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Jack London LA STRADA

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Jack London

LA STRADA

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LA STRADA

Racconti autobiografici nei quali London mette a punto le svariate

esperienze della sua esistenza: il vagabondaggio, gli amici raccolti sulla

strada, le prime donne e così via. La sua principale prerogativa è quella di

mettere a nudo tutto se stesso, di raccontare fatti accaduti in verità. Racconti

avventurosi i suoi, densi di tensione drammatica e soprattutto specchio di

sé, sempre.

JACK LONDON

Nacque a S. Francisco di California il 12 gennaio 1876 e morì suicida il 22

novembre 1916 nel suo splendido ranch. Come la maggioranza degli

scrittori americani fece molti «mestieri», si buttò nella vita giovanissimo e

poi scrisse. A 17 anni fu marinaio, girovago, seguace dell'esercito di Coxey,

cercatore d'oro nell'Alaska; in seguito lo vediamo studente a Oakland e poi

all'Università di California. Abbandonò, poi, la stessa per lavorare in una

lavanderia. Politicamente fu socialista entusiasta, soprattutto dopo la lettura

del «Manifesto» di Marx-Engels, ma contemporaneamente predicava il

culto del «Superuomo» nietzschiano. Affascinato dall'idea imperialistica

della «forza» e della «conquista» così come poteva vederla in Kipling, amò

anche «il mito» della «belva bionda» di H. S. Chamberlain.

Nel 1899 i giornali cominciarono ad accettare i suoi scritti ed egli si dedicò

completamente all'arte. Guadagnò moltissimo e in fretta; con la stessa fretta

dilapidò i suoi patrimoni. «Il richiamo della foresta» fu il primo suo grande

successo. Seguirono «Il lupo di mare», «Martin Eden», «John Barleycorn».

Scrisse in tutto una cinquantina di romanzi. Nel 1913 gli stessi erano

tradotti in 11 lingue e London era all'epoca uno degli scrittori più ricchi e

letti di tutto il mondo. Spirito solitario e prevalentemente romantico si

trovò, comunque, sempre disadattato in un mondo ostile. Mondo verso il

quale egli perse la sua battaglia perché contro di esso seppe contrapporre

solo un altro grande gesto romantico: il suicidio.

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INDICE

Ragazzi di strada e «gatti allegri»

Confessione

Duemila vagabondi

Figure

Tori

Beccato

Il penitenziario

Prendere un treno

Vagabondi che scompaiono nella notte

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"Speakin' in general, I'ave tried 'em all,

The 'appy roads that take you o'er the world.

Speakin' in general, I'ave found them good

For such as cannot use one bed too long;

Bust must get 'ence, the same as I 've done,

An' go observin' matters till they die".

Sestina del "Tramp Royal"

[Parlando in generale le ho provate tutte,

le strade felici che ti portano per il mondo.

Parlando in generale, le ho trovate buone

per uno che non possa usare troppo a lungo lo stesso letto,

ma debba andare, proprio come ho fatto io,

e osservare le cose prima che siano morte.]

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RAGAZZI DI STRADA E «GATTI ALLEGRI»

Ogni tanto, sui giornali, sulle riviste, sui dizionari biografici, ritrovo

tratteggiata la storia della mia vita; e, raccontato con belle parole, io

apprendo che per studiare sociologia mi feci vagabondo. Molto bello e

molto premuroso, da parte dei miei biografi, ma inesatto. Io mi feci

vagabondo... be', per via della vita che avevo in me, del desiderio di

vagabondaggio che avevo nel sangue e che non mi dava riposo. La

sociologia fu incidentale; venne dopo, nello stesso modo in cui chi va a

caccia in palude si bagna. Mi misi per «la strada» perché non potevo farne a

meno; perché non avevo in tasca i soldi del biglietto ferroviario; perché ero

fatto in modo tale che non riuscivo a passare tutta la vita «allo stesso turno»;

perché... insomma perché era più facile farlo che non farlo.

Accadde nella mia città, Oakland, quando avevo sedici anni. A

quell'epoca mi ero già fatto un certo nome nella cerchia ristretta degli

avventurieri, che mi battezzarono Principe dei Pirati Ostricari. E' vero,

quelli esterni alla nostra cerchia, per esempio i marittimi portuali, gli

scaricatori, i marinai degli yacht, e i proprietari legittimi dei vivai delle

ostriche, mi dicevano «duro», «barbone», «cialtrone», «ladro», «predone» e

varie altre belle cosette - che erano tutti complimenti per me e che

contribuivano ad accrescere il capogiro che mi dava l'altezza a cui ero

asceso. A quell'epoca non avevo letto il «Paradiso Perduto» e in seguito,

quando di Milton lessi «Meglio regnare all'inferno che servire in paradiso»

mi feci convinto che le grandi menti seguono gli stessi canali.

Fu a quest'epoca che una concatenazione fortuita di eventi mi fece

intraprendere la mia prima avventura sulla Strada. Successe che nel campo

delle ostriche non c'era nulla da fare; che a Benicia, quaranta miglia, avevo

certe coperte che intendevo prendere; e che a Port Costa, diverse miglia da

Benicia, una barca rubata stava all'ancora sotto la tutela dello sceriffo. Ora

di questa barca era proprietario un mio amico, chiamato Dinny McCrea.

L'aveva rubata e lasciata a Port Costa Bob detto «Whiskey», altro mio

amico (Povero Bob! Lo scorso inverno ripescarono il suo corpo riempito di

buchi per opera di non si sa chi). Qualche tempo prima avevo risalito il

fiume per raccontare a Dinny Mc Crea che cosa n'era della sua barca; e

Dinny McCrea mi aveva offerto dieci dollari, se gliel'avessi portata a

Oakland.

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Il tempo mi pesava e sul ponte mi misi a sedere e ne parlai con Nickey

detto «il Greco», altro ozioso pirata ostricaro. Dissi: «Andiamo» e Nickey

era disposto. Era al verde. Io avevo cinquanta centesimi e una barchetta. I

cinquanta centesimi li investii e sulla barchetta ottenni un prestito sotto

forma di galletta, carne in scatola, e una bottiglia da dieci centesimi di

senape francese. (A quei tempi ci piaceva molto la senape francese). Poi,

nel tardo pomeriggio, issammo la nostra minuscola vela e partimmo.

Viaggiammo tutta la notte, e la mattina dopo, con la prima splendida marea,

un vento teso in poppa, traversammo gli Stretti di Carquinez per entrare a

Port Costa. Era lì la barca rubata, a pochi passi dal pontile. Le fummo

accanto e ammainammo la nostra piccola vela. Mandai Nickey a levare

l'ancora, mentre io cominciavo a staccare gli ormeggi.

Un uomo corse sul pontile gridando. Era lo sceriffo. All'improvviso mi

venne in mente che avevo trascurato di farmi dare l'autorizzazione scritta da

Dinny McCrea, di prendere possesso della barca. Sapevo anche che lo

sceriffo voleva mettere per lo meno una multa di venticinque dollari per la

cattura della barca a Bob detto «Whiskey» e per la custodia della barca

stessa. E i miei ultimi cinquanta centesimi li avevo spesi per la carne in

scatola e per la senape francese, e il mio compenso, comunque, sarebbe

stato di soli dieci dollari. Diedi un'occhiata a Nickey. L'ancora andava su e

giù, lui la stava manovrando. «Reggi» gli sussurrai e risposi con un urlo agli

urli dello sceriffo. Il risultato fu che parlavamo tutti e due insieme, e i nostri

pensieri parlati si trovano a mezz'aria e facevano confusione.

Il tono dello sceriffo si fece più imperioso e io fui costretto ad ascoltarlo.

Nickey continuava a far forza sull'ancora, e io pensai che poteva rompersi

una vena. Quando lo sceriffo ebbe finito con le minacce e con gli

avvertimenti, gli chiesi chi fosse. Rapidamente, facevo un po' di conti. Ai

piedi dello sceriffo c'era una scala a pioli che scendeva fino all'acqua, e alla

scala era ormeggiata una scialuppa. C'erano anche i remi. Ma era assicurata

con un lucchetto. Giocai tutto su quel lucchetto. Sentii sulla guancia la

brezza, vidi sorgere la marea, guardai i restanti ormeggi che trattenevano la

mia barca, diedi un'occhiata alle drizze, vidi che tutto era sgombro, e allora

la smisi di fingere.

«Sotto!» urlai a Nickey, e mollai gli ultimi ormeggi, e intanto ringraziavo

la mia buona stella perché Bob detto «Whiskey» li aveva fermati a nodo

quadro, e non più complesso.

Lo sceriffo era sceso giù per la scala e con la chiave trafficava al

lucchetto. L'ancora fu a bordo e l'ultimo ormeggio fu sciolto nello stesso

istante in cui lo sceriffo liberava la scialuppa e balzava ai remi.

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«Volta!» gridai a Nickey. Lo sceriffo stava per raggiungere la nostra prua.

Ci colse un soffio di vento, e partimmo. Una cosa grandiosa. Lo sceriffo era

in piedi sulla sua barca e fece impallidire lo splendore di quella giornata con

la vivacità del suo linguaggio. E piangeva dalla voglia di avere con sé

un'arma. Capite, era un altro rischio che avevamo corso.

In ogni modo, noi non stavamo rubando la barca. Non era dello sceriffo.

Gli rubavamo soltanto i quattrini della multa, che era una sua forma

particolare di gratifica. E neanche questo furto dei quattrini della multa era

per noi; era per il mio amico Dinny McCrea.

In pochi minuti fummo a Benicia, e pochi minuti dopo le mie coperte

erano a bordo. Portai la barca giù in fondo al pontile dei vapori, donde si

poteva vedere chi ci venisse dietro. Nickey e io tenemmo consiglio di

guerra. Eravamo distesi sul ponte con il sole caldo, la brezza fresca sulle

guance, con la marea che tumultuava intorno a noi. Era impossibile

ritornare a Oakland prima del pomeriggio, quando la corrente si fosse

disposta a favore. Ma immaginammo che a quell'ora lo sceriffo avrebbe

tenuto d'occhio gli Stretti di Carquinez, e che non ci restava altro che

attendere il prossimo riflusso, alle due del mattino dopo, quando col buio

avremmo potuto sfuggire a questo Cerbero.

Dunque stavamo distesi sul ponte, fumando una sigaretta, ed eravamo

contenti di ritrovarci vivi. Sputai fuori bordo e calcolai la velocità della

corrente.

«Con questo vento, si potrebbe arrivare al Rio Vista» dissi.

«E sul fiume il tempo è buono» disse Nickey.

«E l'acqua è bassa», dissi io. «E' il miglior momento dell'anno per arrivare

a Sacramento»,

Ci alzammo in piedi e ci guardammo. Lo splendido vento occidentale si

riversava su di noi come un vino. Tutti e due sputammo fuori bordo e

calcolammo la corrente. Ora io affermo che fu colpa della marea e del vento

propizio, che fecero appello al nostro istinto di marinai. Se non fosse stato

per la marea e per il vento, si sarebbe interrotta la catena degli avvenimenti

che mi spinsero sulla Strada.

Non dicemmo una parola, mollammo gli ormeggi e alzammo la vela. Le

nostre avventure sul Rio Sacramento non fanno parte di questa storia.

Raggiungemmo la città di Sacramento e attaccammo a un pontile. L'acqua

era bella, e passammo gran parte del nostro tempo a nuotare. Sulla spiaggia

vicino al ponte della ferrovia facemmo amicizia con un branco di ragazzi

che nuotavano anche loro. Fra una nuotata e l'altra si stava sulla spiaggia a

parlare. Questi parlavano in un modo diverso dai ragazzi che di solito

facevano razza con noi. Era un vernacolo completamente nuovo. Questi

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erano autentici ragazzi di strada, e a ogni loro parola avvertivo sempre più

imperioso su di me il fascino della strada.

«Quand'ero in Alabama», attaccava uno; oppure, un altro: «Risalendo

sulla C. & A., da K. C.» al che un terzo: «Sul C. & A. non ci sono scalini ai

vagoni chiusi». E io me ne stavo disteso sulla sabbia ad ascoltare. «Era una

piccola città dell'Ohio sulla Riva del Lago, la parte meridionale del

Michigan» attaccava un ragazzino, e un altro: «Mai viaggiato con la 'palla

di cannone' sullo Wabash?»; e poi ancora: «No, ma sono andato sul Postale

Bianco, da Chicago». «A proposito di ferrovie, aspetta di vedere quella

della Pennsylvania, quattro binari, niente cisterna della acqua, l'acqua si

prende al volo, è una cosa da vedere». «La Northern Pacific ormai è una

brutta ferrovia». «A El Paso mi beccarono, insieme a Moke Kid». «A

proposito di posti, aspetta di vedere la parte francese, fuori di Montreal.

Non una parola d'inglese, sai, dicono "Mongee, Madame, mongee, no spika

da French" e tu ti gratti lo stomaco, fai vedere che hai fame, e quella ti dà un

tòcco di pancetta su un pezzo di pane».

E io continuavo a giacere sulla sabbia e ad ascoltare. Questi sì che erano

vagabondi veri, altro che i pirati ostricari. Un mondo nuovo mi si rivelava in

ogni parola detta, un gergo nuovo, allusivo, che aveva tutto il fascino

dell'avventura. Benissimo; avrei affrontato questo mondo nuovo. Mi

allineavo con questi ragazzi di strada. Ero forte quanto loro, e scattante e

avevo un cervello buono quanto il loro.

Dopo la nuotata, inoltrandosi la sera, si vestivano e andavano in città. Io

con loro. I ragazzi, e me lo raccontavano nel loro strano gergo,

cominciavano a mendicare quattrini sul corso della cittadina. In vita mia

non avevo mai fatto una cosa simile, e mi fu difficile digerirla, una volta

imboccata la Strada. Avevo idee assurde, riguardo all'accattonaggio. A

quell'epoca io ero convinto che fosse meglio rubare piuttosto che

mendicare; e che la rapina era meglio ancora perché rischio e castigo erano

proporzionalmente maggiori. Come pirata ostricaro, avevo già contratto un

debito con la giustizia, e per pagarlo mi sarebbe occorso un migliaio d'anni

nelle prigioni dello Stato. La rapina era una cosa da uomini, mentre

mendicare era un atto sordido, spregevole. Ma nei giorni a venire dovevo

cambiare idea, senz'altro, e giunsi a considerare l'accattonaggio come una

cosa divertente, come una gara di umorismo, come un esercizio per i nervi.

Quella prima notte però non ce la feci; e il risultato fu che quando i

ragazzi furono pronti ad andare al ristorante e a mangiare, io non lo ero. Me

l'offrì, se non ricordo male, un ragazzo chiamato «Meeny Kid», e difatti

mangiammo insieme. Ma mentre si mangiava, io meditavo. Si diceva che il

ricettatore era mala persona quanto il ladro: «Meeny Kid» aveva mendicato,

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io ne profittavo. Conclusi che il ricettatore era molto peggio del ladro, e che

questo non doveva succedere mai più. Infatti non successe. Il giorno dopo

mi diedi da fare come tutti gli altri.

Le ambizioni di Nickey detto il «Greco» non portavano sulla Strada. Non

ci sapeva proprio fare, trascorse una notte su una barca e poi riprese il

fiume, verso San Francisco. L'ho ritrovato or è una settimana, a un incontro

di pugilato. Ha fatto progressi. Aveva un suo posto d'onore in un angolo. E'

manager dei campioni e ne va orgoglioso. Insomma, a suo modo, nel mondo

dello sport locale, è una stella di prima grandezza.

«Un ragazzo non è ragazzo-di-strada se prima non è andato sul 'monte',»

questa la legge della Strada così come la sentii esposta a Sacramento. Va

bene, avrei asceso il monte, mi sarei immatricolato. «Il monte» fra

parentesi, era la Sierra Nevada. Tutta la banda andava sul monte in gita, e

naturalmente ci sarei andato anch'io. Era la prima avventura sulla Strada,

per «French Kid». Era appena scappato di casa, a San Francisco. Ora

toccava a lui, e a me. Di passata, vorrei far notare che il mio vecchio titolo

di «principe» era scomparso. Ora mi avevano ribattezzato, mi chiamavano

«il marinaio», e in seguito mi ribattezzarono ancora «Frisco Kid», e cioè il

ragazzo di San Francisco, quando ebbi messo le Montagne Rocciose fra me

e il mio stato d'origine.

Alle 10,20 pomeridiane il treno transcontinentale della Central Pacific

usciva dalla stazione di Sacramento, rotta verso Oriente - l'orario resta ben

impresso nella mia memoria. Eravamo una decina, della banda, e nel buio si

camminava davanti al treno, per salirci al volo. Tutti i ragazzi del posto che

ci conoscevano vennero a vederci, a «sfotterci» possibilmente. Si

divertivano così, ed erano una quarantina, pronti. Il loro capo era un ragazzo

di strada chiamato Bob. Era nato a Sacramento, ma si era messo sulla Strada

e aveva girato tutto il paese. Prese me e French Kid in disparte e ci consigliò

qualcosa del genere: «Noi si prova a sfottervi, va bene? Allora, appena vi

capita, saltate sopra, e restateci fino al Bivio di Roseville, e lì attenti perché

la polizia è rognosa».

Fischiò la locomotiva ed ecco il treno. C'era posto a sufficienza per tutti,

tre vagoni accessibili. Avremmo preferito saltare sul treno senza far troppo

fracasso, ma quella quarantina di amici facevano folla e non ci

risparmiarono la loro fragorosa pubblicità. Perciò seguii il consiglio di Bob,

e mi misi subito sul tetto del vagone postale. E lì rimasi, con il cuore che mi

batteva più del normale. Il personale viaggiante stava nella parte anteriore

del treno, ma dopo una corsa di mezzo miglio vennero a cercarci. Ce l'avevo

fatta soltanto io.

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Alla stazione, con accanto due o tre che avevano assistito all'incidente,

giaceva French Kid, e aveva perso tutte e due le gambe. Era caduto, era

scivolato, e le ruote avevano fatto il resto. In questo modo avvenne la mia

iniziazione alla Strada. Due anni dopo rividi French Kid e gli esaminai i

moncherini. Era un atto di cortesia. Agli storpiati piace farsi esaminare i

moncherini. Uno degli spettacoli più interessanti della Strada è l'incontro fra

due storpiati. La comune inabilità è fruttuosa sorgente di conversazione; e si

dicono come successe, descrivono quello che sanno dell'amputazione,

giudicano criticamente il proprio chirurgo e l'altrui, e alla fine si appartano

in un angolo, si tolgono le bende e confrontano i moncherini.

Ma l'incidente occorso a French Kid lo seppi soltanto qualche giorno

dopo, nel Nevada. La banda arrivò in pessime condizioni, perché c'era stato

un incidente ferroviario. Joe detto il Beato camminava con le stampelle, e

gli altri, come minimo, si grattavano le lividure.

Nel frattempo io me ne stavo sul tetto del carro postale, cercando di

rammentare dove fosse il Bivio di Roseville, borgo contro il quale mi aveva

messo in guardia Bob. Non rammentavo se era la prima o la seconda

fermata. Per sicurezza, aspettai a scendere sul piano del vagone solo dopo la

seconda fermata. E neanche allora scesi. Per me questo era un gioco nuovo,

e mi sentivo più sicuro dov'ero. Ma non dissi mai alla banda che ero rimasto

lassù tutta la notte, traversando la Sierra, nella tormenta fino all'altro

versante, a Truckee, dove arrivai alle sette del mattino. Infatti questa era una

triste storia, e avrebbe fatto morir dal ridere tutti quanti. E' questa la prima

volta che io confesso la verità su quella prima corsa in montagna. In quanto

alla banda, decisero che potevo andar bene, e quando rientrai a Sacramento,

ero ragazzo di strada, in piena regola.

Eppure avevo molto da imparare. Mi fu mentore Bob, e andava

benissimo. Ricordo che una sera (il tempo era bello e noi si andava in giro a

spassarcela) persi il cappello durante una rissa. Eccomi per strada a capo

scoperto, e venne Bob al soccorso. Mi tirò in disparte e mi disse che cosa

fare. Il suo consiglio m'intimidiva un po'. Ero appena uscito di prigione,

dove ero rimasto tre giorni, e sapevo bene che se la polizia mi «pizzicava»

ancora, io ero «fregato» per sempre. Avevo fatto la montagna; nella banda

andavo a gonfie vele, e tutto sommato mi conveniva seguire il consiglio di

Bob.

Ci appostammo a un cantone di via K, mi pare, dove fa angolo con la

Quinta. Bob osservava il copricapo di tutti i cinesi di passaggio. Di solito mi

chiedevo come riuscissero, questi ragazzi di strada, a girare con in testa un

bel cappello da cinque dollari, e ora capivo. Li prendevano ai cinesi, come

stavo per fare anch'io. Ero nervoso, con tutta quella gente in giro, mentre

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Bob era freddo come' un iceberg. Più di una volta, quando feci l'atto, tutto

nervoso, di balzare su un cinese, Bob mi trattenne. Voleva che prendessi un

cappello buono, che mi stesse bene; e dopo una decina di cappelli

impossibili, eccotene uno nuovo ma non della mia misura. E quando ne

capitò uno nuovo e di misura giusta, eccoti che la testa era troppo larga o

troppo stretta. Mamma mia, quanto era difficile Bob. Ero così stufo che

avrei afferrato un copricapo qualsiasi.

Finalmente eccoti il cappello, l'unico cappello di Sacramento che andasse

bene a me. Capii che era il predestinato non appena lo guardai. Diedi

un'occhiata a Bob. Lui scrutò i paraggi, attento alla polizia, poi fece di sì

con il capo. Levai il cappello di testa al cinese e me lo misi. Poi corsi via.

Sentii Bob che gridava, lo intravidi nell'atto di bloccare l'irato mongolo, e di

fargli lo sgambetto. La strada non era affollata come via K, e tirai avanti

tranquillo, trattenendo il fiato e congratulandomi con me stesso per il

cappello e per il comportamento.

Ma poi, all'improvviso, da un cantone alle mie spalle, comparve il cinese

a capo scoperto. Lo accompagnavano altri due cinesi, seguiti da cinque o sei

fra uomini e ragazzi. Balzai fino all'angolo davanti, traversai la strada, girai

il cantone. Ero convinto di averlo giocato e mi rimisi al passo. E invece

dietro di me, all'angolo, rieccoti il tenace mongolo. Era la vecchia storia

della lepre e della tartaruga. Non riusciva a correre svelto come me, eppure

resisteva, anfanando al trotto ingannevole, e sprecando molto fiato in

fragorose imprecazioni. Chiamava tutta Sacramento a testimone del

disonore che gli era stato fatto, e buona parte di Sacramento lo sentiva e gli

si metteva dietro. E io correvo come la lepre, ma sempre il persistente

mongolo mi raggiungeva, con crescente tumulto. E alla fine, quando al suo

seguito si fu aggiunto un poliziotto, abbandonai ogni remora, e corsi almeno

venti isolati di fila. E non rividi mai più quel cinese. Il cappello era uno

Stetson bello e nuovo di zecca, e tutta la banda me lo invidiò. E poi era un

simbolo, un segno, che ce l'avevo fatta. Lo portai un anno intero.

I ragazzi di strada sono in gamba, quando li prendi da soli e ti raccontano

«come è andata», ma credete pure a me, attenti a quando corrono in branco.

Allora sono dei lupi, e come i lupi sono capaci di travolgere l'uomo più

forte. Non sono vigliacchi. Son pronti a buttarsi addosso a un uomo e capaci

di tenerlo con tutta la forza del loro corpo asciutto, fino a ridurlo inerme.

L'ho visto fare più d'una volta, e so quello che sto dicendo. Di solito il

motivo è la rapina. E attenti al «braccio forte». Tutti i ragazzi della banda

con cui viaggiavo ne erano esperti. Persino French Kid, prima di perdere le

gambe.

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Ho netta dinanzi a me l'immagine di quello che vidi ai «Salici». Con

questo nome si indicava un boschetto su un vasto terreno vicino alla

stazione della ferrovia, a non più di cinque minuti dal cuore di Sacramento.

E' notte e la scena è illuminata dal chiarore fioco delle stelle. In mezzo a un

branco di ragazzi di strada vedo un bracciante, infuriato, che li insulta, e non

ha paura, fiducioso della sua forza. Pesa all'incirca cento e ottanta libbre, ha

i muscoli sodi, ma non sa che cosa l'aspetta. I ragazzi gli mostrano i denti.

Non è una bella cosa. Scappano via da tutte le parti, mentre l'uomo si

scatena, gira su se stesso. Accanto a me c'è un ragazzo di strada,

soprannominato il «Barbiere». Non appena l'uomo gli volta le spalle lui fa

un balzo innanzi e gli pianta un ginocchio contro la schiena, poi gli passa il

braccio destro sul collo, premendo con l'osso del polso contro la vena

giugulare. Con tutta la sua forza il «Barbiere» tira all'indietro. La leva è

possente, e poi l'uomo non riesce a respirare. Questo è il «braccio forte».

L'uomo resiste, ma in pratica è ridotto all'inerzia. I ragazzi di strada gli

sono addosso da ogni parte, gli si aggrappano alle braccia, alle gambe, al

corpo, e come un lupo al collo di un alce il «Barbiere» non molla, continua

a tirarlo all'indietro . L'uomo finisce a terra, scompare sotto il mucchio. Pur

cambiando posizione, il «Barbiere» continua a non mollare. Mentre alcuni

ragazzi «ripuliscono» la vittima, altri gli tengono le gambe perché non possa

scalciare. Meglio ancora, tolgono all'uomo le scarpe. In quanto a lui, è

sconfitto. Battuto. E poi, per via del braccio forte alla gola, non riesce a

prendere fiato. Gli viene un brutto rantolo, e i ragazzi scappano. Non lo

vogliono uccidere. Tutto fatto. Una parola e subito tutti mollano la presa, e i

ragazzi si sparpagliano, uno di loro con in mano le scarpe. Sa dove

ricavarne mezzo dollaro. L'uomo si tira su a sedere e si guarda intorno,

rintontito e inerme. Anche se volesse, sarebbe disperato un inseguimento

nel buio, a piedi nudi. Indugio un momento a guardarlo. Si tocca la gola,

continua quel suo rantolo secco, volta il capo in modo buffo, come a

controllare se il suo collo è slogato. Poi me la filo a raggiungere la banda, e

non rivedo più quell'uomo. Ma è anche vero che lo rivedo sempre, lì seduto

al lume delle stelle, rintontito, un poco impaurito, disorientato, con quello

strano movimento della testa e del collo.

Gli ubriachi sono preda particolare dei ragazzi di strada. Di continuo

vanno in cerca di ubriachi da ripulire. Si nutrono di ubriachi, come i ragni si

nutrono di mosche. La ripulitura di un ubriaco è a volte spettacolo

divertente, specialmente se l'ubriaco è inerme e nessuno interviene. Al

primo colpo partono, dell'ubriaco, danaro e gioielli. Poi i ragazzi si siedono

attorno alla vittima, per una specie di rito. A un ragazzo piace la cravatta.

Via la cravatta. A un altro va bene la biancheria intima, e allora via la

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biancheria, e c'è il coltello pronto per accorciare gambe e braccia. A volte si

chiama qualche amico vagabondo a prendere giubba e calzoni, che ai

ragazzi vanno troppo larghi. E alla fine se ne vanno, lasciando vicino

all'ubriaco il mucchio degli stracci che nessuno ha voluto.

Mi torna un'altra immagine. E' notte fonda, la mia banda cammina sul

marciapiede, in periferia. Dinanzi a noi, alla luce elettrica, un uomo traversa

diagonalmente la strada. Nel suo modo di camminare c'è qualcosa di

anfanante, di incerto. Subito i ragazzi annusano il gioco. Quest'uomo è

ubriaco. Raggiunge il marciapiede opposto e si perde nel buio d'uno

sterrato. Nessun grido di caccia, ma il branco si lancia all'inseguimento. In

mezzo allo sterrato gli piomba addosso. Ma che succede? Forme ringhianti,

strane, piccole, oscure, minacciose, sorgono fra il branco e la preda. E' un

altro branco di ragazzi di strada, e veniamo a sapere che quell'ubriaco è

preda loro, che lo seguono da una decina di isolati, più di quanto abbiamo

fatto noi. Ma il nostro è un mondo primevo. Questi lupi sono cuccioli. (In

realtà non uno di loro aveva dodici, tredici anni. In seguito ne ritrovai

qualcuno, appresi che appunto quel giorno avevano superato la montagna e

che venivano da Denver e da Salt Lake City). Il nostro branco scatta avanti.

I cuccioli del lupo urlano e strillano e si battono come piccoli demoni.

Tutt'intorno all'ubriaco divampa la lotta per il suo possesso. Crolla in mezzo

alla mischia, e la rissa infuria sul suo corpo, alla maniera dei greci e dei

troiani sopra il corpo e le armi di un eroe abbattuto. Fra urli e lacrime e

gemiti, i cuccioli del lupo vengono spossessati, e l'ubriaco è del mio branco.

Ma io rammento sempre il poveretto e il suo smarrito stupore all'improvviso

imperversare della lotta lì sullo sterrato. Lo rivedo ancora, vago nel buio,

titubante, stupito, instupidito, che bonariamente cerca di farla da paciere in

mezzo a quella baraonda di cui non afferra il significato, e poi la sua

espressione sinceramente offesa quando proprio a lui, che non ha fatto del

male a nessuno, tante mani si aggrappano per tirarlo giù.

Preda favorita dei ragazzi di strada sono i braccianti girovaghi. Siccome

lavorano, e vanno in giro con il rotolo della coperta, di solito si suppone che

abbiano su di sé qualche spicciolo; e proprio a quello mirano i ragazzi di

strada. La caccia a questo poveretto avviene spesso sotto le tettoie, nei

granai, nelle sale d'aspetto della stazione, ai margini della città, e il tempo

adatto per la caccia è la notte, quand'egli cerca un posto per srotolare la

coperta e dormire.

Vittime dei ragazzi di strada sono anche i cosiddetti «gatti allegri»: con il

termine si deve intendere il novizio della strada, ma il novizio adulto, o per

lo meno il ragazzo cresciuto. Un autentico ragazzo di strada, anche se da

poco ha fatto la sua scelta, non è mai «gatto allegro», è un professionista

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della strada, e così viene talvolta definito nel suo strano gergo. Io, che pure

non fui mai ragazzo di strada in senso professionistico, neanche fui però

«gatto allegro». Ci fu un poco il sospetto che tale io fossi, nel periodo in cui

da «Frisco» fui ribattezzato «Jack il marinaio». Ma una breve conoscenza

da parte di chi nutriva tale sospetto bastò a convincerli del contrario, e

diventai presto ragazzo di strada in piena regola. Anzi, fra i ragazzi di strada

io assunsi presto i modi di quella ristretta aristocrazia che della strada

costituisce la nobiltà: gli aggressori, i primordiali, le bestie bionde, per dirla

con Nietzsche.

Quando rientrai dal Nevada seppi che qualche pirata fiumarolo aveva

rubato la barca di Dinny McCrea. (Strano ma a tutt'oggi io non rammento

cosa ne sia stato della barca che portò me e Nickey «il Greco» da Oakland a

Port Costa. So che lo sceriffo non l'ebbe, e so che non ci portò sul fiume

Sacramento, e questo è tutto ciò che so.) Con la perdita della barca di Dinny

McCrea io mi legavo alla Strada; e quando fui stufo di Sacramento dissi

addio alla banda (la quale, amichevolmente, tentò di tirarmi giù dal treno

merci mentre me ne andavo via dalla città) e imboccai la valle di San

Joaquin. La Strada mi aveva preso e non voleva lasciarmi e in seguito dopo

i viaggi per mare, e dopo le diverse cose che mi capitò di fare, io ritornai

alla Strada, a far parte dell'aristocrazia stradarola, e a tuffarmi in un bagno

di sociologia che m'inzuppò fino alla pelle.

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CONFESSIONE

C'è una donna nello Stato del Nevada a cui un tempo io mentii

continuamente, concretamente, svergognatamente, per una faccenda d'un

paio d'ore. Non voglio qui chiederle scusa. Lungi da me. Ma voglio

spiegare. Purtroppo non so il suo nome, men che mai il suo indirizzo

attuale. Se i suoi occhi dovessero posarsi su queste righe, spero che vorrà

scrivermi.

Fu a Reno, nel Nevada, estate del 1892. Era tempo bello e la città era

piena di ladri e d'imbroglioni, per non dire nulla della vasta orda di

vagabondi affamati. Erano proprio loro a far di Reno una città «affamata».

Battevano alla porta di servizio delle case dei cittadini fino a che la porta

non rispondeva più.

Città difficile per «sbafare», così dicevano i vagabondi a quell'epoca. So

di aver saltato parecchi pasti, e so anche che un brutto giorno non mi ressi

più, misi di mezzo il facchino e invasi il vagone privato di un milionario

iterante. Il treno partì non appena io fui sul predellino, e mi diressi verso

quel milionario con il facchino un passo dietro di me che cercava di

prendermi. Faceva un caldo mortale, perché nell'istante stesso in cui

raggiunsi il milionario, il facchino raggiungeva me. Non c'era tempo per le

formalità. «Mi dia un quarto di dollaro per mangiare» sbottai. E giuro che il

milionario si mise una mano in tasca e mi diede... solo... esattamente... un

quarto di dollaro. Sono convinto che tale fu il suo stupore che obbedì

automaticamente, e da allora mi sono sempre acutamente rammaricato di

non avergli chiesto un dollaro. So che me l'avrebbe dato. Saltai giù dal

predellino di quel vagone privato con il facchino che cercava di darmi un

calcio in faccia. Mi mancò. E' tremendo il tuo svantaggio quando tenti di

saltare giù dallo scalino più basso di un vagone senza romperti il collo,

mentre al tempo stesso un etiope furibondo, sulla predella, cerca di darti il

piedone in faccia. Ma il quarto di dollaro lo ebbi, eccome!

Ma torniamo alla donna cui svergognatamente mentii. Fu la sera del mio

ultimo giorno a Reno. Ero andato a veder correre i cavalli, e avevo saltato il

pranzo, voglio dire il pasto di mezzogiorno. Avevo fame e oltre tutto si era

organizzato un comitato di salute pubblica per sbarazzare la città dagli

affamati come me. Già parecchi miei fratelli famelici eran stati rastrellati da

John Law, cioè dai tutori della legge, e io sentivo le valli assolate della

California che mi chiamavano da oltre i picchi della Sierra. Mi restavano da

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compiere due atti prima di scrollarmi dalle scarpe la polvere di Reno.

Dovevo, nottetempo, prendere il bagagliaio del treno diretto a occidente. E

poi dovevo trovar qualcosa da mangiare. Persino la gioventù esita dinanzi a

una notte di viaggio a stomaco vuoto, su un treno che squarcia l'atmosfera

passando per tormente, gallerie, nevi eterne di montagne che aspirano al

cielo.

Ma quel qualcosa da mangiare, ecco il difficile. Una decina di case mi

sbatterono fuori. In qualche caso ricevetti solo battute offensive e

informazioni sul posto chiuso in cui avrei potuto finire. E il peggio è che

affermazioni simili erano vere. Ecco perché quella notte io puntavo verso

occidente. John Law, la maledetta Legge, batteva la città, cercando ansioso

affamati e senzatetto, perché il suo posto chiuso era fatto appunto per

costoro.

In altre case le porte mi furono sbattute in faccia, interrompendo la mia

umile e cortese richiesta di qualcosa da mangiare. In una casa neanche mi

aprirono la porta. Io stavo in veranda a bussare e loro mi guardavano dalla

finestra. Addirittura, tirarono su un robusto bamboccio perché mi potesse

vedere, sulle spalle dei maggiori: vedere il vagabondo che non avrebbe

ottenuto nulla da mangiare.

Cominciavo a pensare che per mettere qualcosa nello stomaco avrei

dovuto rivolgermi ai poveri. Infatti sono i poveri, i poverissimi, a costituire

l'ultima risorsa del vagabondo che ha fame. Sui poveri si può sempre

contare. Non scacciano mai chi ha fame. Più volte, infatti gli Stati Uniti, mi

han rifiutato da mangiare le case grandi sulla collina; e sempre ho ricevuto

cibo dalle baracche coi vetri rotti e le finestre piene di stracci, e le madri

stanche morte di lavoro. Ah, chi ha bisogno di carità, vada dai poveri e

vedrà, perché i poveri sono sempre caritatevoli. I poveri non danno e non

negano quel che loro avanza. Non gli avanza nulla. Danno, e mai negano, di

quello di cui han bisogno, e spesso è un bisogno crudele. Un osso a un cane

non è carità. Carità è l'osso spartito con il cane quando tu hai la stessa fame

del cane.

In particolare ci fu una casa che mi respinse quella sera. Le finestre della

veranda davano sulla sala da pranzo, e dalle finestre vidi un uomo che

mangiava una focaccia, una grossa focaccia imbottita di carne. Io stavo

sulla porta e parlandomi quest'uomo continuava a mangiare. Era un uomo

ricco e dalla sua ricchezza nasceva il risentimento contro i suoi fratelli meno

fortunati.

Interruppe la mia richiesta di qualcosa da mangiare, così: «Io credo che tu

non abbia voglia di lavorare».

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Che discorso era questo? Io non avevo fatto parola di lavoro. L'argomento

della conversazione era «il cibo». In realtà io non avevo voglia di lavorare.

Volevo prendere, quella notte, il treno verso occidente.

«Tu non lavoreresti neanche se te ne capitasse l'occasione» insisté.

