora. Un modo per rendere lucenti e più belli icoccóis era quello di bagnarli, quando erano quasi cot-ti, con acqua bollente tramite una penna di gallina equindi reintrodurli nel forno per alcuni minuti. La tec-nica della doppia cottura al forno è anche quella tipicaper la confezione del pane a sfoglia di lunga durata,con la differenza che la pagnotta piatta, dopo la primacottura, si divideva in due e si reintroduceva nel fornocosì divisa e separata in due sfoglie.Nei luoghi del Centro-Sud, quelli del civráxu e delcoccói, si panificava ogni dieci giorni circa. Nelle zonedel pane carasau si faceva a intervalli di solito piùlunghi.

Note

1. F. Braudel 1953 (1949).

2. G. Angioni 2003.

3. Quarant’anni dopo 1990; E. Tognotti, Un progetto americano per laSardegna del dopoguerra (comunisti e zanzare), Sassari, Edizioni Fon-dazione Sardinia, 1994; E. Tognotti, La malaria in Sardegna, Milano,Franco Angeli, 1996.

4. A.M. Cirese 1968-71, pp. 5-7.

5. G. Angioni 1975.

6. G.G. Ortu 1981.

7. G. Angioni 1989.

8. B. Meloni 1984.

9. B. Caltagirone 1988.

10. G. Murru Corriga 1988.

11. B. Caltagirone 1988.

12. M. Pira 1978; Le ragioni dell’utopia 1984; B. Bandinu, G. Barbielli-ni Amidei, Il re è un feticcio, Nuoro, Ilisso, 2003.

13. M. Le Lannou 1941; cfr. anche C. Maxia, “A Stick for Cooperation”,in Europaea, n. 1 (1995), pp. 171-182.

14. M. Le Lannou 1941, pp. 135-136.

15. M. Le Lannou 1941, p. 6.

16. G. Angioni 1975; G. Angioni 1989.

17. Pani tradizionali 1977; E. Delitala 1983; G. Angioni 1992, pp. 131-146; G. Angioni 2000, da cui traggo e rifondo qui alcuni brani.

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Quando si riteneva che la pasta di semola era stata la-vorata abbastanza, si tagliava in tocchi e a ogni pezzosi dava una di quelle più o meno svariate forme (a se-conda della ricorrenza e della bravura delle donne, chesole si dedicavano a questo lavoro di fino) che dapper-tutto in Sardegna fanno di certi coccóis dei piccoli mo-numenti di pazienza e di abilità, coccóis pintaus.Quelli che stavano spongéndu la pasta per il civráxuerano intanto giunti al termine della loro opera; si ver-sava la pasta sul tavolo, la si continuava a ciuéxi unpochetto anche essa e quindi se ne formavano dellegrandi pagnotte piatte e tondeggianti, dette civráxus,il pane più tipico delle zone centro-meridionali, doveè rinomato il civráxu di Sanluri.

Si lasciava lievitare il tutto per circa un’ora. Il lievito(fromentu o fromentu de màsala in campidanese) erasempre un pezzo di pasta conservato a questo scopodalla volta precedente. In mancanza, o la prima voltain una nuova casa, si procurava dai vicini. Sembra as-sente nelle cognizioni locali la nozione che la pastalievita comunque e si tende a pensare che il fermentoo lievito è qualcosa di originario che si preserva con laconservazione ininterrotta. Il forno era nel frattempo giunto al punto giusto di ri-scaldamento, per opera di un maschio di casa. Il fornoaveva una forma di cupola, costruita in mattoni crudi,intonacata interiormente ed esteriormente con fango,rinforzata con schegge di pietre, su una base cubica inmuratura, con l’interno vuoto, di solito rifugio del maia-le, del cane o delle galline. La cupola era esterna allastanza dove si confezionava il pane. In una parte bassala cupola aveva una specie di fumaiolo formato da

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44. Processione per Sant’Efisio (foto Franco Stefano Ruju, archivio Imago multimedia).Pane esibito durante la processione di Sant’Efisio.

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La nozione di pane, soprattutto per il periodo preistorico, va in-tesa problematicamente, sia per la varietà degli ingredienti dicui poteva essere composto, sia in relazione al suo stesso con-sumo. Sebbene il pane sia collegato agli albori dell’agricoltura ein particolare alla coltivazione dei cereali, non sempre era pre-parato con farina di cereali, né tutti i cereali consentivano o era-no adoperati per fare il pane. Come le ghiande di quercia (Quer-cus spp.), frutti secchi importanti nell’economia alimentare dellapreistoria dato il loro alto contenuto proteico, venivano consu-mate sotto forma di pappe o di “pani”, dopo essere state privatedel tossico tannino mediante macerazione, ebollizione o tosta-tura,1 così la farina di farro e di orzo era utilizzata ancora in epo-ca storica soprattutto per preparare pappe bollite, quali la pulsa base di farro e la polenta d’orzo di età romana.2

In Sardegna, a causa dell’assenza di analisi paleobotanichequantitativamente significative, il consumo di pane nella lontanapreistoria può solo essere ipotizzato mettendolo in associazionealla diffusione della cerealicoltura, introdotta nell’isola nel VI mil-lennio a.C. La più antica documentazione della presenza di ce-reali coltivati è data da uno strato di frequentazione del Neoliti-co iniziale della grotta di Filiestru, Mara, dove sono stati rinvenutigrani di farro piccolo (Triticum monococcum) e di farro grande(Triticum dicoccum), oltre a macine in pietra per la trasformazio-ne del cereale in farina.3 La pianta del farro, che si adatta facil-mente a terreni relativamente poveri e a condizioni climaticheanche rigide, produce cariossidi “vestite”, cioè grani ricoperti daun rivestimento tenace dal quale venivano liberati mediante latostatura o torrefazione e la triturazione entro un mortaio; solodopo queste operazioni i grani erano sottoposti a macinazione,come è attestato da fonti letterarie latine e dalla documentazio-ne archeologica. La tostatura veniva effettuata anche per evitarel’attacco di muffe e parassiti durante il periodo di conservazio-ne nei contenitori in terracotta o nei silos, scavati nel terreno ocostruiti in muratura. Nell’età nuragica, soprattutto a partire dalBronzo Finale (1200-1000 a.C.), erano adoperati ziri o dolii interracotta di dimensioni notevoli, spesso infossati parzialmentenel terreno, che dovevano avere anche un certo valore poiché,quando si spezzavano, venivano accuratamente restaurati congrappe di piombo. Quanto ai silos, uno, e forse un secondo incattivo stato di conservazione, è stato individuato nel cortile delnuraghe Arrubiu di Orroli, grandioso monumento complessopentalobato situato nella piana di Pran’e Muru. Il silos, simile aduna torre tronco-conica priva di volta e con portello alla base, ècostruito con piccole pietre e raggiunge un’altezza residua diquasi cinque metri. Si è calcolato che potesse contenere circa150 quintali di aridi. La sua costruzione, risalente probabilmente

al Bronzo Finale, è da connettere all’estendersi, in questa fase,delle aree destinate alla coltivazione dei cereali a danno dellamacchia mediterranea e delle aree boschive che caratterizzava-no il paesaggio nuragico di Pran’e Muru nel Bronzo Medio e Re-cente, dato confermato peraltro dalle analisi dei pollini.4

La diffusione della cerealicoltura è documentabile indiretta-mente anche dalle numerose macine e dai macinelli che dalNeolitico in poi sono presenza comune nelle aree abitate pertutta la preistoria, con persistenze fino ad età storica avanzata.Questo antico sistema di macinazione si basava sullo sfrega-mento manuale di una pietra sull’altra: la pietra di maggiori di-mensioni, di forma oblunga, accoglieva il cereale, mentre il ma-cinello veniva impugnato con entrambe le mani dall’uomo che,in posizione accosciata, compiva un movimento ondulatoriosulla macina; con l’uso la pietra inferiore tendeva ad incavarsi,assumendo la caratteristica forma “a sella”. Presso le macine, ta-lora, è stata trovata una pietra piatta sulla quale si inginocchia-va chi doveva svolgere questa faticosa operazione di molitura. L’introduzione in Sardegna dei grani “nudi”, duri (Triticum du-rum) e teneri (Triticum aestivum), ottenuti dopo lunghe selezio-ni dai grani “vestiti”, sembra risalire al Neolitico Finale (fine IV-inizi III millennio a.C.), periodo nel quale è già presente l’orzo(Hordeum vulgare nudum), comparso nel Neolitico Medio nellavarietà “a sei spighe” (Hordeum hexastichum).5

Pur mancando quasi del tutto riscontri diretti che ci diano indi-cazioni sulla panificazione e sul pane nella preistoria e protosto-ria sarda, si possono avanzare alcune ipotesi sui sistemi di cot-tura adoperati e sull’aspetto del pane, attraverso l’analisi delletipologie ceramiche e della bronzistica figurata.A partire dal Neolitico Finale isolano, è consueto rinvenire negliabitati dei dischi in ceramica, chiamati “spiane” dagli archeologi,che fungevano probabilmente da piani di cottura per alimenti.Questi dischi, con diametri variabili e spessi alcuni centimetri,venivano poggiati sulle braci e sembrano particolarmente fun-zionali per la cottura di sottili focacce. Rimasero in uso fino al-l’età nuragica, come documenta il grande esemplare con l’im-pronta di un intreccio in fibre vegetali, proveniente dal nuragheAlbucciu di Arzachena ed ora esposto al Museo Nazionale “G.A.Sanna”di Sassari.6

In età nuragica è anche presente un sistema di cottura indirettomediante l’uso delle cosiddette “coppe di cottura”. Simili a deigrandi tegami rovesciati, con diametri in genere compresi tra i40 e gli 80 cm, questi recipienti in terracotta hanno il fondo con-vesso e alcuni fori nelle pareti, forse con la funzione di valvole disfogo. L’alimento da sottoporre a cottura veniva coperto dallacoppa sulla quale si deponevano le braci. Nel villaggio nuragico

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Il pane in Sardegna dalla preistoria all’età romanaTatiana Cossu

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45. Macina “a sella” e macinello nuragici provenientidal villaggio di Genna Maria (Villanovaforru), 54,5 cm,Villanovaforru, Museo Civico Archeologico.

46. Coppa di cottura nuragica proveniente dal villaggio di Genna Maria (Villanovaforru), 78 cm,Villanovaforru, Museo Civico Archeologico.

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47-48. Figurina bronzea di offerente con focaccia proveniente da Abini (Teti), 16 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

49. Pintadera nuragica proveniente dal nuraghe Santu Antine (Torralba), Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”.

50-51. Pintaderas nuragiche provenienti dal villaggio di Genna Maria (Villanovaforru),rispettivamente 8 e 5,5 cm, Villanovaforru, Museo Civico Archeologico.

52. Pintadera nuragica proveniente dal territorio di Villanovaforru, 7 cm, Villanovaforru, Museo Civico Archeologico.

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di Genna Maria di Villanovaforru, risalente all’età del primo ferro(IX-VIII sec. a.C.), è stato trovato uno di questi forni mobili nel va-no 15, un ambiente adibito probabilmente a cucina, in cui vierano due focolari, un ampio sedile semicircolare, un bacile inpietra e una grande caldaia in ceramica. In un piccolo vanoadiacente (vano 15a) vi era forse il residuo basale di un’area de-stinata alla panificazione, nella quale poteva essere adoperatala coppa di cottura per cuocere il pane, come fanno supporreun letto di cenere e due macinelli in basalto.7 Il dato certamentepiù significativo è il rinvenimento, in un piccolo ambiente adibi-to a deposito (vano 12), di tre piccoli frammenti di materia or-ganica carbonizzata appartenenti alla preparazione alimentaredi “pane”. L’esame al microscopio binoculare ha consentito di ri-levare una pasta fine con alveoli (i fori della mollica) regolari dipiccole dimensioni (da 1 a 3 mm di diametro), appartenente apane non lievitato o semilievitato; la pasta lasciata fermentarepiù ore ha, invece, una bollosità più evidente. Si ignora, purtrop-po, la sua composizione, che potrebbe essere di farina di grano,di orzo o di ghiande di quercia.8 I pezzi di focaccia di Genna Ma-ria sono i primi residui alimentari che permettono di documen-tare concretamente la produzione di pane nella Sardegna prei-storica e protostorica.Il pane, bene prezioso, era anche offerto in dono alla divinità.Numerose sono le figurine bronzee di età nuragica che rappre-sentano offerenti con una focaccia circolare nella mano sinistrae la mano destra sollevata nel tipico saluto devozionale, o conla focaccia tenuta da entrambe le mani. In genere si tratta difocacce poco più grandi del palmo della mano, seppure nonmanchino quelle di dimensioni maggiori, come il grosso paneportato in offerta dalla figurina bronzea rinvenuta nel nuragheAttentu di Fluminaria.9 La rappresentazione di focacce rigon-fie, al contrario di altre un po’ appiattite, consente di ipotizzarel’uso del lievito nella panificazione. Quasi tutte le focacce mostrano delle sottili incisioni che paionoavere una funzione decorativa. In un esemplare, tenuto in manoda una statuina bronzea di offerente che proviene dal santuario

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53-54. Frammento originale e ricostruzione di una matrice punica, rispettivamente 6,8 e 14 cm, Villanovaforru, Museo Civico Archeologico.

55-56. Matrici circolari puniche provenienti da Tharros, terracotta, entrambe 12 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

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Per concludere, meritano una particolare attenzione le innova-zioni tecnologiche dei sistemi molitori in età storica, nelle quali laSardegna gode di un primato speciale. Proviene, infatti, da Mu-largia (la romana Molaria), che fu il principale centro di produzio-ne di macine dell’isola in età punico-romana, la più antica maci-na granaria rotatoria del Mediterraneo, oggetto di esportazionee rinvenuta in una nave mercantile greca naufragata tra il 375 e il350 a.C. nella baia di El Sec al largo di Palma di Maiorca, nelle Ba-leari. Era composta dalla meta, il palmento inferiore fisso di for-ma conica, e dal catillus, il palmento superiore mobile con cavitàinterna a clessidra e con sporgenze o orecchie all’esterno per l’in-serimento delle leve lignee che venivano manovrate da dueoperatori.18 In età punica si utilizzò in Sardegna anche la macinaa tramoggia e stanga di origine greca, azionata da una leva oriz-zontale fissata ad un tavolo e manovrata da un operatore checompiva un movimento alternativo laterale.19 Tipologie diffusein età romana sono la macina a rotazione manuale adoperatadai soldati romani a partire dal II sec. a.C., e per questo detta “dellegionario”, con i due palmenti di forma cilindrica e uno o piùmanici per azionare il catillus; e la macina “pompeiana”, comunenei mulini, con la meta circondata da un basso muretto ricopertoda una lastra di piombo e l’ampio catillus a clessidra azionatodall’asinello, o manualmente nelle piccole macine domestiche.20

Alla farina ottenuta con questi sistemi molitori veniva aggiun-to il lievito per la panificazione che, secondo quanto riferiscePlinio nella sua Naturalis Historia,21 era ottenuto trattando varicereali, quali il grano, il miglio o l’orzo, con mosto d’uva, o la-sciando inacidire farina d’orzo cotta in pani o pasta della pani-ficazione precedente. Si può ipotizzare, infine, che il pane pro-dotto nei panifici della nostra isola, come accadeva anche aRoma, fosse principalmente di due qualità: il pane dei ricchipreparato con la farina bianca (panis candidus o siligineus) equello dei poveri, fatto con farina di seconda qualità, nero e conmolta crusca (panis cibarius e secundarius).22

Note

1. Ph. Marinval, “Les fruits et leurs usages au travers des restes archéolo-giques: en France, de la Préhistoire à l’Antiquité”, in Le patrimoine frui-tier. Hier, aujourd’hui, demain, Paris 1999, pp. 53-64.

2. G. Pucci 1989; L. Gallo 1992.

3. D.H. Trump, “La grotta di Filiestru a Bonu Ighinu, Mara (SS)”, in Qua-derni della Soprintendenza ai Beni Archeologici per le Provincie di Sassari eNuoro, 13, Sassari, Dessì, 1983.

4. M. Perra, “L’età del bronzo finale: ‘la bella età’ del Nuraghe Arrubiu e laricchezza delle genti di Pran’e Muru”, in La vita nel Nuraghe Arrubiu, Orroli2003, pp. 77-91.

5. A. Piga, M.A. Porcu, “Flora e fauna della Sardegna antica”, in L’Africa ro-mana. Atti del VII convegno di studio, a cura di A. Mastino, Sassari, Gallizzi,1990, pp. 569-597.

6. M.L. Ferrarese Ceruti, Archeologia della Sardegna preistorica e protostori-ca, a cura di A. Antona e F. Lo Schiavo, Nuoro, Poliedro, 1997.

nuragico di Abini, Teti, si distinguono chiaramente le incisionidisposte a raggiera intorno ad un risalto circolare in posizionecentrale; in altri casi il pane rigonfio decorato da incisioni radialiha una piccola depressione circolare al centro.10 Il tema decora-tivo a raggiera o stellare, così frequente nei pani della bronzisti-ca figurata nuragica, è stato messo in relazione con quello in ne-gativo di diverse pintaderas circolari nuragiche, presente anchein un esemplare del vano 17 del villaggio di Genna Maria di Vil-lanovaforru.11 Le pintaderas, piccole matrici in terracotta, con undiametro che non supera i 10 cm e la faccia inferiore decorata ingenere da motivi geometrici, sono interpretate come timbri perdecorare pani cerimoniali. Rinvenute in nuraghi, villaggi e luo-ghi di culto, risalgono al termine del Bronzo Finale e alla primaetà del Ferro (X-VIII sec. a.C.).Secondo diversi studiosi anche le matrici fittili puniche, docu-mentate dal VI fino al I sec. a.C., in piena età romana repubbli-cana, non sarebbero altro che timbri per pani sacri o per dolci,quale il punicum, focaccia dolce cartaginese. Di dimensioni va-riabili, dai 6 ai 18 cm, e spesse poco più di un centimetro, lematrici definite “per focacce” hanno prevalentemente una for-ma circolare, ma possono essere anche ovoidali, rettangolari oad anello; la decorazione realizzata in negativo su una dellefacce, o su entrambe, è costituita da motivi geometrici, florealio da figure umane e di animali. Matrici fittili provengono daTharros, da Olbia, da Sulci, da Nora, da Monte Sirai, da Cagliari,e non è raro trovarle anche in strati di frequentazione storica diinsediamenti nuragici, come il frammento proveniente dal de-posito votivo punico-romano del nuraghe Genna Maria, espo-sto nel Museo Archeologico di Villanovaforru.12 La varietà deicontesti di provenienza – luoghi di culto, ambienti di carattere

domestico, sepolture – e il ritrovamento di calchi in terracottadi alcune matrici fanno propendere per una loro polifunziona-lità, legata non necessariamente a fini pratici.13

Sotto la dominazione punica e romana, la Sardegna diventauna importante riserva di frumentum per Cartagine e Roma.Pare, addirittura, che Cartagine abbia imposto ai Sardi il divietodi coltivare alberi da frutto, forse per lasciare spazio alle colturecerealicole. Con il grano sardo i Cartaginesi integravano la pro-duzione di orzo alla quale era destinato prevalentemente il ter-ritorio nord-africano.14

Il contatto con il mondo fenicio-punico porta in Sardegna nuovimodi di cuocere il pane. Sin dalla prima fase della colonizzazio-ne fenicia fino ad età romana repubblicana, infatti, si riscontranell’isola un tipo particolare di forno per la cottura del pane, an-cora oggi diffuso nel Nord-Africa e nel Vicino Oriente, noto co-me tannur o tabouna. È un grande contenitore in terracotta, altoquasi un metro, di forma cilindrica o troncoconica, aperto nellaparte superiore e privo di fondo, che veniva poggiato diretta-mente sul terreno, generalmente su un basamento formato dapietre, o in parte interrato. Al suo interno si accendeva il fuocoo si immettevano le braci per surriscaldare le pareti verticali chefungono – e qui sta la peculiarità di questo forno – da superficidi cottura. Le focacce, introdotte all’interno dall’imboccaturasuperiore, venivano fatte aderire alle pareti caldissime doveraggiungevano la cottura ottimale in breve tempo. Questi forniper la panificazione, rinvenuti in molti centri fenicio-punici del-l’isola, da Monte Sirai a Nora, da Tharros a Neapolis, sono collo-cati generalmente in aree di uso domestico, nell’angolo di unvano o di un cortile, comunque in posizione riparata, protettitalora da un tramezzo murario.15

È interessante rilevare che di solito l’ambiente destinato alla pa-nificazione era il medesimo o attiguo a quello adibito alla maci-

nazione dei cereali, come risulta dagli scavi della fattoriaromana di S’Imbalconadu in agro di Olbia. In due vani

comunicanti sono stati trovati, da una parte il tipicoforno fenicio-punico con le pareti esterne decorate

a ditate, impresse quando l’argilla era ancora fre-sca, dall’altra i frammenti in basalto di una metae di un catillus appartenenti ad una mola ma-nuaria pumicea, oltre a due ciottoli con tracced’uso che paiono documentare il coesistere disistemi arcaici di macinazione accanto a quellipiù moderni. La persistenza di un forno di tradi-zione punica nel II-I sec. a.C, durante la domina-zione romana, può essere spiegata con l’affida-mento di aziende agricole a manodopera e aconduttori di origine punica, come rivela anche il“segno di Tanit” presente in un blocco, simbolopunico con valore apotropaico e propiziatorio.16

Anche a Tharros, in un panificio di età romana, era-no collocati nel medesimo vano gli impianti di ma-

cinazione e una impastatrice per il pane, della qualesi conserva il contenitore cilindrico in basalto nel

quale veniva fissato un dispositivo ligneo azionatomanualmente o a trazione animale.17

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7. U. Badas, “Genna Maria-Villanovaforru (Cagliari). I vani 10/18. Nuovi ap-porti allo studio delle abitazioni a corte centrale”, in La Sardegna nel Medi-terraneo tra il secondo e il primo millennio a.C., Cagliari 1987, pp. 133-146.

8. Ph. Marinval, comunicazione personale.

9. G. Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, Cagliari, La Zattera, 1966.

10. G. Lilliu, Sculture cit.

11. U. Badas, “Genna Maria” cit.; U. Badas, “Villanovaforru. Guida al percor-so espositivo”, in L’Antiquarium arborense e i civici musei archeologici dellaSardegna, Sassari 1988, pp. 191-195.

12. U. Badas, “Villanovaforru” cit.; C. Lilliu, “Un culto di età Punico-Roma-na al nuraghe Genna Maria di Villanovaforru”, in Genna Maria. Il depositovotivo del mastio e del cortile, Cagliari, Stef, 1993, pp. 11-39.

13. M. Fantar, Eschatologie phénicienne-punique, Tunis 1970; L.I. Manfredi,“Matrici e stampi in terracotta”, in Tharros: la collezione Pesce, Roma 1990,pp. 71-81; A. Sanciu, “Le matrici fittili”, in Contributi su Olbia punica, 1991,pp. 39-50; A. Forci, “Due matrici fittili puniche da Cagliari”, in Quaderni del-la Soprintendenza Archeologica per le Provincie di Cagliari e Oristano, Ca-gliari, 1999, pp. 175-180.

14. L.I. Manfredi 1993.

15. L. Campanella, “Nota su un tipo di forno fenicio e punico”, in Rivista diStudi Fenici, XXIX, 2, Roma, 2001, pp. 231-239; L. Campanella, “Un fornoper il pane da Nora”, in Quaderni della Soprintendenza Archeologica per leProvincie di Cagliari e Oristano, Cagliari 2002, pp. 115-123.

16. A. Sanciu, Una fattoria di età romana nell’agro di Olbia, Sassari, Boome-rang, 1997.

17. C. Lilliu 1999.

18. C. Lilliu 1999; O. Williams Thorpe, R.S. Thorpe, “Millstone provenan-cing used in tracing the route of a 4th century B.C. Greek merchant ship”,in Archaeometry, 32, 1990.

19. C. Lilliu 1999.

20. C. Lilliu 1999; G. Stefani 2000.

21. Gaio Plinio Secondo (detto Il Vecchio), Storia Naturale, Torino, Einau-di, 1984, lib. XVIII, 26.

22. J. André, L’alimentation et la cuisine à Rome, Paris, Les Belles Lettres,19812; G. Pucci 1989; L. Gallo 1992.

57. Parte superiore di macina domestica “a clessidra” di età romana proveniente da San Gavino, h 39 cm, Villanovaforru, Museo Civico Archeologico.

58. Ricostruzione di macina rotatoria romana detta “dellegionario”, h 30 cm, Villanovaforru, Museo Civico Archeologico.

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ed altri legumi e granaglie, e chi lo userà pagherà l’uso con unrasiere della merce pesata (cap. 80). I compratori saranno ga-rantiti così sulla giustezza del peso (cap. 32) e sull’onestà dei pe-satori (capp. 30-31). Coloro che poi hanno raccolto il grano dailoro campi, possono venderlo senza pagare tasse sullo staio, ameno che non debbano usarlo (cap. 80). Il grano comprato ve-niva affidato ai mugnai, che dovevano provvedere alla molitura,restituendo integralmente la farina ricavata, mentre la tariffaper il servizio prestato, non poteva superare la quattordicesimaparte di un rasiere di grano o di orzo (cap. 71).Anche nelle Ordinazioni dei Consiglieri di Cagliari 10 è detto che ilgrano e l’orzo debbono essere venduti solo nella piazza del Ca-stello (cap. 97) e pesati con lo starello pubblico (cap. 39), manella piazza le donne non possono entrare. Tutti sono tenuti adenunciare l’orzo e il grano che introdurranno in città, per via diterra o di mare (cap. 110), e dovranno denunciare anche tutto ilgrano e l’orzo esistente su navi, bastimenti etc., così dovrannofare anche coloro che vendono senza mediatore e perfino quel-lo che viene trasportato da una nave all’altra (capp. 111-113).Grano e orzo saranno scaricati solo nel quartiere della Marina oLapola, vicino al porto, e non potranno essere portati altrovesenza il placet delle autorità, che ne dovranno essere pronta-mente informate (capp. 114-115). Anche i negozianti di Castellodovranno denunciare tutto il grano e l’orzo che commerciano efar pagare la tassa stabilita a coloro che lo comprano, da versar-si poi ai collettori abilitati (capp. 116-117). Le tasse non rispar-mieranno neppure il grano dei nobili feudatari (cap. 118). Nes-suno in generale, poi, potrà portar via dalla piazza dove viene

venduto, il grano e l’orzo comprati, senza aver versato la tassadovuta (cap. 120). Anche nel Breve di Villa di Chiesa si parla divendere il grano in piazze designate, con pesi controllati e pa-gando le debite imposte.11

Tutte le operazioni di raccolta, trasporto e commercio all’in-grosso e al minuto di grano ed orzo sono oggetto di norme se-vere e precise. Il grano, poi, insieme al formaggio, è usato co-me unità di misura a cui ci si riferisce nelle compravendite: sidice, ad esempio, «ti dò XV moggi di grano (o di formaggio) insoldi» per far capire il valore dell’offerta.12 Non sempre e do-vunque i raccolti erano abbondanti, però, e lo si comprendedalla variazione di prezzo da anno ad anno e addirittura da re-gione a regione: nel 1353, ad esempio, mentre in Arborea e neiterritori sardi riconquistati dal sovrano arborense Mariano IV ilgrano costava 5-6 soldi a starello, a pochi passi, in territoriosottomesso alla Corona d’Aragona, ne costava ben 8,40.13

Ogni casa, dall’età preistorica in poi, aveva piccole macine dipietra a mano e macine più grandi, mosse dagli asini: ne sonostate trovate anche in scavi romani tardo-imperiali e in scavimedioevali. Inoltre, in età medievale, è testimoniata l’esistenzadi mulini ad acqua, diffusi in tutta l’Isola: il maggior numero deimulini si trova nei giudicati di Arborea e Logudoro14 e in gene-rale vengono impiantati nelle terre dei grandi latifondi privati,laici o ecclesiastici. Le strutture intorno al mulino sono com-plesse: si parla di acqueduciis, cioè di collettori che portanol’acqua al mulino e lo fanno girare, di piscine in cui si allevano ipesci e che trattengono l’acqua che fa girare le mole, e di gira-dorius, cioè di norie. Naturalmente il loro uso non si limitavasolo alla molitura del grano: l’applicazione di questa macchinapoteva essere, infatti, la più diversa, come i vari toponimi dicraccadorgius, crakkadoriu, crakkera etc., ben sottolineano.

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Quasi certamente, come in tutto il bacino del Mediterraneo, an-che nelle pianure sarde fin dalla più remota antichità si coltivòprincipalmente il grano. Sappiamo infatti, ad esempio, che inetà romana le pianure sarde producevano grano in quantità,tanto da fare dell’Isola uno dei tria frumentaria subsidia reipubli-cae.1 I documenti riportano addirittura che, nel 203 a.C., duran-te la seconda guerra punica, a Roma si dovettero costruire deinuovi silos per poter conservare tutto il grano che provenivadall’Isola.2 Anche Plinio, qualche secolo dopo, parla del granosardo, di buon peso, anche se non di qualità eccellente.3

Per quanto riguarda il Medioevo i punti di vista e le notizie nonsono concordi, perché l’Isola era allora frammentata in tante edifferenti realtà politiche, autonome fra loro, il che suggeriscedi evitare generalizzazioni pericolose. Tuttavia si può affermare con sufficiente sicurezza, che l’orga-nizzazione del territorio era simile nei quattro giudicati sardi eche i possessi pisani e genovesi avevano generalmente nonsolo non sovvertito, ma sostanzialmente rispettato questo as-setto, che trovava nella villa il suo elemento distintivo e il per-no economico intorno a cui ruotava l’intera società sarda. Infatti essa, dal suo emergere dall’alto Medioevo, si presenta in-cardinata su una base fortemente territorializzata, suddivisa inunità a loro volta frammentate in elementi più piccoli, a forma-re una struttura piramidale, la cui base poggia solidamente sul-l’istituto della villa, appunto, che diventa unità demografica ele-mentare, nell’assenza, o marginalità, del fenomeno urbano.4

Le ville costituiscono il segmento più piccolo di questa orga-nizzazione e, come dicevamo, ne sono il fulcro, non solo da unpunto di vista amministrativo, ma anche economico: infatti lavilla è caratterizzata da un’economia molto vicina a quella cur-tense ed è al centro di una articolazione del territorio di suapertinenza, che appare diviso rigorosamente in fasce concen-triche, utilizzate in maniera differenziata e complementare. Su-bito intorno al nucleo abitato vi sono i seminativi, che formanoil cosiddetto vidazzoni, chiamato anche populare nei Condaghi.Si tratta di terre che appartengono a tutta la comunità del vil-laggio, che vengono suddivise ogni anno fra tutte le famiglieed assegnate in proporzione alle necessità di ciascuna e al nu-mero dei suoi componenti. In generale sono coltivate appuntoa grano e sottoposte alla rotazione, biennale prima e triennalepoi, alternate alle fave e al pascolo. L’esistenza di terre comuni non esclude, tuttavia, quella di terreprivate e chiuse, dette appunto cungiaus, in generale coltivate aorto, o a frutteto, o a oliveto, o a vigna (anche se per i vigneti,coll’istituto del castigu,5 si arriva a forme consortili, semipubbli-

che). E, ad anello, intorno a questa fascia di terre coltivate, siestendevano i salti, cioè i terreni incolti, i boschi e i pascoli co-muni, che insieme al resto del territorio, costituivano il funda-mentu di ogni villa. I grandi latifondi non rispettano, tuttavia,queste suddivisioni e spesso esuberano dal territorio non solo diuna villa, ma anche di una sola curatoria. Si pensi, a mo’ d’esem-pio, ai possessi fondiari del monastero benedettino di Bonarca-do, descritti nel Condaghe omonimo, che si estendono su bensei curatorie delle tredici in cui era divisa l’Arborea. In questi la-tifondi si trovano degli insediamenti, chiamati volta a volta neidocumenti: domos, domestias, curtes, curias, donnicalias, eccle-sias e abitati probabilmente solo dai servi che vi lavorano. Sitratta di insediamenti di differente consistenza, che si sviluppa-no su terreni coltivati variamente. Ce lo dicono, ancora una vol-ta, le stesse donazioni, che riportano formule sempre uguali:ogni donnicalia viene donata «cum omnibus pertinentiis suis, vi-delicet servos et ancillas, vineis, pratis, pascuis, cultis rebus et incul-tis, spluis, et aqua, et omnia quae ad supradictas donicalias … per-tinere videbantur ».6 Dunque anche ognuna di queste piccoleunità d’insediamento era autosufficiente e riproduceva, in scalaridotta, la organizzazione economica della villa.Nei grandi latifondi privati, come nel comune populare è la col-tura del grano a farla da padrone.Il pane, del resto, come il vino, sono due alimenti che non pos-sono mai mancare sulle mense dell’Europa cristiana, non foss’al-tro perché appunto di essi è fatta l’eucarestia. E come in tuttal’Europa medievale, compreso il freddo nord, si vede la colturadella vite svilupparsi con l’avanzata della religione e la costru-zione di monasteri, così si vede estendersi quella del grano, an-che se nelle regioni nordiche verranno sempre preferite le col-ture di cereali cosiddetti inferiori, come l’avena, l’orzo, la segale,il miglio, il farro, la spelta, che hanno una resa decisamente su-periore al grano. La diffusione di toponimi come Orrea, Argiolas, Laores, con tut-te le loro varianti,7 ci porta a credere che la coltura cerealicolafosse assai diffusa nell’Isola e che desse generalmente buonfrutto, dato confermato dalle testimonianze che ci provengo-no da documenti di età pisana e aragonese, sul commercio deicereali nell’Isola.8

Nella Cagliari aragonese e nella Sassari filo-genovese ci sonopiazze in cui si vende esclusivamente il grano e gli altri cereali,fra cui l’orzo è certamente il più diffuso. Nel libro I degli Statuti diSassari, ad esempio,9 al capitolo 117 vengono menzionati i luo-ghi deputati alla vendita delle granaglie; nella piazza indicata sitroverà anche uno staio pubblico per misurare il grano, le fave

Grano e pane nella Sardegna giudicaleBarbara Fois

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59. L’ultima cena, II metà XIV sec. (particolare).Affresco, Bosa, castello di Serravalle, chiesa di Nostra Signora de sos Regnos Altos.

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Tuttavia l’economia antiquata della Sardegna medievale ci in-duce a credere che la molitura del grano fosse l’impegno mag-giore, così come il pane restava l’alimento principe di una so-cietà basata sull’elemento servile.

Il grano sardo era principalmente di tipo duro15 e, per quanto ri-guarda la composizione del pane, esso era fatto con probabilitàquasi esclusivamente di farina di grano. Non possiamo tuttaviaesserne certi: infatti, in Sardegna, la procedura nella panificazio-ne, la foggia e la composizione degli ingredienti, a partire dal lie-vito usato, differiscono da paese a paese. Abbiamo, ancor oggi,pane fatto di farina e pane fatto di semola, lievitato e azzimo,con la crusca o coi germogli, con la mollica o di sola crosta, bian-co o nero, in grandi forme o in piccoli pani, fiorito o povero, con-dito o con le uova, etc. E perfino rimane, in alcune zone dellaSardegna, la tradizione di un pane rituale di ghiande e argilla. Il pane, in città, veniva cotto nei forni pubblici, per timore degliincendi, come stabilito per la città di Cagliari in età aragonese,ad esempio, ma probabilmente nei paesi e in campagna ognicasa aveva il suo forno. A Cagliari il fornaio poteva avere in pa-gamento del suo servizio o un pane su 18 o 20, oppure 6 dena-ri a starello.16 A Sassari, invece il grano si misurava a rasiere e ilfornaio poteva pretendere 3 denari a rasiere, che potevano an-che diventare 6, sotto Natale o Pasqua.17

Il pane doveva essere sempre di forma regolare e di giusto pe-so, pena la sua distruzione da parte degli ufficiali addetti e unamulta per i fornai.18 A Cagliari i fornai erano poi tenuti a cuoce-re gratis nel proprio forno anche alcuni piatti tradizionali: co-me le panade e le cassole.19

Nei forni veniva cotto anche il cosiddetto biscuyt, cioè la gallet-ta, che tuttavia doveva essere cotta di notte, poiché la sua lun-ga cottura, fatta di giorno, avrebbe impedito qualsiasi altra uti-lizzazione dei forni.20

Quella di fare il pane era, insieme alla confezione e cottura deicibi, una occupazione esclusivamente femminile, ricordata, fraaltre, dalla scheda 131 del Condaghe di Santa Maria di Bonar-cado e che risale al XII secolo: «Et mulieres moiant et cogant etpurgent et sabunent et filent et tessant et, in tempus de mersare,mersent omnia lunis, sas ki non ant aere genezu donnigu»21 (E ledonne macinino e cuociano e nettino e lavino e filino e tessa-no e, nel tempo della mietitura, mietano ogni lunedì, quelleche non abbiano da lavorare nel gineceo del signore). Si puòdunque dire che allora come oggi: «Quasi esclusivamente fem-minile era il ciclo vero e proprio della panificazione, sia nelle fasipreliminari (lavaggio e vagliatura del cereale, molitura, setaccia-tura), sia nel processo vero e proprio di produzione (preparazio-ne del lievito, lavorazione dell’impasto, modellazione dei pani,cottura). Operazioni tutte tra loro coordinate e che, seppure inmodo diverso, ritmavano la vita domestica ed occupavano spa-zi propri nella casa o nel cortile».22

Note

Abbreviazioni: ASS= Archivio Storico Sardo; CDS= P. Tola, Codex Diplomati-cus Sardiniae, Torino, 1861; CSMB e CSNT= Condaghe di Santa Maria di Bo-narcado e Condaghe di San Nicola di Trullas, nell’edizione curata dal Besta.

1. P. Meloni 1975, pp. 102-103; la frase è di Cicerone dal De imperio GneiPompei, XII, 34; un accenno al grano sardo è fatto anche in Varrone, Dere rustica, proemio del II libro.2. P. Meloni 1975, p. 104.3. Gaio Plinio Secondo (detto Il Vecchio), Storia Naturale, Torino, Einau-di, 1984, vol. III, lib. XVIII, 66, p. 703. 4. B. Fois 1991.5. B. Fois 1983, pp. 41-69.6. B. Fois 2001, p. 30 ss.7. Il toponimo Orrea, orria (lat. Horreum, frumento) è diffusissimo in Sar-degna, un po’ ovunque, e lo si incontra con frequenza anche nei docu-menti medioevali. Ma non è l’unico toponimo, riferito al grano o ai ce-reali in generale, che si incontri frequentemente: ariolas, argiolas (le aie),ad es., era ugualmente diffuso, così come oriinas (campi d’orzo) ecc. (aquesto proposito cfr. A. Boscolo, La Sardegna bizantina e alto-giudicale,Sassari 1978, p. 179 ss.). 8. Abbiamo dei dati precisi, attraverso diversi documenti (come ad es. diB. Motzo, “I registri delle collettorie pontificie in Sardegna nel secolo XIV”,in ASS, vol. XIII, 1921, p. 182 ss.; F. Artizzu, “Rendite pisane nel Giudicato diCagliari nella seconda metà del secolo XIII”; “Rendite pisane nel Giudicatodi Cagliari agli inizi del secolo XIV”, in ASS, vol. XXV, fasc. 1-2, p. 319 ss. efasc. 3-4, p. 1 ss.). È stata fatta anche una stima complessiva della produ-zione di grano del piccolo stato d’Arborea e questa è apparsa di poco in-feriore alla metà dell’attuale produzione di grano della stessa zona agri-cola; in F.C. Casula 1976, p. 164, nota 17. Anche la produzione dei territorisotto l’Aragona era abbastanza alta. A causa della politica egoistica ilprezzo del grano nei territori sardi sotto gli Aragonesi saliva molto di piùche nell’Arborea. A questo proposito si cfr. anche le tabelle pubblicate daTangheroni nel suo Aspetti del commercio dei cereali nei Paesi della Coronad’Aragona. La Sardegna, Cagliari 1981, alle pp. 98 e 105.9. Gli Statuti Sassaresi: economia, società e istituzioni a Sassari nel Medioe-vo, a cura di A. Mattone e M. Tangheroni, Cagliari, Edes, 1986; qui usia-mo l’edizione con la traduzione italiana, a cura di G. Madau Diaz, Il Codi-ce degli Statuti del libero Comune di Sassari, Cagliari 1969.10. Le Ordinazioni dei Consiglieri del Castello di Cagliari nel secolo XIV,pubblicato da M. Pinna in ASS, Cagliari 1929, pp. 1-263; sotto questo ti-tolo sono pubblicati due codici che raccolgono le ordinazioni e riguar-dano gli argomenti più diversi; noi abbiamo utilizzato soprattutto il pri-mo che è il più antico e arriva fino agli anni 1346-47.11. Il testo del Breve di Villa di Chiesa è compreso nel Codice diplomaticodi Villa di Chiesa in Sardegna, curato da C. Baudi Di Vesme, Torino 1877,che lo data 8 giugno 1327, L. D’Arienzo ne “Il Codice del Breve pisano-aragonese di Iglesias”, in Medioevo. Saggi e rassegne, n. 4, pp. 67-89, loridata e lo colloca fra il 7 febbraio e il 7 giugno 1324.12. Soprattutto nei Condaghi: cfr. CSNT, sch. 1, p. 35. Perfino i servi sicomprano “in grano” vedi alla sch. 4. Non solo il grano tuttavia era usatocome moneta ma anche le fave, e poi buoi domiti, cavalli e perfino carnedi pecora: CSNT, sch. 19, p. 39.13. F.C. Casula 1976, p. 162.14. B. Fois, “Diffusione e utilizzazione del mulino ad acqua nella Sarde-gna medievale”, in Medioevo. Saggi e rassegne, n. 10, pp. 9-32.15. F.C. Casula 1976, p. 159, nota 7.16. Ordinazioni cit., libro I, capp. 44 e 127 (pp. 28-29; 66-67).17. Gli Statuti Sassaresi cit., lib. I, cap. 73. Il rasiere d’Alghero.18. Nel Breve di Villa di Chiesa si dice che il pane non deve costare più di8 denari a starello, sia a Pasqua che negli altri giorni: libro III, cap.16.Dunque costava più che altrove.19. Ordinazioni cit., cap. 44.20. La doppia cottura era fatta per eliminare qualsiasi presenza di ac-qua, il che rendeva la conservazione di quel pane assai più sicura.21. B. Fois, “Il lavoro femminile nei Condaghi sardi dell’età giudicale(secc. XI-XIII)”, in Donne e lavoro nell’Italia medioevale, a cura di M.G.Muzzarelli, P. Galetti, B. Andreolli, Torino 1991, pp. 67-82.22. E. Delitala 1991, p. 14.

Ha scritto Fernand Braudel che il grano, assieme al riso e almais, è una “pianta di civiltà”. Nel vecchio continente il grano –ma si potrebbe dire il pane – ha organizzato la vita materiale ementale degli uomini, fino a diventare, per lo storico francese,una “struttura” quasi irreversibile. Come nessun altro prodottoalimentare, ha condizionato la vita dei popoli europei, le atti-vità produttive, gli scambi, le regole del dominio politico edeconomico.In Sardegna il sistema di regolamentazione del mercato delgrano resta fondamentalmente immutato dal basso Medioevofino a tutto il Settecento. Le regole applicate al tempo dei cata-lani subiranno col tempo alcuni aggiustamenti; ma i meccani-smi di produzione, di commercializzazione e di consumo nonconosceranno modifiche sostanziali per quattro o cinque secoli. Verifica della produzione sul campo (scrutinio), determinazioneufficiale dei prezzi (afforo), stoccaggio del fabbisogno annualedelle città (encierro), controllo del commercio locale e inter-nazionale (regolamentazione dei caricatoi costieri, tassazionedelle sacas e repressione del contrabbando) sono i cardini diun complesso sistema normativo che in buona sostanza tendea proteggere il consumatore urbano, a favorire in qualche mo-mento i produttori agricoli ed infine a garantire allo Stato en-trate fiscali certe mediante le licenze d’esportazione.L’encierro è la principale procedura imposta per legge ai pro-duttori di grano dai municipi per l’approvvigionamento an-nonario delle città (abasto). Dalla metà del Trecento, in basealle leggi privilegiate municipali a favore di Cagliari, Sassari edelle altre città “regie”, vige per i baroni e per i loro vassalli l’ob-bligo di portare in città una quantità prefissata di grano (la por-ción) da conservarsi nei magazzini della frumentaria fino alnuovo raccolto.Nella lingua spagnola encierro significa chiusura, è l’atto del chiu-dere. La parola dà bene l’idea della regola giuridica dell’imma-gazzinamento coatto delle scorte di grano che devono essereassicurate annualmente alle città per l’eventuale fabbisogno ali-mentare degli abitanti. Il forte dirigismo annonario determinada un lato rapporti di dominio rigidi fra città e campagna e evi-denzia dall’altro la costante preoccupazione dei governanti ditutelare la normalità alimentare all’interno delle città, anche alloscopo di mantenere l’ordine pubblico nelle sedi del potere poli-tico ed economico.Le operazioni d’ammasso del grano destinato alle eventualiemergenze vengono controllate dal clavario, il magistrato ci-vico preposto alla gestione dell’annona. Ad ogni prelevamen-to di grano dell’encierro per destinarlo all’esportazione o alla

commercializzazione locale deve corrispondere l’introduzionenei magazzini di un’equivalente quantità di grano del nuovoraccolto, fino a raggiungere le misure stabilite per legge.Le norme volte a mantenere la normalità alimentare conosco-no cedimenti o intransigenze delle città a seconda dell’epoca edelle variazioni della produzione. Ma ad essere sempre rigida-mente determinato è il controllo economico sulle aree ruralitributarie delle città privilegiate. La tutela del consumatore ur-bano è l’interesse politico preminente rispetto alle ragioni eco-nomiche dei produttori e dei mercanti. Ma l’antico privilegio medievale delle città “regie” è destinato aduna complessa evoluzione in età spagnola. Col passare del tem-po la preoccupazione di salvaguardare l’ammasso annuale siconverte sempre più in un’occasione speculativa, a cui sono in-teressati non solo i signori del grano ma anche gli ufficiali rea-li, le amministrazioni civiche e naturalmente i commercianti ei contadini. La porción di grano da encerrar nei magazzini d’ogni città “regia”della Sardegna è suscettibile di variazioni. Cresce o decrescenon sulla base delle variazioni della popolazione, ma a secondadell’andamento delle annate, delle strategie dei mercanti, delmodificarsi della ratio legislativa. Nella seconda metà del Cin-quecento, ad esempio, Cagliari ottiene un vistoso ritocco dellasua porción: dai 20.000 starelli passerà a 32.000, per toccare nelSeicento i 40.000 starelli, comprese le scorte dei feudatari. Quo-te proporzionalmente inferiori toccano a Sassari (20.000 starel-li), ad Alghero e Oristano (da 6 a 9.000 starelli), fino alle quote di6.000 starelli per Castellaragonese ed Iglesias. In ogni luogo la tendenza è quella d’aumentare le quote obbli-gatorie: e non tanto per un accresciuto fabbisogno della popo-lazione quanto perché dopo un anno il grano vecchio di porciónpuò essere esportato dall’isola in franchigia o dietro pagamentodella tassa ridotta di un real (contro i quattro reales del normalediritto d’esportazione). Al pari di proprietari terrieri, contadini emercanti, anche le municipalità rincorrono l’opportunità di lu-crare sulle esportazioni. Così le sacas del grano d’encierro fini-ranno in certi momenti per costituire la “voce” in entrata piùconsiderevole dei bilanci municipali. È stato calcolato che ai pri-mi del Cinquecento le città “regie” monopolizzano addirittural’85% del traffico mercantile, beninteso di quello legale. È natu-rale che si faccia sempre più forte il malcontento dei feudatari edegli ecclesiastici verso i privilegi delle città, che limitano i com-merci e impongono il trasporto e la vendita esclusiva nelle piaz-ze civiche del grano eccedente le scorte per la semina e il fabbi-sogno alimentare dei produttori.

L’eterna contesa del granoFrancesco Manconi

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Il regime vincolistico, che privilegia le città come aree di consu-mo, finisce per condizionare anche il libero commercio dei pro-duttori. In certe fasi storiche i proprietari terrieri hanno facoltà dicommerciare solo all’interno del feudo o dell’encontrada e nonin un’area più ampia come il mercato regionale. Quando questelimitazioni vengono tolte e diviene possibile per i produttori av-venturarsi sui mercati cittadini, gli esiti sono spesso deludenti ocontroproducenti. Ad esempio, quando ai contadini del Capo diCagliari viene consentito di vendere sulla piazza della capitaleuna porzione di grano pari a quella che essi possono esportare

devono prima effettuare lo scrutinio, ossia la ricognizione deigrani nuovi prodotti nell’isola. L’operazione avviene di solito asettembre, sulla base delle denunce obbligatorie dei produtto-ri. In tal modo vengono stabilite le quantità di grano che pos-sono essere destinate alla commercializzazione, dopo aver de-dotto le scorte per la nuova semina e per l’alimentazione dellefamiglie contadine, nonché le quote riservate all’approvvigio-namento delle città. In assenza di un libero mercato in grado di autoregolarsi, il prez-zo imposto deve risultare innanzitutto vantaggioso per i consu-matori; dopo, possibilmente, deve anche garantire la sopravvi-venza dell’azienda contadina. Ma l’afforo non mette i produttorial riparo dall’offensiva speculativa degli incettatori. Nelle buonecome nelle cattive annate i mercanti – siano di Cagliari o di Sas-sari, siano quelli “venuti dal mare” – hanno di solito partita facilenelle contrattazioni, così che il contadino è alla mercé degli altriprotagonisti forti dell’eterna storia dei commerci di grano.Ad obbligare ogni anno a settembre i produttori di grano a de-nunciare il raccolto effettuato nelle proprie terre era stata nel1488 una prammatica del viceré Iñigo Lopez de Mendoza. Sul-la base del raccolto accertato veniva stabilito per tutto l’anno ilprezzo de for (il prezzo di calmiere) del grano. Il mercato sardoera diviso in due grandi aree commerciali, corrispondenti allabipartizione politico-amministrativa dell’isola: i commerci delCapo di Logudoro facevano riferimento a Sassari e ad Alghero,quelli del Capo di Cagliari alla capitale.In ogni tempo lo schiacciante peso politico della città sulla cam-pagna trova uno spiacevole riscontro nel conferimento di pote-ri discrezionali ai portantveus (i portavoce) delle città, ossia aicommissari della Clavaria cittadina (l’ufficio dell’annona) dele-gati ad incettare il grano nelle campagne a prezzo politico, cioèa prezzo d’afforo. In realtà questo meccanismo coercitivo che ri-sulta sempre precario ed aleatorio per le resistenze contadine,diventa particolarmente vessatorio quando le annate sono cat-tive. Quando il grano denunciato dagli agricoltori nello scrutinioè scarso e – come spesso accade – basta appena per ricostituirele scorte intangibili delle famiglie contadine, gli ufficiali civicipongono in atto requisizioni coatte. Nei villaggi sono frequentile lamentele per il malcostume degli alguaziles e dei comisariosvenuti dalle città per prelevare a forza ai contadini il grano di lo-ro proprietà, imponendo il prezzo d’afforo «sin dexar libertad alos vassallos para que puedan aprovecharse de sus haziendas nyser señores de lo que trabajan».Vi è poi per i produttori di grano un ulteriore obbligo, meno gra-voso ma altrettanto sgradito. Si tratta del privilegio urbano dimagatzem, che comporta per la gente delle campagne il confe-rimento obbligatorio nei magazzini civici o anche in quelli priva-ti di scorte di grano da conservare per un anno e più, fino al nuo-vo abasto. Si vuole in tal modo garantire la panatica, il regolareapprovvigionamento del pane quotidiano nei mercati cittadinionde evitare il rischio di penuria alimentare in città. Obbligate aportare il grano di scrutinio in quantità largamente esuberanti ri-spetto ai bisogni effettivi delle città, le comunità rurali intendo-no queste corvées come espropriazioni vere e proprie perchéspesso mettono in crisi le aziende agricole.Ma le renitenze delle villas a farsi carico dei problemi annonaridelle città sono determinate anche dall’insopportabile lentezzadelle procedure burocratiche delle amministrazioni civiche. Giàl’afforo viene stabilito a settembre o addirittura ad ottobre, quan-do il raccolto è già avvenuto da qualche mese ed i commerci a

trattativa privata sono stati già avviati; per di più i pagamenti deimunicipi avvengono molti mesi dopo il conferimento del granoai magazzini civici. Sono ritardi insopportabili per i magri bilancidelle aziende contadine. È così che la gente delle campagne fadi tutto per sfuggire alle transazioni obbligate: evita di conferireil grano, lo esita in campagna oppure lo nasconde all’atto delleispezioni o, ancora, lo esporta clandestinamente. A quel puntole amministrazioni civiche sono costrette ad approvvigionarsi infretta e furia là dove il grano c’è, vessando i proprietari col prezzod’afforo ma talvolta, quando questo non è possibile, ricorrendoal mercato libero dove si praticano i prezzi nettamente più altiimposti dai mercanti monopolisti.In ogni caso la determinazione del prezzo sulla base di una sti-ma ufficiale che prescinde dalle regole di mercato finisce percondizionare negativamente tutta la produzione granaria che– se non l’unica – è certamente la principale risorsa economicadell’isola. Ma sono quelle le leggi inflessibili delle società d’an-tico regime: in tutta Europa i governi intendono garantire inquel modo il pane alle popolazioni urbane allo scopo d’evitaretumulti e d’assicurare l’ordine pubblico e il “buongoverno”. In realtà è quasi impossibile per i governanti armonizzare gliinteressi dei consumatori con quelli quasi sempre antitetici deiproduttori e dei mercanti. L’afforo finisce per essere una misurasostanzialmente iniqua perché ignora le leggi del mercato ed èinadatta a fare fronte all’offensiva molto sostenuta del mercatointernazionale. Ormai in età moderna il commercio del granoha assunto una dimensione mediterranea, quando non addi-rittura europea, che rende penosamente inadeguate le prote-zioni economiche limitate all’ambito regionale. Per questo iprezzi imposti sono funzionali solo ad un mercato regionalechiuso e depresso: costituiscono in pari tempo un fattore di di-sincentivazione della produzione e un invito irresistibile per glispeculatori internazionali sempre più determinati ad accapar-rarsi grano a buon patto e ad esportarlo talvolta persino in vio-lazione delle regole fiscali del regno di Sardegna.L’imponente fenomeno del contrabbando di grano, che verràpraticato non solo da forestieri ma anche da nobili, da ecclesia-stici e da produttori locali, sarà sempre più incontrollabile. I car-regadors clandestini sulla costa divengono una delle vie di fugadel grano sardo verso mercati mediterranei non facilmenteidentificabili, con enorme pregiudizio per le finanze regie. I pro-tagonisti delle esportazioni clandestine – va precisato – non so-no soltanto i signori del grano; il contrabbando non riguardasolo i ricchi proprietari che dispongono di mezzi finanziari perorganizzare un commercio marittimo parallelo a quello legale,ma tocca anche i traffici minuti della navigazione di cabotaggioche in Sardegna ha grande rilevanza commerciale. Gli imbarchiclandestini di modeste quantità di grani verso la Corsica, la Li-guria e il Napoletano sono in buona sostanza l’autodifesa delmondo rurale dalle prevaricazioni della città.Alle storture del sistema tenta di porre rimedio nella secondametà del Cinquecento il re Filippo II con una serie di pragmáticassull’arbitrio frumentario che mirano a correggere i difetti dell’in-tervento statale in materia annonaria, a promuovere lo sviluppodella cerealicoltura, a proteggere i coltivatori dallo strapotere deimercanti e degli incettatori d’ogni genere ed assicurare loro al-meno una parte dei profitti della commercializzazione dei granifavorendo le esportazioni dirette mediante le sacas del labrador.Gli effetti di quella legislazione sono ancora oggetto di studio edi valutazioni controverse da parte degli storici.

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in franchigia (il cosiddetto grano del labrador), alla resa dei contiquei poveri produttori non ne traggono alcun particolare van-taggio. Privi come sono di capitali, non sono in grado di resiste-re all’incetta di mercanti e di signori, i quali comprano il grano abuon patto e lo conservano per un anno nei loro magazzini pri-vati. Trascorso quel tempo gli incettatori godono del diritto deilavoratori alle sacas privilegiate e possono esportare in franchi-gia o a tassa ridotta quel grano verso le piazze mediterranee do-ve spuntano prezzi infinitamente più alti.

L’afforo è l’imposizione per legge del prezzo del grano da partedi una commissione formata da funzionari regi ed esperti d’agri-coltura. Per fissare un prezzo ufficiale i commissari dell’annona

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60. Pietro Antonio e Gregorio Are, Le nozze di Cana (1783-84) (particolare).Dipinto murale, Orani, chiesa del Rosario.

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Il nutrimento è fattore di identità: si è ciò che si man-gia, dice il senso comune ma anche il filosofo. Si pensialla rilevanza sociale e simbolica che riveste il gesto diinvitare uno “straniero” alla propria tavola: “mettersi atavola” in Europa significa innanzitutto condividere ilproprio pane. Gesto di ospitalità per eccellenza, maanche elemento e fattore di integrazione che garantisceche colui che mangia come noi diventa “dei nostri”.Mangiare insieme, nella tradizione europea, è etimolo-gicamente diventare “compagni”.1

Legato al destino dell’Europa dalle sue origini, il panevi esercita la sua tirannia attraverso il duro lavoro indi-spensabile per ottenere cereali panificabili. Le societàeuropee consumatrici di cereali hanno mostrato unasorta di ossessione nel volerli mangiare sotto forma dipane piuttosto che semplicemente bolliti, così comehanno anche dato la preferenza, almeno idealmente, aicereali che producono la farina e il pane più bianchi.2

Preferenza che si manifesta anche nei riti della Chiesa,ai quali solo il pane confezionato con la farina più pu-ra può essere destinato. Nessun argomento botanico onutrizionale testimonia a favore del pane bianco, co-sicché il primato e il prestigio accordati ai cereali daiquali si può ricavare il pane più bianco sembrano deri-vare essenzialmente dall’ambito dell’ideologia.3 E cer-to, al successo sempre maggiore che conosce oggi ilpane nei paesi del terzo mondo, anche in quelli tradi-zionalmente consumatori di riso o di mais, non è estra-nea l’invasione dei valori occidentali, di cui il pane èsimbolo a livello alimentare.Nell’immaginario occidentale, una sorta di parallelismoviene stabilito tra ciclo vegetale del grano, ciclo del panee ciclo della vita umana. Il ciclo della vita, “dalla culla al-la tomba”, come il ciclo dell’anno sono segnati da ritiche utilizzano il pane come metafora dell’essere umanoe della fertilità. Intorno ai cereali, e in primo luogo intor-no al grano, si sono elaborate immagini che rinviano al-l’idea di morte-resurrezione, o al mistero della fermenta-zione-gestazione. Ne troviamo un significativo esempioin Sardegna, nella cultura barbaricina, che fa del lievito

d’orzo, su ghimisone, un simbolo di fertilità associandoal suo consumo la floridezza muliebre.4 Diversamenteda molte culture mediterranee ed europee5 per le qualiil lievito, simbolo di “corruzione”, ha valenza negativa oquantomeno “ambigua”, in Sardegna il lievito del pane,la cui introduzione fra gli uomini la leggenda attribuiscealla Madonna, ha valenza simbolica altamente positiva.Istituendo «una connessione tra sterile, incorruttibile elievito, principio vitale di trasformazione», la leggendane esalta il mistero e la “sacralità”, propizia per la vitadegli uomini.6

Il più alto grado di simbolizzazione si ha certamentenell’identificazione ostia-corpo di Cristo,7 e all’associa-zione fra pane-corpo umano-corpo di Cristo rinvianoproverbi e modi di dire, e anche pratiche connesse al-le tecniche della panificazione. Il segno di croce prati-cato sulla pasta messa a lievitare ha una duplice valen-za, tecnica e simbolica: è beneaugurante, e però il suovenir meno indica anche l’avvenuta lievitazione dellapasta stessa. Di una persona buona si dice che è unpezzo di pane, esti unu arrogu de pani. Sacro e profa-no si confondono anche in alcune pratiche tradizionalidi rispetto del pane: se cade a terra va raccattato e ba-ciato perché è sa grazia de Deus. Il pane è sacro perché ottenuto grazie all’aiuto divino,ma anche perché ottenuto col “sudore della fronte”: sitraballai su pani è lavorare duramente per assicurarsi lasopravvivenza, e con esso il rispetto della comunità. Insocietà come quelle europee tradizionali, che non eranocerto società d’abbondanza, il pane era ovunque un be-ne raro, e ovunque esisteva «uno scarto fra l’alimentoidealmente fondamentale e l’alimento fondamentale nel-la realtà». Diversamente, però, da altre regioni, nellequali l’alimento base era spesso costituito, per necessità,da zuppe, polente, minestre,8 per i sardi era il pane acostituire comunque il principale nutrimento. Il panenon era, però, solo nutrimento: nella materia, nella for-ma, nel colore con cui era realizzato portava impressoil segno della distinzione sociale; appartenevano, infat-ti, generalmente ai ceti più umili i mangiatori di “panenero”, confezionato coi cereali “poveri” o col grano in-tegrale, mentre appartenevano ai ceti signorili e facolto-si i mangiatori di “pane bianco”, realizzato con le farine

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I pani della tradizioneGiannetta Murru Corriga

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61. Preparazione del pane carasau, Oliena, anni Cinquanta (foto Marianne Sin-Pfältzer).

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di grano più raffinate, che tuttavia, anche nei ceti po-polari era usato e consumato almeno in occasioni ritua-li e cerimoniali.9

«Il pane comandava su tutto e tutto ruotava intorno alui», dicono i contadini sardi.10 Proprio in quanto ali-mento base il pane, come il grano, era spesso usatoper retribuire prestazioni di lavoro, domestico ma an-che contadino e pastorale, ed entrava come bene pre-zioso, insieme alla carne e più della carne, nel circuitodel dono.11 Era, infatti, oggetto privilegiato di scambiosociale non soltanto fra individui e tra famiglie, ma an-che, attraverso forme molteplici di distribuzione ritua-le, fra individui, gruppi e collettività. Essendo il paneun bene che più di altri poteva simbolicamente rap-presentare i vincoli di solidarietà comunitaria, costituivasegno elementare e irrinunciabile di cortesia e ospitalitàl’offerta del pane a chi si presentasse in casa quando

era stato appena sfornato e nell’aria se ne sentisse an-cora la fragranza, o donare una vitta ’e pani al bambi-no in visita.

La centralità del pane nell’alimentazione dei sardi, chepure non mancavano di consumare anche minestre dicereali (si pensi a su farri o farre, di orzo in particola-re), è certo riconducibile alla natura dei suoli, atti allacoltivazione dei cereali, del grano duro in pianura edell’orzo in montagna, e anche alla specifica forma diorganizzazione assunta dall’insediamento rurale, e dal-la famiglia rurale, in connessione con le locali neces-sità di sfruttamento delle risorse agrarie. Essendo l’insediamento rurale in Sardegna caratterizza-to da habitat accentrato piuttosto che da habitat disper-so (che caratterizza invece le aree rurali dell’Italia cen-tro-settentrionale consumatrici di polente e di farro), si

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62. Arzola, 23 cm, Fordongianus.Pane simbolico e rituale con la raffigurazione dell’aia, realizzato per l’inizio del nuovo anno.

63. Arburizzola, 23 cm, Scano Montiferro, 1996.Si tratta di un raro pane veterotestamentario, eseguito durante il periodo pasquale, raffigurante l’albero del Bene e del Male con il serpente.

64-69. Pane modde, 16 cm, Orune.Realizzato per il momento delle nozze viene donato dagli sposi, in numero di dieci o dodici, ai parenti prossimi.

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70. Simula, 18 cm, Lodè.Fa parte de su mandatìu, regalato ai parenti prossimi in numero di tre (sas tres Marias) assieme alla carne insegno di buon auspicio e abbondanza.

71. Coccone, 21 cm, Lodè.Questo pane viene realizzato inoccasione di Ognissanti e in ricordodelle anime defunte nella ricorrenza del trigesimo (Sos Santos). Ai parentistretti viene donato il pane di maggioridimensioni, più piccoli sono invececonsegnati ad amici e conoscenti. Un coccone di dimensioni ridotte viene fatto in ricordo delle anime dei bambini defunti (sos anzeleddos).

72. S’Oriente, 46 cm, Orune.È distribuito ai parenti stretti durante la Settimana Santa. Uno di dimensionimedie, Apostolo, realizzato in numero di dodici viene dato alla cerchia allargatadei parenti, mentre uno di piccoledimensioni, Angelo, viene distribuito ad amici e parenti in ricordo delle animedei defunti.

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sono affermate nel passato (quando i centri abitatierano più isolati e la mobilità più difficile) forme didivisione sessuale del lavoro che comportavano la pe-riodica scissione dell’unità produttiva familiare: l’uomolavorava in campagna e la donna nel paese. Al contadi-no e al pastore, lontani dalla casa e dal paese, dovevaessere garantita la sussistenza e l’autonomia alimentare.A questo ineludibile compito rispondeva perfettamenteil pane, perché durevole nel tempo, seppure varia-mente. Se le esigenze alimentari del contadino dellearee cerealicole, che di norma tornava almeno ognisette giorni alla propria casa, potevano essere soddi-sfatte con la panificazione domestica settimanale delmoddizzosu (prevalentemente civraxu) o delle spiana-te morbide, le esigenze del pastore transumante dellemontagne centrali potevano essere soddisfatte solocon un pane a più lunga conservazione, come il cara-sau e il pistoccu, di grano o di orzo, pane biscottatoche durava diversi mesi. La stretta relazione tra formedi organizzazione produttiva e familiare e consuetudinipanificatorie appare particolarmente evidente quandoricordiamo che il carasau di orzo (la cui durata si ag-gira sui cinque mesi e oltre) era soprattutto consumatodai pastori che praticavano la “transumanza lunga” nel-le pianure del sud.12

È certo anche in forza di questa relazione che in Sar-degna la panificazione è stata, più a lungo che altrove,attività domestica e femminile per eccellenza, come giàsottolineava nella seconda metà del Settecento Giusep-pe Cossu: «La Sardegna però vanta di conservare pres-so le femmine questa manipolazione … ed il fatto stache per tale manipolazione non la cede ad altri paesiper il gusto, e sapore, che ha il pane manipolato allaSarda, e solo sarebbe a desiderare, che la manipolazio-ne fosse più economica».13

E non a caso, proprio all’impegno profuso dalle donne,fino a tempi recenti, nelle attività panificatorie è statoattribuito da parte di viaggiatori e osservatori, tra Sette-cento e Novecento, il loro scarso impegno nei lavoriagricoli.14 Alle donne, alla loro capacità di lavoro, allaloro sapienza organizzativa e gestionale, alla loro periziatecnica la società sarda ha affidato nel passato il compi-to di produrre, senza farlo mai mancare, quello che,nelle condizioni date, costituiva l’alimento più adatto asostegno della sopravvivenza quotidiana, e a sostegnodelle attività produttive complessive della famiglia. Pro-gettare sa cotta ’e su pane significava, infatti, progettarela capacità lavorativa, di settimane o di mesi, dei singolimembri della famiglia.A partire dalle notizie settecentesche sul pane e seguen-do la documentazione che successivamente si arricchi-sce ad opera di osservatori e studiosi delle tradizionisarde, fino agli studi etnografici più recenti15 si delineauna continuità nelle pratiche della panificazione che hala profondità storica della tradizione culturale.

Delineare una tradizione significa far emergere uno sti-le etnico impresso nei comportamenti, nelle attività la-vorative e negli strumenti di cui la comunità o il grup-po si serve; e significa anche individuare e ricostruirescelte produttive e tecniche adottate nei rapporti conla natura, nei saperi atti a controllarla, che hanno con-tribuito a creare una “biodiversità” locale, selezionandoi cereali, riproducendo certe varietà piuttosto che altre. Per secoli e millenni prodotto dalla manifattura dome-stica, il pane è in grado, dunque, forse più che altri og-getti o beni, di parlarci della cultura che l’ha prodotto:dei luoghi e delle risorse che uomini e donne, pur nel-la rigida divisione dei compiti, hanno utilizzato, deglistrumenti realizzati, delle conoscenze empiriche fatico-samente conquistate. Se è particolarmente evidente neipani cerimoniali, quelli destinati alle feste del ciclo del-l’anno e alle occasioni più importanti e cruciali del ci-clo della vita: nascite, matrimoni, morti; lo stile etnico siimprime anche e soprattutto nel pane “normale” o quo-tidiano, quello di cui parla la preghiera, la cui funzione,come afferma Cirese,16 è innanzitutto quella di nutrire esostentare. Che si tratti del pane quotidiano o dei panicerimoniali e rituali, il fenomeno, scrive Alberto MarioCirese, «ha innanzitutto di proprio una celebritas, cui èdifficile trovare riscontro in altri luoghi: una frequenza,una abbondanza, una vitalità sorprendenti, lungo unfittissimo succedersi di occasioni, non solo solenni o fe-stive, ma anche umilmente feriali e quotidiane».17

Al perfetto controllo della attività panificatoria e dei sa-peri ad essa necessari era legato quello che potremmochiamare cursus honorum delle donne. Il corredo dasposa prevedeva come indispensabili per la panifica-zione: su strex’e venu, o de scraria (contenitori in fienoo in asfodelo), su strex’e terra (contenitori in coccio),teli bianchi di lino o cotone, e la mola asinaria, se lecondizioni della famiglia lo consentivano. Tra le princi-pali virtù richieste ad una sposa figurava dovunque inSardegna l’abilità nella gestione dell’economia domesti-ca (essi una bona mer’e domu), che contemplava, in-nanzitutto, abilità nella panificazione. Ancor più acquistava in prestigio la donna che a que-ste doti poteva aggiungere quella di essi de manus bel-las, che non solo conosceva le regole per confezionareun buon pane, ma lo sapeva anche sapientemente or-nare (pani pintau), aggiungendo all’arte fabrile appresacol duro esercizio, il tocco “innato” dell’artista. La don-na de manus bellas era in particolare ricercata nelle oc-casioni importanti del ciclo dell’anno e del ciclo dellavita, quando il lavoro cedeva il posto alla festa, e la fe-sta doveva essere sottolineata ed esaltata dalla produ-zione e dal consumo di pani speciali, di beni e oggettisimbolici.A qualunque ceto sociale appartenesse, sa bona meri’e domu campidanese o sa mathaxa de oro barbarici-na18 doveva saper distribuire nell’arco della settimana,del mese, delle stagioni, le diverse attività e fasi della

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73. Pane nuziale, 17 cm, Paulilatino.Decorato con fiori, frutti e uccelli, simboleggiaabbondanza e prosperità per la nuova coppia di sposi.Questo pane è stato realizzato nel 1996, in occasionedella mostra dedicata ai pani cerimoniali tenutasi al Museo Civico di Ozieri.

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74. Preparazione del pane pintau, Sinnai, anni Cinquanta (foto Marianne Sin-Pfältzer).

75. Preparazione del pane pasquale, Barisardo, anni Cinquanta (foto Marianne Sin-Pfältzer).

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panificazione; doveva saper coere sa mensa, dovevacioè saper dosare su contu ’e su pani, o sa cotta ’e supane periodicamente necessario al consumo familiare;doveva programmarlo non solo in funzione delle ne-cessità del consumo, ma anche in funzione della quan-tità e qualità delle farine immediatamente disponibili.Pertanto, doveva: saper preparare il grano per la molitu-ra, con diverse operazioni preliminari: cernita, lavatura,asciugatura, dalla cui perfetta esecuzione dipendeva unamaggiore resa in farine e in pane; saper controllare lamacinazione, che avvenisse in casa o nel mulino pubbli-co; sapere eseguire qualunque operazione: nella prepa-razione delle farine (spalinai, stadatzai, fai farra); nellamanipolazione della pasta (impastai, cumossai, ciuexi,spongiai); nella divisione e modellazione dei cumpossusde pasta; nella cottura (inforrai e coi su pani); saper an-che dosare la quantità di lievito (framentu o ghimisoneo pane ’onu), di acqua e di sale in relazione alla qualitàe quantità delle farine; saper dominare i procedimenti ele tecniche atti a confezionare i diversi tipi di pane, quo-tidiani e festivi. Era indispensabile, anche, la conoscenza dei condizio-namenti che sui risultati potevano esercitare alcuni agen-ti esterni. Si doveva tener conto, infatti, di fattori climati-ci (caldo, freddo, umidità, secchezza), che influisconosul processo di lievitazione, sulla plasmabilità dell’impa-sto e sulla temperatura del forno, e si doveva sceglierecon cura la legna da ardere. Si riteneva, però, anche, chesulla buona riuscita del pane potessero esercitarsi in-fluenze benefiche o maligne da parte di persone pre-senti, parole, agenti magici. Condizioni che le donnedovevano favorire o evitare attraverso una serie di pre-cauzioni empiriche e di pratiche magiche: scongiuri, for-mule magiche, segni di croce, benedizioni.19

Le donne, quelle soprattutto che avendo molte figlieda maritare non disponevano di beni familiari per as-sicurare ad esse un buon corredo, hanno spesso sfrut-tato l’arte de fai pani, ma anche de fai druccis, orga-nizzando in casa l’attività per la vendita: alle famigliedel vicinato, alle botteghe del paese, ai rivenditori delmercato della vicina città. Ma ciò avveniva in generalenei contadi dei più grossi centri urbani. Panetteras edrucceras hanno lasciato in eredità un patrimonio diconoscenze e saper fare che sempre più si va perden-do, ma che forse si è ancora in tempo a recuperare eriproporre. Scriveva qualche anno fa Enrica Delitala:«Chi, a distanza di anni, tornasse oggi a ripercorrere levie abitate della Sardegna, sarebbe probabilmente col-pito dall’assenza di teorie di bianchi teli stesi ad asciu-gare e di un persistente profumo di pane appena sfor-nato; due elementi a prima vista secondari e che invecedenotano profondi mutamenti nell’organizzazione dellavita familiare e sociale, intervenuti in un arco di temporelativamente breve».20

Seppure, infatti, la panificazione domestica non sia deltutto cessata, certamente oggi non è più generalizzata

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76. Pane nuziale, 32 cm, Tramatza.

77. Corigeddu, 15 cm, Ussassai.

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come lo era fino a qualche decennio fa, quando la pa-nificazione industriale non aveva ancora privato la Sar-degna di questa sorta di primato. Non si è persa deltutto l’arte de fai pani in domu; e questo per diverseragioni, ma innanzitutto perché molte donne non hannovoluto, neppure sotto l’incalzare delle innovazioni tec-niche e di nuovi stili di vita, rinunciare ai propri saperi,a quelle conoscenze e competenze empiriche che nellasocietà tradizionale avevano dato senso, certo non uni-co ma tuttavia fondamentale, al loro essere donne. So-no soprattutto queste donne che hanno saputo preser-vare materie, consistenze, sapori, colori, forme dei panitradizionali, trasmettendo a figlie e nipoti conoscenze ecompetenze, che per molte sono o possono essere og-gi fonte di reddito personale e per la famiglia.La continuità tra passato e presente è però costituita daun filo assai tenue, talvolta già spezzato; come è il casodella panificazione non solo delle ghiande, ma anchedell’orzo, cessata del tutto alla fine degli anni Cinquan-ta, quando il pane da cibo per eccellenza si è venutovieppiù trasformando in alimento che accompagna i ci-bi. Diverso è stato però il destino del pane di grano:più duttile alla manipolazione e dunque alla realizza-zione di forme plastiche ricche e variegate, ideologica-mente legato all’idea di benessere e privilegio sociale, èpur sempre, anche nell’era del fast food, un bene ap-prezzato sotto il profilo alimentare e anche oggetto dinuova valorizzazione sotto il profilo simbolico, nelle sueforme estetiche più pregevoli, soprattutto quando pro-dotte artigianalmente. Cosa che spinge le donne, anchedelle nuove generazioni, a cimentarsi ancora con que-sta attività, facendo i conti sia con la tradizione sia conl’innovazione. «Il venir meno, a partire dagli anni Cinquanta del secolopassato, della società contadina, del rapporto diretto fraproduzione dei cereali e sussistenza, della attività moli-toria domestica, hanno determinato, nell’arco di pochidecenni, una frattura nella trasmissione culturale e deisaperi tecnici dalle generazioni anziane alle giovani ge-nerazioni. L’avvento, in particolare, della macinazioneindustriale, liberando le donne dal faticoso lavoro diraffinazione delle farine, ha indotto radicali cambia-menti nell’attività panificatoria domestica, decretandoinevitabilmente anche la rapida perdita delle conoscen-ze empiriche relative. Sempre più limitate ormai alleoperazioni di panificazione in senso stretto: impastodelle farine, manipolazione, messa in forma della pasta,cottura del pane. Le donne che panificano oggi nonhanno più bisogno di conoscere e distinguere le diver-se varietà di cereale, né i modi di rendere più produtti-vi i diversi tipi di farina. Sanno però valutare, come aVillaurbana, la resa ottenuta con le farine prodotte dal“mulino di Liliana” e quelle prodotte col “mulino di Al-do”. E hanno anche imparato a mescolarle adattandole

all’uso delle impastatrici meccaniche. Quando ancorapossiedono su strexu ’e venu, gli antichi strumenti dellapanificazione ereditati dalle madri, ne sanno usare soloalcuni. In genere sanno furriai in canistedda ma nonsanno passai in cibiru».21

Essere de manus bellas, insomma, costituisce ancora unvalore, che però va adeguato ai tempi; dunque allecondizioni e alle esigenze di una mutata vita familiare elavorativa, ai mezzi tecnici oggi disponibili. Si apprendeancora dalla propria madre s’atti de fai pani, fin dabambine, ma sempre più l’arte della panificazione oggisi apprende in età adulta da “maestre” depositarie deisaperi tradizionali, attraverso la partecipazione a corsidi formazione che, promossi da enti locali e territoriali,mirano a creare piccole fonti di reddito con le cosiddet-te produzioni di “nicchia”. All’interno di programmi di valorizzazione della filieradel grano sardo e nel quadro di una più ampia politicadi “riscoperta e valorizzazione” delle risorse locali; pre-sentati in sagre, mostre e premiazioni; donati comebomboniere nelle cerimonie di nozze; offerti come sou-venir in occasione di eventi sociali, i pani sono divenutioggi potente strumento di attualizzazione della memo-ria culturale e di reinterpretazione della tradizione, e, indefinitiva, di affermazione di un’identità.

Ciclo del pane e saperi tradizionaliAi pani sardi sono dedicati, tra gli anni Sessanta e Set-tanta del secolo scorso, i primi studi italiani sistematicisulla panificazione, che hanno un primo e fondamen-tale esito nella pubblicazione di Arte plastica effimera,nel 1973, ad opera di Alberto Mario Cirese, allora tito-lare della Cattedra di Storia delle tradizioni popolaridell’Università di Cagliari, e dei suoi collaboratori Enri-ca Delitala, Chiarella Addari Rapallo, Giulio Angioni. Siapre, consolidandosi nei decenni successivi, una tradi-zione di studi che procedendo di pari passo con la ri-cerca storico-etnografica sulla cultura tradizionale sarda,e ancorandosi ad iniziative sia “spontanee” sia istituzio-nali,22 anche esterne all’Università, si presenta ancoraoggi vitale e feconda. Nel fare il consuntivo di un lavorodi ricerca e documentazione di decenni, Enrica Delitalascrive: «Una delle poche certezze che ci viene da unalunga pratica di studio sul ciclo del pane è che nientesu questo terreno può essere dato per scontato, per de-finitivamente acquisito … Forse la magia dello studiodella sarda modellazione dei pani sta anche in questodover scavare in un pozzo che appare sempre più fon-do e denso di cunicoli».23

Dopo decenni di ricerche sistematiche, dunque, la pa-nificazione tradizionale costituisce per gli studiosi uncampo ancora aperto, suscettibile di arricchimenti e ap-profondimenti, quanto alle tipologie e alla distribuzioneareale dei pani; ai tipi di cereali e più in generale agliingredienti usati; alle occasioni e funzioni d’uso; alla vi-talità, conservatorismo e ai mutamenti, soprattutto re-centi, dei modi di produrre i pani.

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78. Pulitura del grano, Campidano, 1955-58 (foto Mario De Biasi).

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di pane, Giuseppe Cossu, mosso da un ideale di “buongoverno” e con l’intento di rendere il pane un bene al-la portata di tutti e disponibile per l’intera popolazio-ne,26 affronta con rigore i numerosi aspetti e problemiattinenti alla panificazione nell’isola. Enumera i diversicereali: grano (duro e tenero, saraceno o d’India, me-schiglia di frumento e segala), orzo, ma anche altre ma-terie prime, quali ghiande e patate, di cui i sardi fannouso per la panificazione. Descrive, comparandone lerese in prodotto e i costi, le più diffuse e collaudatetecniche di molitura dei cereali, la raffinazione e lavora-zione delle farine, la modellazione e cottura del pane,informando anche su nuovi metodi e tecniche praticatifuori dall’isola. Soprattutto analizza le relazioni che inter-corrono fra tipi di pane prodotti e materie prime, stru-menti e procedure utilizzati. Per quanto attiene in particolare al frumento, «la Sar-degna non produce che il grano duro», scrive il Cossu,precisando anche che, «sebbene una specie di grano

detto mazza bianca qui sia denominato tenero, in pa-ragone dell’altro, egli non è di quei grani in terra fer-ma riconosciuti per teneri».27

Nel Novecento, quando per le pressioni esercitate daagronomi e istituzioni agrarie si era ormai diffusa in tut-ta l’isola la produzione del grano Capelli o trigu sena-dori (dal nome del senatore che l’aveva selezionato),molti contadini sardi seminavano ancora orgiu sardu etrigu sardu, e cioè quelle varietà di cereali prodottenelle terre dei padri e dei nonni, selezionate dalla seco-lare esperienza e sapienza de is antigus. Gli anziani nericordano ancora molti nomi: trigu biancu, trigu coran-tinu, trigu murru baxu, trigu arrubiu, trigu sciscilloni,nell’oristanese; cinixu, dent’e cani, su fogu pissinu, co’eaccriaxu, brenti bianca (forse la mazza bianca di cuiparla il Cossu),28 nel cagliaritano. Non di soli nomi si tratta: con essi emerge dalla memo-ria degli anziani contadini, che ne erano i principali de-positari, un patrimonio di conoscenze empiriche sulle

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I cerealiLe fonti archeologiche, storiche ed etnografiche confer-mano per la Sardegna la produzione ininterrotta, fin datempi preistorici, sia del frumento sia dell’orzo. Di panericavato da grano duro e da farine bianchissime, dà noti-zia in Sardegna nella seconda metà del Cinquecento,Francesco Fara; risalgono però soltanto alla secondametà del Settecento le prime dettagliate informazioni sul-le pratiche cerealicole e sulla panificazione di grano, or-zo, e non solo.24 Sulle varietà di cereali localmente colti-vate si diffonde in particolare Andrea Manca Dell’Arca,argomentandone le caratteristiche, l’adattabilità ai diversisuoli, la maggiore o minore resa in farina e pane: «Ri-spetto alla qualità de’ grani, si distinguono in quest’Isoladiverse specie, quali differenze non tanto si conoscononel grano battuto, quanto nelle spighe, mentre da’ colorie forma di esse, siccome da’ medesimi grani prende di-verse denominazioni, e sono le seguenti: frumento rosso,di maravizza, di nave, coda d’acciaio, d’ariste negre,

bianco o cano, aracemo, berbichino, senza arista … Leprime quattro specie, cioè: rosso, di maravizza, di nave,e coda di acciaio, sono di grano più pesante, indi ren-dono di più in farina e pane».25

Se il grano dei Sardi si caratterizza per una ricca biodi-versità, come attestano le numerose e fantasiose deno-minazioni locali, l’orzo è prodotto nell’isola in una solavarietà, l’orzo comune (orgiu sardu, orgiu antigu), do-tato di «veste che dal grano non si distacca», per usareancora le parole di Manca Dell’Arca.Nella Memoria del 1780, significativamente intitolataDiscorso sopra gli avvantaggi e disavvantaggi dellasarda panisazione con i mezzi di rimediare a questiper accelerare le operazioni, e ricavare maggiore mole

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79-80. Mulino ad acqua, Scano Montiferro.La struttura, affacciata sul Riu Mannu, è stata utilizzata sino a qualche decennio fa; la grande ruota, un tempo all’aperto, è oggi sistemata in un angusto ambiente coperto.

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quali per lungo tempo si sono fondate le pratiche cerea-licole locali e la sopravvivenza nelle campagne. Oggi laproduzione granaria standardizzata ha notevolmente im-poverito la biodiversità e con essa la ricchezza del patri-monio genetico dei cereali della Sardegna.29

La pulitura del grano Nella programmazione periodica de sa cotta ’e su pani,e nell’esecuzione delle sue numerose e complesse fasi,tutte di quasi esclusiva competenza delle donne, l’avvioera segnato dalle operazioni di pulitura, cui sarebberoseguite, strettamente concatenate, la molitura, la staccia-tura, e infine la vera e propria panificazione. La quan-tità di cereale destinato a sa cotta variava naturalmentea seconda della composizione del gruppo domestico,delle occasioni d’uso del pane, e soprattutto variava aseconda delle consuetudini panificatorie delle diverseregioni dell’isola in ragione dei tipi di pane che si dove-va produrre. Se, infatti, era generalizzata, nelle aree ce-realicole del sud la cotta settimanale, sa cott’e sa xida,del civraxu e moddizzosu, e magari anche del coccoi,era invece normale nelle comunità pastorali di monta-gna sa cotta mensile del carasau e del pistoccu o addi-rittura quella semestrale del carasau di orzo.Sapientemente adattata alle specifiche caratteristiche bio-logiche dei diversi cereali, la pulitura contemplava perciascuno di essi operazioni almeno in parte diverse: se

l’orzo, prima della molitura, doveva essere essiccato alforno e mondato, il grano (il grano duro ma non il gra-no tenero), doveva essere mondato, bagnato ed asciuga-to, e magari ancora spurgato. Alla preliminare più gros-solana cernita del grano, colai su trigu, eseguita spessoancora nell’aia, con l’ausilio di un vaglio in ferro, ciuli-ru o cilivru de ferru, seguiva la lavatura (samunai sutrigu), che eliminava la polvere e liberava le cariossidida semini, sassolini, pula e impurità residui, e infineuna nuova accurata cernita (prugai su trigu), eseguitadentro un piccolo canestro (palini, canistedda) di fienoo di asfodelo, o anche su di un basso tavolino. Alla per-fetta pulizia del cereale era affidata la purezza delle fari-ne e di conseguenza anche la consistenza, il colore edil sapore dei pani.La “bagnatura” del grano poteva avvenire in modi di-versi: a) sciaccuai o samunai su trigu, comportava unavera e propria lavatura, preferibilmente nell’acqua cor-rente (del fiume, della fontana, del rubinetto), del granocontenuto nel caddaxu di rame, o nella banniera di la-miera di ferro, o nel ciuliru de ferru o nel cadinu dicanne intrecciate, così da portare a galla ed eliminare

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81. Lavorazione della farina, Laconi, anni Trenta (foto Alfredo Ferri).

82. Vaglio della farina, Campidano, 1955-58 (foto Mario De Biasi).

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tutte le impurità; b) fai s’acqua a su trigu, dare l’acquaal grano (vi si ricorreva soprattutto in caso di pioggiapersistente e in situazioni di emergenza), più semplice-mente consisteva nell’aspergere d’acqua il grano conte-nuto in una cesta, rivoltandolo poi ripetutamente perfarlo sciuttai e lasciandolo infine “riposare”. Che avve-nisse dentro ceste, o sopra teli di sacco e coperte stesi aterra in sa lolla o in prazza o in sa ruga, si richiedevasempre una perfetta e ben controllata asciugatura dellecariossidi, che dovevano risultare né troppo umide nétroppo asciutte, e che la mola doveva frantumare e sfa-rinare ma non schiacciare. Comunque venisse fatta, infatti, la tradizionale bagnatu-ra del grano, essa non era soltanto una irrinunciabilepratica igienica ma anche un’operazione cruciale chedava l’avvio ad una serie concatenata di eventi biochi-mici: arrivando al “cuore” della cariosside, l’inumidimen-to ne favorisce la rapida germinazione, facendo aumen-tare il glutine, da cui si producono i fermenti attivi dellapasta. La lavatura o l’inumidimento del grano duro haavuto verosimilmente origine proprio dalla necessità direndere turgide le cariossidi, per ricavarne con la moli-tura una resa ottimale in farine, assicurare ad esse unaspontanea capacità lievitante, rendere di conseguenzapiù malleabile la pasta e assicurare, infine, una resa otti-male in pane.

La molituraLa molitura è la fase della panificazione alla quale l’uo-mo si è sforzato di applicare, dopo quella manuale,fonti sempre nuove di energia: animale, idraulica, eoli-ca, a vapore, ed infine elettrica. In Sardegna la molaasinaria, verosimilmente derivata dalla mola a clessidraromana, ha convissuto per secoli con le successive in-novazioni tecniche, fino ad essere coeva, per un breveperiodo, del mulino elettrico.30 Posseduta nel passatodalla gran parte delle famiglie contadine, era solitamen-te alloggiata in un angolo della cucina, o in un piccololocale attiguo, dove il lavoro dell’asinello poteva esse-re costantemente controllato dalle donne, anche solocon l’udito: «Ricordo che mia mamma incitava semprel’asino. Lei cuciva, faceva la sarta e l’asino era nellostanzino macinando e ogni tanto gli urlava: – aioh! –,poi poverina diceva: “io mi sbaglierò anche in chiesa adire aioh!”».Mancando s’animale ’e sa mola, in caso di necessità eper macinare piccole quantità, era il corpo delle giova-ni donne ad erogare l’energia necessaria: «Ci dicevamamma, a noi ragazzine, che se macinavamo il granocon le spalle ci cucinava gli gnocchi. Allora ci metteva-mo su giuale e macinavamo».Seppure poco diffuso, nelle case dei ricchi proprietaridelle aree cerealicole si possedeva talvolta un mulino acavallo, ma alloggiato in un locale specializzato, perchédestinato, più che la mola asinaria, a produrre farine apagamento. Il controllo del cavallo e della molitura, inquesto caso, era generalmente affidato ad un salariato.

Se infatti, la molitura domestica con l’asinello, fonda-mentalmente rivolta al consumo domestico, era appan-naggio delle donne, l’attività molitoria con macchinepiù moderne e complesse, quali i mulini a cavallo o imulini idraulici, e più di recente quelli elettrici, che ri-chiedevano tutti investimenti finanziari notevoli, com-petenze tecniche più complesse e l’uso di spazi specia-lizzati, separati dai locali di abitazione (talvolta anchemolto distanti da questi, come i mulini idraulici), dun-que tempi di lavoro anch’essi specializzati, era inveceappannaggio quasi esclusivo degli uomini, e destinataa soddisfare, dietro pagamento, i bisogni di una largautenza. Neppure in questo caso, comunque, le donnerinunciavano a controllare, qualunque fosse la macchi-na usata, la corretta esecuzione della molitura, sostan-do nel mulino per tutta la durata di essa e verificandoa più riprese la grana e la consistenza dello sfarinatointegrale, o delle farine già separate, palpando e leg-germente sfregando fra le dita la farina, e valutandonela rispondenza rispetto alla cotta programmata.Dalla giusta quantità di umidità contenuta nelle cariossi-di, sa temperadura, dipendeva in grande misura l’esecu-zione di una buona molitura, qualunque ne fosse lostrumento, e la sua buona resa in farine; e da questa sa-rebbe dipeso il buon esito de sa cott’e su pane, sia in ter-mini di tipi e qualità di pani prodotti, sia in termini diquantità. L’importanza cruciale che questa operazioneha avuto per il passato nell’assicurare il pane quotidianoai sardi, anche i più indigenti, emerge molto bene dallameticolosa, per noi oggi quasi maniacale attenzione concui il Cossu, nella già citata Memoria, calcola, comparan-doli, costi di produzione e rese in prodotto per ciascunatecnica molitoria, e i possibili risparmi che alle singolefamiglie e all’intera comunità deriverebbero dall’introdu-zione di alcune innovazioni tecniche da lui suggerite.

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83. Su strexu de fenu, Selargius.L’immagine mostra un raro corredo familiare, di stretta pertinenzafemminile, ancora custodito nel suo ambiente originario. I cesti sono divisi per tipologie: in basso i crivelli, nella paretecentrale spiccano quelli impiegati durante le festività.

84-86. Rotelle per la decorazione del pane, rispettivamente 21, 18 e 24 cm, Selargius.Spesso le rotelle artigianali, utilizzate per tagliare e decorare i pani, erano ricavate dalle monete.

87. Rotella per la decorazione del pane, 14 cm, Paulilatino, Museo Civico “Palazzo Atzori”.Rotelle come questa, con i bordi frastagliati, vengono chiamate “a garofano”.

88. Pintapane, 8 cm, Paulilatino, Museo Civico “Palazzo Atzori”.Piccolo strumento appuntito e tagliente utilizzato per decorare il pane, spesso dotato di un manico ligneo.

89. Coltellino pintapane, 9,5 cm, Orani.Molto diffusi tra gli utensili per decorare i pani sono i piccoli coltellia serramanico, in questo caso di produzione industriale, checonsentono grande precisione nella realizzazione dei diversi motivi.

