OSSERVAZIONI PSICHIATRICO FORENSI DI BUONA … · valutare nel singolo caso clinico ed in specifici...
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OSSERVAZIONI PSICHIATRICO FORENSI
DI BUONA PRATICA CLINICA
IN TEMA DI SUICIDIO DEL PAZIENTE
G.C. Nivoli, L. Lorettu, P. Milia, A.M.A. Nivoli.
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INDICE
Premessa Pag 4 Il suicidio è un evento multideterminato Pag 5 Non esistono metodologie obiettive per una sicura previsione del suicidio nel singolo caso clinico
Pag 13
Il rischio di suicidio può variare come qualità e quantità rapidamente nel tempo Pag 16 Criticità in tema di farmacoterapia e psicoterapia Pag 20 Valutazione dei fattori di rischio e dei fattori protettivi Pag 31
Valutazione delle indicazioni e contro indicazioni in tema di ricovero e dimissione Pag 41 Impossibilità materiale dello psichiatra di impedire che una persona decisa ad uccidersi compia il suicidio
Pag 44
La responsabilità professionale dello psichiatra è da valutare al momento dei fatti Pag 46 Necessità di contestualizzare l’attività diagnostica e terapeutica dello psichiatra nella sua specifica realtà clinica
Pag 52
Utilità di precisare ruoli e responsabilità professionale dei singoli psichiatri che hanno curato il paziente suicida
Pag 54
Necessità di conoscere le disposizioni di legge che regolano i doveri di cura e protezione del paziente suicidario
Pag 56
L’interpretazione dei contrasti nella valutazione del rischio suicidario Pag 59 Il giudizio sulla responsabilità professionale dello psichiatra in tema di suicidio non è esclusivamente da formulare su specifici risultati decontestualizzati quali il suicidio del paziente o la non guarigione del disturbo psichico
Pag 61
Utilità degli interventi psicoeducativi sulla famiglia del paziente a rischio suicidario o del paziente che si è suicidato
Pag 62
Esistono reazioni emotive che influenzano la gestione clinica e forense del rischio suicidario Pag 65
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Discussione Pag 69
Difficoltà ad assumere un atteggiamento neutrale di fronte alla responsabilità professionale dello psichiatra
Pag 69
Differenti atteggiamenti culturali e problemi legislativi nei confronti del suicidio Pag 69 La difficoltà a comprendere le motivazioni alla base del suicidio Pag 70 Atteggiamento personale dello psichiatra e di chi lo giudica nei confronti del suicidio Pag 70 La incertezza dei dati scientifici Pag 71 Le aspettative, non basate su evidenze cliniche condivise, nei confronti della medicina e della psichiatria
Pag 71
La confusione forense tra le ipotesi cliniche di ricerca e le evidenze cliniche condivise Pag 74 La confusione forense tra diagnosi psichiatrica categoriale statistica e diagnosi psichiatrica forense peritale
Pag 74
Necessità di un ribilanciamento del ruolo del disturbo psichico in relazione al suicidio Pag 76
Necessità di una criteriologia per la valutazione dei requisiti di causalità e del nesso di causalità tra azione od omissione dello psichiatra e suicidio del paziente
Pag 77
La qualificazione dei periti e dei consulenti Pag 79 La responsabilità dei periti e dei consulenti Pag 80 La responsabilità di chi istiga o pone in essere denunce improprie Pag 82 I mutamenti giurisprudenziali e le variazioni normative in tema di responsabilità per la prestazione sanitaria
Pag 83
La utilità di interventi di prevenzione del suicidio sulla popolazione Pag 84 Conclusioni Pag 86 Bibliografia Pag 87
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Premessa
Il suicidio del paziente è uno tra gli eventi più drammatici che possano accadere nella
pratica psichiatrica. Permane una tra le più frequenti cause di incriminazione e condanna
del medico sia sul piano civile che penale. Il tema della responsabilità professionale del
medico psichiatra nei confronti di un paziente a rischio suicidario è ricco di sfumature
cliniche e forensi, influenzato da molteplici contrastanti interpretazioni di buona pratica
clinica e reso ancor più complesso dalla evoluzione dei precetti normativi e della loro stessa
applicazione giurisprudenziale. In ragione di ciò è parsa utile la formulazione di
osservazioni psichiatrico forensi di buona pratica clinica in tema di suicidio che possano
fruire di consenso clinico e scientifico. Il fine è aumentare la beneficialità del paziente nel
rispetto della sua autodeterminazione, migliorare la formazione professionale degli
operatori psichiatrici e facilitare la comprensione dell’evento suicidario a tutti i protagonisti
(magistrati, avvocati, periti, consulenti, familiari, etc.) che in differenti ruoli accusano,
difendono e giudicano lo psichiatra in relazione al suicidio del paziente.
Per ognuna delle osservazioni descritte vi sarà una componente di evidenza clinica
condivisa sulla gestione del rischio suicidario accompagnata da specifiche osservazioni
forensi formulate sulla base delle imputazioni e condanne penali e civili in cui incorrono
più frequentemente i medici psichiatri. Nella parte forense, attraverso una specifica
terminologia sottolineata anche graficamente (corsivo) saranno utilizzate esemplificazioni
che risultino il più aderenti possibile a concetti peculiarmente forensi (1-5) ed allo specifico
linguaggio delle aule giudiziarie in tema di responsabilità professionale dello psichiatra
piuttosto che mirate alla qualità clinica del colloquio o all’assistenza psichiatrica al paziente
con rischio suicidario. Alcuni principi forensi saranno trattati più volte per una loro più
approfondita e specifica chiarificazione. Inoltre, in base al presupposto che un’osservazione
psichiatrico forense può essere banale e scontata per uno specialista del settore ma non per
un profano, volontariamente saranno messi in luce principi elementari di clinica e di pratica
forense non raramente accompagnati da pregiudizi e peculiari modalità comunicative,
indipendentemente da loro valore scientifico, così come hanno luogo nelle aule giudiziarie.
Alcuni concetti di psicopatologia saranno riportati, oltre che in italiano, anche nella lingua
originale per offrire il massimo di fedeltà agli autori. In particolare sarà fatto uso frequente
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di terminologia in lingua inglese per favorire, con l’offerta di opportune parole-chiave, la
possibilità di approfondire in seno alla copiosa bibliografia internazionale su temi specifici
e settoriali. Infine saranno offerte ad un'attenzione critica per ulteriori approfondimenti
ipotesi cliniche interpretative sulle dinamiche psichiche dell’evento suicidario, ivi comprese
le implicazioni degli stessi psichiatri e dei familiari del soggetto suicida, nel pieno rispetto
della gradualità di accettazione di ogni psichiatra che le valuta, allo scopo primario di
aumentare la beneficialità del paziente in tema di prevenzione del rischio ed al contempo
sottolineare la complessità degli approcci interpretativi in psichiatria e la molteplicità delle
variabili da valutare nel giudizio sulla responsabilità professionale del medico psichiatra.
1 Il suicidio è un evento multideterminato
In letteratura è segnalato che nel mondo ogni anno muore per suicidio circa un milione di
persone (6-8). La prevenzione di un fenomeno tanto vasto è oggetto di continue ricerche.
Recenti revisioni indicano che non esiste una significativa prevalenza di efficacia di una
specifica modalità di trattamento sull’altra e la necessità di ulteriori studi per valutare le
diverse combinazioni di strategie di prevenzione (9,10,8). Il suicidio ha infatti natura
multifattoriale e la letteratura è concorde nel riconoscere i molteplici fattori, di natura
biologica, psichiatrica, psicologica, sociale, culturale, circostanziale che si embricano e si
intreccino variamente tra loro che nella sua genesi (recognition of multicausality) (11-19).
Il suicidio, quindi, è ritenuto un evento multideterminato, generato non da una sola e diretta
variabile, ma da diverse variabili che interagendo ed integrandosi tra loro in uno stesso
individuo, in modo dinamico nel tempo, rappresentano una costellazione di variabili, tra le
quali è anche da annoverare il disturbo psichico (20,21,13,22-26).
Per quanto concerne la relazione tra suicidio e disturbo psichico è da precisare in
particolare:
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1) Il disturbo psichico non è causa unica e diretta del suicidio essendo il suicidio un
evento multideterminato.
2) Il disturbo psichico, quando presente, pur permanendo una tra le molteplici variabili
che possono aumentare il rischio suicidario (fattore di rischio), può non essere in
nesso causale con la dinamica del suicidio: la maggior parte delle persone con
disturbi psichici non ha comportamenti suicidari e non tutte le persone che si
suicidano hanno un disturbo psichico (7,17).
3) Il disturbo psichico può presentarsi nel singolo individuo in comorbidità con altri
disturbi psichici, abuso di sostanze o malattie mediche organiche (Comorbidity:
associazione tra diverse affezioni morbose) che possono interagire con il rischio
suicidario (ad esempio disturbo dell’umore ed abuso di alcool in comorbidità
possono aumentare il rischio suicidario più della sommatoria del rischio di ognuno)
(17,27-32).
4) Il disturbo psichico presenta, sul piano statistico, rischi suicidari differenziati in
relazione alla diagnosi psichiatrica. Ad esempio è segnalato più frequente nella
depressione, abuso di sostanze, disturbi antisociali (7,13,17) ed in relazione alla
evoluzione clinica della specifica diagnosi: nei disturbi dell’umore, per esempio,
sembra essere più frequente nella fase depressiva (28,33).
5) Il ruolo del disturbo psichico come fattore di rischio suicidario è differente in
relazione alla cultura di riferimento (recognition of cultural differences). Ad esempio
viene riportata una minore associazione in Cina (34) ed in India (35,36).
6) Essendo il suicidio un evento multideterminato, la sua valutazione deve essere
multiassiale (multiaxial diagnosis) (18) e gli interventi per la sua prevenzione, anche
nel singolo caso clinico, debbono essere di tipo multistrategico (multicomponent
interventions) (17-19). In pratica questo significa che l’intervento dello psichiatra
sulla diagnosi e sulla terapia del disturbo psichico e sui provvedimenti cautelativi di
prevenzione è da considerare, sotto il profilo clinico e forense, solo uno tra i molti
altri interventi possibili (sanitari, economici, educativi, psicosociali di accesso alle
cure ed al trattamento nelle situazioni di crisi, riduzione dello stigma, etc.) di
competenza non strettamente psichiatrica.
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7) Il disturbo psichico, come le altre variabili legate al rischio suicidario che
rappresentano i fattori di rischio suicidario (sentimento di mancanza di speranza,
sentimentio di impossibilità di ricevere aiuto, percezioni fantasmatiche o reali gravi
disagi sociali od economici, etc.) sotto il profilo clinico deve essere oggetto di
valutazione e di provvedimenti a livello terapeutico e preventivo e sotto il profilo
forense deve essere considerato uno tra i tanti fattori di rischio suicidario da
valutare nel singolo caso clinico ed in specifici contesti bio-psico-sociali (37-39).
Sulla base di quanto precede è possibile formulare, sotto il profilo psichiatrico forense, le
osservazioni che seguono.
1.a. Inadeguatezza clinica e forense di ragionamenti semplicistici e riduttivi in tema di relazione tra disturbo psichico e suicidio. Concausalizzazione pregiudiziale
della malattia mentale
E’ un ragionamento semplicistico, riduttivo ed errato sotto il profilo clinico e scientifico,
affermare: quel paziente si è ucciso perché depresso. Non tutti i depressi si uccidono e non
tutte le persone che si uccidono sono depresse. Inoltre sul piano clinico esistono diverse
tipologie di depressione ciascuna con differenti livelli di influenza sul rischio suicidario (ad
esempio la depressione maggiore presenta la più alta frequenza). I pazienti con depressione
maggiore non presentano tutti lo stesso rischio: sono soprattutto i soggetti con meno senso
di responsabilità verso la famiglia, meno timore di disapprovazione sociale, meno obiezioni
morali alla decisione di uccidersi, minori capacità di mediare e risolvere i problemi legati
alla sopravvivenza e minore timore dell’atto materiale di darsi la morte, che presentano
maggiore rischio suicidario (40). Sotto il profilo clinico, scientifico e forense, è più corretto
affermare: quel paziente si è ucciso perché non solo depresso, ma anche impulsivo nel
passaggio all’azione, aggressivo verso se stesso, inadeguato nella mediazione dei conflitti,
frustrato nelle sue aspettative di lavoro, incapace di tollerare recenti eventi di lutto o di
separazione dal partner, entrato in una dimensione di suicidarietà con il pensiero
rigidamente focalizzato sul suicidio come unica soluzione ai suoi problemi, percepiti
irrisolvibili, e come unico mezzo (restrizione di opzioni) per porre fine alle sue sofferenze
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fisiche e morali ritenute intollerabili. L’affermazione: si è ucciso perché era depresso,
soprattutto se pronunciata da psichiatri, può innescare, in chi ricerca i responsabili del
suicidio del paziente, un errato ragionamento basato sul senno del dopo e sulla ignoranza
del nesso di causalità. Ovvero: se lo psichiatra avesse curato bene la depressione il
paziente non si sarebbe ucciso. Questo erroneo ragionamento, basato su un impiego
inadeguato del meccanismo psicologico della razionalizzazione, non raramente facilita
l’attribuzione della colpa e l’individuazione di un colpevole a tutti i costi: adesso trovo che
cosa lo psichiatra ha sbagliato nella cura della depressione e così lo posso accusare di
essere responsabile del suicidio del paziente. Il legame semplicistico e riduttivo tra disturbo
mentale inquadrato nella dimensione diagnostica categoriale e suicidio non è rispettoso non
solo della multideterminatezza eziologica del suicidio, ma anche della realtà dei molteplici
approcci clinici (diversi dalla diagnosi categoriale) (41-43) che sono presenti ed operanti
(indipendentemente dal loro valore forense) nella pratica psichiatrica.
Ad esempio l’approccio psichiatrico di tipo psicoanalitico individua numerose altre
possibili costellazioni psicodinamiche per comprendere il suicidio pur senza invocare la
diagnosi statistica categoriale (44): a) rappresaglia o rivincita per essere stato abbandonato;
b) desideri etero aggressivi che si trasformano in agiti auto aggressivi; c) fantasie di
riunione con persone care decedute; d) anelito di rinascere in una esistenza migliore della
attuale; e) autopunizione per colpe reali o percepite; f) suicidio apatico in soggetti morti
emotivamente od in agonia emotiva; g) punizione per chi sopravvive, attraverso il rimorso,
a causa di un proprio comportamento colposo reale o percepito; etc.
Sempre sul piano della psicologia del profondo (nella pratica psicoanalitica la
psicopatologia non è sovrapponibile a quella della diagnosi categoriale del disturbo
psichico) sono stati descritti vari processi psicodinamici che, con tendenza alla
progressività e possibilità di riconoscibilità dal terapeuta, possono portare un soggetto (non
necessariamente diagnosticato sul piano categoriale) al suicidio. Nel modello del crollo
suicida, ad esempio, sono stati descritti quattro stadi (45).
• Nel primo stadio il soggetto è inondato da un diluvio opprimente ed intollerabile di
sentimenti dolorosi: diluvio affettivo.
• Nel secondo stadio il soggetto cerca disperatamente di contenere e dominare i
sentimenti dolorosi: tentativi per non affogare nel dolore.
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• Nel terzo stadio il soggetto si sente affogare nel dolore, si sente disintegrare e morire
non riuscendo più a controllare le sue sofferenze percepite intollerabili: perdita di
controllo e disintegrazione.
• Nel quarto stadio il soggetto perde la capacità dell’esame di realtà, lascia spazio a
schemi di pensiero primitivi e può costruirsi, attraverso inadeguati meccanismi di
difesa di ordine psicotico, schemi grandiosi e magici di auto conservazione che
travalicano anche la perdita del proprio corpo che può essere, in tal modo, rifiutato ed
eliminato: sopravvivenza grandiosa e rifiuto del corpo.
L’approccio psicoanalitico, seppure molto settoriale, assai diversificato nelle sue varie
correnti ideologiche, oggetto di diatribe e critiche sulla validità scientifica, ricco di ipotesi
cliniche di interventi psicoterapici non è facilmente utilizzabile in tribunale in relazione alla
difficoltà di offrire, a livello forense, evidenze cliniche condivise. Il riferimento a questo
approccio nel presente scritto, a prescindere dalla accettazione o non accettazione di questa
metodologia conoscitiva, è stato fatto allo scopo di sottolineare ulteriormente la innegabile
realtà di complessità di approccio psichiatrico alla comprensione dell’evento suicidario e la
varietà degli interventi possibili nella pratica psichiatrica sui soggetti a rischio di suicidio.
Nell’ambito di una inadeguatezza clinica e forense nello stabilire un nesso causale
semplicistico ed errato tra disturbo psichico e suicidio possiamo mettere in luce la
concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale. In Medicina e Psichiatria molta
parte degli eventi di rilevanza forense riconoscono una pluralità di fattori causali essendo
multi determinati e non mono determinati. Questa molteplicità di fattori che contribuisce a
produrre un evento può coincidere con gli stessi fattori eziologici elencati nei paragrafi di
ciascuna malattia, medica e psichiatrica, reperibile nei testi di medicina. Tutti questi fattori
causali (cause concorrenti dette comunemente concause) pur possedendo ciascuno una
propria dignità qualitativa non hanno la stessa importanza quantitativa per cui differiscono
tra loro. In secondo luogo non possono essere considerati, tutti e indistintamente a livello
forense, fattori causali.
Premesso che le concause possono essere preesistenti, simultanee e sopravvenute il codice
penale (art. 41) sancisce che le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità
quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. Concretamente è così
delimitata la responsabilità delle persone da una troppo rigida interpretazione ed
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applicazione della teoria condizionalistica attraverso anche la teoria della causalità
adeguata, teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento ed anche della teoria dell’aumento
del rischio. Senza approfondire oltre la complessa causalità nella responsabilità medica la
concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale consiste nell’attribuzione, errata
sotto il profilo clinico e forense, del ruolo di causa, attraverso la specificazione di concausa,
alla malattia mentale nel determinare il CVP, legata al pregiudizio che il suicidio messo in
atto da un soggetto con disturbo psichico sia sempre in nesso causale con la psicopatologia
psichiatrica di cui soffre.
Questo processo di concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale può avvenire, in
particolare in ambito peritale in tema di responsabilità professionale attraverso tre distinti
passaggi:
1) la selezione mirata ed esclusiva della concausa,
2) l’ingrandimento del disturbo psichico
3) il travisamento causale del disturbo psichico.
Ad esempio il perito o il consulente, nella valutazione forense di un paziente con disturbo
mentale che si è ucciso, potrebbero selezionare come oggetto esclusivo di valutazione
solamente la psicosi del soggetto suicida e ignorare, attraverso il meccanismo psicologico
della minimizzazione, altri cofattori quali potrebbero essere stati la perdita del lavoro,
l’abbandono della moglie, etc. Questa impostazione minimizzante è normalmente seguita da
una eccessiva sottolineatura della patologia psicotica, con descrizione reiterata in decine di
pagine di relazione di tutti i sintomi psichiatrici considerati sempre, indipendentemente dalla
realtà del caso in oggetto, come se presentassero la maggiore gravità clinica e non avessero
mai mostrato fluttuazioni nel tempo, riduzione di intensità o intervalli liberi. Dopo questa
selezione mirata ed esclusiva del disturbo psichico e la sua amplificazione sindromica (senza
rispetto del reale), che descrive, soprattutto nell’empatia del profano di dinamiche suicidarie,
insopportabile e devastante la qualità di vita e spegne nel soggetto così malato qualsiasi
desiderio di sopravvivenza, non è certo difficile trovare (col meccanismo della
razionalizzazione) un qualsiasi tipo di presunto errore (soprattutto col senno del dopo) nei
confronti di chi avrebbe dovuto curare e proteggere il soggetto. Trovare, in altri termini,
qualcuno che ha sbagliato qualcosa: un errore nella farmacoterapia, nella psicoterapia, nella
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assunzione e circolazione delle informazioni, nelle applicazioni di misure cautelari o
applicazioni di regolamenti, etc che, ripetiamo, a posteriori dei fatti appaiono chiarissime,
non è affatto difficile, soprattutto quando l’errore è presente, anche se non rilevante a livello
forense.
Il travisamento del quadro clinico e forense attraverso la causalizzazione dell’errore
irrilevante (erronea trasformazione di un errore irrilevante in errore rilevante a livello
forense) completa l’intero processo di concausalizzazione pregiudiziale della malattia
mentale. L’errore più grave sotto il profilo metodologico clinico e forense (non si entra in
questioni di merito di pareri motivati personali in tema di valutazione forense della
concause) nell’ipotesi precedentemente descritta è che attraverso il processo di selezione
mirata ed esclusiva del disturbo psichico, il suo ingrandimento e travisamento (non
corrispondente al reale, ma estremamente suggestivo alla sola lettura e senza un opportuno
controllo della realtà, per un profano della psichiatria) il perito o il consulente non hanno
valutato e discusso con competenza clinica e forense (senza entrare in merito alle sue
conclusioni) il fatto che il suicidio del soggetto poteva essere in nesso causale con una
concausa sopravvenuta. La perdita del lavoro e l’abbandono da parte del partner dovrebbero
essere valutati (nel rispetto della contestualizzazione del singolo caso clinico) come possibile
causa sopravvenuta capace da sola di determinare il suicidio a prescindere dalla malattia
mentale del soggetto o dagli errori di terzi. Se nell’elaborato peritale non compaiono precise
e dettagliate osservazioni cliniche su questa criticità debbono essere posti non pochi
interrogativi (e non solo sulla competenza tecnica metodologica forense e sui pregiudizi in
tema di nesso causale tra suicidio e disturbo psichico), come più oltre sarà precisato, in tema
di qualificazione professionale del perito o del consulente. Ignorare le discriminanti in
ambito di concause, la presenza di dinamiche scatenanti il suicidio indipendentemente, in
senso forense, dal disturbo mentale, la non accettazione pregiudiziale della possibile
imprevidibilità ed inevitabilità dell’evento suicidario, etc possono essere tra le motivazioni
più frequenti alla base della concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale in caso
di suicidio.
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1.b. Necessità di valutare, nei giudizi di responsabilità, l’impossibilità per lo psichiatra di controllare tutte le variabili della causalità clinica del suicidio
Nella ricerca causale clinica (causalità materiale) del suicidio non può essere ignorata la
molteplicità della cause più stabili (biologiche, psichiatriche, etc.) e più aleatorie
circostanziali (come l’improvviso annuncio di una perdita, abbandono, di una separazione,
venire a conoscenza di una malattia internistica potenzialmente fatale, la morte di una
persona cara, la perdita del lavoro, della propria abitazione, etc.). Nell’ambito delle cause
circostanziali è da sottolineare non solo la gravità oggettiva, ma anche la percezione
soggettiva che si ha dell’evento. Soprattutto deve essere accettato che in ogni atto suicidario
vi è sempre qualcosa di poco comprensibile e misterioso, talvolta difficile, spesso
impossibile da comprendere anche per il professionista più esperto. Il terapeuta che
ritenesse di saper controllare tutte le variabili (biologiche, psichiatriche, psicologiche,
sociali, circostanziali, etc.) che determinano il suicidio potrebbe essere fuorviato nel suo
giudizio da un irrealistico eccesso di fiducia nelle proprie capacità e non rivelare, per ciò
stesso, le migliori qualità professionali a garanzia di un comportamento terapeutico
beneficiale per il paziente. Analogamente chi è deputato a valutare la responsabilità
professionale dello psichiatra non può, sempre e comunque, riconoscergli caratteristiche di
onnipotenza e di controllo su ognuna delle variabili delle causalità cliniche che governano
il rischio suicidario, né attribuirgli sconfinate capacità taumaturgiche di sapere e potere
guarire sempre, rapidamente e completamente ogni tipo di disturbo psichico. Soprattutto
tenendo presenti gli eventi multideterminati nei quali il ruolo della professione medica e
psichiatrica non può che essere, in molti casi, poco rilevante. Anche chi valuta la
responsabilità professionale dello psichiatra deve sapere accettare la realtà dei fatti, e non
cadere vittima delle umanamente comprensibili paure e pregiudizi sul suicidio,
confondendo un lodevole e generoso desiderio di guarire tutte le persone (anche se stessi)
quando lo si desidera o quando necessita, dalla malattia del suicidio, con le evidenze
cliniche sulla causalità del suicidio e le concrete possibilità di intervento che ha il singolo
operatore sanitario nella realtà.
