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Giorgio Celli

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Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons “Attri-bution-NonCommercial-NoDerivs 2.5”, consultabile all’indirizzohttp://creativecommons.org. Pertanto questo libro è libero, e può

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EcoalfabetoCollana diretta da Marcello Baraghini e Stefano CarnazziCoordinatore della collana: Edgar Meyer

© 2011 Giorgio Celli

© 2011 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri

ISBN 978-88-6222-169-6

www.stampalternativa.it

email: [email protected]

progetto grafico: Anyone!

impaginazione: Roberta Rossi

Ecoalfabeto – i libri di GaiaPer leggere la natura, diffondere nuove idee, spunti inediti eoriginali. Spiegare in modo accattivante, convincente. Offrirestimoli per la crescita personale. Trattare i temi della consape-volezza, dell’educazione, della tutela della salute, del nuovo rap-porto con gli animali e l’ambiente.

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La tigre

C’è chi pensa che la natura sia buonae finisce nelle fauci della tigrec’è chi pensa che la natura sia malvagiae abbatte a colpi di fucile la tigrec’è chi pensa che la natura sia bellae mette nella gabbia dello zoo la tigrec’è chi pensa che la natura sia utilee si fa una pelliccia con la tigrec’è chi pensa che la natura pensie seziona il cervello della tigrec’è chi pensa che la natura sia in pericoloe fa un’oasi di protezione per la tigrec’è chi pensa che la natura sia Dioe trova l’uomo nella tigrec’è chi pensa che la natura sia opera di Dioe dissocia l’uomo dalla tigrec’è chi pensa che la natura sia naturae diventa parente della tigrec’è chi pensa che la tigre sia la tigree lascia in pace la tigre.

Giorgio Celli

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Introduzione

Sono circa 8 milioni i gatti e oltre 7 milioni i cani (per

non parlare di pesci, uccelli, roditori vari, furetti, co-

nigli ecc.) che vivono nelle nostre case. Sono, a tutti gli

effetti, membri delle nostre famiglie. Ci fanno compa-

gnia, ci osservano, cercano di capirci.

Tutti noi poi, nessuno escluso, abbiamo a che fare con

migliaia di altri animali che, volenti o nolenti, condu-

cono le loro vite accanto alle nostre. Come gli insetti,

dalle formiche alle api. Spesso non si sa come “trattar-

li”, molti ne hanno addirittura paura. Succede anche

perché non si ha dimestichezza con l’“altro”.

Con Giorgio Celli si impara a conoscerli divertendosi.

Raccontando del cane simulatore, del gatto allo spec-

chio, dell’ape farmacista, della formica robot, del pic-

cione mistico, e così via, l’autore ci accompagna in un

mondo a noi vicinissimo ma non sempre altrettanto

noto.

Nel Medioevo i bestiari erano componimenti in prosa

e in versi nei quali si descrivevano gli animali, anche

favolosi, con l’aggiunta di spiegazioni moralizzanti e

riferimenti alla Bibbia.

Il Nuovo bestiario postmoderno di Celli, è ovvio, è altra

cosa. Qui si tratta di aneddoti, storie vere, racconti, os-

servazioni e riflessioni del grande etologo che, nello

stile didattico e divulgativo che gli è proprio, svelano

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al lettore i segreti del comportamento degli animali,

dei loro linguaggi, della loro etologia. Ci aiutano a

comprendere il mondo che ci sta intorno. E, forse, ci

fanno conoscere qualcosa in più anche su di noi.

Giorgio Celli, studioso e scienziato, coordina da molti

anni gruppi di ricerca per ridurre i danni ambienta-

li. Etologo, entomologo e divulgatore scientifico tra i

più noti in Italia soprattutto per la sua ampia produ-

zione saggistica e televisiva, già parlamentare euro-

peo e consigliere comunale a Bologna, dove vive, ha af-

fiancato al lavoro scientifico una parallela attività let-

teraria. È notoriamente un “gattaro” (qualcuno, me

compreso, lo considera “il re dei gattolici”) e tiene, in

tutta Italia, conferenze seguitissime sul tema del rap-

porto uomo-altri animali.

Non stupisce che siano affollate. L’abilitità narrativa e

divulgativa dell’autore è nota. La sua attitudine affa-

bulatoria, il fascino che è capace di mettere in ogni suo

racconto – sempre descritto con brevi ma incisive pen-

nellate – la semplicità di scrittura, uniti al rigore

scientifico, sono un mix unico.

Ha scritto Celli: “Talora, mentre pianto un chiodo nel

muro di casa mia per appendere un quadro, o quan-

do, forse ancor più raramente, faccio un po’ di ginna-

stica da camera gridando hop! hop!, allorché, insom-

ma, mi comporto in maniera inconsueta, scopro che il

gatto mi osserva. Sta lì, sul divano, con gli occhi sgra-

nati e una espressione, lasciatemi dir così, tra la me-

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raviglia e la curiosità. Mi viene il dubbio, allora, che

da sempre ci siano nell’appartamento due etologi a

confronto: un uomo che cerca di capire un gatto… e vi-

ceversa”.

Lo sguardo è sempre divertito. E divertente.

Edgar Meyerpresidente Gaia Animali & Ambiente Onlus

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Se andate nella Nuova Galles meridionale,vedrete i marsupiali saltellare nelle campagne.

E se andate negli antipodi della mente auto-cosciente,incontrerete ogni specie di creature strane

almeno quanto i canguri.Non si inventano queste creature

più di quanto si inventino i marsupiali.Esse vivono la propria vita in completa indipendenza

e l’uomo non può controllarle.

A. Huxley, Paradiso e inferno

La filologia, affermava un mio professore di greco, che sene intendeva e che adorava la maldicenza e i paradossi, èun po’ come l’occhio: vede bene le cose solo se le mette “afuoco”, in parole povere se le pone a una certa distanza. Maquesta restituzione delle cose alla loro distanza storica, alloro paesag gio di origine, questo dare a Cesare quel che èdi Cesare, non è privo di rischi; può succedere, per esem-

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Il bestiario vivente

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pio, che si espropri il presente, e che si operi una sorta dirimozione culturale.I bestiari vengono considerati, per lo più, delle opere“data te”, dei fossili letterari da imbalsamare e da porre, tracodici alluminati e Bibbie miniate, nelle teche di cristallodelle biblio teche e dei musei. Dal mio punto di vista misembra, invece, che lo “spirito” di questi libri sentenziali,niente affatto tramontato, sia solo in parziale eclissi o in in-cognito. Esclusi dai trattati di zoologia, i bestiari sono dive-nuti luoghi comuni o modi di pensare; dati come morti,hanno acquistato l’invisibile potere dei fantasmi. Perché,volenti o nolenti, noi continuiamo a confron tarci con glianimali, onirici o reali, che frequentano il nostro mondo oquello parallelo, e speculare, dei nostri sogni. E non parlomica delle faune fantastiche di Borges! Parlo dei bestiariche governano ancora la nostra vita quotidiana, degli ani-mali “altri” che seguitiamo, imperterriti, a invocare.Un ricordo, che mi folgora: sono all’aeroporto del Cairo,con gli uomini della FAO. Tre boeing di differenti airlinesatterra no, in una sequenza armoniosa, come obbedendo airitmi di una misteriosa peripezia zodiacale, sulle lunghe pi-ste abbacinate dal sole allo zenith. Sugli alettoni e sulle fu-soliere dei tre aviogetti, delle tre chimere tecnologiche,scopro, dipinte a fuoco, delle figure di animali, reali o mi-tologici. Il reattore egiziano esibisce la testa di uccello diOrus, l’antico dio d’epoca faraonica, adorato da Edfu, men-tre il boeing australiano mette in bella mostra l’immaginestilizzata, e un po’ buffa, di un canguro in atto di saltare, e,infine, sul DC 9 neozelandese intravedo la sagomina di unkiwi, uccello inetto al volo, e minacciato di estinzione, che

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vive nelle zone più impervie e segrete dell’iso la. L’uomo delventesimo secolo, mi dico, stenta a restare un proprio con-temporaneo. La sua mente abita ancora in compa gnia de-gli animali magici, ed esemplari, delle origini. Espugni pu-re, astronauta o pilota dell’impossibile, l’alta atmosfera,l’uomo resta tributario del passato, e per questo pone an-cora sotto la protezione delle antiche parentele totemichela sua esistenza. Il cacciatore paleolitico, che affrescava ilsoffitto della grotta di Altamira, a diventare, per forza dimagia, il “signore dei bisonti”, siede ancora, sempre lo stes-so e figlio di sé stesso, nell’abitacolo del boeing, confortatoda tutti i doni della tecnologia e dall’immagine dell’anima-le del suo clan. La nostra convinzione di essere stati eman-cipati dal progresso è messa ogni momento in discussione.Diamo un calcione all’au tomobile che si “ostina” – pensia-mo proprio così! – a non partire? Gli aborigeni australianiconsentirebbero al nostro gesto: quale migliore testimo-nianza di animismo? Un gatto nero ci attraversa, fulmineo,la strada, e noi indietreggiamo, un po’ sgomenti, e faccia-mo gli scongiuri? Precipitiamo in pieno pensiero magico,regrediamo al “prima” di Galileo, e della nascita della scien-za, a officiare il sabba, o il potlatch. Ma sono anche, e for-se sopra tutto, i discorsi di ogni giorno che tradiscono il“bestiario vivente” che abita in noi. Non dichiariamo, forse,al mattino, di “aver dormito come un ghiro”? O non escla-miamo, tra l’ammirazione e lo spavento, che quella donnaè “furba come una volpe”? Oppure che è “una vipera”, per-ché perfida, o ancora economa – e ce ne vorrebbero! – “co-me una formica”? Questo linguaggio, che si vale di similitu-dini animali, è lo stesso che parla nel Fisiologo o nel Teso-

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retto, il dettato di una mentalità peculiare delle origini, in-genua e proiettiva a un tempo.Rileggevo, l’altro ieri, le Antimémoires di André Malraux.Che libro retorico, mi dicevo, questi “grandi uomini”, daNehru a Mao, che sembrano giocare a fare il verso a séstessi sono intollerabili! D’un tratto incontro un “punto”formidabile: Malraux racconta l’escursione etnologica diGustav Jung nel Nuovo Messico. Nel corso di una riunione,gli indios domanda no allo psicoanalista svizzero quale sial’animale del suo clan, e lui nega di averne uno. Più tardi,finito l’incontro, tutti scendono una scala di legno, gli in-dios alla loro maniera, volgendo le spalle ai pioli, e Jung,più prudente, con la faccia al muro d’appoggio, per meglioaiutarsi con le mani. “Dal basso” scrive Malraux “il capo in-dica in silenzio l’orso di Berna ricamato sulla casacca delsuo ospite: l’orso è il solo animale che scenda con il musoall’albero, o alla scala…”. Questo aneddoto, in cui Jung, co-me Castaneda, va “a scuola dallo stregone”, che rivela alloscopritore degli archetipi per l’appunto un archetipo ani-male, che egli aveva misconosciuto, dilata il suo significa-to, e si fa antropologo. L’uomo moderno è antico, ha scrit-to Günther Anders.Va bene, lo “spirito” del bestiario è il “grande trasparente”:esercita su di noi i poteri di una eminenza grigia, e funzio-na un po’ alla stregua di un complesso, che si esprime persimboli – il kiwi sulla fusoliera, o la similitudine animale neldiscorso – ; ma per quel che concerne la scienza? Thorndi-ke si pose il problema della “scientificità” dei bestiari econcluse affermando che erano gli ascendenti diretti deitrattati di zoologia veri e propri. La querelle scienza/no,

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scienza/sì, è simile a quella sollevata dalle opere alchemi-che: erano dei protomanuali di chimica, oppure tutt’altracosa? Cominciamo col dire che, nate dalla funzione fabula-trice, alcune figure dei bestiari si incontrano, nell’autunnodel Medioevo, con il presagio dell’avvento di una nuovamentalità, con la scienza nascente o per lo meno gestanteed esprimono, allora, un certo distaccato disincanto. Si ve-da, come il più esemplare, il caso delle sirene. Per Omeroquesto mostro di natura era un collage di donna e di uccel-lo, e così ce le descrive nell’Odissea.Più tardi, Orazio allude alle sirene ma come innesto, benpiù noto, di una donna e di un pesce. Nel Fisiologo, operascritta nei primi secoli dell’era cristiana, la sirena ha permetà corpo muliebre e per metà corpo d’oca. Qualche se-colo più tardi, all’ombra del Mille, in un altro bestiario, Li-

ber monstruorum, la “coda” della sirena subisce un’altrametamorfosi zoologica, e torna a farsi squama, e pinna na-tante. Tutte chirurgie, e trapianti, fantastici, che dimostra-no l’instabilità dell’immagine mentale, incerta tra il pesce el’uccello. Forse, per praticare un poco di “psicoanalisi sel-vaggia”, esiste una singolare ambiguità e re versibilità in-conscia tra queste due forme zoologiche, se Sant’Ambro-gio, nel suo Esamerone, scrive che i pesci pre-figurano,nella serie degli esseri, e nella continuità della creazione,gli uccelli; sarà, forse, a chiasmo, perché questi nuotano

nell’aria, come quelli volano nell’acqua? Alle soglie del-l’Umanesimo e del Rinascimento, in cui matura e giunge alsuo punto di fusione il pensiero scientifico, l’immagine pro-digiosa della sirena perde l’aura, e in qualche modo si ra-zionalizza. Nel Tesoro, scritto nella seconda metà del Mil-

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leduecento, Brunetto Latini, dopo aver descritto le sirenesecondo l’iconologia ormai consolidata della donna/pesce,aggiunge questa diagnosi strabiliante, che traduco allabuona: “Ma, a dir la verità, le sirene erano tre prostituteche facevano cadere in trappola tutti i passanti, e li riduce-vano in povertà”.Subito dopo, tuttavia, tornando alla retorica comparati-vo/simbolica del bestiario canonico, aggiunge: “Se la Storiariporta che esse avevano delle ali e degli artigli, è per diredell’Amore, che vola e che ferisce; e se esse dimorano nel-l’acqua è perché la lussuria è nata dall’umidità”.Ma per enucleare i rapporti produttivi, o genetici, tra be-stiari e scienze naturali, non sarà molto proficuo prenderein esame – caso per caso, animale per animale – se l’anticocompilatore abbia “visto giusto”, o se “abbia travisato”, op-pure se la nozione riportata derivi da una osservazione, oda una invenzione; meglio sarà entrare criticamente nelcuore stesso di queste opere, a “smontare” il significato ela retorica. Scrive Gabriel Bianciotto che, nei bestiari, “lastruttura degli articoli, classificati con grande fantasia ap-parente, è binaria: enunciazione di una natura dell’animaleconsiderato; significato religioso o morale di questa natu-ra”. Questa natura “doppia” – A: descrizione della natura;B: confronto con la natura umana – sembra distinguerenettamente il bestiario dal trattato di zoologia quale noi lointendiamo. La scienza, ha scritto Gillespie, ha il suo pun-to di partenza nella natura, e non nella mente. Lo scienzia-to confronta le osservazioni esposte in A, non con B ma, inparte, con la letteratura esistente e, sopra tutto, con ilmondo dei fenomeni. Frequenta, cioè, l’interfaccia tra os-

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servazione e noti zia, tra fatto e verifica. Al contrario il com-pilatore dei bestiari si confrontava, sì, un poco, con il mon-do, e molto di più con tutti gli ipse dixit dei testi ma, fon-damentalmente, l’operazione più propria del suo metodoera cercare la convalida di A in B, nel senso che il dettatoanimalistico doveva possedere, per venire accettato, unasua piena pregnanza teologica e morale. Al punto che,mentre allo scienziato non è consentito interpolare la crea-zione con l’immagine, e trattare come reale l’animale fan-tastico perché, in prima e ultima istanza, “non esiste”, il be-

stiologo non conosceva queste restrizioni: ogni mostro, oprodigio, che servisse a illustrare esattamente una qualità,o una virtù, dell’uomo, era legittimato a reclamare diritto diesistenza, e trovava il suo posto tra le creature “vere”. Nelbestiario di Pierre de Beauvais, che risale ai primi anni delMilleduecento, leggiamo che lo struzzo, in conformità conquanto scrive di lui Il Fisiologo, ha le ali, ma non vola, e siprende gran cura dei suoi piccoli. Però, c’è un momento incui l’animale entra in trance: alza gli occhi al cielo, imme-more di tutto, e quindi anche della sua discendenza, e re-sta intento a fruire i beni celesti. Ecco due verità incom-mensurabili a confronto: la prima, inettitudine al volo e cu-re parentali, che è esatta, è derivata da una osservazio ne e,volendo, può trovare nell’osservazione la sua verifica e lasua falsificazione. La seconda verità si fonda sulla congrui-tà teologica del fenomeno. Infatti, non ha detto l’apostolo:“Di mentico i beni di questo mondo, e mi sforzo di penetra-re i luoghi supremi cui siamo chiamati”? E Cristo non affer-ma, forse, nel Vangelo: “Chi ama il padre, la madre, o i figlipiù di me, non è degno di me”? Ergo, lo struzzo entra in

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estasi. “Ogni lettura del mondo” scrive ancora Bianciotto“non può che tendere a fare apparire dei segni; la realtàsensibile è la lettera di cui è necessario interpretare lo spi-rito; da ciò lo stabilirsi di una relazione metaforica costan-te tra il mondo e quello che gli conferisce ai nostri occhi unsenso: i due Testamenti, insieme di significati allegorici chefanno luce sulla natura divina e sulla condizione dell’uomo.La descrizione delle nature animali si integra con certeprospettive escatologiche in cui, come dice Sant’Agostino,quel che importa è il significato di un fatto, e non la sua au-tenticità: la veracità delle nature descritte non è quindi af-fatto necessaria: è possibile inventarle, o evocare delle na-ture mitiche nella misura in cui ci consentono di compren-dere delle verità di tutt’altra portata che, in loro stesse,non sono suscet tibili di contestazioni”. Il comportamento,descritto dal Vangelo, dell’anima assetata di Dio, convalidail comportamento dello struzzo, immemore della sua di-scendenza, o per meglio dire conferisce al fatto una valen-za metaforica che, in un universo concepito come una “fo-rêt de Symboles”, equivale a uno statuto di esistenza.Ma torniamo un poco sui nostri passi. Risponde proprio a ve-rità quello che abbiamo affermato, e cioè che lo scienziatocompari A con il mondo, e che trascuri il rimando, tipico delbestiario, a B, non attivando per nulla il corto circuito uo-mo/animale? L’antropomorfismo, norma del bestiario, quelfeno meno di proiezione in forza del quale noi attribuiamoagli animali i nostri sentimenti, e diciamo che il gatto è infu-riato, o che il cane ci ama, è stato proprio estromesso deltutto, come scientificamente fuorviante, dai libri della zoolo-gia moderna? La cosa esige un qualche ripensamento.

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Perché l’antropomorfismo, in primo luogo, è una malattiacostituzionale del linguaggio. L’uomo ha “inventato” il lin -guaggio per parlare con l’uomo, e dell’uomo. Quando scon-fina semanticamente è fatale che conservi nel discorso, vi-zio d’ori gine, gli echi di continue allusioni antropomorfe. Siha un bello sforzarsi: il cane che scodinzola ci par proprio“felice”! La prova del nove di questa coazione all’antropo-centrismo linguistico ce l’hanno fornita, in negativo, queglipsicologi che, alla fine del XIX secolo, tentarono di “depu-rare” le proposizioni scientifi che elaborando una nuova no-menclatura obiettiva, di ascendenza fisiologica. Per loro,non bisognava più parlare di sensazioni o di percezioni,ma di recezioni. Per cui, non si dica il cane adocchia unabistecca, o riconosce qualcuno, ma che ha una fotorecezio-

ne del cibo, o una icono-recezione del padrone. Con il ri-sultato che, per essere coerenti, invece di dichiarare che ilnostro gatto “ha fame” dovremmo dire che “i suoi proprio-cettori gastrici, in ritmica contrazione, inviano impulsi alcentro ipotalamico”. Che fatica di Sisifo essere obiettivi!Troppa, perché la scienza mira, in primo luogo, all’econo-mia dei mezzi, anche espressivi…Tra l’altro, dopo Darwin, un certo grado di antropomorfi-smo è diventato scientificamente legittimo. Lo scienziatoinglese è uno dei numi tutelari, possiamo ben dirlo, del be-stiario vivente che ancora ci governa. Dopo tutto, come hascritto Vandel, il linguaggio antropomorfo “rappresenta laproiezione dell’uma no sul piano degli esseri che hanno pre-sieduto alla sua genesi”. Ragione per cui sarà più “scienti-fico”, comparando, dire che uno scimpanzé è infelice, inve-ce che attribuire questo stato d’animo a una rana. Lo scim-

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panzé è, difatti, a tutti gli effetti, un nostro fratello minore,magari un po’ impedito.Ma non basta: a ben leggere i bestiari si può accertare facil-mente come la funzione che in essi si assegna all’animale siaa due valenze. Ora la bestia, reale o immaginaria, raffigura ivizi e le perversioni dell’uomo e ora è, al contrario, lo spec-chio vivente delle sue virtù o degli ammaestramenti dellaChiesa. In parole povere, il pigro deve avere come esempiola formica, o il probo misconoscersi nella donnola, perchél’una scevra il grano dall’orzo, e pone “il suo frumento neigranai celesti”, mentre l’altra “che concepisce con la boccae partorisce con le orecchie” è come quegli uomini che, do-po aver mangiato il pane degli angeli in chiesa, estrometto-no la parola divina per via auricolare. Il bello è che questoduplice modo di porre a confronto l’uomo e l’animale, nor-ma nel bestiario e nelle favole, è presente, in modo più omeno esplicito, nei libri di etologia e di sociobiologia. Non cicredete? Quando, per esempio, Konrad Lorenz ha preso inesame il tema scottante dell’aggressività ha parlato in modoesplicito, per gli animali, di fenomeni atti a far diminuire lapericolosità degli scontri. I cervi maschi, quando si battonoper le femmine, o i lupi quando confliggono per la gerar-chia, per il comando del branco, compiono delle sorte digiostre, di tornei naturali, atti a far desistere l’avversariosenza versare il suo sangue. Il lupo egemone, per esempio,non azzanna a morte la gola che l’antagonista sconfitto gliporge in atto di sottomissione. La soddisfazione di aver vin-to gli basta, per cui dona cavallerescamente la vita al con-tendente che si proclama suo vassallo. È fatale che la cosaattivi una comparazione uomo/animale. Non è affatto vero,

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allora, proclamiamo contriti, che il lupo è cattivo; siamo noile creature più crudeli del pianeta, noi che abbiamo prati-cato la guerra totale e il genocidio. Lorenz, lo voglia o no, cipropone così una pastorale per l’uomo contemporaneo; il“lupo buono” è l’equivalente, post-Darwin, del “buon sel-vaggio” di Rousseau, e per l’etologia il paradiso terrestre èun luogo che è potuto divenir tale solo dopo la cacciata diAdamo. Tutte le guerre della preistoria e della storia testi-moniano contro di noi a favore degli animali che risultano,alla fine, “edificanti”.

“Se si considera il numero di assassinii commessi per mi-gliaia di individui all’anno” scrive Wilson “gli esseri umanioccu pano livelli molto bassi nella graduatoria degli organi-smi violentemente aggressivi”. E più avanti riporta, comeesempio di “nature” ben più malvagie di noi, quel che haveduto Hans Knut a proposito della lotta tra delle iene peril possesso di una carcassa di gnu. Riportiamo per esteso ladescrizione di un vero e proprio linciaggio belluino:“I due gruppi si mischiarono in un frastuono di richiami,ma subito dopo si separarono nuovamente e le iene diMungi corsero via inseguite per breve tratto dalle iene del-la Scratching Rock, che poi ritornarono alla carcassa. Unadozzina di iene della Scratching Rock però riuscirono abloccare un maschio di Mungi e cominciarono a morderlodove potevano – specialmen te sull’addome, sulle zampe esulle orecchie. La vittima fu completamente sopraffatta daisuoi assalitori, che continuarono a maltrattarla per una de-cina di minuti, mentre il resto del loro branco stava divo-rando lo gnu. Il maschio di Mungi fu letteral mente sbrana-

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to e quando più tardi studiai le ferite più da vicino poteiconstatare che le sue orecchie erano state mozzate e cosìle sue zampe e i testicoli, l’animale era paralizzato da untrauma alla colonna vertebrale, aveva estese ferite a livellodelle zampe posteriori e del ventre, emorragie sottocuta-nee un po’ dappertut to... Il mattino seguente trovai una ie-na che stava divorando la carcassa e constatai che anchealtre avevano partecipato al banchetto; circa un terzo de-gli organi interni e della muscolatura era stato divorato.Cannibali!”.La “specularità” e la scrittura binaria del bestiario rivivonoin modo più o meno esplicito: il lupo, che funge da esem-pio morale da seguire, ha come rovescio della medaglia laiena cannibale che funge, invece, da ammonimento a nonimitarla. Insomma, come Il Fisiologo, l’etologo si servedell’animale per proporci uno specchio ai nostri vizi e allenostre virtù e propinarci un sermone: uomo sii pio come illupo, e non empio come la iena.Per un solo verso queste opere sentenziali sono completa -mente differenti dal trattato di zoologia: praticano il rifiutodi ogni tassonomia. L’universo dei viventi è stato ordinatoda Linneo in una complessa mappa di relazioni, in cui la to-pologia reciproca dei vari organismi dipende dalla loro so-miglianza. Dopo Darwin, si dà per scontato che questa so-miglianza equi valga al grado di parentela, alla comunanzadelle origini. Tipo, classe, ordine, famiglia, genere, specie,un lungo viaggio dalla molteplicità all’unità, dalla diversitàall’identità.Per Linneo, fissista e creazionista, il vuoto tra specie e spe-cie era espressione della volontà divina, per cui la sua tas-

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sonomia era “discreta”. Darwin, con il concetto di evoluzio-ne, opera un rammendo teorico e introduce una tassono-mia virtualmente continua. Tra specie e specie non ci sonolacune, ma soltanto anelli mancanti.Il bestiario è assolutamente antidarwiniano. Più radicale diLinneo, nega ogni ordine possibile. Se una somiglianza o ungrado di parentela possono, alla lunga, venire quantificati –numero degli stami, dei petali ecc. – e tradotti in indici nu-merici, il bestiario opta per una non-sistematica eteroclitae qualitativa. Ogni “natura” è unica e incomparabile. Percui gli articoli si susseguono senza un legame “necessario”:il leone, la lucertola, il pellicano sono “animali pretesto”,metafore metafisiche dei vizi e delle virtù dell’uomo e co-stituiscono, alla fine, una ineffabile e assoluta zoologia delparadiso e dell’inferno.

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L’ape e l’uomo

Jacob von Uexküll è stato uno dei biologi più interessantidei primi decenni del secolo scorso. Studioso del compor-tamento animale, può venire annoverato, senza tema dismentite, tra i fondatori dell’etologia. Purtroppo, la filoso-fia vitalista che pro fessava apertis verbis ha fatto caderesu di lui un certo discredito, e difatti lo troviamo citato ra-ramente. Più fecondo è stato il suo rapporto con la filoso-fia kantiana, che gli ha suggerito la conce zione dei “mondiinvisibili”.Gli animali che sembrano convivere nello stesso mondo, af-ferma von Uexküll, abitano, in realtà, in tanti universiparal leli “ritagliati” dalle capacità del loro sistema sensoria-le. Mi spiego meglio: io e un’ape stiamo attraversando ilmedesimo prato. Per me, che ho due occhi “a camera” abi-litati a vedere il rosso, ma non l’ultravioletto, l’erba è ver-de; per l’ape, che ha occhi composti ciechi al rosso ma sen-sibili all’ultravioletto, è grigia. Quel fiore di senape, che a

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Le mie apie qualche formica

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me appare giallo, assume per l’ape un misterioso colore diporpora.Ma abbandoniamo questa sfera sensoriale. Per quel che ri-guarda le capacità olfattive, l’uomo e l’ape sembra sianoabbastanza simili anche se, in generale, l’insetto ha possi-bilità più sottili per quanto concerne il profumo dei fiori.Ma ci sono delle eccezioni: l’ape non è sensibile al profumodei fiori di mirtillo e lo è molto meno di noi all’odore del ro-smarino, che pure l’insetto frequenta attivamente. Anchenell’ambito del senso del gusto noi e l’alchimista del mieleabitiamo due universi non sovrapposti del tutto, e questacircostanza ha avuto perfino una ricaduta pratica.Si sa che una delle operazioni dell’apicoltura consiste nelnutrire artificialmente l’alveare con dello zucchero perconsen tirgli di far fronte a periodi di emergenza. Comevendere questo zucchero a un prezzo inferiore, avendo lacertezza che l’apicol tore lo somministri alle sue api e nonne faccia oggetto di speculazione commerciale? È necessa-rio, come per l’alcool d’uso sanitario, denaturare lo zucche-ro, rendendolo incom mestibile. Karl von Frisch scoprì mol-ti anni fa che esistono certe sostanze che per l’ape nonhanno sapore e che per l’uomo risultano amarissime. Si ad-dizionino, dunque, allo “zucchero per api” e il gioco è fat-to. A ciascuno il suo mondo. E il suo zucchero.

L’ape e il diavolo

Al tempo in cui Berta filava si credeva seriamente alla ge-nera zione diabolica. Si pensava, in altre parole, che il dia-

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volo fosse abilitato a ingravidare delle donne, per esempiole streghe, che mettevano al mondo una prole di ascenden-za satanica. I teologi però, pur dando per vero il fenomeno,si domandavano ansiosi come potesse una creatura incor-porea come il demonio aver figli in carne e ossa, finché ri-solsero il problema in maniera davvero singolare.Il diavolo, decisero, non ci mette niente di suo. Si limita atrasportare lo sperma, prelevato da un uomo immerso nelsonno, nelle vie genitali della strega diletta, conseguendoegregiamente lo scopo. Si comportava, dunque, come queiginecologi nostri contemporanei che, diavolo a parte, pra-ticano la cosiddetta fecondazione artificiale, ricorrendo ad-dirittura, in certi casi, a vere e proprie banche dello sper-ma, “rilasciato” magari da premi Nobel.Risulta, quindi, subito chiaro perché i benpensanti denun-cino tutte queste manipolazioni della riproduzione comeopera di Satana, e anche molti teologi, ora come allora, so-no pronti ad avallare questa opinione. Per loro sfortuna, lastrategia di prelievo e di trasporto del seme maschile nonè solo un’inven zione medioevale, vera ancora oggi per chiha fede nel demonio, o una pratica di laboratorio messa inatto da nuovi Frankenstein in camice bianco: è anche unaprocedura biologica molto comune in natura. Per esempio,le api si comportano nei riguardi delle piante superiori co-me il diavolo con le streghe, e lo notava con arguzia in unasua noterella lo scrittore Alfredo Panzini. Difatti, l’ape vo-la sulle corolle per raccogliere del cibo, nettare o polline, eciò facendo si imbratta il corpo, per altro peloso, di una mi-riade di granuli pollinici. Li porta, così, di fiore in fiore,consentendo alla pianta, per sua natura immobile, di supe-

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rare la barriera della consanguineità e di inviare in giro lapropria informazione genetica.Charles Darwin ha dimostrato per primo che l’impol -linazione incrociata favorisce in un gran numero di casi lafecondità e la produttività di moltissime specie botanichespontanee e coltivate. Dunque, il diavolo, l’ape, il gineco-logo...

L’ape femminista

Una delle leggende più misteriose è sicuramente quelladell’esi stenza, nella Grecia arcaica, di una società, per cer-ti versi terribile, di matriarche.Le Amazzoni avrebbero dato origine a un popolo di soledonne che, esperte nel tiro dell’arco (si mutilavano un se-no per tirare fino in fondo la corda!) e in tutte le arti mar-ziali, esclude vano gli uomini, salvo ricorrere loro come“stalloni” nel mo mento propizio alla riproduzione, scac-ciandoli o uccidendoli subito dopo la “prestazione”.Quando un’Amazzone troppo romantica cadeva in preda auna funesta passione per qualche uomo-oggetto, dovevasubire l’ostracismo del clan, a meno che non si facesse giu-stizia da sé, sbranando a baci, come Pentesilea invaghita diAchille, l’uomo che l’aveva fatta tralignare dalle leggi, e la-vando con il sangue (dell’altro!) la propria iniquità.Ma se tra gli uomini, per fortuna, questi usi cruenti sonosoltanto leggendari, tra le api, che vivono in società “fem-mini ste” per eccellenza, la cosa è di ordinaria amministra-zione. I poveri maschi, i cosiddetti fuchi, hanno il destino

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biologico di morire nell’atto, se raggiungono e fecondano laregina durante il volo nuziale, e di venire sterminati inmassa se, superstiti, (e quindi “vergini”) rientrano nell’al-veare illusi, per dir così, d’essere ancora graditi.La loro triste sorte, già intuita e osservata dal conte RenéAntoine de Réaumur, è stata descritta con dovizia di parti-colari da F. Huber, che è stato uno dei più celebri studiosidelle api del Settecento. Il massacro si verificò il 4 lugliodel 1787 e Huber si valse, per averne contezza, di un’arniaspeciale, con il fondo di vetro trasparente.Strisciando bocconi sotto l’alveare si poteva seguire da vi-cino tutto quello che avveniva all’interno. Che non era af-fatto piacevole! Le api operaie, armate di un aculeo avvele-nato, furono viste avventarsi sui fuchi, disarmati e inetti,per bistrattarli in vario modo e per pugnalarli più volte al-l’addome. Ebbre di strage, le virago si precipitarono anchesulle cellette che ospita vano le larve dei fuchi, strappando-le dal loro abitacolo, sven trandole, e talune delle assassinesi misero a leccare avidamente il liquore che sgorgava dal-le ferite, in un pasto cannibalistico, degno coronamento diuna strage in piena regola. Una società femminile dai modiben poco femminili! O forse sì?

L’ape Robinson

Tutti, da ragazzi, abbiamo letto il romanzo di Daniel Defoeche narra le prodigiose vicissitudini di Robinson Crusoe, ilnaufrago letterario più famoso del mondo. Questo marina-io gettato dalla tempesta sulle spiagge di un’isola deserta,

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e che vive per molti anni separato dal consorzio civile incompagnia di sé stesso e della propria inventiva, è una del-le più compiute allegorie dell’uomo che sfida e vince le av-versità della natura, e suggeri sce che ogni uomo, nella suaindividualità, è in qualche modo il compendio del genereumano. Per questo, se adulto, può vivere a lungo in solitu-dine, e gli eremiti della Tebaide, Robinson della metafisica,o molti speleologi o astronauti, Robinson della scienza,hanno dimostrato che si può abolire per molto tempo ogniinterazione sociale senza che il soggetto comprometta lapropria vita.Per l’ape le cose sembrano andare diversamente e gli eto-logi hanno osservato una circostanza davvero curiosa. Fat-ti i conti, e le dovute comparazioni, se si isola un’ape adul-ta, questa si nutre regolarmente e sembra godere di ottimasalute ma, ahimè, muore in breve tempo. Più celermentedelle altre, che vivono in comunità. Due api campano ildoppio di un’ape sola, e si è scoperto che un’ape viva, po-sta insieme a una morta, è più longeva. Il fenomeno sem-bra dipendere dalla struttura estrema mente solidale dellesocietà degli insetti, che sono state spesso paragonate adei superorganismi, in cui gli individui assolvereb bero lafunzione di organi o di supercellule.In realtà, per tutto l’alveare, in forma volatile o passate incomplesse operazioni bocca-a-bocca tra gli individui, circo-lano delle sostanze particolari, dette feromoni, che regola-no, come le secrezioni endocrine all’interno dei corpi, lepiù importanti funzioni del complesso sociale.Le api parlano tra loro in molte maniere, con la danza, conil movimento delle antenne e mediante un linguaggio mo-

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lecolare, responsabile principale della coesione sociale,che assolve i compiti un tempo assegnati da Maurice Mae-terlink al fantomatico “spirito dell’alveare”. Per qualchetempo un’ape morta emette dei feromoni, in altre parolecontinua a colloquiare chimica mente con l’ape viva, e con-tribuisce così a rendere meno letale la sua solitudine.

