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Jack London JOHN BARLEYCORN tradotto da Luciano Bianciardi. Tindalo, Roma 1971

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Jack London

JOHN BARLEYCORN

tradotto daLuciano Bianciardi.Tindalo, Roma 1971

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JOHN BARLEYCORN (1913). Romanzo autobiografico, nel quale London descrive la lunga strenua lotta contro l'alcool. Barleycorn non è che «l'altro da sé», quello che beve e con il quale per molto tempo egli convive.«... E' lo scotto che deve pagare l'uomo di fantasia per la sua amicizia con John Barleycorn... Guarda la vita e le cose della vita con l'occhio invidioso di un filosofo pessimista tedesco. Vede al di là di tutte le illusioni. Il bene è il male, la verità è un inganno, e la vita uno scherzo. Dalle sue alture folli e quiete, con la certezza di un Dio, tutta la vita gli appare un male... E questo non va bene per un uomo che sia fatto per vivere e amare ed essere amato. Eppure il suicidio repentino o lento, uno spruzzo improvviso e un lento gocciare negli anni, è il prezzo che esige John Barleycorn...».Accanto a questa sua lotta London tratteggia episodi della sua vita: l'infanzia lungo la costa del Pacifico, i primi anni di Università, il lavoro in lavanderia. Sulla pagina scritta di London vediamo la medesima forza impulsiva e disordinata che dominò tutta la sua esistenza.

JACK LONDON. Nacque a S. Francisco di California il 12 gennaio 1876 e morì suicida il 22 novembre 1916 nel suo splendido ranch. Come la maggioranza degli scrittori americani fece molti «mestieri», si buttò nella vita giovanissimo e poi scrisse. A 17 anni fu marinaio, girovago, seguace dell'esercito di Coxey, cercatore d'oro nell'Alaska; in seguito lo vediamo studente a Oakland e poi all'Università di California. Abbandonò, poi, la stessa per lavorare in una lavanderia. Politicamente fu socialista entusiasta, soprattutto dopo la lettura del «Manifesto» di Marx-Engels, ma contemporaneamente predicava il culto del «Superuomo» nietzschiano. Affascinato dall'idea imperialistica della «forza» e della «conquista» così come poteva vederla in Kipling, amò anche «il mito» della «belva bionda» di H. S. Chamberlain.Nel 1899 i giornali cominciarono ad accettare i suoi scritti ed egli si dedicò completamente all'arte. Guadagnò moltissimo e in fretta; con la stessa fretta dilapidò i suoi patrimoni. «Il richiamo della foresta» fu il primo suo grande successo. Seguirono «Il lupo di mare», «Martin Eden», «John Barleycorn». Scrisse in tutto una cinquantina di romanzi. Nel 1913 gli stessi erano tradotti in 11 lingue e London era all'epoca uno degli scrittori più ricchi e letti di tutto il mondo. Spirito solitario e prevalentemente romantico si trovò, comunque, sempre disadattato in un mondo ostile. Mondo verso il quale egli perse la sua battaglia perché contro di esso seppe contrapporre solo un altro grande gesto romantico: il suicidio.

LUCIANO BIANCIARDI. Nato a Grosseto. Laureato in filosofia nel 1947 a Pisa, lavora come bibliotecario e professore di Liceo. Passato al nord, diviene redattore editoriale e giornalista. E' morto nel 1971 a Milano. Principali romanzi pubblicati: «La vita agra», «La battaglia soda».Si è affermato come uno dei nostri migliori traduttori dall'inglese (Faulkner, Henry Miller, John Barth, Jack London, fra molti altri).

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1.

Mi successe tutto un giorno di elezioni. Era un caldo pomeriggio californiano, e a cavallo io avevo traversato la Valle della Luna per andare dalla fattoria al piccolo villaggio a votare Sì oppure No a un sacco di emendamenti proposti alla Costituzione della California. Data la calura della giornata, mi feci diverse bevute prima di dare il mio voto e diverse altre dopo aver votato. Poi, sempre a cavallo avevo ripreso la mia strada attraverso i vigneti e i pascoli della fattoria arrivando a casa giusto in tempo per bere ancora e cenare.«Come hai votato sull'emendamento al suffragio?» chiese Charmian.«Ho votato a favore».Fece un'esclamazione di sorpresa. Infatti, sia ben noto, ai miei verdi anni, nonostante la mia fervida democrazia, mi ero opposto al voto alle donne. Quando gli anni mi crebbero e si fecero più tolleranti, la mia accettazione ebbe meno entusiasmo, come dinanzi a un fenomeno sociale inevitabile.«E perché hai votato a favore?» chiese Charmian.Risposi. Risposi a lungo. Risposi sdegnato. Più rispondevo e più mi sdegnavo. (No non ero ubriaco. Non a caso la cavalla che avevo montato si chiamava «La Fuorilegge». Avrei voluto vedere un ubriaco cavalcarla).Eppure - come dire? - ero su di giri. Mi sentivo «bene», provavo una piacevole eccitazione.«Se le donne ottengono il voto, votano per il proibizionismo» dissi. «Voglio dire saranno le mogli, le sorelle, le madri, e loro soltanto, che pianteranno i chiodi nella bara di John Barleycorn...» (11).«Ma io credevo che tu fossi amico di John Barleycorn» intervenne Charmian.«Sono amico. Ero amico. Non sono più amico. Non lo sono mai stato. E mai sono meno amico che quando l'ho vicino e più sembro amico suo. E' il re dei bugiardi. E' il più franco degli uomini sinceri. E' l'augusto compagno con cui si cammina in compagnia degli dei. E' anche in combutta con la Senza Naso. La sua via porta alla verità occulta, e alla morte. Ti dà vista chiara, e sogni torbidi. E' nemico della vita, e maestro di saggezza oltre la saggezza della vita. E' un assassino con la mano rossa e massacra la gioventù».E Charmian mi guardava, e si domandava - lo sapevo - dove avessi pescato questa roba.Continuai a parlare. L'ho già detto, ero su di giri. Nel mio cervello ogni pensiero era di casa. Ogni pensiero, nella sua celletta, pronto già vestito alla porta, come un prigioniero a mezzanotte che aspetta di evadere dal carcere. E ogni pensiero era una visione, chiara, nitida, inconfondibile. Il mio pensiero era illuminato dalla luce bianca e chiara dell'alcool. John Barleycorn subiva un accesso di sincerità, dava via i più riposti segreti di se medesimo. E io ero il suo portavoce. Erano in moto le moltitudini dei ricordi della mia vita passata, tutti ben disposti come soldati in una grande parata. Toccava a me prendere, scegliere. Ero padrone del pensiero, maestro del mio vocabolario e di tutta la mia esperienza, infallibilmente capace di scegliere i miei dati e costruire la mia esposizione. E' così che John Barleycorn gioca e alletta, e affida ai capricci dell'intelletto il compito di mormorare le sue fatali intuizioni della verità, e infila brani di porpora nella monotonia dei tuoi giorni.Tracciai la mia vita a Charmian, e le esposi la struttura della mia costituzione. Non ero un alcolista ereditario. Non ero nato con alcuna predisposizione chimica, organica all'alcool. Per questo ero normale nella mia generazione. L'alcool era un gusto acquisito. Penosamente acquisito. L'alcool era stata una cosa repugnante, da morire, più schifosa di qualsiasi medicina. Neanche ora me ne piaceva il gusto. Lo bevevo solo perché mi teneva su. E dai cinque ai venticinque anni non mi aveva mai tenuto su. Venti anni di involontario apprendistato erano occorsi per rendere il mio sistema fisico tollerante, sia pur con qualche ribellione, all'alcool, per darmi, nel profondo del cuore e delle viscere, il desiderio dell'alcool.Accennai ai miei primi contatti con l'alcool, dissi delle mie prime ubriacature e repulsioni, e sempre feci notare la sola cosa che alla fine l'aveva avuta vinta su di me, vale a dire, la disponibilità dell'alcool. Non solo era sempre stato disponibile, ma ogni interesse della mia vita nel suo crescere mi aveva accostato ad esso. Ragazzo dei giornali, marinaio, minatore, vagabondo in terre lontane, sempre dove gli uomini si ritrovano a scambiare idee, a ridere, a vantarsi, a darsi le arie, a riposare, a dimenticare l'ottusa fatica delle notti e dei giorni stancanti, sempre si ritrovano attorno all'alcool. Il saloon era il posto di ritrovo. Gli uomini vi si riunivano come i primitivi attorno al fuoco, accoccolati, o all'imbocco della caverna.Rammentai a Charmian le case naviganti che le furono vietate nel Pacifico Meridionale, dove i

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cannibali dai capelli crespi sfuggivano le femmine e facevano festa e si ubriacavano da soli, nel loro sacrario, tabù alle donne sotto pena di morte. Da giovane, grazie al saloon, ero sfuggito alle strettoie dell'influenza donnesca nel vasto mondo libero degli uomini. Tutte le strade portano al saloon. Le mille strade del fascino e dell'avventura facevano centro sul saloon, e di lì portavano fuori, verso il mondo.«Il fatto è» dissi, come a concludere il mio sermone, «che la disponibilità dell'alcool mi ha dato il gusto dell'alcool. Non me ne importava niente. Anzi mi faceva ridere. Eppure eccomi qui, alla fine, posseduto dal desiderio del bevitore. Ci vollero venti anni a piantare quel desiderio e per dieci anni il desiderio continuò a crescere. E il risultato della soddisfazione di quel desiderio è tutto fuor che bene. Come temperamento io sono uomo di cuore buono e lieto. Eppure quando cammino con John Barleycorn, soffro tutta la dannazione del pessimismo intellettuale.«Però», mi affrettai ad aggiungere (sempre mi affrettavo ad aggiungere), «John Barleycorn deve avere il suo dovuto. Egli dice la verità. Ecco la maledizione. Le cosiddette verità della vita non sono vere. Sono le bugie vitali grazie alle quali vive la vita, e allora John Barleycorn le smentisce».«Ciò che non giova alla vita» disse Charmian.«Verissimo», risposi. «E questo, accidenti, è l'aspetto più perfetto di tutto quanto. John Barleycorn giova alla morte. Ecco perché oggi ho votato a favore dell'emendamento. Ho riletto la mia vita e ho rivisto come la disponibilità dell'alcool me ne ha fatto venire il gusto. Vedi, in una generazione nascono ben pochi alcolisti. E per alcolista intendo un uomo la cui chimica brama l'alcool, e lo porta irresistibilmente verso di esso. La grande maggioranza dei bevitori abituali sono venuti al mondo non soltanto senza desiderio dell'alcool, ma addirittura con una vera e propria ripugnanza all'alcool. Non il primo, non il ventesimo, non il centesimo bicchiere riesce a dargliene il gusto. Ma hanno imparato, allo stesso modo in cui altri uomini imparano a fumare, anche se è infinitamente più facile imparare a fumare che a bere. Hanno imparato perché l'alcool è così disponibile. Le donne sanno il trucco. Pagano per questo, mogli sorelle e madri. E quando si verrà al voto, voteranno per il proibizionismo. E in questo modo ecco il meglio della faccenda, non ci sarà prepotenza contro la prossima generazione. Non avendo accesso all'alcool, non essendo predisposti all'alcool, non sentiranno mai la mancanza dell'alcool. Questo significherà vita più rigogliosa per la maturità dei giovani nati e cresciuti, sì, e vita più rigogliosa per le ragazze nate e cresciute a condividere la vita dei giovani».«Perché non scrivi queste cose a benefizio dei giovani e delle giovani di domani?» chiese Charmian. «Perché non scriverlo, al fine di aiutare le mogli e le sorelle e le madri a scegliere come votare»?«I 'Ricordi di un alcolista'», dissi con scherno, o meglio, lo disse John Barleycorn; infatti stava seduto con me al tavolo, a sentire questa chiacchierata gradevole e filantropica, ed è uno dei trucchi di John Barleycorn volgere il sorriso a scherno senza neanche darti un attimo di avviso.«No», disse Charmian ignorando la rozzezza di John Barleycorn, come sanno fare ormai molte donne. «Ti sei dimostrato non dipsomane, non alcolista, ma solo bevitore abituale, uno che ha fatto la conoscenza di John Barleycorn molti anni or sono, e che con lui ha fatto amicizia stretta. Scrivi tutto questo, e scegli per titolo 'Ricordi di un alcolista'».

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2.

Ma prima di cominciare debbo chiedere al lettore di seguirmi con piena simpatia, e siccome la simpatia è semplicemente comprensione, debbo chiedergli di cominciare da me e dalle cose di cui scrivo. In primo luogo, io sono un bevitore stagionato. Non ho una predisposizione costituzionale all'alcool. Non sono uno stupido. Non sono un maiale. Conosco il gioco del bere dall'A alla Z, e nel bere ho usato giudizio. Mai è successo che abbiano dovuto portarmi a letto. E neanche barcollo. Insomma, sono un uomo normale, medio, per quanto riguarda il bere. E questo è il punto: sto scrivendo degli effetti che ha l'alcool su di un uomo normale, medio. Non ho neanche una parola da dire circa (o a favore) il dipsomane, il quale rappresenta un eccesso, d'importanza appena microscopica.Esistono, grosso modo, due tipi di bevitori. C'è l'uomo che tutti conosciamo, stupido, privo di fantasia, col cervello ottusamente roso da ottuse ubbie; quello che cammina vistosamente a gambe larghe, azzardando il passo, che di frequente cade per terra, e che vede, al sommo della sua estasi, topi azzurri ed elefanti rosa. E' il tipo che dà vita alle barzellette sui giornali umoristici.L'altro tipo di bevitore ha fantasia, visione. Anche quando è piacevolmente su di giri, cammina diritto, naturale, non barcolla, non cade, sa dove si trova e quello che sta facendo. Non il suo corpo, ma il suo cervello è ubriaco. Può darsi che cianci spiritosamente, o che si lasci andare alla simpatia verso il suo prossimo. Può darsi che veda spettri intellettuali che sono cosmici e logici e che pigliano la forma del sillogismo. Proprio quando è in queste condizioni egli si spoglia del loglio delle più vitali illusioni della vita e considera gravemente il collare di ferro della necessità fissato al collo della sua anima. Questa è l'ora della sottile potenza di John Barleycorn. E' facile a tutti rotolare per terra. Ma è una prova tremenda, per un uomo, stare diritto su due gambe senza barcollare, e decidere che in tutto l'universo egli trova per sé una libertà soltanto, e cioè la previsione del giorno della sua morte. Per quest'uomo questa è l'ora della logica bianca (di cui si dirà oltre), quando egli sa di poter conoscere soltanto le leggi delle cose, ma non il significato delle cose. E' l'ora del pericolo, questa. I suoi piedi già fanno presa sul sentiero che conduce alla tomba.Per lui tutto è chiaro. Tutte queste confuse chiacchiere sull'immortalità non sono altro che la paura di anime spaurite dal terrore della morte, e maledette dallo stramaledetto dono della fantasia. Non hanno l'istinto della morte, non hanno la volontà di morire quando arriva il momento della morte. Si illudono a credere che vinceranno la gara, e che la vinceranno per il futuro, lasciando gli altri animali all'oscurità della fossa o al calore che annienta del forno crematorio. Ma lui, voglio dire quest'uomo nell'ora della logica bianca, sa che costoro s'ingannano e si nutrono d'illusioni. Quello è il solo evento che tocca a tutti, egualmente. Non c'è cosa nuova sotto il sole, neanche questa fanfaluca che tanto bramano le anime deboli e che si chiama immortalità. Ma sa, lui sa, lui che se ne sta in piedi con le gambe che non barcollano. E' composto di carne, di vino, di favilla, di festuche di sole, di polvere del mondo, fragile meccanismo fatto per correre un tratto, fatto per subire l'assillo dei dottori della divinità e dei dottori della malattia, e per essere alla fine buttato via nel mucchio.Certo, tutto questo è schifo dell'anima, schifo della vita. E' lo scotto che deve pagare l'uomo di fantasia per la sua amicizia con John Barleycorn. Lo scotto che paga l'uomo stupido è più semplice, più facile. Con il bere si riduce alla incoscienza dello stolto. Dorme un sonno drogato, e se sogna, i suoi sogni sono fiochi e inespressi. Invece all'uomo di fantasia John Barleycorn invia i sillogismi spietati e spettrali della logica bianca. Guarda la vita e le cose della vita con l'occhio invidioso di un filosofo pessimista tedesco. Vede al di là di tutte le illusioni. Trasvaluta tutti i valori. Il bene è male, la verità è un inganno, e la vita uno scherzo. Dalle sue alture folli e quiete, con la certezza di un dio, tutta la vita gli appare un male. Moglie, figli, amici - nella chiara, bianca luce della logica, sono disvelate come frodi e inganni. Vede oltre, e tutto quello che vede è la loro fragilità, la loro meschinità, la loro pietosa sordidezza. Non lo ingannano più. Sono piccoli, miserabili egoismi, come ogni altra minuscola creatura umana, che vivono una loro vita da lucciola, di una ora. Non hanno libertà. Sono pupazzi del caso. Anche lui lo è. Lui lo capisce. Ma una differenza c'è. Lui vede; lui sa. E conosce la sua unica libertà: che può prevedere il giorno della sua morte. E questo non va bene per un uomo che sia fatto per vivere e amare ed essere amato. Eppure il suicidio, repentino o lento, uno spruzzo improvviso e un lento gocciare negli anni, è il prezzo che esige John Barleycorn. Non c'è amico, fra i suoi, che sfugga alla giusta dovuta scadenza.

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3.

Avevo cinque anni la prima volta che mi ubriacai. Era una giornata calda, e mio padre arava nel campo. Mi avevano mandato da casa - un mezzo miglio - a portargli un secchio di birra. «E stai attento a non versarlo», fu l'ordine al mio partire.Era, me lo rammento, un secchio da strutto, di bordo molto largo e senza coperchio. Al mio andare, la birra traboccava e mi bagnava le gambe La birra era una cosa molto preziosa. Io riflettevo. A ripensarci doveva essere meravigliosamente buona. Altrimenti, perché mi avrebbero sempre proibito di berla, in casa? Altre cose che i grandi mi vietavano erano poi parse buone. Dunque anche la birra era buona. Fìdati dei grandi. Quelli sanno. In ogni modo, il secchio era troppo colmo, io me lo sbattevo sulle gambe e lo versavo per terra. Perché sprecarla? E nessuno avrebbe mai saputo se la avevo bevuta o versata.Ero così piccolo che per maneggiare il secchio, mi misi a sedere e me lo tirai in grembo. Dapprima sorseggiai la spuma. Rimasi deluso. Non pareva poi tanto preziosa. Evidentemente la preziosità non stava nella spuma. E poi, il gusto non era poi troppo buono. Poi ricordai che i grandi, prima di bere, spazzavano via la spuma. Ci tuffai la faccia e succhiai il liquido compatto, sottostante. Non era affatto buona. Eppure bevvi ancora. I grandi sapevano il fatto loro. Considerata la mia poca mole e la grandezza del secchio che mi tenevo in grembo, e il fatto che bevevo trattenendo il fiato con la faccia sepolta fino alle orecchie nella spuma, era piuttosto difficile valutare quanta ne bevessi. Non solo, la mandavo giù come se fosse medicina, con una fretta nauseata di por termine a questa dura prova.Ebbi un brivido quando ripresi il cammino, e intanto pensavo che il sapore buono sarebbe venuto dopo. Provai diverse altre volte, durante quel lungo mezzo miglio. Poi sbalordito dalla quantità di birra che mancava, e rammentando che si poteva far schiumare daccapo la birra rafferma, presi uno stecco e l'agitai fino a che la schiuma arrivò all'orlo.E mio padre non si accorse di nulla. Vuotò il secchio con la vasta sete dell'aratore accaldato, mi rese il secchio e ricominciò ad arare. Io faticavo a camminare accanto ai cavalli. Rammento d'avere inciampato nei loro zoccoli, e che mio padre tirò le briglie con tanta forza che per poco i cavalli non mi caddero addosso. Mi disse che per poco non ci rimettevo le budella. Ricordo anche, vagamente, che mio padre mi portò in braccio fino agli alberi, sul ciglio del prato, mentre tutto il mondo mi ruotava attorno, e io avvertivo una nausea mortale, che s'accompagnava a una tremenda convinzione di peccato.Dormii tutto il pomeriggio sotto gli alberi, e quando mio padre mi svegliò al tramonto, fu un ragazzino davvero schifato quello che si alzò e stancamente si trascinò fino a casa. Ero esausto, oppresso dal peso delle mie membra, e avevo nello stomaco come una vibrazione d'arpa che mi arrivava alla gola e al cervello. La mia era la condizione di chi ha combattuto con il veleno. E in verità, ero rimasto avvelenato.Nelle settimane e nei mesi che seguirono mi tenni lontano dalla birra come mi tenevo lontano dalla stufa dopo che mi ci ero scottato. I grandi avevano ragione. La birra non era roba da bambini. I grandi se la potevano permettere, allo stesso modo in cui si potevano permettere di prendere le pillole e l'olio di ricino. In quanto a me, potevo cavarmela benissimo anche senza la birra. Sì, e fino al giorno della mia morte avrei potuto cavarmela, senza. Ma le circostanze decisero altrimenti. A ogni mia svolta del mondo in cui vivevo c'era John Barleycorn, che ammiccava. Non c'era verso di sfuggirgli. Tutte le strade portavano da lui. E ci vollero vent'anni di contatto, di reciproche cortesie, di segreti accenni, a far sorgere in me una abietta simpatia per questo manigoldo.

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4.

Il mio successivo scontro con John Barleycorn avvenne all'età di sette anni. Stavolta fu uno scontro che mi spaventò, perché la fantasia era in errore. Sempre contadini, la mia famiglia si era trasferita in una fattoria sulla costa sabbiosa della contea di San Matteo, a sud di San Francisco. A quei tempi era una campagna selvaggia e primitiva; e spesso sentivo mio padre vantarsi che noi eravamo di vecchia razza americana e non immigrati come i nostri vicini irlandesi e italiani. In tutta la nostra zona era quella l'unica vecchia famiglia americana.Una domenica mattina mi trovavo, non so come o perché, alla fattoria dei Morrisey. C'erano parecchi giovani convenuti dalle fattorie vicine. Ma c'erano stati anche gli anziani, a bere sin dall'alba, e alcuni anzi sin dalla notte prima. I Morrisey erano una razza grossa, di scarpa greve, pugno duro e voce rozza.All'improvviso si udirono strilli di ragazze e grida di: «Botte»! Gente che correva, uomini che si precipitavano fuor della cucina. Due giganti, con gli occhi accesi, la barba grigiastra, si serravano l'un con l'altro con le braccia. Uno era Matt, il Nero, che, lo dicevano tutti, ai suoi tempi aveva ammazzato due uomini. Gli urli delle donne erano attutiti, interrotti, spezzati; si tenevano una mano sugli occhi e scrutavano di tra le dita. Io no. Bella presunzione, che fossi io lo spettatore più interessato. Forse avrei visto quella cosa meravigliosa, un uomo morto. O almeno, avrei visto una rissa fra uomini. Fu grande la disillusione. Matt il Nero e Tom Morrisey si limitavano a tenersi l'uno con l'altro e alzavano i piedi, dentro quelle goffe scarpacce, in una specie di danza grottesca di elefanti. Erano troppo ubriachi per darsele. Poi s'impadronirono di loro i pacificatori e li condussero a cementare una rinnovellata amicizia in cucina.A un tratto si misero a parlare tutti insieme, con un fracasso e un rimbombo come quello che fanno uomini di petto vasto e abituati all'aria libera, quando il whisky ha scacciato via la loro tendenza a non parlare. E io, bambinetto di sette anni, il cuore in bocca, il corpo tremante e teso come quello di un cerbiatto quando sta per scappare, stavo a guardare meravigliato dalla porta aperta e imparavo qualcosa di nuovo sulla stranezza degli uomini. E più mi stupirono Matt il Nero e Tom Morrisey spaparanzati sul tavolo, che si abbracciavano e piangevano di affetto.La bevuta in cucina continuava, e fuori le ragazze cominciavano a intimorirsi. Conoscevano il gioco del bere, e non avevano voglia d'esserci quando sarebbe cominciato, e qualcuno propose di andare in un grosso "rancho" italiano distante quattro miglia, dove si poteva ballare. Subito formarono le coppie, dama e cavaliere, e partirono sulla strada sabbiosa. E quando i giovanotti van con le loro belle, stai pur sicuro che un ragazzino di sette anni sta a sentire e a imparare come vanno le storie d'amore, dalle sue parti. E badiamo bene, la fidanzata ce l'avevo anch'io. Era una ragazzina irlandese della stessa mia età, a fare coppia con me. Eravamo i soli bambini, in questa faccenda spontanea. Forse la coppia più anziana sarà stata sui venti anni. C'erano gran pezzi di figliole, cresciute bene, sui quindici, sedici anni, che camminavano coi loro amici. Ma eravamo più giovani di tutti noi due, la ragazzina irlandese e io, e camminavamo tenendoci per mano, e qualche volta, sotto la tutela dei più anziani, l'abbracciavo alla vita. Solo che questo non era comodo. Ero molto fiero, in quella chiara mattina di domenica, di andarmene su quella strada lunga e squallida fra le dune. Ce l'avevo anch'io la mia ragazza. Ero un ometto.Al "rancho" italiano erano tutti scapoli. La nostra visita fu salutata con gioia. Versarono per tutti vino rosso nei bicchieri grandi, e la lunga sala da pranzo fu in parte sgomberata per le danze. E i giovani ballarono e bevvero con le ragazze, seguendo gli accordi di una fisarmonica. Per me quella era una musica divina. Non avevo mai sentito una cosa tanto bella. Il giovane italiano che ce la concedeva, a tratti si alzava in piedi e ballava anche lui, abbracciando una ragazza, e continuava a suonare la fisarmonica dietro la schiena di lei. E tutto questo per me era meraviglioso, che non danzavo ma stavo seduto a tavola guardando le meraviglie della vita. Ero soltanto un ragazzino, e qua dentro c'era tanta vita da imparare. Con il passare del tempo, i giovanotti irlandesi cominciarono a servirsi da soli altro vino, e l'atmosfera si fece più allegra che mai. Notai che alcuni di loro barcollavano e cadevano durante il ballo, e che uno s'era addormentato in un canto. Non solo: qualche ragazza si lamentava, voleva andarsene, mentre altre eran vezzose e compiacenti, disposte a tutto quello che potesse succedere.Quando i padron di casa italiani mi avevano, genericamente, offerto del vino, io avevo detto di no. L'esperienza della birra mi bastava, e non avevo alcuna disposizione a ulteriori traffici in questa roba, o in altro che ad essa si collegasse. Purtroppo, un giovanotto italiano di nome

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Piero, anima maliziosa, vedendomi seduto tutto solo, seguendo il capriccio del momento, riempì a mezzo un bicchiere di vino e me lo porse. Stava seduto a tavola di fronte a me. Lo rifiutai, lui si fece severo in volto, e insisté a offrirmi il vino. E allora cadde su di me il terrore, un terrore che ora debbo spiegare.Mia madre aveva certe sue teorie. Prima fra tutte, e assai radicata, la convinzione che le ragazze brune e tutto il genere umano che ha gli occhi scuri sono ingannatori. Inutile dire che mia madre era bionda. Poi, era profondamente convinta che le razze latine dagli occhi scuri erano profondamente sensibili, profondamente proditorie, profondamente micidiali. Più volte avevo sentito affermare dalle sue labbra che se uno offende un italiano, sia pure leggermente e senza intenzione, quello risponde con una coltellata nella schiena. Era proprio questo il suo modo di dire, «coltellata nella schiena».Ora, anche se io avevo avuto il desiderio di vedere Matt il Nero uccidere Tom Morrisey quella mattina, non intendevo offrire ai ballerini lo spettacolo di un coltello piantato nella schiena mia. Non avevo ancora imparato a distinguere fra fatti e teorie. Implicita la mia fede nell'affermazione di mia madre, sul carattere degli italiani. E poi mi balenava qualche sospetto sul carattere sacro dell'ospitalità. Mi avevano insegnato a credere che se l'offendevo lui avrebbe risposto con un coltello, allo stesso modo preciso in cui un cavallo scalcia quando ti avvicini troppo ai suoi zoccoli e gli dai fastidio. E poi questo italiano, Piero, aveva quei tremendi occhi neri di cui mi aveva parlato mia madre. Erano occhi diversi dagli occhi che conoscevo, da quelli azzurri e grigi e castani della mia famiglia, dal celeste così simpatico degli irlandesi. Forse Piero aveva bevuto un poco. In ogni modo i suoi occhi neri erano anche lucidi e diabolici. Erano occhi misteriosi, sconosciuti, e chi ero io, a sette anni, per analizzarli e conoscerne la malizia? In essi io mi figuravo morte improvvisa, e rifiutai il vino di malavoglia. L'espressione nei suoi occhi cambiò. Si fecero severi e imperiosi, mentre spingeva verso di me il bicchiere pieno.Che cosa potevo fare? Dopo di allora ho visto in faccia la morte, ma non ho mai conosciuto come allora la paura della morte. Mi portai il bicchiere alle labbra, e gli occhi di Piero si placarono. Soltanto allora capii che non mi avrebbe ucciso. Questo fu un sollievo. Ma non fu un sollievo il vino. Era scadente, nuovo, amaro, e agro, fatto con gli scarti dei vigneti e delle pergole, e aveva un sapore anche peggiore della birra. C'è un solo modo per prendere una medicina: mandarla giù. E in quel modo io presi il vino. Buttai la testa all'indietro e me lo ingozzai. Dovetti mandarne giù una altra sorsata, e finire il veleno, perché veleno era per i miei tessuti e le mie membrane di bambino.A ripensarci, posso capire che Piero ne fosse colpito: riempì a metà un secondo bicchiere e lo spinse sul tavolo incontro a me. Gelato di paura, disperato della sorte che mi toccava, mandai giù il secondo bicchiere come il primo. Ma a Piero questo parve troppo. Doveva condividere il prodigio infantile che aveva scoperto. Chiamò Domenico, un italiano con baffi, a vedere lo spettacolo. Stavolta me ne dettero un bicchiere pieno. Per vivere uno fa qualsiasi cosa. Mi feci forza, dominai la nausea che mi saliva alla gola, e buttai giù.Domenico non aveva mai visto un fanciullo di calibro talmente eroico. Due volte colmò il bicchiere, ogni volta fino all'orlo, e lo vide scomparire nella mia gola. Stavolta la mia bravura stava attraendo altra attenzione. Braccianti italiani di mezza età, vecchi contadini che neanche parlavano l'inglese, e che non potevano ballare con le ragazze irlandesi, mi circondavano. Erano scuri e selvatici, portavano camicie e fusciacche rosse; e sapevo che avevano addosso il coltello; e facevano cerchio attorno a me come un branco di pirati. E Piero e Domenico volevano che io dessi spettacolo.Mi fosse mancata la fantasia, fossi stato stupido, oppure ostinato come un mulo, deciso ad averla vinta, non mi sarei mai messo in un simile impiccio. E ragazzi e ragazze ballavano, non c'era nessuno a salvarmi dalla mia sorte. Quanto bevvi non lo so. Il mio ricordo è di sofferenza e paura lunghissima, in mezzo a un branco di assassini, d'un infinito numero di bicchieri di vino rosso che traversavano la tavola nuda e sporca di vino, per finire dentro la mia gola riarsa. Per quanto cattivo fosse il vino, una coltellata nella schiena era peggio, e io dovevo sopravvivere ad ogni costo.Se ci ripenso con la consapevolezza del bevitore, ora so perché non crollai disfatto sul tavolo. L'ho già detto, ero gelato, paralizzato di paura. Non facevo altro movimento che quello, portare una serie interminabile di bicchieri alle labbra. Ero un ricettacolo fermo, immobile, per qualsiasi quantità di vino. Il vino che giaceva inerte nel mio stomaco inerte di paura. La paura era troppa, addirittura, e per questo non mi si rivoltò lo stomaco. Dunque tutto il branco degli italiani stava a guardare meravigliato questo infantile fenomeno che mandava giù vino con il

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sangue freddo di un automa. E non è certo per darmi delle arie che adesso affermo che costoro non avevano mai visto nulla di simile.Venne l'ora di andare. Le stravaganze alcooliche dei giovani avevano indotto una maggioranza di ragazze ancor sane di mente a comandare la partenza. Mi trovai sulla porta, accanto alla mia ragazzina. Lei non aveva avuto la mia esperienza, dunque non era ubriaca. Era affascinata dalla poca voglia che mostravano i giovanotti, di seguire le ragazze, e cominciò a far loro il verso. A me questo parve subito molto bello, e così anch'io cominciai a fingere di barcollare. Ma lei non aveva vino in corpo, mentre a me quel movimento fece salire i fumi al capo. Anche all'inizio ero stato più realistico di lei. Entro pochi minuti ero straordinariamente me stesso. Vidi un ragazzo che, dopo aver azzardato una decina di passi, si fece sul ciglio della strada, e dopo aver scrutato gravemente il fossetto, ma molto gravemente, ci cadde dentro. A me parve eccezionalmente buffo. Barcollai fin sull'orlo del fossetto, con la netta intenzione di fermarmi lì. Quando tornai in me ero nel fossetto e diverse ragazze dall'espressione ansiosa mi stavano tirando fuori.Non avevo voglia di recitare oltre la parte dell'ubriaco. Non avevo più voglia di scherzare. Gli occhi cominciavano a obnubilarsi, la bocca ad aprirsi in cerca d'aria. Tenendomi per mano una ragazza mi guidò dall'altro lato, ma avevo le gambe di piombo. Fossi stato un bambino debole, son certo che ci avrei lasciato la pelle. So tuttavia di essere stato più vicino alla morte di quello che potevano sognare le ragazze spaurite. Le sentivo bisticciare fra di loro, per stabilire di chi fosse la colpa; alcune piangevano - per se stesse, per me, per il modo sciagurato di comportarsi dei loro giovanotti. Ma a me questo non interessava. Io stavo soffocando, avevo bisogno d'aria. Muovermi mi dava l'angoscia. Mi faceva boccheggiare anche di più. E invece le ragazze insistevano a farmi camminare, ed erano quattro miglia per arrivare a casa. Quattro miglia! Ricordo che i miei occhi videro un ponticello che superava la strada, distante un'enormità. Di fatto non era neanche a cento passi. Quando lo raggiunsi, mi lasciai andare e giacqui supino anfanando. Le ragazze tentarono di sollevarmi, ma non c'era nulla da fare, io soffocavo. Alle loro grida di. allarme accorse Larry, un diciassettenne ubriaco, il quale pretendeva di risuscitarmi saltandomi sul petto. Di questo ho un ricordo vago, come degli strilli delle ragazze che lottavano con lui per tirarlo via. E poi non seppi più niente, anche se più tardi venni a sapere che Larry s'acciambellò sotto il ponte e ci passò la notte.Quando rinvenni era buio. Per quattro miglia mi avevano trasportato, fuor di coscienza, e messo a letto. Ero un bambino malato, e nonostante la terribile tensione del cuore e dei tessuti, di continuo ricadevo nella follia del delirio. Usciva fuori tutto il contenuto della mia mente infantile, nei suoi aspetti orribili e terribili. Le visioni più spaventose per me erano realtà. Vedevo commettere assassinii, e i colpevoli mi rincorrevano. Urlavo, m'agitavo, mi dibattevo. La mia sofferenza era incredibile. Uscendo da questo delirio, sentivo la voce di mia madre: «Il cervello del bambino. Perderà la ragione». E riaffondando nel delirio, mi portavo dietro quest'idea, e mi chiudevano in manicomio, e mi picchiavano i custodi, e mi circondavano altri pazzi urlanti.Una cosa che aveva avuto forte impressione sulla mia mente giovane era stato il discorso dei grandi su quella sentina di iniquità che era il quartiere cinese di San Francisco. Nel mio delirio io passavo di tana in tana, migliaia di volte, e alle mie spalle si chiudevano porte di ferro e io morivo mille volte. E quando incontravo mio padre, seduto a tavola in quelle cripte sotterranee, a giocare coi cinesi enormi poste d'oro, la mia ira si esprimeva con le imprecazioni più abiette. Tutte le inconcepibili sozzerie che possa udire pronunciare da uomini un ragazzo nato e cresciuto in campagna, io le dicevo; e pur non avendo mai osato imprecare in quel modo, ora quelle cose le riversavo a pieni polmoni, maledicendo mio padre seduto lì in quella tana a giocare coi cinesi dai capelli e dalle unghie lunghe.E' incredibile che quella notte non mi scoppiasse il cuore o il cervello. Le arterie e i centri nervosi di un ragazzino di sette anni non sono adatte a sopportare il parossismo tremendo che mi sconvolgeva. Nessuno dormì alla piccola fattoria, quella notte in cui John Barleycorn l'ebbe vinta su di me. E Larry, sotto il ponte, non ebbe affatto un delirio come il mio. Io son sicuro che il sonno suo fu stupefatto, senza sogni, e che il giorno dopo si destò soltanto più greve e di peggior umore. Se ancor oggi è vivo, non rammenta quella notte, tanto trascurabile era stato per lui quell'incidente. Invece il mio cervello rimase segnato per sempre da quell'esperienza. Ora che scrivo, a trent'anni di distanza, ogni immagine è distinta, netta, ogni dolore vitale, tremendo, come quella notte.Rimasi malato per diversi giorni, e non ebbi più bisogno delle ingiunzioni di mia madre per evitare John Barleycorn in avvenire. Per mia madre il colpo era stato tremendo. Era convinta

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che io avessi fatto male, molto male, contro tutto il suo insegnamento. E come potevo io, visto che non mi si permetteva di rispondere, visto che mi mancavano persino le parole per esprimere la mia psicologia, come potevo io dire a mia madre che proprio il suo insegnamento era direttamente responsabile della mia ubriachezza? Se non ci fossero state le sue teorie sugli occhi scuri e sul carattere degli italiani, non avrei mai portato alle labbra quel vino amaro e agro. E solo quando fui uomo grande le dissi la verità riposta di quella sciagurata faccenda.In quei giorni di malessere, ero confuso su certi punti, chiarissimo su certi altri. Provavo senso dì colpa, accompagnato però al senso dell'ingiustizia. Non era stata colpa mia, eppure avevo fatto del male. Molto chiara fu la mia risoluzione di non toccare mai più l'alcool. Non ci fu mai un cane idrofobo che avesse dell'acqua più paura di quella che avevo io dell'alcool.E tuttavia vorrei chiarire che questa esperienza, per terribile che fosse, non poteva alla lunga impedirmi di fare amicizia intima con John Barleycorn. In primo luogo, lasciando perdere mia madre, sempre estremista nel suo modo di vedere, pareva a me che tutti i grandi guardassero la faccenda con occhi tolleranti. Era uno scherzo, qualcosa di buffo che era capitato. Non c'era collegata vergogna alcuna. Persino i ragazzi e le ragazze ridacchiavano sulla parte che avevano avuto nella storia, raccontando divertiti di come Larry m'era saltato sul petto e aveva dormito sotto il ponte, di come il Tal dei Tali aveva passato la notte fra le dune, e di cosa era capitato all'altro che era caduto nel fossetto. Come appunto dicevo, per quanto mi risultava, non c'era sentimento di vergogna, da nessuna parte. Era stata anzi una cosa diabolicamente bella, un episodio ricco e favoloso nella monotonia e nella fatica di quella scialba costa nebbiosa.I contadini irlandesi ciarlarono di me, senza malignità, su quella mia impresa, e continuarono a darmi pacche sulla schiena fino al punto che a me parve di aver compiuto un'impresa eroica. Piero e Domenico e gli altri italiani andavano fieri della mia prodezza come bevitore. La morale corrente, in fondo, non era contraria al bere. E poi, bevevano tutti. Non c'era un solo astemio nella nostra comunità. Persino il maestro della nostra scuoletta di campagna, un uomo grigio sui cinquanta, ci dava vacanza quando doveva attaccare baruffa con John Barleycorn, e ne buscava. In questo modo non esisteva dissuasione spirituale. Il mio odio per l'alcool era puramente fisiologico. Questa maledetta roba non mi piaceva.

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5.

Questo odio fisiologico per l'alcool non l'ho mai superato. Ma l'ho vinto. Fino a oggi ho continuato a vincerlo ogni volta che bevo. Il palato non cessa mai di ribellarsi, e ci si può fidare del palato per sapere quel che va bene al corpo. Ma gli uomini non bevono per gli effetti che l'alcool produce sul corpo. Quel che bevono serve per gli effetti che avrà sul cervello; e se poi deve proprio passare attraverso il corpo, tanto peggio per il corpo.Eppure, nonostante il mio odio fisico contro l'alcool, nella mia vita infantile i posti più belli furono sempre i saloon. A sedere sopra il pesante carro delle patate, avvolto nella nebbia, coi piedi che dolevano per l'inazione, i cavalli che ti strascicavano attraverso le dune, c'era tuttavia un'immagine chiara a rendere la strada meno lunga. L'immagine chiara era il saloon di Colma, dove mio padre, o chiunque guidasse, era sempre in vista di scolare un bicchiere. E io andavo a scaldarmi accosto alla grande stufa e a mangiare una gallettina. Soltanto una galletta, ma pareva un lusso di favola. I saloon servivano pure a qualcosa. Dietro i cavalli anfananti potevo passare anche un'ora a masticare quella galletta. Facevo più che possibile piccolo ogni morso, senza mai perdere una briciola, e masticavo il boccone fino a farlo diventare più che possibile sottile e gradevole al palato. Mai ingoiavo volontariamente questo bolo. Mi limitavo a gustarlo, continuavo a gustarlo, rigirandomelo con la lingua, premendolo contro l'interno della guancia, fino a che, da ultimo, mi sfuggiva e a pezzettini scivolava umido giù per la gola. Horace Fletcher non aveva mai nulla contro di me, in fatto di gallettine.Mi piacevano i saloon. Mi piacevano specialmente i saloon di San Francisco. Ci trovai i bocconi più strani e prelibati: pane e gallette, formaggi, salsicce, sardine, cibi meravigliosi che mai io vedevo sulla nostra magra mensa domestica. E una volta, rammento, un barista mi preparò una bevanda dolce di sciroppo e soda. Non pagò mio padre. Era offerta dal barista, che diventò il mio ideale di uomo buono e gentile. Per anni sognai di lui a occhi aperti. Pur avendo appena sette anni a quell'epoca, lo vedo ancora con intatta chiarezza, anche se misi gli occhi su di lui quella volta solamente. Il saloon era dietro via del Mercato, a San Francisco. Stava dalla parte ovest della strada. Entrando, il banco era a sinistra. A destra contro il muro, era il tavolo dove si mangiava. La stanza era lunga e stretta, e sul dietro, oltre i barili della birra, vedevi tavolini rotondi e sedie. Il barista aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi, di seta, che uscivano da sotto il berretto. Rammento che indossava una giacca marrone, e rammento con esattezza il punto da cui, in mezzo alla fila delle bottiglie, prese quella dello sciroppo colorato. Lui e mio padre parlarono a lungo, e io succhiavo la mia dolce bevanda, e lo adoravo. E per anni, in seguito, ho adorato la sua memoria.Nonostante le mie due esperienze disastrose, ecco John Barleycorn, dominante, inaccessibile in ogni parte della comunità, che mi adescava, mi attirava. Ecco, il saloon che incideva profondamente nella mente di un bambino. Ecco un bambino che formulava i suoi primi giudizi sul mondo, che trovava luogo delizioso e desiderabile un saloon. Le botteghe, i pubblici edifici, le abitazioni degli uomini mai mi avevano aperto l'uscio per lasciarmi scaldare al fuoco, né permesso di mangiare il cibo degli dei riposto nello stretto scaffale contro il muro. Gli usci mi erano sempre chiusi; quelli dei saloon sempre aperti. E sempre e dovunque trovavo saloon, su ogni strada, nei vicoli stretti o nei quartieri affollati, illuminati e festosi, caldi d'inverno, in estate caldi e freschi. Sì, il saloon era un posto bellissimo, ed era anche di più.Quando ebbi dieci anni, la mia famiglia aveva smesso di coltivare la terra e si era trasferita in città. E lì, a dieci anni cominciai ad andare per le strade a vendere i giornali. Uno dei motivi per cui lo feci fu che avevo bisogno di soldi. Un altro motivo fu che avevo bisogno di moto. Avevo scoperto la biblioteca pubblica, e leggevo e leggevo fino a raggiungere la prostrazione nervosa. Nelle povere fattorie in cui ero cresciuto, libri non c'erano. In modi davvero miracolosi, mi avevano prestato libri, e io li avevo divorati. Uno era la vita di Garfield; il secondo era un libro sui viaggi africani di Paul du Chailly; il terzo un romanzo di Ouida cui mancavano le ultime quaranta pagine; il quarto era «Alhambra», di Irving. Quest'ultimo me lo aveva prestato una maestra. Non ero un ragazzo molto avanti. A differenza di Oliver Twist non ero capace di chiedere ancora. Quando restituii «Alhambra» alla maestra, sperai che mi prestasse un altro libro. E siccome non lo fece - molto probabilmente mi giudicava incapace di apprezzare la lettura - io piansi tornando a casa, una camminata di tre miglia dalla scuola alla fattoria. Decine di volte fui sul punto di chiederglielo, ma non riuscii mai a raggiungere il necessario punto di sfrontatezza.E poi venne la città di Oakland, e negli scaffali della biblioteca pubblica, scoprii un vasto mondo

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al di là dell'orizzonte. C'erano migliaia di libri buoni come i miei quattro, e qualcuno anche meglio. Le biblioteche non badavano ai bambini, a quei tempi. Ricordo che sul catalogo mi fece impressione un titolo. «Le avventure di Peregrine Pickle». Riempii il modulo e il bibliotecario mi porse le opere complete, e non purgate, di Smollett, un solo grosso volume. Leggevo di tutto, ma specialmente libri di storia e di avventura, di viaggi. Leggevo di mattina, di pomeriggio, di notte. Leggevo a letto, leggevo a tavola, leggevo andando a scuola e tornandone, e leggevo durante la ricreazione, quando gli altri ragazzi studiavano. Cominciai anche a diventare nervoso. Rispondevo a tutti: «Vattene, mi fai venire i nervi».E così, a dieci anni, vendevo giornali per strada. Non avevo tempo per leggere. Ero troppo occupato a far del moto e a imparare come si fa a botte, troppo occupato ad apprendere la destrezza, la faccia tosta, il fumo negli occhi. Avevo fantasia e curiosità quasi plastica, per tutte le cose. E fra le cose di cui ero curioso, non l'ultima era il saloon. Ed entrai e uscii da molti. Rammento che a quei tempi nella parte orientale di Broadway, fra la sesta e la settima, da cantone a cantone, c'era un isolato compatto, tutto di saloon.Nei saloon la vita era diversa. Gli uomini parlavano ad alta voce, facevano gran risate, e c'era un'atmosfera di grandezza. Qui c'era qualcosa di più della semplice vita quotidiana, dove non succede mai niente. Qui la vita era sempre viva e a volte anche lurida, quando partivano le botte, e si versava sangue, ed entravano poliziotti grossi così. Grandi momenti, questi, per me, che avevo la testa piena degli scontri scatenati e fieri dei prodi avventurieri di mare e di terra. Non c'erano momenti grandi quando andavo di porta in porta a dare il giornale. Invece nel saloon, persino gli ubriaconi instupiditi e crollanti sui tavoli e nella segatura erano oggetto di mistero e di stupore.Di più, i saloon erano nel giusto. I maggiorenti della città li avevano sanzionati, concedendo loro licenza. Non erano i posti terribili di cui avevo sentito parlare dai ragazzi cui non era toccata la possibilità di vederli. Forse erano terribili, ma allora questo significava che erano terribilmente meravigliosi, ed è proprio il meraviglioso, se terribile, quello che un ragazzo desidera conoscere. Allo stesso modo erano terribili pirati e naufragi e battaglie; e quale ragazzo di buona salute non avrebbe dato la sua anima immortale per partecipare a vicende simili?E poi nei saloon vedevo giornalisti, direttori, avvocati, giudici di cui conoscevo nome e volto. Essi ponevano il sigillo dell'approvazione sociale al saloon. Essi erano la verifica del fascino che provavo io per il saloon. Anche loro, certamente, avevano scoperto che c'era qualcosa di diverso, qualche cosa che andava oltre, e io avvertivo e desideravo. Che cosa fosse io non lo sapevo; eppure ci doveva essere, perché proprio lì gli uomini si mettevano a foco come mosche ronzanti su una ciotola di miele. Io non avevo rimpianti, e il mondo era molto chiaro, sì che io non potevo indovinare che gli uomini vi cercavano l'oblio della loro scialba fatica quotidiana e dei loro crucci.Non che bevessi, a quell'epoca. Dai dieci ai quindici anni di rado assaggiai alcool, ma serbavo contatto stretto coi bevitori e coi luoghi dove si va a bere. Il solo motivo per cui non bevevo era perché quella roba non mi piaceva. Con il passare del tempo lavorai come garzone al trasporto del ghiaccio, misi su i birilli in un gioco di bocce con annesso saloon, e anche spazzavo il pavimento dei saloon, alla domenica.La grossa e gioviale Josie Harper aveva una taverna all'angolo, fra Telegraph Avenue e la Trentanovesima. Per un anno ci andai a consegnare il giornale della sera, fino a che non mi cambiarono itinerario, spedendomi verso il porto di Oakland. Il primo mese, quando passai a incassare il conto di Josie Harper, lei mi versò un bicchiere di vino. Avevo vergogna di rifiutare, così lo bevvi. Ma dopo di allora ci stetti attento, e aspettavo che non fosse in vista per farmi pagare dal barista.Il primo giorno che lavorai alle bocce, il barista, secondo l'usanza, chiamò noialtri ragazzi a bere qualcosa dopo diverse ore passate a rimettere su i birilli. Gli altri chiesero birra. Io chiesi una gazzosa. Gli altri ghignarono, e notai che il barista mi scrutava in modo strano, inquisitorio. Eppure mi stappò la bottiglia di gazzosa. Più tardi, in disparte, durante una pausa fra una partita e l'altra i ragazzi mi avvertirono. Avevo offeso il barista. Una bottiglia di gazzosa costava al saloon molto più cara di un bicchiere di birra ordinaria; e stava a me, se volevo serbarmi quel posto, bere birra. E poi la birra era nutriente. Aiutava a lavorare meglio. Mentre non c'era nutrimento nella gazzosa. Dopo di allora, quando non potevo scamparmela, bevevo birra e mi chiedevo perché mai agli uomini sembrasse tanto buona. Avevo sempre la sensazione che mi mancasse qualcosa.Le caramelle, ecco che cosa mi piaceva sul serio, a quei tempi. Con cinque centesimi potevo

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comprare cinque «palle di cannone», grosse e durevoli. Da masticare per un'ora intera. Poi c'era un messicano che vendeva gran tocchi di caramello scuro a cinque centesimi l'uno. Ad assorbirlo a dovere, ci voleva un quarto di giornata. E per parecchi giorni fu quello il mio solo pasto. La verità è che il nutrimento io lo trovavo li, non nella birra.

