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1 OSSERVAZIONI PSICHIATRICO FORENSI DI BUONA PRATICA CLINICA IN TEMA DI SUICIDIO DEL PAZIENTE G.C. Nivoli, L. Lorettu, P. Milia, A.M.A. Nivoli.

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OSSERVAZIONI PSICHIATRICO FORENSI

DI BUONA PRATICA CLINICA

IN TEMA DI SUICIDIO DEL PAZIENTE

G.C. Nivoli, L. Lorettu, P. Milia, A.M.A. Nivoli.

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INDICE

Premessa Pag 4 Il suicidio è un evento multideterminato Pag 5 Non esistono metodologie obiettive per una sicura previsione del suicidio nel singolo caso clinico

Pag 13

Il rischio di suicidio può variare come qualità e quantità rapidamente nel tempo Pag 16 Criticità in tema di farmacoterapia e psicoterapia Pag 20 Valutazione dei fattori di rischio e dei fattori protettivi Pag 31

Valutazione delle indicazioni e contro indicazioni in tema di ricovero e dimissione Pag 41 Impossibilità materiale dello psichiatra di impedire che una persona decisa ad uccidersi compia il suicidio

Pag 44

La responsabilità professionale dello psichiatra è da valutare al momento dei fatti Pag 46 Necessità di contestualizzare l’attività diagnostica e terapeutica dello psichiatra nella sua specifica realtà clinica

Pag 52

Utilità di precisare ruoli e responsabilità professionale dei singoli psichiatri che hanno curato il paziente suicida

Pag 54

Necessità di conoscere le disposizioni di legge che regolano i doveri di cura e protezione del paziente suicidario

Pag 56

L’interpretazione dei contrasti nella valutazione del rischio suicidario Pag 59 Il giudizio sulla responsabilità professionale dello psichiatra in tema di suicidio non è esclusivamente da formulare su specifici risultati decontestualizzati quali il suicidio del paziente o la non guarigione del disturbo psichico

Pag 61

Utilità degli interventi psicoeducativi sulla famiglia del paziente a rischio suicidario o del paziente che si è suicidato

Pag 62

Esistono reazioni emotive che influenzano la gestione clinica e forense del rischio suicidario Pag 65

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Discussione Pag 69

Difficoltà ad assumere un atteggiamento neutrale di fronte alla responsabilità professionale dello psichiatra

Pag 69

Differenti atteggiamenti culturali e problemi legislativi nei confronti del suicidio Pag 69 La difficoltà a comprendere le motivazioni alla base del suicidio Pag 70 Atteggiamento personale dello psichiatra e di chi lo giudica nei confronti del suicidio Pag 70 La incertezza dei dati scientifici Pag 71 Le aspettative, non basate su evidenze cliniche condivise, nei confronti della medicina e della psichiatria

Pag 71

La confusione forense tra le ipotesi cliniche di ricerca e le evidenze cliniche condivise Pag 74 La confusione forense tra diagnosi psichiatrica categoriale statistica e diagnosi psichiatrica forense peritale

Pag 74

Necessità di un ribilanciamento del ruolo del disturbo psichico in relazione al suicidio Pag 76

Necessità di una criteriologia per la valutazione dei requisiti di causalità e del nesso di causalità tra azione od omissione dello psichiatra e suicidio del paziente

Pag 77

La qualificazione dei periti e dei consulenti Pag 79 La responsabilità dei periti e dei consulenti Pag 80 La responsabilità di chi istiga o pone in essere denunce improprie Pag 82 I mutamenti giurisprudenziali e le variazioni normative in tema di responsabilità per la prestazione sanitaria

Pag 83

La utilità di interventi di prevenzione del suicidio sulla popolazione Pag 84 Conclusioni Pag 86 Bibliografia Pag 87

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Premessa

Il suicidio del paziente è uno tra gli eventi più drammatici che possano accadere nella

pratica psichiatrica. Permane una tra le più frequenti cause di incriminazione e condanna

del medico sia sul piano civile che penale. Il tema della responsabilità professionale del

medico psichiatra nei confronti di un paziente a rischio suicidario è ricco di sfumature

cliniche e forensi, influenzato da molteplici contrastanti interpretazioni di buona pratica

clinica e reso ancor più complesso dalla evoluzione dei precetti normativi e della loro stessa

applicazione giurisprudenziale. In ragione di ciò è parsa utile la formulazione di

osservazioni psichiatrico forensi di buona pratica clinica in tema di suicidio che possano

fruire di consenso clinico e scientifico. Il fine è aumentare la beneficialità del paziente nel

rispetto della sua autodeterminazione, migliorare la formazione professionale degli

operatori psichiatrici e facilitare la comprensione dell’evento suicidario a tutti i protagonisti

(magistrati, avvocati, periti, consulenti, familiari, etc.) che in differenti ruoli accusano,

difendono e giudicano lo psichiatra in relazione al suicidio del paziente.

Per ognuna delle osservazioni descritte vi sarà una componente di evidenza clinica

condivisa sulla gestione del rischio suicidario accompagnata da specifiche osservazioni

forensi formulate sulla base delle imputazioni e condanne penali e civili in cui incorrono

più frequentemente i medici psichiatri. Nella parte forense, attraverso una specifica

terminologia sottolineata anche graficamente (corsivo) saranno utilizzate esemplificazioni

che risultino il più aderenti possibile a concetti peculiarmente forensi (1-5) ed allo specifico

linguaggio delle aule giudiziarie in tema di responsabilità professionale dello psichiatra

piuttosto che mirate alla qualità clinica del colloquio o all’assistenza psichiatrica al paziente

con rischio suicidario. Alcuni principi forensi saranno trattati più volte per una loro più

approfondita e specifica chiarificazione. Inoltre, in base al presupposto che un’osservazione

psichiatrico forense può essere banale e scontata per uno specialista del settore ma non per

un profano, volontariamente saranno messi in luce principi elementari di clinica e di pratica

forense non raramente accompagnati da pregiudizi e peculiari modalità comunicative,

indipendentemente da loro valore scientifico, così come hanno luogo nelle aule giudiziarie.

Alcuni concetti di psicopatologia saranno riportati, oltre che in italiano, anche nella lingua

originale per offrire il massimo di fedeltà agli autori. In particolare sarà fatto uso frequente

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di terminologia in lingua inglese per favorire, con l’offerta di opportune parole-chiave, la

possibilità di approfondire in seno alla copiosa bibliografia internazionale su temi specifici

e settoriali. Infine saranno offerte ad un'attenzione critica per ulteriori approfondimenti

ipotesi cliniche interpretative sulle dinamiche psichiche dell’evento suicidario, ivi comprese

le implicazioni degli stessi psichiatri e dei familiari del soggetto suicida, nel pieno rispetto

della gradualità di accettazione di ogni psichiatra che le valuta, allo scopo primario di

aumentare la beneficialità del paziente in tema di prevenzione del rischio ed al contempo

sottolineare la complessità degli approcci interpretativi in psichiatria e la molteplicità delle

variabili da valutare nel giudizio sulla responsabilità professionale del medico psichiatra.

1 Il suicidio è un evento multideterminato

In letteratura è segnalato che nel mondo ogni anno muore per suicidio circa un milione di

persone (6-8). La prevenzione di un fenomeno tanto vasto è oggetto di continue ricerche.

Recenti revisioni indicano che non esiste una significativa prevalenza di efficacia di una

specifica modalità di trattamento sull’altra e la necessità di ulteriori studi per valutare le

diverse combinazioni di strategie di prevenzione (9,10,8). Il suicidio ha infatti natura

multifattoriale e la letteratura è concorde nel riconoscere i molteplici fattori, di natura

biologica, psichiatrica, psicologica, sociale, culturale, circostanziale che si embricano e si

intreccino variamente tra loro che nella sua genesi (recognition of multicausality) (11-19).

Il suicidio, quindi, è ritenuto un evento multideterminato, generato non da una sola e diretta

variabile, ma da diverse variabili che interagendo ed integrandosi tra loro in uno stesso

individuo, in modo dinamico nel tempo, rappresentano una costellazione di variabili, tra le

quali è anche da annoverare il disturbo psichico (20,21,13,22-26).

Per quanto concerne la relazione tra suicidio e disturbo psichico è da precisare in

particolare:

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1) Il disturbo psichico non è causa unica e diretta del suicidio essendo il suicidio un

evento multideterminato.

2) Il disturbo psichico, quando presente, pur permanendo una tra le molteplici variabili

che possono aumentare il rischio suicidario (fattore di rischio), può non essere in

nesso causale con la dinamica del suicidio: la maggior parte delle persone con

disturbi psichici non ha comportamenti suicidari e non tutte le persone che si

suicidano hanno un disturbo psichico (7,17).

3) Il disturbo psichico può presentarsi nel singolo individuo in comorbidità con altri

disturbi psichici, abuso di sostanze o malattie mediche organiche (Comorbidity:

associazione tra diverse affezioni morbose) che possono interagire con il rischio

suicidario (ad esempio disturbo dell’umore ed abuso di alcool in comorbidità

possono aumentare il rischio suicidario più della sommatoria del rischio di ognuno)

(17,27-32).

4) Il disturbo psichico presenta, sul piano statistico, rischi suicidari differenziati in

relazione alla diagnosi psichiatrica. Ad esempio è segnalato più frequente nella

depressione, abuso di sostanze, disturbi antisociali (7,13,17) ed in relazione alla

evoluzione clinica della specifica diagnosi: nei disturbi dell’umore, per esempio,

sembra essere più frequente nella fase depressiva (28,33).

5) Il ruolo del disturbo psichico come fattore di rischio suicidario è differente in

relazione alla cultura di riferimento (recognition of cultural differences). Ad esempio

viene riportata una minore associazione in Cina (34) ed in India (35,36).

6) Essendo il suicidio un evento multideterminato, la sua valutazione deve essere

multiassiale (multiaxial diagnosis) (18) e gli interventi per la sua prevenzione, anche

nel singolo caso clinico, debbono essere di tipo multistrategico (multicomponent

interventions) (17-19). In pratica questo significa che l’intervento dello psichiatra

sulla diagnosi e sulla terapia del disturbo psichico e sui provvedimenti cautelativi di

prevenzione è da considerare, sotto il profilo clinico e forense, solo uno tra i molti

altri interventi possibili (sanitari, economici, educativi, psicosociali di accesso alle

cure ed al trattamento nelle situazioni di crisi, riduzione dello stigma, etc.) di

competenza non strettamente psichiatrica.

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7) Il disturbo psichico, come le altre variabili legate al rischio suicidario che

rappresentano i fattori di rischio suicidario (sentimento di mancanza di speranza,

sentimentio di impossibilità di ricevere aiuto, percezioni fantasmatiche o reali gravi

disagi sociali od economici, etc.) sotto il profilo clinico deve essere oggetto di

valutazione e di provvedimenti a livello terapeutico e preventivo e sotto il profilo

forense deve essere considerato uno tra i tanti fattori di rischio suicidario da

valutare nel singolo caso clinico ed in specifici contesti bio-psico-sociali (37-39).

Sulla base di quanto precede è possibile formulare, sotto il profilo psichiatrico forense, le

osservazioni che seguono.

1.a. Inadeguatezza clinica e forense di ragionamenti semplicistici e riduttivi in tema di relazione tra disturbo psichico e suicidio. Concausalizzazione pregiudiziale

della malattia mentale

E’ un ragionamento semplicistico, riduttivo ed errato sotto il profilo clinico e scientifico,

affermare: quel paziente si è ucciso perché depresso. Non tutti i depressi si uccidono e non

tutte le persone che si uccidono sono depresse. Inoltre sul piano clinico esistono diverse

tipologie di depressione ciascuna con differenti livelli di influenza sul rischio suicidario (ad

esempio la depressione maggiore presenta la più alta frequenza). I pazienti con depressione

maggiore non presentano tutti lo stesso rischio: sono soprattutto i soggetti con meno senso

di responsabilità verso la famiglia, meno timore di disapprovazione sociale, meno obiezioni

morali alla decisione di uccidersi, minori capacità di mediare e risolvere i problemi legati

alla sopravvivenza e minore timore dell’atto materiale di darsi la morte, che presentano

maggiore rischio suicidario (40). Sotto il profilo clinico, scientifico e forense, è più corretto

affermare: quel paziente si è ucciso perché non solo depresso, ma anche impulsivo nel

passaggio all’azione, aggressivo verso se stesso, inadeguato nella mediazione dei conflitti,

frustrato nelle sue aspettative di lavoro, incapace di tollerare recenti eventi di lutto o di

separazione dal partner, entrato in una dimensione di suicidarietà con il pensiero

rigidamente focalizzato sul suicidio come unica soluzione ai suoi problemi, percepiti

irrisolvibili, e come unico mezzo (restrizione di opzioni) per porre fine alle sue sofferenze

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fisiche e morali ritenute intollerabili. L’affermazione: si è ucciso perché era depresso,

soprattutto se pronunciata da psichiatri, può innescare, in chi ricerca i responsabili del

suicidio del paziente, un errato ragionamento basato sul senno del dopo e sulla ignoranza

del nesso di causalità. Ovvero: se lo psichiatra avesse curato bene la depressione il

paziente non si sarebbe ucciso. Questo erroneo ragionamento, basato su un impiego

inadeguato del meccanismo psicologico della razionalizzazione, non raramente facilita

l’attribuzione della colpa e l’individuazione di un colpevole a tutti i costi: adesso trovo che

cosa lo psichiatra ha sbagliato nella cura della depressione e così lo posso accusare di

essere responsabile del suicidio del paziente. Il legame semplicistico e riduttivo tra disturbo

mentale inquadrato nella dimensione diagnostica categoriale e suicidio non è rispettoso non

solo della multideterminatezza eziologica del suicidio, ma anche della realtà dei molteplici

approcci clinici (diversi dalla diagnosi categoriale) (41-43) che sono presenti ed operanti

(indipendentemente dal loro valore forense) nella pratica psichiatrica.

Ad esempio l’approccio psichiatrico di tipo psicoanalitico individua numerose altre

possibili costellazioni psicodinamiche per comprendere il suicidio pur senza invocare la

diagnosi statistica categoriale (44): a) rappresaglia o rivincita per essere stato abbandonato;

b) desideri etero aggressivi che si trasformano in agiti auto aggressivi; c) fantasie di

riunione con persone care decedute; d) anelito di rinascere in una esistenza migliore della

attuale; e) autopunizione per colpe reali o percepite; f) suicidio apatico in soggetti morti

emotivamente od in agonia emotiva; g) punizione per chi sopravvive, attraverso il rimorso,

a causa di un proprio comportamento colposo reale o percepito; etc.

Sempre sul piano della psicologia del profondo (nella pratica psicoanalitica la

psicopatologia non è sovrapponibile a quella della diagnosi categoriale del disturbo

psichico) sono stati descritti vari processi psicodinamici che, con tendenza alla

progressività e possibilità di riconoscibilità dal terapeuta, possono portare un soggetto (non

necessariamente diagnosticato sul piano categoriale) al suicidio. Nel modello del crollo

suicida, ad esempio, sono stati descritti quattro stadi (45).

• Nel primo stadio il soggetto è inondato da un diluvio opprimente ed intollerabile di

sentimenti dolorosi: diluvio affettivo.

• Nel secondo stadio il soggetto cerca disperatamente di contenere e dominare i

sentimenti dolorosi: tentativi per non affogare nel dolore.

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• Nel terzo stadio il soggetto si sente affogare nel dolore, si sente disintegrare e morire

non riuscendo più a controllare le sue sofferenze percepite intollerabili: perdita di

controllo e disintegrazione.

• Nel quarto stadio il soggetto perde la capacità dell’esame di realtà, lascia spazio a

schemi di pensiero primitivi e può costruirsi, attraverso inadeguati meccanismi di

difesa di ordine psicotico, schemi grandiosi e magici di auto conservazione che

travalicano anche la perdita del proprio corpo che può essere, in tal modo, rifiutato ed

eliminato: sopravvivenza grandiosa e rifiuto del corpo.

L’approccio psicoanalitico, seppure molto settoriale, assai diversificato nelle sue varie

correnti ideologiche, oggetto di diatribe e critiche sulla validità scientifica, ricco di ipotesi

cliniche di interventi psicoterapici non è facilmente utilizzabile in tribunale in relazione alla

difficoltà di offrire, a livello forense, evidenze cliniche condivise. Il riferimento a questo

approccio nel presente scritto, a prescindere dalla accettazione o non accettazione di questa

metodologia conoscitiva, è stato fatto allo scopo di sottolineare ulteriormente la innegabile

realtà di complessità di approccio psichiatrico alla comprensione dell’evento suicidario e la

varietà degli interventi possibili nella pratica psichiatrica sui soggetti a rischio di suicidio.

Nell’ambito di una inadeguatezza clinica e forense nello stabilire un nesso causale

semplicistico ed errato tra disturbo psichico e suicidio possiamo mettere in luce la

concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale. In Medicina e Psichiatria molta

parte degli eventi di rilevanza forense riconoscono una pluralità di fattori causali essendo

multi determinati e non mono determinati. Questa molteplicità di fattori che contribuisce a

produrre un evento può coincidere con gli stessi fattori eziologici elencati nei paragrafi di

ciascuna malattia, medica e psichiatrica, reperibile nei testi di medicina. Tutti questi fattori

causali (cause concorrenti dette comunemente concause) pur possedendo ciascuno una

propria dignità qualitativa non hanno la stessa importanza quantitativa per cui differiscono

tra loro. In secondo luogo non possono essere considerati, tutti e indistintamente a livello

forense, fattori causali.

Premesso che le concause possono essere preesistenti, simultanee e sopravvenute il codice

penale (art. 41) sancisce che le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità

quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. Concretamente è così

delimitata la responsabilità delle persone da una troppo rigida interpretazione ed

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applicazione della teoria condizionalistica attraverso anche la teoria della causalità

adeguata, teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento ed anche della teoria dell’aumento

del rischio. Senza approfondire oltre la complessa causalità nella responsabilità medica la

concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale consiste nell’attribuzione, errata

sotto il profilo clinico e forense, del ruolo di causa, attraverso la specificazione di concausa,

alla malattia mentale nel determinare il CVP, legata al pregiudizio che il suicidio messo in

atto da un soggetto con disturbo psichico sia sempre in nesso causale con la psicopatologia

psichiatrica di cui soffre.

Questo processo di concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale può avvenire, in

particolare in ambito peritale in tema di responsabilità professionale attraverso tre distinti

passaggi:

1) la selezione mirata ed esclusiva della concausa,

2) l’ingrandimento del disturbo psichico

3) il travisamento causale del disturbo psichico.

Ad esempio il perito o il consulente, nella valutazione forense di un paziente con disturbo

mentale che si è ucciso, potrebbero selezionare come oggetto esclusivo di valutazione

solamente la psicosi del soggetto suicida e ignorare, attraverso il meccanismo psicologico

della minimizzazione, altri cofattori quali potrebbero essere stati la perdita del lavoro,

l’abbandono della moglie, etc. Questa impostazione minimizzante è normalmente seguita da

una eccessiva sottolineatura della patologia psicotica, con descrizione reiterata in decine di

pagine di relazione di tutti i sintomi psichiatrici considerati sempre, indipendentemente dalla

realtà del caso in oggetto, come se presentassero la maggiore gravità clinica e non avessero

mai mostrato fluttuazioni nel tempo, riduzione di intensità o intervalli liberi. Dopo questa

selezione mirata ed esclusiva del disturbo psichico e la sua amplificazione sindromica (senza

rispetto del reale), che descrive, soprattutto nell’empatia del profano di dinamiche suicidarie,

insopportabile e devastante la qualità di vita e spegne nel soggetto così malato qualsiasi

desiderio di sopravvivenza, non è certo difficile trovare (col meccanismo della

razionalizzazione) un qualsiasi tipo di presunto errore (soprattutto col senno del dopo) nei

confronti di chi avrebbe dovuto curare e proteggere il soggetto. Trovare, in altri termini,

qualcuno che ha sbagliato qualcosa: un errore nella farmacoterapia, nella psicoterapia, nella

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assunzione e circolazione delle informazioni, nelle applicazioni di misure cautelari o

applicazioni di regolamenti, etc che, ripetiamo, a posteriori dei fatti appaiono chiarissime,

non è affatto difficile, soprattutto quando l’errore è presente, anche se non rilevante a livello

forense.

Il travisamento del quadro clinico e forense attraverso la causalizzazione dell’errore

irrilevante (erronea trasformazione di un errore irrilevante in errore rilevante a livello

forense) completa l’intero processo di concausalizzazione pregiudiziale della malattia

mentale. L’errore più grave sotto il profilo metodologico clinico e forense (non si entra in

questioni di merito di pareri motivati personali in tema di valutazione forense della

concause) nell’ipotesi precedentemente descritta è che attraverso il processo di selezione

mirata ed esclusiva del disturbo psichico, il suo ingrandimento e travisamento (non

corrispondente al reale, ma estremamente suggestivo alla sola lettura e senza un opportuno

controllo della realtà, per un profano della psichiatria) il perito o il consulente non hanno

valutato e discusso con competenza clinica e forense (senza entrare in merito alle sue

conclusioni) il fatto che il suicidio del soggetto poteva essere in nesso causale con una

concausa sopravvenuta. La perdita del lavoro e l’abbandono da parte del partner dovrebbero

essere valutati (nel rispetto della contestualizzazione del singolo caso clinico) come possibile

causa sopravvenuta capace da sola di determinare il suicidio a prescindere dalla malattia

mentale del soggetto o dagli errori di terzi. Se nell’elaborato peritale non compaiono precise

e dettagliate osservazioni cliniche su questa criticità debbono essere posti non pochi

interrogativi (e non solo sulla competenza tecnica metodologica forense e sui pregiudizi in

tema di nesso causale tra suicidio e disturbo psichico), come più oltre sarà precisato, in tema

di qualificazione professionale del perito o del consulente. Ignorare le discriminanti in

ambito di concause, la presenza di dinamiche scatenanti il suicidio indipendentemente, in

senso forense, dal disturbo mentale, la non accettazione pregiudiziale della possibile

imprevidibilità ed inevitabilità dell’evento suicidario, etc possono essere tra le motivazioni

più frequenti alla base della concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale in caso

di suicidio.

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1.b. Necessità di valutare, nei giudizi di responsabilità, l’impossibilità per lo psichiatra di controllare tutte le variabili della causalità clinica del suicidio

Nella ricerca causale clinica (causalità materiale) del suicidio non può essere ignorata la

molteplicità della cause più stabili (biologiche, psichiatriche, etc.) e più aleatorie

circostanziali (come l’improvviso annuncio di una perdita, abbandono, di una separazione,

venire a conoscenza di una malattia internistica potenzialmente fatale, la morte di una

persona cara, la perdita del lavoro, della propria abitazione, etc.). Nell’ambito delle cause

circostanziali è da sottolineare non solo la gravità oggettiva, ma anche la percezione

soggettiva che si ha dell’evento. Soprattutto deve essere accettato che in ogni atto suicidario

vi è sempre qualcosa di poco comprensibile e misterioso, talvolta difficile, spesso

impossibile da comprendere anche per il professionista più esperto. Il terapeuta che

ritenesse di saper controllare tutte le variabili (biologiche, psichiatriche, psicologiche,

sociali, circostanziali, etc.) che determinano il suicidio potrebbe essere fuorviato nel suo

giudizio da un irrealistico eccesso di fiducia nelle proprie capacità e non rivelare, per ciò

stesso, le migliori qualità professionali a garanzia di un comportamento terapeutico

beneficiale per il paziente. Analogamente chi è deputato a valutare la responsabilità

professionale dello psichiatra non può, sempre e comunque, riconoscergli caratteristiche di

onnipotenza e di controllo su ognuna delle variabili delle causalità cliniche che governano

il rischio suicidario, né attribuirgli sconfinate capacità taumaturgiche di sapere e potere

guarire sempre, rapidamente e completamente ogni tipo di disturbo psichico. Soprattutto

tenendo presenti gli eventi multideterminati nei quali il ruolo della professione medica e

psichiatrica non può che essere, in molti casi, poco rilevante. Anche chi valuta la

responsabilità professionale dello psichiatra deve sapere accettare la realtà dei fatti, e non

cadere vittima delle umanamente comprensibili paure e pregiudizi sul suicidio,

confondendo un lodevole e generoso desiderio di guarire tutte le persone (anche se stessi)

quando lo si desidera o quando necessita, dalla malattia del suicidio, con le evidenze

cliniche sulla causalità del suicidio e le concrete possibilità di intervento che ha il singolo

operatore sanitario nella realtà.