L’ape farmacista

Chi frequenta i negozi dell’Esculapio selvaggio, in cui si spac -ciano le “medicine naturali”, o una farmacia evoluta, conqualche vocazione omeopatica, avrà notato, da un po’ di tem-po, tra i sacchetti d’erbe odorose e i balsami vegetali, dei fla-concini con tappo contagocce, pieni di un liquido giallo cupo.Il farmaco, che di questo si tratta, consigliato come cicatriz-zante, ottimo per le ferite del cavo orale, sembra funzionarecome antibatterico e come antimicotico. Il principio attivo èuna sostanza dal nome grecizzante: la propoli. Le sue origi-ni sono per lo meno singolari: viene elaborata negli alambic-chi misteriosi di quella piccola fabbrica biotecnologica che èl’alveare. Dopo il boom del miele, del polline, della pappareale, riscoperti come apportatori di benessere fisico, la pro-poli è salita, in questi ultimi anni, alla ribalta della celebrità.Viene ormai prescritta anche da medici solo un po’ ecletticie i farmacologi ufficiali di tutto il mondo la stanno studiandoper mettere in formule le sue proprietà.Per le api la propoli è, tanto per cominciare, una sorta disuperstucco. Ne raccolgono il materiale di base sulle gem-me di certe essenze legnose, e nei loro laboratori fisiologi-

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ci lo mani polano mediante enzimi e secrezioni, impiegandoil prodotto finale come calcina duttile per chiudere le fes-sure dell’alveare, o per alzare degli ostacoli, dei cavalli diFrisia a misura degli invasori, sull’entrata dell’arnia (da cuiil nome propoli, ovvero “davanti alla città”). Si pensa, ecerto a ragione, che la sostanza non serva solo a cementa-re e a stuccare, ma che sia responsabile della salute del po-polo delle api, che vive in un ricovero umido, e a forte den-sità, condizioni favorevoli alle epidemie.Questa funzione primordiale e sanitaria della propoli dareb -be ragione delle sue qualità terapeutiche, che qualcuno sper-giura di aver scoperto oggi! Diamine, se anche Plinio il Vec-chio ne parlava... I legionari romani non partivano mai per leloro gloriose campagne senza avere in saccoccia un grumodella benefica propoli, toccasana per le ferite. In un’epoca piùrecente, all’inizio del XX secolo, durante la guerra dei Boeri,prima che venissero scoperti gli antibiotici, è stato un distil-lato della propoli, la propolisina, a salvare dalle infezioni edalla morte migliaia di soldati feriti in battaglia.Viva la propoli, dunque, ma non si esagerino al di là del le-cito le sue virtù. C’è chi afferma che la propoli sarebbe per-fino un insetticida ecologico. Ragioniamo un po’: come po-trebbe? L’ape, che la fabbrica, non è un insetto?

L’ape guerrafondaia

L’uomo, quando fa l’amore, e non la guerra, è davvero ba-nale: si comporta come la maggior parte degli esseri viven-ti. Quando fa la guerra è molto più originale, perché se è

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già difficile in natura osservare quell’aggressività virulentatra individui della stessa specie di cui diamo prova ognigiorno per le vie di New York, è ancor più arduo trovare de-gli animali che si scontrino in massa – topi contro topi, leo-ni contro leoni – in epiche battaglie campali, simili a quel-le che la nostra storia tramanda con i nomi di Salamina o diVerdun.Voglio dire, insomma, che la guerra è, in gran parte, unanostra invenzione e che solo pochissime specie compionoimprese analoghe alle campagne napoleoniche.Il bello è che questi rari animali che condividono con noi latriste nomea d’essere dei guerrafondai ci somigliano nonsolo nei mezzi, ma nei fini, e danno ragione a Carlo Marxagitando il fantasma di un movente economico. Per loro,come per noi, la guerra coincide con l’esproprio violentodei beni altrui. Già Gaston Bothoul, il fondatore della pole-mologia moderna, considerava certi comporta menti delleapi come guerre in miniatura.Verso la fine dell’estate, quando per i fiori e il nettare è co-minciata l’età della penuria, il bravo apicoltore sta bene at-tento a non spargere davanti a un alveare, o sulla mensoli-na di accesso, residui di sostanze zuccherine o miele. Ahi-mè, per la folla di api che vagano affamate nei dintorni,quel poco cibo funziona, difatti, come un invito alla guerrae al saccheggio.Le api assalgono in massa le sentinelle dell’alveare spreco-ne, le bistrattano o le ammazzano, penetrano in terra stra-niera facendo man bassa delle provvigioni. Il miele vienespazzolato via dai favi in brevissimo tempo e trasferito nel-l’alveare aggres sore, che vede così crescere mostruosa-

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mente le sue riserve. Da un alveare si passa a un altro, a unaltro ancora! Per terra, centinaia di api morte denuncianoche si tratta di uno scontro mortale, di una guerra in pienaregola: ape contro ape, come uomo contro uomo. Perchéper l’insetto, e per noi, la guerra è la prosecuzione – vonClausewitz mi perdoni – del furto con altri mezzi.

L’ape bussola

Gli insetti, queste infime creature che evocano il ribrezzonella maggior parte degli uomini, destano di frequente inchi li conosce un po’ più da vicino, negli entomologi per in-tenderci, uno stupore reverenziale. Si pensi al loro nume-ro: ci sono probabilmente più specie di ditteri (volgarmen-te: di mosche) nel nostro Paese, o in Francia, che di mam-miferi sull’intero pianeta.D’altra parte gli insetti esibiscono spesso performance dav -vero spettacolari, dimostrandosi capaci di sopravvivere incon dizioni estreme. Difatti, delle larve di zanzara prospera-no nel l’acqua dei geyser, a 60 gradi di temperatura; altre, ne-gli stagni siberiani, si fanno beffe del freddo, sfidando abbas-samenti termici dell’ordine di 50 gradi sotto zero. Inoltre, gliinsetti non sono dotati solo di capacità di percezione di stra-ordinaria efficienza, ma di veri e propri “sensi nuovi”. Peresempio, hanno la possibilità di rispondere al campo magne-tico terrestre me diante autentiche bussole biologiche incor-porate. Questi orga nismi “bionici”, chiamiamoli così, presen-tano in molte cellule degli infimi frammenti di magnetite esono questi i diavoletti responsabili del fenomeno.

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Prendiamo il caso, un poco stravagante, delle api. MartinLindauer, un allievo di Karl von Frisch, ha scoperto questasingolare costanza costruttiva: se trasferiamo uno sciamedi api da un alveare in un contenitore oscuro e le lasciamolibere di comportarsi a loro piacimento, i favi nuovi avran-no la stessa orientazione di quelli vecchi. Abitudine di ar-chitetti dotati di buona memoria? Per nulla! Sembra che ilfavo nuovo venga disposto nella stessa direzione del vec-chio secondo le indica zioni del campo magnetico terrestre.La cosa ci lascerebbe increduli se Lindauer non l’avessecorroborata con delle originalissime esperienze. Ponete ilcon tenitore in un campo magnetico debole, come per l’ap-punto quello della Terra, e fatelo variare a vostro piacimen-to. Il favo, come l’ago di una superbussola, verrà costruitoorientato in conformità. È dall’alba del Neolitico che l’uo-mo osserva le api, e le api non cessano di sopraffare le no-stre aspettative.

L’ape pensante

Quando un babbuino che vigila come sentinella sul suogruppo vede avvicinarsi un leopardo, lancia un grido di av-vertimento. Questo grido non comunica affatto: “Attenzio-ne, c’è un leopar do”, ma veicola la paura del predatore che,propagandosi da individuo a individuo per empatia, metteil piccolo nucleo sociale in stato di allarme. In una speciedi cercopiteco la comunicazione non si verifica soltantomediante emozione, ma emerge una vera e propria artico-lazione semantica. Queste scimmie segnalano con un grido

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– chutter! – la presenza di un serpente; con un altro grido– rraup! – quella di un rapace; e con un altro grido anco-ra – uh! – la comparsa di un carnivoro pericoloso, peresempio una iena.Siamo, in questo caso, sul sottile confine che separa il se-gnale dal segno, e si può ben dire che non si passa più daemozione ad emozione, ma da emozione a cognizione, an-che se in modo ancora piuttosto rudimentale. Lasciandoperdere gli scimpanzé e i gorilla che imparano a leggere, ascrivere, o a parlare gesticolando, che restano (istruttiviquanto si vuole!) dei feno meni da laboratorio, la cosa piùparadossale è che l’uso di un linguaggio parzialmente sim-bolico non è stato scoperto tra le scimmie, nostre cugine,ma tra le api, organismi dalle origini remote e, tutto som-mato, dal cervello di esigue dimensioni (circa un milione dineuroni soltanto!).Quando un’ape ha scoperto del cibo, un bel prato con fioriricchi di nettare, rientra nell’arnia e comincia a danzare.Questa esibizione, come ha scoperto Karl von Frisch (attri-buendosi così il premio Nobel), informa le compagne sulladirezione e la distanza del paese di Bengodi, tenendo comepunto di riferimen to geografico il sole, di cui per altro l’apesa calcolare lo spostamento. La danza costituisce una sor-ta di ideogramma cinetico, un ideogramma-coreogrammaperciò, che condensa in sé una mappa e un discorso.Il problema sollevato dalla scoperta di von Frisch non è dibreve momento. Perché se l’emozione può passare diretta-mente da un individuo all’altro senza dover ricorrere all’in-terpretazione, l’ape deve, invece, interpretare il messaggio.Quindi: è cosciente? Donald R. Griffin è propenso a rispon-

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dere afferma tivamente, ma non è facile concedere a unacreatura così antica una facoltà così evoluta. D’altra parteè stato scritto che il pensiero, quindi anche la coscienza,sono dei “precipitati” sociali, e che è la società, dopo tutto,a pensare in noi. Forse, anche la società dell’ape pensa nel-l’ape.

L’ape neopitagorica

Sir James Jeans, uno dei fisici eminenti del secolo scorso,propenso alle avventure filosofiche, pensava, e non era ilprimo, da Pitagora in poi, che Dio, il Grande Architetto delmondo, fosse un matematico, e se la cosa era vera, argo-mentava, lavorando sui numeri si entra in rotta di collisio-ne con la Sua Mente.Pure, la matematica, che dopo tutto è la scienza del conta-re, è nata per necessità pratiche e l’hanno tenuta a battesi-mo gli agrimensori, che volevano tracciare i confini dei cam-pi, e i mercanti che desideravano portare a compimento de-gli affari non in perdita. Misurare, saper distinguere il piùgrande dal più piccolo, costituiscono le operazioni fondatri-ci di ogni sistema numerale. Insomma, se questa pertica èpiù lunga, se questo numero è più grande... tutto è comin-ciato tra gli aratri e i mercati e se n’è andato per la tangen-te, a ingranarsi, come dice il poeta, nei mulini degli dei.Di recente, nel corso delle mie ricerche sulle api, che svol-go insieme a una mia graziosa collaboratrice, di nome Pao-la Angelini, abbiamo scoperto che i versatili imenotteri delmiele non sanno di certo contare, ma possono distinguere

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facilmente due linee di diversa lunghezza. Campo d’opera-zioni: il giardino del mio Istituto, un piccolo Eden semisel-vaggio prossimo all’or to botanico e a ridosso delle antichemura della città. Un posto ideale per starsene in santa pa-ce, all’ombra di un ciliegio e di un albicocco, a primaveracarichi di frutti.Le api di quattro alveari sono state le cavie dell’esperienzache vi descrivo brevemente. Tre coppie di segmenti (4-2centimetri; 3,75-2,5 centimetri; 3-2 centimetri) sono stateesposte su di un tavolo. I segmenti più brevi premiavanol’ape in visita con una soluzione zuccherina, quelli più lun-ghi offrivano solo del l’acqua. Grande incertezza nei primigiorni, ma ben presto le piccole cavie si sono fatte furbe ehanno capito benissimo le regole del gioco. Per cui hannocessato di posarsi a casaccio su segmenti lunghi o corti ehanno cominciato a preferire questi ultimi.Abbiamo così acquistato la certezza che le api erano in gra-do di riconoscere la diversa estensione dei bersagli, indivi-duando, per la visita, quelli preferiti. Bisogna ricordare chel’occhio dell’ape è composto da tanti elementi visivi auto-nomi, detti ommatidi. Si può presumere allora che le cosevadano così: più ommatidi eccitati è “lungo”; meno omma-tidi eccitati è “corto”.Anche il Dio delle api è un matematico?

L’ape matematica

La signora che viene due volte alla settimana per rimette-re a posto la mia casa di “scapolo di ritorno” è originaria

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della montagna e mi sembra partecipi ancora di una cultu-ra che non esito a definire arcaica. Per esempio, ho accer-tato di recente che per lei la matematica è un’opinione eche, quindi, le valutazioni quantitative vengono, nel suouniverso mentale, tradotte in impressioni soggettive.Una volta, per non sciupare un assegno con una sommatroppo esigua, ho anticipato di quattro quote il suo com-penso. Male me ne ha incolto! Dopo due visite di lavoro lasignora ha dichiarato di dover essere pagata. Alla mia con-futazione, fatta con cifre alla mano, che l’assegno coprivanon due ma quattro suoi “interventi in casa”, lei mi ha ri-sposto, scuotendo il capo, che sì, forse avevo ragione, mache dall’ultima volta che l’avevo pagata era passato tantotempo!Questa matematica “impressionista” corrisponde a unama niera di pensare che potremmo definire “pre-logica”, o“pre- scientifica” se preferite, e mentre tentavo di portarela mia interlocutrice domestica sui sentieri dell’aritmeticae delle quat tro operazioni, mi è venuto in mente che gli an-tichi Cinesi, nell’indicare le distanze, distinguevano i per-corsi in pianura da quelli in montagna, perché il tempo ri-chiesto al viandante era inferiore per i primi e maggioreper i secondi.D’altra parte, esiste sull’Appennino, e credo anche altrove,una espressione: “distanza da montanaro”, che significa,per l’appunto, una distanza dichiarata dall’abitatore dellealtitudini, abituato alle salite, come ben inferiore a quellache l’escursio nista improvvisato, che fa tanta fatica, avreb-be stimato. Bene, si può supporre che questa metrica esi-stenziale sia non solo arcaica in senso culturale, ma addi-

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rittura primitiva in senso biologico. Le api, difatti, quandofanno ritorno all’alveare e comunicano mediante la ben no-ta danza dell’addome le distanze del cibo alle compagne, sicomportano così: se hanno volato contro vento “aumenta-no” la distanza, e viceversa se hanno volato con il vento inpoppa. Insomma, la distanza è calcolata non con il metro,ma con la fatica.

L’ape stakanovista

Metti una sera a cena con uno psicologo esperto di proble-mi del lavoro. Il commensale, che si era impadronito dellaconversazione trasformandola in una lezione, ricordava ilfilm Tempi moderni di Charlie Chaplin, o Metropolis diFritz Lang, come esemplari. Gli operai, messi alle catene dimontaggio, destinati per sette, otto ore a compiere lo stes-so gesto, si robotizzano a poco a poco, perdono la propriaidentità e, quel che più importa, tendono a rendere sempremeno. Insomma, alla catena di mon taggio non si diventaper nulla degli “uomini di pietra”, ovverosia degli stakano-visti. Al contrario. Se si ignora il senso di quello che si fanon si può essere pienamente efficienti. Per questo, di-chiarava lo psicologo, sarà bene che l’operaio lavori in di-versi reparti, acquisendo un’idea dell’opera complessiva,ponendo in relazione la vite con la ruota, e la ruota con lamacchina.Proprio come nell’alveare, mi capitò di pensare, mentreconsentivo all’ascolto dello sproloquio. Difatti l’ape opera-ia, nata al mondo, fa carriera (il “sogno americano” dell’al-

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veare?) svolgendo un po’ tutti i mestieri. Dal primo al ter-zo giorno è spazzina, e collabora a tener pulita la “città”.Dal quarto al dodicesimo giorno lascia l’umile mansione dinetturbina, matu ra speciali ghiandole e diventa nutrice,elargendo la pappa reale alle larve, di regina soprattutto.Dal tredicesimo al diciassette simo giorno la piccola baliascopre in sé la vocazione di costruttrice e, insieme allecompagne, mette in opera un suo secreto, la cera, per edi-ficare i favi.Allo scoccare del diciottesimo giorno la nostra versatile la-voratrice vince il concorso di guardiana e comincia a sorve -gliare le vie d’accesso all’arnia. Punge gli intrusi, anche sele costa la vita, ma il dovere è dovere.Superstite, dal ventitreesimo giorno in poi assume la fun-zio ne di bottinatrice, mestiere nobile che le consente di vo-lare nel sole a raccogliere il nettare e il polline sui fiori. Manon si creda che, raggiunto il vertice, cessi di lavorare. Tut-t’altro. I percorsi fiore-alveare, e viceversa, di tutte le api diuna comunità durante una stagione di bottinamento, mes-si idealmente su di una sola linea, coprono, a quanto sem-bra, la distanza tra la Terra e la Luna. Avrà ragione lo psi-cologo? Fare tutti i mestieri rende stakanovisti?

L’ape e la banca del seme

Nei libri di fisiologia della riproduzione animale si è solitidistinguere l’inseminazione, cioè l’immissione dello spermanelle vie genitali femminili, dalla fecondazione vera e pro-pria, e cioè la penetrazione dello spermatozoo nell’ovulo,

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con forma zione dello zigote. Mentre nei mammiferi, però,uomo compre so, il distinguo ha scarsa rilevanza (all’inse-minazione segue con breve scarto temporale la fecondazio-ne), in taluni invertebrati, per esempio negli insetti, tra idue eventi può intercorrere molto tempo, perfino anni!Si veda il caso dell’ape regina. Questa creatura che inquie-ta da sempre la fantasticheria erotica e mitologica dell’uo-mo, compie, nella sua vita, un solo volo nuziale, durante ilquale fa grande incetta di sperma. Si pensava, dapprima,che la nostra seduttrice alata contraesse il suo tragico rap-porto sessuale – il fuco muore nell’atto – con un solo ma-schio, e la si credeva così un insetto di specchiata virtù; main seguito si è potuto accertare che i donatori di sperma so-no più di uno, e a quanto pare addirittura una decina! Lanostra ape ripone il dono di vita dei maschi in un serbato-io biologico molto particolare, la spermateca, e conserva glispermatozoi vitali e attivi per alcuni anni, una pratica chenoi sappiamo imitare solo di recente, e con tecnolo giacomplicata. Questa tasca è situata alla base degli organi efunziona come una macchinetta distributrice di spermato-zoi, e se si pensa che durante la buona stagione l’ape regi-na può deporre mille uova al giorno, e che può vivere quat-tro o cinque anni si può avere un’idea dell’efficienza della“conservazione”.Tra i mammiferi è curioso il caso delle foche. Qui le cosehanno uno sviluppo molto differente, perché lo scarto tem-porale non si verifica più tra inseminazione e fecondazione,ma tra fecondazione e impianto. Succede, difatti, che l’ovu-lo feconda to si differenzi in un minuscolo embrione sferi-co, e che resti nelle parti superiori dell’apparato genitale

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femminile per tre, quattro mesi prima di scendere a im-piantarsi nell’utero. Si tratta di un adattamento alla vitanell’Artico. Il maschio monta la femmina subito dopo losvezzamento dei piccoli, e l’epoca del parto deve protrarsifino alla fine dell’inverno successivo. Per questo, l’embrio-ne deve attendere.

L’ape futuribile

Ci vorrà ancora qualche decennio, scriveva Jean Rostandnel 1972, prima che si riesca a determinare il sesso del na-scituro, scegliendo a piacimento se dar vita a un maschiooppure a una femmina. Pessimista, per una volta, il biolo-go francese, perché dopo meno di 15 anni dalla sua previ-sione, la bimba Teresa è venuta tra di noi, progettata comefemmina in un laboratorio napoletano, a turbare le co-scienze. È lecito? Non è lecito? Il fatto è che l’uomo si stasempre più impadronendo del proprio futuro biologico, enon mi sento di dare l’ostracismo scientifico, o di condan-nare al rogo, chi se ne va dritto per questa strada, anche sein me, lo confesso, si mescolano l’ammirazione e l’inquietu -dine.Mi rassicuro un po’ quando penso che le nostre scoperte, inostri successi, vengono quasi sempre dopo le cosiddetteinven zioni della natura, perdonatemi se la dichiarazionepecca di una certa ingenuità. Ma tant’è: da milioni e milio-ni di anni prima dei biologi di Napoli e dell’uomo stesso,certi insetti, per esempio gli imenotteri, ed evochiamol’ape per la sua notorietà ecumenica, ottengono a scelta

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delle Terese o dei Giovanni; sanno, cioè, determinare il ses-so della prole. Certo, la faccenda è completamente diversa dal nostro caso.Per noi è stato necessario separare gli spermatozoi “maschi-li” da quelli “femminili”, mi si consenta una terminologia dasprolo quio scientifico, mentre l’ape regina opera con altrimeccanismi biologici. Questa virago, come abbiamo già det-to in precedenza, conserva lo sperma che ha ricevuto in pe-gno d’amore dai maschi durante il volo nuziale all’interno diuno speciale serbatoio e ne fa un uso discrezionale. Se almomento della deposizione delle uova nelle cellette del favole feconda, nasceranno solo femmi ne; se non le feconda,verranno alla luce, per partenogenesi, solamente dei maschi.Se e quando servono alla vita della comunità.Lecito, non lecito? Sarà indispensabile in futuro riconcilia-re, o addirittura identificare, la biologia e la morale. O no?

La formica e la lotta biologica

Gli insetti sono i più formidabili consumatori di sostanzavege tale del mondo. Fin dall’alba della storia, quando dacacciatore e raccoglitore l’uomo è diventato agricoltore, gliinsetti sono stati i suoi più irriducibili competitori alimen-tari. Oggi, malgra do i milioni di chilogrammi di molecole disintesi che continuia mo a immettere nei campi coltivati, enell’ambiente, questi minuscoli animali rispondono alla sfi-da chimica aumentando il loro impatto sulla produzioneperché, pesticidi o no, le perdite sembrano, nel complesso,in aumento.

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A cominciare dai primi secoli della nostra era, i Cinesi han-no fatto tesoro di una singolare circostanza: che i nemicipiù validi degli insetti sono degli insetti. In altri termini: gliinsetti vege tariani mangiano le piante e vengono, a lorovolta, per contrappasso ecologico, divorati dagli insetti car-nivori.I Cinesi decisero così di mettere a guardia, e a salvaguar-dia, dei loro frutteti le formiche, e anche gli Arabi adotta-rono ben presto questa idea, conformandosi nelle oasi auna strategia simile. Molto in ritardo, devo pur dirlo, ri-spetto a talune piante, dette mirmecofile, che da tempi im-memorabili si sono poste sotto la protezione delle formi-che.Si tratta di un fenomeno straordinario, e per di più ancoraabbastanza misterioso nelle sue origini. Prendiamo, peresem pio, le piante del genere Myrmecodia. Sono più di unaquaran tina e le troviamo distribuite in un vasto areale au-strale, che va dalla Malesia settentrionale all’Australia e al-le isole Figi. Vivo no sugli alberi, mangrovie sopra tutto, epresentano alla loro base un rigonfiamento spinoso. Le spi-ne sono radici trasforma te, fatto già raro!, e la parte ingros-sata (si tratta dell’asse dell’ipocotile) è percorsa interna-mente da una rete di gallerie. In questo labirinto abitano,giunte lì fin dal formarsi della prima cavità, delle formiche,principalmente del genere Iridomyrmex.Sembra che si tratti di uno scambio vistoso di favori: dalpunto di vista della pianta, il falso bulbo è una caserma,che ospita una piccola guarnigione in piena regola, dalpunto di vista delle formiche è un ricovero confortevole incui abitare e far crescere la comunità. In certi casi, tra le

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formiche e le piante che le ospitano si svolgono anchescambi nutrizionali: gli escremen ti degli insetti fornisconoal vegetale dei composti azotati, e il vegetale ricompensa isuoi alleati con “similfrutti”, che le formiche mangiano avi-damente.Se qualcuno insidia una Myrmecodia, stia all’erta! Le “guar -diane” escono in frotta e l’attaccano ferocemente.

Formiche d’equipe

A partire dal XX secolo la ricerca scientifica è molto muta-ta. Non c’è più Copernico nella sua torre, o Charles Darwina spasso ogni mattina lungo il cosiddetto “sentiero dei Pen-sieri”, che girava attorno alla sua casa nel Kent. Gli psico-logi curiosi dei processi mentali che preludono, o consen-tono, la scoperta, hanno spesso osservato che un’équipe diricercatori bene assortita, in cui la competizione tra i mem-bri sia mitigata da una forte stima reciproca, permette ilconseguimento di risultati assai superiori a quelli che po-trebbero derivare dalla somma delle prestazioni individua-li isolate.Questo fenomeno di amplificazione, che può venire indica-to con la parola generica, buona per tutto, di “sinergismo”,è ormai di pubblica ragione, e il progresso della scienza vie-ne sempre più accreditato all’attività di gruppi, piuttostoche alle intuizioni di ricercatori solitari. Al punto che si ot-tengono più facilmente finanziamenti se si ha un’équipedietro di sé. Guai se si dichiara, invece, di voler lavorare insolitudine!

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Buona o meno che sia questa idea, anzi questa ideologia,del due più due fa cinque, sembra che anche fra certi ani-mali l’unione non faccia solo la forza, ma abiliti a risolveremeglio i problemi. Per esempio, mettete una formica, tuttasola, all’interno di un labirinto sperimentale, struttura cosìcara ai behavioristi, piena di vicoli ciechi e di scorciatoie.L’animaletto mostra delle mediocri capacità di apprendereil percorso giusto! Invece, consiglia Remy Chauvin, fate en-trare nella macchina rompicapo un mucchio di formicherosse uscite a far raccolta sul territorio.Le risposte sembrano migliorare di colpo. Al contrario diquanto avviene nelle folle umane che, per dir così, espri-mono un’anima e un comportamento da beoti, la folla del-le formiche funziona come una équipe di ricercatori, si fapiù inventiva. I vicoli ciechi vengono scartati più rapida-mente e le scorciatoie sono scoperte e adottate quasi subi-to. Più formiche, insomma, pensano molto meglio di unaformica sola.

La formica cieca

Uno dei racconti più straordinari di George Herbert Wells,lo scrittore della Guerra dei mondi, è Il paese dei ciechi.Wells immagina che un uomo capiti in una vallata scono-sciuta, il solito “altrove” delle storie di fantascienza, abita-ta da un popolo di uomini diventati ciechi in seguito, seben ricordo, a una degene razione genetica o all’azione diun virus. Colpiti da questa grave menomazione, i valligianisi sono adattati perfettamente a vivere impiegando gli altri

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sensi, e hanno finito per disprezzare, come inferiore, chi civede. Tentano, così, di convincere lo straniero, che si è di-chiarato vedente, a imitare Edipo e a mutilarsi con le pro-prie mani entrando a far parte di questa società di amicidelle tenebre.Al di là della finzione letteraria, è possibile teorizzare unmondo abitato da uomini ciechi? Forse, ma a condizione,comunque, che gli altri sensi subiscano un notevole poten -ziamento. Pensavo a tutto questo rileggendo quel libro epi-co in cui Renaud Paulian racconta le peripezie di una suaspedizione scientifica in Costa d’Avorio.Uno dei punti più impressionanti ha per protagoniste leAnomma, le terribili formiche migratrici, che gli indigenichia mano Mañans. Queste predone non abitano in un for-micaio, ma eleggono delle dimore provvisorie, per esempiole cavità sotto il ceppo di un albero, e si spostano periodi-camente in massa, seminando il terrore nella foresta. Tut-to quello che non fa in tempo a fuggire a gambe levate vie-ne aggredito e, se è il caso, fatto a pezzi e divorato.Quando le Anomma non compiono migrazioni vere e pro -prie, trasferendo la prole e la regina, fanno razzie, spostan-dosi in file compatte vigilate dai soldati, più grossi e conmandibole più potenti, veri e propri samurai della società.In formazioni compatte, le Anomma esplorano siste -maticamente la foresta, assalendo insetti e vermi, ma fa-cendo fuggire anche i grossi animali e gli uomini. I gruppidi razziatrici operano in concerto e per porzioni di foresta,e non succede quasi mai che invadano di nuovo un’area già“sfruttata”. Queste prodezze sono eseguite dalle Mañanscon l’ausilio del tatto e dell’olfatto che, come succede in

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genere negli insetti, è di una eccezionale sensibilità. Per-ché, lo credereste?, sono cieche.

La formica “ventisei-uomini”

Di tanto in tanto nascono uomini dotati di una prestanza fi-sica singolare, non gonfiati in palestra, ma muscolosi d’ori-gine che, emuli dell’Ercole mitologico, compiono prodezzedavvero epi che. Tommaso Tophan è stato uno di questicampioni del genere umano. Nato a Londra nel 1710, l’atle-ta di strada era un uomo tozzo, dalle spalle larghe e dal col-lo taurino, capace di imprese leggendarie. Per esempio, al-l’età di ventuno anni, a Derby, raccolse la sfida di alcuni in-creduli e sulla pubblica piazza, posto in cima a un tralicciodi legno, sollevò tre botti piene d’acqua, agganciate al suocollo da alcune solidissime strisce di cuoio. Il peso del mal-loppo era di 1.836 libbre inglesi, ovverosia di circa 610 chi-logrammi.Ma non basta. Un’altra delle sue performance consistevanell’alzare dal suolo con i denti una tavola di legno lungadue metri, gravata all’estremità da un peso di mezzo quin-tale, e nel tenerla per qualche tempo orizzontale.Non aveva torto il fisico Jean Désaguliers, che prese in esa-me per qualche tempo l’uomo fenomeno, ad attribuire alsuperfusto la forza di dodici uomini.Eppure, fatte le dovute proporzioni, dal punto di vista del-le formiche le gesta del grande Tophan sono all’ordine delgiorno, e diventano delle vere e proprie bazzecole. Pren-diamo, per esempio, le formiche del gruppo “rufa” che vi-

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vono nei boschi di conifere delle Alpi. Queste industriosecreature costruiscono la parte emersa del nido, dettaacervo, un curioso cumulo a cupola, con gli aghi dei laricie degli abeti raccolti variamente in giro e messi diligente-mente “in opera”. Se supponiamo che una formi ca sia unuomo di una settantina di chilogrammi, lo vediamo mano-vrare con facilità un travicello di larice dello stesso suo pe-so, e sopra tutto degli aghi di pino austriaco che, se tantomi dà tanto, equivalgono a un manufatto di mezza tonnel-lata o giù di lì. Fin qui, la formica emula Tophan e Tophanla formica, ma talune frustule vegetali incorporate nellamassa dell’acervo, e quindi trasportate in loco da qualcheformica, totalizzerebbero, mantenendo il rapporto di pro-porzioni uomo-insetto, il peso di circa due tonnellate! In al-tre parole, se diamo per buona la stima di Désaguliers cheera, dopo tutto, uno scienziato, una formica esibisce, nel suopiccolo, la forza di due Tophan, ovvero di ventisei uomini.

La formica drogata

Nel vecchio film Don Camillo, tratto dal romanzo omoni-mo di Guareschi, si assisteva a uno degli scioperi duri del-la bassa padana. Il personale addetto alle stalle aveva in-crociato le braccia, e le vacche da latte – quelle del grana!– non più munte da nessuno, avevano le mammelle gonfieda scoppiare, e riem pivano la notte dei loro penosissimimuggiti.Accadeva così, in quell’Italietta cantata da Guareschi, chedon Camillo, un prete mica tanto prete, e Peppone, un ros-

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so un poco rosa, in nome della sofferenza degli animali, de-cidessero di recarsi, eludendo la sorveglianza dei picchet-ti, a sgravare del loro latte le vacche, mettendo fine ai lorotormenti. Difatti, queste povere bestie domestiche sono di-ventate progressiva mente dipendenti – pena la vita! – dalmungitore o dalla mungitrice meccanica.Al principio, una vacca “selvatica” produceva circa trequintali di latte all’anno. Ai giorni nostri ce ne regala, inmedia, 50 quintali, ma si conoscono picchi stakanovisti di100 quintali e più. Per dir così, l’animale va letteralmente“in acqua”!Ma se l’uomo modella a sua immagine il mondo – è la suaprincipale occupazione! – gli altri organismi non perdono,nel loro piccolo, l’occasione. Quando interagiscono tra diloro si modificano reciprocamente, e succede spesso chel’uno si leghi indissolubilmente all’altro e lo elevi a interlo-cutore necessario per la propria sopravvivenza. Si veda, alriguardo, il caso delle formiche e dei lepidotteri licenidi. Lelarve di questi insetti sono provviste, sulla parte dorsaledel settimo e dell’ottavo segmento addominale, di ghiando-le particolari che secernono liquidi o sostanze volatili “ine-brianti”. Le formiche, con le zampe anteriori e con le antenne, sol-lecitano l’emissione di questi composti, di cui si nutronoavidamente. Le larve dei licenidi sono, così, una sorta dibestiame, e per questo le formiche le proteggono dai nemi-ci e costruiscono attorno a loro, in qualche caso, perfinodelle rudimentali tettoie in terra. Ma c’è una circostanzacuriosa, che ci riporta a quella notte della bassa padana incui don Camillo e Peppone fecero il compromesso storico:

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le larve, se non vengono munte di quando in quando dalleformiche, muoiono.

La formica robot

Che cosa fa quella formica? Invece di ritornare buona buo-na, di sera, nei meandri sotterranei della sua città, si ar-rampica, spinta da uno strano impulso di scalatrice, finosulla cima di un filo d’erba, dove afferra con le mandibole itessuti vegetali e resta immobile, folgorata da un misterio-so incantesimo. Sembra in attesa di qualcosa, forse di unevento definitivo e liberatore. Bene: è proprio così. Ha unappuntamento mortale con la pecora che, brucando l’erba,la inghiottirà, inviandola dritta nel suo tubo digerente. Ilbello è che la cosa, nel suo accadere, è favorita dalla posi-zione “di vetta” che la formica occupa e che rende certopiù probabile la sua ingestione da parte dell’erbivoro.Un caso strabiliante di amor fati per dirla con le intuizio-ni di Friedrich Nietzsche? La formica contribuisce attiva-mente alla sua distruzione! In realtà, è così e non è così,perché il nostro insetto sta obbedendo agli ordini di un in-vasore che, piazzato nel suo cervello, l’ha trasformato in unpiccolo robot.Non so se qualcuno ricorda il romanzo di fantascienza diRobert Heinlein Il terrore della sesta luna. Narrava di in-vasori spaziali che parassitizzavano animali e uomini, ren-dendoli schiavi dei loro voleri.Per la nostra formica la faccenda è andata più o meno inquesto modo. Un minuscolo verme, il Dicrocelium den-

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driticum, che completa il suo ciclo biologico nella pecora,l’ha prescelta, Dio solo sa perché, come uno dei suoi ospi-ti intermedi. Prima ha invaso una lumaca, poi passa nellaformica, e qui deve progettare la maniera di entrare nell’in-testino di una pecora.Come fare? Semplice, un verme raggiunge quella parte delcervello dell’insetto che governa i movimenti delle mandi-bole e delle zampe, smonta il programma esistente e ne ri-monta uno suo. “Sali in cima al filo d’erba e restaci”, co-manda al suo automa. Quello esegue e la pecora lo bruca.In un certo senso, Alien è sempre stato tra di noi.