Guardai il viso mite di sua moglie e capii che senza la presenza di questo

cerbero avrei avuto anch'io un pezzetto di quella focaccia. Invece il Cerbero

s'ingozzava di focaccia e io capii che bisognava placarlo se volevo ottenerne

una parte. Per questo trassi un sospiro e accettai la sua etica sul lavoro.

«Ma certo che ho voglia di lavorare», mentii.

«Non ci credo», ribatté.

«Mi metta alla prova», risposi, mentendo ancora.

«Va bene», disse. «Ci troviamo all'angolo fra la via tale e la via talaltra»

(mi sono scordato l'indirizzo) «domani mattina. Sai, dov'è quella

costruzione bruciata, e ti metto al lavoro, coi mattoni».

«Va bene, signore, ci sarò».

Fece un grugnito e continuò a mangiare. Io aspettavo. Dopo un paio di

minuti alzò gli occhi con in viso l'espressione di chi pensa - credevo-che-tu-

te-ne-fossi-andato e chiese:

«Allora?»

«Io... io aspettavo qualcosa da mangiare», dissi gentilmente.

«Lo sapevo che non hai voglia di lavorare», ruggì.

Aveva ragione, naturalmente; ma era una conclusione a cui poteva essere

giunto non per un nesso logico, ma leggendomi il pensiero. Tuttavia chi

mendica alle porte deve essere umile, per questo accettai la sua logica come

avevo accettato la sua etica.

«Vede, ho fame», dissi, sempre in tono gentile. «Domani ne avrò anche di

più. Pensi quanta fame avrò dopo aver maneggiato mattoni tutto il giorno,

senza nulla da mangiare. Ora, se lei mi dà qualcosa da mangiare, domani

sarò in buona forma, per quei mattoni».

Considerò gravemente la mia supplica, e intanto continuava a mangiare,

mentre sua moglie si trattenne dall'intervenire in mio favore.

«Ora ti dico cosa faccio», disse fra una boccata e l'altra. «Domani vieni al

lavoro, e a metà della giornata ti anticipo il necessario per mangiare. Voglio

vedere se di lavorare hai voglia oppure no».

«Ma intanto...» cominciai, ma quello m'interruppe.

«Se ti do qualcosa da mangiare non ti rivedo più. Ah, li conosco i tipi

come te. Guarda me. Io non debbo un soldo a nessuno. Non son mai caduto

così in basso da chiedere da mangiare a qualcuno. Il mangiare me lo sono

sempre guadagnato. Il guaio tuo è che sei pigro e dissoluto. Ti si legge in

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faccia. Io ho sempre lavorato e son stato onesto. Mi son fatto così come

sono. E tu puoi fare lo stesso, se lavori e ti comporti onestamente».

.«Come lei?» chiesi.

Ahimè, non l'ombra dell'umorismo era mai penetrata nell'animo di

quest'uomo indurito dal lavoro.

«Sì, come me», rispose, con la voce convinta e vibrante.

«Ma se diventassimo tutti come lei», dissi, «mi permetta di dirle che non

ci sarebbe più nessuno a maneggiare mattoni».

Giuro che ci fu il lampo di un sorriso negli occhi di sua moglie. In quanto

a lui, rimase basito, non saprò mai se per la mia impudenza o per la

tremenda possibilità di un genere umano riformato che non gli avrebbe più

consentito di far maneggiare i mattoni da qualcuno.

Urlò: «Non voglio più sprecare parole, con te. Fuori di qui, vagabondo

ingrato».

Strusciai i piedi per terra, in modo da far intendere che me ne volevo

andare e chiesi ancora:

«Non mi dà proprio niente da mangiare?»

Di scatto si alzò in piedi. Era un uomo grosso. Io ero straniero in una terra

estranea, e John Law, la maledettissima Legge, mi cercava. Mi affrettai ad

andarmene.

«Ma perché ingrato?» mi chiedevo mentre sbattevo il cancello. «Che cosa

mi ha dato per potermi chiamare così?» Mi voltai e dalla finestra lo vidi

ancora. Era tornato a divorare la sua torta.

Ormai m'ero perso di coraggio. Passai davanti a parecchie case senza più

azzardarmi. Tutte le case mi parevano eguali, e nessuna mi pareva «buona».

Dopo aver percorso cinque o sei isolati, mi scrollai di dosso la timidezza e

mi diedi coraggio. Questo mendicare cibo era come un gioco di carte,. e se

non mi piaceva la «mano» potevo sempre chiedere di cambiarla. Decisi di

affrontare la prossima casa. Mi ci avvicinai mentre s'addensava il

crepuscolo, dalla porta di cucina.

Bussai pian piano e quando vidi il volto gentile della donna di mezza età

che aprì la porta, come un'ispirazione mi venne in mente la «storia» che

avrei raccontato. Perché si deve sapere che il successo di un mendicante

dipende dalla sua capacità di raccontare una storia buona. Innanzi tutto e

all'istante, il mendicante deve saper pesare la sua vittima. Poi deve inventare

una storia che faccia appello alla personalità, al temperamento di quella

vittima particolare. E a questo punto sorge la difficoltà maggiore:

nell'istante stesso in cui la vittima viene pesata occorre che cominci la

storia. Non c'è un attimo per la preparazione. Come in un lampo egli deve

indovinare la natura della sua vittima e confezionare un racconto che vada a

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segno. Se vuole avere successo, il vagabondo dev'essere un artista. Deve

creare spontaneamente, istantaneamente, e non su di un tema scelto nella

pienezza della propria fantasia, ma sul tema che legge in faccia alla persona

che apre la porta, sia uomo, donna o bambino, dolce o irosa, generosa o

taccagna, buona o cattiva, ebrea o cristiana, nera o bianca, fraterna o colma

di pregiudizi razziali, provinciale o universale, insomma tutto quel che può

essere una persona. Ho spesso pensato che proprio all'addestramento dei

miei anni di vagabondaggio si debba il mio successo come scrittore di

storie. Per ottenere il cibo di cui vivere, ero costretto a raccontar storie che

suonassero vere. Lì, sulla porta di cucina, spinto da necessità inesorabile, un

uomo si costruisce la capacità di convincere il suo prossimo riconosciuta

poi dai critici autorevoli come essenziale all'arte del racconto. E credo anche

che il mio tirocinio di vagabondo abbia fatto di me un realista. Il realismo,

ecco la sola merce di scambio per ottenere da mangiare in cucina.

Dopo tutto l'arte non è altro che consumato artifizio, e proprio l'artifizio

salva molti racconti. Rammento di aver mentito alla stazione della polizia di

Winnipeg, Manitoba. Viaggiavo verso occidente, sulla Canadian Pacific.

Naturalmente la polizia volle sentire la mia storia, e io gliela feci sentire,

inventandola lì per lì. Erano gente di terra, proprio nel cuore del continente,

e dunque, per loro, quale storia poteva andar meglio che una storia

marinara? Impossibile farmi un trabocchetto su questo terreno. E perciò

raccontai loro la lacrimevole istoria della mia vita a bordo di quella nave

d'inferno che era la «Glenmore». (Una volta l'avevo vista, questa

«Glenmore», all'ancora nella Baia di San Francisco).

Dissi loro che ero inglese, apprendista di bordo. E loro dissero che non

parlavo come un ragazzo inglese. Toccava a me inventare, all'istante. Ero

nato e cresciuto negli Stati Uniti. Alla morte dei miei genitori, i nonni mi

avevano mandato in Inghilterra, e poi mi avevano messo a bordo della

«Glenmore». Spero che il comandante della «Glenmore» mi perdonerà,

perché feci di lui un tale ritratto, quella sera alla stazione di polizia di

Winnipeg! Che crudeltà! Che brutalità! Che ingegno diabolico per la

tortura. Spiegai perché avevo disertato la «Glenmore», a Montreal.

Ma perché mi trovavo nel cuore del Canada, diretto a occidente, se i miei

nonni vivevano in Inghilterra? Inventai prontamente una sorella sposata che

viveva in California. Avrebbe badato lei a me. Mi dilungai a descriverne il

carattere affettuoso. Ma quei poliziotti avevano il cuore duro, non

mollavano. Ero salito in Inghilterra a bordo della «Glenmore»; nei due anni

trascorsi prima della diserzione a Montreal, che cosa aveva fatto la

«Glenmore», dove era stata? E subito io mi portai dietro per il mondo questi

terricoli. Sballottati dal mare grosso e tempestati dall'acqua salsa, eccoli con

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me ad affrontare il tifone al largo della costa giapponese. Con me

caricarono e scaricarono in tutti i porti dei Sette Mari. Me li portai dietro in

India, a Rangoon, in Cina, e li misi a spaccare ghiaccio attorno a Capo Horn

e finalmente gettare l'ancora a Montreal.

Allora quelli dissero di aspettare un momento, e un poliziotto uscì nella

notte mentre io mi scaldavo alla stufa, e intanto cercavo di prevedere quale

trappola intendevano tendermi.

Dentro di me feci un gemito a vedere lui che entrava dietro al poliziotto.

Quegli orecchini d'oro non glieli aveva messi una zingara, e quella pelle

conciata come il cuoio non era opera dei venti della prateria; non era certo

la tormenta e la china d'un monte a dargli quell'andatura ondeggiante. E in

quegli occhi quando si levarono su di me io vidi nettissimo il dilavare del

mare. Ecco un altro tema, ahimè, con cinque o sei poliziotti a guardare me

che non avevo mai navigato sui mari della Cina, né avevo mai doppiato

Capo Horn, né posato gli occhi sull'India e su Rangoon.

Ero disperato. La catastrofe mi stava dinanzi, incarnata in questo figlio

del mare dagli orecchini d'oro e dalla pelle conciata. Chi era? Che cos'era?

Dovevo risolverlo prima che lui risolvesse me. Dovevo prendere un

orientamento nuovo, altrimenti quei maledetti poliziotti mi avrebbero

orientato verso una cella, verso un tribunale, verso altre celle. Se era lui il

primo a interrogare, prima che io sapessi quanto sapeva lui, ero perso.

Ma tradii forse la mia disperazione a quegli occhi di lince messi a guardia

del pubblico benessere a Winnipeg? No. Affrontai quell'annoso marinaio

con occhi lieti, sorridendo, simulando il sollievo che prova il naufrago

quando finalmente gli si getta una ciambella di salvataggio. Ecco un uomo

che capiva e che poteva verificare la mia storia in faccia a questi tangheri

che non capivano nulla. O almeno, questa fu la parte che cercai di recitare.

Gli fui addosso, lo tempestai di domande, su di lui. Dinanzi ai miei giudici

dovevo provare il carattere del mio salvatore, prima che lui salvasse me.

Era un marinaio buono. Alle mie domande i poliziotti cominciavano a

spazientirsi.

Alla fine uno mi disse di tacere. Tacqui: ma mentre tacevo, la mia mente

s'affaticava a inventare, a tracciare la scena del prossimo atto. Ormai sapevo

quanto mi bastava per tirare avanti. Era francese. Aveva navigato su

mercantili francesi, tranne un unico viaggio su nave inglese. E finalmente -

ah che fortuna! - non navigava più da venti anni.

Il poliziotto lo sollecitò a interrogarmi.

«Hai fatto scalo a Rangoon?» chiese.

Annuii. «Sbarcammo il terzo ufficiale. Febbre».

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Se mi avesse chiesto che tipo di febbre avrei risposto «enterica», pur

ignorando il significato della parola. Ma non me lo chiese. La prossima

domanda fu:

«Com'è Rangoon?»

«Bella. Piovve di continuo durante la nostra permanenza».

«Andasti a terra?»

«Certo», risposi. «.Eravamo in tre, apprendisti».

«Ti rammenti il tempio?»

«Quale tempio?» domandai.

«Quello grande, in cima alla scalinata».

Se rammentavo il tempio, dovevo anche descriverlo. Mi si apriva il

baratro. Feci cenno di no.

«Si vede da tutto il porto», m'informò. «Non occorre scendere a terra per

vedere il tempio».

Mai odiato un tempio come quello, in vita mia. E su quel tempio

m'impuntai.

«Non si vede dal porto», contraddissi. «Non si veda dalla città. Non si

vede dalla cima della scalinata. Perché...» e qui tacqui per ottenere l'effetto,

«perché non c'è tempio a Rangoon».

«Ma l'ho visto con i miei occhi», esclamò il marinaio.

«Successe nel ... ?» chiesi.

«Nel settantuno».

«Fu poi distrutto nel grande terremoto del 1887», spiegai. «Era molto

antico».

Ci fu una pausa. Il marinaio era tutto preso dall'immagine giovanile del

tempio visto dal mare.

«La scalinata c'è ancora», l'aiutai. «Quella si vede da tutto il porto. E tu

rammenti quell'isoletta a destra di chi entra in porto?» Immagino che ci

fosse, perché lui annuì (ma io ero anche pronto a farla spostare a sinistra).

«Sparita», dissi, «ora sono sette braccia d'acqua».

Avevo guadagnato il tempo di ripigliare fiato. Mentre il marinaio

meditava sui cambiamenti che apporta il tempo, io stavo preparando i tocchi

finali della mia storia.

«Rammenti la dogana di Bombay?»

La rammentava.

«Distrutta da un incendio», annunciai.

«Ti rammenti Jim Wan?» chiese a sua volta.

«Morto», dissi. Non avevo la minima idea di chi fosse questo Jim Wan.

Adesso ero di nuovo sul ghiaccio sottile.

«Ti rammenti Billy Harper, di Sciangai?» mi affrettai a chiedergli.

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L'annoso marinaio cercava di rammentare, ma il Billy Harper della mia

fantasia stava al di là della sua memoria sbiadita.

«Ma certo che ti rammenti Billy Harper», insistei. «Lo conoscono tutti. E'

lì da quarant'anni. Be', c'è ancora, ecco tutto».

E allora successe il miracolo. Il marinaio si rammentò di Billy Harper.

Forse c'era davvero un Billy Harper, e forse era a Sciangai da quarant'anni e

ci stava ancora; per me era una novità.

Per un'altra mezz'ora il marinaio e io continuammo a parlare in quella

maniera. Alla fine disse ai poliziotti che ero quel che dicevo di essere, e

trascorsa la notte e fatta colazione mi lasciarono libero di riprendere il

viaggio verso occidente, dalla sorella sposata che avevo a San Francisco.

Ma torniamo alla donna di Reno che mi aprì la porta al crepuscolo. Mi

bastò una occhiata al suo viso gentile per trovare la chiave. Diventai un

ragazzo dolce, ingenuo, sfortunato. Non riuscivo a parlare. Aprii la bocca e

subito la richiusi. In vita mia non avevo mai chiesto da mangiare, a nessuno.

Il mio imbarazzo era doloroso, estremo. Avevo vergogna. Proprio io che

consideravo l'accattonaggio come una deliziosa follia, all'improvviso ero

diventato un ragazzo dalla moralità borghese. Soltanto i morsi della fame

potevano spingermi a una cosa degradante e ignobile come il mendicar cibo.

E cercavo di dipingermi in faccia tutta la vacua malinconia del giovane

ingenuo, ma anche affamato, che non è avvezzo a mendicare.

«Hai fame, povero ragazzo», disse la donna.

Avevo lasciato che fosse la prima a parlare.

Feci di sì con il capo e deglutii.

«E' la prima volta che... lo chiedo», balbettai.

«Vieni, entra». La porta si spalancò. «Noi abbiamo già finito di mangiare,

ma il fuoco è acceso e ti posso preparare qualcosa».

Mi scrutò bene quando fui alla luce.

«Magari il mio ragazzo fosse sano e forte come te», disse: «Invece non è

forte. A volte crolla. Proprio nel pomeriggio è caduto e si è fatto male,

povero caro».

Era proprio la voce di una mamma, ineffabilmente tenera, che mi fece

venire voglia di essere suo figlio. Guardai il ragazzo, che stava seduto al

tavolo con la testa fasciata. Non si mosse, ma i suoi occhi, chiari alla luce

della lampada, erano fissi su di me, uno sguardo teso e sorpreso.

«Come il mio povero babbo», dissi. «Anche lui cadeva per terra. Una

specie di vertigine. I medici non sapevano che dire. Non riuscirono mai a

stabilire che cosa avesse».

«E' morto?» chiese la donna con tono gentile, mettendomi dinanzi cinque

o sei uova cotte.

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«Morto». Trangugiai. «Due settimane fa. Ero con lui quando successe.

Traversavamo la strada insieme. Crollò all'improvviso. Non riprese più

coscienza. Lo portarono in una drogheria, e li dentro morì».

E subito costruii la pietosa storia di mio padre - di come, dopo la morte di

mia madre, insieme, dalla fattoria, eravamo andati a San Francisco, di come

la pensione (era un veterano) e i pochi altri soldi che aveva non ci

bastavano; e di come aveva tentato di fare il rilegatore di libri. Raccontai

anche i miei guai in quei primi giorni dopo la perdita del padre, solo e

abbandonato per le strade di San Francisco. Mentre la buona donna

preparava biscotto, pancetta e altre uova, e mentre io mi tenevo al suo passo

spolverando tutto quel che mi metteva dinanzi, arricchivo il ritratto del

povero orfanello e aggiungevo altri particolari. Ma che povero figliolo! Ci

credevo anch'io, come credevo nelle bellissime uova che stavo divorando.

Mi sarei pianto addosso. E so che le lacrime di tanto in tanto fecero

capolino nella mia voce. Ero assai efficace.

Di fatti, a ogni tocco che aggiungevo al quadro, quell'anima gentile mi

dava altra roba. Mi preparò un desinare, da portar via con me. Ci mise altre

uova sode, pepe e sale, altre cose, una grossa mela. Mi diede anche tre paia

di calze di lana, pesanti e rosse. E intanto continuava a cucinare e io a

mangiare. M'ingozzavo come un selvaggio; ma d'altra parte era duro un

viaggio clandestino sul treno al di là della Sierra, e io ignoravo quando e

dove avrei trovato il mio prossimo pasto. E intanto, come una testa di morto

a una festa, tacito e immoto, il ragazzo suo sfortunato sedeva e mi fissava,

dall'altra parte del tavolo. Immagino che per lui io rappresentavo il mistero,

l'avventura - tutto ciò che era negato a quella flebile scintilla di vita che era

in lui. Eppure non riuscii a evitar di chiedermi, un paio di volte, se per caso

non mi vedeva fin nel fondo del mio cuore mendace.

«Ma dove vai?» mi chiese la donna.

«Salt Lake City», dissi. «Ci ho una sorella, sposata». (Per un istante

pensai di farla Mormone, ma poi decisi di no). «Suo marito fa lo stagnino,

ha una sua impresa».

Io sapevo che quando si ha un'impresa, quel mestiere rende un mucchio di

soldi. Ma ormai avevo parlato. Bisognava che spiegassi.

«Se glieli avessi chiesti mi avrebbero mandato i soldi del viaggio»,

spiegai. «Ma hanno avuto la loro parte di guai, malattie, lavoro... Il socio lo

ha messo di mezzo. Per questo non ho voluto chiedere i soldi. Sapevo di

potercela fare, in qualche modo. Li ho lasciati credere che ne avevo

abbastanza per arrivare a Salt Lake City. Lei è molto cara, molto gentile.

Con me è sempre stata buona. Ha due figlie, più giovani di me. Una è

appena una bambina».

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Fra tutte le sorelle sposate che io ho distribuito nelle varie città degli Stati

Uniti, la sorella di Salt Lake City è quella che preferisco. Ed è proprio reale.

Quando parlo di lei, quasi la vedo, con le sue figlie, e col marito stagnino. E'

una donna grande, materna, robusta e ridondante, insomma il tipo, capite?,

che sa sempre cucinare cose buone e non si arrabbia mai. Suo marito è un

tipo tranquillo, bonaccione. A volte mi pare di conoscerlo benissimo. E

chissà, può anche darsi che un giorno io l'incontri davvero. Se l'annoso

marinaio si rammentava di Billy Harper, perché non avrei dovuto, un

giorno, conoscere il marito di mia sorella, quella che abita a Salt Lake City?

D'altro canto io avverto la certezza che non incontrerò mai, in carne e

ossa, i miei numerosi genitori e nonni, perché invariabilmente li

ammazzavo. Il modo preferito per farli fuori era l'attacco cardiaco, anche se

qualche volta facevo morire la mamma, o la nonna, di consunzione, di

polmonite o di tifo. E' vero, come possono attestare i poliziotti di Winnipeg,

che i miei nonni vivono in Inghilterra; ma questo successe molto tempo fa

ed è lecito supporre che oramai siano morti. In ogni modo, non mi hanno

mai scritto.

Spero proprio che la donna di Reno possa leggere queste righe, e perdoni

la mia condotta sgraziata e mendace. Non le chiedo scusa, perché non provo

vergogna. Era la giovinezza, la gioia di vivere, il desiderio di fare

esperienza che mi guidò a quella porta. Spero di averle fatto del bene. In

ogni modo oggi potrà riderci sopra, sapendo come in realtà stavano le cose.

Per lei la mia storia era «vera». Credeva in me e in tutta la mia famiglia,

ed era colma di sollecitudine per il rischioso viaggio che mi attendeva, fino

a Salt Lake City. Questa sollecitudine mi diede quasi dolore. Mentre me ne

andavo, con il desinare in mano e le tasche gonfie di calze di lana spesse, le

venne in mente un nipote, o forse uno zio, insomma un parente, che faceva

il ferroviere, e che oltre tutto avrebbe preso quello stesso treno su cui

intendevo salire di nascosto. Proprio quel che ci voleva! Mi avrebbe

accompagnato alla stazione, gli avrebbe detto la mia storia, mi avrebbe fatto

nascondere sul vagone postale. Così senza pericolo e senza disagio, sarei

giunto fino a Odgen. Salt Lake City era poche miglia più avanti. Mi sentii

mancare il cuore. E lei si eccitava sempre di più a questo suo progetto e io,

con il cuore che mi mancava, dovetti fingere gioia ed entusiasmo per la

soluzione delle mie difficoltà.

La soluzione! Ebbene, quella notte ero diretto a occidente, e mi trovavo

invece preso in una trappola che voleva portarmi nella direzione opposta.

Era veramente una trappola e non ebbi il coraggio di dirle che era tutta una

miserabile bugia. E mentre la lasciavo credere che ero felice, mi rovistavo il

cervello in cerca di una via d'uscita. Non c'era via d'uscita. Mi avrebbe

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accompagnato al vagone postale - così diceva lei - e poi quel suo parente

ferroviere mi avrebbe accompagnato fino a Ogden. E poi avrei dovuto fare

la strada a ritroso per quelle centinaia di miglia di deserto.

Ma quella notte mi assisté la fortuna. Proprio quando lei si preparava a

mettersi il cappellino e ad accompagnarmi, scoprì che s'era sbagliata. Quel

suo parente ferroviere non doveva partire stanotte. Gli avevano cambiato

turno. Sarebbe partito solo fra due notti. Ero salvo, perché evidentemente la

mia impavida giovinezza non mi consentiva di aspettare due giorni.

Ottimisticamente, l'assicurai che partendo subito sarei arrivato prima a Salt

Lake City, e me ne andai con la sua benedizione e coi suoi auguri che mi

suonavano nelle orecchie.

Ma quelle calze di lana erano una manna. Lo so. Quella notte sul vagone

me ne misi un paio, e il treno partì verso occidente.

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DUEMILA VAGABONDI

Una volta ebbi la fortuna di far parte di un branco che contava duemila

vagabondi. Il branco veniva chiamato «l'esercito di Kelly», dal nome del

capo che, con i suoi eroi, «prendeva» un treno dopo l'altro nel selvaggio

occidente; ma ebbero la peggio dopo traversato il Missouri e si scontrarono

con l'oriente, il quale non aveva intenzione alcuna di regalare i mezzi di

trasporto a duemila vagabondi. Per qualche tempo l'esercito di Kelly

giacque inerme a Council Bluffs. Il giorno che mi unii a loro, reso disperato

dall'indugio, decisi di «prendere» un treno.

Era uno spettacolo davvero imponente. Il generale Kelly cavalcava un bel

morello, e con le bandiere al vento, al ritmo d'una musica marziale di

tamburi e cornamuse, una compagnia dopo l'altra, in due divisioni, i

duemila vagabondi contromarciarono di fronte a lui e incontrarono la strada

ferrata nel villaggio di Weston, che distava sette miglia. Essendo l'ultimo fra

le reclute, appartenevo all'ultima compagnia dell'ultimo reggimento della

seconda divisione. Non solo, ero nell'ultima fila dell'estrema retroguardia.

L'esercito si accampò a Weston, ai margini della strada ferrata, anzi fra un

binario e l'altro, perché le linee erano due, quella di Chicago, Milwaukee e

San Paul e quella di Rock Island.

Era nostra intenzione prendere il primo treno di passaggio ma quelli della

ferrovia annusarono il nostro piano e ci sconfissero. Non ci fu alcun primo

treno. Bloccarono le due linee e non fecero uscire alcun treno. Intanto,

mentre noi tenevamo il campo fra i binari morti, la brava gente di Omaha e

di Council Bluffs entrava in agitazione. Si preparavano a formare massa,

prendere un treno a Council Bluffs, portarcelo, farcene regalo. Ma quelli

della ferrovia fecero fallire anche questo piano. Non aspettarono che la

brava gente facesse massa. Il secondo giorno all'alba, una locomotiva, con

un solo vagone, arrivò alla stazione e si fermò. A questo segno, che la vita

riprendeva sui binari morti, tutto l'esercito si schierò di fianco alla strada

ferrata.

Ma non ci fu mai ritorno di vita più mostruoso come quella volta sui

binari morti. Da occidente giunse il fischio della locomotiva. Veniva nella

nostra direzione, cioè verso oriente. A oriente volevamo andare. Un brivido

di attesa percorse i nostri ranghi. Il fischio imperversava, furibondo, e il

treno arrivò tuonando, alla massima velocità. Non esisteva al mondo

vagabondo capace di saltarci sopra. Poi fischiò un'altra locomotiva, e arrivò

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un altro treno a tutta velocità, e poi un altro, e un altro, treno dopo treno, sì

che alla fine i treni erano composti di vetture-passeggeri, vagoni-merci,

pianali, locomotive a rimorchio, vagoni postali, ferrivecchi, tutto il riffaraffa

pescato ai depositi della ferrovia. Quando fu completamente ripulito il

deposito di Council Bluffs, un solo vagone attaccato a una locomotiva (era

un vagone privato) partì verso oriente e sui binari ricadde la morte.

Passò quel giorno, poi il giorno dopo, e nulla si muoveva, e nel frattempo

i duemila vagabondi se ne restavano accanto ai binari, battuti dalla

tormenta, dalla pioggia, dalla grandine. Ma quella notte la gente brava di

Council Bluffs ebbe la rivincita su quelli della ferrovia. Una folla raccoltasi

a Council Bluffs traversò il fiume, raggiunse Omaha, dove si aggregò

un'altra folla, per un'incursione sui depositi della Union Pacific. Prima

catturarono una locomotiva, poi misero insieme un treno, e poi le due folle

riunite ci salirono sopra, traversarono il Missouri e irruppero su Rock Island

per consegnarci il treno. Quelli delle ferrovie tentarono di sventare questo

piano, ma non ci riuscirono, con terrore mortale del caposezione, e di un

altro funzionario di Weston. I due, sotto ordine telegrafico segreto,

cercarono di far naufragare il treno dei nostri simpatizzanti interrompendo il

binario. Ma ormai noi ci eravamo fatti sospettosi, e avevamo le nostre brave

pattuglie in esplorazione. Colto in flagrante nel suo tentativo di far

naufragare il treno, e circondato da venti vagabondi infuriati, il caposezione

col suo assistente si preparavano ad affrontare la morte. Non rammento che

cosa fosse a salvarli, a meno che non si trattasse dell'arrivo del treno.

Ma l'avremmo scontata anche noi, e duramente. Nella fretta, quelle due

folle di simpatizzanti avevano trascurato di formare un treno

sufficientemente lungo. Non c'era posto bastante per far salire duemila

vagabondi. Allora vagabondi e simpatizzanti decisero di far festa,

fraternizzarono, cantarono, e si divisero, quelli del posto per ritornare al

treno che avevano catturato a Omaha, i vagabondi a piedi, la mattina dopo,

per una marcia di centoquaranta miglia fino a Des Moines. Solo dopo

passato il Missouri l'esercito del generale Kelly cominciò a marciare, e non

salì mai più a bordo di un treno. Era costato alle ferrovie montagne di

quattrini, ma aveva agito per ragioni di principio, spuntandola.

Underwood, Leola, Menden, Avoca, Walnut, Marno, Atlantic, Wyoto,

Anita, Adair, Adam, Casey, Stuart, Dexter, Carlham, De Soto, Van Meter,

Booneville, Commerce, Valley Junction - come mi tornano alla mente i

nomi delle città quando consulto la carta e ricostruisco il nostro cammino

nella lontana campagna dello Iowa! E gli ospitali contadini di quello Stato!

Uscirono coi carri per portare il nostro bagaglio, ci davano un pasto caldo a

mezzogiorno, lungo il cammino; sindaci di graziose cittadine facevano

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discorsi di benvenuto e ci spingevano a proseguire; deputazioni di fanciulle

e ragazze uscivano incontro a noi, e i buoni cittadini si facevano vivi a

centinaia, ci prendevano a braccetto e marciavano insieme a noi per la

strada principale. Era giornata di circo quando arrivavamo in città, ma era

sempre giornata di circo, perché le città erano parecchie.

A sera il nostro campo era invaso da intere popolazioni. Ogni compagnia

aveva il suo falò e attorno a ogni falò ci si dava da fare. I cuochi della mia

compagnia, la compagnia L , erano artisti della danza e del canto, e ci

offrivano la parte maggiore del nostro spasso. In un'altra parte del campo

agiva un gruppo canoro, e una delle voci più belle apparteneva al

«Dentista» dato in prestito dalla compagnia L, e noi ne eravamo molto fieri.

Costui, inoltre, levava i denti a tutto l'esercito, e siccome le estrazioni

avvenivano di solito all'ora dei pasti, le nostre digestioni erano stimolate

dalla varietà dell'incidente. Il Dentista non aveva anestetico, ma fra di noi ce

n'erano sempre due o tre pronti a offrirsi volontari, per reggere fermo il

paziente. Oltre ai vari trattenimenti delle compagnie e al gruppo canoro, di

solito si tenevano le funzioni religiose, e di continuo si ascoltavano discorsi

politici. Tutte queste cose succedevano contemporaneamente, era una festa

continua e scatenata. Infatti in mezzo a duemila vagabondi si può trovare

parecchio talento. Rammento che avevamo una buona squadra di baseball e

la domenica, per tenerci in esercizio, si battevano le squadre locali. A volte

anche due volte ogni domenica.

Lo scorso anno, durante un giro di conferenze, a bordo di un pullman (ma

di quelli veri) entrai a Des Moines. Nei sobborghi della città avevo visto le

fornaci e avevo sentito qualcosa al cuore. Proprio lì, alle fornaci, una decina

d'anni prima, l'esercito si era lasciato andare per terra, giurando

solennemente che i piedi dolevano e che non si marciava più. Prendemmo

possesso della fornace e dicemmo a Des Moines che eravamo venuti per

restare - che eravamo decisi a non andarcene più. Des Moines era ospitale,

ma questo era veramente troppo. Basta un breve calcolo mentale. Duemila

vagabondi, che mangino tre robusti pasti, fanno seimila pasti al giorno,

quarantaduemila pasti alla settimana, centosessantottomila pasti nel mese

più corto che abbia il calendario. Non era roba da poco. Non avevamo soldi.

A Des Moines la decisione.

Des Moines era disperata. Eravamo accampati, si facevano discorsi

politici, concerti di musica sacra, si cavavano denti, si giocava a baseball e a

sette e mezzo, si consumavano i nostri seimila pasti quotidiani, e pagava

Des Moines. Des Moines andò a lagnarsi con le ferrovie, ma quelli duri;

dissero che non ci facevano salire sui treni, e basta. Permetterci di salire

significava stabilire un precedente, e non dovevano esserci precedenti. E noi

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si continuava a mangiare. Questo il fattore terrorizzante della situazione.

Eravamo diretti a Washington e Des Moines avrebbe dovuto vuotare le

casse comunali per pagarci il biglietto, anche con lo sconto, e d'altra parte se

fossimo rimasti ancora, le casse comunali avrebbero dovuto vuotarle lo

stesso, per farci mangiare.

Il problema fu risolto da un genio locale. Non volevamo andare a piedi.

Benissimo. Saremmo andati con un mezzo. Da Des Moines a Keokuk sul

Mississippi scorre il Fiume Des Moines. Un tratto lungo trecento miglia.

Potevamo passare di lì, e una volta provvisti di materiale natante, potevamo

percorrere il Mississippi fin nell'Ohio, poi prendere l'Ohio per poi

raggiungere Washington.

Des Moines aprì una sottoscrizione. Cittadini provvisti di senso civico

diedero diverse migliaia di dollari. Legname, funi, chiodi, cotone per

stoppare arrivarono in grandi quantità, e sulle rive del Des Moines

s'inaugurò un'era terribile, quella delle costruzioni navali. Ora, il Des

Moines è un misero corso d'acqua, cui è stato indebitamente concesso il

titolo di fiume. Nella nostra vasta terra occidentale noi lo chiameremmo

ruscello. Gli abitanti più anziani crollavano il capo e dicevano che non ce

l'avremmo fatta, non c'era acqua per galleggiarci. A Des Moines non

importava, pur di sbarazzarsi di noi, e non importava nulla neanche a noi,

che eravamo ottimisti e ben nutriti.

Mercoledì 9 maggio 1894, partimmo e cominciò una colossale merenda.

Des Moines se l'era cavata a buon mercato, e certamente deve una statua

bronzea al genio locale che la tolse dai pasticci. Vero, Des Moines dovette

pagare le nostre barche; avevamo mangiato sessantamila pasti, lì alle

fornaci; e ci portavamo dietro altri dodicimila pasti, come precauzione

contro la carestia nei posti selvaggi; ma pensate che cosa sarebbe successo

se fossimo rimasti a Des Moines undici mesi invece che undici giorni. E

poi, nel partire, promettemmo a Des Moines che saremmo ritornati, nel caso

che fosse impossibile stare a galla sul fiume.

Andava benissimo avere con noi quei dodicimila pasti, in consegna

all'intendente, e chi stava con lui li trovò squisiti; poi all'improvviso

l'intendente sparì e la mia barca, fra le altre, non lo rivide mai più. La

formazione di compagnia andò disfatta senza speranza durante il viaggio

fluviale. In ogni accampamento di uomini si troverà sempre una certa

percentuale di pelandroni, di incapaci, di gente ordinaria e di gente attiva.

Sulla mia barca c'erano dieci uomini, ed erano il fior fiore della compagnia

L. Ogni uomo si dava da fare. Per due motivi io facevo parte di questo

gruppo. Prima di tutto perché ero di quelli che si danno da fare e non

battono la fiacca, e poi perché ero Jack detto «il Marinaio». Mi intendevo di

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barche e di navigazione. Noi dieci ci scordammo gli altri quaranta della

compagnia L, e al primo pasto saltato ci scordammo anche dell'intendente

scomparso. Eravamo indipendenti. Percorrevamo il fiume con mezzi nostri,

rimediando da mangiare, battendo tutte le altre barche della flotta, e, ahimè

debbo dirlo, qualche volta appropriandoci delle riserve che i contadini

avevan messo da parte per l'esercito.

Per buona. parte di quelle trecento miglia fummo sempre d'una mezza

giornata, o di una giornata intera, in vantaggio sull'Esercito. Eravamo

riusciti a procurarci diverse bandiere americane. Quando ci si avvicinava a

una cittadina, e quando si vedeva sulla riva un gruppo di contadini, si

levavano in alto le bandiere, ci battezzavamo «barca di avanguardia»,

chiedevamo dove fossero le provviste raccolte per l'Esercito.

Rappresentavamo l'Esercito, naturalmente, e ci facevamo consegnare le

provviste. Ma non c'era in noi nulla di meschino. Non prendevamo mai più

di quanto ci occorresse, però di tutto prendevamo il meglio. Per esempio, se

un contadino filantropo aveva regalato parecchi dollari di tabacco lo

prendevamo. Prendevamo anche burro e zucchero, caffè e cibi in scatola;

ma quando le provviste consistevano di sacchi di fagioli e farina o di due,

tre manzi macellati, ce ne astenevamo risolutamente e si tirava innanzi,

lasciando la disposizione di consegnare tali provviste alle barche

dell'intendenza, che avevano il compito di seguirci.

Fra tutti e dieci si campava della ricchezza della terra. Per molto tempo il

generale Kelly tentò invano di raggiungerci. Mandò due rematori su una

barca leggera, a fondo piatto, per fermarci e porre fine alla nostra carriera di

pirati. Ci raggiunsero, sì, ma erano due e noi eravamo dieci. Il generale

Kelly aveva dato loro l'autorità di farci prigionieri, e così ci dissero. Quando

noi esprimemmo la nostra poca disposizione a darci prigionieri, quelli

corsero alla prossima città per invocare l'aiuto delle autorità. Noi

scendemmo immediatamente a terra e cucinammo la cena prima del tempo;

e sotto il manto delle tenebre aggirammo città e autorità.

Di parte del viaggio tenni un diario, e rileggendolo adesso noto una frase

che ricorre continuamente, e cioè «bella vita». Facevamo una bella vita.

Disdegnavamo finanche il caffè bollito nell'acqua. Lo facevamo con il latte,

e questa meravigliosa bevanda la chiamavo, rammento, «Vienna pallida».

