Storia Del Jazz

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CAPITOLO SECONDO Giant steps: il percorso storico della musica jazz 2.1. Dalle origini della musica afro-americana alla febbre per lo swing Le radici È molto difficile fornire una data precisa di quando sia nata la musica jazz, di certo si sa che questo termine è apparso stampato, per la prima volta, con riferimento a una forma musicale nel 1913, in un giornale di San Francisco. Quando il termine fu adottato da una delle prime orchestrine di jazz che dalla città di New Orleans salirono al Nord, a Chicago e a New York, la Original Dixieland Jazz Band diretta da Nick La Rocca, la parola non aveva, in ogni modo alcun significato per l’americano medio, e la musica che essa voleva indicare rappresentava una novità e un motivo di curiosità per quasi tutti [Polillo 1980, 595]. Il processo che portò alla definizione del jazz come musica dalle caratteristiche proprie e innovative fu molto lungo e attraversò molte fasi della storia degli Stati Uniti e, in seguito, anche del resto del mon- do, in particolare dell’Europa e del Sud America. Tutto ebbe inizio si-

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CAPITOLO SECONDO

Giant steps: il percorso storico della musica jazz

2.1. Dalle origini della musica afro-americana alla febbre per loswing

Le radici

È molto difficile fornire una data precisa di quando sia nata la musicajazz, di certo si sa che questo termine

è apparso stampato, per la prima volta, con riferimento a una forma musicale nel1913, in un giornale di San Francisco. Quando il termine fu adottato da una delle primeorchestrine di jazz che dalla città di New Orleans salirono al Nord, a Chicago e a NewYork, la Original Dixieland Jazz Band diretta da Nick La Rocca, la parola non aveva,in ogni modo alcun significato per l’americano medio, e la musica che essa volevaindicare rappresentava una novità e un motivo di curiosità per quasi tutti [Polillo 1980,595].

Il processo che portò alla definizione del jazz come musica dallecaratteristiche proprie e innovative fu molto lungo e attraversò moltefasi della storia degli Stati Uniti e, in seguito, anche del resto del mon-do, in particolare dell’Europa e del Sud America. Tutto ebbe inizio si-

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curamente da un avvenimento storico drammatico come quello delladeportazione degli schiavi africani negli Stati Uniti, in particolare neglistati del Sud. Per rendere l’idea delle dimensioni di questo fenomeno èimportante fornire qualche dato numerico.

Su un totale di undici milioni di africani deportati due milioni sarebbero morti neltragitto, mentre sei sarebbero stati utilizzati nelle piantagioni da zucchero, due in quelledi caffè, uno nelle miniere, uno nei lavori domestici, mezzo milione nelle piantagioni dicotone, 250.000 a coltivare cacao, e altrettanti impiegati nelle costruzioni. Di questisolo 500.000 negli Stati Uniti, mentre ben quattro milioni in Brasile, due milioni e mez-zo nell’impero spagnolo, due nelle Indie occidentali inglesi, 1.600.000 in quelle france-si, 500.000 nelle Indie occidentali olandesi, 28.000 in quelle danesi e 200.000 in variezone europee [Thomas 1997, 804].

In realtà, quindi, il numero degli schiavi africani negli Stati Uniti nonera così alto rispetto a quello di altri paesi. Fu il fatto che questi neri sitrovarono in un territorio culturalmente “vergine” e a contatto con altreculture completamente diverse dalla loro, e parlo non solo delle cultureeuropee ma anche di quella dei nativi d’America, a dare l’input per losviluppo di nuove forme culturali e musicali.

Nacquero perciò in tutti gli stati, e soprattutto nelle grandi città mantenendo quasiintatte le caratteristiche originarie, queste “isole etniche”, divenendo custodi gelose diquel patrimonio portato dai paesi d’origine che , a livello musicale, avrebbe costituito labase composita e ricchissima (perché in grado di utilizzare molteplici esperienze) checreò e rafforzò il particolarissimo humus che al jazz avrebbe fornito le sue inimitabilicaratteristiche [Roncaglia 1998, 10].

Con il passare del tempo, poi, queste “isole etniche” pian piano co-minciarono a fondersi culturalmente, soprattutto dopo l’abolizione del-la schiavitù.

Attraverso un processo che l’antropologia ha definito con il termine sincretismo,cioè in conseguenza dell’interazione di sistemi linguistici, di stili di vita, di costumiprofani e tradizioni religiose, di riti e di attività espressive, il contatto tra mondo biancoe nero, dopo quello fra africani e musulmani, ha offerto alla civiltà contemporanea unavariante afro-americana di cui la musica rappresenta l’indiscussa priorità in terminiquantitativi e qualitativi [Cerchiari 1999, 38].

Fra tutte le etnie la più prolifica dal punto di vista musicale, almenoall’inizio, fu di certo quella africana, che in particolare nel XIX secolo

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diede vita a molte forme musicali, che avrebbero dato il via allo svilup-po del jazz. Tra queste molte erano legate al mondo religioso.

L’avventura americana, esaltante o traumatica che sia, e con le infinite sfumatureintermedie, nasce nel segno del binomio musica-religione, e, all’inizio al suono poveroma puro, semplice nell’assolo, avvolgente e circolare nella dimensione del coro, dellavoce umana [Cerchiari 1999, 49].

Il canto spirituale nero ha origini remote, che potrebbero farsi risalire alle primeforme di mercato degli schiavi provenienti dall’Africa nera e sbarcati sulla Congo Square,la grande antica piazza di New Orleans tristemente nota perché lì si svolgeva la compra-vendita della mano d’opera africana, destinata a consumare i suoi giorni nelle grandipiantagioni di cotone adiacenti il delta del grande fiume [Mauro 1994, 9-10].

L’importanza del rito religioso, sia per i neri come motivo di aggre-gazione, sia per i bianchi, che lo utilizzavano per controllare gli schiavi,fu indiscutibile.

Infatti le coscienze individuali sono di per sé chiuse le une alle altre; esse possonocomunicare soltanto per mezzo di segni in cui si traducono i loro stati interiori. Perchéil rapporto che si stabilisce tra loro possa sfociare in una comunione, cioè in una fusionedi tutti i sentimenti particolari in un sentimento comune, occorre dunque che i segni cheli manifestano si fondano anch’essi in una sola e unica risultante. L’apparizione di que-sta risultante avverte gli individui di essere all’unisono, e li conduce ad assumere co-scienza della loro unità morale: lanciando uno stesso grido, pronunciando una stessaparola, eseguendo uno stesso gesto concernente uno stesso oggetto essi si mettono e sisentono d’accordo [Durkheim 1963, 253].

I riti e le funzioni religiose, come le festività civili, hanno il compito di tenere viva lacoscienza collettiva rinnovando quei momenti particolarmente intensi di collaborazionee fusione degli individui in cui essa si è formata o rinnovata [Izzo 1991, 205-206].

La religione si rivelò quindi il mezzo più efficace per neutralizzare loschiavo, che aveva la facoltà di spostarsi solo per recarsi sui luoghi dilavoro e in Chiesa. Proprio qui nacquero i canti religiosi come lo spirituale il gospel, che avevano preso spunto dai camp meetings dove gli africa-ni avevano portato il loro patrimonio musicale. In pratica lo spiritualera

un modo di cantare (anzi di urlare, mutuando lo stile shuot di certi canti del Sud) chevenne via via assumendo caratteristiche originali, musicali innanzitutto, perché accom-pagnato dal battere delle mani o dei piedi dei presenti (si immagini il risultato della cosa

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quando aveva luogo all’interno delle chiese, costruite in genere in legno e con l’impiantitofatto di tavole sostenute da pali per dividere il corpo del fabbricato dall’umido delterreno sottostante...), ma anche, e chiaramente, “politiche”. Le riunioni religiose, difatto, si trasformarono quindi ben presto in corali ansiti della libertà [Roncaglia 1998,41].

Significativi sono, a questo riguardo, i primi versi di uno degli spiritualpiù famosi, Go Down, Moses:

Tabella 1.

I sorveglianti spesso lasciavano sfogare i neri, sapendo che così avreb-bero lavorato di più il giorno successivo, ignorando che proprio i pastorineri sarebbero divenuti in breve tempo le vere e proprie guide del popo-lo africano negli Stati Uniti.

Il predicatore, come ha notato Eric C. Lincoln, già all’epoca della fine della GuerraCivile svolgeva il ruolo di educatore, liberatore, capo politico, persino guaritore, oltreche difensore e leader spirituale. Ma il suo particolare genio gli derivava dal fatto diessere vicino alla gente. La maggior parte dei predicatori veniva non dall’esterno, madall’interno della comunità. Il predicatore era più che un leader e pastore, era la proie-zione delle persone della comunità: impegnato contro le avversità, simbolo del lorosuccesso, intento a denunciare i loro oppressori con intelligenti metafore, e a prepararleal giorno del Giubileo, che avrebbe portato la loro liberazione [Cerchiari 1999, 96].

Proprio per questo, forse, si ebbe quel processo di identificazione eattribuzione di valenze colloquiali, amichevoli, familiari, con i perso-naggi biblici; per avvicinare queste figure alla vita quotidiana degli schia-vi. Va sottolineato come questi rituali non siano nati col popolo afro-americano, che ne ha però fatti propri più d’uno, ma abbiano origini benpiù antiche, che affondano nei rituali liturgici cristiani.

Un carattere tipico del canto comunitario settecentesco è il cosiddetto lining out,

When Israel was in Egypt’s Land, Let my people go. Oppressed so hard they couldn’t stand, Let my people go. Go down, Moses, way down in Egypt’s Land, Tell old Pharaon, let my people go.

Quando Israele era nella terra d’Egitto, Lascia andare la mia gente. Oppressi così duramente da non poter restare, Lascia andare la mia gente. Scendi giù, Mosè, vieni giù nella terra d’Egitto, Dì al vecchio faraone, lascia andare la mia gente.

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cioè la prassi di recitare (intonando o meno) un verso da parte del predicatore, e di farseguire l’enunciazione dello stesso verso, immediatamente, da parte dei fedeli, creandouna ricorrente struttura responsoriale: essa corrisponde esattamente, fatto salvo il con-testo funzionale, al principio africano indicato in lingua inglese con il termine di calland response, chiamata e risposta [Cerchiari 1999, 77].

Il call and response era molto utilizzato anche nei work songs, i cantiche venivano intonati nei campi di cotone, spesso addirittura per con-trollare lo schiavo mentre lavorava e assicurarsi che non scappasse. Ilcarattere dei work songs è molto vario e ci sono canzoni di protesta,critica sociale, canzoni su episodi di vita vissuta o di cronaca. Uno deipiù famosi è quello che narra la vicenda di Ol’ Riley, fuggito da unpenitenziario dopo la morte della moglie, o ancora di John Henry, o dialtri eroi della mitologia dei neri d’America. A ogni modo, fu da questeprime forme musicali che nacque il più vicino parente del jazz, cioè ilblues.

Non per nulla si può dire che il jazz sia nato quando si cominciarono a suonare, oltreche a cantare, i blues, ciò che divenne possibile soltanto alcuni anni dopo la GuerraCivile, quando gli schiavi liberati poterono acquistare degli strumenti musicali [Polillo1975, 37].

Di sicuro il blues non è tutto il jazz, ma tutto il blues è jazz. Essorappresenta il ponte di unione fra il folk-song del Sud e la complessitàarmonica, l’organizzazione ritmica dei primi gruppi di improvvisatorijazzistici.

La progressione armonica tipica del blues, nella sua forma consolidata, è quella ditonica-sottodominante-dominante (che certo non è di origine africana): altrettanto tipi-ca di questa forma musicale è la cosiddetta scala blues, in cui il terzo e il settimo gradodella scala maggiore sono leggermente abbassati e sono detti blue notes [Polillo 1975,38].

Figura 1. Scala blues ascendente e discendente nella tonalità di Fa.

L’immagine seguente rappresenta proprio la classica struttura del blues

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in dodici battute. Va ricordato, però, che questa struttura è solo una strut-tura di base e che, col passare del tempo, è stata sottoposta a notevolivariazioni. Soprattutto nel periodo del bebop, quando, per inserire frasimelodiche ricche di cromatismi, si dovettero alterare gli accordi.

Figura 2. Struttura armonica di un classico blues in dodici battute nella tona-lità di Fa.

Ecco, quindi, che il jazz rivela la sua natura composita, che gli derivadall’essere crocevia di musiche differenti e antiche quali come accen-nato, il blues.

È facile dire che il jazz non sarebbe potuto esistere senza il blues e i suoi vari ante-cedenti. Ma è inesatto considerare il jazz come un successore del blues: il jazz è unamusica originale che si è sviluppata dal blues e allo stesso tempo è concomitante conesso, e poi si è sviluppata su una strada autonoma. È invece interessante ricordare cheblues, in seguito, indicò un modo di suonare il jazz, e che con l’era dello swing, lagrande popolarità dei cantanti blues era stata soppiantata da quella dei jazzisti. Da allo-ra, per molti, il blues non fu più un genere musicale separato [Baraka 1963, 77].

Le parole di Amiri Baraka rendono chiaro il filo sottile che lega bluese jazz e sottolineano, ancora una volta, l’importanza della particolaremistura culturale in cui è nata la musica afro-americana.

Si pensa comunemente che il jazz sia nato a cavallo del secolo, ma le musiche da cuideriva sono molto più antiche. Il blues è il padre legittimo di tutto il jazz. Non è possi-bile dire con esattezza quanto sia vecchio il blues, ma di certo non è antecedente allavenuta dei neri negli Stati Uniti. È una musica indigena americana, il prodotto dell’uo-mo nero in questo paese o, per dire esattamente come vedo la questione, il blues non

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avrebbe potuto esistere se gli schiavi africani non fossero diventati degli schiavi ameri-cani [Baraka 1963, 35-36].

Al di là della forma classica del blues in dodici battute, che è statacomunque soggetta a variazioni e personalizzazioni nel tempo, quelloche credo sia interessante dal punto di vista sociologico sta nel contenu-to dei testi dei blues, che si concentrano su pochi temi principali e cherispecchiano la condizione esistenziale del nero americano di quel peri-odo.

Nelle strofe del blues l’universo dolente e squallido del negro americano si tradussein poesia. Ma era ed è una poesia di tipo nuovo. Avere i blues è qualcosa di diversodall’essere triste dell’uomo bianco. È essere afflitti da un tedio esistenziale, da unamalinconia greve che non lascia spazio alle fantasticherie, vuol dire autocommiserazione,rassegnazione, vuol dire disperazione sorda, grigiore, miseria. È una poesia fondatasulle cose di tutti i giorni, su personaggi familiari, visti in una luce realistica, con occhiodisincantato. Non c’è, ne ci vuole essere, nel blues, trasfigurazione lirica, che è un lussoda bianchi; non c’è dramma, perché il dramma è fatto di ombre ma anche di luci. C’èinvece la consapevolezza di una tragedia in atto che non finirà mai. Il bluesman noncanta la vita, ma il non morire, parla sempre di ciò che non ha e che non avrà mai[Polillo 1975, 43].

Il blues è infatti espressione di una condizione esistenziale di estre-ma sofferenza; viene spesso denunciata la mancanza di una casa, di unluogo con persone amiche o ancora le condizioni di lavoro disumane.

Il blues canta di molte cose che si sono perdute: dell’amore perduto e della felicitàperduta, della libertà perduta e della dignità umana perduta. Spesso ne canta comeattraverso un velo di ironia. La simultaneità di tristezza e di humour è caratteristica delblues [Berendt 1979, 71].

Un tema di blues che costituisce quasi un filone a sé tanto è numero-so, è quello che racconta le difficoltà di relazione tra uomo e donnaall’interno della società afro-americana. Chiamati, non a caso, “bluesdel letto vuoto”, esprimono l’incapacità e la difficoltà da parte del neroamericano nel costruire e mantenere una famiglia stabile. Ciò è dovutosia a un complicato gioco di ruoli fra uomo e donna, sia alle frequentiinfedeltà coniugali radicate nel comportamento degli schiavi da partedei padroni, che vedevano così aumentare la loro forza lavoro. Le diffi-coltà da parte dello schiavo nero nel sostenere il ruolo maschile, dovutealla scarsità di lavoro per gli afro-americani maschi, rendeva di fatto la

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donna l’unico capo della famiglia. Il risultato era appunto la fuga delmaschio e la conseguente conclusione della donna che l’uomo fosse unbuono a nulla. Anche la cantante Bessie Smith ebbe successo cantandoproprio uno di questi blues. Non mancano, poi, i blues di soggetto eroti-co, alcuni scritti forse per riscattare la condizione di inferiorità del ma-schio afro-americano.

In gran parte di questi blues, il cantante, uomo o donna, descrive le abilità e leprodezze amatorie proprie o dell’amante, usando talvolta espressioni brutalmente espli-cite, più spesso usando metafore pittoresche, come quelle che si riferiscono ai motoridelle automobili, divenute popolarissime dopo il lancio del modello T della Ford [Polillo1975, 49].

Non aveva importanza se tutto ciò fosse vero o meno: il nero ameri-cano sa che il bianco lo ritiene superiore a lui dal punto di vista sessuale.È stato questo l’unico conforto per il suo ego per anni e anni.

Il blues, prima dei cantanti di blues classico, era una musica quasi esclusivamentefunzionale, e prendeva vita da un’altra musica, il canto di lavoro, che esisteva solocome sistema di comunicazione strettamente empirico e parziale tra gli schiavi. Mal’idea che il blues potesse essere in qualche modo reso professionistico e trasformato inuno spettacolo con spettatori paganti, fu una vera e propria rivelazione [Baraka 1963,99-100].

Da un punto di vista sociologico il blues segnò quindi l’ingresso deineri nel mondo dello spettacolo, con tutte le implicazioni psicologicheche un simile fenomeno comportò. Ecco perché il blues viene ancoraoggi considerato il più vicino parente del jazz: perché fornì una strutturaarmonica poi ripresa da molte composizioni jazz, perché si basava suuna forte componente improvvisativa, perché fu la prima vera nuovaespressione musicale negli Stati Uniti e perché permise agli afro-ameri-cani di esprimere il loro pensiero più o meno liberamente, elementoquesto che sarà ripreso in maggior misura dalle generazioni di jazzistiche, in alcuni casi, ebbero la possibilità di farsi portavoce dei problemidel popolo afro-americano. L’ingresso nel mondo dello spettacolo erapoi un valido modo per liberarsi dalle fatiche del lavoro da schiavo.Chiaramente, i primi musicisti neri non erano certo considerati artistidal pubblico bianco e, anzi, i primi dischi di blues erano destinati a unpubblico di soli neri.

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Fu negli anni Venti, infatti, che alcune case discografiche, cercando nuovi sbocchicommerciali, scoprirono la redditività del canale nero: nacquero così le collanediscografiche chiamate race records (dischi di razza), riservate al solo mercato dei neri.Con questi dischi venne fissato sui solchi il ricchissimo patrimonio musicale di cui si èparlato, e soprattutto il blues vocale e orchestrale [Roncaglia 1998, 64].

L’importanza del fattore commerciale nel jazz è testimoniata anchedal fatto che il film che segnò l’avvento del sonoro nella storia del cine-ma fu The Jazz Singer. Girato nel 1927 da Alan Crosland, vide la pre-senza di Al Jolson, un famoso cantante dell’epoca, come protagonista, efu la prova che oramai il jazz iniziava ad assumere quelle caratteristichepeculiari che lo rendevano riconoscibile dal grande pubblico come ungenere ben definito.

Figura 3. La locandina del film The Jazz Singer.

Chiaramente l’inizio non fu facile, anche perché i neri americani eranoconsiderati dalla popolazione bianca come degli animali. Ecco perché iprimi spettacoli degli afro-americani li vedevano in vesti quasi da circo,nei cosiddetti minstrelsy show.

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Si trattò, evidentemente, di un’espressione squisitamente ziotomistica: ma in ciòrisiede il più evidente legame con il jazz degli anni a venire. Gli spettacoli di minstrelsneri rappresentano infatti la più evidente esemplificazione delle origini di una condizio-ne che, allora come negli anni futuri, avrebbe costretto il nero americano a subire unastabile dipendenza nei confronti dei bianchi, dovendone adottare, come conseguenza,anche le concezioni estetiche (e quindi di spettacolo) per fuggire a una situazione esi-stenziale estremamente miserevole, per ottenere nell’universo bianco una piccola, pic-colissima parte di benessere [Roncaglia 1998, 59-60].