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Il gatto allo specchio

Il mio gatto è allo specchio. Fissa con una certa curiosità,e forse un po’ di tensione, la propria immagine riflessa.D’un tratto si alza, per dir così, in piedi, puntellandosi conle zampe anteriori contro la superficie magica che sta tralui – questa sembra essere la sua ipotesi – e quell’altro gat-to un poco irreale, quasi un fantasma, che si muove “al dilà”: come Alice nel romanzo di Lewis Carroll, il mio amico-ne si adopera per andare oltre lo specchio, a raggiungerequel sé stesso non riconosciuto come tale. Alla fine desiste,pieno di inquietudine.Possiamo affermare senza tema di smentite che non sa su-perare la prima fase del rapporto tra il bambino e lo spec-chio, quella prima fase che lo psicoanalista Jacques Lacanha posto ai primordi della nascita dell’io. In tal senso, nonriconoscersi allo specchio equivale a non conoscersi comeindividui, per cui il mio gatto, per altri versi notevolmenteintelligente, rivela in questo frangente una debole coscien-

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I miei gattie qualche cane

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za di sé. Ma non è certo così per tutti gli animali, soprattut-to per quelli più evoluti, come le scimmie antropomorfe,dotate sicuramente di autoconsapevolezza.Charles Darwin pose, una volta, uno specchio davanti a dueoranghi, e accertò come essi si comportassero più o menocome il mio gatto. Ma se il grande naturalista non si fosseaccontentato di queste sommarie osservazioni e avesse fat-to qualche espe rienza sottile, avrebbe scoperto delle cosequanto mai istruttive. Una volta, per esempio, uno scimpan-zé venne narcotizzato e gli fu spruzzata sulla testa della ver-nice di colore rosso. Uscito dal sonno artificiale, il bell’ad-dormentato nello zoo fu portato davanti a uno specchio.L’animale osservò attento la propria immagine e fece il ge-sto cruciale. Ispezionò con le dita la macchia ma, si badi be-ne: non sulla testa di quell’altro, che stava nello specchio,ma sulla propria. Si “riconosceva”, ergo: si “conosceva”.

Il gatto un po’ genio

Nei giardini zoologici, belli o brutti che siano, gli animaliimpazziscono. D’altra parte, nelle nostre grandi città, pri-gionie ri della civiltà delle macchine e della folla, gli uominidanno sempre più frequentemente di matto.Anche i piccoli amici, che alleviamo e curiamo amoro -samente nei nostri appartamenti, cani e gatti soprattutto,pagano le nostre attenzioni con la frustrazione e la nevro-si. D’accordo, non sono delle tigri. Li abbiamo modellati findalla preistoria a nostra immagine, li abbiamo selezionatiperché meglio accettas sero di vivere con noi.

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In realtà, è sufficiente che un passero si posi e cinguettiignaro sul davanzale di una finestra, perché il pacioso gat-to di casa subisca una perversa trasformazione.Chi sarà mai quella piccola belva con gli occhi sulfurei e leunghie pronte allo scempio? Povero mister Hyde: che tri-stezza non potere uccidere! In un mondo che gli altri, e nonlui, hanno “moralizzato”, il povero Fuffi è un assassino inastinenza per mancanza di vittime. Alcuni dei suoi fasti enefasti denunciano apertis verbis che è ormai un animaleun po’ pazzo.Mescola comportamenti sensati ad altri che avevano, untempo, per la specie, un loro significato biologico, ma cheora sono messi in atto a vuoto, a riprova dello stato confu-sionale della bestiola.Per esempio, il mio gatto da qualche anno, con l’intuizionee forse anche con l’osservazione, entrambe prodigiose, hascoperto la destinazione del water-closed, e ne fa uso, perlo meno per i “rifiuti liquidi”, e non solidi, del suo organi-smo.Lo osservo all’opera: con il corpo in precario equilibrio sul-la tazza, la coda eretta e il posteriore spinto sul vuoto, as-solve la sua funzione fisiologica. Che genio!, si griderebbe.Ma ora, che cosa fa? Con le zampe spazza per bene la ciam-bella, “come se” volesse coprire con la terra il suo escreto.Se fosse in giardino, la cosa andrebbe bene, ma qui? A checosa serve più tutto quel suo darsi da fare? A nulla: ergo, ilgattone è nevrotico.

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Il gatto a parlamento

Qualcuno ha scritto che gli istinti sono delle vere e propriemonomanie. Si traducono, difatti, in azioni coatte: l’anima-le non può impedirsi di far così. In realtà, le cose, come hascritto Julian Huxley, stanno diversamente: esiste una sor-ta di “parlamento degli istinti” e ne trovo la conferma os-servando il mio gatto.Il piccolo felino mi sembra sovente in balia di uno “statod’animo” che gli psicoanalisti non esiterebbero a decretaredi “ambivalenza”. Delle pulsioni opposte confliggono in luie si alternano bruscamente, in una sorta di oscillazioneetologica.Per esempio, l’amicone è venuto a cercarmi sul divano: siavvicina facendo ron-ron, e io gli accarezzo la testa. Maecco che la sua coda comincia a flagellare l’aria, e sappia-mo che questo non annuncia nulla di buono. Circostanzacuriosa: il ron-ron, che costituisce una sua offerta di pacesonora e un segnale di beatitudine, si sovrappone, per dircosì, e coabita con il movimento della coda, che significa:attenzione, sono nervoso e sto per aggredirti. La beatitudi-ne e l’inquietudine stanno parlamentando, e il gatto è in at-tesa, socchiudendo gli occhi, della decisione finale. D’untratto, il ron-ron gli muore in gola e mi rifila un’unghiatafulminea, dandosi subito dopo alla fuga. Questa instabilitàdi “carattere”, che rende sempre difficile convivere con ungatto, e che ha avvalorato nel tempo la diceria che il nostroeroe sia, per costituzione, proclive al tradimento, dipende,sicuramente, dalla sua imperfetta domesticazione.Il lupo, l’antico avo del cane, era un animale “di gruppo”,

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per cui la sua domesticazione è stata in linea con la suaprecedente socializzazione. Ahimè, il gatto selvatico delleorigini era un predatore solitario e quando l’uomo, nei gra-nai dei faraoni, incontrò il gatto, per parafrasare il titolo diun libro di Konrad Lorenz, la loro amicizia non aveva, perdir così, delle basi genetiche, e cominciò nel segno di unrapporto “difficile”.Il gatto selvatico non aveva alcun padrone, e anche il suodiscendente non ne riconosce alcuno: ci degna soltanto diuna sua “amorosa preferenza”. Abita con noi e fa, quandogli garba, il carino, ma nei sogni, credetemi, va ancora in gi-ro nei boschi, mister Hyde onirico, a menar strage tra i to-pi e gli uccelletti.

La gatta psicosomatica

Una mia amica, persona sensibile e di gusti squisiti, vennepiantata in asso dal fidanzato, un rozzo atleta che lei ama-va teneramente (costituiva l’eccezione alla regola della suavita, improntata a un’estrema raffinatezza), e cadde in pre-da alla malinconia. Dopo alcuni mesi di fuga in sé stessa co-minciò a perdere i capelli e il medico di famiglia, che eraanche il mio, non esitò a diagnosticare il caso come alope-cia psicosomatica. La perdita del fidanzato, mi spiegò, siera somatizzata nella perdita dei capelli. L’inconscio, in al-tre parole, opera sul corpo per metafore. Non potei sottrar-mi a un ricordo e a una comparazione anche se, per non of-fendere nessuno, mi tenni la cosa per me.Una mia gatta di nome Pallina, si trattava di una siamese,

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mi era molto attaccata. Di notte dormiva ai piedi del mioletto, ronfando come un sassofono sfiatato, e di giorno vo-leva conti nuamente giocare al gatto e al topo. Naturalmen-te io ero il topo, e mi tendeva degli agguati, inseguendomilungo i corridoi della casa o in biblioteca, deliziata se io fin-gevo di prendere la minaccia sul serio e fuggivo impaurito.Un brutto giorno per lei decisi di andare in vacanza per tresettimane, e l’amico che mi ospitava in Sardegna aveva po-ca simpatia per gli animali in generale, e per i felini in par-ticolare. Era la nostra sola ragione di dissenso. Affidai cosìalla donna di servizio il compito di riempire ogni giorno laciotola di Pallina, ma non si vive di solo pane, e la bella sia-mese dovette soffrire intensamente di solitu dine.Al mio ritorno scoprii con sgomento che aveva perdutogran parte del suo pelo, soprattutto sui fianchi, e che sem-brava decisa a fare in breve tempo uno “spogliarello” tota-le. Si trattava di una parassitosi? Di una carenza di vitami-ne? Di un eczema? Mac ché, il veterinario escluse tuttoquesto e alzò le spalle. Per fortuna, nel giro di un mese, ilfenomeno, spontaneamente, ovverosia senza nessuna cu-ra, cominciò a regredire e la gatta a riprendere il pelo, e in-sieme il vizio di trattarmi come un topo.Anche per Pallina, come per la mia amica, si era trattato diuna somatizzazione dell’abbandono? Non voglio formularediagnosi avventurose, ma mi sembra doveroso riferire chenegli animali domestici sono stati osservati − si veda la ras-segna di J. Guilhon − dei casi di alopecia su base psichica.Per esempio, una gatta perdette il pelo dopo un interven-to chirurgico, e un cane dopo il taglio “estetico” degli orec-chi. Per Pallina il trauma era stato l’improvvisa solitudine?

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Il gatto e la morte

Gli animali, decretano i filosofi, non hanno come noi la co-scien za della morte. Sarà vero? Penso, in linea di massima,di sì: per lo meno, la morte non la prevedono da lontano,ma è sicuro che la temono se è vicina.Spesso le leggende nascondono una verità di “seconda ma-no”, tramandano qualcosa di vero solo in un senso parzia-le, onirico: difatti se è falso che esista, in qualche parte del-l’Africa, il “cimitero degli elefanti”, un luogo in cui i vecchidella specie si recherebbero per morire in solitudine, ri-sponde a verità il fatto che molti animali tendono, quandostanno molto male o sono stati feriti gravemente, a isolar-si, a fuggire dagli altri per morirsene in santa pace.Durante la mia vita, passata insieme ai gatti, ho potuto con-statare diverse volte che questi felini, afflitti da qualche in-fermità improv visa e incurabile, vanno a nascondersi. Spa-riscono sotto i mobili, o si rifugiano in fondo a un armadio,o in un angolo remoto del giardino, e più si sentono malepiù si fanno trasparenti e invisibili. È come se il gatto pro-iettasse quella morte, che sente in sé, fuori di sé, reifican-dola, facendone una entità minacciosa che lo insegue e al-la quale la bestiola vuole nascondersi.Non essere trovato significa non morire? Chissà! Ma anchetra gli animali selvatici, in libertà, sembra esistere questopudore della morte, e G.B. Schaller, un ricercatore che, perprimo, ha vissuto quasi un anno con un gruppo di gorilla,ci racconta in merito una storia pietosa e gentile. Un goril-la avanti negli anni, un capo, si era ammalato di una graveaffezione intestinale e sporcava tutto in giro.

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Sembrava vergognarsene perché, ben presto, lasciò ilgruppo e sparì nella foresta. Non del tutto solo, però, per-ché uno dei piccoli del suo clan lo seguì nell’esilio, come sevolesse prestargli, se non assistenza, per lo meno confortoin quell’ulti mo cimento.Furono veduti vagare tra gli alberi per qualche giorno, ilvecchio sempre più malandato e sofferente e il giovanesempre più deciso, a quanto sembrava, a non abbandonar-lo. Li trovaro no, alfine, su di un pendio: il capo morto e ilsuo fedele gregario che lo vegliava. E ce ne volle del belloe del buono per farlo desistere dalla sua veglia funebre.

Il gatto “gesticola”

Quando Charles Darwin diede alle stampe L’espressione

dei sentimenti nell’uomo e negli animali si capì final-mente che la comunicazione non è solo di natura verbale,ma che un movi mento delle ciglia, o una smorfia, fannoparte di un linguaggio, di natura gestuale, che funziona connotevole efficienza.Non a torto Margaret Mead ha sottolineato l’importanzadell’opera del grande naturalista inglese nell’ambito deimes saggi senza parole, che tanto interessano insieme l’eto-logo e l’etnologo.Chiunque sia vissuto per qualche anno con un gatto ap-prende ben presto l’importanza dei suoi segnali corporei,che ne sban dierano l’umore. Se si flagella i fianchi con lacoda, corre brutta aria. Ben presto l’animale passerà a viedi fatto: mettetevi subito in salvo dalle sue unghie. Per quel

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che concerne il muso, gli etologi hanno messo in luce bensettantacinque segnali possibili e vi conviene, se volete vi-vere in armonia con lui, imparare i più importanti.Prendiamo il gioco delle orecchie: se sono dritte, il mondoè in ordine; se troppo dritte, il gatto diffida; se le piega dilato denuncia attenzione e attesa; infine, se l’animale le gi-ra all’indietro è bene fare attenzione, perché sta per anda-re su tutte le furie. Si tratta di un vero e proprio “lessicoauricolare”!Ma i segnali variano di significato da una specie all’altra,per cui si può ben dire, con non so quanto felice analogia,che esistono delle differenti lingue senza parole: è il corpoche le parla. Per un cane, il movimento della coda, al con-trario che nel gatto, segnala esultanza e benevolenza. Mase un gatto “fa la gobba”, o un cane, per converso, mette inlinea rigida il dorso bisogna stare in guardia: sono segnalidi guerra.Tra gli uomini di diverse culture, quando il linguaggio ver-bale è impedito, e non c’è uno straccio di interprete in gi-ro, il linguaggio gestuale acquista importanza. Ma attenzio-ne a non fare delle gaffe! Altrimenti vi può succedere comea quel capitano dei marines che, sbarcato su un’isola delPacifico, aveva voluto testimoniare la sua amicizia a un ca-po villaggio prodigandogli un colpetto con la mano sul ca-po. Rabbia generale, i nativi agitano minacciosamente lelance. Quel gesto, si scoprì dopo, equivaleva a gratificare ilbeneficiario con un “testa di…”.

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Il cane simulatore

Una delle strategie più comuni del nevrotico, studiata perbene da Adler, consiste nel fingersi perpetuamente malato,oppure, che è in fondo lo stesso, nell’occultare la sopravve-nuta guarigio ne. Si vuole, in tal modo, catturare la benevo-lenza e ottenere il gradevole risultato di porsi al centro del-l’attenzione universale. “Poveretto, soffre tanto!”, questeparole riempiono di esultanza il malato immaginario, per-ché acquista la certezza di essere amato, e che comunquesi continua a parlare di lui.Bene, sembra che anche tra i cani sia stata osservata que-sta perversa tendenza a perdurare nella malattia, esibendo-ne certi sintomi anche dopo che il veterinario ha decretatola guarigione completa. È chiaro come si attiva, nel prover-biale “amico dell’uomo”, questa nevrosi di sapore molieria-no: il cane si è raffreddato e ha cominciato a tossire. Ed ec-co che il padrone diventa più sollecito: gli propina, forse,qualche cattiva medicina, ma in compenso lo coccola, loprende in braccio, gli parla con grande dolcezza.Il cane non è mica scemo: ben presto collega la tosse a tut-te quelle attenzioni, e nota che se diminuisce, calano anchele coccole. Dunque, sarà pur lecito simulare un po’ di tos-se, che diamine! Un mio collega, uomo non uso a contarfrottole, mi ha raccontato che il suo cane ha continuato azoppicare anche dopo che la ferita al piede si era perfetta-mente cicatrizzata. Al punto che si sospettò che un fram-mento dell’iniquo chiodo fosse rimasto in loco, ma ogni in-vestigazione in tal senso non diede alcun risultato.Secondo gli studiosi di queste singolari nevrosi, è necessa-

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rio prestar molta attenzione se si decide di smascherare ilsimulatore. Un brusco intervento (per esempio, afferrare escuotere la zampa “psicomalata”) può evocare una crisid’ansia, per cui il povero cane cade in una depressione pro-lungata e manifesta aggressività. Non fa piacere esseretrattati da bugiardi, soprat tutto se lo si è!Si consiglia, questa è la cura, di far calare piano piano le at-tenzioni, finché cane e padrone ritrovino il loro comporta-men to reciproco di sempre. Esiste, allora, una possibilepsicoanalisi degli animali?

La cagna isterica

Uno dei fenomeni più surreali, e strani, è la cosiddetta gra-vidan za isterica, croce e delizia dei sostenitori della medi-cina psicosomatica. Una donna, colpita da una vera e pro-pria osses sione frustrata di maternità, fantastica di essereincinta e sicco me, come dice la canzone della Cenerento-

la di Walt Disney, i sogni son desideri, quel desiderio fini-sce per iscriversi nel corpo e per forzare, da contrabban-diere, i confini del reale. Alla finta gravida cessano le me-struazioni, ed ella cade preda di nausee, capogiri e vomiti,come se fosse al secondo o al terzo mese; il suo ventre, poi,si ingrossa in proporzione. Finché, ovviamente, il delirioperde quota e tutto finisce nel niente, il sogno torna sogno,e il ventre fa puff, e svanisce come una bolla di sapone.Una persona degna di fiducia, il cui padre alleva cani perscopi venatori, da me aspramente riprovati, e che per la in-congruenza del cuore umano ama i gatti, ma sicuramente

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meno le lepri e i fagiani che fucila senza pietà, mi ha rac-contato una storia che trovo strabiliante, ma che è suffra-gata dallo spergiurare di numerosi testimoni oculari.Il cacciatore non-pentito, e cinofilo, possedeva due canibracchi italiani, se ben ricordo, due femmine che vivevanoinsieme in perfetta concordia. Una delle due venne un belgiorno destinata alla riproduzione, ma l’esclusa, seleziona-ta sessualmente, sopportò male la cosa e decise di pren-dersi una rivincita nell’immaginazione. Si “inventò” cosìuna gravidanza, crebbe di volume, e quando l’altra partorìle sue mammelle si gonfiarono per bene di latte. Era, in talmodo, pronta ad affron tare i compiti di madre del deside-rio, e li assolse non nel sogno, ma nel reale.Fu così che la cagna “isterica” diventò una balia in pienaregola, e con grande stupore il “padrone” poté assistere al-le gesta di una famigliola molto particolare. Metà della cuc-ciolata venne allattata dalla madre vera, e metà dalla ma-dre “vicaria”, e non risultò a nessuno che l’una fosse, allafin fine, più efficiente dell’altra. I quattro piccoli crebberosani e robusti, e vissero comunque tutti felici e contenti.

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C’e’ amore e amore

Tra gli animali, le cose del sesso sembrano essere menocompli cate che tra gli uomini, o per lo meno risultano piùlineari e perentorie.L’estro è il grande semplificatore di tutta la faccenda, quellostato fisiologico e comportamentale che le femmine degli ani -mali esibiscono, sovente in maniera vistosa, per pubblicizzarela propria abilitazione e disponibilità a venire fecondate. I se-gnali sono davvero inequivocabili: le parti genitali si arrossano,gli effluvi odorosi saturano l’atmosfera, le posture di copulavengo no assunte con insistenza, si fa di tutto per convincere ilmaschio che è venuto il momento di fare il proprio dovere.Nella donna, invece, l’estro è scomparso. Il momento del -l’ovulazione resta sconosciuto, sia alla donna che al suocompa gno, e non si sa più che pesci pigliare se si voglionodei figli, o se si vuole evitare di averne! Dato che, in natu-ra, nulla che duri è senza significato per la sopravvivenza,l’eclissi dell’estro deve pure obbedire a qualche esigenza

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Bestiario d’amore

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d’ordine generale. Qualcuno ha pensato che l’assenza di unperiodo limitato di ricettività sessuale nella donna consen-te una sua continua disponibilità per il maschio, favorendoil legame di coppia e la monogamia.Eppure, tra le scimmie, i gibboni restano insieme tutta lavita pur accoppiandosi solo all’epoca degli amori.Di recente, Richard Alexander e Katherine Nooman hannoemesso una ipotesi ispirata alla sociobiologia. Tra i sessi,hanno decretato i due scienziati, ciascuno tira l’acqua al suomulino, e sono due mulini differenti. Alla donna conviene es-sere monogama, perché le fa gioco avere, a full-time, un uo-mo che si occupi di lei e della prole. L’uomo, al contrario, tro-va il proprio interesse nel diffondere il più possibile i suoi ge-ni, ed è così proclive alla poligamia. La scomparsa dell’estroha consentito un compromesso tra queste due esigenze con-trastanti. Infatti, se il momento dell’ovulazione resta silente,il maschio desideroso di figli che perpetuino i suoi geni, de-ve, con la stessa femmina, provarci e riprovarci, per esseresicuro di conseguire il suo scopo, ed è così che rinuncia, pergran parte del suo tempo, a fare il don Giovanni. È bene an-che che la femmina ignori dal canto suo il momento fatale,perché potrebbe, sapendolo, tradir si, informando il maschio,che coglierebbe l’attimo fuggente per darsi subito dopo alle“avventure fuori casa”.

Ditelo coi doni

Se vai dalle donne, ha scritto Friedrich Nietzsche nel suofurore di maschio iconoclasta, non dimenticare la frusta.

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Dal canto mio consiglio, invece, di non scordare un picco-lo regalo che, state pur certi, non guasta mai. Anche lefemmine di numerosi animali danno segno di gradire ilpensiero, e il rituale del dono è in molti casi parte integran-te del corteggiamento e delle strategie di seduzione.Tra gli uccelli, per esempio, il maschio della sterna deveportare alla femmina un piccolo omaggio gastronomico, unpesce, e si possono osservare i due amorosi che si guarda-no negli occhi tenendo la preda nel becco alle due estremi-tà. Vada per gli uccelli, che sono notoriamente così intelli-genti! Ma chi direbbe che anche tra gli insetti è in voga laconsuetudine del “dono nuziale”?Per esempio, esiste nell’Africa tropicale una cimice vegeta -riana che va in cerca della femmina con un seme di ficusinfisso nel rostro appuntito del suo apparato boccale.Quando si imbatte alfine nella sua bella, esibisce il seme,poi lo fa ruotare tra le zampe, lo punge più volte e inoculanei tessuti vegetali della saliva, provocando una sorta dipredigestione. Offre, quindi, il sorbetto alla femmina, checomincia a suggerlo e, nel contempo, consente a entrare incopula.Un comportamento egualmente sorprendente è stato os-servato in un insetto del New Messico, la cosiddetta “mo-sca tumbu”. Il maschio afferra una preda e la mette in mo-stra, perché la femmina esamini il dono, e decida se ne va-le la pena. Se accetta, mangia un po’ del cibo esposto e siconcede all’offerente. Altrimenti, se la preda è misera, nonesita un istante a piantare in asso il maschio così poco mu-nifico. Gli amori disinteressati sono rari... e non solo tra gliinsetti.

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Afrodisiaci salutari

Il marchese de Sade, lo apprendiamo dagli atti del suo pro-cesso per l’affaire di Marsiglia − i capi di imputazione perlui erano avvelenamento e pratiche sessuali innaturali −prima di scate narsi nell’orgia, ovviamente “sadica”, sembraoffrisse alle sue vittime dei confetti conservati in una sca-toletta di cristallo cerchiata d’oro. Si trattava di dolcettiafrodisiaci, o per lo meno presunti tali. Nel corso dell’inda-gine giudiziaria si scoprì che le sostanze di base dell’escaerotica erano dell’anice e della cantaridina, e che era stataproprio quest’ultima sostanza a provocare dei sintomi diintossicazione in una delle prostitute reclutate per il divi-no marchese dal fedele servo, e compagno di crapula, La-tour.Questa “droga” dal nome accattivante, cantaridina, è uncomposto biologico noto fin dall’epoca remota di Ippocra-te e veniva considerata, a torto o a ragione, nella farmaco-pea tradi zionale, un rimedio contro l’impotenza, e quindi,logico co rollario, un potente incentivante sessuale. Da usa-re con discre zione, però, perché la cantaridina non è affat-to innocua. Tutt’al tro! Le sue origini sono perlomeno curio-se: è un composto elaborato nei laboratori fisiologici di cer-ti insetti, coleotteri meloidi, e impiegato da loro come unasottile arma chimica. Difatti questi insetti, posti in condi-zioni di emergenza, emetto no delle goccioline del loro san-gue “cantaridinizzato” e fanno desistere l’aggressore. Sullanostra pelle, per esempio, il liquido suddetto provoca deglisgradevoli e vistosi effetti vescicatori.Anche altri piccoli coleotteri, gli stafilinidi, se vengono schiac-

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ciati sulla cute con una pacca dall’uomo che ne è infasti dito,producono delle piaghe, e questo fenomeno, in certe zone delmondo, assume una frequenza non trascurabile. Nel 1912, unentomologo brasiliano individuò il Paederus colombinus co-me responsabile di queste affezioni cutanee, battezzate, perl’appunto, pederosi. Fino agli anni Cinquanta il principio atti-vo della patologia dermale fu creduto la solita cantaridina, maricerche successive di Mario Pavan e di una équipe di chimicimisero in luce un’altra molecola, che prese il prevedibile no-me di pederina.Fin qui la faccenda non sembrerebbe di grande interesse,ma la pederina, questo è il bello, si rivelò ben presto undiavoletto a vocazione duplice. Infatti, mentre a forti do-si la sostanza necrotizza i tessuti, a dosi omeopatiche, ecioè piccolissime, inverte la sua attività e induce la cica-trizzazione. Ottima, quindi, per la cura di piaghe reniten-ti a ogni altro trattamento. Le risultanze cliniche recentisono molto favorevoli. C’è una far macia degli insetti nelnostro futuro.

Castita’ da molecole

Si racconta, e la faccenda, benché sordida e crudele, ha ge-nerato una falange di lepide storielle, che il signore del feu-do, partendo per le crociate, prendesse le sue misure pernon diventare padre di un qualche bastardo, magari con lestesse fattezze del suo stalliere.L’ordigno posto a guardiano della fedeltà della “bella-lascia-ta-sola” era di ferro, conformato a guisa di mutanda crivella-

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ta di fori, come le padelle per le caldarroste, e veniva assicu-rata ai fianchi della donna mediante una catena e un luc-chetto, di cui il prode Anselmo portava seco le chiavi. Sono certo che di queste chiavi ne restassero sempre, inqualche stipo segreto del maniero, alcune copie, e mi sem-bra che la castellana, di fronte a tanta iniqua sfiducia, aves-se tutti i diritti di applicare la legge del contrappasso e didare a Cesare quel che è di Cesare, nel caso nostro un belpaio di corna.Tra l’altro, un po’ di sangue plebeo non poteva che giovarealla nobiltà del tempo, usa a favorire le nozze tra parenti,vicini o lontani, e a esporsi ai rischi della consanguineità.Dobbiamo ammettere, però, che tra gli altri animali, certimaschi, posti in un simile frangente, si comportano in ma-niera insieme più soffice e più efficace, ricorrendo non abarriere di metallo, ma a dissuasioni molecolari: in altre pa-role, a cinture di castità “chimiche”. Prendete il caso del “serpente giarrettiera a fianchi rossi”.Dopo aver fecondato la femmina, il nostro amico la con-trassegna, in prossimità della cloaca, con una pallottolaodorosa. Gli effetti di questa sostanza magica sono strabi-lianti: il feromone repulsivo è capace non solo di allontana-re i maschi che vorrebbero godere a loro volta dei favoridella serpentessa, ma addirittura, se si avvicinano troppo,di renderli impotenti per il resto della giornata. Che siaproprio quel grumo di gelatina a funzio nare come cinturadi castità è dimostrato dal fatto che se il dissuasore chimi-co viene trasferito su una femmina vergine, maschi, primaassidui, cominciano a fuggirla come se avesse la peste.La trama di un possibile romanzo di fantascienza: nel 3001,

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il principe Aster deve partire per una spedizione con leastronavi ed è sposato da poco. Chiama, allora, il chimicodi corte...

Musica, “maestro”!

Avrete osservato spesso che le coppie umane, soprattuttose affiatate, finiscono per diventare una piccola società aparte, con comportamenti propri e un repertorio di gesti, edi parole-chiave, che solo i due impiegano e comprendononel loro “vero” significato. Per esempio, uno dei due “co-lombi” pronuncia una certa parola, banale per voi, come“mare”, e voi cogliete, tra loro, il fulmineo scambio di unosguardo, mentre l’ombra di un misterioso sorriso, da novel-la Gioconda, affiora sulle labbra della donna. Avvertite cheè filtrato un messaggio in cifra, che si è aperto lo spiragliosu di un mondo segreto da cui voi siete irrimediabilmenteesclusi. Certe volte vi piglia perfino la mosca al naso, per-ché è come se tacendo a voi, ed evocando tra loro quel-l’episodio cruciale, che la parola “mare” ha richiamato allamemoria, i due maleducati vi avessero sbattuto la porta sulmuso.In realtà, in ogni coppia, lo so per esperienza, e anche voilo sapete, esiste un istruttore, e un imitatore, e spesso ilplagiato non si accorge neppure di esserlo, perché la suamanipolazione psicologica si è svolta con suprema discre-zione. Ahimè, temo per noi maschietti che sia la donna aforgiare lo “stile” della coppia, e che il comportamento di“lui” risulti alla fine totalmen te modellato da “lei”.

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Ho fatto questa pensata leggendo un libro di WolfgangWickler, I dialetti degli animali, a proposito del destinodel povero molotro. Esistono due sottospecie di questi uc-celli, che cantano secondo uno “spartito” un po’ diverso, el’apprendi mento dei dialetti, se possiamo chiamarli così, ègovernato dalle femmine, che pure, da parte loro, noncantano.Paradossalmente, queste femmine mute sono le maestre dimusica dei loro maschi, e le lezioni vengono impartite nonmediante suoni, ma tramite comportamenti. Difatti, se ilma schio, nel corso della serenata, commette qualche erro-re, e cioè adotta “passaggi” della specie vicina, la femminanon si lascia accostare, lo snobba e lo aggredisce perfino seinsiste. Man mano che il canto diventa più conforme al mo-dello melodico atteso, la bella molotra si mostra semprepiù condiscendente, finché non ottiene una dichiarazionecanora tutta nel dialetto di suo gusto. In termini più gene-rali, è come se la femmina muta cantasse “attraverso” il suomaschio.

Il colibri in discoteca

Forse è vero, come è stato scritto, che il cuore è un caccia-tore solitario, ma non tutti sembrano essere d’accordo. Iragazzi, difatti, vanno spesso “a donne” in gruppo, e i luo-ghi deputati all’incontro e alla gaia interazione tra i sessisono spesso contraddistinti da un’alta densità di individui,e citiamo al riguardo le sale da ballo e le discoteche.Per i maschi turbolenti della nostra specie l’essere in “di

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più” sembra esorcizzare la timidezza: di fronte al pericolodi venir messo alla berlina per eccesso di prudenza dal pro-prio gruppo ciascuno si butta a capofitto nella mischia e di-venta un seduttore per “forza altrui”. Meglio passare persfrontato che per incapa ce: questo comportamento po-trebbe figurare come nota a pie’ di pagina di un libro sullapsicologia delle masse.Sappiamo, ahimè, che anche gli atti di violenza carnalevengono spesso consumati in gruppo, e che lo stupratore“individualista”, i mostri dell’ascensore e simili gentiluomi-ni, sono più rari, e forse più pericolosi.Anche tra certi animali il “corteggiare insieme” da partedei maschi è un fenomeno ben noto agli etologi, e si mani-festa con particolare evidenza in talune specie di uccelli. InSud America i colibrì, altrimenti conosciuti per le loro esi-guissime dimensioni come “uccelli mosca”, si radunano incongreghe di varie decine di maschi e danno fiato in coroal loro canto d’amore.Più discreti, i Casanova di certi uccelli del paradiso si dan-no da fare in due e, per attirare l’attenzione delle femmine,montano uno spettacolino acrobatico insieme. Alternativa-mente, ora un maschio ora l’altro, si appende al ramo a te-sta in giù, formando con l’altro delle “figure” simmetriche,in una sorta di body-art animale.Che significato attribuire a queste esibizioni collettive? Po -tremmo ben dire che l’unione non solo fa la forza, ma po-tenzia l’attrazione sessuale. I segnali di seduzione si som-mano tra loro e si rinforzano reciprocamente.Mi viene in mente una ragazzina, sull’autobus, l’altro gior-no. Parlando, concitata, a un’amica, di una esibizione gin-

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nica dei maschi della sua scuola, ha esclamato: “Tutti inmaglietta bianca, così belli: e poi tanti!”.

Tristano e’ una volpe

Dedurre, dal comportamento degli animali, delle norme dicondotta per noi è una fatica di Sisifo, che sempre ricomin-cia. Perché, ahimè, in natura l’etologo trova tutto, e il con-trario di tutto!Per esempio, se qualcuno vien preso dallo sfizio di ricerca-re dei fondamenti biologici per la monogamia (sicuramen-te l’isti tuzione più praticata dall’uomo) può rifarsi al cigno,che vive in coppia tutta la vita, o al gibbone, una scimmiaantropomorfa acrobata e canterina che manifesta egualeabitudine di vita coniugale.Ma questi esempi possono sempre venire infirmati da altri,di segno esattamente contrario. Perché svalutare il fattoche i gorilla, o gli scimpanzé, vivono, a parte un certo ordi-namento gerarchico, in una felice promiscuità sessuale, si-mile a quella dell’orda primitiva che Charles Darwin fanta-sticava alle nostre origini?E perché non preferire al cigno il leone marino delle Gala-pagos, il cui maschio vigila su di un harem di più di diecifemmine? Non son passati due mesi da che uno di questipascià mi ha inseguito a lungo sulla spiaggia di una di quel-le isole felici, “encantadas” come ha scritto Herman Melvil-le, perché pensava che io fossi andato là per insidiare unadelle sue favorite.Qualcuno mi ha domandato se è più naturale la fedeltà, o l’in-

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fedeltà. Ho risposto che la volpe maschio, per quel che cihanno riferito gli allevatori, è al riguardo un vero Tristano. Di-fatti, il giovane campione feconda a piacimento tutte le fem-mine con cui viene messo insieme, a patto, si badi bene, dinon consentire che passi tutta la notte con una di esse. In talcaso, a quanto sembra, il riproduttore indiscriminato contraeun legame personale: cade, per dir così, preda d’amore, e perquella stagione gli diventa difficile assolvere regolarmente ilsuo mandato con altre volpi. Commovente, non è vero? An-che se, al contrario, le femmine durante il periodo dell’estronon fanno tante storie, e accettano il maschio che capita!

Ti fiuto, e so chi sei

L’impiego diffuso e imponente di sapone, deodoranti e pro-fumi nelle popolazioni sedicenti civili, denuncia il rifiutodell’odore del corpo, proprio e altrui, e la scelta per unasfera olfattiva artificiale, esalata dagli alambicchi dell’indu-stria chimica. Eppure esistono dei fenomeni, marginali maeloquenti, che mostrano quanto, in un passato non lontanodella nostra specie, contassero gli odori corporei, assolven-do a compiti biologici di grande importanza.Per fare un esempio, sembra che siano delle percezioni ol-fattive a governare i rapporti tra la madre e il neonato. Del-le esperienze condotte in alcune cliniche americane hannodimostrato che, se la madre non fa frequenti abluzioni, nonsi depila e non fa uso di profumi, consentendo il precisarsidi una sua “firma olfattiva”, il bambino appena nato impa-ra ben presto a riconoscerla.

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Ma per forza, perché l’odore di ciascuno di noi è una sortadi “impronta digitale annullabile”, un carattere volatilesquisitamente individuale, dipendente da fattori fisiologici,come la composizione chimica del sudore e delle varie se-crezioni, nostra e non di altri, e da fattori variabili, come glistili di alimentazione etnici e le preferenze in proprio.Negli animali, gli effetti degli odori del corpo e dei suoiescreti sono complessi e numerosissimi. Per esempio, èpossibile provocare, in una topina fecondata da poco, unaborto spontaneo via olfatto. È sufficiente introdurla in unbox che abbia ospitato un maschio estraneo, di un altrogruppo, e quindi con un altro bouquet odoroso, perché lanostra topina rigetti l’uovo e nel giro di tre o quattro gior-ni ritorni in estro come se non fosse mai stata fecondata.D’altra parte, anche la deprivazione olfattiva può compor-tare grosse ripercussioni fisiologiche. Gruppi di topine riu-nite in box senza maschi esibiscono, dopo qualche tempo,gravidanze nervose (o isteriche?), turbe del ciclo estrale, ela sua abolizione.Alcuni giorni fa, delle studentesse che abitano la stessa ca-mera, mi hanno confessato, tra il serio e il faceto, cercan-do lumi dall’etologo, un curioso fenomeno: il gruppo avevasincronizzato le mestruazioni.Ho risposto che la faccenda era stata già osservata moltianni fa da Mac Clintock negli Stati Uniti, e che si supponeche entri in gioco, nel determinarla, un messaggio olfatti-vo, percepito a livello subliminale. La sincronizzazione, aquanto sembra, non avviene tra ragazze che prendono lapillola.