Mentre noi eravamo in testa a scremare il meglio, e l'intendente indietro,

lontanissimo il grosso dell'Esercito, che stava nel mezzo, pativa la fame. Per

l'Esercito era dura, lo ammetto, ma noialtri dieci eravamo individualisti.

Avevamo iniziativa, intrapresa. E credevamo ardentemente che il cibo

toccasse a chi arriva primo, al più forte. Per un tratto l'Esercito rimase

quarantotto ore senza mangiare; e poi giunse a un villaggio di un trecento

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abitanti, del quale non ricordo il nome, ma mi sembra che fosse Red Rock.

Questo villaggio, come ogni centro abitato che noi traversavamo, aveva

nominato un comitato di salute pubblica. Contando cinque persone per

famiglia i focolari accesi a Red Rock erano sessanta. Il comitato di salute

pubblica ebbe una paura folle allo irrompere di duemila vagabondi affamati,

che ormeggiarono le barche in due, tre file, lungo la riva del fiume. Il

generale Kelly era uomo giusto. Non aveva alcuna intenzione di esercitare

modi rudi sul villaggio. Non pretendeva che sessanta famiglie potessero

fornire duemila pasti. E poi l'Esercito aveva la sua cassa del tesoro.

Ma il comitato di salute pubblica perse la testa. «Nessun incoraggiamento

all'invasore» fu il suo programma, e quando il generale Kelly chiese di

comprare del cibo, gli fu rifiutato. Non avevano nulla da vendere, e il

danaro del generale Kelly non era buono in quel borgo. Allora il generale

Kelly passò all'azione. Squillarono le trombe. L'Esercito lasciò le barche e

in cima alla riva si dispose in formazione di combattimento. Il comitato era

lì, a vedere. Il discorso del generale Kelly fu breve. Disse:

«Ragazzi, da quand'è che non mangiate?»

«Dall'altro ieri», gridarono tutti.

«Avete fame?»

Una possente affermazione di duemila bocche squassò l'atmosfera. Allora

il generale Kelly si rivolse al comitato di salute pubblica:

«Signori, voi vedete la situazione. Da quarantotto ore i miei uomini non

mangiano nulla. Se li lascio scatenare sulla vostra città, non sarò

responsabile di quel che succede. Sono disperati. Mi sono offerto di

comprar da mangiare, ma voi non volete vendere. Adesso ritiro l'offerta e

chiedo. Vi do cinque minuti per decidere. O mi macellate sei manzi o io

scateno i miei uomini. Signori, cinque minuti».

L'atterrito comitato di salute pubblica guardò i duemila vagabondi

affamati e crollò. Neanche attese lo scorrere dei cinque minuti. Non voleva

correre rischi. La macellazione dei manzi cominciò subito, e anche la

raccolta delle provviste, e l'Esercito mangiò.

Eppure i dieci sgarbati individualisti continuavano a stare in testa e a

prendere tutto quel che capitava. Ma stavolta il generale Kelly ci bloccò.

Mandò uomini a cavallo lungo le due rive, mettendo in guardia contro di noi

contadini e abitanti delle città. Fecero molto bene questo lavoro. I contadini

sinora ospitali ci fecero un'accoglienza di gelo. Non solo, chiamavano gli

sceriffi quando noi si ormeggiava a riva, e scioglievano i cani. Lo so ben io:

due cani mi presero, con il filo spinato fra me e il muro. Stavo portando due

secchi di latte per fare il caffè alla nostra maniera. Però non feci danno al

filo spinato. Solamente, il caffè dovetti farmelo alla plebea, con l'acqua, e

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dovetti anche darmi da fare per procurarmi un altro paio di pantaloni. Mi

chiedo, gentile lettore, se tu hai mai provato a saltare del filo spinato

tenendo un secchio di latte per mano. Dopo di allora ho sempre nutrito un

pregiudizio contro il filo spinato, e ho raccolto dati statistici sull'argomento.

Non potendo più condurre una vita decente fino a che il generale Kelly

tenesse due uomini a cavallo innanzi a noi, rientrammo nell'Esercito per

suscitarvi la rivoluzione. Fu cosa da poco, ma bastò a devastare la

compagnia L della Seconda Divisione. Il capitano della compagnia L si

rifiutò di riconoscerci; disse che eravamo disertori, traditori e birbanti; e

quando ebbe dall'intendenza le razioni a secco della compagnia L, non ce ne

fece parte. Quel capitano non ci voleva bene, altrimenti non ci avrebbe

rifiutato il cibo. Subito facemmo lega con il primo tenente. Venne con noi

portando dieci uomini e la sua barca e noi in cambio lo eleggemmo

capitano, della compagnia M. Il capitano della compagnia L fece un gran

baccano. Ci furono addosso il generale Kelly, il colonnello Speed e il

colonnello Baker. Ma noi resistemmo, in venti, e la nostra rivoluzione fu

ratificata.

Ma non ci curammo mai dell'intendenza. Eran migliori le razioni che i

nostri ragazzi in gamba si procuravano dai contadini. Ma il nuovo capitano

dubitava di noi. Aveva paura di perderci una volta partiti, quella mattina, e

per questo convocò un fabbro che ribadisse la sua qualità di capitano. A

prua della nostra barca, dall'una e dall'altra parte, furono saldati due pesanti

anelli di ferro, e sulla barca del capitano furono messi due grossi ganci,

sempre di ferro. Poi le due barche furono accostate, i ganci inseriti negli

anelli ed eccoci ben saldati. Non si poteva più perdere quel capitano. Ma

noialtri eravamo irreprimibili. Con le nostre stesse pastoie creammo un

artificio che ci consentì d'impastoiare ogni altra barca della flotta.

Come tutte le grandi invenzioni, anche questa nostra fu accidentale. Lo

scoprimmo urtando in un ostacolo lungo un tratto di rapida. La barca di

testa rimase incastrata e si fermò, e la barca di coda girò nella corrente,

facendo perno sulla barca di testa. Io stavo a prua della barca di coda e

tenevo il timone. Invano tentai di tenermi al largo. Allora ordinai agli

uomini della barca di testa di passare nell'altra. Subito la barca di testa si

liberò dall'incaglio e gli uomini ci tornarono a bordo. Dopo di allora ogni

tipo di ostacolo non ci fece più paura. Non appena la barca di testa urtava,

gli uomini saltavano sulla barca di coda. Naturalmente la barca di testa

superava l'ostruzione, e la barca di coda a sua volta ci andava a sbattere.

Come automi, i venti uomini dalla barca di coda saltavano su quella di testa

e toccava alla barca di coda superare a sua volta l'ostacolo.

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Le barche usate dall'Esercito erano tutte eguali, basse, tozze, piatte,

rettangolari, larghe sei piedi, profonde un piede e mezzo. Così, una volta

agganciate le nostre due barche, io me ne stavo a prua a pilotare

un'imbarcazione lunga venti piedi che conteneva venti robusti vagabondi

intenti al remo e alla pagaia, carichi di coperte, attrezzi da cucina e la nostra

intendenza privata.

Ma demmo altri guai al generale Kelly. Aveva ritirato gli uomini a

cavallo e aveva messo al loro posto tre barche poliziotte che viaggiavano in

avanguardia e non consentivano a nessuno di superarle. L'imbarcazione che

conteneva la compagnia M dava parecchio filo da torcere alle barche

poliziotte. Avremmo potuto superarle facilmente ma era contro le regole.

Per questo ci tenevamo a rispettosa distanza e si aspettava. Sapevamo che

dinanzi a noi c'era campagna vergine, generosa non ancora sfruttata;

aspettavamo. Ci serviva acqua mossa, e girando un'ansa o incontrando una

rapida sapevamo di già quel che sarebbe successo. Tonfa! La barca

poliziotta numero uno va su un masso e si blocca. Bum! La poliziotta

numero due segue l'esempio. Tum! La numero tre segue il destino comune.

Naturalmente la stessa cosa succede alla nostra barca, ma in un batter

d'occhio gli uomini della barca di testa sono sulla barca di coda; in un batter

d'occhio gli uomini della barca di. coda ritornano al posto loro e si fila via.

«Fermatevi, accidenti a voi!» gridano le barche poliziotte. «E come

possiamo, accidenti al fiume!» lamentiamo noi superandole, trascinati

dall'indomabile corrente che ci spazza via fuori di vista verso l'ospitale

campagna che rifornisce la nostra intendenza privata con il fior fiore dei

suoi doni. Ricominciamo a bere il caffè cotto nel latte e a capire che il cibo

tocca a chi se lo procura.

Povero generale Kelly! Ricorse a un altro accorgimento. Tutta quanta la

flotta ci passò avanti. La compagnia M della Seconda Divisione partì dal

posto che le spettava nella fila, cioè ultima. E bastò un giorno a ristabilire

questo ordine barchereccio, innanzi a noi, venticinque miglia di acqua

cattiva - tutta rapide, secche, ostacoli e macigni. Proprio per via di questo

tratto d'acqua gli anziani di Des Moines crollavano il capo. Quasi duecento

barche affrontarono quell'acqua innanzi a noi, e si ammucchiarono nella

maniera più sbalorditiva. Noi traversammo quella flotta bloccata come una

salamandra nel fuoco. Non c'era modo di evitare macigni, secche e ostacoli,

tranne che scendendo a riva. Noi non li evitammo. Ci andammo sopra, uno,

due, uno, due, barca di testa, barca di coda, avanti e indietro tutta la ciurma.

Quella notte ci accampammo soli e riposammo al campo tutto il giorno

dopo, mentre l'Esercito rattoppava le sue navi scassate e faticava a

raggiungerci.

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Non c'era modo di fermare la nostra malizia. Issammo un albero,

levammo una vela, cioè una coperta, e ci bastavano poche ore di viaggio per

stare in testa, mentre l'Esercito doveva sgobbare oltre l'orario per non

perderci di vista. Il generale Kelly dovette fare ricorso alla diplomazia.

Nessuna barca doveva più toccarci. Senza discussione, eravamo la ciurma

più scatenata che avesse mai navigato sul Des Moines. Fu levato il bando

delle barche poliziotte. Venne a bordo il colonnello Speed, e con questo

distinto ufficiale avemmo l'onore di arrivare prima a Keokuk sul

Mississippi. E voglio dire subito una cosa, al generale Kelly e al colonnello

Speed: eravate eroi, tutti e due, ed eravate uomini e mi dispiace, almeno al

dieci per cento, del fastidio che vi diede la barca di testa della compagnia

M.

A Keokuk tutta quanta la flotta fu legata assieme a formare un enorme

galleggiante, e dopo un giorno con il vento a spingerci, ci prese a rimorchio

un vapore e ci portò lungo il Mississippi fino a Quincy, Illinois, dove ci

accampammo sull'altra riva del fiume, all'Isola dell'Oca. Qui fu abbandonata

l'idea del galleggiante unico, le barche furono unite a gruppi di quattro, e

collegate da tavole. Qualcuno mi aveva detto che, fra le città della sua

grandezza, Quincy era la più ricca degli Stati Uniti. A sentire questo, mi

venne un impulso irresistibile a profittarne. Un vagabondo come si deve non

poteva ignorare un borgo così promettente. Traversai il fiume su una piroga,

ma ritornai da Quincy su una grossa barca fluviale, carica dei risultati della

mia intraprendenza. Naturalmente mi tenni tutto il danaro che avevo

raccolto pur pagando il nolo della barca; feci anche la mia prima scelta in

fatto di biancheria, calze, abiti usati, camicie, eccetera; e quando la

compagnia M ebbe preso tutto quel che voleva, avanzava ancora un

rispettabile mucchio che fu assegnato alla compagnia L. Ahimè, ero giovane

e prodigo a quei tempi! Raccontai un mucchio di «storie» alla brava gente

di Quincy, e ogni storia era «buona»; ma da quando scrivo sulle riviste,

rimpiango la ricchezza di queste storie, la fecondità d'invenzione che ho

sperperato in quei giorni a Quincy, Illinois.

Fu a Hannibal, Missouri, che i dieci invincibili si sfasciarono. Non era nel

programma. Insieme a un altro me ne andai di soppiatto. Lo stesso giorno

Scotty e Davy guadagnarono in tutta fretta la sponda dell'Illinois; riuscirono

ad andarsene anche McAvoy e Fish. Sono sei su dieci; quel che successe ai

restanti quattro, non lo so. Come campione di vita sulla Strada, ecco una

citazione dal diario dei giorni successivi alla mia diserzione.

«Venerdì 25 maggio. Lasciato con un compagno l'accampamento

sull'isola. Scesi sulla sponda dell'Illinois e percorsi a piedi sei miglia fino a

Fell Creek. Sei miglia fuori strada, poi trovato un carretto e su quello a

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Hull's, sullo Wabash. Incontrati McAvoy, Fish, Scotty e Davy, anche loro

venuti via dall'Esercito.

«Sabato, 26 maggio. Alle 2,11 antimeridiane preso il rapido che

rallentava a un incrocio. Scotty e Davy rimasti a terra. Noi quattro scesi a

Bluffs., quaranta miglia più avanti. Nel pomeriggio, mentre stavo

mangiando, Fish e McAvoy saliti su un merci.

«Domenica 27 maggio, Alle 3,21 preso il rapido e trovato a bordo Scotty

e Davy. All'alba scesi tutti a Jacksonville. Ci passa il treno, e intendiamo

prenderlo. Il mio compagno se ne va, e non ritorna. Immagino che abbia

preso il merci.

«Lunedì 28 maggio. Il compagno scomparso non si fa vivo. Scotty e

Davy andati da qualche parte a dormire, e non ritornano in tempo per

prendere il passeggeri delle 3,30. Io lo prendo e vado fino a Masson City,

25000 abitanti. Preso un treno-bestiame e viaggiato tutta la notte.

«Martedì 29 maggio. Arrivato a Chicago alle 7 antimeridiane.. .».

Anni dopo, in Cina, ebbi il dolore di apprendere che il trucco da noi

escogitato per navigare sulle rapide del Des Moines - il sistema uno-due,

testa-coda - non era affatto originale. Appresi che da migliaia d'anni i

barcaioli di fiume cinesi ricorrevano allo stesso sistema nell'affrontare

«acque cattive». Fu però pur sempre una buona trovata, anche se non

fummo noi i primi a ricorrervi. Risponde alla prova della verità del dottor

Jordan: «Funzionerà? Ci affideresti la vita?»

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FIGURE

"What do it matter where or 'ow we die,

So long as we've our ealth to watch it all?"

Sestina del "Tramp Royal"

[Che cosa importa come o dove si muore

finché c'è la salute che provvede?]

Il maggior fascino della vita d'un vagabondo sta forse nell'assenza di

monotonia. Nella terra del vagabondo il volto della vita è proteico - una

fantasmagoria che muta di continuo, dove accade l'impossibile, e l'inatteso

balza su dalla macchia a ogni svolta della strada. Il vagabondo non sa mai

quel che può succedere fra un istante: perciò vive solo nel presente. Ha

imparato quanto sia futile proporsi un fine, e sa la gioia del lasciarsi andare

ai capricci del Caso.

Spesso ripenso ai giorni del mio vagabondare e sempre mi stupisce la

rapida successione di immagini che mi balzano nella memoria. Non importa

da dove comincia il mio pensiero; ogni giorno, fra tutti i giorni, è un giorno

a parte, con una provvista tutta sua di figure in rapido movimento. Per

esempio, ricordo una mattinata estiva a Harrisburg, Pennsylvania, e subito

mi viene alla mente quel beneaugurante inizio della giornata, una seduta con

due anziane signorine, e non in cucina, ma nel tinello, con loro a tavola

accanto a me. Mangiammo uova, sull'apposito portauova! Non mi era mai

capitato prima, neanche avevo mai sentito parlarne. Da principio ero un po'

impacciato, lo confesso; ma avevo fame e non mi vergognavo. Riuscii a

dominare il portauovo, e anche le uova in una maniera che stupì un poco le

due signorine.

Perché le due signorine mangiarono come due canarini, un uovo per una

che mordevano a bocconcini e la stessa cosa facevano con la fettina di pane

tostato. Nei loro corpi scorreva lenta la vita, il sangue era sottile; e avevano

dormito al caldo, tutta la notte. Io invece avevo trascorso la notte fuori,

consumando molto combustibile del mio corpo per tenermi caldo,

andandomene da un posto chiamato Emporium, nella parte settentrionale

dello stato. Fettine di pane tostato! Ciascuna fettina per me era un boccone,

appena appena un morso. E' noioso dover tendere la mano per pigliare

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un'altra fettina, quando sono tanto numerosi i bocconi che senti di poter

mandare giù.

Quando ero un ragazzo piccolo, avevo un cagnolino chiamato Punch. Gli

davo da mangiare io stesso. Qualcuno in casa aveva ucciso delle anatre e si

fece un bel pasto di carne. Finito di mangiare, preparai per Punch - un bel

piatto di ossa e di bocconcini. Uscii per darglielo. Ora volle il caso che fosse

venuto in visita un tale da una fattoria vicina e con lui era venuto un

Terranova così grosso che pareva un vitello. Posai il piatto per terra. Punch

scodinzolò e prese a mangiare. Aveva dinanzi a sé almeno una mezz'ora di

felicità. Ci fu un improvviso accorrere. Punch fu spazzato via come un

fuscello da un ciclone, e il Terranova piombò sul piatto. Nonostante il suo

stomaco enorme, dovevano averlo allenato a mangiare in fretta perché, in

quell'attimo prima di prendersi un calcio nelle costole che gli diedi io, fece

fuori l'intero contenuto del piatto. Ripulito, completamente. Un'ultima

linguata e persino il grasso scomparve.

Come questo Terranova si comportò al piatto del mio cagnolino Punch,

così io mi comportai alla tavola di quelle due signorine di Harrisburg. La

ripulii. Non ruppi nulla, ma spazzai via uova, pan tostato e caffè. La serva

ne portò ancora, ma io le diedi molto da fare, perché ne dovette portare di

nuovo, e poi dell'altro. Il caffè era molto delizioso, ma non avrebbero

dovuto servirlo in tazze così piccole. Che tempo avevo di mangiare se ci

voleva tanto a preparare tante tazzine di caffè?

In ogni modo diedi alla mia lingua il tempo per muoversi. Quelle due

signorine, con la loro carnagione bianca e rosea e i riccioli grigi, non

avevano mai guardato il viso lucido dell'avventura. Avevano trascorso

un'intera vita facendo sempre lo stesso turno, per dirla nel linguaggio di

noialtri vagabondi. Nel profumo dolciastro e negli angusti confini della loro

esistenza senza fatti, io recavo l'aria vasta del mondo, carica di odori forti,

di sudore, di lotta, di terre strane, lontane. E graffiavo le loro mani morbide

con calli delle mani mie, quel callo erto che viene dal maneggio della fune e

della pala. E questo io feci, non soltanto per una spacconeria di gioventù,

ma per provare, a lavoro compiuto, il diritto che avevo a ricevere la loro

carità.

Ah, mi par di rivederle quelle care, dolci signorine, con me seduto alla

loro tavola dodici anni or sono, a discorrere della mia posizione nel mondo,

a ignorare il loro gentile consiglio, come si conveniva a un tipo diabolico

quale ero io, a farle emozionare non soltanto con il racconto delle mie

avventure, m a anche con le avventure di tutti gli altri con cui mi ero trovato

spalla a spalla, e di cui avevo goduto la confidenza. Me l'ero fatte tutte mie,

le avventure degli altri, voglio dire; e se le due brave zitelle fossero state

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meno fiduciose e sprovvedute, avrebbero potuto incastrarmi benissimo nella

mia cronologia. Bene, bene e allora? Era un giusto baratto. Io rendevo a

prezzo pieno le molte tazzine di caffè, e le uova e il pan tostato. Offrivo loro

uno spasso degno d'una regina. Il semplice fatto di avermi seduto alla loro

tavola era un'avventura, e un'avventura non ha prezzo, in ogni caso.

Dopo aver lasciato le due zitelle, mentre percorrevo la strada, presi il

giornale da sopra la soglia di qualcuno che si alzava tardi, e in un parco

erboso mi distesi per entrare in contatto con le ultime ventiquattro ore del

mondo. E proprio nel parco conobbi un altro vagabondo che mi raccontò la

storia della sua vita e cercò di farmi arruolare nell'Esercito degli Stati Uniti.

Lui aveva ceduto all'ufficiale addetto al reclutamento e stava per entrare

nell'Esercito, e non capiva perché non potessi fare anch'io la stessa cosa.

Aveva fatto parte dell'Esercito di Coxey nella marcia su Washington di

diversi mesi prima, e questo sembrava aver fatto sorgere in lui il gusto della

vita militare. Anch'io ero un veterano: non ero forse stato soldato semplice

alla compagnia L della Seconda Divisione dell'Esercito Industriale di Kelly?

La suddetta compagnia era comunemente nota sotto il nome di «Spinta del

Nevada». Ma l'esperienza militare aveva avuto su di me l'effetto opposto;

perciò lasciai che quel vagabondo se ne andasse per i fatti suoi, mentre io

cercavo di procurarmi da cenare.

Fatto questo, mi accinsi a superare il ponte sul Susquehanna, verso la riva

occidentale. Ho dimenticato il nome della ferrovia che correva su quella

riva, ma una mattina che me ne stavo disteso sull'erba mi venne l'idea di

andare a Baltimore; dunque a Baltimore stavo andando su quella ferrovia,

comunque si chiamasse. Era un pomeriggio caldo, e proprio sul ponte vidi

diverse persone che si buttavano in acqua dai piloni, per nuotare. Giù i

panni e dentro anch'io. L'acqua era bellissima; ma quando uscii per

rivestirmi mi accorsi che mi avevano derubato. Qualcuno mi aveva

ripassato i panni. Ora ditemi voi se essere derubato è un'avventura. Ho

conosciuto uomini che, derubati, han continuato a parlarne per tutta la vita.

Certo, il ladro che mi ripassò i panni non ne ricavò molto - trenta o quaranta

centesimi in spiccioli, il tabacco e le cartine per le sigarette; ma io non

avevo altro, cioè il ladro mi aveva tolto più di quanto si possa rubare alla

maggioranza degli uomini, perché gli uomini, gli altri, hanno sempre

qualcosa d'avanzo a casa, mentre io non avevo neanche una casa. Era una

banda piuttosto dura quella intenta al nuoto. Mi feci coraggio, e mi guardai

bene dal lamentarmi. Chiesi da fumare, e giuro che era delle mie la cartina

in cui arrotolai il tabacco.

Traversato il ponte fui sulla riva occidentale, dove correva la ferrovia che

intendevo prendere. Non c'era stazione in vista. Come prendere un merci

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senza prima raggiungere una stazione, ecco il problema. Notai che la

ferrovia s'impennava in salita, e sapevo che un merci non poteva affrontarla

a grande velocità. Ma a quale velocità? Sul lato opposto della ferrovia

sorgeva un alto argine. Proprio in cima, vidi sporgere la testa di un uomo.

Forse lui sapeva a che velocità i treni affrontavano la salita, e quando

sarebbe passato il prossimo diretto al sud. Gli gridai le mie domande e lui

mi fece cenno di salire.

Obbedii, e quando fui in cima, trovai quattro altri uomini distesi nell'erba

con lui. Studiai la scena e capii quello che erano: zingari americani. Nello

spiazzo che si stendeva fra gli alberi, oltre il bordo dell'argine, vi erano

diversi carri assortiti. Brulicavano nell'accampamento bambini laceri e

seminudi, ma io notai che stavano ben attenti a non avvicinarsi e a non

infastidire gli uomini. Diverse donne scarne, brutte, disfatte dal lavoro

trafficavano nelle faccende del campo e notai una che se ne stava sola sul

sedile d'uno dei carri, la testa piegata in avanti, le ginocchia contratte verso

il mento, tenute fiaccamente fra le braccia. Non aveva un'aria felice.

Sembrava anzi che non le importasse di nulla, e in questo mi sbagliavo,

perché seppi poi che di una cosa le importava. Nel suo viso si leggeva la

misura piena della sofferenza umana e c'era in più l'espressione tragica

dell'incapacità di soffrire ancora. Niente poteva più ferirla, questa sembrava

dire il suo viso; ma anche in questo mi sbagliavo.

Giacevo sull'erba, in cima all'argine e parlavo con questi uomini. Erano

parenti, fratelli. Io ero un vagabondo americano, ed essi erano zingari

americani. Conoscevo il loro gergo quanto bastava per conversare, ed essi

conoscevano il gergo mio. Nel loro gruppo c'erano altri due uomini, al di là

del fiume, a dar spettacolo di sé come fachiri iteranti. Chi fa questo

mestiere, in gergo si chiama «musher»; ma non bisogna confondere questo

«musher» zingaro con il «musher» del Klondike, anche se all'origine la

parola è forse la stessa, una corruzione del francese "marcher", che significa

appunto marciare, camminare, iterare. Il particolare mestiere di quei due

«musher» di là dal fiume era la riparazione degli ombrelli; ma non mi fu

detto quale altra abilità si nascondesse dietro questo mestiere ufficiale, e

non sarebbe stato corretto chiedere di più.

Era una splendida giornata. Non spirava un alito di vento, e noi ci

godevamo il calore vibrante del sole. Da ogni parte sorgeva il sonnolento

ronzio degli insetti, e l'aria balsamica era piena degli odori della dolce terra

e delle creature verdi che crescevano. Eravamo troppo impigriti per fare

altro che conversare ininterrottamente, a voce bassa. E poi, all'improvviso,

la pace e il silenzio furono stravolti dall'uomo.

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Due ragazzini di otto o nove anni, scalzi, eran venuti meno a qualche

regola del campo - che cosa fosse non so; e un uomo disteso accanto a me si

levò a sedere all'improvviso e li chiamò. Era il capo della tribù, un uomo

dalla fronte stretta, gli occhi a mandorla, le labbra sottili, i tratti del viso

contorti e sardonici, i quali spiegavano perché al suono della sua voce i due

ragazzi presero a saltare, tesi come un cervo impaurito. Si leggeva loro in

viso la paura allarmata e terrorizzati si volsero per scappare. Gridò loro di

tornare indietro, e un ragazzo ubbidì, riluttante, il corpo scarno che pareva

voler rappresentare la sua lotta interiore fra paura e ragione. Voleva

ritornare. L'intelligenza e l'esperienza passata gli dicevano che tornare

indietro era minor male che fuggire; ma per quanto il male fosse minore, era

pur sempre tale da mettere le ali alla sua paura e da spingere i suoi piedi alla

fuga.

Indugiava, si dibatteva fino a che non fu giunto al riparo dagli alberi. Lì si

fermò. Il capo della tribù non gli andò dietro. Saltò sopra un carro e prese

una frusta pesante. Poi ritornò al centro dello spiazzo e ci rimase immobile.

Non parlava. Non faceva gesti. Era la Legge, spietata e onnipotente. Si

limitava a stare lì in piedi, aspettando. E io sapevo, lo sapevano tutti, che i

due ragazzi al riparo degli alberi erano consapevoli di che cosa egli

aspettasse.

Il ragazzo che prima indugiava ora lentamente si fece avanti. Gli si

leggeva in viso una vibrante risoluzione. Non vacillò. Aveva deciso di

ricevere il castigo. E badate bene, il castigo non era per l'infrazione

originaria, ma per essere fuggito. E in questo il capo della tribù si

comportava come si comporta l'esaltata società in cui egli vive. Noi

puniamo i nostri criminali, e quando scappano e fuggono via, andiamo a

riprenderli e il castigo aumenta.

Il ragazzo venne diritto incontro al capo, fermandosi alla distanza giusta

per la portata della frusta. La frusta sibilò nell'aria e io rimasi sorpreso per la

gravità del colpo. La carne si fece bianca dove il flagello aveva morso, e

poi, al posto del bianco ecco il lividore da cui gocciava sangue scarlatto

dove la pelle si era rotta. Di nuovo si levò la frusta e l'intero corpo del

ragazzo ebbe un tremito nell'attesa del colpo, anche se egli non si mosse da

dov'era. La sua volontà reggeva bene. Sorse un secondo livido, poi un terzo.

Solo al quarto colpo il ragazzo strillò. E non riusciva più a stare immobile, e

da quel momento, colpo dopo colpo, saltava strillando; ma non fece alcun

tentativo di fuggire. Se quell'involontario saltellio lo metteva fuori della

portata della frusta, lui badava bene a rientrarci. E quando fu tutto finito -

una dozzina di colpi - se ne andò, gemendo e frignando, fra i carri.

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Il capo restò immobile, in attesa. Uscì da sotto gli alberi il secondo

ragazzo. Ma questo non venne avanti diritto. Venne come un cane umiliato,

ossesso da una paura che gli fece azzardare qualche passo di fuga. Ma

ritornò, avvicinandosi sempre di più all'uomo, gemendo, emettendo versi

con la gola, versi animaleschi, inarticolati. Mi accorsi che non guardava mai

l'uomo. Teneva gli occhi sempre fissi sulla frusta, e in quegli occhi c'era un

terrore che mi faceva star male - il terrore folle di un ragazzo trattato

incredibilmente male. Ho visto uomini forti crollare di qua e di là fuor della

battaglia e agitarsi nei rantoli della morte, li ho visti a decine squassati per

aria dalle granate esplosive, e, i loro corpi squarciati; credetemi, quello

spettacolo era allegro, da ridere e da cantare, in confronto al modo in cui mi

colpì la vista di quel povero bambino.

Cominciò la fustigazione. Confrontata a questa, la fustigazione del primo

ragazzo era stata uno scherzo. Subito il sangue cominciò a ruscellargli giù

per le gambe sottili. Saltava e si contraeva fino a sembrare una sorta di

grottesca marionetta azionata dai fili. Dico «sembrare» perché gli urli

smentivano quest'apparenza e riportavano alla realtà. I suoi urli erano

striduli, laceranti; mai una nota rauca, solo la sottile asessualità che ha la

voce di un bimbo. Venne il momento che il poveretto non ne poté più. Perse

la ragione e tentò di fuggire. Ma stavolta l'uomo gli andò dietro a

riprenderlo, a riportarlo sullo spiazzo.

Poi ci fu un'interruzione. Sentii uno urlo strozzato, selvaggio. La donna

seduta sul carro era scesa e correva a interporsi. Balzò fra l'uomo e il

ragazzo.

«Ne vuoi anche tu, vero?» disse l'uomo con la frusta. «Va bene, allora».

Vibrò la frusta contro di lei. Siccome aveva la gonna lunga, non tentò di

colpirla alle gambe. Le diede il flagello sul viso, che lei cercava di riparare

come meglio poteva, con le mani e con gli avambracci, ritraendo la testa fra

le spalle scarne, e sulle spalle riceveva i colpi. Madre eroica! Sapeva quel

che stava facendo. Il ragazzo, che continuava a strillare, fuggiva adesso

verso i carri.

E mentre questo accadeva i quattro uomini giacevano accanto a me senza

muovere un dito. E neanch'io mi mossi, e lo dico senza vergogna, anche se

la mia ragione era costretta a combattere duramente contro l'impulso

naturale a levarmi per intervenire. Conoscevo la vita. Quale vantaggio per la

donna, o per me, lasciarmi pestare a morte da cinque uomini lì sulla riva del

Susquehanna? Una volta vidi impiccare un uomo e per quanto l'anima mia

urlasse la sua protesta, la mia bocca non gridava. Se lo avesse fatto, molto

probabilmente avrei avuto il cranio schiacciato dal calcio di una rivoltella,

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perché era legge che quell'uomo venisse impiccato. E qui, in questo gruppo

di zingari, voleva la legge che quella donna venisse frustata.

Ma anche così il motivo per cui, nell'uno e nell'altro caso, io non

intervenni, non fu ciò che ho detto, e cioè che tanto voleva la legge. No, il

motivo vero fu che la legge era più forte di me. Se non fosse stato per quei

quattro uomini accanto a me sull'erba, molto volentieri sarei accorso contro

l'uomo con la frusta. E, se escludiamo la possibilità che mi si avventasse

contro una delle varie donne del campo, in mano un coltello o un bastone,

sono sicuro che lo avrei conciato a dovere, quell'uomo. Ma con quei quattro

stesi sull'erba, per me non c'era proprio nulla da fare. Erano loro a fare la

legge più forte di me.

Ah, credetemi, soffrii. Avevo già visto picchiare una donna, spesso, ma

non avevo mai assistito a uno strazio come questo. Sulle spalle il vestito era

ridotto in brandelli. Un colpo sfuggito alla sua guardia le aveva disegnato in

faccia un livido sanguinante, dal mento alla guancia. Non un colpo, non

due, non dieci, non venti, ma interminabili, infiniti i colpi di frusta

cadevano, s'attorcigliavano attorno a lei. Ero in un bagno di sudore,

ansimavo, con le mani stringevo l'erba così forte che la sradicai. E di

continuo la mia ragione continuava a sussurrare: «Pazzo! Pazzo!» Quel

livido in faccia quasi mi fece scattare. Accennai ad alzarmi in piedi, ma la

mano dell'uomo accanto a me mi si posò su una spalla e mi costrinse a star

giù..

«Calma, amico, calma» mi avvertì a bassa voce. Lo guardai. I suoi occhi

mi fissavano senza vacillare. Era un uomo grosso, largo di spalle e forte di

muscolatura; e il suo viso era pigro, flemmatico, indolente, ma anche

gentile, seppure senza passione, quasi senz'anima, un'anima fioca, senza

malizia, senza morale, bovina, ostinata. Era un animale, con appena un

bagliore d'intelligenza, un bruto bonario con la forza e il calibro mentale di

un gorilla. Premette leggermente la mano su di me e io sentivo il peso dei

suoi muscoli. Guardai gli altri bruti, due dei quali imperturbati, senza alcuna

curiosità, mentre il terzo si godeva lo spettacolo; allora mi ritornò la

ragione, i miei muscoli si rilassarono e mi lasciai di nuovo andare sull'erba.

Tornai con la mente alle due zitelle con cui avevo fatto colazione al

mattino. Meno di due miglia, il volo di un corvo, mi separavano da loro.

Qui, nella giornata senza vento, sotto il sole benefico, una sorella di quelle

due donne veniva percossa da un mio fratello. Ecco una pagina di vita che

quelle due donne non avrebbero mai visto, e meglio così; anche se, non

vedendo, mai avrebbero potuto sapere che cosa sia l'amore per una sorella,

mai avrebbero conosciuto di che argilla può essere fatta una donna. Perché

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non è dato, a nessuna donna, di vivere in una casa angusta e profumata ed

essere al tempo stesso sorella di tutto il mondo.

La fustigazione era finita, e la donna, che non urlava più, tornò a sedersi

sul carro. Le altre donne non le si avvicinarono. Avevano paura. Ma

vennero più tardi, dopo che fu trascorso un giusto intervallo. L'uomo ripose

la frusta e tornò fra noi, buttandosi a terra vicino a me. La fatica gli dava un

respiro ansante. Con la manica della giubba si asciugò il sudore dagli occhi,

e mi guardò con aria di sfida. Ricambiai lo sguardo; quello che aveva fatto

non mi riguardava. Non me ne andai subito. Rimasi lì disteso per un'altra

mezz'ora: in tali circostanze così voleva l'etichetta, il tatto. Mi arrotolai una

sigaretta col tabacco che mi diedero loro, poi presi giù per l'argine della

ferrovia, fornito ormai delle informazioni necessarie per prendere il

prossimo merci diretto al sud.

Ebbene, che cosa? Una pagina di vita, ecco tutto; e ci sono molte pagine

peggiori, assai peggiori, che ho visto. Spesso ho sostenuto (con l'aria di

scherzare, credeva chi mi ascoltava) che il tratto principale che distingue

l'uomo dagli altri animali è questo: l'uomo è il solo a maltrattare le femmine

della sua specie. Ecco una cosa di cui mai si rende colpevole un lupo, o un

coyote. Neppure il cane, degenerato dall'essere addomesticato, fa una cosa

simile. In questo il cane conserva gli istinti selvatici, mentre l'uomo i suoi

istinti selvatici li ha in larga misura persi o, per lo meno, ha perso quelli

buoni.

Pagine peggiori, nella mia vita, di questa che ho descritto? Leggete i

rapporti sul lavoro infantile negli Stati Uniti - a est, a ovest, a nord, a sud,

dovunque - e saprete che tutti noi, profittatori come siamo, abbiamo

composto e scritto le peggiori pagine, molto peggiori che la fustigazione di

quella donna sul Susquehanna.

Andai avanti un cento passi, a un punto donde era più facile salire sul

treno. Lì avrei preso il merci nel momento in cui rallentava sulla salita, e qui

trovai una decina di vagabondi che intendevano fare la stessa cosa. Diversi

giocavano a sette e mezzo con un vecchio mazzo di carte. Ci partecipai

anch'io. Uno scozzava il mazzo. Un negro. Era grasso, giovane, con una

faccia di luna piena. Sorrideva bonario. Un sorriso che gli veniva spontaneo.

Dandomi la prima carta, si fermò un momento e disse:

«Senti, ma non t'ho già visto?»

«Certo», risposi. «E non avevi addosso quei panni lì».

Rimase perplesso.

«Ti rammenti di Buffalo?» chiesi.

Allora mi riconobbe, e ridendo mi salutò come un vecchio compagno;

infatti a Buffalo gli avevano messi i panni a strisce per un certo periodo nel

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Penitenziario della contea di Erie. Per questo, anche a me era successo lo

stesso scherzo, per un po' di tempo.

Il gioco continuava e io seppi qual era la posta. Giù per riva, verso il

fiume, scendeva un sentiero stretto e ripido che portava a una sorgente. Noi

giocavamo sulla riva, chi perdeva doveva andare alla sorgente con un

barattolo di latte condensato, a prendere acqua per i vincitori.

