Ornette Coleman La Filosofia e Jazz

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Ornette Coleman, la filosofia è jazz Questa intervista — di cui si sono perse le trascrizioni originali — è stata realizzata dal filosofo Jac- ques Derrida il 23 giugno 1997. Ornette Coleman, sassofonista e compositore maestro dell’avanguardia nera si trovava a Parigi per tre concerti alla Villette, museo e sede per le arti perfo- rmative (tra le quali il Conservatorio). Il filosofò intervistò Ornette Coleman, che era al momento impegnato con il progetto “Civilization”, una serie di esibizioni che comprendevano esecuzione della partitura sinfonica Skies Of America, concerti in trio con Billy Higgins e Charlie Haden, membri del suo Quartetto «storico», e infine un concerto di Prime Time, il gruppo elettrico e «free funk». Composizione, improvvisazione, lingua, razzismo sono le tematiche principali dell’intervista apparsa nel ’97 in Francia sulla rivista Les Inrockuptibles a cui si è fatto riferimento in questa sede. Quest’anno presenterà un programma dal titolo “Civilizzazione”. Che rapporto c’è fra il titolo che ha scelto e la sua musica? “Cerco di esprimere un concetto secondo cui una cosa può essere tradotta in un’altra. Credo che il suono abbia una relazione assai democratica con l’informazione, perché non c’è bisogno dell’alfabeto per capire la musica. Quest’anno sto preparando un progetto con la Filarmonica di New York e il mio primo quartetto (senza Don Cherry) e altri gruppi in aggiunta. Sto cercando di realizzare l’idea secondo cui il suono si rinnova ogni volta che viene espresso.” Lei ritiene di agire più da compositore o da musicista? “Come compositore, spesso la gente mi dice, ‘Suonerà brani che ha già suonato, o cose nuove?’” Dunque lei non risponde mai a queste domande, giusto? “Se ti trovi a suonare musica che hai già registrato, la maggior parte dei musicisti riterrà di essere stata chiamata a mantener viva quella musica specifica. E la maggior parte dei musicisti non ha grande entusiasmo quando si trova a suonare la stessa musica in continuazione. Dunque io prefe- risco scrivere musica che non è mai stata eseguita prima. Vuole sorprenderli? “Sì, voglio stimolarli piuttosto che semplicemente chiedere loro di accompagnarmi in pubblico. Ma è difficile da farsi, perché il musicista di jazz è probabilmente l’unica persona per la quale la figura del compositore non è qualcosa di interessante, nel senso che preferisce ‘distruggere’ quanto il com- positore scrive o suona.” Quando afferma che il suono è più “democratico”, come la mette con il fatto che è un com- positore, e scrive musica come tutti in forma codificata? “Nel 1972 ho scritto una sinfonia dal titolo “Skies Of America” è stato quasi una tragedia, perché io non avevo un gran bella relazione con la scena musicale: esattamente come quando facevo free jazz, la gente perlopiù credeva che semplicemente io prendessi il mio sassofono, e poi mi mettessi a suo- nare quanto mi passava per la testa, senza seguire alcuna regola. Il che ovviamente non è vero.” Noto che lei spesso ribatte quell’accusa…

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Ornette Coleman, la filosofia è jazzQuesta intervista — di cui si sono perse le trascrizioni originali — è stata realizzata dal filosofo Jac-ques Derrida il 23 giugno 1997. Ornette Coleman, sassofonista e compositore maestrodell’avanguardia nera si trovava a Parigi per tre concerti alla Villette, museo e sede per le arti perfo-rmative (tra le quali il Conservatorio).

Il filosofò intervistò Ornette Coleman, che era al momento impegnato con il progetto “Civilization”,una serie di esibizioni che comprendevano esecuzione della partitura sinfonica Skies Of America,concerti in trio con Billy Higgins e Charlie Haden, membri del suo Quartetto «storico», e infine unconcerto di Prime Time, il gruppo elettrico e «free funk».

Composizione, improvvisazione, lingua, razzismo sono le tematiche principali dell’intervista apparsanel ’97 in Francia sulla rivista Les Inrockuptibles a cui si è fatto riferimento in questa sede.

Quest’anno presenterà un programma dal titolo “Civilizzazione”. Che rapporto c’è fra iltitolo che ha scelto e la sua musica?

