NUOVI CODICI DEL LAVORO - Scuola di Psicoterapia€¦ · Occorre un’adeguata gestione dei fattori...

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A cura di Nicola A. De Carlo Marcello Nonnis NUOVI CODICI DEL LAVORO CONTRIBUTI PER LA SALUTE E IL BENESSERE NELLE ORGANIZZAZIONI TPM Edizioni

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A cura di

Nicola A. De Carlo

Marcello Nonnis

NUOVI CODICI DEL LAVORO CONTRIBUTI PER LA SALUTE

E IL BENESSERE NELLE ORGANIZZAZIONI

TPM Edizioni

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A cura di

Nicola A. De Carlo

Marcello Nonnis

NUOVI CODICI DEL LAVORO CONTRIBUTI PER LA SALUTE

E IL BENESSERE NELLE ORGANIZZAZIONI

Istituto di psicoterapia, intervento sul disagio in ambito organizzativo e valorizzazione della persona

(G.U. n. 263 dell’11 novembre 2005)

www.psiop.it

www.informazionefiducia.it

TPM Edizioni

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Progettazione, cura editoriale e promozione:

Psiop – Istituto di psicoterapia, intervento sul disagio organizzativo e valorizzazione della persona

Il volume è stato realizzato con il contributo di IF – Informazione&Fiducia

2012 - BY - PADOVA

è un marchio registrato di proprietà di Cises Srl - 35128 Padova Via Valerio Flacco n. 10 Tel. 049/8074522 (r.a.) Telefax 049/8074492

Proprietà letteraria riservata Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta senza il consenso scritto dell'Editore Cises Srl

Stampato in proprio e diffuso anche via Internet dall'Editore Distribuzione gratuita

ISBN 978-88-97598-05-3 doi:10.4473/TPMed.10.2012

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Indice

Prefazione, �icola Alberto De Carlo, Marcello �onnis pag. 9

Prima Parte: questioni teoriche di riferimento

1. �uovi codici del lavoro, stress lavoro-correlato e » 13

management positivo, �icola Alberto De Carlo

2. Metodologie e strumenti per la valutazione del rischio stress » 29

lavoro-correlato, Alessandra Falco

3. Rischio stress lavoro-correlato: il ruolo del medico del » 47

lavoro, Giorgio Marcuzzo

4. La tutela del benessere psicofisico nel posto di lavoro: » 53

una prospettiva giuridica, Gianni Loy

5. Stress lavoro-correlato: le criticità per gli RSPP, » 63

Domenico Salimbeni

6. Il ruolo del sindacato nella valutazione dei rischi da » 69

stress lavoro-correlato, Oriana Putzolu

7. L’integrazione tra le figure della prevenzione in un sistema » 77

di gestione aziendale, Giovanni Battista Bartolucci

8. Il ruolo della formazione in materia di salute e sicurezza » 85

sul lavoro, Stefania Piras, Stefania Cuccu

9. Disagio relazionale, ostilità, mobbing. Una visione integrata dei » 93

processi organizzativi negativi, Marcello �onnis

10. Il burnout: modelli teorici, dimensioni psicologiche, fattori » 103

di rischio e di protezione, Maria Luisa Pedditzi

11. Insicurezza lavorativa e nuovi percorsi di carriera, » 113

Alessandro Lo Presti

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Seconda parte: linee di ricerca e prospettive applicative

12. Sicurezza e sostenibilità della vita organizzativa: esperienze » 123

di ricerca-formazione, Laura Galuppo, Mara Gorli,

Cesare Kaneklin, Giuseppe Scaratti

13. Un approccio quali-quantitativo alla ricerca sullo stress » 133

lavoro-correlato, Claudio G. Cortese

14. Dar voce al disagio: uno studio esplorativo su storie di » 143

vita lavorativa, Laura Dal Corso

15. Efficacia percepita nella gestione dello stress e attività » 155

no-profit: uno studio nelle associazioni di volontariato,

Veronica Cerina, Ferdinando Fornara

16. Lo sviluppo dello strumento Va.RP per l’analisi del » 163

rischio stress lavoro-correlato, Patrizia Deitinger,

Christian �ardella, Antonio Aiello

17. Lo strumento “CSL” per la gestione dello stress lavoro- » 171

correlato nelle micro e piccole imprese, Christian �ardella,

Patrizia Deitinger, Antonio Aiello

18. Analisi dei rapporti di antecedenza dell’organizational » 177

commitment e del job involvement sulle dimensioni del

work engagement, Fabrizio Scrima, Lucrezia Lorito,

Franco Di Maria

19. Quando la famiglia diventa mobber. Una ricerca esplorativa » 187

sul doppio mobbing, Michela Cortini, Silvia Di Carlo,

Riccardo Giorgio Zuffo, Massimiliano Barattucci

20. Lo stress lavoro-correlato nelle PMI artigiane del sud » 195

Sardegna, Renato Troffa, Pierluigi Caddeo, Marcello Secchi

21. Benessere e sicurezza nei lavoratori della sanità: una ricerca » 205

sull’efficacia personale e l’engagement, Giuseppe Santisi,

Tiziana Ramaci

22. Laboratorio per la valutazione e prevenzione delle » 217

problematiche occupazionali da stress, Liviano Vianello,

Letizia Ferrarin, Donata Zanella, Ivan Ambrosiano,

Franco Sarto

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23. La valutazione dello stress lavoro-correlato: la figura » 227

dello psicologo, Barbara Barbieri, Stefania Cuccu,

Stefano Porcu, Marcello �onnis

24. Il burnout degli insegnanti: un contributo empirico con i » 235

modelli di equazioni strutturali, Maria Luisa Pedditzi,

Paola Grassi, Eraldo �icotra

25. Benessere organizzativo: una comparazione tra campioni del » 245

comparto pubblico e del terzo settore, Paula Benevene,

Antonino Callea

26. La sicurezza a scuola, Gianmauro �onnis » 253

�ote biografiche sugli autori » 259

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Prefazione Questo volume raccoglie gli atti di un convegno nazionale tenutosi a Cagliari a due anni

dalla pubblicazione del D.Lgs 81/08, cui hanno contribuito specialisti di diverse discipline ope-ranti in numerose Università Italiane, così come nel Servizio Sanitario Nazionale e in varie strut-ture attive nel mondo del lavoro e delle organizzazioni.

È stata ripresa e sottolineata, in quell’occasione, la necessità di promuovere comporta-menti manageriali positivi, alla luce di nuovi codici del lavoro, ovvero di modi di agire impronta-ti alla condivisione degli obiettivi e dei valori, così come delle responsabilità individuali e collet-tive. Nuovi codici necessari in un sistema imprenditoriale e lavorativo, qual è il nostro, di taglio non ancora compiutamente adattato alle esigenze della società del terziario.

Ci si chiedeva allora come armonizzare le scelte e le iniziative dei singoli e delle organiz-zazioni con le prescrizioni amministrative in corso di ultimazione, dato che la Commissione mini-steriale permanente non aveva ancora pubblicato le linee guida previste in tema di stress lavoro-correlato. A tali interrogativi oggi siamo in grado di dare compiuta risposta, data l’evoluzione del-la normativa, degli approfondimenti intercorsi e delle sperimentazioni. E ciò permette oggi di pub-blicare gli interventi del Convegno — aggiornati e integrati di quanto necessario grazie a nuovi e attuali contributi — offrendo un’interessante rassegna sulle tematiche relative alla valutazione pre-

liminare (essenziale) e a quella approfondita (di più ampia portata manageriale). Un ringraziamento sentito va agli Autori per la loro costante e sempre costruttiva dispo-

nibilità, a TPM Edizioni che assicura la libera e immediata fruibilità dell’opera da parte sia degli studenti universitari che degli specialisti, e a Psiop - Istituto di psicoterapia, intervento sul disagio organizzativo e valorizzazione della persona - per il coordinamento editoriale e per la diffusione.

�icola Alberto De Carlo, Marcello �onnis

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Prima Parte

Questioni teoriche di riferimento

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1. �uovi codici del lavoro, stress lavoro-correlato e management

positivo �icola Alberto De Carlo

1. Qualità del lavoro

Si stima che nei Paesi più avanzati sul piano produttivo i servizi assorbano oggi, in me-

dia, oltre l’80% delle risorse lavorative. Anche i settori manifatturieri sono fortemente innervati di terziario, data la centralità e l’importanza sempre crescente della comunicazione, del marke-ting, così come di tutte le attività relative sia alla gestione che alla vendita, che in generale sono strettamente connesse alla persona, alla capacità di ciascuno di saper fare e di saper essere.

Di conseguenza, nel lavoro il livello delle performance deriva in gran parte da competen-

ze relazionali, ovvero da quegli elementi intangibili che integrano e sostengono le necessarie competenze tecniche. E sono proprio le competenze relazionali ciò che solitamente “fa la diffe-renza” nella qualità delle prestazioni. Questo vale in sanità, nella scuola e nella formazione, nel comparto finanziario come in quello assicurativo, nel commercio, nel turismo e nella ristorazio-ne, nella ricerca, nell’amministrazione della giustizia e della cosa pubblica, nei servizi informatici e telematici, nell’editoria, nel commercio, nelle fabbriche, nella pubblicità e nella distribuzione. Un po’ dappertutto, dunque.

2. Competenze relazionali

È necessario, affinché le prestazioni siano di reciproca e comune soddisfazione, che le

persone siano in condizioni di empatia, che scambino fra loro le informazioni essenziali e quelle opportune, che gli operatori sappiano porsi sulla stessa lunghezza d’onda degli utenti. E viceversa.

In ambito sanitario, ad esempio, occorre che il paziente – sovente in condizioni di debolez-za e di timore – si senta al centro dell’attenzione, che possa liberamente e approfonditamente mani-festare i suoi sintomi, le sue preoccupazioni e le sue attese. È necessario, di solito, che per superare la malattia egli riesca a collaborare con gli operatori, i quali devono essere non solo pienamente

competenti negli aspetti clinici, ma anche facilitanti, in ascolto, attenti a rafforzare le sue risorse ed energie, per giungere a farlo “sentire guarito”, per quanto possibile, al momento della dimissione.

Di grande rilievo è il senso della responsabilità, il saper andare oltre le routine e le appa-renze, al cuore dei problemi e con l’obiettivo della loro soluzione.

I limiti di tempo che ha un operatore per un’anamnesi sanitaria, ad esempio, non possono essere che indicativi se egli ha bisogno di elementi che non riesce a far emergere a causa del li-vello culturale dell’interlocutore, oppure di sue ritrosie o paure. Il dovere dell’operatore non può essere predeterminato in modo fisso per ogni circostanza. Al contrario, egli deve impegnarsi a modulare le sue azioni a seconda delle necessità. Ma se l’operatore non è sufficientemente moti-vato e responsabile, se non gli sono assicurati spazi e tempi idonei, questo sforzo non viene fatto.

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�uovi codici del lavoro. Contributi

per la salute e il benessere

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positivo Nicola Alberto De Carlo – Cap. 1

Vince la routine e può derivarne, di conseguenza, la mancata individuazione dell’intervento più appropriato, quello che la situazione richiederebbe.

La qualità delle performance dipende dunque dalla volontà e dalla libertà di perseguire il risultato ottimale – nell’ambito delle procedure che ogni organizzazione non può non darsi – che devono qualificare le parti in causa: i fornitori di servizi e i loro utenti.

Essenziali sono, in ogni caso, la condivisione e il supporto organizzativo. Una cosa è po-tersi dedicare, per esempio, ad un solo interlocutore in un’adeguata unità di tempo e con idonei strumenti conoscitivi e d’intervento; tutt’altra è dover “sbrigare” molti utenti di fretta perché premuti dalla fila degli utenti stessi allo sportello o dalle liste d’attesa, magari in condizioni pre-carie, con mezzi insufficienti, preoccupati dalla ridotta comprensione dei superiori e dei colleghi.

Di rilievo centrale per la produttività dell’impresa, pubblica e privata, è il benessere or-ganizzativo. Su di esso influiscono in modo determinante cultura e clima aziendali, sicurezza del lavoro e nel lavoro, adeguata gestione dei conflitti con colleghi e superiori, idonei carichi lavora-

tivi, percezione di supporto da parte dell’organizzazione, efficacia collettiva. Occorre un’adeguata gestione dei fattori di stress da parte sia dell’organizzazione che dei

singoli, tale da permettere alla persona di rispondere in modo appropriato e con soddisfazione al-le sfide dell’ambiente lavorativo. Anche la “mediazione” individuale è di grande rilievo, ad opera di variabili quali il senso della propria efficacia, la resilienza, l’ottimismo o il pessimismo, nonché di strategie di coping fra cui la gestione del tempo, l’uso delle capacità cognitive e della logica, l’abilità nel rigenerare le proprie energie fisiche ed affettive.

Particolare importanza hanno anche le variabili sociali e demografiche, le diversità di ge-nere e di età, la provenienza da diverse culture.