90. Marca da pane, legno inciso, 11 cm, Pattada.Chiamata marca o pintadera a seconda delle aree geografiche, è comunemente utilizzata per decorare i pani. Quando la cottura del pane avveniva nei forni pubblici i segni delle marche eranoindispensabili per distinguere la proprietà dei pani.

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91-92. Marca da pane, legno inciso, 5,7 cm, Orune, fronte e retro.I temi incisi nelle marche sono i più vari: dalle iniziali delproprietario, al cuore arricchito con simboli vegetali, alla cosiddettarosetta fenicia, alle metafore derivate dalla cristianità, ai reticoli dimatrice bizantina. Il gusto compositivo è da ricercare in quello diciascun artigiano, e oscilla fra una trattazione popolaresca, libera e ingenuamente figurativa, e una simmetria impaginativa piùcontrollata e consapevole, interamente affidata alla simbologiageometrica.

93. Marca da pane, legno inciso, 6 cm, Orune.

94. Marca da pane, sughero inciso, 5,2 cm, Scano Montiferro.Solitamente in legno, le marche erano talvolta realizzate in sughero,materiale più tenero e semplice da incidere, ma anche piùfacilmente deperibile.

95. Marca da pane, legno inciso, 13 cm, Pattada.

96. Marca da pane, legno inciso, 14 cm, Sassari.La marca costituiva un regalo consueto del fidanzato alla futurasposa, essa infatti era un importante elemento del corredo nuziale.

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97. Marca da pane, legno inciso, 27,3 cm, Orani.Curioso timbro “a pestello”, reca i lati della mazza interamente incisi.

98-99. Marca da pane, legno inciso, rispettivamente 12 e 13 cm, Pattada.Timbri bifacciali a punzone.

100-101. Marca da pane, legno inciso, 15 cm, Pattada, fronte e retro.

102-103. Marca da pane, legno inciso, rispettivamente 7 e 6,8 cm, Orani.

104. Marca da pane, legno inciso, 8,8 cm, Bonorva.La forma “a clessidra” di questa marca ospita motivi incisi sulle basi.

105. Marca da pane, legno inciso, 6,7 cm, Orani.La forma ricorda quella del baralliccu, strumento di gioco di area campidanese.

106. Marca da pane, legno inciso, 3,3 cm, Orani.

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La lavorazione delle farineAttività femminile per eccellenza, la raffinazione dellefarine, con le diverse e concatenate operazioni sinteti-camente denominate fai sa varra, bogare sa farra, ri-chiedeva l’uso di strumenti e gestualità tecnica forte-mente specializzati.La setacciatura aveva lo scopo di separare i diversi com-ponenti dello sfarinato integrale, fino a ricavarne crusca,farina, semola, cruschello, destinati a diventare materiaprima nella confezione di tipi diversi di pane. Sedutain coxina, in sa dom’e su forru, in sa lolla campidane-se o in sa loggia barbaricina, ricoperti i capelli con unfazzoletto e cinti i fianchi con un grembiule candido(precauzione igienica per proteggere le farine ma an-che per proteggersi dalle farine volatili), la donna si cir-condava de is strexus necessari: is crobis, di fieno o diasfodelo e di varia misura, per contenere i diversi sfari-nati, su canisteddu, grande canestro piatto, anch’esso

di fieno o di asfodelo, contenente un panchetto, sta-dazzadori, sedazzadori, sedassadori, ogafarra, sulquale farà agire, con operazioni successive e imprimen-do movimenti orizzontali, rotatori e sussultori, su se-dazzu de ferru o de sgrangiai, o sedassu largu, il se-taccio col retino di sottile filo di ferro per far affioraredallo sfarinato integrale la crusca (grangia, poddini);

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107-108. Marca da pane, legno inciso, rispettivamente 21 e 21,8 cm, Oliena.Marca conformata “a tagliere”. Interessante in questo caso l’immissione nel manico di un elemento a finalità apotropaica come la manu fica.

109. Marca da pane, legno inciso, 8 cm, Oliena.Questo pregevole esempio di marca propone, come in altri casi qui presentati, la saturazione, mediante incisione, di tutte le facce del parallelepipedo.

110. Marca da pane, legno inciso, 13,5 cm, Oliena.

erano realizzati is strexus, le loro denominazioni, gestie posture delle cernitrici. Se le campidanesi, ad esem-pio, eseguivano la stacciatura sedute su basse seggiole,le barbaricine usavano eseguire le stesse operazionisedute a terra, con le gambe incrociate o alternativa-mente ripiegate verso l’interno. Non appaiono sostanzialmente mutati, strumenti e tecni-che della stacciatura, nell’arco degli ultimi due secoliqualora si confrontino le descrizioni recenti con quelledel Settecento, quando erano in uso, scrive il Cossu,«staccj di pelo, che separa la crusca, e tritello, e poi quel-li di seta, che separa la farina dal suo fiore». Strumentiche il Censore Generale chiedeva ai “Padroni di casabenestanti” di abbandonare (dando il buon esempio atutta la popolazione), per adottare il buratto coperto,“alla francese”, che consentirebbe di contenere sia leperdite di farina dovute alla volatilizzazione, sia tempie costi di lavoro.

successivamente su sedazzu de pilu o sedassu cottu, dicrine o di fil di ferro, e a maglie più sottili, per separa-re la crusca più sottile da quella grossa; infine, su se-dazzu de seda o sedass’e seda, di seta, per separare lasemola (simbula, simula, faricru) dalla farina (scetti,podda, poddine). Un’ultima stacciatura (aggrumai sasimbula) permetteva la completa raffinazione della se-mola imprimendo movimenti rotatori e sussultori a supaline, così da concentrare il cruschello nella partecentrale di esso. La reiterazione di ciascuna delle operazioni previsteconsentiva una lavorazione più raffinata delle farine ela produzione di una molteplicità di sottotipi, adatti aconfezionare una gamma più ampia di pani; cosa so-prattutto importante quando si panificava per occasio-ni cerimoniali o comunque speciali. Erano generalizzate in Sardegna le modalità de fai var-ra, pur variando da zona a zona i materiali con cui

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produrre pani a pasta dura o a sfoglie sottili. Questaoperazione viene eseguita generalmente sul piano desa mes’e fai pani, ma in Barbagia si esegue anch’essadentro s’iscivu.31 Lunga e faticosa, la lavorazione dellapasta impegnava, nelle zone contadine almeno, non so-lo le braccia femminili della casa ma anche quelle ma-schili, e solo nel periodo fra le due guerre, nelle famigliebenestanti, si incomincia a introdurre l’uso della mac-china ’e ciuexi.

111-116. Preparazione del pane carasau, Oliena, anni Cinquanta(foto Marianne Sin-Pfältzer).

pizzico di sale, dentro una conca di terracotta (xivedda,tianu, impastera) oppure, come in Barbagia, dentrouna madia di legno (iscivu, lachedda). Lavorato dapprima con la pressione dei pugni chiusi edelle nocche (cumossai), l’impasto viene poi, con l’ag-giunta di abbondante acqua, ancora manipolato a pugnichiusi e costantemente rimescolato (spongiai, ammod-diai). Sono sufficienti, queste lavorazioni, per confezio-nare i pani soffici di farina e di farine integrali: civraxu,moddizzosu, moddixina; è necessario invece ancora la-vorare a lungo, con la forte pressione del palmo dellamano (ciuexi, cariare), l’impasto di semola destinato a

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All’uso generalizzato del buratto coperto e alla separa-zione meccanica delle farine si è giunti in Sardegnasolo col venir meno del mondo contadino, a metà No-vecento, contestualmente alla messa a riposo dell’asi-nello e alla riduzione della mola asinaria a documentomuseale o, più diffusamente, ad oggetto ornamentaleper i giardini delle nuove case a villetta. Alla fine de-gli anni Ottanta, in un medau del Sulcis, Paola Atzeniha potuto ancora osservare direttamente e accurata-mente descrivere la mola azionata dall’asinello e lecomplesse operazioni manuali di raffinazione delle fa-rine abitualmente compiute dalla sua padrona.

Lavorazione della pasta,modellazione e cottura dei pani Dopo aver “riposato”, per almeno un giorno, dentrocorbule rivestite di tovaglie e teli candidi, le farine sonoormai pronte per la nuova cotta. Si comincia la sera,preferibilmente il venerdì, con la preparazione del lievi-to, quello “naturale” (mardighe, framentu o prementusardu), tocco di pasta inacidita tenuto dalla cotta prece-dente e conservato come sacra reliquia, dentro una cio-tola, in luogo fresco e asciutto della casa. All’indomani,prima dell’alba, il lievito già sciolto viene mescolato allefarine da panificare e impastato con acqua tiepida e un

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casa e per quanti verranno in visita. Contempla, inoltre,la confezione di “pani conditi”, preparati con l’aggiun-ta di condimenti vari: lardo, ricotta, prodotti stagionalidell’orto, ecc., e destinati al consumo immediato. La cottura di pani soffici o a pasta dura richiede un for-no ben caldo ma spento e mondato delle braci. In pie-di, spruzzando di farina sa palia di legno ad ogni infor-nata, la donna fa rapidamente scivolare i pani, uno allavolta, sul piano del forno, sistemando i pani grossi nellezone più calde, quelle perimetrali e centrali, e in prossi-mità dell’apertura (sa bucca ’e su vorru), i pani più pic-coli. Non era dappertutto uguale il forno, né il modo diinfornare (inforrai, ghettai pani a su vorru), né la po-stura di chi inforna (inforradora, coidora), né le pale dilegno e di ferro (palas e palittas) utilizzate. Nel Campi-dano, e in generale nelle aree collinari e di pianura, ilforno, a cupola poggiante su un parallelepipedo a basequadrata, era collocato preferibilmente all’esterno dellacasa, in sa lolla o dom’e su vorru. Nei paesi della monta-gna centrale, in cui si confezionava il pane biscottato, ilforno normalmente si apriva sulla cucina, come in Oglia-stra, mentre era tutto interno alla casa, senza canna fu-maria e basso, così da adattarsi alla postura de sa coido-ra seduta a terra, in Barbagia. La cottura della spianata,che avveniva singolarmente, richiedeva la fiamma viva(coere a fogu crispu) che ne avrebbe suscitato il rapidorigonfiamento a palla, consentendo la separazione dellesfoglie (aressadura, sperradura) e la successiva biscot-tatura. Non è forse superfluo, data la marcata specificitàche caratterizza la confezione del carasau, descrivernepiù precisamente le modalità. Sedute a terra e disposte a creare un circuito operativocircolare, le donne svolgono in questa fase della pani-ficazione ruoli coordinati e gerarchizzati: sa cummen-zadora, alla quale è affidata la prima messa in formadella pasta; s’accabadora, che modella più precisamen-te la spianata; s’inforradora, addetta alla cottura del pa-ne, operazione più specializzata. Un’altra donna, infine,s’aressadora, completerà il lavoro ricavando da ciascu-na spianata due sfoglie sottili (pizzas).Divisa in tocchi (accucada) e poi schiacciata, la pastapassa di mano in mano e di tavoletta in tavoletta(taggeri ) sulla quale, con l’ausilio di un sottile matte-rello (canneddu), viene spianata sempre più sottil-mente, fino a ricavarne la forma e la consistenza vo-lute. Con un taggeri munito di corto manico, la cuiforma deve corrispondere a quella del pane, la spiana-ta viene introdotta nel forno riscaldato a fiamma viva,e rapidamente rivoltata con una paletta di legno, piùpiccola e munita di un lungo manico. Al calore dellafiamma la spianata si gonfia, rapidamente, determinan-do la formazione di due sfoglie, internamente separatema ancora unite nel bordo. Velocemente sfornata, eafflosciata, la spianata passa nelle mani di una quartadonna che ha il compito di pressare o fresare, sepa-randone con un coltello le due facce lungo la circon-ferenza. Ultimata la cottura del pane, le sfoglie perfet-

tamente freddate vengono rimesse al forno due allavolta, con la superficie concava rivolta verso l’alto,per una rapida biscottatura a calore moderato. Ripie-gate rapidamente, così da ottenere quattro fogli piùpiccoli, le sfoglie vengono infine disposte in pile benpressate, per assicurarne la conservazione senza trop-po ingombro in canestri e madie, al riparo dall’umiditàe dagli insetti; e nel passato, per rendere più agevoleal pastore il trasporto con le bisacce nel cammino ver-so gli ovili.

Pani quotidiani e pani specialiÈ soprattutto a livello morfologico, afferma Enrica Deli-tala,32 che i pani si rivelano come un prodotto peculiaredella cultura popolare sarda. Se infatti la sequenza cheva dall’impasto al pane non si discosta nel complessodalle pratiche e dalle ideologie proprie delle culture tra-dizionali italiane (e mediterranee), la Sardegna eccelletuttavia per la complessità delle forme, occasioni, fun-zioni, modalità decorative. Così le diverse regioni del-l’isola, ma anche le singole comunità hanno una propriaarticolata tipologia di pane, spesso emicamente perce-pita come segno per eccellenza della distinzione, della“diversità” anche dal paese confinante: “il nostro paneera più sottile”, “era più bianco”, “durava di più”, “erarotondo”, “era più bello”. È significativo che a Oliena siricordi ancora quale segno di diversità degli abitanti delrione Sa Tiria, in cui ripararono alla fine del Seicento gliultimi sfollati del vicino villaggio di Locoe, l’uso di dareforma rettangolare e non rotonda al carasau. Vi sono però zone in cui la produzione presenta una ti-pologia ristretta e zone in cui si manifesta attraversomolteplici forme, tecniche decorative, occasioni d’uso.Dei pani di uso giornaliero, quelli preparati ad ogniinfornata e per il consumo normale si possiede ormaiun quadro completo delle tipologie tradizionali. Restanocomunque aperti molti problemi, soprattutto relativi allaclassificazione e alla ripartizione areale dei diversi tipi dipani. Il più ampio criterio di classificazione, presentenel senso comune, scrive Enrica Delitala,33 ha come rife-rimento le tecniche di lavorazione che differenzianol’impasto morbido da quello duro. Quasi ovunque coe-sistono le due tecniche, ma con incidenza, talvolta an-che stagionale, diversa (può prevalere l’una o l’altra).Si basa su un criterio cromatico, ma rimanda all’uso diingredienti diversi, socialmente considerati “ricchi” o“poveri”, la classificazione in “pane bianco” (pani bian-cu, su limpidu), ricavato dalle farine più raffinate e “pa-ne nero” (pani nieddu), ricavato dalle farine integrali.Si basa sulle caratteristiche morfologiche la classifica-zione in pani grossi e sottili. A questo proposito, sullabase del pane giornaliero di tipo fondamentale si po-trebbero individuare in Sardegna tre aree, caratterizza-te una da pani grossi, due da pani piatti:un’ampia area meridionale produttrice di pani grossi econ mollica, di molte varietà (civraxu, moddizzosu,pan’e Seddori, tureddu, lada, coccoi, tunda, ecc.);

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Finalmente morbida, elastica e de toccu bellu, la pastaviene messa a lievitare (axedai), dentro la conca di ter-racotta, oppure, in Barbagia, dentro il malune di sughe-ro; ben ricoperta con teli di lino o cotone, e con unaspessa coperta di lana. È questo un momento di sosta, di riposo e di chiacchie-re, in cui si gusta una tazzina di caffè fumante, lenta-mente si dispongono gli strumenti per la modellazionee la cottura dei pani, mentre si diffondono gli aromi in-tensi delle prime fascine messe a riscaldare il forno. Dopo qualche ora, una leggera pressione della mano va-luterà il grado di elasticità e l’avvenuta lievitazione della

pasta; ed è tempo, ormai, di pezzare e modellare il pane(pesai su pani, sestare). Si divide la massa di pasta in toc-chi regolari, che posti nel canisteddu, fra le pieghe diuna tovaglia bianca, devono “riposare” e ancora lievitare.Successivamente, con abili e rapidi gesti e con l’ausilio diarnesi vari: forbici, coltellini, rotelle dentate, pinzette,spianatoie e mattarelli, ciascuna focaccia sarà modellatain pane, che avrà consistenza e foggia dettate dalle con-suetudini locali, dagli ingredienti utilizzati e dal consu-mo, quotidiano o festivo o rituale, al quale è destinato. Sa cott’e su pani contempla normalmente la confezio-ne di coccoeddus e altri piccoli pani per i bambini di

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117. Civraxu, Sanluri.Il civraxu, chiamato anche pani de Seddori(pane di Sanluri) o pani mannu (pane grande),deve rispondere a caratteristiche precise: avereun diametro di circa 50-60 cm ed un pesointorno ai 2 kg. Si tratta del pane di consumoquotidiano più diffuso nel medio Campidano.

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una zona centrale produttrice di un pane a sfoglia(rettangolare, ovale, circolare) da cui si ottengono duefogli biscottati, sottili e croccanti (pane carasau, pan’efresa, pistoccu);una zona settentrionale produttrice di un pane a sfogliacircolare morbida, suddivisibile in due fogli (ispianad-da, pane d’Ozieri, pane fine, pan’e poddine, pistocculensu, ecc.).Una collocazione a sé stante, in questa distribuzioneareale, sembra occupare su zichi, la spianata croccantema non scomposta in fogli, tradizionalmente confezio-nata a Bonorva, nella zona settentrionale dell’isola.La situazione, nella realtà, è infatti molto più comples-sa. Anche all’interno delle loro approssimative areeculturali, i pani a sfoglia morbida (spianata) e a sfogliacroccante (carasau) possono coesistere in aree di con-fine, e in ogni area al tipo caratterizzante può associar-si una variante dell’altro tipo (si hanno pani biscottatie sottili entro la zona della spianata, ecc.). Le varietàdel pane a sfoglia croccante possono differire notevol-mente, per forma e spessore: a sfoglia più grande esottile, perlopiù rotonda, il carasau della Barbagia; a

sfoglia più piccola e spessa, e rettangolare, il pistoccudell’Ogliastra. Sono presenti in queste aree, seppure non caratteriz-zanti, anche i pani grossi. Diffusi in tutta l’isola, i panidi grossa pezzatura, con i due tipi di impasto, duro emorbido, sono quelli che conoscono una maggiore ric-chezza di tipi, sottotipi e varianti: a Sanluri, per esem-pio, si distingue un civraxu biancu e un civraxu nied-du, una costedda bianca e una costedda niedda. Peressi si richiedono dunque, inevitabilmente, più artico-lati criteri di classificazione, in relazione alla composi-zione degli ingredienti e alla distribuzione areale dellespecifiche tecniche di modellazione e di decorazione. Si consuma però pane non solo di grano, e non solodi cereali. Si confeziona, infatti, diffusamente il pane diorzo (orgiathu, olgiattu, pistoccu de orgiu) in Barbagiae in Ogliastra, e il pane di ghiande in Ogliastra (sulande cottu, nei due tipi: land’e perra, e land’e fitta).Sempre in Ogliastra, a Baunei, nei momenti di emer-genza si confeziona anche sa cogone, sorta di spianatadi sola farina e senza lievito, cotta su una piccola lastradi granito arroventata (sa preda ’e pane ’onu o testu).

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118-119. Moddixi, 35 cm, Gonnosfanadiga.In alcuni centri del Campidano si indicacome moddixi o moddizzosu un civraxudi pezzatura inferiore, dal peso di circa700-1000 gr.

120-121. Moddizzosu, 27 cm, Selargius.

122-123. Civraxu, 35 cm, Gonnosfanadiga.Pane realizzato con farina integrale.

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124. Civargiu, 22 cm, Ussassai.Fatto di farina di grano duro e patate; queste ultime sonoimpiegate negli impasti per il pane nelle zone povere digrano; il loro utilizzo consente infatti un risparmio di farinae mantiene il pane morbido più a lungo.

125. Civraxu, 24 cm, Santadi.

126. Civraxu, 19 cm, Villaurbana.

127. Civraxu, 18 cm, Siamaggiore.

128. Tundu, 19 cm, Thiesi.

129-130. Moddizzosu, 21 cm, Suelli.

131-132. Moddizzosu, 20 cm, Cagliari.

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133. Civraxu, 23 cm, Muravera.

134. Crivazu, 18 cm, Tramatza.Tagliato a pozzo veniva poi riempito con latte e zucchero per un pasto leggero,con sugo o altro per uno più consistente.Su crivazu veniva realizzato con diversi tipi di farina, con quella di minore qualità si preparava il pane destinato ai servi pastorie ai braccianti.

135. Scetti, 16 cm, Siamaggiore.Realizzato con fior di farina.

136. Cuccu ’e cani, 9 cm, Isili.Confezionato impastando crusca e acqua,viene infornato dopo la cottura di tuttol’altro pane; è destinato ai cani.

137. Civraxu grussu, 16 cm, Isili.È un pane integrale ottenuto dal cruschello.

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138. Farrighingiada, 33 cm, Samugheo.

139. Pane segadu, 30 cm, Thiesi.

140. Farrighingiada, 33 cm, Samugheo.

141. Pane ammodigadu, 28 cm, Cheremule.Si tratta di un pane ammorbidito durante lalavorazione finale con l’aggiunta di acqua.

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143. Costedda, 34 cm, Sanluri.

144. Loriga, 19 cm, Villaurbana.

142. Moddighina de trebbiai,35 cm, Tramatza.Questo grande pane venivaconsumato durante il lavoronell’aia.

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149. Longupante, 38 cm, Scano Montiferro.Il nome di questo pane rimanda all’astice, crostaceo marino indotto nella cultura del Montiferru.

150. Ispiga, 24 cm, Scano Montiferro.

145. Crabola, 32 cm, Cuglieri.

146. Corroghedda, 20 cm, Tramatza.Denominato genericamentepillonca, si mangia il giorno stessoin cui si panifica; sa corroghedda(piccola cornacchia) era destinata ai bambini.

147. Picchetta, 30 cm, Santadi.

148. Picchetta, 26 cm, Teulada.

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151. Incannadu, 25 cm, Bessude.Per realizzare questo pane senza mollica viene incisa la superficie con delle stecche di canna.

152. Pane russu, 24 cm, Bessude.Per facilitare la cottura interna del pane vengono fatti dei tagli sulla superficie.

153. Aniada, 20 cm, Villaurbana.Questo pane prende il nome dalla melagrana (aniada) di cui ricorda la forma.

154. Arrosa, 20 cm, Villasor.

155-156. Arrosettas, rispettivamente 13 e 10 cm, Sanluri.Modellato a spirale, questo pane ha le parti superiori tagliate con un coltello o con le forbici, a formare una rosa.

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157. Corona, 38 cm, Scano Montiferro.

158. Corona, 16 cm, Scano Montiferro.

159. Corona, Gonnosfanadiga, 40 cm.

160. Corona, 21 cm, Cheremule.

161. Pane a loriga, 24 cm, Budoni.

162. Pani di lochita, 28 cm, Bassacutena, stazzi Chessa.

163. Pani di lochita, 23 cm, Luogosanto.

164. Corona, 44 cm, Bono.Donata alla cerchia parentale e amicale insieme a un pezzo di formaggio in occasione del trigesimo in memoria di un familiare.

165. Pani a mela, 33 cm, Tempio.Si tratta del tipico pane gallurese, utilizzato per larealizzazione della suppa cuatta (zuppa gallurese) e del pani a fitti.

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166. Coccoi, 27 cm, Aritzo.

167. Simbula, 20,5 cm, Fordongianus.

168. Simbula, 26,6 cm, Fordongianus.

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170. Simbula chin su corteddu torrau, 22 cm, Urzulei.Per i matrimoni si decorava sa simbula tramite incisioni e taglicon un coltello. Interessante notare come le tipologie festivenon sono altro che la trasformazione, con aggiunta di segni o colore, del pane quotidiano.

169. Simbula, 25 cm, Urzulei.I tagli laterali della corona sono colorati con lo zafferano dallatonalità arancione intenso. Sa simbula, consumata quotidianamente,con le spennellature dello zafferano, diviene un pane festivo.

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171. Loriga, 16 cm, Ussassai.

172. Loriga, 19 cm, Ussassai.La puntinatura gialla, ottenuta con piccolitocchi di zafferano, de su pani biancu(il pane realizzato per le feste) indica chesi tratta di un pani ’e coja (pane nuziale).

173. Loriga, 14 cm, Ussassai.

174. Corona, 24 cm, Villagrande.

175. Tacconi, 10 cm, Ussassai.

176. Tacconi froriu, 10 cm, Ussassai.

177. Coccoi, 26 cm, Isili.

178. Ingranaggiu, 32 cm, Domus De Maria.

179. Corona, 16 cm, Sanluri.

180. Pani biancu, 20 cm, Ussassai.

181. Corona a pinz’e unga, 26 cm, Sanluri.

182. Coccoi, 32 cm, Gonnosfanadiga.

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183. Sa cocconedda, 17 cm, Urzulei.Pane solitamente destinato ai bambini, si cuoceva per primo per testare la temperatura del forno.

184. Giuale piccadu, 16 cm, Thiesi.

185. Giuale, 17 cm, Thiesi.

Sono due tipologie di pane russu, caratterizzatodall’uso di farina di semola. La spaccaturalongitudinale consente una migliore cottura.

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186. Coccoi, 19 cm, Siamaggiore.

187. Tureddu, 18 cm, Villaurbana.

188. Cuaddittu, 23 cm, Tramatza.

189. Crabolu, 19 cm, Scano Montiferro.

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190-192. Simbula, rispettivamente 17,2, 16,8 e 18,2 cm, Fordongianus.

193. Coccoi, 12 cm, Settimo San Pietro. Il coccoi quotidiano spesso si arricchisce,come in questo esemplare, di decori e segni,trasformandosi in un pane festivo.

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194. Coccoi, 29 cm, Isili.

195. Coccoi a melas, 26 cm, Busachi.

196. Coccoi, 33 cm, Sant’Antioco.

197. Caccoi, 19 cm, Villaurbana.

198. Coccoi a pizzicorrus, 23 cm, Sanluri.

199. Coccoi, 25 cm, Selargius.

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200. Prazidedda, 19 cm, Settimo San Pietro.

201. Carroga, 25 cm, Villasor.

202. Coccoi, 22 cm, Atzara.

203. Coccoi, 19 cm, Settimo San Pietro.

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204. Coccoi, 33 cm, Isili.

205. Coccoi, 24 cm, Sinnai.

206-207. Tunda, 24 cm, Teulada(parte inferiore e superiore).

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208. Anoada, 16 cm, Tramatza.

209-210. Coccoi, rispettivamente 17 e 20 cm, Isili.

211. Pitticheddu, 11 cm, Settimo San Pietro.

212. Caccoi, 17 cm, Villaurbana.

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213. Boffolittu, 11 cm, Samugheo.

214. Mesu pane, 15 cm, Villagrande.

215-216. Prezzida, rispettivamente 14 e 22 cm, Villaurbana.

217. Ispolu, 21 cm, Scano Montiferro.

218. Coccoi, 21 cm, Sant’Antioco.

219. Tabacchera, 13 cm, Tramatza.

220. Simbula, 18 cm, Fordongianus.

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221. Costallu, 29 cm, Siamaggiore.

222. Ispoa, 27 cm, Tramatza.

223. Pane ’e tasca, 22 cm, Villagrande.Questo tipo di pane si preparava una volta alla settimana per i pastori che lo portavano in campagna dentro lo zaino di pelle (tascao taschedda).

224. Parzida, 18 cm, Tramatza.

225. Palzida, 20 cm, Scano Montiferro.

226. Palzida, 25 cm, Cuglieri.

227. Pani a sinzu, 26 cm, Ussassai.

228. Tacchinu, 17 cm, Scano Montiferro.

229. Tacchinu a tres concas, 19 cm, Cuglieri.

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230. Pane carasau, 48 cm, Oliena.

231. Pane ’ine, 30 cm, Ollolai.

232. Pane carasadu, 43 cm, Torpè.Il pane carasau, diffuso in tutto il centroSardegna, si distingue da paese a paese per dimensione, spessore della sfoglia e denominazione.

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233. Pane modde, 35 cm (piegato), Ollolai.Si tratta della sfoglia prima della secondainfornata con cui diventa pane carasau;durante la preparazione del pane unapiccola parte veniva tenuta come panemodde o pane lentu per il consumogiornaliero. A Ollolai, il giorno dellacommemorazione dei defunti, venivadistribuito in numero di tre o cinque alla parentela da chi aveva avuto un lutto durante l’anno.

234. Pane longu, 34 cm (piegato), Ollolai.La lunga sfoglia di pane modde vienerimessa in forno piegata, cosicché dacarasau abbia un ingombro ridotto. Nei paesi in cui i pastori praticavano unalunga transumanza, la provvista di panefornita dalle donne era tutta realizzata in questa maniera: così da consentirne il trasporto nella bisaccia (bertula).

235. Pane lentu, 20 cm (piegato), Orani.Il pane lentu tenuto per il consumofamiliare giornaliero viene conservatopiegato per mantenerlo più morbido.

236. Mesturu, 36 cm (piegato), Pattada.

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237. Pistoccu, 34 cm, Villagrande.Questo pane, come il carasau, viene infornato due volte; essendo piuttosto spesso e duro viene anche consumato dopo esserestato bagnato.

238. Bistoccu, 25 cm, Scano Montiferro.Un tempo la lunghezza del bistoccu eramaggiore, oggi si è ridotta per esigenze di distribuzione e mercato.

239. Pistoccu, 25 cm, Lanusei.In Ogliastra su pistoccu ha formaprevalentemente rettangolare; oggi è prodotto anche nella variante realizzata con farina integrale.

240. Pistoccu, 19 cm, Muravera.

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241. Zichi, 25 cm, Busachi.

242. Zichi, 31 cm, Bonorva.

Spianata croccante non scomposta in due fogli.

243. Fresa isuppada o isperrada, 28 cm, Thiesi.È un tipo di pane molto sottile, di lungadurata perché tostato. Per questapanificazione (turradura) si impiega farinagrossa, ovvero una via di mezzo fra ilcruschello (su chivalzu) e il fior di farina (sa podda). La cottura avviene subito dopoaver sfornato su poddine, sfruttando lacaduta di calore del forno. Quando è tuttocotto si provvede ad una seconda infornataper ottenere l’abbrustolimento finale (proturrare). Sa fresa in genere viene spaccata in due (fresa isuppada o fresa isperrada),quando viene lasciata intera prende il nomedi fresa a poddinittu.

244. Poddine, 25 cm, Thiesi.Preparata la spianata con fior di farina (sapodda) si martella la superficie con la puntadelle dita (illadiare); questa battitura serveper far sì che durante la cottura si separinolo strato superiore da quello inferiore.Se il pane, come in questo caso, vienetagliato con la rotella sagomata (rodetta properrinas) in due “mezzelune” dal bordoondulato si ottengono sas perrinas. Quelleche si preparavano in occasione deimatrimoni venivano donate dagli sposi aiconvenuti, che le portavano a casa in segnobeneaugurante.

245. Pane porile, 27 cm, Budoni.Si tratta di un pane azzimo, realizzato in quantità ridotte quando mancava il tempo per attendere la lievitazione per una normale panificazione.

246. Pane ’e ispola, 60 cm, Irgoli.

247. Coccone, 30 cm, Lodè.Su coccone di consumo quotidiano, con il piccolo foro centrale diviene un pane festivo realizzato soprattutto per i pasti di Natale e Pasqua.

248. Ispianada, 31 cm, Bono.I due segni inseriti in questo panequotidiano lo destinano allacommemorazione dei defunti.

249. Simuledda, 33 cm, Orune.

250. Fresa, 23 cm, Samugheo.

251. Pane modde, 26 cm, Orani.

252. Pane ammodigadu, 25 cm, Cheremule.

253. Pane modde, 23 cm, Ollolai.

254. Pane modde, 21 cm, Mamoiada.Nell’impasto, l’aggiunta di patate schiacciaterende il pane più morbido e soffice.

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255-260. Preparazione de sa coatza ’e caule a Sarule (foto Franco Stefano Ruju, archivio Imago multimedia).

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261. Coatza ’e caule, 21 cm, Orani.La spianata è ottenuta da un impasto di semola, fior di farina epatate schiacciate, ammorbidito con acqua sino a far diventare lapasta molto elastica; successivamente viene cotta adagiata sullafoglia di un cavolo, la cui impronta resta sulla superficie del pane.

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I pani specialiLa preparazione del pane settimanale contemplava an-che, soprattutto in certi periodi dell’anno, la confezionedi “pani conditi” con prodotti di stagione, che spessocostituivano il pasto del giorno. I “pani conditi” o “panispeciali”, segnano il passaggio dal pane che accompa-gna la pietanza al pane pietanza.34 Con l’aggiunta distrutto, olio, patate, zucchine, pomodoro, cipolle, olive,ricotta, ciccioli, ecc., si realizzavano infatti in tutta l’isolapani “di stagione”, che variamente saporiti arricchivanonel passato un’alimentazione quotidiana altrimenti au-stera e monotona. Altri ingredienti: uova, mandorle, uva passa, sapa, miele,zafferano, ecc., trattati nelle maniere più varie, sono an-che spesso alla base dei pani cerimoniali, e di quella ca-tegoria intermedia che si può definire dei “pani dolci”.In occasione della panificazione del civraxu, d’estateperlopiù, nei paesi della costa meridionale da Teuladaa S. Antioco si confezionava pani o fogazza cun tama-

tiga, pane con pomodoro. La pasta ben lavorata venivadivisa in pezzi; ogni pezzo veniva diviso in due nelsenso della lunghezza, creando una sorta di tasca all’in-terno della quale si infilavano i pomodori, precedente-mente spaccati a metà, schiacciati e conditi con pepe,sale e aglio e olio d’oliva, all’occorrenza sostituito dal-l’olio di lentisco (oll’e stinci). Caratteristico dell’Ogliastra e di alcune zone della Barba-gia è il pane di farina di grano arricchita con patate bol-lite, e ben schiacciate (modizzosu de patata, pistoccu depatata, turredda chin patata, coccoi prena). A Baunei,sa turredda, pagnotta molto soffice, oltre che con patateveniva anche confezionata con ciccioli (turredda erda),e con farina di mais (turredd’e trigosindia): veniva infor-nata sopra una foglia di pianta selvatica (foggia casada)a causa della scarsa elasticità della sua pasta. Sempre a Baunei, si usava condire con cipolle, pomo-doro, formaggio o altro, anche sa cogone, la spianataazzima.

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262. Ancas de cane, 30 cm, Thiesi.Pane impastato con noci e uvette che si realizza per la ricorrenza dei defunti; a Siligo viene chiamato pabassinu isladolzadu, dove sa ladolza è la farina che resta sopra il pane.

263. Busone, 9 cm, Torpè.Pane fritto consumato durante la cena della vigilia di Natale.

264. Pani de arrescottu, 8 cm, Cagliari.Pane con ricotta. A seconda delle materie prime disponibili nei diversi periodi dell’anno, si realizzano dei pani speciali conl’aggiunta nell’impasto di ricotta, olive, verdure, ciccioli di maiale.

265. Pani cun arrescottu, 15 cm, Gonnosfanadiga.

266. Fogazza cun arrescottu, 11 cm, Teulada.

267. Pani cun obia, 13 cm, Gonnosfanadiga.Le olive incluse nell’impasto conferiscono al pane il colore scuro e l’intenso profumo.

268. Pani cun cicoia, 17 cm, Gonnosfanadiga.

269. Ladixeddas de arrescottu, 14 cm, Isili.All’impasto normalmente realizzato per su civraxusi aggiunge la ricotta insieme a foglie di menta tritate.

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270. Pane ’e gherda, 26 cm, Budoni.In tutta la Sardegna si realizza il pane con i ciccioli di maiale,solitamente durante i mesi invernali in occasione della macellazionedel suino domestico e quindi della lavorazione delle carni.

271. Prazidedda cun cipudda, 20 cm, Muravera.

272. Stripiddi o civargiu ’i patata, 19 cm, Ussassai.

273. Stripiddi o civargiu ’i cipudda, 21 cm, Ussassai.

274. Pani cun ghedras, 15 cm, Tramatza.Si prepara per la notte di Natale.

275. Prazidedda cun gedra, 22 cm, Muravera.

276. Stripiddi o civargiu ’i erba, 19 cm, Ussassai.

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277. Casatina, 24 cm, Lodè.Pane fatto soprattutto in occasione della Pasqua, è farcito con formaggio acido.

278. Mustaleddu cun tamatiga, 19 cm, Santadi.Durante l’estate, in occasione della panificazione del civraxu, nei paesi della costa meridionale, da Teulada a Sant’Antioco, si confezionava il pane con il pomodoro (tamatiga), condito con pepe, sale, aglio e olio d’oliva. Questo tipo di pane costituivaun pasto completo.

279. Panada cun ambidda, 24 cm, Muravera.Farcita con anguille (ambiddas) o verdure, costituisce un pastocompleto. A Muravera, data la presenza delle peschiere, la panadacon anguille è decisamente più diffusa.

280. Gillantiri, 20 cm, Teulada.Farcito con verdure.

281. Panadas, 10 cm, Cuglieri.Farcite con carne e verdure.

282. Coccoi prena, 11 cm, Ussassai.Farcita con patate e menta.

283-284. Mustazzaddu, 12 cm, Iglesias.Farcito con pomodori conditi.

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Pani festivi e cerimonialiDagli esiti della raccolta del grano per lunghissimo tem-po è dipesa la sopravvivenza delle comunità isolane; el’affanno per l’imprevedibilità degli eventi naturali: piog-ge, venti, siccità, cavallette, ha dominato la vita del con-tadino. Da qui il costante ricorso a divinità e a santi, larichiesta di aiuto e protezione attraverso l’offerta di feste,preghiere, doni, riti, processioni.35 La devozione popo-lare si rivolgeva in particolare a Sant’Isidoro, protettoredegli agricoltori, raffigurandolo nell’atto di far zampilla-re l’acqua dalla terra siccitosa, e a San Narciso, cui affi-dava il compito di tenere lontano il temuto flagello del-le cavallette. Il pane delle feste è segno di straordinaria abbondan-za, allegoria di un surplus alimentare rivolta a scongiu-rare carestie e a propiziare benessere. Nella festa di Sant’Isidoro erano sempre simbolicamentepresenti il grano e il pane. In occasione delle feste diSant’Isidoro e di San Marco, protettore dei campi e delbestiame, a Bolotona si portavano processionalmente inchiesa pani riccamente decorati con uccelli e fiori: supane de Santu Marcu e su pane de Santu Sidòre. I panibenedetti venivano distribuiti a vicini, parenti ed amici,e ad essi si attribuiva il potere di proteggere da pericolie influssi malefici la casa, i campi ed il bestiame. Il legame simbolico grano-pane, casa-campo venivaespresso anche plasticamente modellando i pani ceri-moniali con scene di lavoro contadino e pastorale e de-corandoli con chicchi di grano, come su pane de ca-buannu (Noragugume), sa tunda (Busachi), sa mandrae s’arzola (Sedilo).Un uso magico di grano, farine e pani era legato ai ritidel ciclo invernale. Intessuti di simboli cristiani, garanti dibenessere, fertilità e fecondità, questi beni venivano chie-sti in dono da bambini ma anche da donne bisognose,nel nome di Gesù. Gli ultimi due giorni dell’anno, nelCampidano, si faceva la questua, di grano crudo il trenta(dì de su trigu cru), di grano cotto condito con sapa iltrentuno (dì de su trigu cottu). Ad Orgosolo l’ultimo gior-no dell’anno i bambini andavano di casa in casa chieden-do su coccone ’e sa candelaria, pane di semola e strutto.Il pane delle feste è riconoscibile per la particolare mo-dellazione che ne identifica l’occasione, per quella for-ma diversa che vuole rimarcare la dimensione del tem-po festivo rispetto al tempo feriale. Un certo pane è unacerta festa.Tradizionalmente diffusa in tutti i paesi dell’area medi-terranea, la modellazione dei pani cerimoniali pervie-ne in Sardegna, per qualità di fattura e quantità diesemplari, ai livelli di specializzazione di una vera arteplastica figurativa seppure effimera, come sottolineaAlberto Cirese. I pani decorati, pani pintaus, elaboratima sobri, sono spesso sottili; si caratterizzano per lefigurazioni stilizzate e per le composizioni intagliate etraforate, prevedono la lucidatura (pane ischeddau) el’uso, oltre che di forbici e coltello, di pinzette, rotelledentate (sarrettas), timbri e punzoni.

Chi ha voluto tentare una comparazione tra i pani ritualisardi e quelli siciliani,36 ha sottolineato che i primi sonopiù sobri e meno monumentali, lavorati a pasta biancada farine di semola raffinatissime, hanno profili di minorspessore tendendo a espandersi lungo un asse orizzon-tale e circolare piuttosto che in altezza e a tutto tondo;si caratterizzano per le figurazioni sovente stilizzate, perle composizioni intagliate e traforate, per la lucidatura eper il frequente impiego di timbri e punzoni. Più largamente che in Sicilia, sono pure attestate in Sar-degna forme speciali di pane associate a precisi mo-menti di passaggio della vita individuale, a occasioniquali battesimi, fidanzamenti, matrimoni (pani de is ispo-sus, pan’e sposoriu, pane de sos cojuados novos), morti(pani de is animas, pane pro sas animas), e i vari tipidi pane per i bambini (craixedda, fraschitteddu, bra-ciallettu, ecc.).In Ogliastra su pane biancu si confezionava in occa-sione delle principali feste religiose e per il giorno deimorti. A Baunei si portavano, infilati in una canna, acasa dell’obriere dove il pane si tagliava a fette per es-sere distribuito. A Talana s’angùle cun s’ou si confezio-nava in occasione della Pasqua.Tutti dotati di alta valenza tecnica e simbolica sono i pa-ni festivi del sud dell’isola: furriottus e tundas (di semo-la o di farina), bai e torra, pei de cascia, spaccadeddas(di farina), moddizzoseddus de simbula, puddixeddas,angolias, buroneddus (di semola) la cui decorazione,con fiorellini e foglioline, richiedeva in particolar modol’esercizio della pazienza e dell’“ingegno” femminile.Il riferimento al criterio cromatico di classificazione deipani diventa fondamentale quando si parla di pani ceri-moniali e rituali. Soprattutto i pani cerimoniali sono in-fatti caratterizzati dalla assenza di colore. Il pane dellafesta doveva essere rigorosamente bianco, confezionatocon farine di grano purissime. Il “pane bianco” era, an-zi, il simbolo stesso della festa. A Fonni, però, dovenel corso dell’anno era generalizzato il consumo di pa-ne d’orzo (più scuro di quello di grano), questo paneaveva assunto significato e circolazione anche simbolica(su pane ’e s’anima) in occasione delle feste e segnata-mente della Pasqua e dei Morti, quando a parenti e vi-cini si donavano, insieme, un pane d’orzo (orgiathu) eun pane di grano. Troviamo assai diffuse, però, anche decorazioni che siispirano agli elementi naturali, alla flora e alla fauna: in untripudio di fiori, frutta, uccelli, pesci, come nel pane des’affidu (Pozzomaggiore), o nel coccoi de Santu Marcu. La simbologia dei pani rituali rinvia spesso alla simbolo-gia prodotta dal Cristianesimo. La ritroviamo nei panicon forma a croce, come su cabude (Mores), su coccoide Santu Marcu (Macomer, Silanus), su pani de is baga-dius (Siurgus Donigala); nei pani della Quaresima e del-la Pasqua: lazzareddu, su pane de prama, pani cuns’ou. La ritroviamo in quella particolare forma, che sem-bra richiamarsi ad un tabernacolo o a una cappella, checaratterizza su crispesu di Orroli.

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285-290. Preparazione de su coccoi pintau (foto Daniela Zedda).La preparazione del pane è stata fotografata a Siddi, negli spazi del Museo delle tradizioni agroalimentari “Casa Steri”.

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A leggende sulla Madonna e ad interventi miracolosi sucarestie locali si ispirano talvolta i pani con forma diuccello, che ritroviamo negli ingenui e variegati puzzo-neddos distribuiti a Orune dalle trippides di Nostra Sen-nora de Su Cossolu; o nella opulenta e al contempomisurata composizione di uccelli che costituisce sucohone de vrores di Fonni, portato in processione daicavalieri di San Giovanni dei fiori, e poi ad essi distri-buiti; o in quel tripudio di fiori, uccelli e animali messoin scena nel coccoi de Santu Marcu di Silanus.

Note

1. M. Mesnil 1992.

2. Il pane 1992.

3. S. Denaeyer 1992.

4. S. Cambosu 1954.

5. G. Pizza 1992; E. Fochi, M. Montanari 1992.

6. C. Addari 1991.

7. A. Saggioro 2003.

8. Il pane 1992.

9. A.M. Cirese 1990.

10. G. Angioni 1992.

11. E. Delitala 1981.

12. G. Murru Corriga 1991; G. Murru Corriga 1997.

13. Pubblicato in G. Murru Corriga 1993, p. 9.

14. M.G. Da Re 1991.

15. E. Delitala 1990.

16. A.M. Cirese 1990.

17. A.M. Cirese 1977.

18. G. Murru Corriga 1990.

19. E. Delitala 1990.

20. E. Delitala 1992.

21. M. Tatti 1994.

22. Fra le quali importanti iniziative museografiche. Nell’ultimo de-cennio numerose sono state, infatti, le mostre dedicate alla panifica-zione tradizionale, sia temporanee sia stabili, come quella realizzatadal Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari di Nuoro, nella qualeè anche confluita la collezione di pani quotidiani e cerimoniali rac-colti fra gli anni Sessanta e Ottanta dalla Cattedra di Storia delle Tra-dizioni popolari della Facoltà di Lettere di Cagliari.

23. E. Delitala 1990, p. 8.

24. E. Delitala 1990; P. Marrosu 1991.

25. A. Manca Dell’Arca 2000, pp. 68-69.

26. La preoccupazione di ridurre i tempi e i costi di produzione delpane è alla base anche di un progetto, inoltrato dal Censore Genera-le a Torino nel 1792, «relativo alla sostituzione dei 53 mulini (aziona-

ti da somari) esistenti nella regia munizione di Cagliari con 6 mulinia vento e a maniglia» (I. Zedda Macciò 1983, p. 162).

27. Pubblicato in G. Murru Corriga 1993, p. 13.

28. Si tratta verosimilmente di uno di quei grani che fino a qualche de-cennio fa gli agronomi definivano “turgidi”: «Diffusione limitata, oggipiù che nel passato, hanno i grani turgidi (Tr. Turgidum) detti, sul no-stro mercato, anche semi-duri. La loro area di coltivazione si confon-de, a volte, con quella dei grani duri» (F. Crescini 1956-64, p. 33). Poiché le tassonomie agronomiche non contemplano una varietà digrano “semi-duro”, ci domandiamo: a) corrisponde il grano mazzabianca ai grani sardi considerati teneri (trigu tenuru nel cagliaritano,trigu biancu, trigu biancale, trigu Cossu, trigu montanu nel nuorese),tutti caratterizzati da scarsa resa in semola e maggior resa in farina?; b)corrispondono l’uno (mazza bianca) e gli altri al grano “bianconato”,nel cagliaritano detto brenti bianca, che si produce normalmente insuoli dilavati e perciò carenti di azoto? Fenomeno soprattutto frequen-te nei terreni di montagna, dove i suoli, generalmente poco profondi,sono più soggetti all’azione di dilavamento delle acque.

29. Il pane 1992; M. Lendini 1994.

30. M.G. Da Re 1990.

31. Va sottolineata la diversa postura che durante la panificazione assu-mono le panificatrici barbaricine rispetto alle panificatrici campidanesi:mentre, infatti, queste lavorano su un basso tavolo, quelle lavoranodapprima inginocchiate e poi sedute a terra, sopra su saccu ’e obrace.

32. E. Delitala 1990.

33. E. Delitala 1990, p. 11.

34. Diffuse erano anche pietanze a base di pane: nel sud, col pane raf-fermo sbollentato nell’acqua e condito con sugo di pomodoro e for-maggio si era soliti preparare a fine settimana su pani incasau; nelNuorese col pane carasau sbollentato nell’acqua, condito con sugo dipomodoro e guarnito con uovo e formaggio si realizzava il pane frat-tau; diffuso era l’uso di preparare col pane bagnato nel brodo su maz-zamurru (pancotto).

35. L. Orrù 1982.

36. A. Cusumano 1992.

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291. Simbula pintata, 28 cm, Fordongianus.

292. Coccoi pintau, 26 cm, Atzara.

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293-296. Coccoi pintau, rispettivamente31, 37, 36 e 31 cm, Atzara.

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297. Palzida, 29 cm, Cuglieri.

298. Pane pintadu, 23 cm, Bolotana.

299. Anoada, 16 cm, Tramatza.

300. Caccoi froriu, 38 cm, Villaurbana.

301. Simbula pintada a melas, 19 cm, Abbasanta.

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304. Pane ’e sposos, 22 cm, Paulilatino.

305. Pani de su sonadori, 24 cm,Fordongianus.Questo pane, realizzato in occasione del matrimonio, era destinato alsuonatore, che lo portava intorno al braccio aprendo il corteo nuziale.

302. Pane ’e sposos, 21 cm, Villagrande.

303. Coccoi a melas, 21 cm, Busachi.

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306. Pani di lu preti, 21 cm, Luogosanto.Pane destinato in dono al sacerdote.

307. Cocconedda, 21 cm, Urzulei.

308. Ferru ’e cuaddu, 13 cm, Settimo San Pietro.309. Corona, 31 cm, Ottana.Pane degli sposi.

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310. Pillosa, 35 cm, Gonnosfanadiga.Pane donato al futuro marito dalla promessa sposa in occasione del fidanzamento.

311. Sogra e nura, 39 cm, Thiesi.Pane realizzato in occasione delle nozze: i due tundos laterali si devono gonfiare nella stessamisura per trarre il buon auspicio che la suocera e la nuova nuora vadano d’accordo.

312. Pillosa, 46 cm, Gonnosfanadiga.Questo pane può avere anchedimensioni notevolmente maggiori.

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313. Pani ’e sposus, 20 cm, Santadi.

314. Corona, 17 cm, Settimo San Pietro.

315-316. Pani ’e sposus, rispettivamente 20 e 22 cm, Santadi.

317. Pani ’e sposus, 16 cm, Domus De Maria.

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318-320. Coccoeddu, rispettivamente 10, 12 e 13 cm, Settimo San Pietro.

321-322. Pani ’e coja o pani ’e festa, rispettivamente 15 e 13 cm, Ussassai.Le forme tradizionali dei pani nuziali sono state oggi variate e innovate dalle panificatrici che hannocreato nuove tipologie di pani biancu secondo un loro gusto personale e aggiornato.

323-324. Coccoi ’e isposus, rispettivamente 16 e 17 cm,Settimo San Pietro.

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325-326. Arreula, rispettivamente 19 e 20 cm, Ussassai.Il nome di “regola” deriva a questo pane dalla ruota capitolare provvista di campanelle,suonata in chiesa all’ingresso dell’officiante. La puntinatura con tocchi di zafferano, così comeil decoro con la coppia di uccelli, indica che sitratta di pani realizzati per le nozze.

327-328. Pani ’e coja o pani ’efesta, rispettivamente 21 e 15 cm,Ussassai.

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329-337. Cocconeddos, 15 cm (max), Irgoli, primi anni Novanta.

338. Coccone a chimbe melas, 29 cm, Irgoli, primi anni Novanta.

339-340. Coru, 23 cm, Fordongianus.

341-342. Simbula pintada, 24 cm, Fordongianus.

343-344. Coru, 22 cm, Fordongianus.I pani nuziali spesso vengono realizzati a coppie.

345-346. Simbula pintada, rispettivamente 24 e 23 cm, Paulilatino.

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347. Pani ’e coja, 22 cm, Tertenia.

348-349. Pane ’e isposos, rispettivamente 17 e 15 cm, Dorgali.

350. Coccoi ’e isposus, 16 cm, Settimo San Pietro.

351. Pane dell’offertorio, 16 cm, Villaurbana, 2000.Offerto durante la messa in occasione di alcune feste.

352. Caccoi pintau, 17 cm, Villaurbana, 2000.

353. Caccoi froriu, 21 cm, Villaurbana.

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354. Coccoi pintau, 26 cm, Tramatza.

355. Coro, 20 cm, Paulilatino, 2002, Museo Civico “Palazzo Atzori”.

356. Pane ’e sposos, 23 cm, Paulilatino, 2002,Museo Civico “Palazzo Atzori”.

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357. Coro, 17 cm, Paulilatino, 2002, Museo Civico “Palazzo Atzori”.

358. Pani ’e sposos, 26 cm, Villagrande, 2000.

359. Coros, 27 cm, Paulilatino, 2000.

360. Coros, 29 cm, Paulilatino, 2002, Museo Civico “Palazzo Atzori”.

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361. Cozzula, 15 cm, Thiesi.Il poddine, realizzato in occasione deimatrimoni (cozzula), è spesso modellato aforma di cuore, di colomba o di mezzaluna;decorato con incisioni a coltellino e con iltimbro per pane (marca).

362. Pani budditta di li sposi, 19 cm, Trinità d’Agultu.

363. Pani ’e sposus, 17 cm, Tertenia.

364. Pani budditta di li sposi, 27 cm,Luogosanto.

365. Coro de is isposus, 22 cm, Villaurbana.

366. Coru, 19 cm, Settimo San Pietro.

367. Coro, 25 cm, Olmedo.

368. Pane ’e isposos, 25 cm, Atzara.

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370. Ispolu, 22 cm, Scano Montiferro, 1982.Insieme a sa rosa, s’ispolu (la spola) è un panebenaugurante realizzato per le nozze; viene intrecciato con la pervinca.

371. Rosa, 30 cm, Scano Montiferro, 1982.Pane nuziale con la data del matrimonio; si decoracon dei tralci freschi di pervinca per augurarericchezza e abbondanza alla giovane coppia.

369. Alburizzola, 25 cm, Scano Montiferro, 1982.

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372-374. Lottura, rispettivamente 20, 22 e 24 cm, Olmedo.L’uva, le spighe di grano e le rose richiamano un auspicio di abbondanza.

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375-376. Pane ’e sposos, rispettivamente 17 e 16 cm, Paulilatino, 2002, Museo Civico “Palazzo Atzori”.

377. Fruttiera, 22 cm, Paulilatino, 2002, Museo Civico “Palazzo Atzori”.

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382. Pane ischeddadu, 19 cm, Chiaramonti.

383. Pane iscadda, 22 cm, Bonorva, anni Sessanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde, raccoltadella Cattedra di Storia delle Tradizionipopolari della facoltà di Lettere e Filosofia di Cagliari.

378. Su mandatiu, 18 cm, Lodè. Questo coccone viene realizzato in occasione del fidanzamento e viene portato dalla futura sposa al padrino (su nonnu) e alla madrina (sa nonna). I pani portati per su mandatiu sono tre (sas tres Marias);questo rappresenta simbolicamente il padrino.

379. Su mandatiu, 21 cm, Lodè. Come l’esemplare precedente fa parte dei tre panidonati (su mandatiu) dalla futura sposa ai padrini;questo simboleggia la madrina.

380. Pane iscadda, 19 cm, Bonorva, anni Sessanta,Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni PopolariSarde, raccolta della Cattedra di Storia delle Tradizionipopolari della facoltà di Lettere e Filosofia di Cagliari. I pani, impastati con le migliori farine, dovevano uscire dal forno ancora bianchi, a metà cottura venivano esposti al vapore acqueo e poi nuovamenteinfornati. Questo procedimento serviva a rendere lucida la superficie (iscaddada).

381. Cozzula, 22 cm, Thiesi.

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384. Pane ’e sa gida, 12 cm (max), Settimo San Pietro.Si tratta di un pane calendariale, le settebamboline rappresentano i giorni dellasettimana e contano quelli mancanti allasuccessiva panificazione.

385. Pizzinna ’e Caresima, 30 cm, Nuoro.

386. Pippia ’e Caresima, 21 cm, Settimo San Pietro.Pane calendariale, viene realizzatoall’inizio della Quaresima; ogni settimanaviene staccata una gamba per misurare iltempo mancante alla Pasqua. Lo stessopane e la stessa usanza esiste a Creta.

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387. Carzoffa, 17 cm, Paulilatino, 2002, Museo Civico “Palazzo Atzori”.Pane quaresimale raffigurante il carciofo. In altre zone della Sardegna il carciofo è sostituito dal cardo selvatico (gureu).

388. Iscarzoffa, 14 cm, Oliena.

389. Pisci, 14 cm, Villaurbana, 1990, Nuoro, Museo della Vita e delle TradizioniPopolari Sarde.

390. Pisci, 10 cm, Tramatza.

391. Pisci, 14 cm, Villaurbana, 1990, Nuoro, Museo della Vita e delleTradizioni Popolari Sarde.

392. Pische, 21 cm, Urzulei.

Durante la Quaresima in tanti centridella Sardegna si preparavano deipani diversi per ciascuna settimana.Molto diffuso il pane in forma di pesce (in riferimento al passoevangelico sulla moltiplicazione dei pani e dei pesci).

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403-404. Trizza, rispettivamente 24 e 20 cm,Villaurbana.

405. Trizza, 37 cm, Budoni.

406. Trizza, 18 cm, Tramatza, 1990, Nuoro, Museo della Vita e delle TradizioniPopolari Sarde.

407. Fitta ’e naschimentu, 34 cm, Urzulei.Questo pane, del tutto simile alle trecce (trizzas)realizzate in diverse zone della Sardegna, a Urzulei non viene preparato per la Pasqua ma per il Natale.

408. Jaos, 8 cm, Pattada.Pane simboleggiante i chiodi della crocifissione(jaos), realizzato durante la Settimana Santa.

409. Corona, 25 cm, Pattada.

410. Corona, 9 cm, Tramatza.Anche questi pani rappresentano uno deisimboli della Passione di Cristo: la corona di spine.

411. Iscala, 18 cm, Villaurbana, 1990, Nuoro, Museo della Vita e delle TradizioniPopolari Sarde.

393. Lazzareddu, 16 cm, Tramatza, 1990, Nuoro, Museo della Vita e delle TradizioniPopolari Sarde.

394. Lazzareddu, 17 cm, Tramatza.È singolare come il realismo dellarappresentazione non tralasci di citare i vermi che mostrano l’avanzare dello stato di decomposizione del miracolato.

395. Lazzaru, 20 cm, Villaurbana.A Villaurbana sa xida de Lazzaru (riferibile al passo evangelico sulla resurrezione di Lazzaro)è la settimana precedente quella delle Palme (sa xida de pramma).

396. Lazzaru, 22 cm, Villaurbana, 1990, Nuoro, Museo della Vita e delle TradizioniPopolari Sarde.

397. Lazzaru, 13 cm, Paulilatino, 2002, Museo Civico “Palazzo Atzori”.

398. Pramma, 19 cm, Paulilatino, 2002, Museo Civico “Palazzo Atzori”.L’intreccio della pasta è simile a quello impiegatonella decorazione delle palme benedette.

399. Pramma, 22 cm, Paulilatino, 2002, Museo Civico “Palazzo Atzori”.Le mandorle sono un elemento molto presentenei pani quaresimali e pasquali; così come perl’uovo la loro simbologia richiama la resurrezione.

400. Pramma, 21 cm, Pattada.

401-402. Pramma, rispettivamente 17 e 15 cm,Settimo San Pietro.

I pani quaresimali simboleggianti la palma (sa pramma), diffusi in tutta l’isola, presentanonumerose fogge e tipologie.

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412. Iscala froria, 19 cm, Paulilatino, 2002, Museo Civico “Palazzo Atzori”.

413. Iscala, 17 cm, Villaurbana, 1990, Nuoro, Museo della Vita e delle TradizioniPopolari Sarde.Pane della Settimana Santa; la scala è un’altroelemento della Passione.

414-415. Cruxi, rispettivamente 24 e 16 cm,Settimo San Pietro.

416. Rughe, 18 cm, Pattada.

417. Rughitta, 18 cm, Fordongianus.A Fordongianus la croce, pur essendo uno dei simboli della Passione, veniva realizzataanche a Natale.

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418. JHS, 28 cm, Selargius.Pane benedetto durante lamessa di Pasqua.

419. Coccoi de Pasca Manna,24 cm, Isili.

420. Ispera, 21 cm, Lodè.Pane pasquale in forma di ostensorio.

421. Pane ’e Pasca, 27 cm, Olmedo.

422. Simbula, 16 cm, Fordongianus.Nei pani pasquali spesso le mandorlesostituiscono le uova.

423. Puddichina, 12 cm, Nuoro.

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424. Simbula pintada, 22 cm,Fordongianus.

425. Coccoi pintau, 18 cm, Tramatza, 1990,Nuoro, Museo della Vita e delle TradizioniPopolari Sarde.

426. Simbula pintada, 18 cm, Paulilatino, 2002,Museo Civico “Palazzo Atzori”.Per rendere l’insieme maggiormente aggraziatosi usano uova bianche di piccole dimensioni.

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427. Juada, 31 cm, Pattada.Pane realizzato dai contadini perl’inizio del nuovo anno, venivaspezzato sul giogo dei buoi (juale) in segno benaugurante.

428. Peltusitta, 33 cm, Pattada.Si tratta del pane che le famiglie dei pastori realizzavano per l’iniziodell’anno. Una volta spezzato, le parti venivano conservate in segno di buon auspicio. Questa usanza eradiffusissima in tutta la Sardegna; inPlanargia l’ultima notte dell’anno veniva chiamata peltusitta.

429-430. Arzola, rispettivamente 16 e 15 cm, Paulilatino, 2002, Museo Civico “Palazzo Atzori”.Pane simbolico e rituale con laraffigurazione dell’aia, realizzato dalle famiglie contadine per l’inizio del nuovo anno.

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431. Cabude, 22 cm, Thiesi.Si tratta di un pane rituale preparato per l’annonuovo: si spezzava sul capo del figlio maschio. Per la figlia femmina se ne confezionava uno deltutto simile, di forma rotonda, chiamato affesta. La decorazione della superficie, ottenutadall’impressione del coltellino, è detta s’ispiga(la spiga).

432-433. Coccone de Nostra Sennora ’e Gonare, 25 cm ciascuno, Orani.La festa dedicata alla Madonna di Gonare (25 marzo e 8 settembre), condivisa tra Orani e Sarule, prevede che coloro che hanno stretto un voto per lo scioglimento realizzino o faccianorealizzare del pane da distribuire a quantipartecipano alla messa. Sino agli anni Sessanta il pane era destinato ai poveri e per questaoccasione accorrevano i mendicanti da diverseparti del circondario.Sos anzones pedini erbas / sos pizzinnos kerentpane / kando andamus a Gonare / bos ’achimus su kokone pintu pintu / kei sa jiai de su kelu(Gli agnelli chiedono erba / i bambini chiedonopane / quando andiamo a Gonare / vi facciamo il pane decorato / come la chiave del cielo;strofette popolari).

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434. Cohone de Santu Sidore, 31 cm, Bolotana. I pani benedetti venivano distribuiti a vicini, parenti ed amici, a maggio, durante la festa diSant’Isidoro (patrono dei contadini), e ad essi si attribuiva il potere di proteggere da pericoli e influssi malefici la casa, i campi ed il bestiame.

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435. Canistreddu, 22 cm, Lodè.Pane realizzato per i bambini in occasione della festa di Sant’Antonio Abate (17 gennaio);leggermente dolce.

436-437. Pane ’e Sant’Antoni, rispettivamente 4 e 7 cm, Pattada.Realizzato per la festa di Sant’Antonio Abate, veniva conservato dai pastori nelle stalle comeprotezione per il bestiame.

438-439. Pane ’e Sant’Antoni, 10 cm ciascuno, Pattada.

440-445. Coccones chin mele, 18 cm (max), Mamoiada.Nonostante il nome (pane con miele), il colore giallodi questi pani realizzati per la festa di Sant’AntonioAbate è dovuto allo zafferano.

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446. Cozzula de Santa Rita, 14 cm, Thiesi.

447. Pane ’e Santa Rita, 3 cm, Mamoiada.

448-450. Pane ’e Santa Rita, 6 cm (max), Macomer, 2000.Preparati per il 22 maggio (festa di Santa Rita), dopo essere stati benedetti, sono conservati dai fedeli come protezione dai mali.

451-453. Coccoi de su Santu, 19 cm (max), Sant’Antioco, Museo Etnografico.Preparati per la festa di Sant’Antioco, che cade 15 giornidopo la Pasqua, questi pani, legati con nastri rossi, sonodestinati ad ornare il simulacro e le reliquie del santo.

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mediamente oscillanti tra i 50 e i 60 cm circa. L’ornamentazionesegnalava l’appartenenza della mola alle famiglie di grandi pro-prietari: era sufficiente un semplice cercine inciso con un motivoa zigzag sul collo del palmento superiore; più raramente, soprat-tutto in regioni ad alta vocazione cerealicola, come la Trexenta ela Marmilla, il contenitore in pietra veniva decorato con motivi digrande interesse formale.10 La tramoggia (maiou, imbudu) era dipaglia e di giunco intrecciati o, più recentemente, in legno. Muo-veva la macina per lo più un asinello, «essenziale quanto la pi-gnatta!»,11 appartenente ad una varietà domestica sarda di pic-cola taglia, oggi oggetto di progetti di protezione in quanto invia di estinzione. L’animale bendato veniva attaccato con unastanga alle robuste costole diametrali del palmento superiore.Non era raro anche l’uso del cavallo, come ci informa GiuseppeCossu,12 soprattutto negli impianti di una certa grandezza. NelMuseo delle tradizioni agroalimentari della Sardegna “Casa Ste-ri” a Siddi in Marmilla si può attualmente osservare un bellissimoesemplare di mola a trazione animale (cavallo), dotato di quegliingranaggi tipici dei mulini idraulici a ruota verticale, la coppia“ruota dentata-lanterna”, a dimostrazione dell’influenza che nelcorso dei secoli i sistemi idraulici hanno avuto sulla macina do-mestica sarda. Per la natura basaltica di una consistente parte del suo territo-rio, uno dei più noti centri di produzione delle macine manuali,a trazione animale e idraulica della Sardegna meridionale è

stato, con sicurezza tra il Settecento e il Novecento, Nurri, pic-colo paese della regione storica del Sarcidano, a 50 km Nord-Est di Cagliari. La sua funzione come centro ad alta specializza-zione è segnalata da molti autori.13

La mola asinaria, come i mulini idraulici ed eolici, è, come si èdetto, del tipo “a palmenti”, caratterizzato da due pesanti piastrelitiche sovrapposte a base circolare, di cui una ruota mentre l’al-tra resta fissa. Tali sistemi producono un macinato integrale cheva vagliato successivamente. I sistemi a palmenti sono accomu-nati dal procedimento detto “bassa macinazione” che consistenello schiacciare il grano in maniera uniforme. La crusca, il cru-schello e il nocciolo concorrono insieme a formare lo sfarinato.L’alta macinazione si basa invece sull’uso prevalente di lamina-toi a cilindri e di buratti. Essa consente la netta e completa se-parazione di tutti i tipi di farine tra loro durante la macinazione.In Sardegna i mulini o laminatoi a cilindri sono stati usati solo apartire dal secondo dopoguerra, mentre nel resto dell’Europacominciano a diffondersi alla fine dell’Ottocento. Le differenzetra i diversi sistemi a palmenti sono principalmente determinatedalla fonte di energia, la cui maggiore potenza consente l’uso dipalmenti più grandi e pesanti e dunque una maggiore produtti-vità e una maggior resa in farine. Nonostante la sua apparente semplicità, la mola asinaria, do-po un opportuno e sapiente trattamento dei grani (pulizia, la-vaggio, asciugatura), era in grado di produrre un macinato in-tegrale composto da tanti sottoprodotti dal più grosso al piùsottile senza soluzione di continuità. Era compito delle donneottenere i prodotti voluti in rapporto all’economia della casa e

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La mola asinaria (sa moba) è ormai divenuta uno dei simboli del-la società rurale sarda, in grande misura tramontata negli anniSessanta, della sua peculiarità tecnica ed economica, caratteriz-zata fino a tempi non lontani dal prevalere, almeno nel campodelle tecniche di produzione, di fenomeni di conservazione suquelli di innovazione e cambiamento. Unico sistema molitorio atrazione animale sopravvissuto in Europa ben oltre la metà delNovecento, essa è percepita come uno dei segni della premi-nenza in tale società della produzione domestica e di una condi-zione contadina basata sull’ideale dell’autosufficienza. Idealeche in un luogo di povertà diffusa rimaneva spesso tale.Il viaggiatore non distratto che percorre la Sardegna e osservavicoli, cortili e giardini non solo dei paesi, ma anche delle villet-te costiere e delle città, non tarderà ad accorgersi della diffusapresenza di parti litiche della macina domestica per cereali – inuso come sistema tecnico funzionante nelle campagne sarde fi-no agli anni Sessanta – usate per lo più con finalità decorative.Più completa, talvolta anche con le parti in legno (la tramoggia),la piccola macina, difficilmente è assente nei musei etnografici,ormai frequenti anche nell’Isola.La mola asinaria sarda ha, per certi aspetti, origini ancora miste-riose. I riferimenti immediati vanno alle macine a clessidra do-minanti nella storia romana e, con piccole varianti, molto diffuseanche nelle province romane e in Sardegna, dove notissima eraanche una zona di produzione di macine antiche, Molaria, l’at-tuale Mulargia, frazione di Bortigali.1 Le differenze tra mola asi-naria moderna e i tipi antichi sono tuttavia notevoli, come intuìnegli anni Venti del Novecento M.L. Wagner,2 e la filiazione nonfacile da dimostrare. Anzi alcune caratteristiche della macinasarda fanno pensare ad una profonda influenza dei muliniidraulici, introdotti nell’Isola fin dall’Alto Medioevo. Ma mentrequesti, come è ben noto, tra Alto e Basso Medioevo si imposeroin tutta l’Europa e in Italia, imposti per ragioni fiscali dai signorilaici ed ecclesiastici, in Sardegna la storia fu diversa e i mulini adacqua, pur numerosi in zone ricche d’acqua, come testimonia lostorico Vittorio Angius,3 e specialmente nel territorio di Sassari,4

nonostante la loro maggiore produttività rispetto alla macina atrazione animale, non riuscirono mai ad imporsi in tutta l’Isola.Si tratta per lo più di impianti a ruota orizzontale, il tipo più anti-co e semplice di mulino idraulico. È tuttavia presente anche ilpiù noto mulino a ruota verticale o “vitruviano”, caratterizzato dacomplessi ingranaggi di trasformazione e moltiplicazione delmovimento. I mulini a vento, poi, sono quasi inesistenti, a partequello del Castello di Cagliari, usato in tempo di guerra, di cui cidà notizia Giuseppe Cossu in un manoscritto del 17805 e gli im-

pianti realizzati da Giuseppe Garibaldi sull’Isola di Caprera.6 Leragioni di questa non dominanza o addirittura assenza dei siste-mi molitori più produttivi sono complesse, di ordine sociale edeconomico, e certamente non riconducibili esclusivamente allararità di corsi d’acqua a portata regolare. La mola asinaria fino a metà dell’Ottocento fu dominante inSardegna, compresa Cagliari, dove sa panettera, la panificatrice,nella cui casa si svolgeva anche la macinazione, è diventata unadelle maschere tipiche del carnevale del capoluogo.7 Molto dif-fusa nelle campagne fino agli anni Trenta del Novecento, ha vi-sto un lento declino fino agli anni Sessanta-Settanta, mentre laproduzione delle mole su vasta scala cessa negli anni Cinquan-ta. Macine funzionanti sono state tuttavia trovate in zone mar-ginali e isolate negli anni Ottanta,8 e ancora a metà dei Novantaè stata segnalata una vecchia mola rimessa in funzione grazie aun piccolo motore. Nell’Isola la mola asinaria ha convissuto, probabilmente fin dal-l’Alto Medioevo, certamente in epoca moderna e contempora-nea, con mulini idraulici e macine manuali. È stata sostituita nellecittà dai mulini a vapore alla fine dell’Ottocento9 e nelle campa-gne dai mulini elettrici a partire dagli anni Trenta. Dopo gli anniSessanta la storia sarda delle mole si biforca. Come sistema moli-torio funzionante è fatta per lo più di singole storie di sopravvi-venza e di resistenza. Come utensile tecnicamente superato, lamola entra nella categoria del riuso e, per lo più smontata o fattaa pezzi, si reinserisce, talvolta in modi bizzarri, nella vita dome-stica rurale, anche se in posizione ovviamente marginale. Infine,come “oggetto d’affezione”, diventa pezzo da esporre in luogoprivato o collettivo (giardini, cortili, piazze, musei o altro), inquanto simbolo del passato contadino e/o segno del gusto an-tiquario proprio del nostro tempo.La mola sarda, che d’ora in poi chiameremo moderna o “tradi-zionale” per distinguerla dai tipi antichi, presenta caratteri digrande uniformità in tutta l’Isola. Le parti fondamentali dellamola, come di tutti i sistemi a palmenti, sono costituite da duepesanti piastre litiche circolari sovrapposte (la macina vera epropria), per lo più di pietra nera basaltica, poggiate su un con-tenitore, di pietra (laccu) o in legno (cascia, cubeddu, cubedda),dove cade il macinato che si estrae grazie ad un’ampia apertu-ra. Una fitta serie di scanalature caratterizza le parti fricanti deidue piatti, dei quali il superiore si chiama sa tunica (la tunica),mentre l’inferiore su coru (il cuore).Socialmente significative erano le dimensioni della macina el’ornamentazione. In generale i diametri superiori dei conteni-tori variano dai 70 agli 85 cm circa. I palmenti hanno diametri

La mola asinaria: una complessa macchina animaleMaria Gabriella Da Re

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454. La mola, Campidano (foto Clifton Adams in National geographic, gennaio 1923).

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Nella Sardegna centro meridionale, in particolare nelle regionicerealicole di Trexenta, Marmilla, Sarcidano e Parteolla, sono sta-te identificate alcune mole asinarie decorate, caratterizzate dallinguaggio formale del decoro geometrico e in alcuni casi damotivi di evidente simbologia cristiana. Questi preziosi oggettid’uso, finora obliterati dalla letteratura archeologica e storico-ar-tistica sarda, sono documenti significativi sia da un punto di vi-sta tipologico, attinente alla struttura, sia da un punto di vista sti-listico-formale, attinente all’ornamentazione scultorea.I dati a tutt’oggi rilevati evidenziano la particolare densità di ri-trovamenti nel citato ambito territoriale e la persistenza di mo-tivi quali cerchi, quadrati, triangoli, losanghe, croci, elici, spina-pesce, rosette quadripetale, esapetale e altri “segni-simboli”,non già primitivi bensì primari della comunicazione visuale,che traggono origine dal grafismo astratto aurorale e perdura-no fino all’odierna imagerie di tanta arte popolare. Tali figurazioni – la cui fortuna e durata è data in ragione dellaloro peculiare struttura formale che ne consente l’uso come di-segni e/o segni1 secondo la loro portata semantica e dei diversicontesti in cui si manifestano – rivelano nella loro impaginazio-ne compositiva e nelle loro qualità di singoli elementi costituti-vi, un’intima esigenza di inserirsi nella struttura frontale dellamacina e di amalgamarsi interamente con quella.Per quanto concerne il dato tipologico strutturale, il rapporto dicontinuità tra il sistema molitorio romano e la mola asinaria tra-dizionale2 è determinato dalla comune appartenenza all’insie-me tipologicamente differenziato del sistema rotatorio a pal-menti e dal loro utilizzo per lo più a livello familiare. Questacontinuità è sottolineata da alcuni frammenti, provenienti dalsito archeologico di S. Luisa nell’area di Tuili, che per le loro ca-ratteristiche – progressiva riduzione dell’altezza in rapporto aldiametro, funzione di tramoggia del palmento superiore, for-mazione di costole diametrali del tutto assimilabili a quelle delpalmento superiore della macina attuale – sembrerebbero atte-stare un momento di passaggio nell’evoluzione tipologica dallamola romana “a clessidra”alla mola asinaria tradizionale.Ma quando e perché ciò è avvenuto?La totale assenza di fonti documentarie relative a questo ar-gomento e la scarsità dei reperti archeologici, per lo più fuoricontesto, creano non poche difficoltà alla ricostruzione storicae scientifica.Ad ogni modo si può ipotizzare, sulla base dei reperti finora con-siderati e di confronti con testimonianze analoghe pertinenti al-l’ambito mediterraneo occidentale,3 che tale cambiamento siaavvenuto nel passaggio dal Tardo Antico all’Alto Medioevo, inseguito alle mutate esigenze della produzione e ad eventuali in-

novazioni tecniche introdotte dai monaci, eredi dei grandi la-tifondisti romani nella gestione del vasto patrimonio agrario.4

Nell’ambito di questa trasformazione i monaci sembrano essereanche i “responsabili”della “conversione”degli “atemporali”ogget-ti d’uso in “documenti-monumenti-testi artistici”cristiani, median-te l’apposizione di motivi quali la croce nelle più varie e iterateforme. Processo, quest’ultimo, che trova riscontro ufficiale nellapolitica e strategia evangelizzatrice di Gregorio Magno, messa inatto nei confronti delle popolazioni pagane dell’interno con l’e-saugurazione e risemantizzazione dei monoliti protostorici sardiin signacula crocesegnati. La Trexenta, estrema propaggine dell’antica diocesi di Cagliari,rappresentava, infatti, il confine cristiano più avanzato rispettoal perdurante paganesimo delle Civitates Barbariae.Per quanto riguarda il dato linguistico formale, altra facies dellatipologia, attinente propriamente all’ornamentazione sculto-rea, si osserva la piena rispondenza al linguaggio formale deldecoro geometrico, quale si manifesta nella scultura architet-tonica e monumentale dell’Africa antica tra la fine del IV e gliinizi del VI secolo, nel periodo in cui nell’Africa settentrionalecome in Sardegna si verifica il passaggio dall’egemonia politicae culturale romana al dominio vandalico e alla successiva “ri-conquista” bizantina.Linguaggio formale del decoro geometrico, fenomeno radica-to e di vaste proporzioni, i cui termini, difficilmente precisabili,giungono fino alla vasta produzione artigianale moderna e inparte contemporanea.All’atemporalità dell’oggetto d’uso si associa, dunque, l’atem-poralità della decorazione, tanto che risulta compito arduo indi-care una datazione precisa dei singoli elementi.È opportuno, tuttavia, proporre una classificazione degli ogget-ti basata su confronti iconografici e tecnico-stilistici interni, sulleanalogie con altre emergenze scultoree pertinenti alla stessazona e, più in generale, con le altre testimonianze monumentalirelative all’area mediterranea occidentale.L’analisi è articolata secondo un’ipotesi di sistemazione “cronolo-gica” volta a distinguere gli elementi più “arcaici” – dove per ar-caico si intende se non l’appartenenza ad un ambito cronologi-co preciso, la citazione di modelli tardoantichi e altomedioevali– da quelli “arcaicizzanti” o dalle degenerazioni “folkloristiche” dimodelli originali.All’interno di questo contesto si inseriscono i ventidue elementioggetto di indagine, identificati in undici centri compresi nellearee del Campidano e della Trexenta,5 territorio caratterizzatoda due momenti forti: il Cristianesimo delle origini legato allapresenza di insediamenti monastici e la Controriforma.

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Le mole asinarie decorate Margherita Coppola

alle occasioni, setacciando grossolanamente o vagliando più epiù volte i vari macinati con numerosi setacci e crivelli fino adottenere le semole e le farine più sottili per la confezione deipani festivi ornati. Alla base della preparazione dei coccois più raffinati e elaboratic’era dunque la “rozza” e “arcaica” macina di basalto, curiosa-mente ritenuta da alcuni storici delle tecniche in grado di pro-durre solo macinati grossolani. Le massaie sarde invece la pre-ferivano perché non riscaldava le farine, difetto assai gravecausato dalla maggiore velocità dei palmenti mossi dall’acqua,dal vento e dall’elettricità e che dava come conseguenza un pa-ne di scarsa qualità. Infatti i palmenti, oltre ad avere, come si èdetto, una fitta serie di scanalature che facilitavano la discesadei grani e consentivano la circolazione dell’aria tra i due mo-noliti, diminuendo il rischio del riscaldamento, erano dotate dialtri piccoli accorgimenti che svolgevano rilevanti funzioni tec-niche. Tra la tramoggia e la macina era collocato un piccolo og-getto a forma di barchetta o di disco (in campidanese pabadu,pabadulu; letteralmente: palato) per lo più in legno con duealette laterali, che regolava la discesa dei grani, distribuendolilungo tutta la superficie di frantumazione. Il piccolo piolo verti-cale di cui era dotato entrava nella bocca inferiore della tra-moggia, evitandone le oscillazioni e garantendo il perfettocentraggio rispetto all’imboccatura della macina. Il piolo, inol-tre, smuovendo la massa del grano contenuto nella tramoggia,faceva sì che i grani scendessero senza intasamenti.Con la mola asinaria era possibile ottenere macinati più o me-no grossi a seconda delle necessità. Nelle grandi macine a cles-sidra romane e nei mulini idraulici ed eolici si otteneva ciò conmeccanismi in grado di aumentare la distanza tra i palmenti.Nella piccola macina sarda si regolava la distanza della tramog-gia dal piccolo disco, accorciando o allungando le cordicelle disospensione della tramoggia stessa, non a caso chiamate tem-peras in varie zone dell’Isola.14 La minore o maggiore velocitàdella caduta dei grani che ne conseguiva produceva appuntoun macinato di diversa grossezza con una prevalenza di cru-schelli o di semole o di farine bianche. Nel mondo rurale la mola era dunque parte fondamentale dellavita domestica e ha ispirato proverbi, modi di dire e sentenze.Essa era associata al lavoro femminile, alla casa, al matrimonio,alle nozze. Doveva rispecchiare lo status sociale della famiglia.Almeno fino a metà dell’Ottocento nelle cerimonie nuziali deiricchi proprietari, insieme al corredo e alle provviste, venivaportata in corteo, con l’asinello ornato di rami verdi, nastri e vel-luti, fino alla casa degli sposi.15

Il suo funzionamento era noto e i suoi rumori inequivocabili. Essasuggeriva considerazioni e giudizi sulla fatica, il lavoro, i rapportisociali tra ricchi e poveri. Soprattutto l’asino (su molenti, colui chefa girare la mola), al quale nella cultura sarda si attribuiscono sen-sibilità e passioni, ha ispirato considerazioni sulla durezza dellacondizione umana. Percorrendo bendato la via senza speranza esenza uscita della mola, egli è assimilato all’essere umano di bas-sa condizione. Nessuno lo invidia e non gli si attacca neppure ilmalocchio (a su molenti non l’intra s’ogu malu).Nel Novecento delle aspirazioni alla modernità, dell’individuoche vuole essere padrone della propria vita e rifiuta il peso delpassato, la mola diventa simbolo di un tempo bloccato, asfittico,annullato dal ripetersi dei suoi eventi sempre uguali. Nel roman-zo La mola, pubblicato nel 1925 da Lino Masala Lobina, il prota-gonista, Bastiano, rifiuta la concezione ciclica del tempo e delle

vite: «Bastiano aveva nelle orecchie le parole della donna, lente,faticose, monotone, come i passi dell’asino che gira intorno allamola … La mola: ecco, non si scappa al destino: Io ho fatto il pa-store, farai il pastore anche tu … Tutto è tracciato, tutto è prontonell’attesa d’ogni nostro gesto anche minimo, come fosse giàcompiuto da tempo immemorabile per l’eternità … Il tempo èannullato, annullati i millenni, non c’è mattino, non c’è notte».16

Alla fine del secolo scorso, ridimensionate le aspettative di “ri-nascita”, la retorica delle “radici” tende a sostituire quella dellamodernizzazione, nelle case lo stile rustico e il modernariato so-stituiscono la fòrmica, le tegole rispuntano sui tetti al posto delmicidiale eternit. Anche in Sardegna, il mondo contemporaneo,con le sue mode, con il suo atteggiamento di recupero del pas-sato e la ricerca di autorappresentazioni identitarie, offre ina-spettatamente alle vecchie mole una nuova possibilità di vitacome oggetti decorativi, oggetti della memoria, anche se di unpassato contadino genericamente inteso e un po’ vago, e tal-volta addirittura inventato.

Note

1. C. Lilliu, Grano e macine nella Sardegna Punico-Romana, tesi di diplomain Archeologia e Storia dell’Arte Greche e Romane, Scuola Nazionale diArcheologia, Università “La Sapienza”, Roma, a.a. 1998-99; C. Lilliu 1999.

2. M.L. Wagner 1996.

3. V. Angius 1833-56.

4. P. Cau 2000.

5. G. Murru Corriga 1993.

6. F. Poli, Il museo garibaldino di Caprera, Sassari, Chiarella, 1977.

7. L. Orrù, Maschere e doni, musiche e balli. Carnevale in Sardegna, Cagliari,Cuec, 1999.

8. P. Atzeni 1989.

9. G. Dettori, Agricoltura e credito in Sardegna: prime linee di un’inchiestasulle condizioni economico-sociali della Sardegna, Cagliari, Dessì, 1910.

10. M. Coppola, L’arte di macinare. Emergenze scultoree funzionali connota-te dal linguaggio formale del decoro geometrico, tesi di laurea, Universitàdegli studi di Cagliari, a.a. 1992-93; M. Coppola 2002.

11. F. Cetti 1774.

12. G. Murru Corriga 1993.

13. V. Angius 1833-56; A. della Marmora 1860; M.L. Wagner 1996.

14. M.L. Wagner 1996.

15. H. von Maltzan 1869.

16. L. Masala Lobina 1925, p. 115.

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Partendo dall’analisi dell’elemento n. 1, identificato nella corterustica di Casa Ruda a Suelli, esso rivela un’ornamentazione adecoro geometrico6 realizzata nella tecnica negativa dell’inta-glio “a cuneo”, composta da margherite esapetale inscritte incerchi con relativi triangoli di risulta a base curvilinea, alternatea motivi poligonali policentrici.L’articolazione dei motivi trova puntuali riscontri nella vasta pro-duzione scultorea tardo antica nordafricana, in particolare nellereiterate e caleidoscopiche geometrie delle finestre della Basilicatripolitana di Breviglieri7 e nell’arco attualmente in opera nellamoderna Cappella del Carmine a Suelli. Una trasformazione initinere verso soluzioni astratte di tipo fortemente simbolico, tra-sformazione che marca il passaggio dal linguaggio figurativomediterraneo tardoantico al codice linguistico più propriamentealtomedievale, investe il gruppo di elementi registrati tra Gesico,Mandas e Siurgus.Nell’elemento n. 2 di Gesico, se i lati sinistro e destro, tripartiticon campo centrale “a colonne”, rinviano alla struttura “a batten-te di porta” dalla scultura monumentale nordafricana, il lato su-periore della fronte sembra rappresentare un ulteriore stadio dielaborazione formale del decoro geometrico verso esiti più pro-priamente astratti, e al contempo simbolici, del linguaggio scul-toreo e in generale della lingua figurativa altomedievale.8

La decorazione del lato superiore è articolata in un sistema di trecerchi: agli angoli “dischi alveolati”9 a cerchi concentrici inclusivi diincavi triangolari, al cui interno campisce una crocetta greca inci-sa – copie di fibule “a disco” di derivazione classica e bizantina10

che denotano lo stretto rapporto, nei territori occidentali, fra scul-tura e oreficeria preziosa e colorata; al centro quadripartizione a

croce, simbolo cosmogonico protostorico, ai lati del quale sonodue figure stanti, profondamente incise, il cui modello iconografi-co si ritrova nella decorazione delle stele giudeo-cristiane.11

Ne risulta una rappresentazione “astratta”, pur in presenza di mo-tivi di tipo figurale, dove «le sujet n’est plus la représentation d’unévénement déterminé dans le temps et dans l’espace, mais il est de-venu un symbole dégagé des détails réalistes qui sont inutiles à sacompréhension, et figé en un groupement abstrait».12

La stessa composizione di motivi nella fascia superiore si ripro-pone negli elementi nn. 3 e 4.L’elemento n. 3 di Mandas presenta agli angoli margherite aquattro-cinque petali, con relativi incavi triangolari di risulta a ba-se curvilinea, analoghe a quelle dei timbri per focacce votive, per-tinenti alla sfera estetica e destinati all’ornamentazione dei paniprima della cottura e del consumo finale.Procedendo da sinistra verso destra, segue un’incisione trape-zoidale con croce interna – analoga alle lastre di chiusura deisarcofagi merovingi, in particolare di Poitiers e del Poitou13 – so-vrastante un motivo nastrato a “zig-zag”; al centro “disco alveo-lato”, al lato alberello a “spina-pesce”, sormontato da una figuraumana stilizzata con palmetta, “figura-simbolo” collocata all’in-terno di una composizione “astratta”. Analogo sistema di tre cerchi si ritrova nell’elemento n. 4 di Siur-gus, caratterizzato agli angoli da margherite quadripetale analo-ghe a quelle dell’elemento n. 3; al centro da una quadripartizio-ne a croce con definizione di campi triangolari in negativo; allato da una semplice figura umana stilizzata “a sagoma piatta”,14

seguita da un “animale nastrato” segnato da un profondo incavotriangolare al suo interno. L’aniconismo espressivo – retto dalle “tecniche negative” e dal-la forte contaminatio con le forme dell’oreficeria preziosa e co-lorata – e l’affollamento compositivo rivelano se non l’apparte-nenza ad un ambito cronologico preciso, la citazione di modellitardoantichi e altomedievali.La ripresa dei motivi arcaici “fusi in una curiosa arte mistilinea” siritrova nell’elemento n. 5 di Sisini, caratterizzato da motivi “archi-tettonici”angolari composti in un sistema di “base-colonnina-ca-pitello”, definiti da duplice unghiatura e profonda incisione verti-cale, correlati a motivi geometrico-floreali di diverso stile, qualicampi quadrangolari “a X”, realizzati nella tecnica negativa del-l’intaglio “a cuneo”, alternati a “classicheggianti” margherite a pe-tali multipli, con perla centrale, semplicemente incise.La commistione dei motivi, degli stili e delle tecniche di realizza-zione dell’elemento considerato, sembrano discostarsi dall’ico-nografia tardo antica e altomedievale, mostrando invece una sin-tesi ambigua da modelli seriori, precisamente secenteschi, di“recupero-restaurazione”controriformistica.15

Revival delle immagini del “cristianesimo primitivo” che si confi-gura non quale fenomeno spontaneo e popolare, né qualeespressione della fantasia di scalpellini o piccapedras, ma all’op-posto quale fenomeno di livello “alto”, legato ad una volontariariproposizione di motivi e modelli arcaici, ad opera di una com-mittenza vescovile controriformistica che nei nuovi ordini reli-giosi, specialmente Cappuccini e Gesuiti, ebbe i suoi maggiori epiù significativi sostenitori.Dalla ripresa “arcaicizzante” di motivi “arcaici”, attraverso un pro-cesso “ciclico” di “lunga durata” si arriva all’elemento n. 6 di Quar-tu S. Elena, prodotto “degenerato”, caratterizzato da motivi16 lacui disposizione e tecnica di esecuzione rivelano una realizzazio-ne recente ed una valenza non più di “segni”, ma di “segnali”.

L’identità storica di questi oggetti è, dunque, quella di “artefattimateriali” in pietra, destinati nelle società produttrici ad assolve-re nei diversi ambiti a diverse funzioni d’uso (pragmatica, funzio-nale e culturale, informativa), nei quali il carattere “nuovo”dell’or-namentazione scultorea fa emergere quella “segnicità” e quellevalenze simboliche, quotidianamente nascoste, ma non cancel-late dal prevalente valore di strumento.

Note

1. A. Leroi Gourhan 1978, pp. 220-254.

2. Per uno studio approfondito sulla mola asinaria tradizionale vedi M.G.Da Re 1990; Il grano e le macine 1994.

3. Cfr. R. Benneth, J. Elton, History of cornmilling, London 1898, pp. 179-185.

4. Cfr. G. Paulis, Grecità e Romanità nella Sardegna bizantina e alto-giudica-le, Cagliari 1980.

5. Gesico, Guasila, Lunamatrona, Mandas, Orroli, Pula, Quartu S. Elena, S. Ba-silio, Senorbì, Sinnai, Sisini, Siurgus Donigala, Suelli.

6. Per gli studi specificamente dedicati al “decoro geometrico” vedi P. Sala-ma, “Recherches sur la sculpture geometrique traditionelle”, in El djezair,1977; S. Casartelli Novelli, “Il decoro geometrico delle inedite emergenzescultoree a “pietra fitta” individuate nella Sardegna centro-orientale”, inXXXVI corso di cultura sull’arte ravennate e bizantina: Ravenna e l’Italia fraGoti e Longobardi, Ravenna 1989, pp. 101-112, e della stessa autrice si ve-da anche, “Documento-monumento-testo artistico: orizzonte epistemo-logico della scultura altomedievale fra corpus e corpora”, I, in Arte medie-vale, s. II, a. III, n. 2 (1988), pp. 1-28; II, in Arte medievale, s. II, a. V, n. 2(1991), pp. 1-48.

7. G. De Angelis D’Ossat, R. Farioli, Il complesso paleocristiano di Breviglieri(Elkadra), Roma 1974, pp. 67-102.

8. Per uno studio più approfondito sull’”astrazione” del linguaggio figu-rativo altomedievale vedi A.M. Romanini, “Problemi di scultura e plasticaaltomedievali”, in Artigianato e tecnica nella società dell’Alto medioevo oc-cidentale, XVIII Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’Alto me-dioevo, Spoleto 1971, e della stessa autrice, L’arte medievale in Italia, Fi-renze 1988.