“Cerco di esprimere un concetto secondo cui una cosa può essere tradotta in un’altra. Credo che ilsuono abbia una relazione assai democratica con l’informazione, perché non c’è bisogno dell’alfabetoper capire la musica. Quest’anno sto preparando un progetto con la Filarmonica di New York e il mioprimo quartetto (senza Don Cherry) e altri gruppi in aggiunta. Sto cercando di realizzare l’ideasecondo cui il suono si rinnova ogni volta che viene espresso.”

Lei ritiene di agire più da compositore o da musicista?

“Come compositore, spesso la gente mi dice, ‘Suonerà brani che ha già suonato, o cose nuove?’”

Dunque lei non risponde mai a queste domande, giusto?

“Se ti trovi a suonare musica che hai già registrato, la maggior parte dei musicisti riterrà di esserestata chiamata a mantener viva quella musica specifica. E la maggior parte dei musicisti non hagrande entusiasmo quando si trova a suonare la stessa musica in continuazione. Dunque io prefe-risco scrivere musica che non è mai stata eseguita prima.

Vuole sorprenderli?

“Sì, voglio stimolarli piuttosto che semplicemente chiedere loro di accompagnarmi in pubblico. Maè difficile da farsi, perché il musicista di jazz è probabilmente l’unica persona per la quale la figuradel compositore non è qualcosa di interessante, nel senso che preferisce ‘distruggere’ quanto il com-positore scrive o suona.”

Quando afferma che il suono è più “democratico”, come la mette con il fatto che è un com-positore, e scrive musica come tutti in forma codificata?

“Nel 1972 ho scritto una sinfonia dal titolo “Skies Of America” è stato quasi una tragedia, perché ionon avevo un gran bella relazione con la scena musicale: esattamente come quando facevo free jazz,la gente perlopiù credeva che semplicemente io prendessi il mio sassofono, e poi mi mettessi a suo-nare quanto mi passava per la testa, senza seguire alcuna regola. Il che ovviamente non è vero.”

Noto che lei spesso ribatte quell’accusa…

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“Certo. La gente al di fuori crede che sia una forma di libertà eccezionale, io credo invece che sia unlimite. Dunque ci sono voluti vent’anni, ma oggi finalmente posso avere un brano suonatodall’orchestra sinfonica di New York e dal suo direttore. Giorni fa parlando con membri della Filar-monica, questi mi hanno detto, ‘Senti Ornette, le persone incaricate delle partiture hanno bisogno divedere le tue’. Io ero terribilmente arrabbiato: è come se mi avessero scritto una lettera e una terzapersona la dovesse leggere per confermarmi che nella lettera stessa non c’è nulla che possa irritarmi.Era per essere sicuri che la Filarmonica non avrebbe avuto disturbi. E poi mi han detto, ‘L’unicacosa che vogliamo sapere è se c’è un punto lì, una parola in quell’altro spazio’. In realtà non avevanulla a che fare con la musica o con il suono, ma solo con i simboli che usiamo. Infatti la musica chescrivo da trent’anni e che definisco ‘armolodia’ è come se stessi fabbricando le mie parole personali,con un’idea precisa di cosa quelle parole nuove debbano significare per le altre persone.”

Ma chi suona con lei condivide questa concezione della musica?

“Normalmente io parto dal fatto di scrivere qualcosa che loro possano analizzare, la suono assiemea loro, e poi consegno le partiture. Nella prova successiva chiedo loro di mostrarmi cos’hanno sco-perto, e come dall’idea di base se ne possano sviluppare altre. Lo faccio sia con i musicisti, sia congli studenti dei miei corsi. Io credo che chiunque tenti di esprimersi con le parole, con la poesia,nella forma che volete, può prendere il mio libro dell’armolodia e scrivere seguendone i precetti, conla stessa passione e gli stessi elementi di fondo”.

Nella preparazione del nuovo progetto di New York, ha prima scritto la musica e poi chie-sto a chi doveva partecipare di leggerla, vedere se si trovava in accordo, e alla fine di tra-sformare il materiale originario?