Dalla combinazione fra fattori organizzativi e personali e dalla gestione adeguata, o me-glio dalla valorizzazione dell’individualità e delle differenze, dalla sussidiarietà, possono derivare: - in positivo, benessere e soddisfazione nel lavoro, commitment, altruismo verso i colleghi e

l’organizzazione, speranze e aspettative di miglioramento, incremento delle performance e della qualità del lavoro;

- in negativo, malessere e insoddisfazione nel lavoro, disagio e malattie psico-fisiche (fra cui spos-satezza, insonnia, ansia, depressione, disturbi cardiaci o gastrici), assenteismo, presenteismo, turnover, burnout, mobbing/straining, decremento delle performance e della qualità del lavoro.

3. �uovi codici del lavoro

Le variabili individuali e organizzative che abbiamo fin qui richiamato costituiscono spe-

cifiche caratteristiche del lavoro nella società del terziario. Richiedono conoscenze, attenzioni, giudizi e modi di agire appropriati: nuovi codici del lavoro (De Carlo, 2009), ovvero dimensioni, princìpi e comportamenti che sono di particolare rilievo per la qualità dei servizi, per la soddisfa-zione dei singoli e per l’efficienza delle imprese. Ai codici tradizionali – fra cui ricordiamo, a ti-tolo d’esempio, quelli legislativi, morali, deontologici, d’onore e sportivi – si affiancano dunque realtà complesse da precisare, contestualizzare e gestire secondo modalità di volta in volta ritenu-te maggiormente idonee ai diversi ambienti e alle diverse situazioni.

“I nuovi codici del lavoro coinvolgono le sfere della volontà, degli obiettivi, delle spe-ranze, dei comportamenti individuali e collettivi, condensandosi nell’ambiente di lavoro, che si

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trova così a costituire – all’interno di una società frammentata, povera di centri di aggregazione in campo associativo, culturale, politico e religioso – anche un luogo privilegiato in cui le perso-ne esprimono e realizzano molto di sé stesse in costante e dialettico confronto con le altre.

Fra le dimensioni, i princìpi e i comportamenti costituenti i nuovi codici, si richiamano: - la gerarchia dei valori aziendali, organizzativi e individuali; - la coerenza degli obiettivi e delle procedure d’azione; - l’efficienza e l’efficacia organizzativa; - la congruenza fra i costi e i ritorni attesi; - il benessere organizzativo, lo stress lavoro-correlato, la salute; - la validità e qualità delle performance; - la responsabilità sociale e la valorizzazione dell’organizzazione; - la responsabilità individuale e quella organizzativa; - la volontà, la libertà, l’empatia, la tolleranza; - l’etica, il senso e il significato del lavoro per la persona e per l’organizzazione; - la valorizzazione della persona; - la promozione dell’innovazione; - la combinazione e l’integrazione dei metodi d’indagine e d’intervento.

Alle dimensioni sopraindicate – in costante aggiornamento, crescita e ridefinizione – si affiancano, e con esse si integrano, vari modelli di buone prassi, fra cui: - il richiamo costante e la condivisione degli obiettivi; - la concreta valorizzazione delle differenze e l’attuazione della sussidiarietà; - la sostanziale e diffusa equità delle valutazioni; - l’adeguata gestione delle relazioni con i colleghi e i superiori, con gli aventi causa esterni e fra

gruppi; - la prevenzione dell’assenteismo, così come del presenteismo, nell’ambito di clima e cultura

organizzativa adeguati; - la circolazione efficace delle informazioni; - il monitoraggio e l’adeguamento tempestivo dei processi” (De Carlo & Falco, 2011, pp. 17-18).

4. Responsabilità sociale d’impresa

Ogni organizzazione è tanto più in grado di avere vantaggio competitivo, e di tutelare nel

contempo le persone che lavorano al suo interno, quanto più riesce ad attuare i nuovi codici del

lavoro. Non solo in relazione ai propri dipendenti ma anche verso il territorio, in termini di svi-luppo sociale e di salvaguardia dell’ambiente. L’impresa, in linea con le esigenze politiche del mondo contemporaneo, deve saper far confluire le proprie capacità etiche, organizzative e tecni-che, nel miglioramento complessivo delle condizioni delle persone e dei luoghi in cui opera. Quindi, le competono non solo responsabilità economiche ma anche di indirizzo, di prospettiva, di speranze per il futuro. Oggi non ci accontentiamo del fatto che un’organizzazione si limiti a remunerare i servizi di cui fruisce: che paghi l’energia in maniera differenziata, ad esempio, op-pure che contribuisca significativamente alla manutenzione delle strade nel caso in cui i suoi au-tomezzi ne fruiscano in modo rilevante. Si chiede all’impresa molto di più. Essa deve costituire

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un motore di sviluppo e di sostegno collettivo. C’è bisogno di una sorta di circolarità: dall’im-presa alla persona, e viceversa. È il portato dei nostri tempi. Di ciò abbiamo bisogno.

Per esempio, quando si parla di delocalizzazioni soprattutto in termini di profitto d’im-

presa sorgono molti interrogativi. Tale processo potrebbe significare, infatti, anche privare inde-bitamente e gravemente il territorio d’origine di risorse e di posti di lavoro. E in molti, pur rico-noscendo l’utilità delle delocalizzazioni per la produttività dell’impresa e nel contempo per quella complessiva dei Paesi emergenti, sottolineano la cautela e l’attenzione con cui occorre gestire i diversi problemi. Un’organizzazione collocata in un certo ambiente, in realtà, è cresciuta in quell’ambiente e ha contratto nei suoi confronti varie obbligazioni. Spesso assai consistenti. Oc-corre – va sottolineato ancora una volta – ricondurre le ragioni dell’organizzazione ai bisogni complessivi delle persone e delle collettività.

Nella nostra sensibilità, nella cultura oggi diffusa, è essenziale il senso della comunità, del singolo considerato all’interno della società nel suo complesso. Il fatto che sul piano econo-mico spesso non se ne tenga adeguato conto, non inficia la considerazione che tale sensibilità debba essere centrale. Noi ci definiamo sempre in termini sia di valore collettivo e di responsabi-lità collettiva, sia di valore individuale e di responsabilità individuale. Si tratta di una caratteristi-ca costitutiva della nostra umanità (Benedetto XVI, 2009; Yunus, 2010).

5. Rischi emergenti

Sulla qualità del lavoro, sul benessere organizzativo e sulla salute degli operatori incido-

no, oggi, fattori relazionali emergenti, da considerare attentamente in relazione ai nuovi codici del lavoro e alla responsabilità sociale d’impresa, in termini di protezione e prevenzione della persona.

In particolare, l’Agenzia Europea per la Salute e la Sicurezza sul Lavoro (2002) ha indi-viduato alcuni nuovi rischi psicosociali in aumento – i cosiddetti Top Ten – riconducibili a due grandi categorie: a) insicurezza, instabilità e precarietà nel lavoro; b) impegno lavorativo assai elevato e scarsa conciliabilità di tale impegno con la vita personale.

Secondo l’Agenzia, essi sono: 1. contratti precari in un ambito di lavoro instabile; 2. maggiore vulnerabilità dei lavoratori nel contesto della globalizzazione; 3. nuove forme contrattuali; 4. sensazione di insicurezza del posto di lavoro; 5. forza lavoro che invecchia; 6. lunghe ore di lavoro; 7. intensificazione del lavoro; 8. produzione snella e outsourcing; 9. elevato coinvolgimento emotivo sul lavoro; 10. scarso equilibro tra vita privata e lavoro.

Per fronteggiare tali rischi l’Unione Europea promuove specifiche normative in ambito internazionale, europeo e nazionale (di quest’ultimo, per il nostro Paese, si parlerà diffusamente nei prossimi paragrafi) e la massima diffusione, sia all’interno delle strutture produttive che nei singoli, di una cultura del lavoro maggiormente attenta ai valori della salute e del benessere or-

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ganizzativo, nel perseguimento della qualità delle produzioni. A quest’ultimo proposito va sem-pre più diffondendosi la consapevolezza che l’efficacia, la qualità e l’efficienza del lavoro e del-le organizzazioni sono una funzione del benessere delle persone.

Particolare rilievo hanno, secondo l’Agenzia, la ricerca e l’innovazione scientifica e tec-nologica, così come l’impegno nell’individuazione e nella realizzazione di buone prassi. Pari-menti importanti sono le strategie e le iniziative di formazione, informazione e comunicazione, direttamente connesse alla responsabilità e alla sensibilità dei datori di lavoro, della dirigenza, dei lavoratori e dei loro rappresentanti.

6. La valutazione del rischio stress lavoro-correlato e il benessere organizzativo

Occorre muovere, innanzitutto, dall’Accordo interconfederale del 9 giugno 2008 che re-

cepisce l’Accordo europeo dell’8 ottobre 2004 riguardante lo stress lavoro-correlato, nel quale viene precisato che “lo stress lavoro-correlato è stato individuato a livello internazionale, europeo e nazionale come oggetto di preoccupazione sia per i datori di lavoro che per i lavoratori” e che “potenzialmente lo stress lavoro-correlato può riguardare ogni luogo di lavoro e qualunque lavo-ratore, indipendentemente dalla dimensione dell’azienda, dal settore di attività o dalla tipologia del contratto o del rapporto di lavoro”, pur se “ciò non significa che tutti i luoghi di lavoro e tutti i lavoratori ne sono necessariamente interessati”.

Nell’introduzione dell’accordo si evidenzia che “affrontare la questione dello stress lavo-ro-correlato può condurre ad una maggior efficienza e ad un deciso miglioramento delle condi-zioni di salute e sicurezza sul lavoro, con conseguenti benefici economici e sociali per imprese, lavoratori e società nel suo complesso”. Si precisa anche che “nel considerare lo stress da lavoro è essenziale tener conto delle diverse caratteristiche dei lavoratori”, e che lo scopo dell’Accordo è “accrescere la consapevolezza e la comprensione dello stress lavoro-correlato da parte dei datori di lavoro, dei lavoratori e dei loro rappresentanti, e attirare la loro attenzione sui segnali che po-trebbero denotare problemi di stress lavoro-correlato”. Obiettivo specifico dell’ Accordo è di “of-frire ai datori di lavoro e ai lavoratori un quadro di riferimento che consenta di individuare, pre-venire o gestire i problemi di stress lavoro-correlato. Non è invece quello di attribuire la respon-sabilità dello stress all’individuo.”

Sul fronte del benessere organizzativo va anche richiamata l’importante direttiva del Mi-nistero della funzione pubblica del 24 marzo 2004, che raccomanda alle Amministrazioni del no-stro Paese la “costruzione di un contesto e di un ambiente di lavoro ispirati a principi e a valori chiave, quali fiducia, trasparenza, sviluppo condiviso e partecipato”, allo scopo di promuovere il perseguimento della qualità nei servizi offerti ai cittadini e a favorire la cultura del risultato e dell’eccellenza, più che quella della routine e della mera esecutività dei diversi compiti. Cioè pro-muovendo la valorizzazione delle risorse umane e ponendo alla base di essa il benessere organiz-zativo. Appunto.

La Direttiva, di cui si raccomanda un’integrale ed attenta lettura, ha avuto grande rilievo nel nostro Paese non solo nell’ambito pubblico ma anche nel contesto privato.

Richiamiamo, a quest’ultimo proposito, quanto riportato in Durante (2011, p. 11), ovvero che sulla sua base “già nel giugno 2004 è stato siglato con i Sindacati un Protocollo sullo svilup-

po sostenibile e compatibile del sistema, che nasce proprio dalla rinnovata consapevolezza della

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centralità che il fattore uomo assume in una corretta ed evoluta organizzazione aziendale”. E an-cora, che “nel 2005 è stato approvato, a livello di settore, un codice di comportamento contenente linee guida di comportamento in azienda, adottato da tutte le Aziende associate all’Associazione Bancaria Italiana, il cui fine è quello di favorire lo sviluppo di una cultura aziendale sempre più attenta a valori, quali la personalità e la dignità dei lavoratori, ai quali tutti gli attori aziendali de-vono prestare la massima attenzione”. E si sottolinea, nello studio soprarichiamato, che con tale documento “per la cui redazione un importante parametro di riferimento è stata la citata Direttiva del Ministero della funzione pubblica, l’ABI ha inteso dare una risposta concreta alle forti solle-citazioni che provengono da diverse parti a dettare regole affinché le problematiche legate al cli-ma aziendale, al benessere organizzativo, non siano lasciate alla discrezionalità (quando non all’arbitrio) dei singoli. Il documento insiste, soprattutto, sulla centralità dei citati valori della personalità e della dignità umana, il cui rispetto – oltre a rispondere a ragioni di ordine etico – si pone quale premessa irrinunciabile e indispensabile per la costruzione di una rete di relazioni e di rapporti che consenta al lavoratore di trovare punti di riferimento certi e affidanti, nonché interlo-cutori aziendali in grado di prevenire e gestire momenti di conflittualità che sono, comunque, fi-siologici al normale svolgersi della vita aziendale”.

In effetti, occorre considerare sempre più al centro del nostro Paese le persone che lavo-rano, come in Europa e nel mondo intero. Occorre che le organizzazioni produttive svolgano nell’interesse di tutti le loro attività e iniziative, così importanti per le imprese, per gli uomini e le donne che vi operano, per le famiglie, per la società nel suo complesso. Non va dato alcuno spa-zio alle strutture che hanno poca cura della salute dei loro addetti, e che così influiscono in modo negativo, pur se spesso poco consapevole (ma ciò non è di sufficiente consolazione), anche sull’impegno e sui risultati di ciascuno, indebolendo il più ampio sistema economico-sociale co-stituito dall’intera collettività che lavora e che produce.