A volte, addirittura, erano gli stessi bianchi a truccarsi da neri accen-tuando tratti somatici e comportamenti, facendo così una caricatura diciò che loro pensavano fossero gli afro-americani.

Questi minstrels show erano in America un fenomeno di estrema importanza da unpunto di vista sociologico. L’idea di uomini bianchi che, per divertire altri bianchi, fannol’imitazione o la caricatura di certi atteggiamenti che essi considerano tipici del neroamericano, è di enorme interesse, se non altro per la reazione dei neri di fronte a unsimile fenomeno. Sono anche sicuro che molti americani bianchi non abbiano mai giudi-cato tragica la condizione dei neri [Baraka 1963, 87].

A ogni modo il nero americano era entrato nel mondo dello spettaco-lo, e di lì a poco avrebbe iniziato la sua scalata verso il successo. Oltre alblues, va detto che anche un altro genere musicale contribuì alla nascitadel jazz, il ragtime.

Una musica che fornì un essenziale contributo alla nascita del jazz fu, a differenzadel blues, allegra, estroversa, creata per il sorriso e il divertimento dell’ascoltatore[Roncaglia 1998, 85].

Anche in questo caso non si trattava certo di veri e propri concerti,più che altro i pianisti di ragtime suonavano nei bordelli, nei jukes e neisaloon, per intrattenere i clienti. Tutti questi elementi descritti fino a oracrearono il singolare miscuglio culturale e musicale che diede vita alleprime forme del jazz.

New Orleans e Chicago

La città che più di ogni altra aveva quelle caratteristiche composite, siadal punto di vista razziale sia religioso, che servivano al jazz, era NewOrleans. Lì vi era un insieme di popoli e razze, essendo stata dominata,nel tempo, da spagnoli, francesi, inglesi e anche italiani. Nelle sue stra-

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de, infatti, da sempre si potevano ascoltare canzoni popolari inglesi,danze spagnole, marcette alla francese, bande militari; oppure era mol-to frequente sentire nell’aria le più svariate linee melodiche uscire dallediverse Chiese cattoliche o battiste, metodiste o puritane: tutti questisuoni mescolati divennero ben presto patrimonio delle comunità nere,che le eseguivano alla loro maniera, ricollegandole alle antiche tradi-zioni di derivazione africana.

Se a New Orleans non fossero esistite certe particolarissime situazioni culturali esociali e non si fosse sviluppato, in conseguenza di esse, un certo idioma musicale, iljazz sarebbe probabilmente esistito egualmente (i folk songs negro-americani, gli spet-tacoli dei minstrels, il blues, la musica bandistica di origine europea e infine il ragtime,che del jazz costituiscono i presupposti e l’humus, non hanno avuto origine a NewOrleans, dopotutto) ma sarebbe stato diverso. Forse anche profondamente diverso [Polillo1975, 73].

Una delle caratteristiche forse più interessanti di New Orleans è chenella città convivevano due comunità nere profondamente diverse traloro, ognuna con il proprio patrimonio etnico e culturale: i creoli e quel-li che possiamo definire, più genericamente, i neri americani. I creoli, didiscendenza franco-coloniale, non avevano condiviso le medesime ori-gini dalla schiavitù dei neri americani, dal momento che i loro antenatierano stati liberati molto tempo prima dai ricchi proprietari agrari fran-cesi. Per questo sentivano molto più attenuata l’originaria discendenzaafricana e vivevano con minori remore la contaminazione con la culturabianca; anzi, avevano radicata una profonda discendenza dalla culturafrancese e la loro stessa lingua proveniva dal francese, e non era l’ingle-se. Così, mentre i neri americani costituivano la parte più povera delproletariato di New Orleans, molti creoli erano ben integrati nella realtàeconomico-sociale della città e avevano un’estrazione piccolo borghe-se; i loro pregiudizi razziali nei confronti della rimanente popolazionenera erano addirittura più forti di quelli dei banchi. Questa contamina-zione si riflesse, ovviamente, anche nella tradizione musicale nera, nel-la quale i creoli introdussero molti elementi della cultura musicale fran-co-europea. Lo stile di New Orleans nacque dall’incontro tra questi di-versi gruppi: nello Storyville, il quartiere riservato alle case di tolleran-za, che con i suoi innumerevoli locali costituiva un formidabile punto diritrovo e il trampolino di lancio per i diversi musicisti e cantanti; nellestrade della città, dove si esibivano le bands dei cortei funebri che ac-

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compagnavano i defunti al cimitero suonando musiche di circostanza eche tornavano in città suonando musiche colorite e allegre; durante ifesteggiamenti del carnevale. La musica si suonava in misura maggiorenelle case di piacere, che offrivano un ambiente lussuoso e donne gio-vani ai ricchi borghesi bianchi alla ricerca di nuove sensazioni.

Figura 4. Una tipica formazione jazzistica di New Orleans: la King OliverCreole Jazz Band. Il quarto in piedi da sinistra è il trombettista Louis Armstrong

[RHJ].

Il musicista più noto in quel periodo, assieme a un giovane trombettistaesordiente di nome Louis Armstrong, di cui avremo modo di parlare piùavanti, fu il pianista Jelly Roll Morton. Personaggio pittoresco, si vantòpiù volte di avere “inventato il jazz nel 1912”, cosa chiaramente diffici-le da dimostrare e che gli creò molti problemi di convivenza con gli altrimusicisti. Nonostante ciò fu certamente uno dei musicisti più famosidella prima storia del jazz, sia per la sua abilità al pianoforte sia perché,con i suoi modi strafottenti e i suoi loschi affari, faceva sempre parlaredi sé. Aveva iniziato a suonare nei bordelli e lì aveva sviluppato la suamusica ragtime decisa ma discreta, fatta apposta per accompagnare pia-

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cevolmente le ore di permanenza dei clienti nei bordelli di New Orleans.In seguito, anche se continuò a gestire molti di questi locali, non visuonò più, ma formò un suo gruppo, i Red Hot Peppers, col quale incisedei dischi considerati dei capolavori del jazz tradizionale. Questo però,fu uno dei pochi momenti in cui il jazz degli esordi si staccò dal girodella prostituzione. D’altronde era quello l’unico modo per i neri disuonare la loro musica, e il farlo è stato sempre per loro un’importantefonte di occupazione libera, nell’ambito delle ristrette possibilità a loroofferte dall’economia bianca degli Stati Uniti. Per lungo tempo, quindi,la musica jazz fu accomunata al vizio, al racket, alla delinquenza, sino aquando nel 1917 il quartiere a luci rosse di Storyville fu chiuso. Neseguì un esodo verso il Nord dei jazzisti della città del delta. In realtà,l’avvento del proibizionismo non fu l’unica causa di questa fuga di mas-sa, anche la scarsità di cotone provocò una forte ondata di disoccupazio-ne.

Fu per questa somma di ragioni quindi, e non soltanto per la chiusura di Storyville,che anche i jazzmen dovettero decidersi a tentare la via della migrazione verso il miticoNord, ponendo così termine di fatto all’epoca preistorica del jazz, che avrebbe in talmodo cessato di essere una musica di derivazione folkloristica e limitata a una ristrettaarea geografica, per inserirsi sempre più nel contesto della società, allargando in misurasino ad allora impensabile i propri limitati orizzonti [Roncaglia 1998, 107].

Una delle mete più gettonate dopo New Orleans fu Chicago, qui iljazz assunse subito caratteristiche assai diverse da quelle originarie, pro-babilmente per l’uso del sassofono che mal si conciliava con ilcontrappunto delle origini. Lo stile di New Orleans, chiamato anchedixieland, era caratterizzato dall’esecuzione di linee melodiche improv-visate in collettivo su semplici e tradizionali progressioni armoniche,con la presenza centrale di tre strumenti tromba, trombone e clarinettoaccompagnati da una sezione ritmica, che si inseguono in un alternarsidi elementi contrappuntistici innestati l’uno sull’altro. L’elemento rit-mico era molto vicino a quello della musica bandistica di derivazioneeuropea, con gli accenti sul primo e sul terzo tempo di una battuta diquattro. Oltre a questi elementi tecnici ci fu il fatto che anche qui, spes-so, la musica jazz era suonata in locali frequentati dai gangsters e dallamalavita cittadina, il che contribuì a peggiorare la fama della nuovamusica. Ne è testimone George Wettling, un batterista che divenne an-ch’egli assai noto e che ricorda: “Una volta, al Triangle Club, spararono

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allo stomaco del padrone... ma noi continuammo a suonare”. Durantegli anni Venti, l’originario stile di New Orleans trovò, quindi, la suavera fioritura a Chicago, e qui si affermò definitivamente.

Figura 5. Una foto della Original Dixieland Jazz Band. Fu il primo gruppo dijazz a incidere un disco il 26 febbraio 1917. Per ironia della sorte era formato esclusi-

vamente da musicisti bianchi [OD].

Insieme allo stile di New Orleans anche il blues trovò negli anni Ven-ti il suo periodo d’oro. Nella southside di Chicago, il quartiere nero, sisviluppò una fervente attività musicale e jazzistica. Qui vennero incisi iprimi capolavori del jazz da parte delle bands guidate da King Oliver,poi da Louis Armstrong, Johnny Dodds, Jelly Roll Morton, JimmieNoone. Contemporaneamente a questa massiccia affermazione dello stiledi New Orleans a Chicago, un gruppo di musicisti bianchi, dilettanti eprofessionisti, maturò una propria interiorizzazione del jazz suonato daineri, dando vita ad uno stile proprio. Ancora una volta come per ildixieland, gli elementi della cultura occidentale e bianca contaminaro-no abbondantemente il jazz nero. Partendo dal modello diimprovvisazione collettiva dello stile New Orleans, a poco a poco, lasensibilità bianca, derivata dai modelli musicali europei e folkloristici

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dello hillbilly e dello shiffle, introdusse soluzioni armoniche più raffina-te e, sempre crescendo, la valorizzazione dell’elemento solistico che,all’apice dello stile di Chicago, si tradurrà nella preponderanzadell’improvvisazione del singolo e nella dominazione del sassofono,nonché nella nascita delle grosse formazioni, annunciando il jazz deglianni Trenta. Tra i solisti di spicco di quel periodo vanno citatati BixBeiderbecke, Bud Freeman, Pee Wee Russell, Muggy Spainer.

New York e l’emancipazione

New York fece ufficialmente la conoscenza del jazz nel 1917, con laOriginal Dixieland Jazz Band. In realtà, però, il jazz nella metropolivenne subito manipolato, modificato, sia dai musicisti, sia dal pubblico,sia dalla città stessa con le sue contraddizioni culturali, e assunse, colpassare del tempo, forme ben diverse da quelle che aveva avuto in pas-sato. Proprio nella Grande Mela il jazz ebbe modo di emanciparsi unpo’ dalle caratteristiche folkloriche che l’avevano distinto nei primi anni,per trasformarsi nella nuova musica che sarebbe dilagata in ogni partedel mondo. I conflitti razziali non erano ancora stati appianati, e le bandsdifficilmente presentavano al loro interno organici misti. Si svilupparo-no quindi, all’inizio, una via bianca e una nera al jazz. In particolare nelghetto nero di Harlem, il jazz subì profonde trasformazioni; lì vi era unjazz più autentico, più vicino allo spirito dei neri americani, più “sel-vaggio”. La musica suonata nei locali di Harlem era spesso una musicapiù sperimentale, d’avanguardia, una musica che veniva poi ripulita epresentata al grande pubblico bianco con una veste più consona. Moltagente anche a New York non era quindi ancora pronta per il jazz, alme-no per quello più vero, più carico di implicazioni anche sociologiche.Fu per questo, probabilmente, che nacque il cosiddetto jazz sinfonico,una musica che pur utilizzando alcuni apparenti stilemi jazzistici, si pre-sentasse in modo “pulito” e “dignitoso”. Il modo di suonare dei bianchiera più razionale, più costruito, più individuale, anche se, in molti casi,meno spontaneo e istintuale rispetto al modo di suonare dei neri. Perso-naggi come il violinista bianco Paul Whiteman avevano capito che cosavoleva il pubblico americano di allora e avevano saputo sfruttare il lorofiuto per arricchirsi enormemente.

L’opera gershwiniana, nata dall’accoppiata del compositore con il leader bianco,fu, come ormai è universalmente riconosciuto, la celeberrima Rhapsody in Blue, che

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per decenni sarebbe stata usata per indicare ai pubblici di tutto il mondo non disposti asubire la “rozzezza” del jazz ciò che il jazz “avrebbe potuto essere”. Il successo, sindalla prima esecuzione, fu enorme: si valuti il fatto, per offrire il destro di equamenteconsiderarlo, che persino grandi musicisti classici europei come Leopold Stokowsky eSergei Rachmaninoff furono presenti alla prima, il 24 febbraio 1924 [Roncaglia 1998,145].

Harlem seppe però difendere, e bene, il jazz.

Non poche orchestre bianche, però, stavano contemporaneamente nascendo e con-solidando la loro presenza, assumendo caratteristiche originali e di notevole interesse;la 52a strada (situata a due passi dalla 5a avenue) vantava, durante il proibizionismo,decine di speakeasies, che con l’abolizione del regime secco divennero uno dopo l’altrolocali jazzistici, e in cui non pochi musicisti avrebbero trovato per anni stabile colloca-zione, tanto da far soprannominare la 52a “The Street”, cioè “La Strada” per antonomasia[Roncaglia 1998, 147].

Il periodo di benessere che colpì gli Stati Uniti, jazz compreso, siinterruppe bruscamente nel 1929 con la crisi economica di Wall Street.

Dal 1925 al 1929, fino a quando, cioè, la grande crisi economica piombò l’Americanella disperazione, la musica jazz attraversò il suo primo periodo d’oro. Durante queglianni brillarono soprattutto le stelle di Louis Armstrong, di Bix Beiderbecke e di FletcherHenderson e ascese quella di Duke Ellington, che andò ad affiancare Henderson nellasua opera di definizione e di arricchimento del linguaggio del jazz per grande orchestra.Attorno a loro, il coro dei comprimari e delle comparse: uomini, in gran parte, pieni dientusiasmo e consapevoli della possibilità che era loro offerta di giocare un ruolo nellainvenzione di una musica nuova [Polillo 1975, 127].

Il 29 ottobre 1929, il cosiddetto giovedì nero di Wall Street, segnòl’inizio di un periodo di grande difficoltà per l’intero paese. Aumentòenormemente il numero dei disoccupati, soprattutto fra i neri, molti lo-cali furono costretti a chiudere e la gente non aveva più il denaro suffi-ciente per uscire la sera.

Quelli che avevano un lavoro pagavano da bere a chi non stava lavorando. Questoera una specie di accordo di mutua assistenza; chi poteva pagar da bere oggi avrebbepotuto aver bisogno che qualcun altro gli offrisse da bere domani [Polillo 1975, 149].

Queste difficoltà costrinsero molti musicisti a trasferirsi nuovamen-te, questa volta addirittura in Europa. La crisi americana del 1929 costi-tuì una grossa battuta di arresto per il jazz; in quell’occasione molti

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musicisti furono costretti a cambiare mestiere o a trovare qualche im-piego nei locali gestiti dai gangsters, dediti al controllo della prostitu-zione e al traffico clandestino di alcolici durante il proibizionismo. Pro-prio grazie a queste possibilità, il jazz continuò a sopravvivere, special-mente nella città di Kansas City, dove la vita notturna non ebbe pratica-mente interruzioni e crisi, nei locali gestiti dai boss della malavita bian-ca. A Kansas City si affermarono alcune delle più importanti orchestredi quel periodo, come quella di Benny Noton o quella di Count Basie, etrovarono il loro momento di gloria i grandi solisti come Ben Webster,Coleman Hawkins e Lester Young, o le grandi cantanti come BillieHoliday. Kansas City vide nascere una vera e propria scuola solisticache formerà alcuni dei grossi nomi del jazz moderno, uno tra tutti: CharlieParker.

I locali di Kansas City erano famosi per le jam sessions che vi si svolgevano e allequali prendevano parte i migliori musicisti presenti in città, fra cui i bianchi non eranominimamente rappresentati [Polillo 1975, 158].

Il jazz di Kansas City era diverso da quello suonato a New York neilocali di Harlem.

A Kansas City si sviluppò anzi uno stile di jazz con caratteristiche abbastanza pecu-liari, grazie soprattutto alla soverchiante influenza del blues e alla presenza di alcunimusicisti di grande personalità, come il pianista e caporchestra William Count Basie eLester Young, un tenorsassofonista che sarebbe stato pienamente compreso soltantoalcuni anni più tardi [Polillo 1980, 598].

Bisognerà comunque attendere il superamento della crisi economicaper assistere al rilancio in grande stile del jazz quando, verso la metàdegli anni Trenta, raggiunse, con le grandi orchestre swing, il suo culmi-ne commerciale, segnando contemporaneamente la sua decadenza, lo-gorato dal suo stesso successo, nel momento in cui le esigenze commer-ciali soppiantarono la spontaneità e la vitalità delle origini.

L’era dello swing

Fortunatamente, con l’arrivo del presidente Roosvelt, i problemi econo-mici nazionali furono in parte risolti già dai primi anni ’30.

Le reazioni positive, nel mondo del jazz, non tardarono; il jazz, sia chiaro, non era

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sparito dal mondo dello spettacolo, anche se molti musicisti erano stati costretti a tro-varsi altri lavori per l’insufficienza degli ingaggi dovuta alla situazione generale,stiracchiando giorno dopo giorno i mesi in attesa che qualcosa di nuovo accadesse. Equalcosa di nuovo, di veramente nuovo, puntualmente accadde [Roncaglia 1998, 163].

Grazie a musicisti come Benjamin David Goodman, Duke Ellington,Count Basie, Glenn Miller, Tommy Dorsey, Fletcher Henderson e moltialtri band leader si aprì, nel decennio che va dal 1935 al 1944, uno deicapitoli più positivi nella storia del jazz.

L’era delle orchestre swing è stata la prima volta in cui il jazz, ed alcuni suoi strettiderivati, sono entrati a pieno titolo nel calderone della musica pop. La gente, recandosial lavoro, fischiettava i brani più famosi, i musicisti divennero autentiche celebrità sottoil costante assedio dei fan, e artisti di successo come Artie Shaw, Glenn Miller e HarryJames riuscirono a vendere milioni di dischi [Carr 1998, 38].

Fu Benny Goodman, clarinettista, a dare l’avvio alla febbre delloswing.

Figura 6. Benny Goodman suona il clarinetto nel 1947 [WG].

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Nato nel 1909 a Chicago da una povera famiglia di ebrei immigrati,intraprese lo studio del clarinetto per caso, poiché alle lezioni tenutenella sinagoga Kerelah Jacob, le uniche che il padre sarto poteva per-mettersi di pagare, erano disponibili solamente tre strumenti: un bassotuba, una tromba e un clarinetto. Essendo il giovane Benny il più graciledei tre fratelli che frequentarono con lui questa scuola, gli toccò lo stru-mento più leggero, il clarinetto, appunto. Dopo la scuola, Goodman fuassegnato ad altri insegnanti più capaci quali Franz Schoepp, dato il suotalento di musicista, e divenne, già dall’età di quattordici anni (quandofinì l’obbligo di studio), un musicista professionista. Col tempo, doponumerosi ingaggi come strumentista, riuscì a costituire un’orchestra tuttasua con cui suonare la propria musica e incidere dischi che ebbero gran-de successo all’epoca, grazie anche alla notevole diffusione della radioe agli introiti pubblicitari, che permettevano ottimi guadagni.

Dopo il successo di Goodman, e per alcuni anni, la parola jazz fu archiviata e non siparlò che di swing, di cui il clarinettista di Chicago fu proclamato re [Polillo 1980, 598].

In realtà la corona di “re dello swing” dovette contenderla a un altrogrande band leader, Duke Ellington, di cui si parlerà più approfondita-mente nei paragrafi a seguire. A ogni modo, l’operazione per renderepiù vendibile il jazz comportò necessariamente il sacrificio di alcuni deisuoi caratteri più tipicamente neri.