“Per la Filarmonica ho dovuto scrivere le parti per ogni strumento, fotocopiarle, poi confrontarmicon la persona che si occupa delle partiture. Con i gruppi jazz, compongo e distribuisco le partidirettamente alle prove. Quello che è veramente sconcertante nella musica improvvisata è che,a dispetto del nome che usiamo, la maggior parte dei musicisti in realtà usa una base per improvv-isare. Mi sono trovato di recente a incidere un disco con un musicista europeo, Joachim Kühn, e lamusica che ho scritto per suonare con lui, e poi registrata nell’agosto del ’96, ha due caratteristiche:è totalmente improvvisata, e al contempo segue leggi e regole della musica europea. Ciò nonostante,a sentirla, sembra quasi totalmente improvvisata.”

Ricapitolando: il musicista legge lo schema di fondo, e poi interviene il tocco personale?

“Sì, l’idea è che due o tre persone possano avere una conversazione con i suoni senza che nessunotenti di guidare o indirizzare la conversazione stessa. Intendo dire: si tratta di intelligenza, quellaè la parola. Credo che nella musica improvvisata i musicisti cerchino di rimettere assieme i pezzi diun puzzle emotivo o intellettuale, e in ogni caso si tratta di un puzzle nel quale il tono è dato daglistrumenti. Il pianoforte più o meno sempre è servito come base per la musica, ma ora non è più indi-spensabile: infatti gli aspetti più propriamente commerciali della musica sono diventati molto incerti.Peraltro la musica che passa attraverso il mercato non è necessariamente più accessibile, ma ha deilimiti.”

Quando inizia a provare, tutto è pronto e scritto, o già prevede di lasciare spazi aperti?

“Supponiamo di essere nel momento in cui si suona e tu capti qualcosa che potrebbe essere svilu-ppato. A quel punto dovresti dirmi, ‘Proviamo questo’. La musica non ha leader, per quanto miriguarda.

Cosa ne pensa della relazione tra il concerto, che è poi l’evento, la musica scritta e la

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musica improvvisata? Ritiene che la musica scritta impedisca all’evento di accadere?

“No. Non so se sia vero per le questioni che attengono alla lingua ma nel jazz si può prendere unpezzo molto antico e farne una nuova versione. La cosa eccitante è il ricordo che se ne trasmette alpresente. Comunque ciò di cui parla, la metamorfosi di una forma in una forma diversa è qualcosa diassai sano, ma molto rara.”

Forse sarà d’accordo con me sul fatto che al cuore dell’improvvisazione è la lettura, dalmomento che spesso ciò che capiamo dall’improvvisazione è la creazione di qualcosa dinuovo, ma che tuttavia non esclude la matrice scritta che la ha resa possibile…

“Vero”.

Non credo di essere un esperto sulla sua musica, ma se provo a tradurre ciò che lei fa in unambito che conosco meglio, quello del linguaggio scritto, l’evento unico — che si produceuna volta sola – è cionondimeno qualcosa di ripetuto nella struttura stessa. C’è dunque unaripetizione, nella struttura, intrinseco alla creazione iniziale, che compromette o comun-que complica il concetto di improvvisazione. La ripetizione è già nell’improvvisazione: dun-que quando la gente tende a intrappolarti tra improvvisazione e scrittura alla base, è intorto…

“La ripetizione è naturale esattamente come il fatto che la terra ruota”.

Lei pensa che la sua musica e il modo in cui la gente reagisce possa o debba cambiare lecose, ad esempio a livello politico, o in una relazione sessuale? Il suo ruolo di artistae compositore può (o dovrebbe) avere un effetto sullo stato delle cose?

“No, non lo credo, ma ritengo che molte persone ne abbiano già fatto esperienza prima di me, e secomincio a lamentarmi, mi diranno, ‘Perché ti lamenti? Non siano cambiati a causa di questa per-sona che ammiriamo ben più di te, perché dovremmo cambiare grazie a te?’ Dunque di fondo non lapenso così. Vivevo nel sud degli Stati Uniti quando le minoranze erano oppresse, e mi identificavocon loro attraverso la mia musica. Ero in Texas, cominciai a suonare il sassofono e a guadagnarmi davivere per me e la mia famiglia suonando alla radio. Un giorno capitai in un posto pieno di gente chegiocava d’azzardo e di prostitute, gente che litigava, e mi capitò di vedere una donna accoltellata.Pensai di dover scappare da lì. Allora dissi a mia madre che non volevo più suonare la musica, cheera come aggiungere sofferenza alla sofferenza. Mi rispose, ‘Che ti è preso, vuoi che qualcuno tipaghi per la tua anima?’. Non ci avevo pensato, e quando me lo disse, e come se avessi ricevuto unnuovo battesimo”.