Alla prima mano lo sconfitto fu il negro, quello che serviva. Prese il suo

barattolo e scese giù per la riva, mentre noi restammo lì a prenderlo in giro.

Bevemmo come pesci. Quattro viaggi dovette fare soltanto per me, e gli

altri esagerarono anche loro, con la sete. Il sentiero era molto ripido e

qualche volta il poveretto scivolò nel risalire, versando l'acqua, e dovette

tornare giù a prenderne ancora. Ma non si arrabbiò, anzi rideva di cuore,

come ridevamo noi; e proprio per questo scivolava tanto spesso. E poi ci

andava assicurando circa le immense quantità di acqua che avrebbe bevuto

quando toccasse di perdere a un altro.

Calmata la nostra sete, cominciò un'altra partita. Perse daccapo il negro, e

daccapo noi bevemmo a sazietà. La terza e la quarta partita finirono allo

stesso modo, e ogni volta il negro dalla faccia di luna piena quasi scoppiava

di gioia al pensiero della sorte che il Caso gli riserbava. E anche noi quasi

scoppiammo di gioia. Ridevamo come tanti ragazzi, come tanti dèi, lì sulla

riva del fiume. So di aver riso tanto che a un certo punto stava per

scoperchiarmisi la testa, e bevvi da quel barattolo fino a gonfiarmi la pancia

d'acqua. Poi sorse una discussione grave: su chi sarebbe riuscito a salire sul

merci, non appena rallentasse per via della salita, con il peso di tutta l'acqua

che avevamo in corpo. E questo particolare della situazione mise il negro

fuori combattimento. Per almeno cinque minuti dovette smetterla di portare

acqua, e si rotolava per terra dal gran ridere.

Sul fiume le ombre si facevano sempre più lunghe, venne il crepuscolo

morbido e fresco, e noi dagli a bere acqua, e il nostro coppiere color

dell'ebano continuava a portarcene. Già scordata la donna percossa di un'ora

fa. Quella era una pagina letta e voltata; adesso avevo da fare con questa

pagina nuova, e al fischio della locomotiva su per la salita, sarebbe finita

anche questa pagina, per fare posto a un'altra; e così va avanti il libro della

vita, pagina dopo pagina, pagine a non finire. Quando uno è giovane.

Poi facemmo un altro gioco, e stavolta il negro non perse. La vittima era

un vagabondo magro dall'aria dispeptica, quello che fra tutti aveva riso di

meno. Dicemmo che non volevamo più acqua, ed era poi la verità. Neanche

tutta la ricchezza di questo mondo, neanche un maglio pneumatico avrebbe

potuto costringerci a mandarne giù una goccia ancora. Ormai la mia

carcassa ne era satura. Il negro parve dispiaciuto, poi colse l'occasione e

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disse che lui ne voleva. E diceva sul serio. Ne ebbe, poi ancora, poi ancora.

Anche il vagabondo malinconico andò su e giù per la riva, e ogni volta il

negro chiedeva altra acqua. Bevve più acqua lui di tutti gli altri messi

insieme. Il crepuscolo sfumava a poco a poco nella notte, e quello

continuava a bere. Credo che se non si fosse sentito il fischio della

locomotiva, sarebbe ancora lì a mandar giù acqua e a vendicarsi sul

malinconico vagabondo, su e giù per la riva.

Invece si udì il fischio. La pagina era chiusa. Balzammo in piedi e ci

disponemmo lungo il binario. Il merci arrivò tossendo e sputazzando su per

la salita, coi fari che trasformavano la notte in giorno e disegnavano nette le

nostre figure. Passò la locomotiva, e tutti noi correvamo insieme al treno,

alcuni montando sui predellini, altri balzando sui carri vuoti. Io montai su

un pianale mezzo carico di legname e mi trovai un angolino comodo.

Giacqui supino, con il giornale sotto la testa, come cuscino. Sopra di me le

stelle ammiccavano e ruotavano, a squadroni, avanti e indietro, ogni volta

che il treno prendeva una curva, e guardando le stelle m'addormentai. La

giornata era finita, una mia giornata fra tante giornate. Domani sarebbe stato

un altro giorno. E io ero giovane.

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TORI

Se il vagabondo dovesse all'improvviso sparire dagli Stati Uniti, ne

seguirebbe diffusa miseria per molte famiglie. Il vagabondo infatti permette

a migliaia di uomini di guadagnarsi onestamente da vivere, di educare i

propri figli, di allevarli nel timore di Dio, nell'industriosità. Lo so. Un

tempo mio padre fu sceriffo e per vivere dava la caccia ai vagabondi. La

comunità gli pagava un tanto a testa per tutti i vagabondi che prendeva, e

credo anche che prendesse una certa somma per ogni miglio percorso. Modi

e mezzi erano sempre, in casa nostra, un problema pressante, e la quantità di

carne a tavola, il paio di scarpe nuove, la passeggiata quotidiana, il libro di

testo scolastico, tutto dipendeva dalla fortuna di mio padre, nella caccia. Io

rammento l'ansia repressa e l'attesa con cui ogni mattina desideravamo

sapere quali erano stati i risultati della fatica della scorsa notte - quanti

vagabondi aveva messo assieme e quante possibilità c'erano di farli

condannare. Fu proprio grazie a questo che in seguito, fattomi vagabondo

anch'io, riuscii a sfuggire a qualche sceriffo predace, e non riuscivo a non

provare tristezza per i ragazzi e le ragazze in casa di quello sceriffo; pareva

a me, in un certo senso, di aver defraudato questi piccoli di qualcuna fra le

cose buone della vita.

Ma è tutto nel gioco. Il vagabondo sfida la società e i cani da guardia

della società campano su di lui. A certi vagabondi piace farsi prendere dai

cani da guardia, specialmente d'inverno. Certo, i vagabondi si scelgono, per

ciò fare, una comunità dove le prigioni siano «buone», e cioè prigioni dove

non si lavori, e il rancio sia sostanzioso. Ci sono anche stati, e forse ci sono

ancora, tutori dell'ordine i quali dividono la taglia coi vagabondi che hanno

arrestato. Sceriffi di questo tipo non hanno neanche più bisogno di mettersi

in caccia. Un fischio e il gioco gli è alla mano. E' sorprendente la quantità di

soldi che si possono fare sui vagabondi. In tutto il Sud, al tempo del mio

vagabondare, ci sono campi di prigionia e piantagioni, dove i proprietari

acquistano il tempo dei vagabondi condannati, e dove i vagabondi debbono

lavorare. Ci sono posti come le cave di Rutland, nel Vermont, dove si

sfruttano i vagabondi, dove l'energia immeritata che essi hanno in corpo,

messa assieme a forza di non fare nulla, viene estratta a beneficio di quella

particolare comunità.

Ora, io non so nulla delle cave di Rutland, Vermont. Sono molto contento

di non saperne nulla, quando rammento che per poco non ci finii anch'io. I

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vagabondi si passano la parola, e di quelle cave sentii parlare, per la prima

volta, mentre ero nell'Indiana. Ma quando arrivai nel New Erigland ne

sentivo parlare ormai continuamente, e sempre con un grande agitar di

segnali di pericolo. «Vogliono uomini per le cave», dicevano i vagabondi di

passaggio. «E non danno mai meno di novanta giorni». Quando arrivai nel

New Hampshire sapevo tutto su queste cave ed evitavo i guardiani della

ferrovia, i «tori» e gli sceriffi come mai avevo fatto prima.

Una sera andai al deposito delle ferrovie di Concord e trovai un merci già

composto e pronto a partire. Avvistai un vagone vuoto, aprii la porta

scorrevole, entrai. Era mia speranza superare il Fiume Bianco, l'indomani

mattina; così sarei entrato nel Vermont a non più di mille miglia da Rutland.

Ma poi, avanzando sempre più verso il nord, sarebbe aumentata la distanza

fra me e il punto pericoloso. Sul vagone trovai un «gatto allegro» che

mostrò insolita trepidazione al mio ingresso. Mi aveva scambiato per un

frenatore, e quando seppe che ero soltanto un vagabondo, attaccò a parlare

delle cave di Rutland quale causa della paura che avevo suscitato in lui. Era

un giovane campagnolo e sinora aveva fatto solo brevi viaggi locali.

Il merci si mosse, noi ci stendemmo in un angolo e ci addormentammo.

Un paio d'ore dopo, a una fermata, fui destato dal rumore della porta di

destra che si apriva lentamente. Il «gatto allegro» dormiva. Io non mi mossi,

anche se abbassai le palpebre lasciando agli occhi appena una fessura da cui

guardare. Dalla porta fu spinta una lanterna, seguita da una testa. L'uomo ci

scoprì e per un istante stette a guardarci. Mi aspettavo una violenta

espressione da parte sua, o il consueto: «Giù di lì, figlio d'un rospo!» E

invece l'uomo (era un frenatore) cautamente richiuse la porta piano piano.

Questo a me parve molto insolito e sospettoso. Ascoltai e sentii il

chiavistello che andava al suo posto. La porta era serrata da fuori. Non

potevamo più aprirla da dentro. Una rapida via d'uscita dal vagone ci era

preclusa. Attesi qualche secondo, poi andai alla porta di sinistra e la saggiai.

Non era ancora serrata. L'aprii, calai a terra, me la chiusi alle spalle. Poi,

passando fra i respingenti fui sull'altro lato del treno. Aprii la porta che

l'uomo aveva chiuso, salii, e richiusi alle mie spalle. Adesso le due entrate

erano accessibili. Il «gatto allegro» continuava a dormire.

Il treno si mosse. Arrivò alla successiva fermata. Sentii passi sulla ghiaia.

Poi la porta di sinistra si aprì fragorosamente. Il «gatto allegro» si destò, io

feci finta di destarmi; ci tirammo su a sedere guardando l'uomo e la sua

lanterna. Non sprecò tempo, passò subito al sodo.

«Voglio tre dollari», disse.

Noi ci alzammo in piedi e ci avvicinammo a lui, per conferire.

Esprimemmo la nostra assoluta e devota, disposizione a dargli i tre dollari,

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ma gli spiegammo anche che la nostra maledetta malasorte imponeva che

questo desiderio restasse insoddisfatto. Il frenatore non ci credeva. Cercò di

trattare. Si sarebbe contentato anche di due dollari. Noi lamentammo la

nostra condizione di povertà. Lui disse cose poco complimentose, ci chiamò

figli d'un rospo, ci mandò all'inferno e più in là. Poi passò alle minacce.

Spiegò che se noi non accettavamo, lui era pronto a chiuderci dentro e

portarci fino al Fiume Bianco, e poi consegnarci alle autorità. Ci spiegò

inoltre tutto, sulle cave di Rutland.

Quest'uomo pensava di averci in pugno. Non stava forse a guardia

dell'unica porta, non aveva forse chiusa lui personalmente la porta opposta

pochi minuti prima? Fece una gran risata. «Non c'è fretta», disse. «Ho

chiuso quella porta dal difuori, alla fermata precedente». Era così implicita

la convinzione che la porta fosse chiusa dal difuori che le sue parole

suonavano convincenti. Il «gatto allegro» infatti ci credette e disperò.

L'uomo pronunciò il suo ultimatum. O noi si tirava fuori due dollari, o lui

ci chiudeva e ci consegnava allo sceriffo di Fiume Bianco - ciò che

significava novanta giorni e le cave. Ora, gentile lettore, supponi che l'altra

porta fosse stata davvero serrata. Guarda la precarietà della vita umana. Per

la mancanza di un dollaro, io sarei andato alle cave e avrei fatto tre mesi lo

schiavo. E lo stesso il «gatto allegro». Forse dopo quei tre mesi sarebbe

uscito marcato per tutta la vita, al delitto. E in seguito ti avrebbe magari

rotto il cranio, il cranio tuo, con uno sfollagente, nel tentativo

d'impossessarsi del danaro esistente sulla tua persona - e se non il tuo

cranio, allora il cranio di qualche creatura povera e inoffensiva.

Ma la porta non era serrata, e io soltanto lo sapevo. Insieme al «gatto

allegro» chiesi misericordia. Mi unii alle suppliche e ai lamenti per pura

malignità, immagino. Ma feci del mio meglio. Raccontai una «storia» che

avrebbe sciolto il cuore di qualsiasi brutto ceffo; ma non bastò a sciogliere il

cuore di questo arraffatore di quattrini. Quando si fu convinto che non

avevamo soldi, chiuse la porta e la serrò, poi attese un momento, caso mai

noi l'avessimo ingannato e ci decidessimo a dargli i due dollari.

A questo punto io mi volli sfogare. Lo chiamai figlio d'un rospo. Lo

chiamai anche con altri nomi che lui aveva dato a me. E poi ci aggiunsi

qualche cosina di mio. Io venivo dall'Ovest, dove gli uomini san dire le

parolacce, e non volevo permettere che questa mezza cartuccia d'un

tanghero del New England mi superasse in vivezza e vigore espressivo. Da

principio quello cercò di buttarla in ridere. Poi fece lo sbaglio di tentar di

replicare. Io gliene dissi qualcun'altra ancora, gli levai per così dire la pelle

e gli ci strofinai sopra qualche alato e fiammante epiteto; ero pieno di

sdegno contro questa creatura meschina, la quale, mancandomi un dollaro,

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era pronta a consegnarmi a tre mesi di schiavitù. E poi, mi si era insinuata

nella mente l'idea che prendesse una parte dei soldi assegnati allo sceriffo.

Ma lo fregai. La lacerazione nei suoi sentimenti valeva diversi dollari.

Tentò di spaventarmi minacciando di venirmi addosso e di pestarmi a calci.

In cambio io gli promisi una pedata in faccia mentre saliva. Io avevo il

vantaggio della posizione, e lui lo vedeva. Perciò tenne la porta chiusa e

chiese aiuto dal resto del personale del treno. Li sentivo rispondere e pestare

la ghiaia, incontro a lui. E intanto l'altra porta non era serrata, e loro non lo

sapevano; e intanto il «gatto allegro» era pronto a morire di paura.

Ah, io ero un eroe, con la via della ritirata alle mie spalle. Continuai a

insultare il mio uomo e i suoi amici soci fino a che non ebbero aperta la

porta e al lume delle lanterne scorgevo le loro facce infuriate. Per loro era

semplicissimo. Ci avevano messi alle corde, dentro il vagone, ed erano

pronti a venire ad ammanettarci. Partirono. Io non diedi calci in faccia a

nessuno. Spalancai la porta opposta, e uscii insieme al «gatto allegro». Il

personale del treno ci corse dietro.

Superammo - se ricordo bene - una balaustrata di pietra. Ma non ho dubbi

nel ricordo del posto dove ci trovammo. Nel buio caddi sopra una lapide di

tomba. Il «gatto allegro» cadde su un'altra. E su quel cimitero scampammo

alla morte. Forse gli spettri avran pensato proprio questo. Di sicuro lo

pensarono i ferrovieri, perché quando uscimmo dal cimitero per entrare in

un bosco oscuro, rinunciarono all'inseguimento e ritornarono al treno. Poco

dopo, il «gatto allegro» e io ci trovammo al pozzo di una fattoria. Volevamo

bere un po' d'acqua, ma notammo una cordicella che pendeva da un lato del

pozzo. La tirammo su, e in capo alla cordicella trovammo un gallone di

panna. E questo fu il mio maggior accostamento alle cave di Rutland,

Vermont.

Quando i vagabondi si passano parola, riguardo a una città, che i «tori»

sono nemici, la città bisogna evitarla, o se non è possibile, bisogna

traversarla in silenzio. Ci sono città che vanno sempre traversate in quel

modo. Per esempio Cheyenne, sulla Union Pacific. Aveva fama in tutto il

paese di città nemica, e tutto dipendeva dalle fatiche di un certo Jeff Carr

(se ricordo bene il suo nome). In un istante questo Jeff Carr rompeva la

faccia a un vagabondo. Senza discutere. In un attimo lo agguantava, in un

attimo lo pestava con due pugni, con un bastone, con tutto quello che gli

capitava fra le mani. Dopo aver così maltrattato il suo vagabondo, lo

spediva fuor di città, promettendogli il peggio se si fosse fatto rivedere. Jeff

Carr sapeva il fatto suo. Nord, sud, est, ovest, fino agli estremi confini degli

Stati Uniti (compreso Canada e Messico), i vagabondi, dopo il pestaggio,

passavano parola che Cheyenne era territorio nemico. Per fortuna io non

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incontrai mai Jeff Carr. Traversai Cheyenne durante una tempesta. Quella

volta erano con me ottantaquattro vagabondi. La forza del numero ci

induceva a non badare a tante cose, ma non di certo a Jeff Carr. La fama di

Jeff Carr colpiva la nostra fantasia, smorzava la nostra virilità, e tutta la

banda aveva una paura mortale d'incontrarlo.

Di rado vale la pena di fermarsi a discutere coi «tori», quando ci sono

ostili. Bisogna andarsene e subito. Mi ci volle un po' di tempo per imparare

questo; ma il tocco finale me lo diede un «toro» di New York City. Dopo di

allora è stato per me un processo automatico tagliare la corda al comparire

di un «toro». Questo processo automatico è diventato una molla della mia

condotta, carica e pronta a scattare. E non mi passerà mai. Avessi anche

ottanta anni, dovessi trascinarmi per strada sulle stampelle, se a un tratto un

poliziotto allungasse le mani contro di me, io so che lascerei cadere le

stampelle per correre come un daino.

Il tocco finale alla mia educazione in fatto di «tori» lo ebbi a New York

City in un caldo pomeriggio autunnale. Era una settimana di afa. Avevo

preso l'abitudine di darmi da fare al mattino, e di passare il pomeriggio nel

piccolo parco che si trova vicino a Newspaper Row e al municipio. Da

quelle parti potevo comperare sulle bancarelle libri di scarto (rovinati

durante la stampa o durante la legatura) per pochi centesimi. Poi, ancora nel

parco, c'erano edicole, dove potevi comprare ottimo latte gelido,

sterilizzato, a un centesimo il bicchiere. Ogni pomeriggio mi sedevo su una

panca a leggere, e facevo la mia deboscia lattea. E ogni pomeriggio me ne

andavo dopo aver bevuto dai cinque ai dieci bicchieri. Il tempo era

terribilmente caldo. Eccomi, dunque, mite e studioso vagabondo bevitore di

latte, e, sentite cosa mi toccò in cambio. Un pomeriggio arrivai al parco, con

sottobraccio un libro appena acquistato e una gran sete di latte in corpo. In

mezzo alla strada, davanti al municipio, notai, mentre andavo all'edicola del

latte, che si era formata una folla. Proprio dove avrei traversato la strada,

così mi fermai per vedere la causa di quest'adunanza di uomini curiosi. Da

principio non riuscii a vedere nulla. Poi, dal rumore che sentii e da quel

poco che intravidi, seppi che si trattava di un gruppo di persone che

giocavano a pee-wee. Ora, questo gioco non è permesso per le strade di

New York. Io non lo sapevo, ma lo appresi assai presto. Ero lì fermo da una

trentina di secondi, il tempo per capire il motivo dell'assembramento,

quando sentii qualcuno gridare «Toro!» Sapevano il fatto loro. Scapparono.

Io no.

L'assembramento si era sciolto all'istante, sparpagliandosi sul

marciapiede, dal lato del parco. Saranno stati una cinquantina del gruppo

originario, tutti volti nella stessa direzione, dispersi. Notai il «toro», un

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poliziotto robusto, in abito grigio. Avanzava al centro della strada, senza

fretta, come bighellonando. Ma mi accorsi anche che cambiò rotta e che

puntava, obliquamente, verso lo stesso marciapiede a cui ero diretto io.

Continuava a camminare piano, tagliando fuori la folla, e allora mi resi

conto che la sua rotta e la mia erano destinate a incontrarsi. Ero così

ingenuo, in fatto di cattive azioni che, nonostante quanto sapevo dei «tori» e

dei loro modi, in realtà non avevo appreso nulla. Non mi sarei mai sognato

che un «toro» ce l'avesse con me. Dato il mio rispetto della legge ero

persino pronto a fermarmi e a lasciarmelo passare dinanzi. La sosta ci fu,

ma non per mia volontà, e fu una sosta all'indietro. Senza avviso, quel

«toro» all'improvviso mi si scagliò contro e mi colpì al petto con ambedue

le mani. Nel medesimo istante, a parole, bollò sinistramente la mia

genealogia.

Ribollì tutto il mio sangue di americano libero. Trovarono la voce, dentro

di me, tutti i miei antenati amanti della libertà. «Come sarebbe a dire?»

chiesi. Capite, volevo una spiegazione. E l'ebbi. Bang! Il manganello mi

piombò sul capo, e io stavo arretrando come un ubriaco, mentre le facce

incuriosite degli astanti mi vacillavano avanti e indietro come le onde del

mare e il prezioso mio libro da sotto il braccio mi cadeva per terra, e il

«toro» veniva avanti con il manganello pronto a picchiare ancora. E in quel

momento vertiginoso io ebbi una visione. Vidi il manganello calarmi molte

volte sul capo; vidi me stesso sanguinante, pesto, brutto, in un tribunale,

sentii l'accusa di malcostume, turpiloquio, resistenza alla forza pubblica e

altre cose, letta da un cancelliere; e mi vidi sull'isola di Blackwell. Ah,

sapevo il gioco. Persi subito ogni interesse per le spiegazioni. Mi sentivo

male, eppure corsi. E sarò sempre a correre, fino al mio ultimo giorno, ogni

volta che un «toro» attacca una spiegazione a manganellate.

Ecco, anni dopo il periodo del mio vagabondare, quando studiavo

all'Università di California, una sera andai al circo. Dopo lo spettacolo e il

concerto indugiai a guardare come funziona l'apparato dei trasporti in un

grande circo. Partiva quella notte, il circo. Accanto a un falò incontrai un

gruppo di ragazzini. Saranno stati una ventina, e dalle parole che si

scambiavano seppi che intendevano scappare con il circo. Ora gli uomini

del circo non apprezzano il fastidio di avere attorno un branco di monelli, e

bastò una telefonata al comando di polizia per bloccare questo progetto.

Mandarono una squadra di poliziotti ad arrestare i ragazzini per aver violato

l'ordinanza sul coprifuoco delle nove pomeridiane. I poliziotti circondarono

il falò e ci si avvicinarono lentamente, nel buio. Al segnale irruppero e tutti

insieme agguantarono i ragazzini come chi ficchi le mani in un cesto di

anguille.

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Ora, io non sapevo nulla dell'arrivo della polizia; e quando vidi questa

improvvisa irruzione di «tori» dai bottoni metallici con l'elmo in testa, e

tutti tendevano le mani, dentro di me furono sopraffatte tutte le forze, e la

stessa stabilità del mio essere. Restava solo, in azione, il processo

automatico, a scappare. E scappai. Non m'accorgevo neanche di scappare.

Non m'accorgevo di nulla. Era un fatto, come dicevo, automatico. Non c'era

motivo alcuno per cui dovessi correre. Non ero più un vagabondo. Ero un

normale cittadino, facevo parte della comunità. Questa era la mia città. Non

ero colpevole di alcuna cattiva azione. Ero universitario. Avevo i documenti

in regola, indossavo un abito buono, non ci avevo mai dormito dentro.

Eppure corsi, alla cieca, all'impazzata, come un daino impaurito, per un

intero isolato. E quando mi fui rimesso, notai che ancora stavo correndo. Ci

volle un vero e proprio sforzo di volontà per fermare le gambe.

No, non ce la farò mai. E' più forte di me. Quando arriva un «toro», io

scappo». E poi io ho l'infelice facoltà di andare in prigione. Sono stato più

volte in prigione quando ero un vagabondo. Una domenica mattina vado a

fare una gita in bicicletta in compagnia di una signorina. Prima che

oltrepassiamo i limiti della città, ci fermano per aver superato un pedone sul

marciapiede. Decido di starci più attento. La volta dopo vado in bicicletta

dopo buio e la mia lampada ad acetilene non fa il suo dovere. Cerco in ogni

modo di tenere desta la debole fiamma, perché so qual è la disposizione. Ho

fretta e pedalo alla velocità d'una lumaca per non spegnere la fiamma

vacillante. Raggiungo i limiti della città; sono oltre la giurisdizione

dell'ordinanza, e attacco a pigiare forte per riguadagnare il tempo perduto.

Ma mezzo miglio avanti mi «pizzica» un poliziotto e la mattina dopo tratto

la mia libertà. La città aveva proditoriamente esteso i suoi limiti di un

miglio e mezzo, e io non lo sapevo, ecco. Rammentavo il mio diritto

inalienabile alla libertà di parola e di adunanza pacifica, e attacco un

comizio sulle convinzioni politico-economiche che mi ronzano per la testa,

ma quel poliziotto mi fa scendere dal podio e mi porta in prigione, da cui

poi esco, ma dopo aver pagato la cauzione. Non serve. In Corea mi

arrestavano un giorno sì e uno no. L'ultima volta che capitai in Giappone fu

sotto il pretesto che ero una spia russa. Il pretesto non era mio, ma finii in

prigione lo stesso. Per me non c'è speranza. Il destino vuole che io faccia il

carcerato. E questa è una profezia.

Una volta, a Boston Common, ipnotizzai un «toro». Era passata la

mezzanotte e lui mi aveva incastrato, ma io riuscii a convincerlo tanto bene

che alla fine mi prestò un quarto di dollaro e mi diede l'indirizzo di un buon

ristorante. Poi ci fu un «toro» a Bristol, New Jersey, che mi prese e poi mi

lasciò andare e lo sa il Cielo se non aveva provocazioni a sufficienza per

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mettermi dentro. Lo colpii come - scommetto - non fu mai colpito in vita

sua. Successe in questo modo. Verso mezzanotte io salii su un merci che

usciva dalla stazione di Filadelfia. I ferrovieri mi avvistarono. Il treno stava

uscendo dal dedalo dei binari, lentamente, della stazione-merci. Salii sopra

una seconda volta e daccapo mi trovarono. Capite, il treno dovevo prenderlo

«fuori» perché era un merci in piena regola, con tutte le porte chiuse e

sigillate.

La seconda volta che mi trovarono il ferroviere mi fece una bella predica.

Mi disse che io rischiavo la vita, che quello era un merci veloce e che

andava forte. Gli risposi che anche io ero abituato ad andare forte, ma non

servì a nulla. Disse che non mi permetteva il suicidio, e io invece mi ci

provai per la terza volta, mi misi fra i due respingenti. Erano i più miseri

respingenti che io avessi mai visto - non parlo dei respingenti veri, i

respingenti di ferro collegati dall'anello e che giocano l'uno sull'altro. Sto

parlando degli assali che collegano i vagoni merci poco sopra i respinti.

Quando si viaggia fra un vagone e l'altro, ci si mette su questi assali, avendo

i respingenti fra i piedi.

Ma gli assali che mi toccarono non erano quelli larghi e generosi che di

solito, a quell'epoca, si trovavano sui carri ferroviari chiusi. Al contrario,

erano molto stretti, non più di un pollice e mezzo. Non riuscivo a tenerci

sopra neanche la metà della pianta del piede. E non c'era nulla a cui tenermi,

con le mani. Certo, c'erano i bordi dei due carri, ma si trattava di superfici

piatte e perpendicolari. Non c'era appiglio. Non potevo premere il palmo

delle mani, per sostenermi. Ma me la sarei anche cavata, se il sostegno per i

piedi non fosse stato così esiguo.

Uscito da Filadelfia, il merci cominciò ad acquistare velocità. Allora capii

che cosa intendeva il ferroviere quando parlava di suicidio. Il merci andava

sempre più veloce. Era un merci direttissimo, e niente lo avrebbe fermato.

In quel tratto della Pennsylvania correvano quattro binari affiancati, e il

treno mio, diretto a oriente, non doveva preoccuparsi di incrociare quelli

diretti in senso opposto, né di essere superato da quelli diretti dalla sua

parte. Il binario era tutto per lui, e lo usava. Io ero in una situazione

precaria. Mi tenevo su quelle ristrette sporgenze con una striscia di piede, il

palmo delle mani pressato disperatamente contro il bordo piatto e

perpendicolare del vagone. I due vagoni si muovevano, si muovevano

individualmente, su e giù, avanti e indietro. Avete mai visto un cavaliere da

circo, in piedi su due cavalli in corsa, ciascun piede su un cavallo diverso?

Bene, proprio questo stavo facendo io, e con diverse difficoltà. Il cavaliere

posava sui suoi piedi naturali, mentre io posavo su una striscia appena dei

piedi miei; lui piegava gambe e corpo, acquistando la forza dell'arco e la

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stabilità di un centro di gravità basso, mentre io ero costretto a stare diritto e

a tenere le gambe stese, lui viaggiava con la faccia in avanti, mentre io stavo

di lato. Non solo, se fosse crollato lui, avrebbe fatto un capitombolo sulla

segatura, mentre io sarei finito a pezzi sotto le ruote.

E quel merci viaggiava veramente forte, rombando, urlando, vacillando

all'impazzata nelle curve, tonando sulle caviglie, con una estremità che si

sollevava mentre quella opposta si abbassava, e io pregavo e supplicavo che

il treno si fermasse. Ma non doveva fermarsi. Per la prima volta - e l'ultima

- avevo sulla strada tutto quel che potevo desiderare. Abbandonai i

respingenti e riuscii a mettermi su una scaletta laterale; fu un lavoro

rognoso, perché non avevo mai trovato bordi di vagoni così parsimoniosi di

appigli, per le mani e per i piedi.

Sentii la locomotiva fischiare, e sentii anche scemare la velocità. Sapevo

che il treno non doveva fermarsi, ma ero deciso a tentare, se avesse

rallentato a sufficienza. A questo punto la via libera faceva una curva,

traversava un ponte su un canale, e traversava la città di Bristol. Questa

combinazione imponeva di rallentare la velocità. Io mi tenevo aggrappato,

in attesa, alla scaletta laterale. Non sapevo che era la città di Bristol quella a

cui ci stavamo avvicinando. Non sapevo neanche che bisogno ci fosse di

rallentare. Sapevo soltanto una cosa, che volevo scendere. Tesi gli occhi nel

buio in cerca di un passaggio a livello su cui atterrare. Ero quasi in fondo al

treno, e prima che il mio vagone entrasse in città la locomotiva avrebbe

passato da un pezzo la stazione, per poi riacquistare velocità.

Poi eccoti la strada. Era troppo buio per vedere quanto fosse larga e che

cosa ci fosse dall'uno e dall'altro lato. Sapevo che mi ci voleva tutta quanta

la strada se dovevo restare in piedi dopo l'urto. Mi lasciai andare di lato. A

dirlo è facile. Ma «lasciarsi andare» significa proprio questo: sulla scaletta

lasciai andare il mio corpo il più lontano possibile nella direzione in cui

andava il treno - per avere il maggior spazio di manovra al momento della

caduta. Poi balzai fuori e mi tenni indietro, con tutta la mia forza, come se

volessi toccare terra con la nuca. Tutta questa fatica serviva a

controbilanciare per quanto possibile la spinta in avanti che il treno dava al

mio corpo. Quando i miei piedi furono sulla ghiaia, il mio corpo era piegato

a un angolo di quarantacinque gradi. Avevo in. qualche misura ridotto la

spinta in avanti, perché quando i miei piedi toccarono terra, non caddi

immediatamente a faccia in avanti. Il mio corpo si innalzò, raggiunse la

perpendicolare, cominciò a piegarsi in avanti. In verità il mio corpo

conservava la spinta che io gli avevo, dato, ma non i miei piedi che, al

contatto con la terra, avevano perso ogni spinta. E io dovetti restituire ai

piedi questa spinta facendoli correre più svelti che potevo, in avanti, per

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serbarmeli sotto il corpo. Risultato: i miei piedi traversarono la strada con

uno stamburamento rapido ed esplosivo. Non osavo fermarli. Se lo avessi

fatto, sarei caduto in avanti. Toccava a me continuare a correre.

Ero un proiettile involontario, e mi chiedevo che cosa c'era sull'altro lato

della strada, e speravo che non fosse un muro di pietra o un palo telegrafico.

E proprio allora urtai qualcosa. Orrore! Lo vidi appena un istante prima del

disastro, proprio un «toro», in piedi nel buio. Crollammo a terra, insieme,

rotolando più volte; e il processo automatico fu tale, in questa miserevole

creatura, che al momento stesso del cozzo tese le mani, mi agguantò, deciso

a non lasciarmi più andare, Fummo tutti e due fuori di combattimento, ma

lui si resse a questo povero vagabondo fino a che non ebbi ripreso i sensi.

Se quel «toro» avesse avuto un poco di fantasia, avrebbe pensato che io

fossi un viaggiatore giunto da altri mondi, il marziano in arrivo. Infatti le

sue parole furono: «Da dove vieni?» Le successive sue parole, prima che

avessi tempo di rispondere, furono: «Ho proprio intenzione di arrestarti».

Affermazione, immagino, completamente automatica. In realtà era un

«toro» di cuore buono, perché dopo che gli ebbi raccontato una «storia» e lo

ebbi aiutato a spolverarsi i panni, mi concesse il prossimo merci per

abbandonare la città. Io trattai due punti: che il treno fosse diretto ad

oriente, e che non fosse un merci coi vagoni tutti serrati. Accettò, e in

questo modo, grazie alle convenzioni del Trattato di Bristol, evitai d'essere

pizzicato.

Ricordo un'altra notte, in quella parte del paese, quando di poco scampai a

un altro «toro». Se non l'avessi incocciato, l'avrei assorbito in me, perché

venivo giù dall'alto, senza freni, con diversi altri «tori» a un passo dietro di

me, decisi a prendermi. Successe in questo modo. Vivevo dentro uno

stallatico, a Washington. Avevo una cella e innumerevoli coperte da

cavallo, tutte per me. In cambio di questa sontuosa sistemazione, ogni

mattina curavo un'intera fila di cavalli. Se non fosse stato per i «tori», forse

ci sarei ancora.

Una sera., verso le nove, rientravo per andare a letto, e trovai che si

giocava a dadi, forte. Era giorno di mercato, e tutti i negri avevano soldi.

Ma sarà meglio spiegare come era fatto quel posto. Lo stallatico affacciava

su due strade. Io entrai dall'ingresso principale, traversai l'ufficio, raggiunsi

il vicolo fra le due file di celle disposte per tutta la lunghezza dell'edificio,

che davano sull'altra strada. A mezza via, lungo questo vicolo, fra due file di

cavalli e sotto la lampada a gas, c'era una quarantina di negri. Mi unii a loro

come spettatore. Ero a secco e non potevo giocare. Un negro stava

«passando» senza tirare. Sfidava la sorte, a ogni suo «passare» aumentava la

posta. Per terra c'erano quattrini di ogni genere. Una cosa affascinante. A

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ogni «passata» aumentava straordinariamente la sorte sfavorevole a questo

negro che «passava». C'era grande eccitazione. E proprio allora si sentì un

gran tonfo tonante alle porte che davano sulla strada di dietro.

Qualche negro scattò nella direzione opposta. Io sostai un momento ad

arraffare ogni tipo di danaro che stava per terra. Non era furto; era

semplicemente consuetudine. Tutti quelli che non scappavano, arraffavano.

Si spalancarono le porte e irruppe una squadra di «tori». Noi fuggimmo

nella direzione opposta. Nell'ufficio era buio, e la porta stretta non poteva

permetterci di passare tutti assieme. Le cose cominciavano a congestionarsi.

Un negro si tuffò dalla finestra, altri lo seguirono. Dietro di noi i poliziotti

cominciavano ad arrestare gente. Un negro grosso e io ci avventammo alla

porta. Era più grosso di me, mi spinse di lato e passò per primo. Un istante

dopo un manganello lo colpì al capo e crollò come un manzo. Un'altra

squadra di «tori» ci aspettava da quella parte. Sapevano di non poter

fermare la fuga con le mani, per questo menavano il manganello. Inciampai

sopra il negro abbattuto, mi buttai fra le gambe di un «toro» e fui libero. E

come corsi! Proprio davanti a me c'era un mulatto, di corporatura magra, e

mi misi al suo passo. Conosceva la città meglio di me, e sapevo che lui

correva verso la salvezza. Ma d'altronde, lui mi prese per un «toro» che lo

rincorreva. Non si voltò a guardare. Correva, e basta. Ma io avevo fiato e mi

tenevo al suo passo, e per poco non l'ammazzai. Alla fine, sfiatato,

inciampò, cadde in ginocchio e mi si arrese. E quando scoprì che non ero un

poliziotto, io mi salvai soltanto perché lui non aveva più fiato in corpo.

Ecco perché me ne andai da Washington: non per via del mulatto, ma per

via dei «tori». Andai alla stazione e presi il primo vagone chiuso

sull'espresso della Pennsylvania. Dopo che il treno ebbe preso velocità,

m'accorsi dello sbaglio. Era una ferrovia a quattro binari e le locomotive

facevano acqua in corsa. Diversi vagabondi mi avevano avvisato di non

salire su un vagone chiuso d'un treno le cui locomotive fanno acqua in

corsa. Ora vi spiego. Fra i binari stanno certi bassi trogoli di metallo. La

locomotiva, passando a tutta velocità, lascia cadere nei trogoli una specie di

tubo. Il risultato è che tutta l'acqua viene assorbita dal tubo, fin dentro il

tender.

Da qualche parte fra Washington e Baltimore, mentre me ne stavo a

sedere sulla piattaforma d'un vagone, una bella spruzzata cominciò a

riempire l'aria. Non faceva male. Ah, ah, pensavo io, è tutto un bluff, questa

presa d'acqua in corsa non fa poi male a chi stia sul primo vagone. Cosa

importa questa spruzzatina? Poi cominciai a meravigliarmi di quest'artificio.