9. Per il motivo del “disco alveolato” cfr. elementi A e B di Suelli in S. Ca-sartelli Novelli, “Il decoro geometrico” cit., pp. 6-9; e più in generale perl’area merovingia D. Fossard, “Decors Merovingiens des bijoux et des sar-cophages de platre”, in Art de France, 1963, pp. 30-39; per l’area visigoti-ca J. Puig i Cadafalch, L’art wisigotique et ses survivances, Paris 1961; perl’area africana G. De Angelis D’Ossat, R. Farioli, Il complesso paleocristianodi Breviglieri cit.

10. A. Riegl, Industria artistica tardoromana, Firenze 1953, pp. 247-407; J.Hubert, J. Porcher, W.F. Volbach, L’Europa delle invasioni barbariche, Mi-lano 1968, pp. 215-310.

11. E. Testa, Il simbolismo dei giudei-cristiani, Gerusalemme 1981, tav. 30,fig. 4.

12. E. Salin, La civilisation merovingienne, Paris 1959, p. 340.

13. M. Coppola, A. Flammin, “Les sarcophages au musée lapidaire du bap-tistère Saint-Jean de Poitiers. Classement typologique et Étude icono-graphique”, in Bulletin de la Société des Antiquaires de l’Ouest, Poitiers 1994.

14. Per quanto riguarda la tecnica di questi motivi figurali, rileviamo lacompresenza sia della sottile incisione lineare sia dell’abbassamento difondo perimetrale, tecniche entrambe che rispettano la tradizione sardo-punica e rivelano pertanto la “profonda eredità” semitica nella cultura fi-gurativa locale.

15. Vedi C. Collu, Nuove “pietre fitte” cristiane nella Sardegna centro-orienta-le, tesi di laurea, Università di Cagliari, a.a. 1992-93.

16. Questi motivi trovano puntuali rispondenze con quelli realizzati suipeducci degli archetti pensili della chiesa romanica di S. Pietro di Ponte aQuartu S. Elena.

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455. Mola decorata, Suelli.

456. Mola decorata, Sinnai.

457. Mola decorata, Mandas.

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di quel pane che ci stavano preparando. Rispose solo zia Rosa:«ba! ddu pappausu!», le sue parole, assieme al sensibile arricciar-si del naso, esprimevano un tassativo «lo mangiavamo e basta!».A proposito delle ghiande, avrei voluto sapere che qualità leiavesse scelto, essendo le montagne circostanti ricche di moltevarietà di querce ghiandifere. La risposta fu a dir poco straordi-naria e davvero divertente, le sue testuali parole furono: «suproppiu lande chi pappanta sus coppiusu», ovvero «le stesseghiande che mangiano i maiali», e proseguì spiegando che sologli animali hanno l’istinto per non sbagliare. Sarà stato propriocosì che i protosardi, a scopo alimentare e spinti dalla fame, scel-sero tra tante la ghianda della Quercus ilex?Erano trascorse circa tre ore dall’inizio della cottura, zia Rosatirò fuori una mestolata di quella mistura, gli dette una rapidaocchiata e sentenziò che era tempo di scolare su lande. Se neoccupò ancora zia Annamaria, con una lunga schiumarola raci-molò dal paiolo un composto di ghiande che adagiò su di unutaggeri (tagliere di legno), dividendolo poi in parti irregolari,quello era su lande cottu!Bisognava attendere circa mezz’ora perché su lande e fitta si ad-densasse, c’era una certa trepidazione nell’aria, e zia Rosa vi par-tecipava, sapeva di essere lei la protagonista. Ma ecco un suoborbottio incomprensibile, uno sguardo verso zia Annamariache prontamente le si affiancò, assieme tolsero dal fuoco su cad-dargiu, lo poggiarono sul tavolo e piegandolo su un lato vi versa-rono il contenuto denso. Il vapore e l’odore asprigno di quella po-lenta grumosa ci avvolgeva, osservavamo le mani di zia Rosa:con fare lento e amorevole, ne prendeva piccole quantità e leplasmava in forme arrotondate: ecco rinato su lande e fitta! Men-tre continuava a preparare uno ad uno quei piccoli pani neri di

ghiande, senza distogliere lo sguardo, quasi sottovoce, ci rac-contava il suo vissuto. Diceva che queste focacce erano riservateun tempo ai bambini, perché più delicate, spesso unite al sierodella ricotta per renderle ancora più digeribili; gli adulti si dove-vano accontentare del lande cottu, accompagnato da un pocodi lardo. A preparazione ultimata, le adagiò su di un largo fogliodi sughero, mi feci avanti, lo presi dalle sue mani per collocarlosul camino, il calore avrebbe provveduto ad asciugarle. Chiesi sefosse stato possibile assaggiare subito i due lande, compiaciutazia Rosa accennò un sì con la testa. Presi un lande e fitta ancoratiepido, e con l’altra mano un pezzetto di lande cottu. Il lande e fit-ta era morbido, di colore nero tipo cioccolata amara, ne addentaiun angolo, aveva un sapore abbastanza simile a quello delle ca-stagne bollite, ma più acre, con un discreto retrogusto terroso. Illande cottu si mostrava leggermente più chiaro, piuttosto duro,attribuirgli un sapore era difficile, aveva il gusto aspro-amaro del-la ghianda, con un sentore di castagna. Sono trascorsi quasi venti anni, ed io continuo a pensare comeallora, che in quella cucina, in quel pomeriggio si sia svolto unrito, carico del significato che hanno le cose quando le personele padroneggiano a tal punto da divenire parte di esse.

Gli studi sul pane di ghiande

I pani di Sardegna suscitarono grande interesse sui primi scrit-tori, che a cavallo tra il 1700 e 1800 si avvicinarono alla culturaisolana con un atteggiamento rinnovato, e non poteva esserealtrimenti viste le molteplici qualità e quantità di forme di paneche poterono osservare.Altri furono i motivi che richiamarono l’attenzione sul pane dighiande; perché era preparato con acqua, ghiande, argilla rossa

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Non era stato davvero facile convincere zia Rosa Atzeni, 91 anni,di Baunei, a preparare per me su lande cottu e su lande e fitta (ilpane di ghiande). La mia amica Mariangela aveva insistito a lun-go per convincere sua nonna, che considerava alquanto origi-nale la richiesta di cucinare quel cibo ormai desueto, così lonta-no dalle abitudini quotidiane della propria tavola, ma ancoravivo nella memoria delle sue mani, e suppongo, molto di più, inquella del suo gusto. Dopo molta insistenza, zia Rosa accettò.La conobbi quello stesso giorno entrando nella sua cucina; erauna donna minuta, completamente vestita di nero, mostravasolo il volto e le grandi mani ossute poggiate sul grembo; la suaveste arrivava fino a terra e ricopriva completamente la seggio-la sulla quale era seduta, facendola apparire ancora più piccola.Mi guardava attraverso grandi occhiali, tra il curioso e il rasse-gnato, mentre si avvicinava per darmi il benvenuto; poi rag-giunse il tavolo ricoperto da un telo di orbace (tessuto di lana dipecora), dove sua figlia Annamaria Tegas, di 66 anni, aveva siste-mato una pentola, una scivedda (grande bacinella di terracotta)piena d’acqua, un panno bianco con dell’argilla rossa, e un car-toccio con circa un pugno di cenere.Iniziò quel pomeriggio la preparazione del pane di ghiande, unfaticoso lavoro che molte donne in Ogliastra hanno perpetuatoper secoli, sforzandosi di nutrire le proprie famiglie, quando per-sino l’orzo era un bene irraggiungibile; tuttavia il valore rituale re-ligioso attribuitogli, aveva allungato la sua sopravvivenza fino atempi molto recenti. Zia Rosa, in bauneese stretto, esordì spie-gando alla figlia ciò che doveva fare. Zia Annamaria, una donnaalta vestita di scuro, aveva su muncadore (fazzoletto) aperto sulviso fino a mostrare la scriminatura dei capelli ancora neri. Ese-guiva senza obbiettare le direttive della madre e non senza unapunta di disprezzo commentò di averlo mangiato da bambina,cussu pani (quel pane), ma di non saperlo preparare. Zia Anna-maria cominciò con il colare il trocco (l’argilla rossa) travasandolodentro la pentola lì accanto; una volta depurato, lo versò lenta-mente dentro la scivedda che conteneva l’acqua, poi con un me-stolo di legno mischiò a lungo gli ingredienti, fino ad ottenereuna miscela rossiccia. Zia Rosa ci spiegò che per dimezzare i tem-pi di cottura, aveva precedentemente fatto sistemare su caddar-giu (il paiolo di rame) sopra di un grosso fornello a gas, a sua vol-ta poggiato sopra un alto treppiedi, perché il solo fuoco delcamino avrebbe richiesto molte più ore di cottura. Quindi, madree figlia, presero insieme la scivedda, colma dell’infuso d’argillache avevano preparato, e lo versarono nel paiolo, serbandoneuna parte che avrebbero aggiunto più tardi. Zia Rosa, tornando asedersi sulla piccola seggiola, fece un cenno verso una sacchetta

di orbace accostata al camino; la figlia solerte la prese, avvicinan-dosi a me per mostrarmene il contenuto; mi disse che cussu lan-de (quelle ghiande) era già arridau (essiccato) e sbucciato, mi in-vitò a prenderne una manciata, e senza che io potessi proferireparola, si accostò al pentolone e unì a quella miscela rossa bol-lente tutte le ghiande tostate. Zia Annamaria prese a mescolarecon un robusto ramo di ginepro il contenuto del paiolo che bolli-va, e aggiunse lentamente la cenere filtrata, dicendo che era ne-cessaria per ammorbidire le ghiande, e che la madre aveva insi-stito perché provenisse dal forno dove era stato cotto il pane.Nel grosso recipiente bolliva una poltiglia schiumosa e nera. Lericerche di Angelino Usai1 mi tornarono in mente: l’acido tanni-co delle ghiande, combinato col ferro (silicato di alluminio), con-tenuto nell’argilla, avevano dato luogo al mutamento del coloredel “pappone”, che da bronzo rossiccio era adesso nero pece.Intanto nella grande cucina, l’atmosfera si animava di pari pas-so a su lande che bolliva, zia Rosa si lasciò andare a racconti del-la sua giovinezza, trascorsi in anni di indigenza, quando imparòa preparare e a nutrirsi di quel robusto alimento; non ricordavaneanche più perché e quando, molti anni addietro, avesse deci-so di non volerlo più preparare e mangiare.Avevo approfondito la conoscenza del pane di ghiande duranteil percorso della mia tesi di laurea sui pani cerimoniali con il prof.Alberto Mario Cirese e la prof.ssa Enrica Delitala. A diciassette an-ni dal lavoro di Usai, zia Rosa, per cui su lande cottu e su lande efitta erano stati parte del patrimonio usuale e quotidiano fin dal-l’infanzia e ancora ne facevano parte, era lì, disposta a lavorarloancora come una volta! Domandai loro che sapore ricordassero

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Pane di ghiande: un’intervista di venti anni faMaria Teresa Mazzella

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458. Zia Rosa Atzeni e zia Annamaria Tegas preparano il pane di ghiande, Baunei, 1987 (foto Donato Tore, archivio Ilisso).

459. Pani di ghiande, Baunei, 1987 (foto Donato Tore, archivio Ilisso).

460. Lande cottu, 8 cm, Baunei, 1987.

461. Lande e fitta, 7 cm, Baunei, 1987. 460

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«Le piante coltivate non smettono di viaggiare e di rivoluziona-re la vita degli uomini».1

Piante come il mais, la patata, il pomodoro, i peperoni, sono ar-rivate in Europa sicuramente dopo il 1492. Come tutte le novitànon si imposero subito, ma ebbero necessità di un periodo piùo meno lungo di sperimentazione, come anche dell’occasioneche ne rese inevitabile il loro inserimento nel complesso dellecoltivazioni agrarie e quindi nel ciclo di produzione e trasforma-zione finalizzato all’ottenimento di derivati da utilizzare nell’ali-mentazione sia umana che animale. Con l’introduzione di que-ste nuove colture in Europa nei secoli XVI e XVII si può parlare diveri e propri processi di “acculturazione alimentare”.2

Troviamo il mais nell’Andalusia, in Catalogna e nel Portogallonei primi anni del 1500; dalla Spagna passa in Italia dove, versola fine degli anni Trenta del Cinquecento e grazie ai traffici ma-rittimi dei veneziani, compare nel Polesine di Rovigo e nel bassoVeronese.3 In un primo tempo la coltura, spesso a fini ornamen-tali ma non solo, venne praticata soprattutto negli orti e neigiardini, mentre la coltivazione in pieno campo si ebbe più tardi.Proprio per il fatto che veniva coltivato negli orti e non in cam-po aperto e i contadini quindi non dovevano pagare decime oaltri tributi, il mais non ha lasciato molte tracce negli archivi.4

Dalla Spagna e dagli Stati italiani soggetti alla Corona spagnola,la coltivazione del mais si estese quindi rapidamente in tuttal’Europa meridionale.5

Il mais diventa il principale nutrimento del popolo. Ha dalla suaparte la forte resa, perciò il contadino mangia mais e vende gra-no, il cui prezzo è circa il doppio.6

Mais (Zea mays L.) è il termine della classificazione botanicaadottata da tutti gli autori moderni, e deriva da mahiz, nomeche Cristoforo Colombo trovò usato dagli indigeni a Hispaniola,mentre la voce italiana dell’uso comune è granoturco o grantur-co. Tale termine deriva dal fatto che all’epoca dell’introduzionedella pianta veniva comunemente usata la parola “turco” «perqualificare cose forestiere, straniere, venute da lontano, da luogoignoto; e così il volgo con “granoturco” volle intendere “grano fo-restiero”».7 Successivamente il mais venne anche denominatogranone, formentone, meliga, frumentone ecc. La Sardegna haadottato sia il termine italiano che quello spagnolo; infatti il maisin molti luoghi è chiamato triguindia, in altri trigumoriscu.Ma quando il mais venne introdotto in Sardegna? Viene natura-le pensare che ciò sia avvenuto molto presto dal momento chel’isola proprio nel XV secolo, era sotto la dominazione spagnola,ma ci si rende conto tuttavia che è difficile allo stato attuale del-le ricerche sostenere esattamente quando e come.

Secondo Felice Cherchi Paba sarebbero stati soprattutto i Car-melitani Scalzi a diffondere le piante provenenti dalle Ameri-che; negli orti dei conventi di Sassari, Alghero, Bosa, Oristano eCagliari, fin dal XVI secolo è possibile che siano stati coltivati lapatata come anche il pomodoro e il granturco.8

Nonostante queste premesse non si dispone di dati sulla colturadel mais nell’isola nei secoli XVI e XVII. Si deve arrivare alla fine del1700 e a ciò che il nobile sassarese Andrea Manca Dell’Arca scrissenell’opera Agricoltura di Sardegna (1780); apprendiamo che i sardiconoscevano il cereale chiamato da loro “Trigu d’India”, altrovechiamato meliga, grano indiano, o formentone, ma che comun-que se ne seminava «in tanta poca quantità, che serve più per di-letto, e vivanda de’ forastieri, che per comune utilità».9 Il “granod’India” nelle annate particolarmente favorevoli veniva impiegatocome cibo per galline, colombi e capponi. Dalla farina si otteneva«la pulenta, cibo grato a molti, e la povera gente la mangia cotta inpane».10 Giuseppe Cossu, Censore Generale per l’agricoltura, in unmanoscritto del 1780 sulla panificazione sarda, informa tra l’altrodei diversi tipi di pane confezionati in Sardegna, innanzitutto delpane di grano, ma anche di quello d’orzo, di ghiande e di mais.11

La situazione alimentare in cui versa la Sardegna alla fine del1700 è molto grave. I raccolti sono compromessi per la siccità eper le invasioni delle cavallette, mentre la popolazione è deci-mata dalle carestie e indebolita dalla malaria. Ciò nonostante iMonti Frumentari, introdotti nell’isola nel XVII secolo, e riorga-nizzati con i pregoni del viceré Des Hayes del 1767 e 1771, svol-gono un compito importante nell’agricoltura sarda, provveden-do ad anticipare sementi ai contadini poveri. La Direzione deiMonti Frumentari si impegna anche nella propagazione e diffu-sione della coltura del mais, distribuendo sementi ai comuni del-l’isola e curando la semina con tutti i mezzi a disposizione, tantoche, come ricorda Pietro Amat di San Filippo, alla fine del secolola coltura era abbastanza diffusa in alcune zone dell’isola come iCampidani di Oristano, il Sarrabus e l’Iglesiente.12

Nel 1804-1805, in seguito alla carestia che si abbatté sull’isola,Carlo Felice fece importare patate e granturco da semina perdiffonderli fra gli agricoltori e incrementarne la produzione.13

Anche il vescovo di Nuoro, Alberto Maria Solinas, per allontana-re le popolazioni della diocesi dalla miseria, in seguito ad unavisita pastorale nel paese di Ollolai, con un decreto in data 21ottobre 1805 si prendeva cura dell’agricoltura e dell’alternanzadelle colture: «Per cui se il terreno è atto al grano, orzo, fave, sipuò seminare altro seme, per esempio granone detto volgar-mente trigu de India o altra specie di legumi, per fare in modoche non rimanga, se possibil sia, un palmo di terreno incolto».14

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Il mais in SardegnaGerolama Carta Mantiglia

e poca cenere, e ad un primo sguardo, non sembrava poter ap-partenere alla categoria degli alimenti.La sua area di diffusione, poi, era individuabile soltanto in alcunipaesi, piuttosto isolati, della zona montana dell’Ogliastra, i cuitoponimi facevano pensare ad una loro origine preromanica,come Baunei, Triei, Urzulei, Villagrande, Arzana, Ilbono, Ulassai eIerzu. Cominciò così tra studiosi e viaggiatori illustri, una dissimi-le presa di posizione su questo cibo, considerato da alcuni deci-samente tossico e da altri salutare e benefico. Per i non addettiai lavori, esporrò alcune brevi citazioni tra le più significative,tratte dai testi, di chi scrisse sul pane di ghiande.Nel primo secolo d.C., Plinio il Vecchio2 riporta che nell’isola diSardegna si nutrivano di uno strano pane di gusto aspro. Il ca-nonico Francesco Cetti,3 nel 1774, riferisce: «Non sembra pan dauomo e pare fatto piuttosto per uccidere che per alimentare»;mentre padre Matteo Madao,4 non molti anni dopo, riferendosia chi si cibava di quel pane dice: «Ne sono contenti e che nelleloro ghiande ridotte in pasta trovano, il mangiar dolce che li faindifferenti al vero frumento».Paolo Mantegazza,5 nel 1869, indaga più a fondo: «Il pane dighiande è uno dei cibi più curiosi e che deve rannodarsi ad usoforse ai primi abitatori della Sardegna. Si fanno cuocere le ghian-de della quercia comune o da sughero per circa otto ore, aggiun-gendovi acqua in cui si è stemperata argilla finissima». Segue ladescrizione completa di come il pane di ghiande viene prepara-to, del suo sapore, di chi e quando lo consumerà, delle proprietàche la comunità gli attribuisce.Da questo momento gli autori, che scriveranno sul pane di ghian-de, lo percepiranno meno come un cibo strano, e sempre più co-me un fenomeno da analizzare, sebbene ancora con pregiudizi dicarattere nutrizionale. Nelle notazioni del Bollettino della SocietàGeografica Italiana, Osvaldo Baldacci,6 sostenuto da un lavoro dianalisi, afferma che coloro che si nutrono di pane di ghiande, so-no da considerarsi geofagi. Unico studio organizzato è quello di Usai: Il pane di ghiande e lageofagia in Sardegna, del 1969, dove sono riportati i brani signifi-cativi di quegli autori che hanno rilevato l’esistenza del pane dighiande dal punto di vista storico, geografico e culturale. L’ultimasezione del lavoro è una accurata descrizione della preparazionee dell’analisi chimica del prodotto finito, quest’ultima eseguitadal prof. Lorenzo Pazzaglia,7 dell’Università di Cagliari, finalizzataa smontare definitivamente la congettura di chi sosteneva l’ipo-tesi di geofagia in Sardegna. Il risultato ottenuto attribuiva alpane di ghiande un valore nutritivo ad azione rinfrescante; laprevalenza di silice e alluminio gli conferiva un effetto antitossi-co, in caso di disturbi intestinali di origine alimentare. AncheLuigi Farina,8 qualche anno prima di Usai, aveva sostenuto, inun suo articolo, che i sardi non erano mangiatori di terra.L’ultimo lavoro sul pane di ghiande è di Liana Secci,9 la sua ricer-ca è organizzata con il metodo dell’intervista rivolta ad alcunedonne anziane di Baunei, paese dove l’attaccamento a questocibo ha fatto sì che, ancora cinquant’anni fa, fosse uno degli ali-menti base del quotidiano. Mi sembra interessante proporne al-cuni stralci, perché contengono qualche elemento di novità. «Se i lecci crescevano nei luoghi dove c’erano rocce bianche, ifrutti erano migliori … l’unico mezzo per portarle a casa era sul-la testa … Alcune qualità di ghiande si potevano mangiare cru-de … alcune anche arrostite nella brace … Le ghiande … veni-vano stese in su cannissu per essere tostate … a Baunei eranochiamate land’e perra, quelle prodotte dalla quercus ilex … la ce-

nere presa solo dal forno del pane … l’argilla migliore era quel-la di Bau ’e Porcu e Pedr’e Pulige … Emerge … che se pur i pastoriportassero scorte di pane di ghiande all’ovile, non tutti lo man-giavano … e anche se tutte le donne lo facevano, alcune non lomangiavano … Una signora ultranovantenne ricorda che daUrzulei e dalla marina molti si recavano a Baunei per chiedereland’e perra (lande cottu), che si barattava con arance e prodottidell’orto». Queste di seguito le affermazioni di due intervistatedalla Secci: «Questo pane era duro e nero e aveva terra, eppurela gente era sana»; «aveva argilla e cenere, eppure lo mangiava-mo e non ce n’era così tanta di gente malata».A chiarimento del percorso fatto, è interessante osservare cheil pane di ghiande era chiamato, a Triei e Baunei, lande cottu(lande e perra) e lande e fitta; a Villagrande e Arzana, landi cuntroccu o coccoi e landiri ; a Talana e Urzulei lande chi abba e luduarrubiu ; a Ierzu coccoi in teula. La voce pan’ispèli cun trocco èpiuttosto rara, secondo Farina, con cui ebbi modo di parlarenel 1986, ad Arzana negli anni ’40-’50 era usata anche se rara-mente; egli farebbe derivare questa particolare denominazio-ne dal latino specchitilis, cioè “contenuto di stomaco di suino”,che pare abbia una certa somiglianza con su lande cottu.Possiamo supporre che le origini del pane di ghiande debbanoricercarsi in situazioni in cui la fame sia stata il vero motivo pro-pulsore; tuttavia, la sua preparazione e il suo consumo in alcunipaesi si procrastinò in tempi in cui vi era disponibilità di farinad’orzo, e persino di grano. Ed è evidente quanto questo pane sifosse caricato di un significato diverso da quello nutrizionale.Penso agli abitanti di Baunei e Urzulei, che di quel pane si nutri-rono in anni di carestia, ma mostrarono di essere genti sana e vi-gorosa. Continuarono a consumarlo, in tempi recenti, nella quo-tidianità assieme al pane di farina bianca, o in occasione di feste.Le donne lo portavano nei paesi vicini, dove pare fosse moltoapprezzato, orgogliose di vendere un cibo che rappresentava al-l’esterno loro, donne e uomini forti dalle antiche tradizioni.Un alimento salvifico, e di più arricchito della “madre terra”, nonavrebbe potuto non entrare nel campo della ritualità, riproporsinel tempo, al di là della necessità nutrizionale, entrare così atutto campo nell’ambito delle “cose” che non debbono solo ser-vire al loro uso primario, ma debbono anche significare e far cir-colare una certa immagine di sé.

Note

1. A. Usai 1969.

2. Gaio Plinio Secondo (detto Il Vecchio), Storia Naturale, Torino, Einaudi,1984, XVI, 12.

3. F. Cetti 1774, p. 47.

4. M. Madao, Dissertazioni storiche, apologetiche e critiche della sarde anti-chità, Cagliari 1792, p. 95.

5. P. Mantegazza 1869, p. 116.

6. O. Baldacci 1956, pp. 152-157.

7. L. Pazzaglia 1966, pp. 75-76.

8. L. Farina 1961.

9. L. Secci, Pane d’orzo e pane di ghiande. La panificazione tradizionale inOgliastra, tesi di laurea, Università degli studi di Cagliari, a.a. 1997-98.

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Nei primi anni dell’800, dunque, di granturco se ne seminava an-cora poco; alla fine del 1812 il prezzo era di 3 lire allo starello(contro le 5 lire e 15 soldi del frumento e 3 lire e 5 soldi dell’orzo)e se ne faceva poco commercio,15 il che fa pensare che la produ-zione fosse in parte destinata all’autoconsumo. Nella prima metà del XIX secolo, alla coltivazione del mais eranointeressati moltissimi centri, di cui si conoscono anche le quan-tità coltivate e in alcuni casi anche la resa; non sempre la piantaveniva coltivata in modo intensivo, ma spesso negli orti insiemead altre specie ortensi. La resa del mais era nettamente superio-re a quella del grano e dell’orzo e questo indusse i contadini a in-crementare la produzione che in molti casi supplì alla penuria digrano e orzo come per esempio a Ploaghe.16

Il viaggiatore inglese William Henry Smyth, nel 1828, fornisce ul-teriori informazioni sulla coltivazione del granturco, sul suo uti-lizzo e sul commercio: «Sebbene riesca bene a Campu Lazzari, aPadria, nel Meilogu, nel Sulcis e la sua coltivazione si stia esten-dendo ad altre parti dell’isola … è usato principalmente nellepietanze chiamate “minestra” e “polenta” ma non per fare il pane,ad eccezione di Fluminimaggiore, sicché la maggior parte, circa5.000-6.000 starelli, viene esportata».17

In Sardegna il granturco, comunque, nel XIX secolo non venivaconsumato esclusivamente sotto forma di polenta, ma in moltis-simi centri utilizzato per la panificazione, specialmente quando ilfrumento era scarso; soprattutto nel Logudoro, dove il granturcoera coltivato in quantità superiori al resto dell’isola, se ne facevadel pane, pane ’e trigu india, il cui nome viene riferito per la primavolta dal folklorista Giuseppe Calvia nel 1893.18

Tutti gli studi sulla panificazione in Sardegna hanno messo in ri-lievo il quasi esclusivo utilizzo del grano e dell’orzo ma si è sol-tanto fatto cenno al pane di granturco, diffuso nel secolo scor-so, fino al secondo dopoguerra, in molti centri del Logudoro. Nessuna documentazione quindi sul pane di granturco emergedai numerosi studi compiuti a partire dal 1966, anno di pubblica-zione del primo numero del Bollettino del Repertorio e dell’AtlanteDemologico Sardo (BRADS) in cui si dava notizia di un sondaggioin corso sui tipi e le denominazioni del pane in Sardegna. A parti-re da quella data numerose sono state le pubblicazioni sull’argo-mento.19

Nonostante il consumo del pane di frumento fosse decisamentesuperiore, tuttavia nel primo trentennio del 1900 il pane di gran-turco era largamente consumato in molti centri della provinciadi Sassari, come emerge dall’indagine effettuata nel 1934 daClaudio Fermi sulle condizioni alimentari della popolazione.20

Un paese campione per il ciclo del granturco: Ittiri

Non si conosce il periodo in cui è stata introdotta la coltivazionedel granturco a Ittiri, ma è accertata per il 1800. Scrive VittorioAngius nel 1841: «Il terreno è in gran parte atto a’ cereali, e pro-duce copiosamente, se non iscarseggino le piogge primaverili.Si seminano starelli di grano 3500, d’orzo 1400, di lino 350, digranone 100, di legumi 150».21 Se confrontata alla quantità digrano e d’orzo seminate quella del mais, soltanto 100 starelli,appare abbastanza modesta. In tutta la Sardegna negli anni Trenta del secolo scorso si ebbeun incremento della coltivazione del granturco; secondo i datidel 1938 la varietà “maggengo” veniva coltivata su una superfi-cie complessiva di 7.206 ettari di cui 5.445 in provincia di Sassarie 1.151 ettari in quella di Cagliari. Negli anni Quaranta si ebbeuna certa contrazione, dovuta soprattutto alla guerra e quindi

alla scarsità della manodopera maschile, tanto che nel 1946 lasuperficie coltivata era di 4.500 ettari.22

La coltivazione del granturco per la panificazione domestica ècontinuata fino agli anni Cinquanta.

Preparazione della farina e della polentaAnalogamente a quello di grano il macinato integrale di gran-turco veniva sottoposto a vari procedimenti di raffinazione perottenere diversi tipi di farina. La setacciatura non differiva daquella praticata per la farina di grano e gli strumenti usati per lavagliatura erano quelli di uso generale: un grande canestro (sucanisthreddhu), un supporto di legno su cui far scorrere il setac-cio (s’ippoddhinajola), tre setacci circolari con rete a maglie piùo meno fini; il primo setaccio (su sedattu russu) eliminava i pe-duncoli (so’ runco’ russos, su fulfere), il secondo la polenta grossa(su farre), il terzo la polenta sottile (su farre fine) che veniva uti-lizzata sulla pala durante la cottura del pane di granturco; il fiordi farina (sa farina vine) che si depositava sul canestro venivautilizzato per la panificazione. A volte, però, il macinato utilizza-to per la polenta era più grossolano e la polenta veniva separa-ta dalla crusca mediante un piccolo canestro (sa canistreddha)con movimenti rotatori.

Pane ’e triguindiaA Ittiri la maggior parte delle famiglie, fin oltre la metà degli anniCinquanta, panificava a casa settimanalmente. Si consumava so-prattutto pane di grano, in misura minore pane d’orzo e pane digranturco. Il pane di granturco, poiché induriva velocemente edoveva essere riscaldato sulla brace prima della consumazione,si confezionava principalmente nei mesi invernali (pane ’e ierru).Non sostituiva il pane di grano e il pane d’orzo, ma integrava talipani per qualche giorno. Dalla ricerca sul terreno emerge chetutte le famiglie ittiresi panificavano farina di granturco.La quantità di pane di granturco era comunque sempre infe-riore a quella di grano, per esempio se si impastavano 60 kg difarina per ottenere pane, 40 erano di grano e 20 di granturco.Per ottenere pane di granturco si mescolava metà farina di gra-no e metà farina di granturco, in alcuni casi la proporzione diquest’ultima era nettamente inferiore e ciò dipendeva dallecondizioni economiche della famiglia; i poveri che non posse-devano grano in abbondanza mischiavano 2/3 di farina digranturco e 1/3 di farina di grano. L’unione dei due tipi di farinaera indispensabile in quanto la sola farina di granturco poveradi glutine non amalgamava bene (no kullìgada). Per preparareil lievito (madrighe), la sera della vigilia del giorno stabilito perla panificazione, in un piccolo recipiente (botto), in cui era statamessa della farina, si versava il liquido del fermento (fremmen-taldzu), sciolto precedentemente in acqua tiepida; si mescolavail tutto ottenendo un impasto morbido e si ricopriva con altrafarina. Il composto veniva lasciato lievitare per tutta la notte,coperto con panni di lana. Al mattino presto si procedeva allapanificazione. Dentro una conca di terracotta (lebbreri ), in cuierano stati versati i due tipi di farina, si univa il lievito, un pizzicodi sale sciolto in acqua tiepida e si mescolava bene l’impasto(cumassu). Si procedeva alla lavorazione premendo con forzacon le mani chiuse a pugno e aggiungendo acqua tiepida finoad ottenere un impasto morbidissimo. Le donne lavoravanol’impasto stando in ginocchio su una piccola stuoia di erbe pa-lustri (sa udigeddha) e quando era pronto con le dita si facevauna croce e si lasciava lievitare (pesare) fino a quando la croceimpressa non si disfava.

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Note

1. F. Braudel 1982, p. 135.

2. T. Seppilli 1994, p. 9.

3. Enciclopedia Agraria Italiana, Roma, Reda, 1954, vol. II, s.v. Cereali, p. 513;F. Braudel 1982, p. 136; J.L. Flandrin 1999, pp. 432-433.

4. J.L. Flandrin 1999, p. 433.

5. Enciclopedia Agraria Italiana, Roma, Reda, 1972, vol. VII, s.v. Mais, p. 6;L. Massedaglia 1927; L. Massedaglia 1932.

6. F. Braudel 1982, p. 138.

7. Enciclopedia Italiana Treccani 1951, vol. XXI, s.v. Mais, p. 970.

8. F. Cherchi Paba 1974-77, vol. III, p. 102.

9. A. Manca Dell’Arca 2000, p. 89.

10. A. Manca Dell’Arca 2000, p. 90.

11. Manoscritto del 1780 di Giuseppe Cossu, in G. Murru Corriga 1993,p. 18.

12. P. Amat di San Filippo 1902, p. 146.

13. F. Cherchi Paba 1974-77, vol. IV, p. 223.

14. A.M. Solinas, Libro delle circolari di mons. Solinas, citato da S. Bussu 1996,p. 160.

15. F. D’Austria-Este 1934, p. 231.

16. V. Angius 1833-56, vol. XV, 1847, s.v. Ploaghe, p. 447.

17. W.H. Smyth 1998, p. 120.

18. G. Calvia 1894, p. 482.

19. In quasi tutti i numeri di BRADS sono presenti saggi sulla panificazione.

20. C. Fermi 1934.

21. V. Angius 1833-56, vol. VIII, 1841, s.v. Iteri-Cannedu, p. 565.

22. E. Pampaloni 1947, p. 134.

23. Per un maggiore approfondimento sul pane di mais si veda G. CartaMantiglia 1999, 2000 e 2003.

462. Trighindille, 14 cm, Paulilatino, 2002, Museo Civico “Palazzo Atzori”.

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Nel frattempo si preparava il forno utilizzando arbusti di lentischio(chessa), cisto (mudeju) o sarmenti (sammentu). La temperaturadel forno per la cottura doveva essere molto alta e veniva tenutacostante lasciando su un lato dei ramoscelli sempre accesi (safake). Se si raggiungeva una temperatura ottimale il pane cuoce-va bene, in caso contrario si sgranava e si diceva: «su pane sindhe’ rìsidu», il pane si è preso beffa delle panificatrici. Generalmente erano due donne ad occuparsi della cottura; unasistemava l’impasto nella pala e lo modellava e l’altra lo inforna-va. Dal recipiente la donna, dopo aver bagnato bene le mani inacqua calda, prelevava una certa quantità di impasto alla qualecercava di dare forma tondeggiante con superficie liscia. Dopoaver cosparso la pala (sa pala ’e iffurrare) di farina grossa di gran-turco, utilizzando entrambe le mani si appiattiva l’impasto (illa-diare) fino a fargli assumere una forma ovale allungata che occu-pava tutta la superficie della pala e con uno spessore di qualchecentimetro. Con l’indice di entrambe le mani venivano praticatidei fori in numero variabile da cinque a sei (sei lungo la circonfe-renza oppure due per parte nei lati corti e uno al centro), in mo-do da impedire che il pane si gonfiasse eccessivamente. L’altradonna introduceva la pala nel forno e dopo averla leggermenteinclinata faceva scivolare lentamente il pane nel piano di cotturacercando di allungarlo. Se l’ultima operazione non era stata ese-guita in modo corretto, il pane dopo la cottura appariva tozzo, sidiceva insaccadu o ammazzonadu. Si ottenevano dei pani molto grandi e infatti nel forno trovavanoposto sette/otto pani soltanto. Appena sfornato, veniva ripulitocon una scopetta, e dopo averlo fatto raffreddare, conservatodentro la cassapanca (su cascione) per un periodo massimo di7/8 giorni.A Ittiri si è mangiato pane di granturco fino agli anni Cinquan-ta, intorno agli anni Settanta ancora qualche famiglia confezio-nava il pane a casa, anche se nel paese non c’erano più moliniper la molitura. Attualmente non si panifica più a livello dome-stico né pane di granturco, né pane di grano.

Conclusioni

Si può in conclusione affermare che sebbene molto diffusa, so-prattutto ma non solo fra i ceti meno abbienti, in Sardegna l’uti-lizzazione del mais a scopo alimentare (panificazione, polenta)presenti caratteri che la differenziano sostanzialmente rispettoalle regioni italiane del centro nord. In primo luogo il mais vieneutilizzato nell’isola anche per la panificazione seppure in asso-ciazione – in percentuali variabili – con la farina di grano, ciòche non è avvenuto per la penisola dove l’uso del mais appareconfinato soprattutto alla polenta.Il pane di mais ha in Sardegna tempi di utilizzazione limitati alperiodo invernale e primaverile, con esclusione dell’estate edel primo autunno per il fatto che le alte temperature avrebbe-ro reso il pane eccessivamente duro e inutilizzabile nell’alimen-tazione umana.Altra considerazione da fare è che il pane di granturco a distanzadi qualche giorno dalla sua confezione risultava quasi immangia-bile se non preventivamente riscaldato sul fuoco che solamentenella stagione fredda veniva tenuto acceso per l’intera giornata.Infine il diffuso ma sostanzialmente contenuto consumo di po-lenta e l’associazione della farina di mais con quella di granohanno fatto sì che la Sardegna non abbia conosciuto la gravepatologia della pellagra che invece ha caratterizzato per lungotempo le regioni peninsulari in cui la polenta rappresentò la ba-se dell’alimentazione umana.23

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Perché l’orzo diventi pane. I saperi femminili perdutiGiannetta Murru Corriga

464463. Ghimisone, 20 cm, Oliena.

464. Ghimisone, 22 cm, Nuoro.

A differenza del grano, che è un cereale nudo, l’orzo è un cerea-le vestito; e da questa diversità, dalla connaturata ritrosia a spo-gliarsi delle glume che lo rivestono è derivato il proverbiale trat-tamento riservato all’orzo destinato all’alimentazione umana.Destino caduto nell’oblio dacché la panificazione dell’orzo, al-cuni decenni or sono, fu definitivamente abbandonata. Alla ric-chezza tipologica e morfologica del pane di grano fa infatti ri-scontro l’estrema sobrietà dei tipi e delle forme del pane d’orzo.Fino agli anni Cinquanta i tipi di pane de orzu o de orgiu, confe-zionati nell’isola erano sostanzialmente tre: carasau o fresa, pi-stoccu, moddizzosu7 o moddighina. Più diffusamente consumato rispetto al grano, l’orzo era infattiil solo cereale che il suolo avaro della montagna concedesse inquantità sufficiente al fabbisogno delle comunità locali. Se è ve-ro che in generale la distinzione fra ricchi e poveri passava in-nanzitutto attraverso la distinzione fra chi consumava pane digrano e chi consumava pane d’orzo, ciò è un po’ meno vero perle comunità rurali dell’interno dell’isola, nelle quali si praticavala pastorizia transumante e dove il consumo del pane d’orzo erageneralizzato e comune, in qualche misura almeno, a tutti i cetisociali.8 Prodotto nei villaggi della montagna centrale (Barba-gia), il carasau si confezionava in due varianti: orgiathu o olgiat-tu, di pura semola d’orzo, o anche di semola e farina mescolatein percentuali variabili; tippe o pan’e granuga, di farine integrali,oppure di semola e cruschello. Prodotto in zone di bassa montagna, prevalentemente in Oglia-stra e nel Gerrei, il pistoccu, a sfoglie biscottate più piccole espesse, di più breve durata, era prodotto con farina e semolad’orzo, e più spesso con la sola farina. Sia il carasau sia il pistoccupotevano essere confezionati anche con sfarinati misti di orzo egrano, in percentuali variabili. La panificazione dell’orzo e l’elaborazione tipologica dei pani so-no da riconnettere a fattori vari: le risorse cerealicole localmentedisponibili; le varietà di orzo selezionate; i lieviti, d’orzo o di gra-no; i procedimenti tecnici adottati; non ultimo, lo stile di vita dellecomunità pastorali e le esigenze di consumo dei pastori nomadi.Mentre rinvio, per una più precisa e ordinata descrizione delprocesso della panificazione dell’orzo, ad un mio scritto prece-

dente,9 in queste brevi note mi propongo di richiamare l’atten-zione su alcune differenze operative che contribuiscono a pro-durre, in due regioni contigue, pani biscottati simili ma in qual-che misura diversi.Il carasau e il pistoccu di orzo, infatti, pur avendo molte caratteri-stiche comuni sono anche diversi, e tali sono considerati da chi liconfezionava e consumava. A ripercorrere oggi il processo dellapanificazione dell’orzo appaiono più duri, per dirla sotto metafo-ra, i “maltrattamenti” che le ogliastrine devono infliggere all’orzoperché diventi pistoccu, rispetto ai maltrattamenti che le barbari-cine gli devono infliggere perché diventi carasau. Di queste dif-ferenze manca, nelle donne stesse, una precisa consapevolezza.La trasformazione dell’orzo in pane a lunga conservazione harichiesto l’elaborazione di un complesso sistema di conoscen-ze empiriche che si esplicano: nella selezione di varietà ritenu-te più adatte alla panificazione; nelle lunghe operazioni preli-minari rivolte a spogliare l’orzo dalle glume che lo rivestono;nell’uso di un lievito “speciale”; nella manipolazione e messa informa della pasta, fino alla duplice cottura dei pani. Tenteremo di individuare relazioni tra saperi ed efficacia tecni-ca, e di ipotizzare connessioni tra morfologia dei pani e proce-dimenti per la loro realizzazione, facendo emergere, laddovepossibile, l’esistenza di conoscenze e saperi impliciti che, tradu-cendosi in gesto tecnico, non trovano tuttavia formale espres-sione nel linguaggio verbale. Concordemente l’orzo è da tutti ritenuto un cereale adatto an-che ai suoli meno profondi e soleggiati, che si accontenta di po-che cure: «carrasame su nasu e lassami in pasu» (sfregami il nasoe lasciami a riposo, suona ancora un detto barbaricino). Le cu-re10 si limitavano nel passato ad una zappatura tra marzo e apri-le, senza diserbo; a luglio avveniva la raccolta. Questa potevaessere più tardiva, ad agosto, se in famiglia scarseggiava la ma-nodopera femminile (in Barbagia tutto il ciclo, tranne la semina,era di competenza femminile) e la manodopera familiare dove-va far fronte ad altre necessità. Alla panificazione veniva destinato quello che viene generica-mente denominato orgiu sardu (orzo sardo), e che, come sug-geriscono i genetisti agrari, potrebbe corrispondere ad una o

Seppure per secoli il grano ha avuto un posto centrale nell’eco-nomia della Sardegna, la più recente ricostruzione storica dellevicende commerciali isolane e dei meccanismi di sfruttamentocoloniale di questa derrata suggeriscono che produzione e con-sumo del grano non abbiano sempre avuto, nella vita dei sardi,storie parallele. Secondo lo storico J. Day, infatti, sotto il dominiodi Pisa e Genova (XIV secolo), della produzione locale dei cerealirestavano ai coltivatori sardi i 5/6 del raccolto dell’orzo, e soltan-to 1/6 del raccolto del grano. La Sardegna, pertanto, «doveva es-sere ridotta a consumare quasi esclusivamente orzo, mentre ilgrano, vera derrata coloniale, veniva indirizzato, al mercato citta-dino e internazionale».1

Si può anche ipotizzare che la panificazione dell’orzo in Sardegnasia divenuta marginale solo in epoca moderna. Nel XVII secolo,

infatti, il governo coloniale spagnolo attuava nell’isola una politi-ca agraria mirante ad intensificare la produzione del grano, e cheindirettamente portò a concedere una quota maggiorata di que-sta derrata ai produttori locali e al consumo interno dell’isola.2

Risalgono alla seconda metà del Settecento le prime dettaglia-te informazioni sulla produzione e sulla panificazione dell’orzo.Rispetto al frumento, nota Manca Dell’Arca, l’orzo è cereale diminor pregio e valore, perché ha una più bassa resa in grani e infarine, e tempi di conservazione di molto inferiori; offre tuttaviaanche qualche vantaggio: si coltiva dappertutto e con minor fa-tica, e si presta ad una diffusa, sana alimentazione sotto formadi minestre rinfrescanti: «Solo si conosce d’una sorte o qualità,cioè, del commune, che fa le spighe irsute con la tonica, o veste,che dal grano non si distacca, poiché di quell’altra spezie, chechiamano orzola, o dell’orzo di Francia di qualità frumentacea,non trovasi qui … Non è però grano di molta durata, mentre sesi lascia più d’anni due, rimangono solo le gusce: quello che èdestinato per convertirlo in farina, è meglio macinarlo subito

raccolto, perché si sperimenta vantaggio nella quantità, pe-so e qualità della farina.

Non è in tanta stima la farina dell’orzo per pane, sicco-me per minestra, fresca e salutevole, massime d’esta-

te. Ne i villaggi di montagna la povera gente man-gia di questo pane in mancanza di frumento».3

Ad un diffuso uso alimentare dell’orzo4 nell’iso-la fa riferimento, negli stessi anni, il Censore

Generale Giuseppe Cossu nella sua Memoriadel 1780: «L’orzo serve per tre oggetti, unoper far, durante l’estate, la minestra detta difarro rinfrescante, e saporita, altri, quan-tunque pochi, ne fanno le orzate, e con-serve, ed in molte ville per farne pane,usanza della quale ne abbiamo memoriain diversi tratti della Sagra Scrittura, che inpiù luoghi non tanto mangiano nell’esta-te, ma eziandio tutto l’anno, o di pura fari-na d’orzo, o meschiandola chi col terzo,chi colla metà, e chi con due terzi di farina

di fromento».5

«Ti facan che ass’orzu». «Non augurare mai anessuno la sorte dell’orzo. Non dico di quella

che gli tocca come biada alle bestie, ma diquell’altra che consiste in tanti maltrattamenti,

uno dietro l’altro, e di altrettante torture, perchédiventi pane».6463

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Page 124: Pani

delle pareti del forno, e infine si mette a “maturare” dentro un ca-nestro coperto con teli di lana. Si ottiene, con questo lungo pro-cesso, nella parte interna e morbida del ghimisone, la fermenta-zione di microrganismi e l’attivazione di enzimi che, mescolatiall’impasto di semola e acqua, lo renderanno manipolabile edelastico, e atto alla panificazione. Un ghimisone, che normalmente aveva il peso di cinque chilo-grammi, era sufficiente per panificare due starelli di orzo (80 kg),e il numero di ghimisones variava a seconda della quantità com-plessiva di semola da confezionare.Il pane ’onu, ottenuto anch’esso da un impasto non lavorato disemola (farigu) e acqua, aveva forma di pagnotta. Variava la tec-nica di cottura: a Urzulei, infatti, come in Barbagia, si usava farlocuocere al forno, a Baunei e a Talana, invece, si faceva cuocerein su testu (Baunei) o preda ’e pane ’onu (Talana), piccola lastra di

granito collocata sopra un treppiede e riscaldata alla brace.Confezionato con un chilogrammo di semola, un pane ’onu erasufficiente per lavorare dieci chilogrammi di farina, da cui si rica-vavano trenta spianate, che una volta cotte, divise in due sfogliee biscottate avrebbero prodotto sessanta pezzi di pistoccu. Ap-pena cotto il pane ’onu veniva bagnato con acqua tiepida, fram-mentato e infine posto in un secchiello di sughero, su tulbiu, ac-curatamente coperto con teli di lana. I frammenti del pane ’onuvenivano conservati fra due strati di foglie di carrubo che avreb-bero reso il pane “dulce e bonu”.Nella preparazione del pistoccu, all’impasto di farina d’orzo e dipane ’onu si aggiungeva sempre il lievito di grano, su prementu.Questo era normalmente disponibile perché la gran parte dellefamiglie panificavano settimanalmente anche piccole quantitàdi frumento.

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ad una serie di varietà locali, con origini antiche e complesse, al-le quali gli agricoltori attribuiscono il nome generico di orgiusardu o olgiu saldu, e che presentano come caratteristiche di-stintive comuni una taglia molto alta, una spiga lassa polisticaed in particolare la porzione prossimale della resta che rimanesaldamente legata al lemma anche in seguito alla trebbiatura.11

Le donne, soprattutto le donne barbaricine, distinguevano co-munque differenti tipi di orzo ed erano attente alle qualità chepotevano dare maggiore resa in pane. A Fonni, dove sono piùelevate sas terras de orgiu (le terre da orzo), a s’orgiu melangiu(orzo pallido) prodotto nel Campidano si preferiva l’orzo pro-dotto nella montagna, nel quale distinguevano due “varietà”:orgiu hodi longu (orzo a coda lunga) o orgiu langiu (orzo magro),ricco in farina; orgiu ishodau (senza coda) con granello piccolo erotondo avvolto da piccole glume, più ricco in semola, di granlunga preferito al primo. Secondo le panificatrici ogliastrine l’or-zo era tutto a “coda lunga”; distinguevano però anch’esse diversitipi: orgiu sardu o antigu (con granelli più piccoli ma più sapori-ti), orgiu ’e Drugale (orzo di Dorgali) e orgiu ’e casta. Quest’ultimo,si dice: «portato da fuori, fruttava di più, faceva più farina, maera anche meno gustoso».Prima della molitura, l’orzo veniva purgato e poi fatto arridare oassare, e cioè essiccare, in un forno ben caldo ma spento. Diver-samente dal grano duro che doveva essere bagnato, prima del-la macinazione l’orzo non solo non poteva essere bagnato (co-me del resto il grano tenero) ma doveva essere essiccato. Solol’essiccazione rende possibile la separazione delle cariossidi dal-le glume che le ricoprono, e dalle quali si produce con la moli-tura una crusca assai grossa (ilingione), utilizzabile solo comealimento per i cavalli. L’essiccazione dell’orzo produce però un effetto collaterale, nonvoluto e, per quanto ci risulta, ignorato dalle donne: priva le ca-riossidi della capacità germinativa, più precisamente di quell’in-turgidimento che si produce nel grano duro quando viene ba-gnato, dal quale deriva un aumento del glutine, al quale si devel’elasticità e plasticità della pasta lavorata. La proverbiale difficoltà a trasformare l’orzo in pane, dovuta aduna sua intrinseca diversità, il vestito, sarebbe dunque in realtàin grande misura indotta dai modi culturali della sua trasforma-zione per il consumo umano, e precisamente dall’essiccazione,il primo “duro trattamento” riservato all’orzo; che favorisce l’eli-minazione delle glume, rendendolo adatto al consumo umano,ma nel contempo abbassa il grado di umidità dei granelli ini-bendone la spontanea capacità germinativa. Perché l’orzo di-venti pane è necessario reintegrare o risuscitare proprio questacapacità, e a ciò ha provveduto, come vedremo, la scienza em-pirica delle donne sarde con l’invenzione di un lievito d’orzo, sughimisone o pane ’onu.In Ogliastra l’orzo veniva sottoposto, dopo l’essiccazione, ad unmaltrattamento ulteriore, sa pistadura : riempito un sacchettocon una certa quantità di orzo, questo veniva energicamentesbattuto sullo scalino della porta di casa oppure sopra un sas-so.12 Tale trattamento, affermano le anziane donne d’Ogliastra,era indispensabile per favorire la separazione delle “codette” dal-le cariossidi, da sottoporre poi ad una ulteriore cernita. A questaoperazione era destinata sa saccedda de pistare orgiu (Baunei) osaccedda de strumpai (Talana) o saccu po scoai s’orgiu (Sadali),sacco di pelo di capra appositamente confezionato al telaio dal-le donne. Sa pistadura non veniva però esercitata in Barbagia;non solo nei paesi come Fonni, dove le donne hanno seleziona-

to una varietà di orzo con granello piccolo e rotondo, “senza co-da” e rivestito da piccole glume, ma neppure in quei paesi, comeTeti, dove si panificava solo orzo a “coda lunga”. Sono state dun-que diverse, in Sardegna, le soluzioni adottate per rendere nudoun cereale vestito, problema cruciale cui la scienza agronomicacerca oggi di rispondere con la cosiddetta “perlatura” dell’orzo econ interventi di ingegneria genetica. A Fonni, dove il pane quotidiano era per tutti, ricchi e poveri, s’or-giathu, ogni sei mesi, dunque due volte all’anno, in concomitanzacon la partenza e col ritorno dei pastori dalla grande transuman-za, le donne erano costrette, per molte settimane consecutive, apanificare grandi quantità d’orzo. Ciò spiega probabilmente l’in-teresse delle donne, impegnate anche nel lavoro della campagna(cerealicoltura e orticoltura), a selezionare una varietà di orzo cherendesse loro meno gravosa la panificazione. A Teti, dove i pastori praticavano una transumanza di corto rag-gio, le donne panificavano con intervalli di due o tre mesi sa fre-sa, sia di grano sia di orzo; cosa che rendeva forse la panificazio-ne dell’orzo meno gravosa che a Fonni, e di conseguenza menopressante il problema della “coda”dell’orzo.In Ogliastra le donne panificavano, con cadenza settimanale,13

oltre il grano e l’orzo anche le ghiande, sottoposte anch’esse a pi-stadura nella saccedda de pistare orgiu. Le donne ogliastrine, piùdirettamente legate al lavoro domestico e artigianale (la manifat-tura e vendita delle sacceddas assicurava a molte un sia pur pic-colo introito), erano verosimilmente più interessate a sfruttare afondo una tecnica comunque usata per le ghiande, sa pistadura,piuttosto che ad ottenere dai loro uomini (ai quali era affidata lacerealicoltura) la selezione di una varietà d’orzo più leggermentevestita.

Pani, lieviti e farine

Almeno dal Settecento fino alla metà del Novecento, quando sidiffondono ovunque nell’isola i mulini elettrici, la macinaturadei cereali veniva normalmente fatta in Barbagia con i mulini adacqua e in Ogliastra invece con le mole asinarie. Attestato siadalle testimonianze orali sia dalla cartografia,14 nella quale nes-sun mulino idraulico viene segnalato per l’Ogliastra, questo fattopone un interessante interrogativo sui caratteri specifici dell’am-biente tecnico ogliastrino, dato che le condizioni idro-orografi-che sono generalmente favorevoli allo sfruttamento dell’energiaidraulica. La spiegazione del mancato impianto dei mulini vadunque cercata altrove, forse nelle condizioni produttive e nellepratiche alimentari della regione, dove una popolazione scarsa edistribuita in comunità isolate fra loro si alimentava in grandemisura, ancora nella prima metà del Novecento, del prodotto diuna cerealicoltura povera, integrata dalla panificazione delleghiande. Dove, cioè, l’esiguità della quantità annua di cereali damacinare non era tale da giustificare l’abbandono della stru-mentazione tradizionale, a favore di un’innovazione tecnologicaad alto tasso di investimenti.15

Sia in Barbagia sia in Ogliastra la panificazione dell’orzo presup-poneva l’uso del lievito d’orzo: su ghimisone per l’orgiathu e su pa-ne ’onu per il pistoccu. Al di là dei modi diversi di denominarlo, sitratta fondamentalmente dello stesso tipo di fermento, la cui pre-parazione poteva però comportare operazioni in parte diverse. Sorta di grande focaccia, su ghimisone si ottiene col semplice im-pasto, non lavorato, di semola ed acqua. Si inforna nel forno mol-to caldo, ma senza fiamma o braci, fino alla formazione di unacrosta bruna. Si lascia raffreddare, per giorni, al lento raffreddarsi

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465465. Hiagliu, 41 cm, Oliena.

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Per quanto riguarda invece l’orgiathu la situazione era più varie-gata: poteva essere confezionato col solo ghimisone (Fonni, Ga-voi, Orotelli), oppure anche col prementu di grano (Teti, Dorgali,Nuoro). Non è chiaro se il ricorso al solo ghimisone sia da porre inrelazione con l’uso di sola semola d’orzo, come di fatto era a Fon-ni e a Gavoi, e se l’aggiunta del prementu di grano sia da porre inrelazione con l’uso di semola e farina, come di fatto era a Teti eDorgali. Come pure resta da chiarire perché il lievito d’orzo, chesi chiami ghimisone o pane ’onu, sia sempre confezionato con lasemola e mai con la farina. Possiede, la prima, superiore efficaciafermentativa rispetto alla seconda?Il pane ’onu è considerato dalle donne ogliastrine un “legante”piuttosto che un lievito, come viene invece definito su prementudi grano. In Barbagia il ghimisone viene anch’esso definito un “le-gante”nei paesi dove la panificazione relativamente regolare delgrano, come a Teti, permette l’aggiunta del prementu di grano,mentre a Fonni, dove raramente veniva panificato il grano e do-ve dunque non si disponeva normalmente del prementu, il ghi-misone è considerato, allo stesso titolo, legante e lievito. Le donne sanno perfettamente che l’essiccamento agevola l’eli-minazione delle glume; non sanno, però, che esso ha anche uneffetto negativo: l’impoverimento del glutine, da cui conseguela difficile manipolazione e lievitazione della pasta. Il ghimisone e il pane ’onu, sciolti e mescolati nell’impasto di fari-ne d’orzo apportano i fermenti necessari perché il miracolo sicompia, trasformando l’impasto in pasta e questa in pane. Il ghi-misone/pane ’onu supplisce alla mancanza di glutine fornendoalla pasta la capacità di lievitare “naturalmente” ma lentamente;come ben sanno le donne di Fonni, che dovevano spesso ricor-rere alla benedizione del prete o alle pratiche contro s’ocru maluper sollecitare la pasta a sollevarsi. Il prementu di grano, quandole condizioni ne consentono l’uso, ha invece, probabilmente, lafunzione di rafforzare l’azione del lievito d’orzo e di accelerare itempi di fermentazione della pasta.In Sardegna oggi non si produce orzo per la panificazione maesclusivamente per l’alimentazione animale.16 I grandi cambia-menti intervenuti nella vita economica e sociale a partire dal se-condo dopoguerra, e il benessere generale che ne è derivato,hanno infatti determinato profondi mutamenti nello stile di vitaanche alimentare delle comunità rurali. Il grano, che proviene or-mai in grande misura dal mercato esterno, è un bene alla portatadi tutti i ceti sociali, e i pastori, perché divenuti sedentari o co-munque agevolati nella mobilità dalla meccanizzazione dei tra-sporti, non dipendono più, per la loro alimentazione, dal pane alunga conservazione. Consumano ancora il carasau e il pistoccudi grano, di più breve durata rispetto al carasau e al pistoccu d’or-zo, per adesione ad una radicata consuetudine che sempre me-no ha però riscontro nelle esigenze della vita materiale di oggi.Le anziane panificatrici concordemente affermano che gli sfari-nati prodotti dalle macchine preindustriali e separati con la stac-ciatura domestica erano di qualità superiore rispetto a quelli pro-dotti con la macinazione e stacciatura industriali, eccessivamente“riscaldati” e di grana troppo sottile, poco adatta a produrre le se-mole necessarie alla confezione di tipi diversi di lieviti e di pani. Il pane biscottato di orzo, più difficilmente ottenibile, sembra,anche con le farine di produzione industriale, viene abbandona-to. Certamente il sapore “austero” del pane d’orzo (come in ge-nerale il sapore dei cosiddetti “cereali poveri”) può aver contri-buito anche a dare, sotto il profilo alimentare, minore prestigiosociale e più scarsa carica simbolica all’orzo rispetto al grano.

Il venir meno delle ragioni che per secoli avevano sostenuto lapanificazione dell’orzo ha reso dunque antieconomico il lungo,complesso e faticoso lavoro delle donne, lasciando desueta eignorata la loro scienza empirica. Si va però profilando oggi, grazie al rilievo dietetico e anche te-rapeutico attribuito dalle scienze dell’alimentazione ad alcunicomponenti dell’orzo, un’inversione di tendenza nelle scelte enei gusti alimentari diffusi che potrebbe costituire la premessaper un rilancio della panificazione dell’orzo.

Note

1. J. Day, “La Sardegna e i suoi dominatori dal secolo XI al secolo XIV”, inJ. Day, B. Anatra, L. Scaraffia, La Sardegna medievale e moderna, Torino1984, p. 456.

2. B. Anatra, “Economia sarda e commercio mediterraneo nel basso me-dioevo e nell’età moderna”, in Storia dei sardi e della Sardegna. L’età mo-derna, vol. III, 1989, pp. 139-140, 165-170.

3. A. Manca Dell’Arca 2000, pp. 77-78.

4. La rilevanza del consumo dell’orzo nella storia dell’alimentazione deisardi trova riscontro in numerosi termini di derivazione latina e spagnola: - dal latino hordeum (orzo) derivano: òrgiu, òriu (orzo); òrriu (granaio cilin-drico di canna intrecciata); orriàre (mettere il grano nella bugnola) (M.L.Wagner 1960-64);- dal latino farrum derivano: farre/i, farruntu (semolino d’orzo); farìcru/farigu(semola d’orzo); farrana, nuor. (erbaio di orzo); farra, camp. (farina di grano);- dallo spagnolo çebada (orzo) deriva probabilmente sebàda, nome di undolce tradizionale barbaricino oggi confezionato con farina di grano.

5. Pubblicato in G. Murru Corriga 1993, p. 13.

6. S. Cambosu 1954, p. 94.

7. Focaccia di farine integrali, indurisce rapidamente; si confezionava nei vil-laggi cerealicoli di pianura e di collina quando si era consumata la scortadomestica di grano, o in tempo di carestia o di estrema indigenza familiare.

8. G. Murru Corriga 1994.

9. G. Murru Corriga 1994.

10. Il ciclo produttivo può avere diversa durata. Normalmente la seminaavviene in autunno, tra ottobre e novembre, dopo le prime piogge (semi-na in beranu mannu), ma può essere fatta ad inverno inoltrato, tra gen-naio e febbraio (semina in beraneddu) se l’autunno è troppo asciutto (l’or-zo è detto in questo caso orzu barantinu).

11. Il pane 1992.

12. L. Secci, Pane d’orzo e pane di ghiande. La panificazione tradizionale inOgliastra, tesi di laurea, Università degli studi di Cagliari, a.a. 1997-98.

13. La panificazione del pistoccu in Ogliastra, proprio perché fatta a ca-denze molto ravvicinate e utilizzando materie prime varie, si basavaprincipalmente sul lavoro individuale della padrona di casa, diversamen-te dalla panificazione del carasau, in un certo senso più specializzata, cherichiedeva la cooperazione di più donne e una distribuzione codificata diruoli e funzioni.

14. S. Mezzolani, A. Simoncini 1999.

15. M.G. Da Re 1990.

16. Il pane 1992.

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466. Ogliatu, 39, Oliena.

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Per la festa di San Giovanni Battista, il 24 giugno, a Fonni si prepa-ra il pane di San Giovanni, chiamato localmente cohone ’e vrores.Si tratta di una composizione molto elaborata la cui base, neglianni più recenti, è costituita da una torta di circa 30 cm di dia-metro e di 6/7 cm d’altezza; l’impasto è formato di semola di fru-mento, acqua, miele, mandorle macinate, burro e altre sostanzegrasse. Sulla base sono apposti, infissi su asticelle di canna, uncentinaio di uccelli, pugiones, composti degli stessi materiali dellatorta e sistemati a cerchio, in cinque ordini d’altezza crescente:dal primo ordine, il più basso e più esterno, fino al più alto e piùinterno. Al centro della composizione, retto in genere da tre asti-ne, spicca un nido su cui sono posati tre uccellini, pugioneddos,attorniato da quattro volatili di dimensioni maggiori dei pugiones,denominati puddihinas (gallinelle) o puddas (galline), uno deiquali, su nidu, reca su di sé un quarto uccellino. Il tutto raggiungeil peso di 8 kg. A parte quelli necessari per la composizione de sucohone, altri pugiones, da 100 a 200, vengono preparati a parte. La preparazione de su cohone è attualmente affidata a un’unicaabile artigiana e richiede parecchi mesi di lavoro sia per la mo-dellazione sia per l’applicazione ai diversi volatili di colori e fram-menti di carta stagnola. Fino a qualche anno fa la preparazionede su cohone era caratterizzata da particolare riserbo, certamen-te non aperta ad estranei. Come peraltro rivolto sostanzialmentesolo alla comunità, che contribuiva con offerte alla costituzionedelle occorrenze finanziarie della festa, risultava tutto il ciclo ce-lebrativo di San Giovanni.Il costo del cohone ’e vrores era alla fine degli anni Settanta dicirca 300.000 lire, negli anni Novanta 1.500.000; oggi arriva a2.000 euro. Un costo, dunque, piuttosto elevato cui, in una co-munità parsimoniosa quale quella di Fonni, deve corrispondereuna estrema cura nel confezionamento e una conseguentequalità estetica, da sottoporre primariamente al giudizio dei so-ci di San Giovanni e dell’intero paese in occasione della sua pre-sentazione ed ostensione pubblica.Quest’onere e onore ricade sul cassieri del sociu de Santu Giuan-ni che, eletto ogni anno dai componenti di questa storica asso-ciazione, svolge le funzioni di priore della festa in onore delSanto. È infatti il cassiere che, fatto confezionare su cohone, il 24giugno, accompagnato dagli altri membri del sociu e dai fami-liari, lo presenta in chiesa per la benedizione e lo trasporta du-rante la processione per le vie del paese, preceduto dai cavalieridella Madonna dei Martiri e dai cavalieri vestiti in abito di vellu-to e camicia bianca (sos burdos), dalle varie associazioni religio-se, da gruppi in abiti tradizionali, dalle confraternite e seguitodalla statua di San Giovanni, dai sacerdoti e dalla folla di fedeli. Dopo la processione il pane viene affidato ai cavalieri della Ma-donna dei Martiri, che tenendolo alto, come un trofeo, si avvia-

no verso la casa del cassiere; insieme ai familiari questi attendei cavalieri fuori di casa, riprende in consegna il cohone e offreloro vino, birra, dolci e un pugione, tra quelli predisposti in so-vranumero.Il pane veniva portato dai cavalieri anche in occasione della cor-sa a pariglie, sa harrela ’e vrores, che si teneva il pomeriggio del24 giugno, per poi essere smembrato attraverso la distribuzioneai componenti del sociu il 29 agosto (decapitazione di San Gio-vanni Battista). Con riprovazione dei Fonnesi più attenti al proto-collo tradizionale, da qualche anno il cohone viene esibito daicavalieri in occasione del palio che si svolge ai primi d’agostonell’altipiano di San Cristoforo, a qualche chilometro dal paese.A quanto è dato di sapere, la prima testimonianza fotografica delpane di San Giovanni è un’immagine del prof. Guido Costa con-servata presso l’Istituto Superiore Regionale Etnografico dellaSardegna. La lastra, presumibilmente della fine degli anni Venti,reca la scritta, eseguita dallo stesso Costa, «Pane di San Giovanni(Fonni) fam. Loi Carboni». L’esame di questa fotografia consentedi accertare che la forma degli uccellini è rimasta sostanzialmenteimmutata, e che questi presentano le applicazioni di carta sta-gnola e di colore caratterizzanti anche gli esemplari degli ultimianni. Appare invece piuttosto diversa la forma complessiva; a dif-ferenza delle tipologie più recenti, a tronco di cono, questa ha for-ma di tronco di cono rovesciato, che ricorda un nenneri; la stessaforma, peraltro, che appare nelle belle fotografie storiche ripro-dotte nel libro di Michele Carta e Salvatore Ligios S’istangiartu,tradizioni equestri di Fonni.1 Inoltre, assai ridotto risulta il numerodei pugiones: distribuiti su quattro livelli anziché sui cinque attua-li, nella più ampia ipotesi non dovrebbero essere più di sessanta. Gli uccelli del settore più basso sono praticamente aderenti allabase e dunque privi di astina di fissaggio, per lo meno visibile;mentre parte di quelli del livello mediano sono collocati dietrole astine di sostegno degli uccelli del livello successivo. La baseche regge i pugiones, posata su un canestro d’asfodelo, apparecome compresa in un contenitore di pasta recante nella pareteesterna motivi ornamentali in rilievo. Il taglio dell’inquadratura non consente infine di accertare se siapresente il nido, mentre in almeno tre figurine poste in posizio-ne elevata potrebbero essere riconosciute le gallinelle di cui s’èdetto sopra. Il pane riprodotto nella vecchia fotografia di Costa, seppuremolto curato nella modellazione e non privo di una sua graziaed equilibrio compositivo, è meno elaborato e non ha la perfet-ta disposizione geometrica dei pani attuali. Sembra quasi che,come tanti manufatti del mondo tradizionale sardo, anche ilpane di San Giovanni, nell’attraversare l’attuale società fonne-se, sia andato incontro a un non lieve intervento di “lucidatura”,

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Il pane di San GiovanniPaolo Piquereddu

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467-468. Cohone ’e vrores, h 38 cm, Ø 32 cm, Fonni.

469. Cohone ’e vrores, fine anni Venti (foto Guido Costa).Questa fotografia è stata pubblicata da Salvatore Cambosu in Miele amaro.

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arricchimento, abbellimento, ingrandimento; in ciò probabil-mente favorito da una complessiva maggior disponibilità eco-nomica e da una propensione ormai diffusa in tutta la Barbagiaalla spettacolarizzazione degli elementi materiali e immaterialidella ritualità tradizionale. Sull’origine e il significato del pane di San Giovanni sono statefatte diverse ipotesi: qui di seguito si dà conto molto brevemen-te di quanto è stato scritto da tre cultori di studi archeologici, et-nografici e storici, nonché fonnesi di nascita o d’adozione.

Il primo, Antonio Mereu, ritiene che su cohone ’e vrores, come idiversi rituali praticati in occasione della festa di San GiovanniBattista, «debba riecheggiare gli antichi culti agrari di ringrazia-mento alla divinità per l’annata trascorsa e di lieto auspicio perla futura; anche sui giardini di Adone (“su nenneri”) come ripor-ta il Lamarmora, era infatti buona usanza porre una figurinaumana di pasta a simbolo di buona ventura nel vincolo delcomparatico di S. Giovanni».2

Il secondo, Michele Carta, mentre conferma che il significato e leorigini del pane sono avvolti nel mistero, riporta, un racconto po-polare secondo il quale nel 1865 per liberare i campi invasi dallecavallette gli abitanti di Fonni, dopo aver invano richiesto l’inter-cessione di San Giovanni Battista, si rivolsero a Predi Murru, unprete maiargiu (mago). Predi Murru fece scomparire le cavallette,ma purtroppo con esse anche gli uccelli dei campi. Si salvaronodei cuculi e le uova rimaste nei nidi di varie specie di uccelli; i cu-culi prepararono allora un grande nido nel quale, con l’aiuto deicontadini, vennero trasportate le uova superstiti perché venisse-ro covate. Per primo si schiuse un uovo di storno: il nuovo nato siposò su un cuculo. «In seguito si schiusero le altre uova e la cam-pagna si ripopolò di nuovo con uccellini di tante specie … e laterra tornò a produrre le sue messi. L’anno successivo, nel 1866, icontadini confezionarono Su Cohone ’e vrores in ricordo del nidoche ridiede la vita agli uccelli e fece rifiorire i campi».3

Il terzo, Franco Diana, attraverso un ampio ed erudito excursusche percorre i domini dell’archeologia, dell’etnologia, della mi-tologia, della storia delle religioni, avanza l’ipotesi di una rela-zione di significato tra l’uccello sull’astina di canna, elementoiconografico caratterizzante il pane di San Giovanni, e la rappre-sentazione dell’uccello stante su un’asta, dipinta accanto alla fi-gura dello sciamano nella grotta di Lascaux (Francia), risalenteal paleolitico superiore. Secondo le parole di Diana «tutto par-rebbe condurci a considerare l’origine dell’attuale conformazio-ne del “pane” nel quadro dei riti agrari dei piantatori del Neoliti-co, derivanti a loro volta da antichi culti pre-neolitici costituitisi,in ultima analisi, … nel mondo dei cacciatori vissuti nell’ultimafase del Paleolitico europeo».4

Lo studio di Diana offre indubbiamente molti elementi di interes-se e di originalità e invita a percorrere itinerari non molto praticatinelle ricerche di storia delle tradizioni popolari della Sardegna. Nello stesso tempo lo sguardo verso tempi e luoghi lontani puòimpedire di posare gli occhi e l’attenzione su una serie di eviden-ti relazioni e dati legati alla figura del Santo cui il pane è intitola-to: per esempio la colomba, simbolo universalmente riconosciu-to di San Giovanni Battista e la data di smembramento/mortedel cohone, con distribuzione delle parti ai componenti del sociuil 29 agosto, giorno nel quale si celebra la ricorrenza della morteper decapitazione del Santo. Ma questi sono tutti temi che an-drebbero oltre le funzioni di informazione generale e di mode-sta relazione etnografica affidate a questo breve scritto.

Note

1. M. Carta, S. Ligios 1994.

2. A. Mereu, Fonni resistenziale nella Barbagia di Ollolai e nella storia dell’iso-la, Nuoro 1978, p. 254.

3. M. Carta, S. Ligios, 1994, p. 63.

4. F. Diana 2001, p. 139.

La mattina del 31 dicembre i bambini di Orgosolo si recano dicasa in casa per chiedere sa candelarìa. Le porte aperte, le don-ne sono pronte ad accogliere positivamente e con sollecitudinela richiesta: «A nolla dazes sa candelarìa? » (Ci date la cande-larìa?), che dalle prime luci del mattino fino a mezzogiorno ri-suonerà ininterrottamente sugli usci delle case del paese.La candelarìa è l’offerta di un pane, cocone, appositamente prepa-rato, insieme a frutta, biscotti, danaro: una consuetudine che a Or-gosolo è ancora vivissima, attesa con impazienza da tutti i bambi-ni e predisposta con impegno dalla gran parte delle famiglie.Il cocone viene approntato, per la massima parte, nei giorni im-mediatamente precedenti il trentuno, in casa, da gruppetti didonne aventi rapporti di parentela e di buon vicinato. È compo-sto di farina di grano duro (simula) impastata con lievito, acquatiepida, sale e strutto. Dopo una lunga lavorazione, che si serveoggi dell’ausilio delle impastatrici elettriche a rullo, l’impastoviene diviso in pezzi grosso modo sferici, della grandezza diun’arancia, che vengono lasciati a lievitare; si procede quindi aspianarli col mattarello fino a ottenere una sfoglia di circa 35 cmdi diametro, sa tundina.Dopo un’ulteriore lievitazione tra teli di lana, di lino o canapa(pannos de ispica), si procede all’infornata. Poco prima il disco dipasta viene profondamente segnato a croce per tutto il suo dia-metro con una rotella mentre un’altra piccola croce viene im-pressa nelle quattro parti uguali precedentemente segnate dal-la rotella.La cottura della tundina avviene in forno caldo, con fiamma leg-gera, senza che venga voltata in modo che la faccia superiore ri-manga bianca e lucida. Appena sfornato, il pane viene accura-tamente spazzolato e, quindi, ordinato a strati nelle corbule.1

Ai bambini verrà donato un quarto – ma talvolta anche due –dell’intera tundina, vale a dire un cocone. Attualmente la granparte delle famiglie destina a sa candelarìa tre cartos di grano;poiché da ogni cartu, che equivale a 20 kg, si ottengono media-mente 40 tundinas, ogni casa ne avrà a disposizione 120 circa,ovvero 480 cocones.Una famiglia con molti bambini in età di candelarìa in genere neprepara di meno, in quanto tiene conto che una notevole quan-tità di pane verrà raccolta attraverso la questua. Nell’arco dellamattinata si verifica, infatti, una sorta di “partita di giro”: si haun’uscita, con i doni a tutti i bambini che si presentano col lorosacchetto bianco di tela, e si ha un’entrata, costituita da quanto ibambini portano nelle proprie case. Ovviamente le famiglie do-ve non vi sono bambini registrano soltanto un’uscita: si dà manon si riceve.

Va detto che negli ultimi anni il cocone ha perso la sua centra-lità: ai bambini interessano soprattutto i soldi, poi, in subordine,i biscotti e, infine, la frutta e il pane.Non va inoltre dimenticato che per i bambini di Orgosolo lacandelarìa è anche l’occasione nella quale ricevono dai parentipiù stretti i doni di Natale. Anche per questo motivo la spesache le famiglie devono affrontare è piuttosto ingente. Oltre aprocedere alla cottura del pane, nei giorni precedenti il 31 siprovvede ad acquistare cassette di frutta e scatole con pacchi dibiscotti: pur nella diversità di capacità economiche nessuna fa-miglia, salvo gravi impedimenti, vi rinuncia. Anche le famigliecolpite da lutti recenti preparano il pane che viene però offertosenza dolci né frutta.La partecipazione alla questua è riservata ai bambini e allebambine dai 4 ai 12 anni circa; si ha perciò un’età compresa tradue momenti di passaggio; il primo sancisce l’acquisizione diun’autonomia motoria extra familiare e di una capacità di rac-colta e trasporto (i sacchetti, in genere federe per cuscino, sepieni, arrivano a pesare diversi chili) e, dunque, indica il supera-mento della prima infanzia e l’ingresso nella fanciullezza; il limi-te superiore dei 12-13 anni ne stabilisce la fine e nel contemposegna l’avvio della fase adolescenziale.A 12-13 anni i bambini di Orgosolo svolgono già attività lavora-tive ben definite, i maschietti in campagna, specie se figli di pa-stori, le bambine a casa. Per questo, forse, mentre i piccolissimiattendono con impazienza ed eccitazione la prima partecipa-zione alla questua, in quanto rappresenta il riconoscimento for-male e comunitario di una crescita fisica e psichica, i più grandi,invece, cominciano a sentirsi a disagio: entrando nelle case ten-dono come a giustificarsi, annunciando che si tratta dell’ultimoanno; con queste parole manifestano certo soddisfazione maanche la consapevolezza della perdita di un’età minore, cheaveva anche i suoi lati positivi e i suoi privilegi.La questua, come già accennato, va avanti fino a mezzogiorno.Nel corso della mattinata, i bambini più grandi soprattutto rie-scono a riempire i propri sacchetti più volte e, perciò, per nonperdere tempo tornando a casa, li scaricano nelle abitazioni diparenti dislocate in punti strategici, a mo’ di parcheggio, per poicontinuare immediatamente il giro. Dopo mezzogiorno, aiutatidai genitori o dai fratelli più grandi, i bambini recuperano i donidai punti d’appoggio, provvedendo, infine, alla conta finale deisoldi e, in generale, alla verifica di quanto raccolto. Non è infre-quente che riescano a guadagnare cifre di 300-400 mila lire, chevengono requisite dai genitori per destinarle ad acquisti di abbi-gliamento ed altro, normalmente, per i bambini stessi.

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La candelarìa di Orgosolo*Paolo Piquereddu

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470. Benedizione de su cohone ’e vrores durante la messa del giorno di San Giovanni, Fonni, 24 giugno 2005 (foto Daniela Zedda).

471. Il cassiere del sociu de Santu Giuanni alla fine della processione,distribuisce gli uccellini (pugiones) ai cavalieri che hanno accompagnato il simulacro di San Giovanni, Fonni, 2005 (foto Daniela Zedda).

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La candelarìa non è comunque finita; essa avrà infatti un’im-portante appendice notturna, questa volta effettuata da grup-pi di adulti, donne e uomini, e interesserà soltanto le case deglisposi dell’anno che sta per finire.Dopo quella dei bambini al mattino, i giovani sposi dovranno,pertanto, prepararsi a ricevere una serie di visite, ancor più am-pia e variegata.L’impegno economico per potervi far fronte è consistente: oltre alpane, infatti, vengono preparati i dolci, normalmente le stesse va-rietà offerte per il matrimonio, il liquore all’uovo (su bov), imman-cabile nelle feste del paese, e acquistati liquori, cioccolati ecc.: laspesa media, in questi ultimi anni, va dalle 700 alle 800 mila lire.Nessuno vi rinuncia, anche a costo di dover affrontare dei sacrifi-ci; vi è anzi chi, non abitando ad Orgosolo, vi torna per organiz-zare il ricevimento nella casa dei genitori o di parenti residentinel paese.A partire dalle nove fino alle due o le tre del mattino, dunque,gruppi delle dimensioni e componenti più svariate che, talvolta,nei pressi delle case degli sposi, divengono una vera e propriafolla, attraversano le strade e i vicoli del paese, quasi sempre albuio in conseguenza di un’attività di abbattimento delle lampa-dine pubbliche, tanto puntuale da fare anch’essa parte della tra-dizione.Ciascun gruppo si ferma davanti all’uscio della casa degli sposie leva un canto che è insieme augurale e di richiesta del pane:

Viva viva s’allegriaE a terra sos ingannosBonos prinzipios d’annosBor det Deus e MariaViva viva s’allegriaDazzennollu su coconePro more ’e Zesu BambinuAppazas dinare e binuTridicu e oriu a muntoneDazzennollu su cocone(Viva viva l’allegria / Siano abbattuti gli inganni / Un buon iniziod’anno / Vi dia Dio e Maria / Viva viva l’allegria / Datecelo, il pane/ Per amore di Gesù Bambino / Abbiate denaro e vino / Grano eorzo a mucchi / Datecelo, il pane).2

Più direttamente connesso con la condizione degli sposi e, quin-di, incentrato sull’augurio di prosperità e di ingrandire presto lafamiglia appena costituita, è il testo del canto seguente:

E unu lizu unu lizuE Deus bor diat fizuA gustu vostru e non meuE fizu bor diat DeusS’alligret d’ogni montagnaCh’es bessida MissennoraParet s’istella AuroraChin sos suos assemizosDeus bor det duos fizosFattos ambos a una formaUnu siat Papa in RomaS’atteru Re in s’IspagnaS’alligret d’ogni montagnaDazennollu su coconePro more ’e Zesu Bambinu

(Un giglio un giglio / Dio vi dia un figlio / Secondo il vostro gradi-mento e non il mio / Un figlio vi dia Iddio / Sia lieta ogni monta-gna / Che è uscita la Madonna / Sembra la stella Aurora / Con lesue fattezze / Dio vi dia due figli / Fatti entrambi a una sembian-za / Uno sia Papa in Roma / L’altro Re in Ispagna / Sia lieta ognimontagna / Datecelo, il pane / Per amore di Gesù Bambino).

Al termine del canto, il gruppo, che spesso chiede «Vi basta?»,viene invitato ad entrare in casa dagli sposi e dai parenti. Rice-vuti ancora gli auguri di felicità e prosperità, gli sposi offrono sucumbidu, ovvero vino, liquori, dolci.La gran parte dei visitatori, anche se col canto chiede su cocone,non prende il pane, che pure è a disposizione, salvo le donne,per lo più anziane, che lo ripongono in un sacchetto di plasticache portano appresso.L’uso di andare a cantare la candelarìa agli sposi novelli risale acirca trent’anni fa. Fino ad allora, a memoria d’uomo, la questua sieffettuava nelle case benestanti del paese da parte della popola-zione povera che, come è facile immaginare, costituiva la granparte degli abitanti di Orgosolo. Si trattava, dunque, di una vera epropria elemosina molto attesa dalla popolazione e, in un certosenso, sentita come doveroso obbligo dai ceti più abbienti.Va peraltro detto che le modalità di svolgimento dell’antica que-stua notturna la rendevano meno imbarazzante e in qualche mo-do la spersonalizzavano: i questuanti, infatti, facevano in modo dinon essere riconosciuti dai donatori. Ciò era possibile per la scar-sa (o inesistente) illuminazione pubblica e privata, per il fatto cheil canto si levava o in strada o nel cortile buio di case unifamiliari,e per il fatto che i cantori tenessero il volto ben coperto da unoscialle, se donne, e da pastrani e berretti, se uomini.Una visita in quelle case fortunate, spesso ripetuta grazie all’ano-nimato, consentiva di raccogliere una discreta quantità di pane“bianco”, di ottima qualità e, non infrequentemente, anche unpo’di lardo e salsicce.I più anziani ricordano che la candelarìa notturna veniva nel pas-sato frequentata anche da gente povera del circondario (Oliena,Mamoiada, Fonni) che evidentemente non poteva permettersi dirinunciare alla possibilità, certamente assai rara, di ricevere gra-tuitamente alimento prezioso.Le parole del canto che si riporta di seguito, tuttora eseguito,parrebbero indicare che il dono de sa candelarìa, venisse con-sapevolmente vissuto come un’operazione di ridistribuzione dibeni tendente a ricostituire uno stato di eguaglianza tra gli abi-tanti del paese:

Bona notte bor det Deus E annu bonu a s’intradaCun bonu gustu e recrèuLa colezes cust’annadaSa mesa est apparizàda Pro facher sa caritade Tottu bos aggualades, Sos riccos chin sos povèros Cando su Re de sos chelosS’est cherfidu aggualareA tres chidas de Nadale

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472-473. Preparazione del pane (cocone) da distribuire ai bambini durante la questua del 31 dicembre, Orgosolo, 1980 (foto Riccardo Campanelli).

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ancora viva: gruppetti di bambini, la sera del 30 novembre, visi-tano le case recando una zucca vuota, sulla cui scorza è incisoun volto grottesco, illuminata internamente da una candela.Se poi si rivolge lo sguardo al carnevale non si ha difficoltà a ri-conoscere riferimenti diretti nelle rappresentazioni di alcunemaschere questuanti tradizionali, quali sa filonzana (la filatrice),nel carnevale di Ottana e su mortu ’e carrasegare (il morto di car-nevale) di Gavoi.11

Il rapporto bambini/questue natalizie/mondo dei morti è chia-rito da Levi-Strauss nel breve quanto considerevole saggio del1952 Babbo Natale suppliziato.Dopo aver ricordato che le questue dei bambini nell’Europa tra-dizionale non sono limitate al Natale ma hanno un significativoavvio nella questua di Halloween, Levi-Strauss nota che: «Il pro-gredire dell’autunno, dal suo inizio sino al solstizio che segna ilsalvataggio della luce e della vita, si accompagna quindi, sulpiano rituale, a un movimento dialettico le cui principali tappesono: il ritorno dei morti, la loro condotta minacciosa e perse-cutrice, la fissazione di un modus vivendi con i vivi che consistein uno scambio di servigi e di doni, infine il trionfo della vitaquando, a Natale, i morti ricolmi di regali abbandonano i viviper lasciarli in pace sino all’autunno successivo … Ma chi puòmai impersonare i morti, in una società di vivi, se non tutti colo-

ro che, in un modo o nell’altro, sono incompletamente incorpo-rati al gruppo, ossia partecipano di quella “alterità” che è il se-gno distintivo del supremo dualismo, quello fra morti e vivi?Non stupiamoci dunque nel vedere gli stranieri, gli schiavi e ibambini diventare i principali beneficiari della festa. L’inferioritàdi statuto politico o sociale, la disuguaglianza delle età fornisco-no al riguardo criteri equivalenti. Non è quindi sorprendenteche Natale e Capodanno (suo doppione) siano feste degli altri,poiché il fatto di essere altro è la prima immagine ravvicinatache possiamo rappresentarci della morte».12

La pertinenza di tale autorevole ragionamento interpretativo al-la candelarìa viene confermata anche dalle ragioni che consen-tono la partecipazione alla manifestazione, con la preparazionedel pane e l’accoglienza ai bambini, anche delle famiglie colpiteda lutti e da disgrazie recenti (situazioni che impongono nor-malmente l’astensione dalle feste): si dice, infatti, a Orgosolo,che il pane si fa per le anime: Est pro sas animas ; attraverso ibambini, dunque, si trasmette un dono ai defunti.Dato per acquisito questo punto, niente, tuttavia si conoscesulle ragioni per le quali, un rituale cui la struttura organizzati-va risulta presente nelle lontane feste del calendario romano,Saturnalia e Calende di Gennaio in primo luogo, possa essersiconservato negli elementi fondamentali fino ai nostri giorni.Rimane tutto da chiarire in che modo la diffusione e l’affermarsidel Cristianesimo, al di là delle opposizioni conclamate, possa-no averne determinato, nella lunga durata, la sopravvivenza.

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(Una buona notte vi dia Iddio / E un buon inizio d’anno / Consoddisfazione e piacere / La trascorriate, quest’annata / La tavo-la è imbandita / Per fare la carità / Tutti quanti diventate uguali,/ I ricchi con i poveri / Quando il Re dei Cieli / Ha voluto ugua-gliarsi (all’uomo) / A tre settimane di dicembre).

Nel nome di Gesù Bambino i ricchi e i poveri diventavano ugua-li, e un rifiuto alla contribuzione, e dunque ad accogliere il mes-saggio del canto, veniva mal tollerato: una risposta negativa (aperdonare), magari mandata attraverso una porta chiusa, pro-vocava nei questuanti imprecazioni e parole di malaugurio.Il generale miglioramento delle condizioni economiche delpaese ha determinato l’abbandono della questua notturna nel-le case dei “ricchi” del paese e ne ha modificato il significato e lafunzione.Con la visita agli sposi, oggi, il paese prende atto, in misura anco-ra più ampia di quanto non abbia potuto fare in occasione delmatrimonio, della costituzione di un nuovo nucleo familiare e, inmaniera affettuosa e corale, ne riconosce e ne sancisce l’appar-tenenza alla comunità umana e all’universo culturale orgolese.La tradizione delle questue di capodanno nell’isola, specie con-dotte da bambini, è attestata in diversi scritti del secolo scorso.Per quanto attiene al territorio che più direttamente qui interes-sa, vengono riportate notizie dal Ferraro e dalla Deledda.Il primo trascrive il seguente canto nuorese: «Dàdemi su candelà-riu / Chi sia’ bonu e mannu, / Chi mi dured’un annu / Un annu e unachida, / Chi apposta so’ ennìda / Po bo’ lu cherre’ cantare. / Gia’ iscochi lu tenìde(s), / Si mi ’nde cherìdes dare, / De su ch’azis in domo. /Otto dies este a como / Chi su Segnore e’ naschìdu, / A cantare e’bessìdu / Minoreddu e tantu abbistu, / In nòme(ne) de Gèsu Cristu /E de sa mama Maria. / Ite notte e’ d’alligria, / Cando su Segnore e’naschìdu, / Cando l’an’ imbisitadu / So’ tres Res de Oriente, / Candosu sole luchente / Naschèsid’ ind’ un’installa, / Isse mùttid’ e si ca-glia(da) / E non fache’ parzialidade(s), / Tottu nos ad’ egualadu, /Sos ricco’ e sos povèro(s). / Cando su Segnore ’e sos chelo(s) / Si e’chèrfidu agualare. / Dàdemi su candelàriu / Si mi lu cherìdes dare»3

(Datemi il candelariu / Che sia buono e grande, / Che mi duri unanno / Un anno e una settimana / Ché son venuta apposta/ Pervolerlo cantare. / Lo so che lo tenete / Se me ne volete dare / Diciò che avete in casa. / Otto giorni a oggi / È nato il Signore. / Èuscito a cantare / Piccolissimo e tanto avveduto, / In nome di Ge-sù Cristo / E di sua madre Maria. / Che notte d’allegria / Quandoè nato il Signore / Quando gli hanno fatto visita / I tre Re d’Orien-te / Quando il sole lucente / È nato in un stalla / Egli chiama e ta-ce / E non fa parzialità / Tutti ci ha reso uguali / I ricchi e i poveri. /Quando il Signore dei Cieli ha voluto uguagliarsi (agli uomini). /Datemi il candelariu / Se volete darmelo).Si noterà che i versi «Tottu nos ad’ egualadu, / Sos ricco’ e sospovèro(s). / Cando su Segnore ’e sos chelo(s) / Si e’ chèrfidu aguala-re», sono pressapoco identici a quelli del canto tuttora in uso eprecedentemente presentato.Il Ferraro definisce il candelariu «dono delle calende di Gennaio(donum candelarium) consistente in frutta secche, dolciumi, ecc.».4

La Deledda, sempre riferendosi a Nuoro, oltre a documentareun testo assai simile a quello del Ferraro, fornisce una descri-zione del pane che veniva offerto («piccolo, bianco, frastaglia-to, lucido, in forma di uccelli e di altri animali»); inoltre informacome i bambini, nel caso di una risposta negativa fossero solitireagire così: «Se il “candelarju” viene negato, i ragazzi, indispet-titi, si allontanano gridando:

A nolla dazes sa candeledda? Cras a manzànu in terra nighedda(Non ce la date la candeletta? / Domani mattina nella terra nera).Cioè, domani mattina possiate trovarvi in camposanto».5

Al 1912 risale una breve descrizione della questua dei bambinidi Olzai detta candelarzu, pubblicata da Pietro Meloni Satta:«L’alba del 31 dicembre dell’anno che scompariva, ansiosamen-te attesa, veniva salutata con gioia dei ragazzi del paese. Essaportava il dì de su candelarzu. Al primo albeggiare quei vispi ra-gazzetti lasciavano la stuoia o il lettuccio, infilavano l’uscio, e sidavano a correre di casa in casa, allegri e spensierati … Cotestaallegria, cotesta festa fanciullesca, era pro su candelarzu … Lemassaie si facevano premurose alla porta per accontentare i vi-spi ragazzetti, con abbondanti manciate di mandorle, noci, no-ciuole, castagne, uva passa».6

Il Meloni Satta si avventura nell’ipotesi che candelarzu derivida candela e che quindi significhi “questua con candele”.Wagner, dopo aver citato il Ferraro e il Calvia ne La vita rustica,ritorna su questi autori nel Dizionario Etimologico Sardo, trat-tando del termine kandeláriu: «Specie di focaccia figurata chesi regala ai ragazzi e ai poveri in occasione del Capodanno …(DONUM) CALENDARIUM».7

La data di svolgimento della candelarìa di Orgosolo, lo statussociale dei suoi protagonisti, le formule e l’oggetto della richie-sta, consentono di inserire la manifestazione nella vasta e bennota casistica di cerimonie che a partire dall’autunno e fino alcarnevale accompagnavano – e talvolta ancora accompagnano– i tanti “Capodanni” delle società tradizionali europee: Ognis-santi, S. Silvestro/Primo gennaio, l’Epifania, ecc.La letteratura storico-etnologica offre al riguardo un repertoriovastissimo e riferirne diffusamente andrebbe oltre le finalità delpresente scritto.8 Si vuole, però, brevemente accennare ai prin-cipali elementi comuni caratterizzanti tali manifestazioni.La pressoché totalità delle questue, in qualsiasi paese si svolges-sero, era condotta da bambini, da poveri, da stranieri o da donne,vale a dire da categorie sociali per un verso o per l’altro (età, con-dizioni economiche, pregiudizi culturali) caratterizzate da unostatus di “alterità”, quando non di subalternità. Inoltre, la richiestadi pane, dolci, vino ecc. era generalmente contraddistinta da at-teggiamenti ricattatori, e minacciosi (talvolta si effettuavano deiveri e propri furti) accompagnati da riferimenti più o meno direttialla morte e alla vanità della vita umana e dei beni terreni.Un esempio significativo di quanto si va dicendo è offerto daltesto scozzese del XVII secolo citato da Levi-Strauss, che riportale parole che venivano pronunciate dalle bande di ragazzi inoccasione della questua di Natale: «Muoviti buona donna e nonessere pigra / Nel preparare il tuo pane per il tempo che sei qui(in vita); / Verrà il tempo che tu sarai morta, / E non avrai biso-gno né di grano né di pane».9

L’evocazione della morte per dare forza alla richiesta di contri-buzioni si ritrova nei più disparati contesti geografici e storici:dalle parole dei bambini statunitensi nelle questue per Ognis-santi (Halloween) ai testi delle Koliady cantate dai giovani ucrai-ni nel periodo di Natale.10

In questo quadro si può agevolmente inserire anche un grannumero di questue della tradizione sarda. Oltre naturalmente aquelle assai più esplicite nella loro denominazione quali su mor-tu-mortu, come veniva chiamata la questua di Ognissanti, sipuò citare, a titolo di esempio, la questua di S. Andrea a Bono,

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474-475. Bambini durante la questua del 31 dicembre (sa candelarìa), Orgosolo, 1980 (foto Riccardo Campanelli).