La grande popolarità del jazz durante l’era dello swing ebbe tuttavia anche effettinegativi sulla qualità di gran parte della musica prodotta in quegli anni, che molti dei piùcelebrati capiorchestra bianchi cercarono in ogni modo di rendere accettabile al grossopubblico ricorrendo a effetti “facili”, meccanizzando e standardizzando gli arrangia-menti e anche l’improvvisazione dei solisti. Sintomatico fu, a questo proposito, l’uso el’abuso dei cosiddetti riff [Polillo 1980, 598].

Fu questo il prezzo da pagare per ottenere la popolarità del jazz nonsolo negli Stati Uniti, ma anche in Europa. Queste grandi orchestre era-no quasi sempre formate da tre distinte sezioni di fiati: trombe, trombo-ni e sassofoni in numero variante dai tre ai cinque strumenti per sezione,oltre a una sezione ritmica comune anche ai piccoli complessi, formatada pianoforte, chitarra, contrabbasso e batteria. Le orchestre suonavanola loro musica e si caratterizzavano per la personalità del loro leader, il

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quale definiva l’impostazione del suono della band attraverso gli arran-giamenti scritti. Completavano il quadro gli interventi improvvisati deisolisti, sassofonisti o cantanti, che partecipavano come ospiti di spiccodella serata. La formazione delle big bands era dovuta principalmenteall’esigenza di creare un rilevante volume sonoro, sufficiente allasonorizzazione dei grossi locali da ballo. Le grandi orchestre si eranoquindi costituite per far ballare la gente, e in questo lo swing fu davveroinfallibile. D’altronde, dopo la Prima Guerra Mondiale, negli Stati Uni-ti si verificarono grandi trasformazioni economiche e soprattutto socia-li. La libertà dei costumi semplificò i rapporti tra uomini e donne, e ciòebbe notevoli ripercussioni anche nel mondo della danza. Le vecchiesale da ballo cominciarono a chiudere, mentre nasceva la moda deicabaret e dei night club. La musica preferita dai giovani era il jazz, e iritmi del jazz spazzavano via i tradizionali balli di coppia: dal tango alvalzer, dalla polca alla mazurca. Le nuove danze erano quelle apparte-nenti al genere jitterbug (da jitters: nevrastenia): charleston, lindy hop(jive), black bottom, shimmy, truckin, big apple, routines. Lo scopo dimolte orchestre che lavoravano nei locali era quello di far ballare i clientie far divertire gli spettatori, per questo motivo al jazz puro si sostituivail genere “sinfonico”. A partire dal 1925 anche il pubblico bianco scoprìla piacevolezza del jazz, e cominciò a frequentare i locali che ospitava-no i migliori gruppi musicali. Broadway diventò il più importante cen-tro propulsore di novità e produttore di artisti, immancabilmente neri.L’alta società di New York e tutti i bianchi detentori del potere politicoe finanziario andavano ad Harlem per assistere alle serate dei grandimusicisti neri che si esibivano al Savoy Ballroom e al Cotton Club. Oggile danze che si ballavano sui ritmi jazz non esistono più, il jazz è dive-nuto una musica di ascolto, e ha perso molta della “spensieratezza” diquell’epoca.

Le grandi orchestre della Swing Era erano un intrattenimento sia per gli ascoltatoriche per chi danzava ed erano molto istruttive per i musicisti che ci suonavano. L’educa-zione formale nel jazz era scarsa prima del 1950; in particolare la discriminazione raz-ziale spesso bloccava l’accesso ai conservatori per i musicisti neri. Lavorando e viag-giando con le grandi orchestre, ad ogni modo, i giovani musicisti imparavano a suonareinsieme ad altri, a costruire assolo accattivanti, ad accompagnare insieme alla sezioneritmica con l’uso di riff; i musicisti più anziani offrivano trucchi sulla tecnica ed aiutinell’interpretazione degli arrangiamenti scritti. I musicisti inoltre imparavano i valoriextramusicali della presentazione e della presenza scenica, del gestire le questioni finan-ziarie e del mantenere la disciplina. Questi gruppi, quindi, erano sia unità sociali

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autosufficienti così come sistemi di apprendistato [Tucker 1980, 911].

Riaprirono molti locali che, negli anni di crisi economica, avevanodovuto chiudere i battenti e la musica ricominciava a circolare per lestrade di New York.

Il successone di The Music Goes ‘Round and Around e dei primi complessi dell’Onyxdiede un contributo decisivo al lancio della 52a strada come “strada dello swing” e, peri profani, come “la via in cui è sempre la notte di capodanno” [Polillo 1975, 176].

Il mito della 52a strada sarebbe poi proseguito per lungo tempo eavrebbe fatto di New York la capitale mondiale del jazz.

Figura 7. La 52a strada nel 1948 [WG].

Un fenomeno importante, che si verificò in quegli anni, fu quello deicosiddetti V-disc (dischi della vittoria), i dischi prodotti esclusivamenteper le forze armate, che contenevano molti dei successi dell’epoca.

Per il grande pubblico Glenn Miller e le Andrews Sisters sono state l’esempio piùlampante dell’alleanza tra musica e forze armate durante la Seconda Guerra Mondiale;con i V-disc, comunque, la musica è stata veramente mandata al fronte [Carr 1998, 55].

Il fenomeno dei V-disc rientra nel discorso della commercializzazionedel jazz tipico di quegli anni, che fu certamente favorito dalla grandediffusione della radio nelle case degli americani. Insomma, in quel peri-

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odo il jazz iniziò a conoscere il fenomeno della diffusione su larga scalache, se da una parte lo rese noto a tutto il mondo, dall’altra ne minò, inparte, la qualità, rendendolo in alcuni casi un po’ troppo stereotipato.

2.2. Il jazz moderno: dal bebop ai rivolgimenti sociali degli anniSessanta

La rivoluzione del bebop

E mentre in Europa arrivavano (e arricchivano i traffici borsaneristici al pari delle siga-rette o del formaggio in scatola) i V-disc, che contenevano, oltre a tutto il jazz inciso frail 1942 e il 1943, una grossa fetta della produzione dell’epoca swing aurea, a NewYork, nella 52a strada, stava nascendo il nuovo jazz, quello che con il passato avrebberotto ogni ponte [Roncaglia 1998, 195].

Il bebop, come fu chiamato il nuovo jazz, apparve nei locali della52a strada nel 1944 e i primi ascoltatori ne rimasero sconcertati, alcuninel bene, altri nel male. La nuova musica iniziò a essere suonata in unlocale, non molto famoso all’epoca, che si chiamava Minton’s Playhouse.

Figura 8. Il pianista Thelonious Monk (primo da sinistra) con altri musicistiall’uscita del Minton’s [WG].

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All’inizio degli anni quaranta era diventato un punto obbligato di incontro per nonpochi musicisti che di notte, dopo aver finito di suonare nelle varie orchestre, si riuniva-

no fra loro [Roncaglia 1998, 201].

Il locale, denominato in seguito “The Birthplace of Bop”, era quindiuna fucina per la nuova musica, come testimonia nella sua autobiogra-fia Miles Davis, che in quegli anni muoveva i primi passi nel mondodella musica a New York.

A quei tempi, il Minton’s era il posto per gli aspiranti jazzisti; non è vero che fosse la“Strada”, come cercano di far credere oggi. Era da Minton’s che un musicista potevadavvero affilare i denti, e soltanto dopo poteva andare giù alla “Strada”. LaCinquantaduesima era tranquilla in confronto al Minton’s. Sulla “Strada” ci si andavaper fare soldi e per farsi vedere dai critici musicali bianchi e dai bianchi in generale. Masi veniva da Minton’s per farsi una reputazione fra i musicisti. Il proprietario del Minton’sPlayhouse era un nero che si chiamava Teddy Hill. Il bebop nacque nel suo club. Era ilvero laboratorio musicale del bebop. Solo dopo che era stato raffinato al Minton’sarrivò giù alla Cinquantaduesima Strada, al Three Deuces, all’Onyx e al Kelly’s Stable,dove c’erano i bianchi ad ascoltare. Ma quello che bisogna ben capire in tutta questastoria è che, per quanto fosse buona la musica che si sentiva sulla CinquantaduesimaStrada, non era assolutamente eccitante e innovativa come quella su da Minton’s [Davis– Troupe 2001, 66-67].

C’era quindi voglia di qualcosa di nuovo a livello musicale, qualcosache rompesse decisamente con la tradizione e che permettesse di supe-rare le limitazioni imposte dalle grandi orchestre swing. Così si svilup-pò un movimento musicale che, partendo dalla esigenza di individuarenuove forme di espressione, si trovò alle prese con l’ambizioso progettodi conferire al jazz la qualifica di forma d’arte a tutti gli effetti, al difuori dello showbusiness legato allo swing e ai gusti del pubblico, affer-mando, al contempo, la pretesa del popolo nero e delle classi emarginatedella società americana di accreditare la propria cultura e di superare ipregiudizi razziali. Quello dei boppers divenne un vero e proprio movi-mento culturale e di tendenza, che accomunava le posizioni di elitarismoartistico dei musicisti neri all’esistenzialismo delle giovani generazioniamericane che si ribellavano al mondo borghese, razzista e perbenistadelle generazioni precedenti.

La iperstilizzazione dello swing rese il bop, da un giorno all’altro, uno shock saluta-re per tutti coloro in cerca di qualcosa di completamente diverso; molte big band del-

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l’epoca dello swing, difatti, erano diventate grossi mastodonti sovrarrangiati, alla pe-renne ricerca di una sonorità caratteristica ma rifugiate nel riff fine a se stesso, a cuicostringevano incessantemente le sezioni fiati. In queste situazioni di rigorosa disciplinagli assolo erano brevissimi, e comunque riservati prevalentemente al leader o a un paiodi grossi solisti ben pagati. La formula, che aveva mietuto grossi successi, era sul puntodi esaurirsi [Carr 1998, 60].

I nuovi musicisti bebop, stanchi di queste limitazioni, spinsero il jazza dei livelli tecnici e armonici impensati, alterando le progressioni diaccordi e suonando temi complicati a velocità elevatissime, con moltipassaggi cromatici. È comprensibile quindi che, all’inizio, sia il pubbli-co che gli stessi musicisti rimasero affascinati e sconcertati dalla nuovamusica.

Gillespie, Parker e Monk creavano variazioni armoniche talmente ardue da nonpoter essere eseguite che da virtuosi abilissimi, e che riuscirono a creare le condizioniper eliminare, ogni sera, «… i tipi incapaci di improvvisarci sopra, i tipi senza talen-to…», come avrebbe riconosciuto lo stesso Dizzy Gillespie, per scoraggiare, sia con ilvirtuosismo portato alle più estreme conseguenze, sia con le più rivoluzionarie ideemusicali e stilistiche, chiunque non fosse più che dotato o, meglio ancora, geniale epronto a portare un suo personale contributo. Clarke, anch’egli, riconobbe che si tratta-va di un “trucco”: «… ci si riuniva al pomeriggio e si inventavano diverse progressioniarmoniche… per scoraggiare gli indesiderabili che venivano la sera e volevano suonarecon noi… eravamo Monk, Dizzy, Guy e io che facevamo questo…» [Roncaglia 1998,208].

In realtà, quindi, la nuova musica era nata in un luogo ben preciso edera stata sviluppata in maniera consapevole da pochi, ma geniali, musi-cisti di quell’epoca, per la maggior parte neri, che avevano definito inpochi anni (più o meno dal 1944 al 1950) le caratteristiche principali diquesto stile. Dal punto di vista strumentale, esso privilegia il sassofonocontralto e tenore, ma rilancia al tempo stesso la tromba che negli annidello swing era passata un po’ in secondo piano, come strumento solistadi primaria importanza. Gli organici strumentali del bebop comprendo-no l’interazione di una front line di fiati (sassofono e tromba, cui talvol-ta si aggiunge il trombone) e una sezione ritmica con pianoforte,contrabbasso e batteria. Possono anche figurare chitarra elettrica evibrafono, soprattutto in tempi più recenti. La batteria, che negli anniTrenta si è ampliata e arricchita di componenti, sposta decisamente dal-la grancassa al piatto e allo hi-hat la funzione di scansione ritmica, nellaprevalente divisione di 4/4, con numerosi accenti sui tempi deboli della

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battuta, soprattutto nei brani veloci, mentre il contrabbasso segna i tem-pi forti. La velocità di esecuzione dei brani è spesso molto elevata, arri-vando a volte ai trecento battiti per minuto e oltre.

Figura 9. Charlie Parker (sassofono) e Miles Davis (tromba) in concerto al

Three Deuces nell’agosto del 1947 [JP].

Sotto il profilo tematico, il bebop, (che nelle esposizioni privilegiafrequentemente le linee in unisono fra i due fiati) opera una revisionedella struttura classica del song bianco e del blues afro-americano cre-ando nuove composizioni, ma soprattutto mantenendo la struttura ar-monica sottostante il chorus del song in forma AABA e inventando nuovelinee melodiche a essa connesse, e aggiungendo alla struttura comples-siva del chorus un’introduzione e una coda. Il chorus, ossia la strutturasenza verse del song, viene proposto ripetutamente, dopo l’esposizionetematica, facendo coincidere gli spazi solistici improvvisativi con uno opiù choruses. La struttura armonica può tuttavia infittirsi, mentre singo-li accordi vengono estesi alle voci superiori di nona, undicesima etredicesima, influenzando la complessità delle melodie correlate, so-vente tendenti al cromatismo; compaiono accordi diminuiti e

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semidiminuiti. Le nuove composizioni sono dunque o basate sul blues(Billie’s Bounce, Au Privave, Blues for Alice di Parker, Misterioso,Straight no Chaser, Blue Monk di Thelonious Monk, The Hymn di MilesDavis e così via) o sul song AABA, e in questo caso gli standard diriferimento sono soprattutto I Got Rhythm (che genera fra l’altroAnthropology, Dexterity, Ah-leu-cha, Chasin’ the Bird, Fifty-SecondStreet Theme di Parker, Oop Bop Sh’Bam, Shaw’Nuff, Salt Peanuts diGillespie), o How High the Moon di Morgan Lewis, da cui derivanoOrnithology e Bird Lore di Parker, o Cherokee di Ray Noble, che haprodotto Ko-Ko e Warming Up a Riff, sempre di Parker. L’intervallo piùtipico del bebop diventa la flatted fifth, o quinta diminuita, che figuraper la prima volta nel 1940 in una versione di Sweet Lorraine con NatKing Cole e Oscar Moore (Decca). La tensione tipica del tritono è, se-condo le testimonianze ormai entrate nella dimensione mitica di questostile, riprodotta come scansione intervallare discendente delle sillabebe-bop. Si pensa, quindi, che la denominazione del nuovo stile jazzisticobebop derivi proprio dal fatto che questa parola si rifletteonomatopeicamente nell’intervallo allora più in auge: la quinta diminu-ita discendente.

Le parole “bebop” o “ rebop” nacquero spontaneamente quando si vollero cantaresimili intervalli, come per esempio le parole “la-la-la” vengono spontaneamente quandosi canta una canzone di cui non si conoscono le parole. Certamente, non bisogna dimen-ticare che in ultima analisi tutte le spiegazioni della parola “bebop” sono rimaste discutibiliquanto quelle della maggior parte degli altri termini jazzistici. Nel gergo della gioventùbruciata americana “bebop” o “bop” significava rissa o coltellate [Berendt 1979, 26].

Anche questo, quindi, riflette la voglia di cambiamento espressa dainuovi musicisti, che avevano cambiato non solo molte delle “regole”del jazz, ma anche molte fra le regole di costume in voga allora. Vadetto, comunque, che essendo una musica d’avanguardia il bebop avevasì creato nuove regole, ma spesso i musicisti solevano derogare da que-ste introducendo estemporaneamente soluzioni nuove, come sempre èstato nella musica jazz.

Parker, come già faceva nelle orchestre swing, anticipa o ritarda di alcune battute ilchorus destinato alla sua improvvisazione, Gillespie raddoppia in alcuni casi la velocitàd’esecuzione dei brani, ancora Parker introduce alterazioni, armonie di passaggio, ac-cordi sostitutivi di quelli prestabiliti [Cerchiari 2001b, 46].

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Sotto il profilo generale del senso, il bebop afferma in modo coscien-te e talora provocatorio il nuovo status artistico e intellettuale dei musi-cisti di jazz, che si pongono in una coraggiosa posizione di autonomiarispetto alle regole di consenso del pubblico e del mercato, delle funzio-ni tradizionali coreutiche e di “sottofondo” proprie dello swing. L’usoampio e consapevole della tecnica strumentale, della velocità, dell’ar-monia (resa più complessa, e infittita, al limite del cambio di accordoogni battuta), sono funzionali alla creazione di atmosfere oranevroticamente eccitanti, ora stridenti e (nel lessico futurista)“antigraziose”, ora vitalisticamente energetiche, ora intrise di umori-smo, provocazioni e paradossi (a queste ultime categorie è riconducibi-le una parte della poetica di Dizzy Gillespie). Il bebop sviluppa unacomunicazione autoreferenziale, individuando più nella comunità deimusicisti che non nel pubblico tradizionale i propri destinatari. Anchenel modo di vestire si nota la profonda frattura: allo smoking della swingcraze fa riscontro un’immagine consistente in un berretto basco in testa,un paio di occhiali nerissimi con montatura molto pesante, sotto il lab-bro un piccolo ciuffo di peli, che Dizzy conserverà gelosamente fino almomento della morte recente (basti pensare che nei negozi era in vendi-ta il cosiddetto “bop kit”, che conteneva tutti questi gadgets per essereun vero bopper). Sono il pubblico e la critica a doversi adeguare al bebop,come accade con la progressione temporale connaturata a ogni movi-mento innovativo. Con l’avvento del bebop si ha, per la prima voltanella storia del jazz, una spaccatura fra tradizione e innovazione, certa-mente desiderata dai boppers, ma che causa una presa di posizionedrastica da parte di tutti gli appassionati di jazz di quel periodo.

Mentre in America e in Europa (è il caso del critico francese Hugues Panassié, chelancia una crociata antimodernista contrastata fra gli altri da André Hodeir) si sviluppa-no reazioni negative o censorie nei confronti di Parker e Gillespie, la nuova criticaamericana (Leonard Feather, Barry Ulanov) agisce in senso militante a fianco dei bopperscon articoli, produzioni discografiche e radiofoniche. Nel 1949 Feather pubblica pressoJ.J. Robbins di New York, attivo da oltre vent’anni nell’editoria musicale, il primosaggio dedicato alla nuova musica (Inside Bebop), che in apertura riporta ironicamenteuna collezione delle più sprezzanti sentenze sfavorevoli al bebop emesse da vari espo-nenti dell’ambiente musicale. Tra queste l’opinione dello storico della musica statuni-tense Sigmund Spaeth: «Il graduale sviluppo, o decadenza, della distorsione del jazz...fino alle artificiali assurdità del cosiddetto stile bebop dovrebbero risultare così ovvieanche all’ascoltatore casuale» e quella di Tommy Dorsey, trombonista e band leader frai più in vista dello stile swing, il quale afferma che «Il bebop ha fatto retrocedere la

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musica di vent’anni» [Cerchiari 2001b, 47].

Per tutti questi motivi al grosso pubblico, cui il bop non era del restodestinato, il nuovo jazz non piacque affatto: i suoi temi, spesso espostisu tempi velocissimi, erano assai poco orecchiabili, e i suoi ritmi, addi-rittura sconcertanti per il profano, non erano certo adatti per il ballo.Inoltre, disturbò qualcuno l’atteggiamento ostentatamente scontroso deimusicisti bop, i cui volti impassibili lasciarono perplessi coloro che neljazz avevano fino allora cercato, e il più delle volte trovato, una musicabrillante e scacciapensieri, addirittura mondana.

Proprio perché il bebop esercita le sue prime manifestazioni ai margini del jazzallora predominante e si sviluppa come mezzo di sperimentazione di nuove forme inreazione alle correnti in voga, proprio perché è opera di alcuni musicisti neri disgustatidal jazz che sono costretti a produrre commercialmente, esso segna la presa di coscien-za, da parte di questi musicisti, di una certa alienazione e della sottomissione a queltempo completa della loro musica agli interessi commerciali e ai valori culturali bianchi[Carles – Comolli 1973, 65].