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Gelosia, che pena!

Anche se il Sessantotto ne aveva decretato l’eclissi, la ge-losia resta un male dell’anima assai diffuso, e forse tutti nesiamo vittime in diversa misura. Per certuni, tuttavia, la ge-losia assume la forma di una ossessione vera e propria, equesti satrapi dell’immaginazione passano gran parte delloro tempo a supporre, ad arzigogolare, a escogitare i mo-di per sapere la “verità” e per cogliere in fallo il fedifrago,smascherandolo finalmente. Una persona che conosco, unuomo gioviale e amante della vita, è caduto preda, dopo ilmatrimonio con una ragazza molto giovane, di una gelosiaintensa e piena di congetture e di sofferenze. Duranteun’esplosione del suo delirio, mi confessò che se qualcunocorteggiava sua moglie era perché lei, l’infame, gli dovevaaver dato corda.Se si considera, a questo punto, che per corteggiamento ilmio amico intende non solo una sequenza di attenzioni“mirate”, ma un sorriso, o una parola gentile, diviene intui-bile come ogni party sia suscettibile di trasformarsi in uncasus belli, e difatti la coppia conduce da qualche tempouna vita rigorosamente ritirata. Sono convinto, tuttavia,che l’isolamento non serva per esorcizzare certi fantasmi. Dal punto di vista etologico, l’idea che il maschio si facciaavanti perché la femmina, sotto sotto, lo invoglia, trova unacuriosa conferma in una esperienza che è stata fatta sui ge-lada, delle scimmie che vivono sulle montagne d’Etiopia.Alcune coppie scafate di questi babbuini vennero mescola-te con maschi spaiati, di vario grado gerarchico. I leader,consapevoli del loro prestigio, si diedero subito da fare,

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convincendo in breve tempo molte femmine a “fuggire dicasa”. Gli altri maschi, di rango inferiore, meno sicuri di sé,adottarono la strategia, che il mio amico geloso chiama “daparty”, e cioè del “fatti avanti se ti fa capire che ci sta”. Inparole povere, se la babbuina mostrava di essere molto le-gata al suo compagno, il Casanova di turno passava oltre,ma se la bella faceva la civetta, l’invito veniva accettato einiziava la competizione. Il mio amico avrà ragione?

Coppia e nevrosi

Non si può proprio dire che Edward Wilson, l’entomologofondatore della sociobiologia, manchi di coraggio. Peresempio, con questi chiari di luna, egli osa affermare che lapoligamia, un uomo con più donne, è “più naturale” (quin-di più promossa dai geni) della poliandria, una donna conpiù uomini. A parte l’accusa di maschilismo, o peggio, sca-gliata contro Wilson dalla pubblica opinione, i suoi avversa-ri scientifici, antropologi in testa, sono stati meno emotivima non meno perentori nel confutarlo.Marvin Harris, che non è neppure uno dei più feroci denigra-tori della sociobiologia, afferma che non è affatto vero che ledonne tendano per loro natura alla monogamia, perché esi-stono gruppi sociali nei Caraibi e nel Nord Est del Brasile incui lo scambio del maschio è così frequente e rapido da co-stituire una poliandria di fatto, mentre nel Tibet famiglie dipiù uomini e una sola donna costituiscono un’istituzione so-ciale permanente.Secondo Harris la poca versatilità della donna nella scelta

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sessuale non sarebbe affatto biologica, ma dovuta all’op-pressio ne maschile. Prova ne è, incalza l’antropologo, chespesso, quando la donna si emancipa e conquista il poterepunta, come gli sceicchi, all’harem. Esempio paradigmati-co: Caterina di Russia, che si “faceva”, l’uno dopo l’altro, gliufficiali della sua guardia! Esempio contrario: Elisabettad’Inghilterra, che forse non era proprio vergine, come mil-lanta la storia, ma che era certo dedita all’astinenza.Non c’è dubbio, tuttavia, che da sempre, tra gli uomini, lacoppia è in crisi. Ma non sarà, dopo tutto, meglio così. Il ca-so del gibbone insegna come una monogamia troppo esclu-siva possa comportare una perdita di socialità, o di salutementale. Esiste, difatti, un rapporto stretto, almeno lo sipuò presumere, tra la monogamia e la gelosia, vero malsottile della mente. I gibboni, queste graziose scimmie an-tropomorfe, note per le loro acrobazie al trapezio degli al-beri e per le loro esibizioni canore (i gibboni cantano!), for-mano delle coppie a vita, si interessano veramente solo delnucleo familiare. Il maschio o la femmina, a pari merito,scacciano con energia gli individui dei rispettivi sessi oppo-sti che vengano a mettere zizzania con tentativi di seduzio-ne. Poveri gibboni: sono fedeli, tutti casa e famiglia... manevrotici.

Non ci si fidi del sesso

Si è soliti pensare, ed è in gran parte veritiero, che maschio femmine si nasce; in taluni casi, però, può succedere che,nel corso dello sviluppo, il corpo cambi idea, e che i nati

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maschi diventino femmine, e viceversa, con tutte le conse-guenze del caso. In laboratorio questi bisticci biologici possono venire otte-nu ti facilmente. Si prenda, per esempio, una rana (Xeno-

pus laevi) o per meglio dire si consideri un suo girino ge-neticamente maschio. Facciamogli delle somministrazionidi ormoni femminili, e voilà, il gioco è fatto: avremo unabella rana di sesso femminile. D’altra parte, con tecnica piùsofisticata, l’innesto di un testicolo in un girino genetica-mente femminile comporta un risultato analogo, anche seinverso: una totale mascolinizzazione del soggetto. Espe-rienze da apprendisti stregoni, si dirà. Certo, ma eventi si-mili si verificano, e talora con frequenza (quindi sono “nor-mali”), anche in natura, come in alcuni pesci. Difatti, mol-ti di questi abitatori dei mari cambiano spontaneamente disesso, i maschi diventano femmine, e le femmine maschi.Le cause di questo eclettismo sessuale sono in gran parteignote, ma si sospetta un intervento ormonale. DouglasShapiro, dell’Università di Puerto Rico, ha preso in esameAnthias squamipinnis, un pesce che vive nei mari delleFilippine. I suoi branchi sono, a quanto sembra, program-mati per mantenere un rapporto fisso tra il contingentemaschile e quello femminile. Se in queste comunità si tol-gono i maschi, altrettante femmine cambiano sesso per so-stituirli, e lo stesso si verifica, ma in senso inverso, se sonole femmine a venire escluse dal gruppo. Il mutamento com-pensatorio richiede circa due giorni.Questi fatti sembrano incredibili, eppure non è poi tantoinfrequente, nella nostra specie, assistere a qualcosa di si-mile. Si pensi, per analogia, a quanto accade nella Repub-

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blica Dominicana nei Caraibi. Quivi, nascono spesso deibambini geneticamente maschi, ma dotati di caratteristi-che femminili. Questi bambini allevati come bambine, alsopraggiungere della pubertà si mutano, per dir così, in uo-mini veri e propri, e molti di loro si sposano e hanno dei fi-gli. In biologia non si può essere mai sicuri di niente.

Castrazione con “trillo”

Un mio amico, di professione biologo, sostiene la curiosateoria, da trattare nel corso di una cena e non certo in la-boratorio, che le persone rudemente dominate, per esem-pio l’assistente universitario plagiato dal professore o ilportaborse schiacciato dalla personalità prorompente delsuo boss perdono, e non tanto lentamente, la propria viri-lità, diventando ben presto degli inadempienti, o dei “de-boli” sessuali. Sarà vero? L’essere in balia quotidiana dellavolontà di qualcuno innesca un processo di castrazioneprogressiva?Dal punto di vista etologico è ben noto che nei gruppi aconduzione gerarchica, gli animali leader si riproducono dipiù di quelli “minor”, che sovente non lasciano alcuna di-scendenza. Ma in taluni insetti la condizione di “dominato”comporta non solo di venir selezionato sessualmente, maperfino di subire la regressione delle gonadi, e si può cosìassistere all’avvento di veri e propri “eunuchi da subordi-nazione”.Si consideri, per esempio, il caso di certe vespe: la Polistes

gallicus − chiamiamo in causa una specie molto comune −

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costruisce dei piccoli nidi a forma di coppa rovesciata chesi possono osservare appesi a un cornicione, o che so, allostipite di una finestra, mediante un sottile peduncolo.Questi insetti, dotati di un aculeo, ma in fondo assai menoaggressivi di quanto si paventa, sono stati studiati da LeoPardi, uno dei padri dell’etologia italiana. Lo zoologo è sta-to il primo a segnalare un comportamento di dominanzanegli invertebrati, riferendolo proprio alle nostre vespe.Quando sopraggiunge la buona stagione, può succedereche alcune femmine di Polistes, che hanno svernato, siconsorzino per fabbricare e gestire un nuovo nido. Traqueste fondatrici, una assume subito, per dir così, il co-mando. Si sofferma più a lungo sul favo, depone le uova, di-strugge quelle eventualmente depo ste dalle compagne, equando si imbatte in una vespa subalterna ribadisce la pro-pria superiorità mediante il “trillo antennale”. In altre pa-role, frusta la testa della sua schiava con le antenne, e lapoveretta subisce il trattamento “a capo chino”, senza darsegno di ribellione.Intanto, le sue gonadi regrediscono, ed essa perde ben pre-sto ogni facoltà di maturare e di deporre le uova. La subor-dinazione culmina nella sterilizzazione. Dunque, se il vo-stro capoufficio vi urla spesso addosso, fate attenzione...

Oh, Lolita!

I bimbi hanno delle guanciotte ben colorite. Quindi, se unavostra amica, prima di entrare in discoteca, si pizzica gli zi-gomi o se li cosparge di fard, per arrossarli, siete legittima-

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ti a pensare che voglia mettere in gioco un segnale infanti-le. Se poi si veste da marinaretta, si lega i capelli (o ancormeglio, le trecce), con un nastro rosa, se si rivolge a voicon una voce “di testa”, un po’ in falsetto, fissandovi con gliocchi sgranati, vi nasce l’irresistibile certezza che sta reci-tando la parte della bambina.Che questa commedia sia, come è, una strategia di sedu-zione può generare, al principio, qualche perplessità. Difat-ti, nel gran teatro del sesso, accanto alle donne-bomba, daiseni prorompenti e dai fianchi opulenti, esistono le cosid-dette ragazze-grissini alla Twiggy, piatte e lineari, che go-dono, secondo le epoche, eguale consenso e popolaritàpresso gli uomini.Insomma, il seno grande, e il non-seno, possono funziona-re alla fin fine, nella stessa maniera, conseguendo scopiidentici.Tuttavia, mentre Carmen Russo evoca, esibendo i suoi vi-stosi attributi, delle risposte biologicamente comprensibili,ci si può chiedere, con una certa inquietudine, quali cordetocchi in noi la ragazza-grissino. Si può supporre, in chiavedi etologia umana, che la seduzione alla Twiggy si fondi sul“complesso di Lolita”, e che vengano coinvolti meccanismiindiretti, e certo un po’ perversi. Il fatto è che Konrad Lo-renz ha da tempo messo in luce che, tra gli animali e l’uo-mo, certi caratteri dei “piccoli” (i crani tondi, la frontebombata, gli occhi sgranati, le guance, per l’appunto, paf-futelle e rosee), disarmano l’aggressività ed evocano laprotezione e la tenerezza. Ma protezione e tenerezza nonsono, forse, presupposti naturali dell’amore?Non si creda, per concludere, che le donne-manager del

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nostro tempo, con i loro gesti decisi e i loro sobri tailleurabbiano esorcizzato attorno a loro (e in loro!), la donnabambina. Le Lolite, vere o simulate che siano, vengono dalontano. Amleto, nell’omonimo dramma di William Shake-speare, con l’amarezza di un Edipo tradito, le perseguita inOfelia. “Dio vi ha dato un volto e voi ne fate un altro”, gri-da il pallido prence (si legga: “Basta con il fard!”). E conti-nua: “Bamboleggiate, pargoleggiate”. Insomma: “Loliteg-giate”. Amleto si sente minacciato. Dunque, la sua ricettaè: tutte in convento!

Misteri del seno

Non ho dubbi: quell’attributo femminile che noi indichiamocome seno, dopo aver subito una certa eclissi di importanzanel Sessantotto, epoca in cui la donna cullava in sé l’idealedell’androgino, sta conoscendo un rilancio e le maggioratedegli anni Cinquanta, che ossessionarono la mia giovinezza,sembrano tornate alla ribalta.Carmen Russo e Serena Grandi fanno della “esibizione dipetto”, e Birgit Nielsen suscita controversie accese tra gli“esperti” su quanto ci sia di vero o di finto, di naturale o dichirurgico, nella sua pregevolissima anatomia. Questa breve storia biologico-culturale del seno, durante leetà buie e dopo, ci consente di formulare una o due consi-derazioni in chiave di etologia umana.I comportamenti degli animali, quindi anche i loro atti ses-suali, vengono per solito attivati da stimolazioni interne,come un certo tasso di ormoni, e da stimolazioni esterne,

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per esempio un percorso di volo a zig-zag di una determi-nata farfalla femmina che passi sotto il naso del maschio. Da sempre ci si chiede, tralasciando i segnali interni, seesistano nell’uomo, e quali siano, gli stimoli attivatoriesterni. Il seno insomma, esibito o forse, ancor meglio, mal-celato, in che misura scatena nel maschio umano il com-portamento erotico? Si tratta, è sicuro, di un evocatore, ela riprova in forma negativa ce la fornisce l’avversione deimoralisti, sempre sessuofobi, alla diffusione del toplesssulle spiagge.Un intervento in merito, un po’ impertinente, è stato quel-lo di Desmond Morris. Egli sostiene che il seno non solo èil segnale sessuale, ma è, per dir così, un sedere spostatonella parte superiore e anteriore del corpo. Difatti, argo-menta, nei primati, che praticano la copula “dal di dietro”,le natiche delle femmine in calore si infiammano, o si intur-gidiscono, per avvertire i maschi della loro disponibilità.Nell’uomo, con l’acquisto della stazione eretta, che ha resopossibile l’adozione in amore della cosiddetta “posizionedel missionario”, i segnali sessuali avrebbero avuto la ten-denza a spostarsi dal dietro in basso al davanti in alto. Inparole povere il seno sarebbe diventato l’equivalente etolo-gico delle natiche!Ci sono però delle popolazioni africane che sono rimastelegate alla tradizione e lo dimostra lo sviluppo adiposo deifianchi delle loro donne. Una di esse, si racconta, aveva ilsedere così grosso che, seduta, non riusciva ad alzarsi dinuovo in piedi da sola!

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Smancerie da ristorante

Le coppie fanno mostra, talora, di rituali sorprendenti, epuò succedere che l’etologo riesca a intravvedere in certigesti, in certe azioni, la “citazione” o le vestigia di un com-portamento animale. Per esempio, una mia giovanissimaamica ama, in sommo grado, attingere dal piatto del suo ra-gazzo. Al punto tale che, a ristorante, con la scusa di unadieta perpetua, si fa portare un po’ d’insalata, invocandoper lui, che fa tanto sport!, delle porzioni super. Inoltre, èsempre lei a decidere che cosa desidera mangia re l’amatobene. Tutta la manovra presuppone un intervento di for-chetta “parallelo”: la ragazza contribuirà attivamente al -l’esaurimento delle “risorse”, ed è giusto, tra l’altro, che ilcibo, destinato a lui, piaccia anche, e forse soprattutto, alei. Non sempre il giovane è connivente, anzi dà segno,qualche volta, di una palese irritazione, ma la sua compa-gna è irriducibile.In taluni casi, queste abitudini prandiali possono diventareparadossali e generare l’ilarità negli altri commensali. Unasignora di mia conoscenza, quando trabocca d’affetto, si faimboccare a tavola dal marito, che la chiama, nel contem-po, trasferendo il cibo dal piatto alla sua bocca, con i piùdolci nomignoli: “passerottino”, “gattina”, e perfino “topo-lino mio”.So di persone che non accettano più inviti a cena dalla te-nera coppia per timore di dover assistere a questo rito ali-mentare, che penso sia fondatore del rapporto d’amore trai due officianti.Vengono in mente, ed è molto difficile sfuggire alla tenta-

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zione di chiamarli a paragone, dei comportamenti similiesibiti dagli uccelli durante il corteggiamento. Tra i ciuffo-lotti, l’ho osservato anche di persona, il maschio imboccacon solerzia la femmina, e vedendolo all’opera si ha l’im-pressione che baci interminabilmente la sua compagna.Per quel che concerne la mania del “mangiare nel piatto al-trui” si pensi ai gabbiani: il maschio offre nel becco soc-chiuso del cibo triturato alla femmina, e la femmina lo pre-leva e se ne nutre con profitto. Gli leva, per dir così, il pe-sce di bocca!

L’insetto e’ un play-boy

Quando la femmina di un certo lepidottero Satiride passa,con il suo caratteristico volo a zig-zag, sotto − si fa per di-re − il naso del maschio, questo decolla subito e si dà al suoinseguimento.Poi la bella fuggitiva si posa e il corteggiamento diventadavvero curioso: il maschio atterra a sua volta e compie,davanti a lei, un curioso inchino. Il lepidottero galante con-sente così alla femmi na di mettere in contatto le antennecon due zone odorifere situate sulle pagine superiori dellesue ali anteriori. Solo dopo questo rendez-vous, con effet-ti afrodisiaci, la femmina consente alla copula.La sequenza di azioni è in sé abbastanza rigida da avvalo-rare l’ipotesi di taluni behavioristi che gli animali siano so-lo delle macchine, anche se “super”. Ma è pur vero che tut-te le volte che i sociologi hanno “smontato” qualche com-portamento globale dell’uomo è emerso il fantasma del-

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l’imitazione e dello stereotipo. Insomma, siamo meno libe-ri di quanto crediamo.Un ricercatore americano, Ray Birdwhistell, ha preso inesame il rituale di corteggiamento del ragazzo statuniten-se, e ha potuto accertare l’esistenza di una sequenza di ge-sti predeterminati e poco interscambiabili. Tra il dire e ilfare, tra la prima stretta di mano e l’amplesso, intercorro-no ben 24 passag gi, che devono scorrere in ordine obbliga-to. Si tratta di un “botta e risposta” senza parole: il ragaz-zo che preme la mano della girl sarà autorizzato a incrocia-re le dita con lei solo dopo una contropressione di risposta.Il braccio posto con noncuranza attorno alle spalle della ra-gazza costituisce un progresso; il bacio sulla guancia pre-cede quello sulla bocca e così via. Guai bruciare i tempi! Sirischia di mettere in forse il risultato finale.Inutile dire, lo sappiamo bene, che la farfalla agisce peristinto, e il ragazzo per apprendimento sociale: quel chedesta stupore è che ci sia, nell’insetto e nell’uomo, un ga-lateo, se si vuole un rituale, che deve preludere all’atto ses-suale. Ci vuole sempre un po’ di delicatezza, che diamine!

Kamasutra, con libellule

“Voglio andare a vivere tra cose semplici, naturali”, mi sus-sur rava durante un party una mia amica erborista, decisaad abbandonare il centro storico della sua città per abitarein un cascinale di campagna. Questa affermazione, pensaisubito, contrabbandava come vero un antico pregiudizio, ecioè che le cose naturali siano necessariamente semplici.

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Invece no. È sufficiente che uno si metta a osservare unpoco gli esseri viventi per imbattersi in tortuose strategiedi sopravvivenza.Si pensi al fenomeno della riproduzione. Si sa che l’uomo siè fin dai primordi adoperato per isolare il piacere sessualecome fatto in sé, dando vita all’erotismo e insieme a tuttele pene dell’amore. In quanto all’erotismo, il Kamasutra èla summa di quella che potremmo definire la ginnastica el-littica dell’atto sessuale, e sfido chiunque a imitare “in vi-vo” tutte quelle “figure”. Eppure ci sono degli insetti chenell’acrobatica della copula esibiscono uno straordinario ri-tuale, nel quale la stranez za anatomica si rispecchia nellastranezza del comportamento.Parlo degli odonati, volgarmente chiamati libellule. Tantoper cominciare il maschio di questi insetti presenta l’orga-no destinato alla copula separato, anzi lontano, dallo sboc-co dei genitali. Il pene cosiddetto secondario, e le suestrutture satelliti, atte a immagazzinare lo sperma e ad ag-ganciare la femmina durante l’accoppiamento, si trovanoall’inizio dell’addome, mentre l’apertura genitale vera epropria è prossima alla sua estremità. Ripiegando l’addo-me, contorsionista riproduttivo, il maschio riempie di sper-ma il serbatoio di complemento, ma questa manovra èsemplice rispetto a quelle della copula vera e propria. Lafemmina, afferrata in volo dalle tenaglie addominali delmaschio, deve curvare il corpo sottile fino a mettere incontatto il suo apparato sessuale con quella che potremmoben definire “la banca dello sperma”. Si possono osservare così dei tandem volanti di libellule,che passano sulle acque, disposte in una strana quanto im-

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probabile postura, nella straordinaria posizione, insomma,del loro kamasutra. Che significato biologico riveste questaardua congiunzione sessuale tra due corpi snodabili? Nonci si capisce un bel nulla. Se ne può solo dedurre che la na-tura non è semplice come si vorrebbe.

Scopofilia, per piccina che tu sia...

Siamo perfettamente al corrente che il rapporto Kinsey,una delle più monumentali investigazioni condotta attornoagli anni Cinquanta sulla sessualità dell’uomo e della don-na, è sotto accusa, e che molti scienziati lo considerano da-tato e screditato. Pure, taluni dei suoi capisaldi hanno su-perato la prova del tempo, e sono diventati patrimonio co-mune del sapere sessuologico e, perché no?, etologico.Per esempio, Kinsey sosteneva che per quanto concernel’attivazione del desiderio sessuale, nell’uomo e nella don-na gli stimoli visivi hanno un peso differente. In altre paro-le, l’uomo adopera più l’occhio e la donna l’immaginazione.Noi siamo più guardoni delle nostre compagne, e ci eccitia-mo più dell’altro sesso alla vista delle nudità corporee.D’altra parte, ci si guardi attorno per la strada: i manifestipubblicitari fanno sfoggio di molte signore in déshabillé, esolo raramente fa capolino in costume da bagno un qual-che maschione. D’altra parte, lo strip-tease è una praticaquasi esclusivamente femminile, e le riviste che annovera-no immagini di muscle boys non sono per lo più destinatealla contemplazione delle donne, ma a quella di “guardonialtri”, dediti a piaceri molto particolari.

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Di recente, Davemport ha dato ragione a Kinsey, schieran-do si su di un versante etnologico.Nelle società primitive, egli afferma, il vestito, sia pure suc-cinto, tende più a nascondere i genitali femminili di quellimaschili, sottolineando un loro diverso peso espositivo. Sinasconde quel che più si pregia, e per non provocare è be-ne che quell’oscuro oggetto del desiderio, per dirla alla Bu-ñuel, resti oscuro. Anche nelle scimmie, per lo meno inmoltissime specie, gli stimoli visivi rivestono una notevoleimportanza come segnali per il maschio, e come evocatoridel suo desiderio. Difatti, il posteriore di molte femmine,all’epoca degli amori, presenta zone che si inturgidano eacquistano una colorazione accesa. È, per dir così, il sema-foro dell’amore, e il maschio supera subito l’incrocio.Nella specie umana il volto è diventato, fin dalle origini, lospecchio dell’anima: l’emozione si fa espressione, el’espressione comunicazione.Per questo, forse, l’uomo, al contrario degli animali, fal’amore “faccia a faccia” e se spegne la luce è, come diceJean-Didier Vincent, solo per vedere meglio con la mente.

II verme e le ciccione

Che fatica mantenere la linea, o riacquistarla! Certe signo-re sono, al riguardo, veramente capaci di tutto. Sembra chetalune cantanti d’opera lirica, solitamente di notevole staz-za corporea, e delle mannequin costrette per lavoro a re-stare dei “grissini”, ingeriscano delle “teste” di tenia, il co-siddetto verme solitario, per farsi crescere nell’intestino un

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organismo che “si nutra al loro posto”, facilitando il blocco,o il regresso del peso. Qualcu no mi ha confessato di recen-te che la pratica ripugnante è ancora in uso e io rabbrividi-sco al pensiero di queste gentili signore che se ne vanno ingiro con un mostro vorace di uno o due metri annidato nel-le viscere.È pur vero che ottenuto lo scopo le ingrate se ne liberanoavvelenandolo e inviandone il cadavere, si indovini come,nell’am biente; ma preferirei, dal canto mio, diventare unamontagna di ciccia prima di dare asilo a un così spavente-vole inquilino. La tenia, che mena, come molti parassiti,una vita complicata, passando dal maiale all’uomo, e dal-l’uomo al maiale, è stata oggetto in passato di una curiosadisputa teologica.Il caso del verme solitario è scoppiato nell’ambito dellacontroversia scientifica sulla generazione spontanea e hacoin volto le Sacre Scritture. Se i vermi nascono dai vermi,avevano opinato nel Seicento alcuni filosofi, Adamo, nel-l’Eden, doveva ospitarli già nel suo ventre. Ma le malattienon potevano esserci prima della cacciata dell’uomo dalparadiso terrestre, ed era illogico pensare che Dio avessecreato questi infimi esseri dopo il Sesto Giorno. C’era mol-ta inquietudine nelle anime pie di quel tempo, finché An-tonio Vallisneri, uno scienziato padovano, scese in campo afar luce sulla questione. Adamo, decretò, aveva il suo bra-vo verme nell’intestino, ma il cibo dell’Eden mantene val’invasore in stato di grazia, per cui non dava alcun fastidioal nostro progenitore. Era, per dirla in termini à la page,in simbiosi con lui. Dopo la cacciata, la carne, e gli altri ali-menti terrestri avevano incattivito il verme, trasformando-

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lo in un parassita. Memore dell’Eden, però, continua a be-neficiare, con loro rischio, le ciccione.

Tra moglie e marito

Esiste un proverbio che dice: tra moglie e marito non met-tere il dito, ammonendo ad assistere in silenzio ai conflittidi coppia, altrimenti non si può che peggiorare le cose. Glianimali “di casa” sembrano, in talune circostanze, non con-formarsi affatto a questa aurea massima, restando neutra-li. Difatti, un mio amico, se alterca con una certa violenzacon la moglie, deve chiudere il cane in una stanza contigua,se no l’animale, un pastore tedesco di considerevoli dimen-sioni, si avventerebbe su di lui, prendendo spudoratamen-te partito per la padrona sotto accusa.Al contrario, il mio gatto, un brutto giorno che una mia inquel momento non cara amica mi stava gridando contro,alzando le mani come se intendesse passare a vie di fatto,si è messo a miagolare sordamente, e l’ha graffiata per be-ne. Un gatto guardia del corpo? Direi proprio di sì.In casa Hayes, come hanno raccontato in un loro libro ce-lebre questi coniugi psicologi, le cose hanno avuto un esi-to ben più felice. Gli Hayes, alcuni decenni fa, avevano de-ciso di allevare una piccola scimpanzé, Gua, assieme al lo-ro figlioletto appena nato. Questo allo scopo di vedere seper caso a eguali cure corrispondessero eguali risultati, ese la scimmia potesse subire un processo di umanizzazio-ne, imparando perfino a parlare. Gli esiti furono, nel com-plesso, deludenti: Gua apprese una o due parole, e se al

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principio mostrò delle performance più precoci del suocoetaneo umano, venne ben presto battuta da quest’ul timonell’apprendimento linguistico e nelle manifestazioni co-gnitive.Però, sul piano degli affetti, Gua dimostrò sempre d’essereuna creatura squisita. Per esempio, gli Hayes un bruttogiorno litigarono furiosamente di fronte a lei, si dissero del-le male parole, e ciascuno, crucciato e imbronciato, andò asedersi tutto solo nella stanza. La scimmia, dapprima im-paurita, ci pensò un poco su, poi andò da “lui” e, con millemoine, lo spinse da “lei” mettendo la mano dell’uomo inquella della sua compagna. Gli Hayes scoppiarono a ridere,e rifecero la pace. Per fortuna, la scimmia non sapeva nul-la di certi proverbi.

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Progetti da lombrico

Il 10 ottobre del 1881 compare in libreria l’ultimo libro diCharles Darwin, che tratta delle “gesta” di un animale infi-mo, il lombrico. L’opera era stata, com’era costume del gran-de naturalista, “ruminata” per più di quarant’anni; da quan-do Darwin, reduce dal viaggio sulla Beagle, aveva avuto unapiccola discussione con lo zio Jess a proposito del lavoro chesvolgevano i lombrichi nel prato vicino a casa. Un lavoro dav-vero colossale, come Darwin riuscì poi a dimostrare, perchénon soltanto tutto il terreno vegetale è passato, e passa, at-traverso l’apparato digerente di queste piccole creature, male grandi città del passato sono state da loro “aspirate” nelleviscere della terra e ne sanno qualcosa gli archeologi. Il libro sui lombrichi, che Darwin giudicava “minore”, e cheebbe invece un notevole successo presso i lettori, è un’ope-ra di ecologia a tutto tondo. Da allora, il lombrico non hapiù cessato di tener vivo l’interesse: degli psicologi, peresempio, e si vedano le ricerche di Yerkes; o dei bionici,

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Un poco di bionica

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che si sono ispirati più recentemente a lui per progettareun veicolo robot. Il lombrico ha una struttura particolarmente adatta a muo-versi nel suolo. Il suo corpo è suddiviso in segmenti “sno-dabili” e presenta, all’interno, una cavità piena di sangue incui sono immersi gli organi.Dei muscoli, longitudinali e circolari, in sua dotazione,agendo sulla massa liquida consentono al corpo di model-larsi variamente. Inoltre, la sua estremità cefalica, da veroe proprio siluro terrestre, è capace di esercitare una pres-sione dell’ordine dei 1.000 grammi per centimetro quadra-to, circa otto volte di più della pressione del piede di un uo-mo normale sul terreno.È stato così messo a punto un veicolo-lombrico, destinatoa muoversi sotto terra, o su aree accidentate e impervie. Sitratta di una struttura composta da elementi autonomi,connessi tra loro in maniera lassa, e di volume variabile, ingrado di restrin gersi e di allungarsi a piacimento.Per fortuna dei bionici, i vermi non rivendicano priorità enon riscuotono le royalties!

L’emulo di Edison

Tra tutte le creature paradossali che popolano il continen-te australiano, non è al canguro che spetta la palma dellastranezza, ma sicuramente all’ornitorinco. Questo animaleamante dell’ac qua, che nuota veloce nei fiumi di montagnao negli acquitrini della pianura, è una vera e propria chime-ra zoologica semovente, perché ha il becco di un’anatra e

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come un uccello fa le uova; eppure, bontà sua, è un mam-mifero, perché allatta la propria figliolanza.Sembra che l’evoluzione si sia divertita, come con gli oni-cofori, a mescolare le carte in tavola, e a fabbricare unasorta di fallace anello mancante, fatto apposta per portarealla dispera zione i sistematici, uomini semplici e timorosidelle ambiguità.Ma se le fattezze dell’ornitorinco non cessano di destarestupore, di recente sono state messe in luce alcune sueben più strane peculiarità biologiche, e non è dir poco. Sul-la parte sinistra del becco l’ornitorinco è dotato di un orga-nulo sensibile, anzi ultrasensibile, all’elettricità. Si è capitoperché questi animaletti non riescono a sopravvivere in ac-quario: l’elettricità sfuggita dai motori delle ventole di ossi-genazione li sovrastimola, facendoli impazzire!In natura, l’ornitorinco usa questa sua facoltà per localizza-re le prede, dato che gli esseri viventi emettono segnalielettrici debolissimi, ma non tanto da sfuggire al prodigio-so detector della nostra “anatra-mammifera”. Inoltre, i pic-coli campi elet trici formati dall’acqua in movimento con-sentono all’animale di orientarsi mettendo a punto per luiuna sorta di mappa “elettrotopologica”.Charles Darwin, nel suo viaggio attorno al mondo sullaBeagle, un tre alberi della marina inglese, giunse in Austra-lia il 12 gennaio del 1836. Il grande naturalista notò la ra-refazione dei canguri, che non riuscì neppure a vedere, maebbe la fortuna, durante un’escursione, di imbattersi in ungruppo di ornitorinchi. “Uno degli animali più straordinariche esistano”, annotò nel suo diario. E non sapeva chequella bestiola era un emulo di Edison!

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Le zampe hanno orecchie

Nei film western della mia infanzia, le giubbe blu, in famaa quei tempi di essere “i buoni”, o con locuzione più fami-liare “i nostri”, attraversavano le praterie valendosi di unaguida india na. Questo scout, che si rivelava quasi sempreun subdolo traditore, doveva − retorica di quei film! − direhugh! e compiere alcuni gesti di prammatica, come esplo-rare l’orizzon te proteggendo gli occhi dal sole con la manoaperta o esibirsi in qualche rilievo acustico al suolo. In al-tre parole, alla richiesta del capitano del drappello di appu-rare la distanza e la consisten za numerica dei pellirossa in-seguitori, la guida scendeva da cavallo, si stendeva sulla pi-sta e appoggiava l’orecchio sul terreno, cadendo in unaspecie di stato mistico. Poi, risorto, decretava: cento Siouxa un miglio di distanza!La manovra non era di fantasia: perché davvero le vibrazio-ni sonore si propagano nei solidi più facilmente e più veloce-mente che nell’aria, e ci sono degli animali che odono con ipiedi. Per esempio, è stato dimostrato, con sperimentazionidi laboratorio ben mirate e precise, che gli scorpioni del de-serto, cacciatori notturni, sentono e localizzano la preda,mettiamo un insetto, non con gli occhi o l’olfatto, ma attra-verso le vibrazioni della sabbia, percepite grazie a peli postiall’estremità delle zampe. Lo stesso succede per certe caval-lette sprovviste di organi ad hoc di ricezione acustica ma conpeli che possono, per dir così, “sentir cantare il supporto”.La cosa più straordinaria è che l’ampiezza delle vibrazioniancora percepite dall’insetto può diventare infima, inferioreal diametro di un atomo di idrogeno! Se la faccenda rispon-

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de a verità i peli tattili nelle zampe di questi animaletti com-petono e battono in sensibilità gli strumenti dei fisici.

Antenne d’autore

Durante una conferenza ho esaltato, come nel capitolettopreceden te, gli straordinari poteri dei peli tattili di certi in-setti, abilitati a percepire vibrazioni (davvero infinitesima-li!) del supporto. Povero me, alcuni dei presenti mi hannoaccusato di gonfiare le cose, e di essere in balia di una ve-ra e propria deformazione professionale. In altre parole, dabravo entomologo, tenderei a sovrastimare gli insetti. Pen-so di no, soprattutto perché non è affatto necessario! Que-sti piccoli animali non cessano di stupirci, e di lanciare del-le sfide alla nostra comprensione e alla nostra presunzionedi supre mazia. Si considerino, a suffragio, i messaggi chi-mici che si scambiano certe farfalle notturne.Si metta una femmina di questi lepidotteri in una gabbiet-ta di fil di ferro e si portino alcuni maschi, marcati per po-terli riconoscere, a più di dieci chilometri di distanza (sipuò arrivare fino a 11, a quanto sembra!).Dopo qualche tempo i maschi sono lì, a svolazzare attornoalla gabbietta incantata della bella prigioniera, che li ha at-tirati a sé dalle profondità dell’orizzonte. Ma come? Invian-do un messaggio chimico, un odore, un “feromone” comesi dice in gergo scientifico, in breve una sostanza dotata distraordinaria attività biologica.La femmina lancia il suo messaggio molecolare da una pic-cola ghiandola addominale, e il maschio lo percepisce me-

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diante i sensilli, organuli localizzati nelle sue antenne. Maqui viene il bello: facendo i conti risulta che la piccolissimaquantità di feromone emessa dalla femmina, diffondendosiin un volume atmosferico di 11 chilometri di raggio, subisceuna rarefazione incredibile, si riduce alla concentrazione diuna molecola per metro cubo d’aria. Come fanno i sensillidei maschi a percepire ancora il richiamo della femmina?Non possono essere, come si è sempre creduto, dei sempli-ci organi olfattivi (dei nasi insomma!), ma dei congegni benpiù complicati. Si presume, difatti, che i sensilli funzioninocome degli spettrometri, e che percepiscano così le vibrazio-ni nell’in frarosso della molecola bersaglio! In parole povere,questi organi competono con uno degli strumenti più sofisti-cati dei nostri laboratori. Ma c’è una differenza, a favore del-l’insetto: le sue “macchine” sono microscopiche, mentre unospettrometro, se va bene, ha il volume di una valigetta!