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6.

Ma si avvicinava rapidamente il tempo della mia seconda serie di scontri con John Barleycorn. A quattordici anni, con la testa piena di storie di vecchi viaggiatori, la fantasia piena di isole tropicali e rive lontane, stavo navigando a bordo di un palischermo attorno alla baia di San Francisco e all'estuario dell'Oakland. Volevo andare per mare. Volevo staccarmi dalla monotonia, dal luogo comune. Ero nel fiore della mia adolescenza, con in corpo il brivido romantico dell'avventura, sognando vita selvaggia nel mondo dell'uomo selvaggio. Poco o nulla intuivo quanto quel mondo fosse intriso di alcool.Così, un bel giorno, mentre preparavo la vela del mio palischermo, incontrai Scotty. Era un giovinastro di diciassette anni, mozzo fuggito, mi disse, da una nave inglese diretta in Australia. Sopra un'altra nave era appunto riuscito ad arrivare a San Francisco; e ora aveva in mente di trovare imbarco su una baleniera. Dall'altra parte dell'estuario, dove stanno le navi baleniere, era anche uno yacht chiamato «Idler». Ne aveva cura un arpioniere che intendeva, come prossimo viaggio, imbarcarsi sulla baleniera «Bonanza». Ero disposto io, con il mio palischermo, a portare lui, Scotty, dall'arpioniere?Se volevo? Come se non avessi sentito parlare dello «Idler», la nave appena rientrata dalle isole Sandwich, dove era stata occupata nel traffico dell'oppio. E l'arpioniere ne era il responsabile! Quante volte lo avevo visto e avevo invidiato la sua libertà. Non doveva mai abbandonare l'acqua. Dormiva ogni notte a bordo dello «Idler», mentre io dovevo coricarmi in casa mia, sulla terraferma. L'arpioniere aveva appena diciannove anni (e, che fosse arpioniere, me lo garantiva soltanto la sua parola); ma per me la sua era una personalità troppo illustre e luminosa per potermi rivolgere a lei mentre vogavo a rispettosa distanza dallo «Idler». Se dunque ero disposto a portare Scotty dall'arpioniere! Altro che!L'arpioniere si fece in coperta per rispondere al nostro saluto, e ci invitò a salire a bordo. Io facevo la parte del marinaio esperto, vogando in modo da non sporcare la vernice bianca dello yacht, voltando il palischermo di poppa con l'aiuto della gomena d'ormeggio, e legandomi poi a quella cima con due mezzi nodi stretti alla brava. Scendemmo sottoponte. Era il primo ventre di nave che vedevo. I panni appesi sapevano di muffa, ma che cosa importava, questo? Non era forse, questo, l'abbigliamento degli uomini di mare? Giacche di pelle foderate di velluto a coste, cappotti turchini di panno pesante, incerate, scarponi. E da ogni parte appariva palese l'economia dello spazio - le cuccette strette, i tavoli girevoli, gli incredibili stipetti. C'era la bussola assiometrica, le lampade navali con la sospensione cardanica, le carte marittime arrotolate alla meglio e riposte, le bandiere da segnalazione in ordine alfabetico e un compasso piantato nel legno per tenere su un calendario. Finalmente questa era vita. Eccomi là, seduto sulla mia prima nave, una contrabbandiera, accettato come compagno da un arpioniere e da un marinaio inglese fuggiasco che diceva di chiamarsi Scotty.La prima cosa che fecero, per dimostrarsi uomini, questo arpioniere e questo marinaio, fu di comportarsi da uomini. L'arpioniere accennò a quanto fosse desiderabile bere qualcosa, e Scotty si frugò in tasca in cerca di qualche moneta. Poi l'arpioniere tirò fuori una fiaschetta riempita da una qualche segreta brocca, perché non esistevano saloon con licenza in quella località. Bevemmo dai bicchieri un po' di zozza. Ero forse, io, meno forte e meno coraggioso dell'arpioniere e del marinaio? Loro erano uomini. E lo dimostravano dal modo di bere. Il bere, ecco il simbolo della virilità. Dunque bevvi con loro, sorsata per sorsata, ingozzandomi, anche se questa maledetta roba non valeva niente rispetto a una stecca di caramello da masticare o a una deliziosa «palla da cannone». Ebbi un brivido e ogni sorsata mi faceva groppo in gola, anche se riuscivo, da vero uomo, a nascondere questi sintomi.Più volte riempimmo la fiaschetta, quel pomeriggio. Io avevo solo venti centesimi, ma li tirai fuori volentieri, da vero uomo, pur con rammarico dell'enorme quantità di caramello che avrei potuto comprarmici. Il liquore ci saliva alla testa, e adesso l'arpioniere e Scotty stavano parlando di tempesta al largo del Capo, di "pamperos" sull'estuario del Rio de la Plata, di vento in poppa, di temporali meridionali, di tempeste nel Pacifico del nord, e di baleniere sfasciate nel ghiaccio dell'Artico.«Non si nuota in quell'acqua gelata» mi disse l'arpioniere, confidenziale. «Basta un minuto e vai sotto. Quando una balena ti sfascia la barca, non c'è altro da fare che mettere la pancia su un remo, in modo che quando il freddo ti rattrappisce tu resti a galla».«Certo», dissi, con un grato cenno del capo e un'aria di sicurezza, che anche io sarei andato a caccia di balene e mi sarei sfasciato la barca nell'oceano artico. E in verità presi nota mentale

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del suo consiglio come un'informazione, straordinariamente utile, e me lo riposi nel cervello, dove è rimasto sino a questi giorni.Ma non riuscivo a parlare, da principio. Santo cielo, avevo appena quattordici anni e in vita mia non ero mai stato sull'oceano. Potevo soltanto prestare orecchio a questi due lupi di mare, e dimostrare d'essere uomo bevendo insieme a loro, lealmente, sicuramente, bere e poi bere.Il liquore l'ebbe vinta su di me; i discorsi di Scotty e dell'arpioniere ridondarono fuori dell'angusto spazio della cabina dello «Idler», e nel mio cervello come gran ventate vaste e libere; e con la fantasia io vissi i miei anni a venire e mi avventai nel mondo, selvaggio, folle, splendido, eroe di innumerevoli avventure.Ci sciogliemmo. Svanì ogni inibizione, ogni silenzio. Era come se ci conoscessimo da anni, era come se ci impegnassimo per gli anni a venire, viaggiando insieme. L'arpioniere parlò di disavventure e di segrete vergogne. Scotty pianse la sua povera vecchia madre - una signora, insisteva a dire, di buona famiglia - che si trovava in strettezze, che si era svenata per fare i soldi e pagare ai proprietari della nave il suo apprendistato, e con tanti sacrifici aveva sognato di vederlo ufficiale su un mercantile, ed ebbe il crepacuore perché il figlio in Australia aveva abbandonato la nave per imbarcarsi su di un'altra come marò. E Scotty ne diede la prova. Levò di tasca l'ultima lettera di lei, tanto triste, e giurò che tutti e tre ci saremmo imbarcati sulla baleniera «Bonanza», avremmo guadagnato una buona paga e tutti insieme saremmo andati in pellegrinaggio a Edimburgo per dare tutti i soldi alla cara signora.E così, man mano che John Barleycorn mi entrava nel cervello, rovente, ad attutire la mia reticenza, a fondere la mia modestia, a parlare per mio mezzo e con la mia voce, mio fratello gemello adottivo, mio alter ego, anche io alzai la voce per dimostrarmi uomo e avventuriero, e mi vantai lungamente, con ogni particolare, di aver traversato la baia di San Francisco sul palischermo con il vento forte di sudovest, mentre tutti gli altri piloti dubitavano che ce l'avrei fatta. Non solo: io - oppure John Barleycorn, che era la stessa cosa - dissi a Scotty che lui poteva ben essere navigante di alto mare e conoscere fin l'ultima cima delle grandi navi d'alto mare, ma in quanto a navigazione su barche piccole io lo sfidavo a mani basse e riuscivo a dargli sempre poppa.La cosa sorprendente era che la mia asserzione, la mia vanteria, fosse vera. Reticenza e modestia, in un momento normale, non mi avrebbero mai dato il coraggio di dire a Scotty quanto lo stimavo come navigatore di barche piccole. Ma John Barleycorn fa sempre così, scioglie la lingua e rivela i pensieri segreti.Scotty, ossia John Barleycorn, o tutti e due, rimasero naturalmente offesi dalle mie osservazioni. Non mi tiravo più indietro. Io facevo fuori qualunque marinaio fuggiasco diciannovenne. Ci scambiammo insulti, urlando, Scotty e io, come due galletti, fino a che l'arpioniere versò ancora da bere per tutti, in modo che potessimo perdonarci e fare pace. E noi così facemmo, abbracciandoci al collo, giurandoci eterna amicizia, proprio come Matt il Nero e Tom Morrisey, rammentavo, nella cucina della fattoria a San Mateo. E rammentando questo, io seppi che finalmente ero un uomo - nonostante i miei quattordici anni scarsi - uomo grosso e virile come quei due giganti che avevano litigato, per poi fare la pace, quella memorabile mattina di domenica, tanti anni prima.Ormai s'era arrivati a cantare, e io mi unii a Scotty e all'arpioniere a intonare brani di canzoni e cantilene marinaresche. Eccomi là, nella cabina dello «Idler» a sentire per la prima volta "Blow tbe Man Down", "Flying Goud", e "Whisky, Johnny, whisky". Ah, che bellezza. Cominciavo ad afferrare il significato della vita. Qui non c'era più la monotonia quotidiana, niente estuario dello Oakland, niente stanchi giri a consegnare giornali ai portoni, portare il ghiaccio, ad alzare i birilli. Tutto il mondo era mio, tutte le sue strade io le avevo sotto i piedi, e John Barleycorn, ingannando la fantasia, mi consentiva di pregustare quella vita di avventura che avevo sempre desiderato.Non eravamo persone ordinarie. Eravamo tre giovani dèi un poco brilli, incredibilmente saggi, splendidamente geniali, illimitati nella potenza. Ah! - e lo dico adesso, a distanza di anni - se John Barleycorn riusciva a tenere un uomo a questa altezza, non avrei mai più smesso di bere. Ma in questo mondo non esistono noli gratuiti. Si paga secondo una regola ferrea, ciascuna forza con la relativa debolezza, ciascun alto con il basso che gli corrisponde, ogni fittizio momento divino con un tempo equivalente di meschinità da rettile. Ogni volta che con il telescopio della fantasia si riducono lunghi giorni e settimane di vita a pochi folli magnifici istanti, bisogna pagare abbreviandosi la vita, e pagando uno scotto, spesso, da usuraio.Intensità e durata sono nemici da sempre, come il fuoco e l'acqua. Si distruggono reciprocamente. Non possono coesistere. E John Barleycorn, por quanto possa essere

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grandioso negromante, va schiavo come tutti noi mortali della chimica organica. Ogni maratona che corriamo va pagata, e non può intercedere John Barleycorn a scansare il giusto pagamento. Può guidarci alle sue altezze, ma non può mantenerci lassù, altrimenti tutti saremmo suoi fedeli. Invece non esistono fedeli, ma soltanto quelli che pagano le folli danze intonate da John Barleycorn.Eppure tutto questo è detto con saggezza tardiva. Ciò non faceva parte delle conoscenze di un ragazzo di quattordici anni, seduto nella cabina dello «Idler» accanto all'arpioniere e al marinaio, con le narici colme dell'odore di muffa che hanno i panni di mare, urlando in coro: «Nave americana, vien giù per il fiume - sotto, ragazzi, sotto, da bravi!».Si cominciava a piangere, a parlare tutti insieme. Io avevo una costituzione splendida, uno stomaco che avrebbe digerito la limatura di ferro, e stavo ancora correndo in pieno la mia maratona quando Scotty cominciò a sbiadire, a venire meno. I suoi discorsi si facevano incoerenti. Cercava le parole e non riusciva a trovarle, mentre quelle che trovavano le sue labbra non riuscivano a formarsi. Lo stava abbandonando la coscienza avvelenata dall'alcool. Gli andava via la lucentezza dagli occhi, e aveva un'aria stupida come i discorsi che cercava di fare. Gli si afflosciavano viso e corpo man mano che gli si afflosciava la coscienza. (Un uomo non riesce a star seduto diritto, se non per un atto di volontà). Il cervello sconvolto di Scotty non riusciva a controllare i suoi muscoli. Tutti i nessi si stavano spezzando. Cercava di bere ancora, ma la mano senza più forza lasciava cadere il bicchiere per terra. Poi, con mio stupore, piangendo amaramente, si buttò su una cuccetta e immediatamente attaccò a sonnacchiare.L'arpioniere e io continuammo a bere, ghignando l'un con l'altro per l'infelice sorte toccata a Scotty. Si aprì l'ultima fiaschetta, e la bevemmo noi due, mentre ci faceva compagnia il fiato greve di Scotty addormentato. Poi anche l'arpioniere disparve nella cuccetta sua, e io rimasi solo, indomito, sul campo di battaglia.Ero molto fiero, e John Barleycorn era fiero con me. Io sopportavo il bere. Io ero un uomo. A forza di bere, io avevo fatto fuori due uomini, un bicchiere dopo l'altro, ridotti all'incoscienza. Io invece me ne stavo su due piedi, dritto, e mi dirigevo verso il ponte a prendere un poco d'aria nei polmoni che mi bruciavano. Proprio durante questa sbornia sullo «Idler» io scoprii che stomaco buono e che testa forte avevo io per il bere - cognizione che doveva diventare fonte d'orgoglio negli anni futuri, ma che in definitiva avrei poi considerato una grossa disgrazia. Uomo fortunato è quello che non può mandare giù più di due bicchieri senza ubriacarsi. Sfortunato è quello che riesce a mandarne giù molti senza farlo parere; quello che deve scolarsi molti bicchieri per provare qualcosa.Il sole tramontava quando fui sul ponte dello «Idler». C'erano molte cuccette, di sotto. Non dovevo andare a casa. Ma volevo dimostrare a me stesso quanto ero uomo. Ecco là il mio palischermo, a poppa. Una forte ondata stava scorrendo spinta dalla brezza oceanica, forte, quaranta miglia all'ora. Riuscivi a vedere la spuma bianca, la quale mostrava nettamente il succhio e risucchio della corrente.Alzai la vela, staccai, presi posto al timone e mi diressi dall'altra parte del canale. Il palischermo si avventò, fortissimo, all'impazzata, filava e io ero al parossismo della mia esaltazione. Cantai "Blow the Man Down", mentre facevo vela. Non ero un ragazzo di quattordici anni, che viva alla maniera mediocre di una città sonnolenta qual è Oakland. Ero un uomo, un dio, e gli elementi stessi me ne davano testimonianza, piegandoli, io, alla mia volontà.La marea era scemata. Cento passi buoni di fango molle stavano fra il pontile delle barche e l'acqua. Io spinsi la barca nel fango, ammainai la vela, e ritto in piedi a poppa, come spesso avevo fatto con la bassa marea, cominciai a spingere la mia barca con un remo. Fu allora che i miei nessi principiarono a interrompersi. Persi l'equilibrio e caddi a faccia avanti in quella mota. Allora, per la prima volta, mentre cercavo di rimettermi in piedi, tutto coperto di melma con il sangue che mi gocciava per aver urtato contro una bitta tutta deformata dai molluschi, capii d'essere ubriaco. Ma che cosa voleva dire, questo? Dall'altra parte del canale due forti marinai giacevano fuor di coscienza nelle loro cuccette, dove io li avevo vinti nel bere. Ero io l'uomo. Io stavo ancora sulle gambe, anche se queste gambe erano a metà piantate nel fango. Non volli ritornare sul palischermo. A piedi traversai i cento passi di fango, spingendomi innanzi l'imbarcazione, e urlando il canto della mia raggiunta virilità al mondo intero.La scontai. Ebbi la nausea per un paio di giorni, una meschina nausea, e sentivo nelle braccia il veleno di quella ferita. Per una settimana non riuscii a farne uso, ed era una tortura mettersi e togliersi i panni.Giurai: «Mai più!» Il gioco non valeva tutto questo. Il prezzo ne era troppo alto. Non era un

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rimprovero moralistico. La mia repellenza era puramente fisica. Non c'era momento di esaltazione che valesse tante ore di miseria e di sciaguratezza. Quando ritornai al palischermo, evitai lo «Idler». Feci tutto il giro del canale per non incontrarlo. Scotty era scomparso. L'arpioniere era ancora in vista, ma io lo evitai. Una volta che lui approdò al pontile delle barche, io mi nascosi, per evitare di vederlo. Avevo paura che mi proponesse di bere ancora, magari una fiaschetta piena di whisky che aveva in tasca.Eppure - e qui salta fuori la negromanzia dei John Barleycorn - quella sbornia pomeridiana sullo «Idler» era stata un brano raggiante nella monotonia dei giorni miei. Era memorabile. La mia mente vi tornava di continuo. Ripercorrevo i particolari, sempre, sempre. Fra le altre cose, io ero entrato negli ingranaggi delle azioni degli uomini. Avevo visto Scotty piangere della propria indegnità e del triste caso di sua madre, che era una signora a Edimburgo. L'arpioniere mi aveva detto di sé cose tremendamente meravigliose. Avevo accolto migliaia di accenni lusinghevoli e infiammanti a un mondo che stava al di là del mondo mio, per il quale sicuramente io ero tagliato almeno quanto i due giovani che avevano bevuto con me. Ero entrato nell'anima degli uomini. Ero entrato nella mia stessa anima e ci avevo trovato possibilità e grandezze che mai mi sarei sognato.Sì, quel giorno stava più in alto di ogni altro giorno. E ancor oggi sta più in alto. Ne ho il ricordo marcato nel cervello. Ma il prezzo era troppo caro. Mi rifiutavo di pagare e pagare, così ritornai alle «palle da cannone» e al caramello. Il fatto è che la chimica stessa della mia buona salute mi staccava dall'alcool. Era roba che non andava d'accordo con me. Era roba abominevole. Ma nonostante questo, le circostanze continuarono a spingermi verso John Barleycorn, a spingermi di continuo da quella parte, sempre, sempre fino a che, dopo lunghi anni, doveva venire il momento in cui avrei alzato gli occhi su John Barleycorn in ogni tana di uomini, a guardarlo cordialmente, come un benefattore e un amico. E insieme a odiarlo, a detestarlo. Sì, è uno strano amico, John Barleycorn.

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7.

Avevo da poco compiuto i quindici anni, e lavoravo sodo in una fabbrica di conserve. Mese dopo mese, la mia giornata di lavoro più corta era di dieci ore. Se poi alle dieci ore di lavoro a una macchina si aggiungono le ore del meriggio, per andare da casa al lavoro e dal lavoro a casa; il destarsi al mattino, il lavarsi, il vestirsi, su ventiquattro ne restano appena nove per il sonno che richiede un giovane sano. A quelle nove ore, dopo che m'ero messo a letto e prima che gli occhi mi si fossero chiusi dal sonno, rubavo un po' di tempo per leggere.Ma molte sere non staccavo prima della mezzanotte. A volte lavoravo anche diciotto, venti ore filate. Una volta stetti alla macchina per trentasei ore consecutive. E per settimane di fila non staccai prima delle undici, poi andavo a casa ed ero a letto a mezzanotte; e mi svegliavano alle cinque e mezzo per vestirmi, mangiare, andare al lavoro, ed essere alla macchina al fischio della sirena delle sette.Qui non c'erano neanche attimi da rubare per i miei cari libri. E che cosa aveva a che fare John Barleycorn con la fatica così strenua, stoica di un ragazzo quindicenne? Ci aveva a che fare, eccome. Ve lo voglio dimostrare. Mi chiedevo se era questo il significato della vita, essere una bestia da lavoro. Non conoscevo cavallo nella città di Oakland che lavorasse quanto me. Se questo era vivere, io disamavo totalmente la vita. Rammentavo il mio palischermo, che giaceva ozioso al pontile delle barche coprendosi di molluschi. Rammentavo il vento che soffiava ogni giorno sulla baia, le albe e i tramonti che non vedevo mai più. Il morso del salmastro alle narici, il morso dell'acqua marina sulla carne quando mi tuffavo. Rammentavo tutta la bellezza e la meraviglia e le delizie dei sensi che il mondo mi negava. C'era solo un modo per sfuggire a quella fatica massacrante. Dovevo andarmene via per mare. Dovevo guadagnarmi il pane sul mare. E le vie del mare conducevano tutte a John Barleycorn. Questo non lo sapevo. E quando lo seppi, ebbi il coraggio di non ritornare alla mia vita di bestia accanto a una macchina.Volevo essere là dove soffiano i venti dell'avventura. E i venti dell'avventura soffiavano sui saccheggiati banchi di ostriche su e giù per la baia di San Francisco, sulle risse notturne dove l'acqua è più bassa, ai mercati del mattino lungo i pontili della città, dove venivano a comperare ambulanti e proprietari di saloon. Ogni saccheggio a un banco di ostriche era reato, e la pena era il penitenziario, il vestito a strisce e la serratura. E con questo? Gli uomini con il vestito a strisce avevano una giornata di lavoro più corta della mia alla macchina. Ed era molto più romantico rubare le ostriche o andare in galera che restare schiavo di una macchina. E dietro a tutto, dietro a tutto me stesso con la mia gioventù in ebollizione una voce sussurrava Romanzo, Avventura.Per questo ebbi un colloquio con mamma Jennie, mia vecchia balia di cui avevo succhiato i seni neri. Era più ricca dei miei. Curava i malati per una buona paga settimanale. Poteva prestare i soldi al suo «figliolo bianco?» Poteva? Quello che aveva era mio.Poi andai a cercare French Frank, pirata di ostriche, il quale voleva vendere, avevo saputo, il suo barcone, chiamato «Razzle Dazzle». Lo trovai all'ancora dalla parte dell'estuario dov'è Alameda, vicino al ponte di Webster Street, con gente a bordo in visita, a cui egli serviva vino. Era di pomeriggio. Venne sul ponte per discutere di affari. Era disposto a vendere. Ma era domenica. E poi aveva degli ospiti. Al mattino avrebbe stilato l'atto di vendita e io avrei potuto entrare in possesso dell'imbarcazione. Intanto dovevo scendere sotto a conoscere i suoi amici. Erano due sorelle, chiamate Mamie e Tess, con una certa signora Hadley che faceva loro da tutrice, poi Bob detto «Whiskey», giovane pirata di sedici anni, Healey detto «Ragno», un sorcio di pontile ventenne, con le basette lunghe e nere. Mamie, che era nipote del «Ragno», veniva chiamata la Regina dei Pirati delle Ostriche, e a volte sovrintendeva alle loro imprese. French Frank ne era innamorato, anche se io a quel tempo non lo sapevo; ma lei si ostinava a rifiutare di sposarlo.French Frank versò un bicchiere di vino rosso da un gran bottiglione: dovevamo bere al nostro affare. Io rammentai il vino rosso del "rancho" italiano e dentro di me rabbrividii. Whisky e birra non erano cose repellenti. Ma la Regina dei Pirati delle Ostriche mi stava guardando, tenendo in mano un bicchiere in parte già vuoto. Io avevo un mio orgoglio. Se avevo appena quindici anni, tuttavia dovevo dimostrare che non ero meno uomo di lei. E poi c'era la sorella, e la signora Hadley, e il giovane pirata, e il sorcio di pontile coi basettoni, tutti col bicchiere in mano. Ero forse io un tipo da latte e acqua? No mille volte no, e mille bicchieri no. Buttai giù come un adulto quello che mi avevano versato.

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French Frank era tutto soddisfatto della vendita, per la quale io avevo già dato un pezzo d'oro da venti dollari. Versò ancora da bere. Io ormai sapevo quanto avevo forte testa e stomaco, così ero certo di poter bere, con loro, moderatamente, e non star poi male una settimana intera. Potevo reggere tutto il vino che reggevano loro; e poi loro già da un pezzo avevano cominciato.Attaccammo a cantare. Il «Ragno» cantò "The Boston Burglar" e "Black Lulu". La «Regina» cantò "Then I Wisht I Were a Little Bird", e sua sorella Tess cantò "Oh Treat My Daughter Kindly". Si era scatenato un divertimento pazzo. Mi accorsi che ero capace di evitare qualche bicchiere senza farmene accorgere, senza poi esser chiamato a darne conto. E poi, stando in piedi accosto alla paratia, la testa alta., le spalle porte, il bicchiere in mano, riuscivo a buttare del vino fuori bordo.Ragionavo pressappoco così: E' una stranezza di questa gente, che apprezzino un vino talmente disgustoso. Bene, facciano pure. Non posso discutere i loro gusti. La mia virilità, secondo una loro strana idea, dovrebbe costringermi a fingere che questo vino mi piaccia. Benissimo. Fingerò. Ma non voglio bere più dell'inevitabile.E la Regina cominciò a farmi la corte, essendo io l'ultima recluta nel mondo della pirateria ostricara, e non semplice mozzo, ma capo e padrone. Andò sul ponte a prendere aria, e mi portò con sé. Sapeva, naturalmente, ma io neanche me lo sarei sognato, quanta rabbia aveva in corpo French Frank, di sotto. Poi Tess ci raggiunse, quindi venne il «Ragno», e poi Bob. Per ultimi, la signora Hadley e French Frank. E ce ne stemmo a sedere, i bicchieri in mano, e cantammo, mentre il bottiglione faceva il giro; ed ero io l'unico rigorosamente non ubriaco.E questo mi piaceva, allo stesso modo in cui nessuno di loro era in grado di apprezzarlo. Qui, in questa atmosfera zingaresca, non potevo non mettere a confronto questa scena con la mia scena del giorno precedente, seduto alla macchina, con quell'aria di chiuso, fetida, a ripetere interminabilmente, a folle velocità, la mia serie di gesti meccanici. Qui invece io me ne stavo seduto col bicchiere in mano, nel calore dell'amicizia, coi pirati ostricari, avventurieri che rifiutavano d'essere schiavi d'un meschino tran tran, che spregiavano divieti e legge, che portavano in mano la propria vita e la propria libertà. E proprio grazie a John Barleycorn io ero entrato in questa splendida compagnia di anime libere, senza vergogna e senza paura.E la brezza pomeridiana mi colmava i polmoni, arricciando le onde nel mezzo al canale. Davanti alla brezza arrivavano le imbarcazioni, che suonavano la sirena per far aprire il ponte girevole. Passavano rimorchiatori tirandosi dietro la «Razzle Dazzle» nell'onda della loro scia. Un barcone carico di zucchero s'avviava verso il mare aperto. L'acqua era dilavata dal sole, e la vita era una cosa grossa. E il «Ragno» cantava:

"Oh, it's Lulu, black Lulu, my darling,Oh, it's where have you been so long?Been layin in jail,A-waitin for bail,Till by bully comes rollin' along".

[Ah, è Lulu, Lulu la nera, il mio tesoroAh dove sei stata tanto tempo?Chiusa in prigionein attesa del riscatto,in attesa che torni il mio bravaccio.]

Eccolo qua, l'urto violento dello spirito di rivolta, di avventura, di cose vietate e fatte a sfida, grandiose. E io sapevo che un bel mattino non sarei tornato alla mia macchina, alla fabbrica di conserva. Domani sarei diventato pirata ostricaro, libero fin quanto lo consentissero il secolo e le acque della baia di San Francisco. Il «Ragno», aveva già deciso di venire con me, unico membro della mia ciurma, con incarico anche di cuoco, mentre io avrei badato al daffare sul ponte. Al mattino avremmo provveduto al mangiare e al bere, a issare la vela grande (che era il più grosso pezzo di tela sotto cui avessi mai navigato), per poi uscire dall'estuario con la prima brezza marina e con l'ultima marea. Poi si doveva filare fino a quelle isole che portano il nome dell'asparago, e ci saremmo ancorati parecchie miglia al largo. E finalmente si sarebbe realizzato il mio sogno: avrei dormito sull'acqua. E la mattina dopo mi sarei svegliato sull'acqua; e dopo di allora tutti i miei giorni e tutte le mie notti sarebbero scorse sull'acqua.E poi la Regina mi chiese di portarla a riva sul mio palischermo, quando al tramonto French

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Frank si dispose a portar via i suoi ospiti. Né io colsi il significato di questo improvviso cambiamento nei suo progetti, quando diede il compito di vogare a bordo del suo palischermo a Bob detto «Whiskey», mentre lui restava a bordo del barcone. E neanche capii il ghigno e la battuta che in disparte mi diede il «Ragno»: «Ehi, ma tu non vai piano, sai!» Come poteva entrarmi in testa l'idea che un cinquantenne grigiastro potesse essere geloso di me?

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8.

Ci incontrammo all'appuntamento, la mattina del lunedì, presto, per completare l'affare, alla cosiddetta «Ultima occasione», un saloon naturalmente, dove si trovavano gli uomini veri per le loro transazioni. Io diedi il resto dei soldi, ricevetti l'atto di vendita, e French Frank offrì da bere. Questa a me parve un'usanza consueta, e logica - che il venditore, il quale riceveva il danaro, ne bagnasse una parte là dove si concludeva l'affare. Invece, con mia sorpresa, French Frank offrì da bere al locale. Bevemmo lui e io, cosa che a me parve giusta; ma perché invitare a bere anche Johnny Fleinhold, che era proprietario del saloon e serviva dietro il bancone? Immaginai immediatamente che avesse il suo profitto sullo stesso bicchiere che stava bevendo. In un certo senso, potevo capire che erano amici e compagni di mestiere, potevo capire che s'invitassero a bere il «Ragno» e Bob detto «Whiskey»; ma perché invitare anche gente di riva come Bill Kelly e il Kennedy detto «Minestra?».Poi c'era Pat, fratello della Regina, e in tutto eravamo otto. Di mattina presto, tutti ordinavano whisky. Cosa potevo fare io, qui in compagnia di uomini grossi, che tutti bevevano whisky? «Whisky» dissi, con l'aria incurante di chi lo ha già detto mille volte. E che razza di whisky. Lo ingozzai, e ne sento ancora il sapore.E mi sbalordì il prezzo pagato da French Frank, ottanta centesimi. "Ottanta centesimi!" Era un oltraggio per la mia anima frugale. Ottanta centesimi - l'equivalente di otto lunghe ore alla macchina, ottanta centesimi buttati in gola a noi, spariti così, in un batter d'occhio, lasciandoci in bocca soltanto un sapore cattivo. Indiscutibile, French Frank era uno sprecone.Non vedevo l'ora di andarmene, di uscire nel sole, sull'acqua, sopra la mia splendida barca. Ma tutti indugiavano. Persino il «Ragno», che era la mia ciurma, indugiava. Ed io ero così ottuso da non avere la minima idea del perché indugiavano. Spesso, dopo di allora, ho pensato a come mi avranno considerato, io, nuovo venuto, al bancone accolto nella loro compagnia.French Frank, il quale, senza che io lo sapessi, dal giorno prima aveva digerito il suo rammarico, ora che i soldi della «Razzle Dazzle» li aveva in tasca, cominciò a comportarsi stranamente nei miei riguardi. Avvertivo qualcosa di nuovo nel suo atteggiamento, vedevo il luccichio proibito nei suoi occhi, e me ne domandavo il perché. Più vedevo gli uomini, più strani mi sembravano. Johnny Heinhold si chinò sul bancone e mi sussurrò all'orecchio: «Ce l'ha con te. Stai attento».Accennai con il capo che avevo inteso, e che mi stava bene così, come è giusto che faccia chi conosce gli uomini. Ma dentro di me ero perplesso. Santo cielo! Come potevo io, che avevo lavorato sodo e letto libri dì avventura, e che avevo appena quindici anni, e non m'ero neanche mai sognato di ripensare alla Regina dei Pirati delle Ostriche, e ignoravo che French Frank ne era pazzamente innamorato - come potevo immaginare di avergli procurato vergogna? E come potevo indovinare che questa storia, cioè la storia di me a bordo con lui e con la Regina, era già diventata materia di pettegolezzo, al porto. E per lo stesso motivo, come potevo immaginare che il distacco del fratello Pat nei miei riguardi altro non fosse che una manifestazione di umor nero?Bob detto «Whiskey» mi prese un momento in disparte. «Tieni gli occhi aperti» borbottò. «Dai retta a me. French Frank è brutto. Vado con lui su per il fiume a prendere una barca per le ostriche. Quando capita sopra il vivaio, attento. Dice che ti vuol far andare a fondo. Dopo buio, a qualsiasi ora sta in giro, tu cambia ancoraggio e smorza le luci. Capito?».Ah certo, avevo capito. Feci di sì col capo, e da uomo a uomo lo ringraziai per il consiglio, poi tornai al bancone insieme agli altri. No, non offrii da bere. Neanche mi passò per il capo il pensiero che questo si volesse da me. Me ne andai con «Ragno» e mi bruciano ancora le orecchie se cerco di immaginare le cose che avran detto di me.Come per caso, chiesi al «Ragno» che cosa aveva in corpo French Frank. «E' geloso marcio di te» fu la risposta. «Lo credi davvero?» dissi, e lasciai cadere il discorso come cosa di cui non val la pena parlare.Ma lascio intendere a chiunque... il vigore della mia virilità quindicenne ad apprendere che French Frank, avventuriero cinquantenne, marinaio di tutti i mari del mondo, era geloso di me, e geloso di una ragazzina dal nome romantico, la Regina dei Pirati delle Ostriche. Avevo letto storie simili nei libri, e le consideravo probabilità, in senso personale, di una maturità molto lontana. Ah, mi sentivo proprio un diavolaccio giovane e raro, quella mattina, quando issammo la vela grande, salpammo l'ancora e poi filammo per tre miglia con il. vento in poppa per uscire dalla baia.

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Fu questa la mia fuga dalla micidiale macchina della fatica, e il mio ingresso nel mondo dei pirati ostricari. Certo, questo ingresso si era celebrato con una bevuta, e la vita prometteva di continuare con il bere. Ma per questo motivo dovevo forse tenermene lontano? Dovunque la vita scorra libera e grande, là gli uomini bevono. Romanzo e Avventura parevano sempre andarsene a braccetto con John Barleycorn. Per conoscere i due, io dovevo conoscere il terzo. Altrimenti avrei dovuto ritornare ai libri della biblioteca pubblica, a leggere le imprese di altri uomini, e non compiere imprese mie, a parte quel lavoro da schiavo per dieci centesimi all'ora a una macchina nella fabbrica di conserva.No, non volevo farmi distogliere da questa vita eroica sull'acqua dal semplice fatto che gli uomini d'acqua avevano strani e costosi desideri di birra, vino e whisky. Cosa dire se la loro idea di felicità comprendeva anche questa stranezza di volermi veder bere? Finché insistevano a comprare quella robaccia e a ficcarmela in gola, io avrei bevuto. Era il prezzo da pagare per averli compagni. E non occorreva che mi ubriacassi. Non mi ero ubriacato quel pomeriggio di domenica in cui conclusi l'acquisto della «Razzle Dazzle», nonostante il fatto che tutti gli altri erano ubriachi. Ecco, in avvenire avrei fatto in quel modo, avrei bevuto per farli contenti, ma evitando accuratamente di bere troppo.

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9.

Anche se fu graduale la mia evoluzione di gran bevitore fra i pirati ostricari, il bere forte arrivò all'improvviso e fu risultato non del desiderio dell'alcool, ma di una convinzione intellettuale.Quanta più vita bevevo, tanto più me ne innamoravo. Non potrò mai scordare l'emozione della prima volta che presi parte a un'incursione preparata, quando ci radunammo a bordo della «Annie» uomini duri, grossi, spavaldi, grinzosi sorci di pontile, alcuni già stati in galera, tutti nemici della legge e meritevoli del carcere, vestiti e calzati da marinai, che parlavano con voce bassa e rauca, e George detto «il Grosso» con le rivoltelle infilate alla cintura per far intendere che non scherzava.Ah, lo so, a ripensarci, che tutta questa era una faccenda sordida e stupida. Ma certamente non ci pensavo a quei tempi, quando ero così intimo amico di John Barleycorn e cominciavo ad accettarlo. La vita era scatenata e brava, e io stavo vivendo un'avventura come quelle lette nei libri.Nelson, detto il «Giovane» per distinguerlo da suo padre il «Vecchio», partì con un barcone chiamato «Reindeer», in società con un certo «Arsella». Questo Arsella era un diavolaccio, ma Nelson era un manico scatenato. Aveva vent'anni, e il corpo di un Ercole. Quando gli spararono, a Benicia, un paio d'anni più avanti, il giudice disse che non s'era mai visto sulla lastra di marmo un uomo dalle spalle così larghe.Nelson non sapeva leggere né scrivere. Lo aveva tirato su il padre nella baia di San Francisco, e le barche eran per lui una seconda natura. Aveva una forza prodigiosa, e una fama di violenza, in tutti gli ambienti del porto, tutt'altro che lusinghiera. Aveva empiti di rabbia scatenata e faceva cose folli, terribili. Io lo conobbi alla prima crociera sulla «Razzle Dazzle» e lo vidi andar via sparato sul «Reindeer» e dragare ostriche tutt'intorno a noi ancorati, turbati dalla paura di tornare a riva.Era un uomo, questo Nelson; e quando, incontrandomi al solito saloon, mi rivolgeva la parola, io ne ero molto fiero. Ma cercate di immaginare la mia fierezza quando all'improvviso mi offrì da bere. Stavo in piedi al bancone a bere un bicchiere di birra con lui, e da uomini parlavamo di ostriche, e di barche, e del mistero di chi aveva sparato contro la vela maggiore dell'«Annie».Indugiammo al bancone a parlare. A me questo pareva strano. La nostra birra l'avevamo bevuta. Ma come potevo io avviarmi fuori di lì, se il grande Nelson aveva deciso di restare al bancone? Dopo qualche minuto, con mia sorpresa, m'invitò a bere ancora, e io lo feci. E si continuava a parlare, e Nelson non mostrava alcuna intenzione di abbandonare il saloon.Statemi a sentire che vi spiego il modo del mio ragionamento e della mia ingenuità. Prima di tutto, ero molto fiero di stare in compagnia di Nelson, che era la figura più eroica fra i pirati ostricari e gli avventurieri della baia. Per sfortuna del mio stomaco e delle mie membrane, Nelson aveva uno strano uzzolo innato, che lo spingeva a trovare gioia nell'offrirmi birra. Io non avevo contro la birra alcuna disinclinazione d'ordine morale, e il semplice fatto che non ne gradivo né il sapore né il peso non era motivo sufficiente per lasciar perdere la sua compagnia, che mi onorava. A lui andava di bere birra, e farmi bere con sé. Benissimo, avrei sopportato quel passeggero disagio.Così continuammo a parlare al bancone, e a bere la birra ordinata e pagata da Nelson. Adesso, se ci ripenso, credo che Nelson fosse curioso. Voleva scoprire che razza di tipo io fossi. Voleva vedere quante volte l'avrei lasciato pagare senza offrire a mia volta.Dopo che ebbi bevuto cinque o sei bicchieri, avendo sempre in mente una condotta temperata, decisi che per questa volta poteva bastare. Perciò dissi che andavo a bordo della «Razzle Dazzle», che era accosto a un pontile della città, a un centinaio di passi.Dissi addio a Nelson e scesi al pontile. Ma John Barleycorn, nella misura di sei bicchieri, scese insieme a me, mi pungeva il cervello, mi animava. Io provavo in pieno il senso della mia virilità. Io, autentico pirata ostricaro, salivo a bordo della mia barca dopo aver gavazzato con Nelson al saloon, massimo fra tutti i pirati ostricari. Era ancor forte nel mio cervello l'immagine di me appoggiato al bancone a bere birra. E curioso era anche questo naturale ghiribizzo che rende gli uomini felici quando spendono dei bei soldoni in birra per uno come me a cui la birra non andava.Mentre pensavo questo, rammentai che diverse volte altri uomini, a coppia, entravano al saloon (quello chiamato appunto «L'ultima occasione») e prima l'uno, poi l'altro offrivano da bere. Rammentavo, della bevuta a bordo allo «Idler», che Scotty e l'arpioniere e io avevamo

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raccolto i nostri spiccioli per pagarci il whisky. Da allora fu questa la mia legge: chi paga un pezzo di caramello o una «palla da cannone», un bel giorno riceve in cambio a sua volta un pezzo di caramello e una «palla da cannone».Per questo Nelson indugiava in quel locale. Avendo pagato da bere, s'aspettava che a mia volta offrissi. "Lo avevo lasciato pagare sei volte senza mai offrimi a mia volta quale pagatore". E pensare che era il grande Nelson, lui. Mi sentivo arrossire di vergogna. Mi misi seduto al pontile, la faccia nascosta fra le mani. E il calore della vergogna mi bruciava il collo e le guance e la fronte. Molte volte son diventato rosso in vita mia, ma non ho mai provato un rossore terribile come quella volta.E seduto lì al pontile, solo con la mia vergogna, molto pensai e soppesai i valori. Ero nato povero. Povero ero vissuto. Qualche volta avevo patito la fame. Non avevo conosciuto giocattoli come gli altri bambini. I miei primi ricordi della vita eran marcati dalla povertà. Avevo otto anni quando indossai la mia prima camiciola comprata in un negozio. E rimase unica: quando era sporca dovevo aspettare che me la lavassero e intanto mettermi addosso quella roba tremenda, fatta in casa. Quella camiciola mi aveva dato una tale fierezza che io volevo indossarla senza altri indumenti sovrapposti. Per la prima volta mi ribellai contro mia madre, una ribellione isterica, fino a che lei lasciò che indossassi la camiciola comprata al negozio per farla vedere a tutti.Solo un uomo che abbia conosciuto la fame può sapere il valore reale del cibo; soltanto i marinai e gli abitanti del deserto sanno il significato dell'acqua fresca. E soltanto un bambino, con la fantasia di bambino può arrivare a conoscere il significato di cose che a lungo gli siano state negate. Scoprii presto che le sole cose che avrei potuto avere eran quelle che mi sarei procurato da me. La mia magra infanzia generò magrezza. Le prime cose che potei procurarmi erano state involti di sigarette, manifesti di sigarette, album di sigarette. Non avevo diritto a spendere i soldi che guadagnavo, perciò commerciavo qualche giornale in più per procurarmi questi tesori. Scambiavo i doppioni con gli altri ragazzi, e siccome andavo in giro per tutta la città, avevo maggiori occasioni di trafficare e di acquistare.Non molto dopo avevo completato tutte le serie emesse da tutti i fabbricanti di sigarette - per esempio i «Grandi Cavalli da Corsa, le Bellezze di Parigi, le Donne di Tutte le Nazioni, le Bandiere di Tutte le Nazioni, gli Attori Famosi, i Campioni di Pugilato», eccetera. E ogni serie aveva le tre varianti: sull'involto delle sigarette, sul manifesto, sull'album.Poi cominciai ad accumulare doppioni, interi album completi. Li scambiavo con altre cose che piacevano ai ragazzi e che essi di solito compravano coi soldi dati loro dai genitori. Naturalmente essi non avevano il senso acuto dei valori che avevo io, a cui nessuno aveva mai dato soldi per comprare qualcosa. Prendevo in cambio francobolli, minerali, bricciche, uova di uccello, palline (avevo una raccolta di palline di agata mai viste in mano a nessun ragazzo e il nucleo della raccolta era costituito da una manciata che valeva almeno tre dollari, e io me l'ero tenuta come garanzia dei venti centesimi dati in prestito a un ragazzo, il quale poi finì al riformatorio senza riuscirla a riscattarla).Ero pronto a barattare qualunque cosa per qualunque cosa, a fare decine e decine di successivi baratti, fino a che l'oggetto si fosse trasformato in qualcosa che valesse qualcosa. Ero famoso come strozzino. Riuscivo a far piangere chiunque avesse affari con me. Altri ragazzi mi invitavano a vendere per loro conto raccolte di bottiglie, stracci, ferri, latte da petrolio eccetera. Sì, e in cambio mi davano una mancia.Ecco dunque il ragazzo scaltro, di pugno chiuso, abituato a lavorare come uno schiavo a una macchina per dieci centesimi all'ora, seduto adesso al pontile a meditare sulla faccenda della birra a cinque centesimi al bicchiere, che se ne andava in un momento senza lasciare nulla in cambio. Adesso ero con gli uomini che ammiravo. Andavo fiero d'essere con loro. Se tutto il mio arraffare e risparmiare mi avesse dato l'equivalente di una sola delle mille emozioni che provavo da quando ero pirata ostricaro! Ma d'altra parte che cosa contava: quelle emozioni o i soldi? A questi uomini non faceva orrore sperperare un nichelino, anzi parecchi nichelini. Era straordinaria la loro noncuranza per il denaro, loro che invitavano otto persone a bere whisky da dieci centesimi al bicchiere, come aveva fatto French Frank. Ebbene, proprio ora Nelson aveva speso sessanta centesimi di birra, per noi due soli.Come doveva essere? Avvertivo di star prendendo una grave decisione. Stavo decidendo fra danaro e uomini, fra spilorceria e spirito d'avventura. Dovevo buttare fuori bordo tutti i miei vecchi valori relativi al danaro e considerarlo come cosa che si può buttare via a spreco, oppure dovevo buttare fuori bordo la società di questi uomini dai capricci strani che li inducevano a bere forte?