Fu con il bebop che il jazz iniziò a fare critica sociale attraverso leesibizioni musicali, questi aspetti saranno poi accentuati dal movimen-to free jazz e dalla musica di John Coltrane. Questo voler essere così“autentici” costò molte critiche ai boppers, che furono spesso accusatidi voler boicottare il mondo del jazz. In particolare la stampa e idiscografici, che avevano paura di perdere i loro affari, si scagliaronocontro il bebop. Non mancarono anche le critiche da parte di musicistipiù anziani e affermati, quali Louis Armstrong, che dichiarò a DownBeat (una rivista specializzata nella musica jazz):

«Tutto quello che vogliono fare è dell’esibizionismo, e ogni vecchio trucco è buonopurché sia differente da quello che voi avete suonato fino adesso. Così tirano fuori tuttiquegli accordi strampalati che non significano niente, e in principio la gente prova dellacuriosità soltanto perché si tratta di una novità, ma poi si stanca perché non è veramentebuona; non c’è nessuna melodia che si possa ricordare e nessun ritmo regolare su cui sipossa ballare. E così tornano a essere di nuovo poveri e non c’è lavoro per nessuno, equesto è quanto vi ha combinato la malizia moderna». La verità era molto diversa. Ilbebop non soltanto rappresentava un notevole progresso sul jazz precedente dal puntodi vista ritmico, armonico e melodico, ma significata la completa rottura con una musi-ca industrializzata e stereotipata quale era ormai il cosiddetto swing così come lo suo-navano le orchestre più popolari d’America, e cioè anzitutto quelle bianche. Il bebop,anzi il bop, come si cominciò a dire, non voleva essere una musica da ballo; voleva

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essere una musica “pura”, da ascoltare, e fu squisitamente intrinsecamente negra [Polillo1975, 197].

Elementi, questi, sottolineati anche da Gian Carlo Roncaglia.

Di fatto, l’atteggiamento dei boppers fornì un contributo non indifferente al proces-so di emarginazione della musica nel dopoguerra: il rifiuto sempre più marcato di ogniconcessione spettacolare, l’abbigliamento sempre più eccentrico (occhialini neri anchesul palco, abiti stravaganti, spalle voltate al pubblico, rifiuto dell’applauso anche piùconvinto), le esecuzioni ferocemente irridenti, un gergo assolutamente incomprensibileper gli squares (i profani), e infine l’abbandono della religione della maggioranza degliamericani per l’adozione di quella musulmana, con il mutamento conseguente anche delnome anagrafico, fanno comprendere facilmente l’azione demolitrice svolta dalla socie-tà (e dalla critica interessata, va rilevato) nei confronti del bop [Roncaglia 1998, 212-213].

La reazione del cool e la contaminazione con la bossa nova

Sul finire degli anni Cinquanta la musica dei boppers aveva ormai con-cluso la sua stagione d’oro, anche perché molti dei suoi esponenti eranocaduti in disgrazia o addirittura morti a causa dell’abuso di droghe ealcool. Inoltre, buona parte del pubblico cominciava a essere stufo diquella musica, così come molti musicisti che non si rispecchiavano piùin quello stile così veloce e carico di energia. Fu forse per reazione,quindi, che si sviluppò il cosiddetto cool jazz. Uno stile molto più cal-mo, rilassato, dalle sonorità più morbide e caratterizzato da tempi lentio comunque più lenti rispetto al bebop. Lennie Tristano, uno dei piùgrandi esponenti di questo stile, dirà in un’intervista:

«Cool jazz, per me, non ha alcun significato. È un’etichetta priva di gusto, un’eti-chetta commerciale che venne attaccata, senza alcuna logica, alla musica che incisi annifa coi miei gruppi. Cool jazz è un termine stupido. Il jazz che noi si suonava non eraaffatto freddo (cool). Era rilassato, era privo di spettacolarità (showmanship), era serioe impegnato, questo sì, ma non certo freddo» [Polillo 1975, 643].

Il cool jazz ebbe una vita brevissima e non fortunata: in prospettiva appare, oggi,come una deviazione piuttosto che una tappa nella storia del jazz, il quale riprese il suocammino senza tenerne conto, quando l’avventura dei coolsters (qualcuno chiamavacosì i campioni del nuovo stile) fu conclusa. Ciò nondimeno fu un’avventura tutt’altroche ingloriosa: fra le poche incisioni che si possono sicuramente attribuire a questo stilealcune sono fra le più belle della discografia jazzistica. E fu un’avventura necessaria,che consentì di saggiare alcune ancora inesplorate risorse del linguaggio del jazz e diconoscerne i limiti [Polillo 1975, 216].

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È importante far notare come anche la scena musicale fosse cambia-ta dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Bastava fare una passeggiata, la sera, lungo la 52a strada di New York, per rendersiconto di quanto le cose fossero cambiate, nel giro di qualche anno. Nei localini che siaprivano sui due lati di quella che era stata la “Swing Street” era adesso molto più facileimbattersi nelle specialiste dello spogliarello che nei jazzmen, i quali gravitavano ormaiattorno ai nuovi templi jazzistici di Broadway, senza troppe speranze, però, di trovarvilavoro, a meno che non fossero personaggi di primo piano [Polillo 1975, 215].

Era quindi necessario un periodo di raccoglimento, per chiarirsi leidee e fare il punto della situazione.

Nel corso degli anni Quaranta aveva avuto luogo la “sovversione” dei musicisti cheavevano sviluppato il bop; quindi, dopo che i boppers ebbero “stabilito le regole” dellaloro rivoluzione musicale, il terreno fu nuovamente fertile per la “reazione” in àmbitojazzistico; a quel punto l’attenzione del pubblico oltrepassò sia la frenesia del bop, sial’estroversa emotività delle orchestre swing degli anni Trenta, per appuntarsi su unostile introverso e reticente, in seguito chiamato cool jazz. Elemento distintivo dellanuova tendenza cool fu quello di un marcato richiamo alle tradizioni del jazz, differen-ziandosi marcatamente dal precedente bop; indubbiamente il bop aveva attinto alle radi-ci bluesistiche e del primo jazz per il suo sviluppo, ma su quella base aveva creato unastruttura affatto nuova, tale da “rinnegarne” le stesse originarie radici, i seguaci del bopsi consideravano infatti alla stregua di “iniziatori del jazz”, ignorando le strutture musi-cali affermate dalla tradizione jazzistica. Viceversa, nei pionieri del cool era forte laconsapevolezza di far parte di un più generale percorso musicale nell’àmbito del qualeil loro ruolo era quello di semplici “consolidatori” di una musica che veniva da lontano[De Stefano 1990, 37-38].

Il disco manifesto di quest’epoca è sicuramente Birth of the cool e ilsuo autore, il trombettista Miles Davis, fu uno dei pochi musicisti dicolore a suonare questo tipo di jazz, che fu perlopiù gradito dai musici-sti bianchi, forse perché più vicino alla tradizione musicale europea.Davis, che giovanissimo si era formato alla scuola di Parker, nella cuiband aveva sostituito Gillespie alla tromba, imponendosi come brillan-te promessa fu, probabilmente, il primo musicista nero ad avvertire lanecessità di un ripensamento dei radicalismi del bebop in una chiavepiù proponibile al grande pubblico.

Credo che sia stata una sorta di reazione alla musica di Bird e Diz. Bird e Dizzysuonavano quelle cose velocissime, se voi non eravate tanto rapidi ad ascoltare non

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potevate sentire gli umori e il feeling della loro musica. Il loro sound non era dolce enon avevano le linee armoniche da poter canticchiare facilmente per la strada a passeg-gio con la vostra ragazza mentre cercavate di baciarla. Il bebop non aveva la stessaumanità di Duke Ellington. E non era nemmeno così riconoscibile. Bird e Diz eranograndi, fantastici, però non erano dolci. Le radici di Birth of the cool sono quelle dellamusica nera, da Duke Ellington. Anche la gente bianca poteva apprezzare la musica cheriusciva a capire, quella musica che potevano ascoltare senza diventare scemi. Il bebopnon arrivava da qualcosa che fosse loro familiare e perciò era molto difficile per lamaggior parte dei bianchi ascoltare quel che si stava suonando. Era una musica comple-tamente nera. Ma Birth of the cool non era soltanto orecchiabile, c’erano anche deibianchi che suonavano e avevano anzi dei ruoli importanti. E questo ai critici bianchipiaceva molto. Piaceva l’idea che sembrassero avere un ruolo preminente in quel che sistava facendo. È un po’ come se qualcuno ti stringesse la mano con più convinzione.Colpivamo l’orecchio di chi ascoltava in un modo un po’ più leggero di Bird e Diz,tenevamo la musica un po’ più sui binari principali, e questo era tutto [Davis – Troupe2001, 142].

D’altronde basta notare la seguente trascrizione di Move, un branocontenuto in Birth of the cool, e confrontarlo con il precedenteAnthropology, tipico dell’era bebop. Le note sono molte di meno, moltesono le legature e soprattutto le pause, che conferiscono un tono piùtranquillo e rilassato alla composizione. In Anthropology, invece, le fra-si sono molto più lunghe e quasi tutte basate sugli ottavi se non addirit-tura sui sedicesimi, nonché ricche di cromatismi.

Figura 10. Trascrizione di una parte di Move, un brano contenuto nel disco“manifesto” del cool jazz, Birth of the cool.

Le incisioni di Davis rimangono un’importante e decisiva testimo-

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nianza dello sforzo compiuto per individuare una soluzione espressivadi ampio respiro estetico che abbracciasse, oltre che la tradizionejazzistica, anche la tradizione musicale colta ed europea. Tornarono invoga anche gli arrangiamenti scritti, che erano invece quasi scomparsinella musica bebop. Lee Konitz, Miles Davis, Leonard Tristano, l’arran-giatore Gil Evans, Gerry Mulligan, John Lewis, Kenny Clarke furonosolo alcuni dei nomi che diedero vita al cool jazz, e la maggior parte diessi erano bianchi. Un grande contributo allo stile cool jazz venne dalla“West Coast” degli Stati Uniti, ovvero dalla costa del Pacifico, dallaCalifornia.

È sempre esistita una scena musicale molto attiva lungo tutta la costa californiana,ma la sua larga diffusione ha avuto luogo soltanto con il grande sviluppo dell’industriacinematografica e televisiva nella vasta area metropolitana di Los Angeles [Carr 1998,92].

La vera esplosione si ebbe sul finire degli anni Quaranta, quandomusicisti quali Dexter Gordon, Chet Baker, Charles Mingus, GerryMulligan, Shorty Rogers e molti altri iniziarono a farsi conoscere, ve-nendo in contatto con i musicisti di New York come Charlie Parker eMiles Davis.

Mentre il bebop newyorkese è l’espressione collettiva di una comunità che lotta perla sopravvivenza e il proprio riconoscimento, i jazzmen della costa occidentale sembra-no dedicarsi all’introspezione e ai problemi esistenziali con ostentata indifferenza per larealtà che li circonda. Di conseguenza, sia gli appassionati sia i critici avranno qualchedifficoltà a collocare quei giovani borghesi bianchi sullo stesso piano degli idoli neri delghetto [Bergerot – Merlin 1994, 21].

La vita culturale è, nei primi anni ’50, al massimo e, oltre al nuovojazz, dalla costa californiana arrivano anche scrittori quali Jack Kerouak,autore del libro manifesto della beat generation: On the Road. Nasconoallora i primi esperimenti che associano musica jazz e letteratura, unitedal rifiuto per la società dei consumi. Come accennato, però, il cool jazzebbe vita breve e la risposta dei musicisti del Nord Est non tardò a farsisentire con quello che verrà definito hard bop. Accanto al fenomeno delcool jazz, va citato anche quello della bossa nova e della musica latinache, negli anni Sessanta, hanno dato vita a un genere musicale di grandesuccesso nato dall’incontro fra il jazz degli Stati Uniti e i cantautori diRio de Janeiro.

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Alla fine degli anni Cinquanta una nuova generazione di musicisti brasiliani si con-fronta con il jazz, trasponendovi le sincopi ritmiche e l’euforia del samba. Nasce così labossa nova, uno stile che presto contagerà i jazzisti americani [Sperandeo 2001, 7].

Già durante gli anni del bebop e dello swing alcuni musicisti suona-vano i loro temi su ritmi latini, ma fu solo dopo che il cantante e pianistaDick Farney “importò” il jazz in Brasile che nacque la bossa nova. Moltifurono i grandi interpreti di questo genere, ma il cantore per eccellenzadel nuovo Brasile fu sicuramente Antonio Carlos Jobim che, con le suecanzoni e le sue musiche delicate, rappresentava nel modo più autenticola joie de vivre dei brasiliani, il calore e le spiagge di Ipanema.

Figura 11. I principali artefici del successo della bossa nova ritratti insieme.Da sinistra: Antonio Carlos Jobim, Vinìcius de Moraes, Ronaldo Boscoli, Roberto

Menescal e Carlos Lyra [JOB].

La sua formazione era classica, aveva studiato con il compositore

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tedesco Hans-Joachim Koellreutter, il musicista che aveva introdotto inBrasile i principi dell’atonalità.

La bossa nova, letteralmente l’espressione significa “nuova tendenza”, nacque pro-prio dall’incontro dei toni morbidi del cool e del californian jazz con la musica piùtipicamente brasiliana, il samba, che si stemperava in una dimensione più lirica econtemplativa [Sperandeo 2001, 10].

La nascita ufficiale della bossa nova risale al dicembre del 1958,quando fu pubblicato, su un disco a 78 giri, Chega de saudade (bastacon la nostalgia), brano composto e arrangiato da Jobim e interpretatoda João Gilberto, che sarebbe diventato il cantante simbolo della bossanova; le parole erano invece di Vinìcius de Moraes. L’incontro fra ilpoeta e il compositore diede vita anche a una pièce teatrale di grandesuccesso, intitolata Orfeu da Conceição, da cui nacque poi il film OrfeoNegro, che si impose all’attenzione mondiale vincendo un Festival diCannes e un Oscar a Hollywood. Il successo di Orfeo Negro assicuròalla nuova musica brasiliana il successo internazionale e la mise in con-tatto con i jazzisti statunitensi, fra cui Stan Getz, sassofonista che nel1962 incise il disco Jazz Samba. Dopo di allora molti musicisti brasilia-ni si esibirono negli Stati Uniti e, nel marzo del 1963, fu registrato l’al-bum Getz/Gilberto, cui Jobim aveva contribuito con una sua composi-zione, Garota de Ipanema (ragazza di Ipanema), interpretata da AstrudGilberto, moglie di João, che avrebbe reso il disco una delle pietre mi-liari della bossa nova. Nel 1964 Jobim incise, finalmente, il disco a suonome dal titolo The Composer of Desafinado Plays (il compositore diDesafinado suona), recensito positivamente dalla rivista Down Beat enel 1967 arrivò la preziosa collaborazione con Frank Sinatra. Da alloraJobim lavorò stabilmente negli Stati Uniti, suonando con molti dei piùgrandi jazzisti del momento, anche perché, dal 1965, la situazione inBrasile era diventata molto pesante a causa dell’instaurarsi di una rigidadittatura militare, che aveva reso impossibile esprimersi a molti degliartisti di allora. Prima di allora, però, la vita musicale era molto vivacee molti dei successi della bossa nova nacquero sulla spiaggia di Ipanemao al Au Bom Gourmet, un locale di Copacabana dove erano soliti esibir-si, nelle serate estive, João Gilberto, Vinicius de Moraes e Tom Jobim,che avrebbe detto di quel periodo: «Andavamo in spiaggia e poi ci fer-mavamo al bar per una birra. Qui componevamo queste canzoni locali,che avevano senso soltanto se cantate in quella parte della città. Non

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avremmo mai immaginato che sarebbero diventate famose in tutto ilmondo».

Hard bop

Al di là della parentesi sulla musica brasiliana, la nuova musica propo-sta dai musicisti dell’Est degli Stati Uniti fu nuovamente energica evicina più che mai a quello che era stato il bebop degli anni Quaranta.Denominato in seguito hard bop proprio per la sua durezza, mise in luceil ruolo della batteria che divenne quasi uno strumento solista.

Per alcuni anni non si parlò d’altro che di questo jazz aggressivo, muscoloso esanguigno, che fece tramontare le formule, del resto divenute presto stereotipate, in-ventate e imposte dai jazzmen di Los Angeles [Polillo 1980, 600].

L’hard bop consolidò le conquiste armoniche del bebop, introducen-do un’enfasi ritmica più consistente e diretta. Fu per questo che furonogli stessi batteristi, il più delle volte, a dare il via a formazioni hard bop,quali quella dei Jazz Messengers, guidati dal batterista Art Blakey.

Figura 12. Art Blakey, leader dei Jazz Messengers, alla batteria [WG].

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Il punto di partenza è comunemente indicato dal Café Bohemia di New York, unlocale dove i Jazz Messengers, un quintetto cooperativo in cui figuravano il pianistaHorace Silver e il batterista Art Blakey, ebbero un prolungato ingaggio tra il 1955 e il1956. Durante questo periodo, il gruppo poté sperimentare nuove tecniche di accom-pagnamento dei solisti, affidando al contrabbassista Doug Watkins il compito di mante-nere una regolare pulsazione in 4/4 e consentendo a pianista e batterista di creare uncontorno polifonico alle improvvisazioni dei fiati [Carr 1998, 106].

Con l’hard bop il jazz era sempre più orientato verso le piccole for-mazioni e le grandi orchestre iniziarono pian piano a scomparire, ancheperché, nonostante gli sforzi compiuti da qualche band leader per di-mostrare il contrario, il pubblico dei giovani aveva ormai perduto il gu-sto di ballare a suon di jazz. A questo scopo aveva provveduto, e consuccesso, il rock & roll che, nelle sue successive trasformazioni, sareb-be rimasta l’unica musica ballabile di derivazione jazzistica.

Con l’avvento dell’hard bop diminuì decisamente l’importanza degli standardsmutuati dalla musica leggera, che per oltre vent’anni avevano fornito ai jazzmen i temibase (o soltanto gli accordi di sostegno) per le loro improvvisazioni. Con gli anni Cin-quanta cominciarono infatti a moltiplicarsi le composizioni jazzistiche originali, chespesso altro non sono che head arrangements costruiti sulle armonie del blues, e maga-ri su riffs. Questo fatto ebbe notevoli conseguenze sulla sorte di chi canta, o vorrebbecantare, jazz [Polillo 1975, 245-246].

Il free jazz degli anni Sessanta

La tendenza a emanciparsi dai vecchi standards, manifestata dagli hardboppers, fu accentuata durante gli anni Sessanta da tutti quei musicistiche diedero vita al nuovo corso della musica afro-americana. Con l’av-vento del free jazz si ebbe un’ulteriore evoluzione tecnicanell’improvvisazione e, più importante ancora dal punto di vistasociologico, i musicisti di jazz caratterizzarono in senso politico e so-ciale molte delle opere realizzate durante quegli anni.

Ciò che accadde nei tumultuosi anni Sessanta, la Rivoluzione Nera, l’affermazionedella Nuova Sinistra americana, la crescita del dissenso interno negli Stati Uniti, lafioritura della controcultura underground, il dilagare della violenza, la palingenesi deicostumi, la rivolta studentesca, la contestazione del principio di autorità e dell’autoritàe il crollo di tanti valori, miti e tabù fino a quel momento considerati intangibili, sirifletté chiaramente nelle musiche che rappresentavano le espressioni tipiche dei gruppi

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sociali allora in rivolta o in fermento [Polillo 1975, 255].

Mai come in quegli anni fu evidente la corrispondenza tra rivolgi-menti socio-politici e musica jazz negli Stati Uniti. Il desiderio di eman-cipazione dai vecchi stilemi jazzistici rifletteva l’insofferenza del popo-lo afro-americano nei confronti di una condizione esistenziale ancoraestremamente misera, nonostante l’abolizione dello schiavismo. Ecco,quindi, che l’etichetta free si riferisce non solo alla musica jazz deglianni Sessanta, ma anche all’intimo desiderio di libertà del nero ameri-cano. Dal punto di vista tecnico le novità del jazz degli anni Sessanta,del free jazz in particolare, sono:

1. La penetrazione nello spazio libero della atonalità.2. Una nuova concezione ritmica che è caratterizzata dalla dissoluzione del metro,

del beat e della simmetria.3. L’irruzione della musica mondiale nel jazz, che ora si trova improvvisamente

messo a confronto con tutte le grandi culture musicali dall’India fino all’Africa e dalGiappone all’Arabia.