Il D.Lgs n.81/2008 – che impone l’obbligo per tutti i datori di lavoro, pubblici e privati, di valutare fra i diversi rischi anche quello di stress lavoro-correlato (articolo 28) – riprende nella sostanza le varie e complesse necessità fin qui esposte, recependo nel nostro sistema normativo il contenuto dell’Accordo europeo del 2004.

Secondo l’Accordo, “Lo stress è una condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale ed è conseguenza del fatto che ‘taluni indivi-dui non si sentono in grado di rispondere alle richieste o alle aspettative riposte in loro. L’individuo è assolutamente in grado di sostenere un’esposizione di breve durata alla tensione, che può anche essere positiva, ma ha maggiori difficoltà a sostenere un’esposizione prolungata ad una pressione intensa. Inoltre, individui diversi possono reagire differentemente a situazioni simi-li e lo stesso individuo può reagire diversamente di fronte a situazioni simili in momenti diversi della propria vita. Lo stress non è una malattia ma una situazione di prolungata tensione può ri-durre l’efficienza sul lavoro e può determinare un cattivo stato di salute. Lo stress che ha origine fuori dall’ambito di lavoro può condurre a cambiamenti nel comportamento e ad una ridotta effi-cienza sul lavoro. Non tutte le manifestazioni di stress sul lavoro possono essere considerate co-me stress lavoro-correlato. Lo stress lavoro-correlato può essere causato da fattori diversi come il contenuto del lavoro, l’eventuale inadeguatezza nella gestione dell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente di lavoro, carenze nella comunicazione, etc. ”

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Tornando all’articolo 28 del D.Lgs n. 81/2008, oggetto della valutazione è il rischio, ov-vero la probabilità che i lavoratori possano incorrere in un livello di stress lavoro-correlato tale da poter influire negativamente sulla loro salute.

Fra i “segnali” che possono denotare un problema di stress lavoro-correlato ricordiamo un alto tasso di assenteismo o una elevata rotazione del personale, nonché frequenti conflitti in-terpersonali o lamentele da parte dei lavoratori.

I diversi “segnali” comportano la necessità di adeguate analisi su fattori, potenzialmente stressogeni, quali: - la gestione dei processi produttivi (disciplina delle condizioni di lavoro, grado di autonomia,

corrispondenza tra le competenze dei lavoratori ed i requisiti professionali richiesti, carichi di lavoro, etc.);

- le condizioni ambientali (esposizione a comportamenti illegittimi, al rumore, al calore, a so-stanze pericolose, etc.);

- la comunicazione (incertezza in ordine alle prestazioni richieste, alle prospettive di impiego o ai possibili cambiamenti, etc.);

- i fattori soggettivi (tensioni emotive e sociali, sensazione di non poter far fronte alla situazio-ne, percezione di mancanza di attenzione nei propri confronti, etc.).

Qualora si individui un problema di stress lavoro-correlato, occorre adottare misure per prevenirlo, eliminarlo o ridurlo. Il compito di stabilire le misure appropriate spetta al datore di lavoro, che dovrà individuarle e porle in essere con la partecipazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti.

Si deve alla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro (Circolare ministeriale del 18 dicembre 2010) la precisazione delle modalità di rilevamento dei fattori – eventi sentinella, fattori di contenuto e di contesto – necessarie per la valutazione del ri-schio stress lavoro-correlato all’interno delle organizzazioni produttive operanti nel nostro Paese. Ciò nell’ambito di una metodologia che riguarda non i singoli lavoratori ma loro “gruppi omoge-nei”, articolata in due fasi: “una necessaria (c.d. valutazione oggettiva o preliminare), consistente nella rilevazione di indicatori oggettivi e verificabili; l’altra eventuale (c.d. valutazione appro-

fondita), che si sostanzia nella valutazione della percezione soggettiva dei lavoratori, da attivare nel caso in cui la prima abbia fatto emergere elementi di rischio da stress lavoro-correlato e le misure di correzione adottate si siano rivelate inefficaci.”

Le indicazioni della Commissione consultiva permanente, combinate con il manuale Inail (2011), sono riassumibili nelle seguenti fasi operative: a) individuazione dei gruppi omogenei di lavoratori; b) precisazione delle modalità di effettuazione della c.d. valutazione preliminare; c) coinvolgimento dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti; d) criteri e ambiti di svolgimento della c.d. valutazione approfondita.

Va ancora ricordato che, nell’ambito delle disposizioni vigenti nel nostro Paese, soltanto la prima fase – ossia la valutazione preliminare – è necessaria; lo svolgimento della seconda, la valutazione approfondita, è invece eventuale, da effettuare nel caso in cui gli strumenti correttivi adottati a seguito della valutazione preliminare – nei casi in cui in essa vengano evidenziati rischi di un qualche rilievo – si siano rilevati inefficaci.

Assai importanti sono le indicazioni contenute in tema di formazione – come modalità di intervento preventivo e correttivo – nell’Accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011.

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7. Valutazione preliminare, eventi sentinella, fattori di contenuto e di contesto

In riferimento all’individuazione degli indicatori oggettivi, i fattori da considerare in pri-

ma battuta (eventi sentinella) sono, ad esempio, gli indici infortunistici, le assenze per malattia, le ferie non godute, i trasferimenti interni richiesti dal personale, il turnover, i procedimenti e san-zioni disciplinari, le segnalazioni formalizzate di lamentele da parte dei lavoratori, etc.

Secondo la Commissione consultiva permanente, gli eventi sopraindicati sono da valutar-si sulla base di parametri omogenei, quale ad esempio l’andamento nel tempo degli indici. In proposito, anche secondo il manuale Inail, può essere sufficiente considerare gli indicatori azien-dali con riferimento all’andamento degli ultimi tre anni. In riferimento ai fattori di contenuto del

lavoro, vengono individuati, ad esempio, l’ambiente e le attrezzature di lavoro, il carico e il ritmo di lavoro, la pianificazione dei compiti. Per quanto riguarda invece i fattori di contesto del lavo-

ro, si richiamano aspetti quali la funzione e la cultura organizzativa, il ruolo del lavoratore nel-l’ambito dell’organizzazione, l’evoluzione della carriera, la conciliazione vita/lavoro.

8. Gli attori della valutazione Nell’ambito della valutazione preliminare, in riferimento ai fattori di contesto e di conte-

nuto la Commissione consultiva permanente richiede che siano “sentiti” i Lavoratori e/o Respon-sabili Locali per la Sicurezza (RLS). Nelle aziende di maggiori dimensioni è possibile sentire un campione rappresentativo dei lavoratori.

Unico responsabile della valutazione e della conseguente redazione del Documento di Valutazione del Rischio (DVR) è il datore di lavoro, coadiuvato dal Responsabile della Preven-zione e Protezione (RSPP) e dal Medico Competente (se nominato) ai sensi degli artt. 28 e 29 del D.Lgs. n. 81 del 2008.

L’impegno dei Lavoratori e/o degli RLS concorre soprattutto all’acquisizione da parte del datore di lavoro di ulteriori elementi per una migliore conoscenza dei fattori di contenuto e di conte-sto. Tali fattori infatti, pur se oggettivabili, comprendono anche una dimensione soggettiva che deve integrare i dati disponibili. Dunque, secondo quanto stabilito nelle indicazioni metodologiche della Commissione consultiva permanente, il datore di lavoro non può concludere il proprio compito di valutazione preliminare senza aver sentito, su quegli specifici profili, anche la “voce” dei lavoratori. Non a caso il manuale Inail consiglia di costituire un Gruppo di Valutazione del Rischio, composto da più persone, quali RSPP, Medico Competente, RLS, lavoratori ed eventuali ulteriori esperti (fra questi lo psicologo del lavoro può fornire un contributo di particolare utilità). Va richiamato anche che nel manuale Inail si insiste sulla necessità di un’accurata informazione/formazione preventiva dei RLS affinché gli stessi possano fornire un contributo affidabile al processo. Ma non solo. L’informazione/formazione va promossa nell’ambito dell’intera organizzazione e va favorito, in ogni modo, l’approfondimento comune e condiviso dei problemi fra le diverse parti, così da poter disporre di informazioni complete per dare luogo ad interventi validi ed adeguati.

Questa fase di necessario affinamento della conoscenza dei diversi temi costituisce anche una connessione logica e temporale tra la realizzazione della “valutazione preliminare” e l’eventuale successiva fase di “valutazione approfondita”, che consiste nella valutazione della percezione sog-gettiva dei lavoratori.

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9. Valutazione approfondita In linea con quanto precisato dalla Commissione consultiva permanente, qualora in fase

di valutazione preliminare si sia evidenziato un rischio di stress-lavoro correlato di un certo rilie-vo, occorre porre in essere misure correttive, così da abbassare il livello di rischio. Se dopo tali misure, facendo seguito a monitoraggio e ad appropriati controlli, non si riscontrino migliora-menti, si deve porre in essere la valutazione approfondita. Essa prevede l’utilizzazione di stru-menti quali questionari, focus group, interviste semi strutturate, sempre tenendo conto di gruppi omogenei di lavoratori. In questa fase, oltre agli attori sopra indicati, eventualmente nell’ambito del Gruppo di valutazione del rischio, possono essere necessari specifici ulteriori apporti speciali-stici (fra i quali, è il caso di sottolinearlo ancora, quello dello psicologo del lavoro).

10. Dall’analisi dello stress alla valorizzazione della persona e dell’organizzazione Le prescrizioni oggi vigenti nel nostro Paese per la valutazione dello stress lavoro-corre-

lato, così come descritte nei paragrafi precedenti, sembrano rispondere in parte ad esigenze di or-dine tecnico e applicativo, in parte alle costrizioni di una politica economica e sociale improntata al risparmio di risorse da parte delle imprese pubbliche e private. Il che è nello spirito dei tempi, e non a caso la Commissione consultiva permanente indica le proprie prescrizioni come minime. Le organizzazioni hanno perciò la piena facoltà di ampliare e integrare la metodologia prevista, al-trimenti incentrata su fasi rigidamente distinte fra loro – l’una preliminare, necessaria, e l’altra approfondita, eventuale – avvalendosi di combinazioni di metodi maggiormente idonee alla mi-gliore conoscenza delle realtà organizzative, delle percezioni e dei giudizi dei lavoratori.

Non va dimenticato che lo stress (per un approfondimento in proposito, così come in te-ma di combinazione di metodi, si veda il capitolo di Alessandra Falco nel presente volume) costi-tuisce una sindrome generale di adattamento dell’organismo e che tale sindrome ha generalmente effetti positivi – eustress – per la risposta alle richieste ed alle stimolazioni dell’ambiente; ad essa si deve, per lo più, la bontà, nonché la crescente adeguatezza delle risposte lavorative. Dunque, un’analisi attenta dello stress può condurre ben oltre le tematiche del rischio per la salute, ovvero dei casi in cui lo stress può avere effetti negativi – distress – per la persona oltre che per il conte-sto in cui essa opera, e fornire preziose indicazioni per la crescita, il rafforzamento e lo sviluppo sia individuali che organizzativi.

Le organizzazioni più avanzate ed avvedute, d’altra parte, sanno bene che se ci si pone nella prospettiva dell’incremento della qualità e dell’efficienza, del benessere organizzativo e del-la valorizzazione delle persone, la conoscenza approfondita dei fattori incidenti su tali fenomeni è essenziale. Una conoscenza che vada oltre i temi della prevenzione e degli interventi correttivi, può contribuire infatti in modo sostanziale per il cambiamento del clima e della cultura organiz-zativa, così come degli obiettivi e dei processi lavorativi, promuovendo nuovi codici di compor-tamento lavorativo in vista delle performance individuali e del vantaggio competitivo dell’orga-nizzazione nel suo complesso.

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11. Combinazione di metodi In linea con Cox, Griffiths e Rial-Gonzales (2002), che propongono il principio della trian-

golazione secondo cui ogni situazione di rischio psicosociale deve essere valutata attraverso almeno tre tipologie di rilevazione, una possibile combinazione può essere costituita da: dati soggettivi (ba-sati su percezioni individuali); oggettivi (su elementi obiettivabili); valutazione di esperti, quali di-rigenti, specialisti, lavoratori particolarmente competenti. Nell’applicazione di De Carlo e Falco (2011), riportata in Figura 1, per una comprensione adeguata dei fenomeni è stato utile acquisire: - giudizi soggettivi dei singoli lavoratori su temi quali, ad esempio, i conflitti con colleghi e su-

periori, il carico di lavoro nelle sue componenti psicologiche e fisiologiche, la soddisfazione per la carriera e le ricompense estrinseche ed intrinseche; tali giudizi, come è noto, sono in-fluenzati dalle caratteristiche personali (fra cui l’affettività negativa) e le strategie di coping;

- fattori oggettivi quali eventi “sentinella”, fra cui dati sanitari e psico-fisiologici, trasferimenti, infortuni, assenteismo, turnover, e fattori “oggettivabili” (nella misura in cui ciò risulti possi-bile e affidabile) relativi a tematiche “di contenuto” e “di contesto”, fra cui carichi lavorativi, conflitti e contenziosi, documentati, con colleghi e superiori; tali dati possono essere rinveni-bili negli archivi aziendali;

- misure ottenibili da diversi aventi causa, quali capiservizi, medici competenti, rappresentanti dei lavoratori, addetti alla gestione delle risorse umane, mediante vari strumenti d’indagine (fra cui l’osservazione, i colloqui e le interviste).