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Pian piano, dal pontile tornai al saloon, e Nelson stava ancora lì fuori. «Andiamo a berci una birra» l'invitai. Rieccoci al bancone a bere e a parlare, ma stavolta fui io a pagare i dieci centesimi, cioè un'ora intera di lavoro alla macchina, spesa per bere una cosa che non mi piaceva e che aveva gusto di marcio. Ma non fu difficile. Avevo afferrato un concetto. Il danaro non contava più. Era la società di questi uomini che contava. «Ancora?» chiesi. E bevemmo ancora, e pagai io. Nelson, con la saggezza del bevitore esperto, disse all'uomo che serviva: «A me piccola, Johnny». Johnny annuì e gli diede un bicchiere che conteneva un terzo dei bicchieri bevuti sinora. Ma costava lo stesso cinque centesimi.Ormai cominciavo a essere brillo, e questa stranezza non mi offese molto. E poi cominciavo a imparare. Nel pagare da bere non c'era soltanto la quantità. Ora toccavo con mano. A un certo punto la birra non contava affatto, ma solo lo spirito del farsi compagnia bevendo insieme. E... sì, un'altra cosa. Anche io potevo chiedere una birra e diminuire di due terzi il detestabile fardello impostomi da questo essere in compagnia.«Ho dovuto andare a bordo per prendere del danaro» osservai come per caso, mentre si beveva, nella speranza che Nelson prendesse queste parole come una spiegazione del perché avevo lasciato che fosse lui a pagare sei volte di seguito.«Be', non dovevi far questo» rispose. «Johnny si fida di uno come te, vero Johnny?».«Certo», convenne Johnny con un sorriso.«Quanto hai sul mio conto?» chiese ancora Nelson.Johnny tirò fuori il libro che teneva dietro il bancone, trovò la pagina di Nelson, e sommò il conto di diversi dollari. Mi venne subito il desiderio di avere una pagina in quel libro. Sembrava a me quello il simbolo definitivo della mia virilità.Dopo aver bevuto ancora, e sempre insistei a voler pagare io, Nelson decise di andarsene. Ci lasciammo da veri compagni e io me ne andai lungo il pontile fino alla «Razzle Dazzle». Il «Ragno» stava accendendo il fuoco per la cena.«Dove l'hai presa?» mi ghignò guardandomi dal boccaporto aperto.«Ah, sono stato con Nelson» dissi, cercando di nascondere il mio orgoglio.Allora mi venne un'idea. Ecco un altro di questi uomini. Una volta afferrato il concetto, potevo anche metterlo in pratica, fino in fondo. Dissi: «Andiamo da Johnny a bere qualcosa».Passando sul pontile incontrammo «Arsella» che veniva avanti. Questo «Arsella» era socio di Nelson, ed era un bell'uomo coraggioso, trentenne, coi baffi. Insomma tutto quel che contraddiceva il suo soprannome. Dissi: «Vieni a bere qualcosa». Venne. Entrando nel saloon vedemmo Pat, fratello della Regina, che ne usciva.«Che fretta hai?» dissi a mo' di saluto. «Noi andiamo a bere. Vieni anche tu». «Ho già bevuto», rifiutò. «E che vuol dire? ora bevi di nuovo, con noi» ribattei. E Pat consentì di unirsi a noi, e me lo feci amico con un paio di bicchieri di birra. Ah, quante cose stavo imparando quel pomeriggio, su John Barleycorn. Non c'era, in lui, soltanto quel brutto sapore che si provava ingozzandosi. Qui, al prezzo assurdo di dieci centesimi, un individuo cupo, risentito, che minacciava di diventarti nemico, si trasformava come per incanto in un amico ottimo. Diventava persino simpatico, le sue occhiate erano gentili, e le nostre voci si frammischiavano, parlando di cose di mare e di ostriche.«Per me birra piccola, Johnny», dissi, dopo che gli altri ebbero chiesto quella grande. Sì, e lo dissi come un bevitore sperimentato, noncurante, come una specie di pensiero spontaneo che mi fosse venuto per caso. A ripensarci, credo che l'unico a intuire che io ero un novellino, in fatto di bevute al bancone, era Johnny Heinhold.«Dove l'ha presa?» sentii dire dal «Ragno», confidenziale, a Johnny.«Ha passato tutto il pomeriggio qua dentro con Nelson», fu la risposta di Johnny.Ci credereste che ne fui orgoglioso? Sì, anche il barista mi consacrava uomo. "Ha passato tutto il pomeriggio qua dentro con Nelson". Parole magiche! L'abbraccio di un barista, con un bicchiere di birra.Rammentai che French Frank aveva offerto da bere a Johnny il giorno in cui io comperai la «Razzle Dazzle». I bicchieri erano pieni e noi eravamo pronti a bere. «Prendi qualcosa anche tu, Johnny», dissi, con l'aria di aver pronunciato questa frase mille volte, ma anche d'essere un tantino distratto dalla conversazione che avevo con Arsella e Pat.Johnny mi guardò con occhio acuto, pensando, ne sono sicuro, ai passi che stavo facendo nella mia educazione, e si versò whisky dalla sua bottiglia privata. Si era preso un bicchiere da dieci centesimi mentre noialtri bevevamo bicchieri da cinque. Ma l'offesa fu presto dimenticata. Me la scordai come cosa ignobile, rammentai il mio concetto e non mi diedi via.«Questa sarà meglio che tu la metta nel libro», dissi, quando finimmo di bere. E così io ebbi la

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soddisfazione di vedere una pagina nuova dedicata al mio nome con sopra, segnato a matita, una somma di trenta centesimi di bevute. E allora io scorsi, come oltre una nebbia d'oro, un avvenire in cui la pagina sarebbe stata molto più carica, e poi cancellata, e ricaricata daccapo.Offrii una seconda volta, e poi, con mio stupore, Johnny si corresse in quella storia del suo bicchiere privato da dieci centesimi. Offrì lui, a tutti, da dietro il bancone, e io conclusi che adesso aveva fatto con me un vero pareggio, aritmetico.«Andiamo al «Saint Louis», propose il «Ragno» quando fummo usciti. Pat, che tutto il giorno aveva spalato carbone, era andato a casa mentre «Arsella» era tornato sul «Reindeer» ad accendere il fuoco.Così il «Ragno» e io si andò insieme al «Saint Louis» - per me era la prima volta - un locale grandissimo, dove erano adunati una cinquantina di uomini, in gran parte scaricatori di porto. E qui incontrai per la seconda volta il Kennedy detto «Minestra» e Billy Kelley. Poi entrò Smith, della «Annie», quello che portava le rivoltelle alla cintura. E poi si fece vivo Nelson. E altra gente conobbi, tra cui i fratelli Vigy, i proprietari del locale, ma soprattutto Joe detto «Papero», con gli occhi cattivi, il naso storto, che suonava l'armonica da padreterno e si scioglieva nelle lacrime più tremende che si potessero concepire al porto di Oakland.Mentre pagavo da bere - ma pagarono anche gli altri - mi passò rapido per la mente il pensiero che non avrei potuto restituire molto a Mamma Jennie, coi guadagni di questa settimana a bordo della «Razzle Dazzle». «Ma che importa?» pensai, o meglio, pensò per mio conto John Barleycorn. «Tu sei un uomo e stai facendo la conoscenza degli uomini. Mamma Jennie non ha fretta di riavere i suoi soldi. Non patisce la fame. Tu lo sai. Ha altri soldi alla banca. Può attendere, la pagherai un po' alla volta».In questo modo conobbi un altro aspetto di John Barleycorn. Inibisce ogni moralità. Uno che senza aver bevuto non riesce a comportarsi malamente, lo fa benissimo quando ha bevuto. Anzi, è la sola cosa che può fare, perché l'inibizione di John Barleycorn sorge come un muro fra i desideri immediati di un individuo e la lungimiranza della sua moralità.Lasciai cadere il pensiero del mio debito con Mamma Jennie e continuai, con la trascurabile spesa di qualche trascurabile soldo, a far conoscenza degli uomini e a crearmi un giramento di testa che principiava a diventare spiacevole. Chi sia stato quella notte a portarmi a bordo e a mettermi a letto non lo so, ma immagino sia stato il «Ragno».

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E in questo modo mi guadagnai gli speroni della mia virilità. La mia posizione al porto e fra i pirati ostricari diventò subito eccellente. Mi consideravano un bravo tipo, e mi consideravano non vile. E non so come, da quando mi formai quel concetto, stando seduto al pontile di Oakland, non mi importò più nulla del danaro. Da allora nessuno mi ha più considerato meschino, allo stesso modo in cui la mia incuranza pei quattrini è diventata motivo d'ansia per alcuni che mi conoscevano.Fu così completa la rottura con il mio passato parsimonioso che mandai a dire a mia madre di invitare tutti i ragazzi del vicinato e regalargli le mie raccolte. Non mi sono neanche mai curato di sapere a quale ragazzo toccasse questa o quella raccolta. Ormai ero un uomo, e avevo fatto piazza pulita di tutto quello che mi legava alla mia fanciullezza.Crebbe la mia reputazione. Quando corse voce lì al porto che French Frank aveva cercato di mandarmi a fondo con la sua barca, e che io me n'ero rimasto sul ponte della «Razzle Dazzle», con in mano la doppietta, cani alzati, dirigendo la barca coi piedi e lo avevo costretto a tenersi alla larga, la gente del porto concluse che, a parte la giovane età, io avevo qualcosa in corpo. E io continuai a dimostrare quel che avevo in corpo. Certe volte rientrai con la «Razzle Dazzle» carica di ostriche più d'ogni altra barca governata da due uomini soli; una volta facemmo incursione ben a fondo nella Baia Bassa, e la mia fu la sola imbarcazione tornata all'ancora all'alba, dall'isola che prende nome dall'asparago; ci fu la notte di quel famoso giovedì, che facemmo incursione per conto del mercato e io portai la «Razzle Dazzle» senza timone, prima fra tutti, e mi portai via il meglio del mercato del venerdì mattina; e ci fu la volta che rientrai dalla Baia Superiore e Scotty mi fece fuori la vela (sì, proprio lo stesso Scotty dell'avventura a bordo dell'«Idler». L'irlandese era andato col «Ragno», poi si fece vivo Scotty a prendere il posto dell'irlandese).Ma le cose che feci in mare contavano soltanto in parte. Ciò che completò ogni cosa, e mi guadagnò il titolo di «Principe dei Vivai di Ostriche» fu proprio il fatto che a terra ero un bravo tipo, coi soldi, e offrivo da bere come un uomo. Quasi neanche mi sognavo che sarebbe venuto un giorno in cui il porto di Oakland, che in un primo momento mi aveva tanto stupito, si sarebbe a sua volta stupito (e seccato) per le cose diaboliche che avrei fatto.Ma la vita era sempre legata al bere. Il saloon non è un circolo per uomini soli. Il saloon è un luogo di raduno. Ci festeggiavamo la nostra buona fortuna, e ci piangevamo le nostre desolazioni. Si faceva conoscenza, al saloon.Potrò mai dimenticare quel pomeriggio in cui conobbi il «Vecchio Sdrucio» padre di Nelson? Fu nel solito saloon, «L'ultima occasione». Ci presentò Johnny Heinhold. Questo cosiddetto Vecchio Sdrucio padre di Nelson era piuttosto ragguardevole. Ma non questo soltanto. Era proprietario e capitano della nave «Annie Mine», e un giorno avrei potuto imbarcarmi marinaio con lui. E poi, era un bell'uomo. Gli occhi azzurri, i capelli biondi, ossuto, vichingo, grande, forte di muscoli a dispetto dell'età. E aveva navigato i mari su navi di tutte le nazioni ai vecchi giorni della navigazione selvatica.Avevo sentito raccontare su di lui molte storie terribili, e in cuor mio ne avevo fatto un eroe. Ci volle il saloon per avvicinarci. Ma anche così, la conoscenza avrebbe potuto non andare oltre la stretta di mano, la parola scambiata (oltre tutto era un vecchio di poche parole) se non fosse stato per il bere.«Bevi qualcosa» dissi io subito, dopo la pausa che avevo imparato dalle regole della buona creanza, in fatto di bere. Certo, bevendo le nostre birre, che avevo pagato io, a lui toccava l'obbligo di ascoltarmi e di parlarmi. E Johnny, da bravo padrone di casa, ebbe tatto nell'intervenire e ci consentì di trovare argomenti di mutuo interesse per la nostra conversazione. E naturalmente, avendo bevuto la mia birra, capitan Nelson doveva a sua volta pagare. E questo significava parlare ancora, e Johnny uscì dalla nostra conversazione per badare agli altri clienti.Quanta più birra bevevamo, capitan Nelson e io, tanto migliore diventava la nostra conoscenza. Egli trovava in me un orecchio pronto a sentire e a capire, un ragazzo che, con la lettura dei libri, molto sapeva della vita sul mare che lui aveva vissuto. Così, riandò ai suoi anni giovani e selvatici, e mi disse molte cose rare, mentre ci ingozzavamo di birra, testa a testa, per tutto un benedetto pomeriggio estivo. Era solo John Barleycorn a darti la possibilità di un pomeriggio simile con il vecchio lupo di mare.Johnny Heinhold mi avvisò da dietro il bancone, senza dare nell'occhio, che cominciavo a

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essere brillo e mi consigliò di comandare birre piccole. Ma fin quando capitan Nelson bevesse birre grandi, il mio orgoglio mi vietava di prendere altro che birre grandi. E solo quando fu lui a comandare birra piccola, la comandai anch'io. Ah, quando arrivammo all'addio, che fu indugiato e affettuoso, mi sentii ubriaco. Ma ebbi la soddisfazione di vedere il Vecchio Sdrucio ubriaco come me. La mia modestia giovanile non mi consentiva quasi dì credere che questo vecchio, duro bucaniere fosse anche più ubriaco di me.E in seguito, dal «Ragno», e da Pat e da «Arsella»e da Johnny Heinhold, e da altri, venni a sapere che il vecchio mi aveva in simpatia, e diceva soltanto del bene, stimandomi un ragazzo in gamba. E questo era un fatto notevolissimo, perché aveva fama di uomo selvatico, tignoso, vecchio rabbioso che non voleva bene a nessuno. (Il soprannome stesso, «Sdrucio», veniva dal fatto che, quando si pestava con qualcuno, era capace di sdrucire la faccia dell'avversario). E se mi ero conquistato la sua amicizia, grazie tante a Johnny Barleycorn. Ho parlato di questo fatto solo come esempio dei numerosi allettamenti e servigi a cui ricorre John Barleycorn per conquistarsi dei seguaci.

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11.

E tuttavia non sorgeva in me alcun desiderio di alcool, nessuna necessità chimica. Anni e anni di bevute sode non mi fecero nascere il desiderio. Bere era il mio modo di vita, il modo di vita degli uomini con cui bevevo. Quando uscivo sulla baia per una qualche incursione, non mi portavo dietro da bere, e quando ero fuori sulla baia non mi passava mai per la mente il pensiero della desiderabilità dell'alcool. Solo quando avevo ancorato la «Razzle Dazzle» al pontile ed ero sceso a terra là dove si radunano gli uomini, dove scorrevano i bicchieri, sorgeva in me la sensazione che offrire da bere ad altri uomini, e accettare da bere da altri uomini, fosse una specie di dovere sociale, e un rito virile.Poi c'erano arche le volte in cui, riposando al molo o al di là dell'estuario, venivano a bordo la Regina e sua sorella e suo fratello Pat e la signora Hadley. Era la barca mia, io ero il padrone, ed io potevo offrire loro ospitalità solo nei termini in cui essi erano disposti a comprenderla. Ecco perché mandavo di corsa il «Ragno», oppure l'irlandese, oppure Scotty, insomma chiunque fosse la mia ciurma, con la latta a prendere la birra o il bottiglione per il vino. E ancora, quando al molo facevo fuori le mie ostriche, c'erano crepuscoli in cui grossi poliziotti, e anche qualcuno in borghese, venivano di soppiatto a bordo. E siccome noi si vive all'ombra della polizia, si aprivano le ostriche per offrirle ai poliziotti, con salsa piccante, e li si ingozzava di vino, o di roba anche più forte.Per quanto bevessi, non riuscivo a voler bene a John Barleycorn. Avevo ottima stima di lui, per via delle sue amicizie, ma non per il gusto che mi dava. Di continuo io cercavo di essere uomo fra gli uomini, e di continuo avevo in cuore vergognosi desideri di caramello. Ma avrei preferito morire, piuttosto che lasciarlo intendere a qualcuno. Mi abbandonavo a qualche deboscia solitaria, le notti in cui la ciurma andava a dormire a terra. Andavo alla biblioteca pubblica, cambiavo i libri imprestati, compravo un quarto di dollaro di caramelle di ogni tipo, che si potessero masticare a lungo, salivo a bordo della «Razzle Dazzle», mi chiudevo in cabina, andavo a letto, e lì giacevo, lunghe ore felici, a leggere e a masticare le caramelle. E solo allora sentivo di aver speso bene i miei soldi. Al bancone, dollari su dollari non bastavano a pagare la soddisfazione che mi davano quei venticinque centesimi alla bottega delle caramelle.Man mano che cresceva il mio modo di bere, cominciai a notare che proprio durante le trincate avvenivano gli istanti purpurei. Le bevute erano sempre memorabili. Soltanto allora succedeva qualcosa. Uomini come Joe detto il «Papero» datavano la loro esistenza da una sbornia all'altra. Gli scaricatori di porto non aspettavano altro che la sbornia del sabato sera. Noialtri ostricari aspettavamo di aver fatto fuori il nostro carico prima di partire sul serio, anche se qualche sparsa bevuta o un incontro casuale fra amici precipitava, accidentalmente, una sbornia.Talvolta queste sbornie accidentali erano le migliori. Allora succedevano cose più strane e più eccitanti. Come per esempio la domenica in cui Nelson e French Frank e il capitano Spink rubarono la barca salmoniera (già rubata a sua volta a Bob detto «Whiskey» e a Nicky detto «il Greco»). Erano avvenuti cambiamenti nel personale delle barche ostricare. Nelson aveva avuto una discussione con Bill Kelley sulla «Annie», e aveva una mano bucata da un colpo di pistola. E siccome aveva litigato anche con «Arsella» e rotto la società, Nelson, braccio al collo, era partito sul «Reindeer», con una ciurma di due marò d'alto mare, e aveva filato in un modo tale che quelli tornarono a terra impauriti. Questo si diceva di lui, uomo spericolato, che nessuno del nostro ambiente sarebbe mai uscito con Nelson. Per questo il «Reindeer», senza ciurma, se ne restava immobile dall'altra parte dell'estuario. Accanto stava la «Razzle Dazzle» con la vela rotta e Scotty e io a bordo. Bob detto «Whiskey» aveva rotto con French Frank ed era andato su per l'estuario con Nicky «il Greco».Risultato di questa incursione fu una barca salmoniera nuova di zecca del fiume Columbia rubata a un pescatore italiano. Noi pirati ostricari ricevemmo tutti visite dagli italiani in perlustrazione, e da quel che si poté capire dai loro movimenti, colpevoli dovevano essere Bob detto «Whiskey» e Nicky «il Greco». Ma dove era questa barca salmoniera? Centinaia di pescatori greci e italiani, avvezzi al fiume o alla baia, avevano frugato dappertutto per ritrovarla. Quando il proprietario, disperato, offrì un compenso di cinquanta dollari, il nostro interesse crebbe e il mistero si approfondì.Una mattina di domenica il vecchio capitan Spink venne a farmi visita. Fu una conversazione confidenziale. Era appunto stato a pesca con il suo palischermo al vecchio traghetto di Alameda. Con il calare della marea, aveva notato una cima legata a un pilone sott'acqua,

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disposto lungo la corrente. Invano aveva tentato di tirare su quel che era ancorato all'altro capo. Più avanti, a un altro pilone era una cima simile, anche quella disposta secondo la corrente, e non si riusciva a sollevarla. Era senza dubbio la barca salmoniera scomparsa. Renderla al legittimo proprietario significava per noi cinquanta dollari. Ma io avevo strane idee etiche circa l'onore fra i ladri, e rifiutai di avere parte di questa faccenda.Ma French Frank aveva litigato con Bob detto «Whiskey», e anche Nelson era un nemico. (Povero Bob «Whiskey», uomo privo di cattiverie, bonario, generoso, nato debole, cresciuto povero, con una irresistibile richiesta chimica di alcool, che ancora continuava nella sua vocazione di pirata della baia, e il suo corpo fu ripescato non molto dopo, accanto a un molo, là dove era caduto pieno di pallottole). Un'ora dopo che io ebbi respinto la proposta di capitan Spink, lo vidi avviato giù per l'estuario a bordo del «Reindeer» con Nelson. E c'era anche French Frank con la sua barca.Non passò molto tempo ed eccoli di ritorno su per lo estuario, stranamente affiancati. Man mano che avanzavano si cominciava a scorgere la barca salmoniera sommersa, tenuta fra le due barche con le cime perché non andasse a fondo. La marea era a metà cessata, e stavano filando verso la sabbia, stringendosi in mezzo la barca salmoniera.Subito Hans, uno dei marinai di French Frank, fu a bordo di un palischermo, e filava rapidamente verso la riva settentrionale. L'enorme bottiglione che si scorgeva a bordo bastava a dire che cosa fosse andato a fare. Non potevano attendere un altro istante per festeggiare i cinquanta dollari guadagnati cosi facilmente. Ecco come si comportano i fedeli di John Barleycorn. Quando viene la buona sorte, bevono. Quando viene la mala sorte, bevono alla speranza della sorte buona. Se capita una sfortuna, bevono per dimenticarsela. Se incontrano un amico, bevono. Se litigano con un amico e lo perdono, bevono. Se hanno successo in amore, tanta è la loro felicità che per forza debbono bere. Se vanno in bianco, bevono per l'opposto motivo. E se proprio non hanno niente da fare, ebbene, bevono qualcosa, con la piena consapevolezza che dopo aver bevuto a sufficienza comincerà a pizzicare il cervello e le mani saranno piene di cose da fare. Quando non hanno ancora bevuto vogliono da bere, e quando hanno bevuto vogliono bere ancora.Naturalmente, da buoni compagni, fummo invitati anche Scotty e io a bere. Contribuimmo a bucare quei cinquanta dollari non ancora incassati. Quel pomeriggio, che era soltanto un comunissimo, ordinario pomeriggio di domenica, divenne un pomeriggio straordinario, di porpora. Tutti parlammo e cantammo e ci esaltammo, mentre French Frank e Nelson facevano girare i bicchieri. Eravamo in piena vista, rispetto al porto di Oakland, e il fracasso della nostra baldoria attirava altri amici. Una barca dopo l'altra traversavano l'estuario per affiancarsi a noi, mentre Hans provvedeva di continuo a portare altra roba da bere.Poi arrivarono, perfettamente lucidi, Bob detto «Whiskey» e Nicky «il Greco», sdegnati, offesi contro i loro compagni di pirateria ostricara. French Frank, con l'aiuto di John Barleycorn, predicava ipocritamente virtù e onestà e, nonostante i suoi cinquant'anni, fece scendere giù Bob detto «Whiskey» e lo caricò di botte. Quando Nicky «il Greco»sopravvenne con una pala a manico corto in aiuto di Bob «Whiskey», provvide Hans a completare l'opera. E naturalmente, quando i resti cruenti di Bob e di Nicky furono rispediti sulle loro barche, bisognò festeggiare l'avvenimento con altra baldoria.A questo punto, essendo numerosi i nostri ospiti, formavano ormai una vasta ciurma composta da molte nazionalità e da diversi temperamenti, tutti desti da John Barleycorn, con ogni ritegno mollato. Risorgevano antiche liti, divampavano antichi odii. La rissa era nell'aria. E ogni volta che uno scaricatore rammentava qualche cosa contro un marinaio, o viceversa, oppure un pirata ostricaro rammentava qualcosa o era indotto a rammentarsela, sorgeva un pugno e un altro pugno a quello si opponeva. E ogni scossa di botte veniva compensata da un'altra bevuta fino a che i litigiosi, con l'aiuto e l'invito degli altri, si abbracciavano giurandosi amicizia eterna.Fra l'altro, il Kennedy detto «Minestra» scelse proprio quest'occasione per venire a riprendersi una sua vecchia camicia, lasciata a bordo del «Reindeer» nel viaggio che aveva fatto con «Arsella». Nella lite con Nelson, si era messo dalla parte di «Arsella». Inoltre aveva già bevuto al Saint Louis, e dunque era John Barleycorn a guidarlo in cerca della sua vecchia camicia. Bastarono poche parole a precipitare egli eventi. Si chiuse sotto con Nelson, a bordo del «Reindeer» e nella mischia poco mancò che gli saltasse il cervello per via di una sbarra di ferro vibrata dal furibondo French Frank - furibondo perché un uomo con due mani aveva aggredito un uomo con una mano sola. (Se il «Reindeer» galleggia ancora, il segno della sbarra di ferro rimane sul legno duro della paratia).

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Invece Nelson tirò fuori la mano bendata e bucata da una pallottola, e con il nostro sostegno pianse e urlò la sua folle convinzione di poter sistemare con una mano sola il Kennedy detto «Minestra». E noi li lasciammo scatenare sulla sabbia. A un certo punto, quando parve che Nelson stesse per avere la peggio intervennero slealmente nella rissa French Frank e John Barleycorn. Scotty si avventò contro French Frank, che a sua volta gli si scagliò addosso stringendolo e picchiandolo dopo un balzo di venti palmi sulla sabbia. Per separarli, si attaccarono altre cinque o sei risse, e quando furono finite, nell'un modo o nell'altro o ci separammo con una bella bevuta, Nelson e il Kennedy detto «Minestra» continuavano a picchiarsi. A tratti si tornava a dar loro un consiglio, quando giacevano disfatti sulla sabbia, incapaci di menare ancora un colpo. «Buttagli la sabbia negli occhi». E infatti si buttavano, l'uno con l'altro, la sabbia negli occhi, e continuavano a battersi, fino a distruggersi ancora.E ora, se consideri quanto di tutto questo è squallido, ridicolo, bestiale, cerca d'immaginare quale significato avesse per me, ragazzo non ancora sedicenne, arso dallo spirito d'avventura, la fantasia piena di bucanieri e di pirati, saccheggi di città e conflitti di uomini armati, e la fantasia impazzita per la roba che avevo mandato giù. Era la vita, nuda e cruda, libera e selvaggia - la sola vita che la mia nascita, nel tempo e nello spazio, mi consentiva di raggiungere. Non soltanto. Portava in sé una promessa. Era il principio. Di lì c'era una strada che menava al Golden Gate, nella grandezza dell'avventura di tutto il mondo, dove si dovevano fare risse, e non per una camicia vecchia o una barca salmoniera rubata, ma per scopi romantici e per fini più alti.E siccome dissi a Scotty quel che pensavo del fatto che aveva lasciato nei pasticci un vecchio come French Frank, anche noi litigammo e demmo il nostro contributo a quella festa. E Scotty allora rinunciò al suo lavoro di ciurma, e quella notte stessa se ne andò portandosi via un paio di coperte che mi appartenevano. Durante la notte, mentre i pirati ostricari giacevano disfatti nelle loro cucce, il «Reindeer» e l'altra imbarcazione erano in preda all'alta marea e roteavano sull'ancoraggio. La barca salmoniera, ancor piena di sassi e di acqua, giaceva sul fondo.Al mattino presto, sentii urla selvagge dal «Reindeer», e uscendo nel freddo grigiore vidi uno spettacolo da far ridere per giorni e giorni il mondo del porto. La bellissima barca salmoniera giaceva sulla sabbia, spiaccicata come una torta, con accovacciate sopra la barca di French Frank e il «Reindeer». Per fortuna, due tavole del «Reindeer» erano state rotte dal robusto dritto di prua della barca salmoniera. La marea, alzandosi, aveva fatto irruzione nel buco, però aveva anche destato Nelson nella sua cuccetta. Io diedi una mano, e insieme riuscimmo, con la pompa, a tirare su il «Reindeer»e a riparare il danno.Poi Nelson fece colazione, e mentre si mangiava considerammo la situazione. Era a terra. E anche io. Mai gli avrebbero ripagato i cinquanta dollari per quel pietoso ammasso di macerie sulla sabbia accanto a noi. Aveva una mano ferita, e niente ciurma. Io avevo una vela a pezzi e niente ciurma. «Che facciamo, noi due?» lamentò Nelson. «Vengo con te» fu la mia risposta. E così diventai socio del «Giovane Sdrucio» Nelson, il più selvatico, il più matto di tutti. Prendemmo soldi a prestito da Johnny Heinhold per procurarci da mangiare, riempimmo d'acqua i barili, e quel giorno stesso salpammo verso i vivai delle ostriche.

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12.

E non ho mai rimpianto quei mesi matti e diabolici con Nelson. Lui partiva in mare, sempre, anche a costo di spaventare l'uomo che partisse con lui. Virare quanto bastava per scampare di un dito alla distruzione era la sua gioia. Fare quello che nessun altro osava era il suo vanto. Mai interzarolare, questa la sua mania, e per tutto il tempo che fui con lui, comunque andasse il vento, il «Reindeer» non lo fece mai, non ammainò vela alcuna. E mai rimase in secco, lo portammo bene al largo fuori del porto di Oakland, in cerca di altre avventure.E questo splendido brano della mia vita mi fu reso possibile da John Barleycorn. E questo debbo lamentare contro John Barleycorn. Eccomi lì, assetato di vita selvaggia, avventurosa, e l'unico modo di conquistarmela era con la mediazione di John Barleycorn. Era il modo degli uomini che vivevano la vita. Se volevo vivere la vita, dovevo viverla alla maniera loro. Grazie al bere io mi acquistavo la società, la amicizia di Nelson. Se avessi bevuto soltanto birra che pagava lui, o se non avessi bevuto affatto, mai sarei stato scelto da lui come socio. Voleva un socio che lo appagasse anche civilmente, oltre che nel mestiere.Io mi abbandonai alla vita, e mi feci l'idea sbagliata che il segreto di John Barleycorn stava nell'abbandonarsi a folli ubriacature, passando attraverso gli stadi successivi che soltanto una costituzione di ferro poteva sopportare, fino all'intontimento finale e all'incoscienza maialesca. Il sapore non mi piaceva, e così io bevevo all'unico scopo dì ubriacarmi, di ubriacarmi disperatamente, fino all'inazione. E io abituato a risparmiare, a riporre, a trafficare come uno Shylock, fino a far piangere i bottegai, io che ero rimasto a bocca aperta quando French Frank, con un colpo solo, aveva speso ottanta centesimi per pagare whisky a otto uomini, diventai più scatenato di tutti gli altri per l'estremo disprezzo dimostrato per il denaro.Ricordo di essere sceso a terra una sera con Nelson, avendo in tasca centottanta dollari. Era mia prima intenzione comperarmi dei panni, e poi da bere. Avevo bisogno di panni. Tutti quelli che possedevo mi stavano addosso, ed erano i seguenti: un paio di scarponi da marinaio che, provvidenzialmente, perdevano acqua man mano che l'acqua entrava, una tuta da cinquanta centesimi, una camicia di cotone da quaranta centesimi e un copricapo d'incerata. Non avevo cappello, per questo dovevo portare quel copricapo, e si badi bene che non ho fatto parola di biancheria intima né di calze. Non ne possedevo.Per arrivare alle botteghe dove si compravano i panni, bisognava passare dinanzi a una decina di saloon. Non arrivavo mai ai negozi dei panni. Al mattino, disfatto, avvelenato, ma contento, rientravo a bordo, e si salpava. Io possedevo solamente i panni con cui ero sceso a terra, e non mi restava un centesimo dei centottanta dollari. Questo può sembrare impossibile a chi non abbia mai provato, che in dodici ore si possano spendere centottanta dollari a bere, ma io so bene.E senza rimpianti. Ero orgoglioso. Avevo dimostrato loro di saper spendere quanto il migliore fra tutti. In mezzo a uomini forti, mi ero dimostrato forte. Mi ero conservato, come tante altre volte, il diritto di chiamarmi il «Principe». Inoltre il mio atteggiamento può considerarsi, in parte, una reazione alla meschinità della mia infanzia e alla fatica eccessiva della mia prima giovinezza. Forse il mio pensiero inespresso era questo: Meglio guadagnarsi il titolo di principe in mezzo agli ubriaconi che sgobbare dodici ore al giorno a una macchina. Nella fatica della macchina non ci sono momenti purpurei. E invece, se non è un momento di porpora l'aver speso centottanta dollari in dodici ore, vorrei sapere dove sono momenti simili.Ah, sto trascurando molti particolari dei miei traffici con John Barleycorn a quell'epoca, e menzionerò solamente quei fatti che rechino luce sui modi di John Barleycorn. Ci furono tre cose che mi consentirono di mettermi a bere forte in quel modo; una costituzione magnifica, molto superiore alla media; poi una vita salubre, all'aria aperta, sul mare; infine il fatto che bevevo in modo irregolare. Quando ero in mare, mai mi portavo dietro da bere.Mi si stava aprendo il mondo. Già io ne conoscevo diverse centinaia di miglia per acqua, e le città grandi e piccole e i porticcioli dei pescatori. Venne la voglia di spaziare oltre. Non avevo ancora scoperto, perché dietro c'era ben altro. Ma anche questa parte di mondo era già troppo per Nelson. Lui non vedeva altro che il beneamato porto di Oakland, e quando decise di ritornarvi, ci lasciammo in perfetta amicizia.Mio quartier generale diventò allora la vecchia città di Benicia, sugli stretti di Carquinez. In mezzo a un gruppo di pescherecci ancorati fra le erbe marine del porto, viveva una folla simpatica di bevitori e vagabondi, e io mi unii a loro. Trascorrevo periodi più lunghi a terra, fra una pescata al salmone e una corsa su e giù per il fiume, a pesca, e bevevo sempre di più e

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imparavo sempre di più sull'arte di bere. Tenevo testa a chiunque, un bicchiere dopo l'altro; e spesso bevevo più che la mia parte, per dimostrare che ero un uomo forte. Quando, al mattino, la mia carcassa si disintricava di fra le reti, dove ero andato a finire, stupidamente, ciecamente, la sera prima, e quando la gente di mare ne parlava fra risate e ghigni, e altri bicchieri, io ne ero fiero, veramente. Era una bella impresa.E quando la sbornia durava fissa, per tre settimane di seguito, io ero sicuro d'aver raggiunto il limite. Sicuramente, in quella direzione non potevo andare oltre. Era tempo che io cambiassi. Perché sempre, ubriaco o no, nel fondo della mia coscienza qualcosa mi sussurrava che tutte queste baldorie, tutta questa vita da marinaio non era affatto vita vera. Quel sussurro era la mia fortuna. Era così fatto che io lo sentivo chiamare, chiamare sempre, dentro e fuori del mondo. Non era sagacia da parte mia. Era curiosità, desiderio di sapere, disagio, ricerca di cose meravigliose che a quanto pare, e chissà come, io avevo intravisto o indovinato. Per che cosa era fatta questa vita, mi chiedevo, se si riduceva a questo? No, c'era qualcosa di più, lontano, oltre (e in rapporto alla mia ulteriore evoluzione di bevitore, quel sussurro, quella promessa di cose in fondo alla vita bisogna tener presente, perché era destinata ad avere una parte terribile nei miei più recenti scontri con John Barleycorn).Ma quel che diede urgenza immediata alla mia decisione di cambiare fu uno scherzo che mi fece John Barleycorn, uno scherzo mostruoso, incredibile, che mi mostrò abissi di ubriachezza sinora intoccati. All'una del mattino, dopo una sbornia prodigiosa, stavo salendo a bordo, giù in capo al molo, per dormire. Imperversava la marea negli stretti di Carquinez, e sembrava d'essere a un mulino. Caddi di sotto. Non c'era nessuno al pontile, nessuno a bordo. Mi portò via la corrente. Ma non mi turbai. Anzi la disavventura mi parve deliziosa. Ero un buon nuotatore, e nella mia condizione il contatto dell'acqua sulla pelle mi diede una sensazione di biancheria fresca.E allora John Barleycorn mi fece quel suo scherzo maniaco. Mi venne la fantasia ossessiva di lasciarmi andare alla marea. Non ero mai stato un tipo morboso. Non mi erano mai entrati in testa pensieri di suicidio. E adesso che ci erano entrati, a me quello pareva uno splendido fastigio, una conclusione perfetta della mia carriera così breve ma così eccitante. Io, che non avevo mai conosciuto l'amore di una ragazza, né l'amore di una donna, né l'amore dei figli, che non avevo mai goduto nei vasti prati dell'arte, né scalato le vette diacce come l'acciaio della filosofia, né visto con i miei occhi un pezzo di mondo più vasto di una punta di spillo, decisi che questo era tutto, che avevo visto tutto, che ero stato tutto quel che valeva la pena di essere, e che ora era tempo di cessare. Questo lo scherzo di John Barleycorn, che mi tirava per i talloni della mia fantasia e in un sogno drogato mi trascinava alla morte.Ah, era convincente! Veramente, io avevo sperimentato tutto della vita, e tutto sommato non era molto. L'ubriacatura maialesca in cui ero vissuto per mesi (che si accompagnava al vecchio sentimento della degradazione e del peccato) fu l'ultima e la migliore, e io vedevo con i miei occhi quello che poteva valere. Eccoli, tutti quanti i vecchi vagabondi e poltroni a cui avevo offerto da bere. Era questo che mi restava, della vita. Volevo diventare come loro? Mille volte no; e piansi lacrime di dolce tristezza sulla mia splendida gioventù che andava persa con la marea. (E chi non ha mai visto l'ubriacone che piange, l'ubriacone malinconico? Si trovano in tutti i locali, se riescono a trovare chi li ascolti e raccontano le loro pene al barista, il quale è pagato per ascoltare).L'acqua era deliziosa. Questo era un modo di morire da uomo. John Barleycorn cambiava il motivo che stava suonando nel mio cervello pazzo di alcool. Basta con le lacrime e col rimorso. Questa era una morte da eroe, per mano e per volontà dell'eroe medesimo. Perciò io intonavo il mio inno funebre e lo cantavo a pieni polmoni, fino a che lo sciaguattio dentro le orecchie mi rammentò una mia situazione più immediata.Sotto la città di Benicia, dove si spinge in mare il pontile chiamato «Solano», lo stretto si allarga a formare quello che i frequentatori della baia chiamano «Cantiere Tunner». Io mi trovavo nella marea che passava sotto a questo pontile per entrare nelle acque del cantiere. Conoscevo da tempo la potenza del risucchio che si formava quando la marea aggirava l'Isola del Morto, per poi precipitarsi contro il pontile. Non volevo passare fra quei piloni. Non sarebbe stato bello, e avrei potuto perderci un'ora intera, là dentro, prima che la marea mi riportasse fuori.Mi svestii nell'acqua e mi tirai fuori a bracciate forti, decise, tagliando la corrente ad angolo retto. E non smisi fino a quando, dai lumi del pontile, seppi d'essere scampato. Poi mi misi sul dorso e riposai. La nuotata era stata una prova dura per me, e mi ci volle un po' di tempo per riprendere il fiato.

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Scoppiavo dalla gioia di essere riuscito a evitare il risucchio. Ricominciai a intonare il mio canto di morte, che era poi una farragine di note estemporanee, folli e giovanili. Johnny Barleycorn sussurrava: «Non cantare ancora. Il 'Solano' sta aperto tutta la notte. Al pontile ci sono i ferrovieri. Ti sentiranno, verranno a salvarti con la barca, e tu non vuoi farti salvare.». Certamente no. Come? Farmi portare via la mia morte di eroe? E stavo sul dorso alla luce delle stelle, guardando passare i ben noti lumi del pontile, rossi verdi e bianchi, e davo loro un languido addio, a ciascuno e a tutti.Quando fui ben avanti, alla metà del canale, ripresi il canto. Di solito io do sempre qualche bracciata, ma quella volta mi bastava stare sul dorso e sognare i miei lunghi sogni di ubriaco. Prima di giorno, il freddo dell'acqua e il trascorrere delle ore mi fecero svanire la sbornia quanto bastava perché io mi chiedessi in che misura avevo percorso gli Stretti, e anche se mi avrebbe preso la marea di ritorno, a portarmi via prima che raggiungessi la baia di San Pablo.Poi mi accorsi di essere molto stanco, di avere molto freddo, di non essere più ubriaco, che non avevo alcuna voglia di finire affogato. Riuscivo a distinguere la Fonderia dei Selby sulla riva di Contra Costa, e il faro dell'Isola della Cavalla. Presi a nuotare verso la riva di Solano, ma ero troppo debole e infreddolito, e avanzavo così poco, e a costo di una fatica così penosa che ci rinunciai e mi rassegnai a stare semplicemente a galla, dando a tratti una bracciata per mantenere l'equilibrio sull'onda di marea che di continuo aumentava il suo movimento sopra la superficie dell'acqua. E conobbi la paura. Adesso non ero ubriaco, e non volevo morire. Trovai motivi a decine per vivere. E più motivi trovavo, più mi sembrava verosimile che sarei affogato comunque.A giorno, dopo che ero rimasto quattro ore nell'acqua, mi ritrovai a portata di voce vicino ai lumi dell'Isola della Cavalla, dove si equilibrano le correnti degli Stretti di Vallejo e degli Stretti di Carquinez, e in quel particolare momento le due correnti, oltre a contrapporsi, ostacolano la marea che arriva dalla baia di San Pablo. Si era levata una forte brezza, e le piccole onde continuavano a lambirmi le labbra, e io cominciavo a ingozzare acqua salata. Con la mia esperienza di nuotatore, sapevo che la fine era vicina. E proprio allora venne la barca - un pescatore greco diretto a Vallejo; e anche stavolta mi aveva salvato da John Barleycorn la mia costituzione e il mio vigore fisico.E di passata, consentitemi di notare che lo scherzo maniaco fattomi da John Barleycorn non è insolito. Una statistica esatta dei suicidi dovuti a John Barleycorn sarebbe spaventosa. Nel mio caso di giovane sano, normale, pieno di gioia di vivere, il consiglio di uccidermi era insolito. Ma bisogna tenere presente che veniva in coda a una lunga baldoria, con i nervi e il cervello paurosamente avvelenati, e che il lato romantico, drammatico, della mia fantasia, ridotta pazza dall'alcool, accoglieva con gioia il consiglio. Eppure i bevitori più vecchi, più morbosi, più stinti dalla vita, più disillusi, quando si uccidono, di solito lo fanno dopo una lunga deboscia, quando il cervello e i nervi sono inzuppati di veleno.

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Così me ne andai da Benicia, dove per poco John Barleycorn non mi aveva preso la vita e spaziai più avanti, in cerca del consiglio che doveva giungermi dal fondo della vita. Ma ogni volta che facevo un passo innanzi, la strada era, daccapo, bagnata di alcool. Gli uomini continuavano a darsi convegno al saloon. Erano questi i circoli dei poveri, ed erano gli unici circoli a cui avessi entrata. Al saloon potevo conoscere gente. Potevo entrare in un saloon e parlare con qualsiasi persona. Nelle strane città, grandi e piccole, per cui vagabondai, l'unico posto dove potessi andare era il saloon. Non ero più un forestiero, in qualsiasi città, nel momento in cui entravo in un saloon.E ora permettetemi di parlare delle mie esperienze non più vecchie di questo ultimo anno. Attaccai quattro cavalli a un calessino, presi con me Charmian, e per tre mesi e mezzo viaggiai nelle più selvatiche parti montane della California e dell'Oregon. Ogni mattina facevo il mio lavoro, quello di scrivere di fantasia. Finito questo, viaggiavo per tutta la mattinata e il pomeriggio fino alla prossima tappa. Ma queste tappe avvenivano in maniera così irregolare, e così diverse erano le condizioni delle strade, che bisognava ogni volta, il giorno prima, programmare la lunghezza di ciascun viaggio e la quantità del mio lavoro. Dovevo sapere quando occorreva avviarsi, in modo di cominciare a scrivere per finire la produzione giornaliera. Talvolta, quando il viaggio doveva essere lungo, mi alzavo e cominciavo a scrivere alle cinque del mattino. Se invece la giornata era facile, non attaccavo prima delle nove.Ma come fare questi programmi? Non appena giunto in una città, e sistemati i cavalli, andando dalla stalla all'albergo mi fermavo in un saloon. Anzitutto a bere, ah sì, avevo voglia di bere, ma non si deve dimenticare che proprio in questo modo io appresi che avevo voglia di bere. Insomma, anzitutto da bere. «Prendi qualcosa anche tu», dicevo all'uomo del bancone. E poi, bevendo, cominciavo a chiedere di strade e tappe dei nostro viaggio.«Vediamo», diceva l'uomo al bancone. «C'è una strada che attraversa la Catena del Tarwater. Un tempo era buona. Ci passai tre anni or sono. Ma questa primavera era bloccata . Domando a Jerry...» E l'uomo del bancone si volta e si rivolge a un tale seduto a un tavolo o appoggiato al bancone più avanti, e questi può essere Jerry o Tom o Bill. «Senti, Jerry, come è la strada del Tarwater? La settimana scorsa tu sei stato a Wilkins».E mentre Bill o Jerry o Tom cominciano a districare il proprio apparato pensatorio e parlatorio, io propongo che beva con noi. Poi sorgono le discussioni sulla consigliabilità della strada, su quale può essere la migliore tappa, su che tempo posso aspettarmi, su dove siano i migliori ruscelli ricchi di trote, e così via, e intervengono altri uomini, e la conversazione è punteggiata da altri bicchieri.Altri due o tre saloon ed eccomi brillo, e quasi conosco tutta la gente della città, tutto della città, e parecchie cose sulla campagna circostante. Conosco avvocati, direttori di giornale, uomini di affari, dirigenti politici locali, e gente di passaggio come contadini, cacciatori, minatori, sì che verso sera, quando con Charmian ci mettiamo a passeggiare su e giù per il corso, lei si meraviglia per la quantità delle mie conoscenze in questa città a noi completamente estranea.E in questo modo è dimostrato un servigio che John Barleycorn rende, un servigio grazie al quale accresce il suo potere sugli uomini. E per tutto il mondo, dovunque io sia andato, durante tutti questi anni, è sempre stato lo stesso. Può essere un cabaret al Quartiere Latino, il caffè di qualche sperduto villaggio italiano, una tana di ubriachi di qualche città di mare, o anche il circolo dei signori con il whisky e la soda; in ogni modo sempre, dove è John Barleycorn, io entro subito in contatto, e conosco persone, e le capisco. E nei bei giorni a venire, quando John Barleycorn sarà bandito dall'esistenza insieme ad altre cose barbare, pure una qualche istituzione dovrà spuntarla, un qualche altro luogo di radunanza dove uomini strani e uomini stranieri vengano in contatto, e si conoscano, e si capiscano.Ma torniamo al mio racconto. Quando voltai le spalle a Benicia, la mia strada passava per i saloon. Non mi ero fatto alcuna teoria morale sul bere, e mi era sgradevole più che mai il sapore di quella roba. Ma nei riguardi di John Barleycorn nutrivo un rispettoso sospetto. Non riuscivo a dimenticare lo scherzo che mi aveva fatto - proprio a me che non volevo morire. Così continuai a bere, e a tenere d'occhio John Barleycorn, deciso a resistere a ogni sua futura proposta di autodistruzione.Nelle città più strane feci conoscenza immediata del saloon. Quando ero al verde, e non potevo pagarmi neanche il letto, il saloon era il solo posto che mi accogliesse dandomi una seggiola

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accanto al fuoco. Nel saloon potevo entrare, lavarmi, pulirmi i vestiti, pettinarmi. E il saloon, accidenti a lui, era sempre così opportuno. Li trovavi dappertutto.Non potevo, in quel modo, entrare nella casa di un estraneo. La porta era sempre chiusa, non c'era da sedersi accanto al fuoco. Oltre tutto non avevo mai conosciuto chiese e predicatori. E siccome non ne sapevo nulla, non ero attratto verso di loro. E poi non avevano fascino, né alone romantico, non promessa di avventura. Erano di quelle cose dove non succede mai niente. Vivevano e restavano sempre nel solito posto, creature dell'ordine e del sistema, ristrette, limitate, chiuse. Non avevano grandezza, non fantasia, non affetto. Erano i tipi in gamba, facili, simpatici, azzardosi, persino matti, al momento, quelli che volevo conoscere - i tipi generosi, di cuore e di mano, non i conigli.Ed ecco qui un'ultra lagnanza che io levo contro John Barleycorn. Proprio di questi tipi in gamba si impadronisce, quelli che han dentro il fuoco, quelli che sono grandi, ardenti, quelli che hanno il meglio delle debolezze umane. E John Barleycorn estingue il fuoco, inzuppa lo scatto, e quando non li ammazza immediatamente, o non li rende maniaci, allora li ingaglioffa, li fa rozzi, li stravolge e li malforma, contro la originaria bontà e bellezza della loro natura.Ah - e qui parlo per esperienza acquisita - il Cielo mi salvi dai tipi che non sono in gamba (la parte maggiore del genere umano), i freddi di cuore e i freddi di testa, quelli che non fumano, non bevono, non bestemmiano, quelli che non fan nulla che sia coraggioso, rischioso, scottante, perché nella loro debole fibra mai è stato un fremito di vita che spinga a traboccare oltre i propri limiti e a osare. Questi non li incontri al saloon, non li trovi a battersi per le cause perdute, non a far fuoco e fiamme sui sentieri dell'avventura, non ad amare alla follia. Son troppo occupati a tenere i piedi all'asciutto, a serbare il battito del proprio cuore, a fare della propria esistenza disamata un successo della loro povertà di spirito.Per questo io rivolgo l'accusa contro John Barleycorn. Sono proprio questi, i tipi in gamba, i degni, quelli che hanno la debolezza della troppa forza, spirito, fuoco e fiamma, i diavoli belli, son loro che lui adesca e porta alla rovina. Certo, rovina i deboli; ma di questi, che fra noi son la parte peggiore, a me non importa. A me importa il fatto che John Barleycorn distrugga così gran parte dei migliori fra noi. E il motivo per cui i migliori vengono distrutti è perché John Barleycorn si trova su ogni strada, accessibile, protetto dalla legge, salutato al passaggio dai poliziotti, coi quali parla, e li guida per mano nei luoghi in cui sono i tipi in gamba, quelli che osano e si radunano a bere sodo. Ove John Barleycorn non ci fosse, questi impavidi nascerebbero ancora, e farebbero qualcosa, anziché perire.Sempre incontravo la compagnia del bere. Poteva succedere che camminando lungo il sentiero che porta alla cisterna dell'acqua, in attesa di un treno merci di passaggio, incontrassi uno di quegli alcolisti che mandano giù alcool di farmacia. Subito, fra abbracci e saluti, entro nella loro compagnia. L'alcool, accortamente mescolato con l'acqua, mi viene porto, e subito io sono coinvolto nella baldoria, con il cervello che mi pizzica e John Barleycorn lì a sussurrarmi che la vita è grande, e che noi siamo coraggiosi e belli, spiriti liberi distesi come dèi incuranti sopra il terreno, pronti a dire al mondo convenzionale e arido che vada a morire ammazzato.