Nasce quindi, in ambito forense, la necessità di considerare le difficoltà reali dello
psichiatra nella gestione del singolo caso clinico, a prescindere dai casi più manifesti di
imprevedibilità ed inevitabilità dell’evento o di grossolane colpe generiche in tema di
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prudenza, diligenza e perizia o colpe specifiche per inosservanza di leggi, regolamenti,
ordini, discipline.
2 Non esistono metodologie obiettive per una sicura previsione del
suicidio nel singolo caso clinico
La valutazione del rischio suicidario di un paziente si effettua, in linea generale, attraverso
due metodologie: clinica e attuariale.
1. La metodologia clinica si basa sul colloquio clinico col paziente (46). L’approccio offre
allo psichiatra non solo l’occasione di raccogliere le informazioni anamnestiche
(familiari e personali) al fine di praticare un esame psichiatrico ed una valutazione del
rischio suicidario con valori di attualità e concretezza, ma anche di avvalersi del
linguaggio non verbale del paziente e valutare le reazioni emotive che comunica e
quelle che suscita in chi lo ascolta (1,18).
2. La metodologia attuariale consiste nell’esaminare il paziente con interviste strutturate,
questionari con domande già compilate, reattivi mentali, etc. che hanno lo scopo
specifico, attraverso la valutazione di dati il più possibile obiettivi (età, sesso, diagnosi
psichiatrica, uso di droghe, etc.) di stabilire, a livello statistico, il rischio di suicidio.
Il metodo clinico ed il metodo attuariale possono essere variamente associati tra loro e
spesso presentano, nel clinico esperto, tratti comuni di valutazione del paziente con rischio
suicidario. Entrambi i metodi, praticati da soli o in associazione, non permettono, tuttavia,
una previsione nel singolo caso clinico che abbia valore predittivo clinico e forense
obiettivo e certo (7,18).
Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico forense,
quanto segue.
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2.a. Necessità di valutare il rischio suicidario con metodologia clinica documentata
Nella valutazione del rischio suicidario di un soggetto è indispensabile, sotto il profilo
clinico e forense, che detta valutazione venga eseguita con metodologia clinica
documentata nella cartella clinica, per la beneficialità del paziente e per la tutela giuridica
dello psichiatra.
• In primo luogo nella valutazione del soggetto suicidario debbono essere considerati i
fattori di rischio ed i fattori di protezione in tema di suicidio. Sotto il profilo clinico e
per la beneficialità del paziente, è importante che siano valutati tanto i fattori di rischio
(per ridurre la loro influenza quando possibile) quanto i fattori di protezione dal suicidio
(per implementare la loro azione, quando possibile, e proteggere con modalità
preventive il soggetto). Sotto il profilo forense l’esame valutativo dei fattori di rischio e
di protezione permette una base di discussione forense su criteri scientifici a partire
dalla complessità della valutazione del soggetto suicidario. La sola valutazione (o
peggio la mancanza di valutazione) dei fattori di rischio può innescare, come spesso
capita nelle aule giudiziarie, una base di discussione forense accusatoria nella quale lo
psichiatra, almeno inizialmente, è imputato di aver dimenticato, sottovalutato, non
capito, etc. la moltitudine di fattori di rischio che il soggetto presentava (spesso trovati
col senno del dopo).
• In secondo luogo la valutazione con metodologia clinica deve anche essere rivolta alla
attualità e concretezza del rischio suicidario. Deve cioè poter evidenziare il pericolo
attuale (al momento dei fatti per cui si procede e non prima o dopo) e concreto (non
possibilità teoriche ma probabilità reali: in campo forense non vige la regola del tutto è
possibile ma solo la regola del qualcosa è probabile) che il paziente si uccida. Per
esempio il paziente può essere indagato nel corso del colloquio con domande che, da
molto aperte (c’è qualcosa che la preoccupa?), giungono a domande più chiuse sul
tema del suicidio (ha già preparato il modo per uccidersi?). Lo stesso procedimento
può essere rispettato nella indagine dall’auto aggressività (ha avuto desiderio di farsi
del male?) alla etero aggressività (ha pensato di usare violenza su qualche persona?).
E’ necessario che il risultato delle valutazioni venga riportato nel diario clinico come
documentazione di buona pratica clinica e per la tutela forense dello psichiatra.
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La metodologia attuariale è importante per la ricerca clinica e scientifica e per il
perfezionamento della formazione psichiatrica. Tuttavia, allo stato attuale delle conoscenze,
in ragione del valore statistico generale e non individuale, delle difficoltà di soddisfare ai
numerosi criteri di validazione dei reattivi mentali, dei questionari, delle schede di
rilevazione, etc., detta metodologia non presenta carattere forense di indispensabilità nella
valutazione della responsabilità professionale particolarmente in presenza di ipotesi
cliniche di ricerca da convalidare con ulteriori studi e con evidenze cliniche condivise
comprovate da pubblicazioni scientifiche nazionali ed internazionali e dall'avvallo di
accreditate Società Scientifiche.
Nonostante il desiderio, umano e comprensibile, di poter disporre di uno strumento
obiettivo per valutare e discriminare con precisione il soggetto che si ucciderà da quello che
non si ucciderà, è da considerare il fatto scientifico e forense che, purtroppo, questo
strumento (scale cliniche, questionari, reattivi mentali, esami di laboratorio, etc.) non esiste.
Quello che esiste, oltre i limiti prima descritti, non è privo di falsi positivi e falsi negativi
tali da rendere molto poco predittive (very low positive predictive values) le indicazioni
conseguenti (47). Pur nel rispetto della loro utilità in ricerca clinica, dei sempre più
incoraggianti progressi nella loro validità predittiva, del loro uso facilitato dalla rapidità e
semplicità di somministrazione, questi strumenti attuariali mancano, allo stato attuale, di
una sufficiente validità predittiva (..they lack the predictive validty necessary for use in
routine clinical practice) che ne permetta l’utilizzazione acritica nella pratica clinica
quotidiana (18) e li renda validi, nel singolo caso clinico, sotto il profilo forense. Al
riguardo la giurisprudenza sintomaticamente insegna che la prevedibilità dell’evento lesivo,
che è necessaria ai fini dell’imputazione di colpa, non va accertata secondo il criterio di
elevata credibilità razionale (che riguarda invece la verifica probatoria del rapporto causale)
ma sulla base della concreta possibilità che esso (evento lesivo) possa concretizzarsi; il che
significa anche che la prevedibilità che fonda la colpa non deve essere solo potenziale e
meramente ipotetica, come quella presa in considerazione dal cd. principio di precauzione,
il quale prescinde dalla concretezza del rischio (Cass., Sez. IV, sentenza n. 16761/2010).
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2.b. Necessità di proteggere il paziente in relazione al suo attuale, concreto e contestualizzato rischio di suicidio
A prescindere dalle varie ideologie delle diverse correnti psichiatriche (che possono variare
dall’attribuire primaria importanza al legame del suicidio con il disturbo psichico fino al
riconoscimento del suicidio quale scelta personale nell’ambito di una autodeterminazione
informata in soggetto capace di intendere e volere che possiede coscienza e competenza
nell’assumere decisioni) e delle differenti impostazioni ideologiche sull’utilizzo della
psichiatria nel sociale (in particolare sulla possibile deriva dall’obbligo di assistenza medica
all’obbligo meramente custodialistico degenerabile in poliziesco controllo sociale) la legge
in vigore prevede che anche lo psichiatra debba, nella sua posizione di garanzia, non solo
curare, ma anche proteggere il paziente. Conseguenza pratica è che lo psichiatra, in
relazione alla specifica gravità del rischio suicidario, debba prescrivere, mettere in atto e
segnalare in cartella clinica, se esistono le ragioni per motivarle, le misure di cautela (che
possono variare da un appuntamento già il giorno dopo la prima visita sino al ricovero
immediato in struttura idonea) proporzionali e fattibili in relazione alla valutazione dello
specifico rischio suicidario, attuale e concreto, riscontrato al momento dell’esame in quello
specifico paziente in quel particolare contesto psicosociale.
3 Il rischio di suicidio può variare come qualità e quantità
rapidamente nel tempo
Il rischio suicidario non rimane sempre costante ma varia, spesso anche rapidamente, nel
breve spazio di tempo (7,18,48). La tipologia e la gravità clinica delle motivazioni alla base
di queste rapide variazioni del rischio suicidario sono complesse e possono essere legate, in
particolare nel soggetto con disturbo psichico, alla mutevolezza nel tempo dei sintomi del
disturbo mentale, alle circostanze psicosociali cui è esposto il soggetto, alla ambivalenza
17
altalenante che spesso il paziente mette in atto nei confronti dell’agito suicidario. Il
disturbo psichico non rimane costante nel tempo (la depressione può variare come gravità
di sintomi depressivi, ma anche come qualità; il disturbo bipolare, per esempio, può mutare
ciclicamente tra depressione ed eccitamento maniacale).
Le circostanze psicosociali possono indurre improvvisi stimoli stressanti costituiti da
eventi, reali o percepiti, come estremamente dolorosi con vissuti di mancanza di speranza
(hopelessness), mancanza di possibilità di aiuto (helplessness), con sentimenti di profonda
indegnità personale (worthlessness) etc. che possono scatenare l’agito suicidario (ad
esempio l’improvvisa comunicazione al soggetto dell’abbandono da parte della moglie; un
percepito o reale tracollo finanziario; etc.).
Inoltre i soggetti a rischio suicidario non sempre sono coerenti e decisi nelle loro intenzioni
suicidarie (mi uccido/non mi uccido). Il più spesso sono ambivalenti ed impulsivi verso
l’agito suicidario e non raramente il passaggio all’atto è legato a circostanze imprevedibili
ed inevitabili.
In ambito psichiatrico-forense può essere evidenziato quanto segue.
3.a. Necessità di monitorare, in rapporto ad adeguate motivazioni cliniche
giustificanti, le possibili variazioni del rischio suicidario
Lo psichiatra deve valutare, in relazione a motivazioni cliniche giustificanti legate ad
evidenze cliniche condivise e nel rispetto di buona pratica clinica, nell’attualità e
concretezza del caso specifico e non attraverso astratte possibilità teoriche o ipotesi
cliniche di ricerca o accumuli non contestualizzati, generici, diluiti nel tempo, di pretesi ed
aspecifici fattori di rischio (soprattutto interpretati col senno del dopo) le variazioni del
rischio suicidario. Queste variazioni di rischio devono essere documentate in cartella clinica
ove vanno anche indicati i relativi, proporzionali, fattibili, controllabili e monitorabili
provvedimenti cautelativi.
18
3.b. La accettazione emotiva e razionale della evidenza clinica e forense che il suicidio può essere un evento imprevedibile ed inevitabile
Allo psichiatra non può essere richiesto, sotto l’aspetto clinico e forense, di:
• Predire il futuro (soprattutto servendosi del senno del dopo). E’ da sottolineare che
differenti denominazioni e specificazioni della prevedibilità, quali rappresentabilità
o riconoscibilità, implicano sempre una previsione di comportamento nel futuro.
• Possedere tutte le informazioni sul paziente (il paziente può volontariamente
mentire, sottovalutare o interpretare in modo molto soggettivo una informazione da
fornire spontaneamente o sotto richiesta del terapeuta; i familiari possono non
ricordare o volutamente tacere; etc.)
• Riconoscere sempre e perfettamente la simulazione (il paziente dice di uccidersi e
poi non si uccide) e la dissimulazione (il paziente dice di non uccidersi e poi si
uccide).
• Essere sempre in grado di riconoscere e distinguere i comportamenti suicidari
prevalentemente dimostrativi, privi della volontà di uccidersi e volti alla ricerca di
guadagni secondari (ricerca di affetto, comprensione, attenzione, evitamento di
responsabilità, etc.) dai comportamenti suicidari prevalentemente non dimostrativi
nei quali vi è volontà primaria, chiara e consapevole di volersi uccidere. La
differenza non sempre è agevole in quanto componenti anticonservative possono
essere presenti nelle due fattispecie e spesso è solo il caso e la fatalità che hanno un
ruolo determinante, indipendentemente dalla volontà del soggetto, nel verificarsi del
suicidio.
• Differenziare sempre, sul piano della intenzionalità del soggetto agente, un atto
autolesionistico non suicidiario (alla cui base vi può essere una richiesta specifica di
aiuto, la convalida di una propria identità, un sollievo da sentimenti di colpa, la
ricerca di una realtà che rassicura dall’ansia di cadere nella confusione e
frammentazione psichica, etc.) da un tentativo di suicidio (in cui predomina, in vario
grado, la volontà di uccidersi). Le motivazioni alla base dei due fenomeni non sono
sempre mutualmente esclusive, possono variamente integrarsi nel singolo caso
clinico e possono assumere per il soggetto una grande variabilità di significati.
19
• Cogliere precocemente i segni di specifiche dimensioni di suicidarietà. Si tratta di
un insieme di variabili (che dipendono dal caso in valutazione e dalla descrizione
clinica di singoli studiosi) che possono aiutare a comprendere la dinamica suicidaria
nella popolazione generale. Ad esempio: disponibilità a farsi del male, ad esacerbare
gli stress, ad utilizzare alterazioni dei processi cognitivi rendendo il pensiero sempre
più povero di possibilità alternative e sempre più incanalato verso la decisione
suicidaria, alla valorizzazione personale del suicidio come atto per far cessare la
sofferenza (27). Vi sono anche, seppur difficili da riconoscere precocemente,
dimensioni di suicidarietà tipicamente presenti in specifici gruppi a rischio. Tra
questi ultimi possiamo considerare, ad esempio, le persone private della libertà
personale nelle istituzioni penitenziarie che vivono, frequentemente, sentimenti di
disperazione, restringimento delle prospettive future, perdita della capacità di reagire
e il suicidio è sentito come l’unica via di uscita da una condizione priva di speranza.
Altro esempio la suicidarietà negli adolescenti (46,49) che presenta, come sintomi
prodromici, depressione, insonnia, helplessness, convinzione che nessuno si
accorgerebbe del loro suicidio o che, qualora se ne accorgesse, si sentirebbe in colpa
e proverebbe rimorso per non essersi preso maggior cura di loro.
• Guarire, sempre e nella immediatezza, con farmaci e psicoterapie, il dolore
psicologico insopportabile di soggetti a rischio suicidario (50); soprattutto quando
questo dolore è vissuto con grande rigidità di pensiero (pensiero a tunnel,
dicotomico, ad opzioni ristrette, senza alternative, etc.) e con una reattività
personale (individuale, circostanziale e non prevedibile) alle sue soggettive
aspettative di vita frustrate dalla realtà quotidiana.
• Etichettare ed emarginare un paziente come suicidario per tutta la sua vita
erroneamente raccogliendo tutti i possibili segni di suicidarietà diffusi nella sua
esistenza. Ricordare sempre che il rischio suicidario deve essere valutato nella
attualità e concretezza del singolo caso in uno specifico momento e contesto
psicosociale, e non si deve enfatizzare, in modo errato sotto il profilo clinico e
forense, uno o più comportamenti che finirebbero per diventare cronicamente
etichettanti (avendo tentato il suicidio una volta, il paziente deve essere considerato
suicidario per il resto della sua vita).
20
• Cogliere sempre l’aspetto, molto utile ai fini preventivi, della ambiguità del sintomo.
Il miglioramento del paziente può essere sintomo di uscita dalla situazione di crisi e,
quindi, dell’abbandono dell’intenzione di uccidersi; oppure, il paziente è migliorato
perché la determinazione ad uccidersi è divenuta più lucida, priva di tante
ambivalenze emotive e quindi appare più calmo e tranquillo rispetto alla decisione.
• Trasformare sempre la imprevedibilità reale del soggetto con disturbo mentale in
prevedibilità teorica del soggetto senza disturbo mentale. Questo concetto forense è
stato recentemente sottolineato con chiarezza, dalla Suprema Corte di Cassazione,
IV sez. pen. (n.14766/16) Va esclusa pertanto ogni rimproverabilità per colpa,
mancando la prevedibilità ed evitabilità dell’evento suicidiario, legato piuttosto al
fisiologico fattore di imprevedibilità delle condotte imprudenti e/o inconsulte di
pazienti psichiatrici.
4
Criticità in tema di farmacoterapia e psicoterapia
La farmacoterapia del soggetto a rischio suicidario è complessa nonchè oggetto di
numerose diatribe cliniche e forensi. In tema di criticità possiamo ricordare:
1) Essendo il suicidio un evento multideterminato, a diagnosi multiassiale ed a
trattamento multistrategico, la terapia farmacologica, quando indicata, è solo uno tra
i molteplici interventi preventivi che possono essere fatti. La necessità di numerosi
altri trattamenti differenti dalla sola terapia farmacologica assume un ruolo cruciale
nell’analisi ed identificazione del nesso causale tra terapia farmacologica e suicidio.
2) Non tutti i soggetti a rischio suicidario debbono essere sottoposti a terapia
farmacologica. Non tutti presentano sintomi di interesse psichiatrico di gravità tale
da richiedere una farmacoterapia e non tutti i sintomi debbono sempre essere curati,
esclusivamente od elettivamente, con farmaci psicotropi.
21
3) Il farmaco agisce esclusivamente sui sintomi (7, 50,51). Non agisce sulla
suicidarietà nella popolazione in generale (50,51) (suicidality: tutti i fattori di
rischio suicidario) o su specifiche dimensioni di suicidarietà in specifici gruppi
(suicidality dimensions: ragionamento a tunnel obbligato verso il suicidio, suicidio
come modalità di interruzione della sofferenza, o altro in adolescenti, in soggetti con
privazione di libertà in carcere, etc.)
4) Il farmaco agisce spesso su sintomi specifici quali irritabilità, agitazione, ansia,
rabbia, impulsività, insonnia che nel singolo caso clinico non sono necessariamente
in nesso causale con la complessa dinamica biopsicosociale e situazionale del
suicidio. Questi sintomi, in realtà, rappresentano fattori di rischio addizionali
(additional risk factors) (18) in quanto largamente diffusi tra la popolazione generale
e psichiatrica e, se non contestualizzati in modo adeguato, perdono il loro valore
predittivo di fattori di rischio. La discussione con il senno del dopo non è valida,
ricordiamo, per la valutazione delle variabili al momento dei fatti per cui si procede.
5) I sintomi su cui agisce il farmaco non sono, spesso, entità semplici, indivisibili e non
approfondibili a livello scientifico: possono infatti essere sottoposti a dissezione
(l’aggressività può essere scorporata in autodiretta od eterodiretta), a riunione (più
sintomi possono essere riuniti nel concetto di nevroticismo), a strutturazioni in reti
(net-work con sintomi nucleari e periferici), etc. Non sono, nello stesso soggetto o
nello stesso disturbo psichico, sempre stabili ed esclusivi: possono variare col
variare della malattia, raggrupparsi in dimensioni psicopatologiche variabili nel
tempo, essere transdiagnostici e cioè presenti in differenti disturbi mentali, etc. I
sintomi inoltre possono presentare, secondo le attuali conoscenze scientifiche, una
eziologia non univoca e legata a differenti psicopalogie. L’attività delirante, per
esempio, non è esclusivamente legata alla psicopatologia della schizofrenia e non
riconosce, a livello di ipotesi cliniche, una sola eziologia (ipotesi della salienza
aberrante, della verbalizzazione metaforica o simbolica di una vita interiore, del
meccanismo psicologico di difesa da un percepito sociale frustrante, incontrollabile
ed inaccettabile, della proiezione gratificatoria o giustificatoria di bisogni e paure
primarie, etc). In altri termini le conoscenze attuali non permettono ancora di
realizzare il desiderio di molti studiosi di poter considerare i sintomi psichiatrici
come specifiche alterazioni biochimiche cui potrebbero corrispondere specifici
22
farmaci che le normalizzerebbero. Questa complessità, diagnostica ed eziologica, del
sintomo è un ulteriore elemento che rende complicata l’azione del farmaco nel
singolo caso clinico
6) Ai fini di una sempre maggiore beneficialità del paziente nell’ambito di una buona
pratica clinica nella gestione del farmaco (e di una comprensione scientifica più
approfondita in campo forense in tema di rischio-beneficio nella prescrizione del
farmaco) è utile conoscere i disturbi indotti dai farmaci. Si tratta di reattività avverse
al farmaco (DSM5) che possono essere di competenza internistica, interessare il
sistema nervoso autonomo, l’esecuzione dei movimenti, la sensorialità e gli aspetti
psichiatrici con la creazione di sintomi psichici nuovi e disturbanti la qualità di vita
del paziente (oltre i sintomi già presenti per i quali è stata instaurata la terapia).
Questi disturbi indotti da farmaci (Adverse Drug Reactions) sono molteplici, ancora
oggetto di approfondimenti scientifici, possono essere specifici per un singolo
farmaco ed essere modulati da una specifica reattività del singolo soggetto.
Ad esempio la somministrazione di farmaci antidepressivi può, in certe condizioni,
indurre le seguenti reazioni avverse: Sindrome apatico-amotivazionale da
antidepressivi (Antidepressant Apathy Syndrome; Apathy Syndrome; Amotivational
Syndrome SSRI-Induced; Indifference SSRI-induced apathy syndrome,
Antidepressant–Induced Apathy Syndrome, etc); Sindrome da discontinuità da
antidepressivi (Antidepressant Discontinuation Syndrome); Sindrome
Serotoninergica (Serotonergic Syndrome, Serotonin Syndrom, Serotonergic
Disorders); Sindrome Anticolinergica (Anticholinergic Syndrome); Tremore
posturale indotto da antidepressivi (Medication-Induced Postural Tremor); Sintomi
extrapiramidali da Sindrome serotoninergica da antidepressivi (Extrapiramidal
Reactions Associated with Serotoninergic Antidepressant); Disfunzioni della
sessualità: desiderio sessuale, orgasmo, eiaculazione, erezione (Antidepressant-
induced sexual dysfuction ); Viraggio del sintomo (swicht); Induzione di sintomi
extrapiramidali (SSRI-Induced EPS, Akathisia and Dyskinesia); Alterazioni
cardiovascolari (Cardiovascular Effects of Serotonin); Antidepressivi ed aumento
del rischio suicidario (Antidepressant and Suicidality) etc.