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E, ancora, va sicuramente approfondito l’esame del ruolo svol-to, nella lunga storia attraverso i secoli di questa tradizione,dalla componente ludica, di godimento comunitario presentenel breve momento di rappresentazione di un’utopica societàdi eguali.13

Note

* Il presente scritto riprende ed amplia il testo di una conversazione te-nuta dall’autore a Orgosolo il 28 dicembre 1988, nel corso della presen-tazione di un suo lavoro audiovisivo sulla candelarìa. Esso fa parte diuna più ampia ricerca sulle questue invernali in Barbagia.

1. Sulla tipologia dei pani nel Nuorese, sulle tecniche di panificazione esulle occasioni d’uso si veda R. Cicalò, F.R. Contu 1987.

2. Questo canto e i due che seguono sono stati personalmente registratida chi scrive durante la questua notturna degli anni 1985-88.

3. G. Ferraro, Canti popolari in logudorese, Cagliari, Gia Editrice, 1989, p. 11.La trascrizione della lingua nuorese effettuata dal Ferraro è assai approssi-mativa. I limiti filologici della sua raccolta vennero evidenziati, appenapubblicata da P. Nurra, “Bibliografia folkloristica sarda”, in Vita Sarda, a. II,n. 24, 25 dicembre 1892, pp. 4-5.

4. G. Ferraro, Canti popolari in logudorese cit., p. 11, nota 1.

5. G. Deledda 1972, p. 101.

6. P. Meloni Satta, “Ricordi di Olzai”, in Archivio Storico Sardo, vol. IX, fasc.1-3, gennaio-settembre 1913, p. 91.

7. M.L. Wagner 1960-64, p. 282; M.L. Wagner 1996, pp. 170-171.

8. Si veda per un panorama generale P. Toschi, Le origini del teatro italiano,Torino, Boringhieri, 1976, in particolare pp. 166-227; J.G. Frazer 1979, pp.828, 865, 878; A. van Gennep, Manuel de folklore français contemporain,Paris, Picard, 1946-58, in particolare il vol. III del tomo I, cap. 1: “Le cycle deCarnaval-Careme”, pp. 868-1149 e il vol. VII del tomo I, cap. 4: “Les person-nifications du Cycle des Douze Jours”, pp. 2981-3032; J. Caro Baroja, II Car-nevale, Genova, Il Melangolo, 1989; C. Ginzburg, Storia notturna. Una deci-frazione del sabba, Torino, Einaudi, 1989, cap. 4, pp. 161-184; V. Lanternari1983; V.J. Propp 1978.

9. «Rise up, good wife, and be no swier (lazy) / To deal your bread as long’syou ’re here; / The time will come when you’ ll be dead, / And neither wantnor meal nor bread », in C. Levi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antro-pologia, a cura di P. Caruso, Torino, Einaudi, 1967, p. 261.

10. Come è noto, la notte d’Ognissanti, i bambini statunitensi e irlandesi,travestiti da scheletri, visitano case e negozi tormentando e minacciandoi proprietari finchè non ottengono dolci e piccoli doni. Sulle Koliady e piùin generale sui canti di questua invernali e primaverili della tradizione rus-sa si veda V.J. Propp 1978.

11. Si veda P. Piquereddu, “I Carnevali della Barbagia”, in Il Carnevale del-la Sardegna, a cura di M. Atzori, Cagliari, 2D Editrice Mediterranea, 1989,pp. 15-92.

12. C. Levi-Strauss, Razza e storia cit., p. 262.

13. Sul tema della reciprocità e sull’istituto del dono in Sardegna, si veda-no C. Gallini, Il consumo del sacro. Feste lunghe di Sardegna, Bari, Laterza,1971, pp. 215-235 (riedito a cura di V. Lanternari, Nuoro, Ilisso, 2003) e Do-no e malocchio, Palermo, Flaccovio, 1973. Per un panorama più generalesul “dono” si veda il fondamentale “Saggio sul dono” di M. Mauss, in Teo-ria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965 e le riflessioni diC. Levi-Strauss in Le strutture elementari della parentela, a cura di A.M. Ci-rese, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 100-119. Oltre alla voce “Dono” in Enci-clopedia, Torino, Einaudi, 1977-84. Per quanto attiene all’importanza chel’aspetto ludico-estetico può aver giocato nella conservazione di formerituali delle tradizioni popolari in Europa si veda J. Caro Baroja, Il Carneva-le cit. pp. 287-387.

Nella prima quindicina di luglio si svolgono a Sedilo i festeggia-menti in onore di San Costantino Magno. La festa rappresenta ilculmine del calendario morale e materiale della comunità, chiu-dendo simbolicamente l’annata agraria, dopo i suoi eventi crucia-li, la tosatura delle pecore e la mietitura del grano. Il suo apicespettacolare è l’Ardia, la corsa dei cavalieri che irrompono perico-losamente nel sacro recinto del santuario campestre dedicato alsanto imperatore. Per la comunità è il momento del consumo inconsueto e dei ci-bi speciali, come la pecora bollita, cantata dal folklore del turi-smo organizzato come cibo abituale del pastore errante, ma inrealtà evento raro; ché diversamente avrebbe deprivato l’oviledel suo principale mezzo di produzione. Tutto è straordinario, sisvolge in un tempo superiore, unico, prefissato, ritualizzato eperciò stesso disgiunto dal resto della vita.In quei giorni fino a qualche decennio fa si rinnovava anche unrito più intimo. All’alba del cinque una folla dolente giungeva apiedi in paese. Poveri, ciechi, storpi si ritrovavano per la questuadi San Costantino. Le case, imbiancate a nuovo, facevano mostradi sé ed erano aperte a tutti. È uno degli aspetti della vecchia fe-sta più vivo nel ricordo degli anziani del paese, che raccontano:«Arribiana a fiottoso, arrivavano a centinaia, passavano nelle casee tutti avevamo i portali aperti e sas kokois da donargli, per SanCostantino nessuno si tirava indietro»; «I poveri arrivavano datutti i paesi, per lo più dalla zona del Campidano, ciechi e storpi;arrivavano il cinque luglio e passavano nelle case e la gente da-va loro un pane e qualche soldo; dormivano sotto l’olmo di piaz-za s’Ena, qui mangiavano e si ubriacavano». Anche Sedilo aveva i suoi poveri, che durante tutto l’anno, unavolta alla settimana, facevano il giro delle case per avere il pa-ne. Ma durante la festa stavano a casa e anche loro donavano achi chiedeva. Nessuno si sottraeva all’atto del donare: «I poverinon potevano mancare – dice una donna anziana – facevanoparte della festa, non bussavano nemmeno perché lasciavamoaperto per aspettarli con una cesta colma di pani … anche 50ne facevo». Quando il pane destinato al dono terminava, laporta di casa veniva chiusa.Le donne confezionavano un pane apposito per i questuanti. Lapanificazione di San Costantino, scandita da tempi rigidi, quasicerimoniali, dettati invece da evidenti ragioni tecniche, avevainizio fin dal 29 giugno, ricorrenza di San Pietro e Paolo. Occor-revano diversi giorni, perché tutte le operazioni erano manuali.Ci si alzava a mezzanotte: impasto, fermentazione, lavorazione,porzionatura e infornatura. Procedure lunghe e diverse perogni tipo di pane. I più impegnativi erano i pani festivi. Per la

confezione de sa simbula pintada, il pane ornato di semola finis-sima, erano necessari esperienza e tempi lunghi, anche cinquenotti di seguito; le donne socialmente riconosciute come abili apintare sa simbula (decorare il pane di semola) si aiutavano a vi-cenda. Il quattro luglio si faceva su pane modde (il pane morbi-do), anch’esso di semola finissima, grossa pagnotta morbidissi-ma, resa tale dall’aggiunta di molta acqua all’impasto e da unalunga lavorazione.Per San Costantino si confezionavano anche i normali pani quo-tidiani, sa fresa e su ziki ladu. Il primo è del tipo biscottato, come ilpiù noto pane carasau, e veniva prodotto con un macinato semiintegrale, contenente farina, semola grossa e cruschelli. A questopane si dava un tempo una forma ovale con due beccucci sulbordo (fresa a biccu). La sua peculiarità consisteva nella cottura: siinfornava, lasciandolo sulla pala di metallo e poggiandolo diret-tamente sulla fiamma affinché gonfiasse, si estraeva dal forno eancora bollente si apriva con un coltello; nel forno completa-mente ripulito dalle braci le due metà si infornavano nuova-mente per la biscottatura finale e ancora calde venivano piega-te in due.

Il pane dei poveri di San CostantinoMaria José Meloni

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476. Marca da pane, legno inciso, 11 cm, Sedilo.

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Il quattro era anche il giorno in cui si confezionava il pane deipoveri con su zichi ladu, una grande spianata morbida. Laduperché largo, spianato con un mattarello (canneddu po’ ladiare)fino al raggiungimento della forma di un disco del diametro diuna quarantina di centimetri e dello spessore di pochi millime-tri. Per San Costantino il disco veniva poi diviso radialmente inquattro spicchi con sa rodanza, una rotella che ne sfrangiava ibordi con un’orlatura regolare. Ogni spicchio era sa coccoi de sospoboros e veniva marchiato con un timbro di legno, sa marca ’esu pane (il marchio del pane), una sorta di blasone familiare cheavrebbe certificato la provenienza del dono. Le figure impresseerano cuori, croci, stelle, fiori, monogrammi familiari oppureCostantino a cavallo.Ci si riconosceva tra benefattori e beneficiati. I poveri difficilmen-te cambiavano il loro destino da un anno all’altro e così le fami-glie del paese: «Venivano sempre gli stessi e li aspettavamo». Ilgesto era silenzioso: un pane per ogni povero. Questi ritraeva ilbraccio teso, infilava la sua conquista nella bisaccia e diceva: «At-teros annos» (Ad altri anni), una formula di rito stereotipata, chetuttavia ben esprimeva sia la rigidità dei ruoli sociali sia l’attesa ela speranza suggerite da una concezione ciclica del tempo. Il gesto del dono aveva una valenza morale. Gli anziani si com-muovono nel ricordare: «Io ne davo uno a ciascun povero e misentivo bene, a posto con la coscienza… non so…». E aveva an-che una funzione religiosa: era la carità cristiana declinata sulla

figura di Costantino, il santo intercessore dei sedilesi. Un santo,come è noto, non riconosciuto ma tollerato dalla Chiesa cattolicaufficiale per rispetto della pietà popolare, ben presente nel pano-rama del sacro non solo della comunità locale, ma di tutta l’Isola,come testimoniano anche le centinaia di ex voto presenti nel san-tuario campestre: «Fa tante grazie e poi lui ha dato la libertà ai cri-stiani e la mamma era Santa Elena, non dimentichiamoci, e si diceanche nei gosos “In chelu sedia tenides, dai nue mezus mirare…”(Incielo avete un seggio dal quale osservare meglio). La Chiesa nonl’ha fatto santo ma per noi è santo, Santu Antinu manco po brulla,mi! (non toglieteci San Costantino neppure per scherzo, eh!)». An-cora oggi in pochi, tra cavalieri e paesani, ostentano di partecipa-re all’Ardia noncuranti del santo, e la comunità sanziona questi at-teggiamenti come fughe in avanti di un laicismo che sconfinanella profanazione. E in nome del santo taumaturgo veniva fattala carità che costituiva un aspetto essenziale della festa e degliequilibri comunitari.Tutto questo negli anni Cinquanta è finito. La panificazione do-mestica, perno dell’autarchia familiare, si è trasformata in me-stiere, per risorgere come gesto tradizionale solo nelle occasio-ni festive. I poveri, assurti al grado di pensionati sociali, hannotrovato nei cascami del welfare state la loro risorsa vitale, diven-tando non di rado a loro volta i “benefattori”per i loro figli, spes-so esclusi dalle economie montane che intanto andavano disar-ticolandosi.

477-478. Coccoi de sos poboros, 15 cm ciascuno, Sedilo.

479-480. Marca da pane, legno inciso,rispettivamente 10 e 14 cm, Sedilo.

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delle unità simboliche pienamente rappresentative della funzio-ne rituale dei pani. Ed è con tale rifunzionalizzazione simbolicache le parti decorative vengono messe a disposizione, per il “con-sumo”, di tutte le persone che lo desiderino. In questi ultimi anni si è ridotta la produzione dei grandi pani da“dividere” ritualmente in favore dei piccoli pani. In questo modovengono maggiormente soddisfatte le norme igieniche, ma vie-ne altresì perso il valore collettivo del consumo dello stesso pa-ne da parte di molti. Si tratta di una significativa trasformazionedella tradizione che testimonia l’ingresso della comunità in unregime di abbondanza tale da consentire a quanti lo desiderinodi possedere l’intero pane, ma che è, allo stesso tempo, segnaledi un nuovo modo di vivere la festa che minimizza i rapporti in-terpersonali e rispecchia il decadere della profonda comunionedel tessuto sociale connotata nel passato anche dal consumocollettivo dei pani.All’interno della chiesa si susseguono per tutta la notte le recitedel Rosario e il canto dei Gòsos dedicati al santo. I fedeli, soprat-tutto donne, si “appropriano” del luogo sacro stringendosi at-torno all’altare e stazionandovi a lungo, in piedi e in ginocchio,nei lunghi momenti di preghiera. Si tratta di un’”appropriazio-ne” compiuta in modo ormai non più consapevole alla ricerca di

una “vicinanza” fisica, oltre che spirituale, al sacro, i cui prece-denti sono da ricercare negli antichissimi riti pagani di incuba-zione dei quali resta traccia in molte manifestazioni religiosepienamente integrate nel rito cattolico. Intanto nel sagrato ini-ziano le danze che proseguiranno fino a notte inoltrata.La mattina del 25 aprile, dopo la messa, i fedeli che hanno pernot-tato nel santuario ripartono alla volta del paese accompagnandoil simulacro del santo trasportato dai confratelli; alla processionesi uniscono altri confratelli e fedeli e tutti insieme si dirigono versouna formazione rocciosa ai margini dell’abitato, luogo alto in sen-so fisico e simbolico, denominato Sa Rocca, che domina la vallatasottostante. Qui si compie l’atto più importante del percorso pro-cessionale con la solenne benedizione ai campi sottostanti impar-tita dal sacerdote secondo il rituale romano. Una concelebrazionenella chiesa parrocchiale segna il culmine della festa religiosa; se-gue poi ancora una volta la distribuzione dei pani benedetti men-tre il festeggiamento civile proseguirà per tutta la giornata.

481. Processione per la festa di San Marco, Lei, 25 aprile 2005 (foto Daniela Zedda). Il corteo che accompagna il simulacro del santo si sta spostando, nel fragore degli spari, dal paese al santuario campestre dedicato a San Marco, situato in agro di Silanus.

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San Marco Evangelista è oggetto di particolare devozione innumerose località della Sardegna e le celebrazioni in suo onoresi svolgono in diversi periodi dell’anno, in particolare a settem-bre e aprile. In tutto il Marghine si producono, per l’occasione,pani rituali di grande bellezza caratterizzati dall’estesa orna-mentazione naturalistica. A Lei, dove la festa si celebra tra il 24 eil 25 aprile, gruppi di donne, in genere formati da amiche, pa-renti e vicine di casa, costituiscono delle piccole unità di produ-zione specializzate nella creazione dei pani votivi. Ciascuna del-le donne presenti partecipa alle varie fasi della lavorazione inbase alle proprie abilità. L’impasto di semola di grano duro, ac-qua, lievito e sale, viene abilmente trasformato nei pani che ca-ratterizzano così fortemente la festa. Si tratta di pani di formarotonda dai diametri varianti tra 8 e 30 cm, con o senza foro alcentro o a forma di croce greca: sono costituiti da una base pia-na la cui superficie viene ricoperta con pasta plasmata, intaglia-ta e cesellata per ottenere le più varie e raffinate decorazioni inuna sorta di gara tra i vari gruppi di panificatrici. La densa orna-mentazione appare a prima vista caotica, ma un preciso sapereguida la scelta delle posizioni da attribuire ai vari simboli sullasuperficie piana: si susseguono così nidi di uccellini e poi fiori,frutti e ancora foglie e ghirlande in un grande intreccio che per-vade l’intero candido pane. L’attenta cottura rende infine com-mestibili queste sculture senza alterarne il colore: il candore del-la superficie, infatti, oltre alla ricca ornamentazione, è segnodella valenza estetica e cerimoniale dei pani di San Marco comedi altri pani rituali della Sardegna. A Bortigali i pani vengono sot-toposti ad un bagno in acqua e zafferano, procedimento che gliconferisce una coloratura giallo intenso.In passato i pani detti coccoièddas venivano disposti dentro ca-nestri infiorati, quelli detti coccòi mudàda, forati al centro, veni-vano invece infilati a scalare in lunghi bastoni ornati di nastri efiori variopinti. Questo secondo modo di trasportare i pani, ab-bandonato per molti anni e poi riscoperto alla fine degli anni’80 del Novecento, è stato di recente ulteriormente modificato:lungo i bastoni vengono infilati dei cesti con circonferenze ascalare verso l’alto sui quali vengono disposti i piccoli pani rico-perti di tulle, il tutto viene poi ornato di fiori e nastri variopinti.Proprio il procedere delle donne recanti i pani così disposti ren-de davvero suggestiva la processione che, nel primo pomerig-gio del giorno 24 aprile, parte dalla chiesa parrocchiale per con-durre il simulacro del santo alla chiesa campestre dedicata allaSua intercessione. Si attraversano le campagne del paese contre soste nei luoghi stabiliti dalla tradizione e, dopo circa un’ora,si giunge in località Sos Contònes in agro di Silanus, dove sorge

la chiesa. Nonostante l’ubicazione extra comunale del santuariol’organizzazione della festa, sia negli aspetti sacri che in quelliprofani, è esclusiva competenza degli abitanti di Lei. Ai confra-telli di Santa Croce e della Madonna del Rosario, tutti ex prioridelle feste precedenti, spettano le funzioni relative alla cura delsimulacro del santo, al suo trasporto durante la processione el’organizzazione del culto in stretta collaborazione con il parro-co del paese. I confratelli di Santa Croce indossano l’abito di teladi cotone bianco con cordone dello stesso colore e portano leinsegne della Croce: quelli della Madonna sullo stesso abitobianco, trattenuto da una cintura di colore celeste, indossanouna mantellina di raso del medesimo colore e portano le inse-gne della Madonna. Gli aspetti profani sono appannaggio di uncomitato spontaneo che viene formato nel mese di settembre,essendo stata abolita da qualche anno l’istituzione del priorato.Nel santuario campestre, durante la celebrazione della messa,vengono benedetti i pani che poi verranno in parte consumaticon fini rituali per la protezione delle persone, delle abitazioni, delbestiame e dei campi, in parte verranno smembrati per essereconservati per tutto l’anno seguente; proprio a questo scopo ledecorazioni, che fino a questo momento parevano avere una me-ra funzione estetica, diventano esse stesse, staccate dall’insieme,

I pani e la festa di San Marco a LeiFranca Rosa Contu

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482. Benedizione dei pani durante la messa per la festa di San Marco, Lei, 25 aprile 2005 (foto Daniela Zedda).

483. Coccoi mudàda, 20 cm, Lei.A Lei i pani di San Marco vengono chiamatidiversamente a seconda della forma: coccoismudàdas sono quelli rotondi forati al centro poi infilati in lunghi bastoni ornati di nastri e fiorivariopinti; mentre sas coccoieddas, dalla formarotonda piena (solitamente di ridotte dimensioni),vengono disposte dentro canestri infiorati.

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484. Coccoi de Santu Marcu, 28 cm, Silanus.A Silanus il pane di San Marco è di grandidimensioni ed è conformato a croce greca.

485. Coccoi de Santu Marcu, 12 cm, Bortigali.

486-487. Coccoieddas, 6 cm ciascuna, Bortigali.A Bortigali si fa distinzione tra i pani destinatiad essere portati in processione dai bambinimaschi, forati e infilati nelle lunghe canne, e le piccole coccoieddas che le bambine recano dentro i cestini insieme ai fiori.

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488-489. Coccoieddas, 5 cm ciascuna, Lei.

490-491. Coccoieddas, 6 cm ciascuna, Bortigali.

492. Alla fine della messa i pani benedettivengono distribuiti ai fedeli che lascianoun’offerta al comitato organizzatore deifesteggiamenti, Lei, 25 aprile 2005 (foto Daniela Zedda).

493-494. Coccoi de Santu Marcu, 12 cm ciascuno, Bortigali.

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Il connubio, sempre strettissimo in Sardegna, fra religiosità epanificazione, offre degli esiti particolari nel piccolo paese diCuglieri, che ha sempre unito la sacralità delle sue tradizioni al-la produzione e benedizione del pane. Durante la rievocazionedell’Ultima Cena nel Giovedì Santo, la festività di Sant’Antonioda Padova o di Sant’Agata è usanza secolare benedire il pane,donato il più delle volte da fedeli e devoti che hanno ottenutouna grazia o intendono sciogliere una promessa.Diverso è invece il caso di una solennità che conserva ancora in-tatto l’antico legame, biblico e cristiano, del pane con la sua arcai-ca simbologia di alimento divino: si tratta della ricorrenza di SanFilippo Benizi, un frate vissuto nel Duecento in Toscana ed appar-tenente all’Ordine dei Servi di Maria. Fu per mezzo dell’opera diproselitismo condotta dai Serviti, intorno alla prima metà delCinquecento, che il culto di San Filippo giunse a Cuglieri, grazieal tramite di una fervente Marchesa del paese, Donna Lucia Za-trillas, alla quale si deve la fondazione del Convento di Cuglieri –oggi in disuso e riutilizzato per l’insediamento di uffici pubblici –e forse del santuario noto con il nome di Chiesa della Madonnadelle Grazie. Se è vero, come ci restituiscono i resoconti del periodo, che giàfin dopo la morte di Filippo Benizi si cominciò a benedire il panee l’acqua, si deve supporre che il rito della panificazione legato alnome del Benizi risalga a Cuglieri proprio al periodo di insedia-mento della prima comunità dei Serviti, avvenuto dopo il 1540. I testi più antichi che parlano del santo – in primis la Legenda deorigine Ordinis e la Legenda beati Philippi – riportano, fra i nume-rosi miracoli, il cosiddetto “Miracolo del Convento di Arezzo”, chepotrebbe ricondurre alla tipologia di pane prodotta a Cuglieriper la festività del 23 agosto: «Durante la visita del convento diArezzo (in quel momento la città era in lotta con Firenze), Filippotrovò i frati che, a corto di viveri, potevano a stento sostenersi.Durante una particolare preghiera del santo, si sentì bussare allaporta del convento: davanti all’uscio si trovarono – senza saperechi le avesse recate – due ceste di pane bianchissimo».1

Su pane ’e Santu Tilippu di CuglieriGian Franco Farina

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495. Marca per il pane ’e SantuTilippu, piombo, 4 cm, Cuglieri.

496. Pane ’e Santu Tilippu, 4 cm ciascuno, Cuglieri.I piccoli pani, benedetti il 22agosto, il giorno seguente sono distribuiti alla popolazione di Cuglieri dai soci del Comitato di San Filippo Benizi.

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cio, al giallo: per spezzare la monotonia cromatica del pane, gra-zie ad un sottile filo di paglia intinto nella mistura – oggi si prefe-risce usare un semplice bastoncino di legno – vengono applicatitre punti in corrispondenza del profilo del santo, come fossero ivertici di un triangolo, forse a simulare il segno della croce, indi-care la Trinità divina, conferire già un emblema di santità che sol-tanto durante la sera del 22, in una celebrazione liturgica, vieneratificata con la benedizione delle ceste di pane; insieme ad essesi benedice l’acqua, della quale fruiscono esclusivamente coloroche hanno partecipato al rito.Il giorno successivo, dopo la celebrazione della Messa solenne isoci, provvisti di capienti bisacce, vanno di casa in casa, e con lasemplice frase «su pane ’e Santu Tilippu» si palesano agli abitantiche già li attendono; i soci consegnano qualche pane insieme al-l’immagine sacra del santo, ed è buona norma dar loro un’offer-ta, che in ogni caso non è mai richiesta o pretesa. Divisi secondole zone del paese riescono in un’intera giornata a completare laconsegna, ed a sciogliere quel voto vecchio di cinquecento anniche ha resistito anche all’allontanamento dei Serviti da Cuglieridurante gli anni dell’Unificazione Italiana, quando i Savoia, pervendicarsi del Papa che non aveva voluto riconoscere la nascitadel Regno Sabaudo e l’annessione ad esso di Roma, avevanoabolito alcuni ordini religiosi, fra i quali i Cappuccini ed i Servitiche erano di stanza a Cuglieri. Non sarebbe errato ritenere che in origine fossero gli stessi fratiad occuparsi della consegna dei pani (e probabilmente si tratta-va di pane per i poveri, dato in elemosina, e quindi diverso ri-spetto a quello oggi preparato, che non è confezionato con finicaritatevoli e che si preoccupa piuttosto di mantenere viva l’an-tica tradizione).Su pane ’e Santu Tilippu è un pane destinato ad essere conserva-to, infatti la tradizione vuole che siano numerose le sue pro-prietà: protegge dai fulmini e dai temporali, e poggiato in pros-simità delle finestre ha il ruolo materiale di impedire “l’ingresso”dei pericoli atmosferici, secondo un uso che si avvicina sostan-zialmente a quello degli amuleti; ma ormai esso fa parte inte-grante di quel ricco complesso di oggetti benedetti donati dallaChiesa, ed è normale trovarli sparsi per la casa, nei cassetti o nel-le automobili, in virtù delle loro modeste dimensioni. Questo tipo di panificazione, sia per quanto riguarda gli ingre-dienti che l’uso del timbro metallico, è unico nel suo genere: senei conventi dei Serviti sparsi in tutto il mondo, che celebranoSan Filippo Benizi come fondatore “onorario” della Congregazio-ne, è buona norma benedire il pane e consegnarlo ai devoti, lapraticità e l’omologazione imperante hanno portato ad una sem-plificazione della ritualità, ed alla produzione di pani prossimi,nelle forme e negli ingredienti, a quelli prodotti per la consuma-zione quotidiana; ma non nel caso di Cuglieri, un paese stretta-mente legato alla religione ed alla devozione Mariana, che se nelcorso dei secoli ha perduto forme e significati di antiche pratiche,difende con su pane ’e Santu Tilippu la sua memoria.

Note

1. G.M. Besutti, San Filippo Benizi, Vicenza, Tipografia S. Giuseppe G. Rumors.r.l., 1985, p. 48.

2. La tradizione vuole che il santo, per evitare di essere proclamato Papa du-rante il Conclave di Viterbo, svoltosi intorno al 1268-71, si sia nascosto inuna grotta del Monte Amiata (cfr. G.M. Besutti, San Filippo Benizi cit., p. 50).

Nei giorni precedenti il 23, di solito il 20 o il 21, viene preparatoil pane nei locali attigui alla Chiesa della Madonna delle Graziedai soci e dalle famiglie componenti il Comitato: quest’ultimo,ogni anno ed a rotazione, sceglie un Capo socio che si occuperàdelle questioni riguardanti le celebrazioni e l’acquisizione degliingredienti: acqua e farina di grano tenero per produrre un pa-ne azzimo. Per la preparazione di tutto il pane, destinato all’inte-ra popolazione, sono necessari dai 15 ai 17 kg di farina: su pane’e Santu Tilippu, infatti, altro non è che un piccolo disco circolare,del diametro di 4 cm, che apparentemente assume le fattezze diun’ostia consacrata; ma solo nel diametro, perché la consistenza,lo spessore e lo stesso sapore si differenziano. Produrre su pane’e Santu Tilippu in estate non consente di anticipare la panifica-zione anche solo di una settimana rispetto al giorno della festi-vità: i pani infatti rischierebbero di spaccarsi e rompersi irrime-diabilmente a causa delle alte temperature e della secchezzaclimatica che naturalmente si registra nei mesi estivi, così da va-nificare il lavoro compiuto.Prima di unire gli ingredienti vengono sciolti nell’acqua tre granidi sale, non per conferire sapore all’impasto ma contro il maloc-chio: il sale rappresenta, in Sardegna, il talismano per eccellenza,usato in numerose circostanze (ne viene fatto dono al nascituro,agli sposi novelli come fosse un portafortuna; o racchiuso in dipezzi di carta o di stoffa nascosti all’interno della casa); la pre-senza del numero tre – numero magico-propiziatorio – ricor-rerà ancora nella decorazione dei pani: sacro e profano, creden-ze umane e dottrine divine sono sempre andate di pari passo,ufficialmente disgiunte ma segretamente unite.Se al giorno d’oggi si impasta la farina con l’acqua grazie allemacchine, nella memoria delle donne più anziane è ancora vi-vo il ricordo della lavorazione manuale; non solo: fino a pochidecenni fa era consuetudine che qualche socio, a ragione di unvoto, confezionasse il pane di San Filippo in casa propria; lapreparazione poteva andare avanti per un intero anno: doven-do infatti compiere i lavori quotidiani, le donne facevano i paniquando avevano tempo, e li conservavano fino al momentodella festa.Quando la pasta ha raggiunto adeguata malleabilità, ogni socione prende un pezzo e comincia a lavorarlo con entrambe le manicreando dei cilindri di pasta, dello spessore di un dito, che vengo-no tagliati in piccoli pezzi come si trattasse di gnocchi: su questi siimprime un timbro metallico – i più antichi sono di piombo –che riproduce le effigi del santo; in esso, al centro, è possibile ri-conoscere la sagoma di San Filippo Benizi (secondo il simulacroconservato nella chiesa del paese) circondata dai segni papalidella mitria e del pastorale.2 Nel corso del tempo l’uso dei timbridi piombo ha contribuito alla loro parziale rovina e modificazio-ne; oggi si usano timbri formati da materiali più resistenti e dura-turi, che impediscono ai frammenti di piombo di rimanere nellapasta e rendere nocivo il pane stesso se ingerito; infatti ciascuncuglieritano non è tale se non ha assaggiato, almeno da piccoloe per gioco, il pane di San Filippo.Una volta applicato il sigillo la piccola forma di pane, spessa pocopiù di una moneta, viene presa in mano con delicatezza e decora-ta nel contorno con delle pinzette, delle forbici, o punzonata conpiccoli strumenti metallici o lignei utili per la rifinitura; gli orna-menti sono semplici e primitivi: linee, curve, spigoli, stelle, decora-zioni a raggiera riproducenti dei piccoli soli; le donne più esperteo con più fantasia sono in grado di creare delle forme più ardite –grazie anche a sagome in carta o cartone che vengono sovrappo-ste alla pasta –, legate sempre alla religiosità ed alla devozione:

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497-498. Pane ’e Santu Tilippu, rispettivamente 14 e 13 cm, Cuglieri. I pani più elaborati sono destinati ai soci, ai sacerdoti e alle prioresse.

499. Pane ’e Santu Tilippu, 11 cm, Cuglieri.La “M” che forma questo pane è un simbolo mariano.

500. Pane ’e Santu Tilippu, 9 cm, Cuglieri.

acquasantiere, fiori, ostensori, croci, cuori, ma in ciascuna di esse,punto centrale ed elemento inscindibile, verrà applicata la pic-cola medaglia di pane con il marchio del santo; di norma, questepiccole sculture vengono regalate ai sacerdoti, a parenti o amici,o più semplicemente conservate da chi le confeziona.Una volta rifinite, le piccole formelle vengono introdotte nel fornoa legna e lasciate per pochissimi minuti, il tempo di farle asciugaree far loro assumere una compattezza al limite della solidità: essen-do prive di fermenti esse non si sollevano e non assumono il colo-re della cottura, ma restano bianche. Nel frattempo si stemperadella polvere di zafferano in un po’ d’acqua, così da ottenere uncolorante naturale che possa sfumare dal rosso intenso, all’aran-

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Andàu ca du bièusu, andàus! (Andiamo a vederlo, andiamo!).Così a Orroli si sollecitavano i compaesani ad accorrere al passag-gio del corteo di giovani che di sabato, vigilia delle nozze, traspor-tavano alla casa dei futuri sposi, insieme a su sciugàriu, il corredodella sposa, un suggestivo pane nuziale, su crispèsu. Tutti correva-no a vederlo, ed era commènte chi síant’andèndu a biri s’ispos’e tot-tu (come se andassero a vedere la sposa stessa). Questo pane era,infatti, ciò che maggiormente la rappresentava agli occhi dellacomunità, perché, afferma un’informatrice, preparare su crispèsuvoleva dire che la sposa sapeva fare tutto, tutte le faccende, e chein casa sua non doveva mancare niente. La forma del pane, sottile ma elaborata, il candore della sua pa-sta, punteggiata appena di zafferano, la ricchezza degli elemen-ti plastici e figurativi ne facevano un “contenitore” simbolico ca-pace di evocare purezza e invocare prosperità e abbondanza.Su crispèsu è espressione di un cerimoniale nuziale che si aprealla comunità per trasmettere virtù, status e abilità. Una fanciul-la giovane e bella, e che avesse entrambi i genitori, aveva il pri-vilegio di trasportarlo a cúccuru, sulla testa, con un grande ca-nestro rivestito di un telo ricamato, e ben ancorato tra grandipani bianchi di pasta dura.Come un santo in processione, che nella sua ornata portantinasegue la croce, le donne salmodianti col rosario e il prete, su cri-spèsu, accompagnato da vassoi carichi di dolci e caraffe di li-quori, chiudeva il corteo de tottu s’istrèxu ’e fenu contenente sto-viglie, lenzuola, coperte, cuscini e biancheria, ultimo sfilava ilcarro con il mobilio. Al passaggio del corteo giovani donne lanciavano grano in se-gno di buona fortuna, rompendo poi il piatto che lo aveva con-tenuto. Tottu su trigu chi ettànta po sa coja (tutto il grano chelanciavano per le nozze), anche quello che l’indomani sarebbepiovuto sugli sposi, si seminava a parte, e a nessuno in paeseera permesso raccoglierlo; solo le galline di passaggio poteva-no beccarne. Nel corteo de su sciugàriu raramente mancava sa cròb’e trigu cund’una paríg’e ousu (corbula di grano accompagnato da alcuneuova). Dono di un parente, perlopiù, augurava un futuro riccodi ogni bene: prenu che is ousu! (pieno come le uova!).Parenti e vicini regalavano solitamente piatti colmi di grano, esu trigu ’e is pràttusu serviva po ddu torrà a arài, per seminarlo dinuovo e farne pane l’anno seguente. Ricordando il grano a leidonato, il buon raccolto che se ne fece e l’ottimo pane consu-mato, un’informatrice commenta: «Gei fu bèrusu!», intendendo:era proprio vero, quel grano portava fortuna!

Anche nei mutetti cantati agli sposi, come in questo Andimmi-ronnài, si sottolineava la valenza ben augurale e sacrale del grano:Andimmironnài, andirennòr andíra jandimmironnài.Andàu ca du bièusu su trigu finzas a chi è friscu e bell’a illimpiài,andàu ca du bièusu, ddi si donghi fortuna a is ispòsus de òi su Signòr’e su xelu, comment’anta a disigiài.È bellu a illimpiài, su Signòre ’e su xeluddi si dònghi fortuna commènt’anta a disigiài(Andiamo a vederlo il grano finché è fresco e facile da pulire,andiamo a vederlo. Il Signore del cielo doni fortuna agli sposi dioggi come desidereranno. È bello da pulire, il Signore del cielogli doni fortuna come desidereranno).Canto monostrofico che in s’isterríngiu, quartina iniziale che fun-ge da introduzione, richiama l’ambiente agrario, il grano ancorafresco, gli sposi, il Signore del cielo, mentre nella chiusura, su cro-betóxu, si invoca il Signore perché col grano giunga agli sposi lafortuna desiderata.Con l’arrivo del corteo venivano sistemati i mobili, la biancheria,le derrate alimentari, e si appendeva il corredo di canestri e se-tacci. Lo sposo, solitamente presente, non mancava di porgereuna mancia, s’istrínas, alla giovane donna che, come una bene-dizione, aveva portato il prezioso pane in quella casa. Due erano le modalità di realizzazione del crispèsu e diversa neera la morfologia, a seconda che gli si desse un’anima metallicaoppure vegetale. Nodosa, ispida e priva di punti di saldatura, la struttura di filo diferro era alta da 30 a 50 cm; poggiava su quattro piedi e consi-steva di altrettante colonne disposte su uno o due piani digra-danti, terminanti in una sorta di baldacchino sormontato da unacroce. Rivestita di una bianchissima pasta di grano duro, poi abil-mente increspata e frastagliata,1 ospitava lillipuziani coccoèddusdi pasta dura (in fogge animali, vegetali, astrali, umane e divine)punteggiati di zafferano.2 Un rosario di pane adagiato sulla co-struzione ne completava l’opera. Così confezionato, su crispèsu era destinato a diventare orna-mento per la sala da pranzo, come soprammobile o appeso alsoffitto, e se la sala da pranzo non c’era si poteva anche siste-marlo in cucina o, meglio ancora, in s’apposént’e crocài, la came-ra da letto, che nelle case più modeste era la stanza in cui si rice-veva, per esempio in occasione dei battesimi, quando «persinoil prete poteva entrarvi a prendere l’invito!».Lo si conservava fino al suo disfacimento, mentre gli altri pani chelo contornavano si consumavano al pranzo nuziale che, prepara-to dai parenti dell’una e dell’altro, si svolgeva in casa degli sposi.

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Su crispèsu: arte popolare figurativa e plastica in su pan’e sa coja orroleseLucia Marrocu Ortu

Altri dolci e pani arrivavano anche da parte dei parenti dellosposo; poteva comparire persino un altro crispèsu a ostentarneil benessere. Dato l’imbarazzo che ne seguiva, era difficile pergli invitati dare la palma della bellezza all’uno piuttosto che al-l’altro, ma in paese non si mancava di commentarli. Diverse erano le persone in grado di realizzare, da sole o in col-laborazione, questo pan’e coja speciale: c’era chi sapeva faredelle intelaiature artistiche, chi era in grado di modellare la pa-sta con perizia e ricercatezza, e chi, invece, portava avanti l’ope-ra dall’inizio alla fine.È il caso di tziu Ambroxu Mereu3 il quale, ispirandosi ai soggettiraffigurati nelle cartoline che riceveva, forse dal figlio prete, erain grado di realizzare crispèsus in forma di chiese e basiliche, eche, si racconta, «sapeva fare persino il duomo di Milano!». Chi poteva sostenerne i costi gli commissionava l’opera che, secomprendeva anche la preparazione di tutti i coccoèddus daconsumare al banchetto nuziale, arrivava a costare fino a tremois de trigu (starelli di grano). Certo, oltre al materiale, era ne-cessaria inventiva, tempo e fatica e il grano richiesto era la giu-sta ricompensa.Immortalato dal fotografo, è rimasto nella memoria collettiva ilcrispèsu da lui realizzato nel 1931 per le nozze di Albina Sirigu eFrancesco Picchiri: architettura sacra, ad archi sviluppati su duelivelli sovrapposti, rivestita di una pasta frastagliata, decoratacon fiori, tralci d’edera, colombine, uccellini e stelline; in bassoun piccolo rosario, dentro e sopra l’edicola alcune figure umaneanch’esse plasmate con la pasta. Osservando la foto, qualcunooggi vi ha visto raffigurati degli angeli, altri gli apostoli, altri an-cora gli sposi, e la presenza del bimbo di pane in cima all’operaha fatto nascere qualche pettegolezzo. Potrebbe forse trattarsidella Vergine Maria con San Giuseppe suo sposo e un Gesù bam-bino che tutto sovrasta: una Sacra Famiglia di pane propostacome modello di “Chiesa domestica”, focolare di vita cristiana alnascente nucleo familiare.4 All’interno del crispèsu, appesi a pic-coli ganci i corbezzoli maturi sembrano i lampadari di questopiccolo tempio.5

Certo tziu Ambroxu Mereu nel foggiare filo di ferro e pasta dipane era capace di eccezionali virtuosismi, e il figlio Eugenio,che ne eredita l’arte, porta avanti per diversi anni “la tradizionedi famiglia”. Se però si era capaci, e poco disposti a spendere, sievitava di commissionare l’opera agli specialisti e ci si acconten-tava di crispèsus un po’ più semplici ma altrettanto belli, tantopiù che si ricorda oggi: «Facevano festa facendo tutte questecose, facevano festa!». Gli anziani menzionano con entusiasmo icrispèsus realizzati per parenti, amici e vicini da tziu Artallo Piras,da tziu Finando Ghini, da Nicolina Cavalleri e da tzia Letizia Cot-za (classe 1905). Oggi preziosa informatrice, quest’ultima rac-conta della buona fama goduta fra i compaesani quando di leidicevano: «Tzerriàusu a Letizia chi est imparèndu bene chin tziaMereu, chi mi olìada e già du scia pesài! (Chiamiamo Letizia chesta imparando bene con tzia Mereu, che mi voleva e già sapevomodellarlo!)»; o quando, al passaggio del corteo con il suo paneesclamavano: «Ita bellu! Custu deppid’essi de Letizia (Che bello!Questo dev’essere di Letizia)».6

Le famiglie di umili condizioni, che essendo impegnate a lavora-re e produrre per la sopravvivenza disponevano di pochissimotempo libero da dedicare ad attività superiori,7 ricorrevano a unsistema diverso per realizzare il pane nuziale, più semplice e, di-cono alcuni, ancora più antico: sapere oggettivato in praticasimbolica che apparteneva alla memoria comunitaria.8 Un fron-

doso ramo di alloro fungeva da struttura portante, lo si confic-cava in un grosso moddizzósu o dentro un tondeggiante coccòidi pasta dura modellato con uccelli, rose e sa soriàna (margheri-ta selvatica). Vi si appendevano tanti minuscoli coccoèddus dalleforme più varie: lettere dell’alfabeto (le iniziali degli sposi), co-roncine, cavallucci, cuori, ecc.; sfrangiati e pizzicati con gli appo-siti strumenti (coltellini, forbicine, rotelline, pinzette) e decoraticon zafferano. Il rosario di pane, che non doveva mancare, eraadagiato sui rami. Coriandoli di carta dorata e argentata decora-vano le foglie, e un bianco fiocco di raso arricchiva il ramo sullacima. Era s’alluéri (l’alloro), detto anche crispès’e is poburus (cri-spèsu dei poveri):9 un alberello di frutti di pane. Anch’esso esibi-to nel corteo de su sciugàriu, veniva trasportato da una fanciulladentro un canestro colmo di coccoèddus più grandi, mentre unapioggia di chicchi di grano scongiurava la miseria e auguravaagli sposi ricchezza e fertilità.I coccoèddus appesi al ben augurante ramo di alloro erano, neimotivi plastici e nelle decorazioni, pani nuziali, ma di essi si fa-ceva volentieri dono ai bambini quando andavano a trovare glisposi nei giorni seguenti alle nozze; quelli che restavano si con-servavano per ricordo.Dei pani ad albero, il crispèsu dei poveri, si ha testimonianza finoagli anni Settanta del Novecento. Se ne ricordano, però, diversevarianti nelle quali era usato come supporto s’orrù (il rovo), oppu-re su calàvricu (il biancospino selvatico), rivestito di pasta di pane,oppure la canna fresca, sezionata in più parti e aperta a liste, rive-stite anch’esse di pasta, alle quali si appendevano coccoèddus epiccoli croccanti di mandorle a forma di cuore. In cima alla cannaalcune spighe di buon auspicio.10 «I poveri ne facevano più belli

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501. Crispèsu, 1931.Realizzato da Ambroxu Mereu nel 1931 per le nozze di Albina Sirigu e Francesco Picchiri.

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dei ricchi!», mi è stato detto più volte, quasi a volersi riscattaredalla loro condizione, almeno per un giorno. Su crispèsu e il corteo de su sciugàriu hanno talvolta varcato iconfini del paese, giungendo a Nurri, centro confinante, al se-guito delle spose orrolesi: Albina Sirigu, Assuntina Anedda edEleonora Locci. Intorno agli anni Cinquanta su crispèsu è statorealizzato anche a Nurri, ma sembra si sia trattato di un caso iso-lato: gli sposi erano di Nurri ma la mamma della sposa era di Or-roli. Alcune delle spose provenienti da Orroli abitavano nel vici-nato Sa perdaia, tra queste Albina Sirigu, il cui bellissimo pane èritratto nella fotografia del 1931. L’aveva scattata a Nurri il signorAtzeni che all’epoca era uno dei pochi a possedere una macchi-na fotografica. E sempre a Sa perdaia ha abitato tzia Maria Car-rus (classe 1916) che, racconta, appena quindicenne era rimastatalmente impressionata dalla bellezza di quel pane da non aver-lo mai più dimenticato: «A noi bambini è sembrato meravigliaperché non avevamo mai visto di queste cose e tutti i momentiandavamo a guardarlo».E proprio tzia Maria Carrus, essendo questa tradizione da decenniormai caduta in disuso, per evitare che se ne perdesse la memo-ria ne ha proposto la realizzazione al signor Gerardo Piras, pro-motore di un corso autogestito di panificazione nel quale lei stes-sa ha insegnato, all’interno di un programma di valorizzazionedelle produzioni agricole.11 «Così che, su crispèsu è nato così!», di-ce con orgoglio tzia Maria, desiderosa di riconoscimento socialee per questo tante volte ritratta nell’atto di esibire su crispèsu. Come lei, altre donne hanno ripreso, o hanno imparato, a realiz-zarlo, copiando diligentemente gli antichi telai in filo di ferro cheerano stati gelosamente conservati per ricordo dalle più anzia-ne. Anche quello modellato da tziu Ambroxu Mereu nel 1933per le nozze di tzia Antonietta Marrocu e Salvatore Orrù (sacristadella chiesa di Orroli) è stato fedelmente riprodotto. A Siurgus Donigala nel 1998, in una mostra organizzata dall’ERSAT,è comparso anche s’alluèri orrolese, e nel 1999 nella mostra “Is cri-spèsus per Santa Caterina”, organizzata a Orroli sempre su iniziati-va dell’ERSAT, ogni gruppo di panificatori ha esibito il suo pane ce-rimoniale. Su crispèsu si è potuto ammirare esposto anche in Fieraa Cagliari, e opuscoli divulgativi, riviste gastronomiche e articolidei quotidiani (consultabili anche sul web) hanno contribuito arenderlo noto. Forse alla ricerca di nuovi simboli identitari, in que-sti ultimi anni Orroli lo porta anche in processione per Santa Cate-rina d’Alessandria. È pertanto vero che: «Se l’identità ha bisogno diessere costantemente espressa e segnalata, è attraverso degli og-getti concreti che tale comunicazione può aver luogo, oggetti chediventano simboli per associazione arbitraria d’idee».12

Sfuggita all’oblio, questa tradizione è passata così attraverso l’in-terpretazione del presente e ha assunto nuove funzioni,13 diven-tando anche espressione di orgoglio municipale oltre che indivi-duale. Mancano tuttavia le suggestioni legate alle circostanzefestive nuziali della comunità contadina di una volta, per la qua-le il passaggio di quello strano e meraviglioso pane in corteorendeva onore agli sposi e alle fatiche di ogni giorno. Atmosferedel passato che nessuna finzione scenica saprà restituirci e chepotrà solo in parte evocare.

“Su crispèsu di tzia Maria”

Nel corso della ricerca, ho avuto modo di osservare e anche diprendere parte attiva alla realizzazione de su crispèsu, cosicchémi è possibile tracciare una breve etnografia dall’interno di que-sto saper fare.14

Il 2 luglio 2005, tzia Maria Carrus e sua figlia Anna Ligas accol-gono in casa le diverse persone che si sono rese disponibili acollaborare alla realizzazione del crispèsu : la nuora Graziella Me-reu, la vicina Serafina Boi, le giovani sorelle Sandra e MarcellaMulas (desiderose di imparare da una grande maestra), la sotto-scritta e Vladimira Desogus che, assistita da Pietro Sarritzu, necura la videoregistrazione.Una mattiscèdd’e spin‘e Crístisi, una piantina di spina di Cristo, èil sostegno che si è scelto per questo pane, la cui realizzazioneha richiesto due giorni di intenso lavoro. Semola di grano duroCappelli è stato l’ingrediente base al quale si è aggiunto suframmèntu, il lievito naturale di pasta acida (preparato per l’oc-casione il giorno prima), acqua e sale. Indossati la cuffietta da panettiera e un grembiule con la scrittaricamata “corso del pane”, tzia Maria si appresta a fare il pane:dapprima kumóssada, amalgama a mano gli ingredienti in sascivèdda di terracotta e poi, avvolgendo l’impasto in una tova-glia, lo porta nella stanza del forno dove si trova anche un’impa-statrice meccanica di legno (con motore 16 cavalli alimentato acorrente elettrica) che le hanno costruito i figli. È il momento diciuexídi, lavorare la pasta.La figlia Anna intrattiene le aiuto-panificatrici in cucina e pre-para il caffé che si gusta, ancora fumante, prima di iniziare a ndipesài su pani, a modellare il pane; intanto l’entusiasmo cresceperché il momento più creativo sta arrivando! Liberato il grande tavolo di cucina, si aggiunge sa mèsa de fai pa-ni, un tavolo in legno di modeste dimensioni che si usa per fare ilpane; si indossano i grembiuli e, presi ognuno i propri strumenti,in un attimo sa mèsa è “apparecchiata” di piccoli arnesi per sfran-giare, affettare, seghettare e decorare il pane: fèrrus mannus epittícusu (forbici piccole e grandi), arresoriéddasa (coltellini), serrét-tasa (rotelline), pintapàni (coltelli speciali e pinzette). La pasta si spòngiada, si lavora a mano perché diventi più liscia, eda piccoli pezzi si comincia a dare forma al pane; scopriamo soloora che per il nostro crispèsu occorreranno ben cinquanta coc-coèddus! Abbozzata la forma prescelta, iniziamo a istreccài : pizzi-cando la pasta con l’indice e il pollice realizziamo una sorta dicresta (sa crestixèdda); la pasta modellata si scaríngiada, si tagliain più punti, e in seguito tòccad’a d’affittài, bisogna sfrangiarlo,po di fai is pizzicorrèddusu, per sollevare dei piccoli cornetti; sipasserà poi a pintài su pani (decorare il pane). Tzia Maria dà indicazioni e consigli e distribuisce parole di in-coraggiamento: «Se non sei brava diventi brava, cosa credi chele altre hanno imparato chenz’e ddu biri?» (senza vederlo); così,dopo che per più volte du torr’a iscullài, disfo il lavoro e riprovo,finalmente mi sento dire: «Hai visto che l’hai fatto bellino? Sba-gliando, sbagliando si impara!». Conferma di come «le pedago-gie tradizionali sono anche nell’ambito della trasmissione delsaper fare tecnico, implicite: si impara guardando e facendo esi insegna facendo, con pochissimo spazio al discorso normati-vo che per lo più è o reprimenda o approvazione».15

Spiegherà poi la signora Serafina che «la difficoltà de su coc-coèddu è a affittài (a sfrangiare), è come dargli il colpo di grazia:serve per aprire i pizzicorri in modo che cuocia bene e si apra».E intanto si prende un po’ la mano e dalla pasta informe emergo-no cuori, coroncine, puddixèddas (gallinelle), lettere, cuaddèddus(cavallucci); sono vari i commenti sui coccoèddus dell’una e del-l’altra ma «funti tottu belliscèddusu» (sono tutti belli) si ammette,e poi se così non fosse «su forru arràngia tottu!» (il forno aggiu-sta tutto!). Alcuni si devono fare «a pani mànnusu po’ abbarrài

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502-506. Fasi della lavorazione de su crispèsurealizzato sotto la direzione di tzia Maria Carrus, Nurri, 2005 (foto Vladimira Desogus).

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moddi» (a pani grandi per restare morbidi), dice tzia Maria (sonoi pani che un tempo si sarebbero consumati al banchetto nuzia-le). Mano mano che sono pronti si mettono sulle teglie (copertepoi di pellicola trasparente) per axedài, atzimài (lievitare) primadella cottura, «così cuoceranno meglio e saranno anche più buo-ni!». Durante il lavoro, parenti e amici, persone vicine e lontanesono spesso argomento di discussione, e il tempo passa veloce. Una volta lievitati, i pani vengono cotti nel forno a gas e decora-ti a caldo con lo zafferano. Usando pezzettini di fieno e stecchi-ni cerchiamo di punteggiare di rosso-arancio le manixèddas (in-siemi di cornetti di pane che sembrano manine) e tracciamoghirigori e fiorellini. Si prepara il rosario di pane con il Cristo incroce disegnato con lo zafferano, e Sandra, scoperta una certaabilità nel manipolare la pasta, introduce una variante che èperò coerente con l’originaria funzione d’uso di questo pane: glisposi di pane. Ultimate le decorazioni, si preparano le sfoglie di pasta che ta-gliate a strisce avvolgeranno i rami dello spino; un moddizzòsugli farà da base. Rivestito il ramo lo si decora con roselline, foglio-line e uccellini di pasta. Tzia Maria plasma anche le oche “delCampidoglio” (parte importante del corredo di animali del suocortile) e poi avvolge con filo di cotone i coccoèddus. Appesi con cura i minuscoli pani sul ramo, osserviamo con me-raviglia la “ricchezza di vita” che questo piccolo albero di pane èstato capace di accogliere e ci sentiamo ripagate della fatica. L’il-lusione dura solo un momento, su crispèsu accenna a rovesciarsisotto il peso dei coccoèddus: è panico! Fortunatamente riuscia-mo a raddrizzarlo, e quando tzia Maria adagia un ciuffo di alloroin cima al crispèsu capiamo che l’opera è davvero completa. Si-stemato dentro su pallìni rivestito di un bel pizzo, coi coccoèdduspiù grandi intorno, è ora pronto a compiere il suo viaggio. “Su cri-spèsu di tzia Maria” si trova ora a Parma ed è parte della collezio-ne Zanzucchi Castelli (2000) del nascente Museo del Pane. Qui,opportunamente conservato, godrà di una lunga visibilità.Su crispèsu, che nell’esibirsi e mostrarsi ha sempre avuto la suaragion d’essere, perso il suo originario contesto d’uso è diventa-to documento16 e nuovo oggetto di patrimonio etnologico.17

Note

1. La foggia di su crispèsu (pane e telaio) rimanda al verbo crispare, fare «afrunzas, a pínnigas, a tavellas, increspare» (M. Puddu, Ditzionàriu de sa lim-ba e de sa cultura sarda, Cagliari, Condaghes, 2000), e all’aggettivo krispu:«crespo, spinoso, ispido, storto» (M.L. Wagner 1960-64); Puddu e Wagner,citando il Porru e lo Spano, riportano il sostantivo crispésu col significatodi bastoncino a tre punte, pezzo di canna o frusta per miscelazione.

2. Forma simile ha sa cadìra de Santa Chederina (la sedia di Santa Cateri-na), portantina (con quattro colonnine rivestite di fiorito tessuto bianco,tenuto a sbuffo da diversi nastrini rossi, e tetto a baldacchino sormontatoda una croce) che a Orroli accoglie il simulacro della santa d’Alessandriaquando il primo venerdì di giugno la si porta in processione, sopra un car-ro a buoi ben addobbato, dalla chiesa campestre a lei dedicata alla chiesaparrocchiale, per poi riportarla nella sua dimora la domenica pomeriggio,con i fedeli che seguono sulle tràccas, carri ornati di trine e merletti (oggirimorchiati da trattori), o a piedi. Anche per la festa di Santa Caterina siusava fare i coccoèddus decorati con lo zafferano.

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507507. Crispèsu, 65 cm, Nurri.

3. Conosciuto e stimato per le sue doti artigianali e artistiche, svolgevaanche attività di agrimensore e veniva consultato come perito per dirime-re questioni attinenti alla divisione ereditaria dei beni.

4. Usando un’antica espressione, il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-65),definirà la famiglia proprio come «Ecclesia domestica» (Catechismo dellaChiesa Cattolica, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1992, p. 423).

5. Tutto intorno nel canestro sono visibili anche alcune arance con le lorofoglie; le nozze, infatti, erano state celebrate nel mese di dicembre.

6. Apprezzato anche il croccante di mandorle (su gatóu) “a forma di crispè-su” di zia Adelaria Sirigu. Il croccante di mandorle era il dolce nuziale, ra-ramente si faceva così bello ma quando capitava lo si faceva sfilare in cor-teo dentro un cesto, con tanti coccoèddus intorno.

7. G. Angioni 1986.

8. N. Pethes, J. Ruchatz, Dizionario della memoria e del ricordo, Milano, Mon-dadori, 2002, p. 316.

9. Su crispèsu dei ricchi, pertanto, non prevedeva l‘uso dell’alloro, eppurequalcuno lo ha portato in corteo con una corona d’alloro intorno, soste-nendo che «l’alloro è segno d’onore e conserva anche il pane».

10. Il tema dell’albero, pur nella varietà di forme espressive, di materiali, disituazioni, lo si ritrova di frequente non solo in Sardegna ma in tutto il ba-cino del Mediterraneo e oltre: lo riportano pani e dolci nuziali, tappeti, fre-gi, ricami e incisioni, con chiaro riferimento all’albero della vita, motivodecorativo di origine antichissima, legato soprattutto nelle zone agricolealle cerimonie rituali di fertilità e rigenerazione, proprio della religiositàpagana, che successivamente il culto cristiano ha assunto e trasfigurato(Aachen-Bakunin, Enciclopedia Europea, Milano, Garzanti, 1976; ZanzucchiCastelli 2000).

11. Il pane 2000.

12. R. Colombo Dougoud, “Arte e identità: le storyboards di Kambot”, inEtno-grafie 2003, p. 88.

13. G. Lenclud, “La tradizione non è più quella di un tempo”, in Oltre il folk-lore. Tradizioni popolari e antropologia nella società contemporanea, a curadi P. Clemente, F. Mugnaini, Roma, Carocci, 2001.

14. M. Busuni, “Soma utensile, strumenti incorporati. Immagini del saperfare”, in Etno-grafie 2003.

15. G. Angioni 1986, p. 111.

16. A.M. Cirese 1996.

17. S. Paggi 2003.

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Il racconto ha struttura di leggenda di fondazione: emergenza,richiesta di aiuto sovrannaturale con voto, intervento miracolo-so, fondazione di un culto. Il personaggio della giovane miraco-lata fa plausibile l’istituzione di una festa dei giovani non sposati.È pratica diffusa in Sardegna celebrare la festa di un santo a spe-se proprie per sciogliere un voto, lasciandone l’obbligo agli ere-di. L’onere della Fésta de is bagadíus spettava a tre famiglie, eredidella festa. Nel loro ambito si eleggeva ogni anno un cápu ob-bréri. Ai tre votati principali (detti obbréris obrigáus, “obrieri obbli-gati”), cui si potevano aggiungere altri due obbréris annualmen-te provvisori, si accodavano in pratica quasi tutte le famiglie delpaese (e immancabilmente quelle in cui c’erano dei celibi e dellenubili), che sovvenivano alle necessità delle celebrazioni offren-do farina per la confezione dei pani o anche altro.Si iniziava la sera del secondo lunedì di ottobre. La domenicaprecedente le mogli degli obbréris visitavano le case dove sitrovavano dei bagadíus e li invitavano a partecipare alla festa.L’operazione era delicata. Tutti i bagadíus e le loro famiglie dove-vano invitarsi, ma bisognava badare a non chiamare personenon in grado di far fronte alla catena di prestazioni reciprochedella festa. L’invito non poteva rifiutarsi e quindi non andava fat-to a una famiglia in lutto. Accettare l’invito comportava parteci-pare alle spese, quindi bisognava evitare, senza arrecare offesa,di coinvolgere famiglie disagiate. Bisognava poi che si sentisseropunite le famiglie che in anni precedenti avessero mancato aqualche loro dovere nell’ambito della festa, come il non contri-buire in rapporto alle proprie disponibilità alle spese affrontatedal comitato organizzatore. Così, questo era un momento diemergenza in cui potevano venire al pettine nodi non sciolti diinimicizie, di debiti, di rancori tra persone che l’occasione mette-va in stretto contatto e che bisognava evitare che diventasserodei guastafeste.La festa iniziava la sera del lunedì, quando le ragazze si raduna-vano in casa del cápu obbréri. Il segno convenzionale di ogni ra-duno era lo sparo di un razzo. In casa del cápu obbréri le ragazzeerano accolte da uno dei personaggi principali della festa, samaísta (la maestra), che era una donna tra le più esperte delpaese nella confezione del pane, e specialmente di quel paneche avrebbe “ornato” la croce e che sarebbe stato portato inprocessione nel momento culminante della festa. Le ragazze,sotto la direzione della maísta, iniziavano le operazioni per la

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La Fésta de is bagadíus a SiurgusGiulio Angioni

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La varietà di forme, di funzioni e di denominazioni del pane ècomune a tutta la Sardegna ed è caratteristica di molte feste. Mail pane si celebra al massimo a Siurgus (Cagliari), un villaggioagro-pastorale di circa tremila abitanti. La Fésta de is bagadíus è la festa dei “non sposati”, dei non ancorasposati in giovane età. È stata abolita per decisione ecclesiasticanel 1952. Ho ricostruito fasi e regole tramite interviste. Sono an-che riuscito a far confezionare per me tutta la serie dei pani usatie a riprodurre le fasi principali della festa. La Fésta de is bagadíus si celebrava tutti gli anni durante la se-conda settimana di ottobre, con due appendici. Gli abitanti diSiurgus ricordano con rimpianto la festa ma non sono d’accordonel collocarla nel calendario liturgico romano. C’è chi la dice inonore della Vergine del Rosario e chi della Vergine dei Sette Do-lori. Gli aspetti profani ne hanno provocato, forse dopo millenni,l’abolizione. I siurghesi hanno una leggenda per spiegarne l’ori-gine: «Kusta fíad una fémina antìga méda chi teníad una fíllamaláida in púntu ’e mórti e no isciríat cuménti fái po dda sanái. Iafáttu bénni tóttu is dottóris prus capássus, ma non c’ia vérsu. Sa pó-bera fémina fía disisperáda poíta ca ddi fía mórtu giai unu fillu e sumaridu. Una dí chi ía bíu sa mágini de Nóstra Sinnióra de is séttidolóris appiccádda in cónc’ ’e léttu de sa fílla, dd’ía fáttu s’impro-missa ’e ddi ’onái dónni’ ánnu una bácca e una grux’ ’e páni po cán-tu ad éssi bívia i apústis de íssa is erédis súusu. I aícci a fáttu e NóstraSinnióra ’e is sétti dolóris dd’ad accantsáu sa grátsia e sa fílla è sa-nada miraculosaménti. S’ánnu e tóttu a fáttu sa prímu ’órta sa féstachi nósu eus fáttu dónni’ ánnu fíntzas a cándu su prédi e muntzen-nióri no dd’ánti proibída. Nósu ddi naráus sa fésta de is bagadíus efía sa fésta prus mánna e prus bélla de tóttu s’ánnu, prus de sa féstade Sántu Tiadóru, chi è su patrónu de sa bídda».(Questa era una donna molto antica che aveva una figlia malatain punto di morte e non sapeva come fare per guarirla. Avevafatto venire tutti i medici più capaci, ma non c’era verso. La po-vera donna era disperata perché le era già morto un figlio e ilmarito. Un giorno che aveva visto l’immagine di Nostra Signoradei Sette Dolori appesa in capo al letto della figlia, le aveva fattola promessa di darle ogni anno una vacca e una croce di paneper quanto avesse vissuto e dopo di lei i suoi eredi. E così avevafatto e Nostra Signora dei Sette Dolori le aveva concesso la gra-zia e la figlia è guarita miracolosamente. L’anno stesso avevafatto per la prima volta la festa che noi abbiamo fatto ogni annofinché il prete e monsignore (vescovo) non l’hanno proibita. Noila chiamiamo la festa dei bagadíus ed era la festa più grande epiù bella di tutto l’anno, più della festa di San Teodoro, che è ilpatrono del paese). 508

508. Pane de is bagadíus alla sfilata per il Redentore, Nuoro, 1968 (foto Mario De Biasi).A sostenere il pane sono i membri del gruppo Folk di Siurgus Donigala.

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potevano si facevano sulla soglia di casa o andavano incontro al-la comitiva. Una bagadía, scelta e preparata, metteva una colla-na ricamata (cannáca) e risonante di campanelle intorno allacervice della giovenca, le ornava le corna con mazzetti di fiori evi infilava sulle punte un’arancia o un limone. Poi in corteo con lagiovenca fino alla casa del cápu obbréri, dove veniva custodita fi-no al pomeriggio del venerdì seguente, quando veniva macella-ta. La giovenca non doveva prendere nessun genere di cibo,perché ormai era cosa sacra, ma i meno timorati spiegano il di-vieto notando come la carne risulta migliore se l’animale rimanealmeno ventiquattr’ore digiuno.La notte tra il giovedì e il venerdì si continuava a fare il “pane permangiare”. Il pomeriggio del venerdì si macellava, senza partico-lari cerimoniali, la giovenca. La sera i membri del comitato, cheinvitavano anche numerosi amici, ne mangiavano in banchetto,in casa del cápu obbréri, le interiora (trippa e intestini), mentre lacoratella, le zampe e la testa si mangiavano in successivi ban-chetti dai membri del comitato e dai loro invitati. L’invito a questibanchetti “privati”era ambito.La notte tra il venerdì e il sabato si faceva ancora “pane per man-giare”. Il sabato era dedicato alla preparazione dell’occorrenteper i festeggiamenti del giorno seguente. Di mattina si racco-glieva in casa del cápu obbréri una grande quantità di piatti, po-sate, pentole, bottiglie, bicchieri, tovaglie, sedie, canne secche,

basilico, garofani, lauro, nastri multicolori, oggetti d’oro, fazzolet-ti di seta ricamati. Di pomeriggio si preparava la croce. Quandolo scoppio di un razzo ne dava il segnale, la casa del cápu obbrérisi riempiva di ragazze nubili che si dedicavano a preparare lacroce, mentre le loro madri e parenti preparavano il banchettodel giorno dopo.La croce usata negli ultimi sessant’anni in cui si è celebrata la fe-sta era una grande croce di legno annerito, alta poco più di duemetri, con i bracci rinforzati da listelli che li collegavano al listelloverticale, in modo da formare una losanga. Le ragazze la fodera-vano tutta con fazzoletti di stoffa pregiata e ricamata, bianca, inmodo che non si vedesse più l’intelaiatura di legno. I più anzianiriferiscono di aver sentito in tenera età che in altri tempi la crocefosse di canne fresche, si trattasse cioè di sei fasci di canne collo-cati in modo da formare una croce con la losanga centrale. Qual-cuno, anzi (ma forse l’informazione è di origine colta, provenien-te da qualche studioso locale), ha espresso l’opinione che non sitrattasse di una forma di croce, quanto piuttosto di una strutturaromboidale di canne fresche che serviva come supporto al paneda portare in processione. Comunque l’attuale croce lascia ap-parire alle estremità dei ciuffi di canne fresche su cui si colloca-vano mazzi di fiori. La prima cosa che si collocava sulla croce, alcentro della losanga, era la base dell’angùli. Affinché questa sipotesse fissare, si intesseva prima tutta una intelaiatura di canne

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preparazione del pane lievitando la pasta, dopo di che rientra-vano nelle loro case per la cena. Ritornavano dopo mezzanotte,al solito segnale di un razzo, in casa del cápu obbréri – ma que-sta volta accompagnate da membri anziani della famiglia – percontinuare con la confezione del pane. A loro si univano per laprima volta i ragazzi.Per la Fésta de is bagadíus si faceva solo pane di semola, e dellapiù fine. L’operazione della confezione del pane (pane che “or-nerà” la croce, e pane che sarà consumato durante il banchettodella domenica) durava dalla notte tra la domenica e il lunedì fi-no al mattino del sabato successivo. Verso le due del lunedì, ra-gazzi e ragazze, accompagnati da un congruo numero di anziani,si trovavano in casa del cápu obbréri per iniziare la preparazionedel pane. Il pane per la croce si preparava il mercoledì. Negli altrigiorni quello per il banchetto. Le ragazze, sempre agli ordini del-la maísta, facevano i lavori più delicati, i ragazzi quelli più pesan-ti. L’operazione di spongiai, per esempio, spettava solo ai maschi,mentre quella di ornare i coccóis spettava alle femmine. Opera-zioni come quella di ciuéxi venivano svolte a turno, ora dal grup-po delle ragazze, ora da quello dei ragazzi, e, mentre un gruppolavorava l’altro poteva cantare mutéttus de brúlla, celie nei con-fronti dei presenti, improvvisate nelle forme canoniche. Negli in-tervalli tra un’operazione e l’altra si usava anche ballare nel mo-

do tradizionale, con o senza musica strumentale. Il ballo e il can-to duravano un po’più a lungo alla fine del lavoro, cioè dopo cheera già stato riposto nei canestri il pane già cotto. I convenuti in-fine si lasciavano, le giovani per tornare a casa, i giovani per re-carsi in campagna per il lavoro quotidiano, poiché intanto stavaspuntando il giorno. La moglie del cápu obbréri offriva a tutti ilcaffè (da queste parti non si usa mangiare di primo mattino pri-ma del lavoro, ma si usa bere solo un po’ di caffè, di solito d’orzo,e poi si mangerà a metà mattina a mo’ di colazione). Le stesseidentiche operazioni durante la notte tra il lunedì e martedì.Durante la notte tra il martedì e il mercoledì si faceva il pane dellacroce. Il concorso era più numeroso. La maísta metteva alla provala sua abilità e dedicava, come in un rito, tutta l’attenzione ai ge-sti, agli ordini, alle varie e minute azioni che compiva e che avevaimparato a compiere negli anni di attento apprendistato. La suaopera sarebbe stata osservata con attenzione e competenza datutti, che dalla sua riuscita avrebbero tratto anche auspici di variogenere, specialmente il pane più grande e più elaborato, dettoangùli, che veniva sistemato sulla croce al posto che generalmen-te è occupato dal Crocifisso. Su una base rotonda di circa 35 cmdi diametro, di pasta ben dura e compatta da cuocere a parte,spessa circa 4-5 cm, si collocano delle altre parti assai elaborate:una fascia (fascina), una specie di nastro di pasta lavorato comeun pizzo, che corre lungo l’orlo della base; sei pillónis (uccelli), tredi colore bianco e tre di colore giallo (il colore si otteneva tingen-do la pasta con zafferano sciolto nell’acqua calda); quattro mélas(mele), due gialle e due bianche; due mátzus de gravéllus (mazzidi garofani), naturalmente di pasta, solo di colore naturale; duemánus (mani), due mani stilizzate di pasta; una cadéna (catena),una specie di catenella di pasta che cingeva la base; una kannuga(conocchia); due látzus (lacci, trappole). Tutte queste forme di pa-sta erano collocate, in modi elaborati, su questa base non infran-gibile, ma robusta in confronto a questi pani molto elaborati efragili, pintáus, cioè ornati, cesellati. Finito l’angùli, la maísta pre-parava gli altri pani che sarebbero stati collocati sulla croce: ottocabriólus (caprioli) o più, otto cuáddus (cavalli) o più, quattropippìas (bambine) o più, quattro arrègulas (regole: vedremo in se-guito cosa può suggerire questo nome, misterioso) o più, novecoccóis de pitsus (a forma di corona circolare e molto complicati).Si tratta di una ventina di chili di pane: l’angùli pesa circa 5 kg,mentre ognuno degli altri pesa circa 400 gr.È difficile descrivere queste forme di pane, e riesce anche diffici-le farsene un’idea da disegni o fotografie. I pani sono inoltre “or-nati”, secondo regole particolari che stabiliscono quanto dove ecome, con un impasto nero di semola e di sapa detto pistiddáu.Attenzione particolare doveva farsi alla cottura. Se ogni pezzonon aveva il colorito giusto, la consistenza giusta, la cottura giu-sta, veniva scartato e sostituito. Solo rare donne anziane nubili sidice riuscissero nell’abilità necessaria a che il complesso angùlinon si riducesse in briciole.La notte tra il mercoledì e il giovedì si continuava a fare “paneper mangiare”, anch’esso in forme molto elaborate secondo latradizione. Il mattino del giovedì, allo scoppio rituale di un raz-zo, i giovani uscivano in comitiva, a piedi, in campagna, per cat-turare e portare in paese una giovenca non domita, scelta edacquistata per l’occasione da una mandria abituata al pascolobrado. L’operazione della cattura era un rito di abilità e di forza,ma non era difficile per la turba di giovanotti immobilizzare unagiovenca e trascinarla, impastoiata, fino al paese, dove si spara-va ancora un razzo per avvertire del loro arrivo. Tutti quelli che

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509. Pane de is bagadíus, Siurgus Donigala, 2002.

510. Pane de is bagadíus, Siurgus Donigala, 1990, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde (foto Virgilio Piras, archivio ISRE).

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A Villaurbana la panificazione tradizionale è un sistema.1 Il pa-ne, al pari di altri sistemi individuati nella cosmogonia alimenta-re italiana, in questa comunità della provincia di Oristano, allefalde del Monte Arci e del Grighine, costituisce un sistema com-plesso, rarefatto e immanente. In questa realtà si coordina e si articola un sistema che sicura-mente nel panorama panificatorio della Sardegna rappresentaun luogo unico, in cui si rivelano la densità stessa delle questio-ni sociali, culturali, normative, che sul pane si sono in questi an-ni avvolte.Il pane, alimento che rappresenta per antonomasia il cibo, è an-che un oggetto polivalente da cui nel tempo sono dipese la vitae la morte. In quest’area marginale, ed in genere nella società po-vera dell’isola, è divenuto soggetto culturale, riferimento culmi-nante, reale e simbolico, della stessa esistenza. Il pane, che ancoraoggi è un alimento frutto ed impasto polisemico, ha assunto mol-teplici valenze nelle quali la funzione nutritiva e alimentare s’in-treccia con quella estetica e socio-economica su cui insistono i ri-flessi delle tante suggestioni magico-rituali, antropologiche.Per questo, mai come oggi, fare il pane in casa è come una for-mulazione ordinata di fenomeni e di materiali in rapporto di in-terdipendenza con la socialità. Relazioni dove si coniugano lacapacità di agire sulla base dei bisogni, desideri o strategie daparte di corpi e coscienze femminili e maschili, con le abilità ne-cessarie, per cogliere principi ed elementi nella loro somiglian-za, differenza, analogia.Le mani delle donne, ben individuando tutte le sfumature deiprocessi della panificazione, hanno affinato competenze e perizianon solo relativamente alla ricchezza delle numerose fogge, masono divenute protagoniste nell’associare il tempo e soprattutto isaperi della gestualità alle materie prime; sono loro a muoveregran parte delle singole operazioni verso l’insieme delle percezio-ni che l’alimentazione procura; sono loro a promuovere accordiinsoliti, combinando incessantemente gli elementi primordiali:terra, aria, acqua, fuoco. Le donne giorno dopo giorno hanno co-struito una grande cultura, in cui effondono molteplici saperi. Rispetto ad altre comunità a Villaurbana colpisce la varietà diquesti saperi, sui quali si caricano, come abbiamo detto, moti-vazioni espressive e socialità plurime. Fare il pane in casa, tutta-via, non è mai stato semplice, il pane è sempre stato fatica: soloun paziente apprendistato e una frequentazione costante deivari momenti della sua lavorazione permette la comprensionedi tutte le situazioni che nel pane trovano espressione. La pani-ficazione, cresciuta nell’asprezza delle stagioni e nei confrontiduri con la natura, è testimone di cerimonie e d’amicizie conso-

lidate, di relazioni rispettose; è un’arte maieutica nella quale laleggerezza delle mani femminili ancora traspone virtù persona-li e comunitarie.Molteplici notizie sulla panificazione villaurbanese si trovano neinomi dei pani, equilibri fisici e psicologici che dalle forme risalgo-no alle farine e poi ai motivi figurativi, ispirati alla vicenda evan-gelica di Lazzaro di Betania, alla frutta, agli animali domestici, alleessenze floreali ecc. Oggetti di un mondo solo in parte scompar-so in cui il polimorfismo e l’eterogeneità linguistica rivelano unaricchezza etnografica e antropologica affascinante.2

Il sistema espresso dunque nelle numerose e variegate formesegnala la straordinarietà locale della tradizione. Il lunghissimoelenco dei pani non ci permette una esatta e precisa quanto sin-tetica traduzione “deterministica” delle tante implicanze che aciascun pane si possono attribuire. Prima ancora di individuareordini che si riflettono sui nomi e lungi da inoltrarci sulla funzio-nalità attuale dei loro significati, oggi, ciò che va oltre la questio-ne della peculiarità è il senso della presenza del pane. Dimenticodel tempo nel quale il pane sanzionava di fatto un confine socia-le e rappresentava lo status symbol che qualificava la stessa con-dizione umana, il rapporto con il cibo si è oggi invertito: il peri-colo e la paura dell’eccesso hanno sostituito il pericolo e la pauradella fame.3 Molto diverso è dunque l’accostarsi contemporaneoa questo cibo, non più unico cibo, sul quale inconsueti si fannogli intendimenti e mutevoli le ragioni delle sua presenza a tavo-la. Dal momento che sui significati operano sincretismi e tradi-zioni assai differenziate, sul pane e sul suo ruolo agiscono esiti diprocessi e correlazioni di epoche distinte, che certamente nonlasciano cadere l’interesse per indagini ulteriori ed opportuneipotesi interpretative.Per continuare a fare il pane in casa a Villaurbana, e forse anchein altre comunità, noi crediamo, tuttavia, occorra superare la rigi-da rispondenza interpretativa che a lungo ha impegnato gli stu-di sul pane in Sardegna, riconducendo l’analisi della pratica asingoli criteri unici di funzionalità alimentare, estetica, tempora-le, linguistica, simbolica ecc. Riteniamo necessario invece andare oltre le conseguenze delletante trasformazioni che hanno tolto vitalità alla pratica, e incen-trare le nostre attenzioni sul sistema globale di equilibri, riscontri,convivenze, presenti nel sistema panificatorio. Non si può non in-tuire tuttavia la meraviglia per la presenza di un universo espres-so da circa 50 forme diverse di pani, il cui lungo elenco compren-de: aniada, bicicletta, busciulettu, caboru, ciuexi ciuexi, civraxu,kakkoi, kaccoi a mebas, kakkoi a pint’e unga, kaccoi de su sonadori,kaccoi e foll’e fa, kakkoi cun ou, kakkoi de coja, kaccoi froriu de is

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Fare il pane a VillaurbanaMirella Tatti, Sebastiano Chighini

all’interno del romboide di listelli fissati ai bracci della croce e visi legava la base dell’angùli con vimini e giunchi. Poi i vari cabriò-lus, cuàddus, pippìas, arrègulas e coccóis pintàus si collocavano inun ordine prestabilito. I cuàddus venivano sovrapposti ai cabriò-lus, le pippìas ai cuàddus, le arrègulas alle pippìas, ma in modoche ognuno di questi pani fosse visibile in parte e riconoscibile.C’era però la regola che una arrègula doveva essere sovrappostaa ogni gruppo-strato formato dalla successione cabriòlu-cuàd-du-pippìa. Queste arrègulas avevano la forma di una croce greca.Ciò suggerisce che le (ar)règulas (nella parlata locale “regola”, “re-golo”, “obbligo”) possano essere croci di pane aggiunte in epocacristiana, forse bizantina, per cristianizzare la festa. I più anzianiricordano aspre dispute tra chi sosteneva che ogni altra formadovesse essere annullata da una arrègula, in modo che fosse vi-sibile, intorno all’angùli, solo uno strato di arrègulas, e chi si op-poneva a questo annullamento delle altre forme elaborate, peresempio dei cuàddus con le quattro zampe e zoccoli, le orecchie,il muso con le narici, i finimenti con sella e staffe. Il mattino della domenica, tutte le persone in grado di farlo si ra-dunavano dentro e intorno alla casa del cápu obbréri. Da qui par-tiva il corteo che portava e accompagnava in chiesa la croce chedoveva essere portata dal maggior numero possibile di giovani:regola in contrasto con l’altra che stabiliva che ciascuno resistes-se alla fatica il più a lungo possibile. La croce era trasportata datre giovani alla volta: uno la sosteneva, appoggiandola al petto,per il listello verticale, mentre altri due, uno da una parte e unodall’altra, la sostenevano, con le braccia alzate, per i bracci. Eradunque un altro gioco di forza, che poteva essere “santificato”dall’intenzione di chi si sottoponeva alla fatica, ma che esponevaanche a un giudizio sulla propria resistenza fisica. In pratica, men-tre le giovani e le donne in genere prestavano la massima atten-zione all’opera della maísta e al modo con cui era stata preparatala croce, i giovani e in genere gli uomini badavano a seguire l’av-vicendamento dei portatori della croce. Si considerava un onoreappendere alla croce oggetti d’oro, d’argento o di corallo.In chiesa il parroco benediceva croce e fedeli e via in processio-ne per le strade del paese. Dietro la croce, la statua della Vergine,vestita di nero, trasportata da quattro giovani per volta che lareggevano con delle stanghe, con regole di avvicendamento co-me nel trasporto della croce.Dopo processione e messa, si riportava la statua in chiesa e lacroce in casa del cápu obbréri. Qui si offriva un banchetto, apertoal maggior numero possibile di invitati, con precedenza ai ba-gadíus. D’obbligo tre piatti: maccheroni al ragù di carne dellagiovenca, bollito della giovenca, arrosto della giovenca. Al termi-ne del banchetto, danze che duravano fino all’ora di cena e poifino alle ore piccole.Un’operazione delicata, che si protraeva anche per diversi giorni,era quella della distribuzione, a tutti i bagadíus le cui famiglieavessero offerto il loro nótzu di semola per la confezione del pa-ne, di un pezzo di pane della croce ormai benedetto, gelosa-mente custodito il più a lungo possibile: gli si attribuiscono in-fatti virtù come proteggere dai fulmini e fecondare i campi. Il lunedì dopo il comitato invitava i più poveri, cioè chi non pote-va nemmeno contribuire alle spese della festa, a consumare inbanchetto i resti dei banchetti precedenti. All’ottava lo scambiodelle consegne tra il vecchio e il nuovo cápu obbréri che offrivaun rinfresco, cumbidu, che di regola consisteva in caffè con bi-scotti leggeri (pistocchéddus móddis), poi due o più qualità di li-quori con dolci di mandorle (amarettus, gueffus, candeláus).

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511. Pane de is bagadíus alla sfilata per il Redentore, Nuoro, 1966.

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isposus (girabuttiglia), karroghedda, kostalleddas po pippius, lada,lada de civraxu russu, lada de scett’assou, lada lucida, lada piuda, la-da stampada, lazzaru, mesu lua, moddixa, mongia, para, pei de boi,pettixeddu, pippiedda, pisci, pistokku, pramma, prezzida, prezzided-da, pudda, puddixedda priuzza, s’axroba, scabixedda, scateddu,spoba, su coro de is isposus, tiranti, tunda, tureddu, tureddu santu.La insufficiente esaustività espressa sinora dall’intervento di di-versi studiosi – che sul pane auspicano da tanto tempo una mo-nografia regionale – sui rapporti tra i nomi e le tipologie del pane,non ci esime dal comprendere l’insieme delle relazioni che si ac-compagnano alle singole forme: esse non sono riassumibili in ri-gidi criteri legati alla occasionalità del panificare, o alla gestualitàdei momenti e alle modalità della manipolazione. Anche la pez-zatura non può essere l’unico criterio con cui si possono racchiu-dere e spiegare le dipendenze dal nome, allo stesso modo nonpuò rispondere un criterio calendariale e neanche la distinzionetra pane giornaliero o festivo. Abbastanza esemplificativo delcomplesso sistema che governa questi rapporti è il modo nelquale vengono definite a Villaurbana le ultime 4 settimane diQuaresima, dove l’analisi di un unico criterio non permette di for-mulare un’unica motivazione dei principi con cui si distinguono lesettimane che precedono la Pasqua: sa xida de pani e gureu (la set-timana di pane e cardo selvatico), sa xida de pisci (pesce), sa xidade Lazzaru (Lazzaro), sa xida de pramma (palma).La necessità di adottare un metodo interdisciplinare sarà sicura-mente il tema di ricerche più approfondite, solo esse potrannoavere la capacità di comprendere la varietà di inclinazioni che si ri-flettono su queste tipologie, molto più ricche, crediamo, di quelloche oggi rappresentano recenti riferimenti interpretativi. Soprat-tutto perché il sistema panificatorio a Villaurbana ha molte impli-canze, dalle quali facilmente ci si lascia ammaliare; narra di un rac-conto che non si può cogliere se non vi si trascorre del tempo, senon si assiste ai momenti della lavorazione. Certo la panificazione riflette nei nomi motivi ed occasioni diver-se, al pari di una struttura narrativa di cui si desumono criteri sin-cronici e diacronici, ma crediamo che oggi, per una più profondacomprensione, si debba lasciare la parola all’esperienza comuni-taria, alle storie familiari e personali e a canoni interpretativicompositi. Le costanti degli impasti differenti, de pani pesau (impasto a pa-sta dura) e de pani appungiau (impasto a pasta morbida), sono ilcontrappeso di forze grandissime, direttrici del sistema e grandiriferimenti, intorno ai quali un sapere complesso verifica conti-nuamente le frequenti oscillazioni, riassettate a seconda dei mo-tivi e delle funzioni del panificare.I punti fermi invece intorno ai quali orbitano le fogge di tanti al-tri pani, che per varie ragioni assumono i nomi di gruppi più nu-

merosi, sono is kakkois, is tureddus, is ladas, is prezzidas: is kakkois,pani di semola, dalle forme e decorazioni singolari, in cui le for-bici, o su pint’e unga, compongono arabescate creste, di mebas econcas, mentre is tureddus e is prezzidas richiamano i tagli concui si suddivide il cerchio della sezione de su cummossu (l’impa-sto lavorato); le ladas, piatte per definizione, hanno distinte ca-ratteristiche: piuda (pelosa), lucida (lucidata), stampada (bucata),de scett’assou (di fior di farina).Anche le farine rivelano, nella topologia panificatoria locale, leproprietà di questo complesso sistema; i nomi e le caratteristi-che delle forme dei pani, a cui si associano, rivelano numerosialtri legami. Civraxu, civraxu russu, simbua, simbua fini, scetti,scett’assou, tentura, poddi, poddi fini, evocano quel che sono di-venuti i grani e prima ancora i luoghi delle coltivazioni.Frutto voluto dell’attesa, in ogni pane i sapori ed i profumi, se-condo le regole dell’attrazione e del respingimento, accendonostimoli e inducono inconsuete atmosfere presso tutta la comu-nità. Al cospetto conclusivo dell’esito della panificazione, e dellesue diverse fasi dopo la lavorazione e la cottura, il consumo di-viene dissertazione e socialità: allora al pane si accosta la memo-ria e le impressioni delle azioni segnate dai flussi distinti dellemani, dalla circolarità operativa delle sequenze. Secondo un moto continuo, stagionale, gusto e fragranza riem-piono la dimensione olfattiva conferita dalle erbe e dai germogli(usati come scope dei forni) che crescono nel territorio: qui ogniscadenza naturale è il sintomo di un sapore, il districarsi coeren-te degli aromi con le vicende del territorio.Le mutevolezze delle stagioni si accompagnano allo stato dellematerie prime e alle loro reazioni, alla ciclicità dei lavori si congiun-gono le feste ed i riti, le tante privazioni, che da lungo tempo han-no accompagnato la sensibilità della gente di questa comunità.Nel passato come oggi, ciascuna donna in ogni fase della panifi-cazione ha impresso i suoi gusti, la sua personalità e carattere, equesto ha permesso la conquista di una propria soggettività.4

L’attenzione recente verso la panificazione, dunque, non può es-ser data solo dalla foggia delle forme, dalla preparazione del for-no, dall’igiene del confezionamento, dal progetto esistenziale diuna donna, ma da queste strane e cangianti, sfaccettate vicen-de, in cui si nasconde la soluzione di un evento piuttosto intri-gante, ancora occulto nel suo insieme. Sta davanti a noi il mistero con cui, fino a poco tempo fa, ognunocapiva istintivamente di possedere un saper fare, vi era la diligen-za per averlo appreso, saperlo svolgere, mentre solo oggi invece,se ne acquisisce la coscienza, di fronte alla paura della sua perdita. Per fortuna e per scelta tutti i processi sono ancora privi di cate-ne, non si era e non si vuole essere padroni delle reazioni delmondo naturale, non si può e non si intende esserlo, si lascianoruolo e funzioni alla moderazione dei distinti partecipanti, agen-ti vitalissimi dei procedimenti: lievito, mani, fuoco, uniti dallapersonale creatività. Nelle quantità delle farine, nella misura del sale e dell’acqua,nel dosaggio de su frommentu (pezzo di pane inacidito custo-dito dalla precedente panificazione), era ed è la qualità del pa-ne villaurbanese. Il giudizio delle donne e degli uomini divieneforma nell’equilibrio dei loro gesti, è in essi che si iscrive il risul-tato qualitativo dei loro sforzi. Alla scelta degli ingredienti, siapplicavano dunque i saperi femminili delle padrone di casa (ismeris de domu),5 frutto d’apprendistati esistenziali, in cui la mi-scela e le trasformazioni degli alimenti si fondono con la co-scienza, riversando l’esperienza su tutto il sistema interessatodalla panificazione.La durata del tempo non è il real time odierno, è un tempo re-moto in cui il pane è la misura degli affetti e dei legami, dell’ospi-talità, dell’amicizia e della cura quotidiana, della socialità. Ancheoggi costituisce l’immanenza con cui si elabora continuamentela memoria dell’origine e il senso della fine. Così era il tempo del-l’impasto, il tempo del lievito, il tempo del forno, il tempo dellaconsumazione, tutti dominati dalla costanza e dalla lentezza. Eraun tempo rarefatto in cui accadeva un innesco lento. Ma il panequi non è mai stato un accadimento, era ed è il frutto sicuro dimani profetiche.Come la cultura del contadino è costruita sulla concretezza, sul-l’osservazione del mondo vegetale e animale e sulla conoscen-za delle scadenze calendariali (i lavori assecondano le stagioni, imesi e certi giorni fondamentali dell’anno agricolo),6 allo stessomodo il sapere del mugnaio è quello di un abilissimo tecnologodella propria officina,7 profondo conoscitore del calibro deifrantumi, in cui sul grano si proiettano le fasi precedenti comele lavorazioni successive.Così in questa comunità del pane,8 alla velocità e alle novità del-la tecnologia, malgrado tanti cambiamenti, si affidano solo fun-zioni e competenze critiche meticolosamente rielaborate, va-gliando la conservazione di gesti e le pratiche necessarie perfare ancora il pane buono in casa. Posto naturalmente che sia comprensibile che la conservazionedelle forme, la sensibilità esperta del contadino, la tutela dellemani che panificano, la sagacia delle abilità costruttive dei forni,le conoscenze etno-botaniche del Monte Arci, l’esperienza delmugnaio, la sensibilità del panettiere, sia depositata sempre piùin contributi individuali, la querelle normativa del riconoscimen-to produttivo del pane di Villaurbana, così come l’esatta defini-zione del ruolo di una struttura museale che generi un oppor-tuno e consapevole apprezzamento del pane mediterraneo,indicano però la caduta di attenzione in cui si trova la filiera.

