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SOMMARIO

1. L’abuso del diritto: si può recedere senza causa (ad nutum) ma non senza modi (ad libitum) ..........................................................................................................................................3 a) Corte di Cassazione Sez. III Civile, 18 settembre 2009, n. 20106 ..................................................3

2. Le Sezioni Unite tornano sulla (in) frazionabilità del credito ....................................................9 a) Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 16 febbraio 2017, n. 4090 ......................................................9

3. Uso selettivo delle nullità ed exceptio doli generalis: rimessione alle Sezioni Unite ................. 14 a) Cass. civ. 2 ottobre 2018, n. 23927 .............................................................................................. 14

4. La responsabilità per concessione abusiva di credito .............................................................. 17 a) Cass. civ., sez. I, 14 maggio 2018, n. 11695 ................................................................................ 17

5. Contatto sociale e responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione ............. 19 a) Cass. civ., 12 luglio 2016, n. 14188 ............................................................................................. 19

6. Contatto sociale e responsabilità dell’insegnante per la morte dell’alunno .......................... 26 a) Cass. 28 aprile 2017, n. 10516 .................................................................................................. 26

7. Mediazione atipica e contatto sociale ......................................................................................... 28 a) Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 2019, n. 482 .................................................................................. 28 b) Cass. civ., sez. III, 14 luglio 2009, n. 16382 ................................................................................ 29

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1. L’ABUSO DEL DIRITTO: SI PUÒ RECEDERE SENZA CAUSA (AD NUTUM) MA NON SENZA MODI (AD LIBITUM)

a) Corte di Cassazione Sez. III Civile, 18 settembre 2009, n. 20106

massime

Si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con mo-dalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustifi-cato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti. Ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esi-stenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, giacché ciò che è censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso di esso (in applicazione di tale principio, è stata cassata la decisione di merito la quale aveva ritenuto insindacabile la decisione del concedente di recedere ad nutum dal contratto di concessione di vendita, sul presupposto che tale diritto gli era espressamente riconosciuto dal contratto).

MOTIVAZIONE((omissis))Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un

rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l’esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.).

In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di con-dotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476).

Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sot-tostanti all’esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttez-za, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell’ordinamento giuridico.

L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giu-ridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” impo-sti dall’art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche

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in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giu-sto equilibrio degli opposti interessi.

La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttez-za e buona fede) “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore”, operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell’ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell’equilibrio e della proporzione.

Criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva è quello dell’a-buso del diritto.

Gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto – ricostruiti attraverso l’apporto dottrinario e giurisprudenziale – sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettua-to secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di eserci-zio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L’abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. È ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autono-mia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede.

Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l’ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.

E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conse-guiti o conservati i vantaggi ottenuti – ed i diritti connessi – attraverso atti di per sè strutturalmen-te idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l’ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.

Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l’abuso del diritto.La cultura giuridica degli anni ‘30 fondava l’abuso del diritto, più che su di un principio giuri-

dico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza – o quantomeno prevedibilità del diritto –, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell’abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini gene-rali, che “nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto” (così ponendosi l’ordinamento italiano in contrasto con altri

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ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l’abuso in relazione a particolari ca-tegorie di diritti.

Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevan-za è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (…).

Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l’esercizio del diritto di voto sotto l’aspetto dell’abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti – con approfittamento di una posizione di supremazia – con l’imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale).

In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici.

E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di mi-noranza, in violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto (v. Cass. 11.6.2003 n. 9353).

Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all’esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell’ambito societario, la materia dell’abuso del diritto è stata esaminata con rife-rimento alla qualità di socio ed all’adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell’abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258).

((omissis))In materia contrattuale, poi, gli stessi principi sono stati applicati, in particolare, con riferimen-

to al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273).

Del principio dell’abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell’esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057).

Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell’abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell’ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano.

Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione.Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell’abuso del diritto, debbono essere selezionati

e rivisitati alla luce dei principi costituzionali – funzione sociale ex art. 42 Cost. – e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vi-cenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l’interpretazione dell’atto giuridico di autonomia privata e, prospet-

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tando l’abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti.

Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall’ordinamento, si avrà abuso.In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determi-

nerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principi e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata.

La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:1) il giudice non ha alcuna possibilità di controllo sull’atto di autonomia privata; “2) la previ-

sione contrattuale del recesso ad nutum dal contratto non consente, quindi, da parte del giudice, il sindacato su tale atto, non essendo necessario alcun controllo causale circa l’esercizio del potere, perché un tale potere rientra nella libertà di scelta dell’operatore economico in un libero mercato; 3) La R. I. non doveva tenere conto anche dell’interesse della controparte o di interessi diversi da quello che essa aveva alla risoluzione del rapporto”; 4) la insussistenza di un’ipotesi di recesso illegittimo comporta la non pertinenza del richiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c.; 5) i principi di cor-rettezza e buona fede non creano obbligazioni autonome, ma rilevano soltanto per verificare il puntuale adempimento di obblighi riconducibili a determinati rapporti; 6) Non sono presenti nel caso in esame i principi enucleati dalla giurisprudenza in tema di abuso del diritto;

e ciò perché “La sussistenza di un atto di abuso del diritto (speculare ai cosiddetti atti emula-tivi) postula il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell’assenza di utilità per il titolare del diritto, e di un elemento soggettivo costituito dall’animus nocendi, ossia l’intenzione di nuo-cere o di recare molestia ad altri”; 7) “Il mercato, concepito quale luogo della libertà di iniziativa economica (garantita dalla Costituzione), presuppone l’esistenza di soggetti economici in grado di esercitare i diritti di libertà in questione e cioè soggetti effettivamente responsabili delle scelte d’impresa ad essi formalmente imputabili. La nozione di mercato libero presuppone che il gioco della concorrenza venga attuato da soggetti in grado di autodeterminarsi”;

8) Alla libertà di modificare l’assetto di vendita, da parte della R. I. spa, conseguiva che il recesso ad nutum rappresentava, per il titolare di tale facoltà, il mezzo più conveniente per rea-lizzare tale fine: non sussiste, quindi, l’abuso”; 9) La impossibilità di ipotizzare “un potere del giudice di controllo diretto sugli atti di autonomia privata, in mancanza di un atto normativo che specifichi come attuare tale astratta tutela”, produce, come effetto, quello della introdu-zione di “un controllo di opportunità e di ragionevolezza sull’esercizio del potere di recesso; al che consegue una valutazione politica, non giurisdizionale dell’atto”; 10) La impossibilità di procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico e, particolarmente, “in ambi-to contrattuale in cui i valori di riferimento non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti e la composizione del conflitto avviene proprio seguendo i parametri legali dell’incontro delle volontà su una causa eletta dall’ordinamento come meritevole di tutela” fa sì che “Solo allorché ricorrono contrasti con norme imperative, può essere sanzionato l’esercizio di una facoltà, ma al di fuori di queste ipotesi tipiche, normativamente previste, residua la più ampia libertà della autonomia privata”.

Le affermazioni contenute nella sentenza impugnata non sono condivisibili sotto diversi pro-fili.

Punto di partenza dal quale conviene prendere le mosse è quello che non è compito del giudice valutare le scelte imprenditoriali delle parti in causa che siano soggetti economici, scelte che sono, ovviamente, al di fuori del sindacato giurisdizionale. Diversamente, quando, nell’ambito dell’atti-vità imprenditoriale, vengono posti in essere atti di autonomia privata che coinvolgono – ad es. nei contratti d’impresa – gli interessi, anche contrastanti, delle diverse parti contrattuali.

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In questo caso, nell’ipotesi in cui il rapporto evolva in chiave patologica e sia richiesto l’in-tervento del giudice, a quest’ultimo spetta di interpretare il contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti.

Ciò vuoi significare che l’atto di autonomia privata è, pur sempre, soggetto al controllo giuri-sdizionale.

Gli strumenti di interpretazione del contratto sono rappresentati: il primo, dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate; con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa; con l’adozione eventuale degli altri criteri interpretativi, comunque, di natura sussidiaria.

Ma il contratto e le clausole che lo compongono – ai sensi dell’art. 1366 c.c. – debbono essere interpretati anche secondo buona fede. Non soltanto.

Il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il contratto nel suo svolgimento, dalla formazione all’esecuzione, ed, es-sendo espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell’ottica di un bilanciamento degli interes-si vicendevoli, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche.

La sua violazione, pertanto, costituisce di per sè inadempimento e può comportare l’obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato (v. anche S.U. 15.11.2007 n. 23726; Cass. 22.1.2009 n. 1618; Cass. 6.6.2008 n. 21250; Cass. 27.10.2006 n. 23273; Cass. 7.6.2006 n. 13345; Cass. 11.1.2006 n. 264).

Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice, finalizza-to al controllo – anche in senso modificativo o integrativo – dello statuto negoziale; e ciò quale garanzia di contemperamento degli opposti interessi (v. S.U. 15.11.2007 n. 23726 ed i richiami ivi contenuti).

Il giudice, quindi, nell’interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell’ot-tica dell’equilibrio fra i detti interessi.

Ed è su questa base che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare ed interpretare le clausole del contratto – in particolare quella che prevedeva il recesso ad nutum – anche al fine di riconosce-re l’eventuale diritto al risarcimento del danno per l’esercizio di tale facoltà in modo non confor-me alla correttezza ed alla buona fede.

((omissis))Anche con riferimento all’abuso del diritto, le indicazioni fornite dalla Corte di merito non

possono essere seguite.Il controllo del giudice sul carattere abusivo degli atti di autonomia privata è stato pienamente

riconosciuto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità, cui si è fatto cenno.La conseguenza è l’irrilevanza, sotto questo aspetto, delle considerazioni svolte in tema di li-

bertà economica e di libero mercato.Nessun dubbio che le scelte decisionali in materia economica non siano oggetto di sindacato

giurisdizionale, rientrando nelle prerogative dell’imprenditore operante nel mercato, che si assu-me il rischio economico delle scelte effettuate.

Ma, in questo contesto, l’esercizio del potere contrattuale riconosciutogli dall’autonomia priva-ta, deve essere posto in essere nel rispetto di determinati canoni generali – quali quello appunto della buona fede oggettiva, della lealtà dei comportamenti e delle correttezza – alla luce dei quali debbono essere interpretati gli stessi atti di autonomia contrattuale.

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Ed il fine da perseguire è quello di evitare che il diritto soggettivo, che spetta a qualunque con-sociato che ne sia portatore, possa sconfinare nell’arbitrio.

Da ciò il rilievo dell’abuso nell’esercizio del proprio diritto. La libertà di scelta economica dell’imprenditore, pertanto, in sè e per sè, non è minimamente scalfita; ciò che è censurato è l’a-buso, ma non di tale scelta, sebbene dell’atto di autonomia contrattuale che, in virtù di tale scelta, è stato posto in essere. L’irrilevanza, per il diritto, delle ragioni che sono a monte della conclu-sione ed esecuzione di un determinato rapporto negoziale, non esclude – ma anzi prevede – un controllo da parte del giudice, al fine di valutare se l’esercizio della facoltà riconosciuta all’autono-mia contrattuale abbia operato in chiave elusiva dei principii espressione dei canoni generali della buona fede, della lealtà e della correttezza.

Di qui il rilievo riconosciuto dall’ordinamento – al fine di evitare un abusivo esercizio del diritto – ai canoni generali di interpretazione contrattuale.

Ed in questa ottica, il controllo e l’interpretazione dell’atto di autonomia privata dovrà essere condotto tenendo presenti le posizioni delle parti, al fine di valutare se posizioni di supremazia di una di esse e di eventuale dipendenza, anche economica, dell’altra siano stati forieri di comporta-menti abusivi, posti in essere per raggiungere i fini che la parte si è prefissata.

Per questa ragione il giudice, nel controllare ed interpretare l’atto di autonomia privata, deve operare ed interpretare l’atto anche in funzione del contemperamento degli opposti interessi delle parti contrattuali.