Nasce quindi, in ambito forense, la necessità di considerare le difficoltà reali dello

psichiatra nella gestione del singolo caso clinico, a prescindere dai casi più manifesti di

imprevedibilità ed inevitabilità dell’evento o di grossolane colpe generiche in tema di

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prudenza, diligenza e perizia o colpe specifiche per inosservanza di leggi, regolamenti,

ordini, discipline.

2 Non esistono metodologie obiettive per una sicura previsione del

suicidio nel singolo caso clinico

La valutazione del rischio suicidario di un paziente si effettua, in linea generale, attraverso

due metodologie: clinica e attuariale.

1. La metodologia clinica si basa sul colloquio clinico col paziente (46). L’approccio offre

allo psichiatra non solo l’occasione di raccogliere le informazioni anamnestiche

(familiari e personali) al fine di praticare un esame psichiatrico ed una valutazione del

rischio suicidario con valori di attualità e concretezza, ma anche di avvalersi del

linguaggio non verbale del paziente e valutare le reazioni emotive che comunica e

quelle che suscita in chi lo ascolta (1,18).

2. La metodologia attuariale consiste nell’esaminare il paziente con interviste strutturate,

questionari con domande già compilate, reattivi mentali, etc. che hanno lo scopo

specifico, attraverso la valutazione di dati il più possibile obiettivi (età, sesso, diagnosi

psichiatrica, uso di droghe, etc.) di stabilire, a livello statistico, il rischio di suicidio.

Il metodo clinico ed il metodo attuariale possono essere variamente associati tra loro e

spesso presentano, nel clinico esperto, tratti comuni di valutazione del paziente con rischio

suicidario. Entrambi i metodi, praticati da soli o in associazione, non permettono, tuttavia,

una previsione nel singolo caso clinico che abbia valore predittivo clinico e forense

obiettivo e certo (7,18).

Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico forense,

quanto segue.

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2.a. Necessità di valutare il rischio suicidario con metodologia clinica documentata

Nella valutazione del rischio suicidario di un soggetto è indispensabile, sotto il profilo

clinico e forense, che detta valutazione venga eseguita con metodologia clinica

documentata nella cartella clinica, per la beneficialità del paziente e per la tutela giuridica

dello psichiatra.

• In primo luogo nella valutazione del soggetto suicidario debbono essere considerati i

fattori di rischio ed i fattori di protezione in tema di suicidio. Sotto il profilo clinico e

per la beneficialità del paziente, è importante che siano valutati tanto i fattori di rischio

(per ridurre la loro influenza quando possibile) quanto i fattori di protezione dal suicidio

(per implementare la loro azione, quando possibile, e proteggere con modalità

preventive il soggetto). Sotto il profilo forense l’esame valutativo dei fattori di rischio e

di protezione permette una base di discussione forense su criteri scientifici a partire

dalla complessità della valutazione del soggetto suicidario. La sola valutazione (o

peggio la mancanza di valutazione) dei fattori di rischio può innescare, come spesso

capita nelle aule giudiziarie, una base di discussione forense accusatoria nella quale lo

psichiatra, almeno inizialmente, è imputato di aver dimenticato, sottovalutato, non

capito, etc. la moltitudine di fattori di rischio che il soggetto presentava (spesso trovati

col senno del dopo).

• In secondo luogo la valutazione con metodologia clinica deve anche essere rivolta alla

attualità e concretezza del rischio suicidario. Deve cioè poter evidenziare il pericolo

attuale (al momento dei fatti per cui si procede e non prima o dopo) e concreto (non

possibilità teoriche ma probabilità reali: in campo forense non vige la regola del tutto è

possibile ma solo la regola del qualcosa è probabile) che il paziente si uccida. Per

esempio il paziente può essere indagato nel corso del colloquio con domande che, da

molto aperte (c’è qualcosa che la preoccupa?), giungono a domande più chiuse sul

tema del suicidio (ha già preparato il modo per uccidersi?). Lo stesso procedimento

può essere rispettato nella indagine dall’auto aggressività (ha avuto desiderio di farsi

del male?) alla etero aggressività (ha pensato di usare violenza su qualche persona?).

E’ necessario che il risultato delle valutazioni venga riportato nel diario clinico come

documentazione di buona pratica clinica e per la tutela forense dello psichiatra.

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La metodologia attuariale è importante per la ricerca clinica e scientifica e per il

perfezionamento della formazione psichiatrica. Tuttavia, allo stato attuale delle conoscenze,

in ragione del valore statistico generale e non individuale, delle difficoltà di soddisfare ai

numerosi criteri di validazione dei reattivi mentali, dei questionari, delle schede di

rilevazione, etc., detta metodologia non presenta carattere forense di indispensabilità nella

valutazione della responsabilità professionale particolarmente in presenza di ipotesi

cliniche di ricerca da convalidare con ulteriori studi e con evidenze cliniche condivise

comprovate da pubblicazioni scientifiche nazionali ed internazionali e dall'avvallo di

accreditate Società Scientifiche.

Nonostante il desiderio, umano e comprensibile, di poter disporre di uno strumento

obiettivo per valutare e discriminare con precisione il soggetto che si ucciderà da quello che

non si ucciderà, è da considerare il fatto scientifico e forense che, purtroppo, questo

strumento (scale cliniche, questionari, reattivi mentali, esami di laboratorio, etc.) non esiste.

Quello che esiste, oltre i limiti prima descritti, non è privo di falsi positivi e falsi negativi

tali da rendere molto poco predittive (very low positive predictive values) le indicazioni

conseguenti (47). Pur nel rispetto della loro utilità in ricerca clinica, dei sempre più

incoraggianti progressi nella loro validità predittiva, del loro uso facilitato dalla rapidità e

semplicità di somministrazione, questi strumenti attuariali mancano, allo stato attuale, di

una sufficiente validità predittiva (..they lack the predictive validty necessary for use in

routine clinical practice) che ne permetta l’utilizzazione acritica nella pratica clinica

quotidiana (18) e li renda validi, nel singolo caso clinico, sotto il profilo forense. Al

riguardo la giurisprudenza sintomaticamente insegna che la prevedibilità dell’evento lesivo,

che è necessaria ai fini dell’imputazione di colpa, non va accertata secondo il criterio di

elevata credibilità razionale (che riguarda invece la verifica probatoria del rapporto causale)

ma sulla base della concreta possibilità che esso (evento lesivo) possa concretizzarsi; il che

significa anche che la prevedibilità che fonda la colpa non deve essere solo potenziale e

meramente ipotetica, come quella presa in considerazione dal cd. principio di precauzione,

il quale prescinde dalla concretezza del rischio (Cass., Sez. IV, sentenza n. 16761/2010).

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2.b. Necessità di proteggere il paziente in relazione al suo attuale, concreto e contestualizzato rischio di suicidio

A prescindere dalle varie ideologie delle diverse correnti psichiatriche (che possono variare

dall’attribuire primaria importanza al legame del suicidio con il disturbo psichico fino al

riconoscimento del suicidio quale scelta personale nell’ambito di una autodeterminazione

informata in soggetto capace di intendere e volere che possiede coscienza e competenza

nell’assumere decisioni) e delle differenti impostazioni ideologiche sull’utilizzo della

psichiatria nel sociale (in particolare sulla possibile deriva dall’obbligo di assistenza medica

all’obbligo meramente custodialistico degenerabile in poliziesco controllo sociale) la legge

in vigore prevede che anche lo psichiatra debba, nella sua posizione di garanzia, non solo

curare, ma anche proteggere il paziente. Conseguenza pratica è che lo psichiatra, in

relazione alla specifica gravità del rischio suicidario, debba prescrivere, mettere in atto e

segnalare in cartella clinica, se esistono le ragioni per motivarle, le misure di cautela (che

possono variare da un appuntamento già il giorno dopo la prima visita sino al ricovero

immediato in struttura idonea) proporzionali e fattibili in relazione alla valutazione dello

specifico rischio suicidario, attuale e concreto, riscontrato al momento dell’esame in quello

specifico paziente in quel particolare contesto psicosociale.

3 Il rischio di suicidio può variare come qualità e quantità

rapidamente nel tempo

Il rischio suicidario non rimane sempre costante ma varia, spesso anche rapidamente, nel

breve spazio di tempo (7,18,48). La tipologia e la gravità clinica delle motivazioni alla base

di queste rapide variazioni del rischio suicidario sono complesse e possono essere legate, in

particolare nel soggetto con disturbo psichico, alla mutevolezza nel tempo dei sintomi del

disturbo mentale, alle circostanze psicosociali cui è esposto il soggetto, alla ambivalenza

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altalenante che spesso il paziente mette in atto nei confronti dell’agito suicidario. Il

disturbo psichico non rimane costante nel tempo (la depressione può variare come gravità

di sintomi depressivi, ma anche come qualità; il disturbo bipolare, per esempio, può mutare

ciclicamente tra depressione ed eccitamento maniacale).

Le circostanze psicosociali possono indurre improvvisi stimoli stressanti costituiti da

eventi, reali o percepiti, come estremamente dolorosi con vissuti di mancanza di speranza

(hopelessness), mancanza di possibilità di aiuto (helplessness), con sentimenti di profonda

indegnità personale (worthlessness) etc. che possono scatenare l’agito suicidario (ad

esempio l’improvvisa comunicazione al soggetto dell’abbandono da parte della moglie; un

percepito o reale tracollo finanziario; etc.).

Inoltre i soggetti a rischio suicidario non sempre sono coerenti e decisi nelle loro intenzioni

suicidarie (mi uccido/non mi uccido). Il più spesso sono ambivalenti ed impulsivi verso

l’agito suicidario e non raramente il passaggio all’atto è legato a circostanze imprevedibili

ed inevitabili.

In ambito psichiatrico-forense può essere evidenziato quanto segue.

3.a. Necessità di monitorare, in rapporto ad adeguate motivazioni cliniche

giustificanti, le possibili variazioni del rischio suicidario

Lo psichiatra deve valutare, in relazione a motivazioni cliniche giustificanti legate ad

evidenze cliniche condivise e nel rispetto di buona pratica clinica, nell’attualità e

concretezza del caso specifico e non attraverso astratte possibilità teoriche o ipotesi

cliniche di ricerca o accumuli non contestualizzati, generici, diluiti nel tempo, di pretesi ed

aspecifici fattori di rischio (soprattutto interpretati col senno del dopo) le variazioni del

rischio suicidario. Queste variazioni di rischio devono essere documentate in cartella clinica

ove vanno anche indicati i relativi, proporzionali, fattibili, controllabili e monitorabili

provvedimenti cautelativi.

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3.b. La accettazione emotiva e razionale della evidenza clinica e forense che il suicidio può essere un evento imprevedibile ed inevitabile

Allo psichiatra non può essere richiesto, sotto l’aspetto clinico e forense, di:

• Predire il futuro (soprattutto servendosi del senno del dopo). E’ da sottolineare che

differenti denominazioni e specificazioni della prevedibilità, quali rappresentabilità

o riconoscibilità, implicano sempre una previsione di comportamento nel futuro.

• Possedere tutte le informazioni sul paziente (il paziente può volontariamente

mentire, sottovalutare o interpretare in modo molto soggettivo una informazione da

fornire spontaneamente o sotto richiesta del terapeuta; i familiari possono non

ricordare o volutamente tacere; etc.)

• Riconoscere sempre e perfettamente la simulazione (il paziente dice di uccidersi e

poi non si uccide) e la dissimulazione (il paziente dice di non uccidersi e poi si

uccide).

• Essere sempre in grado di riconoscere e distinguere i comportamenti suicidari

prevalentemente dimostrativi, privi della volontà di uccidersi e volti alla ricerca di

guadagni secondari (ricerca di affetto, comprensione, attenzione, evitamento di

responsabilità, etc.) dai comportamenti suicidari prevalentemente non dimostrativi

nei quali vi è volontà primaria, chiara e consapevole di volersi uccidere. La

differenza non sempre è agevole in quanto componenti anticonservative possono

essere presenti nelle due fattispecie e spesso è solo il caso e la fatalità che hanno un

ruolo determinante, indipendentemente dalla volontà del soggetto, nel verificarsi del

suicidio.

• Differenziare sempre, sul piano della intenzionalità del soggetto agente, un atto

autolesionistico non suicidiario (alla cui base vi può essere una richiesta specifica di

aiuto, la convalida di una propria identità, un sollievo da sentimenti di colpa, la

ricerca di una realtà che rassicura dall’ansia di cadere nella confusione e

frammentazione psichica, etc.) da un tentativo di suicidio (in cui predomina, in vario

grado, la volontà di uccidersi). Le motivazioni alla base dei due fenomeni non sono

sempre mutualmente esclusive, possono variamente integrarsi nel singolo caso

clinico e possono assumere per il soggetto una grande variabilità di significati.

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• Cogliere precocemente i segni di specifiche dimensioni di suicidarietà. Si tratta di

un insieme di variabili (che dipendono dal caso in valutazione e dalla descrizione

clinica di singoli studiosi) che possono aiutare a comprendere la dinamica suicidaria

nella popolazione generale. Ad esempio: disponibilità a farsi del male, ad esacerbare

gli stress, ad utilizzare alterazioni dei processi cognitivi rendendo il pensiero sempre

più povero di possibilità alternative e sempre più incanalato verso la decisione

suicidaria, alla valorizzazione personale del suicidio come atto per far cessare la

sofferenza (27). Vi sono anche, seppur difficili da riconoscere precocemente,

dimensioni di suicidarietà tipicamente presenti in specifici gruppi a rischio. Tra

questi ultimi possiamo considerare, ad esempio, le persone private della libertà

personale nelle istituzioni penitenziarie che vivono, frequentemente, sentimenti di

disperazione, restringimento delle prospettive future, perdita della capacità di reagire

e il suicidio è sentito come l’unica via di uscita da una condizione priva di speranza.

Altro esempio la suicidarietà negli adolescenti (46,49) che presenta, come sintomi

prodromici, depressione, insonnia, helplessness, convinzione che nessuno si

accorgerebbe del loro suicidio o che, qualora se ne accorgesse, si sentirebbe in colpa

e proverebbe rimorso per non essersi preso maggior cura di loro.

• Guarire, sempre e nella immediatezza, con farmaci e psicoterapie, il dolore

psicologico insopportabile di soggetti a rischio suicidario (50); soprattutto quando

questo dolore è vissuto con grande rigidità di pensiero (pensiero a tunnel,

dicotomico, ad opzioni ristrette, senza alternative, etc.) e con una reattività

personale (individuale, circostanziale e non prevedibile) alle sue soggettive

aspettative di vita frustrate dalla realtà quotidiana.

• Etichettare ed emarginare un paziente come suicidario per tutta la sua vita

erroneamente raccogliendo tutti i possibili segni di suicidarietà diffusi nella sua

esistenza. Ricordare sempre che il rischio suicidario deve essere valutato nella

attualità e concretezza del singolo caso in uno specifico momento e contesto

psicosociale, e non si deve enfatizzare, in modo errato sotto il profilo clinico e

forense, uno o più comportamenti che finirebbero per diventare cronicamente

etichettanti (avendo tentato il suicidio una volta, il paziente deve essere considerato

suicidario per il resto della sua vita).

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• Cogliere sempre l’aspetto, molto utile ai fini preventivi, della ambiguità del sintomo.

Il miglioramento del paziente può essere sintomo di uscita dalla situazione di crisi e,

quindi, dell’abbandono dell’intenzione di uccidersi; oppure, il paziente è migliorato

perché la determinazione ad uccidersi è divenuta più lucida, priva di tante

ambivalenze emotive e quindi appare più calmo e tranquillo rispetto alla decisione.

• Trasformare sempre la imprevedibilità reale del soggetto con disturbo mentale in

prevedibilità teorica del soggetto senza disturbo mentale. Questo concetto forense è

stato recentemente sottolineato con chiarezza, dalla Suprema Corte di Cassazione,

IV sez. pen. (n.14766/16) Va esclusa pertanto ogni rimproverabilità per colpa,

mancando la prevedibilità ed evitabilità dell’evento suicidiario, legato piuttosto al

fisiologico fattore di imprevedibilità delle condotte imprudenti e/o inconsulte di

pazienti psichiatrici.

4

Criticità in tema di farmacoterapia e psicoterapia

La farmacoterapia del soggetto a rischio suicidario è complessa nonchè oggetto di

numerose diatribe cliniche e forensi. In tema di criticità possiamo ricordare:

1) Essendo il suicidio un evento multideterminato, a diagnosi multiassiale ed a

trattamento multistrategico, la terapia farmacologica, quando indicata, è solo uno tra

i molteplici interventi preventivi che possono essere fatti. La necessità di numerosi

altri trattamenti differenti dalla sola terapia farmacologica assume un ruolo cruciale

nell’analisi ed identificazione del nesso causale tra terapia farmacologica e suicidio.

2) Non tutti i soggetti a rischio suicidario debbono essere sottoposti a terapia

farmacologica. Non tutti presentano sintomi di interesse psichiatrico di gravità tale

da richiedere una farmacoterapia e non tutti i sintomi debbono sempre essere curati,

esclusivamente od elettivamente, con farmaci psicotropi.

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3) Il farmaco agisce esclusivamente sui sintomi (7, 50,51). Non agisce sulla

suicidarietà nella popolazione in generale (50,51) (suicidality: tutti i fattori di

rischio suicidario) o su specifiche dimensioni di suicidarietà in specifici gruppi

(suicidality dimensions: ragionamento a tunnel obbligato verso il suicidio, suicidio

come modalità di interruzione della sofferenza, o altro in adolescenti, in soggetti con

privazione di libertà in carcere, etc.)

4) Il farmaco agisce spesso su sintomi specifici quali irritabilità, agitazione, ansia,

rabbia, impulsività, insonnia che nel singolo caso clinico non sono necessariamente

in nesso causale con la complessa dinamica biopsicosociale e situazionale del

suicidio. Questi sintomi, in realtà, rappresentano fattori di rischio addizionali

(additional risk factors) (18) in quanto largamente diffusi tra la popolazione generale

e psichiatrica e, se non contestualizzati in modo adeguato, perdono il loro valore

predittivo di fattori di rischio. La discussione con il senno del dopo non è valida,

ricordiamo, per la valutazione delle variabili al momento dei fatti per cui si procede.

5) I sintomi su cui agisce il farmaco non sono, spesso, entità semplici, indivisibili e non

approfondibili a livello scientifico: possono infatti essere sottoposti a dissezione

(l’aggressività può essere scorporata in autodiretta od eterodiretta), a riunione (più

sintomi possono essere riuniti nel concetto di nevroticismo), a strutturazioni in reti

(net-work con sintomi nucleari e periferici), etc. Non sono, nello stesso soggetto o

nello stesso disturbo psichico, sempre stabili ed esclusivi: possono variare col

variare della malattia, raggrupparsi in dimensioni psicopatologiche variabili nel

tempo, essere transdiagnostici e cioè presenti in differenti disturbi mentali, etc. I

sintomi inoltre possono presentare, secondo le attuali conoscenze scientifiche, una

eziologia non univoca e legata a differenti psicopalogie. L’attività delirante, per

esempio, non è esclusivamente legata alla psicopatologia della schizofrenia e non

riconosce, a livello di ipotesi cliniche, una sola eziologia (ipotesi della salienza

aberrante, della verbalizzazione metaforica o simbolica di una vita interiore, del

meccanismo psicologico di difesa da un percepito sociale frustrante, incontrollabile

ed inaccettabile, della proiezione gratificatoria o giustificatoria di bisogni e paure

primarie, etc). In altri termini le conoscenze attuali non permettono ancora di

realizzare il desiderio di molti studiosi di poter considerare i sintomi psichiatrici

come specifiche alterazioni biochimiche cui potrebbero corrispondere specifici

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farmaci che le normalizzerebbero. Questa complessità, diagnostica ed eziologica, del

sintomo è un ulteriore elemento che rende complicata l’azione del farmaco nel

singolo caso clinico

6) Ai fini di una sempre maggiore beneficialità del paziente nell’ambito di una buona

pratica clinica nella gestione del farmaco (e di una comprensione scientifica più

approfondita in campo forense in tema di rischio-beneficio nella prescrizione del

farmaco) è utile conoscere i disturbi indotti dai farmaci. Si tratta di reattività avverse

al farmaco (DSM5) che possono essere di competenza internistica, interessare il

sistema nervoso autonomo, l’esecuzione dei movimenti, la sensorialità e gli aspetti

psichiatrici con la creazione di sintomi psichici nuovi e disturbanti la qualità di vita

del paziente (oltre i sintomi già presenti per i quali è stata instaurata la terapia).

Questi disturbi indotti da farmaci (Adverse Drug Reactions) sono molteplici, ancora

oggetto di approfondimenti scientifici, possono essere specifici per un singolo

farmaco ed essere modulati da una specifica reattività del singolo soggetto.

Ad esempio la somministrazione di farmaci antidepressivi può, in certe condizioni,

indurre le seguenti reazioni avverse: Sindrome apatico-amotivazionale da

antidepressivi (Antidepressant Apathy Syndrome; Apathy Syndrome; Amotivational

Syndrome SSRI-Induced; Indifference SSRI-induced apathy syndrome,

Antidepressant–Induced Apathy Syndrome, etc); Sindrome da discontinuità da

antidepressivi (Antidepressant Discontinuation Syndrome); Sindrome

Serotoninergica (Serotonergic Syndrome, Serotonin Syndrom, Serotonergic

Disorders); Sindrome Anticolinergica (Anticholinergic Syndrome); Tremore

posturale indotto da antidepressivi (Medication-Induced Postural Tremor); Sintomi

extrapiramidali da Sindrome serotoninergica da antidepressivi (Extrapiramidal

Reactions Associated with Serotoninergic Antidepressant); Disfunzioni della

sessualità: desiderio sessuale, orgasmo, eiaculazione, erezione (Antidepressant-

induced sexual dysfuction ); Viraggio del sintomo (swicht); Induzione di sintomi

extrapiramidali (SSRI-Induced EPS, Akathisia and Dyskinesia); Alterazioni

cardiovascolari (Cardiovascular Effects of Serotonin); Antidepressivi ed aumento

del rischio suicidario (Antidepressant and Suicidality) etc.