Ecco una vera ferrovia! Al confronto con le nostre ferrovie primitive

dell'Ovest... E proprio in quell'istante il tender fu colmo, senza aver vuotato

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il trogolo. Un'ondata di acqua mi si rovesciò addosso, da dietro il tender.

Ero inzuppato fino alla pelle, come se fossi caduto giù dal treno.

Il treno entrò in Baltimore. Come è consuetudine nelle grandi città

orientali, la ferrovia correva sotto il livello stradale, in fondo a una grande

«trincea». Quando il treno entrò nella stazione illuminata, io mi feci più

piccino che potevo sul mio vagone. Ma un poliziotto delle ferrovie mi vide

e si mise alla caccia. Altri due lo seguirono. Avevo passato la stazione e

correvo lungo il binario. Ero in una specie di trappola. Dalle due parti

sorgevano le pareti della grande trincea, e se io mi provavo a salirle, nel

caso che non ci riuscissi, ero nelle mani dei «tori». Corsi, corsi, studiando le

pareti della trincea in cerca di un posto buono per salire. Finalmente lo

trovai. Fu poco dopo aver passato un viadotto che consentiva un passaggio

al livello sopra la trincea. Salii su per l'erto pendio, lavorando di mani e di

piedi. I tre poliziotti, sotto di me, cercavano di abbrancarmi.

In cima, mi trovai in uno spiazzo vuoto. Da una parte c'era un basso muro,

che lo separava dalla strada. Non c'era tempo per un'attenta investigazione.

Li avevo alle calcagna. Mi precipitai contro il muro, lo saltai. E proprio lì

trovai una sorpresa grande. Di solito si pensa che un lato del muro sia

uguale all'altro lato. Invece questo muro era differente. Capite, lo spiazzo

era più alto rispetto al livello della strada. Dalla mia parte il muro era basso,

ma dall'altra parte, be', quando fui passato sopra, senza freni, parve a me che

cadevo a piedi avanti di precipitare in un abisso. Sotto di me, sul

marciapiede, sotto la luce di un lampione, eccoti un «toro». Saranno state

una decina di spanne, ma questa sorpresa così, a mezz'aria, mi fece

sembrare doppia la distanza.

Mi tesi e caddi. Dapprima ebbi l'impressione che sarei piombato addosso

al poliziotto. I miei panni lo sfiorarono, infatti, quando i piedi presero

contatto con il terreno, e l'urto fu esplosivo. Mi chiedo ancora come non sia

morto di paura, perché non mi aveva sentito arrivare. Daccapo, era il

marziano in arrivo. Il «toro» fece un salto, balzò via da me come fa un

cavallo dinanzi a un'auto; poi cercò di prendermi. Io non sostai a dargli

spiegazioni. Questo compito lo lasciai ai miei inseguitori, che saltavano il

muro con una certa alacrità. Ma scampai bene alla caccia. Corsi per una

strada, ne imboccai un'altra, voltai diversi cantoni e alla fine scampai.

Dopo aver speso una parte dei soldi della partita a dadi, e dopo aver

lasciato passare un'ora, ritornai alla trincea della ferrovia, poco oltre i lumi

della stazione, e aspettai un treno. Mi sì, era freddato il sangue, e tremavo

miserabilmente, coi panni bagnati che avevo indosso. Finalmente un treno

entrò in stazione. Mi tenni basso, nel buio, e riuscii a saltarci sopra mentre

usciva, stando bene attento a non scegliere il primo vagone. Stavolta sul

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vagone mio non ci fu acqua presa al volo. Il treno fece quaranta miglia,

prima della successiva fermata. Scesi in una stazione illuminata che mi fu

stranamente familiare. Ero tornato a Washington. Chissà come, nella

confusione della fuga, a Baltimore, correndo per strade sconosciute,

schivando, voltando, tornando sui miei passi, mi ero sperso e avevo preso il

treno sbagliato. Avevo perso anche una nottata di sonno, avevo fatto una

fuga alla morte, e mi ritrovavo al punto di partenza. Ah, no di certo, la vita

sulla Strada non è tutta rose. Ma non ritornai allo stallatico. Avevo arraffato

qualcosa di buono, e non volevo fare i conti con i negri. Così presi il

prossimo treno in uscita e feci colazione nella città di Baltimore.

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BECCATO

Arrivai alle cascate del Niagara su uno di quei vagoni scoperti che nel

nostro gergo si chiamano «gondola». Notate bene, l'accento è sulla seconda

o, pronunciata larga. Ma veniamo al dunque. Arrivai nel pomeriggio e dal

merci puntai dritto sulle cascate. Una volta che i miei occhi furono pieni

della visione dell'acqua scrosciante, fui perso, non riuscivo a staccarmi di lì

il tempo necessario a battere le case in cerca di cena. Niente riusciva a

distogliermi. Venne la notte, una bella notte con la luna, e io indugiai alle

cascate fino alle undici. Poi cercai un posto dove fare la nanna.

Dove dormire, certo, un fatto che nel nostro gergo di vagabondi americani

si esprime in tanti modi differenti. Non so come, avevo l'impressione che la

cittadina accanto alle cascate, che si chiama appunto Niagara Falls, fosse

posto non «buono» per un vagabondo, e me ne andai verso la campagna.

Scavalcai una stecconata e fui in un campo. Lì, John Law, la maledetta

legge, non mi avrebbe mai trovato. Mi complimentai con me stesso. Mi

distesi supino sull'erba e dormii come un bambino. Il caldo era così dolce

che non una volta mi destai, quella notte. Ma al primo grigiore dell'alba i

miei occhi si aprirono, e rammentai le meravigliose cascate. Saltai lo

stecconato e mi misi in cammino, per vederle ancora. Era presto, non più

delle cinque del mattino, e solo alle otto potevo cominciare a battere in

cerca di una colazione. Potevo passare sul fiume almeno tre ore. Ahimè, era

destino che il fiume non lo vedessi mai più, e neanche le cascate.

La città dormiva, quando ci entrai. Camminando per la strada silenziosa,

vidi tre uomini che mi venivano incontro, lungo il marciapiede. Vagabondi

come me, pensai, che si erano alzati presto. In questa mia supposizione mi

sbagliavo. Avevo ragione, per dir meglio, solo al sessantasei per cento. Due

terzi di ragione. I due uomini esterni erano senz'altro vagabondi, ma quello

in mezzo non lo era. Mi feci sul bordo del marciapiede per lasciar passare il

terzetto. Ma il terzetto non passò. A una parola di quello che stava in mezzo

tutti e tre si fermarono, e quello centrale mi si rivolse. Capii all'istante la

situazione. Era un finto vagabondo, e un vero poliziotto, e i due che lo

affiancavano erano suoi prigionieri. La legge era ben desta ad agguantare la

sua prima preda. E la preda ero io. Fossi stato ricco delle esperienze che

sarebbero state mie nei mesi successivi, mi sarei voltato e messo a correre

come un diavolo. Quello avrebbe potuto spararmi, ma anche cogliermi per

prendermi. Non poteva corrermi dietro; perché due vagabondi in mano

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valgono più di un vagabondo che fugge. Invece, come una marionetta, io

m'arrestai quando m'ordinò di fermarmi. La conversazione fu breve.

«A quale albergo sei sceso?» chiese.

Mi aveva preso. Io non ero sceso in nessun albergo, e siccome non sapevo

il nome di alcun albergo in città, non potevo affermare di risiedere in

qualcuno di essi. E poi era troppo presto. Tutto mi era contro.

«Sono appena arrivato», dissi.

«Allora girati, e cammina davanti a me e non ti staccare troppo. C'è

qualcuno che vuole vederti».

Ero «beccato». Sapevo chi voleva vedermi. Con il poliziotto e i due

vagabondi alle calcagna, e sotto la direzione del suddetto, feci strada verso

la prigione. Lì ci frugarono e ci marcarono i nomi. Non mi ricordo, ora,

sotto quale nome mi registrarono. Diedi, come nome, Jack Drake, ma

quando mi frugarono, trovarono lettere indirizzate a Jack London. E questo

provocò guai e richiese spiegazioni, ma fino a oggi io non so se pizzicarono

Jack Drake oppure Jack London. Ma con questo o con quel nome, dovrei

essere nel registro della prigione di Niagara Falls. Bisognerebbe fare una

ricerca. Era verso la fine di giugno, 1894. Fu solo qualche giorno dopo il

mio arresto che cominciò il grande sciopero delle ferrovie.

Dall'ufficio ci portarono allo «Hobo» e ci chiusero. Lo «Hobo» (parola

americana che significa vagabondo) è quella parte della prigione dove si

chiudono, insieme, in una grande gabbia di ferro, quelli che hanno

commesso reati minori. E si chiama così perché i vagabondi costituiscono la

parte maggiore dei delinquenti minori. Ci incontrammo diversi altri

vagabondi pizzicati quella stessa mattina, e ogni tanto la porta si apriva e

altri due o tre venivano ficcati dentro. Alla fine, quando fummo in tutto

sedici, ci portarono di sopra, a giudizio. E adesso voglio descrivere per filo

e per segno quel che avvenne in tribunale, perché so che la mia sensibilità di

cittadino americano ricevette un colpo dal quale non si è più riavuta.

Eravamo sedici prigionieri, il giudice, due agenti. Non c'era cancelliere, il

suo compito lo faceva il giudice. Non c'erano testimoni. Non c'erano

cittadini di Niagara Falls presenti a vedere come si amministrava la giustizia

nella loro comunità. Il giudice dava un'occhiata all'elenco delle cause e

chiamava un nome. Si alzava un vagabondo. Il giudice guardava l'agente,

«Vagabondaggio, Vostro Onore», diceva l'agente. «Trenta giorni», diceva

Vostro Onore. Il vagabondo si metteva a sedere, il giudice chiamava un

altro nome e un altro vagabondo si alzava in piedi.

Il processo del primo vagabondo aveva preso quindici secondi. Il

processo del successivo avvenne con altrettanta celerità. L'agente disse

«Vagabondaggio, Vostro Onore», e Vostro Onore disse «Trenta giorni». E

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continuò così, come un orologio, quindici secondi per vagabondo, e trenta

giorni.

Povere bestiole, pensavo fra me. Ma aspetta che venga il turno mio; gliela

faccio vedere, io, a Vostro Onore. Durante la sua esecuzione, Vostro Onore,

mosso da chissà quale capriccio, diede a uno di noi il modo di parlare. Il

caso volle che costui non fosse un vagabondo autentico. Non aveva in

faccia alcun segno del vagabondo di professione. Se si fosse avvicinato a

noi, in attesa vicino alla cisterna per il passaggio di un merci, senza esitare

lo avremmo classificato un «gatto allegro». Gatto allegro è sinonimo di

«piedidolci» nel mondo dei vagabondi. E questo «gatto allegro» era in là

con gli anni, sui quarantacinque, secondo me. Aveva le spalle un po'

incurvate, e la faccia segnata dal tempo.

Per molti anni, secondo la sua storia, aveva guidato un carro per conto di

una certa ditta (se ricordo bene) di Lockport, New York. La ditta era poi

andata in malora, e alla fine, nei tempi duri del 1893, era fallita. Lo avevano

tenuto fino all'ultimo, anche se verso la fine il suo lavoro s'era fatto

irregolare. Spiegò ampiamente le sue difficoltà nel trovare un altro lavoro

(con tanta gente disoccupata) nei mesi successivi. Alla fine, convinto che ci

fossero occasioni migliori sui Laghi, era partito per Buffalo. Naturalmente

era al verde, ed eccolo qui. Nient'altro.

«Trenta giorni», disse Vostro Onore, e fece il nome di un altro

vagabondo.

Il suddetto vagabondo si alzò. «Vagabondaggio, Vostro Onore», disse

l'agente e Vostro Onore disse: «Trenta giorni».

E così via, quindici secondi e trenta giorni a ciascun vagabondo. La

macchina della giustizia macinava facile. E' molto probabile, considerando

l'ora del mattino, che Vostro Onore non avesse ancora fatto colazione e

quindi avesse fretta. Ma il mio sangue americano si era scaldato. Dietro di

me erano generazioni e generazioni di americani. Una fra le libertà per cui

questi antenati si erano battuti, e per cui erano morti, era appunto il diritto a

un regolare processo. Questo il mio lascito, consacrato dal sangue, e io

volevo adempierlo. Va bene, dissi minaccioso fra di me, aspettiamo che mi

chiamino.

Toccò a me. Il mio nome, qualunque esso fosse, venne chiamato. Io mi

alzai. L'agente disse: «Vagabondaggio, Vostro Onore», e io cominciai a

parlare. Ma il giudice cominciò a parlare anche lui. E disse: «Trenta giorni».

Io attaccai a protestare, ma in quel momento Vostro Onore stava chiamando

il nome dopo il mio sull'elenco. Vostro Onore prese fiato il tempo per dire:

«Silenzio!» L'agente mi costrinse a sedermi. E un istante dopo il vagabondo

di turno prendeva trenta giorni, e l'altro stava per prenderli.

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Dopo che fummo tutti sistemati, trenta giorni a testa, Vostro Onore si

rivolse a quello, di Lockport, il solo cui era stato permesso di parlare.

«Perché hai lasciato il tuo lavoro?» chiese Vostro Onore.

Ora quell'uomo aveva già spiegato che il lavoro aveva abbandonato lui e

la domanda lo colse di sorpresa.

«Vostro Onore», cominciò, confuso, «Non è una domanda buffa?»

«Trenta giorni in più per avere abbandonato il lavoro», disse Vostro

Onore, e la seduta si chiuse. Questo l'esito. L'uomo prese sessanta giorni, gli

altri trenta.

Ci portarono di sotto, ci chiusero, ci diedero la colazione. Fu una buona

colazione, per un carcere, e fu la migliore che mangiavo da un mesetto

circa.

In quanto a me, ero stupefatto. Eccomi lì, condannato, dopo un processo

farsesco, in cui mi avevano negato non soltanto il diritto a un procedimento

normale, ma anche il diritto a dichiararmi colpevole oppure no. Mi passava

per il cervello tutto quello per cui i miei padri si erano battuti, lo "habeas

corpus". Glielo avrei fatto vedere. Ma. quando chiesi un avvocato, mi risero

in faccia. "Habeas corpus", va bene, ma a che cosa sarebbe servito se io non

potevo comunicare con nessuno fuor della prigione? Ma io glielo avrei fatto

vedere. Non potevano tenermi in prigione per sempre. Dovevo aspettare che

mi mettessero fuori, poi li avrei messi al posto loro. Sapevo qualcosa sulla

legge e sui miei diritti, e avrei fatto vedere in che modo amministravano la

giustizia. Davanti agli occhi vedevo titoli di giornali, sensazionali, di cause

per danni, ma poi arrivarono i secondini e ci spinsero di furia in un ufficio.

Un poliziotto mi mise la manetta al polso destro. (Ah, ah, pensai, altra

cosa indegna. Aspetta solo che io esca). L'altra manetta si strinse al polso

sinistro di un negro, tanto per far coppia. Era un negro molto alto, sopra le

sei spanne, così alto che quando si stava fianco a fianco la sua mano teneva

sollevata la mia di un bel pezzo. Ma era anche il negro più felice e più

stracciato che io abbia mai conosciuto.

Eravamo tutti ammanettati a coppie. Fatto questo, tirarono fuori una

catenella, a collegare tutte quante le manette, serrate davanti e dietro alla

catena. Diedero l'ordine di marciare, e via per strada, sotto la sorveglianza

di due agenti. Il negro e io avevamo il posto d'onore, in testa alla

processione.

Dopo il chiarore sepolcrale della prigione, il sole, fuori, abbacinava. Non

sapevo che fosse così bello, io, prigioniero con il tinnio delle catene, sapevo

che non lo avrei più visto, per trenta giorni. Passammo per le strade di

Niagara Falls, fino alla stazione, guardati dai passanti, e specialmente da un

gruppo di turisti sulla veranda di un albergo a cui passammo dinanzi.

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Ci fu confusione lungo la nostra catena, e con parecchio tinnio e fracasso

ci sedemmo, due a due, sul vagone per fumatori. Ardente d'indignazione

com'ero pensando all'oltraggio che mi era stato perpetrato, a me e ai miei

antenati, ero tuttavia troppo prosaico e pratico per perderci sopra la testa.

Per me era tutto nuovo. Mi aspettavano trenta giorni di mistero, e mi

guardavo intorno in cerca di qualcuno che sapesse il fatto suo. Infatti avevo

già saputo che non ero destinato a una prigione per ragazzi, affollata da un

centinaio di prigionieri come me, ma a un penitenziario vero e proprio, con

un paio di migliaia di galeotti, condannati a qualunque cosa, dai dieci giorni

ai dieci anni.

Sul sedile dietro di me, legato alla catena con il suo polso, sedeva un

uomo grosso, greve, muscoloso. Doveva avere trentacinque, quarant'anni.

Lo capii subito. Gli lessi negli occhi voglia di ridere, senso del comico,

bontà. In quanto al resto, era una bestia, completamente immorale, con tutta

la passione e la turgida violenza del bruto. Quel che lo salvava, quello che

me lo rendeva possibile, erano quegli occhi, il senso del comico, la voglia di

ridere, la dolcezza della bestia non destata.

Era il mio uomo, mi ero attaccato a lui. Mentre il mio compagno di

manetta, il negro alto, lamentava fra una risata e l'altra una sua lavanderia

che stava perdendo per via dell'arresto, e mentre il treno entrava a Buffalo,

io parlavo con l'uomo sul treno dietro di me. Aveva la pipa vuota.

Io gliela riempii con il mio prezioso tabacco, quanto bastava per fare una

decina di sigarette. Sì, più si parlava e più ero sicuro che questo era il mio

uomo, e divisi con lui tutto il mio tabacco.

Ora il caso vuole che io sia un organismo fluido, adatto alla vita per

sentirmi d'accordo con tutti o quasi. Decisi di andare d'accordo con

quest'uomo, anche se neanche mi sognavo la cosa straordinaria che stavo

compiendo. Lui non era mai stato in quel particolare penitenziario a cui

eravamo diretti, ma aveva fatto un anno, due anni, fino a cinque anni in vari

altri penitenziari, ed era colmo di saggezza. Diventammo amici, e mi

traboccò il cuore quando mi disse di seguirlo. Mi chiamava «Jack», e anche

io lo chiamavo «Jack».

Il treno si fermò a una stazione distante un cinque miglia da Buffalo e

noialtri incatenati scendemmo. Non rammento il nome di questa stazione,

ma confido che sia una delle seguenti : Rocklyn, Rockwood, Black Rock,

Rockcastle oppure Newcastle. Ma quale che fosse il nome del posto, ci

fecero camminare un poco e poi salire su un tram. Era un tram all'antica,

con due sedili a destra e a sinistra. Tutti i passeggeri che sedevano da una

parte furono invitati a spostarsi sull'altro lato, e noi, con grande strepito di

catene, prendemmo il posto loro. Rammento che vi sedemmo in faccia a

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loro, e rammento anche l'espressione sul viso delle donne, le quali, senza

dubbio, ci presero per assassini e predatori condannati. Io cercavo di darmi

una faccia feroce, ma il mio compagno di manette, felicissimo negro,

continuava a roteare gli occhi, a ridere, a ripetere: «Oh Signore! Oh

Signore!».

Scendemmo dal vagone, facemmo un altro po' di strada a piedi, e ci

portarono nell'ufficio del Penitenziario della Contea di Erie. Qui ci

dovevano registrare e su un qualche registro si deve pur trovare uno fra i

miei molti nomi. Ci informarono inoltre che bisognava lasciare in ufficio

tutti i nostri oggetti: danaro, tabacco, fiammiferi, coltelli da tasca e cosi via.

Il mio nuovo compagno scosse il capo. Le sue mani erano in faccende, e

nascondeva i movimenti dietro le spalle degli altri. (Ci avevano tolto le

manette). Io lo guardavo, e seguii il suo esempio, facendo col fazzoletto un

fagottino con dentro tutte le mie cose che volevo portare dentro. I fagottini

li mettemmo nella camicia. Notai che questi nostri compagni di prigionia, a

eccezione di un paio che possedevano l'orologio, non vollero consegnare la

roba loro all'uomo dell'ufficio. Erano decisi a trafugarla in cella, a qualsiasi

costo, fidandosi della buona sorte; ma non erano però saggi come il mio

compagno, perché non ebbero l'accortezza del fagottino.

I guardiani che ci avevano accompagnati raccolsero le manette e la catena

e ripartirono per Niagara Falls, mentre noi, sotto nuova scorta, fummo

guidati dentro la prigione. Mentre eravamo in ufficio, a noi si aggiunsero

altre squadre di prigionieri di recente arrivo, sì che adesso formavamo una

colonna di quaranta o cinquanta uomini.

Sappiate, voi che mai andaste in prigione, che il traffico di una prigione è

denso come il commercio nel Medio Evo. Una volta dentro il penitenziario,

uno non si può muovere a suo piacimento. A ogni pochi passi incontra

grandi porte di acciaio o cancelli che si tengono sempre serrati. Dovevamo

andare dal barbiere, ma bisognava di continuo arrestarsi dinanzi a una porta

chiusa. Ci condussero in questo modo al nostro primo «braccio». Braccio

non vuol dire «corridoio». Immaginatevi una costruzione di mattoni, a

forma oblunga, alta sei piani, e ciascun piano con una fila di celle, diciamo

cinquanta celle per fila. Insomma, immaginatevi un cubo gigantesco, un

enorme alveare. Questo cubo posatelo per terra, e questo è ciò che si chiama

un «braccio» del Penitenziario della Contea di Erie. Per completare il

quadro, figuratevi una stretta galleria, che percorre per l'intera lunghezza

ciascuna fila di celle, e in fondo all'edificio figuratevi tutte queste gallerie

collegate da un sistema di scalette antincendio, in acciaio.

Ci fermarono al primo braccio, in attesa che una guardia aprisse una

porta. Qua e là si muovevano i reclusi, pelati e rasati, con indosso la casacca

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a strisce. Uno di questi reclusi destò la mia attenzione, su nella galleria della

terza fila di celle. Stava in piedi, ma si sporgeva in avanti, le braccia posate

sulla ringhiera, e pareva che non si accorgesse della nostra presenza.

Sembrava che guardasse nel vuoto. Il mio compagno gli fece una specie di

fischio, appena udibile. Il recluso abbassò gli occhi. Si scambiarono un

qualche segnale, a gesti. Poi volò in aria il fagottino del mio compagno. Il

recluso lo prese al volo, e in un baleno il fagotto fu nascosto sotto la sua

camicia, e rieccolo intento a guardare nel vuoto. Il mio compagno mi aveva

detto di seguire il suo esempio. Scelsi il momento buono, cioè quando la

guardia mi fu di spalle, e il mio fagotto seguì la sorte del primo dentro la

camicia del recluso.

Un minuto dopo si aprì la porta, in fila entrammo dal barbiere. Ci

trovammo altri reclusi vestiti a righe. E c'erano anche i barbieri della

prigione. C'erano vasche da bagno, acqua calda, sapone, spazzole. Ci

comandarono di spogliarci e di fare il bagno, e che ciascuno strofinasse la

schiena del vicino - precauzione inutile, questa del bagno obbligatorio,

perché la prigione brulicava di insetti. Dopo il bagno, ciascuno ebbe una

sacca di tela per riporci i panni.

«Metteteci tutti i vostri panni», disse la guardia. «Non cercate di trafugare

qualcosa. Dovete allinearvi, nudi, per l'ispezione. Quelli che debbono

scontare non più di trenta giorni, si possono tenere scarpe e bretelle. Gli

altri, con più di trenta giorni, nulla».

Questo annuncio fu accolto con costernazione. Come può un uomo nudo

trafugare qualcosa a dispetto d'una ispezione? Soltanto il mio compagno e

io eravamo salvi. Ma fu a questo punto che i barbieri - reclusi anche loro - si

misero all'opera. Passavano tra questi poveri novellini della galera, e

s'offrivano volentieri di prendere in carico le loro robe, con la promessa di

restituirle il giorno dopo. Questi barbieri erano filantropi, a sentirli parlare.

Come nel caso di fra' Filippo Lippi, non ci fu mai un così pronto

scaricamento. Fiammiferi, tabacco, carta di riso, pipe, coltelli, danaro, tutto

fluiva dentro le capaci casacche dei barbieri. Facevano un bel rigonfio,

eppure le guardie finsero di non vedere. Per farla breve, non fu mai

restituito nulla. E i barbieri non avevano mai avuto alcuna intenzione di

restituire quel che avevano preso. Questa roba la consideravano legittima

proprietà loro. Era la mancia, la paga del barbiere. Vidi poi che le mance di

questo tipo, in prigione, erano molte, e avrei dovuto averne anch'io, grazie

al mio nuovo compagno.

C'erano diverse sedie e i barbieri lavoravano svelti. Mai avuto un taglio di

capelli e una sbarbatura così veloce. Ciascuno s'insaponava da sé, e i

barbieri passavano il rasoio alla velocità di un minuto per uomo. Per il

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taglio dei capelli ci voleva un pochino di più. In tre minuti mi fecero fuori

una barba di diciotto giorni, e la mia testa era liscia come una biglia, con

appena appena un poco di stoppia. Barbe e baffi scomparvero come erano

scomparsi i nostri panni, e tutto il resto. Credetemi pure, quando quelli

ebbero finito, la nostra banda non aveva un gran bell'aspetto. Non mi ero

mai accorto, prima, che veramente eravamo messi male.

E poi ci fu l'allineamento - eravamo una quarantina, forse cinquanta, nudi

come gli eroi di Kipling che assalirono Lungtunpen. Frugarci fu facile.

Scarpe, noi, e nient'altro. Due o tre tipi svelti, che non s'eran lasciati

convincere dai barbieri, furono trovati in possesso di qualche oggetto, e cioè

tabacco, pipe, fiammiferi, spiccioli, oggetti che furono subito confiscati. Ciò

fatto, portarono i panni nuovi - grezze camicie carcerarie, giubbe e calzoni a

righe vistose. Avevo sempre avuto la pia illusione che il vestito a strisce

toccasse soltanto al recluso condannato per un grave reato. L'illusione

scomparve, io indossai la divisa della vergogna e provai per la prima volta

che impressione fa marciare a passo serrato.

In fila indiana, stretti l'uno a ridosso dell'altro, le mani di ciascuno sulle

spalle dell'uomo davanti, traversammo un altro «braccio». Qui ci

allinearono contro il muro, sempre in fila indiana, e ci comandarono di

denudare il braccio sinistro. Passò lungo la fila un giovane, uno studente di

medicina che faceva pratica su questo branco di bestiame che eravamo noi.

Ci vaccinò a velocità quadrupla, rispetto a quella dei barbieri. Dopo un

ultimo avviso di non strofinare su niente il braccio vaccinato, e di lasciar

scorrere il sangue, perché si formasse la crosta, ci portarono alle nostre

celle. Qui il mio compagno e io ci dividemmo, ma non prima che avesse il

tempo di sussurrarmi: «Succhiatelo».

Non appena fu chiuso, mi succhiai il braccio. E in seguito vidi uomini i

quali non avevano seguito il mio esempio, con nel braccio fori tremendi: ci

sarebbe entrato un pugno. Era colpa loro. Avrebbero dovuto succhiarsi il

braccio.

Nella mia cella c'era un altro uomo. Saremmo stati compagni di cella. Era

un bel giovane, taciturno, ma molto capace, insomma un tipo splendido

come lo si può incontrare in un viaggio che dura un giorno, e questo

nonostante il fatto che aveva appena finito di scontare due anni in un

penitenziario dell'Ohio.

Eravamo in cella da mezz'ora appena quando un detenuto avanzò lungo la

galleria e guardò nella nostra cella. Era libero di circolare per il «braccio»,

spiegò. Ed era il mio compagno di prima. Lo facevano uscire alle sei del

mattino e lo lasciavano fuori fino alle nove di sera. I superiori sapevano che

ci si poteva fidare di lui, come «uomo del braccio». A dargli la nomina era

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stato un altro detenuto, uomo anche lui di fiducia dei superiori, e lo

chiamavano il «Primo Uomo del Braccio». Fra tutti in questo braccio erano

tredici. Dieci dovevano curare, ciascuno, una galleria di celle, e sopra di

loro c'erano il Primo, il Secondo e il Terzo Uomo del Braccio.

Noialtri nuovi arrivati dovevamo restare in cella per il resto della

giornata, m'informò il compagno, in modo che il vaccino potesse attecchire.

La mattina dopo ci avrebbero messi al lavoro duro nel cortile del carcere.

«Ma dal lavoro ti levo appena possibile», promise. «Faccio licenziare un

uomo qui al braccio e metto te al posto suo».

Si ficcò la mano dentro la camicia, tirò fuori il fazzoletto che conteneva i

miei tesori, me li passò fra le sbarre e tirò avanti lungo la galleria.

Aprii il fagotto. C'era tutto. Non mancava neanche un fiammifero. Diedi

al mio nuovo compagno di che farsi una sigaretta. Stavo per accendere un

fiammifero, ma lui mi fermò. Sulle nostre brandine c'era un pagliericcio

sporco e unto. Strappò una strisciolina di stoffa sottile e l'arrotolò

strettamente, telescopicamente, in modo da formare un cilindro lungo e

sottile. Lo accese con il prezioso fiammifero. Il cilindro di cotone arrotolato

non faceva fiamma. In cima si era formata una brace di fuoco che si

consumava lentamente. Sarebbe durata quattro ore, e il mio compagno di

cella la chiamava «esca». Quando stava per finire, bastava fare un'altra esca,

metterne un capo contro il capo della vecchia, soffiarci sopra, e trasferire la

brace accesa. Insomma, come conservatori di fuoco, avremmo potuto dar

dei punti a Prometeo.

Alle dodici fu servito il pasto. In fondo alla porta della nostra cella c'era

una piccola apertura, come il pertugio che si vede in certi pollai. Di lì fecero

passare due pani secchi e una gamella di «minestra». Una porzione di

minestra era formata da circa un litro di acqua calda con a galla qualche

solitaria goccia di grasso. C'era anche, nell'acqua, un poco di sale.

Bevemmo la minestra, ma non mangiammo il pane. Non che non

avessimo fame, e non che il pane fosse immangiabile. Era anzi abbastanza

buono. Ma avevamo le nostre buone ragioni per fare così. Il mio compagno

aveva scoperto che la nostra cella era piena di cimici. In ogni crepa, in ogni

interstizio fra un mattone e l'altro, dove la calce era caduta, fiorivano grandi

colonie. Gli indigeni osavano persino uscire in pieno giorno e brulicare a

centinaia sulle pareti. Il mio compagno di cella conosceva bene le abitudini

di queste bestie. Simile a Childe Roland, impavido alle labbra levò il corno

di guerra. E mai si vide guerra più terribile. Durò ore e ore. E fu un macello.

E quando gli ultimi scampati si furono ritirati nei loro ricettacoli di mattoni

e calce, il nostro lavoro era appena a metà. Masticammo gran boccate del

nostro pane, fino a ridurlo alla consistenza dello stucco. Quando un nemico

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si rifugiava nell'interstizio fra due mattoni, poi prontamente ce lo

chiudevamo con un pezzo di pane masticato. Faticammo fino a che la luce

del giorno si fu fatta fioca, e fino a che fu chiuso ogni buco, ogni

nascondiglio. Io tremo ancora se penso alle tragedie di morte per fame e di

cannibalismo che di certo seguirono dietro questi baluardi otturati col pane.

Ci buttammo sulle brandine, stanchi e affamati, in attesa della cena. Fu

una bella giornata di lavoro fatto bene. Nelle settimane seguenti non

avremmo lamentato le schiere degli insetti. Avevamo saltato un pasto,

avevamo salvato la pelle a scapito dello stomaco; ma eravamo contenti.

Anche per la futilità degli sforzi umani! Il nostro lungo lavoro era da poco

finito quando una guardia aprì la porta. Si doveva fare una nuova

distribuzione di prigionieri, e ci portarono a un'altra cella, due gallerie più in

alto.

La mattina dopo, presto, aprirono le nostre celle, e lungo l'intero braccio

diverse centinaia di prigionieri si disposero a passo serrato e andarono nel

cortile della prigione per il lavoro. Il Canale Erie scorre proprio accanto al

cortile posteriore del Penitenziario della Contea di Erie. Era nostro compito

scaricare barconi fluviali e portare materiale ferroviario molto pesante, a

spalla, dentro la prigione. Mentre lavoravo considerai la situazione e studiai

la possibilità di una fuga. Neanche da pensarci. In cima ai muri

camminavano guardie armate di fucili a ripetizione e mi avevano anche

detto che nelle torrette delle sentinelle c'erano le mitragliatrici.

Non me la presi. Trenta giorni non erano poi tanti. Avrei fatto questi

trenta giorni, e avrei aumentato il bagaglio delle nozioni che mi sarebbero

servite, una volta fuori, contro le arpie della giustizia. L'avrebbero visto, di

che cosa è capace un ragazzo americano, quando i suoi diritti e i suoi

privilegi vengono calpestati come successe a me. Mi avevano negato il

diritto a essere giudicato da un tribunale; mi avevano negato il diritto a

dichiararmi colpevole o innocente; mi avevano negato ogni e qualsiasi tipo

di processo (infatti non potevo considerare processo quel che mi era toccato

a Niagara Falls); non mi avevano permesso di comunicare né con un

avvocato né con chicchessia, e quindi mi avevano negato il diritto a

chiedere un mandato di "habeas corpus"; mi avevano tagliato la barba e

rasato la testa, mi avevano vestito con le strisce del condannato; ero

costretto a faticare a pane e acqua e a marciare a quel vergognoso passo

serrato e con le guardie armate sopra di me. E tutto questo per cosa? Che

cosa avevo fatto? Quale reato avevo commesso contro i buoni cittadini di

Niagara Falls? Perché si vendicavano su di me in questo modo? Non avevo

violato l'ordinanza che colpisce chi dorme all'aperto. Quella notte avevo

dormito fuori della loro giurisdizione, in campagna. Non avevo chiesto

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l'elemosina per procurarmi un pasto, né battuto le loro strade in cerca d'un

quattrino. Ecco tutto quel che avevo fatto: camminavo su un loro

marciapiede e guardavo la loro pittoresca cascata. E questo era un reato? A

rigore non ero colpevole di infrazione alcuna. Bene, una volta fuori,

gliel'avrei fatta vedere.

Il giorno dopo parlai con una guardia. Volevo far venire un avvocato. La

guardia mi rise in faccia. Lo stesso fecero le altre guardie. Ero proprio

"incommunicando", per ciò che riguardava il mondo esterno. Cercai di far

uscire una lettera, ma mi dissero che ogni lettera veniva letta, censurata o

confiscata dalle autorità della prigione, e che in ogni caso non si permetteva

di scrivere ai condannati a pene brevi. Poco dopo cercai di far trafugare una

lettera consegnandola a un detenuto che doveva uscire, ma seppi che

venivano tutti perquisiti, e se si trovava una lettera, questa veniva distrutta.

Non importa. Tutto giovava a fare del mio un caso anche più nero, una volta

fuori.

Ma col passare dei giorni di prigionia (che descriverò nel prossimo

capitolo) imparai alcune cose. Sentii dire di poliziotti, giudici, avvocati che

erano inattendibili, mostruosi. Certi detenuti mi raccontarono le loro

esperienze con la polizia delle grandi città, esperienze tremende. E più

tremende ancora le notizie, di seconda mano, riguardanti uomini che erano

morti per colpa della polizia, e che quindi non potevano più testimoniare.

Anni dopo, nel rapporto del Comitato Lexow, avrei letto storie vere e più

terribili di quelle udite in carcere. Per adesso, durante i primi giorni del mio

imprigionamento, mi veniva la pelle d'oca a sentire queste storie.

Eppure, con il passare dei giorni, cominciavo a convincermi. Vedevo coi

miei occhi, che in questa prigione succedevano cose incredibili e mostruose.

E più mi convincevo, più profondo si faceva in me il rispetto per gli

scagnozzi della legge e per tutto il sistema della giustizia penale.

Poi lo sdegno mio scemò, e al suo posto irruppe la marea della paura.

Vedevo finalmente, con occhio chiaro, che cosa avevo contro. Diventavo

triste e fiacco. Ogni giorno mi convincevo sempre di più a non far chiasso,

una volta fuori. Chiedevo soltanto, una volta fuori, l'occasione di sparire dal

paesaggio. E proprio questo feci non appena m'ebbero rilasciato. Mi tenni la

lingua fra i denti, camminai in punta di piedi e puntai sulla Pennsylvania,

fatto uomo più saggio e più umile.

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IL PENITENZIARIO

Per due giorni lavorai nel cortile della prigione. Era un lavoro duro, e pur

anche dandomi malato quando ce n'era l'occasione, la parte del fesso

toccava sempre a me. Questo per via del cibo. Con quel cibo nessuno può

lavorare sodo. Pane e acqua, non ci davano altro. Una volta alla settimana

avrebbero dovuto darci la carne; ma non sempre questa carne si faceva

vedere, e siccome la parte nutriente andava persa nella cottura per fare la

minestra, non contava nulla il fatto che una volta alla settimana te la

facevano assaggiare.

E poi c'era un difetto fondamentale nella dieta di pane e acqua. Se l'acqua

era abbondante, il pane non bastava. Una razione di pane era grossa,

all'incirca, come due pugni, e di queste razioni ce ne davano tre al giorno.