Fiduciosi, sappiamo che per la panificazione oggi si impongo-no riflessioni profonde, se l’interesse per le affascinanti relazio-ni di questo sistema ci può rinfrancare per il passato, noi spe-riamo soprattutto per il futuro ci sostenga nella individuazionedi una identità non solo locale, definita e adeguata al tempo deinostri giorni.Ecco che allora sta a noi individuare il senso con cui contribuirealla ridefinizione del nostro modo di essere al mondo, nel qualela salubrità può divenire la priorità, l’impegno costante dellaconsapevolezza e della responsabilità produttiva non solo di chipanifica, affinché per il pane tradizionale nasca un’attenzionecondivisa e radicalmente nuova.

Note

1. Cfr. P. Camporesi, “Introduzione”, in P. Artusi, La Scienza in cucina e l’ar-te di mangiar bene, Torino 1970, p. XXX.

2. A. Dettori 1993, p. 17.

3. Cfr. M. Montanari 1993, p. 210.

4. Cfr. G. Murru Corriga 1990.

5. G. Murru Corriga 1994.

6. Cfr. P. Camporesi, Le officine dei sensi. Il sapere frenato, Milano 1991, p. 221.

7. Oggi esercitano a Villaurbana due Mulini su de Aldu e su de Liliana chegiornalmente macinano il grano coltivato nei territori del comune di Vil-laurbana e dei comuni limitrofi.

8. L’Amministrazione Comunale di Villaurbana fa parte dell’Associazione“Città del Pane” costituitasi ad Altopascio (LU) il 19 ottobre 2002 che ha co-me obiettivo: «Quello di riunire in una rete nazionale tutti i paesi e le cittàche trovano nel pane tipico un punto di forza della propria tradizione, cul-tura e attività».

512. Caccoi cun ou, 25 cm, Villaurbana.

513. Caccoi, 23 cm, Villaurbana.

514. Serpente, 21 cm, Villaurbana.Pane nuziale donato alla sposa che lo conserva a protezione dell’integrità del talamo.

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Nella società tradizionale sarda il pane non era solo ci-bo indispensabile per accompagnare i ritmi ripetitividella vita quotidiana, ma costituiva anche un mezzo persottolineare i momenti importanti, lieti e dolorosi, del ci-clo dell’anno e della vita. Era oggetto di questua e donovotivo, ricordo delle persone care scomparse, medicinache curava il corpo, amuleto che allontanava il male.Aggiungeva perciò al valore alimentare un forte signifi-cato sacrale e dunque non poteva essere buttato, nésprecato, né negato.Ma gli scrittori che numerosi si sono soffermati a descri-verne la bellezza e variabilità delle forme, le occasionicerimoniali e i significati simbolici, non hanno dedicatola stessa attenzione alla presenza costante e a volte de-terminante del bambino nella cultura tradizionale del pa-ne: protagonista certo minore ma non per questo menoimportante, sia se lo si voglia considerare come semplicedestinatario del dono di un pane (con funzione alimen-tare, ludica o simbolica), sia in quanto figura indispensa-bile di molti rituali cerimoniali.Il bambino assumeva un ruolo centrale nella confezionedei pani ancora prima di essere concepito. Infatti, è pro-prio pensando a lui che nel Gerrei, in occasione dellenozze, tra i pani preparati per gli sposi se ne conserva-va uno, all’interno di un sacchetto appeso al capezzaledel letto, affinché il primogenito lo potesse assaggiareinsieme ai genitori, al primo anniversario di nozze, op-pure come a Tertenia, sempre con valore augurale, alcompimento del primo anno di vita. A volte, oltre aquello nuziale, si usava conservare, con funzione dipronostico, il pane preparato in occasione della nascitae il suo stato di conservazione rivelava al bambino,quando ne avesse fatto richiesta, cosa gli avrebbe ri-servato il futuro.Pane-amuleto era invece il pane che si nascondeva sot-to il cuscino del neonato per proteggerlo dalle cogas,streghe-vampiro che tanto spaventavano le puerpereperché si pensava aggredissero i bimbi non ancora bat-tezzati.

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Quotidianità e cerimonialità nei pani per i bambiniAnna Lecca

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515. Puzzoneddu, 15 cm, Orune.

516. Coccone a crapola, 14 cm, Orosei, anni Novanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.

Ma l’accostamento pane-bambini risulta più evidentequando si pensa al ruolo che avevano le bambine nellalavorazione e messa in forma della pasta: nell’intentoeducativo di insegnare loro l’arte preziosa della panifi-cazione, non ancora adolescenti venivano iniziate pre-cocemente alla futura vita di sposa e madre cui eranoinevitabilmente destinate; così, fin dall’infanzia, si indi-rizzava la naturale vivacità al lavoro domestico che, tra-smesso sotto forma di gioco, contribuiva alla costruzionedel modello femminile tradizionale. Perciò, per appren-dere le prime tecniche di lavorazione dei pani di usoquotidiano, veniva loro assegnato il compito di interve-nire su ritagli di pasta avanzata a modellare le forme chenon presentavano particolari difficoltà. A Mogoro peresempio, asportavano con il ditale, dalla superficie diuna spianata, alcuni bottoncini di pasta, che poi dispo-nevano tra gli spazi rimasti, creando un bell’effetto divuoto-pieno.

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incisi, le mani e le dita intagliate; in Trexenta la pippia,col viso incorniciato da una serie di cornetti che imita-vano una cuffietta, aveva braccia piegate e mani con-giunte al centro del corpo, vestito decorato a linee tra-sversali, gonna svasata guarnita da bottoncini; a Ollolaila tozza pilòsa era caratterizzata dalla grossa testa su uncorpo appena delineato. Un modo diverso di rappre-sentare la figura umana in Ogliastra era quello di anno-dare un cilindro di pasta quando si voleva stilizzare unneonato (il nodo rappresentava il simbolo del bimbo infasce), con la testa grossa e i piedi accennati. Abbozzodi neonato era su tureddhu, piccolo pane di Zeddiani.Alle bambine si dedicavano altri “giocattoli” effimeri:molto richiesta era la borsetta (bussittèddha, nella pro-vincia di Cagliari; borsettèddha, brohitòlu, in quella diNuoro), in genere decorata soprattutto nel manico, in-trecciato ad Ollolai, formato da una striscia ritorta a Lo-dine, con i manici annodati in alto a Dualchi; diversa latesa de ria di Scano Montiferro, ottenuta avvolgendo aspirale un tubo di pasta che andava poi a formare il ma-nico, senz’altro ornamento che una sforbiciatura di lato.Tra i pani più attesi dalle bambine il braccialetto (brat-tsalittu, bracciallettu), pezzo unico di pasta intagliata oattorcigliata, e la collana (kannàkka, kannàkkeddha) at-testata nel Sulcis e nella Trexenta. Regalata nelle fami-glie di contadini durante la mietitura, la collana eracomposta da un numero fisso di perle di pasta che rap-presentavano i mesi dell’anno e, trattenuta da un filo dicotone, indossata come un vero gioiello. La kannak-kèddha era più lunga, con perle più piccole e di nume-ro variabile. Ad ambedue i sessi si regalavano pani in forma di trian-goli, rombi, mezzelune, anelli, stelle o di parti del cor-po, come il piede e la testa, o ancora, di fisarmonica, su

I pani giocattoloSolitamente erano le donne a lavorare il pane per crea-re veri e propri “giocattolini” commestibili che, stimo-lando la fantasia infantile, accrescessero il piacere dimangiare. I pani giocattolo, documentati in tutta l’isolacon una grande varietà di forme, a volte si adattavanobene ad entrambi i sessi, altre volte erano specificamen-te concepiti per maschietti o femminucce.Per i maschi preferite erano le forme di animali, in gene-re agnellini oppure cavallini elementarmente abbozzati,come sa brillia che i bambini ricevevano in provincia diNuoro per Ferragosto, denominata così per il cordonci-no di pasta intrecciata, fissato sul collo dell’animale;grande richiesta si aveva per la bicicletta (bricikètta), ot-tenuta avvolgendo a spirale dei cilindri di pasta, ad imi-tazione delle ruote. Con chiaro intento simbolico si do-nava sa skattinèddha, cestinetto confezionato nel Sulcisin occasione della mietitura, per contenere idealmente ilgrano da seminare, richiamando in tal modo il futuro la-voro del destinatario. Inutile dire che il regalo più frequente per le femmi-nucce era la bambolina, sia che fosse solo abbozzata,con le linee fondamentali del corpo accennate e il visoappena incorniciato dai capelli, sia che fosse raffiguratain tutti i particolari, dal volto ai dettagli dell’abito; era disolito rappresentata in posizione eretta, raramente se-duta. Una versione maschile di questo tipo può ravvi-sarsi in su pippìu sètsiu di Villaurbana, denominato an-che para o parizhèddhu, fraticello.Modelli elaborati convivevano con figure antropomorfeappena abbozzate in aree geografiche molto prossimee, in alcuni casi, nello stesso paese. Così a Dualchi labambola, sa puppia, aveva l’abito e la cuffietta ricamatacon un motivo ornamentale a trine, i lineamenti del viso

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517. Bicicletta, 12,8 cm, Fordongianus.

518. Bicicletta, 14 cm, Tramatza, 1990, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.

519. Bicicletta, 12 cm, Settimo San Pietro.

520. Bicicletta, 12 cm, Villaurbana.

521. Bicicletta, 10 cm, Villaurbana, 1990, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.

522. Bicicletta, 12 cm, Tramatza.

523. Bicicletta, 12 cm, Scano Montiferro.

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sonettu, e pettine, pettizheddu, ottenuti, questi ultimi, ac-costando varie strisce in modo da riprodurre il manticedella fisarmonica o i denti del pettine. Diffusi ovunqueerano i pani zoomorfi: il pesce a cui non mancavano lescaglie e le pinne dorsali e ventrali; la lumaca, ottenutaavvolgendo un lungo bastoncino di pasta in due spirali,la karroghèddha, una cornacchia sommariamente mo-dellata nel becco, nella cresta e nella coda, la gallinella(puddizhèddha), l’ochetta (kokkizhèddha), l’anatroccolo(anadizhèddha) e il galletto (kabonìsku), a Ulassai mol-to rifinito, con la coda intagliata costituita da tantissimepunte che, essendo sottili, diventavano in forno croccan-ti ed erano considerate una leccornia dai bambini.Talvolta la fantasia femminile si sbizzarriva fino a creareforme dal duplice significato: a Lodine la gallinella, pud-dihìna, indicava contemporaneamente il volatile e laborsetta, per la forma che ad essa si dava, cioè di galli-nella in cui testa e coda si intrecciavano e si univano aformare il manico di una borsa; così il kokkòi a krapòladi Dualchi, la “capriola”, con il corpo segnato da motiviromboidali, il capo rotondo e dentellato, la bocca aper-ta, l’occhio evidenziato e la coda che si congiungevaintorno al collo.

I pani dentaroloDurante la panificazione ordinaria le madri non di-menticavano i bambini più piccoli, a cui riservavano,nel periodo della dentizione, pani di piccole dimen-sioni: i pani dentarolo, fatti di pasta dura non lievitata,in modo da risultare più consistenti da mordere, servi-vano per massaggiare le gengive e alleviare il doloreprovocato dallo spuntare dei primi dentini. Le forme,documentate soprattutto nel meridione dell’isola maprobabilmente diffuse ovunque, funzionali nella loroessenzialità, erano simili a quelle che la moderna indu-stria di oggetti per l’infanzia riproduce in plastica. NelSulcis e nel Campidano di Cagliari su marrakkòcciu omarrakkoccèddhu, o altrove su barrakkòcciu, era unbastoncino di pasta, con un’estremità intagliata a codadi rondine e l’altra ricurva ad anello per poter essereappeso al collo del bambino con una fettuccina; altrevarianti sa craizhèddha, piccola chiave in uso nel Cam-pidano, nella Trexenta e in Marmilla, su frokkittèddhu,un pezzo di pasta allungata le cui estremità venivanoaccostate a formare un piccolo fiocco, su bracciallèttu,un cilindro di pasta attorcigliata e intrecciata a forma dibracciale. Talvolta a formare un braccialetto erano di-verse striscioline di pasta, forate con un sottile bastonci-no di legno per infilarvi un nastrino da legare al polsodel bambino. Denominate mattsukkèddhus, kostellèd-dhas o didizhèddus, erano piccole dita che venivanostaccate una alla volta e date al piccolo. Non di radouna denominazione generica poteva essere comprensivadi più forme, che potevano subire varianti estempora-nee, come il kokkoièdddhu po pippìus (Guspini), il doa-dora o doa-doa (Quartu Sant’Elena) e il korriattsèddhu(San Sperate).

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524. Buscettedda, 14 cm, Fordongianus.

525. Sonettu, 21 cm, Villaurbana.

526. Furria ’entu, 10 cm, Villaurbana, 1990, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.

527. Cardiga, 14 cm, Settimo San Pietro.

528. Pani dentarolo, 15 cm (max), Fordongianus.Si tratta di cilindri di pasta, forati e infilati in un sottile bastoncino di legno, che venivano staccati uno alla volta e dati ai bambini durante la dentizione.

529. Doa-doa, 8 cm, Settimo San Pietro.Pane dentarolo che veniva dato in mano al bambino oppure infilato al polso come braccialetto.

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530. Sposixeddu, 12 cm, Villaurbana.

531. Mongia, 15 cm, Villaurbana.Su para (il frate) e sa mongia (la suora) vengono realizzati per i bambini in diverse aree della Sardegna.

532. Pippiedda, 11 cm, Villaurbana, 1990, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.

533. Para, 8 cm, Fordongianus.

534. Mongia, 10 cm, Fordongianus.

535. Paricheddu, 9 cm, Tramatza.

536. Mongia, 8 cm, Tramatza.

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537-538. Pizzinna, rispettivamente 16 e 15 cm, Orosei, anni Novanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.

539. Omine, 13 cm, Nuoro.

540. Pippiedda, 19 cm, Villaurbana, 1990, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.

541. Pippieddu, 21 cm, Settimo San Pietro.

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542. Pilosa, 24 cm, Ollolai.La tozza pilosa è caratterizzata dalla grossa testa su un corpo appena delineato.

543. Puppia, 14 cm, Pattada.

544. Pippiedda, 17 cm, Settimo San Pietro.

545. Pippia cun saba, 17 cm, Tramatza.

546. Puppia chin s’ou o puppia raida, 21 cm, Pattada.

547. Pizzinna chin s’ovu, 18 cm, Siniscola.

548. Pizzinnedda, 21 cm, Bitti.

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549. Borsettedda, 18 cm, Ossi, anni Sessanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde,raccolta della Cattedra di Storia delle Tradizioni popolaridella facoltà di Lettere e Filosofia di Cagliari.

550-551. Borsettedda, 16 cm ciascuna, Orune.È realizzata come dono per le bambine nel giorno di Ognissanti, per i matrimoni e per la festa del Carmelo. È un pane leggermente dolce.

552. Borsettedda, 11 cm, Urzulei.

553. Borsettedda, 26 cm, Bitti.

554. Bussiedda chin s’ou, 18 cm, Lodè.

555. Bussiedda chin s’ou, 19 cm, Lodè.Le borsette con incluso l’uovo sono un dono pasquale per le bambine.

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556. Caddittu, 11 cm, Ittireddu, anni Sessanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni PopolariSarde, raccolta della Cattedra di Storia delle Tradizionipopolari della facoltà di Lettere e Filosofia di Cagliari.Cavallino di pane iscaddadu.

557. Caddittu, 14 cm, Ussassai.

558. Arrizzoni ’e matta, 9 cm, Sanluri.Piccolo pane in forma di porcospino.

559. Zizzigorru, 14 cm, Settimo San Pietro.

560. Zizzigorru, 8 cm, Sanluri.La lumaca (zizzigorru) è una formaricorrente nella panificazione; in Spagna,ad esempio, è tanto diffusa che si puòtrovare in vendita nelle panetterie.

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561. Puzzone, 17 cm, Pattada.

562. Puddighina, 15 cm, Tramatza.

563. Puzzoneddu, 10 cm, Nuoro.

564-572. Puzzoneddos, 15 cm (max), Orune.Questi uccellini (puzzoneddos), leggermente dolci,sono distribuiti ai bambini durante la novena per la Madonna della Consolata.

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Pani rituali e cerimonialiIl pane cerimoniale segnava anche per i bambini i mo-menti più significativi del ciclo dell’anno con forme chesi facevano gradualmente più elaborate e che non si di-scostavano da quelle preparate per gli adulti, se nonper le minori dimensioni. Che non si trattasse di unaspetto marginale all’interno delle festività è testimonia-to non solo dal grande impegno posto nella lavorazio-ne, ma soprattutto dalla ritualità che ne accompagnavala distribuzione e la consumazione.Il pane poteva essere donato spontaneamente ai ragaz-zini: così la vigilia di Natale, in Ogliastra, senza bisognodi richiederlo, ne ricevevano in forma di cuore, giglio,stella, pesce, uccello, neonato; a Elini su accèddhu ave-va significato di “bambinello”: raffigurava un neonatominuziosamente lavorato, dai capelli al sesso, vestitosolo di un cordoncino di pasta intrecciata, posto intor-no alla vita per indicarne la povertà; e in Gallura, per lastessa occasione, si regalavano la franka e lu kulbòni,la bambola e il corvo, rispettivamente alle bambine e aimaschietti. Allo stesso modo, senza particolari rituali, si donavanopani durante il ciclo pasquale, periodo compreso tral’inizio della Quaresima e la domenica di Pasqua, e piùaccentuati si facevano i significati simbolici: nel perio-do quaresimale a Villaurbana il Ladzarèddhu, in ricor-do della resurrezione di Lazzaro, veniva sagomato insembianze maschili, con due chicchi di grano al postodegli occhi e il corpo fasciato dalle bende, con i segnidella decomposizione; per la domenica delle Palme ipani a forma di palma intrecciata riprendevano il moti-vo della palma benedetta. I modi, le forme con cui era-no realizzati gli intrecci, i motivi ornamentali e gli in-gredienti erano diversi, semplice imitazione della fogliadi palma in alcuni casi, forme di palma intrecciata piùelaborate altrove: nel Sarcidano e nel Marghine su unastriscia di pasta terminante a punta si innestavano tra-sversalmente a formare delle “V” altre strisce più cor-te; nell’Oristanese le strisce di pasta s’incrociavano acomporre una griglia romboidale arricchita nei puntidi intersezione con motivi ornamentali diversi, foglie,fiori, uccelli, palline, sempre modellati con la pasta, op-pure mandorle sgusciate; a Seneghe su kokkoèddhu depramma aveva al suo interno un ripieno di uva passa.Le prammettas, oltre che per le dimensioni minori, sidifferenziavano da quelle per gli adulti per l’occhiellodi pasta che formava il gambo della palma, fatto appo-sitamente perché il piccolo destinatario potesse più fa-cilmente tenere in mano il pane.Modellato con grande impegno artistico dappertuttoera il pane pasquale, necessariamente bianco, lucidatocon albume d’uovo e con l’uovo col guscio incorpora-to nella pasta. Regalati dalle mamme, nonne e madri-ne, i pani destinati ai bambini assumevano dimensionie forme che si adattavano all’età e al sesso del desti-natario. Il kokkòi kun s’ou, pane con l’uovo, simbolodella Pasqua, era diffuso ovunque e il valore di buon

augurio che gli si attribuiva era tale da non escludereneanche i bimbi di pochi mesi, come quelli che parte-cipavano alla processione de s’Incontru a Villacidroabbigliati da angioletti. Le forme ricorrenti riproduce-vano animali domestici, cestinetti, borsette, bambolecon l’uovo nel petto trattenuto da striscioline di pasta,e la gallinella con l’uovo nella pancia; per i maschiettisi preferiva il galletto, con l’uovo inserito sulla schienae le iniziali del bambino. Le varianti più frequenti ri-guardavano gli uccellini, intagliati e incisi minuziosa-mente con coltello e forbicine per separare le ali dalcorpo e creare l’effetto realistico delle piume, a Guspi-

ni; rappresentati nell’atto di covare, con l’uovo ricoper-to di pasta e gli occhi evidenziati da chicchi di grano,a Mogoro; il pulcino era ottenuto spesso annodandoun cilindro di pasta e sforbiciando le estremità in for-ma di testa e di coda; la puddha priùttsa di San VeroMilis era una gallinella dalle penne irte, con l’uovo nel-la pancia fissato con striscioline di pasta; la colomba diBenetutti era una spianata ritagliata e decorata con inci-sioni, timbri e applicazioni di fiori e foglie; in Gallura ilcorvo, kulbòni o kulbulòni, aveva varie incisioni deco-rative sul dorso, tra cui le iniziali del bambino al qualeera destinato.

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573. Baculu de Santu Iorghi, 25 cm, Urzulei.Il pane in forma di bastone è diffuso in diverse aree della Sardegna,e dappertutto era destinato come dono ai bambini durante lequestue; a Ghilarza, ad esempio, si preparava su baculu de SantuMacariu per il 2 gennaio.

574. Bachiddu ’e Deu, 26 cm, Pattada.Su bachiddu ’e Deu, era richiesto dai bambini il giorno diCapodanno o dell’Epifania e ottenuto al termine di un cerimoniale in cui ripetevano una filastrocca.

575. Peltusittedda, 12 cm, Pattada.La peltusitta, pane dolce dei pastori, a Pattada veniva preparato per il primo dell’anno, in dimensioni minori per i bambini che se li appendevano al collo con un nastro, nei loro giri di questua.

576. Pudda cun s’ou, 20 cm, Cheremule.

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Un pane non commestibile, la cui funzione era pura-mente decorativa, era il cestinèddhu o skatteddhèddhukun s’ou di Villacidro e Gonnosfanadiga, di minuscoledimensioni e a forma di cestino, con base e manico di-pinti di rosso con le essenze usate per la preparazionedei liquori; al suo interno un uovo sormontato da unfiore a più petali, anch’esso colorato. Si confezionavano anche pani con più uova, quasi arafforzare i significati di fertilità, come a VillagrandeStrisaili, dove le madrine offrivano ai figliocci un paneadornato con nove uova, angùli ’e noi kokkoìs. Ad Oni-feri, un pane in forma di bambolina e gallinella, conl’uovo incorporato nella pasta come quello per Pasqua,era donato alle bambine il 26 luglio, festa di Sant’Anna.

Se in molte occasioni quotidiane e festive erano gliadulti a voler offrire pani ai loro piccoli, in altri momen-ti del calendario annuale, per riceverli era necessarioche bambini e ragazzini li richiedessero esplicitamente,durante i loro giri di questua, con canti e formule rego-late dalla tradizione: così per il ciclo dei dodici giorni,periodo compreso tra Natale ed Epifania, per Sant’Anto-nio Abate, per la Commemorazione dei defunti. Si chie-deva in nome di Gesù, dei Santi o dei morti e si ringra-ziava benedicendo o si malediceva chi rifiutava il dono.

A Thiesi, era la sera della vigilia di Natale che i bambinipoveri chiedevano presso le case dei benestanti, conuna filastrocca nella quale auguravano ogni bene al pa-drone, su bakkìddhu, un pane a forma di bastone pasto-rale; oppure, sempre nel Logudoro, il bastone di Dio, subakkìddhu ’e Deu, era richiesto il giorno di Capodannoo dell’Epifania e ottenuto al termine di un cerimonialein cui ripetevano: «Dademi su ’akkiddhu / bos kampedsu pobiddhu / bos kamped su padronu / dademilu man-nu e bonu»; il pane poteva assumere sia l’aspetto di unafigura umana, ottenuta da un sottile cordone di pastaavvolto a spirale in corrispondenza del capo, sia quellodi un uccello con il corpo a forma di triangolo isoscele,un triangolino di pasta a formare il becco e a volte de-corato con glassa bianca o colorata, disposta a serpenti-na come un nastro. Ancora glassa e confetti policromi(traggèa), decoravano la peltusitta, pane dolce dei pasto-ri, preparato per la stessa occasione a Pattada, in dimen-sioni minori per i bambini, che se li appendevano al col-lo con un nastro, nei loro giri di questua. Nel Goceanosu pane ’e su gandelàrdzu, oggetto di questua nell’ulti-mo giorno dell’anno, sorprende per le forme estrema-mente varie: borsetta (borsètta), crocetta (rughìttulas),bastoncino (bakkìddhos o bàkulos), occhiali (okkiàles) esolo a Bottida suola di scarpa (con il nome generico di

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577. Pudda cun s’ou, 12 cm, Settimo San Pietro.

578-579. Coccoi de angulla,rispettivamente 13 e 11 cm,Abbasanta.

580. Puddixedda priuzza cun ou, cm 18, Villaurbana.

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gandelàrdzu). A Busachi, nel Barigadu, il rituale preve-deva che la sera del 31 dicembre, un bambino (o unabambina) venisse inviato con sa tunda, grosso pane cir-colare decorato simbolicamente con scene di lavoro deicampi o dell’ovile, alle abitazioni di tre ragazze di nomeMaria, affinché lo benedicessero; il bambino, giunto difronte alla casa di ognuna, doveva inginocchiarsi e pro-nunciare le parole: «A sos kandelladòres», nome con cuierano indicati i questuanti.Ugualmente legato alla questua dei bambini era il pa-ne votivo confezionato per Sant’Antonio Abate e atte-

stato in tutta l’isola con varie forme e denominazioni:in provincia di Oristano panitsèddhu o pane manna opanàda, in Ogliastra panishèddha, paniskèddha, pane’e gònciu, angulèddha ’e Sant’Antòni, nel Nuorese e inBarbagia pistìddhu e kokòne ’e Sant’Antòni; era un panedolce, impastato con farina e sapa, ma anche con man-dorle, noci, spezie, uva passa e miele, con cappa di al-bume d’uovo e zucchero. Anche un altro pane aveva un alto valore sacrale: quelloche si confezionava per il 2 novembre, giorno della Com-memorazione dei defunti, e forse non a caso era scuro e

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581. Preparazione dei pani con l’uovo per i bambini, Barisardo, anni Cinquanta (foto Marianne Sin-Pfältzer).

582. Cocone ’e ovu, 11 cm, Orosei, anni Novanta, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde.

583. Pani ’e Pasca, 18 cm, Santadi.

584. Coccorreddu ’e ou, 16 cm, Cuglieri.

585. Coccoi cun ou, 11 cm, Urzulei.

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privo di spezie. Veniva chiamato a Villasalto pani de isanimas o animeddhas, mentre nel Goceano s’immòrti-immòrti e variava molto nelle forme: cuore, uccello, ca-vallino, pesce, gallo, pavone, borsetta, figure geometri-che. Era richiesto dai bambini, perché ritenuti puri edunque migliori intermediari per le anime del Purgato-rio, con varie formule: «Si donada a is animeddhas? Sidonada a is kampanasa? A nus donai a Donna Morti? ».Si credeva tra le famiglie di pastori che, in relazione alsesso del primo bambino questuante, sarebbe nato uncapretto o una capretta.

Le usanze relative ai pani cerimoniali donati spontanea-mente ai bambini o da loro richiesti ritualmente duran-te i giri di questua sembrano terminare qui. C’eranoperò momenti del ciclo dell’anno e della vita in cui ibambini non erano solo semplici destinatari di un do-no, ma figure centrali nella consumazione e fruizionedel pane. Erano protagonisti indispensabili per esempionel Goceano, nelle cerimonie legate agli usi nuziali, incui il pane acquistava profondi significati augurali di fe-condità: si confezionava su lòtoru (rotolo), una spianataornata di fiori, foglie e uccellini, chicchi di pasta simbo-leggianti il grano e due figure rappresentanti gli sposi,che veniva posta su un cercine a forma di ciambella,fatto di pervinca, e sistemato sul capo di un bambino(che non fosse orfano), e che doveva precedere gli spo-si nella cerimonia nuziale.Ancora più centrale era il ruolo che essi assumevanoall’interno dei rituali magico-religiosi dell’ultimo giornodell’anno: in varie località, nelle famiglie dei contadinie dei pastori, esisteva la tradizione di preparare, per isoli maschi, pani di grandezza proporzionale all’età e dibenedirli per influire sull’annata agraria o sul bestiame.In area logudorese, il kàbude, spianata ovale, intagliataa forma di uomo con cappello da carabiniere e coda difrac, decorata con tagli, timbri e applicazioni di figure estrumenti da lavoro, veniva benedetta durante il pranzodal capofamiglia con un’incisione a croce, e poi spez-zata cerimonialmente sulla testa del primogenito o delfiglio maschio più piccolo, inginocchiato davanti a lui.Con la stessa ritualità in provincia di Sassari e di Nuorosi benediceva un pane-dolce, fatto di semola, noci,scorze d’arancia, cannella e pistiddhu, marmellata dimiele mista a mandorle tritate e sapa.

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586. Coccone chin s’ovu, 18 cm, Lodè.

587. Coccone chin sa mendula, 15 cm, Lodè.Le famiglie più indigenti, nei pani pasquali, anziché le uova utilizzavano le mandorle.

588. Coccone chin s’ovu, 24 cm, Siniscola.

589. Pani ’e Pasca, 17 cm,Tertenia.

590. Caccoi cun ou, 15 cm,Villaurbana.

591. Coccoeddu ’e Pasca, 18 cm,Settimo San Pietro.

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Non c’è alimento che, almeno una volta, non sia stato“raccontato” dagli scrittori, non c’è forma di cibo o dibevanda che non sia stata soggetto o semplice “ogget-to” di interesse per un autore, un poeta, un narratore,di ogni epoca e di ogni paese. Ma c’è sicuramente ununico alimento che ritorna nei secoli, anzi, nei millenniin tutte le letterature e questo alimento è il pane. Que-sto nutrimento universale è, allo stesso tempo, un “ciboprimordiale” e anche il primo importante prodotto dellatrasformazione alimentare dell’Umanità e dunque il pri-mo alimento, per antonomasia, della Civiltà: la “scoper-ta del pane” è uno dei grandi momenti del progressoumano, della cultura e quindi della letteratura. Il sillogi-smo è dunque semplice: non c’è letteratura senza pane.E molti sono, appunto, gli scrittori sardi che hanno la-sciato testimonianza duratura di questa nostra anticapartecipazione alla cultura universale. Le pagine che se-guono sono state raccolte senza un criterio selettivo pre-stabilito, ma sovrapponendo differenti letture, assaggian-do tante forme differenti di “pane letterario”; spizzicandoe piluccando qua e là o, in alcuni casi, tagliandone gran-di fette. Si è preferito, proprio per seguire un piacerepersonale per certo “sapore” letterario, tener conto solodi autori del nostro Novecento, che portavano una testi-monianza di “transizione”, diciamo così, tra una culturaantica, spesso arcaica, e la modernità incalzante (ancheper la nostra Isola), che mette a rischio questa culturastessa e può minare le fondamenta dell’edificio delle no-stre tradizioni popolari. Ci piaceva però mostrare una let-teratura sul pane che sapesse di pane, cioè che fosse ric-ca di umori e di sapori, di sensazioni e di evocazioni.Abbiamo pertanto escluso quelle descrizioni che appari-vano come un distaccato “reportage”, quelle annotazionidi viaggio (si pensi alle numerose testimonianze presentinella letteratura odeporica sulla nostra Isola, dal Sette-cento in poi), che risultavano, alla fine, solo un freddorendiconto: volevamo, al contrario, una testimonianzache venisse dal “di dentro”, dal profondo sentimento del-lo scrittore, qualcosa che unisse la memoria e l’immagi-nario, la realtà e l’illusione, il sentimento e la visione.

Gli scrittori sardi hanno sempre avuto la necessità di rac-contare questo “sentimento”: di narrare il pane, la suaproduzione e il suo consumo, di rivelare i suoi rituali, ditrascrivere il suo linguaggio, di descrivere i gesti che datempi immemorabili si ripetono in questa terra antica.Abbiamo pertanto seguito anche noi questo percorso del“sentimento”, e abbiamo scelto alcuni brani che abbiamoritenuto particolarmente pregnanti ed evocativi, senza te-ner conto di criteri cronologici o stilistici, ma facendocitrasportare dal semplice e solo piacere della lettura diquesto “pane letterario”. In fondo, il nostro unico grandelibro, il grande libro dei sardi, su cui continuiamo a leg-gere la nostra storia e la nostra cultura è il pane.

I primi due brani di Salvatore Cambosu sono tratti dallasua opera più importante, Miele amaro, uno zibaldonedella memoria, un’antologia della cultura sarda, raccon-tata con moduli narrativi sempre differenti e variegati,per toccare tutte le corde dell’espressività, tutte le modu-lazioni linguistiche ed infine tutti i possibili momentiemotivi che tanta rievocazione suscita. La descrizionedella lavorazione dell’orzo ha quasi la struttura di unarelazione antropologica, ma in realtà è una “testimonian-za” che vuole narrarci la “Passione” dell’orzo, la sua tra-sformazione, il suo tormentato divenire pane: «Non au-gurare mai a nessuno la sorte dell’orzo», recita l’incipit. Attraverso la successiva “testimonianza” di Bonaventu-ra Mameli, Cambosu ha descritto i momenti della lavo-razione e della cottura del pane. Si tratta di un raccontometicoloso, dettagliato che tenta di fermare sulla cartaun tempo che non tornerà più; l’autore vuole docu-mentare una tradizione nel tentativo di rinnovarla e sal-varla dall’oblio. Ma quel senso di mistero, che trapeladal racconto del “testimone”, sarà arduo riuscire a ri-produrlo, a perpetuarlo ancora: solo la scrittura puòriuscire nel difficile intento di ridare voci e immagini al-le emozioni. C’è una visione nostalgica irrisolvibile chesprigiona dalla magia del momento: «Impastavano uc-celli mai visti in volo; lune che invece di occhi e boccaavevano croci e candelabri».Ancora una lettura di Cambosu, tratta questa volta daUna stagione a Orolai; qui lo scrittore è attento soprattut-to alla descrizione degli oggetti, del luogo dove avviene

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Il pane raccontatoRoberto Randaccio

592. Filippo Figari, Sardegna industre (particolare), 1925, olio su tela, 288 x 400 cm, Cagliari, Aula Magna dell’Università.592

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vino, quando c’è, va bene, e meglio ancora se c’è unafetta di salsiccia o un morso di formaggio. Ma non c’èniente, se non c’è il pane»; per giungere ad una visione“teologica” del pane: «La passione del grano assomigliaalla passione e morte di Cristo: tutt’e due alla fine ditormenti diventano pane per la fame nostra». Ancorauna volta le metafore, i termini paradigmatici che ritor-nano: “Passione”, “Fatica”, “Tormento”. Il pane necessitadi queste simbologie, quasi fossero proprietà intrinse-che che la cultura popolare impasta con esso. Il rispettodella gente sarda per il pane è un atto di devozione, difedeltà verso un cibo santo.Nel suo ricordare, Costantino Nivola ricostruisce la pro-pria infanzia ad Orani, ricucendo ancor più saldamente,con la scrittura, un legame sentimentale che ha sempretenuto vivo con la pittura e la scultura e mai ha inter-rotto. Le sue bellissime ceramiche, altro non sono cheuna variante della lavorazione dell’impasto e della cottu-ra del pane. E le sue figure mitiche scolpite nel marmoo graffiate nella sabbia discendono proprio dall’evoca-zione di questo breve, ma intenso contatto con la suaterra natale.Infine, la bellissima pagina di Salvatore Satta, tratta dalsuo capolavoro Il giorno del giudizio. Satta sa unire lapropria mitografia del ricordo («C’erano intorno allacorte delle casette rustiche, ognuna delle quali prende-va il nome dai doni della terra che custodiva, la casettadell’olio, la casetta del grano, … la casetta del forno,che era come un altare, o una tomba etrusca»), alla cu-ra descrittiva che trascende nella poesia, nell’immaginenostalgica («Il lavoro aveva la solennità d’un rito, an-che perché si protraeva fino alla mattina, e le ore tardeportavano il silenzio»), riuscendo a ricongiungere efondere, in un solo testo, tutti quelli raccolti in questabreve antologia.

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la panificazione, di tutto l’apparato scenografico di que-sta specie di “presepe domestico”. Il suo sguardo è peròsempre diretto verso il misterioso simbolismo delle co-se: «La bocca sdentata e sganasciata del forno mostravail suo palato rosso», in una magica visione antropomor-fica degli oggetti. E dato che abbiamo parlato di “presepe domestico”, cisembra opportuno legare il brano di Cambosu con unapoesia (anzi due) di Sebastiano Satta, tratta dai Cantibarbaricini. È una poesia dal sapore invernale, natali-zio, che parla del pane, del «pane della bontà» (quelloche nasce dal «lievito santo»), e ne accentua tutte le va-lenze sacre. Il pane, come abbiamo detto, è, nella tradi-zione cristiana, simbolo di fratellanza e di festa, e, nellatradizione sarda, le feste religiose devono essere consa-crate con il “pane della festa”, dalle forme meravigliosee simboliche. Allo stesso tempo, il pane è stato, da sem-pre, oggetto di miracoli, di straordinarie manifestazionidel divino. Così pure accade nei versi di Sebastiano Sat-ta: un piccolo miracolo barbaricino, perpetuato «al lumedel lentisco».La poesia di Montanaru, al contrario di quelle di Satta,ci offre una visione più umana, più terrena del pane:il pane come pegno della fatica dell’uomo, quello checi viene concesso da Dio «pro tribagliare e viver dognidie». Un pane la cui preparazione richiede fatica e pa-zienza («E prepareint bundante sa madrighe / Dae sanotte innanti»); un lavoro che ci darà, infine, un paneprofumato e fumante che si deve mangiare caldo, «cal-du dae su forru», un pane che ci riscalderà il corpo maanche l’anima («bonu che i su nostru coro raru»).Il calore del pane appena sfornato trova nel brano diGrazia Deledda, tratto dal romanzo Sino al confine,simbologie inaspettate. Il gesto che compie Gavina, laprotagonista, portandosi il coltello caldo alla bocca, tra-scende verso il sensuale, verso il peccato. Grazia Deled-da è abilissima a mostrarci questo confine sottile e peri-coloso: il calore del pane diviene, per un attimo, caloreerotico e la protagonista, sapendo di profanare, con unpensiero così azzardato e blasfemo, la sacralità del cibo,si castiga con lo stesso peccaminoso coltello. Segue una descrizione della fabbricazione del pane edei dolci della festa, tratta dal romanzo La via del male :le donne sudano e chiacchierano alla luce del forno ac-ceso, sono allegre, ridono, ma non risparmiano i loropolsi. Il lavoro va finito prima che sorga il sole. Il terzo breve estratto, da Canne al vento, ci è sembratoun’importante attestazione, anche dal punto di vistaiconografico: il gesto della donna che vaglia il grano,“fermato” dalla scrittrice, ci riporta alla mente tante rap-presentazioni pittoriche ispirate da questo antico rito.Lo stesso gesto descritto da Grazia Deledda, ci vieneraccontato da Giuseppe Dessì in Paese d’ombre, mal’attenzione dello scrittore ha la puntualità di una de-scrizione filmica. Il ritmo della donna al setaccio, affa-scina lo scrittore: il dinamismo delle sue mani, dellesue braccia che danno vita all’oggetto: «Lo staccio, qua-

si animato di vita propria, appena sfiorato dalle sue ditache mantenevano attivo il movimento iniziale, andavaavanti e indietro, frullava come una trottola». Il pane“raccontato” è dunque anche il “gesto raccontato”: lascrittura ferma l’istante di un ritmo, di un rituale antico,che si ripete identico e si rinnova ogni volta.Il pane è anche simbolo di sacrificio, non solo fisico,“guadagnarsi il pane quotidiano”, ma anche morale, in-teriore. Nel brano di Paride Rombi, tratto dal romanzoIl raccolto, ritroviamo questo sacrificio dell’anima. Lagiovane protagonista femminile, Pasqua, prepara la ta-vola per il banchetto che festeggia il raccolto di quellamiracolosa annata; distribuisce i pani sulla tavola e sen-te una profonda emozione dentro di sé: offrendo quelpane, sente di offrire anche se stessa, sente d’essere leistessa “pane”: «Del resto non era stata forse lei stessamietuta trebbiata e passata alla macina; lavorata comepasta e passata al forno?». Un’immagine efficace e com-movente per una ragazza “sedotta e abbandonata” dalsuo giovane padrone, che affronta il proprio sacrificiocon un ardore liturgico: «E dunque prendessero tutti emangiassero, pane vero e pane quest’altro, fatto d’ani-ma o come sia». Sempre e comunque figure femminili si trovano vicine(o limitrofe) al racconto del pane: la donna lo lavora, locrea, lo distribuisce. C’è nel pane, nel “fare il pane”, unmomento di consacrazione, un “farsi pane”, come fosseun passaggio esistenziale, un avvio alla fecondità, al di-venire donna, madre, padrona di casa. Lo confermanole parole di Maria Giacobbe, che, ricordando la propriainfanzia, sottolinea come le bambine “giocavano” conla pasta, per «cominciare a prepararsi a diventare mas-saie». Ma anche la testimonianza di Maria, nell’“intervi-sta” della Gallini, che nasce da una riflessione etnologi-ca sul mondo contadino “al femminile”. Una analogariflessione è all’origine dell’inchiesta di Bachisio Bandi-nu (i cambiamenti e la trasformazione del mondo pa-storale negli anni precedenti e successivi al “boomeconomico”), analisi che lo porta verso un’attenzionemeticolosa dell’oggetto pastorale e contadino, del gestoed infine delle parole, che insieme producono quel“processo comunicativo” che rischia di essere interrottoda sa modernitate.Infine due brani che stanno a metà strada tra il raccon-to di memoria ed il documento antropologico insiemead un “ricordo” d’artista. Antonio Puddu, nel suo Zio Mundeddu, ci offre unadescrizione della lavorazione dei pani dettagliata e mi-nuziosa: «Accostate e sciolte le otto fascine di fieno eognuna divisa in tre parti, rimpinzato il forno e acceso;poi curato le fiamme per il fuoco giusto. Il forno avevaquindi ripulito dalle braci con le due scope di mirto».Giulio Angioni unisce sapientemente la propria espe-rienza di studioso a quella dello scrittore di qualità. Lasua narrazione del pane è una sorta di concezione “filo-sofica” del pane, premessa da una visione “teleologica”dell’alimento: «C’è tutto, se c’è il pane. Un bicchiere di

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593. Melkiorre Melis, La sposa, 1915, tempera su carta, 94 x 41 cm, Ferrara, Fondazione Sgarbi Cavallini.593

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da Canti barbaricini (1910): “IL PANE DELLA BONTÀ”I tetti fumigavanoDalle scandule brune, tra il nevisco,E tre donne sfornavano e infornavanoAl lume del lentisco.

Venne uno stormo di fanciulli – O ziaUn pane. – Va’ in malora! – – O zia, zïetta mia,Un pane. – Va’ in malora! –– O zia, mammina mia,Un pane… – Va’ in malora! –

Ah che dopo l’avaroDiniego, ingrato e amaroSi fece il pane! E alloraPassò Gesù bambino;Gesù bambino venneAl borgo di Barbagia:– Donne, un pane! – Per te, vieni, piccino. –

E una donna disteseUn po’ di pasta d’orzo sulla bragia:Ed ecco che quel pocoDivenne molto, e sì divenne grandeQuel pane che a sfornarloCi vollero tre pale.

Ché sempre cresce e crescerà più sempreIl pan della Bontà.

da Canti barbaricini (1910): “IL PANE”Pane, lievito santo come il germeChiuso nel grembo, dopo quanta guerraTi conquistò il debil uomo inerme,Prono sugli aspri solchi della Serra!

E ti bagnò pur di suo sangue in ermeTanche ed in salti inospiti, dov’erraTriste l’armento brado, e pendon fermeNubi d’incendio a desolar la terra.

Sia pace per la croce della manoChe t’intrise e ti stese, e per l’ignotoSangue che ti bagnò, pane, sia pace.

E di te si abbia gioia anche chi al pianoNon scese a seminare, e va, pel vuotoMondo, con solo il suo dolor seguace.4

MONTANARU (Antioco Casula) (Desulo 1878-1957)Interrotti gli studi ginnasiali a sedici anni, a diciotto siarruolò nell’arma dei carabinieri, continuò comunquele letture e in quegli anni di vita militare iniziò a scrive-re poesie sarde. Nel 1904 apparve la sua prima raccoltapoetica, Boghes de Barbagia. Tornato a Desulo fu diret-tore dell’ufficio postale e, conseguito il diploma, divennemaestro elementare. Questa sua duplice attività, e le tra-gedie familiari (la morte del figlio maggiore e della gio-vane moglie) non diminuirono la sua attività di scrittore.

Nel 1922 pubblicò i Cantigos d’Ennargentu, nel 1933 Soscantos de sa solitudine, che trattano i temi più intimi delpoeta, delle sue sventure e sofferenze. Del 1950 è la suaultima raccolta di poesie Sa lantia.

da Cantigos d’Ennargentu (1922): “SU PANE”Su pane! cuddu chi Deus hat lassaduPro tribagliare e viver dogni die,Su pane’e trigu biancu che nieDa onzi umanu corpu disizadu.

Preparein issios de castagnaFattos de linna sébera, pulidosChe i sa prata e che cristallu nidos.Giamein in bighinau una cumpagna

E prepareint bundante sa madrigheDae sa notte innanti. In sas coghinasCroccolein sas bezzas carrafinasDe inu antigu, nieddu che pighe.

E t’impastein o pane! o pane caruE triballadu, e ti papein calduCaldu dae su forru, o pane saldu,Bonu che i su nostru coro raru.5

GRAZIA DELEDDA (Nuoro 1871-Roma 1936)Frequentò soltanto le scuole elementari, ed ebbe da unprecettore lezioni private di lingue; tutta la sua forma-zione culturale è stata, dunque, conseguita da autodi-datta, fatta di frequenti e disordinate letture. La sua pre-coce vocazione di scrittrice dovette fare i conti con igravi problemi familiari (con i fratelli), ed economici(conseguenti la morte del padre). Nel 1888 il suo primoracconto, pubblicato dalla rivista Ultima moda, stimola-rono la giovane scrittrice a continuare la sua stradaestetica. Fu con il romanzo La via del male (1896), benaccolto dalla critica, che la sua notorietà crebbe rapi-damente. Visse un breve periodo a Cagliari per poitrasferirsi a Roma, dopo il matrimonio. Nascono inquel primo decennio del Novecento le sue maggioriopere, pubblicate prima in famose riviste (Nuova An-tologia, L’Illustrazione Italiana, La Lettura) e poi involume: Elias Portolu (1900), Cenere (1903), L’edera(1908), Canne al vento (1913). La sua fama crebbe, an-che in campo internazionale, fino al conseguimento delPremio Nobel per la letteratura nel 1926. Altre sue ope-re sono: Marianna Sirca (1915), L’incendio nell’oliveto(1917), La madre (1919), Il segreto dell’uomo solitario(1921). Il romanzo autobiografico Cosima rimase incom-piuto alla sua morte, e apparve postumo sulla NuovaAntologia nel 1936.

da Sino al confine (1910)Il sabato … ella dovette alzarsi prestissimo per aiutarela madre e la serva a fare il pane, nella cucina calda esilenziosa dal cui forno usciva il fumo odoroso del le-gno di ginepro. Stanca di gramolare la pasta, di tanto

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Antologia

SALVATORE CAMBOSU (Orotelli 1895-Nuoro 1962)Dopo gli studi giovanili a Nuoro, completa la sua for-mazione negli atenei di Padova e Roma. È stato inse-gnante elementare e giornalista, collaborando con ilPolitecnico, Nord e Sud e Il Mondo. Su queste riviste esull’Unione Sarda furono pubblicati numerosi racconti.Tra le sue opere narrative ricordiamo: Lo zufolo (1932),Miele amaro (1954), Una stagione a Orolai (1957); po-stumi sono stati pubblicati: Il Supramonte di Orgosolo(1988), Lo sposo pentito (1992), Il quaderno di don De-metrio Gunales (1999).

da Miele amaro (1954): “RACCONTO DI POTENZIA MORO” Non augurare mai a nessuno la sorte dell’orzo…L’orzo, prima di tutto, l’abbiamo tostato nel forno, altri-menti non si lasciava macinare. Poi, purgato e macina-to, abbiamo stacciato la farina: prima con lo staccio ra-do, con lo staccio fitto poi. Si è arrivati così alla cruscagrossa, alla crusca sottile e al farro. Questo farro che èla semola più grossa l’abbiamo cribrata per separare lasemola fina, sa podda, (il friscello): e questa vola e im-bianca la stanza e incipria la stacciatrice. Con la farinasenza la crusca grossa si impastano i ghimisones, masenza lievito e senza sale; cinque oppure sei, e anchepiù, secondo la quantità dell’orzo da panificare. Questigrossi pani pesanti: uno, o più chilogrammi ciascuno,vengono messi nel forno mondato dalla brace e chiuso,e lasciati lì a cuocere a fuoco lento. Allora non c’è fret-ta: quando la corteccia s’è indurita, è tempo di cavarlifuori, e così caldi come sono subito li deponiamo incorbe d’asfodelo, li copriamo bene tutt’intorno di farinae aspettiamo che maturino. Aspettiamo due giorni.Si può adesso mettere il lievito, meglio se di grano, nel-la farina impastata. Apriamo i ghimisones : il loro cuoreè crudo ma saporoso, grigio e molle: rammolliamo conacqua tiepida, filtriamo il tutto e quello che ne vienes’impasta con la farina fine. Questo impasto è la madredi tutta quanta la farina da panificare. E quando questaavrà fermentato schiacceremo i pani, li presseremo conle mani e col mattarello, finché non saranno divenuticome carta grossa. Finalmente siamo davanti al forno:ora gli capita come al fratello, al pane di grano: le ostieche si gonfiano come otri, questi che vengono aperticon la punta d’un coltello tutt’attorno lungo i margini,rimessi nel forno più tardi perché diventino biscotto,piegati a mezzaluna, accatastati, riposti negli armadi ne-gli scaffali, nelle casse.1

da Miele amaro (1954): “RACCONTO DI BONAVENTURA

MAMELI”La vigilia dell’infornata, sul tramonto, mia madre sep-pelliva in segreto una palla di pasta color terra nellafarina intrisa con l’acqua tiepida e salata. Poi, disegnata

con la punta d’un dito una croce sul mucchio, non soquali parole o preghiere bisbigliasse movendo appenale labbra; come si fa davanti a una sepoltura. Ma pas-savano pochi momenti, e lei ricopriva tutto con pannidi lana, come si faceva con noi bambini, quando cade-vamo ammalati e, per guarire, dovevamo sudare … Aiprimi canti dei galli già si lavorava nella cucina. Già im-pastavano uccelli mai visti in volo; lune che invece diocchi e bocca avevano croci e candelabri; modellavanoanche aratri e corni da caccia; mani ferite di Cristo o diSan Francesco; simboli di fecondità. Ma la maggior par-te della pasta veniva ridotta in grandi ostie per il panedi ogni giorno; ostie che al calore del forno si gonfiava-no come otri.Il forno acceso continuava a mandare dalla sua boccail buon odore che tiene lontane la morte e le malattie.Si dice che risvegli persino i morti. Certo fa cantare ledonne e le fa parlare della loro età più fresca, degliamori che si aspettavano, e come sono venuti, e comesi sono fatti aspettare invano.Le assistenti dell’infornatrice aprivano queste ostie conla punta del coltello, come ho visto fare alle personeistruite quando tagliano i fogli di un libro nuovo, e ac-catastavano le due sottilissime lune. Terminata questacottura, i fogli rotondi venivano introdotti di nuovo nelforno fiammante, per la tostatura.2

da Una stagione a Orolai (1954)Succedeva così anche quando veniva acceso il fornoper la cottura del pane; ma allora la festa era più ricca:la bocca sdentata e sganasciata del forno mostrava tuttoil suo palato rosso e mandava luce dorata e odore buo-no alla stanza. Lì, a portata di mano, c’era il treppiedeche aspettava, si direbbe senza impazienza, di esserecollocato al centro di un’aiuola di brace e di ricevere lapentola di terracotta: ma questo non accadeva tutti igiorni. Alcuni sgabelli di ferula a forma di dado attor-niavano il focolare; altri sgabelli, di sughero, erano alli-neati in bell’ordine, sempre in attesa di ospiti che maiarrivavano, lungo le pareti che brillavano di nerofumo.In un angolo, sopra una scaletta appoggiata al fornodormivano le galline, e sotto il forno, alto da terra quan-to un uomo e simile ad una rozza mensa d’altare, avevail suo giaciglio il maiale.3

SEBASTIANO SATTA (Nuoro 1867-1914)Laureato in legge, fu avvocato di successo; di idee socia-liste fu sempre attento alla realtà ed ai bisogni della pro-pria gente. Diede vita ad alcune riviste e collaborò conmolti periodici. Nel 1908 fu colpito da paralisi, ma, no-nostante il male, non attenuò il proprio impegno e l’atti-vità poetica. La realtà e la mitologia della Sardegna, inparticolare della sua Barbagia, ispirarono gran parte dellasua poesia. Nel 1893 pubblicò Versi ribelli, nel 1910 iCanti barbaricini, la sua maggiore opera poetica; postu-mi, nel 1924, sono usciti i Canti del salto e della tanca.

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in tanto ella coglieva un pretesto per uscire nell’orto …Invece dovette rientrare e riprendere a gramolare lapasta, e quando il pane fu cotto dovette pulirlo e ra-schiarlo con una spazzola ed un coltello. Ad un trattoavvicinò il coltello caldo alle labbra e sentì un brivido,sembrandole che Priamo la baciasse: chiuse gli occhied ebbe il desiderio di ritentare la prova, ma subitos’accorse che peccava, e per punirsi lasciò a lungo ilcoltello sul pane caldo e poi lo fissò così scottantesulle labbra.6

da La via del male (1896-1916)Sabina aveva lasciato il servizio, e aiutava le sue riccheparenti a fare il pane e i dolci di pasta, sapa e uva pas-sa, che ogni buona massaia nuorese non manca di pre-parare per la festa di Tutti i Santi. Fin dall’alba Maria accese il forno, preparò la farina lie-vitata, le mandorle, la sapa e il miele; poi venne Sabinae tutte insieme, le due cugine e zia Luisa, gramolaronola pasta inginocchiate per terra intorno ad una tavolabassa. Zia Luisa sudava per lo sforzo, le due cuginechiacchieravano e ridevano, ma non risparmiavano i lo-ro polsi, dimenandosi avanti e indietro, con le cocchedei fazzoletti rigettate al sommo della testa.7

da Canne al vento (1913)Donna Ester lavava il grano, prima di mandarlo allamola, immergendolo entro un vaglio nell’acqua d’unpaiuolo: le pietruzze rimanevano tutte in un angolo, edella dava un balzo al vaglio per cacciarle via tutte assie-me. Era molto polveroso e pietroso, il grano; era l’ulti-mo del sacco che loro rimaneva.8

GIUSEPPE DESSÌ (Cagliari 1909-Roma 1977)Laureatosi in lettere a Pisa, per molti anni è stato provve-ditore agli studi e ha lavorato presso l’Accademia deiLincei a Roma. Fin dagli esordi i suoi racconti e i suoi ro-manzi hanno ricevuto l’apprezzamento della critica e delpubblico. Nel 1939 furono pubblicati i racconti La sposain città, a cui seguirono Michele Boschino (1942), I pas-seri (1955), L’isola dell’angelo e altri racconti (1957). Nel1962 vince il Premio Bagutta con il romanzo Il disertore.Nel 1972 con Paese d’ombre vince il Premio Strega.

da Paese d’ombre (1972)… lei si era chiusa nella “stanza della farina”. Separavala crusca dal cruschello e dalla semola, facendo scorrerelo staccio sui lunghi staggi di castagno ben levigati. Loriempiva di farina grezza con la paletta di legno, poi af-ferrava saldamente lo staccio con le sue mani forti e agi-li, lo attirava a sé, lo respingeva imprimendogli un motorotatorio, e lo staccio, quasi animato di vita propria, ap-pena sfiorato dalle sue dita che mantenevano attivo ilmovimento iniziale, andava avanti e indietro, frullavacome una trottola con un trepestio ritmato e veloce,vuotandosi rapidamente.9

PARIDE ROMBI (Calasetta 1921-Napoli 1997)Magistrato ad Iglesias, Sondrio e Roma; ha lavorato al-l’Ufficio legale della Presidenza della Repubblica. Havinto, nel 1952, con il romanzo Perdu, la prima edizio-ne del Premio Grazia Deledda. Ha tradotto in campida-nese l’Antigone di Sofocle (1983) ed è autore di nume-rosi racconti sulla Sardegna.

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594. Francesco Ciusa, Il pane, 1907, bronzo, 68,8 x 49 x 105 cm.

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de cochere (gli arnesi per la cotta). Gli oggetti riacqui-stano la loro presenza funzionale nel processo lavorati-vo, poi saranno riposti in magazzino come arricchiti an-cor più di valori affettivi e di valenze sociali. La massaiacomunica con questi oggetti con un’intensità che vieneda un uso, da una relazione e da una conoscenza vec-chie di decenni.Fra le tante taulas (tavola dove si stende la foglia) c’èla preferita, i matterelli che sembrano tutti uguali par-lano diversamente alle mani e all’animo della donna.Sas cochitores (le donne-aiutanti) sono tipici canali dellacomunicazione sociale: sono agenzie di stampa. Il lorostesso mestiere le porta da una casa all’altra: vedono,sentono, intuiscono, sospettano, inventano, riferiscono.Mentre si impasta e si cuoce il pane si fa una radiogra-fia del paese, si svelano segreti, si giudica e si assolveo si condanna.

Molti proverbi sono legati a questo rito: contos de co-chintzos per indicare notizie non vere; ti juchene daecochintzu in cochintzu (sparlano di te in ogni cotta dipane). Paura delle male lingue e delle dicerie. Dopo 24ore di lavoro prendono un convenuto numero di panicome merce e se ne vanno col saluto a lu mandicarecun salute (a mangiarlo con salute) mentre la padronarisponde: Deus chegliat (Dio lo voglia).Su pane lentu si manda in dono a famiglie di parenti edi amici con cui si è in strette relazioni di confidenza.Una pira de pane (dodici pani) si presta alla vicina cheè rimasta senza. Pane e formaggio si mettono nel ta-scapane del pastore: unico cibo per dieci giorni di vitanei campi.13

ANTONIO PUDDU (Siddi 1933)Scrittore e giornalista, fin da giovane collabora con gior-nali e riviste su cui pubblica i suoi primi racconti, ma ècon il romanzo Ziu Mundeddu (1968) che raggiunge il

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da Il raccolto (1969)«Ma Pasqua, che fai, non ti muovi, e le tazze?» la richia-mava la madre.Oh sì, le tazze, che scema, le tazze!«Pasqua, figlia dell’anima, che ti succede, stai lì stranita.Su dunque, e i pani? Non li metti sui tavoli?».Si scuoteva: i pani? Oh sì, mi’ che sbadata, li aveva inmano! Ora li metteva, sì certo, subito, ma’, Vostra Mercémi perdoni.E li metteva, infatti; e, nel metterli – sarà stato il richia-mo, del resto dolce, della madre, o altro – il cuore le siscioglieva. Quei pani come nidi, fragranti, dorati, barocchi, che fan-no laggiù, opera manifesta di femminili mani: di pazien-za, di tenerezza, di fantasia, anche se modellati su schemitramandati. Confezionati, si direbbe, con la medesima cu-ra che se dovessero durare anni, e cosa durano invece?Uscivano, questi pani leziosi, dal paniere che lei reca-va, e proprio essi, siccome fatti col grano nuovo, eranola rarità del banchetto, la primizia dell’annata. Al puntoche, prima di mangiarli, bisognava segnarsi e dire: innome di Dio.Li collocava uno dopo l’altro secondo i posti già fissatidei commensali – compreso “lui”, l’invitato di maggiorrango, che a buon conto tardava a apparire – accompa-gnando il gesto, di volta in volta, con un sentimento co-me di offerta e di donazione. Come se, cioè, non il panesoltanto, ma qualcosa di sé ove fosse possibile, venisseoffrendo e distribuendo a ciascuno: il padre, i giornalie-ri, Jeremia, ’Ntoni, “lui” s’intende, ché anzi. Come se, in-somma, in qualche modo si reputasse lei stessa pane: edel resto non era stata forse lei stessa mietuta trebbiata epassata alla macina; lavorata come pasta e passata alforno? E dunque prendessero tutti e mangiassero, panevero e pane quest’altro, fatto d’anima o come sia.10

MARIA GIACOBBE (Nuoro 1928)Dal 1958 la scrittrice vive a Copenaghen e contribuiscealla diffusione della cultura italiana e sarda in terra da-nese. Nel 1957 ha pubblicato il suo primo libro Diariodi una maestrina, con cui vinse il Premio Viareggio,Opera prima. Seguirono, nel 1961 Piccole cronache, nel1975 Le radici, e nel 1995 Gli arcipelaghi, che gli valse ilpremio speciale della giuria del Premio Giuseppe Dessì;da quest’ultimo libro è stato tratto, nel 2000, un film di-retto da Giovanni Columbu.

da Diario di una maestrina (1956)Nessuno però mi impediva di giocare con i figli dellelavoranti a giornata che due o tre volte al mese veniva-no da noi per le interminabili «cotte»: quintali di granoda macinare e trasformare in anemiche sfoglie di panebianco per la famiglia e in grosso pane scuro per i serviin campagna.Anche a noi bambine davano della pasta da gramolare«per cominciare a diventare massaie».11

CLARA GALLINI (Crema 1931)Etnologa, insegna all’Università di Roma “La Sapienza”.Ha studiato per molti anni la cultura popolare della Sar-degna, pubblicando numerosi saggi: I rituali dell’«argia»(1967), Il consumo del sacro. Feste lunghe di Sardegna(1971), Intervista a Maria (1981), La ballerina variopinta(1988). Inoltre ha curato diverse pubblicazioni postumedi Ernesto De Martino.

da Intervista a Maria (1981)Noi, mi ricordo che avevamo sempre il grano dal nuovoal vecchio: non ci mancava il pane, non ci mancava mai.Però delle volte si faceva il pane d’orzo … Abbiamo pre-so l’orzo, l’abbiamo pestato sopra i sacchi, l’abbiamomesso nel canestro e la mattina presto l’abbiamo preso esiamo andate dalla campagna direttamente al mulino. Ri-tornate dal mulino siamo venute a casa, abbiamo fatta lafarina e fatto il pane. Di sera siamo ritornate col pane al-la campagna. In quei tempi si chiamava lavoro! Non èche il grano mancava, ma delle volte la nonna diceva:«Sarebbe meglio lasciare un po’ di grano» per quando sitrebbiava … Volevamo portare pane in abbondanza, pa-ne bianco e bello. Allora si teneva il grano in più e simetteva anche un po’ d’orzo. Mi ricordo di questo, che ilnonno aveva fatto un grande fuoco. Come le ho detto,mia mamma aveva pestato tutto l’orzo con un pezzo dilegno e fatto tutto di notte. La mattina presto ha presol’orzo, l’ha portato al mulino, e di sera è tornata col panefatto. Che fatica!12

BACHISIO BANDINU (Bitti 1939)Scrittore e giornalista, è stato collaboratore del Corrieredella Sera e direttore de L’Unione Sarda. È Presidentedella “Fondazione Sardinia”. Attento studioso della real-tà sarda, ha scritto numerose opere, tra le quali ricordia-mo: Costa Smeralda (1980), Lettera a un giovane sardo(1996), Visiones. I sogni dei pastori (1998), La maschera,la donna, lo specchio (2004).

da Il re è un feticcio (1976)Centinaia di sfoglie di pane carasatu coperte da un telo:saranno sufficienti per 30-40 giorni. Da grano a pane: èun iter percorso dalla massaia ed implica un insieme discelte e di relazioni sociali. Quali criteri animano la scelta del mulino: la distanza ola modernità della macchina molitoria? Il mulino più vi-cino ha un suo diritto in quanto si trova nel vicinato mail mulino più distante ha un macchinario più moderno efa la farina più bianca. Scegliere è preferire ed è suscita-re una reazione.Il mulino è anche luogo di incontri: tra massaie si scam-biano le nuove del paese, ci si pone in comunicazionecon gli altri.Su cochintzu (la cotta del pane) è un rito. Da una setti-mana prima ci si assicura la presenza delle cochitores(aiutanti di professione), si prepara la legna e sos trastes

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595. Mario Delitala, L’amore, 1924, olio su tela, 115 x 135,5 cm, Nuoro, collezione comunale.

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vicini di casa ostili e maliziosi. La fine del pane era lafine del mondo.Ma i miracoli avvengono e hanno la tendenza a succe-dere al momento opportuno. Una sorella o una zia osemplicemente mia madre sarebbe apparsa alla finedella strada, preannunciata da una schiarita delle nuvo-le e da uno stormo di galline svolazzanti intorno al ca-nestro tenuto in equilibrio sulla testa, come cherubiniintorno all’aureola di un santo.La gente si sarebbe congratulata con la portatrice delsanto carico e tutti avrebbero provato un senso di rilas-samento man mano si fosse avvicinata alla casa. Il suopassaggio avrebbe creato una corrente in movimento: ilrespiro della vita.Ognuno sapeva cosa fare. Noi bambini, armati di basto-ni, prendevamo posizione in difesa del grano. Le formi-che, attaccando da sotto, erano pronte ad afferrare e acorrere, svanendo nel nulla. Le galline, approfittando di

ogni minima distrazione, avrebbero rivelato una capa-cità di volo pari solo a quella delle rondini quando cer-cavamo di colpirle con i sassi nei loro voli.I vicini portavano acqua nel cortile per lavare il grano,mentre per terra venivano distese le coperte per asciu-garlo. E il sole, naturalmente, come l’attore principaledi un grande dramma, aspettava il momento di usciredalle quinte delle nuvole.La rimozione dei sassolini dal grano veniva fatta incollaborazione dalle donne del vicinato su tavole sot-tili, rotonde (tazzeris), poggiate sulle loro ginocchia.Una manciata alla volta, per assicurarsi che nessunsassolino sarebbe sfuggito, il grano veniva sparso sulletavole. Ho sempre sospettato che in quei momenti ledonne contassero ogni chicco di grano calcolando,secondo un’algebra mistica conosciuta solo da loro,quante forme di pane si sarebbero ricavate da quei chic-chi. I chicchi di grano lavati, sparsi sulle coperte, entra-vano in stretta relazione con le pietre del selciato, i mu-ri rustici, i denti dei bambini e delle donne sorridenti,creando un’impressione di moltiplicata abbondanza …

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successo di critica e vince il Premio Grazia Deledda,Opera prima. Altre sue opere: La colpa di vivere (1983);La valle dei colombi (1996).

da Zio Mundeddu (1968)Prima la fatica di tutta la notte. Grazia le aveva dato unamano come sempre, perché sempre lei le dava un panedi paga. Il resto l’aveva fatto da sola. Accostate e scioltele otto fascine di fieno e ognuna divisa in tre parti, rim-pinzato il forno e acceso; poi curato le fiamme per ilfuoco giusto. Il forno aveva quindi ripulito dalle bracicon le due scope di mirto. Non si era riposata un istan-te. Portate le tavole e su di esse i panieri, con la mae-stria che l’era abituale, subito prese la lunga e sottile pa-la di legno e, con movimenti svelti e precisi distribuì ipani nel forno, a mano a mano sfilandoli dalla corbulabassa, con i lati dipinti da pezzetti di stoffa che pareva-no nastri, tanto avevano colori diversi e smaglianti. Maquesto ancora era niente, pensava Maddalena col visoormai più rosso del forno che fumava scottante.Grazia era buona ma non sapeva aiutarla che a impastarla farina. Infatti quando lei s’ammalò, quella il pane lofece, ma bruciato di fuori e dentro cotto a metà e fitto epesante che pareva di pietra … Questo invece era il ti-po migliore che si faceva per i giorni di festa; mancava-no solo le uova appena affondate, se no era il pane diPasqua. Perciò bisognava lavorarci con rifiniture d’incavie ricami che il forno restituiva indorati e cresciuti e nelfrattempo si doveva di continuo levarlo e persino lu-strarlo, alla svelta, con un mazzetto di finocchio selvati-co fresco bagnato nell’acqua … Il pane riuscì bello chepareva biscotto e faceva venire la fame a guardarlo e futanto che venne quasi due corbule piene.14

GIULIO ANGIONI (Guasila 1939)Antropologo, docente universitario di chiara fama, èautore di numerosi saggi e studi sulla cultura e sulletradizioni della Sardegna. La sua qualità di scrittore vie-ne evidenziata dal successo del libro L’oro di Fraus(1988), a cui seguono Il sale sulla ferita (1990), Lune distagno (1995), Il gioco del mondo (1999), La casa dellaPalma (2002), Assandira (2004). Nel 2005 vince il Pre-mio Giuseppe Dessì con Alba dei giorni bui.

da Tutti dicono Sardegna (1990): “PANE E COMPANATICO”In italiano, si sa, si dice pane e si dice anche companati-co. In sardo si dice pane e si dice ingaùngiu che vuoldire companatico. Anche qui c’è pane e companatico.Anche se qui il companatico è sempre stato poco, quida noi, e se c’era il pane era già molto, era già tutto. Inaltri luoghi forse il companatico era importante quantoil pane, o anche più del pane. Ma qui niente era impor-tante quanto il pane. Basta guardare la campagna: lospazio più grande era per il grano, il grano comandavatutto, e tutto gli ruotava intorno: pascoli, viti, alberi. Lacampagna era per il grano … C’è tutto, se c’è il pane.

Un bicchiere di vino, quando c’è, va bene, e meglio an-cora se c’è una fetta di salsiccia o un morso di formag-gio. Ma non c’è niente, se non c’è il pane. Il pane digrano, però, perché il pane dev’essere di grano. E delgrano niente si perde, niente si butta, a cominciare dallestoppie e dalla paglia per gli animali. Sulla paglia di gra-no è stato coricato il Salvatore appena nato in questomondo. E la passione del grano assomiglia alla passionee morte di Cristo: tutt’e due alla fine di tormenti diventa-no pane per la fame nostra. Per questo prima al pane siportava rispetto e amore: era considerato cosa santa. Sidiceva buono come il pane, di uno veramente buono.Al pane si davano tante forme diverse, di fiori e di fruttie di tutte le cose belle e buone. E per ogni festa c’era ilsuo pane speciale. Era l’ornamento della casa e l’orgo-glio della sua padrona. I luoghi più puliti erano quellidove si faceva il pane, a cominciare dal tavolo e dai re-cipienti. E dove si conservava la pasta per fare da lievitoal pane della prossima volta era come il posto dovedormiva un figlio stimato. Si toccava con le mani pulite,il pane, e si maneggiava con grande rispetto. Non sibuttavano i resti. E il pane duro che si riportava comeresto dalla campagna, bisognava mangiarlo per primo,perché era doppiamente santo. Così si diceva ai bambi-ni che si buttavano sul pane più molle. C’era venerazio-ne per il pane. Al pane si chiedeva quasi perdono perdoverlo mangiare. E guai se il pane cadeva in terra, e semai cadeva, devi baciarlo appena raccolto.15

COSTANTINO NIVOLA

(Orani 1911-Springs, Long Island, N.Y., 1988)Scultore e pittore di fama internazionale, giovanissimolascia Orani per seguire il proprio istinto artistico, primanello studio di Mario Delitala a Sassari, poi a Monza,dove si diploma in Grafica. Nel 1936 viene nominato di-rettore artistico della Olivetti. Dopo un breve soggiornoa Parigi, nel 1939 si reca a New York, dove nell’animatoscenario artistico, incontra e diviene amico dei maggioriarchitetti ed artisti del tempo. Negli anni Cinquanta svi-luppa la sua originale tecnica scultorea detta sand-ca-sting, con la quale decora importanti edifici e piazze.Nel 1966 realizza a Nuoro la piazza dedicata a Sebastia-no Satta. Negli anni Settanta e Ottanta svilupperà il temascultoreo delle “madri”; suo è l’intervento artistico per ilPalazzo della Regione di Cagliari.

da Memorie di Orani (1996)Ho capito tutto, il giorno che mia madre si è rifiutatadi darmi il pane. «Vai a sa furca», mi aveva gridatomentre i miei fratelli e le sorelle guardavano e rideva-no. C’era poco pane in casa e la prospettiva di averedel grano era sempre incerta. Come la provvista men-sile diminuiva, in mia madre crescevano l’ansietà e ladisperazione che si spargevano nel vicinato, e sembra-vano alzarsi fino al cielo. Noi bambini diventavamonervosi e litigiosi, gli uomini più ubriachi e petulanti, i

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596. Giovanni Ciusa Romagna, Mietitrici, 1952, olio su masonite, 68 x 89 cm.

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SALVATORE SATTA (Nuoro 1902-Roma 1975)Giurista, docente di Diritto in varie università italiane.La sua prima opera pubblicata, De profundis (1948), èuna amara riflessione sulla guerra, ma l’opera che loha rivelato al grande pubblico è senz’altro Il giorno delgiudizio, postumo (1977), un grande affresco sulla de-cadenza di una famiglia nuorese e sull’estinzione delletradizioni. Sempre postumo è il romanzo La veranda(1981), una riflessione sulla malattia e sulla morte scrit-ta nel 1925.

da Il giorno del giudizio (1977)Tutto si raccoglieva in casa, tutto si lavorava in casa, eper questo c’erano intorno alla corte delle casette ru-stiche, ognuna delle quali prendeva il nome dai donidella terra che custodiva, la casetta dell’olio, la casettadel grano, la casetta della frutta, e in più c’era la ca-setta del forno, che era come un altare, o una tombaetrusca, coi setacci, i crivelli, le còrbule, sas canisted-das (i canestri, piccoli e grandi, di foglie di palma)appesi alle pareti. Per cuocere il pane venivano don-ne del vicinato; perché l’impresa era grossa, e biso-gnava impastare, tirare la pasta in larghe sfoglie, pas-sarle una a una alla donna che sedeva presso la boccadel forno, con le cocche del fazzoletto rialzate sullatesta, il viso illuminato nell’ombra. Questa metteva lasfoglia su una pala liscia e sottile, di quelle che fab-bricavano d’inverno i pastori di Tonara, immobilizzatidalla neve, e scendevano a venderle a Nuoro di pri-mavera, sui loro magri cavalli; infilava la pala nel for-no e la sfoglia al calore diventava, se era ben fatta,un’immensa palla che veniva passata a un’altra donnaseduta con le gambe in croce davanti a un panchetto,e con un coltello la ritagliava lungo i bordi, e ne veni-vano fuori due ostie fumanti che pian piano s’irrigidi-vano, diventavano croccanti, e andavano a formare lealte pile che poi si sarebbero infilate nella credenza.Dal fondo di quali millenni fosse venuto quel paneDio solo lo sa: forse lo avevano portato gli ebrei cheerano stati risospinti dall’Africa, nei tempi dei tempi. Illavoro aveva la solennità d’un rito, anche perché siprotraeva fino alla mattina, e le ore tarde portavano ilsilenzio: i ragazzi sgusciavano nella porticina stretta,avvampavano al calore, s’inebriavano del profumo dipane e di ceppi ardenti di lentischio, rapiti dai guizzidelle fiamme sulle pareti fumose, ma anche un pocointimiditi da quelle donne operose, che erano serve.Queste vedevano con occhi festosi i figli del padrone,e come un gioco di prestigio in pochi secondi prepa-ravano un pane rotondo, in forma di anello, che im-mergevano rapidamente nell’acqua, dove sfrigolavacome il ferro rovente, e ne usciva lucido e terso comeuno specchio: invetriato, appunto si diceva. Era unmomento di gioia per loro e per i ragazzi, che si sen-tivano tutti uniti da quella cosa ineffabile e senza pa-droni che è la vita.17

Note

1. S. Cambosu 1954, pp. 94-95.

2. S. Cambosu 1954, pp. 96-97.

3. S. Cambosu, Una stagione a Orolai, Nuoro, Ilisso, 2003, p. 11.

4. S. Satta, Canti, Nuoro, Ilisso, 1996, pp. 44, 66.

5. Montanaru, Boghes de Barbagia, Cantigos d’Ennargentu, Nuoro, Ilis-so, 1997, p. 254.

6. G. Deledda, Sino al confine, Milano, Mondadori, 1980, p. 51.

7. G. Deledda, La via del male, Roma, Newton Compton, 1994, p. 67.

8. G. Deledda, Canne al vento, Nuoro, Ilisso, 2005, p. 135.

9. G. Dessì, Paese d’ombre, Nuoro, Ilisso, 1998, p. 258.

10. P. Rombi, Il raccolto, Nuoro, Ilisso, 2003, pp. 179-180.

11. M. Giacobbe, Diario di una maestrina. Piccole cronache, Bari, La-terza, 1975, p. 3.

12. C. Gallini, Intervista a Maria, Nuoro, Ilisso, 2003, pp. 16-17.

13. B. Bandinu, G. Berbiellini Amidei, Il re è un feticcio, Nuoro, Ilisso,2003, pp. 22-23.

14. A. Puddu, Zio Mundeddu, Nuoro, Ilisso, 2004, pp. 137-138.

15. G. Angioni, Tutti dicono Sardegna, Cagliari, Edes, 1990, pp. 107-108.

16. C. Nivola, Memorie di Orani, Nuoro, Ilisso, 2003, pp. 19-23.

17. S. Satta, Il giorno del giudizio, Nuoro, Ilisso, 1999, pp. 70-71.

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All’interno, in grandi e bassi canestri fatti a mano, lafarina era setacciata in tre gradazioni – una per il panedella festa, una per l’uso di tutti i giorni e la terza, lapiù grezza, per le galline e i maiali. Uno svelto e feli-ce canto accompagnava il ritmico setacciare della fari-na. I vecchi ascoltavano il ritmo quasi di danza, evo-cando in loro Dio solo sa quali memorie della lorobreve gioventù, mentre i bambini, avendo assolto ailoro doveri, avevano il permesso di sfogare i loro ec-cessi di vitalità.Una volta separata, la farina riceveva il lievito – un pez-zo di pasta avanzato da un precedente impasto o pre-stato da un’altra famiglia. Con un segno di croce traccia-to su di esso e poche parole di raccomandazione albuon Dio, l’impasto era pronto per una notte di fermen-tazione.Più tardi, nella notte, malgrado l’attenzione a non farerumore, lo scricchiolio dei mobili, i passi a piedi nudi ele voci sussurrate svegliavano noi bambini. Segretezza

e mistero pervadevano la casa. Sentivamo i suoni comedi una lotta o di sculacciate ad un bambino grasso che,punito, si rifiuta testardamente di piangere. La lavora-zione dell’impasto, la divisione in tante piccole formerotonde, stese poi in sottili dischi da mettere tra gli stra-ti dei larghi nastri di lino per completare la fermenta-zione, tutto questo noi sentivamo quando si pensavache fossimo addormentati.Quando ci alzavamo, il forno era già acceso. I profon-di canestri, con l’impasto scarsamente visibile tra lepieghe del lino, erano disposti intorno ad un canestrobasso e grande che avrebbe ricevuto dal forno i dischidel pane, gonfi come palloni, quindi divisi in due partie sovrapposti per la cottura finale.Attirando i mendicanti come mosche, il profumo delpane infornato si spargeva nell’intero paese. I vecchi,seduti sulla soglia della chiesa, giravano i loro occhiciechi nella direzione del profumo, indovinandone laprovenienza. I bambini spostavano la sede dei lorosemplici giochi dentro il cerchio profumato della casabenedetta. L’equilibrio di tutto il paese era, per il mo-mento, ristabilito.16

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597. Cesare Cabras, Sull’aia. Lavoro, anni Trenta, olio su masonite, 76 x 100 cm.

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Una delle possibili chiavi di lettura dei testi di tradizio-ne orale, siano essi fiabe, leggende, proverbi, indovi-nelli, modi di dire, storie di vita, è quella della notazio-ne alimentare che ci consente di delineare l’ambienteeconomico che, come un canovaccio, fa da sfondo allevicende narrate.Quello che se ne desume sembra riconducibile alla si-tuazione attestata in Europa per l’Alto Medioevo, in unacongiuntura di carestia, quando per il determinarsi disituazioni sfavorevoli, quali guerre, pestilenze, cattiveannate, veniva meno l’equilibrato rapporto tra popola-zione e risorse, inducendo situazioni di indigenza e cri-si alimentare.1

Lo documentano in particolare le fiabe e le storie di vi-ta che situano le vicende nel tessuto economico pro-prio dei regimi arcaici, fondati prevalentemente sullerisorse agricole e sugli apporti del patrimonio silvo-pa-storale, con riferimenti alle forme di produzione, allemodalità di procacciamento del cibo, ai processi di la-voro e di trasformazione della materia prima.In accordo con lo stile della narrativa tradizionale sarda,le notazioni sono estremamente parche, tuttavia il cibo,pur nella drammatica e costante situazione di insuffi-cienza, non diventa mai, nel racconto, un topos dell’im-maginario collettivo surrettiziamente introdotto dal “so-gno del ventre”.

Vi si fa riferimento in genere già nell’esordio2 della fia-ba che dà l’avvio alla sequenza narrativa:«Questi erano poveri, a terra, il padre andava in cam-pagna a cogliere finocchi; li vendevano e compravanopane».3

«Questa era una donna e ogni giorno andava in campa-gna a portare a volte una fascina di legna, a volte cico-ria, mammaluca, un po’ di ogni erba». «Un uomo povero va a cercare cardi per sfamare la fa-miglia». «Una donna per sfamare i figli va a cercare funghi». «Questi erano un marito e una moglie, avevano tre figlie.

Erano poveri molto, meschini. Avevano un paio di peco-relle e ogni giorno lui usciva a mungere quel gregge».«Come mestiere faceva il cacciatore. Partiva al mattino erientrava a mezzogiorno carico di pernici, lepri e altro».«C’era una volta un povero vecchietto. Allora non c’era-no le macchine, niente; i lavori si facevano con la zap-pa e con le mani, si stava a zappare dalla mattina allasera per portarsi a casa un pugno di grano».«Un marito e una moglie poveri avevano costruito lacapanna presso un ruscello. La moglie andava a coglie-re erbe e il marito pescava qualche cosa nel ruscelloper poter mangiare».

Torna nella messa alla prova dell’eroe da parte del do-natore per il conseguimento del mezzo magico:«Mentre mangiava il pane arriva un vecchio che gli dice:“Mi dai un pezzo di pane perché sono affamato”».«Mi daresti pane perché ho fame? Si, quello che ho ce lodividiamo».

Costituisce oggetto di compito difficile e riappare nellafunzione nozze con la quale solitamente si conclude ilracconto:«Tua madre vuole che macini il grano, faccia la farina eil pane».«Adesso devi cuocere il pane; che sia cotto e quando tor-no trovi le pile di pane».

La produzione del grano predomina, risultandone con-notativa, su tutte le coltivazioni del regime agricolo sucui si innesta la fabula. Grano e pane sono i poli intornoai quali ruota l’asse di riferimento economico della fiaba:si lavora per procacciare il pane che è il cibo base, il ci-bo per antonomasia quand’anche non il solo cibo:«Domani devi andare lì, devi seminare il grano, devizappettarlo, mieterlo, trebbiarlo, spularlo macinarlo edomani a mezzogiorno devi portarmi il pane fresco».«Il padre diceva: “Ho tre figli sposati, voglio che ciascu-no mi porti un pane per vedere quale è il più bello fat-to dalle nuore”».«Una povera donna vedova che aspettava un bambinoaveva fatto il pane e mentre la pasta lievitava, era anda-ta a portare le erbe per le scope».

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Il pane narrato dal popoloChiarella Addari Rapallo

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598. Paolo Maninchedda e Pietro Antonio Manca, La preghiera nei campi (particolare), 1916 ca., olio su tela, 138,5 x 168,5 cm,Sassari, collezione Confcommercio.

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«E tu cosa mangi? E io già mi arrangio. Ho un po’ di pa-ne, una forma di formaggio».«Ogni giorno andava a far legna per comprare il pane».

Con il pane si paga il lavoro prestato:«Prima che parta, al servo gli dà un pane grande e gli di-ce: Aprilo a casa tua».«Un uomo povero che è al servizio di Bertoldo da 22 an-ni decide di tornare a casa. Bertoldo gli dà un pane rac-comandandogli di mangiarlo nel giorno a lui più caro».

È il pane che, al momento di abbandonare la casa e an-dare per il mondo all’avventura, si lascia come segnala-tore di fortuna o di disgrazia:«Due fratelli partono per il mondo e si separano lascian-do all’incrocio un pane: “Fratello mio, se tu sei morto etorno io, il pane porta sangue; se sono morto io e tornitu e il pane porta sangue, vuol dire che io sono morto”».

È ancora il pane a fungere da scrigno per l’oggetto che

consentirà il riconoscimento della sposa, dimenticata operduta, da parte dello sposo:«Hanno fatto il pane. Lei è andata e ha chiesto un pezzodi pasta. Quando glielo hanno dato lei ha fatto una fo-caccia e ha messo l’anello».«Anche lui ha preso questa focaccia: tutti si incantavanoa guardarla. Quando l’ha spezzata, l’ha tagliata in mez-zo, e c’era l’anello di sua proprietà».

Alla qualità del pane si associa la distinzione sociale:«C’erano una volta due fratelli, uno ricco e uno povero… Il povero andava a chiedere l’elemosina a casa delfratello ricco … non gli voleva dare niente. Un giornogli diede un pezzo di pane nero».«Maria Cenere aveva una matrigna … le dava pane neroda mangiare».«E quando mandava la figliastra a fare legna, le dava unpezzo di pane nero … Ha deciso di mandare anche la fi-glia … e le dà un pezzo di pane bianco, bello, grande».

Il pane può essere anche bello, con ciò si inserisce, nelquadro valutativo generale, una considerazione estetica:«Quando si è alzata il pane era già fatto. Bello! sembravache prendesse il volo».«Chiedono l’elemosina e trovano questa donna che sta-va cuocendo, con il forno pieno di pane, di ogni kokkòibello!».«Fanno il pane e esce come foglie di rosa!».

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599. Giuseppe Cominotti, Charrues et Chars de Sardaigne(Aratri e carri della Sardegna), 1825, litografia, in Atlas de Vojage en Sardaigne par De Lamarmora.

600. Giuseppe Cominotti, Agricoltura, 1826, acquarello su carta, 13,6 x 22 cm, Cagliari, Biblioteca Universitaria.

601. Giuseppe Cominotti, Venditrici di pani sassaresi, 1825,acquarello su carta, 13,6 x 22 cm, Cagliari, Biblioteca Universitaria.

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giorno), e il diavolo non ha più potuto prendere l’ani-ma e lui è rimasto ricco».

Nelle numerose leggende sui peregrinaggi di Cristo e iSanti, sulla, terra l’elemosina del pane al mendicante/Cri-sto fonda l’ordine morale con la promessa della salvezzadell’anima:«Gesù Cristo è andato a bussare a questa casa e hachiesto se gli davano qualcosa da mangiare. Questadonna stava facendo il pane; ha preso un pezzo di pa-sta dal tavolo, l’ha messo dentro il forno, ed è diventa-to grande quanto il forno».«San Pietro ha detto: “Daccene pane che stiamo moren-do di fame” … E questo pane più ne tagliavano e piùcresceva».

Estremamente efficaci nel rilevare la “centralità del pa-ne” nell’ambito economico che si riscontra nelle trame

fiabesche, le notazioni, come si può rilevare dai branicitati, sono brevi, scarne, in accordo con lo stile genera-le della narrativa sarda, asciutto, severo, alieno da com-piacimenti e dovizie descrittive. Non può dirsi lo stessoper quanto riguarda il mito sull’origine del lievito: lanarrazione, nei testi che ne trattano, si organizza intornoa quest’unico oggetto sviluppandosi con implicazioni diestremo interesse antropologico, come quando ne attri-buisce la diffusione alla Madonna adolescente nata dadonna ormai sterile per età, che lo sottrae alla Saggia Si-billa, una donna vecchissima, il demiurgo, che possiedei segreti del creato. Il lievito viene chiesto in prestito alle“donne di malomondo” dalle janas, le fate della tradi-zione sarda, che dalle loro case nella roccia ne osserva-no divertite la vita, e il cui impasto non lievita:«Dunque, sant’Anna era vecchia, aveva novant’anni, e ainovant’anni la dovevano uccidere perché giunto queltempo, le uccidevano quando non avevano figli, e quel-li del vicinato glielo sbattevano in faccia che non avevafigli, che la dovevano uccidere. Lei, quando è giunto iltempo che era stato destinato per ucciderla, è fuggitain campagna, nei boschi; viveva lì e pregava ogni gior-no il Signore che non permettesse che le fosse passato

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Rigorose norme sociali e religiose, che è sacrilego in-frangere, governano la ritualità dei cicli del grano edel pane:«Alla monaca santa, ogni sabato, le ricche del paese da-vano un pane. Una lavorava il grano di domenica e leportava il pane fresco … lo metteva sul tavolo ma anda-va un cane e lo portava via … Non era un cane, era ildiavolo che rubava il pane perché non si deve fare lafarina, né mondare il grano, né pulirlo col crivello didomenica, perché il lavoro, di domenica, è del diavolo». «Lei è un’anima dannata! … Questa donna, faceva il la-voro di macinare il grano alle donne che andavano dalei a macinare … però da ognuna lei rubava una man-ciata di grano. Lei, il bene che faceva in elemosine,non pagava il male che faceva prendendo quel grano».«Il 16 luglio è la festa di N.S. del Carmine … Un pro-prietario che, proprio quel giorno aveva il grano sul-l’aia, temendo che sarebbe piovuto, chiama i servitorie dice loro di trebbiare il grano, ma questi si sono ri-fiutati perché era festa. Allora prende e va lui e, nelmomento che stava trebbiando, si apre la terra e in-ghiotte tutto».

Negare il pane attira la punizione divina:«C’era una volta una donna, una specie di strega che sichiamava Georgìa Rajosa, che portava una cesta di pa-ne. L’incontrano un gruppo di poveri e le chiedono: Co-sa porti nella cesta? … Vorremmo un po’ di pane. Nonho pane, ho pietre … E allora che in pietre ti trasformi».

Il pane esercita una funzione magico-protettiva controle insidie del maligno:«Quello aveva venduto l’anima al diavolo per arricchir-si, poi si era sposato e aveva nascosto un kokkoi nelletto. Poi era andato il diavolo, ché era arrivata l’ora diprendergli l’anima. L’uomo aveva detto: “Prima di pren-dermi l’anima lo vuoi sapere come sono nato?”. Ed harisposto il pane: “Prima mi hanno arato, poi mi hannozappato, poi mi hanno mietuto con la falce, poi mihanno trebbiato, mi hanno ventilato, mi hanno macina-to, setacciato, poi buttato in una conca d’acqua calda,mi hanno impastato, poi mi hanno nuovamente pestatonel tavolo, mi hanno pestato le ossa, poi mi hannomesso a lievitare, e poi mi hanno buttato nel forno epoi mi hanno mangiato”. E l’ora è passata (è spuntato il

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602. Molenti, litografia, in Cenni sulla Sardegna, Torino 1841.

603. Felice Melis Marini, La macina, 1916 ca., inchiostro su cartoncino, 28 x 36,6 cm, Cagliari, Biblioteca Universitaria.

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La poveretta andò via maledicendo. Si voltò verso ilpaese e lo vide completamente distrutto».È curioso il motivo della distruzione di questo paese.«Dicono che una povera, avendo da farsi il pane, va dauna comare a chiedere un pezzetto di lievito. La coma-re che aveva il lievito esce sulla porta e risponde chenon ne aveva. Quella povera, trattata in quel modo dal-la comare, comincia a maledire la comare e tutto Dure.E Dio l’ha esaudita: comincia a piovere zolfo e fuoco elampi e fulmini finché tutto il paese di Dure è stato di-strutto dalle fondamenta».4

Se nel regime alimentare fiabesco il pane costituisce larisposta all’ansia esistenziale della fame, l’elemento inso-stituibile per la sopravvivenza, nel suo valore strettamen-te nutritivo, nella letteratura paremiologica dove, comenella fiaba, è frequente il riferimento al cibo in generalee, in particolare al pane e ai processi che portano dallamateria prima al prodotto finito, esso non assume lostesso valore ma viene utilizzato prevalentemente comemetafora per comunicare in forma sintetica, cristallizzatae, pertanto, facilmente memorizzabile, precetti, nozioni econsigli attinenti la vita pratica e il comportamento mo-rale, allo scopo di facilitare quel processo di incultura-zione delle giovani generazioni che nelle piccole comu-nità di villaggio avveniva prevalentemente per via orale. «Su zoccu de su sedattu est s’allegria de domo» recita uncommovente proverbio tratto dalla preziosa silloge del

canonico Spano5 che, con i suoi circa tremila testi, rile-vati dalla tradizione orale, rappresenta un’ottima testi-monianza dell’ambiente in cui i proverbi circolavanovivaci e funzionali al contesto storico economico e so-ciale di riferimento.Suggerimenti e previsioni per la buona riuscita del la-voro: «Quando s’aradu non fundat, su trigu non affundat »(quando l’aratro non affonda nella nella terra, il granonon mette radici);«Abba et sole, trigu a muntone, subta sa cappa de nostruSegnore » (acqua e sole, grano a mucchi sotto la prote-zione di Nostro Signore);«Pascha martale, annada de pane » (Pasqua di marzo an-nata di grano);«Pane pesadu cascia piena» (pane gonfio cassa piena);«Su binu ad su sabore, su pane ad su colore » (il vino (sigiudica) dal sapore, il pane dal colore);«Su casu fittu, su pane ispugnattu» (il formaggio (deveessere) compatto, il pane spugnoso);«Qui non messat, o non ischit messare, ispigat » (chi nonmiete, o non sa mietere, spigola).