Per citare un altro esempio la somministrazione di antipsicotici può provocare:
Sindrome Maligna da neurolettici (Neuroleptic Malignant Syndrome); Sindrome
23
Maligna da neurolettici Atipica (Atypical Neuroleptic Malignant Syndrome),
Catatonia e Catatonia Maligna (Catatonia, Malignant Catatonia); Parkinsonismo
indotto da neurolettici (Neuroleptic-Induced Parkinsonism), Psicosi da
supersensitività da antipsicoti (Supersensitivity psychosis, Antipsychotic induced
dopamine supersensitivity Psychosis); discinesie tardive (Tardive Dyskinesia);
distonie acute e tardive (Acute, Tardive Dystonia), acatisia acuta e tardiva (Acute,
Tardive Akathisia); Accentuazione dei sintomi negativi; Incidenti cardio-vascolari
(torsade de pointes: transient or sustained); Alterazioni metaboliche (Methabolic
side effects. Diabetes mellitus. Metabolic Syndrome); Disfunzioni sessuali da
Antipsicotici (Sexual Dysfunction Induced by Antipsychotics); etc.
7) La constatazione clinica e forense che un farmaco non agisce su tutte le persone con
le stesse modalità e che non sia sempre noto, a livello scientifico, perché in certi
gruppi di persone il farmaco abbia gli effetti desiderati ed in altri gruppi non solo
non abbia gli effetti desiderati, ma presenti effetti indesiderati, ha messo in moto
varie strategie terapeutiche per affrontare queste criticità. Tra le varie strategie che
mirano a personalizzare l’azione del farmaco su di uno specifico soggetto o su uno
specifico sintomo con un preciso correlato biologico sono da considerare aspetti
della Medicina di genere (Gender Medicine) che mette in luce le differenze, a livello
di farmacoterapia, tra sesso maschile e femminile, aspetti della Medicina di
precisione o Medicina Personalizzata (Precision Medecine, Personalizaled
Medicine) che ricerca la disponibilità di farmaci mirati verso forme di malattia di cui
è nota una precisa componente genetica; aspetti della Medicina Traslazionale
(Translactional Medicine) in cui una parte della ricerca traslazionale in medicina
(RTM) è dedicata alle basi biologiche del disturbo che possono fornire il
fondamento scientifico per lo sviluppo ed il miglioramento di nuove terapie
farmacologiche con un rapido passaggio dalla scienza di base alla clinica. Si tratta di
strategie, attualmente in studio, che, nelle aspettative, dovrebbero fornire, attraverso
una sempre più stretta aderenza tra basi biologiche del disturbo da curare e farmaco
che cura una sempre maggiore funzionalità del farmaco.
8) Tra le strategie terapeutiche che mirano ad ottenere, in modo primario, un generico
beneficio alla salute fisica e psichica del soggetto sono attualmente in corso ricerche
attraverso la Medicina che studia i Nutraceutici (Pharma-food) e cioè quei principi
24
nutrizionali (probiotici, vitamine, integratori, ecc) che influiscono favorevolmente
sui processi biologici degli individui. Anche in questo caso si tratta di ricerche in
fase di approfondimento scientifico.
9) Non esiste in medicina, ed a maggior ragione in psichiatria, il farmaco perfetto che
agisce su ogni individuo, sul sintomo nella sua totalità, che guarisce subito e
completamente, che protegge per sempre da ricadute o da evoluzioni sfavorevoli del
disturbo e, soprattutto, che non presenta rischi unitamente a benefici.
10) Per quanto concerne la farmacoterapia, sulla base delle evidenze cliniche, è possibile
mettere in luce quanto segue sulle criticità legate non al farmaco perfetto quanto al
farmaco nella sua utilizzazione assistenziale quotidiana e nel suo funzionamento
reale. Sul problema della relazione tra diagnosi e terapia farmacologica è da
segnalare che in psichiatria è possibile formulare diagnosi, su di uno stesso
individuo, che partono da differenti presupposti dottrinali (diagnosi categoriali,
prototipiche, dimensionali, dinamiche, fenomenologiche, psicoanalitiche, narrative,
etc) che non implicano, anche nello stesso caso clinico, l’adozione della stessa
terapia farmacologica. E’ inoltre da sottolineare che in psichiatria esistono numerosi
manuali di classificazione dei disturbi psichici: DSM5 (Diagnostic and Statisical
Manual of Mental Disorder) e ICD-10 (International Classification of Diseases) che
privilegiano una descrizione categoriale statistica del disturbo mentale; PDM
(Psychodynamic Diagnostic Manual) che privilegia un aspetto diagnostico
psicodinamico e psicoanalitico; RDoC (Research Domain Criteria) che privilegia
l’aspetto della ricerca neuroscientifica legata al disturbo mentale; etc. Si tratta di
manuali che, pur non eguali nella impostazione metodologica ma passibili di
integrazione, rappresentano un valido aiuto alla ricerca scientifica nell’approfondire
l’eziologia, la diagnosi e la terapia del disturbo psichico. E’ tuttavia da tener conto
delle specifiche criticità cliniche di ognuno e soprattutto delle difficoltà di una loro
applicazione alle specifiche e complesse esigenze forensi per le quali questi manuali
non sono stati ideati e costruiti. Nello stesso individuo possono poi coesistere
differenti disturbi psichici (comorbidità anche con disturbi medici organici, abuso di
sostanze, etc) che rendono ulteriormente più complessa l’adozione di una terapia
farmacologica univoca e specificamente mirata. La mutevolezza dei sintomi nel
tempo, la loro comunanza con disturbi psichici diversi, la presenza di sintomi di
25
durata estremamente breve che scompaiono senza lasciare traccia, la difficoltà a
riconoscere i sintomi psichiatrici agli esordi della psicosi (early onset); l'aderenza al
trattamento del paziente nell'effettuare con regolarità le cure prescritte;
l’appropriatezza prescrittiva in rapporto alla efficacy (l’efficacia del farmaco in
studio clinico sperimentale controllato e randomizzato); alla effectivness (l’efficacia
del farmaco nella realtà clinica che tiene conto anche della safety e tolerability; alla
efficiency (l’efficacia del farmaco anche in relazione alla farmaco economia); etc,
complicano ulteriormente la farmacoterapia nella sua applicazione sul reale
quotidiano.
11) Un trattamento farmacologico anche corretto in rapporto alla diagnosi, scelta del
farmaco, dose, via di somministrazione ed aderenza del paziente al trattamento non
assicura, come afferma unanime la letteratura, una risoluzione del sintomo
psichiatrico. Il paziente può infatti reagire al farmaco con reattività dannosa tale da
rendere impossibile la prosecuzione della somministrazione (intolleranza); non
reagire al farmaco (resistenza) e alle varie strategie per vincere la resistenza
(ottimizzazione, combinazione, sostituzione, potenziamento, etc); reagire
parzialmente (resistenza parziale); può presentare complicazioni non prevedibili nel
singolo caso clinico (effetti collaterali); il farmaco può provocare effetti contrari a
quelli che, a livello statistico, sono le aspettative terapeutiche (effetti paradossi); il
farmaco può modificare il corso della malattia senza offrire la guarigione (disease-
modifying drugs); il farmaco, per motivazioni biologiche legate al singolo individuo,
può non funzionare o presentare complicazioni non prevedibili (specificità
farmacogenomica); il farmaco, per motivazioni psicologiche, può, nella percezione
del paziente, presentare un effetto inferiore, se non francamente dannoso, rispetto
alla realtà (effetto nocebo) ; il decorso del disturbo psichico può essere caratterizzato
da guarigioni incomplete, aggravamenti e riemersione dei sintomi, non prevedibili
nel singolo caso clinico ed in modo indipendente dalla correttezza della terapia
farmacologica (remissioni parziali, ricadute e ricorrenze), il farmaco può interagire
con altri farmaci della cui assunzione lo psichiatra non è stato avvertito o con
imprevedibili mutamenti dell’organismo che alterano la farmacocinetica o la
farmacodinamica (interazione con altri farmaci o con la mutevolezza del substrato
biologico).
26
12) L’uso del farmaco deve essere contestualizzato nel singolo caso clinico e nello
specifico momento evolutivo dei sintomi (un farmaco antidepressivo non è indicato,
soprattutto in monoterapia, per tutti i tipi di depressione, per tutte le età, per tutte le
caratteristiche personologiche e psichiatriche di comorbidità, etc.)
13) L’uso del farmaco deve essere condizionato dalla valutazione del rischio-beneficio e
nel rispetto della autodeterminazione informata (valida a termini di legge) del
soggetto. Ad esempio i sali di litio, in certi soggetti ed in specifici disturbi mentali,
sono stati riconosciuti possedere la capacità di ridurre, a livello statistico, il rischio
suicidario. Devono però essere valutati nel singolo caso i numerosi possibili effetti
collaterali e indesiderati che può causare la loro somministrazione anche in presenza
di opportuni esami preventivi e di controllo: nausea, vomito, diarrea, tremori,
polidipsia, poliuria, follicolite cronica, ipotiroidismo, insufficienza renale, etc. oltre
le criticità legate alla continuità di cura ed alla sospensione del farmaco.
In conclusione le evidenze cliniche farmacologiche in tema di prevenzione del suicidio
sono molto limitate (very limited), preliminari (preliminary), suggestive (suggestives) e non
conclusive (inconclusive) (18). Questo concetto clinico e forense è stato recentemente
ribadito e chiarito dalla Corte di Cassazione, (IV sez. pen., n.14766/16) al proposito di un
suicido di un soggetto con disturbo psichico: In concreto, secondo i canoni della moderna
psichiatria, si è fatto ricorso ai farmaci la cui efficacia terapeutica è notoriamente
variabile e non sicuramente prevedibile, non essendo in grado di garantire né la
guarigione dei pazienti né l’arresto di progressione della malattia e neppure la
prevenzione da gesti auto o etero aggressivi (…).
Le osservazioni che precedono nulla tolgono e sono compatibili con i grandi meriti della
farmacoterapia sulla beneficialità medica e sulla qualità di vita garantita al paziente
psichiatrico, alla indispensabile necessità di fiducia costruttiva nei progressi della neuro
psico farmacologia, alla funzionale e creativa ricerca di ogni mezzo terapeutico per ridurre,
a livello di prevenzione, i fattori di rischio suicidario e potenziare i fattori di protezione.
Inoltre è da considerare il rispetto che, nella cura del singolo paziente, deve essere
accordato alla psico-educazione al farmaco ove evidenze scientifiche sono gestite alla luce
della comunicazione, nella gestione della alleanza terapeutica, della speranza di
27
miglioramento o di guarigione mirata alle caratteristiche personologiche in uno specifico
contesto di realtà psicosociale e di vissuti emotivi personali.
Per quanto concerne la psicoterapia col paziente suicidario possono essere considerate
alcune evidenze cliniche:
• Non esiste, in assoluto, una unica o migliore psicoterapia per ridurre il rischio in tutti
i soggetti suicidari (gli interventi con psicoterapie debbono essere contestualizzati
sullo specifico caso clinico in uno specifico tempo ed in un determinato contesto
socioculturale ed economico). Non in tutti i casi clinici è sempre possibile o sempre
indicato, nella fase acuta, un approccio psicoterapeutico strutturato (ad esempio
gravi ritardi mentali, etc.).
• Essendo l’intervento terapeutico in tema di suicidio multi strategico e multimodale
(multicomponent) (51-53) l’intervento psicoterapico presenta utilità clinica
preventiva ridotta se non accompagnato da altre misure di prevenzione che, spesso,
non sono di competenza dello psichiatra che con il paziente ha uno specifico
rapporto di garanzia. Tra queste possiamo ricordare le tecniche combinate tra
differenti psicoterapie (ad esempio tecniche cognitivo comportamentali,
interpretazioni psicodinamiche, etc.) e la farmacoterapia ed interventi psicosociali
(ad esempio ospedalizzazioni, istituzioni sociali di aiuto economico e psichico,
utilizzo di persone significative di sostegno, terapie legate alla risoluzione di
problemi pratici quotidiani, terapie familiari, etc.) (18).
• E’ utile che il terapeuta conosca i possibili errori che deve evitare in ambito
psicoterapico. In primo luogo sono da evitare gli errori che possono essere presenti
in tutte le psicoterapie (desiderio di piacere al paziente, incapacità di tollerare il
silenzio, reattività inadeguata alla aggressività del paziente, interpretazioni
premature, riduzione della individualità del paziente ad una diagnosi, etc.) In
secondo luogo sono da evitare errori più specifici nella psicoterapia col paziente a
rischio suicidario (rassicurazione superficiale senza approfondire il rischio di
suicidio, evitamento di sentimenti intensi nella relazione, rifugio nel ruolo
professionale, comportamenti passivi soprattutto in relazione alla difficoltà di
comunicare del paziente, insufficiente offerta di direttive precauzionali di
28
protezione, fornire precipitosamente consigli, far capire al paziente che lo si
classifica in una tipologia stereotipata, reagire in modo speculare od inadeguato a
sentimenti di ostilità, disimpegno, sfida, provocatorietà del paziente, etc. (53)
4.a. Non validità clinica e forense della pubblicità ingannevole del farmaco miracoloso e della causalizzazione dell’errore non rilevante
Non raramente la centralità della discussione sulla responsabilità professionale dello
psichiatra ha come oggetto la prescrizione farmacologica impostata sulla percezione del
farmaco perfetto ed indispensabile per evitare il suicidio. Questa concezione di farmaco
perfetto in grado di guarire un evento multifattoriale come il suicidio o il comportamento
violento sulla persona non è solo presente nelle fantasie popolari, ma anche in operatori
della salute mentale e, seppure in modo più sofisticato, meno palese e più razionalizzato,
anche in periti e consulenti. Accanto alla semplicistica ed errata affermazione: si è ucciso
perché era depresso, esiste la altrettanto semplicistica ed errata affermazione: era
sufficiente somministrare un antidepressivo alle dosi giuste e per il tempo giusto ed il
paziente, guarito, non si sarebbe ucciso. Si tratta di una sorta di pubblicità ingannevole sul
farmaco che è, come risulta dalle importanti limitazioni alla sua azione precedentemente
illustrate, da considerare in tutte le sue criticità.
Un'altra osservazione psichiatrico forense che si può fare derivare da quanto precede, è
attribuire ad un eventuale errore nell’operato dello psichiatra (che può essere presente ma
ininfluente ed irrilevante ai fini dei requisiti della causalità e dell’aumento del rischio
suicidario: ad esempio in termini di adeguatezza della causa, di rischio consentito, di
evoluzione naturale, etc.) un requisito di causalità (causa o concausa) o un rapporto di
causalità (nesso di causalità) col suicidio (causalizzazione dell’errore irrilevante).
In tema di responsabilità dello psichiatra per presunto errore farmacologico non è, quindi
accettabile, sotto l’aspetto clinico, scientifico e forense, l’accusa superficiale che si limita
ad affermare, senza copertura scientifica specifica sul caso, senza evidenze cliniche
scientifiche e senza disamina critica contestualizzata, che lo psichiatra: non ha dato il
farmaco che avrebbe salvato dal suicidio. Ovvero: ha dato il farmaco che ha scatenato il
29
suicidio. Ovvero: ha sbagliato a somministrare il farmaco e quindi il paziente si è ucciso.
Chi formula l’accusa è tenuto ad essere chiaro, circostanziato e documentato. Affinché
l’accusa possa essere presa in considerazione, deve precisare, secondo parere motivato
(giustificato da adeguata copertura scientifica e non una semplice opinione personale ola
citazione di letteratura non qualificata) quale avrebbe dovuto essere la scelta farmacologica
corretta e motivare l’esistenza o meno del nesso di causalità (ad esempio attraverso il
ragionamento contro fattuale: se il paziente avesse fatto la terapia corretta che io
suggerisco sulla base di una copertura scientifica si sarebbe ucciso o non si sarebbe
ucciso?) In particolare sulla base dei loro doveri il perito e il consulente devono precisare in
merito al tipo di farmacoterapia da loro ritenuta corretta:
• il tipo specifico di farmaco; • la dose; • la via di somministrazione; • la durata della somministrazione; • le percentuali di intolleranza e di resistenza totale o parziale al farmaco in quel tipo
di disturbo psichico; • le percentuali di successo e fallimento nell'uso delle varie strategie alternative per
vincere la resistenza in quello specifico disturbo; • le percentuali di effetti collaterali e la rispettiva gravità clinica; • la percentuale di effetti paradossi; • la percentuale di remissioni non complete dei sintomi, delle ricadute e delle
ricorrenze in quello specifico disturbo psichico; • la possibilità di interazioni farmacologiche o variazioni farmacocinetiche o
farmacodinamiche imprevedibili o inevitabili da parte del curante; • La percentuale di non aderenza terapeutica a quel farmaco in quel determinato
disturbo psichico; • La tipologia di alleanza terapeutica che quello specifico paziente era solito stabilire
con i curanti. • L’eventuale esistenza di particolari condizioni soggettive del paziente che potevano
rendere problematica la riuscita del trattamento farmacologico.
Il perito ed il consulente non possono presentare un farmaco perfetto, ideale e miracoloso
su un paziente ideale senza fornire i necessari chiarimenti sopra esposti, ma debbono
presentare un farmaco nel suo funzionamento reale, contestualizzato nello specifico caso
clinico con la copertura scientifica della più accreditata letteratura. Letteratura che deve
30
essere estranea ad interessi delle case farmaceutiche e rispondere ai criteri internazionali di
alta qualità scientifica e metodologica. Questo è il solo modo di presentare, a chi deve
comprendere e giudicare l'operato dello psichiatra, evidenze cliniche condivise ed agire in
modo corretto sotto il profilo clinico e forense.
4.b. Necessità di introdurre un fattore di correzione nella valutazione della farmacoterapia per il rischio suicidario rispetto ad altre farmacoterapie mediche
La complessità dell’evento multideterminato, la difficoltà di diagnosticare e trattare
sintomatologie non facilmente obiettivabili con mezzi farmacoterapici talvolta poco
efficaci, il complesso legame clinico e forense di requisito di causalità e di rapporto di
causalità tra sintomo psichiatrico e suicidio, etc. richiedono l’introduzione di un fattore di
correzione (da interpretare come una particolare attenzione e sensibilità nel valutare la
farmacoterapia in Psichiatria e nel caso specifico in esame) allo scopo di valutare con
criticità la reale responsabilità farmacoterapica dello psichiatra. Questo concetto clinico e
forense è stato recentemente sottolineato in modo chiaro dalla Suprema Corte di Cassazione
(IV sez. pen. 14766/16): E’ fuori discussione che le regole cautelari dell’attività medica
presentino, in generale, un tasso elevato di peculiarità e difficoltà, non solo nella fase di
verifica e della valutazione, ma anche in quella, più strettamente modale ed operativa,
della scelta del percorso terapeutico. Il discorso si pone in termini ancor più problematici
con riferimento alla scienza psichiatrica, a fronte della imprevedibilità della condotta che
caratterizza talune sindromi e taluni singoli casi, giacché le manifestazioni morbose a
carico della psiche sono tendenzialmente meno evidenti e afferrabili delle malattie fisiche,
per cui il confine tra trattamento giusto e trattamento sbagliato può almeno in certi casi
diventare ancora più incerto che non nell’ambito della generica attività medica.
Pur con le criticità che precedono, è utile che lo psichiatra segua alcuni principi di buona
pratica clinica nella prescrizione farmacologica.
1. In primo luogo è necessario che risulti in cartella clinica la coerenza documentata tra
i sintomi descritti e la terapia farmacologica.
31
2. E’ altresì necessaria la documentazione in cartella clinica di un monitoraggio non
solo della sintomatologia clinica ma anche della terapia farmacologica.
Per quanto concerne la psicoterapia occorre che siano documentati in cartella clinica gli
interventi che sono stati fatti e la reattività del paziente a detti interventi. Sottolineiamo
ancora che, sotto il profilo forense, non solo è necessario provvedere a quanto precede, ma
è anche necessario documentarlo in cartella clinica a testimonianza del comportamento
beneficiale verso il paziente e tutelativo nei confronti dello psichiatra. La documentazione
in cartella clinica degli interventi che sono stati fatti non è solo in funzione del rispetto dei
principi di buona pratica clinica nella compilazione il più corretta possibile dei documenti
medici, ma anche alla attenzione nell’evitare la possibilità che sia applicata la obiezione
forense che quello che non è scritto non è stato fatto.
5 Valutazione dei fattori di rischio e dei fattori protettivi
in tema di suicidio
Gli studiosi hanno isolato, su estesi campioni di soggetti, fattori che, a livello statistico e
con maggiore frequenza di altri, appaiono legati al rischio suicidario sia nella popolazione
generale che in popolazioni più specifiche (7,18,26,54-56). Questi fattori sono raccolti in
differenti classificazioni a seconda degli autori. In relazione agli obiettivi del presente
scritto possono essere classificati in tipologie che, pur non essendo mutualmente esclusive,
presentano una facilitazione al loro utilizzo forense. In considerazione dei limiti di questo
approccio i fattori di rischio (ed anche i fattori protettivi) possono essere suddivisi nelle
seguenti tipologie:
a) di tipo statico individuale (individual risk profile) legati a caratteristiche stabili
individuali (sesso, età, precedenti suicidi in famiglia, malattie mentali, abuso di
sostanze, isolamento sociale, malattie mediche o sintomi dolorosi a carattere
cronico, precedenti abusi sessuali, etc.)
32
b) di tipo sintomatologico (symptom risk profile) che privilegiano aspetti
psicologici o psichiatrici (sentimento di mancanza di speranza: hopelesness,
sentimento di indegnità: whortlesness, sentimento di non poter ricevere aiuto:
helplesness, sentimento di essere intrappolato in situazioni senza uscita: feeling
of entrapment, incapacità a provare piacere: anedonia, rigidità cognitiva:
cognitive rigidity, incapacità o difficoltà a prendere decisioni: impaired decision
making, sintomi depressivi, rabbia, impulsività, sintomi psicotici positivi acuti,
ansia ed agitazione, stati di panico, etc.)
c) di tipo circostanziale al momento delle decisioni terapeutiche (Interview risk
profile) presenti all’osservazione psichiatrica nel corso del colloquio che ha
determinato specifiche decisioni in tema di valutazione e trattamento (sentimenti
di riduzione o di assenza del desiderio di vivere, di ideazione suicidaria, di
progetto suicidario, di comportamento auto lesivo o suicidario, presenza di
problemi che al paziente appaiono non risolvibili, recente abuso di droga, alcool,
presenza di allucinazioni uditive imperative con ordine di suicidarsi, etc.)
Gli studiosi hanno altresì isolato fattori che, nella pratica clinica, appaiono più legati di altri
alla protezione del passaggio all’agito suicidario (7,18,54). Anche nei fattori protettivi è
possibile isolare, seppure con i limiti precedentemente illustrati, differenti tipologie non
mutualmente esclusive:
a. di tipo statico (assenza di precedenti tentativi di suicidio, di suicidi in famiglia;
di psicosi; di abuso di sostanze; di croniche ed invalidanti malattie mediche;
presenza di buone relazioni affettive e sociali con il compagno o la compagna,
familiari, amici, ambiente di lavoro; presenza di figli nella propria abitazione,
etc.);
b. di tipo sintomatologico (sentimento di stima in se stessi: good self-esteem, di
efficacia nel proprio agire: self-efficacy; volontà concreta e fiduciosa di
richiedere aiuto: willingness to seek help, capacità di risolvere i problemi:
problem solving skills, stabilità emotiva: emotional stability, capacità di gestire
positivamente le situazioni di crisi: positive coping skills, sentimenti di
responsabilità nei confronti della famiglia: resposibility to family, sviluppo
maturo ed armonico della propria identità: developed self-identity, stile di vita
33
salutare, rispettoso della salute del corpo e della mente: healthy lifestyle
choices, etc.)
c. di tipo circostanziale (non presentare o verbalizzare i pensieri: thoughts, i
progetti: plans, i comportamenti: behaviors, relativi al proprio suicidio o
sentimenti di svalutazione della volontà di vivere: feelings about living;
usufruire, se di giovane età, di un buon rapporto di accettazione e contenimento
affettivi con persone adulte significative: connectedness; praticare con aderenza
le terapie farmacologiche e psicoterapiche prescritte, rispettare gli appuntamenti
col terapeuta: positive therapeutic relationship; formulare progetti per il futuro;
aver risolto problemi che hanno causato una precedente sofferenza psichica,
fisica od economica; disponibilità sociale di persone di riferimento con forti
legami affettivi e di fiducia: positive social support; condanna morale dell’atto
suicidario: moral objections; paura di compiere l’atto fisico di soppressione;
timore della visibilità sociale negativa: fear of social disapproval, etc.)