FIGURA 1

Un’applicazione del Metodo della Triangolazione (De Carlo & Falco, 2011, p. 24)

Va rilevato che porsi in una prospettiva di combinazione di metodi significa operare in

termini di interdisciplinarietà sia con i diretti interessati che con gli aventi causa – perseguendo l’ascolto, la condivisione, la ricerca e l’adozione comune di nuovi codici interpretativi e di com-portamento – utilizzando adeguate tecniche di rilevamento e d’analisi dei fenomeni.

Misure soggettive (esempio, percezione delle relazioni con i superiori, dei carichi di

lavoro, della propria autonomia…)

Misure oggettive: eventi sentinella, fattori di contenuto e di contesto (esempio, dati sanitari, trasferimenti, turnover, conflitti e

contenziosi…)

Misure di “aventi causa” (esempio, valu-tazioni di superiori e di esperti su temi quali carichi di lavoro, ritmi, competenze, spazi di

carriera...)

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Nel nostro Paese è di particolare rilievo sul piano applicativo la metodologia Inail (2011), precedentemente richiamata, costituita da una check list sui fattori oggettivi e dal questionario HSE riferito a quelli soggettivi. Per ulteriori approfondimenti – utili in termini di analisi organizzativa, di prevenzione e salute individuale, di progettazione dello sviluppo e di interventi di miglioramento nella performance e nella qualità dei servizi – si vedano il metodo V.I.S. (Sarto, De Carlo, Falco, Vianello, Zanella, Magosso, Bartolucci, & Dal Corso, 2009; Sarto, De Carlo, Falco, Vianello, Magosso, Bartolucci, & Marcuzzo, 2011) ed il test Qu-Bo (De Carlo, Falco & Capozza, 2008/2011). Questi ultimi strumenti sono diretti a valutare il rischio stress lavoro-correlato tramite l’analisi delle fonti di stress, delle risorse individuali (caratteristiche di personalità, quali resilienza e self-efficacy, e strategie di coping) e degli effetti dello stress in termini di soddisfazione-insod-disfazione, di strain e di burnout. Offrono dunque una panoramica completa delle cause e degli ef-fetti, diversamente da vari strumenti di generazione precedente che per lo più forniscono analisi li-mitate ad alcuni fattori piuttosto che ad altri.

12. Un caso aziendale Riportiamo di seguito (De Carlo & Falco, 2011, pp. 26-28) un’esperienza di valutazione

integrata in tema di stress lavoro-correlato – sia preliminare che approfondita, nella prospettiva della salute individuale e della valorizzazione della persona, del benessere e della performance organizzativa – condotta da Sec Servizi, un Consorzio costituito in forma di Società Consortile per Azioni fra Istituti Bancari. Il Consorzio è sorto nel 1972 con la finalità di fornire servizi di operatività bancaria e tecnologica ai propri soci e clienti e si è trasformato ed evoluto nel tempo grazie ad una forte cultura dell’innovazione e alla costante attenzione all’eccellenza tecnologica, che gli hanno permesso di divenire una tra le principali realtà italiane nell’ambito dell’offerta di servizi informativi in outsourcing. Fra tali servizi rientrano application e facility management, consulenza, formazione e assistenza.

Alla valutazione oggettiva e preliminare di vari indicatori effettuata nel 2010 utilizzando il Metodo V.I.S. precedentemente citato (su tale metodo si veda anche il capitolo successivo del presente volume) – che non aveva evidenziato alcun rischio significativo in tema di stress lavoro-correlato – ha fatto seguito, per volontà della Presidenza e della Direzione generale del Consor-zio, un’intensa attività di approfondimento incentrata proprio sull’integrazione dei metodi. Il ri-

sultato atteso di tale processo era il poter disporre di valutazioni maggiormente valide sul piano esplicativo e predittivo per la prevenzione e per la governance del benessere organizzativo, anche in termini di qualità del lavoro e di performance.

Nel corso del 2011, in esecuzione di quanto delineato, è stato quindi somministrato a tutti i lavoratori il Test di valutazione dello stress lavoro correlato nella prospettiva del benessere or-

ganizzativo, Qu-Bo (De Carlo et al., 2008/2011; anche in proposito si veda il capitolo successivo del presente volume), questionario appartenente alla categoria degli strumenti per la valutazione soggettiva, che ha permesso di rilevare sia le fonti di stress, sia le risorse individuali dei lavorato-ri (fra cui, ad esempio, la resilienza e la self efficacy, nonché la capacità di fronteggiare i proble-mi), sia il loro attuale stato di benessere e di soddisfazione lavorativa oppure di disagio e di ma-

lessere psicofisico.

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La somministrazione è stata fatta in modo sistematico in un arco di tempo di due mesi, suddividendo in gruppi di circa 20 persone l’intera popolazione dei dipendenti (Dirigenti, Quadri e Impiegati, N = 297) e garantendo l’anonimato di ciascuno.

Ogni sessione di somministrazione è stata realizzata in quattro fasi, nell’arco di mezza giornata, di seguito descritte. 1) Introduzione a cura del Responsabile delle Risorse Umane, in rappresentanza del datore di la-

voro, sulle finalità dello strumento e sulla sua utilità per i lavoratori e per l’intera organizza-zione; su tale base è stato richiesto il consenso informato da parte di ciascuno, anche richia-mando – con finalità di ulteriore informazione e coinvolgimento – quanto era già stato realiz-zato precedentemente dall’azienda, in sede di valutazione oggettiva.

2) Presentazione e consegne per la compilazione del test ad opera di uno specialista esterno (psi-cologo del lavoro) e risposta ai quesiti dei lavoratori sulle consegne. Compilazione del test.

3) Approfondimento da parte dello specialista delle tematiche relative allo stress lavoro-correlato e al benessere organizzativo. In particolare la riflessione è stata incentrata sugli aspetti norma-tivi e su quelli di tutela della salute, sulle possibili fonti di stress e sui loro effetti nonché sulle variabili individuali e organizzative, sulle strategie di gestione e prevenzione, sulle responsa-bilità personali e collettive; è stato dato anche spazio al confronto con i partecipanti, a doman-de e risposte.

4) Conclusione e ringraziamento ai convenuti da parte del Responsabile delle Risorse Umane, richiamando anche i benefici attesi da Sec Servizi in termini di benessere individuale e orga-nizzativo, con particolare riferimento alla salvaguardia della salute ed al perseguimento dell’efficienza e dell’efficacia collettiva, nella prospettiva della qualità dei servizi; inoltre è stata preannunciata la restituzione dei risultati e la realizzazione dei possibili interventi.

Completata la raccolta dei dati soggettivi, è stata avviata una attività di integrazione di ta-li dati con quelli oggettivi raccolti durante la fase preliminare (eventi sentinella, fattori di conte-nuto e di contesto) e con ulteriori dati oggettivi, nella prospettiva della combinazione dei metodi. Ciò ha comportato: a) il coinvolgimento del medico competente per rilevare lo stato di salute psi-cofisica dei lavoratori; b) la valutazione di dati ottenuti mediante approfondimenti con altri sta-keholder aziendali (fra i quali il responsabile delle risorse umane, il responsabile della sicurezza, i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza); c) l’utilizzazione di dati “di archivio” aggiuntivi forniti dall’area delle risorse umane.

Riguardo al punto a), un ampio campione di lavoratori è stato sottoposto a visita medica, su base volontaria, al fine di rilevare il loro stato di salute psicofisica. Per tale finalità il medico competente si è avvalso di una scheda standardizzata. In riferimento ai punti b) e c) si sono utiliz-zati i dati ottenuti mediante focus group finalizzati ad approfondire i fattori di rischio, di contenu-to e di contesto, specifici dei gruppi omogenei di lavoratori individuati, nonché gli eventi senti-nella arricchiti con ulteriori dati d’archivio.

A conclusione dell’intero processo sono state integrate fra loro le varie informazioni e-mergenti dalle valutazioni del medico competente, dai giudizi degli altri stakeholder aziendali, dai dati oggettivi e dalle valutazioni soggettive espresse dai lavoratori.

Dell’esito del processo della valutazione integrato è stata data restituzione a tutti i lavora-tori in termini aggregati e, solo per i lavoratori che lo hanno richiesto espressamente, anche indi-viduali. Sono attualmente in corso interventi formativi, migliorativi, preventivi e di monitoraggio.

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13. Management positivo Le azioni organizzative descritte al paragrafo precedente si pongono nella prospettiva del

management positivo. Infatti esse sono state attuate (anche andando oltre le prescrizioni essenziali oggi vigenti nel nostro Paese), nella consapevolezza dell’opportunità/necessità di perseguire obiet-tivi ancora più ampi – e vitali per l’organizzazione – quali sono il miglioramento del clima e delle prassi aziendali, e l’incremento per tale via delle performance e della qualità dei servizi/prodotti of-ferti. Ciò attraverso un comportamento manageriale diretto alla valorizzazione delle persone, alla “liberazione” delle loro energie, al ricorso a nuovi codici, positivi appunto, di comportamento.

Secondo il management positivo (Donaldson-Feilder, Yarker, & Lewis, 2012) occorre individuare e saper prevenire tutti i possibili effetti dello stress lavoro-correlato, che si traducono in costi su diversi piani: sia per la salute dell’individuo che per l’organizzazione, in termini di as-senze, presenteismo e turnover, impatti sulle pubbliche relazioni, controversie, premi assicurativi e vari altri fattori più avanti riportati (Tabella 1). Sulle modalità di quantificazione dei costi si ve-da l’ampia e articolata trattazione di Bortolato (2011).

TABELLA 1

I costi dello stress lavoro-correlato

I costi perl’individuo

• Salute fisica.

• Salute psicologica.

• Salute sociale e relazionale.

• Comportamenti influenti sulla salute.

• Salute organizzativa.

I costi per l’organizzazione

• Assenze.

• Presenteismo.

• Turnover.

• Incidenti e infortuni.

I costi nascosti o indiretti

• Impatto sulle pubbliche relazioni e sulla reputazione.

• Controversie con i dipendenti.

• Reclutamento.

• Relazioni con gli investitori.

• Premi assicurativi.

• Stipendi per il personale di sostituzione/per il lavoro straordinario.

• Formazione per il personale di sostituzione.

• Riduzione della produttività.

• Deterioramento dell’atmosfera/clima organizzativo.

I costi distanti

• Indennità per malattia.

• Pensioni e indennità di disabilità.

• Costi del Servizio Sanitario Nazionale e altre spese mediche.

Fonte: Donaldson-Feilder et al. (2012).

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In Italia i costi dello stress lavoro-correlato e del disagio organizzativo possono essere stimati, oggi, in oltre 5 miliardi di euro (Bortolato, p.12).

A livello internazionale, la situazione viene descritta sinteticamente nelle tabelle 2 e 3.

TABELLA 2 Stima del costo europeo dello stress lavorativo relativo agli anni 2009/2010 (in miliardi di euro;

GDP sta per Gross Domestic Product, a prezzi di mercato)

Anno GDP

(a prezzi di mercato)

Costi collettivi sostenuti per problemi di salute

di origine professionale

Costi stress lavoro-correlato

Min Max Min Max

2009 12.165 316 462 32 46

2010 (stima) 12.405 323 471 32 47

Fonte: Bortolato (dati rielaborati, European Commission, 2011).

TABELLA 3 I costi nel Regno Unito e negli USA

I costi nel Regno Unito e negli Usa

• Un terzo delle nuove assenze sono legate allo stress.

• Quasi un lavoratore su tre è colpito da stress.

• 13,5 milioni di giornate lavorative vengono perse ogni anno nel Regno Unito.

• 9,6 miliardi di sterline all’anno per l’economia nel Regno Unito.

• 150 miliardi di dollari per l’economia americana.

Fonte: Donaldson-Feilder et al. (2012).

Ma non può realizzarsi management positivo senza un adeguato impegno da parte dei di-

rigenti e dei quadri. Ad essi viene richiesto, innanzitutto, di non voler considerare la prevenzione dello stress lavoro-correlato come un ulteriore obbligo (per di più, di legge) cui essi sono sottopo-sti, oltre a quelli di base – e già molto gravosi – di indirizzo del personale, di controllo e di assi-curazione dell’efficienza/efficacia organizzativa. Al contrario, ogni manager deve essere conscio che tutte le iniziative dirette a migliorare il clima e le condizioni di lavoro dei dipendenti costitui-scono un vero e proprio investimento, la cui bontà viene definita essenzialmente dalla qualità del proprio impegno.