Guerra chimica

Dalla clava primordiale, un femore di antilope, e dall’amig-dala di selce, le armi dell’uomo sono diventate, nei millen-ni, sempre più potenti. Tra le più esiziali, accanto alla pro-verbiale bomba H, ci sono senz’altro i gas, impiegati peròsolo in maniera sporadica. La loro azione subdola e indi-scriminata li ha fatti mettere, per così dire, all’indice, eogni volta che qualcuno osa servirsene si guadagna subitoil biasimo dei popoli. Lo stesso Hitler, inventore e teoricodella guerra totale, non si sentì di metterli in opera neppu-re alle soglie della disfatta, certo temendo, e non a torto, di

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venir ripagato con la stessa moneta! Insomma, i poteri del-le armi, quando sono in dotazione di ambo le parti, si an-nullano, e noi lo sappiamo bene perché viviamo da oltrecinquant’anni in una pace, come disse Winston Churchill,all’ombra dell’atomica.Tra gli insetti, il brachino bombardiere si beffa della con-venzione di Ginevra e fa ampio uso di gas per difendersi daisuoi nemici. Questo esserino di meno di un centimetro,quando messo alle strette, volta le terga al nemico e lo ber-saglia con una sostanza volatile tossica, che esce crepitan-do dal suo posteriore. L’aggressore può cadere in paralisi, osemplicemente fuggire a zampe levate. Non è molto tempoche l’alchimia di questo “meccanismo a biogas” è stata mes-sa in luce, e a pensarci su si resta stupefatti e increduli.Bene, tutto il marchingegno è composto da una vescicarettale in cui sfociano due ghiandole. Una ghiandola secer-ne dell’acqua ossigenata, cosa davvero sorprendente per-ché questo composto dovrebbe aggredire i tessuti organi-ci, e non sembra danneggiare brachino. La seconda ghian-dola secerne un enzima, una perossidasi che scomponel’acqua ossigenata in modo brusco generando calore: più dicento gradi centigradi di temperatura!A questo punto il contenuto della vescicola viene espulsocon violenza all’esterno, a centrare il bersaglio. Sembra chela reazione chimica succitata sia stata impiegata in certipropellenti per i razzi; ed è per questo che il brachino, nelmomento della “scarica”, si aggrappa al terreno per nonpartire come un ordigno a reazione.Ad ogni modo, il nostro insetto è più fortunato di Hitler: luiha il gas, ma i suoi nemici no.

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Il pesce a teatro

Si sa da tempo che certi animali contrassegnano un loroterritorio di riproduzione e lo difendono con accanimentodall’invasione degli intrusi. Il bello è che, in questi scontri,il proprietario la vince sempre sull’usurpatore virtuale co-me se, detto in linguaggio figurato, l’essere nei propri dirit-ti conferisse forza e il sapersi in torto debolezza. Tra i Ci-clidi, pesciolini molto studiati dagli etologi, sono stati os-servati, nel corso di queste beghe di confine, dei compor-tamenti paradossali.Per esempio, quando un ciclide invasore penetra nella zona,per lui proibita, di un altro maschio, procede come se nuo-tasse in un mezzo liquido progressivamente più viscoso, ecioè con velocità decrescente. Secondo l’interpretazione de-gli etologi, si tratta di un’impresa governata da due impulsidi segno opposto: l’aggressività, che spinge avanti il nostroeroe, e la paura che lo tira indietro. Una situazione che ricor-da gli immortali dialoghi tra Tartarino-Chisciotte e Tartari-

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Spazio, densita’ ,aggressivita’

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no-Sancho nel romanzo di Alphonse Daudet (Tartatino di

Tarascona), in cui la parte eroica del personaggio grida: “Ame l’Africa!” e lo scudiere che è in lui invoca la tisana. Insomma, più il nostro ciclide avanza in territorio nemico epiù la paura prevale sull’aggressività. Risultato: il pescioli-no va sempre più piano. In pratica le pinne toraciche, cheobbediscono all’impulso paura, battono all’indietro conmaggiore energia della pinna caudale, che promuove l’in-vasione, innescando un dilemma degno di Amleto.Lo storico dell’arte Ernest Gombrich ricorda infatti che ungrande attore del Settecento, J.J. Engels, descrisse in unasua lettera didattica una situazione conflittuale simile, rife-rendosi al succitato dramma di William Shakespeare. Nellascena in cui il principe danese segue sugli spalti del castel-lo il fantasma del padre, scrive Engels, l’attore ricordi cheil suo personaggio è sotto l’impulso di due emozioni contra-stanti: la brama di andar dietro allo spettro per sapere laverità e la paura di inoltrarsi da solo in un universo scono-sciuto e ambiguo. Per cui il nostro Amleto-ciclide partebaldanzoso, ma più si inoltra nella notta stregata, e più ilsuo passo diventa lento e impedito. Si potrebbe dire che lepinne della paura battono sempre più all’indietro nella suamente. C’è molto da fare per un etologo a teatro.

Il giusto locatario

Anche chi, come me, non nutre una grande passione pergli sport di massa, e non ha assistito spesso a degli incon-tri di calcio, ha sentito parlare di uno strano fenomeno, de-

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finito dall’etologo Desmond Morris, con un certo umori-smo, il “male da trasferta”. In altre parole, succede chequando una squadra di calcio gioca fuori casa perde piùfrequentemente la partita di quando affronti la squadra av-versaria in casa propria. Nel XIX secolo, in Inghilterra, laFootball League promosse delle partite per dodici stagionidi seguito registrando puntualmente i risultati. Dividendoil numero delle vittorie in casa per il numero delle vittoriefuori casa, si ottenne un numero superiore a 1, nella fatti-specie 2,6. Una statistica italiana, ottenuta prendendo inesame le partite giocate nel periodo che va dalla fine dellaSeconda guerra mondiale agli anni Settanta, ha conferma-to il fenomeno, otte nendo una cifra sorprendentemente si-mile a quella inglese: 2,5. Da che cosa dipende il mal di tra-sferta? Sono state formulate molte spiegazioni, come lastanchezza dei giocatori venuti da fuori, ma io credo che laverità sia più profonda, e che si esprima in un disagio psi-cosomatico, dovuto al sentirsi allo scoperto, esuli in unaterra ostile.D’altra parte, gli etologi sanno bene che quando un anima-le territoriale contrassegna il suo spazio vitale, e lo difendedagli intrusi, il legittimo locatario la vince sempre sugli in-vasori, mettendoli agevolmente in fuga. Un solo caso tratutti, quello della Parerge aegeria, una graziosa farfallache vola in prima vera e nella tarda estate.I maschi del lepidottero, all’epoca degli amori, si insedianonei boschi, sulle macchie solari che si formano al suolo tragli alberi. Il maschio che ha occupato per primo un piccolosolarium attira più femmine mentre gli altri, senza un loroposto al sole, hanno meno probabilità di trovare una com-

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pagna. Accade così che qualche disperato tenti l’invasionee l’esproprio. Ma senza successo.L’occupante della macchia solare l’aggredisce rudemente,e i due contendenti si agganciano in un breve volo di lotta.Marcando con un particolare colore i locatari legittimi perpoterli riconoscere, si è scoperto che sono proprio loro cheprevalgono sempre e che riguadagnano lo spazio insidiato.Difatti: giocano in casa.

Il cervo volante e’ cavalleresco

Il filosofo Hobbes pensava molto male dell’universo, e de-gli esseri viventi in particolar modo. Affermava, difatti, chel’uomo e gli animali combattono una guerra di “tutti controtutti”, e che non c’è alcuna pietà per i vinti. Charles Darwinera abbastanza d’accordo con questo punto di vista, la se-lezione naturale non prevede il buon samaritano, ma biso-gna subito aggiungere che taluni dei suoi esegeti, i darwi-nisti sociali, hanno gonfiato ad arte questo coté gladiatoriodell’evoluzione, soprattutto perché lo trovavano conformealla competizione davvero selvaggia che esiste tra gli indi-vidui all’interno della società capitalistica.Tuttavia, se si punta sulla lotta per la vita, e si legittimal’aggressività tra gli individui, diventa pressoché impossibi-le spiegare la nascita dell’altruismo che pure, malgrado tut-to esiste, e consente la convivenza degli uomini. Nel nostrosecolo gli etologi, Konrad Lorenz in testa, hanno messo inluce come gli animali, nei conflitti per il comando del grup-po, e per la femmina, non si comportano affatto, tra i mem-

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bri della stessa specie, come dei gladiatori. Al contrario, gliscontri sono in una certa misura “ritualizzati”; le mosse e lecontromosse risultano tali da limitare il danno reciproco.Anche se questi tornei sono stati osservati per lo più neivertebrati, e messi a fuoco nel XX secolo, in passato la fac-cenda era già stata segnalata, e ricordo tra tutti i precurso-ri un entomologo, Ernst Ludwig Tauschenberg, che è vis-suto nell’Ottocento, ha osservato con fervore, per esempio,i cervi volanti. I maschi di questi coleotteri sono dotati dimandibole enormi e impiegano queste strutture per batter-si con i rivali. Difatti, scrive Tauschenberg, incrociano lemandibole e si mettono a fare una sorta di “braccio di fer-ro”. Finché il più debole non viene rovesciato sul dorso, etutto finisce lì. L’entomologo notò come i due contendentinon si producono alcuna ferita. Se Hobbes avesse studiatoun po’ di entomologia…

La scimmia assassina

Tra le scimmie cosiddette antropomorfe, lo scimpanzé, dalpunto di vista delle capacità sensoriali e del comprendere,è senza dubbio il più simile all’uomo. Si pensa che le sueperfor mance mentali eguaglino quelle di un bambino di cir-ca sette anni. In una cosa lo scimpanzé appariva dissimilea noi, ma in meglio, e non in peggio. Si pensava che fosseun animale quasi esclusivamente vegetariano, dal caratte-re dolce e dalle abitudini pacifiche. Chi non ricorda la Citadi Tarzan?Insomma, gli etologi avevano alimentato il mito della “buo-

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na scimmia”. Se noi siamo Caino, e lo scimpanzé Abele,non avranno avuto ragione taluni a pensare che, dopo tut-to, l’uomo potrebbe essere una scimmia degenerata? Op-pure bisogna met tere in forse le comuni parentele?Scherzi a parte, la triste verità è venuta a galla di recente.Gli scimpanzé non sono vegetariani ortodossi, tutt’altro!Vanno difatti a caccia di altre piccole scimmie, per esempioi colobi, li braccano sugli alberi e li divorano ancora vivi!Questi nostri angelici cugini non sono soltanto cacciatori,ma cannibali. J. Van Lawick-Goodall, che ha studiato lun-gamente le scimmie in libertà, ha potuto assistere a unascena che possiamo soltanto definire atroce. Sembra chetalora gruppi di maschi di scimpanzé intraprendano dellebattute di caccia ai loro simili. Durante queste spedizionimarciano per la foresta in silenzio, contravvenendo alla lo-ro abituale chiassosità e gaiezza. Un brutto giorno un pic-colo contingente di assassini ha sorpreso, ai margini deglialberi, una scimpanzé sola con il suo piccolo. Sono stati su-bito accerchiati, e l’orribile scempio ha avuto inizio. I car-nefici hanno morso a sangue la femmina e sbatacchiato sulsuolo il piccolo. Alla fine hanno fatto a brani ambedue e sisono messi a divorare le carni ancora calde e sanguinanti.Sembra che il fantasma del marchese de Sade si aggirassetra di loro, dato che, eseguendo il massacro, i maschicannibali davano segni di una grande eccitazione sessuale.Che roba! Non ci sono più dubbi: lo scimpanzé è un nostroparente molto prossimo!

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Follia da folla

Mi capita sempre più spesso (siamo in tanti!), di trovarmi,in banca o nel supermarket sotto casa, e frequentissima-mente in autobus, mescolato a una folla di miei simili. Co-me confessarlo? Ho notato che vengo allora posseduto daquella che potrei chiamare un accesso di “follia da folla”; inaltre parole, la presenza di una moltitudine di uomini mimette dapprima a disagio, e in seguito, se la circostanza siprolunga, divento aggressivo. Senza volerlo, come obbe-dendo a un impulso irresistibile, comincio a lavorare di go-mito, per aprirmi una strada e fuggire, e gli spintoni cheelargisco a iosa a chi mi sbarra il passaggio dimostranoquanto io sia divenuto insensibile alle norme della buonaeducazione, in preda a un raptus di aggressività.Sembra, tuttavia, detto a mia discolpa, che il fenomeno siadi ordine generale e che il rapporto di causa-effetto tradensità crescente e aggressività sia stato riscontrato inazione all’interno di molte popolazioni animali. Posso ricor-dare le esperienze di John Calhoun sul ratto albino, che misembrano, al riguardo, le più impressionanti. Questo ani-male, posto in condizioni speri mentali di sovraffollamentospinto, esibisce vistose modificazioni del comportamento.In particolare, quando il numero di indivi dui per metroquadrato diventa elevatissimo, il nostro roditore entra inuna fase che lo scienziato suddetto ha battezzato come “lafogna del comportamento”. In altre parole, l’“essere introppi” scatena nei ratti un’acuta aggressività, per cui noncorteggiano più le femmine, ma le bistrattano, e i maschitendono al sadismo, e si infliggono dei morsi dolorosi alla

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coda. Insomma, la folla li rende furenti, e smantella in loroogni inibizione.Mi è venuto in mente, quando ho riletto Calhoun in cerca diespiazione, che certi polemologi, così vengono chiamati glistudiosi della guerra (ricordo per tutti Gaston Bouthul),hanno sostenuto che gli scontri armati tra le nazioni sareb-bero favoriti dalle alte densità dei popoli coinvolti, e non c’èdubbio che i dittatori, per indottrinare e militarizzare la“carne da cannone” parlano spesso di “spazi vitali” o di nuo-ve terre da conquistare. Forse, si tratta più di un sovraffol-lamento “ideologico” che reale, ma la cosa è irrilevante.Quel che importa è che si cerchi di evocare quella “follia dafolla” che, nel mio piccolo, mi induce, posto in una moltitu-dine, a non rispettare più come dovrei il mio prossimo.

Carnefici e vittime

Certi insetti vanno a caccia di altri insetti per nutrirsene di-retta mente o indirettamente. Da tempo si sa che alcunespecie di imenotteri paralizzano la loro vittima, per esem-pio un grillo, iniettandogli veleno, con sapiente impiego delpungiglione, nei gangli di coordinazione motoria. Su questicadaveri viventi, gli assassini, anzi le assassine, perché difemmine si tratta, depon gono le loro uova. Le larve che neescono hanno la ventura di trovarsi a portata di bocca uncibo vivente, quindi sempre fresco ma inerte, quindi inca-pace di difendersi. Una risposta a misura di insetto al pro-blema della frigoconservazione delle carni!Gli imenotteri pompilidi sono degli stravaganti, che hanno

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deciso di sconfinare dalla loro classe e di eleggere i ragnicome selvaggina per le larve. Una scelta pericolosa, si di-rebbe, perché non sembra facile che gli insetti possano pu-gnalare impunemente con il loro stiletto velenoso dei mo-stri di otto zampe dotati, a loro volta, di strumenti di offe-sa formidabili. Ma la natura ha i suoi misteri, e sembra cheil pompilide sia depositario di una meravigliosa capacità distupefare, e ne fa uso senza risparmio.Il fatto ha suscitato meraviglia tra i biologi: si pensava che lacollaborazione tra la vittima e il suo carnefice, tra il tortura-to e il suo boia, di cui ci ha parlato con eloquenza Jean-PaulSartre, fosse un fenomeno squisitamente umano. Perché, adire il vero, la selezione naturale non consentirebbe di pre-vedere nulla di simile. Invece, il ragno sembra collaborarecon il pompilide alla propria perdita, o per lo meno non famolto per eluderla.William S. Bristow ha introdotto in un tubo di vetro, cheospitava un ragno (Artosa peiita), un pompilide (Pompi-

lius plumbeus), il suo nemico di sempre. Che spettacolo!Invece di avventarsi sull’intruso e farlo a pezzi, il ragno ècaduto in preda a una mortale esitazione. Quando poi l’an-tenna vibrante dell’insetto lo ha toccato, l’esitazione si ètrasformata in una sorta di stupore catatonico. Il ragno haassunto una curiosa, anormale postura e ha permesso alsuo persecutore di colpirlo a beneplacito con il suo aculeoavvelenato, mutando la catatonia in catalessi, e un corpovivo in uno zombi pronto a farsi divorare dalle larve.Parlavo prima di Sartre, ma ora penso di nuovo a FriedrichNietzsche. Mi chiedo se, anche in questo caso, si possa “at-tribuire” ai ragni l’amor fati.

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Fissare e’ sfidare

Tutti abbiamo sperimentato, una volta o l’altra, il fastidioche si prova quando uno sconosciuto si mette a fissarci in-tensamente e a lungo. Tendiamo, dapprima, accertato losguardo indiscreto, a distogliere gli occhi, a far finta diniente. In seguito, se l’altro continua a prodigarci la sua at-tenzione, sentiamo crescere in noi un’irritazione sorda, e cimettiamo a fissarlo, con sfida, a nostra volta.In altri casi, per esempio quando stiamo rimproverandoaspramente un figlio, se il reprobo, investito dalle contu-melie, alza gli occhi, e ci fissa con fermezza, ci sentiamopunti nel vivo e interrompiamo ogni discorso per gridare:“Abbassa quegli occhi, subito!”. Il bello è, per l’etologo, chequesta sensazione che fissare è sfidare, risale direttamen-te alle nostre più vicine ascendenze animali.George B. Schaller, lo abbiamo già chiamato in causa, è unostudioso di scimmie antropomorfe, che ha passato 457 oreinsieme a un gruppo di gorilla sulle pendici dei vulcani Vi-runga, nel Parco nazionale Albert. Tollerato da queste gran-di scimmie che, al di là delle fantasticherie alla King Kongsono ben poco aggressive, Schaller andava e veniva a piaci-mento tra di loro, ed era riuscito perfino a dormire insiemeai grandi maschi dominanti, i gerarchi della tribù.Solo, bisognava stare bene attenti a non infrangere alcunenorme del viver civile gorillesco.Guardare fisso negli occhi un vecchio maschio, con il pelodel dorso sfumato d’argento, significava dar prova di un’in-tollera bile impudenza, ridestando nel pacifico bestione, didue quintali di peso e di due metri di altezza, una certa

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propensione allo scontro fisico. A Schaller non sembravaconveniente prendersi una sberla! Per cui, accertata la cir-costanza, scelse la via della modestia: se ne andava semprein giro tra i gorilla a capo chino.

Erode e’ un langur

Ho l’impressione che gli etologi classici, Konrad Lorenz intesta, siano stati spesso, loro malgrado, vittime di quelloche potremmo chiamare “il complesso dell’Eden”. Tuttiquei lupi cavallereschi, che risparmiano il rivale sconfitto elo lasciano rientrare incolume nel gruppo, o quei cervi ma-schi che, all’epoca degli amori, “incrociano”, per dir così, lecorna in un torneo che non prevede esiti mortali, hanno fi-nito per escludere la violenza e la crudeltà dal mondo ani-male, dove ciascuno, al contrario di noi, amerebbe il pros-simo suo come sé stesso.Gli etologi non avranno, per caso, sostituito al mito del“buon selvaggio” di Jean-Jacques Rousseau il mito del“buon animale” di Konrad Lorenz? Solo gli uomini sareb-bero capaci di essere malvagi con i propri simili? In realtà,le cose sembrano andare un po’ diversamente. Per esem-pio, qual è il crimine che suscita tra di noi più orrore? Èpresto detto: l’uccisione dei bambini. Erode è l’allegoriadell’infinita crudeltà del cuore umano, e il generale Geor-ge Armstrong Custer ha perduto la simpatia di tutti quan-do, dissolta l’aureola di eroe che gli aveva posta in capoJohn Ford, si è scoperto che i pellerossa l’avevano sopran-nominato killerbabies per talune sue imprese.

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Sembra che in carcere i massacratori di bambini venganorifiutati dai compagni di cella, che magari sono dei delin-quenti incalliti, e degli assassini, è pur vero: ma di adulti!Bene, anche tra gli animali vengono perpetrate atrocitàsull’infanzia.Il caso più conosciuto è quello dei langur, scimmie che vi-vono in India. Quando un maschio diventa dominante, met-te in pratica senza indugi, come consuetudine, una vera epropria “strage degli innocenti”. Difatti, uccide senza pietàtutti i piccoli del gruppo, e dal momento che l’eccidio com-porta la ripresa dell’estro nelle femmine, si adopera per fe-condarle l’una dopo l’altra, conseguendo una discendenzaesclusivamente legittima. Una ragione dinastica non dissi-mile da quella di Erode!Tra i gabbiani, invece, quando un piccolo si allontana daigenitori, gli altri componenti del clan lo castigano senzapietà, ed è stato calcolato che talora il 20 per cento deinuovi nati perisce per mano, anzi per becco, dei suoi simi-li. La natura, insomma, non è precisamente come vorrebbeWalt Disney.

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Il pinguino ci guarda

Talora, mentre pianto un chiodo nel muro di casa mia perappendere un quadro o quando, forse ancor più raramen-te, faccio un po’ di ginnastica da camera gridando hop!

hop!, allorché, insomma, mi comporto in maniera incon-sueta, scopro che il gatto mi osserva. Sta lì, sul divano, congli occhi sgranati e una espressione, lasciatemi dir così, trala meraviglia e la curiosità. Mi viene il dubbio, allora, che dasempre ci siano nell’appartamento due etologi a confronto:un uomo che cerca di capire un gatto... e viceversa.Non voglio affermare che il mio gatto si interroghi sui mo-tivi filosofici del mio comportamento, ma è certo che la be-stiola si adopera per interpretarne il significato. Tutto quelmio gestico lare non sarà il prologo di qualcosa di impreve-dibile e di pericoloso? La sopravvivenza di un animale di-pende anche dalla sua capacità di fare qualche piccola pre-visione, e di mettersi con un ragionevole anticipo “in allar-me”.

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Delfini, pinguini,topi e molti altri

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La sensazione di venir posto dagli animali “alla gogna eto-logica” l’ha provata anche Cherry Kearton, un naturalistaavventuroso che ha studiato i pinguini per molti mesi suuna sperduta isoletta dell’Antartico. Si pensi che su questogrumo di terra, dell’ampiezza di circa sette chilometri qua-drati, approda, all’epoca degli amori, un popolo di alcunimilioni di pinguini! Questi uccelli, inetti al volo, ma formi-dabili nuotatori, e pesca tori subacquei, hanno cominciatosubito a frequentare l’ornitologo, entrando a piacimentonella sua tenda. Ero io che studiavo i pinguini, si è doman-dato a un certo punto Kearton, o erano loro che osservava-no un esemplare della nostra specie? In tal caso, concludetra il serio e il faceto, spero di non aver fatto fare una cat-tiva figura agli uomini.

Il delfino e’ di scena

Se è vero, come ha scritto Johan Huizinga, grande storicodel Medioevo, che l’uomo è un animale ludens, in altre pa-role un giocherellone, i suoi compagni di viaggio sul piane-ta, gli altri animali, non gli sono da meno e praticano, a lo-ro volta, questa attività apparentemente superflua. Dicoapparentemente, per ché non tutti sono d’accordo nel con-siderare il gioco una sorta di “ozio ricreativo”, ma gli asse-gnano dei compiti biologicamente più importanti, comel’anticipazione, e l’allenamento, a talune funzioni.Per loro il gattino che insegue la pallina da ping-pong sta-rebbe dando la caccia al suo topo futuro. Ma in certi casi ilgioco è certamente fine a sé stesso, e costituisce, come

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suol dirsi, un premio in sé. Nei delfini, che hanno un cer-vello grande quanto il nostro, il gioco può assumere, difat-ti, perfino le forme di una “presa in giro”, o di uno “sfottò”.Un tursiope troncato era stato allevato in una grande vascainsieme a una foca. Bene, nei momenti di relax, e possiamoben presumere di allegria, il delfino burlone “faceva il ver-so” alla sua compagna, e cioè ne imitava il comportamen-to. Si metteva nella posizione di riposo della foca, stenden-dosi di fianco sulla superficie dell’acqua, oppure nuotava“alla fochese”, spingendosi avanti con le pinne e tenendoben ferma la coda. Simulava perfino le operazioni di puliziadella sua amicona, sfregandosi il ventre con le pinne. Manon solo la foca era oggetto di lazzi per il nostro tursiope.I sorveglianti dell’acquario non sfuggivano alle sue imita-zioni. Dopo aver visto uno di loro che, immerso, ripuliva ilvetro di un oblò laterale della vasca, il delfino, con una pen-na di gabbiano in bocca, si mise a fingere di ripulire lo stes-so oblò dalle alghe. E perché la commedia fosse più reali-stica, l’animale, nel corso della recita, emetteva a tratti deisuoni simili a quelli che sfuggivano dalla valvola del respi-ratore del subacqueo e, se non bastasse, si lasciava dietrouna scia di bollicine d’aria.Questo comportamento non è solo gioco puro, ma va al dilà del gioco, e diventa teatro. D’altra parte, chiunque abbiaassisti to, in un grande acquario, a uno spettacolo con del-fini ammaestrati, non nutre più dubbi sul fatto che questicetacei siano davvero degli ottimi attori. Come tali sonoanche molto sensibili agli applausi.

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Il beluga burlone

Lo confesso, non sono imparziale: mangio senza rimorsi unavongola, ma ho già qualche problema con un coniglio. Conun gatto, poi! Penso che non ce la farei mai a papparmelo,anche se messo alla fame. Il fatto è che conosco “di perso-na” le qualità di pensiero di un gatto, e ho sperimentato datempo, vivendo insieme a questi animaletti inquietanti, chei loro processi mentali, e la loro affettività, ci tallonano da vi-cino. Il gatto ci somiglia troppo perché servirlo in tavola nonrisulti, alla fin fine, un vero e proprio atto di cannibalismo.Qualcuno mi ha raccontato una sera, per provocarmi, Dioci salvi dai commensali aggressivi!, che tra le delizie gastro-nomiche offerte dalla cucina ligure esiste un piatto ignobi-le, a base di carne di delfino. Inorridisco al solo pensiero,perché se il gatto è, per dir così, abbastanza intelligente, ildelfino è umano, troppo umano! Pensavo a questo alcunigiorni fa nell’acquario di Vancouver, che ospita dei delfinibeluga, quelli tutti bianchi, che sono degli autentici fanta-smi dei mari. Uno di questi spettri gentili era ancora piut-tosto giovane, e come tale si dimostrava propenso al gioco.Lo credereste? Preferiva giocare con i suoi coetanei umaniin visita all’acquario, piuttosto che con i loro genitori. Lecose andavano più o meno così: quando un gruppo di bam-bini vociferanti si accostava all’orlo della vasca, il beluga fa-ceva capolino in superficie, inghiottiva dell’acqua e la ri-sputava, con un getto parabolico, contro di loro. I bambinisi mostravano deliziati a quell’invito al gioco e correvanolungo la vasca ridendo, mentre il delfino li inseguiva conti-nuando a innaffiarli per bene.

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Sopra tutto, le sue performance da pompiere improvvisatoerano dirette contro uno dei giovani energumeni, vestito diuna tuta vistosa, che sbraitava più di tutti. Alla fine, il gio-co si è mutato in una sfida a due: il bambino si allontanavadalla vasca, per ricomparire d’un tratto in un punto qual-siasi, e il beluga stava sott’acqua e appariva fulmineo ten-tando di centrare per bene il bersaglio mobile. Tra i visita-tori ha cominciato a serpeggiare una sorta di commossostupore. Ho pensato, allora, che in loro, e sopra tutto inquel bambino, era di sicuro morto ogni possibile mangiato-re di delfini.

Il topo e il cioccolato

Forse, quella mela che cadendo dal ramo per eccesso dimaturazione suggerì a Isaac Newton la teoria della gravita-zione universale, o quella lampada che oscillando in chiesamise Galileo Galilei sulla pista del movimento pendolare,sono fantasticherie popolari, forme di quella “leggenda au-rea” che trasfigura nei secoli le biografie dei grandi uomini.A parte questo, è pur vero, e lo sottoscrivo, che la ricercascientifica trova sovente ispirazione nelle occasioni dellavita quotidiana, e il caso dello psicologo animale John Gar-cia, che sto per chiamare in causa, suffraga, anche se inmaniera minore, questa mia convinzione. Sembra che lamadre del nostro Garcia fosse, da bambina piccola, ghiottadi cioccolato, e che una volta, in procinto di salire su di unferry-boat che doveva portarla coi genitori al di là di un la-go, avesse divorato un pezzo di questa leccornia. Subito

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dopo, salita a bordo, i movimenti della nave le avevano pro-curato un bel mal di mare, con nausea, vomito e quel chesegue! Bene, la cosa aveva scatenato, e fissato, in lei unodio insuperabile per il cioccolato.Un caso di condizionamento alla Pavlov, ottenuto sponta-neamente? John Garcia si mise all’opera per capire il disgu-sto materno e pervenne a conclusioni di estremo interesse,perché contraddicono Skinner e la sua scuola. Nel sensoche il condizionamento di un animale presenta dei limitiche potremmo chiamare propriamente biologici. Per esem-pio, appurò Garcia, se date a un topo un certo cibo e lo pu-nite, per dissuaderlo ad alimentarsene in futuro, con picco-le scosse elettriche, non otterrete alcun risultato apprezza-bile. Solo se il cibo viene associato con un senso di nausea,indotto con farmaci o con piccole irradiazioni di raggi X,siete sulla strada buona. In altre parole, la madre di Garciaaveva perduto ogni propensione per il cioccolato proprioperché il mal di mare aveva associato la nausea al consumomentre, con ogni probabilità, una scarica elettrica, o un al-tro evento similmente sgradevole, non avrebbero per nullafatto insorgere la ripugnanza. L’evoluzione, insomma, ha lesue regole, che non prevedono alcun rapporto di causa edeffetto tra un elettroshock e una caramella.

Uomini e topi

A proposito delle esperienze di psicologia sugli animali,Bertrand Russell, un pensatore ricco di humour, ha scrittoche spesso i soggetti sperimentali, topi o scimmie che sia-

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no, si comportano secondo le convinzioni preconcette, eperfino le caratteristiche nazionali, degli scienziati all’ope-ra su di loro! Per esempio, gli animali studiati dagli ameri-cani (memori dei pionieri?) si muo vono senza tregua, dan-do prova di grande energia e ardore, conseguendo il risul-tato quasi per caso, mentre quelli osservati dai tedeschi(proclivi alla metafisica?) se ne stanno buoni buoni in me-ditazione, risolvendo i problemi come per improvvisa illu-minazione interiore.La circostanza sembra essere qualcosa di più di una sem-plice battuta di spirito e le esperienze di Rosenthal e sociconvalidano con i fatti il sarcasmo epistemologico di Rus-sell. In altre parole, più sovente di quanto sarebbe lecito, losperimentatore trova quel che cerca. Difatti, date a duegruppi di psicologi dei topi scelti a caso, ma dite al primogruppo che gli animali sono abili a districarsi in un labirin-to, e al secondo gruppo che gli animali sono del tutto inet-ti alla bisogna, e passerete di sorpresa in sorpresa.I topi presunti intelligenti dai loro gestori sperimentali sicomporteranno come tali, mentre gli altri, bollati di stupi-dità, la renderanno, con il loro comportamento, palese einequivocabile. Eppure, erano stati scelti a caso! SecondoRosenthal la spiega zione del pasticcio è rintracciabile nelrapporto uomo/topo. I topi millantati come dei piccoli Ein-stein vengono, durante tutta la prova, trattati con gentilez-za e simpatia − sono tanto intelli genti! −, mentre gli altri,creduti tonti, sono trattati sbrigativamente e per dir così: acalci nel sedere. Bene, sono come tu mi vuoi... la cortesiaaguzza l’ingegno, e viceversa.

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Per amore di un topo?

Qualcuno mi accusa, talora, di non nutrire molta compren-sione per gli zoofili. Forse è proprio così. Tempo fa, a un di-battito di ecologia, una signora, se non sbaglio in giacca dipelle, mi ha rimproverato di aver detto nel corso di una tra-smissione televi siva che tra salvare la vita di un gatto (ani-male che io amo tanto!) e quella di un bambino avrei scel-to senza esitare il bambino. Amo gli animali, ho risposto,ma non li antepongo ancora agli esseri umani. Certo, nonposso escludere in futuro che incon trando molte signorecome la mia accusatrice potrei anche cambiare idea.Scherzi a parte, sarò antropocentrico finché si vuole, manon rinuncio per ora ai miei simili, e tuttavia si vorrà rico-noscere a mia discolpa che ho fatto abbastanza, scrivendoe riscrivendo, perché si cominci a considerare gli animalidei nostri compagni di strada, dei fratelli minori, e non del-le macchine o delle cose. Penso che l’amore per gli anima-li debba fondarsi non sulla proiezione, malfido miraggio,che attiva nel pechinese il fanta sma di un figlio non avutoe desiderato (se ne adotti uno vero, semmai) ma sulla co-noscenza che insegna l’amore per la di versità.Per spiegarmi meglio voglio raccontare un fatterello che miè successo tempo addietro. Avevo parlato, in una sera neb-biosa e in uno sperduto paese, a un pubblico di insegnantie di curiosi, di etologia, soffermandomi un poco sulla sag-gezza dei ratti. Più tardi, mentre venivo trasferito in auto-mobile, pieno di sonno, al mio albergo, l’assessore che gui-dava frena bruscamente. Lo interrogo e lui mi dice: “Sa,professore, c’era un topo sulla strada, ma dopo quello che

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lei ha detto...”. È vero: un topo, come oggetto d’amore, nonè il più adatto, però...

Il pappagallo non sa il tedesco

Un mio amico possedeva un pappagallo, di nome Coco, chenon esito a definire geniale. Difatti, quando uno sconosciu-to entrava in casa, e si avvicinava al suo trespolo, Coco glidomandava perentorio: “Come ti chiami?”.La cosa davvero straordinaria era che certe volte, se l’in-terpellato rispondeva a vanvera, dicendo magari: “Fuori stapiovendo”, il pappagallo si mostrava insoddisfatto, e conti-nuava a esigere il nome. Come se, nella risposta, avessepercepito qualcosa che non andava, o forse, pensavo io, unsottile tono di scherno che lo lasciava perplesso.Purtroppo, un anno dopo il nostro incontro, Coco passò amiglior vita, e il suo padrone anche, impedendomi di faredelle osservazioni o una intervista più approfondite in me-rito.È sicuro, a ogni modo, che Coco “riconosceva” il proprionome, e dava evidenti segni di attenzione quando questoveniva pronunciato in sua presenza, anche, si badi bene, senon ci si rivolgeva a lui.Al contrario, un cagnolino di dubbie ascendenze, chiamatoPippo, che allietò la mia infanzia, rispondeva al suo nomeregolarmente, ma è indubbio che il tono della voce avevauna importanza primaria.Difatti, lo chiamavamo, o lo sgridavamo, con una voce unpo’ in falsetto, come spesso si fa con i bambini molto pic-

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coli, e l’adozione di questo registro fonetico informava ilcagnolino che lo stavamo tirando in ballo. Il suo nome, pro-nunciato con un tono volutamente diverso, evocava nel-l’animale solo una certa inquietudine. Come se capisse enon capisse nello stesso mo mento.Certo, anche per noi, la maniera con cui si pronuncia unaparola partecipa attivamente alla sua comprensione. Ben-ché si tratti di un fenomeno un po’ diverso, si pensi al par-lare in una lingua straniera.Mi rivedo su un tram di Monaco di Baviera, totalmente di-giuno della lingua tedesca. Tento di sapere dal conducentequal è la prossima fermata. “Hüberplatz?” gli chiedo. Miguarda attonito. Ripeto allora la domanda. È ancora piùperplesso. D’un tratto, il suo volto si illumina “Hüberplatz?Oh, ja, ja!”. Non avevo, forse, detto lo stesso? Ma “come”l’avevo detto?