I fattori di rischio suicidario ed i fattori di protezione dal suicidio presentano le seguenti
caratteristiche comuni:
1. Possono essere presenti uno o più fattori di rischio ed il paziente non si uccide, possono
essere presenti uno o più fattori di protezione ed il paziente si uccide. Come afferma la
letteratura e l’esperienza clinica quotidiana questi fattori possono avere, quando lo
hanno, solo il valore, soprattutto in termini cumulativi ed interattivi, di aumentare o
ridurre la vulnerabilità o la resilienza al suicidio. (7,18)
2. Hanno un valore statistico su grandi popolazioni (e non valore forense contestualizzato
su un singolo caso clinico)
3. In ragione della rarità statistica del suicidio questi fattori non hanno valore predittivo da
soli o considerati variamente associati tra loro (The statistical rarity of suicide also
make it impossible to predict on the basis of risk factors either alone or in combination)
(18)
4. Sono differenti come tipologia e come fattori in qualità e quantità da studioso a studioso
(ne sono prova la grande quantità e diversità nella creazione di questionari, scale e linee
guida in tema di suicidio).
34
5. Sono sempre da considerare con molta critica perché possono essere ambivalenti o
dipendere da specifici contesti socioculturali o da soggettive e mutevoli interpretazioni
del soggetto. Ad esempio essere religioso (religious beliefs) in genere è considerato un
fattore protettivo per il rispetto che religioni e movimenti spirituali simili attribuiscono
alla propria vita e per la non valorizzazione della aggressività fisica. Tuttavia vi sono
religioni o movimenti spirituali che stimolano il suicidio e cioè la immolazione
personale per motivi politici, costumi familiari o ideali di comportamento a forte
visibilità e plauso sociale
6. Possono essere tra loro variamente associati od integrati in modo imprevedibile. Ad
esempio il sentimento di benessere personale, che è considerato un fattore protettivo,
può variare rapidamente ed in modo imprevedibile in un paziente con disturbo bipolare
che passa da uno stato ipomaniacale di grande benessere soggettivo ad una depressione
con sentimenti soggettivi di grande malessere fisico e psichico
7. Necessitano di una valutazione non solo della presenza od assenza ma anche della loro
gravità clinica (magnitude) e della loro durata nel tempo (persistence)
8. Debbono essere valutati in rapporto a specifici contesti di trattamento (pazienti
ricoverati, pazienti non ricoverati, luoghi di emergenza, carceri, residenze mediche a
lungo termine, etc.)
9. Sono, allo stato attuale, continuo oggetto di approfondimento e critiche a livello clinico
e scientifico
10. Sono spesso in relazione, nella loro gestione, con il tipo di alleanza terapeutica
(therapeutic alliance) stabilita col terapeuta (un clima di fiducia, rispetto reciproco e
comunanza di intenti tra soggetto e terapeuta che non dipende esclusivamente dalle
capacità cliniche del terapeuta);
11. Presentano la necessità di dover essere sempre valutati nel complesso rapporto tra fattori
che aumentano il rischio e fattori che aumentano la protezione nella irrepetibile
contestualizzazione dinamica del singolo caso clinico.
I fattori di rischio e di protezione sono quindi da considerare, sotto il profilo clinico e
forense, ipotesi cliniche statistiche di ricerca utilizzabili su grandi campioni di persone e
non evidenze cliniche condivise applicabili, con correttezza clinica e scientifica e forense, al
singolo caso in esame. In altre parole il desiderio di eliminare o ridurre drasticamente il
suicidio e il sentimento di speranza illimitata nella onnipotenza della scienza medico
35
psichiatrica attraverso l’individuazione dei fattori di rischio e di protezione che potranno
discriminare il soggetto che si ucciderà da quello che non si ucciderà, allo stato attuale della
conoscenze, è ancora sul piano della utopia con fondamenti clinici e scientifici assai fragili.
Quanto precede, tuttavia, non esonera lo psichiatra dal considerare in tema di suicidio, con
attenzione e criticità sotto l’aspetto di ipotesi clinica di ricerca, sia i fattori di rischio che i
fattori di protezione contestualizzati nel singolo caso clinico in valutazione. Soprattutto non
esonera, ma deve stimolare, con fiducia e speranza, gli studiosi a mettere in atto e
approfondire e migliorandole tutte le possibili strategie utili alla prevenzione del suicidio.
5.a. Utilizzo clinico e forense dei fattori di rischio e di protezione in tema di suicidio
La buona pratica clinica dello psichiatra con il paziente suicidario impone la valutazione
dei fattori di rischio e dei fattori protettivi. Questa valutazione deve essere puntualmente
registrata, con chiarezza ed obiettività, in cartella clinica. Con questa modalità di approccio
di buona pratica clinica documentata, sono raggiunti numerosi obiettivi:
• la beneficialità del paziente la cui situazione clinica è valutata con attenzione sia nei
fattori di rischio che di protezione. Su entrambi può essere indirizzato l’intervento
terapeutico
• la documentazione obiettiva di buona pratica clinica adottata dallo psichiatra che ha
agito con perizia, diligenza e prudenza illustrando la complessità dei fattori presenti
nella valutazione del rischio suicidario
In questo senso, sottolineiamo, l’impianto accusatorio formulato contro lo psichiatra per
non aver valutato in modo corretto la presenza dei fattori di rischio suicidario, quando
formulata senza opportune basi scientifiche di discussione e senza la contestualizzazione del
caso clinico per cui si procede, trova precise risposte nei seguenti punti:
1. I fattori di rischio sono stati valutati in relazione ai fattori protettivi: a volte i fattori
protettivi possono essere equivalenti o più importanti dei fattori di rischio
36
2. Lo psichiatra non può intervenire con risultati immediati sui fattori di rischio stabili
permanenti (non modifiable factors) come il sesso, l’età, i precedenti tentativi di
suicidio (18)
3. Lo psichiatra non può prevedere nel singolo caso clinico gli eventi circostanziali (unique
circumstances) del rischio suicidario (18). Ad esempio l’improvviso abbandono del
paziente da parte del coniuge, una inattesa comunicazione giudiziaria, le reazioni
colpevolizzanti, delegittimanti, francamente aggressive (anche se reattive ad una reale
aggressività subita) dei familiari nei confronti del soggetto suicidario, etc., che possono,
a loro volta, stimolare l’agito suicidario
4. Lo psichiatra non è in grado di controllare in modo minuzioso e costante nel tempo
caratteristiche psichiatriche del soggetto a rischio suicidario come ad esempio la
impulsività, sentimenti di perdita di speranza, allucinazioni uditive a comando
suicidario; una improvvisa crisi di ansia, di agitazione psichica e motoria, di panico
(nonostante la copertura farmacologica); tentativi di suicidio a scopo dimostrativo che,
contro la stessa volontà del paziente, esitano in suicidio, etc.
Così come i fattori di rischio debbono essere valutati in modo corretto sotto l’aspetto
scientifico e forense, anche i fattori protettivi debbono essere valutati con criteri scientifici
e forensi. Ad esempio non è certo sufficiente che un paziente presenti numerosi fattori di
protezione (segua con lodevole aderenza le cure farmacologiche e psicoterapiche, faccia
progetti concreti e dettagliati per il suo futuro, possegga valori religiosi o etici di rispetto
della propria vita, etc.) per escludere, sotto il profilo clinico e forense, la probabilità che
possa mettere in atto un suicidio.
5.b. Non validità clinica e forense del ragionamento basato sul accattonaggio dei sintomi e dei fattori di rischio, sulla causalizzazione del fattore di
rischio, sulla suicidalizzazione, sulla semplificazione erronea della complessità scientifica
Il giudizio in tema di responsabilità professionale dello psichiatra in merito al suicidio del
paziente si basa sul presupposto clinico e forense che i fattori di rischio e di protezione,
intesi in senso lato, debbano essere valutati tenendo conto delle loro criticità e della loro
37
contestualizzazione nel caso specifico e, sottolineiamo ancora, della loro attualità e
concretezza.
A. Attualità significa che la valutazione del rischio deve essere in relazione
all’esame psichiatrico al momento delle decisioni per cui si procede. Se un
paziente ha tentato il suicidio una volta all’età di 16 anni ed al momento dei
fatti per cui si procede ne ha 40, pur senza cancellare dalla sua anamnesi il
passato, l’esame valutativo deve essere condotto, in quanto a significatività
clinica e forense, sulle variabili attuali e cioè da quanto risulta dall’esame
psichiatrico al momento delle decisioni per cui si procede (che può accordare un
valore non sempre eguale al tentato suicidio a 16 anni). Il fatto che un paziente
abbia presentato un tentativo di suicidio a 16 anni non può renderlo oggetto di
etichettamento o marchiarlo per tutto il resto della sua vita come suicidario e,
soprattutto, non deve giustificare misure cautelari mediche o giuridiche continue
nei suoi confronti. E’ necessario tenere conto della variabilità dell’intento
suicidario, della sua ambivalenza, del mutare delle condizioni che lo hanno
determinato sia personali che sociali.
B. Concretezza sta a significare che il rischio non deve essere teorico o
semplicemente possibile, ma debbono essere presenti variabili che depongano
per una reale probabilità e prevedibilità.
Sulla base di queste premesse (attualità e concretezza) l’accattonaggio dei sintomi e dei
fattori di rischio (in analogia a quanto fanno gli accattoni quando raccolgono tutto ciò che
trovano a prescindere dalla utilità) e cioè la raccolta anamnestica indifferenziata, relativa a
tutta la vita del soggetto, di sintomi psichiatrici o di fattori di rischio suicidario sulla cui
base si costruisce, indipendentemente dall’esame psichiatrico al momento dei fatti per cui si
procede, l’affermazione che nell’attualità e concretezza il soggetto presentava al momento
dei fatti un grave rischio suicidario, è errata ed inaccettabile sotto il profilo clinico e
forense.
La causalizzazione del fattore di rischio consiste nell’attribuzione, erronea sotto il profilo
clinico e forense, dei requisiti di causalità ad uno o più fattori di rischio. In altre parole si
confonde il concetto di fattore di rischio di suicidio con il concetto di causa di suicidio. I
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requisiti di causalità (come è stato sottolineato nella causalizzazione dell’errore irrilevante
già descritta) debbono essere valutati alla luce dei termini di adeguatezza della causa, di
rischio consentito, di evoluzione naturale, etc. oltre l’applicazione dei criteri di base ad
esempio di prevedibilità e di probabilità. I fattori di rischio debbono sempre essere valutati
in rapporto ai limiti clinici e forensi di ognuno, delle loro interazioni ed in rapporto ai
fattori protettivi sempre contestualizzati in uno specifico caso clinico. Per meglio
comprendere le conseguenze cliniche e forensi dell’errore della causalizzazione dei fattori
di rischio è utile considerare alcune importanti evidenze cliniche condivise. Ad esempio
sarebbe difficile non considerare falsi positivi (soggetti teoricamente ad alto rischio
suicidiario che, però, in realtà non si suicidano) quasi tutti i pazienti se si considerassero in
modo acritico i fattori di rischio. Le linee guida dell’APA (American Psychiatry
Association), società scientifica di psichiatri tra le più accreditate, elenca circa 60 fattori di
rischio di suicidio: si comprende come è difficile non riscontrarne parecchi per ogni
paziente psichiatrico (18). Per fornire un altro esempio, una linea guida per la prevenzione
del suicidio nei giovani (16) mette in luce circa 83 fattori di rischio suicidario distribuiti tra
le variabili socio-demografiche, ambiente familiare, caratteristiche di personalità, stile
cognitivo, variabili biologiche e genetiche, disturbi mentali, variabili ambientali stressanti,
pensieri e comportamenti suicidari, disponibilità di mezzi letali. Anche in questo caso non è
difficile trovare in qualsiasi giovane nella popolazione generale non pochi fattori di rischio
suicidario. Per meglio comprendere la facilità con cui si può incorrere in questo errore si
possono considerare i falsi positivi che potrebbero essere diagnosticati nella popolazione
generale. E’ da sottolineare che il suicidio è una possibilità sempre presente come risposta
ai problemi del vivere e che il 10/15 per cento della popolazione ha pensato seriamente al
suicidio in un momento qualsiasi della propria vita (18). Questo dato è confermato dalla
realtà clinica che tentativi suicidari e pensieri suicidari sono presenti nella popolazione
generale nel 0,7% e 5,6% mentre in realtà si verificano solo 10,7 suicidi su100.000 persone
(7). Inoltre su 100 soggetti che entrano nella zona definita a rischio suicidario solamente
uno o due giungono a compiere l’atto letale (18)
Per comprendere il termine di suicidarizzazione è utile considerare il fenomeno analogo di
psichiatrizzazione, molto diffuso, ma errato e non accettabile sotto il profilo clinico e
forense. Per psichiatrizzazione si intende la attribuzione di valenza psicopatologica a
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comportamenti, sentimenti, pensieri che non sono di specifica competenza psichiatrica, ma
appartengono alla fisiologica variabilità che caratterizza la definizione culturale di
normalità. Suicidarizzazione è, in analogia con quanto precede, una metodologia di
attribuzione, errata sotto il profilo clinico e forense, di significatività determinante di fattore
di rischio o di protezione dal suicidio attribuita a comportamenti, sentimenti, pensieri che
non appartengono alle evidenze cliniche condivise in merito ai fattori di primaria
importanza che facilitano o inibiscono il passaggio all’atto suicidario, ma fanno parte della
fisiologica variabilità della norma culturale. Psichiatrizzazione è, per esempio,
diagnosticare una persona come schizofrenica solo perché appare un po’ strana o bizzarra o
coltiva interessi e passatempi non comuni ed eccentrici. Un esempio di suicidarizzazione è
ritenere ad alto rischio suicidario un paziente solo perché in reparto appare talvolta triste o
pensieroso o di animo cupo. Essere triste, pensieroso, di animo cupo sono condizioni
umane frequenti nella fisiologia della norma ed aspecifiche da non poter assumere valore
significativo, considerate senza approfondimento, a livello clinico e forense di validi fattori
di rischio suicidario. Se si usasse la psichiatrizzazione e la suicidarizzazione, così come
definite, il mondo sarebbe stracolmo di gravi malati di mente da curare e di persone a grave
e permanente rischio suicidario
Per semplificazione erronea della complessità scientifica si intende la sostituzione della
conoscenza scientifica, ricca di approfondimenti, specificazioni, criticità, etc. con concetti
semplicistici di apparente buon senso, ma in realtà errati sotto il profilo clinico e forense.
Ad esempio nel linguaggio comune il termine di tentativo di suicidio può assumere (e non
raramente lo assume nella clinica, nelle perizie e consulenze psichiatriche) così tante
interpretazioni e comprendere così tanti comportamenti (una sorta di Torre di Babele di
significati) che corre il rischio di non significare più nulla per una metodologia corretta sul
piano clinico e forense. In questo contesto (ove appare necessaria una chiarificazione) è da
considerare la presenza clinica e forense del concetto di autolesività non suicidaria (non-
suicidal self–injury): comportamento che consiste nell’infliggere un danno al proprio corpo
(produrre sanguinamenti con mezzi taglienti o impropri, percuotersi, scarificarsi, bruciarsi,
etc.) con l’aspettativa che il danno sia limitato e con l’assenza di intento suicidario. La
diagnosi di assenza di intento suicidario può essere formulata attraverso le verbalizzazioni
dell’autore del gesto (sebbene sia da considerare l’alta frequenza di false dichiarazioni di
40
intenti suicidari) e desuntra dalla meccanica esecutiva dell’atto (che solitamente mette in
luce la capacità dell’autore del gesto di padroneggiare la situazione per non infliggersi la
morte).
Allo scopo di illustrare la complessità scientifica che caratterizza i comportamenti
autolesivi non suicidari possono essere prese in considerazione le possibli interpretazioni
della funzione che il gesto autolesivo può acquisire nel soggetto che lo pone in atto.
1) Regolazione emotiva (per alleviare il disagio di emozioni negative)
2) Controllo sul cognitivo (per alleviare il disagio su stati cognitivi ansiogeni od
ingestibili)
3) Difesa contro la dissociazione e la depersonalizzazione (per interrompere una
esperienza dolorosa di dissociazione o di depersonalizzazione)
4) Ricerca dei confini personali (per definire la propria identità e differenziarsi dalle
identità di altri)
5) Ricerca di aiuto (per richiedere comprensione, empatia, consigli e terapia per
superare difficoltà psico-sociali percepite o reali)
6) Manipolazione (per tentare di condizionare gli altri ad accettare le proprie richieste
indipendentemente dalla loro adeguatezza e liceità)
7) Punizione verso se stesso (per esprimere la rabbia verso se stesso)
8) Aggressività verso altri (attraverso il meccanismo psicologico di difesa dello
spostamento dalla etero-aggressività alla auto-aggressività)
9) Antisuicidario (per ridurre od interompere con un passaggio all’atto idee, intenti,
impulsi suicidari)
10) Ricerca di sensazioni (nell’ambito delle motivazioni che stimolano i soggetti
sensation-seekeers)
11) Ricerca di vitalità (per sentirsi vivo, vitale, reale ed avere la padronanza dei propri
gesti e la coscienza del proprio corpo)
12) Appagamento sessuale (per controllare appagare, sviare, vivere in fantasia o
simbolica sostitutiva impulsi sessuali pressanti o non accettati)
13) Reattività a pregressi abusi sessuali (per vivere e digerire emotivamente abusi
sessuali rivissuti simbolicamente spesso con identificazione anche all’aggressore)
41
14) Ricerca di uno stato di benessere (per usufruire durante o subito dopo l’atto di uno
stato di benessere, tranquillità: questa ricerca può provocare dipendenza ed essere alla
base di autolesionismi ripetuti o cronici)
Sotto il profilo di buona pratica clinica non è accettabile una acritica e semplicistica
equiparazione tra tentativo di suicidio con intenzioni suicidarie ed autolesività non
suicidaria (erroneamente interpretata come un tentativo suicidario con intenzione
suicidaria). La beneficialità del soggetto implica che debba sempre essere oggetto di
attenzione qualsiasi agito autolesionista e che, quando possibile, sia formulata una diagnosi
più approfondita in tema di presenza o assenza di intenzione suicidaria. Sotto il profilo
forense il tentativo suicidario con intenzione suicidaria (Suicidal Behavior Disorder:
Disturbo da Comportamento Suicidario) e l’autolesività non suicidaria (Non-suicidal self-
injury) non presentano la stessa qualità o quantità di rischio suicidario.
6 Valutazione delle indicazioni e controindicazioni in tema di
ricovero e di dimissione
La valutazione in merito al ricovero o dimissione in ambito protetto o istituzionale di un
soggetto con disturbo psichico che presenta rischio suicidario è stata affrontata da numerose
linee guida (17,18). Anche questa, come ogni decisione medica, deve essere rapportata alle
specifiche variabili che caratterizzano lo specifico rischio suicidario del singolo caso
clinico, al momento delle decisioni, in rapporto al rischio-beneficio (indicazioni e
controindicazioni) con attenzione alla attualità e concretezza. In considerazione di questa
complessità non vi sono, nelle linee guida più accreditate, indicazioni assolute, ma solo
indicazioni generiche (generally indicated) o indicazioni di possibilità non vincolanti (may
be necessary) (17,18)
42
Tra le indicazioni generiche al ricovero di questa ampia e varia tipologia di paziente,
ricordiamo (18):
1. Sintomi psichiatrici: estrema agitazione psicomotoria, psicosi floride
2. Malattie mediche: tossiche, metaboliche, infettive che agiscono sulla capacità di
giudizio
3. Modalità esecutive: tentativo di suicidio premeditato, con mezzi violenti, messo
in atto con l’accortezza di non poter ricevere aiuto e non essere scoperto od
interrotto nella sua esecuzione, accompagnato da una volontà verbalizzata di una
progettualità intrusiva e persistente nel tempo di volersi uccidere
4. Situazione psicosociale: paziente maschio, oltre 45 anni, senza supporto
familiare o sociale, senza residenza abitativa
Tra le controindicazioni generiche al ricovero ricordiamo:
1. Provoca perdita del lavoro e/o perdite finanziarie
2. E’ causa di stress psicosociali alla ufficialità del ricovero ed alla conoscenza
pubblica del tentativo suicidario
3. Implica uno stigma legato alla malattia mentale con etichettamento, isolamento
ed emarginazione sociale
4. Il soggetto è capace di aver cura di sé (ability to provide adequate self-care)
5. Il soggetto comprende le sue situazioni di crisi e sa che cosa fare per affrontarle
(understand what to do in a crisis)
6. Il soggetto ha una buona relazione col terapeuta
7. Il soggetto ha buone relazioni con persone significative di supporto
Tra le indicazioni generiche alla dimissione di un paziente che ha tentato il suicidio o che
presenta un rischio suicidario possono essere segnalate:
1. Mutamento della situazione che sosteneva il rischio suicidario e conseguente
riduzione delle stesso
2. Il soggetto che collabora col terapeuta, presenta progettualità nel futuro, è
aderente alle terapie
3. Il precedente tentativo suicidario è a bassa letalità
43
4. Vi è stabilità e fruibilità di assistenza nel suo sistema di vita
5. L’esame psichiatrico è negativo per quanto concerne ideazione, progetti e
comportamenti suicidari
Da segnalare che il trattamento senza ricovero è consigliato nel caso di pazienti con cronica
ideazione suicidaria od autolesionismo cronico senza precedenti tentativi suicidari gravi in
quanto a grado di letalità.
6.a.Valutazione psichiatrico forensi dei fattori alla base del ricovero e delle dimissioni
Per la valutazione clinica e psichiatrico forense dei fattori alla base delle indicazioni e
controindicazioni al ricovero o alle dimissioni di un paziente con un recente tentativo
suicidario o a rischio suicidario (sempre inteso in senso attuale e concreto) valgono le stesse
criticità esposte per i fattori di rischio e di protezione dal suicidio.
6.b. Necessità di continuità delle cure, della circolazione delle informazioni e dei trasferimenti motivati e cautelati tra i curanti
Anche al paziente a rischio suicidario deve essere assicurata la continuità di cure e non
debbono comparire nel continuum della sua assistenza vuoti non giustificati di attenzioni
mediche o passaggi tra curanti non motivati sul piano della garanzia di cura e protezione
per l’interessato. Ad esempio le visite dopo un tentativo di suicidio debbono essere
pianificate in tempi brevi, con precise indicazioni di persone e luoghi ed arricchite di chiare
indicazioni operative per interventi di urgenza.
