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OLTRE I LIMITI L'amore non bada a caste, né il sonno a un letto rotto. Io andai in cerca d'amore e mi persi. Proverbio indù In qualsiasi circostanza, un uomo dovrebbe sempre rimanere fedele alla propria casta, razza e stirpe. Che i bianchi stiano con i bianchi e i neri con i neri. Allora, qualunque cosa accada, rientra nel normale corso degli eventi - non è né improvviso, né strano, né imprevisto. Questa è la storia di un uomo che oltrepassò deliberatamente i limiti sicuri della rispettabile convivenza quotidiana e pagò un prezzo molto alto. In primo luogo sapeva troppo; e poi vide troppo. Si interessò troppo alla vita indigena, ma non lo farà mai più. Lontano, sprofondato nel cuore della città, dietro il bustee di Jitha Megij, c'è il vicolo di Amir Nath, che termina in un muro cieco sul quale si apre una sola finestra munita di una grata. All'inizio del vicolo c'è una grossa vaccheria, e i muri su entrambi i lati del vicolo sono privi di finestre. Né Suchet Singh né Gaur Chand approvano che le loro donne vedano il mondo. Se Durga Charan fosse stato della stessa opinione, oggi sarebbe un uomo più felice, e la piccola Bisesa potrebbe impastare con le proprie mani il pane che mangia. La sua stanza guardava, attraverso la finestra con la grata, nello stretto e buio vicolo dove non arrivava mai il sole, e dove i bufali sguazzavano nel liquame azzurro. Era una vedova di circa quindici anni e pregava gli dèi, giorno e notte, che le mandassero un amante, perché non si rassegnava a vivere sola. Un giorno un uomo di nome Trejago, girovagando da quelle parti, capitò nel vicolo di Amir Nath; e, dopo aver oltrepassato i bufali, inciampò in un grosso mucchio di foraggio. Allora vide che il vicolo era senza uscita e udì una risatina dietro la finestra con la grata. Era una risatina graziosa e Trejago, sapendo che, per qualsiasi scopo pratico, le vecchie Mille e una notte costituiscono una valida guida, giunse fin sotto la finestra e sussurrò quella strofa del Canto d'amore di Har Dyal che inizia: Può un uomo star dritto in faccia al Sole ignudo, o un innamorato alla Presenza della propria Amata? Se i piedi mi tradiscono, O Cuore del mio Cuore, son forse da biasimare, essendo accecato dalla visione fugace della tua bellezza? Da dietro la grata giunse il fioco tintinnio di braccialetti femminili, e una vocina riprese il canto dal quinto verso: Ahimè! Ahimè! Può forse la Luna dire al Loto del proprio amore, quando i Cancelli del Cielo son chiusi e le nubi s'addensano per le Piogge? Han preso la mia Amata e l'hanno condotta al Nord con dei cavalli da soma. Vi sono catene di ferro ai piedi ch'erano posati sul mio cuore. Chiamate gli arcieri affinché si preparino... La voce s'interruppe all'improvviso e Trejago uscì dal vicolo di Amir Nath, chiedendosi chi mai potesse completare con tanta precisione il Canto d'amore di Har Dyal. Il mattino seguente, mentre si recava in ufficio, una vecchia gettò un pacchetto nel suo calesse. Dentro il pacchetto c'era la metà di un braccialetto di vetro rotto, un fiore rosso sangue di dhak, un pizzico di bhusa, o foraggio per il bestiame, e undici semi di cardamomo. Quel pacchetto era una lettera - non una lettera sgraziata e compromettente, ma una innocente, inintelligibile epistola d'amore. Come ho detto, di queste cose Trejago se ne intendeva anche troppo. Nessun inglese dovrebbe essere in grado di tradurre lettere composte di oggetti. Ma Trejago sparse tutte quelle carabattole sul coperchio della valigetta da ufficio e iniziò a decifrarne il significato. Un braccialetto di vetro rotto indica, in tutta l'India, una vedova indù; poiché, quando muore il marito, alla donna vengono infranti i braccialetti ai polsi. Così Trejago chiarì il significato del frammento di vetro. Il fiore di dhak può significare cose diverse - 'desiderio', 'vieni', 'scrivi' o 'pericolo' - a seconda degli oggetti che l'accompagnano. Un seme di cardamomo significa 'gelosia'; ma quando, in una lettera di questo genere, un oggetto è duplicato, perde il suo significato simbolico e dà semplicemente una indicazione di tempo, o, se accompagnato da incenso, giuncata o zafferano, di luogo. Il messaggio dunque diceva: 'Una vedova - fiore di dhak e bhusa - alle undici'. Il pizzico di bhusa illuminò Trejago. Egli capì - questo tipo di lettera lascia molto all'intuito - che la bhusa si riferiva al grosso mucchio di foraggio sul quale era caduto nel vicolo di Amir Nath, e che il messaggio doveva venire dalla persona nascosta dietro la grata; che era una vedova. Quindi il messaggio diceva: 'Una vedova, nel vicolo dove c'è il mucchio di bhusa, desidera che tu venga alle undici'.

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OLTRE I LIMITI L'amore non bada a caste, né il sonno a un letto rotto. Io andai in cerca d'amore e mi persi. Proverbio indù In qualsiasi circostanza, un uomo dovrebbe sempre rimanere fedele alla propria casta, razza e stirpe. Che i bianchi stiano con i bianchi e i neri con i neri. Allora, qualunque cosa accada, rientra nel normale corso degli eventi - non è né improvviso, né strano, né imprevisto. Questa è la storia di un uomo che oltrepassò deliberatamente i limiti sicuri della rispettabile convivenza quotidiana e pagò un prezzo molto alto. In primo luogo sapeva troppo; e poi vide troppo. Si interessò troppo alla vita indigena, ma non lo farà mai più. Lontano, sprofondato nel cuore della città, dietro il bustee di Jitha Megij, c'è il vicolo di Amir Nath, che termina in un muro cieco sul quale si apre una sola finestra munita di una grata. All'inizio del vicolo c'è una grossa vaccheria, e i muri su entrambi i lati del vicolo sono privi di finestre. Né Suchet Singh né Gaur Chand approvano che le loro donne vedano il mondo. Se Durga Charan fosse stato della stessa opinione, oggi sarebbe un uomo più felice, e la piccola Bisesa potrebbe impastare con le proprie mani il pane che mangia. La sua stanza guardava, attraverso la finestra con la grata, nello stretto e buio vicolo dove non arrivava mai il sole, e dove i bufali sguazzavano nel liquame azzurro. Era una vedova di circa quindici anni e pregava gli dèi, giorno e notte, che le mandassero un amante, perché non si rassegnava a vivere sola. Un giorno un uomo di nome Trejago, girovagando da quelle parti, capitò nel vicolo di Amir Nath; e, dopo aver oltrepassato i bufali, inciampò in un grosso mucchio di foraggio. Allora vide che il vicolo era senza uscita e udì una risatina dietro la finestra con la grata. Era una risatina graziosa e Trejago, sapendo che, per qualsiasi scopo pratico, le vecchie Mille e una notte costituiscono una valida guida, giunse fin sotto la finestra e sussurrò quella strofa del Canto d'amore di Har Dyal che inizia: Può un uomo star dritto in faccia al Sole ignudo, o un innamorato alla Presenza della propria Amata? Se i piedi mi tradiscono, O Cuore del mio Cuore, son forse da biasimare, essendo accecato dalla visione fugace della tua bellezza? Da dietro la grata giunse il fioco tintinnio di braccialetti femminili, e una vocina riprese il canto dal quinto verso: Ahimè! Ahimè! Può forse la Luna dire al Loto del proprio amore, quando i Cancelli del Cielo son chiusi e le nubi s'addensano per le Piogge? Han preso la mia Amata e l'hanno condotta al Nord con dei cavalli da soma. Vi sono catene di ferro ai piedi ch'erano posati sul mio cuore. Chiamate gli arcieri affinché si preparino... La voce s'interruppe all'improvviso e Trejago uscì dal vicolo di Amir Nath, chiedendosi chi mai potesse completare con tanta precisione il Canto d'amore di Har Dyal. Il mattino seguente, mentre si recava in ufficio, una vecchia gettò un pacchetto nel suo calesse. Dentro il pacchetto c'era la metà di un braccialetto di vetro rotto, un fiore rosso sangue di dhak, un pizzico di bhusa, o foraggio per il bestiame, e undici semi di cardamomo. Quel pacchetto era una lettera - non una lettera sgraziata e compromettente, ma una innocente, inintelligibile epistola d'amore. Come ho detto, di queste cose Trejago se ne intendeva anche troppo. Nessun inglese dovrebbe essere in grado di tradurre lettere composte di oggetti. Ma Trejago sparse tutte quelle carabattole sul coperchio della valigetta da ufficio e iniziò a decifrarne il significato. Un braccialetto di vetro rotto indica, in tutta l'India, una vedova indù; poiché, quando muore il marito, alla donna vengono infranti i braccialetti ai polsi. Così Trejago chiarì il significato del frammento di vetro. Il fiore di dhak può significare cose diverse - 'desiderio', 'vieni', 'scrivi' o 'pericolo' - a seconda degli oggetti che l'accompagnano. Un seme di cardamomo significa 'gelosia'; ma quando, in una lettera di questo genere, un oggetto è duplicato, perde il suo significato simbolico e dà semplicemente una indicazione di tempo, o, se accompagnato da incenso, giuncata o zafferano, di luogo. Il messaggio dunque diceva: 'Una vedova - fiore di dhak e bhusa - alle undici'. Il pizzico di bhusa illuminò Trejago. Egli capì - questo tipo di lettera lascia molto all'intuito - che la bhusa si riferiva al grosso mucchio di foraggio sul quale era caduto nel vicolo di Amir Nath, e che il messaggio doveva venire dalla persona nascosta dietro la grata; che era una vedova. Quindi il messaggio diceva: 'Una vedova, nel vicolo dove c'è il mucchio di bhusa, desidera che tu venga alle undici'.

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Trejago gettò tutte quelle cianfrusaglie nel camino e rise. Sapeva che in Oriente gli uomini non fanno l'amore sotto le finestre alle undici di mattina, né le donne fissano gli appuntamenti con una settimana di anticipo. Così, quella sera stessa alle undici, si recò nel vicolo di Amir Nath avvolto in una boorka, che nasconde sia un uomo che una donna. Non appena i gong della città batterono l'ora, la vocina dietro la grata riprese il Canto d'amore di Har Dyal dal verso in cui la ragazza pathan invoca Har Dyal perché ritorni. Nel dialetto indigeno il canto è molto bello. Tradotto perde il suo carattere lamentoso. Dice press'a poco così: Sola sui tetti delle case, al Nord Mi volgo e guardo i lampi nel cielo, - L'incanto dei tuoi passi nel Nord. Ritorna mio Diletto, altrimenti morrò! Ai miei piedi silenzioso si stende il bazar - Molto, molto più in basso riposano i cammelli stanchi, I cammelli e i prigionieri della tua razzìa. Ritorna mio Diletto, altrimenti morrò! La moglie di mio padre è vecchia e arcigna, E di tutta la casa paterna son io la bestia da soma. - Dolore è il mio pane e lacrime la mia bevanda. Ritorna mio Diletto, altrimenti morrò! Quando il canto finì, Trejago andò sotto la grata e sussurrò: "Sono qui". Bisesa era bella a vedersi. Quella notte segnò l'inizio di molte cose strane e di una doppia vita così pazzesca che ancora oggi, alle volte, Trejago si domanda se non sia stato tutto un sogno. Bisesa, o la sua anziana serva che aveva recapitato la lettera composta di oggetti, aveva staccato la pesante grata dalla cornice di mattoni; cosicché la finestra poté scivolare all'interno, lasciando soltanto un riquadro di mattoni grezzi, nel quale un uomo agile poteva arrampicarsi. Di giorno Trejago svolgeva il consueto lavoro d'ufficio, o indossava gli abiti da visita e andava a trovare le signore della comunità inglese, chiedendosi fino a quando avrebbero continuato a riceverlo, se avessero saputo della povera piccola Bisesa. Di notte, quando tutta la città era silenziosa, compiva la passeggiata sotto la boorka maleodorante, la ricognizione attraverso il bustee di Jitha Megji, la rapida svolta nel vicolo di Amir Nath, tra il bestiame addormentato e i muri ciechi, e poi, finalmente, trovava Bisesa, e il respiro profondo e regolare della vecchia, addormentata fuori della porta della spoglia stanzetta che Durga Charan aveva destinato alla figlia di sua sorella. Chi o che cosa fosse Durga Charan, Trejago non lo chiese mai; e perché non venisse scoperto e accoltellato non gli passò mai per la testa, finché la sua pazzia non ebbe fine e Bisesa... Ma questo vien dopo. Bisesa rappresentava un piacere senza fine per Trejago. Era ignorante come un uccello, e le sue versioni distorte dei rumori che le giungevano dal mondo esterno divertivano Trejago quasi quanto i suoi blesi tentativi di pronunciare il suo nome, Christopher. La prima sillaba costituì sempre una difficoltà insormontabile; e lei faceva dei piccoli gesti buffi con le mani simili a foglie di rosa, come se volesse gettare via il nome, e poi, inginocchiandosi davanti a Trejago, gli domandava, proprio come farebbe una donna inglese, se fosse certo di amarla. Trejago giurava di amarla più di qualsiasi altra persona al mondo. Ed era vero. Dopo un mese di questa follia, le esigenze dell'altra sua vita costrinsero Trejago a prestare particolare attenzione a una signora di sua conoscenza. Potete star certi che una cosa di questo genere non viene notata e discussa solo all'interno della comunità europea, ma anche da un centinaio e mezzo di indigeni. Trejago doveva andare a passeggio con questa signora e conversare con lei presso il palco della banda, e una volta o due dovette accompagnarla in calesse; tutto questo lo fece senza mai pensare, per un solo istante, che potesse compromettere la sua vita segreta, a lui ben più cara. Ma la notizia volò, nel solito modo misterioso, di bocca in bocca, finché la vecchia governante di Bisesa la sentì e la riferì a Bisesa. La fanciulla ne fu così turbata che fece malamente i lavori di casa e, di conseguenza, venne picchiata dalla moglie di Durga Charan. Una settimana dopo Bisesa accusò Trejago di questo flirt. Non conoscendo sfumature, parlò apertamente. Trejago rise, e Bisesa batté i piedini per terra - quei piedini delicati come calendule, che potevano stare nel palmo della mano di un uomo. Molto di ciò che è stato scritto sulla passionalità e l'impulsività degli orientali è esagerato e frutto di informazioni di seconda mano; ma un poco è vero e, quando un inglese scopre quel poco, si accorge che è altrettanto sorprendente di una qualsiasi passione vissuta da un uomo della sua stessa razza. Bisesa s'infuriò, fece una scena e alla fine minacciò di uccidersi se Trejago non avesse lasciato immediatamente la Memsahib straniera che si era frapposta tra loro. Trejago cercò di spiegare e di dimostrarle che lei non capiva queste cose da un punto di vista occidentale. Bisesa si alzò in piedi e disse semplicemente:

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"No, non capisco. Io so solo questo: non è bene che abbia fatto di te una cosa più cara del mio stesso cuore, Sahib. Tu sei un inglese, mentre io sono soltanto una ragazza di colore, - ed era più bionda dei lingotti d'oro alla Zecca - e la vedova di un uomo di colore. Poi aggiunse, tra i singhiozzi: "Ma sulla mia anima e sull'anima di mia Madre, ti amo. A te non accadrà nulla di male, qualunque cosa possa succedere a me". Trejago discusse ancora con la fanciulla cercando di calmarla, ma lei sembrava turbata in maniera del tutto irragionevole. Nulla poteva soddisfarla, se non la completa cessazione dei loro rapporti. Lui doveva andarsene immediatamente. E così fece. Mentre si calava dalla finestra, lei lo baciò due volte sulla fronte, e lui tornò a casa alquanto stupito. Passarono una, due, tre settimane senza alcun segno da parte di Bisesa. Trejago, pensando che la rottura fosse durata abbastanza, si recò nel vicolo di Amir Nath per la quinta volta in tre settimane, nella speranza che i suoi colpetti sul davanzale della grata mobile ricevessero una risposta. Infatti non venne deluso. C'era una luna giovane, e un fascio di luce inondava il vicolo di Amir Nath colpendo la grata, che venne rimossa mentre lui bussava. Dalla nera oscurità, Bisesa tendeva le braccia al chiaro di luna. Entrambe le mani erano state recise ai polsi e i moncherini erano quasi guariti. Allora, mentre Bisesa chinava il capo tra le braccia e singhiozzava, nella stanza qualcuno grugnì come una bestia selvaggia, e qualcosa di acuminato - coltello, spada o lancia - venne scagliato contro la boorka di Trejago. L'arma mancò il busto ma raggiunse un muscolo dell'inguine, ed egli zoppicò leggermente per il resto dei suoi giorni. La grata ritornò al suo posto. Dall'interno della casa non venne alcun segno, null'altro che la striscia di luce lunare sull'alto muro e l'oscurità del vicolo di Amir Nath alle spalle. La prima cosa che Trejago ricorda, dopo aver perso la testa e gridato come un pazzo tra quelle mura spietate, è di essersi trovato in prossimità del fiume mentre stava albeggiando, di aver gettato via la boorka ed essere tornato a casa a capo scoperto. Come fosse avvenuta la tragedia - se Bisesa, in un momento di disperazione senza motivo, avesse raccontato tutto, o se la tresca fosse stata scoperta e la fanciulla costretta a parlare sotto tortura; se Durga Charan sapesse il suo nome, e cosa avvenne di Bisesa - Trejago non lo sa ancora oggi. Era accaduto qualcosa di orribile, e il pensiero di ciò che può essere stato coglie ogni tanto Trejago la notte, e gli tiene compagnia fino al mattino. Un aspetto particolare della vicenda è che lui non sa dove sia la facciata della casa di Durga Charan. Può dare su un cortile comune a due o più case, o può trovarsi dietro uno qualsiasi dei cancelli del bustee di Jitha Megji, Trejago non può dirlo. E non può riavere Bisesa, la povera piccola Bisesa. L'ha perduta nella città dove la casa di ogni uomo è sorvegliata e impenetrabile come la sua tomba; e la grata che guardava sul vicolo di Amir Nath è stata murata. Ma Trejago compie le sue visite regolarmente ed è considerato una persona assai rispettabile. Non v'è nulla di strano in lui, tranne una lieve rigidità della gamba destra, conseguenza di una caduta da cavallo. MAIALI Andate a stanare il cervo rosso tra l'erica, Inseguite a cavallo la volpe, se potete! Ma, per unire insieme il piacere e il profitto, Concedetemi la caccia all'Uomo, L'inseguimento dell'Umano, l'esplorazione dell'Anima Fino alla sua rovina - la caccia all'Uomo. Il Vecchio Shikarri Credo che il dissidio sia iniziato per via di un cavallo dal temperamento un po' bizzoso che Pinecoffin vendette a Nafferton e dal quale Nafferton venne quasi ucciso. Ci possono essere stati altri motivi di risentimento, ma il pretesto ufficiale fu il cavallo. Nafferton si arrabbiò parecchio e Pinecoffin, ridendo, disse che non aveva mai garantito le buone maniere della bestia. Anche Nafferton rise, ma giurò che gli avrebbe fatto pagare la sua caduta, a costo di aspettare cinque anni. Ora, un valligiano di oltre Skipton potrà perdonare un'offesa, se non ci scappa il morto; ma un tipo del South Devon è molle come una palude del Dartmoor. Dai loro nomi si può capire che Nafferton aveva su Pinecoffin il vantaggio della razza. Era un tipo particolare, con un senso dell'umorismo abbastanza crudele, e mi insegnò una nuova e affascinante forma di shikar. Perseguitò Pinecoffin da Mithankot a Jagadri, e da Gurgaon ad Abbottabad - su e giù per il Punjab, una vasta provincia, e in luoghi particolarmente aridi. Disse che non aveva alcuna intenzione di lasciarsi abbindolare da un vicecommissario, nella fattispecie un campagnolo esaltato e petulante, senza rendergli la vita impossibile. La maggior parte dei vicecommissari, dopo la prima stagione calda in questo paese, sviluppa un interesse per qualche attività particolare. I ragazzi dotati di una buona digestione sperano di scrivere i loro nomi a grandi lettere sul Confine e si battono per ottenere un trasferimento in posti desolati come Bannu e Kohat. I biliosi danno la scalata al

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Segretariato; il che è alquanto dannoso per il fegato. Alcuni vengono presi dalla mania del lavoro nel distretto, delle monete ghaznavide o della poesia persiana; mentre altri, che vengono da famiglie di coltivatori, scoprono che l'odore della Terra dopo le Piogge entra loro nel sangue e li spinge a "sviluppare le risorse della Provincia" Costoro sono degli entusiasti. Pinecoffin apparteneva a questa categoria. Sapeva moltissime cose riguardo al costo dei manzi e dei pozzi temporanei, ai raschiatoi per l'oppio e a cosa succede se si bruciano troppi rifiuti in un campo nella speranza di arricchirne il suolo riarso. I Pinecoffin discendevano da una stirpe di proprietari terrieri, per cui la terra si riprese soltanto ciò che già le apparteneva. Sfortunatamente - assai sfortunatamente per lui - Pinecoffin era un funzionario statale, oltre che un coltivatore. Nafferton lo teneva d'occhio e intanto pensava al cavallo. Nafferton disse: "Stai a vedere come inseguo quel ragazzo fino a fargli fare un bel capitombolo". Io dissi: "Non puoi prendertela con un vicecommissario". Nafferton mi rispose che non conoscevo l'amministrazione della Provincia. Il nostro governo è alquanto singolare. Particolarmente prodigo sul versante dell'agricoltura e dell'informazione generale, è disposto a fornire "statistiche economiche" di tutti i generi a una persona abbastanza rispettabile che gli si rivolga con garbo. Per esempio, se siete interessati alla ricerca dell'oro nelle sabbie del Sutlej, basta che suoniate un campanello e scoprirete che risveglia una mezza dozzina di dipartimenti, e alla fine vi mette in comunicazione, diciamo, con un vostro amico del Telegrafo, che una volta scrisse delle note sulle usanze dei cercatori d'oro mentre si trovava per dei lavori in quella zona dell'Impero. Lui può essere più o meno soddisfatto che gli si ordini di scrivere tutto quello che sa a vostro beneficio. Questo dipende dal suo carattere. Più importanti siete, più sono le informazioni che riuscirete ad ottenere e maggiore il disturbo che potrete creare. Nafferton non era una persona importante, ma aveva fama di essere molto "serio". Una persona "seria" può ottenere molto da un governo. C'era una persona "seria" che una volta mandò quasi in rovina... ma è una storia che tutta l'India conosce. Io non so di preciso in cosa consista la vera "serietà". Una discreta imitazione la si può ottenere trascurando di vestire in maniera decente, gironzolando con aria confusa e trasognata, portandosi a casa il lavoro dopo essere rimasti in ufficio fino alle sette e ricevendo frotte di gentiluomini indigeni la domenica. Questo è un tipo di "serietà". Nafferton si guardò attorno in cerca di un pretesto per far valere la propria serietà e di un campanello che lo mettesse in comunicazione con Pinecoffin. Li trovò entrambi nel Maiale. Pertanto Nafferton divenne un serio fautore delle ricerche sul Maiale. Informò il Governo di un suo progetto che contemplava la possibilità di nutrire una buona parte dell'Esercito Britannico in India con carne di Maiale, risparmiando notevolmente. Poi suggerì che Pinecoffin avrebbe potuto fornirgli le "svariate informazioni necessarie al corretto sviluppo del piano". Così il Governo scrisse sul retro della lettera: "Incaricare Mr. Pinecoffin di fornire a Mr. Nafferton qualsiasi informazione in suo possesso". Il Governo è assai propenso a scrivere sul retro delle lettere cose che, in seguito, generano guai e confusione. Nafferton non aveva il minimo interesse per il Maiale, ma sapeva che Pinecoffin si sarebbe dimenato nella trappola. Pinecoffin fu felicissimo di venire consultato sul Maiale. Il Maiale Indiano non costituisce esattamente un fattore importante nella vita agricola del paese; ma Nafferton spiegò a Pinecoffin che c'erano le condizioni per un miglioramento e iniziò una corrispondenza diretta con il giovane. Forse voi pensate che non ci sia molto da tirar fuori dal Maiale, ma tutto dipende da come si affronta l'argomento. Pinecoffin, essendo un funzionario statale e volendo fare le cose per bene, iniziò con un saggio sul Maiale Primitivo, la Mitologia del Maiale e il Maiale Dravidico. Nafferton archiviò queste informazioni - ventisette fogli protocollo - e volle sapere della distribuzione del Maiale nel Punjab e della sua resistenza nelle pianure durante la stagione calda. D'ora in avanti, tenetelo presente, fornirò soltanto i tratti essenziali della vicenda - i capi, per così dire, della ragnatela che Nafferton andò tessendo intorno a Pinecoffin. Pinecoffin fece una mappa a colori della popolazione suina e raccolse osservazioni sulla longevità comparativa del Maiale (a) nelle regioni submontane dell'Himalaya e (b) nella Rechna Doab. Nafferton archiviò anche questo e chiese informazioni sul tipo di gente che badava ai maiali. Ciò diede inizio a un excursus etnologico sui porcari, che Pinecoffin corredò di lunghe tabelle intese a mostrare la proporzione per migliaia della casta nel Derajat. Nafferton archiviò il fascicolo e spiegò che a lui servivano le cifre relative agli stati cis- sutlejani, dove gli risultava che i maiali fossero molto grossi e belli, e dove si proponeva di impiantare un porcile. A quell'epoca al Governo si erano completamente dimenticati delle disposizioni date a Mr. Pinecoffin. Erano come i gentiluomini che, nella poesia di Keats, azionano ingranaggi ben lubrificati per scorticare altra gente. Ma Pinecoffin stava appena entrando nello spirito della caccia al Maiale, proprio come Nafferton sapeva che avrebbe fatto. Pur avendo una discreta quantità di lavoro d'ufficio da sbrigare, rimaneva alzato la notte a ridurre il Maiale in numeri di cinque cifre per l'onore del Servizio. Non voleva apparire ignorante su un argomento così facile come il Maiale. A quell'epoca il Governo lo mandò in missione speciale a Kohat, a "indagare" sulle grosse vanghe ferrate, lunghe due metri, in uso in quel distretto. Siccome con tali pacifici attrezzi erano state uccise delle persone, il Governo desiderava sapere "se una forma modificata di utensile agricolo non potesse, a titolo di prova e come misura temporanea, essere introdotto tra la popolazione agricola senza irritare inutilmente e indebitamente i sentimenti religiosi dei contadini". Tra quelle vanghe e il Maiale di Nafferton, Pinecoffin si ritrovò alquanto occupato. Ora Nafferton iniziò a considerare "(a) L'alimentazione del Maiale indigeno, col proposito di migliorarne il rendimento come produttore di carne. (b) L'acclimatazione del Maiale esotico e la conservazione delle sue caratteristiche distintive". Pinecoffin rispose esaurientemente che il Maiale esotico si sarebbe fuso con il tipo indigeno, e a dimostrazione di ciò citò delle statistiche relative all'allevamento dei cavalli. La questione secondaria venne discussa

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lungamente da Pinecoffin, finché Nafferton non riconobbe di essersi sbagliato e tornò alla domanda precedente. Quando Pinecoffin ebbe completamente esaurito le proprie cognizioni riguardo ai produttori di carne, alle fibrine, al glucosio e alle componenti di azoto nel granoturco e nell'erba medica, Nafferton sollevò il problema dei costi. A questo punto Pinecoffin, che era stato trasferito da Kohat, aveva sviluppato una sua teoria sul Maiale e l'aveva esposta in trentatré pagine in-folio, tutte accuratamente archiviate da Nafferton; il quale ne chiese delle altre. Questa storia andò avanti per dieci mesi, e l'interesse di Pinecoffin per il potenziale porcile parve svanire una volta che ebbe esposto le proprie opinioni. Ma Nafferton lo bombardò di lettere su "l'aspetto imperiale del progetto, che, tendendo ad ufficializzare la vendita di carne suina, sembrava fatto apposta per recare offesa alla popolazione musulmana dell'India settentrionale". Credeva che Pinecoffin avesse bisogno di un po' di lavoro ad ampio respiro, dopo i suoi minuziosi e puntigliosi dettagli decimali. Pinecoffin trattò i più recenti sviluppi del caso in maniera magistrale, dimostrando che non c'era da temere "alcun fermento popolare". Nafferton disse che non c'era nulla come l'intuito di un funzionario statale per risolvere questioni di quel genere, e lo attirò su un sentiero laterale: "i possibili profitti che il Governo trarrebbe dalla vendita delle setole". Esiste una vasta letteratura sulle setole di maiale, e i commercianti di scarpe, pennelli e colori distinguono più varietà di setole di quante non si crederebbe possibile. Pinecoffin, dopo essersi un po' meravigliato per la sete di informazioni di Nafferton, gli mandò una monografia di cinquantuno pagine sui "Prodotti del Maiale". Ciò lo condusse, sotto la guida sollecita di Nafferton, dritto alle manifatture di Cawnpore, al commercio di pelli suine per selle, e quindi ai conciatori. Pinecoffin scrisse che i semi di melagrana erano la cura migliore per le pelli suine e suggerì - poiché i quattordici mesi precedenti l'avevano affaticato - che sarebbe stato meglio se Nafferton "si fosse allevato i suoi maiali prima di conciarli". Nafferton tornò alla seconda parte della sua quinta domanda. Come si poteva ottenere che il Maiale esotico producesse tanta carne quanta ne produceva in Occidente, e tuttavia "assumesse le caratteristiche essenzialmente irsute del suo consimile orientale?". Pinecoffin rimase interdetto, perché si era dimenticato ciò che aveva scritto sedici mesi prima e credeva di dover riaprire l'intera questione. Era troppo coinvolto nell'orribile garbuglio per tirarsi indietro e, in un momento di debolezza, scrisse: "Si consulti la mia prima lettera"; ossia quella che trattava del Maiale Dravidico. In realtà, Pinecoffin doveva ancora arrivare allo stadio dell'acclimatazione, essendosi dilungato sulla questione secondaria della fusione dei tipi. Allora Nafferton scoprì veramente le sue batterie! Si lamentò con il Governo, in linguaggio altisonante, della "scarsità di aiuti fornitimi nei miei fervidi tentativi di avviare un'industria potenzialmente remunerativa, e la leggerezza con la quale le mie richieste di informazioni vengono trattate da un gentiluomo le cui cognizioni pseudo-erudite avrebbero almeno dovuto insegnargli le differenze principali tra le varietà Dravidica e Berkshire del genere Sus. Se debbo ritenere che la lettera alla quale egli mi rimanda contenga le sue serie opinioni sull'acclimatazione di un prezioso, anche se innegabilmente sudicio, animale, sono costretto di mala voglia a credere," ecc, ecc. A capo del Dipartimento Punizioni c'era un nuovo direttore. Il povero Pinecoffin si sentì dire che il Servizio era fatto per il Paese e non il Paese per il Servizio, e che pertanto era meglio che incominciasse a fornire informazioni sul Maiale. Pinecoffin rispose, follemente, che aveva scritto tutto ciò che si poteva scrivere sul Maiale, e che gli spettava una licenza. Nafferton si procurò una copia di quella lettera e la mandò, insieme al saggio sul Maiale Dravidico, a un giornale del sud, che li pubblicò entrambi per esteso. Il saggio era piuttosto pretenzioso; ma se il direttore del giornale avesse visto le pile di fogli, scritti di suo pugno da Pinecoffin, sul tavolo di Nafferton, non sarebbe stato così sarcastico circa la "nebulosa prolissità e la vistosa presunzione del moderno impiegato statale assunto tramite concorso, e la sua assoluta incapacità di cogliere gli aspetti pratici di una questione pratica". Parecchi amici di Pinecoffin ritagliarono queste righe e gliele mandarono. Ho già detto che Pinecoffin non discendeva da una stirpe di duri. Quest'ultimo colpo lo impaurì e lo scosse. Non riusciva a spiegarselo; sentiva però di essere stato, in qualche modo, spudoratamente tradito da Nafferton. Capì anche di essersi inopinatamente avvolto nella pelle di Maiale, e che non avrebbe sistemato facilmente le cose con il Governo. Tutte le sue conoscenze volevano sapere della sua "nebulosa prolissità" e della sua "vistosa presunzione", e questo o avvilì. Perciò prese un treno e andò da Nafferton, che non vedeva dall'inizio della storia. Portò con sé il ritaglio di giornale, gridò senza convinzione, insultò Nafferton e alla fine si sciolse in una debole e lacrimosa protesta del tipo "È-crudele-daparte-tua". Nafferton fu molto comprensivo. "Temo di averti procurato un sacco di fastidi, non è vero?", disse. "Fastidi!", gemette Pinecoffin. "Non mi pesano tanto i fastidi, per quanto seccanti siano stati; ciò che mi irrita è questa esibizione sui giornali. Mi rimarrà appiccicata addosso come una bava per tutta la durata del servizio. Mentre io ho fatto del mio meglio per il tuo inesauribile porco. È crudele da parte tua... giuro che lo è!". "Non so", disse Nafferton. "Non sei mai stato imbrogliato con un cavallo? Non mi pesa tanto la perdita di denaro, per quanto seccante sia stata; ciò che mi irrita è venir preso in giro, specialmente quando a farlo è proprio il ragazzo che mi ha imbrogliato. Ma ora credo che potremmo chiudere la questione". Pinecoffin non trovò da dire altro che improperi; allora Nafferton sorrise con grande dolcezza... e lo invitò a pranzo.

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LA PORTA DEI CENTO DOLORI Se posso guadagnarmi il Cielo con un soldo, perché dovreste invidiarmelo? Proverbio del fumatore d'oppio Questa non è opera mia. Mi raccontò tutto il mio amico Gabral Misquitta, il meticcio, fra il tramonto della luna e l'alba, sei settimane prima di morire; ed io appresi la storia dalle sue labbra, a mano a mano che rispondeva alle mie domande. Ecco, dunque, ciò che mi disse: Si trova tra il Vicolo del Calderaio e il quartiere dei venditori di cannucce da pipa, a non più di un centinaio di metri in linea d'aria dalla Moschea di Wazir Khan. Non mi faccio scrupolo di fornire questi dettagli, anche perché sfido chiunque, per quanto creda di conoscere la città, a trovare la Porta. Potreste anche attraversare cento volte il vicolo stesso su cui si affaccia senza tuttavia riuscire ad orientarvi. Noi eravamo soliti chiamarlo "Il Vicolo del Fumo Nero", ma ovviamente il nome originario è del tutto diverso. È talmente stretto che un asino imbastato non riuscirebbe a passare; e in un punto, proprio prima della Porta, la facciata di una casa che sporge obbliga la gente a camminare a sghembo. Tuttavia non è veramente una porta. È una casa. Da principio, cinque anni fa, la teneva il vecchio Fu-Ching. Faceva il calzolaio a Calcutta, e dicono che abbia ucciso la moglie da ubriaco. Fu per questo che smise di bere rum da quattro soldi e si diede al Fumo Nero. In seguito venne al nord e aprì la Porta, facendone un locale in cui si poteva fumare in pace e tranquillità. Bada, era una fumeria pukka, rispettabile, non uno di quei soffocanti, opprimenti chandoo-khana che si possono trovare in tutta la città. No, il vecchio conosceva a fondo il suo mestiere, ed era assai pulito, per un cinese. Era un tipetto guercio da un occhio, alto poco più di un metro e cinquanta, e gli mancava il dito medio di entrambe le mani. Ciò nonostante era l'uomo più abile ad arrotolare le pillole nere che abbia mai visto. Non sembrava nemmeno che il Fumo gli facesse effetto; e quello che fumava giorno e notte, notte e giorno, era una cosa straordinaria. Io fumo ormai da cinque anni, e posso reggere il confronto con chiunque; ma rispetto a Fung-Ching ero un principiante. Nonostante ciò, il vecchio era attaccato al suo denaro, molto attaccato; cosa, questa, che non riesco a capire. Ho sentito dire che ne aveva messo da parte parecchio prima di morire, ma ora è andato tutto al nipote; e il vecchio è ritornato in Cina per esservi sepolto. Teneva la grande stanza al piano superiore, dove si riunivano i suoi clienti migliori, linda come uno spillo nuovo. In un angolo c'era il Joss di Fung-Ching - brutto quasi quanto il suo padrone - e aveva sempre dei bastoncini di incenso che gli bruciavano sotto il naso; ma quando le pipe funzionavano a pieno ritmo il loro profumo non si sentiva più. Di fronte al Joss c'era la bara di Fung-Ching. Ci aveva speso sopra una buona parte dei suoi risparmi, e ogni volta che un nuovo cliente veniva alla Porta, lo portava a vederla. Era laccata di nero, con scritte rosse e dorate, e ho sentito dire che Fung-Ching se l'era portata dietro fin dalla Cina. Non so se questo sia vero o no, ma so che, se la sera arrivavo per primo, stendevo la mia stuoia proprio ai piedi della bara. Era un angolo tranquillo, sai, e di quando in quando attraverso la finestra giungeva dal vicolo una specie di brezza. A parte le stuoie, nella stanza non c'era altro: soltanto la bara, e il vecchio Joss tutto verde e azzurro e porpora per l'età e lo smalto. Fung-Ching non ci disse mai perché chiamò il locale "La Porta dei Cento Dolori" (era l'unico cinese di mia conoscenza a usare nomi di fantasia che suonavano male. In genere sono floreali. Come vedrai a Calcutta). Il perché lo scoprivamo da soli. Non c'è nulla che ti prenda tanto, se sei bianco, come il Fumo Nero. Un uomo giallo è fatto diversamente. L'oppio non gli fa quasi effetto; ma il bianco e il nero ne subiscono moltissimo le conseguenze. Ovviamente ci sono delle persone alle quali il Fumo da principio non fa più effetto del tabacco. Si assopiscono un po', come un altro si addormenta naturalmente, e il mattino dopo sono quasi in forma per lavorare. Be', io ero così, all'inizio; ma ho continuato assiduamente per cinque anni e adesso è diverso. Avevo una vecchia zia, dalle parti di Agra; quando morì mi lasciò una piccola somma. Circa sessanta rupie al mese assicurate. Non sono molte. Mi ricordo un tempo, mi sembrano centinaia e centinaia di anni fa, in cui guadagnavo le mie trecento rupie al mese, più gli extra, lavorando in una grossa ditta di legnami a Calcutta. Non durai a lungo, in quel posto. Il Fumo Nero non permette altre occupazioni; e anche se ne risento pochissimo, in confronto alla media dei fumatori, ora non potrei fare un giorno di lavoro quand'anche ne andasse della mia vita. Dopo tutto, sessanta rupie sono quanto mi basta. Quando il vecchio Fung-Ching era vivo le riscuoteva lui per me, me ne dava circa la metà per vivere (io mangio pochissimo), e il resto lo teneva per sé. Ero libero di andare alla Porta a qualsiasi ora del giorno e della notte, e potevo fumare e dormire lì quando mi pareva; perciò non vi badavo. So che il vecchio ha guadagnato parecchio con me, ma non importa. Nulla m'importa granché; e poi il denaro arrivava sempre fresco fresco tutti i mesi. Eravamo in dieci a frequentare la Porta, quando il locale venne aperto. Io, due babu di qualche ufficio governativo di Anarkulli, che vennero licenziati e non furono più in grado di pagare (nessuno può dedicarsi al Fumo Nero in modo continuativo, dovendo lavorare di giorno); un cinese che era nipote di Fung-Ching; una donna del bazar che aveva fatto un sacco di soldi non si sa come; un fannullone inglese - MacQualcuno, credo, ma l'ho dimenticato -, che fumava moltissimo ma sembrava non pagare mai (dicevano che avesse salvato la vita a Fung-Ching in qualche

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processo a Calcutta, quando faceva l'avvocato); un altro eurasiano come me, di Madras; una meticcia e un paio di uomini che dicevano di venire dal nord. Credo che fossero persiani o afgani o qualcosa del genere. Vivi, ora, siamo rimasti in cinque, ma veniamo regolarmente. Non so cosa accadde ai babu; ma la donna del bazar morì dopo sei mesi che veniva alla Porta. Credo che Fung- Ching le abbia preso i braccialetti e l'anello del naso, ma non ne sono certo. L'inglese beveva oltre che fumare, e se ne andò all'altro mondo. Uno dei persiani venne ucciso molto tempo fa in una rissa notturna nei pressi del grande pozzo vicino alla moschea, e la polizia chiuse il pozzo perché si diceva che fosse pieno di aria infetta. Lo ritrovarono morto nel fondo. Così, vedi, siamo rimasti soltanto io, il cinese, la meticcia - che chiamiamo la Memsahib perché viveva con Fung-Ching -, l'altro eurasiano e uno dei persiani. La Memsahib appare molto vecchia, ora. Credo che fosse una ragazza quando la Porta venne aperta; ma quanto a questo siamo tutti vecchi. Vecchi di centinaia e centinaia di anni. È molto difficile tenere conto del tempo, alla Porta, e comunque del tempo a me non importa. Ritiro le mie sessanta rupie fresche fresche tutti i mesi. Molto, molto tempo fa, quando ne guadagnavo trecentocinquanta al mese più gli extra in una grossa ditta di legnami a Calcutta, avevo una specie di moglie; ma ora è morta. La gente disse che ero stato io a ucciderla, dandomi al Fumo Nero. Forse è vero, ma è passato tanto di quel tempo che non ha più importanza. Talvolta, i primi tempi che venivo alla Porta, ne soffrivo; ma ormai è tutto finito da secoli; io ritiro le mie sessanta rupie fresche fresche ogni mese e sono felicissimo. Non felice da toccare il cielo con un dito, sai, ma sempre tranquillo, rilassato e soddisfatto. Come ho preso il vizio? Incominciai a Calcutta. Ero solito fumare in casa, solo per vedere com'era. Non ne prendevo mai molto, ma credo che mia moglie sia morta allora. Ad ogni modo, mi ritrovai qui e conobbi Fung-Ching. Non ricordo esattamente come avvenne; ma lui mi parlò della Porta e io iniziai a frequentarla e, in qualche modo, da allora non ho più smesso. Bada, però, che all'epoca di Fung-Ching la Porta era un luogo rispettabile, dove si poteva stare comodi, e non aveva niente a che vedere con i chandoo-khana frequentati dai negri. No; era pulita, tranquilla e mai affollata. Naturalmente c'erano degli altri, oltre a noi dieci e al padrone; ma noi avevamo sempre una stuoia ciascuno, con un guanciale di lana imbottito tutto coperto di draghi rossi e neri e altre figure, proprio come la bara nell'angolo. Alla fine della terza pipa i draghi iniziavano a muoversi e a lottare tra loro. Ho trascorso parecchie notti a guardarli. Ero solito regolare il mio fumo su di loro, e ora ci vogliono dodici pipe per farli muovere. E poi sono tutti laceri e sporchi, come le stuoie, e il vecchio Fung-Ching è morto. Morì un paio d'anni fa e mi lasciò la pipa che uso sempre ora... una pipa d'argento, con strani animali che strisciano su e giù per il serbatoio sotto il fornello. Prima di questa usavo, credo, un grosso cannello di bambù con un fornello di rame, molto piccolo, e un bocchino di giada verde. Era un po' più spesso di una canna da passeggio, e il fumo veniva su dolce, molto dolce. Pareva che il bambù se lo succhiasse, il fumo. L'argento no, e devo pulirlo di quando in quando, il che è un grosso fastidio; ma ci fumo lo stesso per amore del vecchio. Deve aver guadagnato parecchio con me, però mi dava sempre stuoie e guanciali puliti, e la miglior roba che si potesse trovare. Quando morì, suo nipote Tsin-ling ereditò la Porta e la ribattezzò il "Tempio delle Tre Proprietà"; ma noi vecchi continuiamo a chiamarla dei "Cento Dolori". Il nipote fa le cose in modo alquanto meschino, e credo che la Memsahib gli dia una mano. Ora vive con lui, come prima viveva con il vecchio. I due ammettono ogni tipo di gentaglia, negri e tutto il resto, e il Fumo Nero non è più buono come una volta. Spesso ho trovato della crusca bruciata nella pipa. Il vecchio sarebbe morto se ai suoi tempi fosse accaduta una cosa simile. Per di più la stanza non viene mai pulita, e tutte le stuoie sono lacere e sfilacciate. La bara se n'è andata... è ritornata in Cina con dentro il vecchio e due once di fumo, in caso ne avesse bisogno durante il viaggio. Al Joss non bruciano più sotto il naso tanti bastoncini come un tempo; questo è segno di malaugurio, com'è vera la Morte. È diventato tutto marrone, e nessuno lo accudisce più. È colpa della Memsahib, lo so; perché, quando Tsin-ling cercò di bruciargli davanti della carta dorata, lei disse che era uno spreco di denaro e, se faceva bruciare un bastoncino molto lentamente, il Joss non avrebbe capito la differenza. Così ora abbiamo dei bastoncini impastati con parecchia colla, che bruciano mezz'ora di più e mandano un gran puzzo oltre a quello che la stanza emana di per sé. Ma non si può pretendere che le cose vadano bene, con trucchi del genere. E Joss non è contento. Me ne sono accorto. Talvolta, a notte fonda, si tinge d'ogni sorta di colori strani - azzurro, verde e rosso - proprio come faceva quando il vecchio Fung-Ching era vivo; e rovescia gli occhi e pesta i piedi come un demone. Non so perché non abbandono questo posto e me ne vado a fumare tranquillo in una stanzetta per conto mio nel bazar. Molto probabilmente Tsin-ling mi ucciderebbe se me ne andassi - è lui che riscuote le mie sessanta rupie, ora; inoltre sarebbe un gran fastidio, e poi mi sono affezionato alla Porta. Non è granché a vederla. Certo non quella che era ai tempi del vecchio, ma non potrei andarmene. Ho visto tanta gente venire e andare via. E ne ho visti tanti morire qui, sulle stuoie, che ora avrei paura di morire all'aperto. Ho visto delle cose che la gente chiamerebbe strane; ma nulla è strano quando si è sotto l'effetto del Fumo Nero, tranne il Fumo Nero. E anche se lo fosse, non avrebbe importanza. Fung-Ching era molto scrupoloso riguardo ai suoi clienti, e non ammetteva mai una persona che gli avrebbe dato delle noie, tirando le cuoia o che so io. Il nipote, invece, non è affatto prudente. Va dicendo ovunque che ha un locale di prim'ordine. Non cerca di farsi i clienti a poco a poco e di farli stare comodi come faceva Fung-Ching. Per questo la Porta incomincia a essere un po' più conosciuta di prima: tra i negri, ovviamente. Il nipote non si arrischia ad attirarci un bianco, e neppure un meticcio. Deve tenere noi tre, naturalmente: io, la Mensahib e l'altro eurasiatico. Noi ormai facciamo parte del locale. Ma non ci farebbe credito di una pipa... né di qualsiasi altra cosa. Uno di questi giorni spero di morire alla Porta. Il persiano e quello di Madras sono diventati molto deboli: hanno un ragazzo che accende loro le pipe. Io continuo a farlo da solo. Molto probabilmente li porteranno via prima di me. Non credo, però, di poter sopravvivere alla Memsahib o a Tsin-ling. Le donne durano di più degli uomini col Fumo

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Nero, e Tsin-ling ha molto sangue del vecchio nelle vene, anche se fuma roba scadente. La donna del bazar seppe che stava per morire due giorni prima che venisse il momento; e morì su una stuoia pulita con il guanciale ben imbottito, e il vecchio appese la sua pipa proprio sopra il Joss. Credo che le abbia sempre voluto bene. Ciò nonostante le prese i braccialetti. Mi piacerebbe morire come la donna del bazar - su una stuoia fresca, pulita, con una pipa di roba buona tra le labbra. Quando sentirò giungere il momento, chiederò a Tsin-ling queste cose, e lui poi potrà riscuotere le mie sessanta rupie mensili, fresche fresche, fin quando vorrà. Allora mi coricherò, comodo e tranquillo, a osservare i draghi neri e rossi combattere la loro ultima, grande battaglia; e poi... Be', non importa. Nulla m'importa granché... vorrei soltanto che Tsin-ling non mettesse crusca nel Fumo Nero. DRAY WARA YOW DEE Poiché la gelosia rende l'uomo furioso, ed egli non avrà pietà nel giorno della vendetta. Proverbi VI, 34 Mandorle e uva passa, Sahib? Grappoli da Kabul? O un pony dei più rari se soltanto il Sahib vorrà venire con me. È, alto tredici spanne e tre, Sahib, gioca a polo, tira il calesse, porta una signora e... Sacro Kurshed e Imam Benedetti, è il Sahib stesso! Il cuore mi si allarga e l'occhio si rallegra. Possa tu non essere mai stanco! Come l'acqua fresca della valle di Tirah, così è la vista di un amico in un luogo lontano. E cosa fai tu in questo paese maledetto? A sud di Delhi, Sahib, conosci il detto... "Farabutti son gli uomini e sgualdrine le donne". Era un ordine? Ahoo! Un ordine è un ordine fintanto che uno non è abbastanza forte per disubbidirlo. O fratello mio, o mio amico, ci siamo incontrati in un'ora favorevole! Va tutto bene nel cuore, nel corpo e nella casa? In un giorno fortunato, ci siamo ritrovati noi due. Devo venire con te? La tua benevolenza è grande. Ci sarà il posto di guardia nel quartiere europeo? Ho tre cavalli e i fagotti e il mozzo di stalla. Ricorda inoltre che la polizia di qui mi considera un ladro di cavalli. Cosa ne sanno, questi bastardi di pianura, di ladri di cavalli? Ricordi quella volta, Peshawar, che Kamal picchiò alle porte di Jumrud - sbruffone che non era altro - e rubò il cavallo del colonnello a Peshawar tutto in una notte? Kamal è morto ora, ma c'è suo nipote a occuparsi delle faccende, e spariranno altri cavalli se i Fucilieri del Khyber non faranno attenzione. La Pace di Dio e la benevolenza del Suo Profeta siano su questa casa e su tutto ciò che contiene! Shafiz Ullah, lega la giumenta pomellata sotto l'albero e vai a prendere dell'acqua. I cavalli possono stare al sole, ma piegagli in due la coperta sul dorso. No, amico mio, non prenderti il disturbo di esaminarli. Devono essere venduti agli sciocchi ufficiali che sanno così tante cose sui cavalli. La giumenta è pregna; il grigio è un diavolo indomato; e il baio... ma conosci il trucco del piolo. Una volta venduti tornerò a Pubbi, o forse nella Valle di Peshawar. O amico del mio cuore, è bello rivederti. Ho passato tutto il giorno a inchinarmi e mentire ai Sahib-ufficiali a proposito di questi cavalli; e la mia bocca è asciutta a forza di parlare. Auggrb! Prima di un pasto il tabacco è piacevole. Non unirti a me, poiché non siamo nel nostro paese. Siediti in veranda, e io stenderò qui la mia coperta. Ma prima berrò, Nel nome di Dio sia resa grazia tre volte! Questa è acqua dolce, davvero dolce come l'acqua dello Sheoran quando viene dalle nevi. Stanno tutti bene e in allegria al Nord, Khoda Baksh e gli altri. Yar Khan è sceso con i cavalli dal Kurdistan - trentasei capi soltanto, e una buona metà pony da soma - e ha detto apertamente nel serai del Kashmir che voi inglesi dovreste portare cannoni e far saltare l'Emiro all'Inferno. Ci sono quindici pedaggi, ora, da pagare sulla strada di Kabul; e a Dakka, quando credeva di essere libero, Yar Khan fu privato di tutti i suoi stalloni di Balkh dal Governatore! Questa è una grossa ingiustizia, e Yar Khan brucia di rabbia. E in quanto agli altri: Mahbub Alì è ancora a Pubbi, a scrivere Dio solo sa cosa. Togluq Khan è in prigione per l'affare al posto di polizia di Kohat. Faiz Beg è sceso da Ismail-ki-Dhera a fine anno con una cintura di Buchara per te, fratello mio, ma nessuno sapeva dove fossi andato: non erano state lasciate notizie. I Cugini hanno preso una nuova fattoria vicino a Pakpattan, dove allevano muli per i carri del governo, e nel bazar circola la storia di un prete... Oho! È una storia pepata! Ascolta... Sahib, perché mi domandi questo? I miei abiti sono insozzati dalla polvere della strada. I miei occhi son tristi per il bagliore del sole. I miei piedi sono gonfi perché li ho lavati in acqua malsana; e le mie guance sono smunte perché qui il cibo è cattivo. Che il fuoco bruci il tuo denaro! Cosa me ne faccio? Sono ricco. Pensavo tu fossi mio amico. Ma sei come tutti gli altri... un Sahib. Un uomo è triste? Dategli dei denaro, dicono i Sahib. È disonorato? Dategli del denaro, dicono i Sahib. Un'ingiustizia gli pende sul capo? Dategli del denaro, dicono i Sahib. Così sono i Sahib, e così sei tu... anche tu. No, non guardare gli zoccoli del baio. È un peccato che ti abbia insegnato a conoscere i cavalli dalle zampe. Zoccoli doloranti? Sia pure. E con ciò? Le strade sono impervie. Anche la giumenta ha gli zoccoli doloranti? Lei porta un peso doppio, Sahib. E adesso, ti prego, concedimi di partire. Grande favore e onore mi ha fatto il Sahib, e graziosamente ha manifestato la convinzione che i cavalli siano rubati. Vorrà dunque mandarmi al thana? Chiamare uno spazzino e farmi portare via da uno di quegli uomini-lucertola? Io sono amico del Sahib. Ho bevuto acqua all'ombra della sua casa, e lui

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mi ha oscurato il volto. Che altro resta da fare? Vuole il Sahib darmi otto anna per attenuare il torto e... completare l'insulto... ? Perdonami, fratello mio. Non sapevo... non so tuttora quello che dico. Sì, ti ho mentito! Mi cospargerò il capo di polvere e sono un Afridi! I cavalli son stati fatti marciare con gli zoccoli doloranti dalla Valle sin qui; i miei occhi son deboli, il corpo mi duole per la mancanza di sonno e il mio cuore è inaridito dal dolore e dalla vergogna. Ma come fu la mia vergogna, così, per Dio il Dispensatore di Giustizia - per Allah-al-Mumît -, sarà la mia vendetta! Abbiamo parlato insieme a cuore aperto prima d'ora, le nostre mani si sono servite dallo stesso piatto e tu sei stato per me come un fratello! E adesso io ti ripago con bugie e ingratitudine... come un Pathan. Ascolta ora! Quando il tormento dell'anima è troppo greve da sopportare, può essere alleviato un poco parlandone; inoltre l'anima di un uomo sincero è come un pozzo, nel quale il ciottolo della confessione, lasciato cadere affonda, e non si vede più. Dalla Valle sono venuto a piedi, lega dopo lega, con un fuoco nel petto come il fuoco dell'Inferno. Perché? Hai dunque dimenticato così presto i nostri usi, tra questi esseri che vendono le proprie mogli e le proprie figlie per denaro? Torna con me al Nord e sarai nuovamente tra uomini. Ritorna, quando questa faccenda sarà risolta e io ti passerò a prendere! I peschi sono in fiore lungo tutta la Valle mentre qui c'è solo polvere e un gran fetore. Là una brezza gradevole spira tra i gelsi, i ruscelli luccicano colmi d'acqua delle nevi, le carovane salgono e scendono, mentre centinaia di fuochi brillano nel budello del Passo, il picchetto della tenda risponde al colpo di martello, e il cavallo da soma chiama il cavallo da soma nel fumo della sera. È bello al Nord, ora. Ritorna con me. Torniamo dalla nostra gente! Dài! Da dove viene il mio dolore? Forse un uomo si strappa il cuore e ne fa frittelle a fuoco lento per altro che una donna? Non ridere, amico mio, perché toccherà anche a te. Una donna abazai era, e io la presi in moglie per porre fine alle ostilità tra il nostro villaggio e gli uomini di Ghor. Non son più giovane? La calce ha intaccato la mia barba? È vero. Non avevo alcun bisogno di sposarla? No, però l'amavo. Cosa dice Rahman? "Nel cuore in cui entra Amore vi è Follia e null'altro. Con un'occhiata lei ti ha accecato, e con le palpebre e la frangia delle palpebre ti ha tratto in cattività senza riscatto, e null'altro". Ricordi quella canzone al campo di Pindi, quando si arrostivano le pecore tra gli uzbeki dell'Emiro? Gli Abazai sono cani e le loro donne serve del peccato. Lei aveva un amante tra la sua gente, ma di questo suo padre non mi disse nulla. Amico mio, maledici per me nelle tue preghiere, come io lo maledico in ognuna delle mie, dal Fakr alla Isha, il nome di Daoud Shah, Abazai, il cui capo è ancora sul collo, le cui mani sono ancora attaccate ai polsi, che mi ha disonorato e ha reso il mio nome oggetto di scherno tra le donne del Piccolo Malikand. Trascorsi due mesi mi recai nell'Indostan, a Cherat. Rimasi via dodici giorni soltanto, ma lasciai detto che sarei tornato dopo quindici. Lo feci per metterla alla prova, perché sta scritto: "Non fidarti dei deboli". Risalendo la gola da solo sul far della sera, udii la voce di un uomo che cantava sulla porta di casa mia: era la voce di Daoud Shah, e la canzone che cantava era Dray wara yow dee... "Tutti e tre sono uno". Fu come se mi avessero legata una fune intorno al cuore e tutti i diavoli la stessero stringendo oltre ogni limite di sopportazione. Strisciai senza far rumore su per il sentiero, ma la miccia del mio moschetto era inumidita dalla pioggia, e non potei uccidere Daoud Shah da lontano. Inoltre avevo intenzione di uccidere anche la donna. Intanto lui cantava, seduto fuori della mia casa. Di lì a poco la donna aprì la porta e io mi avvicinai ancora, avanzando carponi tra le rocce. Avevo soltanto il coltello a disposizione. Ma un sasso mi scivolò sotto il piede e i due guardarono giù per il pendio; così lui, abbandonando il moschetto, sfuggì alla mia ira, perché temeva per la propria vita. La donna però non si mosse finché non le fui di fronte e gridai: "O donna, cos' hai mai fatto?". E lei, senza paura, benché conoscesse i miei pensieri, disse ridendo: È una piccola cosa. Lo amavo, e tu sei un cane e un ladro di bestiame che viene di notte. Colpisci!". E io, ancora accecato dalla sua bellezza perché, O amico mio, le donne abazai sono molto belle, dissi: "Non hai paura?". E lei rispose: "No... ho soltanto paura di non morire". Allora dissi: "Non temere". Lei chinò il capo e io glielo mozzai alla base del collo, cosicché mi rotolò tra i piedi. Poi, assalito dalla furia della mia gente, le tagliai i seni, in modo che gli uomini del Piccolo Malikand potessero vedere perché era morta, e gettai il corpo nel corso d'acqua che sfocia nel fiume Kabul. Dray wara yow dee! Dray wara yow dee! Il corpo senza testa, l'anima senza luce e il mio stesso cuore oscuro... tutti e tre sono uno... tutti e tre sono uno! Quella notte, senza fermarmi, andai a Ghor e chiesi notizie di Daoud Shah. Qualcuno disse: "È andato a Pubbi in cerca di cavalli. Cosa vuoi da lui? C'è pace tra i villaggi". Io risposi: "Già! La pace del tradimento e l'amore che il Diavolo Atala recò a Gurel". Quindi sparai tre volte contro la porta della torre, risi e me ne andai per la mia strada. In quelle ore, fratello e amico del cuore del mio cuore, la luna e le stelle erano come sangue sul mio capo, e avevo in bocca il sapore della terra arsa. Inoltre non spezzai pane, e a dissetarmi fu la pioggia della valle di Ghor che mi cadde sul volto. A Pubbi trovai Mahbub Alì, lo scrittore, seduto sul suo charpoy, e consegnai le mie armi in ossequio alla vostra Legge. Non mi costò fatica, perché il cuore mi diceva che avrei ucciso Daoud Shah anche a mani nude, così... come un uomo spreme un grappolo di uva passa. Mahbub Alì disse: "Daoud Shah è appena partito in fretta e furia per Peshawar, e si procurerà i cavalli lungo la strada di Delhi, perché si dice che là l'Azienda Tranviaria di Bombay stia acquistando cavalli a carrate; otto cavalli per carro". Ed era vero. Allora capii che la caccia sarebbe stata una cosa seria, poiché l'uomo, per sfuggire alla mia ira, era entrato nei vostri confini. E si salverà così? Non sono forse vivo? Anche se fuggirà a nord fino alla Dora e alle nevi, o a sud fino all'Acqua Nera, io lo inseguirò come un amante segue i passi dell'amata e, una volta che l'avrò raggiunto, lo stringerò teneramente - Aho! così teneramente! - tra le mie braccia, dicendo: "Bene hai fatto e bene sarai ripagato". E da

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quell'abbraccio Daoud Shah non uscirà con il respiro in gola. Auggrh! Dov'è la brocca? Sono assetato come una cavalla gravida al primo mese. La vostra Legge! Cos'è la vostra Legge per me? Forse che i cavalli, quando combattono in corsa, tengono conto dei pilastri di confine? O i nibbi di Ali Musjid rinunciano a una carogna solo perché giace all'ombra del Ghor Kuttri? La faccenda è iniziata al di là del Confine. Finirà dove vuole Iddio. Qui, al mio paese o all'Inferno. Tutti e tre sono uno. Ascolta ora, tu che condividi il dolore del mio cuore, e ti racconterò della caccia. Da Pubbi raggiunsi Peshawar, e mi aggirai per le strade di Peshawar come un cane randagio, in cerca del mio nemico. Una volta credetti di vederlo sciacquarsi la bocca alla fontana della grande piazza, ma quando la raggiunsi se n'era andato. Può darsi che fosse lui, e, vedendo il mio volto, sia fuggito. Una ragazza del bazar mi disse che sarebbe andato a Nowshera. Io le domandai: "O cuore del mio cuore, attendi forse una sua visita?". E lei rispose: "Proprio così". Dissi allora: "Avrei piacere d'incontrarlo, perché siamo amici e non ci vediamo da due anni. Ti prego, nascondimi qui, all'ombra delle imposte, e aspetterò il suo arrivo". Al che la ragazza disse: "O Pathan, guardami negli occhi!" E io mi voltai, appoggiandomi al suo seno, e la guardai negli occhi, giurando che dicevo la Verità di Dio. Ma lei rispose: "Mai amico ha atteso amico con occhi simili. Menti a Dio e al Profeta, ma a una donna non puoi mentire. Vattene! Non accadrà nulla di male a Daoud Shah per causa mia". Se non fosse stato per paura della vostra polizia, avrei strangolato la ragazza; e così la caccia sarebbe andata in fumo. Perciò mi limitai a ridere e me ne andai; e lei si sporse dalla finestra nella notte e mi schernì mentre mi allontanavo nella via. Si chiama Jamun. Quando avrò regolato i conti col mio uomo tornerò a Peshawar e i suoi amanti non la desidereranno più per la sua bellezza. Non sarà più Jamun, ma Ak, lo storpio tra gli alberi. Oh! Oh! Ak sarà!"' A Peshawar comprai i cavalli e l'uva, le mandorle e la frutta secca, in modo da non insospettire il governo circa il motivo dei miei vagabondaggi e così evitare intoppi lungo la strada. Ma quando giunsi a Nowshera lui non c'era più; e io non sapevo dove andare. Rimasi un giorno a Nowshera, e durante la notte, mentre dormivo tra i cavalli, una Voce mi parlò all'orecchio. Tutta la notte mi aleggiò attorno al capo e non smise mai di bisbigliare. Ero sdraiato sul ventre e dormivo come dormono i diavoli, e può darsi che la Voce fosse la voce di un diavolo. Disse: "Va' a sud, e incontrerai Daoud Shah". Ascolta, fratello mio e primo tra gli amici... ascolta! È una storia lunga? Pensa quanto lo fu per me. Son venuto a piedi, lega dopo lega, da Pubbi sin qui; e da Nowshera la mia unica guida è stata la Voce e il desiderio di vendetta. Giunsi ad Uttock, ma non fu un ostacolo. Oh, oh! Un uomo può giocare con le parole anche nel dolore. L'Uttock non fu un uttock per me; e al di sopra del rumore delle acque che si frangevano sulla grande roccia, udii la Voce che diceva: "Vai a destra". Così andai a Pindigheb, e in quei giorni fui privato completamente del sonno, mentre la testa della donna abazai mi stava di fronte notte e giorno, così come mi era caduta tra i piedi. Dray wara yow dee! Dray wara yow dee! Il fuoco, le ceneri e il mio giaciglio... tutti e tre sono uno... tutti e tre sono uno! Adesso ero lontano dalla pista invernale dei mercanti che erano andati a Sialkot, e parecchio a sud presso la ferrovia e la Grande Strada che conducono alla linea di accantonamenti; ma al campo di Pindigheb trovai un Sahib che mi comprò una cavalla bianca a un buon prezzo e mi disse che un certo Daoud Shah era passato di lì con dei cavalli diretto a Shahpur. Allora capii che l'avvertimento della Voce era giusto, e mi affrettai a raggiungere i Monti del Sale. Il Jhelum era in piena, ma non potevo aspettare; e durante la traversata uno stallone baio venne travolto dalla corrente e annegò. In questo Dio fu severo con me: non per la bestia, della quale poco m'importava, ma per avermela strappata così. Mentre mi trovavo sulla riva destra, intento a spingere in acqua i cavalli, Daoud Shah era sulla sinistra; poiché - Alghias! Alghias! - quando risalimmo l'altra sponda nella luce del mattino, gli zoccoli della mia giumenta sparsero le ceneri ancora calde del suo falò. Ma lui era fuggito. Il terrore della morte gli aveva messo le ali ai piedi. E io da Shahpur procedetti verso sud in linea retta. Non osai deviare per timore di farmi sfuggire la vendetta... che è un mio diritto. Da Shahpur costeggiai il Jhelum, pensando che mi avrebbe evitato il Deserto della Rechna. Quasi subito però, a Sahiwal, me ne allontanai sulla strada per Jhang, Samundri e Gugera, finché una notte la giumenta pomellata non si fermò contro la staccionata della ferrovia per Montgomery. Ero giunto a Okara, e la testa della donna abazai giaceva tra i miei piedi sulla sabbia. Da lì andai a Fazilka, e mi dissero che ero matto a portare dei cavalli sfiniti in quel luogo. La Voce era con me, e non ero matto ma solo stanco, perché non riuscivo a trovare Daoud Shah. Era scritto che non l'avrei trovato né a Rania né a Bahadurgarh, e arrivai a Delhi da ovest, ma non lo trovai nemmeno lì. Amico mio, ho visto parecchie cose strane nei miei vagabondaggi. Ho visto i diavoli scatenarsi attraverso la Rechna come si scatenano gli stalloni in primavera. Ho udito i djinn chiamarsi l'un l'altro da buche nella sabbia, e li ho visti passarmi davanti alla faccia. Non ci sono i diavoli, dicono i Sahib? Sono molto saggi, ma non sanno tutto sui diavoli o... sui cavalli. Oh, oh! Io dico, a te che ridi delle mie disgrazie, che ho visto i diavoli a mezzogiorno urlare e saltare sulle secche del Chenab. Se avevo paura? Fratello mio, quando il desiderio di un uomo è concentrato su un'unica cosa, egli non teme né Dio né l'Uomo né il Diavolo. Se la vendetta mi dovesse sfuggire, farei a pezzi le Porte del Paradiso con il calcio del fucile, o mi aprirei la via all'Inferno con il coltello, per reclamare a Coloro che vi governano il corpo di Daoud Shah. Quale amore è profondo come l'odio? Non parlare. Conosco i pensieri che hai nel cuore. Il bianco di quest'occhio è offuscato? Come batte il polso? Non c'è pazzia in me, ma solo la veemenza del desiderio che mi divora. Ascolta! A sud di Delhi non conoscevo affatto il paese. Quindi non posso dire dove andai, ma attraversai parecchie città. Sapevo soltanto che mi era stato imposto di andare a sud. Quando i cavalli non ce la facevano più a proseguire, mi

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gettavo a terra e aspettavo che facesse giorno. Il sonno mi aveva completamente abbandonato in questo viaggio, e quello fu un grave fardello. Conosci, fratello mio, il tormento dell'insonnia che non dà tregua... quando le ossa dolgono per mancanza di sonno e la pelle alle tempie tira per la stanchezza, e tuttavia... il sonno non viene... il sonno non viene? Dray wara yow dee! Dray wara yow dee! L'occhio del Sole, l'occhio della Luna e i miei stessi occhi inquieti... tutti e tre sono uno... tutti e tre sono uno! In una città di cui ho dimenticato il nome, la Voce mi chiamò tutta la notte. È successo dieci giorni fa. Mi ha ingannato di nuovo. Sono giunto qui da un luogo chiamato Hamirpur e, to', il destino ha voluto che ti incontrassi, per ricevere un po' di conforto e accrescere la nostra amicizia. Questo è un buon auspicio. Per la gioia di vederti in viso la stanchezza ha lasciato i miei piedi, e i patimenti del mio lungo viaggio sono dimenticati. Anche il mio cuore è sereno; poiché so che la fine è prossima. Può darsi che trovi Daoud Shah, in questa città, diretto a nord, poiché un montanaro torna sempre alle sue montagne quando si annuncia la primavera. E arriverà mai a rivederle, quelle montagne del nostro paese? Sicuramente lo raggiungerò! Sicuramente la mia vendetta è salva! Sicuramente Dio lo tiene nel palmo della Sua mano a fronte della mia richiesta. Non accadrà nulla di male a Daoud Shah, finché non l'avrò raggiunto; perché vorrei trovarlo vivo e in salute, per ucciderlo con più piacere. Una melograna è più dolce quando gli spicchi si staccano a fatica dalla scorza. Sia pure di giorno, che possa vederlo in faccia e rendere più completa la mia gioia. E quando avrò concluso la faccenda e il mio Onore sarà mondato, renderò grazie a Dio, il Reggitore della Bilancia della Legge, e dormirò. Una notte, un giorno intero e un'altra notte dormirò; e nessun sogno turberà il mio sonno. E adesso, fratello mio, la storia è finita. Ahi! Ahi! Alghias! Ahi! IN TEMPO DI PIENA Tweed said tae Till: "What gars ye rin sae still?" Till said tae Tweed: "Though ye rin wi speed An I rin slaw- Yet where ye droon ae man I droon twa". Non c'è modo di attraversare il fiume stanotte, Sahib. Dicono che è già stato travolto un carro tirato da buoi, e l'ekka entrato in acqua mezz'ora prima che tu arrivassi non ha ancora raggiunto l'altra sponda. Il Sahib ha fretta? Farò entrare in acqua l'elefante del guado per fargli vedere. Ohè, mahout, là sotto la tettoia! Porta fuori Ram Pershad, e se affronterà la corrente, bene. Un elefante non mente mai, Sahib, e Ram Pershad è separato dalla sua amica Kala Nag. Anche lui desidera raggiungere l'altra sponda. Bravo! Bravo! Mio Re! Arriva fino a metà, mahoutji, e vedi cosa dice il fiume. Bravo, Ram Pershad! Perla tra gli elefanti, entra nel fiume! Picchialo sulla testa, imbecille! Credi che il pungolo sia fatto solo per grattarti la tua grassa schiena, bastardo? Colpisci! Colpisci! Cosa sono i massi per te, Ram Pershad, mio Rustum, mia montagna di forza? Entra in acqua! Entra! No, Sahib! È inutile. Senti come barrisce. Sta dicendo a Kala Nag che non può raggiungerla. Guarda! Si è girato e scuote il capo. Non è stupido. Sa cosa può fare la Barhwi quando è in collera. Aha! Non sei davvero stupido, bimbo mio! Salaam, Ram Pershad, Bahadur! Portalo sotto gli alberi, mahout, e vedi che abbia le sue spezie. Bravo, primo tra coloro che han le zanne! Salaam al Sirkar e va' a dormire. Che si può fare? Il Sahib deve aspettare che il fiume scenda. Si ritirerà domattina, se Dio vuole, o al più tardi posdomani! Ora, perché il Sahib si arrabbia in quel modo? Io sono il suo servo. Davanti a Dio, non sono stato io a creare questo fiume! Che ci posso fare? La mia capanna e tutto ciò che contiene sono a disposizione del Sahib, e sta iniziando a piovere. Vieni via, mio Signore. Come potrà scendere il fiume, con le ingiurie che gli mandi? Un tempo gli inglesi non erano così. Il carro-di-fuoco li ha rammolliti. Un tempo, quando guidavano dietro i cavalli di giorno o di notte, non dicevano nulla se un fiume sbarrava loro la strada o se un carro si impantanava. Era la volontà di Dio... non come il carro-di-fuoco che va e va e va, e andrebbe anche con tutti i diavoli della terra attaccati alla coda. Il carro-di-fuoco ha guastato gli inglesi. Dopo tutto, cos'è un giorno perso o, per quel che contano, cosa sono due giorni? Il Sahib sta forse andando al suo matrimonio, che ha tanta fretta? Oh, oh, oh! Io sono un vecchio e vedo pochi Sahib. Perdonami se ho dimenticato il rispetto che si deve loro. Il Sahib non è arrabbiato, vero? Il suo matrimonio! Oh, oh, oh! La mente di un vecchio è come l'albero numah: frutti, germogli, fiori e foglie morte di tutte le stagioni passate fioriscono insieme. Il vecchio, il nuovo e ciò che è svanito dalla memoria: tutti e tre sono presenti! Siedi sulla lettiera, Sahib, e bevi del latte. O... forse il Sahib desidera bere il mio tabacco? È buono. È tabacco di Nuklao. Me lo manda mio figlio, che è di servizio laggiù. Bevi dunque, Sahib, se sai come maneggiare la canna. Il Sahib la prende come un musulmano. Ah, ah! Dove ha imparato? Il suo matrimonio! Oh, oh, oh! Il Sahib dice

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che non c'è proprio nessun matrimonio. Ora, è possibile che il Sahib dica la verità a me che sono soltanto un uomo di colore? C'è poco da meravigliarsi, allora, che abbia fretta. Per trent'anni ho battuto il gong a questo guado, ma non ho mai visto un Sahib con tanta fretta. Trent'anni, Sahib! È un bel po' di tempo. Trent'anni fa questo guado era sulla pista dei bunjara, e ho visto anche duemila manzi da soma traversarlo in una notte. Poi è arrivata la ferrovia, e il carro-di- fuoco fa buz-buz-buz, e cento lakh di maund scorrono su quel grande ponte. È, meraviglioso; ma il guado è solitario, ora che non ci sono più bunjara ad accamparsi sotto gli alberi. No, non prenderti il disturbo di guardare il cielo fuori. Pioverà fino all'alba. Ascolta! Stanotte i ciottoli parlano nel letto del fiume. Senti! A quest'ora ti starebbero scorticando le ossa, Sahib, se avessi tentato di traversare. Attenzione, chiudo la porta per non far entrare la pioggia. Ahi! Ahi! Ugh! Trent'anni sulle rive dei guado. Un vecchio sono e... dov'è l'olio per la lampada? Scusa ma, per via dell'età, non dormo più sodo di un cane; e ti ho sentito andare alla porta. Guarda allora, Sahib. Guarda e ascolta. Il fiume adesso misura un buon mezzo koss da una riva all'altra - puoi vederlo alla luce delle stelle - e ci sono tre metri d'acqua di profondità. Non si ritirerà per l'ira nei tuoi occhi, né si placherà per le maledizioni che gli mandi. Cos'è più potente, Sahib: la tua voce o quella del fiume? Rimproveralo... forse si vergognerà. Coricati e riprendi a dormire, Sahib. Conosco l'ira della Barhwi quando è piovuto sulle colline ai piedi dei monti. Una volta, in una notte dieci volte peggiore di questa, traversai a nuoto il fiume in piena; e col Favore di Dio fui strappato alla Morte quando ormai ero giunto alle sue porte. Posso raccontare la storia? È molto bella. Riempirò di nuovo la pipa. Accadde trent'anni fa, quando ero giovane e appena arrivato al guado. Ero forte allora, e i bunjara non avevano dubbi quando dicevo: "Il guado è sicuro". Una volta faticai una notte immerso fino alle spalle nell'acqua corrente, in mezzo a un centinaio di manzi impazziti per la paura, ma li portai sull'altra sponda dal primo all'ultimo, senza perdere uno zoccolo. Dopo di che andai a prendere gli uomini tremanti, ed essi mi diedero per ricompensa il capo migliore della mandria: il manzo con il campanaccio. Tanta era la considerazione in cui mi tenevano! Ma oggi, quando cade la pioggia e il fiume sale, striscio nella mia capanna e guaisco come un cane. Le forze mi hanno abbandonato. Sono un vecchio e il carro-di-fuoco ha reso il guado desolato. Un tempo mi chiamavano il Forzuto della Barhwi. Guarda il mio viso, Sahib: è quello di una scimmia. E il mio braccio è il braccio di una vecchia. Ma ti giuro, Sahib, che una donna ha amato questo viso e ha riposato nel cavo di questo braccio. Vent'anni fa, Sahib. Credimi, è la verità - vent'anni fa. Vieni alla porta e guarda sull'altra riva. Riesci a vedere un fuocherello, laggiù a valle? t il fuoco del tempio di Hanuman, nel villaggio di Pateera. A nord, sotto la grande stella, c'è il villaggio, ma è nascosto da un'ansa del fiume. Ti sembra lontano da raggiungere a nuoto, Sahib? Te la sentiresti di toglierti i vestiti e provare? Eppure io nuotai fino a Pateera non una, ma parecchie volte; e ci sono anche i mugger nel fiume. L'amore non conosce caste; altrimenti perché io, musulmano e figlio di un musulmano, avrei desiderato una donna indù - una vedova indù - la sorella dei capovillaggio di Pateera? Ma fu proprio così. I familiari del capo vennero in pellegrinaggio a Muttra quando Lei era appena sposata. Cerchioni d'argento ornavano le ruote del carro tirato da buoi, e tendine di seta celavano la sposa. Non mi affrettai a farli traversare, Sahib, perché il vento dischiuse le tendine ed io La vidi. Quando tornarono dal pellegrinaggio, il ragazzo che L'aveva sposata era morto e io La rividi nel carro tirato da buoi. Per Dio, questi indù sono degli imbecilli! Cosa mi importava se Lei era induista o giainista... spazzina, lebbrosa o sana? L'avrei sposata e Le avrei dato una casa in riva al guado. La Settima delle Nove Proibizioni dice che un uomo non può sposare un'idolatra? È vero? Sia gli sciiti che i sunniti dicono che un musulmano non può sposare un'idolatra? Il Sahib è forse un prete, che sa tante cose? Io gli dirò qualcosa che non sa. Non esistono sciiti né sunniti, divieti o idolatri in Amore; e le Nove Proibizioni sono soltanto nove piccole - scine che la fiamma dell'Amore brucia interamente. A dire il vero, L'avrei anche rapita; ma come potevo fare? Il capovillaggio avrebbe mandato i suoi uomini a rompermi la testa a bastonate. Io non ho... non avevo paura di cinque uomini; ma contro mezzo villaggio chi può spuntarla? Perciò, d'accordo con Lei, la notte ero solito andare al villaggio di Pateera, dove c'incontravamo nei campi, all'insaputa di tutti. Guarda, ora! Ero solito traversare qui, costeggiando il fiume sino alla curva dov'è il ponte della ferrovia; e da lì, attraverso il braccio di terra, raggiungevo Pateera. La luce del tempio mi faceva da guida quando la notte era buia. Quel tratto di giungla in prossimità del fiume pullula di serpenti - piccoli karait che dormono sulla sabbia - e inoltre, se i Suoi fratelli mi avessero trovato nei campi, mi avrebbero ucciso. Ma nessuno sapeva... nessuno all'infuori di Lei e di me; e la sabbia portata dal letto del fiume copriva le mie impronte. Nei mesi caldi era facile andare dal guado a Pateera, e anche durante le prime Piogge, quando il fiume saliva lento, non era difficile. Opponevo la forza del mio corpo a quella dei fiume, e la notte mangiavo qui nella mia capanna e bevevo laggiù, a Pateera. Lei mi aveva detto che un certo Hirnam Singh, un ladro che viveva in un villaggio più a monte sulla stessa riva, l'aveva chiesta in sposa. Tutti i Sikh sono cani, e nella loro follia hanno rifiutato quel gran dono di Dio che è il tabacco. Io ero pronto a uccidere Hirnam Singh, se mai L'avesse avvicinata; tanto più che La ricattava dicendole di sapere che aveva un amante e minacciandola di spiarla e di fare il nome al capovillaggio se non fosse fuggita con lui. Che esseri spregevoli sono questi Sikh! Saputo ciò, presi l'abitudine di tenere un coltellino affilato nella cintura, e se qualcuno mi avesse fermato avrebbe fatto una brutta fine. Non sapevo che viso avesse Hirnam Singh, ma avrei ucciso chiunque si fosse frapposto tra Lei e me.

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Una notte, era iniziata da poco la stagione delle piogge, decisi di compiere la traversata fino a Pateera benché il fiume fosse in collera. Ora la natura della Barhwi è questa, Sahib. In un attimo viene giù dalle montagne un muro alto un metro; e l'ho vista crescere, nel tempo che passa tra l'accensione di un fuoco e la cottura di una focaccia, dalle dimensioni di un rigagnolo a quelle di una sorella dello Jumma. Quando lasciai questa riva c'era un banco di sabbia mezzo miglio più a valle, e mi affrettai a raggiungerlo per riprendere fiato prima di proseguire; perché sentivo le mani del fiume pesarmi alle caviglie. Eppure, cosa non farebbe un giovane per amore? La luce delle stelle era fioca e a metà strada verso il banco di sabbia un ramo fetido di deodara mi sfiorò la bocca mentre nuotavo. Era segno che sulle colline ai piedi dei monti e al di là pioveva a dirotto, perché la deodara è un albero robusto, e difficilmente si sradica dai fianchi delle colline. Così mi affrettai, aiutato dalla corrente; ma prima che avessi toccato il banco di sabbia, il polso del fiume batteva, per così dire, dentro e intorno a me, il banco era scomparso e io cavalcavo la cresta di un'onda che correva alta da riva a riva. È mai successo al Sahib di venire gettato in tanta acqua che lotta e impedisce a un uomo l'uso degli arti? A me, immerso fino al collo, sembrava non ci fosse altro che acqua sino alla fine del mondo, e il fiume mi trascinava insieme ai detriti. Un uomo è ben poca cosa nel ventre di un fiume in piena. E questa piena, benché allora non lo sapessi, era la Grande Piena di cui la gente ancora parla. Il fegato mi si era dissolto, e giacevo sulla schiena come un tronco, nel terrore della Morte. C'erano creature vive nell'acqua, che urlavano e gemevano penosamente: animali della foresta e bestiame, e una volta udii anche la voce di un uomo che invocava aiuto. Ma venne la pioggia e sferzò l'acqua rendendola bianca, e non udii più nulla tranne il rombo dei massi di sotto e il rombo della pioggia di sopra. Così, mentre lottavo per prendere fiato, venni trascinato vorticosamente a valle. E duro morire quando si è giovani. Riesce da qui, il Sahib, a vedere il ponte della ferrovia? Guarda, ci sono le luci del postale diretto a Peshawar! Adesso il ponte è alto sei metri sul fiume, ma quella notte l'acqua rombava contro i tralicci, e contro i tralicci venni gettato a piedi in avanti. Per fortuna c'era una gran quantità di detriti ammassati lì e sui piloni, e non mi feci molto male. Però il fiume mi opprimeva come un uomo forte ne opprime uno più debole. A fatica riuscii ad afferrare un traliccio e a issarmi sulla trave superiore. Sahib, l'acqua spumeggiava alta più di un palmo sulle rotaie! Giudica quindi che razza di piena deve essere stata. Non potevo sentire. Non potevo vedere. Potevo solo stare disteso sulla trave e boccheggiare. Dopo un po' smise di piovere e spuntarono in cielo alcune stelle slavate; alla loro luce vidi che la massa di acqua scura si estendeva a perdita d'occhio ed era salita sulle rotaie. C'erano animali morti tra i detriti accumulati contro i piloni, e altri incastrati con il collo nei tralicci, e altri non ancora annegati che lottavano per trovare un punto di appoggio sui tralicci... bufali, vacche, maiali selvatici, uno o due cervi e innumerevoli serpenti e sciacalli. I loro corpi formavano una massa scura sul lato sinistro del ponte; ma i più piccoli erano spinti a forza attraverso i tralicci e trascinati rapidamente a valle. Poi le stelle svanirono e la pioggia riprese a cadere; il fiume salì ancora e sentii che il ponte iniziava a muoversi sotto di me come un uomo si muove nel sonno prima di svegliarsi. Ma non ebbi paura, Sahib. Ti giuro che non ebbi paura, benché fossi completamente sfinito. Sapevo che non sarei morto prima di rivederla ancora una volta. Però avevo un gran freddo e sentivo che il ponte stava per cedere. Ci fu un tremito nell'acqua, come il tremito che precede l'arrivo di una grande onda, e il ponte levò il fianco all'impeto di quell'assalto, così che il traliccio destro sprofondò in acqua mentre quello sinistro si levava in aria. Sulla mia barba, Sahib, sto dicendo la verità di Dio! Come una barca di Mirzapur sbanda al vento, così il Ponte sulla Barhwi si girò. Così e in nessun altro modo. Io scivolai dalla trave nell'acqua fonda, mentre dietro di me arrivava l'onda del fiume in collera. Udii la sua voce e il gemito della parte centrale del ponte che si staccava dai piloni e sprofondava; poi non capii più nulla finché non riemersi nel mezzo della grande piena. Allungai una mano per nuotare e sfiorai i capelli intrecciati di una testa umana. L'uomo era morto, perché nessuno all'infuori di me, il Forzuto della Barhwi, avrebbe potuto sopravvivere in quella fiumana. Era morto da almeno due giorni perché galleggiava girando su se stesso, e mi fu di aiuto. Allora risi, sapendo per certo che L'avrei rivista e non mi sarebbe accaduto niente di male; e intrecciai le dita ai capelli dell'uomo perché ero esausto, e insieme scendemmo la corrente: lui morto e io vivo. Senza quell'aiuto sarei andato a fondo, poiché il freddo mi era penetrato fino al midollo e i muscoli irrigiditi mi pesavano sulle ossa. Ma non provava paura colui che aveva conosciuto forza estrema del fiume; e lo lasciai andare dove voleva. Infine venimmo risucchiati da una corrente secondaria che portava verso la riva destra, e mi diedi da fare con i piedi per sfruttarla. Il cadavere però girava eccessivamente nel vortice, tanto che temetti fosse stato colpito da un ramo e affondasse. Poi le cime dei tamarischi mi sfiorarono le ginocchia, e capii che stavamo galleggiando sopra i campi allagati; allora allungai i piedi e toccai il fondo - la superficie di un campo - dopo di che il cadavere si fermò su una collinetta sotto un fico e io mi tirai fuori dall'acqua esultando. Sa il Sahib dove mi aveva portato il risucchio della piena? Sulla collinetta che segna il confine orientale dei villaggio di Pateera! Proprio lì. Tirai in secco il cadavere per il servizio che mi aveva reso e perché non sapevo se ne avrei avuto ancora bisogno. Poi mi recai, ululando tre volte come uno sciacallo, al luogo dell'appuntamento, in prossimità della stalla dell'abitazione del capovillaggio. Il mio Amore era già lì, in lacrime. Temeva che la piena avesse spazzato via la mia casa al Guado della Barhwi. Quando sopraggiunsi senza far rumore, camminando nell'acqua che mi arrivava alle caviglie, Lei mi credette un fantasma e fece per fuggire, ma io La cinsi con le braccia e... non ero certo un fantasma allora, anche se ora sono un vecchio. Oh, oh! Grano secco, a dire il vero. Granoturco senza succo. Oh, oh! Le raccontai del crollo del Ponte sulla Barhwi, e Lei disse che ero il più grande dei mortali, perché nessuno può attraversare la Barbwi in piena, e avevo visto quello che nessuno aveva mai visto prima. Mano nella mano andammo

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fino alla collinetta dov'era il morto, e Le mostrai con quale aiuto avevo compiuto la traversata. Lei guardò il corpo sotto le stelle, perché l'ultima parte della notte era chiara, e si nascose il viso tra le mani esclamando: "È il corpo di Hirnam Singh!". Io dissi: "Il porco è stato più utile da morto che da vivo, mia Amata", e Lei disse: "Certo, perché ha salvato la vita che ho più cara al mondo per il mio amore. Ciò nonostante non può restare qui, perché mi tirerebbe addosso la vergogna". Il corpo era a meno di un tiro di schioppo dalla porta di casa Sua. Allora dissi, facendo rotolare il corpo con le mie mani: "Dio ha deciso tra noi due, Hirnam Singh, che il tuo sangue non ricadesse sul mio capo. Ora, se ti ho fatto un torto evitandoti il rogo, stabiliscilo tu insieme ai corvi". Quindi lo spinsi alla deriva dei campi allagati e venne portato al largo, con la sua folta barba che continuava a muoversi come quella di un prete sotto il pulpito. E non vidi più Hirnam Singh. Prima che facesse giorno ci separammo e mi diressi verso il tratto di giungla che non era allagato. Quando fu completamente chiaro mi resi conto di ciò che avevo fatto nell'oscurità, e le ossa mi si sciolsero nella carne, perché c'erano due koss di acqua impetuosa tra il villaggio di Pateera e gli alberi sull'altra riva; e in mezzo i piloni del Ponte sulla Barhwi spuntavano come denti rotti nella bocca di un vecchio. Sulle acque non c'era segno di vita: né uccelli né barche, ma solo un'infinità di creature annegate - manzi, cavalli e uomini - e il fiume era più rosso del sangue per via dell'argilla proveniente dalle colline. Non avevo mai visto una piena simile - né altre ne ho viste da allora - e, O Sahib, nessun essere vivente aveva fatto ciò che avevo fatto io. Non c'era alcuna possibilità di tornare quel giorno. Nemmeno per tutte le terre del capovillaggio mi sarei avventurato una seconda volta senza lo scudo dell'oscurità che mi nascondesse il pericolo. Risalii il fiume per un koss fino alla casa di un fabbro, dove dissi che la piena mi aveva strappato dalla mia capanna e mi venne dato del cibo. Sette giorni rimasi dal fabbro, finché non arrivò una barca e potei tornarmene a casa. Non era rimasta traccia di muri, tetto o pavimento, nient'altro che una macchia di fango limaccioso. Giudica quindi, Sahib, quanto deve essere salito il fiume. Era scritto che non sarei morto nella mia casa, nel cuore della Barhwi o nel crollo dei Ponte sulla Barhwi, perché Dio mandò Hirnam Singh, morto da due giorni, benché non sappia come, a farmi da boa e da appoggio. Hirnam Singh è all'Inferno da vent'anni, e il pensiero di quella notte dev'essere il fiore del suo tormento. Ascolta, Sahib! Il fiume ha cambiato voce. Sta andando a dormire prima dell'alba, alla quale manca ancora un'ora. Con la luce scenderà di nuovo. Come faccio a saperlo? Sono forse stato qui trent'anni senza imparare a conoscere la voce del fiume come un padre conosce la voce dei proprio figlio? Il suo tono si fa meno collerico ad ogni istante. Giuro che non ci sarà alcun pericolo per un'ora o forse due. Per il resto del mattino non so che dire. Svelto, Sahib! Chiamerò Ram Pershad, e questa volta non tornerà indietro. L'incerata è legata strettamente su tutto il bagaglio? Ohé, mahout dalla testa di fango, l'elefante per il Sahib, e di' a quelli sull'altra riva che non ci saranno traversate dopo l'alba. Denaro? No, Sahib. Non sono di quel tipo. No, neanche per comprare dolci ai bambini. La mia casa, lo vedi, è vuota, e io sono un vecchio. Dutt, Ram Pershad! Dutt! Dutt! Dutt! Che la fortuna ti accompagni, Sahib. IL RISCIÒ FANTASMA Che i brutti sogni non turbino il mio riposo, Né mi molestino le Potenze delle Tenebre. Inno della sera Uno dei pochi vantaggi che l'India ha rispetto all'Inghilterra è la grande facilità nel fare conoscenza. Dopo cinque anni di servizio un uomo conosce direttamente o indirettamente i due o trecento funzionari della sua provincia, tutte le mense di dieci o dodici reggimenti e batterie, e un migliaio e mezzo di altre persone che non appartengono alla casta ufficiale. In dieci anni le sue conoscenze sono raddoppiate e dopo venti arriva a conoscere, personalmente o di fama, ogni inglese dell'Impero e può viaggiare in lungo e in largo senza pagare i conti d'albergo. I giramondo che esigono l'ospitalità come un diritto hanno, per quanto riesca a ricordare, attenuato questa disponibilità; tuttavia oggi, se uno appartiene a una cerchia ristretta di individui e non è un orso né una pecora nera, tutte le porte gli sono aperte e il nostro piccolo mondo è assai accogliente e ospitale. Una quindicina di anni or sono Rickett di Kamartha fu ospite di Polder di Kumaon. Intendeva fermarsi due notti, ma fu assalito dalla febbre reumatica e per sei settimane mise a soqquadro la casa di Polder, gli interruppe il lavoro e per poco non morì nella sua camera da letto. Oggi Polder si comporta come se avesse un obbligo eterno nei confronti di Rickett, e ogni anno manda una scatola di giocattoli e regali ai piccoli Rickett. Avviene così dappertutto. Gli uomini che non si preoccupano di nascondervi la loro opinione secondo cui siete un asino patentato, e le donne che vi danneggiano la reputazione e fraintendono i passatempi di vostra moglie, si faranno in quattro per aiutarvi se vi ammalate o vi trovate in guai seri. Il dottor Heatherlegh, oltre alla normale attività, conduceva un ospedale privato - i suoi amici lo chiamavano un insieme di box per incurabili, ma in realtà era una specie di capannone per la riparazione di materiale umano danneggiato dalle intemperie. Il clima in India è spesso afoso, e poiché il numero degli sgobboni è sempre lo stesso e

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l'unica libertà concessa è quella di fare degli straordinari senza ricevere nemmeno un ringraziamento, gli uomini di quando in quando crollano e diventano confusi come le metafore di questo periodo. Heatherlegh è il miglior medico che ci sia, e l'invariabile rimedio che prescrive a tutti i suoi pazienti è: "Stai buono, vai piano e mantieni la calma". Dice che l'eccesso di lavoro uccide più uomini di quanto l'importanza di questo mondo non giustifichi; e sostiene che fu l'eccesso di lavoro a uccidere Pansay, che morì tra le sue braccia circa tre anni fa. Naturalmente ha il diritto di parlare con autorità, e ride della mia teoria secondo cui c'era un'incrinatura nella testa di Pansay, attraverso cui penetrò un soffio di Mondo delle Tenebre e lo condusse alla morte. "Pansay uscì di senno", sostiene Heatherlegh, "sotto lo stimolo di una lunga licenza in patria. Può darsi che si sia comportato da mascalzone con Mrs. Keith-Wessington, oppure no. La mia opinione è che il lavoro alla colonia di Katabundi lo tenne costantemente occupato, ed egli prese a rimuginare e a dare troppa importanza a un comunissimo flirt avuto durante una traversata in piroscafo. Certo, era fidanzato con Miss Mannering e fu lei a rompere il fidanzamento. Poi lui si buscó la febbre e nacquero tutte quelle sciocchezze sui fantasmi. Fu l'eccesso di lavoro a causare la sua malattia, ad alimentarla e ad ucciderlo, povero diavolo. La sua fine va messa in conto a un sistema che impiega un uomo solo per sbrigare il lavoro di due e mezzo". Io questo non lo credo. Talvolta, quando Heatherlegh era in giro per delle visite e io mi trovavo a tiro, mi è capitato di vegliare Pansay. Il poveretto mi affliggeva descrivendomi, con voce bassa e monotona, la processione che sfilava incessantemente ai piedi del suo letto. Aveva la facilità d'espressione di un malato. Quando si riprese, gli suggerii di mettere per iscritto l'intera storia dall'inizio alla fine, sapendo che l'inchiostro lo avrebbe aiutato a sgravarsi la mente. Mentre scriveva aveva la febbre alta, e lo stile che adottò, degno d'una rivista scandalistica, non valse a calmarlo. Due mesi dopo venne dichiarato abile al lavoro; ma, benché urgesse la sua presenza per aiutare una commissione carente d'uomini a colmare un disavanzo, egli preferì morire, giurando fino all'ultimo di essere tormentato dagli incubi. Io ebbi il suo manoscritto prima che morisse, e questa è la sua versione dei fatti, datata 1885, così come la scrisse lui: "Il mio medico dice che ho bisogno di riposarmi e di cambiare aria. Non è improbabile che tra breve io possa avere entrambe le cose: un riposo che né il messaggero in giubba rossa né il cannone di mezzogiorno potranno turbare, e un cambiamento d'aria di gran lunga superiore a quello che potrebbe garantirmi un piroscafo diretto in patria. Nel frattempo sono deciso a restare dove mi trovo e, infischiandomene degli ordini del mio medico, a confidarmi con il mondo intero. Apprenderete da soli la natura esatta del mio male, e parimenti giudicherete se mai, su questa stanca terra, uomo nato da donna sia stato tormentato come me. Poiché parlo come farebbe un condannato a morte con il cappio al collo, la mia storia, per quanto pazzesca e assolutamente inverosimile possa sembrare, merita almeno attenzione. Che qualcuno vi creda lo escludo categoricamente. Due mesi fa avrei preso per pazzo o per ubriaco chiunque avesse osato raccontarmi una cosa del genere. Due mesi fa ero l'uomo più felice dell'India. Oggi, da Peshawar fino al mare, non c'è nessuno più infelice di me. Il mio medico ed io siamo i soli a saperlo. La sua spiegazione è che il mio cervello, la mia digestione e la mia vista siano leggermente danneggiati; ciò darebbe origine alle mie frequenti e persistenti 'allucinazioni'. Proprio allucinazioni! Io dico che è uno sciocco, ma lui continua ad assistermi con lo stesso sorriso instancabile, le stesse blande maniere professionali, le stesse fedine rosse ben curate, che inizio a sospettare di essere un paziente ingrato e scorbutico. Ma giudicherete da soli. Tre anni or sono, di ritorno da una lunga licenza, ebbi la fortuna - e la grande sfortuna - di fare il viaggio da Gravesend a Bombay in compagnia di una certa Agnes Keith-Wessington, moglie di un ufficiale di stanza a Bombay. Non starò a descrivervi il tipo di donna, ché a voi certo non interessa. Vi basti sapere che, prima della fine del viaggio, eravamo perdutamente e follemente innamorati l'uno dell'altra. Dio solo sa come oggi possa ammetterlo senza un briciolo di vanità. In affari di questo genere c'è sempre uno che dà e uno che riceve. Sin dal primo giorno della nostra infausta relazione, io mi resi conto che la passione di Agnes era un sentimento più forte, più dominante e - se mi è concesso il termine - più puro del mio. Non so se anche lei se ne sia accorta allora. In seguito divenne tristemente chiaro ad entrambi. Arrivati a Bombay in primavera, ce ne andammo ognuno per la propria strada, senza incontrarci più per i tre o quattro mesi successivi, finché una mia licenza e il suo amore ci portarono entrambi a Simla. Lì trascorremmo insieme la stagione; e lì il mio fuoco di paglia bruciò fino ad estinguersi miseramente col finire dell'anno. Non cerco scuse. Non faccio un'autodifesa. Mrs. Wessington aveva rinunciato a molto per amor mio, ed era pronta a rinunciare a tutto. Nell'agosto del 1882 apprese dalle mie labbra che ero stanco della sua presenza, stufo della sua compagnia e nauseato dal suono della sua voce. Novantanove donne su cento si sarebbero stancate di me come io di loro; di queste, settantacinque si sarebbero prontamente vendicate amoreggiando senza ritegno con altri uomini. Mrs. Wessington era la centesima. Su di lei non ebbero il minimo effetto né la mia aperta avversione, né le sgarberie con cui ravvivavo i nostri incontri. "Jack, tesoro!", era il suo invariabile ed eterno lamento. "Sono certa che è tutto un errore, un terribile errore, e un giorno saremo di nuovo buoni amici. Ti prego perdonami, Jack caro". Ero io il colpevole, e lo sapevo. Questa consapevolezza trasformò la mia pietà in sopportazione passiva e, infine, in odio cieco: lo stesso istinto, suppongo, che spinge un uomo a calpestare ferocemente il ragno che ha ucciso solo a metà. E con quest'odio nel petto finì la stagione del 1882.