((omissis))Il problema è che la valutazione di un tale atto deve essere condotta in termini di “conflittua-

lità”. Ovvero: posto che si verte in tema di interessi contrapposti, di cui erano portatrici le parti, il punto rilevante è quello della proporzionalità dei mezzi usati. Proporzionalità che esprime una certa procedimentalizzazione nell’esercizio del diritto di recesso (per es. attraverso la previsione di trattative, il riconoscimento di indennità ecc.). In questo senso, la Corte di appello non poteva esimersi da un tale controllo condotto, secondo le linee guida esposte, anche, quindi, sotto il pro-filo dell’eventuale abuso del diritto di recesso, come operato.

In concreto, avrebbe dovuto valutare – e tale esame spetta ora al giudice del rinvio – se il recesso ad nutum previsto dalle condizioni contrattuali, era stato attuato con modalità e per perseguire fini diversi ed ulteriori rispetto a quelli consentiti.

Ed in questo esame si sarebbe dovuta avvalere del materiale probatorio acquisito, esaminato e valutato alla luce dei principii oggi indicati, al fine di valutare – anche sotto il profilo del suo abuso – l’esercizio del diritto riconosciuto.

In ipotesi, poi, di eventuale, provata disparità di forze fra i contraenti, la verifica giu-diziale del carattere abusivo o meno del recesso deve essere più ampia e rigorosa, e può prescindere dal dolo e dalla specifica intenzione di nuocere: elementi questi tipici degli atti emulativi, ma non delle fattispecie di abuso di potere contrattuale o di dipendenza economica.

Le conseguenze, cui condurrebbe l’interpretazione proposta dalla sentenza impugnata, sono inaccettabili.

La esclusione della valorizzazione e valutazione della buona fede oggettiva e della ri-levanza anche dell’eventuale esercizio abusivo del recesso, infatti, consentirebbero che il recesso ad nutum si trasformi in un recesso, arbitrario, cioè ad libitum, di sicuro non consen-tito dall’ordinamento giuridico.

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2. LE SEZIONI UNITE TORNANO SULLA (IN) FRAZIONABILI-TÀ DEL CREDITO

a) Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 16 febbraio 2017, n. 4090

massima

Le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi. Se tuttavia i suddetti diritti di credito, oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque “fondati” sul medesimo fatto costitutivo – sì da non poter essere accertati sepa-ratamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale –, le relative domande possono essere proposte in separati giudizi solo se risulta in capo al creditore agente un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata. Ove la necessità di siffatto interesse (e la relativa mancanza) non siano state dedotte dal convenuto, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ai sensi dell’art. 183 c.p.c. e, se del caso, riservare la decisione assegnando alle parti termine per memorie ai sensi dell’art. 101 comma 2 c.p.c..

MOTIVAZIONE(omissis)2. Risulta sottoposta allo scrutinio delle Sezioni unite la questione “se, una volta cessato il

rapporto di lavoro, il lavoratore debba avanzare in un unico contesto giudiziale tutte le pretese creditorie che sono maturate nel corso del suddetto rapporto o che trovano titolo nella cessazio-ne del medesimo e se il frazionamento di esse in giudizi diversi costituisca abuso sanzionabile con l’improponibilità della domanda”.

Con la sentenza n. 23726 del 2007 le Sezioni unite sono intervenute sulla questione e, mutando il precedente orientamento (sent. n. 108 del 2000), hanno affermato che non è consentito al cre-ditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di “un unico rapporto obbligatorio”, frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo. Tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale aggravamento della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede sia con il principio costituzionale del giusto processo, in quanto la parcellizzazione della domanda diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria si tra-duce in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale.

Più recentemente le Sezioni unite, con la sentenza n. 26961 del 2009 (pronunciata in tema di giurisdizione), riferendosi alle obbligazioni pecuniarie nascenti da un unico rapporto di lavoro, hanno ribadito quanto affermato dalla sentenza n. 23726 del 2007, sostenendo che costituisce principio generale la regola secondo la quale “la singola obbligazione” va adempiuta nella sua interezza ed in un’unica soluzione, dovendosi escludere che la stessa possa, anche nell’eventuale fase giudiziaria, essere frazionata dal debitore o dal creditore.

Come emerge con chiarezza dalla lettura delle sentenze suddette, quando le sezioni unite han-no discusso di (in)frazionabilità del credito si sono riferite sempre ad un singolo credito, non ad

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una pluralità di crediti facenti capo ad un unico rapporto complesso. Pertanto solo una interpre-tazione dell’espressione “unico rapporto obbligatorio”, avulsa dal contesto nel quale essa è inse-rita, può indurre a ritenere che nella sentenza n. 23726 del 2007 il principio di infrazionabilità sia stato espressamente affermato non (soltanto) in relazione ad un singolo credito, bensì (anche) in relazione ad una pluralità di crediti riferibili ad un unico rapporto di durata.

Risulta inoltre evidente che l’infrazionabilità del singolo diritto di credito (decisamente con-divisibile, nella considerazione che la parte può disporre della situazione sostanziale ma non dell’oggetto del processo, da relazionarsi al diritto soggettivo del quale si lamenta la lesione, in tutta l’estensione considerata dall’ordinamento) non comporta inevitabilmente (tanto meno implicitamente) la necessità di agire nel medesimo, unico processo per diritti di credito diversi, distinti ed autonomi, anche se riferibili ad un medesimo rapporto complesso tra le stesse parti.

I rilievi che precedono non esimono tuttavia le Sezioni unite dal dare risposta al quesito sopra prospettato (se il lavoratore, una volta cessato il rapporto di lavoro, debba avanzare in un unico processo tutte le pretese creditorie maturate nel corso del medesimo rapporto – quindi, più in generale, se debbano essere richiesti nello stesso processo tutti i crediti concernenti un unico rapporto di durata – e se la proposizione delle domande relative in giudizi diversi comporti l’im-proponibilità di quelle successive alla prima).

Tale risposta non può che essere negativa con riguardo ad entrambi i profili considerati.3. La tesi secondo la quale più crediti distinti, ma relativi ad un medesimo rapporto di durata,

debbono essere necessariamente azionati tutti nello stesso processo non trova, infatti, conferma nella disciplina processuale, risultando piuttosto questa costruita intorno a una prospettiva affatto diversa.

Il sistema processuale risulta, invero, strutturato su di una ipotesi di proponibilità in tempi e processi diversi di domande intese al recupero di singoli crediti facenti capo ad un unico rappor-to complesso esistente tra le parti, come autorizza a ritenere la disciplina di cui agli artt. 31, 40 e 104 c.p.c. in tema di domande accessorie, connessione, proponibilità nel medesimo processo di più domande nei confronti della stessa parte. Ulteriori argomenti in tal senso possono trarsi dalla contemplata possibilità di condanna generica ovvero dalla prevista necessità, ex art. 34 c.p.c., di esplicita domanda di parte perché l’accertamento su questione pregiudiziale abbia efficacia di giu-dicato. D’altro canto, l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria in tema di estensione oggetti-va del giudicato – in relazione alla preclusione per le questioni rilevabili o deducibili – perderebbe gran parte di significato se dovesse ritenersi improponibile qualunque azione per il recupero di un credito solo perché preceduta da altra, intesa al recupero di credito diverso e tuttavia riconducibi-le ad uno stesso rapporto di durata tra le medesime parti, a prescindere dal passaggio in giudicato della decisione sul primo credito o comunque dalla inscrivibilità della diversa pretesa creditoria successivamente azionata nel medesimo ambito oggettivo di un giudicato in fieri tra le stesse parti relativo al medesimo rapporto di durata.

La mancanza di una specifica norma che autorizzi a ritenere comminabile la grave sanzione della improponibilità della domanda per il creditore che abbia in precedenza agito per il recupero di diverso credito, sia pure riguardante lo stesso rapporto di durata, e, soprattutto, la presenza nell’ordinamento di numerose norme che autorizzano, invece, l’ipotesi contraria, rafforzano la fondatezza ermeneutica della soluzione.

Per altro verso, una generale previsione di improponibilità della domanda relativa ad un cre-dito dopo la proposizione da parte dello stesso creditore di domanda riguardante altro e diverso credito, ancorché relativo ad un unico rapporto complesso, risulterebbe ingiustamente gravatoria della posizione del creditore, il quale sarebbe costretto ad avanzare tutte le pretese creditorie de-

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rivanti da un medesimo rapporto in uno stesso processo (quindi in uno stesso momento, dinanzi al medesimo giudice e secondo la medesima disciplina processuale); con conseguente indebita sottrazione alla autonoma disciplina prevista per i diversi crediti vantati e perdita, ad esempio, della possibilità di agire in via monitoria per i crediti muniti di prova scritta o di agire dinanzi al giudice competente per valore per ciascuno dei crediti – quindi di fruire del più semplice e spedito iter processuale eventualmente previsto dinanzi a quel giudice-, e con possibile esposizione alla necessità di “scegliere” di proporre (o meno) una tempestiva insinuazione al passivo fallimentare, col rischio di improponibilità di successive insinuazioni tardive per altri crediti.

Che la perdita della possibilità di fruire di riti più “snelli” per recuperare i propri crediti co-stituisca perdita di una importante “caratteristica” di tali crediti (i.e. la pronta “realizzabilità” sul piano processuale), nonché vanificazione della pre-valutazione del legislatore circa la pos-sibilità, in determinate condizioni, di un rito diverso e più spedito, trova conferma in alcune recenti pronunce di questa Corte (v. Cass. nn. 22574 del 2016 e 10177 del 2015), nelle quali si è affermato che il creditore può, finanche in relazione ad un singolo, unico credito, agire con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e con il procedimento sommario di cognizione per la parte residua senza incorrere in un abuso dello strumento processuale per frazionamento del credito.

In ogni caso, l’onere di agire contestualmente per crediti distinti, che potrebbero essere matu-rati in tempi diversi, avere diversa natura (ad esempio – come frequentemente accade in relazione ad un rapporto di lavoro – retributiva e risarcitoria), essere basati su presupposti in fatto e in diritto diversi e soggetti a diversi regimi in tema di prescrizione o di onere probatorio, oggettiva-mente complica e ritarda di molto la possibilità di soddisfazione del creditore, traducendosi quasi sempre non in un alleggerimento bensì – in un allungamento dei tempi del processo, dovendo l’i-struttoria svilupparsi contemporaneamente in relazione a numerosi fatti, ontologicamente diversi ed eventualmente tra loro distanti nel tempo.

È verosimile che per questa via il processo (lungi dal costituire un agile strumento di realizzazione del credito) finisca per divenire un contenitore eterogeneo smarrendo ogni duttilità, in violazione del principio di economia processuale, inteso come principio di proporzionalità nell’uso della giurisdizione.

È infine il caso di evidenziare che l’affermazione di un principio generale di necessaria azione congiunta per tutti i diversi crediti nascenti da un medesimo rapporto di durata, a pena di impro-ponibilità delle domande proposte successivamente alla prima, sarebbe suscettibile di arrecare pregiudizievoli conseguenze per l’economia.

Se, infatti, si ha riguardo in prospettiva non solo ai crediti derivanti dai rapporti di lavoro, ma a tutti i crediti riferibili a rapporti di durata, anche tra imprese (consulenza, assicurazione, locazio-ne, finanziamento, leasing), l’idea che essi debbano ineluttabilmente essere tutti veicolati – pena la perdita della possibilità di farli valere in giudizio – in un unico processo monstre (meno “spedito” dei processi adeguati per i singoli, differenti crediti) risulta incompatibile con un sistema inteso a garantire l’agile soddisfazione del credito, quindi a favorire la circolazione del danaro e ad incen-tivare gli scambi e gli investimenti.