Sempre a garanzia della beneficialità del paziente deve essere presente una circolazione di
informazioni tra i curanti che ne favorisca la terapia, la cui assenza potrebbe causare danni
al trattamento. Ad esempio, non mettere al corrente tutti i terapeuti o gli affidatari che un
paziente presenta rischio suicidario (quando realmente lo presenta in modo attuale e
concreto) può provocare cali di attenzione cautelative che possono evolvere in danni alla
gestione del rischio di suicidio.
44
Infine sempre per la beneficialità del paziente deve essere rispettato il principio del
trasferimento motivato e cautelato. I possibili trasferimenti del paziente non solo debbono
rispettare la continuità delle cure e la circolazione delle informazioni, ma debbono essere
anche giustificati sotto il profilo del rischio-beneficio e gestiti con cautele proporzionali alla
eventuale presenza e gravità del rischio suicidario al momento delle decisioni in quello
specifico paziente e in quello specifico contesto. Ad esempio un paziente a rischio
suicidario ricoverato in psichiatria può essere trasferito in altro reparto tenendo presenti le
seguenti avvertenze.
1. Il trasferimento deve essere giustificato sotto il profilo medico
2. Deve essere presente, per iscritto, la giustificazione formulata dai medici del
reparto di accoglienza al trasferimento, la loro accettazione del paziente e la loro
conoscenza che il paziente presenta un rischio suicidario
3. Il passaggio di consegne e il trasferimento del paziente devono avvenire in modo
chiaro ed obiettivo per cui sia sempre comprensibile e separabile la
responsabilità di chi consegna e di chi accoglie il paziente
4. Debbono risultare applicati i provvedimenti cautelari in relazione al tipo di
rischio suicidario di quello specifico paziente in quello specifico contesto
Con il rispetto delle regole che precedono è assicurata la beneficialità del paziente e si
possono evitare imputazioni legate a mancata osservanza della continuità di cura, della
corretta circolazione di informazioni o la presenza di trasferimenti non prudenti, non
diligenti, non sufficientemente motivati, non condivisi da altri sanitari.
7 Impossibilità materiale dello psichiatra di impedire che una
persona decisa ad uccidersi compia il suicidio
Lo psichiatra, anche utilizzando al meglio le sue capacità professionali e le strutture di
ambiente fisico e di personale di cui dispone, non è in grado di impedire, soprattutto a
medio e lungo termine, che un paziente deciso ad uccidersi compia il suicidio. La
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sorveglianza a vista ventiquattro ore su ventiquattro non azzera le possibilità che il paziente
si uccida (ad esempio il paziente si può tagliare le vene ai polsi e fingere di dormire nel
letto coprendosi con le coperte; il paziente può mordersi e tranciare coi denti la lingua e poi
soffocarsi col moncone; non è possibile controllare ogni paziente scrutando ogni pochi
minuti sotto le coperte o facendogli continuamente aprire la bocca). La contenzione fisica
non può essere prolungata in modo indefinito, oltre il fatto che deve essere fortemente
giustificata nella sua applicazione. L’eliminazione di tutti i mezzi letali con i quali il
paziente potrebbe uccidersi è una pura utopia, una fantasia irrealizzabile (il paziente, se
vuole, può auto soffocarsi, fracassarsi il cranio contro oggetti, precipitarsi, anche
nell’ambiente fisico più rispettoso delle norme di prevenzione del suicidio). Queste
constatazioni non riducono l’importanza dei comportamenti cautelari di prevenzione di
prudenza e diligenza in relazione alla tipologia e gravità di rischio, che lo psichiatra è
tenuto ad applicare e documentare in cartella clinica nei riguardi di un paziente con rischio
suicidario attuale e concreto.
Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico-forense,
quanto segue.
7.a. Rispetto delle misure preventive ambientali, di vigilanza, di affidamento.
È utile che lo psichiatra adotti i mezzi preventivi possibili e fattibili per ridurre il rischio
suicidario. Si tratta di misure preventive sull’ambiente (assenza di prese elettriche
pericolose, assenza di appigli solidi e resistenti ad appendere un corpo umano per
impiccamento, etc.) e di misure preventive sulla persona (permettere al paziente di disporre
di rasoi o di lame taglienti, di cinture solide e resistenti alla trazione, etc.) sancite da leggi,
circolari, protocolli.
E’ anche opportuno che lo psichiatra ponga attenzione alla vigilanza per evitare la culpa in
vigilando (non aver controllato l’adeguatezza delle condotte di vigilanza messe in atto dal
personale subordinato) e la culpa in eligendo (aver affidato il paziente a persone non
qualificate per il compito).
È opportuno conoscere la differenza tra prevenzione generale del suicidio e prevenzione del
singolo caso clinico a rischio di suicidio. Ad esempio è generalmente accettato che la
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riduzione della quantità e della qualità delle armi e dei mezzi letali come veleni, gas tossici
inodori, etc. possano costituire una valida azione di riduzione a livello statistico della
quantità di suicidi su una grande popolazione. Non sempre queste misure legate al rischio
possibile (teorico e statistico) su grandi masse hanno un valore forense reale e di fattibilità
sul rischio probabile attuale e concreto di suicidio nel singolo caso clinico.
7.b. Inadeguatezza dei pregiudizi sul controllo assoluto del rischio suicidario del paziente
Ritenere che il suicidio del paziente possa sempre essere evitato col ricovero, la
contenzione, l’osservazione continuata 24/24 ore, dosi massive di farmaci, etc. non è
verosimile, sotto il profilo clinico e forense, perché non riflette la realtà clinica e forense. Si
tratta di pregiudizi (spesso presenti in soggetti con forti tonalità emotive, scarso accesso alla
sfera cognitiva, acritici e, soprattutto, ancorati ad un meccanismo psicologico di negazione
del suicidio come evento imprevedibile ed inevitabile). Pregiudizi che sono espressione di
conflitti personali che, attraverso vari meccanismi psicologici di difesa dalla morte, ruotano
attorno alla negazione della possibilità di suicidio per altri e soprattutto per se stessi.
8 La responsabilità professionale dello psichiatra è da valutare al
momento dei fatti
Il giudizio di buona pratica clinica, quando lo psichiatra assume decisioni su un paziente a
rischio suicidario, deve essere strettamente legato al momento dei fatti (3-5). L’operato
dello psichiatra è da valutare in base alle numerose variabili cliniche presenti al momento
delle decisioni. Ad esempio alle informazioni sul paziente di cui concretamente si
disponeva, alla complessità dell’esame clinico, al giudizio sulla diversa fattibilità di ipotesi
differenti di trattamento, alle priorità d’urgenza ritenute indispensabili ed applicabili al
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momento, al potere e sapere decisionale di chi lo valuta, alla ritenuta più probabile
beneficialità del paziente in quella specifica circostanza di luogo, tempo, strutture e
persone, tenendo nella dovuta considerazione il suo inalienabile diritto alla
autodeterminazione informata.
Anche se questi giudizi forensi in tema di responsabilità dello psichiatra avvengono a
posteriori (ex post), devono essere valutati esclusivamente al momento clinico in cui i fatti
sono accaduti (ex ante). Non può cioè nel giudizio sulla responsabilità professionale
rapportarsi ad ora quello che è successo allora (errore clinico e forense dell’ora per
allora).
Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico-forense,
quanto segue.
8.a. Non validità clinica e forense del giudizio col senno del dopo, col si poteva fare di più e col si poteva fare diversamente
Dopo che un paziente si è ucciso è facile per tutti, soprattutto per i profani in materia
medica e psichiatrica, trovare non solo le cause del suicidio, ma soprattutto gli errori
commessi dallo psichiatra. Il ragionamento col senno del dopo non è corretto sotto il profilo
clinico e forense perché in concreto:
1. Si avvale di informazioni di cui lo psichiatra non disponeva al momento dei fatti e che
conferiscono differente significatività a variabili cliniche e comportamentali.
2. Possono essere presenti numerosi errori di pensiero tra i quali ricordiamo: dissonanza
cognitiva (non si considerano gli elementi che confliggono con l’ipotesi prediletta);
scotoma preferenziale (cecità mirata e circoscritta a fatti obiettivi ma ansiogeni);
pensiero primitivo della causalità psicologica proiettata (non accettare la
imprevedibilità ed inevitabilità degli eventi, ma ritenere tutta la realtà determinata da
volontà e scelte di qualcuno o di qualcosa); pensiero primitivo della elaborazione
paranoide del lutto (ritenere che eventi naturali spiacevoli e dolorosi come la malattia e
la morte siano causati dalla volontà aggressiva e malevola di qualcuno che sarà
considerato un nemico e dovrà essere punito con implacabile vendetta ritorsiva); etc.
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3. Possono essere presenti, anche con modalità fortemente intrusive e patologiche,
meccanismi psicologici di difesa (formazione reattiva, negazione, concretizzazione,
razionalizzazione, minimizzazione, etc.) sollevati da sentimenti di colpa, impotenza,
aggressività, dolore, disperazione, etc. Sentimenti di colpa (reali o presunti) verso chi si
è ucciso, vissuti sul piano privato di chi lo conosceva personalmente (sentimento di
colpa individuale) o vissuti dalla popolazione generale nei confronti di chiunque si
uccida (sentimento di colpa collettivo) possono essere canalizzati, come difesa
psicologica (anche servendosi della pretestazione dei fatti) nella creazione di un capro
espiatorio: modalità primitiva utile ad individuare un colpevole fuori di se stessi e
liberarsi di pesanti fardelli di ansie. Sentimenti di impotenza verso il suicidio, percepito
come evento imprevedibile ed inevitabile che distrugge un’esistenza e potrebbe capitare
a chiunque, possono stimolare, e non solo nei familiari del suicida, sentimenti
compensatori reattivi di controllo e di onnipotenza attraverso i quali si persegue la
speranza rassicurante che il suicidio può sempre essere evitato se non si commettono
errori. Motivo in più, per alimentare questo desiderio, per trovare l’errore che ha causato
il suicidio e punire chi lo compie. Gli esempi clinici, sulla base di una interpretazione
psichodinamica, potrebbero continuare per ognuno dei vari sentimenti che suscita il
suicidio in ogni persona.
Emerge da quanto precede che il ragionamento col senno del dopo, intriso di errori di
pensiero grossolani e primitivi non accettabili sotto il profilo clinico e forense, offre,
tuttavia, un indubbio guadagno psicologico immediato nei confronti di tutti gli spiacevoli
sentimenti che il suicidio suscita in ciascuno (e quindi anche i protagonisti che accusano,
difendono e giudicano lo psichiatra in merito al suicidio del paziente). Nello stato d’animo
di pregiudizio legato al ragionamento del senno del dopo, che non ha, ripetiamo, alcuna
validità clinica e forense: il paziente si è ucciso, quindi è stato fatto un errore si crea il
presupposto che quasi tutto può divenire un errore fatale che ha provocato il suicidio. In
questa affermazione si ignora il fatto che la cura può essere corretta, ma il paziente può
uccidersi egualmente e che il suicidio è un evento multifattoriale nel quale il disturbo
psichico può essere o non essere presente e che in qualsiasi caso è sempre da dimostrare un
nesso causale tra disturbo psichico, quando presente, e suicidio. Con il pregiudizio del
senno del dopo una insignificante variazione della dose dei farmaci, un appuntamento
pretestuosamente ritenuto dilazionato, un’ennesima piccola cautela preventiva irrilevante
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non assunta, etc. possono diventare l’errore fatale, la causa del suicidio, la motivazione
indiscutibile per giustificare, attraverso il meccanismo psicologico della razionalizzazione
(a prescindere dai casi clinici con legittime concause) la responsabilità professionale dello
psichiatra. Per questo il ragionamento col senno del dopo non può essere accettato in
ambito clinico e forense.
Quanto precede non esclude l’uso corretto del senno del dopo in un contesto non clinico e
forense come è stato specificato. Una disamina corretta, pur fatta a posteriori, di tutte le
sequenze storiche che hanno condotto al suicidio può offrire notevoli vantaggi ed utilità
agli operatori interessati in particolari tipologie di debriefing (per ventilare i sentimenti
degli operatori sanitari immediatamente dopo il suicidio) negli audit (per ipotizzare
dinamiche non colpevolizzanti e funzionali alla prevenzione) nella autopsia psicologica
(per comprendere, soprattutto attraverso l’approccio della psichiatria narrativa e
fenomenologica e con maggior numero di dati, più in profondità e con maggiore estensione
possibile, le variabili psicosociali e circostanziali della suicidarietà nel singolo caso) nella
individuazione delle varie componenti della sequenza suicidaria come evento sentinella
nell’ambito del risk management (per implementare la sicurezza nell’ambito delle
prestazioni sanitarie) etc.
Anche il ragionamento che si basa sul principio del si poteva fare di più è errato sotto il
profilo clinico e forense perché non rispettoso del principio, sia clinico che forense, che si
fa quello che si deve fare e non tutto quello che si può fare: non si fanno cose inutili in quel
caso specifico ed in quello specifico contesto (se un paziente si reca dal medico lamentando
un dolore all’alluce del piede destro perché gli è caduta sopra una pietra di piccole
dimensioni, il medico, in assenza di altri sintomi, non deve richiedere esami non giustificati
quali T.A.C., ecodoppler arterioso e venoso di tutto l’arto inferiore). Il ragionamento del si
poteva fare di più, spesso associato e conseguente al ragionamento col senno del dopo, può
permettere, in buona fede o meno, di accusare tutti di tutto. Dopo che il paziente si è ucciso
tutti sono in grado di suggerire tutte le cose che si sarebbero potute fare in più (oltre quello
che si doveva fare) anche se, spesso, nessuno può provare che, in concreto, avrebbero
evitato il suicidio del paziente. Il ragionamento del si poteva fare di più, applicato in modo
erroneo e pretestuoso in ambito forense è alla base motivazionale della medicina difensiva,
apparentemente protettiva del medico, inutile per la beneficialità del paziente in oggetto,
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non rispettosa della appropriatezza della cura (intesa come il tentativo di conciliare l’ideale
etico di fornire la miglior assistenza possibile tenendo conto delle risorse economiche
disponibili) altamente lesiva della assistenza medica di altri pazienti realmente bisognosi
che, a causa della realtà di risorse limitate, sono privati di cure necessarie ed utili al loro
diritto costituzionale alla salute.
Anche il ragionamento che si basa sul principio del si poteva fare diversamente (ad
esempio la somministrazione di farmaci diversi, l’uso di misure cautelari diverse da quelle
adottate, l’utilizzo di un approccio psicoterapico differente da quello utilizzato, etc.) è
errato sotto il profilo forense in quanto, analogamente al ragionamento si poteva fare di più,
non è rispettoso del principio forense: si fa quello che si deve fare e non tutto quello che si
potrebbe fare di alternativo… soprattutto se suggerito dal senno del dopo e senza alcuna
dimostrazione obiettiva che il diverso avrebbe risolto la situazione salvando il soggetto dal
suicidio. Questo concetto è stato ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione (IV sez. pen.
n. 14766/16): Nel caso di suicidio di un paziente affetto da turbe mentali, qualora si arrivi
a dimostrare che il terapeuta abbia applicato, nell’economia complessiva della specifica
valutazione clinica, la terapia più aderente alle condizioni del malato ed alle regole
dell’arte psichiatrica…, può dirsi che il medico non avrebbe dovuto comportarsi
diversamente da come ha fatto, disponendo una differente iniziativa (pur fattualmente
dotata di efficacia impeditiva dell’evento), e in conclusione che non ha errato nel non
averla disposta e non ha omesso una doverosa condotta. La stessa sentenza precisa a
completamento di quanto precede: … essendo poi indimostrato che un diverso approccio
terapeutico avrebbe avuto un risultato salvifico.
E’ da rilevare che il ragionamento col senno del dopo, si poteva far di più, si poteva far
diversamente, ripetiamo non accettabili sul piano forense, non lasciano, tuttavia, immune la
sensibilità empatica dello stesso terapeuta dopo che il suo paziente ha commesso il suicidio.
I sentimenti dolorosi che il terapeuta prova dopo il suicidio del paziente sono molteplici
(incredulità, rabbia, sollievo, dolore, colpa, vergogna, timori, paura di essere incolpato,
sentimenti di tradimento, etc.). Turbato dallo scheletro psicologico di chi si è ucciso che
può essere ospitato nel suo armadio emotivo (57), il terapeuta può, attraverso meccanismi
psicologici di difesa dall’ansia, egli stesso tribolarsi con ragionamenti legati al senno del
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dopo, al si poteva fare di più, al si poteva fare diversamente, sino a giungere a false
confessioni (privatamente nel suo conflittuale ed ossessivo riesame degli eventi od in
pubblico, spesso all’insegna di una espiazione colpevolizzata) di errori professionali che
non ha commesso (58). Quanto precede per mettere in luce la necessità di una attenzione
critica alla intrusivisità di questo tipo di ragionamenti che non risparmiano protagonisti e
spettatori di un evento suicidario.
8.b. Necessità di valutare il nesso causale
E’ utile sottolineare un altro concetto, soprattutto forense oltre che clinico, e cioè il nesso di
causalità: vi è un legame di causa ed effetto tra quanto fatto o non fatto dallo psichiatra e il
suicidio del paziente? In altri termini lo psichiatra può aver messo in atto un gesto di non
buona pratica clinica, ma questa sua mancanza può essere del tutto irrilevante ai fini
dell’aumentato rischio suicidario del paziente in tema di colpa professionale. Il nesso di
causalità può essere esaminato attraverso vari e complessi criteri forensi. Può anche essere,
in tempi brevi ed in merito a comportamenti omissivi, oggetto di approfondimento
attraverso il ragionamento contro fattuale, a mezzo del quesito: se lo psichiatra avesse
correttamente fatto quello che non ha fatto, il suicidio del paziente si sarebbe ugualmente
verificato? Se la risposta è affermativa il nesso causale non è presente.
Particolare attenzione nella valutazione del nesso causale, anche per evitare l’errore di una
causalizzazione di un errore irrilevante, è la presa in considerazione, unitamente ad altri
fattori quali la adeguatezza della causa, la gravità della evoluzione naturale, etc. anche il
rischio consentito. Questo concetto è stato ulteriormente ribadito e chiarito, in data recente,
(11/5/2016) in relazione ad un suicidio in soggetto con disturbo psichico, dalla Suprema
Corte di Cassazione (IV sez. pen. n.14766/16):…rischio consentito, di quel rischio cioè
inerente ad una data attività che non sempre può essere eliminato del tutto per effetto di
condotte appropriate. Tale rischio si colloca all’interno di strategie di intervento
normalmente richieste e previste dagli standard di comportamento giuridicamente regolati
o socialmente accettati in quanto ritenuti sufficientemente prudenti…
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9 Necessità di contestualizzare l’attività diagnostica e terapeutica
dello psichiatra nella sua specifica realtà clinica
È indubbio che uno psichiatra debba basare la propria buona pratica clinica su solide basi
scientifiche e cliniche e cioè su evidenze cliniche condivise. In questo senso diagnosi e
terapia suggerite da manuali e trattati di psichiatria di rinomata fama, nazionali e
internazionali; attenzioni ai suggerimenti di cosa fare e soprattutto di cosa non fare
contenuti in linee guida supportate da società riconosciute e stimate a livello nazionale e
internazionale; inveterate acquisizioni di capacità cliniche di eccellenti scuole di
trattamento psichiatrico; incontestabili, riconosciute e documentate abilità di un’esperienza
clinica personale validata da risultati positivi su trattamenti specifici; etc. costituiscono, in
linea generale, dati fattuali giustificativi di buona pratica clinica. La buona pratica clinica
deve anche essere contestualizzata in quello specifico psichiatra, con quella sua specifica
formazione ed esperienza clinica, con quel particolare paziente, in quell’irrepetibile insieme
di circostanze psicosociali.
Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico-forense,
quanto segue.
9.a. Necessità di contestualizzare il caso clinico in discussione
La necessità di contestualizzare il caso clinico porta ad una visione critica delle linee guida.
Queste ultime infatti comportano le criticità che seguono.
1. Sono spesso inspirate da ideologie psichiatriche o costruite con metodologia statistica di
ricerca clinica non sempre condivise, spesso settoriali e mutevoli nel tempo
2. Sono costruite tecnicamente con scale di valori che privilegiano i risultati scientifici
della Evidence-Based Medicine, che possono essere discordanti dalla realtà clinica
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quotidiana, a discapito della valorizzazione dei consensi tra clinici esperti (every-day
clinical world)
3. Riguardano spesso pazienti ideali, altamente selezionati, da curare con pratiche ideali, in
situazioni di assistenza ideali, non facendo riferimento al paziente vero, reale e molto
più complesso che è presente nella pratica quotidiana
4. Possono essere influenzate da motivazioni di ordine economico, di semplificazione
gestionale, di approccio difensivo di matrice assicurativa, etc. in cui non si privilegia la
beneficialità del paziente
5. Sono spesso differenti tra loro nei livelli di valorizzazione delle evidenze scientifiche e
delle raccomandazioni cliniche suggerite
6. Le variabili cliniche che propongono presentano gradi di affidabilità molto diversi
7. Mutano rapidamente nel tempo
8. Possono essere utilizzate a fini difensivi ed autotutelativi in uno specifico paziente, in
una specifica situazione, senza privilegiare o, addirittura, contro la beneficialità dello
stesso paziente
9. Non tengono conto della contestualizzazione nel singolo paziente, elemento clinico e
forense indispensabile per stabilire la buona pratica clinica: standars of medical care are
determined on the basis of all clinical data available for an individual patient (18).
10. Non tengono conto del diritto di autodeterminazione informata del paziente. Il rispetto
della volontà del paziente è recentemente ancora sottolineato dalla Suprema Corte di
Cassazione (IV sez. pen. n.14766/16) che afferma: Un altro profilo che incide sui
confini della posizione di garanzia e dispiega i suoi effetti anche sul versante della
configurabilità della colpa è il ruolo della volontà del paziente nella relazione
terapeutica: la persona con disturbo psichico è titolare del diritto alla propria cura…
Rilievi critici possono essere formulati anche nei confronti di trattati, lavori scientifici,
consuetudini di pratiche cliniche inveterate che possono non favorire elettivamente la
beneficialità del paziente né, tantomeno, rispettare la sua autodeterminazione e specifica
contestualizzazione.
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9.b. Necessità di documentare una buona pratica clinica condivisa
Le critiche che precedono non esimono lo psichiatra dal dover basare la propria pratica
clinica (ed essere in grado di documentarla) su evidenze cliniche condivise. Punto di répere
clinico e forense è la beneficialità del paziente. Quest’ultima può anche essere valutata nel
rapporto rischio-beneficio gestito all’insegna della prudenza, perizia e diligenza.
10 Utilità di precisare ruoli e responsabilità professionale dei
singoli psichiatri che hanno curato il paziente suicida
Allo stato attuale molti pazienti a rischio suicidario sono oggetto di cura da parte di diverse
figure di operatori del campo della salute mentale: psichiatri, psicologi, sociologi, assistenti
sociali, criminologi, etc. (59,60). Lo scopo funzionale clinico di questa équipe di
trattamento è migliorare la beneficialità del paziente sotto il profilo terapeutico. Sotto il
profilo etico tutti i componenti del gruppo, ciascuno secondo la propria professionalità,
sono responsabilizzati nell’assistere il paziente e in particolare nel prevenire l’evento
suicidario.
Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico-forense,
quanto segue.
10.a. Utilità di precisare i singoli ruoli dei vari componenti dell’équipe nei confronti del paziente.