In barba a Chomsky

L’uomo si crede da sempre, e si millanta, il solo essere do-tato di intelligenza, e secondo alcuni pensatori e semiologil’intelligen za e il linguaggio sarebbero la medesima cosa. Sisa che i pappagalli possono imparare a parlare (per imita-zione, si dice; e l’uomo come fa?), ma subito gli psicologianimali hanno decretato che il povero Loreto parla, perl’appunto, “da pappa gallo”. Non capisce, insomma, il signi-ficato delle parole che pronuncia. Ma sarà vero?Di recente, Alex, un perrochetto del Gabon, ha smentitoquesto pregiudizio, perché si è messo a colloquiare “a sen-

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so” con la sua padrona, una signora americana di nome Ire-ne Pepperberg. Convinta delle pregevoli performance in-tellettuali del suo Alex, la detta signora ha ideato una ma-niera per renderle palesi. La manovra ha preso il nome di“tecnica del rivale”.Vediamo un po’ di che cosa si tratta: due persone si metto-no davanti al trespolo del pappagallo e, fingendo di non cu-rarsi affatto di lui, giocano “alla cosa e al nome”. Per esem-pio, uno dei due mostra una banana e l’altro dice: banana!Se sbaglia viene aspramente rimproverato, e se per più vol-te ci azzecca riceve la leccornia in premio. Dopo un po’ ilperrochetto si stufa di starsene in disparte, e comincia a ri-valeggiare con quello che pronuncia i nomi delle cose esi-bite, e risponde prima di lui. Da quel momento dirà bana-na ogni volta che la vede, o che la chiede, e sembra cosìche Alex sia uscito dalla sua condizione di pappagallo e ab-bia perfettamente capito il rapporto tra il significato e il si-gnificante, tra la parola e la cosa. Inoltre, ha appreso perfi-no a dire sì e no secondo le circostanze.Le barriere linguistiche tra l’uomo e l’animale si stannosempre più assottigliando: e c’è chi ha tentato di insegna-re l’inglese ai delfini, e c’è chi comunica con gli scimpanzé,o con gorilla, attraverso scritture sintetiche composte daparole/oggetto, oppure mediante il linguaggio gestuale deisordomuti americani. Ora anche i pappagalli, in barba aNoam Chomsky e a tutti i semiologi antropocentrici, si so-no messi a parlare come noi.

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Come Barbanera

Le api, lo sapeva bene anche l’uomo preistorico che le de-predava, accumulano nei loro favi il nettare raccolto suifiori e lo trasformano in miele. Dunque, mettono via del ci-bo per consumarlo più tardi. In altre parole, è come se pre-vedessero dei bisogni futuri, e prendessero le misure ne-cessarie per fronteggiarli. Ma l’ape fa, perché sa?È una domanda di difficile risposta, perché la previsioneprevede il pensiero, e il pensiero sembra appannaggio dianimali con un cervello ben più grosso del cervello dei no-stri imenotteri che pure il grande Darwin definiva uno de-gli atomi di materia più straordinari del mondo. In effetti,l’istituzione di depositi di cibo è una pratica non infrequen-te tra gli animali e, in taluni casi, è stata anche estesamen-te studiata.La nucifraga columbiana, per esempio, è un uccello ameri-cano che, nell’autunno, quando si approssima il tempo del-le “vacche magre”, mette via uno stock di ben trentamilasemi disponendoli in piccoli gruppi, da due a cinque, in na-scondigli opportuni. Mille depositi assicurano al previden-te animale una sorgente di cibo da sfruttare a fondo nelcorso dell’inverno. Si tratta di una vera e propria assicura-zione per la sopravvivenza e la nucifraga supera la cattivastagione dedicandosi intensamente alla “caccia al tesoro”.Come fa a ritrovare i suoi depositi? Sembra che l’uccellosappia con una certa esattezza dove si trovano i semi im-boscati, e li recuperi con facilità. Il rinvenimento non è acaso, e a quanto pare non intervengono degli stimoli-guidaolfattivi. Questo è stato accertato mettendo in una gabbia

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sperimentale dei semi nascosti vicino a quelli sistemati inprecedenza dall’uccello che, rimesso in loco, trovava facil -mente i suoi e trascurava gli altri.Insomma, l’animale doveva essersi formato, nel cervello,una mappa, più valida di quella stilata su pergamena dal pi-rata Barbanera, e la impiegava per ritrovare i propri tesori.Difatti, facendo variare il “paesaggio”, cambiando il postodi quell’arbusto, o spostando più a destra quel sasso, la nu-cifraga mostrava sempre segni di spaesamento, come se iconti non gli tornassero più. A ogni modo, se metter via si-gnifica prevedere, e se prevedere equivale a pensare, glianimali pensano.

Il piccione sa contare

L’etologo, come tutti gli altri scienziati, si sforza di essereal di sopra delle proprie convinzioni, ma ci riesce raramen-te. Chi studia gli animali è di solito antropocentrico, e dif-fida di Charles Darwin, o zoocentrico e giura a mano aper-ta sulla realtà dell’evoluzione. L’etologo della prima corpo-razione ideologica, non saprei come meglio chiamarla, spe-rimenta sugli animali nel segreto intento di trovarli stupidie affermare, di conseguenza, che l’uomo è il solo essere ve-ramente intelligente del pianeta, mentre l’etologo procliveall’animalità, che io trovo più consono ai miei gusti, si de-dica al suo insetto, o alla sua scimmia, tentando di dimo-strare, dati alla mano, che noi non siamo affatto i soli esse-ri pensanti e che tra i processi della nostra mente e quellidella mente di un cane esiste una differenza, è certo, di

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quantità, ma non di qualità. Anche il cane pensa, ricorda,sogna, soffre e sicuramente ama, anzi: bontà sua, ci ama!Questi etologi dissacratori, che si mettono dalla parte deglianimali, non si arrestano davanti a niente, e taluni di lorohanno alimentato perfino l’idea che gli uccelli siano in gra-do di accedere ai mondi supremi del numero e della mate-matica, seppure elementare. Negli anni Trenta uno psico-logo di nome Arndt aveva stabilito un rapporto di amiciziastretta con un piccione, da lui battezzato Nichtweiss, più omeno Passobianco; e l’aveva addestrato a mangiare dei se-mi disposti in fila e a fermarsi alla quinta beccata. Posto inseguito tra due file di semi, l’una di due e l’altra di ventitré,l’animale pitagorico cominciò a praticare una curiosa ars

combinatoria, scegliendo ora a destra, ora a sinistra, ma,(si badi bene!), mantenendosi fedele alla sua dieta a “cin-que punti”. Insomma, era capace di sommare?Successivamente dimostrò di conformarsi al mandato delsuo istruttore anche se, tra una beccata e l’altra, intercor-reva la dilazione di sessanta secondi. Delle esperienze piùrecenti hanno confermato, e messo in dubbio, questa facol-tà numerale degli animali, ma sostanzialmente si è perve-nuti all’idea che questi nostri compagni di strada siano ca-paci di pensare senza parole e, come ha scritto Koehler, dicontare senza nominare i numeri.

Il piccione mistico

Dire che cos’è la superstizione non è cosa facile, perché lafaccenda in sé, e la parola che la indica, sono molto ambi-

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gue e di difficile interpretazione. Si può tifare per l’idea, dimarca positivista, che la superstizione sia formata da con-vinzioni maturate nell’ambito del pensiero magico, e bendecise, queste convinzioni, a sopravvivere in piena epocascientifica.Per esempio, il pensiero magico, simile in questo al pensie-ro nevrotico, se vogliamo dar credito a Sigmund Freud, ali-menta la convinzione che il simile chiami il simile, e che diconseguenza trafiggere con un ago la fotografia di una per-sona odiata significhi, per risonanza, fargli del male davve-ro, e cioè nel corpo. In altre parole, la superstizione trar-rebbe forza dalla credenza in un nesso causale tra due fe-nomeni, nesso che sarebbe inesistente, per quel che valel’esperienza scientifica. Il comportamento superstizioso ègeneralmente ritenuto appannaggio esclusivo della nostraspecie. Alcune esperienze dei behavioristi americani, Skin-ner in testa, starebbero però a dimostrare proprio il con-trario. Anche gli animali possono dar segno di superstizio-ne. Difatti, prendete un piccione e, qualsiasi cosa stia fa-cendo, fate piovere nella sua gabbietta dall’alto un chiccodi grano. Dopo, a intervalli regolari di tempo, ripetetel’elargizione. Bene, il piccione comincia a ripetere in ma-niera coatta l’azione che ha provocato, così sembra “crede-re”, la caduta della manna. Al momento del primo chicco sigirava a destra? Continuerà a farlo, perché ha intuito unnesso causale tra quel movimento e il dono degli dei. Gira,rigira, e comincia, forse, a sognare un elargitore onnipoten-te.

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Il piccione migratore

C’era una volta, in un tempo non molto lontano, un uccel-lo volgarmente noto come il piccione migratore − per lascienza Ectopistes migratorius − che viveva e prosperavafelicemente nel Nord America, in un ampio areale checomprendeva il Canada meridionale e parte degli Stati Uni-ti, popolando la Virginia e il Mississippi. Come migratoreera un irregolare, ma la maggior parte degli individui, persfuggire ai rigori invernali, si spostava in grandi masse ver-so le terre limitrofe al Golfo del Messico. In grandi masse,ho detto, perché il contingente numerico di questo piccio-ne era, a dir poco, immenso: gli alberi delle foreste, suo ha-bitat preferito, si schiantavano sotto il peso dei nidi e agliinizi del secolo scorso alcuni osservatori avevano stimatodelle orde di più di due miliardi di individui. Gli indiani sinutrivano da sempre di questo uccello, dalle carni moltogradevoli, ma i loro prelievi erano discreti e assolutamentenon distruttivi.Ma, come ha scritto Ernest Hemingway, i continenti invec -chiano presto quando arriva l’uomo bianco, sopra tutto searmato di doppietta. I fucili cominciano così a tuonare:“sporti vamente”, si abbattono centinaia di uccelli non perscopo alimentare, ma per mostrare la propria bravura, emigliaia di cacciatori fanno il tiro a segno lungo le vie di mi-grazione. Ben presto si passa alla distruzione dei nidi, e ilgioco è fatto. Nel 1909 viene promessa una ricompensa di1.500 dollari per chi segnali una coppia − una sola! − nidi-ficante. Nessuno si presenta a riscuotere il premio. Cam-pione unico della sua specie, su perstite della grande mat-

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tanza, l’ultimo Ectopistes migratorius muore cinque annidopo nello zoo di Cincinnati.

L’albero del fulmine

Amo gli animali, e sono convinto da sempre della loro in-telli genza, dimostrata dalla loro indubbia capacità di farfronte a situazioni nuove, e di superare spesso brillante-mente le emer genze. Tuttavia, ci sono dei casi in cui le lo-ro abitudini eredita rie, in altre parole i loro comportamen-ti istintivi, si scontrano con delle novità “ambigue”, cheevocano risposte spesso pregiudizievoli all’individuo e allaspecie.Ben nota al riguardo la circostanza che i ricci europei, po-sti di fronte a un pericolo in veste tecnologica, e cioè allaminaccia di un’automobile in rapido avvicinamento, reagi-scono “come sempre” e, ahimè!, soccombono. Mi spiegomeglio: un riccio, quando si imbatte in un predatore, nonsceglie la via della fuga ma, messo alle strette, si appallot-tola mutandosi in un ben difeso portaspilli, diventando inlarga misura invulnerabile. Ma se questo comportamento,con una volpe, può avere successo, appallottolarsi in mez-zo a un’autostrada per difendersi da un tir che sopraggiun-ge è la cosa peggiore che il piccolo riccio possa fare. Ahi-mè, l’evoluzione della sua specie non ha previsto, per lomeno non ancora, l’esistenza di veicoli semoventi su quat-tro ruote! La risposta “felice” diventa “infelice”, e mal con-sigliati dalle loro abitudini i ricci sono sulla via dell’estinzio-ne.

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La stessa cosa è accaduta, tempo fa, a un orso bruno fug-gito da una gabbia dello zoo di una cittadina presso Lon-dra. Turista in questa metropoli, ho assistito alla scena, an-gosciosa, ripresa da una televisione locale e messa in ondacon le notizie della sera. Dunque l’orso, dopo essere evaso,si era dato a correre per i campi, inseguito da un nugolo dipoliziotti e di guardiani dello zoo, che agitavano reti e cor-de, in un bailamme non privo di umorismo. Bene, un orsoperseguitato, se sente che i suoi inseguitori fanno progres-si, che cosa crede sia meglio? Per esempio, salire fino allasommità di un albero. Ma da quelle parti della campagnanon c’erano alberi, ma sì: c’erano, ma per dir così: ridotti al-l’osso. Intendo dire, trasformati in pali della luce.Suppongo che abbiate già intuito il triste epilogo. L’orso,spinto dalle sue abitudini ataviche, è salito lungo questofanta sma d’albero, fino a che, con la zampa, ha toccato unpunto fatale. La pianta “finta” aveva, per dir così, un fulmi-ne incorpo rato, e l’animale ha pagato con la vita la sua in-comprensione del progresso.

Pensare, prevedere, soffrire

Il dolore è uno strumento della sopravvivenza. Per cui, il si-stema nervoso non è solo la centrale dei sensi, il luogo diraccolta di tutti i segnali provenienti dall’esterno, che sicoagulano in un’immagine del mondo, è anche la fabbricadel malessere e delle sensazioni “cattive”. In forza di tuttoquesto mi è difficile pensare che un organismo possa sta-re, per dir così, al di là della sofferenza, perché se, come

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pensa Gautama Buddha, “la vita è dolore”, il dolore, perconverso, salvaguarda la vita.Anche negli animali inferiori, come le amebe e le planarie,sono stati riscontrati dei preferendum: gli individui tendo-no a restare in certi luoghi o a migrare da certi altri secon-do le tempe rature o i sali del mezzo acqueo, più o meno“graditi”. È pur vero che il dolore più “nobile”, quello dellospirito, sembrerebbe presup porre l’esistenza di un pensie-ro molto evoluto, ma è del pari vero che molti animali su-periori, si pensi al cane o al gatto, soffrono se vengono tra-scurati, o abbandonati, perché contraggono dei veri e pro-pri legami affettivi con i loro padroni. Il grande etologoKonrad Lorenz, alla domanda se gli animali soffrissero piùo meno di noi, ha risposto: “Di più”. Sembrerebbe un pun-to di vista paradossale, ma Lorenz ha chiarito subito in mo-do soddisfacen te quello che intendeva dire: gli animali sof-frono di più, e lo stesso potrebbe dirsi per i bambini moltopiccoli, perché non razionalizzano e non contestualizzanoil dolore.Un uomo torturato sa il perché, e questa consapevolezzagli consente di fronteggiare meglio l’evento. Ma un poverocane, posto sul tavolo del vivisettore che magari, fino aqualche minuto prima, lo aveva ipocritamente accarezzatoper farlo star buono mentre lo legavano, non può far altroche soffrire. Inoltre, mentre l’uomo può escogitare previ-sioni sulla cessazione della tortura, il cane la vive in uneterno presente, come fosse “per sempre”. La previsionefunziona come un placebo: noi speria mo che una personacara, ora lontana, tornerà domani, e siamo meno tristi, mail mio gatto, se sono assente per qualche giorno, vive la mia

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latitanza come una perdita totale e irreparabile. E si rattri-sta a morte quando tiro fuori dall’armadio la valigia. Certo,l’animale ha un vantaggio: non sa, come noi, di dover mo-rire. Ma la sua vita è spesso più dolorosa della nostra.

Il suicidio e lo scorpione

Quando, per esempio nel corso di una cena, i commensaliscoprono che mi occupo del comportamento degli animali,vengo subito bersagliato dai quesiti più stravaganti. L’altrasera si era curiosi del suicidio. In parole povere, mi interro-gava una signora, gli animali si uccidono? O questo gesto co-sì innaturale è di pertinenza esclusiva della nostra specie?Circolano, mi ricordava qualcuno, delle curiose dicerie inmerito: c’è chi afferma che lo scorpione, posto al centro diun circolo di fuoco, si trafigge con il suo stiletto velenoso,soccombendo nell’atto. Altri parlano dei lemming, quei ro-ditori nordici che in certe annate crescono imponentemen-te di numero, migrano a battaglioni, e finiscono per gettar-si in mare annegando miseramente. In massa, davvero, sesi racconta che nella seconda metà del XIX secolo una na-ve norvegese ci mise un buon quarto d’ora a superare unamoltitudine di lemming natanti!Ma i casi congiunti, dello scorpione o del lemming, sono ilrisultato di fantasticherie o di osservazioni male interpre-tate. Io stesso, da bambino, ho potuto assistere, anche sedissentivo del tutto sull’esperienza, al rito di uno scorpio-ne posto al centro di un circolo di fuoco da un professoredi scienze naturali un po’ sadico. L’animaletto si è limitato

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a correre intorno come impazzito, e alla fine non ha pernulla fatto karakiri, ma si è precipitato contro la barrieraignea tentando, secondo me, di superarla, e finendo, inve-ce, arrosto. Per i lemming è chiaro che, se si tuffano in ma-re, è soltanto perché desiderano continuare la loro migra-zione verso nuove e più propizie pasture e se affogano èperché le rive della terra promessa sono troppo al di là del-le loro forze. Dunque gli animali, tranne alcuni esempi di delfini in catti-vità, non si uccidono nel senso proprio del termine, o permeglio dire non lo fanno in maniera plateale e cruenta. Pe-rò, ci si può suicidare in altri modi che con la pistola o il ve-leno: per esempio, con la malinconia. Vi sarà capitato dinotare che, spesso, quando uno di due vecchi coniugi, chehanno trascorso insieme una vita “da colombi”, se ne va viadal mondo, il superstite non tarda a seguirlo. Questa “mor-te da malinconia” riguarda, allora, anche gli animali.Una cagnetta, dal nome arcade di Filli, al decesso della suapadrona, che abitava nel condominio di mia madre, persel’appetito, ed evidentemente la voglia di vivere. Nel giro diuna settimana dalla scomparsa della sua diletta, Filli fu tro-vata morta nella cuccia. Suicida? Certo che sì.

L’agnello pazzo

La psichiatria animale è una disciplina ricca di informazio-ni e di prospettive nuove per l’etologo, che la dovrebbe te-ner d’occhio. Anche se, dando prova del solito antropocen-trismo implicito e duro a morire, taluni alienisti e filosofi

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sostengono, chissà perché, che solo l’uomo ha il privilegiodi impazzire, e che la follia è un male non della mente, madello spirito. Gli animali, dal canto loro, del tutto all’oscurodi questa “incapacità”, continuano a esibire comportamen-ti aberranti, raptus di aggressi vità, o di autolesionismo, chenon sappiamo interpretare se non come vere e proprie tur-be nervose.Per esempio, i pastori della Nuova Zelanda conoscono datempo una fissazione coatta, detta placer sheep, che col-pisce gli agnelli dopo la perdita improvvisa della madre. Lecose vanno più o meno così: quando una pecora, in segui-to a un accidente qualsiasi, muore, il piccolo che è statopresente al fattaccio, si lega durevolmente a una cosa delpaesaggio prossi ma al luogo del triste evento, e non puòpiù staccarsi da quella roccia, o da quell’albero. Tende co-sì, con una irriducibile ostinazione, a restare sul posto, an-che se nel frattempo la carogna della madre è stata defini-tivamente allontanata.Come preda di un incantesimo, l’agnello stregato diventauna sorta di genius loci e non c’è verso di sloggiarlo daquell’angolo di mondo senza che si adoperi, in ogni modo,di recuperare la vista, o l’ombra, dell’albero o della rocciache l’hanno affascinato per sempre. Ma non basta: sottrat-to, volente o nolente, a quel circolo magico, l’animale restasegnato a vita, e crescendo si dimostra del tutto incapacedi far parte di un gregge o di riprodursi. Esibisce, insom-ma, l’equivalente di un comportamento autistico.Remy Chauvin sembra propenso a considerare la faccendacome un caso particolare di “imprinting errato”, ma è piùcorretto, forse, annoverarla tra le psicosi traumatiche. In-

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somma, in termini semplici, ci sembra di poter affermareche quel l’agnello è impazzito. I pastori della Nuova Zelan-da non si danno a tante speculazioni in merito: ritenendo-lo irrecuperabile, mettono il caso clinico allo spiedo o ingraticola.

Vegetariano e’ bello?

Non sono vegetariano, lo confesso. Ma dovrei esserlo, perdue importanti ragioni. Il mio amore per gli animali, intan-to, e la sofferenza che provo quando vedo, e penso, che sifa loro del male; e il mio desiderio di giustizia, poi, che mispinge a lavorare, nel mio piccolissimo, per un mondo incui tutti possano mangiare a sazietà. Ahimè, una mia amica, di ritorno dalla Cina, mi ha racconta-to una storia angosciosa. In un mercato di Pechino (o di Can-ton, non ricordo bene), due cagnolini aspettavano in unagabbia di fil di ferro il buongustaio del caso. Il paventato per-sonaggio sbuca da dietro un cumulo di ortaggi, indica al bot-tegaio uno dei due animali, che vien preso per la collottola eucciso a bastonate sotto gli occhi del superstite. Questo co-mincia a tremare e a guaire e si rifugia, pazzo di terrore, nel-l’angolo della gabbia più lontano dai suoi carnefici.Questo racconto mi ha rattristato a morte, e ho inveitocontro i cinesi, ma un’altra mia amica, la sera dopo, mi hariportato in patria. Da bambina, in Cadore, mi ha confessa-to di aver visto uccidere un maiale così: appeso con le zam-pe posteriori a un traliccio, gli venne aperto il ventre condue o tre colpi d’ascia!

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La seconda ragione per cui dovrei essere vegetariano, èmeno truculenta, ma di portata ben più generale. Se è ve-ro che c’è la fame nel mondo, mangiare le piante, e non glianimali, significa contribuire a un più equo convitto dei po-poli. Perché, man mano che si sale lungo le catene alimen-tari, passando dall’erba all’insetto che la mangia, e all’uc-cello che si pappa l’insetto e così via, si verifica una perdi-ta notevolissima di energia.Secondo un ecologo russo, V. Dejkine, 1.000 tonnellated’erba servono per alimentare 27 milioni di cavallette che,a loro volta, sono in grado di soddisfare l’appetito di 90.000rane. Il contingente di anfibi, per concludere, consente a300 salmoni di raggiungere la maturità.Si mediti su questa circostanza: i 300 salmoni possono, perun anno, servire come cibo a un solo uomo, mentre già sevenissero servite in tavola le rane gli invitati potrebbero es-sere qualche decina. Ancora: chi, come certe popolazioniarabe, si dedicasse agli spiedini di cavallette potrebbe alle-stire una vera e propria mensa popolare! Emulare la caval-letta, passando direttamente a mangiare i vegetali, resta,così, la soluzione ottimale. Il vegetaria no è un uomo ali-mentarmente più “democratico” e non so che cosa aspettoancora a convertirmi.

L’animale immaginario

Sembra proprio che il serpente di mare non esista, e glizoologi ortodossi si rifiutino di prendere in seria considera-zione l’even tualità che un bel giorno questo mostruoso ret-

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tile esca dall’incognito e faccia naufragio, carcassa imma-ne, su qualche spiaggia popolosa, offrendosi finalmente al-la vista di tutti.Bernard Huevelmans non condivide l’opinione degli scien -ziati increduli, e in un suo libro monumentale prende inesame le testimonianze di tutti quelli che hanno veduto ilbestione chimerico emergere dagli abissi, fare uno show, esparire di nuovo nel mistero. Sono troppi, secondo lui, per-ché si possa credere ai miraggi. Se non c’è fumo senza fuo-co, deve esserci qualcosa che vive nei mari a nostra insa-puta, e che somiglia a quel serpente di mare che KonradGessner, uno zoologo del Cinquecento, raffigurava nellasua Historia animalium come in procinto di affondareuna nave. La cosa resta, a ogni modo, controversa, perchégli scienziati ufficiali, emuli di san Tommaso, insistono sul“vedere per crederci” ed esigono di “metter ci il dito”.Ma se il nostro dinosauro marino è un animale che non c’è,e che c’è, secondo le convinzioni, anche altri animali diespe rienza quotidiana sono spesso resi “irreali” dai pregiu-dizi, o per meglio dire dalle cattive osservazioni, che è lostesso. Conosco molte persone, per esempio, pronte a giu-rare che i gatti hanno una spiccata propensione per il tra-dimento, che non riconosco no, e non amano, contraria-mente al cane, il loro padrone, e che sono animati da unospirito malvagio. Bene, questo animale non esiste, è il risul-tato di una proiezione e di una fantasticheria.Di recente sono risalito al colpevole, al fabbricatore del“gatto irreale”. Ho scoperto che è stato il conte Buffon, unodei più eminenti zoologi del Settecento, a ratificare, con lasua autorità, e a consolidare nel tempo le gravissime accu-

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se. Se ne conclude che anche Buffon era uno scienziatoproclive ai sogni. Come Bernard Huevelmans che credesenza vedere, così il conte Buffon ha speculato senza os-servare.

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A scuola dalle analogie

Interpretare i comportamenti cosiddetti “superiori” del-l’uomo partendo “dal basso” significa, forse, praticare quel“riduzionismo” oggi inviso agli scienziati e ai filosofi deditialla “sfida della complessità”. Ma il loro dissenso non sarà,in qualche misura, il risultato di un equivoco? Colpa dei po-sitivisti, dei Vogt e dei Buchner che, se non avevano pro-prio “inventato” questo approccio, l’avevano, è certo, am-piamente chiamato in causa. Ahimè, essendo non dotati dialcuna sensibilità per le “sfumature”, erano riusciti quasisempre ad apparire semplicisti, quando non grossolani. Inrealtà, procedere nell’esame di un fenomeno dal “basso al-l’alto” non è cosa in sé riprovevole o scorretta dal punto divista epistemologico, a patto che si tenga ben presente distar facendo “proprio questo” e che ci si astenga dal reifi-care le metafore. Mi spiego meglio: dire, come Rutherford,che un atomo con i suoi elettroni potrebbe essere analogoa un sistema solare in minia tura, significa proporre delle

Altri scritti

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verifiche attraverso una metafora. L’analogia formale na-sconde una qualche analogia funzionale? Si tratta di pensa-re per modelli, e non di rovesciare il telescopio! Ahimè,spesso i positivisti peccavano di troppo realismo, e identi-ficando le parole con le cose, finivano per fare, malgradoloro, della cattiva metafisica. Excusatio non petita... in-tendo sgombrare il campo da ogni equivoco, perché sto perproporvi un divertissement sulla biologia dell’arte, con in-tenti lucidi ma, se considerati alla luce del posto “dell’uo-mo nella natura”, anche segretamente pedagogici. Venia-mo subito al sodo: esiste in natura un insieme di fenomenistraordinari che sono stati rubricati dagli scienziati con laparola comprensiva di mimetismo.Nell’accezione più propria, la parola allude alla presenza diuna “imitazione” e cominciamo, allora, con la scorta di Win-ckelmann, a evocare Zeusi che dipinge sulla parete di unacasa un cesto d’uva. La verosimiglianza dell’affresco è taleche gli uccelli scendono in frotta a beccare gli acini. Dun-que, per Zeusi far pittura significa rifare la natura, e ilRinascimento, dopo gli “anni bui” delle chimere artigliatealle cattedrali, farà sua questa teoria dello stare allo spec-chio. Torniamo, ora, al mimetismo, e ritroviamoci in com-pagnia di Henry Bates, sulla metà del XIX secolo, a cacciadi farfalle nelle foreste dell’Amazzonia. Il naturalista, chevive in quell’Eden da un decennio, ha notato che certe far-falle si somigliano moltissimo tra di loro, anche se non esi-ste alcuna affinità sistematica. Perché mai? Ci pensa e ci ri-pensa, e gli viene in aiuto Charles Darwin. Il padre dell’evo-luzione dà alle stampe, nel 1859, il libro cruciale; non par-la affatto di mimetismo, ma fornisce a Bates la chiave per

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capirci un bel po’ in merito. Il cacciatore di farfalle è abi-tuato a cogliere le cose al volo, anche le idee, a quantosembra, ed è con sorprendente tempestività che nel 1861pubblica una memoria scientifica in cui, per primo, impie-ga la selezione naturale di Darwin per spiegare un certo fe-nomeno biologico. Insomma, ecco i fatti: due specie di far-falle “somiglianti” sono entrambe predate dagli uccelli, so-lo che l’una, che funge da modello, è di gusto abominevo-le, mentre l’altra, il cosiddetto mimo, è molto appetitosa.Succede che quando il predatore alato fa esperienza delsapore disgustoso del modello, cessa di perseguitarlo, e so-spende anche la caccia del mimo, perché lo scambia perl’altro. In principio, c’era solo una somiglianza casuale, eforse percettivamente incerta, ma ecco che gli uccelli, pre-miando gli individui del mimo “più conformi”, hanno perfe-zionato, nel corso delle generazioni, la sua specularità.Questo mimetismo, fonda to su di un errore percettivo,chiamato in onore del suo scopritore batesiano, attiva unapièce a tre attori. Ricordando Zeusi, il modello è il cestod’uva reale, il mimo è il cesto d’uva in affresco, l’osservato-re ingannato è l’uccello che becca i finti acini. Se l’arte, co-me ha decretato Ernst Gombrich, è illusione, il mimetismoè il suo “doppio biologico”. Ha ragione Adolf Portmann, al-lora, a scrivere che la natura opera come un artista e che ilmondo è il suo atelier? La selezione naturale “ritocca” glierrori di conformità del mimo, finché la sua opera d’arteorganica non risponde del tutto alle aspettative. Sulle spal-le di Leonardo da Vinci si posa il fantasma dell’uccello in-settivoro. Ambedue fabbricano illusioni, l’uno di donne mi-steriosamente sorridenti, l’altro di farfalle diabolicamente

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travestite. Ma se tutto questo è vero, opinava un mio ami-co storico dell’arte, la natura, e chiedeva scusa per il ca-lembour, produrrebbe soltanto un’arte naturalista? E lapittura astratta? La biologia dell’arte sarebbe soltanto apol-linea, non prevederebbe Pollock ma sola mente Rem-brandt. Macché, nel mimetismo troviamo tutto di tutto,non solo l’imitazione, ma perfino l’astrazione e il surreali-smo. Prendiamo il caso del mimetismo terrifico: il rap -

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Mimetismo terrifico

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porto di specularità tra modello e mimo non è più lineare,si problematizza. Il modello diventa sincretico, irreale, po-tenzia le, come i paesaggi del mondo nelle manipolazionicubiste di Picasso e di Braque. Aspiro a farvi capir megliotutta la faccenda con un esempio: una mantide dal nomeesoterico, Pseudocreobotra wahlbergi, quando intendespaventare un suo persecutore, assume una strana postu-ra: apre le ali, esibisce delle macchie oculari che ha in ap-pannaggio, sulle ali anteriori, piega a sinistra e a destra,simmetricamente, le zampe raptatorie. Imita una creaturaterribile... che non esiste. Un mostro irreale, anzi surreale,come un reperto onirico di Max Ernst. La nostra mantidefa della body-art puntando sulla trasfigurazione invece chesulla rappresentazione.Molte farfalle la seguono per questa strada. Hanno in dota -zione, sulle ali, delle macchie oculari, e quando vengonoposte in stato di emergenza, per esempio da un uccello concattive intenzioni, lo spaventano esibendo di colpo quellepupille vicarie. Il predatore resta sconcertato, come se sifosse imbattu to, in un paese d’Alice ornitologico, in un gat-to magico, di cui solo gli occhi siano rimasti visibili. La far-falla si difende, così, evocando un felino astratto, una me-tonimia di felino, in cui l’occhio sta per l’intero animale. Maprecisiamo un po’ meglio l’aspetto surrealista del mimeti-smo, già citato. Sarà utile ricor dare che il surrealismo è sta-to una corrente artistica e letteraria del secolo scorso, cheha promosso, come tecnica per produrre effetti estetici, lo“spaesamento”. L’ipotesi era che far arte coincida col farsaltare in aria le idee coatte, i concatenamenti logici, pro-ponendo, come ha scritto Lautreamont, uno dei pre curso-

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ri di André Breton, il capofila del clan, “l’incontro di un om-brello e di una macchina da cucire su di un tavolo operato-rio” come il paradigma più proprio della metafora pittoricae poetica. Insomma, spaesare significa mettere “fuori po-sto”, contraddire le aspettative codificate, coltivare il gustoe le alchimie degli accostamenti impossibili, dei comporta-menti anormali. Devo dire, allora, che, anche in questo ca-so, certi animali, molto prima di Lautreamont, hanno dimo-strato di essere dei maestri nell’arte dell’imprevedibile, enon esito ad annoverarli tra gli ascendenti biologici di Sal-vador Dalì, e soci.Esiste un insetto della Tailandia, un emittero, che esibisce,all’estremità addominale, due macchie, una per parte, diforma oculare, e due curiosi prolungamenti a clava, simme-trici a loro volta, che sembrano delle vere e proprie anten-ne. Insomma, tutto il congegno morfologico si configuracome una macchina ottica illusoria, che suggerisce una te-sta... dove non c’è. A che cosa serve questa mascherata?Non è ben chiaro, ma una delle ipotesi più probabili è cheabbia, per l’insetto, una funzione protettiva, che ne favori-sca la sopravvivenza. Quando un pre datore si avvicina alnostro illusionista, sicuramente con cattive intenzioni, nonlo vede spostarsi con la testa in avanti, ma con il “passo delgambero”. Questo movimento “spaesato” sconcer ta il killerpotenziale, che esita ad aggredire la strana creatura? Op-pure, supponiamo che si tratti di un uccello, la finta testaattirerà su di sé quei colpi di becco che, inferti a quella ve-ra, riuscirebbero ben più letali?Queste nostre escogitazioni ellittiche su di un parallelopossibile tra il mimetismo e l’arte non sono, come qualche

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allievo di Croce potrebbe credere, del tutto deliranti.Ernst Gombrich, il prestigioso storico dell’arte che abbia-mo già chiamato in causa, in un suo saggio sulle “scoper-te visive attraverso l’arte” non ha esitato a mettere in re-lazione i fenomeni mimetici con quelli estetici. Il fatto èche, riduzionismo o no, il mondo dei viventi ha una suaintima coerenza, e in tutto quello che l’uomo fa brilla, co-me una pepita sommersa, il segno, anzi il geroglifico, del-le sue origini.