4. Le considerazioni che precedono non esauriscono l’analisi della problematica in esame.La disciplina codicistica – relativa, tra l’altro, a connessione, domande accessorie, preclusione

da giudicato –, sopra richiamata perché idonea a testimoniare di un sistema che “contempla” – e perciò autorizza – l’ipotesi di diverse domande proposte in tempi e processi differenti con riguar-do a crediti (diversi e tuttavia) riferibili ad un medesimo rapporto di durata, si presta in realtà ad una significativa lettura speculare.

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Se è vero, infatti, che la citata disciplina ipotizza la proponibilità delle pretese creditorie sud-dette in processi (e tempi) diversi, è anche vero che essa è univocamente intesa a consentire, ove possibile, la trattazione unitaria dei suddetti processi e comunque ad attenuare o elidere gli incon-venienti della proposizione e trattazione separata dei medesimi.

L’ordinamento guarda con particolare attenzione alle domande connesse che, pur legittima-mente, siano state proposte separatamente, e, con riguardo alle domande inscrivibili nel medesimo “ambito” oggettivo di un ipotizzabile giudicato, pur non escludendone la separata proponibilità, prevede, tuttavia, un meccanismo di “preclusione” dopo il passaggio in cosa giudicata della sen-tenza che chiude uno dei giudizi, e comunque uno specifico rimedio impugnatorio per la sentenza contraria a precedente giudicato tra le stesse parti, con una disciplina dettata dall’esigenza di evitare, ove possibile, la “duplicazione” di attività istruttoria e decisoria, il rischio di giudicati contrastanti, la dispersione dinanzi a giudici diversi della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale. Di tale esigenza si è espressamente fatta carico la giurisprudenza di queste Sezioni unite (v. in partico-lare, tra le altre, S.u. n. 12310 del 2015 in materia di modificabilità della domanda ex art. 183 c.p.c. e S.u. n. 26242 del 2014 in materia di patologia negoziale), nella consapevolezza che la trattazione dinanzi a giudici diversi, in contrasto con il principio di economia processuale, di una medesima vicenda “esistenziale”, sia pure connotata da aspetti in parte dissimili, incide negativamente sulla “giustizia” sostanziale della decisione (che può essere meglio assicurata veicolando nello stesso processo tutti i diversi aspetti e le possibili ricadute della stessa vicenda, evitando di fornire al giudi-ce la conoscenza parziale di una realtà artificiosamente frammentata), sulla durata ragionevole dei processi (in relazione alla possibile duplicazione di attività istruttoria e decisionale) nonché, infine, sulla stabilità dei rapporti (in relazione al rischio di giudicati contrastanti).

Si tratta di una giurisprudenza che afferma la necessità di favorire, ove possibile, una decisione intesa al definitivo consolidamento della situazione sostanziale direttamente o indirettamente dedotta in giudizio, “evitando di trasformare il processo in un meccanismo potenzialmente de-stinato ad attivarsi all’infinito”.

Nel solco dell’indirizzo tracciato dalle citate decisioni deve ritenersi che, se sono proponibili separatamente le domande relative a singoli crediti distinti, pur riferibili al medesimo rapporto di durata, le questioni relative a tali crediti che risultino inscrivibili nel medesimo ambito di altro processo precedentemente instaurato, così da potersi ritenere già in esso deducibili o rilevabili – nonché, in ogni caso, le pretese creditorie fondate sul medesimo fatto costitutivo – possono anch’esse ritenersi proponibili separatamente, ma solo se l’attore risulti in ciò “assistito” da un oggettivo interesse al frazionamento.

Quest’ultima affermazione impone un chiarimento.Nella giurisprudenza di legittimità (a partire da Cass. n. 1540 del 2007, riferita al principio di

non contestazione) risulta chiara la consapevolezza che il “giusto” processo regolato dalla legge resta affidato non solo alle norme che lo regolano, bensì anche agli stessi protagonisti del pro-cesso (giudice e parti), responsabilizzati, ciascuno per quanto di “competenza”, a dare concreta e corretta attuazione alla relativa normativa.

Tali concetti, affermati dalla giurisprudenza di legittimità soprattutto con riguardo al principio di non contestazione (di origine giurisprudenziale e successivamente recepito dal legislatore nel novellato art. 115 c.p.c.), quindi con riguardo, in particolare, alla posizione del convenuto, non possono che ritenersi riferiti anche all’attore, il quale deve farsi carico di un esercizio consapevole e responsabile del diritto di azione che la Costituzione gli garantisce.

Pertanto, se l’interesse ad agire esprime il rapporto di utilità tra la lesione lamentata e la spe-cifica tutela richiesta, è da ritenersi, nell’ottica di un esercizio responsabile del diritto di azione,

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che tale rapporto abbia ad oggetto anche le caratteristiche della suddetta tutela (ivi comprese la relativa “estensione” e le connesse modalità di intervento rispetto ad una più ampia vicenda so-stanziale), con la conseguenza che l’interesse di cui all’art. 100 c.p.c. investe non solo la domanda ma anche, ove rilevante, la scelta delle relative “modalità” di proposizione.

Non si tratta quindi di valutare “caso per caso” (in relazione al bilanciamento degli interessi di ricorrente e resistente) l’azionabilità separata dei diversi crediti, né tanto meno si tratta di accer-tare eventuali intenti emulativi o di indagare i comportamenti processuali del creditore agente sul versante psico-soggettivistico.

Quel che rileva è che il creditore abbia un interesse oggettivamente valutabile alla proposi-zione separata di azioni relative a crediti riferibili al medesimo rapporto di durata ed inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un ipotizzabile giudicato, ovvero fondati sul medesimo fatto costitutivo.

Da ultimo, sul piano della dialettica processuale, è indubbio che al creditore procedente debba essere consentito di provare ed argomentare ogni qual volta il convenuto evidenzi la necessità di siffatto interesse e ne denunci la mancanza. Ove il convenuto nulla abbia allegato o dedotto in proposito, il giudice che rilevi ex actis la necessità di un interesse oggettivamente valutabile al “frazionamento” e ne metta in dubbio l’esistenza, dovrà indicare la questione ex art. 183 cod. proc. civ. e, se del caso, riservare la decisione ed assegnare alle parti termine per memorie ex art. 101 cod. proc. civ..

5. Sulla base delle considerazioni che precedono, va affermato il seguente principio di diritto:“Le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, anche se relativi ad un me-

desimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi. Se tuttavia i suddetti diritti di credito, oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque “fondati” sul medesimo fatto costitutivo – sì da non poter essere accertati separata-mente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale –, le relative domande possono essere proposte in separati giudizi solo se risulta in capo al creditore agente un interesse oggettivamen-te valutabile alla tutela processuale frazionata. Ove la necessità di siffatto interesse (e la relativa mancanza) non siano state dedotte dal convenuto, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ai sensi dell’art. 183 c.p.c. e, se del caso, riservare la decisione assegnando alle parti termine per memorie ai sensi dell’art. 101 comma 2 c.p.c.”.

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3. USO SELETTIVO DELLE NULLITÀ ED EXCEPTIO DOLI GENE-RALIS: RIMESSIONE ALLE SEZIONI UNITE

a) Cass. civ. 2 ottobre 2018, n. 23927

massima

Va rimessa al primo presidente della corte di cassazione, per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, la questione concernente l’uso selettivo, da parte dell’investitore, della nullità del contratto-quadro per i servizi di investimento.Questione interessante, che coinvolge insieme la tematica delle nullità di protezione (alle quali occorre ovviamente rinviare) e dell’abuso del diritto L’interesse è ovviamente accentuato dalla rimessione alle sezioni unite.

MOTIVAZIONE“[…] 2. – Tanto premesso, va osservato che la questione oggetto di censura nel presente giu-

dizio – concernente l’eccezione di nullità limitata ad alcuni ordini di acquisto, c.d. nullità selettiva – ha costituito oggetto di alcune decisioni della prima sezione civile di questa corte.

2.1. – Una prima pronuncia – muovendo dal rilievo secondo cui nel contratto di intermedia-zione finanziaria, la produzione in giudizio del modulo negoziale relativo al contratto-quadro sot-toscritto soltanto dall’investitore non soddisfa l’obbligo della forma scritta ad substantiam, impo-sto, a pena di nullità, dall’art. 23 d.leg. n. 58 del 1998, questa corte, occorrendo la sottoscrizione di entrambi i contraenti – è pervenuta alla conclusione che, trattandosi di una nullità di protezione, la stessa può essere eccepita dall’investitore anche limitatamente ad alcuni degli ordini di acquisto, a mezzo dei quali è stata data esecuzione al contratto viziato (Cass. 27 aprile 2016, n. 8395, Foro it., Rep. 2016, voce Intermediazione e consulenza finanziaria, n. 130).

2.2. – Successive pronunce hanno, peraltro, rilevato che «L’esigenza di scongiurare uno sfrut-tamento ‘opportunistico’ della normativa di tutela dell’investitore potrebbe portare la corte, come suggerito da parte della dottrina, ad affermare la possibilità per l’intermediario di opporre l’excep-tio doli generalis in tutte quelle ipotesi in cui il cliente (evidentemente in mala fede) proponga una domanda di nullità ‘selettiva’, cosicché l’eccezione di dolo, concepito quale strumento volto ad ottenere la disapplicazione delle norme positive nei casi in cui la rigorosa applicazione delle stesse risulterebbe – in ragione di una condotta abusiva – sostanzialmente iniqua, potrebbe in effetti rivelarsi un’utile arma di difesa contro il ricorso pretestuoso all’art. 23 menzionato». Siffatta op-zione interpretativa si porrebbe, tuttavia, in palese contrasto con la soluzione – più garantistica per l’investitore, legittimato ad eccepire la nullità anche limitatamente a taluni ordini di acquisto – prescelta dalla decisione suindicata, laddove si ravvisasse, invece, nella condotta dell’investitore medesimo – che eccepisca la nullità solo di alcune operazioni, conseguente alla nullità del contrat-to-quadro – un abuso del diritto, finalizzato a trasferire opportunisticamente sull’intermediario l’esito negativo di uno o più investimenti.

In ogni caso, nella ipotizzabile violazione, da parte del cliente che operi secondo le modalità sopra descritte, degli art. 1175 e 1375 c.c., oltre che dell’art. 23 d.leg. n. 58 del 1998, con la conse-guente, eventuale, rilevanza attribuibile all’exceptio doli sollevata dall’intermediario per paralizzare tale uso «selettivo» della nullità del contratto-quadro, è stata ravvisata – dalle pronunce in esame

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– la necessaria soluzione di una questione di massima di particolare importanza. La causa è stata rimessa, quindi, all’esame del primo presidente della Corte di cassazione per l’eventuale asse-gnazione alle sezioni unite civili, ai sensi dell’art. 374, 2° comma, ultima parte, c.p.c., ai fini della risoluzione della questione, a monte, concernente l’eventuale nullità del contratto-quadro recante la firma del solo investitore, nonché della ulteriore questione, a valle, attinente alla contrarietà a buona fede della c.d. nullità selettiva (cfr. Cass. 17 maggio 2017, n. 12388, id., Rep. 2017, voce cit., n. 115; nn. 12389 e 12390, id., Le banche dati, archivio Cass. civ.).

3. – Le sezioni unite hanno, con diverse pronunce, affrontato la prima di dette questioni, af-fermando che, laddove il contratto-quadro sia redatto per iscritto e ne sia consegnata una copia al cliente, ed esso rechi la sottoscrizione di quest’ultimo e non anche quella dell’intermediario, il cui consenso ben può desumersi alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti, va esclusa la nullità del contratto medesimo, ai sensi degli art. 1350 c.c. e 23 d.leg. n. 58 del 1998. È rimasta, per contro, assorbita la seconda delle questioni suindicate – che pure aveva costituito oggetto di rimessione – concernente l’uso selettivo, da parte dell’investitore, della nullità del con-tratto-quadro (cfr. Cass., sez. un., 16 gennaio 2018, n. 898, id., 2018, I, 928; 18 gennaio 2018, n. 1200, id., Le banche dati, archivio cit.).