È assolutamente consigliabile, se non imperativo, che sia sempre precisato, nell’ambito
dell’équipe, lo specifico ruolo di ciascuno nell’assistenza al paziente con rischio suicidario
e che questo provvedimento sia supportato dalle seguenti avvertenze:
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• Reso pubblico
• Ufficializzato per scritto
• Noto a tutti gli interessati
• Rispettoso delle qualifiche ufficiali professionali di ogni curante
• I ruoli assegnati debbono essere posti in pratica
Debbono essere organizzate riunioni dell’equipe sul tema specifico della divisione dei ruoli
in modo che nessun interessato, in un’aula giudiziaria, possa affermare: non lo sapevo, i
ruoli non erano chiari, si è trattato di una suddivisione teorica mai utilizzata nella pratica,
etc. In questo senso viene differenziata, anche ai fini legali, la responsabilità di ognuno nei
confronti del paziente con rischio suicidario.
La mancanza di queste precisazioni (che trovano la loro giustificazione legale e forense nel
principio dell’affidamento e della autonomia vincolata) nella forma che è stata descritta
può comportare imputazioni diffuse e allargate a tutta l’équipe (la giustizia spara nel
mucchio) e può portare in sede giudiziaria a lunghi e dispendiosi rimpalli di responsabilità
tra i membri dell’équipe nell’ambito di violenti contraddittori.
10.b. Valorizzazione del principio dell’affidamento e dell’autonomia vincolata
La definizione e specificazione dei compiti di ogni componente dell’équipe permette a
ciascuno di usufruire del principio dell’affidamento e cioè di ritenere, in linea generale, che
gli altri membri svolgano con competenza il loro compito e di esplicare la propria
autonomia, cioè la capacità di compiere azioni terapeutiche per le quali si è qualificati. Si
tratta, comunque, di una autonomia vincolata, e cioè legata a direttive generali che
provengono da persone che hanno il diritto di formularle. Da segnalare che il vincolo legato
all’autonomia non può sollevare il singolo operatore da una sua personale responsabilità,
riconducibile alla immanente titolarità di una posizione di garanzia. Ad esempio,
l’infermiere ha il diritto di non ottemperare alle direttive di un primario psichiatra se: a)
esulano dal campo medico; b) sono contrarie alle più semplici ed elementari norme di
buona pratica clinica infermieristica; c) non sono adeguate alle sue qualificazioni tecniche
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di subordinato. Ad esempio nel caso di un paziente con rischio suicidario, l’infermiere ha il
diritto e dovere di rifiutare una direttiva medica se è contraria alle più elementari
precauzioni di prudenza e diligenza. Né può essere dimenticato, anche alla luce degli
orientamenti della giurisprudenza, che quando un partecipe dell’équipe abbia modo di
percepire una inadeguatezza comportamentale o valutativa di altri con cui coopera nella
cura del medesimo paziente che possa risolversi in pregiudizio di questi, ha l’obbligo
giuridico di rilevarla, segnalandola al soggetto (quando possibile tramite scritto) che
presiede l’équipe stessa e comunque facendola constare, ovvero ponendovi direttamente
rimedio (ove in grado di farlo). Quanto precede, inoltre, deve essere valutato, sotto il
profilo forense, alla luce della presenza di obblighi differenziati tra posizione apicale e
posizioni subordinate, del dissenso all’autorità non legittimo, della presenza di specifici
regolamenti, protocolli operativi, etc. validi operativamente e rispettosi dei principi
generali di una buona pratica clinica.
11 Necessità di conoscere le disposizioni di legge che regolano
i doveri di cura e protezione del paziente suicidario: quando iniziano, come debbono essere gestiti, quando terminano
Molti psichiatri nei confronti di pazienti con rischio suicidario adottano condotte ispirate ad
una umana accettazione empatica di attenzione ed ascolto, ad una autentica partecipazione
emotiva alla loro conflittualità e sofferenza, ad un grande rispetto per la loro libertà di
pensiero e di comportamento, ad una grande fiducia generosamente prestata a collaboratori,
colleghi ed istituzioni. Accanto a questo aspetto corretto sul piano umanitario e fortemente
empatico, è necessario affiancare una buona conoscenza delle direttive di legge che
regolano i doveri di cura e protezione (posizione di garanzia: art. 40 c.p. comma II) nei
confronti del paziente suicidario. In particolare lo psichiatra deve conoscere quando
iniziano i suoi doveri (assunzione) come debbano essere gestiti e quando i suoi doveri di
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protezione e cura finiscano (dismissione). La conoscenza dei suoi doveri attuali nei
confronti della legge aiuterà lo psichiatra ad adottare una psichiatria creativa e cioè ricca,
illuminata e beneficiale per il paziente ed al contempo tutelarsi giuridicamente da possibili
incriminazioni di non buona pratica clinica.
Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico-forense,
quanto segue.
11.a. Necessità di conoscere i criteri di assunzione, dismissione e contenuto della
posizione di garanzia
Come esempio di entrata in posizione di garanzia (che sorge con l’instaurarsi della
relazione terapeutica tra paziente e professionista nell’ambito di uno specifico conferimento
di incarico professionale) e cioè di insorgenza del duplice obbligo di cura e protezione del
paziente, possiamo citare il caso di uno psichiatra che, in assenza del collega titolare, si
trovi a rinnovare una ricetta di psicofarmaci ad un paziente. Se quest’ultimo si uccidesse, lo
psichiatra che ha rinnovato la ricetta non potrebbe giustificarsi in un’aula di tribunale
dicendo: era il paziente di un collega, io non lo conoscevo; ho solo rinnovato una cura che
non ho prescritto io. In un’aula di tribunale si obietterebbe: quando si prescrivono farmaci
ad un paziente, là iniziano i doveri di cura e protezione; è colpa professionale avere
prescritto farmaci senza interessarsi delle condizioni del paziente e non aver prescritto
misure cautelari se era il caso.
Quali esempi di gestione della posizione di garanzia possiamo citare:
1. La comunicazione del rischio suicidario. Lo psichiatra deve mettere al corrente, in
modo adeguato e nel rispetto del segreto professionale, chi deve conoscere il rischio
suicidario del paziente.
2. Le priorità mediche sul rischio suicidario. Lo psichiatra deve documentare con
chiarezza le priorità di cura o il trasferimento in altri reparti del paziente suicidario,
anche attraverso una giustificazione condivisa con altri colleghi, legata alle priorità di
cura secondo il principio del rischio-beneficio.
3. La comunicazione della inadeguatezza della struttura a proteggere e curare il paziente
suicidario. Lo psichiatra deve avvertire paziente e familiari qualora la struttura in cui
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operasse, se è il caso, non presentasse adeguatezze alla cura e protezione del paziente e
suggerire strutture più adeguate.
Questa gestione della posizione di garanzia è necessario che venga documentata per iscritto
in cartella clinica.
Infine come esempio di uscita dalla posizione di garanzia può essere citato il caso della
dimissione del paziente con rischio suicidario. Scrivere una lettera di dimissione,
indirizzata a chi riceverà il paziente con rischio suicidario, non è sufficiente a termini di
legge. Infatti la lettera di dimissione potrebbe perdersi, essere letta molto tempo dopo
l’arrivo del paziente, essere consegnata in luogo diverso da quello utile o alla persona
sbagliata. Lo psichiatra, oltre alla lettera di dimissione deve avere cura di mettersi in
contatto diretto con chi riceverà il paziente, avvertirlo e sincerarsi che abbia compreso che
il paziente presenta un rischio suicidario. La legge prevede una continuità di cura per il
paziente con attualità e concretezza di rischio suicidario che garantisce molto più che non
una semplice lettera di dimissione.
11.b. La valutazione in un’aula di tribunale di ideologie psichiatriche
Lo psichiatra deve sapere che ideologie psichiatriche che valorizzino la libertà di scelta e la
responsabilizzazione del paziente rispetto ai suoi comportamenti, nonché la sua legittima
autodeterminazione, seppur corredata da adeguata coscienza e competenza, anche se
rispecchiano scelte culturali all’avanguardia sia pur condivisibili e ritenute da alcuni
lodevoli sotto il profilo della evoluzione migliorativa del rispetto dei diritti del paziente,
difficilmente, allo stato attuale, trovano accettazione completa in un’aula giudiziaria.
Soprattutto se non sono accompagnate da misure di cura e protezione come esige la
posizione di garanzia di cui la giurisprudenza gli fa carico.
Quanto precede non implica una pregiudizievole esclusione di accettazione dei progressi
della disciplina psichiatrica in tema di responsabilizzazione terapeutica del paziente anche
se questo obiettivo deve essere gestito, come sottolinea recentemente la Suprema Corte di
Cassazione (IV sez. pen. n.14766/16) alla luce di: un non facile bilanciamento tra obiettivo
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di proteggere il paziente, anche da se stesso, e necessità di tutelarne al contempo libertà,
dignità ed autonomia.
12
L’interpretazione degli apparenti contrasti nella valutazione del rischio suicidario
È di frequente osservazione, nella cartella clinica di un paziente che ha tentato o attuato il
suicidio, la presenza di attestazioni sanitarie che valutano con modalità assai differenti tra
loro il rischio suicidario. Alcune possono negare il rischio, altre possono attestarne la
presenza grave e conclamata (attuale e concreta) tale da richiedere l’immediato ricovero in
strutture adatte. Le motivazioni alla base di questi contrasti di giudizio clinico possono
essere molteplici. Innanzitutto il contrasto può essere solo apparente in ragione della
possibile facilità di mutamento, anche nel breve lasso di tempo, di alcune variabili del
rischio suicidario: il tipo di disturbo psichico, le circostanze psicosociali, etc. In altri casi i
giudizi differenti devono essere letti alla luce delle differenti interpretazioni tecniche ed
ideologiche dello psichiatra in rapporto allo spazio di libertà e autodeterminazione che si
ritiene di dover offrire al paziente con rischio suicidario: la libertà personale che il paziente
può gestire, la fattibilità o validità di misure specifiche cautelari, la discrezionalità nella
valutazione del rischio consentito, etc. In altri casi ancora vi può essere l’intento di
scaricare eventuali proprie e riconoscibili responsabilità in merito al possibile suicidio del
paziente ad altri colleghi. Quest’ultima eventualità può verificarsi, per esempio,
allorquando, senza adeguati approfondimenti clinici e circostanziati ed in assenza di
impegno personale d’attenzione e di tempo, allo scopo esclusivo di evitare una denuncia da
parte dell’autorità giudiziaria un sanitario certificasse che: il paziente presenta un attuale e
concreto rischio di suicidio e necessita di urgente ricovero. Qualora lo psichiatra che
dovesse ricevere il paziente così etichettato (a prescindere dalla realtà clinica) non
60
provvedesse al ricovero ed il paziente si uccidesse, difficilmente potrebbe evitare di essere
trascinato in tribunale.
Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico e forense,
quanto segue.
12a. E’ indice di cattiva pratica clinica e scorrettezza deontologica non esaminare compiutamente il rischio suicidario e certificare una sua attualità, concretezza e
necessità di ricovero ad esclusivo fine autotutelativo
La scorrettezza professionale ai fini autotutelativi (anche se non contiene specificamente la
dizione rischio attuale e concreto, ma parole che la lasciano presumere) dovrebbe essere
oggetto di attenzione da parte degli organi di controllo e di sanzione nell’ambito delle
Società Scientifiche interessate, degli Ordini Professionali competenti e deve essere
illustrata e compresa in un’aula di tribunale.
Quanto precede prescinde dalla possibilità di configurazione di precisi reati secondo norma
di legge.
12.b. Utilità di usare una progressività nel tempo e un’ampia documentazione clinica scritta nel modificare un giudizio di alto rischio suicidario formulato da precedenti
psichiatri
Una diversa valutazione del rischio suicidario soprattutto da grave a lieve, deve sempre
essere abbondantemente, minuziosamente e progressivamente verificata e documentata
nell’ambito della cartella clinica in modo che il paziente risulti chiaramente trattato con
perizia, diligenza e prudenza. Ricordiamo, sotto il profilo forense, la difficoltà di formulare
imputazioni allo psichiatra in tema di perizia, ma la facilità di formulare imputazioni, a
prescindere dalla loro fondatezza, in tema di diligenza e prudenza.
61
13 Il giudizio sulla responsabilità professionale dello psichiatra in tema di suicidio non è esclusivamente da formulare su specifici risultati decontestualizzati quale il suicidio del paziente o la non
guarigione del disturbo psichico
È una evidenza clinica condivisa che lo psichiatra non ha le possibilità tecnico-
professionali, nonostante le migliori intenzioni terapeutiche, di evitare, in tutti i casi, che il
paziente si uccida né di garantire che possa sanare in modo rapido, completo e definitivo
tutti i disturbi psichici. È una evidenza clinica condivisa che è utile sia presente nel
pensiero, nelle emozioni e nei comportamenti dello psichiatra per poter valorizzare una sua
possibile posizione terapeutica di tipo riparativo-depressivo nei confronti del paziente a
rischio suicidario: cercare di fare il possibile per evitare il suicidio pur essendo coscienti
che non si può fare l’impossibile (61,62). Questa posizione riparativo-depressiva, che
mette in luce i limiti del potere di guarigione dello psichiatra ed limiti della sua autorità
nel determinare il comportamento del paziente (63) nel suo aspetto più beneficiale per
l’assistito deve essere anche presente nei parenti delle vittime di suicidio e in tutte le
persone che, a vario titolo, giudicano l’operato dello psichiatra in tema di responsabilità
professionale.
Questa evidenza clinica condivisa è stata recepita in modo chiaro dalla legge: lo psichiatra
col paziente suicidario è responsabile nel porre in atto una buona pratica clinica e non
esclusivamente del risultato di evitare tutti i possibili suicidi dei pazienti e di guarire tutti i
possibili disturbi psichici. In altre parole lo psichiatra deve curare il disturbo psichico e
gestire il rischio suicidario con una buona pratica clinica attraverso l’utilizzo di perizia,
prudenza, diligenza, ma non è da ritenersi responsabile se, dopo aver prestato un’opera
adeguata per la cura e protezione, il paziente si uccide o il disturbo psichico non guarisce.
Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico-forense,
quanto segue.
62
13.a. Deriva accusatoria dalla prestazione di una buona pratica clinica alla responsabilità dei risultati
Nelle aule giudiziarie possono nascere, da parte dei vari protagonisti, tentativi, anche in
buona fede, di deriva della responsabilità di una buona pratica clinica alla responsabilità
dei risultati. Questo fatto può avvenire a causa di differenti fattori:
1. Aspettative irreali di guarigione (falso mito che la psichiatria può guarire tutti da tutto)
2. Rivendicazioni pretestuose (richieste non giustificate di risarcimenti economici, etc.)
3. Ragionamenti metodologicamente errati (il senno del dopo, si poteva fare di più, etc.)
4. Assenza di valutazione o valutazione errata del nesso causale (erronea o assente
disamina della relazione tra azioni/omissioni dello psichiatra ed evento suicidario)
13.b. Utilità per lo psichiatra di documentare l’applicazione di buona pratica nella cartella clinica
Allo scopo di evitare il più possibile questa deriva della responsabilità di una buona pratica
clinica alla responsabilità dei risultati è assolutamente necessario che lo psichiatra
documenti la sua opera clinica (con perizia, prudenza e diligenza) nella cartella clinica: il
mezzo tecnico più semplice e più valido in un’aula giudiziaria per evitare imputazioni e
condanne soprattutto in tema di suicidio del paziente
14 Utilità degli interventi psicoeducativi sulla famiglia del paziente
a rischio suicidario o del paziente che si è suicidato
E' assai utile, se non indispensabile nell’ottica della diligenza che deve informare la
condotta dello psichiatra, che questi abbia colloqui con i familiari del paziente a rischio
suicidario. Sotto il profilo clinico, ciò gli fornisce l’opportunità di maggiori informazioni
63
diagnostiche, di migliorare l'intervento terapeutico, di fare uso di una prevenzione più
valida e, sotto il profilo forense, di implicare, per la responsabilità di loro competenza, i
familiari nella gestione del rischio suicidario del loro congiunto. I familiari, infatti, possono
fornire informazioni non altrimenti ottenibili sull'anamnesi del paziente, sui comportamenti
ed i conflitti attuali: tutti elementi che permettono una valutazione più documentata dei
fattori di rischio e di protezione. I familiari possono anche migliorare, con la loro
disponibilità, la rete di assistenza e, in qualità di persone significative per il paziente,
aiutarlo nella valorizzazione dei fattori protettivi, di resilienza (intesa come la capacità di
ricuperare la salute dopo la malattia), di empowrment (inteso come la capacità di migliorare
le proprie potenzialità positive alla terapia) e di recovery (intesa come la capacità di
condurre una vita attiva e soddisfacente anche in presenza di un disturbo psichico) mirati
alla riduzione del rischio suicidario. Inoltre la psico-educazione della famiglia facilita la
messa in atto di una prevenzione più concreta ed individualizzata sul caso specifico:
possono essere contestualizzati, ad esempio, i fattori (frequenti nella pratica clinica, ma
spesso non riconosciuti o volutamente taciuti) che, in quello specifico soggetto, sono in
grado di stimolare il comportamento suicidario o di aumentarne il rischio (i familiari che
colpevolizzano il paziente perché non lavora, perché fa soffrire i figli innocenti, perché con
la sua malattia non è in grado di provvedere economicamente alle necessità primarie della
famiglia, perché è motivo di grande ed insopportabile sofferenza per tutti i familiari a causa
delle sue continue minacce di uccidersi, etc.).
E' anche utile che lo psichiatra possa fornire un intervento psicoterapico di sostegno a chi
ha perso una persona cara in seguito a suicidio (postvention o post-intervento). Questo tipo
di intervento permette non solo di aiutare le persone a gestire e superare la reazione di lutto
(la fisiologica reattività emotiva e cognitiva legata alla perdita), ma anche di evitare o
ridurre complicanze psicopatologiche (lutto complicato). Inoltre questo intervento, nei
limiti del legittimo e possibile, può svolgere un'azione di screening e prevenzione su altri
possibili candidati, tra i familiari in particolare, ad un significativo rischio suicidario.
64
14.a. Beneficialità clinica e Protezione forense del paziente
Nel coinvolgimento psico-educazionale della famiglia, in primo luogo, debbono essere
rispettati i diritti del paziente ad esprimere il consenso su questa modalità di intervento.
Inoltre deve essere rispettato il segreto professionale: tutelato tutto quello che i familiari
dicono sul paziente (e non vogliono che sia divulgato) e tutto quello che il paziente dice su
se stesso e sui familiari (e non vuole sia riferito).
14.b. Buona pratica clinica dello psichiatra
Il coinvolgimento della famiglia, rispettoso della legge e mirato alla beneficialità del
paziente, può evitare allo psichiatra numerose accuse. In primo luogo i familiari non
avranno giustificazioni per affermare: nessuno ci ha avvisato del rischio suicidario;
nessuno ci ha ascoltato; nessuno ci ha aiutato; non hanno fatto nulla se non impedirci di
vederlo e dargli qualche pillola, etc. I familiari, infatti, non solo debbono essere implicati
nell'intervento terapeutico e di prevenzione per salvare la vita del loro congiunto, ma anche,
con corsi adeguati di qualificazione (come presupposto indispensabile per una qualche
forma di responsabilità) essere in grado di collaborare, secondo le loro capacità e volontà di
partecipazione e sempre per quanto di loro competenza, alla gestione del rischio suicidario
del loro congiunto. Nella cartella clinica deve risultare il grado di accettazione e di
collaborazione dei familiari all'offerta dei curanti di qualificarli, secondo le loro possibilità,
ad aiutare il congiunto che presenta un rischio suicidario. Infine il coinvolgimento della
famiglia permetterà anche di smascherare ed eventualmente intervenire terapeuticamente,
su psicopatologie familiari che sono di grave danno ai pazienti con rischio suicidario
(pazienti spesso tranquillamente ignorati o vistosamente trascurati dai familiari sino al
suicidio e poi disperatamente amati allorquando si tratta di esigere risarcimenti in tribunale
per danni da malasanità, etc.) Anche queste ed altre dinamiche familiari di danno al
paziente debbono essere segnalate, nei modi adeguati (clinici e fattuali medici) nel rispetto
forense della privacy e della pertinenza delle informazioni in cartella clinica, ai fini primari
della beneficialità del soggetto debole e della volontà attiva e concreta dei curanti a ridurre,
attraverso il sapere medico e psichiatrico, il rischio suicidario del paziente, senza eccedenza
65
di informazioni non necessarie ai fini medici e psichiatrici che potrebbero sollevare
rivendicazioni emotive o giudiziarie.
15 Esistono reazioni emotive che influenzano la gestione clinica e la
valutazione forense del rischio suicidario
Lo psichiatra che valuta il paziente suicidario può mettere in atto reazioni emotive che
debbono essere conosciute e controllate per una corretta valutazione e gestione del rischio
(7,18). Alcune di queste reazioni emotive possono non essere adeguate ad un corretta
valutazione e gestione del rischio suicidario (64-69): evitamento (non indaga su temi
importanti ma ansiogeni); abbandono (invia senza razionale il paziente ad altri o lo lascia
senza o con ridotta assistenza); iperimplicazione ansiosa (vive con troppa ansia fuorviante i
conflitti del paziente); iperprotezione salvifica (assume in modo inadeguato il ruolo
onnipotente di salvatore); reattività aggressiva (prova rabbia ed odio in reazione al
comportamento aggressivo del paziente); offerte irrealistiche di gratificazioni o speranze
(promesse semplicistiche ed accattivanti più o meno esplicite di guarigioni o risoluzioni di
problemi senza criteri di fattibilità); contagio della psicopatogia del paziente (assume la
depressione del paziente e diventa anche lui depresso); etc. Dopo il suicidio del paziente lo
psichiatra può essere vittima di stati emotivi e conflittuali non utili alla beneficialità degli
altri pazienti soprattutto se presentano anche loro un rischio suicidario (64): sindrome da
bruciatura da suicidio (incapacità ed intolleranza a gestire altri pazienti con rischio
suicidario, mutamenti nello stile di vita e di lavoro); sentimento di ingiustizia subita
(pregiudizio di essere stato tradito in passato e di poterlo essere anche in futuro);
deresponsabilizzazione del paziente (il paziente non è più una persona ma una diagnosi con
destino statistico immodificabile); deresponsabilizzazione del terapeuta (il paziente è
l'artefice del proprio destino tutte le volte che non segue i consigli del terapeuta); etc. Per
queste ragioni lo psichiatra che ha cura di un paziente suicidario deve essere uno strumento
di valutazione e di cura abbastanza efficiente e funzionale (che frequentemente deve essere
monitorato, aggiornato e riequilibrato) alla beneficialità del paziente (7,18,70).
66
Le reazioni emotive dello psichiatra, di cui sono stati illustrati solo alcuni esempi, possono
altresì essere presenti (e talvolta con maggior gravità qualitativa e quantitativa e minor
grado di consapevolezza) in tutti gli altri protagonisti della valutazione dell'operato dello
psichiatra in tema di responsabilità professionale per il suicidio di un paziente: avvocati,
giudici, periti, consulenti, familiari, ognuno per il ruolo che gli compete, a prescindere da
atteggiamenti chiaramente assunti in malafede accusatoria o difensiva.