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Tornato a Oakland dai miei vagabondaggi, fui di nuovo al porto, e rifeci amicizia con Nelson, che adesso stava sempre a terra, e conduceva una vita più pazza che mai. Anch'io passavo il mio tempo a riva con lui, e solo a volte facevo una crociera di qualche giorno sulla baia, dando una mano a qualche navigante bisognoso di ciurma.Di conseguenza non c'erano più, a rinvigorirmi, periodi di astinenza all'aria aperta e di salubre fatica. Bevevo ogni giorno, e ogni volta che me ne capitava l'occasione bevevo per eccesso; infatti ancora mi trovavo a patire dello sbaglio, quello di credere che il. segreto di John Barleycorn stia nel bere fino alla bestialità e all'incoscienza. In questo periodo ero completamente zuppo di alcool. In pratica vivevo nei saloon; ero diventato un gaglioffo d'ubriacone, e forse anche peggio.Ed ecco che John Barleycorn s'impadroniva di me in un modo più insidioso anche se non meno mortale, rispetto a quando per poco non mi fece fuori con la marea. Mi mancavano pochi mesi e avrei compiuto i diciassette anni; non mi andava neanche l'idea di un qualsiasi lavoro fisso; sentivo d'essere un individuo piuttosto duro in un gruppo di uomini piuttosto duri e bevevo perché questi uomini bevevano e perché dovevo stare alla pari con loro. Io non ebbi mai una vera e propria adolescenza e nella mia precoce virilità, ero assai rude e miserabilmente saggio. Pur non avendo mai conosciuto l'amore di una ragazza, ero passato, strisciando come una serpe, per bassezze tali che ero convinto assolutamente di conoscere fin l'ultima parola sull'amore e sulla vita. E non era una bella cognizione. Senz'essere pessimista, per me andava bene che la vita fosse una cosa piuttosto meschina e ordinaria.Capite, John Barleycorn mi ottundeva. Gli stimoli, gli aculei del mio spirito non avevano più acume. M'abbandonava ogni curiosità. Che cosa importava ciò che vi fosse nell'altra parte del mondo? Uomini e donne, senza dubbio, molto simili agli uomini e alle donne che già conoscevo; che prendevano moglie, che si concedevano in matrimonio e tutto il resto della meschina corsa dei meschini interessi umani; fra cui il bere. Bastava che io mi fermassi all'angolo, per avere tutto quel che mi serviva da Joe Vigy. Johnny Heinhold continuava a mandare avanti «L'ultima occasione». E a ogni angolo c'era un saloon, come c'era un saloon fra un angolo e l'altro.I sussurri dal fondo della vita diventavano sempre più fiochi via via che mente e corpo s'istupidivano. Sonnecchiava l'antico disagio. Avrei potuto anche marcire e morire lì a Oakland, o in qualsiasi altro posto. E avrei dovuto marcire e morire, e nemmeno entro molto tempo, al passo di John Barleycorn, se la faccenda fosse dipesa completamente da lui. Stavo imparando che cosa significhi non avere appetito. Stavo imparando cosa sia levarsi tremante al mattino, coi brividi nello stomaco, le dita sfiorate dalla paralisi, e rendermi conto del bisogno che ha il bevitore d'un bicchiere di whisky per tenersi in piedi. (Ah! John Barleycorn è un mago nel narcotizzarti. Cervello e corpo, scottati, storditi e avvelenati, tornano a intonarsi grazie allo stesso veleno che ha causato il danno).Non c'è fine agli scherzi che ti gioca John Barleycorn. Aveva tentato di adescarmi alla morte. In questo periodo faceva del suo meglio per ammazzarmi a passo assai svelto. Ma, non contento di questo, tentava un altro strattagemma. E per poco non ce la fece, e fu allora che di lui imparai un'altra cosa, cioè diventai bevitore più saggio, più abile. Imparai che esistevano pure dei limiti alla mia splendida costituzione, mentre non aveva limiti John Barleycorn. Imparai che in un paio d'ore lui poteva impadronirsi della mia testa forte, delle mie spalle larghe, del mio petto ampio, e con una stretta diabolica alla gola strozzarmi via la vita.Nelson e io eravamo seduti all'Overland. Era verso sera, e noi stavamo lì per un solo motivo, perché eravamo a terra e si tenevano le elezioni. Capite, in tempo di elezioni i politici del posto, che aspirano a essere eletti, sanno ben fare il giro dei saloon per ottenere i voti. Tu stai seduto a un tavolo, sei al verde, chiedendoti chi si farà vivo a pagarti da bere, oppure se costui ha credito in un altro locale, e se vale la pena di andare sin là per saperlo, quando all'improvviso si aprono le porte a molla, ed entra un gruppo di uomini ben vestiti, anche loro grandi e con attorno un alone di prosperità e di cordialità.Hanno sorrisi e saluti per tutti - per te, che non hai i soldi in tasca da pagarti una birra, per il vagabondo timido che se ne sta rincantucciato e che di certo non ha diritto al voto, ma che può farsi risultare residente in una qualche pensione. E voi lo sapete, quando questi politici spalancano le porte ed entrano, con le loro spalle ampie, il petto forte, la pancia generosa che non può non farli ottimisti, padroni della vita, ebbene, tu drizzi le orecchie. Dopo tutto, questa

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sarà una serata calda, e tu sai che come minimo ci sarà da diventare un poco brilli. E - chissà - può anche darsi che gli dèi siano buoni, che vengano altre bevute e che la notte finisca splendida e grandiosa. E poi t'accorgi di essere in fila al bancone, a versarti bicchieri in gola e ad apprendere i nomi di questi signori e la carica a cui aspirano.Proprio in questo periodo, quando gli uomini politici facevano il giro dei saloon, imparai cose amare e vidi sgonfiarsi molte illusioni, proprio io che mi ero immerso nella trepida lettura di quei libri che raccontano come dal nulla un uomo possa diventare persino presidente. Sì, stavo imparando quanto sia nobile la politica, quanto siano nobili gli uomini politici.Ebbene, quella sera, senza un soldo, con una gran voglia di bere, e la fiducia del bevitore, che salti fuori un'inattesa bevuta, Nelson e io sedevamo all'Overland in attesa che comparisse qualcuno, specialmente uomini politici. Ed eccoti entrare Joe detto «Papero», quello della sete insaziabile, gli occhi cattivi, il naso a becco, il panciotto a fiori.«Sotto, ragazzi, da bere gratis, a tutti quelli che ne vogliono. Non permetto che mi diciate di no».«Dove?» chiedemmo.«Avanti. Ve lo dico strada facendo. Non c'è un minuto da perdere». E mentre si andava di corsa verso il centro della città, Joe spiegò: «Si tratta dei Vigili del Fuoco, Brigata Hancock. Non dovete fare altro che mettervi una camicia rossa, un elmo, e portare in mano una fiaccola. C'è un treno speciale per andare alla parata di Haywards».(Mi pare che il posto fosse Haywards. Ma poteva anche essere San Leandro, o Niles. E, a mia discolpa, dirò che questa Brigata Hancock non rammento se fosse un'organizzazione democratica oppure repubblicana. In ogni modo, quei dirigenti politici erano a corto di gente che portasse la fiaccola, e chiunque volesse sfilare in parata poteva, a suo piacere, ubriacarsi).«La città sarà spalancata», continuò Joe detto «Papero». «Da bere? Come l'acqua. I politici hanno già pagato tutto quel che c'è nei saloon. Voi non dovete pagare nulla. Non dovete fare altro che entrare e chiedere. Sarà un baccano».All'ottava strada, vicino a Broadway ci mettemmo camicie ed elmi da vigili del fuoco, ci dettero le fiaccole, e brontolando perché non ci avevano dato neanche un bicchiere prima di attaccare, ci imbarcarono sul treno. Ah, questi politici, da tempo avevano imparato a trattare la gente come noi. Neanche a Haywards trovammo da bere. Prima la sfilata, e guadagnatevi la sbornia, questo l'ordine della notte.Sfilammo in parata. Alla fine aprirono i saloon. Avevano arruolato qualche barista in più, e i bevitori facevano calca ai banconi segnati dall'alcool, sporchi. Non c'era tempo di ripulire il bancone, né di lavare i bicchieri, né di far altro che riempire. I portuali di Oakland, quando vogliono, sanno aver sete sul serio.Questa maniera di accalcarci e di prenderci a gomitate al bancone era per noi cosa troppo lenta. La roba da bere era nostra. Ce la pagavano i politici. Non eravamo sfilati in parata, ci eravamo guadagnato da bere, o no? Per questo sferrammo un attacco sul fianco del bancone, spingemmo via i baristi che protestavano, e ci servimmo da noi, alla bottiglia.Fuori, rompemmo il collo delle bottiglie sul cordone del marciapiede, che era di cemento, e bevemmo. Ormai Nelson e Joe avevano imparato ad andarci cauti con lo whisky bevuto puro, e in quantità. Io no. Io, ancora pativo di quell'errore, che uno debba bere tutto quel che capita, specialmente quando non costa nulla. Spartimmo le bottiglie con altri, ognuno bevve la sua parte, ma io più di tutti. E quella roba non mi piaceva. Bevevo come avevo bevuto birra a cinque anni, vino a sette. Ma dominai il mio disgusto e la mandavo giù come se fosse una medicina. E quando volevamo altre bottiglie, si andava in altri saloon dove scorreva gratuito l'alcool, e ci servivamo.Non ho la minima idea di quanto bevvi - se fossero due o più quarti di gallone. So che cominciai l'orgia con sorsate da mezza pinta, e senza mandarci dietro acqua per sciacquarmi la bocca, e senza allungare lo whisky.I politici erano troppo furbi per lasciare la città piena di ubriachi del porto di Oakland. Quando fu l'ora del treno, fecero la ronda in giro per i saloon. Già io avvertivo il peso dello whisky. Nelson ed io fummo spinti fuor del locale e ci trovammo in fondo a un disordinato corteo. Io tiravo avanti, eroicamente, mentre mi si rompevano i nessi, e le gambe mi trambellavano, mi girava la testa, mi batteva forte il cuore, e i polmoni chiedevano aria.Si avvicinava il collasso, così rapido che il mio cervello devastato mi disse che sarei crollato prima di giungere al treno, se restavo in fondo al corteo. Uscii dai ranghi e mi misi a correre su un sentiero che fiancheggiava la strada sotto grandi alberi. Nelson mi venne dietro ridendo. Ci sono cose che sporgono, come nei ricordi di un incubo. In particolare io ricordo quegli alberi, e

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la mia disperata corsa sotto di loro, e ricordo come, a ogni mia caduta, scoppi di risa si levavano dagli altri ubriachi. Pensavano che io fossi soltanto un ubriaco strambo. Non sapevano che John Barleycorn mi teneva per la gola in una stretta mortale. Ma io lo sapevo. E rammento anche un lampo di amarezza che mi percorse quando capii che stavo lottando con la morte, e che quegli altri non lo sapevano. Era come se io annegassi dinanzi a una folla di spettatori i quali credevano che fosse tutta una burla per farli divertire.E correndo in quel modo sotto gli alberi, caddi e persi coscienza. Quel che successe dopo, a parte una lucida eccezione, me lo dovettero raccontare. Nelson, con la sua forza enorme, mi sollevò e mi trascinò con sé fin sopra il treno. Dopo che mi ebbe messo sul sedile, io mi dibattevo e ansimavo in una maniera così tremenda, per bisogno d'aria, che persino nel suo stato di ottusità riuscì a capire che me la passavo molto male. E proprio allora, da un momento all'altro, ora lo so, avrei potuto morire. Spesso penso che sia stato quello l'attimo più vicino alla morte, per me. Ma ho soltanto il racconto di Nelson, sul mio comportamento.Scottavo, bruciavo vivo internamente, un'agonia di fuoco e di soffocamento, e mi ci voleva aria. Un bisogno pazzo d'aria. I. miei sforzi per aprire il finestrino erano vani, perché erano tutti inchiodati. Nelson aveva già visto gente impazzita dall'alcool e pensò che volessi buttarmi giù . Cercò di trattenermi, ma io resistei. Afferrai la fiaccola di qualcuno e spaccai il vetro.Ora, fra la gente dei porto di Oakland, c'erano fazioni favorevoli e fazioni contrarie a Nelson, e il vagone era pieno di uomini legati all'una e all'altra fazione, ubriachi. L'avere io rotto il vetro fu un segnale per i contrari. Uno di loro mi agguantò, mi fece cadere, attaccò a picchiare, una rissa di cui io non ho ricordi, tranne quel che me ne fu detto dopo, e la mascella dolorante per via del colpo che mi fece fuori. L'uomo che mi aveva colpito mi cadde addosso, Nelson gli andò dietro, e dicono che rimasero ben pochi finestrini intatti nella distruzione del vagone che seguì, durante questa gratuita scazzottata, aperta a tutti.Quest'essere ridotto diaccio e immobile fu forse la cosa migliore che potesse capitarmi. Quel mio violento dibattermi era servito soltanto ad accelerare il battito del mio cuore già pericolosamente veloce, e accresceva il mio bisogno di ossigeno nei polmoni ansanti.Dopo che fu finita la rissa e io rinvenni, non fui subito in me. Non ero più me stesso, alla maniera in cui non è se stesso l'affogato che continua a dibattersi dopo aver perduto la coscienza. Non ho ricordo delle mie azioni, ma so che gridavo: «Aria! Aria!» con tale insistenza che Nelson riuscì a intuire che non avevo in mente di distruggermi. Così tolse le schegge di vetro dalla cornice del finestrino, e mi fece sporgere testa e spalle di fuori. Almeno in parte capì quanto era seria la mia condizione, e mi reggeva alla vita per impedire che mi sporgessi oltre. E per il resto della corsa fino a Oakland tenni testa e spalle all'aria, dibattendomi come un pazzo ogni volta che cercava di ritirarmi dentro.A questo punto viene quell'attimo di lucidità a cui accennavo, il mio unico ricordo, da quando caddi sotto gli alberi a quando mi destai la sera dopo: appunto la mia testa fuori del finestrino, ad affrontare il vento del treno, con le faville che mi colpivano, bruciavano, accecavano, mentre io respiravo a pieni polmoni. Tutta la mia volontà si concentrava nel respiro - nel prendere aria con le sorsate più lunghe e grosse che potevo, a pompare la maggiore quantità di aria possibile nel più breve tempo possibile. O questo o la morte, e io ero nuotatore e tuffatore, e lo sapevo; e nella più insopportabile agonia da soffocazione prolungata, affrontavo il vento e le faville e respiravo vita.Tutto il resto è buio. Rinvenni la sera dopo, nel mio alloggio al porto. Ero solo. Non avevano chiamato un medico. E avrei anche potuto morirci, per quanto riguardava Nelson e gli altri, convinti che io stessi smaltendo la sbornia nel sonno, e mi fecero restare per diciassette ore in quella condizione da coma. Molti uomini, come sanno bene i medici, son morti sotto l'improvviso scontro con una bottiglia o più di whisky. Di solito si legge che bevitori sono morti per via di una scommessa. Ma io non lo sapevo, allora. E così lo imparai; e non per valore o prodezza, ma semplicemente per buona fortuna e per la mia costituzione. Di nuovo la mia costituzione l'aveva spuntata su John Barleycorn. Ero sfuggito a un altro pozzo della morte, mi ero tirato fuori da un altro pantano, e a questo rischio avevo acquisito la discrezione che mi avrebbe consentito di bere con saggezza, per molti anni a venire.Santo cielo! Questo succedeva venti anni or sono, e io sono ancora ben vivo e saggio; ho visto molto, fatto molto, vissuto molto, in quel doppio decennio interposto; e mi vengono i brividi quando penso a quanto poco mancò che diventassi uno schiavo, per quanto poco io non persi quello splendido quinto di secolo che è stato mio. E sì, non era colpa di John Barleycorn, se quella sera, con la Brigata Hancock dei Vigili del Fuoco, John Barleycorn non mi ebbe.

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Fu ai primi dell'inverno del 1892 che io decisi di mettermi in mare. In misura molto piccola tale decisione dipese dalla mia esperienza di quella serata elettorale. Bevevo ancora e frequentavo i saloon, anzi vivevo nei saloon. Lo whisky, secondo me, era pericoloso, ma non sbagliato. Lo whisky era pericoloso come ogni altra cosa pericolosa del mondo naturale. C'era gente che moriva di whisky; ma allora c'erano anche pescatori che ribaltavano e morivano affogati, vagabondi che finivano sotto un treno e venivano fatti a pezzi. Per affrontare venti e onde, treni ferroviari e saloon occorre giudizio. Ubriacarsi alla maniera degli uomini, benissimo, ma bisogna farlo con discrezione. Non più intere bottiglie di whisky, ogni volta, per me.La ragione vera per cui decisi di tornare sul mare fu che per la prima volta avevo visto la strada della morte che John Barleycorn tiene aperta ai suoi fedeli. Non era una visione chiara, però, e c'erano in essa due fasi, alquanto accavallate, allora. Guardando la gente che mi viveva attorno, io capii che la vita che stavamo vivendo era più distruttiva di quella vissuta da un uomo normale.John Barleycorn, inibendo la moralità, incitava al delitto. Dovunque vedevo uomini fare, ubriachi, quel che mai si sarebbero sognati di fare allo stato normale. E non era neanche questo il peggio. Era lo scotto che bisognava pagare. Il delitto era distruttivo. I compagni di saloon con cui bevevo, bravi tipi innocui allo stato normale, facevano le cose più pazze e più violente, da ubriachi. E poi veniva la polizia a prenderli, ed eccoli svaniti dalle nostre tane. A volte andavo a trovarli, dietro le sbarre, e a dirgli addio prima del viaggio al di là della baia per indossare l'abito a strisce del carcerato. E tante volte ho sentito ripetere la solita spiegazione: «"Non sarebbe successo, se non avessi bevuto!"». E a volte, sotto il fascino di John Barleycorn, succedevano le cose più tremende - cose che sbalordivano persino la mia anima indurita.L'altra fase della strada verso la morte era quella degli ubriaconi abituali, che avevano un loro modo di tirare le cuoia, senza provocazione apparente. Una volta ammalati, anche della più trascurabile afflizione che può toccare a un uomo normale, loro se ne andavano all'altro mondo. A volte li trovavano morti nel loro letto, senza nessuno che badasse a loro; a volte i loro corpi venivano ripescati nell'acqua; e a volte era un normale incidente, come quando Bill Kelley, scaricando da ubriaco, ci rimise un dito, e avrebbe potuto con altrettanta facilità rimetterci la testa.Perciò considerai la mia situazione e capii che mi stavo avviando su una via sbagliata. Una via che portava troppo presto alla morte, per andar bene alla mia giovinezza, alla mia vitalità. E c'era una sola via d'uscita da questo rischioso modo di vivere, e cioè andarmene. Stava svernando a San Francisco la flotta dei cacciatori di foche, e al saloon incontravo comandanti, nostromi, cacciatori, piloti, vogatori. Conobbi il cacciatore di foche Pete Holt, e accettai di diventare suo vogatore, e di firmare per qualsiasi imbarco per cui firmasse lui. Dovetti scolare cinque o sei bicchieri con Pete Holt, subito, per suggellare l'accordo.E tutto a un tratto rinacque il vecchio disagio che John Barleycorn aveva messo a dormire. Mi accorsi che veramente ero stufo della vita nel saloon al porto di Oakland, e mi domandavo che cosa mai ci avessi trovato di affascinante. E poi, avendo nel cervello quel concetto della strada della morte, cominciai ad avere paura che qualcosa potesse succedermi prima del giorno dell'imbarco, fissato per una certa data del mese di gennaio. Vivevo in modo più circospetto, bevevo di meno, tornavo a casa più di frequente. Quando le bevute si facevano più selvatiche, uscivo. Quando a Nelson prendevano le smanie, riuscivo a dividermi da lui.Il 12 gennaio del 1893 io compivo i diciassette anni, e il 20 gennaio firmavo alla presenza del commissario marittimo il contratto per la «Sophie Sutherland», un tre alberi adatto alla caccia delle foche, che doveva far vela verso il Giappone. E naturalmente bisognò berci sopra. Joe Vigy mi dette un anticipo sul foglio d'imbarco, Pete Holt offrì da bere e altri cacciatori offrirono da bere. Be', era così che si comportavano gli uomini, e come potevo io, diciassettenne fresco fresco, rifiutare il modo di vivere di questi uomini belli, grandi, adulti?

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Non c'era nulla da bere a bordo della «Sophie Sutherland», e avemmo cinquantun giorni di splendida navigazione, seguendo il passaggio a meridione dei traffici nordorientali verso le isole Bonin. Questo gruppo isolato, che appartiene al Giappone, era stato scelto quale punto d'incontro dai cacciatori di foche canadesi e americani. Qui riempivano i barili dell'acqua dolce e provvedevano alle riparazioni prima di partire per i loro cento giorni di corsa dietro alle foche lungo le coste settentrionali del Giappone, fino al Mare di Behring.Quei cinquantun giorni di bella navigazione e di intensa austerità mi avevano messo in una forma splendida. L'alcool era ormai escluso dal mio organismo, e dal momento in cui cominciò il viaggio mai avevo provato il desiderio di bere. Non credo che neanche mi sia mai passata per la mente l'idea di bere. Spesso, naturalmente, sul castello di prua, il discorso cadeva sul bere, e gli uomini parlavano delle loro bevute più eccitanti o più buffe, rammentando questi episodi con una precisione e una gioia più grande che per ogni altro episodio della loro vita avventurosa.Al castello di prua, il più vecchio degli uomini, grasso e cinquantenne, era Louis. Era un capitano finito male. John Barleycorn l'aveva voluto per sé, e adesso egli concludeva la sua carriera da dove l'aveva un tempo cominciata. Il suo caso mi fece molta impressione, John Barleycorn poteva fare anche altre cose, oltre che uccidere un uomo. Louis non lo aveva ucciso. Gli aveva fatto di molto peggio. Gli aveva portato via la forza, il mestiere, gli agi, aveva crocifisso il suo orgoglio, lo aveva condannato alla vita dura del marinaio che sarebbe durata finché gli durasse la sanità del respiro, e cioè per molto tempo ancora.Ultimammo la traversata del Pacifico, superammo i picchi vulcanici ammantati di giungla delle isole Bonin, facemmo vela fra le secche verso il porto chiuso fra le terre, e mollammo l'ancora fragorosa dove già erano una ventina, e forse più, di altri zingari del mare, come noi. Dalla terra tropicale venivano gli odori della vegetazione a noi sconosciuta. Gli aborigeni, sulle loro strane canoe, e i giapponesi, sugli ancora più strani sampan, pagaiavano qua e là per la baia e venivano a bordo. Era la mia prima terra straniera; ero giunto all'altra faccia del mondo, e avrei visto avverarsi tutto quello che avevo letto sui libri. Non vedevo l'ora di scendere a terra.Victor e Axel, uno svedese e un norvegese, e io, decidemmo di stare insieme. (E lo facemmo così bene che per il resto della crociera ci chiamarono «I Tre Compagnoni»). Victor indicava un sentiero che spariva dentro un burrone selvatico, riappariva su un ripido pendio di lava, e poi ancora spariva, appariva, sempre più su, fra le palme e i fiori. Avremmo seguito quel sentiero, disse, e noi accettammo, e avremmo visto un paesaggio bellissimo, e strani villaggi indigeni, e alla fine avremmo avuto sa il Cielo quale grande avventura. E Axel aveva voglia di pescare. Tutti e tre decidemmo di fare anche questo. Avremmo preso un sampan, e un paio di pescatori giapponesi che conoscevano i banchi migliori, e ci saremmo divertiti moltissimo. In quanto a me, avevo voglia di tutto.E così, stabiliti i nostri piani, remammo a riva sui banchi vivi di corallo e tirammo in secco la barca sulla bianca spiaggia di sabbia corallina. Traversammo la striscia di spiaggia, poi il palmeto di cocco, entrammo in una piccola città, ci trovammo alcune centinaia di marinai riottosi d'ogni parte del mondo, che bevevano prodigalmente; che prodigalmente cantavano e ballavano, e tutto sul corso cittadino, con scandalo dei pochi inermi poliziotti giapponesi.Victor e Axel dissero che bisognava bere qualcosa, prima della lunga nostra camminata. Potevo io rifiutarmi di bere con questi due compagnoni marinai? Bere insieme, bicchiere alla mano, era come il sigillo di un'amicizia. Era un modo di vita. Il nostro capitan-padrone, che era astemio, veniva da noi irriso, canzonato, solo per la sua astemia. Io non desideravo affatto bere, ma volevo fare il tipo in gamba e il bravo compagno. E non mi faceva paura la sorte di Louis mentre mandavo giù quella roba aspra e scottante. John Barleycorn aveva portato Louis a fare una brutta caduta, ma io ero giovane. Il mio sangue scorreva pieno e rosso; avevo una costituzione di ferro; e... be', la giovinezza sempre sogghigna sprezzante di fronte al naufragio dell'età.Roba alcoolica stramba, fortissima, questo si beveva. Neanche discutere dove e come l'avessero fabbricata - molto probabilmente una qualche mistura locale. Era rovente come il fuoco, chiara come l'acqua, e svelta come la morte a fare il suo effetto. L'avevano versata in certe di quelle bottiglie a faccia quadra, che un tempo avevan contenuto gin olandese, che recavano ancora l'etichetta: «Anchor Brand». E ci ancorò per davvero. Non uscimmo più di città. Non andammo mai a pesca col sampan. E pur restandoci dieci giorni, non percorremmo

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mai quel sentiero selvaggio fra la lava e i fiori.Incontrammo vecchie conoscenze di altre navi, conosciute nei saloon di San Francisco prima di far vela. E ogni incontro significava bere; e c'erano tante cose di cui parlare; e poi ancora da bere; e canzoni da cantare; e stravaganze da compiere, fino a che cominciava a scaldarsi la fantasia; e allora a me tutto sembrava grande e meraviglioso, questi vogatori ghiotti e segnati, di cui uno ero io, radunati a far baldoria, su quell'isola corallina. Mi venivano alla mente vecchie storie di cavalieri a tavola nelle grandi sale dei banchetti, e di vichinghi festanti, appena reduci dal mare; e io capivo che i vecchi tempi non erano morti e che noi appartenevamo a quella stessa antica razza.A metà del pomeriggio Victor era ubriaco pazzo, e voleva azzuffarsi con tutti e con tutto. Dopo di allora ho visto pazzi nei manicomi che parevano comportarsi in modo per nulla diverso da quello di Victor, e fors'anche era lui più violento. Axel e io intervenimmo a mettere pace, e fummo coinvolti e maltrattati e alla fine, con infinita precauzione ed ebbra scaltrezza, riuscimmo a deviare il nostro amico giù verso la barca e a riportarlo a bordo.Ma non appena i piedi di Victor ebbero toccato il ponte, si mise a far pulizia della nave. Aveva la forza di diversi uomini e questa forza gli faceva perdere la testa. Rammento specialmente un tale, da lui trovato al chiusino delle catene, ma non riuscì a fargli danno perché ogni volta lo mancava. L'uomo infatti schivava, si abbassava, e Victor si ruppe le nocche di tutti e due i pugni contro gli enormi anelli della catena dell'ancora. Quando riuscimmo a strapparlo di lì, la pazzia gli suggerì di creder d'essere un grande nuotatore, e un attimo dopo era fuori bordo, e diede dimostrazione della sua grande abilità smanacciando come un tricheco ubriaco e ingoiando parecchia acqua salata.Lo tirammo in salvo e quando fummo riusciti a portarlo sotto, spogliarlo, metterlo a cuccia, eravamo anche noi due rottami. Ma Axel e io volevamo vedere altre cose a riva, e ce ne andammo lasciando Victor lì a sonnacchiare. Era strano il giudizio che di Victor davano i comandanti, bevitori anche loro: «Un uomo così non dovrebbe bere». Ora, Victor era il miglior marinaio e il miglior compagno, come carattere, di tutto il castello di prua; tutti ne riconoscevano il valore e lo rispettavano e gli volevano bene. Eppure John Barleycorn riusciva a trasformarlo in un pazzo violento. E proprio questo intendevano i comandanti bevitori. Sapevano che il bere - e bere fra i marinai è sempre eccessivo - fa diventare matti, ma solo in modo blando. La follia violenta non andava più bene perché guastava il divertimento degli altri e spesso dava luogo alla tragedia. Dal loro punto di vista, una blanda pazzia andava benissimo. Ma dal punto di vista dell'intero genere umano, non bisogna forse dar contro alla pazzia in ogni sua forma? Ed esiste un fabbricante di pazzia più grande John Barleycorn?Ma torniamo al discorso. A riva, nascosti in un locale di divertimento giapponese, Axel e io facemmo il conto dei lividi, e bevendo tranquillamente parlavamo di quel che era successo nel pomeriggio. Ci piacque questo modo di bere in pace, e ne prendemmo ancora. Entrò poi un marinaio, entrarono altri marinai, e bevemmo ancora. Alla fine, dopo che si fu assoldata un'orchestra giapponese e si levarono le prime note dei "taiko" e dei "samisen", da dietro le pareti di carta venne un urlo. In strada. Lo riconoscemmo. Sempre urlando, gli occhi segnati di sangue, agitando all'impazzata le braccia muscolose, Victor irruppe in quelle fragili pareti. Gli era rimasta in corpo la rabbia folle di prima, e voleva sangue, il sangue di chiunque. L'orchestra fuggì; e fuggimmo anche noi. Imboccammo la porta, ma anche qualche muro di carta, pur di andare via.E dopo che il locale fu mezzo sfasciato, e noi avemmo accettato di pagare i danni, lasciando Victor almeno parzialmente più tranquillo e coi segni palesi dello stato comatoso imminente, Axel e io ce ne andammo in giro in cerca di un posto più tranquillo dove bere. Il corso della cittadina era uno spettacolo folle. Centinaia di marinai a far baldoria. Siccome il capo della polizia, coi suoi pochi uomini, non poteva far niente, il governatore della colonia aveva dato ordine ai capitani che facessero ritornare tutti a bordo, per l'ora del tramonto.Come! Farsi trattare in questo modo! Quando sulle navi si diffuse la notizia, in un attimo furono vuote. Tutti a terra. Uomini che non avevano intenzione alcuna di andare a riva, salirono nelle scialuppe anch'essi. L'infelice "ukase" del governatore aveva scatenato la deboscia generale di tutti i marinai. Passarono ore dopo il tramonto, e gli uomini sfidavano chiunque a riportarli a bordo. Andavano in giro a invitare le autorità a provarcisi. Davanti alla casa del governatore la calma era ancor più grande, intonavano canzoni marinare, e giravano le bottiglie quadrate con l'etichetta del gin, e ballavano gighe scatenate della Virginia e altri balli all'antica. La polizia, comprese le riserve, se ne stava lì in piccoli gruppi sparsi, in attesa di un ordine che il governatore ebbe la saggezza di non dare. E a me questo saturnale parve cosa

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grandiosa. Era come se fossero tornati i vecchi tempi della marineria spagnola: questa era licenza, questa era avventura. E io ne facevo parte, vogatore grande e grosso, insieme a tutti gli altri grandi e grossi vogatori, in mezzo a quelle casette di carta giapponesi.Il governatore non diede mai l'ordine di sgombrare le strade, e Axel e io vagammo ancora di bevuta in bevuta. Dopo un po' di tempo, siccome anch'io cominciavo ad essere alticcio, me lo persi. Ma tirai innanzi, facendo nuove conoscenze, buttando giù altri bicchieri, ubriacandomi sempre peggio. Rammento che da qualche parte stavano, seduti in cerchio, pescatori giapponesi, piloti delle nostre navi e un giovane marinaio danese che aveva anche fatto il vaccaro in Argentina e aveva un certo gusto per le usanze e i cerimoniali indigeni. E secondo il più debito, appropriato e complicato cerimoniale giapponese noi del cerchio bevemmo "saki", chiaro, non forte, tepido, in minuscole tazzine di porcellana.E rammento anche i ragazzi fuggiaschi, ragazzi di diciotto, vent'anni, mandati dalla famiglia, inglese e borghese, a fare il loro apprendistato in marina. Poi erano scappati dalle navi d'imbarco e dall'apprendistato, per arruolarsi sul castello di prua delle navi dirette alla caccia delle foche. Erano tutti giovani sani, la pelle liscia, gli occhi chiari, giovani come me, che imparavano a muovere i primi passi nel mondo degli uomini. Ed "erano uomini". Per loro niente "saki" così leggero, ma bottiglie con l'ancora riempite illecitamente di quel fuoco corrosivo che scorreva come una fiamma nelle loro vene e scoppiava deflagrando nel cervello. Rammento una canzone dolce che intonarono. Il ritornello diceva:

«This but a little golden ring,I give it to thee with pride,Wear it for your mother's sakeWhen you are on the tide».

[E' soltanto un anellino d'oro,te lo do con orgoglio,portalo per amore di tua madrequando sei sul mare.]

Cantandola piangevano, questi giovanottacci ingrati che adesso avevano infranto l'orgoglio delle loro mamme, e la cantavo anch'io: con loro, e mi godevo quel pathos, quella tragedia, e tentavo di fare qualche generalizzazione lucida e inebriante, sulla vita e sull'avventura. E mi resta un ultimo ritratto, che mi si staglia chiaro e netto in mezzo alla sfocatura che gli sta dinanzi e al buio fondo che gli sta dietro. Noi altri ragazzi che danziamo sotto le stelle, stretti l'uno all'altro. Intoniamo una canzone marinara, tutti tranne quello che siede per terra e piange; e noi segniamo il tempo agitando le bottiglie quadrate. Di cima e di fondo alla strada giungono cori di voci marinare che cantano come noi, e la vita è grande, e bellissima e romantica, e magnificamente matta.E poi, dopo il buio, apro gli occhi al primo sole e vedo una donna giapponese, sollecita e ansiosa. E' la moglie del nocchiero del porto, e io sono disteso davanti alla porta di casa sua. Ho freddo, tremo, provo la nausea che viene dopo la deboscia. E sento che indosso poca roba. Questi manigoldi apprendisti! Si son fatta l'abitudine a fuggire. Sono fuggiti con i miei possessi. Sparito l'orologio, spariti i miei pochi dollari, sparito il giubbone. E la cintura. E sì, anche le scarpe.E quanto detto è un campione di quei dieci giorni passati alle Isole Bonin. A Victor son passate le scalmane, è ritornato con Axel e con me, e dopo quella volta facemmo baldoria ma con una certa maggior discrezione. E non scalai mai quel sentiero sulla lava, fra i fiori. Non vidi più altro che la città e le bottiglie quadrate.Uno che si è scottato al fuoco deve fare la predica sul fuoco. Forse avrei potuto vedere molto di più, e amato molto più sanamente queste isole, se avessi fatto quello che dovevo fare. Ma, a mio vedere, il problema non è quello che uno deve fare o quello che non dovrebbe fare, ma soltanto quello che fa. Questo è il fatto che resta, irrefragabile. Feci solo quello che feci. Feci tutto ciò che facevano quegli uomini alle isole Bonin. Feci quel che milioni di altri uomini, in ogni parte del mondo stavano facendo in quel preciso istante. Lo feci per via della strada a cui tutto questo conduce, lo feci perché ero soltanto un uomo, un ragazzo, una creatura del mio ambiente, non un anemico, non un padreterno. Ero solamente umano, e imboccavo le vie del mondo che anche gli altri uomini sceglievano, uomini che ammiravo, se non vi dispiace, uomini sanguigni, avidi, di razza, grandi spiriti liberi e tutt'altro che avari nel loro modo di buttare via

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la vita.E la strada era aperta. Era come un pozzo scoperto in un cortile dove giocano i bambini. Serve a poco dire a un bambino coraggioso che tenta la strada della conoscenza della vita, che non deve giocar vicino a quel pozzo scoperto. Lui ci gioca. E i genitori lo sanno. E noi sappiamo che una certa percentuale di questi bambini, e i più vivaci e i più arditi, cadranno nel pozzo. Tutti sappiamo che occorre fare una cosa sola, coprire il pozzo. La stessa cosa vale per John Barleycorn. Per quanto lui dica di no, per quanto tu predichi no, non riuscirai a impedire agli uomini, e ai giovani che s'avviano alla virilità, di accostarsi a John Barleycorn, quando John Barleycorn è disponibile ovunque, e se John Barleycorn è dovunque sinonimo di virilità, e di audacia e di grandezza d'animo.La gente del ventesimo secolo può fare una sola cosa razionale, coprire il pozzo; affinché il ventesimo secolo sia il ventesimo secolo, affinché si releghino al diciannovesimo secolo e ai secoli che lo procedettero, le cose che a quei secoli appartennero, come il rogo alle streghe, le intolleranze, i feticci, e, non ultimo in questa barbarie, John Barleycorn.

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Via verso il nord dalle Isole Bonin per incontrare il branco delle foche, e verso il nord cacciammo per cento giorni con un tempo gelido, traversando vasti nebbioni che ci nascondevano il sole anche per una settimana filata. Era un lavoro durissimo, senza nulla da bere, senza il pensiero del bere. Poi piegammo a sud, verso Yokohama, con un bel bottino di pelli e l'attesa di una bella paga.Non vedevo l'ora di scendere a terra e di vedere il Giappone, ma il primo giorno fu dedicato ai lavori di bordo, e soltanto a sera noi marinai potemmo scendere a terra. E a questo punto, per il sistema stesso delle cose, per il modo in cui la vita era organizzata e si conducevano gli affari, John Barleycorn si fece vivo ancora e mi prese sottobraccio. Il capitano aveva dato i soldi per tutti noi ai cacciatori e i cacciatori ci aspettavano in un certo locale pubblico giapponese per darci i soldi. Ci andammo in ricsciò. Era tutto pieno, il locale, di gente nostra. Scorreva da bere. Tutti avevano soldi, e tutti offrivano da bere. Dopo cento giorni di dura fatica e di astinenza assoluta, nel fiore della condizione fisica, scoppiando salute, traboccando gli umori tenuti sinora repressi dalla disciplina e dalle circostanze, certamente dovevamo sentire il bisogno di mandar giù un paio di bicchieri. E poi avremmo visitato la città.La solita vecchia storia. C'erano tanti bicchieri da scolare, e quando quella magia calda si riversava nelle nostre vene e ci addolciva la voce e gli affetti, ciascuno capiva che non era tempo di fare distinzioni odiose, bere con un compagno e rifiutare di farlo con un altro. Eravamo tutti compagni, stati insieme alla fatica e alla tempesta, che avevamo sgobbato e tirato e spinto sulle stesse tavole, spalla a spalla ad affrontare lo stesso tifone, quando la nave si ficcava sotto di prua, e non appena riemergeva tu ti guardavi intorno a vedere chi non c'era più. Perciò si beveva con tutti, e tutti offrivano da bere, e le nostre voci sorgevano, e si rammentavano mille piccoli gesti di amicizia, e si scordavano le risse e le dispute, e tutti riconoscevano in ciascuno il tipo più in gamba del mondo.Bene, era appena calata la notte quando arrivammo in quel locale, e per tutta quella notte io, del Giappone, non vidi altro che quel locale, e altri locali simili dove i marinai si ritrovavano a bere, assai simile ai posti dove si beve da noi e in ogni altra parte del mondo.Nel porto di Yokohama restammo due settimane, e quasi non vedemmo altro, del Giappone, che i posti dove si ritrovano i marinai. A volte qualcuno di noi, per rimediare alla monotonia, beveva più forte del solito. In tal modo mi riuscì la bella impresa, una notte di buio pesto, di tornare a bordo a nuoto e di addormentarmi profondamente mentre la polizia portuale cercava il mio corpo, avendo trovato i miei panni.Forse per cose simili, pensai, gli uomini si ubriacavano. Nella nostra ristretta cerchia quello che avevo fatto era cosa degna di nota. Tutto il porto ne parlava. Godetti diversi giorni di fama fra i barcaioli giapponesi e anche a terra, nei locali pubblici. Era un fatto clamoroso. Lo ricordo ancora oggi, a vent'anni di distanza, con una punta di segreta fierezza. Era un momento purpureo, come quando Victor sfasciò la casa da tè alle Isole Bonin, o come quando i ragazzi mi portarono via i miei beni.Il fatto è che il fascino di John Barleycorn era tuttora un mistero, per me. In modo così organico io ero la negazione dell'alcool, che l'alcool in sé non mi affascinava; le reazioni chimiche che produceva in me non erano soddisfacenti, proprio perché io non avevo alcun bisogno di una simile soddisfazione chimica. Bevevo perché bevevano gli uomini attorno a me, e perché la mia natura era tale da non permettermi di essere meno uomo degli altri uomini nel loro passatempo preferito. M'era rimasto invece il gusto della roba dolce, e in qualche occasione, quando non c'erano uomini a guardarmi, mi compravo una caramella e me la divoravo beato.Intonando un allegro coro facemmo vela, fuori del porto di Yokohama, diretti a San Francisco. Prendemmo la rotta settentrionale, e avendo in poppa il forte vento del sud, la corsa attraverso il Pacifico fu di soli trentasette giorni a vele gonfie. Era in vista un'altra bella paga, e per trentasette giorni, senza un bicchiere a eccitare il cervello, di continuo facevamo progetti su come spendere il danaro.La prima affermazione di ognuno - persino del vecchio che tornava a casa sua - era sempre quella: «Non voglio avere addosso quei pescicani che danno pensione». Poi, tra parentesi, il rammarico di avere speso troppi soldi a Yokohama. E dopo, ognuno s'accingeva a disegnare il suo fantasma preferito. Victor, per esempio, voleva traversare subito porto e Costa dei Barbari, e mettere un annuncio sui giornali. Un annuncio per chiedere pensione presso una

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semplice famiglia di lavoratori. «Poi», diceva Victor, «voglio andare per un paio di settimane a una scuola di ballo, solo così, per conoscere qualche ragazza e qualche giovanotto. Poi voglio fare il giro di tutte le sale da ballo, farmi invitare dalla gente, alle feste, e così via, e coi soldi che ho posso tirare avanti sino al prossimo gennaio, quando salperò ancora».No, non si sarebbe più messo a bere. Sapeva il modo, o meglio sapeva un modo tutto suo: dentro il vino, fuori il cervello e tutti i soldi finiti in un istante. Ora aveva fatto una scelta, basata su di un'amara esperienza, la differenza fra tre giorni di deboscia in mezzo ai pescecani e alle arpie della Costa dei Barbari, e un intero inverno di gioia sana e di buona compagnia, e non c'era dubbio su che cosa sarebbe caduta la scelta.Diceva Axel Gunderson, cui nulla importava di balli e di vita mondana. «Mi danno una buona paga. Ora posso tornare a casa. Sono quindici anni che non vedo mia madre e tutta la mia famiglia. Incasso e mando tutti i soldi a casa, ad attendermi. Poi m'imbarco su una bella nave diretta in Europa e mi guadagno un'altra paga. Mettetele insieme, e avrò tanti soldi quanto non ne ho mai visti in vita mia. A casa mia farò il principe. Voi non avete idea di quanto costi poco, tutto, in Norvegia. Posso fare regali a tutti e spendere i miei soldi in modo tale da sembrare milionario, ai loro occhi, e passarci tutta una vita, prima di riprendere il mare».«Proprio quello che voglio fare io» dichiarava John il Rosso. «Son tre anni che non ricevo un rigo da casa e dieci anni che ne manco. Axel, guarda che la roba in Svezia costa poco come in Norvegia, e i miei sono vera gente di campagna, contadini. Mando a casa la paga e m'imbarco con te sulla stessa nave per fare il giro di Capo Horn. Ce la scegliamo buona».E poi Axel Gunderson e John il Rosso si figuravano le delizie pastorali e le festività dei rispettivi paesi, l'uno s'innamorava del luogo nativo dell'altro, e si giuravano solennemente di fare il viaggio insieme, e di passare, insieme, sei mesi nella casa svedese e altri sei mesi in quella norvegese. E per il resto del viaggio era difficile staccarli, tant'era la loro infatuazione di discutere su quei progetti.John il Lungo non era tipo casalingo. Ma era stanco del castello di prua. Gli squali delle pensioni, niente. Anche lui voleva trovarsi una stanza in una famiglia tranquilla, poi sarebbe andato a scuola di navigazione per studiare e diventare capitano. Andava così. Ciascuno giurava che una volta per sempre sarebbe stato accorto, che non avrebbe sperperato i suoi soldi. Niente squali delle pensioni, niente città di marinai, niente bere, questo il motto del castello di prua.Gli uomini diventavano avari. Mai vista tanta economia. Si rifiutavano di spendere un soldo. Vecchi stracci dovevano durare, e loro li ricucivano, pezza su pezza, producendo i cosiddetti «arlecchini alla casalinga» ma di proporzioni inusitate. Risparmiavano sui fiammiferi, addirittura, aspettando d'essere in due o tre pronti ad accendere la pipa con lo stesso fiammifero.Quando accostammo al porto di San Francisco, nel momento in cui ci passarono la visita i medici, i galoppini delle pensioni erano già sotto bordo con le barche. Sciamavano a bordo, ciascuno battendo il tamburo per la sua pensione, e ciascuno con una bottiglia di whisky gratuito ficcata nella camicia. Ma noi facevamo loro segno di andarsene insultandoli. Non volevamo saperne, delle loro pensioni e del loro whisky. Noi eravamo marinai astemi, in gamba, sapevamo bene noi come spendere il nostro danaro.Veniva il giorno della paga, al commissariato del porto. Si usciva di lì con le tasche piene di soldi. Intorno a noi, come poiane, s'affollavano i pescecani e le arpie. E noi ci scambiavamo uno sguardo. Eravamo rimasti sette mesi insieme, ora le nostre strade si separavano. Restava un ultimo rito di addio fra vecchi amici. (Ah, era così, l'usanza). «Sotto, ragazzi», diceva il nostromo. E lì davanti, inevitabile, ecco il saloon. Saloon a decine, tutt'intorno. E una volta seguito il nostromo in un saloon di sua scelta, s'affollavano i pescecani sul marciapiede, di fuori. Qualcuno s'azzardava anche a entrare, ma noi non volevamo saperne.Ecco al bancone lungo - il nostromo, il capo, i sei cacciatori, i sei piloti e i cinque vogatori. Questi ultimi erano sempre cinque soltanto, perché uno di noi era volato fuoribordo, con un sacco di carbone ai piedi, fra una tormenta e l'altra durante una tempesta di neve al largo di Capo Jerimo. In tutto diciannove, e questa doveva essere l'ultima nostra bevuta assieme. Dopo sette mesi di lavoro virile in giro per il mondo, vento a favore, vento contro, ci stavamo guardando in faccia per l'ultima volta. Noi lo sapevamo, perché tante sono le strade che percorre un marinaio. E il diciannovesimo di noi beveva quel che pagava il nostromo. Poi il capo ci guardava con occhi eloquenti e offriva ancora da bere per tutti. Ci era simpatico il capo quanto il nostromo, ci piacevano tutti e due. Potevamo bere con l'uno e non bere con l'altro?E Pete Holt, il mio cacciatore (andato disperso l'anno dopo sul «Mary Thomas» insieme a tutto

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l'equipaggio) offrì da bere. Il tempo passava, al bancone si continuava a mescere, le voci a levarsi, e il cervello a scottare. C'erano sei cacciatori, e ciascuno insisteva, nel nome sacro dell'amicizia, che almeno una volta tutti dovevamo bere con lui. Poi c'erano i sei piloti e i cinque vogatori e questa logica valeva anche per loro. C'erano soldi nelle tasche di tutti, e i soldi nostri valevano quelli di chiunque, e i nostri cuori erano liberi e generosi.Diciannove bicchierate. Cosa di meglio poteva chiedere John Barleycorn per imporre la sua volontà agli uomini?Essi eran maturi per scordare quei progetti vagheggiati con tanto amore. Uscivano dal saloon ed eccoli nelle grinfie degli squali e delle arpie. Non resistevano a lungo. Due giorni, al massimo una settimana, e i loro soldi erano finiti, e tu li vedevi già imbrancati, per opera dei proprietari delle pensioni, per finire a bordo d'una nave che doveva far vela. Victor era un bel pezzo d'uomo, e grazie a una fortunata amicizia riuscì a entrare fra le guardie di salvataggio. Non vide mai la scuola di ballo né mise annunci sul giornale, per ottenere una stanza in casa di lavoratori. E neanche John il Lungo andò mai alla scuola di navigazione. Alla fine della settimana faceva lo scaricatore su di un vaporetto fluviale. John il Rosso e Axel non mandarono la paga ai loro vecchi paesi. Anzi, come tutti gli altri, finirono a bordo di navi in partenza per i quattro quarti del mondo, e ce li avevano messi i proprietari delle pensioni, e stavano scontando soldi prestati, ma non mai visti né spesi.Mi salvò il fatto di avere una casa, gente con cui stare. Traversai la baia, giunsi a Oakland e fra le altre cose diedi un'occhiata alla via della morte. Nelson non c'era più - colpito a morte mentre, ubriaco, picchiava due ufficiali. Il suo socio d'affari era in prigione. Bob detto «Whiskey» era sparito. Il vecchio Cole, il vecchio Smoudge e Bob Smith spariti anche loro. Un altro Smith, quello dalle pistole alla cintura e dell'«Annie» era affogato. Mi dissero che French Frank stava nascosto lungo il fiume, e non osava uscire per via di qualche cosa che aveva combinato. Altri vestivano a strisce a San Quentin o a Folsom. Alec il Grosso, Re dei Greci, che conoscevo bene dai vecchi tempi di Benicia, e con il quale avevo bevuto per nottate intere, aveva ucciso due uomini ed era fuggito all'estero. Fitzsimmons, con cui avevo navigato sui pescherecci, aveva preso una coltellata nel polmone, alla schiena ed era morto di inedia e di tubercolosi. E così andava, una strada molto viva, molto ben frequentata, e da quanto ne sapevo io, responsabile era John Barleycorn, con la sola eccezione dello Smith della «Annie».

