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«Qui le cose difficilmente riescono a entrare in una cornice. Giusto nelle prospettive degli stradoni a perdita d’occhio s’intravede un disegno, sen- nò altrove gli spazi si aggrovigliano senza mai riuscire a fissarne i limiti, i contorni. L’immagine che mi viene è quella del sottobosco, il sottobosco di una civiltà che galleggia nella deriva di qualcosa che è stato e l’annun- cio di qualcosa che non si sa cosa sarà. Ed è in questa sospensione che la città rivela la sua anima, la sua tragica naturalezza.» Finalista Premio Viareggio 2005, sezione Opera Prima Premio Sandro Onofri 2005 per il Reportage narrativo Premio Nazionale di Narrativa Bergamo 2006 QUARTA RISTAMPA 12,50 AL BUON CORSIERO NELLA CITTÀ DEL PANE E DEI POSTINI DIABASIS GIORGIO MESSORI Primo, vero esordio di uno scrittore che ha talento, Nella Città del Pane e dei Postini racconta l’approccio a persone e luoghi all’inizio remoti, estranei, che mano a mano diventa- no famigliari. Nello scenario di Tashkent, la più grande città dell’Asia centrale, l’autore racconta l’estraniamento inizia- le, una storia d’amore, il disagio per una guerra invisibile ma assai vicina. E ogni viaggio in altre città uzbeke come Samarcanda, Bukhara, e poi fra i laghi e le montagne della Kirghisia, diventa un’occasione per guardare e immaginare, e viaggiare anche nello spazio e nel tempo della memoria. Così, in un’oscillazione fra diario intimo e diario di viaggio, con vari salti temporali e stilistici, il libro privilegia comun- que la forma del diario, che è la forma a cui si ricorre quan- do si vogliono seguire quei cambiamenti che ci riguardano più da vicino. Giorgio Messori (1955-2006) è nato a Castellarano (Reggio Emilia). Ha esordito come narratore intrecciando racconti suoi e di Beppe Sebaste nel volume L’ultimo buco nell’ac- qua (Aelia Laelia 1983). Altri racconti sono usciti sulle rivi- ste «Il semplice» (Feltrinelli) e «Riga» (Marcos y Marcos) e nell’antologia curata da Gianni Celati, Narratori delle riserve (Feltrinelli 1992). Ha tradotto il libro di Peter Bichsel Il let- tore, il narrare (Marcos y Marcos 1989) e pubblicato saggi sulla letteratura e sull’arte, con particolare riguardo alla fotografia. Tra questi, il volume Atelier Morandi (Palomar 1992), realizzato insieme al fotografo Luigi Ghirri. Nel catalogo Diabasis sono usciti postumi i racconti brevi Storie invisibili e, in collaborazione con il fotografo Vittore Fossati, il Viaggio in un paesaggio terrestre. Ha vissuto a Tashkent (Uzbekistan), e insegnato lingua e letteratura italiana in quella università. GIORGIO MESSORI NELLA CITTÀ DEL PANE E DEI POSTINI DIABASIS pane_postini_ok14mm.indd 1 pane_postini_ok14mm.indd 1 21-01-2010 12:16:41 21-01-2010 12:16:41

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Da una stanza situata nel cuore di Tashkent, in Uzbekistan, Giorgio Messori resiste al disagio di una guerra invisibile scrivendo: del suo arrivo nella Città del pane e dei postini, del lavoro di insegnante, dei viaggi e degli incontri nelle città uzbeke e poi fra i laghi e le montagne kirghise. Primo, vero esordio di uno scrittore di talento allevato alla scuola di Gianni Celati e Luigi Ghirri, Nella Città del Pane e dei Postini narra di un uomo che ha viaggiato a lungo nello spazio e nel tempo della propria memoria prima di incontrare la sua vera casa, «il grande cielo dell'Asia»: chi si abitua al cielo non contemplerà più confini; poiché la terra è come il mare, le montagne le sue onde.

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«Qui le cose difficilmente riescono a entrare in una cornice. Giusto nelle prospettive degli stradoni a perdita d’occhio s’intravede un disegno, sen-nò altrove gli spazi si aggrovigliano senza mai riuscire a fissarne i limiti, i contorni. L’immagine che mi viene è quella del sottobosco, il sottobosco di una civiltà che galleggia nella deriva di qualcosa che è stato e l’annun-cio di qualcosa che non si sa cosa sarà. Ed è in questa sospensione che la città rivela la sua anima, la sua tragica naturalezza.»

Finalista Premio Viareggio 2005, sezione Opera PrimaPremio Sandro Onofri 2005 per il Reportage narrativo

Premio Nazionale di Narrativa Bergamo 2006

QUARTA RISTAMPA

€ 12,50

AL BUON CORSIERO

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Primo, vero esordio di uno scrittore che ha talento, Nella Città del Pane e dei Postini racconta l’approccio a persone e luoghi all’inizio remoti, estranei, che mano a mano diventa-no famigliari. Nello scenario di Tashkent, la più grande città dell’Asia centrale, l’autore racconta l’estraniamento inizia-le, una storia d’amore, il disagio per una guerra invisibile ma assai vicina. E ogni viaggio in altre città uzbeke come Samarcanda, Bukhara, e poi fra i laghi e le montagne della Kirghisia, diventa un’occasione per guardare e immaginare, e viaggiare anche nello spazio e nel tempo della memoria. Così, in un’oscillazione fra diario intimo e diario di viaggio, con vari salti temporali e stilistici, il libro privilegia comun-que la forma del diario, che è la forma a cui si ricorre quan-do si vogliono seguire quei cambiamenti che ci riguardano più da vicino.