Per citare un altro esempio la somministrazione di antipsicotici può provocare:

Sindrome Maligna da neurolettici (Neuroleptic Malignant Syndrome); Sindrome

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Maligna da neurolettici Atipica (Atypical Neuroleptic Malignant Syndrome),

Catatonia e Catatonia Maligna (Catatonia, Malignant Catatonia); Parkinsonismo

indotto da neurolettici (Neuroleptic-Induced Parkinsonism), Psicosi da

supersensitività da antipsicoti (Supersensitivity psychosis, Antipsychotic induced

dopamine supersensitivity Psychosis); discinesie tardive (Tardive Dyskinesia);

distonie acute e tardive (Acute, Tardive Dystonia), acatisia acuta e tardiva (Acute,

Tardive Akathisia); Accentuazione dei sintomi negativi; Incidenti cardio-vascolari

(torsade de pointes: transient or sustained); Alterazioni metaboliche (Methabolic

side effects. Diabetes mellitus. Metabolic Syndrome); Disfunzioni sessuali da

Antipsicotici (Sexual Dysfunction Induced by Antipsychotics); etc.

7) La constatazione clinica e forense che un farmaco non agisce su tutte le persone con

le stesse modalità e che non sia sempre noto, a livello scientifico, perché in certi

gruppi di persone il farmaco abbia gli effetti desiderati ed in altri gruppi non solo

non abbia gli effetti desiderati, ma presenti effetti indesiderati, ha messo in moto

varie strategie terapeutiche per affrontare queste criticità. Tra le varie strategie che

mirano a personalizzare l’azione del farmaco su di uno specifico soggetto o su uno

specifico sintomo con un preciso correlato biologico sono da considerare aspetti

della Medicina di genere (Gender Medicine) che mette in luce le differenze, a livello

di farmacoterapia, tra sesso maschile e femminile, aspetti della Medicina di

precisione o Medicina Personalizzata (Precision Medecine, Personalizaled

Medicine) che ricerca la disponibilità di farmaci mirati verso forme di malattia di cui

è nota una precisa componente genetica; aspetti della Medicina Traslazionale

(Translactional Medicine) in cui una parte della ricerca traslazionale in medicina

(RTM) è dedicata alle basi biologiche del disturbo che possono fornire il

fondamento scientifico per lo sviluppo ed il miglioramento di nuove terapie

farmacologiche con un rapido passaggio dalla scienza di base alla clinica. Si tratta di

strategie, attualmente in studio, che, nelle aspettative, dovrebbero fornire, attraverso

una sempre più stretta aderenza tra basi biologiche del disturbo da curare e farmaco

che cura una sempre maggiore funzionalità del farmaco.

8) Tra le strategie terapeutiche che mirano ad ottenere, in modo primario, un generico

beneficio alla salute fisica e psichica del soggetto sono attualmente in corso ricerche

attraverso la Medicina che studia i Nutraceutici (Pharma-food) e cioè quei principi

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nutrizionali (probiotici, vitamine, integratori, ecc) che influiscono favorevolmente

sui processi biologici degli individui. Anche in questo caso si tratta di ricerche in

fase di approfondimento scientifico.

9) Non esiste in medicina, ed a maggior ragione in psichiatria, il farmaco perfetto che

agisce su ogni individuo, sul sintomo nella sua totalità, che guarisce subito e

completamente, che protegge per sempre da ricadute o da evoluzioni sfavorevoli del

disturbo e, soprattutto, che non presenta rischi unitamente a benefici.

10) Per quanto concerne la farmacoterapia, sulla base delle evidenze cliniche, è possibile

mettere in luce quanto segue sulle criticità legate non al farmaco perfetto quanto al

farmaco nella sua utilizzazione assistenziale quotidiana e nel suo funzionamento

reale. Sul problema della relazione tra diagnosi e terapia farmacologica è da

segnalare che in psichiatria è possibile formulare diagnosi, su di uno stesso

individuo, che partono da differenti presupposti dottrinali (diagnosi categoriali,

prototipiche, dimensionali, dinamiche, fenomenologiche, psicoanalitiche, narrative,

etc) che non implicano, anche nello stesso caso clinico, l’adozione della stessa

terapia farmacologica. E’ inoltre da sottolineare che in psichiatria esistono numerosi

manuali di classificazione dei disturbi psichici: DSM5 (Diagnostic and Statisical

Manual of Mental Disorder) e ICD-10 (International Classification of Diseases) che

privilegiano una descrizione categoriale statistica del disturbo mentale; PDM

(Psychodynamic Diagnostic Manual) che privilegia un aspetto diagnostico

psicodinamico e psicoanalitico; RDoC (Research Domain Criteria) che privilegia

l’aspetto della ricerca neuroscientifica legata al disturbo mentale; etc. Si tratta di

manuali che, pur non eguali nella impostazione metodologica ma passibili di

integrazione, rappresentano un valido aiuto alla ricerca scientifica nell’approfondire

l’eziologia, la diagnosi e la terapia del disturbo psichico. E’ tuttavia da tener conto

delle specifiche criticità cliniche di ognuno e soprattutto delle difficoltà di una loro

applicazione alle specifiche e complesse esigenze forensi per le quali questi manuali

non sono stati ideati e costruiti. Nello stesso individuo possono poi coesistere

differenti disturbi psichici (comorbidità anche con disturbi medici organici, abuso di

sostanze, etc) che rendono ulteriormente più complessa l’adozione di una terapia

farmacologica univoca e specificamente mirata. La mutevolezza dei sintomi nel

tempo, la loro comunanza con disturbi psichici diversi, la presenza di sintomi di

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durata estremamente breve che scompaiono senza lasciare traccia, la difficoltà a

riconoscere i sintomi psichiatrici agli esordi della psicosi (early onset); l'aderenza al

trattamento del paziente nell'effettuare con regolarità le cure prescritte;

l’appropriatezza prescrittiva in rapporto alla efficacy (l’efficacia del farmaco in

studio clinico sperimentale controllato e randomizzato); alla effectivness (l’efficacia

del farmaco nella realtà clinica che tiene conto anche della safety e tolerability; alla

efficiency (l’efficacia del farmaco anche in relazione alla farmaco economia); etc,

complicano ulteriormente la farmacoterapia nella sua applicazione sul reale

quotidiano.

11) Un trattamento farmacologico anche corretto in rapporto alla diagnosi, scelta del

farmaco, dose, via di somministrazione ed aderenza del paziente al trattamento non

assicura, come afferma unanime la letteratura, una risoluzione del sintomo

psichiatrico. Il paziente può infatti reagire al farmaco con reattività dannosa tale da

rendere impossibile la prosecuzione della somministrazione (intolleranza); non

reagire al farmaco (resistenza) e alle varie strategie per vincere la resistenza

(ottimizzazione, combinazione, sostituzione, potenziamento, etc); reagire

parzialmente (resistenza parziale); può presentare complicazioni non prevedibili nel

singolo caso clinico (effetti collaterali); il farmaco può provocare effetti contrari a

quelli che, a livello statistico, sono le aspettative terapeutiche (effetti paradossi); il

farmaco può modificare il corso della malattia senza offrire la guarigione (disease-

modifying drugs); il farmaco, per motivazioni biologiche legate al singolo individuo,

può non funzionare o presentare complicazioni non prevedibili (specificità

farmacogenomica); il farmaco, per motivazioni psicologiche, può, nella percezione

del paziente, presentare un effetto inferiore, se non francamente dannoso, rispetto

alla realtà (effetto nocebo) ; il decorso del disturbo psichico può essere caratterizzato

da guarigioni incomplete, aggravamenti e riemersione dei sintomi, non prevedibili

nel singolo caso clinico ed in modo indipendente dalla correttezza della terapia

farmacologica (remissioni parziali, ricadute e ricorrenze), il farmaco può interagire

con altri farmaci della cui assunzione lo psichiatra non è stato avvertito o con

imprevedibili mutamenti dell’organismo che alterano la farmacocinetica o la

farmacodinamica (interazione con altri farmaci o con la mutevolezza del substrato

biologico).

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12) L’uso del farmaco deve essere contestualizzato nel singolo caso clinico e nello

specifico momento evolutivo dei sintomi (un farmaco antidepressivo non è indicato,

soprattutto in monoterapia, per tutti i tipi di depressione, per tutte le età, per tutte le

caratteristiche personologiche e psichiatriche di comorbidità, etc.)

13) L’uso del farmaco deve essere condizionato dalla valutazione del rischio-beneficio e

nel rispetto della autodeterminazione informata (valida a termini di legge) del

soggetto. Ad esempio i sali di litio, in certi soggetti ed in specifici disturbi mentali,

sono stati riconosciuti possedere la capacità di ridurre, a livello statistico, il rischio

suicidario. Devono però essere valutati nel singolo caso i numerosi possibili effetti

collaterali e indesiderati che può causare la loro somministrazione anche in presenza

di opportuni esami preventivi e di controllo: nausea, vomito, diarrea, tremori,

polidipsia, poliuria, follicolite cronica, ipotiroidismo, insufficienza renale, etc. oltre

le criticità legate alla continuità di cura ed alla sospensione del farmaco.

In conclusione le evidenze cliniche farmacologiche in tema di prevenzione del suicidio

sono molto limitate (very limited), preliminari (preliminary), suggestive (suggestives) e non

conclusive (inconclusive) (18). Questo concetto clinico e forense è stato recentemente

ribadito e chiarito dalla Corte di Cassazione, (IV sez. pen., n.14766/16) al proposito di un

suicido di un soggetto con disturbo psichico: In concreto, secondo i canoni della moderna

psichiatria, si è fatto ricorso ai farmaci la cui efficacia terapeutica è notoriamente

variabile e non sicuramente prevedibile, non essendo in grado di garantire né la

guarigione dei pazienti né l’arresto di progressione della malattia e neppure la

prevenzione da gesti auto o etero aggressivi (…).

Le osservazioni che precedono nulla tolgono e sono compatibili con i grandi meriti della

farmacoterapia sulla beneficialità medica e sulla qualità di vita garantita al paziente

psichiatrico, alla indispensabile necessità di fiducia costruttiva nei progressi della neuro

psico farmacologia, alla funzionale e creativa ricerca di ogni mezzo terapeutico per ridurre,

a livello di prevenzione, i fattori di rischio suicidario e potenziare i fattori di protezione.

Inoltre è da considerare il rispetto che, nella cura del singolo paziente, deve essere

accordato alla psico-educazione al farmaco ove evidenze scientifiche sono gestite alla luce

della comunicazione, nella gestione della alleanza terapeutica, della speranza di

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miglioramento o di guarigione mirata alle caratteristiche personologiche in uno specifico

contesto di realtà psicosociale e di vissuti emotivi personali.

Per quanto concerne la psicoterapia col paziente suicidario possono essere considerate

alcune evidenze cliniche:

• Non esiste, in assoluto, una unica o migliore psicoterapia per ridurre il rischio in tutti

i soggetti suicidari (gli interventi con psicoterapie debbono essere contestualizzati

sullo specifico caso clinico in uno specifico tempo ed in un determinato contesto

socioculturale ed economico). Non in tutti i casi clinici è sempre possibile o sempre

indicato, nella fase acuta, un approccio psicoterapeutico strutturato (ad esempio

gravi ritardi mentali, etc.).

• Essendo l’intervento terapeutico in tema di suicidio multi strategico e multimodale

(multicomponent) (51-53) l’intervento psicoterapico presenta utilità clinica

preventiva ridotta se non accompagnato da altre misure di prevenzione che, spesso,

non sono di competenza dello psichiatra che con il paziente ha uno specifico

rapporto di garanzia. Tra queste possiamo ricordare le tecniche combinate tra

differenti psicoterapie (ad esempio tecniche cognitivo comportamentali,

interpretazioni psicodinamiche, etc.) e la farmacoterapia ed interventi psicosociali

(ad esempio ospedalizzazioni, istituzioni sociali di aiuto economico e psichico,

utilizzo di persone significative di sostegno, terapie legate alla risoluzione di

problemi pratici quotidiani, terapie familiari, etc.) (18).

• E’ utile che il terapeuta conosca i possibili errori che deve evitare in ambito

psicoterapico. In primo luogo sono da evitare gli errori che possono essere presenti

in tutte le psicoterapie (desiderio di piacere al paziente, incapacità di tollerare il

silenzio, reattività inadeguata alla aggressività del paziente, interpretazioni

premature, riduzione della individualità del paziente ad una diagnosi, etc.) In

secondo luogo sono da evitare errori più specifici nella psicoterapia col paziente a

rischio suicidario (rassicurazione superficiale senza approfondire il rischio di

suicidio, evitamento di sentimenti intensi nella relazione, rifugio nel ruolo

professionale, comportamenti passivi soprattutto in relazione alla difficoltà di

comunicare del paziente, insufficiente offerta di direttive precauzionali di

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protezione, fornire precipitosamente consigli, far capire al paziente che lo si

classifica in una tipologia stereotipata, reagire in modo speculare od inadeguato a

sentimenti di ostilità, disimpegno, sfida, provocatorietà del paziente, etc. (53)

4.a. Non validità clinica e forense della pubblicità ingannevole del farmaco miracoloso e della causalizzazione dell’errore non rilevante

Non raramente la centralità della discussione sulla responsabilità professionale dello

psichiatra ha come oggetto la prescrizione farmacologica impostata sulla percezione del

farmaco perfetto ed indispensabile per evitare il suicidio. Questa concezione di farmaco

perfetto in grado di guarire un evento multifattoriale come il suicidio o il comportamento

violento sulla persona non è solo presente nelle fantasie popolari, ma anche in operatori

della salute mentale e, seppure in modo più sofisticato, meno palese e più razionalizzato,

anche in periti e consulenti. Accanto alla semplicistica ed errata affermazione: si è ucciso

perché era depresso, esiste la altrettanto semplicistica ed errata affermazione: era

sufficiente somministrare un antidepressivo alle dosi giuste e per il tempo giusto ed il

paziente, guarito, non si sarebbe ucciso. Si tratta di una sorta di pubblicità ingannevole sul

farmaco che è, come risulta dalle importanti limitazioni alla sua azione precedentemente

illustrate, da considerare in tutte le sue criticità.

Un'altra osservazione psichiatrico forense che si può fare derivare da quanto precede, è

attribuire ad un eventuale errore nell’operato dello psichiatra (che può essere presente ma

ininfluente ed irrilevante ai fini dei requisiti della causalità e dell’aumento del rischio

suicidario: ad esempio in termini di adeguatezza della causa, di rischio consentito, di

evoluzione naturale, etc.) un requisito di causalità (causa o concausa) o un rapporto di

causalità (nesso di causalità) col suicidio (causalizzazione dell’errore irrilevante).

In tema di responsabilità dello psichiatra per presunto errore farmacologico non è, quindi

accettabile, sotto l’aspetto clinico, scientifico e forense, l’accusa superficiale che si limita

ad affermare, senza copertura scientifica specifica sul caso, senza evidenze cliniche

scientifiche e senza disamina critica contestualizzata, che lo psichiatra: non ha dato il

farmaco che avrebbe salvato dal suicidio. Ovvero: ha dato il farmaco che ha scatenato il

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suicidio. Ovvero: ha sbagliato a somministrare il farmaco e quindi il paziente si è ucciso.

Chi formula l’accusa è tenuto ad essere chiaro, circostanziato e documentato. Affinché

l’accusa possa essere presa in considerazione, deve precisare, secondo parere motivato

(giustificato da adeguata copertura scientifica e non una semplice opinione personale ola

citazione di letteratura non qualificata) quale avrebbe dovuto essere la scelta farmacologica

corretta e motivare l’esistenza o meno del nesso di causalità (ad esempio attraverso il

ragionamento contro fattuale: se il paziente avesse fatto la terapia corretta che io

suggerisco sulla base di una copertura scientifica si sarebbe ucciso o non si sarebbe

ucciso?) In particolare sulla base dei loro doveri il perito e il consulente devono precisare in

merito al tipo di farmacoterapia da loro ritenuta corretta:

• il tipo specifico di farmaco; • la dose; • la via di somministrazione; • la durata della somministrazione; • le percentuali di intolleranza e di resistenza totale o parziale al farmaco in quel tipo

di disturbo psichico; • le percentuali di successo e fallimento nell'uso delle varie strategie alternative per

vincere la resistenza in quello specifico disturbo; • le percentuali di effetti collaterali e la rispettiva gravità clinica; • la percentuale di effetti paradossi; • la percentuale di remissioni non complete dei sintomi, delle ricadute e delle

ricorrenze in quello specifico disturbo psichico; • la possibilità di interazioni farmacologiche o variazioni farmacocinetiche o

farmacodinamiche imprevedibili o inevitabili da parte del curante; • La percentuale di non aderenza terapeutica a quel farmaco in quel determinato

disturbo psichico; • La tipologia di alleanza terapeutica che quello specifico paziente era solito stabilire

con i curanti. • L’eventuale esistenza di particolari condizioni soggettive del paziente che potevano

rendere problematica la riuscita del trattamento farmacologico.

Il perito ed il consulente non possono presentare un farmaco perfetto, ideale e miracoloso

su un paziente ideale senza fornire i necessari chiarimenti sopra esposti, ma debbono

presentare un farmaco nel suo funzionamento reale, contestualizzato nello specifico caso

clinico con la copertura scientifica della più accreditata letteratura. Letteratura che deve

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essere estranea ad interessi delle case farmaceutiche e rispondere ai criteri internazionali di

alta qualità scientifica e metodologica. Questo è il solo modo di presentare, a chi deve

comprendere e giudicare l'operato dello psichiatra, evidenze cliniche condivise ed agire in

modo corretto sotto il profilo clinico e forense.

4.b. Necessità di introdurre un fattore di correzione nella valutazione della farmacoterapia per il rischio suicidario rispetto ad altre farmacoterapie mediche

La complessità dell’evento multideterminato, la difficoltà di diagnosticare e trattare

sintomatologie non facilmente obiettivabili con mezzi farmacoterapici talvolta poco

efficaci, il complesso legame clinico e forense di requisito di causalità e di rapporto di

causalità tra sintomo psichiatrico e suicidio, etc. richiedono l’introduzione di un fattore di

correzione (da interpretare come una particolare attenzione e sensibilità nel valutare la

farmacoterapia in Psichiatria e nel caso specifico in esame) allo scopo di valutare con

criticità la reale responsabilità farmacoterapica dello psichiatra. Questo concetto clinico e

forense è stato recentemente sottolineato in modo chiaro dalla Suprema Corte di Cassazione

(IV sez. pen. 14766/16): E’ fuori discussione che le regole cautelari dell’attività medica

presentino, in generale, un tasso elevato di peculiarità e difficoltà, non solo nella fase di

verifica e della valutazione, ma anche in quella, più strettamente modale ed operativa,

della scelta del percorso terapeutico. Il discorso si pone in termini ancor più problematici

con riferimento alla scienza psichiatrica, a fronte della imprevedibilità della condotta che

caratterizza talune sindromi e taluni singoli casi, giacché le manifestazioni morbose a

carico della psiche sono tendenzialmente meno evidenti e afferrabili delle malattie fisiche,

per cui il confine tra trattamento giusto e trattamento sbagliato può almeno in certi casi

diventare ancora più incerto che non nell’ambito della generica attività medica.

Pur con le criticità che precedono, è utile che lo psichiatra segua alcuni principi di buona

pratica clinica nella prescrizione farmacologica.

1. In primo luogo è necessario che risulti in cartella clinica la coerenza documentata tra

i sintomi descritti e la terapia farmacologica.

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2. E’ altresì necessaria la documentazione in cartella clinica di un monitoraggio non

solo della sintomatologia clinica ma anche della terapia farmacologica.

Per quanto concerne la psicoterapia occorre che siano documentati in cartella clinica gli

interventi che sono stati fatti e la reattività del paziente a detti interventi. Sottolineiamo

ancora che, sotto il profilo forense, non solo è necessario provvedere a quanto precede, ma

è anche necessario documentarlo in cartella clinica a testimonianza del comportamento

beneficiale verso il paziente e tutelativo nei confronti dello psichiatra. La documentazione

in cartella clinica degli interventi che sono stati fatti non è solo in funzione del rispetto dei

principi di buona pratica clinica nella compilazione il più corretta possibile dei documenti

medici, ma anche alla attenzione nell’evitare la possibilità che sia applicata la obiezione

forense che quello che non è scritto non è stato fatto.

5 Valutazione dei fattori di rischio e dei fattori protettivi

in tema di suicidio

Gli studiosi hanno isolato, su estesi campioni di soggetti, fattori che, a livello statistico e

con maggiore frequenza di altri, appaiono legati al rischio suicidario sia nella popolazione

generale che in popolazioni più specifiche (7,18,26,54-56). Questi fattori sono raccolti in

differenti classificazioni a seconda degli autori. In relazione agli obiettivi del presente

scritto possono essere classificati in tipologie che, pur non essendo mutualmente esclusive,

presentano una facilitazione al loro utilizzo forense. In considerazione dei limiti di questo

approccio i fattori di rischio (ed anche i fattori protettivi) possono essere suddivisi nelle

seguenti tipologie:

a) di tipo statico individuale (individual risk profile) legati a caratteristiche stabili

individuali (sesso, età, precedenti suicidi in famiglia, malattie mentali, abuso di

sostanze, isolamento sociale, malattie mediche o sintomi dolorosi a carattere

cronico, precedenti abusi sessuali, etc.)

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b) di tipo sintomatologico (symptom risk profile) che privilegiano aspetti

psicologici o psichiatrici (sentimento di mancanza di speranza: hopelesness,

sentimento di indegnità: whortlesness, sentimento di non poter ricevere aiuto:

helplesness, sentimento di essere intrappolato in situazioni senza uscita: feeling

of entrapment, incapacità a provare piacere: anedonia, rigidità cognitiva:

cognitive rigidity, incapacità o difficoltà a prendere decisioni: impaired decision

making, sintomi depressivi, rabbia, impulsività, sintomi psicotici positivi acuti,

ansia ed agitazione, stati di panico, etc.)

c) di tipo circostanziale al momento delle decisioni terapeutiche (Interview risk

profile) presenti all’osservazione psichiatrica nel corso del colloquio che ha

determinato specifiche decisioni in tema di valutazione e trattamento (sentimenti

di riduzione o di assenza del desiderio di vivere, di ideazione suicidaria, di

progetto suicidario, di comportamento auto lesivo o suicidario, presenza di

problemi che al paziente appaiono non risolvibili, recente abuso di droga, alcool,

presenza di allucinazioni uditive imperative con ordine di suicidarsi, etc.)

Gli studiosi hanno altresì isolato fattori che, nella pratica clinica, appaiono più legati di altri

alla protezione del passaggio all’agito suicidario (7,18,54). Anche nei fattori protettivi è

possibile isolare, seppure con i limiti precedentemente illustrati, differenti tipologie non

mutualmente esclusive:

a. di tipo statico (assenza di precedenti tentativi di suicidio, di suicidi in famiglia;

di psicosi; di abuso di sostanze; di croniche ed invalidanti malattie mediche;

presenza di buone relazioni affettive e sociali con il compagno o la compagna,

familiari, amici, ambiente di lavoro; presenza di figli nella propria abitazione,

etc.);

b. di tipo sintomatologico (sentimento di stima in se stessi: good self-esteem, di

efficacia nel proprio agire: self-efficacy; volontà concreta e fiduciosa di

richiedere aiuto: willingness to seek help, capacità di risolvere i problemi:

problem solving skills, stabilità emotiva: emotional stability, capacità di gestire

positivamente le situazioni di crisi: positive coping skills, sentimenti di

responsabilità nei confronti della famiglia: resposibility to family, sviluppo

maturo ed armonico della propria identità: developed self-identity, stile di vita

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salutare, rispettoso della salute del corpo e della mente: healthy lifestyle

choices, etc.)

c. di tipo circostanziale (non presentare o verbalizzare i pensieri: thoughts, i

progetti: plans, i comportamenti: behaviors, relativi al proprio suicidio o

sentimenti di svalutazione della volontà di vivere: feelings about living;

usufruire, se di giovane età, di un buon rapporto di accettazione e contenimento

affettivi con persone adulte significative: connectedness; praticare con aderenza

le terapie farmacologiche e psicoterapiche prescritte, rispettare gli appuntamenti

col terapeuta: positive therapeutic relationship; formulare progetti per il futuro;

aver risolto problemi che hanno causato una precedente sofferenza psichica,

fisica od economica; disponibilità sociale di persone di riferimento con forti

legami affettivi e di fiducia: positive social support; condanna morale dell’atto

suicidario: moral objections; paura di compiere l’atto fisico di soppressione;

timore della visibilità sociale negativa: fear of social disapproval, etc.)