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L'anno dopo ci incontrammo di nuovo a Simla - lei con la sua faccia monotona e i suoi timidi tentativi di riconciliazione, io con un'avversione in ogni fibra del corpo. Più di una volta non potei evitare di incontrarla da solo; e in ogni occasione le sue parole furono esattamente le stesse. Ancora il lamento irragionevole per ciò che era tutto un 'errore', e ancora la speranza di ritornare 'finalmente amici'. Se mi fossi curato di guardare, avrei potuto vedere che era solo quella speranza a tenerla in vita. Diventava ogni mese più pallida ed emaciata. Converrete, almeno, che tale comportamento avrebbe spinto chiunque alla disperazione. Era fuori luogo, puerile, indegno di una donna. Io sostengo che gran parte della colpa fosse sua. Eppure, di quando in quando, nelle oscure e febbricitanti veglie notturne, mi son trovato a pensare che forse avrei dovuto essere più gentile con lei. Ma questa sì che è un'illusione. Non avrei potuto continuare a fingere di amarla se non l'amavo, no? Sarebbe stato disonesto nei riguardi di entrambi. L'anno scorso ci incontrammo di nuovo, nelle stesse circostanze di prima. Sempre quelle sue noiose suppliche, e le stesse risposte secche dalle mie labbra. Volevo almeno farle capire quanto fossero fuori luogo e senza speranza i suoi tentativi di riallacciare la vecchia relazione. Con il lento procedere della stagione i nostri incontri si diradarono - cioè, per lei fu sempre più difficile vedermi, poiché avevo altri e più stimolanti interessi a cui badare. Quando ci ripenso con calma nella mia stanza di malato, la stagione del 1884 mi appare come un incubo confuso nel quale luci ed ombre si mescolano in maniera bizzarra: il mio corteggiamento della piccola Kitty Mannering; le mie speranze, i miei dubbi e le mie paure; le nostre lunghe cavalcate insieme; la mia trepidante dichiarazione d'affetto; la sua risposta; e, di quando in quando, l'apparizione di un volto pallido che passava nel risciò dalle livree bianche e nere che un tempo aspettavo con tanto ardore; il cenno della mano guantata di Mrs. Wessington; e quando m'incontrava da solo (cosa che avveniva di rado), la fastidiosa tiritera delle sue suppliche. Amavo Kitty Mannering; l'amavo onestamente, profondamente, e con il mio amore per lei cresceva l'odio per Agnes. In agosto Kitty ed io ci fidanzammo. Il giorno dopo incontrai quei maledetti jkampanis in livrea da "gazza" alle spalle di Jakko e, mosso da un fugace sentimento di pietà, mi fermai per raccontare tutto a Mrs. Wessington. Lei ne era già al corrente. "Così ti sei fidanzato, Jack caro". Poi, senza interrompersi un istante: "Sono certa che è tutto un errore ...un terribile errore. Un giorno saremo di nuovo buoni amici, Jack, come siamo sempre stati". La mia risposta avrebbe fatto trasalire un uomo. La donna morente che avevo di fronte ne fu colpita come da una frustata. "Ti prego, perdonami, Jack. Non volevo farti arrabbiare; ma è la verità, è la verità!". Poi Mrs. Wessington crollò definitivamente. Io me ne andai lasciandole finire il giro in pace, ed ebbi la sensazione, che durò solo pochi attimi, di essermi comportato da perfetto mascalzone. Quando mi girai, vidi che aveva fatto voltare il risciò, con l'intenzione, suppongo, di raggiungermi. La scena e l'ambiente circostante mi sono rimasti impressi nella memoria come una fotografia. Il cielo lavato dalla pioggia (eravamo al termine della stagione piovosa), i pini fradici e scuri, la strada fangosa e i neri dirupi erosi dalla polvere formavano uno sfondo cupo contro cui le livree bianche e nere dei jhampanis, il risciò dai pannelli gialli e il biondo capo reclino di Mrs. Wessington si stagliavano nitidi. Lei stringeva il fazzoletto nella mano sinistra e si era abbandonata esausta sui cuscini del risciò. Spinsi il cavallo su un sentiero laterale nei pressi del serbatoio di Sanjaolie e mi diedi letteralmente alla fuga. Una volta mi parve di udire un debole richiamo: "Jack!". Ma può essere stata soltanto la mia immaginazione. Ad ogni modo non mi fermai per accertarmene. Dieci minuti dopo m'imbattei in Kitty a cavallo e, deliziato da una lunga passeggiata in sua compagnia, scordai del tutto l'incontro. Una settimana dopo Mrs. Wessington morì, liberandomi dal peso indescrivibile che la sua esistenza rappresentava per la mia. Ritornai in pianura completamente felice. Nel giro di tre mesi mi ero dimenticato del tutto di lei; soltanto a volte la scoperta di qualche sua vecchia lettera ridestava il ricordo sgradevole della nostra relazione di un tempo. Per gennaio avevo riportato alla luce, dal disordine delle mie cose, quanto rimaneva della nostra corrispondenza e l'avevo bruciato. All'inizio di aprile di questo anno, 1885, ero di nuovo a Simla - una Simla semideserta -, immerso in conversazioni e passeggiate amorose con Kitty. Decidemmo di sposarci alla fine di giugno. Capirete dunque che, amando Kitty come l'amavo, non esagero quando dico che in quel periodo ero l'uomo più felice dell'India. Senza quasi che me ne rendessi conto, passarono due settimane di sogno. Poi, richiamato al rispetto di ciò che si conviene ai mortali in circostanze come le nostre, feci notare a Kitty che un anello di fidanzamento sarebbe stato il segno evidente della sua condizione di fanciulla promessa, per cui doveva venire subito da Hamilton a sceglierne uno. Fino a quel momento, vi do la mia parola, ci eravamo completamente dimenticati di una questione così banale. Perciò il 15 aprile 1885 andammo da Hamilton. Si tenga presente che allora - checché ne dica il mio medico - godevo di ottima salute, avevo la mente equilibrata e lo spirito assolutamente sereno. Kitty ed io entrammo insieme nel negozio di Hamilton; e lì, senza badare agli altri clienti, scelsi l'anello per Kitty in presenza del commesso divertito. L'anello era uno zaffiro con due diamanti. Poi scendemmo a cavallo il pendio che conduce al ponte di Combermere e al locale di Peliti. Mentre il mio cavallo australiano saggiava cautamente il terreno di roccia friabile, e Kitty rideva e chiacchierava al mio fianco; mentre tutta Simla - vale a dire quelli che erano già arrivati dalla pianura - si trovava riunita nella sala di lettura e sulla veranda di Peliti, io ebbi l'impressione che qualcuno, apparentemente molto lontano, mi chiamasse per nome. Mi pareva di aver già udito la voce, ma sul momento non riuscii a stabilire né dove né quando. Nel breve lasso di tempo che ci volle a coprire la distanza tra il negozio di Hamilton e le prime tavole del ponte di Combermere, mi venne in mente una mezza dozzina di persone che avrebbero potuto comportarsi in maniera così sconveniente, e finii per convincermi che dovevano essermi fischiate le orecchie. Proprio di fronte al locale di Peliti lo sguardo mi cadde su quattro jhampanis in livrea da 'gazza' che trainavano un povero risciò del bazar a pannelli gialli. In un attimo riandai con la mente alla passata stagione e a Mrs. Wessington con un senso di irritazione e disgusto. Non

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bastava che la donna fosse morta e sepolta, ci volevano anche i suoi servi in livrea bianca e nera a guastarmi la felicità di quella giornata! Pensai di recarmi da chiunque li avesse ora al suo servizio e di chiedergli, come favore personale, di cambiare la livrea dei jhampanis. Ero disposto ad assumerli io stesso e, se necessario, a comprare direttamente da loro le giacche. È impossibile descrivere l'ondata di sgradevoli ricordi che evocava la loro presenza. "Kitty", esclamai, "sono ricomparsi i jhampanis della povera Mrs. Wessington! Mi domando di chi siano ora". Kitty aveva conosciuto appena Mrs. Wessington durante le passate stagioni, e in seguito si era interessata costantemente alla poveretta. "Cosa? Dove?", chiese. "Non li vedo da nessuna parte". Proprio mentre parlava, il suo cavallo, facendo uno scarto per evitare un mulo carico, si gettò davanti al risciò che avanzava. Ebbi appena il tempo di lanciarle una parola di avvertimento che, con mio indescrivibile orrore, cavallo e cavaliere passarono attraverso uomini e vettura come se fossero stati di aria. "Cosa c'è?", gridò Kitty. "Cos'hai da gridare in maniera così assurda, Jack? Anche se sono fidanzata, non voglio che il mondo intero lo sappia. C'era un sacco di spazio tra il mulo e la veranda; e se credi che non sappia andare a cavallo... guarda!". E la volitiva Kitty, la graziosa testolina al vento, si lanciò al piccolo galoppo in direzione del palco dell'orchestra, certa, come mi disse lei stessa in seguito, che l'avrei seguita. Cosa c'era? Proprio niente. O io ero pazzo o ubriaco, oppure Simla era infestata dagli spiriti. Rimisi al passo il mio cavallino inquieto e mi voltai. Anche il risciò aveva voltato e adesso mi stava proprio di fronte, accanto al parapetto di sinistra del ponte di Combermere. "Jack! Jack, tesoro!" (Questa volta non potei sbagliarmi sulle parole. Mi risuonarono nel cervello come se me le avessero urlate all'orecchio). "È un terribile errore, ne sono certa. Ti prego, Jack, perdonami e ritorniamo amici come prima". Il mantice del risciò era ricaduto indietro e all'interno, quant'è vero che di giorno mi auguro e invoco la morte che di notte mi spaventa, sedeva Mrs. Wessington, il fazzoletto in mano e il biondo capo chino sul petto. Quanto tempo rimasi immobile a fissarla non saprei. Alla fine venne a scuotermi il mio sais, che afferrò la briglia dell'australiano e mi chiese se mi sentissi male. Dall'orrido al banale il passo è breve. Smontai alla meno peggio dal cavallo e, semisvenuto, mi precipitai nel locale di Peliti per farmi un bicchiere di cherry-brandy. All'interno c'erano due o tre coppie sedute ai tavolini che discutevano il pettegolezzo del giorno. In quella circostanza le loro banalità mi confortarono più di quanto non avrebbero potuto fare le consolazioni della religione. Subito mi buttai a capofitto nella conversazione, chiacchierando, ridendo e scherzando con una faccia (la vidi di sfuggita in uno specchio) pallida e tirata come quella di un cadavere. Tre o quattro uomini si accorsero del mio stato e, attribuendolo evidentemente ai troppi cicchetti, cercarono caritatevolmente di allontanarmi dalla combriccola. Io mi opposi fermamente: avevo bisogno della compagnia dei miei simili, così come un bambino fa irruzione nella sala dei convitati perché ha paura del buio. Dovevo esser lì a parlare da una decina di minuti, benché a me sembrasse un'eternità, quando udii la limpida voce di Kitty, all'esterno, che domandava di me. Un attimo dopo entrava nel locale, pronta a rimproverarmi di esser venuto meno così vistosamente ai miei doveri. Qualcosa nel mio viso la trattenne. "Ebbene, Jack", esclamò, "cos'hai fatto? Cos'è successo? Ti senti male?". Spinto così a mentire, risposi che avevo preso troppo sole. Erano quasi le cinque di un nuvoloso pomeriggio di aprile, e il sole non si era visto per tutto il giorno. Mi accorsi dell'errore non appena ebbi pronunciato quelle parole; cercai di rimediare; fallii miseramente e seguii Kitty, rossa di rabbia, fuori del locale, accompagnato dai sorrisetti dei miei amici. Mi scusai in qualche modo (non ricordo quale) chiamando in causa la debolezza e mi avviai al piccolo galoppo verso il mio albergo, lasciando Kitty a terminare la cavalcata da sola. Nella mia stanza mi sedetti e cercai di esaminare con calma la faccenda. Eccomi lì, Theobald Jack Pansay, un istruito funzionario del Bengala nell'anno di grazia 1885, presumibilmente sano di mente, sicuramente sano di corpo, costretto ad abbandonare la mia fidanzata perché terrorizzato dall'apparizione di una donna morta e sepolta otto mesi prima. Questi erano fatti di fronte ai quali non potevo chiudere gli occhi. Nulla era più lontano dalla mia mente, quando ero uscito con Kitty dal negozio di Hamilton, del ricordo di Mrs. Wessington. Nulla era più banale del tratto di muro di fronte al locale di Peliti. Era giorno pieno. La strada era gremita di gente; eppure lì, a dispetto di qualsiasi legge delle probabilità e in aperta violazione di qualsiasi ordine naturale, mi era apparso un volto dall'oltretomba. Il cavallo arabo di Kitty era passato attraverso il risciò, facendo così svanire la mia prima speranza: che una donna incredibilmente simile a Mrs. Wessington avesse noleggiato la vettura e i coolie con la vecchia livrea. Cento e più volte girai col pensiero su questa ruota del supplizio, ed ognuna finii per arrendermi, confuso e disperato. La voce era inspiegabile quanto l'apparizione. Da principio mi era venuta la folle idea di confidare tutto a Kitty e di pregarla che mi sposasse subito, per sfidare tra le sue braccia la spettrale passeggera del risciò. "Dopo tutto", ragionai, la presenza del risciò è sufficiente a provare l'esistenza di un'illusione spettrale. Si possono vedere fantasmi di uomini e di donne, ma non certo di coolie e calessi. Tutto ciò è assurdo. Pensa un po', vedere il fantasma di un montanaro dell'Himalaya!". Il mattino dopo mandai a Kitty un biglietto di scuse, supplicandola di non tener conto del mio strano comportamento del pomeriggio precedente. La mia dea era ancora molto irritata e dovetti scusarmi di persona. Le spiegai, con un'eloquenza che nasceva da una notte intera passata a riflettere su una menzogna, che ero stato colto da un'improvvisa palpitazione cardiaca dovuta alla cattiva digestione. Questa soluzione, eminentemente pratica, sortì il suo effetto e quel pomeriggio Kitty ed io uscimmo a cavallo, divisi dall'ombra della mia prima bugia. Nulla le avrebbe fatto più piacere di una cavalcata intorno a Jakko. Coi nervi ancora scossi dalla notte precedente, mi opposi debolmente a quell'idea, proponendo invece la collina dell'osservatorio, Jutogh, la strada di

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Boileaugunge... qualsiasi altro luogo piuttosto che il giro di Jakko. Kitty si mostrò stizzita e un poco offesa; per cui cedetti, temendo di provocare altri malintesi, e insieme ci avviammo verso Chota Simla. Facemmo gran parte della strada al passo e, com'era nostra abitudine, andammo al piccolo galoppo da un miglio o due sotto il convento fino al tratto pianeggiante presso il serbatoio di Sanjaolie. Quei disgraziati dei cavalli sembravano volare e, a mano a mano che ci avvicinavamo alla cima della salita, il mio cuore batteva sempre più in fretta. Per tutto il pomeriggio non avevo fatto altro che pensare a Mrs. Wessington, e ogni centimetro della strada di Jakko testimoniava le nostre passeggiate e conversazioni di un tempo. Ne erano impregnati i ciottoli; i pini l'intonavano ad alta voce sulle nostre teste; i torrenti alimentati dalle piogge ridacchiavano invisibili confidandosi l'incresciosa vicenda; e il vento cantava a gran voce nelle mie orecchie l'ingiustizia commessa. A coronamento di tutto questo, nel bel mezzo della spianata conosciuta come il Miglio delle Signore, l'Orrore mi stava aspettando. Non c'erano altri risciò in vista, soltanto i quattro jhampanis in bianco e nero, la vettura a pannelli gialli e il biondo capo della donna all'interno... tutto esattamente come l'avevo lasciato otto mesi e mezzo prima! Per un attimo credetti che anche Kitty dovesse vedere quello che vedevo io, data la meravigliosa intesa che c'era tra noi due su tutto. Ma le sue parole mi tolsero ogni illusione: "Non c'è anima viva in giro! Dài, Jack, facciamo una corsa fino al serbatoio!". Il suo instancabile cavallino arabo partì come una freccia, seguito a breve distanza dal mio australiano, e in quest'ordine ci lanciammo sotto le rupi. In mezzo minuto arrivammo a meno di cinquanta metri dal risciò. Io trattenni l'australiano e rimasi un po' indietro. Il risciò era proprio in mezzo alla strada, e di nuovo l'arabo vi passò attraverso, seguito dal mio. "Jack! Jack caro! Ti prego, perdonami", risuonò come un gemito alle mie orecchie; e dopo un attimo: "È tutto un errore, un terribile errore!". Spronai il cavallo come un indemoniato. Quando mi voltai a guardare in direzione del serbatoio, le livree bianche e nere stavano ancora aspettando, pazienti, ai piedi del grigio pendio, e il vento mi portò un'eco beffarda delle parole che avevo appena udito. Per tutto il resto della cavalcata, Kitty si beffò del mio silenzio. Fino a quel momento avevo parlato a ruota libera, ma in seguito non sarei più riuscito ad esprimermi in modo naturale, nemmeno a costo della vita; e da Sanjaolie fino alla chiesa pensai bene di tacere. Quella sera ero invitato a cena dai Mannering, e avevo appena il tempo di correre a casa a cambiarmi d'abito. Sulla strada per Elysium Hill udii per caso due uomini che discorrevano nell'oscurità. "È curioso", diceva uno, "come sia sparito senza lasciare traccia. Sai, mia moglie nutriva un affetto assurdo per quella donna (a me non diceva proprio niente), e voleva che rilevassi il suo vecchio risciò e i coolie a qualsiasi prezzo. Un capriccio morboso, a parer mio, ma devo fare quello che mi dice la Memsahib. Tu non ci crederai, ma l'uomo da cui li aveva presi a servizio mi ha detto che tutti e quattro i portatori - erano fratelli - sono morti di colera sulla strada per Hardwar, poveri diavoli, e lui stesso ha demolito il risciò! Dice che non ha mai tenuto il risciò di una Memsahib morta. Gli porta sfortuna. Che idea. Te la immagini Mrs. Wessington che porta sfortuna ad altri che a se stessa?!". A questo punto scoppiai in una sonora risata, il cui suono mi urtò i nervi. Così, dopo tutto, c'erano anche fantasmi di risciò e impieghi spettrali, all'altro mondo! Chissà quanto li pagava Mrs. Wessington, i suoi uomini? Che orario facevano? E dove andavano? Come risposta visibile alla mia ultima domanda, vidi la Cosa infernale sbarrarmi il passo nel crepuscolo. I morti viaggiano veloci, servendosi di scorciatoie sconosciute ai comuni coolie. Scoppiai di nuovo a ridere ma subito mi trattenni, poiché temevo d'impazzire. Pazzo in una certa misura dovevo esserlo già, perché ricordo che fermai il cavallo davanti al risciò e augurai cortesemente la buona sera a Mrs. Wessington. La sua risposta mi risultò fin troppo nota. L'ascoltai fino in fondo e replicai che avevo già sentito tutto altre volte, ma sarei stato lieto se avesse voluto aggiungere qualcosa. Quella sera doveva essermi entrato in corpo uno spirito maligno che non seppi dominare, perché ricordo vagamente di aver parlato del più e del meno per cinque minuti con la Cosa che mi stava di fronte. "È matto da legare, povero diavolo... o ubriaco. Max, cerchiamo di farlo tornare a casa." Quella di certo non era la voce di Mrs. Wessington! I due mi avevano sentito parlare da solo ed erano tornati ad occuparsi di me. Furono molto gentili e premurosi, e dalle loro parole capii che mi ritenevano ubriaco fradicio. Li ringraziai confusamente e mi avviai al piccolo galoppo verso l'albergo, mi cambiai e arrivai dai Mannering con dieci minuti di ritardo. Addussi a pretesto l'oscurità della notte; venni rimproverato da Kitty per il mio ritardo, indegno di un innamorato; e mi sedetti a tavola. La conversazione si era già fatta generale e io ne approfittavo per rivolgere alla mia fidanzata paroline affettuose, quando mi accorsi che all'estremità opposta della tavola un uomo basso, dalle fedine rosse stava descrivendo, in maniera alquanto pittoresca, un incontro fatto quella sera con uno sconosciuto che dava i numeri. Bastarono poche frasi a convincermi che stava riferendo l'incidente di mezz'ora prima. Nel bel mezzo del racconto si guardò attorno in cerca di applausi, come fanno i narratori di professione, ma incontrò il mio sguardo e ammutolì di colpo. Seguì un attimo di imbarazzante silenzio, poi l'uomo dalle fedine rosse mormorò qualcosa per far intendere che si era "dimenticato il resto", sacrificando così una reputazione di buon narratore che si era andato facendo nelle sei stagioni precedenti. Io lo benedissi dal profondo del cuore e tornai ad occuparmi del pesce. A tempo debito quella cena finì e con sincero rammarico mi separai da Kitty, certo come lo ero della mia esistenza che fuori della porta avrei trovato la Cosa ad attendermi. L'uomo dalle fedine rosse, che mi era stato presentato come il dottor Heatherlegh di Simla, si offrì di accompagnarmi lungo il tratto di strada in comune. Accettai l'offerta con gratitudine.

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L'istinto non mi aveva ingannato. La Cosa mi stava aspettando nel Mall e, quasi a volersi beffare crudelmente dei nostri usi, aveva un fanale acceso davanti. L'uomo dalle fedine rosse arrivò subito al punto, in un modo che dimostrava come ci avesse riflettuto durante tutto il pranzo. "Dite un po', Pansay, che diavolo vi era preso stasera sulla Elysium Road?". La domanda mi giunse talmente improvvisa che risposi prima ancora di rendermene conto. "Quello!", dissi, indicando la Cosa. "Quello potrebbe essere delirium tremens o un'allucinazione, per quanto ne so io. Voi però non bevete - l'ho visto a cena - per cui non può trattarsi di delirium tremens. Non c'è proprio niente nel punto in cui indicate, benché stiate sudando e tremando come un pony spaventato. Quindi si tratta di un'allucinazione. E io dovrei essere un'autorità in materia. Venite da me. Abito sulla strada bassa di Blessington". Con mio grande piacere il risciò, invece di aspettarci, si manteneva a una ventina di metri di distanza - e questo sia che andassimo al passo, sia che andassimo al trotto o al piccolo galoppo. Nel corso di quella lunga cavalcata notturna raccontai al mio compagno più o meno quanto ho scritto fin qui. "Be', avete rovinato una delle migliori storie che mi fossi mai trovato a raccontare", disse lui, "ma vi perdono per quello che avete passato. Ora venite a casa e fate ciò che vi dico; e quando vi avrò guarito, giovanotto, che vi serva da lezione: state alla larga dalle donne e dai cibi indigesti per il resto della vita". Il risciò si manteneva a distanza regolare; e il mio amico dalle fedine rosse sembrava trarre grande piacere dal mio resoconto della sua esatta posizione. "Allucinazioni, Pansay... si tratta solo di disturbi agli occhi, al cervello e allo stomaco. E il più importante dei tre è lo stomaco. Voi avete un cervello troppo macchinoso, uno stomaco troppo debole e gli occhi completamente andati. Rimettete in sesto lo stomaco e il resto verrà da sé. E tutto questo, in parole povere, significa pillole per il fegato. D'ora in avanti mi occuperò io di voi: siete un fenomeno troppo interessante perché vi lasci andare". Adesso eravamo immersi nell'oscurità della strada bassa di Blessington, e il risciò si fermò di colpo sotto una rupe scistosa coperta di pini. Istintivamente mi arrestai anch'io, spiegando il motivo, di tale azione. Heatherlegh si lasciò sfuggire una bestemmia. "Sentite un po', se credete che io voglia passare la notte all'addiaccio, con questo freddo, per colpa di un'allucinazione gastro-cerebro-ottica... Signore Iddio! Che succede?". Ci fu un rombo soffocato, una nube accecante di polvere proprio davanti a noi, uno schianto, il rumore di rami spezzati e una decina di metri di pendio - pini, sottobosco e tutto quanto - franarono sulla strada sottostante, ostruendola completamente. Gli alberi divelti oscillarono e vacillarono per un istante nell'oscurità come giganti ubriachi e poi caddero bocconi tra le altre piante con un tonfo fragoroso. I nostri due cavalli erano rimasti immobili e sudavano per lo spavento. Non appena il frastuono della terra e dei sassi che franavano si fu smorzato, il mio compagno mormorò: "Caspita, se avessimo proseguito, adesso saremmo sepolti sotto tre metri di terra. 'Ci son più cose in cielo e in terra'...Venite a casa, Pansay, e ringraziate Iddio. Ora devo proprio farmi un cicchetto". Ritrovammo la strada oltre la chiesa e arrivai a casa del dottor Heatherlegh poco dopo mezzanotte. I tentativi di cura iniziarono quasi subito, e per una settimana fui tenuto costantemente sotto controllo. Parecchie volte, nel corso di quella settimana, ringraziai la sorte favorevole che mi aveva fatto incontrare il medico più bravo e più gentile di tutta Simla. Di giorno in giorno andavo riacquistando serenità ed equilibrio. E di giorno in giorno diventavo sempre più propenso ad accettare la teoria di Heatherlegh sulle "illusioni spettrali", dovute agli occhi, al cervello e allo stomaco. Scrissi a Kitty, dicendole che una leggera distorsione, dovuta a una caduta da cavallo, mi costringeva a letto per alcuni giorni; ma che sarei guarito prima che lei avesse avuto il tempo di rimpiangere la mia assenza. La cura di Heatherlegh era semplicissima. Consisteva in pillole per il fegato, bagni freddi e pesanti esercizi fisici fatti al tramonto o all'alba perché, come aveva saggiamente osservato: "Un uomo con una caviglia slogata non fa una dozzina di miglia al giorno; e se la vostra giovane amica vi vedesse potrebbe insospettirsi". Alla fine della settimana, dopo ripetuti controlli della pupilla e del polso e severe prescrizioni riguardo alla dieta e al podismo, Heatherlegh mi dimise altrettanto bruscamente di come mi aveva preso in cura. Questa è la benedizione che mi diede al momento del congedo: "Amico, attesto la vostra guarigione mentale, che sarebbe come dire che ho curato la maggior parte dei vostri disturbi fisici. Ora levate le tende al più presto e andate a corteggiare Miss Kitty". Cercai di esprimere la mia riconoscenza per la sua bontà, ma lui tagliò corto. "Non credete che l'abbia fatto perché mi piacete. Da quel che so, vi siete comportato da perfetto mascalzone. Nondimeno siete un fenomeno, e tanto curioso come fenomeno quanto lo siete come mascalzone. No!", interrompendomi di nuovo, "neanche una rupia, per favore. Andate a vedere se questi disturbi gastro-cerebro-ottici si ripresentano. Vi darò un lakh di rupie ogni volta che vi capita". Mezz'ora dopo ero nel salotto dei Mannering con Kitty, ebbro per la felicità presente e la piena consapevolezza che non sarei più stato turbato dalla orribile presenza della Cosa. Forte della mia ritrovata sicurezza, proposi subito una cavalcata, e preferibilmente un giro intorno a Jakko. Non mi ero mai sentito così bene, così traboccante di vitalità e di puro vigore fisico, come quel pomeriggio dei 30 aprile. Kitty si rallegrò del cambiamento avvenuto nel mio aspetto, e si complimentò con me in quel suo modo deliziosamente franco ed esplicito. Lasciammo insieme la casa dei Marinering, chiacchierando e ridendo, e ci avviammo al piccolo galoppo sulla strada di Chota Simla come un tempo. Ero ansioso di raggiungere il serbatoio di

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Sanjaolie per avere una riprova della mia sicurezza. I cavalli facevano del loro meglio, ma al mio animo impaziente sembravano ancora troppo lenti. A un certo punto Kitty, sorpresa della mia chiassosa agitazione, esclamò: "Diamine, Jack! Ti stai comportando come un bambino. Cosa fai?". Eravamo proprio sotto il convento e, senza riflettere, facevo scattare e corvettare il mio australiano da un lato all'altro della strada, stuzzicandolo con il cappio del frustino. "Cosa faccio?", risposi. "Niente, cara. Ecco quel che faccio. Se fossi rimasta a letto senza far niente per una settimana, saresti esuberante come me". Cantando e mormorando in festosa allegria, Godendo nel sentirti vivo; Signore della Natura, signore del mondo visibile, Signore dei cinque sensi. La citazione mi era appena uscita di bocca che girammo l'angolo sopra il convento e, pochi metri più avanti, ci trovammo in vista di Sanjaolie. Al centro della spianata c'erano le livree bianche e nere, il risciò a pannelli gialli e Mrs. Keith Wessington. Mi fermai di colpo, guardai, mi stropicciai gli occhi e, credo, dissi qualcosa. Poi la prima cosa che ricordo è che giacevo bocconi sulla strada, Kitty china su di me in lacrime. "Se n'è andato, piccola?", dissi ansimando. Ciò non fece che aumentare lo sconforto di Kitty. "Se n'è andato cosa, Jack caro? Che significa tutto questo? Ci dev'essere un errore, Jack. Un terribile errore". Le sue ultime parole mi fecero balzare in piedi, in preda alla follia e al delirio. "Sì, un errore c'è", ribattei, "un terribile errore. Vieni a vederlo". Ricordo vagamente di aver trascinato Kitty per il polso lungo la strada, fin dove era la Cosa, implorandola per pietà di parlarle, di dirle che eravamo fidanzati, che né la morte né l'inferno potevano spezzare il legame che ci univa, e chissà quante altre cose di questo genere che solo Kitty saprebbe ripetere. Più di una volta mi appellai con trasporto al Terrore nel risciò perché fosse testimone di tutto ciò che avevo detto e mi liberasse da un tormento che mi stava uccidendo. Mentre parlavo, credo di aver raccontato a Kitty dei miei rapporti di un tempo con Mrs. Wessington, perché la vidi ascoltare attentamente con il volto pallido e gli occhi che mandavano fiamme. "Grazie, Mr. Pansay", disse poi, "è più che sufficiente. Sais, ghora lao". I sais, impassibili come sempre sono gli orientali, ci avevano raggiunti con i cavalli recuperati; e mentre Kitty saltava in sella, io afferrai la sua briglia, supplicandola di ascoltarmi fino in fondo e di perdonarmi. In risposta ricevetti una scudisciata di traverso sul volto, dall'occhio alla bocca, e una parola o due di addio che anche adesso non ho il coraggio di scrivere. Perciò ritenni, e giustamente, che Kitty sapesse tutto; e tornai barcollando vicino al risciò. Avevo il viso ferito e sanguinante, e mi stava spuntando un livido bluastro. Ero del tutto privo di amor proprio. In quel mentre Heatherlegh, che doveva averci seguito a distanza, sopraggiunse al piccolo galoppo. "Dottore", dissi, mostrandogli la faccia, "ecco la firma di Miss Mannering sul mio foglio di via, e... non appena potrete darmi quelle rupie, ve ne sarò grato". Il viso di Heatherlegh, malgrado la mia condizione miserevole, mi spinse al riso. "Ci scommetto la mia reputazione professionale...", incominciò. "Non siate ridicolo", mormorai io. "Ho perso la felicità della mia vita, e voi fareste meglio a riportarmi a casa". Mentre parlavo il risciò era sparito. Allora persi ogni cognizione di quanto stava succedendo. La cresta di Jakko parve sollevarsi e rollare come la cresta di una nuvola e rovinarmi addosso. Sette giorni dopo (vale a dire il 7 maggio) mi resi conto di trovarmi nella camera di Heatherlegh, debole come un bambino. Heatherlegh mi stava osservando con attenzione da dietro le carte che aveva sullo scrittoio. Le sue prime parole non furono incoraggianti, ma ero troppo esausto perché mi impressionassero più di tanto. "Miss Kitty vi ha restituito le vostre lettere. Vi scrivete parecchio, voi giovani. Qui c'è un pacchetto che sembra contenere un anello, e un biglietto vivace di papà Mannering che mi sono preso la libertà di leggere e bruciare. Il vecchio non è soddisfatto di voi". "E Kitty?", chiesi debolmente. "È anche più irritata del padre, a giudicare dalle sue parole. Dovete esservi lasciato sfuggire un mucchio di strani ricordi, prima che vi raggiungessi. Dice che un uomo che si fosse comportato come voi con Mrs. Wessington dovrebbe uccidersi per semplice riguardo verso i propri simili. È una piccola virago impulsiva, la vostra amica. Sostiene anche che eravate in preda a un attacco di delirium tremens, quando è scoppiata quella lite sulla strada di Jakko. E dice che preferirebbe morire piuttosto che rivolgervi ancora la parola". Gemetti e mi voltai dall'altra parte. "Ora tocca a voi scegliere, amico mio. Il fidanzamento deve essere rotto, e i Mannering non intendono mostrarsi troppo severi con voi. È stato a causa del delirium tremens o di un attacco epilettico? Mi spiace di non potervi offrire di meglio, a meno che non preferiate la follia ereditaria. Basta una parola e io dirò loro che si tratta di epilessia. Tutta Simla è al corrente di quella scenata al Miglio delle Signore. Coraggio! Vi do cinque minuti per rifletterci". Durante quei cinque minuti credo di aver esplorato a fondo i più infimi gironi dell'Inferno che all'uomo sia dato di conoscere su questa terra. E intanto osservavo me stesso aggirarsi esitante negli oscuri labirinti del dubbio, della sofferenza e della più completa disperazione. Mi domandavo (come forse stava facendo anche Heatherlegh sulla sua

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sedia) quale orrenda alternativa dovessi scegliere. Di lì a poco udii me stesso rispondere con una voce che riconoscevo appena: "Sono maledettamente esigenti in fatto di morale da queste parti. Vada per l'epilessia, Hearherlegh, e aggiungete i miei affettuosi saluti". Poi i miei due io si unirono e fui soltanto io (mezzo matto e posseduto dal demonio) a rivoltarmi nel letto ripercorrendo passo passo la storia dell'ultimo mese. "Ma sono a Simla", continuavo a ripetere fra me. "Io, Jack Pansay, sono a Simla, e non ci sono fantasmi qui. È assurdo da parte di quella donna fingere che ci siano. Perché Agnes non dovrebbe lasciarmi in pace? Io non le ho mai fatto niente di male. Avrebbe potuto benissimo succedere a me invece che a lei. Solo che io non sarei mai ritornato apposta per ucciderla. Perché non mi si lascia in pace... in pace a godermi la felicità?". Era mezzogiorno quando mi svegliai la prima volta; e il sole era basso nel cielo prima che mi riaddormentassi, per dormire il sonno del criminale sulla ruota del supplizio, troppo esausto per provare ancora dolore. Il giorno dopo non potei lasciare il letto. In mattinata Heatherlegh mi disse di aver ricevuto una risposta da Mr. Mannering e che, grazie ai suoi (di Heatherlegh) amichevoli uffici, la storia dei miei patimenti aveva fatto il giro di Simla, dov'ero molto compianto da tutti. "E questo è anche più di quanto vi meritiate", concluse affabilmente, "benché Dio solo sappia cos'avete dovuto passare. Comunque non importa: siete un fenomeno capriccioso ma vi cureremo lo stesso". Rifiutai fermamente di essere curato. "Siete già stato anche troppo buono con me, vecchio mio", dissi, "e non credo di dovervi disturbare ancora". In cuor mio sapevo che nulla di quanto potesse fare Heatherlegh avrebbe alleviato il peso che gravava su di me. Tale consapevolezza diede origine a un senso di impotente, disperata ribellione contro l'assurdità di tutto quanto. C'era una infinità di uomini non certo migliori di me ai quali il castigo era stato almeno riservato per l'altro mondo; e io trovavo profondamente, crudelmente ingiusto che soltanto a me fosse imposto un destino così orrendo. Tale stato d'animo cedette a poco a poco il passo ad un altro, in cui sembrava che il risciò ed io fossimo le uniche realtà in un mondo di ombre; che Kitty fosse uno spettro; che i Mannering, Heatherlegh e tutti gli altri uomini e donne che conoscevo fossero spettri; e le stesse grandi colline grigie null'altro che vane ombre intese a tormentarmi. Per sette giorni estenuanti fui sballottato avanti e indietro da uno stato d'animo all'altro; intanto il mio corpo riacquistava vigore di giorno in giorno, finché lo specchio della camera da letto non mi disse che ero tornato alla vita di tutti i giorni ed ero di nuovo una persona come tutte le altre. Stranamente, il mio viso non presentava traccia delle pene sofferte. Era pallido, certo, ma piatto e inespressivo come sempre. Mi sarei aspettato qualche alterazione permanente come prova tangibile del male che mi stava consumando. Non scorsi nulla. Il 15 maggio lasciai la casa di Heatherlegh alle undici del mattino e l'istinto dello scapolo mi condusse al Club. Lì scoprii che la mia storia, nella versione di Heatherlegh, era nota a tutti, poiché la gente mi trattava con una gentilezza e una sollecitudine assai goffe ed insolite. Tuttavia mi resi conto che per il resto dei miei giorni sarei vissuto tra i miei simili senza farne parte; e invidiai con grande amarezza i coolie che ridevano nella strada. Feci colazione al Club e alle quattro mi aggiravo senza meta per il Mall, nella vana speranza di incontrare Kitty. In prossimità del palco dell'orchestra, le livree bianche e nere mi si affiancarono e udii l'antica supplica di Mrs. Wessington. Me l'aspettavo sin da quando ero uscito, e fui sorpreso solo del ritardo. Il risciò fantasma ed io proseguimmo fianco a fianco in silenzio lungo la strada di Chota Simla. Nei pressi dei bazar Kitty, insieme ad un uomo come lei a cavallo, ci raggiunse e ci oltrepassò. Dal suo comportamento avrei potuto essere un cane randagio. Non mi fece nemmeno l'onore di affrettare il passo, sebbene il pomeriggio piovoso sarebbe stato un ottimo pretesto. Così Kitty e il suo compagno, e io con la spettrale luce della mia vita proseguimmo lentamente verso Jakko, a coppie. La strada era corsa da rivoli d'acqua, i pini gocciolavano come grondaie sulle rocce sottostanti e l'aria era pregna di pioviggine sferzante. Due o tre volte mi sorpresi a dire a me stesso, quasi a voce alta: "Sono Jack Pansay in licenza a Simla... a Simla! La solita Simla di tutti i giorni. Non devo dimenticarlo... non devo dimenticarlo". Poi cercai di ricordare qualcuno dei pettegolezzi che avevo udito al Club: il prezzo dei cavalli del tal dei tali - qualunque cosa, per intenderci, che avesse attinenza con la vita pratica della comunità anglo-indiana che ben conoscevo. Arrivai persino a ripetere la tavola pita gorica rapidamente tra me, per assicurarmi che non stavo uscendo di senno. Ciò mi diede parecchio conforto e deve anche avermi impedito di udire Mrs. Wessington per qualche tempo. Ancora una volta risalii faticosamente il pendio del convento e imboccai la strada pianeggiante. A questo punto Kitty e il suo compagno partirono al piccolo galoppo e io rimasi solo con Mrs. Wessington. "Agnes", dissi, "vuoi abbassare il mantice e dirmi che significa tutto questo?". Il mantice si abbassò senza far rumore ed io mi trovai faccia a faccia con la mia signora morta e sepolta. Indossava il vestito con cui l'avevo vista viva l'ultima volta; teneva lo stesso fazzolettino nella mano destra e lo stesso portabiglietti nella sinistra (una donna morta da nove mesi con un portabiglietti!). Dovetti costringermi a ripetere la tavola pitagorica e appoggiare entrambe le mani sul parapetto di pietra della strada per assicurarmi che almeno quello fosse reale. "Agnes", ripetei, "per pietà, dimmi che significa tutto questo". Mrs. Wessington si sporse in avanti con quel rapido e curioso movimento del capo che conoscevo così bene e parlò. Se la mia storia non avesse già oltrepassato in maniera così pazzesca ogni limite di credibilità, sarebbe giunto il momento di scusarmi. Poiché so che nessuno - no, neanche Kitty, per la quale la scrivo come una sorta di giustificazione della mia condotta - mi crederà, proseguo. Mrs. Wessington parlò, e io passeggiai con lei dalla strada di Sanjaolie alla curva sotto la residenza del comandante in capo, conversando animatamente come se fossi stato a fianco

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dei risciò di una qualsiasi donna viva. Il secondo e più tormentoso dei miei insani stati d'animo si era improvvisamente impadronito di me e, come il principe della poesia di Tennyson, "mi sembrava di aggirarmi in un mondo di spettri". Dal comandante in capo c'era stato un ricevimento in giardino, e noi due ci unimmo alla folla di persone che rientravano. Osservandole, avevo l'impressione che fossero loro le ombre - impalpabili,e fantastiche ombre - che si dividevano per lasciar passare il risciò di Mrs. Wessington. Cosa ci dicemmo nel corso di quell'assurdo e fatale colloquio non posso, anzi non oso riferirlo. Heatherlegh avrebbe commentato con una risatina e con l'osservazione che avevo "partorito un'altra chimera gastro-ottico-cerebrale". Fu un'esperienza spaventosa eppure, in qualche modo indefinibile, meravigliosamente cara. Era mai possibile, mi domandavo, che in questa vita dovessi corteggiare per la seconda volta la donna che la mia stessa negligenza e crudeltà avevano ucciso? Sulla strada di casa incontrai Kitty: un'ombra tra le ombre. Se dovessi descrivere tutti gli avvenimenti delle due settimane successive nell'ordine in cui si verificarono, la mia storia non avrebbe più fine e la vostra pazienza si esaurirebbe. Un mattino dopo l'altro, una sera dopo l'altra io e lo spettrale risciò ci aggiravamo per Simla insieme. Ovunque andassi, e quattro livree bianche e nere mi seguivano e mi tenevano compagnia da quando lasciavo l'albergo a quando vi rientravo. Li trovavo a teatro, tra la folla di jhampanis urlanti; fuori della veranda del Club, dopo una lunga serata trascorsa a giocare a whist, al gran ballo per il compleanno della regina, dove aspettavano impazienti che riapparissi; e in pieno giorno quando mi recavo in visita a qualcuno. A parte il fatto che non proiettava ombra alcuna, il risciò era sotto ogni altro aspetto reale come uno fatto di legno e ferro. Anzi, più di una volta ho dovuto trattenermi dall'avvertire qualche amico che passava a galoppo sostenuto di non finirci contro. E più di una volta ho passeggiato per il Mall conversando amabilmente con Mrs. Wessington, con indescrivibile stupore dei passanti. Prima che fosse trascorsa una settimana da quando avevo ricominciato a uscire, venni a sapere che la teoria degli 'attacchi epilettici' era stata messa da parte in favore dell'insania. Questo, tuttavia, non cambiò minimamente il mio stile di vita. Facevo visita agli amici, andavo a cavallo e pranzavo fuori con la stessa libertà di sempre. Mi sentivo attratto dalla compagnia dei miei simili come mai prima di allora. Smaniavo di trovarmi tra le realtà della vita; e al tempo stesso mi sentivo vagamente infelice se restavo separato troppo a lungo dalla mia spettrale compagna. Sarebbe quasi impossibile descrivere i miei mutevoli stati d'animo dal 15 maggio sino ad oggi. La presenza del risciò mi riempiva di volta in volta di orrore, di cieco terrore, di un vago senso di piacere e di completa disperazione. Non osavo lasciare Simla, benché mi rendessi conto che la mia permanenza mi stava uccidendo. Sapevo, inoltre, che era mio destino morire lentamente, un po' per giorno. La mia unica preoccupazione era di scontare la pena in tutta calma. Alternavo momenti in cui bramavo di vedere Kitty ad altri in cui osservavo il suo spudorato amoreggiare con il mio successore - per essere più precisi dovrei dire i miei successori - con divertito interesse. Ormai era uscita dalla mia vita nella stessa misura in cui io ero uscito dalla sua. Di giorno vagavo in compagnia di Mrs. Wessington ed ero quasi felice. Di notte imploravo il cielo di lasciarmi tornare nel mondo qual ero solito conoscerlo. Al di sopra di tutti questi stati d'animo mutevoli avvertivo una sensazione di vaga, oscura meraviglia per come il mondo visibile e quello invisibile si mescolino in maniera così strana, su questa terra, da perseguitare una povera anima fino alla tomba". *** 27 agosto. Heatherlegh mi ha assistito con incessante devozione e soltanto ieri mi ha consigliato di inoltrare una domanda di licenza per malattia. Una domanda per sfuggire alla compagnia di un fantasma! Una richiesta al governo perché mi consenta gentilmente di sbarazzarmi di cinque fantasmi e di un risciò immaginario con un viaggio in Inghilterra! La proposta di Heatherlegh mi ha fatto scoppiare in una risata quasi isterica. Gli ho detto che avrei atteso tranquillamente la fine a Simla; e sono certo che la fine non è lontana. Credetemi, io ne temo la venuta più di quanto possano esprimere le parole; e la notte mi torturo con mille congetture su come avverrà la mia morte. Morirò decorosamente nel mio letto, come si addice a un gentiluomo inglese; oppure, durante un'ultima passeggiata lungo il Mall, l'anima mi sarà strappata per essere posta in eterno accanto a quell'orrendo fantasma? Ritroverò l'antica devozione perduta, nell'altro mondo, o incontrerò Agnes per provarne disgusto, pur essendo legato al suo fianco per tutta l'eternità? Ci libreremo sullo spettacolo delle nostre vite fino alla fine dei tempi? A mano a mano che il giorno della mia morte si avvicina, l'orrore profondo che ogni essere vivente prova per degli spiriti venuti dall'aldilà si fa sempre più intenso. E terribile scendere rapidamente tra i morti quando non si è arrivati nemmeno a metà della vita; ma è mille volte più terribile aspettare come me, in mezzo a voi, chissà quale inimmaginabile orrore. Abbiate pietà di me, almeno per la mia 'illusione', poiché so che non crederete mai a ciò che ho scritto fin qui. Eppure, se mai uomo fu spinto alla morte dai Poteri delle Tenebre, quell'uomo son io. E per giustizia abbiate pietà anche di lei. Perché se mai donna fu uccisa da un uomo, io ho ucciso Mrs. Wessington. E la parte finale della mia pena mi opprime anche ora. LA STRANA CAVALCATA DI MORROWBIE JUKES

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Vivo o morto non c'è altro modo. Proverbio indigeno Non c'è nulla di inventato in questo racconto. Jukes capitò per caso in un villaggio la cui esistenza è ben nota, anche se lui è l'unico inglese ad esserci stato. Un'istituzione abbastanza simile prosperava un tempo nei dintorni di Calcutta, e si racconta che addentrandosi nel cuore del Bikanir, che è a sua volta il cuore del Grande Deserto Indiano, ci si imbatte, non in un villaggio, ma in una città in cui i Morti che non morirono, ma non possono nemmeno vivere, hanno stabilito il loro quartier generale. E poiché è assolutamente vero che nello stesso deserto vi è una città meravigliosa in cui si ritirano tutti i ricchi usurai dopo aver accumulato le loro fortune (fortune così immense che i proprietari non possono nemmeno fidarsi della protezione offerta dalla potente mano del governo, ma debbono rifugiarsi tra le aride distese di sabbia), e dove vanno in giro su lussuosi calessi molleggiati, comprano bellissime fanciulle e decorano i loro palazzi con oro, avorio, piastrelle di Minton e madreperla, non vedo perché il racconto di Jukes dovrebbe essere falso. Costui è un ingegnere civile, con una testa fatta per planimetrie, distanze e cose del genere, e di certo non si prenderebbe la briga di inventare trappole immaginarie. Gli conviene molto di più svolgere il suo legittimo lavoro. Nel raccontare la sua storia non cambia mai nulla, e si arrabbia e s'indigna molto quando pensa al trattamento irrispettoso che ha ricevuto. Dapprima scrisse il racconto tutto d'un fiato, poi lo rivide in certi punti, introducendovi delle Riflessioni Morali; questo è il risultato: Tutto ebbe inizio da un leggero attacco di febbre. Per motivi di lavoro era necessario che passassi alcuni mesi in un campo tra Pakpattan e Mubarakpur - una desolata distesa di sabbia, come ben sa chiunque abbia avuto la disgrazia di capitarci. I miei coolie non erano né più né meno esasperanti di altre squadre, e il mio lavoro richiedeva quel tanto di attenzione che bastava a impedirmi di sprofondare nella depressione, se mai fossi stato incline a una debolezza così poco virile. Il 23 dicembre 1884 mi sentivo qualche linea di febbre. Era una notte di luna piena e, di conseguenza, ogni cane che si aggirava nei pressi della mia tenda mandava lunghi ululati. Le bestiacce si riunivano in due o tre e mi facevano diventare matto. Pochi giorni prima avevo sparato a una particolarmente fastidiosa e ne avevo appeso la carcassa in terrorem a una cinquantina di metri dall'ingresso della mia tenda; ma i suoi compari, presala d'assalto, se l'erano disputata a morsi e infine se l'erano divorata; dopodiché mi parve che intonassero i loro inni di ringraziamento con rinnovata energia. Il leggero delirio che accompagna la febbre agisce in maniera diversa a seconda delle persone. In breve la mia irritazione si mutò nella precisa volontà di uccidere una grossa bestia bianca e nera che per tutta la sera aveva primeggiato sia nelle esecuzioni canore, sia negli accenni di fuga al minimo segno di pericolo. Per via della mano tremante e della testa in preda alle vertigini, l'avevo già mancata due volte con entrambi i colpi della mia doppietta, quando ebbi l'intuizione che il metodo migliore sarebbe stato spingerla a cavallo in aperta pianura e finirla con una lancia per la caccia al maiale selvatico. Questa, ovviamente, era l'idea semi-delirante di una persona in preda alla febbre; ma ricordo che al momento mi parve assolutamente pratica e realizzabile. Ordinai dunque al mio stalliere di sellare Pornic e di condurlo senza far rumore sul retro della mia tenda. Quando il pony fu in posizione mi appostai accanto alla sua testa, pronto a montare in sella e schizzare via non appena il cane avesse ripreso ad abbaiare. Pornic, tra l'altro, non lasciava il recinto da un paio di giorni; l'aria notturna era fresca e pungente; e io ero munito di un paio di speroni particolarmente lunghi e aguzzi, con cui nel pomeriggio avevo stimolato un cavallino indolente. Potrete facilmente immaginare, dunque, a quale velocità partì Pornic quando lo lanciai al galoppo. In un attimo, poiché la bestiaccia filò via diritta come una freccia, ci lasciammo indietro la tenda, e volavamo sul terreno piano e sabbioso a grande velocità. L'istante successivo avevamo superato il cagnaccio, e io mi ero quasi dimenticato il motivo per cui avevo preso il cavallo e la lancia. Il delirio causato dalla febbre e l'eccitamento della corsa all'aria aperta doveva avermi privato del poco di buon senso che ancora mi rimaneva. Ricordo vagamente di essermi rizzato sulle staffe; di aver brandito la lancia in direzione della gran luna bianca che dall'alto osservava pacifica la mia folle cavalcata; e di aver lanciato urla di sfida ai cespugli spinosi che ci sfrecciavano accanto. Una volta o due credo di essermi piegato in avanti sul collo di Pornic, rimanendo letteralmente appeso per gli speroni - come il mattino seguente rivelarono i segni sui fianchi del cavallo. La povera bestia correva come un ossesso su quella che pareva essere una distesa infinita di sabbia illuminata dalla luna. Poi ricordo che il terreno iniziò improvvisamente a salire davanti a noi, e, mentre raggiungevamo la sommità del pendìo, vidi le acque del Sutlej luccicare di sotto come una striscia d'argento. Quindi Pornic inciampò e cadde pesantemente in avanti, e insieme rotolammo lungo un pendìo invisibile. Devo aver perduto conoscenza, poiché quando ritornai in me ero disteso bocconi su un mucchio di sabbia bianca e soffice, e l'alba iniziava a spuntare incerta oltre il margine dei pendìo lungo il quale ero caduto. A mano a mano che la luce aumentava, vidi che mi trovavo sul fondo di un cratere di sabbia a forma di ferro di cavallo che da un lato si apriva direttamente sulle secche del Sutlej. La febbre mi era passata del tutto e, ad eccezione di un leggero capogiro, la caduta della sera precedente non sembrava aver lasciato conseguenze. Pornic, che si trovava a pochi metri di distanza, era ovviamente stremato, ma non si era fatto niente di male. La sella, la mia preferita da polo, era assai malconcia e gli era scivolata sotto la pancia. Mi ci volle un po' di tempo per sistemarla, e intanto ebbi modo di osservare il luogo in cui ero andato così stupidamente a finire. A costo di risultare tedioso, voglio descriverlo nei particolari, poiché un'accurata raffigurazione delle sue caratteristiche aiuterà concretamente il lettore a comprendere quanto segue.

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Si immagini dunque, come ho detto poc'anzi, un cratere di sabbia a forma di ferro di cavallo, cinto da ripide pareti friabili alte una decina di metri. (Credo che il pendio dovesse avere una inclinazione di circa 65°). Questo cratere racchiudeva un tratto di terreno pianeggiante lungo una cinquantina di metri e largo al massimo trenta, con un pozzo rudimentale al centro. Tutto intorno alla base del cratere, a circa un metro di altezza dal suolo, correva una fila di ottantatré buche di forma semicircolare, ovale, quadrata e poligonale, tutte con un'imboccatura dell'ampiezza di un metro circa. A un esame più attento, potei notare che ogni buca era accuratamente rivestita, all'interno, con pezzi di legno portati dal fiume e bambù, e sopra l'imboccatura aveva un gocciolatoio di legno che sporgeva per circa mezzo metro, simile nella forma alla visiera d'un berretto da fantino. Da queste buche non proveniva alcun segno di vita, ma l'intero anfiteatro era pervaso da un fetore nauseabondo - un lezzo più intenso e disgustoso di quello a cui mi avevano abituato le visite ai villaggi indiani. Dopo essere rimontato in sella a Pornic, che era ansioso quanto me di tornare al campo, feci un giro intorno alla base del ferro di cavallo alla ricerca di un punto da cui poter uscire. Gli abitanti, quali potessero essere, non avevano ritenuto opportuno farsi vivi, per cui dovetti arrangiarmi da solo. Il mio primo tentativo di "lanciare" Pornic su per le ripide pareti di sabbia mi rivelò che ero caduto in una trappola del tutto identica a quella che il formicaleone predispone per le proprie vittime. Ad ogni passo la sabbia cedeva e ci franava addosso a tonnellate, risuonando sui gocciolatoi delle buche come una scarica di pallini da caccia. Un paio di inutili assalti ci mandarono entrambi a rotoloni sul fondo del cratere, mezzi soffocati dai torrenti di sabbia; pertanto fui costretto a rivolgere la mia attenzione alla riva del fiume. Qui tutto sembrava abbastanza facile. È vero che le dune scendevano fino all'acqua, ma c'erano parecchi banchi di sabbia e bassifondi sui quali avrei potuto lanciare Pornic al galoppo, e aprirmi la strada verso la terraferma voltando bruscamente a destra o a sinistra. Stavo guidando Pornic alla riva, quando trasalii al fievole schiocco di un colpo di fucile, sparato dall'opposta riva del fiume; nel medesimo istante un proiettile si conficcò con un sibilo acuto nel terreno, a poca distanza dalla testa di Pornic. Non ci si poteva sbagliare sul tipo di proiettile: un Martini-Henry d'ordinanza. A circa cinquecento metri, un battello indigeno era ancorato in mezzo al fiume; e il filo di fumo che si levava dalla prua nella quieta aria del mattino mi rivelò donde veniva la cortese attenzione. Ebbe mai un rispettabile gentiluomo a trovarsi in una simile impasse? Il pendio di sabbia traditrice non concedeva alcuna possibilità di fuga da un luogo in cui ero capitato del tutto involontariamente, e una passeggiata sulla riva del fiume si risolveva in un bombardamento da parte di qualche pazzo di indigeno appostato su un battello. Temo quindi di aver perso completamente le staffe. Un altro proiettile mi ricordò che avrei fatto meglio a impicciarmi, degli affari miei; e mi ritirai in tutta fretta sul terreno sabbioso fino al ferro di cavallo, dove vidi che il rumore degli spari aveva attirato sessantacinque esseri umani fuori da quelle tane di tasso che fino a quel momento avevo creduto disabitate. Mi ritrovai in mezzo a una folla di spettatori composta da circa quaranta uomini, venti donne e un bambino che non poteva avere più di cinque anni. Erano tutti sommariamente coperti da quel cencio color salmone che viene associato ai mendicanti indù, e, a prima vista, mi diedero l'impressione di un gruppo di ributtanti fachiri. La sporcizia e la ripugnanza di quell'insieme di persone erano al di là di qualsiasi descrizione, e rabbrividii al pensiero di quale doveva essere la loro vita in quelle tane di tasso. Anche ai giorni nostri, in cui l'autogoverno locale ha cancellato in gran parte il rispetto degli indigeni per i Sahib, sono avvezzo ad essere trattato con un certo riguardo dai miei inferiori; e, avvicinandomi a quel gruppo, mi aspettavo come cosa ovvia un qualche segno di riconoscimento della mia presenza. Di fatto è ciò che avvenne, ma non nel senso che intendevo io. Quella banda di straccioni mi rise letteralmente in faccia - un riso che spero di non udire mai più in vita mia. Poi, mentre avanzavo in mezzo a loro, iniziarono a schiamazzare, urlare, fischiare e ululare, alcuni gettandosi letteralmente in terra in convulsioni di empia gioia. In un attimo lasciai le redini di Pornic e, irritato oltre ogni dire dall'avventura mattutina, cominciai a prendere a ceffoni quelli che mi erano più vicini con tutta la forza di cui potevo disporre. Quei disgraziati cadevano sotto i miei colpi come birilli, e le risate cedettero il posto a lamentose invocazioni di pietà; mentre quelli che ancora non avevo colpito mi afferravano le ginocchia, implorandomi, in ogni sorta di rozzo linguaggio, di risparmiarli. Nella confusione, e proprio mentre incominciavo a vergognarmi di essermi lasciato trasportare così facilmente dall'ira, una voce fievole e acuta mormorò in inglese alle mie spalle: "Sahib! Sahib! Non mi riconosci? Sahib, sono Gunga Dass, l'ufficiale del telegrafo". Mi girai di scatto per trovarmi di fronte colui che aveva parlato. Gunga Dass (non ho, ovviamente, alcuna esitazione a chiamarlo con il suo vero nome) era un bramino del Deccan che avevo conosciuto quattro anni prima, quando il governo del Punjab lo aveva dato in prestito ad uno degli Stati di Klialsia. Lì gli era stato affidato un ufficio telegrafico, e l'ultima volta che l'avevo visto era un gioviale, panciuto e imponente impiegato del governo, con una straordinaria capacità di fare pessimi giochi di parole in inglese - una particolarità, questa, che me lo fece ricordare anche quando avevo dimenticato da un pezzo i servizi che mi aveva reso in qualità di funzionario pubblico. È raro che un indù faccia dei giochi di parole in inglese. L'uomo, tuttavia, era cambiato al punto da risultare irriconoscibile. Marchio di casta, stomaco, pantaloni color ardesia e parlata untuosa erano spariti. Quello che avevo di fronte era uno scheletro avvizzito, senza turbante e quasi nudo, con i lunghi capelli arruffati e gli occhi infossati da merluzzo. Se non fosse stato per una cicatrice a forma di mezza luna sulla guancia sinistra - conseguenza di un incidente di cui ero stato responsabile - non lo avrei mai

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riconosciuto. Ma si trattava indubbiamente di Gunga Dass e - cosa di cui gli ero grato - di un indigeno che, parlando inglese, avrebbe almeno potuto spiegarmi il significato di tutto ciò che mi era accaduto quel giorno. La folla si ritirò a una certa distanza mentre mi rivolgevo a quel poveraccio e gli ordinavo di indicarmi un modo per lasciare il cratere. L'uomo teneva in mano una cornacchia appena spennata e, per tutta risposta, si arrampicò lentamente su una piattaforma di sabbia che correva davanti alle buche, dove iniziò ad accendere un fuoco in silenzio. Steli secchi di agrostide, papaveri del deserto e legna marcia bruciano in fretta; e mi confortò parecchio constatare che li accendeva con un normale zolfanello. Quando si fu sviluppata una vivida fiamma, e la cornacchia, abilmente schidionata, venne messa ad arrostire, Gunga Dass iniziò senza alcun preambolo: "Ci sono solo due tipi di uomini, signore: i vivi e i morti. Quando uno è morto è morto, ma quando è vivo vive". (A questo punto la cornacchia richiese la sua attenzione per un istante, poiché girando sul fuoco rischiava di carbonizzarsi). "Se uno muore in casa ma non è morto quando arriva al ghat per essere cremato, finisce qui". Adesso mi era chiara la natura di quel fetido villaggio, e tutto ciò che avevo sentito o letto di orribile e grottesco impallidì di fronte alla rivelazione dell'ex bramino. Sedici anni or sono, quando sbarcai per la prima volta a Bombay, un vagabondo armeno mi disse che in qualche parte dell'India esisteva un luogo in cui venivano relegati quegli indù che avevano avuto la sfortuna di riaversi da uno stato di trance o di catalessi, e ricordo che risi di cuore a quello che allora mi piacque considerare un racconto inverosimile. Ora, seduto in fondo a quella trappola di sabbia, il ricordo del Watson's Hotel, con i suoi punkah oscillanti, la servitù in livrea bianca e l'armeno dal viso olivastro, mi tornò alla mente nitido come una fotografia, e scoppiai in una sonora risata. Il contrasto era troppo assurdo! Gunga Dass, chinandosi sull'immondo uccello, mi guardò incuriosito. Gli indù ridono raramente, e l'ambiente circostante non favoriva certo il riso. Con fare solenne tolse la cornacchia dallo spiedo di legno e, altrettanto solennemente, la divorò. Poi riprese il suo racconto, che riferisco usando le sue stesse parole: "Durante le epidemie di colera ti portano via per essere cremato ancora prima che tu sia morto. Quando arrivi al fiume, capita che l'aria fresca ti richiami in vita; allora, se dai anche solo qualche segno di vita, ti tappano il naso e la bocca con del fango e muori sul serio. Se i segni di vita sono insistenti, aggiungono altro fango; ma se sei troppo vivo lasciano perdere e ti portano via. Io ero troppo vivo, e protestai vivamente contro il trattamento indegno a cui cercavano di sottopormi. A quei tempi ero un bramino e un uomo fiero. Ora sono un uomo morto e mi nutro di ... ", e lanciò un'occhiata allo sterno ben rosicchiato, mostrando il primo segno di emozione da quando ci eravamo incontrati, " ... cornacchie e... altre cose. Quando si accorsero che ero troppo vivo, mi tolsero dal lenzuolo e mi rimpinzarono di medicine per una settimana, e sopravvissi senza problemi. Allora mi mandarono in treno alla stazione di Okara, sotto la sorveglianza di un uomo; alla stazione di Okara incontrammo altri due uomini, e tutti e tre fummo condotti, a dorso di cammello e di notte, dalla stazione di Okara fin qui; dalla cima del cratere mi spinsero giù, poi toccò agli altri due, e sono ormai passati due anni e mezzo. Una volta ero un bramino e un uomo fiero, mentre ora mi nutro di cornacchie". "Non esiste un modo per uscire di qui?". "Di nessun genere. I primi tempi che ero qui ho fatto diversi tentativi, come tutti del resto; ma ci siamo sempre dovuti arrendere alla sabbia che franava sulle nostre teste". "Ma sicuramente", intervenni a questo punto, "dalla parte del fiume la via è libera, e vale la pena di sfidare i proiettili, di notte... ". Avevo già concepito a grandi linee un piano di evasione, che un naturale istinto egoistico mi trattenne dal comunicare a Gunga Dass. Questi tuttavia indovinò il mio pensiero inespresso quasi nel momento stesso in cui veniva formulato; e, con mio grande stupore, si abbandonò a una lunga risata di scherno - la risata, per intenderci, di un superiore o almeno di un mio pari. "Non riuscirai", aveva abbandonato il "signore" dopo la prima frase, "a fuggire da quella parte. Ma puoi sempre provare. L'ho fatto anch'io. Una sola volta". La sensazione di indescrivibile terrore a cui avevo invano tentato di resistere mi sopraffece completamente. Il prolungato digiuno - erano quasi le dieci del mattino e non mangiavo nulla dal tiffin del giorno precedente - unito alla violenta agitazione della cavalcata mi aveva sfinito, e credo proprio di essermi comportato, per qualche minuto, come un folle. Mi avventai contro il pendio di sabbia. Corsi attorno alla base del cratere, alternando bestemmie e preghiere. Strisciai tra le càrici sulla riva del fiume, soltanto per essere respinto ogni volta, in un crescendo di terrore, dai proiettili che si conficcavano nella sabbia intorno - poiché non osavo affrontare una morte da cane idrofobo in mezzo a quella folla ripugnante - e infine caddi, esausto e delirante, ai piedi del pozzo. Nessuno aveva prestato la minima attenzione a quello spettacolo che ancora oggi, ripensandoci, mi fa arrossire di vergogna. Due o tre uomini calpestarono il mio corpo ansimante mentre attingevano acqua, ma evidentemente erano abituati a questo genere di cose e non avevano tempo da perdere con me. A dire il vero Gunga Dass, dopo aver ricoperto i resti del fuoco con della sabbia, si prese il disturbo di gettarmi sul capo una mezza ciotola di acqua fetida - una premura di cui l'avrei ringraziato in ginocchio, non fosse che aveva continuato a ridere per tutto il tempo in quel tono cupo e ansimante con cui aveva accolto il mio primo tentativo di guadare il fiume. E così, in condizioni di parziale deliquio, giacqui fino a mezzogiorno. Poi, essendo dopo tutto soltanto un uomo, mi venne fame e lo dissi a Gunga Dass, che avevo iniziato a considerare il mio protettore naturale. Istintivamente, come si fa nel mondo esterno quando si tratta con gli indigeni, infilai la mano in tasca e tirai fuori quattro anna. L'assurdità del dono mi colpì all'istante, e feci per rimettere il denaro in tasca. Gunga Dass, tuttavia, esclamò: "Dammi i soldi, tutto quello che hai, altrimenti chiamo gli altri e ti uccidiamo!".

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Credo che il primo impulso di un britannico sia di difendere il contenuto delle proprie tasche; ma, pensandoci un istante, mi resi conto che sarebbe stata una follia discutere con l'unica persona in grado di facilitarmi le cose, e con il cui aiuto avrei forse potuto, un giorno, fuggire dal cratere. Gli diedi tutto il denaro che avevo: nove rupie, otto anna e cinque pice, poiché tengo sempre in tasca degli spiccioli come bakshish quando sono al campo. Gunga Dass afferrò le monete e le nascose immediatamente nel lacero perizoma, guardandosi attorno per assicurarsi che nessuno ci avesse visto. "Adesso ti darò qualcosa da mangiare", disse lui. Quale piacere potesse dargli il mio denaro non saprei; ma, visto che lo rendeva felice, non rimpiansi di essermene privato così prontamente, anche perché non avevo il minimo dubbio che, di fronte a un mio rifiuto, mi avrebbe fatto uccidere. Non si protesta per i comportamenti che si incontrano in un covo di bestie feroci; e i miei compagni erano a un livello inferiore di qualsiasi bestia. Mentre mangiavo quello che mi aveva procurato Gunga Dass, una rozza chapatti e una ciotola di fetida acqua del pozzo, gli altri non mostrarono il minimo segno di curiosità - quella curiosità che, di solito, è così insistente nei villaggi indiani. Avrei anche potuto credere che mi disprezzassero. Ad ogni modo, mi trattavano con la più gelida indifferenza, e Gunga Dass era quasi altrettanto impassibile. Benché lo tempestassi di domande su quell'orribile villaggio, ottenni delle risposte assolutamente insoddisfacenti. Da quanto riuscii a capire, esisteva da tempo immemorabile - dal che dedussi che doveva essere vecchio almeno di un secolo - e fino a quel momento non si era mai saputo di qualcuno che fosse riuscito a fuggire. (A questo punto dovetti dominarmi con notevole sforzo, per evitare che il cieco terrore s'impadronisse di me un'altra volta facendomi correre in delirio attorno al cratere). Gunga Dass si divertì maliziosamente a sottolineare questo punto, e a vedermi trasalire. Non riuscii in alcun modo a convincerlo a dirmi chi erano i misteriosi "Loro". "Questi sono gli ordini", rispose, "e non ho ancora conosciuto qualcuno che abbia disobbedito agli ordini". "Aspetta solo che i miei servi si accorgano della mia scomparsa", ribattei io, "e ti prometto che questo luogo sarà cancellato dalla faccia della terra, e a te, amico mio, verrà data una lezione di civiltà". "I tuoi servi sarebbero fatti a pezzi prima ancora di arrivare in prossimità di questo luogo; inoltre tu sei morto, mio caro amico. Non è colpa tua, naturalmente, ma comunque sei morto e sepolto". Mi disse poi che, a intervalli regolari, venivano gettate nell'anfiteatro provviste di cibo, e gli abitanti se le disputavano come bestie feroci. Quando qualcuno sentiva approssimarsi la morte, si ritirava nella propria tana e lì moriva. Talvolta il corpo veniva tirato fuori dal buco e gettato sulla sabbia, altrimenti lo si lasciava marcire dov'era. L'espressione "gettato sulla sabbia" attirò la mia attenzione, e chiesi a Gunga Dass se questa soluzione non esponesse al rischio di una pestilenza. "Di questo", disse lui con un altro dei suoi risolini asmatici, "potrai rendertene conto tu stesso più avanti. Avrai molto tempo per fare delle osservazioni". Al che, con suo grande piacere, trasalii di nuovo e mi affrettai a proseguire la conversazione: "E come passi i tuoi giorni? Cosa fai?". La domanda produsse esattamente la stessa risposta di prima, insieme alla informazione che "questo posto è come il vostro Paradiso europeo: non si prende né si dà in matrimonio". Gunga Dass era stato educato in una scuola missionaria come ammetteva lui stesso, se soltanto avesse cambiato religione, "da uomo saggio", avrebbe potuto evitare quel destino di sepolto vivo. Ma immagino che il fatto di avermi con lui lo rendesse felice. Ecco lì un Sahib, un rappresentante della razza dominante, indifeso come un bambino e completamente alla mercé dei suoi compagni indigeni. Iniziò quindi a torturarmi con calcolata lentezza, come uno scolaro dedicherebbe mezz'ora a contemplare estaticamente l'agonia di uno scarabeo impalato, o come un furetto in una tana senza uscita potrebbe attaccarsi facilmente al collo di un coniglio. Il tema dominante della sua conversazione era che non esistevano vie di scampo "di alcun genere", e che sarei rimasto lì finché non fossi morto e mi avessero "gettato sulla sabbia". Se fosse possibile conoscere i discorsi dei Dannati quando una nuova anima giunge nella loro dimora, direi che parlerebbero come Gunga Dass nel corso di quel lungo pomeriggio. Io non avevo la forza di protestare o di rispondere; tutte le mie energie erano impegnate a lottare contro il terrore inesplicabile che minacciava di sopraffarmi a ogni istante. È una sensazione paragonabile soltanto agli sforzi che si fanno per combattere la nausea durante la traversata della Manica - con la differenza che la mia agonia era di natura spirituale e infinitamente più tremenda. Con il passare del tempo, gli abitanti cominciarono ad uscire a frotte dalle loro tane per godersi il sole pomeridiano, che cadeva in raggi obliqui dal bordo del cratere. Si riunivano a gruppetti e parlavano tra loro senza nemmeno gettare uno sguardo nella mia direzione. Verso le quattro, a quanto potei giudicare, Gunga Dass si alzò e sparì nella propria tana per riemergere dopo un attimo con una cornacchia viva tra le mani. Il povero uccello era alquanto infangato e malconcio, ma non sembrava affatto impaurito dal bramino. Avvicinandosi con cautela alla riva del fiume, Gunga Dass passò da ciuffo d'erba a ciuffo d'erba finché non ebbe raggiunto un tratto di terra sabbioso che si trovava direttamente sulla linea di fuoco del battello. I suoi occupanti non gli prestarono la minima attenzione. Qui si fermò e, con un paio di abili movimenti rotatori del polso, inchiodò l'uccello al suolo, sul dorso ad ali spiegate. Naturalmente la cornacchia iniziò a stridere e a battere l'aria con le zampe. In pochi secondi lo stridore aveva richiamato l'attenzione di uno stormo di cornacchie selvatiche su una secca a qualche centinaio di metri di distanza, dove stavano assaporando qualcosa che sembrava essere un cadavere. Mezza dozzina di uccelli si alzò subito in volo per andare a vedere cosa stesse accadendo, nonché, come risultò in breve, per assalire il compagno incavicchiato. Gunga Dass, che intanto si era sdraiato dietro un ciuffo d'erba, mi fece segno di restare immobile, benché l'avvertimento fosse superfluo. In un attimo,

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e prima che potessi rendermi conto di come avvenne, una cornacchia selvatica che si era avventata sull'uccello inerme e strillante, rimase impigliata negli artigli di quest'ultimo, venne prontamente liberata da Gunga Dass e inchiodata al suolo accanto al compagno di sventura. Sembrava che la curiosità avesse sopraffatto il resto dello stormo, e ancor prima che Gunga Dass ed io avessimo il tempo di ritirarci tra i cespugli, altri due prigionieri si stavano dibattendo tra gli artigli rivolti all'insù delle esche. In tal modo la caccia - se posso usare un termine così dignitoso - proseguì finché Gunga Dass non ebbe catturato sette cornacchie. A cinque di loro tirò il collo subito, riservandone due per un altro giorno. Io rimasi alquanto impressionato da quello che per me era un metodo nuovo di procurarsi il cibo, e mi complimentai con Gunga Dass per la sua abilità. "Non ci vuole niente", disse lui. "Domani lo farai tu per me. Sei più forte". Questa calma affermazione di superiorità mi irritò alquanto, e ribattei in tono perentorio: "Davvero, vecchio ruffiano? Per cosa credi che ti abbia dato quel denaro?" "Benissimo", fu l'impassibile risposta. "Forse non domani, né dopodomani, né i giorni successivi; ma alla fine, e per molti anni, tu catturerai cornacchie e mangerai cornacchie, e ringrazierai il tuo Dio europeo di avere delle cornacchie da catturare e da mangiare". L'avrei strozzato volentieri per questo, ma, considerate le circostanze, pensai fosse meglio soffocare la rabbia. Un'ora dopo mangiavo una delle sue cornacchie; e, come aveva detto Gunga Dass, ringraziavo il mio Dio di avere una cornacchia da mangiare. Non dimenticherò mai finché vivrò quel pasto serale. L'intera popolazione era accoccolata sulla dura piattaforma di sabbia davanti alle tane, accalcata intorno a dei fuocherelli di rifiuti e di giunchi secchi. La morte, dopo aver steso la mano su questi uomini ed essersi astenuta dal colpire, sembrava ora tenersene lontana; infatti erano per lo più anziani, curvi, spossati e deformati dagli anni, e le donne sembravano vecchie come le Parche stesse. Sedevano in gruppi e parlavano - Dio solo sa cos'avessero da discutere - in tono sommesso e uniforme, curiosamente in contrasto con lo stridente cicaleccio con cui gli indigeni son soliti rendere insopportabile la giornata. Di quando in quando un uomo o una donna veniva colto da un attacco di quella furia improvvisa che si era impadronita di me nella mattinata; e con urla e imprecazioni si lanciava contro il ripido pendio finché, frustrato e sanguinante, ricadeva sulla piattaforma incapace di muovere un arto. Gli altri non alzavano nemmeno lo sguardo, come se fossero anche troppo consapevoli dell'inutilità di quei tentativi, e stufi del loro vano ripetersi. Nel corso di quella serata assistetti a quattro attacchi di quel genere. Gunga Dass considerò la mia situazione da un punto di vista eminentemente pratico, e 'mentre stavamo mangiando - ora posso permettermi di ridere al ricordo, ma allora fu abbastanza penoso - mi espose i termini dell'accordo in base al quale avrebbe acconsentito ad occuparsi di me. Le mie nove rupie e otto anna, spiegò, a una media di tre anna al giorno, mi avrebbero garantito il cibo per cinquanta giorni, ovvero sette settimane circa; in altre parole, egli sarebbe stato disposto a procurarmi da mangiare per quel periodo di tempo. Dopodiché me la sarei dovuta cavare da solo. Dietro ulteriore compenso - vale a dire i miei stivali - mi avrebbe permesso di occupare la tana accanto alla sua, e mi avrebbe fornito, per il giaciglio, quanta erba secca fosse riuscito a risparmiare. "Molto bene, Gunga Dass", risposi io, "accetto di buon grado la prima condizione; ma, poiché non esiste nulla al mondo che mi impedisca di ucciderti all'istante e di prenderti tutto ciò che hai" (in quel momento pensavo alle due preziosissime cornacchie) "rifiuto decisamente di darti i miei stivali, e mi prenderò la tana che voglio". La mossa era audace e rimasi soddisfatto nel constatare che aveva avuto successo. Gunga Dass cambiò immediatamente tono e negò qualsiasi pretesa nei confronti dei miei stivali. Al momento non mi colpì la stranezza del fatto che io, ingegnere al servizio del governo da tredici anni e, credo, un inglese medio, potessi con tutta calma minacciare di morte violenta l'uomo che mi aveva preso, anche se per puro interesse, sotto la sua ala. Sembrava che il mondo civile fosse lontano secoli. Ero certo, come lo sono ora della mia esistenza, che in quella maledetta colonia non vi fosse altra legge di quella del più forte; che quei morti viventi si fossero gettati alle spalle qualsiasi regola della società che li aveva cacciati; e che, se volevo sopravvivere, dovevo fare affidamento solo sulla mia forza fisica e sulla mia accortezza. Gli unici che potrebbero comprendere il mio stato d'animo sono gli uomini che formavano l'equipaggio della sventurata Mignonette. "Per il momento", dissi a me stesso, "sono forte e valgo quanto sei di questi disgraziati. Quindi, se voglio sopravvivere, è assolutamente necessario che conservi le forze e la salute fino al momento della liberazione... se mai arriverà". Incoraggiato da questa decisione, mangiai e bevvi il più possibile, e feci capire a Gunga Dass che intendevo essere il suo padrone e che il minimo segno di insubordinazione da parte sua sarebbe stato punito con l'unica pena che avevo il potere di infliggere - una morte violenta e improvvisa. Dopodiché, lasciati passare alcuni istanti, me ne andai a letto. Ovvero Gunga Dass mi diede due bracciate di sterpi che infilai nell'imboccatura della tana a destra della sua, prima di entrarvi pure io con i piedi in avanti. La buca avanzava per un paio di metri nella sabbia con una leggera inclinazione verso il basso, ed era accuratamente puntellata con dei pezzi di legno. Dalla mia tana prospiciente il corso del fiume potevo vedere le acque del Sutlej scorrere alla luce della luna nuova, e sistemarmi alla meglio per dormire. Non dimenticherò mai gli orrori di quella notte. La mia tana era stretta quasi quanto una bara, e il contatto d'innumerevoli corpi nudi aveva reso le sue pareti levigate e unte, oltre ad impregnarle d'un lezzo disgustoso. Nello stato di eccitazione in cui mi trovavo la possibilità di prendere sonno era del tutto fuori questione. Col passare delle ore, sembrava che l'intero anfiteatro si riempisse di schiere di demoni immondi, che, salendo a frotte dalle secche sottostanti, venivano a schernire quei disgraziati nei loro covi. Pur non avendo un carattere immaginativo - ben pochi ingegneri ce l'hanno -, in quell'occasione fui completamente sopraffatto da un terrore di origine nervosa, come una qualsiasi donna. Dopo circa mezz'ora, tuttavia,

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riuscii nuovamente a calmarmi e a passare in rassegna le possibilità di fuga. Lungo le ripide pareti di sabbia, ovviamente, non c'era alcuna via d'uscita; di ciò mi ero già potuto convincere pienamente da un pezzo. Era possibile, appena possibile, che alla luce incerta della luna riuscissi a sfidare con successo le fucilate del battello. Ma quel luogo era talmente orribile che avrei corso qualsiasi rischio pur di andarmene. Si immagini dunque la mia gioia quando, una volta che ebbi raggiunto furtivamente la riva del fiume, mi accorsi che l'infernale battello era scomparso. La libertà mi si offriva a pochi passi! Una volta raggiunta la prima pozza di acqua poco profonda all'estremità sinistra del ferro di cavallo, avrei potuto passare a guado, aggirare il fianco del cratere e aprirmi la strada verso la terraferma. Senza un attimo di esitazione oltrepassai rapidamente i ciuffi d'erba presso i quali Gunga Dass aveva catturato le cornacchie e mi diressi verso il tratto di sabbia bianca e uniforme che si estendeva al di là. Ma il primo passo che feci oltre i cespugli mi rivelò quanto fosse inutile qualsiasi speranza di fuga; infatti, nel posare il piede a terra, avvertii un movimento indescrivibile della sabbia sottostante, come un cedimento o un risucchio. In un attimo la mia gamba fu inghiottita fino quasi al ginocchio. Alla luce della luna l'intera superficie di sabbia pareva fremere di un piacere diabolico, derivato dal constatare la mia delusione. Mi liberai a fatica, sudando per il terrore e lo sforzo, e indietreggiai fino ai cespugli alle mie spalle, dove mi lasciai cadere a faccia in giù. L'unica via d'uscita dal semicerchio era custodita dalle sabbie mobili! Non ho la minima idea di quanto rimasi in quella posizione; alla fine fui scosso dal risolino crudele di Gunga Dass, che mi bisbigliò all'orecchio: "Ti consiglierei, Protettore dei Poveri" (il ruffiano parlava inglese) "di tornare nella tua tana. È insalubre rimanere qui sdraiati. Inoltre, quando tornerà il battello, verrai preso sicuramente a fucilate". Mi era chino sopra, nella luce incerta dell'alba, e sogghignava e rideva tra sé. Sopprimendo il primo impulso di prenderlo per il collo e scaraventarlo nelle sabbie mobili, mi alzai con un'espressione ostile e lo seguii fino alla piattaforma prospiciente le tane. Improvvisamente e, come pensai nell'attimo stesso in cui parlavo, inutilmente, chiesi: "Gunga Dass, a cosa serve il battello se non si può fuggire comunque?". Ricordo che, anche nei momenti di maggiore sconforto, avevo riflettuto vagamente sullo spreco di munizioni che comportava la sorveglianza di un tratto di fiume già ben protetto dalla natura. Gunga Dass rise di nuovo e rispose: "Il battello fa la guardia soltanto di giorno. Questo perché esiste un modo per fuggire di qui. Spero che potremo godere ancora a lungo della tua compagnia. È un posto carino, quando ci sei vissuto qualche anno e hai mangiato cornacchie arrosto a sufficienza". Confuso e intorpidito, mi avviai barcollando verso la fetida tana che mi era stata assegnata e mi addormentai. Dopo circa un'ora fui svegliato da un grido - il grido acuto, lacerante di un cavallo in agonia. Chi l'ha udito una volta non lo dimentica più. Con una certa difficoltà riuscii a tirarmi fuori dal buco. Quando fui all'aperto vidi Pornic, il mio povero vecchio Pornic, disteso senza vita sul terreno sabbioso. Come lo avessero ucciso non saprei. Gunga Dass mi spiegò che la carne di cavallo è migliore di quella di cornacchia, e che "in base a un principio politico, la proprietà va divisa tra il maggior numero di gente. Ora siamo una repubblica, signor Jukes, e ha diritto anche lei ad un'equa porzione della bestia. Se vuole, metteremo ai voti una mozione di ringraziamento. Faccio la proposta?". Sì, eravamo proprio una repubblica! Una repubblica di bestie feroci rinchiuse in fondo a una fossa a mangiare, lottare e dormire fino alla morte. Non cercai nemmeno di protestare, mi sedetti e fissai lo spettacolo orrendo che avevo di fronte. Quasi in minor tempo di quanto ci vuole a scriverlo, la carcassa di Pornic venne smembrata in maniera ripugnante; poi gli uomini e le donne trascinarono i resti sulla piattaforma e cominciarono a preparare il pasto mattutino. Gunga Dass cosse il mio. Di nuovo mi colse l'impulso quasi irresistibile di avventarmi contro le pareti di sabbia fino al completo esaurimento, e dovetti combatterlo con tutte le mie forze. Gunga Dass mantenne un atteggiamento scherzoso ed offensivo finché non gli dissi che se mi avesse rivolto un'altra osservazione, di qualsiasi genere, lo avrei strangolato senza esitazione. Ciò lo ridusse al silenzio, ma in breve il silenzio divenne insopportabile e gli ordinai di dire qualcosa. "Rimarrai qui finché non morirai come l'altro Feringhi", disse con freddezza, guardandomi da sopra il pezzo di cartilagine che stava rosicchiando. "Quale altro Sahib, porco? Dimmelo subito, e non voglio sentire bugie". "È laggiù", rispose Gunga Dass indicando l'imboccatura di una tana, la quarta a sinistra dalla mia. "Puoi vedere tu stesso. È morto nel suo buco come accadrà a te, a me e a tutti questi uomini e queste donne, e anche all'unico bambino". "Per l'amor di Dio, dimmi tutto ciò che sai di lui. Chi era? Quando arrivò; e quando è morto?". Questa supplica fu un errore da parte mia. Gunga Dass si limitò a guardarmi di traverso e a rispondere: "Non ti dirò nulla... se prima non mi darai qualcosa". Allora mi ricordai dov'ero e lo colpii in mezzo agli occhi, facendogli quasi perdere i sensi. Lui scese immediatamente dalla piattaforma e, facendosi piccolo e piagnucolando in tono servile e tentando di abbracciarmi i piedi, mi condusse alla tana che aveva indicato. "Non so nulla di quell'uomo. Il tuo Dio mi è testimone che non mento. Era ansioso come te di fuggire, e gli spararono dal battello; benché tutti noi avessimo fatto il possibile per dissuaderlo dal tentare la fuga. Fu colpito proprio qui". Gunga Dass si portò la mano al ventre incavato piegandosi fin quasi a terra. "Bene, e poi? Continua!" "E poi... e poi, Vostro Onore, lo portammo nella sua tana e gli demmo dell'acqua, e gli mettemmo degli stracci bagnati sulla ferita, e lì giacque fino a che rese l'anima".

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"Dopo quanto? Dopo quanto?" "Dopo circa mezz'ora da che venne ferito. Chiamo Visnù a testimone", gridò il miserabile, "che ho fatto di tutto per salvarlo. Tutto ciò che era possibile, ho fatto!". Si gettò a terra e mi afferrò le caviglie. Ma avevo i miei dubbi sulla benevolenza di Gunga Dass, e lo allontanai a pedate malgrado le sue proteste. "Credo che tu lo abbia derubato di tutto ciò che aveva. Ma potrò accertarmene tra poco. Quanto tempo è stato qui il Sahib?" "Quasi un anno e mezzo. Credo che fosse impazzito. Ma ascolta il mio giuramento, Protettore dei Poveri! Non vuole Vostro Onore sentirmi giurare che non ho mai toccato una sola delle sue cose? Cosa vuole fare Vostra Eccellenza?". Avevo afferrato Gunga Dass per la vita e lo avevo trascinato sulla piattaforma, di fronte alla tana disabitata. Così facendo, pensavo alle indescrivibili sofferenze che il mio povero compagno di prigionia doveva aver patito per diciotto mesi in mezzo a tutti quegli orrori, e all'angoscia finale di morire come un topo in un buco, con un proiettile nello stomaco. Gunga Dass, immaginando che stessi per ucciderlo, iniziò a urlare pietosamente. Il resto degli abitanti, nella pletora che segue un pasto abbondante a base di carne, ci osservava senza reagire. "Entra, Gunga Dass", dissi, "e tiralo fuori". Ora provavo un senso di nausea e di svenimento per l'orrore della situazione. Gunga Dass rotolò quasi giù dalla piattaforma gridando forte. "Ma sono un bramino, Sahib... un bramino di casta superiore. Per la tua anima, per l'anima di tuo padre, non costringermi a fare una cosa simile!". "Bramino o non bramino, per la mia anima e per l'anima di mio padre, tu adesso entri!", dissi; e, afferratolo per le spalle, gli ficcai la testa dentro l'imboccatura della tana, vi spinsi il resto del corpo a pedate e, sedutomi, mi coprii il volto con le mani. Dopo qualche istante udii un fruscìo e uno scricchiolìo; poi Gunga Dass che mormorava qualcosa tra sé, con voce soffocata e rotta dai singhiozzi; quindi un tonfo leggero... e levai le mani dagli occhi. La sabbia asciutta aveva trasformato il cadavere affidato alla sua custodia in una mummia di colore giallo-bruno. Dissi a Gunga Dass di tenersi in disparte mentre lo esaminavo. Il corpo - vestito di un abito da caccia verde oliva, assai logoro e macchiato, con dei rinforzi di cuoio sulle spalle - era quello di un uomo tra i trenta e i quarant'anni, di statura superiore alla media, con fini capelli biondo-rossicci, lunghi baffi e una barba ispida e incolta. Gli mancava il canino superiore sinistro e una parte del lobo dell'orecchio destro. All'anulare della mano sinistra aveva un anello - un eliotropio a forma di scudo montato in oro, con un monogramma che avrebbe potuto essere sia "B.K." che "B.L.". Al medio della mano destra aveva un anello d'argento a forma di cobra attorcigliato e assai ossidato. Gunga Dass depose ai miei piedi una manciata di oggetti che aveva raccolto nella tana e io, dopo aver coperto il volto del cadavere con il mio fazzoletto, passai ad esaminarli. Fornisco l'elenco completo, nella speranza che possa servire all'identificazione di quel poveretto: 1. Un fornello di una pipa di radica, con il bordo dentellato; molto consumato e annerito; rinforzato con del filo alla vite. 2. Due chiavi lunghe; entrambe con i denti spezzati. 3. Un temperino con il manico di tartaruga, d'argento o nichel, la targhetta incisa con le iniziali "B.K.". 4. Una busta da lettera con il timbro postale indecifrabile e un francobollo vittoriano, indirizzata a "Miss Mon... " (il resto illeggibile) ... "ham" ... "nt". 5. Un taccuino in finta pelle di coccodrillo, con matita. Le prime quarantacinque pagine bianche; quattro e mezza illeggibili; le altre quindici piene di annotazioni personali riguardanti principalmente tre persone: una certa signora L. Singleton, abbreviata diverse volte in "Lot Single", "Mrs. S. May" e "Garmison", chiamato talvolta "Jerry" o "Jack". 6. L'impugnatura di un coltello da caccia di piccole dimensioni. La lama spezzata quasi all'attaccatura. Corno di cervo, sfaccettato come un diamante, con un anello e un perno girevole all'estremità; un frammento di corda di cotone attaccato. Non si deve pensare che, sul momento, inventariai tutte queste cose con la stessa cura con cui le ho elencate ora. Dapprima la mia attenzione fu attratta dal taccuino, e me lo infilai in tasca con il proposito di esaminarlo più attentamente in seguito. Poi portai gli altri oggetti nella mia tana per sicurezza, e lì, essendo una persona metodica, ne feci l'inventario. Quindi ritornai dov'era il cadavere e ordinai a Gunga Dass di aiutarmi a portarlo sulla riva del fiume. Mentre eravamo impegnati in questa operazione, da una delle tasche cadde il bossolo esploso di una vecchia cartuccia marrone, e rotolò ai miei piedi. Gunga Dass non lo vide; ed io pensai che un uomo non si porta dietro dei bossoli esplosi quando va a caccia - specialmente di cartucce marroni, che non si possono ricaricare. In altre parole, quella cartuccia era stata sparata dentro il cratere. Di conseguenza doveva esserci un fucile da qualche parte. Stavo per chiedere a Gunga Dass, ma mi trattenni, sapendo che avrebbe mentito. Adagiammo il cadavere al limite delle sabbie mobili, presso i ciuffi d'erba. Era mia intenzione spingerlo dentro, in modo che venisse inghiottito - l'unica sepoltura possibile che riuscissi a immaginare. Ordinai quindi a Gunga Dass di andarsene.