Scienziati e stregoni

Molti sono convinti, anche se oggi si sta manifestando unainversione di tendenza, che la scienza, mi si consenta que-sta piccola tautologia, sia la “scienza punto-e-basta” e chele tradizioni popolari, erbe salubri o fasi lunari più o menopropizie al travaso del vino, che si tramandano di genera-zione in genera zione attraverso la fuga dei secoli, siano sol-tanto delle corbelle rie, da scartare con il gesto annoiatocon il quale il bramino del sapere allontana il venditore dialmanacchi. Eppure, anche se spesso si tratta di pregiudi-zi veri e propri, certo da combattere – non è vero che il ro-spo sputi veleno o che l’orina dei pipistrelli renda calvi! –certe volte le osservazioni secolari hanno fatto centro, sta-bilendo dei rapporti causa-effetto tra taluni fenomeni, epuò succedere che lo stregone faccia scuola, e che l’uomodella strada abbia qualcosa da insegnare al demiurgo deimicroscopi e dei diagrammi. Cominciamo con un esempio:che certe specie di zanzare trasferiscano l’agente della ma-

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laria, un protozoo, dal malato al sano, succhiando il sangueprima dell’uno e poi dell’altro, è una scoperta abbastanzarecente, opera di Ross e di Grassi, che si sono contesi alungo le priorità.Certo, al nostro Grassi bruciava che l’inglese si fosse attri-bu ito il premio Nobel, e che lui fosse rimasto a boccaasciutta, ma tant’è: gli scienziati sono spesso uomini litigio-si. Si pensi alla contesa tra Newton e Leibniz sull’inven-

zione del calcolo infinitesimale! Tuttavia, qui veniamo alpunto, il rapporto tra la zanzara e la malaria era già statointuito da tempo. Nel libro di un batteriologo, a sua voltapremio Nobel, Charles Nicolle, dal titolo allettante Biolo-

gie de l’invention, che risale al 1939, ho pescato una cu-riosa notizia, che riporto subito. L’abate de Fortis, nella se-conda metà del Settecento, aveva fatto un viaggio in Dal-mazia e ne aveva dato alle stampe il resoconto in un libroepistolare. Nella lettera due si può leggere, di sicuro conun certo stupore, che gli abitanti del corso inferiore dellaNarenta dormo no d’estate in luoghi chiusi per sfuggire al-la puntura delle zanzare. Un ecclesiastico del luogo avevadetto al nostro de Fortis che questa precauzione notturnanon era stata decisa soltanto per sfuggire alla molestia deiprelievi di sangue degli insetti, ma perché si sospettava chele febbri di cui soffrivano molti abitanti del luogo fosseroprovocate dalle punture. “Non è impossibile”, commentasaggiamente de Fortis, “che i miasmi possano trasmettersiper questa via: la congiunzione è davvero ingegnosa”. E ve-ra sopra tutto. Insomma se Ross, invece che in India, eGrassi, invece che nelle paludi pontine, avessero fatto unpiccolo tour in Dalmazia si sarebbero imbattuti in una tra-

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dizione popolare sotto forma di una vera e propria ipotesiscientifica. Da verificare, si capisce: ma intanto...Veniamo, allora, a un’altra piccola storia a suffragio, questavolta di sapore etnologico: un mio amico medico, che hamolto viaggiato in Africa, mi ha raccontato che, nel CongoBelga, come ai suoi tempi si chiamava, aveva sentito direche uno stregone era capace di curare la sifilide. Incuriosi-to, da bravo medico qual era, il mio amico decise di far vi-sita a quel taumaturgo in perizoma, e si recò nella sua ca-panna, intenziona to a farlo cantare. Non c’è dubbio chefosse scettico, e disposto solo a concedere qualche effettopsicosomatico: prima dell’av vento degli antibiotici – il viag-gio del medico si era verificato agli inizi degli anni Trenta –il Treponema pallidum veniva contra stato solamente dalSalvarsan di Ehrlich-Hata, da pomate mercuriali, e costi-tuiva ancora una malattia assai perniciosa. Ma torniamo inquella capanna: lo stregone fu molto gentile, e non ebbe al-cuna difficoltà a comunicare al buana la sua cura. In unpessimo francese, spiegò che mandava gli ammalati a dor-mire per diverse notti all’aperto, in prossimità di qualchezona paludosa, perché così gli spiriti del luogo potesseroentrare in loro. Alla possessione seguiva una forte febbre,che cancellava le piaghe luetiche dalle mucose della boccae di altre parti intime, senza che tornassero più. Purtrop-po, ammoniva lo stregone, non tutti gli spiriti erano bene-fici; alcuni, soprattutto se l’ammalato non era puro nel cuo-re, lo facevano morire. Ma a suo giudizio, questo esito fu-nesto era raro, e per lui si trattava della conseguenza diuna colpa non espiata. Il mio amico medico capì tutto al vo-lo, e trasecolò. Si ricordò che, nei primi decenni del Nove-

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cento, un luminare della medicina viennese, Wagner-Jua-regg, aveva ideato una terapia della sifilide che potremmochiamare biologica. In altre parole, inoculava nei suoi pa-zienti affetti dal morbo il plasmodio della malaria, e lascia-va che seguisse un forte rialzo termico, tale da spiazzarel’agente patogeno ovunque si fosse insediato nel corpo delsuo ospite. In seguito, delle massicce somministrazioni dichinino contrastavano la malaria sperimen tale, chiamiamo-la così, e nella stragrande maggioranza dei casi la debella-vano. Ahimè, non sempre! E tanto lo stregone quanto ilprofessore lamentavano qualche evento infausto. Ma, allafin fine, la terapia praticata dall’uomo della foresta non erala stessa ideata dal grande Wagner-Juaregg? Infatti, se que-st’ultimo usava la siringa per contaminare il malato, lo stre-gone mandava i suoi pazienti a dormire sulla riva delle pa-ludi, perché fosse la siringa organica delle zanzare a provo-care la malattia terapeutica, per chiamarla così. E se ilnostro dermatologo selvaggio non aveva a sua disposizioneil chinino, per evitare che il rimedio fosse peggiore del ma-le, è da tempo noto che i negri, spesso affetti da un’anemiafalciforme in eterozigosi, contraggono più difficilmente, opiù blandamente di noi, la malaria, e si può supporre chein moltissimi casi il gioco valesse la candela. Ma passiamoa un altro esempio, un po’ più sghimbescio, ma alquanto di-vertente.Gli studiosi del comportamento animale, etologi e behavio-risti, soprattutto nella prima metà del XX secolo, avevanoestremizzato le loro premesse epistemologiche. Per gli uni,gli esseri viventi nascevano già abilitati a fare molte cose –il ragno la tela, l’ape la sua bella celletta esagonale –, e

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quindi: evviva gli istinti!, mentre i behavioristi pensavano,al contrario, che tutto, o quasi tutto, doves se essere impa-rato e quindi privilegiavano l’apprendimento. In realtà, co-me si è capito sempre meglio negli ultimi decenni, istinti eintelligenza, comportamenti innati e appresi, sfumano gliuni negli altri, e accade che gli istinti si possano imparare,e che gli apprendimenti si fondino su delle predisposizioniereditarie. In altre parole certe azioni sono istintive, mamigliorano con l’esercizio e delle altre devono venire ap-prese, ma talune lo sono più facilmente di altre. Tuttaviail dibattito è stato all’inizio molto acceso; botta degli etolo-gi: il pulcino nasce già in grado di riconoscere la voce del-la chioccia; risposta dei behavioristi: è vero, ma perché l’ha sentita quando era ancora nell’uovo.I fondatori dell’etologia classica portano acqua al loro muli -no: un anatroccolo, appena nato, si spaventa, e si accovac-cia al suolo se nel cielo compare il profilo di un falco, an-che se non l’ha mai visto, e se sicuramente non ha potutoimparare che si tratta di un predatore. Come non conclu-dere che nasca già con una sorta di immagine del rapaceimpressa nella mente? Sto parlan do in soldoni, ma con-sentitemelo, è solo per farmi capire meglio.Qualche prova sperimentale? Perché no? Venne confezio-na to uno zimbello, in altre parole una sagoma di legno condelle sporgenze laterali aliformi, e con due prominenze al-le estremità, l’una corta e l’altra lunga. Orbene, facendoscorrere avanti e indietro questo fantasma di uccello sulcapo di alcuni anatroccoli si poté osservare un curiosocomportamento. Se la sagoma scorreva con la prominenzabreve in avanti, i paperini davano segno di terrore e si ap-

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piattivano al suolo, se la parte in avanti era la prominenzalunga restavano indifferenti, o quasi. Perché mai? Sempli-ce, il collo corto ricorda il falco, il collo lungo un’oca selva-tica, per cui S.O.S., e a terra!, per il rapace, e O.K., tutto vabene, per l’innocua volatrice. Se ne deduce che l’immaginedel falco come segnale di pericolo è stata fissata nel geno-ma dell’uccello dall’opera della selezione naturale nel cor-so delle vicissitudini della specie in maniera abbastanza

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Se la figura che sorvola il piccolo anatroccolo ha la prominenza anterio-

re lunga, quest’ultimo resta indifferente o quasi, in quanto il collo lungo

viene abbinato a un’innocua oca selvatica; se la figura scorre con la pro-

minenza breve in avanti l’anatroccolo dà segni di terrore e si appiatti-

sce al suolo, in quanto il collo viene da lui associato al falco rapace.

(Disegno di Silvia Costa)

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precisa, come una configurazione, si potrebbe perfin direuna Gestalt. Però, però... delle ricerche posteriori su degliuccelli che nidificano al suolo hanno precisato come anchein questo caso l’istinto migliori con l’apprendimento, e siconfronti con l’esperienza. A quanto sembra, dapprima ilpiccolo si spaventa per qualsiasi cosa lo sorvoli ma, a pocoa poco, si abitua alla presenza nel cielo di taluni uccelli chememorizza come innocui. I falchi, però, sono rari, e nonriescono mai a superare la “soglia dell’assuefazione”, conti-nuando a scatenare l’S.O.S. e il com portamento conse-guente. In parole povere, il falco non è temuto come rapa-

ce, ma come straniero, e i piccoli di uccello in questionemanifesterebbero un’attitudine neofobica, peraltro diffusatra gli animali selvatici, e no. Per esempio, il gatto diffidasempre fortemente delle novità. Ma, alla fin fine, la neofo-bia non avrà, a sua volta, un plafond genetico? Il bello è chetutta la manovra non era affatto sfuggita a chi frequentavale aie delle case di campagna.Se Lorenz, Tinbergen e soci, adepti o avversari che fosse-ro, avessero letto il libro di un filosofo contadino, L’atto

della creazione, di Edward Carpenter, stampato agli inizidel secolo scorso, avrebbero potuto trarne un sicuro giova-mento scientifico. Carpenter, un ibrido di Burns e di Tho-reau, aveva l’occhio fino per gli animali e la natura, maquando parla dei suoi volatili da cortile non fa altro che ri-ferire una vox populi. E comincia, difatti, con un tutti noi

sappiamo, e continua: “che i piccoli degli animali agisco-no in modo tale da far credere che le loro facoltà psichiche,la loro memoria e la loro esperienza, siano in qualche mo-do continue con quelle dei loro progenitori. Le giovani per-

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nici e pulcini del pollame domestico, anche quando hannoun sol giorno, appena vedono un grande uccello volare nel-l’aria, si accovacciano e si distendono sul terreno; e il lorotimore, aumentato dal grido di allarme della madre, li indu-ce poi a cercar rifugio sotto le sue ali. Certo è difficile sta-bilire quale forma prenda nella mente del pulcino il sensodel pericolo: ma sembra che vi sia un ricordo di migliaia emigliaia di casi nella storia degli antenati del pulcino, in cuii temuti artigli e il terribile becco scesero dal cielo e affer-rarono o cercarono di afferrare la preda. Questa associa-zione così chiara è stata tanto spesso ripetuta, che ora lasemplice vista di un uccello dirige, per così dire, un interoplesso di nervi non solo nel pulcino, ma anche nelle perni-ci e nel pollame adulto, e pone in moto quasi automa -ticamente un completo apparato di muscoli per la difesa oper la fuga. La certezza e l’istantaneità della cosa è davve-ro impressio nante. Personalmente io non mi stanco mai diosservare il mio pollame ogni qual volta viene l’uomo a pu-lire i camini della casa. Appena la lunga scopa emerge dal-la cima del camino, qualunque cosa i polli stiano facendo,sia che mangino o razzolino o si aggirino nei campi più lon-tani, subito, gettando grida di terrore, essi si sbandano datutte le parti in cerca di un ricovero, persuasi che un terri-bile nemico sia apparso sul tetto. Un berretto lanciato agrande altezza nell’aria produce lo stesso effetto; e non giàche il mio berretto per la forma o per il movimento rasso-migli molto a un uccello, anzi io sono convinto che moltidei miei polli sappiano esattamente cosa sia il mio coprica-po; solo esso risveglia in loro la rimembranza latente del-l’uccello da preda. I polli non vedono in realtà né il berret-

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to né la scopa dello spazzacamino; essi vedono invece quel-la che potrebbe dirsi la visione dello sparviero ideale, cheè molto più forte e più profondamente radicata nella lorofisiologia di qualsiasi altra immagine momentanea, e haun’influenza molto più grande su di loro”.Come etologo, il nostro Carpenter non era davvero nientemale! Il suo cappello lanciato in aria contiene già l’idea del-lo zimbello, e cioè di sagome simili a quella poc’anzi de-scritta, di cui gli etologi del Novecento faranno ampio usonelle loro esperienze di campo. Ma il suo libro, così pienodi vita, e per certi versi anticipatore, può venire elevato aparadigma di come dobbiamo comportarci nei riguardi del-la possibile scientificità della cultura popolare, perchénon è mica oro tutto quel che riluce. Infatti, se nella osser-vazione dei pulcini e dei rapaci il nostro filosofo centra ilbersaglio, e con lui tutti quelli che hanno osservato, attra-verso gli anni e le generazioni, le stesse cose sull’aia delleloro case, il lamarckismo che Carpenter professa è una del-le più comuni credenze popolari, tanto diffusa, e difesa,quanto scientificamente falsa. Perché non è affatto veroche i figli dei padri che in vita hanno fatto molta ginnasti-ca nascano dotati dei muscoli paterni, o che la gestantespaventata da un topo generi un bambino con un neo pe-loso, o al peggio con il musetto da roditore! Dunque, labuona ventura è di comportarsi sempre alla Confucio, nonrifiutare l’almanacco ma leggerlo con un misto di disponi-bilità e di diffidenza, di confidenza e di distanza. A giustifi-cazione di Carpenter ricordiamo però che, agli inizi del No-vecento, l’ereditarietà dei caratteri acquisiti era ancora inforse, e molti eminenti scienziati, soprattutto francesi, ma

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anche americani, ci spergiuravano sopra. E se anche Char-les Darwin, a un certo punto della sua vita, era diventatolamarckista, come non perdonare a Carpenter lo stessopeccato?

Qualche appunto ecologico sugli animali in citta’à

Fin dai tempi più remoti gli animali hanno abitato, volentio nolenti, nelle nostre case, fossero grotte, capanne o edi-fici di pietra e di mattoni, spesso creandoci disagi più o me-no tollerabili, e costringendoci a darci da fare per sfrattar-li. Un esempio ben noto è quello dell’Ursus speleus, che sirifugiava nelle grotte, e che l’uomo del Paleolitico, interes-sato a quel ricovero, ha dovuto far molta fatica per disdet-tare. Battaglia dura, per quel che si sa, ingaggiata e condot-ta con tutte le armi a nostra disposizione, e che è culmina-ta con lo sterminio del povero orso e con la sua estinzione.Uno sfratto davvero radicale, non ci sono dubbi. Ma comespesso succede gli animali di stazza corporea imponentesono quelli più facili da liquidare in massa, come dimostrail caso dell’Epiornis, un uccellaccio del Madagascar alto tremetri e inetto al volo, e che fu sterminato alla fine del ‘500.Invece, animali di dimensioni ridotte, come i roditori, o an-cor più come gli insetti, sono davvero irriducibili allo sfrat-to, e le case dell’uomo costituiscono, per loro, delle nicchieecologiche diversificate e ricche di opportunità per la so-pravvivenza. Qualche decennio fa un entomologo inglese,George Ordish, ha dato alle stampe un libro davvero curio-

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so, The living home, in cui ha preso in esame la succes-sione storica del popolamento animale di una fattoria a co-minciare, si pensi un po’, dal 1555. Questa fattoria è meglionota come “la casa di Barton”. Dall’esame di una massa im-portante di documenti, note di diario, relazioni di ristruttu-razioni edilizie e così via, Ordish è riuscito a ricostruire laconsistenza delle specie degli ospiti clandestini della fatto-ria, che erano ragni, insetti, roditori, uccelli, pipistrelli, echi più ne ha più ne metta. Nel 1860 si toccò il punto piùalto della biodiversità di “casa Barton”: ben 119 specie dianimali, una complessità da far invidia a qualsiasi altro eco-sistema naturale. Al momento attuale, la più attenta puli-zia dei locali e l’avvento dei pesticidi ha fatto crollare il po-polamento della fattoria, proprio come sta accadendo, equi per sola colpa delle molecole di sintesi, nel campo col-tivato. Indubbiamente, come osservava già Antonio Berle-se in un suo libretto del 1925, gli invasori delle abitazionirurali differiscono da quelli delle abitazioni urbane; si vedail caso delle mosche, che trovano nei letamai un luogo diinsediamento privilegiato, e dunque sono più numerosedove esistono impianti zootecnici a conduzione familiare, ogreggi al pascolo, ergo non in città. E tuttavia non ci sonodubbi che le aree urbane ospitino molte specie di animali,che trovano in esse delle possibilità di sfruttamento, e disopravvivenza, davvero importanti. A riprova, nel 1925,M.D. Leonard stampò una grossa memoria scientifica, unvero e proprio libro, sugli insetti che si erano insediati nel-la città di New York.Della trentina di ordini in cui si suddivide la classe degli in-setti, i rappresentanti di ben ventitré ordini sono stati re-

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periti in quella città, con un totale di 430 famiglie, 4.997 ge-neri, 16.124 specie. Le specie più rappresentate (4.546)sono riferibili all’ordine dei coleotteri, seguite da quelle deiditteri (3.615) e dei lepidotteri (2.439). La biodiversità diNew York, agli inizi degli anni Venti del secolo scorso, eradavvero considerevole, e sono convinto che l’elenco risultiincompleto, perché talune specie di insetti di minuscoleproporzioni come, per fare un esempio, i collemboli, che vi-vono nei meandri del suolo, presentano dei riscontri moltodifficili. A conferma, ricordiamo come Grassé abbia calco-lato che le mille e cinquecento specie dell’ordinesarebbero una parte minima delle centomila di cui si puòcongetturare l’esistenza. L’ecosistema urbano offre nume-rose nicchie favorevoli alla vita di certi animali: i laghettidei parchi pubblici, le vasche ornamentali dei giardini pri-vati, consentono alle zanzare di prosperare come larve,spesso in assenza di nemici naturali come i pesci, non im-messi o periti per anossia ove il carico organico confluitonelle acque stagnanti, per incuria o per inquinamento, ab-bia fatto crollare il tenore d’ossigeno, riducendolo drastica-mente. Delle notevoli opportunità di proliferazione per Cu-

lex pipiens, adattata sotto forma di C. pipiens molestus

alla vita in spazi angusti, senza più necessità di ampi volinuziali, sono offerte dai sistemi fognari delle città. Più in ge-nerale, il microclima urbano presenta una temperatura diqualche grado più elevata del territorio circostante, e nelleabitazioni un vero e proprio criptoclima determina unoscarto ancora maggiore, favorendo il ciclo di molte specie,che non subiscono alcuna interruzione invernale. Gli edificisi mutano, così, in vere e proprie serre, consentendo perfi-

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no il proliferare di specie di origine tropicale. Per passareda animali di proporzioni infime, come gli insetti, ad altri distazza un po’ più consistente, i topi e i ratti sono da sempredegli ospiti sgraditi, ma del pari, a quanto sembra irriduci-bili nella loro decisione di vivere con noi, si può ben dire go-mito a gomito. I ratti offrono delle opportunità di investiga-zione scientifica di grande interesse, anche se spesso mi-sconosciute. Intanto, sono degli animali giunti in Europa, ediffusi in ogni parte del mondo, attraverso delle grandi in-vasioni successive. Si era pensato che il mondo romano co-noscesse il topo ma non il ratto. Invece, negli ultimi cin-quant’anni sono emerse numerose testimonianze in forzadelle quali ai tempi di Cesare, e più tardi di Plinio, una spe-cie di ratto sembra convivesse, per dirla in maniera figura-ta, insieme alle oche e ai galli del Campidoglio.A conferma, Robert Goffin, nel suo libro mai tradotto nellanostra lingua, Le roman des rats, ci ricorda come siano sta-te rinvenute dagli archeologi due statuette di ratti risalential primo secolo dell’era cristiana. D’altra parte è noto che aRoma gli aruspici non si dedicavano soltanto all’investigazio-ne del fegato degli uccelli, ma consideravano lo stridio deiratti come segnale di buona o cattiva fortuna, secondo i ca-si. Al punto da far dimettere dal suo incarico il console Mas-simo Rulliano, e da consigliare Caio Flaminio a lasciare l’in-carico di generale della cavalleria nel corso della guerra con-tro Cartagine. Ma per venire a epoche più recenti, l’Europaha subito tre grandi invasioni ratticole: quella del ratto bru-no, quella del ratto nero, e quella, alfine, del ratto grigio, osurmolotto. Il bello è che tutte le invasioni sono state resepossibili da quelle dell’uomo, per cui ogni nostro spostamen-

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to è stato causa di una eguale migrazione dei roditori, chesembrano aver capito benissimo come sia meglio per loro,invece di affrontare i disagi della vita in natura, mettersi, perdir così, a convivere con noi. Il ratto bruno, a riprova, sem-bra sia giunto in Europa a seguito delle orde dei barbari.Scrive Toussenel, citato da Goffin: “Dire ratto vuol dire evo-care delle invasioni di barbari. Orde di barbari, orde di ratti.Gli uni occupano il suolo, gli altri il sottosuolo. Si sono avu-ti, così, i ratti dei Goti, i ratti dei Vandali, i ratti degli Unni”.Al ratto bruno è succeduto il ratto nero, che lo ha spiazzatodel tutto, e oggi non se ne può più osservare alcuno. Il rattonero, dal canto suo, ha tallonato in massa delle tribù mongo-lo-tartare, che lasciavano il Caucaso in cerca di nuove terre,probabilmente scacciate da altre tribù più forti o meglio ar-mate. Era l’anno Novecento della nostra era quando Arpad,un grande condottiero della sua gente, giunse in Ungheria ela sottomise. Aveva molti guerrieri e donne con sé, ma il suoseguito era più numeroso di quanto lui stesso immaginasse.Una moltitudine di ratti bruni era venuto con lui nella terrapromessa, e sembrava ben deciso a non andarsene più. An-zi, animale imperialista, si diffuse ovunque. È il regalo di Ar-pad all’Europa. In pochi decenni il ratto nero diventò un ani-male egemone, tanto più che il suo contingente numericovenne, per dir così, rinforzato dagli arrivi di altri ratti neriche si erano imbarcati sulle navi dei crociati, e che, viaggian-do via mare, scendevano a gavazzare in tutti i porti del Me-diterraneo.Bisognerà attendere il 1700 per vedere arrivare il castiga-matti del ratto nero, e per assistere all’ultima grande inva-sione che condusse il surmolotto alla conquista e al conso-

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lidamento di un regno che dura tuttora. Al contrario diquello che accadde per il ratto bruno, la nicchia del rattonero venne invasa, sì, ma non del tutto; il surmolotto si in-sediò nelle fogne, nelle cantine, e nelle parti basse degliedifici, e il ratto nero, più dotato di virtù acrobatiche, fececome gli stambecchi, animali di pianura che in presenza diuna pressione venatoria eccessiva salirono in quota en-trando a far parte della fauna alpina. Il ratto nero, dal can-to suo, si spostò nelle parti alte degli edifici, e non le fogne,ma i tetti, non le cantine, ma le soffitte diventarono il suoluogo di elezione, la sua nicchia ecologica e il suo rifugio.Per cui il ratto nero viene anche detto il ratto dei tetti, e ilratto grigio il ratto delle chiaviche. Ma dato che lassù, or-mai, le opportunità di sopravvivenza erano più scarse chenel sottosuolo, il ratto nero non poté che vivacchiare, e lesue popolazioni diminuirono di densità e oggi non è più nu-meroso come un tempo. Attualmente, infatti, è il surmolot-to il clandestino urbano che ci dà le maggiori preoccupa-zioni. Il bello è che nell’interazione tra lui e il ratto neropossiamo intravedere un esempio di ripartizione delle ri-sorse, e quindi di diversificazione di un ambiente in tantenicchie ecologiche, fenomeno simile a quello che si verifi-ca per specie di uccelli che colonizzano lo stesso albero. Lacasa dell’uomo e l’albero, posti a confronto, mostrano lemedesime possibilità di diventare un condominio, e di darvita a una convivenza gomito-a-gomito di talune popolazio-ni con gusti diversi per il cibo e per l’abitare.

Insomma, l’ecosistema urbano differisce sì da quelli natu-rali, ma mica poi tanto. Anche in questo caso, come spes-

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so succede, la cultura si rispecchia nella natura, e l’artifi-ciale diventa quasi una metafora biologica del naturale. Lacittà, fatta dall’uomo, non è solo dell’uomo, ma anche deglianimali. Di taluni animali, si opinerà. Certo, ma non è cosìanche nel territorio circostante? Non ci sono, forse, dellespecie che hanno il bosco come luogo di elezione, o il pra-to, oppure la montagna? La città è una sorta di plastico inminiatura del mondo naturale. È un luogo dove la selezio-ne naturale funziona ancora, ottemperando alle condizioniposte da nuovi parametri ambientali. E l’ecologia urbana èsorella siamese dell’ecologia del “fuori città”. Noi viviamoin compagnia delle tarme negli armadi, delle blatte nellefessure dei muri, dei tarli nei mobili di pregio, dei piccionisulle piazze, dei cani e dei gatti che, per nostra decisione,ci fanno compagnia. Insomma, abitiamo insieme agli ani-mali domestici e a quelli che non siamo stati noi a sceglie-re, ma che sono stati loro a trovare in noi degli anfitrioni in-consapevoli. Difatti vivono di tutto quello che noi buttiamovia e abitano dove noi ci rifiutiamo di abitare. I ratti, percontinuare a parlare di loro, ci hanno lasciato il regno delgiorno e si sono presi quello della notte, eleggendo non ilsuolo, come noi, ma il sottosuolo, simili ai paria del futuroimmaginati da Wells nella sua Macchina del tempo. Scri-ve Goffin a proposito dei ratti, e mi si consenta di tradurlomolto liberamente: “Le nostre case sono tutte scavate ederose dai ratti. I muri sono come il formaggio di groviera,pieno di buchi, passaggi segreti attraverso i quali i ratti rag-giungono i punti più lontani delle nostre abitazioni. Noi vi-viamo accerchiati da percorsi immaginari, circondati dasentieri ratteschi che non ci è mai dato scoprire, chiusi da

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meridiani sconosciuti che tracciano i percorsi dei nostriospiti per forza. Dormiamo la notte al crocevia di continuiva-e-vieni, che intrecciano attorno al nostro sonno questebestiole demoniache e nottambule... Noi passiamo la no-stra vita insieme ai ratti; al nord e al sud, al di sopra e al disotto di noi ci assediano sui confini del loro impero silen-zioso. Sono costantemente in nostra compagnia, con il lo-ro numero sempre in crescita; il loro appetito onnivoro, illoro contatto mostruoso, la lima eterna dei loro milioni didenti che minano le opere dell’uomo. È lo scontro del nu-mero e della perseveranza con l’organizzazione e l’intelli-genza. È la sfida lenta ma invincibile che lancia la mandi-bola al cervello”. Che la città sia più loro che nostra?

Dal parco santuario al parco laboratorio: èe’ possibile un turismo nei parchi?

Il primo parco, quello di Yellowstone, è nato in una partedel mondo, il Nord America, dove esistevano ancora dellesterminate porzioni di territorio addirittura da esplorare, ocomunque da annettere a carte geografiche non più tantogrossolane, che rari viaggiatori avevano visitato, e di cui siraccontavano meraviglie: rocce disposte come grandi cat-tedrali, fiumi rapinosi con improvvise e funamboliche ca-scate, foreste fossili popolate di uccelli incantati, perchéspesso i miraggi si mescolavano, e tingevano d’arcobalenola realtà. Era così possibile immaginare che una parte con-siderevole di questo museo all’aria aperta potesse esseresottratto all’influenza dell’uomo, al progresso come allora

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lo si intendeva, per lasciar fare alle forze dell’evoluzione.Un luogo, insomma, dove la natura potesse regnare sovra-na, affermando tutti i suoi diritti, e dove l’uomo potesse en-trare, sì, in quel vero e proprio giardino della creazione, masoltanto in punta di piedi, e magari togliendosi le scarpe al-l’ingresso come nelle moschee.Quando si è cominciato a progettare dei parchi non in con-tinenti così poco antropizzati, ma in Europa, è stato sem-pre più difficile sostenere l’idea del santuario. Inoltre, nel‘45, l’esplosione atomica di Alamogordo ha rovesciato laconcezione leopardiana del rapporto uomo-natura. Per ilpoeta – si rilegga La ginestra –, la natura ci è matrigna eda un momento all’altro può far crollare la nostra civiltà, ei nostri poteri, come un castello di carte. Il Vesuvio è il sim-bolo di questa sua onnipotenza, e insieme della nostra po-chezza. Invece il fungo atomico inaugura un’epoca nellaquale è vero proprio il contrario: è l’uomo, ormai, il “patri-gno” della natura, e dipende da lui se il pianeta diventerà ono, in un prossimo futuro, un deserto tecnologico. Il nuovoconcetto di biosfera ha infine globalizzato il mondo. Non èpiù possibile immaginare un territorio vergine dalle ricadu-te della nostra tecnologia. Sui parchi piovono, come altro-ve, i radionuclidi di Chernobyl e le piogge acide delle indu-strie, i raggi cosmici che passano attraverso i cosiddetti bu-chi dell’ozono, bombardano i poveri anfibi a rischio diestinzione ovunque, a Yellowstone come nei maceri del Ve-neto. E se la temperatura della terra cresce per l’eccessodi anidride carbonica nell’atmosfera, non c’è nessun luogoche possa sfuggire agli effetti nocivi di questo fenomeno.Ragion per cui, oggi, la natura può essere salvata soltanto

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dalla cultura, e il naturale, gestito dall’artificiale, dà originea una “natura seconda”, a una neonatura e il parco “santua-rio” cede così definitivamente il passo al “parco laboratorio”.Per cui, oggi, in una terra dove la crescita demografica sem-bra inarrestabile, e dove anche la crescita zero è comunquesopravvenuta ad elevate densità di popolazione, l’uomo de-ve venire considerato, nei parchi, non come un intruso, macome una presenza irrinunciabile, sia che vi abiti e vi prati-chi l’agricoltura o altre forme di attività, sia che, come turi-sta, voglia ricreare il suo spirito frequentando un frammen-to di natura superstite. Per cui il parco non mira più solo al-la conservazione, ma alla sperimentazione di una interazio-ne sostenibile tra l’ambiente e le opere dell’uomo. Con ilvantaggio che il parco santuario tende a chiudersi in sé stes-so, e nella peggiore delle ipotesi a funzionare come un alibi– rispetto la natura qui, e la distruggo dappertutto! –, men-tre il parco laboratorio, elevato a modello, tende ad allargar-si a macchia d’olio nel mondo. Perché, sia ben chiaro, o do-mani riusciremo a conciliare l’umanità e la biosfera, facendodi tutto il pianeta un parco, oppure la natura, distrutta danoi, userà questa distruzione, in un percorso di andata e ri-torno perverso, per distruggerci a nostra volta. Infatti, sicco-me noi facciamo parte della natura, distruggere lei, alla finfine, significa distruggere noi con lei. Evidentemente, le at-tività che l’uomo può condurre nei parchi devono esserecompatibili con la salvaguardia dell’ambiente e con la biodi-versità. Per cui se si tratta di agricoltura, sarà un’agricolturabiologica, o perlomeno sostenibile nell’accezione più ristret-ta del termine. E se si tratta di turismo, è necessario fare unpiccolo indugio esplicativo.