I fattori di rischio suicidario ed i fattori di protezione dal suicidio presentano le seguenti

caratteristiche comuni:

1. Possono essere presenti uno o più fattori di rischio ed il paziente non si uccide, possono

essere presenti uno o più fattori di protezione ed il paziente si uccide. Come afferma la

letteratura e l’esperienza clinica quotidiana questi fattori possono avere, quando lo

hanno, solo il valore, soprattutto in termini cumulativi ed interattivi, di aumentare o

ridurre la vulnerabilità o la resilienza al suicidio. (7,18)

2. Hanno un valore statistico su grandi popolazioni (e non valore forense contestualizzato

su un singolo caso clinico)

3. In ragione della rarità statistica del suicidio questi fattori non hanno valore predittivo da

soli o considerati variamente associati tra loro (The statistical rarity of suicide also

make it impossible to predict on the basis of risk factors either alone or in combination)

(18)

4. Sono differenti come tipologia e come fattori in qualità e quantità da studioso a studioso

(ne sono prova la grande quantità e diversità nella creazione di questionari, scale e linee

guida in tema di suicidio).

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5. Sono sempre da considerare con molta critica perché possono essere ambivalenti o

dipendere da specifici contesti socioculturali o da soggettive e mutevoli interpretazioni

del soggetto. Ad esempio essere religioso (religious beliefs) in genere è considerato un

fattore protettivo per il rispetto che religioni e movimenti spirituali simili attribuiscono

alla propria vita e per la non valorizzazione della aggressività fisica. Tuttavia vi sono

religioni o movimenti spirituali che stimolano il suicidio e cioè la immolazione

personale per motivi politici, costumi familiari o ideali di comportamento a forte

visibilità e plauso sociale

6. Possono essere tra loro variamente associati od integrati in modo imprevedibile. Ad

esempio il sentimento di benessere personale, che è considerato un fattore protettivo,

può variare rapidamente ed in modo imprevedibile in un paziente con disturbo bipolare

che passa da uno stato ipomaniacale di grande benessere soggettivo ad una depressione

con sentimenti soggettivi di grande malessere fisico e psichico

7. Necessitano di una valutazione non solo della presenza od assenza ma anche della loro

gravità clinica (magnitude) e della loro durata nel tempo (persistence)

8. Debbono essere valutati in rapporto a specifici contesti di trattamento (pazienti

ricoverati, pazienti non ricoverati, luoghi di emergenza, carceri, residenze mediche a

lungo termine, etc.)

9. Sono, allo stato attuale, continuo oggetto di approfondimento e critiche a livello clinico

e scientifico

10. Sono spesso in relazione, nella loro gestione, con il tipo di alleanza terapeutica

(therapeutic alliance) stabilita col terapeuta (un clima di fiducia, rispetto reciproco e

comunanza di intenti tra soggetto e terapeuta che non dipende esclusivamente dalle

capacità cliniche del terapeuta);

11. Presentano la necessità di dover essere sempre valutati nel complesso rapporto tra fattori

che aumentano il rischio e fattori che aumentano la protezione nella irrepetibile

contestualizzazione dinamica del singolo caso clinico.

I fattori di rischio e di protezione sono quindi da considerare, sotto il profilo clinico e

forense, ipotesi cliniche statistiche di ricerca utilizzabili su grandi campioni di persone e

non evidenze cliniche condivise applicabili, con correttezza clinica e scientifica e forense, al

singolo caso in esame. In altre parole il desiderio di eliminare o ridurre drasticamente il

suicidio e il sentimento di speranza illimitata nella onnipotenza della scienza medico

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psichiatrica attraverso l’individuazione dei fattori di rischio e di protezione che potranno

discriminare il soggetto che si ucciderà da quello che non si ucciderà, allo stato attuale della

conoscenze, è ancora sul piano della utopia con fondamenti clinici e scientifici assai fragili.

Quanto precede, tuttavia, non esonera lo psichiatra dal considerare in tema di suicidio, con

attenzione e criticità sotto l’aspetto di ipotesi clinica di ricerca, sia i fattori di rischio che i

fattori di protezione contestualizzati nel singolo caso clinico in valutazione. Soprattutto non

esonera, ma deve stimolare, con fiducia e speranza, gli studiosi a mettere in atto e

approfondire e migliorandole tutte le possibili strategie utili alla prevenzione del suicidio.

5.a. Utilizzo clinico e forense dei fattori di rischio e di protezione in tema di suicidio

La buona pratica clinica dello psichiatra con il paziente suicidario impone la valutazione

dei fattori di rischio e dei fattori protettivi. Questa valutazione deve essere puntualmente

registrata, con chiarezza ed obiettività, in cartella clinica. Con questa modalità di approccio

di buona pratica clinica documentata, sono raggiunti numerosi obiettivi:

• la beneficialità del paziente la cui situazione clinica è valutata con attenzione sia nei

fattori di rischio che di protezione. Su entrambi può essere indirizzato l’intervento

terapeutico

• la documentazione obiettiva di buona pratica clinica adottata dallo psichiatra che ha

agito con perizia, diligenza e prudenza illustrando la complessità dei fattori presenti

nella valutazione del rischio suicidario

In questo senso, sottolineiamo, l’impianto accusatorio formulato contro lo psichiatra per

non aver valutato in modo corretto la presenza dei fattori di rischio suicidario, quando

formulata senza opportune basi scientifiche di discussione e senza la contestualizzazione del

caso clinico per cui si procede, trova precise risposte nei seguenti punti:

1. I fattori di rischio sono stati valutati in relazione ai fattori protettivi: a volte i fattori

protettivi possono essere equivalenti o più importanti dei fattori di rischio

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2. Lo psichiatra non può intervenire con risultati immediati sui fattori di rischio stabili

permanenti (non modifiable factors) come il sesso, l’età, i precedenti tentativi di

suicidio (18)

3. Lo psichiatra non può prevedere nel singolo caso clinico gli eventi circostanziali (unique

circumstances) del rischio suicidario (18). Ad esempio l’improvviso abbandono del

paziente da parte del coniuge, una inattesa comunicazione giudiziaria, le reazioni

colpevolizzanti, delegittimanti, francamente aggressive (anche se reattive ad una reale

aggressività subita) dei familiari nei confronti del soggetto suicidario, etc., che possono,

a loro volta, stimolare l’agito suicidario

4. Lo psichiatra non è in grado di controllare in modo minuzioso e costante nel tempo

caratteristiche psichiatriche del soggetto a rischio suicidario come ad esempio la

impulsività, sentimenti di perdita di speranza, allucinazioni uditive a comando

suicidario; una improvvisa crisi di ansia, di agitazione psichica e motoria, di panico

(nonostante la copertura farmacologica); tentativi di suicidio a scopo dimostrativo che,

contro la stessa volontà del paziente, esitano in suicidio, etc.

Così come i fattori di rischio debbono essere valutati in modo corretto sotto l’aspetto

scientifico e forense, anche i fattori protettivi debbono essere valutati con criteri scientifici

e forensi. Ad esempio non è certo sufficiente che un paziente presenti numerosi fattori di

protezione (segua con lodevole aderenza le cure farmacologiche e psicoterapiche, faccia

progetti concreti e dettagliati per il suo futuro, possegga valori religiosi o etici di rispetto

della propria vita, etc.) per escludere, sotto il profilo clinico e forense, la probabilità che

possa mettere in atto un suicidio.

5.b. Non validità clinica e forense del ragionamento basato sul accattonaggio dei sintomi e dei fattori di rischio, sulla causalizzazione del fattore di

rischio, sulla suicidalizzazione, sulla semplificazione erronea della complessità scientifica

Il giudizio in tema di responsabilità professionale dello psichiatra in merito al suicidio del

paziente si basa sul presupposto clinico e forense che i fattori di rischio e di protezione,

intesi in senso lato, debbano essere valutati tenendo conto delle loro criticità e della loro

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contestualizzazione nel caso specifico e, sottolineiamo ancora, della loro attualità e

concretezza.

A. Attualità significa che la valutazione del rischio deve essere in relazione

all’esame psichiatrico al momento delle decisioni per cui si procede. Se un

paziente ha tentato il suicidio una volta all’età di 16 anni ed al momento dei

fatti per cui si procede ne ha 40, pur senza cancellare dalla sua anamnesi il

passato, l’esame valutativo deve essere condotto, in quanto a significatività

clinica e forense, sulle variabili attuali e cioè da quanto risulta dall’esame

psichiatrico al momento delle decisioni per cui si procede (che può accordare un

valore non sempre eguale al tentato suicidio a 16 anni). Il fatto che un paziente

abbia presentato un tentativo di suicidio a 16 anni non può renderlo oggetto di

etichettamento o marchiarlo per tutto il resto della sua vita come suicidario e,

soprattutto, non deve giustificare misure cautelari mediche o giuridiche continue

nei suoi confronti. E’ necessario tenere conto della variabilità dell’intento

suicidario, della sua ambivalenza, del mutare delle condizioni che lo hanno

determinato sia personali che sociali.

B. Concretezza sta a significare che il rischio non deve essere teorico o

semplicemente possibile, ma debbono essere presenti variabili che depongano

per una reale probabilità e prevedibilità.

Sulla base di queste premesse (attualità e concretezza) l’accattonaggio dei sintomi e dei

fattori di rischio (in analogia a quanto fanno gli accattoni quando raccolgono tutto ciò che

trovano a prescindere dalla utilità) e cioè la raccolta anamnestica indifferenziata, relativa a

tutta la vita del soggetto, di sintomi psichiatrici o di fattori di rischio suicidario sulla cui

base si costruisce, indipendentemente dall’esame psichiatrico al momento dei fatti per cui si

procede, l’affermazione che nell’attualità e concretezza il soggetto presentava al momento

dei fatti un grave rischio suicidario, è errata ed inaccettabile sotto il profilo clinico e

forense.

La causalizzazione del fattore di rischio consiste nell’attribuzione, erronea sotto il profilo

clinico e forense, dei requisiti di causalità ad uno o più fattori di rischio. In altre parole si

confonde il concetto di fattore di rischio di suicidio con il concetto di causa di suicidio. I

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requisiti di causalità (come è stato sottolineato nella causalizzazione dell’errore irrilevante

già descritta) debbono essere valutati alla luce dei termini di adeguatezza della causa, di

rischio consentito, di evoluzione naturale, etc. oltre l’applicazione dei criteri di base ad

esempio di prevedibilità e di probabilità. I fattori di rischio debbono sempre essere valutati

in rapporto ai limiti clinici e forensi di ognuno, delle loro interazioni ed in rapporto ai

fattori protettivi sempre contestualizzati in uno specifico caso clinico. Per meglio

comprendere le conseguenze cliniche e forensi dell’errore della causalizzazione dei fattori

di rischio è utile considerare alcune importanti evidenze cliniche condivise. Ad esempio

sarebbe difficile non considerare falsi positivi (soggetti teoricamente ad alto rischio

suicidiario che, però, in realtà non si suicidano) quasi tutti i pazienti se si considerassero in

modo acritico i fattori di rischio. Le linee guida dell’APA (American Psychiatry

Association), società scientifica di psichiatri tra le più accreditate, elenca circa 60 fattori di

rischio di suicidio: si comprende come è difficile non riscontrarne parecchi per ogni

paziente psichiatrico (18). Per fornire un altro esempio, una linea guida per la prevenzione

del suicidio nei giovani (16) mette in luce circa 83 fattori di rischio suicidario distribuiti tra

le variabili socio-demografiche, ambiente familiare, caratteristiche di personalità, stile

cognitivo, variabili biologiche e genetiche, disturbi mentali, variabili ambientali stressanti,

pensieri e comportamenti suicidari, disponibilità di mezzi letali. Anche in questo caso non è

difficile trovare in qualsiasi giovane nella popolazione generale non pochi fattori di rischio

suicidario. Per meglio comprendere la facilità con cui si può incorrere in questo errore si

possono considerare i falsi positivi che potrebbero essere diagnosticati nella popolazione

generale. E’ da sottolineare che il suicidio è una possibilità sempre presente come risposta

ai problemi del vivere e che il 10/15 per cento della popolazione ha pensato seriamente al

suicidio in un momento qualsiasi della propria vita (18). Questo dato è confermato dalla

realtà clinica che tentativi suicidari e pensieri suicidari sono presenti nella popolazione

generale nel 0,7% e 5,6% mentre in realtà si verificano solo 10,7 suicidi su100.000 persone

(7). Inoltre su 100 soggetti che entrano nella zona definita a rischio suicidario solamente

uno o due giungono a compiere l’atto letale (18)

Per comprendere il termine di suicidarizzazione è utile considerare il fenomeno analogo di

psichiatrizzazione, molto diffuso, ma errato e non accettabile sotto il profilo clinico e

forense. Per psichiatrizzazione si intende la attribuzione di valenza psicopatologica a

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comportamenti, sentimenti, pensieri che non sono di specifica competenza psichiatrica, ma

appartengono alla fisiologica variabilità che caratterizza la definizione culturale di

normalità. Suicidarizzazione è, in analogia con quanto precede, una metodologia di

attribuzione, errata sotto il profilo clinico e forense, di significatività determinante di fattore

di rischio o di protezione dal suicidio attribuita a comportamenti, sentimenti, pensieri che

non appartengono alle evidenze cliniche condivise in merito ai fattori di primaria

importanza che facilitano o inibiscono il passaggio all’atto suicidario, ma fanno parte della

fisiologica variabilità della norma culturale. Psichiatrizzazione è, per esempio,

diagnosticare una persona come schizofrenica solo perché appare un po’ strana o bizzarra o

coltiva interessi e passatempi non comuni ed eccentrici. Un esempio di suicidarizzazione è

ritenere ad alto rischio suicidario un paziente solo perché in reparto appare talvolta triste o

pensieroso o di animo cupo. Essere triste, pensieroso, di animo cupo sono condizioni

umane frequenti nella fisiologia della norma ed aspecifiche da non poter assumere valore

significativo, considerate senza approfondimento, a livello clinico e forense di validi fattori

di rischio suicidario. Se si usasse la psichiatrizzazione e la suicidarizzazione, così come

definite, il mondo sarebbe stracolmo di gravi malati di mente da curare e di persone a grave

e permanente rischio suicidario

Per semplificazione erronea della complessità scientifica si intende la sostituzione della

conoscenza scientifica, ricca di approfondimenti, specificazioni, criticità, etc. con concetti

semplicistici di apparente buon senso, ma in realtà errati sotto il profilo clinico e forense.

Ad esempio nel linguaggio comune il termine di tentativo di suicidio può assumere (e non

raramente lo assume nella clinica, nelle perizie e consulenze psichiatriche) così tante

interpretazioni e comprendere così tanti comportamenti (una sorta di Torre di Babele di

significati) che corre il rischio di non significare più nulla per una metodologia corretta sul

piano clinico e forense. In questo contesto (ove appare necessaria una chiarificazione) è da

considerare la presenza clinica e forense del concetto di autolesività non suicidaria (non-

suicidal self–injury): comportamento che consiste nell’infliggere un danno al proprio corpo

(produrre sanguinamenti con mezzi taglienti o impropri, percuotersi, scarificarsi, bruciarsi,

etc.) con l’aspettativa che il danno sia limitato e con l’assenza di intento suicidario. La

diagnosi di assenza di intento suicidario può essere formulata attraverso le verbalizzazioni

dell’autore del gesto (sebbene sia da considerare l’alta frequenza di false dichiarazioni di

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intenti suicidari) e desuntra dalla meccanica esecutiva dell’atto (che solitamente mette in

luce la capacità dell’autore del gesto di padroneggiare la situazione per non infliggersi la

morte).

Allo scopo di illustrare la complessità scientifica che caratterizza i comportamenti

autolesivi non suicidari possono essere prese in considerazione le possibli interpretazioni

della funzione che il gesto autolesivo può acquisire nel soggetto che lo pone in atto.

1) Regolazione emotiva (per alleviare il disagio di emozioni negative)

2) Controllo sul cognitivo (per alleviare il disagio su stati cognitivi ansiogeni od

ingestibili)

3) Difesa contro la dissociazione e la depersonalizzazione (per interrompere una

esperienza dolorosa di dissociazione o di depersonalizzazione)

4) Ricerca dei confini personali (per definire la propria identità e differenziarsi dalle

identità di altri)

5) Ricerca di aiuto (per richiedere comprensione, empatia, consigli e terapia per

superare difficoltà psico-sociali percepite o reali)

6) Manipolazione (per tentare di condizionare gli altri ad accettare le proprie richieste

indipendentemente dalla loro adeguatezza e liceità)

7) Punizione verso se stesso (per esprimere la rabbia verso se stesso)

8) Aggressività verso altri (attraverso il meccanismo psicologico di difesa dello

spostamento dalla etero-aggressività alla auto-aggressività)

9) Antisuicidario (per ridurre od interompere con un passaggio all’atto idee, intenti,

impulsi suicidari)

10) Ricerca di sensazioni (nell’ambito delle motivazioni che stimolano i soggetti

sensation-seekeers)

11) Ricerca di vitalità (per sentirsi vivo, vitale, reale ed avere la padronanza dei propri

gesti e la coscienza del proprio corpo)

12) Appagamento sessuale (per controllare appagare, sviare, vivere in fantasia o

simbolica sostitutiva impulsi sessuali pressanti o non accettati)

13) Reattività a pregressi abusi sessuali (per vivere e digerire emotivamente abusi

sessuali rivissuti simbolicamente spesso con identificazione anche all’aggressore)

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14) Ricerca di uno stato di benessere (per usufruire durante o subito dopo l’atto di uno

stato di benessere, tranquillità: questa ricerca può provocare dipendenza ed essere alla

base di autolesionismi ripetuti o cronici)

Sotto il profilo di buona pratica clinica non è accettabile una acritica e semplicistica

equiparazione tra tentativo di suicidio con intenzioni suicidarie ed autolesività non

suicidaria (erroneamente interpretata come un tentativo suicidario con intenzione

suicidaria). La beneficialità del soggetto implica che debba sempre essere oggetto di

attenzione qualsiasi agito autolesionista e che, quando possibile, sia formulata una diagnosi

più approfondita in tema di presenza o assenza di intenzione suicidaria. Sotto il profilo

forense il tentativo suicidario con intenzione suicidaria (Suicidal Behavior Disorder:

Disturbo da Comportamento Suicidario) e l’autolesività non suicidaria (Non-suicidal self-

injury) non presentano la stessa qualità o quantità di rischio suicidario.

6 Valutazione delle indicazioni e controindicazioni in tema di

ricovero e di dimissione

La valutazione in merito al ricovero o dimissione in ambito protetto o istituzionale di un

soggetto con disturbo psichico che presenta rischio suicidario è stata affrontata da numerose

linee guida (17,18). Anche questa, come ogni decisione medica, deve essere rapportata alle

specifiche variabili che caratterizzano lo specifico rischio suicidario del singolo caso

clinico, al momento delle decisioni, in rapporto al rischio-beneficio (indicazioni e

controindicazioni) con attenzione alla attualità e concretezza. In considerazione di questa

complessità non vi sono, nelle linee guida più accreditate, indicazioni assolute, ma solo

indicazioni generiche (generally indicated) o indicazioni di possibilità non vincolanti (may

be necessary) (17,18)

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Tra le indicazioni generiche al ricovero di questa ampia e varia tipologia di paziente,

ricordiamo (18):

1. Sintomi psichiatrici: estrema agitazione psicomotoria, psicosi floride

2. Malattie mediche: tossiche, metaboliche, infettive che agiscono sulla capacità di

giudizio

3. Modalità esecutive: tentativo di suicidio premeditato, con mezzi violenti, messo

in atto con l’accortezza di non poter ricevere aiuto e non essere scoperto od

interrotto nella sua esecuzione, accompagnato da una volontà verbalizzata di una

progettualità intrusiva e persistente nel tempo di volersi uccidere

4. Situazione psicosociale: paziente maschio, oltre 45 anni, senza supporto

familiare o sociale, senza residenza abitativa

Tra le controindicazioni generiche al ricovero ricordiamo:

1. Provoca perdita del lavoro e/o perdite finanziarie

2. E’ causa di stress psicosociali alla ufficialità del ricovero ed alla conoscenza

pubblica del tentativo suicidario

3. Implica uno stigma legato alla malattia mentale con etichettamento, isolamento

ed emarginazione sociale

4. Il soggetto è capace di aver cura di sé (ability to provide adequate self-care)

5. Il soggetto comprende le sue situazioni di crisi e sa che cosa fare per affrontarle

(understand what to do in a crisis)

6. Il soggetto ha una buona relazione col terapeuta

7. Il soggetto ha buone relazioni con persone significative di supporto

Tra le indicazioni generiche alla dimissione di un paziente che ha tentato il suicidio o che

presenta un rischio suicidario possono essere segnalate:

1. Mutamento della situazione che sosteneva il rischio suicidario e conseguente

riduzione delle stesso

2. Il soggetto che collabora col terapeuta, presenta progettualità nel futuro, è

aderente alle terapie

3. Il precedente tentativo suicidario è a bassa letalità

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4. Vi è stabilità e fruibilità di assistenza nel suo sistema di vita

5. L’esame psichiatrico è negativo per quanto concerne ideazione, progetti e

comportamenti suicidari

Da segnalare che il trattamento senza ricovero è consigliato nel caso di pazienti con cronica

ideazione suicidaria od autolesionismo cronico senza precedenti tentativi suicidari gravi in

quanto a grado di letalità.

6.a.Valutazione psichiatrico forensi dei fattori alla base del ricovero e delle dimissioni

Per la valutazione clinica e psichiatrico forense dei fattori alla base delle indicazioni e

controindicazioni al ricovero o alle dimissioni di un paziente con un recente tentativo

suicidario o a rischio suicidario (sempre inteso in senso attuale e concreto) valgono le stesse

criticità esposte per i fattori di rischio e di protezione dal suicidio.

6.b. Necessità di continuità delle cure, della circolazione delle informazioni e dei trasferimenti motivati e cautelati tra i curanti

Anche al paziente a rischio suicidario deve essere assicurata la continuità di cure e non

debbono comparire nel continuum della sua assistenza vuoti non giustificati di attenzioni

mediche o passaggi tra curanti non motivati sul piano della garanzia di cura e protezione

per l’interessato. Ad esempio le visite dopo un tentativo di suicidio debbono essere

pianificate in tempi brevi, con precise indicazioni di persone e luoghi ed arricchite di chiare

indicazioni operative per interventi di urgenza.