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Era morta la mia infatuazione per la gente al porto di Oakland. Non me ne piaceva l'aspetto, non me ne piaceva la vita. Non m'importava nulla di bere, né di fare il vagabondo. Tornai a frequentare la biblioteca pubblica di Oakland, e lessi libri con migliore capacità di comprenderli. Fu allora che mia madre mi disse di trovarmi un lavoro normale, perché avevo già abbastanza corso la cavallina. E poi la famiglia aveva bisogno di soldi. Per questo accettai un posto in una fabbrica di juta, giornate di dieci ore a dieci centesimi l'ora. Pur essendo cresciuta in me la forza e in generale l'efficienza, mi pagavano esattamente come quando, diversi anni prima, lavoravo alla fabbrica di conserve. Ma stavolta c'era la prospettiva di salite a un dollaro e un quarto al giorno, dopo qualche mese.Qui, per quanto riguarda John Barleycorn, comincia un periodo di innocenza. Mese dopo mese ignorai cosa significasse mandar giù un bicchiere. Non ancora diciottenne, sano, coi muscoli induriti dalla fatica ma ancora intatti, come ogni giovane animale avevo bisogno di un cambiamento, di una novità eccitante, al di là dei libri e dei lavoro meccanico.Entrai nell'YMCA (22.). Lì la vita era salubre e atletica, ma troppo giovanile. Per me era troppo tardi. Non ero più un ragazzo, e neanche un giovane, nonostante la pochezza dei miei anni. Avevo fatto cose grosse in mezzo agli uomini. Conoscevo cose violente e misteriose. Venuto dall'altro lato della vita, per quanto riguardava i giovanotti che conobbi alla YMCA. Parlavo un'altra lingua; possedevo una saggezza più triste e più terribile. (Se ci ripenso adesso, debbo concludere che non ho mai avuto un'adolescenza). In ogni modo i giovani della YMCA erano per me troppo ragazzi, troppo semplici. Ma questo non mi sarebbe importato, se avessero potuto venirmi incontro e aiutarmi mentalmente. Invece dai libri avevo ricavato più io che loro. La loro scarsa esperienza fisica, sommandosi alle loro magre esperienze intellettuali, formavano una somma negativa così grossa da sopraffare tutta la loro sana moralità e i loro sani giochi sportivi.In breve, non potevo giocare con alunni inferiori a me di una classe. Tutta la loro splendida e chiara vita giovanile a me era stata negata - grazie alla tutela di John Barleycorn, sotto la quale era caduto tanto presto. Avevo imparato troppe cose quando ero troppo giovane. Eppure, nel buon tempo a venire, quando l'alcool sarà eliminato dalle istituzioni e dai bisogni dell'uomo, proprio l'YMCA o una simile associazione impensabilmente migliore, più saggia e più virile, riceverà gli uomini i quali oggi vanno al saloon a trovare se stessi e gli altri. Nel frattempo, noi stiamo vivendo oggi, qui, ora, e dobbiamo discutere dell'oggi, qui e ora.Lavoravo dieci ore al giorno alla fabbrica di juta. Volevo vita. Volevo realizzare me stesso in maniere diverse da una macchina a dieci centesimi l'ora. Del saloon ne avevo avuto abbastanza. Volevo qualcosa di nuovo. Crescevo. Mi si andavano formando potenzialità e disposizioni inimmaginate e preoccupanti. Per fortuna, proprio a questo punto, incontrai Louis Shattucks e diventammo amici.Louis Shattucks, a parte un suo tratto cattivo, era un giovane autentico, ingenuamente diabolico, perfettamente convinto d'essere un ragazzo sofisticato, di città. Io invece non ero affatto un ragazzo di città. Louis era ben fatto, bello, pieno di amore per le ragazze. Per lui questa era un'impresa eccitante, capace dì assorbire un giovane completamente. Delle ragazze io non sapevo nulla. Ero stato fin troppo occupato a fare l'uomo. Era una fase completamente nuova dell'esistenza che mi era sfuggita. E quando vedevo Louis dirmi addio, levarsi il cappello dinanzi a una ragazza di sua conoscenza, e passeggiare con lei fianco a fianco sul marciapiede, ero eccitato e anche invidioso. Volevo provare anch'io questo gioco.«Be', si può fare una cosa sola», disse Louis, «Cioè, trovati una ragazza».Più facile dirlo che farlo. E ve lo voglio dimostrare, anche a rischio di uscire un po' dal seminato. Louis ignorava le ragazze nella loro vita domestica. Non lo facevano entrare in casa di una ragazza. E naturalmente io, in quanto estraneo a questo mondo nuovo, mi trovavo nelle stesse circostanze. Ma in seguito Louis e io potemmo andare a scuola di ballo, o nelle sale da ballo, ottimi posti per fare conoscenze. Non avevamo danaro. Lui era apprendista da un fabbro ferraio, e guadagnava poco più di me. Stavamo tutti e due in casa dei genitori, pagando la nostra parte. Fatto questo, comperate le sigarette, e gli inevitabili abiti e scarpe, restava a ciascuno di noi, per le spese personali, una somma che variava dai settanta centesimi al dollaro, alla settimana. Facevamo cassa comune, dividevamo in parti eguali e a volte i resti della somma andavano a quello che fra i due più ne avesse bisogno in vista della più bella avventura con una ragazza, in modo da pagarsi una corsa fino a Blair's Park e ritorno, venti

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centesimi, poi un gelato per due, trenta centesimi, oppure il "tamal", specialità dei locali alla messicana, che costava anche meno, cioè venti centesimi in due.Non mi importava di avere così pochi soldi. Il disdegno per il danaro appreso al tempo della pirateria ostricara mi era rimasto. Non me ne importava troppo neanche a titolo di appagamento personale: e nella mia filosofia il cerchio si chiudeva: per me andavano benissimo i due opposti, non avere in tasca un decino e sperperare ventine di dollari invitando al bar tutti quanti per offrir loro da bere.Ma come farsi una ragazza? Non c'era casa di ragazza in cui Louis potesse portarmi per presentarmene una. Neanch'io ne conoscevo. Le sue varie ragazze, Louis le voleva tutte per sé; e poi, proprio secondo la natura umana dei giovani e delle ragazze, non poteva cedermene una; ma a me parevano tutte creature fiacche, scialbe, inconsistenti, almeno nel suo campionario,«Devi fare come faccio io», disse alla fine. «Me le sono fatte cercandole. E la stessa cosa devi fare tu».Così mi diede le sua iniziazione. Bisogna ricordate che Louis e io eravamo in una situazione dura. Bisogna davvero sgobbare per pagarsi pensione e serbare una aspetto decente. Ci incontravamo alla sera, dopo una giornata di lavoro, a un angolo di strada, o in una piccola pasticceria in un vicolo, gli unici posti da noi frequentati. Lì si comperavano le sigarette e a volte un nichelino di caramelle, (Ah, sì, non avevamo vergogna, Louis e io, di mangiare caramelle - quante se ne potevano comprare. E neanche si beveva. Nessuno dei due entrò mai in un saloon).Ma la ragazza... In modo assai primitivo, come mi aveva consigliato Louis, io dovevo scegliermela e farne la conoscenza. Passeggiavamo per strada sul far della sera. Le ragazze, come noi, passeggiavano a coppie. E le ragazze che vanno a passeggio guardano i ragazzi che fanno la stessa cosa, purché siano loro i primi a guardare. (E fino ad oggi in ogni città, grande o piccola, in ogni villaggio in cui io, uomo di mezza età, sono stato, guardo con occhio avvezzo dalla vecchia esperienza e sto attento al dolce gioco innocente che fanno giovanotti e ragazze a passeggio, i quali debbono passeggiare quando c'è il richiamo della primavera o dell'estate, a sera),Il guaio era che, in questa fase arcadica della mia esistenza, io, che venivo dritto dritto, indurito, dall'altro lato della vita, ero timido e arrossivo. Più volte Louis cercò di darmi coraggio. Ma io non conoscevo le ragazze. Per me erano strane e meravigliose dopo la mia precoce vita di uomo fatto. Non avevo la faccia tosta e la necessaria disinvoltura. quando veniva il momento cruciale.Allora Louis mi mostrava in che modo - una certa occhiata eloquente, un sorriso, un'ammiccata, una levata di cappello, una parola, un'esitazione, una risatina, un certo nervosismo di modestia - attento!, come Louis riusciva ad attaccare discorso per poi presentarmi. Ma quando ci mettevamo a passeggiare a coppie, giovanotto e ragazza, io mi accorgevo che inevitabilmente Louis s'era scelto quella di bell'aspetto lasciando a me la sorellina zoppa.Naturalmente migliorai, dopo certe esperienze, troppo numerose per indugiarci sopra, sì che vi furono diverse ragazze a cui potevo fare il saluto levandomi il cappello, e che erano disposte a passeggiare accanto a me sul far della sera. Ma l'amore di una ragazza non mi toccò subito. Adesso ero eccitato, interessato e continuavo la cerca. E il pensiero del bere non mi veniva mai in mente. Alcune di queste avventure, di Louis e mie, mi han fatto riflettere quando cerco di tracciare qualche generalizzazione sociologica. Ma era tutta gioventù buona e ingenua, e una generalizzazione la feci subito, biologica più che sociologica, e cioè che tutte le donne, sotto la pelle, sono uguali, qualunque ne sia il rango sociale.E non passò neanche molto tempo prima che conoscessi l'amore di una ragazza, e ne gustai tutta la cara affettuosa delizia, tutto lo splendore e la meraviglia. La chiamerò qui Haydee. Aveva poco più di quindici anni. La gonnella le arrivava alla punta degli scarpini. Sedevamo accanto a una riunione dell'Esercito della Salvezza. Non era una conversa, e neanche lo era sua zia, la donna che le sedeva accanto dall'altra parte e che, venendo in visita dal paese in cui l'Esercito della Salvezza a quel tempo non esisteva, era entrata alla riunione, una mezz'oretta, per semplice curiosità. E Louis mi stava accanto e osservava - credo che si limitasse a osservare, perché Haydee non era il suo tipo di ragazza.Non parlammo, ma durante quella splendida mezz'ora ci scambiammo timide occhiate, per poi evitarci con lo sguardo, e daccapo guardarci, più e più volte. Aveva un volto sottile, ovale. I suoi occhi castani erano bellissimi. Un nasino di sogno, come la bocca, dalle labbra dolci e

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insieme petulanti. Aveva in testa un cappellino e io scorsi una chioma del più bel castano che mai avessi visto. Da quella sola esperienza di mezz'ora sono sempre restato convinto della realtà dell'amore a prima vista.Troppo presto se ne andarono la zia e Haydee. (E' consentito in qualsiasi momento, alle riunioni dell'Esercito della Salvezza). La riunione ormai non m'interessava più, e dopo un giusto intervallo di un paio di minuti, forse meno, mi accinsi ad andarmene anch'io in compagnia di Louis. Mentre si usciva, in fondo alla sala una donna mi riconobbe, si alzò, e mi seguì. Non sto a descriverla. Era una donna del tipo mio, ma ai vecchi tempi del porto. Quando Nelson fu colpito, era morto fra le braccia di questa donna, e sapeva che ero io il suo unico compagno. E doveva dirmi come era morto Nelson, mentre io non volevo saperlo; sicché con lei io percorrevo tutto un arco di vita, dall'alba di un amore giovane per una ragazza dai capelli castani, fino alla vecchia e triste vita selvaggia che avevo conosciuto.E quando ebbi sentito la storia, mi affrettai a cercare Louis, nel timore di aver perso il mio primo amore subito dopo il mio primo sguardo. Invece di Louis stavolta mi potevo fidare. Si chiamava... Haydee. Sapeva dove abitava. Ogni giorno passava davanti alla bottega di fabbro dove lavorava lui, per andare o tornare dalla Scuola Lafayette. Inoltre, qualche volta l'aveva vista con Ruth, altra scolara, e poi c'era Nita, quella che ci vendeva le caramelle, amica di Ruth. Bisognava far questo: andare alla pasticceria e veder di convincere Nita a dare un biglietto a Ruth, che a sua volta doveva darlo a Haydee. Se si riusciva a far questo, da parte mia bastava che scrivessi il biglietto.E così accadde. In qualche stenta mezz'ora di incontro, io potei conoscere tutta la dolce follia dell'amore di un ragazzo e dell'amore di una ragazza. Da come lo dirò, capirete che non fu il più grande amore del mondo, ma oso affermare che fu il più dolce. Ah, quando ci ripenso! Mai ragazza ebbe un fidanzato più ingenuo di me, che negli anni trascorsi era stato così sciagurato e così violento. Non sapevo nulla, di ragazze. Io, che ero stato acclamato Principe dei Pirati Ostricari, che potevo andare in qualsiasi parte del mondo, uomo fra gli uomini; che sapevo portare una barca; reggere a una tempesta, frequentare i posti più rozzi nelle città dei marinai e fare la mia parte e invitare tutti al bancone - non sapevo neanche qual è la prima cosa che si potesse dire o fare con questa minuta ragazzina dalla gonnella che le arrivava appena alla punta delle scarpe e che aveva della vita un'ignoranza abissale pari alla mia.Rammento che ci sedemmo su una panchina al chiaro delle stelle. C'era un buon palmo di spazio fra noi due. Quasi non osavamo guardarci in faccia, e i gomiti vicini stavano sulla spalliera della panchina, e si sfiorarono un paio di volte appena. E di continuo, pazzamente felice, parlando nei termini più gentili e più delicati che non offendessero le sue orecchie sensibili, io mi travagliavo il cervello nello sforzo d'indovinare che cosa a questo punto avrei dovuto fare. Che cosa si aspetta una ragazza da un giovanotto che sta accanto a lei sulla panchina e cerca a tentoni di capire che cosa sia l'amore? Dovevo forse baciarla? Lei prevedeva che lo facessi? E se questo prevedeva, e io non la baciavo, che cosa avrebbe pensato di me?Ah, era più saggia di me - adesso lo so - la ragazzina innocente con la gonnella fino alla punta delle scarpe. Conosceva giovanotti da sempre. Mi incoraggiò come può fare una ragazza. Si era tolti i guanti e li teneva in una mano, e io ricordo il suo gesto lieve ma azzardato quando, fingendo di rimproverarmi qualcosa che avevo detto, proprio con quei guanti mi diede un buffetto sulle labbra. Fu come venir meno dalla gioia. Fu la cosa più meravigliosa che mi fosse mai capitata. E rammento ancora il lieve profumo che mi venne da quei guanti, e che io respirai nell'istante in cui toccarono le mie labbra.Poi venne l'angoscia dell'apprensione e del dubbio. Dovevo forse imprigionare nella mia mano quella manina che teneva i guanti profumati, quei guanti che or ora mi avevano sfiorato le labbra? Dovevo azzardarmi a baciarla subito, o metterle una mano alla vita? O potevo osare addirittura di sedermi più vicino.Ebbene, non osai. Non feci nulla. Restai lì seduto, innamorato con tutta l'anima. E quando ci lasciammo, quella sera non l'avevo ancora baciata. Rammento la prima volta che la baciai, che fu un'altra sera, al momento di lasciarci - momento immenso, quando presi tutto il coraggio che avevo in cuore e osai. Non riuscimmo mai a combinare più di una decina di stentati incontri, e ci saremo baciati, forse, altrettante volte, come baciano i giovanotti e le ragazze, un bacio breve, innocente, meravigliato. Non andammo mai da nessuna parte - neanche a una "matinée". Una volta ci dividemmo cinque centesimi di caramelle. Ma io ho sempre creduto, con tenerezza, che lei mi amava. So che l'amavo; e sognai a occhi aperti lei, per un anno e più, e il ricordo di lei mi resta, molto caro.

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Quando stavo con gente che non beve, al bere non pensavo mai. Louis non beveva. Né lui né io ce lo potevamo permettere; ma, quel che più conta, non avevamo desiderio alcuno di bere. Eravamo sani, normali, non dediti all'alcool, non avremmo bevuto neanche potendocelo permettere.Ogni sera, dopo una giornata di lavoro, ci si puliva, si cambiavano i panni, e mangiata la cena ci si incontrava all'angolo o nella piccola pasticceria. Ma poi passò l'autunno caldo, e con le nottate di gelo e quelle di pioggerella diaccia, non era più comodo vedersi all'angolo. E nella pasticceria non c'era riscaldamento. Nita, o chiunque fosse la ragazza che serviva al banco, in attesa dei clienti si rincantucciava in un retrobottega che era riscaldato. In questa stanza non ci faceva entrare, e in bottega faceva freddo come per strada.Discutemmo la situazione. C'era una soluzione sola: il saloon, il luogo dove gli uomini si ritrovano e familiarizzano con John Barleycorn. Ricordo molto bene certe serate umide e ventose, e si tremava senza cappotto perché non ce lo potevamo permettere. Louis e io cominciammo a sceglierci un saloon, perché i saloon sono sempre caldi e ci si sta bene. Ora, nel saloon Louis e io non ci andavamo per voglia di bere. Ma sapevamo d'altra parte che i saloon non sono istituti di beneficenza. Non si poteva trasformare un saloon in luogo di sosta, senza di tanto in tanto comperare qualcosa al bancone.Scarseggiavano gli spiccioli in tasca a noi. Non potevamo sprecarne neppure uno se poi dovevano servire a pagare una corsa con la ragazza. (Senza ragazze, non si pagava nulla, perché andavamo a piedi). Decidemmo dunque di investire il resto in questo saloon. Chiedevamo un mazzo di carte, ci sedevamo a un tavolo a giocare per un'ora, Louis offriva una volta e una volta offrivo io, sempre birra, la bevanda meno cara, dieci centesimi in due. Che sperpero! E quanto ci dispiaceva!Studiavamo i frequentatori del locale. Parevano essere tutti lavoratori di mezza età e anche anziani, quasi sempre tedeschi, che si adunavano a gruppi di vecchi amici, e con questi era difficile avere qualche contatto. Votammo dunque contro il saloon, e ce ne andammo a coda bassa, consapevoli che una serata era persa, e ci era costata venti centesimi di birra a noi sgradita.Facemmo diverse altre prove le sere successive e finalmente trovammo il National, un saloon sulla Decima, angolo Franklin Street. Qui trovammo gente più a noi congeniale. Louis, anzi, trovò un paio di persone che conosceva, io ci trovai giovanotti che mi erano stati compagni di scuola, ragazzini piccoli coi calzoni al ginocchio. Parlammo dei vecchi tempi, di quel che era successo al tale, e che cosa stava facendo il talaltro, e naturalmente parlando si beveva. Offrirono loro, e noi si bevve. Poi, secondo il codice del bere, toccava a noi offrire. Faceva male al cuore, significava buttar via quaranta o cinquanta centesimi.Ma ci sentimmo bene quando la breve serata si conchiuse; ma al tempo stesso eravamo in bancarotta. Il borsellino d'un'intera settimana s'era vuotato. Concludemmo che il saloon era fatto così, e convenimmo anche di essere più circospetti d'ora in avanti nell'offrire da bere. Non solo, ma dovevamo fare economia per il resto della settimana. Non c'era neanche da pagarsi una corsa in tram. Fummo costretti a interrompere una relazione con due ragazze d'un altro quartiere di Oakland, con le quali cercavamo di fare all'amore. Dovevamo vederle la sera dopo, e noi non avevamo i soldi per la corsa che le riportasse a casa. Come molte altre persone finanziariamente imbarazzate, dovemmo per qualche tempo tenerci lontani dall'allegro girotondo, almeno fino a sabato, giorno di paga. Così Louis e io ci davamo appuntamento in uno stallatico e battendo i piedi per terra e tenendo le giacche ben abbottonate, giocavamo a carte in attesa che finisse il nostro esilio.Poi ritornammo al National, ma non ci spendemmo più di quello che era decente spendervi, in cambio della comodità e del calore. Qualche volta ci andò male, come quando restammo incastrati in una serie di Sancho Pedro a cinque mani, un gioco di azzardo che può costare cifre disastrose, dai venticinque agli ottanta centesimi, a seconda del numero dei giocatori che ordinavano bevute da dieci. Ma noi potevamo, almeno temporaneamente, evitare i malaugurati effetti di simili disgrazie, in virtù di un conto aperto con il barista. Certo, questo serviva solo a rinviare il giorno della resa dei conti e ci invitava a spendere più di quanto avremmo speso pagando in contanti. Quando me ne andai da Oakland, all'improvviso, diretto verso nuove

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avventure, la primavera dopo, rammento bene che ero in debito con il padrone del National di un dollaro e settanta centesimi. Molto dopo, quando ritornai era scomparso. Sono ancor oggi debitore del dollaro e settanta, e se per caso egli dovesse leggere queste righe, voglio che sappia che a richiesta pagherò.Del predetto incidente al National ho parlato per dimostrare ancora una volta il fascino, l'attrazione, la costrizione verso John Barleycorn, nella società come essa è oggi organizzata, con un saloon a ogni angolo di strada. Louis e io eravamo due giovani sani. Non avevamo voglia di bere. Non potevamo permetterci di bere. Eppure eravamo costretti dalle circostanze del freddo e della pioggia a cercar rifugio in un saloon, dove ci toccava spendere parte del nostro misero gruzzolo per bere. Qualche critico potrà ribattere che avremmo potuto andare all'YMCA, a una scuola serale, nei circoli associativi, nelle case della gioventù. La sola risposta è che non lo facemmo. Questo è il fatto irrefragabile. Non lo facemmo. E oggi., in quest'istante, ci sono centinaia di migliaia di giovani come Louis e come me, i quali stanno facendo esattamente quello che facevamo Louis e io, con John Barleycorn, al caldo e al comodo, a salutare gli amici, ad abbracciarli, a insegnar loro i modi dolci di John Barleycorn.

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20.

La fabbrica di juta non rispettò l'accordo di aumentarmi la paga a un dollaro e un quarto, e io, ragazzo americano, nato libero, i cui diretti antenati avevano combattuto in tutte le guerre, dalle vecchie battaglie contro gli indiani, prima della rivoluzione, in poi, esercitai il mio diritto di libero contraente abbandonando il posto.Ero ancor deciso a trovarmi un posto stabile e per questo mi guardai intorno. Il lavoro non specializzato non rendeva. Dovevo imparare un mestiere, e mi decisi per l'elettricità. Cresceva di continuo il bisogno di elettricisti. Ma come diventare elettricista? Non avevo i soldi per andare a una scuola tecnica, o all'università; e poi, non avevo grande opinione delle scuole. Ero un uomo pratico, in un mondo pratico. Inoltre credevo ancora nei vecchi miti che erano l'eredità del ragazzo americano, quando ero ragazzo.Chiunque poteva diventare presidente. Chiunque trovasse lavoro in una ditta poteva, con l'abilità, l'energia e la sobrietà, imparare il mestiere e salire di grado in grado fino a diventare associato del padrone. Dopo di che, diventare padrone alla pari era solo questione di tempo. Molto spesso - così diceva la leggenda - il ragazzo, grazie alla sua fermezza e applicazione, sposava la figlia del socio. Finora mi avevano incoraggiato ad avere questa fede in me stesso, per ciò che riguarda le ragazze, a tal punto che ero perfettamente sicuro di poter sposare, un giorno, la figlia del mio padrone. Non c'era più alcun dubbio, su questo. Tutti i ragazzini della favola ci credevano, fino a quando diventavano grandi.Così dissi addio a tutto per rimettermi, di nuovo, sulla strada dell'avventura, e andai all'impianto d'energia di una delle nostre ferrovie urbane di Oakland. Vidi di persona il sovrintendente, in un ufficio privato così bello che quasi mi lasciò sbalordito. Ma parlai a viso alto. Dissi che volevo diventare elettricista, che il lavoro non mi faceva paura, che ero avvezzo a lavorare sodo, e che lui doveva fare una cosa sola: vedere se ero adatto e forte. Gli dissi che volevo cominciare di fondo e farmi strada, che volevo dedicare la mia vita a quest'unica occupazione e a quest'unico impiego.Ascoltandomi il sovrintendente sorrideva. Disse che io avevo la stoffa per farcela, e che era convinto di dover aiutare i giovani americani che volevano farsi avanti. Ma certo, gli imprenditori erano sempre in cerca di giovani come me, e purtroppo li trovavano solo di rado. La mia ambizione era bella e degna, e avrebbe provveduto lui a darmi l'occasione buona. (E mentre stavo a sentire il suo cuore ridondante, mi chiedevo se poi avrei sposato sua figlia).«Ma prima di metterti in strada e di affrontare i particolari più elevati e complessi della professione», disse «avrai, naturalmente, da lavorare al deposito con gli uomini che installano e riparano i nostri motori». (A questo punto ero certo che avrei sposato sua figlia e mi chiedevo che parte di azioni possedesse lui nella società).Continuò: «Ma., come tu stesso puoi vedere facilmente, non puoi pretendere di cominciare come aiutante degli elettricisti al deposito. Prima bisogna che te lo conquisti lavorando. Comincerai veramente dal principio. Al deposito il tuo primo lavoro consisterà nello spazzare, nel tenere le cose pulite. E quando ti sarai dimostrato capace di questo, allora potrai cominciare come aiutante degli elettricisti al deposito».Io non capivo in che modo spazzare e strofinare potesse servire di preparazione al mestiere di elettricista; ma sapevo che in tutti i libri tutti i ragazzi cominciavano da un lavoro il più ordinario, e comportandosi bene alla fine si conquistavano la proprietà di tutta quanta l'impresa.«Quando devo venire al lavoro?» chiesi, ansioso di lanciarmi verso questa abbacinante carriera.«Però», disse il sovrintendente, «come già abbiamo convenuto, tu ed io, devi cominciare dal principio. Immediatamente tu non puoi, in nessun modo, entrare al deposito. Prima devi passare, in veste di oliatore, nella sala-motori».Mi calò un poco il cuore e per il momento vidi farsi più lunga la strada fra me e sua figlia; ma poi il cuore risorse. Oliatore nella grande sala-motori, avevo fiducia che poche cose riguardanti il vapore mi sarebbero sfuggite. Santo cielo! La mia carriera era più abbacinante che mai.«Quando devo venire al lavoro?» chiesi con garbo.«Ma» disse il sovrintendente, «tu non puoi aspettarti di entrare immediatamente in sala-motori. Anche per questo ci vuole preparazione. Passando per la sala-fuochisti. naturalmente. Insomma, tu vedi chiara la faccenda, lo so. E tu vedrai che anche il semplice maneggio del carbone è cosa scientifica, da non prendere sotto gamba. Lo sai tu che noi pesiamo ogni libbra

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di carbone che va bruciato? In questo modo veniamo a sapere il valore del carbone che bruciamo; conosciamo al centesimo il costo di ogni pezzo della produzione, e sappiamo anche quali, fra i fuochisti, per stupidaggine o incuria, ottengono meno dal carbone che bruciano». Il sovrintendente ricominciò a sorridere. «Tu vedi quanto sia importante la faccenduola del carbone, e quanto più tu riuscirai a saperne, di questa faccenduola, tanto più diventerai buon operaio, più prezioso per te stesso. Dunque, sei pronto a incominciare?».«Anche subito» dissi io, spavaldo. «Più presto comincio meglio è».«Benissimo», rispose. «Verrai domattina alle sette».Mi presero e mi fecero vedere quali erano i miei compiti. Mi dissero anche le condizioni del mio impiego: giornata di dieci ore, tutti i giorni del mese comprese le domeniche e le feste, con un giorno di riposo al mese, e un salario di trenta dollari al mese. Non era eccitante. Anni prima, alla fabbrica di conserve, guadagnavo un dollaro al giorno per una giornata di dieci ore. Mi consolai pensando che la mia capacità di guadagno non era cresciuta con gli anni e con la forza proprio perché non avevo mai fatto un lavoro specializzato. Ma stavolta era diverso. Cominciavo a lavorare in vista della specializzazione, per un mestiere vero, per una carriera e una fortuna, e per la figlia del sovrintendente.E cominciavo alla maniera giusta - proprio dal principio. Questo il punto. Passavo il carbone ai fuochisti, che lo spalavano nel forno, dove la sua energia si trasformava in vapore, che, nella sala-motori, si trasformava a sua volta in elettricità, con la quale lavoravano gli elettricisti. Questo passar carbone era veramente il principio primo - a meno che il sovrintendente non si mettesse in testa di mandarmi a lavorare nelle miniere da dove si estrae il carbone, al fine di ottenere una comprensione completa della genesi dell'elettricità per le ferrovie urbane.Lavoro! Io che avevo lavorato con gli uomini, scoprivo di non sapere nulla di lavoro vero. Giornata di dieci ore! Dovevo passare carbone per i turni di notte e di giorno, e pur lavorando tutta l'ora di mezzogiorno, mai finivo prima delle otto di sera. In realtà io lavoravo dalle dodici alle tredici ore al giorno e non mi pagavano lo straordinario, come alla fabbrica di conserve.Posso rivelare il segreto anche qui, subito. Stavo facendo il lavoro di due uomini. Prima di me, un manovale maturo e capace aveva fatto il turno di giorno e un altro bracciante, maturo e capace, quello di notte. Avevano una paga di quaranta dollari ciascuno. Il sovrintendente, che voleva fare economie nella sua amministrazione, mi aveva convinto a fare lavoro doppio per trenta dollari al mese. Io credevo che volesse fare di me un elettricista. La verità vera è che risparmiava cinquanta dollari al mese sulle spese generali della società.Ma io non sapevo di aver assunto il posto di due uomini. Nessuno me lo disse. Al contrario, il sovrintendente ordinò a tutti di non dirmi nulla. Come ce la misi tutta, il primo giorno! Lavoravo alla massima velocità, riempiendo di carbone il carrello, spingendolo sulla bilancia, pesando il carico, spingendolo nella sala dei fuochisti e rovesciandolo sulle piattaforme davanti al fuoco.Lavoro! Ne facevo più dei due uomini che avevo sostituito. Quelli si limitavano a spingere il carrello e a rovesciarlo sulle piattaforme. Ma mentre facevo questo per il carbone diurno, quello notturno doveva ammucchiarsi contro il muro della sala-fuochisti. Perché la sala-fuochisti era piccola. Era prevista per un manovale, nei turni notturni. Così mi toccava, di questo carbone notturno, fare un mucchio sempre più alto, sostenendo il mucchio con robuste tavole. Verso la vetta del mucchio dovevo maneggiare il carbone una seconda volta, tirandolo su con la pala.Gocciolavo di sudore, ma non la cedevo mai, anche quando sentivo sopraggiungere lo sfinimento. Verso le dieci del mattino, avevo consumato tanta energia corporea che mi venne fame e andai a prendere dalla mia gamella una spessa doppia fetta di pane e burro. Lo divorai, all'impiedi, sporco di polvere di carbone, con le ginocchia che mi tremavano. Alle undici, in questa maniera, avevo consumato tutto il desinare. Ma che importava? Capivo che mi avrebbe consentito di continuare a lavorare fin dopo mezzogiorno. E lavoravo sotto la luce elettrica. I fuochisti diurni se ne andarono, sopraggiunsero quelli notturni. E io avanti.Alle otto e mezza, affamato, barcollante, mi lavai, mutai panni, e trascinai il mio corpo stanco fino a un vagone. C'erano tre miglia da lì a casa mia, e nel contratto avevano scritto che potevo salire in tram e restarvi seduto fino a quando non ci fossero più passeggeri rimasti senza posto a sedere. Abbandonandomi su un posto d'angolo, esterno, pregai che non ci fossero passeggeri senza posto a sedere. Invece il vagone si riempì, e a metà strada salì una donna che non trovò posto. Cercai di alzarmi e con stupore mi accorsi che non ci riuscivo. Con il vento freddo che mi soffiava addosso, il mio corpo stanco si era indurito sulla panca. Mi ci volle il resto della corsa per sgranchire le giunture e i muscoli indolenziti e mettermi in

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posizione eretta sul gradino inferiore. E quando il tram si fermò al mio angolo di strada, scesi e per poco non caddi a terra.Feci a stento i due isolati fino a casa mia e mi trascinai in cucina. Mentre mia madre si metteva a cucinare, io mi buttai sul pane e sul burro, ma prima ancora di essermi levata la fame, con la bistecca ancor non finita di cuocere, io crollai in un sonno profondo. Invano mia madre cercò di ridestarmi per il tempo necessario a mandar giù la carne. E siccome non riuscirono a fare questo, lei e mio padre mi portarono di peso in camera mia, dove crollai addormentato sul letto. Mi spogliarono e mi coprirono. Al mattino venne l'angoscia della sveglia. Avevo addosso dolori tremendi, e, quel che è peggio, i polsi gonfi. Ma affrontai la cena perduta, divorando una colazione enorme, e quando m'affrettai barcollando a prendere il mio tram, avevo con me un desinare doppio di quello del giorno prima.Lavoro! Provi un giovanotto di diciotto anni a spalare il carbone che di solito spalano due uomini fatti. Lavoro! Molto prima di mezzogiorno avevo divorato fin l'ultima briciola del mio grosso desinare. Ma ero deciso a dimostrare loro cosa sapeva fare un giovanotto forte e deciso. Ma il guaio erano i polsi gonfi. Pochi ignorano il dolore che si prova a camminare con una caviglia distorto. Immaginino che dolore comporti spalare il carbone e spingere un carrello carico con due polsi strappati.Lavoro! Più di una volta mi lasciai andare sul carbone, dove nessuno potesse vedermi, a piangere di rabbia, di mortificazione, di sfinimento e di disperazione. Il secondo giorno fu per me quello più duro, e se riuscii a sopravvivere e a stivare fin l'ultimo pezzo di carbone notturno, alla fine di tredici ore di lavoro, il merito fu del fuochista, che mi fasciò i polsi con larghe corregge di pelle. Erano serrate tanto strette da sembrare due bozze di gesso appena flessibili. Toccava alle corregge ricevere, adesso, le tensioni e le pressioni che sinora eran toccate ai miei polsi, e stringevano a tal punto che l'infiammazione non poteva più gonfiare dove era statolo strappo del muscolo.E in questo modo io continuavo a imparare come si diventa elettricisti. Una notte dopo l'altra io tornavo a casa barcollante, mi addormentavo prima di riuscire a cenare, mi mettevano a letto e mi spogliavano. Un mattino dopo l'altro, con desinari sempre più grossi dentro la gamella, barcollante uscivo di casa diretto al lavoro.Non leggevo più i libri della biblioteca. Non prendevo più appuntamenti con le ragazze. Ero una vera e propria bestia da lavoro. Lavoravo, e mangiavo, e dormivo, con la mente di continuo addormentata. Era come un unico limbo. Lavoravo ogni giorno, compresa la domenica, pensando al mio unico giorno di libertà, in capo al mese, deciso a trascorrere quella giornata disteso sul letto, solo per dormire e riposare.La cosa più strana di questa esperienza è che non bevvi mai e neanche pensai di bere. Eppure sapevo che un uomo, quando è sottoposto a una forte pressione, invariabilmente si ubriaca. Ne avevo visti tanti fare così, e in passato lo avevo fatto anch'io. Ma ero talmente negato all'alcool che neanche una volta mi passò per la mente l'idea che bere mi avrebbe giovato. Dico questo per dimostrare quanto mancasse completamente dalla mia struttura ogni predisposizione verso l'alcool. Ed il fatto è importante perché più tardi, passati altri anni, finalmente i contatti con John Barleycorn indussero in me il desiderio dell'alcool.Spesso avevo notato che il fuochista di giorno mi stava a guardare in un modo strano. Finalmente un giorno parlò. Cominciò facendomi giurare il silenzio. Il sovrintendente lo aveva avvertito di non dirmelo, e dicendomelo rischiava il posto. Mi parlò dell'aiuto fuochista di giorno e di quello notturno e mi disse il salario che avevano ricevuto. Io, stavo facendo per trenta dollari al mese un lavoro per il quale toccavano ben ottanta dollari. Me lo avrebbe confidato prima, disse il fuochista, ma dubitava che mi sarei spezzato per la fatica e me ne sarei andato. In verità io mi stavo ammazzando. e senza nessun buon fine. Stavo semplicemente svilendo a valore del lavoro (così mi spiegò il fuochista) e toglievo il posto a due uomini.Essendo un ragazzo americano, anzi un fiero ragazzo americano, io non me ne andai subito. Era sciocco da parte mia, lo so; ma decisi di continuare il mio lavoro per dimostrare al sovrintendente che riuscivo a farlo senza spezzarmi. Poi me ne sarei andato, e lui avrebbe capito che gran ragazzo in gamba aveva perso.E questo feci, fedelmente, scioccamente. Continuai a lavorare fino a quando venne il giorno che ebbi finito il carico notturno per le sei. Poi abbandonai questa storia dell'imparare elettricità facendo il lavoro di due uomini e anche più, per un salario di ragazzo. Tornai a casa, andai a letto, deciso a dormire ventiquattro ore filate.Per fortuna non rimasi a quel lavoro il tempo bastevole a farmi del male irreparabile - anche se

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fui costretto a tenere i polsi fasciati per un anno intero. Ma l'effetto di questa orgia di lavoro a cui mi ero abbandonato fu di darmi la nausea del lavoro. Non lavoravo più, semplicemente. Il pensiero del lavoro mi era repellente. Non riuscivo a farmi un mestiere? Pazienza. Al diavolo questa idea di imparare un mestiere. Era mille volte meglio girare il mondo, far baldoria, come mi era già successo prima. Per questo mi rimisi sulla strada dell'avventura, vagabondo verso l'est sulle ferrovie.

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Ma badate bene! Non appena mi fui rimesso sulla strada dell'avventura, ritrovai subito John Barleycorn. Mi muovevo in un mondo di estranei, e l'atto di bere insieme ti dava la confidenza di uomini e apriva la strada all'avventura. Poteva essere in un saloon con gente di città, o con qualche simpatico ferroviere, già un poco brillo, e la tasca armata di fiaschetta, oppure con un branco di ubriachi cronici in un ritrovo. Sì, e poteva succedere anche in uno stato proibizionista, come era lo Iowa nel 1894, quando io mi trovai a vagare per il corso di Des Moines e fui invitato da estranei in vari locali clandestini - ricordo di aver bevuto nella bottega di un barbiere' in un negozio di mobili, in un'officina idraulica.Era sempre John Barleycorn. Perfino un vagabondo, in quei giorni alcionei, poteva ubriacarsi abbastanza spesso. Io rammento, dentro la prigione di Buffalo, che alcuni di noi ci arrivavano magnificamente sbronzi e che nelle strade di Buffalo, dopo il rilascio, finanziammo una nuova sbronza coi soldi chiesti in elemosina ai passanti.Io non avevo alcuna disposizione all'alcool, ma quando ero con gente che beveva, bevevo con loro. Io volevo viaggiare e parlare con gente viva, acuta, ed era proprio la gente che beveva di più. Erano gli uomini più compagnoni, più azzardosi, più individuali. Forse era proprio un eccesso di temperamento che li induceva a voltare le spalle all'ordinario, al quotidiano, per trovare sollievo nelle certezze mendaci e fantastiche di John Barleycorn. Comunque sia, gli uomini che preferivo, di cui maggiormente desideravo la compagnia, invariabilmente si trovavano in compagnia di John Barleycorn.Nel corso dei miei vagabondaggi per gli Stati Uniti, acquisii un concetto nuovo. Come vagabondo, io mi trovavo al di là degli schemi sociali, e anche al disotto di essi, in cantina. Potevo osservare il meccanismo in funzione. Vedevo girare le ruote della macchina sociale, e imparai che la dignità del lavoro manuale non era quel che mi avevano detto insegnanti, predicatori e politici. Gli uomini senza un mestiere erano bestiame inerme. Se uno imparava un mestiere, era costretto a iscriversi a un sindacato per lavorare nel suo mestiere. E il suo sindacato era costretto a fare il braccio di ferro con i datori di lavoro per ottenere salari più alti e orari meno duri. I datori dì lavoro accettavano il braccio di ferro. In questo io non riuscivo a vedere dignità alcuna. E quando un lavoratore diventava vecchio, o gli capitava un incidente, lo buttavano nel mucchio dei rifiuti come qualsiasi macchina usata. Ne vedevo fin troppi fare una fine simile, tutt'altro che dignitosa.Ecco dunque il mio nuovo concetto: il lavoro manuale non è dignitoso, e non ripaga. Nessun mestiere per me, questa la mia decisione, e niente figlie di sovrintendenti. Ma niente delinquenza, decisi anche. Sarebbe stata disastrosa, come il lavoro. Il cervello rende, non i muscoli, e decisi di non offrire mai più i miei muscoli in vendita. Avrei venduto il cervello e soltanto quello.Ritornai in California con la ferma intenzione di migliorare il mio cervello. Ciò significava educazione scolastica. Molto tempo fa avevo fatto le scuole elementari, così mi iscrissi alle scuole medie di Oakland. Per pagarmi la scuola trovai un posto da portiere. Mi aiutava anche mia sorella; e non mi vergognavo di falciare l'erba nel giardino di qualcuno, o di sbattere i tappeti quando avevo una mezza giornata libera. Lavoravo per liberarmi dal lavoro, e mi ci adattavo con la triste consapevolezza, del paradosso.L'amore con le ragazze era roba del passato, e con l'amore restavano nel passato anche Haydee e Louis Shattuck, e le passeggiate serali. Non ne avevo il tempo. Mi feci socio della Henry Clay, e alcuni altri soci mi aprirono le porte di casa loro, dove conobbi belle ragazze con la gonnella che toccava il pavimento. In questi circoli privati si discuteva anche di poesia e di arte e di sfumature grammaticali. Mi iscrissi anche alla locale sezione socialista, dove si studiava e si predicava l'economia, la filosofia e la politica. Avevo cinque o sei tessere in tasca valide per la biblioteca pubblica, ciò che mi consentiva sterminate letture collaterali a quelle scolastiche.E per un anno e mezzo di seguito non bevvi nulla, né pensai di bere. Non ne avevo il tempo, e sicuramente non ne avevo l'inclinazione. Fra il mio lavoro di portiere, i miei studi, gli svaghi innocenti come gli scacchi, non avevo un momento libero. Stavo scoprendo un mondo nuovo, ed era tale la mia passione d'esplorare, che il vecchio mondo di John Barleycorn non aveva più alcuna lusinga su di me.Ma se ci ripenso, una volta entrai in un saloon. Andai a trovare Johnny Heinhold al suo locale «L'ultima occasione», e ci andai per chiedere soldi in prestito. E a questo punto ecco

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ricomparire John Barleycorn. I proprietari di saloon sono notoriamente gente simpatica. In media, compiono gesti generosi in misura assai più grande degli uomini d'affari. Quando mi servivano dieci dollari, ed ero alla disperazione, senza saper dove battere il capo, andavo da Johnny Heinhold. Diversi anni erano passati da quando ero stato al suo locale a spendere un soldo al bancone. E quando entravo a chiedere i dieci dollari in prestito, non chiedevo da bere. E Johnny Heinhold mi dava i dieci dollari senza garanzia e senza interessi.Più di una volta, nei brevi giorni di questa battaglia per la mia educazione, andai da Johnny Heinhold a chiedere i dieci dollari in prestito. Quando entrai all'università, gliene chiesi quaranta , senza interesse, senza garanzia, senza pagar da bere. Eppure - e qui ecco il punto, l'usanza, la regola - nei giorni della mia prosperità, dopo un lasso di anni, ho rinunciato ai miei principi, e di parecchio, per spendere al bancone di Johnny Heinhold gli interessi composti dei suoi vari prestiti. Non che Johnny Heinhold mi chiedesse di farlo, e s'aspettasse di vedermelo fare. Lo facevo, come ho detto, in obbedienza a una norma che avevo appreso assieme ad altre cose collegate a John Barleycorn. Un uomo alla disperazione, quando non sa in che altro posto andare, quando non ha neanche un pezzettino di garanzia che possa essere presa in considerazione dal cuore arido dell'usuraio può rivolgersi al proprietario del saloon di sua conoscenza. La gratitudine è intrinsecamente umana. Quando l'uomo che ebbe l'aiuto si ritrova con i soldi, state pur certi che una parte di quei soldi andrà spesa al bancone del proprietario di saloon che gli fu amico.Bene, rammento i primi giorni della mia carriera di scrittore, quando le prime piccole somme che mi guadagnavo collaborando alle riviste, giungevano con tragica irregolarità, mentre al tempo stesso io vacillavo sotto il peso di una famiglia in crescita - una moglie, i figli, una madre, un nipote e la mia Mamma Jennie e il suo vecchio marito caduto in malasorte. C'erano due posti dove potevo chiedere soldi in prestito: una bottega di barbiere e un saloon. Il barbiere me ne dava al cinque per cento al mese, interessi anticipati. Vale a dire, quando io prendevo in presto cento dollari, lui me ne dava subito novantacinque. Gli altri cinque dollari se li teneva come interessi anticipati per il primo mese. E al secondo mese io gli davo altri cinque dollari, e continuavo allo stesso modo ogni mese, finché non fosse arrivato l'assegno che mi permetteva di assolvere il debito.L'altro luogo in cui venivo quando mi trovavo nei guai era il saloon. Questo proprietario di saloon lo conoscevo di vista da un paio d'anni. Non avevo mai speso soldi nel suo locale, e anche quando prendevo danaro in prestito, non spendevo da lui. Eppure non mi rifiutò mai le somme che gli chiedevo. Purtroppo, dopo che io ebbi trovato il benessere, lui si era trasferito in un'altra città. E io continuo a rammaricarmi, che se ne sia andato. Questa la norma che ho appresa. La cosa giusta da fare, e la cosa che farei subito, se sapessi dov'è, sarebbe questa: capitare come per caso da lui e spendere qualche dollaro al bancone in segno di affetto e di gratitudine per il bene che mi volle allora.Con questo non voglio esaltare i proprietari di saloon. L'ho scritto per esaltare la potenza di John Barleycorn, e per illustrare un altro degli innumerevoli modi in cui un uomo entra in contatto con John Barleycorn, fino a quando si avvede di non poter andare più avanti senza di lui.Ma torniamo al mio racconto. Via dalla strada dell'avventura, immerso fino alle orecchie negli studi, ogni momento occupato, io vivevo scordando l'esistenza di John Barleycorn. Nessuno intorno a me beveva. Ma se qualche bevitore mi avesse offerto da bere, di sicuro avrei bevuto. Perciò, quando avevo un istante libero, lo occupavo giocando a scacchi, andando con belle fanciulle, che studiavano anche loro, e questo nonostante il mio lungo e severo apprendistato sotto John Barleycorn. Ero tornato dall'altra parte della vita a godermi la serenità arcadica di questi giovani e di queste ragazze di scuola. E anche avevo trovato la via per entrare nel regno della mente, ed ero ubriaco nell'intelletto. (Ahimé, lo dovevo imparare più avanti, anche l'ebbrezza intellettuale ha il suo "katzenjammer") (33.).

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22.