4. – La successiva giurisprudenza di questa sezione ha, poi, affermato che, in materia di intermediazione finanziaria, allorché le singole operazioni di investimento abbiano avuto ese-cuzione in mancanza di un valido contratto-quadro, previsto dall’art. 23 d.leg. n. 58 del 1998, all’investitore che chiede la declaratoria di nullità solo per alcune di esse non sono opponibili l’eccezione di dolo generale fondata sull’uso selettivo della nullità e, in ragione della protrazio-ne nel tempo del rapporto, l’intervenuta sanatoria del negozio nullo per rinuncia a valersi della nullità o per convalida di esso. L’una e l’altra sono, per vero, prospettabili solo in relazione ad un contratto-quadro formalmente esistente, e non anche quando questo sia affetto da nullità per difetto della forma prescritta. Per effetto della nullità del contratto di investimento, i cui effetti per i principî regolanti le nullità negoziali si estendono al negozio di acquisto effettuato dall’intermediario per dare esecuzione all’ordine ricevuto, l’intermediario e l’investitore han-no, pertanto, il diritto di ripetere l’uno nei confronti dell’altro le reciproche prestazioni. Sicché è legittimamente dichiarata la compensazione tra la somma che l’investitore abbia corrisposto all’intermediario ai fini dell’investimento e la somma che l’intermediario abbia riscosso per conto dell’investitore, ed abbia corrisposto al medesimo a titolo di frutti civili (Cass. 24 aprile 2018, n. 10116, ibid.).

Non è, invero, precluso all’intermediario, sebbene non abbia proposto la domanda di nullità anche degli ordini positivamente conclusi per il proprio cliente, di sollevare l’eccezione di com-pensazione con riguardo all’intero credito restitutorio che gli deriva, in tesi, dal complesso delle operazioni compiute nell’ambito del contratto-quadro dichiarato nullo (Cass. 16 marzo 2018, n. 6664, id., 2018, I, 3246).

5. – Orbene, la rilevanza e la delicatezza della questione oggetto del secondo motivo di ricorso (c.d. nullità selettiva), nella quale temi specifici della contrattazione finanziaria incrociano profili più generali del diritto delle obbligazioni (regime delle nullità di protezione, sanabilità del negozio nullo, opponibilità delle eccezioni di correttezza e buona fede), e la difficile ricerca di un punto di equilibrio tra le opposte esigenze, di garanzia degli investimenti operati dai privati con i loro risparmi (art. 47 Cost.) e di tutela dell’intermediario, anche in relazione alla certezza dei mercati in materia di investimenti finanziari, inducono il collegio a condividere pienamente le ragioni che avevano indotto questa stessa sezione a rimettere la questione al primo presidente per l’eventuale nuova assegnazione alle sezioni unite.

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6. – La causa va, pertanto, rimessa all’esame del primo presidente della Corte suprema di Cassazione perché valuti la sua eventuale assegnazione alle sezioni unite civili, in quanto essa pre-suppone la necessaria soluzione di una questione di massima di particolare importanza, ai sensi dell’art. 374, 2° comma, ultima parte, c.p.c. […]”.

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4. LA RESPONSABILITÀ PER CONCESSIONE ABUSIVA DI CREDITO a) Cass. civ., sez. I, 14 maggio 2018, n. 11695

massima

In tema di concessione abusiva di credito, sussiste la responsabilità della banca, che finanzi un’impresa insolvente e ne ritardi perciò il fallimento, nei confronti dei terzi che, in ragione di ciò, abbiano confidato nella sua solvibilità ed abbiano continuato ad intrattenere rapporti contrattuali con essa, allorché sia provato che i terzi non fossero a conoscenza dello stato di insolvenza e che tale mancanza di conoscenza non fosse imputabile a colpa.

INTRODUZIONE E SINTESI DELLA SENTENZA

Il fenomeno della concessione abusiva di credito, recepito nella prassi ed di recente affinato in giurisprudenza, consiste in una contrattazione svolta tra due soggetti (finanziatore professionale e finanziato) in cui la libertà di concludere il contratto è usata in modo irragionevole — nel caso, in contrasto con quanto avrebbe consigliato una diligente verifica del merito creditizio, come tale legalmente richiesta al finanziatore professionale — così da produrre un accordo pur vali-do ed efficace tra le parti ma immeritevole di tutela rispetto a determinati terzi, che restano ingiusta-mente danneggiati dall’accordo (secondo lo schema del contratto c.d. ai danni del terzo: il quale vale come fatto illecito rispetto al patrimonio del terzo pregiudicato).

In particolare, il professionista del mercato del credito (in genere, una banca), svolgendo negli-gentemente la verifica sul merito creditizio del finanziato (o anche agendo con dolo), conclude un contratto di credito che — secondo il principio della sana e prudente gestione dell’attività — non avrebbe dovuto stipulare, assicurando una permanenza artificia-le dell’impresa sul mercato. Questa condotta (sovente descritta in termini di “sostegno abusivo” all’impresa) può indurre in errore alcuni osservatori che, ragionevolmente con-fidando sulla falsa apparenza di solvibilità del finanziato inge-nerata dalla concessione del credito (id est dalla conclusione ed esecuzione del contratto di finanzia-mento) — ossia riponendo fiducia sulla qualità della verifica del merito creditizio svolta dal finanzia-to-re professionale —, possono essere indotti a loro volta o a non proteggere il proprio credito verso il finanziato (agendo per il recupero dello stesso) oppure a concedergli nuovo credito.

Dunque l’erogazione abusiva di credito, suscitando una falsa apparenza di solidità del soggetto finanziato, produce opacità nel mercato e costituisce fondamentale presupposto dell’agire irrazio-nale dei creditori della stessa. Con terminologia economica, può dirsi che la concessione abusiva di credito determina una esternalità negativa dell’attività dell’impresa finanziaria, i cui costi sono scaricati su soggetti estranei.

Sotto il profilo giuridico, la concessione abusiva di credito si esplica come abuso bilaterale della libertà contrattuale (commesso da finanziatore e finanziato) ai danni del terzo. La peculiarità della figura è nella validità ed efficacia del contratto rispetto alle parti e alla generalità dei terzi da un lato, e al contempo nella rilevanza — dall’altro lato — del contratto come fatto, e come fatto illecito, rispetto a determinate categorie di terzi: coloro che, osservando il finan-ziamento abusivo, sono incolpevolmente caduti in un errore di va-lutazione sulla solvibilità del finanziato assumendo decisioni pregiudizievoli per la propria posizione creditoria.

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Una ampia condivisione è maturata sulla natura della responsabilità in parola, che corrente-mente viene classificata come extracontrattuale, come tale rientrante nella complessa tematica della c.d. lesione aquiliana del credito.

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5. CONTATTO SOCIALE E RESPONSABILITÀ PRECONTRAT-TUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

a) Cass. civ., 12 luglio 2016, n. 14188

massima

La responsabilità precontrattuale (nella specie, della P.A.) non ha natura extracontrattuale, ma deve correttamente inquadrarsi nella responsabilità di tipo contrattuale da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ai sensi dell’art. 1173 c.c., con conseguente applicazione del termine di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c.

MOTIVAZIONE((omissis))3. Va anzitutto osservato che, in relazione ai contratti conclusi con la p.a., il dispiegamen-

to degli effetti vincolanti per le parti, al di là della formale stipula di un accordo negoziale, è subordinata all›approvazione ministeriale ai sensi del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 19, che richiede un provvedimento espresso – adottato dall’organo competente nella forma solenne prescritta dalla legge la cui esistenza non può, pertanto, desumersi implicitamente dalla condotta tenuta dall’Amministrazione. Ne discende che, ai fini del perfezionamento di un effettivo vin-colo contrattuale, è insufficiente la mera aggiudicazione pronunciata in favore del contraente, come pure la formale stipula del contratto ad evidenza pubblica nelle forme prescritte dalla legge (artt. 16 e 17 del decreto cit.) (Cass. 10020/2015). L’eventuale responsabilità della p.a. – ipotetica laddove si verta, come nel caso di specie, in tema di prescrizione potreb-be, di conseguenza, essere configurata soltanto come responsabilità precontrattuale (cfr. Cass. 3383/1981; 23393/2008; 11135/2009; 9636/2015), derivandone – laddove si acceda alla tesi tradizionale, secondo la quale tale tipo di responsabilità è inquadrabile nella responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., l’applicabilità del termine quinquennale di prescrizione del diritto azio-nato ai sensi dell’art. 2947 c.c. (in tal senso, Cass. 2705/1983; 4051/1990).

3.1. Ne deriva che, dovendo ritenersi, nella fattispecie concreta, insussistente, fino alla concessione dell’autorizzazione da parte dell’autorità tutoria, un effettivo vincolo ne-goziale, ai fini di accertare l’eventuale fondatezza della censura in esame – ((omissis)) – è necessario affrontare il dibattuto problema concernente la ravvisabilità di una responsabi-lità contrattuale anche in assenza di un atto negoziale dal quale scaturiscano specifici obblighi di prestazione a carico delle parti, qualora tra le stesse venga comunque ad instaurarsi una relazione qualificabile come “contatto sociale qualificato”. La risposta al quesito ha, in verità, costituito oggetto di una significativa evoluzione della giurisprudenza di questa Corte, in precedenza attestata sull’affermazione della natura aquiliana della respon-sabilità precontrattuale, ed ora, invece, significativamente, e pressoché uniformemente, orien-tata – in materie diverse e sia pure senza una consapevole visione di insieme – nella direzione del riconoscimento di una responsabilità di tipo contrattuale, anche in assenza di un formale vincolo negoziale tra le parti.

3.2. ((omissis)) 4. Tanto premesso, va osservato che l’orientamento della giurisprudenza di legit-timità è stato, come dianzi detto, per lungo tempo ancorato alla tradizionale concezione della re-

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sponsabilità precontrattuale come responsabilità di tipo aquiliano, riconducibile al disposto dell’art. 2043 c.c., con la conseguenza che la prova dell’esistenza e dell’ammontare del danno, nonché del dolo o della colpa del danneggiante, è a carico del danneggiato e che il termine di prescrizione del diritto azionato è quinquennale, ai sensi dell’art. 2947 c.c. (cfr., ex plurimis, Cass. 9157/1995; 15172/2003; 15040/2004; 16735/2011). L’affermazione appare per lo più ancorata alla biparti-zione fondamentale delle fonti delle obbligazioni: da un lato le obbligazioni da atto lecito, ossia da contratto; dall’altro, le obbligazioni da fatto illecito, ossia da delitto. Ne è risultata pretermessa la terza, importante, fonte delle obbligazioni, rappresentata – ai sensi dell’art. 1173 c.c. – da “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico; il che non ha consen-tito di dare il giusto rilievo, sul piano giuridico”, alla peculiarità di talune situazioni non inquadrabili nè nel torto nè nel contratto, e – tuttavia – singolarmente assimilabili più alla seconda fattispecie, che non alla prima. ((omissis)) 8. La dottrina italiana si è posta consapevolmente sulla stessa scia, fin dai primi anni ‘90 del secolo scorso, prefigurando una forma di responsabilità che si colloca “ai confini tra contratto e torto”, in quanto radicata in un “contatto sociale” tra le parti che, in quanto dà adito ad un reciproco affidamento dei contraenti, è «qualificato» dall›obbligo di «buona fede» e dai correlati «obblighi di informazione e di protezione», del resto positivamente sanciti dagli artt. 1175, 1375, 1337 e 1338 c.c.. Viene, per tale via, ad esistenza la figura di un rapporto obbligato-rio connotato, non da obblighi di prestazione, come accade nelle obbligazioni che trovano la loro causa in un contratto, bensì da obblighi di protezione, egualmente riconducibili, sebbene manchi un atto negoziale, ad una responsabilità diversa da quella aquiliana e prossima a quella contrattuale, poiché ancorabili a quei fatti ed atti idonei a produrli, co-stituente la terza fonte delle obbligazioni menzionata dall’art. 1173 c.c..