Giorgio Messori (1955-2006) è nato a Castellarano (Reggio Emilia). Ha esordito come narratore intrecciando racconti suoi e di Beppe Sebaste nel volume L’ultimo buco nell’ac-qua (Aelia Laelia 1983). Altri racconti sono usciti sulle rivi-ste «Il semplice» (Feltrinelli) e «Riga» (Marcos y Marcos) e nell’antologia curata da Gianni Celati, Narratori delle riserve (Feltrinelli 1992). Ha tradotto il libro di Peter Bichsel Il let-tore, il narrare (Marcos y Marcos 1989) e pubblicato saggi sulla letteratura e sull’arte, con particolare riguardo alla fotografi a. Tra questi, il volume Atelier Morandi (Palomar 1992), realizzato insieme al fotografo Luigi Ghirri.Nel catalogo Diabasis sono usciti postumi i racconti brevi Storie invisibili e, in collaborazione con il fotografo Vittore Fossati, il Viaggio in un paesaggio terrestre. Ha vissuto a Tashkent (Uzbekistan), e insegnato lingua e letteratura italiana in quella università.

GIORGIO MESSORINELLA CITTÀ DEL PANE E DEI POSTINI

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In copertina:Fotografia di Fabrizio Cicconi, Tashkent, Uzbekistan, 2000.

Sul retro di copertina:Fotografia di Vittore Fossati, Lago Issik-Kul, Kirghizistan, 2003.

Progetto grafico e copertinaBosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978 88 8103 687 5

© 2005 Edizioni Diabasis© 2010 quarta ristampa

via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italiatelefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047

[email protected] www.diabasis.it

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Giorgio Messori

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Parte prima

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L’arrivo, la casa e il teatro, primo viaggio

Doveva, sì, guardare e saggiare ogni cosa, ma senza lasciarsene avvincere.

Franz Kafka, America

10 febbraio. A un buffet all’aeroporto di Francoforte: stan-chezza dopo giorni così tirati, la sveglia che stamattina non haneanche suonato e così mi ha svegliato Augusto che m’era venu-to a prendere. Inizio in salita, già con l’affanno.

Ieri sera sono stato in ospedale a salutare mio padre che si ver-gognava della sua commozione. Così l’ho salutato in fretta, comese dovessi tornare il giorno dopo.

I giorni tirati dipendevano dalla malattia di mio padre, unabrutta bronchite che poi è sfociata in una depressione che lo fa-ceva saltare giù dal letto, di notte, perché diceva che lo prendeva-no le malinconie. E in mezzo alle sue malinconie c’erano natural-mente anche le mie ansie per il viaggio, i ritardi e le noieburocratiche, i pranzi da mia madre che mi parlava delle sue tri-stezze e le preoccupazioni per quando mio padre sarebbe tornatoa casa. E nell’incertezza della malattia e della mia partenza miamadre mi ha raccontato storie familiari che non conoscevo, comeil nonno di mio padre che è morto ubriaco cadendo in un pozzonero. Mia madre mi ha detto che questo bisnonno aveva messoincinta una nuora e tutti dicevano che era un poco di buono e unprepotente, perciò aveva fatto la fine che si meritava. Ma, chiun-que fosse, lui adorava mio padre, l’unico maschio fra tante fem-mine, così se lo portava in giro da solo in calesse e sulla strada vo-leva sempre sorpassare tutti per dimostrare che lui era il più forte,il più veloce. Da qui, raccontava mia madre, nascevano forse lavoglia di primeggiare e l’insicurezza di mio padre che non ha mai

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voluto perdere, neanche a carte, così adesso si ritrova pieno dipaure e manie depressive (le malinconie, come le chiama lui).

Finalmente a questo buffet, sorseggiando una birra, fra i tantiviaggiatori di quest’aeroporto enorme ho trovato un piccolo spa-zio d’intimità che mi ha permesso di buttar giù queste righe, di ri-prendere alcune sensazioni di queste giornate così difficili e in-tense. Adesso sono in viaggio, ma non ho ancora lasciato nientealle spalle. Sento solo il sollievo d’esser tornato a scrivere qualco-sa dopo così tanti giorni. Peccato solo che la birra sia già finita.

Un’altra birra, dopo aver fatto a una macchinetta 4 fototesse-re che m’ero dimenticato di fare a Reggio, come mi aveva consi-gliato Adriana. Nelle foto ho fatto un bel sorriso a denti strettiper mascherare un po’ la faccia stanca e tirata. Forse ho una fac-cia troppo sorridente per andare su dei documenti.

Mi accorgo comunque di avere bisogno di piccoli gesti (fo-to, birre, note sul taccuino, gironzolare nei duty-free a guardarcravatte, profumi e liquori) tanti piccoli gesti per ammazzare iltempo e lenire quella punta d’angoscia che mi accompagna.D’altronde scrittura e birre e sigarette sono da tempo un com-plemento necessario al trascorrere della mia vita, una sorta diprotezione. Come un sospiro, in mezzo a tanti affanni. E poi c’èanche la stanchezza, che serve a calmare l’ansia.

*11 febbraio. Prime impressioni a neanche 24 ore dall’arrivo a

Tashkent. Dall’aereo la visione di una grande città, ma poco illu-minata. E di notte, già sull’aereo e dopo anche in macchina, conAdriana, mi ha colpito questa penombra e la monocromia del-l’insieme (ciò che normalmente si qualifica come “grigio”, nontanto per designare un colore quanto piuttosto una tonalità). Co-munque l’impressione notturna contrastava parecchio con l’im-magine sfavillante delle notti occidentali.

Poi sono arrivato nel grande appartamento che per il momen-to mi ospita, l’appartamento di un ambasciatore ch’era stato inAfrica da dove s’è portato soprammobili e trofei con cui ha riem-pito la casa. «Una specie di piazza d’armi molto kitsch, tipica de-gli apparatcik», mi ha spiegato Adriana che parla piuttosto beneil russo ed è qui già da un po’ mentre anni prima era stata a inse-

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gnare anche a Leningrado, avendo così modo di far pratica delleusanze “sovietiche”.

Dalle mie finestre si vedrebbe la Casa del Presidente ma unagrande barriera di metallo ne impedisce la vista. Sopra hanno ap-peso cartelli di propaganda, forse per mascherare una protezionemessa su perché non gli sparino addosso, al Presidente. E cosìposso solo vedere, in cima alla casa presidenziale, la bandieradell’Uzbekistan che sventola sbucando dalla sommità di quest’e-norme barriera.