Sua madre aveva le idee molto chiare…

“Sì, era una donna intelligente. Ho provato da quel giorno stesso a cercare il modo per non sentirmiin colpa nel fare cose che le altre persone non fanno.”

E ha avuto successo?

“Non lo so, ma nel frattempo era venuto fuori il bebop, e lo vidi come una via d’uscita. E’ musicastrumentale non connessa specificatamente a una scena, che può esistere a prescindere dal luogo.Dovunque io suonassi il blues, c’erano frotte di persone senza lavoro che non facevano altro che gio-carsi i soldi. Allora mi scelsi il bebop, la cosa nuova che stava succedendo a New York, e mi dissi chedovevo andar là. Avevo appena diciassette anni. Me ne andai di casa, mi diressi a sud”.

Prima di andare a Los Angeles?

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“Sì, avevo i capelli lunghi come i Beatles, era l’inizio degli anni Cinquanta. Dunque me ne andaia sud, e tutti provavano a menarmi, polizia e gente nera; non gli piacevo. Avevo un look troppo biz-zarro per loro. Mi prendevano a pugni e cercavano di rompere il mio sax. Era dura. Inoltre ero conun gruppo che suonava quella che più o meno chiamavamo “musica con i fiati da menestrelli” e cer-cavo di fare bebop, stavo anche facendo progressi e avevo trovato ingaggi. Ero a New Orleans, mene sono andato a visitare una famiglia molto religiosa, e ho cominciato a suonare in una chieda nera.Quand’ero piccolo, suonavo sempre e solo in chiesa. Da quando mia madre mi disse quelle parole,sono andato alla ricerca di una musica che potessi suonare senza sentirmi in colpa per aver provatoa fare qualcosa. E a tutt’oggi non l’ho ancora trovata”.

Quando è arrivato a New York, ancora molto giovane, ha avuto qualche tipo di premo-nizione su quelle che sarebbero state le sue scoperte musicali, l’armolodia, o è successotutto dopo?

“No, perché quando sono arrivato a New York mi trattavano grossomodo come un tipo del sud chenon conosce la musica, che non sa né leggere né scrivere. Non ho mai provato a controbattere. Hopoi deciso che avrei cominciato a sviluppare le mie idee, e senza l’aiuto di nessuno. Mi sono affittatoil teatro Town Hall, era il 21 dicembre del 1962, per 600 dollari, ho ingaggiato un grupporhythm’n’blues, uno classico e un trio. La sera del concerto ci sono stati: una tormenta di neve, unosciopero dei giornali, uno sciopero dei medici e uno della metropolitana, così è andata finire che lesole persone che sono arrivate al Town Hall sono state quelle che erano riuscite ad arrivarci. Avevochiesto a qualcuno di registrare il concerto, ma quel qualcuno s’è suicidato, ed è successo che qual-cun altro ha registrato il concerto, fondato la sua etichetta con quella registrazione, ed è sparito nelnulla. Tutto ciò mi ha fatto capire, una volta di più, che lo avevo fatto per la stessa ragione per cuiavevo detto a mia madre che non avrei suonato più lì. Ovviamente la situazione da un punto di vistadi tecnologia, finanziario, sociale e perfino di rischio criminale era davvero peggio di quando ero nelsud. Bussavo a porte che rimanevano ostinatamente chiuse.”

Qual è stato l’impatto di suo figlio sul suo lavoro? E ha a che fare con l’uso di nuove tecn-ologie nella sua musica?

“Da quando Denardo è il mio manager, ho capito finalmente che la tecnologia è semplice, e ne hocompreso il significato”.

Ha avuto la sensazione che introduzione della tecnologia abbia portato cambiamenti vio-lenti nel suo progetto, o è stata cosa facile? E, d’altra parte, il suo progetto Civilization hache fare con quanto viene definito globalizzazione?