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Poi spinsi con cautela il corpo verso le sabbie mobili. Così facendo, poiché l'uomo giaceva a faccia in giù, lacerai la giacca da caccia cachi, logora e imputridita, mettendo a nudo un'orrenda ferita sulla schiena. Ho già accennato che la sabbia asciutta aveva, per così dire, mummificato il corpo. Mi bastò un'occhiata per capire che lo squarcio era stato prodotto da una ferita d'arma da fuoco; il colpo doveva essere stato sparato quasi a bruciapelo. La giacca, essendo intatta, doveva essere stata messa sul corpo dopo la morte, sicuramente istantanea. In un attimo il segreto della morte di quel poveretto mi fu chiaro. Un abitante del cratere, probabilmente lo stesso Gunga Dass, doveva avergli sparato con il suo fucile - il fucile che utilizzava le cartucce marroni. L'uomo non aveva mai tentato la fuga sfidando le fucilate dal battello. Con un rapido gesto spinsi il corpo nelle sabbie mobili, dove lo vidi sprofondare e scomparire letteralmente in pochi istanti. Mentre osservavo fui scosso da un brivido. Stupefatto e semincosciente, mi accinsi ad esaminare il taccuino. Tra il dorso e la rilegatura era stata inserita una strisciolina di carta macchiata e scolorita, che cadde fuori mentre sfogliavo le pagine. Questo è quanto vi era scritto: "Quattro verso l'esterno del cespuglio delle cornacchie; tre a sinistra; nove verso l'esterno; due a destra; tre indietro; due a sinistra; quattordici verso l'esterno; due a sinistra; sette verso l'esterno; uno a sinistra; nove indietro; due a destra; sei indietro; quattro a destra; sette indietro". Il foglietto era bruciacchiato e annerito ai margini. Il significato delle annotazioni mi era incomprensibile. Sedetti sull'erba secca, girandolo e rigirandolo tra le dita finché non mi accorsi della presenza di Gunga Dass, in piedi alle mie spalle con gli occhi ardenti e le mani protese. "L'hai trovato?", disse ansimando. "Mi lasci dare un'occhiata? Giuro che te lo restituisco!". "Trovato cosa? Restituire cosa?", chiesi io. "Quello che hai tra le mani. Ci aiuterà entrambi". Protese i lunghi artigli da uccello, tremando per la smania. "Io non sono mai riuscito a trovarlo", continuò. "Lo teneva nascosto sulla sua persona. Perciò gli ho sparato; ma anche così non sono riuscito a trovarlo". Gunga Dass aveva completamente dimenticato la storiella del colpo di fucile sparato dal battello. Lo ascoltai in tutta calma. Il senso morale si offusca vivendo insieme ai Morti viventi. "Di cosa diavolo stai vaneggiando? Che vuoi da me?" "Il foglietto nascosto nel taccuino. Ci aiuterà entrambi. Oh, stupido! Stupido! Non riesci a capire a cosa ci servirà? Fuggiremo!". Alzò il tono di voce fino quasi a urlare, e iniziò a ballarmi davanti eccitato. Ammetto che fui stimolato anch'io dall'idea di fuggire. "Vuoi dire che questo foglietto di carta ci aiuterà a fuggire? Cosa significa?" "Leggilo ad alta voce! Leggilo ad alta voce! Ti prego, ti supplico di leggerlo ad alta voce". Così feci. Gunga Dass ascoltò estasiato, tracciando una linea irregolare sulla sabbia con le dita. "Guarda! È la lunghezza delle canne del suo fucile, senza il calcio. Io ho quelle canne. Quattro canne verso l'esterno dal luogo in cui ho catturato le cornacchie. Sempre diritto; mi segui? Poi tre a sinistra. Ah! Ora ricordo bene come calcolava le distanze, notte dopo notte. Quindi nove verso l'esterno, e così via. Verso l'esterno significa sempre dritto davanti a te attraverso le sabbie mobili, in direzione nord. Me lo disse prima che lo uccidessi". "Ma se sapevi tutto questo, perché non sei ancora fuggito?" "Non lo sapevo. Un anno e mezzo fa mi disse che stava elaborando un piano di fuga, e che ci stava lavorando ogni notte, quando il battello se n'era andato e ci si poteva avvicinare alle sabbie mobili senza pericolo. Poi disse che saremmo fuggiti insieme. Ma io temevo che, una volta messo a punto il piano, se ne sarebbe andato senza di me, e così gli sparai. Inoltre, non è opportuno che gli uomini fuggano da questo luogo, una volta che vi sono entrati. Soltanto io posso, ma io sono un bramino". La speranza di fuggire aveva risvegliato in Gunga Dass la coscienza di casta. Si era raddrizzato e mi camminava intorno gesticolando animatamente. Quando infine riuscii a calmarlo, mi raccontò come questo inglese avesse trascorso sei mesi, lavorando tutte le notti, ad esplorare centimetro per centimetro il passaggio attraverso le sabbie mobili; e come avesse dichiarato che era del tutto praticabile fino a una ventina di metri dalla riva, dopo aver aggirato il corno sinistro del ferro di cavallo. Evidentemente questo tratto di percorso doveva ancora essere completato quando Gunga Dass gli sparò con il suo stesso fucile. Ricordo che, trasportato dalla gioia per la possibilità di fuga, strinsi freneticamente la mano a Gunga Dass allorché venne deciso di compiere un tentativo quella notte stessa. L'attesa, durante tutto il pomeriggio, fu assai estenuante. Verso le dieci, da quanto potei giudicare, quando la luna era appena spuntata oltre il bordo del cratere, Gunga Dass andò nel suo buco a prendere le canne di fucile che ci sarebbero servite a misurare il percorso. Tutti gli altri infelici abitanti si erano ritirati nelle loro tane da un pezzo. Il battello di guardia si era allontanato qualche ora prima seguendo il filo della corrente, e noi eravamo completamente soli presso il cespuglio delle cornacchie. Gunga Dass, che portava le canne del fucile, lasciò cadere il pezzo di carta che doveva servirci da guida. Io mi chinai prontamente per raccoglierlo e, così facendo, mi accorsi che il bramino stava sferrandomi un violento colpo alla nuca con le canne del fucile. Ma era troppo tardi per voltarmi. Devo aver ricevuto il colpo in qualche punto della nuca, poiché caddi privo di sensi al limite delle sabbie mobili. Quando rinvenni la luna stava calando, e sentivo un dolore insopportabile alla nuca. Gunga Dass era scomparso, e avevo la bocca piena di sangue. Mi riadagiai e pregai di poter morire senza ulteriori sofferenze. Poi quella furia irragionevole che ho menzionato prima s'impadronì di me, e barcollando mi diressi verso le pareti del cratere. Ebbi

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l'impressione che qualcuno mi stesse chiamando sottovoce: "Sahib! Sahib! Sahib!", proprio com'era solito fare il mio domestico la mattina. Credetti di delirare, finché una manciata di sabbia non cadde ai miei piedi. Allora guardai in alto e vidi una testa che scrutava nell'anfiteatro - la testa di Dunnoo, il ragazzo che badava ai miei pastori scozzesi. Non appena ebbe richiamato la mia attenzione, levò una mano e mi mostrò una corda. Vacillando, gli feci segno di buttarmela giù. Era formata da un paio di lacci di cuoio del punkah legati insieme, con un cappio ad una estremità. Infilai la testa e le braccia nel cappio; sentii Dunnoo che incitava qualcosa a muoversi; fui conscio di essere tirato a faccia in giù lungo il ripido pendio di sabbia; e dopo un istante mi ritrovai mezzo soffocato e semisvenuto sulle dune che dominavano il cratere. Dunnoo, con il volto grigio-cenere alla luce della luna, mi supplicò di non fermarmi, ma di tornare subito alla mia tenda. Pare che avesse seguito le tracce di Pornic per quattordici miglia attraverso il deserto, fino al cratere; dopodiché era tornato indietro e aveva riferito la cosa ai miei servi, che si erano rifiutati categoricamente di immischiarsi con chiunque, bianco o nero, fosse caduto nell'orrendo Villaggio dei Morti; allora Dunnoo aveva preso uno dei miei pony e un paio di corde del punkah, era ritornato al cratere e mi aveva tratto in salvo nel modo che ho descritto. BEE BEE, PECORA NERA Baa Baa, Black Sheep, Have you any wool? Yes, Sir, yes, Sir, three bags full. One for the Master, one for the Dame - None for the Little Boy that cries down the lane. Nursery Rhymes IL PRIMO SACCO Quand'ero nella casa di mio padre, ero in un posto migliore. Stavano mettendo a letto Punch - l'ayah e l'hamal e Meeta, il grosso ragazzo surti con il turbante rosso e oro. Judy, già infilata sotto la zanzariera, era quasi addormentata. A Punch avevano permesso di rimanere alzato per la cena. Negli ultimi dieci giorni erano stati concessi molti privilegi a Punch, e i suoi modi e le sue occupazioni, assai turbolenti, erano stati accolti con maggiore benevolenza dalle persone che costituivano il suo mondo. Ora sedeva sul bordo del letto e dondolava le gambe nude con aria di sfida. "Punch- baba va a fare la nanna?", disse l'ayah in tono persuasivo. "No", disse Punch. "Punch-baba vuole la storia della Ranee che venne trasformata in tigre. Deve raccontarla Meeta, e l'hamal si nasconderà dietro la porta e al momento opportuno farà il ruggito della tigre". "Ma Judy-baba si sveglierà", disse l'ayah. "Judy-baba è sveglia", cinguettò una vocina da dietro la zanzariera. "C'era una Ranee che viveva a Delhi. Continua, Meeta", e si riaddormentò profondamente mentre Meeta incominciava la storia. Punch non aveva mai incontrato così poca resistenza nell'ottenere che gli raccontassero quella storia. Ciò gli diede molto da riflettere. L'hamal fece il ruggito della tigre in venti tonalità diverse. "Basta!", disse Punch con tono autoritario. "Perché Papà non viene a dirmi che mi farà ciac-ciac?" "Punch-baba sta per partire", disse l'ayah. "Tra una settimana non ci sarà più alcun Punch-baba a tirarmi i capelli". E sospirò dolcemente, perché il ragazzino di quella famiglia le era molto caro. "In treno fino ai Ghauts?", disse Punch, in piedi sul letto. "Fino a Nassick, dove vive la Ranee-Tigre?" "Non a Nassick, quest'anno, piccolo Sahib", disse Meeta, prendendoselo in spalla. "Giù al mare, dove si gettano le noci di cocco, e al di là del mare in una grossa nave. Porterai Meeta con te a Belait?" "Verrete tutti", disse Punch, dall'alto delle braccia robuste di Meeta. "Meeta e l'ayah e l'hamal e Bhini-nel-Giardino, e il salaam-Capitano-Sahib-uomo-dei-serpenti". Non v'era alcuna ironia nella voce di Meeta, quando rispose: "Grande è il favore del Sahib", e depose il piccolo uomo nel letto, mentre l'ayah, seduta al chiaro di luna sulla soglia, lo faceva addormentare con un cantico interminabile, come quelli che intonano nella chiesa cattolica di Parel. Punch si raggomitolò e dormì. Il mattino dopo Judy si svegliò urlando che c'era un topo nella nursery, e così lui si dimenticò di riferirle la straordinaria notizia. Non era una mancanza grave, poiché Judy aveva solo tre anni e non avrebbe capito. Ma Punch ne aveva cinque, e sapeva che andare in Inghilterra sarebbe stato molto più bello di una gita a Nassick. Papà e Mamma vendettero il brougham e il pianoforte, svuotarono la casa, ridussero il servizio di stoviglie per i pasti giornalieri e tennero lunghe consulte su un fascio di lettere che portavano il timbro postale di Rocklington. "La cosa peggiore è che non si può avere alcuna certezza", disse il Papà, tirandosi i baffi. "Le lettere in sé sono eccellenti, e le condizioni abbastanza buone". "La cosa peggiore è che i bambini cresceranno lontano da me", pensò la Mamma; ma non lo disse a voce alta.

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"Il nostro non è che un caso tra centinaia di altri", disse il Papà con amarezza. "Tra cinque anni tornerai di nuovo in patria, mia cara". "Punch allora avrà dieci anni... e Judy otto. Oh, come sarà lungo, lungo questo periodo! E dobbiamo lasciarli tra degli estranei". "Punch è un ragazzino vivace. Ovunque andrà si farà certo degli amici". "E come si fa a non voler bene alla mia Ju?". Erano in piedi, a notte inoltrata, accanto ai lettini nella nursery, e credo che la Mamma piangesse in silenzio. Quando il Papà se ne fu andato, lei si inginocchiò accanto al lettino di Judy. L'ayah la vide e recitò una preghiera affinché la Memsahib non potesse mai vedersi privata dell'affetto dei suoi bambini da un'estranea. La preghiera della Mamma, invece, fu leggermente illogica. Riassunta, diceva: "Fa' che gli estranei amino i miei bambini e siano buoni con loro come lo sarei io, ma fa' che io conservi il loro amore e la loro fiducia per sempre. Amen". Punch si grattò nel sonno e Judy gemette appena. Il giorno dopo scesero tutti al mare e ci fu una scenata allo Apollo Bunder, quando Punch scoprì che Meeta non poteva partire con loro, e Judy apprese che l'ayah doveva essere lasciata indietro. Ma Punch scoprì mille cose affascinanti nel cavo, nel bozzello e nei tubi per il vapore del grosso piroscafo P. & O., molto prima che Meeta e l'ayah si fossero asciugati le lacrime. "Ritorna, Punch-baba", disse l'ayah. "Ritorna", disse Meeta, "per essere un Burra Sahib (un uomo importante). "Sì", disse Punch, sollevato dal padre affinché potesse salutare. "Sì, tornerò e sarò un Burra Sahib Bahadur (un uomo davvero molto importante)!". Alla fine del primo giorno, Punch chiese di essere sbarcato in Inghilterra, che sicuramente doveva essere molto vicina. Il giorno dopo ci fu una brezza vivace e Punch stette molto male. "Quando tornerò a Bombay", disse Punch non appena si fu rimesso, "farò il viaggio via terra... in broom- gharri. Questa nave è pessima". Il nostromo svedese lo consolò e lui cambiò idea a mano a mano che il viaggio proseguiva. C'era così tanto da vedere, da toccare e da chiedere che Punch quasi dimenticò l'ayah, Meeta e l'hamal, e ricordava a stento qualche parola di indostano, che un tempo era la sua seconda lingua. Per Judy il cambiamento fu anche più drastico. Il giorno prima che il piroscafo arrivasse a Southampton, la Mamma le chiese se non le sarebbe piaciuto rivedere l'ayah. Gli occhi celesti di Judy si volsero alla distesa di mare che aveva inghiottito tutto il suo breve passato, e disse: "Ayah! Quale ayah?". A sentire queste parole la Mamma pianse, e Punch si meravigliò. Fu allora che udì per la prima volta la supplica appassionata della Mamma: di far sì che Judy non la dimenticasse mai. Visto che Judy era giovane, ridicolmente giovane, e che nelle ultime quattro settimane la Mamma era andata ogni sera nella cabina per fare addormentare lei e Punch con una filastrocca misteriosa che lui chiamava "Figliolo, anima mia", Punch non riusciva a capire cosa intendesse la Mamma. Si sforzò comunque di fare il proprio dovere; poiché, nel momento in cui la Mamma lasciò la cabina, chiese a Judy: "Ju, ti ricordi di Mamma?" "Certo", disse Judy. "Allora ricordati sempre di Mamma, altrimenti non ti darò le ochette di carta che mi ha fatto il Capitano Sahib dai capelli rossi". Così Judy promise di ricordarsi "sempre di Mamma". Molte e molte volte la Mamma ripeté tale raccomandazione a Punch, e Papà diceva la stessa cosa con un'insistenza che intimoriva il bambino. "Devi sbrigarti a imparare a scrivere, Punch", disse il Papà, "così potrai mandarci delle lettere a Bombay". "Vengo nella vostra camera", disse Punch, e il Papà si sentì un nodo alla gola. In quei giorni il Papà e la Mamma si sentivano in continuazione nodi alla gola. Se Punch rimproverava Judy perché non si "licoldava", si sentivano un nodo alla gola. Se Punch, sdraiato sul divano della pensione di Southampton, immaginava per sé un futuro di porpora e oro, loro si sentivano un nodo alla gola; e lo stesso avveniva se Judy sporgeva le labbra per un bacio. Per giorni e giorni tutti e quattro furono dei vagabondi sulla faccia della terra: Punch senza nessuno a cui dare ordini, Judy troppo piccola per qualsiasi cosa e il Papà e la Mamma seri, distratti e con un nodo alla gola. "Dove", chiese Punch, stufo di un odioso veicolo a quattro ruote con un mucchio di bagagli sul tetto, "dov'è il nostro broom-gharri? Quest'affare parla così tanto che non riesco a parlare io. Dov'è il nostro broom-gharri? Quando ero al palco dell'orchestra, prima che partissimo, ho chiesto a Inverarity Sahib perché ci stava seduto lui, e mi ha risposto che era suo. Allora gli ho detto "Te lo darò" - mi è simpatico Inverarity Sahib - e ho aggiunto: "Sei capace a infilare le gambe nelle maniglie accanto ai finestrini?". E Inverarity Sahib ha detto di no e ha riso. Io riesco a infilare le gambe nelle maniglie. Riesco a infilare le gambe in queste maniglie. Guardate! Oh, la Mamma piange di nuovo! Non sapevo che non dovessi farlo". Punch sfilò le gambe dalle maniglie della carrozza a quattro ruote: lo sportello si aprì e lui scivolò a terra, in una cascata di pacchi, davanti alla porta di un'austera villetta il cui cancello recava l'iscrizione "Downe Lodge". Punch si rialzò e guardò la casa con disapprovazione. Si affacciava su una strada sabbiosa e un vento freddo gli solleticava le gambe nei pantaloni alla zuava. "Andiamo via", disse Punch. "Non è un bel posto".

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Ma la Mamma il Papà e Judy erano scesi dalla carrozza e stavano portando tutti i bagagli dentro la casa. Sulla soglia c'era una donna vestita di nero che sorrideva con la bocca spalancata, una bocca dalle labbra secche e screpolate. Dietro di lei stava un uomo grande, ossuto, grigio di capelli e zoppo da una gamba, e alle sue spalle un ragazzo di dodici anni, dai capelli neri e dall'aspetto untuoso. Punch esaminò il trio e si fece avanti senza timore, com'era stato abituato a fare a Bombay, quando arrivavano dei visitatori e lui stava giocando sulla veranda. "Piacere", disse. "Io sono Punch". Ma stavano tutti guardando i bagagli - tutti tranne l'uomo grigio, che strinse la mano a Punch e gli disse che era un "ragazzino in gamba". C'era un gran via vai e un rumore di scatoloni sbattuti, e Punch si raggomitolò sul divano della sala da pranzo e si mise a considerare la situazione. "Non mi piace questa gente", disse Punch. "Ma non importa. Ce ne andremo via presto. Siamo sempre andati via presto da ogni luogo. Vorrei che fossimo tornati presto a Bombay". Il desiderio non diede alcun frutto. Per sei giorni la Mamma pianse a intervalli e mostrò alla donna in nero tutti i vestiti di Punch - una libertà, questa, che irritò il ragazzino. "Ma forse è una nuova ayah bianca", pensò. "Devo chiamarla Antirosa, ma lei non mi chiama Sahib. Dice solo Punch", confidò a Judy. "Cos'è Antirosa?". Judy non lo sapeva. Né lei né Punch avevano mai sentito parlare di un animale chiamato zia. Il loro mondo era formato dal Papà e dalla Mamma, che sapevano tutto, permettevano tutto e amavano tutti - anche Punch, quando a Bombay andava in giardino e si sporcava le dita di terra dopo il taglio settimanale delle unghie perché, come spiegava tra due colpi di pantofola al padre esasperato, si sentiva le dita "così nuove sulla punta". In maniera vaga, Punch giudicò opportuno frapporre i genitori tra sé e la coppia formata dalla donna in nero e dal ragazzo coi capelli neri. Non gli piacevano per niente. Gli piaceva invece l'uomo grigio, che aveva espresso il desiderio di essere chiamato "Zioharri". Quando si incontravano, si scambiavano cenni con il capo, e l'uomo grigio gli mostrò una piccola nave con il sartiame che si alzava e si abbassava. "È un modellino del Brisk, il piccolo Brisk che quel giorno a Navarino si trovò in mezzo alla mischia". L'uomo grigio mormorò le ultime parole e si abbandonò a un sogno ad occhi aperti. "Ti racconterò di Navarino, Punch, quando andremo a fare una passeggiata insieme; ma tu non devi toccare la nave, perché è il Brisk". Molto tempo prima di quella passeggiata, a cui avrebbero fatto seguito parecchie altre, Punch e Judy furono svegliati una gelida mattina di febbraio, all'alba, per dire addio a qualcuno; e, fra tutte le persone di questo vasto mondo, a chi se non al Papà e alla Mamma? Questa volta entrambi in lacrime. Punch era alquanto insonnolito e Judy di cattivo umore. "Non dimenticateci", supplicò la Mamma. "Oh, piccolo mio, non dimenticarci, e bada che anche Judy si ricordi di noi". "Ho detto a Judy di licoldale", disse Punch, dimenandosi perché la barba del padre gli solleticava il collo. "L'ho detto a Judy... dieci... quaranta... undicimila volte. Ma Ju è così piccola - ancora una bambina, vero?". "Sì", disse il Papà, "è ancora una bambina, e tu devi essere buono con lei, e devi sbrigarti a imparare a scrivere e... e... e... ". Punch fu di nuovo a letto. Judy dormiva profondamente, e di sotto si sentì il rumore di una carrozza che si allontanava. Il Papà e la Mamma erano andati via. Non a Nassick, che si trovava al di là del mare. In qualche luogo molto più vicino, naturalmente, ed era altrettanto ovvio che sarebbero tornati. Tornavano sempre dai pranzi a cui erano invitati, e il Papà era tornato quando era stato in un posto chiamato "Le Nevi", e la Mamma con lui, mentre Punch e Judy erano rimasti a casa della signora Inverarity a Marine Lines. Sicuramente sarebbero tornati anche questa volta. Così Punch si addormentò fino al mattino vero e proprio, quando il ragazzo dai capelli neri gli annunciò che il Papà e la Mamma erano andati a Bombay, e che lui e Judy sarebbero dovuti rimanere a Downe Lodge "per sempre". Zia Rosa, alla quale il bambino si rivolse in lacrime per una smentita, affermò che Harry aveva detto la verità e che Punch avrebbe fatto bene a piegare con cura i propri abiti prima di andare a letto. Punch uscì dalla stanza e pianse amaramente con Judy, nella cui bionda testolina era riuscito a far entrare qualche idea sul significato della separazione. Quando un uomo maturo scopre di essere stato abbandonato dalla Provvidenza, privato del proprio Dio e gettato senza aiuto, conforto o comprensione in un mondo che gli è nuovo ed estraneo, la sua disperazione - che può esprimersi in una condotta malvagia, nel resoconto scritto delle proprie esperienze o nella più soddisfacente diversione del suicidio - si suppone in genere commovente. Un bambino, in circostanze esattamente analoghe, per quanto riesce a capire, non può certo maledire Dio e morire. Urla finché non gli viene il naso rosso, gli si infiammano gli occhi e gli duole la testa. Punch e Judy, pur non avendone colpa, avevano perso il loro mondo. Si sedettero nell'ingresso e piansero, mentre il ragazzo dai capelli neri li guardava da lontano. A nulla valse il modellino della nave, anche se l'uomo grigio assicurò Punch che poteva alzare e abbassare il sartiame a suo piacimento; e a Judy fu promesso il libero accesso alla cucina. Loro volevano il Papà e la Mamma, che erano andati a Bombay, al di là del mare; e il loro dolore, finché durò, fu senza rimedio. Quando le lacrime cessarono, la casa divenne molto silenziosa. Zia Rosa aveva ritenuto opportuno lasciare che i bambini "sfogassero il loro pianto", e il ragazzo era andato a scuola. Punch alzò il capo dal pavimento e tirò su col naso tristemente. Judy si era quasi addormentata. Tre brevi anni non le avevano insegnato a sopportare il dolore con piena consapevolezza. Nell'aria c'era un rombo sordo e lontano, un tonfo pesante e ripetuto. Punch conosceva quel rumore per averlo sentito a Bombay durante i monsoni. Era il mare, il mare che bisognava attraversare per poter raggiungere Bombay. "Presto, Ju!", esclamò. "Siamo vicini al mare. Lo sento! Ascolta! È là che sono andati. Forse possiamo ancora raggiungerli, se ci sbrighiamo. Non volevano certo andarsene senza di noi. Si sono solo dimenticati".

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"Ssì", disse Judy. "Si sono solo dimenticati. Andiamo al mare". La porta d'ingresso era aperta, e così pure il cancello del giardino. "Questo posto è molto, molto grande", disse Punch, guardando con circospezione nella strada, "e ci perderemo. Ma io troverò un uomo e gli ordinerò di riportarmi a casa... come facevo a Bombay". Prese Judy per mano e corsero a capo scoperto nella direzione dalla quale veniva il rumore del mare. Downe Lodge era l'ultima di una fila di case di recente costruzione che terminava, atttraverso un campo cosparso di cumuli di mattoni, in una landa dove ogni tanto si accampavano gli zingari, e dove l'Artiglieria della Guarnigione di Rocklington faceva le esercitazioni. C'era poca gente in vista, e i bambini avrebbero potuto essere scambiati per figli di militari che si erano allontanati più del solito. Per una mezz'ora le stanche gambette arrancarono attraverso la landa, i campi di patate e le dune di sabbia. "Sono così stanca", disse Judy, "e la Mamma si arrabbierà". "La Mamma non si arrabbia mai. Immagino che stia aspettando in riva al mare, mentre Papà fa i biglietti. Li troveremo e andremo via con loro. Ju, non devi sederti. Ancora un poco e arriveremo al mare. Ju, se ti siedi ti dò uno schiaffo!", disse Punch. Si arrampicarono su un'altra duna e giunsero al mare, grande e grigio, in bassa marea. Centinaia di granchi fuggivano in tutte le direzioni sulla spiaggia, ma non c'era traccia del Papà e della Mamma, e nemmeno di una nave sulle acque - nient'altro che sabbia e fango per miglia e miglia. 'Zioharri' li trovò per caso - assai infangati e avviliti; Punch in un bagno di lacrime, che tuttavia cercava di distrarre Judy con un granchiolino, e Judy che gemeva davanti all'orizzonte spietato chiamando "Mamma, Mamma!" e ancora "Mamma!". IL SECONDO SACCO Ahimè, siamo anime nude! Di tutte le creature sotto l'ampia volta del Cielo Siamo le più disperate, noi che un tempo nutrimmo le maggiori speranze, E le più sprovviste di fede, noi che nutrimmo la fede più grande. AH. Clough Fino a quel momento nessun accenno alla Pecora Nera. Venne in seguito, e Harry, il ragazzo dai capelli neri, ne fu il maggior responsabile. Judy - come si poteva non voler bene alla piccola Judy? - fu ammessa con un permesso speciale in cucina, e da lì passò direttamente nel cuore di Zia Rosa. Harry era l'unico figlio di Zia Rosa, e Punch era il ragazzo in più della casa. Per lui e per le sue innocue occupazioni non c'era un luogo particolare, e gli venne proibito di sdraiarsi sui divani e di spiegare le proprie idee su come era fatto questo mondo, nonché di illustrare le proprie speranze per il futuro. Sdraiarsi era indice di pigrizia e rovinava i divani, e non si supponeva che i ragazzini parlassero. Erano gli altri a rivolgere loro la parola, e questo a beneficio della morale infantile. Dopo essere stato, a Bombay, il despota indiscusso della casa, Punch non riusciva proprio a capire come mai nella sua nuova vita fosse diventato di nessuna importanza. Harry poteva sporgersi sulla tavola e prendere ciò che voleva; Judy poteva ottenerlo facendo un cenno. A Punch erano proibite entrambe le cose. Per molti mesi dopo la partenza del Papà e della Mamma l'uomo grigio fu la sua grande speranza e il suo solo sostegno; intanto lui si era dimenticato di dire a Judy di "licoldale Mamma". Tale mancanza era perdonabile, perché nel frattempo Zia Rosa lo aveva iniziato a due realtà alquanto solenni: un'astrazione chiamata Dio, amico intimo e alleato di Zia Rosa, che si supponeva dimorasse dietro il fornello, perché era un luogo caldo, e un sudicio libro marrone, pieno di segni e puntini incomprensibili. Punch, sempre desideroso di compiacere il prossimo, unì la storia della Creazione a quello che ricordava delle fiabe indiane, e scandalizzò Zia Rosa ripetendo il risultato a Judy. Era peccato, peccato grave, e Punch si sorbì una predica di un quarto d'ora. Non riuscì a capire in che cosa consistesse l'iniquità, ma fece attenzione a non ripetere l'offesa, perché Zia Rosa gli disse che Dio aveva sentito ogni su parola ed era molto adirato. Se ciò era vero, perché Dio non veniva a dirglielo di persona, pensò Punch, e scacciò il problema dalla mente. In seguito imparò a considerare il Signore come l'unica cosa al mondo più terribile di Zia Rosa - un Essere che stava sullo sfondo e contava i colpi di canna. Ma, contemporaneamente, la lettura si rivelò un affare molto più serio di qualsiasi credo. Zia Rosa lo mise a sedere su un tavolo e gli disse che AB significava ab. "Perché?", chiese Punch. "A è a e B è bi. Perché AB significa ab?". "Perché te lo dico io", rispose Zia Rosa, "e tu devi dire così". Punch allora lo disse; e per un mese, assai di malavoglia, incespicò sulle pagine del libro marrone, senza comprendere minimamente il significato di ciò che ripeteva. Ma Zio Harry, che faceva lunghe passeggiate quasi sempre da solo, era solito andare nella nursery e dire a Zia Rosa che Punch avrebbe fatto bene ad accompagnarlo nei suoi giri. L'uomo parlava poco, ma mostrò a Punch tutta Rocklington: dai banchi di fango e di sabbia alle spalle della baia alle grandi rade dov'erano ancorate le navi, ai cantieri navali dove i martelli non riposavano mai, ai negozi di articoli marittimi e ai banconi di ottone lucente negli uffici in cui Zio Harry si recava una volta ogni tre mesi con uno scontrino di carta azzurra per riceverne in cambio sovrane, poiché aveva una pensione come invalido di guerra. Dalle sue labbra Punch udì anche il racconto della battaglia di Navarino, dopo la quale i marinai della flotta inglese rimasero sordi come

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campane per tre giorni, e poterono comunicare tra loro soltanto a gesti. "Fu a causa del rombo dei cannoni", disse Zio Harry, "e io ho ancora lo stoppaccio di una pallottola da qualche parte dentro di me". Punch lo guardò con curiosità. Non aveva la minima idea di cosa fosse uno stoppaccio, e per una pallottola intendeva una palla di cannone dell'arsenale, più grossa della sua testa. Come faceva Zio Harry ad avere dentro di sé una palla di cannone? Non osava chiederglielo per timore di farlo arrabbiare. Punch non seppe cosa fosse la collera - la vera collera - finché un giorno terribile Harry non prese la sua scatola dei colori per dipingere una barca, e Punch protestò. Allora comparve sulla scena Zio Harry e, borbottando qualcosa a proposito dei "figli di estranei", colpì con un bastone il ragazzo dai capelli neri tra le spalle fino a farlo piangere e urlare; poi sopraggiunse Zia Rosa e accusò Zio Harry di crudeltà verso la sua stessa carne, e Punch rabbrividì fino alla punta dei piedi. "Non è stata colpa mia", spiegò al ragazzo. Ma sia Harry che Zia Rosa dissero che lo era e che Punch aveva raccontato delle storie; e per una settimana non ci furono più passeggiate con Zio Harry. Ma quella settimana arrecò una grande gioia a Punch. Aveva ripetuto fino alla nausea la frase "Sopra la panca la capra campa, sotto la panca la capra crepa". "Ora so veramente leggere", disse Punch, "e non leggerò più nulla al mondo". Ripose il libro marrone nell'armadio dove teneva i testi scolastici e accidentalmente cadde fuori un venerando volume senza copertina, intitolato Sharpe's Magazine. Sulla prima pagina c'era la figura alquanto sinistra di un grifone, con sotto dei versi. Il grifone portava via una pecora al giorno da un villaggio tedesco, finché non venne un uomo con una "scimitarra" e sventrò il grifone. Dio solo sapeva cosa fosse una scimitarra, ma c'era il grifone, e la sua storia era un bel passo avanti rispetto alla solita capra. "Questo", disse Punch, "vuol dire parecchio, ed ora saprò tutto di qualsiasi cosa in tutto il mondo". Lesse finché ci fu luce, senza capire un decimo del significato, ma stuzzicato da visioni fugaci di nuovi mondi che gli sarebbero stati rivelati in seguito. "Cos'è una "scimitarra"? Cos'è una "agnella"? Cos'è un "vile ussurpatore"? Cos'è una "pràtora verdeggiante"?", chiese con le guance arrossate a una Zia Rosa stupefatta. "Di' le tue preghiere e va' a dormire", rispose lei, e quello fu tutto l'aiuto che Punch ottenne, allora o in seguito, dalla donna nel nuovo e dilettevole esercizio della lettura. Zia Rosa conosce solo Dio e cose del genere, arguì Punch. Me lo dirà Zio Harry. La passeggiata successiva rivelò che nemmeno Zio Harry poteva essergli d'aiuto; lui però lo lasciò parlare, e si sedette persino su una panchina per ascoltare la storia del grifone. Successive passeggiate portarono altre storie, a mano a mano che Punch faceva nuove scoperte, poiché la casa era ben fornita di vecchi libri che nessuno apriva mai: da Frank Fairlegh, in un'edizione a dispense, alle prime poesie di Tennyson pubblicate anonime sullo Sharpe's Magazine, ai cataloghi dell'Esposizione del '62, dai colori vivaci e deliziosamente incomprensibili, oltre a pagine sciolte dei Viaggi di Gulliver. Non appena Punch fu in grado di mettere insieme una serie di scarabocchi scrisse a Bombay, chiedendo che gli fossero spediti a giro posta "tutti i libri del mondo". Il Papà non poté soddisfare la modesta ordinazione, ma gli mandò le Fiabe dei fratelli Grimm e un libro di Andersen. Furono sufficienti. In qualsiasi momento ne avesse voglia e se nessuno lo disturbava, Punch poteva trasferirsi in un mondo tutto suo, fuori dal raggio d'azione di Zia Rosa e del suo Dio, di Harry e delle sue molestie, e delle pretese di Judy che qualcuno giocasse con lei. "Non distulbalmi, sto leggendo. Va' a giocare in cucina", brontolava Punch. "Tu che puoi". Judy stava mettendo i denti ed era facilmente irritabile. Perciò si rivolse a Zia Rosa, che investì Punch. "Stavo leggendo", spiegò lui. "Leggendo un libro. Voglio leggere". "Lo fai solo per darti delle arie", disse Zia Rosa. "Ma staremo a vedere. Ora giocherai con Judy e non aprirai un libro per una settimana". Judy non si divertì molto a giocare con Punch, che era roso dall'indignazione. C'era, in fondo a quel divieto, una meschinità che lo rendeva perplesso. "È quello che mi piace fare", disse, "e lei lo ha scoperto e mi ha fatto smettere. Non piangere, Ju, non è stata colpa tua; per favore non piangere, o dirà che sono stato io". Lealmente Ju si asciugò le lacrime e i due giocarono nella nursery, una stanza dei seminterrato e mezza sotterranea, dov'erano mandati regolarmente dopo il pasto di mezzogiorno, mentre Zia Rosa dormiva. La donna beveva del vino - o meglio qualcosa da una bottiglia che teneva nel mobile-bar - perché le faceva bene allo stomaco, ma se non si addormentava capitava talvolta nella nursery per vedere se i bambini stavano davvero giocando. Ora cubi, cerchi di legno, birilli e porcellane non possono divertire in eterno, soprattutto quando si può accedere al Paese delle Fate aprendo semplicemente un libro; e il più delle volte Punch veniva scoperto nell'atto di leggere a Judy o di raccontarle storie interminabili. Questa era un'infrazione alla legge, e Judy veniva trascinata via da Zia Rosa, mentre Punch era lasciato a giocare da solo, "e fa' in modo che ti senta". Non era certo un'occupazione piacevole, poiché doveva produrre rumori vivaci per dimostrare che stava giocando. Infine, con immensa abilità, riuscì ad escogitare un sistema grazie al quale il tavolo poteva reggersi su tre gambe con dei cubi delle costruzioni, lasciando la quarta libera di scendere sul pavimento. In tal modo lui poteva muovere il tavolo con una mano e reggere il libro con l'altra. La cosa funzionò finché un brutto giorno Zia Rosa gli piombò addosso e gli disse che aveva "messo in atto una menzogna". "Se sei abbastanza grande per fare questo", disse (era sempre di pessimo umore dopo pranzo), "lo sei anche per essere picchiato".

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"Ma io... non sono un animale!", disse Punch sbalordito. Si ricordò di Zio Harry e del bastone e sbiancò. Zia Rosa teneva una canna sottile nascosta dietro la schiena, e Punch venne picchiato senza indugio sulle spalle. Per lui fu una rivelazione. La porta della stanza venne richiusa, e il bambino lasciato a piangere finché non si fosse pentito, e ad elaborare il proprio vangelo di vita. Zia Rosa, arguì, aveva il potere di infliggergli parecchie vergate. Ciò era ingiusto e crudele, e la Mamma e il Papà non lo avrebbero mai permesso. A meno che, come Zia Rosa sembrava voler insinuare, non avessero inviato degli ordini segreti. Nel qual caso era davvero perduto. In futuro sarebbe stato prudente propiziarsi Zia Rosa, anche se, per certe cose di cui non aveva colpa, era stato accusato di volersi "mettere in mostra". Si era "messo in mostra" davanti a dei visitatori, quando aveva assalito uno strano signore - zio di Harry, non suo - chiedendogli informazioni sul grifone e la scimitarra, e su com'era fatto esattamente il tilbury in cui viaggiava Frank Fairlegh - tutte questioni di interesse capitale, che lui era estremamente ansioso di chiarire. Evidentemente non avrebbe funzionato fingere di voler bene a Zia Rosa. A questo punto entrò Harry e, tenendosi a distanza, guardò Punch, un fagotto arruffato nell'angolo della stanza, con disgusto. "Sei un bugiardo, un piccolo bugiardo", disse Harry con grande compiacimento, "e prenderai il tè quaggiù perché non sei degno di parlare con noi. E non rivolgerai più la parola a Judy finché la Mamma non ti darà il permesso. Tu la corrompi. Sei solo degno di stare con la serva. Così dice la Mamma". Dopo averlo costretto a un altro scoppio di lacrime, Harry tornò al piano di sopra con la notizia che Punch era ancora intrattabile. Zio Harry sedeva a disagio in sala da pranzo. "Maledizione, Rosa", disse infine, "non puoi lasciare in pace quel ragazzo? Quando sta con me è un tipetto a posto". "Con te, Henry, usa le sue maniere migliori", disse Zia Rosa, "ma io ho paura, molta paura, che sia la pecora nera della famiglia". Harry udì l'appellativo e lo mise in serbo per il futuro. Judy pianse finché non le venne ordinato di smettere, poiché non valeva la pena di piangere per suo fratello; e la serata si concluse con il ritorno di Punch alle regioni superiori, a cui fece seguito una riunione privata, durante la quale gli vennero rivelati tutti gli orrori accecanti dell'Inferno con la dovizia di particolari che poteva immaginare la mente ristretta di Zia Rosa. L'episodio più penoso fu il rimprovero negli occhi spalancati di Judy, sicché Punch andò a letto sprofondato negli abissi della Valle dell'Umiliazione. Dividendo la camera con Harry, sapeva quali supplizi lo attendevano. Per un'ora e mezzo dovette rispondere alle domande di quel signorino riguardo ai motivi che lo avevano spinto a mentire, e mentire gravemente, e alla natura esatta della punizione inflittagli da Zia Rosa, e dovette anche esprimere la sua profonda gratitudine per gli insegnamenti religiosi che Harry riteneva opportuno impartirgli. Da quel giorno ebbe inizio la rovina di Punch, divenuto la Pecora Nera. "Inaffidabile in una cosa, inaffidabile in tutto", disse Zia Rosa, e Harry capì che la Pecora Nera gli veniva consegnata nelle mani. Iniziò dunque a svegliarlo di notte per chiedergli come mai fosse così bugiardo. "Non lo so", rispondeva Punch. "Allora non credi che dovresti alzarti e pregare Dio perché ti dia un cuore nuovo?" "S-ssì". "Allora alzati e prega!". E Punch usciva dal letto con un odio furente nel cuore contro il mondo intero, visibile e invisibile. Non faceva che cacciarsi nei guai. Harry aveva la facoltà di interrogarlo sulle sue occupazioni giornaliere, cosa che lo faceva regolarmente cadere, assonnato e furibondo, in una mezza dozzina di contraddizioni, tutte debitamente riportate a Zia Rosa il mattino seguente. "Ma non era una bugia", incominciava Punch, lanciandosi in una spiegazione contorta che lo faceva sprofondare in maniera ancora più irrimediabile nel fango. "Ho detto di non aver recitato le preghiere due volte martedì. Però una volta l'ho fatto. So di averlo fatto, ma Harry dice di no", e così via, finché la tensione non provocava le lacrime, e Punch veniva allontanato dal tavolo in castigo. "Una volta non eri così cattivo", diceva Judy, intimorita dall'elenco dei crimini commessi dalla Pecora Nera. "Perché adesso sei così cattivo?" "Non lo so", rispondeva la Pecora Nera. "Non sono cattivo, ma mi tormentano fino a confondermi. Io so quello che ho fatto e voglio dirlo, ma Harry riesce sempre a cambiare le cose, e Zia Rosa non crede a una parola di quello che dico. Oh, Ju! Non dire anche tu che sono cattivo!". "Zia Rosa dice che lo sei", disse Judy. "Lo ha detto al parroco, quando è venuto ieri". "Perché parla di me a tutti gli estranei? Non è leale", disse la Pecora Nera. "Quando ero a Bombay e mi comportavo male - male sul serio, non come pretendono qui - la Mamma lo diceva al Papà, e il Papà mi diceva che era stato informato, e questo era tutto. La gente di fuori non sapeva nulla... neanche Meeta lo sapeva". "Non mi ricordo", disse Judy con aria pensosa. "Allora ero troppo piccola. La Mamma voleva bene a te come a me, vero?" "Certo. E anche il Papà. E tutti gli altri". "Zia Rosa preferisce me a te. Dice che tu sei una Croce e una Pecora Nera, e che io devo parlarti solo quando non posso farne a meno". "Sempre? O solo le volte in cui ti proibiscono assolutamente di parlarmi?". Judy annuì tristemente. La Pecora Nera si voltò disperato, ma Judy gli gettò le braccia al collo.

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"Non importa, Punch", sussurrò. "Io ti parlerò lo stesso, come sempre. Tu sei il mio unico fratello, anche se... anche se Zia Rosa dice che sei cattivo, e Harry che sei un piccolo codardo. Dice che se ti tirassi forte i capelli, tu piangeresti". "Tira, allora", disse Punch. Judy tirò con cautela. "Tira più forte... più forte che puoi! Ecco! Adesso non mi importa di quanto tiri. Se continuerai a parlarmi come sempre, ti lascerò tirare finché vorrai... anche fino a strapparli. Ma so che se venisse Harry e ti dicesse lui di farlo, allora mi metterei a piangere". Così i due bambini suggellarono il patto con un bacio. La Pecora Nera provò un'intima gioia e, con la massima cautela ed evitando accuratamente Harry, riacquistò un poco di virtù e gli fu concesso di leggere indisturbato per un'intera settimana. Zio Harry lo condusse a fare delle passeggiate e lo consolò con la sua rude tenerezza, senza chiamarlo mai Pecora Nera. "Credo che ti faccia bene, Punch", era solito dire. "Sediamoci. Mi sto stancando". Ora i suoi passi non lo conducevano più alla spiaggia, ma al cimitero di Rocklington, in mezzo ai campi di patate. L'uomo grigio rimaneva seduto per ore su una pietra tombale, mentre la Pecora Nera leggeva gli epitaffi, e poi con un sospiro tornava a casa zoppicando. "Presto riposerò anch'io lì", disse alla Pecora Nera una sera d'inverno, con una faccia bianca come una moneta d'argento ossidato, alla luce del portico del cimitero. "Non è necessario che tu lo dica a Zia Rosa". Un mese dopo, non ancora a metà della passeggiata mattutina, si girò bruscamente e ritornò a casa zoppicando. "Mettimi a letto, Rosa", mormorò. "Ho fatto la mia ultima passeggiata. Lo stoppaccio ha avuto ragione di me". Lo misero a letto e per quindici giorni l'ombra della sua malattia gravò sulla casa, e la Pecora Nera poté muoversi liberamente indisturbato. Il Papà gli aveva mandato altri libri, e gli fu detto di stare tranquillo. Lui si ritirò nel suo mondo, e fu perfettamente felice. Nemmeno di notte la sua felicità veniva turbata. Poteva starsene a letto e gustarsi uno dopo l'altro racconti di viaggio e d'avventura, mentre Harry era al piano di sotto. "Zio Harry sta per morire", disse Judy, che ormai stava quasi sempre con Zia Rosa. "Mi spiace molto", disse la Pecora Nera con calma. "Me l'ha detto tanto tempo fa". Zia Rosa udì la conversazione. "Non c'è niente che possa trattenere la tua lingua malvagia?" disse con rabbia. Aveva dei cerchi blu attorno agli occhi. La Pecora Nera si ritirò nella nursery e lesse Vien su come un fiore con profondo interesse, seppur non capendoci molto. "Sono contento", disse la Pecora Nera. "Ora lei è infelice. Non era una bugia, dunque. Io sapevo. Solo che mi aveva detto di non parlarne". Quella notte la Pecora Nera si svegliò di soprassalto. Harry non era in camera, e nella stanza accanto qualcuno stava singhiozzando. Poi, attraverso l'oscurità, giunse la voce dello Zio Harry che intonava la canzone della Battaglia di Navarino: La nostra avanguardia era l'Asia, L'Albione e il Genoa! "Sta migliorando", pensò la Pecora Nera, che conosceva tutti i diciassette versi della canzone. Ma, mentre pensava questo, il sangue gli si gelò nel cuoricino. La voce salì bruscamente di una ottava e divenne acuta come il fischietto di un nostromo: E poi veniva la bella Rose, La Philomel, il suo brulotto, chiudeva, E il piccolo Brisk si trovò in mezzo alla mischia Quel giorno a Navarino. "Quel giorno a Navarino, zio Harry!", gridò la Pecora Nera, fremente per l'eccitazione e un vago senso di paura. Si aprì la porta e Zia Rosa gridò su per le scale: "Zitto! Per l'amor di Dio sta' zitto, piccolo demonio! Zio Harry è morto!". IL TERZO SACCO I viaggi finiscono con l'incontro di amanti, Ogni figlio di saggio lo sa. "Mi domando che sarà di me ora", pensò la Pecora Nera, quando si furono svolti i riti semi-pagani che accompagnano la sepoltura dei morti nelle case borghesi, e Zia Rosa, orribile con il crespo nero, ebbe ripreso la vita di sempre. "Non credo di aver fatto niente di male di cui lei sia a conoscenza. Ma immagino che lo farò presto. Sarà di pessimo umore dopo la morte di Zio Harry, e così anche Harry. Quindi me ne starò nella nursery".

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Sfortunatamente per i progetti di Punch, si decise di mandarlo in una scuola diurna che frequentava anche Harry. Ciò significava una passeggiata mattutina, e forse anche una serale, in sua compagnia, ma la prospettiva di rimanere libero nel frattempo era confortante. "Harry riferirà tutto quello che faccio, ma io non farò nulla", disse la Pecora Nera. Forte di questa virtuosa risoluzione andò a scuola, per scoprire che la descrizione del suo carattere messa a punto da Harry lo aveva preceduto e, di conseguenza, la vita sarebbe stata dura. Esaminò i suoi compagni: alcuni erano sporchi, altri parlavano in dialetto, molti non pronunciavano le acca, e in classe c'erano due ebrei e un negro, o qualcuno altrettanto scuro. "Quello è uno hubshi", disse la Pecora Nera tra sé. "Persino Meeta rideva di uno hubshi. Non credo che questo sia un posto adatto a me". Rimase indignato per almeno un'ora, finché non si trovò a riflettere che qualsiasi rimostranza da parte sua sarebbe stata interpretata da Zia Rosa come un modo di "darsi delle arie", e che Harry lo avrebbe riferito ai ragazzi. "Come ti sembra la scuola?", gli chiese Zia Rosa al termine della giornata. "Penso che sia un posto piacevole", disse calmo Punch. "Immagino che tu abbia messo in guardia i ragazzi sul carattere della Pecora Nera", chiese Zia Rosa ad Harry. "Oh, certo", rispose il censore della moralità della Pecora Nera. "Sanno tutto di lui". "Se fossi stato con mio padre", disse la Pecora Nera, punto sul vivo, "non avrei nemmeno parlato con quei ragazzi. Lui non me lo avrebbe permesso. Vivono nelle botteghe. Li ho visti entrare nelle botteghe... dove i loro padri vivono e vendono delle cose". "Tu sei troppo bravo per quella scuola, vero?", disse Zia Rosa con un sorriso amaro. "Dovresti essere riconoscente, Pecora Nera, che quei ragazzi ti rivolgano la parola. Non tutte le scuole accettano dei piccoli bugiardi". Harry non mancò di trarre vantaggio dalla sconsiderata osservazione della Pecora Nera; con il risultato che diversi ragazzi, compreso lo hubshi, dimostrarono alla Pecora Nera l'eterna uguaglianza della razza umana a pugni in testa, e la consolazione che ricevette da Zia Rosa fu che ciò gli avrebbe "insegnato a non essere vanitoso". Imparò, tuttavia, a tenere per sé le proprie opinioni e, propiziandosi Harry con l'offerta di portargli i libri ed altre cortesie del genere, riuscì ad ottenere un po' di pace. La sua esistenza non era troppo allegra. Dalle nove alle dodici era a scuola, e così pure dalle due alle quattro, eccetto il sabato. La sera lo mandavano nella nursery a fare i compiti per il giorno dopo, e ogni notte doveva subire i temuti interrogatori di Harry. Judy la vedeva appena. Era profondamente religiosa - a sei anni la religione è una facile conquista - e dolorosamente divisa tra il suo affetto naturale per la Pecora Nera e quello per Zia Rosa, che vedeva come un essere infallibile. La magra donna ricambiava quell'affetto con sollecitudine, e Judy, quando osava, ne approfittava per ottenere il condono delle pene che si abbattevano sulla Pecora Nera. Gli insuccessi scolastici erano puniti a casa con il divieto di leggere nient'altro che libri scolastici per una settimana; e di tali insuccessi Harry si faceva entusiasta latore. Inoltre la Pecora Nera era costretto, prima di coricarsi, a ripetere le lezioni a Harry, che in genere riusciva a farlo crollare e lo consolava con i più funesti presagi per l'indomani. Harry era a un tempo spia, autore di tiri mancini, inquisitore e vice-boia di Zia Rosa. E svolgeva i diversi ruoli in modo ammirevole. Ora che Zio Harry era morto, non c'era possibilità di appello contro le sue azioni. A scuola non si era permesso che la Pecora Nera conservasse alcun rispetto di sé; a casa, ovviamente, non godeva di alcuna fiducia, e guardava con riconoscenza alla minima compassione che le domestiche - le quali cambiavano spesso a Downe Lodge, essendo anch'esse delle bugiarde - potevano dimostrargli. "Vai bene solo a remare nella barca della Pecora Nera" era un'osservazione che ogni nuova Jane o Eliza poteva aspettarsi di sentire, prima che fosse trascorso un mese, dalle labbra di Zia Rosa; e la Pecora Nera era solito chiedere alle nuove domestiche se fossero già state paragonate a lui. In bocca loro Harry era il "signorino Harry"; Judy era ufficialmente "Miss Judy"; ma la Pecora Nera era sempre e soltanto la Pecora Nera. A mano a mano che il tempo passava e il ricordo di Papà e Mamma veniva totalmente gravato dall'obbligo fastidioso di scrivere loro delle lettere, ogni domenica, sotto gli occhi di Zia Rosa, la Pecora Nera dimenticò il genere di vita che aveva condotto all'inizio delle cose. Nemmeno gli appelli di Judy a cercare di "ricordarsi di Bombay" riuscivano a ravvivarlo. "Non riesco a ricordarmi" diceva. "So che ero abituato a dare ordini, e che la Mamma mi baciava". "Ti bacerà anche Zia Rosa, se sarai buono", insisteva Judy in tono conciliatorio. "Uff! Non voglio essere baciato da Zia Rosa. Direbbe che lo faccio per ottenere qualcosa di più da mangiare". Le settimane divennero mesi e arrivarono le vacanze; ma appena prima delle vacanze la Pecora Nera cadde in peccato mortale. Tra i molti ragazzi che Harry aveva incitato a "picchiare in testa la Pecora Nera, tanto non osa reagire", ce n'era uno più insopportabile degli altri che, scegliendo un momento sfortunato, piombò sulla Pecora Nera quando Harry non era nelle vicinanze. Le botte facevano male, e la Pecora Nera reagì colpendo a casaccio con tutte le sue forze. Il ragazzo cadde a terra e cominciò a frignare. La Pecora Nera rimase stupito del proprio gesto ma, sentendo sotto di sé il corpo inerte, lo scosse con entrambe le mani in preda a una furia cieca, quindi iniziò a strangolare il nemico con la seria intenzione di ucciderlo. Ci fu una mischia, e la Pecora Nera venne strappato via da Harry e da alcuni compagni e condotto a casa a suon di schiaffi, rosso in viso ma esultante. Zia Rosa era uscita. In attesa del suo ritorno, Harry iniziò a istruire la Pecora Nera sul peccato di omicidio, che descrisse come la colpa di Caino. "Perché non l'hai affrontato lealmente? Perché lo hai colpito quando era a terra, piccolo codardo?". La Pecora Nera guardò la gola di Harry, e poi un coltello sulla tavola da pranzo.

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"Non capisco", disse stancamente. "Me lo hai sempre aizzato contro, dicendomi che ero un codardo se piangevo. Vuoi lasciarmi in pace finché non torna Zia Rosa? Mi picchierà, se le dirai che devo essere picchiato; perciò va tutto bene". "Va tutto male", disse Harry in tono autoritario. "A momenti lo uccidevi, e non mi stupirei se morisse". "Morirà?", chiese la Pecora Nera. "Credo proprio di sì", rispose Harry, "allora sarai impiccato e andrai all'Inferno". "Benissimo", disse la Pecora Nera, prendendo il coltello sul tavolo. "Allora ti uccido adesso. Tu dici e fai delle cose e... io non so come le cose succedono, e non mi lasci mai in pace... e non mi importa di quello che accadrà!". Si avventò con il coltello sul ragazzo, che fuggì nella sua stanza al piano di sopra, promettendo alla Pecora Nera una battuta senza precedenti, quando Zia Rosa fosse tornata. La Pecora Nera sedette ai piedi delle scale con il coltello da tavola in mano, e pianse perché non era riuscito a uccidere Harry. La ragazza di servizio venne dalla cucina, gli tolse il coltello e lo consolò. Ma la Pecora Nera non poteva essere consolato. Sarebbe stato picchiato duramente da Zia Rosa; dopodiché avrebbe ricevuto un'altra battuta da Harry; poi avrebbero proibito a Judy di rivolgergli la parola; poi il fatto sarebbe stato raccontato a scuola, e poi... Non c'era nessuno che lo aiutasse, nessuno che si curasse di lui, e il sistema migliore per uscire da quella faccenda era la morte. Con il coltello sarebbe stato doloroso, ma un anno prima Zia Rosa gli aveva detto che a succhiare la vernice si moriva. Così andò nella nursery, riportò alla luce l'Arca di Noè, ora in disuso, e succhiò la vernice di tutti gli animali che rimanevano. Aveva un sapore terribile, ma quando Zia Rosa e Judy rientrarono aveva leccato via tutta la vernice dalla colomba di Noè. Andò di sopra e le salutò dicendo: "Per favore, Zia Rosa, credo di aver quasi ucciso un ragazzo a scuola, e ho cercato di uccidere Harry; perciò, quando avrai esaurito i discorsi su Dio e sull'Inferno, mi picchierai e la faremo finita". L'aggressione, così come la raccontò Harry, avrebbe potuto spiegarsi soltanto tirando in ballo la possessione demoniaca. Perciò la Pecora Nera non solo fu picchiato - una volta da Zia Rosa e un'altra, dopo essere stato completamente sottomesso, da Harry - ma divenne anche l'oggetto delle preghiere che si facevano in famiglia - insieme a Jane, che aveva rubato una polpetta fredda dalla dispensa e aveva sbuffato rumorosamente quando il suo peccato era stato portato davanti al Trono di Grazia. La Pecora Nera era afflitto e indolenzito ma trionfante. Sarebbe morto quella notte stessa e si sarebbe liberato di tutti loro. No, non avrebbe chiesto perdono a Harry, e prima di coricarsi non avrebbe sopportato alcun interrogatorio da parte sua, anche se l'altro si fosse rivolto a lui chiamandolo "Giovane Caino". "Sono stato picchiato", disse, "e ho fatto altre cose. Non m'importa di quello che faccio. Se questa notte mi rivolgi la parola, Harry, esco dal letto e cerco di ucciderti. Ora puoi uccidermi, se vuoi". Harry portò il suo letto nella camera degli ospiti, e la Pecora Nera si coricò in attesa della morte. Può darsi che i fabbricanti di Arche di Noè sappiano che i loro animali hanno buone probabilità di finire in bocca ai bambini, e di conseguenza li dipingano con vernici non tossiche. Sta di fatto che il banale e noioso mattino seguente entrò dalla finestra per trovare la Pecora Nera in ottima salute e abbastanza vergognoso di sé, ma ravvivato dalla consapevolezza di poter, in caso d'emergenza, far fronte agli abusi di Harry. Quando scese a colazione il primo giorno di vacanza, fu accolto con la notizia che Harry, Zia Rosa e Judy erano in partenza per Brighton, mentre la Pecora Nera sarebbe rimasto a casa con la domestica. La sua ultima sfuriata era servita mirabilmente ai piani di Zia Rosa, fornendole un'ottima scusa per lasciare a casa il ragazzo di troppo. Quella settimana il Papà, che sembrava davvero indovinare con tempismo le esigenze di un giovane peccatore, gli mandò un pacco di libri nuovi da Bombay. Con questi e la compagnia di Jane, che veniva retribuita con vitto e alloggio, la Pecora Nera fu lasciato solo per un mese. I libri durarono dieci giorni. Furono divorati troppo in fretta in grossi bocconi di dodici ore per volta. Vennero quindi giorni di assoluta inattività, trascorsi a sognare e a far marciare eserciti immaginari su e giù per le scale, a contare le sbarre delle ringhiere e a misurare con il palmo della mano la lunghezza e la larghezza di ogni stanza: cinquanta un lato, trenta da una parete all'altra e cinquanta di ritorno. Jane si fece molte amicizie e, avendo ottenuto dalla Pecora Nera l'assicurazione che le sue assenze non sarebbero state riportate, rimaneva fuori ogni giorno per lunghe ore. La Pecora Nera seguiva i raggi del sole calante dalla cucina alla sala da pranzo, e da lì alla sua camera da letto al piano superiore, finché tutto non diventava grigio scuro e allora scendeva di corsa in cucina dove c'era il fuoco acceso, e leggeva alla sua luce. Era felice perché lo avevano lasciato solo e poteva leggere quanto voleva. Ma, col passare del tempo, iniziò ad aver paura delle ombre proiettate dalle tende alle finestre, dello sbattere leggero delle porte e del cigolìo delle imposte. Usciva in giardino e il fruscìo degli arbusti di alloro lo impauriva. Fu contento quando ritornarono tutti - Zia Rosa, Harry e Judy - pieni di cose da raccontare; e Judy carica di regali. Chi poteva non voler bene alla piccola e leale Judy? In cambio di tutte le sue chiacchiere allegre, la Pecora Nera le confidò che la distanza dalla porta d'ingresso al primo pianerottolo era esattamente di centottantaquattro palmi. Lo aveva scoperto da solo! Poi ricominciò la solita vita; ma con una differenza e un nuovo peccato. Alle altre sue iniquità, la Pecora Nera aveva aggiunto una straordinaria goffaggine: era dunque inaffidabile nelle azioni come nelle parole. Lui stesso non riusciva a spiegarsi perché facesse cadere tutto ciò che toccava, rovesciasse i bicchieri non appena allungava una mano e sbattesse la testa contro porte che erano visibilmente chiuse. Una foschia grigiastra avvolgeva interamente il suo mondo, che andava restringendosi di mese in mese, finché la Pecora Nera non si trovò quasi solo tra le tende svolazzanti che parevano fantasmi, e gli orrori senza nome che apparivano in pieno giorno e, dopo tutto, altro non erano che soprabiti appesi a degli attaccapanni.

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Le vacanze arrivarono e passarono, e la Pecora Nera fu condotto in visita da molte persone dai visi tutti esattamente uguali; fu picchiato quando le circostanze lo richiedevano, e tormentato da Harry in tutte le occasioni possibili; ma fu difeso da Judy in buona o cattiva fede, anche se, così facendo, la bambina si attirava la collera di Zia Rosa. Le settimane erano interminabili, e il Papà e la Mamma furono dimenticati del tutto. Harry aveva lasciato la scuola e trovato impiego in una banca. Liberato dalla sua presenza, la Pecora Nera decise che d'ora in avanti non si sarebbe più privato della razione giornaliera di letture di svago. Di conseguenza, quando a scuola andava male riferiva che tutto andava bene; e concepì un profondo disprezzo per Zia Rosa, vedendo com'era facile ingannarla. "Quando non racconto bugie dice che sono un piccolo bugiardo, e adesso che lo faccio non ne se accorge", pensò la Pecora Nera. In passato Zia Rosa gli aveva attribuito una serie di astuzie e stratagemmi meschini che a lui non erano mai passati per la testa. Alla luce della squallida conoscenza che la donna gli aveva rivelato, lui la ripagò come si meritava. In una casa dove il più innocente dei suoi moventi, il naturale e ardente desiderio di un po' d'affetto, era stato interpretato come un mezzo per ottenere un po' più di pane e marmellata, o per ingraziarsi gli estranei e relegare così Harry in secondo piano, la sua opera fu facile. Zia Rosa riusciva a cogliere certe forme di ipocrisia, ma non tutte. Egli oppose la sua astuzia infantile a quella della donna e non venne più picchiato. Di mese in mese diventava sempre più faticoso leggere i libri di scuola, e anche le pagine degli altri libri, stampate a grandi caratteri, ballavano e apparivano confuse. Così la Pecora Nera passava il tempo a rimuginare tra le ombre che gli cadevano intorno e lo separavano dal resto del mondo, inventando terribili punizioni per il "caro Harry", o tessendo un altro filo della intricata ragnatela di inganni che andava avvolgendo attorno a Zia Rosa. Poi avvenne la catastrofe e le ragnatele furono spezzate. Era impossibile prevedere tutto. Zia Rosa indagò personalmente sull'andamento scolastico della Pecora Nera e ricevette notizie allarmanti. Passo a passo, con un piacere altrettanto intenso di quando incolpava una domestica denutrita del furto di un po' di carne fredda, la donna seguì la pista dei misfatti della Pecora Nera. Per settimane e settimane, al fine di non vedersi bandito dallo scaffale dei libri, lui si era preso gioco di Zia Rosa, di Harry, di Dio, di tutto il mondo! Orribile, assolutamente orribile, e prova di una mente del tutto depravata. La Pecora Nera calcolò il prezzo che avrebbe dovuto pagare. "Mi darà soltanto una gran battuta, e poi mi attaccherà sulla schiena un cartello con scritto "Bugiardo", come ha già fatto in precedenza. Harry mi picchierà e pregherà per me; anche lui mi includerà nelle sue preghiere, e dirà che sono un Figlio del Demonio, e mi darà degli inni da imparare a memoria. Ma io ho letto tutto quello che volevo e lei non se n'è mai accorta. Dirà che sapeva tutto sin dall'inizio. Anche lei è una vecchia bugiarda", disse. Per tre giorni la Pecora Nera rimase chiuso nella sua stanza, a prepararsi il cuore. "Questo significa due battute. Una a scuola e una qui. La seconda sarà la più dolorosa". E accadde proprio ciò che aveva previsto. A scuola venne picchiato davanti agli ebrei e allo hubshi per l'orrendo delitto di aver riportato a casa notizie false sul suo andamento scolastico. A casa venne picchiato da Zia Rosa per lo stesso motivo; dopodiché comparve il cartello. Zia Rosa glielo cucì tra le spalle e gli ordinò di andare a fare un giro con quello addosso. "Se mi costringi a fare questo", disse la Pecora Nera con molta calma, "brucio la casa e forse ti uccido. Non so se riesco a ucciderti - sei così ossuta - ma ci proverò". A questa bestemmia non seguì alcuna punizione, benché la Pecora Nera fosse pronto a saltare alla gola avvizzita di Zia Rosa e a stringere finché non lo avessero allontanato a furia di botte. Forse Zia Rosa ebbe paura, perché la Pecora Nera, avendo raggiunto il nadir del Peccato, si comportava con un'audacia nuova. In mezzo a tutti quei guai, giunse a Downe Lodge un visitatore da oltremare che conosceva il Papà e la Mamma e aveva avuto l'incarico di vedere Punch e Judy. La Pecora Nera venne chiamato in salotto e andò a sbattere contro un solido tavolino da tè carico di porcellane. "Piano, piano, giovanotto", disse il visitatore, girando lentamente il viso della Pecora Nera verso la luce. "Cos'è quel grosso uccello sulla staccionata?" "Quale uccello?", chiese la Pecora Nera. Il visitatore esaminò attentamente gli occhi della Pecora Nera per mezzo minuto, e poi disse di botto: "Buon Dio, il ragazzino è quasi cieco!". Il visitatore era una persona molto pratica ed efficiente. Diede ordine, sotto la sua responsabilità, che la Pecora Nera non fosse più mandato a scuola né aprisse un libro fino all'arrivo della Mamma. "Sarà qui fra tre settimane, come naturalmente saprai", disse, "e io sono Inverarity Sahib. Sono io che ti ho fatto entrare in questo mondo malvagio, giovanotto, e sembra che tu abbia fatto un bell'uso del tuo tempo. Ora non devi fare assolutamente niente. Credi di riuscirci?". "Sì", disse Punch stupefatto. Aveva saputo che la Mamma era in arrivo. C'era dunque la possibilità di un'altra battuta. Per fortuna non veniva anche il Papà. Ultimamente Zia Rosa aveva detto che avrebbe dovuto essere picchiato da un uomo. Nelle tre settimane che seguirono, alla Pecora Nera fu rigorosamente proibito di fare qualunque cosa. Passò il suo tempo nella vecchia nursery a guardare i giocattoli rotti, dei quali bisognava rendere conto alla Mamma. Zia Rosa lo picchiava sulle mani anche se veniva rotta una semplice barchetta di legno. Ma quel peccato era di scarsa entità rispetto alle altre rivelazioni, a cui Zia Rosa faceva oscure allusioni. "Quando arriverà tua Madre, e sentirà quello che ho da raccontarle, potrà apprezzarti per quello che vali", diceva con aria truce, e montava la guardia a Judy per paura che la bambina tentasse di consolare il fratello, a rischio della propria anima.

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E la Mamma arrivò, in una carrozza a quattro ruote e tutta agitata da una tenera eccitazione. E che Mamma! Era giovane, frivolmente giovane e bella, con le gote delicatamente arrossate, gli occhi che brillavano come stelle e una voce che non aveva bisogno di braccia tese per attirare i piccini al suo cuore. Judy corse subito da lei, ma la Pecora Nera esitò. Quella persona meravigliosa non stava forse "facendo un po' di scena?" Non gli avrebbe certo teso le braccia, quando fosse stata a conoscenza dei suoi misfatti. Nel frattempo, non era possibile che con i suoi vezzeggiamenti volesse tirar fuori tutto dalla Pecora Nera? Invece la donna voleva solo tutto il suo amore e la sua fiducia, ma questo la Pecora Nera non lo sapeva. Zia Rosa si ritirò e lasciò la Mamma, inginocchiata tra i suoi bambini, che un po' rideva e un po' piangeva, in quello stesso ingresso dove Punch e Judy avevano pianto cinque anni prima. "Allora, pulcini, vi ricordate di me?" "No", disse Judy francamente, "ma ho detto "Dio benedica il Papà e la Mamma" tutte le sere". "Un po'", disse la Pecora Nera. "Ricordati comunque che ti ho scritto tutte le settimane. E questo non per mettermi in mostra, ma per quello che viene dopo". "Cosa viene dopo? Cosa dovrebbe venire dopo, mio caro ragazzo?". E lo attirò di nuovo a sé. Lui si avvicinò goffamente, piuttosto spigoloso. "Non è abituato alle carezze", suggerì prontamente lo spirito materno. "La bambina invece sì". "È troppo piccola per fare del male a qualcuno", pensò la Pecora Nera, "e se dicessi che la uccido avrebbe paura. Mi domando cosa dirà Zia Rosa". Cenarono tardi in un'atmosfera piena d'imbarazzo, poi la Mamma prese in braccio Judy e la portò a letto coprendola di carezze. La piccola sleale Judy aveva già dato prova di defezione nei confronti di Zia Rosa. E la donna se ne risentì amaramente. La Pecora Nera si alzò per lasciare la stanza. "Vieni a darmi il bacio della buona notte", disse Zia Rosa, porgendo una guancia avvizzita. "Puh!", disse la Pecora Nera. "Non ti bacio mai, e non lo farò certo ora per mettermi in mostra. Racconta a quella donna ciò che ho fatto, e vedi cosa dice". La Pecora Nera si arrampicò sul letto con la sensazione di aver perduto il Cielo, dopo averlo intravisto per un attimo attraverso i cancelli. Mezz'ora dopo "quella donna" si chinava su di lui. La Pecora Nera levò il braccio destro. Non era leale venirlo a picchiare al buio. Nemmeno Zia Rosa ci aveva mai provato. Ma non seguì alcuna percossa. "Stai facendo la scena? Non ti dirò niente di più di quello che ti ha detto Zia Rosa, e lei non sa tutto", disse la Pecora Nera, con la chiarezza consentitagli dalle braccia attorno al collo. "Oh, figlio mio... piccolo, piccolo mio! È stata colpa mia... colpa mia, tesoro... e tuttavia come potevamo fare altrimenti? Perdonami, Punch". La voce si spense in un mormorio spezzato, e due calde lacrime caddero sulla fronte della Pecora Nera. "Ha fatto piangere anche te?", domandò lui. "Dovresti vedere Jane come piange. Ma tu sei buona, mentre Jane è una Bugiarda Nata... come dice Zia Rosa". "Zitto, Punch, zitto! Ragazzo mio, non parlare così. Cerca di volermi un po' di bene... solo un po'. Non sai quanto lo desideri. Punch-baba, ritorna a me! Sono tua Madre, la tua vera Madre, e il resto non importa. Lo so... sì, lo so, caro. Non importa, ora. Punch, non mi vuoi un po' di bene?". È sorprendente quante carezze possa sopportare un ragazzone di dieci anni, quando ha la certezza che nessuno rida di lui. La Pecora Nera non era mai stato vezzeggiato prima, ed ecco che quella bella donna lo trattava - lui, Pecora Nera, Figlio del Demonio ed erede della fiamma eterna - come se fosse un piccolo Dio. "Ti voglio un gran bene, Madre cara", sussurrò infine, "e sono contento che tu sia tornata; ma sei certa che Zia Rosa ti abbia detto tutto?" "Tutto. Cosa importa? Ma ... ", la voce si spezzò in un singhiozzo che era anche riso, "Punch, mio povero, caro tesoro mezzo cieco, non credi che sia stato un po' sciocco da parte tua?" "No. Mi risparmiava una battuta". La Mamma rabbrividì e scomparve nell'oscurità per scrivere una lunga lettera al Papà. Eccone un estratto: "...Judy è una cara e paffuta saputella che adora la donna e indossa, con una gravità pari soltanto a quella delle sue opinioni religiose - e ha solo otto anni, Jack! - una veneranda atrocità di tessuto ruvido, che lei chiama la sua crinolina! L'ho appena bruciata, e mentre scrivo la piccola dorme nel mio letto. Ritornerà a me in un attimo. Quello che non riesco proprio a capire è Punch. È ben nutrito, ma sembra che sia stato tormentato per una serie di piccoli misfatti che la donna ingrandiva fino a farne dei peccati mortali. Non ricordi, caro, il modo in cui siamo stati allevati noi, quando la Paura del Signore era così spesso all'origine della falsità? Riconquisterò anche Punch in breve tempo. Porto i bambini in campagna per dar loro la possibilità di conoscermi; e nel complesso sono soddisfatta, o meglio lo sarò quando tornerai tu, caro ragazzo, e allora, grazie a Dio, saremo finalmente tutti di nuovo sotto lo stesso tetto!". Tre mesi dopo Punch, non più Pecora Nera, ha scoperto di essere il legittimo possessore di una Mamma vera, viva e deliziosa, che gli è anche sorella, consolatrice e amica, e che lui deve proteggere fino al ritorno del Padre. L'inganno non si addice al ruolo del protettore, e quando è possibile fare tutto ciò che si vuole senza domande, a cosa serve l'inganno? "La Mamma si arrabbierebbe terribilmente se tu camminassi in quel fosso", dice Judy, continuando un discorso iniziato. "La Mamma non si arrabbia mai", dice Punch. "Direbbe soltanto "Sei un piccolo pagal"; non è una cosa carina, ma ti farò vedere".

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Punch cammina nel fosso e si infanga fino ai ginocchi. "Mamma cara", grida, "sono così sporco che più sporco non potrei essere!". "Allora cambiati i vestiti più in fretta che puoi!". La voce chiara della Mamma risuona dalla casa. "E non fare il piccolo pagal! ". "Ecco! Te l'avevo detto", dice Punch. "Ora è tutto diverso, e noi apparteniamo alla Mamma come se lei non fosse mai andata via". Non del tutto, Punch, perché quando delle giovani labbra hanno bevuto a fondo le acque amare dell'Odio, del Sospetto e della Disperazione, tutto l'Amore del mondo non può cancellare la consapevolezza così ottenuta, anche se può volgere per un attimo degli occhi ottenebrati alla luce, e insegnare la Fede dove Fede non c'è. L'EBREO ERRANTE "Se fai il giro del mondo viaggiando verso est, guadagni un giorno", dissero degli uomini di scienza a John Hay. Negli anni seguenti John Hay andò a est, a ovest, a nord e a sud, trattò affari, fece l'amore e mise al mondo dei figli, come hanno fatto molti uomini, e la suddetta informazione scientifica giacque dimenticata nelle profondità della sua mente, insieme a mille altre questioni di uguale importanza. Quando gli morì un facoltoso parente, Hay si trovò ricco oltre qualsiasi ragionevole aspettativa nutrita nella sua precedente carriera, che era stata movimentata e fallimentare. A dire il vero, molto prima che venisse quell'eredità, nella mente di John Hay si era formata una piccola nube - un momentaneo oscuramento del pensiero - che andava e veniva quasi prima che lui potesse rendersi conto di una qualsiasi soluzione di continuità. Così volano i pipistrelli attorno alle gronde di una casa per indicare che stanno calando le tenebre. Venne in possesso di un notevole patrimonio - in denaro, terreni e case; ma dietro alla sua gioia c'era uno spettro che gridava forte che il godimento di questi beni non sarebbe durato a lungo. Era lo spettro del parente ricco, al quale era stato concesso di tornare sulla terra per tormentare il nipote fino a condurlo alla tomba. Perciò, sotto lo stimolo di quel monito costante, John Hay, pur conservando quell'aria di grave e metodica imperturbabilità che nascondeva l'ombra nella mente, convertì investimenti, case e terreni in sovrane - rosse, tonde, preziose sovrane inglesi, ognuna del valore di venti scellini. I terreni possono svalutarsi, e le case volarsene in cielo sulle ali della rossa fiamma, ma fino al Giorno del Giudizio una sovrana sarà sempre una sovrana, vale a dire una regina di piaceri. Una volta entrato in possesso delle sue sovrane, John Hay le avrebbe spese volentieri una a una in quei divertimenti volgari che il suo spirito prediligeva; tuttavia, era ossessionato dalla paura incalzante della Morte; poiché lo spettro del parente stava nell'atrio di casa sua, vicino alla rastrelliera per i cappelli, e gridava su per le scale che la vita è breve, che non c'è da sperare in un aumento dei giorni concessi, e che gli impresari delle pompe funebri stavano già sgrossando le assi per la sua bara. Di solito John Hay era solo in casa, ma anche se aveva degli ospiti, costoro non potevano sentire gli schiamazzi dello zio. L'ombra nel suo cervello diventava sempre più grande e più nera. La paura della morte stava facendo impazzire John Hay. Allora, dalle profondità della sua mente, dove aveva riposto tutte le informazioni accantonate, venne alla luce la verità scientifica del viaggio verso oriente. La prima volta che lo zio gli urlò per le scale di affrettarsi a vivere, una voce più acuta rispose: "Chi fa il giro del mondo viaggiando verso est guadagna un giorno". La diffidenza e la sfiducia crescenti nei riguardi del genere umano, dissuasero John Hay dal comunicare questo prezioso messaggio di speranza agli amici. Avrebbero potuto farne l'oggetto di un'analisi. Egli era sicuro che racchiudesse una verità, ma avrebbe sofferto vivamente se delle mani inesperte lo avessero esaminato troppo da vicino. A lui soltanto, tra tutte le laboriose generazioni dell'uomo, era stato rivelato il segreto dell'immortalità. Sarebbe stato sacrilego - contro tutti i disegni del Creatore - indurre il genere umano ad affrettarsi verso est. Senza contare che avrebbe affollato i piroscafi in maniera del tutto sconveniente, e John Hay desiderava più di ogni altra cosa la solitudine. Se fosse riuscito a fare il giro del mondo in due mesi - aveva letto che qualcuno di cui non ricordava il nome aveva compiuto l'impresa in ottanta giorni - avrebbe guadagnato un giorno intero; e continuando così senza interruzioni, per trent'anni, avrebbe guadagnato centottanta giorni, vale a dire quasi mezzo anno. Non era molto, ma con il passare del tempo, il progredire della civiltà e l'apertura della ferrovia della Valle dell'Eufrate, avrebbe potuto ottenere risultati migliori. Armato di molte sovrane, John Hay partì, nel trentacinquesimo anno di età, per i suoi viaggi, con due voci che gli tenevano compagnia mentre da Dover salpava per Calais. La fortuna lo favorì. La ferrovia della Valle dell'Eufrate era appena stata aperta, ed egli fu il primo uomo ad acquistare un biglietto diretto da Calais a Calcutta - tredici giorni di treno. Tredici giorni di treno non fanno bene ai nervi; ma egli fece il giro del mondo e ritornò a Calais passando per l'America in due mesi e dodici giorni, e ripartì di nuovo con ventiquattro ore di tempo prezioso a suo credito. Passarono tre anni, durante i quali John Hay fece religiosamente il giro di questa terra alla ricerca di altro tempo in cui godersi quanto rimaneva delle sue sovrane. Divenne noto su molte linee ferroviarie e di navigazione come l'uomo che voleva andare avanti; quando la gente gli chiedeva chi fosse e cosa facesse, lui rispondeva: "Sono colui che intende vivere, e sto cercando di farlo ora". Passava i giorni a osservare la bianca scia che fluiva dietro la poppa dei piroscafi più veloci, o la bruna terra che balenava ai finestrini dei treni più rapidi; e annotava in un taccuino ogni minuto che, in treno o in nave, aveva sottratto alla spietata eternità.

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"Così è molto meglio che pregare per una lunga vita", disse John Hay, volgendo il viso a oriente in procinto di partire per il suo ventesimo viaggio. Gli anni avevano fatto per lui più di quanto avesse osato sperare. Grazie al prolungamento della linea ferroviaria della Valle del Brahmaputra, che si allacciava alla China Midland appena inaugurata, il biglietto ferroviario da Calais valeva, via Karachi e Calcutta, fino ad Hong Kong. L'intero viaggio poteva essere fatto in poco più di quarantasette giorni, e, pieno di fatale esultanza, John Hay rivelò il segreto della sua longevità all'unica amica che avesse, la governante del suo appartamento londinese. Parlò e partì; ma la donna, che non mancava di risorse, consultò immediatamente i legali che avevano informato John Hay della sua dorata eredità. Rimanevano ancora moltissime sovrane, e c'era un altro Hay che non vedeva l'ora di spenderle in cose più sensate di biglietti ferroviari e comodità sui piroscafi. La cosa andò per le lunghe, perché un uomo che sta letteralmente viaggiando per salvarsi la vita non indugia lungo la strada. Hay fece rapidamente un altro giro del mondo e raggiunse a Madras l'affaticato dottore che era stato mandato sulle sue tracce. Fu lì che ottenne la ricompensa per le sue fatiche e la certezza di una beata immortalità. In mezz'ora il dottore, senza mai distogliere lo sguardo dalle labbra riarse, le mani tremanti e l'occhio costantemente rivolto a est, convinse John Hay a riposarsi in una casetta sulla spiaggia di Madras, dove si poteva udire la risacca. Non doveva fare altro che appendersi con delle corde al soffitto della stanza e lasciare che la terra girasse liberamente sotto di lui. Era senz'altro meglio che viaggiare in piroscafo o in treno, perché guadagnava un giorno al giorno, ed era così uguale al sole immortale. L'altro Hay intanto gli avrebbe pagato le spese per tutta l'eternità. È vero che non si possono ancora fare i biglietti da Calais a Hong Kong, anche se ciò sarà possibile nel giro di quindici anni; ma alcuni viaggiatori dicono che, se vi aggirate lungo le coste meridionali dell'India, troverete, in un piccolo bungalow accuratamente imbiancato, seduto su una sedia appesa al soffitto sopra una sottile lamiera d'acciaio che, come lui ben sa, annulla l'attrazione della terra, un vecchio esausto, con il viso costantemente rivolto al sole nascente, un cronometro in mano, in corsa contro l'eternità. Non può bere, non fuma, e le spese per il suo sostentamento ammontano forse a venticinque rupie al mese; ma è John Hay, l'Immortale. Dall'esterno gli giunge il rumore del mondo che gira, con il quale, ci tiene a spiegare, non ha alcun rapporto; ma se gli dite che è soltanto il rumore della risacca piange amaramente, perché l'ombra nel suo cervello sta svanendo, mentre il cervello stesso cessa di lavorare, ed egli dubita talvolta che il dottore gli abbia detto la verità. "Perché il sole non rimane sempre sul mio capo?", chiede John Hay. IL SOGNO DI DUNCAN PARRENNESS Come il mister Bunyan dei tempi andati, io, Duncan Parrenness, scrivano presso l'Onorevolissima Compagnia delle Indie Orientali, in questa città di Calcutta dimenticata da Dio, ho fatto un sogno, e mai, da quando la mia giumenta Kitty si azzoppò, sono stato così turbato. Quindi, per timore di scordarmi il sogno, mi sono ingegnato a metterlo per iscritto; benché il Cielo sappia come tale impresa mi risulti difficile, essendo sempre stato più avvezzo a maneggiare la spada che la penna, da quando lasciai Londra due anni or sono. Quando il gran ballo del governatore generale (che si tiene ogni anno verso la fine di novembre) fu terminato, mi ritirai nella mia stanza che guarda su quel tetro corso d'acqua, così poco inglese, che è lo Hoogly, non più sobrio di quanto avrei potuto essere, date le circostanze. Ora, ubriaco fradicio in Occidente significa leggermente brillo in Oriente, e io ero ubriaco in direzione nord - nord - est, come direbbe mister Shakespeare. Tuttavia, malgrado l'ubriachezza, i freschi venti notturni (benché abbia sentito dire che causano raffreddori e diarrea a non finire) mi fecero rinsavire un poco; ricordai così di essere uscito solo un po' fiacco e scombussolato da tutti i malanni degli ultimi quattro mesi, mentre i damerini venuti in Oriente sulla mia stessa nave erano tutti passati a miglior vita un mese prima, e giacevano nel fetido terreno a nord degli alloggi degli scrivani. Perciò ringraziai Iddio in maniera confusa (benché, per mia vergogna, nel farlo non mi inginocchiassi) per avermi concesso di vivere almeno fino al marzo prossimo. A dire il vero, quella sera, noi che eravamo vivi (e il nostro numero era di gran lunga inferiore a quello di coloro che avevano intrapreso l'ultimo viaggio durante la passata stagione calda) avevamo fatto baldoria sui bastioni del Forte per questo favore della Provvidenza; benché i nostri scherzi non fossero né spiritosi né del genere che avrei voluto sentisse mia madre. Quando mi fui coricato (o piuttosto buttato sul letto), e i fumi dell'alcool si furono un po' diradati, mi accorsi che non riuscivo a prendere sonno perché pensavo a mille cose che sarebbe stato meglio non ricordare. Prima di tutto - ed era un bel pezzo che non ci pensavo - il dolce viso di Kitty Somerset mi apparve ai piedi del letto come raffigurato in un dipinto, così chiaramente che quasi credetti di averla di fronte in carne ed ossa. Poi ricordai come mi avesse spinto a venire in questo paese maledetto perché mi arricchissi, in modo da poterla sposare più in fretta una volta ottenuto il consenso dai genitori di entrambi; e poi come avesse pensato bene (o forse male) di venir meno alla sua promessa e sposare Tom Sanderson appena tre mesi dopo la mia partenza. Da Kitty i miei pensieri passarono alla signora Vansuythen, una donna alta e pallida, dagli occhi viola, che era venuta a Calcutta dalla fabbrica olandese di Chinsura e aveva seminato zizzania tra tutti i giovanotti e non pochi commissionari. Alcune delle nostre signore, è vero, dissero che non aveva mai avuto un marito o un certificato di matrimonio; ma le donne, e specialmente quelle che hanno sempre condotto una vita agiata e apatica, sono assai crudeli l'una con l'altra. Inoltre, la signora Vansuythen era molto più bella

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di tutte loro. Con me era stata assai graziosa al ballo del governatore generale, e anzi mi consideravano tutti il suo preux chevalier, che è la versione francese di una parola assai peggiore. Ora, se di questa signora Vansuythen m'importasse più di un fico secco (benché le avessi giurato amore eterno tre giorni dopo averla incontrata) non lo sapevo allora e non lo seppi che in seguito; ma grazie al mio orgoglio e a un'abilità con la spada che non aveva uguali a Calcutta, rimasi nelle sue grazie. Sicché credevo di adorarla. Quando ebbi scacciato i suoi occhi viola dai miei pensieri, la ragione mi rimproverò di averle anche solo dato retta un istante; e mi resi conto di quanto l'anno vissuto in questo paese mi avesse arso e inaridito l'animo alla fiamma di mille passioni e desideri malsani, tanto che ero invecchiato di dieci mesi ogni uno alla scuola del Diavolo. Allora pensai per un attimo a mia madre, e mi pentii amaramente, facendo, nello stato d'animo colpevole dell'ubriaco, mille voti di redenzione da allora, temo, tutti infranti più volte. Da domani, mi dissi, vivrò rettamente, per sempre. E sorrisi intontito (poiché ero ancora in preda ai fumi dell'alcool) pensando ai, pericoli che avevo scampato; e iniziai a fare ogni sorta di splendidi castelli in aria, dei quali una irreale Kitty Somerset dagli occhi viola e la parlata lenta e musicale della signora Vansuythen era sempre regina. Infine uno splendido ed eccezionale coraggio (dovuto senza dubbio al madera di mister Hastings) mi crebbe dentro, finché mi parve che, se solo avessi voluto, avrei potuto diventare governatore generale, nababbo, principe e, perché no?, anche il gran mogol in persona. Perciò, muovendo i primi passi, alquanto incerti e vacillanti, verso il mio nuovo regno, presi a calci i servi che dormivano fuori della stanza finché non corsero via urlando, e chiamai a testimoni il Cielo e la Terra che io, Duncan Parrenness, ero uno scrivano al servizio della Compagnia e non avevo paura di nessuno. Poi, visto che né la Luna né l'Orsa Maggiore sembravano disposte ad accettare la mia sfida, tornai a coricarmi e a questo punto devo essermi addormentato. Fui svegliato quasi subito dalle mie ultime parole ripetute due o tre volte, e vidi che era entrato nella stanza un ubriaco proveniente, pensai, dal ricevimento di mister Hastings. L'uomo si sedette ai piedi del letto come fosse suo a tutti gli effetti, e notai, con la chiarezza consentitami dalle circostanze, che il suo viso era piuttosto simile al mio invecchiato, tranne quando si trasformava in quello del governatore generale o di mio padre, morto sei mesi prima. Ma ciò mi sembrava del tutto normale, la conseguenza inevitabile del troppo vino bevuto; ed ero così irritato di quell'ingresso senza alcun preavviso, che gli dissi, non troppo civilmente, di andarsene. Alle mie parole non si degnò nemmeno di rispondere, ma disse solo, lentamente, come se si trattasse di un boccone gustoso: "Scrivano al servizio della Compagnia che non ha paura di nessuno". Poi s'interruppe bruscamente e, girandosi di scatto verso di me, disse che uno della mia tempra non ha da temere né gli uomini né i diavoli; che ero un giovanotto coraggioso e, con ogni probabilità, sarei vissuto abbastanza da diventare governatore generale. Ma per tutte queste cose (e credevo che intendesse i cambiamenti e le opportunità della nostra mutevole esistenza da queste parti) avrei dovuto pagare un prezzo. A questo punto ero abbastanza rinsavito, ed essendomi completamente ridestato dal primo sonno fui portato a considerare la cosa come lo scherzo di un ubriaco. Perciò gli dissi allegramente: "E che prezzo dovrei pagare per questo mio palazzo di appena dieci metri quadri, e per le mie cinque misere pagode al mese? Al diavolo te e i tuoi scherzi, ho già pagato due volte il prezzo in malanni". In quell'istante il mio uomo si girò completamente verso di me, così che al chiaro di luna potei vedere ogni tratto ed ogni grinza del suo viso. Allora la mia allegria di ubriaco sparì del tutto, come ho visto sparire in una notte le acque dei nostri grandi fiumi; e io, Duncan Parrenness, che non avevo paura di nessuno, fui colto da un terrore più grande di quanto, credo, l'uomo abbia mai avuto in sorte di conoscere. Poiché vidi che il suo volto era il mio stesso volto, ma segnato e solcato dalle rughe profonde del male e di una vita dissoluta, come l'avevo già visto in uno specchio una volta che (il Signore mi perdoni) ero ubriaco fradicio: tutto pallido, tirato e invecchiato. Credo che chiunque altro si sarebbe spaventato anche più di me, che non manco certo di coraggio. Dopo che fui rimasto immobile per un po', sudando per l'angoscia e in attesa di svegliarmi da quel sogno orribile (perché sapevo che si trattava di un sogno), l'uomo ripeté che avrei dovuto pagare un prezzo; e poco dopo, come se fosse da sborsare in pagode o rupie sicca, chiese: "Che prezzo pagherai?". Io dissi, in tono molto sommesso: "Per amor di Dio, lasciami stare, chiunque tu sia, e da stanotte cambierò vita". E lui, ridendo un po' alle mie parole, ma senza peraltro dare l'impressione di averle udite, disse: "No, vorrei soltanto liberare un giovane borioso e audace come te di quanto gli sarebbe d'intralcio nel corso della vita nelle Indie, poiché credimi", e mi guardò di nuovo dritto in faccia, "non c'è compenso". Tutta questa tirata, che allora non potevo comprendere, mi colse alquanto alla sprovvista, e attesi il seguito. Lui disse con molta calma: "Dammi la tua fiducia nell'uomo". Allora mi resi conto di quanto sarebbe stato caro il prezzo da pagare, poiché non ebbi il minimo dubbio che potesse ottenere da me tutto ciò che domandava, e il terrore e l'insonnia mi avevano completamente sgombrato la testa dai fumi dell'alcool. Perciò lo interruppi assai bruscamente, esclamando che non ero poi così cattivo come voleva farmi credere, e che nei miei simili avevo tanta fiducia quanta essi ne meritavano. "Non è certo colpa mia", dissi, "se una metà di loro è fatta di bugiardi, e l'altra metà meriterebbe di essere bruciata", e avrei voluto chiedergli un'altra volta di farla finita con le sue domande. Poi mi fermai, un po' intimorito, devo dire, per essermi lasciato trasportare dalle parole, ma lui non vi badò: mi appoggiò soltanto una mano sul lato sinistro del petto, e in quel punto sentii per un attimo un grande freddo. Poi, ridendo più forte, mi disse: "Dammi la tua fiducia nelle donne". Al che sobbalzai sul letto come se mi avessero punto, poiché pensai alla mia cara mamma in Inghilterra, e per un attimo credetti che la mia fiducia nelle migliori creature del Signore non potesse venire scossa né sottratta. Ma poi, sotto lo sguardo severo di Me stesso, mi misi a pensare, per la seconda volta quella notte, a Kitty (che mi aveva piantato per sposare Tom Sanderson) e alla signora Vansuythen, che soltanto il mio orgoglio diabolico mi aveva spinto a corteggiare, e a come la seconda fosse anche peggiore della prima, e io peggiore di tutte loro, visto che con l'intera vita davanti dovevo assolutamente scendere danzando la via spazzata e adorna del Diavolo, solo perché in

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fondo ad essa brillava il sorriso di una donna frivola. E pensai che tutte le donne al mondo erano come Kitty o come la signora Vansuythen (come, in realtà, da allora sono sempre state per me), e questo mi gettò in un tale parossismo di rabbia e di dolore che fui lieto oltre ogni dire quando la mano di Me stesso si posò nuovamente sul lato sinistro dei mio petto, ed io non fui più turbato da queste follie. Dopo di che tacque per un poco, e pensai che stesse per andarsene, o io fossi sul punto di svegliarmi; ma ecco che riprende a parlare (in tono alquanto sommesso) e mi dice che sono uno sciocco a preoccuparmi di follie come quelle che mi ha preso, e che prima di andarsene vuole chiedermi solo poche altre cosette che nessun uomo, e nemmeno un ragazzo, conserverebbe in questo paese. E così avvenne che prese dal mio stesso cuore, per così dire, guardandomi sempre in faccia con i miei stessi occhi, quel che ancora rimaneva della mia anima e della mia coscienza di fanciullo. Questa fu una perdita ben più terribile delle due precedenti perché (il Signore mi assista), sebbene mi fossi allontanato parecchio da ogni possibile retta via, c'era ancora in me, benché sia proprio io a scriverlo, una certa bontà di cuore che, quando ero sobrio (o malato), mi faceva pentire di tutto ciò che avevo combinato prima di allora. Ora la persi del tutto, e al suo posto sentii un'altra stretta di gelo mortale. Non sono, come ho detto prima, abile con la penna, per cui temo che quanto ho appena scritto non sia facilmente comprensibile. Eppure ci sono dei momenti, nella vita di un giovane, in cui, per via di un gran dolore o di una grave colpa, il ragazzo che è in lui brucia fino a consumarsi, ed egli passa in un colpo solo alla più dolorosa condizione di adulto: come il nostro abbagliante giorno indiano si muta in notte senza nemmeno un'ombra di crepuscolo a temperare i due estremi. A rendere più comprensibile il mio stato servirà forse ricordare che il mio tormento era dieci volte superiore a quello che patisce un uomo nel corso naturale dell'esistenza. Sul momento non osai pensare al cambiamento che era avvenuto in me, e in una sola notte, benché da allora vi abbia pensato spesso. "Ho pagato il prezzo", dissi battendo i denti per il gelo mortale, "qual è il mio compenso?". Ormai era quasi l'alba, e il Me stesso aveva incominciato a farsi pallido e sottile nella luce bianca dell'est, come - era solita dirmi mia madre - accade a spettri, diavoli e simili. Fece per andarsene, ma le mie parole lo trattennero e rise - come ricordo di aver riso io lo scorso agosto, quando ferii Angus Macalister al braccio destro con la spada perché aveva osato mettere in dubbio l'onore della signora Vansuythen. "Qual è il compenso?", fa lui, riprendendo le mie ultime parole. "Diamine, la forza di vivere finché Dio, o il Diavolo, vorrà; e finché vivrai, mio giovane signore, ecco mio dono". Così dicendo mi mette in mano qualcosa, benché fosse ancora troppo buio per vedere cos'era, e quando rialzai lo sguardo se n'era andato. Non appena ci fu luce sufficiente mi affrettai a guardare il suo dono, e vidi che era un pezzo di pane raffermo. NEL «RUKH» Il Figlio Unico si coricò di nuovo e sognò che faceva un sogno. L'ultima cenere si staccò dal fuoco morente con il crepitìo di una scintilla che cade, E il Figlio Unico si svegliò di nuovo e chiese nel buio: "Nacqui forse da donna e riposai sul petto di una madre? Perché ho sognato una pelle irsuta sulla quale andavo a dormire. Nacqui da donna e riposai tra le braccia di un padre? Perché ho sognato lunghe zanne bianche che mi proteggevano dal male. Oh, nacqui da donna e giocai da solo? Perché ho sognato due compagni di giochi che mi mordevano fino all'osso. E spezzai il pane nell'orzo e lo inzuppai nel tyre Perché ho sognato un giovane capretto appena strappato dalla stalla. Un'ora manca, un'ora manca al sorgere della luna - Ma posso vedere le nere travi della volta chiaramente come fosse mezzogiorno! C'è una lega, una lega alle Cascate del Lena, dove i sambar si adunano a frotte, Ma posso udire il cerbiatto che bela appresso la madre! C'è una lega, una lega alle Cascate del Lena, dove la piantagione incontra l'altopiano. Ma posso odorare il vento caldo e umido che mormora tra il grano!". Il Figlio Unico Tra gli ingranaggi della pubblica amministrazione che vengono azionati dal governo indiano, il più importante è senz'altro il Dipartimento dei Boschi e delle Foreste. Il rimboschimento di tutta l'India è nelle sue mani; o lo sarà quando il governo avrà soldi da spendere. I suoi dipendenti lottano con torrenti di sabbia vaganti e dune instabili: cingendoli ai fianchi con graticci, arginandoli di fronte e incavicchiandoli sulla cima con erbacce e pini affusolati, secondo le regole di Nancy. Sono responsabili di tutto il legname delle foreste demaniali dell'Himalaya, nonché delle spoglie colline che i monsoni riducono ad aride forre e gole dolenti; ogni crepa una bocca che grida forte gli effetti dell'incuria. Fanno esperimenti con battaglioni di piante esotiche, riescono a far attecchire una varietà di eucalipto e, forse, a eliminare la febbre del Canale. In pianura il loro compito consiste principalmente nel controllare che i fossati antincendio delle riserve forestali siano tenuti puliti; così che, quando viene la siccità e il bestiame muore di fame, si possano aprire le riserve alle greggi e permettere agli abitanti dei villaggi di raccogliervi rami secchi. Inoltre svettano e potano gli alberi per assicurare le provviste di carburante lungo le linee ferroviarie che non funzionano a carbone;

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calcolano i profitti delle piantagioni fino al quinto decimale; sono i medici e le ostetriche delle immense foreste di tek dell'Alta Birmania, del caucciù delle giungle orientali e delle noci di galla del Sud; e sono sempre ostacolati dalla mancanza di fondi. Ma poiché le mansioni di una guardia forestale la portano lontano dalle strade battute e dai comuni centri abitati, essa acquisisce un'esperienza che trascende il suo campo specifico di azione; impara a conoscere gli abitanti e la legge della giungla; ad affrontare la tigre, l'orso, il leopardo, il cane selvatico e il cervo, non una o due volte dopo giorni di battuta, ma assai spesso nell'adempimento dei propri doveri. Trascorre molto tempo in sella o sotto la tenda - amico degli alberi piantati di recente compagno di rozze guardie forestali e villosi battitori - finché i boschi, che mostrano i segni delle sue cure, non lasciano a loro volta il segno su di lui, ed egli cessa di cantare le volgari canzoni francesi imparate a Nancy, e diviene silenzioso tra le silenziose creature del sottobosco. Gisborne dei Boschi e Foreste aveva trascorso quattro anni al servizio di questo dipartimento. Dapprima l'aveva amato senza comprenderne il motivo, soltanto perché gli consentiva di andare in giro a cavallo e lo investiva di una certa autorità. Poi l'aveva odiato furiosamente, tanto che avrebbe dato un anno di paga per un mese di quella vita di società che offre l'India. Passata la crisi, le foreste lo avevano riconquistato ed egli era stato felice di servirle: di approfondire e allargare i suoi fossati antincendio, di osservare la verde caligine della sua nuova piantagione sullo sfondo del fogliame maturo, di dragare il torrente ostruito e di seguire e sostenere l'ultima lotta della foresta contro le erbacce che l'avevano invasa e soffocata. In una giornata senza vento quelle erbe venivano bruciate, e gli animali che in esse avevano trovato rifugio fuggivano a centinaia di fronte alle fiamme smorte nella luce meridiana. Dopo di che la foresta riprendeva ad avanzare lentamente sul terreno annerito in file ordinate di alberelli; e Gisborne, osservando, si sentiva soddisfatto. Il suo bungalow, un piccolo edificio di due stanze con i muri imbiancati e il tetto di paglia, sorgeva a una estremità del grande rukh, e in posizione tale da dominarlo. Egli non aveva alcuna pretesa di tenere un giardino, poiché il rukh arrivava fino alla porta di casa sotto forma di un boschetto di bambù, e dalla veranda si poteva arrivare nel cuore della foresta senza bisogno di una strada carrozzabile. Abdul Gafur, il suo grasso domestico maomettano, gli faceva da mangiare quando lui era in casa, e passava il resto del tempo a chiacchierare con il gruppetto di servi indigeni le cui capanne sorgevano dietro al bungalow. C'erano due stallieri, un cuoco, un portatore d'acqua e uno spazzino, e questo era tutto. Gisborne si puliva i fucili da solo e non aveva cani. I cani spaventano la selvaggina, mentre a lui piaceva sapere dove i sudditi del suo regno bevevano al sorgere della luna, mangiavano prima dell'alba e riposavano nella calura del giorno. I ranger e le guardie forestali vivevano in piccole capanne sparse nel rukh, e comparivano soltanto quando uno di loro veniva ferito dal crollo di un albero o da una bestia feroce. Così Gisborne era solo. In primavera il rukh metteva poche foglie nuove, ma indugiava, riarso e non ancora sfiorato dal dito dell'anno, in attesa della pioggia. Allora si udivano soltanto maggiori richiami e frastuono nell'oscurità delle notti quiete: il tumulto di una zuffa tra le tigri, il bramito di un cervo arrogante o il costante sgretolìo di un vecchio cinghiale che si affilava le zanne su un tronco. E Gisborne metteva da parte il poco usato fucile, perché uccidere era per lui un peccato. In estate, durante le tremende calure di maggio, il rukh vacillava nella foschia e Gisborne scrutava l'orizzonte in cerca della prima voluta di fumo che indicasse la presenza di un incendio. Poi con un frastuono, venivano le Piogge, e il rukh svaniva in ondate su ondate di caligine afosa, e i goccioloni tamburellavano tutta la notte sulle grandi foglie; e c'era un rumore di acqua corrente e di piante fradicie percosse dal vento, e il fulmine tracciava ghirigori dietro il fitto fondale di foglie, finché il sole si apriva di nuovo un varco e il rukh rimaneva coi caldi fianchi fumanti al cielo lavato di fresco. Allora il calore e il freddo secco riducevano di nuovo tutto a un color tigre. Così Gisborne imparò a conoscere il suo rukh e fu molto felice. La paga arrivava ogni mese, ma lui non aveva quasi bisogno di soldi. Le banconote si accumulavano nel cassetto dove teneva le lettere da casa e la macchinetta per ricaricare le cartucce. Se prelevava del denaro, era per fare un acquisto all'Orto Botanico di Calcutta, o per pagare alla vedova di un ranger una somma che il governo dell'India non le avrebbe mai corrisposto per la morte del marito. Il compenso era buono, ma ci voleva anche la vendetta, e lui ne approfittava quando poteva. Una sera fra tante giunse al bungalow un messo ansante e trafelato, con la notizia che nei pressi del torrente Kanye c'era una guardia forestale morta, con il cranio sfondato come fosse stato un guscio d'uovo. All'alba Gisborne partì in cerca dell'assassino. Soltanto i viaggiatori e, di quando in quando, i soldati giovani si fanno conoscere come grandi cacciatori. Le guardie forestali considerano il shikar parte del lavoro quotidiano, e nessuno ne sente parlare. Gisborne giunse a piedi sul luogo del delitto: la vedova stava piangendo accanto al cadavere disteso su una lettiera, mentre due o tre uomini esaminavano le impronte sul terreno umido. "Questa è la Rossa", disse uno di loro. "Sapevo che prima o poi avrebbe finito per assalire l'uomo, eppure c'è selvaggina a sufficienza anche per lei. Deve averlo fatto per cattiveria". "La Rossa è rintanata tra le rocce dietro gli alberi sal", disse Gisborne, che conosceva la tigre sospettata. "Non ora, Sahib, non ora. Starà vagando rabbiosa avanti e indietro. Ricordati che il primo assassinio è sempre triplice. Il nostro sangue le fa impazzire. Potrebbe essere dietro di noi anche adesso". "Forse è andata verso la più vicina capanna", disse un altro. "Dista solo quattro koss. Wallah, quello chi è?". Gisborne si girò insieme con agli altri. Un uomo stava discendendo a piedi il letto asciutto del torrente; era coperto soltanto da un perizoma, ma aveva il capo cinto da una ghirlanda di convolvoli bianchi. Si muoveva così silenziosamente sui minuscoli ciottoli che anche Gisborne, avvezzo al passo felpato dei battitori, trasalì. "La tigre che ha ucciso", iniziò l'uomo senza un cenno di saluto, "è andata a bere, e adesso sta dormendo sotto una roccia al di là di quel colle". La sua voce era chiara e squillante, completamente diversa dal consueto piagnucolìo degli indigeni; e il viso, quando lo levò alla luce del sole, avrebbe potuto essere quello di un angelo smarrito nei boschi.