Si osserva, al riguardo, che la teoria degli obblighi di protezione – la cui violazione dà luogo ad una responsabilità di tipo contrattuale ha un preciso fondamento dogmatico nelle norme che costruiscono il rapporto obbligatorio come un “rapporto complesso”, le cui finalità di tutela non si riducono al solo interesse alla prestazione, definito dall’art. 1174 c.c., ma che ricomprendono anche l’interesse di protezione, preso in considerazione dalla norma successiva di cui all’art. 1175 c.c.. Nella teoria del rapporto obbligatorio – come rielaborata dalla dottrina italiana prevalente – viene messo in luce, dunque, come il proprium della responsabilità contrattuale non sia più costituito dalla violazione di una pretesa di adempimento, bensì dalla lesione arrecata ad una relazione qualificata tra soggetti, in quanto tale sottoposta dall’ordinamento alla più pregnante ed efficace forma di responsabilità, rispetto a quella aquiliana, rappresentata dalla responsabilità di tipo contrattuale (prescrizione decennale, inversione dell’onere della prova a favore del dan-neggiato, maggiore estensione del danno risarcibile, stante l’applicabilità solo a quest’ultima del disposto di cui all’art. 1225 c.c.).

9. Ebbene, deve ritenersi che l’impostazione dogmatica suesposta abbia costituito una sorta di vero e proprio percorso euristico che la giurisprudenza di legittimità ha seguito, nella quasi totalità delle decisioni in materia, dandosi in tal modo luogo – come dianzi detto – ad una vera e propria evoluzione giurisprudenziale, connotata dalla piena condivisione delle elaborazioni dottrinali in tema di responsabilità contrattuale da “contatto sociale qualificato”, ormai pressoché assestata e stabile nella giurisprudenza di questa Corte.

Il che è in special modo evidenziato dal recepimento della categoria – come si vedrà – anche da parte di talune importanti decisioni delle Sezioni Unite, emesse con riferimento a fattispecie diverse.

9.1. In tema di incidenti scolastici, invero, la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’inse-gnante, per il danno cagionato dall’alunno a se stesso, è stata configurata come responsabilità,

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non extracontrattuale, bensì contrattuale, fondata, per il primo, sul vincolo negoziale che si de-termina per effetto dell’accoglimento, da parte della scuola, della domanda di iscrizione dell’aspi-rante alunno, per il secondo, sul “contatto sociale” che si instaura tra precettore ed allievo. Tra tali soggetti viene, difatti, in essere un rapporto giuridico, nell’ambito del quale l’insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di prote-zione e vigilanza, onde evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla persona. Ne discende l’applicabilità, in subiecta materia, delle norme sull’onere della prova e sulla prescrizione, dettate dagli artt. 1218 e 2946 c.c. (cfr. ex plurimis, Cass. S.U. 9346/2002; Cass. 8397/2003; 24456/2005; 5067/2010; 2559/2011; 2413/2014; 3695/2016).

9.2. Del pari, in tema di responsabilità del sanitario, questa Corte ha affermato che il rappor-to che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo “latu sensu” alberghieri, obblighi di messa a disposizioni del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrez-zature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze (Cass. 13953/2007; 18610/2015). Nei confronti del medico dipendente, invece, la responsabilità, ove non tragga origine da un contratto di prestazione d’opera professionale (qualora sia lo stesso paziente a rivol-gersi ad un determinato professionista), viene a radicarsi in un “contatto sociale qualificato”, che si instaura per effetto della “presa in carico” del paziente da parte del sanitario operante presso la casa di cura o l’ente ospedaliero, e dal quale scaturiscono obblighi di protezione che comportano, in caso di loro violazione, una responsabilità di tipo contrattuale del sanitario, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ. ((omissis)).

9.3. Nella specifica materia della responsabilità della banca negoziatrice per avere consentito, in violazione delle specifiche regole poste dall’art. 43 legge assegni (R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736), l’incasso di un assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasfe-ribilità, a persona diversa dal beneficiario del titolo, le Sezioni Unite di questa Corte hanno, poi, affermato che la responsabilità dell’istituto di credito – nei confronti di tutti i soggetti nel cui in-teresse quelle regole sono dettate e che, per la violazione di esse, abbiano sofferto un danno – ha natura contrattuale e non aquiliana. La banca ha, difatti, un “obbligo professionale di protezione (obbligo preesistente, specifico e volontariamente assunto)”, operante nei confronti di tutti i sog-getti interessati al buon fine della sottostante operazione, di far sì che il titolo stesso sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l’incasso. Ne deriva che l’azione di risarcimento proposta dal danneggiato è soggetta all’ordinario termine di prescrizione decennale, stabilito dall’art. 2946 cod. civ. (Cass. S.U. 14712/2007; in sen-so conforme, cfr. Cass. 7618/2010; 10534/2015).

9.4. Importanti affermazioni in tema di responsabilità da contatto sociale qualificato si ritrova-no, infine, nella giurisprudenza, sia dei giudici ordinari che di quelli amministrativi, concernente la violazioni degli obblighi procedimentali assunti dall’amministrazione nei confronti dei privati, in conseguenza dell’instaurazione di un procedimento amministrativo.

9.4.1. Ed invero, questa Corte ha, in proposito, da tempo affermato che, a seguito dell’en-trata in vigore della L. n. 241 del 1990, e della conseguente nuova concezione dei rapporti tra cittadino ed amministrazione, la responsabilità di quest’ultima per la lesione degli interessi procedimentali del privato si radica – a differenza di quanto deve ritenersi per il periodo precedente – nella violazione dei canoni contrattuali di correttezza e di buona

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fede (Cass. 157/2003). Sicché, nella vigenza della legge succitata, deve distinguersi tra la lesione dell’interesse oppositivo o pretensivo, o anche della mera integrità patrimoniale del cittadino (quando l’interesse sia soddisfatto, seppure in modo illegittimo), dovuta all’esercizio illegittimo o al mancato esercizio (silenzio inadempimento o rifiuto) dell’attività amministrativa, talché risulti danneggiato, per effetto dell’attività illegittima della p.a., l’interesse al bene della vita al quale la suddetta posizione soggettiva del privato si correla, che dà luogo a responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. (cfr. la fondamentale Cass. S.U. 500/1999; conf., da ultimo, Cass. 23170/2014; 11794/2015; S.U. 17586/2015), dal danno derivante dalla violazione delle regole procedimentali dell’attività amministrativa medesima. La lesione di tali regole, giacché riconducibile all’inadempi-mento del rapporto che si instaura in relazione all’obbligo imposto dalla normativa che regola il comportamento della p.a., assume, invero, un carattere del tutto autonomo rispetto al pregiudizio costituito dalla perdita sostanziale del bene della vita al quale il privato aspira, ed è, pertanto, in-quadrabile – stante il contatto qualificato che viene ad instaurarsi tra il privato e l’amministrazione nel procedimento – nella fattispecie della responsabilità di tipo contrattuale ex art. 1218 cod. civ. (Cass. 24382/2010).

9.4.2. Nella medesima prospettiva si è posta, peraltro, la giurisprudenza amministrativa, se-condo la quale il danno da illecito provvedimentale, ossia da provvedimento o comportamento (silenzio) illegittimo della p.a., che abbia leso un interesse legittimo del privato con incidenza sul bene della vita finale, rientra nello schema della responsabilità extracontrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c., giacché, con la domanda di ristoro del danno subito, il cittadino non si duole dell’ottemperanza ad uno o più obblighi gravanti a carico della p.a., bensì dello scorretto eser-cizio del potere amministrativo (cfr., ex plurimis, C. St. n. 1833/2013; 6450/2014; 675/2015; 284/2016). Per converso, la relazione che viene ad instaurarsi tra il privato e l’amministrazione nel procedimento amministrativo è ricostruibile in termini di “contatto sociale qualificato”, sicché i comportamenti positivi o negativi della p.a., parametrati sulle regole che governano il procedi-mento in questione, possono tradursi nella lesione patrimoniale dell’interesse del privato al bene della vita realizzabile mediante l’intermediazione del procedimento stesso. Ne deriva che il diritto al risarcimento dell’eventuale danno subito dal cittadino presenta, nella fattispecie in parola, una fisionomia sui generis, non riconducibile al mero modello aquiliano ex art. 2043 c.c., essendo connotata dal rilievo di alcuni tratti della responsabilità precontrattuale e della responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, con conseguente applicabilità delle norme in materia di responsabilità contrattuale, concernenti la prescrizione del diritto, l’onere della prova e l’area del danno risarcibile ((omissis)).

10. Orbene, la disamina che precede evidenzia che le affermazioni giurisprudenziali in or-dine ad una responsabilità contrattuale da “contatto sociale qualificato” muovono dalla considerazione di situazioni nelle quali, per effetto del rapporto che si è venuto a creare tra le parti e del conseguente affidamento che ciascuna di esse ripone nella buona fede, nella correttezza e nella professionalità dell’altra, si generano tra le stesse obblighi di protezione che precedono e si aggiungono agli obblighi di prestazione scaturenti dal contratto. Ma è proprio nella specifica materia contrattuale, della quale si controverte in questa sede, che alcune pronunce delle Sezioni Unite hanno disegnato, in modo particolarmente incisi-vo, i tratti essenziali di una responsabilità contrattuale non fondata su di un atto negoziale, bensì su una relazione di vita produttiva di obblighi la cui violazione è assimilabile a quella arrecata agli obblighi scaturenti dal contratto. Si è, invero, affermato – al riguardo – che rientrano nelle controversie di natura contrattuale, non solo quelle riguardanti il mancato adempimento di un obbligo di prestazione di fonte negoziale, della cui natura contrattuale non è possibile dubitare,

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ma anche le controversie nelle quali l’attore alleghi l’esistenza di una regola di condotta legata ad una “relazione liberamente assunta tra lui e l’altra parte” e ne lamenti la violazione da parte di quest’ultima (Cass. S.U. 24906/2011).

Ed inoltre – nell’affermare la validità del cd. preliminare di preliminare, ove sia configurabile un interesse delle parti, meritevole di tutela, ad una formazione progressiva del contratto – le Sezioni Unite hanno osservato che, in relazione alle “puntuazioni” che, pur non dando luogo ad un vero e proprio contratto preliminare sono, tuttavia, vincolanti in relazione ai profili sui quali si è raggiunto un accordo irrevocabile, “la violazione di queste intese, perpetrata in una fase suc-cessiva rimettendo in discussione questi obblighi in itinere che erano già determinati, dà luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un’obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto, riconducibile alla terza delle categorie considerate nell’art. 1173 c.c., cioè alle obbligazioni derivanti da ogni fatto o atto idoneo a produrle in conformità dell’ordina-mento giuridico” (Cass. S.U. 4628/2015).

11. Nello stesso ordine di idee, si colloca, peraltro, anche una decisione della Corte di Giusti-zia, in materia di determinazione delle competenze giurisdizionali ex art. 5, punto 1, della Con-venzione del 27 settembre 1968, nella quale si afferma, a chiare lettere, che costituisce materia contrattuale ogni relazione giuridicamente rilevante tra due parti, ossia un “obbligo liberamente assunto” da una parte nei confronti dell’altra, pure in assenza di un formale atto negoziale (C. Giust., 17/6/1992, C-261/91, Handte).

12. Alla stregua delle riflessioni che precedono e della diffusività ormai assunta dalla teorica della responsabilità da “contatto sociale qualificato”, non può revocarsi in dubbio che l’orientamento tradizionale della giurisprudenza di legittimità, in tema di responsa-bilità precontrattuale ex artt. 1337 e 1338 c.c., debba essere rimeditato.