“C’è qualcosa di vero in entrambe le affermazioni, nel senso di poter chiedere a te stesso se sianoesistiti ‘uomini bianchi primitivi’: la tecnologia sembra sia in grado di coprire solo l’area di senso di‘bianco’.Mi sembra di capire che lei non creda al concetto di globalizzazione, e ritengo sia nel giusto… Seconsideri la musica, i compositori che sono stati realmente ‘inventori’ nella cultura occidentale sonoforse una mezza dozzina. Lo stesso vale per la tecnologia, gli inventori dei quali ho sentito davveroparlare sono indiani di Calcutta e di Bombay. Ci sono un sacco di scienziati indiani e cinesi. Le loroinvenzioni sono come delle inversioni di idee di inventori americani o europei, ma la stessa parola‘inventore’ ha assunto un connotato di dominazione razziale che è diventato più importantedell’invenzione stessa, cosa ben triste, perché è l’equivalente di una qualche specie di propaganda.Quello che intendo dire è che le differenze tra uomo e donna o tra le razze sono in relazione alle edu-cazioni e alle credenze. Dal momento che io sono nero e discendente di schiavi, non ho alcuna ideadi quale fosse il mio linguaggio d’origine”.

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Se fossimo qui a parlare di me (e non è questo il caso) direi che, in modo differente maanalogo, mi succede esattamente la stessa cosa. Sono nato in una famiglia di ebrei algeriniche parlavano francese, che non era la loro lingua d’origine. Ho scritto un piccolo libro suquesto argomento, e in un certo senso sono sempre nel processo di parlare in quello chedefinisco ‘il monolinguismo dell’Altro’. Non ho contatti di sorta con la lingua d’origine o,meglio ancora, con quella dei miei supposti antenati.

“Non si chiede mai se la lingua in cui parla ora interferisce, condiziona il suo vero pensiero? Un lin-gua d’origine può influenzare i pensieri?”

E’ un enigma per me. Non lo so. Credo che qualcosa parli attraverso di me, una lingua cheio non capisco, una lingua che a volte cerco di tradurre più o meno facilmente nella ‘mialingua’. Ovviamente io sono un intellettuale francese, insegno in scuole dove si parla fran-cese, ma ho sempre l’impressione che qualcosa mi forzi a far qualcosa per la linguafrancese…

“Ma lei sa che, per quanto riguarda le mie vicende, negli Stati Uniti esiste lo ‘ebonics’, che sarebbel’inglese che parlano i neri: che è poi poter usare un’espressione che significa qualcosa di diversorispetto all’inglese standard. La comunità nera ha sempre usato un lingua a doppio significato.Quando sono arrivato in California, è stata la prima volta che mi sono trovato in un posto dove unbianco non mi diceva che non potevo sedermi in un certo posto. Poi qualcuno ha cominciato a farmimoltissime domande, e io non riuscivo a rispondere, allora sono andato da uno psichiatra per vederese riuscivo a rispondere. E quello mi ha prescritto del valium. L’ho preso e buttato nella tazza delwater. Non sempre mi rendevo conto di dove fossi, così sono andato in una biblioteca e ho fattoricerche in tutti i libri che ho trovato sul cervello, mi son letto tutto. E i libri dicevano che il cervelloin fondo è conversazione. Non dicevano a proposito di che, ma mi ha fatto capire che il fatto di pen-sare e apprendere non dipende solo dal posto dove sei nato. Credo di capire sempre meglio chequello che chiamiamo cervello, nel senso di conoscenza e essere, non è la stessa cosa del cervelloche ci fa essere ciò che siamo.”

Questo è sempre un fatto di convinzione: noi conosciamo noi stessi in base a quanto cre-diamo. Naturalmente nel suo caso è tragico, ma è un fatto universale: noi crediamo (o sup-poniamo di credere) che siamo quel che siamo attraverso le storie che ci raccontano. Unfatto rilevante è che abbiamo esattamente la stessa età, siamo nati lo stesso anno. Quandoero giovane, durante la guerra (nono sono mai stato in Francia prima dei diciannove anni)vivevo in Algeria, e nel 1940 sono stato espulso da scuola perché ero ebreo, come risultatodelle leggi razziali, e non riuscivo neppure a capire cosa stesse succedendo. L’ho capitomolto tempo dopo, e questo attraverso storie che mi hanno fatto capire chi fossi, per cosìdire. E perfino per quanto riguarda sua madre, noi sappiamo chi è e che è in un certo modosolo attraverso la narrazione. Ho cercato di capire in quale momento storico lei fossea New York e a Los Angeles, ed è stato prima che venissero riconosciuti i diritti civili aineri d’America. La prima volta che sono stato negli Stati Uniti, nel 1956, c’erano cartelli‘solo per bianchi’ ovunque, mi ricordo la brutalità del messaggio. Lei ne ha avuta espe-rienza diretta?