Una cosa era buona, a proposito dell'acqua, che era calda. La mattina la

chiamavano «caffè», a mezzogiorno diventava minestra, alla sera si

mascherava da te. Ma era sempre la solita vecchia acqua. I prigionieri la

chiamavano «acqua stregata». La mattina era acqua nera, e il colore

dipendeva dal fatto che ci avevano bollito dentro croste di pane bruciato. A

mezzogiorno ce la servivano dopo averne omesso il colore, con l'aggiunta

del sale e di qualche goccia di grasso. A sera ce la davano d'un colore fra la

porpora e il biondo ramato, un colore che resiste a ogni descrizione; povera

cosa con il nome di te, ma assai elegante come semplice acqua calda.

Eravamo tutti affamati, al Penitenziario della Contea di Erie. Solo quelli

condannati a pene più lunghe sapevano cosa vuol dire aver cibo a

sufficienza. Ed ecco il motivo: sarebbero tutti morti dopo un certo periodo

di trattamento come quello riservato a chi scontava una pena breve. So che

ai primi toccava cibo più sostanzioso, perché ce n'erano parecchi al

pianterreno del nostro braccio, e quando io ero di servizio, gliene rubavo

spesso. Non si vive di solo pane, specie poi se il pane è insufficiente.

Diede la notizia il mio compagno. Dopo due giorni di lavoro in cortile, mi

levarono dalla cella e mi nominarono uomo di fiducia, «uomo del braccio».

La mattina e la sera servivo il pane ai prigionieri nelle loro celle; alle dodici

invece si usava un metodo diverso. I detenuti, in lunga fila, andavano al

lavoro, rompevano il passo serrato e levavano le mani di sulla spalla del

compagno di fila. Poco oltre la soglia erano ammucchiati vassoi di pane, e

c'era anche il Primo Uomo del Braccio e due ordinari, io e un altro. Nostro

compito era quello di reggere i vassoi del pane al passaggio dei detenuti.

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Non appena il vassoio, per esempio, in mano mia, era vuoto, prendeva il

mio posto l'altro uomo, con il vassoio pieno. E quando era vuoto il suo,

toccava a me sostituirlo. Così la fila passava veloce, ogni uomo tendeva la

mano destra ad afferrare la razione di pane portagli sul vassoio.

Il compito del Primo Uomo del Braccio era differente. Stava accanto al

vassoio, a sorvegliare. Quei poveri affamati non riuscivano mai a vincere il

senso di delusione, di potere una volta prendere dal vassoio due razioni di

pane anziché una. Per quanto ne so io, non successe mai. La mazza del

Primo Uomo sfrecciava come l'artiglio di una tigre, a colpire la mano che

avesse osato tanto. Il Primo Uomo era un buon giudice, anche a distanza, e

ormai aveva percosse tante mani, con quel suo bastone, che era diventato

infallibile. Non sbagliava mai e di solito puniva il colpevole levandogli

anche la sua razione e mandandolo in cella a pranzare coll'acqua calda.

Qualche volta, e mentre tutti questi affamati giacevano in cella, ho visto

un centinaio di razioni che venivano nascoste nelle celle dagli Uomini del

Braccio. Potrà sembrare assurdo, che trattenessimo questo pane. Ma era una

delle nostre «mance». Fuori del nostro braccio, eravamo maestri di

economia, e facevamo il nostro gioco in modo del tutto simile a quello dei

padroni economici della civiltà. Controllavamo le giacenze di cibo per la

popolazione, e proprio come i nostri fratelli banditi fuor delle nostre mura,

gliela facevamo pagare cara. Barattavamo il pane. Una volta alla settimana,

agli uomini che lavoravano in cortile toccavano cinque centesimi di tabacco

da masticare. Questo tabacco era la moneta del nostro regno. Di solito

scambiavamo due o tre razioni di pane per una di tabacco, e loro ci stavano,

non perché non gli piacesse il tabacco, ma perché il pane gli piaceva anche

di più. Ah, lo so, era come togliere la caramella a un bambino, ma cosa

volete? Bisognava pur campare. E di sicuro ci sarebbe stato un qualche

compenso all'iniziativa e alla intrapresa. E poi noi seguivamo il modello dei

nostri Migliori, là oltre le mura, i quali, su scala più grande, e sotto la

maschera rispettabile del mercante, del banchiere, del capitano d'industria,

facevano esattamente quello che facevamo noi. Ma poi, le cose tremende

che sarebbero successe a quei poveri disgraziati, se non fosse stato per noi,

io non so neanche immaginarmele. Il Cielo sa quanto pane mettemmo in

circolazione lì al Penitenziario della Contea di Erie. Sì, e incoraggiavamo la

frugalità e la scaltrezza... ai poveri diavoli che rinunciavano al loro tabacco.

E poi c'era il nostro esempio. Nel cuore di ogni detenuto noi fissammo

l'ambizione di diventare simili a noi e avere così la loro brava «mancia».

Salvatori della società, credo proprio di sì.

Eccoti un affamato senza tabacco. Forse uno sprecone che s'era

consumato tutto, per sé. Benissimo: aveva un paio di bretelle. Barattavamo

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quelle bretelle con sei razioni di pane - oppure dodici razioni, se le bretelle

erano belle. Ora io non portavo mai le bretelle, ma non importava. Lì

accanto alloggiava un detenuto, condannato a dieci anni per omicidio.

Portava le bretelle e queste gli piacevano. Potevo barattarle con una parte

della sua carne. Carne, ecco quel che mi occorreva. O magari quel romanzo

sgualcito, in brossura? Era come aver trovato un tesoro, perché il romanzo

io potevo leggerlo e poi barattarlo con i fornai, in cambio di un dolce,

oppure coi cuochi, in cambio di altra carne con verdura, o con qualche altro

ancora, in cambio del giornale che qualche volta riusciva a filtrare, o coi

fuochisti in cambio di un caffè decente, insomma era tutto possibile. I

cuochi, i fornai, i fuochisti, eran tutti detenuti, come me, e alloggiavano nel

nostro braccio, nella prima fila di celle, sopra di noi. Insomma, un vero e

proprio sistema di baratto messo insieme nel Penitenziario della Contea di

Erie. Circolavano persino soldi. Qualche volta erano soldi trafugati da

uomini che dovevano scontare una pena breve, ma più frequentemente

provenivano dalla «mancia» dei barbieri, che colpivano i novellini, ma più

ancora dalle celle di chi scontava una pena lunga, anche se non so come se

lo procurassero.

A parte la sua posizione preminente, il Primo Uomo del Braccio andava

famoso per la sua ricchezza. Oltre alle mance di vario genere, pretendeva

mance anche da noi. Noi eravamo i coltivatori di tutta questa miseria, ma il

Primo Uomo era il nostro coltivatore generale. Le nostre mance le

ottenevamo dopo suo permesso, e questo permesso lui se lo faceva pagare.

Come ho detto, aveva fama di uomo ricco; ma il suo danaro non lo

vedemmo mai, ed egli viveva in una cella, in solitaria grandezza.

Ma che al penitenziario si facessero soldi, io lo sapevo per prova diretta,

perché fui per diverso tempo compagno di cella del Terzo Uomo del

Braccio. Possedeva più di sedici dollari. Ogni sera, dopo le nove, soleva

contare i suoi soldi, quando ci avevano ormai serrati dentro. E ogni sera

soleva ripetermi quello che mi avrebbe fatto se io lo avessi tradito con gli

altri uomini del braccio. Capite, aveva paura di essere derubato, e il pericolo

lo minacciava da tre diverse direzioni. C'erano le guardie. Un paio di

guardie potevano saltargli addosso, dargli una buona dose di botte per

insubordinazione, buttarlo nella «solitaria» (la cella d'isolamento); e nel

tafferuglio i sedici dollari sarebbero spariti. Ancora, poteva succedere che il

Primo Uomo glieli portasse via con la minaccia di licenziarlo e di

rimandarlo al lavoro duro nel cortile della prigione. E ancora, c'eravamo

noialtri dieci normali uomini del braccio. Se avessimo annusato la sua

ricchezza, era largamente possibile che, in una giornata tranquilla, tutto il

nostro branco lo mettesse in un angolo e lo buttasse giù. Ah, credetemi,

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eravamo dei lupi, proprio come quei tali che fanno buoni affari a Wall

Street.

Aveva buoni motivi di temerci, e per questo io dovevo temere lui. Era un

bruto, enorme, analfabeta, ex pirata ostricaro nella baia del Chesapeake, ex

detenuto con alle spalle cinque anni di Sing Sing, e complessivamente un

bestione stupido e carnivoro. Usava prendere con le trappole i passerotti che

entravano nel braccio quando le grate erano aperte. Una volta preso

l'uccelletto, correva alla sua cella e io l'ho visto masticarne le ossa e

sputarne le penne, perché lo mangiava crudo. Ah no di certo, non lo tradii

mai con gli altri uomini del braccio. Anzi, questa è la prima volta che faccio

parola dei suoi sedici dollari.

Ma anche io ricavai da lui qualche cosa. Si era innamorato di una

detenuta che stava chiusa nel «reparto femminile». Non sapeva né leggere

né scrivere, e di solito toccava a me leggergli le lettere della donna e

scrivere per suo conto. E per questo io mi facevo pagare. Ma erano buone

lettere. Mi ci sfogavo, ci mettevo il mio più bello stile, e poi gliela

conquistai: anche se sotto sotto io credo che fosse innamorata non di lui, ma

dei miei umili scritti. Ripeto, quelle lettere erano una cosa grandiosa.

Si poteva anche ricavare qualcosa «passando» l'esca. Noi eravamo i

messaggeri celesti, i portatori di fuoco, in quel ferreo mondo di chiavarde e

sbarre. Quando a sera rientravano gli uomini dal lavoro, e venivano chiusi

in cella, avevano voglia di fumare. Allora noi facevamo scoccare la scintilla

divina, giù per le gallerie, di cella in cella, con le nostre esche accese. Quelli

che erano avveduti, o coi quali facevamo affari, tenevano queste esche

accese tutta la notte. A non tutti, però, toccava la scintilla divina. Quello che

non voleva pagare, andava a letto senza scintilla e fumo. Ma a noi cosa ce

ne importava? Avevamo sempre la meglio su di lui, e se continuava a fare il

furbo, un paio di noi gli saltavano addosso e gli davano il fatto suo.

Vedete, era questa la teoria operativa degli uomini del braccio. Eravamo

in tutto tredici. Nel nostro braccio c'era un mezzo migliaio di prigionieri. Il

compito affidatoci era quello di mantenere l'ordine. Quest'ultimo sarebbe

stato competenza delle guardie, ma ce l'avevano ceduta. Perciò dovevamo

mantenere l'ordine, in caso contrario, ci avrebbero rispediti al lavoro duro, e

non, era escluso, per dar più gusto alla faccenda, un po' di reclusione in

cella d'isolamento. Ma finché si mantenesse l'ordine, noi potevamo darci da

fare a ottenere le mance.

Fermiamoci un momento a considerare il problema. Eravamo tredici

bestie sopra mezzo migliaio di altre bestie. Era un inferno vivente, quella

prigione, e toccava a noi tredici governarlo. Considerata la natura delle

bestie, noi non potevamo governare con la cortesia. Si governava con la

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paura. Naturalmente, dietro di noi, a spalleggiarci, c'erano le guardie. In casi

estremi, chiedevamo aiuto a loro; ma chiamandole troppo spesso si

sarebbero seccate, e in questo caso si sarebbero adoperate per avere uomini

fidati di maggiore efficienza, per sostituirci. Infatti noi non le chiamavamo

spesso, e le chiamavamo senza far troppo chiasso, per esempio quando c'era

da aprire la porta di una cella per metterci dentro un prigioniero refrattario.

In questo caso la guardia si limitava ad aprire la porta e poi ad andarsene

per non assistere a quel che succedeva quando cinque o sei uomini

entravano a pestare il detenuto.

Circa i particolari di questo pestaggio, non voglio dire nulla. E dopo tutto

il pestaggio era forse il meno grave degli orrori indicibili al Penitenziario

della Contea di Erie. Io dico «indicibili», ma in realtà potrei dire

«impensabili». Per me furono impensabili fino a quando li vidi, e non ero

un pulcino, conoscevo abbastanza mondo, come conoscevo certi terribili

abissi della degradazione umana. Sarebbe occorso uno scandaglio ben

profondo per raggiungere il fondo, nel Penitenziario della Contea di Erie. Io

qui mi limito a sfiorare, in modo leggero e faceto, la superficie delle cose,

così come le vidi.

A volte, per esempio al mattino, quando i prigionieri scendevano a

lavarsi, noialtri tredici eravamo praticamente soli in mezzo a loro, e tutti,

fino all'ultimo, ce l'avevano con noi. Tredici contro cinquecento, e noi

governavamo con la paura. Non potevamo permettere la minima infrazione

alle regole. Se lo avessimo fatto, saremmo stati presi. La nostra regola era

questa: appena uno apre bocca, picchiare - picchiare forte, picchiare con

qualunque cosa. Un manico di scopa, impugnata alla rovescia, in faccia,

aveva sempre un effetto calmante. Ma non era tutto. Di quest'uomo

bisognava fare un esempio; perciò la regola successiva era: avanti e insisti.

Certo, non si poteva essere certi che tutti gli uomini del braccio accorressero

a dare un aiuto in quest'opera di castigo; perché anche questa era una regola.

Ogni volta che un uomo del braccio fosse nei pasticci con un prigioniero,

dovere di tutti i suoi colleghi che per caso fossero da quelle parti era di

prestare una mano, anzi un pugno. Mai pensare al valore del caso in atto -

avanti e picchiare, e picchiare con qualsiasi cosa; insomma, mettere il

colpevole fuori combattimento.

Rammento un bel giovane mulatto sui vent'anni che si mise in testa la

folle idea di dover difendere i propri diritti. E i diritti li ottenne, anche; ma

non gli giovarono per nulla. Stava nella galleria più alta. Otto uomini del

braccio gli levarono di testa certe idee in un minuto e mezzo - infatti era

questo il tempo necessario per percorrere la sua galleria e per scendere

cinque rampe di scala d'acciaio. Percorse questa distanza con tutte e

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ciascuna le parti della sua anatomia, tranne i piedi, e gli otto uomini non se

ne stavano con le mani in mano. Il mulatto cadde sul pavimento dove io

stavo a guardare. Si rimise in piedi e per un momento stette su, poi allargò

le braccia, emise un urlo tremendo di terrore e di dolore e di crepacuore. In

quel medesimo istante, come in una scena di magia, gli stracci della sua

divisa di carcerato gli caddero di dosso, lasciandolo completamente nudo a

versare sangue da ogni parte della superficie del corpo. Poi crollò, a

mucchio, fuori di coscienza. Aveva imparato la lezione, e tutti i detenuti

dentro quelle pareti che lo sentirono urlare anche loro avevano imparato la

lezione. E io avevo imparato la lezione mia. Non è bello vedere il cuore di

un uomo spaccato, in un minuto e mezzo.

Sentite ora come ci comportavamo nella faccenda di passare le «esche» e

ottenerne in cambio la mancia. Una fila di novellini prende alloggio nelle

tue celle. Tu passi davanti alle sbarre con l'esca. «Ehi, amico, dacci del

fuoco», dirà qualcuno. Ora, questo significa che l'uomo in cella ha con sé

del tabacco. Tu gli dai l'esca e tiri avanti. Poco dopo ritorni e, come per

caso, ti appoggi alle sbarre. «Senti, amico, non si potrebbe avere un po' di

tabacco?» Questo devi dire. Se quello non capisce il gioco, probabilmente ti

giurerà che tabacco non ce n'è. Benissimo. Gli fai le tue condoglianze e te

ne vai. Ma tu sai che la tua esca durerà solo per il resto della giornata. Il

giorno dopo tu ritorni, e lui chiede ancora: «Ehi, amico, hai da accendere» e

tu dici: «Tu non hai più tabacco, ma cosa vuoi accendere?» E neanche gli

dai da accendere. Una mezz'ora dopo, oppure una ora, due ore, tre ore, tu

sarai lì che passi e l'uomo ti chiamerà con voce dolce: «Amico, vieni qua».

E tu vai. Ficchi la mano fra le sbarre e te la trovi piena di prezioso tabacco.

Allora tu gli dai da accendere.

A volte però arriva un novellino a cui conviene non fare giochetti per

avere la mancia. Passa in giro, misteriosamente, la parola che bisogna

trattarlo per bene. Nessuno può mai sapere dove sia nata questa parola.

L'unica cosa chiara è che quest'uomo ha una maniglia. Può darsi che sia un

qualche uomo del braccio; una delle guardie in qualche altra parte della

prigione; può darsi che il buon trattamento sia stato ottenuto da uno

stoccatore di mance d'alto livello: ma comunque sia, noi sappiamo che sta a

noi trattarlo bene, se vogliamo evitare fastidi.

Noi del braccio eravamo uomini che mediano e che portano.

Organizzammo traffici fra detenuti chiusi in parti diverse della prigione, e

organizzammo lo scambio. E poi accettavamo comandi nell'una e nell'altra

direzione. A volte gli oggetti scambiati dovettero passare per le mani di una

mezza dozzina di questi mediatori, ciascuno dei quali prendeva il suo

malloppo, oppure il servigio doveva essere compensato in un altro modo.

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A volte uno era in debito sui servigi resi, altre volte era lui il creditore.

Per esempio io entrai in prigione debitore verso il detenuto che aveva

trafugato le mie robe. Una settimana dopo, circa, uno dei fuochisti mi mise

in mano una lettera. Gliel'aveva data un barbiere. Il barbiere l'aveva ricevuta

dal detenuto, quello che aveva fatto entrare le mie robe. Per pagare il debito

io dovevo portare una lettera. Ma non aveva scritto lui la lettera. Il mittente

d'origine era un detenuto del suo braccio, che scontava una lunga pena. Ed

era diretta a una donna carcerata nel settore femminile. Ma se fosse davvero

diretta a lei, o se invece la donna fosse, a sua volta, un altro anello della

catena, questo non lo so. Tutto quel che sapevo era la sua descrizione fisica,

poi toccava a me fargliela avere.

Passarono due giorni, durante i quali tenni con me questa lettera; poi

venne la buona occasione. Le donne rammendavano tutti i panni logori dei

detenuti. Non pochi nostri uomini del braccio dovevano andare al settore

femminile a consegnare grossi fagotti di panni. Mi misi d'accordo con il

Primo Uomo del Braccio, a cui mi sarei accompagnato. Ci aprirono una

porta dopo l'altra e noi traversammo la prigione, diretti al posto delle donne.

Entrammo in una grande stanza dove le donne, sedute, facevano i

rammendi. I miei occhi cercavano quella donna che mi era stata descritta.

L'avvistai e le andai incontro. Stavano di guardia due matrone dagli occhi

d'aquila. Tenni la lettera sul palmo della mano e le feci cenno. Capì che

avevo qualcosa per lei; di sicuro l'aspettava, e anche lei aveva cercato

d'indovinare, al nostro ingresso, chi fosse l'uomo. Ma una delle matrone le

stava vicino, non più di un palmo. Già gli uomini stavano raccogliendo i

fagotti che poi avrebbero portato via. Il momento passava. Io indugiai con il

mio fagotto, fingendo che fosse legato male. La matrona non avrebbe

distolto gli occhi da me? Ci sarei riuscito. E allora eccoti un'altra donna che

si mette a scherzare con uno degli uomini: tende il piede per dargli lo

sgambetto, oppure lo pizzica, roba del genere. La matrona guarda da quella

parte e rimprovera la donna, aspramente. Bene, io non so se tutto questo

fosse previsto per distrarre l'attenzione della matrona, ma capii che questa

era l'occasione. La mano della mia donna si spostò, di sul grembo, fino al

fianco. Io mi chinai a prendere il fagotto. Da quella posizione le feci

scivolare la lettera in mano, e in cambio ne ebbi un'altra. Un istante dopo

avevo il fagotto in spalla, lo sguardo della matrona era ritornato su di me

perché ero l'ultimo fra gli uomini del braccio, e io correvo per raggiungerli.

La lettera avuta dalla donna io la passai al fuochista, il quale la fece avere al

barbiere, e poi al detenuto che mi aveva aiutato a far entrare la mia roba, e

finalmente al legittimo destinatario, quello che in carcere scontava una pena

lunga.

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Spesso portavamo lettere, in una catena di comunicazioni così complessa

che noi non conoscevamo né il mittente né il destinatario. Noi eravamo gli

anelli di questa catena. Chissà dove, e chissà come, un detenuto mi metteva

una lettera in mano con l'avviso di passarla al prossimo anello. Tutte queste

azioni sono favori da ricambiare in seguito, quando avrei dovuto agire agli

ordini di un pezzo grosso, in questo mestiere di passare le lettere in carcere,

e dal quale avrei avuto la mia paga. Tutta la prigione era coperta da una rete

di linee di comunicazione. E noi che controllavamo questo sistema di

comunicazioni, naturalmente, siccome seguivamo il sistema della società

capitalistica, imponevamo ai nostri clienti alti balzelli. I servigi si rendono

per il profitto, con gli interessi composti, anche se noi qualche servigio lo

rendevamo per amore, anziché per profitto.

Per tutto il tempo che fui al penitenziario sgobbai forte per il mio antico

compagno. Lui aveva fatto molto per me e in cambio s'aspettava che io

facessi altrettanto. Una volta usciti, avremmo lavorato insieme, avremmo

cercato, insieme, qualche buon «lavoro». Infatti il mio compagno era un

criminale, certo, non un asso della malavita, ma un piccolo delinquente

capace d'un furto, d'una rapina e magari capace di qualcos'altro, omicidio

escluso. Per molte ore tranquille ce ne stemmo seduti accanto, a parlare.

Avevamo due o tre lavori in vista per il prossimo futuro, lavori che per me

andavano benissimo, e infatti ci intervenni anche a tracciare i particolari. Io

avevo visto e conosciuto parecchi criminali, e il mio compagno neanche si

sognava che lo prendevo in giro, con una tiritera di bugie lunga un mese.

Pensava che io fossi il padreterno, mi voleva bene perché non ero stupido, e

un po' mi voleva bene anche per quello che ero. Naturalmente io non avevo

alcuna intenzione di partecipare con lui a una vita di piccoli, sordidi crimini,

ma sarei stato un idiota a buttar via tutte le cose buone che la sua amicizia

mi rendeva possibile. Quando uno sta sulla lava rovente dell'inferno, non

può scegliere la strada da seguire, e lo stesso valeva per me al Penitenziario

della Contea di Erie. Dovevo scegliere: lavorare duro per guadagnarmi il

pane e l'acqua, o mettermi dalla parte della prepotenza. Ma per fare questo

dovevo tenermi buono il mio antico compagno.

La vita non era monotona al Penitenziario. Tutti i giorni succedeva

qualcosa: un uomo che dava fuori da matto, che impazziva sul serio, che si

picchiava, oppure un uomo, uno di noi del braccio, pigliava la sbornia.

«Rover Jack», uno dei normali uomini del braccio, era veramente in gamba,

e la nostra simpatia gliela esprimevamo nel colorito gergo dei bassifondi.

«Pittsburg Joe», che era il Secondo Uomo del Braccio, si accompagnava a

Rover Jack nelle sue mattane; e i due solevano dire che il Penitenziario

della Contea di Erie poteva strepparsi a suo piacere senza il pericolo di

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essere arrestati. Io non lo seppi di sicuro, ma mi dissero che il bromuro di

potassio, preso in chissà che modo al dispensario, era la droga che usavano.

Ma io so, quale che fosse la loro droga, che a volte si ubriacavano a dovere.

Il nostro braccio era composto da feccia comune, pieno di sudiciume e di

sporcizia, la parte più sordida dell'umanità: incapaci ereditari, degenerati,

rottami, lunatici, intelletti imputriditi, mostri, storpi, insomma, l'incubo

dell'umanità. Perciò l'attacco epilettico fra noi era roba di tutti i giorni e

pareva contagioso. Quando a uno prendeva l'attacco, gli altri gli andavano

dietro. Ho visto sette epilettici contemporaneamente, che riempivano l'aria

con i loro urli, mentre altrettanti lunatici andavano su e giù farfugliando.

Agli epilettici non si dava altra cura che un secchio d'acqua fredda addosso.

Era inutile mandare a chiamare il medico o anche solo lo studente di

medicina. Non era il caso di disturbarli per questa robetta di tutti i giorni.

C'era un giovane danese sui diciotto anni, che aveva gli attacchi più

frequenti di tutti. Di solito, uno al giorno. Per questa ragione lo tenevano al

pianterreno, il più lontano possibile, in fondo alla nostra galleria. Dopo che

ebbe avuto alcuni attacchi nel cortile del carcere, le guardie non vollero più

quest'impiccio, e così rimase serrato nella sua cella di continuo, in

compagnia di un detenuto di Londra che gli stesse vicino. Ogni volta che

all'olandese veniva l'attacco, il londinese restava paralizzato dal terrore.

Il ragazzo danese non sapeva una parola d'inglese. Era garzone di fattoria,

condannato a novanta giorni per avere avuto una rissa con un tale. Come

prefazione a ciascun attacco cominciava a urlare. Ululava come un lupo.

Non solo, gli attacchi li aveva stando in piedi, una cosa che non gli giovava

affatto, perché ciascun attacco terminava con un tuffo a testa avanti, sul

pavimento. Ogni volta che sentivo sorgere l'ululato del lupo, io prendevo

una scopa e andavo alla sua cella. Ma noialtri detenuti di fiducia non

potevamo tenere le chiavi delle celle, così non potevo entrare. Stava in

piedi, al centro della cella stretta, con un tremito convulso, gli occhi

rovesciati all'indietro a mostrare soltanto il bianco e ululando come

un'anima persa. Per quanto cercassi, non mi riuscì mai di convincere il

londinese a dargli una mano. Mentre ululava e tremava, il londinese restava

accucciato sulla brandina superiore, la sguardo terrorizzato fisso su quella

figura terribile, ululante, stravolta. Era duro, per lui, povero diavolo di un

londinese. Aveva i suoi motivi, e niente affatto campati in aria, e c'è da

meravigliarsi se non era diventato matto.

Io non potevo che fare del mio meglio con la scopa. La ficcavo fra le

sbarre, la vibravo verso il petto del danese, e aspettavo. Quando si

avvicinava la crisi lui attaccava a vacillare avanti e indietro. Io seguivo i

suoi vacillamenti, perché nessuno mi poteva garantire quando avrebbe

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compiuto quel suo tremendo tuffo sul pavimento. Ma quando succedeva io

ero lì, pronto, con la scopa, lo coglievo al volo e dolcemente lo calavo a

terra. Ma per quanto io cercassi, non scendeva mai a terra con tanta

dolcezza e di solito aveva il viso ammaccato dal selciato. Una volta a terra,

quando cominciavano le convulsioni, gli buttavo addosso un secchio

d'acqua. Non so se l'acqua fredda era la cosa giusta o no, ma nel

Penitenziario della Contea di Erie la consuetudine voleva così. Per lui non

fu mai fatto niente più di questo. A volte restava in quello stato, tutto

bagnato per un'ora circa, poi strisciando ritornava alla sua brandina. Io lo

sapevo, e non andavo a chiamare una guardia che lo assistesse. E poi, cosa

conta, a questo mondo un epilettico?

Nella cella accanto viveva un personaggio strano - un uomo che scontava

sessanta giorni per aver mangiato la spazzatura del bidone di Barnum, o

almeno lui raccontava così. Era una creatura ridotta davvero male, e da

principio fu molto mite e gentile. I fatti del suo processo erano quelli da lui

affermati. Era entrato sul terreno del circo e siccome aveva fame, aveva

raggiunto il bidone che conteneva i rifiuti della tavola del personale del

circo. «Ed era pane buono», mi assicurò più volte; «e carne non ce n'era»,

un poliziotto lo vide e l'arrestò, e adesso era lì.

Una volta passai dinanzi alla sua porta con un pezzo di fil di piombo

rigido in mano. Me lo chiese con tanta ansia che glielo passai fra le sbarre.

Subito, e usando niente altro che le mani, lo tagliò in tanti pezzetti, e li

piegò in modo da formare cinque o sei spille di sicurezza, molto credibili

per tali. Arrotò le punte sul pavimento di pietra. Io gli avevo fornito la

materia prima ed ebbi in cambio le spille finite; in più, lui ci aveva messo il

lavoro. Da quel giorno inaugurai un prospero commercio di spille di

sicurezza: io curavo le vendite, lui la produzione. Come salario, gli davo

razioni extra di pane, e ogni tanto un pezzo di carne e un paio di ossa da

minestra con un poco di midollo dentro.

Ma la prigione gli faceva male, e giorno per giorno diventava sempre più

violento. Gli uomini del braccio si divertivano a provocarlo. Gli riempivano

quel cervello così debole di storie di una grossa eredità che gli era stata

lasciata. E proprio per rubargliela lo avevano arrestato e messo in prigione.

Certo, lo sapeva anche lui che nessuna legge vieta di frugar nei bidoni della

spazzatura. Dunque lo avevano arrestato a torto. Era tutto un complotto per

privarlo della sua fortuna.

La prima volta che venni a sapere questa storia, gli uomini del braccio

ridevano della balla che gli avevano fatto bere. Poi lui ebbe con me un serio

colloquio, nel quale mi parlò dei suoi milioni e del complotto per

rubarglieli, e per questo mi nominava suo investigatore. Io feci del mio

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meglio per calmarlo, parlandogli vagamente di uno sbaglio, e che esisteva

un uomo con nome identico al nome del legittimo erede. Lo lasciai molto

freddo, ma non riuscivo a tenergli lontani gli uomini del braccio, e quelli

continuavano a sfotterlo peggio che mai. Alla fine, dopo una scena

violentissima, mi congedò, rinnegò il mio incarico di investigatore privato,

ed entrò in sciopero. Smise il mio commercio di spille di sicurezza. Non

voleva fare più gli spilli di sicurezza e un giorno che passai dinanzi alla sua

cella mi tirò addosso la materia prima.

Non riuscii mai più a farci la pace. Gli altri uomini del braccio gli

dicevano che io ero un investigatore agli ordini dei cospiratori. E intanto

continuavano a contargli balle. Quei suoi torti immaginari gravavano sulla

sua mente, e alla fine diventò un pazzo pericoloso e omicida. Le guardie

non volevano ascoltare le sue storie di milioni rubati, e lui li accusava di far

parte del complotto. Un giorno scagliò una gamella di tè bollente su una

guardia e allora si fece un'indagine sul suo processo. Venne il giudice

istruttore e parlò con lui per qualche minuto, attraverso le sbarre della cella.

Poi lo portarono all'esame dei medici, e non tornò mai più. Mi chiedo se è

morto, e se continua a parlare dei suoi milioni, in qualche manicomio.

Alla fine venne il gran giorno, il mio rilascio. Veniva rilasciato insieme a

me il Terzo Uomo del Braccio, e la ragazza da poco dimessa era ad

attenderlo di là dalle mura. Se ne andarono insieme, felici. Insieme ce ne

andammo anche il mio amico e io, e insieme, a piedi, raggiungemmo

Buffalo. Non dovevamo stare insieme per sempre? Insieme chiedemmo

l'elemosina a favore della campagna contro gli alcoolici, e la somma

raccolta la spendemmo in boccali di birra, da tre centesimi l'uno. E di

continuo io aspettavo il momento buono per tagliare la corda. Da un

qualche vagabondo che stava per partire seppi che era da poco uscito un

merci. Di conseguenza calcolai i miei tempi. Quando venne il momento, il

mio amico ed io eravamo al saloon. Dinanzi a noi, due boccali schiumanti.

Avrei voluto dargli l'addio. Era stato tanto buono con me. Ma non osavo.

Andai nel retro del saloon e saltai lo stecconato. Fu una cosa svelta, e due

minuti dopo ero sul treno diretto a occidente di New York e verso la

Ferrovia della Pennsylvania.

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PRENDERE UN TRENO

Se non gli capitano incidenti, un buon vagabondo, giovane e agile, riesce

a saltare su un treno, prima che il personale ferroviario riesca ad

accorgersene. Condizione essenziale, naturalmente, il buio della notte. Se

un vagabondo simile, in condizioni simili, decide che deve «prendere» un

treno, o lo prende, oppure è la malasorte che si è messa contro di lui. Non

c'è modo legittimo, a parte la morte, con cui i ferrovieri lo possano

«incastrare», e ci sono ferrovieri che non si sono arrestati dinanzi all'idea di

uccidere, così si afferma nel mondo dei vagabondi. Non avendone avuto

una esperienza particolare quando fui vagabondo, non posso personalmente

garantire questa nomea.

Ma questo ho sentito raccontare delle ferrovie «cattive». Quando un

vagabondo va «sotto», cioè sui binari e il treno è in movimento, non c'è

evidentemente il modo di liberarlo prima che il treno sia fermo. Il

vagabondo, ben nascosto dentro un vagone, con attorno a sé quattro ruote e

tutta la struttura del carro, ha la meglio sui ferrovieri, o almeno lo crede lui

perché un giorno si ritrova proprio sui binari, quelli di una ferrovia cattiva.

Una ferrovia cattiva è di solito quella dove, non molto tempo prima, un

ferroviere è stato ucciso dai vagabondi. Il cielo abbia pietà del vagabondo

che capita su uno di questi convogli d'una ferrovia cattiva, perché va

«sotto», a sessanta miglia orarie, non appena quelli se ne avvedono.

Il frenatore prende una coppiglia e un pezzo di corda di acciaio e lo porta

alla piattaforma del treno su cui sta viaggiando un vagabondo. Fissa la

coppiglia alla corda di acciaio, fa calare la corda in mezzo ai respingenti e

lascia che la coppiglia sporga oltre i binari. La coppiglia colpisce le traverse

fra i due binari, sbatte contro il fondo del vagone, di nuovo colpisce le

traverse, e poi il fondo del carro e ancora le traverse. Il frenatore manovra

questo suo attrezzo in su e in giù, ora da una parte ora dall'altra, lo accorcia

un poco, poi lascia che si allunghi, dando a quest'arma il modo d'ogni

possibile urto e rimbalzo. Ogni colpo della coppiglia volante è greve di

morte, e a sessanta miglia orarie essa marca un tatuaggio variabile di morti

diverse. Il giorno dopo, i resti di quel vagabondo vengono raccolti sul bordo

della ferrovia, e una riga del giornale locale fa il nome dello sconosciuto,

senza dubbio un vagabondo, magari anche ubriaco, il quale probabilmente

si era addormentato sul vagone.

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Allo scopo di illustrare come un vagabondo sia capace di «prendere» un

treno, mi viene in mente adesso di raccontare la seguente esperienza. Ero a

Ottawa, diretto a occidente sulla Canadian Pacific. Tremila miglia di binari

si stendevano dinanzi a me; era l'autunno e io dovevo traversare il Manitoba

e le Montagne Rocciose. Potevo ben aspettarmi un tempo da cani e ogni

attimo di indugio accresceva l'aspra durezza del viaggio. Non solo: ero

anche schifato. La distanza da Montreal a Ottawa è di centoventi miglia.

Avrei dovuto saperlo, quando ci giunsi erano passati otto giorni. Per errore

non avevo preso la linea principale, incocciando una tratta minore che mi

fece perdere un sacco di tempo. E durante questi giorni ero campato di tozzi

rinsecchiti, avuti per carità dai contadini francesi. Oltre tutto non mi furono

sufficienti.

Di più: il mio schifo si accrebbe con quell'unico giorno che passai a

Ottawa, dove cercavo di ottenere un cambio di vestito per il mio lungo

viaggio. Voglio qui dire subito che Ottawa, fatta un'eccezione, è la città più

dura degli Stati Uniti e del Canada messi insieme, per acquistarci vestiario;

la sola eccezione è Washington D.C., che costituisce un limite. Ci passai

due settimane cercando di comprarmi un paio di scarpe, e poi dovetti andare

a Jersey City se lo volli avere.

Ma ritorniamo a Ottawa. Alle otto in punto del mattino mi misi in cerca

del vestiario. Per tutta la giornata lavorai sodo. Giuro che feci, a piedi,

quaranta miglia. Parlai con le massaie di mille case. Non ci ricavai neanche

da pagarmi il pranzo. E alle sei del pomeriggio, dopo dieci ore di sgobbo

continuo e deprimente, avevo solo una misera camicia, mentre il paio di

pantaloni che ero riuscito a farmi dare erano stretti, e oltre tutto mostravano

ogni segno di antica disgregazione.

Alle sei mollai il lavoro e mi diressi alla stazione ferroviaria, con la

speranza di beccare qualcosa da mettere in bocca. Ma mi gravava ancora

addosso la malasorte. Casa dopo casa, mi rifiutavano il cibo. Poi finalmente,

il grande dono: mi si aprì il cuore, perché in vita mia non avevo mai avuto

un dono tanto grosso: era un pacco incartato, grande come una valigia.

Corsi a uno spiazzo vuoto e l'aprii. Vidi subito una torta, poi altra torta, torte

di ogni tipo e di ogni fattura. Tutta torta. Niente pane e burro, con una bella

fetta di carne in mezzo - nient'altro che torta. E io che fra tutte le cose

odiavo quanto mai la torta. In altri tempi, sotto altri climi, gli uomini

sedevano vicino alle acque di Babilonia e piangevano. E anch'io, su quello

spiazzo vuoto della fiera capitale del Canada, anch'io mi sedetti e piansi...

sopra un mucchio di torte. Come quando un uomo china lo sguardo sul viso

del figlio morto, cosi io guardavo quella moltitudine di pasticceria.

Immagino d'essere stato un vagabondo poco grato, perché mi rifiutai di

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accettare la generosità della casa che la sera prima aveva dato una festa.