Considerazioni e riflessioni sul valore del grano e delpane:«Iscura sa domo ue non bi intrat trabagliu de boe doma-du» (povera la casa dove non c’è lavoro di bue domito);

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il coltello nel collo, che fosse sgozzata, che le fosse ta-gliata la testa. Pregava che glielo desse anche a lei unfrutto, anche se lei non era in età di averlo, però chenon la uccidessero.Allora, di notte, si è presentato l’angelo e le ha detto:“Anna, tu devi tornare a casa, sei, ha detto, incinta diuna bambina che chiamerai Maria e che diverrà la ma-dre di Nostro Signore Gesù Cristo”, ha detto.Allora lei se ne è venuta a casa sua e quelli del vicinato:“Ah!, hanno detto, ora ti uccideranno, ora ti uccideranno!”“No, non mi uccideranno, ha detto lei, mi trovo incinta esono gravida di una bambina, e non mi uccidono”, hadetto. Nata la bambina, l’ha mandata a scuola, e a scuolastudiava, era superiore alle altre. Quando stava studian-do, la maestra usava fare il pane con il lievito. Nel paesedi sant’Anna e della Madonna facevano il pane azzimo.Allora, quando la maestra ha buttato il lievito, dopo chel’ha usato per fare il pane, Maria l’ha preso, l’ha involto inun pezzo di carta e se l’è nascosto sotto l’ascella, perchévoleva che nessuno venisse a sapere questo. La maestrainsegnava loro il procedimento, ma non permetteva cheusassero il lievito, no. Dava loro le istruzioni e tutto, ec-cetto portar via il lievito. Quando Maria l’ha preso se n’èandata. Ha detto: “Mamma, ha detto, ora dobbiamo fareil pane con il lievito”. “Ih, figlia mia, ma noi non ne ab-biamo!” “Già l’ho portato via io dalla mia maestra”, hadetto. E da allora hanno cotto il pane con il lievito».

Molto interessante e degna di approfondimento è laconnessione che la leggenda instaura tra il mondo uma-no sopraffatto dalla disgregazione e dalla morte e quellonuminoso e incorruttibile delle janas, per le correlazionie opposizioni che istituisce tra sterile, fecondo senzaconnubio, fermentazione, crescita e lievito:«Vi è un nuraghe alla periferia del paese dove, si dice,anticamente abitassero le fate: dicono che erano donnepiccoline, potevano essere alte 70 cm e facevano il panein casa, facevano tutto, però non si lasciavano vedere danessuno. Andavano a chiedere il lievito, volevano che, illievito, lo mettessero sotto su lumenàrdzu delle porte(nelle porte antiche, infatti, si poteva far passare la ma-no sotto la porta). E se dicevano: “Donna di malomon-do me lo presti il lievito?” “Si, ve lo presto”. Gli davanoil lievito e loro facevano il pane e dopo restituivano illievito: “Donna di malomondo, prendetevi il lievito”.“L’avete fatto il pane?” “Si, l’abbiamo fatto”. E queste era-no le fate che abitavano il nuraghe».

Anche il lievito, come il pane, è soggetto a prescrizionie divieti, primo fra tutti quello di negarlo, che ne sotto-lineano, nella coscienza degli utenti, la sostanziale sa-cralità:«Si dice che una volta una poveretta chiese un pezzo dilievito ma nessuno gliene volle dare e una delle centosignore disse alla poveretta di fare il pane senza lievito.

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604. Aire à blé (Ventilatura del grano), in G. De-Grégory, Ile de Sardaigne, Paris 1839.

605. Venditrice di pani, inizioXIX sec., acquarello su carta, 14 x 14,5 cm, Cagliari, BibliotecaUniversitaria.

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(Ho visto un orologio / inchinarsi ringraziando, / vienetorturato il vivo / e il morto sta cantando. / Il mulino adasino).

Su babbu si sterrit, / sa mama si corcat, / su fillu sibaddat. / Sa canistedda, su sedazzadori, su sedazzu (Ilbabbo si stende, / la mamma si corica, / il figlio balla. /Il canestro, la tavola per lo staccio, lo staccio).

Dai su babbu si fundan tres fizos, / chi non tenzan ma-ma non lu crees, / sun e totu aguales in assimizos, /unu lùmene tenen totu e tres, / sun distintos in sambe-nizos, / nde cuban prìnzipes e res / de custos tres mamanon s’agatat / e dan su bestire a sa burata. / Su trigu, sasimula, sa farina, su fuifere (Da uno stesso padre na-scono tre figli, / che non abbiano madre non puoi cre-dere, / in tutto si assomigliano / ma hanno un nome di-verso tutti e tre, / ne desiderano principi e re / di questitre la mamma non si trova / e allo staccio lasciano il ve-stito. / Il grano, la semola, la farina, la crusca).

C’est un’aimali / chi fait beni a tanta genti, / est unacosa infernali, / portat un’ogu solu in brenti, / sa facci

niedda e isdentada / e sa brenti parit unfrada, / papatin buca e in buca partorit, / tenit a pampa e a pustismorit. / Su forru (C’è un animale / che fa del bene atanta gente, / è una cosa infernale, / ha un occhio soloin pancia, / la faccia nera e sdentata / e la pancia sem-bra gonfia, / mangia con la bocca e con la bocca parto-risce, / si accende a vampa e poi muore. / Il forno).

Anche nelle cosiddette cantzonis de bixinau o de bef-fa si rintracciano elementi che rimandano al mondoagro-pastorale e alle attività e competenze che vi si ri-connettono. Esse esercitano una sorta di sanzione so-ciale fissando in forma poetica le caratteristiche delcondominio vicinale e individuando, con ironia e con-discendenza, pregi e difetti di ciascuno secondo un si-stema di valori condiviso. Non sempre noi oggi, leg-gendole, riusciamo a coglierne a fondo il senso e isottintesi che i versi sembrano talvolta contenere e cheerano espliciti invece a chi condivideva la quotidianitàvicinale. Fuori da ogni ambiguità interpretativa, qualeelemento connotativo di senso positivo, si presentanoinvece i riferimenti frequenti e insistiti alle competen-ze e alle abilità nel lavoro dei campi, nella panifica-zione e in tutto ciò che, in un’economia di sussisten-za, come quella contadina, rinviano al grano, al panee alla terra.9

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«Iscura s’arzola qui timet formigula» (meschina l’aja cheteme le formiche);«Mezus chivarzu in domo sua chi non pòddine in domoanzena» (meglio pane nero in casa propria che non pa-ne bianco in casa altrui); «Qui hat chivarzu in domo sua, non morit de famine indomo anzena» (chi ha pane nero in casa propria nonmuore di fame in casa altrui);«Qui hat pane asciuttu non morit de famine » (chi ha pa-ne asciutto non muore di fame);«Qui hat facultate non cubit su pane » (chi ha ingegnonon desidera pane);«Qui jughet pane in saccu, nè faddidu nen maccu» (chiha pane nel sacco, né fallito, né matto);«Qui faghet pane non morit de famine » (chi fa pane nonmuore di fame);«A cane bonu non faltat padronu, et a qui hat pane noli faltat cane » (a cane buono non manca padrone e achi ha pane non manca cane);«Qui dat pane a cane anzenu, perdet totu» (chi da panea cane altrui perde tutto);«Haer totu, pane et bulteddu» (avere tutto, pane e col-tello);«Homine in domo, pane affacca» (uomo in casa, pane vi-cino); «Su zoccu de su sedattu est s’allegria de domo» (il rumo-re del setaccio è l’allegria della casa).

Massime e sentenze e norme di comportamento sociale:«Binu malu e pane tostu durat pius » (vino cattivo e pa-ne secco durano di più); «Qui comporat sa farina est cegu ad un oju, et qui compo-rat su pane ad ambos ojos » (chi compra la farina è ciecoa un occhio e chi compra il pane a entrambi gli occhi);«Quie biet da cuba anzena est imbreagu, et qui mandi-gat dai horriu anzenu est impasteradu» (chi beve del-l’altrui botte è ubriaco, chi mangia dell’altrui granaio, èghiotto); «Unu annu et unu pane, pagu istant a que passare » (unanno e un pane si consumano in fretta); «Pane et casu, binu a rasu» (pane, formaggio e bicchie-re pieno);«Innantis de mandigare s’ou friscu, ammentadi de ti af-fittare su pane » (prima di mangiare l’uovo fresco, ricor-dati di affettare il pane);«Qui mandigat chivarzu, ndeli ruet una dente » (chi man-gia pane nero, gliene cade un dente); «Sa paga de cogarzu de pane » (la paga del cucchiaio dipane); «Mandigare pane de septe furros » (mangiare pane di set-te forni);«Famine fina a cogher, non est famine de morrer » (la fa-me fino a cuocere (il pane), non è fame da morire);«Qui hat pane asciuttu non morit de famine » (chi ha pa-ne asciutto non muore di fame);«Homine in domo pane affacca» (uomo in casa, pane vi-cino);

«Su zoccu de su sedattu est s’allegria de domo» (il rumo-re del setaccio è l’allegria della casa).

Oggi, in seguito alla rapida trasformazione che si è veri-ficata in tutti i settori dell’attività umana, questo semplice,ingenuo, ma non per questo meno efficace, strumento dieducazione, mostra segni di indebolimento. Esso conti-nua a funzionare, a livelli generalissimi, coerentementecon il livellamento culturale che si è operato a dannodello stile etnico, che invece affiora dalla lettura dei testitradizionali e solo consente di intenderne il senso: «Esse-re proverbio, infatti, è innanzitutto essere proverbio inuna determinata situazione storico-culturale»,6 situazioneche, nel caso di società a economia tradizionale, si carat-terizza per la lunga durata: «Dicciu antigu non errat» silegge infatti sul frontespizio della raccolta dello Spano.Il ciclo del grano e il ciclo del pane forniscono ispirazio-ne e materia anche agli indovinelli, tuttora circolanti neldominio dell’oralità, spesso raccolti e registrati in prege-voli raccolte.7 Come tutti i documenti della tradizioneorale, anche questi brevi ed enigmatici componimentisono strettamente collegati con il contesto culturale e,se non se ne può sostenere l’origine esclusivamente lo-cale, si avverte tuttavia che i non autoctoni, gli importati,sono solo quelli che corrispondono alla situazione isola-na o hanno subito un processo di adattamento ad essache ne rende possibile la soluzione. Come afferma l’au-tore della raccolta, «superano il mare solo quelli compa-tibili con il sentire dell’isola, magari con l’aiuto delle co-loriture suggerite dalla fantasia dei nativi».8

L’aratura, la semina, il campo di grano, la mietitura, i co-voni, la misurazione e tutto il ciclo della panificazioneforniscono ampia materia per un gran numero di indo-vinelli dei quali si offre in questa sede una piccola sceltaesemplificativa:Non est procu / ma scorrovat che procu / si est postu inmotu. / S’aradulu (Non è maiale / ma scava come unmaiale / se è messo in movimento. / L’aratro).

It’est unu, it’est unu / muit che mare / e mare non est, /porta zuddas / e procu non est? / Su trigu (Che cos’è,che cos’è / muggisce come il mare / e mare non è, / hale setole / e maiale non è? / Il grano.

Porta centu e una denti, / bessit una borta in s’annu, /candu bessit fait dannu. / Sa fraci (Ha centouno denti,/ vien fuori una volta a l’anno, / quando esce fa danno./ La falce).

Ddu pesant a muntoni / non est arena, non est sabbio-ni, / est alimentu preziau, / de cambus bidris est mu-dau. / Sa maniga (Lo sollevano in mucchio / non èsabbia, non è sabbione / è alimento pregiato, / di ramiverdi è ornato. / La bica del grano nell’aia).

Vist’aggiu unu rilociu / cu li grazii falendi, / lu ’iu èmalturizendi / e lu moltu sta a boci. / Lu mulinu a asinu

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606. Felice Melis Marini, Donna al setaccio, 1916, matita e biacca su cartoncino, 23,7 x 35,7 cm, Cagliari, Biblioteca Universitaria.

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Cantzoni de su bixinau de Santu ’Engiu. / Ringratziai aGiuseppi Matzeu ch’est de bona lettura / Luisa Mura s’atcircau unu bagadiu / Antiogu Bandìu at bendiu is bois/ Arrafieli Cerronis si fait su meigama / Pietrina Sannasi ghettat una scusa / Liedda Mamusa fai su pani ci-vraxu / Sisinni Canarxu at perdiu is cambalis / EfisiuPascalis fait su fattu sùu / Giuseppi Orrù marrat in be-ranu / Giuanni Pianu bendit trigu a quarras / Sarba-

dori Marras est forti che unu lioni / Ddoi est Curreli An-toni chi arat trigu in gennarxu / Tziu Antoni Canarxuest prontu a cumbidai / Tenit gomai Bonai filla bella abasai (Canzone del vicinato di San Gavino. / Ringrazia-mo Giuseppe Matzeu che sa leggere bene / Luisa Murasi è cercata un fidanzato / Antioco Bandinu ha vendutoi suoi buoi / Raffaele Cirronis fa il pisolino pomeridiano/ Pietrino Sanna cerca qualche scusa / Liedda Mamusafa il pane civraxu / Sisinnio Canargiu ha perso i gamba-li / Efisio Pascalis compie il suo dovere / GiuseppeOrrù zappa in primavera / Giovanni Pianu vende grano

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a starelli / Salvatore Marras è forte come un leone / C’èanche Curreli Antonio che semina grano a gennaio / Si-gnor Antonio Canargiu è sempre pronto a invitare / Hacomare Bonaria una figlia bella da baciare).

Cantzoni de su bixinau de is umbus. / Clementi Corriastenit malus amigus / Maddalena Figus si narat su desti-nu / Saba Francischinu su scannu at funixeddau /Ddoi est Boicu Spanu chi circat una scusa / Fulvia Ma-musa una femina addata / Ddoi est Livia Mata chi noddi praxi su binu / Melis Giuseppinu adobiat su trigu /Luisa Figus incungiat in s’atongiu / Ddoi est sinnior Ma-rongiu totu druceria / Pitzianti Maria adobiat is froris /Ddoi est Fabiu Fois su grandu biondinu / Piras Giusep-pinu fait su pastori / Ennas su sennori abarrat in domusua / Ddoi est Mariu Casula chi at girau su mundu /Artudi Arremundu castiat a un ogu / Pittau Antiogu faitsu trigu a pani / Arribaus seus a s’arriu cani (Canzonedel vicinato di via degli olmi. / Clemente Corrias fre-quenta cattive amicizie / Maddalena Figus sa leggere ildestino / Saba Franceschino riparava gli scanni / C’èBoicu Spanu che cerca sempre una scusa / Fulvia Ma-musa una donna adatta / C’è Livia Matta che non le pia-ce il vino / Melis Giuseppino custodisce il grano / LuisaFigus fa il raccolto in autunno / Signor Marongiu è tuttosdolcinatezze / Pitzianti Maria custodisce bene i fiori /C’è Fabio Fois il grande biondino / Piras Giuseppino fail pastore / Ennas il Signore sta sempre a casa sua / C’èMario Casula che ha girato il mondo / Artudi Raimondovede solo a un occhio / Pittau Antioco prepara il granoper fare il pane / Siamo arrivati al vicinato s’arriu cani).

Note

1. M. Montanari 1977, p. 425.

2. Per i termini esordio, messa alla prova dell’eroe, compito difficile enozze faccio riferimento a V.J. Propp, Morfologia della fiaba di magia,Torino, Einaudi, 1966.

3. I brani citati nel saggio sono tratti dalle tesi di laurea delle facoltàdi Lettere e Filosofia e Magistero dell’Università di Cagliari, compila-te dalla fine degli anni Sessanta sino alla fine degli anni Ottanta.

4. E. Delitala, Novelline popolari sarde dell’Ottocento. Edizione dei ma-noscritti del Fondo Comparetti, Cagliari, AM&D e ISRE, 1999, p. 637.

5. G. Spano, Proverbi sardi trasportati in lingua italiana e confronta-ti con quelli degli antichi popoli, Nuoro, Ilisso, 1997.

6. A.M. Cirese, “I proverbi: struttura delle definizioni”, in Documenti dilavoro e Prepubblicazioni, Università di Urbino, n. 12, serie D, 1972.

7. F. Melis, Indovinellus, indevinzos, abbisa abbisa. Il libro degli indo-vinelli sardi, Cagliari, AIPSA, 2002. Gli indovinelli citati si trovano allepp. 34, 38-39, 42, 45, 49-51.

8. F. Melis, Indovinellus cit., p. 22.

9. P. Canargiu, “Cantzonis de bixinau”, in Il Provinciale oggi, n. 11, 1giugno 2005, p. 12. I testi riprodotti in questa sede sono stati rilevati epubblicati da Pino Canargiu che cura per il quindicinale la rubrica Co-stumanzias de domu nosta e contus antigus.

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607

607. Foiso Fois, Le mietitrici, 1954, pastello su carta, 30,5 x 30 cm.

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L’unica pratica terapeutica in cui si usava, e si usa ancora, il granonella sua forma integrale è quella che viene comunemente chia-mata “la medicina dell’occhio”, cioè la terapia contro il malocchio.In questo particolare rito terapeutico i chicchi di grano, in numeroimprecisato ma in genere sempre dispari, esercitano una funzio-ne importantissima: essi rappresentano di volta in volta, e da unguaritore all’altro, sia la persona vittima dell’aggressione “dell’oc-chio”che colui o coloro che l’hanno provocata. Di conseguenza, ilchicco di grano incarna anche, simbolicamente, il corpo della vit-tima, con la testa situata nell’apice vegetativo, la parte centraleche costituisce il tronco e l’apice terminale gli arti inferiori. Attra-verso questa struttura i guaritori riescono a dedurre dal grano lacondizione patologica del malato, cioè pervengono alla formula-zione della diagnosi. Nell’esecuzione di questo rito terapeutico,come prima cosa, il guaritore deve rendere il grano fruibile attra-verso la recitazione dei brebus (una sorta di benedizione prepa-ratoria), successivamente lascia cadere i chicchi in un bicchierecon dell’acqua benedetta e in questo contesto il grano esplica lasua funzione, indicando attraverso le bolle attorno ai chicchi e at-traverso la posizione dei chicchi stessi la presenza o meno dellostato di crisi dovuto al malocchio, l’autore dell’aggressione, lacondizione più o meno grave del malato; di queste indicazioni ilguaritore si servirà per prescrivere la terapia, che il più delle volteconsiste nel bere di quell’acqua e passarsela sulla fronte e su di-verse parti del corpo, facendosi il segno della croce, per uno o piùgiorni. Del grano usato nel corso del rito si fa un uso diverso a se-conda del guaritore: c’è chi lo distrugge nel fuoco e chi lo affida almalato, che deve gettarselo alle spalle senza guardare oppure te-nerlo addosso finché non lo perde.Nei suoi derivati il grano trovava, invece, numerose applicazioni.La crusca e il cruschello venivano usati nella terapia di alcune ma-lattie da raffreddamento (tosse, mal di gola), sotto forma di cata-plasmi scaldati a secco e applicati alla regione interessata. Ancheuna patologia grave come la polmonite veniva curata principal-mente con continue applicazioni calde di crusca, in un’azione inin-terrotta per giorni. Inoltre, la crusca trovava impiego nella cura dialcune altre patologie: la rogna, attraverso la preparazione di undecotto che veniva usato per lavare il malato prima dell’applica-zione di un unguento a base di strutto, oppure olio d’oliva, e zolfo;la mastite, con la crusca riscaldata a secco e applicata tramite sac-chetti di stoffa; alcune malattie esantematiche, facendo fare al ma-lato dei bagni in un decotto; con questo stesso decotto si curavaanche una forma di dermatite da sudore denominata aragaddu(identificata dai medici con la miliaria rubra) e la sudorazione deipiedi. Ancora, con applicazioni di cruschello riscaldato a secco si

curava oltre al mal d’orecchi e agli orecchioni, anche una manife-stazione patologica denominata su pitziri, che interessava la falan-getta delle dita della mano. Infine, il cruschello era presente anchenella preparazione degli impiastri per la cura dei foruncoli.Quello che potremmo chiamare il derivato nobile del grano, susceti, cioè il fior di farina, trovava applicazione nella cura del maldi testa come componente di base di quell’impiastro chiamatocucchedda, che veniva applicato alle tempie. Un simile impiastroveniva usato anche per la cura del mal di denti, applicandolo,ovviamente, sul punto sofferente. Nei traumi distorsivi si prepara-va un’amalgama di una certa densità mischiando farina, albumee foglie di un arbusto denominato “Spina di Cristo”; con questocomposto si impregnava uno straccio o della garza con cui si fa-sciava l’articolazione interessata. Questa fasciatura in breve tem-po sarebbe diventata dura come il gesso, esercitando un’azioneprotettiva nei confronti dell’articolazione infortunata. Vi eranoanche guaritori che confezionavano la fasciatura mischiandosemplicemente farina e vino nero. Con un composto di sapa efarina si curava una pustola conosciuta col nome di coiri, mentreun’amalgama simile, a cui si aggiungeva dell’olio d’oliva venivausato da qualche guaritore nella cura del “fuoco di Sant’Antonio”.Fra le terapie per le irritazioni della pelle dei neonati ce n’era unache prevedeva l’applicazione della farina che si ricavava scuo-tendo il pane quando lo si sfornava. Infine, di una certa comples-sità era il trattamento previsto per la cura di quella patologia co-nosciuta col nome di dabori de arrigus (mal di reni), identificatadai medici con la lombalgia. Si inumidiva la regione lombare condel vino rosso caldo e successivamente la si cospargeva di farina,fin tanto che veniva assorbita; di nuovo la si inumidiva col vinorosso e si aggiungeva altra farina, procedendo in questa opera-zione sino a che non si formava uno strato di circa un millimetro.A quel punto si applicava un foglio di cartastraccia e si contene-va il tutto con una fasciatura adeguata. Su mabi de su tasuru (la malattia dell’alaterno), identificata nelsapere medico tradizionale con l’itterizia, veniva curata anchecon una pratica terapeutica che prevedeva l’impiego della fari-na integrale, detta in Campidano farra cangiada. Si impastava esi faceva lievitare la farina integrale, poi la si applicava per alcunigiorni sul capo del malato, appena più su della fronte, infine ve-niva fatta mangiare ad un cane di passaggio, sul quale si sareb-be dovuta trasferire la malattia. Secondo alcuni guaritori, la fari-na andava impastata con l’urina del malato prelevata a digiuno.Anche il derivato del grano a noi più familiare, il pane, trovava im-piego in numerose situazioni nell’ambito della medicina tradizio-nale sarda. Fra le diverse terapie usate per curare i dous (i dolori

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Grano, farina e pane nella medicina popolareNando Cossu

reumatici), ce n’era una che prevedeva l’impiego del pane cal-do, praticata esclusivamente nell’ambito della famiglia. Il giornoin cui si sfornava il pane, la persona interessata alla cura si sten-deva sul letto avvolta in lenzuola pulite e una coperta, sullaquale veniva sistemato il pane caldo appena sfornato, che an-dava a sua volta coperto accuratamente, per conservare il calorea lungo. Questa sistemazione provocava nel malato una sudora-zione abbondante attraverso la quale avrebbe espulso is aquasmabas (le acque malate, gli umori malsani), che erano conside-rate la causa dei dolori. Fra le malattie da raffreddamento, l’in-fiammazione delle tonsille veniva curata mangiando in asciuttoun tipo di pane particolare chiamato sa lada grussa (la focacciagrezza), confezionato con su poddireddu, un tipo di farina conun’alta percentuale di crusca. La funzione di questo pane, pro-prio perché ruvido, era quella di “pulire” la gola al suo passaggiomentre veniva ingoiato, asportando il pus dalle tonsille infiam-mate. Il pane masticato e misto a latte (il latte delle puerpereera ritenuto anche più efficace) veniva usato nella cura dei fo-runcoli sia nella fase preparatoria per portare a maturazione lapustola, che in quella successiva, come emolliente, per mante-nere aperta la bocca del foruncolo e facilitare l’uscita del pus.Questo composto di pane, saliva e latte veniva chiamato pica-pani. In questa forma il pane veniva usato anche per la cura delpatereccio, detto in Campidano didu sui sui, negli ascessi e inquella manifestazione patologica detta su pitziri, già ricordatapiù sopra. Infine, il pane fatto cuocere col latte, mischiando con-tinuamente fino a farlo diventare una sorta di pomata, venivausato per curare la mastite. Quando un bambino aveva la febbre alta, per evitare che gli ve-nissero le convulsioni (po no si giogai ) lo avvolgevano nel pan-no usato per poggiare il pane man mano che veniva modellato.Questo panno veniva cosparso di farina per evitare che il pane,ancora sotto forma di pasta, si attaccasse.Con una pozione preparata sciogliendo dell’amido di grano inacqua si curavano sia gli attacchi di asma che quelli dell’epilessia;con questo stesso liquido, usato però sotto forma di abluzione,venivano risolte anche le irritazioni della pelle prodotte soprat-tutto dal sudore. L’amido veniva preparato in casa nel modo se-guente: si metteva del grano a mollo in una bacinella d’acquaper nove giorni, cambiando l’acqua tutti i giorni. Al nono giornoil grano veniva pressato con i pugni, tutto il liquido bianco rica-vato con questa operazione andava travasato in un altro reci-piente, si versava altra acqua sul grano che andava di nuovopressato, finché non si formava dell’altro liquido bianco sempreda travasare; si procedeva in questo modo sino a che il granonon aveva ceduto tutta la sostanza bianca. Il liquido così otte-nuto veniva lasciato sedimentare in una bacinella per qualchegiorno, finché non si compattava. A quel punto l’acqua venivabuttata via, mentre la sostanza bianca che restava nel fondo delrecipiente, che non era altro che l’amido, veniva fatta essiccare.Sciogliendo in una bacinella d’acqua tiepida un po’ di lievito na-turale usato per il pane (su frumentu, costituito da pasta acida),si facevano dei pediluvi e dei massaggi ai piedi per risolvereeventuali ritardi mestruali. Molto particolare era la terapia in usoper una patologia conosciuta nel sapere medico tradizionale colnome di su fogu de timongia (letteralmente: il fuoco d’incenso).Si tratta di una patologia frequente soprattutto nei bambini,che si manifestava sul viso con delle pustoline contenenti unumore acquoso che tendeva ad espandersi se si grattavano lepustole, favorendo la fuoriuscita dell’umore contenuto in esse.

La terapia consisteva nell’applicare alla regione interessata “l’oliodel pane”, che si otteneva in questo modo: il pane appena sfor-nato andava messo in una bacinella di terracotta e coperto nellamaniera quanto più ermetica possibile; in questo modo il paneavrebbe trasudato emettendo quell’umore che era identificatocome “l’olio del pane”.Gli eczemi (is tzerras) e altre manifestazioni patologiche simili ve-nivano curate con l’olio di grano. In genere a praticare questa te-rapia era il fabbro del paese. La produzione di quest’olio avveni-va fondendo il grano sull’incudine per mezzo di uno strumentoin acciaio incandescente. L’olio di grano andava applicato imme-diatamente perché tendeva a coagularsi e ad applicarlo potevaessere il fabbro o lo stesso malato. Era meno diffusa la cura deigeloni e del fogu de timongia con questo stesso elemento.

608608. Ispiga, 19 cm, Pattada.

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1. L’importanza della coltivazione dei cereali, della moli-tura e della panificazione nella storia della nostra civiltàe della nostra cultura alimentare è un dato talmentecentrale e condiviso che non ha bisogno certamente diessere schiarito o posto in evidenza: merita invece di es-sere richiamata all’attenzione – perché meno percepibileai più, ancorché ricada sotto gli occhi – la pervasivitàlinguistica di un simile dato, ossia il fatto che esso affioricopiosamente, secondo modalità differenti, nelle lingueche adoperiamo ogni giorno, non di rado depotenziatoin espressioni fruste, prive dell’urgenza semantica e del-l’efficacia originarie. Volendo selezionare qualche esem-pio, si ha solamente l’imbarazzo di scegliere fra le mol-teplici prospettive di analisi possibili.Così, la necessità, vitale nelle civiltà agro-pastorali, di di-sporre del grano trova affioramenti eloquenti in un au-gurio come il sardo logudorese salúDe e ttríùu “salute egrano”,1 o nella circostanza che in Ungheria, nella Pianu-ra (Alföld), il grano sia chiamato élet “vita”,2 un’identifi-cazione che, a livello concettuale se non lessicale, è stataa lungo condivisa in molte realtà sociali. Dell’importanzae dell’apprezzamento del pane, in tempi diversi dai no-stri, testimoniano pure espressioni cristallizzate ben note,del tipo essere buono come il pane, essere un pezzo dipane, che ricorrono simili in numerose lingue, anche as-sai lontane fra loro dal punto di vista geografico e/o ge-nealogico: per es., in ungherese di un uomo buono dicarattere si dice che è olyan, mint egy falat kenyér (lett.:“come un boccone di pane”), oppure che kenyérre lehetkenni (lett.: “si può spalmare sul pane”).Significativa è anche la situazione documentata dai dettididattici e paremiaci, nei quali – come ha rilevato, fra glialtri, Temistocle Franceschi – a rappresentare per interola categoria del cibo è chiamato spesso il pane, ciò che,più che configurare una sinèddoche (una parte per iltutto), è un riflesso del fatto che il pane costituiva sino anon molto tempo fa, particolarmente nelle regioni piùpovere, l’elemento base dell’alimentazione quotidiana,almeno nei giorni feriali:3 a riprova di questo, si può ri-cordare come a Bitti (ma la stessa cosa vale per nume-

rosi centri) col termine kokíntsu “cottura” si faccia riferi-mento senz’altro alla preparazione del pane e i kòntorde kokíntsu siano le chiacchiere che si facevano in que-sta occasione, in cui il tempo certamente non faceva di-fetto (per estensione, anche le ciance, i pettegolezzi).Capita pertanto di leggere e, ormai più di rado, udireuna serie di adagi nei quali il grano, la farina e soprat-tutto il pane – possibilmente prodotto in casa propria,non quello di bottega, riguardato alla stregua di unoscialo inutile – figurano come l’elemento essenziale delnutrimento di ogni giorno, simbolo di un’esistenza sere-na della quale è saggio accontentarsi, quando non se-gnale di prosperità e buona sorte. Rimanendo nel no-stro àmbito regionale, si possono trascegliere i seguentidetti (che citiamo secondo la fonte):pane e casu e binu a rasu “pane e formaggio e (un bic-chiere di) vino colmo”;4

biada sa domo si b’hat tzoccu ‘e sedattu! “felice la casadove c’è battere di setaccio!”;5

chircare pane mezus de trigu “cercare miglior pane chedi grano”;6

mezus chivarzu in domo sua chi non pòddine in domoanzena “meglio pan nero in casa propria che pan bian-co in casa d’altri”;7

chie hat facultade no cubit su pane “chi ha una profes-sione ha sicuro il pane”;8

chie còmporat su pane est manimutza “chi compra ilpane ha la mano mozza”;9

a chie hat pane non li mancat cane “a chi ha pane nonmanca cane”.10

L’essenzialità del pane nell’alimentazione tradizionale èpoi rispecchiata, in modo indiretto, dalle seguenti massi-me, in cui il consumo di cibi quali il formaggio, le aran-ce o i maccheroni è considerato un lusso pericoloso:chie màndigat casu hat dentes d’oro “chi mangia for-maggio ha denti d’oro”;11

chie tenet dinare l’ispendet in arantzu “chi ha quattrinili spende per le arance”;12

su maccarrone che ghettat su cantone “i maccheronifanno crollare la casa”13 (però chini tenit farra e casuincasat macarronis “chi ha farina e formaggio incacia imaccheroni”).14

Per comprendere, in modo riflesso e sotto altra angola-zione linguistica, l’importanza sociale che farina e pane

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Il lessico del paneGiovanni Lupinu

609

609. Forno sardo, fine anni Venti (foto Max Leopold Wagner, archivio Ilisso).

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perdita di talune distinzioni lessicali, quale, ad es., quellache segnala la differenza fra il lievito seme e il lievito fi-nale. A questo scopo torna prezioso un passo di GraziaDeledda, assai noto, relativo alla preparazione del panekarapáu d’orzo (ma molto di quanto riferito potrà valere,mutatis mutandis, anche per il pane biscottato di grano):qui è descritta con minuziosità una serie di operazioni,prodotti, oggetti e figure, talora con le parole che li de-nominano in sardo, ai quali sarà importante fare riferi-mento anche in séguito, nello sviluppo dell’esposizione.La scrittrice nuorese prende spunto dall’imprecazione«comunissima» ancu ti facan su ‘e s’orju “che ti faccianquello dell’orzo” (con riferimento al «martirio che si fasubire all’orzo per ridurlo in pane»), per poi abbandonar-si alla descrizione del ciclo di questo cereale. Dopo lasemina, la mietitura e il raccolto, l’orzo è sottoposto auna prima attenta pulitura, è lasciato a essiccare nel for-no a bassa temperatura per un periodo di uno o duegiorni, è pulito nuovamente e macinato: «La farina, che èdi un bianco grigiastro, è molto volatile. Nel passarla allostaccio si innalza fino al tetto e cuopre tutti i muri. Ladonna che la pulisce diventa bianca in tutta la persona…Dopo lo staccio vien passato in un vaglio finissimo difieno (chilibru). Col cruschello si fa una specie di panegrossolano (sa tippe), per i cani di campagna.Pulita che sia la farina si depone in un grande e largorecipiente di legno chiamato su lacu e la si impasta condell’acqua leggermente tiepida in cui è stata disciolta lamollica pastosa di una specie di grossa focaccia, puredi farina d’orzo, cotta al forno da qualche giorno e ser-bata tra panni, e spesso tra i materassi, per fermentare.Questa focaccia si chiama ghimisone. Ha la forma diuna metà di globo, schiacciato. Sulla sommità le buonemassaie nuoresi segnano una croce, affinché il paneriesca bene. Adoperata la mollica, che resta di un colo-re plumbeo, dolcissima, come primo lievito, la crostadel ghimisone il più delle volte viene fatta a pezzi e po-sta a bollire. Poi la condiscono come i maccheroni, eriesce un piatto quasi squisito nella sua rozzezza. Man-giata così semplicemente, senza esser bollita, la crostadel ghimisone, dicono ridendo le ragazze nuoresi, fasviluppare e crescere il seno alle donne.Impastata bene la farina dell’orzo vien deposta entro adappositi recipienti di sughero (sos malunes). La si me-scola con del vero lievito, la si segna con la croce e sicopre bene. Al primo lievitare si estrae dai malunes, lasi rimescola e si rimette a fermentare.Non occorrono meno di quattro donne per fare il paned’orzo (s’oriattu). Una inforna, due, dopo aver diviso lapasta, gramolandola un poco, in tante porzioni rotonde,che vengono infarinate e deposte in larghi canestri (ca-nisteddos), la stiacciano, una passandola all’altra, tutta aforza di dita, su larghe pale senza manico, fatte apposta.Vien dato a questo strano pane la forma giusta della pa-la, che è ovale, larga circa trentacinque centimetri e lun-ga cinquanta. È sottilissimo. Cotto si gonfia tutto, e se ègiustamente fermentato deve sdoppiarsi in due parti,una leggermente più fina dell’altra. A misura che viene

estratto dal forno, la quarta delle donne lo pulisce benecon una spazzola o con una piccola scopa, dalla farinadi cui vien ogni tanto spalmato perché non si attacchialle pale od al forno. Poi lo divide col coltello (l’iscoper-cat) e così di un pane ne forma due fogli detti pizos.Tutto questo si chiama cuocere in crudo, e il pane cosìcotto vien detto pane lento. Dopo che è cotto, tuttoquanto viene nuovamente rimesso al forno, e abbrustoli-to. Ancora caldi i fogli, a due a due, vengono ripiegati suse stessi, perché possano facilmente entrare nelle bisaccedei contadini e dei pastori e non frantumarsi in viaggio.Ciascun pane prende così la forma di un libro semi-ova-le, a quattro fogli. Ogni foglio si chiama una perra (unametà), ed ogni metà, cioè due fogli, unu pizu.Questo pane, fatto come Dio vuole, è saporitissimo,leggermente dolce, di un colore plumbeo, grigiastro.Dura senza inacidirsi per molto tempo, persino tre me-si. Perciò se ne fanno partite (cottas) persino di cinqueettolitri. Venti pani formano una pira, e le manovali ela infornatrice vengono pagate ad un tanto per pira».25

3. Relativamente al primo livello di elaborazione, ci li-mitiamo a segnalare che il termine sardo per “grano” ècentr. tríDiku, tríDiçu, tríku, tríhu, log. e camp. tríùu, dallat. TRIDICUM, forma lenita (piuttosto che dissimilata, comeopinava il Wagner) attestata già nelle iscrizioni pompeia-ne per il classico triticum.26 Per “orzo”, invece, si usacentr. órju, log. órdzu, camp. ór&u, dal lat. HORDEUM.27

Passando invece al secondo livello di elaborazione, ricor-diamo che ancora negli anni Venti del secolo scorso MaxLeopold Wagner – rilevando che i mulini ad acqua si in-contravano solamente nei dintorni di Sassari e che nellecittà si avevano già i mulini meccanici – sottolineava co-me nelle zone interne si continuasse a usare la macinacasalinga in pietra, fatta girare da un asinello: il nome diquesto attrezzo è log. e camp. mòla (dal lat. MOLA),28

mentre il vocabolo per “macinare” è log. maùinare,marùinare (da MACHINARE) o mòlere, camp. mòliri (daMOLERE).29 Mette conto di ricordare pure che, fra i nomisardi dell’asino, alcuni fanno riferimento alla sua sfian-cante attività casalinga di “motore” della macina: log.molènte, camp. molènti e, in qualche località, anchemolin&ánu. Assai interessante per comprendere le im-plicazioni psicologiche che le operazioni ora considera-te avevano sui parlanti è poi il fatto che nei dialetti cen-trali mòla abbia assunto anche l’accezione di “agonia”,secondo un ampliamento semantico che trae originedall’attitudine ben sarda a concretizzare i concetti attra-verso immagini familiari della vita quotidiana, in questocaso «paragonando l’agonia con il movimento lento ecigolante della macina»,30 ma crediamo che anche la fa-tica del povero asinello possa avere giocato un qualcheruolo nell’adozione del traslato.Il termine generico sardo per “farina” (di grano) è log.farína (dal lat. FARINA), camp. fárra (da FARRA, neutro pl.di far):31 i diversi gradi del processo di stacciatura con-sentivano poi di selezionare un macinato via via più fine.Qui sarà sufficiente dare qualche ragguaglio unicamente

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hanno giocato nella nostra civiltà, è pure interessanteconsiderare l’elevata ricorrenza di cognomi del tipo rap-presentato dall’ital. Farina e Farini, Farinèlla e Farinèla,Farinèlli, Farinétti, Farinòla, Farinòtti, Farinóni e Fa-rinón, Farinacci, Farinasso e Farinazzo, Farinaro e Fa-rinari, Farinato e Farinati, Farinési etc.,15 oppure Panee Pani, Lo Pane o Lopane, Panèlli, Panèllo e Panèlla,Panétti e Panétta, Panòzzo, Panebianco, Pambianco ePambianchi, Pancaldo e Pancaldi, Pancòtto, Pampurie Pampurini etc.16 In Sardegna ricordiamo, in alcuni ca-si attestati già nei documenti medioevali, cognomi qualiCoc(c)one (da centr. kokkòne “pane grosso, fatto di cru-schello, pagnotta”), Farigu (da camp. faríùu “farina concruschello che si dà da mangiare ai polli”), Farina (dafarína “farina”), Farre, Arre e Farris (da centr. fárre, árre,log. fárre, camp. fárri “semolino d’orzo, farina d’orzo”),Pane e Pani (da log. páne, camp. páni “pane”), Paned-da (da log. panè{{a “focaccia, schiacciata”), Podda (dalog. pò{{a “farina di prima qualità”), Poddine e Poddini(da log. pó{{ine “fior di farina”, camp. pó{{ini “cru-sca”), Simbula e Simula (da camp. símbula, log. símula“farina di seconda qualità”) etc.17 Anche in questo caso,siamo in presenza di tipi onomastici che si prestano as-sai bene a essere esemplificati pure in differenti realtàlinguistiche: qui basti ricordare, giusto per fare un esem-pio illustre, che persino l’insospettabile Ferenc Liszt, ilgrande musicista ungherese, se fosse nato in Italia si sa-rebbe chiamato, ai nostri occhi forse più prosaicamente,Francesco Farina.

2. Riguardo alla Sardegna, il ciclo del grano e dell’orzo,dal dissodamento dei terreni e dalla semina sino alla pre-parazione del pane e dei dolci, è stato mirabilmente illu-strato, secondo i dettami dell’indirizzo Wörter und Sa-chen (“parole e cose”), da Max Leopold Wagner nel suoDas ländliche Leben Sardiniens im Spiegel der Sprache,apparso nel 1921 e rimasto ancora oggi testo fondamen-tale per chi voglia conoscere i livelli di analisi semanticae di espressione lessicale della civiltà agro-pastorale sar-da al principio del Novecento.18 In questa sede prende-remo in considerazione il vocabolario che incasella i pas-saggi che nella panificazione tradizionale – praticatanell’isola, grosso modo, sino alla metà del Novecento –dalla farina portavano al pane, avvertendo sin da ora cheun censimento lessicale esaustivo in questo settore èconcretamente impossibile, giacché ogni paese aveva (eancora oggi ha, almeno in parte) delle proprie peculiaritàe specializzazioni terminologiche, ciò che non mancanodi rilevare gli stessi informatori quando si riferiscono aicentri abitati vicini: in ogni caso, daremo anche alcunivocaboli sfuggiti al setaccio del Wagner e prospetteremoqualche nuova spiegazione etimologica. Per dare ordinealla nostra analisi, inoltre, metteremo a frutto la nozionedi livello di elaborazione sviluppata dagli ideatori del-l’Atlante Generale dell’Alimentazione Mediterranea, nellasezione tematica dedicata ai cereali: secondo la classifica-zione verticale proposta in tale àmbito, al primo livello dielaborazione si collocano il ciclo agrario e i suoi frutti

(nel nostro caso, soprattutto il grano e l’orzo); al secondolivello stanno le pratiche immediatamente successive (ti-po molitura, stacciatura etc.) e i loro risultati (la crusca ele varie qualità di farina); al terzo livello si pongonoquindi le fasi successive di manipolazione (processi co-me l’impastatura, la lievitazione, la cottura etc., e i pro-dotti alimentari finiti, fra i quali, naturalmente, il pane).19

Dal punto di vista linguistico, due sono i dati generaliche meritano preliminarmente di essere rimarcati allor-ché si ha a che fare col lessico che copre la sfera se-mantica di cui trattiamo. Il primo, attinente alla com-posizione etimologica, è che si incontrano soprattuttovocaboli di origine latina, con rare presenze ascrivibili alsostrato (e va ricordato, in ogni caso, che tale attribuzio-ne è quasi sempre negativa e dubitativa, passibile cioè,in qualsiasi momento, di essere rimessa in discussioneda nuove analisi positive) o a un qualche superstrato,ciò che vale in misura tanto maggiore quanto più si fac-cia riferimento alle pratiche tradizionali e non a usi oprodotti di recente introduzione.20 Il secondo dato è of-ferto dalla circostanza che, a considerare le cose e dalpunto di vista diacronico e da quello diatopico, i terminicensiti esibiscono una certa mobilità verticale e orizzon-tale, nel senso che la continuazione di una particolarebase latina può subire modificazioni vistose nel semanti-smo variando l’epoca e/o le aree considerate: per es.,giusto per citare un caso macroscopico, vedremo chepó{{ine significa in area centro-settentrionale “fior di fa-rina”, mentre nel meridione dell’isola il corrispettivo eti-mologico pó{{ini vale “crusca”; eloquente è pure il fat-to che la sicurezza con cui, all’inizio del secolo scorso,uno studioso solido come il Wagner respingeva l’infor-mazione dello Spano secondo la quale chilinzòne var-rebbe “crusca”, asserendo invece che gilindzòne «signifi-ca dappertutto soltanto “crusca d’orzo” e mai “crusca digrano”»,21 non sembra oggi condivisibile, nel senso cheda molteplici fonti si apprende come il termine abbia,almeno in alcune località – quali, fra le altre, Núoro eOrani –, il significato più ampio fra i due indicati;22 cosìpure la voce tippále, un derivato di típpe “pane (per icani) confezionato con gli scarti degli sfarinati d’orzo”più il suffisso -ále, è stata documentata per Sarule an-ch’essa col significato di “crusca” (senza riferimentoesclusivo all’orzo).23 Le spiegazioni per i fatti riferiti pos-sono essere, naturalmente, assai diverse: per es., per gliultimi due casi esaminati è ammissibile anche, astratta-mente, una perdita di livelli di analisi determinata dallalontananza nel tempo delle pratiche tradizionali di pani-ficazione, con conseguente aggiustamento del fuoco se-mantico delle parole analizzate.24 Vedremo, tuttavia, cheesempi consimili non sono infrequenti, circostanza checonsiglia di assegnare alle definizioni proposte per i sin-goli vocaboli un valore generico e orientativo, tale dadoversi riscontrare località per località.Prima di iniziare la nostra ricognizione terminologica, amo’ di cornice è utile fissare la linea temporale del pro-cesso tradizionale di panificazione, ormai un po’ sbiaditaanche nella mente di molti anziani, come si evince dalla

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vocabolo speciale per la crusca dell’orzo (talvolta però,si è già visto, denomina anche quella del frumento: inquesto caso si aggiunge il determinante de órju): centr.gilindzòne, çilindzòne, gilin&òni, log. elindzòne, bi-lindzòne, pilindzòne, forme tutte riconducibili al lat. *SI-LIGINEONE, da cui *siliùindzòne nel Nuorese, con metate-si e discrezione del presunto articolo su ùilindzòne; labase lat. si riconduce a sua volta a siligineus, aggettivodi siligo, che però indicava il frumento di prima qualitào il fior di farina, per cui si rende necessario ipotizzareuno spostamento di significato, che in questo àmbito,del resto, non è isolato.53

Trascorrendo al successivo livello di elaborazione, pren-diamo in considerazione la terminologia della panifica-zione vera e propria, iniziando dall’impastatura nella ma-dia54 della farina con l’acqua tiepida e con l’aggiunta dellievito per ottenere un impasto di consistenza omogenea,operazione indicata dal verbo log. kum(m)assare, camp.kum(m)ossai (“malassare”), dal lat. CUM-MASSA-ARE;55 a se-conda delle località, più o meno sovrapponibili per si-gnificato sono pure il verbo log. e centr. inturtare, in-truttare (a Bitti e Orune, per es.), che è ricavato da tórtu,part. pass. di tòrkere “torcere”,56 e centr. su•íùere, suíke-re, suíhere, log. suíùere, camp. suè≥iri, *uè≥iri (dal lat.SUBIGERE le forme centr. con -ù-, da SUBJICERE le altre).57

Con il verbo centr. e log. karjare (da confrontarsi forsecon l’ital. ant. careggiare) si indica invece una fase suc-cessiva di manipolazione della pasta, realizzata «premen-

do e stirandola, ora con i pugni, ora con la palma dellamano per farle acquistare maggior consistenza e per dar-le poi la forma voluta».58 Di significato più generico, poi,appaiono taluni verbi che pure si incontrano per indica-re le operazioni di impastatura, tipo log. e camp. impa-stare, -ai (da pásta “pasta”),59 mentre per designare spe-cificamente la lavorazione con le mani chiuse a pugno siimpiega log. appundzare, camp. appun&ai, derivato dapúndzu, pún&u “pugno”.60 In campidanese, per la pre-parazione dei pani soffici, si indica col verbo spon&ai unmassaggio a pugni chiusi finalizzato a rendere la pastamolto morbida:61 per questa voce, più che il collega-mento a pún&u sostenuto dal Bottiglioni,62 è evidenteper ragioni formali e semantiche il rapporto con spòn&a“spugna”, proprio perché la lavorazione mira a ottenereun pane di consistenza spugnosa.Il lievito seme che si aggiunge nella prima fase – unpezzo di pasta della panificazione precedente messo daparte e lasciato inacidire – prende in logudorese il no-me di ferméntu, freméntu, fermentárdzu, in campida-nese fram(m)éntu, from(m)éntu, frum(m)éntu dal lat.FERMENTUM (più il suffisso -árdzu).63

Come si è già visto, per designare il lievito del paned’orzo era impiegato, specialmente nelle zone internedella Sardegna (ma anche nell’area del logudorese sett.),un vocabolo speciale: centr. gimipòne, çimipòne, log. bi-mipòne, (b)ermipòne, ermindzòne, voce che sinora si èrivelata problematica all’analisi etimologica.64 Fra lespiegazioni prospettate, ci limitiamo a ricordare quellaavanzata prudentemente da Giulio Paulis, secondo laquale, considerato che i gimipònes, dopo essere statisfornati, venivano riposti tra materassi per “maturare”, e

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sulla terminologia degli sfarinati, rimandando alla nitidadescrizione del Wagner per la nomenclatura delle ope-razioni di abburattamento e dei relativi attrezzi.Come è noto, numerose località sarde hanno conservatola distinzione lessicale latina fra tre tipi di farina, operatain relazione alla finezza del prodotto: col termine pollen,infatti, si indicava la farina di prima qualità o fior di fari-na, con simila o similago la qualità intermedia, con se-cundum o cibarium il macinato più grossolano, mentreper la crusca vi erano diverse denominazioni, fra le qualimenzioniamo soltanto furfur. Nell’esaminare le conti-nuazioni di queste basi latine all’interno del sardo, oc-correrà rimarcare una volta in più la loro mobilità all’in-terno del continuum semantico rappresentato, sicchécapita di incontrare differenze anche rilevanti nell’acce-zione di un medesimo termine secondo le zone, ciò cherende conto, almeno in parte, del carattere generalizzan-te della classificazione tradizionale; a ciò, inoltre, si som-ma la scarsa propensione dei lessicografi, antichi e mo-derni, a rendersi esperti di ogni singolo referente dellaterminologia alimentare, ciò che all’atto pratico si tradu-ce in definizioni un po’ larghe, del tipo “qualità di farina”piuttosto che “pane di forma allungata” etc.In logudorese il fior di farina è detto più frequentemen-te pó{{ine (dal lat. POLLEN, -INE; con lo stesso significatosono segnalati talora anche pò{{a, pò{{e), mentre si ègià visto che il corrispettivo etimologico pó{{ini indicain campidanese la crusca; in questo dominio, la farinapiù fine è chiamata invece ≤ètti (dall’avv. lat. EXCEPTE).32

Fra le altre denominazioni per il fior di farina, ricordia-mo centr. voléDu, boléDu,33 connesso a volare, bolare“volare”, che il Wagner censiva per Fonni col significatodi “spolverio della farina più sottile, che vola nel maci-nare e copre la macina e tutti gli oggetti dintorno” (inlog. típpi típpi o bolaDía).34 Per Orgòsolo, inoltre, è do-cumentato, isolatamente nell’accezione di “farina di pri-ma qualità”, arílçu, continuazione del lat. FARRIC(U)LUM,che altrove è presente con significato diverso, come siavrà modo di dire trattando della farina d’orzo.35 Segna-liamo inoltre, sempre nella medesima accezione, l’e-spressione log. farína límpia.36 È interessante rimarcarequi come più volte gli informatori connotino il pó{{ine,la farina più fine, quasi con tratti di delicata raffinatezza,atteggiamento che trova puntuale riscontro in un’espres-sione ironica documentata per la Baronia quale kokkòne‘e pó{{ine, detto di persona con poco carattere.37

Il macinato di qualità intermedia è log. símula, camp.símbula (dal lat. SIMILA),38 ma sono segnalati in que-st’area semantica – come qualità di semola più o me-no raffinate – anche log. kíu (dal lat. CIBUS)39 e kolakò-la, kolaùòla (da kolare “colare, filtrare”).40

Per la farina più grossolana o cruschello si adopera disolito centr. kivárju, kiárju, kiár&u, log. kivárdzu, camp.*ivrá≥u (dal lat. CIBARIUS, CRIBRARIUS),41 in logudorese pu-re frúfere minúDu, fruferé{{u, fuiferé{{u (dimin. difrúfere, fúifere “crusca”),42 mentre per il logudorese sett.e Orgòsolo è noto il termine tentúra (derivato da téntu,part. pass. di tènnere: il legame etimologico si chiarireb-

be semanticamente come “ciò che si tiene, si mette daparte”).43 In alcune località, poi, si individua un’ulteriorequalità di farina, intermedia fra la semola e il cruschello,chiamata kri•ardzé{{u (in Planargia), iskri•ardzaDúra(Abbasanta), *ivra≥é{{u (Láconi).44 Del resto, simili de-nominazioni, ottenute alterando la base lessicale di par-tenza o affiancandole un modificatore, sono abbastanzafrequenti e, dal punto di vista linguistico-cognitivo, sispiegano con la possibilità di segmentare in modo piùstretto il continuum semantico etichettato, ciò che sulversante pratico trova riscontro nell’utilità di disporre disfarinati più o meno fini: segnaliamo, a questo riguar-do, espressioni quali *ivrá≥u mánnu, kivárdzu bjánkue njé{{u, po{{iné{{u, pó{{ine rússu e fíne (pó{{inenel senso di crusca, a Urzulei), talaé{{u, tippalé{{u,≤etti≥é{{u, símula ùrússa e fíne, fárre innettáu etc.45

Quanto alla crusca, ricordato che in campidanese si im-piega pó{{ini, sono note le seguenti denominazioni:log. fúrfere, frúffure, frúffere, fúiffure, fú≤ere, dal lat.FURFUR, -URE;46 di origine forse preromana è invece il ti-po centr. e log. Qálau, Qaláu, taláu, teláu.47 Per indicarela crusca di frumento e, spesso, anche d’orzo ha (o ave-va) poi una certa diffusione il termine grándza (Gavoi),grán&a (Fonni, Orgòsolo e camp.; proviene dal lat.GRANDIA, neutro pl. di grandis) o il derivato gran&úDu(Escalaplano);48 infine, oltre alla voce tippále già men-zionata per Sarule, rammentiamo che per la Planargia ècensito il tipo russárdza (derivato da rússu “grosso”)49 eper Ollolai mússu, che è stato connesso, in modo forsenon del tutto perspicuo, a log. mússa “l’atto di risciac-quare le botti con acqua bollente, vino e bucce d’aran-cio prima di riempirle di nuovo di vino”, “pampanataper medicare le botti” (dal lat. MULSA “miscuglio di acquae miele”; il legame fra mússu e mússa si potrebbe allorachiarire a partire dall’idea di “miscuglio”).50

Venendo ora alla farina d’orzo, oltre all’impiego frequen-te di sintagmi nei quali alla testa “farina” si unisce il mo-dificatore “d’orzo” (dunque, in sardo, farína o fárra +de órdzu o ór&u), occorre rilevare che soltanto nelle zo-ne interne si incontra una denominazione sintetica spe-cifica che esprime in modo netto la distinzione rispettoalla farina di grano: or(r)jáQQa, orjátta, orrjaQQè{{a esimm. (dal lat. HORDEACEA, scil. farina; le forme con -rr-sono incrociate forse con órrju “granaio”).51 Circa poi lequalità di questo macinato che affiorano lessicalmentecon etichetta distintiva (ché altrimenti si ricorre a costru-zioni con modificatore, tipo pó{{in’ e órju), ricordiamoche col termine log. e camp. fárre, -i (dal lat. FAR,FARRIS) è indicata una semola grossolana impiegata collatte per preparare una minestra chiamata in log. púlteo minèstra ‘e várre o semplicemente fárre, in camp.minèstra de várri; col medesimo significato di fárre,stando sempre ai dati forniti dal Wagner, si usa nei pae-si di montagna del Nuorese anche aríkru e, in altre lo-calità più a meridione, come ad es. Urzulei, faríhu osimm. (da FARRIC(U)LUM; le forme con -r- scempia risen-tono dell’influsso di farína).52 In alcuni centri, special-mente nella Sardegna centrale, è conosciuto anche un

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610. Forno sardo, fine anni Venti (foto Max Leopold Wagner, archivio Ilisso).

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(da óru “orlo, lembo, margine”),81 sestare (su •áne; dal-l’ital.),82 abballonare (da ballòne “pallone”, dunque,propriamente, “fare palloni”)83 e anche maniestare (aOrosei e Dorgali, ad es.);84 pure il verbo log. e camp.pepare, -ai, impiegato con l’oggetto su •áne, presentala medesima accezione. La successiva spianatura dellapasta, che avveniva per gradi a opera di diverse donne,è indicata dal verbo log. tèndere, camp. tèndiri (dal lat.TENDERE),85 o anche log. illaDjare, camp. allaDjai (daláDu “ampio, largo”);86 se l’azione è eseguita col matte-rello (log. e camp. kanné{{u, log. kannòne, da kánna;in camp. anche tútturu, tutturé{{u, di etimo problema-tico)87 si dice allora inkannonare o simm.Alcuni tipi di pane (il karapáu, ad es.), dopo essere statiintrodotti nel forno ed essersi gonfiati, sono estratti e ta-gliati in due fogli (log. pídzos, camp. píllus, dal lat. PIL-LEUM; in questa accezione si usa anche log. frèpas, dafrepare),88 che poi vengono biscottati: l’operazione di ta-gliare lungo i margini il pane col coltello è detta centr.karpire, krapire, karfire (da CARPERE),89 log. e camp.frepare, -ai (da FRESUS, part. pass. di frendere),90 log.isperrare (da pèrra “metà”), mentre l’azione successivadi separare i due fogli di pane ottenuti è espressa converbi quali centr. iskoperkare (da kopérku “coperchio”,dunque “scoperchiare”),91 log. e centr. ispidzare (dapídzu).92 Quello di “tagliare (il pane in due fogli)” è pu-re il significato originario di karapare, dal lat. CHARAXARE

“fendere”: tale accezione si è mantenuta in alcuni centri(ad es. Orune, karassare, Orani, krapare, Orgòsolo,lçapare) mentre in altre località il verbo ha subìto unoslittamento semantico andando a indicare la fase succes-siva della biscottatura.93

A questo punto del processo di panificazione, la donnache funge da iskoperkaDòra pulisce rapidamente dallebricioline le sfoglie di páne léntu, operazione che nellevarietà centrali prende il nome di ispipiniare, ispipini-tare (da pipinía, pipiníta “briciola”).94 Dopo esser statelasciate per un po’ a riposare perché si raffreddino, lesfoglie tornano quindi alla kokitòra (così chiamata aBitti) che le inforna nuovamente per farle biscottare:centr. e log. karapare, di cui si è già discusso sopra,95

assare (dal lat. ASSARE),96 turrare, atturrare, camp. tur-rai (dallo sp.-cat. torrar, turrar),97 log. e camp. arriDa-re, -ai (da árriDu “arido, secco”),98 voci che, a secondadelle località, possono essere più o meno specializzatesemanticamente in riferimento alla panificazione o a uncerto tipo di prodotto da forno.Il pane karapáu, dopo la cottura, viene disposto in pi-le che prendono il nome di píras (forse dall’ital. ant.pila),99 mentre l’azione corrispondente è identificatadal verbo appirare. Come si è già visto, appena sfor-nati, due fogli di karapáu (o anche tre) potevano es-sere ripiegati insieme lungo il diametro per venire me-glio trasportati nella bértula senza rompersi: ciascunadelle due sezioni così ottenute di un pídzu costituisceuna pèrra (‘e páne), ossia una metà (dal lat. PERNA);100

l’operazione corrispondente ci è stata indicata a Bitticol verbo pinnikare “piegare” (forse da riconnettere a

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visto anche che in logudorese si trovano espressioniquali ammaDriùare “essere insulso, ozioso, sfaccenda-to”, ammaDriùáDu “disfatto, insulso, poltrone” (da ma-Dríùe “lievito”), sarebbe possibile pensare «che il lievitoper il pane d’orzo sia stato designato con una metaforaraffigurante la massa di pasta conservata nel materas-so come ciò che sta sempre a letto ed ozia». In conse-guenza di ciò, lo studioso ipotizza l’ingerenza del grecobizantino koim£siár£s (pronunziato k’imisyáris) “dor-miglione”, con sostituzione del suffisso (-one al postodi -ar£s).65

A nostro avviso, tuttavia, è possibile offrire una soluzio-ne diversa del problema analizzando la preparazione ela morfologia del prodotto denominato. Dal passo diGrazia Deledda citato in precedenza e da altre fontisull’argomento apprendiamo che alcuni giorni primadella panificazione vera e propria si facevano dei grossipani di farina d’orzo, di forma emisferica e di peso va-riabile fra i 2 e i 4/5 chilogrammi: ripulito il forno dallabrace, erano lasciati cuocere a lungo a temperatura mo-derata, in modo che la parte esterna formasse una cro-sta, mentre quella interna rimanesse morbida e cremo-sa.66 Questi erano appunto i gimipònes che, appenasfornati, venivano lasciati a riposare per quattro o cin-que giorni, dopodiché si valutava se la pasta internafosse idonea a essere impiegata come lievito per l’orjáQ-Qu. Il gimipòne, pertanto, macroscopicamente si com-pone di un rivestimento esterno protettivo, duro, e diun impasto interno, molle, un contenitore e un conte-nuto o, detto in altre parole, il lievito (ammesso che dilievito si tratti)67 era come “incamiciato”: segnalato cheè documentata anche la forma kimipòne,68 che ben siaccorda con quelle tipo çimipòne dell’area del colpo diglottide, l’etimo potrà essere allora ricercato in modoeconomico in un kamipòne accrescitivo di kamípa “ca-micia” (dal lat. CAMISIA), col significato di “involucro”che questo vocabolo presenta in locuzioni tipo kamípadessu Dríùu “guscio del grano”.69 Circa il vocalismo del-la prima sillaba, con -i- in luogo di -a-, si potrà pensare– oltreché a ragioni fonetiche, ossia all’assimilazionedella prima vocale pretonica alla seconda –70 all’influs-so di gilindzòne, che spiegherebbe anche l’occlusivavelare sonora della forma nuorese; per quanto riguardainvece le varianti con -r- del logudorese sett., si sentela presenza di ferméntu, come già opinava Max Leo-pold Wagner.Il lievito finale, che serve per tutta la kòtta (“la quantitàdi pane che si cuoce in una volta”),71 prende il nomedi centr. matríke, maDríke, log. maDríùe, dal lat. MATRIX,-ICE; in campidanese manca invece un termine specificoe si impiega ferméntu etc.72 Per “lievitare” si usa log. ecamp. pepare, -ai (dal lat. PE(N)SARE),73 e con lo stessosignificato sono segnalati anche camp. a≥eDai (daa≥éDu “aceto”; il significato più generico del verbo è“inacidirsi”)74 e fermentai, frammentai (da ferméntu,framméntu; più ampiamente “fermentare”);75 si cono-scono anche espressioni del tipo imbonjare, imbonare,imbonire (ad es. a Siniscola, Urzulei, Dorgali; si tratta di

formazioni parasintetiche da bónu, nel senso di “met-tersi in buon cammino”)76 o vènner vónu (Galtellì).Qualche volta, specialmente d’inverno nei centri piùfreddi, ci potevano essere dei problemi di lievitazione acausa della bassa temperatura, inconveniente cui si ri-mediava infilando per un attimo le sfoglie di pane nelforno, senza neppure toglierle dalla pála ‘e kòkere. Perquesta operazione è stato segnalato a Núoro, Orgòsoloe altri paesi del centro il termine inkrepjare,77 un deri-vato di krépja “chiesa” che, propriamente, indica la ceri-monia religiosa di purificazione delle madri dopo ilparto, che a prima vista ha assai poco da spartire conla lievitazione e il forno: «La prima uscita della puerpe-ra è per andare in chiesa a “purificarsi”; infatti dal mo-mento del parto il diavolo ha acquisito su di lei un par-ticolare potere, da cui si libererà con l’aiuto del prete.Si reca in chiesa col neonato, che protegge come un“angelo” dalle grandi tentazioni delle potenze infernali,e porta con sé una candela di grandi dimensioni. Si in-ginocchia davanti alla porta della chiesa; il parroco, chegià l’aspettava, l’asperge d’acqua benedetta a rispettosadistanza e scaccia con preghiere il diavolo; poi si avvi-cina alla puerpera, posa sul bambino un lembo dellastola e accompagna a braccetto la madre all’altare dellaVergine Maria, dove questa accende la candela, s’ingi-nocchia, riceve la benedizione e si considera così puri-ficata. Questo procedimento si chiama log. inkeyare,camp. inkrepyai; sost. log. inkeyárdzu, camp. inkre-pyaméntu (da kéya, krépya “chiesa”); la donna purificataè log. inkeyáDa, camp. inkrepyáDa».78 Per intendere ilvistoso spostamento di significato che il vocabolo ha su-bìto, è utile quanto ci è stato riferito a Bitti, ove un’infor-matrice ha spiegato che, al verificarsi dell’intoppo so-pra ricordato, si dava alla pasta una inkrejatè{{a,ossia la si infilava nel forno giusto per il tempo di unapreghierina, paragone temporale che già potrebbe chia-rire l’accostamento con la cerimonia descritta in prece-denza: in sostanza, così come la puerpera trae giova-mento dall’entrata in chiesa, altrettanto fa la pasta, nellasituazione critica in cui la lievitazione è a rischio, en-trando nel forno. Forse, però, c’è nell’immagine ancheun paragone scherzoso fra l’antico forno, a forma di cu-pola, e la chiesa, ciò che sembrerebbe confermato an-che da alcuni proverbi ed espressioni, quali quie nonhat bidu Cheja, ad su furru si adorat “chi non ha vistoChiesa, adora il forno” o, detto sempre a proposito dichi si meraviglia di ogni piccola cosa, s’anta de su fur-ru li paret un altare “la bocca del forno gli sembra unaltare”.79 Non ci sentiremmo neppure di escludere, infi-ne, che l’impiego del verbo inkrepjare in relazione a unmomento specifico del ciclo del pane possa in qualchemodo e in qualche misura portare ad affioramento uncondizionamento assai antico legato alla sacralità delforno,80 ma non è questione che possa essere approfon-dita in questa sede.Fra i verbi che indicano l’operazione di dividere la pa-sta lavorata in masserelle (che successivamente dovran-no essere spianate), ricordiamo centr. e log. orire, urire

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611. Barbagia di Ollolai, fine anni Venti (foto Max Leopold Wagner, archivio Istituto di Filologia Romanza “Karl Jaberg”, Berna).

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giogo di buoi e un aratore” (da júùu, júvu, dzú, &ú“giogo”),127 o della skattinè{{a del Sulcis “p. in forma dicestinetto che, regalato ai bambini in occasione dellamietitura, nella simbologia doveva servire a contenere ilgrano da seminare” (dal lat. CARTELLUS, con sostituzionedel suff. -é{{u con -ínu + -è{{a),128 o ancora delle va-rie log. e camp. puppías, pippías “pani in forma di bam-boline”129 e dei diversi pani zoomorfi (tipo pí≤is “pesci”,pudzoné{{os o pilloné{{us “uccellini”, karroùè{{as“cornacchiette” etc.).130 La confezione di simili pani arti-stici, che nel nome individuano il soggetto rappresenta-to, ha (o aveva) luogo anche, in modo estremamente si-gnificativo, in relazione alla Quaresima e alla Pasqua,quando l’alimento diventa(va) una scultura che, «con in-tento didascalico, scandirà i momenti essenziali dellapassione, morte e resurrezione di Gesù Cristo»:131 si han-no così rúùes o grú≥is “croci”, iskálas “scale”, korònap ‘eispínas “corone di spine”, ómines “uomini”, prámmas“palme”, Ládzaru e Ladzaré{{u “(piccolo) Lazzaro” etc.L’ultima struttura denominativa, abbastanza comune,sulla quale ci soffermiamo è quella che, nella sua fisio-nomia lessicale, fa riferimento a una particolare occasio-ne del calendario: si hanno così i vari sintagmi costituitida páne, -i (o panè{{a, o kokkòne, kokkòi etc.) + de +nome di un certo santo, oppure altri quali log. e camp.pán’ e •áska “p. di Pasqua”, log. pán’ e ispòpos “p. deglisposi”, pán’ e pos kojuáDop nòpo “p. dei giovani sposi”,páne de p’áffíDu “p. dello sposalizio”, log. e camp. pán’ e(sas/is) ánimas “p. preparato in commemorazione deidefunti”,132 log. pán’ e ardzòla “p. confezionato per latrebbiatura” (lett. “p. dell’aia”), ai quali si possono af-fiancare, ad es., centr. kandelárju, log. kandelárdzu,camp. skandeláu “specie di focaccia figurata che si re-gala ai ragazzi e ai poveri in occasione del Capodanno”(dal lat. CALENDARIUM, scil. donum),133 centr. kápute, log.ká•uDe “focaccia di semola che si regala ai bambini ilgiorno del Capodanno” (dal lat. CAPUT).134

5. Quella appena proposta è un’esemplificazione che,senza alcuna pretesa di completezza, dà forse un’ideasufficiente della ricchezza delle denominazioni che lun-go tutta l’isola si incontrano – o si incontravano, dovrem-mo dire, in molte occasioni – quali etichette delle variequalità di pane. Naturalmente, un’analisi strutturale deidiversi tipi denominativi, come quella che abbiamo ab-bozzato, non dice alcunché riguardo alle espressioni,pure individuabili, per le quali sia possibile effettuareuno scavo storico-semantico assai più profondo,135 comenel caso del log. páne (o kóttsula) púrile o purilóndzu“p. azzimo”, che si riconnette al vocabolo sardo per “ve-nerdì”, centr. kenápura, log. kená•ura, kenáura, camp.*ená•ura, *ená•ara, proveniente a sua volta dal lat. CE-NA PURA, locuzione adoperata dagli ebrei latinofoni e inséguito dalle prime comunità cristiane dell’Africa romanaper indicare la festa ebraica della vigilia del sabato.136

L’espressione, legata al precetto di non consumare du-rante la cerimonia alimenti contenenti lievito e di rimuo-vere dalle case ogni traccia di questa sostanza, ritenuta

fonte di impurità, fu impiegata estensivamente come si-nonimo di sexta feria già nel II-III sec. d.C., e in questaaccezione è continuata fino ai giorni nostri nel sardo: perle medesime ragioni è chiamato nel modo sopra indicatoil pane azzimo, riguardo al quale Max Leopold Wagnerscriveva, al principio del secolo scorso, che veniva cottosotto la cenere, in forma di schiacciatelle.137

Per ciò che concerne un discorso più strettamente eti-mologico, se talune denominazioni si mantengono an-cora oggi problematiche all’analisi – pensiamo, ad es., alfamoso pán’ ispéli, il pane di ghiande impastato conun’argilla speciale, tròkko –138 altre non sono state cor-rettamente intese per il fatto che non si è tenuto contodelle modalità di preparazione o della destinazione delprodotto designato. In questo senso è interessante e, an-zi, esemplare il caso del vocabolo kantsúrru, registratonel DES per Sindia col significato di “pane, se fatto malee scuro” e accostato prudentemente allo sp. cazurro“grosero, malicioso”. In tempi recenti si è occupato dellaquestione Giulio Paulis, mostrando che il termine in og-getto deriva in realtà dallo sp. cachorro “cagnolino”, eciò perché era destinato ai cani.139 Un pane di bassaqualità, riservato ai servi o ai cani, era pure sa típpe, giàincontrata nel brano della Deledda esaminato in prece-denza, che veniva confezionato con gli scarti degli sfari-nati d’orzo e con i resti della preparazione dell’orjáQQu,in particolare la mollica, come è stato riferito per Orgò-solo:140 tenuto conto del fatto che per preparare questotipo di pane era richiesta una karjaDúra particolarmenteaccurata e prolungata al fine di compattare l’impasto, cipare che il vocabolo possa essere legato, senza partico-lari problemi, alla radice onomatopeica TIP(P)-/TUP(P)-che sta alla base di formazioni quali camp. tippíri, in-tippíri “infittire, infoltire” etc.141

Per concludere, esaminiamo il termine log. tsíkki “panedi fior di farina, di forma circolare in spianate sottili, con-sumato morbido o lasciato seccare” e anche “farina diprima qualità”, che nel DES non è accompagnato da al-cuna proposta etimologica, mentre Massimo Pittau, piùrecentemente, vi ha scorto il franc.-ital. chic, il che appa-re, francamente, assai improbabile.142 Anche in questacircostanza, a nostro avviso, per giungere a una spiega-zione etimologica soddisfacente occorre ricercare una frale caratteristiche più evidenti e note del pane che possaavere dato origine al nome. Interrogando gli informatori,abbiamo individuato un elemento sul quale l’attenzionecade sovente: su tsíkki, lasciato indurire, viene ridotto inpezzi e, poiché sopporta molto bene la cottura, usato co-me una sorta di pasta, ad es. nel brodo di pecora, otte-nendo in tal modo un piatto prelibato. Quando abbiamodomandato quale sia il termine per indicare la frantuma-zione del pane, ci è stato riferito in modo immediato ilverbo tsakkare “fendere, spaccare, scoppiare, crepitareetc.”, di origine onomatopeica (come pure tsokkare, chepresenta riferimenti semantici simili):143 una voce imitati-va affine sarà pertanto anche tsíkki, termine che poi èstato esteso a denominare anche la farina che si impiegaper la confezione del prodotto.

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pínna nel senso di “riparo”, per un significato origina-rio di “ripiegarsi, rannicchiarsi”),101 mentre a Orani sidice pi**are e il pane così trattato è chiamato pánepi**áu (da *PICLARE per PLICARE).102

Circa eventuali altre manipolazioni, ci limitiamo a ricorda-re che alcuni tipi di pane prevedono, prima che la cottu-ra sia ultimata, la lucidatura di una superficie con acquabollente: questa azione è indicata dal verbo centr. e log.iska{{are, iske{{are (forse da EXCALDARE),103 imbriDare,imbriDjare (lett. “invetriare”, da bíDru, bríDu “vetro”),104 oda locuzioni varie del tipo untare kin s’ábba, lett. “unge-re con l’acqua”, che abbiamo rilevato per Galtellì.

4. Venendo ora ai vari tipi di pane, data la vastità dellamateria e, soprattutto, la circostanza che spesso, in lo-calità diverse, le medesime parole offrono coperturalessicale a prodotti non del tutto sovrapponibili quantoa morfologia e ingredienti, concentreremo la nostra at-tenzione – oltreché sopra alcuni termini di particolareinteresse storico-linguistico e culturale – sul sistema ge-nerale di denominazione, che di solito è organizzato inmodo abbastanza semplice e riflette caratteristichestrutturali evidenziabili anche per altri domini linguisti-ci: si parte dal taxon generico e invariante log. e camp.páne, -i (o da un suo alterato, ad es. log. panè{{a“specie di schiacciata”, o da un altro elemento ancoraequivalente dal punto di vista funzionale, tipo kokkòneetc.), che può frequentemente essere omesso per ellis-si, e a esso si unisce un determinante variabile che spe-cializza la denominazione. A un primo livello si specifi-ca se si tratta di pán’ e tríDiku “p. di grano” o di pán’ eórju “p. d’orzo”, espressioni che trovano esatto corri-spettivo semantico in altre nelle quali si utilizzano de-terminanti aggettivali (tali, almeno, in origine), ottenen-do rispettivamente (páne) límpiDu (dal lat. LIMPIDUS)105

o anche bjánku ~ or(r)jáQQu, or&áQQu, orjáttu etc. (daHORDEACEUS, scil. panis). A un livello di analisi più mi-nuta si specifica la qualità di farina impiegata per laconfezione del prodotto, cosicché si hanno i tipi log.(pán’ e) pó{{ine, camp. (pán’ e) ≤ètti, log. e camp.(pán’ e) símula, símbula, log. e camp. (pán’ e) kivárju,kivárdzu, *ivrá≥u etc. Altre volte si unisce un determi-nante che fa riferimento a una caratteristica macrosco-pica del prodotto (consistenza, modalità di cottura, for-ma, sapore, colore, presenza di decorazioni etc.), tipolog. páne víne “p. fine, sottile”, páne léntu “p. morbi-do”, páne mò{{e “p. soffice”, log. páne ammo{{iùáDuo mo{{ittsópu, mo{{ittsólu, mó{{ine, mo{{iùína,camp. mo{{i≥ína, mo{{ittsópu (sempre in relazionecon mò{{e, -i “molle, tenero”),106 log. páne rússu orussé{{u “p. grosso”, centr. (páne) karapátu, karapáu(cfr. supra), barb. e camp. (páne) pistókku “p. biscotta-to” (pistókku è ottenuto per metatesi dall’italianismo bi-skóttu, forse con influsso di pistare),107 log. pán’ iske{-{áDu o pán’ e iská{{a “p. lucidato” (iská{{a è l’acquacon cui si lucida il pane),108 log. páne láDu, camp. láDa“specie di focaccia schiacciata” (da láDu “lato, ampio,largo”), log. e camp. (páne, -i) tú±{u o tú±{a “p. roton-

do”, nuor. pán’ issòkko “p. sciapo” (dal tosc. sciocco),109

log. páne ùánu “p. grigio” (da kánu “grigio, canuto”),páne píntu o pintáu “p. picchiettato, intagliato” (da pin-tare “dipingere, picchiettare”)110 etc.In questa categoria, per quanto strutturalmente diversi,almeno in molti casi, possono rientrare pure altri tipidenominativi – ricavati sempre evidenziando una certacaratteristica del prodotto, ma col taxon páne il più del-le volte omesso o non richiesto in partenza – quali log.abbifáke, bifáke “tipo di focaccia” (da ábba in fáke, per-ché il pane è stato lucidato con acqua ed è stato espo-sto al calore del forno, fáke),111 centr. kolakòla, log. ko-laùòla “p. di farina integrale destinato ai pastori” (dakolare “colare, filtrare”),112 log. mistúru, centr. mesturí-Qu “p. ovale di farina fina mischiata con kivárdzu” (damesturare “mischiare”),113 log. kanístros “pani artistici,canestrini” (da kanístru “canestro”),114 ispjanáDa “spia-nata” (da riconnettersi, in ultima analisi, a pjánu “piano,liscio”),115 centr. kír*u “p. circolare” (a Orani e Sarule;lett. “cerchio”, dal lat. CIRC(U)LUS), log. lóttura “specie diciambella” (da lotturare “rotolare”),116 iskarpítta “focac-cina” (da iskarpítta “scarpa”), camp. pèi ‘e •òi “piccolafocaccia” (lett. “piede di bue”),117 log. loriùítta “specie diciambella” (da lóriùa “anello”),118 pertupítta “focaccia diCapodanno, regalata dai padroni ai pastori, in cui sonoraffigurati un ovile con le pecore, la capanna del pasto-re, il cane etc.” (da pertúpu “forato”, perché ha forma diciambella),119 camp. pikkètta “p. di forma allungata eappuntita” (da pikkai “aguzzare”),120 pittsuríus “p. fra-stagliato che si prepara in occasione delle feste” (dettoanche kokkòi de •íttsus, da píttsu “punta”),121 pillònka“p. d’orzo, schiacciato, a falde sottili biscottate” (dapíllu, corrispondente campidanese del log. pídzu),122

log. bakkí{{u “p. allungato che si prepara a Capodannoper i ragazzi” (da bakkí{{u “bastone”),123 camp. (Sárra-bus) p,ç ‘e Dentúra “p. bianco che si distribuisce fra ipoveri il trentesimo giorno dopo la morte di un familia-re” (derivato da téntu, part. pass. di tènnere),124 i vari log.e camp. kòkka “specie di focaccia o ciambella”, camp.kokkòi “p. a corona o a ciambella”, centr. kokkòne, koçò-ne, log. koùòne “p. grosso, fatto di cruschello, pagnotta”,log. kokkoròi “p. di cruschello”, log. sett. kóttsula “spe-cie di focaccia” e simili (tutti forse riconducibili, in ulti-ma analisi, al lat. COCCUM “cosa rotonda”)125 etc.Non mancano neppure denominazioni ironiche, come,ad es., camp. pára, pari≥é{{u “p. di forma rotonda” (ri-feritaci, fra l’altro, per Seneghe), che è la stessa cosa ri-spetto a pára “frate, religioso”, evidentemente perché nelnome dato a questo pane trovano riflesso, con un sorri-so irriverente, le frequenti dicerie popolari sulla voracitàdegli uomini di chiesa, riversate anche in espressionidialettali assai note, del tipo grasso come un parroco ocome un frate.126 Folta è pure la schiera dei pani chetraggono il nome da un particolare soggetto rappresen-tato plasticamente, come avviene o avveniva, giusto perdare un’idea, nel caso della log. juáDa, dzuáDa, &uáDa“grande focaccia, regalata dal padrone ai fattori in occa-sione dell’inizio dell’anno, nella quale sono raffigurati un

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Desideriamo ringraziare tutte quelle personeche ci hanno accordato con entusiasmo la lo-ro disponibilità: in particolare, Antonio e Ma-riuccia di Íttiri, tzia Paschedda (Pasqua LigiosPala) di Bitti, Gianluca Corsi di Núoro, Gio-vanna Ladu di Orani, Ilaria Masala di Galtellì,Sandra e Simona Mereu di Urzulei, Nadia Ve-dele di Dorgali.

1. Avvertiamo che per la trascrizione del sardo– laddove non si segua l’opera di volta in voltacitata – impieghiamo sostanzialmente il siste-ma adottato in M.L. Wagner, Dizionario Eti-mologico Sardo (= DES), Heidelberg 1960-64,scostandocene soltanto per la notazione nondistintiva di i semivocale e l’impiego di j per isemiconsonante. Le basi etimologiche latinesono citate secondo l’uso di W. Meyer Lübke,Romanisches etymologisches Wörterbuch (=REW), Heidelberg 19356.

2. Cfr. L. Kósa, Á. Szemerkényi, Apáról fiúra.Néprajzi kalauz [Di padre in figlio. Guida etno-grafica], Budapest 1998, p. 75; si veda anche L.Benko (Hrsg.), Etymologisches Wörterbuch desUngarischen, I/2, Budapest 1992, s.v. él1.

3. Cfr. T. Franceschi 2002, vol. I, pp. 175-185,a p. 176 (rammentiamo che, nella terminolo-gia della scuola geoparemiologica, i detti di-dattici si caratterizzano per il fatto di esseretesti univoci, dotati unicamente del senso let-terale, laddove i detti paremiaci, o proverbipropriamente definiti, al valore letterale som-mano significati più ampi in relazione alla vi-ta umana). Sull’argomento che ora si discutesi vedano anche E. Delitala 1983, pp. 55-65, ap. 64, e G. Paulis 2002, vol. II, pp. 665-677,alle pp. 665-666.

4. Si tratta di un detto molto conosciuto e cita-to spesso: si veda, ad es., P. Casu, Vocabolariosardo logudorese-italiano, a cura di G. Paulis,Nuoro 2002, p. 1023, s.v. pane (è spiegato inquesto modo: «bastano per vivere il pane e ilcacio e un bicchiere pieno di vino»).

5. Cfr. E. Espa, Proverbi e detti sardi dei par-lanti la lingua sarda-logudorese, vol. I, Sassari1981, p. 145. Si veda anche G. Spano, Proverbisardi trasportati in lingua italiana e confronta-ti con quelli degli antichi popoli, a cura di G.Angioni, Nuoro 1997, p. 324, s.v. sedattu, ovel’adagio, riportato in forma diversa (su zoccude su sedattu est s’allegria de domo), è spiegatonel senso che «essendovi farina vi è in casa ilpane, e l’abbondanza».

6. Cfr. P. Casu, Vocabolario sardo logudorese-italiano cit., p. 1023, s.v. pane. La spiegazione

si trova in G. Spano, Proverbi sardi cit., p. 262,s.v. pane: «Vale, che uno non deve aspettarené scappare una cosa per aver miglior occa-sione» (detto dunque a proposito di coloro chesono continuamente insoddisfatti di ciò chehanno).

7. Cfr. E. Espa, Proverbi e detti sardi cit., vol. I,p. 149, e G. Spano, Proverbi sardi cit., p. 103,s.v. chivarzu. Si compari questo proverbio conaltri del tipo meglio pane d’orzo in casa pro-pria che biscotti in casa altrui; fa più il paneasciutto in casa propria che il prosciutto in ca-sa d’altri; meglio pane bagnato con l’acqua acasa mia piuttosto che mangiare e bere a casadegli altri; è meglio una bruschetta d’aglio acasa tua che i ravioli a casa d’altri; meglio pa-ne e cipolla in casa propria che maccheroni incasa altrui (T. Franceschi 2002, p. 178).

8. Cfr. P. Casu, Vocabolario sardo logudorese-italiano cit., p. 1023, s.v. pane.

9. Cfr. E. Espa, Proverbi e detti sardi cit., vol. I,p. 154.

10. Cfr. E. Espa, Proverbi e detti sardi cit., vol. I,p. 239 (spiegato nel senso che «chi ha sostanzenon manca di amici»). In questo proverbio, cheha un’applicazione ampia, il pane rappresenta lamotivazione economica, i cani sono coloro cheaccorrono in modo non disinteressato: un’imma-gine simile si ha nella paremia ungherese kutyátkapni, csak korpa legyen “avrai il cane, basta checi sia la crusca” (cfr. O. Nagy G., Magyar szólá-sok és közmondások [Espressioni e proverbi un-gheresi], Budapest 19968, p. 409, n. 2311; si in-terpreta nel senso che i lavoratori saranno attiratida una buona paga).

11. Cfr. E. Espa, Proverbi e detti sardi cit., vol.I, p. 154 («Non tutti possono permettersi illusso di comprar formaggio»).

12. Cfr. E. Espa, Proverbi e detti sardi cit., vol. I,p. 156 («I soldi spesso si spendono per le cosedi poco conto»).

13. Cfr. E. Espa, Proverbi e detti sardi cit., vol.I, p. 161 («I maccheroni una volta erano il ci-bo delle feste e andavano acquistati con parsi-monia»).

14. Cfr. M. Puddu, Ditzionàriu de sa limba ede sa cultura sarda (= DitzLcs), Cagliari 2000,p. 672, s.v. fàrra.

15. Si veda E. De Felice, Dizionario dei cogno-mi italiani, 1997 (19781), p. 121, s.v. Farina(«Alla base sono ant. nomi, da originari so-prannomi, formati da farina e dai suoi deriva-

ti, in relazione al mestiere (mugnaio, panettie-re, ecc.) della persona così denominata o a al-tre caratteristiche»).

16. Cfr. E. De Felice, Dizionario cit., p. 187,s.v. Pane («Alla base è il nome e soprannomemedioevale Pane (con i vari alterati e compo-sti), formato da pane … “pane”, nel sign. fig.di “cosa buona per eccellenza” … o come no-me di mestiere, cioè “fornaio, panettiere”»), ep. 186, s.v. Pampuri («Cognome lombardo de-rivato dal soprannome Pampuro, formato dapane puro, in lombardo pan pür, cioè “panesolo, senza companatico”, dato in riferimentoalla povertà, all’avarizia o anche a altre carat-teristiche di comportamento»).

17. Cfr. M. Pittau, I cognomi della Sardegna. Si-gnificato e origine di 5000 cognomi, Sassari1990, rispettivamente a p. 63, s.v. Cocone; p. 96,s.v. Farigu e Farina; p. 13, s.v. Arre, e p. 96,s.v. Farre e Farris; p. 173, s.v. Pane, Pani e Pa-nedda; p. 194, s.v. Podda e Poddine, -i; p. 221,s.v. Simbula e Simula.

18. L’opera è oggi consultabile in edizione ita-liana integrale: M.L. Wagner 1996 (la sezionetematica cui si fa riferimento nel testo è allepp. 78 ss.).

19. Cfr. D. Silvestri 2002, vol. I, pp. 15-18, a p.16. I due successivi livelli di elaborazione quiprevisti (il quarto, che riguarda specifici prodottigastronomici, e il quinto, che fa riferimento acombinazioni di cibi in momenti usuali) ovvia-mente non saranno qui presi in considerazione.

20. Sull’argomento si vedano le considerazionidi G. Paulis 2002, p. 668.

21. Si vedano, rispettivamente, G. Spano, Vo-cabolariu sardu-italianu. Con i 5000 lemmidell’inedita Appendice manoscritta di G. Spano,a cura di G. Paulis, Nuoro 1998, vol. I, p. 324,s.v. chilinzòne, e M.L. Wagner 1996, p. 149 enota 163. Cfr. anche DES, vol. I, p. 578, s.v. gi-lindzòne (ove si fa un po’ di confusione fracrusca e cruschello).

22. Per Núoro si vedano, ad es., L. Farina, Bo-cabolariu Sardu Nugoresu-Italianu, Italiano-Sardo Nuorese, a cura di A. Farina, s.l. 2002, p.142, s.v. ghilinzòne, e R. Cicalò, F.R. Contu1987, pp. 189-226, a p. 189. Per Orani ricavia-mo l’informazione da G. Corsi, Il lessico dell’ali-mentazione a Orani e Sarule, tesi di laurea di-scussa nell’a.a. 2001-02 (relatore G. Lupinu): daquesto lavoro sono tratte le notizie che, anchepiù avanti, avremo occasione di dare a proposi-to dei due centri menzionati nel titolo.

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Note 23. Secondo DitzLcs, p. 1626, s.v. tipàle, si trat-terebbe invece del vocabolo che nella termi-nologia degli sfarinati di grano trova il suo cor-rispettivo in kivárdzu (per il quale si vedainfra). Per il suffisso -ále, si veda M.L. Wagner,Historische Wortbildungslehre des Sardischen,Bern 1952, §§ 39-40.

24. Cfr. G. Lupinu 2002, vol. I, pp. 113-115.

25. G. Deledda 1972, pp. 13-15.

26. Cfr. DES, vol. II, p. 516, s.v. tríDiku, e K. Ja-berg, J. Jud (hrsg. von), Sprach und SachatlasItaliens und der Südschweiz (= AIS), Zofingen1928-40, carta 1445. Circa la testimonianza del-le iscrizioni pompeiane, si veda V. Väänänen,Le latin vulgaire des inscriptions pompéiennes,Berlin 19663, p. 54 e n. 2.

27. Cfr. DES, vol. II, p. 193, s.v. órju, e AIS,carta 1447.

28. Cfr. M.L. Wagner 1996, pp. 134-144, con lapuntuale descrizione e la terminologia dellamacina casalinga; si vedano anche DES, vol.II, p. 123, s.v. mòla, e AIS, carta 253. Utiliinformazioni sull’antica macina sarda, soprat-tutto riguardo alle zone interne della Sardegna,sono offerte anche da L. Farina, Bocabolariucit., p. 666, s.v. màcina. Si consultino infine icontributi di M.G. Da Re 1990, pp. 13-26; M.G.Da Re 1991, pp. 17-22.

29. Cfr. DES, vol. II, p. 54, s.v. maùinare, e p.123, s.v. mòlere; si veda inoltre AIS, carta 254.

30. DES, vol. II, p. 123, s.v. mòla.

31. Cfr. DES, vol. I, p. 504, s.v. farína e s.v.fárra (quest’ultimo tipo lessicale è segnalatoda Désulo, Baunei, Busachi in giù); si vedaanche AIS, carta 255.

32. Cfr. DES, vol. II, p. 290, s.v. pó{{ine, e p.456, s.v. ≤ètti.

33. Cfr. L. Farina, Bocabolariu cit., p. 544, s.v.farina, e DitzLcs, p. 350, s.v. bolédu. In realtà,almeno in alcuni contesti, il termine parrebbeindicare non solo o non tanto il fior di farina,quanto una qualità di semola fine impiegataper ricavarne il pane che porta lo stesso nome(così i dati forniti da G. Corsi, Il lessico cit.).

34. M.L. Wagner 1996, p. 144. Nel DES, vol. I,p. 216, s.v. bolaDíu, lo studioso tedesco confer-ma questo significato per il termine in analisi,facendo riferimento alle Aggiunte manoscrittedello Spano, che nel frattempo non sono piùinedite: cfr. G. Spano, Vocabolariu sardu-ita-lianu cit., vol. II, p. 418, s.v. VOLÈDU, segnalatoper Fonni ma col significato di pòddine.

35. Cfr. DES, vol. I, p. 505, s.v. farríkru.

36. Cfr. M. Pittau, Dizionario della lingua sar-da. Fraseologico ed etimologico (= DiLS), vol. I(Sardo-Italiano), Cagliari 2000, p. 586, s.v. lím-pidu, ove tuttavia non è del tutto chiaro a qua-le àmbito geografico sia riferita l’indicazione.

37. Si veda G.M. Cabras, Vocabolariu baronie-su-Vocabolario baroniese. Sardu de Baronia-Italianu, Italiano-Sardo di Baronia, Moncalieri2003, p. 89, s.v. coccóne. Qui è pure registratala locuzione vrènte ‘e pó{{ine “pancia di fari-na” come «appellativo scherzoso con cui veni-vano chiamati i continentali» (p. 303, s.v. pód-dine).

38. Cfr. DES, vol. II, p. 418, s.v. símula.

39. Cfr. E. Delitala 1983, p. 62, e DitzLcs, p. 474,s.v. chíbu.

40. Cfr. E. Delitala 1983, p. 62: kolaùòla è datoper l’Ozierese col significato di “farina di se-conda qualità usata per preparare il pane deiservi”. Per l’uso di kolakòla nell’area centrale,si veda L. Farina, Bocabolariu cit., p. 544, s.v.farina. Nel DES, vol. I, p. 364, s.v. kolare, ilvocabolo kolaùòla è riferito unicamente come“farina di prima mano”, in modo per lo menolacunoso: vedremo più avanti, infatti, che essoindica anche un tipo di pane.