4. Un’accentazione del momento d’intensità del tutto sconosciuta negli stili prece-denti del jazz. Il jazz è sempre stato una musica che per la sua intensità era sempre statasuperiore alle altre forme musicali del mondo occidentale, ma mai nella storia del jazz siera data tanta importanza all’intensità in senso così elastico, orgiastico, e in alcuni mu-sicisti anche religioso, come nel free jazz. Molti musicisti di free jazz praticano un veroe proprio “culto dell’intensità”.

5. Una estensione del suono musicale nel campo del rumore [Berendt 1979, 33-34].

Molto importante è il primo punto sottolineato da Berendt, che chia-risce una differenza importante fra la musica europea e quella afro-ame-ricana.

La concezione del jazz come “atonalità” si differenzia sostanzialmente da quelladella musica concertistica europea. Nella corrente principale della musica concertisticadel XX secolo un nuovo principio d’ordine, dodecafonico, seriale, ha sostituito il vec-chio principio dell’armonia funzionale. Persino laddove la moderna musica concertisticadiventa “aleatoria”, cioè dove lascia spazio a certi elementi causali e similiall’improvvisazione, rimane sempre legata a un ordine di serie e viene comunque sem-pre ricondotta a esso. Nel free jazz dell’avanguardia di New York del 1965 un similemomento vincolante e relativo sussiste ancora, nella migliore delle ipotesi, nei cosiddet-ti “centri tonali” in cui la musica si inserisce in senso lato nella generale gravitazionedalla dominante alla tonica, ma in cui tutti gli intervalli sono “liberi”. Essi godono nelcorso degli anni Sessanta di una libertà la cui intensità ha reso sempre più irrilevanteanche il rapporto tonica-dominante. Nonostante la brevità della sua storia il jazz ha una

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“tradizione atonale” più lunga di quella della musica europea [Berendt 1979, 34-35].

Il fenomeno di liberazione del jazz dall’armonia funzionale presentanumerosi parallelismi casuali anche in altri settori dell’arte modernaquali la letteratura.

La sgrammatizzazione, le tendenze antigrammaticali e antisintattiche di così nume-rosi scrittori moderni, come quella di Raymond Queneau, di Arno Schmidt, Helmut

Heissenbuttel, Ernst Jandl a anche James Joyce e di molti altri di tutte le lingue delmondo, corrispondono fin nei minimi dettagli alle tendenze antiarmoniche dei musicistidel free jazz [Berendt 1979, 37].

Il fatto che questi fenomeni di insofferenza verso i classicismi sianopresenti anche in altri campi dell’arte testimonia di come i rivolgimentisociali e politici in atto siano, molto spesso, la vera causa dei cambia-menti stilistici nell’arte.

Le innovazioni propriamente musicali prodotte nel free jazz valgono anzitutto comeeffetto e sintomo di un mutamento più generale: quello del rapporto dei neri americanicon la loro cultura, e quella del ruolo che questa cultura assume direttamente nelle lottepolitiche. In sostanza un’analisi i una valorizzazione limitate ai soli rinnovamenti musi-cali apportati dal free jazz non farebbe che occultare ciò che, a livello politico, li deter-mina, e cioè in ultima analisi l’istanza politica stessa [Carles – Comolli 1973, 15-16].

La parola free era già comparsa nella seconda metà degli anni Cin-quanta sulle copertine di alcuni dischi di jazz, ma fu il 12 dicembre1960, quando uscì l’album del quartetto di Ornette Coleman, intitolatoFree Jazz, che ci si rese conto di essere nuovamente a una svolta nellastoria della musica afro-americana. Il disco divenne subito il “manife-sto” della nuova musica e suscitò molto scalpore, sia per la sua lunghez-za (trentasei minuti in due parti), sia per le dichiarate intenzioni di sman-tellare ogni regola consolidata a livello melodico, ritmico e armonico.Anche il disco My Favorite Things, di John Coltrane, ebbe grande im-portanza, perché attribuì al sassofonista il ruolo di guida, che in passatoera stata di Charlie Parker, e ne sancì il successo a livello mondiale. Unaltro grande esponente del free jazz, da cui si sarebbe in seguito stacca-to, fu il contrabbassista Charles Mingus, la cui musica è stata il perfettoponte di collegamento tra le due rivoluzioni del jazz moderno: il bebop,negli anni Quaranta, e il free jazz, negli anni Sessanta. Infine l’album

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Freedom Now Suite del batterista Max Roach in cui

la musica volle offrire un contributo alla lotta di liberazione del popolo afro-ameri-cano, facendosi per la prima volta veicolo di una veemente protesta, di una richiestaperentoria di giustizia [Polillo 1975, 257].

Figura 13. Ornette Coleman al sassofono e Charlie Mingus al contrabbasso,due dei maggiori esponenti del movimento free [EY].

Il Civil Rights Act, la legge predisposta da Kennedy e approvata dopoil suo assassinio, sanzionava definitivamente il riconoscimento dei di-ritti civili alla minoranza di colore e fu firmata il 2 luglio 1964. Nonbastò, però, una semplice legge a calmare il popolo afro-americano, cheoramai era sfuggito al controllo del suo leader Martin Luther King edera in preda a una vera e propria rivoluzione. Rivoluzione che toccò,come abbiamo visto, il mondo della musica; da allora i musicisti prefe-riranno chiamare la loro musica non più jazz, ma free music (musicalibera), o ancora black music (musica nera), proprio per ribadire il fortecontenuto di protesta sociale e razziale che aveva la loro arte. I jazzistierano consapevoli di aver creato la forma d’arte più autenticamenteamericana, e di essere stati derubati dei frutti della loro inventiva.

“Fare da sé”, “Coscienza negra”, sono parole d’ordine che si odono con frequenzanelle comunità negre d’America, e i musicisti di jazz sono fra i primi a tradurle, o atentare di tradurle, in pratica [Polillo 1975, 263].

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Con gli anni Sessanta cambia completamente la concezione stessadel jazz, almeno per quanto riguarda il free jazz: si accentuano i caratte-ri di africanità, l’autonomia dalla musica europea e la funzionalità so-ciale e politica. Emblematiche le parole del sassofonista Archie Shepp,che fu forse il musicista più ideologizzato degli uomini del jazz a metàdegli anni Sessanta.

«Dal punto di vista culturale l’America è un paese retrogrado, gli americani sonoretrogradi. Ma il jazz è una realtà americana. Una realtà indiscutibile. Il musicista di jazzè come un reporter, un giornalista estetico dell’America. Quei bianchi che frequentava-no i localini di New Orleans pensavano di ascoltare la musica dei niggers ma sbagliava-no: ascoltavano musica americana. Ma non lo sapevano. Anche oggi quei bianchi chevanno nel Lower East Side forse non lo sanno ma ascoltano musica americana... ilcontributo del Negro, il suo dono all’America. Alcuni bianchi pensano di avere diritto aljazz... è un regalo che il Negro ha fatto loro, ma loro non possono accettare questofatto, ci sono coinvolti troppi problemi connessi con le relazioni sociali, storiche fra idue popoli. Questo fa sì che sia difficile per loro accettare il jazz e il Negro come il suovero innovatore» [Polillo 1975, 263-264].

In ogni caso, non bisogna pensare che il free jazz sia stato un feno-meno musicale di grandi dimensioni, soprattutto all’inizio ebbe grandidifficoltà a conquistare i favori del pubblico, in particolare bianco. Fuforse per questo che molti esponenti della nuova musica decisero ditrasferirsi in Europa, dove era più facile trovare lavoro.

In particolare a Copenaghen gli ambasciatori del nuovo jazz trovarono ciò che ave-vano invano cercato in patria: un locale importante dove poter presentare, per unadiscreta paga e per periodi non troppo brevi, la loro musica. Era il Jazzhus Montmartre,allora il più vivace centro jazzistico europeo: il “Minton’s del free jazz”, come qualcunolo definì [Polillo 1975, 268-269].

Gli anni più prolifici per la New Thing furono probabilmente il 1965e il 1966, anni in cui uscì, tra l’altro, il disco Ascension di John Coltraneche lasciò, fra la sorpresa di molti, uno degli esempi più impressionantidi free jazz. In seguito, dagli anni Settanta in poi, alcuni jazzisti si allon-tanarono parzialmente da questa strada per dedicarsi ai nuovi generimusicali come il soul, il rock & roll, la fusion, che avevano guadagnatoi favori del pubblico e consentivano certamente un maggiore successocommerciale, oltre che la possibilità di sperimentare nuovi orizzontisonori.

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2.3. Il jazz elettrico e la nascita del jazz europeo

Il jazz attacca la spina

Già dagli anni Cinquanta il jazz aveva dovuto iniziare a fare i conti conil rock & roll, che stava proprio allora muovendo i suoi primi passi evedeva in Elvis Presley il suo idolo. Presley aveva conquistato gran par-te del giovane pubblico, sia perché offriva una musica nuova eaccattivante, che aveva sostituito definitivamente lo swing nel ruolo dimusica da ballo, sia perché, nonostante utilizzasse molti stilemi dellamusica afro-americana nelle sue canzoni e nelle sue interpretazioni, erabianco, e per il mercato discografico avere, all’epoca, un ragazzo bian-co con una voce da nero permetteva una diffusione sicuramente mag-giore che non con un cantante di colore.

Presley, miscelando oculatamente il patrimonio bianco del Sud (all’inizio il rockebbe cittadinanza soprattutto nel Tennessee), basato sul canto hillybilly e sulle tradizio-ni cantate del country e del western, con la tradizione nera del blues (e soprattutto delgospel), dette vita a una musica facilmente assimilabile alle caratteristiche sessuali piùdeleterie del canto nero delle origini, e con una fortissima componente ritmica ed ecci-tante, capace insomma di solleticare le velleità più primordiali, nonché, e in ciò risiedet-te il valore commerciale dell’operazione, di essere facilmente recepita anche oltreoceano,costituendo così la base per una diffusione capillare in Europa [Roncaglia 1998, 295].

Basti pensare che la Columbia (una famosa casa discografica) rad-doppiò, nel giro di tre anni, la propria quota di mercato grazie alla diffu-sione dei dischi rock, passati, nello stesso periodo, dal 15% al 50% delsuo fatturato. Ecco quindi che molti jazzisti dovettero, per continuare afar sentire la loro voce, adeguarsi al nuovo modo di fare musica, e anchequi il jazz riuscì a creare una musica originale senza rinnegare le pro-prie caratteristiche principali. Fino agli anni Sessanta i musicisti di jazzavevano sempre utilizzato strumenti acustici: il pianoforte, il sassofono,il contrabbasso, la chitarra acustica, la tromba sono tutti strumenti chenon necessitavano di corrente elettrica per funzionare, ed erano amplifi-cati senza l’uso di magneti o amplificatori, ma semplicemente appli-cando dei microfoni sullo strumento. Con l’avvento degli strumenti elet-trici ed elettronici (molto usati nel rock), la scena musicale mondialecambiò radicalmente e bruscamente proprio per l’adozione di questistrumenti, che consentivano al musicista di sperimentare sonorità anco-

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ra sconosciute. La chitarra elettrica fu certamente lo strumento che ebbeil maggior successo e fu utilizzato a partire dagli anni Cinquanta, quan-do Leo Fender costruì le prime chitarre Fender Stratocaster, in tutti igruppi che suonavano la nuova musica, dal rhythm & blues, al rock, alfunky. Anche il piano fu elettrificato (nel 1965 fu commercializzato ilpiano elettrico Fender Rhodes e nel 1970 i primi sintetizzatori di RobertMoog) e, in molti casi, divenne addirittura uno strumento elettronico,soprattutto in tempi più recenti. In questa nuova veste la tastiera consen-tiva di ottenere le sonorità più disparate, nonché di svolgere il ruoloprima destinato ad altri strumenti, come archi o intere sezioni di fiati. Ilcontrabbasso fu sostituito dal basso elettrico, più piccolo e pratico, mol-to simile alla chitarra esteticamente, che permetteva di suonare a unvolume maggiore, più adatto al rock. Anche la batteria iniziò a fare uso,dagli anni Settanta in poi, di loop (delle figurazioni ritmiche ripetuteciclicamente) creati con il computer, che si affiancavano alle parti suo-nate dal batterista con lo strumento. L’indubbia, palpabile diversità frala corposità sonora degli strumenti acustici ed elettrificati non poté nonmodificare la musica di quegli anni. Fu, quindi, l’adozione di molti diquesti strumenti da parte dei jazzisti a modificare la voce della loromusica. In realtà, nel momento in cui musicisti di jazz si decisero autilizzare i nuovi strumenti elettrici, il rock aveva già cambiato formarispetto alla musica proposta da Elvis Presley; ora erano i Beatles e iRolling Stones a dettare i nuovi standards, nonché cantautori e cantau-trici come Bob Dylan e Joan Baez.

Si può dire che sia cominciata in quegli anni l’era del rock, che raggiunse l’apogeodopo che fu salita sull’orizzonte la stella di Jimi Hendrix, un giovane chitarrista negroamericano che aveva vissuto oscuramente in patria, nel mondo del rhythm & blues, eche era poi “esploso” a Londra nel 1966, e dopo che il primo grande festival del pop,organizzato a Monterey, in California, nel giugno del 1967, dimostrò come sterminatofosse il pubblico per quella musica, e che cosa significasse per chi avesse vent’anni[Polillo 1975, 287].

Questi erano, quindi, i nomi dei nuovi idoli musicali dei giovani ditutto il mondo, con cui i jazzisti dovevano confrontarsi. Il musicista cheper primo abbandonò le vie del jazz acustico per entrare nel mondo deljazz-rock, utilizzando strumenti elettrici, fu Miles Davis, lo stesso cheanni addietro aveva prodotto tanti dischi apprezzati proprio per la leg-gerezza e l’intensità dell’esecuzione.

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Benché, com’è ormai chiaro, non sia stato Miles Davis a inventare il jazz-rock, èindubbio che il trombettista seppe esserne il catalizzatore più potente, indicando stradee prospettive al jazz elettrico, e covando una nidiata di formidabili artisti che ne avreb-bero codificato i metodi e le opzioni [Martorella 1998, 38].

Si era reso conto che quella musica faceva parte del suo passato eche i tempi erano cambiati, anche per il jazz, come egli stesso confessa.

La gente della mia età che mi ascoltava “ai vecchi tempi”, i dischi non li compranemmeno più. Se dovessi dipendere da loro, anche se suonassi quello che vogliono,morirei di fame e non riuscirei a comunicare con la gente che invece i dischi li compra:i giovani. Anche se volessi suonare questi vecchi pezzi non riuscirei più a trovare lagente capace di suonarli nel vecchio stile [Davis – Troupe 2001, 453].

Le parole di Davis testimoniano la necessità, da parte del musicista,ma anche di buona parte del pubblico, di una svolta estetica nella musi-ca jazz. Nel 1968 c’è l’incontro con Jimi Hendrix, l’idolo del rock, e nel1969 il trombettista incide il disco Bitches Brew, che ebbe un notevolesuccesso e sancì il definitivo passaggio di Davis, e con lui di buonaparte del jazz, all’elettronica. Di lì in poi, molti furono i musicisti e igruppi che cercarono di “fondere” elementi della musica jazz con quellidella musica rock. Non a caso ho utilizzato la parola fondere, dato che ilrisultato di questo incontro fu etichettato come musica fusion, propriodalla “fusione” di generi musicali differenti.

Questa musica ha aperto linee di comunicazione fra il jazz tradizionale, con il suobackground improvvisativo, e il rhythm & blues, il funk, l’acid rock bianco; questicanali di comunicazione sono ancora più ricchi dal momento che le musiche nonjazzistiche implicate fanno comunque riferimento al blues [Cerchiari 2001b, 197].

Quindi la fusion è un genere musicale creato, per buona parte, dal-l’incontro di generi musicali differenti, in questo caso l’incontro deljazz con il rock. Col passare degli anni, soprattutto alla fine degli anniSettanta, il significato del termine fusion si allargherà fino a compren-dere

più che un genere musicale, il metodo di lavoro a esso sotteso, il processo attraver-so il quale si ottiene, tacendo dei materiali che vengono elaborati e processati [Martorella1998, 17].

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Se rivolgiamo uno sguardo verso il passato è impossibile non notarecome, in tutta la sua storia, la musica jazz sia stata sottoposta a un con-tinuo processo di “fusione” fra stili e generi differenti. La differenza èche, con il jazz-rock, questa fusione è consapevole, è ricercata da partedel musicista, mentre prima era il corso naturale della storia a far sí checerti cambiamenti avvenissero. Quando il rock apparve sulle scene ijazzisti dovettero compiere una scelta drastica e cosciente, una scelta dicampo, fra il continuare la strada già battuta del vecchio jazz acustico (emolti lo fecero e lo fanno ancora oggi) o imboccare la via dell’innova-zione, anche a costo di “sacrificare” molti elementi che avevano carat-terizzato la musica afro-americana fino a quel momento come, per esem-pio, lo swing o l’uso di strumenti acustici. Fra i musicisti più famosidella fusion, solo per citarne alcuni, quasi tutti lanciati dai gruppi diDavis, ci sono i pianisti Herbie Hancock, Keith Jarrett, Joe Zawinul,Chick Corea, i bassisti Jaco Pastorius, John Patitucci, Marcus Miller, ichitarristi Pat Metheny, John Scofield, Mike Stern, John McLaughlin, ibatteristi Steve Gadd, Dave Weckl, Dennis Chambers, i sassofonisti BobBerg, David Sanborn, Bill Evans. La tromba, invece, al di là di MilesDavis, è sempre stata molto più utilizzata nel jazz tradizionale. Questisono solo alcuni dei musicisti che contribuirono al successo della fusion,molti di loro sono attivi ancora oggi e continuano a sperimentare nuovilinguaggi sonori. Non manca comunque, come accennato, chi ha prefe-rito proseguire la strada neoclassica, come Wynton Marsalis, e continuaa suonare un jazz più tradizionale, fatto ancora con strumenti acustici econ sonorità più legate al passato. In un caso o nell’altro, va comunquesottolineato il ruolo fondamentale svolto dal jazz-rock nel far conoscerela musica afro-americana e i suoi musicisti al grande pubblico, nell’im-porla al mondo come nuova e autentica forma d’arte. Questo avvenneanche grazie a innovative formazioni musicali come quella dei WeatherReport, capitanata dal pianista di origine viennese Joe Zawinul e dalsassofonista di colore Wayne Shorter che, nel 1970 diede vita a unamusica che ebbe grande effetto sul pubblico di tutto il mondo. Quandopoi nel 1975 si aggiunse anche il geniale bassista Jaco Pastorius, il grup-po iniziò veramente a scrivere le pagine più belle della storia della fusion.Il disco di maggior successo fu indubbiamente Heavy Weather, uscitonel 1977, che apportava non poche novità musicali per l’epoca. Nonc’erano più le lunghe improvvisazioni su pedale dei dischi precedenti,

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ma le composizioni venivano strutturate sviluppando i temi, orecchiabilima non semplici, che venivano suonati spesso all’unisono fra il sassofo-no di Shorter e il basso fretless (senza tasti) di Pastorius. Il suono dellostrumento di Jaco era così particolare che Joe Zawinul, rimasto moltocolpito da una delle composizioni del disco solista di Pastorius,Continuum, racconta, a proposito dell’ingaggio del bassista nel gruppo:

«Lo chiamai e la prima cosa che gli chiesi fu: «Hey, ragazzino, suoni anche il bassoelettrico?». Aveva un suono così caldo e ricco su quel Fender Jazz senza tasti, chepensavo fosse un contrabbasso» [Milkoswky 2001, 50].

Figura 14. Jaco Pastorius “parla” con il suo basso elettrico Fender senza tasti[PA].