12.1. Le considerazioni svolte dalla dottrina e recepite dalla massima parte della giurisprudenza hanno, invero, evidenziato che l’elemento qualificante di quella che può ormai denominarsi “cul-pa in contrahendo” solo di nome, non è più la colpa, bensì la violazione della buona fede che, sulla base dell’affidamento, fa sorgere obblighi di protezione reciproca tra le parti. Ne discende che la responsabilità per il danno cagionato da una parte all’altra, in quanto ha la sua de-rivazione nella violazione di specifici obblighi (buona fece, protezione, informazione) precedenti quelli che deriveranno dal contratto, se ed allorquando verrà concluso, e non del generico dovere del neminem laedere, non può che essere qualificata come responsabilità contrattuale. Certo, può obiettarsi – ed una parte minoritaria della dottrina lo ha fatto – che anche l’investimento di un pedone, uno scontro tra veicoli, un atto violento che produca una lesione, danno vita ad un contatto sociale, possibile fondamento di una responsabilità che va oltre quella extracontrattuale, meno gravosa per il danneggiante. Ma l’obiezione, incentrandosi sulla considerazione del contat-to sociale semplice, non coglie il proprium della responsabilità in parola, nella quale il contatto sociale tra sfere giuridiche diverse deve essere “qualificato”, ossia connotato da uno “scopo” che, per il suo tramite, le parti intendano perseguire.

In virtù di tale relazione qualificata, una persona – al fine di conseguire un obiettivo determina-to (stipulare un contratto non svantaggioso, evitare eventi pregiudizievoli alla persona o al patri-monio, assicurarsi il corretto esercizio dell’azione amministrativa) – affida i propri beni della vita alla correttezza, all’influenza ed alla professionalità di un’altra persona. Per il che non si verte – com’è del tutto evidente – in un’ipotesi di mero contatto sociale, bensì di un contatto sociale pre-gnante che diventa fonte di responsabilità – concretando un fatto idoneo a produrre obbligazioni ai sensi dell’art. 1173 c.c. – in virtù di un affidamento reciproco delle parti e della conseguente insorgenza di specifici, e reciproci, obblighi di buona fede, di protezione e di informazione.

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12.2. L’esserci una struttura obbligatoria, vicenda tipica dell’obbligazione senza pre-stazione, segna, dunque, la differenza con la responsabilità aquiliana, alla base della quale non vi è alcun obbligo specifico, costituendo anche il generico dovere di “alterum non laedere” niente altro che la proiezione – insita nel concetto stesso di responsabilità – sul danneg-giante del diritto del danneggiato all’integrità della propria sfera giuridica, al di fuori di un preesi-stente rapporto con il primo, atteso che, senza il rispetto da parte di chiunque altro dal titolare, il diritto in questione non sarebbe tale.

Il “non rapporto” caratterizza, pertanto, la responsabilità civile aquiliana, nella quale la rile-vanza giuridica del contatto semplice tra soggetti viene alla luce solo nel momento della lesione, generando l’obbligo del risarcimento, laddove nella relazione da “contatto sociale qualificato” sussiste un rapporto connotato da obblighi già a monte della lesione, ancorché non si tratti di ob-blighi di prestazione (art. 1174 c.c.), bensì di obblighi di protezione correlati all’obbligo di buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.).

13. Certamente significative in tal senso si rivelano le decisioni nelle quali questa Corte ha affermato che il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto ob-bligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico di entrambe, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge. Ne discende che la violazione di tale principio “costituisce di per sè inadempimento” e può comportare l’obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato a titolo di responsabilità contrattuale (cfr., tra le tante, Cass. 21250/2008; 1618/2009; 22819/2010). Nella medesima prospettiva ((omissis)) questa Corte ha, altresì, statuito che la violazione della clausola generale di buona fede e correttezza, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., può assumere rilevanza, ai fini della risoluzione del rapporto per inadem-pimento, qualora, incidendo sulla condotta sostanziale che le parti sono obbligate a tenere per preservare il reciproco interesse all’esatto adempimento delle rispettive prestazioni, pregiudichi gli effetti economici e giuridici del contratto (Cass. 11437/2002).

14. Ebbene, il significativo ampliamento dell’area di applicazione della responsabilità contrat-tuale che ne è derivato è certamente frutto di un’evoluzione nel modo di intendere la responsa-bilità civile che dottrina e giurisprudenza hanno operato, nella prospettiva di assicurare a coloro che instaurano con altri soggetti relazioni significative e rilevanti, poiché involgenti i loro beni ed interessi – sempre più numerose e diffuse nell’evolversi della società, dei bisogni e delle esigenze dei cittadini –, una tutela più incisiva ed efficace rispetto a quella garantita dalla responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.. Quest’ultima resta, pertanto, limitata al solo ambito nel quale si riscontrino lesioni ab extrinseco a beni o interessi altrui, al di fuori di qualsiasi rapporto preesi-stente che si ponga come fonte di obblighi di vario genere (di prestazione e/o di protezione), tali da radicare una responsabilità di tipo contrattuale.

15. Non mancano, tuttavia, specifiche statuizioni di questa Corte proprio nel senso della con-figurabilità – che qui più interessa – della responsabilità precontrattuale come responsabilità con-trattuale da “contatto sociale qualificato”.

15.1. Con riferimento alla fattispecie concernente l’erronea scelta del contraente di un contratto di appalto, divenuto inefficace e “tamquam non esset” per effetto dell’annulla-mento dell’aggiudicazione da parte del giudice amministrativo, questa Corte ha, difatti, affermato che siffatta evenienza espone la p.a. al risarcimento dei danni per le perdite e i mancati guadagni subiti dal privato aggiudicatario. Tale responsabilità – si è osservato – non è, peraltro, qualificabile nè come aquiliana, nè come contrattuale in senso proprio, sebbene

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a questa si avvicini poiché consegue al “contatto qualificato” tra le parti nella fase proce-dimentale anteriore alla stipula del contratto, ed ha origine nella violazione del dovere di buona fede e correttezza, per avere l’amministrazione indetto la gara e dato esecuzio-ne ad un’aggiudicazione apparentemente legittima, in tal modo provocando la lesione dell’interesse del privato, assimilabile a un diritto soggettivo avente ad oggetto l’affida-mento incolpevole nella regolarità e legittimità dell’aggiudicazione. (Cass. 24438/2011).

15.2. Sempre con riferimento alla responsabilità precontrattuale, si è, dipoi, ancora più pun-tualmente osservato che la parte che agisca in giudizio per il risarcimento del danno subito nella fase che precede la stipula del contratto, non è tenuta a provare l’elemento soggettivo dell’autore dell’illecito (dolo o colpa), versandosi – come nel caso di responsabilità da contatto sociale, di cui la responsabilità precontrattuale costituisce “una figura normativamente qualificata” – in una delle ipotesi previste dall’art. 1173 cod. civ. (Cass. 27648/2011). La decisione si pone, pertanto, perfettamente in linea con la vista impostazione dottrinale che considera la struttura della “culpa in contrahendo” come fondata, non più sulla colpa, bensì sulla violazione della buona fede nelle trattative, ed il “contatto sociale qualificato” come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ai sensi dell’art. 1173 c.c.. La medesima sentenza si fa, peraltro, carico di specificare che colui che agisca in giudizio a titolo di responsabilità precontrattuale deve, per contro, allegare, e occorrendo di-mostrare, il danno e l’avvenuta lesione della sua buona fede, in una prospettiva di bilanciamento dei diritti delle parti coinvolte nella vicenda precontrattuale.

16. ((omissis))

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6. CONTATTO SOCIALE E RESPONSABILITÀ DELL’INSEGNAN-TE PER LA MORTE DELL’ALUNNO

a) Cass. 28 aprile 2017, n. 10516

massima

Per il danno occorso al minore in ambito scolastico seppure avvenuto oltre l’orario delle lezioni è responsabile il Ministero dell’Istruzione. Va quindi confermata la sentenza di merito che aveva condannato la Pubblica Am-ministrazione al risarcimento del danno in favore dei familiari del piccolo S.G che, all’uscita di scuola, era stato accompagnato dall’insegnante assieme ai compagni a salire sul pullman gestito da una società cui il Comune aveva conferito l’appalto per il trasporto scolastico ed era rimasto incastrato nella porta automatica del veicolo azionata dal conducente ed in seguito trascinato e travolto dallo stesso mezzo che gli procurava lesioni gravi che ne cagionavano la morte. (Nel primo grado di Giudizio, il Tribunale aveva condannato il Ministero dell’Istruzione in quanto aveva ritenuto colposo il comportamento assunto dall’insegnante che aveva indotto il conducente ad avviare la marcia del veicolo assicurandolo del fatto che tutti gli alunni fossero ormai saliti regolarmente a bordo).

MOTIVAZIONE((omissis))con riguardo alla natura contrattuale (recte, per inadempimento di obbligazioni) del titolo della

responsabilità ascritta a carico dell’amministrazione ricorrente, non possa sussistere alcun dubbio.Sul punto, è appena il caso di richiamare il consolidato insegnamento della giurisprudenza

di legittimità (che il collegio condivide e fa propria, ritenendo di doverne assicurare continuità) secondo cui, in caso di danno cagionato dall’alunno a sè stesso (ma anche in caso di danno cagio-nato all’alunno per responsabilità ascrivibili a difetto di vigilanza o di controllo degli organi scola-stici), la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante ha natura contrattuale, atteso che, quanto all’istituto, l’instaurazione del vincolo negoziale consegue all’accoglimento della domanda di iscrizione, e, quanto al precettore, il rapporto giuridico con l’allievo sorge in forza di “contatto sociale” (cfr., da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 3695 del 25/02/2016, Rv. 638980 – 01; conf. Sez. 3, Sentenza n. 5067 del 03/03/2010, Rv. 611582 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 24456 del 18/11/2005, Rv. 587952 – 01, tutte discendenti da Sez. U, Sentenza n. 9346 del 27/06/2002, Rv. 555386 – 01).

Una volta collocato sul piano sistematico l’ambito della responsabilità ascrivibile alla sfera dell’amministrazione scolastica – e dunque ricondotta alla violazione di un dovere di prestazio-ne la ratio della tutela risarcitoria rivendicata dagli originari attori – dev’essere coerentemente ricostruita, nel quadro dei principi della responsabilità contrattuale, la connessa dimensione ob-bligatoria dell’insieme dei profili di doverosità che discendono – con riguardo, rispettivamente, all’istituto e al singolo insegnante – dall’iscrizione scolastica e dal contatto sociale qualificato che prelude all’individuazione dei relativi obblighi di prestazione nei confronti dei familiari (quali contraenti) e dei singoli alunni (quali adiecti solutionis causa).

Ciò posto, individuato l’ambito obbligatorio in cui si inserisce il complesso delle prestazioni esigibili dall’istituto scolastico e dall’insegnante, a tale ambito dev’essere altresì ricondotta l’intera gamma delle fonti integrative dell’obbligazione, tra le quali, in primo luogo, la normativa di cor-rettezza e di buona fede (cfr. gli artt. 1175 e 1375 c.c.), cui risalgono i c.d. doveri di protezione

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che l’istituto scolastico e ciascun insegnante assume con riguardo a ognuno degli alunni agli stessi affidato.

In quanto inseriti in un programma di natura obbligatoria, tali doveri di protezione chiedo-no d’essere individuati e commisurati in relazione all’interesse sostanziale del creditore in cui si concreta lo scopo del rapporto obbligatorio, ossia (con approssimazione al caso di specie) all’in-teresse che il minore affidato dalle famiglie per la formazione scolastica non rimanga in nessun momento lasciato a sè stesso fintantoché, di detto minore, non intervenga a occuparsi un altro e diverso soggetto responsabile, eventualmente chiamato a succedere all’istituzione scolastica nell’assunzione dei doveri connessi alla relativa posizione di garanzia.

Nel caso in esame, tali doveri di protezione devono ritenersi estesi, nel quadro della posizione di garanzia che incombe a carico dell’istituto scolastico e degli insegnanti, nel senso di ricompren-dervi anche il dovere di non perdere la vigilanza dei minori fintanto che il Comune (piuttosto che un altro istituto o una società di servizi) non ne abbia in concreto e di fatto assunto il controllo, rimanendo confinato su altro e diverso piano l’eventuale responsabilità (nei confronti della scuola o dell’insegnante) del previsto successore nella posizione di garanzia per l’inadempimento o il ri-tardo nell’assolvimento dei propri doveri di assunzione di responsabilità nei confronti del minore.