41. Cfr. DES, vol. I, p. 351, s.v. kivárdzu.

42. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 148.

43. Cfr. DES, vol. II, p. 476, s.v. tentúra, eDitzLcs, p. 1613, s.v. tentúa, tentúra. Per il lo-gudorese sett. si terrà presente G. Spano, Vo-cabolariu sardu-italianu cit., vol. II, p. 387,s.v. tentùra (il termine è dato con il significatodi “cruschello, pan bruno”). Del vocabolo èsegnalata anche la variante tintúra, nell’areatra Ottana e Gavoi (E. Delitala 1983, p. 62).

44. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 148, e DES, vol. I,p. 351, s.v. kivárdzu.

45. Si veda, ad es., E. Delitala 1983, p. 62.

46. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 148, e DES, vol. I,p. 560, s.v. fúrfure.

47. Cfr. M.L. Wagner 1996, pp. 149-150, e DES,vol. II, p. 541, s.v. Qálau.

48. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 148: qui il termi-ne è segnalato nel Gerrei, nel Campidano e, asettentrione, fino a Gavoi, Fonni, Orgòsolo. Sivedano anche DES, vol. I, p. 588, s.v. grándza,e AIS, carta 257.

49. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 148, e DitzLcs,p. 1441, s.v. russàrza.

50. Cfr. DES, vol. II, p. 146, s.v. mússa.

51. Cfr. DES, vol. II, p. 194, s.v. óriu.

52. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 145, DES, vol. I,pp. 504-505, s.v. fárre e s.v. farríkru (ove l’en-trata principale è definita, un po’ ambigua-mente, “farro”), e V.R. Porru, Nou dizionariuuniversali sardu-italianu, a cura di M. Lorin-czi, vol. II, Nuoro 2002, p. 100, s.v. farri. Si ègià ricordato che nel DES la variante orgolesearílçu è censita col significato di “farina di pri-ma qualità”, mentre in riferimento a Gáiro laforma faríùu è data come “farina con cruschel-lo (che si dà da mangiare ai polli)”. Si vedaperò G. Murru Corriga 2002, pp. 417-429, a p.426, ove faríùu è testimoniato per l’Ogliastracon l’accezione di “semola d’orzo”, indicazio-ne che collima con quanto abbiamo verificatopersonalmente per Urzulei (faríhu).

53. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 150, e DES, vol. I,p. 578 (ove la base latina, crediamo per errore,è indicata in *SILIG-IONE).

54. Circa i nomi della madia nelle varie zonedella Sardegna, si vedano M.L. Wagner 1996,pp. 154-155, AIS, carta 238, e DES, vol. I, p.658, s.v. iskívu; vol. II, p. 4, s.v. lák(k)u, p. 19,s.v. le•réri, p. 481, s.v. tiánu. Si tenga presenteche alcuni di questi termini indica(va)no anchela culla (si possono leggere al riguardo le con-siderazioni espresse nel DES per le voci iskívue lákku), sicché non desta meraviglia la circo-stanza che in talune località la madia sia chia-

mata pure kíllja (così L. Farina, Bocabolariucit., p. 666, s.v. madia), vocabolo che nel DES,vol. I, p. 336 è registrato per le zone centraliunicamente coi significati di “culla” e “altalena”.

55. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 155, e DES, vol. I,p. 425, s.v. kum(m)assare.

56. Cfr. M.L. Wagner 1996, pp. 155-156, e DES,vol. II, p. 496, s.v. tòrkere.

57. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 155, e DES, vol.II, p. 438, s.v. su•íùere. G.M. Cabras, Vocabola-riu baroniesu cit., p. 347, s.v. suìchere, per Si-niscola indica come significato quello di “gra-molare, preparare l’impasto di farina e acqua[prima fase della lavorazione della pasta nellapanificazione]” (l’inciso fra parentesi quadre èdell’autore). Per l’area campidanese, invece,*uè≥i è dato col significato di karjare (cfr. A.Schirru 1977, pp. 41-43, a p. 42).

58. DES, vol. I, p. 302, s.v. karjare.

59. Cfr. DES, vol. II, p. 232, s.v. pásta.

60. Si veda L. Farina, Bocabolariu cit., p. 50,s.v. appunzare, e F.R. Contu 1991, pp. 26-28,a p. 27.

61. Cfr. V.R. Porru, Nou dizionariu universalisardu-italianu cit., vol. III, p. 259, s.v. spongiài:«si narat de sa pasta, chi de pustis cîuèta sispongiat po perdiri totu sa corria, e rendiriddamorbidissima po fai is moddizzosus, e gressi-nus». Si vedano anche DitzLcs, p. 1556, s.v.spongiài, e A. Schirru 1977, p. 42 (qui si segna-la pure che, durante la lavorazione, si aggiungegradualmente dell’acqua).

62. G. Bottiglioni 1978, p. 48.

63. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 155, e DES, vol. I,p. 511, s.v. ferméntu. La voce kimentárdzu,data con lo stesso significato nel DES, vol. I, p.338, s.v. kimentare, sulla base di un’informa-zione dello Spano, è dubbia (nel caso, sarebbeun incrocio di fermentárdzu con kiméntu “ru-more, strepito”).

64. Cfr. DES, vol. I, p. 579, s.v. gimipòne. Se-gnaliamo qui che in Ogliastra, per la prepara-zione del pistókku d’orzo, un simile lievito èchiamato páne ‘ónu (G. Murru Corriga 2002,p. 426), dato che abbiamo riscontrato perso-nalmente per Urzulei.

65. G. Paulis, Lingua e cultura nella Sardegnabizantina. Testimonianze linguistiche dell’in-flusso greco, Sassari 1983, pp. 88-89.

66. Cfr. F.R. Contu 1991, p. 27. Si veda ancheL. Farina, Bocabolariu cit., p. 659, s.v. lievitare.Rammentiamo qui l’espressione kára ‘e ùimipò-ne “viso pallido” (per il colore grigiastro del-l’impasto) registrata da G.M. Cabras, Vocabola-riu baroniesu cit., p. 152, s.v. ghimisóne.

67. Si veda G. Murru Corriga 1994, vol. II, pp.37-59, a p. 59, e G. Murru Corriga 2002, pp.426-428.

68. DiLS, p. 285, s.v. chimisone (non persua-de la spiegazione etimologica qui fornita).

69. Cfr. DES, vol. I, p. 275, s.v. kamípa. Per ilsuffisso si vedano M.L. Wagner, HistorischeWortbildungslehre des Sardischen cit., §§ 65-67,e G. Paulis, Studi sul sardo medioevale, Nuoro1997, p. 97 (a proposito di pethone).

70. Si veda M.L. Wagner, Fonetica storica delsardo, a cura di G. Paulis, Cagliari 1984, § 35

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e pp. 491-493, con la presentazione di nume-rosi casi analoghi.

71. P. Casu, Vocabolario sardo logudorese-ita-liano cit., p. 377, s.v. còtta.

72. Cfr. DES, vol. II, p. 90, s.v. matrige. Utiliinformazioni si trovano anche in L. Farina, Bo-cabolariu cit., p. 659, s.v. lievitare. Esiste ancheun denominale: centr. matrikare, ammatrikare,log. ammaDriùare “mettere il lievito al pane”(DES, loc. cit.), “far riposare la pasta (dopoaver mescolato il lievito)” (G.M. Cabras, Voca-bolariu baroniesu cit., p. 18, s.v. ammatricare).Come si è visto in precedenza, questo verboregistra numerosi impieghi traslati o scherzosi:“disfarsi (come il lievito)”, “indugiare in un’iner-zia indolente”, “mettere radici in un posto (sullasedia, a letto, ecc.)”. Si osservi infine che spes-so, anche in logudorese, almeno oggi, in diver-se località si impiega solamente fermentárdzuo simm. oppure matríke o simm., quando nonaddirittura l’italianismo ljévitu, ciò che è dovu-to, verosimilmente, al cambiamento delle tecni-che di panificazione e all’introduzione di nuovilieviti, con lo svuotamento dall’interno della di-stinzione terminologica originaria fra un lievitoseme da pasta acida e un lievito finale.

73. Cfr. DES, vol. II, p. 252, s.v. pepare. Inquesta accezione il verbo è impiegato assolu-tamente.

74. Cfr. V.R. Porru, Nou dizionariu universalisardu-italianu cit., vol. I, p. 259, s.v. axedài.

75. Cfr. V.R. Porru, Nou dizionariu universalisardu-italianu cit., vol. II, p. 105, s.v. fer-mentài, e DitzLcs, p. 711, s.v. frammentài.

76. Cfr. DES, vol. I, pp. 218-219, s.v. bónu, eG.M. Cabras, Vocabolariu baroniesu cit., p.166, s.v. imboniare, ove si annota anche l’im-piego del verbo col significato di “ingrassare,rimettersi in carne”. Si veda pure DitzLcs, p.819, s.v. imbonài, imboniàre, imboníre.

77. Cfr. R. Cicalò, F.R. Contu 1987, p. 206. AOrani, per designare la medesima operazione,si usa invece il verbo amiare.

78. M.L. Wagner 1996, pp. 337-338. Si vedanoanche DES, vol. I, p. 403, s.v. krépja, e DitzLcs,p. 852, s.v. inchejàre, ove, fra l’altro, si fa un’in-teressante precisazione: «dhu nanta fintzas poanimalis, in su sensu de fai ccn. cosa chi giúa-da». Ugualmente utile, per intendere l’amplia-mento semantico di cui si discute, è pure il si-gnificato di “acostadedha, incarada de pag’ora”registrato per il sostantivo inkrepjáDa (DitzLcs,p. 860, s.v. incresiàda).

79. Cfr. G. Spano, Proverbi sardi cit., p. 163,s.v. furru (citiamo mantenendo la notazionequi impiegata).

80. A questo riguardo si vedano, ad es., leconsiderazioni di F. Diana 2001, p. 109.

81. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 161, e DES, vol.II, p. 196, s.v. óru. La variante urire ci è statasegnalata per Bitti e Galtellì; cfr. anche G.M.Cabras, Vocabolariu baroniesu cit., p. 378, s.v.uritu (per Siniscola): «pane uritu, masserella dipasta da cui si ricava per spianatura il foglio dipane carasatu».

82. Cfr. DitzLcs, p. 1516, s.v. sestài. Per l’etimosi veda DES, vol. II, p. 413, s.v. sestare. A Núo-ro e in alcune località vicine si dice festare.

83. Cfr. DitzLcs, p. 6, s.v. abballonàre.

84. Cfr. DitzLcs, p. 1121, s.v. maniestàre.

85. Cfr. DitzLcs, p. 1610, s.v. tèndhere. Per l’eti-mo si veda DES, vol. II, p. 474, s.v. tèndere. Èdocumentata anche l’espressione mépu tépuper indicare la pasta non completamente spia-nata (G. Corsi, Il lessico cit.).

86. Cfr. DES, vol. II, p. 16, s.v. látu, e DitzLcs,p. 800, s.v. illadiàre.

87. Cfr. M.L. Wagner 1996, pp. 161-162, e DES,vol. II, p. 538, s.v. tútturu.

88. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 162, e DES, vol.II, p. 288, s.v. pídzu. Si veda anche DitzLcs, p.716, s.v. frèsa.

89. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 161, e DES, vol.I, p. 304, s.v. karpire: in entrambe queste ope-re il verbo è riferito col significato di “dividerela pasta del pane in pezzi rotondi”, che trovaconferma in DitzLcs, p. 413, s.v. calpíre. A Bittie Dorgali, tuttavia, il vocabolo (karpire, karfire)ci è stato dato ripetutamente nell’accezione di“dividere il pane in due fogli” quando è ancoraléntu (“morbido, flessibile”); si veda ancheG.M. Cabras, Vocabolariu baroniesu cit., pp.76-77, s.v. carpìre, e p. 103, s.v. crapìre («nellapanificazione tradizionale, l’operazione di se-parare l’uno dall’altro i due fogli di pane lentuche si formano con la prima cottura della sfo-glia di pasta, tagliando gli orli col coltello»).

90. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 161 ss. (con unpo’ di ambiguità sul significato), e DES, vol. I,p. 545, s.v. frepare.

91. M.L. Wagner 1996, p. 162, e L. Farina, Bo-cabolariu cit., p. 175, s.v. iscopercare.

92. Cfr. G.M. Cabras, Vocabolariu baroniesucit., p. 201, s.v. ispizare (la voce è data perSiniscola), e DitzLcs, p. 1001, s.v. ispizàre1; ilsostantivo ispidzaDúra come sinonimo di isko-perkaDúra è dato anche in L. Farina, Bocabo-lariu cit., p. 175, s.v. iscopercare.

93. Per l’etimo, si veda DES, vol. I, p. 296, s.v.karapare, ove sono indicati soltanto i significati“graffiare, strofinare”, con riferimento ai dialetticentrali, e “indurirsi, far crosta (del pane)”. Perun migliore inquadramento semantico dellavoce, cfr. DiLS, p. 261, s.v. carasare, e DitzLcs,p. 437, s.v. carasàre: «si narat de sa pasta cruachi, lassada de ciuèxiri, fait crosta, si tzacat edhi nòxidi puru; nâu de su pani de fresa cotu,intraidhu a su forru un’àtera borta po dhu faiàrridu, e chi po comenti essit totu arraspiosuparit tzacau (a sa parti de mesu)» (definizioneche va confrontata con quella in V.R. Porru,Nou dizionariu universali sardu-italianu cit.,vol. I, p. 351, s.v. carasiaisì). Si veda anche P.Casu, Vocabolario sardo logudorese-italianocit., p. 314, s.v. carasare, ove del verbo si dàl’accezione “dar la forma rotonda ai pezzi dellapasta che poi, col matterello, saranno schiac-ciati e ridotti in pane sardo”. Circa l’uso delverbo a Núoro e nella Baronia (col significatodi “biscottare” e simm.), rimandiamo a L. Fari-na, Bocabolariu cit., p. 86, s.v. carasare, eG.M. Cabras, Vocabolariu baroniesu cit., p. 74,s.v. carasare.

94. Cfr. L. Farina, Bocabolariu cit., p. 175, s.v.iscopercare, e G.M. Cabras, Vocabolariu baro-niesu cit., p. 201, s.v. ispipinitare («togliere i fru-stoli rimasti ai bordi del foglio del pane lentu»).

95. Segnaliamo ora la curiosa espressione ka-rapare áulas “infilzare (sfornare) una bugia

dietro l’altra” (G.M. Cabras, Vocabolariu ba-roniesu cit., p. 74, s.v. carasare).

96. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 162, e DES, vol. I,p. 137, s.v. assare.

97. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 162, e DES, vol.II, p. 535, s.v. turrare.

98. Cfr. DES, vol. I, pp. 124-125, s.v. árriDu, eDitzLcs, p. 218, s.v. arridài.

99. Cfr. DES, vol. I, p. 101, s.v. appirare. L’ac-costamento a pila è criticato in DiLS, p. 738,s.v. pira2.

100. Cfr. DES, vol. II, p. 248, s.v. pèrra.

101. Cfr. DES, vol. II, p. 269, s.v. pinnik(k)are.

102. L’informazione è fornita in G. Corsi, Il les-sico cit. Si veda anche REW 6601.

103. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 160, e DES, vol.I, p. 649, s.v. iska{{are, ove, per ragioni fone-tiche, l’ipotesi del Von Wartburg di una deriva-zione da excaldare è ritenuta ammissibile soloipotizzando un tramite continentale.

104. Cfr. L. Farina, Bocabolariu cit., p. 152, s.v.imbridare.

105. Cfr. DES, vol. II, p. 29, s.v. límpiDu.

106. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 172, e DES, vol.II, p. 121, s.v. mò{{e.

107. Cfr. DES, vol. I, p. 210, s.v. biskóttu.

108. Si veda quanto si è detto sopra a propo-sito del verbo iska{{are.

109. Cfr. L. Farina, Bocabolariu cit., p. 185, s.v.issoco (pán’ issòkko è indicato come sinonimodi kokkòne).

110. Cfr. DES, vol. II, p. 271, s.v. pintare.

111. Cfr. DES, vol. I, p. 35, s.v. ábba, e p. 496,s.v. fáke. Segnaliamo che il tipo bifáke, otte-nuto per erronea divisione di s’abbifáke in sabifáke, è stato prontamente etimologizzato alivello popolare come “cotto due volte” (pri-ma e dopo la lucidatura: così ci è stato testi-moniato per Íttiri).

112. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 168, ove peròsu kolakòla è menzionato come «un pane difarina fina». La definizione che abbiamo indi-cato nel testo, che varrà almeno per il Nuore-se, è ricavata da R. Cicalò, F.R. Contu 1987, p.189 e p. 205. Si veda anche quanto si è dettoin precedenza, a proposito della farina cheporta il medesimo nome.

113. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 168, e DES, vol.II, p. 112, s.v. mesturare. Lo stesso pane è chia-mato in log. sett. mí≤u (da mi≤are “mescolare”).

114. Cfr. M.L. Wagner 1996, pp. 172-173, eDES, vol. I, p. 283, s.v. kanístru («sos kanístroslog. “pani artistici a foggia d’uccelli, di foglie,di fiori, di corone (per gli sponsali e per la ce-lebrazione di una prima messa)” …; kalístru(Lula) “pane che si mangia in occasione di fe-ste di santi”»).

115. Cfr. DES, vol. II, p. 303, s.v. pránu (la fo-netica del vocabolo ispjanáDa denuncia unachiara provenienza settentrionale).

116. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 166, e DES,vol. II, p. 361, s.v. roDulare.

117. Cfr. E. Delitala 1991, La produzione del pa-ne, pp. 105-107, a p. 106.

118. Cfr. M.L. Wagner 1996, pp. 166-167, e DES,vol. II, p. 37, s.v. lórika.

119. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 171, e DES, vol.II, p. 251, s.v. pertúngere. A proposito di panifatti a Capodanno, si veda E. Delitala 1991,Pane e ciclo pastorale, pp. 102-103.

120. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 168.

121. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 172, e DES, vol.II, pp. 285-286, s.v. píQQu.

122. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 164, e DES,vol. II, p. 288, s.v. pídzu. In DitzLcs, p. 1324,s.v. pillònca, vengono segnalate più accezionidel termine: «zenia de pane a pizu fine, de or-zu: segundhu ue, pane modhe russitu o ispia-nada, tundha, o fintzas pan’ e cici; fresa o pi-zu de pane».

123. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 170, e DES,vol. I, p. 163, s.v. bakkí{{u. Per maggiori det-tagli, si veda anche A. Lecca 1990, Pani ebambini, pp. 27-34, alle pp. 30-31.

124. Cfr. DES, vol. II, p. 476, s.v. tentúra, e R.Böhne, Il dialetto del Sarrabus. Sardegna Sud-Orientale, a cura di S. Meloni, Sestu 2003, p.53. Si veda anche quanto si è detto in prece-denza, discorrendo delle diverse qualità deglisfarinati, a proposito di questo stesso vocabolo.

125. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 167, e DES, vol.I, p. 355, s.v. kòkka. Il Wagner, in realtà, nonaccolse con entusiasmo nel DES la proposta eti-mologica che vorrebbe le voci sarde legate aCOCCUM “cosa rotonda” (bacche, coccole), forseinfluenzato da COCLA, COCHLEA “chiocciola”, pro-spettando invece la possibilità, sulla base diconcordanze fra sardo, iberoromanzo e rume-no, di una formazione infantile sorta già in senoal latino. In alcune delle voci isolane, inoltre, sisente l’influsso di kòkere, kòùere “cuocere”.Quanto al tipo kóttsula, diffuso nel logudoresesett., esso è penetrato, attraverso la mediazionedel sassarese (varietà per la quale sono attestateforme come cózzura, cózzuru “specie di ciam-bella”: cfr. G.P. Bazzoni, Dizionario fondamen-tale sassarese-italiano, Sassari 2004, p. 146, s.v.cózzura e cózzuru), dal còrso cismontano, ovesi hanno cócciulu “specie di focaccia” e cóculu“specie di ciambella”.

126. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 168, e DitzLcs,p. 1271, s.v. pàra. A proposito di espressionidalle quali traspare la visione che del cleroavevano i ceti popolari, si veda, ad es., G.L.Beccaria, Sicuterat. Il latino di chi non lo sa:Bibbia e liturgia nell’italiano e nei dialetti, Mi-lano 2002 (19991), pp. 126-127.

127. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 171 (ove si ri-conduce l’usanza al giorno di Capodanno), eDES, vol. I, p. 711, s.v. yúùu (qui si fa riferi-mento al mese di settembre, ka•iDánni).

128. Cfr. DES, vol. I, p. 654, s.v. iskarté{{u, eA. Lecca 1990, Pani e bambini, p. 28.

129. A. Lecca 1990, Pani e bambini, pp. 28-29.

130. Si veda A. Lecca 1990, Pani e bambini,p. 30.

131. A. Lecca 1990, I Pani della Quaresima,pp. 35-42, a p. 35.

132. Cfr. R. Cicalò, F.R. Contu 1987, p. 214.Per su •áni de ip ánimas (o animè{{as) a Vil-lasalto, si veda A. Lecca 1990, Pani e bambini,p. 33.

133. Cfr. M.L. Wagner 1996, pp. 169-170, eDES, vol. I, p. 282, s.v. kandeláriu. Si veda an-che A. Lecca 1990, Pani e bambini, p. 31.

134. Cfr. M.L. Wagner 1996, p. 170, e DES,vol. I, p. 293, s.v. kápute. Maggiori dettagli inA. Lecca 1990, Pani e bambini, pp. 31-32.

135. Straordinariamente e sorprendentementeprofondo nel caso del koçòne ‘e vròres di Fon-ni, alla cui analisi simbolica ha lavorato F. Dia-na 2001.

136. Cfr. M.L. Wagner, “Sardisch kená•ura‘Freitag’”, in Zeitschrift für romanische Philolo-gie 40 (1920), pp. 619-621, M.L. Wagner, La lin-gua sarda. Storia, spirito e forma, a cura di G.Paulis, Nuoro 1997, p. 72 e nota 62, e DES, vol.I, p. 328, s.v. kenápura. Sulla cronologia dellapenetrazione di questa particolare denomina-zione del venerdì in Sardegna, si veda G. Lupi-nu, Latino epigrafico della Sardegna. Aspetti fo-netici (= “Officina Linguistica” III/3), Nuoro2000, pp. 20-22.

137. Cfr. DES, vol. II, p. 328, s.v. púrile, e M.L.Wagner 1996, p. 165, nota 192: qui lo studiosotedesco riferisce al medesimo tipo di pane an-che il vocabolo pintulé{{u (connesso con pin-tare), sulla scorta di G. Spano, Vocabolariusardu-italianu cit., vol. II, p. 280, s.v. pintulèd-du. In DitzLcs, p. 1329, s.v. pintulédhu, è forni-to un significato diverso: «dhu nanta de su panimali o pagu pesau e chi po cussu coendi essittotu a bullucas e mancixedhas abbruxadas (fai-zones) e cun su restu cotu mali», definizionecongruente con l’etimo, in quanto il pane risul-ta come screziato (= píntu). Segnaliamo infineche, in tempi più recenti, l’aggettivo púrile, conriferimento al pane, trova impiego nel significa-to di “non ancora lievitato” (cfr. P. Casu, Voca-bolario sardo logudorese-italiano cit., p. 1144,s.v. pùrile e anche s.v. purilàttu e purilónzu).

138. Cfr. DES, vol. I, p. 676, s.v. ispéli (insie-me a quanto aggiunto nell’Appendice al vol.II, p. 610), vol. II, p. 522, s.v. tròkko, e M.L.Wagner 1996, pp. 168-169.

139. G. Paulis 2002, p. 669.

140. Cfr. F.R. Contu 1991, p. 28. Per Orgòsoloricaviamo l’informazione da A.G. Cossu, Testiorgolesi in trascrizione fonetica. La cultura ali-mentare, tesi di laurea discussa nell’a.a. 1998-99 (relatori G. Paulis e G. Lupinu).

141. Cfr. DES, vol. II, p. 534, s.v. túppa.

142. Si vedano, rispettivamente, DES, vol. II,p. 589, s.v. tsíkki1, e DiLS, p. 976, s.v. tzicchi.

143. Cfr. DES, vol. II, p. 585, s.v. tsakkare, ep. 599, s.v. tsokkare.

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«Nulla rivela il destino del Mediterraneo meglio dellesue isole». Se è vero quanto scrive Matvejevic che cono-sce voci ed anfratti di questo antico mare, allora Sarde-gna e Sicilia, al di là delle loro specifiche individualità,conservano in sé qualcosa di tutti i luoghi del Mediter-raneo: esperienze tecniche e artistiche, forme e stili divita trasmigrati con gli uomini, le merci e le lingue, lun-go le diverse rotte di questo continente liquido che èstato plurisecolare «polo di attrazione e di acculturazio-ne», per usare le parole di Braudel. Le due più grandiisole del Mediterraneo sono dunque, a livello dellestrutture profonde, più vicine di quanto non sembri alivello delle strutture apparenti. Per quanto «la menoesposta alle comunicazioni fra tutte le grandi e piccoleisole del Mediterraneo»,1 la Sardegna del mondo popo-lare ha conosciuto, non meno della Sicilia, «vicendecomplicate di innovazione, innesto, trasformazione, sin-cretismo, giustapposizioni»2 e, come la Sicilia, ha man-tenuto, almeno fino a pochi decenni or sono, una suacompattezza culturale, una omogeneità che ha permea-to e attraversato i differenti ceti sociali.Quelle due categorie di insularità introdotte da LucianFebvre, che identificano la Sicilia come ile-carrefour,isola crocevia, e la Sardegna come ile-conservatoire,isola deposito o «archivio di diverse dominazioni e so-prattutto di un lento, lentissimo scorrere di una storiatutta interna»,3 sono, come tutte le rappresentazioni, ilprodotto di un costrutto interpretativo, di un modelloeuristico e in quanto tali sono parziali e riduttive, co-gliendo della realtà complessa e articolata alcuni inne-gabili tratti costitutivi e omettendone o minimizzandonealtri. La verità è che da un lato la Sardegna non è maistata del tutto e talmente isolata da sottrarsi ai processiosmotici con l’esterno, né dall’altro lato la Sicilia ha per-cepito e vissuto la sua insularità in modo così passivo oinerte da offrirsi agli apporti culturali dei diversi popoliche l’hanno dominata senza elaborare una sintesi, unamediazione, un’autonoma e autoctona identità. A guar-dar bene, Sardegna e Sicilia, proprio perché isole del

Mediterraneo, conservano i loro più segreti elementi in-digeni nelle complesse vicende storiche e geografiche diquesto mare, nel fondo comune di quel patrimonio dimiti e simboli da cui sono maturati probabilmente que-gli eccessi di identità che prendono il nome di “sardità”e di “sicilianità”.Entro questo ordito di fili sottili e tenaci su cui s’intessela densa trama dei sostrati e delle permanenze culturalipresenti nelle due isole è riconducibile quell’“arte plasti-ca effimera” con la quale Cirese nel 1973 ebbe a defini-re la modellazione figurativa e ornamentale dei pani. InSicilia come in Sardegna, per la rilevanza del suo valoremateriale, per la sua forte carica di immanenza naturale,per la sua stessa domesticità e familiarità, il pane è perciò stesso oggetto di plasmazione e di coagulo di formee pratiche culturali, ponendosi tra quei manufatti chehanno il potere di determinare status e gerarchie, diconferire identità e memoria, di dare ordine e significatoal mondo. Nell’esercizio millenario delle tecniche coltu-rali necessarie per la preparazione di questo bene cen-trale nel sistema di alimentazione, i Siciliani come i Sar-di hanno modellato le loro esperienze comuni e le loroidentità culturali. In fondo, la “civiltà del pane” può con-siderarsi il luogo storico e mitico delle origini di questedue regioni dell’area mediterranea.Non esistendo in natura ed essendo frutto del seme piùnobile e più prezioso dell’opera contadina, coronamen-to ed esito del lungo e interminabile ciclo di lavorazio-ne del grano, il pane evoca la vicenda feconda dellaterra e nutre e si nutre di tutte le simbologie connesseal mondo vegetale, dei complessi mitico-rituali diretti afavorire la rinascita e a incrementare la fertilità. A diffe-renza che in Sardegna, però, dove in tempi di estremacarestia, si panificava anche con l’orzo, gli storici han-no con certezza documentato il primato del ruolo delfrumento non solo nella coltivazione dei suoli ma an-che nelle abitudini alimentari dei Siciliani, che già dalTrecento consumavano il pane ottenuto da farine disolo grano.Pur nelle diverse varietà, grano e pane, dunque, sonosempre stati in Sicilia una cosa sola, nella realtà effet-tuale e nel linguaggio parlato. Per estensione metonimi-ca i campi sono identificati come terre da pane, i cereali

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Parole e forme del pane in Sicilia per un possibile confronto con i pani della SardegnaAntonino Cusumano

612. Pane degli Archi di Pasqua in forma di bassorilievo (particolare), San Biagio Platani (foto Antonino Cusumano).612

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613. Pane nuziale, 25 cm, Bauladu.

614. Pani ’e coja, 24 cm, Ussassai.

615. Pane di fidanzamento, 28 cm, Dorgali.I motivi figurativi più ricorrenti dei pani nuziali e di fidanzamento della Sardegna, unitamente ai temi zoomorfi e naturalistici, si ritrovano in Siciliasui pani che costituiscono gli altari di San Giuseppe.

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calura estiva. Il forno era costruito nello stesso localedove era la madia, all’angolo della cucina, e più in ge-nerale in un unico grande spazio comune, entro il qua-le si consumavano i cibi, secondo uno stretto rapportodi continuità e di funzionalità tra i momenti del lavora-re e quelli dell’abitare. Anche nelle case contadine sici-liane esistevano i forni a ffumu persu, privi cioè di ca-mino: il fumo si liberava dalla bocca, si diffondeva perla stanza e fuoriusciva attraverso le tegole o l’incannuc-ciata del soffitto.Come in Sardegna, in tutta la Sicilia fare il pane eracompetenza specificatamente femminile, come il filaree il tessere, un patrimonio codificato di abilità essen-zialmente strutturato sulle tecniche di manipolazione,sull’impiego scaltrito delle dita che davano forma a ciòche non aveva più forma: la fibra grezza, non più pian-ta, da cui estrarre il filo per la stoffa; la farina sciolta,non più solido chicco, da cui cavare il pane. Alla don-na toccava restituire figura e sostanza a ciò che nonaveva più corpo, rifare ciò che era stato disfatto dallamacina, ridare vita a ciò che aveva perduto la vita sottola lama della falce messoria. Finché il grano era seme,erba e spiga, l’uomo restava l’unico soggetto dell’attivitàlavorativa, l’assoluto signore dei campi da arare e damietere. La donna entrava nel circuito della produzionenel momento in cui questa si coniugava con gli spazichiusi dell’universo domestico, rifluiva nella trama e neiritmi della vita quotidiana, diventava gesto, consuetudi-ne e pratica familiare. Per ciò che vi era sotteso e per quel che rivelava persuo mezzo, il pane era incaricato di ribadire e rinsaldarele complesse dinamiche delle relazioni e dei bisogni so-ciali, di descrivere attraverso un fitto giro di prestiti e diprestazioni l’incessante moto circolare dei crediti e deidebiti, ovvero dei vincoli di reciproca dipendenza nel-l’ambito della comunità e all’interno del vicinato. Nellievito prestato e nel pane donato si materializzavanoalleanze e solidarietà, si veicolavano messaggi e obbli-gazioni, si inveravano le strategie culturali della com-mensalità. Nel suo transitare di casa in casa, di mano inmano, il cibo offerto e ricevuto era strumento tradizio-nalmente privilegiato per addomesticare lo spazio e cir-coscrivere l’orizzonte sociale e simbolico. Situato in tuttii punti liminari dell’esperienza umana, il pane liberavanon solo dalla fame ma anche dalle più diverse patolo-gie. Nell’immaginario folklorico questo prezioso benecommestibile era associato a rituali catartici, a sacrificidi espiazione, a pratiche magiche di trasferimento dellemalattie nonché a cerimoniali di iniziazione. Ricorrevanei momenti cruciali della vita quotidiana, nelle crisi diseparazione e di spaesamento, nei luoghi carichi di ten-sione e di inquietudine, nelle situazioni di trapasso dauno stato ad un altro. Nelle leggende plutoniche e neiracconti sui tesori nascosti mangiare una pagnotta senza

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sono essi stessi pane, e il fiore e la sommità delle spighesono più comunemente chiamati “pani pani”. L’umileimpasto di acqua e farina già nel suo farsi è destinato adiventare altro da sé, «grazia di Dio»4 come ricorda Pitrè,ma anche esemplare compendio semantico delle qualitàumane, ricapitolazione figurale dell’universo umanizza-to. Ancora oggi nei nostri discorsi il rapporto che isti-tuiamo con il pane conserva attributi decisamente antro-pomorfi, e la consustanzialità tra l’uomo e il pane puòfar dire che non è soltanto “l’uomo che fa il pane” ma èanche “il pane che fa l’uomo”. Se il mondo è visto attra-verso il pane e questo è assunto a parametro di giudi-zio, a misura etica, a orizzonte ideologico, una personadolce, mite e generosa può essere chiamata “un pezzodi pane” o stimata “buona come il pane”. E per antono-masia il lavoro e lo stesso vitto sono nel lessico dei Sici-liani assimilati al pane: appizzàrici lu pani, livàrici lupani equivale a privare qualcuno dei mezzi di sussisten-za. Il pane è, dunque, parola fondamentale, non menoche alimento base. La sua potente carica semantica puòperfino trasformarlo da sostantivo a forma verbale. Cosìche possiamo dire: Cu panìa un pinìa (Chi ha panenon conosce pene). E non sarà per un gioco di parolese dentro il pane, dentro la vita vera e dentro la parolaevocata, si trova la pena necessaria a procurarselo: Lipeni cu lu pani un sunnu peni. Li veri peni sunnu senza

pani. Nelle pagine di una delle più avvincenti novelle diGiovanni Verga, dal significativo titolo Pane nero, sipossono ritrovare alcune delle numerose declinazionisemantiche che il pane assume nella vita e nella culturacontadina tradizionale.Anche in Sicilia come in Sardegna, le forme di una “re-ligione del pane”, di un rispetto che sovente diventavadevozione e culto, erano sottese a gesti e parole dellamicroritualità domestica. In una società come quellacontadina fortemente segnata dalla scarsità e dalla pre-carietà delle risorse, il pane non poteva essere soltantoqualcosa da invocare o da rispettare. Andava volta pervolta conquistato e difeso perché non fosse insidiatodalle incombenti e permanenti minacce esterne. Anda-va immesso nel circuito formalizzato dello scambio edel dono, perché solo se era socializzato quanto era te-saurizzato, ostentato quanto era tabuizzato era possibileesorcizzare la morte e riprodurre la vita. Lo stesso pro-cesso tradizionale della panificazione, tutte le vicendetecniche connesse alla manipolazione e alla fattura, allalievitazione e alla cottura dell’impasto erano poste sottola protezione di sequenze rituali volte ad assicurare ilbuon esito delle operazioni. Non era attestata in Sicilia la “stanza del pane” comeambiente esclusivo di preparazione e lavorazione del-l’impasto, lontano dal luogo della cottura e riparato dalla

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616-618. Altari di San Giuseppe, Salemi (foto Antonino Cusumano).

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619-620. Preparazione del pane ex voto destinato al simulacro e alle reliquiedi Sant’Antioco (foto Franco Stefano Ruju, archivio Imago multimedia).

621. Coccoi de su Santu, pane ex voto per la festa di Sant’Antioco (foto Franco Stefano Ruju, archivio Imago multimedia).

622. Statua di Sant’Antioco decorata con i pani votivi offerti dai fedeli (foto Franco Stefano Ruju, archivio Imago multimedia).

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sciolgono voti e si dispiegano sacre rappresentazioni incui il pane è sostanza connettiva, connotativa e comme-morativa. Nel trionfo di forme e figure di pane ordinatesugli altari e sui banchetti – sui due piani cioè nei qualisi articolano dialetticamente le vicende del rito: la men-sa del dio e quella degli uomini – si rielabora, in verità,un’arcaica offerta cerimoniale, un modello di tradizionecultuale che dalla dimensione familiare si dilata a quellapubblica e comunitaria. La straordinaria ricchezza dimateriali vegetativi e di elementi arborei che ordisconol’architettura delle “cene” di San Giuseppe in Sicilia ri-chiama simbolicamente l’immagine dell’Albero della Vi-ta, «fonte inesauribile della fertilità cosmica»,7 incarna-zione delle potenze riproduttive, archetipo esso stessodella primavera. I pani, che si impongono e spiccano sudrappi ricamati e veli nuziali, tra vasi di fiori e foglie dimirto e di alloro, in mezzo ad arance e limoni, collega-no in un’efficace sintesi scenografica e plastica i diversilivelli espositivi della rappresentazione, identificano lamorfologia di origine agraria delle azioni rituali, rinvianoinfine alla riplasmazione in chiave cristiana dei temi mi-tici del sacrificio e del banchetto. La loro modellazionefigurativa è, infatti, il frutto di una formidabile opera disincretismo simbolico. Vi sono rappresentati soprattutto

soggetti riconducibili al mondo naturale, vi sono incisicon grande evidenza e ridondanza i segni germinativi epervasivi della vita, l’irrompere della primavera, la forzageneratrice della terra: dagli astri agli animali più diversi,come pavoni, uccelli e pesciolini guizzanti, dai panieriricolmi di ogni genere di primizie al profluvio di fiori,germogli e foglie.Non diversamente dai pani rituali sardi, quelli sicilianiriproducono, dunque, elementi iconografici filtrati daeterogenee culture religiose e recuperati da precedentiesperienze umane e storiche, mutuati da strutture del-l’immaginario e da universi simbolici di non meno arcai-ca memoria. A Pasqua, per esempio, i pani sono gravididi uova sode colorate e hanno nomi diversi a secondadelle località di produzione e delle fattezze, antropo-morfe o zoomorfe, che assumono. L’impiego dell’uovo,col guscio incorporato nell’impasto prima della cottura,rinvia al valore di rappresentazione cosmogonica a essoattribuito dalle comunità agrarie del mondo antico. Altripani del ciclo pasquale si richiamano per morfologia edenominazione alla tradizione semitica e cristiana e, co-me in Sardegna, raffigurano le foglie di palma intreccia-te oppure gli strumenti della crocifissione: la scala, la te-naglia, la corona di spine. In alcuni centri si preparano i

pani degli Apostoli, destinati ai dodici anziani o bambinipartecipanti alla sacra rappresentazione della lavandadei piedi che si svolge in chiesa il giovedì santo.Un discorso a parte meritano i pani che addobbano gliArchi di Pasqua di San Biagio Platani, piccolo paesedell’agrigentino, ove ogni anno si celebra una sfida tra idevoti della Madonna e quelli del Signore. Le rispettiveconfraternite si misurano nella preparazione e nell’alle-stimento di straordinarie intelaiature di ferule e canne,interamente rivestite di pani di così grande fattura da as-sumere l’aspetto di medaglioni, di formelle, di capitelli edi veri e propri bassorilievi. Gli “archi di trionfo” solen-nizzano l’incontro che si svolge la domenica tra le sta-tue del Cristo e della Madonna e costituiscono la stupe-facente macchina teatrale e scenografica di un rito cheha nella contesa territoriale e devozionale tra quartieri egruppi associati il nucleo fondante della sua dinamica. Sugli altari o sulle tavole, offerti in sacrificio agli dèi ospartiti sulla mensa dei mortali, memorie dei defuntio epifanie augurali, oggetti votivi o trofei celebrativi, ma-nufatti polimorfi e polisemici, i pani che accompagnanoin Sicilia il tempo delle feste posseggono una monu-mentalità e una sontuosità che forse non è riscontrabilenei pani sardi, certamente più sobri e meno barocchi.

farne cadere una briciola a terra poteva essere una pro-va da superare per scoprire la truvatura e scioglierel’incantesimo. All’opposto, un pane sminuzzato agli an-goli di una casa di nuova costruzione valeva ad allonta-nare gli spiriti che l’abitavano, rassicurando il novelloinquilino. Su un grande buccellato la levatrice cullava ilneonato, «benedicendolo e deponendolo sul letto dellapuerpera».5 Come dispositivo di domesticazione dellamorte, contro gli oscuri rischi immanenti al viaggio miti-co nell’aldilà, un pane, sovente assieme ad una moneta,si deponeva entro la cassa del defunto. Altri se ne con-fezionavano per placare la sua fame: in attesa del suoritorno, per le prime tre notti successive al decesso, silasciava l’uscio di casa socchiuso e puntellato con unasedia, sulla quale era collocato «un bel pane fresco dellaforma di una cuddura».6

Poche tracce restano, nella tradizione popolare siciliana,di pani speciali connessi ai riti del fidanzamento e dellenozze, come è invece largamente attestato in Sardegnacon esiti formali di estrema raffinatezza. Ma la spiga o ilcuore, ovvero i motivi figurativi più ricorrenti dei paninuziali sardi, unitamente ai temi zoomorfi e naturalistici,li ritroviamo in Sicilia sugli altari di San Giuseppe, quan-do in onore del santo, patrono di non pochi paesi, si

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623. Pizzinna chin s’obu, 27 cm, Nuoro.

624. Pupa cu l’ova, Gibellina (foto Antonino Cusumano).A Pasqua i pani sono gravidi di uova sode colorate eprendono nomi diversi a seconda delle località diproduzione e delle fattezze, antropomorfe o zoomorfe,che assumono. L’impiego dell’uovo, col guscioincorporato nell’impasto prima della cottura, rinvia alvalore di rappresentazione cosmogonica a esso attribuitodalle comunità agrarie del mondo antico.

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625. Pramma, 28 cm, Fordongianus.

626. Iscala, 27 cm, Fordongianus.Alcuni pani del ciclo pasquale richiamano per morfologia edenominazione la tradizione semitica e cristiana e, come in Sardegna,raffigurano le foglie di palma intrecciate (pramma) oppure glistrumenti della crocifissione: la scala, i chiodi, la corona di spine.

627. Tavola del Giovedì Santo, Cuglieri, basilica di Santa Maria della Neve (foto Alessandro Piras).In alcuni centri si preparano i pani degli Apostoli, destinati ai dodicianziani o bambini partecipanti alla sacra rappresentazione dellalavanda dei piedi, ripetuta in chiesa il Giovedì Santo, momento dipurificazione precedente l’ultima cena con l’istituzione dell’Eucarestia.

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628-629. Architettura di canne e pani, San Biagio Platani (foto Antonino Cusumano).

630-632. Pani degli Archi di Pasqua, San Biagio Platani (foto Antonino Cusumano).

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creata e plasmata dall’uomo per investire di senso la vi-ta e il mondo. Se oggi più che mai “non si vive di solo pane”, oggicome ieri tuttavia il pane continua ad essere sulle no-stre labbra, alimento e segno, farina e parola, forse unpo’ più segno e un po’ meno alimento, più parola emeno farina. Ma ancora e pur sempre pane, cibo impa-stato di sacralità e umanità, mediazione indispensabilenei passaggi esistenziali più critici, garanzia di vita edelemento d’identità, materia e simbolo di una civiltà incui ancora oggi, nonostante tutto, ci riconosciamo, inSicilia come in Sardegna, laddove possiamo continuarea dire con il Poeta che “il pane si chiama pane”.9

Note

1. G. Angioni 2005, p. 79.

2. G. Angioni 2005, p. 81.

3. M. Brigaglia 1990, p. 9.

4. G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano,vol. IV, Palermo, Pedone Lauriel, 1889, p. 339.

5. G. Pitrè, Usi e costumi cit., vol. II, p. 165.

6. G. Pitrè, Usi e costumi cit., vol. II, p. 230.

7. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Boringhieri, 1976,p. 290.

8. E. Delitala 1992, p. 131.

9. A. Buttita 1954.

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Mentre questi sono prevalentemente piatti e spianati,sottili e traforati, lavorati ad intaglio, con figurazioni so-vente stilizzate, lucidati, a volte colorati con lo zaffera-no ma più spesso bianchissimi (per effetto delle semoleaccuratamente selezionate) e decorati con timbri e pun-zoni, quelli siciliani si presentano quasi sempre a tuttotondo, notevolmente modellati in fatture realistiche,istoriati e cesellati nelle superfici, dorati da una cotturaa fuoco intenso, arricchiti da sesamo o da altri semi.Nella loro esuberanza e ridondanza i pani del calenda-rio rituale in Sicilia non sono soltanto destinati ad esseredonati e scambiati tra vicini e parenti ovvero offerti pergrazia ricevuta, come quelli che riproducono le partidel corpo malate e miracolosamente sanate. Né sonosoltanto benedetti in chiesa per essere conservati a ca-sa. Ma possono essere scagliati contro il cielo per allon-tanare tempeste e calamità e perfino lanciati contro ilfercolo del santo, come accade ad Agrigento per la fe-sta di San Calogero. Non sono solo segni e pegni dicomplesse e laboriose questue. Né sono soltanto amu-leti o talismani, con funzioni apotropaiche o propiziato-rie, come gli splendidi cammei di pasta (cavadduzzi)che si preparano a Salemi in onore di San Biagio, nelricordo di un miracolo compiuto dal santo che liberò ilpaese dall’invasione delle cavallette.Portati in solenne processione, innalzati entro cortei esacre rappresentazioni, introdotti all’interno di pratichecultuali e di gare devozionali, i pani in Sicilia entrano

nel sistema rituale come elementi costitutivi e costrutti-vi di architetture effimere, come emblemi da notificaree ostentare pubblicamente, come vistose e spettacolariallegorie di un surplus alimentare che vale ad esorciz-zare secolari paure di penurie e carestie. La ricchezza el’imponenza di certi pani concorrono a strutturare sullo“scandalo dell’eccedenza” un apparato cerimoniale es-senzialmente finalizzato a esorcizzare “l’angoscia del-l’insufficienza”. La forza figurale di questi pani sta pro-babilmente nella loro polisemia, nel rapporto che essiistituiscono tra la verosimiglianza alla realtà evocata el’efficacia simbolica sottesa alla materia fattuale. Sta nelloro partecipare a quel tanto di teatralità che identificale feste popolari in Sicilia, e in particolare quei comples-si rituali di matrice agraria fondati sulle offerte primizialie sull’orgia alimentare, ovvero sui fenomeni strutturalidell’ostentazione e dello spreco. In questi contesti i panisono associati agli ori e agli argenti che ornano i simula-cri e le statue processionali dei santi patroni. Se è veroche l’esibizione dell’abbondanza, la socializzazione e ladissipazione dei beni alimentari sono modalità arcaichee persistenti di prassi cerimoniali connotate in sensopropiziatorio, le feste primaverili ove grano e pane cam-peggiano, magnificati ed enfatizzati nel loro statuto sim-bolico, lasciano intravedere l’ambiguo e sottile legameche unisce ciò che è vistosamente esibito a quanto è ta-citamente scongiurato, ciò che è materialmente consu-mato a quanto è socialmente capitalizzato. Ecco perchéognuno di questi pani, pur essendo un unicum dalpunto di vista morfologico e genetico, finisce con l’esse-re, nello scenario del rito, semplice variante di una serieiperbolica di forme, elemento indistinguibile di un con-tinuum figurativo che replica all’infinito lo stesso tema,lo stesso irriducibile mito volto a rinnovare e a rifondareun nuovo ordine cosmogonico. Da qui le molteplici consonanze tra i pani delle festesiciliane e quelli della Sardegna, dal momento che gliuni e gli altri pervengono nella loro varietà e nella loromorfologia ad esiti artisticamente rilevanti e sono ricon-ducibili nella loro genesi e nella loro funzione simbolicaad un originario e comune orizzonte culturale. «Seguen-do il percorso che va dai grani ai pani modellati si pos-sono comprendere molti aspetti del mondo tradizionalesardo, della sua cultura materiale e spirituale».8 QuantoDelitala scrive per la Sardegna, vale in tutta evidenzaanche per la Sicilia. Nelle due isole del Mediterraneo ilprimato del pane risale alle prime conquiste dell’uomosulla natura, alle prime forme di riscatto economico e diorganizzazione sociale, alle prime rappresentazioni ma-gico-religiose. Nel manufatto che dà corpo e forma allafarina sembra riepilogarsi, come in un palinsesto o inun ideogramma, la storia che da Omero ad oggi ci faidentificare come appartenenti alla medesima comunità.In quanto umano impasto dei quattro elementi di fon-dazione mitica: terra, aria, acqua e fuoco, il pane è unasorta di imago mundi, compendio di forze generatrici edi potenze sovrumane, seme fecondo di civiltà, sostanza

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633. Altare di pane allestito a Pasqua, San Biagio Platani (foto Antonino Cusumano).

634. Architettura di canne e pani, San Biagio Platani (foto Antonino Cusumano).

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IntroduzioneIn Sardegna esiste una tradizione consolidata nella prepa-razione di cibi fermentati, fra questi si distinguono il pa-ne a pasta acida, il vino, la salsiccia, i formaggi, il gioddu.La preparazione di questi alimenti comporta un proces-so fermentativo ad opera di microrganismi appartenentisoprattutto ai lieviti e ai batteri lattici o ad entrambi. Leproprietà fondamentali di questi alimenti, rispetto allematerie prime, sono la maggiore conservabilità e il mi-glioramento delle caratteristiche sensoriali. Nella panifica-zione tradizionale, l’elemento che caratterizza tutto ilprocesso, è una porzione di pasta acida (lievito naturale)tramandata da una lavorazione all’altra. Questo tipo di trasformazione rappresenta uno dei pro-cessi biotecnologici più antichi. La pasta acida è una miscela di farina e acqua, che fer-menta spontaneamente grazie all’intervento dei micror-ganismi presenti nelle materie prime e nell’ambiente.Dopo una serie di rinfreschi, che consistono nell’aggiun-ta di farina e acqua, l’impasto acidifica e acquisisce ca-pacità lievitante. Al termine di ogni propagazione (rin-fresco) una parte dell’impasto (madre) viene utilizzataper la panificazione, mentre la restante parte si conser-va per la lavorazione successiva. Come per altri alimentifermentati, il pane a pasta acida, prodotto grazie all’atti-vità di una popolazione microbica mista, presenta carat-teristiche nutrizionali e sensoriali che dipendono dall’at-tività sinergica di lieviti e batteri.I primi lavori scientifici, che hanno individuato il ruolodei microrganismi nelle paste acide, risalgono agli inizidel ventesimo secolo. Fino ad allora l’uso della pastaacida era legato all’esperienza e all’abilità delle donnein grado di ottenere, da un semplice impasto di acquae farina, una madre acida da utilizzare nella panifica-zione tradizionale. Oggi, diverse esigenze (recupero della tradizione, mi-gliore qualità sensoriale ecc.) hanno portato ad accre-scere l’interesse per il sistema di lievitazione con il lie-vito naturale a pasta acida per la produzione di pane ealtri prodotti da forno. Ciò ha condotto numerose strut-

ture di ricerca ad approfondire gli studi sui microrgani-smi e la loro interazione all’interno di questo ecosiste-ma, mettendo in risalto gli effetti positivi della loro atti-vità metabolica sulle caratteristiche sensoriali, strutturalie nutrizionali dei prodotti ottenuti con questo processo.

La microflora delle paste acideLa pasta acida o lievito naturale, sourdough in inglese,fermentarzu o frammentarzu in sardo, altro non è cheun pezzo di pasta acida di forma sferica che viene con-servato da una panificazione all’altra. Un buon fermen-tarzu è, quindi, fondamentale per ottenere una buonalievitazione e di conseguenza un buon pane. Nono-stante, in passato, la massaia non conoscesse il segretodella lievitazione, le attenzioni e le cure poste nel trat-tamento del fermentarzu erano inconsciamente rivolteagli agenti responsabili della lievitazione.La composizione microbica delle paste acide è influenza-ta sia dalla composizione delle materie prime (presenzadi zuccheri, fonti di azoto, amilasi e proteasi), che dallecondizioni ambientali e dalla tecnologia di lavorazione,comprendente i parametri di processo (temperatura, ossi-geno, durata della fermentazione). Importante è anche ladough yield che è data dal rapporto tra il peso totale del-l’impasto diviso il peso della farina, espresso in per cento.Le modificazioni chimico-fisiche della pasta acida, comel’abbassamento del pH, l’areazione, la presenza di so-stanze antimicrobiche e la competizione tra i microrgani-smi per i nutrienti, selezionano una microflora caratteri-stica e specifica di ciascuna pasta acida. I microrganismipresenti nella paste acide appartengono ai lieviti e aibatteri lattici. I lieviti sono funghi la cui forma predomi-nante è unicellulare. La riproduzione vegetativa avvieneper gemmazione, attraverso la formazione di una protu-beranza (gemma), in corrispondenza della parete cellu-lare, che si ingrossa fino a raggiungere le dimensionidella cellula madre. A questo punto, la formazione diun setto di separazione consente alla nuova cellula distaccarsi e di diventare autonoma. Le cellule vegetativepossono essere sferiche, ovali, apiculate. Per vivere ne-cessitano di azoto organico o inorganico, di una fonte dicarbonio e di diverse vitamine. I lieviti sono organismitipicamente mesofili, il cui optimum di temperature è tra

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Il pane a lievitazione naturale: un alimento da riscoprireGiovanni Antonio Farris, Manuela Sanna, Maria Cristina Dore, Mariella Dettori*

635. Lavorazione della pasta per il pane, Barisardo, anni Cinquanta (foto Marianne Sin-Pfältzer).635

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636. Immagine ingrandita al microscopio di Saccharomycescerevisiae, lievito.

637. Immagine ingrandita al microscopio di Candida krusei, lievito.

638. Immagine ingrandita al microscopio di Lactobacillus brevis.

639. Immagine ingrandita al microscopio di Lactobacillusplantarum.

20 e 35°C. Il pH ottimale è tra 4,4 e 6,5 ma alcuni sonoin grado sviluppare a pH più acidi.Vivono generalmente in ambienti ricchi di ossigeno, masono capaci di fermentare gli zuccheri in condizioni dianaerobiosi. I prodotti della fermentazione sono costi-tuiti da alcol etilico e anidride carbonica, accompagnatida un gran numero di composti minori.Nelle paste acide sono state ritrovate diverse specie dilieviti. La principale è il Saccharomyces cerevisiae, che èil lievito più vigoroso (ossia che produce più CO2) e piùalcol-tollerante. Altri lieviti spesso presenti sono: S. exi-guus (stato imperfetto Torulopsis holmii o Candida hol-mii, fisiologicamente simile a Candida milleri), Candi-da krusei, Pichia norvegensis, Hansenula anomala, ecc.I batteri lattici sono microrganismi procarioti, eterotrofi,immobili, asporigeni e microaerofili (cioè ossigeno tol-leranti a piccole quantità), inoltre, sono in grado di me-tabolizzare i carboidrati e produrre grandi quantità diacido lattico.Si riconoscono generalmente lattobacilli omofermentan-ti obbligati che convertono gli esosi in acido lattico enon sono in grado di fermentare i pentosi. Tutte le spe-cie sono sufficientemente acido-tolleranti. Tra queste ri-cordiamo: Lb. delbrueckii, Lb. lactis, Lb. acidophilus, Lb.helveticus, Lb. salivarius, Lb. amilovorus.I lattobacilli eterofermentanti facoltativi, invece, fermen-tano gli esosi ad acido lattico ma alcune specie in de-terminate condizioni utilizzano gli esosi per produrreacido lattico, acido acetico, etanolo, CO2. In alcuni casipossono fermentare i pentosi. Tra questi si annoveranoLb. plantarum, Lb. pentosus, Lb. casei.I lattobacilli eterofermentanti obbligati fermentano gliesosi per produrre acido lattico, acido acetico, etanolo,CO2; utilizzano anche i pentosi per produrre acido lat-tico e acido acetico. Appartengono a questo gruppo leseguenti specie: Lb. fermentum, Lb. reuteri, Lb. brevis,Lb. sanfranciscensis.Nelle paste acide i batteri isolati più di frequente appar-tengono alle specie Lb. sanfranciscensis, Lb. plantarum,Lb. brevis; sono stati trovati anche i generi Leuconostoce Enterococcus.

Interazioni tra lieviti e batteri lattici nelle paste acideLe paste acide sono degli ecosistemi in cui è fondamen-tale l’interazione tra i lieviti e i batteri lattici, il cui rap-porto numerico è generalmente di 1:100.Il numero e il tipo di microrganismi dipendono dallacapacità che essi hanno di coabitare e di determinare,in sinergia, l’equilibrio dell’impasto.La relazione che lega lieviti e batteri è da ricondurre an-che all’utilizzazione non competitiva della fonte di car-bonio. Nella farina la concentrazione di zuccheri sempli-ci (maltosio, saccarosio, glucosio e fruttosio) varia dal 1,5al 1,8% e dipende dall’idrolisi dell’amido, dovuta sia aglienzimi endogeni della farina sia all’attività microbica.È stata dimostrata la proteolisi da parte di alcuni enzi-mi presenti nella farina ma soprattutto da parte di di-

versi ceppi di batteri lattici presenti nelle paste acide.Grazie all’attività proteolitica, durante la fermentazione, siliberano diversi aminoacidi, i quali giocano un ruolo es-senziale come precursori di sostanze importanti per l’aro-ma e interferiscono nelle proprietà fisiche dell’impasto.Alcuni lieviti, come il Saccharomyces cerevisiae, rilascia-no nelle paste acide soprattutto acido g-aminobutirrico,prolina, valina e isoleucina, mentre i batteri lattici rila-sciano in particolare, glicina e alanina. Alcuni studi hanno messo in evidenza la specifica capa-cità di diversi batteri lattici di idrolizzare la gliadina nel-le condizioni tipiche della fermentazione con la pastaacida: pH 4,5-5,5, temperatura 30-35°C.La capacità di idrolizzare le gliadine e il glutine oltre adessere importante per la reologia dell’impasto ha, comevedremo in seguito, anche implicazioni nutrizionali.Anche se la concentrazione cellulare del lievito e il tipodi lievito sono i principali parametri che determinano laproduzione di gas (CO2 ), tuttavia la presenza dei batte-ri lattici influenza positivamente l’attività fermentativadei lieviti e, di conseguenza, la produzione di anidridecarbonica. Per esempio l’associazione S. cerevisiae-Lb.sanfranciscensis diminuisce di un terzo il tempo neces-sario per avere la massima produzione di CO2, rispettoall’impiego del solo lievito. L’associazione S. cerevisiae-Lb. plantarum oltre a produrre una maggiore quantitàdi CO2, conferisce alla pasta una più elevata capacità ditrattenere questo gas.I batteri lattici eterofermentanti presenti nelle paste aci-de, oltre a produrre acido lattico, sono in grado di pro-durre anche acido acetico. In relazione alle proprietàdel glutine, il rapporto ottimale tra questi due acidi,nelle paste acide deve essere 3:1. L’acido lattico rendeil glutine più elastico, mentre l’acido acetico ne accor-cia e irrigidisce le maglie. Le differenti specie presentinella pasta acida e le relazioni che intervengono a rego-lare il loro sviluppo e le loro funzioni, possono influirein modo determinante sulla qualità del prodotto, giusti-ficando, almeno in parte, l’originalità delle caratteristichesensoriali che spesso accompagna i prodotti ottenuti dapaste acide di diversa origine, ottenute con modalità dif-ferenti di preparazione.Infatti, sebbene la maggior parte dei composti aromaticisi formi durante la cottura, la fermentazione con pastaacida è essenziale per raggiungere un intenso e partico-lare flavour. I differenti biochimismi (etero ed omolatti-co, per quanto riguarda i batteri lattici e alcolico, perquanto riguarda i lieviti) che avvengono nelle paste aci-de sono definiti da composti specifici: 2-metil-1-propa-nolo e 2,3metil-1-butano sono prodotti soprattutto dallafermentazione dei lieviti; diacetile e altri composti car-bonilici sono prodotti in particolare dai batteri latticiomofermentanti, mentre etilacetato e alcuni alcoli ecomposti carbonilici dai batteri lattici eterofermentanti.Naturalmente la quantità e il tipo di composti ottenutisono in relazione ai differenti ceppi che hanno operatoall’interno della pasta acida.

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I batteri lattici svolgono anche un’altra importante fun-zione: il pane a pasta acida, infatti, rispetto al pane ot-tenuto con il lievito di birra, ha una migliore e più lun-ga conservabilità. Questo può essere dovuto sia allaproduzione di acidi organici (in particolare acido latticoe acido acetico), ma anche alla produzione di batterio-cine (peptidi a basso peso molecolare o proteine) conmodalità d’azione battericida.Anche l’attività antifungina delle paste acide è associataalla presenza soprattutto dei lattobacilli eterofermentan-ti. In particolare, la specie Lb. sanfranciscensis mostraun largo spettro di attività antifungina dovuta alla misce-la di acidi organici prodotti; tra questi l’acido caproicosembra avere un ruolo chiave nell’inibire le muffe, deigeneri Fusarium, Penicillium, Aspergillus e Monilia.Diverse sono le batteriocine o sostanze simili isolate daibatteri lattici delle paste acide.Alcuni ricercatori hanno isolato da ceppi di Lb. sanfran-ciscensis una sostanza inibitoria simile alle batteriocine.Questa è stabile al calore (100°C per 20 min.), insensibi-le alle lipasi e alle amilasi, di natura proteica, con un’at-tività inibitoria anche verso altri batteri lattici e con mo-dalità d’azione battericida.Molte altre sono le sostanze con azione antimicrobicaprodotte dai batteri lattici: la bavaricina A prodotta da Lb.sakei, la plantaricina prodotta da Lb. plantarum. La reu-terina (2-idrossi-propanale) è un prodotto del metaboli-smo del glicerolo di Lb. reuteri, ed ha un largo spettrodi inibizione comprendente anche i batteri Gram negati-vi. Recentemente, inoltre, è stata isolata la reutericiclinaprodotta sempre da Lb. reuteri, considerata un nuovoantibiotico. Questo composto è attivo contro un alto nu-mero di batteri Gram positivi, inclusi microrganismi pa-togeni quali Staphylococcus aureus, Enterococcus faeca-lis, Listeria monocytogenes e Bacillus aureus. I batteriGram negativi non sono invece inibiti. Da sottolineare,inoltre, che le condizioni ottimali di pH e temperaturaper la produzione della reutericlicina corrispondono allenormali condizioni delle paste acide.La produzione di sostanze antimicrobiche (inattive neiconfronti dei lieviti) da parte dei batteri lattici potrebbecontribuire anche alla stabilità dei prodotti da forno ot-tenuti con l’impiego delle paste acide. Come per altrialimenti naturali fermentati, in cui è presente l’associa-zione lieviti-batteri lattici, le paste acide sono, dal puntodi vista microbiologico, autoprotettive e autoregolanti.Pertanto questi ecosistemi alimentari, se correttamentegestiti e utilizzati, garantiscono l’ottimizzazione del pro-cesso e la valorizzazione del prodotto.

Le materie primeCibo genuino, alla base dell’alimentazione mediterraneae frutto di un processo tecnologico antico, il pane ha allabase delle sue caratteristiche nutrizionali, sensoriali, strut-turali e microbiologiche materie prime semplici quali fa-rina, acqua e sale. Le quali hanno un ruolo preminentedal punto di vista microbiologico, in particolar modo

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640-641. Pane russu, rispettivamente 27 e 32 cm, Olmedo.

642. Trizza, 26 cm, Olmedo.

643. Pane russu, 21 cm, Olmedo.

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quando vanno a costituire la base per la preparazionedella madre acida. Senza dimenticare, però, riguardoquesto aspetto, altri fattori non di secondaria importan-za, legati strettamente all’ambiente di lavorazione nellasua totalità.

SfarinatiNella panificazione il cereale di gran lunga più utilizza-to è il grano.In particolar modo, in Sardegna, si utilizzano sfarinati digrano duro che derivano dalla molitura del frumento ograno, uno dei cereali più importanti appartenente algenere Triticum. Nell’ambito di questo genere si distin-guono il Triticum vulgare o grano tenero e il Triticumdurum o grano duro. Le differenze bromatologiche tra idue sono minime, se non per il contenuto proteico piùelevato nel grano duro. Notevoli sono invece le diffe-renze nei prodotti della macinazione. Dal grano duro siottengono, infatti, semole e semolati dai granuli grossi,con spigoli netti e colore ambrato che vengono impie-gati generalmente nella produzione di paste alimentarie, come già detto, nella panificazione artigianale. La farina è costituita principalmente da amido (70-75%ca.), acqua (14% ca.) e proteine (10-12% ca.). Inoltre, siritrovano polisaccaridi, che non provengono dall’amido(2-3% ca.), e lipidi (2% ca.).Uno sguardo più attento alla componente proteicaconsente di individuare una frazione solubile in acqua,costituita da albumine e glubuline, e una frazione nonsolubile, costituita da gliadine e glutenine. Queste ulti-me, fortemente idratate nella fase di impastamento,danno origine al glutine, responsabile delle proprietàelastiche e di coesione dell’impasto. Le qualità panifica-torie della farina sono, infatti, fortemente determinatedalle proteine del glutine, sia da un punto di vista qua-litativo che quantitativo.Un ruolo importante nella panificazione lo svolgono glienzimi, sostanze in grado di accelerare le reazioni chimi-che. In particolare, si vuole evidenziare il ruolo svoltodalle amilasi, a-amilasi e b-amilasi, naturalmente presentinelle farine. Questi enzimi attaccano l’amido scindendo lasua molecola complessa in molecole più semplici, qualimaltosio, glucosio e destrine, responsabili della colorazio-ne del prodotto nella fase di cottura e, inoltre, di facileutilizzazione dai lieviti nel corso della fermentazione.Altra famiglia di enzimi, presenti nelle farine, sono leproteasi che degradano le proteine in composti più sem-plici. La loro presenza nell’impasto modifica le proprietàvisco-elastiche del glutine migliorando le caratteristichesensoriali del prodotto. Infatti, gli aminoacidi e i peptidi,liberati durante l’attività proteasica, costituiscono i pre-cursori dell’aroma; essi, infatti, possono essere metabo-lizzati dai lieviti, partecipando alla reazione di Maillard,che dà luogo alla formazione di composti aromatici eall’imbrunimento della crosta durante la cottura.Infine, le fitasi sono enzimi presenti nella parte perife-rica della cariosside e nel germe; sono in grado di mi-

gliorare le caratteristiche nutrizionali del pane, renden-do disponibili i minerali.

AcquaL’acqua riveste un ruolo fondamentale nella panificazio-ne, con importanti funzioni quali: consente la formazio-ne dell’impasto, costituendo la maglia glutinica; rigonfiai granuli d’amido; permette la dissoluzione del sale nel-l’impasto; attiva le reazioni enzimatiche; costituisce ilmezzo indispensabile per l’attività della flora microbicapresente nella pasta acida. La quantità utilizzata varia inrelazione alle caratteristiche delle farine e alla consisten-za che si vuole ottenere. Mediamente, le farine, si idra-tano per il 60%, valori superiori (68-70%) si riscontranonelle farine di forza o con elevato grado di abburatta-mento (quantità di farina in kg che si ricava dalla maci-nazione di 100 kg di grano).La qualità dell’acqua, in particolare la durezza (contenu-to in sali di magnesio e di calcio), influenza sia la lavo-rabilità degli impasti sia le caratteristiche sensoriali delprodotto finito. L’impiego di acque dolci porta alla for-mazione di impasti molli e collosi, mentre l’impiego diacque troppo dure comporta la formazione di impastirigidi. Un altro parametro che influenza la tecnologia dipanificazione è il pH; la formazione di un buon impastorichiede un pH fra 5 e 6. Un’acqua alcalina (con un pHsuperiore a 7) ha effetti negativi sull’attività dei lieviti edegli enzimi e peggiora la qualità del glutine.In alcuni casi l’acqua può essere responsabile dell’inibi-zione della fermentazione in quanto veicola ioni tossiciper il lievito. È il caso del rame, del cloro e dell’ammo-nio quaternario.

SaleIl sale (NaCl, cloruro di sodio) nell’impasto svolge diver-se funzioni. Generalmente è impiegato dall’1% al 2%,anche se si registrano frequenti variazioni in base al tipodi farina e al sistema di lavorazione.Il sale migliora le caratteristiche sensoriali del prodottoe determina un aumento della quantità e della qualitàdel glutine. Si è visto che la gliadina è meno solubilein acqua salata, ciò comporta modificazioni strutturaliche influenzano il prodotto finito.Il sale, inoltre, svolge una blanda azione antisettica.Quantità elevate inibiscono le azioni dei lieviti e sonoin grado di conferire una colorazione più intensa allacrosta. La presenza di sale influisce sulla capacità del-l’impasto di assorbire e di trattenere l’acqua e influen-za così la conservabilità del prodotto.

Tecnologia della panificazioneLa produzione del pane avviene in tre fasi successive dilavorazione: impasto, lievitazione e cottura.

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644. Corona, 33 cm, Olmedo.

645. Pane russu, 30 cm, Olmedo.

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le sostanze aromatiche dovute in parte alla reazione diMaillard.

Caratteristiche nutrizionali del pane a pasta acidaIl pane è un componente essenziale della dieta giorna-liera. Dal punto di vista nutrizionale è un’importantesorgente di carboidrati, proteine, fibre e vitamine.Attualmente c’è un crescente interesse dei consumatoriper gli aspetti salutistici degli alimenti; d’altra parte leproprietà sensoriali rimangono un prerequisito fonda-mentale perché un alimento sia gradito ai consumatori. È ormai riconosciuto il ruolo della fermentazione collievito naturale nel migliorare le caratteristiche sensoria-li e strutturali del pane. Sono invece meno studiate lesue caratteristiche nutrizionali, anche se sono attual-mente oggetto di un crescente interesse. Alcuni studipresenti in letteratura sembrano infatti dimostrare che ilpane a pasta acida ha delle particolari caratteristichenutrizionali.Un aspetto nutrizionale molto importante riguarda l’in-dice glicemico. Il concetto di indice glicemico è statosviluppato oltre 20 anni fa. Per indice glicemico di unalimento si intende il rapporto percentuale tra l’area in-crementale della risposta glicemica post-prandiale diquell’alimento e quella di un alimento standard consu-mato in quantità isoglucidica (vengono normalmenteutilizzati come alimenti standard il pane bianco o il glu-cosio). Alimenti con un basso indice glicemico sonoimportanti nell’alimentazione dei soggetti diabetici maanche degli individui sani; infatti una dieta ricca di cibiche causano un rapido rialzo della glicemia, cioè conun elevato indice glicemico, è considerata un fattore dirischio per lo sviluppo di malattie metaboliche. Un nostro recente studio ha riguardato la risposta gluci-dica del pane prodotto con una madre acida inoculatacon ceppi selezionati e isolati da paste acide della Sar-degna, con tempi di lievitazione simili a quelli tradizio-nali. Dai risultati dello studio condotto su soggetti saniè emerso che il pane a pasta acida a lunga lievitazionepresenta una risposta glicemica inferiore e una secre-zione di insulina significativamente più bassa rispetto alpane prodotto col lievito di birra. Questo pane a lungalievitazione presenta quindi delle addizionali caratteri-stiche nutrizionali, che lo inquadrano come potenzialealimento funzionale.Un altro aspetto di interesse nutrizionale riguarda la ca-pacità dei batteri lattici presenti nelle paste acide di in-fluenzare i livelli di acido fitico del pane e quindi labiodisponibilità di importanti minerali quali fosforo,magnesio e calcio. L’acido fitico (estere esafosforicodell’inositolo) forma dei complessi insolubili con alcuniioni metallici (Ca2+, Mg2+, Fe2+, Zn2+) impedendone illoro assorbimento; costituisce pertanto un fattore anti-nutrizionale. Grazie all’attività dei batteri lattici, duranteuna lunga lievitazione, l’acido fitico viene degradatocon il conseguente aumento dei livelli di fosforo inor-ganico. Inoltre la produzione di acido lattico porta ad

una maggiore solubilità del calcio e del magnesio.Un nuovo impulso alla ricerca sulle proprietà nutriziona-li delle paste acide è quello evidenziato da alcuni ricer-catori, che hanno rivolto l’attenzione alla proteolisi dellagliadina e in particolare alla capacità da parte dei batteridelle paste acide di interferire sulla generazione di pep-tidi biologicamente attivi coinvolti nella malattia celiaca.Si tratta di una delle malattie genetiche più diffuse, coin-volge in Italia una persona su 100. L’esatto meccanismoeziologico non è ancora chiaro ma si è visto che tutti imaggiori sottogruppi della gliadina generano, dopo di-gestione proteolitica, dei peptidi tossici che, in soggettipredisposti, innescano la risposta immunitaria e pertantoil processo patologico. È stato dimostrato, in test in vi-tro, che il frammento 31-43 dell’a-gliadina, implicato nel-la malattia celiaca, sottoposto a digestione con pepsinae tripsina, innesca una risposta immunitaria; trattato, in-vece, con enzimi estratti dai batteri lattici (in particolareLactobacillus alimentarius e Lactobacillus brevis) nondà la stessa risposta.Ovviamente questi risultati rappresentano un punto dipartenza che deve essere ulteriormente confermato eapprofondito. I probiotici sono microrganismi vivi assunti con gli ali-menti che influenzano positivamente l’animale ospite at-traverso il miglioramento del suo equilibrio microbicointestinale. Anche diversi batteri delle paste acide hannoalcune caratteristiche probiotiche; per esempio alcuniceppi di Lb. reuteri e Lb. amylovorus hanno mostrato lacapacità di aderire alle cellule della mucosa intestinale. Tuttavia, il pane non può essere considerato un ali-mento probiotico in quanto con la cottura tutti i mi-crorganismi vengono uccisi. Questo però non escludeche nel mezzo vengano rilasciati composti definiti pre-biotici che influenzano in modo positivo l’ospite attra-verso la stimolazione selettiva della crescita e/o dell’at-tività di uno o più batteri nel colon.A tale proposito è stato infatti dimostrato recentemen-te che Lb. sanfranciscensis produce nella pasta acidaun esopolisaccaride (EPS), che viene metabolizzato daibifidobatteri (batteri caratteristici del tratto intestinale).In considerazione del fatto che l’EPS resiste al processodi cottura del pane, la sua presenza arricchisce il panea pasta acida di nuove caratteristiche nutrizionali. Alla luce di queste considerazioni appare chiara l’impor-tanza di riscoprire e promuovere l’utilizzo del lievito na-turale, non solo per gli aspetti prettamente tradizionali eculturali, ma anche, e soprattutto, per le caratteristichesensoriali e nutrizionali che esso conferisce al pane.

* DISAABA, Dipartimento di Scienze Ambientali Agrarie e Biotecno-logie Agroalimentari, sez. Microbiologia generale ed Applicata, Uni-versità di Sassari.

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Il processo di panificazione prevede l’utilizzo di metodidiretti o indiretti. Nel metodo diretto si effettua un uni-co impasto e tutti gli ingredienti vengono mescolati traloro in una sola operazione.I metodi indiretti invece prevedono la preparazione diun preimpasto o la presenza nell’impasto della pastaresidua di una lavorazione precedente.Nella preparazione dei pani tipici della Sardegna, dovesi prevede l’utilizzo della pasta acida, viene utilizzato ilmetodo indiretto.

ImpastoL’impastamento consiste nel miscelare l’acqua alla farinae agli altri ingredienti previsti. La quantità di acqua assor-bita dalla farina dipende da diversi fattori, quali: la gra-nulometria, il contenuto proteico, la qualità e l’umiditàdella farina, il grado igrometrico dell’ambiente e il gradodi consistenza che si desidera conferire all’impasto.Nell’impasto le gliadine e le glutenine, con l’acqua el’energia sviluppata durante l’impastamento, si unisco-no formando una massa plastica ed elastica: il glutine.Le unità di gliadina si legano mediante legami deboli diidrogeno formando fibrille ad elevatissimo peso mole-colare che conferiscono al glutine l’estensibilità; legamiidrogeno si instaurano tra gli aminoacidi caricati negati-vamente (acido glutammico e aspartico) e le molecoled’acqua; si creano, inoltre, legami ionici tra i sali mine-rali e l’acido glutammico e lisina. Le glutenine si asso-ciano, originando fibre che allo stato idratato formanouna struttura stabile, molto coesiva, tenace e resistenteall’estensione.Nell’impasto avvengono anche processi ossido-riduttivi,dovuti all’assorbimento di aria. Questi, favoriti dall’ac-qua e da un optimum di pH e temperatura, permettonola formazione di legami disolfurici con l’ossidazione deigruppi tiolici presenti nelle molecole delle proteine for-manti il glutine e di quelle idrosolubili: la formazionedi questi legami conferisce alla maglia glutinica unamaggiore resistenza.Il reticolo tridimensionale del glutine presenta i filamentiproteici inizialmente disposti in maniera disordinata,successivamente divengono più ordinati e si dispongo-no attorno ai granuli di amido. Nelle maglie dell’impastorestano intrappolate bolle d’aria dentro le quali diffondela CO2 prodotta dalla fermentazione. Le maglie del reti-colo ricoperto da un film di acqua costituiscono unamembrana che trattiene la CO2 e che dilatandosi fa au-mentare l’impasto. Inoltre, la ritenzione di CO2 è favori-ta dalla formazione di complessi lipoproteici tra glutinee lipidi.

FermentazioneLa fermentazione panaria è un processo che comportala trasformazione del glucosio (zucchero semplice),che si forma per idrolisi dell’amido (zucchero comples-so formato da numerose molecole di glucosio), in ani-dride carbonica, alcol etilico e altri composti secondari

come la glicerina e l’aldeide acetica. Si possono forma-re anche alcoli superiori a partire dalla deaminazioneossidativa degli aminoacidi.La fermentazione alcolica, con la produzione di CO2, de-termina la lievitazione dell’impasto e la sua durata è inrelazione anche alla pezzatura del pane. Con l’utilizzodella pasta acida, nella fermentazione intervengono an-che altri microrganismi che producono diversi composti;l’attività metabolica dei batteri lattici, in particolare, portaalla produzione di acidi acetico, lattico e propionico. Tutti i prodotti ottenuti durante la fermentazione, uni-tamente all’abbassamento del pH, contribuiscono allaformazione dell’aroma e del gusto del pane.Diversi sono i fattori che influenzano la fermentazione;i principali sono: la temperatura, la pressione osmoticae il pH. I lieviti hanno una temperatura ottimale di cre-scita tra i 25°C e i 35°C. A temperature più basse il lorometabolismo viene rallentato e/o inibito; a temperaturesuperiori ai 55°C normalmente i lieviti muoiono.Un aumento della pressione osmotica comporta un ral-lentamento dell’attività del lievito. Per quanto riguardail pH, i valori ottimali sono compresi tra 4 e 6.

CotturaCon la cottura il pane assume forma stabile e comme-stibile. La temperatura e la durata della cottura sono in rappor-to alla consistenza dell’impasto, alla dimensione, allaforma e al tipo di pane.Durante la cottura avvengono una serie di cambiamen-ti, soprattutto strutturali e fisici indotti da modificazionitermiche. La temperatura dell’impasto aumenta gradual-mente dal momento dell’infornamento sino a cotturaultimata. L’innalzamento della temperatura determina un’accelera-zione dell’attività degli enzimi e dei microrganismi. Con-temporaneamente il volume della pasta aumenta per ef-fetto dell’espansione termica dei gas. A 50-55°C circa, i lieviti muoiono, mentre i gas conti-nuano ad espandersi provocando un ulteriore aumentodel volume. A circa 60°C le proteine iniziano a denaturarsi. I granu-li d’amido sottraggono acqua al glutine estendendo almassimo la maglia glutinica.Tra i 65° e gli 80°C inizia la coagulazione del glutine;l’attività enzimatica diminuisce fino ad arrestarsi; l’alcole le altre sostanze aromatiche evaporano, infine si ha lacaramellizzazione di alcuni zuccheri.Oltre i 100°C il glutine coagula completamente e l’ami-do subisce una parziale gelatinizzazione; si ha l’evapo-razione dell’acqua e inizia la formazione della crosta.A questo punto l’aumento di volume si arresta a causadella rigidità della struttura. In superficie l’amido vienedestrinizzato.Tra i 120°C e i 150°C si completa la destrinizzazionedell’amido, la crosta solidifica per completa disidrata-zione e gli zuccheri caramellizzano; si formano, inoltre,

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IntroduzioneLa coltivazione del grano duro è legata essenzialmentealla sua adattabilità alle condizioni climatiche e pedo-logiche dell’Isola. Infatti, questa coltura garantisce del-le buone produzioni, sia dal punto di vista qualitativoche quantitativo, per valori di piovosità compresi fra400 e 600 mm nel periodo ottobre-giugno. Ha buonatolleranza alle basse temperature nella fase compresatra la germinazione e la levata; sopravvive anche a va-lori prossimi a 0°C soprattutto durante l’accestimento,che in Sardegna avviene in genere nel mese di gen-naio. Durante l’emissione delle spighe, la formazioneed il riempimento delle cariossidi, che hanno luogo nelperiodo compreso fra aprile e la prima metà di maggio,presenta un optimum termico di 22-28°C e può soppor-tare temperature anche superiori a 30°C verso il termi-ne della maturazione, cioè nel mese di giugno. Si trattaquindi di valori di temperatura e di piovosità facilmenteriscontrabili negli areali di coltivazione soprattutto meri-dionali dell’Isola.Per quanto riguarda gli aspetti pedologici, il grano durosi adatta facilmente a diversi tipi di suolo, prediligendoin particolare i terreni argillosi con buona dotazione disostanza organica e pH neutro o alcalino. Tuttavia, an-che terreni con più modesti livelli di fertilità consento-no produzioni soddisfacenti anche nel caso di pioggepoco consistenti ma ben distribuite. Suoli dei tipi sum-menzionati sono diffusi su tutta l’Isola, con particolareriferimento alle zone meridionali come la Trexenta e laMarmilla, che rappresentano le aree maggiormente vo-cate alla coltivazione del grano duro.

Il panorama varietale: aspetti storiciLe condizioni pedoclimatiche qui descritte hanno per-messo nei secoli la diffusione di tipi di grano adattati atali aree. È noto infatti che le diverse specie di cereali,coltivati per lunghissimi periodi negli ambienti più di-sparati, hanno differenziato tipi morfologici e geneticidiversi in grado di sfruttare al massimo le potenzialità of-ferte nel loro areale di coltivazione. Questi tipi, chiamati

popolazioni, erano caratterizzati in genere da potenzialiproduttivi abbastanza limitati e da notevole variabilità ditipo genetico che permetteva un buon adattamento, so-prattutto in termini di sopravvivenza, a condizioni am-bientali differenti.In Sardegna si sono differenziate nei secoli popolazionia taglia alta, tendenzialmente tardive e resistenti allosgranamento, per consentire la raccolta manuale checomportava la formazione di covoni ed il trasporto diessi verso l’aia per la trebbiatura. Generalmente questepopolazioni, che presentavano spighe di grandi dimen-sioni variamente pigmentate, sono state estesamentecoltivate in Sardegna fino ai primi anni del ’900 e sonoormai perdute o al più conservate in apposite collezio-ni di germoplasma. Il ricordo di alcune di esse è tuttora vivo nella memoriadei contadini più anziani sotto i nomi di trigu arrubiu,trigu alvu, trigu murru, dent’e cani, per citare le più fa-mose. La loro scomparsa dalla coltivazione è da impu-tarsi ad una imponente e misconosciuta “rivoluzioneverde” legata all’opera straordinaria di un grande agro-nomo italiano: Nazareno Strampelli. Egli operò nei pri-mi decenni del secolo scorso e fu il primo ricercatore almondo a mettere in atto strategie di selezione su proge-nie ottenute mediante tecniche di incrocio artificiale cheportarono alla costituzione delle varietà. Con questotermine si intende un insieme di individui con lo stessopatrimonio genetico, quindi, all’interno della varietà,non è presente variabilità genetica. Per quanto riguarda il grano duro, i risultati più signifi-cativi furono da lui raggiunti con le varietà Dauno e,soprattutto, Senatore Cappelli. Quest’ultima, tuttora col-tivata, è presente nell’albero genealogico di gran partedelle varietà di grano duro diffuse a livello mondiale.La Sardegna contribuì notevolmente all’opera di Stram-pelli: l’azienda “San Michele”, sita in territorio di Ussana-Donori, oggi gestita dal Centro Regionale Agrario Speri-mentale (CRAS), era in quegli anni una delle StazioniFitotecniche dell’Istituto di Genetica Vegetale, dove eglistesso si recava periodicamente per la selezione e per lamoltiplicazione delle sementi delle varietà da lui messea punto. Di conseguenza, già negli anni Trenta, furonomesse a disposizione degli agricoltori sardi, e quindi

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L’evoluzione della coltura del grano duro in Sardegna: aspetti varietali e qualitativiMarco Dettori, Mario Lendini *

646. Ventilatura del grano, Logudoro, 1955 (foto Mario De Biasi).646

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delle nuove e più produttive varietà ed il razionale usodelle tecniche di concimazione e diserbo, consentironoil raggiungimento di un livello di autosufficienza delleproduzioni nazionali di grano duro, per cui vi fu, daparte dell’industria pastaria, un maggior interesse pergli aspetti qualitativi della produzione. Infatti, la grandeindustria, concentrò l’attenzione su alcune caratteristi-che per le quali la produzione nazionale di grano duroera carente, come ad esempio l’intensa pigmentazionegialla delle semole, oppure la richiesta di un maggiorcontenuto proteico della granella e di una maggiore te-nacità del glutine.Tra le varietà coltivate oggi in Sardegna, spicca Simeto,caratterizzata da semole con glutine tenace idoneo alconfezionamento di paste secche, ma poco adatto per lapanificazione tradizionale. A questa si aggiunge Colos-seo, molto produttiva ma tardiva, per cui risponde me-glio nelle annate con abbondanti piogge primaverili, eCiccio, che garantisce un buon equilibrio fra produttività,qualità e adattabilità a terreni di modesta fertilità. Si cita-no ancora Rusticano, precoce e di buona qualità ma nonmolto produttiva; Iride e Claudio, iscritte recentemente,che presentano entrambe grandi potenzialità produttivee che si stanno rapidamente diffondendo negli areali ce-realicoli sardi. Come si vede, il panorama varietale è am-pio ed in continuo rinnovamento, a dimostrazione dellagrande importanza che la coltura del grano duro conti-nua ad avere in Italia.Nel 2002 il CRAS ha iscritto al registro Nazionale Karalis,una varietà selezionata appositamente per le condizionipedoclimatiche della Sardegna. Essa presenta una buo-na costanza produttiva, soprattutto in annate poco pio-vose, un elevato contenuto proteico ed un glutine tena-ce ma estensibile che la rendono particolarmente adattaalla produzione di pasta e di pani tradizionali. Per il fu-turo si auspica la sua diffusione in modo che possarientrare tra quelle di maggiore interesse per la moliturae la trasformazione industriale.Tuttavia, il Centro prosegue la propria attività di miglio-ramento genetico con il fine di iscrivere nei prossimianni nuove varietà da affiancare a Karalis.Gli incrementi di produzione della coltura del frumentoduro che si sono verificati negli anni sono dovuti ancheall’affinamento della tecnica colturale. Con l’avvento del-la meccanizzazione è stato possibile effettuare delle la-vorazioni più profonde che hanno consentito alle radicidi esplorare più ampi volumi di terreno. La sistemazionesuperficiale dei campi, l’accurata preparazione del lettodi semina e l’utilizzo delle seminatrici meccaniche han-no determinato una miglior emergenza e sopravvivenzadelle piante. La disponibilità di concimi fosforici ed azo-tati a basso costo e la conoscenza della dose e del mo-mento più opportuno per la loro somministrazione hapermesso di incrementare non solo la quantità ma anchela qualità della granella prodotta. La lotta alle malerbe,condotta per via chimica con l’utilizzazione di principiattivi sempre più selettivi ed oggi anche a basso impatto

ambientale, ha determinato l’eliminazione dalla coltiva-zione di specie, come l’avena selvatica, papaveri, variecrucifere ecc., particolarmente competitive nei confrontidel frumento e responsabili di forti decurtazioni delleproduzioni.In definitiva, l’affinamento delle tecniche agronomichee gli sforzi dell’attività di miglioramento genetico hannodeterminato un grande aumento delle rese medie, pas-sate da 7,9 quintali/ettaro nel 1960 a 26,9 quintali/ettaronel 2000 su scala nazionale.

Aspetti qualitativiIl concetto di qualità, nel caso del grano duro, è forte-mente variegato e presenta numerosi elementi di sog-gettività che rendono l’argomento difficile da trattarecon esaustività. Il potenziale produttivo delle diverse varietà è legato allaresa in relazione alle condizioni climatiche e pedologi-che dell’areale di coltivazione, nonché alle tecniche col-turali messe in atto dagli operatori agricoli. Accanto peròagli aspetti quantitativi della produzione, è necessario te-nere in considerazione anche gli aspetti qualitativi.In questi termini occorre effettuare una distinzione traqualità merceologica e qualità tecnologica della granel-la. Nel primo caso si fa riferimento alle caratteristichedei semi, denominati cariossidi, con particolare riferi-mento alla forma e alle dimensioni. Nel secondo casosi fa invece riferimento alla idoneità alla trasformazioneartigianale e/o industriale dei prodotti di macinazionecon particolare attenzione alle semole.

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coltivate sull’intero territorio regionale, quasi esclusiva-mente le varietà selezionate da Strampelli. Questa situazione rimase invariata per oltre un trenten-nio, quando vennero diffuse, nella seconda metà deglianni Sessanta, varietà più produttive tra le quali è dove-roso ricordare Capeiti, Appulo e Trinakria, quest’ultimaapprezzata soprattutto per l’alto contenuto in proteinedella granella. In particolare, due varietà dell’Istituto diAgronomia della Facoltà di Agraria dell’Università di Sas-sari furono estesamente coltivate in Sardegna in questoperiodo: Ichnusa e, soprattutto, Maristella. Entrambe con-tenevano nel loro albero genealogico la cultivar Cappelli;erano caratterizzate da taglia elevata, buona precocità,elevata produttività e, in particolare, ottima adattabilità al-le condizioni di coltivazione dell’Isola, generalmente di-verse da quelle riscontrabili negli altri ambienti dell’Italiameridionale a causa dell’insularità e della natura dei suo-li. Un notevole impulso alla loro coltivazione fu inoltredato dall’attività di moltiplicazione in purezza delle se-menti da parte del CRAS che permise di mettere a dispo-sizione degli agricoltori sardi notevoli quantità di semen-te selezionata.In definitiva, queste varietà, insieme al ben noto Cap-pelli, furono le più importanti per la Sardegna tra la se-conda metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta.Questo periodo fu tra l’altro fondamentale per la cerea-licoltura mondiale grazie all’opera dei genetisti agraridel CIMMYT, una stazione sperimentale internazionaleper il miglioramento genetico del grano e del mais ope-rante in Messico. La superiorità dei grani del CIMMYT

era dovuta alla taglia bassa che permetteva da un latouna maggiore resistenza all’allettamento, ma soprattuttoal fatto che le sostanze prodotte dall’attività fotosinteticadella pianta venivano immagazzinate nella spiga anzi-ché nel culmo per incrementare lo sviluppo in altezza. Il lavoro del CIMMYT ebbe notevolissime ripercussionisull’attività di miglioramento da parte dei ricercatori delCRAS. Incrociando infatti Ichnusa e Maristella con una li-nea di origine messicana, essi ottennero due nuove va-rietà, Nora e Karel, che ebbero un grande successo inSardegna e in tutta l’Italia centromeridionale. Nora, va-rietà precocissima e di grande adattabilità soprattutto suterreni poveri, fu coltivata estesamente in Sardegna e inSicilia, mentre Karel, caratterizzata da una potenzialitàproduttiva superiore a quella di tutti gli altri grani colti-vati in quegli anni in Italia, si impose come una delle va-rietà di riferimento per tutta la cerealicoltura nazionale.Il grande successo dei grani selezionati dal CRAS nondeve comunque far dimenticare che durante gli anni Ot-tanta altre varietà riscossero notevole credito presso gliagricoltori sardi: tra queste Creso, che fornì delle interes-santi produzioni sui terreni più freschi e fertili assieme aValnova, Valforte e Latino. Negli anni seguenti Duilio edAppio, qualitativamente superiori, sostituirono la culti-var Karel. Infatti, in quegli anni, la diffusione in coltura

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647. Nazareno Strampelli nell’azienda “San Michele”, sita in territorio di Ussana-Donori, anni Venti-Trenta.

648. Grano in levata.

649. Grano in spigatura.

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Prima di entrare nel dettaglio delle caratteristiche mer-ceologiche e tecnologiche, è bene prendere rapidamentein considerazione la composizione di una cariosside intermini percentuali: Acqua (12-14%); Proteine (8-16%);Amido (60-70%); Zuccheri (3-4%); Cellulosa (2,0-2,5%);Grassi (1,5-2,0%); Ceneri (1,5-2,2%).Tra i componenti menzionati, l’amido e le proteine assu-mono particolare importanza. Il primo condiziona il gra-do di riempimento della cariosside, influenzando quindila resa alla macinazione, mentre il secondo condizionasoprattutto l’idoneità dei prodotti della molitura alla pro-duzione di pani e/o paste alimentari.

Le caratteristiche merceologicheI principali parametri relativi alle caratteristiche merceo-logiche della granella sono il peso ettolitrico, misuratoin kg/hl, ed il peso assoluto o peso di 1000 semi, misu-rato in grammi e la bianconatura espressa in percentua-le. Con quest’ultimo termine si intende la presenza disemi, o parti di seme, con la caratteristica colorazionebianca che influenzano negativamente la resa in semola.