Nonostante la complessità delle composizioni, quindi, il suono dellaband sapeva essere, frutto anche di un accurato lavoro di studio, di allu-cinata complessità e al contempo di immediata ricezione. Questa fu,forse, la chiave per comprendere il perché dell’enorme successo ottenu-to dal gruppo negli anni Settanta.

Facendo ampio spazio alle impressioni di viaggio, il loro repertorio è spesso costru-

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ito come musica a programma, un po’ alla maniera dei poemi sinfonici europei di fineOttocento e primo Novecento. In seguito, la musica dei Weather Report si orienta ver-so una fusione di influssi diversi, in cui la scansione binaria del rock e delle musichetropicali acquista via via maggiore importanza [Bergerot – Merlin 1994, 91].

Molte altre formazioni contribuirono alla crescita e al successo dellafusion: gli Yellowjackets (del bassista Jimmy Haslip) e gli Steps Ahead(nati da una jam session nel locale dei fratelli Michael e Randy Brecker).Col passare degli anni, quello che era nato come jazz-rock ai tempi diMiles Davis venne distinto dalla musica oggi definita come fusion, cheetichetta un genere musicale dedito all’unione di elementi non soloprovenienti dal jazz e dal rock, ma anche dalle musiche etniche, tropi-cali, latine, dal funky, dal rap, dall’hip hop, dalla musica elettronica.Insomma, si può affermare con sicurezza che, mentre negli anni ‘70 iljazz-rock era spesso identificato con la fusion, adesso i due termini siriferiscono a realtà musicali differenti e che quello che prima era eti-chettato come jazz-rock ora è solo una costola della musica oggi cono-sciuta come fusion, una musica davvero “mondiale”. Diviene semprepiù complicato, quindi, trovare una definizione chiara per la musica jazz,una musica sempre in trasformazione, in evoluzione, che vive delle con-taminazioni con altri generi musicali e che, mai come in questo periododi globalizzazione culturale, si sta arricchendo di nuovi linguaggi arti-stici.

La fine del millennio

Il jazz che va dagli anni Ottanta fino ai primi anni del nuovo millennioha visto imporsi una generazione di giovani musicisti cresciuta ascol-tando i grandi maestri e che, tentando di non cadere nella tentazione delrevival, si è imposta come la nuova voce del mainstream. Molti di que-sti musicisti sono, come accennato, “figli” di Miles Davis, che si sonodedicati, in seguito, ai loro progetti solisti e continuano, ancora oggi, asuonare la loro musica con grande successo, ma ci sono anche musicistimolto giovani che cercano, e a volte riescono, a entrare con successonel mondo del jazz. È molto difficile però, al giorno d’oggi, trovare unapropria voce originale nel jazz, soprattutto in quello più tradizionale,poiché le lezioni di John Coltrane, di Miles Davis, di Charlie Parker, diBill Evans sono ancora ben presenti nella musica di molti dei “giovanileoni”.

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La scomparsa delle canoniche “palestre” per i gruppi di nome, come i piccoli clubche consentivano di provare le abilità dei singoli musicisti impegnandoli in interminabilijam sessions notturne, ha di fatto impedito lo sviluppo di personalità autenticamenteoriginali. Molti jazzisti oggigiorno escono dalle università o dalle scuole di musica per-fettamente formati e dotati di tecnica sovrumana, ma privi di qualunque caratteristicaindividuale atta a distinguerli dalla massa dei loro colleghi [Carr 1998, 212].

Per questo alcuni critici hanno cominciato ad allarmarsi, a denuncia-re “la stasi del jazz” dando il via all’attesa del nuovo genio. Ma costorosono legati a schemi vecchi, per i quali si pretendeva una virata del jazzpressappoco ogni dieci anni come era accaduto, in contesti storici assaidiversi, all’epoca degli stili tradizionali e classici. Nonostante questedifficoltà vanno sicuramente citati, fra i musicisti della nuova genera-zione, i fratelli Brandford (sassofono) e Wynton (tromba) Marsalis, iragazzi prodigio che hanno esordito con i Jazz Messengers di Art Blakey,per poi suonare anche con artisti più votati al rock come Sting. Iltrombettista Roy Hargrove, leader del movimento revival, la cantanteCassandra Wilson, autentica dominatrice della scena del canto jazz, ilsassofonista classe 1937 Joe Henderson, riscoperto di recente come unodei maggiori esponenti del sassofono tenore, sono certamente fra i mu-sicisti che portano ancora alto il vessillo della musica jazz nel mondo,così come i giovani sassofonisti Bobby Watson, Tim Berne, JoshuaRedman, che a volte suonano un jazz più “facile”, quasi non volesserolanciare grandi messaggi con la loro musica, ma fossero sempliciintrattenitori. Molti altri sono oggi i musicisti che utilizzano un linguag-gio jazzistico, pur non suonando esclusivamente jazz tradizionale. Vadetto anche che il jazz, ormai, non è più proprietà dei neri americani,ma si è stabilita una sorta di comproprietà con i bianchi, sia a livelloartistico che a livello di produzione discografica.

Tutte radunate, per comodità, sotto l’etichetta di “jazz”, le musiche improvvisate sisottraggono al dominio esclusivo dell’America nera. Numerosi musicisti bianchi si sonoappropriati del patrimonio del jazz: David Liebman e Richard Beirach più di ogni altro

continuano ad approfondire l’eredità di John Coltrane e di Bill Evans; Keith Jarrett

rianima la tradizione del trio per pianoforte e sezione ritmica alla luce di Bill Evans e

della cultura classica europea; Pat Metheny alimenta le sue superproduzioni colorate di

musica pop, brasiliana e country alle fonti di Ornette Coleman e di Wes Montgomery.

Da Quincy Jones a Marcus Miller, oggi i neri sono numerosi anche tra coloro che

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gestiscono le strutture di produzione, ma si contano altresì molti musicisti bianchi tra lefigure di riferimento che, a partire dagli anni Settanta, hanno influito fortemente sullevarie forme del jazz: si pensi a personaggi come Michael Brecker, David Sanborn e il

chitarrista Larry Carlton [Bergerot – Merlin 1994, 104].

Ecco quindi che, oggi più che in passato, la tendenza multiculturalistadel jazz si concretizza in un numero elevatissimo di artisti che hannosaputo reinterpretare il patrimonio culturale del loro paese, filtrandoloattraverso l’esperienza jazzistica. Si pensi, oltre al già citato filone bra-siliano della bossa nova, alla musica cubana dei Buena Vista Social Clubo del suonatore di maracas Machito; al chitarrista messicano CarlosSantana, autore di una fortunata sintesi personale tra rock, jazz e ritmilatini; al virtuoso del sitar (il tradizionale strumento indiano a cordesimile a un liuto) Ravi Shankar o al percussionista Trilok Gurtu, en-trambi indiani; alla musica kletzmer suonata da John Zorn, Don Byron,Uri Caine; al polistrumentista brasiliano Hermeto Pascoal; ai chitarristiRobben Ford, Eric Clapton e Stevie Ray Vaughan che, fra gli anni Ot-tanta e Novanta, hanno ottenuto grande successo suonando un blues-rock di grande impatto sonoro; al sassofonista argentino Gato Barbieri,che ha saputo coniugare l’universo dei tanghi e delle milonghe con l’ur-genza espressiva del free jazz, allargando il suo raggio d’azione dallanatia Argentina agli altri paesi latinoamericani; alla musica delcontrabbassista Charlie Haden, leader della Liberation Music Orche-stra, nonché autore di bellissimi brani ispirati ai canti della guerra civilespagnola e della rivoluzione cubana; a Sun Ra che, con la sua Arkestra,si è fatto portavoce delle esigenze africane; così come a Steve Coleman,il sassofonista che, partito da un amalgama tra il jazz e ritmi da stradadell’hip hop, è approdato a una musicalità aperta alle tradizioni cubanee africane, frutto dei suoi viaggi a Cuba e in Senegal. Oltre a tutti questiartisti, che sono comunque una piccola parte rispetto a quelli in attività,vanno considerati i musicisti europei e italiani, che hanno contribuitonon poco a una personale rilettura del patrimonio jazzistico e di cui siparlerà nei paragrafi seguenti.

Affascinati dalla vitalità della musica di strada, alcuni jazzisti hanno sperimentato uninedito linguaggio artistico ai confini con il rap, il ritmo creato dai giovani dei ghettinewyorkesi [Sperandeo 2001, 199].

Fra questi abbiamo citato prima Steve Coleman, ma non va dimenti-

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cato, anche il precursore Miles Davis che, proprio col disco postumoDoo Bop, uscito nel 1992, un anno dopo la morte, ha conquistato ilpubblico di tutto il mondo con la fusione fra il suono “magico” della suatromba e gli scenari del rap. Su questo filone si collocano sicuramenteil bassista Marcus Miller, il cantante Bobby McFerrin, Herbie Hancock,Quincy Jones, Archie Shepp, Wayne Shorter, Courtney Pine e tutti que-gli artisti che hanno aderito a una revisione critica del passato e delpresente della musica afro-americana, con l’intento di valorizzarne mag-giormente la componente nera. La fusione tra rap e jazz si è realizzatanel corso degli anni e l’hip hop ha preso sicuramente forma dalla musi-ca funk degli anni Settanta, quando artisti e gruppi come James Brown,Sly & The Family Stone, Head Hunters, Earth Wind & Fire, hanno ac-centuato la componente ritmica e sensuale della musica afro-americana(funk è il termine con cui si definisce l’odore del corpo durante l’attosessuale), mantenendo un occhio di riguardo per la consapevolezza nera.Nell’hip hop tutto questo è stato sviluppato ulteriormente piegando lamusica alla rivoluzione tecnologica in atto, utilizzando batterie elettro-niche, loop, campionamenti, software e giradischi. La sintesi fra tuttiquesti elementi e le caratteristiche improvvisative e timbriche del jazzhanno creato questo nuovo genere musicale, rendendolo uno dei piùinnovativi degli ultimi anni. Accanto al movimento hip hop, che ha poiulteriori e numerosi stili differenti, un altro genere che si è sviluppatodalla musica afro-americana è sicuramente l’acid jazz. Nato a Londra ametà degli anni Ottanta come musica da ballo

l’ acid jazz è stato molto più di questo. Una miscela di innocenza beat, di ribellionepunk e di soul post anni Sessanta; un impulso al ballo; James Brown sotto acido, gli

aspri allappanti sassofoni contralti di Lou Donaldson e di Maceo Parker che suonavanoad una festa rap; la perfetta fusione di ritmi hip hop urbani e di melodie puramentejazzistiche. La definitiva soluzione musicale ai problemi culturali degli anni Novanta[Carr 1998, 215].

Quindi l’acid jazz era stato concepito come una musica per locali daballo, ma una musica comunque soffice, che avesse un tono distaccato.Tutto era iniziato con l’iniziativa di alcuni D.J. come Baz Fe Jazz eGilles Peterson rivolta a dedicare le loro serate al Wag Club di Soho aljazz autentico, un evento che durò per ben cinque anni, un’eternità perun locale notturno. Nel 1988, dopo un periodo di lavoro nel locale

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Dingwall, Peterson e Eddie Piller fondarono la Acid Jazz Records, unacasa discografica che produsse i nuovi gruppi della scena londinese comegli US3, i Brand New Heavies, gli Young Disciples, il James TaylorQuartet, i Jamiroquai, gli Incognito. A proposito dell’acid jazz lo stessoPeterson dice: «All’inizio tutto si riduceva a una selezione di brani jazzballabili e poco conosciuti, vecchi dischi di jive e latin jazz; poi si sonoaggiunti il groove, il funk degli anni Settanta e l’house music. In effettil’ acid jazz non ha niente a che vedere con la storia del jazz se non insenso retrospettivo; è una musica che fonde passato e presente; ha a chefare con la danza e con la scena dei club». Ovviamente l’acid jazz non èstato e non è solamente britannico, molte formazioni arrivano dal Giap-pone e dagli Stati Uniti, ma è importante sottolineare come, per la pri-ma volta, sia stata la vecchia Europa a rivendere il jazz alla nazione chegli aveva dato i natali, e non già come pezzo da museo, ma come musicaviva. Ecco, quindi, che la scena dell’acid jazz ha contribuito a creareuna musica in grado di comunicare al di là dei generi e delle generazio-ni, e già una nuova comunità, con un nuovo suono (forse il drum’n’bass?)sta per farci attraversare la barriera del millennio.

La rivoluzione elettronica che ha avuto inizio con l’invenzione del transistor asemiconduttore (vigilia di Natale 1948) e ha assunto grandiose proporzioni nei succes-sivi quarant’anni con lo sviluppo dei chip, i microprocessori e le memorie a circuitointegrato, ha reso possibile la realizzazione di computer personali di modeste dimensio-ni eppure dotati di grandi velocità di elaborazione e capacità di immagazzinamento deidati. Ciò ha avuto un immediato riflesso sulla produzione della musica al calcolatore esu tutti i sistemi che ricorrono alla digitalizzazione dell’informazione [Frova 1999, 507].

Non va dimenticato, infatti, che il progresso scientifico ha profonda-mente modificato il modo di comporre e suonare musica e, senza ombradi dubbio, i primi effetti cominciano a vedersi anche nella musica jazzdi oggi.

Il jazz sbarca in Europa

Il fatto che negli ultimi anni i nuovi stili del jazz non siano nati esclusi-vamente negli Stati Uniti, come nel caso del citato acid jazz britannicoo di tutti quei “tropicalismi” sviluppatisi dall’incontro con culture lati-ne, è una volta di più la dimostrazione della forte tendenzamulticulturalista della musica afro-americana e del notevole apporto diculture “altre”, che hanno contribuito alla sua crescita e diffusione nel

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mondo. In particolar modo l’Europa, con la sua antica tradizione musi-cale e artistica, ha sviluppato, a partire dagli anni Sessanta, l’interesseper la musica jazz che è sfociato, spesso e volentieri, in registrazioni eperformance che non si limitano a copiare quello che è il mainstreamproveniente dai jazzisti americani, ma che hanno fissato i canoni di unamusica che è riuscita a coniugare degli elementi della tradizione classi-ca europea con quelli più propriamente jazzistici provenienti dagli StatiUniti. L’Europa aveva già fatto la conoscenza del jazz ai tempi deglispettacoli dei minstrels e dei primi complessi come la Original DixielandJazz Band o la Marion Cook Syncopated Orchestra, della quale facevaparte il cornettista Sydney Bechet, che avrebbe poi vissuto a lungo inFrancia. Anche il pianista Bud Powell, il batterista Kenny Clarke, lospecialista del soprano Steve Lacy e David Murray, membro del WorldSaxophone Quartet, hanno scelto, negli anni, di vivere nella capitalefrancese contribuendo alla crescita dell’attività musicale. Queste primeesperienze erano però principalmente passive, i musicisti europei eranoancora degli spettatori, ancora non avevano compreso l’essenza del lin-guaggio musicale jazzistico. Un belga, Robert Goffin, può essere consi-derato il promotore delle prime attività jazzistiche europee atte a studia-re stilemi e caratteristiche della musica afro-americana, anziché soltan-to ascoltarlo come esotica curiosità. Pubblicò, con l’aiuto di altri stu-diosi parigini come Charles Delauney e Hugues Panassié, numerosi saggifra cui, nel 1934, il leggendario Le Jazz Hot, primo saggio sulla musicajazz in Europa. La diffusione che ebbe l’interesse per il jazz in queglianni permise l’esibizione di molti artisti americani fra i quali LouisArmstrong, Coleman Hawkins, Duke Ellington, Miles Davis (che inci-se, alla fine del 1957, la colonna sonora del film di Louis Malle AscenseurPour L’Echafaud), che poterono esprimersi liberamente nel vecchiocontinente e, in alcuni casi, continuarono la loro attività in paesi in cuiricevevano un trattamento anche migliore che in patria. In realtà, giàdagli anni Trenta, un chitarrista zingaro di nome Jean “Django” Reinhardtera attivo con il suo Quintette du Hot Club de France e può oggi essereconsiderato il primo vero musicista jazz europeo.

Django si innamorò del jazz, lo vagheggiò da lontano, senza conoscerlo a fondo, e,nell’ambito di certe sue regole di linguaggio, improvvisando secondo la logica jazzistica,fece una musica tutta sua, che suscitò l’ammirazione anche dei più grandi jazzmenamericani, ma non fece scuola [Polillo 1975, 517].

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Egli rimase un fenomeno raro e isolato. Autodidatta, quasi analfabe-ta, e con una menomazione alle dita della mano sinistra, riuscì comun-que a diventare l’icona del jazz francese degli anni ’30, incidendo di-schi che restano tra le prime brillanti gemme del jazz europeo: che ètanto più europeo, e cioè originale, svincolato dai modelli d’oltre Atlan-tico, quanto è meno tipicamente jazzistico. Però, come accennato, al dilà di casi eccezionali come quello di Reinhardt, forme di jazz europeoautonome cominciarono a svilupparsi solo nei tardi anni Sessanta.

La strada per l’evoluzione autonoma del jazz europeo si è aperta soltanto dopo chela musica jazz si era liberata dalla dittatura del metro regolare e uniforme, dell’armoniafunzionale convenzionale dei periodi e dei decorsi armonici simmetrici. La prima spintain questa direzione è avvenuta, anche in questo caso, dall’America, da musicisti comeCecil Taylor, Ornette Coleman, Don Cerry, Sun Ra che crearono il “suonare libero” acavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma questa spinta ha avuto in Europa un’effica-cia maggiore che non negli Stati Uniti; sembrava di aver trovato terra particolarmentefertile al di qua dell’Atlantico. Probabilmente perché il concetto dell’atonalità, nel suosignificato più ampio, non ha provocato in Europa la scossa che invece ha provocato inAmerica. La moderna musica da concerto ha abituato l’ascoltatore a passaggi musicaliatonali e l’atonalità si era, contrariamente a quanto accadeva in America, inserita neiconcerti e nelle trasmissioni radiotelevisive [Berendt 1979, 396-397].

Fu quindi il free jazz a dare la spinta finale per l’avvio della musicajazz in Europa, dove, con il dissolvimento dell’armonia funzionale, siaprì la via all’improvvisazione collettiva, libera e indipendente. D’al-tronde, il concetto di avanguardia era più facilmente assimilabile inEuropa, dove il radicalismo e l’anarchismo nell’arte erano da tempoentrati nel giudizio estetico comune. Ecco, quindi, che il jazz europeo siconfigura come un jazz collettivo, complice anche la grande tradizioneorchestrale, dove non c’è la predominanza di una star solista, come in-vece avviene nel jazz più propriamente americano. Restano, comunque,dei nomi di musicisti europei che hanno raggiunto la fama internaziona-le come solisti, quali il pianista tedesco Alexander von Schlippenbach,il sassofonista Peter Brotzmann, il chitarrista inglese Derek Bailey e, intempi più recenti, il sassofonista norvegese Jan Garbarek (già collabo-ratore di Keith Jarrett) e il pianista francese Michel Petrucciani.

Dalla fine degli anni Sessanta il nuovo jazzman europeo è una realtà indiscutibile: èun musicista che non si limita a suonare alla maniera degli americani, dopo averne

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raccolto di rimbalzo le idee e le proposte stilistiche, ma fa spesso musica con loro e nonha più paura di inventare [Polillo 1975, 298].

Figura 15. Il pianista francese Michel Petrucciani [JV].