Da tali premesse deriva la conferma della corretta interpretazione fatta propria dalla corte territoriale nella parte in cui ha ritenuto riconducibile, all’ambito della responsabilità contrattuale (per inadempimento) del Ministero (e degli insegnanti), il dovere di controllare e di vigilare sugli alunni fintanto che il conducente dello scuolabus non avesse in concreto e di fatto assunto com-piutamente la propria successiva posizione di garanzia sui minori, a nulla valendo la limitazione temporale (la fine delle lezioni) o spaziale (il cancello del perimetro scolastico) solo unilateralmen-te indicata dalla stessa amministrazione statale, o dai terzi successori nella posizione di garanzia, ai fini della perdurante consistenza degli obblighi di protezione incombenti sul debitore.

Dev’essere dunque attestata la radicale infondatezza della censura in esame nella parte in cui pretende erroneamente di escludere la riferibilità, all’amministrazione scolastica, della responsa-bilità assunta dall’insegnante in ordine alla prolungata attività di assistenza del piccolo S.G. dopo l’orario e al di fuori dell’edificio scolastico o delle relative pertinenze, prima del definitivo compi-mento delle operazioni di successione nella posizione di garanzia riferita al minore.

6. Con il quinto motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 1218, 2043 e 2049 c.c., in combinato disposto con l’art. 40 c.p.c., comma 2, (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente riconosciuto, nella volontaria e auto-noma decisione della propria dipendente di assumere la vigilanza sul comportamento del minore deceduto al di fuori delle pertinenze dell’istituto scolastico, un fatto suscettibile di attivare la re-sponsabilità del medesimo ministero in forza del principio della c.d. “occasionalità necessaria”, essendosi viceversa trattato, nella specie, di una libera e volontaria elezione della propria dipen-dente, in nessun modo riconducibile, neppure indirettamente, ai contenuti del rapporto di lavoro tra la stessa e il Ministero dell’istruzione.

((omissis))

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7. MEDIAZIONE ATIPICA E CONTATTO SOCIALE a) Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 2019, n. 482

massima

Il conferimento di un incarico per la ricerca di una persona interessata alla conclusione di un affare a determinate con-dizioni prestabilite dà luogo a un mandato e non a una c.d. mediazione atipica unilaterale (riguardante una soltanto della parti interessate) o a una mediazione creditizia, allorché il pagamento della provvigione sia svincolato dall’esito dell’operazione, l’attività demandata abbia natura giuridica e sia insussistente il connotato dell’imparzialità; in tal caso, l’incaricato ha l’obbligo e non la facoltà di attivarsi per la conclusione dell’affare e può pretendere il pagamento della provvigione dalla sola parte che gli ha attribuito l’incarico, senza necessità della sua iscrizione all’albo ex art. 2 l. n. 39 del 1989, restando indifferente l’effettiva conclusione dell’affare (nella specie, la suprema corte ha ritenuto che rientrasse nello schema del contratto di mandato, l’incarico unilaterale conferito dalla ricorrente, nel suo esclusivo interesse, per la vendita di alcune azioni societarie, comprensivo dell’assistenza in sede di redazione dei relativi con-tratti e per la ricerca di banche e intermediari disponibili all’erogazione dei necessari finanziamenti, valorizzando l’inscindibilità del rapporto in quanto proteso alla realizzazione di un risultato unitario).

INTRODUZIONE E SINTESI DELLA SENTENZA

La sentenza si occupa di una fattispecie in cui era stato conferito un incarico unilaterale per la vendita, nel proprio interesse, di alcune azioni societarie, comprensivo dell’assistenza in sede di redazione dei relativi contratti e per la ricerca di banche e intermediari disponibili all’erogazione dei necessari finanziamenti: essendo, come spesso accade, in contestazione il diritto al pagamento del compenso provvigionale, si trattava, appunto, di sussumere la vicenda nell’alveo del mandato (che prefigura l’obbligo di compiere attività giuridica per conto altrui, con diritto al compenso) o della mediazione (che prospetta la realizzazione di attività meramente materiale, consistente nella “messa in relazione” delle parti interessate, con subordinazione della provvigione alla rea-lizzazione dell’affare e con il limite – nella specie particolarmente rilevante, versandosi in tema di “intermediazione in attività creditizia” della necessaria iscrizione nell’apposito albo).

Va detto che la distinzione tra i due modelli è assai ardua e tuttora incerta, a dispetto di signifi-cative prese di posizione da parte della giurisprudenza (che ha avallato, sulle orme della dottrina, anche il modello di una mediazione “atipica” o “unilaterale” o “fiduciaria”, in cui profili della mediazione tipica e del manda-to in certo senso si compenetrano).

La problematica è in gran parte condizionata dalla incerta qualificazione della fattispecie me-diatizia che, quanto meno nella sua forma “tipica”, prefigurata all’art. 1754 c.c., non è costruita in termini contrattuali, essendo incentrata: a) sul dato, positivo, della “messa in relazione”, fi-nalizzata al compimento di una affare; b) sul requisito negativo della assenza, rispetto alle parti intermediata, di rapporti di collaborazione, dipendenza o rappresentanza.

Si comprende come, sulla base di tali caratteristiche, autorevole dottrina (segui-ta da un orien-tamento giurisprudenziale, peraltro allo stato minoritario) abbia potuto trarne il corollario del carattere non negoziale della attività mediatizia: ciò che trova anche conferma: a) dal tenore testuale della norma che, al di là della sua collocazione topologica, non definisce una tipologia

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contrattuale, ma individua le caratteristiche soggettive del mediatore; b) dalla obiettiva difficoltà di attribuire gli effetti della fattispecie ad un contratto.

Si spiega, perciò, nella prospettiva della tesi acontrattualistica, la costruzione di una figura di mediazione (atipica), caratterizzata da un rapporto ulteriore tra le parti (di fonte, appunto, nego-ziale), in base al quale il mediatore si obbliga ad agire nell’esclusivo interesse di una sola di esse (si parla, infatti, di mediazione “unilatererale” o “fiduciaria”). Si fa anche, nella stessa prospettiva, l’esempio della mediazione del dipendente o del collaboratore.

b) Cass. civ., sez. III, 14 luglio 2009, n. 16382

massima

La mediazione tipica, disciplinata dagli art. 1754 e seguenti c.c., è soltanto quella svolta dal mediatore in modo auto-nomo, senza essere legato alle parti da alcun vincolo di mandato o di altro tipo, e non costituisce un negozio giuridico, ma un’attività materiale dalla quale la legge fa scaturire il diritto alla provvigione; tuttavia, in virtù del «contatto sociale» che si crea tra il mediatore professionale e le parti, nella controversia tra essi pendente trovano applicazione le norme sui contratti, con la conseguenza che il mediatore, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile nell›adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico, ai sensi dell›art. 1176, secondo comma, c.c., e di non aver agito in posizione di mandatario.

MOTIVAZIONE((omissis))anche sulla base, in parte, di quanto recentemente affermato da questa Corte (in particolare

le sentenze nn. 24333/2008 e 19066/2006) che, oltre alla mediazione c.d. ordinaria o tipica di cui all’art. 1754 c.c., consistente in un attività giuridica in senso stretto, è configurabile una «mediazione» di tipo contrattuale che risulta correttamente riconducibile, più che ad «una mediazione negoziale atipica», al contratto di mandato.

Accanto, infatti, all’ipotesi delineata dall’art. 1754 c.c., i disposti di cui agli artt. 1756 e 1761 c.c., supportano l’eventuale configurazione di un vero e proprio rapporto di mandato ex art. 1703 c.c..

La previsione tipica di cui all’art. 1754 c.c., individuando nel mediatore “colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legalo ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione di dipendenza o di rappresentanza”, pone in rilevo tre aspetti: a) l’atti-vità di mediazione prescinde da un sottostante obbligo a carico del mediatore stesso, perché posta in essere in mancanza di un apposito titolo (costituente rapporto subordinato o collaborativo); b) “la messa in relazione” delle parti ai fini della conclusione di un affare è dunque qualificabile come di tipo non negoziale ma giuridica in senso stretto; c) detta attività si collega al disposto di cui all’art. 1173 c.c., in tema di fonti delle obbligazioni, e, specificamente, al derivare queste ultime, oltre che da contratto, da fatto illecito, o fatto, da “ogni altro atto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” (nel senso, quindi, che l’attività del mediatore è dallo

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stesso legislatore individuata come fonte del rapporto obbligatorio nel cui ambito sorge il diritto di credito alla provvigione di cui all’art. 1756 c.c.).

Appare preferibile ritenere l’attività in oggetto (per quanto “di regola” previsto nel co-dice civile) quale giuridica in senso stretto e non negoziale, non solo perché, riconducendosi all’antica distinzione tra atto e negozio, gli effetti della stessa sono specificamente predeterminati dallo stesso legislatore (con particolare riferimento a detta provvigione) ma soprattutto perché non vi è alla base della stessa un contratto (rectius: regolamento di interessi “preventivamente” concordalo dal mediatore con una o più parti); ciò comporta che il mediatore, sempre per quanto configurato nell’art. 1754 c.c., acquista il diritto alla provvigione (a condizione della conclusione dell’affare) non in virtù di un negozio posto in essere ai sensi dell’art. 1322 c.c., (in tema di auto-nomia contrattuale) ed i cui effetti si producono ex art. 1372 c.c. (“il contratto ha forza di legge tra le parti”, nel senso che l’efficacia contrattuale è giuridicamente vincolante) bensì sulla base di un mero comportamento (la messa in relazione di due o più parti) che il legislatore riconosce per ciò solo fonte di un rapporto obbligatorio e dei connessi effetti giuridici.

Ciò non toglie, per come già esposto, che l’attività del c.d. mediatore possa essere svolta anche sulla base di un contratto di mandato.

Per definizione, l’affidamento di un incarico “col quale una parte si obbliga a compiere uno più atti giuridici per conto dell’altra” da luogo al contratto di mandato ex art. 1703 c.c., (oltre che ad alcune particolari figure di contratto, quali la commissione, la spedizione e l’agenzia di cui rispettivamente agli artt. 1731, 1737 e 1742 c.c., in cui il nucleo essenziale degli interessi dei soggetti contraenti, caratterizzato da un’attività giuridica posta in essere da una parte per conto dell’altra, con presunzione di onerosità, e individuante la causa, è analogo a quello tipizzante il mandato stesso ed è altresì specificato; nella commissione: acquisto o vendita di beni per conto del committente e in nome del commissionario; nella spedizione: conclusione di un contratto di trasporto in nome proprio e per conto del mandante; nell’agenzia: promozione, in modo stabile, per la conclusione di contratti in una zona determinata).

Ne deriva, come spesso avviene nella prassi (e come è facile rinvenire nei contratti standard di mediazione immobiliare, ove appunto si indica, nella maggior parte dei casi, un mandato o un incarico a vendere o ad acquistare beni immobili), che il mediatore in molti casi agisca non sulla base di un comportamento di mera messa in contatto tra due o più soggetti per la con-clusione di un affare (attività giuridica in senso stretto che prescinde da un sottostante titolo giuridico) ma proprio perché “incaricato” da una o più parti ai fini della conclusione dell’affare (generalmente in ordine all’acquisto o alla vendita di un immobile); in tal caso risulta evidente che l’attività del mediatore – mandatario è conseguenziale all’adempimento di un obbligo di tipo contrattuale (e dunque, ex art. 1173 c.c., questa volta riconducibile al contratto come fonte di obbligazioni).