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La vedova smise di piangere sul cadavere e fissò lo straniero con gli occhi spalancati, prima di tornare alla propria occupazione con rinnovata energia. "Devo forse mostrare al Sahib?", disse semplicemente lo sconosciuto. "Se ne sei certo ... ", iniziò Gisborne. "Certissimo. L'ho vista soltanto un'ora fa... quella cagna. Ha iniziato prima del tempo a mangiare carne umana. Le rimangono ancora una dozzina di denti buoni nella sua testa malvagia". Gli uomini inginocchiati sulle impronte se la svignarono senza dare nell'occhio, per timore che Gisborne chiedesse loro di accompagnarlo, e il giovane rise un poco tra sé. "Vieni, Sahib" esclamò, e, voltandosi sui talloni, s'incamminò precedendo il compagno. "Non così in fretta. Non riesco a tenere il passo", disse l'uomo bianco. "Fermati. Il tuo viso mi è nuovo". "Può essere. Sono appena arrivato in questa foresta". "Da quale villaggio?" "Non ho villaggio. Vengo da laggiù", e indicò verso nord. "Un vagabondo, dunque?" "No, Sahib. Sono un uomo senza casta e, per quanto ne so, senza padre". "Come ti chiami?". "Mowgli, Sahib. E qual è il nome del Sahib?" "Io sono il custode di questo rukh - il mio nome è Gisborne". "Come? Contano gli alberi e i fili d'erba, qui?" "Proprio così; per paura che i vagabondi come te gli diano fuoco". "Io! Non recherei danno alla giungla per nulla al mondo. Questa è la mia casa". Si girò verso Gisborne con un sorriso irresistibile e levò una mano ammonitrice. "Adesso, Sahib, dobbiamo procedere un po' più silenziosamente. Non c'è bisogno di svegliare quella cagna, anche se sta dormendo abbastanza sodo. Forse è meglio che vada avanti da solo e la spinga sottovento verso il Sahib". "Allah! Da quando in qua le tigri vengono spinte avanti e indietro come bestiame da uomini nudi?", disse Gisborne, stupefatto per l'audacia dello sconosciuto. Quello rise di nuovo in tono sommesso. "Va bene, allora; vieni con me e uccidila alla tua maniera con il grosso fucile inglese". Gisborne seguì i passi della sua guida, contorcendosi, strisciando, arrampicandosi, chinandosi e soffrendo tutte le pene di un inseguimento furtivo nella giungla. Era paonazzo e grondante di sudore, quando infine Mowgli gli disse di alzare la testa e guardare al di là di una roccia azzurra e cotta dal sole, in prossimità di un piccolo stagno. La tigre era comodamente sdraiata sulla riva, e si stava leccando pigramente una enorme zampa anteriore. Era vecchia, con i denti gialli e non poco rognosa, ma in quello scenario e alla luce del sole appariva abbastanza imponente. Gisborne non nutriva false ambizioni sportive nei riguardi di una mangiatrice d'uomini. Quella bestia era nociva e andava uccisa il più presto possibile. Attese dunque di riprendere fiato, appoggiò il fucile alla roccia e fischiò. La tigre volse lentamente il capo a meno di sei metri dalla bocca del fucile, e Gisborne piazzò metodicamente i suoi colpi: uno dietro la spalla e uno poco sotto l'occhio. A quella distanza le robuste ossa non costituivano una difesa contro i proiettili laceranti. "Be', la pelle non valeva certo la pena di essere tenuta", disse mentre il fumo svaniva e la bestia scalciava rantolando nell'agonia finale. "Una morte da cane per un cane", disse Mowgli tranquillamente. "A dire il vero, non c'è nulla che valga la pena di essere portato via in quella carogna". "I baffi. Non li prendi, i baffi?", chiese Gisborne, che sapeva quanto i ranger apprezzassero tali attributi. "Io? Sono forse un pidocchioso shikarri della giungla, per trastullarmi con il muso di una tigre? Lasciala stare. Stanno già arrivando i suoi amici". Un nibbio calò sulle loro teste emettendo strida acute, mentre Gisborne si liberava dei bossoli e si asciugava il viso. "Se non sei uno shikarri, dove hai imparato a conoscere le tigri?", disse. "Nessun battitore avrebbe saputo fare di meglio". "Odio tutte le tigri", disse Mowgli bruscamente. "Il Sahib mi dia da portare il suo fucile. Arré, è molto bello. E dove va ora il Sahib?" "A casa". "Posso venire anch'io? Non sono mai stato nella casa di un bianco". Gisborne fece ritorno al bungalow preceduto da Mowgli che avanzava silenziosamente e a grandi passi, la pelle scura luccicante al sole. Il giovane fissò incuriosito la veranda con le due sedie, tastò con sospetto la tenda di stecche di bambù ed entrò, guardandosi sempre alle spalle. Gisborne slacciò una tenda per non far entrare il sole. Questa cadde con un rumore secco, ma quasi prima che toccasse l'impiantito della veranda, Mowgli era balzato via e stava ansimando all'aperto. "È una trappola", disse rapidamente. Gisborne rise. "I bianchi non prendono in trappola gli uomini. Sei proprio una creatura della giungla".

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"Capisco", disse Mowgli, "non ha né paletto né saliscendi. Io... io non avevo mai visto cose del genere prima d'ora". Dopodiché entrò in punta di piedi ed esaminò con gli occhi spalancati l'arredo delle due stanze. Abdul Gafur, che stava apparecchiando per il pranzo, lo guardò con profondo disgusto. "Tanto disturbo per mangiare, e tanto disturbo per coricarsi dopo mangiato!", disse Mowgli con un ghigno. "Nella giungla ce la passiamo meglio. È molto bello. Ci sono davvero tante cose preziose, qui. Il Sahib non ha paura di essere derubato? Non ho mai visto cose tanto belle". Stava fissando un piatto impolverato di ottone di Benares su una mensola instabile. "Solo un ladro della giungla ruberebbe qui", disse Abdul Gafur, posando un piatto rumorosamente. Mowgli spalancò gli occhi e fissò il maomettano dalla barba bianca. "Al mio paese, quando le capre belano forte le sgozziamo", ribatté allegramente. "Ma non temere. Adesso me ne vado". Si volse e scomparve nel rukh. Gisborne lo seguì con lo sguardo si lasciò sfuggire una risata che finì in un breve sospiro. Non c'era molto, al di fuori del proprio lavoro, che potesse interessare la guardia forestale, e quel figlio della giungla, che sembrava conoscere le tigri come gli altri uomini conoscono i cani, sarebbe stato un diversivo. "È un tipo davvero eccezionale", pensò Gisborne; "è come le illustrazioni del Dizionario Classico. Vorrei poter fare di lui un portatore d'arma. Non c'è gusto a cacciare da soli, e quel tipo sarebbe un perfetto shikarri. Mi domando chi diavolo sia". Quella sera Gisborne sedette in veranda sotto le stelle, a fumare e riflettere. Una voluta di fumo si levò dalla caldaia della pipa e, mentre si dissolveva, egli si accorse della presenza di Mowgli, seduto con le braccia conserte al limite della veranda. Un fantasma non sarebbe potuto apparire più silenziosamente. Gisborne trasalì e lasciò cadere la pipa. "Non c'è nessuno con cui parlare, là fuori nel rukh", disse Mowgli; "così sono venuto qui". Raccolse la pipa e la restituì a Gisborne. "Oh", fece Gisborne e aggiunse, dopo una lunga pausa, "che novità ci sono nel rukh? Hai trovato un'altra tigre?". "I nilgau stanno cambiando pascoli con la luna nuova, com'è loro abitudine. I maiali grufolano nei pressi del torrente Kanye, ora, perché non pascolano insieme ai nilgau; una loro scrofa è stata uccisa da un leopardo tra l'erba alta, alla fonte. Altro non so". "E come fai a sapere tutte queste cose?" chiese Gisborne, piegandosi in avanti e scrutando gli occhi che luccicavano al chiarore delle stelle. "Come potrei non saperle? I nilgau hanno le loro abitudini, e anche un bambino sa che i maiali non pascolano insieme a loro". "Io non lo sapevo", disse Gisborne. "Tsk! Tsk! E sei responsabile - così mi han detto gli uomini delle capanne - di tutto questo rukh?". E rise tra sé. "È abbastanza facile parlare e raccontare storielle da bambini", ribatté Gisborne, irritato da quel risolino sommesso. "E dire che nel rukh succede questo e quest'altro. Tanto nessuno ti può smentire". "Quanto alla carcassa della scrofa, domani ti mostrerò le ossa", replicò Mowgli, assolutamente impassibile. "Riguardo alla questione dei nilgau, invece, se il Sahib rimarrà seduto in silenzio, gliene spingerò uno fin qui; e, ascoltando attentamente i rumori, il Sahib potrà stabilire da dove arriva". "Mowgli, la giungla ti ha fatto uscire di senno", disse Gisborne. "Chi può spingere i nilgau dove gli pare?". "Resta seduto in silenzio, allora. Io vado" "Dio, quell'uomo è un fantasma!" disse Gisborne; poiché Mowgli era svanito nell'oscurità e non si udiva rumore di passi. E rukh si estendeva in grandi pieghe vellutate sotto il luccichio incerto delle stelle - così quieto che la minima brezza vagante tra le cime degli alberi giungeva come il sospiro di un bimbo addormentato. In cucina, Abdul Gafur stava facendo rumore con i piatti. "Fa' silenzio!", gridò Gisborne, e si raccolse in ascolto come può fare un uomo avvezzo alla quiete del rukh. Per non perdere il rispetto di sé in quell'isolamento, aveva conservato l'abitudine di cambiarsi ogni sera per la cena, e il petto bianco e rigido della camicia scricchiolava al suo respiro regolare, finché lui non si girò un poco di lato. Poi il tabacco della pipa un po' sporca iniziò a ronzare, e lui la gettò via. Ora, a parte il respiro notturno del rukh, tutto taceva. Da una distanza indefinibile, e protratto attraverso l'oscurità incommensurabile, giunse il fievole, fievole eco di un ululato. Poi ancora silenzio, che parve durare lunghe ore. Infine, quando già non sentiva più le gambe al di sotto delle ginocchia, Gisborne udì, in lontananza nel sottobosco, qualcosa che avrebbe potuto essere un fragore. Rimase in dubbio finché il rumore non venne ripetuto più volte. "Viene da ovest", mormorò; "c'è qualcosa in movimento laggiù". Il rumore crebbe - strepito su strepito, tonfo su tonfo - insieme con il bramito rauco di un nilgau che, inseguito da vicino, correva terrorizzato e senza una direzione precisa. Un'ombra uscì precipitosamente dal folto degli alberi, fece dietro-front, si girò ancora bramendo e, con un sordo scalpitio sulla nuda terra, passò quasi a portata della mano di Gisborne. Era un nilgau maschio, gocciolante di rugiada, il garrese cinto da uno strascico di rampicanti strappati e gli occhi che brillavano alla luce della casa. Alla vista dell'uomo, la bestia prima si arrestò, poi fuggì lungo il margine del rukh per sparire nell'oscurità. La prima idea che

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attraversò la mente attonita di Gisborne fu l'indecenza di stanare in quel modo, per pura "ispezione", il grande maschio azzurro dei rukh, e di costringerlo a dare spettacolo nella notte che avrebbe dovuto essere sua. Poi, mentre stava ancora fissando il punto in cui l'animale era scomparso, una voce armoniosa gli disse all'orecchio: "Veniva dalla fonte, dov'erà a capo del branco. Da ovest veniva. Ci crede ora il Sahib, o devo portargli tutto il branco perché possa contarlo? Il Sahib è responsabile di questo rukh". Mowgli si era di nuovo seduto sulla veranda e respirava un po' affannosamente. Gisborne lo guardò con la bocca aperta. "Come è avvenuto?", disse. "Il Sahib ha visto. Il nilgau è stato spinto... come si spinge un bufalo. Oh! Oh! Avrà una bella storia da raccontare, quando ritornerà al suo branco". "È un trucco nuovo per me. Puoi dunque correre veloce come un nilgau?" "Il Sahib ha visto. Qualora il Sahib avesse bisogno di altre informazioni sui movimenti delle bestie, io, Mowgli, sarò a sua disposizione. Questo è un buon rukh, e mi fermerò". "Fermati, dunque; e qualora tu volessi venire a pranzo, i miei servi ti daranno da mangiare". "Sì, certo; mi piacciono i cibi cotti", rispose prontamente Mowgli. "Non si può certo dire che io non mangi carne bollita e arrosto come chiunque altro. Verrò a pranzo. Ora, da parte mia, prometto che il Sahib potrà dormire tranquillo in casa sua, la notte, e nessun ladro verrà a rubare i suoi ricchi tesori". La conversazione terminò con la brusca partenza di Mowgli. Gisborne rimase a lungo a fumare, e la conclusione dei suoi pensieri fu che in Mowgli aveva finalmente trovato quel ranger e quella guardia forestale ideali di cui sia lui che il Dipartimento erano continuamente alla ricerca. "Devo convincerlo in qualche modo a prestare servizio per il governo. Uno che può spingere i nilgau deve saperne di più, sul rukh, di cinquanta uomini. E un prodigio, un lusus naturae - ma deve diventare una guardia forestale, se solo riesce a fermarsi in un posto", disse Gisborne. L'opinione di Abdul Gafur risultò meno favorevole. Prima di andare a letto confidò a Gisborne che uno straniero venuto da Dio-sa-dove era quasi sicuramente un ladro di professione, e che lui personalmente non approvava i paria nudi che non sanno rivolgersi a un bianco in maniera appropriata. Gisborne rise e gli ordinò di ritirarsi nelle sue stanze, e Abdul Gafur se ne andò brontolando. Più tardi, quella notte, ebbe modo di alzarsi e picchiare la figlia tredicenne. Nessuno sapeva il motivo della lite, ma Gisborne udì il pianto della fanciulla. Nei giorni successivi Mowgli apparve e scomparve come un'ombra. Si era stabilito nei pressi del bungalow, ma ai margini del rukh, dove Gisborne, uscendo sulla veranda per una boccata d'aria fresca, ogni tanto lo vedeva seduto al chiaro di luna con la fronte poggiata sulle ginocchia, o lungo disteso su un ramo con il corpo aderente ad esso come un animale notturno. Da lì Mowgli gli inviava un saluto e gli augurava la buona notte; oppure, scendendo, gli raccontava storie meravigliose sulle usanze degli animali dei rukh. Una volta si spinse nelle stalle e venne trovato che guardava i cavalli con profondo interesse. "Quello", disse esplicitamente Abdul Gafur, "è segno evidente che un giorno o l'altro ne ruberà uno. Perché, se vive presso questa casa, non si trova un'occupazione onesta? No, lui deve andare su e giù come un cammello sciolto, cercando di cambiare la testa agli sciocchi e aprendo le fauci degli stolti". Così, quando si incontravano, Abdul Gafur impartiva severi ordini a Mowgli, mandandolo a prendere l'acqua o a spennare i polli; e Mowgli, ridendo indifferente, ubbidiva. "Non ha casta", diceva Abdul Gafur. "Farà qualunque cosa. Stai attento, Sahib, che non faccia troppo. Un serpente è un serpente, e un vagabondo della giungla è un ladro finché vive". "Fai silenzio, allora", diceva Gisborne. "Ti permetto di rimproverare i tuoi familiari, se non fai troppo rumore, perché conosco i tuoi usi e costumi. Tu i miei usi non li conosci. L'uomo è senza dubbio un po' matto". "È tutt'altro che matto", disse Abdul Gafur. "Ma staremo a vedere cosa succede". Qualche tempo dopo, Gisborne dovette passare tre giorni nel rukh per lavoro. Abdul Gafur, essendo vecchio e grasso, venne lasciato a casa. Non sopportava di dormire nelle capanne dei ranger, e aveva l'abitudine di esigere, a nome del padrone, tributi di grano, olio e latte da coloro che difficilmente potevano permettersi simili offerte. Gisborne partì un mattino presto a cavallo, un po' seccato perché il suo uomo dei boschi non si era presentato al bungalow per accompagnarlo. Quel tipo gli piaceva... gli piacevano la sua forza, la sua rapidità, il suo passo silenzioso, il suo sorriso aperto e sempre sulle labbra, la sua ignoranza di tutte le forme di cerimonia e di saluto, e le storie infantili che raccontava (e alle quali ora Gisborne credeva) sulle abitudini degli animali del rukh. Dopo aver cavalcato per un'ora in mezzo alla folta vegetazione, Gisborne udì un fruscio alle sue spalle, e Mowgli comparve trotterellando a fianco del cavallo. "Ci aspettano tre giorni di lavoro", disse Gisborne, "tra gli alberi nuovi". "Bene", disse Mowgli. "È sempre bene accudire gli alberi giovani. Si infoltiscono, se le bestie li lasciano in pace. Dobbiamo trasferire di nuovo i maiali". "Di nuovo? Come mai?", Gisborne sorrise. "Oh, questa notte stavano grufolando e affilandosi le zanne tra i giovani sal, e li ho spinti via. Per questo non sono venuto al bungalow stamattina. I maiali non dovrebbero assolutamente trovarsi su questo lato del rukh. Dobbiamo tenerli a valle della sorgente del Kanye". "Ci riuscirebbe soltanto uno che sapesse imbrancare le nuvole; ma, Mowgli, se come dici sei pastore nel rukh senza profitto e senza paga ... ".

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"È il rukh del Sahib", disse Mowgli, alzando rapidamente lo sguardo. Gisborne, fece un cenno di ringraziamento e proseguì: "Non sarebbe meglio lavorare al soldo del governo? C'è una pensione al termine di un lungo servizio". "Ci ho pensato", disse Mowgli, "ma i ranger vivono in capanne con le porte chiuse, e io mi sentirei in trappola. Tuttavia... penso" "Pensaci bene, allora, e poi fammi sapere. Adesso ci fermiamo per la colazione". Gisborne smontò da cavallo, prese il suo pasto mattutino dalle bisacce della sella, e vide il giorno spuntare caldo al di sopra del rukh. Mowgli era disteso sull'erba al suo fianco e fissava il cielo. Dopo qualche minuto sussurrò pigramente: "Sahib, hai lasciato ordine, al bungalow, di far uscire la cavalla bianca, oggi?". "No, è vecchia e grassa, e anche un po' zoppa. Perché?" "Qualcuno la sta cavalcando a spron battuto sulla strada che conduce alla ferrovia". "Bah, è distante due koss. Sarà il rumore di un picchio". Mowgli alzò un braccio per ripararsi dal sole. "La strada fa un'ampia curva a partire dal bungalow. Non è più di un koss, a volo d'uccello; e il suono vola con gli uccelli. Vogliamo vedere?" "Che follia! Correre un koss sotto questo sole per accertarsi di un rumore nella foresta". "Be', il pony è del Sahib. Io intendevo solo farlo venire qui. Se non è il pony dei Sahib, non importa. Se invece lo è, il Sahib può fare quello che vuole. Sicuramente il cavaliere lo sta sfiancando". "E come pensi di farlo venire qui, pazzo?" "Il Sahib ha forse dimenticato? Allo stesso modo del nilgau". "Alzati, allora, e corri, se sei così pieno di buona volontà". "Oh, non sarò io a correre!". Levò una mano per chiedere silenzio e, ancora disteso sulla schiena, lanciò tre volte un richiamo - un grido profondo e gutturale, che Gisborne non aveva mai sentito. "Sarà lei a venire", disse infine. "Aspettiamo all'ombra". Le lunghe ciglia calarono sugli occhi selvaggi, mentre Mowgli si assopiva nella quiete del mattino. Gisborne attese paziente; Mowgli era sicuramente matto, ma la sua compagnia era così divertente che una solitaria guardia forestale non avrebbe potuto desiderare di meglio. "Oh! Oh!", fece Mowgli pigramente, con gli occhi chiusi. "È caduto di sella. Bene, arriverà prima la cavalla e poi l'uomo". E sbadigliò, mentre lo stallone di Gisborne nitriva. Tre minuti dopo la cavalla bianca di Gisborne, sellata e con le briglie ma senza cavaliere, irruppe nella radura dov'erano seduti i due uomini e corse incontro al compagno. "Non è molto accaldata", disse Mowgli, "ma con questo caldo si suda facilmente. Tra un attimo vedremo il cavaliere, perché un uomo corre più lentamente di un cavallo - specialmente se è vecchio e grasso". "Allah! Questa è opera del demonio", esclamò Gisborne balzando in piedi, poiché aveva udito un grido nella giungla. "Non preoccuparti, Sahib. Non si è fatto niente. Dirà anche lui che è opera dei demonio. Ah! Ascolta! Chi è?". Era la voce di Abdul Gafur che, in preda al terrore, implorava esseri sconosciuti di risparmiare lui e i suoi grigi capelli. "No, non posso fare un altro passo", gridava. "Sono vecchio e ho perduto il mio turbante. Arré! Arré! Ma mi muoverò lo stesso. Mi sbrigo. Corro! Oh, Diavoli dell'Inferno, sono un musulmano!". I cespugli si aprirono e sbucò fuori Abdul Gafur, scalzo, senza turbante, con il perizoma slegato, erba e fango nei pugni chiusi e il volto paonazzo. Vedendo Gisborne, lanciò un altro urlo e gli si gettò ai piedi, esausto e tremante. Mowgli lo guardava con un sorriso amabile. "Questo non è uno scherzo", disse Gisborne in tono severo. "L'uomo sembra in punto di morte, Mowgli". "Non morirà. È solo impaurito. Non c'era bisogno che uscisse a fare una passeggiata". Abdul Gafur gemette e si rialzò, tremando in tutto il corpo. "È stregoneria... stregoneria e diavoleria!", disse tra i singhiozzi, frugando con la mano nel petto. "Per la mia colpa, sono stato inseguito dai diavoli attraverso i boschi. È tutto finito. Mi pento. Prendili, Sahib!". E gli porse un rotolo di carta sporca. "Cosa significa questo, Abdul Gafur?", disse Gisborne, conoscendo già la risposta. "Mandami in prigione - le banconote ci sono tutte - ma chiudi bene la porta, che nessun diavolo possa entrare. Ho peccato contro il Sahib e il suo sale che ho mangiato; e, non fosse stato per quei maledetti demoni dei boschi, avrei potuto comprare delle terre lontano da qui e vivere in pace per il resto dei miei giorni". Picchiò il capo in terra in un accesso di disperazione e mortificazione. Gisborne girò e rigirò il rotolo di banconote tra le dita. Era la paga degli ultimi nove mesi - il rotolo che teneva nel cassetto insieme con le lettere da casa e la macchinetta per ricaricare le cartucce. Mowgli osservava Abdul Gafur, ridendo silenziosamente tra sé. "Non c'è bisogno di farmi risalire a cavallo. Tornerò a casa a piedi con il Sahib, dopodiché potrà mandarmi sotto scorta al Jail-Khaua. Il governo dà molti anni per questo reato", disse il domestico astiosamente. La solitudine del rukh fa cambiare moltissime idee riguardo a moltissime cose. Gisborne fissò Abdul Gafur ricordando che era un ottimo servo, e che un nuovo domestico avrebbe dovuto imparare le faccende di casa dall'inizio e, nel migliore dei casi, avrebbe avuto solo una faccia nuova e una nuova lingua. "Ascolta, Abdul Gafur", disse. "Tu hai commesso una grave colpa, e hai perduto completamente il tuo izzat e la tua reputazione. Ma io credo che sia stato un gesto improvviso".

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"Allah! Non avevo mai desiderato quelle banconote prima. Il Diavolo mi ha preso per la gola, quando le ho viste". "Posso credere anche questo. Torna dunque a casa, e al mio rientro farò portare il denaro in banca da un corriere e non se ne parlerà più. Sei troppo vecchio per il Jail-Khana. Inoltre, la tua famiglia non ha colpa". Per risposta Abdul Gafur si sciolse in singhiozzi tra gli stivali di cuoio di Gisborne. "Non mi licenzi, dunque?" "Questo si vedrà. Dipende dalla tua condotta quando ritorneremo. Ora monta a cavallo e torna indietro lentamente". "Ma... i diavoli! Il rukh è pieno di diavoli!". "Non temere, padre mio. Non ti faranno alcun male, a meno che gli ordini del Sahib non vengano disobbediti", disse Mowgli. "In tal caso, forse, potrebbero mandarti a casa... alla maniera del nilgau". La mascella inferiore di Abdul Gafur cadde, mentre lui si riannodava il perizoma con lo sguardo fisso su Mowgli. "Sono dunque i suoi diavoli! I suoi diavoli? E io che pensavo, al ritorno, di incolpare questo stregone!". "E pensavi bene, huzrut; ma prima di tendere una trappola, ci si accerta di quanto è grossa la preda che vi può cadere. Io credevo solo che qualcuno avesse preso uno dei cavalli del Sahib. Non sapevo che l'intenzione era di farmi passare per ladro ai suoi occhi, altrimenti i miei diavoli ti avrebbero trascinato fin qui per una gamba. E non è troppo tardi". Mowgli guardò Gisborne interrogativamente; ma Abdul Gafur si affrettò ciondolando verso la cavalla bianca, si arrampicò in sella e filò via, seguito dai rumori e dagli echi del bosco. "Ben fatto", disse Mowgli. "Ma cadrà di nuovo, se non si tiene alla criniera". "È venuto il momento di dirmi cosa significano queste cose", disse Gisborne in tono leggermente severo. "Cos'è questa storia dei diavoli? Come possono gli uomini essere condotti su e giù per il rukh come bestiame? Rispondi". "Il Sahib è forse arrabbiato perché gli ho fatto recuperare il suo denaro?" "No, ma ci sono dei trucchi in questa faccenda che non mi piacciono". "Molto bene. Se ora mi alzassi e facessi tre passi nel rukh nessuno, nemmeno il Sahib, riuscirebbe a trovarmi finché non lo decidessi io. Come non mi sento di fare una cosa del genere, non mi sento nemmeno di parlare. Abbi un po' di pazienza, Sahib, e un giorno ti mostrerò ogni cosa; perché, se vorrai, un giorno cacceremo l'antilope insieme. Non c'è alcuna diavoleria in tutto questo. Solo che... io conosco il rukh come un altro conosce la cucina di casa sua". Mowgli parlò come si parlerebbe a un bambino impaziente. Gisborne, perplesso, confuso e assai irritato, non disse nulla ma tenne lo sguardo fisso a terra, pensieroso. Quando rialzò gli occhi, l'uomo dei boschi se n'era andato. "Non è bene", disse una voce pacata dal folto degli alberi, "Che gli amici siano in collera tra di loro. Attendi fino a sera, Sabib, quando l'aria rinfresca". Lasciato così a se stesso, abbandonato, per così dire, nel cuore del rukh, Gisborne imprecò, poi rise, risalì a cavallo e riprese il cammino. Visitò la capanna di un ranger, ispezionò un paio di nuove piantagioni, diede ordine che si bruciasse una macchia di erba secca, e si avviò verso un bivacco di sua preferenza - un ammasso di rocce scheggiate, vagamente riparate da rami e foglie, non lontano dalle rive del torrente Kanye. Era sera quando giunse in vista del luogo, e il rukh si stava destando alla tacita e vorace vita notturna. Un fuoco da campo tremolava sul dosso, e c'era nell'aria il profumo di un ottimo pranzo. "Uhm", disse Gisborne, "in ogni caso, è senz'altro meglio della carne fredda. Ora, l'unico che potrebbe essere qui è Muller; ed egli, ufficialmente, dovrebbe trovarsi in ispezione nel rukh di Changamanga. Credo che sia questo il motivo per cui si trova nella mia zona". Il gigante tedesco che era a capo dei Boschi e Foreste di tutta l'India, ranger-capo dalla Birmania a Bombay, aveva l'abitudine di svolazzare come un pipistrello da un luogo all'altro senza preavviso, comparendo esattamente dove meno lo si aspettava. La sua teoria era che le visite improvvise, la scoperta di manchevolezze e il rimprovero verbale e immediato di un dipendente fossero infinitamente più efficaci delle lunghe pratiche per corrispondenza, che potevano dar luogo ad un rimprovero scritto e ufficiale - cosa che in seguito avrebbe danneggiato lo stato di servizio di una guardia forestale. Come spiegava lui: "Se parlo semplicemente ai miei ragazzi in tono paterno, loro dicono, "Era solo quel dannato vecchio Muller", e la volta dopo si comportano meglio. Ma se quello zuccone del mio impiegato scrive dicendo che l'Ispettore Generale Muller non riesce a capire ed è molto seccato, in primo luogo non serve perché io non sono presente, e poi l'idiota che verrà dopo di me potrà sempre dire ai migliori dei miei ragazzi: "Vedo che siete stati strigliati dal mio predecessore". Ve lo dico io, i rimproveri dei superiori non fanno crescere gli alberi". La voce profonda di Muller veniva dall'oscurità oltre i bagliori del fuoco, dov'era curvo sulle spalle del suo cuoco prediletto. - Non così tanta salsa, figlio di Belial. La salsa Worcester è un condimento, non un fluido. Ah, Gisborne, arrivate in tempo per una pessima cena. Dov'è il vostro campo? - e gli andò incontro per stringergli la mano. "Sono io il campo, signore", disse Gisborne. "Non sapevo che foste da queste parti". Muller guardò la figura ordinata del giovane. "Bene! Molto bene! Un cavallo e qualcosa di freddo da mangiare. Quand'ero giovane facevo così il mio campo. Ora pranzerete con me. Il mese scorso sono stato al quartier generale a fare il mio rapporto. Ne ho scritto metà - oh! oh! - e ho lasciato il resto ai miei impiegati per venire a fare una passeggiata. Il governo va matto per quei rapporti. L'ho detto anche al viceré a Simla".

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Gisborne rise tra sé, ricordando le molte storie che circolavano sui conflitti tra Muller e l'Autorità Suprema. Egli era il libertino patentato di tutti gli uffici, perché come ufficiale forestale non aveva eguali. "Gisborne, se vi trovo seduto nel vostro bungalow a stendere rapporti sulle piantagioni invece di ispezionarle a cavallo, vi trasferisco in mezzo al deserto di Bikaner con l'incarico di rimboschirlo. Sono stufo di rapporti e carta straccia invece di fare il nostro lavoro". "Non c'è pericolo che io perda tempo con i rapporti. Li odio quanto voi, signore". A questo punto la conversazione passò a questioni professionali. Muller aveva alcune cose da chiedere, e Gisborne ordini e consigli da ricevere in attesa che la cena fosse pronta. Fu il pasto più civile che Gisborne facesse da mesi. Non c'era distanza dalla base dei rifornimenti che potesse ostacolare il lavoro del cuoco di Muller; e quella cena improvvisata nella giungla iniziò con pesciolini d'acqua dolce alla graticola e terminò con caffè e cognac. "Ah!", disse infine Muller con un sospiro di soddisfazione, mentre si accendeva uno cheroot e si lasciava cadere sulla sua vecchia e logora poltrona da campo. "Quando scrivo i rapporti sono un libero pensatore e un ateo, ma qui nel rukh sono più che cristiano. Sono addirittura pagano". Rigirò voluttuosamente l'estremità dello cheroot sotto la lingua, posò le mani sulle ginocchia e fissò davanti a sé l'oscuro e mutevole cuore del rukh pieno di rumori furtivi: lo scricchiolio di ramoscelli spezzati simile al crepitìo del fuoco alle sue spalle; il sospiro e il fruscio di un ramo piegato dal caldo che si raddrizzava alla frescura della notte; il mormorìo incessante del Kanye e le note basse degli altipiani erbosi e variamente popolari, nascosti dalla protuberanza di un colle. Poi soffiò una densa nuvoletta di fumo e iniziò a citare Heine tra sé. "Sì, è molto bello. Molto bello. "Sì, io compio miracoli e, per Dio, essi avvengono". Ricordo quando non c'era rukh più grande di un ginocchio, da qui alle terre coltivate, e nei periodi di siccità le bestie mangiavano le ossa di animali morti qua e là. Ora gli alberi sono ritornati. Furono piantati da un libero pensatore che conosceva il rapporto tra causa ed effetto. Ma gli alberi avevano il culto degli dèi antichi, "e gli dèi cristiani gridano forte". Non potrebbero vivere nel rukh, Gisborne?". Un'ombra si mosse su uno dei sentieri tracciati dai cavalli - si mosse e uscì allo scoperto sotto la luce delle stelle. "Ho detto la verità. Silenzio! Ecco Fauno in persona che viene a vedere l'Ispettore Generale. Himmel, è il dio! Guardate!". Era Mowgli, incoronato dalla sua ghirlanda di fiori bianchi, che avanzava con un ramo mezzo scortecciato in una mano. - Mowgli, assai diffidente del fuoco e pronto a ricacciarsi nel folto degli alberi al minimo segnale di allarme. "È un mio amico", disse Gisborne. "Mi sta cercando. Ehi, Mowgli!". Muller ebbe appena il tempo di trasalire che l'uomo era al fianco di Gisborne, e gridava: "Ho sbagliato ad andarmene. Ho sbagliato, ma allora non sapevo che la compagna di quello che uccidesti lungo questo torrente ti stava cercando. Altrimenti non sarei andato via. Ti ha seguito dai piedi delle montagne, Sahib". "È un po' matto", disse Gisborne, "e parla di tutti gli animali qui attorno come fosse loro amico". "Naturalmente, naturalmente. Se non lo è Fauno, chi dovrebbe esserlo?", disse gravemente Muller. "Cosa dice delle tigri, questo dio che sembra conoscervi così bene?". Gisborne riaccese il suo cheroot e, prima che avesse finito di raccontare di Mowgli e delle sue imprese, lo aveva fumato tutto. Muller ascoltò senza interromperlo. "Questa non è pazzia", disse infine, quando Gisborne ebbe descritto la "cattura" di Abdul Gafur. "Questa non è affatto pazzia". "Cos'è allora? Stamattina se n'è andato di malumore perché gli ho chiesto di spiegarmi come aveva fatto. Credo che il tipo sia vittima di qualche forma di invasamento". "No, non si tratta di invasamento, ma è assai sorprendente. Di solito muoiono giovani, queste persone. E dicevate poc'anzi che il vostro servo-ladro non ha detto chi inseguiva il pony, e naturalmente il nilgau non può parlare". "No, ma, al diavolo, non c'era nulla. Io ero in ascolto, e so distinguere la maggior parte dei suoni. Il nilgau e l'uomo sono semplicemente arrivati a capofitto, pazzi di paura". Per tutta risposta, Muller osservò Mowgli da capo a piedi, poi gli fece cenno di avvicinarsi. Egli ubbidì con la stessa diffidenza di un cervo che segue una traccia infida. "Non temere", disse Muller in vernacolo. "Distendi un braccio". Fece scorrere la mano fino al gomito, glielo tastò e annuì. "Proprio come pensavo. Ora il ginocchio". Gisborne lo vide tastargli la rotula e sorridere. Due o tre cicatrici bianche, proprio sopra la caviglia, attrassero la sua attenzione. "Queste risalgono a quando eri molto giovane?", chiese. "Sì", rispose Mowgli con un sorriso. "Erano le dimostrazioni d'affetto dei piccoli". Poi a Gisborne, da sopra la spalla. "Questo Sahib sa tutto. Chi è?" "Quello viene dopo, amico mio. Dove sono adesso loro?", disse Muller. Mowgli fece un gesto circolare con la mano sopra la testa. "Già! E tu puoi guidare i nilgau? Guarda! Là c'è la mia giumenta in pastoie. Puoi farla venire qui senza impaurirla?" "Se posso far venire qui la giumenta del Sahib senza impaurirla!?", ripeté Mowgli, alzando un poco la voce al di sopra del normale. "Cosa c'è di più facile, se non è impastoiata?"

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"Slega la testa e le pastoie", gridò Muller allo stalliere. L'ordine era appena stato eseguito che il cavallo, un enorme australiano nero, levò il capo e drizzò le orecchie. "Attento! Non vorrei che prendesse la via del rukh", disse Muller. Mowgli era immobile davanti al bagliore delle fiamme, a immagine e somiglianza di quel dio greco che viene così generosamente descritto nei romanzi. La giumenta nitrì, alzò una zampa posteriore e, sentendosi libera dalle pastoie, corse dal padrone e gli appoggiò il muso sul petto, leggermente sudata. "È venuta spontaneamente. Come fanno i miei cavalli", esclamò Gisborne. "Senti se suda", disse Mowgli. Gisborne posò una mano sul fianco umido. "È abbastanza", disse Muller. "È abbastanza", ripeté Mowgli, e una roccia alle sue spalle gli mandò indietro le parole. "È strano, no?", disse Gisborne. "No, soltanto prodigioso... assai prodigioso. Ancora non capite, Gisborne?" "Confesso di no". "Bene, dunque; non sarò io a dirvelo. Lui dice che un giorno vi mostrerà di cosa si tratta. Sarebbe ingiusto se ve lo dicessi ora. Ma non riesco a capire perché non sia morto. Ora ascolta, tu", Muller si rivolse a Mowgli, ritornando al vernacolo. "Io sono il capo di tutti i rukh dell'India e di altri paesi al di là dell'Acqua Nera. Non so quanti uomini ho alle mie dipendenze - forse cinquemila, forse dieci. Il tuo compito è questo: non più vagare su e giù per il rukh inseguendo animali per diletto o per esibizione, ma prestare servizio sotto di me, che rappresento il governo per quanto riguarda i Boschi e le Foreste, e vivere in questo rukh come guardia forestale; per allontanare le capre dei contadini quando non c'è ordine di farle pascolare nel rukh; lasciarvele entrare quando viene dato l'ordine; ridurre, come sai fare tu, i cinghiali e i nilgau quando diventano troppi; informare Gisborne Sahib sui movimenti delle tigri e sugli animali che si trovano nelle foreste; e dare avviso di tutti gli incendi che si sviluppano nel rukh, perché tu puoi farlo più rapidamente di chiunque altro. Per questo lavoro c'è una paga mensile in argento; e alla fine, quando ti sarai trovato una moglie e del bestiame, e, forse, avrai messo al mondo dei figli, ci sarà anche una pensione. Cosa rispondi?" "È proprio quello che ... ", iniziò Gisborne. "Il mio Sahib mi ha parlato stamattina di un lavoro simile. Ho girato tutto il giorno da solo, considerando l'offerta, e la mia risposta è questa. Accetto, se posso prestare servizio in questo rukh e in nessun altro, con Gisborne Sahib e nessun altro". "Così sarà. Tra una settimana riceverai l'ordine scritto che impegna l'onore del governo per la pensione. Dopo di che ti costruirai una capanna nel luogo che stabilirà Gisborne Sahib". "Stavo appunto per parlarvene", disse Gisborne. "Non era più necessario, dopo che ho visto l'uomo. Non ci sarà mai una guardia forestale come lui. È un portento. Un giorno ve ne accorgerete, Gisborne, ve l'assicuro. È fratello di sangue di ogni animale del rukh". "Se riuscissi a capirlo mi sentirei l'anima più tranquilla". "Verrà il momento anche per quello. Ora vi dico che una sola volta, in tutti questi anni di servizio, e sono trenta ormai, mi è capitato di incontrare un ragazzo con origini come le sue. E morì. Talvolta i censimenti parlano di persone simili, ma muoiono tutte. Quest'uomo invece è vissuto, ed è un anacronismo, perché è antecedente all'età del ferro e all'età della pietra. Guardate, è agli inizi della storia dell'uomo - Adamo nel giardino dell'Eden, ed ora ci manca solo una Eva! No! È più antico di quella favola, proprio come il rukh è più antico degli dèi. Gisborne, ora sono pagano, una volta per tutte". Per il resto della lunga serata, Muller sedette a fumare e fumare, e a fissare e fissare l'oscurità, con le labbra che gli si muovevano in un susseguirsi di citazioni e una grande meraviglia dipinta sul volto. Alla fine entrò nella tenda, per uscirne subito dopo nel suo maestoso pigiama rosa, e le ultime parole che Gisborne gli udì rivolgere al rukh, nel silenzio profondo della mezzanotte, furono queste, pronunciate con immensa enfasi: Benché noi ci copriamo di cenci e ornamenti e drappeggi, Tu sei nobile e nudo e antico; Libidine tua madre, Priapo Tuo padre, un dio e un greco. Ora so che, pagano o cristiano, non arriverò mai a conoscere l'intima natura del rukh! Era mezzanotte nel bungalow, una settimana dopo, quando Abdul Gafur, grigio-cenere per la rabbia, comparve ai piedi del letto di Gisborne e lo svegliò chiamandolo sottovoce. "Alzati, Sahib", balbettò. "Alzati e prendi il fucile. Il mio onore è rovinato. Alzati e uccidili, prima che qualcuno li veda". Il volto del vecchio era alterato, tanto che Gisborne lo fissò attonito. "Era per questo, dunque, che quel paria della giungla mi aiutava a lucidare la tavola del Sahib, andava a prendere l'acqua e spennava i polli. Sono fuggiti insieme, malgrado tutte le mie botte, e ora lui siede in mezzo ai suoi diavoli, e trascina l'anima di lei all'Inferno. Alzati, Sahib, e vieni con me!".

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Cacciò un fucile nella mano semintorpidita di Gisborne e lo condusse, quasi a forza, fuori della stanza e sulla veranda. "Sono là nel rukh, proprio a un tiro di fucile dalla casa. Seguimi senza far rumore". "Ma cosa c'è? Qual è il problema, Abdul?" "Mowgli e i suoi diavoli. E anche mia figlia", disse Abdul Gafur. Gisborne si lasciò sfuggire un fischio e seguì la sua guida. Non per niente, pensò, Abdul Gafur picchiava la figlia di notte; e non per niente Mowgli aiutava nei lavori domestici un uomo che i suoi poteri, qualunque fossero, avevano smascherato come ladro. Inoltre, un corteggiamento nella giungla è cosa rapida. Nel rukh si udiva il soffio di un flauto, quale avrebbe potuto essere il canto di un errante dio dei boschi, e, a mano a mano che i due si avvicinavano, un mormorio di voci. Il sentiero terminava in una piccola radura semicircolare, cinta in parte da alte erbe e in parte da alberi. Al centro, sopra un tronco caduto, con la schiena rivolta agli osservatori e un braccio intorno al collo della figlia di Abdul Gafur, sedeva Mowgli, nuovamente incoronato di fiori e intento a suonare un rudimentale flauto di bambù, alla cui musica quattro enormi lupi danzavano solennemente sulle zampe posteriori. "Quelli sono i suoi diavoli", bisbigliò Abdul Gafur. In pugno stringeva una manciata di cartucce. Al suono di una nota prolungata e vibrante, le bestie ricaddero sulle zampe anteriori e rimasero immobili, coi verdi occhi puntati sulla fariciulla. "Guarda", disse Mowgli, posando il flauto. "C'è forse da aver paura? Te l'ho detto, cuoricino intrepido, che non c'era da temere, e tu mi hai creduto. Tuo padre disse - oh, avresti dovuto vederlo, tuo padre, cacciato alla maniera dei nilgau! - tuo padre disse che erano diavoli; e, per Allah, che è il tuo Dio, non mi meraviglia che li abbia creduti tali!". La fanciulla proruppe in un risolino gorgogliante, e Gisborne udì Abdul Gafur digrignare i pochi denti che gli rimanevano. Questa non era affatto la fanciulla che Gisborne aveva intravisto aggirarsi furtivamente nel recinto di casa, velata e silenziosa, ma un'altra persona - una donna sbocciata in una notte, come l'orchidea fiorisce in un'ora di caldo umido. "Invece sono i miei fratelli e compagni di gioco, figli di quella madre che mi allattò, come ti ho raccontato dietro la cucina", proseguì Mowgli. "Figli del padre che mi proteggeva dal freddo all'ingresso della caverna quando ero un bimbetto nudo. Guarda, - un lupo alzò il muso grigiastro, sbavando sul ginocchio di Mowgli, - mio fratello sa che sto parlando di loro. Sì, quando io ero un bambino lui era un cucciolo che si rotolava nel fango con me". "Ma tu hai detto di essere nato da uomini", tubò la fanciulla, stringendosi più vicino alla spalla del giovane. "Sei nato da uomini?" "Se l'ho detto? No, io so di essere nato da uomini perché il mio cuore è nelle tue mani, piccina". La testa della fanciulla scivolò sul petto di Mowgli. Gisborne levò, una mano ammonitrice per trattenere Abdul Gafur, che non era minimamente impressionato dall'incanto della scena. "Ma ciò nonostante fui un lupo tra i lupi, finché non venne il momento in cui Quelli della giungla mi ordinarono di andarmene perché ero un uomo". "Chi ti ordinò di andartene? Queste non sono parole da uomo sincero". "Gli animali stessi. Piccina, tu non ci crederesti mai, però fu così. Gli animali della giungla mi ordinarono di andarmene, ma questi quattro mi seguirono perché ero loro fratello. Allora fui pastore di armenti tra gli uomini, avendo imparato la loro lingua. Oh! Oh! Le greggi pagavano il pedaggio ai miei fratelli, finché una donna - una vecchia, tesoro - mi vide giocare di notte con i miei fratelli nei campi. Dissero che ero posseduto dai demoni, e mi cacciarono dal villaggio a bastonate e sassate; e i quattro mi seguirono di nascosto. Ciò avvenne quando avevo già imparato a mangiare carne cotta e a parlare con baldanza. Andai di villaggio in villaggio, cuore del mio cuore, e fui pastore di armenti, guardiano di bufali, battitore di caccia, ma non c'era nessuno che osasse levare due volte un dito contro di me". Si chinò ad accarezzare una delle due teste. "Fai anche tu così. Non c'è pericolo né magia in loro. Vedi, ti conoscono". "I boschi sono pieni di diavoli d'ogni genere", disse la fanciulla con un fremito. "È una bugia. Una bugia per bambini", replicò Mowgli sicuro di sé. "Io ho dormito all'aperto, con la rugiada, sotto le stelle e nella notte più scura, e lo so. La giungla è la mia casa. Può forse un uomo temere le travi della volta di casa propria, o una donna il focolare del suo uomo? Chinati e accarezzali". "Sono dei cani e sono sporchi", mormorò lei, piegandosi in avanti e distogliendo il capo. "Una volta mangiato il frutto, ci ricordiamo della Legge!", disse amaramente Abdul Gafur. "Che bisogno c'è di aspettare, Sahib? Uccidili!". "Zitto, tu. Sentiamo cos'è successo", disse Gisborne. "Ben fatto", disse Mowgli, cingendo nuovamente la fanciulla con il braccio. "Cani o no, mi hanno accompagnato in migliaia di villaggi". "Ahi, e dov'era allora il tuo cuore? In migliaia di villaggi. Avrai visto migliaia di ragazze. Io... che... che una ragazza non sono più, ho il tuo cuore?". "Su cosa posso giurartelo? Su Allah, di cui parli?". "No, sulla vita che è in te, e sarò ben contenta. Dov'era il tuo cuore in quei giorni?" Mowgli rise un poco. "Nella mia pancia, perché ero giovane e avevo sempre fame. Così imparai a inseguire e a cacciare la selvaggina, mandando avanti e indietro i miei fratelli come fa un re con i suoi eserciti. Fu così che spinsi il nilgau per il Sahib giovane e sciocco, e la grossa e grassa giumenta per il Sahib grande e grosso, quando dubitarono dei miei poteri. E sarebbe stato altrettanto facile far correre gli uomini. Anche adesso", alzò un poco la voce, "anche adesso

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so che dietro di me ci sono tuo padre e Gisborne Sahib. No, non scappare, perché nemmeno dieci uomini oserebbero avvicinarsi di un passo. Considerando che tuo padre ti ha picchiata più di una volta, devo dare ordine di farlo correre ancora in giro per i rukh?". Un lupo si alzò scoprendo le zanne. Gisborne sentì Abdul Gafur tremare al suo fianco. Un attimo dopo il posto era vuoto, e il grassone stava correndo a più non posso per la radura. "Adesso rimane solo Gisborne Sahib", disse Mowgli, sempre senza girarsi; "ma ho mangiato il suo pane, e tra poco lavorerò per lui e i miei fratelli lo serviranno spingendo la selvaggina e portando le notizie. Nasconditi nell'erba". La ragazza fuggì, l'erba alta si richiuse dietro di lei e al lupo custode che la seguì, e Mowgli, voltandosi insieme al tre rimasti, affrontò Gisborne che stava arrivando. "La magia è tutta qui", disse, indicando i tre compagni. "Il Sahib grasso sapeva che noi che siamo stati allevati dai lupi abbiamo camminato sui gomiti e sulle ginocchia per un certo periodo di tempo. Tastandomi le braccia e le gambe ha scoperto la verità che tu non sapevi. E così sorprendente, Sahib?". "A dire il vero, lo è molto di più della magia. Furono dunque costoro a spingere il nilgau?". "Già, come spingerebbero Eblis, se glielo ordinassi. Sono i miei occhi e i miei piedi". "Bada allora che Eblis non abbia con sé una doppietta. Hanno ancora qualcosa da imparare, i tuoi diavoli, perché stanno uno dietro l'altro, in modo che due colpi li ucciderebbero tutti e tre". "Ah, ma loro sanno che saranno al tuo servizio, non appena io diventerò una guardia forestale". "Guardia o non guardia, Mowgli, hai recato una grande offesa ad Abdul Gafur. Hai disonorato la sua casa e oscurato il suo volto". "Quanto a quello, si è oscurato quando ha preso il tuo denaro; e ancor di più quando, un attimo fa, ti ha sussurrato all'orecchio di uccidere un uomo nudo. Parlerò io stesso ad Abdul Gafur, poiché sono un uomo al servizio del governo e con una pensione. Celebrerà il matrimonio con il rito che vorrà lui, altrimenti correrà di nuovo. Gli parlerò all'alba. Per il resto, il Sahib ha la sua casa e questa è la mia. È ora di tornare a letto, Sahib". Mowgli si girò sui talloni e scomparve tra l'erba, lasciando Gisborne da solo. Il suggerimento del dio dei boschi non era sbagliato, e Gisborne fece ritorno al bungalow, dove trovò Abdul Gafur che, in preda all'ira e alla paura, stava delirando sulla veranda. "Pace, pace", disse Gisborne scuotendolo, perché sembrava che stesse per venirgli un colpo. "Muller Sahib ha fatto di lui una guardia forestale, e tu sai che c'è una pensione al termine del servizio, ed è alle dipendenze del governo". "È un paria, un mlech, un cane tra i cani; un essere che si nutre di carogne! Quale pensione può ricompensare di questo?" "Lo sa Allah; e tu stesso hai sentito che il danno è fatto. Vuoi farlo sapere a tutti gli altri servi? Celebra in fretta lo shadi, e la ragazza farà di lui un musulmano. È molto carino. Ti stupisci che dopo le tue botte sia andata da lui?" "Ha detto che mi darà la caccia con le sue bestie?" "Così mi è parso. Se è uno stregone, è davvero molto potente". Abdul Gafur pensò un attimo, poi cedette e urlò, dimenticando di essere un musulmano: "Tu sei un bramino. Io sono la tua vacca. Sistema le cose e salva il mio onore, se può essere salvato!". Allora, per la seconda volta, Gisborne si immerse nel rukh e chiamò Mowgli. La risposta giunse da molto in alto, e aveva un tono tutt'altro che remissivo. "Abbassa il tono", disse Gisborne, guardando in su. "C'è ancora tempo per toglierti l'incarico e darti la caccia insieme ai tuoi lupi. La ragazza deve tornare a casa di suo padre, questa notte. Domani si celebrerà lo shadi, secondo la legge musulmana; dopodiché potrai condurla via. Ora accompagnala da Abdul Gafur". "Ho sentito". Seguì il mormorio di due voci che si consultavano tra le foglie. "Obbediamo... per l'ultima volta". Un anno dopo Muller e Gisborne cavalcavano insieme nel rukh parlando del loro lavoro, quando sbucarono tra le rocce nei pressi del torrente Kanye, Muller precedendo di poco il compagno. All'ombra di un roveto era sdraiato un bimbo nudo e scuro di pelle, e dal cespuglio più vicino spuntava la testa di un lupo grigio. Gisborne fece appena in tempo a deviare il fucile di Muller, e il proiettile andò a perdersi tra i rami sopra la bestia. "Siete matto?", tuonò Muller. "Guardate!" "Vedo", disse Gisborne con calma. "La madre è da qualche parte qui intorno. Sveglierete tutto il branco, per Giove!". I cespugli si aprirono un'altra volta e una donna senza velo raccolse il bambino. "Chi ha sparato, Sahib?", gridò a Gisborne. "Questo Sahib. Non si ricordava dei compagni del tuo uomo". "Non se ne ricordava? Può ben essere, perché anche noi che viviamo con loro ci scordiamo che sono del tutto diversi. Mowgli è a pescare sul fiume. Il Sahib desidera vederlo? Venite fuori, maleducati. Uscite dai cespugli a rendere omaggio ai Sahib". Gli occhi di Muller si spalancarono sempre di più. Vacillò sulla cavalla inquieta e smontò, mentre dalla giungla uscivano quattro lupi che andarono a fare le feste a Gisborne. La madre intanto allattava il bambino, e respingeva le bestie quando le si strofinavano contro i piedi nudi. "Avevate proprio ragione su Mowgli", disse Gisborne. "Avrei voluto dirvelo, ma mi sono talmente abituato a loro, negli ultimi dodici mesi, che mi è passato di mente".

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"Oh, non scusatevi", disse Muller. "Non è niente. Gott in Himmel! Ed io compio miracoli - ed essi si avverano!"". «AMOR-DI-DONNE» "Un deplorevole racconto di cose Fatte molto tempo fa, e fatte male" L'orrore, la confusione e la separazione dell'omicida dai suoi compagni erano già cosa passata quando giunsi sul posto. Restava solo il sangue dell'uomo sul piazzale della caserma, a implorare dal terreno. Il sole ardente lo aveva seccato, riducendolo a una pellicola sottile come una lamina bruna d'oro battuto, screpolata dal caldo a guisa di losanga; quando si alzò il vento, ciascuna losanga, sollevandosi un poco, si arricciò ai margini come fosse una lingua muta. Poi una raffica più forte soffiò via tutto in granelli di polvere dal colore scuro. Faceva troppo caldo per stare al sole prima di colazione. Gli uomini erano nelle camerate a discutere dell'accaduto. Alcune mogli di soldati sostavano in gruppo a uno degli ingressi che conducevano agli alloggiamenti degli sposati, mentre all'interno una donna urlava, nel suo delirio, parole malvage e volgari. Un sergente dal carattere mite e dalla condotta esemplare aveva scaricato il fucile, in pieno giorno e subito dopo la rivista mattutina, contro uno dei suoi caporali, dopo di che era rientrato nelle camerate e, sedutosi su una branda, aveva atteso che le guardie venissero a prenderlo. Perciò, a tempo debito, sarebbe stato deferito al Tribunale Militare per essere processato. Inoltre (ma è improbabile che avesse tenuto conto di questo nel covare la vendetta) aveva sconvolto terribilmente il mio lavoro, poiché la cronaca del processo sarebbe ricaduta interamente sulle mie spalle. E come si sarebbe svolto il processo lo sapevo fin troppo bene. Ci sarebbe stato il fucile, conservato accuratamente sporco, con le tracce dello sparo intorno alla culatta e all'imboccatura della canna, che doveva essere riconosciuto sotto giuramento da una mezza dozzina di soldati superflui; avrebbe fatto caldo, un caldo fetido, al punto che la matita umida avrebbe preso a scivolare di traverso fra le dita; ci sarebbe stato il punkah frusciante e il chiaccherio degli avvocati difensori sulla veranda, e il comandante del reggimento avrebbe esibito certificati per dimostrare l'integrità morale del prigioniero, mentre la giuria avrebbe ansimato per il calore e le uniformi estive dei testimoni avrebbero emanato un odore di tintura e di sapone; qualche abietto spazzino di caserma avrebbe perso la testa nel controinterrogatorio, e il giovane avvocato che difendeva sempre le cause dei soldati per una fama che non gli procuravano mai avrebbe detto e fatto cose meravigliose, e poi avrebbe litigato con me perché non le avevo riportate correttamente. Infine, poiché il prigioniero non sarebbe stato di certo impiccato, avrei potuto rivederlo, mentre rigava moduli di contabilità in bianco nella Prigione Centrale, e confortarlo con la speranza di essere trasferito nelle Andamane come custode. Il codice penale indiano e i suoi interpreti non considerano l'omicidio, qualunque sia il movente, con spirito leggero. Il sergente Raines, pensavo, avrebbe potuto ritenersi assai fortunato se fosse riuscito a cavarsela con sette anni. Saputo del torto che gli era stato fatto, ci aveva dormito su, e il giorno dopo aveva ucciso il suo uomo da una distanza di venti metri prima che fosse possibile qualsiasi spiegazione. Tanto sapevo io. Perciò, a meno che il processo non venisse un po' manipolato, sette anni sarebbe stato il minimo della pena; e mi pareva un'ottima cosa, per il sergente Raines, che fosse benvoluto dalla sua compagnia. Quella sera stessa - non c'è giornata più lunga di quella in cui si è compiuto un omicidio - incontrai Ortheris con i cani, il quale affrontò l'argomento di petto e con tono provocatorio. "Sarò uno dei testimoni", disse. "Mi trovavo sulla veranda quando capitò Mackie. Veniva dagli alloggiamenti della signora Raines. Quigley, Parsons e Trot erano nella veranda interna, quindi loro non hanno potuto sentire nulla. Il sergente Raines stava parlando con me sulla veranda, e Mackie si avvicina attraversando il piazzale e dice, "Be', fa, "non vi hanno ancora fatto saltare l'elmetto, sergente?", dice. Al che Raines prende fiato e dice: "Per Dio, questa non la mando giù!", dice, e prende il mio fucile e lo scarica addosso a Mackie. Capito?" "Ma tu cosa ci facevi con il fucile sulla veranda esterna, un'ora dopo la rivista?" "Lo stavo pulendo", disse Ortheris, con l'espressione di sfacciata ottusità ch'era solita accompagnare le sue bugie più palesi. Avrebbe anche potuto dire che stava ballando nudo, perché venti minuti dopo una rivista il suo fucile non aveva certo bisogno di strofinaccio e olio di gomito. Tuttavia, il Tribunale Militare non conosceva le sue abitudini. "Rimarrai fedele a questa versione... anche al momento di giurare sulla Bibba?", chiesi. "Sì. Mi ci attaccherò come una dannata sanguisuga". "Benissimo, non voglio sapere altro. Ricordati solo che Quigley, Parsons e Trot non avrebbero potuto essere dove dici senza udire qualcosa; e quasi sicuramente salterà fuori uno spazzino di caserma che a quell'ora gironzolava per il cortile. Ce n'è sempre uno". "Non era lo spazzino. Era il beastie. Con lui non ci sono problemi". Allora capii che la faccenda sarebbe stata combinata a dovere, e mi dispiacque per il pubblico ministero che avrebbe dovuto sostenere l'accusa. Quando venne il giorno del processo lo compatii ancora di più, perché era sempre pronto a perdere le staffe e faceva di ogni causa persa una questione personale. Una volta tanto il giovane avvocato di Raines aveva messo da parte

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la sua inestinguibile e prorompente passione per gli alibi e l'infermità mentale, rinunciato alle acrobazie e ai fuochi d'artificio verbali, e difendeva con sobrietà il suo cliente. Grazie a Dio, la stagione calda era appena agli inizi, e finora non c'erano ancora stati casi evidenti di omicidio in caserma; la giuria si dimostrò compiacente, il che non è poco, per una giuria indiana, in cui nove membri su dodici sono abituati a soppesare scrupolosamente le testimonianze. Ortheris non si scompose né venne messo in difficoltà dal controinterrogatorio. L'unico punto debole della sua deposizione - la presenza del suo fucile sulla veranda esterna - non venne contestato dal giudizio civile, anche se alcuni testimoni non seppero trattenere un sorriso. Il pubblico ministero chiese la forca, sostenendo per tutto il dibattimento che l'omicidio era premeditato. C'era stato il tempo sufficiente, spiegò, per fare quelle considerazioni che sorgono così spontanee in un uomo il cui onore è andato perduto. C'era anche la Legge, sempre vigile e ansiosa di rimediare ai torti subiti dal comune soldato se, invero, il torto era stato commesso. Ma egli dubitava molto che ci fosse stato un torto sufficiente a motivare il gesto. Secondo la sua teoria, un sospetto infondato, sul quale l'imputato aveva rimuginato a lungo, aveva condotto al delitto premeditato. Ma i suoi tentativi di minimizzare il movente fallirono. Anche il testimone più incoerente conosceva - e da alcune settimane - i motivi dell'offesa; e il prigioniero, che ovviamente era l'ultimo a sapere le cose, gemeva sul banco degli imputati mentre ascoltava. L'unica questione sulla quale verté il dibattimento fu se Raines avesse sparato in seguito all'improvvisa e accecante provocazione subita quel mattino stesso; e nella ricapitolazione dei fatti risultò evidente che la deposizione di Ortheris era stata decisiva. Con grande abilità era riuscito a insinuare l'idea che lui odiasse personalmente il sergente, che era andato sulla veranda per fargli una lavata di capo a proposito di un'insubordinazione. In un momento di debolezza, il pubblico ministero gli fece una domanda di troppo. "Con il vostro permesso, signore", rispose Ortheris, "mi stava chiamando dannato avvocatuccio impudente". La Corte fu percorsa da un fremito di agitazione. La giuria emise un verdetto di omicidio, ma riconobbe tutte le provocazioni e le attenuanti note a Dio o agli uomini, e il giudice si portò una mano alla fronte prima di pronunciare la sentenza, mentre il pomo d'Adamo del prigioniero andava su e giù come il mercurio in un barometro prima d'un ciclone. Considerando tutto ciò che c'era da considerare, dal certificato di buona condotta del colonnello alla perdita sicura della pensione, del servizio e dell'onore, il prigioniero fu condannato a due anni, da scontare in India, e... fu proibita qualsiasi dimostrazione in tribunale. Il pubblico ministero aggrottò la fronte e raccolse le sue carte; la guardia si ritirò con uno strepito, e il prigioniero fu affidato al braccio secolare e condotto in carcere in un ticca-gharri sconquassato. La sua guardia e dieci o dodici testimoni militari ebbero l'ordine, essendo meno importanti, di attendere quello che veniva ufficialmente chiamato il fresco della sera, prima di fare ritorno agli accantonamenti. Gli uomini si raccolsero in una delle spaziose verande di mattoni rossi di una guardina in disuso, e si congratularono con Ortheris, che accolse gli onori con modestia. Io mandai il pezzo in redazione e mi unii a loro. Ortheris guardò il pubblico ministero che si allontanava in fretta per andare a pranzo. "Quello è un piccolo e schifoso macellaio dalla testa pelata, ecco cos'è", disse. "E non mi piace. Però ha un bel pastore scozzese. Tra una settimana vado a Murree. Da quel cane ci potrei ricavare quindici rupie in qualsiasi posto". "Faresti meglio a spendere i soldi per delle messe", disse Terence, slacciandosi il cinturone; era stato di guardia al prigioniero, dritto sull'attenti e con l'elmetto per tre lunghe ore. "Non io", disse allegramente Ortheris. "Uno di questi giorni Dio lo metterà in conto alla Compagnia B, come risarcimento danni alle camerate. Sembri un po' impacciato, Terence". "Parola mia, non sono più giovane come un tempo. A montare di guardia ci si logora le piante dei piedi, e qui", annusò sprezzantemente la veranda di mattoni, "stare seduti è duro come stare in piedi!". "Aspetta un momento, vado a prenderti i cuscini dal mio calesse", dissi. "Caspita, un sofà. Ce la passiamo bene", disse Ortheris, mentre Terence si lasciava cadere un poco alla volta sui cuscini di cuoio, dicendo gentilmente, "non le manchi mai un posto morbido ovunque lei vada, né la possibilità di dividerlo con un amico. Un altro per lei? Bene. Mi permetterà di allungarmi. Stanley, passami una pipa. Augrrh! Ed eccone un altro rovinato per colpa di una donna. In tutto, devo aver fatto la guardia a quaranta o cinquanta prigionieri, e ogni volta lo odio come fosse la prima". "Vediamo un po'. L'hai fatta a Losson, Lancey, Dugard e Stebbins, che ricordi io", dissi. "Già, e prima ancora e prima ancora... a decine", rispose con un sorriso stanco. "Per loro, comunque, è meglio morire che vivere. Quando Raines uscirà - ora si starà cambiando d'abito in prigione - la penserà anche lui così. Avrebbe dovuto sparare a se stesso e alla moglie, per fare un bel lavoro. Ora invece è rimasta la donna - è venuta a prendere il tè da Dinah, domenica scorsa - ed è rimasto lui. Il fortunato è Mackie". "Probabilmente incomincerà ad aver caldo, dov'è ora", mi arrischiai a dire, poiché conoscevo un poco il curriculum del caporale morto. "Può esserne certo", disse Terence, sputando oltre il margine della veranda. "Ma quello che gli toccherà laggiù è come una marcia leggera, rispetto a quello che gli sarebbe toccato qui se fosse vissuto". "No di certo. Avrebbe tirato avanti e dimenticato, come gli altri". "Conosceva bene Mackie, signore?", disse Terence. "Faceva parte della guardia d'onore a Patiala, l'inverno scorso; un giorno siamo andati a caccia insieme in un ekka e mi è sembrato un tipo abbastanza divertente". "Be', negli anni a venire non avrà molti divertimenti a disposizione, tranne quello di rigirarsi sulla graticola. Io conoscevo Mackie, e ne ho visti troppi per sbagliarmi quando passo in rivista un uomo. Avrebbe potuto tirare avanti e dimenticare, come dice lei, signore, ma era un uomo con una educazione, e se ne serviva per i suoi scopi; quella

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educazione, la parlantina e tutto il resto gli consentivano di fare quello che voleva con una donna, ma a lungo andare gli si sarebbero rivoltate contro e lo avrebbero rovinato. Non riesco a dire ciò che vorrei perché mi mancano le parole, ma Mackie era il ritratto vivo e sputato di un uomo che vidi compiere la stessa marcia, tranne per una cosa; e per lui fu peggio non poter fare la fine di Mackie. Aspetti, che adesso mi viene in mente tutta la storia. Fu quand'ero nel Black Tyrone, e lui ci venne mandato con un distaccamento da Portsmouth; e che nome strampalato aveva? Larry - Larry Tighe si chiamava; e uno del distaccamento disse che era un soldato-gentiluomo, e Larry lo prese e lo ammazzò quasi per quello che aveva detto. Era un uomo grande, forte e di bell'aspetto, e questo conta molto con certe donne, ma, generalmente parlando, non con tutte. Larry, però, andava dietro a tutte - tutte - perché riusciva ad agganciare qualsiasi donna che calpestasse la verde terra di Dio, e lo sapeva. Lo sapeva come Mackie, che ora sta arrostendo, e non agganciava mai una donna se non per svergognarla. Io non dovrei certo parlare, lo sa Iddio, lo sa Iddio, ma la maggior parte delle mie mis-misalliances erano fatte per pura ribalderia, e mi è sempre dispiaciuto molto quando ne è derivato qualche guaio; e più di una volta con una ragazza, e anche con una donna, se è solo per quello, quando vedevo dai suoi occhi che stavo facendo più danno di quanto non intendessi, mi sono tirato indietro e ho lasciato perdere, per amore della madre che mi ha messo al mondo. Ma Larry, penso io, doveva averlo allattato una diavolessa, perché non ne lasciava mai perdere una, di quelle che lo avvicinavano e gli davano retta. Era un suo dovere, come montare di guardia. Del resto era un buon soldato. Ci fu l'istitutrice del colonnello - e lui non era che un soldato semplice! - che nelle camerate nessuno conosceva; e una delle domestiche del maggiore, che era fidanzata con un tipo; e altre di fuori; e quello che ha fatto con le nostre non lo sapremo fino al Giorno del Giudizio. Era la natura della bestia che lo spingeva ad attaccarsi alle migliori - non certo le più belle - ma proprio quelle donne per le quali uno avrebbe giurato sulla Bibbia che non sarebbero state capaci di fare delle sciocchezze. E proprio per questo motivo, badi bene, non fu mai preso con le mani nel sacco. Ci andò vicino una o due volte, ma non fu mai preso, e alla fine gli costò più che all'inizio. Con me parlava di più che con gli altri, perché diceva che, escludendo l'incidente della mia educazione, sarei stato un diavolo preciso e identico a lui. "Ti sembra possibile", diceva, tenendo alta la testa, "ti sembra possibile che io possa finire in trappola? Perché, in fin dei conti, che cosa sono?", dice. "Un dannato soldato semplice", dice. "E ti sembra possibile che quelle che conosco direbbero di essere state con un soldato come me? Numero diecimilaquattrocentosette", dice con un sogghigno. Dal suo modo di parlare quando non si curava di esprimersi rozzamente, capii che era un soldato-gentiluomo". "Non ci capisco niente", faccio io; "ma so", dico, "che dai tuoi occhi guarda fuori il demonio, e non voglio avere nulla a che fare con te. Divertirsi un poco, se non fa male a nessuno, Larry, è giusto e lecito, ma se non mi sbaglio tu non ti diverti affatto", dico. "Ti sbagli di grosso", fa lui. "E ti consiglio di non giudicare chi è migliore di te". "Migliore di me!", faccio io. "Che Dio ti perdoni, Larry. Qui non si tratta di essere migliori; è tutto sbagliato, e te ne accorgerai da solo". "Tu non sei come me", dice lui, scuotendo il capo. "E ringrazio i Santi di non esserlo", dico io. "Quel che ho fatto ho fatto, e me ne sono pentito amaramente. Quando verrà la tua ora", dico, "ti ricorderai delle mie parole". "Quando verrà quel momento", fa lui, "verrò da te in cerca di conforto spirituale, Padre Terence", e detto ciò se ne andò via dietro a qualche altra diavoleria "per fare esperienza", mi disse. Era malvagio - troppo malvagio - malvagio come l'Inferno! Per natura non sono portato a lasciarmi intimorire da chiunque, ma perdio, di Larry avevo paura. Veniva in camerata con il berretto sulle ventitré, e si sdraiava sulla branda a fissare il soffitto, e di tanto in tanto scoppiava in una risatina, simile a un tonfo in un pozzo, e da quello capivo che stava tramando qualche nuova malvagità, e avevo paura. Tutto ciò avvenne molto, molto tempo fa, ma mi fece rigar diritto... per un po'". "Le ho mai raccontato, signore, di come fui corteggiato e persuaso a lasciare il Tyrone a causa di un guaio?" "Qualcosa che aveva a che fare con un cinturone e la testa di un uomo, non è vero?". Terence non mi aveva mai raccontato la storia per intero. "Sì. Parola mia, ogni volta che faccio la guardia a un prigioniero in tribunale mi meraviglio di non esserci io al posto del prigioniero. Ma l'uomo che colpii cadde in un combattimento leale, ed ebbe il buon senso di non morire. Considerate un po' che perdita per l'esercito, se quello fosse morto! Mi supplicarono di cambiare reggimento, e se ne occupò anche il mio colonnello. Io accettai per non essere scortese, e Larry mi disse che gli dispiaceva molto perdermi, anche se non so cos'avessi fatto per meritarmi il suo conforto. Così venni nel Vecchio Reggimento, lasciando che Larry se ne andasse al diavolo per conto proprio, e aspettandomi di non rivederlo più, se non come imputato in qualche processo per omicidio tra soldati... Chi sta lasciando il recinto?". L'occhio svelto di Terence aveva scorto un'uniforme bianca che si muoveva furtivamente dietro la siepe. "Il sergente è andato in visita", disse una voce. "Allora comando io qui, e non voglio gente che se la svigna al bazar, che poi mi tocca andarli a cercare a mezzanotte con una pattuglia. Nalson, lo so che sei tu, ritorna sulla veranda". Nalson, scoperto, tornò di soppiatto tra i compagni; seguì un brontolìo che si spense in un paio di minuti, e Terence, girandosi sull'altro fianco, proseguì: "Per un po' di tempo non seppi più nulla di Larry. Cambiare reggimento è come morire, per queste cose; tanto più che sposai Dinah, e questo mi impedì di pensare ai vecchi tempi. Poi andammo al Fronte, e il fatto di dover lasciare Dinah al Deposito di Pindi mi spezzò in due il cuore. Di conseguenza, al Fronte combattei con circospezione finché non

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mi scaldai, e poi combattei a pieno ritmo. Si ricorda quello che le raccontai, al corpo di guardia, della battaglia di Silver's Theatre?". "Cosa dici di Silver's Theatre?", intervenne prontamente Ortheris, da sopra la spalla dell'amico. "Niente, ometto. Una storia che conosci. Come stavo dicendo, dopo quella battaglia noi del Vecchio Reggimento e quelli del Tyrone ci trovammo mischiati insieme a contare i morti, e naturalmente io andai in giro a vedere se c'era qualcuno che si ricordasse di me. Il secondo che incontrai - e non so come avessi potuto non riconoscerlo nel combattimento - era Larry, e aveva proprio un bell'aspetto, anche se era invecchiato, cosa che aveva buon diritto di essere. "Larry", faccio io. "Come ti va?"". "Stai sbagliando persona", dice lui, con il suo sorriso da gentiluomo. "Larry è morto da tre anni. Adesso lo chiamano Amor-di-donne", dice. Allora capii che il vecchio diavolo lo possedeva ancora, ma il termine di una battaglia non è il momento adatto per iniziare una confessione, così ci sedemmo e parlammo dei vecchi tempi. "Ho sentito che ti sei sposato", dice, aspirando lentamente dalla pipa. "Sei felice?" "Lo sarò quando tornerò al Deposito", dico io. "Per ora è una luna di miele in ricognizione". "Anch'io mi sono sposato", fa lui, aspirando sempre più lentamente, e pigiando il tabacco con l'indice. "Le mie congratulazioni", dico io. "Questa è la miglior notizia che senta da molto tempo". "Sei di questa opinione?", dice lui; e poi inizia a parlare della campagna. Il sudore di Silver's Theatre non gli era ancora asciugato addosso, e lui chiedeva altro da fare. Io ero ben contento di starmene sdraiato ad ascoltare i coperchi delle marmitte che brontolavano. Quando si alzò in piedi vidi che barcollava un poco, e camminava tutto storto. "Hai avuto più di quanto ti aspettavi", dico. "Fai l'inventario, Larry. Sembra che tu sia ferito". Si voltò, rigido come una bacchetta di fucile, e mi maledisse da capo a piedi, dicendo che ero una scimmia impertinente con la faccia da irlandese. Se fossimo stati in camerata, l'avrei mandato lungo e disteso per terra e sarebbe finita lì; ma eravamo al Fronte, e dopo una battaglia come quella di Silver's Theatre sapevo che non si poteva chieder conto a un uomo dei suoi accessi d'ira. Avrebbe anche potuto baciarmi. In seguito, fui ben felice di non aver usato i pugni. Poi comparve il nostro capitano Crook - Cruik-na-bulleen. Aveva appena parlato con il giovane ufficialetto del Tyrone. "Siamo stati tutti tartassati a dovere", dice, "ma quelli del Tyrone sono dannatamente a corto di sottufficiali. Va' da loro, Mulvaney, e fa' da vice-sergente, caporale, vice-caporale, tutto quello che sei in grado di fare fino a nuovo ordine". Così mi trasferii da loro ed assunsi la carica. Era rimasto in piedi un solo sergente, al quale i soldati non davano retta. Il resto lo facevo io, ed era tempo che arrivassi. A qualcuno parlai, a qualcuno no, ma prima di sera i ragazzi del Tyrone, perdio, scattavano sull'attenti se soltanto aspiravo un po' più forte dalla pipa. Detto tra noi, ero io a comandare la compagnia, ed era proprio per questo che Crook mi ci aveva trasferito; il giovane ufficialetto lo sapeva, e lo sapevo anch'io, ma la compagnia no. E questa, badi bene, è una virtù che né il denaro né l'addestramento possono creare - la virtù del vecchio soldato che conosce il mestiere del proprio ufficiale, e lo fa in sua vece non appena riceve l'ordine! Poi il Tyrone venne mandato, in contatto con il Vecchio Reggimento, a compiere scorrerie e a vagare in cerca di bottino in modo confuso e insoddisfacente. La mia opinione personale è che un generale non sa, per metà del suo tempo, cosa fare di tre quarti degli uomini che comanda. Perciò si accoccola e ordina loro di correre in tondo, mentre lui pensa al da farsi. Quando poi, secondo la logica naturale, quelli vanno a cacciarsi in una grossa battaglia che nessuno aveva cercato, lui dice: "Notate il mio genio superiore. Volevo proprio che le cose andassero così". Pertanto corremmo di qua e di là, e tutto quello che riuscimmo a ottenere fu di farci sparare addosso quando ci accampavamo per la notte, di irrompere in sungar abbandonati con i lunghi punteruoli, e di essere colpiti da dietro le rocce fino a non poterne più - tutti tranne Amor-di-donne. Quell'impresa da pivelli era una manna dal cielo per lui. Perdio, non ne aveva mai abbastanza. Io, ben sapendo ch'è proprio in queste situazioni confuse che vengono uccisi gli uomini migliori, e sospettando che se fossi rimasto nei guai il giovane ufficialetto avrebbe impiegato tutti gli uomini nel tentativo di salvarmi, mi gettavo a pancia a terra e facevo il morto non appena sentivo uno sparo, e ripiegavo le mie lunghe gambe dietro un macigno, e correvo come una furia quando il terreno era sgombro. Parola mia, se guidai il Tyrone in ritirata una volta, lo guidai quaranta volte! Amor-di-donne se ne stava a sparare in continuazione da dietro una roccia, e aspettava che il fuoco fosse più intenso per alzarsi in piedi e uscire allo scoperto. Anche al campo, di notte, si appostava e sparava alle ombre, perché non chiudeva mai occhio. Il mio comandante - Dio salvi la sua anima imberbe! - non riusciva a capire la bellezza dei miei stratagemmi, e quando incrociavamo il Vecchio Reggimento, il che avveniva una volta alla settimana, lui trotterellava da Crook con quei suoi occhioni azzurri e tondi come piattini, e si lamentava di me. Una volta li udii parlare attraverso il telo della tenda, e per poco non scoppiai a ridere. "Corre... corre come una lepre", dice il giovane ufficialetto. "Il che demoralizza i miei uomini". "Dannato stupido", dice Crook, ridendo, "le sta insegnando il mestiere. Siete mai stati attaccati di notte?" "No", fa il ragazzino, che avrebbe voluto esserlo. "Avete avuto dei feriti?", dice Crook. "No", fa lui. "Non c'è stata la possibilità. Seguono tutti Mulvaney in gran fretta", dice. "Cosa vuole di più, allora?", dice Crook. "Terence le sta insegnando il mestiere alla perfezione", dice. "Sa quello che lei non sa, e che c'è tempo per tutto. Non la metterà nei guai", dice, "ma darei la paga di un mese per sapere quello che pensa di lei". Queste parole tennero calmo il bimbo, ma Amor-di-donne mi riprendeva per tutto ciò che facevo, soprattutto le mie manovre.

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"Mr. Mulvaney", mi fa una sera, con tono alquanto sprezzante, "sta diventando assai veloce di piede. Tra i gentiluomini", dice, "tra i gentiluomini ciò non viene chiamato con un bel nome". "Tra i soldati è diverso", faccio io. "Torna nella tua tenda. Qui il sergente sono io", dico. Nella mia voce c'era quanto bastava a fargli capire che stava scherzando con il fuoco. Se ne andò, e notai che quell'uomo così sprezzante si allontanava tutto sbilenco, come se fosse stato preso a calci nel sedere. Quella notte stessa ci fu un picnic di pathan sulle colline circostanti, e le nostre tende vennero investite da una sparatoria capace di far svegliare morti i vivi. "Tutti a terra", dico io. "Tutti a terra e fermi. Non faranno altro che sprecare munizioni". Poi udii dei passi sul terreno, e un 'Tini che si univa al coro. Me ne stavo sdraiato al caldo, pensando a Dinah e a tutto il resto, ma strisciai fuori con la tromba per dare un'occhiata in giro, nel caso tentassero un'irruzione; il 'Tini lampeggiava all'estremità del campo, e la collina a fianco era tutta un bagliore tremolante di spari da lunga distanza. Alla luce delle stelle vidi Amor-di-donne che si piazzava su una roccia, senza cinturone né elmetto. Lanciò un paio di urli, poi lo sentii dire: "Avrebbero dovuto aggiustare il tiro da un pezzo. Forse spareranno al lampo". Quindi riprese a sparare, e provocò un'altra scarica, e quei proiettili lunghi e informi che loro masticano con i denti iniziarono a rimbalzare tra le rocce come tanti rospi in una notte calda. "Così va meglio", fa Amor-di-donne. "Oh Signore, quanto ci vuole, quanto ci vuole!", dice, e poi accende un fiammifero e lo tiene alto sopra la testa. "È matto", penso io, "matto da legare", e faccio un passo avanti, ma la prima cosa che sento è la suola del mio stivale che sventola come un guidone di cavalleria, e un gran pizzicorìo alle dita dei piedi. Era stato un colpo preciso - uno di quei loro proiettili informi - che, senza toccare né calza né pelle, mi aveva lasciato a piede nudo sulle rocce. Allora afferrai Amor-di-donne per la collottola e lo gettai sotto un macigno, e appena mi sedetti udii le pallottole picchiettare su quello stesso sasso. "Tu puoi anche tirarti addosso l'inferno", dico, scuotendolo, "ma io non ho nessuna intenzione di restare ucciso". "Sei venuto troppo presto", dice lui. "Sei venuto troppo presto. Un altro minuto e non avrebbero potuto mancarmi. Madre di Dio", fa, "perché non mi hai lasciato dov'ero? Adesso è tutto da rifare", e si nasconde la faccia tra le mani. "È così, dunque", faccio io, scuotendolo ancora. "È per questo che disobbedisci agli ordini". "Non ho il coraggio di uccidermi", fa lui, dondolandosi avanti e indietro. "La mia mano non ce la fa, e da un mese non c'è una pallottola che voglia colpirmi. Mi tocca morire lentamente", dice. "Mi tocca morire lentamente. Ma sono già all'inferno", dice, strillando come una donna. "Sono già all'inferno!". "Che Dio ci protegga tutti", dico io, vedendo la sua faccia. "Vuoi dirmi di cosa si tratta? Se non è omicidio, forse possiamo ancora trovare un rimedio". A quelle parole scoppiò a ridere. "Ricordi cosa ti dissi nella caserma del Tyrone, che sarei venuto a chiederti conforto spirituale? Non ho dimenticato", dice. "Mi è ritornato in mente, e tutto il mio passato mi è rovinato addosso, Terence. Sono mesi e mesi che lotto per liberarmene, ma l'alcool non morde più ormai. Terence", dice, "non riesco più a ubriacarmi!". Allora capii che diceva la verità, sul fatto di essere all'inferno, perché quando l'alcool non fa più effetto vuol dire che l'anima di un uomo è marcia. Ma essendo quel che ero, cosa potevo dirgli? "Diamanti e perle", riprende. "Diamanti e perle ho gettato via a piene mani - e cosa mi è rimasto? Oh, cosa mi è rimasto?". Si agitava e tremava contro la mia spalla, mentre i proiettili fischiavano sulle nostre teste e io mi domandavo se quel ragazzino avrebbe avuto abbastanza buon senso da tenere calmi gli uomini in mezzo a tutto quell'inferno. "Finché non pensavo", dice Amor-di-donne, "finché non capivo - non volevo capire, ma ora capisco, quello che ho perduto. Il tempo e il luogo", dice, "e le parole stesse che ho detto quando mi piaceva andarmene da solo all'inferno. Ma allora, anche allora", dice, contorcendosi orribilmente, "non sarei stato felice. C'erano troppe cose dietro di me. Come avrei potuto credere al suo giuramento - io che avevo rotto i miei così tante volte per il semplice gusto di vederla piangere? E poi ci sono le altre", dice. "Oh, cosa farò... cosa farò?". Riprese a dondolarsi avanti e indietro, e credo che piangesse come una delle donne di cui stava parlando. Una buona metà di quello che disse mi era chiaro come gli ordini del comando di brigata, ma dal resto iniziai a sospettare qualcosa riguardo alla sua disgrazia. Era il castigo di Dio che lo tormentava, come gli avevo detto quella volta nella caserma del Tyrone. I proiettili fischiavano sempre più fitti sulle nostre teste, e per distrarlo gli dissi: "Lasciamo perdere i guai", faccio. "Tra un attimo cercheranno di irrompere nel campo". Avevo appena finito di pronunciare queste parole che vidi un pathan strisciare sul ventre con il coltello tra i denti, a meno di venti metri da noi. Amor-di-donne balzò in piedi lanciando un urlo, l'uomo lo vide e gli corse incontro (lui aveva lasciato il fucile sotto la roccia) con il coltello. Amor-di-donne non si scompose minimamente, ma, per Iddio Onnipotente - lo vidi con i miei occhi - una pietra scivolò sotto i piedi del pathan, ed egli cadde giù lungo disteso, mentre il suo coltello rotolava tintinnando tra le rocce! "Te l'avevo detto che sono Caino", disse Amor-di-donne. "A cosa serve ucciderlo? È un uomo onesto - in confronto a me". Non era il momento di mettersi a discutere sulla moralità dei pathan, così sferrai un colpo con il calcio del fucile di Amor-di-donne sulla faccia dell'uomo, e "In fretta al campo", dico, "perché questo può essere il primo di una pattuglia all'attacco". Ma non ci fu nessun attacco, benché noi aspettassimo tutta la notte con le armi in pugno per accoglierli come si deve. Quel pathan doveva essere venuto a compiere un'azione solitaria, e dopo un po' Amor-di- donne fece ritorno alla

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propria tenda con quella strana andatura barcollante che non riuscivo a spiegarmi. Perdio, avevo compassione di lui, tanto più che mi fece pensare, per tutto il resto della notte, al giorno in cui fui confermato caporale non facente le funzioni di tenente, e non furono pensieri piacevoli. Si può capire come dopo quella notte parlammo molto insieme, e a poco a poco venne fuori ciò che avevo sospettato. Tutti i suoi intrallazzi e le sue diavolerie gli pesavano addosso come l'alcool ti pesa quando hai fatto baldoria per una settimana. Tutto quello che aveva detto e fatto, e soltanto lui poteva dire quant'era, gli ricadeva addosso, e la sua anima non aveva mai un attimo di pace. Era il Delirio, senza alcuna causa evidente, e tuttavia, e tuttavia - cosa sto dicendo? Lui avrebbe accettato il Delirio con riconoscenza. Oltre al suo pentimento, che andava al di là della natura umana - orribile, orribile a vedersi! - c'era qualcosa di più e di peggio di qualsiasi pentimento. Tra le decine e decine di donne che richiamava alla mente (e che lo stavano facendo impazzire) ce n'era, badi bene, una in particolare, e non era sua moglie, che lo consumava fino al midollo. Era a proposito di questa che diceva di aver buttato via un tesoro inestimabile in diamanti e perle, e poi ricominciava, come un byle cieco in un frantoio, a girare in tondo considerando (lui che non aveva alcuna possibilità di essere felice, da questa parte dell'inferno!) come sarebbe stato felice con lei. Più ci pensava e più si convinceva di aver perso la felicità più grande, e allora ripercorreva tutta la storia a ritroso, e si lamentava che non avrebbe mai potuto essere felice. Più di una volta al campo, durante la rivista e anche in azione, ho visto quell'uomo chiudere gli occhi e piegare bruscamente il capo, come di fronte al guizzo improvviso di una baionetta. Poiché allora, mi diceva, il pensiero di tutto ciò che aveva perduto lo tormentava come un ferro rovente. Di quello che aveva fatto con le altre gli dispiaceva, ma non gl'importava; invece quella donna di cui le ho detto, perdio, lo faceva pagare per tutte le altre, e a un prezzo doppio! Non avrei mai creduto che un uomo potesse sopportare un simile tormento senza che il cuore gli scoppiasse tra le costole, e sono stato, - Terence rigirò lentamente il cannello della pipa tra i denti, - sono stato in brutte acque anch'io. Ma di tutto ciò che ho sofferto io non c'era nemmeno da parlare, in confronto a lui e cosa potevo fare? Per il suo tormento i pater-nostri erano bazzeccole. Infine terminammo la nostra passeggiata tra le colline e, grazie a me, non vi furono né perdite né gloria. La campagna volgeva al termine, e tutti i reggimenti si stavano radunando per rientrare alla base. Amor-di-donne era alquanto dispiaciuto perché non aveva niente da fare, e tanto tempo per i suoi pensieri. Lo sentii parlare alla piastra del cinturone e alle armi bianche mentre le stava lucidando, tutto per evitare di pensare; e ogni volta che si alzava dopo essere stato seduto, o riprendeva a camminare dopo una sosta, partiva con quella pedata di traverso che le ho detto - e le gambe se ne andavano da tutte le parti. Non voleva assolutamente farsi vedere dal medico, benché io gli dicessi di mettere giudizio. Mi malediva in tutti i modi per i consigli che gli davo; ma sapevo che non era da prendere sul serio più di quanto non lo fosse il ragazzino come comandante di compagnia, per cui lo lasciavo dire. Un giorno - sulla via del ritorno - stavo facendo con lui il giro del campo, quando lo vidi fermarsi e battere due o tre volte il piede destro per terra, dubbioso. "Cosa c'è?", gli faccio. "È terreno, questo?", dice lui; e mentre stavo pensando che fosse uscito di senno, sopraggiunse il dottore, che aveva appena finito di sezionare un bue morto. Amor-di-donne fa per svignarsela, e mi assesta un calcio a un ginocchio mentre le sue gambe si mettono in moto. "Fermo lì", fa il dottore; e la faccia di Amor-di-donne, ch'era tutta striata come una graticola, diventa rossa come un mattone. "At-tenti!", dice il dottore; e Amor-di-donne si mette sull'attenti. "Adesso chiudi gli occhi", dice il dottore. "No, non devi appoggiarti al tuo compagno". "È inutile", dice Amor-di-donne, cercando di sorridere. "Cadrei, dottore, e lei lo sa". "Cadresti?", faccio io. "Cadresti sull'attenti e con gli occhi chiusi? Cosa intendi dire?" "Il dottore lo sa", dice lui. "Ho resistito finché ho potuto, ma, perdio, sono contento che sia tutto finito. Però morirò lentamente", fa, "morirò molto lentamente". Dalla faccia del dottore capii che era molto dispiaciuto per lui, e gli ordinò di andare in infermeria. Tornammo insieme; io ero ammutolito. Amor-di-donne zoppicava ed era sul punto di crollare a ogni passo. Camminava tutto a sghimbescio, tenendomi una mano sulla spalla, e la sua gamba destra dondolava come quella di un cammello azzoppato. Io, non sapendo affatto cosa lo affliggesse, pensavo che la crisi fosse stata provocata dalle parole del dottore - come se Amor-di-donne avesse aspettato soltanto quelle parole per lasciarsi andare. All'infermeria disse qualcosa al dottore che io non riuscii ad intendere. "Santo Cielo!", fa il dottore, "e chi sei tu per dare un nome alle tue malattie? È contro tutti i regolamenti". "Non sarò un soldato ancora per molto", dice Amor-di-donne con la sua voce da gentiluomo, e il dottore trasalì. "Trattatemi come un caso clinico, dottor Lowndes", dice; e quella fu la prima volta che sentii chiamare il dottore per nome. "Addio, Terence", dice Amor-di-donne. "Sono un uomo morto senza il piacere di morire. Vieni a trovarmi qualche volta, per la pace della mia anima". Io avevo intenzione di chiedere a Crook di riaggregarmi al Vecchio Reggimento; i combattimenti erano terminati, ed ero stufo dei modi di fare dei ragazzi del Tyrone; però cambiai idea, e rimasi, e andai a trovare Amor-di-donne all'infermeria. Come ho già detto, signore, quell'uomo cadeva a pezzi sotto i miei occhi. Da quanto tempo si facesse forza e si costringesse ad affrontare le marce non lo so, ma dopo due giorni in infermeria era in un tale stato che stentavo a riconoscerlo. Gli stringevo la mano, e la sua stretta era abbastanza forte, ma le mani non gli ubbidivano, e non riusciva ad abbottonarsi la tunica.