“Certo. Sia come sia, quello che mi piace di Parigi è che non puoi essere snob e razzista allo stessotempo, non funziona. Parigi è l’unica città che io conosca dove il razzismo non appare mai in tua pre-senza, è qualcosa di cui senti solo parlare.”

Ciò non significa che non ci sia razzismo, ma che sia commisurato obbligatoriamente alcontesto in cui si trova ad essere. Qual è la strategia alla base della sua scelta musicale perParigi?

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“Essere un innovatore per me non significa essere più intelligente, più ricco. Non è una parola,è un’azione. E dal momento che tale azione non s’è ancora prodotta, non ha senso parlarne.”

Ho capito che lei preferisce il fare al parlare. Ma come si comporta lei con le parole? Qualè la relazione tra la musica che fa e le sue parole, o quelle che le persone cercano disovrapporre a quello che lei fa? Prendiamo ad esempio il problema di scegliere un titolo,come lo concepisce?

“Una mia nipote è morta a febbraio di quest’anno e sono andato al suo funerale. Quando l’ho vistanella bara, ho notato che qualcuno le aveva messo degli occhiali. Lì mi è venuta l’idea di chiamareun mio pezzo ‘Lei dormiva, morta, nella bara e indossava occhiali’. Poi ho cambiato idea, e quelpezzo l’ho chiamato ‘Appuntamento al buio’.”

Vuol dire che quel titolo s’è imposto da solo?

“E’ che cercavo di capire il fatto che qualcuno avesse messo gli occhiali a una donna morta..avevouna qualche idea di cosa significava, ma è molto difficile capire il modo di concepire la vita femm-inile, quando tale modo nulla a che fare con quello maschile”.

Lei ritiene che il suo modo di scrivere musica ha a che fare con il modo in cui si relazionacon le donne?

“Prima di essere conosciuto come musicista, quando lavoravo in un grande magazzino un giorno,durante la pausa pranzo, sono capitato in una mostra, e lì c’era un quadro che aveva dipinto qual-cuno che ritraeva una donna bianca e ricca, una di quelle persone che hanno assolutamente tuttonella vita, ed aveva espressione più solitaria che abbia mai visto, in volto. Non mi ero mai imbattutocin una tale solitudine, e quando sono tornato a casa ho scritto il pezzo che si intitola ‘Donnasolitaria’”.

Intende dire che la scelta del titolo non è stata una scelta di parole ma un riferimentodiretto all’esperienza vissuta? Le faccio queste domande sulla lingua, sulle parole, perchéper prepararmi all’incontro con lei ho ascoltato la sua musica e ascoltato quello che nehanno scritto i critici. E la scorsa notte ho letto un articolo che era infatti un’analisi peruna conferenza fatta da un mio amico, Rodolphe Burger, un musicista che ha un gruppoche si chiama Kat Onoma. L’analisi era costruita su sue affermazioni. Per tentate di anali-zzare il modo in cui lei concepisce la sua musica, ha preso spunto dalle sue affermazioni, laprima delle quali era, ‘Per ragioni delle quali non sono certo, sono convinto che prima didiventare musica, musica era solo una parola’. Si ricorda di averlo detto?

“No”

Ma lei come interpreta o capisce le sue stesse affermazioni? Sono cose importanti?

“Mi interessa assai di più avere una relazione umana con lei piuttosto che una relazione musicale.Voglio verificare se riesco a esprimermi con le parole, con suoni che hanno a che fare con una rela-zione umana. Allo stesso tempo, mi piacerebbe essere in grado di parlare della relazione tra duetalenti, tra due azioni. Per me, la relazione umana è la cosa più bella, perché ti mette in condizionedi guadagnarti la libertà che desideri, per te e per l’altra persona.”

(traduzione e cura di Guido Festinese)

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