A. Peso ettolitricoIl peso ettolitrico rappresenta il peso della granella perunità di volume ed è un indice importante per quantoriguarda le dimensioni e, quindi, lo stato di nutrizionedel seme. I valori di questo parametro oscillano in rela-zione al tipo di varietà, alla fertilità del suolo, alla di-sponibilità e alla distribuzione delle precipitazioni, allatecnica colturale con particolare riferimento alla conci-mazione azotata. In generale si considerano i seguentivalori di riferimento:

Parametro alto medio bassoPeso ettolitrico (kg/hl) > 82 78-82 < 78

Cariossidi con peso ettolitrico elevato sono caratterizza-te da un maggiore grado di riempimento con sostanzedi riserva, rappresentate nel caso specifico da amido. Inquesto caso si avrà quindi una maggiore resa in semolaalla macinazione. In genere è ritenuto un buon valoredi resa una percentuale del 60-70%, cioè l’ottenimentodi 60-70 kg di semola a partire dalla macinazione di100 kg di granella.

B. Peso assolutoIl peso assoluto, o peso di 1000 semi, è invece da por-si in riferimento alle dimensioni e alla forma del seme.La tabella seguente indica i valori di riferimento:

Parametro alto medio bassoPeso 1000 semi (g) > 45 35-45 < 35

Anche in questo caso valori elevati di questo parametrosono indicativi di cariossidi caratterizzate da un ottimostato di riempimento e tendenti ad una forma sferica. Ènoto che la sfera è il solido fornito di maggior volume

a parità di superficie. Pertanto, a parità di peso ettolitri-co, i semi con peso assoluto alto e forma approssimati-vamente sferica daranno migliori rese alla macinazione.È questo il motivo per cui i molitori prediligono carios-sidi “rotondeggianti”, anche a parità di peso ettolitrico.

Le caratteristiche tecnologicheLe componenti più importanti nel condizionare l’attitudi-ne delle semole di grano duro alla lavorazione sono rap-presentate dalle proteine. Il contenuto proteico delle ca-riossidi varia approssimativamente tra l’8% e il 16% ed èlegato alla varietà, all’andamento meteorologico con par-ticolare riferimento alla entità di precipitazioni, alla ferti-lità del terreno e alla tecnica colturale per quanto con-cerne la densità di semina e la concimazione azotata.Le proteine sono concentrate essenzialmente negli stratiesterni della cariosside e nell’endosperma. Nel primocaso formano uno strato di rivestimento detto stratoaleuronico. Nel secondo caso hanno invece funzioni diriserva. Si distinguono in quattro categorie fondamentali:Albumine; Globuline; Gliadine; Glutenine.

Le albumine e le globuline sono solubili in acqua e ven-gono facilmente dilavate, pertanto non hanno nessunaimportanza nel condizionare le proprietà tecnologichedelle semole. Le gliadine e le glutenine, che rappresen-tano essenzialmente le proteine di riserva dell’endosper-ma, hanno invece una grande importanza e richiedonoquindi una descrizione più dettagliata.Le gliadine sono molecole piccole, di basso peso mole-colare e monomeriche, cioè non composte da subunità.Le glutenine sono invece molecole grandi, formate dasubunità diverse legate fra loro. Le gliadine e le glutenine, in unione con acqua, forma-no un composto viscoelastico, chiamato glutine, che hauna enorme importanza nel condizionare l’attitudinedelle semole di grano duro alla trasformazione.Dal punto di vista tecnologico, le proteine sono quindiimportanti sia da un punto di vista quantitativo che qua-litativo. Il parametro di riferimento per il primo aspettoè rappresentato dal contenuto proteico percentuale, men-tre per il secondo aspetto si fa riferimento all’indice diglutine.650

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650. Spighe di grano, varietà “Senatore Cappelli”.

651. Semola di grano, varietà “Senatore Cappelli”.

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specificità e l’alta qualità, possono rappresentare un pila-stro per l’intero comparto agroalimentare della Sardegna.Dal punto di vista più specificamente tecnico, un’altrastrategia da applicare è quella della riduzione dei costidi produzione della coltura conseguibile attraverso tec-niche di gestione conservativa del suolo, come il ricorsoalle minime lavorazioni, o la semina su sodo. Ciò richie-de un’attenta e scrupolosa sperimentazione e soprattuttonon può prescindere dall’incremento della dimensionemedia dell’azienda cerealicola sarda.

* Centro Regionale Agrario Sperimentale.

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A. Contenuto proteico percentualeNella tabella vengono indicati i valori di riferimentoper quanto concerne la quantità di proteine presentinelle cariossidi indipendentemente dalla qualità di que-ste ultime:

Parametro superiore buono medio bassoProteine (%) > 14,5 13,0-14,4 11,5-13,0 < 11,5

Valori di contenuto proteico inferiori a 11,5% denotanoun prodotto considerato non idoneo alla trasformazione(norma UNI 10709). Bisogna comunque precisare che èpossibile ottenere un prodotto di buona o di ottimaqualità anche in presenza di valori inquadrabili nella ca-tegoria “buono” o addirittura “medio”. Questo perché ilcontenuto proteico percentuale è una condizione neces-saria ma non sufficiente per la valutazione delle semolealla trasformazione.L’altro elemento importante, se non predominante, èrappresentato dalla qualità delle proteine di riserva del-l’endosperma che viene valutata attraverso un appositoparametro denominato indice di glutine.

B. Indice di glutineL’impasto di gliadine e glutenine con acqua forma, co-me detto, il glutine, cioè la sostanza viscoelastica indi-spensabile per la trasformazione pastaria e/o panificato-ria. Si tratta di un composto deformabile caratterizzatoda estensibilità e forza variabili a seconda della qualitàdelle proteine di riserva che lo compongono. In partico-lare, le gliadine influenzano essenzialmente l’estensibi-lità dell’impasto, mentre le glutenine sarebbero da met-tere in relazione con la tenacità di questo. In tabella vengono considerati i valori di riferimento re-lativi alla qualità degli impasti:

Parametro alto medio bassoIndice di glutine > 60 40-60 < 40

Impasti con indice di glutine basso sono caratterizzatiin genere da forte adesività, difficile lavorabilità e, ingenerale, scarsa attitudine alla produzione di pasta opane di grano duro.Impasti presentanti un indice di glutine di media tena-cità hanno invece una buona attitudine alla produzionedi pagnotte, rappresentate in Sardegna da pani del tipococcoi e moddizzosu, che necessitano di forte rigonfia-mento sia durante la fermentazione che in cottura.Impasti dotati di un valore elevato di indice di glutine(superiore a 60) presentano invece una elevata tenacitàe una buona attitudine alla produzione di paste alimen-tari secche e pani tradizionali a sfoglia rigida del tipo ca-rasau e pistoccu.

C. Altri parametri tecnologiciIn questa categoria rientrano l’indice di giallo delle se-mole e gli indici alveografici W e P/L. L’indice di gial-

lo delle semole è un parametro legato alla presenza dicarotenoidi nella cariosside. Si tratta di un carattere le-gato essenzialmente al corredo genetico varietale. Bi-sogna precisare che questo parametro ha una valenzaessenzialmente psicologica, in quanto non condizionadirettamente l’idoneità delle semole ai processi di fer-mentazione e di cottura. Infatti, non mancano esempidi pani tradizionali caratterizzati da molliche estrema-mente chiare. Nella tabella vengono comunque mostrati i valori di ri-ferimento per questo parametro:

Parametro alto medio bassoIndice di giallo > 28 22-28 < 22

Ulteriori informazioni sulla qualità tecnologica delle se-mole sono desumibili attraverso l’impiego di una appa-recchiatura denominata alveografo.Il parametro W ottenuto tramite questo strumento indi-ca l’energia necessaria per la lavorazione e deformazio-ne dell’impasto formato da semole e acqua. Questo pa-rametro è direttamente collegato con la tenacità dellesemole ed individua una attitudine alla trasformazioneper valori superiori a 160*10-4 J.L’altro parametro che viene preso in considerazione è ilP/L, che indica il rapporto esistente tra la tenacità (P) el’estensibilità (L) delle semole e consente di definire ladestinazione d’uso di queste. In corrispondenza di valorisuperiori a 1,5 si individuano impasti caratterizzati da pre-valenza della tenacità sulla estensibilità e adatti alla pro-duzione di pasta. In presenza di valori attorno all’unità, sihanno invece impasti caratterizzati da equilibrio tra te-nacità ed estensibilità e utilizzabili per la panificazione,perché una buona estensibilità facilita la fermentazionee il rigonfiamento, mentre la tenacità consente la “tenu-ta” dell’impasto prima e durante la cottura.

Le prospettivePer quanto riguarda la situazione attuale della coltivazio-ne del grano duro, le prospettive non sono rosee peruna serie di fattori. Innanzitutto, la frequenza di annatesiccitose, in una condizione climatica caratterizzata datemperature crescenti e precipitazioni scarse, spessoconcentrate in pochi eventi di eccessiva intensità. A que-sto bisogna aggiungere il crollo del prezzo della granellaa causa della concorrenza di paesi come USA, Canada eArgentina che hanno costi di produzione più bassi; ladifficoltà a collocare il grano sul mercato italiano per imaggiori costi di trasporto; infine, le stesse scelte in ma-teria di politica comunitaria orientate verso una riduzio-ne progressiva degli aiuti alle coltivazioni.In questo contesto, la panificazione tradizionale rappre-senta un settore di grande interesse per quanto concer-ne l’impiego delle produzioni isolane di grano duro at-traverso la valorizzazione di pani come il carasau, laspianata, il pistoccu, il pane zichi, il civraxu, il moddiz-zosu, il coccoi ecc. Infatti, questi prodotti, per la loro

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652. Aia, Campidano, 1955-58 (foto Mario De Biasi).

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Prodotti tradizionali agroalimentari e sviluppo localeNegli anni recenti la consapevolezza del ruolo delle ri-sorse locali sia nel senso materiale che cognitivo deltermine è cresciuta considerevolmente fra gli studiosiche si occupano dei processi di sviluppo locale ma an-che fra i policy makers. Non è difficile trovare tracce diquesta consapevolezza (almeno sul piano dei proclami)in vari programmi di sviluppo locale come il Leader,nelle misure dei programmi operativi regionali o neipiani di sviluppo delle Comunità Montane. La valoriz-zazione delle produzioni tipiche, anche grazie alle si-nergie sviluppabili con il settore turistico, è divenutauna parola d’ordine molto diffusa. Ciò si deve in parteai deludenti risultati delle politiche di industrializzazio-ne nel Mezzogiorno e all’esigenza di trovare soluzionidiverse dalla grande industria di provenienza esterna,ma anche alla convinzione che le produzioni localipossano giocare un ruolo centrale in un modello disviluppo alternativo. C’è del vero in tutto ciò, le poten-zialità di sviluppo delle produzioni tipiche sono oggiindubbiamente superiori che in passato per diversi mo-tivi. In primo luogo negli anni recenti l’attenzione deiconsumatori non locali per questo tipo di prodotti èaumentata considerevolmente. I prodotti tipici soddi-sfano bisogni di diversificazione e personalizzazionedei consumi, soprattutto alimentari, nonché di genui-nità e qualità. Con la standardizzazione dei modelli divita e dei prodotti di massa, unita ai timori dei consu-matori per le sofisticazioni introdotte in alcuni di essi,sono emerse esigenze di riconoscibilità dei prodotti edi informazione sulla loro origine. Inoltre la crescita delreddito e la maggiore disponibilità a pagare per consu-mi alimentari raffinati e per soddisfare bisogni differen-ziati hanno attenuato l’incidenza di quello che ha rap-presentato finora il principale problema di competitivitàdei prodotti tipici: il prezzo elevato, dovuto alle tecno-logie produttive prevalentemente artigianali e alle pic-cole dimensioni delle imprese. Il fattore di competitivitàpiù importante diventa quindi non tanto la riduzionedei costi, bensì la capacità di soddisfare bisogni diffe-renziati e qualitativamente sofisticati.

Hanno avuto importanza anche la maggiore mobilitàdella popolazione e lo sviluppo del turismo, stimolandol’interesse per culture diverse e per i prodotti ad esse le-gati. L’interesse del consumatore-turista si rivolge soprat-tutto all’identità e tipicità dei beni. Vanno considerateinoltre la rivalutazione delle tradizioni locali, collegataalla rinascita del localismo in molti aspetti della vita cul-turale, che ha favorito la riappropriazione della tradizio-ne di appartenenza ma anche di tradizioni diverse dallapropria, e lo sviluppo di una coscienza ecologica cheaccresce la preferenza per il prodotto artigianale più na-turale e genuino. Il principale effetto di questi mutamenti è l’apertura dinuovi spazi di mercato per i prodotti tipici, che sono ri-tornati sul mercato dopo essere scomparsi nei primi de-cenni del dopoguerra, soppiantati dalla produzione dimassa a basso costo. Si tratta di cambiamenti molto im-portanti. Da un lato sono cresciute le possibilità di su-perare i confini del mercato locale, troppo piccolo persostenere un significativo processo di espansione diqueste produzioni. Dall’altro le caratteristiche della do-manda dei mercati esterni (e non solo di quelli ma an-che del segmento turistico della domanda locale) sonocambiate in senso favorevole, privilegiando la tipicità ela qualità dei prodotti rispetto al prezzo.Ciò non deve indurre, tuttavia, a ritenere che la soluzio-ne dei problemi dello sviluppo regionale stia tutta qui enemmeno prevalentemente qui. Esistono casi di prodot-ti tipici che hanno avuto un ruolo molto rilevante nellosviluppo di un’area (pensiamo per esempio al parmigia-no reggiano o ai vini di Bordeaux) ma si tratta di espe-rienze abbastanza particolari. Ciononostante le produ-zioni radicate nella cultura locale possono rappresentareun tassello non marginale dello sviluppo socio-econo-mico regionale a condizione che si affronti il problemacon una conoscenza adeguata degli aspetti rilevanti esenza aspettative miracolistiche.Gli aspetti più importanti che caratterizzano questi setto-ri sono due: l’ampliamento dei mercati e l’innovazionetecnologica (nonché l’interazione fra di essi).Il mercato locale è troppo limitato per sostenere la cre-scita di queste produzioni, è necessario quindi superarnei confini e aprire sbocchi su mercati più ampi, nazionali

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Il pane fra tradizione e mercatoSergio Lodde

653. Vetrina di una panetteria, Nuoro.653

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rappresenta una fetta talmente importante del mercatoche non può essere trascurata, anche quando si trattadi prodotti di nicchia.In alcuni casi le difficoltà derivano da problemi di indivi-sibilità della domanda. Molto spesso beni tipici di qualitàsono domandati in quantità tali che una piccola impresanon è in grado di garantire un’offerta adeguata.2

Si tratta di due problemi diversi che hanno qualcosa incomune dal punto di vista delle possibili soluzioni. Inentrambi i casi le difficoltà nascono dal fatto che unamicroimpresa è troppo debole. In altre realtà locali que-sto problema è stato risolto grazie alla cooperazione cheha permesso di costituire blocchi di imprese in grado difronteggiare in modo compatto mercati così impegnati-vi. Per esempio un marchio collettivo consente di ridur-re i costi pubblicitari per ciascuna impresa, accresce laflessibilità dell’offerta perché più imprese insieme sonoin grado di rispondere meglio alle mutevoli esigenze del

mercato di una sola piccola impresa. Consente inoltre diavere maggiore potere di mercato nei confronti degli in-termediari commerciali. È un fatto banale che l’unionefa la forza.In altre realtà la collaborazione fra imprese è stato unfattore che ha permesso a sistemi di piccole imprese diessere competitivi sui mercati globali. È il caso dei di-stretti industriali del Nord Italia. Nella realtà sarda e meri-dionale in genere la cooperazione è notoriamente diffici-le. Non solo per via dei ben noti problemi di mancanzadi fiducia e di individualismo diffuso, bensì per preciseragioni economiche. Se esistono significative differenzequalitative fra i prodotti di imprese diverse che operanoall’interno di uno stesso marchio collettivo si creano lecondizioni per comportamenti opportunistici. Quando ilmercato è locale il consumatore conosce il produttoredi qualità ed è in grado di distinguerlo dagli altri. Quan-do il mercato si amplia il consumatore tende a identifi-care il prodotto con il territorio d’origine e a valutarne laqualità sulla base delle informazioni che quest’ultimoconvoglia. Il prodotto gode cioè di una reputazione col-lettiva che coinvolge tutte le imprese operanti in quel

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e internazionali, dove la specificità dei prodotti e la lorodifferenziazione rispetto a quelli locali possono essere unfattore di competitività. Si tratta di un cambiamento nonsemplice. Occorre tenere presente che quando si parla diampliamento dei mercati non si intende riferirsi a produ-zioni di massa.1 Nella normalità dei casi i mercati di que-sti prodotti rimangono fondamentalmente di nicchia.Per quanto riguarda l’innovazione i settori che stiamoconsiderando si basano su tecnologie tradizionali speci-fiche dell’ambiente locale. Questo è in alcuni casi unpunto di forza, soprattutto quando il prodotto è di qua-lità elevata, ma non sempre è compatibile con l’amplia-mento dei mercati. Produrre per mercati più vasti signi-fica spesso dover aumentare la scala di produzione egarantire una continuità delle forniture che le tecnologietradizionali non sempre consentono. L’innovazione nonè inoltre sempre conciliabile con la tradizione nel sensoche può causare alterazioni delle caratteristiche del pro-dotto che ne riducono la competitività. Il problema del-l’innovazione in questi settori è quindi molto delicato epresuppone una conoscenza approfondita delle proble-matiche di mercato.

Cominciamo quindi dal mercato. Il primo punto da te-nere presente è che la struttura produttiva è molto pol-verizzata in un numero elevato di microimprese, spessocostituite da un solo addetto o comunque di caratterefamiliare. In questo contesto la mancanza di coopera-zione fra le imprese è un limite importante. Non tantoperché la cooperazione accresce l’efficienza complessi-va del sistema locale, come accade nei distretti delNord Italia, quanto perché il mercato locale non ha di-mensioni sufficienti a sostenere una crescita soddisfa-cente di questi settori, per di più quando una microim-presa cerca di superarne i confini incontra difficoltàinsormontabili. Anche se dispone di un prodotto diqualità deve farlo conoscere ai consumatori e i costi dimarketing possono essere molto sostenuti. Inoltre haspesso a che fare con intermediari, come la grande di-stribuzione, che godono di un forte potere di mercato.Si crea così una tenaglia: a costi elevati non corrispon-de una capacità di spuntare sul mercato prezzi suffi-cienti a coprirli perché l’intermediario si appropria dibuona parte del margine fra prezzo al consumo e costodi produzione. D’altra parte la grande distribuzione

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654. Panificio tradizionale, Samugheo.

655. Cottura del pane in un forno industriale, Selargius (foto Vladimira Desogus).

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656. Forno “a tunnel” per la cottura del pane carasau, Ollolai (foto Vladimira Desogus).

657. Sfoglie di pane carasau impilate prima della seconda cottura,Ollolai (foto Vladimira Desogus).

658. Stoccaggio del pane carasau, Ollolai (foto Vladimira Desogus).

alla cultura di appartenenza ed esprimono quindi tipo-logie di domanda diverse da quella locale e vicine aquelle dei mercati dai quali provengono.3 Queste carat-teristiche fanno della domanda turistica una importantefonte di informazioni sui gusti dei consumatori che hacontribuito a stimolare l’innovazione di prodotto in al-cuni settori.4 Inoltre i turisti rappresentano un impor-tante veicolo di marketing perché contribuiscono adiffondere la conoscenza dei prodotti locali nei luoghidi residenza.L’altro aspetto importante riguarda l’innovazione tecno-logica. In generale la competitività dipende dalla tecno-logia. Ma essa può non essere il fattore più importantenel caso dei prodotti tipici. Cruciale è invece la capacitàdi produrre beni differenziati cioè saper soddisfare spe-cifiche esigenze dei consumatori, sapersi adattare conflessibilità ai mutamenti di tali esigenze. Competitività si-gnifica saper fare qualcosa che gli altri non sanno fare, ilche equivale a dire che bisogna disporre di conoscenzeesclusive che i concorrenti potenziali non possiedono.L’identità locale contribuisce significativamente a questotipo di competitività per diversi motivi. In primo luogol’identità locale è una fonte di differenziazione dei sape-ri e dei prodotti che ne derivano. Questo è il naturale ri-sultato delle diversità e specificità culturali locali. Il gra-do di differenziazione delle specialità gastronomiche,persino all’interno dello stesso paese, è molto maggioredi quello riscontrabile in industrie tecnologicamente piùavanzate come quella dei computer.In secondo luogo l’identità locale influisce sui processi diformazione e diffusione delle conoscenze. L’identità cul-turale implica la condivisione di valori, modi di pensaree di comportarsi, di esperienze accumulate in un lungoprocesso di sedimentazione storica che rendono più faci-le la circolazione delle conoscenze all’interno della co-munità locale e più difficile il trasferimento all’esterno.Ciò dipende dalla presenza di forti componenti tacite nelpatrimonio di conoscenze diffuse nelle comunità locali.A differenza delle conoscenze codificate, che si esprimo-no attraverso linguaggi formali e possono essere facil-mente trasmesse anche a distanza attraverso l’istruzioneformale (pubblicazioni ecc.), quelle tacite derivano inve-ce dall’esperienza pratica nella produzione e sono piùdifficilmente trasmissibili perché richiedono l’osservazio-ne diretta, la ripetizione e non sono facilmente spiegabiliattraverso un linguaggio formale («conosciamo più diquel che sappiamo dire» secondo Polanyi).5 Richiedonoquindi un contatto diretto faccia a faccia tra maestro e di-scepolo. Tutto ciò da un lato favorisce l’elaborazione equindi la crescita delle conoscenze all’interno del sistemalocale, dall’altro ne rende più difficile l’imitazione da par-te di imprese esterne.L’innovazione in questi sistemi è soprattutto il risultatodell’esperienza e dell’apprendimento nel corso dell’at-tività produttiva. Ciò che è importante è che questiprocessi di apprendimento non avvengono all’internodi ciascuna impresa isolatamente, ma sono il risultato di

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particolare territorio. Così l’impresa che produce beni dibassa qualità non è più individualmente sanzionabiledal mercato. Aumenta quindi per le singole imprese l’in-centivo ad abbassare la qualità e i costi e mantenere al-to il prezzo, sfruttando la reputazione collettiva ma, nel-lo stesso tempo, danneggiandola. L’esito finale di questomeccanismo perverso può essere l’espulsione dal mer-cato di tutti i produttori, compresi quelli di qualità. Ciòspiega perché la cooperazione nel marketing o l’adesio-ne a un marchio collettivo sono vissuti da alcune impre-se come una grave minaccia alla propria competitività.La scarsa disponibilità alla cooperazione è rafforzata dalcarattere fortemente competitivo del mercato locale. Da-ta la sua limitatezza e la sostanziale staticità della doman-da, esso viene percepito dalle imprese come un gioco asomma zero, in cui la differenziazione e la capacità diconquistare quote di mercato ai danni dei concorrenti èspesso una condizione fondamentale di sopravvivenza.Se la torta non cresce è importante la grandezza dellapropria fetta, se cresce tutti gli attori, insieme, possonoottenere una fetta più grande. La cooperazione è quindi una condizione importanteper l’ampliamento dei mercati ma, a sua volta, l’omoge-

neità dei prodotti a un livello elevato di qualità è un re-quisito indispensabile della cooperazione. L’implicazio-ne di politica economica è evidente: non è utile spinge-re genericamente alla cooperazione tutte le imprese(come spesso si fa nei programmi di sviluppo rurale), ènecessario partire da quelle che sono nelle condizionidi praticarla, ovvero selezionare un nucleo ristretto diproduttori di qualità. Se il prodotto ha successo e il mer-cato cresce le altre seguiranno.Una possibile obiezione è che, se l’entrata sui mercatiesterni è così difficile, il mercato turistico può essereuna buona alternativa. In effetti il mercato turistico èspazialmente “vicino”, nel senso che può essere rag-giunto con costi di trasporto e di marketing accessibilianche a imprese di dimensioni molto piccole. Esso èindubbiamente molto importante e le connessioni framercato turistico e produzioni tipiche sono state al cen-tro di programmi di sviluppo incentrati sul turismo rura-le come il programma Leader. L’esperienza ha comun-que mostrato che la domanda turistica non sostituiscecompletamente i mercati esterni (basta pensare che è li-mitata a pochi mesi all’anno). Può facilitarne piuttostola penetrazione perché i turisti hanno preferenze legate

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Fig. A. Spesa totale per consumi e quota dei consumi alimentari.Milioni di euro a prezzi 2002. 1970-2002 (fonte: ISTAT, Indagine sui consumi delle famiglie).

la base dello sviluppo. In realtà, ad un esame più attentosorge il dubbio che questo atteggiamento sia un mododi fare i conti senza l’oste (che in questo caso è la do-manda). Se il know how sta morendo tutto bene, non sicreerà sviluppo ma l’intento è encomiabile, se non altrosotto il profilo della preservazione dell’identità locale. Se,invece, è abbastanza diffuso estenderlo ulteriormente si-gnifica stimolare l’ingresso sul mercato di nuove impre-se. Ma se il mercato rimane locale il gioco è a sommazero (mors tua vita mea), l’ingresso di nuove impresepuò portare la competizione a un livello tale da metterein crisi un intero settore.6 Anche qui la lezione di policyè evidente: creare competenze è importante ma, quandoesistono già, l’ampliamento dei mercati è prioritario sulpiano temporale, altrimenti si rischia di soffocare più chestimolare la crescita di questi settori.Una volta individuati i problemi la domanda crucialediventa inevitabilmente: che fare? Il fare è sempre piùdifficile del dire ma possiamo provare a definire alcu-ni punti fermi.In primo luogo il punto d’attacco della strategia di svi-luppo è in molti casi l’ampliamento del mercato. Que-sti prodotti non si impongono sul mercato grazie alfatto di essere innovativi come accade per un nuovotipo di telefonino, né di avere prezzi molto bassi. Se ilprodotto tradizionale presenta un livello qualitativoelevato il problema non è tanto abbattere i costi (e iprezzi), quanto diffondere l’informazione sul prodottoe migliorare la percezione della sua qualità da partedei consumatori con politiche di marketing adeguate.Una piccola impresa è troppo debole per penetrare suimercati esterni agendo isolatamente. È essenziale per-tanto stimolare la cooperazione fra imprese per favori-re la formazione di strutture collettive. Questo obietti-vo non deve essere perseguito in modo indiscriminatobensì selettivo, coinvolgendo gruppi di imprese concaratteristiche comuni al fine di evitare le conseguenzenefaste dei comportamenti opportunistici.Anche l’innovazione tecnologica è importante ma nondeve essere stimolata con politiche generiche di in-centivazione finanziaria che favoriscono una indiscri-minata meccanizzazione, e spesso si risolvono in unoscambio fra qualità e abbattimento dei costi. Politichedell’innovazione non mirate potrebbero causare l’ab-bassamento della qualità e compromettere il posizio-namento del prodotto sul mercato accentuando, tral’altro, i problemi di reputazione collettiva. Occorronoinvece politiche mirate capaci di affrontare caso percaso le specifiche problematiche che variano non soloda settore a settore ma da prodotto a prodotto. La col-laborazione fra imprese e centri di ricerca agroalimen-tare è cruciale da questo punto di vista se guidata dalcriterio: “innovare nel rispetto della tradizione”.Infine la creazione delle competenze è di vitale im-portanza ma deve essere attuata con criterio. L’amplia-mento del mercato è prioritario se si vogliono evitarebrutte sorprese.

La dinamica del mercato:l’evoluzione dei consumi alimentariPer esaminare la dinamica del mercato del pane è ne-cessario inquadrarlo all’interno delle tendenze che carat-terizzano, più in generale, i consumi alimentari. Trannepoche eccezioni, fra le quali non rientra il comparto delpane, nei paesi industrializzati i consumi alimentari pre-sentano una dinamica di lungo periodo tendenzialmen-te stagnante. Si tratta di un fenomeno ben noto agli eco-nomisti tanto da essere codificato in una specifica legge,quella di Engel, in base alla quale l’elasticità dei consu-mi alimentari rispetto al reddito è inferiore all’unità. Inaltri termini l’incidenza della spesa per consumi alimen-tari sulla spesa complessiva delle famiglie tende a dimi-nuire al crescere del reddito. Il motivo è che, una voltasoddisfatti i bisogni primari, le preferenze dei consuma-tori si orientano verso altre tipologie di consumo (benivoluttuari, servizi ecc.). All’appiattimento della dinamicasi accompagna inoltre una maggiore stabilità nella com-posizione per categorie dei consumi alimentari.Nel caso italiano la fase della forte crescita del consumoalimentare ha luogo negli anni ’50 e ’60 del secolo scor-so. Nei primi anni ’70 (pur con differenziazioni fra areeterritoriali) sopraggiunge la saturazione dei fabbisognipro-capite energetici e nutrizionali.

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avanzamenti per tentativi ed errori che vedono impegna-ti a livello collettivo tutti gli attori (quando c’è incertezza,come accade nell’innovazione, giocare su più tavoli au-menta le probabilità di successo). La comunanza di lin-guaggi e di esperienze e la mobilità dei lavoratori cheagiscono come veri e propri untori (nel senso positivodel termine) fanno sì che le soluzioni efficienti venganoimitate e si diffondano rapidamente in tutte le impresedel sistema locale, mentre quelle meno efficaci venganoabbandonate senza che questo comporti costi elevati. Riepilogando: rapida circolazione ed elaborazione collet-tiva delle conoscenze all’interno e barriere all’imitazioneall’esterno. Questo è importante perché la competitivitàderiva, come si è detto, dal fatto di possedere cono-scenze (saper fare) che altri non hanno. Quanto più leconoscenze sono tacite e difficilmente trasferibili tantopiù tendono ad essere esclusive e a creare un vantaggiocompetitivo o posizioni di monopolio. Le conoscenzeperdono valore quando divengono ubiquitarie, in questocaso subentrano altri fattori di competitività come le eco-nomie di scala o il basso costo del lavoro. Tuttavia sarebbe errato ritenere che la competitività diquesti sistemi si basi su una sorta di splendido isola-mento tecnologico. Perché lo sviluppo abbia luogo ènecessario un processo di fertilizzazione del sapere taci-to locale che deve nutrirsi di stimoli e apporti esterni.Questo è vero anche per i prodotti tipici, perché tipicitànon significa immobilità nel tempo, al contrario la tradi-zione si è continuamente evoluta e rinnovata nella sto-ria. La crescita della conoscenza è il frutto della conta-minazione dell’identità locale e della commistione fraconoscenze tacite e codificate. Ma, per mantenere lapropria competitività, contaminazione non deve signifi-care perdita dell’identità locale, bensì rielaborazione de-gli apporti esterni alla luce di tale identità al fine di ri-contestualizzare le conoscenze e ristabilirne l’esclusività.Il risultato deve essere un nuovo mix di conoscenze chemantiene una sua specificità locale. Un esempio eclatan-te per la Sardegna è il settore enologico che nell’ultimoventennio del secolo scorso ha registrato uno straordina-rio miglioramento qualitativo passando dalla produzioneprevalente di vino da taglio a vini di elevata qualità, ca-paci di affermarsi in importanti competizioni internazio-nali. Questo risultato è stato possibile grazie all’innestodi conoscenze esterne (introdotte da enologi provenien-ti da aree di grande tradizione vinicola come nuove co-noscenze sulla fermentazione, sull’invecchiamento ecc.)con competenze locali sulle specifiche caratteristiche deivitigni e dei terreni.Tuttavia le situazioni sono molto diverse e un approcciogenerico a questi problemi può essere dannoso. Nonsempre innovazione e competitività si muovono nellastessa direzione. In alcuni casi l’abbandono delle tecni-che tradizionali o la contaminazione con altre più mo-derne non comporta mutamenti sostanziali nelle caratte-ristiche qualitative del prodotto e nella sua specificità, inaltri può derivarne un miglioramento della qualità come

nel caso del vino. Qualcosa di molto simile sta accaden-do nel caso dell’olio, e anche nel settore caseario un po’meno pecorino romano e qualche prodotto a pasta mol-le in più probabilmente migliorerebbero la situazione.Ma il discorso cambia completamente se si riflette suquel che accadrebbe ai celebrati coltelli sardi (che han-no un buon mercato di nicchia fatto di intenditori) qua-lora venisse abbandonata la lavorazione a mano. E chedire del pane carasau prodotto con i forni a tunnel odei tappeti tessuti con il telaio elettrico? L’alterazionedelle caratteristiche di tipicità e la riduzione della qualitàpossono modificare il posizionamento sul mercato, po-nendo questi prodotti in competizione con beni stan-dardizzati di massa, spesso prodotti in paesi emergenticon costi del lavoro molto più bassi. Quando la competizione si basa più sulla differenziazio-ne e qualità del prodotto che sul prezzo gli effetti del-l’innovazione tecnologica sui profitti sono ambigui. Daun lato l’innovazione riduce i costi ma può provocareanche una riduzione dei ricavi se la qualità peggiora ela domanda del prodotto cala. Le variazioni del profittodipendono dall’entità di questi due effetti contrapposti.In generale tanto maggiore è il grado di differenziazio-ne del prodotto tradizionale e tanto più il mutamentodelle caratteristiche può modificare le condizioni di do-manda riducendo il potere di mercato dell’impresa e ilsuo profitto.Anche se non cambia la qualità qualche sorpresa pocopiacevole può derivare dal fatto che conoscenze codifi-cate facilmente trasmissibili divengano prevalenti sosti-tuendo le conoscenze tacite preesistenti. Tutto ciò tendea rendere il know how più facilmente imitabile anche daimprese esterne alla cultura locale. In questo caso la ri-duzione del potere di mercato dell’impresa non derivada uno spostamento della domanda verso prodotti sosti-tutivi, bensì dall’abbattimento delle barriere all’entratache favorisce l’ingresso di nuove imprese sul mercato.Anche questo meccanismo ha un riscontro reale moltopreciso nel settore del liquore di mirto. L’introduzionedi tecnologie computerizzate in sostituzione della pro-duzione artigianale ha permesso l’ingresso sul mercatodi una grande impresa nazionale, la Stock di Trieste,completamente estranea alla tradizione locale.In conclusione l’innovazione tecnologica è necessaria inquesti settori ma non tutte le nuove tecnologie vannobene: ridurre i costi a scapito della qualità significa an-dare nella direzione sbagliata. Bisogna saper individuarequelle giuste (per esempio, nel caso del pane carasau,una nuova confezione più rigida o un formato ridottosarebbero utili ai fini del trasporto).La formazione professionale è un altro problema su cuiriflettere. Non solo perché, come tutti sappiamo, è dipessima qualità ma perché, anche se non lo fosse, nonè detto che gli effetti sarebbero necessariamente positi-vi. Pochi dubitano del fatto che diffondere i saperi tradi-zionali attraverso la formazione sia un fatto comunquepositivo perché crea competenze e le competenze sono

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La figura A mostra abbastanza chiaramente la divarica-zione nella dinamica dei consumi totali e di quelli ali-mentari. La spesa totale cresce per tutto il trentennioconsiderato ma la quota dei consumi alimentari diminui-sce progressivamente a partire dagli anni ’70, passandodal 27% al 16% dei consumi totali. Il valore assoluto del-la spesa alimentare cresce moderatamente nello stessoperiodo, ma ciò è dovuto soprattutto alla dinamica deiprezzi e, in minore misura, a quella della popolazione.Nel corso degli anni ’80 si manifestano nuove tendenze.Le variabili socio-culturali assumono maggiore importanzanell’orientare le scelte dei consumatori: la maggiore infor-mazione per gli aspetti medici della dieta, l’attenzione aiproblemi ambientali e verso altre culture orientano il con-sumatore verso un modello alimentare più equilibrato e

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Fig. F. Dimensione media delle imprese artigiane e non artigiane.Sardegna e Italia 1991-2001 (fonte: ISTAT, Censimenti dell’industria1991 e 2001).

Fig. E. Imprese e addetti nel settore della panificazione. Sardegna eItalia, 1991-2001 (fonte: ISTAT, Censimenti dell’industria 1991 e 2001).

Fig. C. Incidenza della spesa per prodotti della panificazione su quella alimentare e totale. Valori pro capite. 1973-2002 (fonte: ISTAT, Indagine sui consumi delle famiglie).

Fig. D. Consumi annui di pane fresco in tonnellate. 1981-2004(fonte: Indagine Coldiretti, dati Ismea-AcNielsen).

Grazie a questa dinamica più sostenuta l’incidenza dellaspesa per prodotti della panificazione su quella alimen-tare, in valori pro capite, tende a crescere nel trentennioconsiderato, mentre diminuisce – come è lecito aspettar-si – la quota sulla spesa totale pro capite (fig. C).I valori riportati in precedenza sottostimano la spesa poi-ché si riferiscono ai consumi delle famiglie e non com-prendono pertanto i consumi alimentari al di fuori dellemura domestiche. Negli anni recenti l’entità di questa

Nell’ultimo trentennio la spesa pro capite per l’acquistodi pane e prodotti similari è cresciuta a fronte di unadiminuzione della spesa alimentare in generale.7 Il tas-so medio annuo di crescita della spesa pro capite perprodotti della panificazione a prezzi costanti è pari allo0,6% all’anno contro il -0,48% della spesa alimentare.

Fig. B. Spesa delle famiglie per l’acquisto di prodotti dellapanificazione. Valori pro capite. Euro a prezzi costanti 2002. 1973-2002 (fonte: ISTAT, Indagine sui consumi delle famiglie).

del totale dell’industria alimentare regionale. Il tessutoproduttivo si presenta abbastanza frammentato con unanetta prevalenza di imprese a carattere artigianale cheraggiungono il 94,5% del totale. La dimensione mediadelle imprese è molto piccola (fig. F), nel 2001 soltanto10 imprese superavano i 20 addetti e nessuna aveva unadimensione superiore a 50.10 Nel corso degli anni ’90 laframmentazione del settore sembra accentuarsi sia puredi poco. La dimensione media delle imprese si riduce acausa del lieve decremento dell’occupazione e la con-temporanea crescita del numero delle unità produttive(fig. E). Questa tendenza appare in contrasto con l’evo-luzione della domanda che sembrerebbe favorire lo svi-luppo della produzione industriale a scapito di quella ar-tigianale. Tuttavia essa non è una peculiarità regionale,bensì un fenomeno nazionale che differenzia l’Italia da-gli altri paesi europei. Basti pensare che le imprese arti-giane rappresentano il 65% del totale in Germania, il68% in Francia, il 66% in Spagna e appena il 3% nel Re-gno Unito, contro il 92% del nostro paese.11

In base all’ultimo censimento la dimensione media delleimprese di panificazione in Italia risulta addirittura infe-riore a quella, già molto piccola, riscontrata in Sardegnaanche fra le imprese non artigiane (fig. F). Il dato nonè comunque sorprendente ma riflette in parte la gene-rale tendenza al nanismo delle unità produttive nell’in-dustria italiana, in parte le limitate opportunità presentinel settore in termini di economie di scala. Occorreconsiderare inoltre che le preferenze dei consumatorisono fortemente diversificate, in quanto legate a speci-fiche tradizioni regionali o locali. Tutto ciò contribuiscea rendere il mercato molto segmentato, limitando ulte-riormente le economie di scala e i vantaggi della gran-de dimensione.Tuttavia il processo di razionalizzazione del settore, conl’affermazione della produzione industriale a scapito diquella artigiana, è una tendenza generale a livello euro-peo. Qualche eco di tale tendenza è ravvisabile nelle im-prese non artigiane, la cui dimensione media cresce nelcorso degli anni ’90 sia a livello nazionale che in Sarde-gna, mentre rimane stabile quella delle imprese artigia-ne. La ragione sottostante è lo sfruttamento di economiedi scala probabilmente legate più alla struttura della di-stribuzione che alla dimensione degli impianti produttivi.

Il pane tipicoL’analisi dei paragrafi precedenti mostra che quello dellapanificazione è un settore maturo con prospettive di cre-scita molto limitate. Tuttavia, anche all’interno dello stes-so settore, le opportunità di crescita sono spesso diffe-renziate a seconda della tipologia dei prodotti. Non c’èdubbio, per esempio, che le prospettive di crescita di al-cuni prodotti sostitutivi siano maggiori di quanto si puòipotizzare per il pane fresco. Ciò si deve alla maggioreadattabilità di questi prodotti ai mutamenti intervenutinegli stili di vita e nelle preferenze dei consumatori. An-che in presenza di una dinamica complessiva del settoretendenzialmente stagnante, spostamenti della domandaverso particolari prodotti possono dar luogo a fasi di cre-scita sostenuta nei rispettivi comparti, sia pure limitatenel tempo. Un fenomeno di questo tipo è indubbiamen-te in atto per quanto riguarda le filiere biologiche chehanno registrato negli anni recenti una crescita assai piùelevata rispetto al settore agroalimentare nel suo com-plesso, sia per quanto riguarda le quantità ma, soprattut-to, con riferimento alla spesa complessiva. La crescitadella spesa si deve in particolare a una più sostenuta di-namica dei prezzi, grazie alla capacità di questi prodottidi spuntare un premium price sul mercato.12

Un discorso analogo può essere fatto per i prodotti tipi-ci. Anche in questo caso la dinamica dei prezzi ha so-stenuto la crescita della spesa negli anni recenti. Secon-do un’indagine condotta dall’ISMEA nel 2001 la spesaper prodotti tipici in Italia si è attestata su un valore di2.736 milioni di euro, con una crescita del 5,1% rispettoall’anno precedente.13 Il mercato dei prodotti tipici rap-presenta quindi una quota cospicua (23%) della spesaalimentare nel nostro paese. Risulta invece impossibilequantificare la quota dei prodotti tipici nel settore dellapanificazione per la mancanza di dati specifici. Tuttaviauna stima del 15-20% appare plausibile.Vari elementi suggeriscono che tale quota sia destinataa crescere nel breve/medio termine. Alcune ricerchedi settore (Nomisma, SWG) pongono in risalto la cre-scente consapevolezza dei consumatori sulle differenzequalitative fra pane industriale e artigianale-tipico, e laconseguente maggiore disponibilità a pagare un prezzopiù elevato per ottenere la qualità richiesta. Secondouna recente indagine condotta dalla SWG (2005) su un

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di impronta salutista, che si manifesta con la costante ri-duzione dei consumi di carne e il ritorno alla tradizionecon la rivalutazione della dieta mediterranea. La tenden-za alla contrazione del consumo di pasta si riduce forte-mente, allo stesso tempo crescono i consumi di pesce,frutta e formaggi.

componente della spesa è aumentata considerevolmentea causa dei cambiamenti negli stili di vita dei consumato-ri, con un progressivo aumento dei pasti consumati inmense e ristoranti. L’ISTAT non fornisce dati su tale spesatuttavia qualche indicazione si può trarre dalle stime diPrometeia (2005), secondo le quali il pane e i suoi sosti-tuti rappresentano attualmente in Italia il 12,3% del totaledei consumi di prodotti alimentari.8 La spesa annua procapite è pari a 248 euro,9 per una spesa complessiva sti-mabile intorno ai 14 miliardi di euro a livello nazionale.Purtroppo i dati disponibili non consentono di isolarecon precisione l’andamento della spesa per pane fresco.Vari elementi suggeriscono comunque che essa abbiasubito una flessione negli anni recenti o, nella miglioredelle ipotesi, non sia cresciuta. La diffusione fra i consu-matori di preoccupazioni dietistiche ha indubbiamentecontribuito a modificare le quote di mercato a favore deiprodotti sostitutivi come pancarrè, fette, grissini e similaria scapito del pane fresco. In base a un’indagine condottadalla Coldiretti (2005) nel 2004 la dinamica della spesaper tali prodotti è stata molto sostenuta (9,2% in più ri-spetto all’anno precedente). Al contrario, sempre secon-do la stessa indagine, la contrazione dei consumi di panein termini quantitativi ha registrato una forte accelerazio-ne negli anni recenti (fig. D).

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1991imprese addetti

2001imprese addetti

Sardegna 783 3.686 806 3.656

variaz. %imprese

2,9

variaz. % addetti

-0,8

di cui artigiane 636 2.855 762 3.368 19,8 18,0

% artigiane 81,2 77,5 94,5 92,1

Italia 22.468 83.386 25.082 92.068 11,6 10,4

di cui artigiane 17.615 63.202 23.062 80.294 30,9 27,0

% artigiane 78,4 75,8 91,9 87,2

1991

Sardegna

artigiane 4,5

2001

4,4

non artigiane 5,7 6,5

totale 4,7 4,5

Italia

artigiane 3,6 3,5

non artigiane 4,2 5,8

totale 3,7 3,7��

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Quantunque la contrazione in termini quantitativi possaessere stata in parte compensata dall’aumento del prez-zo, è molto probabile che anche la spesa abbia registratouna dinamica negativa, quantomeno negli ultimi anni.I dati riportati non consentono previsioni precise sull’an-damento del mercato del pane fresco nel prossimo futu-ro ma inducono a ritenere molto improbabile una cresci-ta significativa della domanda.

La struttura del settoreIn base ai dati dell’ultimo censimento dell’industria nel2001 nel settore della panificazione operavano in Sarde-gna 806 imprese con un’occupazione complessiva di3.656 addetti (fig. E). Si tratta di un settore non marginalese si considera che gli occupati rappresentano il 35,3%

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scarse opportunità di esportazione su mercati esterni aquello locale e la ridotta efficacia del marchio ne rende-vano inutile la creazione.17 Ultimamente l’interesse deiproduttori è cresciuto e alcuni pani tipici come quello diAltamura e la “coppia” ferrarese hanno ottenuto la de-nominazione d’origine protetta. Anche il Consorzio delpane carasau ha avviato la relativa procedura.Occorre infine considerare che la penetrazione sui mer-cati di esportazione implica un mutamento dei canali di-stributivi. Cresce l’importanza dei rapporti con la grandedistribuzione o, comunque, con intermediari commer-ciali di grandi dimensioni che riducono il potere contrat-tuale dei singoli produttori e la capacità di questi ultimidi spuntare prezzi sufficienti a coprire i costi di un pro-dotto di qualità. Da qui l’importanza di un coordinamen-to delle strategie commerciali e di forme di cooperazio-ne volte a rafforzare il potere di mercato del gruppo.

Conclusioni e indicazioni di politica economicaSulla base dell’analisi condotta nei paragrafi precedentiè possibile trarre alcune indicazioni. In generale le pro-spettive del mercato del pane sono stazionarie per ilprossimo futuro. Tuttavia alcuni prodotti tipici mostranoun maggiore potenziale di crescita. Per la maggior partedelle tipologie di pane tradizionale sardo a limitata con-servabilità le possibilità di esportazione sono marginali.Il mercato più interessante per questi prodotti è indub-biamente quello turistico della ristorazione, attualmenteancora lontano dalla saturazione. Le possibilità di cresci-ta della domanda sono legate alla diffusione in questosegmento di mercato della gastronomia tipica spessocondizionata da problemi di continuità dell’offerta.Per prodotti fortemente caratterizzati sul piano della tipi-cità, più conosciuti al di fuori dell’ambito locale e me-glio conservabili come il pane carasau, le opportunitàdi penetrazione sui mercati di esportazione sono decisa-mente migliori. Le condizioni fondamentali per rendereconcrete tali potenzialità sono da un lato il mantenimen-to (in alcuni casi il recupero) della qualità e delle carat-teristiche di tipicità del prodotto, dall’altro la realizzazio-ne di un coordinamento dei produttori dal punto divista delle strategie commerciali.Per quanto riguarda il primo aspetto appare inopportu-no adottare politiche di generico sostegno finanziario alfine di stimolare l’innovazione all’interno delle imprese.Gli effetti di queste politiche nei settori tipici sono spes-so perversi e finiscono per favorire un deterioramentoqualitativo e una perdita di tipicità del prodotto, non-ché la formazione di un eccesso di capacità produttiva.Appaiono più opportune politiche mirate, volte a co-niugare, per quanto possibile, tradizione e innovazione.A questo scopo è importante stimolare la collaborazio-ne fra imprese e centri di ricerca. Un esempio di questotipo è il progetto di ricerca realizzato dal ConsorzioPorto Conte Ricerche di Alghero in collaborazione conl’ERSAT, nell’ambito del POM B23, per l’ottimizzazionedella tipologia produttiva dei pani tipici che ha interes-

sato, oltre al pane carasau, quello di Altamura ed altripani tipici meridionali. Sotto il profilo commerciale la creazione del marchioDOP può essere un utile strumento a condizione chenon si veda in esso l’elemento cruciale e risolutivo del-la strategia di marketing. Il marchio in quanto tale puòavere un impatto molto limitato in assenza di altre con-dizioni di contorno quali il superamento della frammen-tazione del tessuto produttivo e della conseguente de-bolezza delle imprese, attraverso l’adozione di strategiecommerciali comuni e la formazione di coalizioni di im-prese in grado di agire con una logica di gruppo e svi-luppare un’adeguata forza contrattuale.

Note

1. Anche se questo è avvenuto in alcune realtà. Un esempio già cita-to è il parmigiano reggiano, nel caso della Sardegna ciò è avvenuto,in scala molto più ridotta, per un prodotto non tipico come il pecori-no romano.

2. Un fatto del genere è accaduto in Sardegna nel settore del miele:una grossa commessa giapponese si è dissolta nel nulla per l’impossi-bilità di coordinare i produttori e metterli in condizione di soddisfarla.

3. Nel caso di gran parte delle tipologie di pane tipico quello turisticorappresenta il mercato più importante data la difficoltà di esportare unbene tipicamente deperibile.

4. Ha avuto certamente un ruolo determinante nel miglioramento del-la qualità di alcuni vini sardi.

5. M. Polanyi, The Tacit Dimension, Garden City, New York, Double-day & Co., 1966.

6. Potrebbe essere accaduto qualcosa del genere nel settore dei tap-peti sardi.

7. Si consideri anche che alcuni sostituti del pane hanno una fortevalenza di servizio, si conservano più a lungo e non devono essereacquistati giornalmente.

8. Considerando i soli consumi familiari l’incidenza si riduce al 6,8%(il dato ISTAT si riferisce al 2002).

9. Il dato ISTAT in questo caso è 134 euro.

10. Se si considerano i singoli impianti le unità locali con più di 20 ad-detti si riducono a 6.

11. La forte crescita delle imprese artigiane in Italia può essere dovutaai vantaggi normativi di cui possono godere. Tuttavia, nonostante iprobabili effetti distorsivi che ne derivano, le differenze nell’incidenzadelle imprese artigianali rispetto ai valori europei sono tali da far rite-nere che esse siano dovute in misura consistente a fattori strutturali.

12. Nel caso dei prodotti biologici il premio sul prezzo di mercato de-gli altri prodotti può arrivare fino al 30-40%.

13. Al momento sono disponibili dati relativi al periodo 1999-2001.

14. A. Sassu, Know-how locali, progresso tecnico e sviluppo economico,1999.

15. L’indagine è stata condotta in due fasi per consentire un’analisi del-la dinamica del settore.

16. Le difficoltà di coordinamento sono accentuate dalla elevata quotadi produzione sommersa nel settore. Secondo l’indagine citata nel 1998le unità produttive che operano in nero rappresentano l’84%.

17. In generale il marchio DOP o IGP sembra essere meno efficace inalcuni settori rispetto ad altri. Secondo l’indagine di Nomisma (2005) nelsettore dei prodotti da forno risulta determinante il luogo d’acquisto e ilrapporto fiduciario instaurato con il punto vendita piuttosto che la co-noscenza del marchio. Parallelamente la disponibilità del consumatore apagare un differenziale di prezzo per prodotti con denominazione d’ori-gine è minore (32%) rispetto a prodotti come carne e formaggi (52%).

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campione di 800 famiglie, il 60% dei consumatori ricono-scono al pane tipico una qualità superiore, e il 54% sonodisponibili a pagare una maggiorazione di prezzo del5,5% se il livello qualitativo corrisponde alle aspettative.I risultati dell’indagine rivelano inoltre una conoscenzaabbastanza diffusa e crescente dei pani tipici regionali,fra i quali anche il pane carasau. Nella tavola 3 sono ri-portate le risposte degli intervistati alla domanda: «Ricor-da qualche pane tipico di una città o di una regione?».

l’unica indagine sul campo che fornisca dati precisi sul-l’andamento del settore. La maggioranza dei produttoriintervistati dichiara che il mercato è in espansione. Talepercezione è confermata dall’elevato tasso di crescitadelle imprese e degli addetti del settore che, fra il 1994e il 1998, è stato rispettivamente del 117% e 113%.15 Nel1998 il 77% della produzione trovava sbocco sul merca-to regionale, mentre in quello nazionale ed estero eranocollocati rispettivamente il 21% e il 2% del fatturato.La stessa indagine pone in evidenza alcuni vincoli chelimitano le prospettive di crescita. Un limite importanteè costituito dalla mancanza di una strategia commercia-le per l’intero settore. Nonostante la costituzione di unConsorzio del pane carasau le iniziative promozionalisono ancora insufficienti e manca un effettivo coordina-mento fra le imprese.16 La consapevolezza dell’impor-tanza degli aspetti commerciali è presente fra i produt-tori ma in misura insufficiente a convogliare su di essirisorse adeguate. Il 95% delle imprese non ha parteci-pato a mostre mercato specializzate, né ha svolto alcuntipo di campagna promozionale.Un secondo problema è quello della trasportabilità delprodotto. Notoriamente questo tipo di pane tende a fram-mentarsi se non è sufficientemente protetto da una con-fezione rigida. Sorprendentemente l’esistenza di questoproblema non ha avuto un forte impatto sui produttori.Alcune innovazioni di packaging e modifiche al formatodel prodotto sono state introdotte, ma gran parte delleimprese mantengono ancora la confezione e il formatotradizionali. Il tasso di innovazione è stato invece più elevato perquanto riguarda l’automazione dei processi produttivi,con l’introduzione di tecnologie più moderne come i for-ni elettrici e a tunnel, e le macchine impastatrici e sfo-gliatrici. Come spesso accade nei settori produttori di be-ni tipici se, da un lato, il rinnovamento tecnologico è unacondizione necessaria per affrontare i problemi di volu-me e continuità dell’offerta posti dall’ampliamento deimercati, per altri versi esso può dar luogo ad esiti con-traddittori dal punto di vista della qualità del prodotto edella sua competitività sul mercato. Un aspetto negativodell’evoluzione del settore è il progressivo abbandonodelle semole prodotte da varietà di frumento locali e laperdita del patrimonio locale di lieviti e batteri autoctoniper la panificazione. Tutto ciò ha determinato un appiat-timento delle caratteristiche organolettiche del prodotto.Il rischio è che, qualora il grado di tipicità percepito daiconsumatori dovesse ridursi, il prodotto possa subire unriposizionamento di mercato scivolando su un segmentodi fascia bassa ed entrando in competizione con prodottiindustriali meno caratterizzati e a basso costo.Il mantenimento di un livello qualitativo elevato e di spic-cate caratteristiche di tipicità è pertanto un fattore di com-petitività cruciale su questo tipo di mercati. In molti setto-ri tipici la creazione di marchi DOP o IGP e di disciplinaridi produzione sono le soluzioni più frequenti a questoproblema. Nel caso del pane, fino a tempi recenti, le

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Tipo di pane risposte spontanee risposte sollecitate

pane pugliese 22 67

pane toscano 20 61

pane di Altamura 11 57

pane ferrarese 7 -

pane carasau 5 38

pane di Matera 2 26

pane di Lariano 2 10

pane di Terni 2 19

focaccia genovese 1 50

pane di Genzano 1 15

pizza romana 1 47

pane di Castelvetrano - 13

pane di Canale Monterano - 2

altro 18 -

nessuna indicazione 21 14

non risponde 16 -

Fig. G. Conoscenza del pane tipico. Valori percentuali (fonte: SWG, Gli italiani e il pane, 2005).

Il 79% degli intervistati è in grado di identificare sponta-neamente almeno un tipo di pane tipico. L’attenzione el’interesse del consumatore per questa tipologia di pro-dotto sono quindi abbastanza elevati. È interessante no-tare come il pane carasau risulti fra i più conosciuti daiconsumatori, quantunque sia lontano dalla popolaritàdel pane pugliese e toscano. Questo fatto è indicativodell’esistenza di un mercato potenziale di una certa con-sistenza al di fuori dei confini regionali. Nessun altro ti-po di pane sardo rientra peraltro fra quelli individuatinell’indagine. Questi dati offrono alcune indicazioni sui mercati disbocco del pane tipico sardo. Da un lato il pane cara-sau, grazie anche alle caratteristiche di conservabilità(insieme a qualche altro tipo meno conosciuto come ilpistoccu e la spianata), presenta interessanti prospettivedi penetrazione su mercati esterni a quello regionale. Alcontrario gli altri tipi di pane tipico hanno, per motiviopposti (scarsa conservabilità e identificabilità), un mer-cato quasi esclusivamente regionale e turistico.Le potenzialità in termini di ampliamento del mercatodel pane carasau trovano conferma anche in un’indagi-ne curata da Antonio Sassu14 che, per quanto datata, è

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L’invito di Enrica Delitala ad approfondire, con sempre nuove ri-cerche, lo studio della panificazione in Sardegna, accompagna lapresentazione di una cospicua documentazione prodotta in lun-ghi anni di studio, e rivela un campo d’indagine ancora apertoad un lavoro allo stesso tempo difficoltoso ed affascinante. In questa direzione, procedendo con la curiosità ora dell’etno-grafo, ora del turista, con la consapevolezza talvolta di affacciarcisu uno dei tanti, possibili cunicoli della ricerca, ci interroghiamosui modi in cui si pone oggi la panificazione, ma anche sui modicon cui si guarda alla tradizione e la si reinterpreta: nelle tecniche,nelle occasioni e nelle motivazioni. La panificazione è, infatti, alcentro di un vivace interesse rivolto alla “riscoperta” e alla valoriz-zazione della tradizione, sia sotto il profilo culturale sia sotto ilprofilo economico. Tale interesse si manifesta in ambiti e con mo-dalità disparati, che proviamo qui di seguito a riassumere:– la ricerca scientifica condotta nelle università locali favorisce lacostruzione e la divulgazione di un sapere organico e sistemati-co sulle pratiche cerealicole e panificatorie del passato, e sulletradizioni di singole aree e comunità; come pure spinge all’os-servazione dei mutamenti in atto negli ultimi decenni;– scuole e musei, sempre più attenti ad una didattica che con-templa anche le tradizioni alimentari locali, si attrezzano di labo-ratori ludici ove “sperimentare”saperi e ricette di pani tradizionali;– è ancora viva, su tutto il territorio regionale, la panificazione do-mestica, anche se con intensità e modalità diverse da zona azona;– l’interesse per questo settore, e per le connesse implicazioniin termini di valorizzazione culturale ed economica, sempre piùspesso è presente nei programmi di sviluppo locale di Ammini-strazioni ed Enti pubblici, attraverso il finanziamento di ricercheempiriche e di corsi di panificazione all’insegna della tradizione;– spesso il “pane sardo”è presentato come simbolo di identità, inluoghi e occasioni disparati: dalle mostre etnografiche alle sagrepaesane, dalle vetrine di panifici e panetterie alle bancarelle, chelo propongono anche in forma di souvenir;– si cercano sempre nuove soluzioni per presentare il pane sar-do in “confezione e formato turista”;– si conferma e si rafforza il consumo interno, e dunque un mer-cato locale di “pani tipici” proposti da panifici artigianali, negozispecializzati nella vendita di prodotti tipici e ipermercati, ma ta-luni guardano anche con attenzione al mercato esterno.

Nei musei, la realizzazione di percorsi didattici è generalmenteindice di una museografia innovativa e di una propensione anuove forme di trasmissione del patrimonio culturale, fondate

sul coinvolgimento del pubblico. Non a caso, il pubblico che taliiniziative richiama si compone in particolare di scolaresche, sem-pre più sensibilizzate e indirizzate verso la storia delle tradizioniisolane: feste, architettura, lavoro contadino e pastorale, alimen-tazione. Sono in particolare questi ultimi temi a caratterizzare imusei etnografici dove è permesso “toccare” e “sperimentare”.Questo genere di musei dispone di laboratori che fungono da“fulcri dialettici”con le sale espositive del museo e col lavoro pre-ventivamente svolto in classe. Ed è nelle case-museo, innanzitut-to, che si può assistere a lavori tradizionali domestici come la pa-nificazione. È quanto accade, ad esempio, presso s’Omu Axiu diOrroli. L’atmosfera di Omu Axiu è quella di un viaggio a ritrosonel tempo in una casa di un secolo fa: l’asino che fa ruotare lamacina, i palmenti che inghiottono i grani della tramoggia. Alcu-ne donne ripropongono i gesti svelti, decisi e precisi della setac-ciatura; preparano l’impasto, invitano alla preparazione dei panie ne mostrano la cottura. Così, insegna la proprietaria di Omu Axiu, si faceva il pane in ca-sa. Frase spesso ripetuta e dal significato preciso: diciamo “panefatto in casa” per dire “pane di una volta”. Gusto e profumo, ge-nuinità e qualità ne sono caratteristiche intrinseche. Sono que-ste proprietà e peculiarità a far sì che la panificazione domesticasia, in modi e con obiettivi diversi, ancora viva.

In ambiente urbano,1 ad esempio, essa costituisce ancora un mo-mento di socializzazione femminile ma con un’accentuata com-ponente ludica: esercizio per “amiche dilettanti” interessate allasperimentazione e alla rivisitazione di antiche ricette. Acquistatele materie prime, ci si serve di strumenti e robot di uso quotidia-no, si eseguono cotture con forni elettrici, a gas e a ventola. I pa-ni, spartiti secondo le tacite regole de su mandau, sono mostratiin famiglia come “oggetto di vanto”. L’obiettivo non è tanto il pa-ne in se stesso ma tutta l’operazione del panificare nella quale faremergere qualità personali, che sottendono più o meno consa-pevoli segreti del mestiere, come rivelano espressioni quali: “nonmi è uscito”, “non ha lievitato bene”, “è bruciato ma è buono”.Nei paesi, al contrario, la panificazione è presente in maniera piùordinaria e diffusa, non ha carattere sperimentale ed è preordi-nata al consumo familiare quotidiano. I congelatori favorisconole scorte: si panifica settimanalmente oppure ogni quindici gior-ni. Generalmente, farine e semole provengono ancora dai mulinilocali, e gli strumenti, tavoli, cesti, teli e coperte per la lievitazio-ne, come pure i forni, sono quelli domestici di una volta. È so-prattutto per la lavorazione dell’impasto che invece ci si serve distrumenti meccanici che alleggeriscono il lavoro. Spesso si tratta

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La riproposta della tradizione: continuità e nuove prospettiveVladimira Desogus

659. Coccoi pintau, 35 cm, Tramatza.Questo pane è stato realizzato per un anniversario di matrimonio.

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di impastatrici create artigianalmente attraverso soluzioni di bri-colage. Come scrive, infatti, Enrica Delitala, «le innovazioni chehanno accompagnato e talora resa possibile la persistenza del-l’uso, riguardano in larga misura il ciclo di lavorazione e consisto-no generalmente in adeguamenti a condizioni di vita moderne eper cui sarebbe un controsenso l’attaccamento alla tradizionepiù stretta. Tuttavia quasi sempre vecchio e nuovo coesistono, leforme più moderne sono state integrate in un sistema più tradi-zionale o, viceversa, il rispetto della tradizione non ha rifiutato al-cune novità».2

In molte case, inoltre, persiste la panificazione domestica desti-nata alla vendita. Si tratta di case-bottega nelle quali coincido-no spazio produttivo e spazio di vendita.Nel cagliaritano, le produzioni delle panificatrici domestiche co-stituiscono delle nicchie di mercato, destinate ad una selezionata“clientela cittadina”, fedele al gusto antico. Particolarmente ricer-cati sono i pani conditi: pane con lardo (pani e gerda), pane concipolle (pani cun cipudda), pane con uva sultanina (pani e papas-sa) e pane di ricotta (pani ‘e arrescottu). La casa-bottega è gestitadalla stessa padrona di casa che oltre a panificare, magari conl’aiuto della famiglia, si dedica anche alla vendita diretta. Poichél’offerta non soddisfa la domanda del prodotto, spesso si effettuala vendita su ordinazione. È per questo che, in particolare nella fi-ne della settimana, le botteghe si affollano, strategicamente, du-rante le prime ore del mattino.Alcune di queste panificatrici hanno preso coscienza di esserediventate in qualche modo delle protagoniste, detentrici di sa-peri oggi riproposti e universalmente apprezzati.Ingaggiate dagli Enti Fiera e Turismo, dai vari Assessorati alla cul-tura, dalle Associazioni pro-loco, le abili panificatrici contribuisco-no ad animare feste e manifestazioni3 culturali all’insegna dellatradizione alimentare sarda. Scritturate come “maestre” in corsi dipanificazione regionale, per l’occasione indossano gli abiti tradi-zionali della festa, abbelliti da grembiuli finemente ricamati; sfo-derano corredi di strumenti da lavoro consunti, di importante ri-lievo etnografico.Curioso, e allo stesso tempo indicativo di una particolare attenzio-ne verso la salvaguardia e la fedele messa in scena dei vecchi sa-peri, è il forno a legna mobile, costruito secondo tecniche di edi-lizia tradizionale campidanese, e collocato sopra una sorta di“carrello didattico”; pronto, all’occorrenza, a rilasciare profumi diceppi, erbe e cespugli e a sfornare pani in giro per la Sardegna.L’abilità delle anziane panificatrici è ricercata in particolare per larealizzazione del pani pintau, da donare nelle cerimonie di nozze,e quindi confezionati con pizzi e trine; o da vendere come souve-nir nelle bancarelle delle feste, magari “abbelliti”e protetti in scato-le di plastica trasparente o teche di vetro con cornice lignea. I panisouvenir possono assumere anche forme non tradizionali, comegli alfabeti di pane che invitano ad acquistare le iniziali del pro-prio nome.Pani cerimoniali e pani quotidiani, delle diverse zone dell’isola,sono esposti in mostre volute da Fondazioni, Istituti bancari edAssociazioni culturali che organizzano e realizzano, anche oltremare, seminari e mostre etnografiche.4

Pani festivi e cerimoniali troviamo talvolta esposti con ricercataarte anche nelle vetrine dei panifici, e il modo in cui sono pre-sentati sembra svolgere una duplice funzione: estetica, e di ri-chiamo alla tradizione. Il pane in vetrina richiama l’attenzione dei passanti, diventa og-getto d’interesse visivo, manufatto artistico che evidenzia l’abilità

del suo artefice, suscitando nel passante un sentimento di mera-viglia,5 cosicché, come ad una mostra, egli diventa osservatore.L’esposizione del pane cerimoniale, è anche, nel contempo, cita-zione di un alimento del passato, di un contesto augurale, di mo-menti di festa e di socialità. Alla costruzione della vetrina (il cui si-gnificato è manifesto per definizione), con spighe di grano6 eoggetti della tradizione panificatoria, corrisponde una costruzio-ne dal significato latente: con essa si costruisce un oggetto-sim-bolo di rinvio alla tradizione. Si costruisce, anzi, la tradizione, con-siderato che il pani pintau non è in vendita sui banconi tra rosettee panini all’olio.Si intuisce allora un gioco complesso e ambiguo nell’uso del ter-mine “tradizione”. Ciò è ancor più vero quando parliamo di in-gredienti quali lievito di birra e farine miscelate di grano teneroe grano duro, che vanno a discapito della qualità del prodottopresentato come tradizionale. Senza generalizzare, fatto nonignorabile è che oggi in quello che noi definiamo “prodotto tipi-co”, parliamo di varietà di pane e di paste, vi è spesso un’altapercentuale di farine prodotte col grano tenero (surrogato dellefarine di grano duro), ma anche col grano proveniente dagli Sta-ti Uniti, dal Canada e dall’Australia, seppure, si dice, di alta qua-lità.7 Ciò perché in Sardegna la produzione di grano duro è forte-mente diminuita rispetto al passato, con la conseguente perditadi varietà locali le cui caratteristiche organolettiche contribuiva-no a determinare, ad esempio, l’elasticità dell’impasto o il coloredel pane.È pur vero, però, che anche in questa variegata e complessarealtà, in cui ambigua e sfuggente si configura la “tradizione”, visono situazioni che possono essere considerate comunque “unpo’ più tradizionali” di altre. È il caso di panifici di lunga data, per

lo più a gestione familiare, che fanno della tradizione e della tipi-cità il punto forte della propria attività, sia nel mercato locale siain quello esterno, sfruttando saperi e pratiche acquisiti quandosi era costretti ad operare per contribuire al sostentamento e al-l’autosufficienza familiare.Si tratta di medi e grandi panifici che se da un lato, con l’acquistodi nuovi macchinari, si conformano alla “modernità”, puntando,con la nuova tecnologia, ad ammortizzare tempi e costi di lavo-ro, dall’altro, però, perseverano nell’utilizzo di antiche ricette e dimaterie prime selezionate (acqua e farine locali), e confidano inuna manodopera altamente qualificata. Generalmente, l’introduzione di un numero più o meno ampio edifferenziato di macchine (impastatrici, forni, cilindri, spezzatrici,stampatrici, cellofanatrici e mezzi di trasporto) rimane in funzio-ne della grandezza di capitale dell’azienda. D’altro canto è anchevero che l’introduzione dei mezzi meccanici non soppianta maicompletamente occhi e mani, che misurano, pesano e valutanoconsistenza, lievitazione e cottura. Questo è vero soprattuttoper le aziende a carattere artigianale e ancor più per quelle cheproducono i cosiddetti prodotti tipici. Ne è un bell’esempio ilpanificio Cuore di Sardegna di Ollolai che, pur avendo un’attivitàappena decennale, si fonda tuttavia su una esperienza familiareconsolidata nella produzione di pane carasau, pane guttiau e pa-ne longu. Come in tutti i panifici, il laboratorio è dotato dei piùcomuni macchinari, ma alcuni strumenti e supporti tradizionalisono ancora ritenuti insostituibili, come i tavoli di legno, i teli dilino e cotone su cui riporre i pani da infornare, e la pala di legnoutilizzata per sgonfiare le spianate appena sfornate.8 Pertanto, ècomunque il panettiere a dare inizio, sequenza e continuità allacatena operativa; e tutte le operazioni prevedono la manualità

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660. Iniziale di pane, 14 cm, Olmedo.Questa tipologia di pane viene commercializzata come bomboniera, oggetto da regalo o souvenir.

661. Bomboniera, 12 cm, Olmedo.

662. Infornata durante la sagra del pane di Quartucciu, 2005 (foto Vladimira Desogus).

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percezioni” fatto di commistioni. Odori, colori, forme e sapori ri-mandano a tempi e culture differenti: al tempo passato, è il casodel pane civraxu o del pane coccoi, e a tradizioni altre, come nelcaso del pane baguette, del pane arabo e del pane condito.I grandi e medi panifici si adeguano ai tempi “moderni” anchenell’offrire diverse pezzature del prodotto, cercando di coniuga-re gusti antichi, come quello del civraxu, con pani facilmenteconsumabili e quindi di piccole dimensioni, come il pane boc-concino, che, confezionato secondo la ricetta del famoso paneSanluri è molto apprezzato nella ristorazione ed è convenienteper un genere di clientela come quella dei single. L’ipermercato, luogo di contaminazioni, è anche, in un certosenso, luogo della “deterritorializzazione delle tipicità”; comesuggerisce il fatto che il pane del tipo Sanluri è prodotto e ven-duto nell’ipermercato Carrefour di Quartu Sant’Elena, o, ancora,che in Marmilla si produce carasau (cosa che non manca di su-scitare malcontento e sentimenti di espropriazione fra i panifi-catori del nuorese).

Gli ipermercati, quotidianamente, si riforniscono dai panifici ar-tigianali per alcuni tipi di pane di semola e pasta dura, la cuiproduzione in proprio richiederebbe tempi di lavoro troppolunghi. In certi periodi dell’anno, inoltre, poiché l’offerta nonsoddisfa la domanda, acquistano dagli stessi panifici artigianali

una più ampia varietà di pani, che, imbustati negli ipermercati,sono tuttavia accompagnati da etichette che ne indicano il luo-go di produzione.La grande distribuzione si serve di macchine, le più avanzatetecnologicamente. Alla forza delle mani e delle nocche che la-voravano l’impasto, spongendi e ciuexendi, subentrano macchi-ne che ne imitano i movimenti: le cosiddette impastatrici a spi-rale (per impasti morbidi) e quelle a braccia tuffanti (per impastipiù duri). I forni avviati durante le prime ore del mattino trova-no sosta la sera, mentre le celle di fermalievitazione conservanodurante la notte i pani da portare in cottura il giorno seguente,con l’avvio del primo turno. Interessante è l’organizzazione degli spazi operativi, di esposizio-ne e vendita. I laboratori di produzione, realizzati nel pieno rispet-to di ferree norme d’igiene, sembrano voler ridurre la distanza daiclienti: progettati in “trasparenza”, realizzati con pareti di vetroche lasciano diffondere profumi appetitosi, trasmettono senso di“chiarezza” e “pulizia”, caratteristiche che devono concorrere allacreazione di un “buon prodotto”. Il cliente “acquista fiducia” per-ché può assistere alle diverse fasi di lavoro, dall’impasto alla cot-tura, dalla pesatura alla messa in vendita. La trasparenza deglispazi e del lavoro funziona dunque come ulteriore garanzia perla vendita di un buon prodotto. Negli ipermercati, dicono i re-sponsabili di settore, «i costi sono leggermente più bassi della

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del panificatore: «La pasta, la sentiamo con le mani! Molte cosele facciamo a mano, i panifici industriali invece no! … Non è piùcome una volta, adattiamo la tradizione ai macchinari, e mante-niamo la lavorazione artigianale. Ma se non adoperassimo il le-gno, in inverno, la lievitazione si potrebbe fermare, e se non ado-perassimo i teli di cotone e lino, la pasta posta su qualsiasi altromateriale si appiccicherebbe».Anche il lessico dei panificatori conserva, in parte, un sapore diarcaicità: quotidianamente, infatti, si prepara sa mardighe per ilgiorno seguente, e ci si dedica a lavori quali quello dell’inturtare(impastare), incannedare (stendere), infurriare e còere (infornaree cuocere), fresare (aprire).Pertanto, abilità e segreti del mestiere acquistano valore econo-mico e culturale, ed anche la figura del panificatore acquista pre-stigio: prestigio sociale, quando sentiamo parlare di maestri pa-nificatori; prestigio nel mercato se ricordiamo quanto è ricercatala figura dell’artigiano panificatore che può vantare “conoscenzee abilità di matrice tradizionale”.Così, accanto alla specificità di un pane e ai saperi che lo plasma-no, oggi si tende a dare importanza anche ai custodi di quest’ar-te. Le loro abilità e conoscenze, apprezzate e ricercate nel merca-to, fanno dei panificatori dei veri e propri maestri, individuabili inquelle che potremmo definire “nicchie di reclutamento”. Sono fa-mose le zone dell’hinterland cagliaritano (Quartu Sant’Elena, Sin-

nai e Settimo San Pietro ne sono esempio) e del nuorese, areache conta un cospicuo numero di panifici rinomati tra i quali ri-cordiamo quelli di Fonni, Bitti, Oliena, Ollolai e Dorgali.A queste “nicchie” attingono anche i grossi ipermercati isolaniche vi riconoscono personale competente, di consolidata espe-rienza, cui affidare l’organizzazione e la gestione del compartopanetteria, destinato all’attività di produzione oltre che di ven-dita. Si tratta di una produzione variegata che tiene conto dellatradizione isolana, nelle sue diverse specificità, e che si mostrasempre più sensibile all’offerta di prodotti standard, così che al-le peculiarità locali si affiancano ricette convenzionali su scalanazionale. Se anche nella grande distribuzione le conoscenze dei panifica-tori si aprono a forti innovazioni di carattere “globale”, questenon prevalgono su quelle tradizionali. È un globale dal profumoantico, si potrebbe dire paradossalmente. Un globale anche lo-cale, quindi, considerato che molte delle peculiarità enogastro-nomiche isolane trovano spazio in un concentrato spazio espo-sitivo e di vendita come quello degli ipermercati.A chi si reca, infatti, nella panetteria di un Centro commercialeappare un’ampia gamma di scelta, uno “scenario di sensazioni e

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663-664. Fasi di lavorazione del pane carasauin un panificio di Ollolai (foto Vladimira Desogus).

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media, ma non di molto però, perché la qualità è alta e la gentepreferisce spendere dieci centesimi in più per mangiare buono».Infine, nei negozi specializzati nella vendita di prodotti tipicitroviamo il “pane in confezione e formato turista”.9 Innovativa èl’idea della “scatola ai quattro gusti”: pane guttiau, carasau al ro-smarino, al peperoncino e alla paprica. Pratica da trasportare èla “valigetta coi gusti di Sardegna”, contenente insieme al paneanche altri alimenti tipici, quali olio e bottarga, ben venduti neinegozi dei villaggi costieri.Il pane tipico arriva perlopiù in Inghilterra, Germania, Norvegia,Svezia, Francia e Giappone, ed è significativo che esistano panifi-ci che producono solo per l’esportazione, come ad esempio, ilpanificio S’incungia di Sanluri, che produce pane carasau. Con ipani e attraverso i pani si vendono “territori” e l’immagine interadella Sardegna, di cui si esaltano le caratteristiche e le bellezzeambientali. Le confezioni, infatti, riportano stampati la silhouettedell’isola, i colori del mare, il sole, o ancora spighe di grano, nura-ghi e bronzetti nuragici eletti a simbolo del nostro patrimonioculturale. Le confezioni tendono a marcare le caratteristiche delprodotto, facendo riferimento, in diverse lingue, agli ingredienti,alle tecniche di lavorazione, ai modi di cottura e ai luoghi di pro-venienza, dai quali gli stessi pani spesso prendono nome.

Note

1. Ci sembra interessante ricordare che nelle zone di espansione ediliziacon tipologia abitativa “a villetta” pare irrinunciabile la realizzazione delcosiddetto forno sardo, espressione di un particolare gusto sociale perla cucina tradizionale.

2. E. Delitala 1990, p. 10.

3. Il giornale della Trexenta del giugno 2005 pubblicizza il programma delladecima Sagra del pane di Barrali. Ci sembra interessante riportarlo qui diseguito sia per le tematiche che la manifestazione culturale propone siaperché costituisce un significativo esempio di come le comunità promuo-vono iniziative di valorizzazione e spettacolarizzazione di aspetti della cul-tura locale. Luogo della manifestazione è la “piazza”, centro di aggregazio-ne e socializzazione, luogo ove la comunità rivive la propria memoria e lafa conoscere anche ai più giovani: come fa signora Luigina la quale, in qua-lità di maestra, e “straordinariamente”, collabora alla realizzazione del cor-so di panificazione. La sagra è anche occasione per l’esposizione di “tuttigli oggetti etnografici della cultura contadina”.

ASSOCIAZIONE CULTURALE GRUPPO FOLK SANTA LUCIA BARRALI / ORGANIZZA10a SAGRA DEL PANE / Barrali Sabato 9 Luglio 2005 / PROGRAMMA

Ore 17,30 lavorazione e dimostrazione del pane “su coccoi” presso CasaMascia / Ore 18,00 lavorazione e dimostrazione de “su ladrini” in Piazza /Ore 19,30 lavorazione e dimostrazione de “su casu” in Piazza. / Ore 20,00lavorazione e dimostrazione de “sa scedatzadura” de sa farra a cura del-l’Associazione Santa Lucia / Ore 21,15 lavorazione e dimostrazione de “supai” – accensione forno per la cottura del pane in Piazza / Ore 21,30 Con-segna attestati di partecipazione al corso dal “Seme al Pane” in collabora-zione con l’ERSAT / Ore 21,45 Spettacolo Folk in Piazza / Ore 22,00 Maci-nazione del grano duro con “sa moba” (antica macina in pietra) in Piazza /Ore 22,30 Degustazione del pane e del formaggio / Ore 23,15 Cottura delpane civraxiu nel forno a legna in piazza / Ore 24,00 Sfornata de su ci-vraxiu e degustazione del pane caldo / Durante la manifestazione si po-tranno ammirare tutti gli oggetti etnografici della cultura contadina, lamostra fotografica dei forni tradizionali a legna ed il filmato del corso dipanificazione. / I tecnici dell’ERSAT di Suelli illustreranno tutti i processidella trasformazione del grano in farina e pane tradizionale. / Chiusuracorso di panificazione che è durato dal 17 Febbraio al 09 Luglio 2005 con

la partecipazione di corsiste di Barrali e Senorbì e la collaborazione straor-dinaria di Tzia Luigina Vacca, in qualità di maestra.

Durante il corso è stato realizzato l’itinerario didattico dal grano al panearricchito con una vera e propria degustazione guidata del pane prepara-to dalle corsiste. Questa iniziativa è stata rivolta esclusivamente a tutti glialunni delle scuole materne, elementari e medie di Barrali.

4. Ricordiamo: la mostra La terra, il lavoro, il grano. Per una storia dei montifrumentari in Sardegna, allestita a Cagliari (2002) e patrocinata dal Banco diSardegna e dal Comune di Cagliari; la mostra Dai pani gioiello ai gioielli dipane, patrocinata dal Comune di Pistoia nell’ambito della rassegna “Tradi-zioni e oltre”, curata dall’Associazione culturale Tamago di Cagliari (2004);il seminario The bread of Sardinia, tenuto da antropologi dell’Università diCagliari presso il Department of Anthropology dell’Università Chonnam diKwangju, Corea, 2004.

5. S. Greenblatt, “Risonanza e meraviglia”, in Culture in mostra. Poetiche epolitiche dell’allestimento museale, a cura di I. Karp e S.D. Lavine, Bologna,CLUEB, 1995.

6. Il più delle volte si tratta di grano di varietà Cappelli.

7. Di recente, la CIA Sardegna (Confederazione italiana agricoltori), hapreannunciato l’imminente arrivo di grano anche dall’ex Unione Sovieticae da vari Paesi dell’Est Europeo.

8. Alcuni di questi attrezzi entrano in contrasto con i materiali previsti dalsistema igienico sanitario (HACCP).

9. Si tratta di confezioni di cartone rigido da 800, 500 e 250 grammi.

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665. Panificio di pane carasau, Sanluri (foto Vladimira Desogus).

666. Confezioni di pane carasau per il mercato turistico, Sanluri (foto Vladimira Desogus).

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Di seguito è riportato l’elenco in ordine alfabeti-co dei centri di produzione del pane; i nomi deipanificatori afferenti a ciascun centro con l’annodi nascita indicato tra parentesi; i numeri delle fi-gure suddivisi per località e per panificatore.

I pani, laddove non è fatta distinzione, non sonoattribuibili con precisione ad alcun panificatore,come nel caso di quelli appartenenti al Museo del-la Vita e delle Tradizioni Popolari di Nuoro (ISRE).

ABBASANTA, 301, 578-579

ARITZO, Ignazio Cabras (1954): 166

ATZARA, Assunta Soddu (1929), CaterinaManca (1931), Maria Manca (1931),Elisabetta Muggianu (1931), RaimondaDemelas (1944): 202, 292-296, 368

BASSACUTENA, loc. Stazzi Chessa, Chiara Masu(1942): 162

BAULADU, Bona Caria (1933): 76, 354, 613 (i pani 76 e 354 in didascalia sono statierroneamente assegnati a Tramatza)

BAUNEI, Rosa Atzeni (1896), Annamaria Tegas(1920): 460-461

BESSUDE, Maria Francesca Mannea (1935):151-152

BITTI, Panificio Cossellu: 548, 553

BOLOTANA, Giovannangela Concas (1927),Salvatorangela Putzulu (1951), PeppinaPutzulu (1955): 298, 434

BONO, Salvatora Cuccu (1941), Maria AgostinaCuccu (1944): 164, 248

BONORVA, Panificio Su zichi: 242;ISRE: 380, 383

BORTIGALI, 490-491, 494;Giovanna Murgia (1924): 493;Filomena Mura (1927), Angelina Mura(1931): 485-487

BUDONI, loc. Solità, Raimonda Basoni (1928):161, 245, 270, 405

BUSACHI, 195, 303;Panificio Su Succu: 241;ISRE: 4

CAGLIARI, Antico Forno Augusto Fonnesu:131-132;Panificio Arrai: 264

CHEREMULE, Salvatorica Fredda (1943), MariaMura (1955): 141, 160, 252, 576

CHIARAMONTI, 382;ISRE: 14

CUGLIERI, Panificio Pietro Manca: 145, 226,229, 297, 584;Mariuccia Arca (1943): 281;Comitato Santu Tilippu: 496-500

DOMUS DE MARIA, Forno Artigiano ErasmoCarta (1940): 178, 317

DORGALI, Luisa Monne (1948): 348-349, 615

DUALCHI, ISRE: 6-7, 9-10

FONNI, Anna Coinu (1941): 467-468

FORDONGIANUS, Franca Pianu (1946), Angela Loi (1961): 62, 167-168, 190-192,220, 291, 305, 339-344, 417, 422, 424,517, 524, 528, 533-534, 625-626

GHILARZA, ISRE: 16

GONNOSFANADIGA, Panificio Peppina Camboni,Panificio Gianfranco Piras: 118-119, 122-123, 159, 182, 265, 267-268, 310, 312

IGLESIAS, Panificio Guaita, Luciano Pisu (1951):283-284

IRGOLI, Giovanna Cedrino (1909): 246, 329-338

ISILI, Silvana Collu (1944), Mariella Pisci (1948):136-137, 177, 194, 204, 209-210, 269, 419

ITTIREDDU, ISRE: 13, 15, 556

LANUSEI, Panificio Ferreli: 239

LEI, Angelina Sale (1925), Filomena Demurtas(1932), Domenica Demurtas (1947): 483,488-489

LODÈ, Salvatorina Sanna (1922): 70-71, 247,277, 378-379, 420, 435, 554-555, 586-587

LUOGOSANTO, Gianna Orecchioni (1949): 163,306, 364

MACOMER, 448-550;ISRE: 8

MAMOIADA, 447;Maria Francesca Gregu (1926), LorettaGungui (1948), Sinfarosa Gungui (1957):254, 440-445,

MURAVERA, Maria Ausilia Concas (1945): 133,240, 271, 275, 279

NORAGUGUME, ISRE: 5

NUGHEDU SAN NICOLÒ, ISRE: 11, 17

NUORO, Luisa Monne (1948): 385, 423, 464,539, 563, 623

NURRI, Maria Carrus (1916): 507

OLIENA, 463, 465-466;Pasquarosa Piga (1928): 388; Minnia Bette (1947): 230

OLLOLAI, Francesca Daga (1944), CaterinaPaddeu (1946), Maria Chiara Paddeu(1969): 231, 233-234, 253, 542

OLMEDO, Maria Talia Tidore (1956), Maria Grazia Sardu (1959), Mariella Pinna (1961): 367, 372-374, 421, 640-645,660-661

ORANI, Lorenza Ladu (1928), SebastianaMarteddu (1951): 235, 251, 261, 432-433

OROSEI, ISRE: 516, 537-538, 582

ORUNE, Lucia Fancello (1928): 64-69, 72, 249,515, 550-551, 564-572

OSSI, ISRE: 549

OTTANA, 309

PATTADA, Lucrezia Deiana (1927), LorenzaMazza (1935), Lorenza Demontis (1941),Lucrezia Campus (1950): 236, 400, 408-409, 416, 427-428, 436-439, 543, 546, 561,574-575, 608

PAULILATINO, 73, 355, 357, 360, 376, 412;

410

Indice delle località e dei panificatori

Antonia Palmas (1926): 399, 462;Peppina Vidili (1932): 304, 345-346, 359, 397;Pietrina Floris (1935): 426;Giovannina Passiu (1943): 387;Sofia Piredda (1945): 429-430;Caterina Floris (1952): 398;Bonacattu Deligia (1956): 377;Maria Ponti (1960): 356, 375

SAMUGHEO, Panificio Su Coccoi, Anna MariaBarra (1951), Francesco Meloni (1978):138, 140, 213, 250

SANLURI, Gianni Mereu (1942): 117, 143, 155-156,179, 181, 198, 558, 560

SANTADI, Maria Lai (1950): 125, 147, 278, 313,315-316, 583

SANT’ANTIOCO, 196, 218, 451-453

SCANO MONTIFERRO, Panificio Flore, Tonina Mele(1951), Giuseppe Flore (1966): 63, 149-150,157-158, 189, 217, 225, 228, 238, 523;Eva Delogu (1961): 369-371

SEDILO, Francesca Onida (1942): 477-478

SELARGIUS, 418;Antico Forno Augusto Fonnesu: 120-121,199

SETTIMO SAN PIETRO, Bonaria Chironi (1924),Anna Rita Fadda (1960): 193, 200, 203,211, 308, 314, 318-320, 323-324, 350, 366,384, 386, 401-402, 414-415, 519, 527, 529,541, 544, 559, 577, 591

SIAMAGGIORE, Innocenza Serra (1930): 127,135, 186, 221

SILANUS, Luisa Monne (1948): 484

SIMAXIS, Peppina Solinas: 3

SINISCOLA, Maria Mulargia (1928): 547, 588

SINNAI, Panificio Su Moddizzosu: 205

SIURGUS DONIGALA, 509;ISRE: 510

SUELLI, Panificio tradizionale Beranu, LuigiSchirru (1949): 129-130

TEMPIO, Panificio F.lli Bisagno: 165

TEULADA, Forno a legna Marcello Pala: 148,206-207, 266, 280

THIESI, Peppina Seddaiu (1936), TeresaSeddaiu (1937): 128, 139, 184-185, 243-244, 262, 311, 361, 381, 431, 446

TERTENIA, 589;Giovanna Quai (1939): 347, 363,

TORPÈ, Elvira Murru (1927), Raimonda Satta(1931), Margherita Satta (1933), PaolinaVentroni (1940), Maria Giuseppa Capra(1947): 232, 263

TRAMATZA, Giuseppina Loi (1928): 134, 142,146, 188, 208, 219, 222, 224, 274, 299,390, 394, 410, 522, 535-536, 545, 562, 659;ISRE: 393, 406, 425, 518

TRINITÀ D’AGULTU, Maria Addis (1927): 362

URZULEI, Ofelia Anedda (1938): 169-170, 183,307, 392, 407, 552, 573, 585

USSASSAI, Tonina Moi (1949), Laura Moi(1955), Maddalena Puddu (1962),Giuseppina Loi (1966): 77, 124, 171-173,175-176, 180, 227, 272-273, 276, 282, 321-322, 325-328, 557, 614

VILLAGRANDE, Egidia Mameli (1933), GiovannaPerino (1938): 174, 214, 223, 237;Panificio Demurtas: 302, 358

VILLASOR, Ausilia Podda (1926), Giulia Pistis(1928), Titina Bullitta (1931): 154, 201

VILLAURBANA, Giovanna Casta (1943), IrmaCuscusu (1945), Vincenza Cuscusu (1949),Rosaria Ledda (1954), 126, 144, 153, 187,197, 212, 215-216, 300, 353, 365, 395, 403-404, 512-514, 520, 525, 530-531, 580, 590;Rosanna Ledda: 351-352;ISRE: 389, 391, 396, 411, 413, 521, 526,532, 540,

ZEDDIANI, ISRE: 12

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Page 211: Pani

Per fornire al lettore uno strumento certo di compara-zione, non potendo rispettare nel volume la proporzio-ne dei pani presentati, si è ritenuto opportuno introdur-re in didascalia, laddove disponibili, le misure dei paniriferite all’esemplare pubblicato.Si deve tenere conto tuttavia che tali manufatti sono rea-lizzati su modelli tramandati riguardo la tipologia ma aschema libero rispetto alla creatività di ciascuna esecutri-ce e che, per segnalazione delle stesse panificatrici, mol-ti pani si realizzano oggi in formato più piccolo rispettoa qualche decennio orsono, quando erano più stretta-mente ancorati alla funzione che ne decretava forma econsistenza, poiché calati in un contesto di consumo.

Per alcuni pani realizzati in data precedente al 2002 –soprattutto quelli relativi alla raccolta della Cattedra diStoria delle Tradizioni popolari della facoltà di Lettere eFilosofia dell’Università di Cagliari, confluiti presso lacollezione del Museo della Vita e delle Tradizioni Popo-lari Sarde –, si è proceduto a un misurato quanto neces-sario restauro digitale a carattere integrativo, principal-mente con l’attenuazione dei fori provocati nel tempodagli insetti, ammanchi che in molti casi interferivanonella lettura della forma del pane. Nei pochi esemplari il cui colore si era significativa-mente inscurito, a causa di un’errato originario tratta-mento, peraltro effettuato nel tentativo di scongiurarel’azione degli insetti, si è intervenuti mediante una leg-gera schiaritura.

Infine è da segnalare come il repertorio di immaginidella presente pubblicazione non escluda esemplarifrutto di rielaborazione di modelli precedenti. Scelta de-terminata dalla consapevolezza di rendere questo volu-me, pubblicato nel 2005, anche testimone e depositariodel proprio tempo, seguace di una tradizione intesa insenso dinamico, così come nella realtà risulta essere, ri-spetto al diffuso concetto che tende a fissarla in un am-bito statico e immutabile.

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Avvertenze redazionali

Page 212: Pani

Finito di stampare nel mese di novembre 2005presso lo stabilimento della Stampacolor, Sassari

Sarda Ceres, età romana, Ozieri, Civico Museo Archeologico alle Clarisse