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"Mi ci vorrà ancora molto per morire", dice, "perché il prezzo del peccato è come gli interessi alla cassa di risparmio del reggimento - sicuri, ma passa un tempo maledettamente lungo prima che siano pagati". Un giorno il dottore mi dice calmo, "Tighe ha forse qualcosa sulla coscienza?", fa. "Sta consumandosi come una fiamma". "Come posso saperlo, signore?", faccio io, innocente come un putto. "Nel Tyrone lo chiamano Amor-di-donne, non è vero?", fa lui. "Sono stato uno sciocco a chiedertelo. Stagli accanto il più possibile. Si aggrappa alla tua forza". "Ma qual è il suo male, dottore?", faccio io. "Lo chiamano atassia locomotrice", dice lui, "perché ci attacca come una locomotiva, se sai cosa significa. E viene", dice, guardandomi fisso, "viene quando uno è chiamato Amor-di-donne". "Sta scherzando, dottore", faccio io. "Scherzando!", fa lui. "Se mai ti accorgi di avere una suola di feltro nello stivale, invece di una doppia suola del governo, vieni da me", dice, "e ti faccio vedere se è uno scherzo". Lei non ci crederà, signore, ma quelle parole, e la vista di Amor-di-donne ridotto in quello stato senza preavviso mi misero addosso una tal paura di quell'Attacco, che passai una settimana e più a menar calci ai sassi e ai tronchi d'albero, per il piacere di sentire i piedi doloranti. Intanto Amor-di-donne languiva nella branda (avrebbe potuto andare via con i feriti già da un pezzo, ma chiese di restare con me), e quello che aveva nella testa non lo abbandonava mai, notte e giorno e ogni ora del giorno e della notte, mentre lui raggrinziva come una razione di bue al sole cocente, e i suoi occhi sembravano quelli di un gufo, e le mani non gli ubbidivano più. I reggimenti se ne andavano uno dopo l'altro, poiché la campagna era finita, ma come al solito era come se non si fosse mai trasferito un reggimento a memoria d'uomo. E come mai, signore? Nell'esercito si combatte nove mesi su dodici, in un posto o nell'altro. È così da... anni e anni e anni; e io pensavo che avessero imparato a organizzare le truppe. Invece no! Ogni volta è come se un collegio femminile incontrasse un grosso toro rosso sulla strada della chiesa; e "Madre di Dio", dicono quelli del commissariato, i funzionari delle ferrovie e gli ufficiali responsabili dell'alloggiamento, "cosa facciamo adesso?". Giunse l'ordine, per noi del Tyrone, il Vecchio e un'altra mezza dozzina di reggimenti, di scendere in pianura, ma più di questo non diceva. E noi scendemmo, per grazia speciale di Dio - o per lo meno scendemmo dal Khyber. Con noi c'erano dei malati, e credo che alcuni di essi fossero sballottati a morte nei doolie, ma erano disposti a rischiare di morire in quel modo, pur di arrivare a Peshawar vivi e al più presto. Io camminavo accanto ad Amor-di-donne - non c'era alcun ordine di marcia, e Amor-di-donne non aveva fretta di arrivare. "Se solo fossi morto lassù", diceva attraverso le tendine del doolie; poi storceva gli occhi e chinava bruscamente il capo, a causa dei pensieri che venivano a tormentarlo. Dinah era al Deposito di Pindi, ma io procedevo con cautela, ben sapendo che è proprio all'ultimo momento che la fortuna ti volta le spalle. A riprova di ciò, avevo visto un conducente di batteria passare al trotto cantando Home, sweet home a squarciagola, senza prestare alcuna attenzione alla sua sinistra - e lo avevo visto cadere sotto il cannone a metà di una parola, e venire fuori dall'avantreno come come una rana schiacciata sul selciato. No. Io non mi affrettavo, anche se, lo sa Iddio, il mio cuore era tutto a Pindi. Amor-di-donne capì cos'avevo in mente e "Vai avanti, Terence", dice, "so chi c'è ad aspettarti". "No", faccio io. "Aspetterà ancora un po'". Conosce la svolta del passo vicino a Jumrood, e le nove miglia di strada in piano fino a Peshawar? Tutta Peshawar era lungo quella strada, giorno e notte, ad aspettare gli amici - uomini, donne, bambini e bande musicali. Parte delle truppe era accampata intorno a Jumrood, e parte proseguiva per Peshawar, diretta ai propri accantonamenti. Noi arrivammo una mattina presto, dopo aver marciato tutta la notte, e ci gettammo a capofitto in mezzo alla baraonda. Madre di Gloria, potrò mai dimenticare quel ritorno? Non era ancora chiaro, e la prima cosa che udimmo fu For 'tis my delight of a shiny night, suonata da una banda che credeva fossimo le seconde quattro compagnie del Lincolnshire. Al che fummo costretti a lanciare loro un urlo per far capire chi fossimo, e allora si levò The Wearing of the Green. Ciò mi fece correre dei brividi lungo tutta la spina dorsale, non avendo fatto colazione. Subito dopo di noi veniva ciò che era rimasto dei Jock Elliotts - con quattro suonatori di cornamusa e neanche mezzo kilt tra tutti, che suonavano come se fosse questione di vita o di morte e dimenavano il fondoschiena come tanti conigli maschi; e poi un reggimento indigeno che urlava come se li stessero scannando. Mai sentito niente di simile! C'erano uomini che piangevano come donne - e, in tutta sincerità, non li biasimo! Ma il colpo di grazia me lo diede la banda dei Lancieri - lindi e lucenti come angeli, con il vecchio cavallo del tamburo in testa, i timpani d'argento e tutto il resto, che aspettavano i loro uomini che venivano appresso a noi. Attaccarono il Piccolo galoppo della Cavalleria, e, perdio, quei poveri spettri che non avevano un solo zoccolo sano in tutto uno squadrone risposero a tempo, mentre gli uomini si dondolavano sulle selle. Noi cercammo di gridare un urrà mentre passavano, ma venne fuori un grande e rauco colpo di tosse, per cui dovevano essere in molti a sentirsi come me. Oh, ma dimenticavo! I Vola-di-Notte stavano aspettando il loro secondo battaglione, e quando apparve, in testa c'era il cavallo del colonnello, condotto a mano e con la sella vuota. Gli uomini lo adoravano veramente, ed era morto ad Ali Musjid sulla via del ritorno. Aspettarono che fosse passato il resto del battaglione, e poi - contro gli ordini, perché chi voleva sentire quella musica, quel giorno? - tornarono a Peshawar a passo lento e straziando le budella a chiunque sentisse con la "Marcia funebre". Passarono proprio davanti a noi, e lei sa che le loro uniformi sono nere come quelle degli spazzacamini, e avanzavano lenti come i morti; e le altre bande li maledivano perché non finivano più.

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A loro poco importava. Avevano la salma, e l'avrebbero portata in quel modo anche alla cerimonia dell'Incoronazione. Noi avevamo l'ordine di entrare a Peshawar, e superammo a spron battuto i Vola-di-Notte senza cantare, per lasciarci alle spalle quella musica. Fu così che ci trovammo alla testa delle altre truppe. La marcia mi risuonava ancora nelle orecchie, quando sentii nelle ossa che Dinah stava arrivando, e udii un urlo, e poi vidi un cavallo e un tattoo che ci venivano incontro di gran carriera e tutti schiumanti, montati da due donne. Lo sapevo - lo sapevo! Una era la moglie del colonnello del Tyrone - la signora del vecchio Beeker - i capelli grigi al vento e la grassa e tonda carcassa che dondolava sulla sella, e l'altra era Dinah, che avrebbe dovuto essere a Pindi. La moglie del colonnello caricò la testa della nostra colonna come un muro di pietra, e per poco non scaraventò Beeker giù dalla sella, gettandogli le braccia al collo e dicendo tra i singhiozzi, "Ragazzo mio! Ragazzo mio!", e Dinah girò a sinistra e venne sul nostro fianco, e io lanciai un urlo che mi tenevo dentro da mesi e Dinah venne! Non dimenticherò mai quel momento finché vivrò! Era venuta da Pindi con un lasciapassare, e la moglie del colonnello le aveva prestato il tattoo. Avevano passato tutta la lunga notte a piangere e a stringersi l'una nelle braccia dell'altra. Così Dinah procedette al mio fianco tenendomi per mano, facendo domande su domande, e chiedendomi di giurare sulla Vergine che non avevo alcun proiettile in corpo, nascosto da qualche parte, e allora mi ricordai di Amor-di-donne. Ci stava guardando, e la sua faccia era come quella di un diavolo che sia stato al fuoco troppo a lungo. Non volevo che Dinah lo vedesse, perché quando una donna trabocca di felicità anche la più piccola cosa può colpirla e arrecarle danno in seguito. Così tirai la tendina, e Amor-di-donne ricadde indietro ed emise un gemito. Quando entrammo a Peshawar, Dinah andò in caserma ad aspettarmi, ed io, sentendomi così felice in quel momento, proseguii per accompagnare Amor-di-donne in ospedale. Era l'ultima cosa che potessi fare per lui, e per risparmiargli la polvere e il fumo soffocante feci svoltare i portatori in una strada sgombra di truppe, e così proseguimmo, mentre io gli parlavo attraverso le tendine. Ad un tratto lo sentii dire: "Fammi vedere. Per la misericordia del Cielo, fammi vedere". Ero stato talmente occupato a condurlo fuori da quel polverone e a pensare a Dinah, che non mi ero guardato attorno. C'era una donna a cavallo che ci seguiva a breve distanza; e, parlandone in seguito con Dinah, capii che quella donna doveva averci seguito per un bel tratto sulla strada di Jumrood. Dinah disse che l'aveva vista ronzare come un nibbio sul fianco sinistro delle colonne. Feci fermare il doolie per sistemare le tendine, e lei ci passò accanto al passo, mentre Amor-di-donne la seguiva con gli occhi come se volesse tirarla giù di sella. "Seguitela", fu tutto ciò che disse, ma io non ho mai sentito, prima o dopo di allora, un uomo parlare con una voce simile; e da quelle parole e dall'espressione del volto capii che era Diamanti-e-perle, di cui parlava nel suo tormento. Seguimmo la donna finché non svoltò nel cancello di una casetta nei pressi di Edwardes Gate. Sulla veranda c'erano due ragazze, e non appena ci videro corsero dentro. Parola mia, anche da lontano ci misi un istante a capire che razza di casa fosse. Per la presenza delle truppe e di tutto il resto, ce n'erano tre o quattro di quel genere; ma in seguito la polizia le chiuse. Davanti alla veranda, Amor-di-donne fa, prendendo fiato, "Fermatevi qui", e poi, e poi, con un gemito che dovette strappargli il cuore dallo stomaco, si lasciò scivolare fuori dal doolie e, giuro, rimase in piedi con il sudore che gli colava giù per il viso! Se Mackie comparisse qui ora, sarei meno sorpreso di quanto non lo fui allora. Dove avesse trovato la forza lo sa Iddio - o il Diavolo - ma era un morto che camminava nel sole, con la faccia di un morto e il respiro di un morto, sostenuto da una Forza superiore, alla quale obbedivano le braccia e le gambe di un cadavere. La donna era in piedi sulla veranda. Anche lei era stata bella, sebbene ora avesse gli occhi infossati, e fissasse Amor-di-donne con uno sguardo tremendo. "E", dice, gettando indietro la coda dell'abito con un calcio, "E", dice, "che ci fai qui, uomo sposato?". Amor-di-donne non disse niente, ma un po' di schiuma gli salì alle labbra, e lui se la pulì con una mano e guardò quella donna e il belletto che aveva, e guardò e guardò e guardò. "Eppure", fa lei con una risata, - (ha sentito ridere la moglie di Raines, quando Mackie morì? No? Buon per lei), - "eppure", fa lei, "chi ne ha più diritto di te?", fa lei. "Tu mi hai insegnato la strada. Tu mi hai indicato la via", fa lei. "Sì, guarda pure", fa lei, "perché questa è opera tua; tu che mi dicesti - ricordi? - che una donna che fingeva con un uomo poteva fingere anche con due. Io l'ho fatto", dice lei, "con due e più, perché dicevi sempre che imparavo in fretta, Ellis. Guarda bene", fa lei, "perché sono io che chiamasti tua moglie davanti a Dio, tanto tempo fa". E scoppiò a ridere. Amor-di-donne stava immobile al sole, senza rispondere. Poi iniziò a gemere e a tossire, ed io pensai che fosse il suo rantolo di morte; ma lui non staccava gli occhi dal viso di lei, neanche per sbattere le palpebre. Le ciglia di lei si sarebbero potute infilare negli occhielli di una tenda militare, tanto erano lunghe. "Che ci fai qui?", dice lei, parola per parola, "tu che cinque anni fa portasti via la gioia per il mio uomo - che hai spezzato il mio riposo, ucciso il mio corpo e dannato la mia anima per il gusto di vedere com'era fatta. Forse le tue esperienze successive ti hanno fatto conoscere una donna che ti dà più di quanto ti abbia dato io? Forse che io non sarei morta per te, e con te, Ellis? Questo tu lo sai, uomo! Se mai la tua anima bugiarda ha visto la verità in tutta la vita, lo sai". E Amor-di-donne levò il capo e disse, "Lo sapevo", e questo fu tutto. Mentre lei parlava, la Forza lo teneva in piedi sotto il sole, come in rivista, e il sudore gli gocciolava da sotto l'elmetto. Parlare gli costava sempre più fatica, e la bocca gli si torceva tutta.

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"Che ci fai qui?", fa lei, e la sua voce salì di tono. Era come le campane che suonavano prima. "Un tempo avevi la lingua abbastanza sciolta - tu che mi hai trascinato all'inferno con le parole. Sei muto adesso?". E Amor-di-donne ritrovò la lingua e disse semplicemente, come un bambino, "Posso entrare?", fa. "La casa è aperta giorno e notte", dice lei, con una risata; e Amor-di-donne chinò il capo e alzò la mano come per difendersi. La Forza lo dominava ancora - lo sosteneva ancora perché, sull'anima mia, che non potrò mai salvare, salì i gradini della veranda, lui ch'era stato all'ospedale per un mese come un cadavere vivente! "E adesso?", fa lei, guardandolo; e il rossetto era una macchia isolata nel bianco dei viso, come il centro di un bersaglio. Lui alzò gli occhi, lentamente, molto lentamente, e la guardò a lungo, molto a lungo, e pronunciò le parole tra i denti con uno sforzo che lo scosse da cima a piedi. "Sto morendo, Egitto... morendo", dice. Sì, furono proprio queste le sue parole, perché ricordo il nome con cui la chiamò. Stava assumendo il colore della morte, ma i suoi occhi rimasero fermi. Erano fissi - fissi su di lei. Senza una parola o un gesto di preavviso, lei spalancò le braccia, e "Qui!", disse. (Oh, che miracolo dorato d'una voce aveva!). "Muori qui!", fa lei; e Amor-di-donne cadde in avanti, e lei lo sostenne, perché era un bel pezzo di donna. Non ebbi il tempo di voltarmi, perché in quell'istante udii l'anima abbandonarlo - strappata via in un rantolo di morte - e lei lo depose su una sedia a sdraio, e mi dice, "Signor soldato", fa, "non vuole aspettare un po', e far quattro chiacchiere con una delle ragazze? Questo sole è troppo forte per lui". Sapevo bene che non c'era sole che avrebbe rivisto, ma non riuscivo a parlare, così me ne andai con il doolie vuoto, in cerca del dottore. Da quando eravamo arrivati, aveva fatto colazione e pranzo, ed era pieno come un uovo. "Parola mia, non hai perso tempo ad ubriacarti", mi fa, quando gli raccontai la cosa, "se hai visto quell'uomo camminare. Tranne un soffio o due di vita, era già un cadavere prima che lasciassimo Jumrood. Ho una gran voglia", dice, "di farti mettere agli arresti". "In giro scorre parecchio alcool, dottore", faccio io, solenne come un uovo sodo. "Forse è così; ma non vuole venire a vedere il cadavere in quella casa?" "È una vergogna", fa lui, "che io debba andare in un posto come quello. Era una bella donna?", dice, e al mio cenno affermativo parte di gran carriera. Vidi che i due erano sulla veranda dove li avevo lasciati, e dall'inclinazione del capo di lei e dal rumore dei corvi capii cos'era accaduto. Fu la prima e l'ultima volta che seppi di una donna che aveva fatto uso di una pistola. Di regola hanno paura dello sparo; ma Diamanti-e-perle no, lei non ne aveva. Il dottore sfiorò i lunghi capelli neri di lei (erano tutti sciolti sulla tunica di Amor-di-donne), e questo gli schiarì la testa dai fumi dell'alcool. Rimase a riflettere a lungo, con le mani in tasca, e alla fine mi disse, "Questa è una duplice morte per cause naturali, del tutto naturali; e nella situazione attuale il reggimento sarà grato per una fossa in meno da scavare. Issiwasti", fa. "Issiwasti, soldato Mulvaney, questi due saranno sepolti insieme nel cimitero civile, a mie spese; e che il buon Dio", dice, "possa fare altrettanto per me, quando verrà la mia ora. Va' da tua moglie", mi fa. "E sii felice. A questo penserò io". Lo lasciai che ancora rifletteva. I due vennero sepolti insieme nel cimitero civile, con il rito della Chiesa d'Inghilterra. Allora c'era troppa gente da seppellire perché qualcuno facesse delle domande, e il dottore - che quello stesso anno fuggì con la moglie del maggiore... del maggiore Van Dyce - provvide a tutto. Come stessero veramente le cose tra Amor-di-donne e Diamanti-e-perle non lo seppi mai, né mai lo saprò; ma ho raccontato le cose come le ho viste - qui e là, a pezzettini. Così, essendo quello che sono, e sapendo quello che sapevo, ecco perché dico, a proposito di questo caso di omicidio, che Mackie, morto e all'inferno, è il più fortunato. Ci sono delle volte, signore, in cui è meglio morire che vivere, per un uomo, e di conseguenza è quaranta milioni di volte meglio per una donna. "In piedi!", disse Ortheris. "È ora di andare". I testimoni e le guardie si allinearono nella polvere densa e bianca del crepuscolo riarso, e si avviarono a passo lento e fischiando. Lungo la strada che conduceva al prato accanto alla Chiesa, potei udire Ortheris, con la nera menzogna giurata sulla Bibbia ancora fresca sulle labbra, intonare, con un bel senso dell'occasione, quell'acuto canto di marcia che fa: Oh, non disprezzare il consiglio del saggio, Impara la saggezza da chi è più anziano di te, E non cercare cose al di fuori della tua portata - Questo la Ragazza disse al Soldato! Soldato! Soldato! Oh, questo la Ragazza disse al Soldato! COME FU SCRITTA LA PRIMA LETTERA C'era una volta, tantissimo tempo fa, un uomo neolitico. Non era uno Iuto né un Anglo, e nemmeno un Dravidico, anche se avrebbe potuto esserlo, Bimbi Carissimi, ma non importa perché. Era un Primitivo, e viveva da

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cavernicolo in una Caverna; indossava pochissimi indumenti, non sapeva leggere, non sapeva scrivere e non voleva nemmeno imparare, e tranne quando aveva fame era del tutto felice. Si chiamava Tegumai Bopsulai, che significa "Uomo-che-non-mette-avanti-il-proprio-piede-affrettatamente"; ma noi, Bimbi Carissimi, lo chiameremo semplicemente Tegumai. Sua moglie si chiamava Teshumai Tewindrow, che significa "Donna- che-fa-moltissime-domande"; ma noi, Bimbi Carissimi, la chiameremo semplicemente Teshumai. E la sua figlioletta si chiamava Taffimai Metallumai, che significa "Personcina- senza-alcuna-educazione-che- andrebbe-sculacciata"; ma io la chiamerò Taffy. Era la Bimba Carissima di Tegumai Bopsulai e la Bimba Carissima della sua Mamma, e non veniva sculacciata nemmeno la metà di quanto si sarebbe meritata; e tutti e tre erano molto felici. Non appena Taffy fu in grado di camminare, iniziò a seguire Papà Tegumai ovunque, e talvolta i due non facevano ritorno alla Caverna finché non avevano fame, e allora Teshumai Tewindrow diceva: "Dove siete stati voi due, per insudiciarvi così? Davvero, Tegumai, non sei affatto migliore di Taffy". Ora fate bene attenzione! Un giorno Tegumai Bopsulai scese, attraverso la palude dei castori, al fiume Wagai a caccia di carpe per il pranzo, e Taffy lo seguì. La fiocina di Tegumai era di legno con denti di pescecane all'estremità, e prima di prendere un solo pesce egli accidentalmente la spezzò in due scagliandola troppo forte sul fondo del fiume. Erano lontani miglia e miglia da casa (naturalmente si erano portati dietro la colazione in un sacchetto), e Tegumai aveva dimenticato di prendere una fiocina di riserva. "Siamo in un bel guaio!", disse Tegumai. "Mi ci vorrà mezza giornata per ripararla". "A casa c'è la tua grossa fiocina nera", disse Taffy. "Lasciami fare una corsa fino alla Caverna per chiedere alla Mamma di darmela". "È troppo lontano per le tue grasse gambette", disse Tegumai. "Inoltre, potresti cadere nella palude dei castori e annegare. Dobbiamo cavarcela con i mezzi a nostra disposizione". Si sedette e tirò fuori una borsetta di cuoio piena di tendini di renna, striscioline di pelle, grumi di cera d'api e di resina, e iniziò a riparare la fiocina. Anche Taffy si sedette, con la punta dei piedi nell'acqua e il mento in una mano, e pensò intensamente. Poi disse: "Senti, Papà, non è una terribile seccatura che tu ed io non sappiamo scrivere? Se fossimo capaci, potremmo inviare un messaggio e farci mandare un'altra fiocina". "Taffy", disse Tegumai, "quante volte ti ho detto di non esprimerti in quel modo? "Terribile" non è una parola carina, ma, a ben pensarci, sarebbe un vantaggio se potessimo scrivere a casa". Proprio in quel momento giunse al fiume uno Straniero, ma apparteneva a una tribù lontana, i Tewara, e non capiva una sola parola della lingua di Tegumai. L'uomo si fermò sulla riva e sorrise a Taffy, perché aveva anche lui una figlioletta, a casa. Tegumai prese una matassa di tendini di cervo dalla sua borsetta e iniziò a riparare la fiocina. "Vieni qui", disse Taffy. "Sai dove abita la mia Mamma?". E lo Straniero fece: "Uhm!", essendo, come sapete, un Tewara. "Stupido!", disse Taffy, e pestò il piede, vedendo un banco di grosse carpe risalire il fiume proprio mentre il suo Papà non poteva usare la fiocina. "Non disturbare i grandi", disse Tegumai, talmente occupato a riparare la fiocina che non si voltò neppure. "Non lo sto disturbando", disse Taffy. "Voglio solo che faccia quello che gli dico, ma lui non capisce". "Allora non disturbare me", disse Tegumai, e continuò a tirare e a stringere i tendini di cervo con la bocca piena di capi liberi. Lo Straniero - un Tewara autentico - si sedette sull'erba, e Taffy gli mostrò cosa stava facendo il suo Papà. Lo Straniero pensò "Questa è una bambina straordinaria. Pesta il piede e mi fa le smorfie. Dev'essere la figlia di quel nobile capo, talmente importante che non si accorge neanche di me". Perciò sorrise più garbatamente che mai. "Ora", disse Taffy, "voglio che tu vada dalla mia Mamma, perché le tue gambe sono più lunghe delle mie e non cadrai nella palude dei castori, e le chieda un'altra fiocina di Papà... quella con il manico nero che sta appesa sopra il focolare". Lo Straniero (che era un Tewara) pensò "Questa bambina è davvero straordinaria. Agita le braccia e grida, anche se non capisco una parola di quello che dice. Ma se non farò quello che vuole, ho una gran paura che quell'altero capo, l'Uomo-che-volta-le-spalle-ai-visitatori, si arrabbierà". Si alzò e staccò un grosso pezzo di corteccia da una betulla e lo diede a Taffy, Fece questo, Bimbi Cari, per mostrare che il suo cuore era candido come la corteccia di betulla e che non voleva farle alcun male; ma Taffy non capì. "Oh!", disse. "Adesso capisco! Vuoi l'indirizzo della Mamma! Ovviamente non so scrivere, ma posso disegnare delle figure, se ho qualcosa di aguzzo per incidere. Per favore, prestami il dente di pescecane della tua collana". Lo Straniero (che era un Tewara) non disse nulla, e Taffy allungò la manina e afferrò la splendida collana di perline, semi e denti di pescecane che portava intorno al collo. Lo Straniero (che era un Tewara) pensò "Questa bambina è veramente straordinaria. Il dente di pescecane della mia collana è magico, e mi è sempre stato detto che chiunque lo avesse toccato senza il mio permesso si sarebbe immediatamente gonfiato e sarebbe scoppiato. Ma questa bambina non si gonfia e non scoppia, e quel capo importante, l'Uomo-che-bada-esclusivamente-ai-suoi-affari, che non si è ancora accorto di me, non sembra aver paura che si gonfi o che scoppi. Avrei fatto meglio ad essere più gentile". Così diede a Taffy il dente di pescecane, e lei si sdraiò sul pancino con le gambe in aria, come qualcuno di mia conoscenza si sdraia sul pavimento del salotto quando vuol disegnare, e disse: "Ora ti farò dei bei disegni! Puoi guardare da sopra la mia spalla, ma non devi spingermi. Prima disegnerò Papà che pesca. Non gli assomiglia molto, ma

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la Mamma lo riconoscerà perché ho disegnato la fiocina spezzata. Bene, ora disegnerò l'altra fiocina, quella con il manico nero di cui ha bisogno. Sembra piantata nella schiena di Papà, ma è perché il dente di pescecane mi è scivolato, e questo pezzo di corteccia non è grande abbastanza. Questa è la fiocina che devi andare a prendere; ora disegno me che te lo spiego. I miei capelli non sono dritti come nel disegno, ma è più facile renderli così. Adesso faccio te. Io credo che tu sia davvero molto carino, ma non riesco a farti così nel disegno, per cui non devi offenderti. Sei offeso?". Lo Straniero (che era un Tewara) sorrise. Poi pensò "Da qualche parte si sta per combattere una grande battaglia, e questa bambina straordinaria, che ha toccato il mio dente magico di pescecane senza gonfiarsi né scoppiare, mi sta dicendo di chiamare in aiuto tutta la tribù del grande capo. È sicuramente un grande capo, altrimenti si sarebbe accorto di me". "Guarda", disse Taffy, disegnando con molto impegno ma senza troppa precisione, "qui ho disegnato te, e ti ho messo in mano la fiocina che serve a Papà, per ricordarti che devi portarla qui. Ora ti mostrerò come trovare la casa della Mamma. Vai avanti finché non trovi due alberi (questi sono alberi), poi oltrepassi una collina (questa è una collina), e infine arrivi in una palude tutta piena di castori. Non ci ho messo i castori interi perché non so disegnare i castori, ma ho fatto le teste, che è tutto ciò che vedrai di loro quando attraverserai la palude. Bada di non caderci dentro! La nostra Caverna è proprio oltre la palude dei castori. In realtà non è alta come le colline, ma non riesco a disegnare le case molto piccole. Questa, qui fuori, è la mia Mamma. È molto bella. La Mamma più bellissima che ci sia, ma non si offenderà nel vedere che l'ho fatta così inespressiva. Sarà fiera di me perché so disegnare. Qui, in caso che tu lo dimentichi, ho disegnato la fiocina di cui Papà ha bisogno, fuori della nostra Caverna. In realtà è dentro, ma quando mostrerai il disegno alla Mamma, lei te la darà. La Mamma l'ho disegnata con le braccia levate, perché so che sarà felicissima di vederti. Non è un bel disegno? Hai capito tutto o devo spiegartelo ancora?". Lo Straniero (che era un Tewara) guardò il disegno e annuì gravemente. Disse tra sé "Se non andrò a chiamare in aiuto la sua tribù, questo grande capo sarà ucciso dai nemici che stanno arrivando da ogni parte armati di lance. Adesso capisco perché il grande capo fingeva di non vedermi! Temeva che i suoi nemici fossero nascosti tra i cespugli e lo vedessero consegnarmi il messaggio. Perciò mi ha voltato le spalle, lasciando che questa bambina saggia e straordinaria facesse il terribile disegno per mostrarmi le difficoltà in cui si trova". Senza nemmeno chiedere la strada a Taffy, corse via come il vento tra i cespugli, stringendo in mano la corteccia di betulla, e Taffy si sedette assai soddisfatta. Questo è il disegno che gli aveva fatto! DISEGNO "Cosa stavi facendo, Taffy?", chiese Tegumai. Aveva riparato la fiocina e ne stava provando la robustezza con movimenti cauti. "È un piccolo stratagemma personale, Papà caro", disse Taffy. "Se non farai domande saprai tutto tra poco, e rimarrai sorpreso. Non immagini quanto rimarrai sorpreso, Papà! Promettimi che rimarrai sorpreso". "Molto bene", disse Tegumai, e continuò a pescare. Lo Straniero - ricordate che era un Tewara? - partì in tutta fretta con il disegno e corse per alcune miglia, finché non trovò per puro caso Teshumai Tewindrow sulla porta della Caverna, intenta a conversare con altre signore neolitiche invitate a una colazione primitiva. Taffy assomigliava molto a Teshumai, soprattutto nella parte superiore del viso e negli occhi, per cui lo Straniero - sempre un autentico Tewara - sorrise cortesemente e porse a Teshumai la corteccia di betulla. Aveva corso molto e ansimava, e le sue gambe erano graffiate dai rovi, ma cercò tuttavia di essere cortese. Non appena Teshumai vide il disegno cacciò un urlo spaventoso e si avventò contro lo Straniero. Subito le altre signore neolitiche lo gettarono a terra e gli si sedettero sopra in una lunga fila di sei, mentre Teshumai gli tirava i capelli. "È evidente come il naso sulla faccia di questo Straniero", disse. "Ha trafitto di lance il mio Tegumai e ha terrorizzato la povera Taffy al punto che le si sono rizzati i capelli in testa; e, non contento di ciò, mi porta un orrendo disegno per mostrarmi come ha fatto. Guardate!". Ed esibì il disegno a tutte le signore neolitiche che sedevano pazienti sullo Straniero. "Qui c'è il mio Tegumai con il braccio rotto; qui c'è una lancia conficcata nella sua schiena; qui c'è un uomo con una lancia pronta per essere scagliata; qui c'è un altro uomo che scaglia una lancia da una Caverna, e qui c'è un intero mucchio di gente" (in realtà erano i castori di Taffy, ma sembravano tante persone) "che spunta dietro Tegumai. Non è spaventoso?" "Molto spaventoso!", dissero le signore neolitiche, che impiastricciarono con del fango i capelli dello Straniero (cosa che lo colse alla sprovvista), percossero i Risonanti Tamburi Tribali e chiamarono a raccolta tutti i capi della Tribù di Tegumai, con i loro Etinani e Dulimani, tutti i Negus, i Woon e gli Akhund dell'organizzazione, oltre agli Stregoni, agli Angekok, agli uomini del Juju, ai Bonzi e a tutti gli altri, i quali decisero che lo Straniero, prima di essere decapitato, doveva condurli immediatamente al fiume e mostrargli dove aveva nascosto la povera Taffy. Nel frattempo lo Straniero (benché fosse un Tewara) si era veramente seccato. Gli avevano completamente imbrattato i capelli di fango; lo avevano fatto rotolare avanti e indietro sui ciottoli acuminati; gli si erano sedute sopra in una lunga fila di sei; lo avevano percosso e pestato finché riusciva appena a respirare; e benché non capisse la loro lingua, era quasi certo che gli appellativi rivoltigli dalle signore neolitiche non fossero degni di una signora. Tuttavia non disse nulla finché l'intera Tribù di Tegumai non si fu radunata; dopodiché li condusse sulle rive del fiume Wagai, dove trovarono Taffy che stava intrecciando ghirlande di margherite e Tegumai intento a pescare piccole carpe con la fiocina riparata.

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"Bene, sei stato veloce!", disse Taffy. "Ma perché hai portato tanta gente? Papà caro, ecco la mia sorpresa. Sei sorpreso, Papà?" "Molto", disse Tegumai; "ma mi hai rovinato la pesca per oggi, facendo venire l'intera, cara, gentile, graziosa, onesta, pacifica Tribù, Taffy". E così era, infatti. Prima di tutti venivano Teshumai Tewindrow e le signore neolitiche, saldamente abbrancate allo Straniero, i cui capelli erano pieni di fango (benché fosse un Tewara). Appresso venivano il Grande Capo, il Vice Capo, il Capo in Seconda e il Capo Aggiunto (tutti armati fino ai denti), gli Etmani e i Centurioni, i Plattoni con i loro Plotoni, e i Dulimani con i loro Distaccamenti; i Woon, i Negus e gli Akhund (anch'essi armati fino ai denti) formavano la retroguardia. Dietro di loro c'era la Tribù in ordine gerarchico: dai proprietari di quattro caverne (una per ogni stagione), un recinto privato per le renne e due riserve di salmoni, ai prognati Vassalli feudali, aventi semidiritto a mezza pelle d'orso nelle notti d'inverno, a una distanza di sette metri dal fuoco, e ai servi ascritti, aventi diritto alla reversione di un ossobuco raschiato come tributo feudale (non sono belle parole, Bimbi Carissimi?). C'erano tutti, e saltavano e gridavano spaventando qualsiasi pesce si fosse trovato nel raggio di venti miglia, e Tegumai li ringraziò con una fluente orazione neolitica. Poi Teshumai Tewindrow corse ad abbracciare e a baciare Taffy con grande trasporto; ma il Grande Capo della Tribù di Tegumai prese Tegumai per il ciuffo di penne che aveva sul capo e lo scosse violentemente. "Spiega! Spiega! Spiega!", gridò tutta la Tribù di Tegumai. "Per amor del Cielo!", disse Tegumai. "Lasciami il ciuffo. Uno non può nemmeno rompere la propria fiocina senza che l'intera tribù gli piombi addosso? Siete un popolo assai impiccione". "Inoltre, credo che non abbiate nemmeno portato la fiocina con il manico nero del mio Papà", disse Taffy. "E cosa state facendo al mio simpatico Straniero?". Lo stavano pestando in due, in tre e in dieci, tanto che a un certo punto il poveretto iniziò a strabuzzare gli occhi. Riusciva appena a rantolare e a indicare Taffy. "Dove sono gli uomini cattivi che ti hanno ferito, caro?" chiese Teshumai Tewindrow. "Non c'è proprio nessuno", rispose Tegumai. "L'unico visitatore di questa mattina è quel poveretto che state cercando di soffocare. Vi sentite bene o no, Tribù di Tegumai?". "È venuto con un disegno orribile", disse il Grande Capo, "un disegno che ti mostrava trafitto di lance". "Ehm... uhm forse dovrei spiegare che gli ho dato io quel disegno", disse Taffy, ma non si sentiva del tutto a proprio agio. "Tu!", disse la Tribù di Tegumai come un sol uomo. "Personcina-senza- alcuna-educazione-che-andrebbe-sculacciata! Tu?". "Taffy cara, temo che tu abbia combinato un piccolo guaio", le disse il Papà, cingendola con un braccio, in modo che si sentisse rassicurata. "Spiega Spiega! Spiega" disse il Grande Capo della Tribù di Tegumai, saltellando su un piede. "Volevo che lo Straniero andasse a prendere la fiocina di Papà, così l'ho disegnata", disse Taffy. "Non c'erano molte fiocine. Ce n'era solo una. Per sicurezza l'ho disegnata tre volte. Non ho potuto evitare che sembrasse conficcata nella testa di Papà... non c'era spazio sulla corteccia di betulla; e quelli che la Mamma chiama uomini cattivi sono i miei castori. Li ho disegnati per mostrargli la via attraverso la palude; e ho disegnato la Mamma all'ingresso della Caverna con l'aria felice perché è uno Straniero carino, e credo che siate la tribù più stupida del mondo", disse Taffy. "È una persona molto carina. Perché gli avete riempito i capelli di fango? Lavatelo!". Nessuno parlò per parecchi minuti, finché il Grande Capo non scoppiò a ridere; allora rise anche lo Straniero (che almeno era un Tewara); poi rise Tegumai, finché non cadde lungo disteso sulla riva; infine rise tutta la Tribù, con maggiore intensità e minor ritegno. Le uniche persone che non risero furono Teshumai Tewindrow e le signore neolitiche. Furono molto gentili con i loro mariti, e dissero "idiota!" parecchie volte. Poi il Grande Capo della Tribù di Tegumai gridò e disse e cantò: "Oh, Personcina-senza-alcuna-educazione-che-andrebbe-sculacciata, per caso hai fatto una grande invenzione!". "Non era mia intenzione; io volevo soltanto la fiocina con il manico nero di Papà", disse Taffy. "Non importa. Resta comunque una grande invenzione, e un giorno gli uomini la chiameranno scrittura. Per ora sono soltanto disegni e, come abbiamo visto oggi, i disegni non sempre vengono interpretati in maniera corretta. Ma verrà il giorno, Bimba di Tegumai, in cui faremo delle lettere - tutte e ventisei - e saremo in grado di leggere e scrivere, e allora diremo sempre esattamente quello che vogliamo dire senza errori. Ora, che le signore neolitiche lavino via il fango dai capelli dello Straniero!". "Ne sarò felice", disse Taffy, "perché, dopo tutto, anche se avete portato tutte le altre lance della Tribù di Tegumai, vi siete dimenticati la fiocina con il manico nero del mio Papà". Allora il Grande Capo gridò e disse e cantò: "Taffy cara, la prossima volta che scriverai una lettera fatta di disegni, sarà meglio affidarla a qualcuno che parli la nostra lingua, in modo che possa spiegare cosa significa. A me personalmente non importa, perché sono un Grande Capo, ma per il resto della Tribù di Tegumai è un grosso problema e, come puoi vedere, coglie alla sprovvista lo straniero". Quindi lo Straniero (un autentico Tewara di Tewar) venne adottato dalla Tribù di Tegumai, perché era un signore e non si lamentò troppo del fango con cui le signore neolitiche gli avevano impiastricciato i capelli. Ma da quel giorno (e suppongo che sia tutta colpa di Taffy) a pochissime bambine è piaciuto imparare a leggere e scrivere. Quasi tutte preferiscono disegnare e giocare con il loro Papà - proprio come Taffy.

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UNA GUERRA DI SAHIB Lasciapassare? Lasciapassare? Lasciapassare? Ce l'ho un lasciapassare che mi permette di andare con il rêl da Kroonstadt a Eshtellenbosch, dove ci sono i cavalli, dove devo riscuotere la paga e da dove farò ritorno in India. Sono un cavalleggero del Gurgaon Rissala, il 141° Cavalleria del Punjab. Non mettetemi insieme a questo branco di Kaffir neri. Io sono un Sikh - un soldato di cavalleria al servizio del governo. Il Sahib-tenente non capisce come parlo? C'è qualche Sahib su questo treno che voglia fare da interprete a un soldato del Gurgaon Rissala che se ne va per i fatti suoi in questo paese concepito dal demonio, dove mancano la farina, l'olio, le spezie, il pepe rosso, e dove non c'è alcun rispetto per un Sikh? Non c'è qualcuno che mi possa aiutare?... Sia ringraziato Iddio, ecco un Sahib come dico io! Protettore dei poveri! Figlio del Cielo! Dite al giovane Sahib-tenente che il mio nome è Umr Singh; sono... cioè ero al servizio di Kurban Sahib, che è morto; e ho un lasciapassare per andare a Eshtellenbosch, dove ci sono i cavalli. Non lasciatemi mettere insieme a questo branco di Kaffir neri!... Sì, mi siederò vicino a questo carro merci finché il Figlio del Cielo non avrà spiegato come stanno le cose al giovane Sahib-tenente che non capisce la nostra lingua. Quali ordini? Il giovane Sahib-tenente non mi trattiene? Bene! Andrò a Eshtellenbosch con il prossimo terain? Bene! Viaggerò con il Figlio del Cielo? Bene! Allora per oggi sarò al servizio del Figlio del Cielo! Vuole il Figlio del Cielo onorare della sua presenza un sedile? Qui c'è un vagone vuoto; stenderò la mia coperta in un angolo, così... perché il sole è caldo, anche se non così caldo come nel nostro Punjab in maggio. La fermerò così, e sistemerò il fieno in questo modo, perché la Presenza possa sedere comodamente finché Dio non ci manderà un terain per Eshtellenbosch. La Presenza conosce il Punjab? Lahore? Amritsar? Attaree, forse? Il mio villaggio è a tre miglia a nord di Attaree, oltre i campi, vicino alla grande casa bianca che venne copiata da un certo posto della Grande Regina, da... da... ho dimenticato il nome. La Presenza forse lo ricorda? Sirdar Dyal Singh Attareewalla! Sì, proprio lui; ma come fa la Presenza a saperlo? Nato e cresciuto in Indostan, eh? O-o-oh! Allora è tutta un'altra cosa. La bambinaia del Sahib era una surtee delle parti di Bombay? Peccato. Avrebbe dovuto essere una ragazza dell'interno; sono più robuste, come bambinaie. Non c'è un paese come il Punjab. Non c'è un popolo come i Sikh. Sì, il mio nome è Umr Singh. Anziano? Sì. Ancora soldato semplice dopo tutti questi anni? Sì. Se il Sahib dubita guardi la mia uniforme. No, no; il Sahib guarda troppo da vicino. Tutte le insegne del mio rango sono state strappate tanto tempo fa, ma... è vero... la stoffa non è del tipo usato per le giubbe dei soldati semplici, e... il Sahib ha la vista acuta... questo segno nero è quello che lascia una catena d'argento quando la si porta a lungo sul petto. Il Sahib dice che i soldati semplici non portano catene d'argento? No-o. I soldati semplici non portano l'Arder of Beritish India? No. Il Sahib avrebbe dovuto servire nella polizia del Punjab. Non sono un soldato di cavalleria, ma ho servito un Sahib per quasi un anno - portatore, maggiordomo e spazzino, tutte e tre le cose insieme. Il Sahib dice che i Sikh non fanno lavori servili? È vero; ma era per Kurban Sahib - il mio Kurban Sahib - morto da tre mesi! Giovane, il viso rubicondo, gli occhi azzurri, quando era contento si molleggiava un po' sulle gambe e faceva schioccare le giunture delle dita. Così faceva suo padre prima di lui, che era vice-commissario a Jullundur al tempo di mio padre, quando io cavalcavo con il Gurgaon Rissala. Mio padre? Jwala Singh. Un Sikh tra i Sikh - ha combattuto contro gli inglesi a Sobraon e ne ha portato il segno fino alla morte. Per cui eravamo uniti come da un vincolo di sangue, io e il mio Kurban Sahib. Sì, dapprima fui soldato semplice - anzi, ricordo di aver raggiunto il grado di Lance-Duffadar, e quel giorno mio padre mi diede uno stallone bruno grigiastro che aveva allevato lui stesso; e lui era un piccolo baba seduto su un muro della piazza d'armi con la sua ayah - tutto vestito di bianco, Sahib - e rideva al termine dei nostri esercizi. Suo padre e il mio parlavano insieme; poi il mio mi chiamò con un cenno, io smontai da cavallo e il baba mise la sua mano nella mia... da allora sono passati diciotto... venticinque... ventisette anni... Kurban Sahib... il mio Kurban Sahib! Oh, da allora diventammo grandi amici! Lui si fece i denti sull'elsa della mia spada, come dice il proverbio. Mi chiamava il Grande Umr Singh... Buwwa Umwa Singh, perché non parlava ancora bene. Non era più alto di così, Sahib, dal pavimento di questo vagone, ma conosceva tutti gli uomini del nostro reggimento per nome... uno per uno... Poi andò in Inghilterra, diventò un giovanotto e fece ritorno - sempre molleggiandosi un po' sulle gambe e facendo schioccare le giunture delle dita - fece ritorno al suo reggimento e a me. Non aveva dimenticato la nostra lingua né le nostre usanze. Nel cuore era un Sikh, Sahib. Era ricco, generoso, giusto, amico dei soldati poveri, aveva la vista acuta, era scherzoso e spensierato. Potrei raccontare delle storie su di lui, in quei primi anni. C'erano pochissime cose che mi tenesse nascoste. Ero il suo Umr Singh, e quando eravamo soli mi chiamava Padre e io lo chiamavo Figlio. Sì, così ci parlavamo. Parlavamo liberamente di qualsiasi cosa - della guerra, di donne, di soldi, di promozioni e di altre cose del genere. Parlammo anche di questa guerra, molto tempo prima che scoppiasse. C'erano molti box-wallah, venditori ambulanti e alcuni Pathan, in questo paese, soprattutto nella città di Yunasbagh (Johannesburg), e ogni settimana inviavano notizie su come i Sahib si trovassero inermi sotto il tallone dei boeri; e come i cannoni venissero trascinati su e giù nelle strade per tenere a bada i Sahib, e come un Sahib chiamato Eger Sahib (Edgar?) fosse stato ucciso dai boeri per divertimento. Sa il Sahib come noi dell'Indostan veniamo a sapere tutto ciò che accade nel mondo? Non si armava un fucile a Yunasbagh senza che l'eco arrivasse nell'Indostan in un mese. I Sahib sono molto intelligenti, ma

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dimenticano che la loro intelligenza ha creato il dak (la posta), e che per un anna o due si viene a sapere tutto. Noi dell'Indostan ascoltavamo, sentivamo e ci stupivamo; e quando fu cosa certa, secondo quanto riferivano i venditori ambulanti e i fruttivendoli, che i Sahib di Yunasbagh erano schiavi dei boeri, alcuni di noi fecero delle domande e aspettarono dei segnali. Altri fraintesero il significato di quei segnali. Per questo, Sahib, ci fu la lunga guerra del Tirah! Tutto questo Kurban Sahib lo sapeva, e ne parlammo insieme. Disse: "Non c'è fretta. Presto combatteremo, e combatteremo per tutto l'Indostan in quel paese attorno a Yunasbagh". E in questo diceva la verità. Forse il Sahib non è d'accordo? Proprio così. È per l'Indostan che i Sahib stanno combattendo questa guerra. Non si può governare in un posto e essere sottomessi in un altro. O si governa ovunque o si obbedisce ovunque. Dio non fa le nazioni a strisce colorate. Vero - vero - vero! Così maturarono le cose, un passo dopo l'altro. A me non importava niente, solo penso - e il Sahib capisce, no? - che sia sciocco formare un esercito e poi lasciarlo morire d'inedia. Perché non hanno mandato a chiamare gli uomini del Tochi - gli uomini del Tirah - gli uomini del Buner? Follia, mille volte follia. Noi avremmo potuto sistemare tutto così dolcemente così dolcemente. Poi, un giorno, Kurban Sahib mi mandò a chiamare e mi disse: "Ohi, Dada, sono malato, e il dottore mi dà un certificato per molti mesi". E mi strizzò l'occhio, al che io dissi: "Allora prendo una licenza per curarti, Figlio. Devo portare l'uniforme?". Lui disse: "Sì, e una spada perché un malato possa appoggiarvisi. Andiamo a Bombay, e da lì per mare fino al paese degli Hubshi (negri)". Notate la sua astuzia! Fu il primo, tra tutti i nostri uomini dei reggimenti indigeni, a prendere una licenza per malattia e a venire qui. Adesso non lasciano partire i nostri ufficiali, siano essi malati o sani, se prima non si impegnano per iscritto a non partecipare a questo gioco alla guerra mentre sono per strada. Ma lui era astuto. Nessuno parlava ancora di guerra, quando prese la licenza. Se partii anch'io? Certamente. Andai dal mio colonnello, e, seduto su una sedia (sono... cioè ero di un rango ai cui membri viene offerta una sedia, quando conferiscono con il colonnello), dissi: "Il mio figliolo è ammalato. Datemi una licenza, perché sono vecchio e malato anch'io". E il colonnello, giocando sul doppio significato della parola in inglese e nella nostra lingua, disse: "Sì, tu sei davvero Sikh"; e mi chiamò vecchio diavolo - scherzando, come può scherzare un soldato con un altro; e disse che il mio Kurban Sahib mentiva riguardo alla propria salute (anche questo era vero), e alla fine si alzò e mi strinse la mano, e mi ordinò di andare e riportare indietro il mio Sahib sano e salvo. Riportare indietro il mio Sahib... ahimè! Così andai a Bombay con Kurban Sahib; ma colà, alla vista dell'Acqua Nera, Wajib Alì, il suo portatore, si arrestò e disse che sua madre era morta. Allora dissi a Kurban Sahib: "Cosa conta un porco musulmano in più o in meno? Dammi le chiavi dei bauli, e ti preparerò io le camicie bianche per il pranzo". Poi diedi una lezione a Wajib Alì dietro il Watson's Hotel, e quella sera preparai i rasoi per Kurban Sahib. Ti dico, Sahib, che io, un Sikh del Khalsa, un uomo intonso, preparai i rasoi. Ma non indossavo la divisa mentre lo facevo. D'altra parte, Kurban Sahib aveva preso per me sul piroscafo una cabina del tutto identica alla sua, e voleva darmi anche un servo. Parlammo di molte cose, in viaggio verso questo paese; e Kurban Sahib mi disse come immaginava sarebbe andata la guerra. Disse: "Hanno mandato degli uomini a piedi a combattere contro degli uomini a cavallo, e stupidamente mostreranno pietà per questi boeri, perché si crede che siano bianchi". Disse: "È stato fatto un solo errore in questa guerra, ed è che il governo non si è servito di noi, ma ne ha fatto interamente una guerra di Sahib. Così moltissimi uomini verranno uccisi, e non saranno vendicati". Vero - vero! È andata proprio come aveva previsto Kurban Sahib. E arrivammo in questo paese, fino a Città del Capo, laggiù in fondo, e Kurban Sahib disse: "Porta il bagaglio al grande dak-bungalow, e io cercherò un'occupazione che si addica un malato". Così indossai l'uniforme del mio rango e andai al grande dak-bungalow chiamato Maul Nihâl Seyn, e feci sistemare i pesanti bauli in quel luogo basso e buio - forse il Sahib lo conosce? - che era già pieno delle spade e del bagaglio degli ufficiali. Adesso è ancora più pieno - tutti equipaggiamenti di uomini morti! Ebbi la cura di farmi dare una ricevuta per i tre bauli. Ce l'ho nel cinturone. Devono ritornare nel Punjab. Kurban Sahib arrivò quasi subito, con l'andatura ondeggiante che ben conoscevo, e disse: "Siamo nati in un'ora fortunata. Andiamo a Eshtellenbosch a sorvegliare l'invio dei cavalli". Non dimenticate che Kurban Sahib era comandante di squadrone del Gurgaon Rissala, e io ero Umr Singh. Così gli dissi, parlando come facciamo cioè come facevamo... quando eravamo soli: "Tu sei un palafreniere e io un fienaiolo; ma è una promozione, questa, Figlio?". Al che lui rise, dicendo: "È un modo per migliorare le cose. Abbi pazienza, Padre". (Sì, mi chiamava padre quando eravamo soli). "Questa guerra non finirà né domani né posdomani. Ho visto i nuovi Sahib", disse, "e sono dei begli allocchi - tutti - tutti - tutti!". Così andammo a Eshtellenbosch, dove ci sono i cavalli; Kurban Sahib faceva il lavoro di un servo, in quella faccenda. E l'intera faccenda era condotta senza alcun giudizio dai nuovi Sahib venuti da chissà dove, che non avevano mai visto montare una tenda o piantare un picchetto. Erano pieni di zelo, ma del tutto privi di esperienza. Poi, a poco a poco, giunsero dall'Indostan quei Patban - uguali a quegli avvoltoi lassù, Sahib: vanno sempre dietro ai massacri. E a Eshtellenbosch vennero pure dei Sikh - anche se muzbee" - e alcuni uomini-scimmia di Madras. Vennero con i cavalli. Il Puttiala mandò cavalli. Jhind e Nabha mandarono cavalli. Tutti gli stati di Khalsa mandarono cavalli. Tutti gli angoli della terra mandarono cavalli. Dio solo sa cosa ne facesse l'esercito, a meno che non li mangiassero crudi. Usavano i cavalli come una cortigiana usa l'olio profumato: a piene mani. Quei cavalli avevano bisogno di molti uomini. Kurban Sahib mi affidò il comando (bel comando davvero!) di certi esseri lanosi - Hubshi - il cui contatto e la cui ombra significano contaminazione. Erano dei gran mangiatori, dormivano sdraiati sulla pancia e ridevano senza motivo: del tutto simili a bestie. Alcuni venivano chiamati Fingoes, e altri, credo, Kaffir Rossi, ma erano tutti Kaffir - lerciume

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indescrivibile. Io insegnai loro a dare l'acqua e il foraggio ai cavalli, a strigliarli e a spazzare. Sì, controllavo il lavoro degli spazzini - sono stato per cinque mesi un jemadar di mehtars (capo di una banda di rifiuti), e Kurban Sahib poco di meglio. Mesi terribili! La guerra andava come aveva detto Kurban Sabib. I nostri uomini nuovi vennero uccisi e non furono vendicati. Era una guerra di stupidi muniti di armi da maghi. Cannoni che uccidevano a mezza giornata di marcia, e uomini che, essendo nuovi, camminavano ciecamente nell'erba alta e venivano dispersi dai boeri come bestiame! Quanto alla città di Eshtellenbosch, io non sono un Sahib, ma soltanto un Sikh. Avrei acquartierato un solo squadrone del Gurgaon Rissala, in quella città un piccolo squadrone -, e avrei insegnato la lezione a quella città, finché i suoi abitanti non avessero imparato a baciare in terra l'ombra di un cavallo del governo. Ci sono molti mullah (preti) a Eshtellenbosch. Predicavano la jehad contro di noi. Questa è la verità - tutto l'accampamento lo sapeva. E la maggior parte delle case avevano il tetto di paglia! Proprio una guerra di stupidi! Dopo cinque mesi il mio Kurban Sahib, che era dimagrito, disse: "È venuta l'ora della ricompensa. Domani partiamo per il fronte con i cavalli, e, una volta lontani, sarò troppo malato per tornare. Prepara il bagaglio". Così partimmo, insieme ad alcuni Kaffir, con dei cavalli nuovi destinati a un certo reggimento appena arrivato via mare. Il secondo giorno di terain, mentre stavamo abbeverando le bestie in una località desolata senza neanche un bazaar, dai carri bestiame sgattaiolò un certo Sikandar Khan, che era stato jemadar di saises (capo stalliere) a Eshtellenbosch, e che prestava servizio come cavalleggero in un reggimento di stanza sul Confine. Kurban Sahib lo insultò pesantemente per la sua diserzione; ma il Pathan levò in alto le mani come per scusarsi, e Kurban Sahib si raddolcì e lo prese al nostro servizio. Così adesso eravamo in tre - Kurban Sahib, io e Sikandar Khan - un Sahib, un Sikh e un Sag (cane). Ma quest'ultimo disse giustamente: "Siamo lontani dalle nostre case ed entrambi servitori del Raj. Sospendiamo le ostilità finché non rivediamo l'Indo". Così mangiai dallo stesso piatto di Sikandar Khan - anche carne di manzo, per quanto ne sappia! La notte in cui rubò della carne di maiale in barattolo da una tenda della mensa, disse che nel suo Libro, il Corano, sta scritto che chiunque partecipi a una guerra santa è libero dagli obblighi religiosi. Bah! Non aveva più religione di quanta acqua e zucchero sia raccolta dalla punta della spada nel battesimo. Una volta rubò un cavallo in un luogo dov'era accampato un reggimento nuovo e del tutto inesperto. Anch'io mi procurai un castrato grigio, in quell'occasione. Lasciavano i cavalli troppo liberi, quei reggimenti nuovi. Lungo la strada incontrammo dei reggimenti spudorati che volevano portarsi via i nostri cavalli! Esibivano ordini di requisizione e una volta o due cercarono di sganciare i vagoni; ma Kurban Sahib era furbo, e io non sono completamente sciocco. Non c'è molta onestà al fronte. Soprattutto, c'era una congrega di ladri di cavalli senza scrupoli; Sahib alti e snelli che parlavano quasi del tutto nel naso e ad ogni occasione dicevano "Oah Hell!" (All'Inferno!), che nella nostra lingua significa Jehannum ko jao. Avevano tutti una foglia di vite sull'uniforme e cavalcavano come Rajput. No, cavalcavano come Sikh. Cavalcavano come gli Ustrelyahs! Gli Ustrelyahs, che incontrammo in seguito, parlavano anch'essi nel naso, ed erano uomini alti e scuri, con occhi grigi e chiari, dalle ciglia folte come quelle dei cammelli - uomini come si deve - un nuovo tipo di Sahib, per me. Ad ogni occasione dicevano "No fee-ah" (niente paura), che nella nostra lingua significa Durro Mut, così noi li chiamammo Durro Mut. Uomini alti, scuri, ottimi cavalieri, ardenti e irosi, facevano la guerra come va fatta, e bevevano tè come una duna beve l'acqua. Ladri? Un po', Sahib. Sikandar Khan mi giurò - e lui viene da un clan di ladri di cavalli da dieci generazioni - che un Pathan è un bambino in confronto a un Durro Mut, come ladro di cavalli. I Durro Mut non possono assolutamente andare a piedi. Sono come galline sulla strada maestra. Quindi devono avere dei cavalli. Uomini come si deve, con una giusta brama di guerra. Ahh... "No fee-ah", dicono i Durro Mut. Loro capirono il valore di Kurban Sahib. Loro non gli chiesero di spazzare le stalle. Non gli permisero in alcun modo di andar via. Sostituì un loro comandante di squadrone che aveva la febbre, per una lunga giornata in un paese pieno di collinette - come l'imboccatura del Khaibar; e la sera, quando tornarono, i Durro Mut dissero: "Wallah! Questo è un uomo. Rubiamolo!". Così rubarono il mio Kurban Sahib come avrebbero rubato qualsiasi altra cosa di cui avessero avuto bisogno; e al suo posto rimandarono a Eshtellenbosch un ufficiale malato. In tal modo Kurban Sahib ritornò al proprio rango, io gli feci da portatore e Sikandar Khan da cuoco. La legge era severa sul fatto che si trattasse di una guerra di Sahib, ma nessun ordine vietava a un portatore e a un cuoco di cavalcare con il loro Sahib - e noi non avevamo altro da indossare che le nostre uniformi. Quindi cavalcammo su e giù per questo maledetto paese, dove non ci sono bazaar, né legumi, né farina, né olio, né spezie, né pepe rosso, né legna da ardere; nient'altro che grano da macinare e un po' di bestiame. Non ci furono grandi battaglie, da quanto potei vedere, ma parecchie scaramucce. Quando eravamo in tanti, i boeri uscivano di casa con il caffè, per darci il benvenuto e mostrarci i purwana (permessi) rilasciati da sciocchi generali inglesi passati in precedenza da quelle parti, in cui si attestava che era gente pacifica e ben disposta. Quando eravamo in pochi, si nascondevano dietro le rocce e ci sparavano. Ora, l'ordine diceva che questi erano Sahib, e questa una guerra di Sahib. Bene! Ma, da come la vedo io, quando un Sahib va alla guerra indossa l'abito da guerra, e soltanto quelli che indossano quell'abito possono prender parte alla guerra. Bene! Anche questo lo capisco. Ma questa gente era come quella della Birmania, o come gli Afridi. Sparavano a loro piacimento, e quando erano in difficoltà nascondevano il fucile e mostravano i purwana, o si rifugiavano in una casa e dicevano di essere agricoltori. Proprio come quegli agricoltori che hanno fatto a pezzi le truppe di Madras a Hlinedatalone in Birmania! Proprio come quegli agricoltori che hanno trucidato Cavagnari Sahib e le Guide a Kabul! Noi demmo una lezione a questa gente, altroché - quindici, venti ogni mattina, spinti via dalla veranda di fronte al Bala Hissar. Io contavo che il Jung-i-lat-Sahib (il comandante in capo) si sarebbe ricordato dei vecchi tempi; ma... niente da fare. Tutti ci sparavano addosso da tutte le parti, e lui continuava a emettere proclami in cui diceva che non combatteva contro i civili, ma contro un certo esercito; il quale esercito, in realtà, era formato da tutti i boeri che, messi insieme, non avevano addosso abbastanza uniformi da fare un perizoma. Una guerra di sciocchi

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dall'inizio alla fine; perché è evidente che chi combatte dovrebbe essere impiccato, se combatte con un fucile in mano e un purwana nell'altra, come faceva tutta quella gente. Noi invece, quando loro ne avevano avuto abbastanza per il momento, li ricevevamo con tutti gli onori e li fornivamo di permessi, li rifocillavamo e nutrivamo le loro donne e i loro figli, e punivamo severamente i nostri soldati quando gli prendevano i polli. Così il lavoro doveva esser fatto, non una sola volta con pochi morti, ma tre o quattro volte, e ricominciando sempre da capo. Parlai a lungo di questo con Kurba Sahib, e lui diceva: "È una guerra di Sahib. Questo è l'ordine"; e una notte che Sikandar Khan voleva strisciare oltre le sentinelle con il coltello, per mostrare loro come si lavora sul Confine, lui colpì Sikandar Khan in mezzo agli occhi e per poco non gli ruppe la testa. Allora Sikandar Khan, con una benda sugli occhi che lo faceva sembrare un cammello, gli parlò per metà di una marcia; era più stupito di me, e giurò che sarebbe tornato a Eshtellenbosch. Ma a me, in privato, Kurban Sahib disse che avremmo dovuto scatenare i Sikh e i Gurkha contro questa gente, finché non si fosse venuta a prostrare con la fronte nella polvere. Poiché non era il tipo di guerra che potevano comprendere. Se ci sparavano? Certo che ci sparavano, da case adorne di bandiere bianche; ma quando impararono a conoscere il nostro modo di fare, le loro vedove mandarono messaggi per mezzo di portaordini Kaffir, e in breve non ci furono più tante sparatorie. No fee-ah! Tutti i boeri con cui avemmo a che fare erano forniti di purwana firmati da generali pazzi, che attestavano come fossero ben disposti nei confronti del governo. Avevano anche non pochi fucili e cartucce, che nascondevano nel sottotetto. Le donne piangevano molto quando bruciavamo queste case, ma non si avvicinavano troppo dopo che le fiamme avevano attaccato il tetto di paglia, per paura delle cartucce che esplodevano. Le donne dei boeri sono molto intelligenti. Più intelligenti degli uomini. Se i boeri sono intelligenti? No, no, per niente! Sono i Sahib che sono stupidi. Per salvare l'onore, i Sahib devono dire che i boeri sono intelligenti; ma è l'incredibile follia dei Sahib che ha creato i boeri. I Sahib avrebbero dovuto mandare noi a combattere. Ma i Durro Mut fecero un buon lavoro. Si occuparono accuratamente di tutto quel paese lì attorno - certo non come avremmo fatto noi dell'Indostan, ma non erano del tutto sprovveduti. Una notte, mentre eravamo accampati al freddo sulla cima di una cresta, vidi in lontananza una luce in una casa accendersi per la sesta parte di un'ora e poi spegnersi. Quasi subito riapparve, tre volte per la dodicesima parte di un'ora. Lo feci notare a Kurban Sahib, poiché si trattava di una casa che era stata risparmiata - in quanto i suoi abitanti erano muniti di molti permessi e avevano giurato fedeltà attaccati alle cinghie delle nostre staffe. Dissi a Kurban Sahib: "Manda mezzo squadrone, Figlio, e distruggi quella casa. Fanno dei segnali ai loro compari". Egli rise, rimanendo sdraiato e disse: "Se ascoltassi il mio portatore Umr Singh, non resterebbero dieci case in tutto il paese". Io dissi: "A cosa serve lasciarne una? Qui è lo stesso che in Birmania. Oggi sono agricoltori e domani combattenti. Trattiamoli come si meritano". Egli rise e si avvolse nella coperta, e io rimasi a guardare la luce lontana nella casa fino all'alba. Ho partecipato a otto guerre sul Confine, senza contare la Birmania. La prima guerra afghana; la seconda guerra afghana; due guerre contro i Mahsud Waziri (e sono quattro); due guerre della Montagna Nera, se ricordo bene; il Malakand e il Tirah. Non conto la Birmania, o altre cosette dei genere. So quando vengono inviati segnali da una casa all'altra! Scossi Sikandar Khan con il piede, e vide anch'egli la luce. Disse: "In quella casa laggiù abita uno dei boeri che hanno portato le zucche per il rancio, quelle che ho fritto ieri sera". Io dissi: "Come fai a saperlo?", gli chiesi. Lui disse: "Perché si è allontanato dal campo in un'altra direzione, ma ho notato che al bivio il cavallo gli resisteva, e prima che facesse buio sono uscito alla chetichella dal campo per la preghiera serale con il binocolo di Kurban Sahib, e da una collinetta ho visto il cavallo pezzato del venditore di zucche che si affrettava verso quella casa". Non dissi nulla, ma presi il binocolo di Kurban Sahib dalle sue mani unte e lo pulii con un fazzoletto di seta per riporlo nella sua custodia. Sikandar Khan mi disse di essere stato il primo uomo nella valle dello Zenab a usare il binocolo - grazie ad esso aveva concluso in maniera pulita due faide nel corso di una licenza di tre mesi. Ma a parte questo era un bugiardo. Quel giorno Kurban Sahib, con una decina di cavalleggeri, venne mandato in avanscoperta a esplorare il terreno dove avremmo dovuto accamparci. I Durro Mut si muovevano lentamente, allora. Erano appesantiti dal grano, dal foraggio e dai carri, e avevano una gran voglia di lasciare tutte quelle cose in qualche città e proseguire leggeri verso altre faccende più urgenti. Perciò Kurban Sahib andò alla ricerca di una scorciatoia per loro, un poco discosta dalla linea di marcia. Precedevamo il grosso della truppa di dodici miglia, e giungemmo in prossimità di una casa ai piedi di una grossa collina ricoperta di cespugli, con un nullah, che loro chiamano donga, sul retro, e un vecchio sangar di sassi ammucchiati l'uno sull'altro, che chiamano kraal, sul davanti. Ai lati della porta crescevano due arbusti spinosi, simili a cespugli di babul, e coperti di fiori dal colore dorato, e il tetto era interamente di paglia. Davanti alla casa si apriva una valle pietrosa che saliva fino a un'altra collina ricoperta di arbusti. Sulla veranda c'era un vecchio - un vecchio con la barba bianca e una verruca sul lato sinistro del collo; e una donna grassa con gli occhi di un maiale e la pappagorgia di un maiale; e un giovane alto e ritardato. Costui aveva la testa pelata, non più grossa di un'arancia, e le narici rosicchiate da una malattia. Rideva e sbavava e saltellava giocosamente davanti a Kurban Sahib. L'uomo portò del caffè e la donna ci mostrò i purwana rilasciati da tre generali-Sahib, i quali attestavano che era gente pacifica e di buona volontà. Ecco qui i purwana, Sahib. Forse il Sahib conosce i generali che li hanno firmati? I due giurarono che da quelle parti non c'erano boeri. Alzarono la mano destra e giurarono. Era quasi l'ora del pasto serale. Io mi trovavo accanto alla veranda con Sikandar Khan, che stava fiutando l'aria come uno sciacallo che abbia perso una traccia. Alla fine mi afferrò per un braccio e disse: "Guarda laggiù! Il sole batte sulla finestra della casa che la notte scorsa mandava segnali. Questa casa può vedere quell'altra", e guardò la collina alle nostre spalle, tutta irsuta di arbusti, e aspirò il fiato tra i denti. Allora l'idiota dalla testa rattrappita si mise a ballare accanto a me gettando indietro la testa, e guardò il tetto e rise come una iena, e la donna grassa parlò ad alta voce, come per coprire un rumore. Dopodiché mi recai sul retro della casa con il pretesto di prendere dell'acqua per il tè, e vidi escrementi freschi di

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cavallo sul terreno, e impronte recenti di zoccoli; e una cartuccia che era caduta nello sterco. Allora Kurban Sahib mi chiamò nella nostra lingua, dicendo: "È un buon posto per fare il tè?". Ed io risposi, sapendo cosa intendeva: "Ci sono troppi cuochi in cucina. Monta a cavallo e vai, Figlio". Poi tornai e lui disse, sorridendo alla donna: "Prepara la cena, e quando avremo sciolto le cinghie delle selle verremo in casa a mangiare"; ma ai suoi uomini disse sottovoce: "In sella e via!". No. Non puntò il fucile contro il vecchio o la donna grassa. Non era il suo modo di fare. Qualche stupido di Durro Mut, spinto dalla fame, alzò la voce per discutere l'ordine di fuggire, e prima che fossimo montati in sella iniziarono a partire colpi dal tetto - da fucili infilati nella paglia. Fuggimmo al galoppo attraverso la valle di pietre, mentre ci sparavano addosso dal nullah dietro la casa, dalla collina dietro al nullah, e anche dal tetto della casa - così tanti colpi che pareva un rullo di tamburo tra le colline. Allora Sikandar Khan, che cavalcava piegato sulla sella, disse: "Questo trattamento non è solo per noi, ma anche per il resto dei Durro Mut", e io dissi: "Zitto! Stai al tuo posto!" perché il suo posto era dietro di me, come io cavalcavo dietro a Kurban Sahib. Ma questi nuovi proiettili trapassano cinque uomini in fila! Non fummo colpiti - nessuno di noi - e raggiungemmo la collina rocciosa e ci spargemmo tra i sassi, e Kurban Sahib si voltò sulla sella e disse: "Guarda il vecchio!". Era in piedi sulla veranda e sparava rapidamente con un fucile; la donna era accanto a lui e anche l'idiota - entrambi con un fucile. Kurban Sahib rise, e io lo afferrai per il polso, ma... il suo destino si compì in quell'istante. Il proiettile passò sotto la mia ascella e lo raggiunse al fegato, e io lo trascinai tra due grandi rocce inclinate - Kurban Sahib, il mio Kurban Sahib! Dal nullah dietro la casa e dalle colline vennero fuori i nostri boeri, più di un centinaio, e Sikandar Khan disse: "Adesso è chiaro il senso dei segnali di questa notte. Dammi il fucile". Prese il fucile di Kurban Sahib - in questa guerra di sciocchi soltanto i medici portano la spada - e si distese sul ventre per mettersi all'opera, ma Kurban Sahib si voltò e disse: "Stai buono. È una guerra di Sahib", e Kurban Sahib alzò la mano così; poi i suoi occhi si rivolsero a me, e io gli diedi dell'acqua perché il trapasso potesse avvenire più in fretta. E bevendo il suo Spirito ricevette il permesso... Così andò la nostra battaglia, Sahib: noi Durro Mut eravamo su una cresta che si estendeva da nord a sud, dove si trovava il grosso delle nostre truppe, mentre i boeri erano in una valle che andava da est a ovest. Erano più di cento, e i nostri uomini dieci, ma bloccarono i boeri nella valle percorrendo rapidamente la cresta verso sud. Io vidi tre boeri uscire allo scoperto. Poi si nascosero nuovamente tutti e aprirono un fuoco intenso contro le rocce che riparavano i nostri; i quali però erano intelligenti e non si esposero, ma continuarono ad allontanarsi in direzione sud; e anche il rumore della battaglia si ritirò verso sud, dove potevamo udire il rombo di grossi cannoni. Così divenne buio pesto, e Sikandar Khan trovò una vecchia e profonda tana di sciacallo tra le rocce, dove infilammo il corpo di Kurban Sahib in piedi. Sikandar Khan prese il binocolo; io presi il suo fazzoletto, alcune lettere e una certa cosa che sapevo gli pendeva dal collo, e Sikandar Khan è testimone che avvolsi tutto nel fazzoletto. Poi facemmo insieme un giuramento, e giacemmo immobili e piangemmo per Kurban Sahib. Sikandar Khan pianse fino al sorgere del sole - anche lui, un Patban, un maomettano! Per tutta la notte sentimmo sparare verso sud, e quando fece giorno la valle era piena di boeri sui carri e a cavallo. Si radunarono davanti alla casa, come potemmo vedere con il binocolo di Kurban Sahib, e il vecchio, che presumo fosse un prete, li benedì e predicò la guerra santa, agitando le braccia; la donna grassa portò del caffè, mentre l'idiota faceva capriole in mezzo a loro e baciava i cavalli. Ripartirono quasi subito in gran fretta; raggiunsero le colline e non li vedemmo più; allora uno schiavo negro uscì dalla casa e lavò la soglia con acqua limpida. Sikandar Khan vide con il binocolo che si trattava di una macchia di sangue, e rise, dicendo: "Lì ci sono dei feriti. Possiamo ancora vendicarci". Verso mezzogiorno vedemmo una colonna di fumo alta e sottile, come di una casa che brucia nel sole, levarsi a sud; e Sikandar Khan, che sa rilevare una posizione oltre una collina, disse: "Finalmente abbiamo bruciato la casa dei venditore di zucche da dove sono partiti i segnali". E io dissi: "A che serve, ora che hanno ucciso mio figlio? Lasciami piangere". Il fumo era alto, e il vecchio, come vidi, uscì sulla veranda a guardarlo, e agitò i pugni in quella direzione. Così restammo lì fino al tramonto, senza cibo né acqua, perché avevamo fatto voto di non mangiare né bere finché non avessimo concluso la faccenda. A me era rimasto un po' di oppio, e feci a metà con Sikandar Khan, perché amava Kurban Sahib. Quando fu completamente buio affilammo le sciabole su una certa pietra tenera che, se bagnata con dell'acqua, affila bene l'acciaio; poi ci togliemmo gli stivali e scendemmo alla casa, e guardammo dentro le finestre senza far rumore. Il vecchio era seduto e leggeva un libro; la donna sedeva accanto al focolare; e l'idiota era accoccolato sul pavimento con il capo appoggiato al ginocchio della donna, e si contava le dita e rideva, e anche la donna rideva. Seppi così che erano madre e figlio, e risi anch'io, perché l'avevo sospettato nel pretendere da Sikandar Khan la vita e il corpo della donna, mentre discutevamo la spartizione del bottino. Poi entrammo con le spade sguainate... Davvero questi boeri non intendono l'acciaio, perché il vecchio si precipitò verso un fucile in un angolo; ma Sikandar Khan gli impedì di raggiungerlo vibrandogli un colpo sulle mani con il piatto della sciabola, e l'uomo tornò a sedersi e alzò le braccia, e io mi portai un dito alle labbra per far capire che dovevano restare in silenzio. Ma la donna gridò, e qualcuno si mosse in una stanza interna; poi si aprì una porta, e un uomo con il capo fasciato di stracci rimase scioccamente sulla soglia, armeggiando con un fucile. La sua testa cadde all'interno della porta, e nessuno lo seguì. Era stato un gran bel colpo... per un Pathan. I tre rimasero a fissare in silenzio la testa sul pavimento, e io dissi a Sikandar Khan: "Vai a prendere delle corde! Nemmeno per Kurban Sahib insozzerò la mia spada". Così egli uscì, e tornò con tre lunghe corde di cuoio, dicendo: "Dentro ci sono quattro feriti, e senza dubbio ognuno di loro ha un permesso firmato da qualche generale", e distese le corde ridendo. Allora legai le mani del vecchio dietro la schiena, e lo stesso feci con l'idiota - benché malvolentieri, perché continuava a ridermi in faccia e cercava di toccarmi la barba. Al che la donna con gli occhi porcini e la pappagorgia pure balzò in avanti, e Sikandar Khan disse: "La colpisco o la lego? È roba tua, secondo la spartizione". E io dissi: "Fermo! Ho io la catena per tenerla. Apri la porta". Spinsi fuori i due attraverso la veranda,

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dove l'ombra degli arbusti era più fitta, e la donna mi seguì in ginocchio e si gettò a terra, stringendomi gli stivali e urlando. Poi Sikandar Khan portò fuori la lampada, dicendo che era un maggiordomo e avrebbe illuminato la tavola, e io cercai un ramo in grado di sostenere dei frutti. La donna però mi infastidiva parecchio con i suoi strilli e i suoi slanci, e parlava in fretta nella sua lingua, e io le risposi nella mia: "Io ho perduto un figlio, stanotte, a causa della tua perfidia, e mio figlio era lodato dagli uomini e amato dalle donne. Egli avrebbe generato uomini... non bestie. A te restano più anni da vivere che a me, ma il mio dolore è più grande". Mi chinai per assicurare il cappio al collo dell'idiota, e gettai l'estremità della fune sul ramo, mentre Sikandar Khan alzava la lampada affinché lei vedesse bene. Allora apparve improvvisamente, un po' oltre il cerchio di luce proiettato dalla lampada, lo spirito di Kurban Sahib. Si teneva una mano sul fianco, proprio dove l'aveva colpito il proiettile, e tese l'altra in avanti, così, e disse: "No. È una guerra di Sahib". Io dissi: "Aspetta un momento, Figlio, e dormirai". Ma lui venne più vicino, cavalcando, per così dire, fin sotto i miei occhi, e ripeté: "No. È una guerra di Sahib". Allora Sikandar Khan mi chiese: "È troppo pesante?", e posò la lampada per venirmi in aiuto; ma, mentre si voltava per afferrare la corda, lo spirito di Kurban Sahib si levò a meno di un braccio da noi, mostrando un viso molto adirato, e per la terza volta disse: "No. È una guerra di Sahib". Poi un soffio di vento spense la lampada e udii i denti di Sikandar Khan battere forte. Così restammo uno accanto all'altro, le corde in mano, per molto tempo, poiché non riuscivamo a proferire parola. Poi udii Sikandar Khan aprire la sua borraccia e bere; e quando ebbe estinto la sete, mi passò la borraccia dicendo: "Siamo sciolti dal nostro giuramento". Così bevvi anch'io, e insieme attendemmo l'alba nel posto in cui eravamo... sempre reggendo le corde. Un po' dopo il terzo canto del gallo udimmo a parecchia distanza il rumore di zoccoli di cavalli e di ruote di cannoni, e non appena ci fu un poco di luce una granata esplose sulla soglia della casa, e il tetto della veranda, che era ricoperto di paglia, sprofondò e prese fuoco davanti alle finestre. Io dissi: "Cosa sarà dei boeri feriti là dentro?". E Sikandar Khan disse: "Abbiamo sentito l'ordine. È una guerra di Sahib. Non muoverti". Quindi arrivò una seconda granata - buon tiro, ma corto - e ci coprì di polvere nel posto in cui eravamo; poi giunse una decina di quei proiettili piccoli e veloci, da quel fucile che parla come un balbuziente - sì, pompom lo chiamano i Sahib - e la facciata della casa si piegò in giù come il naso e il mento di un vecchio che biascica, e il davanti della casa si adagiò. Allora Sikandar Khan disse: "Se è destino che i feriti muoiano nel fuoco, non sarò certo io a impedirlo". E andò sul retro della casa, per ritornare quasi subito seguito da quattro boeri feriti, due dei quali non potevano camminare diritti. Io dissi: "Cos'hai fatto?". E lui disse: "Non gli ho parlato né li ho toccati. Mi seguono sperando nella misericordia". E io dissi: "È una guerra di Sahib. Che aspettino la misericordia dei Sahib". Così giacquero immobili, i quattro uomini e l'idiota, e la donna grassa sotto l'arbusto spinoso, mentre la casa bruciava furiosamente. Poi iniziò il ben noto scoppiettìo delle cartucce nascoste nel sottotetto - dapprima una o due, poi una vibrazione e infine un gran frastuono; la paglia volò di qua e di là, e i prigionieri avrebbero voluto strisciare via per il calore che stava facendo avvizzire gli arbusti, e per le assi e i mattoni che volavano da tutte le parti. Ma io dissi: "Sopportate! Sopportate! Siete Sahib, e questa è una guerra di Sahib, O Sahib. Non v'è alcun ordine per il quale possiate abbandonare questa guerra". Loro non capirono le mie parole. Tuttavia sopportarono e vissero. Di lì a poco arrivarono cinque cavalleggeri del comando di Kurban Sahib, di cui uno che conoscevo parlava la nostra lingua, avendo navigato spesso fino a Calcutta con i cavalli. Così gli raccontai tutta la storia, usando il linguaggio del bazaar in modo che un Sahib del suo tipo potesse comprendermi; e alla fine dissi: "Ci è giunto un ordine dai morti che questa è una guerra di Sahib. Chiamo a testimone l'anima del mio Kurban Sahib che consegno alla giustizia dei Sahib questi Sahib che mi hanno privato del figlio". Poi gli diedi le corde e caddi al suolo privo di sensi, poiché il mio cuore era pieno ma la pancia vuota, tranne che per quel poco di oppio. Mi misero su un carro insieme a uno dei loro feriti, e dopo un po' capii che avevano combattuto contro i boeri per due giorni e due notti. Era tutta una grande trappola, Sahib, di cui noi, con Kurban Sahib, non vedemmo che il margine esterno. Erano molto arrabbiati, i Durro Mut - davvero molto arrabbiati. Non ho mai visto dei Sahib così arrabbiati. Seppellirono il mio Kurban Sahib con i riti della sua fede in cima alla cresta che dominava la casa; io recitai le preghiere della mia fede, e Sikandar Khan pregò a modo suo e rubò cinque candele da segnalazione, che hanno tre stoppini ciascuna, e illuminò la tomba come se fosse stata la tomba di un santo il venerdì. Pianse molto amaramente per tutta la notte, ed io con lui. A un certo punto mi afferrò i piedi e mi supplicò di dargli un ricordo di Kurban Sahib. Così divisi in parti uguali uno dei fazzoletti di Kurban Sahib - non quelli di seta, poiché glieli aveva donati una certa donna - e gli diedi anche un bottone di una giubba e un anellino di metallo senza alcun valore che Kurban Sahib usava come portachiavi; ed egli li baciò e se li infilò nel petto. Il resto ce l'ho in questo piccolo fagotto; devo ancora ritirare il bagaglio all'hotel di Città del Capo - quattro camicie che mandammo a lavare e non facemmo in tempo a ritirare prima di partire per l'interno - e consegnare tutto al mio Sahib-colonnello a Sialkot, nel Punjab. Perché mio figlio è morto... il mio baba è morto!... Sarei venuto via prima; non c'era bisogno che rimanessi, dato che mio figlio era morto; ma eravamo lontani dalla ferrovia e i Durro Mut erano come fratelli per me; inoltre ero arrivato a considerare Sikandar Khan come una sorta di amico; lui mi procurò un cavallo, ed io cavalcai insieme a loro in lungo e in largo; ma la vita se n'era andata. Dio solo sa come mi chiamavano - attendente, chaprassi (messaggero), cuoco, spazzino - non lo sapevo e nemmeno mi importava. Una volta però ebbi una soddisfazione. Dopo un mese di ampi giri tornammo in quella stessa valle. Io ne conoscevo ogni pietra e salii fino alla tomba; lì un arguto Sahib dei Durro Mut (avevamo lasciato uno squadrone per una settimana, affinché desse una lezione a quella gente dei purwana) aveva inciso un'iscrizione su una grande roccia, e

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me la spiegarono: era uno scherzo che sarebbe piaciuto allo stesso Kurban Sahib. Oh! Ho qui l'iscrizione, trascritta a dovere. Leggila ad alta voce, Sahib, ed io ti spiegherò gli scherzi. Ce ne sono due molto belli. Inizia, Sahib: In Memoria di WALTER DECIES CORBYN Defunto Capitano 141° Cavalleria del Punjab Cioè il Gurgaon Rissala. Continua, Sahib. Proditoriamente ucciso qui vicino dalla Connivenza del defunto HENDRIK DIRK UYS Un Ministro di Dio Che tre volte fece giuramento di neutralità E Piet suo figlio, Questa piccola opera Aha! Questo è il primo scherzo. Il Sahib dovrebbe vedere questa piccola opera! Fu realizzata a parziale E inadeguato riconoscimento della perdita subita Da alcuni che lo amarono Si monumentum requiris circumspice. Questo è il secondo scherzo. Significa che chi desiderasse vedere un monumento adeguato a Kurban Sahib, dovrebbe guardare la casa. E, Sahib, la casa non c'è più, né il pozzo, né il grosso serbatoio che loro chiamano diga, né gli alberelli da frutto, né il bestiame. Non c'è più nulla, Sahib, tranne i due alberi avvizziti dal fuoco. Il resto è come il deserto qui... o come la mia mano... o il mio cuore. Vuoto, Sahib.. tutto vuoto! «DYMCHURCH FLIT» All'imbrunire una pioggerella settembrina cominciò a cadere sui raccoglitori di luppolo. Le madri spinsero le carrozzelle molleggiate fuori dei giardini; i cesti furono ritirati e i registri compilati. Le giovani coppie si avviarono senza fretta verso casa, due sotto ogni ombrello, e gli uomini soli le seguirono ridendo. Dan e Una, che erano stati a raccogliere dopo le lezioni, andarono ad arrostire le patate al forno, dove il vecchio Hobden passava tutto il mese a essiccare il luppolo insieme a Bess dagli occhi azzurri, la sua cagna bastarda . Come al solito, i bambini si sistemarono davanti al forno sulla branda coperta di sacchi e, quando Hobden tirò su la saracinesca, fissarono, come al solito, lo strato di braci senza fiamma da cui il calore saliva per l'oscuro condotto dell'antiquata finestra circolare. Lentamente, il vecchio tritò altri pezzi di carbone, li ammucchiò, con dita che non temevano il caldo, esattamente dove sarebbero serviti di più; lentamente tastò dietro di sé, finché Dan non fece scivolare le patate nel mestolo di ferro della sua mano; le dispose con cura intorno al fuoco, e poi rimase fermo un istante, una sagoma scura contro il bagliore. Quando richiuse la saracinesca, sembrò che nella stanza fossero calate le tenebre innanzi tempo, ed egli accese la candela nella lanterna. Ai bambini piacevano tutte queste cose perché erano così familiari. Il Ragazzo delle Api, figlio di Hobden, che non è del tutto sano di mente, benché sappia fare qualsiasi cosa con le api, entrò furtivo come un'ombra. I bambini se ne accorsero solo quando Bess, accanto a loro, dimenò la coda tronca. Fuori nella pioggerella una voce possente iniziò a cantare: "La vecchia Madre Laidinwool era morta da quasi dodici mesi, sentì che il luppolo prometteva bene, e allora cacciò fuori la testa. "Non può esserci che una persona capace di urlare così!", esclamò il vecchio Hobden, girandosi. Perché, dice lei, "I ragazzi coi quali ho raccolto quando ero giovane e bella, Devono essere alla raccolta, ed io sono...". Un uomo apparve sulla soglia. "Bene, bene! Dicono che la raccolta dei luppolo faccia resuscitare anche i morti, e ora ci credo. Sei proprio tu, Tom? Tom Shoesmith?". Hobden abbassò la lanterna.

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"Ce ne metti di tempo a deciderti, Ralph!". Lo sconosciuto entrò a grandi passi: era alto quasi dieci centimetri più di Hobden, un gigante dal volto bruno, i favoriti grigi e gli occhi azzurri e luminosi. I due si strinsero la mano, e i bambini poterono udire i ruvidi palmi sfregare l'uno contro l'altro. "La tua stretta è ancora vigorosa come un tempo", disse Hobden. "Sono passati trenta o quarant'anni, da quando mi rompesti la testa alla Fiera di Peasmarsh?". "Solo trenta, e in quanto a teste siamo pari. Tu mi rendesti la cortesia con un palo per il luppolo. Come tornammo a casa quella notte? A nuoto?". "Nello stesso modo in cui i fagiani finiscono nella tasca di Gubbs... con un po' di fortuna e un pizzico di magia". Il vecchio Hobden rise dal profondo del petto. "Vedo che non hai dimenticato la via dei boschi. Ti servi ancora di questo?". Lo sconosciuto fece il gesto di puntare un fucile. Hobden rispose con un rapido movimento della mano, come se stesse fissando a terra i lacci per i conigli. "No. Questo è tutto ciò che mi resta ormai. L'età è quella che è. E cosa mi dici di te, dopo tutti questi anni?". "Oh, son stato a Plymouth, son stato a Dover / Sono stato in giro, ragazzi, per il mondo intero", rispose l'uomo allegramente. "Credo di saperne più di chiunque altro, sulla Vecchia Inghilterra". Si girò verso i bambini e strizzò l'occhio baldanzosamente. "Allora scommetto che ti hanno raccontato un sacco di bugie. Io in Inghilterra sono arrivato fino a Wiltshire, una volta. E mi sono preso una bella fregatura con un paio di guanti da potare", disse Hobden. "Le bugie si raccontano dappertutto. Tu sei sempre rimasto abbastanza attaccato alle tue zone, Ralph". "Non si può spostare un vecchio albero senza farlo morire", disse Hobden con un ghigno. "E io non sono più impaziente di morire di quanto tu non sembri disposto a darmi una mano con il luppolo, stasera". Il gigante si appoggiò alla cornice di mattoni della finestra circolare e spalancò le braccia. "Impiegami!", fu tutto ciò che disse, e i due salirono al piano superiore con andatura pesante e ridendo. I bambini udirono le loro pale raspare sul telo dove il giallo luppolo asciugava al calore della fiamma, e l'intero forno si riempì del suo odore dolce e soporifero mentre veniva rivoltato. "Chi è?", sussurrò Una al Ragazzo delle Api. "Non so, non più di voi... se voi non sapete", disse lui, e sorrise. Dall'essiccatoio giungevano le voci dei due che discorrevano e ridacchiavano insieme, muovendosi avanti e indietro con passi pesanti. Di lì a poco un sacco scese attraverso il foro della pressa, in alto sulle loro teste, e si irrigidì e si gonfiò mentre i due lo riempivano a palate. "Clang!", fece la pressa, e ridusse la soffice materia in un solido pane. "Piano!", udirono Hobden gridare. "Gli farai scoppiare il gozzo, se spingi così. Sei sbadato come il toro di Gleason, Tom. Vieni a sederti accanto al fuoco. Farà tutto lei, ora". I due scesero, e mentre Hobden apriva la saracinesca per vedere se le patate erano cotte, Tom Shoesmith disse ai bambini: "Metteteci sopra un bel po' di sale. Vi mostrerò che razza d'uomo sono io". Strizzò di nuovo l'occhio, e di nuovo il Ragazzo delle Api rise e Una fissò Dan. "So io che razza di uomo sei", brontolò il vecchio Hobden, cercando con le mani le patate nel fuoco. "Davvero?", proseguì Tom alle sue spalle. "Alcuni di noi non possono sopportare i Ferri di Cavallo, le Campane delle Chiese o l'Acqua Corrente; e, a proposito di acqua corrente", si girò verso Hobden che stava indietreggiando davanti alla finestra circolare, "ti ricordi della grande piena a Robertsbridge, quando il garzone del mugnaio annegò nella strada?" "Abbastanza bene". Il vecchio Hobden si lasciò cadere sul mucchio di carbone accanto allo sportello del ferro. "Corteggiavo la mia donna nel Marsh, quell'anno. Ero carrettiere per Mastro Plum, a dieci scellini la settimana. La mia era una donna della Palude". "Un luogo davvero strano, Romney Marsh, disse Tom Shoesmith. Ho sentito dire che il mondo è diviso in Europa, Asia, Africa, America, Australia e la Romney Marsh". "Così crede la gente del Marsh", disse Hobden. "Io feci un sacco di fatica a convincere la mia donna a venir via". "Di dov'era? L'ho dimenticato, Ralph". "Di Dymchurch sotto la Diga", rispose Hobden, con una patata in mano. "Allora dovrebbe essere una Pett... o una Whitgift, no". "Una Whitgift". Hobden spezzò la patata e la mangiò con la curiosa abilità degli uomini che consumano la maggior parte dei pasti all'aperto. "Divenne abbastanza normale dopo aver vissuto per un po' nel Weald, ma i primi vent'anni o giù di lì fu abbastanza strana, te l'assicuro. E ci sapeva fare meravigliosamente con le api". Tagliò via un pezzetto di patata e lo gettò verso la porta. "Ah! Ho sentito dire che i Whitgift avevano il dono della chiaroveggenza", disse Shoesmith. "Era così anche lei?" "Lei era innocente e inesperta di qualsiasi stregoneria", disse Hobden. "Leggeva solo il futuro nel volo degli uccelli, nella caduta delle stelle, nello sciamare delle api e cose del genere. E rimaneva sveglia la notte... ad ascoltare le voci, diceva". "Questo non prova niente", disse Tom. "Tutti quelli del Marsh sono contrabbandieri da tempo immemorabile. Doveva avercelo nel sangue di rimanere in ascolto la notte".