Da parte delle organizzazioni occorre dunque un’adeguata attività di formazione e di coinvolgimento nei confronti del proprio management, nella consapevolezza che il comporta-mento manageriale è spesso determinante sia per le cause che per la prevenzione dei danni del disagio lavorativo, così come per la soddisfazione nel lavoro e per la qualità delle performance. E c’è molta strada da percorrere in questa direzione, dato che dirigenti e quadri sono chiamati ad interrogarsi e a migliorare il proprio comportamento in ambiti complessi, quali sono quelli dei

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nuovi codici, nell’attuazione di azioni positive. Di seguito, indichiamo alcune delle principali di-mensioni su cui ciascun manager è chiamato ad interrogarsi, a riflettere e ad operare. a) Gestione delle emozioni, equità e integrità personale: comportarsi in modo coerente e rispet-

toso del personale, senza lasciarsi andare, anche quando si è sotto pressione, ad eccessi e ad atteggiamenti instabili, umorali, contraddittori; essere attenti, empatici e premurosi con i col-laboratori, sulla base di valori vissuti in modo autentico, comunicando rispetto per la giustizia, equità e integrità verso di sé e verso gli altri.

b) Pianificazione e gestione realistica del lavoro: esprimere e diffondere gli obiettivi in modo chiaro, organizzando e distribuendo in modo equilibrato gli impegni di ciascuno; aiutare i col-laboratori in ogni circostanza e difficoltà, sia organizzativa che individuale; realizzare, anche mediante incontri di gruppo e colloqui personali, un adeguato monitoraggio sui carichi di la-voro, sul rispetto delle priorità, sulle attività in corso.

c) Gestione delle situazioni difficili e dei conflitti: agire come mediatori, con pazienza, concre-tezza e incisività, in una prospettiva di leadership trasformazionale, diretta all’approfondimen-to e al cambiamento di principi e valori, oltre che di comportamenti lavorativi; assumersi le responsabilità anche dell’insuccesso; poi, superate le fasi acute, essere di sostegno ai collabo-ratori e consultarsi con loro per prevenire le eventuali ulteriori difficoltà.

d) Gestione del singolo collaboratore: avere rapporti costruttivi con ogni persona, attraverso in-contri, colloqui individualizzati, rapporti amichevoli e cordiali, eventi di socializzazione (sempre utili e da raccomandare); aver ben chiaro che ogni collaboratore è diverso dall’altro e che le sue valutazioni, aspettative e motivazioni, vanno sia comprese che rispettate, oltre che valorizzate – anche in termini di complementarietà e sussidiarietà – in tutti i casi in cui ciò è possibile.

14. Ricerca-azione La valutazione dello stress lavoro-correlato – così come la messa in atto di comportamen-

ti manageriali positivi all’interno dei nuovi codici del lavoro – e gli obiettivi di sviluppo delle performance comportano un’attività costante e condivisa di riflessione, di analisi teoretica ed

empirica sulla propria organizzazione e sui modelli di comportamento attuali e potenziali (in proposito sia veda lo studio di Kaneklin, Piccardo, & Scaratti, 2010). Le azioni dei manager de-vono infatti essere mirate a ciò che è maggiormente utile e giusto per lo specifico contesto in cui operano, nel breve/medio e lungo periodo, ai diversi livelli di responsabilità.

Dunque, va raccomandata l’ottima conoscenza e il monitoraggio nel tempo dei fattori di rilievo, mediante il coinvolgimento degli stakeholder: - interni all’organizzazione, quali sono l’alta direzione, gli addetti alle funzioni del personale e

alla prevenzione/sicurezza, i rappresentanti dei lavoratori, i responsabili di linea; - esterni all’organizzazione, fra cui gli utenti dei servizi/prodotti, i pubblici poteri e la popola-

zione del territorio circostante, i vari specialisti di riferimento in ambito scientifico-tecnico e sociale di diversa formazione e competenza.

Sia all’interno che all’esterno vanno ricercate le criticità, e di conseguenza gli elementi che determinano il successo, attraverso strumenti mirati, che vanno dal colloquio – di taglio cli-

nico e trasformazionale – all’uso di questionari standardizzati e non, focus group, interviste va-

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lavoro-correlato e management

positivo Nicola Alberto De Carlo – Cap. 1

riamente strutturate, osservazione del comportamento, coinvolgimento costante degli interlocuto-ri. Ciò con l’obiettivo di individuare e realizzare le procedure ottimali di lavoro a livello indivi-duale e collettivo. Anche in questo caso ci si deve affidare ad una combinazione di metodi di ri-

cerca – fra loro validamente integrati – nella prospettiva dell’azione, ovvero dei risultati attesi e di quelli effettivamente ottenuti, da valutare in modo costante e sistematico per continuare, inte-grare, potenziare o sospendere, in caso di scarso successo, le iniziative in atto.

15. Bibliografia

Accordo interconfederale sullo stress lavoro-correlato, Roma, 9 giugno 2008 (recepimento del Framework agreement on work-related stress, Bruxelles, 8 October 2004).

Accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011. Accordo tra il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro della salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano sui corsi di formazione per lo svolgimento diretto, da parte del datore di lavoro, dei compiti di prevenzione e protezione dai rischi, ai sensi dell’articolo 34, commi 2 e 3, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81. (Rep. Atti n. 223/CSR).

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2. Metodologie e strumenti per la valutazione del rischio stress lavoro-

correlato Alessandra Falco

1. Lo stress e le sue origini

È normale parlare di stress e per lo più tutti riteniamo di avere abbastanza chiaro che cosa si intende con questa parola. In realtà, invece, come rilevava in modo provocatorio l’endocrino-logo Hans Selye – studioso dello stress già a partire dagli anni trenta del ‘900 – tutti sanno che cos’è lo stress ma nessuno sa precisamente che cos’è (Selye, 1973).

Spesso infatti, nel linguaggio comune, il termine stress è utilizzato in maniera impropria per definire contemporaneamente sia le cause, ovvero le fonti dello stress, sia le conseguenze – ovvero lo strain – che tali fonti possono provocare. E comunque il termine viene generalmente associato ad un senso di malessere e a conseguenze negative per noi stessi, per la nostra salute sia psichica che fisica.

Il termine stress ha origine dal latino “strictus” ovvero “stretto”, “angusto”. Successiva-mente, nel XVII secolo, indica “difficoltà” e “avversità”. Poi, nella scienza dei materiali, prende il significato di “forza” che produce tensione deformando l’oggetto cui viene applicata (Cox, 1978). Nel tempo, il significato di questa forza che agisce su un oggetto è stato ampliato fino ad includere lo stato di tensione di una persona in risposta a sollecitazioni esterne. Tale interpreta-zione, relativa ai vissuti umani, si deve a Selye che usò la parola “stress” per la prima volta in un suo articolo nel 1936, per indicare una condizione definita “sindrome generale di adattamento” che permette all’organismo di adattarsi alle sollecitazioni esterne e “stressore” il fattore ambien-tale che spinge l’organismo all’adattamento. Di conseguenza, possiamo definire stressors (tradotti in italiano come stressori, agenti stressanti o fonti di stress) gli stimoli esterni che attivano la rea-zione dello stress.

Il termine “stress” indica dunque una reazione tipica di adattamento fisico, mentale ed emozionale a stimoli provenienti dall’ambiente esterno. Costituisce, in generale, una risposta ne-cessaria e non straordinaria che l’organismo deve dare agli stimoli esterni per poter mantenere il proprio equilibrio, o ristabilire in termini diversi e appropriati alle sollecitazioni ricevute.

Gli stressor vengono avvertiti in maniera diversa da persona a persona: ciò che può de-terminare disagio in alcuni, in altri può provocare effetti contrari o addirittura risultare “neutro” e non dare luogo ad alcuna conseguenza. Cruciale in tal senso è il ruolo svolto dalla valutazione

soggettiva che facciamo dello stressor, che può essere interpretato, ad esempio, come una minac-cia o come una sfida.

Secondo Lazarus e Folkman (1984) la valutazione è un processo estimativo che attribui-sce significato alle transazioni tra persona e ambiente che avviene a differenti livelli. Una valuta-

zione primaria, attraverso la quale viene attribuito ad uno stimolo esterno il significato di minac-cia o di sfida per il proprio benessere, e da una successiva valutazione secondaria, con cui ven-gono individuate e attivate le risorse personali per fronteggiare tale minaccia o sfida. Questo se-

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Metodologie e strumenti per la

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lavoro-correlato Alessandra Falco – Cap. 2

condo processo riguarda, nello specifico, l’adozione di strategie di coping – ovvero di specifici sforzi cognitivi e comportamentali – utilizzate dall’individuo per far fronte ad una fonte percepita di stress. Esiste, poi, una terza valutazione, successiva alla messa in atto delle strategie di coping, con la quale vengono reinterpretati gli stimoli esterni sulla base degli esiti delle strategie stesse (Lazarus, 1968; Lazarus & Folkman, 1984; Lazarus, 1993).

Se le strategie adottate consentono di rispondere efficacemente agli stressor, ristabilendo l’equilibrio con l’ambiente, si verifica una condizione di stress positivo – eustress – caratterizzata da conseguenze positive di salute e benessere; se al contrario le strategie di coping adottate falli-scono nella loro azione entriamo in una condizione di stress negativo – distress (Selye, 1970) – accompagnata da malessere, disagi fisici, psicologici e sociali.

Ed è proprio a questa connotazione negativa dello stress che si riferiscono le preoccupa-zioni recepite a livello europeo, richiamate nel precedente capitolo, in riferimento allo stress la-voro-correlato. Quest’ultima espressione, infatti, è rivolta soprattutto all’aspetto disfunzionale del fenomeno e alle conseguenze che esso può comportare per la persona e per le organizzazioni.

Oggi dunque è ampiamente riconosciuto che il fenomeno dello stress mette in relazione molteplici aspetti, quali gli eventi ambientali, la percezione soggettiva di tali eventi, le risorse e/o caratteristiche individuali e l’attivazione di processi biochimici dell’organismo in grado di in-fluenzare stati di salute diversi. Analogamente, è condivisa nella comunità scientifica la defini-zione dello stress lavorativo come uno stato psicologico che fa parte e riflette un più ampio pro-cesso di interazione dinamica tra la persona e il proprio ambiente di lavoro.

2. Principali modelli dello stress lavorativo

L’attuale concezione di stress, tuttavia, non ha da sempre dominato il panorama della ri-cerca scientifica ed è il risultato di numerosi modelli teorici che si sono storicamente susseguiti.

In particolare la letteratura evidenzia vari approcci sullo stress riconducibili a tre princi-pali categorie fra loro connesse, per la definizione, lo studio e la valutazione del fenomeno: ap-proccio tecnico; fisiologico; psicologico. Tali prospettive, oltre a fornire una differente definizio-ne di stress, orientano diversamente la sua misurazione.

L’approccio tecnico enfatizza il ruolo dell’ambiente esterno come fattore determinante dell’esperienza di stress. Lo stress lavorativo, di conseguenza, veniva considerato come una ca-ratteristica avversa o dannosa dell’ambiente di lavoro, tale da determinare una reazione di strain reversibile o irreversibile a seconda della gravità (Cox & Mackay, 1981; Sutherland & Cooper, 1988). In questa prospettiva, la valutazione dello stress lavorativo prevedeva l’analisi delle ri-chieste alle quali l’individuo deve rispondere sia in termini di carico, di livello di onerosità o di minaccia, sia di danno effettivo e potenziale.

Il secondo approccio tende a spiegare lo stress, invece, in termini di effetti soprattutto fi-siologici, derivanti da un’ampia gamma di stimoli avversi o dannosi. Questa prospettiva “fisiolo-gica” trova le sue origini nel lavoro di Seyle (1936), il quale definisce lo stress come “Sindrome Generale di Adattamento” (SGA), nel cui ambito lo stress stesso è concepito come “una risposta generale aspecifica a qualsiasi richiesta proveniente dall’ambiente”, ovvero come uno “stato fi-siologico normale” finalizzato all’adattamento dell’individuo all’ambiente. Dunque, secondo tale

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lavoro-correlato Alessandra Falco – Cap. 2

approccio non era importante la natura dello stimolo, quanto soprattutto la sua intensità. Inoltre, si riteneva che cause diverse potessero produrre unici effetti.

In linea con il terzo orientamento, maggiormente incentrato sulle variabili individuali, lo stress sul lavoro è oggi considerato in termini di “interazione dinamica tra la persona e l’am-biente in cui essa opera”. Questo orientamento è stato definito “approccio psicologico” ed il suo sviluppo ha permesso di superare i limiti propri delle impostazioni precedenti.

I primi due approcci infatti esprimevano essenzialmente modelli di comportamento di ti-po “stimolo-risposta” e non consideravano a sufficienza le differenze fra le diverse persone, di ordine psicologico, connesse ai processi percettivi, cognitivi e affettivi. Si riteneva, dunque, che gli esseri umani rispondessero in termini essenzialmente “passivi” agli stimoli ambientali.