Di mattina il primo incontro con gli studenti nella scalcinata emaleodorante Università delle Lingue Mondiali, come vienechiamato il posto dove andrò a lavorare. Mi ha colpito l’alterabellezza di una studentessa coreana, la simpatia degli studenti, laloro aria partecipe e svagata.

*12 febbraio. Con l’idea di sistemarmi altrove ho visitato le pri-

me case nelle mahallà, i quartieri con le casette e i giardini nasco-sti che sorgono dietro gli stradoni che percorrono in lungo e inlargo la città. Ma ho visto fin troppe case da non riuscire quasi aricordarmene nessuna, oppure confondevo gli spazi di una conquelli di un’altra. E poi c’è ancora lo stordimento di un mondonuovo e sconosciuto, di due lingue, il russo e l’uzbeko, di cui noncapisco una parola, se non spasìba e dasvidànija con cui salutaree ringraziare Vladik, l’autista russo di Adriana, o le due ragazzebionde, altissime e magre, che ci hanno portato in giro a propor-re le case e sorridevano spesso con aria compunta, sgranando oc-chioni da cerbiatte.

Di mattina la prima visita a un grande bazar dove vendono unpo’ tutto quel che c’è da mangiare. Molta mercanzia stava den-tro grandi sacchi di iuta e dappertutto un frastuono di colori, vo-ci, odori. L’odore più forte era però il tanfo acre di alcune pianteche delle donne bruciavano su dei pentolini, dicendo che servi-vano a scongiurare il malocchio e combattere le malattie. E que-st’odore si diffondeva dappertutto, copriva in parte anche l’aro-ma delle spezie. Al mercato ho comunque comprato dellealbicocche secche buonissime, che mi sono mangiato mentre gi-ravamo in macchina con Vladik a vedere le case.

Verso sera con Adriana a un recital di una cantante con un

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gruppo che suonava strumenti tradizionali: una specie di tambu-rello, un violino, qualcosa che somigliava a uno xilofono, poistrumenti a corda, pizzicati, che somigliavano a banjo, mandoli-ni, sitar. Ma mi accorgo, e forse è inevitabile, che in questo postomi manca quasi completamente la nomenclatura per descriverequello che vedo.

Ad ogni modo la cantante aveva una voce bellissima e cantavalitanie struggenti (canti d’amore?) con una voce tutta di testa,che ogni tanto faceva vibrare avvicinandosi al volto un piattinodi porcellana. E alla fine di ogni canzone saliva sempre qualcunosul palcoscenico a portare mazzi di fiori. Poi, con l’ultima canzo-ne, alcune donne si sono alzate dalla platea e hanno cominciato aballare: donne non più giovani e grassocce, che si divertivano co-me bambine.

*15 febbraio. Di mattina pioggia continua dopo il tanto sole

dei giorni scorsi, e al pomeriggio ha cominciato a scendere laneve.

Non ho ancora capito com’è fatta questa città, l’ho girata inlungo e in largo in macchina per i suoi stradoni sconnessi e ognitanto riappariva qualcosa che avevo già visto, ma senza riuscire acollocarlo in una topografia precisa. Dima, l’autista russo che miè stato assegnato, mi ha detto in un inglese incerto che la città haun diametro di 40 chilometri, e prima del terremoto del ‘66 eramolto più piccola. Poi l’hanno costruita con questi stradoni daparate venendo da tutte le repubbliche sovietiche, ed è successoche molti di loro sono rimasti creando sobborghi di russi, azeri,georgiani, armeni, tagiki, che magari sono andati ad abitare nel-le casette che sorgono dietro i casermoni, le casette coi giardinisegreti che sono andato a vedere con Adriana e le cerbiatte sorri-denti. Io naturalmente non capivo niente di questi quartieri, maci devono essere pure delle differenze se Adriana, mentre vede-vamo una casa enorme, con perfino due leoni in legno al portaled’ingresso, mi ha detto che dei padroni c’era probabilmente dafidarsi perché erano azeri.

Oggi all’università, mentre facevo lezione, è entrata una don-na corpulenta vestita da contadina, col fazzoletto in testa, per fa-

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re un’ispezione e controllare se i registri erano a posto. Poi si èraccomandata che gli uomini portino sempre la cravatta, com’èprescritto da non so quale regolamento. Quand’è uscita ho chie-sto agli studenti chi fosse e loro mi hanno detto che era l’inse-gnante di tedesco.

Davvero strane queste prescrizioni, soprattutto in questa uni-versità così scalcinata, che già alla mattina presto si sente odor difritto e puzza di piscio. Ma ho l’impressione che mi capiterà spes-so d’assistere a queste pantomime, come quella recitata dall’im-probabile (almeno ai miei occhi) insegnante di tedesco. Una sen-sazione frequente, in questi primi giorni: l’idea di assistere a unarecita di cui però ignoro completamente il copione.

Alla sera sono poi andato al Teatro dell’Opera con Adriana,invitati da una sua amica russa che insegna al conservatorio. Da-vano Sansone e Dalila di Saint-Saëns. Il teatro era mezzo vuoto, ela signora che ci aveva invitato diceva che forse c’era poca genteper via della neve. Comunque lo spettacolo era ricco di coristi,ballerini, cantanti, tanto che c’era quasi più gente sul palcosceni-co che in platea.

Mi è piaciuta la recitazione enfatica della cantante, le sue po-se da sciantosa per sedurre Sansone, i gesti non sempre sincro-nizzati del coro. E poi i costumi variopinti, le monumentali sce-nografie di cartapesta e soprattutto la sontuosità sbiadita diquesto teatro per l’opera e la danza, il più grande dell’interopaese, che Adriana mi diceva esser stato costruito dai prigionie-ri di guerra giapponesi.