Sempre a garanzia della beneficialità del paziente deve essere presente una circolazione di

informazioni tra i curanti che ne favorisca la terapia, la cui assenza potrebbe causare danni

al trattamento. Ad esempio, non mettere al corrente tutti i terapeuti o gli affidatari che un

paziente presenta rischio suicidario (quando realmente lo presenta in modo attuale e

concreto) può provocare cali di attenzione cautelative che possono evolvere in danni alla

gestione del rischio di suicidio.

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Infine sempre per la beneficialità del paziente deve essere rispettato il principio del

trasferimento motivato e cautelato. I possibili trasferimenti del paziente non solo debbono

rispettare la continuità delle cure e la circolazione delle informazioni, ma debbono essere

anche giustificati sotto il profilo del rischio-beneficio e gestiti con cautele proporzionali alla

eventuale presenza e gravità del rischio suicidario al momento delle decisioni in quello

specifico paziente e in quello specifico contesto. Ad esempio un paziente a rischio

suicidario ricoverato in psichiatria può essere trasferito in altro reparto tenendo presenti le

seguenti avvertenze.

1. Il trasferimento deve essere giustificato sotto il profilo medico

2. Deve essere presente, per iscritto, la giustificazione formulata dai medici del

reparto di accoglienza al trasferimento, la loro accettazione del paziente e la loro

conoscenza che il paziente presenta un rischio suicidario

3. Il passaggio di consegne e il trasferimento del paziente devono avvenire in modo

chiaro ed obiettivo per cui sia sempre comprensibile e separabile la

responsabilità di chi consegna e di chi accoglie il paziente

4. Debbono risultare applicati i provvedimenti cautelari in relazione al tipo di

rischio suicidario di quello specifico paziente in quello specifico contesto

Con il rispetto delle regole che precedono è assicurata la beneficialità del paziente e si

possono evitare imputazioni legate a mancata osservanza della continuità di cura, della

corretta circolazione di informazioni o la presenza di trasferimenti non prudenti, non

diligenti, non sufficientemente motivati, non condivisi da altri sanitari.

7 Impossibilità materiale dello psichiatra di impedire che una

persona decisa ad uccidersi compia il suicidio

Lo psichiatra, anche utilizzando al meglio le sue capacità professionali e le strutture di

ambiente fisico e di personale di cui dispone, non è in grado di impedire, soprattutto a

medio e lungo termine, che un paziente deciso ad uccidersi compia il suicidio. La

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sorveglianza a vista ventiquattro ore su ventiquattro non azzera le possibilità che il paziente

si uccida (ad esempio il paziente si può tagliare le vene ai polsi e fingere di dormire nel

letto coprendosi con le coperte; il paziente può mordersi e tranciare coi denti la lingua e poi

soffocarsi col moncone; non è possibile controllare ogni paziente scrutando ogni pochi

minuti sotto le coperte o facendogli continuamente aprire la bocca). La contenzione fisica

non può essere prolungata in modo indefinito, oltre il fatto che deve essere fortemente

giustificata nella sua applicazione. L’eliminazione di tutti i mezzi letali con i quali il

paziente potrebbe uccidersi è una pura utopia, una fantasia irrealizzabile (il paziente, se

vuole, può auto soffocarsi, fracassarsi il cranio contro oggetti, precipitarsi, anche

nell’ambiente fisico più rispettoso delle norme di prevenzione del suicidio). Queste

constatazioni non riducono l’importanza dei comportamenti cautelari di prevenzione di

prudenza e diligenza in relazione alla tipologia e gravità di rischio, che lo psichiatra è

tenuto ad applicare e documentare in cartella clinica nei riguardi di un paziente con rischio

suicidario attuale e concreto.

Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico-forense,

quanto segue.

7.a. Rispetto delle misure preventive ambientali, di vigilanza, di affidamento.

È utile che lo psichiatra adotti i mezzi preventivi possibili e fattibili per ridurre il rischio

suicidario. Si tratta di misure preventive sull’ambiente (assenza di prese elettriche

pericolose, assenza di appigli solidi e resistenti ad appendere un corpo umano per

impiccamento, etc.) e di misure preventive sulla persona (permettere al paziente di disporre

di rasoi o di lame taglienti, di cinture solide e resistenti alla trazione, etc.) sancite da leggi,

circolari, protocolli.

E’ anche opportuno che lo psichiatra ponga attenzione alla vigilanza per evitare la culpa in

vigilando (non aver controllato l’adeguatezza delle condotte di vigilanza messe in atto dal

personale subordinato) e la culpa in eligendo (aver affidato il paziente a persone non

qualificate per il compito).

È opportuno conoscere la differenza tra prevenzione generale del suicidio e prevenzione del

singolo caso clinico a rischio di suicidio. Ad esempio è generalmente accettato che la

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riduzione della quantità e della qualità delle armi e dei mezzi letali come veleni, gas tossici

inodori, etc. possano costituire una valida azione di riduzione a livello statistico della

quantità di suicidi su una grande popolazione. Non sempre queste misure legate al rischio

possibile (teorico e statistico) su grandi masse hanno un valore forense reale e di fattibilità

sul rischio probabile attuale e concreto di suicidio nel singolo caso clinico.

7.b. Inadeguatezza dei pregiudizi sul controllo assoluto del rischio suicidario del paziente

Ritenere che il suicidio del paziente possa sempre essere evitato col ricovero, la

contenzione, l’osservazione continuata 24/24 ore, dosi massive di farmaci, etc. non è

verosimile, sotto il profilo clinico e forense, perché non riflette la realtà clinica e forense. Si

tratta di pregiudizi (spesso presenti in soggetti con forti tonalità emotive, scarso accesso alla

sfera cognitiva, acritici e, soprattutto, ancorati ad un meccanismo psicologico di negazione

del suicidio come evento imprevedibile ed inevitabile). Pregiudizi che sono espressione di

conflitti personali che, attraverso vari meccanismi psicologici di difesa dalla morte, ruotano

attorno alla negazione della possibilità di suicidio per altri e soprattutto per se stessi.

8 La responsabilità professionale dello psichiatra è da valutare al

momento dei fatti

Il giudizio di buona pratica clinica, quando lo psichiatra assume decisioni su un paziente a

rischio suicidario, deve essere strettamente legato al momento dei fatti (3-5). L’operato

dello psichiatra è da valutare in base alle numerose variabili cliniche presenti al momento

delle decisioni. Ad esempio alle informazioni sul paziente di cui concretamente si

disponeva, alla complessità dell’esame clinico, al giudizio sulla diversa fattibilità di ipotesi

differenti di trattamento, alle priorità d’urgenza ritenute indispensabili ed applicabili al

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momento, al potere e sapere decisionale di chi lo valuta, alla ritenuta più probabile

beneficialità del paziente in quella specifica circostanza di luogo, tempo, strutture e

persone, tenendo nella dovuta considerazione il suo inalienabile diritto alla

autodeterminazione informata.

Anche se questi giudizi forensi in tema di responsabilità dello psichiatra avvengono a

posteriori (ex post), devono essere valutati esclusivamente al momento clinico in cui i fatti

sono accaduti (ex ante). Non può cioè nel giudizio sulla responsabilità professionale

rapportarsi ad ora quello che è successo allora (errore clinico e forense dell’ora per

allora).

Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico-forense,

quanto segue.

8.a. Non validità clinica e forense del giudizio col senno del dopo, col si poteva fare di più e col si poteva fare diversamente

Dopo che un paziente si è ucciso è facile per tutti, soprattutto per i profani in materia

medica e psichiatrica, trovare non solo le cause del suicidio, ma soprattutto gli errori

commessi dallo psichiatra. Il ragionamento col senno del dopo non è corretto sotto il profilo

clinico e forense perché in concreto:

1. Si avvale di informazioni di cui lo psichiatra non disponeva al momento dei fatti e che

conferiscono differente significatività a variabili cliniche e comportamentali.

2. Possono essere presenti numerosi errori di pensiero tra i quali ricordiamo: dissonanza

cognitiva (non si considerano gli elementi che confliggono con l’ipotesi prediletta);

scotoma preferenziale (cecità mirata e circoscritta a fatti obiettivi ma ansiogeni);

pensiero primitivo della causalità psicologica proiettata (non accettare la

imprevedibilità ed inevitabilità degli eventi, ma ritenere tutta la realtà determinata da

volontà e scelte di qualcuno o di qualcosa); pensiero primitivo della elaborazione

paranoide del lutto (ritenere che eventi naturali spiacevoli e dolorosi come la malattia e

la morte siano causati dalla volontà aggressiva e malevola di qualcuno che sarà

considerato un nemico e dovrà essere punito con implacabile vendetta ritorsiva); etc.

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3. Possono essere presenti, anche con modalità fortemente intrusive e patologiche,

meccanismi psicologici di difesa (formazione reattiva, negazione, concretizzazione,

razionalizzazione, minimizzazione, etc.) sollevati da sentimenti di colpa, impotenza,

aggressività, dolore, disperazione, etc. Sentimenti di colpa (reali o presunti) verso chi si

è ucciso, vissuti sul piano privato di chi lo conosceva personalmente (sentimento di

colpa individuale) o vissuti dalla popolazione generale nei confronti di chiunque si

uccida (sentimento di colpa collettivo) possono essere canalizzati, come difesa

psicologica (anche servendosi della pretestazione dei fatti) nella creazione di un capro

espiatorio: modalità primitiva utile ad individuare un colpevole fuori di se stessi e

liberarsi di pesanti fardelli di ansie. Sentimenti di impotenza verso il suicidio, percepito

come evento imprevedibile ed inevitabile che distrugge un’esistenza e potrebbe capitare

a chiunque, possono stimolare, e non solo nei familiari del suicida, sentimenti

compensatori reattivi di controllo e di onnipotenza attraverso i quali si persegue la

speranza rassicurante che il suicidio può sempre essere evitato se non si commettono

errori. Motivo in più, per alimentare questo desiderio, per trovare l’errore che ha causato

il suicidio e punire chi lo compie. Gli esempi clinici, sulla base di una interpretazione

psichodinamica, potrebbero continuare per ognuno dei vari sentimenti che suscita il

suicidio in ogni persona.

Emerge da quanto precede che il ragionamento col senno del dopo, intriso di errori di

pensiero grossolani e primitivi non accettabili sotto il profilo clinico e forense, offre,

tuttavia, un indubbio guadagno psicologico immediato nei confronti di tutti gli spiacevoli

sentimenti che il suicidio suscita in ciascuno (e quindi anche i protagonisti che accusano,

difendono e giudicano lo psichiatra in merito al suicidio del paziente). Nello stato d’animo

di pregiudizio legato al ragionamento del senno del dopo, che non ha, ripetiamo, alcuna

validità clinica e forense: il paziente si è ucciso, quindi è stato fatto un errore si crea il

presupposto che quasi tutto può divenire un errore fatale che ha provocato il suicidio. In

questa affermazione si ignora il fatto che la cura può essere corretta, ma il paziente può

uccidersi egualmente e che il suicidio è un evento multifattoriale nel quale il disturbo

psichico può essere o non essere presente e che in qualsiasi caso è sempre da dimostrare un

nesso causale tra disturbo psichico, quando presente, e suicidio. Con il pregiudizio del

senno del dopo una insignificante variazione della dose dei farmaci, un appuntamento

pretestuosamente ritenuto dilazionato, un’ennesima piccola cautela preventiva irrilevante

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non assunta, etc. possono diventare l’errore fatale, la causa del suicidio, la motivazione

indiscutibile per giustificare, attraverso il meccanismo psicologico della razionalizzazione

(a prescindere dai casi clinici con legittime concause) la responsabilità professionale dello

psichiatra. Per questo il ragionamento col senno del dopo non può essere accettato in

ambito clinico e forense.

Quanto precede non esclude l’uso corretto del senno del dopo in un contesto non clinico e

forense come è stato specificato. Una disamina corretta, pur fatta a posteriori, di tutte le

sequenze storiche che hanno condotto al suicidio può offrire notevoli vantaggi ed utilità

agli operatori interessati in particolari tipologie di debriefing (per ventilare i sentimenti

degli operatori sanitari immediatamente dopo il suicidio) negli audit (per ipotizzare

dinamiche non colpevolizzanti e funzionali alla prevenzione) nella autopsia psicologica

(per comprendere, soprattutto attraverso l’approccio della psichiatria narrativa e

fenomenologica e con maggior numero di dati, più in profondità e con maggiore estensione

possibile, le variabili psicosociali e circostanziali della suicidarietà nel singolo caso) nella

individuazione delle varie componenti della sequenza suicidaria come evento sentinella

nell’ambito del risk management (per implementare la sicurezza nell’ambito delle

prestazioni sanitarie) etc.

Anche il ragionamento che si basa sul principio del si poteva fare di più è errato sotto il

profilo clinico e forense perché non rispettoso del principio, sia clinico che forense, che si

fa quello che si deve fare e non tutto quello che si può fare: non si fanno cose inutili in quel

caso specifico ed in quello specifico contesto (se un paziente si reca dal medico lamentando

un dolore all’alluce del piede destro perché gli è caduta sopra una pietra di piccole

dimensioni, il medico, in assenza di altri sintomi, non deve richiedere esami non giustificati

quali T.A.C., ecodoppler arterioso e venoso di tutto l’arto inferiore). Il ragionamento del si

poteva fare di più, spesso associato e conseguente al ragionamento col senno del dopo, può

permettere, in buona fede o meno, di accusare tutti di tutto. Dopo che il paziente si è ucciso

tutti sono in grado di suggerire tutte le cose che si sarebbero potute fare in più (oltre quello

che si doveva fare) anche se, spesso, nessuno può provare che, in concreto, avrebbero

evitato il suicidio del paziente. Il ragionamento del si poteva fare di più, applicato in modo

erroneo e pretestuoso in ambito forense è alla base motivazionale della medicina difensiva,

apparentemente protettiva del medico, inutile per la beneficialità del paziente in oggetto,

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non rispettosa della appropriatezza della cura (intesa come il tentativo di conciliare l’ideale

etico di fornire la miglior assistenza possibile tenendo conto delle risorse economiche

disponibili) altamente lesiva della assistenza medica di altri pazienti realmente bisognosi

che, a causa della realtà di risorse limitate, sono privati di cure necessarie ed utili al loro

diritto costituzionale alla salute.

Anche il ragionamento che si basa sul principio del si poteva fare diversamente (ad

esempio la somministrazione di farmaci diversi, l’uso di misure cautelari diverse da quelle

adottate, l’utilizzo di un approccio psicoterapico differente da quello utilizzato, etc.) è

errato sotto il profilo forense in quanto, analogamente al ragionamento si poteva fare di più,

non è rispettoso del principio forense: si fa quello che si deve fare e non tutto quello che si

potrebbe fare di alternativo… soprattutto se suggerito dal senno del dopo e senza alcuna

dimostrazione obiettiva che il diverso avrebbe risolto la situazione salvando il soggetto dal

suicidio. Questo concetto è stato ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione (IV sez. pen.

n. 14766/16): Nel caso di suicidio di un paziente affetto da turbe mentali, qualora si arrivi

a dimostrare che il terapeuta abbia applicato, nell’economia complessiva della specifica

valutazione clinica, la terapia più aderente alle condizioni del malato ed alle regole

dell’arte psichiatrica…, può dirsi che il medico non avrebbe dovuto comportarsi

diversamente da come ha fatto, disponendo una differente iniziativa (pur fattualmente

dotata di efficacia impeditiva dell’evento), e in conclusione che non ha errato nel non

averla disposta e non ha omesso una doverosa condotta. La stessa sentenza precisa a

completamento di quanto precede: … essendo poi indimostrato che un diverso approccio

terapeutico avrebbe avuto un risultato salvifico.

E’ da rilevare che il ragionamento col senno del dopo, si poteva far di più, si poteva far

diversamente, ripetiamo non accettabili sul piano forense, non lasciano, tuttavia, immune la

sensibilità empatica dello stesso terapeuta dopo che il suo paziente ha commesso il suicidio.

I sentimenti dolorosi che il terapeuta prova dopo il suicidio del paziente sono molteplici

(incredulità, rabbia, sollievo, dolore, colpa, vergogna, timori, paura di essere incolpato,

sentimenti di tradimento, etc.). Turbato dallo scheletro psicologico di chi si è ucciso che

può essere ospitato nel suo armadio emotivo (57), il terapeuta può, attraverso meccanismi

psicologici di difesa dall’ansia, egli stesso tribolarsi con ragionamenti legati al senno del

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dopo, al si poteva fare di più, al si poteva fare diversamente, sino a giungere a false

confessioni (privatamente nel suo conflittuale ed ossessivo riesame degli eventi od in

pubblico, spesso all’insegna di una espiazione colpevolizzata) di errori professionali che

non ha commesso (58). Quanto precede per mettere in luce la necessità di una attenzione

critica alla intrusivisità di questo tipo di ragionamenti che non risparmiano protagonisti e

spettatori di un evento suicidario.

8.b. Necessità di valutare il nesso causale

E’ utile sottolineare un altro concetto, soprattutto forense oltre che clinico, e cioè il nesso di

causalità: vi è un legame di causa ed effetto tra quanto fatto o non fatto dallo psichiatra e il

suicidio del paziente? In altri termini lo psichiatra può aver messo in atto un gesto di non

buona pratica clinica, ma questa sua mancanza può essere del tutto irrilevante ai fini

dell’aumentato rischio suicidario del paziente in tema di colpa professionale. Il nesso di

causalità può essere esaminato attraverso vari e complessi criteri forensi. Può anche essere,

in tempi brevi ed in merito a comportamenti omissivi, oggetto di approfondimento

attraverso il ragionamento contro fattuale, a mezzo del quesito: se lo psichiatra avesse

correttamente fatto quello che non ha fatto, il suicidio del paziente si sarebbe ugualmente

verificato? Se la risposta è affermativa il nesso causale non è presente.

Particolare attenzione nella valutazione del nesso causale, anche per evitare l’errore di una

causalizzazione di un errore irrilevante, è la presa in considerazione, unitamente ad altri

fattori quali la adeguatezza della causa, la gravità della evoluzione naturale, etc. anche il

rischio consentito. Questo concetto è stato ulteriormente ribadito e chiarito, in data recente,

(11/5/2016) in relazione ad un suicidio in soggetto con disturbo psichico, dalla Suprema

Corte di Cassazione (IV sez. pen. n.14766/16):…rischio consentito, di quel rischio cioè

inerente ad una data attività che non sempre può essere eliminato del tutto per effetto di

condotte appropriate. Tale rischio si colloca all’interno di strategie di intervento

normalmente richieste e previste dagli standard di comportamento giuridicamente regolati

o socialmente accettati in quanto ritenuti sufficientemente prudenti…

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9 Necessità di contestualizzare l’attività diagnostica e terapeutica

dello psichiatra nella sua specifica realtà clinica

È indubbio che uno psichiatra debba basare la propria buona pratica clinica su solide basi

scientifiche e cliniche e cioè su evidenze cliniche condivise. In questo senso diagnosi e

terapia suggerite da manuali e trattati di psichiatria di rinomata fama, nazionali e

internazionali; attenzioni ai suggerimenti di cosa fare e soprattutto di cosa non fare

contenuti in linee guida supportate da società riconosciute e stimate a livello nazionale e

internazionale; inveterate acquisizioni di capacità cliniche di eccellenti scuole di

trattamento psichiatrico; incontestabili, riconosciute e documentate abilità di un’esperienza

clinica personale validata da risultati positivi su trattamenti specifici; etc. costituiscono, in

linea generale, dati fattuali giustificativi di buona pratica clinica. La buona pratica clinica

deve anche essere contestualizzata in quello specifico psichiatra, con quella sua specifica

formazione ed esperienza clinica, con quel particolare paziente, in quell’irrepetibile insieme

di circostanze psicosociali.

Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico-forense,

quanto segue.

9.a. Necessità di contestualizzare il caso clinico in discussione

La necessità di contestualizzare il caso clinico porta ad una visione critica delle linee guida.

Queste ultime infatti comportano le criticità che seguono.

1. Sono spesso inspirate da ideologie psichiatriche o costruite con metodologia statistica di

ricerca clinica non sempre condivise, spesso settoriali e mutevoli nel tempo

2. Sono costruite tecnicamente con scale di valori che privilegiano i risultati scientifici

della Evidence-Based Medicine, che possono essere discordanti dalla realtà clinica

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quotidiana, a discapito della valorizzazione dei consensi tra clinici esperti (every-day

clinical world)

3. Riguardano spesso pazienti ideali, altamente selezionati, da curare con pratiche ideali, in

situazioni di assistenza ideali, non facendo riferimento al paziente vero, reale e molto

più complesso che è presente nella pratica quotidiana

4. Possono essere influenzate da motivazioni di ordine economico, di semplificazione

gestionale, di approccio difensivo di matrice assicurativa, etc. in cui non si privilegia la

beneficialità del paziente

5. Sono spesso differenti tra loro nei livelli di valorizzazione delle evidenze scientifiche e

delle raccomandazioni cliniche suggerite

6. Le variabili cliniche che propongono presentano gradi di affidabilità molto diversi

7. Mutano rapidamente nel tempo

8. Possono essere utilizzate a fini difensivi ed autotutelativi in uno specifico paziente, in

una specifica situazione, senza privilegiare o, addirittura, contro la beneficialità dello

stesso paziente

9. Non tengono conto della contestualizzazione nel singolo paziente, elemento clinico e

forense indispensabile per stabilire la buona pratica clinica: standars of medical care are

determined on the basis of all clinical data available for an individual patient (18).

10. Non tengono conto del diritto di autodeterminazione informata del paziente. Il rispetto

della volontà del paziente è recentemente ancora sottolineato dalla Suprema Corte di

Cassazione (IV sez. pen. n.14766/16) che afferma: Un altro profilo che incide sui

confini della posizione di garanzia e dispiega i suoi effetti anche sul versante della

configurabilità della colpa è il ruolo della volontà del paziente nella relazione

terapeutica: la persona con disturbo psichico è titolare del diritto alla propria cura…

Rilievi critici possono essere formulati anche nei confronti di trattati, lavori scientifici,

consuetudini di pratiche cliniche inveterate che possono non favorire elettivamente la

beneficialità del paziente né, tantomeno, rispettare la sua autodeterminazione e specifica

contestualizzazione.

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9.b. Necessità di documentare una buona pratica clinica condivisa

Le critiche che precedono non esimono lo psichiatra dal dover basare la propria pratica

clinica (ed essere in grado di documentarla) su evidenze cliniche condivise. Punto di répere

clinico e forense è la beneficialità del paziente. Quest’ultima può anche essere valutata nel

rapporto rischio-beneficio gestito all’insegna della prudenza, perizia e diligenza.

10 Utilità di precisare ruoli e responsabilità professionale dei

singoli psichiatri che hanno curato il paziente suicida

Allo stato attuale molti pazienti a rischio suicidario sono oggetto di cura da parte di diverse

figure di operatori del campo della salute mentale: psichiatri, psicologi, sociologi, assistenti

sociali, criminologi, etc. (59,60). Lo scopo funzionale clinico di questa équipe di

trattamento è migliorare la beneficialità del paziente sotto il profilo terapeutico. Sotto il

profilo etico tutti i componenti del gruppo, ciascuno secondo la propria professionalità,

sono responsabilizzati nell’assistere il paziente e in particolare nel prevenire l’evento

suicidario.

Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico-forense,

quanto segue.

10.a. Utilità di precisare i singoli ruoli dei vari componenti dell’équipe nei confronti del paziente.