Fu in particolare la Francia il paese più attento alla musica afro-ame-ricana e, proprio a Parigi, nacquero i primi club, le cosiddette “caves”,situate tutte sulla Rive Gauche della Ville Lumière, dove era facile in-contrare, oltre ai musicisti, anche personalità di cultura, come lo scrit-tore esistenzialista Jean-Paul Sartre, o Cocteau, o Simone de Beauvoir,o ancora l’attrice Juliette Greco. Ancora oggi Parigi è la capitale deljazz europeo, così come ne è stata la sua culla nei primi anni di vita. Visi svolgono infatti due importanti rassegne, una alla Cité de la Musiquenel parco della Villette e l’altra, la Banlieu Bleues, nella periferia dellacittà, chiamata appunto Banlieu. La Cité de la Musique è un insieme dicomplessi sorti di fronte al conservatorio che comprende sale da con-certo, biblioteche, una mostra permanente sulla musica, una mediatecae un autentico jazz club. È quindi una struttura che ben evidenzia l’inte-resse che i francesi rivolgono alla musica jazz, così come i numerosinegozi di dischi in cui gli artisti sono soliti presentare le loro opere an-che con concerti dal vivo, come accade al Paris Jazz Corner, situato alnumero 5 di rue de Navarre, o al Virgin Megastore sull’avenue de ChampsElysée, dove esiste un servizio di importazione diretta che assicura agliappassionati le ristampe più difficili da trovare. Molti sono anche i loca-

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li dove si svolgono i concerti dei più grandi musicisti francesi e interna-zionali, come il New Morning, che possiede una sala da cinquecentopersone, l’Istants Chavirés, La Villa , il Lionel Hampton (dedicato alleggendario vibrafonista) o il Duc des Lombards che ha contribuito, tral’altro, all’affermazione di due musicisti italiani, Paolo Fresu e StefanoDi Battista, divenuti entrambi beniamini del pubblico parigino. Ma l’amo-re dei francesi per il jazz è riuscito anche a far crescere delle personalitàdi spicco come quella del pianista Michel Petrucciani (morto nel 1999),del pianista Martial Solal e del fisarmonicista Richard Galliano, che hariportato di moda la musette, la fisarmonica appunto, che costituisceuno degli strumenti più tipici della cultura musicale francese.

Un’altra città dalla grande tradizione musicale che ha dato una spin-ta verso la nascita di un jazz più propriamente europeo è stata Vienna.La Vienna Art Orchestra di Mathias Rüegg e il sassofonista WolfgangPuschnig sono gli eroi principali di una scuola jazzistica che si distingueper la sua capacità di mescolare con eleganza materiali sonori di originediversa. D’altronde, da almeno tre secoli, Vienna è una delle capitaliindiscusse della musica mondiale. Da Haydn a Mozart, da Beethoven alvalzer e all’operetta, fino alla dodecafonia di Arnold Shönberg, la capi-tale austriaca ha contribuito enormemente alla crescita musicale del-l’Europa e del mondo. In realtà, però, l’evento jazzistico più rilevanteavviene a Saalfelden, un centinaio di chilometri a Ovest di Vienna nellaragione di Salisburgo, dove si svolge una manifestazione che ricordamolto i vecchi raduni rock di Woodstock e dell’isola di Wight. Il palcoviene montato su un prato verde molto grande dove si esibiscono tutti ipiù grandi artisti austriaci e stranieri che, durante il resto dell’anno, suo-nano in giro per il mondo. Saalfelden, insomma, rinverdisce quello spi-rito libertario e ribelle che verso la fine degli anni Sessanta propiziò lanascita del free jazz, un po’ come avvenne nelle prime edizioni di UmbriaJazz. Anche in Olanda, in Inghilterra e in Italia, però, l’attività jazzisticaè divenuta molto più intensa col passare degli anni e si è un po’ emanci-pata dall’influenza americana, anche grazie al rifiuto di riproporre sem-pre i soliti temi degli standards.

Il musicista jazz europeo di oggi dispone di una tavolozza musicale i cui coloriprovengono dalla grande cultura musicale e dal folklore di tutto il mondo e conosce ilsuo Stockhausen e il suo Ligeti meglio di qualunque suo collega americano. Di questielementi egli dispone con maggior disinvoltura e maestria dei jazzisti americani e deiconcertisti europei, in quanto nei primi predomina la tradizione jazz e nei secondi la

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tradizione della musica europea da concerto [Berendt 1979, 400].

Ha ben sintetizzato questa situazione il pianista inglese Howard Rileydicendo: «Ci rimproverano di aver abbandonato il jazz, di non suonarepiù il jazz. Okay. Però non suoniamo nemmeno musica da concerto per-ché il nostro feeling è il jazz. L’accento rimane sull’improvvisazione.Credo che sia nata una nuova musica con un’identità sua propria. Finoranessuno è abbastanza preparato da presentare questa musica. Con essal’ estabilishment rock o pop non riesce a far soldi abbastanza veloce-mente. L’estabilishment jazz ha da risolvere i propri problemi per man-tenersi a galla. E l’estabilishment da concerto ancora non vuole ammet-tere che venga riconosciuta come musica seria qualche cosa che non siauscita dalla tradizione accademica».

Figura 16. Mappa cronologica della storia del jazz [Berendt 1979, 13].

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2.4. L’Italia del jazz

Un discorso particolare merita il mondo del jazz italiano passato e pre-sente, anche per il contributo originale che ha saputo offrire alla musicaafro-americana. In realtà poco si conosce sui primi anni di vita del jazzin Italia, si sa comunque che la sua storia è stata piuttosto travagliataanche perché, durante i suoi primi vagiti, questa musica dovette fare iconti con il regime fascista, che ne ostacolò la diffusione in quanto espres-sione della cultura americana allora nemica. Basti pensare che era stataimposta l’italianizzazione forzata dei titoli degli standards che assume-vano, tradotti in italiano, dei significati pittoreschi, come nel caso di InThe Mood, che diventava “Con stile”, o di On the Sunny Side of theStreet, che veniva chiamato “Dal lato aprico della strada”, o ancora diHoneysuckle Rose che apparve con il titolo di “Pepe sulle rose”. Per nonparlare poi dei nomi dei musicisti che venivano “storpiati”, come neicasi di Louis Armstrong e Benny Goodman, rispettivamente cambiati in“Luigi Braccioforte” e “Beniamino Buonuomo”. Nonostante la grotte-sca situazione, c’è da dire che la musica swing piaceva e su di essa sibasavano i background orchestrali, ma non era bene parlarne perché siscontrava con il clima imperante sotto il regime, secondo il quale ognibuon italiano doveva dormire la notte. Nacquero perciò, anche sotto ilregime, delle iniziative importanti come la pubblicazione del testo In-troduzione alla vera musica jazz, pubblicato da Giancarlo Testoni edEzio Levi grazie al placet del figlio del dittatore, Vittorio Mussolini,grande appassionato di cinema e musica jazz, il cui amore avrebbe poitrasmesso al fratello Romano, attivo ancora oggi con una sua personaleorchestra. Il tutto avveniva però in modo molto “furtivo”, “maschera-to”, e fu forse per questo motivo che i primi concerti di jazz in Italiafurono organizzati esclusivamente grazie a pochi appassionati, che sifecero carico di contattare i musicisti e le orchestre. Emblematico ilcaso del torinese Alfredo Antonino, che fu l’artefice dell’arrivo in Ita-lia, nel gennaio del 1935, di Louis Armstrong, come egli stesso raccon-terà sulle pagine della rivista Jazz, il primo periodico italiano dedicato aquesta musica, che veniva pubblicato nella sua città. «Era in Francia,per una serie di spettacoli, e fui io ad interessarmi personalmente perfarlo venire. Giocavo già su una buona amicizia epistolare con Louis. ELouis Venne. «Non andare in Italia, i fascisti ti fischieranno!», gli ave-vano detto in Francia: ma lui non ci badò. Quella sera i musicisti di

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Torino avevano disertato le sale da ballo e la coda di automobili davantial Chiarella (il teatro il cui omonimo titolare aveva contribuito in mododeterminante all’arrivo di Armstrong) era lunghissima e il pubblico for-mava una fila che arrivava sino al Corso Vittorio, tre isolati prima».Anche se la serata andò benissimo e lo stesso Armstrong rimase conten-tissimo dell’accoglienza ricevuta, quella fu la prima e l’unica città ita-liana in cui un grande del jazz si esibì negli anni in cui l’Italia si stavapreparando alla cosiddetta “avventura d’Abissinia”. Il regime imperan-te sosteneva che “avrebbe portato la civiltà ai barbari” e il riconoscereche un musicista dalla pelle nera potesse avere un qualche significatoartistico era inconcepibile.

Il concetto stesso di “concerto jazz”, d’altronde, non faceva parte in quei tempi dellessico utilizzato dal mondo dello spettacolo, che rivolgeva i suoi interessi musicalipressoché esclusivamente a musicisti e orchestre funzionali ai dancings nei quali il pub-blico chiedeva musica acconcia per ballare [Roncaglia 1995, 40].

Un po’ come avveniva in America per lo swing, in Italia buona partedella musica era suonata per ballare o per intrattenere il pubblico ed eraquindi proposta in luoghi adatti a questo scopo, come gli alberghi o idancings. Il 6 febbraio 1927 venne inaugurato l’Hotel Ambasciatori divia Veneto a Roma, oggi Grand Hotel Palace, e le cronache si occupa-rono dell’evento. Non mancò la musica jazz, con Sesto Carlini, impor-tante sassofonista e promotore del jazz nostrano, che era stato chiamatoa intrattenere il pubblico con la sua orchestra appropriatamente deno-minata Ambassadors Jazz Band. Da quel momento il gruppo si sarebbeesibito ogni sera, dalle 22.30 alle 2.00 nel Grill Room dell’albergo.

Negli american bar d’albergo, ma anche nei locali notturni più o meno esclusivi, iclienti venivano intrattenuti da orchestre, termine che a tutti gli anni Sessanta servirà aindicare indifferentemente i complessi da ballo, che a partire dagli anni Venti si sarebbe-ro servite anche del jazz per accompagnare la vivace ed effervescente cocktail cultureitaliana. Spesso si trattava di veri e propri pionieri del ritmo sincopato, costretti a con-trabbandare il jazz a inizio e fine serata davanti a un pubblico affamato di tanghi, valzere al massimo di esotismi latino-americani come la rumba, danza afro-cubana dal carat-tere fortemente sensuale che negli anni Venti e Trenta incontrerà i favori del pubbliconostrano [Adinolfi 2000, 383].

Tra il 1924 e il 1929, così come in America, quindi, anche in Italia sivisse una stagione particolarmente felice per la musica jazz, che riscuo-

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teva i favori del pubblico. D’altronde, al tempo, il regime fascista non siera ancora espresso contro la musica americana e per gli stessi gerarchiil jazz rappresentava una nuova, esotica forma da ballo. Anche sullenavi che operavano la tratta Genova-New York, in particolare sul Roma,l’ Augustus, il Saturnia, il Vulcania e soprattutto il Rex, il più grandetransatlantico italiano, il jazz andava molto di moda e i musicisti torna-vano spesso in Italia con valigie piene di dischi e informazioni musicaliprovenienti direttamente dagli Stati Uniti. Nel 1928, poi, la rivista Cri-tica Fascista si espresse in maniera negativa nei confronti della musicaafro-americana. Va considerato, comunque, che “in barba” alle direttiveautarchiche del regime, i musicisti dell’anteguerra erano straordinaria-mente attenti alle mode d’oltreoceano e conoscevano in modo analitico,approfondito, i congegni, non solo convenzionali e quindi appariscenti,del jazz, ma proprio la sua intima struttura. Il regime invece demonizzavail jazz, considerandolo veicolo d’infezione e di degenerazione, una spe-cie di tabù sociale.

L’America postbellica con le sue jazz bands, sopra i frenetici ritmi dei quali si ballain ogni sala e salotto dell’universo intero, sta metodicamente soffocando le ricche edelicate tradizione autoctone presso i popoli che sono i depositari legittimi della sag-gezza e della misura antica [Mazzoletti 1983, 191].

Nonostante le avversità, la passione per lo swing durò fino a tutti glianni Cinquanta, anche perché spesso la censura non riguardava tanto iljazz in sé, ma gli autori dei vari temi. Dal 1935 allo scoppio della Se-conda Guerra Mondiale si imposero i nomi di impeccabili swinger, comeil fisarmonicista Gorni Kramer, Tullio Mobilia, Enzo Ceragioli, abituatia suonare nella penombra dei night club più esclusivi. È fuor di dubbioche il primo posto del jazz italiano fu, verso la metà degli anni Trenta, ilCaffè Crimea torinese, che gli appassionati cospiratori raggiungevanoattraversando il ponte Umberto sul Po per periodici appuntamenti, con-vocati con il consueto tam-tam sussurrato, per riunirsi e ascoltare leultime novità ricevute da Alfredo Antonino su fruscianti dischi a 78giri. C’erano poi, sempre a Torino, il Circolo Canottieri Esperia, dovesi esibiva spesso un’orchestra con il pianista Ettore Pedamonte. A Mila-no, negli anni ’40, esisteva il Circolo Jazz Studenti, fondato da GianfrancoMaldini.

Il jazz, di fatto, si ascoltava a quei tempi nel chiuso delle case, fra amici fidati,

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appartenenti a una sorta di confraternita clandestina, suonandolo anche, a volte, comeaccadde alla fine degli anni Trenta a Torino, dove ebbe vita un’esperienza senza parago-ni in Italia: quella della ormai leggendaria Taverna Sobrero [Roncaglia 1995, 73].

La Taverna si trovava all’interno della villa del noto produttore dicalze, che l’aveva creata per offrire al figlio contrabbassista un luogoper suonare la musica che lo appassionava. Divenne, ben presto, un luo-go dove si incontravano i musicisti e gli appassionati pedemontani persuonare e discutere di musica.

Ovviamente con uno di essi che, a turno, faceva da “palo” all’esterno per segnalarel’arrivo di eventuali ronde fasciste o militari: cosicché accadeva sovente che The Sheikof Araby, tema sul quale ci si sbizzarriva più di frequente, sfumasse nelle note di Giovi-nezza o di qualche canzonetta in voga all’epoca [Roncaglia 1995, 74].

Venne poi la guerra, che causò un black out sia per le informazioniche provenivano dagli Stati Uniti, sia per l’attività stessa dei jazzistiitaliani che furono costretti a partire per la guerra o a fare i conti con lasempre più dura repressione del regime fascista. Ciò che avvenne nelperiodo prebellico costituì, in ogni caso, la solida, necessaria base affin-ché il jazz conquistasse un equo riconoscimento in Italia. Fu però neldopoguerra che il jazz ebbe finalmente la possibilità di poter essere suo-nato, ascoltato, vissuto senza repressioni e le orchestre iniziarono a inci-dere dischi non più mascherati sotto falso nome, come nel caso di AtThe Woodchoppers Ball di Pippo Barzizza o Tuxedo Junction diGiampiero Boneschi, realizzato a neppure un mese dalla fine della guerra.Sempre nel primo dopoguerra ebbero finalmente libertà di esprimersistudiosi come Arrigo Polillo, Giuseppe Barazzetta e Roberto Leydi,coautori della Enciclopedia del Jazz, prima opera al mondo di tale molee di così ricchi contenuti. In ogni caso fino agli anni Cinquanta e Ses-santa il jazz italiano era rimasto fortemente ancorato al modello ameri-cano, non avendo potuto sviluppare una propria autonomia stilistica.

Il jazz italiano è stata una realtà irrilevante finché ha aderito al modello americano inmodo qualunquistico, riproducendo in chiave acritica e imitativa, e quindi ottusa e rea-zionaria, l’esaltazione derivata da certe immagini musicali; ma l’imitazione si basa essastessa su un presupposto di qualunquismo [Castaldo 1978, 116].

Anche in Italia, come nel resto d’Europa d’altronde, fu il free jazz a

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dare una forte spinta verso una musica che fosse sì d’ispirazionejazzistica, ma che includesse anche molti elementi della cultura musi-cale italiana, così ricca e fertile di talenti. Il musicista napoletano MarioSchiano può essere considerato uno dei pionieri del free jazz in Italia efondò, insieme al sardo Marcello Melis e al romano Franco Pecori, ilGruppo Romano Free Jazz. Questi musicisti prendevano spunto da quelloche stava accadendo, non solo musicalmente, ma anche socialmente, inAmerica, per adattare la nuova musica alla loro realtà sociale, comedirà lo stesso Schiano a Il Manifesto: «Cercavamo di spiegare il nostrofree come adesione ideologica e stilistica alla protesta espressa in musi-ca dai neri e come risposta provocatoria alla nostra realtà». Non eraperò facile il colloquio con un pubblico che, all’epoca, si manifestavapiuttosto indifferente a queste forme musicali, preferendo di gran lungale esibizioni dei cantanti nei night club, i quali seguivano una via più“classica” e riscuotevano maggior successo. Anche lo stesso Schianoricorderà, dei suoi esordi nei locali: «Nel 1955 ho suonato nei locali diNapoli. Lì c’erano locali notturni importanti come il Lloyd Club, il Ros-so e il Nero, il Milleluci e lo Shaker. Ovviamente esisteva una notevoledifferenza tra il night club statunitense e quello italiano. Da noi venivaprivilegiato il repertorio leggero, cose come Maruzzella o Luna Caprese.La musica internazionale contava poco, anzi quasi nulla. Certamentenon è stato facile abbandonare il night, che in fondo procurava anchediscreti guadagni. Ma è stata una questione di scelte e aspirazioni. Per-ché i locali notturni non consentono di esprimersi, all’interno manca lapossibilità di improvvisare. Nel night hai di fronte un pubblico che nonè entrato per sentire la tua musica, ma per ballare, o chiacchierare».Ancora oggi, nella maggior parte dei locali notturni, la gente considerala musica come un sottofondo piacevole, ma pochi sono i locali doveeffettivamente si va per ascoltare appositamente i musicisti suonare.

In Italia, terminata la Seconda Guerra Mondiale, gli uomini, gli ambienti, sonodiametralmente opposti rispetto alla situazione degli Stati Uniti. Noi la guerra l’aveva-mo avuta direttamente nelle nostre case! Le situazioni mentali, psicologiche degli italia-ni, le città ridotte a cumuli di macerie, il ricordo di quegli anni orrendi appena trascorsi,fanno scattare nella gente una grande molla: la voglia di dimenticare, di ricominciare, diballare, di esorcizzare la grande paura appena trascorsa, il desiderio di riassaporare lagioia dopo tanti anni di sofferenza. Qui da noi non si anticipa il futuro, come facevanonegli Stati Uniti, i jazzisti del bebop, si ricomincia a vivere il presente. Lo swing, ildixieland, erano generi musicali già precedentemente conosciuti nel nostro paese, soloora, nella seconda metà degli anni ’40, nasce un nuovo genere jazzistico interamente

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italiano, il jazz da night [JI].

Il primo di questi night club fu, probabilmente, il Mario’s Bar, unlocale di Roma aperto nel 1949 e situato in via di Porta Pinciana, in cuisi suonava esclusivamente jazz. Il proprietario era Pepito Pignatelli, unfanatico del bebop, e lì si esibiva la Roman New Orleans Jazz Band, lapiù affermata orchestra di jazz tradizionale della capitale. Sempre a Romac’era l’Hot Club, fondato il 28 ottobre 1945, che era in realtà uno deitanti locali jazz nati in Italia dopo la liberazione.

Questi erano frequentati da “jazzofili” che si riunivano settimanalmente per effet-tuare disco-audizioni organizzate dai membri più esperti, dando vita anche a jam sessione a veri e propri quiz musicali. I primi Hot Club erano sorti già negli anni Trenta aTorino e Milano [Roncaglia 1982, 97].

Le attività di questo tipo di club erano a volte pubblicizzate anchedai giornali, come nel caso del giornale romano La Repubblica (da nonconfondersi con il grande quotidiano di oggi) che, nel 1948, con caden-za quindicinale, dava notizia delle attività dei club grazie ad ArrigoPolillo. Lo stesso Polillo, assieme a un nutrito gruppo di amici e diappassionati, riuscì a fondare la F.I.D.J., ovvero la Federazione Italianadel Jazz, che costituiva, assieme alla rivista Musica Jazz, la cassa dirisonanza per promuovere le attività jazzistiche in Italia. E proprio dallaF.I.D.J. fu organizzato il primo festival del jazz in Italia, a Sanremo nel1955, città poi divenuta popolare per il festival dedicato alla canzoneitaliana. Purtroppo lo stesso Polillo dovette rendersi conto che ancoraun jazz propriamente italiano, all’epoca, non esisteva. Nella maggiorparte dei casi i professionisti del jazz italiano lo identificavano con lajam session condotta sulle armonie degli standards statunitensi. Nono-stante queste limitazioni, molti furono gli artisti italiani e stranieri aesibirsi a Sanremo, il cui festival rappresentò il giro di boa per ilmicrocosmo del jazz italiano. Era, però, sempre nei locali che si scrive-vano le pagine della storia della musica italiana, e lì si esibivano musi-cisti come il chitarrista Franco Cerri, Piero Piccioni, Eraldo Volonté, iltrombonista Mario Pezzotta, il sassofonista Fausto Papetti. Uno degliartisti che meglio ha rappresentato l’atmosfera del night club italiano,però, resta Fred Buscaglione.