È strano come mi trovi ad amare il teatro, da queste parti,mentre a casa per lo più non lo sopporto ed evito d’andarci. Quici andrei tutte le sere, anche se naturalmente continuo a non ca-pire la lingua e molte cose per forza mi sfuggono. Ma mi piace lagrandiosità un po’ sfatta di queste sale “sovietiche”, e l’idea dipercepire comunque una struttura, che nella vita di fuori conti-nua completamente a sfuggirmi.

Un ultimo ricordo di oggi: quando dopo pranzo sono stato alsupermercato con Dima, l’autista, a comprare una biro rossa edella carta igienica, ho visto che molti commessi e soprattuttocommesse avevano una mascherina bianca sul volto a coprire na-so e bocca. Pensavo stupidamente a un’usanza islamica, mentre

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Dima mi ha spiegato che era solo una protezione contro l’in-fluenza che sta girando da queste parti.

*16 febbraio. Oggi ho incontrato l’ambasciatrice, che anche se è

donna si deve chiamare ambasciatore (l’ambasciatrice è solo lamoglie dell’ambasciatore: e allora come si può chiamare il mari-to di una donna ambasciatore?). Comunque l’ambasciatore, unadonna alta e magra che presto si trasferirà a Kiev, parlava di que-sto paese già con nostalgia, rimpiangendo la dolcezza “orienta-le” della gente, gli spettacoli teatrali a cui amava andare e le pia-cevano tutti, dall’opera ai concerti ai mimi, perché diceva cheerano così lontani dalle trasgressioni nevrotiche occidentali.Adorava ad esempio la cantante sciantosa che faceva Dalila nel-l’opera di Saint-Saëns, diceva che era una sua cara amica.

Nell’ambiente dell’ambasciata che ho dovuto frequentare inquesti giorni, soprattutto fra i funzionari più alti, c’è sempre que-sto parlare in punta di forchetta che mi mette un po’ in imbaraz-zo; buone maniere studiate, mi pare, soprattutto per valutarel’interlocutore, come un finto tono confidenziale per irretirti inchissà quale inganno.

Ma forse, in questa estrema periferia del mondo, un certo lan-guore nell’approccio personale è dovuto anche a una sorta di sva-gatezza che ci si concede volentieri fuori dal mondo degli affari edella politica che conta. Il vice-ambasciatore, ad esempio, che èarrivato solo pochi giorni prima di me, mi confessava che perl’Uzbekistan non ci sono grandi prospettive di sviluppo, almenoper i prossimi dieci anni: impianti industriali obsoleti, come intante parti dell’ex-impero sovietico, e poi il cotone che hanno ingran quantità ma riescono a venderlo solo grezzo, per due lire, ilgas e il petrolio che non riescono a dar via perché il tanto propa-gandato oleodotto e gasdotto è ancora di là da venire, nel libro deisogni da mettere per il momento nel cassetto. L’importante, mi di-ceva, è che almeno la gente abbia da mangiare, e per fortuna l’a-gricoltura che c’è pare garantire che la gente non crepi di fame. Epoi chissà, si aspetta, sperando non venga il peggio.

Oggi ho comunque trovato probabilmente la casa dove andrò.La tratteranno le due cerbiatte sorridenti, sulla base di un’offer-ta che ho fatto. Purtroppo ci sono alcune cose da fare, e anche se

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la trattativa andrà in porto dovrò rassegnarmi a stare ancora perun po’ in questo grande appartamento dell’apparatcik, fra tappe-ti orientali, statuette cinesi e soprammobili africani in legno edalabastro.

*17 febbraio. Giornata quasi primaverile, la neve ormai s’è

squagliata. Splende il sole sulle barriere davanti alla casa presi-denziale, sulle spianate e il vialone di questa zona centrale cosìdesertica, ipercontrollata dalla polizia (ci sono posti di bloccodappertutto).

Appena tornato dall’università dove ho conosciuto quelli chefanno francese come prima lingua: sono solo in sei. A lezione hoparlato soprattutto con uno studente che ama tutto quello chec’entra con l’Italia, dalla politica all’arte, dal cinema alla musica. Lesue preferenze vanno da Toto Cotugno a Giorgione, e ha ancheuna particolare predilezione per l’attrice Simona Cavallari, cheaveva visto in uno sceneggiato sulla mafia. È un tagiko di Bukhara,che però non è mai stato in Tagikistan perché dice che là c’è anco-ra la guerra come in tutte le regioni attaccate all’Afghanistan, dovecomandano i talebani e si traffica parecchio con l’eroina.

A scorrazzarmi per la città c’è sempre Dima, che ho scopertoche mentre mi aspetta in macchina si studia su un librino alcuneparole d’inglese per riuscire a scambiare due parole. Così ognitanto mi illustra quel che si vede dal finestrino: lo stadio, il teatrodi prosa, un museo. Però continuo a conoscere questa città solodai finestrini di una macchina, mi manca un po’ il piacere di va-gabondare per una città. Ma qui sembra non ci sia neanche uncentro. Una città acefala, come forse si è voluta costruire nellapianificazione sovietica.

*18 febbraio. Giornata intensa all’università dove sono stato in-

vitato a pranzo dal Rettore, un tipo grosso piuttosto gioviale cheha voluto spiegarmi il grande interesse che c’è per la lingua ita-liana alla sua università. Mangiato il plov, il piatto nazionale fat-to con del riso speziato e pezzi di montone. Una cosa fin troppounta, che così mi si è piantata sullo stomaco.

Per digerire sono poi andato in giro col Decano, uno che

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quando cammina pare pattinare rasentando i muri con aria di-stratta e assente. Adriana mi diceva che tutti sanno che prendemazzette dagli studenti per farli passare, e comunque con me eragentile e mi ha portato in giro per mostrarmi le aule dove si inse-gnano altre lingue (l’arabo, il cinese, il giapponese, l’inglese) perdimostrarmi come fossero meglio attrezzate dell’aula d’italiano.Un modo per chiedere se l’ambasciata fosse disposta a metterciqualche altro libro, magari un computer, una fotocopiatrice, vi-sto fra l’altro che il mese prossimo l’ambasciatore inaugureràl’aula con tutte le autorità.