Attualmente si registra un consenso sempre maggiore verso l’approccio psicologico per la definizione dello stress. Le impostazioni psicologiche, infatti, sono alla base con la definizione di stress data dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (International Labour Organization, ILO 1986) e con la definizione di benessere proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, 1986), secondo la quale il benessere è uno stato mentale dinamico caratterizzato da un’adeguata armonia tra capacità, esigenze e aspettative di un individuo, ed esi-genze e opportunità ambientali; sono anche in linea con la letteratura in tema di valutazione dei rischi individuali. Per una più analitica rassegna di tali definizioni, utile anche sul piano normati-vo, si veda il capitolo precedente.

Nell’ambito dell’approccio psicologico si riscontrano, oggi, due prospettive: quella inte-

razionale e quella transazionale. L’una è incentrata sulle caratteristiche strutturali dell’interazio-ne di una persona con l’ambiente lavorativo, mentre l’altra si riferisce soprattutto ai meccanismi psicologici che sono alla base dell’interazione.

Fra i principali modelli interazionali richiamiamo il Person-Environment Fit (P-E Fit) di French, Caplan e Van Harrison (1982) e il Job Demand-Control di Karasek (JD-C, 1979). In par-ticolare, nel JD-C un ruolo centrale è ricoperto dall’interazione tra le richieste del lavoro in ter-mini di domanda sia quantitativa che di pressione temporale delle performance, e il controllo in-teso come libertà decisionale e autonomia nello svolgimento delle performance stesse: maggiori livelli di stress sono associati a condizioni lavorative caratterizzate da job strain, ovvero tali da corrispondere ad una elevata job demand e ad un basso job control. In seguito il modello JD-C è stato integrato (in termini di mediazione) con la dimensione supporto sociale, definita come la presenza di interazioni sociali di aiuto sul luogo di lavoro (Karasek & Theorell, 1990).

I modelli transazionali possono essere considerati un’evoluzione o una integrazione di quelli interazionali, ovvero esprimenti una maggiore attenzione per i processi psicologici che condizionano le diverse percezioni-valutazioni cognitive e affettive, le quali a loro volta influi-scono sulle modalità di coping adottate dai lavoratori per fronteggiare lo stress. Particolare rile-vanza assume la natura e la tipologia dello stress correlato al lavoro e i riscontri individuali e or-ganizzativi. Secondo questa impostazione, esistono vari fattori ambientali che costituiscono “fon-ti di stress”. Per poter valutare queste ultime e i loro possibili effetti, occorre considerare atten-tamente la “reattività soggettiva” di ciascuno (si veda la Figura 1).

In tale direzione Cooper (1986) e Cooper e Marshall (1978) hanno proposto un modello in cui alcune fonti di stress (inerenti alle caratteristiche intrinseche del lavoro, ai ruoli organizza-tivi, alle relazioni sociali, allo sviluppo di carriera, al clima ed alla cultura organizzativa) deter-minano dei sintomi di stress, sia a livello individuale che organizzativo.

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FIGURA 1 Un modello dello stress lavorativo

(curato dall’autrice e tratto da Cooper, 1986, e Cooper & Marshall, 1978)

Tra i sintomi di stress a livello individuale si annoverano, ad esempio, l’aumento della

pressione sanguinea o la comparsa di sintomi di ansia ed emotivi, che possono avere delle ricadu-te a lungo termine sotto forma di patologie cardio-circolatorie o mentali. Tra i sintomi organizza-tivi si considerano, ad esempio, l’alto tasso di assenteismo o lo scarso controllo di qualità, i quali possono avere delle ripercussioni sull’intera organizzazione sotto forma di lunghi scioperi, perio-di di assenza prolungata, infortuni gravi. Nel modello di Cooper e Marshall (1978) acquistano importanza le dimensioni individuali, che influiscono sulla relazione tra fonti e sintomi di stress.

Di conseguenza, le risposte fisiologiche, psicologiche e/o comportamentali allo stress si collegano alla situazione e ad alcune caratteristiche di personalità dell’individuo quali la “perso-nalità di tipo A” (competitiva, ambiziosa, …) e il locus of control (di maggior “peso” interno op-pure esterno nell’attribuzione delle responsabilità).

Tale impostazione mette in evidenza il ruolo che rivestono le misure soggettive dell’espe-rienza emotiva dello stress, per la valutazione dello stress stesso. Cruciali risultano infatti le per-cezioni del lavoratore in relazione alle richieste che gli sono formulate, la capacità di far fronte a queste richieste, le esigenze e la misura in cui esse sono soddisfatte, il controllo che il lavoratore esercita sul lavoro e l’appoggio ricevuto.

3. La valutazione del rischio stress lavoro-correlato: obiettivi e metodologia

Come già discusso nel capitolo di Nicola A. De Carlo, il D.Lgs. n. 81 del 2008 stabilisce l’obbligo della valutazione di “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compre-

si […] quelli collegati allo stress lavoro-correlato” (Art. 28, comma 1, pag. 35). Nel contempo, l’Accordo europeo sullo stress sul lavoro, invitando esplicitamente le organizzazioni a mettere in

Individuo - Comportamento di tipo A - Locus of control - Strategie di coping - …

Fattori intrinseci al lavoro (rumorosità, temperatura, carico, …)

Ruolo nell’organizza- zione (ambiguità, conflitto, …)

Relazione con altre persone (capi, colle- ghi, …)

Carriera e riuscita (Insicurezza lavora- tiva, retrocessione, …)

Clima e struttura orga- nizzativa (partecipazio- ne, sostegno, …)

Interfaccia

casa-lavoro - Problemi familiari - Dualismo carriera- matrimonio - …

Somatiche

- Disturbi cardiocircolatori - Disturbi mentali - …

Organizzative

- Scioperi prolungati - Frequenti e gravi infortuni - Scarse performance - …

A livello individuale

- Aumento pressione diastolica - Umore depresso -Tabagismo/alcolismo - Dipendenza da farmaci - Insoddisfazione - …

A livello organizzativo

- Elevato assenteismo/ turnover - Difficoltà nelle relazioni industriali - Scarso controllo di qualità - …

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Metodologie e strumenti per la

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lavoro-correlato Alessandra Falco – Cap. 2

atto specifiche misure per prevenire, eliminare o ridurre lo stress correlato al lavoro, chiarisce come la stima di tali rischi non sia un’azione fine a se stessa (Accordo europeo sullo stress sul la-voro, 2004). Tali indicazioni vengono sottolineate anche nell’ambito del progetto europeo PRIMA-EF, che si è proposto di mettere a punto un modello europeo per la gestione dei rischi psicosociali (Leka & Cox, 2008).

Dunque, la valutazione del rischio stress lavoro-correlato non costituisce il risultato della mera applicazione di strumenti oggettivi e soggettivi per la misurazione dei fattori di stress, ma rappresenta un processo sistematico in cui l’analisi è solamente la fase finalizzata al più ampio obiettivo della gestione dei rischi. In particolare, la valutazione è diretta a verificare l’associa-zione tra i pericoli, di natura psicosociale, e le conseguenze per la salute e la sicurezza derivanti dall’esposizione ad essi; prevede un’accurata analisi del contesto e del contenuto del lavoro in merito a ciò che potrebbe causare un danno alle persone, così da poter valutare se vengono adot-tate tutte le precauzioni necessarie alla prevenzione del danno stesso, con finalità dunque di pre-

venzione primaria. Tale prospettiva non preclude, naturalmente, la possibilità di analizzare quan-to sia esteso il danno, il malessere dei lavoratori – con il fine di sostenere ed intervenire sulla sa-lute del lavoratore, in una prospettiva di prevenzione terziaria – ma evidenzia la necessità di con-centrarsi prioritariamente sulle fonti di stress ed eventualmente sui sintomi organizzativi. Va pe-raltro rilevato che la valutazione del rischio può essere rivolta anche alla sfera delle caratteristi-che e delle risorse personali (resilienza, self-efficay, strategie di coping, …) del singolo lavorato-re, con il fine di rafforzare le risorse del lavoratore che possono essere utili per meglio fronteg-giare la vita personale e organizzativa. Tale prospettiva viene definita prevenzione secondaria.

Si sottolinea inoltre che la normativa italiana (in linea con quanto indicato dall’Accordo Europeo) nell’ambito di tutti i rischi psico-sociali, distingue lo stress lavoro-correlato da quelli di natura dolosa ed individuale caratterizzati da una precisa volontarietà lesiva su singoli o gruppi di lavoratori (mobbing e violenza). Lo stress lavoro-correlato e il burnout (forma estrema di conse-guenza dello stress) sono invece di natura colposa e collettiva. Naturalmente viene riconosciuto che la sopraffazione e la violenza sul lavoro possano rappresentare potenziali fattori stressogeni, ma nel contempo si rimanda tali problematiche alla legislazione di riferimento che prevede una contrattazione specifica (Coordinamento Tecnico Interregionale della Prevenzione nei Luoghi di Lavoro, 2012). Dunque, la valutazione del rischio stress lavoro-correlato non contempla la vio-lenza sul lavoro, la sopraffazione sul lavoro e lo stress post-traumatico.

Il processo di valutazione e gestione del rischio si articola in una serie di fasi che si sus-seguono in maniera ciclica e ricorsiva, e che si esplicano in un processo logico di diagnosi e di intervento. Tale processo si ispira al “ciclo di controllo”, indicato dalla Direttiva Comunitaria 98/24/CE, ormai divenuto prassi consolidata per i rischi tradizionali (chimici, fisici, …) e propo-sto da Cox, Griffith, e Rial Gonzàlez (2002) come modello di riferimento – pur con alcune diffi-coltà e necessità di dovuti adattamenti, in virtù della natura stessa del rischio – a cui ci si può i-spirare anche per i rischi psicosociali. L’applicazione di tale modello è diventata ormai prassi i vari paesi della Comunità Europea, fra i quali la Gran Bretagna, i Paesi Bassi e la Finlandia.

Cox et al. (2002) definiscono il ciclo di controllo come un processo sistematico di tutti gli aspetti del lavoro volto a definire quali siano le cause probabili di lesioni o di danni, con il fine ultimo di eliminare i pericoli, oppure, laddove ciò non fosse possibile, definire le misure protetti-ve e preventive volte al controllo dei rischi. Complessivamente il ciclo di controllo si compone di cinque fasi (Figura 2) che possono essere sintetizzate in due principali cicli di attività diversi, ma

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Metodologie e strumenti per la

valutazione del rischio stress

lavoro-correlato Alessandra Falco – Cap. 2

strettamente connessi tra loro: il risk assessment, di valutazione del rischio da stress, e il risk management, di gestione del rischio, mediante la sua eliminazione o riduzione.

FIGURA 2

Ciclo di controllo (curato dall’autrice e tratto da Cox et al., 2002)

Attraverso il ciclo di controllo per la valutazione del rischio vengono dunque combinati

tre principali elementi: il pericolo, il danno, il rischio. Per meglio comprendere tale processo è utile chiarire la triade pericolo-rischio-danno.

La “Norma UNI EN 292 PARTE I/1992” definisce il pericolo (P) come qualsiasi fonte di possibili lesioni o danni alla salute (ovvero tutto ciò che può causare danno); il pericolo esprime dunque la “potenzialità” di una determinata entità – intesa come processo, metodo e pratiche di lavoro, attrezzatura o strumenti lavorativi, agente chimico, fisico, biologico, … – di causare un danno al lavoratore. Il danno (D) viene riferito invece alle lesioni, immediate o differite nel tem-po, transitorie o permanenti, che derivano dal contatto con il pericolo; il rischio infine esprime la pericolosità, ovvero la probabilità (espressa in termini percentuali) che si verifichino lesioni o danni alla salute (P) per la gravità (espressa in termini di magnitudo) delle conseguenze dannose (D) e può essere calcolato applicando la formula R = P x D.

Tale metodologia, ormai consolidata per la valutazione dei rischi tradizionali, appare semplice e lineare; essa tuttavia, presenta alcune problematiche nella sua applicazione ai rischi psicosociali, definiti da Cox e Griffiths (1995 in Cox et al., 2002, pag. 71) come “quegli aspetti di progettazione del lavoro e di organizzazione e gestione del lavoro, nonché i rispettivi contesti ambientali e sociali, che potenzialmente possono dar luogo a danni di natura psicologica, sociale o fisica”. Le varie problematiche derivano dalle differenze che contraddistinguono le due diverse tipologie di rischio (fisico vs psicosociale), nonché dal diverso significato che assume il termine “danno” nelle due diverse prospettive.

Iniziamo dunque con il chiarire le principali differenze fra i rischi psicosociali e i rischi fisici (Rick & Briner, 2000).

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Metodologie e strumenti per la

valutazione del rischio stress

lavoro-correlato Alessandra Falco – Cap. 2

- I rischi fisici sono caratterizzati da un livello di esposizione maggiormente definibile; è possibile ad esempio determinare con una buona precisione il livello di esposizione al rumore e quando questo livello possa diventare dannoso per il lavoratore (ad esempio è noto che l’esposizione prolungata ad un rumore con forte intensità può determinare un trauma acustico cronico o ipoa-cusia da rumore). Non è invece altrettanto possibile determinare a quale livello un eccessivo ca-rico lavorativo o un eccessivo conflitto persona-ruolo possa causare uno specifico danno.