Tre anni era il tempo richiesto per passare tutta la scuola media. Io ero impaziente.Oltre tutto, andare a scuola stava diventando finanziariamente impossibile. A quel costo non avrei durato fino in fondo, ed avevo una gran voglia di andare all'università statale. Dopo ultimato il primo anno di scuola media, decisi di tentare una scorciatoia. Presi soldi a prestito e pagai per essere ammesso a una scuola privata, nell'ultima classe. Il mio programma era di prendere il diploma ed entrare alla università in capo a quattro mesi, risparmiando in tal modo due anni.E come sgobbai! Avevo due anni di nuovo lavoro da fare in un terzo di anno. Per cinque settimane sgobbai, fino a che le equazioni quadrate e le formule chimiche, combinandosi fra di loro, mi scendevano dalle orecchie. E poi il direttore della scuola mi prese da parte. Gli dispiaceva molto, ma si vedeva costretto a restituirmi la somma dell'iscrizione e a chiedermi di lasciare la scuola. Non era questione di rendimento scolastico. Andavo bene nei vari corsi, ed era sicuro che, assegnandomi il diploma, all'università avrei continuato a essere bravo. Il guaio è che correvano brutte voci sul mio conto. Cosa! In quattro mesi il lavoro di due anni! Sarebbe stato uno scandalo, e le università si stavano facendo più severe nel trattare le scuole preparatorie private. Non poteva permettersi un simile scandalo, perciò io dovevo fargli la cortesia di andarmene.Così feci. Restituii il prestito, strinsi i denti, e mi misi a studiare da solo. C'erano tre mesi prima che cominciassero gli esami di ammissione all'università. Senza laboratori, senza assistenza, seduto in camera mia, mi misi a comprimere due anni di materia in tre mesi di studio, e a ripassarmi quanto imparato l'anno prima. Studiavo diciannove ore al giorno. Per tre mesi tenni questo ritmo, cedendo solo in qualche caso. Il mio corpo era stanco, la mia mente era stanca, ma io resistevo. I miei occhi erano stanchi e cominciavano a cedere ma non si arresero. Forse, verso la fine, fui un poco rimbambito, perché so che a un certo punto ero sicuro di aver scoperto la formula della quadratura del cerchio; ma risolutamente ne rimandai l'esecuzione a dopo gli esami. Poi gliel'avrei fatta vedere, a quelli.Vennero i diversi giorni di esame, durante i quali non chiusi, o quasi, gli occhi per dormire, dedicando ogni momento allo studio e al ripasso. E quando ebbi consegnato il mio ultimo compito di esami, ero diventato un ottimo esempio di disfacimento cerebrale. Non volevo più vedere un libro. Non volevo pensare e non volevo posare gli occhi su qualsiasi persona che fosse capace di pensare.La cura per uno stato simile era una sola, e me la concessi, mettermi sulla strada dell'avventura. Non attesi neanche il risultato dei miei esami. Mi feci un rotolo di coperte e di mangime a secco, presi a prestito una barca e feci vela. Uscii dall'estuario dello Oakland sull'ultima ondata del riflusso mattutino, colsi il primo flusso fuor della baia, e filai ben dritto con una brezza sostenuta. La Baia di San Pablo fumava e fumavano gli Stretti di Carquinez e le Fonderie Selby, mentre procedevo lasciandomi sulla sinistra i vecchi segnali a terra che avevo imparato stando con Nelson a bordo del «Reindeer».Sorse dinanzi a me Benicia. Superai i cantieri Turner, doppiai il pontile di Solano, continuai lungo i tratti di erba palustre e i gruppetti di pescherecci, là dove un tempo avevo vissuto e bevuto, molto.E proprio qui mi successe una cosa, la cui gravità non dovevo scordare per molti anni a venire. Non avevo avuto alcuna intenzione di fermarmi a Benicia. Avevo la marea a favore, il vento era teso, splendida navigazione per un marinaio a vela. Già vedevo «Testa di Toro» e «Punti dell'Armata», che segnavano l'entrata nella Baia di Suisun, che io già sapevo fumante. Eppure, quando ebbi messo l'occhio su quei pescherecci fermi in mezzo alle erbe, senza indugio, all'istante, posai il timone, imbrogliai la vela e puntai verso terra. All'istante, da dietro quello sfacimento cerebrale, seppi quel che volevo. Volevo bere. Mi volevo ubriacare.La vocazione era imperiosa. Senza alcuna incertezza. Più di ogni altra cosa al mondo, la mia mente lacera, sfrangiata, voleva una tregua alla stanchezza nella maniera che sapeva sarebbe venuta la tregua. E il punto è proprio questo. Per la prima volta in vita mia, io consciamente, deliberatamente desiderai ubriacarmi. Era una manifestazione nuova, del tutto diversa, della potenza di John Barleycorn. Non era un bisogno corporeo di alcool. Era un desiderio mentale. La mia mente sovraffaticata, svanita, voleva dimenticare.E qui il punto si fa più acuto che mai. Pur concessa la mia enorme stanchezza mentale, se non avessi mai bevuto in passato, non mi sarebbe venuto in mente di ubriacarmi. Io che avevo

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cominciato con un'intolleranza fisica per l'alcool, e che per anni avevo bevuto solo per amore di amicizia e perché l'alcool era dovunque fosse la strada dell'avventura, adesso ero arrivato allo stadio in cui il mio cervello chiedeva non soltanto di bere, ma di ubriacarsi. E se non fossi stato da tempo avvezzo all'alcool, il mio cervello non l'avrebbe chiesto in quel modo. Avrei superato la «Testa di Toro», e il bianco fumante della Baia di Suisun, e nel vino del vento che mi gonfiava la vela e mi entrava in corpo, avrei dimenticato il mio cervello stanco, mi sarei riposato e rinfrescato.Così mi diressi a terra, in tutta fretta, e irruppi in mezzo ai pescherecci. Charley Le Grant mi abbracciò. Sua moglie Lizzie mi strinse al suo seno capace. Billy Murphy e Joe Lloyd, e tutti i sopravvissuti della vecchia guardia, mi si fecero attorno per abbracciarmi. Charley fece strada, verso il saloon di Jorgensen, oltre i binari della ferrovia. Dunque birra. Io volevo whisky, per questo gli gridai dietro di portare la fiaschetta.Molte volte quella fiaschetta viaggiò avanti e indietro sopra i binari della ferrovia. Altri vecchi amici dei vecchi tempi liberi e felici entrarono, pescatori, greci, russi e francesi. A turno pagavano da bere, per tutti. Andavano e venivano, ma io rimasi e volli bere con tutti. Tracannavo, m'ingozzavo, facevo scorrere l'alcool e godevo nel sentire il cervello che mi pigliava fuoco.E poi entrò «Arsella», socio di Nelson prima di me, bello come sempre, ma più inquieto, mezzo matto, anche lui ardente di whisky. Aveva appena litigato con il suo socio sulla «Gazelle», e avevano tirato fuori i coltelli, e c'era stata qualche botta, e ora lui voleva fare impazzire la febbre del ricordo con altro whisky. E mentre si beveva, ricordammo Nelson, e di come lui, proprio a Benicia, avesse disposto le sue vaste spalle al sonno della morte. E piangemmo al ricordo di lui, di lui ricordammo soltanto le cose buone, e mandammo a riempire la fiaschetta, per bere ancora.Volevano che restassi, ma dalla porta aperta vedevo il vento così forte e ne sentivo il rombo nelle orecchie. E mentre scordavo d'essermi immerso nei libri, diciannove ore al giorno, per tre settimane di seguito, Charley Le Grant cambiò la mia barca con un grosso battello per la pesca del salmone sul Fiume Columbia. Aggiunse carbone e fornello da pescatore, un bricco da caffè e una padella, e il caffè e la carne, e un persico nero, fresco, pescato quel giorno stesso.Dovettero aiutarmi a raggiungere il pontile e a salire a bordo. Mi sistemarono la vela. Alcuni ebbero paura di farlo, ma io insistei e Charley non ebbe alcun dubbio. Mi conosceva da parecchio tempo, e sapeva che io ero capace di veleggiare fino a che riuscissi a vedere. Impugnai il timone. Quelli mollarono la cima e con i miei occhi incerti io controllai e diressi la barca nella sua corsa e con una mano diedi loro l'addio.La marea era cambiata, ed essendo il vento assai forte, il mare era teso e ostile. La Baia di Suisun era bianca di rabbia e di schiuma. Ma una barca che va a pesca di salmone può farcela. Per questo affrontai la bufera, la traversai, ne fui fuori, urlando e cantando il mio sdegno contro i libri e le scuole. Qualche ondata mi fece imbarcare un palmo d'acqua, ma io risi a sentirmela sciaguattare intorno ai piedi, e cantai il mio sdegno contro il vento e l'acqua. Mi nominai da solo maestro di vita, a cavallo degli elementi scatenati, e con me cavalcava John Barleycorn. Fra dissertazioni sulla matematica e sulla filosofia e declamazioni e citazioni, io cantai tutte le vecchie canzoni apprese ai tempi in cui lasciai la fabbrica delle conserve per andare coi pirati ostricari, canzoni come «Black Lulu», «Flying Cloud», «Treat my Daughter Kind-i-ly», «The Boston Burglar», «Come all you Rambling, Gambling Men», «I wisht I was a Little Bird», «Shenoandoah» e «Ranzo, Boys, Ranzo».Ore dopo, coi fuochi del tramonto, dove il Sacramento e il San Joaquin fondono le loro acque limacciose, imboccai il Taglio di New York, passai accosto al Diamante Nero su quell'acqua calma stretta fra le terre, entrai nel San Joaquin, e via verso Antioch, dove, alquanto riavuto dall'alcool e magnificamente affamato, giacqui vicino a una barca che portava patate e che aveva qualcosa di familiare. Erano a bordo miei vecchi amici che mi cucinarono il persico nero, fritto nell'olio di oliva. Ma ci fu anche uno stufato di carne come lo san fare i marinai, delizioso d'aglio, e pane italiano dalla crosta croccante, senza burro, e tutto innaffiato con bicchieri da una pinta di denso chiaretto.La mia barca salmoniera era piena d'acqua, ma nella minuscola cabina di questa altra imbarcazione, addetta al trasporto delle patate, ebbi coperte e una cuccetta asciutta; e giacemmo fumando e vagheggiando i vecchi tempi, mentre sopra di noi il vento ululava fra le sartie e le drizze tese tamburellavano sull'albero maestro.

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23.

La mia crociera sulla barca salmoniera durò una settimana, e rientrai in tempo per andare all'università. Durante quella settimana evitai di bere. Per fare questo, ero costretto a non guardare in faccia i vecchi amici, perché come al solito la strada dell'avventura vedeva sempre all'erta John Barleycorn. Quel primo giorno avevo desiderato bere, ma nei giorni successivi non volli. Il mio cervello stanco si era ripreso. Non avevo in proposito scrupoli morali. Non mi vergognavo né mi pentivo, per via di quella orgia del primo giorno a Benicia, e anzi non ci pensavo più, tornando lietamente ai miei libri, ai miei studi.Sono passati lunghi anni prima che io ripensassi a quella giornata e ne intendessi l'importanza. A quei tempi, e per molto tempo ancora, mi era parsa una semplice baldoria. Ma più tardi, quando ricompariva in me quel disfacimento, quella stanchezza del cervello, io dovevo rammentare e conoscere il desiderio di quell'anodino che è l'alcool.Nel frattempo, dopo quest'unica ricaduta a Benicia, io ripresi il mio regime di astemio, soprattutto perché non volevo bere. E poi io ero astemio perché ora la mia strada passava fra libri e studenti, là dove non si beveva. Fossi stato sulla strada dell'avventura, è naturale che avrei bevuto. Perché la strada dell'avventura ha questo purtroppo, che è uno dei terreni di caccia preferiti da John Barleycorn.Ultimai la prima metà del mio anno di matricola e nel gennaio del 1897 cominciai a frequentare le lezioni della seconda metà. Ma il gran bisogno di danaro, e in più la convinzione che l'università non mi dava tutto quel che volevo nel tempo che ad essa potevo dedicare, mi costrinsero ad abbandonare. Non fui molto disilluso. Per due anni io avevo studiato e in questi due anni - cosa di gran lunga più importante - avevo fatto letture sterminate. E anche la mia grammatica aveva fatto progressi. Certo, alcune sfumature ancora mi sfuggivano, ma non mi rendevo più colpevole, scrivendo, di doppia negazione, anche se parlando animatamente poteva accadere che ci cadessi.Decisi immediatamente di affrontare la mia carriera. Avevo quattro grandi preferenze: la musica, poi la poesia, poi la saggistica filosofica, politica ed economica e finalmente la narrativa. Esclusi risolutamente la musica, perché impossibile, mi accomodai in camera e affrontai simultaneamente la mia seconda, terza e quarta scelta. Santo cielo, come scrivevo! Non ci fu mai febbre creativa come la mia, da cui il paziente possa uscire con risultati fatali. Lavoravo in un modo da rischiare di ammollirmi il cervello e finire al manicomio. Scrivevo, scrivevo dì tutto: saggi ponderosi, articoli scientifici e sociologici, versi umoristici, versi di ogni genere, dal sonetto alla tragedia all'epica in stanze spenseriane. A volte composi di continuo, giorno dopo giorno, per quindici ore al giorno. A volte mi scordai di mangiare, o mi rifiutai di staccarmi dalla mia appassionata produzione per mangiare.E poi c'era la faccenda dello scrivere a macchina. Mio cognato possedeva una macchina da scrivere che usava di giorno. Di notte ero libero di usarla io. Questa macchina era una meraviglia. Mi vien da piangere, adesso, se ripenso alle battaglie che feci con quella macchina. Doveva essere il modello uno dell'anno uno dell'era della macchina da scrivere. Le lettere eran tutte maiuscole. E aveva anche un carattere diabolico. Non obbediva ad alcuna legge nota della fisica e stravolgeva l'assioma secondo il quale cose simili compiute con cose simili danno risultati simili. Giuro che quella macchina non fece mai la stessa cosa alla stessa maniera. Più di una volta mi dimostrò che azioni dissimili producono risultati simili.Che mal di testa con quella macchina. Prima di questa esperienza, la mia schiena era stata buona per qualsiasi fatica impostale nella mia carriera tutt'altro che dolce. Invece la macchina da scrivere mi dimostrò che al posto della spina dorsale io avevo una cannuccia da pipa. Non solo, mise in dubbio anche le mie spalle. Dopo ogni scontro, mi dolevano dì reumatismi. I tasti di quella macchina bisognava batterli con tanta forza che a sentirla da fuor di casa sembrava un tuono lontano o il chiasso di qualcuno che sta sfasciando il mobilio. Dovevo battere sui tasti con tanta forza che le dita mi si riempivano di vesciche e il dolore mi arrivava fino al gomito. Se la macchina fosse stata mia l'avrei fatta funzionare con un martello da falegname.Il peggio era che io a un tempo battevo a macchina i miei manoscritti e dovevo fare i conti con quest'oggetto. Era un'impresa di resistenza fisica, e una tempesta del cervello, cui si univa la battitura di un migliaio di parole, e io componevo ogni giorno migliaia di parole che bisognava battere a macchina perché c'erano i direttori in attesa.Ah, fra scrivere e ribattere a macchina mi stancavo parecchio. Mi si disfacevano nervi e cervello, eppure non mi si presentava mai il desiderio del bere. Vivevo in un'atmosfera troppo alta per avere bisogno di un anodino. Tutte le mie ere di veglia, tranne quelle con l'infernale

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macchina da scrivere, passavano in un paradiso creativo. E oltre tutto io non provavo desiderio alcuno di bere perché ancora credevo in molte cose - nell'amore di tutti gli uomini e di tutte le donne, nella paternità, nella giustizia umana, nell'arte, insomma in tutte queste dolci illusioni che fanno girare il mondo.Ma gli editori in attesa decisero di continuare ad attendere. I miei manoscritti fecero viaggi straordinari, dall'Atlantico al Pacifico. Può darsi che fosse la stranezza della macchina da scrivere che impediva agli editori di accettare almeno una delle mie piccole offerte. Non so, e Dio sa se la roba che scrivevo era strana, come la scrittura della macchina. Vendevo i miei libri di scuola, comprati a caro prezzo, per somme ridicole ai rivenditori di libri usati. Prendevo in prestito piccole somme di danaro, dovunque potessi, e lasciavo che mio padre vecchio mi desse lui da mangiare coi poveri resti della sua forza cadente.Non durò molto, solo poche settimane, quando dovetti arrendermi e tornare al lavoro. Eppure non sentii alcun bisogno di bevute anodine. E neanche ero disilluso. La mia carriera era rinviata, ecco tutto. Forse mi ci voleva ancora un po' di preparazione. Avevo imparato dai libri quanto bastava per capire che io avevo appena sfiorato l'orlo della veste del sapere. Vivevo ancora in quest'alta atmosfera. Le mie ore di veglia, e la maggior parte di quelle che avrei dovuto dedicare al sonno, le passavo sui libri.

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24.

Fuori di città, all'Accademia Belmont, trovai lavoro in una lavanderia a vapore, piccola ma perfettamente attrezzata. Io e un altro facevamo tutto, dalla divisione al lavaggio alla stiratura di camicie bianche, colletti e polsini, e la «roba di fantasia» delle mogli dei professori. Si lavorava come due tigri, specialmente con l'avanzare dell'estate quando gli alunni dell'accademia cominciavano a mettersi i pantaloni di tela bianca. Ce n'erano tante paia! Ci passavano sudando lunghe settimane roventi, a un lavoro che non finiva mai; e non una notte soltanto, mentre gli studenti sonnacchiavano nei loro letti, il mio compagno e io continuammo a faticare, sotto la luce elettrica, alla macchina a vapore e al tavolo da stiro.Le ore erano lunghe, il lavoro molto duro, anche se noi eravamo presto diventati maestri nell'arte di eliminare i movimenti in più. Mi davano trenta dollari al mese più la pensione - leggero miglioramento rispetto ai tempi dello spalar carbone e della fabbrica di conserva, almeno nella misura della pensione, che costava poco al mio principale (si mangiava in cucina), ma che per me era l'equivalente di venti dollari al mese. La mia forza, fattasi più salda col passare degli anni, la mia maggiore abilità, e tutto quel che avevo imparato dai libri, ecco la ragione di questo aumento di venti dollari. Giudicando dal mio ritmo di crescita, potevo sperare, prima della morte, di diventare guardiano notturno a sessanta dollari mensili, oppure poliziotto a cento dollari effettivi, contando anche le «mance».Il mio compagno ed io ci buttavamo sul lavoro con tanto zelo, per tutta la settimana, che alla domenica eravamo due rottami. Io mi ritrovavo nelle solite, ben note condizioni di bestia da lavoro, a faticare più di quanto toccasse a un cavallo, e pensando poco più di quel che possa pensare un cavallo. Per me i libri erano chiusi. Me n'ero portata una cassa alla lavanderia, ma mi accorsi di non poterli leggere. Mi addormentavo nel momento stesso in cui tentavo di leggere; e se anche riuscivo a tenere gli occhi aperti per diverse pagine, di queste pagine non tenevo a mente il contenuto. Rinunciai a ogni tentativo di studi seri, come la giurisprudenza, l'economia politica e la biologia, e tentai roba meno pesante, come per esempio la storia. Mi addormentavo. Provai con la letteratura. Mi addormentavo. E finalmente, quando vidi che mi addormentavo persino su un romanzo, rinunciai. Per tutto il tempo che rimasi alla lavanderia, non mi riuscì di leggere un libro.E quando veniva la sera del sabato, e il lavoro era finito sino al lunedì mattina, non conoscevo altro desiderio oltre quello del sonno, e cioè il desiderio di ubriacarmi. Era la seconda volta in vita mia che sentivo l'infallibile richiamo di John Barleycorn. La prima volta era stata al tempo del disfacimento cerebrale. Ma stavolta non era stato il cervello a essere sovraffaticato. Al contrario, io avvertivo soltanto l'ottusità di un cervello che non ha lavorato affatto. Questo il guaio. Il mio cervello si era avvezzo a stare desto, pronto, ravvivato dalla meraviglia del nuovo mondo che gli avevan rivelato i libri, e ora soffriva la miseria della stagnazione, dell'inazione.E io, vecchio amico di John Barleycorn, sapevo quello che lui mi prometteva - larve di fantasia, sogni di potenza, oblio, ogni cosa, qualunque cosa tranne che le lavatrici rotanti, le maniglie in movimento, il ronzio degli strizzatori centrifughi, e l'amido e il traffico sempre eguale dei pantaloni di tela bianca che si muovevano vaporando sotto il mio ferro da stiro. John Barleycorn si rivolge sempre alla stanchezza, allo sfinimento. Egli è la facile via d'uscita. E mentisce, sempre. Offre al corpo una forza falsa, una falsa elevazione allo spirito, e fa sembrare le cose quello che non sono, di gran lunga più belle di quelle che sono.Ma non bisogna dimenticare che John Barleycorn è multiforme. Oltre che alla debolezza e allo sfinimento, egli si rivolge anche alla forza eccessiva, alla vitalità sovrabbondante, alla noia della pigrizia. Può prendere sotto braccio l'uomo con qualsiasi stato d'animo. Può gettare la rete del suo fascino su tutti gli uomini. Scambia una luce vecchia con una nuova, lo scintillio dell'illusione con la durezza della realtà, e alla fine imbroglia tutti quelli che hanno traffico con lui.Ma io non mi ubriacavo, per il semplice motivo che il saloon più vicino distava un miglio e mezzo. E questo poteva accadere perché il richiamo all'alcool non era così forte da raggiungere le mie orecchie. Se fosse stato più forte, avrei percorso dieci volte quella distanza per arrivare a un saloon. D'altro canto, se il saloon fosse stato lì all'angolo, io mi sarei ubriacato. Stando così le cose, la domenica mi stendevo all'ombra e mi trastullavo con i giornali domenicali. Ma ero troppo stanco, persino per questa robetta. A volte uno sguardo ai fumetti poteva far sorgere sulle mie labbra un pallido sorriso, e quindi mi addormentavo.Anche se non cedetti a John Barleycorn durante il periodo del lavoro alla lavanderia, s'era

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prodotto in me un certo risultato definitivo. Avevo sentito la vocazione, provato il morso del desiderio, desiderato l'anodino. Mi stavo preparando al desiderio ancor più forte degli anni a venire.E il fatto è che l'evolversi del desiderio avveniva tutto dentro il mio cervello. Il mio corpo non chiedeva alcool. Anzi, al solito, l'alcool repelleva al mio corpo. Quando il mio corpo era stanco di spalare, il pensiero di bere non era mai balenato alla mia coscienza. Quando invece era stanco il cervello, dopo quell'esame di ammissione all'università, subito mi ubriacai. Alla lavanderia pativo ancora una volta lo sfinimento fisico, e lo sfinimento fisico non era poi profondo come quello provato spalando carbone. Ma c'era una differenza. Quando andai a spalar carbone, la mia mente non si era ancora destata. Fra quell'epoca e il periodo della lavanderia, la mia mente aveva scoperto il reame della mente. Quando lavoravo al carbone la mia mente sonnecchiava. Quando lavoravo alla lavanderia, la mia mente, informata e avida di fare e di essere, si sentiva crocifissa.E sia che cedessi al desiderio di bere, come a Benicia, sia che me ne astenessi, come alla lavanderia, nel mio cervello erano ormai gettati i semi dell'alcool.

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Dopo la lavanderia mia sorella e suo marito mi trascinarono nel Klondike.Era la prima corsa all'oro in quella regione, ai primi dell'autunno del 1897. Avevo ventun anni, ero in ottima condizione fisica. Rammento, alla fine di una tappa di ventotto miglia attraverso il Chilcoot, dalla Baia di Dyea al Lago Lindermann, io facevo il carico con gli indiani e superavo molti di loro. L'ultimo tratto per arrivare al Lago Lindermann era di tre miglia. Lo facevo tre volte al giorno, e ogni volta il carico era di centocinquanta libbre. Ciò vuol dire che, nei tratti peggiori, io percorrevo ogni giorno ventiquattro miglia, dodici delle quali sotto un carico di centocinquanta libbre.Sì, avevo lasciato perdere la carriera, e di nuovo eccomi sulla strada dell'avventura a cercare fortuna. E naturalmente, sulla strada dell'avventura incontrai John Barleycorn. Rieccoli, gli omaccioni, gli avventurieri, quelli che sopportavano la fame nera, ma non la mancanza di whisky. Lo whisky seguiva la carovana, mentre la farina restava intatta da un canto.La buona sorte volle che i tre uomini del mio gruppo non fossero bevitori. Perciò io non bevevo, tranne in qualche rara occasione e sfortunatamente quando ero in compagnia di altri uomini. Nella mia privata cassetta dei medicinali avevo un quarto di whisky. La stappai soltanto dopo sei mesi, in un accampamento solitario dove, senza anestetico, un medico fu costretto a operare un uomo. Fra medico e paziente vuotarono la bottiglia e poi cominciò l'operazione.Tornato in California l'anno dopo, per rimettermi dallo scorbuto, trovai che mio padre era morto e che ero io il capo che doveva trovare il pane per tutta la famiglia. Quando vi dico che avevo spalato carbone su un vapore dal Mar di Behring alla Columbia Britannica, e poi viaggiato in camerone da lì a San Francisco, capirete che dal Klondike io non portai altro che lo scorbuto.I tempi erano duri. Difficile trovare lavoro, di qualsiasi genere. E lavoro di qualsiasi genere era proprio quel che dovevo rassegnarmi ad accettare, perché io continuavo a essere non specializzato. Alla carriera non pensavo più. Con quella era chiuso. Dovevo trovar da mangiare per due bocche, oltre la mia, e mettere loro un tetto sul capo - sì, e comprare un vestito per l'inverno, perché il mio unico vestito era decisamente estivo. Dovevo trovarmi un qualche lavoro, immediatamente. Dopo, appena ripreso fiato, avrei potuto mettermi a pensare al futuro.Tocca proprio ai lavoratori non specializzati sentire per primi i tempi difficili, e io non avevo altro mestiere che quello del marinaio, e del lavandaio. Con le mie nuove responsabilità non osavo mettermi per mare, e non riuscivo a trovare un posto in lavanderia. Anzi, non riuscivo a trovare un posto qualsiasi. Avevo il mio nome in cinque uffici di collocamento. Misi un annuncio economico su tre giornali. Cercai i pochi amici che sapevo in grado di trovarmi da lavorare; ma nessuno riuscì a contentarmi, alcuni perché non se ne interessarono, altri perché proprio non potevano.La situazione era disperata. Impegnai l'orologio, la bicicletta e un cappotto di cui mio padre era stato molto fiero e che mi aveva lasciato. Costava quindici dollari, e l'uomo del monte me ne diede due. E poi, ah sì, un vecchio amico del porto, dei vecchi tempi, capitò da me un giorno con un vestito involto in un giornale. Non seppe darmi sufficiente spiegazione di come era giunto a entrarne in possesso, né insistetti per avere spiegazione. Il vestito lo prendevo io. No, non per indossarlo. Lo barattai con diversa robaccia che non mi serviva, non potendosi impegnarla. Riuscii a cavarci qualche dollaro, e per il mio vestito ebbi dal monte cinque dollari. E per quanto ne so io, il vestito è ancora lì al monte. Non sono mai più tornato a riscattarlo.Ma non riuscivo a trovare lavoro. Eppure sul mercato del lavoro io ero un buon affare: avevo ventidue anni, pesavo centosessantacinque libbre, al netto, e ogni libbra era eccellente per il lavoro; le ultime tracce dello scorbuto scomparivano grazie a una cura di patate, mangiate crude. Non lasciai intentata alcuna apertura di lavoro. Cercai di fare da modello ad artisti, ma c'erano fin troppi giovani disoccupati di bella corporatura. Risposi agli annunci di signori anziani e invalidi bisognosi di compagnia. E quasi diventai venditore di macchine da cucire, a percentuale, senza salario. Ma la gente povera non compera macchine da cucire quando i tempi sono duri, così fui costretto a lasciar perdere quello impiego.Naturalmente bisogna rammentare che accanto a queste occupazioni io cercai di lavorare anche come scaricatore di porto. Ma si avvicinava l'inverno e i braccianti in eccesso si riversavano sulle città. E poi io, che avevo girato il mondo senza curarmi di nulla ed ero

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entrato nel reame della mente, non appartenevo ad alcun sindacato.Tentai con i mestieri più strani. Lavoravo a giornata, a mezza giornata, a quello che capitava. Falciavo prati, potavo siepi, sbattevo tappeti che avevo preso nelle case e ce li riportavo. Poi feci gli esami per entrare nei servizi postali, vinsi ma, ahimé, non c'erano posti liberi, e dovevo attendere. E mentre aspettavo, fra un lavoretto e l'altro che riuscivo a trovarmi, cominciai a guadagnare dieci dollari scrivendo per un giornale il resoconto di un viaggio da me fatto sopra una scialuppa sul fiume Yukon, millenovecento miglia in diciannove giorni. Non sapevo nulla di giornalismo, ma avevo fiducia di ottenere dieci dollari per il mio articolo.Invece no. Il primo giornale di San Francisco a cui lo mandai, neanche accusò ricevuta del manoscritto, ma se lo tenne. Più se lo teneva, più io ero certo che la mia roba l'avrebbero accettata.Ed ecco qua la cosa buffa. Alcuni nascono per fare fortuna, ad altri la fortuna cade addosso. Ma nel caso mio fui sbattuto dentro la fortuna, come con una mazzata, e fu l'amata necessità a vibrare quel colpo di mazza. Da tempo avevo abbandonato l'idea di farmi una carriera scrivendo. Era mia sincera intenzione guadagnare dieci dollari scrivendo quell'articolo. Era questo il limite della mia intenzione. Mi avrebbe aiutato a tirare avanti, mentre continuavo a cercarmi un lavoro sicuro. Se si fosse liberato un posto ai servizi postali, io mi ci sarei precipitato.Ma il posto libero non ci fu, né ci fu un lavoro fisso; e occupai il tempo fra un lavoretto e l'altro scrivendo una storia a puntate per lo "Youth's Companion". Lo scrissi e lo battei a macchina in sette giorni. Credo che fosse il suo difetto, perché me lo restituirono.Ci volle qualche tempo, fra andare e venire, e frattanto mi provai la mano a scrivere racconti. Ne vendetti uno, per cinque dollari, all'"Overland Monthly". Il "Black Cat" me ne diede quaranta per un altro racconto. L'"Overland Monthly" mi offrì sette dollari e mezzo, pagamento alla pubblicazione, per tutti i racconti che riuscivo a sfornare. Riscattai la bicicletta, l'orologio e il cappotto di papà e presi a nolo una macchina da scrivere. Inoltre pagai i conti a diversi negozi che mi avevano fatto un po' di credito. Ricordo un bottegaio portoghese, il quale non aveva mai permesso che il mio conto andasse oltre i quattro dollari. Hopkins, altro bottegaio, non tollerava che sì oltrepassassero i cinque dollari. E proprio allora mi venne la chiamata dall'ufficio postale, c'era lavoro. Ciò mi metteva a una scelta molto difficile. Che cosa dovevo fare? E non scorderò mai il direttore delle poste a Oakland. Risposi alla sua chiamata, e gli parlai da uomo a uomo. Gli dissi francamente la mia situazione. L'occasione era buona, ma non sicura. Ora, se lui era disposto a saltarmi, e scegliere l'uomo che mi seguiva, negli elenchi degli aspiranti in attesa, per chiamarmi non appena si presentasse ancora un posto libero...Ma lui mi chiuse la bocca con un secco: «Allora, tu questo posto lo vuoi?»«Ma certo», protestai. «Capisce, se lei per questa volta me la lascia passare...».«Se vuoi il posto prenditelo», disse freddamente.Per mia fortuna, la maledetta brutalità di quest'uomo mi fece venire rabbia.«Benissimo», dissi, «Non lo prendo».

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Bruciate le mie navi, mi buttai a scrivere. Temo di essere sempre stato un estremista. Bene o male c'ero arrivato - a scrivere, a battere a macchina, a studiare la grammatica, a studiare la scrittura e le varie forme di scrittura, a studiare gli scrittori di successo per scoprire in che modo avevano avuto successo. Riuscivo a dormire appena cinque ore su ventiquattro, e poco ci mancava che lavorassi tutte quante le diciannove ore della veglia. Il mio lume era acceso fino alle due, fino alle tre del mattino, ciò che indusse una mia buona vicina a fare certe deduzioni da Sherlock Holmes in gonnella. Non vedendomi mai durante il giorno, concluse che io ero giocatore d'azzardo e che il lume alla finestra lo metteva mia madre per guidare verso casa il figlio sviato.Il guaio per un principiante, nel campo dello scrivere, sono i lunghi periodi di secca, senza assegno dell'editore e senza più nulla da impegnare. Per buona parte dell'inverno portai il mio abito estivo, e nell'estate seguente incontrai i più lunghi periodi di magra: il periodo in cui la gente stipendiata è in vacanza e i manoscritti giacciono sul tavolo delle redazioni fino a che non siano terminate le vacanze.Le mie difficoltà dipendevano anche dal fatto che non c'era nessuno a consigliarmi. Non conoscevo una persona che avesse scritto, o che almeno avesse tentato di scrivere. Non conoscevo neanche un giornalista. Inoltre, per riuscire nel campo dello scrivere, scoprii che dovevo dimenticare tutto quello che mi avevano insegnato i professori di letteratura alla scuola media e all'università. Questo fatto mi sdegnava molto, allora; ma oggi posso capire. Negli anni 1895 e 1896 non insegnavano i trucchi per aver successo nello scrivere. Sapevano tutto di «Snow Bound» e di «Sartor Resartus», ma questa roba non piaceva egli editori americani del 1899. Volevano roba del 1899, e offrivano di pagare bene per averla, tanto bene che i professori di letteratura avrebbero abbandonato i loro posti e avrebbero pensato loro a fornirla, quella roba. Tiravo avanti con fatica, feci debito col macellaio e col droghiere, impegnai la bicicletta e l'orologio e il cappotto di papà, e lavoravo. Lavoravo sul serio, e continuavo a dormire poco. Certi critici hanno lamentato la sveltezza con cui un mio personaggio, Martin Eden, si fa un'educazione. In tre anni, da marinaio, con alle spalle soltanto le scuole elementari. diventa scrittore di successo. Quei critici dicono che è impossibile. Eppure Martin Eden ero io. Alla fine dei tre anni di lavoro, due dei quali passati alla scuola media e all'università, e uno passato a scrivere, e tutti e tre a studiare immensamente, intensamente, io pubblicavo racconti in riviste come lo "Atlantic Monthly", stavo correggendo le bozze del mio primo libro, pubblicato dalla Houghton, Miffin Co., vendevo articoli di sociologia al "Cosmopolitan" e al "Mc Clure's", avevo rifiutato una condirezione offertami per telegrafo da New York City, e stavo per prendere moglie.Ebbene, la cosa che ho detto significa lavoro, specialmente nell'ultimo anno, quando imparavo il mio mestiere di scrittore. E in quell'anno mancandomi il sonno e spremendomi il cervello al massimo, io non bevvi e neanche ebbi voglia di bere. Per quel che mi riguardava, l'alcool non esisteva. Di tanto in tanto il cervello mi andava in sfacelo, ma non una volta l'alcool mi si propose come una panacea. Santo cielo! Il sì e l'assegno dell'editore, ecco la sola panacea di cui avevo bisogno. La busta sottile di un editore, con la posta del mattino era più stimolante di cinque o sei cocktail. E se dalla busta usciva un assegno di quantità decente, un fatto simile era, da solo, come una sbornia.E poi, a quell'epoca della mia vita non sapevo che cosa fosse un cocktail. Rammento che quando fu pubblicato il mio libro, diversi amici dell'Alaska, che appartenevano al Circolo della Bohème, una sera mi invitarono da loro a San Francisco. Ci mettemmo seduti su certe meravigliose poltrone di pelle, e si ordinò da bere. Io non avevo mai sentito ordinar da bere in quel modo, liquori, whisky con ghiaccio e acqua di soda, di particolari marche. Non sapevo proprio nulla, ignoravo persino il significato della parola «scotch». Io conoscevo solo roba da povera gente, quello che si beveva alla «frontiera»e nelle città dei marinai - birra da pochi centesimi, whisky da pochi centesimi, che si chiamava soltanto whisky e niente altro. M'imbarazzava scegliere, e il maggiordomo per poco non svenne quando chiesi chiaretto, come se fosse un dopocena.

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Con il successo delle cose che scrivevo, migliorò il mio livello di vita e mi si allargò l'orizzonte. Mi limitavo a scrivere e poi battere a macchina un migliaio di parole al giorno, comprese le domeniche e le altre feste; e continuavo a studiare sodo, ma non come prima. Mi permettevo cinque ore e mezzo di sonno effettivo. Questa mezz'ora in più me la permisi perché ci fui costretto. Il successo finanziario mi dava più tempo libero per fare del moto. Andavo in bicicletta, soprattutto perché la bicicletta non stava più al monte; tiravo di boxe e di scherma, camminavo sulle mani, saltavo in alto e in lungo, facevo corse e lanci, nuotavo. E mi accorsi che ci vuole più sonno per l'esercizio fisico che per quello mentale. In certe notti di stanchezza corporea io dormivo anche sei ore; e in qualche raro caso di moto assai intenso, arrivai alle sette ore. Ma non erano frequenti simili orge di sonno. C'erano tante cose da imparare, tante cose da fare, che mi sentivo in colpa a dormire sette ore. E benedivo l'inventore delle sveglie.E ancora, nessun desiderio di bere. Credevo in troppe cose belle, vivevo a un livello troppo alto. Ero socialista, volevo salvare il mondo, e l'alcool non poteva darmi i fervori che mi venivano dalle idee e dagli ideali. La mia voce, in seguito al successo delle cose da me scritte, contava di più, o almeno io lo pensavo. In ogni modo, la mia reputazione di scrittore mi portava un pubblico che la mia fama di oratore non avrebbe di sicuro attratto. Mi invitavano circoli e organizzazioni di ogni genere, perché esponessi il mio messaggio. Combattevo per la causa giusta, e continuavo a studiare e a scrivere, ed ero sempre in faccende.Sinora avevo avuto una cerchia assai ristretta di amici. Ma adesso cominciavo a muovermi. Mi invitavano, specialmente a cena; e mi feci molti amici e conoscenti la cui vita economica era più facile della mia. E molti di costoro bevevano. Nelle loro case bevevano e mi offrivano da bere. Non erano ubriaconi, nessuno. Solo, bevevano con parsimonia, e con parsimonia io bevevo in mezzo a loro, come un atto di amicizia e di bene accolta ospitalità. Non me ne importava nulla, non volevo sapere se mi piacesse o no, e la cosa mi faceva così poca impressione che non rammento quando fu il mio primo cocktail o il mio primo Scotch con ghiaccio e soda.Be', avevo una casa. Quando uno viene invitato a casa altrui, naturalmente invita gli altri a casa sua. Attenzione al livello di vita, quando cresce. Siccome mi avevano offerto da bere in casa altrui, non potevo attendermi altro che questo, offrire io da bere, in casa mia. Per questo mi feci una provvista di birra e di whisky e di chiaretto. E mai dopo di allora la mia casa è rimasta sfornita.Eppure, in tutto questo periodo, non m'importava nulla di John Barleycorn. Bevevo quando bevevano gli altri, e con loro, come un gesto di compagnia. E avevo così scarsa scelta in proposito che bevevo qualunque cosa bevessero loro. Se sceglievano whisky, whisky anche per me. Se bevevano birra o sarsaparilla, bevevo birra e sarsaparilla con loro. E quando non c'erano amici in casa, be', allora non bevevo niente. C'erano sempre caraffe di whisky nella stanza dove scrivevo, e per mesi e anni ignorai persino che roba fosse, da solo, bersi un bicchiere.Quando andavo fuori a cena, notavo il fascino cortese, simpatico, dell'aperitivo. Mi sembrava una cosa opportuna e graziosa. Eppure, ne sentivo così poco bisogno, nel mio stato di alta, intensa vitalità, che quando mangiavo solo mai mi parve che valesse la pena di bere, prima, un cocktail.D'altro canto, rammento bene un uomo assai brillante, un poco più anziano di me, che qualche volta veniva a trovarmi. Gli piaceva il whisky, e rammento di averlo visto seduto interi pomeriggi in casa mia, e insieme si beveva alacremente, bicchiere contro bicchiere, fino a che lui diventava lievemente brillo e io ero lievemente consapevole di aver bevuto whisky. Dunque, perché facevo questo? Non so. So soltanto che la vecchia scuola era ancora valida, l'avvezzamento dei vecchi giorni e delle vecchie notti, bicchiere in mano in mezzo agli uomini, i modi del bere e dei bevitori.E poi non avevo più paura di John Barleycorn. Il mio era lo stadio più pericoloso, quando un uomo crede di aver dominato John Barleycorn. Lo avevo dimostrato, con mia soddisfazione, nei lunghi anni di lavoro e di studio. Potevo bere quando lo volessi, trattenermene quando volessi, bere senza ubriacarmi, e oltre tutto ero perfettamente consapevole che quella roba non mi piaceva. In questo periodo bevvi esattamente per le stesse ragioni per cui avevo bevuto con Scotty e con l'arpioniere e coi pirati ostricari - perché era un atto compiuto dagli uomini coi quali volevo comportarmi da uomo. Questi uomini brillanti, questi avventurieri della

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mente, bevevano. Benissimo. Non c'era alcun motivo, per cui dovessi non bere con loro - io che sapevo con tanta sicurezza di non aver nulla da temere da John Barleycorn.E questo fu per anni il mio atteggiamento mentale. Di tanto in tanto restavo un poco brillo, ma erano casi rari. Intralciavano il mio lavoro, e io non consentivo a niente di intralciare il mio lavoro. Rammento, quando trascorsi diversi mesi nello East End di Londra, e in quel periodo scrissi un libro, e bazzicai molto fra la gente peggiore degli slums, mi ubriacai diverse volte e provai una gran rabbia contro me stesso perché questo intralciava il mio scrivere. Eppure quelle volte successe perché io avevo di nuovo imboccato la strada dell'avventura, dove sempre si trova John Barleycorn.E anche allora, con la sicurezza del lungo avvezzamento e della dissacrata intimità, mi accadde di bere in mezzo agli uomini. Certo, fu sulla strada dell'avventura in varie parti del mondo, ed era una questione d'orgoglio. E' strano l'orgoglio virile che porta un uomo a bere con gli uomini per dimostrare che la sua testa è forte come la loro. Ma questo strano orgoglio virile non è teoria. E' un fatto.Per esempio, una banda scatenata di giovani rivoluzionari mi invitò come ospite d'onore a una bevuta di birra. Era la prima volta che assistevo a un rito simile. Nel ricevere l'invito io ignoravo l'interiorità della faccenda. Immaginavo discorsi scatenati, a voce alta, immaginavo che qualcuno avrebbe bevuto più del dovuto, e che io invece avrei bevuto con discrezione. Ma a quanto pare queste sedute di bevitori di birra erano una specie di diversione per questi giovani dallo spirito acceso, al fine di scacciar via il tedio dell'esistenza canzonando persone che contavano più di loro. Seppi poi che un altro, precedente loro ospite d'onore, un giovane radicale assai brillante, ma disadatto al bere, rimase malconcio.Quando mi trovai in mezzo a loro, e capii la situazione, sorse quello strano orgoglio virile. Gliel'avrei fatto vedere io, giovani ribaldi. Gliel'avrei fatto vedere io chi aveva stomaco, chi aveva vitalità, costituzione, testa, quello capace di far più di tutti il maiale senza darlo a vedere affatto. Questi cuccioletti che credevano di battermi al bere.Capite, era una prova di resistenza, e a nessuno piace arrivare secondo. E poi era birra da quattro soldi. Io conoscevo birre ben migliori. Erano anni che non bevevo di quella birraccia; ma l'avevo bevuta, e in compagnia di uomini, e pensavo di poter dimostrare a questi giovinastri una certa abilità nell'ingozzarmi di birra. E si attaccò a bere, e io dovetti bere al livello dei migliori. Altri potevano dire basta, ma all'ospite d'onore non era lecito dir basta.E tutte le mie notti austere al lume del petrolio, tutti i libri che avevo letto, tutta la saggezza che avevo raccolto, cedettero il posto alla scimmia e alla tigre nascoste dentro di me, e le due belve si stanarono dall'abisso della mia eredità, ataviche, pronte alla lotta, brutali, ingorde di forza e di desiderio di vincere nella degradazione la creatura più degradata.E quando la seduta finì io ero ancora in piedi, e me ne andai, diritto, senza barcollare, ciò che i miei ospiti non possono dire di sé. Ne rammento uno sdegnato, in lacrime, piangeva nell'osservare che io non ero ubriaco. Neanche si sognava la morsa di ferro, formatasi nel lungo avvezzamento, con cui io m'aggrappavo alla coscienza nel mio cervello barcollante, e serbavo il controllo dei muscoli e delle nausee, serbavo la voce normale e facile, e i pensieri conseguenti e logici. Sì, e oltre a tutto dentro di me io ghignavo. Non erano riusciti a mettermi in ridicolo con quella loro bevuta. Ed ero fiero di me stesso, per questo risultato. Accidenti, ne son fiero anche oggi, tanto strana è la composizione di un uomo.Ma la mattina dopo non scrissi le mie mille parole. Ero schifato, avvelenato. Fu una giornata straziante. Nel pomeriggio dovevo parlare in pubblico. Parlai, e il mio discorso, ne son certo, fu brutto come io lo sentii. Alcuni dei miei ospiti della sera prima eran lì, nelle prime file, a vedere se ne davo segno. Non so che cosa abbiano visto, ma so invece quel che vidi io in faccia a loro e mi consolò constatare che stavano male almeno quanto me.Mai più, giurai. E non mi accadde più di lasciarmi prender in una di queste sbevazzate li birra. Anzi per quanto mi riguarda, quella fu la mia ultima sbevazzata in assoluto. Ah, dopo di allora ho bevuto, ma con più saggezza, con più discrezione, e mai con lo spirito della gara. E' così che si stagiona il bevitore stagionato.Per dimostrare che in questo periodo della mia vita il bere era una faccenda esclusivamente di cameratismo, rammento la traversata dell'Atlantico a bordo del vecchio «Teutonic». Il caso volle che fin dall'inizio facessi amicizia con un telegrafista inglese e con un giovane dipendente d'una casa di spedizioni spagnola. Ora, questi due bevevano una cosa sola, il cosiddetto «horse's neck» - cioè il collo di cavallo, vale a dire una bibita lunga, dolce, fresca, con a galla una buccia di mela o di arancia. E per tutto il viaggio io bevvi questo, in compagnia di loro. Da questo non si deve concludere semplicemente che la mia fu debolezza. Non me ne importava

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nulla, non ne facevo una questione morale. Ero forte della mia giovinezza, non avevo paura, e l'alcool era una storia del tutto trascurabile, per quanto mi riguardava.