Dopo questa giornata d’incontri ufficiali e lezioni con gli stu-denti son stato a una mostra di giovani artisti uzbeki, discepoli diun maestro d’origine greca, nato in Georgia e poi trapiantato inUzbekistan a seguito di una deportazione etnica voluta da Stalin.Io e Adriana, che continua a farmi da balia per questi primi gior-ni, eravamo stati invitati da una sua amica, una giovane pittrice dinome Inna che sta con un americano più vecchio di lei che inse-gna in una scuola internazionale. La mostra era in una di quellecasette coi giardini segreti che stanno dietro gli stradoni coi ca-sermoni tutti uguali. Alcuni quadri non erano male, specie quellicoi colori meno sgargianti. Ma il ricordo più bello è di quando so-no uscito a fumare una sigaretta nel piccolo giardino e c’era la lu-na splendente, l’aria tersa e una scala in legno appoggiata a un al-bero che sembrava arrivare alla luna e dietro, a circondare ilgiardino, un muro tutto scrostato che lasciava trapelare il fango ei sassi con cui l’avevano tirato su. Non so perché ma mi è sembra-ta una visione bellissima, commovente.

Queste notti stellate e questi giardini aumentano naturalmen-te la mia voglia di casa, di starmene in pace a guardare il cielo,dietro un muretto. Ma pare debba ancora aspettare, forse non vain porto la trattativa avviata con le cerbiatte.

Di sera poi un party da Arrigo, un italiano che lavora alla Ban-ca Mondiale. A un certo punto sono entrati anche due ballerinidel teatro che si sono esibiti su una musica di Ciaikovskji. Hannodanzato per qualche minuto volteggiando in punta di piedi sultappeto del salone dove c’era la festa, ed io mi sono sentito in im-barazzo per loro. Mi sembravano animali ammaestrati in tutù,calzamaglia, mentre tutti gli altri continuavano a ingoiare tartinee bere vino bianco.

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Poi hanno cominciato a ballare anche diversi invitati su dellecanzoni moderne. Ha ballato anche l’“ambasciatora”, che poi sen’è andata un po’ prima degli altri seguita dal suo cane, un le-vriero agile e obbediente.

Io come al solito non ho ballato e ho invece chiacchierato conVincenzo, l’archivista dell’ambasciata, e un tale che lavora cometecnico agli impianti del gas ed era l’unico oltre a me che fumavasigarette. Prima di andar via una delle invitate mi ha anche chie-sto se volevo ballare. Alla mia risposta negativa mi ha domanda-to allora se giocavo a tennis, ed è rimasta stupita che non giocavonemmeno a tennis.

*19 febbraio. Svegliato tardi ma non ho voglia di uscire. A uscir

di casa, per dove sto, mi sembra di essere subito sotto il control-lo della polizia. Allora preferisco non andare fuori e occupare in-vece quei pochi spazi che mi sono ritagliato nel grande apparta-mento dell’ex-ambasciatore in Africa.

Sto rileggendo lentamente America di Kafka, che quasi non miricordavo più visto che l’avevo letto più di vent’anni fa. L’ho scel-to prima di partire soprattutto per come aveva pensato d’intito-larlo Kafka, cioè Il disperso, che mi sembrava consono all’espe-rienza che andavo a fare. E in effetti ci sono momenti in cui miriconosco, come quando Karl Rossmann all’arrivo a New Yorkviene preso sotto tutela dallo zio senatore, che lo sottrae dai guaiin cui si stava cacciando e lo ospita nella sua bella casa. Nel miocaso lo zio è Adriana, che mi organizza le giornate e mi evita i fa-stidi maggiori. «Lo zio gli veniva incontro affabilmente in ognipiccolezza, e a Karl non toccò mai trarre insegnamento dalleesperienze penose che tanto amareggiano la vita i primi tempi inun paese straniero», scrive Kafka verso l’inizio. Che è un po’quello che mi sta capitando da quando sono arrivato: autista,donna che mi viene a fare le pulizie e mi prepara quasi sempre ilborsc , il minestrone russo con le rape, e mi porta pure il kefir perdisintossicarmi. E poi i giri organizzati per cercare la casa, gli in-viti a feste, teatro, mostre, di cui a volte farei anche a meno mache m’impediscono di stare comunque troppo solo e rintanatonella cuccia.

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Di pomeriggio con Adriana a vedere mobili antichi e tappetiper preparare la mostra da fare in Italia sull’artigianato uzbeko.Prima siamo stati da un antiquario raffinato, uno col foulard al col-lo che parlava un buon inglese, e poi a casa di un certo Arkadin,un omosessuale grasso che si chiamava come quel personaggio diOrson Welles che incarica un avventuriero d’indagare su di luiperché vuole che gli sveli il suo passato, avvolto in un’enigmaticaamnesia. Questo Arkadin, quello che abbiamo realmente incon-trato, voleva vendere ciò che negli anni aveva raccolto per andar-sene a stare in Olanda. Ci ha ricevuto nella sua casa di famiglia, coigenitori anziani e una bella ragazza, forse la sorella, che se ne stavaimmobile su un divano a guardare dei video musicali. Per tutto iltempo che siamo stati lì non si è mai mossa, avvolta in una vestagliadi seta e inespressiva e triste come una bambola.