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"Naturalmente", rispose il vecchio Hobden, sorridendo. "Mi ricordo di quando il contrabbando si faceva molto più vicino a noi che al Marsh. Ma questo non riguardava la mia donna. Erano tutti i discorsi senza senso che faceva", abbassò la voce, "sulle Fate". "Sì. Ho sentito dire che la gente del Marsh ci crede". Tom guardò in faccia i bambini che ascoltavano con gli occhi spalancati, accanto a Bess. "Fate?", esclamò Una. "Oh, capisco!". "Il Popolo delle Colline", disse il Ragazzo delle Api, gettando metà della sua patata verso la porta. "Ecco!", disse Hobden, indicando il figlio. "Il mio ragazzo ha gli stessi occhi e la stessa sensibilità particolare della madre. Così le chiamava lei!". "E tu cosa pensavi di tutto questo?" "Um-um", brontolò Hobden. "Un uomo che frequenta i campi e i boschi dopo il tramonto come li ho frequentati io non si allontana dal suo cammino se non per evitare il guardiacaccia". "Ma, a parte questo?", disse Tom, in tono persuasivo. "Proprio ora ti ho visto gettare il Pezzo Buono fuori della porta. Ci credi o... no?" "C'era un grosso occhio nero in quella patata", disse Hobden indignato. "Il mio piccolo occhio non l'ha visto, allora. Sembrava che tu l'avessi fatto per... per Qualcuno che potesse averne bisogno. Ma, a parte questo, ci credi o... no?" "Io non dico niente, perché non ho sentito niente e non ho visto niente. Ma se tu intendi dire che dopo il tramonto nei boschi ci sono altre creature oltre agli uomini, agli animali da pelliccia, agli uccelli e ai pesci, non so se arriverei al punto di darti del bugiardo. Ora dimmi tu, Tom. Cosa ne pensi?" "La penso come te. Non dico niente. Ma ti racconterò una storia, e tu potrai trarne le conclusioni che vorrai". "Son tutte sciocchezze", brontolò Hobden, ma si caricò la pipa. "La gente del Marsh lo chiama l'Esodo di Dymchurch", proseguì Tom lentamente. "Ne hai sentito parlare?" "La mia donna me ne ha parlato centinaia di volte. Non so se finii per crederci anch'io... qualche volta". Così dicendo Hobden attraversò la stanza e andò ad accendere la pipa alla fiamma gialla della lanterna. Tom appoggiò il grosso gomito al grosso ginocchio, seduto sul mucchio di carbone. "Siete mai stati nel Marsh?", chiese a Dan. "Soltanto fino a Rye, una volta", rispose Dan. "Ah, quello è solo l'inizio. Oltre ci sono campanili che si mettono accanto alle chiese, e indovine che si mettono accanto alle porte di casa, e il mare che invade la terra, e anatre che si ammassano furiose nei fossi. Il Marsh è tutto un labirinto di fossi e canali, di cancelli che si aprono e si chiudono a seconda delle maree, e di emissari. Quando la marea vi entra si sentono gorgogliare e brontolare, e poi si sente il mare che corre a destra e a sinistra lungo tutta la Diga. Avete visto com'è piatto, il Marsh? Forse v'immaginate che nulla sia più facile di attraversarla a piedi da un'estremità all'altra? Ah, ma i fossati e gli emissari deviano continuamente le strade e le intricano come un filo stregato su un fuso. Così che uno si ritrova a girare in tondo in pieno giorno". "Questo avviene perché hanno prosciugato l'acqua nei fossi", disse Hobden. "Quando corteggiavo la mia donna i giunchi erano verdi - Ahimè! i giunchi erano verdi - e il Balivo delle Paludi scorrazzava libero come la nebbia". "Chi è?", chiese Dan. "Diamine, la febbre malarica del Marsh. Una volta o due mi ha battuto sulla spalla fino a farmi tremare per benino. Ma adesso il drenaggio delle acque ha eliminato la febbre; così è nato il detto che il Balivo delle Paludi si è rotto il collo in un fosso. Ed è anche un posto meraviglioso per le api e le anatre". "E antico", proseguì Tom. "L'uomo vi abita da tempo immemorabile. Bene, ora, detto tra noi, la gente del Marsh dice che da tempo immemorabile le Fate hanno favorito la Palude rispetto alle altre zone della Vecchia Inghilterra. Scommetto che quelli del Marsh ne sanno qualcosa. Sono stati in giro la notte, di padre in figlio, a contrabbandare una cosa o l'altra, da quando la lana cresce sul dorso delle pecore. Dicono che si è sempre visto un discreto numero di Fate nel Marsh. Sfacciate come conigli, erano. Danzavano sulle strade più esposte in pieno giorno; facevano lampeggiare le loro lucine verdi lungo i fossi, avanti e indietro come veri contrabbandieri. Sì, a volte, la domenica, chiudevano a chiave la porta delle chiese davanti al pastore e al sacerdote. - Quelli erano i contrabbandieri che mettevano al sicuro i merletti o l'acquavite in attesa di poterli far uscire dal Marsh. Glielo dicevo sempre, alla mia donna", disse Hobden. "Scommetto che lei non ci credeva, però, essendo una Whitgift. Il Marsh era un luogo stupendo per le Fate, a quanto si dice, finché non arrivò il padre della Regina Betta con le sue Riforme". "Sarebbero una specie di legge?", chiese Hobden. "Certo. Non si può fare nulla nella Vecchia Inghilterra senza leggi, autorizzazioni e mandati. Lui fece passare la sua legge, e dicono che il padre della Regina Betta usò le parrocchie in maniera vergognosa. A non so quante di loro cavò quasi lo stomaco. In Inghilterra, alcuni rimasero fedeli al vecchio credo, mentre altri cambiarono opinione; e finì che si formarono degli schieramenti e si bruciarono a vicenda senza alcun ritegno, a seconda della fazione che prevaleva di volta in volta. Ciò spaventò le Fate: poiché la benevolenza tra gli Uomini è cibo e bevanda per loro, mentre la malevolenza è veleno". "Proprio come le api", disse il Ragazzo delle Api. "Le api non rimangono presso una casa abitata dall'odio".

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"È vero", disse Tom. "Queste Riforme spaventarono le Fate come il mietitore che fa il giro dell'ultimo campo di grano spaventa i conigli. Si affollarono nel Marsh, provenienti da ogni parte, e dissero: "In un modo o nell'altro dobbiamo andarcene da qui, perché la Ridente Inghilterra non esiste più, e noi siamo relegati tra le Immagini"". "La pensavano tutti a quel modo?", chiese Hobden. "Tutti tranne uno che si chiamava Robin... non so se ne hai sentito parlare. Perché ridi?". Tom si girò verso Dan. "La preoccupazione delle Fate non riguardava Robin, perché lui si era abbastanza affezionato alla gente, sai. Inoltre non aveva mai pensato di lasciare la Vecchia Inghilterra - non lui; così fu mandato in cerca di aiuto tra gli Uomini. Ma gli Uomini pensano sempre ai loro interessi, e Robin non riuscì a mettersi in contatto con loro, capite? Credevano che fossero gli echi della marea lontano dal Marsh". "Che cosa volevi... cioè, che cosa volevano le Fate?", chiese Una. "Una barca, senza dubbio. Le loro piccole ali non ce l'avrebbero fatta ad attraversare la Manica, al pari di tante farfalle stanche. Desideravano una barca e un equipaggio che li portassero in Francia, dove la gente non aveva ancora distrutto le Immagini. Non potevano sopportare le crudeli Campane di Canterbury che risuonavano fino a Bulverhithe per altri poveretti condannati al rogo, né l'altero nunzio del Re che percorreva a cavallo il paese ordinando di distruggere le Immagini. Non potevano sopportarlo in alcun modo. Tuttavia non potevano procurarsi la barca e l'equipaggio con cui lasciare il paese senza il Permesso e l'Approvazione degli Uomini; e gli Uomini andavano e venivano per i loro affari mentre il Marsh brulicava, e brulicava di Fate provenienti da tutta l'Inghilterra, che si sforzavano in tutti i modi di mettersi in contatto con gli Uomini per comunicare la loro dolente necessità... Non so se hai mai sentito dire che le Fate sono come i polli". "Lo diceva anche la mia donna", disse Hobden incrociando le braccia brune. "È vero. Se allevi troppi polli assieme, il terreno si ammala, sai, e va a finire che i polli ti muoiono". Lo stesso avviene se le Fate si ammassano tutte in un luogo - non muoiono, ma gli Uomini che si muovono tra di loro sono soggetti ad ammalarsi e a morire di consunzione. Loro non ne hanno l'intenzione, e gli Uomini non lo sanno, ma questa è la verità - come ho sentito io. Le Fate, a forza di essere stipate e spaventate, e di cercare di farsi intendere con le loro suppliche, cambiarono naturalmente l'umore e lo spirito degli Uomini. Il fenomeno si abbatté sul Marsh come un tuono. La gente vide le proprie chiese risplendere di fuochi greci alle finestre dopo il tramonto; vide il bestiame disperdersi senza che nessuno lo spaventasse; vide le pecore riunirsi in gregge senza che nessuno le spingesse; vide i cavalli coprirsi di schiuma senza che nessuno li conducesse per la briglia; vide più che mai le lucine verdi e basse sul ciglio dei fossi; udì più che mai lo scalpiccio dei piedini attorno alle case; e notte e giorno, giorno e notte, era sempre come se venisse avvicinata e chiamata furtivamente da Qualcuno che non riusciva ad esprimere adeguatamente il proprio tormento. Oh, se penavano! Uomini e fanciulle, donne e bambini, la natura non fece loro alcun favore, in tutte le settimane che il Marsh brulicò di Fate. Ma erano Uomini, e gente del Marsh innanzi tutto. Credevano che quei fenomeni significassero guai per la Palude. O che il mare si sarebbe levato contro la Diga di Dymchurch e loro sarebbero stati sommersi come l'antica città di Winchelsea; che stesse arrivando la Peste. Così ne cercarono il senso nel mare o nelle nuvole - lontano e in alto. Non pensarono assolutamente di guardare vicino e in basso, dove non riuscivano a vedere nulla. "Ora, a Dymchurch sotto la Diga c'era una povera vedova che, trovandosi senza un uomo o delle proprietà, aveva più tempo per "sentire"; e riuscì a "sentire" che oltre la soglia di casa sua c'era un Travaglio più grande e più grave di qualsiasi cosa vi avesse mai portato lei. La donna aveva due figli: uno cieco dalla nascita e l'altro diventato muto in seguito a una caduta dalla Diga in tenera età. Erano uomini fatti, ma incapaci di guadagnarsi da vivere; e lei lavorava per loro, tenendo le api e rispondendo alle Domande". "Che tipo di domande?", chiese Dan. "Ad esempio, dove si possono trovare le cose perdute, o cosa mettere intorno al collo di un bambino deforme, o come unire gli amanti divisi. Lei avvertì il Travaglio che agitava il Marsh nello stesso modo in cui le anguille avvertono il tuono. Era un'indovina". "Anche la mia donna aveva un talento eccezionale per sentire il tempo", disse Hobden. "L'ho vista mandare scintille come un'incudine, quando si spazzolava i capelli durante un temporale. Ma non ha mai risposto alle Domande". "Questa donna era una Cercatrice, sai, e le Cercatrici talvolta trovano. Una notte, mentre era a letto accaldata e dolorante, venne un Sogno e bussò leggermente alla sua finestra, e "Vedova Whitgift", disse, "Vedova Whitgift!"". "Dapprima, per il frullo e i fischi, lei pensò che fossero pavoncelle, ma alla fine si alzò e si vestì, e aprì la porta sui Marsh, e sentì il Travaglio e il Mormorio tutto attorno a lei, forte come una febbre malarica, e chiamò: "Cos'è? Oh, cos'è?"". "Allora fu come se tutte le rane facessero capolino dai fossi; poi fu come se tutte le canne frusciassero nei fossi; e infine la grande onda della Marea brontolò lungo la Diga, e lei non poté sentire bene". "Tre volte chiamò, e tre volte l'onda della Marea la sopraffece. Ma lei colse un attimo di quiete e gridò: "Cosa significa il Travaglio nel Marsh, che in questo mese si è coricato con il mio cuore e si è levato con il mio corpo?". Sentì allora una manina afferrarle l'orlo della veste, e si chinò al tratto di quella manina". Tom Shoesmith aprì il pugno enorme davanti al fuoco sorrise rivolto ad esso mentre proseguiva. "Significa forse che il mare sommergerà il Marsh?", disse lei. Era innanzitutto una donna del Marsh. "No", disse la vocina. "Quanto a quello puoi dormire tranquilla". "Allora la Peste sta arrivando sul Marsh", disse lei. Erano gli unici mali che conosceva. "No. Quanto a quello puoi dormire tranquilla", disse Robin.

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"Lei si girò, con una mezza intenzione di rientrare in casa, ma le vocine proruppero così acute e addolorate che lei si girò di nuovo e gridò: "Se non è un Travaglio che riguarda gli Uomini, cosa posso fare?"". "Da tutto intorno le Fate gridarono di procurar loro una barca per andare in Francia e non ritornare più". "C'è una barca alla Diga", disse lei, "ma io non so spingerla fino al mare, né governarla una volta in acqua". "Prestaci i tuoi figli", dissero allora le Fate. "Dài loro il Permesso e l'Autorizzazione a governarla per noi, Madre - O Madre!". "Uno è muto e l'altro cieco", disse lei. "Ma non per questo mi sono meno cari; e voi li perderete in alto mare". Le voci quasi la trafissero; e c'erano anche voci di bambini. Lei tenne duro finché poté, ma a questo non poteva proprio resistere. Così disse: "Se riuscirete a convincere i miei figli a seguirvi, io non li tratterrò. Di più non potete chiedere a una Madre". "Allora vide le lucine verdi danzare e incrociarsi finché non le venne il capogiro; sentì lo scalpiccio di migliaia di piedini; udì le crudeli Campane di Canterbury risuonare fino a Bulverhithe, e la grande onda della Marea correre lungo la Diga. Ciò avvenne mentre le Fate operavano un incantesimo per destare i suoi due figli assopiti; e mentre lei si mordeva le dita, vide le due creature che aveva generato uscire di casa e passarle accanto senza nemmeno una parola. Li seguì, piangendo penosamente, fino alla vecchia barca sulla Diga, e loro la presero e la spinsero fino al mare". "Quando ebbero attrezzato l'albero e la vela, il figlio cieco disse: "Madre, attendiamo il tuo Permesso e Benestare per condurli a destinazione"". Tom Shoesmith gettò indietro il capo e socchiuse gli occhi. "Ahimè!", disse. "Era una donna bella e valorosa, la Vedova Whitgift. Stava in piedi a intrecciare le punte dei lunghi capelli tra le dita, e tremava come un pioppo nel prendere una decisione. Tutto intorno a lei le Fate soffocavano il pianto dei loro bambini e attendevano, ammutolite e immobili. Dipendeva tutto da lei. Senza il suo Permesso e Benestare non potevano partire; perché lei era la Madre. Per questo tremava come una foglia nel prendere la decisione. Infine si lasciò sfuggire la parola tra i denti, e "Andate!" disse. "Andate con il mio Permesso e Benestare"". "Allora vidi... cioè, dicono che dovette arretrare, proprio come se stesse avanzando a fatica nel flusso della marea, perché le Fate sciamarono oltrepassandola - lungo la spiaggia e fino alla barca, non so quante - con i mariti e i figli e tutti i beni, in fuga dalla Vecchia Inghilterra crudele. Si potevano udire gli argenti tintinnare, e minuscoli fagotti ricadere con un tonfo sulle assi del fondo, e fasci di minuscole spade e scudi risuonare, e minuscole dita di mani e di piedi sfregare sui fianchi della barca per salire a bordo, quando i due figli la spinsero in mare. La barca affondava sempre di più, ma tutto ciò che la Vedova riusciva a vedere erano i suoi ragazzi che si muovevano impacciati per arrivare al paranco. Poi issarono la vela e partirono, bassi come una chiatta di Rye, tra le nebbie verso il mare aperto, e la Vedova Whitgift si sedette e sfogò il proprio dolore fino alle luci dell'alba". "Non ho mai sentito dire che fosse completamente sola", disse Hobden. "Ora ricordo. Quello di nome Robin rimase con lei, dicono. Ma lei era troppo addolorata per dare ascolto alle sue promesse". "Ah! Avrebbe dovuto fare un patto prima. Gliel'ho sempre detto alla mia donna!", esclamò Hobden. "No. Lei prestò i propri figli come semplice pegno d'amore, poiché aveva avvertito il Travaglio nelle Paludi; e fu semplice benevolenza alleviarlo". Tom rise piano. "Questo fece. Sì, questo fece. Da Hithe a Bulverhithe, uomini e donne afflitte, fanciulle in pena e bimbi in pianto trassero vantaggio dal cambiamento che si verificò nell'aria non appena le Fate partirono. La gente apparve fresca e luminosa in tutto il Marsh, come chiocciole dopo la pioggia. E questo mentre la Vedova Whitgift sedeva afflitta sulla Diga. Avrebbe dovuto confidare in noi... avrebbe dovuto credere che i figli le sarebbero stati restituiti! Così, quando la barca riapparve dopo tre giorni, lei fu sopraffatta dall'agitazione". "E naturalmente i figli erano entrambi guariti?", disse Una. "No-o. Non sarebbe stato naturale. Li riebbe come li aveva prestati. Quello cieco non aveva visto niente, e quello muto, naturalmente, non poteva dire nulla di ciò che aveva visto. Credo sia stato per questo che le Fate scelsero loro per la traversata". "Ma tu... cioè Robin... cosa promise alla Vedova?", chiese Dan. "Cosa promise?", Tom finse di pensare. "La tua donna non era una Whitgift, Ralph? Non te l'ha mai detto?" "Mi disse un sacco di cose senza senso, quando nacque lui". Hobden indicò il figlio. "Mi disse che in famiglia ci sarebbe sempre stato uno con il dono della chiaroveggenza", "Io! Sono io quello!", disse il Ragazzo delle Api così all'improvviso che tutti risero. "Adesso ci sono!", esclamò Tom, dandosi una pacca sul ginocchio. "Finché fosse durato il sangue dei Whitgift, Robin promise che ci sarebbe sempre stato uno della sua stirpe che nessuna Pena avrebbe afflitto, nessuna Fanciulla avrebbe sospirato, nessuna Notte avrebbe impaurito, nessuna Paura avrebbe minacciato, nessuna Minaccia avrebbe indotto al peccato, e nessuna Donna avrebbe ingannato". "Be', non sono forse io?", disse il Ragazzo delle Api, seduto nel riquadro di luce argentea che la luna piena di settembre proiettava entro la porta del forno. "Sono le stesse parole che mi disse lei quando ci accorgemmo che non era come gli altri. Ma non capisco come tu faccia a conoscerle", disse Hobden. "Aha! C'è qualcos'altro sotto il mio cappello che non siano capelli?". Tom rise e si stirò. "Quando avrò accompagnato a casa questi due giovani, passeremo una serata a ricordare i vecchi tempi, Ralph, e a raccontarci vecchie storie... eh? E voi dove abitate?", disse in tono serio a Dan. "E credete che il vostro Papà mi offrirà un bicchiere per avervi accompagnato, signorina?".

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A queste parole i bambini ridacchiarono talmente che dovettero correre fuori. Tom li sollevò entrambi, se li caricò uno per parte sulle ampie spalle, e si avviò a passi pesanti attraverso il pascolo coperto di felci, dove le mucche spiravano verso di loro sbuffi di vapore latteo al chiaro di luna. "Oh, Puck! Puck! Ho indovinato che eri tu quando hai parlato del sale. Come hai fatto?", esclamò Una, dondolandosi deliziata. "Fatto cosa?", chiese lui, e salì il cavalcasiepe accanto alla quercia svettata. "A fingere di essere Tom Shoesmith", disse Dan, e chinarono il capo per evitare i due piccoli frassini che crescono accanto al ponte sul ruscello. Tom stava quasi correndo. "Sì. Questo è il mio nome, signorino Dan", disse, affrettandosi sul prato silenzioso e lucente, dove un coniglio sedeva accanto al biancospino presso il campo di croquet. "Eccovi arrivati". Entrò a grandi passi nel vecchio cortile della cucina, e li fece scivolare a terra mentre Ellen veniva a fare domande. "Sto aiutando mastro Spray al forno del luppolo", spiegò Tom. "No, non sono un forestiero. Conosco il paese da prima che vostra madre nascesse; e... sì, fa venir sete essiccare il luppolo, miss. Grazie". Ellen andò a prendere un boccale e i bambini entrarono in casa - ancora una volta sotto l'incantesirno della Quercia, del Frassino e del Biancospino! UNA DIMORA FORZATA Amico mio, se qualcosa ti tormenta Prima che follia ti opprima assai, Spingiti lontano da conoscenza alcuna Ove la campagna accoglierti possa... Ringrazia Iddio che così ti ha benedetto, E siediti, Robin, e riposa. Thomas Tusser La cosa avvenne senza preavviso, proprio quando la sua mano era protesa a schiacciare il cartello Holtz e Gunsberg. I medici di New York dissero che si trattava di troppo lavoro, ed egli giacque in una stanza buia, con una caviglia appoggiata sull'altra e la lingua premuta contro il palato, a chiedersi se la prossima ondata di roventi fitte al capo gli avrebbe sciolto l'anima da ogni ancoraggio. Infine i medici pronunciarono la sentenza. Se si fosse riguardato, in due anni avrebbe potuto ritornare in pista; ma per il momento doveva andarsene oltremare ed evitare qualsiasi forma di lavoro. Accettò le condizioni. Era una capitolazione; ma il Cartello che aveva tremato sotto la sua lama gli concesse tutti gli onori di guerra. Lo stesso Gunsberg, pieno di condoglianze, venne al piroscafo e riempì l'appartamento dei Chapin di ingombranti omaggi floreali. "Salsapariglia", disse George Chapin quando li vide. "Fitz ha ragione. Sono morto; solo non capisco perché abbia tralasciato la scritta "In memoriam" sui nastri!". "Sciocchezze!", rispose la moglie, e gli versò la medicina. "Ritornerai prima di quanto tu non creda". Lui si guardò allo specchio, meravigliandosi che il suo volto non apparisse segnato dalle sofferenze degli ultimi tre mesi. Il rumore sui ponti lo infastidì, e si distese, con la lingua appena premuta contro il palato. Un'ora dopo disse: "Sophie, mi dispiace di strapparti da tutto così. Io... io credo che stanotte non ci siano sulla terra due persone più sole di noi". Disse Sophie sua moglie, baciandolo: "Non conta per te il fatto che stiamo partendo insieme?". Vagarono per mesi attraverso l'Europa - talvolta da soli, talvolta in compagnia di vagabondi del loro paese incontrati per caso. Vagarono da Capo Nord alla Grotta Azzurra di Capri, perché il piroscafo successivo seguiva quella rotta, o perché qualcuno li aveva messi su quella strada. I medici avevano avvisato Sophie che Chapin non avrebbe dovuto interessarsi nemmeno di quello di cui si interessavano gli altri; ma una sensazione familiare alla nuca, dopo un'ora di accalorati discorsi con un magnate delle ferrovie di Nauheimed, le risparmiò qualsiasi disturbo. Suo marito scoppiò quasi in lacrime. "E ho superato la trentina", esclamò; "con tutto quello che volevo fare!". "Consideriamola una luna di miele", disse Sophie. "Sai, in questi sei anni di matrimonio non mi hai mai detto che cosa intendevi fare della tua vita". "La mia vita? A cosa serve? Ormai è finita". Sophie alzò rapidamente lo sguardo dalla Baia di Napoli. "Per quanto riguarda il mio lavoro, dovrò vivere di rendite, come quell'architetto di St. Moritz". "Se non ti preoccupi starai meglio; e anche se ci vuole tempo, ci sono cose peggiori che... Quanto hai da parte?" "Dai quattro ai cinque milioni. Ma non è il denaro. Lo sai che non si tratta di questo. È il principio. Come potresti avere rispetto di me? Non l'hai avuto, durante il nostro primo anno di matrimonio, finché non sono andato a lavorare come gli altri. La nostra tradizione e la nostra educazione non ammettono che uno non lavori. Non possiamo accettare altri ideali".

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"Be', immagino di averti sposato per qualche ideale", rispose lei, e tornarono al loro quarantatreesimo albergo. In Inghilterra sentirono la mancanza delle lingue straniere parlate nelle strade del continente, che ricordavano loro le città poliglotte dalle quali venivano. In Inghilterra tutti parlavano una sola lingua, di suono apparentemente simile all'americano, ma incomprensibile a un orecchio più attento. "Ah, ma voi non avete visto l'Inghilterra", disse loro una signora dai capelli grigio ferro. L'avevano incontrata a Vienna, Bayreuth e Firenze, e furono lieti di ritrovarla al Claridge's, poiché sapeva dominare le situazioni e conosceva i posti dove le ricette venivano preparate con maggior cura. "Dovreste interessarvi alla patria dei vostri antenati... come faccio io". "Ci ho provato per una settimana, signora Shonts", disse Sophie, "ma non sono riuscita a fare altro che dare mance ai camerieri tedeschi". "Quelli non sono il tipo autentico", proseguì la signora Shonts. "So io dove dovreste andare". Chapin drizzò le orecchie, smanioso di correre in qualsiasi posto, pur di fuggire dalle vie in cui uomini svelti e piuttosto simili a lui svolgevano quelle attività che a lui erano negate. "La ascoltiamo e siamo pronti a ubbidirle, signora Shonts", disse Sophie, avvertendo l'inquietudine del marito, intento a bere l'odiato tè inglese. La signora Shonts sorrise, e si occupò del loro caso. Scrisse e telegrafò a destra e a sinistra, finché, dopo averli armati di una lettera di presentazione, li mandò in quella landa desolata che si raggiunge da una botte di stazione chiamata Charing Cross. Dovevano andare a Rocketts - la fattoria di un certo Cloke, nelle contee meridionali - dove, li assicurò la donna, avrebbero trovato la genuina Inghilterra del folklore e delle canzoni. Trovarono Rocketts dopo alcune ore, a quattro miglia di distanza da una stazione e, da quello che poterono giudicare nell'oscurità di un sentiero sassoso e ineguale, almeno il doppio da una strada. Alberi, mucche, e i profili di granai si mostrarono indistinti attorno a loro quando scesero dalla carrozza, e i signori Cloke, sulla porta aperta di una profonda cucina con il pavimento in pietra, diedero loro un pacato benvenuto. Si sistemarono in un sottotetto dal soffitto ondulato e dipinto di bianco; siccome pioveva, venne acceso un fuoco di legna in un secchio di ferro sopra un focolare di mattoni, e i due si addormentarono allo squittìo dei topi e al mormorio lamentoso delle fiamme. Quando si svegliarono il tempo era bello, l'aria pervasa dal canto degli uccelli, dal profumo del bosso, della lavanda e del bacon fritto, a cui si mischiava un odore che non avevano mai sentito prima. "Siamo", disse Sophie, quasi spingendo fuori il sottile telaio della finestra nel tentativo di vedere dietro l'angolo, "come ha detto il tas... vetturino al facchino, a proposito del mio baule... "proprio sulla cima"?" "No, "in una buona posizione". Mi sento più lontano da qualsiasi posto di quanto non mi sia mai sentito in vita mia. Dobbiamo scoprire dov'è l'ufficio del telegrafo". "Cosa importa?", disse Sophie, aggirandosi per la stanza con la spazzola dei capelli in mano, e ammirando le illustrazioni ritagliate dai settimanali e incollate sulla porta e sull'armadio. Ma l'anima del marito, ancora estranea al luogo, non ebbe pace finché non si fu assicurato della presenza di un ufficio telegrafico. Lo chiese alla figlia dei Cloke, che stava apparecchiando per la colazione, mentre Sophie immergeva il viso nel cespuglio di lavanda fuori della bassa finestra. "Andate fino al cavalcasiepe in cima al campo di Barn", disse Mary, "e guardate al di là di Pardons, in direzione della guglia più vicina. È proprio lì sotto. Non potete sbagliarvi - se non vi allontanate dal sentiero. Mia sorella è telegrafista là. Ma voi siete nel raggio di tre miglia, signore. Il fattorino recapita i telegrammi direttamente qui dal villaggio di Pardons". "Bisogna fidarsi molto in questo paese", mormorò lui. Sophie guardò il fitto tappeto erboso, segnato soltanto dalle ruote della sera precedente, due rotaie che giravano intorno a un mucchio di fieno, e il circolo formato dal frutteto silenzioso attorno alla casa mezza in legno. "Che c'è da preoccuparsi?", disse. "Telegrammi consegnati nella Valle di Avalon, naturalmente", e fece un cenno al bracco dall'occhio vigile e dai modi suadenti ma contenuti che rispondeva, a volte, al nome di Rambler. Fu lui a condurli, dopo colazione, all'altura dietro la casa dove lo stile si ergeva contro il profilo del cielo, e "Mi domando cosa troveremo adesso", disse Sophie, saltellando sull'erba per la gioia. Era un pendio di campi cinti da siepi, nelle quali si aprivano di quando in quando dei varchi, e occupati al centro da macchie di rovi. Cancelli non ve n'erano, e i pali resi malfermi dagli scavi dei conigli o dal passaggio del bestiame pendevano da un lato e dall'altro. Uno stretto sentiero si snodava attraverso i cespugli, decine di code bianche balenavano davanti al bracco in corsa, e un falco si alzò in volo emettendo fischi acuti. "Nessuna strada, niente di niente!", disse Sophie, con la corta gonna che s'impigliava nei rovi. "Credevo che l'Inghilterra fosse tutta un giardino. Ecco lì la tua guglia, George, dall'altra parte della valle. Com'è curiosa!". Camminarono in quella direzione attraverso terreni completamente abbandonati. Qui trovarono i resti di una macchia di erba medica che si era rifiutata di morire; là un aspro maggese che si era arreso ai cardi alti un metro; e qui una distesa di rigogliosa angelica che fingeva di essere un'area coltivata. Nei pascoli abbandonati dalle bestie, mucchi di erba falciata e ormai secca intralciavano il passo, e il terreno sottostante luccicava per l'umidità. In fondo alla valle, un torrentello aveva divelto la passerella, e le acque schiumavano tra le rovine. Ma sui pendii al di là si ergevano grandi boschi - annosi, alti e lucenti come arazzi non sbiaditi alle pareti di una casa in rovina.

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"Tutto questo in un raggio di cento miglia da Londra", disse lui. "Si direbbe che anche il luogo abbia subito un esaurimento nervoso". Il sentiero aggirava la spalla di un pendio, attraversava un boschetto di rigogliosi rododendri e incrociava quella che un tempo era stata una strada carrozzabile, e ora terminava all'ombra di due giganteschi lecci". "Una casa!", disse Sophie, con un filo di voce. "Una casa coloniale!". Dietro il verde-azzurro degli alberi gemelli si ergeva un edificio georgiano di scuri mattoni bluastri, con una lunetta a forma di conchiglia sopra la porta a pilastri. Il cane se n'era andato per una delle sue fatue ricerche. Salvo qualche movimento tra i rami e il volo di quattro gazze impaurite, intorno al massiccio edificio non v'era alcun rumore né altro segno di vita - ma la casa osservava i nuovi venuti dalle sue lunghe finestre, offrendo un aspetto assai amichevole. "Fe-felicissima di conoscervi", disse Sophie, facendo un profondo inchino. "George, questa è storia che posso capire. Noi veniamo da qui". E s'inchinò nuovamente. Il sole di giugno scintillava su tutte le vetrate. Era come se una vecchia signora, resa saggia dall'esperienza di tre generazioni, ma al momento seduta in disparte, si chinasse ad ascoltare il nipote emozionato ed ansioso. "Devo guardare dentro!". Sophie si avvicinò in punta di piedi a una finestra, riparandosi gli occhi con una mano. "Oh, questa stanza è piena per metà di balle di cotone - no, di lana, credo! Ma riesco a vedere un pezzo di mensola del camino. George, vieni! C'è qualcuno!". Si ritrasse dietro al marito. La porta d'ingresso si aprì lentamente, per rivelare il bracco, con il muso bianco di latte, tenuto da un uomo molto vecchio, vestito di un èfod di lino azzurro curiosamente raccolto sul petto e sulle spalle. "Sicuramente", disse George, a mezza voce, "il Padre Tempo in persona. È qui che vive, Sophie". "Siamo venuti fin qui", disse Sophie, con voce fioca. "Possiamo vedere la casa? Temo che questo sia il nostro cane". "No, è Rambler", disse il vecchio. "È stato di nuovo al secchio dove tengo il pastone per i maiali. Voi siete a Rocketts, vero? Entrate. Ah, vagabondo!". Il cane scappò via, e il vecchio lo seguì con passo malfermo lungo il viale. Entrarono nell'atrio - un atrio alto e luminoso, proprio come si addice a una casa simile. Una scala dalla esile balaustra e dagli ampi e bassi gradini un tempo di colore bianco-crema, saliva passando sotto una lunga finestra ovale. Su entrambi i lati, porte delicatamente modellate si aprivano su stanze ingombre di balle di lana, in cui le mensole dei camini, di colore verde-mare, erano ornate di ninfe, volute e Cupidi in bassorilievo. "Qual è la ditta che produce queste cose?", esclamò Sophie, estasiata. "Oh, dimenticavo! Questi devono essere originali. Adam, non è vero? Ho sempre sognato un parafuoco di ferro battuto come quello. Credi che ci lasci girare dove vogliamo?" "Sta dando la caccia al cane", disse George, guardando dalla finestra. "Noi non contiamo". Esplorarono il primo piano o pianterreno, entusiasti come bambini che giochino a guardie e ladri. "Questo è come il resto dell'Inghilterra", disse infine lei. "Meraviglioso, ma senza alcuna spiegazione. Si aspettano che uno sappia già tutto. Ora andiamo di sopra". I gradini non scricchiolarono minimamente sotto i loro piedi. Dall'ampio pianerottolo entrarono in una stanza lunga, rivestita di pannelli di legno dipinti di verde, e illuminata da tre finestre a tutta parete che dominavano i resti in rovina di un giardino a terrazza e i pendii boscosi al di là. "Il salotto, naturalmente". Sophie lo percorse in lungo e in largo. "Quella mensola - Orfeo e Euridice - è la migliore di tutte. Non è stupenda? Diamine, la stanza sembra ammobigliata anche se vuota! Come mai, George?" "Sono le proporzioni. L'ho notato anch'io". "Una volta ho visto un divano Hepplewhite", Sophie si portò il dito alla guancia arrossata e pensò: "Con due di loro - uno per lato - non ci sarebbe bisogno di altro. Tranne... uno specchio che si adattasse perfettamente a quella mensola". "Guarda quella veduta. È un Constable incorniciato", esclamò il marito. "No; è un Morland - la parodia di un Morland. Ma a proposito di quel divano, George. Non credi che un Impero starebbe meglio di un Hepplewhite? Dell'oro opaco contro quel verde pallido? È un peccato che oggi non facciano più le spinette". "Credo sia possibile trovarne. Guarda quel bosco di querce dietro ai pini". "Mentre tu sedevi e maestosa suonavi toccate al clavicordo", canticchiò Sophie e, piegando la testa da un lato, indicò dove avrebbe dovuto essere appeso lo specchio. Poi trovarono le camere da letto con spogliatoi e stanzini da toeletta, e gradini che salivano e scendevano; quindi altre stanzette, rotonde, quadrate e ottagonali, con soffitti ornati e serrature cesellate. "Ora vediamo gli alloggi della servitù. Oh!". Si era lanciata sull'ultima rampa di scale, verso l'oscurità striata di luce, dove tegole dissestate giacevano tra cannicci rotti, e sulle pareti erano scarabocchiati nomi, sentimenti e cifre relative ai raccolti del luppolo. "Hanno tenuto dei piccioni, qui", esclamò. "E dal tetto ci potresti far passare un carretto", disse George. "È quello che dico anch'io", esclamò il vecchio sulle scale sotto di loro. "Non è certo un posto asciutto per i miei piccioni". "Ma perché si è permesso che diventasse così?", disse Sophie.

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"Le case sono come i denti", rispose lui. "Uno le trascura troppo a lungo, e poi non c'è più niente da fare. Un tempo erano intenzionati a venderla, ma nessuno la volle comprare. Era troppo lontana da qualsiasi posto. Una volta ci vivevano gli stessi proprietari, ma si ammalarono e morirono". "Qui?". Sophie si spostò sotto la luce proveniente da un buco nel tetto. "No... qui non muore nessuno, se non cadendo giù dai covoni e cose del genere. Sono morti a Londra". Si sfilò un fiocco di lana dalla blusa azzurra. "Non avevano la tempra - né gli Elphick né i Moone. Bassi e fragili, tutti. Sono morti da diciassette anni, perché io sono qui come custode da venticinque". "Di chi è tutta la lana che c'è di sotto?", chiese George. "Della tenuta. Se volete, vi faccio vedere le parti sul retro. Venite dall'America, non è vero? Avevo anch'io un figlio laggiù, una volta". Lo seguirono giù per la scala principale. Alla svolta si fermò e indicò le pareti con un ampio gesto della mano. "C'è un mucchio di spazio qui per far scendere la bara. Due metri e tre uomini a ciascuna estremità non scrosterebbero la vernice. Se muoio nel mio letto dovranno mettermi diritto come un bidone del latte. Una bella fortuna, capite?". Li guidò attraverso un labirinto di retro-cucine, dispense, cascine, acquai che si perdevano, lungo corridoi coperti, in una fattoria visibilmente più vecchia dell'edificio principale e che si estendeva disordinatamente tra granai, stalle, recinti per maiali, box e scuderie, fino ai campi abbandonati sul retro. "Comunque", disse Sophie, sedendosi esausta su un'antica vera da pozzo, "comunque non si dovrebbero oltraggiare questi vecchi e deliziosi ambienti riempiendoli di fieno". George guardò i lunghi muri di pietra che sostenevano il rivestimento interno di quercia argentea; i contrafforti di mattoni misti a selci; le scale esterne, pietra sopra pietra arcuata; le curve, nel rivestimento di paglia dei tetti, dove spuntava l'erba; i medaglioni di mattonelle ricoperte di semprevivi; e un vasto cortile lastricato dov'erano due mucche e Rambler pentito. Erano più di due ore che George non pensava a se stesso o all'ufficio telegrafico. "Ma perché", disse Sophie, mentre tornavano attraverso il cratere dei campi abbandonati, "perché in Inghilterra si aspettano che uno debba sapere già tutto? Perché non danno mai spiegazioni?" "Ti riferisci agli Elphick e ai Moone?", chiese lui. "Sì, e agli avvocati e alla proprietà. Chi sono? Mi domando se quei pavimenti dipinti, nella camera verde, siano veramente di quercia. Non è bello esplorare i luoghi insieme... ancor più che a Pompei?". George si voltò ancora per guardare il panorama. "Ottocento acri appartengono alla casa... così mi ha detto il vecchio. E ci sono in tutto cinque fattorie. Rocketts è una di queste". "Mi piace la signora Cloke. Ma come si chiama la vecchia casa?". George rise. "È una di quelle cose che si aspettano tu sappia. Non me l'ha detto". I Cloke furono più loquaci. Quella sera e durante la settimana successiva raccontarono ai Chapin la storia ufficiale, come la si racconta agli inquilini, di Friars Pardon, la casa, e delle sue cinque fattorie. Ma Sophie fece talmente tante domande, e George dimostrò un così umano interesse che, a mano a mano che aumentava la fiducia nei due estranei, i Cloke si lanciarono, con particolari osservati o acquisiti, nelle vite, morti e azioni degli Elphick, dei Moone e dei loro collaterali, gli Hayling e i Torrell. La storia fu narrata a puntate da Cloke nel granaio, o dalla moglie nella cascina, riservando i capitoli finali per le serate trascorse in cucina accanto al fuoco, dopo che gli inquilini avevano passato metà della giornata ad esplorare la casa in cui il vecchio Iggulden dalla blusa azzurra ridacchiava alla loro vista. I motivi che avevano mosso i personaggi di quella storia erano al di là della loro comprensione; i destini che ne avevano determinato la sorte erano dèi a loro sconosciuti; le informazioni fortuite che la signora Cloke forniva a proposito di un'azione o di un incidente risultavano più sorprendenti del resto della narrazione. Pertanto i Chapin ascoltavano deliziati, e benedicevano la signora Shonts. "Ma perché... perché... perché il Tal dei tali fece la tal cosa?", chiedeva Sophie dal suo sedile accanto al gancio del paiolo; e la signora Cloke rispondeva, lisciandosi il vestito sulle ginocchia, "Per amore del luogo". "Ci rinuncio", disse George una sera, nella loro stanza. "La gente non sembra contare in questo paese, in confronto ai luoghi in cui vive. Dal modo in cui lei ne parla, Friars Pardon deve essere stata una specie di Moloc". "Povera vecchia casa!". Come al solito, prima del tè avevano fatto a piedi il giro delle fattorie. "Non c'è da meravigliarsi che le fossero affezionati. Pensa ai sacrifici che hanno fatto per lei. Jane Elphick ha sposato il più giovane dei Torrell perché la casa restasse alla famiglia. La stanza ottagonale con il soffitto a modanature, accanto alla grande camera da letto, era la sua. Ma cosa ti ha detto lui, mentre dava da mangiare ai maiali?", chiese Sophie. "Mi ha parlato dei cugini Torrell e dello zio che morì a Giava. Vivevano a Burnt House, dietro High Pardons, dove quel torrente è tutto ostruito". "No; Burnt House è sotto High Pardons Wood, prima di arrivare a Gale Anstey", lo corresse Sophie. "Be', il vecchio Cloke ha detto...". Sophie spalancò la porta e gridò giù in cucina, dove i Cloke stavano smorzando il fuoco: "Signora Cloke, Burnt House non è sotto High Pardons?" "Certo, mia cara, naturalmente", rispose distrattamente la donna con voce pacata. Un colpo di tosse. "Chiedo scusa, signora. Cosa stava dicendo?" "Non importa. Preferisco così", Sophie sorrise, e George raccontò di nuovo il capitolo mancante, mentre lei sedeva sul letto. "Oggi qui e domani via", disse Cloke, in tono ammonitorio. "Hanno pagato il primo mese, ma abbiamo soltanto quella lettera della signora Shonts come garanzia".

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"Finora nessuno di quelli mandati da lei ci ha mai imbrogliato. Mi è sfuggito senza pensare. Lei è una giovane signora molto umana. Se ne andranno via tra poco. E anche tu hai parlato un sacco, Alfred". "Sì, ma gli Elphick sono tutti morti. Nessuno può rinfacciarmi di aver parlato troppo. Ma perché continuano a restare qui?". A tempo debito, George e Sophie si posero l'un l'altro la stessa domanda, e la misero da parte. Constatarono che il clima - una miscela perlacea, ben diversa dagli estremi di caldo e freddo del loro paese natale - si confaceva loro, come la profonda quiete notturna si addiceva sicuramente a George. A quest'ultimo venne persino risparmiata la vista di una strada macadamizzata che, conducendo presumibilmente in un luogo dove si trattavano affari, avrebbe potuto risvegliare in lui certi desideri; e l'ufficio telegrafico nel villaggio di Friars Pardon, dove si vendevano cartoline illustrate e trottole, era raggiungibile con una passeggiata di due miglia attraverso campi e boschi. Per tutto ciò che riguardava il passato tra i suoi simili, o il ricordo che essi avevano di lui, George avrebbe potuto trovarsi su un altro pianeta; e Sophie, la cui vita era trascorsa in gran parte tra mogli dagli alti ideali, che vedevano poco o niente i loro mariti, non aveva alcun desiderio di lasciare quel dono di Dio. I pasti consumati in tutta calma, la consapevolezza delle ore deliziosamente vuote che seguivano, le distese di cielo morbido sotto le quali passeggiavano insieme, calcolando il tempo solo in base alla fame o alla sete; l'erba gradevole sotto i piedi, che ingannava sul numero di miglia percorse; le scoperte che, sempre insieme, facevano nelle fattorie: Griffons, Rocketts, Burnt House, Gale Anstey e la Home Farm, dove Iggulden dalla blusa azzurra li attendeva al varco, e loro frugavano ancora una volta la vecchia casa; i lunghi pomeriggi di pioggia, in cui appoggiavano i piedi sull'ampio davanzale della finestra nella camera da letto, proprio di fronte ai meli, e discorrevano insieme come non avevano mai avuto il tempo di fare prima - queste cose deliziavano l'anima di Sophie, e il suo corpo fioriva. "Ti sei reso conto", chiese una mattina al marito, "che negli ultimi trentaquattro giorni siamo stati completamente da soli?" "Li hai contati?", domandò lui. "Ti sono piaciuti?", replicò lei. "Credo di sì. Non ci ho pensato. Anzi, sì. Sei mesi fa mi sarei inquietato fino a star male. Ti ricordi al Cairo? Ho avuto solo due o tre momenti critici. Sto migliorando o è decadimento senile?" "È il clima, solo il clima". Sophie dondolò gli stivali inglesi appena comprati, seduta sul cavalcasiepe che dominava Friars Pardon, dietro il granaio dei Cloke. "Eppure bisogna dedicarsi a qualcosa", disse lui, "anche solo per non perdere la mano". Ora i suoi occhi non brillavano, percorrendo i campi deserti. "Non è vero?" "Crea un campo da golf a Gale Anstey. Credo che potresti prendere il terreno in affitto". "No, non sono così inglese. Cloke dice che tutte le fattorie qui attorno potrebbero rendere". "Bene, io mi sento Anastasia nel Treasure of Franchard. Mi accontento di essere al mondo e di fare le fusa. Non c'è fretta". "No". Lui sorrise. "Ciò nonostante, vado a vedere se è arrivata della posta". "Avevi promesso che non ne sarebbe arrivata". "Si sta profilando un affare che mi diverte. Parola". "Hai bisogno di una segretaria?" "No, grazie, vecchia mia! Non ti sembra tipicamente inglese?" "Troppo inglese! Vai via". Ma ciò nonostante gli restituì il bacio in pieno giorno. "Vado a Pardons. È quasi una settimana che non vedo la casa". "Come hai deciso di arredare la camera da letto di Jane Elphick?". Lui rise, poiché per loro la casa era diventata un castello in aria permanente. "Mobili cinesi laccati di nero e broccato giallo di seta", rispose lei, e corse giù per il pendio. A un varco nella siepe disperse alcune mucche roteando un bastone di frassino giovane che Iggulden aveva tagliato per lei una settimana prima, e, dopo essere passata cantando sotto i lecci, cercò la fattoria sul retro di Friars Pardon. Il vecchio non si vedeva, e lei bussò alla porta socchiusa, poiché aveva bisogno della sua compagnia per riempire l'oziosa mattina. Un cane pastore dagli occhi azzurri, un nuovo amico e vecchio nemico di Rambler strisciò fuori e la supplicò di entrare. Iggulden era seduto accanto al fuoco, con un sarchiello tra le ginocchia e il capo chino. Benché lei non avesse mai visto la morte prima, il suo cuore, cessando di battere per un istante, le disse che il vecchio era morto. Non parlò né gridò, ma rimase fuori della porta, e il cane le leccò la mano. Quando la bestia alzò il muso, udì se stessa dire: "Non ululare! Per favore, non metterti a ululare, Scottie, altrimenti corro via!". Rimase ferma dov'era, mentre le ombre nel fienile si muovevano verso mezzogiorno; poi sedette sui gradini della porta, con le braccia attorno al collo del cane, aspettando che arrivasse qualcuno. Osservò i comignoli senza fumo di Friars Pardon sfregiare i tetti con la loro ombra, e il fumo dell'ultimo fuoco acceso da Iggulden affievolirsi gradualmente e morire. Contro la propria volontà, iniziò a chiedersi quanti Moone, Elphick e Torrell fossero stati portati giù dall'ampio scalone dell'atrio. Poi ricordò il discorso del vecchio a proposito di essere portato "diritto come un bidone del latte", e affondò il viso nel collo di Scottie. Infine gli zoccoli di un cavallo risuonarono sul selciato, frusciarono sulla vecchia paglia grigia del fienile, e lei si trovò di fronte il curato - una figura che aveva visto declamare in chiesa delle assurdità (Sophie era unitariana) con voce innaturale. "È morto", disse senza preamboli.

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"Il vecchio Iggulden? Ero venuto a fare quattro chiacchiere con lui". Il curato entrò in casa a capo scoperto. "Ah!", lo sentì dire. "Un attacco di cuore! Lei da quando è qui?" "Dalle undici meno un quarto". Guardò prontamente il suo orologio e vide che la mano non le tremava. "Ora rimarrò io accanto a lui, finché non arriverà il dottore. Crede di poterlo avvertire, e... sì, anche la signora Betts, nel cottage con il glicine, accanto a quello del fabbro ferraio? Temo che sia stato un brutto colpo per lei". Sophie annuì con il capo e corse al villaggio. Lungo la strada si sentì mancare per un attimo; si lasciò cadere al riparo di una siepe e si voltò a guardare la grande casa. In qualche modo il suo silenzio e la sua imperturbabilità le diedero la forza di portare a termine il compito affidatole. La signora Betts - piccola, dagli occhi neri e scura di capelli - parve quasi altrettanto indifferente di Friars Pardon. "Sì, sì, naturalmente. Povera me! Be', Iggulden ha avuto il suo periodo di prosperità ai tempi di mio padre. Muriel, prendimi la borsetta azzurra, per favore. Sì, signora. Cadono come rami d'olmo quando non c'è vento. Senza alcun preavviso. Muriel, la mia bicicletta è dietro al pollaio. Avvertirò il dottor Dallas, signora". E filò via sulla sua bicicletta come un'ape bruna, mentre Sophie - il cielo sopra di lei e la terra di sotto erano cambiati - si avviò con passo rigido verso casa, per riversare su George, occupato con la corrispondenza, il proprio sconcerto in una crisi di riso e di pianto. "Per loro è del tutto naturale", disse lei ansimando. "Vengono giù come rami d'olmo quando non c'è vento. Sì, signora. No, non c'era niente di orribile, soltanto... soltanto Oh, George, quel suo povero bastone lucente che teneva tra le povere ginocchia sottili! Non sarei potuta rimanere, se Scottie si fosse messo a ululare. Non sapevo che il curato fosse così... così sensibile. Ha detto che temeva fosse un brutto colpo, per me. La signora Betts mi ha detto di andare a casa, e io stavo per svenirle sul pavimento. Ma non mi sono comportata in maniera disonorevole. Non... non avrei potuto lasciarlo da solo... vero?" "È sicura di star bene?", esclamò la signora Cloke, che aveva appreso la notizia grazie al telegrafo delle fattorie, più vecchio ma più rapido di quello di Marconi. "Sì. Sto benissimo", protestò Sophie. "Rimanga a letto fino all'ora del tè". La signora Cloke le diede un buffetto su una spalla. "Loro saranno molto contenti, anche se è da vent'anni che la testa di lei non funziona più come dovrebbe". "Loro" arrivarono prima di sera: un uomo dalla barba nera, vestito di fustagno, e un'anziana donnina paralitica che pigolava come uno scricciolo. "Sono suo figlio", disse l'uomo a Sophie, tra i cespugli di lavanda. "Abbiamo avuto un diverbio... vent'anni fa, e da allora non ci siamo più parlati. Ma ciò nonostante sono sempre suo figlio, e la ringraziamo per essere rimasta a vegliare". "Sono contenta di essere capitata lì", rispose lei, e le parole le venivano dal profondo del cuore. "Abbiamo sentito che lui parlava molto di voi - vi aveva sempre sulla bocca, da quando siete arrivati. Vi ringraziamo molto", aggiunse l'uomo. "Lei è il figlio che viveva in America?" chiese Sophie. "Sì, signora. Lavoravo nella fattoria di mio zio, nel Connecticut. Era quello che laggiù chiamano sovrintendente ai lavori stradali". "In quale zona del Connecticut?", chiese George, da sopra la spalla della moglie. "Si chiama Veering Holler. Ci sono stato sei anni con mio zio". "Com'è piccolo il mondo!", esclamò Sophie. "Diamine, tutti i parenti di mia madre vengono da Veering Holler. Ce ne deve essere ancora qualcuno... i Lashmar. Ne ha mai sentito parlare?" "Mi pare di aver sentito il nome", rispose lui, ma la sua faccia era inespressiva come il retro di una vanga. Un po' prima del crepuscolo una donna in grigio, che camminava a grandi passi come un soldato di fanteria e teneva in mano un lungo palo, giunse rumorosamente attraverso il frutteto, chiedendo a gran voce che le dessero da mangiare. George, al quale gli inglesi che apparivano senza preavviso facevano uno strano effetto, fuggì nel salotto; ma la signora Cloke si fece avanti raggiante. Sophie non riuscì a sottrarsi. "Abbiamo appena saputo la notizia", disse la sconosciuta, rivolgendosi a Sophie. "Sono stata fuori tutto il giorno con i cani da lontra. È stata una cosa magnifica...". "Ne avete... uccise?", chiese Sophie. Sapeva dai libri che dicendo così non poteva sbagliare di molto. "Sì, una femmina senza cuccioli: diciassette libbre", fu la risposta. "È stata una cosa magnifica da parte sua. Povero vecchio Iggulden". "Oh... quello!", disse Sophie, illuminata. "Se ci fosse stato qualcuno, a Pardons, non sarebbe mai successo. Si sarebbero occupati di lui. Ma cosa ci si può aspettare da un branco di avvocati londinesi?". La signora Cloke mormorò qualcosa. "No. Sono fradicia dalle ginocchia in giù. Se rimango mi prenderò un raffreddore. Basta una tazza di tè, signora Cloke, e posso mangiare uno dei suoi sandwiches per strada". Si asciugò il volto segnato dalle stagioni con un fazzoletto di seta verde e gialla. "Sì, signora!". La signora Cloke corse via per ritornare in un attimo. "Le nostre terre, a sud, confinano per un miglio con Pardons", spiegò la donna, indicando con la tazza piena, "ma abbiamo già abbastanza da fare con la nostra gente, per immischiarci negli affari altrui. Tuttavia, se lo avessi

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saputo, avrei mandato Dora, naturalmente. L'ha vista questo pomeriggio, signora Cloke? No? Mi domando se quella ragazza si sia storta una caviglia. Grazie". La signora Cloke le porse un formidabile pezzo di pane e bacon. "Come stavo dicendo, Pardons è uno scandalo! Lasciar morire la gente come cani. Lì dovrebbe starci qualcuno che faccia il proprio dovere. Lei ha fatto il suo, anche se non c'era il minimo obbligo. Buona notte. Dica a Dora, se passa, che io ho proseguito". Si allontanò a grandi passi, sgranocchiando la sua crosta di pane, e Sophie entrò vacillando e senza fiato in salotto, per riscuotere il già scosso George. "Perché continuavi a cercare il mio sguardo da dietro la tendina? Perché non sei uscito a fare il tuo dovere?" "Perché sarei scoppiato. Hai visto il fango che aveva sulla guancia?", disse lui. "Appena. Poi non ho più osato guardare. Chi è?" "Dio; anzi, una divinità locale. Comunque, è un'altra di quelle cose che uno dovrebbe sapere per istinto". La signora Cloke, scandalizzata dalla loro leggerezza, disse che era Lady Conant, moglie di Sir Walter Conant, baronetto, un grosso proprietario terriero dei dintorni, e se non Dio, almeno la Sua visibile Provvidenza. George la fece parlare di quella famiglia per un'ora. "Il riso", disse più tardi Sophie nella loro stanza, "è tipico dei selvaggi. Perché non hai saputo controllare le tue emozioni? Per lei è tutto reale". "Anche per me. Questo è il mio guaio", rispose lui, con voce alterata. "Comunque, è abbastanza reale da occupare il tempo. Non credi?" "Cosa intendi dire?", domandò lei prontamente, sebbene conoscesse la sua voce. "Che sto meglio. Abbastanza da aver voglia di dare un calcio". "A cosa?" "A questo!". Indicò, con un gesto molto ampio della mano, la loro unica stanza. "Devo aver qualcosa con cui giocare, finché non sarò di nuovo in grado di lavorare". "Ah!". Lei sedette sul letto e si piegò in avanti, stringendosi le mani. "Mi domando se ti faccia bene". "Siamo stati meglio qui che in qualsiasi altro posto", proseguì lui, lentamente. "E poi, si potrebbe sempre rivendere tutto". Lei annuì gravemente con il capo, ma gli occhi le brillavano. "L'unica cosa che mi preoccupa è quello che è accaduto stamattina. Voglio sapere come ti senti a proposito. Se sei anche solo un po' turbata, possiamo far demolire la vecchia fattoria sul retro della casa, o forse quanto è avvenuto ti ha guastato l'idea?" "Farla demolire?", esclamò lei. "Non hai il minimo senso degli affari. Diamine, è lì che potremmo vivere mentre sistemiamo la casa grande. È, quasi sotto lo stesso tetto. No! Quello che è avvenuto stamattina sembrava più... una direttiva che altro. Dovrebbe viverci qualcuno a Pardons. Lady Conant ha proprio ragione". "Io pensavo più che altro ai boschi e alle strade. In sei mesi potrei raddoppiare il valore della tenuta". "Quanto chiedono per l'intera proprietà?". Lei scosse il capo, e i capelli sciolti le caddero in una massa luminosa intorno alle guance. "Settantacinquemila dollari. Ne accetteranno sessantotto", "Meno della metà di quanto abbiamo pagato il nostro vecchio yacht, quando ci siamo sposati. E a bordo non passammo dei giorni piacevoli. Tu eri ... ". "Be', scoprii di essere troppo americano per accontentarmi di fare il figlio di un uomo ricco. Non mi starai biasimando per questo?" "Oh no. Solo che fu una luna di miele poco rilassante. A che punto sei con le trattative, George?" "Domani mattina posso spedire un acconto per l'acquisto, e possiamo completare l'affare in due settimane o tre se tu sei d'accordo". "Friars Pardon, Friars Pardon!" cantò Sophie piena di entusiasmo, gli occhi grigio-scuro resi più grandi dalla felicità. "Tutte le fattorie? Gale Anstey, Burnt House, Rocketts, la Home Farm e Griffons? Sei sicuro di averle prese tutte?" "Sicuro". Lui sorrise. "E i boschi? High Pardons Wood, Lower Pardons, Suttons, Dutton's Shaw, Reuben's Ghyll, Maxey's Ghyll, e i due Oak Hangers? Sei sicuro di averli presi tutti?" "Fino all'ultimo ramo. Accidenti, li conosci bene quanto me". E rise. "Dicono che ci sono cinquemila dollari, un migliaio di sterline di legname - loro lo chiamano bosco - solo nei due Hangers". "Per prima cosa bisogna far riparare il forno della signora Cloke e il tetto della cucina. Penso che farò passare dappertutto una mano di bianco", lo interruppe Sophie, indicando il soffitto. "L'intero posto è in condizioni vergognose. Lady Conant ha proprio ragione. George, quando hai incominciato ad innamorarti della casa? Nella camera verde... il primo giorno? Io sì". "Non me ne sono innamorato. Devo solo fare qualcosa per occupare il tempo in attesa di poter tornare al lavoro". "O quando eravamo sotto le querce, e la porta si aprì? Oh! Pensi che dovrei andare al funerale del vecchio Iggulden?". Si lasciò sfuggire un sospiro di completa felicità. "Non la giudicherebbero una libertà... ora?", disse lui. "Ma lui mi piaceva".

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"Però non era tuo dipendente, al momento della morte". "Questo non basterebbe a tenermi lontana. Solo che hanno gonfiato talmente il fatto che sia rimasta a vegliarlo", prese fiato, "che potrebbe sembrare un'ostentazione anche da quel punto di vista. Oh, George", gli prese la mano, "siamo due orfanelli che si muovono in mondi che non capiscono, e finiremo per commettere qualche errore. Ma ci divertiremo un sacco". "Domani faremo un salto a Londra per vedere se è possibile sollecitare questi avvocati inglesi. Voglio mettermi al lavoro". Andarono. E sopportarono parecchie cose, prima di ritornare a casa in calesse attraverso i campi un sabato sera, cullando una cassetta di cinque centimetri per sei, piena di atti e di mappe catastali - legittimi proprietari di Friars Pardon e delle cinque fattorie in rovina appartenenti alla casa. "Spero e confido con la massima sincerità che sarete felici, signora", disse con voce rotta dall'emozione la signora Cloke, quando le riferirono la notizia, accanto al fuoco della cucina. "Santo Cielo! Non è mica un matrimonio!" esclamò Sophie, un poco intimorita; poiché per loro lo scherzo, che per un americano significa lavoro, stava appena incominciando. "Se la cosa è presa con lo spirito giusto", lo sguardo della signora Cloke corse al forno. "Domani farete venire qualcuno che lo ripari", mormorò Sophie. "Non abbiamo potuto fare a meno di notare", disse Cloke lentamente, "dalle volte che andavate là, che lei e la sua signora eravate attratti dalla casa, ma... ma non so se abbiamo mai pensato esattamente ... ". Lo sguardo della moglie lo trattenne dal continuare. "Che noi fossimo quel tipo di gente", disse George. "Non ne siamo ancora sicuri noi stessi". "Forse", disse Cloke, fregandosi i ginocchi, "tanto per dire qualcosa, forse avete intenzione di adibirla a parco?" "Sarebbe a dire?", chiese George. "Trasformare tutto quanto in un bel parco come Violet Hill", e indicò con il pollice verso ovest, "che è stata comprata dal signor Sangres. Erano quattro fattorie, e il signor Sangres ne ha ricavato un bel parco, con un branco di daini". "Allora non sarebbe più Friars Pardon", disse Dophie. "Non le pare?" "Non credo che Pardons abbia mai significato qualcosa di diverso dal grano e dalla lana. Solo che alcuni signori dicono che i parchi procurano meno fastidi degli affittuari". Rise nervosamente. "Ma i signori veri, naturalmente, tengono le cose com'erano un tempo". "Capisco", disse Sophie. "Come ha fatto i soldi il signor Sangres?" "Non l'ho mai saputo di preciso. Con il pepe e con le spezie, o forse con i guanti. No, quello dei guanti era Sir Reginald Liss di Marley End. E signor Sangres è quello delle spezie. È un gentiluomo brasiliano... molto abbronzato". "Di una cosa potete essere certi. Non avrete alcun fastidio", disse la signora Cloke un attimo prima che andassero a letto. Ora, la notizia dell'acquisto venne comunicata soltanto ai Cloke, alle otto di sera di un sabato. Nessuno lasciò la fattoria prima che i Chapin uscissero il mattino seguente per andare a messa. Tuttavia, quando raggiunsero la chiesa e stavano per infilarsi nei banchi che occupavano abitualmente, un poco oltre il fonte battesimale, da dove potevano vedere le estremità, guarnite di pelliccia rossa, delle funi delle campane che dondolavano e si muovevano al momento di suonare, furono spinti irresistibilmente avanti, con un Cloke per parte (benché non fossero venuti insieme a loro), fino al petto di un sagrestano in tonaca nera, che arretrando li introdusse in un banco grosso come una stanza in cima alla navata sinistra, sotto il pulpito. "Questo", sospirò in tono di rimprovero, "è il banco di Pardons", e li chiuse dentro. Da lì potevano vedere poco più dei ragazzi del coro, ma avvertirono, fino alla radice dei capelli sulla nuca, che la congregazione alle loro spalle li stava divorando impietosamente con gli occhi. "Quando il malvagio vi allontana". La voce possente ed estranea del sacerdote vibrò sotto il tetto a due travi incrociate, e un senso di solitudine, mai provato prima, sommerse i loro cuori, mentre cercavano di adeguarsi al rituale della Chiesa d'Inghilterra, a loro poco familiare. Il paternostro - "Padre Nostro, che sei" - pose il sigillo al loro senso di desolazione. Sophie si trovò a pensare come in altri paesi il loro acquisto sarebbe stato discusso in precedenza e sotto ogni punto di vista su una dozzina di giornali, dimenticando che da mesi a George non era permesso di dare un'occhiata ai loro titoli altisonanti. Lì non c'era altro che silenzio - nemmeno ostilità! Toccava a loro giocare; gli altri giocatori tenevano nascoste le carte e aspettavano. Avvertiva nell'aria un'atmosfera di suspense; e quando mise a fuoco gli oggetti intorno a sé, vide una lapide murale che raffigurava un uccello senza zampe intento a meditare sopra il motto inciso, "Attendi ancora - attendi ancora". Durante la litania, George ebbe dei problemi con un inginocchiatoio instabile, e tirò un angolo del tappeto sotto il sedile del banco. Sophie fece lo stesso con l'altro angolo, e chiuse gli occhi, colta da una vampa che preannunciava le lacrime. Quando li riaprì, stava guardando il nome da sposare di sua madre, inciso elegantemente su una lastra di pietra azzurra, nel pavimento dei banco: Ellen Lashmar. ob. 1796. aetat. 27.

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Diede di gomito a George e gli indicò l'epigrafe. Inginocchiandosi, al riparo da possibili occhiate, guardarono meglio, ma il resto della lastra era vuoto. "Mai sentito parlare di lei?", sussurrò lui. "Non ho mai saputo che qualcuno della famiglia venisse da qui". "Una coincidenza?" "Forse. Ma mi fa sentire meglio", sorrise sbattendo le palpebre per fugare una lacrima e gli prese una mano mentre pregavano per "tutte le donne che soffrono per i figli" - non "nei rischi del parto"; e i passeri, entrati attraverso le inferriate che proteggevano le grandi vetrate, cinguettavano sopra lo sbiadito albero di famiglia in oro e alabastro dei Conant. Il banco del baronetto era sulla destra della navata. Dopo la funzione, i suoi occupanti uscirono senza fretta, ma in maniera tale da bloccare effettivamente un tipo dal colorito bruno, accompagnato da una numerosa famiglia che scalpitava rumorosamente dietro di loro. "Spezie, credo", disse Sophie, profondamente ammirata, mentre i Sangres serravano le fila dietro ai Conant. "Lasciamoli allontanare, George". Ma quando uscirono, molta gente, che sembrava avere occhi soltanto per loro, indugiava ancora sotto il portico d'ingresso al cimitero. "Voglio vedere se ci sono altri Lashmar sepolti qui", disse Sophie. "Non ora. Oggi sembra giorno di parata. Ritorniamocene in fretta a casa", replicò lui. Un gruppo di famiglie, i Cloke un poco in disparte, si scostò per lasciarli passare. Gli uomini salutarono con cenni bruschi del capo, le donne con residui di riverenze. Solo il figlio di Iggulden, con la madre al braccio, si tolse il cappello mentre passava Sophie. "La vostra gente", le disse all'orecchio la voce chiara di Lady Conant. "Credo di sì", disse Sophie arrossendo, perché erano a circa due metri da lei; ma non si trattava di una domanda. "Allora questa bambina ha tutta l'aria di essersi presa gli orecchioni. Dovrebbe dire alla madre che non avrebbe dovuto portarla in chiesa". "Non posso lasciarla sola, signora", disse la madre. "Darebbe fuoco alla casa in un attimo; ha sempre i fiammiferi in mano. Non è vero, Maudie cara?". "Il dottor Dallas l'ha vista?" "Non ancora, signora". "Deve farlo. Lei, naturalmente, non può andarci. Em-m! Quella sciocca della mia cameriera ci deve andare domani alle dodici per i denti. Passerà a prendere la bambina - a Gale Anstey, vero? - alle undici". "Sì. La ringrazio molto, signora". "Non avrei dovuto farlo", disse Lady Conant in tono di scusa, "ma a Pardons non c'è nessuno da così tanto tempo, che perdonerete la mia intrusione. Ora, potete venire a pranzo da noi? Di solito viene anche il curato. La domenica non prendo i cavalli, - e lanciò un'occhiata al carro placcato d'argento del brasiliano. - C'è solo un miglio attraverso i campi". "È... è molto gentile", disse Sophie, odiandosi perché le tremavano le labbra. "Mia cara", il tono autoritario scese fino a un mormorio rassicurante, "crede che non sappia come ci si sente a venire in una contea sconosciuta - in un paese, dovrei dire lontano dalla propria gente? Quando lasciai per la prima volta l'Inghilterra centrale - io vengo dallo Shropshire, sa - piansi per un giorno e una notte. Ma disperarsi non rende più accettabile la solitudine. Oh, ecco Dora. Si era veramente storta la caviglia, quel giorno", "Zoppico ancora come un albero", disse francamente l'alta ragazza. "Dovrebbe andare con i cani a caccia di lontre, signora Chapin; credo che la prossima settimana attingeranno la vostra acqua". Sir Walter aveva già condotto con sé George, e il curato comparve all'altro fianco di Sophie. Non vi fu modo di sfuggire alla rapida processione o al lungo pranzo, durante il quale i discorsi si avvicendavano in vortici a voce bassa che avevano come centro il villaggio. Sophie udì il curato e Sir Walter rivolgersi con disinvoltura a suo marito chiamandolo Chapin! (E si ricordò di molte donne, conosciute in una vita precedente, che si rivolgevano abitualmente ai loro mariti chiamandoli signor Tal dei tali). Dopo pranzo Lady Conant le parlò esplicitamente di come avvengono i parti nei cottage e nelle fattorie lontane da qualsiasi forma di assistenza specifica, e dei relativi doveri della signora di Pardons. Un cancello in una siepe di faggi, dopo una triplice fascia di prati, li introdusse, prima dell'ora del tè, nel versante meridionale della loro tenuta, assai trascurato. "Dammi la mano, per favore", disse Sophie, non appena furono al sicuro tra i tronchi di faggio e gli agrifogli che crescevano a dismisura. "Ti ricordi della vecchia zitella in Providence and the Guitar, che, avendo udito il commissario bestemmiare, era quasi convinta di non essere più una pulzella? Perché io sono sua parente. Lady Conant è...". "Hai scoperto qualcosa a proposito dei Lashmar?", la interruppe lui. "Non ho chiesto. Prima voglio scrivere a zia Sidney e chiederle se ne sa qualcosa. Oh, a pranzo Lady Conant ha accennato al fatto che loro hanno comprato delle terre da certi Lashmar, qualche anno fa. Ho scoperto che è stato all'inizio del secolo scorso". "E tu cos'hai detto?"

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"Ho detto: "Davvero? Molto interessante!" o qualcosa del genere. Non voglio insistere troppo. Ho sentito cosa dicevano degli sforzi dei signor Sangres in tal senso. E tu? Non riuscivo a vederti dietro i fiori. Ti sei trovato in brutte acque, caro?" "Oh no, è stato semplicissimo", rispose lui. "Ho comprato Friars Pardon per impedire agli uccelli di Sir Walter di andare a zonzo". Un fagiano maschio sgambettò attraverso le foglie secche e si alzò in volo con uno schiocco quasi sotto i loro piedi. Sophie ebbe un sobbalzo. "Eccone uno", disse George con calma. "Be', ad ogni modo i tuoi nervi sono migliorati", disse lei. "Hai detto loro che avevi comprato la casa per gioco?" "No. È lì che ho avuto un attimo di cedimento. Credo di aver fatto un solo passo falso. Ho detto che non riuscivo a capire perché affittare della terra a degli uomini che la coltivano non possa essere un affare come qualunque altro". "E cosa ti hanno risposto?" "Hanno sorriso. Un giorno saprò il significato di quel sorriso. Non è gente che sprechi i propri sorrisi. Vedi quel sentiero accanto a Gale Anstey?". Guardarono giù dal margine del bosco sul pendio, in una cavità a forma di coppa. Gruppetti di due o tre persone, in abiti domenicali, sfilavano lentamente per i sentieri che collegavano le fattorie tra di loro. "Non ho mai visto tanta gente sulle nostre terre prima d'ora", disse Sophie. "Come mai?" "Per mostrarci che non dobbiamo privarli del diritto di passaggio". "Su quei tratturi che usiamo per passare da un lotto all'altro?" disse Sophie, con impeto. "Sì. Ognuno di loro ci costerebbe duemila sterline di spese legali, se volessimo chiuderli". "Ma noi non vogliamo", disse lei. "Se lo facessimo, avremmo contro l'intera comunità". "Ma è la nostra terra. Possiamo farne quello che vogliamo". "Non è la nostra terra. Noi l'abbiamo solo comperata. Noi apparteniamo ad essa, ed essa appartiene alla gente - la nostra gente, dicono loro. Ho pranzato anch'io con degli inglesi". Passarono lentamente da un campo cosparso di felci ad un altro - eccitati dall'orgoglio della proprietà, tramando cambiamenti e ristrutturazioni a ogni passo; fermandosi a discutere, allontanandosi in opposte direzioni per abbracciare due panorami contemporaneamente, o avvicinandosi per considerarne insieme uno solo. Le coppie si allontanavano dalla loro strada, ma di nascosto sorridevano. "Faremo qualche passo falso", disse lui infine. "Insieme, però. Non farai entrare qualcun altro nell'affare, vero?" "Tranne i fornitori. Questo sindacato maneggia i suoi progetti tutto da solo". "Ma tu potresti sentire il bisogno di qualcuno", insistette lei. "Sì - ma saresti tu. Si tratta di affari, Sophie, ma sarà piuttosto divertente". "A Dio piacendo", rispose lei arrossendo e, mentre rientravano per il tè, gridò tra sé: "Ne vale la pena. Oh, se ne vale la pena". Le riparazioni e il trasloco a Friars Pardon costituirono una faccenda delle più varie e complesse, ma tutto avvenne in perfetto stile inglese, senza contrasti. Si richiedevano solo tempo e denaro. Il resto era nelle mani di generosi consiglieri di Londra, o di spiriti, maschili e femminili, evocati dai signori Cloke dai terreni incolti delle fattorie. Al centro di tutto stavano George e Sophie, un po' stupefatti, con i loro interessi che si estendevano in ogni direzione. "Non che io abbia qualcosa contro i londinesi", disse Cloke, autonominatosi supervisore dei lavori esterni, consulente tecnico, capo dell'ufficio immigrazione e sovrintendente ai boschi e alle foreste; "ma la vostra gente non pretenderà niente di più di un giusto guadagno, da voi". "Come si può sapere?", chiese George. "Tra cinque anni o giù di lì, forse, verificherà i conti del primo anno e, con l'esperienza di allora, dirà: "Be', Billy Beartup" - o potrebbe anche essere il vecchio Cloke - "mi ha trattato onestamente quand'ero nuovo del posto". A nessuno piace rimetterci, in questo genere di cose". "Credo di capire", disse George. "Ma cinque anni sono parecchi per dire quello che accadrà". "Dubito che la quercia abbattuta da Billy Beartup in Reuben's Ghyll sarà pronta prima di sette anni per il pavimento del salotto", disse Cloke con voce strascicata. "Sì, questo è compito mio", disse Sophie. (Billy Beartup di Griffons, boscaiolo per nascita ed esperienza, e fittavolo per disgrazia di matrimonio, aveva deposto la sua grossa scure ai piedi di Sophie un mese prima). "Spiacente di averti impegnato per un'altra eternità". "E ci vorranno ugualmente cinque anni per sapere dove abbiamo sbagliato con la sua nuova strada carrozzabile", disse Cloke, sempre ansioso di apparire equanime - con un'oncia o due in favore di Sophie. Gli ultimi quattro mesi avevano insegnato a George che era meglio non ribattere. La strada carrozzabile che risaliva la collina era la cosa che al momento gli stava più a cuore. Si avviarono per dare un'occhiata ai lavori e alla ruspa importata dall'America che aveva annebbiato la mente, già non troppo luminosa, di "Skim" Winsh, il carrettiere. Ma ora a dirigere i lavori c'era il giovane Iggulden, e sotto la sua guida Buller e Roberts, i grossi cavalli, smuovevano montagne. "La sollevate così, e la rovesciate", spiegava alla sua squadra.

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"Mio zio era sovrintendente ai lavori stradali nel Connecticut". "Ci sono delle strade laggiù?", chiese Skim, seduto sotto i cespugli di alloro. "Niente di più che strade di fortuna. Strade battute, le chiamano. Farebbero al caso tuo, Skim". "Perché?", disse l'incauto Skim. "Perché quando il sabato sera caschi ubriaco dal carro, non ti faresti male", fu la risposta. "L'ultima volta non mi sono fatto niente", gridò Skim. Dopo la sonora risata che seguì, il vecchio Whybarne di Gale Anstey disse con voce fioca: "Be', battuta o non battuta, non si può negare che Chapin sappia riconoscere un lavoro ben fatto. Lui non costruisce oggi per distruggere domani, come quel negro di Sangres". "È lei che ha le idee chiare", disse Pinky, fratello di Skim Winsh, e un Napoleone tra i carrettieri che avevano aiutato a portare il grande pianoforte attraverso i campi, sotto le piogge d'autunno. "Non potrebbe essere altrimenti", disse Iggulden. "Ferma, Buller! È una Lashmar. Gente che ha sempre avuto le idee chiare". "Oh, lo hai scoperto? È arrivata la risposta da tuo zio?", chiese Skim, scettico sul fatto che un paese così remoto come l'America potesse avere un servizio postale. Gli altri lo guardarono sdegnosamente. Skim arrivava sempre il giorno dopo che si era tenuta la fiera. Iggulden interruppe il lavoro per una pausa. "È una Lashmar bella e buona. Ho scritto subito a mio zio - il mese dopo che mi ha detto che i suoi venivano da Veering Holler". "Dove non ci sono strade?", interruppe Skim, ma nessuno rise. "Mio zio ha sposato in seconde nozze una donna americana, e lei si è occupata della faccenda come... come un coroner. È una Lashmar della vecchia tenuta dei Lashmar, prima che vendessero ai Conant. Non è una Lashmar di Toot Hill, né del lotto di Crayford. I suoi vengono proprio da qui; non è gente di scogliera né di foresta, ma di brughiera. Si trasferirono in America - ce l'ho tutto scritto dalla donna di mio zio - nel milleottocento e qualcosa. Mio zio dice che sono tutti lenti a procreare". "Ora, laggiù, appartengono alla nobiltà terriera?", domandò Skim. "Noo, non esiste nobiltà in America, non importa da quanto tempo ci risiedi. È contro la legge. Ci possono essere soltanto i ricchi e i poveri. Sono avvocati, o qualcosa del genere, da un centinaio di anni - comunque, lei è una Lashmar". "Signore Iddio! Cosa sono cento anni?", disse Whybarne, che ne aveva già visti passare settantotto. "E scrivono anche, da laggiù - lo scrive la donna di mio zio - che si possono sempre riconoscere dal capo. Hanno ancora i capelli rossi come il pelo della volpe - e quando camminano gettano i piedi all'infuori. Lui è valgo - cammina come uno zingaro; ma se guardate bene, vedrete che lei getta i piedi all'infuori - come un puledro". "Bisogna andare avanti con questa traccia"; le grandi orecchie di Pinky avevano colto un suono di voci, e mentre i due si aprivano un varco attraverso i cespugli di alloro, gli uomini lavoravano sodo, con gli occhi fissi sui piedi di Sophie. Lei era stata meno fortunata di Iggulden, nelle sue ricerche, poiché la zia Sidney di Meriden (un'autentica Figlia della Rivoluzione, con tanto di distintivo e di certificato) aveva risposto alle sue domande con un discorso di due pagine sul patriottismo, con i volantini di una Società per il Miglioramento dei Villaggi, di cui era presidentessa, e con la richiesta di una sottoscrizione, ormai scaduta, in favore di un Circolo di Lettura per Operaie. Sophie aveva bruciato tutto quanto nel caminetto con il fregio di Orfeo ed Euridice, e si era tenuta la cosa per sé. "Quello che vorrei sapere", disse George, quando stava arrivando la primavera e i giardini avevano bisogno di cure, "è chi mai mi ripagherà delle mie fatiche? Ci ho già messo dentro almeno mezzo milione di dollari". "Sei sicuro di non impegnarti troppo?", chiese la moglie. "Oh no; non ho pensato a me una sola volta, in tutto l'inverno". Guardò le sue ghette inglesi marroni e sorrise. "Ormai mi sono lasciato tutto alle spalle. Credo che potrei mettermi seduto e pensare a tutto quel... quei mesi prima che c'imbarcassimo per venire qui". "No... ah, non farlo!", esclamò lei. "Ma un giorno o l'altro dovrò tornare. Non vorrai tenermi lontano dagli affari per sempre o forse sì?". Terminò la frase con un riso nervoso. Sophie sospirò, mentre prendeva il suo bastone di frassino (quello tagliato per lei dal vecchio Iggulden) dalla rastrelliera nell'atrio. "Non ti stai impegnando troppo anche tu? Sembri un po' stanca", disse lui. "Sei tu che mi stanchi. Vado a Rocketts per vedere la signora Cloke a proposito di Mary", (Costei era la sorella della telegrafista, promossa a cucitrice di Pardons). "Vieni anche tu?" "Devo andare a Burnt House, a vedere il nuovo pozzo. A proposito, c'è un caso di mal di gola a Gale Anstey". "Quella è zona mia. Non interferire. I ragazzi di Whybarne hanno sempre mal di gola. Lo fanno per avere le pasticche di gomma". "Tienti lontana da Gale Anstey finché non me ne accerto, tesoro. Cloke avrebbe dovuto dirmelo". "Questa gente non dice nulla. Non l'hai ancora imparato? Ma obbedirò, mio signore. Ci vediamo più tardi!". Si avviò a piedi, poiché all'interno delle tre strade principali che limitavano il triangolo smussato della proprietà (dove, anche di notte, i carri che passavano si sentivano appena), i veicoli a ruote venivano usati soltanto per i lavori agricoli. Per tutti gli altri scopi c'erano i sentieri. E benché dapprima avessero progettato dei miglioramenti, ben

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presto si erano adeguati alle abitudini del loro regno nascosto, e si muovevano sulle soffici strade lungo i terreni boscosi, le siepi divisorie e i boschetti liberamente come conigli. Infatti, Sophie camminava quasi sempre a capo scoperto, protetta soltanto dall'elmo di capelli castani; ma ultimamente era stata tormentata da un vago mal di denti, come spiegò alla signora Cloke, che le rivolse alcune domande. Come ciò avvenne, Sophie non lo seppe mai, ma dopo un attimo il braccio della signora Cloke le cingeva la vita, e il suo capo poggiava sull'ampio petto della donna, dietro la porta chiusa della cucina. "Mia cara! Mia cara!". La donna più anziana quasi singhiozzava. "E vuole dirmi che non ha mai sospettato di nulla? Ma... insomma... non le hanno mai insegnato niente? Certo che si tratta di quello. Tutti noi, qui, non stavamo aspettando altro. Più di una volta ho detto a Lady ... ", si trattenne. "E adesso le cose andranno come dovrebbero andare". "Ma... ma... ma ...", balbettò Sophie. "E vedervi così affaccendata a costruire il vostro nido - pianoforti e libri - senza mai pensare a una nursery!". "Non mi è proprio passato per la testa". Sophie si drizzò a sedere e cominciò a ridere. "C'è ancora tempo". Le dita della mano picchiettavano pensosamente sull'ampio ginocchio. "Ma... laggiù oltremare dev'essere gente strana! Ha mai pensato di far venire sua madre? È morta? Mia cara, mia cara! Non importa! Sarà felice quando lo saprà. È opera di Dio. E noi stavamo aspettando solo questo, perché voi finora non siete mai venuti meno ai vostri doveri. Non è da voi. Che cosa diceva a proposito di ciò che ha fatto la mia Mary?". Il viso della signora Cloke s'irrigidì, mentre premeva il mento sulla fronte di Sophie. "Se una qualsiasi delle vostre ragazze pensa di comportarsi in modo arbitrario, adesso, io... Ma non lo faranno, mia cara. Baderò anch'io che facciano il loro dovere. Stia certa che non avrete alcun fastidio". Quando Sophie ritornò attraverso i campi, il cielo e la terra mutarono intorno a lei come il giorno della morte dei vecchio Iggulden. Per un attimo pensò all'ampio giro della scala principale, e alla nuova vernice bianco-avorio che nessuno spigolo di bara avrebbe potuto scrostare, ma quasi subito l'ombra cedette il passo a una sensazione di pura meraviglia e stupore che la fece vacillare. Si appoggiò a uno dei cancelli nuovi e indugiò qualche minuto a guardare le loro terre. "Bene", disse con rassegnazione, a mezza voce, "dobbiamo cercare di non farlo sentire un estraneo tra noi due", e girò l'angolo che dava su Friars Pardon, stordita, con un senso di nausea, e sul punto di svenire. Tutt'a un tratto la casa che avevano comperato per capriccio si erse come non l'aveva mai vista prima; la facciata bassa, le ampie ali laterali, vasta, preparata dall'avvicendarsi di generazioni ad accogliere nuovi eredi. Come le aveva dato forza quando era vuota e desolata, così ora che aveva tratto significato dai pochi mesi che ci vivevano, le dava sicurezza e le prometteva cose buone. Entrò da sola e in fretta nell'atrio, e baciò entrambi gli stipiti, sussurrando: "Sii buona con me. Tu sai! Finora non sei mai venuta meno al tuo dovere". George, quando gli venne spiegato come stavano cose avrebbe voluto imbarcarsi subito per il loro paese, ma Sophie si rifiutò. "Non ho bisogno della scienza", disse. "Voglio solo essere amata, e per questo al nostro paese non c'è tempo. Inoltre", aggiunse guardando fuori dalla finestra, "sarebbe una diserzione". George dovette rassegnarsi, e si consolò facendo collegare Friars Pardon con il sistema telegrafico della Gran Bretagna per mezzo del telefono - una linea lunga quasi un miglio di pali, piantati da Whybarne con alcuni amici. Uno di essi, un estraneo proveniente dalla parrocchia vicina, disse mentre stavano installando la linea: "C'è un vecchio olmo proprio sulla nostra strada. Lo buttiamo giù?". "La gente della parrocchia di Toot Hill, né grazia né buona fortuna, che Dio li aiuti". Il vecchio Whybarne urlò il proverbio locale dal punto in cui stava lavorando, tre pali più in giù lungo la linea. "Noi qui non tocchiamo di certo con il ferro della scure il legno per le bare - finché sappiamo cosa ci facciamo. Girate intorno, girate intorno!". Ancora oggi, quella deviazione improvvisa nella linea retta attraverso il pascolo superiore resta un mistero per Sophie e George. Né loro sanno dire perché Skim Winsh, che ogni sabato sera alle 10.45 tornava al suo cottage sotto Dutton Shaw assai ubriaco e canterino, come faceva suo padre prima di lui, non cantasse più in fondo ai gradini del giardino, dove Sophie temeva sempre che si rompesse l'osso del collo. Il diritto di passaggio su quel sentiero era indubbiamente antico, e alle 10.45 di ogni sabato sera Skim si ricordava che era suo dovere nei confronti della posterità mantenere vivo tale diritto - finché la signora Cloke non gli parlò... una sola volta. La donna parlò anche a sua figlia Mary, cucitrice a Pardons, e alla nuova migliore amica di Mary, la domestica alta un metro e settanta importata da Londra, che insegnava a Mary ad ornare i cappellini e trovava la campagna piuttosto tediosa. Ma non vi fu più alcun rumore - in nessun momento del giorno o della notte - e quando Sophie usciva a passeggio non incontrava nessuno sul suo tragitto, a meno che non esprimesse un desiderio in senso contrario. Allora i fittavoli comparivano per dichiarare che stavano tutti bene: loro, i loro bambini, le galline, i tetti, i pozzi e i figli che prestavano servizio nella polizia o nelle ferrovie. "Ma non lo trovi monotono, cara?", disse George, che faceva lealmente del suo meglio per non preoccuparsi mentre passavano i mesi. "Sono stata talmente indaffarata a mettere a posto la casa, che non ho avuto il tempo di pensare", disse lei. "E tu?" "No no. Se potessi soltanto essere sicuro di te".

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Lei si voltò sul divano del salotto verde (avevano poi deciso per un Impero, invece di un Hepplewhite) e mise da parte una lista di biancheria e di coperte. "È cambiato tutto, non è vero?", mormorò. "Oh Signore, certo. Ma continuo a pensare che se tornassimo a Baltimora..." "Rinunciando così alla nostra prima vera estate insieme. No, grazie, mio signore". "Ma siamo completamente soli". "Non sto forse facendo del mio meglio per rimediare a questo? Non preoccuparti. Mi piace qui - mi piace fino al midollo delle mie piccole ossa. Non ti rendi conto di cosa significhi la propria casa per una donna. L'anno scorso pensavamo di abitarci, ma non avevamo ancora iniziato. Non ti trovi bene nel tuo studio, George?" "Preferisco stare qui con te". Si sedette sul pavimento accanto al divano e le prese la mano. "Le sette", disse lei, mentre l'orologio francese batteva le ore. "Due anni fa, a quest'ora, ritornavi appena a casa dal lavoro". Lui trasalì al ricordo, poi rise. "Lavoro! Oggi mi sono fatto dieci ore filate". "Dove hai pranzato? Dai Conant?" "No; a Dutton Shaw, seduto su un ceppo, con i piedi nel pantano. Ma abbiamo scoperto dov'è la vecchia sorgente, e il prossimo anno la collegheremo con una tubazione a Gale Anstey". "Domani verrò a vedere. Oh, per favore, caro, apri la porta. Voglio vedere in fondo al corridoio. Non è delizioso quell'angolo vicino al pianerottolo, dove batte il sole?". Guardò, con gli occhi socchiusi, lo scorcio di bianco-avorio e verde pallido immerso in un bagno dorato. "C'è un gradino fuori della camera da letto di Jane Elphick", proseguì, "e il suo primo passo in questo mondo dovrebbe essere verso l'alto. Non mi meraviglierei se quella gente avesse messo lì il gradino di proposito. George, sarebbe lo stesso per te se fosse una bambina?". Lui rispose, come aveva fatto parecchie volte prima, che a stargli a cuore era sua moglie, non il bambino. "Allora sei l'unico a pensarla così", disse lei ridendo. "Non essere sciocco, caro. Se lo aspettano tutti. È mio dovere. Se verrò meno, non avrò il coraggio di guardare in faccia la nostra gente". "A loro cosa interessa? Che vadano al diavolo!". "Vedrai. Per fortuna la tradizione della casa prevede un maschio, dice la signora Cloke, così sono preparata. Credi che riuscirai mai a capire questa gente? Io no". "E pensare che abbiamo comprato la casa per divertimento... per divertimento", gemette lui. "E adesso siamo bloccati qui per chissà quanto tempo!". "Perché? Stavi forse pensando di vendere?". Lui non rispose. "Ti ricordi della seconda signora Chapin?", domandò lei. Costei era una donnina audace e sfrontata, dalle sopracciglia nere - una vedova per scelta che alla morte di Sophie avrebbe dovuto astutamente sposare George per i suoi soldi, e rovinarlo nel giro di un anno. Sophie si era inventata il personaggio un paio di anni dopo il loro matrimonio, quando George era sempre impegnato con il lavoro, e lei credeva di essere l'unica moglie ad agire così. "Non avrai intenzione di tirarla fuori di nuovo?", chiese lui con ansia. "Voglio solo dire che odierei chiunque comprasse Pardons dieci volte di più di quanto odiavo la seconda signora Chapin. Pensa a quanto di noi abbiamo messo in questo posto". "Almeno un paio di milioni di dollari. So che avrei potuto fare ... ", s'interruppe. "Quelle bestie!", proseguì lei. "Al cancello costruirebbero senz'altro una portineria di mattoni rossi, e rovinerebbero il prato per metterci delle aiuole. Devi lasciare delle disposizioni, nel tuo testamento, affinché lui non faccia mai cose del genere - George, sei d'accordo?". Lui rise e le prese di nuovo la mano, ma non disse nulla finché non venne il momento di vestirsi. Poi mormorò: "A cosa diavolo serve possedere delle terre, se non ci si può trarne profitto?". Friars Pardon rimase fedele alla sua tradizione. A tempo debito nacque, non quel terzo tra di loro verso il quale Sophie intendeva essere così gentile, ma una creatura divina; in bellezza, era evidente, superava Eros, e in saggezza Confucio; un dispensatore di piaceri, un rinnovatore della vita in comune e un interprete del destino. Di quest'ultima dote George non si rese conto finché non incontrò Lady Conant che attraversava a grandi passi Dutton Shaw, qualche giorno dopo il lieto evento. "Mio caro amico", esclamò lei, dandogli una cordiale pacca sulla schiena, "non so dirle quanto tutti noi siamo contenti. Oh, lei si riprenderà benissimo. (Non ci sono mai stati problemi per la nascita di un erede, a Pardons). Ora, dove diavolo è finito?". Frugò a fondo nella sua gonna orlata di cuoio, e ne trasse fuori un piccolo boccale d'argento. "Ho mandato un biglietto a sua moglie, a proposito di questo, ma quell'asino imbecille del mio stalliere si è dimenticato di prenderlo. Mi risparmierà una bella camminata. La saluti affettuosamente da parte mia". E si allontanò a passo di marcia, scortata dai solenni Airedale. Il boccale era ammaccato e ossidato: sopra le iniziali intrecciate, G.L., c'era il ciuffo di un uccello senza zampe e il motto: "Attendi ancora - attendi ancora". "Questo è l'altro capo dell'enigma", mormorò Sophie, quando glielo mostrò quella sera. "Leggi il biglietto. Gli inglesi sanno scriverne di bellissimi".