È assolutamente consigliabile, se non imperativo, che sia sempre precisato, nell’ambito

dell’équipe, lo specifico ruolo di ciascuno nell’assistenza al paziente con rischio suicidario

e che questo provvedimento sia supportato dalle seguenti avvertenze:

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• Reso pubblico

• Ufficializzato per scritto

• Noto a tutti gli interessati

• Rispettoso delle qualifiche ufficiali professionali di ogni curante

• I ruoli assegnati debbono essere posti in pratica

Debbono essere organizzate riunioni dell’equipe sul tema specifico della divisione dei ruoli

in modo che nessun interessato, in un’aula giudiziaria, possa affermare: non lo sapevo, i

ruoli non erano chiari, si è trattato di una suddivisione teorica mai utilizzata nella pratica,

etc. In questo senso viene differenziata, anche ai fini legali, la responsabilità di ognuno nei

confronti del paziente con rischio suicidario.

La mancanza di queste precisazioni (che trovano la loro giustificazione legale e forense nel

principio dell’affidamento e della autonomia vincolata) nella forma che è stata descritta

può comportare imputazioni diffuse e allargate a tutta l’équipe (la giustizia spara nel

mucchio) e può portare in sede giudiziaria a lunghi e dispendiosi rimpalli di responsabilità

tra i membri dell’équipe nell’ambito di violenti contraddittori.

10.b. Valorizzazione del principio dell’affidamento e dell’autonomia vincolata

La definizione e specificazione dei compiti di ogni componente dell’équipe permette a

ciascuno di usufruire del principio dell’affidamento e cioè di ritenere, in linea generale, che

gli altri membri svolgano con competenza il loro compito e di esplicare la propria

autonomia, cioè la capacità di compiere azioni terapeutiche per le quali si è qualificati. Si

tratta, comunque, di una autonomia vincolata, e cioè legata a direttive generali che

provengono da persone che hanno il diritto di formularle. Da segnalare che il vincolo legato

all’autonomia non può sollevare il singolo operatore da una sua personale responsabilità,

riconducibile alla immanente titolarità di una posizione di garanzia. Ad esempio,

l’infermiere ha il diritto di non ottemperare alle direttive di un primario psichiatra se: a)

esulano dal campo medico; b) sono contrarie alle più semplici ed elementari norme di

buona pratica clinica infermieristica; c) non sono adeguate alle sue qualificazioni tecniche

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di subordinato. Ad esempio nel caso di un paziente con rischio suicidario, l’infermiere ha il

diritto e dovere di rifiutare una direttiva medica se è contraria alle più elementari

precauzioni di prudenza e diligenza. Né può essere dimenticato, anche alla luce degli

orientamenti della giurisprudenza, che quando un partecipe dell’équipe abbia modo di

percepire una inadeguatezza comportamentale o valutativa di altri con cui coopera nella

cura del medesimo paziente che possa risolversi in pregiudizio di questi, ha l’obbligo

giuridico di rilevarla, segnalandola al soggetto (quando possibile tramite scritto) che

presiede l’équipe stessa e comunque facendola constare, ovvero ponendovi direttamente

rimedio (ove in grado di farlo). Quanto precede, inoltre, deve essere valutato, sotto il

profilo forense, alla luce della presenza di obblighi differenziati tra posizione apicale e

posizioni subordinate, del dissenso all’autorità non legittimo, della presenza di specifici

regolamenti, protocolli operativi, etc. validi operativamente e rispettosi dei principi

generali di una buona pratica clinica.

11 Necessità di conoscere le disposizioni di legge che regolano

i doveri di cura e protezione del paziente suicidario: quando iniziano, come debbono essere gestiti, quando terminano

Molti psichiatri nei confronti di pazienti con rischio suicidario adottano condotte ispirate ad

una umana accettazione empatica di attenzione ed ascolto, ad una autentica partecipazione

emotiva alla loro conflittualità e sofferenza, ad un grande rispetto per la loro libertà di

pensiero e di comportamento, ad una grande fiducia generosamente prestata a collaboratori,

colleghi ed istituzioni. Accanto a questo aspetto corretto sul piano umanitario e fortemente

empatico, è necessario affiancare una buona conoscenza delle direttive di legge che

regolano i doveri di cura e protezione (posizione di garanzia: art. 40 c.p. comma II) nei

confronti del paziente suicidario. In particolare lo psichiatra deve conoscere quando

iniziano i suoi doveri (assunzione) come debbano essere gestiti e quando i suoi doveri di

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protezione e cura finiscano (dismissione). La conoscenza dei suoi doveri attuali nei

confronti della legge aiuterà lo psichiatra ad adottare una psichiatria creativa e cioè ricca,

illuminata e beneficiale per il paziente ed al contempo tutelarsi giuridicamente da possibili

incriminazioni di non buona pratica clinica.

Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico-forense,

quanto segue.

11.a. Necessità di conoscere i criteri di assunzione, dismissione e contenuto della

posizione di garanzia

Come esempio di entrata in posizione di garanzia (che sorge con l’instaurarsi della

relazione terapeutica tra paziente e professionista nell’ambito di uno specifico conferimento

di incarico professionale) e cioè di insorgenza del duplice obbligo di cura e protezione del

paziente, possiamo citare il caso di uno psichiatra che, in assenza del collega titolare, si

trovi a rinnovare una ricetta di psicofarmaci ad un paziente. Se quest’ultimo si uccidesse, lo

psichiatra che ha rinnovato la ricetta non potrebbe giustificarsi in un’aula di tribunale

dicendo: era il paziente di un collega, io non lo conoscevo; ho solo rinnovato una cura che

non ho prescritto io. In un’aula di tribunale si obietterebbe: quando si prescrivono farmaci

ad un paziente, là iniziano i doveri di cura e protezione; è colpa professionale avere

prescritto farmaci senza interessarsi delle condizioni del paziente e non aver prescritto

misure cautelari se era il caso.

Quali esempi di gestione della posizione di garanzia possiamo citare:

1. La comunicazione del rischio suicidario. Lo psichiatra deve mettere al corrente, in

modo adeguato e nel rispetto del segreto professionale, chi deve conoscere il rischio

suicidario del paziente.

2. Le priorità mediche sul rischio suicidario. Lo psichiatra deve documentare con

chiarezza le priorità di cura o il trasferimento in altri reparti del paziente suicidario,

anche attraverso una giustificazione condivisa con altri colleghi, legata alle priorità di

cura secondo il principio del rischio-beneficio.

3. La comunicazione della inadeguatezza della struttura a proteggere e curare il paziente

suicidario. Lo psichiatra deve avvertire paziente e familiari qualora la struttura in cui

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operasse, se è il caso, non presentasse adeguatezze alla cura e protezione del paziente e

suggerire strutture più adeguate.

Questa gestione della posizione di garanzia è necessario che venga documentata per iscritto

in cartella clinica.

Infine come esempio di uscita dalla posizione di garanzia può essere citato il caso della

dimissione del paziente con rischio suicidario. Scrivere una lettera di dimissione,

indirizzata a chi riceverà il paziente con rischio suicidario, non è sufficiente a termini di

legge. Infatti la lettera di dimissione potrebbe perdersi, essere letta molto tempo dopo

l’arrivo del paziente, essere consegnata in luogo diverso da quello utile o alla persona

sbagliata. Lo psichiatra, oltre alla lettera di dimissione deve avere cura di mettersi in

contatto diretto con chi riceverà il paziente, avvertirlo e sincerarsi che abbia compreso che

il paziente presenta un rischio suicidario. La legge prevede una continuità di cura per il

paziente con attualità e concretezza di rischio suicidario che garantisce molto più che non

una semplice lettera di dimissione.

11.b. La valutazione in un’aula di tribunale di ideologie psichiatriche

Lo psichiatra deve sapere che ideologie psichiatriche che valorizzino la libertà di scelta e la

responsabilizzazione del paziente rispetto ai suoi comportamenti, nonché la sua legittima

autodeterminazione, seppur corredata da adeguata coscienza e competenza, anche se

rispecchiano scelte culturali all’avanguardia sia pur condivisibili e ritenute da alcuni

lodevoli sotto il profilo della evoluzione migliorativa del rispetto dei diritti del paziente,

difficilmente, allo stato attuale, trovano accettazione completa in un’aula giudiziaria.

Soprattutto se non sono accompagnate da misure di cura e protezione come esige la

posizione di garanzia di cui la giurisprudenza gli fa carico.

Quanto precede non implica una pregiudizievole esclusione di accettazione dei progressi

della disciplina psichiatrica in tema di responsabilizzazione terapeutica del paziente anche

se questo obiettivo deve essere gestito, come sottolinea recentemente la Suprema Corte di

Cassazione (IV sez. pen. n.14766/16) alla luce di: un non facile bilanciamento tra obiettivo

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di proteggere il paziente, anche da se stesso, e necessità di tutelarne al contempo libertà,

dignità ed autonomia.

12

L’interpretazione degli apparenti contrasti nella valutazione del rischio suicidario

È di frequente osservazione, nella cartella clinica di un paziente che ha tentato o attuato il

suicidio, la presenza di attestazioni sanitarie che valutano con modalità assai differenti tra

loro il rischio suicidario. Alcune possono negare il rischio, altre possono attestarne la

presenza grave e conclamata (attuale e concreta) tale da richiedere l’immediato ricovero in

strutture adatte. Le motivazioni alla base di questi contrasti di giudizio clinico possono

essere molteplici. Innanzitutto il contrasto può essere solo apparente in ragione della

possibile facilità di mutamento, anche nel breve lasso di tempo, di alcune variabili del

rischio suicidario: il tipo di disturbo psichico, le circostanze psicosociali, etc. In altri casi i

giudizi differenti devono essere letti alla luce delle differenti interpretazioni tecniche ed

ideologiche dello psichiatra in rapporto allo spazio di libertà e autodeterminazione che si

ritiene di dover offrire al paziente con rischio suicidario: la libertà personale che il paziente

può gestire, la fattibilità o validità di misure specifiche cautelari, la discrezionalità nella

valutazione del rischio consentito, etc. In altri casi ancora vi può essere l’intento di

scaricare eventuali proprie e riconoscibili responsabilità in merito al possibile suicidio del

paziente ad altri colleghi. Quest’ultima eventualità può verificarsi, per esempio,

allorquando, senza adeguati approfondimenti clinici e circostanziati ed in assenza di

impegno personale d’attenzione e di tempo, allo scopo esclusivo di evitare una denuncia da

parte dell’autorità giudiziaria un sanitario certificasse che: il paziente presenta un attuale e

concreto rischio di suicidio e necessita di urgente ricovero. Qualora lo psichiatra che

dovesse ricevere il paziente così etichettato (a prescindere dalla realtà clinica) non

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provvedesse al ricovero ed il paziente si uccidesse, difficilmente potrebbe evitare di essere

trascinato in tribunale.

Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico e forense,

quanto segue.

12a. E’ indice di cattiva pratica clinica e scorrettezza deontologica non esaminare compiutamente il rischio suicidario e certificare una sua attualità, concretezza e

necessità di ricovero ad esclusivo fine autotutelativo

La scorrettezza professionale ai fini autotutelativi (anche se non contiene specificamente la

dizione rischio attuale e concreto, ma parole che la lasciano presumere) dovrebbe essere

oggetto di attenzione da parte degli organi di controllo e di sanzione nell’ambito delle

Società Scientifiche interessate, degli Ordini Professionali competenti e deve essere

illustrata e compresa in un’aula di tribunale.

Quanto precede prescinde dalla possibilità di configurazione di precisi reati secondo norma

di legge.

12.b. Utilità di usare una progressività nel tempo e un’ampia documentazione clinica scritta nel modificare un giudizio di alto rischio suicidario formulato da precedenti

psichiatri

Una diversa valutazione del rischio suicidario soprattutto da grave a lieve, deve sempre

essere abbondantemente, minuziosamente e progressivamente verificata e documentata

nell’ambito della cartella clinica in modo che il paziente risulti chiaramente trattato con

perizia, diligenza e prudenza. Ricordiamo, sotto il profilo forense, la difficoltà di formulare

imputazioni allo psichiatra in tema di perizia, ma la facilità di formulare imputazioni, a

prescindere dalla loro fondatezza, in tema di diligenza e prudenza.

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13 Il giudizio sulla responsabilità professionale dello psichiatra in tema di suicidio non è esclusivamente da formulare su specifici risultati decontestualizzati quale il suicidio del paziente o la non

guarigione del disturbo psichico

È una evidenza clinica condivisa che lo psichiatra non ha le possibilità tecnico-

professionali, nonostante le migliori intenzioni terapeutiche, di evitare, in tutti i casi, che il

paziente si uccida né di garantire che possa sanare in modo rapido, completo e definitivo

tutti i disturbi psichici. È una evidenza clinica condivisa che è utile sia presente nel

pensiero, nelle emozioni e nei comportamenti dello psichiatra per poter valorizzare una sua

possibile posizione terapeutica di tipo riparativo-depressivo nei confronti del paziente a

rischio suicidario: cercare di fare il possibile per evitare il suicidio pur essendo coscienti

che non si può fare l’impossibile (61,62). Questa posizione riparativo-depressiva, che

mette in luce i limiti del potere di guarigione dello psichiatra ed limiti della sua autorità

nel determinare il comportamento del paziente (63) nel suo aspetto più beneficiale per

l’assistito deve essere anche presente nei parenti delle vittime di suicidio e in tutte le

persone che, a vario titolo, giudicano l’operato dello psichiatra in tema di responsabilità

professionale.

Questa evidenza clinica condivisa è stata recepita in modo chiaro dalla legge: lo psichiatra

col paziente suicidario è responsabile nel porre in atto una buona pratica clinica e non

esclusivamente del risultato di evitare tutti i possibili suicidi dei pazienti e di guarire tutti i

possibili disturbi psichici. In altre parole lo psichiatra deve curare il disturbo psichico e

gestire il rischio suicidario con una buona pratica clinica attraverso l’utilizzo di perizia,

prudenza, diligenza, ma non è da ritenersi responsabile se, dopo aver prestato un’opera

adeguata per la cura e protezione, il paziente si uccide o il disturbo psichico non guarisce.

Sulla base di quanto precede è possibile sottolineare, sotto il profilo psichiatrico-forense,

quanto segue.

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13.a. Deriva accusatoria dalla prestazione di una buona pratica clinica alla responsabilità dei risultati

Nelle aule giudiziarie possono nascere, da parte dei vari protagonisti, tentativi, anche in

buona fede, di deriva della responsabilità di una buona pratica clinica alla responsabilità

dei risultati. Questo fatto può avvenire a causa di differenti fattori:

1. Aspettative irreali di guarigione (falso mito che la psichiatria può guarire tutti da tutto)

2. Rivendicazioni pretestuose (richieste non giustificate di risarcimenti economici, etc.)

3. Ragionamenti metodologicamente errati (il senno del dopo, si poteva fare di più, etc.)

4. Assenza di valutazione o valutazione errata del nesso causale (erronea o assente

disamina della relazione tra azioni/omissioni dello psichiatra ed evento suicidario)

13.b. Utilità per lo psichiatra di documentare l’applicazione di buona pratica nella cartella clinica

Allo scopo di evitare il più possibile questa deriva della responsabilità di una buona pratica

clinica alla responsabilità dei risultati è assolutamente necessario che lo psichiatra

documenti la sua opera clinica (con perizia, prudenza e diligenza) nella cartella clinica: il

mezzo tecnico più semplice e più valido in un’aula giudiziaria per evitare imputazioni e

condanne soprattutto in tema di suicidio del paziente

14 Utilità degli interventi psicoeducativi sulla famiglia del paziente

a rischio suicidario o del paziente che si è suicidato

E' assai utile, se non indispensabile nell’ottica della diligenza che deve informare la

condotta dello psichiatra, che questi abbia colloqui con i familiari del paziente a rischio

suicidario. Sotto il profilo clinico, ciò gli fornisce l’opportunità di maggiori informazioni

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diagnostiche, di migliorare l'intervento terapeutico, di fare uso di una prevenzione più

valida e, sotto il profilo forense, di implicare, per la responsabilità di loro competenza, i

familiari nella gestione del rischio suicidario del loro congiunto. I familiari, infatti, possono

fornire informazioni non altrimenti ottenibili sull'anamnesi del paziente, sui comportamenti

ed i conflitti attuali: tutti elementi che permettono una valutazione più documentata dei

fattori di rischio e di protezione. I familiari possono anche migliorare, con la loro

disponibilità, la rete di assistenza e, in qualità di persone significative per il paziente,

aiutarlo nella valorizzazione dei fattori protettivi, di resilienza (intesa come la capacità di

ricuperare la salute dopo la malattia), di empowrment (inteso come la capacità di migliorare

le proprie potenzialità positive alla terapia) e di recovery (intesa come la capacità di

condurre una vita attiva e soddisfacente anche in presenza di un disturbo psichico) mirati

alla riduzione del rischio suicidario. Inoltre la psico-educazione della famiglia facilita la

messa in atto di una prevenzione più concreta ed individualizzata sul caso specifico:

possono essere contestualizzati, ad esempio, i fattori (frequenti nella pratica clinica, ma

spesso non riconosciuti o volutamente taciuti) che, in quello specifico soggetto, sono in

grado di stimolare il comportamento suicidario o di aumentarne il rischio (i familiari che

colpevolizzano il paziente perché non lavora, perché fa soffrire i figli innocenti, perché con

la sua malattia non è in grado di provvedere economicamente alle necessità primarie della

famiglia, perché è motivo di grande ed insopportabile sofferenza per tutti i familiari a causa

delle sue continue minacce di uccidersi, etc.).

E' anche utile che lo psichiatra possa fornire un intervento psicoterapico di sostegno a chi

ha perso una persona cara in seguito a suicidio (postvention o post-intervento). Questo tipo

di intervento permette non solo di aiutare le persone a gestire e superare la reazione di lutto

(la fisiologica reattività emotiva e cognitiva legata alla perdita), ma anche di evitare o

ridurre complicanze psicopatologiche (lutto complicato). Inoltre questo intervento, nei

limiti del legittimo e possibile, può svolgere un'azione di screening e prevenzione su altri

possibili candidati, tra i familiari in particolare, ad un significativo rischio suicidario.

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14.a. Beneficialità clinica e Protezione forense del paziente

Nel coinvolgimento psico-educazionale della famiglia, in primo luogo, debbono essere

rispettati i diritti del paziente ad esprimere il consenso su questa modalità di intervento.

Inoltre deve essere rispettato il segreto professionale: tutelato tutto quello che i familiari

dicono sul paziente (e non vogliono che sia divulgato) e tutto quello che il paziente dice su

se stesso e sui familiari (e non vuole sia riferito).

14.b. Buona pratica clinica dello psichiatra

Il coinvolgimento della famiglia, rispettoso della legge e mirato alla beneficialità del

paziente, può evitare allo psichiatra numerose accuse. In primo luogo i familiari non

avranno giustificazioni per affermare: nessuno ci ha avvisato del rischio suicidario;

nessuno ci ha ascoltato; nessuno ci ha aiutato; non hanno fatto nulla se non impedirci di

vederlo e dargli qualche pillola, etc. I familiari, infatti, non solo debbono essere implicati

nell'intervento terapeutico e di prevenzione per salvare la vita del loro congiunto, ma anche,

con corsi adeguati di qualificazione (come presupposto indispensabile per una qualche

forma di responsabilità) essere in grado di collaborare, secondo le loro capacità e volontà di

partecipazione e sempre per quanto di loro competenza, alla gestione del rischio suicidario

del loro congiunto. Nella cartella clinica deve risultare il grado di accettazione e di

collaborazione dei familiari all'offerta dei curanti di qualificarli, secondo le loro possibilità,

ad aiutare il congiunto che presenta un rischio suicidario. Infine il coinvolgimento della

famiglia permetterà anche di smascherare ed eventualmente intervenire terapeuticamente,

su psicopatologie familiari che sono di grave danno ai pazienti con rischio suicidario

(pazienti spesso tranquillamente ignorati o vistosamente trascurati dai familiari sino al

suicidio e poi disperatamente amati allorquando si tratta di esigere risarcimenti in tribunale

per danni da malasanità, etc.) Anche queste ed altre dinamiche familiari di danno al

paziente debbono essere segnalate, nei modi adeguati (clinici e fattuali medici) nel rispetto

forense della privacy e della pertinenza delle informazioni in cartella clinica, ai fini primari

della beneficialità del soggetto debole e della volontà attiva e concreta dei curanti a ridurre,

attraverso il sapere medico e psichiatrico, il rischio suicidario del paziente, senza eccedenza

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di informazioni non necessarie ai fini medici e psichiatrici che potrebbero sollevare

rivendicazioni emotive o giudiziarie.

15 Esistono reazioni emotive che influenzano la gestione clinica e la

valutazione forense del rischio suicidario

Lo psichiatra che valuta il paziente suicidario può mettere in atto reazioni emotive che

debbono essere conosciute e controllate per una corretta valutazione e gestione del rischio

(7,18). Alcune di queste reazioni emotive possono non essere adeguate ad un corretta

valutazione e gestione del rischio suicidario (64-69): evitamento (non indaga su temi

importanti ma ansiogeni); abbandono (invia senza razionale il paziente ad altri o lo lascia

senza o con ridotta assistenza); iperimplicazione ansiosa (vive con troppa ansia fuorviante i

conflitti del paziente); iperprotezione salvifica (assume in modo inadeguato il ruolo

onnipotente di salvatore); reattività aggressiva (prova rabbia ed odio in reazione al

comportamento aggressivo del paziente); offerte irrealistiche di gratificazioni o speranze

(promesse semplicistiche ed accattivanti più o meno esplicite di guarigioni o risoluzioni di

problemi senza criteri di fattibilità); contagio della psicopatogia del paziente (assume la

depressione del paziente e diventa anche lui depresso); etc. Dopo il suicidio del paziente lo

psichiatra può essere vittima di stati emotivi e conflittuali non utili alla beneficialità degli

altri pazienti soprattutto se presentano anche loro un rischio suicidario (64): sindrome da

bruciatura da suicidio (incapacità ed intolleranza a gestire altri pazienti con rischio

suicidario, mutamenti nello stile di vita e di lavoro); sentimento di ingiustizia subita

(pregiudizio di essere stato tradito in passato e di poterlo essere anche in futuro);

deresponsabilizzazione del paziente (il paziente non è più una persona ma una diagnosi con

destino statistico immodificabile); deresponsabilizzazione del terapeuta (il paziente è

l'artefice del proprio destino tutte le volte che non segue i consigli del terapeuta); etc. Per

queste ragioni lo psichiatra che ha cura di un paziente suicidario deve essere uno strumento

di valutazione e di cura abbastanza efficiente e funzionale (che frequentemente deve essere

monitorato, aggiornato e riequilibrato) alla beneficialità del paziente (7,18,70).

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Le reazioni emotive dello psichiatra, di cui sono stati illustrati solo alcuni esempi, possono

altresì essere presenti (e talvolta con maggior gravità qualitativa e quantitativa e minor

grado di consapevolezza) in tutti gli altri protagonisti della valutazione dell'operato dello

psichiatra in tema di responsabilità professionale per il suicidio di un paziente: avvocati,

giudici, periti, consulenti, familiari, ognuno per il ruolo che gli compete, a prescindere da

atteggiamenti chiaramente assunti in malafede accusatoria o difensiva.