Poi c’è stato l’incontro con Elisabeth, che qui dirige il GoetheInstitut e abita in una bella casa con un grande scalone da filmamericano. Si è sposata con Oreste, un grafico argentino moltosimpatico con cui poi sono andato a bere qualche birra in un lo-calino jazz dove non c’era praticamente nessuno e i suonatorisuonavano senza mai guardarsi in faccia, gli occhi sempre fissi suun televisore acceso. E qui Oreste mi ha parlato della bellezza delpaesaggio che s’incontra andando verso Samarcanda, Bukhara,Khiva, e naturalmente della bellezza di queste antiche città. Peròmi ha anche detto della difficoltà di capire la cultura visiva degliuzbeki, il loro modo di organizzare le forme nello spazio, e an-che della difficoltà di delineare un percorso di sviluppo artistico,almeno per come si è abituati a considerarlo nella cultura occi-dentale. Perché neanche a visitare i musei c’è da capire granché,in quanto sono ancora organizzati con pedanteria “sovietica”,come se si fosse rinunciato quasi del tutto a un’elaborazione in-tellettuale a favore di una più semplice e “democratica” docu-mentazione. Comunque Oreste, questo grafico argentino, hapromesso di mostrarmi alcuni libri e cataloghi da cui mi attendomolto, forse una prima chiave per cominciare a capire qualcosadel posto in cui mi trovo.

*20 febbraio. Stamattina avvisaglie di dissenteria (ho l’impres-

sione sia stato il kefir). Poi ho parlato al telefono con mio padre,

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che ieri è tornato dall’ospedale dove non gli hanno trovato nien-te di serio. Sembrava più affabile del solito, mi ha anche ringra-ziato più volte, voleva sapere cosa mangiavo, come mi trovavo. Epochi minuti dopo mi ha chiamato mia sorella Daniela, a cui hospiegato più dettagliatamente la vita comoda che fin qui ho fatto.

In effetti fin qui non ho avuto molte grane. Anzi, a volte miprende quasi una letargìa, un’indolenza che mi spinge a usciresolo per l’università e le cose che mi organizza Adriana. Certonon sono stato ancora cacciato dallo zio, com’è capitato a KarlRossmann, che per una piccola disobbedienza ha dovuto comin-ciare a cavarsela da solo nell’intricato e spesso spietato mondoamericano. La mia America è senz’altro più confortevole, anchemeno avventurosa perché si limita per ora al grande apparta-mento con cineserie e trofei africani, alle visioni della città dai fi-nestrini della macchina di Dima o Vladik, alle case dove sono in-vitato o vado a visitare per cercare di sistemarmi. E il lavoro, perora, è soprattutto far due chiacchiere con gli studenti.

Di pomeriggio sono poi stato, sempre con Adriana, a trovareun pittore, un certo Lekim Ibraghimov che ha proposto di affit-tarmi la sua casa, una bella casa a due piani che ha tirato su con lesue mani. Ma il prezzo è un po’ troppo alto e la casa fin troppogrande per una persona sola.

Lekim Ibraghimov ci ha poi portato nel suo atelier, uno stanzo-ne dentro un vecchio edificio annegato fra gli alberi e costruito aitempi di Stalin per ospitare i pittori dell’Accademia degli Artisti.E qui ci ha raccontato la sua storia: che è nato in Kazakistan, stu-diato ad Almaty e poi a Tashkent, e che per un po’ ha girato, neglianni del suo apprendistato, per alcune città dell’Unione Sovietica(soprattutto Mosca e Vilnius) dove ha potuto confrontarsi conquello che facevano gli altri pittori. La sua pittura ha però subitouna radicale trasformazione una decina d’anni fa, quando ha ri-scoperto le sue origini, la sua appartenenza all’antica popolazionedegli Uyghuri, un popolo che dallo Xinjiang, nella Cina nordocci-dentale, si è poi sparso per tutta l’Asia centrale. Questo ritorno al-le radici lo ha portato a una maggior spiritualità e soprattutto a undeciso abbandono del realismo per andare verso forme più astrat-te, o perlomeno stilizzate.

Lekim Ibraghimov ha un carattere allegro, esuberante, e ci haspiegato che lui per dipingere aspetta parecchio, si mette davan-

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ti alla tela e si scola un po’ di vodka per trovare l’ispirazione. Poisolo quando sente di avere l’energia giusta comincia a dipingere,e il quadro lo finisce in poco tempo, preso da un intenso fervorecreativo. E quando ha finito è naturalmente esausto, e in generenon ritocca più niente di quel che ha fatto.

Tornando a casa sua, Ibraghimov mi ha poi mostrato un li-brino di sue poesie tradotte in tedesco da uno slavista svizzero.Le poesie sono semplici: parlano di angeli e anime vaganti, edelle steppe che sono vaste come l’oceano. In tedesco il libros’intitola, prendendo un verso di una poesia, Sono nato 5000 an-ni fa, credo per indicare l’origine plurimillenaria della sua di-scendenza “uyghura”.

*21 febbraio. Ci deve essere qualcosa che mi sfugge nel funzio-

namento dei telefoni e delle comunicazioni fra la gente di qua.Oggi pomeriggio, appena tornato a casa, mi ha telefonato Gali-na, quella delle due cerbiatte che parla inglese, perché volevadarmi un appuntamento per vedere una casa. Allora ho telefona-to a Dima, l’autista, per dirgli di passarmi a prendere, ma mi harisposto una voce di donna che parlava solo russo e non ci siamocapiti. Eppure Dima ha un telefonino che porta sempre con sé,in macchina, e il suo numero lo avevamo appena controllato as-sieme. Così ho riprovato ma c’era sempre la stessa voce di donnae il risultato è stato lo stesso: impossibile comunicare. Allora hocercato Adriana, mia guida e interprete, ma al suo telefonino nonrispondeva nessuno e all’ambasciata, dove doveva essere in quelmomento lì, c’era sempre occupato. Perciò, dopo innumerevolitentativi, ho provato sul numero di Vincenzo (non so se telefoni-no oppure numero di casa) ma anche lì mi ha risposto una vocedi donna russa (o uzbeka) che al nome di Vincenzo non ha reagi-to minimamente e anzi ha subito riattaccato. Così, preso dallosconforto, ho telefonato a Galina per rimandare l’appuntamen-to, ma anche al suo numero naturalmente non mi ha risposto Ga-lina ma un’altra donna, che ovviamente non parlava inglese o al-tre lingue che conoscevo.