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"Il benvenuto più caloroso al vostro ometto. Spero che apprezzerà la sua terra d'origine, ora che vi è ritornato. Benché voi non abbiate detto nulla, noi ovviamente non possiamo considerarlo un piccolo straniero, per cui gli mando l'antico boccale di battesimo dei Lashmar. È nelle nostre mani dai tempi in cui Gregory Lashmar, fratello della sua bisnonna..." George guardò fisso la moglie. "Continua", ammiccò lei dai cuscini. "...vendette la sua proprietà alla famiglia di Walter. Pare che in quell'occasione noi acquistassimo alcuni dei vostri penati, ma non rimane nulla, eccetto il boccale e la vecchia culla, che ho trovato nel ripostiglio dei vasi e sto facendo sistemare per voi. Spero che il piccolo George - sarà un Lashmar anche lui, no? - viva tanto da vedere i suoi nipotini farsi i denti sul suo boccale. Con affetto, la vostra Alice Conant. P.S. - Come siete stati riservati sull'intera faccenda!". "Diamine, io..." "Non bestemmiare", disse Sophie. "Fa male alla mente del bambino". "Ma come diavolo ha fatto ad arrivarci? Hai mai fatto parola dei Lashmar?" "L'unica volta sai qual è con il giovane Iggulden, a Rocketts... quando morì il vecchio Iggulden". "Il fratello della tua bisnonna! Ha ricostruito l'intero albero genealogico... più di quanto potesse fare tua zia Sidney. Cosa intende dire, che siamo stati riservati?". Gli occhi di Sophie luccicarono. "Ho riflettuto anche su questo. Finalmente, abbiamo reso la pariglia agli inglesi. Non capisci? Lei pensava che noi pensassimo che il fatto che mia madre fosse una Lashmar rientrasse tra quelle cose che noi ci aspettavamo che gli inglesi scoprissero da soli, e questo l'ha colpita". Rigirò il boccale tra le candide mani e si lasciò sfuggire un sospiro di felicità. ""Attendi ancora... attendi ancora"". Non è un brutto motto, George. Ne è valsa la pena". "Però non riesco ancora a capire ... ". "Non mi meraviglierei se pensassero che la nostra venuta qui facesse parte di un piano, a lungo meditato, per essere vicini ai nostri antenati. Loro lo capirebbero. E guarda come ci hanno accettato, tutti quanti". "Siamo forse così indesiderabili?", brontolò George. "Sii giusto, mio signore. Quel poveraccio di Sangres ha due volte il denaro che abbiamo noi. Riesci a vedere Mary Conant che gli dà una pacca sulla spalla? Nemmeno per sogno! Quel povero diavolo non esiste nemmeno!". "Credi dunque che si tratti di questo?". Lui guardò il lettino accanto al fuoco, dove il giovane dio sbuffava. "Non appena sarò in grado di muovermi, scoprirò dalla signora Cloke quanto dà ogni Lashmar come gratifica (suona meglio che mancia) ogni volta che nasce un Lashmita. Il mio dovere finora l'ho fatto, ma ci si aspetta molto da me". A questo punto entrò la signora Cloke e si affacciò sul lettino, in adorazione. Quando le mostrarono il boccale, il viso le si illuminò. "Oh, adesso che Lady Conant ve l'ha mandato, sarà tutto a posto, signora, non è vero? Naturalmente non poteva che essere "George", ma vedendo quel che è, speravamo - tutta la vostra gente lo sperava - che fosse anche "Lashmar", e così la faccenda sarà completa sotto ogni aspetto. Un boccale molto bello - un pezzo unico, direi. "Attendi un poco - attendi un poco". Ho sentito dire che il motto si addice ai Lashmar. Sono molto lenti a popolare le loro case. È molto probabile che il signorino George non inaugurerà la sua nursery prima dei trent'anni". "Povero agnellino!", esclamò Sophie. "Ma come facevate a sapere che i miei erano dei Lashmar?". La signora Cloke rifletté a lungo. "Non saprei dire con esattezza, signora, ma credo sia dovuto a qualcosa che si è lasciata sfuggire parlando con il giovane Iggulden, quando eravate a Rocketts. Può essere stato quello a fornirci un indizio. E così, poiché una cosa tira l'altra, ci siamo arrivati; e quella gente americana, a Veering Holler, è stata molto disponibile a fornirci le notizie, mi è stato detto, signora". "Santo Cielo!", disse George, sottovoce. "E questo sarebbe l'umile contadino!". "Sì", proseguì la signora Cloke. "E Cloke si stava domandando, questo pomeriggio - le è scivolato il cuscino, mia cara, non deve stare coricata a quel modo - tanto per dire, se non le sembrerebbe opportuno riprendere le fattorie dei Lashmar, signore. Non rientrano esattamente nella proprietà di Sir Walter. Vengono a dipendere piuttosto da noi. Cloke sarebbe lieto di mostrargliele, un giorno". "Ma Sir Walter ha intenzione di venderle?" "Possiamo saperlo dal suo amministratore, signore, ma ... ", con gelido disprezzo, " ... credo che la balia patentata stia tornando da pranzo, per cui temo che dovremo chiederle, signore... Ora, signorino George... Ehilà! Sveglia un po', agnellino!". Qualche mese dopo i tre erano in riva al torrente, nei boschi di Gale Anstey, intenti a considerare la ricostruzione di una passerella divelta dalle piene primaverili. George Lashmar, quel giorno, avrebbe voluto mangiarsi tutte le campanule che il buon Dio aveva donato alla terra, e Sophie lo adorava con una voce simile al tubare di una colomba; cosicché la questione venne rimandata.

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"Ecco il posto", disse infine il padre, tra i non ti scordar di me. "Ma dove diavolo sono i pali di larice, Cloke? Le avevo detto di farmeli trovare qui pronti". "Abbatteremo gli alberi, se così vuole", rispose Cloke, spingendo in fuori il labbro inferiore in un modo che entrambi conoscevano. "Ma gliel'ho detto. Perché mai ha portato qui quella catena per i tronchi? Non stiamo mica costruendo un ponte ferroviario. Diamine, in America basterebbe una mezza dozzina di assi di cinque centimetri per dieci". "Questo non lo so", disse Cloke. "E non ho niente contro il larice - se vuol fare un lavoro che non duri nel tempo. no qui per dirle come stanno le cose, signore; e non può certo dire che le abbia mai rallentato il lavoro, o che abbia cercato di accelerarlo più di quanto non fosse stabilito da lei. Un anno prima George si sarebbe messo a saltare per l'impazienza. Ora invece si raschiò via un po' di fango dalle vecchie ghette con il sarchio e attese. "Io dico solo che può utilizzare il larice e fare un lavoro che non dura nel tempo; e quando il signorino si sposerà, dovrà essere rifatto. Ora, io ho portato un paio di belle assi di quercia di quindici per venti. Metta queste e si tolga il pensiero una volta per tutte. Con l'altro sistema - non dico che non sia valido, mi limito a riferire ciò che penso - con l'altro sistema il signorino avrà appena il tempo di sposarsi, che dovremo rifare tutto da capo. Lei è libero di fare come vuole, ma non c'è altra soluzione". "No", disse George, dopo una pausa; "me ne sono reso conto da un pezzo. Fatelo dunque di quercia; non c'è altra soluzione". LE STREGHE DI MARKLAKE Quando Dan si mise a costruire modellini di navi, Una convinse la signora Vincey, moglie del fattore di Little Lindens, ad insegnarle a mungere. In estate, la signora Vincey munge al pascolo, che è diverso dal mungere nella stalla, poiché le mucche non sono legate e, a meno che non vi conoscano, non stanno ferme. Dopo tre settimane, Una riusciva a mungere Red Cow o Kitty Shorthorn fino all'ultima goccia senza che le dolessero i polsi, e allora permise a Dan di venirla a vedere. Ma la mungitura non lo divertiva, e Una trovava più piacevole stare nei quieti pascoli con la signora Vincey dalla voce quieta. Così, un pomeriggio dopo l'altro, filava a Little Lindens, prendeva il suo sgabello dalla macchia di felci accanto alla quercia caduta, e si metteva al lavoro, con il secchio tra le ginocchia e la testa premuta contro il fianco della mucca. Talvolta la signora Vincey, occupata a mungere la bizzosa Pansy all'altro capo del pascolo, la raggiungeva solo al momento di filtrare e versare il latte. Una volta, a metà della mungitura, Kitty Shorthorn colpì Una al capo con la coda. "Vecchia cagna!", disse Una, quasi sul punto di piangere perché la coda di una mucca può far male. "Perché non gliel'hai legata, piccola?", disse una voce dietro di lei. "Volevo farlo, ma le mosche sono così fastidiose che l'ho lasciata libera... e questo è il ringraziamento!". Una si guardò attorno, aspettandosi di vedere Puck, e vide invece una ragazzina ricciuta, poco più alta di lei ma più anziana, vestita di una curiosa amazzone color lavanda, a vita alta, con un prominente colletto increspato, un'ampia mantellina e una cintura chiusa da una fibbia d'acciaio. Portava un berretto di velluto giallo e guanti marrone chiaro, e aveva un autentico frustino. Le sue gote erano pallide, salvo per due graziose chiazze rosa al centro, e parlava con lievi aneliti al termine di ogni frase, come se avesse corso. "Non mungi tanto male, piccola", disse, e quando sorrise i suoi denti apparvero piccoli, regolari e perlacei. "Tu sai mungere?", chiese Una, e subito arrossì, udendo il sogghigno di Puck. Il folletto uscì dalle felci e si sedette, reggendo la coda di Kitty Shorthorn. "Non c'è molto", disse, "che Miss Filadelfia non conosca sul latte... o, del resto, sul burro e sulle uova. È un'ottima donna di casa". "Oh", disse Una. "Mi spiace di non poterti stringere la mano. Le mie son tutte sporche di latte; ma questa estate la signora Vincey mi insegnerà a fare il burro". "Ah! Io quest'estate andrò a Londra", disse la ragazza, "da mia zia, a Bloomsbury". Tossì e iniziò a canticchiare, "Oh, che città! Che stupenda metropoli!". "Sei raffreddata", disse Una. "No. È solo la mia stupida tosse. Ma è molto migliorata da quest'inverno. Con l'aria di Londra sparirà. Lo dicono tutti. Ti piacciono i dottori, piccola?" "Non ne conosco", rispose Una. "Ma sono certa di no". "Ritieniti fortunata, piccola. Chiedo scusa", la ragazza rise, perché Una si era accigliata. "Non sono piccola, e il mio nome è Una", disse. "Il mio è Filadelfia. Ma, tranne René, mi chiamano tutti Fil. Sono la figlia di Squire Bucksteed... di Marklake, laggiù". E accennò con il mento minuto e rotondo verso sud, dietro Dallington. "Conoscerai sicuramente Marklake". "Una volta siamo stati a fare un picnic a Marklake Green", disse Una. "È graziosissimo. Mi piacciono tutte quelle buffe stradine che non portano in nessun luogo".

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"Portano sulle nostre terre", disse Filadelfia, irrigidendosi, "e la strada carrozzabile dista solo quattro miglia. Si può andare ovunque dal Green. Io, lo scorso anno, sono andata al ballo delle Assise a Lewes". Fece una giravolta e accennò qualche passo di danza, ma si fermò subito portandosi una mano sul fianco. "Sento una fitta", spiegò. "Non importa. Passerà con l'aria di Londra. Questo è l'ultimo passo francese, piccola. Me l'ha insegnato René. Tu odî i francesi, pic... Una?" "Be', certo che odio i francesi, ma non mi lamento di Ma'm'selle. È abbastanza gentile. René è la tua governante francese?". Filadelfia rise finché il fiato non le venne meno. "Oh no! René è un francese prigioniero... sulla parola. Significa che ha promesso di non fuggire finché non sarà debitamente scambiato con un inglese. È soltanto un dottore, così spero che non lo ritengano degno di uno scambio. Lo ha catturato mio zio l'anno scorso sulla nave corsara Ferdinand, al largo di Belle Isle, e lui l'ha curato da un tr-r-remendo mal di denti. Dopo di che, naturalmente, non si poteva lasciarlo con gli altri prigionieri francesi a Rye, e così adesso sta da noi. È di famiglia antichissima - un bretone, che è quasi come dire un vero britanno, secondo mio padre - e porta i capelli raccolti sulla nuca - non incipriati. Stanno molto meglio, non credi?" "Non so cosa ... ", iniziò Una, ma Puck, dall'altro lato del secchio, le strizzò l'occhio e lei continuò a mungere. "Quando la guerra sarà finita, diventerà un grande medico francese. Per ora mi fa i fuselli per il tombolo - è molto abile con le mani; ma curerebbe anche la nostra gente al Green, se glielo permettessero. Senonché il nostro medico - il dottor Break - dice che è un emp- o imp- qualcosa... peggio che impostore. Ma la mia bambinaia dice..." "Bambinaia! Sei così grande. Perché hai una bambinaia?". Una finì di mungere e si girò sullo sgabello mentre Kitty Shorthorn si allontanava brucando. "Perché non riesco a liberarmene. La vecchia Cissie ha allevato mia madre, e dice che si occuperà di me fino alla morte. Che idea! Non mi lascia mai in pace. Crede che sia delicata. È diventata debole di mente, sai. Matta, completamente matta, povera Cissie!". "Proprio matta?", disse Una. "O solo svanita?" "Pazza, direi... a giudicare dalle cose che fa. La sua devozione per me è terribilmente imbarazzante. Sai che ho tutte le chiavi di casa, tranne quelle del locale dove si fa la birra e della cucina degli affittuari? Sono io che distribuisco le provviste, la biancheria e l'argenteria". "Che bello! Io adoro le dispense e distribuire la roba". "Ah, quando avrai la mia età, ti accorgerai che è una grande responsabilità. L'anno scorso papà disse che mi affaticavo per i troppi impegni, e voleva che cedessi le chiavi alla vecchia Amoore, la nostra governante. Io mi rifiutai. La odio. Dissi: "Nossignore. Io sarò la Signora di Marklake Hall finché vivrò, giacché non mi sposerò mai, e distribuirò provviste e biancherie fino alla morte!"". "E cosa disse tuo padre?" "Oh, minacciai di attaccargli uno strofinaccio per i piatti alla falda della giacca, e scappò via. Tutti hanno paura di papà, tranne me". Filadelfia batté il piede in terra. "Che idea! Se io non posso rendere felice mio padre in casa sua, vorrei incontrare la donna che può... e... e... la scorticherei viva!". Fece schioccare il lungo frustino. Il colpo risuonò come una pistolettata per il pascolo silente. Kitty Shorthorn alzò il muso e trottò via. "Chiedo scusa", disse Filadelfia; "ma ciò mi rende furiosa. Tu non le odi, quelle vecchie e ridicole eccentriche con frangette e frontini che vengono a pranzo e ti chiamano "piccola" alla tua stessa tavola e sulle tue sedie?" "Non sempre mi chiamano quando ci sono degli invitati", disse Una, "ma odio sentirmi chiamare "piccola". Per favore, raccontami delle dispense e della distribuzione delle provviste". "Ah, è una grande responsabilità - specialmente con quella vecchia gatta di Amoore, che controlla le liste dietro le spalle. E l'estate scorsa è accaduta una cosa assai imbarazzante. Quella povera matta di Cissie, la mia bambinaia di cui ti dicevo, ha preso tre cucchiai da tavola d'argento massiccio". "Preso? Ma non significa rubare, questo?", esclamò Una. "Ssst!", disse Filadelfia, girandosi a guardare Puck. "Dico solo che li ha presi senza il mio permesso. In seguito ha rimesso tutto a posto. Quindi, come dice papà - e lui è magistrato -, non si è trattato di un reato perseguibile a termini di legge; è stata soltanto la mancata denuncia di un reato". "Sembra una cosa terribile", disse Una. "Lo fu. Mia cara, ero furibonda! Tenevo le chiavi da dieci mesi, e fino ad allora non avevo mai perso nulla. Dapprima non feci parola del fatto, perché una grande casa offre innumerevoli occasioni di smarrire delle cose e poi ritrovarle. Mio zio lo chiama "Fermarsi negli ombrinali sottovento". Ma dopo una settimana ne parlai con la vecchia Cissie, mentre mi pettinava per la notte, e lei mi disse che non dovevo preoccuparmi per delle sciocchezze!". "Non è il loro modo di fare?", proruppe Una. "Vedono che sei preoccupato per qualcosa che conta veramente, e dicono: "Non preoccuparti"; come se questo servisse a qualcosa!". "Sono assolutamente d'accordo con te, mia cara; assolutamente d'accordo! Dissi a Cissie che i cucchiai erano d'argento massiccio, e valevano quaranta scellini; quindi, se il ladro fosse stato scoperto avrebbe pagato con la pena capitale". "Vuoi dire impiccato?", chiese Una. "Così dovrebbe essere; ma papà dice che, oggigiorno, nessuna giuria impiccherebbe un uomo per un furto di quaranta scellini. Lo condannano ai lavori e lo deportano agli estremi confini della terra, al di là dei mari, per tutta la

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vita. Lo dissi a Cissie e la vidi tremare nello specchio. Poi scoppiò in lacrime e mi afferrò le ginocchia, e io non riuscivo assolutamente a capire perché piangesse così. Riesci a indovinare, mia cara, cos'aveva fatto quella povera pazza? Era mezzanotte, prima che arrivassi a capirlo. Aveva dato i cucchiai a Jerry Gamm, il Maestro delle Streghe del Green, perché mi facesse un incantesimo! A me!". "Un incantesimo? Perché?" "È quello che le chiesi; e allora capii quanto fosse suonata la povera Cissie! Sai di questa mia stupida tossicina? Sparirà non appena andrò a Londra. Lei era preoccupata di questo, e del fatto che sono così gracile, e mi disse che Jerry le aveva promesso che, se gli avesse portato tre cucchiai d'argento, mi avrebbe guarito per incanto dalla tosse e mi avrebbe fatto ingrassare - "metter su carne", disse lei. Io non potei fare a meno di ridere; ma fu una notte terribile! Dovetti mettere Cissie nel mio letto, e accarezzarle la mano finché, a furia di piangere, non si addormentò. Cos'altro potevo fare? Quando si svegliò, ed io tossii - credo di poter tossire nella mia camera, se mi va - disse che mi aveva ucciso, e mi chiese di farla impiccare a Lewes, piuttosto che mandarla agli estremi confini della terra, lontano da me". "Terribile! E tu cosa facesti, Fil?" "Cosa feci? Partii a cavallo, alle cinque del mattino, per andare a fare quattro chiacchiere con Mastro Jerry, armata di un frustino nuovo. Oh, ero furibonda! Maestro di streghe o no, volevo ... " "Ah! Cos'è un maestro di streghe?" "Semplice: uno che ammaestra le streghe. Io non credo che esistano le streghe; ma la gente dice che ogni villaggio ne ha qualcuna, e Jerry era il maestro di tutte le nostre di Marklake. È stato contrabbandiere e marinaio su una nave da guerra, e adesso finge di essere carpentiere e falegname - sa fare quasi di tutto - ma in realtà pratica la magia bianca. Cura la gente con le erbe e gli incantesimi. Può curare una persona anche dopo che il dottor Break l'ha data per spacciata, ed è per questo che il dottor Break lo odia tanto. Quand'ero piccola mi faceva dei carrettini giocattolo, e mi guariva dalle verruche con un incantesimo". Filadelfia aprì le mani dalle unghiette lucide e delicate. "La gente non ritiene di buon auspicio contrariarlo. Dice che abbia i suoi modi di vendicarsi. Ma io non avevo paura di Jerry! Lo vidi che lavorava in giardino e, sporgendomi sulla sella, gli assestai due colpi di staffile tra le spalle, da sopra la siepe. Ebbene, mia cara, per la prima volta da quando papà me l'aveva regalato, il mio Troubadour (vorrei che tu vedessi la dolce creatura!) fece uno scarto dall'altra parte della strada e venni proiettata sulla siepe. Assai poco dignitoso! Jerry mi tirò giù dalla sua parte e mi tolse le foglie che avevo addosso. Ero terribilmente graffiata, ma non vi badai. "Ora, Jerry", dissi, "ti leverò la pelle di dosso, e poi ti manderò a Lewes. Tu sai bene perché". "Oh!", disse lui, e si sedette tra le sue arnie. "Immagino, dunque, che siate al corrente dell'impresa della vecchia Cissie, mia cara". "E immagini bene", dissi io. "Allontanati da quelle arnie. Lì non posso raggiungerti". "È proprio per questo che sono qui", disse lui. "Dovete scusarmi, Miss Fil, ma alla mia età non ammetto di essere frustato prima di colazione". È un uomo grande e grosso, ma sembrava così buffo accoccolato tra le arnie che - so che non avrei dovuto farlo - risi, e rise anche lui. Rido sempre al momento sbagliato. Ma riacquistai subito la dignità e dissi "Allora ridammi quello che hai fatto rubare alla povera Cissie!". ""La vostra povera Cissie", disse lui. "È una fonte di seccature. Ma li riavrete, Miss Fil. Sono tutti messi da parte per voi". E, ci crederesti, quel vecchio peccatore tirò fuori i miei tre cucchiai d'argento dalla sua lurida tasca, e li lucidò sulla manica! "Eccoli", disse, e me li diede, pacifico, come se fossi andata a farmi curare le verruche con gli incantesimi. Questa è la cosa peggiore della gente che ti ha conosciuto da piccola. Ma io non persi la calma. "Jerry", dissi, "cosa dobbiamo fare? Se ti avessero preso con questa roba addosso, saresti finito sulla forca". ""Lo so", disse lui. "Ma ora li avete voi". ""Però tu hai indotto la mia Cissie a rubarli", dissi. ""Niente affatto", disse lui. "Erano settimane che la vostra Cissie mi tormentava e mi perseguitava tutto il santo giorno perché vi facessi un incantesimo, Miss Fil, e vi guarissi dalla vostra tosserella sputacchiante". ""Sì. Questo lo so, Jerry, e per farmi ingrassare!", dissi. "Hai tutta la mia riconoscenza, ma non sono uno dei tuoi maiali!". ""Ah! Vedo, dunque, che ve ne ha parlato", disse. "Sì, non mi dava pace, ed essendo esasperato - giacché non sopporto le vecchie - le affidai un compito che pensavo l'avrebbe ridotta al silenzio. Non immaginai certo che quella vecchia sgraffignona avrebbe rischiato l'osso del collo alle Assise di Lewes per amor vostro, Miss Fil. Ma così fece. Partì difilata e commise il furto, ve l'assicuro, allegra come uno zingaro. Avreste potuto stendermi con uno solo di quei cucchiaini, tanta fu la sorpresa quando me li portò nel grembiule". ""Intendi dire, dunque, che l'hai fatto per mettere alla prova la mia povera Cissie?", gli gridai. "E per che altro se no, carina?", disse lui. "Io non ho certo bisogno di rubare. Sono proprietario di terre, e ho dei soldi in banca; e d'ora in avanti non mi fiderò più delle donne! Vecchia stupida ramazza! Credo che avrebbe rubato anche il grosso orologio da tasca di vostro padre, se glielo avessi chiesto". ""Allora sei un vecchio malvagio", dissi, ed ero così arrabbiata che non potei fare a meno di piangere; il che, naturalmente, mi fece tossire. "Jerry ne fu enormemente impressionato. Mi prese in braccio e mi portò nel suo cottage - che è pieno di curiosità esotiche - e mi diede qualcosa da mangiare e da bere, e disse che si sarebbe fatto impiccare in qualsiasi momento, se la cosa mi faceva piacere. Aggiunse anche che avrebbe detto alla vecchia Cissie che gli dispiaceva. Il che è una grande umiliazione per un maestro di streghe, sai. Io mi vergognai di essere stata così sciocca, e mi strofinai gli occhi e dissi "Il minimo che tu possa fare, ora, è ricompensare la povera Cissie con un incantesimo di qualche tipo per me".

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""Sì, questo è solo un comportamento onesto", disse lui. "Sapete i nomi dei Dodici Apostoli, cara? Diteli uno per uno davanti alla finestra aperta, con la pioggia o con il vento, con il bello o il cattivo tempo, cinque volte al giorno a digiuno. Ma badate, tra un nome e l'altro dovete respirare con il naso, più a lungo e a fondo che potete, in modo che l'aria vi arrivi fino ai piedini, e poi dovete espellerla attraverso la vostra graziosa boccuccia. Quei nomi, così pronunciati, hanno il potere di guarirvi dalla tosse. E vi darò anche qualcosa che possiate vedere. Ecco una bacchetta di acero, che è l'albero più caldo del bosco"". "È vero", interruppe Una. "A toccarlo, è quasi caldo come la mano". ""Ha un taglio di un pollice per ognuno dei vostri anni", disse Jerry. "Cioè sedici pollici. Mettetelo alla finestra, in modo che tenga alzato il telaio, e tenetelo così, con la pioggia o con il sole, con il bello o il cattivo tempo, giorno e notte. Vi ho pronunciato sopra delle parole che avranno effetto sui vostri malanni". ""Io non ho alcun malanno, Jerry", dissi. "È solo per compiacere Cissie". ""Lo so bene quanto voi, mia cara", disse lui. E... e quello fu tutto ciò che ottenni dalla spedizione punitiva con la frusta. Mi domando se non sia stato lui a far scartare il povero Troubadour, quando lo colpii con lo staffile. Jerry ha i suoi modi di vendicarsi della gente"". "Chi lo sa", disse Una. "Ebbene, hai provato l'incantesimo? Ha funzionato?" "Che sciocchezza! Ne parlai con René, ovviamente, perché è un dottore. Diventerà un medico molto famoso. Per questo il nostro dottore lo odia. René disse, "Oho! Il vostro Mastro Gamm merita di essere conosciuto"", e inarcò le sopracciglia - così. Prese tutto per ischerzo. Dal capannone del carpentiere, dove lavora, si può vedere la mia finestra, e se per caso la bacchetta di acero cadeva, lui fingeva di preoccuparsi terribilmente, finché io non puntellavo di nuovo il telaio. Era solito chiedermi se avevo detto correttamente i nomi dei miei apostoli, e come facevo le mie respirazioni. Oh, e il giorno dopo, pur essendoci già stato un sacco di volte, si mise il cappello nuovo e fece una visita ufficiale a Jerry Gamm - come collega di medicina. A Jerry non passò neanche per la testa che René si burlasse di lui, e così gli parlò dei malati del villaggio, e di come lui li curasse con le erbe dopo che il dottor Break li aveva dati per spacciati. Jerry parlava il francese dei contrabbandieri, naturalmente, e io avevo insegnato a René un bel po' di inglese, sebbene fosse così diffidente. Si chiamavano l'un l'altro Monsieur Gamm e Mosheur Lanark, proprio come due gentiluomini. Immagino che la cosa divertisse il povero René. Non ha molto da fare, salvo ingannare il tempo nella bottega del carpentiere. È come tutti i prigionieri francesi - sta sempre a fare gingilli; e Jerry aveva un piccolo tornio nel cottage, e così... e così... René cominciò a starsene con Jerry molto più di quanto non mi garbasse. La nostra casa è così grande e vuota, quando papà è via, e a me non va di starmene seduta con la vecchia Amoore - parla così male di tutti, specialmente di René". "Temo di essere stata sgarbata con lui; ma ebbi la giusta punizione. Succede sempre così. Un giorno papà andò ad Hastings per ossequiare il generale che vi comandava la brigata, e per condurlo poi a casa nostra. Papà mi disse che era un soldato assai valoroso venuto dall'India - era stato colonnello del reggimento di papà, il 33° Fanteria, dopo che papà aveva lasciato l'esercito, e in seguito aveva cambiato il proprio nome da Wesley in Wellesley, o viceversa; papà disse che, data l'occasione, dovevo tirare fuori tutta l'argenteria, e io capii che avremmo avuto un gran pranzo. Così mandai a prendere dello sgombro al mare, e passai una mattina di quelle in cucina e nella dispensa. La vecchia Amoore quasi piangeva". "Comunque mia cara, feci tutti i preparativi più che in tempo; ma il pesce non arrivava - non arriva mai - e volevo che René andasse a cavallo a Pevensey, a prenderlo di persona. René, naturalmente, era andato da Jerry - come faceva sempre, a meno che non richiedessi in anticipo la sua presenza. Non posso mandarlo a chiamare ogni volta che ne ho bisogno. E certo doveva essere là. Ora, piccola, non fare mai quello che ho fatto io, perché è indegno di una signora, nel modo più assoluto; ma... ma uno dei nostri boschi arriva fino al giardino di Jerry, e se uno sa arrampicarsi - è poco elegante, ma io mi arrampico come un gatto - c'è una vecchia quercia cava proprio sopra il porcile, da dove si può sentire e vedere tutto ciò che avviene di sotto. In verità, andai soltanto per dire a René dello sgombro, ma vidi lui e Jerry seduti che giocavano con delle trombette di legno. Così scivolai nel cavo, trattenni la tosse e ascoltai. A me, René non aveva mai mostrato quelle trombe". "Trombe? Non sei troppo grande per delle trombe?", chiese Una. "Non erano delle vere trombe, perché Jerry si aprì il colletto della camicia, e René gli appoggiò un'estremità della sua tromba sul petto, e mise l'orecchio all'altra estremità. Poi Jerry appoggiò la sua tromba sul petto di René, e ascoltò mentre René respirava e tossiva. Temevo di tossire anch'io". ""Questa di agrifoglio è la migliore", disse Jerry. "È meraviglioso come sentire l'anima di un uomo che gli mormora nelle viscere; ma, a meno che io non abbia un ronzìo nelle orecchie, Mosheur Lanark, voi fate quasi lo stesso genere di rumori del vecchio Compar Macklin - anche se non così forte come il giovane Copper. Sembrano frangenti su una scogliera... a grande distanza. Comprendé?" ""Perfettamente", disse René. "Io mi spingo verso i frangenti. Ma, prima di sbattervi contro, salverò centinaia, migliaia, forse milioni di vite, con le mie trombette. Ora ditemi quali suoni faceva nel petto il vecchio Compar Macklin, e quali il giovane Copper". "Jerry parlò per quasi un quarto d'ora dei malati del villaggio, mentre René gli faceva delle domande. Poi il francese sospirò e disse: "Voi spiegate molto bene, Monsieur Gamm, ma se soltanto avessi la possibilità di ascoltare di persona! Credete che per qualche soldo questa gente permetterebbe che io l'ascoltassi con la mia tromba? No?". René è povero in canna.

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""Vi ucciderebbero, Mosheur. Non sapete tutto quello che debbo fare io per convincerli, e io sono Jerry Gamm", disse Jerry. È molto orgoglioso dei suoi risultati. ""Allora questa povera gente è impaurita. No?", disse René. ""Ce l'hanno con me da un po' di tempo, perché provo le vostre trombe sui loro malati; e, dai discorsi che ho sentito in birreria, credo che non sopporteranno molto di più. Toni Dunch e altri della sua risma si stavano ubriacando in maniera assai preoccupante, quando sono passato di lì dopo mezzogiorno. Incantesimi, mormorii, brandelli di lana rossa e galline nere sono cose naturali per questi imbecilli, Mosheur; ma qualunque rimedio che possa aiutarli veramente è opera del demonio, per loro. Se fossi in voi, me ne andrei a casa prima del loro arrivo". Jerry parlò con assoluta calma, e René si strinse nelle spalle. ""Io sono prigioniero sulla parola, Monsieur Gamm"", disse. "Non ho una casa". "Questo fu poco gentile da parte di René. Mi aveva detto più di una volta che considerava l'Inghilterra come casa sua. Immagino che fosse per cortesia francese. ""Allora parleremo di qualcosa che conta"", disse Jerry. "Per non fare nomi, Mosheur Lanark, quale potrebbe essere la vostra opinione su qualcuno che non è il vecchio Compar Macklin né il giovane Copper? Questa persona sta meglio o peggio?" ""Meglio... per il tempo che è", disse René. Intendeva dire per il momento, ma non sono mai riuscita a insegnargli certe espressioni. ""Lo pensavo anch'io", disse Jerry, "Ma in futuro?" "René scosse il capo, e poi si soffiò il naso. Non hai idea di quanto sembri strano un uomo che si soffia il naso, quando si è seduti proprio sopra di lui. ""Lo pensavo anch'io", disse Jerry. Borbottava così piano che riuscivo appena a intendere ciò che diceva. "Per me non fa molta differenza, perché sono vecchio. Ma voi siete giovane, Mosheur... voi siete giovane", e posò la mano sul ginocchio di René, e René la coprì con la propria. Non sapevo che fossero tanto amici. ""Grazie, mon ami", disse René. "Vi sono molto grato. Torniamo alle nostre trombe. Ma dimenticavo", si alzò in piedi, "pare che abbiate ospiti, questo pomeriggio!". "Dalla quercia non si riesce a vedere nel vicolo di Gamm, ma il cancello si aprì e il piccolo e grasso dottor Break entrò con andatura pesante, asciugandosi il capo, seguito da una mezza dozzina di abitanti del villaggio alquanto ubriachi. "Avresti dovuto vedere l'inchino di Renè; lo fa in maniera stupenda". ""Una parola, Laënnec", disse il dottor Break. "Jerry ha praticato qualche diavoleria su questi poveri disgraziati, e loro mi hanno chiesto di fare da arbitro". ""Qualunque cosa significhi, suppongo che sia meno pericoloso di chiedervi di fare il medico", disse Jerry, e Toni Dunch, uno dei nostri carrettieri, rise. ""Questo non è gentile da parte tua, Tom", disse Jerry, "visto che il bravo dottor Break ti ha tolto la spina dal fianco, l'inverno scorso". La moglie di Toni era morta a Natale, malgrado i salassi praticatile dal dottor Break due volte alla settimana. Il dottor Break saltellava dalla rabbia. ""Quello non c'entra", disse. "Questa brava gente è disposta a testimoniare che voi avete spiato impudentemente nei segreti di Dio grazie a qualche trucco da prete cattolico che questo individuo", e indicò il povero René, "vi ha fornito. Bene, ecco gli oggetti in questione!". René teneva in mano una tromba. "Allora parlarono tutti insieme. Dissero che il vecchio Compar Macklin stava morendo per le fitte di dolore al fianco su cui Jerry aveva appoggiato la tromba - loro la chiamavano l'auricolare del diavolo; e dissero che lasciava dei segni stregati, circolari e rossi, sulla pelle delle persone, e faceva seccare gli occhi, sputare sangue e sudare. Dissero cose terribili. Non si era mai sentito tanto rumore. Io ne approfittai per tossire. "René e Jerry erano in piedi con le spalle rivolte al porcile. Jerry si frugò nelle grosse tasche della giacca ed estrasse un paio di pistole. Avresti dovuto vedere come indietreggiarono tutti, quando alzò il cane della sua. L'altra la passò a René. ""Aspettate! Aspettate!" disse René. "Spiegherò al dottore, se permette". Agitò una tromba verso di lui, e gli uomini al cancello gridarono, "Non toccatela, dottore! Non posate la mano su quella cosa". "Suvvia!", disse René. "Non siete così sciocco come volete far credere. No?". "Il dottor Break indietreggiò verso il cancello, fissando la pistola di Jerry; René lo seguì con la sua tromba, come una bambinaia che cerchi di divertire un bambino, e si portò quell'affare ridicolo all'orecchio per mostrare come veniva usato, e parlò del la Gloire, e l'Humanité e la Science, mentre il dottor Break fissava la pistola di Jerry e imprecava. Poco ci mancò che non scoppiassi a ridere. ""Adesso ascoltate! Ascoltate!" disse René. "Questo sarà denaro nelle vostre tasche, mio caro confrère. Diventerete ricco". "Allora il dottor Break disse qualcosa a proposito di certi avventurieri che, non potendo guadagnarsi da vivere onestamente al loro paese, si insinuano nelle case per bene e approfittano della fiducia dei gentiluomini per arricchirsi con ignobili raggiri. "René lasciò cadere la sua ridicola tromba e fece uno dei suoi migliori inchini. Capii che era arrabbiato dal modo in cui pronunciava la "r". ""Benissimo", disse. "Per questo avrò il gr-r-rande piacere di uccidervi qui ed ora. Monsieur Gamm", - un altro inchino a Jerry - "prestategli, per favore, la vostra pistola, altrimenti avrà la mia. Vi dò la mia parola che non so quale

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sia la migliore; e se vorrà scegliersi un padrino tra i suoi amici laggiù" - un altro inchino ai nostri bifolchi ubriachi al cancello - "cominceremo". ""È abbastanza giusto", disse Jerry. "Tom Dunch, è tuo dovere verso il dottore fargli da padrino. Piazza il tuo uomo". ""No", disse Tom. "Io non m'immischio nelle liti dei signori". Scosse il capo e uscì, seguito dagli altri compari. ""Aspettate", disse Jerry. "Avete dimenticato cosa vi proponevate di fare in birreria, un momento fa? Volevate perquisirmi, alla ricerca di segni stregati; volevate buttarmi nello stagno; volevate tirar fuori ogni pezzetto di legno dal mio cottage. Che vi succede? Tom, non ti piacerebbe trovarti qui con la tua vecchia, stanotte?". "Ma quelli non si guardarono neppure indietro, figurarsi se tornarono. Corsero alla birreria del villaggio come tante lepri. ""Non importa per quella canaille", disse René, abbottonandosi la giacca in modo da non mostrare la biancheria. Tutti i gentiluomini fanno così prima di un duello, dice papà - e lui ci è passato cinque volte. "Gli farete voi da padrino, Monsieur Gamm. Dategli la pistola". "Il dottor Break la prese come se fosse rovente, poi disse che se René avesse rinunciato alle sue pretese su certe cose, lui sarebbe passato sopra alla questione. René fece un inchino più profondo che mai. ""Quanto a questo", disse, "se voi non foste l'ignorante che siete, avreste capito da un pezzo che il caso in questione è senza rimedio". "Io non so quale potesse essere il caso in questione, ma René parlò con voce terribile, mia cara, e il dottor Break divenne pallidissimo, e disse che René era un bugiardo; allora René lo afferrò per la gola e strinse fino a farlo diventar nero. "Bene, mia cara, come se questo non bastasse a rendere eccitante la situazione, proprio in quell'istante udii una strana voce dall'altra parte della siepe, che diceva: "Cos'è questo? Cos'è questo, Bucksteed?", e nel vicolo comparvero mio padre e Sir Arthur Wesley a cavallo; e c'era René inginocchiato sul dottor Break, e c'ero io sulla quercia, che ascoltavo con le orecchie spalancate. "Devo essermi sporta troppo in avanti, e la voce mi fece sobbalzare in modo tale che scivolai. Ebbi solo il tempo di fare un salto sul tetto del porcile - un altro, prima che le tegole si rompessero, sul muro del porcile - e poi ruzzolai in giardino, proprio alle spalle di Jerry, coi capelli pieni di pezzi di corteccia. Immagina la situazione!". "Oh, certo!". Una rise fin quasi a cadere dallo sgabello. "Papà disse: "Fil-a-del-fia!" e Sir Arthur Wesley disse: "Buon Dio!" e Jerry mise il piede sulla pistola che René aveva lasciato cadere. Ma René fu stupendo. Non mi guardò nemmeno. Cominciò a sciogliere il fazzoletto dal collo del dottor Break con la stessa rapidità con cui l'aveva attorcigliato, e gli chiese se si sentisse meglio. ""Cos'è successo? Cos'è successo?", chiese papà. ""Una convulsione!", disse René. "Temo che il mio confrère abbia avuto una convulsione". "Non temete. Si sta già riprendendo. Devo salassarvi un poco, mio caro dottore?". Anche il dottor Break fu grande. Disse: "Vi sono immensamente obbligato, Monsieur Laënnec, ma ora mi sento meglio". E mentre usciva dal cancello disse a papà che si era trattato di una sincope... credo. Allora Sir Arthur disse: "Perfetto, Bucksteed. Non una parola di più! Sono entrambi gentiluomini". E si levò la feluca dinanzi al dottor Break e a René. "Ma il povero papà non voleva assolutamente lasciar stare. Continuava a ripetere, "Filadelfia, cosa significa tutto ciò?" ""Be', signore", dissi io, "sono venuta giù appena adesso. Da quanto ho potuto vedere, sembra che il dottor Break abbia avuto un attacco improvviso". Il che era assolutamente vero - se tu avessi visto come l'ha attaccato René. Sir Arthur rise. "Non fa molta differenza, Bucksteed", disse. "È una signora, una perfetta signora". ""Il Cielo sa che non ne ha l'aspetto", disse il povero papà. "Vai a casa, Filadelfia". "Così andai a casa, mia cara - non ridere in quel modo! - proprio sotto il naso di Sir Arthur - un naso enorme - sentendomi come una bambina di dodici anni che sta per essere picchiata. Oh, chiedo scusa, piccola!". "Di nulla", disse Una. "Io vado per i tredici. Non sono mai stata picchiata, ma so come ti sentivi. Nondimeno, dev'essere stato buffo!". "Buffo! Se avessi sentito Sir Arthur sbottare in continuazione "Buon Dio, Bucksteed!", mentre mi seguivano a cavallo; e il povero papà che diceva: "Sul mio onore, Arthur, non ci capisco nulla!". Oh, come mi scottavano le guance, quando raggiunsi la mia stanza! Ma Cissie aveva tirato fuori il mio vestito da sera più bello, quello di satin bianco smerlato in fondo a foglioline marroni, e con i nodi di perle, sai, che arrivano fino al drappeggio dalla spalla sinistra. Misi il fisciù di pizzo della povera mamma e il suo pettine a diadema". "Oh, beata te!", mormorò Una. "E i guanti?" "Capretto francese, mia cara", Filadelfia le diede un colpetto sulla spalla, "e scarpine di satin marrone, e un ventaglio di crespo oro e marrone. Questo mi restituì la calma. Le cose belle hanno sempre questo potere. Avevo i capelli fermati sulla fronte, con un piccolo ricciolo sull'orecchio sinistro. E quando scesi le scale, en grande tenue, la vecchia Amoore mi fece un inchino senza che io dovessi fermarmi a guardarla, il che, ahimè!, capita anche troppo spesso. Sir Arthur fu molto soddisfatto del pranzo, mia cara: lo sgombro era arrivato in tempo. Avevamo tirato fuori tutta l'argenteria di Marklake, ed egli brindò alla mia salute e mi chiese dove fosse la mia sorellina di nido. Sapevo che voleva prendermi in giro, così lo guardai dritto in faccia, mia cara, e dissi: "La mando sempre nella nursery, Sir Arthur, quando ricevo degli ospiti a Marklake Hall"". "Oh, come fosti al-abile. E lui cosa disse?", esclamò Una.

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"Disse: "Non fa molta differenza, Bucksteed. Dio, me lo sono meritato", e fece un altro brindisi in mio onore. Poi parlarono dei francesi, e di come fosse una vergogna che Sir Arthur comandasse soltanto una brigata ad Hastings, e lui raccontò a papà di una battaglia in India, in un posto chiamato Assaye. Papà disse che fu una battaglia terribile, ma Sir Arthur la descrisse come se fosse stata una partita a whist - perché era presente una signora, suppongo". "La signora eri tu, ovviamente. Vorrei averti vista", disse Una. "Lo vorrei anch'io, piccola. Ebbi un tale trionfo, dopo pranzo. Arrivarono René e il dottor Break. Si erano completamente rappacificati, e mi dissero di avere la massima stima l'uno dell'altro; al che io risi e dissi: "Ho sentito tutto, sull'albero". Non si videro mai due uomini tanto impauriti, e quando dissi: "Qual era il caso in questione René?", nessuno dei due seppe dove rivolgere lo sguardo. Oh, li presi in giro senza pietà. Non dimenticare che mi avevano visto saltare giù dal tetto del porcile". "Ma qual era il caso in questione?", disse Una. "Oh, il dottor Break disse che si trattava di una disputa professionale, e così furono loro a ridere di me. Avevo una paura terribile che potesse essere qualcosa di indelicato e inadatto a una signora. Ma non fu questo il mio trionfo. Papà mi chiese di suonare l'arpa. Detto tra noi, piccola, avevo studiato per delle settimane una nuova canzone venuta da Londra - non vivo sempre sugli alberi - e gliela offrii come sorpresa". "Qual era?", chiese Una. "Cantala". ""Ho donato il mio cuore ad un fiore". Non è molto difficile come diteggiatura, ma il sentimento è in- can-tevole". Filadelfia tossì e si schiarì la gola. "Ho una voce bassa per la mia età e corporatura", spiegò. "Contralto, sai, ma dovrebbe essere più forte", e cominciò, con il viso scuro contro l'ultimo rosa tenue del tramonto: Ho donato il mio cuore ad un fiore, Benché sappia che sta appassendo, Benché sappia che vivrà un'ora soltanto E mi lascerà a piangerne la fine! "Non è di una dolcezza commovente? L'ultimo verso, poi - vorrei avere qui la mia arpa, cara -, scende fin dove arriva la mia voce". Tirò in dentro il mento e trasse un profondo respiro: Turbini che infuriate desolati, Vi ordino di essere buoni col mio amore! Ella è tutto - tutto ciò che possiedo, E prossimo è il momento degli addii! "Bellissima!", disse Una. "E piacque?". "Se piacque? Furono sopraffatti - accablés, come dice René. Mia cara, se non l'avessi visto, non avrei creduto di poter far venire le lacrime, lacrime sincere, agli occhi di quattro uomini adulti. Ma così avvenne! René non riuscì proprio a trattenersi! È la sua sensibilità francese. Nascose il viso e disse: "Assez, Mademoiselle! C'est plus fort que moi! Assez!". E Sir Arthur si soffiò il naso e disse: "Buon Dio! Questo è peggio di Assaye!". Mentre papà sedeva con le lacrime che gli correvano lungo le guance". "E cosa fece il dottor Break?" "Si alzò e finse di guardare fuori dalla finestra, ma io vidi che le sue grasse spallucce sobbalzavano come se avesse il singhiozzo. Quello fu un trionfo. Non avevo mai sospettato che fosse una persona sensibile". "Oh, vorrei aver visto! Vorrei essere stata al tuo posto", disse Una, stringendosi le mani. Con un fruscio, Puck sbucò dalle felci proprio mentre un grosso maggiolino sbadato andava a urtare contro la guancia di Una. Quando lei ebbe finito di strofinarsi il punto dolente, la signora Vincey le gridò che Pansy aveva fatto le bizze, altrimenti sarebbe venuta prima ad aiutarla a filtrare e a versare il latte. "Non importa", disse Una; "sono rimasta ad aspettare. È la vecchia Pansy che si aggira nel pascolo inferiore, questa?" "No", disse la signora Vincey, in ascolto. "Sembra più un cavallo condotto abbastanza speditamente attraverso i boschi; ma non c'è alcuna strada lì. Credo che sia uno dei puledri di Gleason. Vi devo accompagnare a casa, Miss Una?" "Diamine, no! Grazie. Cosa può succedermi?", disse Una e, riposto lo sgabello dietro la quercia, si avviò senza fretta verso casa attraverso i varchi nelle siepi che il vecchio Hobden teneva aperti per lei. MARY POSTGATE

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Di Miss Mary Postgate Lady McCausland scrisse che era "assolutamente coscienziosa, ordinata, socievole e distinta. Sono molto spiacente di dovermi separare da lei, e avrò sempre a cuore il suo benessere". Miss Fowler la assunse in base a questa raccomandazione e, avendo una certa esperienza in fatto di dame di compagnia, fu sorpresa nel constatare che era del tutto veritiera. A quell'epoca Miss Fowler era più prossima ai sessanta che ai cinquanta, ma, pur avendo bisogno di assistenza, non esauriva le energie della persona che l'accudiva. Al contrario, la ripagava con aneddoti e reminiscenze stimolanti. Suo padre era stato funzionario di grado inferiore a Corte, ai tempi in cui la Grande Esposizione del 1851 aveva appena posto il proprio sigillo sulla Civiltà resa perfetta. Tuttavia, gli aneddoti di Miss Fowler non sempre si addicevano ai giovani. Mary giovane non era, e sebbene i suoi discorsi fossero altrettanto incolori dei suoi occhi o dei suoi capelli, non si scandalizzava mai. Ascoltava imperterrita qualunque cosa; alla fine diceva "Interessante!" o "Terribile!" a seconda dei casi, e poi non ne parlava più, perché si vantava di avere una mente colta, che "non indugia su queste cose". Era anche molto preziosa per la contabilità domestica, ragion per cui i bottegai del villaggio, con i loro conti settimanali, non l'amavano. Per il resto non aveva nemici; non suscitava invidia nemmeno tra le donne più insignificanti; non fu mai fonte di pettegolezzi o di maldicenze; con mezz'ora di preavviso occupava il posto vacante alla tavola del rettore o del dottore; era una sorta di zia pubblica per i moltissimi ragazzini che affollavano la via del villaggio, i cui genitori, pur accettando di tutto, si sarebbero prontamente indignati per quello che definivano "patronato"; partecipava alle attività del locale Comitato di Assistenza come sostituta di Miss Fowler, quando quest'ultima era relegata in casa dall'artrite reumatica, e dopo sei mesi di incontri quindicinali continuava ad essere ugualmente rispettata da tutti i gruppi. E quando il Fato gettò il nipote di Miss Fowler, un brutto orfanello di undici anni, nelle braccia della medesima, Mary Postgate si assunse la propria parte di responsabilità nell'educazione del giovane presso scuole private e pubbliche. Controllò le liste stampate di corredo e i conti non dettagliati delle spese extra; scrisse a presidi e direttori di college, governanti, infermiere e dottori, e soffrì o si rallegrò per le pagelle di metà trimestre. Il giovane Wyndham Fowler la ripagava, durante le vacanze, chiamandola "Gatepost", "Postey" o "Packthread", dandole delle grandi pacche sulle spalle strette, o inseguendola per tutto il giardino, mentre lei fuggiva piagnucolando, con la grossa bocca spalancata, il gran naso ritto in aria, il collo rigido e l'andatura strascicata che la faceva sembrare un cammello. Poi riempiva la casa di schiamazzi, discussioni e requisitorie riguardo alle sue esigenze personali, alle sue simpatie e antipatie, e ai limiti di "voi donne", riducendo Mary alle lacrime per la fatica fisica, o, quando sceglieva di essere spiritoso, per il riso sfrenato. Nei momenti di crisi, che si moltiplicarono a mano a mano che il ragazzo cresceva, Mary era la sua ambasciatrice e intermediaria con Miss Fowler, che non nutriva una gran simpatia per il nipote; e durante i consigli per decidere il futuro del giovane, non mancava mai di votare in suo favore; era poi la sua rammendatrice, ritenuta strettamente responsabile degli indumenti e delle scarpe che andavano smarrite; e, sempre, il suo zimbello e la sua serva. E quando il giovane, deciso a diventare avvocato, era entrato in uno studio di Londra; quando le sue formule di saluto erano passate da "Salve, Postey, vecchia bestia" a "Giorno, Packthread", scoppiò una guerra che, a differenza di tutte quelle che Mary ricordava, non restò convenientemente fuori dell'Inghilterra e sui giornali, ma si intromise nella vita delle persone di sua conoscenza. Com'ebbe a dire a Miss Fowler, si trattava di una "gran seccatura". Si portò via il figlio del rettore che stava entrando in affari con il fratello maggiore; si portò via il nipote del colonnello, in procinto di andare a fare il frutticoltore in Canada; si portò via il figlio della signora Grant, che, a detta della madre, era votato al sacerdozio; e ben presto si portò via anche Wynn Fowler, che annunciò con una cartolina di essersi arruolato nell'aviazione e di volere un panciotto di lana. "Che vada, e che abbia il panciotto", disse Miss Fowler. Così Mary si procurò la lana e i ferri della giusta misura, mentre Miss Fowler avvertiva gli uomini alle sue dipendenze - due giardinieri e un avventizio di sessant'anni - che chi poteva arruolarsi era meglio che lo facesse. I giardinieri se ne andarono. Cheape, l'avventizio, rimase, e gli venne assegnato il cottage del giardiniere. La cuoca, sdegnata dalle limitazioni imposte alla propria arte, se ne andò pure lei, dopo un vivace scambio di opinioni con Miss Fowler, e si portò via la cameriera. Miss Fowler destinò ufficialmente Nellie, la figlia diciassettenne di Cheape, al posto vacante; la signora Cheape al rango di cuoca, con turni occasionali di pulizia; e il personale, così ridotto, tirò avanti senza problemi. Wynn chiese un aumento dell'assegno. Miss Fowler, che guardava sempre in faccia le situazioni, disse: "Che lo abbia. È probabile che non viva abbastanza per goderselo, e se trecento sterline lo rendono felice...". Wynn ne fu riconoscente, e venne a casa a dirlo, chiuso nella sua uniforme. Il suo centro di addestramento distava meno di trenta miglia dal villaggio, e i suoi discorsi erano così tecnici che dovette illustrarli con disegni dei vari tipi di aerei. Ne diede uno a Mary. "E faresti bene a studiartelo, Postey", disse. "Perché presto ne vedrai girare parecchi". Così Mary studiò il disegno, ma quando Wynn venne di nuovo a gonfiarsi e a pavoneggiarsi davanti alle sue donne, lei crollò miseramente sotto il fuoco incrociato delle sue domande, e lui la rimproverò come ai vecchi tempi. "Hai più o meno l'aspetto di un essere umano", disse con il nuovo tono assunto sotto le armi. "Devi avere avuto un cervello, in qualche epoca passata. Che cosa ne hai fatto? Dove lo tieni? Una pecora ne saprebbe più di te, Postey. Sei deplorevole. Sei più inutile di una latta vuota, vecchio struzzo istupidito". "Immagino che questo sia il tono che i tuoi superiori adoperano con te?", disse Miss Fowler dalla sua sedia. "Ma Postey non se la prende", replicò Wynn. "Non è vero, Packthread?". "Cosa? Wynn stava dicendo qualcosa? Imparerò tutto bene per la prossima volta che verrai", mormorò, aggrottando di nuovo le pallide sopracciglia sugli schemi dei Taube, dei Farman e degli Zeppelin.

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Nel giro di alcune settimane, i meri resoconti delle battaglie terrestri e navali che leggeva a Miss Fowler dopo colazione la sfioravano appena, come un soffio d'aria. Il suo cuore e il suo interesse erano alti nel cielo con Wynn, che aveva finito di "rollare" (qualunque cosa potesse significare) ed era passato da un "taxi" a un aereo più o meno suo. Un mattino lo videro volteggiare sui comignoli della loro casa, posarsi sulla Landa di Vegg, quasi fuori del cancello del giardino, e poi Wynn entrò, livido o per il freddo, gridando che gli dessero da mangiare. Lui e Mary spinsero la sedia a rotelle di Miss Fowler, come avevano fatto spesso, lungo il sentiero che attraversa la landa per farle vedere il biplano. Mary osservò che "puzzava terribilmente". "Postey, io credo che tu pensi con il naso", disse Wynn. "So che non lo fai con il cervello. Ora dimmi, che modello è questo?" "Vado a prendere i disegni", disse Mary. "Sei un disastro! Hai una capacità intellettiva inferiore a quella di un topolino bianco", gridò, e descrisse i quadranti e le cavità per lo sgancio delle bombe, finché non venne il momento di risalire a bordo e cavalcare di nuovo le nubi umide di pioggia. "Ah!", disse Mary, mentre quella cosa puzzolente saliva in cielo luminosa. "Aspetta che la nostra aviazione si metta all'opera! Wynn dice che è molto più sicuro che in trincea". "Chissà", disse Miss Fowler. "Di' a Cheape di venire a rimorchiarmi a casa". "È tutta discesa. Posso farlo io", disse Mary, "se lei inserisce il freno". Appoggiò il suo corpo magro alla sbarra dello schienale e si avviarono verso casa. "Stai attenta a non sudare, o ti prenderai un raffreddore", disse Miss Fowler, sotto una montagna di vestiti. "Niente mi fa sudare", disse Mary. Spingendo la sedia a rotelle sotto il portico, raddrizzò la lunga schiena. Lo sforzo le aveva dato un po' di colore, e il vento le aveva smosso una ciocca di capelli sulla fronte. Miss Fowler le lanciò un'occhiata. "A cosa pensi, Mary?", domandò all'improvviso. "Oh, Wynn dice che vuole altre tre paia di calze - le più spesse che riusciamo a fare". "Sì. Ma io intendevo le cose a cui pensano le donne. Guardati, hai più di quarant'anni..." "Quarantaquattro", disse Mary con sincerità. "Ebbene?" "Ebbene?", Mary offrì come al solito la spalla a Miss Fowler. "Ormai sono dieci anni che stai con me". "Vediamo", disse Mary. "Wynn aveva undici anni quando è venuto. Adesso ne ha venti, e io sono arrivata due anni prima di lui. Devono essere undici". "Undici! E in tutto questo tempo non mi hai mai detto niente di importante. Ripensandoci, mi sembra di aver parlato sempre e solo io". "Temo di non essere una gran conversatrice. Come dice Wynn, mi manca lo spirito. Lasci che le prenda il cappello". Miss Fowler, muovendosi rigidamente per via dell'artrite, batté il bastone dalla punta di gomma sul pavimento di mattonelle dell'ingresso. "Mary, non sei nient'altro che una dama di compagnia? Non hai mai voluto essere nient'altro?". Mary appese il cappello da giardino all'apposito piolo dell'attaccapanni. "No", disse dopo aver considerato la cosa. "Non credo di averlo mai voluto. Ma temo di essere priva di immaginazione". E andò a prendere a Miss Fowler il suo bicchiere di Contrèxeville delle undici. Quello fu il dicembre umido in cui caddero quindici centimetri di pioggia in un mese, e le donne uscivano di casa il meno possibile. Il cocchio volante di Wynn fece loro diverse visite, e per due mattine Mary (avvisata da una cartolina del giovane) udì all'alba il fremito delle sue eliche. La seconda volta corse alla finestra e fissò il cielo che andava schiarendo. Una macchiolina confusa passò in alto sul suo capo. Lei tese le braccia come per afferrarla. Quella sera alle sei giunse un comunicato in busta ufficiale che il sottotenente W. Fowler era rimasto ucciso durante un volo di prova. La morte era stata istantanea. Lei lo lesse e lo portò a Miss Fowler. "Non mi sono mai aspettata alcunché di diverso", disse Miss Fowler; "ma mi dispiace che sia accaduto prima che potesse combinare qualcosa". La stanza girava vorticosamente attorno a Mary Postgate, ma lei si sentiva ben salda al centro di essa. "Sì", disse. "È un vero peccato che non sia morto in azione, dopo aver ucciso qualcuno". "È morto sul colpo. Questo è già una consolazione", proseguì Miss Fowler. "Ma Wynn dice che lo shock della caduta uccide subito - qualunque cosa accada ai serbatoi", citò Mary. Ora la stanza stava ritornando ferma. Udì Miss Fowler dire con impazienza: "Ma perché non riusciamo a piangere, Mary?", e se stessa rispondere: "Non c'è nulla di cui piangere. Ha fatto il suo dovere come il figlio della signora Grant". "Ma quando è morto, è venuta qui e ha pianto tutta la mattina", disse Miss Fowler. "Invece io mi sento solo stanca... terribilmente stanca. Mi accompagni a letto, per favore, Mary?... E credo che gradirei la bottiglia dell'acqua calda". Così Mary la accompagnò a letto e le sedette accanto, parlando di Wynn e della sua turbolenta giovinezza. "Io credo", disse improvvisamente Miss Fowler, "che i vecchi e i giovani siano meno colpiti da un evento come questo. Le persone di mezza età lo sentono di più".

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"Credo che sia così", disse Mary, alzandosi. "Ora vado a mettere via le cose nella sua stanza. Porteremo il lutto?" "No di certo", disse Miss Fowler. "Tranne, ovviamente, al funerale. Io non posso andarci. Andrai tu. Voglio che tu disponga per farlo seppellire qui. È una fortuna che non sia successo a Salisbury!". Tutti, dai comandi dell'aviazione al rettore, furono molto gentili e comprensivi. Per un attimo Mary si trovò in un mondo in cui le salme venivano abitualmente spedite ovunque e con qualsiasi mezzo. E al funerale due giovani con l'uniforme abbottonata fino in cima rimasero accanto al feretro e poi le parlarono. "Lei è Miss Postgate, vero?", disse uno. "Fowler mi ha parlato di lei. Era un bravo ragazzo - una persona di prim'ordine. È stata una grossa perdita". "Una grossa perdita!", borbottò il suo compagno. "Siamo tutti molto spiacenti". "Da che altezza è caduto?", mormorò Mary. "Quasi milleduecento metri, credo, no? C'eri anche tu quel giorno, Monkey?" "Certo", rispose l'altro ragazzo. "Il mio altimetro segnava novecento, ed ero molto più in basso di lui". "Allora va benissimo", disse Mary. "Vi ringrazio molto", I due giovani si allontanarono mentre, sotto il portico dell'ingresso, la signora Grant si gettava in lacrime sul petto di Mary, gridando: "Io so quello che si prova! Io so quello che si prova!". "Ma i suoi genitori sono morti entrambi", rispose Mary, schivandola. "Forse ora si sono incontrati", aggiunse vagamente mentre fuggiva verso la corriera. "Ci ho pensato anch'io", gemette la signora Grant; "ma in tal caso, lui sarà praticamente un estraneo per loro. Che situazione imbarazzante!". Mary riferì fedelmente ogni particolare della cerimonia a Miss Fowler che, sentendo dello sfogo della signora Grant, scoppiò in una sonora risata. "Oh, come si sarebbe divertito Wynn! Era sempre del tutto inaffidabile ai funerali. Ti ricordi... - E parlarono ancora di lui, ognuna colmando le lacune di memoria dell'altra. - Ed ora?", disse poi Miss Fowler, "daremo luce alla stanza e faremo una pulizia generale. È una cosa che fa sempre bene. Hai controllato le cose di Wynn?" "C'è tutto - fin da quando è arrivato", disse Mary. "Non è mai stato un tipo distruttivo - nemmeno con i giocattoli". Si affacciarono alla stanza linda e ordinata. "Non può essere naturale non piangere", disse Mary infine. "Ho così paura che lei abbia una reazione". "Come ti ho detto, noi anziani ci sottraiamo al colpo. È per te che ho paura. Non hai ancora pianto?" "Non ci riesco. Provo solo una gran rabbia per i tedeschi". "Questo non è che uno spreco di energie", disse Miss Fowler. "Dobbiamo vivere finché sia finita la guerra". Aprì un guardaroba pieno di vestiti. "Ora, io ci ho pensato a lungo. Senti cosa ho deciso. Tutti i suoi indumenti civili possono essere dati via - ai profughi belgi e così via". Mary annuì. "Scarpe, colletti e guanti?" "Sì. Non c'è bisogno che teniamo nulla, eccetto il berretto e il cinturone". "Sono arrivati ieri con il corredo da aviatore", Mary indicò un rotolo sul lettino di ferro. "Ah, gli indumenti militari però teniamoli. Potrebbero interessare a qualcuno, in futuro. Ti ricordi le sue misure?" "Un metro e settanta di altezza e novanta di torace. Però mi disse di essere aumentato di tre centimetri. Lo segnerò su un'etichetta e la attaccherò al suo sacco a pelo". "E questa è fatta", disse Miss Fowler, picchiandosi il palmo di una mano con il medio inanellato dell'altra. "Che gran sciupìo! Domani prenderemo il suo vecchio baule di scuola e lo riempiremo di abiti civili". "E il resto?", disse Mary. "I libri, i quadri, gli attrezzi sportivi, i giocattoli e... e... il resto?" "La mia idea è di bruciare tutto", disse Miss Fowler. "Così sapremo dove sono e nessuno potrà più metterci mano. Cosa ne pensi?" "Penso che sia la soluzione migliore", disse Mary. "Ma c'è così tanta roba". "Useremo l'inceneritore", disse Miss Fowler. Questo era un forno all'aperto per l'eliminazione dei rifiuti; una piccola torre circolare, alta poco più di un metro, di mattoni forati sopra una grata di ferro. Anni prima Miss Fowler ne aveva visto il disegno su una rivista di giardinaggio, e lo aveva fatto costruire in fondo al giardino. La cosa soddisfaceva il suo senso dell'ordine e della pulizia, poiché evitava che si creassero mucchi di rifiuti sgradevoli a vedersi, e le ceneri ammollivano il duro terreno argilloso. Mary ci pensò un attimo, vide con chiarezza quello che doveva fare, e annuì di nuovo. Passarono la sera a metter via indumenti civili che ricordavano bene, biancheria sulla quale Mary aveva segnato le iniziali, e interi reggimenti di calze e di cravatte dai colori vivaci. Ci fu bisogno di un secondo baule e, oltre a quello, di una piccola cassa da imballaggio; e soltanto l'indomani, nel tardo pomeriggio, Cheape e il corriere locale caricarono tutto su un carro. Per fortuna il rettore sapeva del figlio di un suo amico, alto press'a poco un metro e settanta, che avrebbe gradito molto un corredo completo da aviatore, e mandò il figlio del giardiniere con una carriola a ritirarlo. Il berretto fu appeso nella camera da letto di Miss Fowler, il cinturone in quella di Miss Postgate; poiché, come disse Miss Fowler, non avevano alcun desiderio che tali oggetti diventassero argomento di conversazione quando si prendeva il tè in salotto. "Anche questa è fatta", disse Miss Fowler. "Lascio a te il resto, Mary. Io non posso correre su e giù per il giardino. Ti conviene prendere la grossa cesta della biancheria e farti aiutare da Nellie".

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"Prenderò la carriola e farò da sola", disse Mary, e per una volta nella vita parlò con orgoglio. Miss Fowler, nei momenti di irritazione, diceva che Mary era mortalmente metodica. Lei si infilò l'impermeabile e il cappello da giardinaggio più vecchi, e le galosce più scalcagnate che aveva, perché il tempo minacciava altra pioggia. Prese dei fiammiferi dalla cucina, mezzo secchio di carbone e una fascina di rami secchi. Caricò il tutto sulla carriola e lo portò per sentieri muschiosi fino all'umido boschetto di alloro dov'era l'inceneritore, al riparo di tre querce gocciolanti. Poi scavalcò la rete metallica ed entrò nel terreno del rettore che si stendeva al di là; qui, dal covone dell'affittuario, prese due bracciate abbondanti di buon fieno, che dispose con cura sulla grata del forno. Quindi, un viaggio dopo l'altro, passando ogni volta davanti al pallido volto di Miss Fowler che la osservava dalla finestra del soggiorno, portò fuori con la carriola e la cesta della biancheria coperta da un asciugamano, vecchi romanzi sgualciti di Henty, Marryat, Lever, Stevenson, Baronessa Orczy, Garvice, libri di testo e atlanti, pile scompagnate di Motor Cyclist, di Light Car, e cataloghi di mostre all'Olympia; i resti di una flotta di velieri che andava dai cutter da nove penny a uno yacht costato tre ghinee; una vestaglia di quando andava alle scuole medie; mazze che andavano da tre scellini e sei pence a ventiquattro scellini; palle da tennis e da cricket; locomotive a vapore e a molla disintegrate e con i binari storti; un modellino di latta grigio e rosso di un sottomarino; un grammofono muto e dei dischi rotti; mazze da golf che dovevano essere state spezzate su un ginocchio, come i suoi bastoni da passeggio, e una zagaglia; fotografie di squadre di calcio di scuole private e pubbliche, e del suo OTC schierato per una marcia, macchine fotografiche e pellicole; alcune coppe di peltro e una di vero argento, vinte in tornei di boxe e in gare juniores di corsa ad ostacoli; fasci di fotografie scolastiche; una fotografia di Miss Fowler; una di Mary, che il giovane aveva preso per ischerzo e mai restituito (e che lei si era guardata bene dal chiedere!); una scatola per giochi con un cassettino segreto; un carico di calzoni di flanella, cinture e maglie sportive, e un paio di scarpette chiodate rinvenute in soffitta; un pacchetto con tutte le lettere scrittegli da Miss Fowler e da Mary, conservate per qualche assurdo motivo durante tutti quegli anni; un tentativo di diario durato cinque giorni; fotografie incorniciate di automobili da corsa lanciate sul circuito di Brooklands, e un carico dietro l'altro di rottami irriconoscibili di cassette per attrezzi, conigliere, batterie elettriche, soldatini di stagno, arnesi per il traforo e giochi di pazienza. Alla finestra, Miss Fowler la guardava andare e venire e diceva tra sé: "Mary è vecchia. Non me n'ero mai resa conto prima". Dopo pranzo le raccomandò di riposarsi. "Non sono affatto stanca", disse Mary. "Ho preparato tutto. Alle due vado in paese a procurarmi del cherosene. Nellie non ne ha abbastanza, e la passeggiata mi farà bene". Prima di uscire fece un ultimo giro per la casa, e vide che non aveva tralasciato nulla. Iniziò ad annebbiare non appena ebbe costeggiato la Landa di Vegg, dove Wynn era solito atterrare - le parve quasi di udire il rumore delle eliche in alto, ma non si poteva vedere nulla. Aprì l'ombrello e procedette spedita nella densa umidità, finché non ebbe raggiunto il riparo del villaggio deserto. Mentre usciva dalla bottega del signor Kipp con una bottiglia di cherosene nella borsa a rete, incontrò Nurse Eden, la levatrice del villaggio, e iniziò a parlare, come al solito, dei bambini del luogo. Si stavano giusto separando di fronte al Royal Oak, quando un cannone - parve loro - fece fuoco proprio dietro la casa. Il rombo fu seguito dal grido di un bambino che si spense in un gemito. "Una disgrazia!", disse prontamente Nurse Eden, e si precipitò nell'osteria deserta, seguita da Mary. Trovarono la signora Gerritt, la moglie dell'oste, che ansimava e indicava il cortile, dove una piccola rimessa si stava accasciando su un lato tra un fracasso di tegole. Nurse Eden afferrò un lenzuolo che asciugava davanti al fuoco, corse fuori, sollevò qualcosa da terra e l'avvolse rapidamente. Il lenzuolo divenne scarlatto, e anche metà della sua uniforme, mentre portava il fardello in cucina. Era la piccola Edna Gerritt, di nove anni, che Mary conosceva da quando girava in carrozzina. "Mi sono fatta molto male?" chiese Edna, e spirò tra le mani grondanti di Nurse Eden. Il lenzuolo si aprì e per un attimo, prima che potesse chiudere gli occhi, Mary vide il corpo dilaniato. "È già un miracolo che abbia parlato", disse Nurse Eden. "In nome di Dio, che cosa è stato?" "Una bomba", disse Mary. "Uno degli Zeppelin?" "No. Un aeroplano. Mi è parso di sentirlo sulla Landa, ma credevo che fosse uno dei nostri. Deve aver spento i motori mentre scendeva. Per questo non l'abbiamo sentito". "Quei porci schifosi", disse Nurse Eden, pallida e tremante. "Guardi come sono ridotta! Vada ad avvertire il dottor Hennis, Miss Postgate". Nurse guardò la madre, che era caduta bocconi sul pavimento. "È solo un attacco. La giri". Mary girò la signora Gerritt sulla schiena e corse a chiamare il dottore. Quando ebbe raccontato l'accaduto, lui la invitò a sedere in ambulatorio mentre le prendeva qualcosa. "Ma non ne ho bisogno, glielo assicuro", disse lei. "Piuttosto non credo che sarebbe opportuno raccontare la cosa a Miss Fowler, no? Il suo cuore è così eccitabile con questo tempo". Il dottor Hennis la guardò con ammirazione mentre preparava la borsa. "No. Non ne parli con nessuno finché non siamo sicuri", disse, e si affrettò al Royal Oak, mentre Mary proseguiva verso casa con il cherosene. Il villaggio alle sue spalle era tranquillo come al solito, poiché la notizia non si era ancora diffusa. Lei corrugò un poco la fronte, le larghe narici si dilatarono sgraziatamente, mentre ogni tanto borbottava un'espressione di Wynn (che non si moderava mai di fronte alle sue donne) riferita al nemico. "Maledetti

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pagani! Sono dei maledetti pagani. Ma", aggiunse, ripiegando sugli insegnamenti che l'avevano resa quello che era, "non bisogna permettere alla mente di indugiare su queste cose". Prima di arrivare a casa il dottor Hennis, che era anche guardia giurata, la raggiunse in automobile. "Oh, Miss Postgate", disse, "volevo dirle che la disgrazia al Royal Oak è stata causata dal crollo della stalla di Gerritt. Era pericolante da tempo. Avrebbe dovuto essere abbattuta". "Mi è parso di sentire anche un'esplosione", disse Mary. "Potrebbe averla tratta in inganno lo schianto delle travi spezzate. Le ho esaminate. Erano completamente tarlate. Naturalmente, spezzandosi, devono aver fatto un rumore simile a una cannonata". "Sì?", disse Mary cortesemente. "La povera piccola Edna stava giocando proprio lì sotto", proseguì il dottore, tenendo sempre gli occhi puntati su di lei, "e le travi e le tegole l'hanno fatta a pezzi, capisce?" "Ho visto", disse Mary, scuotendo il capo. "E ho anche sentito". "Be', non possiamo essere certi". Il dottor Hennis cambiò completamente tono. "So che sia lei sia Nurse Eden (le ho parlato poco fa) siete persone assolutamente fidate, e posso contare sul fatto che non direte nulla - almeno per ora. È meglio non inquietare la gente se non...". "Oh, io non lo faccio mai - comunque", disse Mary, e il dottor Hennis proseguì per il capoluogo di contea. Dopotutto, disse Mary tra sé, avrebbe anche potuto essere stato il crollo della vecchia stalla a ridurre la povera piccola Edna in quelle condizioni. Le dispiaceva di avere anche solo alluso ad altre possibili cause, ma Nurse Eden era la discrezione in persona. Quando arrivò a casa la faccenda le sembrava sempre più remota per la sua stessa mostruosità. Mentre entrava, Miss Fowler le disse che mezz'ora prima erano passati un paio di aeroplani. "Mi è parso di sentirli", rispose lei, "ora vado in giardino. Ho preso il cherosene". "Sì, ma... cos'hai sugli stivali? Sono bagnati fradici. Cambiateli subito". Mary non solo obbedì, ma avvolse gli stivali in un foglio di giornale e li mise nella borsa a rete insieme alla bottiglia. Poi, armata dell'attizzatoio più lungo che era riuscita a trovare in cucina, uscì. "Sta piovendo di nuovo", furono le ultime parole di Miss Fowler, "ma... so che non sarai soddisfatta finché non sarà tutto sistemato". "Non ci vorrà molto. Ho già portato fuori tutto, e ho messo il coperchio sull'inceneritore perché non piova dentro". Il boschetto era immerso nella luce del crepuscolo, quando lei ebbe completato i preparativi e spruzzato l'olio sacrificale. Mentre accendeva il fiammifero che avrebbe ridotto il suo cuore in cenere, udì un gemito o un brontolìo dietro i fitti cespugli di alloro. "Cheape?", chiamò impaziente; ma Cheape, con la sua vecchia lombaggine, era nel confortevole cottage e sarebbe stato l'ultima persona a profanare il santuario. "Pecore", concluse, e gettò il fiammifero acceso. La pira avvampò con un ringhio, e la fiamma immediata anticipò la notte intorno a lei. "Come sarebbe piaciuto a Wynn!", pensò, arretrando davanti al bagliore. Alla luce delle fiamme vide, mezzo nascosto dietro un cespuglio a meno di cinque passi, un uomo a capo scoperto, seduto assai rigidamente ai piedi di una delle querce. Un ramo spezzato gli giaceva di traverso sul suo grembo, e da sotto sporgeva una gamba infilata in uno stivale. Il capo si muoveva incessantemente da un lato all'altro, ma il corpo era immobile come il tronco dell'albero. L'uomo indossava - Mary si spostò di lato per vedere meglio - un'uniforme abbastanza simile a quella di Wynn, con un risvolto abbottonato attraverso il petto. Per un attimo pensò che potesse essere uno dei giovani che aveva incontrato al funerale. Ma i loro capelli erano scuri e lucenti, mentre quelli di quest'uomo erano chiari come la peluria di un neonato, e tagliati così corti che si poteva vedere sotto la pelle rosea e disgustosa. Le labbra si mossero. "Cosa dice?". Mary fece alcuni passi verso di lui e si fermò. "Laty! Laty! Laty!", mormorava l'uomo, mentre le sue mani afferravano le foglie fradice e morte. Non c'era alcun dubbio sulla sua nazionalità. Questo la mandò talmente in collera che ritornò a grandi passi verso l'inceneritore, benché fosse ancora troppo caldo per poter usare l'attizzatoio. Sembrava che i libri di Wynn bruciassero bene. Mary alzò lo sguardo alla quercia dietro l'uomo; diversi rami superiori e leggeri, e due o tre inferiori e marci, si erano spezzati e avevano sparso la loro sporcizia sul sentiero che attraversava il boschetto. Sulla biforcazione più bassa un elmetto con i lacci penzolanti pareva un nido di uccello alla luce del fuoco dalle lunghe lingue. Evidentemente quell'uomo era caduto tra i rami dell'albero. Wynn le aveva detto che era possibile cadere fuori da un aereo. Wynn le aveva detto anche che gli alberi servivano a frenare la caduta di un aviatore, ma in questo caso l'aviatore doveva essersi rotto qualcosa, altrimenti si sarebbe mosso da quella strana posizione. Sembrava paralizzato, salvo per quella sua orribile testa roteante. D'altra parte, si poteva vedere la fondina di una pistola al cinturone - e Mary odiava le pistole. Alcuni mesi prima, dopo aver letto insieme certi servizi sul Belgio, lei e Miss Fowler avevano avuto a che fare con una di esse - un enorme revolver con dei proiettili dalla punta piatta che, diceva Wynn, erano proibiti dai regolamenti bellici per l'uso contro nemici civili. "Per noi vanno bene", aveva risposto Miss Fowler. "Fai vedere a Mary come funziona". E Wynn, ridendo al solo pensiero che le due donne potessero mai averne bisogno, aveva condotto Mary, spaurita e con le palpebre tremanti, alla cava abbandonata del rettore, e le aveva mostrato come usare il terribile arnese. Ora si trovava nel cassetto in alto a sinistra del suo tavolo da toeletta - un memento non incluso nel rogo. Wynn sarebbe stato soddisfatto di vederla così impavida.

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Mary corse in casa a prendere la pistola. Quando ritornò sotto la pioggia, gli occhi nella testa erano animati per l'attesa. La bocca cercò persino di sorridere. Ma, alla vista del revolver, gli angoli si piegarono verso il basso come nella bocca di Edna Gerritt. Da un occhio scese una lacrima, e il capo si mosse da una spalla all'altra come per indicare qualcosa. "Cassée. Tout cassée", piagnucolò. "Cosa dice?", disse Mary con disgusto, tenendosi accuratamente di lato, benché l'uomo muovesse soltanto il capo. "Cassée", ripeté lui. "Che me rends. Le médicin! Toctor!". "Nein!", disse lei, usando il poco tedesco che sapeva per rendere più credibile la minaccia della pistola. "Ich haben der todt Kinder gesehn". La testa rimase ferma. La mano di Mary ricadde. Lei aveva avuto l'accortezza di non tenere il dito sul grilletto, per paura di un incidente. Dopo qualche minuto di attesa ritornò all'inceneritore, dove le fiamme stavano calando, e con l'attizzatoio smosse i libri semicarbonizzati di Wynn. Di nuovo la testa chiese gemendo un dottore. "Basta!", disse Mary, e batté il piede in terra. "Basta, maledetto pagano!". Le parole le vennero con assoluta facilità e naturalezza. Erano le stesse parole di Wynn, e Wynn era un signore che per nessuna ragione al mondo avrebbe ridotto la piccola Edna a quei brandelli di carne sfilacciata e dai colori violenti. Ma quell'essere rannicchiato sotto la quercia l'aveva fatto. Qui non si trattava delle atrocità che leggeva sui giornali a Miss Fowler. Mary l'aveva visto con i propri occhi sul tavolo della cucina del Royal Oak. Non doveva permettere che la sua mente vi indugiasse sopra. Ora Wynn era morto, e tutto ciò che lo riguardava stava riducendosi, sotto i suoi colpi di attizzatoio, a una massa informe e crepitante di nero pulviscolo incandescente e grigie sfoglie di cenere. Anche la cosa sotto la quercia sarebbe morta. Mary aveva visto la morte più di una volta. Veniva da una famiglia che aveva un talento particolare per morire nelle "circostanze più penose", come aveva detto a Miss Fowler. Quindi sarebbe rimasta dov'era finché non si fosse completamente accertata che la cosa era morta - morta come il caro papà sul finire degli anni ottanta; come la zia Mary nell'ottantanove; la mamma nel novantuno; il cugino Dick nel novantacinque; la cameriera di Lady McCausland nel novantanove; la sorella di Lady McCausland nel millenovecentouno; Wynn sepolto cinque giorni prima; e Edna Gerritt ancora in attesa di essere accolta dalla terra in maniera decente. Mentre pensava - con un canino ingiallito che le spuntava dal labbro inferiore, la fronte aggrottata e le narici dilatate - Mary maneggiava l'attizzatoio alternando affondi che facevano vibrare la grata in basso a prudenti abrasioni intorno alla struttura di mattoni sovrastante. Guardò l'orologio al polso. Erano quasi le quattro e mezza, e stava piovendo a dirotto. Alle cinque sarebbe dovuta rientrare per il tè. Se quello non fosse morto prima di allora, si sarebbe infradiciata e avrebbe dovuto cambiarsi. Intanto - e questo la teneva occupata - le cose di Wynn stavano bruciando bene malgrado l'umidità che le faceva sfrigolare, anche se di quando in quando il dorso di un libro con il titolo ancora interamente leggibile emergeva dalla massa. Il lavoro con l'attizzatoio le aveva provocato un calore che sembrava giungerle fin dentro le ossa. Si mise a canticchiare - Mary non aveva mai avuto voce - tra sé. Non aveva mai prestato fede a tutte quelle teorie avanzate - benché la stessa Miss Fowler tendesse a dar loro un certo credito - sul ruolo della donna nel mondo; ma adesso capiva che avevano molti lati positivi. Questo, per esempio, era un lavoro suo - un lavoro che nessun uomo, e meno di tutti il dottor Hennis, avrebbe mai fatto. Un uomo, in un frangente simile, si comporterebbe da "sportivo", come diceva Wynn; pianterebbe tutto per andare in cerca di aiuto, e porterebbe sicuramente quella Cosa in casa. Ora, il compito di una donna era di rendere allegra una casa per - per il marito e i figli. Mancando questi - non era una cosa su cui la mente doveva indugiare - ma... "Basta!", gridò ancora una volta Mary attraverso le ombre. "Nein, ho detto! Ich haben der todt Kinder gesehn". Ma era un fatto. Una donna alla quale erano mancate queste cose poteva ancora essere utile - più utile di un uomo, sotto certi aspetti. Ciò le diede un fremito segreto che la fece battere come un selciatore sulle ceneri che si andavano assestando. La pioggia stava smorzando il fuoco, ma lei poteva sentire - era troppo buio per vedere - che il suo lavoro era compiuto. Sul fondo dell'inceneritore c'era un cupo bagliore rossastro, insufficiente a carbonizzare il coperchio di legno se lei lo avesse chiuso a metà per non far entrare la pioggia. Una volta che l'ebbe sistemato, si appoggiò all'attizzatoio e attese, mentre un'estasi crescente s'impadroniva di lei. Smise di pensare. Si abbandonò interamente alle proprie sensazioni. Il suo lungo piacere fu interrotto da un suono che aveva atteso con angoscia diverse volte nella vita. Si sporse in avanti e ascoltò, sorridendo. Non poteva esserci alcun dubbio. Chiuse gli occhi e si lasciò impregnare. All'improvviso il suono cessò. "Continua", mormorò lei a mezza voce. "Questa non è la fine". Poi la fine venne molto chiaramente in una pausa tra due scrosci di pioggia. Mary Postgate tirò un breve sospiro tra i denti e rabbrividì da capo a piedi. "Così va bene", disse soddisfatta; e ritornò in casa, dove sconvolse l'intera routine facendo un lungo e sontuoso bagno caldo prima del tè; e quando scese appariva, come disse Miss Fowler vedendola completamente rilassata sull'altro divano, "proprio bella!". L'OCCHIO DI ALLAH Essendo il cantore di St. Illod's un musico troppo entusiasta per occuparsi della biblioteca, il secondo cantore, che idolatrava ogni dettaglio del proprio lavoro, stava riordinando dopo due ore di scrittura e dettatura nello

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scriptorium. I monaci copisti gli consegnarono i loro fogli - era un semplice Vangelo commissionato da un abate di Evesham - e uscirono per il vespro. John Otho, meglio conosciuto come John di Burgos, non vi prestò attenzione. Stava brunendo una minuscola borchia dorata sulla sua miniatura dell'Annunciazione per il Vangelo di San Luca, che si sperava il cardinale Falcodi, legato pontificio, avesse in seguito la compiacenza di accettare. "Basta, John", disse il secondo cantore in tono sommesso. "Eh? Se ne sono andati? Non me n'ero accorto. Un momento, Clement". Il secondo cantore attese paziente. Conosceva John da più di dodici anni, durante i quali l'aveva visto andare e venire da St. Illod's, monastero a cui, trovandosi all'estero, diceva sempre di appartenere. L'affermazione gli era concessa di buon grado perché, ancor più degli altri Fitz Otho, egli sembrava avere tutte le arti sotto la propria mano, e la maggior parte delle loro ricette sotto il cappuccio. Il secondo cantore guardò da sopra la sua spalla il foglio appuntato, dove le prime parole del Magnificat erano tracciate in oro tinteggiato di lacca rossa, come sfondo all'aureola ancora appena accennata della Vergine. Costei era raffigurata, le mani giunte in grembo per lo stupore, accanto a un graticcio di arabeschi infinitamente complessi, attorno ai cui margini ramoscelli di fiori d'arancio sembravano opprimere l'aere azzurro e caldo che riportava all'arido e minuto paesaggio in secondo piano. "L'hai fatta proprio ebrea", disse il secondo cantore, esaminando la guancia olivastra e gli occhi carichi di presentimento. "Cos'altro era la Nostra Signora?". John sfilò gli spilli. "Ascolta, Clement. Se non ritorno, questo va nel mio Luca Grande, chiunque lo finisca". E infilò la miniatura tra i due fogli protettivi. "Allora sei di nuovo in partenza per Burgos... come ho sentito?" "Tra due giorni. La nuova cattedrale laggiù - ma sono più lenti dell'ira di Dio, quei muratori - è un conforto per l'anima". "La tua anima?". Il secondo cantore sembrava dubbioso. "Anche la mia, con il tuo permesso. E più a sud, al confine con i Paesi Conquistati, sulla via per Granada, si trovano delle decorazioni moresche che fanno bene alla salute. Allontanano i pensieri oziosi dalla mente e la concentrano sull'immagine - come hai potuto vedere proprio ora nella mia Annunciazione". "È... è molto bella. Non mi meraviglia che tu parta. Ma non ti scorderai l'assoluzione, John?" "Certo che no". Era, questa, una precauzione che John non tralasciava mai alla vigilia di un viaggio, come non trascurava di farsi regolare la tonsura, a cui aveva provveduto in gioventù da qualche parte nei pressi di Gand. Il carattere distintivo gli assicurava i privilegi del clero in caso di emergenza, e sempre una certa considerazione lungo la strada. "Non dimenticarti, poi, di quello che ci serve nello scriptorium. Oggigiorno non si trova più del vero blu oltremare a questo mondo. Lo mescolano con quell'azzurro d'Alemagna. E in quanto al vermiglio ... ". "Farò del mio meglio". "E Fratello Thomas" (il cerusico dell'ospedale del monastero) "ha bisogno di...". "Me lo dirà lui stesso. Sto andando dalle sue parti a farmi rifare la tonsura". John scese le scale fino al vicolo che divideva l'ospedale e la cucina dai chiostri sul retro. Mentre si stava facendo tagliare i capelli, Fratello Thomas (il mite ma ostinatissimo cerusico di St. Illod's) gli diede una lista di droghe che avrebbe dovuto portargli dalla Spagna con le buone, con le cattive, o acquistandole legalmente. Qui vennero sorpresi dal fosco e zoppo abate Stephen, con le sue pantofole foderate di pelliccia. Non che Stephen de Sautré fosse una spia; ma da giovane aveva partecipato ad una infausta crociata, conclusasi, dopo una battaglia a Mansura, con due anni di prigionia tra i saraceni al Cairo, dove aveva imparato a camminare senza far rumore. Buon cacciatore e falconiere, ragionevole disciplinatore, ma soprattutto uomo di scienza e laureato in medicina con un certo Ranulfo, canonico di San Paolo, il suo cuore era più nell'attività ospedaliera del monastero che in quella religiosa. Dopo aver esaminato la lista con interesse, vi aggiunse qualcosa per sé. Poi, quando il cerusico si fu ritirato, diede a John una generosa assoluzione, per coprire eventuali debolezze lungo la strada; poiché non approvava le indulgenze comprate a caso. "E cosa vai a cercare in questo viaggio?", domandò, sedendosi sulla panca accanto al mortaio e alle bilance, nella piccola e calda cella dov'erano conservate le droghe. "Diavoli, soprattutto", disse John, con un sogghigno. "In Spagna? Non sono Abana e Pharpar...?". John, per cui gli uomini non erano altro che soggetti da disegnare, e che era anche di buona famiglia (essendo un de Sanford da parte di madre), guardò l'abate dritto in faccia e "Vi risulta?", gli disse. "No. Erano anche al Cairo. Ma perché ne hai tanto bisogno?" "Per il mio Luca Grande. È il migliore dei quattro, in fatto di diavoli". "Non mi meraviglia. Era un medico. Tu non lo sei". "Dio me ne guardi! Ma sono stufo dei nostri diavoli concepiti secondo i canoni della Chiesa. Non sono altro che scimmie e capre e polli combinati insieme. Buoni soltanto per semplici Inferni e Giudizi Universali in rosso e nero - ma non per me". "Cos'è che ti rende così esigente in fatto di diavoli?"

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"Perché è conforme alla ragione e all'arte che ci siano diavoli di tutti i generi, nelle trame dell'Inferno. Quei Sette, per esempio, che furono tirati fuori dalla Maddalena. Dovrebbero essere diavoli femmina - niente a che vedere con i beccuti e cornuti e barbuti diavoli-generali". L'abate rise. "E un'altra cosa! Il diavolo che uscì dall'uomo muto. A che gli serve un grugno o un becco? Dovrebbe essere senza volto come un lebbroso. Soprattutto - Dio mi consenta di vivere abbastanza per farlo! - i maiali che entrarono nei porci di Gadara. Dovrebbero essere... dovrebbero essere... non so ancora come dovrebbero essere, ma dovrebbero essere diavoli senza eguali. Li farei uno diverso dall'altro, come i Santi stessi. Adesso invece seguono tutti uno stesso modello, per affreschi, vetrate o miniature". "Continua, John. Tu sei più addentro di me in questo mistero". "Dio me ne guardi! Ma dico che si deve del rispetto anche ai diavoli, per quanto siano dannati". "È una dottrina rischiosa". "La mia idea è che se la forma di una cosa qualsiasi vale la pena di essere rappresentata a beneficio degli uomini, ciò deve essere fatto nel miglior modo possibile. "Questo è più prudente. Ma sono contento di averti dato l'assoluzione". "C'è meno rischio per un artigiano che ha a che fare con la forma esteriore delle cose - per la gloria di Santa Madre Chiesa". "Forse è così, ma, John", la mano dell'abate sfiorò la manica del miniatore, "ora dimmi, è... è mora o... o ebrea?". "È mia", rispose John. "Questo è sufficiente?" "Ho scoperto che lo è". "Bene... ah, bene! È, fuori della mia giurisdizione, ma... come la pensano a questo proposito laggiù?". "Oh, non concludono niente in Spagna - né la Chiesa né il Re, benedetti loro! Ci sono troppi mori ed ebrei per ammazzarli tutti, e se li cacciassero via non ci sarebbe più commercio né agricoltura. Credimi, nei Paesi Conquistati, da Siviglia a Granada, viviamo abbastanza amorevolmente insieme - spagnoli, mori ed ebrei. Sai, non facciamo domande, noi". "Sì... sì", sospirò Stephen. "E c'è sempre la speranza di poterla convertire". "Oh sì, c'è sempre la speranza". L'abate proseguì verso l'ospedale. Era un'epoca più permissiva, prima che Roma desse un giro di vite in merito alle relazioni degli ecclesiastici. Se la dama non era troppo impertinente, o il figlio non riceveva dal padre troppi benefici, quanto a favori e tributi ecclesiastici, si lasciavano correre molte cose. Ma, come l'abate aveva ben ragione di ricordare, le unioni tra cristiani e infedeli finivano male. Ciò nonostante, quando John, con il mulo, le lettere, e un servo, scese lungo il sentiero ciottoloso per Southampton e il mare, Stephen lo invidiò. Tornò venti mesi dopo, in buone condizioni e carico di mercanzie. Un mucchio di preziosi lapislazuli, una barra di vermiglio con l'anima arancione e un pacchettino di scarafaggi secchi, dai quali si ottiene il più vivace scarlatto, per il secondo cantore. Oltre a ciò, alcuni cubetti di marmo latteo, appena soffuso di rosa, che si potevano frantumare e macinare, ottenendo così un preparato incomparabile per il fondo. C'era quasi la metà delle droghe che l'abate e Thomas avevano richiesto, e c'era una lunga collana di cornalina rosso scuro per la dama dell'abate, Anne di Norton. Costei l'accettò graziosamente, e chiese a John dove l'avesse trovata. "Vicino a Granada", rispose lui. "Hai lasciato tutti bene laggiù?", chiese Anne. (Forse l'abate le aveva riferito qualcosa della confessione di John). "Ho lasciato tutto nelle mani di Dio". "Ahimè! Da quanto?" "Quattro mesi meno undici giorni". "Tu eri... con lei?" "È avvenuto tra le mie braccia. Durante il parto". "E...?" "Anche il bambino. Ora non resta nulla". Anne di Norton trattenne il respiro. "Credo che sarai contento di questo", disse dopo un attimo. "Datemi tempo, e forse me ne darò ragione. Ma non ora". "Hai il tuo lavoro e la tua arte, e ... John... ricordati che non v'è gelosia nella tomba". "S-sì! Ho la mia arte, e il Cielo sa che non sono geloso di alcuno". "Ringrazia Iddio di questo, almeno", disse Anne di Norton, la donna perennemente ammalata che seguiva l'abate con i suoi occhi infossati. "E stai certo che la custodirò come fosse un tesoro", toccò i grani della collana, "finché vivrò". "Te l'ho portata... e te l'affido... per questo", rispose John, e si congedò. Quando lei spiegò all'abate come aveva avuto la collana questi non disse nulla, ma mentre stava sistemando con Thomas le droghe portate da John nella cella

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che dava sulla cucina dell'ospedale, osservò, a proposito di una focaccia di succo di papavero essiccato: "Questo ha il potere di eliminare qualsiasi dolore dal corpo di un uomo". "L'ho visto", disse John. "Ma per i dolori che affliggono l'anima non esiste, all'infuori della Grazia di Dio, che un rimedio; e cioè l'arte, il lavoro, lo studio, o altre benefiche attività dello spirito". "Me ne sto rendendo conto anch'io", fu la risposta. John trascorse il successivo primo maggio nei boschi con il porcaro del monastero e tutti i maiali; quindi tornò carico di fiori e ramoscelli primaverili al suo posto di lavoro, accuratamente conservatogli nel vano a settentrione dello scriptorium. Lì, con i suoi taccuini di viaggio sotto il gomito sinistro, si immerse, lungi da qualsiasi ricordo, nel suo Luca Grande. Fratello Martin, primo copista (che parlava press'a poco una volta ogni quindici giorni), si arrischiò a chiedergli, più tardi, come andasse il lavoro. "È tutto qui!" John si picchiettò la fronte con la matita. "Ha soltanto aspettato questi mesi per - ah, Dio! - per nascere. Sei libero dal lavoro di copiatura, Martin?". Fratello Martin annuì con il capo. Era fiero che John di Burgos si rivolgesse a lui, nonostante i suoi settant'anni, per un lavoro veramente ben fatto. "Allora guarda!". John stese una pergamena nuova, sottile ma senza incrinature. "Non c'è foglio migliore di questo da qui a Parigi. Sì! Annusalo pure. Per cui - dammi il compasso che te lo preparo - se mi fai una lettera più chiara o più scura delle altre ti infilzo come un maiale". "No, John!", il vecchio sorrise contento. "Sì, invece! Ora sta' attento! Qui e qui, dove punto il compasso, in lettere esattamente di questa altezza, scriverai i versetti trentuno e trentadue del capitolo ottavo di Luca". "Sì, i porci di Gadara! "Ed essi lo supplicarono che non comandasse loro di tornare nell'abisso. E v'era un gregge di molti porci"". "Fratello Martin sapeva naturalmente tutti i Vangeli a memoria". "Proprio così! Fino a "ed egli lo permise". Fai con comodo. La mia Maddalena deve prima sorgermi dal cuore". Fratello Martin fece il lavoro in maniera così perfetta che John rubò dei canditi teneri dalla cucina dell'abate per ricompensarlo. Il vecchio li mangiò; poi si pentì; quindi confessò e insistette per fare penitenza. Al che l'abate, sapendo che c'era solo un modo per giungere al vero peccatore, gli diede da copiare un libro intitolato De Virtutibus Herbarum. St. Illod's lo aveva preso in prestito dai tetri cistercensi, che non approvano le cose belle, e il testo illeggibile tenne Martin occupato proprio quando John aveva bisogno di lui per spaziare delle lettere in maniera speciale. "Guarda", disse il secondo cantore in tono di rimprovero. "Non devi fare queste cose, John. Fratello Martin sta facendo penitenza per colpa tua". "No... per il mio Luca Grande. Ma ho ricompensato il cuoco dell'abate. L'ho strapazzato finché i suoi stessi sguatteri non riuscivano più a stare seri. Non parlerà più". "Davvero poco gentile! E sei anche in disgrazia dell'abate. Non ti ha fatto un cenno, da quando sei tornato, né ti ha invitato alla sua tavola". "Sono stato occupato. E siccome Stephen ha gli occhi al loro posto, lo sapeva. Clement, da Durham a Torre non c'è un bibliotecario bravo come te a fare pulizia". Il secondo cantore stette in guardia; sapeva dove andavano a parare, in genere, i complimenti di John. "Ma fuori dello scriptorium... ". "Dove non vado mai". Il secondo cantore era stato dispensato anche dai lavori nell'orto, per timore che si rovinasse le mani, preziosissime per la rilegatura dei libri. "In tutto ciò che esula dallo scriptorium sei il più grande sciocco della Cristianità. Fidati di me, Clement. Ne ho incontrati parecchi". "Da te accetto qualunque cosa", Clement sorrise benignamente. "Mi tratti peggio di un ragazzino del coro". Potevano udire uno di quei poveretti nel chiostro sottostante, urlare mentre il cantore gli tirava i capelli. "Dio t'ami! E anch'io! Ma non hai mai pensato a come io menta e rubi ogni giorno, quando sono in viaggio - sì, e, per quanto ne sappiate voi, uccida - per portarvi colori e terre?" "È vero", disse Clement con lealtà e preso dal rimorso. "Ho pensato spesso che se mi trovassi nel mondo - Dio non voglia! - potrei essere un ladro senza scrupoli, in certe occasioni". A queste parole anche Fratello Martin, curvo sul suo odiato De Virtutibus, rise. Ma un giorno, verso la metà dell'estate, Thomas il cerusico comunicò a John l'invito a cena dell'abate, quella sera stessa, con la richiesta di portare con sé tutto ciò che aveva fatto per il Luca Grande. "Cosa c'è in vista?", disse John, che era stato completamente assorbito dal proprio lavoro. "Solo una delle sue cene "colte". Hai già partecipato ad alcune di esse, da quando sei un uomo". "È vero, e generalmente erano ottime. Come ci vuole Stephen...?" "Toga e cappuccio. Ci sarà un dottore di Salerno - un certo Ruggero, un italiano. Celebre ed esperto con il coltello sul corpo. È stato in infermeria una decina di giorni, ad aiutarmi - proprio me!". "Mai sentito nominare. Ma il nostro Stephen è pur sempre physicus prima che sacerdos". "E la sua dama è ammalata da qualche tempo. Ruggero è qui soprattutto per lei". "Davvero? Ora che ci penso, è un po' che non vedo Lady Anne".