Tale diversa, duplice qualificazione giuridica dell’attività del mediatore si rinviene, al di là di detta prassi e da un punto di vista formale, non solo, nell’ambito della disciplina codicistica della mediazione, all’art. 1754 c.c. (diritto al rimborso delle spese nei confronti della persona per “inca-rico” della quale sono state eseguite, anche se l’affare non è concluso) e all’art. 1756 c.c., (incarico al mediatore da una delle parti di rappresentarla negli atti relativi all’esecuzione del contratto con-cluso con il suo intervento), ma anche nella L. n. 39 del 1989, (recante “modifiche ed integrazioni alla L. 21 marzo 1958, n. 253, concernente la disciplina della professione di mediatore”), istitutiva del ruolo professionale degli agenti di affari in mediazione; in quest’ultima, in particolare, rilevano l’art. 2, punto 2 (“il ruolo è distinto in tre sezioni: una per gli agenti immobiliari, una per gli agenti merceologici ed una per gli agenti muniti di mandato a titolo onerose, salvo ulteriori distinzioni in

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relazione a specifiche attività di mediazione da stabilire con il regolamento di cui all’art. 11”), l’art. 2, punto 4 (“l’iscrizione al ruolo deve essere richiesta anche se l’attività viene esercitata in modo occasionale o discontinuo, da coloro che svolgono, su mandato a titolo oneroso, attività per la conclusione di affari relativi ad immobili o ad aziende”), l’art. 5, punto 4 (“il mediatore che per l’esercizio della propria attività si avvalga di moduli o formulari, nei quali sono indicate le condi-zioni del contratto, deve preventivamente depositare copia presso la Commissione di cui all’art. 7”). Del resto, come già detto, è la stessa giurisprudenza della Corte a prospettare la possibilità che tra mediatore ed una delle parti intercorra un rapporto di tipo contrattuale (da ultimo, Cass. n. 8374/2009), salvo poi a verificare la compatibilità di questo con la mediazione con senso tipico.

Ciò posto, è ovvio che per il mediatore, a seconda se agisca senza mandato sulla base della generale previsione di cui all’art. 1754 c.c., oppure quale incaricato-mandatario, muti il regime della sua responsabilità.

Nel primo caso il mediatore pur compiendo, come detto, un’attività giuridica in sen-so stretto, è comunque tenuto all’obbligo di comportarsi in buona fede, in virtù della clausola generale di correttezza di cui all’art. 1175 c.c., (sull’estensione della regola della buona fede in senso oggettivo a tutte la fonti delle obbligazioni ex art. 1173 c.c., ivi compreso l’atto giuridico non negoziale, Cass. n. 5140/2005), estrinsecantesi, in specie, nell’obbligo di una corretta informazione, tra cui la comunicazione di tutte le circostanze a lui note o conoscibili sulla base della diligenza qualificata di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, vertendosi senz’altro in tema di attività professionale per come ulteriormente ribadito dalla citata L. n. 39 del 1989. Tale obbligo di correttezza sussiste a favore di entrambe le parti, messe in contatto ai fini della conclusione dell’affare, quale comprensivo di qualunque operazione di tipo eco-nomico – giuridico (sulla posizione di “neutralità” ed “imparzialità” nei confronti delle parti che concludono l’affare, tra le altre, Cass. n. 12106/2003, Cass. n. 13184/2007, la quale sottolinea la posizione di “terzietà” del mediatore rispetto ai contraenti posti in contratto in ciò differenzian-dolo dall’agente di commercio, nonché Cass. n. 6959/2000, che sottolinea come carattere essen-ziale della figura giuridica del mediatore, ai sensi dell’art. 1754 c.c., è appunto la sua imparzialità, intesa come assenza di ogni vincolo di mandato, di prestazione d’opera, di preposizione institoria e di qualsiasi altro rapporto che renda riferibile al dominus l’attività dell’intermediario, per cui nel caso di specie la S.C. ha escluso il requisito dell’imparzialità ritenendo sussistente un mandato costituito dall’affidamento dell’incarico di trattare la vendita dell’immobile in norme e per conto del preponente).

In particolare, egli è tenuto a comunicare: l’eventuale stato di insolvenza di una delle parti, l’e-sistenza di iscrizioni o pignoramenti sul bene, oggetto della conclusione dell’affare, la sussistenza di circostanze in base alle quali le parti avrebbero concluso il contratto con un diverso contenuto, l’esistenza di prelazioni ed opzioni (su tali punti, tra le altre, Cass. n. 5938/1993).

Inoltre, se, prima facie, la responsabilità del mediatore non mandatario appare agevol-mente di natura extracontrattuale, risulta preferibile, riguardando la stessa una figura professionale, applicare la più recente previsione giurisprudenziale di legittimità del-la responsabilità “da contatto sociale” (su cui, tra le altre, Cass. S.U. n. 577/2008; Cass. n. 12362/2006 e Cass. n. 9085/2006, con specifico riferimento al medico ed alle sue prestazioni pre-scindenti da un rapporto contrattuale); infatti, tale situazione è riscontrabile nei confronti dell’o-peratore di una professione sottoposta a specifici requisiti formali ed abilitativi, come nel caso di specie in cui è prevista l’iscrizione ad un apposito ruolo, ed a favore di quanti, utenti-consumatori, fanno particolare affidamento nella stessa per le sue caratteristiche (si pensi, ad esempio, alle c.d. agenzie immobiliari dalle particolari connotazioni professionali ed imprenditoriali).

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Da tale configurazione di responsabilità a carico del mediatore, che opera ai sensi dell’art. 1754 c.c., in caso di contenzioso tra il mediatore stesso e le parti, deriva sia che e il primo che deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile, in base alla richiamata diligenza ex art. 1176 c.c., comma 2, nell’adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico (mentre spetta alle seconde fornire prova esclusivamente dell’avvenuto contatto ai fini della conclusione dell’affare), sia che il termine di prescrizione per far valere in giudizio detta responsabilità del mediatore è quello ordinario decennale (e non quello quinquennale della responsabilità ex art. 2043 c.c.).

Ancora, per quanto già esposto, è evidente che l’attore che agisce per ottenere la provvigio-ne di una mediazione da lui effettuata ha l’onere di dimostrare di non aver agito in posizione di mandatario di una delle parti.

Nel secondo caso, vale a dure dell’attribuzione al professionista – mediatore di un incarico, e quindi, per quanto esposto, della sussistenza di un mandato, anche eventualmente con poteri rappresentativi mediante procura in ordine alla spendita del nome (mediante sottoscrizione dei relativi moduli di contratto standard in uso presso i mediatori o le c.d. agenzie immobiliari a veste societaria, erroneamente qualificati come “contratto di mediazione” o “conferimento incarico di mediazione per la vendita di un immobile”), le conseguenze sul piano giuridico sono ben diverse rispetto alla figura, tipica, ordinaria o tradizionale che dir si voglia, della mediazione ex art. 1754 c.c..

Ed infatti: il mediatore è in realtà un mandatario poiché assume “essenzialmente”, sulla base della causa in concreto del contratto posto in essere, quale derivante dalla sintesi degli interessi regolamentati, l’incarico, di solito, di reperire un acquirente (oppure un venditore) o un locatario (oppure un locatore) di un immobile, con “ulteriori compiti” (di consulenza anche fiscale, di assistenza nelle trattative e sino al momento del rogito, di pubblicizzare la relativa offer-ta, di far visitare l’immobile etc.), in molti casi con la fissazione di un termine, con la previsione del c.d. diritto di esclusiva all’incaricato nonché del diritto di recesso per entrambi i contraenti; a fronte di dette prestazioni riceve un corrispettivo, nella percentuale convenuta sul prezzo di compravendita, con pagamento sospensivamente condizionato (in modo esplicito o implicito) alla conclusione dell’affare (generalmente all’accettazione della proposta).

È di tutta evidenza che siamo ben al di fuori della previsione codicistica della mediazione per svariati motivi: la posizione del mandatario in esame è inconciliabile ed ostativa rispetto alla me-diazione tradizionale (in cui come detto il mediatore, senza preliminare assunzione di obblighi, compie l’attività di messa in contatto tra due soggetti che concludono quindi contrattualmente, e non solo, mediante comunque l’assunzione di vincoli giudici, un’operazione di natura economica – sul punto, tra le altre, Cass. n. 2200/2007); il diritto al relativo compenso (o provvigione), sem-pre condizionato all’iscrizione nel ruolo professionale ai sensi della L. n. 39 del 1989, sorge non più, ex art. 1755 c.c., nei confronti “di ciascuna delle parti” e solo “per effetto del suo intervento”, quale appunto conseguenziale alla sua neutralità ed imparzialità nel metterle in relazione, bensì è a carico del solo mandante, per quanto previsto agli artt. 1709 e 1720 c.c., (così come avviene, ad esempio, nel contratto di agenzia, ove sussiste l’obbligo di corrispondere le provvigioni a carico del solo preponente) rispetto al quale è, a sua volta, contrattualmente vincolato, nell’espletamento dell’incarico (di fiducia o intuitus personae) e delle connesse prestazioni, pur sempre con la dili-genza ex art. 1176 c.c., comma 2, stante la sua natura professionale, in deroga a quanto stabilito all’art. 1710 c.c.; ancora, il mandatario in esame, oltre ad essere obbligato ai sensi dell’art. 1711 c.c. e ss., è tenuto all’osservanza della normativa in tema di contratti di consumo (ove ne ricorrano i presupposti soggettivi, vale a dire il rapporto professionista – imprenditore, da un lato, e consu-matore – persona fisica) di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, con particolare riferimento al generale

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dovere di informazione ex art. 5, alla disciplina delle clausole vessatorie ex art. 33 e ss. ed, in specie, alla connessa azione inibitoria ex art. 37; ferma restando, ovviamente, l’applicazione della disciplina generale dei contratti in tema di onere della prova e prescrizione.

Tra l’altro, sul carattere “essenziale” della figura giuridica del mediatore, ai sensi dell’art. 1754 c.c., quale collegato all’assenza di ogni vincolo di mandato, di prestazione d’opera, di preposizio-ne institoria e di qualsiasi altro rapporto, carattere non configurabile in caso di soggetto munito di mandato (con rappresentanza o meno) per la stipulazione di un contratto con un terzo, si è da tempo pronunciata questa Corte (si veda, in particolare, Cass. nn. 4340/1980 e 1995/1987).

Riguardo, pertanto, a detto primo motivo di ricorso, pur non risultando condivisibile la con-figurazione della mediazione quale avente sempre a base un mandato, con “coinvolgimento” in esso di entrambe le parti che concludono l’affare in un sorta di rapporto trilaterale con il media-tore, priva di pregio è però la tesi sostenuta dal ricorrente di esclusione della sua responsabilità.

((omissis)) In conclusione: a) la mediazione “tipica” di cui all’art. 1754 c.c., comporta che il mediatore,

senza vincoli e quindi in posizione di imparzialità, ponga in essere un’attività giuridica in senso stretto di messa in relazione tra due o più parti, idonea a favorire la conclusione di un affare; b) la stessa è incompatibile con un sottostante rapporto di mandato tra il c.d. mediatore ed una delle parti che ha interesse alla conclusione dell’affare stesso, nel qual caso il c.d., mediatore – mandatario non ha più diritto alla provvigione da ciascuna delle parti ma solo dal mandante; c) nella mediazione tipica la responsabilità del mediatore, con specifico riferimento agli obblighi di correttezza e di informazione, si configura come responsabilità da “contatto sociale”; d) nel caso in cui il mediatore agisca invece come mandatario, assume su di sè i relativi obblighi e, qualora si comporti illecitamente recando danni a terzi, è tenuto a favore di quest’ultimi al risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c., (non escludendosi in proposito un’eventuale corresponsabilità del mandante); e) nella vicenda in esame, risultando pacifica la circostanza dell’affidamento di un mandato a vendere alla Italiana Immobiliare da parte di M.R., quest’ultima nel dar luogo da parte della O.B. alla sottoscrizione di proposte di acquisto, sulla base di errati presupposti di fatto pro-spettati dalla società, risulta obbligata, oltre alla restituzione di quanto indebitamente percepito, al risarcimento dei danni (restituzione e risarcimento chiesti sin dall’atto introduttivo del giudizio).

((omissis))

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