La cosa più strana è che però, più o meno all’ora dell’appun-tamento, quando ormai avevo perso ogni speranza si è presenta-to a casa mia Dima, dicendo che aveva sentito per telefono Gali-

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na che gli aveva detto dell’appuntamento per la casa. E poi, men-tre ero in macchina, sul telefonino di Dima mi ha chiamato pureAdriana, per sapere se tutto andava bene e c’erano novità.

*22 febbraio. Oggi all’università ho rivisto il Decano svagato e

untuoso che pare prenda mance dagli studenti. L’ho rivisto per-ché il Rettore, quand’eravamo a pranzo da lui, mi aveva pregatodi portare al più presto un paio di foto dell’ambasciatore italianoe darle appunto al Decano. Per far cosa non me lo aveva detto,ma quando ho portato le foto al Decano gliel’ho chiesto, e lui miha dato una risposta che subito non ho capito. Allora per spie-garmelo ha aperto un armadietto, dove c’era un vaso piuttostovoluminoso e incartato alla bell’e meglio, e raffigurato sul vasoc’era il volto di un signore che non conoscevo. Allora ho capitoche per l’inaugurazione dell’aula d’italiano vogliono omaggiarel’Ambasciatora di un vaso che abbia sopra la sua faccia. In com-penso i banchi e le seggiole nuove che avevano promesso non so-no ancora arrivati.

Nel pomeriggio ho avuto anche l’incontro col Prorettore delconservatorio, un omone tutto scuro di capelli e le sopraccigliafoltissime alla Breznev. Aveva modi molto calorosi e ogni tantomi squadrava fisso in faccia, con un largo sorriso, mentre mi par-lava in una lingua che non capivo. All’incontro c’erano anchedue signore che hanno tenuto corsi d’italiano ma certo non lo pa-droneggiano, e Adriana che fungeva da interprete e organizzatri-ce: bisognava discutere sul mio prossimo impegno d’insegna-mento. Ero un po’ in imbarazzo per le due signore, perché misembrava d’invadere un loro territorio e anche prenderle in ca-stagna per la loro evidente scarsa conoscenza dell’italiano. Alme-no mi è sembrato di cogliere questo timore in una delle due, unasignora grassoccia con gli occhiali spessi. L’altra, magrissima, eraquella che ci aveva invitato a teatro al Sansone e Dalila e aveva lastessa aria serafica e apprensiva di quella sera, come di chi è sem-pre invaso da un’emotività che difficilmente riesce a controllare.

Devo dire che l’ambiente del conservatorio mi è piaciuto: l’e-dificio è grande e molto più vecchio di quello dell’università, chesembra più che altro un casa abusiva costruita malamente. Il con-servatorio, anche se piuttosto malmesso, dà un’idea di maggior

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solidità, quella solidità un po’ sordida e polverosa che ci si puòimmaginare nei palazzi giudiziari descritti da Kafka, oppure ve-dere in qualche vecchio film del dopoguerra. Insomma si respi-rava un’aria molto più letteraria, suggestiva.

Dopo l’accordo raggiunto (ogni mercoledì a partire dallaprossima settimana) mi hanno portato a visitare la biblioteca do-ve c’erano accatastati alcuni libri italiani messi a casaccio: ma-nuali e grammatiche, un libro di critica letteraria di Ezio Rai-mondi, gli atti di un convegno sulla traduzione, pubblicazioni sulteatro musicale e i compositori d’opera. Ogni tanto, consultan-do questi volumi, giungevano accordi di strumenti, gorgheggi dicantanti. Alla fine mi son preso quattro libri, a nome dell’inse-gnante grassoccia perché a me non potevano ancora prestarli. Leho promesso che naturalmente non li avrei persi.

Poi mi hanno accompagnato, lei e il prorettore, alla stanza ri-servata agli insegnanti di lingue, che qui chiamano “cattedra”.Era una specie di portineria piuttosto stretta dove c’era una si-gnora che stava parlando con due ragazzi e in faccia portavaquella mascherina che avevo già visto al supermercato; in un an-golo un’altra donna, pallidissima e immobile come la morte. Lasignora con la mascherina come mi ha visto se l’è tolta, dicendo-mi che era l’insegnante di tedesco, immediatamente felice che losapessi parlare anch’io, almeno per scambiare due chiacchiere.Mi ha raccontato che la famiglia viene dall’Ucraina, ma ormai èqui da un sacco di tempo, da prima della guerra. Era davverocontenta di avere un nuovo collega, e ha tenuto a sottolinearmiche bisogna aiutarsi a vicenda, felice di venire incontro a ognimia richiesta.

Quando sono uscito mi ha accompagnato fuori il prorettore,che prima di congedarsi mi ha stretto ripetutamente la mano.

*23 febbraio. Da quando sono qua mi trovo spesso immerso in

qualche cerimoniale, come se il mio compito principale fosse sor-ridere e stringere mani. Oggi ad esempio sono stato alla celebra-zione dell’amicizia fra Egitto e Uzbekistan, su invito del rettoredell’università. Fortuna sono arrivato con quasi un’ora di ritar-do, così mi sono perso buona parte dei discorsi introduttivi, te-nuti alternativamente in arabo e uzbeko. Appena arrivato, nono-

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stante il ritardo e la sala strapiena mi hanno fatto sedere in se-conda fila, come si fa con gli ospiti di riguardo.

Naturalmente non capivo quasi neanche una parola: le uni-che che ogni tanto coglievo, anche perché ripetute spesso, eranoi nomi del Rettore, che sedeva in prima fila e tutti evidentemen-te ringraziavano, e anche quello del Presidente dell’Uzbekistan,il cui ritratto faceva gran vista di sé a lato del palcoscenico dovesi tenevano le celebrazioni. Dall’altro lato c’era il ritratto delpresidente egiziano, anch’egli nominato di tanto in tanto seppurcon minor frequenza (almeno così mi è parso). Comunque inquesto gioco incrociato di lingue, per me incomprensibili en-trambe, a un certo punto ho capito che l’interprete uzbeko,mentre traduceva un discorso tenuto in arabo, deve aver erro-neamente scambiato il nome del Rettore con quello di qualcunaltro, perché in sala c’è stato un mormorio così vasto che l’inter-prete se n’è subito accorto e si è prontamente corretto pronun-ciando il nome del Rettore.