Contrabbassista, violinista, attore, interprete di caroselli pubblicitari, il musicista si

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era imposto nei locali notturni di Torino, città in cui era nato e in cui aveva conosciutoLeo Chiosso, il paroliere delle sue canzoni più famose. Negli anni Cinquanta è stato ilmusicista più richiesto dai locali notturni italiani e anche il primo a usare ritmiche jazzfino a quel momento insolite per le canzoni di musica leggera [Adinolfi 2000, 404-405].

Ma il vero grande re dei jazz vocalist italiani è stato Nicola Arigliano,cantante, sassofonista e contrabbassista jazz, che a lungo si sarebbe esi-bito al Victor’s Bar, il primo vero night club della capitale, il luogo piùesotico e immaginifico del nostro dopoguerra.

Lo swing evocato da Nicola Arigliano era quello di Benny Goodman, ma anche di

Louis Armstrong o Billie Holiday, era soprattutto quella maniera di interpretare unbrano che non rimanda necessariamente a uno stile specifico, lo swing appunto, ma piùgenericamente a un suono che fa leva sulla immediatezza comunicativa. Purtroppo nonavrà grande fortuna nei nostri night club e come già ricordato i musicisti, spesso valentijazzmen, saranno costretti a reprimersi illanguidendo i clienti con mille versioni di Lunarossa, un brano portato al successo da Claudio Villa nel 1950, divenuto tra gli ingre-

dienti essenziali del repertorio da night. «Quando si parla di night club, racconta Arigliano,si deve tener conto che nel nostro paese non è successa nemmeno la millesima parte diquello che avveniva negli Usa. Negli anni del dopoguerra vedevi girare gli americanicon cioccolata e sigarette. Loro bevevano, mangiavano e fumavano e noi tiravamo lacinghia. Nei night club abbiamo voluto fare gli americani, abbiamo imitato ma con benpoche possibilità» [Adinolfi 2000, 406].

Proprio in locali come il Victor’s Bar, di proprietà di Victor Tombolini,si respirava quel clima euforico del dopoguerra, un clima che tendeva aesorcizzare, anche e soprattutto attraverso il ballo, gli eventi bellici ap-pena vissuti. Divenuto uno dei locali storici della “Dolce Vita”, un’isoladi prosperità del tutto staccata dal resto dell’Italia, un paese affogatonella disoccupazione, negli scioperi, nel degrado, come avveniva in moltezone del Sud.

Gli appuntamenti più elettrizzanti del Victor’s Bar erano quelli del venerdì, veri epropri gran gala curati nei minimi dettagli da Tombolini. Sarebbero divenuti i primitentativi di riportare anche in Italia l’usanza della “sala a tema”, ricreando all’interno diun locale terre e culture distanti e soprattutto mille esotismi d’America [Adinolfi 2000,408].

Oltre al Victor’s c’erano, però, altri locali dove si cominciavano asperimentare nuove “formule” di intrattenimento per i clienti, che spes-

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so prevedevano l’impiego della musica jazz. C’era per esempio la RupeTarpea che, sempre a Roma, fu il primo night club a sperimentare lacontaminazione tra jazz, strip tease, ristorante e ballo. Lì si sarebbe con-solidato anche il fenomeno dei fotografi d’assalto, che andavano allaricerca di scoop sulle celebrità, i cosiddetti “paparazzi”. In ogni caso, inquesti locali si suonava il jazz e spesso vi si trovavano grossi nomi delmondo della politica e dello spettacolo che, dopo la chiusura del locale,portavano i musicisti a casa loro per proseguire la serata, come ricordaPiero Vivarelli. «Una sera di marzo del 1956 mi telefonò RobertoPapasso, noto promotore del jazz in Italia e critico musicale, dicendomiche Dizzy Gillespie si trovava a Roma e che aveva voglia di suonare.L’unico posto in cui era possibile trovare una batteria e un pianoforteera a casa di Carlo Croccolo, un attore che amava molto il jazz e chefrequentava i night club. A casa di Croccolo c’erano il bassista ToninoFerrelli, Piero Piccioni e anche Lelio Luttazzi, accompagnato da un grup-po di signore. Dizzy era alla tromba, io alla batteria; cominciò a suonareanche Lelio Luttazzi, che presto fu sostituito al pianoforte da Piero Pic-cioni. L’episodio più curioso fu quando telefonò l’inquilino del piano disotto, furibondo per via del rumore che stavamo facendo. Fui io stesso arispondere e gli dissi: «Ma lo sai che c’è qui Dizzy Gillespie?». Pensan-do che lo stessi prendendo in giro si imbestialì e venne subito a suonareil campanello. Aveva indosso una vestaglia, mise la testa dentro e quan-do vide Dizzy impallidì. Noi avevamo finito gli alcolici e lo rispedimmosubito al piano di sotto a prendere il cognac». I locali erano molti nellacapitale, c’era il Club 84, aperto nel 1957 da Oliviero Comparini, il KitKat, ma in particolare le Grotte del Piccione, locale di proprietà di Gio-vanni Gabrielli situato in via della Vite, che rimase in attività fino al1975.

Alle Grotte, note a partire dagli anni Trenta per aver ospitato Frank Whiters, Vitto-

rio Spina e altri jazzmen italiani e stranieri, le orchestre principali cominciavano a suo-nare intorno alle 23.00 e terminavano alle 4.00. Il ristorante apriva alle 21.00 e già alle21.30 le saracinesche venivano abbassate per frenare l’afflusso di pubblico. I clienti,sempre abbienti e dal portafoglio facile, come del resto la clientela degli altri locali,cenavano cullati da orchestre minori, ma non per questo meno preparate [Adinolfi 2000,419].

Il locale fece la storia del jazz romano e ci si esibirono grandi uominidello spettacolo quali Peter Van Wood e, soprattutto, Renato Carosoneche, con la canzone Tu vuo’ fa’ l’americano, riuscì a divenire uno dei

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più strenui difensori della cultura di massa di un’Italia provinciale checercava di assorbire, col minor danno possibile, la sfida dei prodottiamericani. Insomma, molte furono le stelle del panorama nazionale chesi esibivano nei night club dove, anche a costo di sacrificare un po’ laloro arte, riuscivano a guadagnarsi da vivere contribuendo, nel contempo,a creare un ritratto fedele dei costumi dell’Italia di allora. La situazionedei night club era però, a detta di molti musicisti, frustrante dal punto divista artistico, occorrevano quindi nuovi spazi per potersi esprimere,cercando di essere il più liberi possibile dalle logiche di mercato. Conl’arrivo degli anni Settanta il jazz avrebbe conquistato spazi sempremaggiori. Addirittura, alla fine degli anni Sessanta, si era assistito a unainiziativa editoriale che era impensabile pochi anni prima: la FabbriEditori, fra la sorpresa generale, era uscita in edicola con fascicolimonografici dedicati ai grandi del jazz. Il successo dell’iniziativa dimo-strò che in Italia esisteva una nutrita schiera di appassionati di questogenere musicale. Fu proprio in quegli anni, infatti, che si moltiplicaronole manifestazioni jazzistiche e i festival, organizzati da una vera e pro-pria legione di promotori in tutta Italia. La manifestazione più impor-tante, che ha ancora oggi una risonanza internazionale rimane UmbriaJazz. Organizzata da Carlo Pagnotta, un appassionato di Perugia, vide lasua prima edizione nel 1973, in un periodo in cui l’Italia era scossa daviolente proteste studentesche e sindacali.

Erano anche anni in cui emergeva in misura sempre più appariscente il concettodella politicizzazione della musica e la conseguente contestazione, in base alla quale igruppi di giovani, utilizzando il principio contenuto nello slogan “la musica è nostra”,rivendicavano il diritto di assistere gratuitamente a ogni tipo di concerto, rock, pop ojazz, mettendo in atto lo “sfondamento”, la pressione in massa sugli ingressi ai concerti[Roncaglia 1995, 60-61].

Questo causò numerosi tumulti ed episodi di teppismo, che divenne-ro così consueti e gravi da indurre addirittura il vescovo di Orvieto eTodi a minacciare la chiusura delle chiese della diocesi, se i concerti sifossero ancora svolti nelle località della sua giurisdizione. Nel 1977 lamanifestazione si prese quindi un “anno sabbatico”, anche perché lasituazione era divenuta insostenibile. Emblematiche le parole di ArrigoPolillo su Musica Jazz a tal proposito: «Se avete venti anni, se vi divertedormire in tenda o infilati in un sacco a pelo non importa dove, se vipiace far toeletta su una panchina in un giardino pubblico, e soprattutto

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se non vi importa del jazz, andate pure a Umbria Jazz i prossimi anni,ammesso che la manifestazione venga ripetuta... ma se invece amate iljazz e la vita dello zingaro non fa per voi... statevene a casa. Al posto deljazz, che si ascolta malissimo, stando in piedi o arrampicati chissà dove,anche sugli alberi, potrebbe esserci qualunque altra cosa: rock, che riu-scirebbe certo più gradito, o una competizione sportiva, tanto che allaquasi totalità del pubblico del jazz non importa, e non è noto, pressochénulla...». Le parole di Polillo colgono una parte della verità, poiché se èvero che molti giovani si recavano a Umbria Jazz trascinati dal clamoree non tanto dalla passione per la musica jazz, ce ne furono di certo moltiche, ascoltando quei concerti, ebbero la possibilità di appassionarsi a ungenere musicale fino ad allora a disposizione esclusivamente di ristrettecerchie di appassionati, questo anche per i prezzi proibitivi dei concerti.Ovviamente chi divenne, in quegli anni di tumulti, ascoltatore e parteci-pe dovette poi rivalutare il suo approccio alla musica, così come il mododi fruirla. Quindi, nonostante i disagi, il togetherness, lo stare insieme,riuscì comunque a suscitare riflessioni sulla musica nella testa di moltigiovani ascoltatori.

Era nato infatti in quei giovani un interesse e un desiderio, magari inconscio, diparagonare ciò che veniva loro proposto con ciò che il musical business sino ad alloraaveva loro sostanzialmente imposto e cui erano stati oggettivamente succubi [Roncaglia1998, 400].

Quindi, se è vero che i giovani spesso avevano preferito il rock aljazz, è anche vero che mai il musical business s’era di esso interessatopromuovendolo a livello di spettacolo, data la scarsa possibilità di trar-ne i lauti profitti che il rock, invece, sapeva garantire. Nel momento incui una manifestazione come Umbria Jazz divenne accessibile alle nuo-ve generazioni, queste dimostrarono il loro apprezzamento per un gene-re che sapeva offrire un feeling con il pubblico ben diverso rispetto al-l’imposizione di uno show accattivante di una rockstar. Ciò nonostante,i problemi politici rimasero e le prime edizioni di Umbria Jazz vengonoricordate con timore anche da parte di molti negozianti, che subirono ilcosiddetto “esproprio proletario”: l’impossessarsi, cioè, nei negozi e negliesercizi pubblici di tutti i beni, dal cibo agli oggetti più disparati. Congli anni Ottanta la situazione sociale in Italia mutò e questo si riflettéanche sulla manifestazione, che riuscì a organizzare dei concerti più

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“vivibili” da parte del pubblico e anche gli stessi musicisti furono bencontenti di tornare a esibirsi.

Figura 17. Il concerto del trio di Hiram Bullock in piazza IV novembre aPerugia per Umbria Jazz 2001 [UJ].

Memorabili rimangono il concerto di Miles Davis, tenuto a Terni il 6luglio 1984, e quello della celebre rockstar Sting dell’11 luglio 1987allo stadio di Perugia, che suonò con l’orchestra di Gil Evans, uno degliarrangiatori più illuminati e creativi della storia del jazz. Negli ultimianni, poi, vengono organizzati anche numerosi seminari tenuti, tra l’al-tro, dai docenti del celebre Berklee College of Music di Boston che,oggi come oggi, è la massima istituzione nell’educazione della musicajazz. Quindi Umbria Jazz è stata, ed è ancora oggi, una delle manifesta-zioni jazzistiche più importanti del mondo ed è indubbio il suo valoreper una crescita della musica jazz in Italia. Vanno citate, però, anchealtre manifestazioni come Siena Jazz, dove si svolgono importanti se-minari internazionali e dove ha sede il Centro Nazionale Studi sul JazzArrigo Polillo, e i Festival del Jazz di Milano e Roma, che hanno contri-buito e contribuiscono ancora oggi alla diffusione della musica jazz inItalia e sono seguite ogni anno da migliaia di appassionati. Risulta chia-ro, quindi, che tutte queste manifestazioni hanno aiutato non poco i ta-lenti italiani a crescere artisticamente, e non sono pochi i nomi di musi-cisti ormai famosi non solo in Italia, ma anche al di là dell’Atlantico, e

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che vantano collaborazioni anche con jazzisti importanti. Fra i tanti nomivanno citati sicuramente i trombettisti Enrico Rava e Paolo Fresu, chesono due realtà importanti del panoramo jazzistico italiano, così come ipianisti Enrico Pieranunzi, Giorgio Gaslini, Franco D’Andrea, StefanoBollani, Danilo Rea, i sassofonisti Massimo Urbani, MaurizioGiammarco, Stefano Di Battista, Rosario Giuliani, i bassisti GiovanniTommaso, Bruno Tommaso, Enzo Pietropaoli, Furio Di Castri, DarioDeidda, i batteristi Massimo Manzi e Roberto Gatto, le cantanti MariaPia De Vito e Tiziana Ghiglioni. Questi sono, ovviamente, solo alcunidei nomi più importanti del panorama jazzistico italiano degli ultimianni. Sicuramente uno dei musicisti più carismatici, attivo ancora oggi,è Enrico Rava che racconta, ancora oggi, come il suo amore per la mu-sica e per la tromba in particolare, sia nato quando rimase “folgorato”dal concerto tenuto da Miles Davis al Teatro Nuovo di Torino nel 1956.Nato a Trieste il 20 agosto del 1939 si trasferisce ben presto all’ombradelle Alpi, dato che Torino è la metropoli italiana d’avanguardia pereccellenza, e nei locali storici come l’Hiroshima, il Aeiou, il Capolinean. 8, il Doctor Sax, si sono esibiti i più grandi jazzisti nazionali e inter-nazionali. Già dagli anni Sessanta, Rava incide su vinile, ma sarà l’in-contro con il sassofonista argentino Gato Barbieri, avvenuto a Roma nel1964, a far conoscere il trombettista al pubblico italiano. L’incontro,invece, con il sassofonista soprano Steve Lacy lo proietta nel mondo delfree jazz, molto in voga in quel periodo di forti rivoluzioni sociali. Da lìa trasferirsi negli Stati Uniti, dove suonano i migliori jazzisti del mon-do, il passo è breve, e Rava lo compie dal 1969 al 1977. In quegli annisuona con Carla Bley, Charlie Haden e con molti altri musicisti che loaiutano ad acquisire quella marcia in più che, una volta rientrato in Ita-lia, lo distinguerà, rendendolo autore e leader di progetti artistici a suonome, come nel caso del suo primo disco: Il giro del mondo in ottantagiorni. Da lì in poi molti saranno i dischi incisi da Rava e molti anche isuccessi ottenuti con la sua musica che, col tempo, ha imparato a eman-ciparsi dai modelli dei primi anni quali Miles Davis e Chet Baker, ac-quisendo una poetica originale che lo renderà uno dei pochissimi artistiitaliani a vantare un credito sia in Europa che in America.

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Figura 18. Un’immagine di Enrico Rava nel 1996 [ER].

Aperto a tutte le esperienze musicali, negli ultimi anni collabora conmolti giovani musicisti come Stefano Bollani e Paolo Fresu, ricercandosempre stimoli nuovi e nuove vie da esplorare. Parallelamente al per-corso intrapreso da Enrico Rava, va citato almeno un pianista che, aMilano, ha intrapreso un proprio percorso personale tendente alla musi-ca jazz: Giorgio Gaslini. Gaslini, nato nel 1929 a Milano, dopo un peri-odo di soggiorno in Africa, ritorna nella città natale, dove studierà pia-noforte al conservatorio e, nel 1957, parteciperà al già citato festival diSanremo riscuotendo enormi successi che lo proietteranno, nel 1963,con il disco Oltre, a vincere il premio della critica per la rivista DownBeat, caso piuttosto insolito per un italiano. Da lì in poi il suo trattodistintivo sarà quello di sperimentare sempre nuove soluzioni, operan-do ai confini tra il jazz e altre forme espressive, traendo ispirazione daognuna e fondendole tutte in un unico ideale artistico. Un’altra figurachiave nella storia del jazz italiano è stata, sicuramente, quella delsassofonista romano Massimo Urbani. Morto nel 1993, ha vissuto unavita breve e che lo accomuna al suo grande “idolo” Charlie Parker.

Le analogie tra le vicende umane di Parker e Urbani sono d’altra parte impressio-nanti. Bird scompare a trentacinque anni, il sassofonista italiano a trentasei. Entrambipagano il prezzo di un’esistenza fatta di eccessi e sregolatezze. Entrambi giungono finoal punto di autoemarginarsi, trovando nella musica e nel sassofono gli unici stimoli perandare avanti [AU].

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97GIANT STEPS: IL PERCORSO STORICO DELLA MUSICA JAZZ

Massimo Urbani è nato a Roma l’11 maggio del 1957 e ha iniziato isuoi studi musicali a undici anni con il clarinetto, passando dopo qual-che anno al sassofono contralto. Ha iniziato a suonare nei club ancoraragazzino e, scoperto da Mario Schiano e Marcello Melis, si è subitoinserito nella ristretta cerchia dei grandi jazzisti della capitale. Nel 1973c’è l’incontro con il pianista Giorgio Gaslini che, dopo averlo avutocome allievo in alcune lezioni sul jazz tenute al conservatorio, lo vuolenel suo quartetto con il quale otterrà enormi successi e arriverà a cono-scere, fra gli altri, Enrico Rava. Con il trombettista torinese stringeràuna profonda e duratura amicizia che lo porterà anche a New York doveUrbani, col suo talento, ha folgorato i migliori sassofonisti dell’epoca,da David Schnitter a Bob Mover. Pur essendo un innovatore come tuttii grandi musicisti, Massimo Urbani amava molto il jazz tradizionale e lodimostrò soprattutto verso la fine degli anni Settanta, quando il resto delmondo jazzistico italiano era orientato verso la sperimentazione free.Purtoppo anche lui, come Parker, soffriva di un disagio esistenziale che,di lì a poco, lo avrebbe fatto cadere nella tossicodipendenza, rendendo-lo inaffidabile e irascibile e portandolo all’autodistruzione. MassimoUrbani amava molto suonare nei jazz club di Roma, in particolare nelMusic Inn di Pepito Pignatelli, al Saint Louis, al Murales, al MississipiJazz Club, gli stessi locali dove aveva più volte ascoltato i suoi “miti”,musicisti come Dexter Gordon, Lee Konitz, Sonny Stitt, con i quali ave-va anche improvvisato più di una volta e ai quali dedicherà i suoi dischipiù belli, 360° Aeutopia e Dedication to A.A. & J.C. - Max’s Mood, coni quali renderà omaggio a tutti i suoi modelli musicali e dimostrerà, unavolta di più, il suo grande amore per il jazz tradizionale.

Un fedele ritratto per immagini del musicista è quello tracciato dal regista PaoloColangeli nel documentario Massimo Urbani nella fabbrica abbandonata. Le primeimmagini ci mostrano il sassofonista mentre suona da solo in un vecchio capannoneindustriale, come a sottolineare la forte individualità che caratterizza la sua concezionedella musica. Poi è lui stesso a raccontarsi, a parlare della sua vita, delle sue scelte e delsuo rapporto tormentato con le droghe. Le scene successive si svolgono di notte, suun’automobile che percorre le strade di Roma. Massimo suona il suo strumento e ri-sponde alle domande dell’intervistatore. La città che scorre attraverso i vetri dei fine-strini appare cupa, difficile, poco ospitale e soltanto a tratti Urbani ritrova il sorriso,quel lampo nello sguardo, quella gioia e quell’energia che si riverberano nella sua musi-ca [Sperandeo 2001, 353].