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Non ero ancora pronto a prendere a braccetto John Barleycorn. Quanto più crescevo, quanto maggiore il mio successo, quanto più guadagnavo, quanto più s'ingrandiva il mondo che riuscivo a dominare, tanto maggiore era lo spazio occupato nella mia vita da John Barleycorn. Eppure avevo di lui una conoscenza appena appena accennata. Bevevo per amore di compagnia, e da solo non bevevo mai. A volte diventavo brillo, ma questo a me pareva un prezzo lieve da pagare, per la compagnia.Per dimostrare quanto poco maturo ero io per John Barleycorn dirò che a questa epoca, proprio mentre mi stavo calando nel pantano della disponibilità, non mi sognai una volta di chiedere aiuto a John Barleycorn. Avevo avuto guai nella vita, guai di cuore che non figurano in quello che sto scrivendo. Ma a essi si univano guai di tipo intellettuale che sono veramente pertinenti.La mia era un'esperienza insolita. Avevo letto troppa scienza positiva, vissuto troppa vita positiva. Nell'ansia della giovinezza avevo commesso il vecchio sbaglio di perseguire con tanta insistenza la Verità. Le avevo strappato di dosso i veli, avevo perso la mia bella fede in quasi ogni cosa, tranne l'umanità, e l'umanità, in cui serbavo la mia fede era davvero un'umanità molto dura.Questa lunga malattia di pessimismo la conosciamo troppo bene quasi tutti, per insisterci sopra nei particolari. Basti dire che per me fu molto brutta. Meditai freddamente il suicidio, come poteva farlo un filosofo greco. Il mio solo rammarico era questo: troppe persone dipendevano direttamente da me per il cibo e il tetto, non potevo smettere di vivere. Ma questo era mero moralismo. Quello che mi salvò fu una ultima residua illusione: il POPOLO.Le cose per cui m'ero battuto e avevo bruciato il petrolio delle mie nottate, m'eran venute meno. Il successo, lo disprezzavo. Il riconoscimento dei miei meriti, ceneri spente. La società, gli uomini e le donne al disopra della ciurmaglia del porto e del castello di prua, ebbene, mi sbalordiva la loro sgraziata mediocrità mentale. L'amore d'una donna, era come tutto il resto. Il danaro, potevo dormire in un letto solo, e a che serviva guadagnare cento bistecche al giorno, se potevo mangiarne una sola? L'arte, la cultura, dinanzi ai ferrei fatti della biologia, queste cose erano ridicole, e più ridicoli ancora erano gli esponenti di queste cose.Da questo si capisce quanto stessi male. Ero un combattente nato. Le cose per cui m'ero battuto adesso mi apparivano indegne della mia lotta. Restava il POPOLO. La mia battaglia era finita, eppure restava qualcosa per cui battersi, il POPOLO.Ma mentre scoprivo quest'ultimo legame che mi teneva stretto alla vita, nel profondo della mia disponibilità le mie orecchie erano sorde a John Barleycorn. Neanche il più remoto sussurro sorgeva nella mia coscienza, che l'anodino era lui, John Barleycorn, che lui potesse, con le sue menzogne, aiutarmi a vivere. Un'altra cosa dominava semmai i miei pensieri, la rivoltella, il buio eterno, squassato di una pallottola. C'era whisky in abbondanza a casa mia, per gli ospiti. Io non lo toccai, mai. Mi venne paura della rivoltella - sì paura, nel periodo in cui si formava nella mia mente e nella mia volontà l'immagine radiante del POPOLO. Talmente ossessivo era il desiderio di morire che temevo di commettere il gesto durante il sonno, e fui costretto a dar via la rivoltella, ad altri, che la nascondessero là dove la mia mano subconscia non potesse trovarla.Ma il POPOLO mi salvò. Il POPOLO mi ammanettò alla vita. Restava in me la forza di combattere un'altra battaglia, ed ecco la cosa per cui battermi. Buttai al vento ogni precauzione, mi lanciai con zelo anche più fiero nella lotta per il socialismo, risi degli editori e dei direttori che mi mettevano sull'avviso, e che erano la sorgente delle mie cento bistecche quotidiane, e brutalmente non badai ai sentimenti che potevo offendere, e di quanto male potessi far loro. Dissero certi «radicali ben equilibrati» di allora che i miei sforzi furono così strenui, così folli, così pericolosi, così ultrarivoluzionari, che io ho ritardato di cinque anni lo sviluppo del socialismo negli Stati Uniti. Vorrei osservare, di passata, che io sono ancor oggi convinto di aver accelerato lo sviluppo del socialismo negli Stati Uniti di almeno cinque minuti.Fu il POPOLO, e non John Barleycorn, a tenermi in piedi durante la mia lunga malattia. E quando entrai in convalescenza fu l'amore di una donna a completare la cura e ad addormentare il mio pessimismo per lunghi giorni, fino a che John Barleycorn non lo ridestò. Ma insieme, perseguivo la verità con un impegno minore e mi trattenevo dallo strappare gli ultimi veli quando mi capitavano in mano. Non mi importava più di vedere la verità nuda. Mi rifiutavo di vedere una seconda volta quello che avevo già visto. E il ricordo di ciò che avevo

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visto quella volta, risolutamente me lo cancellai dalla mente.Ed ero molto felice. La vita mi andava bene, trovavo gioia nelle piccole cose. Le cose grosse, mi rifiutavo di prenderle troppo sul serio. Continuavo a leggere libri, ma non con l'antica solerzia. Ancor oggi leggo libri, ma non li leggerò mai più con quell'antico splendore della passione giovane che mi spingeva a conquistare il mistero che sta al di qua della vita e al di là delle stelle.Questo capitolo vuol significare una cosa: da questa lunga malattia che a volte tocca alla maggior parte di noi, io uscii senz'essermi mai rivolto a John Barleycorn. Amore, socialismo, il POPOLO - salubri creazioni della mente umana - furono le cose che mi curarono e mi salvarono. Se mai ci fu uomo venuto al mondo senza disposizione all'alcool, io credo che quell'uomo son io. Eppure.... be', lasciamo che siano i prossimi capitoli a dirlo, perché in essi si vedrà quanto io abbia pagato per il mio precedente quarto di secolo di rapporti con l'accessibilissimo John Barleycorn.

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Dopo la lunga malattia bevvi ancora, ma sempre in compagnia. Bevevo quando bevevano gli altri e io ero in mezzo a loro. Ma, impercettibilmente, prese forma il mio bisogno di alcool, e cominciò a crescere. Non era un bisogno corporeo. Tiravo di pugilato, nuotavo, andavo in barca a vela, cavalcavo, conducevo una vita all'aperto, spudoratamente sana, e gli assicuratori sulla vita mi promuovevano sempre a pieni voti. Agli inizi, ora che ci penso, quel bisogno di alcool era un bisogno mentale, un bisogno nervoso, un bisogno umorale. Come posso spiegarlo?Era pressappoco questo. Fisiologicamente, dal punto di vista del palato e dello stomaco, l'alcool mi era, come ho già detto, repellente. Non aveva miglior gusto della birra che bevvi a cinque anni, o del vino che mandai giù a sette. Quando ero solo, a scrivere o a studiare, non ne sentivo il bisogno. Ma intanto diventavo anziano, saggio se volete, o forse l'una e l'altra cosa, forse diventavo vecchio. Trovarmi in compagnia mi dava minor piacere, minor eccitazione mi davano le cose dette e fatte. Gli spassi e i divertimenti che un tempo m'erano sembrati degni, ora non mi sembravano più tali; ed era un tormento stare a sentire i discorsi insipidi e stupidi delle donne, o le ciance pompose e arroganti degli ometti malcotti. E' lo scotto che si paga per aver letto troppi libri, o per essere uno sciocco. Nel caso mio, non importa dire quale fosse il caso. Il guaio mio stava nel fatto. Era mia la condizione del fatto. Cominciavano a vacillare, per me, vita, luce e scintilla del rapporto umano.Ero salito troppo in alto fra le stelle, o forse avevo dormito troppo. E tuttavia non ero isterico, e nemmeno provato. Il polso era normale. Il cuore era straordinariamente eccellente, secondo i medici delle assicurazioni. I polmoni mandavano in estasi i suddetti dottori. Scrivevo ogni giorno mille parole. Ero puntigliosamente esatto nel trattare gli affari della vita che toccano alla gente del mio mestiere. Facevo molto moto, con gioia e allegria. Di notte dormivo come un bambino. Ma...Ecco, appena entravo in compagnia degli altri, mi lasciavo prendere dalla malinconia e dalle lacrime spirituali. Non riuscivo a ridere ascoltando le solenni affermazioni di individui che io giudicavo solenni somari; non riuscivo a ridere e neanche più a ricorrere alle mie gioviali canzonature dei tempi andati, dinanzi al chiacchiericcio sciocco e superficiale delle donne le quali, dietro tutta la loro sciocchezza e morbidezza, erano in fondo primitive, dirette, mortali nella ricerca del proprio destino biologico, come le scimmie prima che abbandonassero la pelliccia per indossare la pelliccia di altri animali.E non ero pessimista. Giuro che non ero pessimista. Ero semplicemente annoiato. Troppe volte avevo visto lo stesso spettacolo, ascoltato troppe volte le stesse canzoni e le stesse battute. Conoscevo troppo bene gli ingranaggi della macchina che stava dietro la scena, sì che la messinscena, e le risate e i canti non bastavano a coprire lo scricchiolio delle ruote retrostanti.Non fa mai bene andare dietro la scena a vedere il tenore dalla voce angelica che picchia sua moglie. Ebbene, io c'ero stato, e non mi aveva fatto bene. O forse ero uno sciocco. Ma importa poco sapere quale fosse la mia situazione. Quello che conta è il fatto che per me il rapporto sociale stava diventando penoso e difficile. D'altro canto, bisogna dire che in qualche rara occasione, rarissima anzi, incontrai anime rare, o forse sciocchi come me, coi quali riuscivo a trascorrere magnifiche ore su fra le stelle, o forse nel paradiso degli sciocchi. Avevo sposato un'anima rara, o forse un'anima sciocca, che non m'infastidiva mai, che era sorgente di sorpresa e di delizia sempre nuova e interminabile. Ma non potevo passare tutte le mie ore in compagnia di lei soltanto. E poi avevo scritto una filza di libri di successo, e la società chiede qualcuna delle ore libere di un uomo che scrive libri. E ogni uomo normale, chiede al suo prossimo qualche ora del suo tempo.Ora cominciamo ad arrivarci. Come affrontare il gioco del rapporto sociale, se questo ha perduto il suo fascino? John Barleycorn. Con infinita pazienza aveva atteso un quarto di secolo perché io gli tendessi la mano in cerca d'aiuto. I suoi mille trucchi eran falliti, grazie alla mia buona costituzione e alla mia buona fortuna, ma John Barleycorn aveva altri trucchi in serbo per me. Mi accorsi che un paio di cocktail, magari anche più, mi tiravano su, per affrontare la stoltezza della gente stolta. Un cocktail, più d'un cocktail mi consentivano di ridere di cuore per cose che da molto tempo mi parevano ormai immeritevoli di riso. Il cocktail era una punta, uno sprone, una spinta per la mia mente sbiadita, per il mio spirito annoiato. Faceva rinascere riso e canto, dava esca alla mia fantasia, sì che io riuscivo a ridere e a contare e a dire cose sciocche, oppure banalità, ma con verve, con intensità, sì da far contenti i mediocri pomposi

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che non sapevano altro modo di parlare.Cattivo compagno senza un cocktail, con un cocktail in mano diventavo un ottimo compagno. Raggiungevo una falsa esaltazione, raggiungevo l'allegria come mediante una droga. E gli inizi furono così impercettibili che io, vecchio conoscitore di John Barleycorn, non mi accorsi che era lui a guidarmi. Cominciavo a chiedere musica e vino; presto avrei chiesto musica più pazza e ancora vino.Proprio a quel tempo mi accorsi di aspettare con ansia il cocktail prima di pranzo. Ne avevo bisogno, ed ero consapevole di averne bisogno. Rammento, ai tempi in cui facevo il corrispondente di guerra dall'Estremo Oriente, che una certa casa mi attraeva irresistibilmente. Oltre ad accettare tutti gli inviti a cena, facevo in modo di capitarci ogni pomeriggio o quasi. La padrona di casa era una donna affascinante, ma non per lei capitavo tanto spesso sotto il suo tetto. Voleva il caso che la signora facesse i cocktail di gran lunga migliori reperibili in quella grande città, dove la mistura delle bevande, da parte della popolazione straniera, era veramente un'arte. Nei circoli, negli alberghi, nelle altre case private non si creavano cocktail simili. Erano capolavori. Erano quelli meno repellenti al palato, e insieme quelli che davano più spinta. Eppure io desideravo i suoi cocktail solo per il piacere di stare in compagnia, per intonarmi agli umori mondani. Quando me ne andavo da quella città, e traversavo centinaia di miglia di risaie e di montagne, e mesi e mesi di servizio, e poi coi giapponesi vittoriosi in Manciuria, io non bevevo. Diverse bottiglie di whisky erano sempre disponibili nella soma dei miei cavalli da trasporto. Eppure, personalmente non toccai una sola di queste bottiglie, non ne bevvi un sorso, e mai provai il desiderio di quel sorso. Ah, se un uomo bianco veniva al mio accampamento, aprivo la bottiglia e si beveva insieme, come fanno gli uomini, allo stesso modo in cui, se fossi capitato al campo suo, mi avrebbe offerto da bere. Portavo dietro quello whisky per i rapporti con gli altri, e infatti lo mettevo sulla nota-spese del giornale per il quale lavoravo.Solo retrospettivamente io posso notare il primo impercettibile sorgere del mio desiderio. Ci furono alcuni accenni, allora, che non colsi, pagliuzze al vento che non vidi, piccoli incidenti di cui non compresi la gravità.Per esempio, da alcuni anni avevo preso l'abitudine, in inverno, di fare una crociera di sette od otto settimane nella baia di San Francisco. Nel mio robusto yacht, lo «Spray», c'era una comoda cuccetta e una cucina a carbone. Alla cucina badava un ragazzo coreano e di solito invitavo un paio di amici, a condividere le gioie della crociera. Mi portavo dietro anche la macchina da scrivere e facevo le mie mille parole quotidiane. In quel viaggio a cui sto pensando, vennero con me Cloudesey e Toddy. Per Toddy era il primo viaggio. Altre volte, Cloudesey aveva scelto di bere birra; per questo avevo messo a bordo una provvista di birra, e birra avevo bevuto, con lui.Ma stavolta la situazione fu diversa. Toddy si chiamava così, di soprannome, per la sua diabolica abilità a preparare il cosiddetto «toddy», cioè il ponce. Per questo imbarcai whisky, un paio di galloni. Ahimé! Parecchi altri galloni dovetti comprarne, perché Cloudesey e io ci facemmo l'abitudine a bere un certo ponce che andava giù deliziosamente e dava una spinta esilarante, incredibile.Mi piacevano questi «toddy». Imparai persino a farli. Li bevevamo regolarmente, uno prima della colazione, uno prima del pranzo, uno prima della cena, e un ultimo quando si andava a letto. Senza mai ubriacarci. Ma voglio dire che quattro volte al giorno eravamo di buon umore. E quando, a metà della crociera, Toddy dovette ritornare a San Francisco per affari, Cloudesey e io ordinammo al ragazzo coreano di prepararci la mistura secondo la formula.Ma questo soltanto a bordo. A terra, in casa mia, non prendevo nulla prima di colazione, e nulla prima di andare a letto. E non ho più bevuto toddy dopo di allora, e ciò significa molti anni or sono. Ma il fatto è che quei ponci mi piacevano. Meraviglioso lo stato d'animo che provocavano. Erano eloquenti missionari di John Barleycorn, alla loro maniera minuscola ma insidiosa. Erano il solletico di qualcosa destinata a crescere, giornalmente, mortalmente, a diventare un desiderio distruttivo. E io non sapevo, neanche mi sognavo, io, che da tanti anni conoscevo John Barleycorn e avevo riso di tutti i suoi vani tentativi di conquistarmi.

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Nella convalescenza della mia lunga malattia mi giovò anche il trovar gioia nelle cose piccole, nelle cose che non hanno rapporto con i libri e con i problemi, nel gioco, nelle gare di nuoto in piscina, negli aquiloni, nei cavalli, nella soluzione di problemi matematici. Di conseguenza, mi stancai della città. Alla fattoria, nella Valle della Luna, trovai il mio paradiso. Smisi di vivere nelle grandi città. Le sole cose che contavano per me, in città, erano il teatro, la musica e il bagno turco.E tutto mi andava bene. Lavoravo sodo, giocavo sodo, ero molto felice. Leggevo più romanzi che altro. Non studiavo più affatto come avevo studiato in passato. Mi interessavano ancora i problemi fondamentali dell'esistenza, ma era un interesse molto cauto; perché mi ero scottate le dita quella volta che avevo afferrato i veli della Verità per strapparglieli di dosso. C'era un po' di menzogna in questo mio atteggiamento, un po' di ipocrisia: ma la menzogna e la ipocrisia erano di un uomo che desiderava vivere. Deliberatamente mi feci cieco a quella che io pensavo essere l'interpretazione selvaggia di un fatto biologico. Dopo tutto, stavo semplicemente abiurando una brutta abitudine, abbandonando una cattiva struttura mentale. E lo ripeto, ero molto felice. E aggiungo che in tutti i miei giorni, se li misuro con giudizio freddo e attento, questo fu, e di gran lunga, il periodo più felice della mia vita.Ma s'apprestava il momento dissennato, per quanto ne so io, in cui avrei cominciato a pagare la ventina d'anni di traffico con John Barleycorn. Di tanto in tanto veniva un ospite alla fattoria e ci restava qualche giorno. Alcuni non bevevano. Ma per quelli che bevevano, era dura l'assenza di alcool alla fattoria. Non potevo violare il mio sentimento dell'ospitalità costringendoli a sopportare questa durezza. Feci provvista, per gli ospiti.I cocktail non mi hanno mai interessato al punto di sapere come son fatti. Per questo diedi incarico a un barista di Oakland di prepararmene una provvista e di mandarmela. Quando non avevo ospiti non bevevo. Ma cominciavo a notare, finito il lavoro del mattino, che ero contento se c'erano ospiti, perché in tal modo avrei potuto bere un cocktail con loro.Adesso ero talmente libero dall'alcool che anche un solo cocktail mi provocava l'effetto. Un solo cocktail bastava a illuminarmi la mente e a suscitare la risata, per qualche minuto prima di sedere a tavola e cominciare la gioia del pranzo. D'altro canto, tale era la forza del mio stomaco, della mia resistenza all'alcool, che un solo cocktail era appena un accenno d'illuminazione, un abbozzo di risata. Un giorno un amico propose, senza vergogna, francamente, un secondo cocktail. Lo bevvi con lui. L'illuminazione fu palesemente più lunga e più calda, la risata più profonda e più sonante. Non si dimenticano esperienze simili. A volte penso che cominciai a bere sul serio perché ero molto felice.Rammento quel giorno in cui Charmian e io facemmo un lungo giro per le montagne, a cavallo. Per quel giorno avevamo congedato i servi, e ritornammo a sera tardi per consumare una bella cenetta mantenuta in caldo. Ah, faceva bene quella sera sedersi a tavola, noi due soli in cucina. Per me, questo era ciò che di meglio si poteva chiedere alla vita. Non esistevano più cose come i libri e la verità finale. Il mio corpo era splendidamente sano, e sanamente stanco della lunga cavalcata. Era stata una giornata bellissima. La notte era bellissima. Stavo con la donna che era la mia compagna, a mangiare in felice abbandono. Non avevo guai. I conti erano tutti pagati, e mi trovavo addosso qualche soldo in più. Dinanzi a me si allargava l'avvenire. E lì, in cucina, davanti alla roba deliziosa serbata nello scaldavivande, sorgevano le nostre risate, e avvertivo nello stomaco il più bell'appetito.Mi sentivo tanto bene che non so come, non so dove, sorse in me il desiderio insaziabile di sentirmi meglio. Ero così felice che volevo spingere ancora più in alto la mia felicità. E sapevo il modo. Me lo avevano insegnato diecimila contatti con John Barleycorn. Diverse volte uscii di cucina a cercare la bottiglia del cocktail e ogni volta la bottiglia scemava d'una razione da uomo. Il risultato fu meraviglioso. Non ero brillo, non ero alticcio; ma mi sentivo caldo, luminoso, la mia felicità si ergeva a piramide. La vita mi era munifica, e questo aggiungeva altra munificenza alla mia vita. Fu un'ora grande, una fra le più grandi. Ma la scontai, molto tempo dopo, come vedremo. Non si scordano esperienze simili e, nella nostra stupidità umana, non riusciamo a capire che non esiste legge immutabile la quale stabilisca che le stesse cose produrranno gli stessi effetti. Infatti non è così, altrimenti la millesima pipa di oppio provocherebbe le stesse delizie della prima, altrimenti un solo cocktail, anziché più d'un cocktail, produrrebbe, dopo un intero anno di cocktail, una luce interiore eguale.Un giorno, poco prima del desinare, dopo ultimato il lavoro del mattino, non avendo ospiti, mi

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presi un cocktail da solo. Dopo di allora, quando non c'erano ospiti, continuai a prendermi questo cocktail prima di pranzo. E fu allora che John Barleycorn mi ebbe. Cominciai a bere regolarmente. Cominciai a bere da solo. E cominciavo a bere non per senso di ospitalità, non per il piacere di bere, ma per l'effetto del bere.Volevo quel cocktail prima di pranzo. E neanche mi passò per la mente il pensiero che vi fosse un motivo per cui non dovevo. Pagavo. Potevo pagarmi mille cocktail al giorno, volendo. E che cos'era un cocktail - un cocktail solo - per me che tante volte in tanti anni avevo mandato giù quantità disordinate di roba più forte, senza subirne danno?La regola della mia vita al ranch era la seguente: ogni mattina, alle otto e trenta, dopo aver letto o rivisto bozze in letto dalle quattro o dalle cinque, io andavo alla scrivania. Fino alle nove ero occupato a sbrigare la corrispondenza, e alle nove in punto, invariabilmente, cominciavo a scrivere. Verso le undici, con qualche minuto in più o in meno le mie mille parole erano a posto. Un'altra mezz'ora a riordinare la scrivania, in modo che alle undici e trenta mi stendevo su un'amaca sotto gli alberi con il giornale del mattino e la posta. Alle dodici e trenta desinavo e occupavo il pomeriggio a nuotare e cavalcare.Una mattina alle undici e trenta, prima di stendermi sull'amaca, bevvi il mio cocktail. Lo ripetei le mattine successive, naturalmente, e prendevo un secondo cocktail subito prima di mangiare, alle dodici e trenta. Ben presto mi accorsi che la mattina, seduto alla scrivania, pregustavo quel cocktail delle undici e trenta.Finalmente, adesso, ero ben consapevole di desiderare l'alcool. E dunque? Io non avevo paura di John Barleycorn. Lo conoscevo da troppo tempo. Ero saggio nella faccenda del bere. Ero discreto. Non avrei mai più bevuto in eccesso. Conoscevo i pericoli e i trabocchetti di John Barleycorn, i vari modi in cui aveva tentato di uccidermi in passato. Ma era passato, passato remoto. Mai più avrei bevuto sino all'intontimento. Quel che volevo, e quel che avrei preso, era solo quanto bastasse a scaldarmi e illuminarmi dentro, a tener vivo l'umore buono, a mettermi in gola la risata e ad agitare le larve della mia fantasia, leggermente, dentro il cervello. Ah, ero padrone di me stesso, e di John Barleycorn.

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Ma sull'organismo umano lo stesso stimolo non continua a produrre lo stesso effetto. A poco a poco mi accorsi che un solo cocktail non bastava a darmi la spinta. Un solo cocktail mi lasciava morto. Ce ne volevano due o tre per produrre l'effetto originario di uno solo. E io desideravo quell'effetto. Bevevo il mio primo cocktail alle undici e trenta, quando me ne andavo sull'amaca con la posta del mattino, e il secondo esattamente un'ora dopo, prima di mangiare. Mi feci l'abitudine di levarmi dall'amaca dieci minuti prima in modo da trovare il tempo e la decenza di mandare giù altri due cocktail prima di mangiare. Diventò regola: tre cocktail nell'ora interposta fra la scrivania e la tavola. E queste sono, nel bere, abitudini letali: bere regolarmente e bere in solitudine.Ero sempre disposto a bere quando avevo qualcuno vicino. Ora bevevo da solo, quando non c'era nessuno. Poi feci un ulteriore passo avanti. Quando avevo per ospite un uomo di calibro limitato nel bere, bevevo il doppio di lui: una volta con lui, una volta senza di lui, senza che lui lo sapesse. "Rubavo" questa seconda bevuta, e, quel che è peggio, presi l'abitudine di bere da solo anche quando c'era un ospite, un uomo, un compagno, col quale avrei potuto bere. Pensavo che fosse un torto eccedere in ospitalità, e far ubriacare il mio ospite. Se lo convincevo, nella limitazione del suo calibro come bevitore, a bere quanto bevevo io, di certo lo avrei fatto ubriacare. Che cos'altro potevo fare se non rubare questa seconda bevuta, o altrimenti negarmi la spinta equivalente a quella che lui traeva da una bevuta sola?Vi prego di rammentare, ora che tratteggio gli sviluppi del mio bere, che io non sono né uno sciocco né un debole. Sulla misura del mondo, sono un uomo di successo, direi anzi d'un successo più cospicuo del successo che tocca a un normale uomo di successo, e un successo che richiese una buona dose di cervello e di volontà. Il mio è un corpo forte. Ha sopravvissuto là dove i deboli son morti come le mosche. Eppure le cose che sto raccontando successero al mio corpo, e a me. Io sono un fatto. Il mio bere è un fatto. Il mio bere è una cosa che è successa, non è teoria, non è speculazione; e a mio vedere questo sottolinea la potenza di John Barleycorn, una cosa bestiale di cui noi ancora permettiamo l'esistenza, una istituzione mortale che rimane dai vecchi pazzi giorni brutali e che tanto esige dalla gioventù, e dalla forza, e dallo spirito, e tanto toglie ai migliori fra noi.Ma torniamo al nostro racconto. Dopo un agitato pomeriggio in piscina, seguito da una splendida cavalcata sulle montagne e su e giù per la Valle della Luna, mi sentivo così intonato e splendido che desideravo intonarmi anche meglio, sentirmi anche più splendido. Sapevo il modo. Un cocktail prima di cena, no. Due o tre, almeno, ecco quel che ci voleva. Me li prendevo. Perché no? Questa era la vita. E io avevo sempre amato tanto la vita. E anche questo divenne parte della regola quotidiana.E poi trovai di continuo nuove scuse per prendere un cocktail in più. Poteva essere il radunarsi di una folla allegra; un attacco di rabbia contro il mio architetto o contro un capomastro ladro, nei lavori per costruirmi il fienile; la morte del mio cavallo preferito contro un recinto di filo spinato; oppure una buona notizia, con la posta del mattino, dal mio direttore o dal mio editore. Non importava quale poteva essere la scusa, una volta che il desiderio germogliava in me. Il fatto era semplice: avevo bisogno di bere. Per lo meno, dopo una ventina d'anni in cui avevo giocato col bere senza desiderarlo, ora lo desideravo. E la mia forza fu la mia debolezza. Mi ci volevano due, tre quattro bevute per ottenere un effetto paragonabile a quello che un uomo medio ottiene con una bevuta sola.Osservavo una regola. Non bevevo nulla prima che fosse terminato il mio lavoro quotidiano, le mille parole. E finito il lavoro, i cocktail creavano un muro di inibizione nel mio cervello, fra il lavoro compiuto della giornata e quello della giornata successiva. Il lavoro mi scadeva dalla coscienza. Neanche mi balenava per la mente il pensiero del lavoro sino alle nove del giorno dopo, quando sedevo alla scrivania e cominciavo le mie successive mille parole. Era una condizione mentale desiderabile. Conservavo la mia energia per mezzo dell'inibizione alcoolica. John Barleycorn non era poi così brutto come lo si dipingeva. Poteva anche dare qualcosa di buono, e questo era il caso mio.E il lavoro da me prodotto era sano, integro, sincero. Non era mai pessimistico. La strada verso la vita che avevo appreso durante la mia lunga malattia. Sapevo che le illusioni erano giuste, ed esaltavo le illusioni. Ah, tuttora sforno lavoro di quel tipo, roba pulita, viva, ottimistica, che fa voler bene alla vita. E i critici mi garantiscono di continuo la mia vitalità sovrabbondante, mi garantiscono che io sono perfettamente deluso dalle illusioni che sfrutto.

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E siccome mi sono avviato in questa digressione, lasciatemi ripetere la domanda che mi son fatto diecimila volte. "Perché bevevo?" Che bisogno ne avevo? Ero felice. Lo facevo perché ero troppo forte? Possedevo troppa vitalità? Non so perché bevevo. Non so rispondere, anche se posso esprimere il sospetto sempre crescente in me. Avevo avuto, per troppi anni, rapporti troppo familiari con John Barleycorn. Un mancino, con la pratica, può diventare destro. E io, nato non alcolista, ero forse diventato alcolista per una lunga pratica?Ero tanto felice. Avevo superato una lunga malattia e godevo la soddisfazione dell'amore di una donna. Splendevo di salute. Dormivo come un bambino. Continuavo a scrivere libri di successo, e nelle dispute sociologiche vedevo i miei avversari confutati dai fatti dei tempi, che ogni giorno rafforzavano il baluardo della mia posizione intellettuale. Giorno dopo giorno io non conoscevo mai il rammarico, la disillusione, il rimorso. Ero sempre felice. La vita era un canto che non finiva mai. Rimpiangevo persino le benedette ore del sonno perché mi rubavano la gioia che sarebbe stata mia se fossi rimasto sveglio. Eppure bevevo. E John Barleycorn, senza che io neanche me lo sognassi, stava preparandomi una malattia tutta sua.Più bevevo più richiedevo il bere per trarne un effetto equivalente. Quando lasciavo la Valle della Luna e andavo in città, e cenavo fuori, un cocktail servito a tavola era una cosa di nessun conto. Non ci trovavo alcuna spinta preprandiale. Recandomi a mangiare, ero costretto a chiedere la spinta, ad accumularla, due cocktail, tre cocktail, e se incontravo qualcuno, quattro, cinque, sei. Una volta che andavo di fretta non ebbi modo di accumulare le necessarie bevute. Mi venne un'idea brillante. Dissi al barista di prepararmi un cocktail doppio. E dopo di allora, ogni volta che avevo fretta, ordinavo un cocktail doppio. Mi risparmiava il tempo.Uno dei risultati di questo gran bere fu l'ottundimento. La mia mente si abituò a tal punto a ravvivarsi e a scattar con mezzi artificiali che senza mezzi artificiali adesso si rifiutava di scattare, di ravvivarsi. L'alcool mi divenne sempre più obbligatorio per trattare con la gente, per sentirmi socialmente a posto. Mi ci voleva la spinta, il suggerimento di quella roba, l'accendersi della fantasia, l'illuminazione geniale, la risata, il tocco rovente e diabolico, e il sorriso dinanzi alle cose, prima di potermi unire ai miei simili e far tutt'uno con loro.Altro risultato fu che John Barleycorn cominciava a farmi lo sgambetto. Mi faceva ritornare addosso la lunga malattia, mi incitava, daccapo, a perseguire la Verità e a strapparle i veli di dosso, mi induceva a guardare in faccia la realtà. Ma questo successe gradualmente. I miei pensieri, se diventavano più lenti, diventavano anche più aspri.A volte mi balzava alla mente un pensiero di avviso. Dove portava questo bere continuo? Ma provate a porre questa domanda a John Barleycorn. Ti risponde: «Vieni a bere qualcosa e io te lo dico». E funziona. Per esempio, ecco un caso tipico, un caso che John Barleycorn non si stanca mai di rammentarmi:Avevo avuto un incidente che richiedeva un'operazione difficile. Una mattina - era passata una settimana dall'intervento - giacevo sul mio letto d'ospedale stanco e spossato. La mia faccia, già conciata dal sole, per quel poco che potevo vederne al di là della barba non rasata, era di un giallo malaticcio. Il medico era al mio fianco e stava per andarsene. Guardava con aria di disapprovazione la sigaretta che stavo fumando.«Ecco che cosa dovrebbe smettere» predicò. «Sarà la sua rovina. Guardi me».Lo guardai. Aveva pressappoco la mia età, spalle larghe, petto capace, occhi vivaci, guance rosse di salute. Non c'era miglior esemplare di maschilità.«Anch'io fumavo», continuò. «Sigari. Ma poi ho smesso. E mi guardi».Quest'uomo, giustamente, era consapevole del suo benessere e ne menava vanto. E di lì a un mese era morto. Non fu un incidente. Una mezza dozzina di microbi dal lungo nome scientifico lo attaccarono e lo distrussero. Ebbe complicazioni incredibili e dolorose e per giorni, prima della morte, da un isolato di distanza si sentivano gli urli dell'agonia di quest'uomo splendido. Morì urlando.«Hai visto», diceva John Barleycorn. «Quello ha avuto cura di sé. Ha persino smesso di fumare i sigari. E in cambio vedi cosa ha avuto. Immagina la contentezza dei microbi, ora che marcisce. Non c'è rimedio, contro quelli. Il tuo magnifico medico ha preso tutte le precauzioni, eppure l'hanno vinta loro. Quando salta un microbo nessuno sa dove andrà a cadere. Può toccare a te. Guarda che cosa ha perso. Vuoi anche tu perdere tutto quel che posso darti, solo perché poi un microbo ti salti addosso e ti porti via? Non c'è giustizia nella vita. E' tutta una lotteria. Ma io metto il sorriso della menzogna sulla faccia della vita e rido dei fatti. Sorridi con me, ridi. Alla fine toccherà anche a te, ma nel frattempo ridi. Questo è un mondo abbastanza buio, io te lo illumino. E' un mondo marcio, dove possono succedere cose come quelle che son successe al tuo dottore. C'è una sola cosa da fare: bere ancora e scordarsene».

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E naturalmente io bevvi ancora, per l'inibizione che al bere si accompagnava. Bevevo ancora ogni volta che John Barleycorn mi rammentava quel che era successo. Ma bevevo razionalmente, con diligenza. Badavo che la roba fosse della migliore qualità. Cercavo la spinta e l'inibizione, evitando il castigo della cattiva qualità e dell'ubriachezza. Di passata bisogna osservare che quando un uomo comincia a bere in modo razionale e intelligente, allora tradisce un grave sintomo, di quanta strada ha già percorso.Però continuavo a osservare la mia regola di non vuotare mai il mio primo bicchiere della giornata senza aver terminato le mille parole quotidiane. E' vero che di tanto in tanto mi concedevo una vacanza, nel mio scrivere. In questi casi, siccome la norma non veniva violata, non badavo a che ora della giornata avveniva la mia prima bevuta. E chi non ha mai conosciuto questo gioco del bere si chiede com'è che uno si avvezza a bere.

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Quando lo «Snark» partì per la sua lunga crociera da San Francisco, a bordo non c'era nulla da bere. O meglio, nessuno di noi sapeva che ci fosse qualcosa da bere, e per molti mesi non lo scoprimmo. Avevo voluto io, un po' malignamente, questa partenza a secco. Un mio tiro mancino a John Barleycorn. E dimostrava che io appena appena ascoltavo i deboli avvertimenti che cominciavano a sorgere nella mia coscienza.Certo, nascondevo a me stesso la situazione e mi scusavo con John Barleycorn. E lo facevo in modo scientifico. Mi dissi che avrei bevuto soltanto nei porti. Durante i tratti di mare il mio organismo si sarebbe ripulito dell'alcool di cui era imbevuto, in modo che, giunto in porto, avrei goduto più pienamente John Barleycorn. Il suo morso sarebbe stato più acuto, la sua spinta più netta e più deliziosa. Eravamo al ventisettesimo giorno della traversata da San Francisco a Honolulu. Una volta uscito dal porto, il pensiero del bere non mi turbava più. E questo dimostra, ancora una volta, che io non avevo alcuna disposizione intrinseca all'alcool. A volte, durante la traversata, pensando e pregustando i deliziosi "lunai", cioè i pasti che preparano alle Hawaii (c'ero già stato un paio di volte), io naturalmente pensavo alle bevute che avrebbero preceduto questi pasti. Ma non ci pensavo con desiderio, con bramosia. Pensavo semplicemente che erano belle bevute allegre, parte dell'atmosfera di un buon pasto.Così, ancora una volta, con mia completa soddisfazione, io dimostravo di saper dominare John Barleycorn. Potevo bere quando volevo, astenermene quando volevo. Perciò avrei continuato a bere a mio piacimento.Passammo un cinque mesi nelle varie isole del gruppo delle Hawaii. Essendo a terra, bevevo. Bevevo forse un poco di più della misura a cui ero uso in California, prima del viaggio. Mi pareva che la gente delle Hawaii bevesse, in media, un poco più della gente delle latitudini più temperate. Se volete posso anche correggermi, un po' goffamente. Diciamo «latitudini più remote dell'equatore». Eppure le Hawaii sono in una zona appena appena subtropicale. Più ci si avvicina ai tropici, più gli uomini, che io sappia, bevono, e più bevevo io.Dalle Hawaii facemmo vela per le Marchesi. La traversata richiese sessanta giorni. Per sessanta giorni non vedemmo terra, né vela, né fumo di vapore. Ma al principio di quei sessanta giorni il cuoco, ravversando la cambusa, trovò una decina di bottiglie di moscatello. Venivano dalla dispensa della fattoria insieme alle conserve fatte in casa. Sei mesi al calore della cambusa avevano cambiato qualcosa di quel vino denso e dolce, lo avevano trasformato in acquavite, immagino.Lo assaggiai. Delizioso! E dopo di allora, una volta al giorno, alle dodici, dopo ultimate le nostre osservazioni e fatto il punto dello «Snark» mi bevevo mezzo bicchiere di quella roba. Mi riscaldava il buon umore e metteva una maschera più bella sul bel volto del mare. Ogni mattina, di sotto, mentre sudavo sulle mie mille parole, mi accorsi che sempre pregustavo quell'evento quotidiano delle dodici.Il guaio era che dovevo farne parte agli altri, e alla fine della traversata mi venne un dubbio: mi dispiaceva che fossero state soltanto una dozzina, quelle bottiglie. E quando furono tutte e dodici vuote, mi dispiacque di averne offerto agli altri. Avevo sete di alcool, e non vedevo l'ora di arrivare alle Marchesi.Fu così che giunsi alle Marchesi con indosso una sete di misura adulta. E alle Marchesi c'erano diversi bianchi, parecchi indigeni squallidi, tanto magnifico paesaggio, parecchio rum. una quantità immensa di assenzio, ma non whisky né gin. Il rum era tale da spellarti la bocca. Lo so perché lo provai. Ma siccome io sono sempre stato adattabile, accettai l'assenzio. Il guaio, con questa roba, era che per provare il minimo effetto dovevo ingerirne quantità disordinate.Dalle Marchesi feci vela, con in stiva sufficiente assenzio da bastarmi fino a Tahiti, dove feci provvista di whisky, sia scozzese che americano, e da quel giorno in poi non ci furono tappe a secco, da un porto all'altro. Ma vi prego di non capirmi male. Non si trattava di ubriachezza, nel senso ordinario che si dà alla parola ubriachezza - nessun capogiro, nessun barcollamento, nessuna confusione dei sensi. Il bevitore abile e stagionato, con una forte costituzione, mai si abbassa a cose del genere. Beve per sentirsi bene, per cavarne piacere, e non di più. Evita accuratamente la nausea del bere eccessivo, l'effetto che consegue all'aver bevuto troppo, l'umiliazione che lascia l'aver troppo bevuto.Il bevitore esperto e stagionato giunge a una semi-ubriacatura discreta e accorta. E fa questo per dodici mesi all'anno, senza alcun danno apparente. Ci sono centinaia di migliaia di uomini così, oggi, negli Stati Uniti, nei circoli, negli alberghi, in casa loro - uomini che non sono mai

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ubriachi, e che di rado sono esenti dall'alcool, anche se la maggior parte sono pronti a giurare, sdegnati, il contrario. E tutti quanti credono fiduciosamente, come credevo io, di averla vinta in questo gioco.Nelle tappe in mare mi mantenevo abbastanza astemio; ma a terra bevevo di più. In ogni modo, ai tropici avevo la sensazione di volerne di più. E' esperienza comune, perché è un fatto noto, ai tropici, l'eccessivo consumo di alcool da parte dei bianchi. Il pigmento della pelle non ci protegge contro l'eccessiva luce bianca del sole. I raggi ultravioletti, della parte alta dello spettro, passano e lacerano i tessuti, allo stesso modo in cui i raggi X hanno devastato i tessuti degli sperimentatori prima che questi si avvedessero del pericolo.I bianchi, ai tropici, subiscono un cambiamento radicale. Diventano selvaggi, spietati. Commettono mostruosi atti dì crudeltà che mai avrebbero sognato di commettere nel loro clima temperato originario. Diventano nervosi, irritabili, viene meno il senso morale. E bevono come mai han bevuto prima. Il bere è una fra le tante forme di degenerazione che si stabilisce quando un bianco rimane troppo a lungo esposto a un eccesso di luce bianca. E' automatico l'aumento del consumo alcoolico. I tropici non sono adatti ai lunghi soggiorni. Sono una specie di condanna a morte, e il gran bere accelera il processo. L'uomo bianco su questo non ragiona. Beve.Mi prese questa malattia solare, pur essendo rimasto ai tropici un paio d'anni appena. In quel periodo bevvi molto, ma a questo punto voglio subito fugare un malinteso. Il bere non era la causa della malattia, né dell'abbandono del viaggio. Ero forte come un toro, e per molti mesi combattei il mal del sole che mi stava lacerando e riducendo a pezzi la superficie e il sistema nervoso. Lungo tutta la rotta delle Nuove Ebridi e delle Salomone e su per la linea degli atolli, e in quel periodo sotto un sole tropicale, devastato dalla malaria, e in più qualche malattia secondaria, come la lebbra della Bibbia che t'inargenta la pelle, lavoravo come cinque uomini.Dirigere un battello su per le secche e gli stretti di coste non illuminate nei mari dei coralli è già un lavoro a sé. A bordo ero io il solo navigatore. Non c'era nessuno che controllasse la bontà delle mie osservazioni nautiche, nessuno con cui consultarmi nel buio fitto, fra difficoltà che la carta non segnalava. E facevo io tutti i turni di guardia. Non c'era a bordo uomo di mare che potesse farmi da secondo, darmi il cambio. Ero capitano e secondo, a un tempo. Le mie ore di guardia a bordo erano ventiquattro su ventiquattro, rubando ogni tanto un sonnellino, quando potevo. E poi facevo anche il medico. Voglio dire subito che il lavoro di un medico a bordo dello «Snark» era un lavoro sul serio. Tutti a bordo soffrivano di malaria, malaria tropicale che ti ammazza in tre mesi. Tutti a bordo soffrivano di ulcera perforante, e del prurito da impazzire che provoca il "ngari-ngari". Per queste numerose afflizioni un cuoco giapponese diventò matto. Uno dei miei marinai polinesiani fu sulla soglia della morte a causa della febbre nera. Ah sì, un lavoro sul serio, e io facevo il medico, prescrivevo le cure, cavavo denti, e riuscivo a tirar fuori i miei pazienti da quisquilie come un avvelenamento intestinale.Inoltre ero scrittore. Ogni giorno sudavo le mie mille parole quotidiane, tranne quando mi abbatteva l'eccesso della febbre oppure una tempesta brutta metteva a rischio lo «Snark». Ero anche viaggiatore e, scrittore, avido di vedere cose e di raccogliere materiale nei miei taccuini. Infine ero padrone e capitano di quest'imbarcazione che visitava posti strani dove gli ospiti sono rari e perciò bene accolti. E quindi dovevo anche badare all'aspetto sociale della faccenda, ricevere gente a bordo, farmi ricevere a terra da piantatori, mercanti, governatori, capitani di navi da guerra, re antropofagi coi capelli a treccioline, e primi ministri così fortunati, a volte, di avere le bende con cui fasciarsi.Naturalmente bevevo, bevevo con gli ospiti e coi padroni di casa. E bevevo anche da solo. Siccome facevo il lavoro di cinque uomini, questo, pensavo, mi autorizzava a bere. L'alcool andava bene per un uomo sopraffatto dal lavoro. Ne notavo gli effetti sulla mia piccola ciurma, quando, troncando loro schiena e cuore a tirare su l'ancora di quaranta braccia, in capo a mezz'ora erano disfatti, ansavano e tremavano, e per rianimarli occorreva una buona sorsata di rum. Ripigliavano fiato, si asciugavano la bocca, e si rimettevano all'opera di buona voglia. E quando si metteva lo «Snark» in bacino e si lavorava con l'acqua fino al collo, con la febbre addosso, io vedevo quanto bene poteva fare quel rum scadente.E qui, daccapo, ecco un'altra faccia del poliedrico John Barleycorn. All'apparenza egli dà qualcosa per nulla. Dove non resta più forza, egli trova forza nuova. Gli uomini stanchi si levano ad affrontare altra fatica. Per qualche tempo c'è un effettivo passaggio di forza. Ricordo di aver spalato carbone su un vapore, otto giorni d'inferno, durante i quali ci tenevano al lavoro a forza di whisky. Si lavorava in uno stato continuo di semisbornia. E senza quel whisky non saremmo mai riusciti a caricare il carbone.

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Questa forza che ti dà John Barleycorn non è fittizia. E' forza reale. Ma è una forza fabbricata, e prima o poi bisogna pagarla, con gli interessi. Ma può un uomo stanco pensare al futuro? Accetta questo passaggio di forza, che pare miracoloso, per quello che è. E molti uomini di affari, professionisti, comuni operai hanno percorso la strada mortale di John Barleycorn proprio a causa di questo sbaglio.

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Andai in Australia per entrare in ospedale a farmi rimettere in sesto, dopo di che intendevo proseguire il mio viaggio. E nelle lunghe settimane di ospedale, sin dal primo giorno non sentii la mancanza dell'alcool. Neanche ci pensai. Sapevo che lo avrei riavuto non appena rimesso in piedi. Ma quando mi fui rimesso in piedi non ero guarito dalle mie maggiori afflizioni. Avevo ancora la pelle inargentata. La misteriosa malattia del sole, che gli esperti australiani non sono riusciti a scandagliare, continuava a lacerarmi i tessuti. La malaria continuava a disfarmi, a stendermi in un delirio di brividi, nei momenti più inattesi, costringendomi ad annullare un giro di conferenze già messo in programma. Così abbandonai il viaggio sullo «Snark» e andai in cerca di un clima più fresco. Il giorno in cui uscii dall'ospedale ricominciai a bere, come se fosse la cosa più ovvia. Bevevo vino durante i pasti. Bevevo cocktail fra un pasto e l'altro. Bevevo whisky scozzese con soda e ghiaccio ogni volta che ne beveva la persona che mi stava accanto. Ero talmente padrone di John Barleycorn da poterlo prendere o lasciare a piacimento, proprio come avevo fatto in tutta la vita.Di lì a poco, in cerca di un clima più fresco, andai alla punta estrema meridionale della Tasmania. E mi trovai in un posto dove non c'era nulla da bere. Ma non me ne importò. Non fu duro. Non bevvi. Mi lasciavo inzuppare dall'aria fresca, andavo a cavallo, scrivevo le mie mille parole quotidiane tranne quando al mattino mi prendeva un attacco di febbre.E nel timore che in testa a qualcuno si annidi ancora l'idea che causa dei miei guai fossero gli anni precedenti occupati a bere, faccio osservare che il mio servo giapponese Nakata, che sta ancora con me, era disfatto dalla febbre, e così anche Charmian, la quale inoltre soffriva di nevrastenia tropicale che per la guarigione richiedeva alcuni anni di clima temperato. Eppure né lei né Nakata bevevano. Non avevano anzi mai bevuto.Quando ritornai a Hobart, dove era disponibile da bere, ricominciai a bere. Lo stesso quando fui ritornato in Australia. Al contrario, quando dall'Australia facemmo vela su una carretta comandata da un capitano astemio, non mi portai dietro da bere, e non bevvi durante il viaggio, che fu di quarantatré giorni. Arrivato in Ecuador, sotto il sole dei tropici, dove la gente moriva di febbre gialla, di vaiolo e di peste, ricominciai subito a bere - qualunque cosa che mi desse la spinta. Non presi malattia alcuna. Ma non ne presero neanche Charmian e Nakata, che non bevevano.Innamorato dei tropici, nonostante i danni che mi avevano fatto sostai in vari luoghi, e trascorse molto tempo prima di tornare al clima splendido, temperato della California. Scrivevo le mie mille parole quotidiane, durante il viaggio o durante la sosta, ebbi il mio ultimo lieve attacco di febbre, vidi sparire l'argento dalla pelle, i miei tessuti devastati dal sole ricostruirsi, e bevevo come può bere un uomo vero, di spalle robuste.