Dopo tutti questi discorsi ci sono state le esibizioni artistiche:un gruppo di bambine ballerine che ancheggiavano e sculetta-vano come danzatrici del ventre, una vera danzatrice, anchemolto bella, che si è esibita un paio di volte, con due costumi di-versi, e poi cantanti e cori, dove ho riconosciuto anche un miostudente. Verso la fine c’è stato anche uno sketch piuttosto sug-gestivo, credo la parodia di una lezione di arabo, con l’inse-gnante e tre studenti che ripetevano svogliatamente alcune pa-role finché a un bel momento non sono stati bruscamenteinterrotti da uno speaker, che al microfono ha detto qualcosache naturalmente non ho capito, e così i quattro attori, con ogniprobabilità universitari uzbeki del corso di arabo, si sono istan-taneamente bloccati nelle posizioni in cui erano: i tre che face-vano gli studenti con le mani sospese nel gesto di applaudire,l’insegnante immobilizzato in un’enfatica posa oratoria. Quan-do poi lo speaker ha finito (il discorso sarà durato un paio di mi-nuti) gli attori dello sketch sono tornati indietro compiendo al-l’incontrario i medesimi gesti che avevano appena eseguito,come potrebbe succedere quando si riavvolge una videocasset-ta, uscendo perciò dal palcoscenico camminando all’indietro fragli applausi convinti del pubblico.

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Giorgio Messori

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Parte primaDiario di un inizio

L’arrivo, la casa e il teatro, primo viaggioIl tuo nome sono cinque lettere

Parte secondaLa Città del Pane e dei Postini

La Città del Pane e dei Postini

Parte terzaIl giardino

Il giardino

Parte quartaUna settimana nel giro del mondo

Una settimana nel giro del mondo(Viaggio in Kirghisia)

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Viaggioin terre lontane

e sospese nel “cielo più grande”così da sconfinare

nella prossimità del cuoree di una casa condivisa

il raccontoin forma di diario

conosce la sua quarta ristampanel carattere Simoncini Garamond

su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigonidalla tipografia SAGI

di Reggio Emiliaper conto di Diabasisnel gennaio dell’anno

duemiladieci

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Al Buon Corsiero

Manlio Cancogni, Sposi a Manhattan

Manlio Cancogni, L’impero degli odori

Giovanni Michelucci, Lettere a una sconosciuta

Carlo Frabetti, I giardini cifrati

Emilia Bersabea Cirillo, Fuori misura

Silvio D’Arzo, Casa d’altri

Andrea Briganti, Ramblas e altri racconti iberici

Foscolo Focardi, L’anglista sentimentale

Stefano Scansani, Orapronòbis

Roberto Amato, Le cucine celesti

Manlio Cancogni, Gli scervellati

Stefano Scansani, L’Amor morto

Eugenio Turri, Il viaggio di Abdu

Gino Montesanto, Cielo chiuso

Tano Citeroni, Il canto del verzellino

Nicolas Bouvier, La polvere del mondo, traduzione e cura di Maria Teresa Giaveri, prefazione di J. StarobinskiGiorgio Messori, Nella Città del Pane e dei Postini

Emilia Bersabea Cirillo, L’ordine dell’addio

Roberto Amato, L’agenzia di viaggi

Salimbene de Adam, Cronaca, introduzione di Mario LavagettoAntonio Bassarelli, Di Elena e dell’ombra

Manlio Cancogni, Caro Tonino

Racconti dalla Bosnia, a cura di Giacomo ScottiNicolas Bouvier, Diario delle isole Aran

Vittore Fossati, Giorgio Messori, Viaggio in un paesaggio terrestre

Francesco Petrarca, Lettere all’imperatore, a cura di Ugo Dotti

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Adriana Zarri, Vita e morte senza miracoli di Celestino VI

Antonio Bassarelli, La trovatura

Aleksandar Gatalica, Secolo

Rino Genovese, Ci sono le fate a Stoccolma

Alessandra Sarchi, Segni sottili e clandestini

Cesare Padovani, Paflasmòs. Il battito del Mar Egeo

Giorgio Messori, Storie invisibili e altri racconti, a cura di Gino RuozziEça de Queirós, La corrispondenza di Fradique Mendes. Memorie e note, a cura di Roberto Vecchi e Vincenzo RussoEvgénij Rejn, “Balcone e altre poesie”, a cura di Alessandro Niero, introduzione di Iósif BródskijFrancesco Permunian, Dalla stiva di una nave blasfema

Giorgio Prodi, L’opera narrativa, introduzione di Elvio GuagniniLuan Starova, Il tempo delle capre, a cura di Maria Teresa GiaveriFriedrich Hebbel, Diari, a cura di Lorenza Rega, prefazione di Claudio MagrisAngela Giannitrapani, Parigi, una breve estate, a cura di Maria Teresa Giaveri

Rocco Brindisi, Il bambino che guardava nello specchio

Pepetela, La generazione dell’utopia

Ludovico Ariosto, Lettere dalla Garfagnana, a cura di Vittorio GattoFerruccio Masini, Tutte le poesie, a cura di Mario SpecchioTano Citeroni, Oh fortuna

Antonio Bassarelli, Per Questi Motivi

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I libri Diabasis di Giorgio Messori

Giorgio MessoriNella città del Pane e dei Postini

Il senso delle cose. Luigi Ghirri, Giorgio MorandiA cura di Paola Borgonzoni Ghirri con scritti di Luigi Ghirri, Giorgio Messori e Carlo Zucchini

Vittore Fossati, Giorgio Messori, Viaggio in un paesaggio terrestre

Giorgio MessoriStorie invisibili e altri raccontia cura di Gino Ruozzi

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