15.a. Utilità di conoscere le proprie emozioni

nella comprensione e gestione del rischio suicidario

Per uno psichiatra conoscere le proprie reazioni emotive nella gestione del rischio

suicidario deve fare parte della propria formazione professionale. Anche gli operatori

sanitari e sociali che gestiscono pazienti suicidari non possono non avere dimestichezza con

le loro emozioni suscitate dalla possibilità o realtà di un suicidio. Riconoscere, saper dare

loro un nome ed un contenuto, neutralizzarle per gli effetti negativi, sapersene servire per

ottenere effetti positivi sulla terapia del paziente è lo scopo primario di conoscere le proprie

emozioni e saperle utilizzare, ognuno secondo i propri ruoli, qualificazioni e competenze,

nella gestione del rischio suicidario.

L’introspezione più approfondita sulle proprie emozioni in tema di suicidio è utile che sia

anche presente in chi accusa, difende, giudica lo psichiatra al fine di non essere vittima di

emozioni non riconosciute e non cognitivamente controllate che impediscono od alterano

una corretta lettura dei fatti.

15.b. Criticità nella gestione delle proprie emozioni

col paziente suicidario Le reazioni emotive verso il paziente suicidario non riconosciute e non utilizzate ai fini

terapeutici possono comportare, in casi estremi ma pur presenti nel quotidiano, gravi danni

alla beneficialità del paziente, sino ad aumentarne il rischio suicidario. Lo psichiatra (come

qualsiasi altra persona a contatto col paziente suicidario) può incontrare notevoli difficoltà a

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dominare le proprie emozioni ed a gestirle a fini terapeutici. Attraverso vie non sempre

consapevoli e riconosciute dallo stesso terapeuta le sue emozioni possono parlare al

paziente con il linguaggio gestuale del corpo, i movimenti mimici dei muscoli facciali, lo

sguardo nella sua intensità, durata e direzione, le inflessioni della voce, il contenuto non

manifesto delle domande, sino alle comunicazioni subliminali più sofisticate e meno facili

ad una loro decodificazione.

Consideriamo, al proposito, tre esempi clinici che illustrano quanto precede:

1. Il primo è l'alienazione maligna: si tratta di pazienti che minacciano per molto tempo,

anche per anni, di suicidarsi e non lo fanno. Un atteggiamento emotivo dello psichiatra

(o di qualunque altra persona significativa) di sottovalutazione o delegittimazione di

sofferenze e di conflitti del paziente può stimolare quest'ultimo a compiere il suicidio.

2. Nella collusione suicidaria il paziente, molto aggressivo, verbalizza che si ucciderà ma

ucciderà anche altre persone (anche con velate o franche minacce di morte ai curanti).

Questo aspetto aggressivo del paziente è ricambiato da un comportamento aggressivo

(spesso di tipo omissivo) da parete dei curanti: il paziente è trascurato, gli appuntamenti

dilazionati, non indagato su temi clinicamente importanti, ma ansiogeni, deviato ed

emarginato in gruppi di terapia ove la responsabilità di ognuno è diluita, le sue esigenze

personali di terapia sono spostate e banalizzate sul sociale manifesto, viene affidato a

personale con esperienza limitata, assecondato nelle sue richieste inadeguate di farmaci

non di utilità prioritaria, etc. sino a quando si verifica il suicidio. In questi casi spesso il

commento dei curanti e dei familiari è: non si dovrebbe pensare ma è meglio che si sia

ucciso lui da solo piuttosto che uccidersi ma uccidere anche altre persone innocenti.

3. Nel legame patologico coatto lo psichiatra è estremamente ansioso e preoccupato del

possibile suicidio del paziente e può verbalizzare: sono più preoccupato della sua vita

che non della mia vita, l’ho pregato di chiamarmi a qualsiasi ora del giorno e della

notte, gli ho detto che è più importante della mia stessa famiglia. In questi casi possibili

dinamiche psichiche dello psichiatra (sentimenti masochisti di dipendenza con sadismo

reattivo di controllo, identità personale e professionale fragile con reattività

onnipotente, etc.) non permette l'azione di accettazione e contenimento emotivo delle

tendenze suicidarie del paziente che possono, quindi, evolvere in un passaggio all'atto

suicidario.

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La descrizione delle dinamiche che precedono e la loro fruibilità in tema di terapia

rappresenta un grande miglioramento scientifico nella formazione professionale dello

psichiatra come strumento di cura. Infatti le emozioni del terapeuta, dopo un primo periodo

storico in cui erano state negate, minimizzate come eccezionali e rarissime, considerate una

psicopatologia da nascondere alla attenzione del paziente e del pubblico, sono state, col

progredire scientifico, valorizzate attraverso una loro sempre maggiore conoscenza ed

utilizzo terapeutico (71).

Emerge da quanto precede in primo luogo che la formazione professionale, teorica ed

ideale dello psichiatra, in relazione al paziente suicidario è molto più ampia e profonda di

quanto può essere discusso a livello manifesto ed a stretti termini di legge, in un’aula di

tribunale. Tuttavia le reazioni emotive, cosi come descritte, non presentando obblighi

oggettivamente determinati, appartenendo a doveri esclusivamente morali sul piano ideale,

non presentando poteri impeditivi dimostrabili obiettivamente su eventi dannosi, non

configurando a livello soggettivo esigibilità di condotta, essendo classificabili come ipotesi

cliniche di ricerca basate su percezioni soggettive assai variabili nell’ambito della

imprevedibile mutevolezza della intersoggettività, ecc., non hanno valore forense di

rimproverabilità nei confronti degli operatori della salute mentale. In secondo luogo, per la

beneficialità del paziente, indipendentemente dalle leggi, è utile per la formazione dello

psichiatra saper riconoscere e gestire le proprie emozioni con:

Adeguata formazione personale

Utilizzo di supervisione di esperti

Lavoro in gruppo

Frequenze a corsi di aggiornamento e di sensibilizzazione al problema del suicidio

Questa formazione professionale, aggiornata e monitorata, dovrebbe essere, in futuro,

sempre disponibile.

Quanto precede nella consapevolezza della criticità che per molte persone può essere non

facilmente accettabile, non priva di gravi disagi e conflitti, la possibilità di accedere al

proprio patrimonio emotivo su temi così altamente sensibili e personali come il suicidio, la

morte, il significato ed il valore della esistenza.

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Discussione

Formulare osservazioni psichiatrico-forensi in relazione alla responsabilità dello psichiatra

in tema di suicidio del paziente è argomento da affrontare con particolare ed approfondita

attenzione critica a causa del difficile consenso che si ha fra tutti i protagonisti: psichiatri,

magistrati, avvocati, periti, consulenti e parenti del paziente che si è ucciso. Tra queste

difficoltà possiamo sottolineare le seguenti.

Difficoltà ad assumere un atteggiamento neutrale di fronte alla responsabilità professionale dello psichiatra

Le osservazioni psichiatrico-forensi che precedono, se isolate dal loro contesto, possono

essere interpretate tanto nell’aspetto non neutrale di una tendenza a creare i presupposti per

accusare lo psichiatra (ad esempio l’ampliamento dell’assunzione, contenuto e dismissione

della posizione di garanzia, l’accettazione ed ampliamento della cura e protezione del

paziente con rischio suicidario, le responsabilità etiche e morali nella gestione delle proprie

emozioni ai fini terapeutici, etc.) quanto a creare i presupposti per una innocenza dello

psichiatra (per esempio l’insistenza nella descrizione clinica e forense del suicidio come un

evento eziologicamente multideterminato, con diagnosi complessa multiassiale ed

interventi preventivi e trattamentali multistrategici, la sua imprevedibilità ed inevitabilità, la

articolata metodologia forense per il giudizio sulla responsabilità professionale, etc.).

Differenti atteggiamenti culturali e problemi legislativi nei confronti del suicidio

Gli atteggiamenti del gruppo sociale nei confronti del suicidio variano a seconda del

momento storico e della cultura di riferimento. Il suicidio può rappresentare un peccato nei

confronti di principi religiosi, il sintomo di malattia mentale, una libera scelta esistenziale e

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razionale, un atto di coraggio sociale, un comportamento dettato da condizionamenti che

derivano dal rispetto di alcune particolari tradizioni, etc. Egualmente complesse appaiono le

criticità legislative: il suicidio inteso come reato, come diritto personale inviolabile, come

liceità o non liceità nel fenomeno del suicidio assistito, i confini non sempre ben chiari a

termini di legge, della istigazione al suicidio (determinare o rafforzare il proposito

suicidario) e della agevolazione al suicidio (aiuto materiale alla esecuzione del fatto).

La difficoltà a comprendere le motivazioni alla base del suicidio

Di fronte alla difficoltà reale di comprendere il suicidio, un fenomeno complesso e

particolarmente evocatore di forti emozioni e conflitti personali, spesso si ricorre a tentativi

di dare un senso, o meglio formulare ipotesi di senso, che ci permettono più facilmente di

comprendere e di classificare il suicidio (ad esempio suicidio per motivi filosofici, etici,

sociali, rituali, religiosi, ascetici, ideologici, per vergogna, per protesta, a scopo

manipolatorio, per disturbo psichico, come grido d’aiuto, etc). Si tratta di ipotesi di senso

ipersemplificative che racchiudono motivazioni ben più complesse ed articolate fra loro

(61,62). A complicare questi problemi di comprensione dell’agito suicidario possono essere

aggiunti pregiudizi e false credenze e cioè i falsi miti (7) presenti anche tra gli operatori nel

campo della salute mentale (il suicidio avviene sempre all’improvviso senza nessun segno

premonitore, non bisogna parlare di suicidio con un paziente suicidario perché lo si

stimola a compierlo, tutte le persone che si uccidono hanno una grave depressione non

curata in modo corretto, se i medici avessero curato bene il paziente questi non si sarebbe

ucciso, quando qualcuno ha tentato di uccidersi rimarrà tutta la vita a grave rischio di

suicidio, le persone che parlano di suicidio in realtà non lo faranno, le persone che si

vogliono suicidare sono destinate a farlo, etc.)

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Atteggiamento personale dello psichiatra e di chi lo giudica nei confronti del suicidio

Le reazioni emotive dello psichiatra verso il suicidio sono molteplici, non sempre a livello

di consapevolezza e non sempre orientate alla primaria beneficialità del paziente. Reazioni

emotive similari, che possono intralciare una corretta lettura della realtà, sono presenti tra i

protagonisti del giudizio di responsabilità dello psichiatra: avvocati, magistrati, periti,

consulenti, parenti che hanno formulato la denuncia, anche loro non indenni da

atteggiamenti emotivi e cognitivi personali verso il suicidio. Si tratta di emozioni profonde,

spesso legate alla presenza di una personale visione del mondo ed al significato che ogni

persona attribuisce alla morte, alla malattia fisica e mentale, alla propria identità ed

esistenza e soprattutto al senso che ognuno attribuisce alla volontà ed al valore di vivere,

oltre che, in non pochi casi, a problemi conflittuali o a specifiche e più gravi psicopatologie

personali nei confronti del suicidio, degli psichiatri o del paziente suicidario.

La incertezza dei dati scientifici

Le attuali conoscenze scientifiche sul suicidio sono ancora frammentarie e spesso

discordanti. Ad esempio non è ancora possibile stabilire nel singolo soggetto, con

precisione, obiettività, significatività e utilizzabilità, l’importanza di un suo patrimonio

genetico e l’incidenza della epigenetica nel determinismo del rischio suicidario.

Egualmente la terapia farmacologica, le psicoterapie, i provvedimenti psicosociali, le

molteplici strategie di prevenzione individuale e sociale non sono prive di criticità nella

pratica quotidiana, nonché di diatribe concettuali e di continue, sofisticate e mutevoli

precisazioni scientifiche (7,18,59,64).

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Le aspettative, non basate su evidenze cliniche condivise, nei confronti della medicina e della psichiatria

L’aspettativa delle scienze mediche e psichiatriche di completa guarigione dei disturbi

psichici e di azzeramento del rischio suicidario, permane, allo stato attuale, una speranza,

ma non una realtà. Nelle rivendicazioni delle famiglie del soggetto che si è suicidato, oltre a

quelle autentiche ed alle comprensibili aspettative e legittime rivendicazioni in merito a

diritti calpestati (ad esempio in tema di perizia, prudenza e diligenza) vi possono essere

numerose altre dinamiche (ad esempio legate esclusivamente a rivendicazioni economiche).

Sono inoltre da considerare, senza mai escludere una contemporanea obiettiva

responsabilità dello psichiatra, la presenza di dinamiche psichiche nelle famiglie del

soggetto suicida, che non rispettano le evidenze cliniche condivise ed, in alcuni casi,

possono impedire una adeguata interpretazione della realtà.

Applicando, come pura ipotesi clinica di ricerca interpretativa, un approccio psichiatrico

psicodinamico che lega il comportamento a specifici meccanismi psicologici di difesa (72)

in alcuni casi è possibile riconoscere, nei familiari, sentimenti di aggressività (ed anche

fantasie omicidiarie) nei confronti del congiunto suicidario. Questi sentimenti e fantasie

aggressive nascono frequentemente nei familiari come controreazione alla aggressività ed

ai verbalizzati auto ed etero aggressivi (suicidari ed omicidiari) che il congiunto suicidario

era uso esplicitare: io mi ucciderò ma altri meritano di morire. E’ opportuno sottolineare le

difficoltà a trattare questo argomento che può suscitare potenti resistenze emotive alla sua

accettazione entrando nel dominio manifesto e pubblico del non socialmente e

politicamente gradito e del non dicibile e non pensabile a livello conscio individuale

soprattutto in persone che, in modo semplicistico e non scientifico, ritengono che il

rapporto del paziente suicidario con i suoi familiari sia sempre ed esclusivamente basato su

una benevola empatia alla sola insegna di un amore oblativo incondizionato.

Nei casi clinici ove è presente aggressività dei familiari verso il membro suicidario possono

essere presenti meccanismi psicologici di difesa che dividono nettamente in buoni e cattivi i

sentimenti verso il congiunto (scissione); che negano a se stessi (agli stessi familiari) le

reazioni di ostilità verso il congiunto (negazione); che attribuiscono ad altri, spesso il

curante, sentimenti di ostilità vissuti nei confronti del congiunto (proiezione); che trovano

giustificazioni pretestuose per attribuire la colpa del suicidio al curante: la persona che

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aveva il potere di salvare il congiunto dal suicidio ma non lo ha fatto per colpa dei suoi

errori imperdonabili per i quali deve essere punito (razionalizzazione).

Le dinamiche che precedono, anche se a livello forense rappresentano solo, sottolineiamo

ancora, una ipotesi clinica di ricerca interpretativa sia pure suggestiva, sono tuttavia degne

di ulteriori approfondimenti in relazione alla loro beneficialità nella psico-educazione della

famiglia del paziente a rischio suicidario, alla possibilità di apprendere principi di buona

gestione, quando è il caso, della aggressività del congiunto suicidario (non reagire

specularmente con reattività altrettanto aggressiva) e alla comprensione più approfondita di

molte denunce contro gli psichiatri, apparentemente non giustificate. Per alcune tipologie di

famiglia, infatti, la necessità di punire lo psichiatra per la morte del congiunto è molto più

intrusiva ed alienante dalla realtà e viene perseguita con tale astio ed accanimento che

supera di gran lunga le energie messe in atto da quei familiari che, ad esempio, tentano

semplicemente un risarcimento economico senza conflittualità di difesa (di varia natura e

gravità clinica) sottostanti.

Si potrebbe affermare, sempre valutando criticamente queste ipotesi dinamiche

interpretative, che la necessità di punire lo psichiatra non solo per i suoi presunti o reali

peccati ma soprattutto per i propri peccati nei confronti del congiunto che si è ucciso

(averlo trascurato, trattato male, offeso, insultato, pensato che era meglio che morisse così

cessavano le sofferenze per tutti, provocato o stimolato ad uccidersi spaventati e turbati

dalle sue continue ed intrusive minacce di morte a se stesso ed a altre persone, etc.) è molto

più forte ed invasiva che non il semplice desiderio predatorio di una rivendicazione

solamente economica, soprattutto se formulata in cattiva fede affidandosi, senza troppe

aspettative, alla fortuna di un processo favorevole.

A prescindere dal grado di accettazione delle ipotesi cliniche di ricerca in tema di

psichiatria dinamica interpretativa applicata ai familiari (in analogia con quanto

precedentemente è stato applicato alla descrizione delle dinamiche psichiche degli

psichiatri in tema di alienazione maligna, collusione suicidaria e legame patologico coatto)

è possibile affermare che psichiatri e familiari di pazienti suicidari non sempre sono

indenni da dinamiche psichiche non utili in tema di gestione emotiva e comportamentale

del suicidio.

Concretamente rimane il fatto che molte denunce agli psichiatri in tema di suicidio del

paziente, pur essendo tenacemente sostenute dai familiari, si rilevano, in concreto e solo

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dopo lunghe vicende giudiziarie, infondate e pretestuosamente legate, a livello manifesto,

ad aspettative non realistiche nei confronti della disciplina psichiatrica.

Questi dati di fatto non possono non essere integrati nel complesso ambito di un giudizio

sulla responsabilità professionale dello psichiatra a prescindere dalle molteplici personali

interpretazioni e dal personale grado di accettabilità che può, a livello emotivo o scientifico,

essere accordato alle dinamiche psichiche descritte.

La confusione

tra ipotesi cliniche di ricerca ed evidenze cliniche condivise

La ipotesi clinica di ricerca (studi e ricerche ancora oggetto di approfondimento e criticità

scientifiche non ancora convalidate dalla letteratura internazionale) utile per il progredire

della psichiatria e per una sempre maggiore beneficialità del paziente, può essere svolta,

non solo attraverso studi sperimentali su campioni selezionati con metodologie di indagine

e di elaborazione dei dati altamente sofisticate, ma anche al letto del paziente nella

quotidianità dell’assistenza. Ad esempio il paziente suicidario può essere sottoposto ai più

disparati strumenti di valutazione (diagnostica per immagini alla ricerca di correlati

biologici, reattivi mentali usati in modo singolo, integrato od in costellazioni di batterie,

questionari specifici per il suicidio auto ed etero somministrati, schede di rilevazione e

monitoraggio compilate da tutti gli operatori sociali, etc.). Solo una piccola parte di queste

ipotesi cliniche di ricerca avrà valore scientifico riconosciuto dai ricercatori e dai clinici che

curano i pazienti e farà parte di quelle evidenze cliniche condivise accettate dalla comunità

scientifica. Esempi di evidenza clinica condivisa in tema di suicidio: si tratta di un evento

multideterminato, non esistono strumenti clinici ed attuariali per una sicura previsione nel

singolo caso clinico, il rischio suicidario può variare rapidamente nel tempo, etc.

Sotto l’aspetto forense, a prescindere dalle più approfondite e sofisticate diatribe sul valore

euristico ed epistemologico di evidenza scientifica, sui livelli e categorie di evidenze (full,

limited, lack, negative, etc.) e sulla criticità del discrimine tra ipotesi clinica di ricerca ed

evidenza clinica condivisa, solo la evidenza clinica condivisa ha valore forense e non i

mille rivoli della pur necessaria ed importante ipotesi clinica di ricerca ancora

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scientificamente non approfondita o convalidata nella pratica quotidiana e condivisa dagli

studiosi ed esperti clinici a livello nazionale ed internazionale.

La confusione tra diagnosi psichiatrica categoriale statistica e diagnosi psichiatrica forense peritale.

La diagnosi psichiatrica categoriale statistica è generalmente tratta dai manuali diagnostici

e statistici più diffusi (D.S.M.; I.C.D.; P.D.M.) e, nelle cartelle cliniche di degenza,

compare in genere nella formulazione della diagnosi di entrata e di uscita dal reparto.

Questa diagnosi, come è specificato negli stessi manuali, non ha valore forense se isolata da

un contesto di chiarificazione. Ha, infatti un importante valore statistico classificatorio e di

comunicazione tecnica tra specialisti, utile nella ricerca scientifica, ma non approfondisce

(se non chiarificata ed integrata con più informazioni) sotto l’aspetto clinico e forense, il

singolo caso in esame. Quest’ultimo è reso infatti assai più complesso in ragione:

1. Della variabilità individuale della qualità, quantità, persistenza ed interazione dei

sintomi

2. Delle differenti presenze e relazioni funzionali di specifiche comorbidità del

singolo

3. Della unicità irrepetibile della situazione psicosociale reale e percepita che

contestualizza il caso in esame;

4. Dell’apporto alla diagnosi e terapia delle reazioni emotive transferali e contro

transferali intese in senso allargato, come emozioni, o in senso ristretto in

specifici contesti di psicoterapia

5. Dalla specifica reattività del singolo caso clinico alle psicoterapie e

farmacoterapie ed alla mutevolezza continua delle interazioni con l’ambiente

psicosociale

La diagnosi psichiatrica forense peritale è costituita dall’insieme di segni (oggettivi) e

sintomi (soggettivi) presenti nel paziente al momento dei fatti per cui si procede e delle

decisioni oggetto di indagine giudiziaria, ed ha valore forense nelle perizie e consulenze.

Questa diagnosi rappresenta, soprattutto quando documentata in modo esauriente, la

situazione psichiatrica clinica del singolo soggetto in esame (che può integrarsi con

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elementi della diagnosi statistica contestualizzata nel caso clinico in esame) ed è

generalmente contenuta nelle cartelle cliniche di degenza nel diario clinico alle date riferite

ai fatti per cui si procede.

Le due diagnosi psichiatriche, categoriale statistica e forense peritale, non debbono essere

confuse perché non rappresentano la stessa tipologia di diagnosi ed hanno differenti

funzionalità. Lo stesso criterio vale per altri tipi di diagnosi che non rispettano, come la

diagnosi categoriale statistica, le caratteristiche della diagnosi forense peritale e sono

utilizzate (in modo esclusivo o prioritario o non contestualizzate nel caso per cui si procede

al momento dei fatti) al posto di quest’ultima in specifico contesto forense di perizia o

consulenza.

Le perizie e le consulenze devono fare riferimento alla diagnosi forense peritale per il

corretto giudizio sulle decisioni assunte al momento dei fatti. Ad esempio la diagnosi

categoriale statistica di disturbo dell’umore, senza altre specificazioni, non contempla

misure di cautela protettive. Qualora nel diario clinico fosse segnalato, alla data dei fatti per

cui si procede, un grave rischio suicidario che dovrebbe comportare misure cautelari di

protezione per il paziente, saremmo di fronte ad una diagnosi forense peritale: è a questa

seconda diagnosi che deve essere relazionata la responsabilità professionale dello psichiatra

che, in quel momento, si trovava in posizione di garanzia col paziente suicidario. E’ valido

il principio anche in situazione opposta: se la diagnosi categoriale di entrata in reparto è di

depressione grave con tentativo di suicidio vi è necessità di misure cautelari. Se poi nel

diario clinico è riportata (dopo accurato e prolungato monitoraggio della situazione clinica)

la riduzione dei sintomi depressivi, dei fattori di suicidarietà e prevalenza dei sintomi

protettivi del suicidio al momento dei fatti per cui si procede, le misure cautelari non sono

più necessarie. Anche in questo caso è sempre la diagnosi psichiatrica forense al momento

dei fatti a cui deve essere relazionata la messa in atto e la adeguatezza delle misure cautelari

e, in primo luogo, rapportato, in merito a questa variabile, il giudizio sulla responsabilità

professionale in relazione alle decisioni assunte al momento per cui si procede.

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Necessità di un ribilanciamento dell’importanza del disturbo psichico in relazione al suicidio.

I dati della letteratura, mettendo in luce che il suicidio è un evento multi determinato e

illustrando l’importanza e la frequenza dei fattori di rischio non psichiatrici, di fatto, hanno

ridotto il ruolo, a livello statistico, del disturbo psichico come fattore privilegiato nelle

dinamiche suicidarie.