15.a. Utilità di conoscere le proprie emozioni
nella comprensione e gestione del rischio suicidario
Per uno psichiatra conoscere le proprie reazioni emotive nella gestione del rischio
suicidario deve fare parte della propria formazione professionale. Anche gli operatori
sanitari e sociali che gestiscono pazienti suicidari non possono non avere dimestichezza con
le loro emozioni suscitate dalla possibilità o realtà di un suicidio. Riconoscere, saper dare
loro un nome ed un contenuto, neutralizzarle per gli effetti negativi, sapersene servire per
ottenere effetti positivi sulla terapia del paziente è lo scopo primario di conoscere le proprie
emozioni e saperle utilizzare, ognuno secondo i propri ruoli, qualificazioni e competenze,
nella gestione del rischio suicidario.
L’introspezione più approfondita sulle proprie emozioni in tema di suicidio è utile che sia
anche presente in chi accusa, difende, giudica lo psichiatra al fine di non essere vittima di
emozioni non riconosciute e non cognitivamente controllate che impediscono od alterano
una corretta lettura dei fatti.
15.b. Criticità nella gestione delle proprie emozioni
col paziente suicidario Le reazioni emotive verso il paziente suicidario non riconosciute e non utilizzate ai fini
terapeutici possono comportare, in casi estremi ma pur presenti nel quotidiano, gravi danni
alla beneficialità del paziente, sino ad aumentarne il rischio suicidario. Lo psichiatra (come
qualsiasi altra persona a contatto col paziente suicidario) può incontrare notevoli difficoltà a
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dominare le proprie emozioni ed a gestirle a fini terapeutici. Attraverso vie non sempre
consapevoli e riconosciute dallo stesso terapeuta le sue emozioni possono parlare al
paziente con il linguaggio gestuale del corpo, i movimenti mimici dei muscoli facciali, lo
sguardo nella sua intensità, durata e direzione, le inflessioni della voce, il contenuto non
manifesto delle domande, sino alle comunicazioni subliminali più sofisticate e meno facili
ad una loro decodificazione.
Consideriamo, al proposito, tre esempi clinici che illustrano quanto precede:
1. Il primo è l'alienazione maligna: si tratta di pazienti che minacciano per molto tempo,
anche per anni, di suicidarsi e non lo fanno. Un atteggiamento emotivo dello psichiatra
(o di qualunque altra persona significativa) di sottovalutazione o delegittimazione di
sofferenze e di conflitti del paziente può stimolare quest'ultimo a compiere il suicidio.
2. Nella collusione suicidaria il paziente, molto aggressivo, verbalizza che si ucciderà ma
ucciderà anche altre persone (anche con velate o franche minacce di morte ai curanti).
Questo aspetto aggressivo del paziente è ricambiato da un comportamento aggressivo
(spesso di tipo omissivo) da parete dei curanti: il paziente è trascurato, gli appuntamenti
dilazionati, non indagato su temi clinicamente importanti, ma ansiogeni, deviato ed
emarginato in gruppi di terapia ove la responsabilità di ognuno è diluita, le sue esigenze
personali di terapia sono spostate e banalizzate sul sociale manifesto, viene affidato a
personale con esperienza limitata, assecondato nelle sue richieste inadeguate di farmaci
non di utilità prioritaria, etc. sino a quando si verifica il suicidio. In questi casi spesso il
commento dei curanti e dei familiari è: non si dovrebbe pensare ma è meglio che si sia
ucciso lui da solo piuttosto che uccidersi ma uccidere anche altre persone innocenti.
3. Nel legame patologico coatto lo psichiatra è estremamente ansioso e preoccupato del
possibile suicidio del paziente e può verbalizzare: sono più preoccupato della sua vita
che non della mia vita, l’ho pregato di chiamarmi a qualsiasi ora del giorno e della
notte, gli ho detto che è più importante della mia stessa famiglia. In questi casi possibili
dinamiche psichiche dello psichiatra (sentimenti masochisti di dipendenza con sadismo
reattivo di controllo, identità personale e professionale fragile con reattività
onnipotente, etc.) non permette l'azione di accettazione e contenimento emotivo delle
tendenze suicidarie del paziente che possono, quindi, evolvere in un passaggio all'atto
suicidario.
68
La descrizione delle dinamiche che precedono e la loro fruibilità in tema di terapia
rappresenta un grande miglioramento scientifico nella formazione professionale dello
psichiatra come strumento di cura. Infatti le emozioni del terapeuta, dopo un primo periodo
storico in cui erano state negate, minimizzate come eccezionali e rarissime, considerate una
psicopatologia da nascondere alla attenzione del paziente e del pubblico, sono state, col
progredire scientifico, valorizzate attraverso una loro sempre maggiore conoscenza ed
utilizzo terapeutico (71).
Emerge da quanto precede in primo luogo che la formazione professionale, teorica ed
ideale dello psichiatra, in relazione al paziente suicidario è molto più ampia e profonda di
quanto può essere discusso a livello manifesto ed a stretti termini di legge, in un’aula di
tribunale. Tuttavia le reazioni emotive, cosi come descritte, non presentando obblighi
oggettivamente determinati, appartenendo a doveri esclusivamente morali sul piano ideale,
non presentando poteri impeditivi dimostrabili obiettivamente su eventi dannosi, non
configurando a livello soggettivo esigibilità di condotta, essendo classificabili come ipotesi
cliniche di ricerca basate su percezioni soggettive assai variabili nell’ambito della
imprevedibile mutevolezza della intersoggettività, ecc., non hanno valore forense di
rimproverabilità nei confronti degli operatori della salute mentale. In secondo luogo, per la
beneficialità del paziente, indipendentemente dalle leggi, è utile per la formazione dello
psichiatra saper riconoscere e gestire le proprie emozioni con:
Adeguata formazione personale
Utilizzo di supervisione di esperti
Lavoro in gruppo
Frequenze a corsi di aggiornamento e di sensibilizzazione al problema del suicidio
Questa formazione professionale, aggiornata e monitorata, dovrebbe essere, in futuro,
sempre disponibile.
Quanto precede nella consapevolezza della criticità che per molte persone può essere non
facilmente accettabile, non priva di gravi disagi e conflitti, la possibilità di accedere al
proprio patrimonio emotivo su temi così altamente sensibili e personali come il suicidio, la
morte, il significato ed il valore della esistenza.
69
Discussione
Formulare osservazioni psichiatrico-forensi in relazione alla responsabilità dello psichiatra
in tema di suicidio del paziente è argomento da affrontare con particolare ed approfondita
attenzione critica a causa del difficile consenso che si ha fra tutti i protagonisti: psichiatri,
magistrati, avvocati, periti, consulenti e parenti del paziente che si è ucciso. Tra queste
difficoltà possiamo sottolineare le seguenti.
Difficoltà ad assumere un atteggiamento neutrale di fronte alla responsabilità professionale dello psichiatra
Le osservazioni psichiatrico-forensi che precedono, se isolate dal loro contesto, possono
essere interpretate tanto nell’aspetto non neutrale di una tendenza a creare i presupposti per
accusare lo psichiatra (ad esempio l’ampliamento dell’assunzione, contenuto e dismissione
della posizione di garanzia, l’accettazione ed ampliamento della cura e protezione del
paziente con rischio suicidario, le responsabilità etiche e morali nella gestione delle proprie
emozioni ai fini terapeutici, etc.) quanto a creare i presupposti per una innocenza dello
psichiatra (per esempio l’insistenza nella descrizione clinica e forense del suicidio come un
evento eziologicamente multideterminato, con diagnosi complessa multiassiale ed
interventi preventivi e trattamentali multistrategici, la sua imprevedibilità ed inevitabilità, la
articolata metodologia forense per il giudizio sulla responsabilità professionale, etc.).
Differenti atteggiamenti culturali e problemi legislativi nei confronti del suicidio
Gli atteggiamenti del gruppo sociale nei confronti del suicidio variano a seconda del
momento storico e della cultura di riferimento. Il suicidio può rappresentare un peccato nei
confronti di principi religiosi, il sintomo di malattia mentale, una libera scelta esistenziale e
70
razionale, un atto di coraggio sociale, un comportamento dettato da condizionamenti che
derivano dal rispetto di alcune particolari tradizioni, etc. Egualmente complesse appaiono le
criticità legislative: il suicidio inteso come reato, come diritto personale inviolabile, come
liceità o non liceità nel fenomeno del suicidio assistito, i confini non sempre ben chiari a
termini di legge, della istigazione al suicidio (determinare o rafforzare il proposito
suicidario) e della agevolazione al suicidio (aiuto materiale alla esecuzione del fatto).
La difficoltà a comprendere le motivazioni alla base del suicidio
Di fronte alla difficoltà reale di comprendere il suicidio, un fenomeno complesso e
particolarmente evocatore di forti emozioni e conflitti personali, spesso si ricorre a tentativi
di dare un senso, o meglio formulare ipotesi di senso, che ci permettono più facilmente di
comprendere e di classificare il suicidio (ad esempio suicidio per motivi filosofici, etici,
sociali, rituali, religiosi, ascetici, ideologici, per vergogna, per protesta, a scopo
manipolatorio, per disturbo psichico, come grido d’aiuto, etc). Si tratta di ipotesi di senso
ipersemplificative che racchiudono motivazioni ben più complesse ed articolate fra loro
(61,62). A complicare questi problemi di comprensione dell’agito suicidario possono essere
aggiunti pregiudizi e false credenze e cioè i falsi miti (7) presenti anche tra gli operatori nel
campo della salute mentale (il suicidio avviene sempre all’improvviso senza nessun segno
premonitore, non bisogna parlare di suicidio con un paziente suicidario perché lo si
stimola a compierlo, tutte le persone che si uccidono hanno una grave depressione non
curata in modo corretto, se i medici avessero curato bene il paziente questi non si sarebbe
ucciso, quando qualcuno ha tentato di uccidersi rimarrà tutta la vita a grave rischio di
suicidio, le persone che parlano di suicidio in realtà non lo faranno, le persone che si
vogliono suicidare sono destinate a farlo, etc.)
71
Atteggiamento personale dello psichiatra e di chi lo giudica nei confronti del suicidio
Le reazioni emotive dello psichiatra verso il suicidio sono molteplici, non sempre a livello
di consapevolezza e non sempre orientate alla primaria beneficialità del paziente. Reazioni
emotive similari, che possono intralciare una corretta lettura della realtà, sono presenti tra i
protagonisti del giudizio di responsabilità dello psichiatra: avvocati, magistrati, periti,
consulenti, parenti che hanno formulato la denuncia, anche loro non indenni da
atteggiamenti emotivi e cognitivi personali verso il suicidio. Si tratta di emozioni profonde,
spesso legate alla presenza di una personale visione del mondo ed al significato che ogni
persona attribuisce alla morte, alla malattia fisica e mentale, alla propria identità ed
esistenza e soprattutto al senso che ognuno attribuisce alla volontà ed al valore di vivere,
oltre che, in non pochi casi, a problemi conflittuali o a specifiche e più gravi psicopatologie
personali nei confronti del suicidio, degli psichiatri o del paziente suicidario.
La incertezza dei dati scientifici
Le attuali conoscenze scientifiche sul suicidio sono ancora frammentarie e spesso
discordanti. Ad esempio non è ancora possibile stabilire nel singolo soggetto, con
precisione, obiettività, significatività e utilizzabilità, l’importanza di un suo patrimonio
genetico e l’incidenza della epigenetica nel determinismo del rischio suicidario.
Egualmente la terapia farmacologica, le psicoterapie, i provvedimenti psicosociali, le
molteplici strategie di prevenzione individuale e sociale non sono prive di criticità nella
pratica quotidiana, nonché di diatribe concettuali e di continue, sofisticate e mutevoli
precisazioni scientifiche (7,18,59,64).
72
Le aspettative, non basate su evidenze cliniche condivise, nei confronti della medicina e della psichiatria
L’aspettativa delle scienze mediche e psichiatriche di completa guarigione dei disturbi
psichici e di azzeramento del rischio suicidario, permane, allo stato attuale, una speranza,
ma non una realtà. Nelle rivendicazioni delle famiglie del soggetto che si è suicidato, oltre a
quelle autentiche ed alle comprensibili aspettative e legittime rivendicazioni in merito a
diritti calpestati (ad esempio in tema di perizia, prudenza e diligenza) vi possono essere
numerose altre dinamiche (ad esempio legate esclusivamente a rivendicazioni economiche).
Sono inoltre da considerare, senza mai escludere una contemporanea obiettiva
responsabilità dello psichiatra, la presenza di dinamiche psichiche nelle famiglie del
soggetto suicida, che non rispettano le evidenze cliniche condivise ed, in alcuni casi,
possono impedire una adeguata interpretazione della realtà.
Applicando, come pura ipotesi clinica di ricerca interpretativa, un approccio psichiatrico
psicodinamico che lega il comportamento a specifici meccanismi psicologici di difesa (72)
in alcuni casi è possibile riconoscere, nei familiari, sentimenti di aggressività (ed anche
fantasie omicidiarie) nei confronti del congiunto suicidario. Questi sentimenti e fantasie
aggressive nascono frequentemente nei familiari come controreazione alla aggressività ed
ai verbalizzati auto ed etero aggressivi (suicidari ed omicidiari) che il congiunto suicidario
era uso esplicitare: io mi ucciderò ma altri meritano di morire. E’ opportuno sottolineare le
difficoltà a trattare questo argomento che può suscitare potenti resistenze emotive alla sua
accettazione entrando nel dominio manifesto e pubblico del non socialmente e
politicamente gradito e del non dicibile e non pensabile a livello conscio individuale
soprattutto in persone che, in modo semplicistico e non scientifico, ritengono che il
rapporto del paziente suicidario con i suoi familiari sia sempre ed esclusivamente basato su
una benevola empatia alla sola insegna di un amore oblativo incondizionato.
Nei casi clinici ove è presente aggressività dei familiari verso il membro suicidario possono
essere presenti meccanismi psicologici di difesa che dividono nettamente in buoni e cattivi i
sentimenti verso il congiunto (scissione); che negano a se stessi (agli stessi familiari) le
reazioni di ostilità verso il congiunto (negazione); che attribuiscono ad altri, spesso il
curante, sentimenti di ostilità vissuti nei confronti del congiunto (proiezione); che trovano
giustificazioni pretestuose per attribuire la colpa del suicidio al curante: la persona che
73
aveva il potere di salvare il congiunto dal suicidio ma non lo ha fatto per colpa dei suoi
errori imperdonabili per i quali deve essere punito (razionalizzazione).
Le dinamiche che precedono, anche se a livello forense rappresentano solo, sottolineiamo
ancora, una ipotesi clinica di ricerca interpretativa sia pure suggestiva, sono tuttavia degne
di ulteriori approfondimenti in relazione alla loro beneficialità nella psico-educazione della
famiglia del paziente a rischio suicidario, alla possibilità di apprendere principi di buona
gestione, quando è il caso, della aggressività del congiunto suicidario (non reagire
specularmente con reattività altrettanto aggressiva) e alla comprensione più approfondita di
molte denunce contro gli psichiatri, apparentemente non giustificate. Per alcune tipologie di
famiglia, infatti, la necessità di punire lo psichiatra per la morte del congiunto è molto più
intrusiva ed alienante dalla realtà e viene perseguita con tale astio ed accanimento che
supera di gran lunga le energie messe in atto da quei familiari che, ad esempio, tentano
semplicemente un risarcimento economico senza conflittualità di difesa (di varia natura e
gravità clinica) sottostanti.
Si potrebbe affermare, sempre valutando criticamente queste ipotesi dinamiche
interpretative, che la necessità di punire lo psichiatra non solo per i suoi presunti o reali
peccati ma soprattutto per i propri peccati nei confronti del congiunto che si è ucciso
(averlo trascurato, trattato male, offeso, insultato, pensato che era meglio che morisse così
cessavano le sofferenze per tutti, provocato o stimolato ad uccidersi spaventati e turbati
dalle sue continue ed intrusive minacce di morte a se stesso ed a altre persone, etc.) è molto
più forte ed invasiva che non il semplice desiderio predatorio di una rivendicazione
solamente economica, soprattutto se formulata in cattiva fede affidandosi, senza troppe
aspettative, alla fortuna di un processo favorevole.
A prescindere dal grado di accettazione delle ipotesi cliniche di ricerca in tema di
psichiatria dinamica interpretativa applicata ai familiari (in analogia con quanto
precedentemente è stato applicato alla descrizione delle dinamiche psichiche degli
psichiatri in tema di alienazione maligna, collusione suicidaria e legame patologico coatto)
è possibile affermare che psichiatri e familiari di pazienti suicidari non sempre sono
indenni da dinamiche psichiche non utili in tema di gestione emotiva e comportamentale
del suicidio.
Concretamente rimane il fatto che molte denunce agli psichiatri in tema di suicidio del
paziente, pur essendo tenacemente sostenute dai familiari, si rilevano, in concreto e solo
74
dopo lunghe vicende giudiziarie, infondate e pretestuosamente legate, a livello manifesto,
ad aspettative non realistiche nei confronti della disciplina psichiatrica.
Questi dati di fatto non possono non essere integrati nel complesso ambito di un giudizio
sulla responsabilità professionale dello psichiatra a prescindere dalle molteplici personali
interpretazioni e dal personale grado di accettabilità che può, a livello emotivo o scientifico,
essere accordato alle dinamiche psichiche descritte.
La confusione
tra ipotesi cliniche di ricerca ed evidenze cliniche condivise
La ipotesi clinica di ricerca (studi e ricerche ancora oggetto di approfondimento e criticità
scientifiche non ancora convalidate dalla letteratura internazionale) utile per il progredire
della psichiatria e per una sempre maggiore beneficialità del paziente, può essere svolta,
non solo attraverso studi sperimentali su campioni selezionati con metodologie di indagine
e di elaborazione dei dati altamente sofisticate, ma anche al letto del paziente nella
quotidianità dell’assistenza. Ad esempio il paziente suicidario può essere sottoposto ai più
disparati strumenti di valutazione (diagnostica per immagini alla ricerca di correlati
biologici, reattivi mentali usati in modo singolo, integrato od in costellazioni di batterie,
questionari specifici per il suicidio auto ed etero somministrati, schede di rilevazione e
monitoraggio compilate da tutti gli operatori sociali, etc.). Solo una piccola parte di queste
ipotesi cliniche di ricerca avrà valore scientifico riconosciuto dai ricercatori e dai clinici che
curano i pazienti e farà parte di quelle evidenze cliniche condivise accettate dalla comunità
scientifica. Esempi di evidenza clinica condivisa in tema di suicidio: si tratta di un evento
multideterminato, non esistono strumenti clinici ed attuariali per una sicura previsione nel
singolo caso clinico, il rischio suicidario può variare rapidamente nel tempo, etc.
Sotto l’aspetto forense, a prescindere dalle più approfondite e sofisticate diatribe sul valore
euristico ed epistemologico di evidenza scientifica, sui livelli e categorie di evidenze (full,
limited, lack, negative, etc.) e sulla criticità del discrimine tra ipotesi clinica di ricerca ed
evidenza clinica condivisa, solo la evidenza clinica condivisa ha valore forense e non i
mille rivoli della pur necessaria ed importante ipotesi clinica di ricerca ancora
75
scientificamente non approfondita o convalidata nella pratica quotidiana e condivisa dagli
studiosi ed esperti clinici a livello nazionale ed internazionale.
La confusione tra diagnosi psichiatrica categoriale statistica e diagnosi psichiatrica forense peritale.
La diagnosi psichiatrica categoriale statistica è generalmente tratta dai manuali diagnostici
e statistici più diffusi (D.S.M.; I.C.D.; P.D.M.) e, nelle cartelle cliniche di degenza,
compare in genere nella formulazione della diagnosi di entrata e di uscita dal reparto.
Questa diagnosi, come è specificato negli stessi manuali, non ha valore forense se isolata da
un contesto di chiarificazione. Ha, infatti un importante valore statistico classificatorio e di
comunicazione tecnica tra specialisti, utile nella ricerca scientifica, ma non approfondisce
(se non chiarificata ed integrata con più informazioni) sotto l’aspetto clinico e forense, il
singolo caso in esame. Quest’ultimo è reso infatti assai più complesso in ragione:
1. Della variabilità individuale della qualità, quantità, persistenza ed interazione dei
sintomi
2. Delle differenti presenze e relazioni funzionali di specifiche comorbidità del
singolo
3. Della unicità irrepetibile della situazione psicosociale reale e percepita che
contestualizza il caso in esame;
4. Dell’apporto alla diagnosi e terapia delle reazioni emotive transferali e contro
transferali intese in senso allargato, come emozioni, o in senso ristretto in
specifici contesti di psicoterapia
5. Dalla specifica reattività del singolo caso clinico alle psicoterapie e
farmacoterapie ed alla mutevolezza continua delle interazioni con l’ambiente
psicosociale
La diagnosi psichiatrica forense peritale è costituita dall’insieme di segni (oggettivi) e
sintomi (soggettivi) presenti nel paziente al momento dei fatti per cui si procede e delle
decisioni oggetto di indagine giudiziaria, ed ha valore forense nelle perizie e consulenze.
Questa diagnosi rappresenta, soprattutto quando documentata in modo esauriente, la
situazione psichiatrica clinica del singolo soggetto in esame (che può integrarsi con
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elementi della diagnosi statistica contestualizzata nel caso clinico in esame) ed è
generalmente contenuta nelle cartelle cliniche di degenza nel diario clinico alle date riferite
ai fatti per cui si procede.
Le due diagnosi psichiatriche, categoriale statistica e forense peritale, non debbono essere
confuse perché non rappresentano la stessa tipologia di diagnosi ed hanno differenti
funzionalità. Lo stesso criterio vale per altri tipi di diagnosi che non rispettano, come la
diagnosi categoriale statistica, le caratteristiche della diagnosi forense peritale e sono
utilizzate (in modo esclusivo o prioritario o non contestualizzate nel caso per cui si procede
al momento dei fatti) al posto di quest’ultima in specifico contesto forense di perizia o
consulenza.
Le perizie e le consulenze devono fare riferimento alla diagnosi forense peritale per il
corretto giudizio sulle decisioni assunte al momento dei fatti. Ad esempio la diagnosi
categoriale statistica di disturbo dell’umore, senza altre specificazioni, non contempla
misure di cautela protettive. Qualora nel diario clinico fosse segnalato, alla data dei fatti per
cui si procede, un grave rischio suicidario che dovrebbe comportare misure cautelari di
protezione per il paziente, saremmo di fronte ad una diagnosi forense peritale: è a questa
seconda diagnosi che deve essere relazionata la responsabilità professionale dello psichiatra
che, in quel momento, si trovava in posizione di garanzia col paziente suicidario. E’ valido
il principio anche in situazione opposta: se la diagnosi categoriale di entrata in reparto è di
depressione grave con tentativo di suicidio vi è necessità di misure cautelari. Se poi nel
diario clinico è riportata (dopo accurato e prolungato monitoraggio della situazione clinica)
la riduzione dei sintomi depressivi, dei fattori di suicidarietà e prevalenza dei sintomi
protettivi del suicidio al momento dei fatti per cui si procede, le misure cautelari non sono
più necessarie. Anche in questo caso è sempre la diagnosi psichiatrica forense al momento
dei fatti a cui deve essere relazionata la messa in atto e la adeguatezza delle misure cautelari
e, in primo luogo, rapportato, in merito a questa variabile, il giudizio sulla responsabilità
professionale in relazione alle decisioni assunte al momento per cui si procede.
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Necessità di un ribilanciamento dell’importanza del disturbo psichico in relazione al suicidio.
I dati della letteratura, mettendo in luce che il suicidio è un evento multi determinato e
illustrando l’importanza e la frequenza dei fattori di rischio non psichiatrici, di fatto, hanno
ridotto il ruolo, a livello statistico, del disturbo psichico come fattore privilegiato nelle
dinamiche suicidarie.