- I rischi fisici generalmente hanno un effetto immediato, quale ad esempio una scottatura o una caduta, mentre gli effetti dell’esposizione ad un rischio psicosociale possono restare latenti per molto tempo.

- I rischi fisici (ad esempio quelli connessi all’esposizione all’amianto) tendono sempre ad ave-re conseguenze negative e ad essere privi di un potenziale ruolo salutare, mentre i rischi psico-sociali possono avere conseguenze a volte negative e a volte positive. Per esempio, l’autono-mia/controllo sul proprio lavoro generalmente si associa ad una migliore salute psicologica, ma avere troppa autonomia può anche essere conseguenza di una scarsa chiarezza del ruolo o di un limitato supporto del management.

- I rischi fisici sono intrinsecamente dannosi (ad esempio i gas tossici), mentre i rischi psicosocia-li sono determinati interamente o parzialmente dal modo in cui vengono percepiti dalla persona (valutazione cognitiva-affettiva) anche sulla base di caratteristiche individuali della persona stessa che ne determinano il vissuto (resilienza, affettività negativa, storia personale e familiare).

- I rischi fisici tendono ad essere specifici dei diversi contesti (ad esempio, il modo in cui i ma-teriali infiammabili sono immagazzinati, oppure il modo in cui i parapetti sono montati intor-no ad una macchina, …). I rischi psicosociali sono per lo più generali e hanno incidenza per lo più ovunque (ad esempio, eccessivo carico di lavoro, ambiguità di ruolo, …).

Tali differenze ci fanno comprendere come si pongano delle difficoltà già a partire dalla prima fase della valutazione del rischio stress lavoro-correlato, fase che richiede l’individuazione dei rischi di origine psicosociale. Tali rischi, come abbiamo visto, contraddistinguono potenzial-mente ogni luogo di lavoro.

Anche il danno originato da fattori psicosociali rispetto al danno fisico rivela alcune im-portanti differenze (Rick & Briner, 2000). - La maggior parte dei rischi fisici mostra un chiaro legame con il danno fisico, con sintomi e ma-lattie diagnosticate (ad esempio l’ipoacusia da rumore richiamata precedentemente); non è tutta-via sempre chiaro quale forma di danno è causata dai fattori psicosociali. Ad un estremo po-tremmo trovare disturbi psichiatrici, come all’altro una varietà di stati d’umore (ansia, depres-sione, nervosismo) o di stati affettivi (scarsa soddisfazione lavorativa, basso commitment orga-nizzativo, ridotti comportamenti di cittadinanza organizzativa) attribuibili allo stress, e così pure un’ampia varietà di sintomi psicosomatici (cefalea, gastrite, dermatite, disturbi alimentari).

- Un danno fisico, come un avvelenamento, tende ad avere una causa specifica e facilmente i-dentificabile, mentre l’esatta causa di un danno psicosociale, quale ad esempio uno stato de-pressivo, è meno facile da determinare poiché molteplici ed intersecate fra loro possono essere le cause (genesi multifattoriale).

- La difficoltà con cui la relazione pericolo/danno può essere identificata differisce tra i due tipi di danno. Ad esempio, è più semplice determinare la relazione pericolo/danno fra un pericolo qual è un impianto difettoso che può causare una folgorazione, rispetto ad esempio alla possi-bilità di determinare la relazione tra l’ambiguità di ruolo ed uno stato depressivo.

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- Un’altra importante differenza riguarda il livello di danno vissuto. In merito al danno fisico, la distinzione tra un ferita di lieve (abrasione, tagli) o di maggiore entità (fratture, amputazioni) generalmente si basa sull’immediato grado di menomazione subita. Risulta invece più com-plesso identificare il grado di danno subito a causa di un fattore di origine psicosociale, anche definendo una sorta di gerarchia in termini di “gradi di danno psicologico”.

Appare dunque chiaro che in caso di pericolo fisico risulta essere relativamente più age-vole identificare, in una data situazione, chi potrebbe essere danneggiato, quanto spesso e con quali modalità. Rappresenta dunque una ulteriore sfida la seconda fase della valutazione del ri-schio stress lavoro-correlato, finalizzata a valutare i “rischi associati”, ovvero ad identificare la precisa causa del danno, chi potrebbe essere danneggiato e in quale misura.

In sintesi, secondo l’Agenzia europea per la sicurezza sul lavoro, il modello per la valuta-zione dei rischi ispirato al “ciclo di controllo” risulta essere utile come analogia e rappresenta una possibile strategia per la valutazione dei rischi psicosociali sul lavoro. Vi sono tuttavia, come ab-biamo evidenziato, diverse difficoltà ad estendere tout court questo modello di valutazione ai ri-schi psicosociali, difficoltà che dovranno essere affrontate da professionisti e ricercatori del setto-re in sede di valutazione dell’ambiente di lavoro.

4. Strumenti di valutazione del rischio stress lavoro-correlato

Com’è stato osservato nel capitolo precedente per affrontare le problematiche applicative in ordine a quanto indicato dall’art. 28 del Testo Unico in materia di valutazione dei rischi, è stato af-fidato alla Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro, il compito di elaborare le indicazioni necessarie alla valutazione del rischio da stress lavoro-correlato.

La metodologia indicata prevede un processo articolato in due momenti. Nel primo si e-segue una valutazione oggettiva preliminare, da effettuare tramite l’analisi di: eventi sentinella (quali ad esempio assenze per malattia, turnover, segnalazioni del medico competente); indicatori

di contenuto del lavoro (ad esempio carichi e ritmi di lavoro, orario di lavoro e turni); indicatori

di contesto del lavoro (ad esempio autonomia decisionale, conflitti interpersonali). In caso di esito negativo (assenza di elementi di rischio da stress lavorativo) il risultato è

riportato nel Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) con la previsione di un futuro piano di monitoraggio. Nel caso di esito positivo (presenza di elementi di rischio da stress lavorativo) si procede alla pianificazione ed alla conseguente adozione di interventi correttivi appropriati. Se tali interventi si rivelano inefficaci, si passa ad una valutazione approfondita, in cui vengono pre-se in considerazione, tramite questionari, focus group o interviste semistrutturate, le percezioni soggettive dei lavoratori circa i fattori di rischio. 4.1 Strumenti per la valutazione preliminare “oggettiva”

La fase di valutazione preliminare prevede, attraverso l’utilizzo di specifici strumenti – osservazione, analisi del lavoro (job analysis) e documentale degli archivi aziendali, check-list, interviste con responsabili aziendali, RLS, medico competente – l’individuazione dei pericoli che possono essere presenti nei così detti fattori di contenuto e di contesto del lavoro. Tale analisi

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permette di individuare quali fattori siano potenzialmente in grado di arrecare danno a specifiche categorie di lavoratori (ovvero gruppi omogenei di lavoratori), offrendo elementi di valutazione indipendenti dalle elaborazioni cognitive dei singoli lavoratori e dalle loro percezioni o personali reazioni all’ambiente di lavoro. Obiettivo di tale fase è dunque oggettivare lo stress, stabilendo in

particolare se va considerata rilevante o assai ridotta la probabilità – ovvero il rischio – che le

caratteristiche dell’organizzazione, degli addetti, dei processi e delle attività, nonché dei rappor-

ti di lavoro, vada associata a potenziali fattori di rischio. Vari sono gli indicatori oggettivi che contribuiscono ad evidenziare in fase preliminare la

presenza di stress. In particolare l’Institut National de Recherche et de Sécurité (2007) ne eviden-zia tre: indicatori di rischio, vale a dire di una situazione in cui è più probabile l’insorgenza di stress (es. lavori notturni, lavori a contatto con la sofferenza, …); indicatori di risultato, diretti a quantificare l’impatto dello stress (es. infortuni, assenteismo, casi conclamati di disagio, …); in-

dicatori preventivi volti a definire quanto l’organizzazione è impegnata nel prevenire il disagio (es. interventi formativi, sistemi di valutazione delle prestazioni, …).

Relativamente al contesto italiano, la Commissione consultiva richiede di raccogliere indi-catori di stress “appartenenti quanto meno” a tre famiglie: eventi sentinella (quali ad esempio as-senze per malattia, turnover, segnalazioni del medico competente); indicatori di contenuto del lavo-

ro (ad esempio carichi e ritmi di lavoro, orario di lavoro e turni); indicatori di contesto del lavoro (ad esempio autonomia decisionale, conflitti interpersonali, evoluzione e sviluppo di carriera).

In particolare, la suddivisione in fonti di stress relative al contesto e al contenuto del la-voro deriva dalle indicazioni dell’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute del Lavoro (in Cox et al., 2002), assunte dagli studi di Hacker (1991) e Hacker, Iwanova, e Richter (1983). La Tabella 1 riassume dieci categorie differenti, potenzialmente pericolose che, a determinate condi-zioni, possono risultare dannose per la salute individuale.

Tali indicatori di stress possono essere rilevati attraverso l’uso di check list disponibili nella letteratura nazionale e internazionale, purché adeguatamente caratterizzate da evidenza scientifica (UNI EN ISO 10075-1-2-3). Alcune sono già contenute nelle linee guida proposte dai vari organismi italiani; si richiamano in proposito quelle dell’INAIL (maggio, 2011) in cui viene presentato lo strumento definito “lista di controllo” e quelle della Regione Toscana, il cui stru-mento si basa sul metodo delle congruenze organizzative di Maggi. Altri strumenti provengono dal mondo accademico e professionale; si richiamano ad esempio il Questionario V.R.S. basato sull’approccio metodologico OSFA (Objective Stress Factors Analysis) (Argentero & Candura, 2009), il Metodo operativo di valutazione e gestione dei rischi da stress lavoro-correlato in ambi-to scolastico (SiRVeSS, Cesco-Frare, 2010), messo a punto al fine di poter disporre di uno stru-mento in grado di indagare le criticità specifiche del contesto scolastico e il Metodo V.I.S. (Valu-tazione per Indicatori di Stress, Sarto, De Carlo, Falco, Vianello, Magosso, Bartolucci & Mar-cuzzo, 2011) successivamente descritto.

In particolare, lo strumento dell’Inail consente di analizzare specifici indicatori, suddivisi per le tre famiglie d’analisi. L’area degli eventi sentinella, la cui compilazione si fonda su dati statistici, analizza i principali fattori organizzativi predittivi di condizione di stress e permette di coglierne l’andamento negli ultimi tre anni. Lo stesso Inail ha messo a disposizione delle aziende un portale (www.inail.it) contenente linee guida, risorse e strumenti finalizzati a supportare le a-ziende nella valutazione e gestione del rischio da stress lavoro-correlato secondo quanto previsto dalla normativa.

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TABELLA 1 Caratteristiche stressanti nel lavoro (Hacker, 1991; Hacker, Iwanova, & Richter, 1983)

Il metodo V.I.S è nato dalle sinergie in essere fra un gruppo di professionisti appartenenti

al Servizio Sanitario e di docenti e ricercatori dell’Università di Padova. Tale metodo è stato svi-luppato in linea con le indicazioni della Commissione consultiva. Esso consta di 4 schede, più una quinta incentrata sulle azioni preventive e correttive in funzione di quanto emerso dalla com-pilazione delle altre schede. - La scheda 1 è finalizzata a rilevare gli indicatori oggettivi e verificabili – ovvero gli eventi sentinella specificamente richiamati dalle linee guida ministeriali – quali assenze per malattia, turnover, procedimenti e sanzioni, infortuni, nonché elementi di “responsabilità sociale d’im-presa” e sistemi di gestione della sicurezza. Peculiarità della scheda è la presenza, per ciascun indicatore, di valori di riferimento ricavati da dati statistici nazionali specifici per il comparto pubblico e privato o che sono ottenuti sulla base dei dati storici dell’azienda, generalmente ri-feriti ai tre anni precedenti il momento dell’indagine.

- La scheda 2 è volta a valutare 14 possibili fonti di stress, suddivise in fattori di contesto (quali ad esempio autonomia decisionale e controllo, conflitti interpersonali al lavoro, …) e di con-tenuto (quali ad esempio carichi e ritmi di lavoro, corrispondenza tra le competenze dei lavo-ratori e i requisiti professionali richiesti, …) del lavoro, rilevate da un nucleo di valutazione costituito dagli attori aziendali della prevenzione quali: il rappresentante del datore di lavoro (DdL), il responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP), il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS), il medico competente ed eventuali altri specialisti. Le valu-tazioni dei vari attori aziendali dovranno pervenire ad un giudizio unico e condiviso che verrà

CONTESTO DEL LAVORO

Funzione e cultura organizzativa Scarsa comunicazione, livelli bassi di appoggio per la risoluzione dei problemi e lo sviluppo personale, mancanza di definizione degli obiettivi organizzativi.

Ruolo nell’ambito dell’organizzazione Ambiguità e conflitto di ruolo, responsabilità di altre persone

Evoluzione della carriera Incertezza o fase di stasi per la carriera, promozione insufficiente o eccessiva, retribuzione bassa, insicurezza dell’impiego, scarso

valore sociale attribuito al lavoro.

Autonomia decisionale/Controllo Partecipazione ridotta al processo decisionale, mancanza di controllo sul lavoro (il controllo, in particolare nella forma di partecipazione, rappresenta anche una questione organizzativa e contestuale di più ampio respiro).