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Tornato alla fattoria nella Valle della Luna, ricominciai a bere assiduamente. Il mio programma era: niente bere al mattino; niente bere prima di aver messo sulla carta le mille parole quotidiane. Poi, fra il lavoro e il pasto di mezzogiorno, le bevute erano tutte quelle che bastavano a far sorgere in me una piacevole ebrezza. La stessa cosa facevo prima del pasto della sera. Nessuno mi vide mai ubriaco, per il semplice motivo che non ero mai ubriaco. Ma due volte al giorno mi procuravo quella lieve ebrezza; e la quantità di alcool che immagazzinavo ogni giorno, se si fosse riversata nell'organismo di un uomo non avvezzo a bere, lo avrebbe messo a terra, fuor di combattimento.Era la solita vecchia storia. Più bevevo, più sentivo l'impulso a bere per trarne l'effetto. Venne il giorno in cui i cocktail non bastarono più. Non avevo né il tempo per berli né lo spazio in cui riporli. Lo whisky era molto più potente. Dava azione più rapida in quantità minore. Fosse scozzese o americano, o una qualche accorta mistura, era questa la bevanda prima di pranzo. Nel tardo pomeriggio lo bevevo allungato con l'acqua di soda.Il mio sonno, una volta eccellente, non era più così eccellente. Mi ero abituato a indurre il sonno leggendo, quando il sonno non voleva venire. Ma adesso questo cominciava a non succedermi più. Dopo aver letto per due o tre ore, e restavo più sveglio di prima, scoprii che il bere aveva su di me un effetto soporifero. A volte bisognava bere due o tre volte.In questo modo il periodo di sonno interposto prima della sveglia mattutina era così breve che il mio organismo non aveva il tempo di eliminare l'alcool. Di conseguenza io mi destavo con la gola secca e incartapecorita, con una leggera pesantezza alla testa, e con una leggera palpitazione nervosa allo stomaco. Insomma non mi sentivo bene. Pativo il consueto malessere mattutino del bevitore abituale. Avevo bisogno di qualcosa che mi tenesse su. Fidati di John Barleycorn, una volta che ha infranto le difese di un uomo. E in questo modo, al mattino, era una bevuta che mi disponeva alla colazione - il vecchio veleno del serpente che ha morso. Un'altra abitudine sorse a quest'epoca, quella della caraffa d'acqua accanto al letto per dare sollievo alle membrane scottate, strinate.Giunsi a una condizione in cui il mio corpo non era più libero dall'alcool. Né mi consentivo più di star lontano dall'alcool. Se viaggiavo in posti fuor di mano, mi rifiutavo di correre il rischio di trovarli asciutti. Mi portavo dietro la bottiglia o più di una bottiglia. Un tempo mi aveva stupito vedere altri uomini colpevoli di questa pratica. Ora facevo io la stessa cosa, senza arrossire. E quando uscivo con amici, buttavo via ogni regola. Bevevo quando bevevano loro, quel che bevevano loro, alla maniera in cui bevevano loro.Mi portavo dietro una bellissima conflagrazione alcoolica, che si nutriva del suo stesso calore e fiammeggiava sempre più forte. Da sveglio non c'era istante in cui non mi andasse di bere. Cominciai a non aspettare neanche che fossero finite le mie mille parole, bevevo alla cinquecentesima. Di lì a poco una bevuta servì da prefazione alle mille parole.Capivo benissimo la gravità di questo fatto. Mi posi regole nuove. Decisamente, mi sarei astenuto dal bere prima che fosse terminato il lavoro. Ma sorse una complicazione nuova, più diabolica. Il lavoro non mi veniva fatto senza bere. Proprio così, non mi veniva. Dovevo bere per lavorare. A questo punto cominciai a dibattermi. Alla fine, ecco nato in me il desiderio, che mi comandava. Sedevo alla scrivania, penna e taccuino alla mano, e le parole non volevano venire. Il cervello non riusciva a pensare ai pensieri giusti, perché era di continuo ossessionato da quel solo pensiero che in fondo alla stanza, in quell'armadio, stava John Barleycorn. Quando, disperato, io bevevo, subito il cervello mi si scioglieva e cominciava a tirar fuori le mille parole.Nella mia casa di città, a Oakland, finii la provvista di liquori e ostinatamente mi rifiutai di acquistarne ancora. Non servì a nulla perché, purtroppo, in fondo all'armadio, restava una cassa di birra. Ma la birra è un surrogato scadente di bevande più forti; e poi la birra non mi piaceva. Eppure riuscivo a pensare una cosa sola, quella birra straordinariamente disponibile in fondo all'armadio. Solo quando ne ebbi bevuto una pinta le parole cominciarono a venirmi e per arrivare alla millesima mi ci vollero diverse pinte. Il peggio fu che la birra mi diede bruciore di stomaco; ma nonostante questo la cassa fu presto finita.L'armadio dei liquori era ormai vuoto. Non lo riempii. Con una perseveranza veramente eroica finalmente mi costrinsi a scrivere le quotidiane mille parole senza lo sprone di John Barleycorn. Ma mentre scrivevo, sentivo benissimo il bisogno di bere. E appena compiuto il lavoro della mattinata, uscivo di casa e andavo in centro per la prima bevuta. Santo cielo! Se John

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Barleycorn aveva una tale presa su di me che per natura non ero disposto all'alcool, chissà le pene dell'alcolista autentico, che si dibatte contro le necessità organiche della sua chimica, mentre i suoi intimi hanno per lui poca simpatia, minor comprensione e lo disprezzano e lo deridono!

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Ma lo scotto andava pagato. John Barleycorn cominciò a esigere, ed esigeva non tanto dal corpo ma dalla mente. L'antica vecchia malattia, che era stata una malattia puramente intellettuale, ricominciò. I vecchi fantasmi rialzarono la testa. Ma erano fantasmi diversi, più mortali. I vecchi fantasmi, intellettuali agli inizi, erano stati posti da una logica sana e normale. Ma adesso erano destati dalla Logica Bianca di John Barleycorn, e John Barleycorn non desta mai fantasmi di suo allevamento. Per questa malattia del pessimismo, causata dal bere, bisogna bere di più in cerca dell'anodino che John Barleycorn sempre promette e mai concede.Come descrivere questa Logica Bianca a quelli che non l'hanno mai provata? Sarà forse meglio dire subito quanto sia impossibile una simile descrizione. Prendete per esempio la Terra dello Hashish, una terra enormemente estesa nel tempo e nello spazio. Negli anni passati ho fatto un paio di viaggi memorabili in questa terra lontana. Le avventure che ci vissi le ho segnate profondamente nel cervello. Eppure ho cercato invano, con interminabili parole, di descriverne dettagliatamente le fasi a persone che non han fatto quel viaggio.Voglio usare l'iperbole fino in fondo, e dire quali secoli di tempo e abissi di impensabile agonia e di orrore si possono ottenere in ciascun intervallo fra le note di una rapida giga suonata velocemente al piano. Parlo un'ora intera, per descrivere quella sola fase nella Terra dello Hashish, e alla fine non ho detto nulla. E quando non riesco a dire nulla di tanta vastità di cose terribili e meravigliose, so di non essere riuscito a dar loro il minimo concetto di quel che sia la Terra dello Hashish.Ma fatemi parlare con qualcuno che abbia già viaggiato in quella strana regione, e subito m'intende. Una frase, una parola, reca all'istante alla sua mente ciò che ore di parole e di frasi non recano alla mente di chi non ha viaggiato. Tanto vale per il regno di John Barleycorn, dove domina la Logica Bianca. A chi non ci ha viaggiato, il racconto del viaggiatore sembra essere inintelligibile e fantastico. Al massimo, posso solo chiedere a chi non ha fatto il viaggio di prendere sulla parola il racconto che sto per fare.Infatti ci sono intuizioni fatali della verità che risiedono nell'alcool. E in questo mondo paiono esistere vari ordini di verità. Certi tipi di verità sono più veri di certi altri. Certi tipi di verità sono menzogne, e son proprio quelli che hanno maggior valore d'uso nella vita che desidera realizzarsi e vivere. Subito, tu lettore che non hai viaggiato, vedi quanto sia lunatico e blasfemo il regno che sto cercando di descriverti nel linguaggio della tribù di John Barleycorn. Non è il linguaggio della tua tribù, i membri della quale risolutamente evitano le strade che portano alla morte e battono soltanto le strade che portano alla vita. Infatti ci sono strade e strade, come ci sono ordini e ordini di verità. Ma abbi pazienza. Per lo meno, da quel che sembra niente altro che una tiritera verbale, forse tu potrai scorgere visioni lontane di altre terre, di altre tribù.L'alcool dice la verità, ma la verità non è normale. Ciò che è normale è sano. Ciò che è sano tende verso la vita. La verità normale è un ordine diverso, è un ordine minore di verità. Prendi un cavallo da tiro. Attraverso tutte le vicissitudini della sua vita, chissà come, in modo imperscrutabilmente oscuro, egli deve credere che la vita sia buona; che stare alla stanga è un bene; che la morte, non importa se appresa per cieco istinto, è un gigante pauroso; che la vita è benefica e degna; che alla fine, venendo meno la vita, egli non sarà sbattuto e squassato al di là delle sue forze disfatte e logore; che persino la vecchiaia è decente, dignitosa, valida, anche se vecchiaia significa diventare un ossuto ronzino attaccato al carretto del venditore ambulante, inciampando a ogni passo, intontito dalla spietata servitù e dalla lenta disintegrazione, sino alla fine - la fine che è poi la spartizione delle parti (della sua carne esigua, delle sue ossa rosee ed elastiche, dei suoi succhi, dei suoi fermenti, e di tutta la sensibilità che l'informava) fra il pollaio, la conceria, la fabbrica di colla e quella di fertilizzante. Fino all'ultimo strattone della sua vita straziata, questo cavallo da tiro deve affidarsi al mandato di quella verità minore che è verità di vita e che gli rende possibile la persistenza.Questo cavallo da tiro, come tutti gli altri cavalli, come tutti gli altri animali, compreso l'uomo, è cieco alla vita e ottuso nei sensi. Vive, non importa a quale prezzo. Il gioco della vita è buono, anche se la vita può far male, e anche se ogni vita alla fine perde il suo gioco. Questo è l'ordine di verità a cui egli giunge, non per l'universo, ma per le cose vive che in esso sono se durano un istante prima di scomparire. Quest'ordine di verità, non importa quanto possa sembrare erroneo, è lo stesso ordine normale della verità, l'ordine razionale della verità che la vita deve credere al fine di vivere.

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All'uomo, solo fra gli animali, è stato dato il tremendo privilegio della ragione. L'uomo, con il cervello, può penetrare nell'inebriante spettacolo delle cose e guardare l'universo indifferente verso di lui e verso i suoi sogni. Può fare questo, ma non è bene per lui che lo faccia. Per vivere, e vivere abbondantemente, e ardere di vita, per essere vivo (vale a dire, per essere quello che è) è bene che l'uomo sia cieco alla vita e ottuso nei sensi. Quello che è buono è vero. E questo è l'ordine di verità, sia pur minore, che l'uomo deve conoscere, e su di esso guidare le proprie azioni con la incrollabile certezza che sia verità assoluta e che nell'universo non si possa raggiungere altro ordine di verità. E' bene che l'uomo accetti per quel che sono gli inganni dei sensi e le trappole della carne e al di là delle nebbie della sensibilità persegue il fascino e la menzogna della passione. E' bene che non veda né ombre né stoltezze, che non si spaventi della propria bramosia e della propria rapacità.E l'uomo fa così. Molti uomini hanno intravisto quell'altro ordine di verità e se ne sono ritratti. Molti hanno passato la lunga malattia e son sopravvissuti per raccontarla e dimenticarla deliberatamente, sino alla fine dei loro giorni. Sono vissuti. Han realizzato la vita perché la vita era ciò che essi erano. Han fatto bene.E poi arriva John Barleycorn con la maledizione che impone all'uomo di fantasia, il quale è avido di vita e di desiderio di vivere. John Barleycorn manda la sua Logica Bianca, messaggera della verità che sta al di là della verità, l'antitesi della vita, crudele e lugubre come lo spazio interstellare, senza polso, senza calore come lo zero assoluto, abbagliata dal gelo della logica irrefragabile e del fatto indimenticabile. John Barleycorn non lascia che il sognatore sogni, che il vivo viva. Egli distrugge nascita e morte, e dissipa in nebbia il paradosso dell'essere, fino a che la sua vittima grida: «La nostra vita è un inganno, la nostra morte un nero abisso». E i piedi della vittima di una così tremenda intimità prendono la strada della morte.

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Ma torniamo alle mie esperienze personali e agli effetti che in passato ebbe su di me la Logica Bianca di John Barleycorn. Alla mia bella fattoria nella Valle della Luna, il cervello inzuppato da molti mesi di alcool, mi opprime la tristezza cosmica che è sempre stata eredità dell'uomo. Invano mi chiedo perché debba essere triste. Le mie notti sono calde. Il mio tetto non lascia passare acqua. Ho cibo in abbondanza per ogni capriccio dell'appetito. Ogni agio concesso agli uomini è mio. Nel mio corpo non vi sono dolori. La buona vecchia macchina di carne fila via liscia. Né cervello né muscolo sono troppo affaticati. Ho terra, danaro, potenza, riconoscimento da parte del mondo, coscienza di fare la mia parte di bene nel servire gli altri, una compagna che amo, figli che sono della mia stessa carne. Ho fatto, e sto facendo, quello che dovrebbe fare ogni buon cittadino del mondo. Ho costruito case, molte case, ho arato molti acri. E in quanto agli alberi, ne ho piantati centomila. Dappertutto, da ogni finestra della mia casa, vedo questi alberi che ho piantato io, che si levano ben dritti e aspirano al sole.La mia vita mi ha portato in luoghi gradevoli. Non ci sono cento uomini su un milione che abbiano avuto altrettanta fortuna. Eppure, a dispetto d'una così grande fortuna, io sono triste. E sono triste perché c'è con me John Barleycorn. E John Barleycorn è con me perché io son nato in quello che i secoli a venire chiameranno l'oscuro evo della civiltà razionale. John Barleycorn è con me perché durante tutti i giorni inconsapevoli della mia giovinezza John Barleycorn fu disponibile, e mi chiamava e mi invitava a ogni angolo e a ogni strada fra un angolo e l'altro. La pseudociviltà nella quale nacqui permetteva dovunque botteghe autorizzate a vendere il veleno dell'anima. Il sistema di vita era organizzato in modo che io (e milioni come me) fossi adescato, attratto, trascinato a queste vendite di veleno. Segui dunque con me un solo fra i diecimila stati d'animo in cui mi precipitò John Barleycorn. Sto cavalcando nella mia bella fattoria. Ho sotto di me un bellissimo cavallo. L'aria è come un vino. L'uva sulle colline è rossa di fiamma autunnale. Al di là del Monte di Sonoma si levano dal mare bioccoli di nebbia. Il sole pomeridiano arde nel cielo sonnolento. Ho tutto quel che occorre per sentirmi contento di stare al mondo. Sono pieno di sogni e di misteri. Sono tutto sole, e aria, e favilla. Sono vitalizzato, organico. Mi muovo, ho il potere del movimento, comando il movimento della cosa viva che cavalco. Sono posseduto dalla fierezza di esistere, conosco fiere passioni e ispirazioni. Ho diecimila motivi di sentirmi augusto. Sono re nel regno del senso, e calpesto il volto della polvere che non si lamenta...Eppure, con occhio invidioso io guardo tutta la bellezza e la meraviglia che mi circonda, e con mente invidiosa considero la pietosa figura che io sono in questo mondo, che tanto a lungo mi ha sopportato e che continuerà anche senza di me. Rammento gli uomini che si ruppero il cuore e la schiena su questa terra ostinata che oramai mi appartiene. Come se una cosa imperitura potesse appartenere al perituro! Gli uomini sono passati. Anch'io passerò. Questi uomini faticarono, disboscarono e piantarono e guardarono con occhi doloranti, mentre riposavano i corpi induriti dal lavoro in questi stessi tramonti, in queste albe, allo splendore autunnale dell'uva, ai bioccoli di nebbia che sorgono dietro la montagna. E sono andati. E io so che anch'io, un giorno, presto, sarò andato.Andato? Sto già andando. Nella mia mandibola sono quegli abili artifizi dei dentisti, a sostituire parti di me già andate. Mai più riavrò i pollici della mia gioventù. Vecchie risse, vecchie lotte li hanno danneggiati, irreparabilmente. Il pugno in testa a quell'uomo di cui ho scordato il nome mi ha sistemato questo pollice, per sempre. Una brutta presa di lotta libera ha guastato l'altro. Il mio ventre asciutto di corridore è passato nel limbo della memoria. Le giunture delle gambe che mi sostengono non sono più quelle di un tempo, quando, nelle notti e nei giorni scatenati di fatica e di baldoria, io le volli tendere, stirare, rompere. Non potrò mai più tirarmi su in alto e affidare tutta quanta l'orgogliosa mia destrezza a una fune in mezzo alla tempesta buia. Non potrò mai più correre insieme ai cani da slitta lungo le miglia interminabili della posta artica.So benissimo che dentro questo corpo in disintegrazione, un corpo che sta morendo dal giorno in cui nacqui, io porto uno scheletro, che, sotto il fasciame di carne chiamato il mio volto, c'è una testa di morto ossuta e senza naso. Ma tutto questo non mi fa tremare. Aver paura significa essere sani. La paura della morte dà motivo di vita. Ma è la maledizione della Logica Bianca quella che ti fa non essere pauroso. La malattia cosmica della Logica Bianca ti fa ghignare giocosamente in faccia a quella che non ha naso, e ti fa irridere tutte le fantasmagorie della vita.Mi guardo intorno, mentre cavalco, e da ogni parte vedo lo spreco spietato, infinito, della

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selezione naturale. La Logica Bianca insiste affinché si aprano libri chiusi da tempo, e capoverso dopo capoverso, capitolo dopo capitolo, traduce la bellezza e la meraviglia che ammiro in termini di futilità, di polvere. Attorno a me è il mormorio e il ronzio e io so che questo è il ronzio della vita, che mendica un po' di spazio nell'aria turbata.Ritorno alla fattoria. E' il crepuscolo, e sono usciti gli animali cacciatori. Assisto al tragico gioco pietoso della vita che scampa alla vita. Non c'è moralità. La moralità è soltanto nell'uomo, e l'uomo l'ha creata - un codice di azione che serve alla vita e che appartiene a un ordine inferiore di verità. Eppure tutto questo io lo sapevo già prima, nei giorni stanchi della mia lunga malattia. Erano le verità più grandi che riuscii tanto bene a dimenticare; le verità tanto serie che io mi rifiutai di prenderle sul serio, e mi ci trastullai gentilmente - oh con quanta gentilezza - come se fossero cani addormentati nel fondo della coscienza che non volevo destare. Li scossi appena, e li lasciai mentire. Ero troppo saggio, troppo maledettamente saggio per destarli. Ma adesso, volente o nolente, me li desta la Logica Bianca, perché la Logica Bianca, valentissima, non ha paura di tutti i mostri d'un sogno terreno.«Mi condannino pure tutti i dottori di tutte le scuole» mi sussurra la Logica Bianca mentre arrivo a cavallo. «Che importa? Io sono la verità. Tu lo sai. Non puoi combattermi. Dicono che io giovo alla morte. Che importa? E' la verità. La vita mentisce per poter vivere. La vita è un perpetuo processo di menzogne. La vita è una danza folle in mezzo al flusso, una parte apparente d'una immensa marea legata alle ruote di lune che sfuggono al nostro controllo. Le apparenze sono fantasmi. La vita è una terra di fantasmi, dove le apparenze cambiano, si trasfondono, si permeano l'una con l'altra e con tutte le altre, che sono, che non sono, che sempre guizzano, sbiadiscono, passano, per ricomparire poi come apparenze nuove, o come altre apparenze. Anche tu sei una di queste apparenze, composta di innumerevoli apparenze del passato. Tutto ciò che un'apparenza può conoscere è miraggio. Tu conosci i miraggi del desiderio. Questi stessi miraggi sono le impensabili e incalcolabili congerie di apparenze che si affollano in te e ti formano dal passato, e che ti spingono a disseminarti in altre impensabili e incalcolabili congerie dì apparenze, per popolare la terra dei fantasmi del futuro. La vita è apparenza, e passa. Tu sei un'apparizione. Attraverso tutte le apparizioni che ti precedettero e che compongono le parti di te, tu sorgesti farfugliando dal pantano dell'evoluzione, e farfugliando te ne andrai, a fonderti, a permeare di te il processo delle apparizioni che verranno dopo di te».E naturalmente a tutto questo non c'è risposta, e mentre io avanzo a cavallo nelle ombre della sera, irrido al Gran Feticcio, come Comte definiva il mondo. E rammento quello che disse un altro pessimista sensibile. «Tutti sono transeunti. Quelli che sono nati, debbono morire, ed essendo morti sono lieti di stare in riposo».Ma ecco che nel crepuscolo arriva uno che non è contento di stare in riposo. E' un lavorante della fattoria, un vecchio, un immigrante italiano. Dinanzi a me si toglie il cappello, con perfetto servilismo, perché certamente io sono per lui un padrone della vita. Per lui io sono cibo, riparo, esistenza. Ha lavorato tutti i suoi giorni come una bestia, e ha vissuto peggio dei miei cavalli nello strame delle loro stalle. E' storpiato dal lavoro. Cammina barcollando. Ha una spalla più alta dell'altra. Le sue mani sono ridotte come due zampe smangiate, repellenti, orribili. Come esempio di apparizione, è piuttosto miserando. Il suo cervello è stupido quanto il suo corpo è brutto.«Il suo cervello è così stupido ch'egli non sa di essere un'apparizione», mi sghignazza la Logica Bianca. «I suoi sensi sono ebbri. E' uno schiavo del sogno della vita. Il suo cervello è pieno di sanzioni e di ossessioni iper-razionali. Egli crede in un sopramondo trascendente. Ha ascoltato le bizzarrie dei profeti, che gli hanno dato la sontuosa ubbia del paradiso. Avverte affinità che non sa esprimere, e irrealtà artificiose. Scorge ombrate visioni di se medesimo titubante e fantastico nei giorni e nelle notti dello spazio e delle stelle. Al di là d'ogni dubbio, è convinto che l'universo fu fatto per lui, e che è suo destino vivere per sempre nei regni immateriali e sovrasensibili che lui e quelli come lui han costruito con la materia della somiglianza e dell'inganno.«Ma tu, tu che hai aperto i libri e che condividi la mia tremenda consapevolezza, tu lo conosci per quello che è, fratello a te e polvere, bizzarria cosmica, scherzo della chimica, bestia vestita che sorse dalla massa della bestialità urlante per virtù e per caso dei pollici sovrapponibili. E' fratello anche del gorilla e dello scimpanzé. Si batte il petto per l'ira, e ruggisce e vibra di ferocia catalettica. Conosce impulsi mostruosi, atavici, ed è composto d'ogni genere di istinti abissali, dimenticati».«Eppure sogna di essere immortale» affermo a bassa voce. «E' immensamente meraviglioso

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per un così povero stupido cavalcare sulle spalle del tempo, nell'eternità».«Ba'», è la risposta. «Allora tu vorresti chiudere i libri e scambiarti di posto con questa cosa che è solamente appetito e desiderio, marionetta del ventre e dei lombi».«Essere stupido significa essere felice», oppongo.«Allora il tuo ideale di felicità è un organismo gelatinoso che galleggia su un mare crepuscolare, tepido, senza correnti, no?».Ah, la vittima non può farcela, con John Barleycorn!«A un passo dalla felicità annichilante del Nirvana buddista», aggiunge la Logica Bianca. «Ah, bene, ecco la casa. Stai allegro e bevi qualcosa. Noi sappiamo, noi illuminati, tu e io, sappiamo tutta la follia, e la farsa».E nella mia stanza ovattata di libri, mausoleo del pensiero degli uomini, prendo da bere, e poi bevo ancora, e desto i cani dormienti nei recessi del mio cervello e li aizzo contro i muri del pregiudizio e della legge, per tutti gli astuti labirinti della superstizione e della fede.«Bevi», dice la Logica Bianca. «Pensavano i greci che gli dei avessero dato loro il vino al fine di dimenticare quanto è miserabile l'esistenza. E rammenta quel che diceva Heine».Ricordo benissimo le parole fiammanti: «Con l'ultimo respiro tutto è compiuto: gioia, amore, dolore, maccheroni, il teatro, i cedri, le more, le potenze dei rapporti umani, i pettegolezzi, il latrato dei cani, lo champagne».«La tua luce bianca e chiara è malattia», dico alla Logica Bianca. «Tu mentisci».«Dicendoti una verità», ribatte.«Ahimé, sì, è così contorta l'esistenza», riconosco tristemente.«Ah, bene, Liu Ling era più saggio di te», schernisce la Logica Bianca. «Te lo ricordi?».Annuisco. Liu Ling, gran bevitore, uno del gruppo dei poeti beoni che si chiamavano i Sette Saggi del Bosco di Bambù, e che vissero in Cina molti secoli or sono.«Fu Liu, Ling» insiste la Logica Bianca», a dichiarare che a un uomo ubriaco le cose di questo mondo paiono come un'erba palustre su un fiume. Benissimo. Prendi un altro whisky, e lascia che somiglianza, inganni, diventino erbaccia su un fiume».E mentre verso e sorseggio il mio whisky, rammento un altro filosofo cinese, Chuang Tzu, il quale, quattro secoli prima di Cristo, affrontava questa terra di sogno affermando: «Come posso io dunque sapere che i morti si pentono d'essersi un tempo aggrappati alla vita? Quelli che sognano un banchetto, si destano per lamentarsi e per soffrire. Quelli che sognano lamenti e sofferenze, si destano per unirsi alla caccia. Finché sognano, non sanno di sognare. Alcuni addirittura interpretano il sogno che stanno sognando; e solo quando si destano sanno che era un sogno... Gli sciocchi pensano di essere desti, ora, e si lusingano a credere d'essere davvero principi, o contadini. Confucio e tu, siete ambedue sogno; e io, che ti dico che sei un sogno... sono un sogno anch'io».«Una volta io, Chuang Tzu, sognai d'essere una farfalla, e volavo di qua e di là, per ogni verso, in ogni modo ero farfalla. Ero consapevole soltanto di seguire i miei capricci di farfalla, ed ero inconscio della mia individualità di uomo. A un tratto mi destai, ed eccomi, daccapo me stesso. Ora non so se io fossi un uomo che sognava di essere farfalla, o se adesso sono una farfalla che sogna d'essere uomo».

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«Vieni», dice la Logica Bianca, «e dimentica questi sognatori asiatici dell'antichità. Riempi il bicchiere e guardiamo le carte dei sognatori di ieri che sognarono i loro sogni nelle tue stesse calde colline».Medito sulla storia dei proprietari della vigna chiamata Tokay, nella fattoria chiamata Petaluma. E' un elenco lungo, triste di nomi di uomini, a cominciare da un Manuel Micheltoreno, già «Governatore, Comandante-in-Capo e Ispettore del Dipartimento della California» per conto dello stato messicano, il quale assegnò dieci leghe quadrate di terra indiana rubata al Colonnello Don Mariano Guadalupe Vallejo per servigi resi al paese, e per il soldo da lui pagato per dieci anni ai suoi soldati.A un tratto questo ricordo ammuffito della brama di terra che ha l'uomo diventa formidabile come una battaglia, la repentina lotta contro la polvere. Ci sono fidejussioni, ipoteche, certificati di lasciti, di trasferimento, giudizi, clausole, affidavit, ordini di vendita, legami fiscali, richieste di lettere d'amministrazione, decreti di distribuzione. E' come un mostro mai soggiogato, questa terra ostinata che sonnecchia nell'estate indiana e che sopravvive a tutti loro, gli uomini che ne graffiarono la superficie e passaron via.Chi fu questo James King of William, dal nome così curioso? Il più vecchio fra i sopravvissuti della Valle della Luna non lo conosce. Eppure sessant'anni or sono, appena, egli prestò a Mariano G. Vallejo mille e ottocento dollari, sulla garanzia di certe terre, compresa la futura vigna che si chiamerà Tokay. Donde venne Peter O'Connor, e dove scomparve, dopo aver scritto il suo piccolo nome sul bosco, che doveva poi diventare vigneto? Eccoti Louis Csomortanyi, nome che pare un enigma. E dura per diverse pagine di questo documento della terra durevole.Arriva il vecchio ceppo americano, assetato per il Grande Deserto, che ha traversato l'istmo in groppa ai muli, che ha fatto il giro del Capo, per scrivere nomi brevi e dimenticati dove diecimila generazioni di indiani selvaggi giacciono egualmente dimenticate, nomi come Halleck, Hastings, Swett, Tait, Tracy, Grimwood, Carlton, Temple. Non ci sono nomi come quelli di oggi nella Valle della Luna.I nomi cominciano a comparire rapidi e infuriati, lampeggiano di pagina in pagina e in un lampo svaniscono. Ma sempre la terra rimane, durevole, perché altri la graffino. Vengono nomi di uomini dei quali ho sentito vagamente parlare ma che non ho mai conosciuto. Kohler e Frohling, i quali costruirono la grande cantina di pietra sulla vigna chiamata Tokay, e la costruirono in cima a una collina sulla quale altri vignaioli si rifiutavano di vendemmiare. In questo modo Kohler e Frohling andarono falliti e persero la terra; il terremoto del 1906 abbatte la cantina; e adesso io vivo sulle sue rovine.La Motte - spezzò la terra, piantò vigne e frutteti, istituì l'allevamento del pesce, costruì una magione rinomata ai suoi tempi, fu sconfitto dalla terra e passò via. Dove erano i suoi frutteti e le sue vigne, la sua fiera magione e le sue pescaie, io ho piantato cinquantamila eucalipti.Cooper e Greenlaw, sulla cosiddetta Fattoria della Collina lasciarono due loro morti «Little Lillie» e «Little David», i quali oggi riposano entro un quadratino di stecconata messa su a mano. Cooper e Greenlaw, ai tempi loro, dissodarono la foresta vergine, ricavandone tre campi di quaranta acri. Oggi possiedo io quei tre campi, e ci ho seminato piselli canadesi e a primavera li arerò dopo aver concimato verde.Haska, oscura figura leggendaria di una generazione fa, che risalì la montagna e ripulì sei acri di macchia nella valletta che porta il suo nome. Ruppe la terra, alzò muri di pietra e una casa, e piantò i meli. E già non si scopre più il luogo dove sorgeva la sua casa, e la posizione dei muri si può dedurre dalla configurazione del paesaggio, e io rinnovo la battaglia, mettendo le capre di Angora a brucare il bosco che ha sopraffatto la radura di Haska, e ha soffocato a morte i suoi meli. Dunque anch'io graffio la terra con il mio breve sforzo, e lascio il baleno del mio nome sulla scrittura legale prima che io passi e la pagina prenda la muffa.«Sognatori e fantasmi», ridacchia la Logica Bianca.«Ma di sicuro gli. sforzi non furono completamente vani», m'oppongo.«Si basavano sull'illusione e sono menzogna».«Una menzogna vitale», ribatto.«Ma una menzogna vitale non è sempre menzogna?» mi dice a sfida la Logica Bianca, «Dai, riempi il bicchiere ed esaminiamo queste menzogne vitali che affollano i tuoi scaffali. Parliamo un po' di William James».

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«Uomo di salute», dico. «Da lui non dobbiamo attenderci pietra filosofale, ma per lo meno in lui possiamo trovare certe cose salde, e toniche, a cui legarci».Sogghigna la Logica Bianca: «Razionalità castrata al sentimento. Alla fine del suo pensare egli ancora si aggrappa al sentimento dell'immortalità. Fatti che nell'alambicco della speranza si trasformano in termini di fede. Il frutto più maturo della ragione è la stoltificazione della ragione stessa. Dal picco più alto della ragione James insegna a smettere di ragionare e d'aver fede che tutto è bene e tutto sarà bene - il vecchio, antico, acrobatico trucco dei metafisici, i quali con la ragione scacciarono via la ragione, per sfuggire al pessimismo che derivava dal duro e sincero uso della ragione».«Questa carne sei tu? O non è forse qualcosa di estraneo che tu possiedi? Il tuo corpo, che cos'è? Una macchina per convertire gli stimoli in reazioni. Stimoli e reazioni restano nella memoria. Costituiscono l'esperienza. Dunque tu sei la coscienza. di questa esperienza. Tu sei in ciascun momento ciò che pensi in quel momento. Il tuo Io è insieme soggetto e oggetto; predica di sé le cose ed è le cose predicate. Il pensante è il pensiero, il conoscente è il conosciuto, il possessore è le cose possedute.«Dopo tutto, come tu ben sai, l'uomo è un flusso di stato conoscitivo, un flusso di pensieri che passano, ogni pensiero di sé un altro Sé, una miriade di pensieri, una miriade di Sé, un continuo divenire senza mai essere, un fuoco fatuo di fantasmi nella terra dei fantasmi. Ma questo, l'uomo non vuole accettarlo, di sé. Rifiuta di accettare il proprio passaggio. Vuole vivere ancora, anche se per far questo è costretto a morire.«Egli scozza atomi e fasci di luce, le nebulose remote, cascate d'acqua, aculei di sensazione, pantano e masse cosmiche, congetture spaurite e solenni arroganze, e con questa roba si costruisce un'immortalità per stupire i cieli e ingannare le immensità. Si rivolta nel letamaio, e come un bambino sperduto nel buio fra i demonietti, si rivolge agli dei e dice d'essere il loro fratello minore, prigioniero ma destinato a divenire libero quanto loro - monumenti di egoismo tenuti in piedi dagli epifenomeni; sogni e polvere di sogni, che svaniscono quando svanisce colui che sogna e non ci sono più quando lui non c'è.«Nulla di nuovo in queste menzogne che gli uomini dicono a se stessi, e le brontolano e le farfugliano come incantesimo contro il potere della Notte. I maghi e gli stregoni furono i padri della metafisica. La Notte e Colei che non ha il Naso sono gli orchi che tagliano la via della luce e della vita. E i metafisici volevano spuntarla anche a costo di mentire. Li vessava la legge dell'Ecclesiaste, che l'uomo muore come la bestia del campo, e la fine è la stessa. Il loro credo era il loro programma, le loro religioni erano la loro panacea; le loro filosofie erano i loro artifizi, grazie ai quali quasi credevano di superare la Notte e Colei che non ha Naso.«Fuochi fatui, vapori di misticismo, ipertoni psichici, orge dell'anima, gemiti fra le ombre, strani gnosticismi, veli e tessuti del mondo, soggettivismi farfuglianti, fantasie ontologiche, allucinazioni panpsichiche, ecco la materia, i fantasmi della speranza che riempiono il tuo scaffale. Guardali, tutti gli spettri degli uomini tristi e dei ribelli appassionati - i tuoi Schopenhauer, i tuoi Tolstoi, i tuoi Nietzsche.«Vieni. Il tuo bicchiere è vuoto. Riempi e dimentica.»Obbedisco, perché il mio cervello ormai si scalda al fuoco dell'alcool, e mentre bevo ai pensatori del mio scaffale, cito Richard Hovey:

«Abstain! not Life and Love like night and dayOffer themselves to us on their own terms,Not ours. Accept their bounty while ye may,Before we be accepted by the worms».

[Non astenerti! Vita e Amore come notte e giornosi offrono a noi alle loro condizioni,non alle nostre. Accetta il loro dono finché puoi,prima che siano i vermi ad accettare noi.]

«Ti voglio vincere», grida la Logica Bianca.«No», rispondo, mentre il cervello s'arroventa e mi fa impazzire. «Ti conosco per quello che sei, e non ho paura. Sotto la maschera dell'edonismo sei tu Quella senza Naso, e la tua strada porta alla Notte. L'edonismo non ha significato. Anche quello è una bugia, al massimo è il compromesso di un vile...».«Ora ti vinco!» interrompe la Logica Bianca.

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«But if you would not this poor life fulfil,Lo, you are free to end it when vou will,Without the fear of waking after death».

[Ma se non vuoi appagare questa povera vita,allora tu sei libero di finirla quando tu voglia,senza paura di destarti dopo la morte.]

E rido della mia sfida; per ora, per il momento, so che la Logica Bianca è fra tutti il sommo impostore, che sussurra i suoi avvisi di morte. Ed è colpevole del proprio smascheramento, con la sua chimica geniale che si rivolge contro di lei, con le sue larve che mangiano vive le vecchie illusioni, che risorgono e fanno risuonare la vecchia voce da dietro la mia giovinezza, che di nuovo mi dicono che ancora sono mie le possibilità e le forze che la vita e i libri mi insegnarono non esistere.E il gong della cena suona sul fondo del mio bicchiere. Schernendo la Logica Bianca, vado a raggiungere i miei ospiti a tavola, e con fittizia serietà discuto i giornali in voga e le sciocche azioni del mondo d'oggi, spazzando via ogni trucco polemico in ogni fase del paradosso e della dissimulazione. E quando cambia l'umore, è facilissimo e deliziosamente sconcertante baloccarsi con i feticci rispettabili e vigliaccamente borghesi, e ridere e pensare epigrammi contro gli dèi-fantasmi e contro la deboscia e la follia della saggezza.Il clown, ecco, il clown! Il clown! Se un uomo dev'essere filosofo, che sia Aristofane. E nessuno a tavola pensa che io sia brillo. Sono in forma, ecco tutto. Sono stanco della fatica di pensare, e quando la tavola è finita, racconto qualche storiella e faccio giocare tutti quanti con spavalderia bucolica.E finita la sera, e augurata la buona notte, io rientro nella mia tana foderata di libri, verso il sonno, verso me stesso, verso la Logica Bianca che, invitta, non mi ha mai abbandonato. E mentre cado nel mio sonno confuso, sento la gioventù che grida, come la sentiva Harry Kemp:

«I heard Youth calling in the night:'Gone is my former world-delight;For there is naught my feet may stay;The morn suffuses into day,It dare not stand a moment stillBut must the world with light fulfil.More evanescent than the roseMy sudden rainbow comes and goes,Plunging bright ends across the skyYes, I am Youth because I die!»

[Sentii Giovinezza che chiamava nella notte:sparita la mia antica gioia del mondo;perché nulla c'è che i miei piedi sostenga;il mattino sfuma nel giorno;io non oso restate un momento fermo ma debbo riempire il mondo di luce.Più evanescente della rosail mio improvviso arcobaleno viene e va,traversando il cielo coi suoi chiari estremi -sì, io, sono Giovinezza perché muoio!].

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Quel che precede è un esempio dei vagabondaggi con la Logica Bianca attraverso le ombre della mia anima. Facendo quanto meglio potevo, ho cercato di dare al lettore uno scorcio della segreta dimora di un uomo, quand'egli la divide con John Barleycorn. E il lettore deve rammentare che questo stato d'animo, che egli ha letto in un quarto d'ora, è soltanto uno fra gli stati d'animo degli innumerevoli di John Barleycorn, e che il processo di questi stati d'animo può durare anche ventiquattro ore, e per molti giorni e settimane e mesi.Le mie reminiscenze alcooliche si avvicinano alla fine. Posso dire, come dice ogni bevitore forte e robusto, che se io sono oggi vivo sul pianeta, lo debbo alla mia immeritata fortuna - la fortuna del petto, delle spalle, della costituzione. Oso dire che una non grande percentuale di giovani, nel periodo formativo fra i quindici e i diciassette anni, avrebbe potuto sopravvivere al peso del gran bere a cui sopravvissi io fra i quindici e i diciassette; che una non grande percentuale di uomini avrebbe potuto aver ragione dell'alcool di cui ho avuto ragione io, sopravvivendo per poi raccontarvelo. Sopravvissi non per virtù personale, ma perché non avevo la costituzione chimica di un dipsomane, e perché possedevo un organismo straordinariamente resistente alle devastazioni di John Barleycorn. E sopravvivendo ho visto altri morire, meno di me fortunati, lungo la lunga strada triste.Fu la mia buona sorte, intatta e assoluta, la fortuna, il caso, chiamatelo come vi pare, che mi fece passare sopra i fuochi di John Barleycorn. La mia vita, la mia carriera, la mia gioia di essere al mondo, non sono andate distrutte. Si sono bruciate, è vero; come sopravvissute d'una speranza persa, in maniera incredibilmente miracolosa hanno attraversato la lotta e stupiscono dinanzi alla misura della strage.E come il sopravvissuto a una vecchia guerra esclama: «Non ci siano più guerre!» così io grido: «Non ci siano più per i nostri giovani lotte con il veleno!». Il solo modo per far cessare una guerra è farla cessare. La Cina smise l'uso generale dell'oppio smettendone la coltivazione e l'importazione. I filosofi, i preti, i dottori della Cina avrebbero anche potuto sfiatarsi per un millennio a tuonare contro l'oppio e l'uso dell'oppio; nella misura in cui esso era disponibile e accessibile, sarebbe continuato, intatto. Siamo fatti così, ecco tutto.Noi siamo riusciti benissimo a far sì che l'arsenico e la stricnina, i germi del tifo e della tubercolosi, pronti a uccidere i nostri bambini, siano andati distrutti. Trattiamo allo stesso modo John Barleycorn. Fermiamolo. Non lo lasciamo in giro, autorizzato, legalizzato, schiacciare i nostri giovani. Io qui non parlo di chi ama, per chi ama l'alcool, ma per i nostri giovani, per quelli che possiedono la predisposizione all'avventura, l'impulso alla simpatia umana, e che vengono contorti dalla nostra civiltà barbara, che a ogni angolo dà loro in pasto veleno. Io scrivo per i giovani sani, normali, nati o da nascere.Fu per questo motivo, più che per ogni altro, e più ardentemente che per ogni altro, che io affrontai a cavallo la Valle della Luna, brillo, e votai per l'eguaglianza nel suffragio. Votai il voto alle donne, perché sapevo che loro, mogli e madri della nostra gente, avrebbero votato la fine di John Barleycorn, il suo esilio nel limbo dei nostri ormai scomparsi costumi selvaggi. Se a qualcuno sembrerà che io parli col tono di chi ci è rimasto ferito, io lo prego di ricordare che la ferita mia fu grave e che non mi piace il pensiero che un mio figlio o una mia figlia, un vostro figlio o una vostra figlia, soffrano della stessa ferita.Le donne sono le vere conservatrici della nostra razza. Gli uomini sono i vagabondi, gli avventurieri, i giocatori d'azzardo, e alla fine sono le donne che li salvano. Il primo esperimento chimico dell'uomo fu forse l'alcool, e per tutte le generazioni fino a quella d'oggi l'uomo ha continuato a fabbricarlo e a berlo. E non c'è stato giorno in cui le donne non si siano opposte all'uso dell'alcool, anche se non hanno mai avuto la forza di dar peso al proprio risentimento. Nel momento in cui le donne ottengono il voto, in una qualsiasi comunità, per prima cosa vorranno la chiusura dei saloon. In mille generazioni a venire gli uomini, da soli, non chiuderanno i saloon. Sarebbe come aspettarsi che le vittime della morfina decretino la fine della morfina.Le donne sanno. Hanno pagato uno scotto incalcolabile, di sudore e di lacrime, per l'uso che l'uomo fa dell'alcool. Sempre gelose del genere umano, esse decreteranno a favore dei loro piccoli, per i giovani di domani; e anche per le figlie delle ragazze, che dovranno essere, di questi ragazzi, le madri, le mogli e le sorelle.E sarà facile. I soli a soffrirne saranno i bevitori incalliti e stagionati di una sola generazione. Io son uno di questi, e garantisco solennemente, in base a un lungo traffico con John Barleycorn,

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che non mi farà molto male smettere di bere, quando nessuno più beva, e quando non sia disponibile da bere. D'altra parte, la stragrande maggioranza dei giovani è di norma non predisposta all'alcool sì che essi, non avendone a disposizione, non ne sentiranno la mancanza. Sapranno del saloon solo dalle pagine della storia, e penseranno che il saloon era una strana vecchia consuetudine antica, come la lotta del cane col toro o come il rogo per le streghe.

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Naturalmente la storia di una persona non è completa se il racconto non arriva sino all'immediato presente della persona. Ma la mia non è la storia di un ubriacone ravveduto. Io non sono mai stato un ubriacone, e non mi sono mai ravveduto.Il caso volle che qualche tempo fa io facessi un viaggio di cento e quarantotto giorni a bordo di un veliero che doppiava Capo Horn. Non mi portai dietro alcuna provvista personale di alcool, e seppure durante tutti e cento e quarantotto giorni il capitano fu sempre pronto a darmi da bere, io non bevvi. Nessun altro a bordo beveva. Mancava la atmosfera del bere, e nel mio organismo non esisteva alcun bisogno di alcool. La mia chimica interna non lo richiedeva.Così mi sorse un problema, un problema chiaro e semplice: "E' tanto facile, perché non continuare anche a terra?" Pesai con attenzione il problema. Lo pesai per cinque mesi, in uno stato di astinenza assoluta dall'alcool. E secondo i dati dell'esperienza passata, giunsi a certe conclusioni.In primo luogo sono convinto che non un uomo su diecimila o su centomila è un autentico dipsomane chimico. Il bere, a mio avviso, è in pratica un'abitudine del tutto meccanica. Non è come il tabacco, o la cocaina, o la morfina, o tutto il resto del lungo elenco delle droghe. Il desiderio dell'alcool è, alle origini, tipicamente mentale. E' una questione di avvezzamento mentale, che si coltiva in un terreno sociale. Non c'è un bevitore su un milione a cui piaccia bere da solo. Tutti i bevitori cominciano in compagnia, e questo bere si accompagna a mille connotati sociali come quelli che ho descritto in base alla mia esperienza personale, nella prima parte di questa storia. Questi connotati sociali sono la materia di cui in larga misura si compone il bere. La parte che vi ha l'alcool è in sé trascurabile se la confrontiamo con la parte che vi ha l'atmosfera sociale in cui si beve. Di rado nasce un uomo, ai tempi nostri che, senza il lungo avvezzamento ai legami sociali del bere, senta nel suo organismo un'irresistibile spinta chimica verso l'alcool. Presumo che individui così rari esistano, ma non ne ho mai conosciuto uno.Durante questo lungo viaggio di cinque mesi, notai che fra i miei bisogni corporei non esisteva l'ombra di bisogno dell'alcool. Quando pensavo all'alcool, lo associavo col cameratismo. Amicizia e alcool erano fratelli siamesi. Si presentavano sempre congiunti.Poi, quando leggevo sul ponte o quando parlavo con gli altri, in pratica ogni accenno a qualsiasi parte del mondo a me noto faceva sorgere subito i connotati del bere e delle buone amicizie. Notti brave, e giornate e istanti, libertà e brani di porpora mi affollavano la memoria. Dalla pagina stampata mi guarda «Venezia» e io rammento i tavolini sul marciapiede. Uno dice: «La battaglia di Santiago» e io rispondo: «Sono stato da quelle parti». Ma non vedo il terreno, non vedo Monte Kettle, non vedo l'Albero della Pace. Vedo soltanto il caffè Venus, sulla piazza di Santiago, dove una notte calda parlai e bevvi con un rottame umano.L'Est End di Londra, leggo, oppure sento dire; e innanzi tutto, sotto le palpebre balzano visioni di lucidi pub, e nelle orecchie sento riecheggiare «due di amaro», «tre di scotch». Il Quartiere Latino - d'un tratto sono in un cabaret con gli studenti, facce chiare e spiriti acuti attorno a me, che bevono assenzio fresco, ben dosato, mentre le nostre voci sorgono, alla maniera latina, e si discute di Dio, di arte, di democrazia e di tutti gli altri semplici problemi dell'esistenza.Durante un "pampero" fuor di Rio de la Plata, discutiamo se non sia il caso di fare rotta su Buenos Ayres, la «Parigi d'America», e io vedo luoghi dove si radunano gli uomini, vedo l'allegria dei bicchieri levati, e il canto e gli evviva e le voci simpatiche. Quando abbiamo preso la rotta dei traffici nordorientali del Pacifico cerchiamo di persuadere il nostro capitano morente di dirigersi su Honolulu, e mentre lo persuado vedo me stesso che bevo cocktail in un fresco "lanai" a Waikiki, dove spumeggia la risacca. Qualcuno parla di come si cucinano le anatre selvatiche nei ristoranti di San Francisco, e subito io son trasportato alla luce e al chiasso di tante tavole, dove vedo vecchi amici al di là del bordo di un lungo calice pieno di vino del Reno.E così meditavo il mio problema. Avrei potuto rivederli tutti questi bei luoghi del mondo, ma alla maniera in cui li avevo già visitati. "Bicchiere in mano!" C'è della magia nella frase. Significa molto più di quanto vogliano dire queste parole del dizionario. E' un'abitudine mentale a cui mi sono avvezzo per tutta quanta la vita mia. Ormai fa parte della materia che mi compone. Mi piacciono gli scherzi spiritosi, le risate possenti, le voci sonanti degli uomini quando, bicchiere in mano, chiudono fuori dell'uscio il mondo grigio e stimolano il cervello con il gioco e la follia di un pulsare accelerato.

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No, conclusi; qualche volta berrò. Con tutti i libri sullo scaffale, con tutti i pensieri dei pensatori ombrati dal mio singolare temperamento. Freddamente, deliberatamente, io decisi di continuare a fare ciò che m'ero avvezzo a fare. Avrei bevuto, ma sì, con più abilità, con più discrezione che mai. Mai più sarei stato una conflagrazione ambulante. Mai più avrei invocato la Logica Bianca. Avevo imparato in che modo non invocarla.La Logica Bianca oggi giace debitamente sepolta accanto alla Lunga Malattia. E non mi affliggeranno mai più. Sono molti anni che ho messo da parte la Lunga Malattia. E altrettanto profondo è il sonno della Logica Bianca. Eppure, in conclusione, posso ben dire che avrei voluto che i miei antenati bandissero John Barleycorn, prima che venissero i giorni miei. Mi rammarica il fatto che John Barleycorn sia fiorito in ogni parte del sistema sociale nel quale io nacqui, altrimenti non avrei fatto la sua conoscenza, e nella sua conoscenza ho fatto un lungo tirocinio.

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1. Nella tradizione popolare americana John Barleycorn personifica l'alcool. Barleycorn vuol dire orzo, e infatti dalla distillazione dei cereali si ricava il whisky (N.d.T.)2. Nella tradizione popolare americana John Barleycorn personifica l'alcool. Barleycorn vuol dire orzo, e infatti dalla distillazione dei cereali si ricava il whisky (N.d.T.)

3."Katzenjammer". La parola tedesca indica la nausea e l'emicrania che si provano al ridestarsi dopo una sbornia. (N.d.T.)