Sulla base di queste obiettività si constata la tendenza attuale a passare dalla esclusiva
valutazione della relazione: disturbo psichico con diagnosi categoriale stastistica-suicidio
ad una valutazione più articolata, complessa e soprattutto più specifica per il suicidio e cioè
l’esame della suicidarietà (suicidalità) nella quale sono compresi i numerosi fattori di
rischio e di protezione (tra cui anche il disturbo psichico) che possono portare un soggetto
al suicidio. Questo ribilanciamento (inteso in senso forense come bilanciamento
probabilistico del valore eziologico dei vari fattori in discussione) propone una revisione
delle responsabilità cliniche e forensi dello psichiatra alla luce di quanto ha il dovere di
fare ed è qualificato per farlo in merito alla grande varietà, non sempre di competenza
medico-psichiatrica, dei fattori di rischio e di protezione in tema di suicidio.
Quanto precede non esonera lo psichiatra da una sempre maggior attenzione e sensibilità al
disturbo psichico che ha il dovere di curare e la qualificazione per farlo e da promuoversi
come parte attiva per migliorare la salute psichica nel suo significato più ampio, a livello di
popolazione generale (e non solo di gruppi di persone a rischio di suicidio), con la capacità
anche di prevenzione mediatica con prudenti, realistiche, operative informazioni sui
risultati medici positivi della disciplina psichiatrica.
Necessità di una criteriologia per la valutazione dei requisiti di causalità e del nesso di causalità
tra azione od omissione dello psichiatra e suicidio del paziente.
La valutazione dei requisiti di causalità e del nesso di causalità in medicina e psichiatria
sono temi complessi e ricchi di diatribe cliniche e forensi (3,5,73,74). E’ quindi necessaria
una criteriologia valutativa condivisa che deve essere applicata in sede forense da periti e
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consulenti in tema di responsabilità professionale dello psichiatra in merito al suicidio del
paziente.
1. Inquadramento clinico e forense delle cause di suicidio. Deve risultare nell’elaborato
scritto di periti e consulenti, rapportato al caso clinico in oggetto, il rispetto:
• del suicidio come evento multifattoriale e non monofattoriale
• della differenza tra i fattori eziologici di interesse clinico e quelli di interesse
giuridico
• dei criteri di giudizio della causalità nella azione e nella omissione dello
psichiatra
• dei criteri di giudizio della causalità nel civile e penale
2) Specificazione, nel caso clinico in oggetto, di quella che il perito o il consulente
hanno ritenuto e motivato come causalità del suicidio. In questa chiarificazione della
eziologia debbono essere usati i criteri più accreditati per definire, in senso forense, i
requisiti della causalità (ad esempio i criteri di prevedibilità e di probabilità) debbono
essere individuati tutti i possibili meccanismi eziologici e verificate se queste alternative
ricostruzioni possono tutte essere riferite alle condotte (colpose) dell’agente come
condiviso dalla prevalente dottrina attuale (Cass. IV sez.10795, 2007)
3) Esistenza o non esistenza del rapporto di causalità tra azione od omissione dello
psichiatra e suicidio del paziente. Attraverso i criteri più accreditati dell’accertamento
del nesso causale deve essere specificato:
• l’esclusione del rapporto causale (con le motivazioni in rapporto alle possibilità
scientifiche o alla insufficienza dei dati che sostengono l’ipotesi)
• la presenza e la quantificazione probabilistica motivata del rapporto di causalità:
a) incerto, b) molto probabile, c) sostanzialmente certo
4) Esistenza o criteri di esclusione di altre cause necessarie e sufficienti a produrre il
suicidio del paziente indipendentemente dalla azione od omissione dello psichiatra.
Attraverso i criteri più accreditati della valutazione delle concause (preesistenti,
simultanee, sopravvenute) deve essere specificata la loro presenza od assenza e, se
presenti, il loro ruolo nel caso clinico per cui si procede.
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5) Considerazione che la professione medica e psichiatrica appartengono alle attività
rischiose. In questo senso, pur non ignorando le varie teorie sulla causalità
(condizionalistica, della sussunzione sotto leggi, della causalità adeguata, della
imputazione obiettiva dell’evento, etc.) particolare sensibilità deve essere posta:
• alla teoria dell’aumento del rischio ed in particolare la rischio consentito nella
professione psichiatrica in merito al tema specifico del suicidio contestualizzato
al caso clinico in oggetto.
• alla evoluzione naturale ed alla potenzialità suicidaria (valutazione della
intrinseca gravità clinica della suicidiarietà) del singolo caso clinico nel suo
ruolo di bilanciamento probabilistico del valore eziologico dei vari fattori in
discussione.
Quanto precede rappresenta una criteriologia forense, da contestualizzare nel penale e nel
civile, utile a soddisfare, in termini di chiarezza, le esigenze di giustizia ed è onere che
grava e deve essere rispettato dai medici che esprimono pareri motivati forensi (4). Inoltre
questa criteriologia permette di prevenire illegittime estensioni o restrizioni del concetto
forense di causa e concausa, soggettive e non motivate dichiarazioni di presenza od assenza
di nessi di causalità, assenza di prove della rilevanza causale dell’errore dello psichiatra;
errori metodologici (per superficialità, fretta, ignoranza, pregiudizi, imperizia peritale,
tendenze assolutorie o colpevoliste, etc.) o di giudizio forense quali ragionamenti col senno
del dopo, si poteva fare di più, si poteva fare diversamente, pubblicità ingannevole del
farmaco miracoloso, accattonaggio dei sintomi e dei fattori di rischio, psichiatrizzazione,
suicidarizzazione, confusione tra ora ed allora, causalizzazione del fattore di rischio,
causalizzazione dell’errore irrilevante, concausalizzazione pregiudiziale della malattia
mentale,semplificazione erronea della complessità scientifica.
La qualificazione dei periti e dei consulenti.
Le imputazioni e le condanne nonché i lunghi percorsi giudiziari in tema di responsabilità
professionale dello psichiatra sono molto spesso stimolati, se non determinati, da periti e
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consulenti e non esclusivamente dal magistrato (4). Per questo motivo periti e consulenti
debbono presentare una adeguata qualificazione di competenza reale (e non solo di titoli)
al loro compito. Sulla base degli art. 220 e 221 del Codice di Procedura Penale in tema di
perizia e di periti (che mettono in luce le qualificazioni richieste: specifiche competenze
tecniche; particolare competenza nella specifica disciplina), dei codici deontologici medici
sulla responsabilità professionale (art. 62 del Nuovo Codice di Deontologia Medica,
18.05.2014, che sottolinea la qualificazione: effettivo possesso delle specifiche competenze
richieste dal caso) e della legge Balduzzi (art. 3, comma 5, lg 189 del 08 nov. 2012; dl 13
sett. 2012) sul ruolo delle Società Scientifiche in merito all‘accreditamento di buone
pratiche cliniche, la Società Italiana di Psichiatria (SIP) e la Società Italiana di Psichiatria
Forense (SIPF) hanno approvato (Congresso Nazionale SIPF, Alghero, maggio, 2015) un
position paper nel quale sono stabiliti i criteri per il giudizio sulla responsabilità
professionale dello psichiatra:
1. La presenza di un collegio peritale in cui vi sia uno psichiatra
2. Lo psichiatra deve possedere:
• la specializzazione in psichiatria
• esperienza clinica assistenziale di almeno otto anni in struttura pubblica oltre gli anni di
specializzazione
• adeguato curriculum in relazione al giudizio del caso in oggetto
3. Queste qualificazioni debbono essere specificate e scritte nel verbale al momento del
conferimento dell'incarico peritale
La responsabilità di periti e consulenti
Sulla base della centralità che periti e consulenti hanno nei contenziosi sulla responsabilità
professionale dello psichiatra, costoro debbono rispondere delle loro affermazioni agli enti
istituzionali preposti al controllo, seppur con differenti ruoli e diverse possibilità
sanzionatorie: gli Ordini Professionali, le Società Scientifiche, le Commissioni di
disciplina, il Giudice Civile ed il Giudice Penale.
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I periti possono compiere errori professionali legati ad imprudenza, negligenza ed
imperizia (ricostruzioni ipotetiche e fantasiose su dati insufficienti, dimenticanze nella
ricerca dei dati, ignoranza della letteratura sul tema in giudizio, pareri conclusivi sprovvisti
di adeguata motivazione o di copertura scientifica, affermazioni cliniche contrarie a tutte le
evidenze cliniche condivise dalla letteratura nazionale ed internazionale, etc.) (4). La
imperizia peritale può essere considerata più grave in periti che commettono errori non
scusabili (4), i quali possono agire con una condotta soggettivamente dolosa in quanto
sostenuta dall’interesse professionale di essere graditi al committente e mantenere in tal
modo un flusso costante di incarichi peritali (secondo un atteggiamento più volte
denunciato nell’ambito della medicina legale in generale, considerato espressivo, secondo
efficace definizione, di medicina legale della obbedienza giurisprudenziale), con indebita
assunzione di un ruolo pregiudizialmente accusatorio (4). A mantenere nel perito (e
consulente) un pregiudizio accusatorio è altresì da considerare il fatto obiettivo che non di
rado le parti lese non accettano conclusioni assolutorie e possono reagire non solo con
agguerrite consulenze difficili da contestare, ma anche con denunce penali che, ambedue,
possono mettere in grande difficoltà chi nel suo parere non è sfavorevole ai medici (4): si
tratta di un comportamento preventivo difensivo del perito (e consulente) a danno del
periziando, che merita una preoccupata riflessione e caratterizza la medicina legale
difensiva. Anche i consulenti di parte possono compiere errori professionali (e
fondatamente assumere una responsabilità deontologica ex art. 62 del codice di
deontologia medica) quando presentano consulenze sfacciatamente compiacenti e prive di
decenti motivazioni scientifiche (4); formulano richieste di approfondimenti diagnostici
non giustificati sotto il profilo clinico e forense; utilizzano in modo non scientifico ed
erroneo sotto il profilo forense dati delle neuroscienze o principi clinici della psicologia del
profondo, alterano e travisano dati di laboratorio o risultati di reattivi mentali a fini utilitari
personali di giustizia, etc.
Sono inoltre descritte, in letteratura, altre due tipologie di periti che non soddisfano le
esigenze di giustizia e la correttezza professionale: gli innocentisti ad oltranza, con
tendenze assolutorie verso la classe medica per un atteggiamento ingiustamente corporativo
(4), ed i colpevolisti ad oltranza e cioè quei medici, che in veste di periti o consulenti
formulano pareri tecnici non obiettivi perché in preminenza ispirati, consciamente o
inconsciamente, dal timore di conseguenze negative, professionali e/o personali, a loro
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danno, qualunque sia la provenienza e la natura di tale rischio reale o presunto: altro
esempio di medicina legale difensiva (4).
Quanto precede non esime periti e consulenti dal rispondere di comportamenti contrari a
precise norme di legge contemplate nel codice Civile e Penale (ad esempio, Falsa perizia od
interpretazione, art.373 c.p.; False dichiarazioni od attestazioni in atti destinati all’autorità
giudiziaria, art.374 bis c.p.; etc.).
Periti e consulenti incapaci e/o in malafede, come descritti dalla letteratura internazionale e
nazionale e nei trattati forensi (4,75) debbono essere riconosciuti, isolati, etichettati e
sanzionati non solo perché spesso carpiscono la buona fede dei committenti e del
magistrato attraverso l’esibizione di titoli di specializzazioni o titoli accademici cui non
corrisponde la competenza reale sull’argomento della perizia (la legge, ex artt.220 e 221
c.p.p., richiede la competenza reale sul tema in oggetto di giudizio), ma anche per il danno
ingiusto che procurano a singoli pazienti e professionisti ed il grave discredito che gettano
sulla rispettabilità e credibilità scientifica, etica e sociale di tutta la categoria degli
psichiatri.
La responsabilità di chi istiga o pone in essere denunce o certificazioni improprie.
Esiste una grande varietà di persone che possono stimolare nei parenti della persona che si
è uccisa la formulazione di esposti o denunce impropri (non rispettosi dei principi etici e
giuridici che giustificano la formulazione di un capo di imputazione in relazione ad un
esposto o ad una denuncia) allo psichiatra in merito alla sua responsabilità professionale.
Non sono certo in discussione le denunce motivate con fondatezza etica, clinica e giuridica.
Deve però essere trovato un rimedio all’eccessivo numero di denunce infondate e
pretestuose (spesso basate sulla speranza di un vantaggio economico risarcitorio, sulla
intenzionalità malevola di discredito nei confronti di uno specifico curante o nei confronti
di una specifica categoria professionale, sulla ignoranza colposa di principi etici e
deontologici, sui personali problemi emotivi nei confronti della morte e del suicidio, sulle
aspettative irrealistiche della psichiatria, etc.) che non raramente trovano terreno fertile nel
disagio psichico, spesso conflittuale, dei parenti della persona che si è uccisa.
83
Non pochi di questi fomentatori di denunce improprie possono a loro volta essere imputati
dello stesso reato che attribuiscono allo psichiatra. Ad esempio, le affermazioni gratuite
(non confortate da dati clinici obiettivi) di un medico che dialogando con i familiari di un
paziente suicida afferma che non ci voleva uno specialista per capire che non doveva
essere dimesso perché si sarebbe ammazzato. Nella sua successiva deposizione affermerà
di aver visitato il paziente poco prima del suicidio e di aver ritenuto errata la decisione dello
specialista psichiatra di dimetterlo. Da sottolineare che questo medico, al momento della
visita, non aveva messo in atto alcun provvedimento cautelare pur essendo in posizione di
garanzia e pur avendo ammesso la diagnosi di grave rischio suicidario. Non raramente
l’istigatore di denunce improprie cerca di mettere in luce una pretesa, ma non giustificata
incompetenza, trascuratezza, negligenza e imprudenza di colleghi con modalità, nei casi di
minor gravità, non rispettose del codice deontologico. Ad esempio, uno specialista
psichiatra parlando con i familiari di un paziente suicida afferma che lui non avrebbe mai
prescritto la terapia che ha prescritto il suo collega per timore del suicidio: purtroppo i
fatti gli hanno dato ragione ed il paziente si è ucciso.
Altre volte la istigazione alla denuncia può nascere, sempre in modo inappropriato, da
affermazioni contenute in perizie o in consulenze. Ad esempio un perito settore, non
psichiatra, nel referto autoptico di un paziente suicida afferma che la cura con gli
psicofarmaci usati è stata erronea perché può aver provocato il suicidio del paziente, ma
questo deve essere approfondito in altra sede. Da rilevare che questa affermazione non era
stata richiesta dal magistrato (che aveva solo chiesto le cause della morte), non era
documentata ed è stata fornita da persona non qualificata. Inoltre era stata formulata con la
tecnica furbesca lancio il sasso e poi ritiro la mano (dico che lo psichiatra ha sbagliato la
terapia e causato il suicidio e poi dico che dovranno essere altri a dirlo).
Esiste anche la categoria dei certificatori solitari e ritardatari di imputazioni e cioè quei
soggetti che scrivono, a notevole distanza di tempo dai fatti, certificati basati solo sul loro
parere personale, sulle lamentele o i riferiti indiretti del paziente interessato o dei suoi
familiari, in contrasto con la clinica documentata sul caso specifico, privi di copertura
scientifica, etc., che asseriscono, con riferimento al momento delle decisioni per cui si
procede, la presenza di un alto rischio suicidario, avallando in questo modo l’ipotesi
accusatoria che prevede la colpa dello psichiatra. Una certificazione è valida solo se riporta
dati clinici direttamente constatati od obbiettivamente documentati, formula giudizi
84
obiettivi e scientificamente corretti, oltre a rispettare precise modalità di compilazione. Una
certificazione falsa può essere perseguita a livello deontologico, amministrativo, civile e
penale (ad esempio il Codice Penale prevede in termini di certificazione: falso materiale,
falso ideologico, violazione della privacy, violazione del segreto professionale, oltre a
considerarla possibile elemento di artificio ai fini del reato di truffa).
I fomentatori di denunce improprie non appartengono solo all’ambiente sociosanitario, ma
possono essere rappresentati da altre categorie. Questi soggetti che istigano, certificano o
pongono in essere denunce improprie possono essere, ad un primo livello, se non sussistono
più gravi estremi di reato o di illecito civile (lite temeraria, falso, calunnia, etc.) oggetto di
attenzioni da parte di società scientifiche o professionali ed ordini professionali.
I mutamenti giurisprudenziali e le variazioni normative in tema di responsabilità per la prestazione sanitaria
Anche l’applicazione concreta e quotidiana dell’assistenza psichiatrica risente del mutare
nel tempo del contenuto delle decisioni dei giudici in tema di responsabilità da prestazione
sanitaria. L’orientamento delle sentenze in tema di contrattualizzazione della prestazione
medica, del contratto di protezione tra psichiatra e paziente, dell’obbligo legale derivante
dal contratto sociale del gestore di un servizio sanitario pubblico con il paziente, della
tendenza alla dissoluzione della differenza tra obbligazione di mezzi ed obbligazione di
risultato, etc., è in continua evoluzione ed oggetto costante di legittime valutazioni critiche
a scopo migliorativo.
Questo variare della giurisprudenza, almeno come recepito a livello divulgativo presso gli
psichiatri, può stimolare, a prescindere da una lettura approfondita e critica di ogni singola
sentenza, comportamenti difensivi pregiudiziali (gli psichiatri spaventati corrono dietro
alle sentenze adottando una psichiatria difensiva) che possono non rispettare in modo
adeguato le obiettività cliniche e la beneficialità del paziente con rischio suicidario. In
questo contesto è da auspicare (se non una depenalizzazione, che potrebbe essere in
contrasto con il precetto costituzionale) una valutazione giudiziale ispirata a larghezza di
vedute e comprensione specie per l’aspetto della colpa per imperizia, prefigurando, sul
piano processuale l’adozione di mezzi di conciliazione alternativi alle conflittualità e
85
lunghezza temporale dei processi; un utilizzo più frequente della mediazione; l’inversione
dell’onere della prova; di implicazioni forensi più chiare ed obiettive per i responsabili
delle strutture atte ad accogliere e curare i pazienti; la previsione della istituzione per via
normativa di fondi di solidarietà sociale a garanzia delle istanze risarcitorie nei casi di colpa
non macroscopica, la possibilità di conciliazione tra le parti in causa di tipo
prevalentemente od esclusivamente assicurativo.
L’utilità di interventi di prevenzione del suicidio sulla popolazione
Pur con i limiti legati al fatto che i fattori di rischio e di protezione sono molteplici, non
ancora approfonditi nella loro reale utilità di previsione e necessitanti sempre di
contestualizzazione critica nel singolo caso, è imperativo (in rispetto della evidenza clinica
condivisa che il suicidio è un evento multideterminato, a diagnosi pluriassiale ed a
modalità di trattamento multistrategica), per la beneficialità della popolazione, in senso
statistico, la messa in atto di vari tipi di prevenzione del suicidio (76-78).
Nella prevenzione generale (universal) su grandi popolazioni è utile facilitare l’accesso alle
cure, ai centri di ascolto e di aiuto e di controllo dei mezzi letali. Di grande importanza la
psico-educazione come utilizzo di mezzo di informazione privilegiato per evitare lo stigma
dei soggetti con comportamento suicidario (etichettamento ed emarginazione con
conseguente difficoltà degli stessi a richiedere aiuto), il contagio suicidario (stimolo a
suicidarsi), la imitazione, anche con gli stessi mezzi letali, di suicidi descritti nei dettagli
con enfasi e tacita ammirazione o giustificazione (copycat suicides) (79-81).
Nella prevenzione selettiva (selective) sono oggetto di attenzione popolazioni più ristrette
ed a rischio per fattori come età, professione, stato economico o familiare, stato di
privazione di libertà (ad esempio dopo un suicidio in carcere la ripetizione nell’immediato
di altri suicidi di altri detenuti: i cosi detti suicidi a grappolo).
Nella prevenzione specifica (indicated) è presa in considerazione la vulnerabilità specifica
di particolari soggetti: ad esempio, soggetti recidivi che presentano precedenti tentativi di
suicidio o che, molto più di altri, presentano segni clinici di suicidialità.
Attività di tipo preventivo possono essere esercitate attraverso una più efficiente
formazione di quanti possono venire in contatto con soggetti che presentano segni
86
comprensibili di rischio suicidario (gatekeeper). Costoro (operatori sanitari, insegnanti,
poliziotti, militari, consiglieri spirituali, etc.) possono essere sensibilizzati al
riconoscimento dei fattori di rischio e protezione del suicidio ed istruiti sulle modalità
concrete di aiuto ai soggetti a rischio e di indirizzo degli stessi verso strutture adeguate
(82,83).
Da segnalare l’utilità di interventi preventivi precoci sulla popolazione generale mirati al
rinforzo di fattori protettivi e riduzione dei fattori di rischio anche in età molto giovane (up
stream approaches), come la prevenzione in tema di violenza domestica, bullismo scolare,
abuso di droghe, violenza sulla persona, abusi sessuali, criminalità (84-88). Da segnalare i
risultati concretamente positivi di queste modalità preventive del suicidio, a livello
statistico, sulla popolazione (7,89-91).
Conclusioni
Le osservazioni psichiatrico forensi di buona pratica clinica in tema di suicidio appena
elaborate possono rappresentare uno stimolo di approfondimento critico finalizzato alla
sempre maggiore condivisione, tra gli psichiatri, della gestione del rischio suicidario al fine
di una più ampia beneficialità per il paziente. Queste osservazioni hanno un valore generale
e possono essere da ogni psichiatra allargate ed approfondite, a livello personale o a livello
istituzionale, con protocolli d’azione, algoritmi decisionali, specifiche divisioni dei ruoli
terapeutici, schemi di obiettivi di intervento, indicazioni preventive e gestionali delle
situazioni di crisi, corsi di formazione specifici sui vari temi del rischio suicidario, etc.
Pur nella considerazione dei necessari approfondimenti critici attuali e correzione nel
tempo per il progresso scientifico e per il mutare della ideologie psichiatriche e dei principi
di legge, ed alla possibilità per ogni psichiatra di ampliare, anche a livello ufficiale e per
iscritto, i suoi compiti nella gestione del paziente suicidario, è da rilevare che le presenti
osservazioni psichiatrico forensi di buona pratica clinica già allo stato attuale permettono:
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A. Di offrire al paziente una alta qualità di beneficialità in tema di cura e protezione
in relazione al rischio suicidario rispettosa della sua autodeterminazione.
B. Di offrire allo psichiatra uno schema di comportamento obiettivo di buona
pratica clinica soddisfacendo il suo diritto-dovere di conoscere, prima di una sua
eventuale imputazione, i criteri sui quali è giudicata la sua responsabilità
professionale.
C. Di evitare che in un’aula giudiziaria siano esclusivamente altre persone (periti,
consulenti, familiari, avvocati, giudici, etc.) a proporre quali debbano essere le
coordinate cliniche secondo cui deve essere gestito dallo psichiatra il rischio
suicidario del paziente.
Infine, le osservazioni psichiatrico forensi di buona pratica clinica più sopra articolate
dovrebbero stimolare un dialogo costruttivo tra tutti i protagonisti che gestiscono e
giudicano la complessità di un evento suicidario, allo scopo di poter individuare e mettere
in atto misure e rimedi concreti per una sempre maggiore beneficialità del paziente con
rischio suicidario, nel rispetto delle leggi e del principio della sua autodeterminazione.
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