Sulla base di queste obiettività si constata la tendenza attuale a passare dalla esclusiva

valutazione della relazione: disturbo psichico con diagnosi categoriale stastistica-suicidio

ad una valutazione più articolata, complessa e soprattutto più specifica per il suicidio e cioè

l’esame della suicidarietà (suicidalità) nella quale sono compresi i numerosi fattori di

rischio e di protezione (tra cui anche il disturbo psichico) che possono portare un soggetto

al suicidio. Questo ribilanciamento (inteso in senso forense come bilanciamento

probabilistico del valore eziologico dei vari fattori in discussione) propone una revisione

delle responsabilità cliniche e forensi dello psichiatra alla luce di quanto ha il dovere di

fare ed è qualificato per farlo in merito alla grande varietà, non sempre di competenza

medico-psichiatrica, dei fattori di rischio e di protezione in tema di suicidio.

Quanto precede non esonera lo psichiatra da una sempre maggior attenzione e sensibilità al

disturbo psichico che ha il dovere di curare e la qualificazione per farlo e da promuoversi

come parte attiva per migliorare la salute psichica nel suo significato più ampio, a livello di

popolazione generale (e non solo di gruppi di persone a rischio di suicidio), con la capacità

anche di prevenzione mediatica con prudenti, realistiche, operative informazioni sui

risultati medici positivi della disciplina psichiatrica.

Necessità di una criteriologia per la valutazione dei requisiti di causalità e del nesso di causalità

tra azione od omissione dello psichiatra e suicidio del paziente.

La valutazione dei requisiti di causalità e del nesso di causalità in medicina e psichiatria

sono temi complessi e ricchi di diatribe cliniche e forensi (3,5,73,74). E’ quindi necessaria

una criteriologia valutativa condivisa che deve essere applicata in sede forense da periti e

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consulenti in tema di responsabilità professionale dello psichiatra in merito al suicidio del

paziente.

1. Inquadramento clinico e forense delle cause di suicidio. Deve risultare nell’elaborato

scritto di periti e consulenti, rapportato al caso clinico in oggetto, il rispetto:

• del suicidio come evento multifattoriale e non monofattoriale

• della differenza tra i fattori eziologici di interesse clinico e quelli di interesse

giuridico

• dei criteri di giudizio della causalità nella azione e nella omissione dello

psichiatra

• dei criteri di giudizio della causalità nel civile e penale

2) Specificazione, nel caso clinico in oggetto, di quella che il perito o il consulente

hanno ritenuto e motivato come causalità del suicidio. In questa chiarificazione della

eziologia debbono essere usati i criteri più accreditati per definire, in senso forense, i

requisiti della causalità (ad esempio i criteri di prevedibilità e di probabilità) debbono

essere individuati tutti i possibili meccanismi eziologici e verificate se queste alternative

ricostruzioni possono tutte essere riferite alle condotte (colpose) dell’agente come

condiviso dalla prevalente dottrina attuale (Cass. IV sez.10795, 2007)

3) Esistenza o non esistenza del rapporto di causalità tra azione od omissione dello

psichiatra e suicidio del paziente. Attraverso i criteri più accreditati dell’accertamento

del nesso causale deve essere specificato:

• l’esclusione del rapporto causale (con le motivazioni in rapporto alle possibilità

scientifiche o alla insufficienza dei dati che sostengono l’ipotesi)

• la presenza e la quantificazione probabilistica motivata del rapporto di causalità:

a) incerto, b) molto probabile, c) sostanzialmente certo

4) Esistenza o criteri di esclusione di altre cause necessarie e sufficienti a produrre il

suicidio del paziente indipendentemente dalla azione od omissione dello psichiatra.

Attraverso i criteri più accreditati della valutazione delle concause (preesistenti,

simultanee, sopravvenute) deve essere specificata la loro presenza od assenza e, se

presenti, il loro ruolo nel caso clinico per cui si procede.

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5) Considerazione che la professione medica e psichiatrica appartengono alle attività

rischiose. In questo senso, pur non ignorando le varie teorie sulla causalità

(condizionalistica, della sussunzione sotto leggi, della causalità adeguata, della

imputazione obiettiva dell’evento, etc.) particolare sensibilità deve essere posta:

• alla teoria dell’aumento del rischio ed in particolare la rischio consentito nella

professione psichiatrica in merito al tema specifico del suicidio contestualizzato

al caso clinico in oggetto.

• alla evoluzione naturale ed alla potenzialità suicidaria (valutazione della

intrinseca gravità clinica della suicidiarietà) del singolo caso clinico nel suo

ruolo di bilanciamento probabilistico del valore eziologico dei vari fattori in

discussione.

Quanto precede rappresenta una criteriologia forense, da contestualizzare nel penale e nel

civile, utile a soddisfare, in termini di chiarezza, le esigenze di giustizia ed è onere che

grava e deve essere rispettato dai medici che esprimono pareri motivati forensi (4). Inoltre

questa criteriologia permette di prevenire illegittime estensioni o restrizioni del concetto

forense di causa e concausa, soggettive e non motivate dichiarazioni di presenza od assenza

di nessi di causalità, assenza di prove della rilevanza causale dell’errore dello psichiatra;

errori metodologici (per superficialità, fretta, ignoranza, pregiudizi, imperizia peritale,

tendenze assolutorie o colpevoliste, etc.) o di giudizio forense quali ragionamenti col senno

del dopo, si poteva fare di più, si poteva fare diversamente, pubblicità ingannevole del

farmaco miracoloso, accattonaggio dei sintomi e dei fattori di rischio, psichiatrizzazione,

suicidarizzazione, confusione tra ora ed allora, causalizzazione del fattore di rischio,

causalizzazione dell’errore irrilevante, concausalizzazione pregiudiziale della malattia

mentale,semplificazione erronea della complessità scientifica.

La qualificazione dei periti e dei consulenti.

Le imputazioni e le condanne nonché i lunghi percorsi giudiziari in tema di responsabilità

professionale dello psichiatra sono molto spesso stimolati, se non determinati, da periti e

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consulenti e non esclusivamente dal magistrato (4). Per questo motivo periti e consulenti

debbono presentare una adeguata qualificazione di competenza reale (e non solo di titoli)

al loro compito. Sulla base degli art. 220 e 221 del Codice di Procedura Penale in tema di

perizia e di periti (che mettono in luce le qualificazioni richieste: specifiche competenze

tecniche; particolare competenza nella specifica disciplina), dei codici deontologici medici

sulla responsabilità professionale (art. 62 del Nuovo Codice di Deontologia Medica,

18.05.2014, che sottolinea la qualificazione: effettivo possesso delle specifiche competenze

richieste dal caso) e della legge Balduzzi (art. 3, comma 5, lg 189 del 08 nov. 2012; dl 13

sett. 2012) sul ruolo delle Società Scientifiche in merito all‘accreditamento di buone

pratiche cliniche, la Società Italiana di Psichiatria (SIP) e la Società Italiana di Psichiatria

Forense (SIPF) hanno approvato (Congresso Nazionale SIPF, Alghero, maggio, 2015) un

position paper nel quale sono stabiliti i criteri per il giudizio sulla responsabilità

professionale dello psichiatra:

1. La presenza di un collegio peritale in cui vi sia uno psichiatra

2. Lo psichiatra deve possedere:

• la specializzazione in psichiatria

• esperienza clinica assistenziale di almeno otto anni in struttura pubblica oltre gli anni di

specializzazione

• adeguato curriculum in relazione al giudizio del caso in oggetto

3. Queste qualificazioni debbono essere specificate e scritte nel verbale al momento del

conferimento dell'incarico peritale

La responsabilità di periti e consulenti

Sulla base della centralità che periti e consulenti hanno nei contenziosi sulla responsabilità

professionale dello psichiatra, costoro debbono rispondere delle loro affermazioni agli enti

istituzionali preposti al controllo, seppur con differenti ruoli e diverse possibilità

sanzionatorie: gli Ordini Professionali, le Società Scientifiche, le Commissioni di

disciplina, il Giudice Civile ed il Giudice Penale.

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I periti possono compiere errori professionali legati ad imprudenza, negligenza ed

imperizia (ricostruzioni ipotetiche e fantasiose su dati insufficienti, dimenticanze nella

ricerca dei dati, ignoranza della letteratura sul tema in giudizio, pareri conclusivi sprovvisti

di adeguata motivazione o di copertura scientifica, affermazioni cliniche contrarie a tutte le

evidenze cliniche condivise dalla letteratura nazionale ed internazionale, etc.) (4). La

imperizia peritale può essere considerata più grave in periti che commettono errori non

scusabili (4), i quali possono agire con una condotta soggettivamente dolosa in quanto

sostenuta dall’interesse professionale di essere graditi al committente e mantenere in tal

modo un flusso costante di incarichi peritali (secondo un atteggiamento più volte

denunciato nell’ambito della medicina legale in generale, considerato espressivo, secondo

efficace definizione, di medicina legale della obbedienza giurisprudenziale), con indebita

assunzione di un ruolo pregiudizialmente accusatorio (4). A mantenere nel perito (e

consulente) un pregiudizio accusatorio è altresì da considerare il fatto obiettivo che non di

rado le parti lese non accettano conclusioni assolutorie e possono reagire non solo con

agguerrite consulenze difficili da contestare, ma anche con denunce penali che, ambedue,

possono mettere in grande difficoltà chi nel suo parere non è sfavorevole ai medici (4): si

tratta di un comportamento preventivo difensivo del perito (e consulente) a danno del

periziando, che merita una preoccupata riflessione e caratterizza la medicina legale

difensiva. Anche i consulenti di parte possono compiere errori professionali (e

fondatamente assumere una responsabilità deontologica ex art. 62 del codice di

deontologia medica) quando presentano consulenze sfacciatamente compiacenti e prive di

decenti motivazioni scientifiche (4); formulano richieste di approfondimenti diagnostici

non giustificati sotto il profilo clinico e forense; utilizzano in modo non scientifico ed

erroneo sotto il profilo forense dati delle neuroscienze o principi clinici della psicologia del

profondo, alterano e travisano dati di laboratorio o risultati di reattivi mentali a fini utilitari

personali di giustizia, etc.

Sono inoltre descritte, in letteratura, altre due tipologie di periti che non soddisfano le

esigenze di giustizia e la correttezza professionale: gli innocentisti ad oltranza, con

tendenze assolutorie verso la classe medica per un atteggiamento ingiustamente corporativo

(4), ed i colpevolisti ad oltranza e cioè quei medici, che in veste di periti o consulenti

formulano pareri tecnici non obiettivi perché in preminenza ispirati, consciamente o

inconsciamente, dal timore di conseguenze negative, professionali e/o personali, a loro

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danno, qualunque sia la provenienza e la natura di tale rischio reale o presunto: altro

esempio di medicina legale difensiva (4).

Quanto precede non esime periti e consulenti dal rispondere di comportamenti contrari a

precise norme di legge contemplate nel codice Civile e Penale (ad esempio, Falsa perizia od

interpretazione, art.373 c.p.; False dichiarazioni od attestazioni in atti destinati all’autorità

giudiziaria, art.374 bis c.p.; etc.).

Periti e consulenti incapaci e/o in malafede, come descritti dalla letteratura internazionale e

nazionale e nei trattati forensi (4,75) debbono essere riconosciuti, isolati, etichettati e

sanzionati non solo perché spesso carpiscono la buona fede dei committenti e del

magistrato attraverso l’esibizione di titoli di specializzazioni o titoli accademici cui non

corrisponde la competenza reale sull’argomento della perizia (la legge, ex artt.220 e 221

c.p.p., richiede la competenza reale sul tema in oggetto di giudizio), ma anche per il danno

ingiusto che procurano a singoli pazienti e professionisti ed il grave discredito che gettano

sulla rispettabilità e credibilità scientifica, etica e sociale di tutta la categoria degli

psichiatri.

La responsabilità di chi istiga o pone in essere denunce o certificazioni improprie.

Esiste una grande varietà di persone che possono stimolare nei parenti della persona che si

è uccisa la formulazione di esposti o denunce impropri (non rispettosi dei principi etici e

giuridici che giustificano la formulazione di un capo di imputazione in relazione ad un

esposto o ad una denuncia) allo psichiatra in merito alla sua responsabilità professionale.

Non sono certo in discussione le denunce motivate con fondatezza etica, clinica e giuridica.

Deve però essere trovato un rimedio all’eccessivo numero di denunce infondate e

pretestuose (spesso basate sulla speranza di un vantaggio economico risarcitorio, sulla

intenzionalità malevola di discredito nei confronti di uno specifico curante o nei confronti

di una specifica categoria professionale, sulla ignoranza colposa di principi etici e

deontologici, sui personali problemi emotivi nei confronti della morte e del suicidio, sulle

aspettative irrealistiche della psichiatria, etc.) che non raramente trovano terreno fertile nel

disagio psichico, spesso conflittuale, dei parenti della persona che si è uccisa.

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Non pochi di questi fomentatori di denunce improprie possono a loro volta essere imputati

dello stesso reato che attribuiscono allo psichiatra. Ad esempio, le affermazioni gratuite

(non confortate da dati clinici obiettivi) di un medico che dialogando con i familiari di un

paziente suicida afferma che non ci voleva uno specialista per capire che non doveva

essere dimesso perché si sarebbe ammazzato. Nella sua successiva deposizione affermerà

di aver visitato il paziente poco prima del suicidio e di aver ritenuto errata la decisione dello

specialista psichiatra di dimetterlo. Da sottolineare che questo medico, al momento della

visita, non aveva messo in atto alcun provvedimento cautelare pur essendo in posizione di

garanzia e pur avendo ammesso la diagnosi di grave rischio suicidario. Non raramente

l’istigatore di denunce improprie cerca di mettere in luce una pretesa, ma non giustificata

incompetenza, trascuratezza, negligenza e imprudenza di colleghi con modalità, nei casi di

minor gravità, non rispettose del codice deontologico. Ad esempio, uno specialista

psichiatra parlando con i familiari di un paziente suicida afferma che lui non avrebbe mai

prescritto la terapia che ha prescritto il suo collega per timore del suicidio: purtroppo i

fatti gli hanno dato ragione ed il paziente si è ucciso.

Altre volte la istigazione alla denuncia può nascere, sempre in modo inappropriato, da

affermazioni contenute in perizie o in consulenze. Ad esempio un perito settore, non

psichiatra, nel referto autoptico di un paziente suicida afferma che la cura con gli

psicofarmaci usati è stata erronea perché può aver provocato il suicidio del paziente, ma

questo deve essere approfondito in altra sede. Da rilevare che questa affermazione non era

stata richiesta dal magistrato (che aveva solo chiesto le cause della morte), non era

documentata ed è stata fornita da persona non qualificata. Inoltre era stata formulata con la

tecnica furbesca lancio il sasso e poi ritiro la mano (dico che lo psichiatra ha sbagliato la

terapia e causato il suicidio e poi dico che dovranno essere altri a dirlo).

Esiste anche la categoria dei certificatori solitari e ritardatari di imputazioni e cioè quei

soggetti che scrivono, a notevole distanza di tempo dai fatti, certificati basati solo sul loro

parere personale, sulle lamentele o i riferiti indiretti del paziente interessato o dei suoi

familiari, in contrasto con la clinica documentata sul caso specifico, privi di copertura

scientifica, etc., che asseriscono, con riferimento al momento delle decisioni per cui si

procede, la presenza di un alto rischio suicidario, avallando in questo modo l’ipotesi

accusatoria che prevede la colpa dello psichiatra. Una certificazione è valida solo se riporta

dati clinici direttamente constatati od obbiettivamente documentati, formula giudizi

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obiettivi e scientificamente corretti, oltre a rispettare precise modalità di compilazione. Una

certificazione falsa può essere perseguita a livello deontologico, amministrativo, civile e

penale (ad esempio il Codice Penale prevede in termini di certificazione: falso materiale,

falso ideologico, violazione della privacy, violazione del segreto professionale, oltre a

considerarla possibile elemento di artificio ai fini del reato di truffa).

I fomentatori di denunce improprie non appartengono solo all’ambiente sociosanitario, ma

possono essere rappresentati da altre categorie. Questi soggetti che istigano, certificano o

pongono in essere denunce improprie possono essere, ad un primo livello, se non sussistono

più gravi estremi di reato o di illecito civile (lite temeraria, falso, calunnia, etc.) oggetto di

attenzioni da parte di società scientifiche o professionali ed ordini professionali.

I mutamenti giurisprudenziali e le variazioni normative in tema di responsabilità per la prestazione sanitaria

Anche l’applicazione concreta e quotidiana dell’assistenza psichiatrica risente del mutare

nel tempo del contenuto delle decisioni dei giudici in tema di responsabilità da prestazione

sanitaria. L’orientamento delle sentenze in tema di contrattualizzazione della prestazione

medica, del contratto di protezione tra psichiatra e paziente, dell’obbligo legale derivante

dal contratto sociale del gestore di un servizio sanitario pubblico con il paziente, della

tendenza alla dissoluzione della differenza tra obbligazione di mezzi ed obbligazione di

risultato, etc., è in continua evoluzione ed oggetto costante di legittime valutazioni critiche

a scopo migliorativo.

Questo variare della giurisprudenza, almeno come recepito a livello divulgativo presso gli

psichiatri, può stimolare, a prescindere da una lettura approfondita e critica di ogni singola

sentenza, comportamenti difensivi pregiudiziali (gli psichiatri spaventati corrono dietro

alle sentenze adottando una psichiatria difensiva) che possono non rispettare in modo

adeguato le obiettività cliniche e la beneficialità del paziente con rischio suicidario. In

questo contesto è da auspicare (se non una depenalizzazione, che potrebbe essere in

contrasto con il precetto costituzionale) una valutazione giudiziale ispirata a larghezza di

vedute e comprensione specie per l’aspetto della colpa per imperizia, prefigurando, sul

piano processuale l’adozione di mezzi di conciliazione alternativi alle conflittualità e

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lunghezza temporale dei processi; un utilizzo più frequente della mediazione; l’inversione

dell’onere della prova; di implicazioni forensi più chiare ed obiettive per i responsabili

delle strutture atte ad accogliere e curare i pazienti; la previsione della istituzione per via

normativa di fondi di solidarietà sociale a garanzia delle istanze risarcitorie nei casi di colpa

non macroscopica, la possibilità di conciliazione tra le parti in causa di tipo

prevalentemente od esclusivamente assicurativo.

L’utilità di interventi di prevenzione del suicidio sulla popolazione

Pur con i limiti legati al fatto che i fattori di rischio e di protezione sono molteplici, non

ancora approfonditi nella loro reale utilità di previsione e necessitanti sempre di

contestualizzazione critica nel singolo caso, è imperativo (in rispetto della evidenza clinica

condivisa che il suicidio è un evento multideterminato, a diagnosi pluriassiale ed a

modalità di trattamento multistrategica), per la beneficialità della popolazione, in senso

statistico, la messa in atto di vari tipi di prevenzione del suicidio (76-78).

Nella prevenzione generale (universal) su grandi popolazioni è utile facilitare l’accesso alle

cure, ai centri di ascolto e di aiuto e di controllo dei mezzi letali. Di grande importanza la

psico-educazione come utilizzo di mezzo di informazione privilegiato per evitare lo stigma

dei soggetti con comportamento suicidario (etichettamento ed emarginazione con

conseguente difficoltà degli stessi a richiedere aiuto), il contagio suicidario (stimolo a

suicidarsi), la imitazione, anche con gli stessi mezzi letali, di suicidi descritti nei dettagli

con enfasi e tacita ammirazione o giustificazione (copycat suicides) (79-81).

Nella prevenzione selettiva (selective) sono oggetto di attenzione popolazioni più ristrette

ed a rischio per fattori come età, professione, stato economico o familiare, stato di

privazione di libertà (ad esempio dopo un suicidio in carcere la ripetizione nell’immediato

di altri suicidi di altri detenuti: i cosi detti suicidi a grappolo).

Nella prevenzione specifica (indicated) è presa in considerazione la vulnerabilità specifica

di particolari soggetti: ad esempio, soggetti recidivi che presentano precedenti tentativi di

suicidio o che, molto più di altri, presentano segni clinici di suicidialità.

Attività di tipo preventivo possono essere esercitate attraverso una più efficiente

formazione di quanti possono venire in contatto con soggetti che presentano segni

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comprensibili di rischio suicidario (gatekeeper). Costoro (operatori sanitari, insegnanti,

poliziotti, militari, consiglieri spirituali, etc.) possono essere sensibilizzati al

riconoscimento dei fattori di rischio e protezione del suicidio ed istruiti sulle modalità

concrete di aiuto ai soggetti a rischio e di indirizzo degli stessi verso strutture adeguate

(82,83).

Da segnalare l’utilità di interventi preventivi precoci sulla popolazione generale mirati al

rinforzo di fattori protettivi e riduzione dei fattori di rischio anche in età molto giovane (up

stream approaches), come la prevenzione in tema di violenza domestica, bullismo scolare,

abuso di droghe, violenza sulla persona, abusi sessuali, criminalità (84-88). Da segnalare i

risultati concretamente positivi di queste modalità preventive del suicidio, a livello

statistico, sulla popolazione (7,89-91).

Conclusioni

Le osservazioni psichiatrico forensi di buona pratica clinica in tema di suicidio appena

elaborate possono rappresentare uno stimolo di approfondimento critico finalizzato alla

sempre maggiore condivisione, tra gli psichiatri, della gestione del rischio suicidario al fine

di una più ampia beneficialità per il paziente. Queste osservazioni hanno un valore generale

e possono essere da ogni psichiatra allargate ed approfondite, a livello personale o a livello

istituzionale, con protocolli d’azione, algoritmi decisionali, specifiche divisioni dei ruoli

terapeutici, schemi di obiettivi di intervento, indicazioni preventive e gestionali delle

situazioni di crisi, corsi di formazione specifici sui vari temi del rischio suicidario, etc.

Pur nella considerazione dei necessari approfondimenti critici attuali e correzione nel

tempo per il progresso scientifico e per il mutare della ideologie psichiatriche e dei principi

di legge, ed alla possibilità per ogni psichiatra di ampliare, anche a livello ufficiale e per

iscritto, i suoi compiti nella gestione del paziente suicidario, è da rilevare che le presenti

osservazioni psichiatrico forensi di buona pratica clinica già allo stato attuale permettono:

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A. Di offrire al paziente una alta qualità di beneficialità in tema di cura e protezione

in relazione al rischio suicidario rispettosa della sua autodeterminazione.

B. Di offrire allo psichiatra uno schema di comportamento obiettivo di buona

pratica clinica soddisfacendo il suo diritto-dovere di conoscere, prima di una sua

eventuale imputazione, i criteri sui quali è giudicata la sua responsabilità

professionale.

C. Di evitare che in un’aula giudiziaria siano esclusivamente altre persone (periti,

consulenti, familiari, avvocati, giudici, etc.) a proporre quali debbano essere le

coordinate cliniche secondo cui deve essere gestito dallo psichiatra il rischio

suicidario del paziente.

Infine, le osservazioni psichiatrico forensi di buona pratica clinica più sopra articolate

dovrebbero stimolare un dialogo costruttivo tra tutti i protagonisti che gestiscono e

giudicano la complessità di un evento suicidario, allo scopo di poter individuare e mettere

in atto misure e rimedi concreti per una sempre maggiore beneficialità del paziente con

rischio suicidario, nel rispetto delle leggi e del principio della sua autodeterminazione.

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