Evidentemente la torta non piaceva neanche agli ospiti.

La torta segnò la crisi delle mie fortune. Non poteva succedermi nulla di

peggio; di qui in poi le cose dovevano per forza rimettersi. E così fu.

Proprio alla casa accanto mi invitarono a sedermi. Un invito simile è una

vetta di felicità. Ti fanno entrare, qualche volta ti danno la possibilità di

lavarti, poi c'è la seduta a tavola. A un vagabondo piace stendere le gambe

sotto una tavola. La casa era grande e comoda, in mezzo a vasti terreni e

begli alberi, ben distante dalla strada. Avevano appena finito di mangiare, e

mi fecero entrare direttamente in sala da pranzo - cosa di per sé assai

insolita, perché se un vagabondo ha la fortuna di ottenere un invito, lo fanno

accomodare in cucina. Un inglese bello e grigio, la matrona sua moglie e

una bellissima signorina francese vollero parlare con me mentre mangiavo.

Mi domando se questa bellissima francese ricorderà, dopo tanti anni, la

risata che fece quando dissi quelle due parole barbare: «Two-bits». Capite,

io stavo cercando di dire una parola meno volgare di «soldini». Perché di

solito gli spiccioli si chiamano «soldini». «Cosa?» disse. «Twobits» dissi io.

Trattenendo la risata chiese ancora «Cosa?» «Twobits» ripetei. E a questo

punto la signorina scoppiò a ridere. «Me lo vuoi ripetere?» domandò infine,

quando ebbe ripreso il controllo di sé. «Two-bits» E ancora una volta

scoppiò in una risata argentina. «Scusami», disse «ma che... che cosa hai

detto??» «Twobits», dissi io, «c'è qualcosa di male?»

«Che io sappia, no» riuscì a dire fra una risata e l'altra; «ma, che cosa

significa?» Glielo spiegai, ma non ricordo se in cambio ottenni questi

«Twobits», i soldini, ma dopo di allora più di una volta mi son chiesto chi di

noi fosse più provinciale.

Quando arrivai alla stazione, trovai molte cose che mi fecero schifo, un

gruppo di altri venti vagabondi che contavano di salire su un treno di vagoni

chiusi. Ora due o tre di questi vagabondi, su un vagone chiuso, un

bagagliaio, vanno anche bene. Non danno nell'occhio. Ma una ventina!

Significava guai. Nessun ferroviere ci avrebbe fatti salire a bordo.

A questo punto potrei anche spiegarvi che cosa si debba intendere per

bagagliaio chiuso, che in America si chiama «blind» (alla lettera cieco).

Certi carri postali sono costruiti senza porte, perciò quel carro è chiuso, o,

come diciamo qui «cieco». I carri postali forniti di porte le hanno però

sempre chiuse. Supponiamo che, dopo la partenza del treno, un vagabondo

raggiunga la piattaforma di uno di questi carri chiusi. Non c'è porta, oppure

la porta c'è, ma è chiusa. Nessun conduttore, nessun frenatore può dirgli di

pagare il biglietto oppure scendere. E' chiaro che il vagabondo sta al sicuro

fino alla successiva fermata. Allora deve scendere, corre avanti, nel buio, e

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quando il treno si ferma, risale sul carro chiuso. Ma c'è sempre, come

vedremo, modo e modo.

Quando il treno partì, questi venti vagabondi dilagarono sui tre carri

chiusi. Alcuni ci salirono prima che il treno fosse fermo. Erano gente

impacciata e io vedevo prossima la loro fine. Naturalmente il personale

viaggiante era sull'avviso, e alla prima fermata cominciarono i guai. Io saltai

giù e corsi sul sentiero, accanto al treno. Notai che mi accompagnavano

alcuni altri vagabondi. Erano quelli, evidentemente, che sapevano il fatto

loro. Quando si sta su un treno transcontinentale, bisogna tenersi bene in

testa al veicolo, alle fermate. Correvo avanti, e correndo, uno dopo l'altro

quelli che mi accompagnavano risaltavano su. Questa manovra era un

esempio della loro abilità e della loro forza di nervi.

Ed ecco in che consiste. Quando il treno parte, il frenatore sta fuori del

vagone coperto. Egli non ha altro modo se vuol tornare nel treno vero e

proprio, che uscire dal vagone e mettersi sulla piattaforma che sta fra un

vagone e l'altro, scoperta. Quando il treno va a una tal velocità che il

frenatore si azzarda ad affrontarla, egli salta giù dal vagone, lascia passare

diversi vagoni e rieccolo daccapo sul treno. Dunque tocca al vagabondo

correre il più avanti possibile, sì che quando passa il vagone giusto il

frenatore lo ha già abbandonato.

L'ultimo vagabondo aveva saltato una quindicina di piedi prima e io

aspettavo. Il treno partì. Vidi la lanterna del frenatore sul primo vagone

coperto. Era dunque all'esterno. E vidi quei poveri incapaci starsene

distaccati lungo il binario al passaggio del treno. Non fecero neanche il

tentativo di salirci sopra. Erano battuti dalla loro stessa incapacità, fin

dall'inizio. Dopo di loro, nell'allineamento, erano i vagabondi che

conoscevano il mestiere. Lasciarono passare il primo vagone, quello

occupato dal frenatore, e saltarono sul secondo e sul terzo. Naturalmente il

frenatore saltò giù dal primo vagone per riprendere al volo il secondo, e da

questo buttò giù quelli che c'erano dentro. Ma il fatto è che io ero così

avanti che quando saltai sul primo vagone, il frenatore era già sul secondo, a

trafficare coi vagabondi di quel vagone. Cinque o sei esperti vagabondi

erano riusciti a salire sul primo.

Alla prossima fermata, correndo lungo il binario, contai che eravamo

rimasti in una quindicina. Cinque eliminati. Il processo di setacciamento era

cominciato bene, e proseguiva stazione per stazione. Adesso eravamo

quattordici, poi dodici, poi undici, poi nove, poi otto. Mi faceva pensare ai

dieci piccoli negri della filastrocca. Fra tutti quanti i negri, pensai, l'ultimo

voglio essere io. E perché no? Non ero forse dotato di forza, di agilità, di

giovinezza? (diciotto anni, e condizioni perfette). E non avevo forse

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«nervi»? E soprattutto, non ero forse un vagabondo di prima classe? Non

erano forse, questi altri, dei «gatti allegri», degli incapaci? Dilettanti. Se non

ero io l'ultimo dei famosi negri, allora il gioco non valeva la candela, e io

potevo anche cercarmi un lavoro in una qualche fattoria dei dintorni.

Quando il nostro numero si fu ridotto a nove, tutto il personale viaggiante

era all'opera. Da questo momento era tutta una gara di abilità e di cervello,

con il personale in vantaggio. Uno per uno vidi scomparire gli ultimi

superstiti, sicché l'ultimo fui io. Dio, quanto ero fiero di me! Neanche un

Creso poteva andar più fiero del suo primo milione. Stavo «prendendo» il

treno a dispetto di due frenatori, un conduttore, un fuochista e un

macchinista.

Ed ecco qualche altro esempio di come riuscii a «prendere» un treno. Ben

avanti, e nel buio - così avanti che il frenatore sulla piattaforma debba per

forza scendere per prendermi - io salto su. Benissimo. Vado bene fino alla

prossima stazione. Giunti alla stazione, io scatto subito avanti per ripetere

l'operazione. Il treno riparte. Lo vedo arrivare. Non c'è luce di lanterna sul

vagone chiuso. Forse il personale ha abbandonato il treno? Non lo so. Non

si sa mai, e a ogni momento bisogna essere pronti a tutto. Quando il primo

vagone chiuso mi passa davanti, e io corro per saltarci sopra, aguzzo gli

occhi per vedere se sulla piattaforma c'è il frenatore. Per quanto ne so io

potrebbe esserci benissimo, e quando monto su per gli scalini può succedere

che la lanterna mi sbatta in testa. Lo so bene, lanterne in testa ne ho prese

almeno due o tre.

Invece no, il primo vagone chiuso è vuoto. Il treno acquista velocità. Mi

sento al sicuro fino alla prossima stazione. Ma lo sono davvero? Mi tengo

all'erta. Stanno manovrando ai miei danni, e io non so di quale manovra si

tratti. Cerco di guardare da tutte e due le parti, senza tuttavia perdere

d'occhio il tender dinanzi a me. Da una direzione, forse da tutte e tre le

direzioni, mi possono assalire.

Ah, eccolo. Il frenatore è uscito dalla locomotiva. Il primo avviso l'ho

quando il suo piede urta gli scalini sul lato sinistro del vagone chiuso. Come

un fulmine scendo dal vagone, a sinistra, e correndo sorpasso la locomotiva.

Mi perdo nelle tenebre. La situazione è identica a quando siamo usciti da

Ottawa. Io sono in testa e il treno mi deve sorpassare se vuol continuare il

suo viaggio. Le possibilità di salire restano intatte.

Sto ben attento. Vedo una lanterna avanzare verso la locomotiva, e non la

vedo rientrare dalla locomotiva. Dunque è ancora sulla locomotiva e

attaccato alla lanterna ci dev'essere un frenatore. Quel frenatore doveva

essere pigro, altrimenti avrebbe spento la lanterna invece che cercare di

schermarla, avanzando. Il treno parte. Il primo vagone è vuoto, e lo

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guadagno. Come prima, il treno acquista velocità, il frenatore dalla

locomotiva raggiunge il primo vagone, io scendo dall'altro e corro avanti.

Mentre attendo nell'oscurità avverto un brivido di grande orgoglio. Due

volte il transcontinentale mi si è fermato e due volte l'ho ripreso, fermato

per me, povero vagabondo. Ho anche fermato due volte un transcontinentale

con molti passeggeri e vagoni di lusso, il postale, i duemila cavalli-vapore

che spingono il motore. E io peso appena centosessanta libbre, e non ho in

tasca una moneta da cinque centesimi.

Vedo ancora la lanterna che avanza verso la locomotiva. Ma stavolta la

vedo benissimo. Troppo in vista per avercela con me, e mi chiedo cosa sta

per succedere. Di una altra cosa debbo aver paura, ben peggio del frenatore

a bordo. Il treno guadagna velocità. Appena in tempo, prima di fare il balzo,

sul primo vagone coperto, vedo la forma scura di un frenatore, senza

lanterna. Salto giù e mi preparo a salire sul secondo. Ma il frenatore del

primo vagone è sceso anche lui e mi si è messo alle calcagna. E poi

intravedo, con un lampo, la lanterna del frenatore che sta sulla locomotiva.

Un istante dopo eccoti il secondo vagone e io ci salto sopra. Ma non

indugio. Ho già pensato la contromanovra. Mentre irrompo sulla

piattaforma sento i piedi del frenatore sugli scalini: sta per salire a bordo.

Salto giù dalla parte opposta e corro avanti, insieme al treno. Il progetto mio

è di passare in testa e salire sul primo vagone chiuso. E' questione di

secondi, perché il treno sta acquistando velocità. E poi ho il frenatore alle

calcagna. Confido d'essere miglior velocista, perché eccomi sul primo

vagone. Sto sugli scalini a guardare il mio inseguitore. Ha appena tre metri

di svantaggio e corre forte, ma ormai il treno si è avvicinato alla sua

velocità di crociera, e rispetto a me quel frenatore sta fermo. Lo incoraggio,

gli tendo la mano, ma quello esplode in un grande improperio, rinuncia e

prende il treno diversi vagoni più indietro.

Il treno acquista ancora velocità e io sto ridacchiando fra di me, quando

mi colpisce un getto d'acqua fredda. Dalla locomotiva, il fuochista mi sta

annaffiando. Avanzo dalla piattaforma fin sulla parte posteriore del tender,

dove c'è la tettoia che mi ripara. La pioggia stavolta non mi tocca. Mi fanno

male le dita mentre salgo sul tender con un pezzo di carbone in mano che

darò in capo al fuochista; ma so che se ce la faccio, fuochista e macchinista

mi massacrano. Ci rinuncio.

Alla prossima fermata scendo e poi avanti, nel buio. Stavolta, quando il

treno riparte, tutti e due i frenatori son sul primo vagone. Ho capito il loro

gioco. Vogliono impedire quel che è già successo due volte. Non posso

stavolta, salire sul secondo, traversarlo, e a corsa prendere il primo vagone.

Non appena il primo vagone è passato e io non ci salgo, quelli fanno una

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bella giravolta, ciascuno dalla sua parte del treno. Salgo sul secondo vagone

e nel far questo so che un momento dopo, simultaneamente, i due fuochisti

mi saranno addosso, dalle due parti. Le due vie di salvezza sono bloccate.

Ma ce n'è una terza, verso l'alto.

Così non aspetto che arrivino i miei inseguitori. Salgo su per i ferri della

piattaforma e sto sopra la ruota del freno. Sento sugli scalini, dall'una parte

e dall'altra, i piedi dei fuochisti. Non mi fermo a guardare. Tendo le mani

fino a che non sento il bordo curvo della tettoia. Naturalmente una mano

tiene il tetto curvo del primo vagone, la seconda quello del secondo. Ormai i

fuochisti salgono su per gli scalini. Lo so, ma ho troppo da fare per

guardarli. Tutto questo avviene nello spazio di non molti secondi. Faccio

molla sulle gambe, mi isso con le braccia. Mentre tiro su le gambe, tutti e

due i frenatori cercano di afferrarmi e trovano il vuoto. Lo so, perché

stavolta abbasso gli occhi, e li vedo. E li sento anche bestemmiare.

Ora mi trovo in una situazione precaria, teso fra i bordi di due tetti di

vagoni sopra un treno in moto. Con un movimento teso e rapido trasferisco

ambedue le mani e ambedue le braccia sullo stesso vagone. Poi, tenendomi

aggrappato al tetto curvo mi porto verso la parte piana del tetto stesso, dove

mi metto a sedere per ripigliare fiato, tenendomi a un ventilatore che sporge

sopra la superficie. Sono in cima al treno, sul «ponte» come dicono i

vagabondi, e far questo, nel loro gergo, si dice per l'appunto «prendere il

ponte». E lasciatemi dire subito che soltanto un vagabondo giovane e

robusto riesce a tenersi sul ponte, e anche che questo giovanotto robusto

deve avere i nervi a posto.

Il treno continua ad acquistare velocità, e so di essere al sicuro fino alla

prossima stazione. Se rimango sul tetto dopo l'arresto del treno, lo so che

quei fuochisti mi bombarderanno con i sassi. Un fuochista robusto riesce a

far cadere un bel tòcco di pietra sul tetto di un vagone - da cinque a venti

libbre. D'altro canto, ci sono buone possibilità che alla prossima fermata i

fuochisti siano ad aspettarmi nel punto dove sono salito. Ora tocca a me fare

daccapo l'arrampicata, a un'altra piattaforma.

Tenendo alta la speranza che non vi siano gallerie, nel prossimo mezzo

miglio mi alzo in piedi e percorro cinque o sei vagoni. E lasciatemi dire che

ci vuole un certo coraggio per affrontare questo "pasear". I tetti delle

vetture-passeggeri non sono fatti per le passeggiate di mezzanotte. E se

qualcuno è convinto del contrario, io qui lo prego di non fare la prova.

Cammini pure sul tetto di un vagone che sobbalza e scarroccia, senza nulla

a cui reggersi tranne l'aria fredda e vuota, e quando arriva alla parte

incurvata del vagone, ben umida e viscida di brina, tenti di accelerare in

modo da fare il salto sul vagone successivo, incurvato anche quello, umido

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e scivoloso. Credete a me, farà la prova se il suo cuore è debole o se gli gira

la testa.

Ora che il treno rallenta in vista della stazione, una mezza dozzina di

vagoni distante dal punto in cui ero caduto, scendo. Sul marciapiede della

ferrovia, nessuno. Non appena è fermo, mi lascio scivolare giù. Davanti a

me, fra me e la locomotiva, ecco due lanterne in movimento. I frenatori mi

stanno cercando sui tetti dei vagoni. Noto che il carro accanto a me è un

«quattro ruote» - e questo vuol dire che ha solamente quattro ruote.

(Quando si tratta di passare sotto un treno, badate bene a non scegliere un

«sei ruote», perché sono un disastro).

Mi abbasso sotto il treno, traverso i binari e non vi dico quanto mi auguri

che il treno stia ben fermo. E' la prima volta che passo sotto alla Canadian

Pacific, e gli accordi internazionali sono per me una novità. Cerco in ogni

modo di strisciare sotto il vagone ma, in quel punto almeno, lo spazio è

poco e io non ci passo. Proprio una novità, per me. Negli Stati Uniti sono

avvezzo a viaggiare sotto treni che si muovono rapidi, tenendomi a un

appiglio e coi piedi sull'assale dei freni, e di lì poi striscio sotto, fino al

punto in cui si trova una specie di sedile.

Tastando nel buio, imparo che c'è spazio fra l'assale dei freni e il terreno.

Devo distendermi piatto e strisciare come un verme, per farcela. Una volta

trovato il posto mio, mi metto a sedere e penso ai fuochisti: penseranno

chissà dove sono andato a finire. Il treno si avvia. Finalmente han rinunciato

a cercarmi.

Ma sarà poi vero? Alla prossima fermata vedo che ficcano una lanterna

sul carro accanto al mio. Stanno frugando fra i binari, in cerca di me.

Bisogna che me la sbrighi, e presto, striscio sullo stomaco, sotto l'assale dei

freni. Mi vedono e mi si avventano, ma lo striscio fino all'ultimo lato del

treno e mi alzo in piedi. Poi via di corsa verso la testa del treno, via fin oltre

la locomotiva e mi nascondo nel buio circostante. Sempre la stessa vecchia

situazione. Sto più avanti del treno e il treno mi deve passare avanti.

Il treno esce di stazione. C'è una lanterna sul primo carro chiuso. Sto

basso, e vedo passare un frenatore che scruta nel buio. Ma c'è una lanterna

anche sul secondo vagone. Questo frenatore mi avvista e avvisa l'altro

frenatore, e tutti e due saltano giù. Non fa nulla. Prenderò il terzo vagone

chiuso. Maledizione, c'è una lanterna anche sul terzo vagone. E' il

conduttore. Lo lascio passare. Comunque vada, ho contro di me tutto

l'equipaggio del treno. Mi volto e prendo la corsa nella direzione opposta a

quella del treno. Mi guardo indietro da sopra la spalla. Tutte e tre le lanterne

sono a terra, e gli uomini m'inseguono. Uno scatto, mezzo treno è già

passato e va abbastanza forte quando ci balzo sopra. So già che frenatori e

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conduttori fra due secondi mi saranno addosso come lupi affamati. Balzo

sopra la ruota del primo freno, metto le mani sul bordo incurvato dei due

tetti, e cerco di issarmi sul «ponte», mentre i miei inseguitori delusi fanno

gruppo sul marciapiede come cani che han visto un gatto sul tetto, mi

latrano imprecazioni e dicono cose poco garbate nei riguardi dei miei

antenati.

Ma che cosa importa? Sono cinque contro uno, se contiamo anche

macchinista e fuochista, con alle spalle la maestà della legge e della potenza

di una grande società, eppure io li sto battendo. Sono troppo in fondo al

treno, e corro sopra i tetti dei vagoni fino a che mi trovo a sei o sette

piattaforme dalla locomotiva. Cautamente do un'occhiata di sotto. Sulla

piattaforma c'è un frenatore. Che mi ha visto, io lo capisco dal balzo

repentino che fa dentro il vagone. E so anche che mi sta aspettando oltre la

porta, tutto pronto ad avventarsi su di me nel momento che mi calo di sotto.

Ma io faccio finta di non saperlo, e resto lì per incoraggiarlo nel suo errore.

Non lo vedo, eppure so che una volta apre la porta e dà un'occhiatina dal

pertugio per assicurarsi che sono ancora quassù.

Il treno rallenta perché la stazione è vicina. Io fo dondolare giù le gambe,

a mo' di tentativo. Il treno si ferma. Le mie gambe continuano a dondolare.

Sento che la porta lentamente si apre. E' pronto, per me. A un tratto mi tiro

su e corro per il tetto. Proprio sulla sua testa, dove sta in agguato. Il treno è

immobile; la notte è tranquilla, e io bado bene a far parecchio rumore sul

metallo, coi piedi. Non ne sono sicuro, ma presumo che sta correndo

innanzi, convinto che io mi calerò alla piattaforma successiva. Io invece non

mi ci calo. A mezza via, lungo il tetto del vagone, dietrofront, ritorno pian

piano sui miei passi ed eccomi alla piattaforma or ora abbandonata, da me e

dal frenatore. Via libera. Scendo a terra sul lato sinistro del treno e mi

nascondo nel buio. Non un'anima m'ha visto. Scavalco la stecconata e

aspetto. Ah, ah, che sarà mai? Vedo una lanterna in cima al treno, che si

muove cercando sui tetti. Anche meglio: a terra; dall'uno e dall'altro lato del

treno muovendosi al passo con la lanterna di sopra, altre due lanterne. E'

una caccia al coniglio, il coniglio sono io. Non appena la lanterna sul tetto

mi avrà illuminato, quelli a terra, a destra o a sinistra, mi daranno la lanterna

sul capo. Mi arrotolo una sigaretta e sto a guardare il passaggio della

processione. Quando mi avranno superato, sarò ben libero di procedere

verso la testa del treno. Si mette in moto, e senza incontrare opposizione

conquisto il primo vagone chiuso. Ma prima che il treno sia ben partito, e

proprio mentre mi accendo la sigaretta, son consapevole che il fuochista è

salito sul carbone, sul dietro del tender e mi sta guardando. Mi viene una

grande apprensione. Dalla sua posizione può ridurmi in poltiglia, a colpi di

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carbone. E invece mi si rivolge, e nella sua voce io noto, con sollievo,

ammirazione.

«Figlio d'un cannone», mi sta dicendo.

E' un grosso complimento e ne gioisco, come uno scolaro quando riceve

una nota di merito.

«Senti», gli dico io. «Non mi tirare più l'acqua, un'altra volta».

«Va bene», risponde e torna al suo lavoro.

Ho fatto amicizia con la locomotiva, ma i frenatori mi stanno ancora

cercando. Alla prossima fermata, i frenatori esplorano tutti e tre i vagoni

chiusi, e come prima, li lascio passare e salgo alla metà del treno. Ora tutto

il personale è alla caccia e il treno resta fermo. I frenatori debbono trovarmi

a tutti i costi, o almeno capire il perché. Tre volte il potente

transcontinentale si ferma apposta per me alla stazione, e ogni volta io

sfuggo ai frenatori e torno a bordo. Ma è una caccia disperata perché

finalmente arrivano a capire la situazione. Ho insegnato loro che non

possono fare la guardia al treno, contro di me. Debbono fare qualcosa

d'altro.

Infatti. Quando il treno si ferma per l'ultima volta, ce la mettono proprio

tutta. Ah, capisco il loro gioco. Vogliono spingermi verso il fondo del

convoglio. So il rischio che corro: una volta costretto nell'ultimo vagone, lo

staccheranno, e mi lasceranno lì. Io giro, svolto, scatto, schivo i miei

inseguitori, e guadagno la testa del treno. Ma c'è ancora un frenatore, lì che

mi aspetta. Va bene, lo farò morire sfiatato, perché io di fiato ne ho

parecchio. Corro dritto lungo il binario. Non importa. Se ha voglia di darmi

la caccia per dieci miglia, anche lui, poi, dovrà tornare sul treno e io lo potrò

prendere, alla sua velocità.

E allora corro, tenendomi a rispettosa distanza da lui, e tenendo gli occhi

aperti, caso mai compaia la lampada di qualche guardiano di bestie, che

potrebbe darmi i dolori. Ahimè, ho gli occhi fissi troppo in avanti, e

inciampo su qualcosa che mi sta proprio sotto i piedi.

Una qualche cosettina, non so, e vado a terra con un lungo capitombolo.

Appena mi sono rialzato, il frenatore mi ha già preso per il bavero. Non mi

dibatto. Penso solo a respirare profondamente e a valutarlo. E' stretto di

spalle, e come peso io sono in vantaggio di almeno trenta libbre. E poi è

stanco quanto me e se cerca di pestarmi, gli do una lezioncina.

Invece non cerca di pestarmi, anche lui è stanco, almeno quanto me. Mi

riporta al treno e qui sorge un altro possibile problema. Vedo le lanterne del

conduttore e dell'altro frenatore. Ci stiamo avvicinando. Non per nulla ho

fatto la conoscenza della polizia di New York. Non per nulla, nei posti più

vari, alla cisterna dell'acqua o in una cella di prigione, ho sentito storie

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terribili su come si può maneggiare un uomo. E se questi tre avessero

appunto intenzione di maneggiarmi? Lo sa Iddio se li ho provocati

abbastanza. Rapidamente penso. Ci stiamo avvicinando agli altri due

ferrovieri. Guardo lo stomaco e la mascella del mio catturatore, e preparo il

destro e sinistro che gli darò al primo segno di guai.

Eccome! Conosco qualche altro giochetto che mi piacerebbe fare su di

lui, e quasi mi dispiace di non averlo fatto subito, nel momento che mi ha

preso. Avrei potuto fargli del male, nonostante mi stringesse al bavero. Ha

le dita strette e sepolte nel mio bavero. Ho la giubba strettamente

abbottonata. Avete mai visto un tourniquet? Be', è uno dei miei giochetti.

Non devo far altro che ficcargli la testa sotto il braccio e cominciare a

torcere. Bisogna torcere rapidamente, molto rapidamente. Io ne sono

capace: bisogna torcere con violenza e a scatti, girando, e rificcandogli la

testa sotto il braccio a ogni rivoluzione. Prima che abbia il tempo di

accorgersene, per quelle sue dita è la fine. Non riuscirà più a ritirarle. E' un

sistema di leve possente. Venti secondi dopo l'inizio della rivoluzione, gli

brucerà il sangue sulla punta delle dita, cominceranno a rompersi i tendini

delicati, e tutti i muscoli e i nervi si spezzeranno, si sbricioleranno insieme

alla carne stridula. Provatelo, se qualcuno vi ha presi per il bavero. Ma siate

svelti - svelti come il fulmine. Non solo, badate a ripararvi mentre girate -

riparatevi la faccia con il braccio sinistro, l'addome con il braccio destro.

Vedete, l'altro potrebbe tentare di fermarvi con un pugno del braccio libero.

Buona idea sarebbe, inoltre, quella di girare tenendosi lontani da quel

braccio libero, piuttosto che incontro ad esso. Un pugno che viene non è

mai cattivo come un pugno che va.

Quel frenatore non sa quanto egli andò vicino a stare molto, ma molto

male. Lo salva il semplice fatto che quelli non avevano intenzione di

maneggiarmi. Quando ci siamo avvicinati abbastanza, grida che mi ha

preso, e quelli fan segno al treno di andare. La locomotiva ci supera, poi tre

carri chiusi. Poi il conduttore e l'altro frenatore salgono a bordo. Chi mi ha

catturato continua a trattenermi. Capisco cosa ha in mente. Mi vuol

trattenere fino a che non sia passata la coda del convoglio. Poi salterà su e io

resterò li, fregato.

Ma il treno è passato troppo in fretta, il macchinista vuol recuperare il

tempo perduto. E poi è un treno lungo. Va molto veloce, e so che il

frenatore ne misura la velocità con apprensione.

«Pensi di farcela?» chiedo con aria innocente.

Mi lascia il bavero, corre e salta a bordo. Devono passare diversi altri

vagoni. Lo sa, e resta sul gradino, la testa sporta a guardarmi. Allora la

mossa è a me. L'ultima piattaforma. Lo so che va svelto, sempre più svelto,

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ma se non ci riesco sarà solo un capitombolo per terra, ed è mio l'ottimismo

della gioventù. Non mi do via. Sto lì con le spalle basse, come a dire che ho

abbandonato ogni speranza. Ma al tempo stesso saggio con i piedi la ghiaia.

Ottima. E guardo anche la testa del frenatore. Ha fiducia: il treno va troppo

forte. Io non posso farcela.

E il treno va forte - più forte di ogni altro treno che io abbia mai

affrontato. Quando passa l'ultimo vagone io balzo, nella sua stessa

direzione. Non posso sperare di eguagliare la velocità del treno, ma posso

ridurre al minimo la differenza fra la sua velocità e la mia, e così ridurre

l'impatto, quando balzo a bordo. Nel buio pesto non vedo il corrimano di

ferro dell'ultima piattaforma; e neanche c'è il tempo per collocarlo. Punto là

dove penso che sia e al tempo stesso i miei piedi lasciano il terreno. Perdere

o lasciare. Fra un istante può darsi che io stia rotolando sulla ghiaia con le

ossa rotte, le braccia rotte, la testa. Ma le mia dita afferrano il corrimano,

sento uno strappo alle braccia che fa girare lievemente il mio corpo e i miei

piedi atterrano sul gradino con violenza secca.

Mi metto a sedere e sono molto fiero di me stesso. In tutta la mia vicenda

di vagabondo è questo il miglior salto sul treno che io abbia mai fatto. Lo so

che a notte fonda può andare sempre bene, per diverse stazioni, sull'ultima

piattaforma, ma io tendo a non fidarmi mai troppo della coda del treno. Alla

prima fermata cerco sempre di portarmi avanti, e alla seconda avanti ancora.

Ora sono relativamente al sicuro. I frenatori pensano che io sia fregato.

Ma la lunga giornata e la notte strenua cominciano a farsi sentire. E poi non

fa freddo, né tira vento e io comincio a sonnecchiare. Non bisogna, mai. Il

sonno sul binario significa la morte, così alla prossima stazione striscio

fuori e vado avanti, al secondo carro chiuso. Qui posso stendermi e dormire

- quanto tempo non so, perché mi sveglia una lanterna puntata sul mio viso.

I due frenatori mi guardano. Io mi metto sulla difensiva, chiedendomi chi

sarà il primo a picchiare. Ma non avevano affatto questa intenzione.

«Credevo di averti fregato», dice il frenatore che mi teneva per il bavero.

«Se non mi aveste lasciato andare in tempo, saremmo rimasti fregati tutti

e due», rispondo.

«Come sarebbe?»

«Avremmo fatto a botte, ecco come sarebbe», rispondo.

Si consultano e il loro verdetto può riassumersi così.

«Be', direi che puoi salire, amico. Non serve a niente cercare di lasciarti a

terra».

E se ne vanno e mi lasciano in pace fino al termine della loro tratta.

Ho detto questo come esempio di che cosa significhi «prendere il treno».

Certo, fra le tante mie esperienze ho scelto una notte fortunata, e non ho

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detto nulla delle notti - molte - in cui fui travolto dal caso e ci rimasi

fregato.

In conclusione, voglio dire quel che successe quando finalmente mi

consentirono di viaggiare. Sulle linee transcontinentali, a un solo binario, i

treni danno la precedenza, si fermano al termine della loro tratta e fanno

passare quelli «passeggeri». Quando si giunse al capotratta, io scesi dal

treno e cercai subito un merci che lo seguisse. Lo trovai già composto, in

attesa. Salii su un vagone mezzo pieno di carbone e mi distesi. In un batter

d'occhio dormii.

Mi svegliò il rumore della porta che si apriva. Albeggiava, e il merci non

era ancora partito. L'alba era fredda e grigia. Un conduttore stava ficcando

la testa dentro il vagone. «Vieni fuori di lì, figlio di una buona donna!»

gridò.

Scesi, e vidi il conduttore che ispezionava ogni vagone. Quando fu fuor di

vista, pensai fra di me che non avrebbe avuto lo stomaco di ritornare al

carro appena appena esaminato. Allora salii daccapo, mi stesi e mi

addormentai.

Ora, il processo mentale di quel conduttore si dev'essere svolto in senso

parallelo al mio, perché anche secondo lui questa era la cosa giusta da fare.

Infatti ritornò e mi buttò fuori.

Ora però, ragionai, sicuramente non si sognerà che io abbia deciso di farlo

una terza volta. Risalii su quel medesimo carro. Ma decisi anche di

garantirmi. Soltanto una porta laterale si apre, perché l'altra era inchiodata.

Mi scavai un solco profondo nel carbone accosto all'altra porta e li mi

distesi. Il conduttore salì e guardò sul mucchio del carbone. Non poteva

vedermi. Mi gridò di uscir fuori. Io cercai di ingannarlo non rispondendo.

Ma quando lui cominciò a tirare pezzi di carbone sopra il mucchio e

addosso a me, mi arresi e per la terza volta fui buttato fuori. Non solo: in

termini calorosi m'informò di quanto mi sarebbe successo se mi fossi fatto

trovare ancora là dentro.

Mutai tattica. Quando un uomo ha un processo mentale parallelo al tuo, tu

all'improvviso rompi la tua linea di ragionamento ed assumi una linea

nuova. Così feci. Mi nascosi fra i vagoni fermi su un binario adiacente e

stetti a guardare. Ma certo, il conduttore tornò al solito vagone. Aprì la

porta, salì, chiamò, buttò carboni nel buco che avevo fatto. Addirittura

strisciò sul gran mucchio e guardò nel buco. Questo lo convinse. Cinque

minuti dopo il treno partiva, e lui non era in vista. Corsi di fianco al vagone,

aprii la porta e salii. Non mi ricercò più, e su quel carico di carbone io feci

esattamente mille e ventidue miglia, quasi sempre dormendo e scendendo

alle stazioni per mendicare del cibo (i treni merci ci si fermavano sempre

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un'oretta). E alla fine delle mille e ventidue miglia persi quel vagone per un

felice incidente. Mi offrirono da mangiare a tavola e non esiste a questo

mondo un vagabondo che per un buon pasto regolare non rinunci ai treni.

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VAGABONDI CHE SCOMPAIONO NELLA NOTTE

Nel corso dei miei vagabondaggi incontrai centinaia di miei simili, che mi

salutavano, e io salutavo loro, e insieme aspettammo alle cisterne

dell'acqua, prendemmo treni, giocammo a carte, e tutte le altre belle cose

che facevano ai miei verdi anni i vagabondi in America. Molti di loro poi

sono spariti e non li ho rivisti mai più. D'altro canto, c'erano vagabondi che

passavano e ripassavano con straordinaria frequenza, e altri che

scomparvero come fantasmi, così, non visti, e anzi mai visti. A uno di questi

io diedi la caccia per tutto il Canada - tremila miglia di ferrovia e non una

volta lo vidi. Di soprannome si chiamava «Skysail Jack». Questo nome io lo

vidi per la prima volta a Montreal. Intagliato sul legno c'era il velaccio di

una nave (in inglese si dice appunto skysail). Era eseguito alla perfezione. E

sotto «Skysail Jack». Sopra altri segni: «B.W. 10-15-94». E questo voleva

dire che l'uomo era passato per Montreal, diretto a ovest, il 15 ottobre 1894.

Aveva un giorno di vantaggio su di me. A quell'epoca il mio soprannome

era «Sailor Jack», e subito mi affrettai a inciderlo accanto al suo, con la data

e l'informazione che anche io ero diretto a occidente.

Fui sfortunato nel percorrere le successive cento miglia, e otto giorni

dopo ritrovai le tracce di «Skysail Jack», trecento miglia a ovest di Ottawa.

Era lì, graffito su una cisterna dell'acqua, e dalla data vidi che anche lui

aveva avuto un ritardo. Aveva su di me i soliti due giorni di vantaggio. Io

ero una «cometa», un «trump-royal» come si diceva a quei tempi, e anche

Skysail era così; e siccome ero orgoglioso e tenevo alla mia reputazione,

volevo raggiungerlo. Viaggiavo notte e giorno, e lo sorpassai, poi toccò a

lui sorpassare me. A volte prese un paio di giorni di vantaggio, a volte toccò

a me stare in testa. Da certi vagabondi, diretti a oriente, ebbi qualche

notizia, quando si trovava in testa; e seppi da loro che anch'egli aveva

dimostrato interesse per «Sailor Jack», e faceva domande sul mio conto.

Avremmo formato una coppia preziosa, ne sono certo, se mai ci fossimo

incontrati; ma d'incontrarci non ci riuscì. Io fui in testa per tutto il Manitoba,

fu in testa lui per lo stato di Alberta, e una mattina, grigia e aspra, alla fine

di una tratta ferroviaria poco a oriente del passo Kicking Horse, seppi che la

sera prima lo avevano visto fra passo Kicking Horse e passo Rogers. Fu

strano il modo in cui mi fu data questa informazione. Avevo viaggiato tutta

la notte su un carro ferroviario, e mezzo morto di freddo ero uscito per

elemosinare del cibo. Scorreva una nebbia gelida e diedi la stoccata a certi

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fuochisti, che mi concessero gli avanzi dei loro portavivande, e inoltre mi

diedero una bella dose di squisito «Java» che nel nostro gergo vuol dire il

caffè. Lo scaldai, e quando ci sedemmo a mangiare alla mensa, entrò in

stazione un treno proveniente da ovest. Vidi una porto laterale aprirsi ed

uscire un ragazzo di strada. Nella nebbia avanzò verso di me. Era intirizzito

dal freddo, aveva le labbra illividite. Gli diedi un po' del mio Java e un po'

di mangime, seppi di Skysail Jack e poi mi parlò di sé. Incredibile, era della

mia città, Oakland, California, e faceva parte della famosa banda detta di

Boo, alla quale in qualche raro momento appartenni anch'io. Per una

mezz'ora parlammo fitto fitto, mangiando. Poi il mio merci partì, e io salii,

diretto a ovest sulle tracce di Skysail Jack.