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"È un bel po' che non vedi nessuno. È rimasta chiusa in casa per quasi un mese - adesso devono portarla via". "Sta così male, dunque?" "Ruggero di Salerno non vuole ancora pronunciarsi. Ma...". "Che Dio abbia pietà di Stephen!... Chi altro è invitato, oltre a te?". "Un frate di Oxford. Si chiama Ruggero pure lui. Un filosofo dotto e famoso. E regge anche molto bene l'alcool". "Tre dottori - contando Stephen. Ho sempre trovato che ciò significa due atei". Thomas lo guardò con imbarazzo dall'alto in basso. "È un proverbio maligno", balbettò, "Non dovresti citarlo". "Oh! Non fare il monaco con me, Thomas! Sei stato cerusico a St. Illod's per undici anni - e sei ancora converso. Perché non hai mai preso gli ordini in tutto questo tempo?" "Io... io non ne sono degno". "Sei dieci volte più degno di quel grasso maiale - Henry Come-si-chiama - quello nuovo, che dice messa in infermeria. Si precipita con il viatico sotto il naso di un malato che è solo indebolito per aver perso del sangue. Così quello muore - di semplice paura. Lo sai! Ti ho guardato in faccia in quelle occasioni. Prendi gli ordini, Didimo. I tuoi malati avranno un po' più di medicina e un po' meno messe; e vivranno più a lungo". "Non ne sono degno ... non ne sono degno", ripeté Thomas pietosamente. "Certo che lo sei... ma ... sta solo a te decidere. E ora che il lavoro mi concede un po' di libertà, berrò con qualsiasi filosofo di qualsiasi scuola. E, Thomas", lo blandì, "un bagno caldo per me all'infermeria prima del vespro". Quando la cena dell'abate, perfettamente cucinata e servita, fu terminata, e furono levate le tovaglie dalle lunghe frange, e il priore ebbe mandato le chiavi con il messaggio che tutto era a posto nel monastero, e le chiavi furono debitamente ritornate con le parole "Così sia fino a Prima", l'abate e i suoi ospiti andarono a prendere il fresco in un chiostro superiore che li condusse, attraverso i tetti di piombo, al coro meridionale del triforio. Il sole estivo era ancora caldo, essendo appena le sei, ma l'abbazia naturalmente si trovava immersa nella completa oscurità. Dieci metri più in basso si stavano accendendo le luci per gli esercizi del coro. "Il nostro cantore non gli dà tregua", bisbigliò l'abate. "Fermatevi accanto a questo pilastro e sentiremo cosa gli sta facendo provare". "Ricordate, tutti!", salì la voce severa del cantore. "Questa è l'anima stessa di Bernardo, che attacca il nostro mondo malvagio. Fatela più veloce di ieri, e buttate fuori tutte le parole ben scandite. Lassù in galleria! Cominciate!" L'organo proruppe un istante, solo e impetuoso. Poi le voci scrosciarono insieme nel primo feroce verso del De Contemptu Mundi. "Hora novissima - tempora pessima" - una pausa morta finché il consenziente "sunt" irruppe, come un singhiozzo, dall'oscurità, e la voce di un unico ragazzo, più limpida delle trombe d'argento, rispose il prolungato "vigilemus". "Ecce minaciter, imminet Arbiter" (l'organo e le voci proseguirono avvinte nel terrore e nel monito, per sciogliersi fluenti allo "ille supremus"). Poi i timbri mutarono per il preludio a "Imminet, imminet, ut mala terminet". "Basta! Da capo!", gridò il cantore; e spiegò il motivo in maniera un po' più energica di quanto non fosse naturale per gli esercizi del coro. "Ah! Pietà della vanità umana! Ha indovinato che siamo qui. Venite via!", disse l'abate. Anne di Norton, nella sua portantina, era rimasta a sentire un po' più avanti nel buio triforio, con Ruggero di Salerno. John la udì singhiozzare. Sulla via del ritorno chiese a Thomas come stesse la donna. Prima che Thomas potesse rispondere, il medico italiano dal profilo tagliente si intromise tra loro. "Riprendendo il nostro discorso, ho ritenuto opportuno dirglielo", disse a Thomas. "Che cosa?", chiese John abbastanza ingenuamente. "Quello che lei già sapeva". Ruggero di Salerno si lanciò in una citazione dal greco sul fatto che ogni donna conosce tutto di qualsiasi cosa. "Non conosco il greco", disse John aspramente. Ruggero di Salerno gliene aveva propinato un bel po' a cena. "Allora ve lo dirò in latino. Ovidio è molto conciso a proposito. "Utque malum late solet immedicabile cancer...", ma senza dubbio conoscete il resto, degno signore". "Ahimè! Il mio latino scolastico consiste unicamente in ciò che ho appreso di passaggio dagli sciocchi che pretendono di guarire le donne malate. "Hocus-pocus".... ma senza dubbio conoscete il resto, degno signore". Ruggero di Salerno non apri più bocca finché non furono tornati in sala da pranzo, dove il fuoco era stato ravvivato e i datteri, l'uvetta, lo zenzero, i fichi e i dolci alla cannella erano disposti sulla tavola insieme ai vini scelti. L'abate sedette, si tolse l'anello, lo lasciò cadere, in modo che tutti potessero udirne il tintinnìo, in una coppa d'argento vuota, distese le gambe verso il focolare e levò lo sguardo alla grande rosa intagliata e dorata sulla volta a botte. Il silenzio che dura da Compieta a Mattutino era calato sul loro mondo. Il frate dal collo taurino osservava un raggio di sole scomporsi in vari colori sul bordo di una saliera di cristallo; Ruggero di Salerno aveva riaperto una discussione con Fratello Thomas su un tipo di febbre tifoidea che li sconcertava sia in Inghilterra sia all'estero; John considerò il profilo tagliente e - avrebbe potuto servire per il Luca Grande - si portò la mano al petto. L'abate lo vide e assentì con un cenno del capo. John estrasse rapidamente la punta d'argento e l'album degli schizzi. "No... la modestia è una gran bella cosa... ma esprimete la vostra opinione", insisteva l'italiano con il cerusico. Per cortesia nei confronti dello straniero quasi tutta la conversazione si svolgeva in latino conviviale, più formale e più ricco del gergo monastico. Thomas iniziò con la sua timida balbuzie.

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"Confesso la mia ignoranza riguardo alle cause della febbre, a meno che, come dice Varrone nel suo De Rustica, certi animaletti che l'occhio non può vedere entrino nel corpo attraverso il naso e la bocca, e causino gravi malattie. D'altra parte, questo non c'è nelle Scritture". Ruggero di Salerno incurvò la testa e le spalle come un gatto rabbioso. "Sempre quelle!", disse, e John colse la piega delle labbra sottili. "Mai inattivo, John". L'abate sorrise all'artista. "Dovresti interrompere ogni due ore per le preghiere, come facciamo noi. San Benedetto non era uno sciocco. Due ore è il massimo che un uomo possa resistere con l'occhio o la mano impegnati" "Per i copisti... sì. Fratello Martin non è più affidabile dopo un'ora. Ma quando un uomo è preso dal proprio lavoro, deve andare avanti finché non lo molla". "Sì, questo è il Demone di Socrate", borbottò il frate di Oxford da sopra la sua coppa. "La dottrina spinge alla presunzione", disse l'abate. "Ricordate: "Sarà l'essere mortale più giusto del suo Creatore?"". "Non è questione di giustizia", ribatté il frate amaramente. "Ma almeno all'Uomo si potrebbe concedere di progredire nella propria arte o nel pensiero. Eppure, se Madre Chiesa vede o sente che si muove in qualche direzione, cosa dice? "No!" Sempre "No"". "Ma se gli animaletti di Varrone sono invisibili", stava dicendo Ruggero di Salerno a Thomas, "come possiamo avvicinarci anche di poco alla cura?". "Con l'esperimento", il frate si rivolse a loro improvvisamente. "Con la ragione e con l'esperimento. L'una è inutile senza l'altro. Ma Santa Madre Chiesa ... ". "Ah!" Ruggero di Salerno si avventò sull'esca come un luccio. "Ascoltate, signori. I suoi vescovi - i nostri principi - disseminano le strade d'Italia di cadaveri di gente uccisa per il loro piacere o per la loro ira. Ottimi cadaveri! Tuttavia se io - se noi medici - solleviamo appena la pelle di uno di essi per guardare l'opera di Dio che vi sta sotto, cosa dice Madre Chiesa? "Sacrilegio! Limitatevi ai vostri maiali e ai vostri cani, o sarete bruciati!"". "E non solo Madre Chiesa!", intervenne il frate. "In qualsiasi modo veniamo ostacolati - ostacolati dalle parole di qualcuno morto da un migliaio di anni, che vengono ritenute conclusive. Esiste forse un figlio di Adamo la cui sola parola dovrebbe chiudere una porta alla verità? Io non farei eccezione neanche per Petrus Peregrinus, il mio grande maestro". "Né io per Paolo di Egina", gridò Ruggero di Salerno. "Ascoltate, signori! Ecco un caso che sembra fatto a proposito. Apuleio afferma che se un uomo a digiuno beve il succo del ranuncolo palmato - noi lo chiamiamo sceleratus, che significa "mascalzone", - questo con un cenno condiscendente a John, - la sua anima lascerà il corpo ridendo. Ora questa è una menzogna più pericolosa della verità, perché vi è una certa verità in essa". "È partito!", mormorò l'abate in tono sconsolato. "Poiché il succo di quell'erba, lo so per esperienza, brucia, provoca vesciche e fa storcere la bocca. Conosco anche il rictus, o pseudo-riso, sul volto di persone morte per aver ingerito i potenti veleni di erbe imparentate con questo ranuncolo. Certamente quello spasmo rassomiglia al riso. Sembra dunque, a mio giudizio, che Apuleio, avendo visto il corpo di uno di questi avvelenati, si sia precipitato a scrivere che l'uomo era morto ridendo". "Senza soffermarsi ad osservare, né a confermare l'osservazione con l'esperimento", aggiunse il frate, corrugando la fronte. L'abate Stephen ammiccò a John. "Tu cosa pensi?", disse. "Io non sono un medico", rispose John, "ma direi che Apuleio, in tutti questi anni potrebbe essere stato travisato dai suoi copisti. Prendono delle scorciatoie per evitarsi dei problemi. Poniamo il caso che Apuleio abbia scritto che l'anima sembra lasciare il corpo ridendo, sotto l'effetto di questo veleno. Non ci sono tre copisti su cinque (a mio giudizio) che non tralascerebbero il "sembra". Perché chi metterebbe in discussione Apuleio? Se così è parso a lui, così deve essere. Del resto ogni bambino conosce il ranuncolo dalle foglie palmate". "V'intendete di erbe?", chiese bruscamente Ruggero di Salerno. "So soltanto che da ragazzo, in convento, mi procuravo delle vesciche intorno alla bocca e sul collo con il succo di ranuncolo, per evitare di andare alla preghiera nelle notti fredde". "Ah!", disse Ruggero. "Non me ne intendo di trucchi". E si girò bruscamente da un lato. "Non importa! Ora, a proposito dei tuoi trucchi, John", intervenne con garbo l'abate. "Mostrerai ai dottori la tua Maddalena, i tuoi Porci di Gadara e i diavoli". "Diavoli? Diavoli? Io ho generato diavoli per mezzo di droghe; e li ho eliminati allo stesso modo. Se i diavoli siano esterni all'umanità o immanenti, non l'ho ancora dichiarato". Ruggero di Salerno era ancora irritato. "Non osatevi farlo", sbottò il frate di Oxford. "Santa Madre Chiesa crea i Suoi diavoli". "Non dei tutto! Il nostro John è ritornato dalla Spagna con dei diavoli nuovi di zecca". L'abate Stephen prese la pergamena che gli veniva porta, e la distese delicatamente sul tavolo. Gli altri si avvicinarono a guardare. La Maddalena era disegnata in pallidissima, quasi trasparente grisaille, su uno sfondo tumultuoso e convulso di diavoli dal viso di donna, ciascuno segnato e condannato dal proprio particolare peccato, e ognuno, si poteva vedere, impegnato in una lotta frenetica contro la Forza che lo dominava. "Non ho mai visto un simile gioco di ombre", disse l'abate. "Come l'hai ottenuto?".

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"Non nobis! Mi è venuto", disse John, non sapendo di essere avanti di circa una generazione rispetto alla propria epoca, nell'uso di quella tecnica. "Perché è così pallida?", chiese il frate. "Tutto il male ha lasciato il suo corpo... ora potrebbe assumere qualsiasi colore". "Ah, come la luce attraverso il vetro. Capisco". Ruggero di Salerno guardava in silenzio - il naso sempre più vicino al foglio. "È così", dichiarò alla fine. "Così avviene con l'epilessia - la bocca, gli occhi e la fronte - persino la piega del polso, lì. Ci sono tutti i sintomi! Avrebbe bisogno di tonici, questa donna, e, in seguito, di sonno naturale. Niente succo di papavero, o al risveglio vomiterebbe. E dopo di ciò... ma non sono in cattedra". Si tirò su. "Signore", disse, "voi dovreste esercitare la Nostra professione. Perché, per i Serpenti di Esculapio, voi vedete!". I due si strinsero la mano da pari a pari. "E cosa pensate dei Sette Diavoli?", continuò l'abate. Questi si scioglievano in corpi sinuosi simili a fiori o fiamme, di colori che andavano dal verde fosforescente al porpora scuro di esausta iniquità, i cui cuori si intravedevano pulsare attraverso la loro sostanza. Ma, in segno di speranza e a dimostrazione delle salubri attività della vita, da riconquistarsi, l'ampio margine era costituito da fiori primaverili e uccelli stilizzati, il tutto coronato da un martin pescatore in volo, inclinato attraverso un cespo di iris gialli. Ruggero di Salerno identificò le erbe e parlò ampiamente delle loro virtù. "E adesso i porci di Gadara", disse Stephen. John distese la miniatura sul tavolo. Qui c'erano diavoli sfrattati che, nel terrore di essere eliminati nel Vuoto, si accalcavano e si scontravano attraverso qualsiasi apertura nei corpi delle bestie loro offerte. Alcuni porci resistevano all'invasione, schiumando e scuotendosi; altri si arrendevano, sonnolenti, come a una sensuale grattata sul dorso; altri ancora, interamente posseduti, precipitavano in greggi scalcianti verso il lago di sotto. In un angolo, l'uomo liberato distendeva gli arti interamente restituiti al suo controllo, e Nostro Signore, seduto, lo guardava come domandandosi che cosa avrebbe fatto della sua liberazione. "Diavoli davvero!" fu il commento del frate. "Ma di un genere completamente nuovo". Alcuni erano semplici masse informi, con lobi e protuberanze - un accenno di viso diabolico che faceva capolino attraverso pareti gelatinose. C'era una famiglia di inquieti diavoletti sferici che avevano squarciato il ventre del lezioso genitore e stavano roteando disperatamente verso la loro preda. Altri avevano assunto la forma di bastoni, catene e scale, da soli o combinati tra loro, attorno alla gola e alle mascelle di una scrofa strillante, dal cui orecchio spuntava la coda sferzante e trasparente di un diavolo che si era assicurato un rifugio. E c'erano diavoli granulati e conglomerati, mescolati alla schiuma e alla bava dove l'assalto era più feroce. Da lì l'occhio passava ai dorsi follemente agitati dei maiali che correvano verso il basso, al volto atterrito del porcaro e al terrore del suo cane. Disse Ruggero di Salerno: "Io affermo che queste immagini sono state prodotte sotto l'effetto di droghe. Non sono il frutto di una mente razionale". "Non queste", intervenne Thomas il cerusico, che, in qualità di servitore del monastero, per parlare avrebbe dovuto chiedere il permesso all'abate. "Non queste... guardate!... nel margine". Il margine della miniatura era un arabesco di compartimenti o cellule, irregolari ma equilibrate, dove sedevano, nuotavano, o sguazzavano diavoli in bianco, per così dire - creature non ancora ispirate dal Male - indifferenti, ma sfrenati oltre ogni immaginazione. Di nuovo le loro forme ricordavano scale' catene, fruste, diamanti, germogli abortiti, o globi gravidi, e fosforescenti - alcuni quasi simili a stelle. Ruggero di Salerno li paragonò alle ossessioni di un ecclesiastico. "Maligno?", chiese il frate di Oxford. "Considera orribile ogni cosa sconosciuta", citò Ruggero con disprezzo. "Non io. Ma sono meravigliosi... meravigliosi. Io penso...". Il frate si tirò indietro. Thomas si avvicinò per vedere meglio, e aprì a metà la bocca. "Parla", disse Stephen, che lo stava osservando. "In un certo senso siamo tutti dottori qui". "Direi allora", Thomas proruppe come uno che butti fuori il proprio credo vitale sul rogo, "che queste forme in basso nel margine, non possono essere così infernali e maligne come i modelli sui quali John si è basato per definire e caratterizzare i diavoli veri e propri, tra i porci là in alto". "E questo vorrebbe dire?", chiese astutamente Ruggero di Salerno. "A mio modesto giudizio, che può aver visto tali forme... senza l'ausilio di droghe". "Ora chi... chi", disse John di Burgos, dopo una sonora imprecazione che passò inosservata, "ti ha reso così saggio tutt'a un tratto, mio scettico amico?" "Saggio io? Dio non voglia! Soltanto, John, ricordi... un inverno di sei anni fa i fiocchi di neve che si scioglievano sulla manica del tuo saio, alla porta del refettorio? Me li facesti vedere attraverso un minuscolo cristallo che ingrandiva le cose piccole". "Sì. I mori lo chiamano l'Occhio di Allah", confermò John. "Me li mostrasti che si scioglievano... esagonali. Li chiamasti, allora, i tuoi modelli". "È vero. Fiocchi di neve che si scioglievano in forma esagonale. Li ho usati spesso per motivi decorativi". "Fiocchi di neve visti sciogliersi attraverso un vetro? Con l'arte ottica?", domandò il frate. "Arte ottica? Io non ne ho mai sentito parlare!", esclamò Ruggero di Salerno. "John", disse l'abate di St. Illod's in tono autoritario, "fu... è proprio così?"

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"In un certo senso", rispose John, "Thomas ha ragione. Quelle forme nel margine mi sono servite da modelli per i diavoli di sopra. Nel mio mestiere, Salerno, non ci azzardiamo a far uso di droghe. Uccidono la mano e l'occhio. Le mie forme si possono vedere onestamente in natura". L'abate gli avvicinò una ciotola d'acqua di rose. "Quando ero prigioniero dei... dei saraceni dopo Mansura", iniziò, voltando all'insù la piega della sua lunga manica, "c'erano certi maghi - medici - che potevano mostrare...", intinse delicatamente il medio nell'acqua, "l'intero firmamento dell'Inferno, per così dire, anche...", scosse una goccia dall'unghia lucida sul lucido tavolo, "in un nettare come questo". "Ma dev'essere acqua sporca... non pulita", disse John. "Mostraci, allora... tutto... tutto", disse Stephen. "Voglio accertarmene... ancora una volta". Il tono dell'abate era ufficiale. Jogn estrasse dalla veste una scatolina di cuoio stampato, lunga dai quindici ai venti centimetri, nella quale, adagiato su un velluto scolorito, giaceva un oggetto simile a un compasso bordato d'argento, in vecchio legno di bosso, con una vite sulla testa che apriva e chiudeva le gambe fino a frazioni minime. Queste non terminavano a punta, ma a forma di cucchiaio: una spatola era forata da un buco orlato di metallo, del diametro inferiore a mezzo centimetro, l'altra da un buco di mezzo pollice. In quest'ultima dopo averla accuratamente pulita con una pezza di seta, John infilò un cilindro di metallo che sembrava avere un vetro o un cristallo a ciascuna estremità. "Ah! Arte ottica!", disse il frate. "Ma cos'è quello lì sotto?". Era una minuscola lamella girevole d'argento brunito, non più grande di un fiorino, che catturava la luce e la concentrava sul foro più piccolo. John la sistemò senza l'aiuto offertogli dal frate. "E adesso bisogna trovare una goccia d'acqua", disse poi, prendendo un pennellino. "Vieni nel mio chiostro superiore. Il sole è ancora sui tetti", disse l'abate, alzandosi. Lo seguirono colà. A metà strada lo sgocciolìo di una grondaia aveva formato una pozza verdastra su una pietra consunta. Con estrema attenzione, John fece cadere una goccia d'acqua nel foro più piccolo del compasso, e, fissando lo strumento su una cimasa, inserì la vite nella giuntura delle due gambe, avvitò il cilindro e fece ruotare il perno dello specchietto finché non fu soddisfatto. "Bene!", guardò attentamente attraverso il cilindro. "Le mie forme sono tutte qui. Guardate, Padre! Se il vostro occhio non le trova subito, girate questo bordo intagliato, a sinistra o a destra". "Non ho dimenticato", disse l'abate, prendendo il suo posto. "Sì! Sono qui... com'erano ai miei tempi... ai miei tempi andati. Non hanno fine, mi dissero... non hanno fine!". "La luce sta calando. Oh, lasciatemi guardare! Permettete che veda anch'io!", supplicò il frate, quasi spingendo via Stephen dall'oculare. L'abate gli cedette il posto. I suoi occhi erano rivolti al passato. Ma il frate, invece di guardare, cominciò a rigirarsi lo strumento tra le mani esperte. "No, no", interruppe John, poiché l'uomo stava già giocherellando con le viti. "Lasciate guardare il dottore", Ruggero di Salerno guardò per alcuni minuti. John vide i suoi zigomi venati d'azzurro sbiancare. Alla fine fece un passo indietro, come fosse stato colpito. "È un mondo nuovo... un mondo nuovo, e... Oh, Dio Ingiusto!... io sono vecchio!". "E adesso Thomas", ordinò Stephen. John regolò il cilindro per il cerusico, le cui mani tremavano, e anch'egli guardò a lungo. "È la Vita", disse subito con voce spezzata. "Non l'Inferno! La Vita creata ed esultante - l'opera del Creatore. Son cose vive, proprio come avevo sognato. Allora non fu peccato sognare. Non fu peccato... O Dio... non fu peccato!". Si buttò in ginocchio e iniziò a recitare istericamente il Benedicite omnia Opera. "E adesso vedrò come funziona", disse il frate di Oxford, spingendosi di nuovo avanti. "Portatelo dentro. Questo posto è tutto occhi e orecchie", disse Stephen. Ritornarono in silenzio lungo i tetti, tre contee d'Inghilterra si stendevano loro intorno nella luce serale; chiesa dopo chiesa, monastero dopo monastero, cella dopo cella, e la mole di un'immensa cattedrale ormeggiata al limitare del tramonto. Quando furono nuovamente intorno al tavolo si sedettero, tutti tranne il frate che andò alla finestra e si rannicchiò sullo strumento come un pipistrello. "Capisco! Capisco!", ripeteva tra sé. "Non lo danneggerà", disse John. Ma l'abate, lo sguardo fisso davanti a sé, come anche Ruggero di Salerno, non ascoltava. Il cerusico aveva il capo appoggiato sul tavolo, tra le mani tremanti. John allungò una mano per prendere una coppa di vino. "Mi venne mostrato", l'abate stava parlando da solo, "al Cairo, che l'uomo sta sempre tra due Infiniti - l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo. Quindi non c'è fine... sia alla vita... sia...". "E io sono sull'orlo della tomba", ringhiò Ruggero di Salerno. "Chi ha pietà di me?". "Silenzio!", disse Thomas il cerusico. "Le minuscole creature saranno consacrate... consacrate al servizio dei Suoi malati". "Che bisogno c'è?". John di Burgos si asciugò le labbra. "Non mostra null'altro che la forma delle cose. Fornisce delle buone immagini. Me lo sono procurato a Granada. Mi dissero che veniva dall'Oriente". Ruggero di Salerno rise con la malignità di un vecchio. "Che dirà Santa Madre Chiesa? La Santissima Madre Chiesa? Se arriva alle Sue orecchie che abbiamo spiato nel Suo Inferno senza il Suo consenso, dove andremo a finire?". "Sul rogo", disse l'abate di St. Illod's, e, alzando un poco la voce, aggiunse: "Sentite? Roger Bacon, avete sentito?".

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Il frate si girò dalla finestra, stringendo il compasso più forte. "No, no!" supplicò. "Non con Falcodi... non con il nostro Foulkes dal cuore inglese come papa. Lui è saggio... è istruito. Legge le mie opere. Foulkes non lo permetterebbe mai". "Il Santo Padre è una cosa, la Santa Chiesa un'altra"", citò Ruggero. "Ma io... io posso testimoniare che non è arte magica", continuò il frate. "Non è nient'altro che arte ottica - scienza ottenuta tramite tentativi ed esperimenti, badate. Posso dimostrarlo, e il mio nome ha un certo peso tra coloro che osano pensare". "Trovateli!", gracchiò Ruggero di Salerno. "Saranno cinque o sei in tutto il mondo. Vale a dire meno di cinquanta libbre di cenere, sul rogo. Io li ho visti questi uomini - ridotti così". "Io non rinuncerò a questo!". La voce del frate si incrinò per la passione e la disperazione. "Sarebbe peccare contro la Luce". "No, no! Consacriamo... consacriamo i minuscoli animali di Varrone", disse Thomas. Stephen si piegò in avanti, pescò il suo anello dalla coppa e se lo infilò al dito. "Figli miei", disse, "abbiamo visto quello che abbiamo visto". "Che non si tratta di magia ma di semplice arte", insisté il frate. "Non conta nulla. Agli occhi di Madre Chiesa abbiamo visto più di quanto sia concesso all'uomo". "Ma è la Vita - creata ed esultante", disse Thomas. "Scrutare nell'Inferno - come verrà dimostrato che abbiamo fatto, e per cui saremo giudicati - è concesso ai preti soltanto". "O alle vergini clorotiche sulla via della santità, le quali, per motivi che qualsiasi levatrice potrebbe spiegarvi...". La mano levata a metà dell'abate arrestò lo sfogo di Ruggero di Salerno. "Nemmeno i preti possono vedere nell'Inferno più di quanto la Chiesa sappia esserci. John, si deve del rispetto alla Chiesa non meno che ai diavoli". "Io mi occupo dell'esteriorità delle cose", disse John pacatamente. "Ho i miei modelli". "Ma potrete avere bisogno di guardare ancora per trovarne altri", disse il frate. "Nel mio mestiere, una cosa fatta è fatta per sempre. Dopo di che passiamo a forme nuove". "E se oltrepassiamo i limiti, anche col pensiero, siamo esposti al giudizio della Chiesa", proseguì l'abate. "Ma tu sai sai!". Ruggero di Salerno era tornato all'attacco. "Qui siamo... tutti all'oscuro riguardo alle cause dei fenomeni - dalla febbre più comune alla malattia che sta consumando la vostra Dama - la vostra stessa Dama. Pensateci!". "Ci ho pensato, Salerno! Ci ho davvero pensato". Thomas il cerusico alzò nuovamente il capo; e questa volta non balbettò affatto. "Come nell'acqua, così anche nel sangue devono infierire e lottare l'uno contro l'altro! Sono dieci anni che li sogno, e... credevo che fosse peccato, ma i miei sogni e quelli di Varrone sono veri! Pensateci ancora! Abbiamo la Luce sotto la nostra stessa mano!". "Smettila! Tu non resisteresti al rogo più di... chiunque altro. Vi spiegherò la questione come la vedrebbe la Chiesa - e come la vedo io stesso. Il nostro John ritorna dal paese dei mori e ci mostra un inferno di diavoli che combattono nello spazio di una goccia d'acqua. Magia al di là di qualsiasi autorizzazione! Potete sentire crepitare le fascine". "Ma tu sai! Tu hai già visto tutto! Per amore dell'uomo! Per amore della nostra vecchia amicizia... Stephen!". Il frate stava cercando di conficcarsi il compasso nel petto mentre supplicava. "Quello che sa Stephen de Sautré, lo sapete anche voi suoi amici. Ora vorrei che obbediste all'Abate di St. Illod's. Datemelo!". Tese la mano inanellata. "Posso... può John... fare almeno uno schizzo di una sola... di una sola vite?", disse il frate, avvilito e controvoglia. "Niente affatto!", ribatté Stephen. "Il tuo pugnale, John. Servirà anche nel fodero". Svitò il cilindro di metallo, lo depose sul tavolo e con l'elsa del pugnale frantumò il cristallo riducendolo in polvere luccicante che raccolse nel cavo della mano e gettò dietro il focolare. "Sembrerebbe", disse poi, "che la scelta sia tra due peccati. Negare al mondo una Luce che è sotto la nostra mano, o illuminarlo anzitempo. Quello che voi avete visto oggi, io lo vidi molto tempo fa tra i medici del Cairo. E so quale dottrina ne trassero. Tu hai sognato, Thomas? Anch'io... con maggiore consapevolezza. Ma questa nascita, figli miei, è prematura. Porterà solo altra morte, altra tortura, altra divisione e maggiore oscurità in questa epoca oscura. Pertanto io, che conosco sia il mio mondo sia la Chiesa, mi prendo questa decisione sulla coscienza. Andate! È finito". E spinse il legno del compasso in profondità tra i ceppi di faggio finché non fu completamente bruciato. IL GIARDINIERE Un sepolcro mi venne dato, Una veglia sino al Giorno del Giudizio; E Dio guardò giù dal Cielo

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E fece rotolare via la pietra. Un solo giorno in tutti gli anni, Un'ora sola in quello stesso giorno, Il Suo Angelo vide le mie lacrime, E fece rotolare via la pietra! Tutti nel villaggio sapevano che Helen Turrell compiva il suo dovere con chiunque, e in maniera particolarmente meritevole con lo sventurato figlio del suo unico fratello. Il villaggio sapeva anche che George Turrell aveva messo a dura prova la famiglia sin dalla prima giovinezza, e nessuno fu sorpreso di sentire che, dopo varie imprese annunciate e fallite, egli, ispettore della polizia indiana, si era impelagato con la figlia di un sottufficiale in pensione, ed era morto per una caduta da cavallo poche settimane prima di diventare padre. Grazie a Dio, i genitori di George erano morti entrambi, e anche se Helen, trentacinquenne e indipendente, avrebbe potuto benissimo lavarsi le mani dell'intera vergognosa faccenda, se ne occupò assai nobilmente, benché all'epoca fosse minacciata da un'affezione polmonare che l'aveva condotta nel sud della Francia. Organizzò la traversata del bambino e di una governante da Bombay, andò a prenderli a Marsiglia, curò il piccolo da un attacco di dissenteria causato dalla negligenza della governante, che dovette licenziare, e infine, esile ed esausta, ma trionfante, in autunno inoltrato portò il bimbo, completamente ristabilitosi, a casa sua nello Hampshire. Tutti questi particolari erano di dominio pubblico, poiché Helen, aperta come il giorno, sosteneva che ogni tentativo di soffocare uno scandalo riesce solo ad alimentarlo. Ammetteva che George era sempre stato abbastanza una pecora nera, ma le cose sarebbero potute andare molto peggio se la madre avesse insistito nel far valere il proprio diritto di tenere il bambino. Per fortuna, sembrava che la gente di quella classe facesse quasi tutto per denaro, e, siccome George si era sempre rivolto a lei nei momenti difficili, Helen si sentì giustificata - e i suoi amici le diedero ragione - a tagliare completamente i ponti con la famiglia del sottufficiale e a dare al bambino tutti i vantaggi possibili. Il primo passo fu di farlo battezzare dal pastore con il nome di Michael. Helen andava dicendo che, per quanto ne sapesse, non era un'amante dei bambini, ma era stata molto affezionata a George, nonostante tutti i suoi difetti, e faceva notare come il piccolo Michael avesse la stessa identica bocca del padre; il che era qualcosa su cui contare. In realtà era la fronte dei Turrell - ampia, bassa e ben proporzionata, con sotto gli occhi ben spaziati - che Michael aveva più fedelmente riprodotto. Il taglio della bocca era alquanto migliore di quello tipico della famiglia. Tuttavia Helen, che non ammetteva potesse venire alcunché di buono dal lato materno, giurava che era un Turrell dalla testa ai piedi, e, non essendoci nessuno in grado di contraddirla, la somiglianza venne stabilita. Nel giro di pochi anni Michael prese il suo posto nella comunità, accettato come lo era sempre stata Helen - impavido, di spirito filosofico e abbastanza bello di aspetto. A sei anni volle sapere perché non poteva chiamare Helen "Mamma", come facevano gli altri bambini con le loro madri. Lei spiegò che era soltanto sua zia, e che le zie non erano proprio la stessa cosa delle mamme; ma, se la cosa gli faceva piacere, poteva chiamarla "Mamma" al momento di andare a letto, come una sorta di vezzeggiativo tra loro due. Michael mantenne il segreto con la massima fedeltà; ma Helen, come al solito, spiegò il fatto alle amiche; e Michael, quando lo venne a sapere, andò su tutte le furie. "Perché l'hai detto? Perché l'hai detto?", disse alla fine della sfuriata. "Perché è sempre meglio dire la verità", rispose Helen, con un braccio intorno a lui, che tremava nel suo lettino. "Benissimo, ma quando la verità è brutta non credo sia il caso di raccontarla". "No, tesoro?" "No, non credo, e...", lei sentì il corpicino irrigidirsi, "ora che l'hai raccontata, non ti chiamerò più "Mamma" nemmeno al momento di andare a letto". "Ma non ti sembra un po' troppo sgarbato?", chiese Helen dolcemente. "Non mi importa! Non mi importa! Tu mi hai ferito dentro, e ti ferirò anch'io. Ti farò male finché vivrò!". "No, oh, non parlare così, tesoro! Tu non sai cosa...". "Lo farò! E quando sarò morto ti farò ancora più male!". "Grazie al Cielo, morirò molto prima di te, caro". "Uh! Emma dice: "Non si conosce mai il proprio destino"" (Michael aveva parlato con la domestica di Helen, una donna anziana e dal volto piatto). "Moltissimi bambini muoiono abbastanza presto. Così farò anch'io. Allora vedrai!". Helen trattenne il respiro e si diresse verso la porta, ma il gemito di "Mamma! Mamma!" la fece tornare indietro, e i due piansero insieme. All'età di dieci anni, dopo due trimestri di scuola preparatoria, qualcosa o qualcuno gli mise in testa l'idea che il suo stato civile non fosse del tutto regolare. Così affrontò Helen sull'argomento, abbattendo le sue balbettanti difese con la tipica franchezza di famiglia. "Non credo a una sola parola di tutto ciò", disse allegramente alla fine. "La gente non avrebbe parlato in quel modo, se i miei fossero stati sposati. Ma non preoccuparti, zia. Ho scoperto tutto su quelli come me nella storia inglese e

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negli estratti di Shakespeare. Tanto per cominciare, c'era Guglielmo il Conquistatore, e... oh, un sacco di altri, e tutti se la sono cavata ottimamente. Per te non farà alcuna differenza che io sia così... non è vero?". "Come se qualcosa potesse...", iniziò lei. "Benissimo. Non ne parleremo più, se ti fa piangere". E Michael non accennò più alla cosa di sua volontà; ma quando, due anni dopo, riuscì abilmente a prendersi il morbillo durante le vacanze, e la temperatura salì ai quaranta gradi previsti, non borbottò nient'altro finché la voce di Helen, penetrando il suo delirio, non lo raggiunse con l'assicurazione che niente sulla terra o al di là avrebbe potuto cambiare le cose tra di loro. I trimestri al collegio e le meravigliose vacanze di Natale, di Pasqua ed estive si susseguirono, vividi e splendenti come gioielli su una collana; e come gioielli Helen li custodì gelosamente. A tempo debito Michael sviluppò i propri interessi, che fecero il loro corso e lasciarono il posto ad altri; ma il suo interesse per Helen non diminuì mai, anzi andò aumentando. Lei lo ripagava con tutto il suo affetto, o con i consigli e il denaro di cui poteva disporre; e siccome Michael non era affatto sciocco, la guerra lo prese proprio mentre si accingeva ad intraprendere quella che sembrava una carriera assai promettente. In ottobre sarebbe dovuto andare a Oxford con una borsa di studio. Alla fine di agosto era sul punto di unirsi al primo olocausto di ragazzi delle superiori che si precipitarono al Fronte; ma il capitano del suo OTC, dove aveva prestato servizio come sergente per quasi un anno, lo dirottò assegnandolo direttamente per un brevetto da ufficiale a un battaglione così nuovo che metà degli uomini indossava ancora la vecchia uniforme rossa, e l'altra metà stava covando la meningite in tende umide e sovraffollate. Helen era rimasta scioccata all'idea dell'arruolamento diretto e volontario. "Ma è una tradizione di famiglia", disse Michael ridendo. "Non vorrai dirmi che hai creduto a quella vecchia storia per tutto questo tempo?", disse Helen. (Emma, la sua domestica, era morta ormai da diversi anni). "Ti ho dato la mia parola d'onore... e te la do nuovamente... che... che è tutto a posto. Davvero". "Oh, quello non mi preoccupa. Non mi ha mai preoccupato", rispose lui animosamente. "Ciò che volevo dire è che sarei entrato in lizza prima, se mi fossi arruolato come mio nonno". "Non parlare così! Hai dunque paura che finisca troppo presto?" "Non avremo una tale fortuna. Sai cosa dice K.". "Sì. Ma il mio banchiere, lunedì scorso, mi ha detto che non può assolutamente durare oltre Natale - per ragioni finanziarie". "Spero che abbia ragione, perché il nostro colonnello - che è un militare di carriera - dice che la cosa andrà per le lunghe". Il battaglione di Michael fu fortunato perché, grazie a una circostanza fortuita che significava diverse "licenze", venne impiegato nella difesa costiera fra trincee poco fonde sul litorale del Norfolk; da lì venne mandato a nord, a sorvegliare la bocca di un estuario scozzese; e, infine, tenuto fermo per settimane sulla voce, rivelatasi poi infondata, di una lontana destinazione. Ma, il giorno stesso che Michael avrebbe dovuto incontrare Helen per quattro ore intere in un nodo ferroviario a metà strada, venne spedito d'urgenza come rincalzo nella carneficina di Loos, ed ebbe appena il tempo di mandarle un telegramma d'addio. In Francia, la fortuna aiutò ancora il battaglione, poiché venne retrocesso vicino al Salient, dove condusse una vita meritoria e poco impegnativa mentre si stava organizzando l'offensiva della Somme; e quando iniziò la battaglia godette la pace dei settori di Armentières e Laventie. Qui un comandante accorto, vedendo che se la cavava bene a proteggersi i fianchi e sapeva scavare, lo sottrasse alla sua divisione con il pretesto di aiutare a stendere i fili del telegrafo, e lo impiegò liberamente attorno a Ypres. Un mese più tardi, quando Michael aveva appena scritto a Helen che non stava facendo niente di speciale e quindi non c'era motivo di preoccuparsi, una scheggia di granata, balzando fuori da un'alba umida, lo uccise sul colpo. La granata successiva divelse e fece ricadere sul corpo quelle che erano state le fondamenta di un fienile, ricoprendolo così bene che soltanto un esperto avrebbe potuto immaginare che era successo qualcosa di tragico. A quell'epoca il villaggio aveva acquisito una lunga esperienza in fatto di guerra, e, alla maniera inglese, aveva sviluppato un rituale per farvi fronte. Quando la direttrice dell'ufficio postale diede alla figlia di sette anni il telegramma ufficiale da portare a Miss Turrell, osservò, parlando con il giardiniere del rettore: "Questa volta tocca a Miss Turrell". Al che lui rispose, pensando al proprio figlio: "Be', lui è durato più a lungo di altri". La bambina stessa giunse alla porta d'ingresso piangendo forte, perché il signor Michael le dava spesso dei dolci. Di lì a poco Helen si ritrovò a calare le tendine di casa una dopo l'altra con grande attenzione, dicendo seriamente ad ognuna: "Disperso significa sempre morto". Poi occupò il suo posto nella triste processione che si trovò a passare attraverso una serie inevitabile di inutili emozioni. Il rettore, ovviamente, predicò la speranza e predisse l'arrivo imminente di notizie da un campo di prigionia. Diverse amiche, inoltre, le riferirono storie assolutamente veritiere, ma sempre riguardanti altre donne, alle quali, dopo mesi e mesi di silenzio, i loro dispersi erano stati miracolosamente restituiti. Altri la esortarono a mettersi in contatto con infallibili segretari di organizzazioni che potevano comunicare con benevoli neutrali, i quali a loro volta erano in grado di ottenere informazioni precise dai più reticenti comandanti di campi di prigionia tedeschi. Helen fece, scrisse e firmò qualsiasi cosa le venne suggerita o messa davanti. Una volta, durante una licenza, Michael l'aveva portata a visitare una fabbrica di munizioni, dove aveva visto lo sviluppo di una granata dal blocco di metallo grezzo al pezzo quasi interamente finito. In quell'occasione, l'aveva

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colpita il fatto che quella cosa orribile non veniva mai lasciata sola un istante; e mentre preparava i documenti, disse tra sé: "Mi stanno trasformando in un parente prossimo del defunto". A tempo debito, quando tutte le organizzazioni ebbero espresso un profondo e sincero rammarico per non aver potuto rintracciare, ecc., qualcosa cedette dentro di lei e tutte le sensazioni - salvo la gratitudine per la liberazione - si esaurirono in una beata passività. Michael era morto e il mondo di Helen si era fermato, e lei era tutt'uno con il trauma di quell'arresto. Adesso lei era ferma e il mondo andava avanti, ma questo non la riguardava - non la toccava in alcun modo né attraverso alcun legame. Se ne rendeva conto dalla disinvoltura con cui poteva far scivolare il nome di Michael nel discorso, e inclinare il capo nella maniera giusta quando le mormoravano parole appropriate di simpatia. Nella beata percezione di questa forma di sollievo, l'Armistizio scoppiò su di lei con tutte le sue campane e passò inosservato. Al termine di un altro anno aveva superato il disgusto fisico che provava per la vita ed era tornata giovane, tanto che poteva riavvicinarsi ai suoi simili ed augurare loro ogni bene quasi con sincerità. Non provava alcun interesse per qualsiasi conseguenza, nazionale o individuale, della guerra, ma, muovendosi a un'enorme distanza, partecipò alle riunioni di vari comitati di assistenza e sostenne opinioni precise - udì se stessa mentre le esponeva - sul luogo ove erigere il proposto Monumento ai Caduti del villaggio. Poi le arrivò, come parente prossima, un avviso ufficiale, corredato da una pagina di una lettera scritta a matita copiativa e indirizzata a lei, una piastrina di riconoscimento d'argento e un orologio, a conferma del fatto che il corpo del tenente Michael Turrell era stato trovato, identificato e risepolto nel Terzo Cimitero Militare di Hagenzeele - erano debitamente fornite la lettera della fila e il numero della tomba. Così Helen si trovò sospinta verso un'altra fase del processo di lavorazione - in un mondo pieno di parenti esultanti o desolati, forti ora della certezza che ci fosse un altare sulla terra dove poter deporre il loro amore. Costoro ben presto le dissero, e le dimostrarono con tanto di orari, com'era facile e quanto poco interferiva con la vita quotidiana andare a visitare la tomba di un proprio caro. "Sarebbe ben diverso", come disse la moglie del pastore, "se fosse stato ucciso in Mesopotamia, o anche a Gallipoli". L'angoscia di essere risvegliata in una sorta di seconda vita spinse Helen al di là della Manica, dove, in un mondo nuovo di sigle e abbreviazioni, apprese che Hagenzeele Terzo si poteva raggiungere facilmente con un treno del pomeriggio che aveva la coincidenza con il traghetto del mattino, e che a meno di tre chilometri dal cimitero stesso c'era un comodo alberghetto, nel quale si poteva trascorrere comodamente la notte per andare a visitare la tomba del proprio caro il mattino seguente. Tutto ciò lo seppe da una Autorità Centrale che viveva in una baracca di assi e carta catramata, alla periferia di una città rasa al suolo e piena di turbinosa polvere di calce e cartacce svolazzanti. "A proposito", disse lui, "sa qual è la tomba, no?". "Sì, grazie", disse Helen, e mostrò la lettera della fila e il numero scritti con la piccola macchina da scrivere di Michael. L'ufficiale fece per controllare su uno dei numerosi registri, ma un donnone del Lancashire si intromise ordinandogli di dirle dove avrebbe potuto trovare suo figlio, che era stato caporale degli ASC. Il suo vero nome, disse tra i singhiozzi, era Anderson, ma ovviamente, venendo da una famiglia rispettabile, si era arruolato con il nome di Smith; era stato ucciso a Dickiebush, all'inizio del '15. Lei non aveva il numero della tomba, né sapeva quale dei due nomi di battesimo potesse aver usato con il falso cognome; ma il suo biglietto turistico Cook 6 scadeva alla fine della settimana di Pasqua, e se per allora non avesse trovato suo figlio sarebbe impazzita. Detto ciò, cadde in avanti sul petto di Helen; ma la moglie dell'ufficiale uscì prontamente da una piccola stanza da letto dietro l'ufficio, e tutti e tre sollevarono di peso la donna e la portarono su una brandina. "Fanno spesso così", disse la moglie dell'ufficiale, allentandole i nastri del cappellino. "Ieri ha detto che è stato ucciso a Hooge. È certa di sapere dov'è la sua tomba? Fa una bella differenza". "Sì, grazie", disse Helen, e si affrettò ad uscire prima che la donna sul letto ricominciasse a lamentarsi. Prendere il tè in un affollato capannone di legno a strisce azzurre e malva, con una falsa facciata, la spinse ancora di più nell'incubo. Pagò la sua consumazione accanto a un'inglese imperturbabile dai lineamenti regolari, che, sentendola chiedere del treno per Hagenzeele, si offrì di accompagnarla. "Sto andando anch'io a Hagenzeele", spiegò. "Non a Hagenzeele Terzo; il mio è lo Zuccherificio, ma adesso lo chiamano La Rosière. È proprio a sud di Hagenzeele Tre. Ha prenotato una camera all'albergo che c'è lì?" "Oh sì, grazie. Ho mandato un telegramma". "È meglio. Certe volte è tutto pieno, e certe altre c'è appena un'anima. Però hanno messo le stanze da bagno nel vecchio Lion d'Or - è l'albergo sul lato occidentale dello Zuccherificio - e per fortuna molta gente va lì". "È tutto nuovo per me. Questa è la prima volta che vengo". "Davvero! Per me è la nona, dall'Armistizio. Non vengo per mio conto. Io, grazie a Dio, non ho perso nessuno - ma, come chiunque altro, ho un sacco di amici in patria che hanno perso qualcuno. Venendo spesso come faccio io, mi accorgo che li aiuta avere qualcuno che dia solo uno sguardo al... luogo e dopo gliene parli. E si possono anche fare delle fotografie a richiesta. Io ho una vera e propria lista di commissioni da eseguire". Rise nervosamente e diede un colpetto alla Kodak che aveva a tracolla. "Questa volta ne ho da visitare due o tre allo Zuccherificio, e moltissimi altri nei cimiteri intorno. Il mio sistema è di raccogliere un certo numero di commissioni e dividerle per zone. Poi, quando ne ho messe da parte un numero sufficiente perché valga la pena di andare in una certa zona, faccio un salto e le sbrigo. Ciò dà conforto alla gente". "Immagino di sì", rispose Helen, rabbrividendo mentre salivano sul trenino.

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"Certo che dà conforto. (Non è una fortuna aver trovato posto accanto al finestrino?). Deve essere così, altrimenti non chiederebbero a qualcuno di farlo, no? Ho qui una lista di dodici o quindici commissioni", diede un altro colpetto alla Kodak, "e devo dividerle stasera. Oh, dimenticavo di chiederle. Chi è il suo?" "Mio nipote", disse Helen. "Ma gli ero molto affezionata". "Ah, sì! Talvolta mi domando se loro sanno dopo la morte. Lei cosa ne pensa?" "Oh, non non ho osato pensare molto a questo genere di cose", disse Helen, sollevando quasi le mani per tenerla lontana. "Forse è meglio così", rispose la donna. "Il senso di perdita deve essere già abbastanza, immagino. Bene, non la disturberò più". Helen gliene fu grata, ma quando raggiunsero l'albergo la signora Scarsworth (nel frattempo si erano presentate) insistette per pranzare al suo stesso tavolo, e dopo mangiato, nel piccolo e orrendo salone pieno di parenti che discorrevano sottovoce, intrattenne Helen con le sue "commissioni", raccontandole biografie di defunti, dove le era capitato di conoscerli, e fornendole descrizioni dei loro parenti prossimi. Helen sopportò fin quasi alle nove e mezza, poi fuggì nella sua stanza. Quasi subito bussarono alla porta ed entrò la signora Scarsworth; le sue mani, congiunte sul petto, stringevano l'orrenda lista. "Sì... sì... lo so", iniziò a dire. "Si è stufata di me, ma voglio dirle una cosa. Lei... lei non è sposata, vero? Allora forse non... Ma non importa. Devo dirlo a qualcuno. Non posso più andare avanti così". "Ma la prego". La signora Scarsworth si era appoggiata con la schiena alla porta chiusa, e muoveva la bocca come in cerca delle parole. "Un attimo solo", disse. "Si si ricorda di quelle tombe di cui le stavo dicendo un momento fa, nel salone? Sono veramente delle commissioni. Almeno, diverse di loro lo sono". Il suo sguardo vagava per la stanza. "Che straordinarie tappezzerie hanno in Belgio, non trova?... Sì. Giuro che sono commissioni. Ma ce n'è una, sa, e... e lui per me contava più di qualsiasi altra cosa al mondo. Capisce?". Helen annuì. "Più di qualsiasi altro. E, naturalmente, non avrebbe dovuto essere così. Non avrebbe dovuto contare nulla per me. Però contava. E conta. Questo è il motivo per cui accetto le commissioni; capisce? Ecco tutto". "Ma perché me lo racconta?", chiese Helen disperatamente. "Perché sono così stanca di mentire. Stanca di mentire... sempre mentire... anno dopo anno. Quando non racconto bugie devo metterle in atto e devo pensarle, sempre. Lei non sa cosa significhi. Per me lui era tutto ciò che non avrebbe dovuto essere... l'unica cosa reale... l'unica che mi sia mai capitata in tutta la vita; e ho dovuto fingere che non lo fosse. Ho dovuto stare attenta ad ogni parola che dicevo, e pensare alla prossima bugia che avrei raccontato, per anni e anni!". "Quanti anni?", chiese Helen. "Sei anni e quattro mesi prima, e due anni e nove mesi dopo. Sono stata da lui otto volte, finora. Domani sarà la nona, e... e non posso... non posso più andarci senza che qualcuno al mondo lo sappia. Voglio essere sincera con qualcuno, prima di andare. Capisce? Non lo faccio per me. Io non sono mai stata sincera, nemmeno da ragazza. Ma la cosa non è degna di lui. Così... così io... ho dovuto dirlo a lei. Non posso più tenerlo per me. Oh, non posso!". Si portò le mani giunte quasi all'altezza della bocca, e le riabbassò bruscamente, ancora giunte, per l'intera lunghezza delle braccia. Helen si fece avanti, le prese le mani, chinò il capo su di esse, e mormorò: "Oh, mia cara! Mia cara!". La signora Scarsworth fece un passo indietro, con il viso tutto chiazzato. "Mio Dio!", disse. "È così che la prende?". Helen non seppe che dire, e la donna uscì; ma passò molto tempo prima che Helen riuscisse a prendere sonno. Il mattino dopo la signora Scarsworth partì di buon'ora per il suo giro di commissioni, ed Helen si avviò da sola e a piedi verso Hagenzeele Terzo. Il luogo era ancora in costruzione e sorgeva a circa un metro e mezzo sulla strada macadamizzata che lo costeggiava per centinaia di metri. Dei cunicoli scavati attraverso un profondo fossato fungevano da ingressi lungo il muro di cinta, non ancora terminato. Helen salì alcuni gradini di terra rivestiti di legno e si trovò di fronte tutt'a un tratto l'intera gremita distesa. Non sapeva che Hagenzeele Terzo contasse già ventunmila morti. Tutto ciò che vide fu un mare spietato di nere croci, che avevano agli angoli striscioline di latta stampigliata. Non poteva distinguere alcun ordine o sistemazione nella massa di croci; null'altro che una distesa, alta fino alla vita, come di erbacce colpite a morte che le correvano incontro. Andò avanti, si spostò a sinistra e a destra senza speranza, chiedendosi quale indicazione l'avrebbe mai condotta alla sua croce. In lontananza si scorgeva una striscia bianca. Risultò essere un blocco di due o trecento tombe sulle quali erano già state collocate le lapidi, piantati i fiori, e l'erbetta fresca era di un bel colore verde. Qui poté vedere delle lettere incise chiaramente all'inizio di ogni fila, e, controllando il suo foglietto, si rese conto che non era il luogo in cui avrebbe dovuto cercare. C'era un uomo inginocchiato dietro una fila di lapidi - doveva essere un giardiniere, poiché stava sistemando una giovane piantina nel terriccio morbido. Helen gli andò incontro con il foglietto in mano. Lui, vedendola arrivare, si alzò e, senza preamboli o cenni di saluto, le chiese: "Chi sta cercando?" "Il tenente Michael Turrell - mio nipote", disse Helen lentamente e scandendo le parole, come aveva fatto migliaia e migliaia di volte in vita sua. L'uomo alzò gli occhi e la guardò con infinita misericordia, prima di volgersi dall'erba appena seminata verso le nude e nere croci.

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"Venga con me", disse, "e le farò vedere dove riposa suo figlio". Quando Helen lasciò il cimitero, si girò per un ultimo sguardo. In lontananza vide l'uomo chino sulle sue giovani piante; e andò via, immaginando che fosse il giardiniere. LA CHIESA CHE ERA AD ANTIOCHIA Ma quando Pietro venne ad Antiochia, io gli opposi resistenza, poiché era da biasimare. Epistola di san Paolo ai Galati, 2, 11 Sua madre, una devota vedova romana di buona famiglia, decise che non gli faceva punto bene starsene in una legione d'Oriente così vicina a Costantinopoli, dov'era diffusa la libertà di pensiero, e lo fece distaccare in servizio civile ad Antiochia, dove lo zio, Lucio Sergio, era a capo della guardia municipale. Valente, da figlio e da giovane desideroso di vedere il mondo, obbedì e, in breve tempo, si presentò alla porta dello zio. "Mia cognata", disse il più anziano, "si ricorda di me solo quando ha bisogno di qualcosa. Cos'hai combinato?" "Niente, zio". "Vale a dire di tutto?" "È quello che pensa mia madre. Ma non è vero". "Vedremo. I tuoi alloggi sono dall'altra parte del cortile interno. Il tuo... ehm... bagaglio è già lì... Oh, non m'immischierò di certo nelle tue faccende private. Non sono il tipo dello zio burbero. Fatti un bagno. Parleremo a cena". Ma prima di allora "Padre Serga", come veniva chiamato il prefetto di polizia, apprese dalla tesoreria che il nipote aveva marciato via terra da Costantinopoli scortando un convoglio del tesoro che, dopo una scaramuccia con i briganti al passo fuori Tarso, aveva puntualmente consegnato. "Perché non me ne hai parlato?", gli chiese lo zio a cena. "Prima dovevo fare rapporto alla tesoreria", fu la risposta. Serga lo guardò. "Per gli dèi! Sei identico a tuo padre", disse. "La Cilicia è presidiata in maniera scandalosa". "L'ho notato. Ci hanno teso un'imboscata a meno di cinque miglia dalla città di Tarso. Dobbiamo aspettarci questo genere di cose anche qui?" "Vedo che ci metti poco ad ambientarti. No. Non qui. Ma la Siria è una provincia a statuto speciale - sotto l'imperatore, non il senato. Da una parte abbiamo tutto l'inesplicabile Oriente; dall'altra la schiuma del Mediterraneo; e a sud quella megera della Giudea. In Siria può succedere di tutto. Ti piace come prospettiva?" "Mi piacerà... sotto di te". "Lo si ha nel sangue. In questo gli uomini sono come i cavalli. Ora dimmi cos'hai fatto per addolorare tanto tua madre". "E un po' indietro coi tempi, zio. Segue la vecchia scuola, naturalmente - i culti domestici e la rigida Trinità latina. Credo che non riconosca altri dèi all'infuori di Giove, Giunone e Minerva". "Nemmeno io... ufficialmente". "E io neanche, come ufficiale, zio. Ma uno ha bisogno di qualcosa di più e... e ciò che ho appreso a Bisanzio quadrava con quanto ho visto con la Decima Quinta". "Non occorre che tu aggiunga altro. Le legioni orientali si assomigliano tutte. Intendi dire che sei un seguace di Mitra, vero?". Il giovane chinò leggermente il capo. "Non c'è niente di male, ragazzo. È una religione da soldati, anche se viene da fuori". "Così ho pensato anch'io. Ma mia madre è venuta a saperlo. Non ha approvato e suppongo sia questo il motivo per cui mi trovo qui". "Dal tridente nella rete! È tipico delle donne! Tutta la Siria è pervasa dal mitraismo. La mia sola obiezione riguardo alle religioni stravaganti è che i loro incontri avvengono soprattutto di notte, e questo significa più lavoro per la polizia. Qui abbiamo un collegio di ebrei testardi che si definiscono cristiani". "Ne ho sentito parlare", disse Valente. "Non c'è simbolo o cerimonia che non abbiano preso dal rituale mitraico". "Ne so qualcosa! Le religioni rientrano nelle mie competenze; e lo stesso sarà per te. Gli ebrei della nostra sinagoga si battono come sciti per questa nuova fede". "E ciò crea grossi problemi?" "Finché si battono tra loro, a noi basta mantenere il controllo della situazione. Dividi e governa - specialmente con gli ebrei. Adesso anche questi cristiani sono divisi. Sai, una parte del loro culto consiste nel mangiare assieme". "Un altro furto! La Cena è il simbolo principale, per noi", interruppe Valente. "Per noi?! Per tuo zio, mio caro, è il simbolo principale dei fastidi. Chiunque può diventare cristiano. Anche un ebreo; ma quello vive ancora secondo la sua legge mosaica (ho dovuto studiarmi a fondo anche quel maledetto codice),

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che regola ogni sua azione. Poi va a sedersi a un'agape cristiana accanto a un greco o a un occidentale, che non macella il montone o il maiale. No! No! Gli ebrei non toccano carne di maiale, come stabilisce la legge ebraica. Allora si fanno a pezzi le tavole, ma non per le risate... No! No! Per i tumulti!". "Ma è puerile", disse Valente. "Magari lo fosse. Invece devono intervenire i miei littori per mantenere l'ordine, e a me tocca raccogliere le deposizioni degli ebrei della sinagoga, che denunciano i cristiani come traditori a Cesare. Se dovessi dar peso alla metà delle accuse sulla cui autenticità i loro rabbini sono pronti a giurare, non ti dico quanti piccoli e rispettabili bottegai ebrei dovrebbero comparire in giudizio ogni settimana per cospirazione. Mai decidere in base alle testimonianze, se si ha a che fare con gli ebrei! Oh, te ne farai una scorpacciata! Domani sei di servizio al Mercato nel rione del Piccolo Circo, proprio in mezzo a loro. E adesso, fatti una bella dormita. Sono su questa frontiera da tempo immemorabile, tant'è che mi chiamano il Padre della Siria, e... be', è bello rivedere un rappresentante del ceppo antico!". Il mattino dopo, e per molte settimane successive, Valente si trovò a fare il giro d'ispezione al mercato con un grasso edile che s'infuriava perché le bancarelle non venivano lavate all'ora giusta. Gli erano stati assegnati un paio di uomini di suo zio, i quali naturalmente lo introdussero negli ambienti dei ladri e delle prostitute, tra i gladiatori più celebri e così via. Un giorno, dietro il Piccolo Circo, vicino alla via di Singon, incappò in una ressa, dove una banda del circo stava cercando di riscuotere o di non pagare le scommesse su delle corse recenti di bighe. L'edile disse che non era affar suo e tornò indietro. I littori si strinsero intorno a Valente, ma lasciarono a lui l'iniziativa. Poi, in mezzo a una folla urlante che lo accusava di essere il capo di una congiura, gli venne spinto tra le braccia un uomo piccolo e coriaceo, dalle folte sopracciglia. "Sì", disse Valente, "è un vecchio trucco che usavano anche a Bisanzio; ma credo che prenderemo te, amico mio". Lasciando andare l'ometto, agguantò il più chiassoso dei suoi accusatori per farlo comparire davanti allo zio. "Hai visto bene", disse Serga il giorno dopo. "Quel brav'uomo era stato istigato... da qualcun altro. Ho ordinato che gli dessero una dozzina di frustate. Sei riuscito a sapere il nome dell'uomo che stavano cercando di spingerti fra le braccia?" "Sì. Gaio Giulio Paolo. Perché?" "Lo immaginavo. È una mia vecchia conoscenza, un cilicio di Tarso. Di buona famiglia - un cittadino di nascita, e con una buona istruzione, ma i suoi lo hanno ripudiato. Così per vivere deve lavorare". "Parlava come uno di buona famiglia. Ed è anche in ottima forma. Ho potuto constatarlo: è tutto muscoli". "C'è poco da stupirsi. È capace di marciare più in fretta di un cammello. È lui il prefetto di questa nuova setta. Viaggia in lungo e in largo per le nostre province orientali avviando i loro collegi e mantenendoli in vita. Per questo gli ebrei della sinagoga gli danno la caccia. Se potessero farlo arrestare con un'accusa di carattere politico, per lui sarebbe finita". "Allora è un sedizioso?" "Niente affatto. E anche se lo fosse, non lo darei in pasto agli ebrei solo perché lo vogliono. Qualche anno fa un nostro governatore, sulla costa meridionale, ha provato ad accontentarli... per il quieto vivere. Ma non ha ottenuto niente. Ti piace il lavoro al mercato, ragazzo mio?" "È interessante. Sai, zio, credo che in fatto di macellazione gli ebrei della sinagoga abbiano delle disposizioni migliori delle nostre". "È vero. Per questo sono così coriacei. Una dozzina di frustate non sono niente per quell'Apella, anche se butterà giù il cortile a furia di urlare, quando gli verranno somministrate. C'è il collegio cristiano nel tuo rione. Che impressione ti hanno fatto?" "Sembrano abbastanza tranquilli. C'è un po' di apprensione per la scelta dei cibi che dovrebbero consumare nelle loro agapi". "Lo so. Oh, c'è una cosa che volevo dirti, Valente: dovremmo cercare di non metterli troppo sotto pressione, in questo momento. Mi è stato riferito che Paolo, il tuo piccolo amico, andrà nel meridione per qualche giorno a incontrarsi con un altro sacerdote del collegio, e lo porterà con sé perché lo aiuti ad appianare le divergenze in fatto di vivande. Ciò significa che la congregazione sarà lasciata a se stessa fino al loro ritorno; e la massa, senza una mente che la guidi, finisce sempre a gambe all'aria. Di conseguenza, è proprio questo il momento in cui gli ebrei della sinagoga cercheranno di comprometterli. Non vorrei che quei poveri diavoli andassero a cacciarsi in quello che altri potrebbero far passare per un delitto politico. Mi capisci?". Valente annuì. Tra le chiacchierate serali dello zio, guarnite di versi conviviali in greco maccheronico e latino arcaico, le ronde mattutine con l'edile sbuffante, e le confidenze dei suoi littori a tutte le ore, credeva di capire Antiochia. Così teneva d'occhio le stanze nel colonnato alle spalle del Piccolo Circo, dove s'incontravano i seguaci della nuova fede. Uno dei molti macellai ebrei gli disse che Paolo aveva lasciato la situazione in mano a un tale di nome Barnaba, ma che sarebbe tornato con un certo Pietro - evidentemente un personaggio noto - il quale avrebbe appianato tutte le divergenze in fatto di cibo tra cristiani greci ed ebrei. Il macellaio non nutriva rancore contro i cristiani greci in quanto tali, se solo avessero macellato la loro carne come bravi ebrei. A quelle parole Serga rise ma concesse a Valente altri due o tre uomini, avvertendolo che gli sarebbe capitata quella gatta da pelare quanto prima.

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Il giovane si trovò trascinato nell'arena una calda sera, quand'era giunta notizia che quella notte ci sarebbero stati disordini. Postò i suoi littori in un vicolo in vista ed entrò nella sala di riunione del collegio, dove si tenevano le agapi. Sembravano tutti amichevoli come cristiani - per dirla con il gergo del rione - e soprattutto Barnaba, un uomo altero e sorridente accanto alla porta. "Lieto di conoscervi", disse. "Avete aiutato il nostro Paolo in quel tafferuglio dell'altro giorno. Non possiamo permetterci di perderlo. Vorrei che fosse già tornato!". Guardò nervosamente dentro la sala che si andava riempiendo di persone di medio e basso rango, le quali disponevano il loro pasto serale sulle nude tavole e si salutavano con un gesto particolare. "Vi assicuro", proseguì, lo sguardo ancora vagante, "che non è nostra intenzione offendere nessuno dei confratelli. Le nostre divergenze possono essere appianate, se soltanto...". Come in risposta a un segnale, da una mezza dozzina di tavoli si levò improvvisamente un clamore, con grida di: "Profanazione! Contaminazione! La Legge! La Legge! Ditelo a Cesare!". Mentre Valente indietreggiava verso il muro, la folla iniziò a tirarsi pezzi di carne e vasellame, finché apparvero dal nulla i sassi. "È una macchinazione", disse Valente a Barnaba. "Già. Arrivano con i sassi nascosti in petto. Attento! Li tirano verso di voi", rispose Barnaba. Ora tra la folla regnava una gran confusione. Una parte di essa si precipitò verso di loro invocando chiassosamente la giustizia di Roma. I due littori entrarono furtivamente e si piazzarono alle spalle di Valente, mentre un uomo lo aggrediva con un pugnale. Valente gli colpì la mano e i littori neutralizzarono l'uomo mentre l'arma cadeva a terra. Il rumore che produsse placò un poco il tumulto. Valente approfittò dell'attimo di calma per parlare lentamente: "Oh, cittadini", disse, "dovete proprio iniziare le vostre agapi con una battaglia? La società funebre dei nostri venditori di trippa ha modi migliori". Una risatina alleviò la tensione. "La cosa è stata organizzata dalla sinagoga", mormorò Barnaba. "La responsabilità ricadrà su di me". "Chi è il capo del vostro collegio?", chiese Valente alla folla. Si levò un coro di voci discordi. "Paolo! Saul! Lui conosce il mondo... No! No! Pietro! La nostra roccia! Lui non ci tradirà. Pietro, la Roccia Viva". "Quando ritornano?", chiese Valente. Vennero fatte parecchie date, accompagnate da giuramenti e smentite. "Aspettate che tornino per combattervi. Io non sono un prete, ma se non rimettete in ordine queste sale, il nostro edile (Valente lo indicò con il volgare soprannome che aveva nel rione) vi affinerà i sandali ai piedi. E badate a non calpestare il cibo ancora buono. Quando avrete finito, mi occuperò io di chiudere. Sbrigatevi. Se voi non conoscete il nostro prefetto, lo conosco io". Lavorarono sodo, come bambini rimproverati. Vedendoli uscire con i cesti di rifiuti, Valente sorrise. La faccenda non avrebbe avuto conseguenze. "Ecco la nostra chiave", disse Barnaba alla fine. "La sinagoga giurerà che ho assoldato io quest'uomo per uccidervi". "Davvero? Diamogli un'occhiata". I littori spinsero avanti il prigioniero. "Sfortuna!", disse l'uomo. "Dovevo ripagarti per la morte di mio fratello al passo di Tarso". "Tuo fratello aveva cercato di uccidermi", ribatté Valente. L'uomo annuì. "Allora siamo pari", Valente fece un cenno ai littori, che allentarono la presa. "A meno che tu non voglia proprio vedere mio zio?". L'uomo sparì come una trota nell'oscurità. Valente restituì la chiave a Barnaba dicendo: "Se fossi in te, non lascerei entrare la gente finché non tornano i capi. Tu non conosci Antiochia quanto me". Poi tornò a casa, seguito dai littori sogghignanti, che raccontarono l'accaduto allo zio, il quale sogghignò a sua volta ma disse che aveva fatto bene, anche a trattare con indulgenza Barnaba. "Naturalmente, io non conosco Antiochia quanto te; ma, parlando seriamente, mio caro, credo che tu abbia salvato la chiesa dei cristiani questa volta. Ho già ricevuto tre deposizioni secondo cui quel tuo amico cilicio sarebbe un cristiano assoldato da Barnaba. È un bene per Barnaba che tu abbia lasciato andare quel bruto". "Mi avevi detto che non volevi si cacciassero nei guai. E poi così siamo pari. Dopo tutto, potrei anche avergli ucciso il fratello. Abbiamo dovuto eliminarne un paio, al passo". "Bene! Anche con le spalle al muro conservi il sangue freddo. Ne avrai bisogno. A noi non è concesso di oziare in parchi solitari! Devo vedere Paolo e Pietro quando ritornano, per scoprire cos'hanno deciso riguardo ai loro infernali banchetti. Mi chiedo perché non possano ubriacarsi per bene e farla finita". "In città parlano di loro come fossero dèi. A proposito, zio, il tumulto è stato provocato da ebrei della sinagoga inviati da Gerusalemme... non certo dai nostri". "Ma no! Ora forse capirai perché ti ho messo di servizio al mercato con il vecchio Ventre di Scrofa! Diventerai anche tu un buon ufficiale di polizia". Aggirandosi per il suo rione, Valente incontrò la congregazione confusa e sgomenta intorno alle fontane e alle bancarelle. Il fatto di essere momentaneamente chiusi fuori dalle loro sale li aveva alquanto sollevati, come anche la

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notizia che Paolo e Pietro avrebbero conferito con il prefetto di polizia prima di rivolgersi a loro sulla grande questione del cibo. Valente non assisté alla prima parte di quell'incontro, che aveva carattere ufficiale. La seconda, al fresco del cortile riparato da tende, con bevande e antipasti imbanditi sotto l'immensità di un tramonto limone e lavanda, fu molto meno formale. "Vi siete già incontrati, credo", disse Serga al piccolo e scarno Paolo quando entrò Valente. "Sì, certo. Davanti a Dio, vi siamo due volte debitori", fu la pronta risposta. "Oh, faceva parte del mio dovere. Spero che abbiate trovato buone le nostre strade, durante il viaggio", disse Valente. "Be', sì. Direi di sì". Paolo parlava come se non le avesse notate. "Avremmo fatto meglio a tornare via mare", disse il suo compagno, Pietro, un omone ben in carne, con due occhi che non parevano vedere e la mano destra semiparalizzata e abbandonata in grembo. "Valente è venuto da Bisanzio via terra", disse lo zio. "Si fida abbastanza delle sue gambe". "È normale alla sua età. Che ritmo di marcia avete raggiunto sulla via Sebaste?", chiese Paolo con interesse e, in men che non si dica, Valente si trovò ad elencare le distanze percorse su strade di montagna che Paolo sembrava conoscere a menadito. "Niente male", fu il commento. "E immagino che voi marciate in assetto più pesante del mio". "E quale sarebbe invece il vostro risultato migliore?", chiese a sua volta Valente. "Ho coperto...", Paolo si trattenne. "Non io, bensì il Dio", mormorò. "È difficile guarire dalla vanagloria". Il volto di Pietro si contrasse in uno spasmo. "Difficile sì", disse. Poi si rivolse a Paolo come se nessun altro fosse presente. "È vero che ho mangiato con i gentili e come mangiano i gentili. Eppure, allora dubitavo che fosse cosa saggia". "Son cose passate", disse Paolo dolcemente. "La decisione riguardo alla chiesa - quella piccola chiesa che voi avete salvato, figliolo - è stata presa". Si rivolse a Valente con un sorriso che quasi conquistò il cuore del giovane. "Ebbene, come romano e come ufficiale di polizia, cosa pensate di noi cristiani?" "Che devo mantenere l'ordine nel mio rione". "Giusto! Cesare va servito. Ma... come seguace di Mitra, diciamo cosa pensate delle nostre dispute in fatto di cibo?". Valente esitava. Lo incoraggiò un cenno dello zio. "Come seguace di Mitra mangio con qualunque iniziato, purché il cibo sia puro", disse Valente. "Ma è proprio questo il punto", disse Pietro. "Mitra ci dice inoltre", proseguì Valente, "di dividere anche un osso ricoperto di sporcizia, se non si riesce a trovare di meglio". "Allora, ai vostri banchetti non fate alcuna differenza tra la gente?", chiese Paolo. "Che diritto avremmo? Siamo tutti Suoi figli. Le leggi le fanno gli uomini. Non gli Dèi", disse Valente, citando l'antico Rituale. "Ripetilo, figliolo!". "Le leggi non le fanno gli Dèi. Loro cambiano il cuore degli uomini. Il resto è Spirito". "Hai sentito, Pietro? Hai sentito cos'ha detto? È la Dottrina tale e quale!", ripeteva Paolo al silenzioso compagno. Valente, vergognandosi un po' di aver parlato del suo credo, proseguì: "Ho inteso dire che i macellai ebrei di qui vogliono il monopolio della macellazione anche per la vostra gente. Alla base di tutto c'è un interesse commerciale". "Forse qualcosa di più", disse Paolo. "Ascoltatemi". E si abbandonò a narrare una storia curiosa sul Dio dei cristiani il Quale, disse, aveva assunto forma umana, e che gli ebrei di Gerusalemme, anni addietro, avevano consegnato alle autorità con l'accusa di cospirazione. Disse che lui stesso, all'epoca un ebreo osservante, aveva approvato pienamente la condanna e denunciato tutti i seguaci del nuovo Dio. Ma un giorno la Luce e la Voce del Dio piombarono su di lui ed egli subì un lacerante mutamento d'animo - proprio come nel credo mitraico. Poi incontrò e venne iniziato da alcuni uomini che avevano camminato e parlato e, soprattutto, mangiato con il nuovo Dio prima che fosse ucciso, e che Lo avevano visto dopo che, come Mitra, era risorto dalla tomba. Paolo e quegli altri - tra cui Pietro - avevano poi cercato di predicare il Suo verbo agli ebrei, ma senza alcun successo; quindi, una cosa tira l'altra, Paolo era tornato a casa sua a Tarso, dove i suoi lo avevano ripudiato come apostata. Allora l'eccesso di lavoro e la disperazione lo avevano gettato in una crisi depressiva. Fino a quel momento, disse, a nessuno di loro era venuto in mente di predicare la nuova religione a qualcuno che non fosse un ebreo osservante, poiché il loro Dio era nato nei panni di un ebreo. Lo stesso Paolo era arrivato soltanto a poco a poco a capire le possibilità di operare all'esterno. Disse che ora tutta la predicazione agli stranieri era affidata a lui, e che grazie ad essa avrebbe cambiato il mondo intero. Poi lasciò terminare il racconto a Pietro, il quale, parlando molto lentamente, spiegò che alcuni anni prima aveva ricevuto dal Dio l'ordine di predicare a un ufficiale romano delle truppe irregolari di stanza nel meridione; di conseguenza, quell'ufficiale e la maggior parte dei suoi uomini avevano voluto diventare cristiani. Così Pietro li aveva iniziati quella notte stessa, benché nessuno di loro fosse ebreo. "Allora", concluse Pietro, "capii che non c'è nulla sotto la volta celeste che si possa chiamare impuro". Paolo si girò di scatto verso di lui ed esclamò:

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"Lo ammetti! Dal tuo modo di parlare risulta evidente". Pietro tremò come una foglia e quasi levò la mano destra. "Anche tu mi rimproveri il mio accento?", iniziò, ma il volto gli si contrasse e si sentì soffocare. "Macché! Dio non voglia. E ancora una volta mi perdoni!". Paolo sembrava afflitto quanto lui, mentre Valente assisteva attonito all'eccezionale rabbuffo. "A proposito di puro e impuro", intervenne con tatto lo zio, "in città si sente di nuovo quella brutta canzone. La cantavano proprio ieri sul lungomare, Valente. L'hai notato?". Lanciò un'occhiata al nipote, che intese al volo. "Se ti riferisci a "Pesce in salamoia" è vero, zio. Può creare dei problemi?" "Non meno di quanto questo pesce", ce n'era un vaso sulla tavola, "fa venir sete. Come dice la canzone? Ah, sì". Serga canticchiò: "Oie-eaah! Dallo squalo e dalla sardina - il puro e l'impuro - Al Pesce in Salamoia della Galilea, disse Pietro, saranno miei". Poi assunse un tono nasale per meglio rendere la pronuncia strascicata dei bassifondi. "(Co-ome?) Nelle reti o con la lenza, Finché gli stessi dèi non saranno in declino. (Qua-ando?) Quando il Pesce in Salamoia della Galilea salirà sull'Esquilino! "Quello sì che sarebbe un bel diluvio... peggio che il pesce vivo sugli alberi! No?" "Un giorno avverrà", disse Paolo. Distolse la propria attenzione da Pietro, che aveva calmato teneramente, e riprese con il suo tono di voce aspro e naturale: "Sì. Dobbiamo molto a quel centurione che si è lasciato convertire. Ci ha insegnato che il mondo intero poteva ricevere il Dio; e a me ha indicato il compito che mi attendeva. Da Tarso venni qui a predicare per qualche tempo. E non dimenticherò mai come si è mostrato buono con noi il prefetto di polizia". "Tanto per cominciare, Cornelio era un vecchio collega", Serga fece un ampio sorriso sopra la sua coppa di liquore. ""Compagno di gioventù" - com'è che fa? - "le interminabili ore d'Oriente passammo insieme bevendo", e così via. Inoltre, riconosco un buon artigiano quando ne incontro uno. Quell'equipaggiamento che mi hai fatto per le mie escursioni nel deserto con il cammello è ancora in ottime condizioni. E l'ultima cosa - che per un uomo con le mie abitudini è la più importante quel medico greco che mi hai raccomandato è l'unico che capisce il mio fegato ingrossato". Porse una coppa di vino quasi puro a Paolo, che la passò a Pietro, le cui labbra erano bianche e screpolate agli angoli. "Ma i guai", continuò il prefetto, "vi verranno dalla vostra stessa gente. Gerusalemme non perdona mai. Presto o tardi vi faranno arrestare con l'accusa di lesa maestà". "Chi può saperlo meglio di me?", disse Pietro. "E la decisione che noi tutti abbiamo preso riguardo alle nostre agapi può unire ebrei e greci contro di noi. Come vi ho detto, prefetto, noi chiediamo ai greci cristiani di non creare disagi agli ebrei cristiani mangiando carne che non è stata macellata secondo la legge. (Comunque, il nostro sistema è molto più sano). Ma questo è un problema che si può aggirare. C'è invece, una questione di capitale importanza. Certi nostri greci cristiani portano alle agapi del cibo acquistato dai vostri sacerdoti, dopo che sono stati offerti i vostri sacrifici. Questo non lo possiamo accettare". Paolo si girò verso Valente con piglio imperioso. "Volete dire che acquistano gli avanzi dell'Altare", disse il giovane. "Ma lo fanno solo i più poveri; e si tratta per lo più di ritagli presi dal ceppo. La vendita è una prerogativa dei macellai dell'Altare. Non approverebbero se venisse interrotta". "Autorizzate tavole separate per ebrei e greci, come ho suggerito io una volta", disse improvvisamente Pietro "Ciò porterebbe a chiese separate. Ci sarà una sola chiesa", Paolo parlò da sopra la spalla e le sue parole caddero come verghe. "Credete che si possano verificare disordini, Valente?". "Mio zio...", iniziò Valente. "No, no!", il prefetto rise. "Il mercato sulla via di Singon è la tua Siria. Sentiamo cosa pensa il nostro legato della sua provincia". Valente arrossì e cercò di raccogliere le proprie forze. "In primo luogo", disse, "c'è il maiale, credo. Gli ebrei detestano la carne di maiale". "Giusto. Non mi troverete certo a mangiare carne di maiale a oriente dell'Adriatico! Non voglio morire di vermi, io. Datemi un giovane cinghiale della Sabina con le zanne ben sviluppate, e andremo d'accordo". Serga si versò un'altra coppa di vino puro e, per sentirne meglio l'aroma, spizzicò del pesce di lago in salamoia.

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"Tuttavia", Pietro si sporse in avanti come un sordo, "se consentissimo a cristiani ebrei e greci di mangiare a tavole separate eviteremmo...". "Null'altro che la salvazione", disse Paolo. "Noi abbiamo abbandonato completamente la legge di Mosè. Viviamo soltanto nel nostro Dio, attraverso lui e grazie a lui. Altrimenti non siamo nulla. Che senso ha tornare alla Legge all'ora dei pasti? Chi vogliamo ingannare? Gerusalemme? Roma? Il Dio? Tu stesso hai mangiato coi gentili! Tu stesso hai detto...". "Si dice più di quanto si vorrebbe dire, quando ci si lascia trasportare", rispose Pietro, e il volto gli si contrasse di nuovo. "Stavolta dirai esattamente ciò che va detto", disse Paolo tra i denti. "Noi faremo sì che ci sia una sola Chiesa nel Signore e per il Signore. Non oserai negare questo?" "Io non oso nulla... lo sa Iddio! Ma io l'ho rinnegato... L'ho rinnegato... E Lui ha detto... ha detto che ero la Pietra sulla quale si sarebbe retta la Sua Chiesa". "Baderò io che stia in piedi; non io, bensì...", la voce di Paolo tornò ad abbassarsi. "Domani parlerai all'unica Chiesa di un'unica Tavola per tutto il mondo". "Quelli sono affari vostri", disse il prefetto. "Ma vi avviso di nuovo: sarà la vostra stessa gente a crearvi dei guai". Paolo si alzò per accomiatarsi, ma così facendo vacillò, si portò una mano alla fronte e, mentre Valente lo guidava verso un divano, cadde sotto l'effetto di quella micidiale malaria siriana che colpisce come un serpente. Valente, avendone sofferto, mandò a prendere nella sua stanza la pesante pelliccia da viaggio. Ci andò la sua ragazza, comprata a Costantinopoli qualche mese prima. Pietro l'avvolse goffamente attorno all'esile figura tremante; il prefetto ordinò succo di limetta e acqua calda; e Paolo li ringraziò e si scusò, mentre i denti gli battevano contro la coppa. "Meglio oggi che domani", disse il prefetto. "Bevi, suda e dormi qui per questa notte. Devo mandare a chiamare il mio medico?". Ma Paolo disse che l'attacco gli sarebbe passato da solo e, non appena fu in grado di reggersi in piedi, insistette per andarsene con Pietro, benché fosse tardi, a preparare il loro annuncio alla chiesa. "Chi era quell'uomo grosso e impacciato?", chiese la ragazza a Valente nel raccogliere la pelliccia. "Ha fatto più rumore lui di quello piccolo, che soffriva veramente". "È un sacerdote del nuovo collegio accanto al Piccolo Circo, cara. Lo zio mi ha detto che crede di aver rinnegato il suo Dio, il Quale, dice, morì per lui". La ragazza si fermò al chiaro di luna, le pelli lucenti di sciacallo sul braccio. "Davvero? Il mio Dio mi ha comprata dai mercanti come un cavallo. E mi ha pagata anche troppo. Non è vero? Confessa!". "No, tu!", in tono enfatico. "Ma io non rinnegherei il mio Dio... vivo o morto!... Oh ma non morto! Il mio Dio vivrà... per me. Vivi... vivi, sangue del mio amore, vivi per sempre!". Sarebbe stato meglio che Paolo e Pietro non avessero lasciato la casa del prefetto a un'ora così tarda; perché, come il prefetto sapeva e come il lungo colloquio sembrò confermare, in città correva voce che a Roma il segretario di stato di Cesare stava organizzando, tramite Paolo, una contaminazione generale di ebrei e greci cristiani, e che una volta fatto ciò, grazie al consumo indiscriminato di cibi illeciti, degli ebrei si sarebbe fatto un unico fascio con i cristiani - membri cioè di una semplice setta di liberi pensatori anziché della molto particolare e importuna "Nazione Ebraica in seno all'Impero". Infine, si diceva, avrebbero perso i loro diritti di cittadini romani e quindi avrebbero potuto essere venduti su qualsiasi banco di schiavi. "Naturalmente", spiegò Serga a Valente il giorno dopo, "la voce è stata messa in giro dalla sinagoga di Gerusalemme. I nostri ebrei di Antiochia non sono abbastanza astuti. Capisci il loro piano? Pietro è un profanatore della nazione ebraica. Se stanotte verrà eliminato da qualche giovane zelota opportunamente istruito, tanto meglio". "Non succederà", disse Valente. "È sotto la mia sorveglianza". "Speriamo. Ma, se non viene accoltellato", proseguì Serga, "cercheranno di provocare disordini in città con il pretesto che, qualora tutti gli ebrei perdessero i loro diritti civili, lui si spaccerebbe per una sorta di Re dei cristiani". "Ad Antiochia? Nel corrente anno di Roma? È irragionevole, zio". "Ogni folla lo è. Altrimenti noi che ci staremmo a fare? Ma ascolta. Piazza una pattuglia di guardie a cavallo dietro al Piccolo Circo, con l'ordine di far scorrere la gente quando esce la congregazione. Posta due dei tuoi uomini nel portico stesso del collegio. Di' a Paolo e a Pietro di attendere lì con loro finché le strade non saranno sgombre. Poi portali qui. Non colpire finché non sei costretto. Picchia duro prima che inizino a volare i sassi. Per quanto ti è possibile, evita di far strapazzare i miei cavallini e... attenzione al "Pesce in Salamoia"!". Conoscendo il suo rione, a Valente era sembrato, mentre prendeva servizio quella sera, che le precauzioni di suo zio fossero eccessive. La chiesa cristiana, naturalmente, era piena e all'esterno una gran folla attendeva che venisse annunciata la decisione riguardo ai banchetti. Sembravano per lo più cristiani, ma c'era un gruppo di bighelloni antiocheni gesticolanti e, come tutte le folle, nell'attesa si divertivano a intonare canti popolari. Tutto andò liscio finché un gruppo di cristiani attaccò un inno piuttosto esplosivo, che diceva: Intronizzato al di sopra di Cesare e Giudice della Terra! Aspettiamo la Tua venuta... oh, non indugiare a lungo!

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Come i Re dell'Aurora Sguainarono... la spada alla Tua Nascita, Noi ci armiamo in questa notte di ingiustizia ed ingiuria! "Già... e se uno dei loro banchi di pesce viene rovesciato da un cammello, la colpa è mia!", disse Valente. "Adesso ci siamo!". Infatti, in lontananza delle voci attaccarono con "Pesce in Salamoia", ma prima che Valente potesse intervenire, furono soffocate da qualcuno, che urlò: "Calma laggiù, o assaggerete la salamoia prima del pesce". Era quasi sera quando all'interno della chiesa affollata si levò un grido e la congregazione si riversò fuori tra la folla. Parlavano tutti dei nuovi ordini relativi alle loro agapi, ed erano in gran parte d'accordo nel trovarli pratici e sensati. Erano anche d'accordo sul fatto che Pietro (Paolo non sembrava aver partecipato molto alla discussione) avesse parlato da persona ispirata, ed erano tutti estremamente fieri di essere cristiani. Alcuni di loro iniziarono a prendersi sottobraccio attraverso il vicolo e ad unirsi al coro di "Intronizzato al di sopra di Cesare". "A questo punto", fece Valente rivolgendosi al giovane comandante della pattuglia a cavallo, "direi di iniziare ad avviarli verso casa. Oh! E "Che anche la notte abbia il suo meritato inno", come direbbe mio zio". Da dietro il Piccolo Circo uscirono in fila quattro trombettieri squillanti, un'insegna e una dozzina di guardie a cavallo. I loro accorti cavallini arabi dal manto grigio avanzarono a sghembo, di fianco, facendosi largo con le spalle e spingendo delicatamente il muso nella calca, come se volessero farsi accarezzare, mentre i trombettieri assordavano l'angusta via. Di lì a poco, un ampio spiazzo nelle vicinanze allentò la pressione. Lì la pattuglia si divise in quattro e si dispose a scacchiera, rendendo omaggio alle immagini degli dèi poste a ciascun angolo e al centro. La gente, come al solito, si fermò a guardare con quanta abilità l'incenso veniva versato sopra il garrese dei cavalli nelle lanterne zampillanti; i bambini accorsero ad accarezzare i cavalli che dicevano di conoscere; i gruppi familiari si ritrovarono nel crepuscolo fumoso; i venditori ambulanti offrivano cene cotte; e in breve la folla si disperse nelle vie di transito principali. Valente si diresse verso il portico della chiesa, dove Pietro e Paolo lo aspettavano tra i suoi littori. "Ben fatto", iniziò Paolo. "Come va la febbre?", chiese Valente. "Oggi mi ha lasciato in pace. Inoltre, credo che con il benedicite siamo riusciti a far prevalere la nostra idea". "Bella notizia! Mio zio mi manda a dirvi che siete i benvenuti a casa sua". "Ciò equivale sempre a un ordine", disse Paolo con un rapido gesto, tipico del meridione. "Ora che il peso di questa giornata non ci opprime più, sarà un vero piacere", Pietro si avvicinò come un bue esausto. Valente lo salutò ma non ebbe risposta. "Lasciatelo stare", bisbigliò Paolo. "La forza è uscita da me ... È da lui... per il momento". Anche il suo volto appariva pallido e tirato. La strada era vuota e Valente, per fare prima, si infilò in un vicolo dove delle donnine allegre se ne stavano affacciate alle finestre a ridere. I tre procedettero senza difficoltà insieme, seguiti dai littori, e in lontananza udirono le trombe della ronda notturna a cavallo che salutava la statua di un Cesare, a indicare che era giunta al termine del suo giro di perlustrazione. Paolo stava dicendo a Valente come tutto l'impero romano sarebbe cambiato grazie a quanto era stato appena concordato dai cristiani riguardo alle loro agapi, quando un impudente ragazzino ebreo si avvicinò furtivamente alle loro spalle suonando "Pesce in Salamoia" su una specie di cornamusa del deserto. "Perché uno di voi non fa smettere quella piccola peste?", chiese Valente ridendo. "Non sarai schernito in questa che è la tua notte, Paolo". I littori tornarono indietro di qualche passo e minacciarono il monello con una torcia, ma quello fuggì tirandoseli dietro. Poi udirono Paolo gridare e quando tornarono di corsa, trovarono Valente disteso a terra che tossiva, mentre il sangue bagnava l'orlo della veste di Paolo inginocchiato. Pietro si chinò, agitando la mano su di loro in un gesto di smarrimento. "Qualcuno è corso fuori da dietro quel pozzo. Lo ha pugnalato senza fermarsi ed è fuggito via. Ascoltate!", disse Paolo. Ma non si udiva nemmeno l'eco di un passo a indicare la direzione presa dall'attentatore, e il ragazzino ebreo era svanito come un pipistrello. Disse Valente da terra: "A casa! Svelti! Io sono spacciato!". Scardinarono un'imposta dalla facciata di una bottega, ve lo adagiarono sopra e lo portarono via, con Paolo che gli camminava al fianco. Lo deposero nel cortile interno illuminato dalla casa del prefetto, e un littore corse a chiamare il medico di fiducia. Paolo guardò il viso del giovane e, siccome Valente tremava un poco, ordinò alla ragazza di andare a prendere la coperta di pelliccia della sera prima. Lei la portò, si appoggiò la testa di Valente al petto e si lasciò cadere al suo fianco. "Non è grave. Non sanguina molto. Per cui non può essere grave... no?", continuava a ripetere. Il sorriso di Valente la rassicurò, finché non arrivò il prefetto e riconobbe la mortale pugnalata verso l'alto, sotto il costato. Si rivolse agli ebrei: "Domani non troverete traccia della vostra chiesa", disse. Valente levò la mano che la ragazza non stava baciando.

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"No... no!", disse ansimando. "È stato il cilicio! Per via del fratello! Lo aveva promesso". "Il cilicio che lasciasti andare per salvare questi cristiani affinché io...?". Valente fece segno allo zio che era così, mentre la ragazza lo supplicava di trarre forza da lei finché non arrivava il medico. "Perdonami", disse Serga a Paolo. "Nondimeno, vorrei vedere il vostro Dio agli Inferi una volta per tutte... E adesso cosa scrivo alla madre? Sa dirmelo uno di voi due, che sapete parlare, cosa racconto io alla madre?" "Cosa c'entra lei con Valente?", gridò la schiava. "Lui è mio... mio! Dichiaro davanti a tutti gli Dei che mi ha comprata! Io sono sua. Lui è mio". "Del cilicio e dei suoi compari possiamo occuparcene dopo", disse uno dei littori. "Ma adesso che facciamo?". Per qualche motivo l'uomo, benché uso al lavoro da beccaio, guardava Pietro. "Dategli da bere e aspettate", disse Pietro. "Ho già visto una ferita simile". Valente bevve e gli tornò un po' di colore. Fece cenno al prefetto di abbassarsi. "Cosa c'è? Vita mia, cosa ti preoccupa?". "Il cilicio e i suoi compari... Non essere severo con loro... Si lasciano istigare... Non sanno quello che fanno... Prometti!". "Non dipende da me, figliolo. È la legge". "Non fa differenza. Tu sei il fratello di mio padre... Le leggi le fanno gli uomini, non gli dèi... Prometti!... Per me è finita". La testa di Valente tornò a posarsi sul cuscino palpitante. Pietro era in piedi, immobile, come in trance. Il tremito abbandonò il suo volto mentre ripeteva: ""Perdonali, perché non sanno quello che fanno". Hai sentito, Paolo? L'ha detto lui, un pagano e idolatra!". "Ho sentito. Cosa ci impedisce ora di battezzarlo?", rispose prontamente Paolo. Pietro lo fissò come se fosse emerso in quel momento dalle acque del mare. "Sì", disse infine. "È il piccolo fabbricante di tende... E adesso cosa... ordina?". Paolo ripeté il suggerimento. Faticosamente, l'altro levò la mano paralizzata che una volta aveva alzato in una corte per negare un'accusa. "Zitto!", disse. "Credi che uno che ha pronunciato Quelle Parole abbia bisogno di qualcuno come noi per essere raccomandato a qualsiasi Dio?". Paolo si fece piccolo di fronte al collega sconosciuto, immenso e imponente, rivelatosi dopo tutti quegli anni. "Come vuoi... come vuoi", balbettò, chiudendo gli occhi sull'empietà. "Inoltre c'è la concubina". La ragazza non prestava attenzione perché, sotto le sue labbra, la fronte stava raggelando, mentre lei faceva appello al suo Dio, che l'aveva comprata a un prezzo per il quale non avrebbe dovuto morire ma vivere.