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Che cosa cerca, e ha sempre cercato, il turista? Perché sifa del turismo? In parole povere, il turista chi è, che cosavuole? Intanto, il suo primo desiderio è quello di uscire dalquotidiano, di abolirne il monotono tran-tran. Il turista im-magina una nuova vita, non permanente, però, se no sareb-be l’equivalente del “fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello.La sospensione della vita quotidiana viene concepita cometemporanea, e si configura così con tutte le caratteristichedell’avventura. Il turista non migra, parte per tornare. È unpo’ come Ulisse, va da Itaca a Itaca, attraversando i lestri-goni, i ciclopi e sopra tutto Circe. Però l’avventura deve es-sere piacevole, e sopra tutto senza rischi. Solo di recentequalche turista intende viaggiare in maniera più pericolo-sa, a stretto contatto con la realtà di luoghi lontani, e qual-cuno ci ha rimesso perfino la pelle. Però il turista canoniconon rinuncia di sicuro al comfort: vuole quello che ha a ca-sa sua, oppure quello che vorrebbe avere, aria condiziona-ta, ascensore, camere dell’hotel grandi e luminose, e cosìvia. Il turista di sempre è un consumista, e come tale undissipatore di merci, e, perché no, di beni ambientali. Dise-ducato a vivere civilmente il quotidiano, e la sua città, tra-sferisce questa nonchalance ambientale, questi vizi dissi-pativi, nel luogo d’arrivo. Per cui non chiude di sicuro ilcerchio, come vorrebbe Commoner, ma lascia ovunque letracce del suo passaggio. È un seminatore costituzionale dibarattoli di Coca-Cola vuoti, di involucri di plastica strac-ciati e di cicche, qualche volta accese, a celebrare con l’in-cendio dei boschi la sua avventura “nel verde”. Se dice diamare la natura, si tratta di un’attrazione fatale, che di-strugge l’oggetto del proprio amore al primo appuntamen-

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to. E se non lo distrugge, lo deturpa, e dato che lo sfregiosi moltiplica per mille, si può ben dire che gli esiti sianosempre catastrofici. Insomma, fino ad oggi il turista è sta-to l’allegoria di Attila e dei suoi Unni: dove passa l’erba ap-passisce e spesso, concretamente e non metaforicamente,brucia. Però da qualche tempo ho l’impressione che le co-se stiano cambiando, e che si stiano consolidando, in cam-po turistico, presso i suoi protagonisti di sempre, delle im-portanti novità. La faccenda è cominciata, secondo me,con una nuova consapevolezza ecologica, che ha generatouna “mentalità” emergente. L’esigenza del comfort fine a séstesso ha cominciato a entrare in crisi e l’esigenza di natu-ra, e di un contatto diretto con essa, ad affermarsi con cre-scente intensità. Si veda, come paradigmatico, quello che èaccaduto nelle città: fino all’inizio degli anni Sessanta, alculmine del boom, i cittadini fuggivano dalle case dei cen-tri storici, scomode, poco riscaldate, e con scale ripide eimpervie, per andare ad abitare in periferia, in condomini“attrezzati” o, nella migliore delle ipotesi, in quartieri resi-denziali in collina. Poi, a questo spostamento centrifugo èsucceduto, a poco a poco, un movimento centripeto. Quel-le case dei centri storici si sono trasformate in una speciedi nuovo Eden, e si è cominciato a decidere di abbandona-re l’ascensore per le scale ripide, il riscaldamento centra-lizzato per la stufa a gas e molti hanno, per dir così, ripor-tato i loro penati dentro l’antica cinta muraria, alla ricercadel tempo perduto, di un passato elevato a valore. Ma aquesto cittadino “storicista” si è opposto, alter-ego specu-lare, un cittadino “naturista”, che invece di tornare dallaperiferia al centro storico, ha deciso di andare oltre, e ha

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invaso i campi e le colline degli immediati, e anche non tan-to immediati, dintorni. Questo fuggiasco dall’area urbanaha di solito privilegiato i vecchi cascinali, abbandonati daicontadini migranti dalle campagne alle città nel miraggioche la catena di montaggio dell’industria sia meglio del la-voro della zappa. Riveduti e corretti, ma non troppo, que-sti edifici prodotto di una fiorente architettura rurale, sonodiventati le chiese del culto della natura. Che importano idisagi di stanze poco riscaldate e di servizi igienici di fortu-na, se all’alba ci può risvegliare il canto degli uccelli e di se-ra il cri-cri malinconico dei grilli può conciliare il sonno do-po le fatiche del giorno? Tutti questi disagi, urbani o rura-li, sono diventati premonitori di una perfetta letizia, per ci-tare frate Leone e i Fioretti di san Francesco, a sua vol-ta antesignano e apologeta della vita agreste e di tutte lecreature che la popolano. Ma questa convergenza/diver-gente, mi si consenta il bisticcio verbale, del cittadino chetorna al centro storico e di quell’altro che si “ruralizza”, haconsentito il formarsi di un nuovo modo di considerare ilterritorio, come il luogo in cui i beni naturali e i beni cultu-rali entrano in sintonia, diventando, per certi versi, la stes-sa cosa. In altre parole, la specie animale o vegetale minac-ciata di estinzione ha acquistato la stessa dignità, ed è sta-ta investita dalle stesse motivazioni conservative, della pie-ve sulla collina, o del palazzo patrizio in città. Se la fauna ela flora sono un prodotto dell’evoluzione, e la chiesa e il pa-lazzo della storia, noi partecipiamo, come esseri viventi, ecome creature culturali, ad entrambi i processi, e contra-stare i bracconieri e i palazzinari fa parte della nuova eticaambientale, da leggersi nel suo significato più ampio. Si

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tratta di cose non solo nostre, ma delle generazioni future,e come sta scritto nella Bibbia, “chi distrugge la propria ca-sa sarà l’erede del vento”. Tutto questo che ho detto nonriguarda soltanto l’esigenza di conservare, ma di come be-neficiare di quei beni che conserviamo. In che senso? Ri-torniamo, allora, alla domanda che abbiamo posto nel tito-lo. Non solo il turismo nei parchi è possibile, ma è addirit-tura auspicabile, perché se le popolazioni umane residentivedono nell’avvento di un territorio protetto, e da conser-vare, soltanto un luogo di vincoli e di limiti, sono per forzacontrarie, e tutto deve essere imposto de jure, generandomalcontenti e perfino sabotaggi. Se, invece, il parco si con-figura come l’inizio per loro, non solo di una qualità dellavita migliore, ma di una nuova attività economicamente in-teressante, diventa possibile istituire un clima di protezio-nismo spontaneo, e potrei perfino dire di “volontarismoecologico”. Per fortuna il turista, come abbiamo già accen-nato, sta cambiando e, per dirla in metafora, si tinge sem-pre più di verde. In altre parole questo turista emergente,che vorrei chiamare edenista, non si interessa più tanto al-l’albergo quanto a quello che ci sta attorno, cerca piste ci-clabili nel bosco e nei prati, e ama le testimonianze del pas-sato quanto gli animali che può incontrare spostandosi apiedi, o su ruote di bicicletta, in quella nuova arcadia. E, in-somma, ama emblematicamente, divenuto un emulo diGuido Gozzano, i fiori “non colti”, da contemplare e non daprelevare. Nel parco laboratorio, in altre parole, l’uomonon entra più in punta di piedi, ma ci abita e ci lavora a pie-no titolo, si potrebbe perfino dire come un elemento fauni-stico di pari dignità degli altri, e se lo visita per trovare una

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sintonia con la bellezza del mondo, è benvenuto purché la-sci, al suo transito, per quanto sia possibile, le cose comesono. Si passa, così, dal parco chiuso al parco aperto, dalparco invisibile al parco visibile, dal parco “fa da sé” al par-co “gestito”, dal parco sacro al parco profano. Dal santua-rio al laboratorio, è detto tutto. Certo, non bisogna lasciar-si fuorviare, in questa nuova concezione, dai fondamenta-lismi. Per esempio, le zanzare, in un parco come il delta delPo, o come la Camargue, sono una presenza costitutiva diquel particolare ecosistema. Presenti da sempre, entranodi concerto nelle reti alimentari: cibo come larve dei pesci,e come adulti degli uccelli, o dei pipistrelli a notte fonda.Ragion per cui, se pure si potesse, e non è il caso, ridurle azero sarebbe un vero e proprio attentato a quel particolareambiente. Anche perché, come sa ogni buon ecologo, vuo-tare una nicchia ecologica è pericoloso, perché i candidatia occuparla potrebbero essere ben peggiori degli uscenti.Per esempio, è arrivata nel nostro paese l’Aedes albopic-

tus, la ben nota “zanzara tigre”, più aggressiva delle specielocali, e vettrice nei luoghi d’origine di pericolose malattie.Bene, se tutte le nicchie delle zanzare autoctone fosserostate vuotate da interventi, che in tal caso non esiterei adefinire magici, la nuova venuta potrebbe diffondersi confacilità maggiore di quanto non possa fare ora. Tuttavia, inparchi con ricca popolazione umana stanziale, e con un ap-porto temporaneo di turisti, non è possibile consentire al-le zanzare di riprodursi indisturbate, diventando delle mol-titudini. Quindi è necessario intervenire, per ridurne ladensità e il disagio di chi abita stabilmente o temporanea-mente nelle aree più infestate. Certo, è necessario che i

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metodi prescelti siano soft, e la lotta biologica con impiegodi Bacillus thuringiensis israelensis o di B. sphericus

contro le larve nei luoghi di proliferazione, in precedenzamappati, assolve pienamente alle necessità di non pertur-bare a fondo l’ecosistema. Certo, sarebbe meglio non farniente, però però... In alcuni parchi si è deciso di tener du-ro con questa idea, e quali sono stati i risultati? Le zanzaresi sono riprodotte in gran numero negli stagni, e nelle pa-ludi protette, e il vento le ha portate, come adulti, al di fuo-ri. Al di là dei confini “sacri”, le popolazioni umane localihanno richiesto e ovunque ottenuto che si facciano degliinterventi chimici a largo spettro d’azione, ecologicamentedistruttivi, ma i soli possibili contro le miriadi di piccolivampiri. Alla fin fine la salvaguardia del parco ha compor-tato, così, la distruzione del territorio che lo circonda. E sa-pete chi è andato perfettamente d’accordo con i “verdi”fondamentalisti? Ma i venditori di insetticidi, ben contentiche nel parco esista un bel salvadanaio di larve, così da ir-rorare di molecole di sintesi gli adulti non appena ne esco-no dai confini. In parole povere, il diavolo si concilia conl’acqua santa e il “verde”, forse senza saperlo né capirlo,consente alle multinazionali della chimica di fare degli af-fari d’oro! Perché, spesso, ogni fondamentalismo, lo si staverificando ovunque nel mondo, è una maniera per darsi lazappa sui piedi, o di aprire un’autostrada per l’inferno la-stricata, come vuole il proverbio, di buone intenzioni. Perconcludere: se da un lato il nuovo turista sta maturandodelle esigenze, per dir così, ecocompatibili, i residenti deiparchi sono chiamati a elaborare delle risposte adeguate.Per esempio, l’agriturismo è una delle attività suscettibili

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di porre in sintonia il turismo con la conservazione e insenso più lato l’ecologia con l’economia. Ma a questa formadi ospitalità che non prevede, come punti nodali, televisio-ne e aria condizionata, ma bei pergolati e canto di usigno-li, deve corrispondere un’agricoltura condotta secondonuovi criteri, biologica o, in senso lato, sostenibile. Un’agri-coltura, cioè, che preveda un incremento della biodiversi-tà: siepi, filari d’alberi, scoline inerbite attorno a campi col-tivati di piccola estensione. Che pratichi inoltre una ferti-lizzazione principalmente organica, che abbia la rotazionecome consuetudine, e che faccia un ampio ricorso alla lot-ta biologica come mezzo di contenimento degli organismidannosi. Questa agricoltura può essere semplicemente de-stinata alla mensa dell’azienda agrituristica, che può offri-re così ai suoi ospiti dei cibi esenti da residui tossici ma an-che, in senso più lato, mirata ad alimentare quel mercatoverde che si sta sempre più consolidando nel mondo, ma-gari sotto la protezione, e la promozione, di un marchio chegarantisca la salubrità e, per dir così, la “provenienza ede-nica” del prodotto ai consumatori. Suggerendo a quelli dal-la vista più lunga, come quel che mangiano, e che pongononella cornucopia di frutta e verdura sulla loro mensa, siastato ottenuto nel rispetto dell’ambiente.L’agriturismo e l’agricoltura biologica, o per lo meno soste-nibile, sono le due facce della stessa medaglia. Un modoper poter istituire dei parchi anche in futuro, non a dispet-to dei santi, e cioè dei residenti, ma con il loro consenso.Che, alla fin fine, il numero dei turisti che possono accede-re all’area protetta debba essere rigorosamente regola-mentato e che delle porzioni del parco possano restare in-

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frequentabili, aree del tutto naturali per quanto sia ancorapossibile, sono cose che fanno parte di una strategia piùgenerale, da prendere in esame volta per volta. Ma in ter-mini scientifici, e non emotivi, secondo ragione e non se-condo passione. E senza fondamentalismi, sia ben chiaro!

La savana del Serengeti

Il perché questa savana abbia una così grande importanzada venir considerata come uno degli ecosistemi più pecu-liari del pianeta è rintracciabile nel fatto che si presentacome uno dei luoghi dove la biodiversità dei grossi mammi-feri si è affermata con una straordinaria dovizia di specie.Dal punto di vista ecologico, questa savana africana si con-figura come un luogo dove le piante erbacee prevalgononettamente sulle arboree, per cui il mare d’erba, dettoveld, si estende fino all’orizzonte, interpolato qua e là damacchie povere di arbusti e da alberi, alcuni con le fogliespinose, le acacie, e altri più rari, i giganteschi baobab. Leorigini e la permanenza di questo assetto botanico è con-troversa. La maggior parte dei geografi lo giudica il risulta-to di un clima molto particolare, che prevede l’alternanzadi un periodo di pioggia, della durata di tre-quattro mesi, edi un periodo di siccità, solitamente molto più lungo. Que-sta successione di umidità e di siccità non consentirebbe ilconsolidarsi di una vegetazione arborea, e il tessuto erbo-so subirebbe un’alternanza di rigoglio vegetativo e di pro-lungato appassimento. Le pozze d’acqua, come abbevera-toi naturali, dipenderebbero, a loro volta, dalla piovosità e

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costringerebbero gli animali del Serengeti a compiere, nelperiodo della siccità, delle grandi migrazioni per trovarnequalcuna non ancora completamente esaurita. Sembra chegli animali prevedano con un certo anticipo l’arrivo dellapioggia e si dice si spostino nei luoghi dove cadrà più co-piosamente. Un’altra ipotesi dell’origine dell’assetto bota-nico della savana è quella che vede negli incendi, un even-to abbastanza frequente durante la stagione secca, la ra-gione per cui una vegetazione di tipo forestale non ha avu-to nessuna possibilità di affermarsi. Comunque sia, lo ripe-tiamo, la savana del Serengeti è uno dei luoghi dove la bio-diversità dei grossi mammiferi si è espressa nel suo massi-mo splendore, dal punto di vista delle specie e della bellez-za delle forme. Dal momento che noi, come animali, faccia-mo parte dei Mammiferi, sembra che la savana sia statal’ambiente originario che ha consentito l’avvento dei nostriprogenitori. Le numerose specie di animali presenti forma-no una grande comunità con diverse modalità di interazio-ne e il rapporto più comune è quello tra la preda e il pre-datore. Le prede sono gli erbivori, che costituiscono il pri-mo anello della catena alimentare, una metafora con cuiviene indicata la sequenza di chi mangia e di chi vienemangiato. I predatori sono per lo più i grandi felini: i leoni,e in particolar modo le leonesse, che cacciano in gruppo esono in grado così di abbattere anche un grosso bufalo, ighepardi, che inseguono la preda raggiungendo la velocitàdi un’auto di piccola cilindrata, i leopardi, che praticanol’agguato notturno. Il menù di questi formidabili cacciatoriè costituito dagli gnu, dalle antilopi, dai bufali, dalle zebree da altre prede occasionali. Gli scienziati si sono spesso

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stupiti, fin dai tempi di Aristotele, della singolare circo-stanza in forza della quale le popolazioni degli animali ten-dono, dal punto di vista demografico, a rimanere stabili.Uno dei fattori più macroscopici è la predazione, ma nondeve essere il solo, perché sembra ne entrino in gioco altripiù sottili, che coinvolgono le ghiandole surrenali e le lorosecrezioni.Gli ecologi hanno coniato la metafora della Regina Rossa,che Alice incontra, durante il suo Viaggio nel Paese delle

Meraviglie, su di una gigantesca scacchiera. La ReginaRossa dichiara alla stupefatta Alice che, per star ferma, de-ve correre sempre più in fretta. Accade qualcosa di similequando, per esempio, un leopardo insegue una gazzella. Sela gazzella corre più forte di lui, il leopardo resta a boccaasciutta, se è vero il contrario, si procura un lauto pasto. Lapressione di selezione consentirebbe solo alle gazzelle piùveloci di sopravvivere e di riprodursi, ma la stessa cosa nondovrà forse verificarsi anche per il leopardo? I più velociraggiungeranno le prede meno veloci e si produrrà, così,un circolo virtuoso in forza del quale la velocità del preda-tore incentiverà la crescita della velocità della preda e vi-ceversa. È stato notato come questo meccanismo somigliall’escalation della corsa agli armamenti tra le nazioni: setu inventi la bomba atomica, io rispondo con la bomba H,se elabori un super-missile, io trovo un congegno che loneutralizza. Nel Serengeti gli uccelli, vista la mancanza diuna ricca vegetazione arborea, non sono molto frequenti.Ricordiamo gli avvoltoi, che sono gli spazzini della savana.Altri demolitori di carogne sono le iene che, agendo ingruppo, possono contendere le prede abbattute perfino a

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un leopardo e a un leone. I rapporti preda-predatore nonsono i soli a contrassegnare il metabolismo ecologico dellacomunità presente nella savana: esistono anche delle sin-golari alleanze che, se non sono proprio delle simbiosi, co-stituiscono tuttavia i primi segnali di un mutuo appoggio.Gli struzzi per esempio, che sono degli uccelli, come si sa,inetti al volo, per la loro carena poco prominente, puntod’attacco inane per i muscoli alari, sono visti spesso incompagnia degli gnu e sembra che, data la loro altezza – ilcollo di questi grandi uccelli supera i due metri –, siano ingrado di osservare con notevole anticipo l’arrivo di un pre-datore, e quindi costituirebbero delle validissime sentinel-le. Fenomeni di grande interesse sono poi stati osservatinel Serengeti, che per gli zoologi si presenta come un granlaboratorio all’aperto. Si considerino alcuni aspetti davverovistosi del mimetismo animale: le macchie del leopardoconsentono la somatolisi percettiva del suo corpo, che tral’erba, o nel folto di un cespuglio, si disgrega in tanti pun-ti, perdendo gran parte della sua visibilità. E che dire poidelle zebre, le cui strisce bianche e nere, quando fuggonoin gruppo, formano un grande puzzle in movimento checonfonde la vista dei predatori? Un effetto da pittura opti-

cal! Le due forme di mimetismo – attivo: il leopardo si ren-de invisibile alle sue prede, passivo: le zebre confondono lavista del predatore – sono due grandi pilastri della soprav-vivenza, che l’evoluzione non ha ancora spiegato del tutto.Il regime alimentare, come abbiamo già accennato, deglianimali in savana, che equivale a uno scambio energetico,si divide in erbivori, che brucano l’erba e in carnivori, chemangiano gli erbivori. La giraffa è la sola che, essendo l’ani-

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male più alto del pianeta in forza del suo lungo collo, sia ingrado di brucare le foglie dell’acacia, e lo fa con grande pe-rizia, perché deve spostare con la lingua le spine di cuiquesta pianta è riccamente dotata. Ma l’interesse per la sa-vana ci chiama, come abbiamo già accennato, direttamen-te in causa. Perché una delle ipotesi delle nostre origini,forse la più accreditata, è che sia stato questo particolareambiente a darci, per dir così, il suo battesimo. Le coseavrebbero avuto questo decorso. C’era una volta, nel Cor-no d’Africa, una grande foresta pluviale, in cui uno scim-mione, oggi estinto, forse un dryopiteco?, viveva felice-mente, saltando di ramo in ramo, e alimentandosi di un ci-bo sempre abbondante, costituito da foglie, frutti e semmaiqualche insetto. Un’improvvisa catastrofe, la Valle del Riff,separò questa foresta in due parti, l’una destinata a resta-re come prima, l’altra, soggetta a una nuova gestione cli-matica, a perdere la maggior parte degli alberi, e a dare ori-gine, per l’appunto, alla savana. Mentre gli scimmioni rima-sti nella foresta non dovettero subire alcun cambiamentoper adattarsi a delle nuove circostanze e rimasero proba-bilmente simili allo scimpanzé, gli scimmioni che si trova-vano nella savana furono sottoposti a una pesante sfida disopravvivenza. Il dilemma fu per loro cambiare o morire.Cambiarono. Intanto, la pelliccia che nella foresta era utilea proteggere la pelle dai vari traumi, sotto il sole implaca-bile della savana era diventata impacciante. Non consenti-va la dispersione termica del corpo e se si doveva correresi rischiava l’infarto. Ragion per cui furono, nel tempo, digenerazione in generazione, favoriti gli individui con unapelliccia sempre più esigua, fino a che siamo diventati

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quella Scimmia nuda che Desmond Morris attribuisce co-me definizione peculiare alla nostra specie. Ma i guai nonerano finiti. L’esposizione al sole della pelle divenuta nudapoteva procurare, visto l’inclemenza dell’astro diurno, del-le ustioni e delle neoplasie, ragion per cui gli individui conla pelle più melanizzata risultarono favoriti, fecero più figli,enfatizzando la tendenza che finì per attribuire all’uomo unbel colore oscillante tra il marrone e il nero ebano. Ricor-diamo sempre che l’uomo nero è stato il nostro progenito-re! Quando poi, dall’Africa, le popolazioni umane si sonospostate prima in Asia e in Europa, dopo in America e inAustralia, la tintarella impediva o rendeva difficoltosa laformazione delle vitamine che si formano sotto la cute acausa della luce solare, e quindi la pressione selettiva in-vertì il suo bersaglio, la pelle più nera risultò sfavorita ri-spetto a quella un po’ meno nera, e così ha fatto la suacomparsa l’uomo bianco.Per cui, quando incontrate un uomo di colore, pensate chesiete dei suoi discendenti. Vostro nonno, insomma!

Statue biologiche, una digressione sull’artee l’ecologia

Se l’arte crea della novità, e quindi dell’informazione, an-dando in senso opposto all’entropia, la vita fa lo stesso, el’evoluzione non è da meno. Ha avuto ragione Bergson a in-titolare la sua opera più celebre L’evoluzione creatrice.La specularità, teorizzata da molti artisti delle avanguardiestoriche del Novecento, tra l’arte e la vita, è ben più che

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l’espressione di una poetica, o una semplice metafora. So-prattutto oggi che le biotecnologie stanno progettandodelle trasformazioni vistose negli esseri viventi, l’arte e lavita hanno cominciato a puntare su di una loro coinciden-za. Se il secolo scorso è stato l’età della fisica, quella cheviviamo si annuncia come l’età della biologia. In tal sensoi laboratori dei biologi stanno diventando sempre più si-mili a degli atelier, dove si inventano delle nuove creatu-re, dei mostri, sì, ma nel significato etimologico più pro-prio di prodigi. Il mostro è prodigioso, e come tale evocainsieme la meraviglia e lo spavento. Le scoperte, primadella struttura e del funzionamento del DNA, poi delleforbici enzimatiche che, per dir così, possono tagliarlo ericucirlo a piacimento, hanno messo i biologi in grado diprodurre delle novità viventi, completando la biodiversitànaturale, minacciata da continue estinzioni, con una bio-diversità artificiale, che potrà essere incrementata a vo-lontà. Come giudicare, per esempio, la pecapra, un esse-re derivato da una ars combinatoria, da un puzzle di ge-ni di capra e di pecora, se non che si tratta di una inven-zione biomorfa, simile a quella sognata nei bestiari me-dioevali o che fa capolino nei quadri dei pittori surreali-sti? Se il surrealismo voleva annettere i sogni alla pittura,la pecapra è un sogno che i biotecnologi hanno conse-gnato alla natura. Le biotecnologie fanno del principio delpiacere, di cui ci ha parlato Freud, un fratello siamese, enon un antagonista, del principio di realtà, reificando nel-la carne i nostri sogni più vertiginosi e le nostre più ellit-tiche fantasticherie. Diventa così legittimo congetturareche gli artisti del prossimo futuro non agiranno più con lo

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scalpello sul marmo o con il fuoco sul metallo per otte-nerne delle sculture, ma manovreranno degli enzimi direstrizione, modellando delle statue di carne che potran-no rispondere con un grido a quel colpo di martello che laleggenda vuole abbia vibrato Michelangelo al suo Mosèperché desse segno di vita. Le due culture, nella formula-zione di Snow, andranno in rotta di collisione, e la scien-za diventerà un’arte e l’arte una scienza. Si manifesteran-no perfino delle diverse correnti estetiche, che avrannocome archetipi fondatori il surrealismo o l’iperealismo,l’objet trouvé di Duchamp o il dripping di Pollock. Fac-ciamo insieme un po’ di futurologia: ci saranno, forse, deibioartisti che, lavorando sul DNA, vorranno ottenere deinuovi organismi eterocliti, mandando a spasso la chimeradi Arezzo, fatta reale, per le vie di questa città? Ce ne sa-ranno degli altri che, clonando degli organismi, si daran-no a un’arte realista, anzi iperrealista, che reggerà lospecchio alla natura? O ancora, degli operatori esteticipiù avventurosi tratteranno il clone come lo scolabottigliedi Duchamp, un prodotto biotecnologico da spaesare,spostandolo dal laboratorio al museo? O anche, simulan-do i pittori informali che hanno elevato il caso a virtualeoperatore estetico, ci sarà chi, agendo in maniera stoca-stica sul genoma e inducendo con mezzi chimici e fisicidelle mutazioni, promuoverà la comparsa di embrioni de-formi, di animali a due teste o a sei zampe, da mettere informalina e da esporre in un nuovo museo alla Spallanza-ni, destinato a celebrare i fasti di una estetica del terato-logico? Tutto sarà fatto con cellule, con tessuti viventi,con organi, con strutture scheletriche e muscolari, con

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tutti i pezzi anatomici del corpo! Ma non si creda che l’uo-mo non abbia già agito, nel corso della preistoria e dellastoria, in modo simile, anche se impiegando dei mezziempirici e non propriamente scientifici. Si pensi al gran-de fenomeno della domesticazione, che ha prodotto delleforme di animali e di piante del tutto nuove. Si consideri,per esempio, la genesi del mais, una pianta che rivaleggiacon il grano e con il riso nel nutrire la popolazione mon-diale. Secondo una teoria, che mi sembra la più credibile,al principio, nella penisola dello Yucatàn, prosperava, eprospera tuttora, una pianta erbacea, il teosinte, con i se-mi disposti in una serie lineare ascendente, semi che amaturità cadono al suolo, consentendo alla specie di ri-prodursi e di diffondersi nell’ambiente. Seimila anni fa,poco più poco meno, gli agricoltori locali avevano decisoche questi semi costituivano un cibo troppo nutriente perlasciare che, dopo la maturazione, si disperdessero perterra, rendendone impossibile la raccolta. Attraverso lafuga dei millenni, dei geniali quanto anonimi selezionato-ri hanno scelto quei mutanti del teosinte che presentava-no dei semi agganciati saldamente alla pianta, in contra-sto con la selezione naturale, che li avrebbe spazzati via,perché inadatti alla conservazione della specie. Il teosin-te delle origini, posto sotto tutela dagli amerindi, si è co-sì trasformato nel tempo in una pianta più alta e maesto-sa, con semi agganciati tutto intorno all’asse centrale,saldati al punto che la pianta ha perduto ogni chance diriseminarsi da sola. Il mais, diventato in tal modo unapianta ammalata d’uomo, incapace di riprodursi senza ilnostro aiuto, è a tutti gli effetti un mostro biologico. Non

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si pensi, tuttavia, che se il criterio che ha guidato i suoicreatori è stato quello dell’utilità, siano stati assenti, nelsuo modellamento, dei fattori estetici. I grandi produtto-ri di sementi nordamericani, quelli che hanno dato origi-ne alla corn-belt, facendo degli Stati Uniti uno dei paesicardine di questa produzione cerealicola, hanno seguitospesso, nelle loro scelte, i dettami di un empirismo ricca-mente contaminato da motivazioni estetiche. A riprova,James Reid, uno dei grandi selezionatori di mais dell’Ot-tocento, era un pittore mancato, e quando gli chiedevanoperché sceglieva quelle spighe e non altre, rispondevache erano le più belle. Ma se la creazione del mais ha pursempre obbedito a esigenze utilitarie, e l’arte è, invece,come il gioco, premio a sé stessa, l’esempio del pesce ros-so costituisce una più pregnante analogia. Questo pescio-lino, che abita negli stagni, ed è di colore verdastro, erapescato dagli antichi cinesi per essere messo in graticola.Però l’animaletto presentava dei mutanti di un bel colorerosso, che avevano finito per attirare l’attenzione dei pe-scatori e degli artisti. Cominciò così, attorno agli anni1000, una vera e propria saga di acquacoltura, che ha vi-sto il piccolo frequentatore delle acque dolci trasformar-si per selezione in tante forme sorprendenti. Nel 1200 esi-stevano già dei veri e propri allevamenti, e la variante ros-sa veniva smerciata non per scopi alimentari ma per veni-re sistemata in acquari posti in bella vista nelle case, co-me fossero delle sculture viventi. Ma il bello doveva anco-ra venire: dal 1500 in poi fecero la loro comparsa nei cir-cuiti mercantili dei pesci con grandi pinne soprannume-rarie, a mo’ di vele, oppure di piccole dimensioni, pesci-

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uovo, o ancora con grandi occhi telescopici. Se in Cina ildrago costituisce una figura centrale della mitologia, queipesci erano delle sue versioni biologiche, dei mostruosiinvasori, usciti dall’onirico, che si insediavano nel cuoredel reale. Nell’Ottocento questa alchimia morfologicaprodusse il pesce a testa di leone, o se si preferisce di fra-gola, selezionato dai Giapponesi, affascinati, loro cheamano tanto i bonsai, da questo modellamento che puntasulle strutture biologiche. Gli esempi potrebbero esseremoltiplicati: dal cane pechinese, razza da grembo per ec-cellenza, che ha il muso schiacciato e gli occhi tondi perevocare la facciotta di un bambino, ai fiori che popolanole serre dei vivaisti e le terrazze delle nostre case, con-traffazioni ingigantite o multicolori delle specie botaniched’origine. Come si vede, le biotecnologie proseguono sul-la via imboccata da noi fin dai tempi più remoti, quellache vuole piegare la natura ai nostri bisogni e ai nostri ca-pricci. Però, i poteri acquisiti attualmente dall’uomo inquesta operazione demiurgica, da scimmia di Dio, rischia-no di trasformarsi in un pericoloso boomerang e di pro-durre quella che taluno ha paventato come una “Cherno-byl genetica”. Il pericolo è che l’arte genetica diventi undadaismo dei geni, una poetica non delle parole ma deigeni in libertà. Gli scienziati sono sempre stati costituzio-nalmente imprudenti, e gli artisti non brillano certo dellavirtù opposta. Lavorare sulla vita non è lo stesso che la-vorare sulla pietra, e in futuro questa nuova estetica do-vrà, come tutte le biotecnologie, confrontarsi sempre piùcon l’ecologia e con l’etica.

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Chernobyl, la strage dei cani abbandonati

Il disastro di Chernobyl si è presentato come una delle ca-tastrofi più spaventose del secolo appena passato e i dannigenetici che sono stati provocati dagli uomini a tutti gli es-seri viventi del nostro pianeta non potranno mai venirecomputati con qualche esattezza. Inoltre, dato che certinuclidi emessi nell’ambiente hanno lunghissime persisten-ze, questi danni dureranno attraverso molti secoli a venire.Tuttavia, in questa tragedia c’è un aspetto che, benché giu-dicabile da molti assolutamente marginale, mi ha di recen-te toccato il cuore.E penso possa essere così per chi si è legato d’affetto con unanimale domestico, cane o gatto che sia. Col sopraggiunge-re del tempo delle vacanze, i giornali e le televisioni ripro-pongono puntualmente, un anno dopo l’altro, all’attenzionedi tutti, una triste consuetudine, divenuta finalmente reatopenale, e cioè l’abbandono dei cani da parte di sconsideratipadroni in rotta per le vacanze. È sufficiente sapere qualco-sa della psicologia del cane per capire che si tratta diun’azione crudelissima, perché questo animale considera ilpadrone non solo come l’emulo del capo branco che avevaquando era ancora un lupo, ma addirittura l’asse del mondo.Per cui l’abbandono rende il cane un povero essere smar-rito e quasi folle, che vaga alla ricerca del padrone perdu-to, per finire sotto un’auto o nel lager di un canile. Ma tor-niamo a Chernobyl: di recente in un libro di un giornalistaucraino che, trent’anni dopo, rivisita il disastro, ho lettouna storia che, come ho detto all’inizio, mi ha profonda-mente turbato. Quando si è dovuto evacuare la popolazio-

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ne dei dintorni della centrale, i cani e i gatti, contaminatidalle radiazioni, sono stati per legge abbandonati sul posto.Che scene devono esserci state! I poveri animali hannotentato, con ostinazione, di salire sui camion per seguire iloro padroni nell’esilio, e sono stati scacciati dai militaricon tutta la malagrazia immaginabile, strappati dalle brac-cia dei bambini, allontanati a calci e urlacci, alcuni sono fi-niti schiacciati sotto le ruote dei veicoli, mentre altri si so-no dati all’inseguimento degli automezzi che si allontana-vano celermente fino a cadere al suolo, stroncati dalla fati-ca, dopo decine di chilometri. In seguito, le autorità hannoistituito un piccolo nucleo di tiratori scelti, destinati a uc-cidere i poveri animali vaganti sul territorio perché divenu-ti radioattivi e perfino pericolosi per chi li avvicinasse. Po-veri cani, alla vista dell’uomo, che era sempre stato per lo-ro l’amico per antonomasia, si avvicinavano scodinzolandogaiamente ai loro carnefici per essere fucilati sul posto.Uno di questi esecutori racconta che una volta, di fronte aun cagnolino particolarmente affettuoso e tremebondo,non ha avuto il coraggio di premere il grilletto ed è fuggitocon le lacrime agli occhi lasciandolo incolume. Più difficileè risultato lo sterminio dei gatti, abbandonati e condanna-ti a morte a loro volta, ma è logico che sia stato così, per-ché i gatti non si fidano del tutto dell’uomo, e in questo ca-so avevano perfettamente ragione!

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Gaia Onlus, il pianeta che vive e che legge

L’Associazione Gaia Animali & Ambiente nasce nel 1995 per iniziativa di ungruppo di giornalisti, di ambientalisti, di animalisti e di imprenditori nel campodella comunicazione, tra i quali Edgar Meyer (attuale presidente), ricercatore,storico dell’ambiente e giornalista, Stefano Apuzzo, ex parlamentare, giornali-sta ambientalista e scrittore, Stefano Carnazzi, scrittore e direttore editoriale diLifegate Magazine e Lifegate Radio. L’Associazione promuove, da subito, campagne di forte impatto mediatico. Leiniziative sono prevalentemente contro l'abbandono degli animali domestici,per la difesa delle foreste pluviali, per la tutela degli animali selvatici, per lo svi-luppo sostenibile, per la diffusione dei prodotti “bio”, per la salute umana. L’As-sociazione viene riconosciuta come Onlus – Organizzazione Non Lucrativa diUtilità Sociale e collabora con ministeri e istituzioni nazionali e locali. Dal settembre 2004 viene creato Gaia Lex, il centro di azione giuridica dell’as-sociazione che si occupa di dare informazioni e risposte alla richiesta di assisten-za legale dei cittadini sui temi dei diritti animali e della salvaguardia ambientale. La collaborazione con aziende amiche dell’ambiente e la denuncia di attivitàproduttive devastanti per l’ecosistema rendono Gaia un’associazione attentaal mondo delle imprese e alla comunicazione. Dal 2006 Gaia è titolare della collana editoriale intitolata “I Libri di Gaia – Eco-alfabeto” con la casa editrice Stampa Alternativa, con la quale sono stati pub-blicati diversi libri sulle tematiche dell’ambiente e della sostenibilità, dei dirittianimali, della salute umana e della sicurezza alimentare. Tra i titoli pubblicati ri-cordiamo: Fido non si fida, Qua la zampa, Bimbo Bio, Homo scemens, Dallaluna alla terra, Quattrosberle in padella, Farmakiller, EcoLogo, Cosmesi natu-rale pratica, Le eco-conserve di Geltrude, Ecoalfabeto, United business of Be-netton, Senza trucco, La città del Sole, Bici ribelle, Quattrozampe in tribunale,Ambientiamoci.

Gaia Animali & Ambiente Onlus è in Corso Garibaldi 11 a Milano tel/fax 02.86463111 – mail: [email protected]

con sedi decentrate in diverse città italiane, in Congo (R.D.) e in Gabon.

www.gaiaitalia.it

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Indice

Introduzione di Edgar Meyer 5

I l best i ar i o vi vent e 9

Le mi e api e qual che f or mi ca 22L’ape e l’uomo 22L’ape e il diavolo 23L’ape femminista 25L’ape Robinson 26L’ape farmacista 28L’ape guerrafondaia 29L’ape bussola 31L’ape pensante 32L’ape neopitagorica 34L’ape matematica 35L’ape stakanovista 37L’ape e la banca del seme 38L’ape futuribile 40La formica e la lotta biologica 41Formiche d’équipe 43La formica cieca 44La formica “ventisei-uomini” 46La formica drogata 47La formica robot 49

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I mi ei gat t i e qual che cane 51Il gatto allo specchio 51Il gatto un po’ genio 52Il gatto a parlamento 54La gatta psicosomatica 55Il gatto e la morte 57Il gatto “gesticola” 58Il cane simulatore 60La cagna isterica 61

Best i ar i o d’ amor e 63C’è amore e amore 63Ditelo coi doni 64Afrodisiaci salutari 66Castità da molecole 67Musica, “maestro”! 69Il colibrì in discoteca 70Tristano è una volpe 72Ti fiuto, e so chi sei 73Gelosia, che pena! 75Coppia e nevrosi 76Non ci si fidi del sesso 77Castrazione con “trillo” 79Oh, Lolita! 80Misteri del seno 82Smancerie da ristorante 84L’insetto è un play-boy 85Kamasutra, con libellule 86Scopofilia, per piccina che tu sia... 88Il verme e le ciccione 89Tra moglie e marito 91

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Un poco di bi oni ca 93Progetti da lombrico 93L’emulo di Edison 94Le zampe hanno orecchie 96Antenne d’autore 97Guerra chimica 98

Spazi o, densi t à, aggr essi vi t à 100Il pesce a teatro 100Il giusto locatario 101Il cervo volante è cavalleresco 103La scimmia assassina 104Follia da folla 106Carnefici e vittime 107Fissare è sfidare 109Erode è un langur 110

Del f i ni , pi ngui ni , t opi e mol t i al t r i 112Il pinguino ci guarda 112Il delfino è di scena 113Il beluga burlone 115Il topo e il cioccolato 116Uomini e topi 117Per amore di un topo? 119Il pappagallo non sa il tedesco 120In barba a Chomsky 121Come Barbanera 123Il piccione sa contare 124Il piccione mistico 125Il piccione migratore 127L’albero del fulmine 128Pensare, prevedere, soffrire 129Il suicidio e lo scorpione 131

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L’agnello pazzo 132Vegetariano è bello? 134L’animale immaginario 135

Al t r i scr i t t i 138A scuola dalle analogie 138Scienziati e stregoni 144Qualche appunto ecologico sugli animali in città 153Dal parco santuario al parco laboratorio: è possibile un turismo nei parchi? 160La savana del Serengeti 170Statue biologiche, una digressione sull’arte e l’ecologia 175Chernobyl, la strage dei cani abbandonati 181

Gaia Onlus, il pianeta che vive e che legge 185

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Finito di stampare nel mese di marzo 2011

dalla tipografia Iacobelli srl, Pavona (Roma)

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