Perdemmo tempo ai passi, trascorsi due giorni senza mangiare, e il terzo

giorno feci a piedi undici miglia prima di trovare cibo, eppure riuscii a

superare Skysail Jack lungo il fiume Fraser, nella Columbia Britannica. Poi

fui su un treno passeggeri, così guadagnavo tempo; ma forse anche lui era

su un «passeggeri», e con più fortuna o abilità di me, arrivò prima di me alla

Missione.

Era questa Missione una testa di tratta, quaranta miglia a est di

Vancouver. Dal bivio si poteva procedere in direzione sud attraverso lo

Washington e l'Oregon per ricongiungersi con la Northern Pacific.

Mi chiesi quale strada avrebbe preso Skysail Jack, perché pensavo di

essere in testa. In quanto a me, intendevo proseguire verso ovest, a

Vancouver. Andai alla cisterna dell'acqua per lasciarci questa informazione,

ed eccolo, appena inciso, con la data di quello stesso giorno, il soprannome:

Skysail Jack. Mi affrettai verso Vancouver. Ma era già andato. Si era

imbarcato immediatamente e ancora viaggiava verso occidente, in quella

sua avventura mondiale. Certo, Skysail Jack, eri un «trump-royal», e il tuo

compagno era il «vento che pesta il mondo». Mi levo il cappello dinanzi a

te. Tu fosti «soffiato nel vetro», certo. Una settimana dopo anch'io

m'imbarcai e a bordo del vapore «Umatilla» avanzavo lungo la costa, verso

San Francisco. Skysail Jack e Sailor Jack - ah, se mai fossero stati insieme.

La cisterna dell'acqua è la guida del vagabondo. Non per oziosa sicumera

i vagabondi incidono soprannomi, date e maledizioni. Più e più volte mi

sono capitati vagabondi i quali con ansia mi domandavano se io avevo visto

da qualche parte il tale o il talaltro nostro compagno, o il suo soprannome. E

più di una volta sono stato in grado di dare il soprannome più recente, la

cisterna dell'acqua e la direzione che aveva preso. E subito il vagabondo a

cui avevo dato l'informazione partiva in traccia del suo amico. Ho

conosciuto vagabondi che, cercando di rintracciare un amico, avevano

traversato l'intero continente e poi erano tornati indietro.

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Il soprannome, che i vagabondi chiamano «Monica», è una specie di

nome di viaggio che il vagabondo assume o accetta quando gli viene

imposto dai suoi simili. Per esempio «Leary Joe», era timido, e i suoi

compagni lo vollero ribattezzare Leary, che significa sfrontato. Nessun

vagabondo che abbia stima di sé accetterebbe di farsi soprannominare

«Stew Bum». A pochissimi vagabondi importa che si ricordino i loro

soprannomi passati, coi quali abbiano fatto qualche lavoro ignobile, e allo

stesso modo son rari i soprannomi basati su di un mestiere, anche se ricordo

di aver conosciuto i seguenti: «Moudler Blackey», «Painter Red», «Chi

Plumber», «Boilertnaker», «Sailor Boy» e «Printer Bo». «Chi» (ma

pronunciato sciai) è Chicago detta in gergo.

Di solito il soprannome viene tratto dalla città donde sono partiti: per

esempio «New York Tommy», «Pacific Slim», «Buffalo Smithy», «Canton

Tom», «Pittsburg Jack», «Syracuse Shine», «Troy Mickey», «K. L. Bill»,

«Connecticut Jimmy». Poi c'era «Slim Jim, of Vinegar Hill, who never

worked and never will» [Jim lo Smilzo di Monte Aceto, che non lavorò mai

e non ne ebbe mai voglia], «Shine» è sempre un negro, così chiamato, forse,

perché il viso dei negri di solito è lustro. «Texas Sbine» o «Toledo Sbine»

indicano a un tempo razza e luogo di nascita.

Fra quelli che nel soprannome indicavano la razza, ricordo i seguenti:

«Frisco Sheeny», «New York Irish», «Michigan French», «English Jack»,

«Cockney Kid» e «Milwaukee Dutch». Altri par che traggano il

soprannome dal colore che la natura mise loro addosso, come per esempio:

«Chi Withey», «New Jersey Red», «Boston Blackey», «Seattle Browney» e

«Yellow Dick» e «Yellow Belly». Quest'ultimo era un creolo del

Mississippi, ma io sospetto che il soprannome glielo abbiano messo gli altri.

«Texas Royal», «Happy Joe», «Bust Connors», «Burley Bo», «Tornado

Blackey»e «Toch McCall» usavano più fantasia nel ribattezzarsi. Altri, con

minore fantasia, portano il nome della loro singolarità fisica, come:

«Vancouver Slim», «Detroit Shorty», «Ohio Farry», «Long Jack», «Big

Jim», «Little Joe», «New York Blink», «Chi Nosey» e «Broken-backed

Ben».

Parte a sé fanno i ragazzi di strada, che si divertono a mettersi una

quantità infinita di soprannomi. Per esempio i seguenti, che ho incontrato

personalmente qua e là: «Buck Kid», «Blind Kid», «Midget Kid», «Holy

Kid», «Bat Kid», «Swift Kid,», «Cookey Kid», «Monkey Kid», «Jowa

Kid», «Corduroy Kid», «Orator Kid» (chissà come gli fu messo) e «Lippy

Kid», un tipo insolente, statene certi.

Alla cisterna dell'acqua di San Marcial, New Mexico, una decina di anni

or sono, era il seguente biglietto di viaggio a uso e consumo dei vagabondi:

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1. Sul corso si può far bene

2. I tori non incornano

3. Alla baracca dei ferrovieri si può fare un sonnellino

4. Treni verso nord niente buoni

5. Privati niente buoni

6. Ristoranti buoni solo per i cuochi

7. La stazione ferroviaria buona solo di notte.

Un po' di spiegazione: il numero uno significa che sul corso della città si

può con qualche successo chiedere l'elemosina. Numero due: la polizia non

importuna i vagabondi. Numero tre: si può dormire alla baracca dei

ferrovieri. Il numero quattro non è molto chiaro, non si capisce se i treni

diretti a nord son buoni per viaggiarci o per mendicarci. Il numero cinque

significa che le case di abitazione non sono buone con i mendicanti, e il

numero sei significa che solo i vagabondi che sono stati cuochi riescono a

farsi dare del cibo ai ristoranti. Il numero sette non lo capisco bene: non

capisco se la stazione ferroviaria è buona per mendicarvi di notte, o se è

buona solo per i vagabondi che sono stati cuochi, per mendicarvi di notte,

oppure se qualsiasi vagabondo, cuoco o non cuoco, può di notte dare una

mano d'aiuto al cuoco della stazione - sporco lavoro di sguattero - e in

cambio ottenere, a mo' di pagamento, qualcosa da mangiare.

Ma per tornare ai vagabondi che spariscono nella notte ne rammento uno

che conobbi in California. Era svedese, ma viveva da tanto tempo negli Stati

Uniti che non ne indovinavi la nazionalità. Bisognava che te la dicesse lui.

Infatti era venuto negli Stati Uniti poco più che lattante. Lo conobbi per la

prima volta nella città montanara di Truckee. «Da che parte, amico?» fu il

nostro saluto. «Verso est» fu la risposta che ci scambiammo. Erano in

parecchi a voler salire sul transcontinentale, quella notte, e nella confusione

persi lo svedese. E persi anche il transcontinentale.

Arrivai a Reno, Nevada, sopra un carro che fu subito messo su un binario

laterale. Era una domenica mattina, e dopo aver scarpinato in cerca di una

colazione andai a un campo dove giocavano gli indiani, ed eccoti lo

svedese, molto interessato. Naturalmente stemmo insieme. Era la sola

persona che conoscevo, in quella regione, e anche lui non conosceva altra

gente. Stemmo insieme come una coppia di eremiti scontenti, e insieme

passammo la giornata, andammo insieme a cerca di un pranzo e nel tardo

pomeriggio tentammo di salire a bordo di un merci. Ma lui si fece beccare,

così dovetti andarmene da solo, per farmi beccare anch'io in mezzo al

deserto, venti miglia più avanti.

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Fra tanti posti desolati, quello dove mi beccarono era proprio al limite. Lo

chiamavano stazione e consisteva d'una baracca buttata assurdamente in

mezzo alla sabbia e alla saggina. Tirava un vento freddo, si avvicinava la

notte, e il solitario telegrafista, che viveva nella baracca, aveva paura di me.

Sapevo di non poter sperare mangime né letto, da lui. Proprio per via di

questo manifesto timore io non gli credetti quando mi disse che i treni verso

est non si fermavano mai, lì. E poi, non mi avevano appunto sbattuto fuori

da un treno diretto a est, in quel punto preciso, cinque minuti prima? Mi

assicurò che si era fermato per ordine superiore. Mi disse che c'erano

appena una quindicina di miglia fra lì e Wadsworth, e che facevo meglio ad

andarci. Io decisi di attendere, ed ebbi il piacere di vedere due merci diretti

a ovest passar via senza fermarsi, e un merci diretto a est. Mi chiesi se per

caso non c'era sopra lo svedese. Mi toccava correre il rischio fino a

Wadsworth, e difatti lo corsi, con grande sollievo del telegrafista, perché mi

scordai di bruciargli la baracca e di trucidarlo. I telegrafisti me ne debbono

essere molto grati. Dopo cinque o sei miglia dovetti scendere e lasciare che

il transcontinentale se ne andasse per suo conto. Andava forte, ma scorsi

una figura sul primo carro chiuso, che mi parve lo svedese.

Per diverso tempo non lo rividi. Traversai quelle centinaia di miglia

desertiche del Nevada, viaggiando di notte sui transcontinentali e

contentandomi, di giorno, di qualche treno locale, giusto per dormirci. Era il

principio dell'anno e faceva freddo su quelle alture. Qua e là si vedeva la

neve, tutte le montagne erano incappucciate di bianco, e di notte ne soffiava

un vento miserabilmente freddo. Non era terra da indugiarci sopra. E

rammentati, caro lettore, che il vagabondo percorre questa terra senza

riparo, senza danaro, mendicando, dormendo di notte senza nemmeno una

coperta, cosa che può intendere solo chi ne ha fatto esperienza.

Di prima sera giunsi alla stazione di Ogden. Il transcontinentale della

Union Pacific viaggiava verso est, e io avevo una gran voglia di far

conoscenza con qualcuno. Nell'intrico dei binari dinanzi alla locomotiva

intravidi una figura che si stagliava appena contro il chiarore. Era proprio lo

svedese. Ci stringemmo la mano come due fratelli che non si vedono da

tanto tempo, e scoprimmo che avevamo tutti e due le mani guantate. «Dove

hai preso questi guanti?» chiesi. «Nella cabina di una locomotiva», rispose;

«e tu dove li hai presi?» «Erano di un fuochista» dissi io; «se li è

dimenticati».

Prendemmo un vagone chiuso, quando il transcontinentale uscì, e lo

trovammo molto freddo. La ferrovia si inoltrava in una gola fra le montagne

coperte di neve e noi due eravamo scossi dal tremito, ma intanto ci

scambiammo confidenze su come avevamo coperto il tratto fra Reno e

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Ogden. La notte prima io avevo chiuso gli occhi per una ora appena, e

questo vagone chiuso non era sufficientemente comodo per consentirmi un

sonnellino. A una fermata andai verso la locomotiva. Avevamo un attacco

doppio, cioè due locomotive, per superare quel tratto in salita.

La cabina della locomotiva di testa, poiché tagliava il vento, doveva

essere molto fredda, perciò scelsi quella della seconda, che era riparata dalla

prima. Mi feci avanti a tentoni, e trovai il posto occupato. Avvertii la forma

di un corpo di giovane. Dormiva profondamente. Stringendoci, c'era posto

anche per due sulla cabina, e io appunto spinsi il giovane più in là e mi

ficcai accanto a lui. Fu una notte «buona». I frenatori non ci diedero

fastidio, e in un baleno mi addormentai anch'io. A un tratto mi destarono

faville roventi e grandi scossoni,, sì che mi accostai ancora di più al giovane

e mi svanì completamente il sonno fra il tossicchiare delle locomotive e il

verso stridulo delle ruote.

Il transcontinentale era giunto a Evanston, Wyoming, e non andava oltre.

C'era stato un incidente, più avanti, e la linea era bloccata. Avevano

recuperato il macchinista morto e lo stato del suo corpo manifestava il

pericolo della via. Era rimasto ucciso anche un vagabondo, ma non avevano

recuperato il suo corpo. Parlai con il ragazzo. Aveva tredici anni. Era

scappato di casa, da qualche parte dell'Oregon, e viaggiava verso est per

raggiungere la nonna. Mi parlava dei crudeli maltrattamenti di casa sua, e

mi parve sincero; e poi, non c'era bisogna che mentisse a me, vagabondo

innominato come lui.

E questo ragazzo andava forte, certo. Non gli sembrava mai abbastanza il

terreno coperto. Quando i dirigenti della ferrovia decisero di rispedire il

transcontinentale là donde era venuto, poi su una tratta minore fino alla

secondaria dell'Oregon, per ricongiungersi infine alla Union Pacific, al di là

dell'incidente, quel ragazzo risalì al posto suo e disse che era deciso a

restarvi. Ma questo era troppo per lo svedese e per me. Significava finire

quella notte gelida viaggiando, per guadagnare, stringi stringi, una dozzina

di miglia. Dicemmo che volevamo attendere che rimuovessero il treno

dell'incidente, e intanto avremmo fatto una bella dormita.

Ora non è facile entrare, di notte, in una città sconosciuta, senza un soldo,

a mezzanotte, col gelo, e trovare da dormire. Lo svedese non aveva un

quattrino. In totale io avevo un decino e due nichelini. Da un ragazzo di

questa città sapemmo che la birra costava cinque centesimi, e che i saloon

stavano aperti tutta la notte. Proprio quel che ci voleva per noi. Due

bicchieri di birra ci sarebbero costati dieci centesimi, e con il caldo e le

sedie, si poteva dormire sino all'indomani. Ci dirigemmo verso le luci di un

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saloon, camminando alla svelta, con la neve che cricchiava sotto i piedi, e

un venticello freddo che ci soffiava addosso.

Ahimè, avevamo frainteso le indicazioni di quel ragazzo del posto. La

birra a cinque centesimi la davano in un solo saloon della città, e non era

questo. Eppure quello in cui entrammo andava benissimo. Una benedetta

stufa rombava arroventata; c'erano poltrone accoglienti, con il fondo di

giunco, e un barista dall'aspetto non troppo gradevole il quale ci guardò

insospettito al nostro ingresso. Uno non può passare giorni e notti filate,

sempre con gli stessi panni, montando sui treni, affrontando la fuliggine e la

cenere e serbare un bell'aspetto. L'aspetto nostro era decisamente contro di

noi; ma che cosa ce ne importava? In tasca avevo i soldi.

«Due birre» dissi io al barista con aria noncurante, e mentre ce le serviva,

lo svedese e io ci appoggiamo al bar e in segreto desideravamo quelle due

poltrone accanto alla stufa.

Il barista ci mise davanti le due birre schiumanti e con gesto orgoglioso io

posai i dieci centesimi. E qui stava il mio sbaglio. Non appena ne seppi

l'entità, ero ben pronto a tirar fuori l'altro decino, restando con in tasca un

nichelino solo, io straniero in questa città straniera. Avrei pagato senz'altro.

Invece il barista non mi diede il modo di riparare all'errore. Non appena i

suoi occhi ebbero avvistato il decino da me deposto, afferrò i due bicchieri,

uno per mano, e versò la birra nell'acquaio che stava dietro il bar. E al

tempo stesso, guardandoci con aria malevola, disse:

«Avete le croste al naso. Avete le croste al naso. Avete le croste al naso.

Capito!».

Io non avevo croste, e neanche ne aveva lo svedese. I nostri nasi erano in

ordine. Il significato diretto delle sue parole era un altro, e per noi

incomprensibile, ma il significato indiretto ci era chiarissimo: non gli

piaceva la nostra faccia, ed evidentemente la birra costava dieci centesimi.

Io mi frugai in tasca e misi giù un altro decino osservando, sbadatamente:

«Ah, credevo che fosse un locale da cinque centesimi.

«I tuoi soldi qui non sono buoni» rispose, spingendo sul bancone le due

monete verso di me.

Tristemente me le rimisi in tasca, tristemente desiderammo la benedetta

stufa e le poltrone, e tristemente uscimmo nella notte gelata.

Ma mentre si usciva, il barista, sempre furibondo, ci gridò dietro: «Avete

le croste al naso, capito!».

Dopo di allora ho visto parecchio mondo, ho viaggiato per terre e fra

genti strane, ho aperto parecchi libri, ho assistito a molte conferenze; ma

fino a oggi, pur avendoci pensato a lungo, profondamente, non sono riuscito

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a indovinare il significato di quella enigmatica affermazione del barista di

Evanston, Wyoming. I nostri nasi erano in ordine.

Quella notte dormimmo sulle caldaie di un impianto per l'energia

elettrica. Come scoprimmo questo posto per dormire, non me lo ricordo.

Forse ci andammo d'istinto, come fanno i cavalli che d'istinto trovano

l'acqua, o i piccioni viaggiatori che d'istinto ritrovano la loro colombaia. Ma

non è piacevole il ricordo di quella notte. Oltre noi, sopra quelle caldaie,

c'era un'altra decina di vagabondi e faceva troppo caldo. A completare il

quadro della nostra miseria, il macchinista non ci permetteva di scendere e

metterci in piedi. La scelta era una sola: o le caldaie, o fuori nella neve.

«Avete detto che volete dormire, e allora, accidenti, dormite» disse rivolto

a me che ero sceso disfatto dal gran calore.

«Acqua», ansimai, asciugandomi il sudore sugli occhi. «Acqua!».

Indicò la porta e mi disse che laggiù, da qualche parte, nel buio, avrei

trovato un fiume. Mi diressi al fiume, mi persi nel buio, due o tre volte

inciampai e caddi, mi arresi, mezzo congelato ritornai sopra le caldaie.

Quando mi fui disgelato, provai più sete di prima. Intorno a me i vagabondi

gemevano, singhiozzavano, sospiravano, ansimavano, si giravano, si

rivoltolavano grevi nel loro tormento. Eravamo tante anime perdute messe a

rosolare in una graticola d'inferno, e il macchinista, Satana Incarnato, ci

dava una sola alternativa, gelare nel freddo esterno. Lo svedese si tirò su a

sedere e con passione diede l'anatema alla voglia di vagabondare che adesso

scontava soffrendo di queste durezze.

«Quando torno a Chicago», perorò, «voglio trovarmi un lavoro e

tenermelo fino a che l'inferno non si geli. Poi ricomincerò a fare il

vagabondo».

E, vedi l'ironia della sorte, il giorno dopo, quando il treno dell'incidente fu

rimosso, lo svedese e io uscimmo da Evanston a bordo di un vagone

frigorifero che trasportava arance dalla California solatia. Naturalmente le

celle del ghiaccio erano vuote, perché faceva già abbastanza freddo fuori,

ma non per questo ci scaldavano. Ci entrammo da certi boccaporti posti in

cima al vagone; le casse erano fatte di ferro galvanizzato, e con quel tempo

così rigido non era piacevole toccarle. E noi lì, tremanti e scossi, a battere i

denti. Tenemmo consiglio e si decise di restare lì, nelle casse del ghiaccio,

notte e giorno, fino ad uscire dalla deplorevole zona degli altipiani e

scendere nella valle del Mississippi.

Ma bisognava mangiare, e decidemmo che alla prossima fermata

bisognava darsi da fare in cerca di mangime, per poi tornare subito alla

nostra ghiacciaia. Arrivammo alla città di Green River nel tardo

pomeriggio, ma troppo presto per la cena. Prima dell'ora del pasto è il

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momento peggiore per bussare alle porte di servizio; ma noi ci facemmo

coraggio, ci calammo dalla scaletta laterale quando il treno fu in stazione e

facemmo il giro delle case. Subito ci separammo, ma con l'intesa di

ritrovarci al carro frigorifero, Da principio mi andò male, ma alla fine, con

un paio di regalini dentro la camicia, corsi al treno. Stava uscendo di

stazione e andava forte. Il vagone in cui ci eravamo rifugiati era ormai

passato, e a una decina di carri di distanza io mi aggrappai alla scaletta, salii

svelto fino in cima e mi lasciai cadere in una cassa da ghiaccio.

Però mi aveva visto un frenatore dal suo sgabuzzo, e alla prossima

fermata, Rock Springs poche miglia avanti, ficcò il capo nella mia cassa e

disse: «Vieni fuori, figlio di un rospo! Vieni fuori!» Mi agguantò per i

calcagni e mi tirò fuori. Insomma, il treno speciale per gli aranci della

California continuò la sua corsa senza di me. A bordo ci restava lo svedese.

Cominciava a cadere la neve. Si annunciava una notte fredda. Dopo buio

cercai alla stazione e trovai un carro frigorifero vuoto. Ci salii, ma non sui

cassoni del ghiaccio, sul carro vero e proprio. Chiusi ben bene le pesanti

porte, e siccome i bordi erano guarniti di gomma, il carro risultava sigillato

a prova d'aria. Le pareti erano spesse. Non c'era modo che vi entrasse il

freddo esterno. Ma l'interno era freddo come l'esterno. Come elevarne la

temperatura, ecco il problema. Ma un vecchio vagabondo sa sempre il fatto

suo. Tirai fuori di tasca tre o quattro giornali. Li bruciai, uno alla volta, sul

pavimento del carro. Si levò il fumo, fino in cima. Ora non un grammo di

calore poteva sfuggire, e comodo e caldo passai una bellissima nottata. Non

mi destai neanche una volta.

Al mattino nevicava ancora. Mentre cercavo di far colazione, persi un

merci diretto a est. Più tardi provai con due altri merci ma mi buttarono

fuori da tutti e due. Per tutto il pomeriggio non passarono treni diretti a est.

La neve cadeva più fitta che mai, ma al crepuscolo uscii sul primo vagone

chiuso di un treno transcontinentale. Mentre salivo a bordo del vagone

chiuso da una parte, qualcun altro ci saliva dalla parte opposta. Era il

ragazzo fuggito dalla famiglia nell'Oregon.

Ora, il primo carro chiuso di un treno veloce che corre nella tormenta non

è di sicuro una festa. Ci passa il vento, colpisce la parete opposta e torna

indietro. Alla prima fermata, essendo calate le tenebre, andai a parlare con il

fuochista. Mi offrii di spalare il carbone sino al termine della sua corsa, che

era Rawlins. La mia offerta fu accettata. Dovevo lavorare fuori, sul tender,

nella neve, spaccando i pezzi di carbone con una mazza e passandoglielo

con la pala fin dentro la cabina. Ma siccome non dovevo lavorare di

continuo, di tanto in tanto potevo entrare in cabina a riscaldarmi.

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«Ehi», mi disse il fuochista, alla prima mia sosta per ripigliare il fiato.

«Là sul primo carro coperto c'è un ragazzino. Ha parecchio freddo».

Sulle locomotive della Union Pacific le cabine sono spaziose, e il ragazzo

lo sistemammo nel cantuccio caldo davanti all'alto sedile del fuochista, e lì

il ragazzo subito si addormentò. Arrivammo a Rawlins a mezzanotte. La

neve era più fitta che mai. Qui la locomotiva doveva andare al deposito per

essere sostituita con una locomotiva nuova. Quando il treno si arrestò, dai

gradini della locomotiva io caddi difilato fra le braccia di un omaccione che

indossava un grosso cappotto. Cominciò a farmi domande, e io prontamente

gli chiesi chi fosse. Con altrettanta prontezza m'informò che egli era lo

sceriffo. Ritirai le corna e ascoltai e risposi.

Cominciò descrivendomi il ragazzo che ancora dormiva in cabina.

Rapidamente pensai. Evidentemente la famiglia era sulle tracce del figlio e

lo sceriffo aveva ricevuto per telegrafo istruzioni dall'Oregon. Sì, il ragazzo

lo avevo visto. Per la prima volta a Ogden. La data corrispondeva alle

informazioni dello sceriffo. Ma il ragazzo doveva essere rimasto indietro,

spiegai, perché lo avevano fatto scendere da questo stesso transcontinentale,

questa notte stessa, uscendo da Rock Springs. E continuavo a pregare che il

ragazzo non si destasse, non scendesse dalla cabina rovinandomi ogni cosa.

Lo sceriffo mi mollò per intervistare i frenatori, ma prima di andarsene

disse:

«Amico, questa città non è posto per te. Capito? Prendi questo treno, e

bada di non sbagliarti. Se ti ritrovo dopo che il treno è partito...».

L'assicurai che non per mio desiderio mi trovavo nella sua città; che il

solo motivo per cui mi trovavo qui era che il treno ci si fermava; e che non

mi avrebbe mai più rivisto, appena fossi uscito da questa benedetta città.

Mentre andava a parlare con i frenatori, saltai di nuovo in cabina. Il

ragazzo era sveglio e si stava strofinando gli occhi. Gli dissi la notizia e gli

sconsigliai di restare dentro la locomotiva che andava al deposito. Per farla

corta, il ragazzo ripartì su quella stessa locomotiva, ma non in cabina, bensì

allo scoperto, con l'istruzione di chiedere il permesso al fuochista, alla

prima fermata. In quanto a me, mi fregarono. Il fuochista nuovo era giovane

e non scozzonato abbastanza da rompere le regole della Compagnia contro i

vagabondi in locomotiva; perciò respinse la mia offerta di spalargli il

carbone. Spero che il ragazzo ci sia riuscito, perché una notte allo scoperto

con la tormenta significava la morte.

Strano a dirsi, io non ricordo più in che modo mi buttarono fuori a

Rawlins. Rammento di aver guardato il treno, che immediatamente fu

ingoiato dalla tempesta di neve, e d'essermi avviato verso un saloon per

riscaldarmi. Qui c'era luce e calore. Tutto funzionava a pieno regime. Faro,

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roulette, dadi, poker e a fare allegra la serata contribuiva qualche allegro

vaccaro. Ero già riuscito a fraternizzare con questa gente e mandavo giù il

mio primo bicchiere a loro spese, quando una mano greve mi calò sulla

spalla. Mi volsi e sospirai. Era lo sceriffo.

Senza dire una parola mi portò fuori, nella neve.

«C'è un treno speciale per gli aranci, giù alla stazione», disse.

«Ma la notte è fredda», dissi io.

«Parte fra dieci minuti», disse lui.

Tutto qui. Non ci fu discussione. E quando quel treno speciale fu partito,

mi ritrovai nelle casse del ghiaccio. Pensai che prima di giorno mi si

sarebbero congelati i piedi, e per le ultime venti miglia fino a Laramie stetti

in piedi nel portello e danzavo su e giù. C'era troppa neve, i frenatori non

potevano vedermi, e a me non importava nulla, del resto, che mi vedessero.

A Laramie con un quarto di dollaro mi pagai una colazione calda, e

immediatamente dopo fui a bordo di un vagone chiuso, un bagagliaio, parte

di un transcontinentale che doveva arrampicarsi sino al passo, attraverso la

spina dorsale delle Montagne Rocciose. Di giorno non si sale su un

bagagliaio; ma con quella tormenta in cima alla Montagne Rocciose,

dubitavo che i frenatori avrebbero avuto lo stomaco di farmi scendere. E

infatti non mi fecero scendere. Anzi, a ogni fermata venivano a vedere se

non mi ero ancora gelato.

Al monumento ad Ames, proprio in cima alle Montagne Rocciose - non

ricordo che altezza - il frenatore venne a trovarmi per l'ultima volta.

«Ehi, amico», disse. «Vedi quel merci sul binario accanto che ci ha dato

la precedenza?»

Lo vidi. Proprio nel binario accanto, neanche due metri. Ma con quella

neve riuscivo appena a scorgerlo.

«Bene, in uno di quei carri c'è una parte dell'Esercito di Kelly. Hanno

sotto di sé due palmi di paglia, e sono in tanti da scaldare il carro».

Il suo consiglio fu buono, e io lo seguii, pronto tuttavia, caso mai fosse un

tiro birbone quello che voleva farmi il frenatore, a risalire sul carro chiuso

del transcontinentale. Invece andò benissimo. Trovai il carro - un grande

carro frigorifero con una porta aperta per la ventilazione. Ci salii. Incontrai

la gamba di un uomo, poi il braccio di un altro. La luce era fioca, e non

riuscivo a veder altro che gambe e braccia e corpi inestricabilmente confusi.

Mai visto un simile garbuglio di umanità. Erano tutti distesi sulla paglia,

uno sull'altro, uno sotto l'altro, uno attorno all'altro. Ottantaquattro robusti

vagabondi pigliano parecchio posto, se tu li stendi. Gli uomini che

calpestavo si risentivano. I loro corpi, sotto di me, parevano le onde del

mare, e mi davano un'involontaria spinta in avanti. Non riuscivo a trovare

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paglia su cui mettere i piedi, perciò pestavo altri corpi ancora. Cresceva il

risentimento e con esso il mio moto in avanti. Persi l'appoggio e caddi

seduto, all'improvviso. Purtroppo, ero seduto sulla testa di un uomo. Un

istante dopo si era alzato sulle mani e sulle ginocchia, furibondo, e io

volavo per aria. Quel che va su deve pur ritornare giù, e io venni giù, sulla

testa di un altro uomo.

Quel che successe dopo è molto vago nella mia memoria. Fu come

passare dentro una macchina trebbiatrice. Fui strapazzato da un capo

all'altro del carro. Quegli ottantaquattro vagabondi mi levarono la pula di

dosso, fino a che, per non so quale miracolo, trovai un pezzetto di paglia su

cui riposare. Adesso ero un iniziato di questa folla allegra. Per tutto il resto

della giornata viaggiammo nella tempesta, e per ingannare il tempo fu

deciso che ciascuno raccontasse una storia. Fu convenuto che ciascuna

storia doveva essere buona, e inoltre che fosse una storia mai sentita prima.

In caso contrario, il castigo era la macchina trebbiatrice. Nessuno fallì. E io

debbo a questo punto dire che mai in vita mia assistetti a una così

meravigliosa deboscia di contastorie. Ecco ottantaquattro uomini di tutto il

mondo - con me ottantacinque; e ciascuno disse un capolavoro. E questo per

forza: o capolavoro, oppure macchina trebbiatrice.

Nel tardo pomeriggio arrivammo a Cheyenne. Più che mai imperversava

la tempesta, e anche se l'ultimo pasto consumato era la colazione, nessuno

aveva il coraggio di andarsene a rimediare la cena. Per tutta la notte

corremmo nella tormenta, e il giorno dopo ci trovammo sulle dolci pianure

del Nebraska, sempre in corsa. Il sole benedetto scintillava su una terra che

sorrideva, e da ventiquattro ore non si toccava cibo. Sapemmo che il merci

sarebbe entrato in una città verso mezzogiorno, se non rammento male,

chiamata Grand Island.

Facemmo una colletta e mandammo un telegramma alle autorità di quella

città. Il testo del messaggio diceva che ottantaquattro vagabondi, sani e

affamati, sarebbero giunti verso mezzogiorno, e che non sarebbe stato male

far trovare pronto il pranzo. Alle autorità di Grand Island si presentava

questa scelta: darci da mangiare, sbatterci in prigione. In questo secondo

caso avrebbero dovuto darci da mangiare egualmente, e fu dunque saggezza

decidere che un pasto a testa era la spesa minore.

A mezzogiorno, quando il merci giunse a Grand Island noi eravamo

seduti sopra i vagoni dondolando le gambe al sole. Tutta la polizia del borgo

faceva parte del comitato d'onore. Divisi in squadre, ci fecero marciare fino

ai vari alberghi e ristoranti, dove ci fu servito il pranzo. Ormai non

mangiavamo da trentasei ore, e non occorreva spiegarci che cosa fare. Dopo

di che fummo riaccompagnati alla stazione ferroviaria. La polizia aveva

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costretto il merci ad attenderci. Il merci partì lentamente e noialtri

ottantaquattro, in fila lungo il binario, come formiche salimmo su per le

scalette laterali. Il treno era «catturato».

Quella sera non ci fu cena. O meglio gli altri non cenarono, io sì. All'ora

di cena, mentre il treno usciva da una cittadina, un uomo salì sul carro dove

io stavo giocando a «pedro» con altri tre vagabondi. La camicia dell'uomo

presentava un rigonfio sospetto. Nella mano destra aveva un secchio tutto

ammaccato da cui si levava il vapore. Io fiutai «Java». Porsi le carte a uno

che stava a guardare e chiesi scusa. Poi, all'altro capo del carro, seguito da

sguardi invidiosi, mi misi a sedere con l'uomo appena salito a bordo, divisi

con lui il caffè e la roba che aveva rimediato e che gli faceva gonfia la

camicia. Era lo svedese.

Verso le dieci di sera arrivammo a Omaha.

«Scendiamo un momento», mi disse lo svedese.

«Certo», dissi io.

Quando il merci entrò in Omaha, noi fummo pronti a scendere. Ma era

pronta anche la gente di Omaha. Lo svedese e io eravamo appesi alle

scalette esterne, pronti a calare. Invece il merci non si fermò. Non solo,

lunghe file di poliziotti, coi bottoni metallici e le stelle scintillanti alla luce

elettrica, erano disposti sui due lati del binario. Lo svedese e io sapevamo

quel che sarebbe successo se fossimo caduti fra le loro braccia. Ci tenemmo

alle scalette, e il treno continuò la corsa fino al fiume Missouri, verso

Council Bluffs.

Il «generale» Kelly con un'armata di duemila vagabondi era accampato a

Chautauqua Park, distante diverse miglia. Noi eravamo appunto la

retroguardia del generale Kelly. Scesi dal treno a Council Bluffs, cominciò

la marcia verso il campo. La notte si era fatta fredda, e grevi scrosci di

pioggia e vento ci gelavano e ci inzuppavano. Molti poliziotti ci tenevano a

bada e ci guidarono fino al campo. Lo svedese e io stavamo bene attenti e

trovammo il modo di filarcela.

Ormai la pioggia veniva giù a torrenti e nel buio non riuscivi neanche a

vederti le mani. Come due ciechi cercavamo un riparo. Ci servì l'istinto,

perché in men che non si dica trovammo un saloon - non un saloon aperto e

in affari, ma semplicemente un saloon che di notte chiudeva, e neanche un

saloon con indirizzo permanente, ma un saloon di legno, con sotto le ruote,

che si spostava da un luogo all'altro. Le porte erano serrate. La pioggia

gelida continuava a batterci. Non esitammo. Infrante le porte, entrammo.

La vita mia ha conosciuto molti accampamenti duri, ho avuto per letto

una pozzanghera, ho dormito sulla neve con due coperte, con il termometro

che segnava venticinque sotto zero (e questo è uno scherzo rispetto ai

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quarantacinque e più cui può scendere la colonnina di alcool); ma voglio

dire subito che mai mi toccò accampamento peggiore, mai trascorsi una

notte più miseranda di quella che passai con lo svedese nel saloon iterante

di Council Bluffs. In primo luogo l'edificio, sospeso com'era per aria, aveva

moltissime aperture nel pavimento, attraverso le quali fischiava il vento. In

secondo luogo il bar era vuoto; non c'era acquavite in bottiglie con cui

riscaldarsi e scordare la nostra miseria. Non avevamo coperte, bagnati erano

i nostri panni, bagnata la pelle. Cercammo di dormire. Io rotolai sotto il bar,

e lo svedese rotolò sotto un tavolo. Ma con quei buchi, con quei crepacci del

pavimento, era proprio impossibile, e dopo mezz'ora io mi misi sopra il

bancone del bar. Poco dopo anche lo svedese si mise sul tavolo.

Ed eccoci lì tremanti a pregare la luce del giorno. Io so di aver tremato

fino al punto di non poter tremare più, fino a che i muscoli del tremito si

furono esauriti e ormai si limitavano a dolermi. Lo svedese gemeva,

mugolava, e ogni tanto, sbattendo i denti, mormorava: «Mai più, mai più».

Ripeteva queste parole incessantemente, mille volte e quando gli si chiusero

gli occhi, continuò a ripeterle nel sogno.

Al primo grigiore dell'alba uscimmo dalla nostra casa di dolore e una

volta fuori ci trovammo immersi in una nebbia densa e fredda. Incespicando

raggiungemmo il binari della ferrovia. Io volevo tornare a Omaha per

rimediarvi la colazione; il mio compagno proseguiva per Chicago. Era

venuto il momento di dividerci. Ci abbracciammo con le mani paralizzate.

Continuavamo tutti e due a tremare. Quando tentavamo di parlare, ci

zittivano i denti, sbattendo fra di loro. Restammo in silenzio, tagliati fuori

dal mondo; vedevamo soltanto un breve tratto di binario, le cui estremità si

perdevano nella nebbia. Ci fissavamo con occhi muti, scuotendo le nostre

mani strette in segno di affetto. Il viso dello svedese era livido di freddo, e

so che uguale doveva essere il mio.

«Mai più che cosa?» riuscii a dire.

Le parole cercavano di formarsi nella strozza dello svedese; poi fioche e

lontane, in un esiguo sussurro che gli veniva dal fondo dell'anima gelata,

ecco le parole:

«Mai più il vagabondo».

Tacque, e continuando la sua voce prese forza e robustezza,

nell'affermazione della sua volontà.

«Mai più il vagabondo. Vado a trovarmi un lavoro. Faresti meglio a fare

lo stesso anche tu. Le notti come queste significano reumatismi».

Mi agguantò la mano.

«Addio, amico», disse.

«Addio, amico», dissi.

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Poi la nebbia ci ingoiò, ci divise. Era il nostro ultimo distacco. Signor

Svedese, dovunque tu sia, io spero che tu abbia trovato quel lavoro.