Rapporti interpersonali sul lavoro Isolamento fisico o sociale, rapporti limitati con i superiori, conflitto interpersonale, mancanza di supporto sociale.

Interfaccia casa-lavoro Richieste contrastanti tra casa e lavoro, scarso appoggio in ambito domestico, problemi di doppia carriera.

CONTENUTO DEL LAVORO

Ambiente e attrezzature di lavoro Problemi inerenti l’affidabilità, la disponibilità, l’idoneità, la manutenzione lavoro o la riparazione di strutture ed attrezzature.

Pianificazione dei compiti Monotonia, cicli di lavoro brevi, lavoro frammentato o inutile, sottoutilizzo delle capacità, incertezza elevata.

Carico di lavoro / Ritmo di lavoro Carico di lavoro eccessivo o ridotto, mancanza di controllo sul ritmo, livelli elevati di pressione in relazione al tempo.

Orario di lavoro Lavoro a turni, orari di lavoro senza flessibilità, orari imprevedibili, orari di lavoro lunghi.

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successivamente confrontato con indici statistici, rispettivamente per tre differenti tipologie di mansioni: coordinamento, esecutive manuali, esecutive intellettuali.

- La scheda 3 è costituita dal giudizio del medico competente (ove presente) in base ai risultati della sorveglianza sanitaria e alla conoscenza diretta dell’azienda; il medico competente, an-che facendo riferimento alle altre aziende da lui seguite, può percepire il disagio psico-fisico dei lavoratori durante la sua normale attività (sorveglianza sanitaria, valutazione di alcuni ri-schi, corsi di formazione, riunione periodica, sopralluoghi nell’unità produttiva) e dunque for-nire attraverso il suo giudizio un indicatore di possibile stress.

- La scheda 4 è finalizzata alla raccolta di altri indicatori oggettivi, quali sono i sintomi di ma-lessere psicofisico; i sintomi rilevati, vengono raccolti dal medico competente durante la sor-veglianza sanitaria in modo sistematico e standardizzato mediante una specifica scala di strain psico-fisico. Tale scala è stata recentemente validata e pubblicata nella rivista italiana “La Medicina del Lavoro” (Falco, Girardi, Sarto, Marcuzzo, Vianello, Magosso, Dal Corso, Barto-lucci, & De Carlo, 2012).

Il processo di valutazione del rischio mediante il metodo V.I.S. può essere suddiviso per gruppi omogenei di lavoratori, fra cui ad esempio le mansioni ed i reparti. Ogni gruppo sarà ca-ratterizzato da un proprio punteggio qualificante la diversa esposizione al rischio stress lavoro-correlato. La somma dei punteggi attribuiti alle fasce di rischio per ciascuna scheda porterà alla valutazione del livello di rischio complessivo, mantenendo le tre fasce di rischio basso, medio e alto. Il Metodo V.I.S. è disponibile on-line, e scaricabile in termini non onerosi all’indirizzo www.francoangeli.it.

Tutte le metodologie richiamate, a titolo esemplificativo, in questo paragrafo prevedono una valutazione del rischio per fasi, in cui allo strumento di valutazione del rischio preliminare si affianca uno strumento di valutazione soggettiva approfondita.

4.2 Punti di forza e di debolezza degli indicatori oggettivi

Com’è noto, qualunque tipologia di misura comporta punti di forza e punti di debolezza.

In particolare, in relazione agli indicatori oggettivi (tratti da archivi aziendali, analisi documenta-le, …) Kasl (1998) individua alcuni vantaggi individuabili in due principali aspetti. 1) Consentono un legame diretto con le reali condizioni ambientali, favorendo la comprensione degli ambiti organizzativi su cui è opportuno intervenire.

2) Sono caratterizzati da minori fattori “confondenti”, delineando chiaramente i confini tra le va-riabili indipendenti e le variabili dipendenti oggetto di studio.

Non mancano, naturalmente, anche alcune riserve. La principale critica avanzata nei con-fronti delle misure oggettive risiede nei presupposti delle teorie di impostazione psicologica. Se da un lato tali strumenti sono apprezzati per l’indipendenza dalla soggettività, secondo l’approc-cio transazionale la percezione delle condizioni ambientali è una variabile che non può essere tra-scurata (Kasl, 1998). Dato che per il lavoratore è importante il significato dei fattori di stress, ol-tre che la loro presenza oggettiva (dando luogo o meno a distress), l’ambiente oggettivo non può costituire l’unico elemento considerato nella valutazione (Semmer, Grebner & Elfering, 2004).

In secondo luogo, si sottolinea come l’interpretazione dei dati oggettivi non sia sempre u-nidirezionale, così da richiedere spesso un’interpretazione soggettiva. Si ritiene, ad esempio, che

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l’elevato turnover all’interno di un’organizzazione sia indice di malessere e dunque di alto rischio, tale da spingere le persone ad andarsene; che analogamente un basso turnover sia indice di salute e benessere individuale e organizzativo. In proposito, invece, Liljegren e Ekberg (2009) in un loro studio, hanno rilevato che il basso turnover all’interno di un contesto organizzativo svedese era do-vuto all’elevato grado di burnout presente nei lavoratori; erano dunque l’apatia e l’esaurimento che inibivano le motivazioni dei lavoratori a cambiare lavoro, non il loro stato di benessere psicofisico.

Ne deriva dunque la necessità di costante cautela nella lettura degli indicatori oggettivi, secondo quanto si evidenzia nella letteratura internazionale, soprattutto quando essi vengono uti-lizzati come unica fonte di informazione (Falco, Dal Corso, Sarto, Vianello, Girardi, Marcuzzo, Magosso, De Carlo, & Bartolucci, 2011).

4.3 Strumenti per la valutazione approfondita “soggettiva”

Come è stato precedentemente ricordato, secondo le indicazioni della Commissione Con-sultiva la valutazione approfondita viene effettuata in quelle aziende in cui gli interventi correttivi attuati, in seguito alla valutazione preliminare, non hanno consentito di ridurre il rischio rilevato, risultando dunque inefficaci.

Tuttavia, come sottolineato dallo stesso Inail (2011, pag. 26) “ … le indicazioni della Commissione Consultiva sono misure di minime e nulla vieta al datore di lavoro di decidere di effettuare una “valutazione approfondita” comunque, indipendentemente degli esiti della fase preliminare. Infatti proprio per la peculiarità del rischio da stress lavoro-correlato, la puntuale a-nalisi delle percezioni dei lavoratori costituisce un elemento chiave nella caratterizzazione del ri-schio stesso”. L’Inal (p. 26) precisa inoltre che “... la fase di approfondimento soggettiva costitui-sce un prezioso momento informativo sulle condizioni di salute di un’organizzazione ed una op-portunità di una più chiara definizione del rischio, soprattutto in quelle realtà che, per settore pro-duttivo (es. professioni d’aiuto, operatori di call center, controllori di volo, …) e/o dimensioni a-ziendali, possono rendere complessa la caratterizzazione ottimale del rischio con la sola adozione di “liste di controllo”.

La valutazione approfondita comporta, dunque, l’approfondimento mediante questionari, focus group, colloqui o interviste, delle percezioni soggettive dei lavoratori. La metodologia au-spicabile dovrebbe prevedere l’utilizzo di almeno due strumenti di valutazione diversi, uno di matrice qualitativa (focus group, colloquio, …) ed uno di matrice quantitativa (questionari, in-terviste strutturate, ...). Questa scelta consentirebbe di garantire il rigore della valutazione attra-verso strumenti “quantitativi” e nel contempo di far emergere, attraverso gli strumenti “qualitati-vi”, elementi peculiari e non sempre prevedibili del gruppo omogeneo oggetto della valutazione.

Tuttavia, lo strumento più usato, per le motivazioni che verranno esposte in seguito, risul-ta essere il questionario. Diverse sono le indicazioni che vengono suggerite per la scelta/utilizzo dei questionari da somministrare ai lavoratori. In particolare occorrono: - intervento preliminare di informazione e condivisione con i lavoratori e/o loro rappresentanti

(RLS) finalizzato ad assicurare un buon livello di responsabilità da parte dei lavoratori nei confronti del processo di valutazione;

- uso di questionari adeguatamente validati e caratterizzati da evidenza scientifica; - utilizzo da parte di personale esperto;

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- per la rilevazione degli outcome di salute è opportuno che i questionari dispongano di para-

metri di confronto con le popolazioni di riferimento; - somministrazione del questionario con compilazione supportata, evitando comunque la distri-buzione e l’auto-somministrazione dei questionari da parte dei lavoratori;

- raccolta di questionari anonimi e in cui sia garantita la privacy in merito al trattamento dei dati sensibili;

- produzione di un report finale e discussione del report con i gruppi di lavoratori interessati e le loro figure di riferimento.

Nella Tabella 2 si riportano alcuni questionari che possono essere utilizzati a seconda del contesto organizzativo in cui si inserisce il processo di valutazione e del grado di approfondimen-to del processo di valutazione stesso. Tali strumenti sono stati raggruppati in funzione di ciò che consentono di rilevare: alcuni di essi sono orientati alla valutazione delle fonti dello stress (es. Job Content Questionnaire), altri alle conseguenze che possono derivare da tali fonti per la salute

del lavoratore (es. Maslach Burnout Inventory), altri alla valutazione di caratteristiche individua-

li del lavoratore (es. Resilience Scales), altri ancora permettono di unire fonti e conseguenze dello stress (es. Multidimensional Organizational Health Questionnaire) congiuntamente a dimensioni

individuali (Test di valutazione del rischio stress lavoro-correlato nella prospettiva del benessere organizzativo). Le descrizioni sono condotte a titolo esemplificativo, con la consapevolezza di non poter esprimere la totalità degli strumenti disponibili sul mercato nazionale ed internazionale. La scelta è stata fondata privilegiando gli strumenti messi a punto nell’ambito della cultura e del-la esperienza italiane o dei quali si disponga di una versione adattata e standardizzata per il nostro Paese.

In tal senso diversi sono gli strumenti in corso di validazione nel nostro Paese. Si richia-mano a titolo esemplificativo la Checklist sullo Stress Lavoro-correlato (CSL) per micro e picco-le imprese, e il Va.RP, entrambi descritti nei contributi successivi di Nardella, Deitinger e Aiello.

Al fine di garantire interventi di prevenzione primaria, le misure self-report impiegate per la valutazione del rischio non possono prescindere dal contenere item volti all’identificazione e quantificazione degli agenti stressogeni presenti nell’ambiente di lavoro.

In particolare, secondo le recenti indicazioni dell’Inail (2011), nella scelta degli strumenti utili a valutare la percezione del rischio è centrale l’adozione di strumenti che permettano di in-dagare almeno i seguenti fattori: carico di lavoro, controllo, relazioni, cambiamento, supporto, ruolo. Tali considerazioni determinano “… l’esclusione di molti strumenti psicometrici, anche autorevoli, adottati in contesti lavorativi, quali ad esempio JSQ di Karasek e l’ERI di Siegrist, che si limitano ad indagare solo alcune dimensioni, …” (Inail, 2011, p. 27).

L’accezione più ristretta della valutazione del rischio non preclude, come già osservato, la possibilità di analizzare quanto sia esteso il danno, ovvero il disagio del lavoratore in termini ad esempio di sintomi psicofisici e burnout, al fine di porre in essere anche interventi di preven-

zione secondarie e terziaria volte ad aiutare il lavoratore a rafforzare le sue risorse o a migliorare il suo stato di salute. In tale direzione si inseriscono strumenti che, messi a punto secondo una prospettiva transazionale, consentono una diagnosi che tiene conto degli elementi di interazione tra la persona e il suo ambiente di lavoro oltre che degli antecedenti e degli esiti dell’esperienza di stress.

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TABELLA 2 Strumenti per la valutazione soggettiva

1) Questionari rivolti alla rilevazione delle fonti organizzative dello stress:

- Job Content Questionnaire (JCQ, Karasek, 1985)

- Health Safety Executive (HSE, 2004)

2) Questionari per la rilevazione degli effetti dello stress:

- Maslach Burnout Inventory (MBI, Maslach & Jackson, 1981)

- General Health Questionnaire (GHQ, Goldberg, 1972)

- State-Trait Anxiety Inventory (STAI, Spielberger, 1970)

- Job Satisfaction Scale (JSS, Warr, 1979)

3) Questionari per la valutazione delle risorse individuali:

- Self Efficacy Scales (SES, Sherer & Adams, 1983)

- Resilience Scales (Luthar, 2000)

- Negative affective (Fortunato & Stone-Romero, 1999; Girardi, Falco, Kravina, Dal

Corso & De Carlo)

4) Questionari rivolti alla rilevazione delle fonti e degli effetti dello stress:

- Multidimensional Organizationale Health Questionnaire (MOHQ, Avallone,

Ministero della Funzione Pubblica, 2005)

- Organizational and Psychosocial Risk Assessment (OPRA, Magnani, Mancini &

Majer, 2009)

5) Questionari rivolti alla rilevazione delle fonti di stress, delle risorse individuali e degli

effetti dello stress:

- Occupational Stress Indicator (OSI, Cooper, Sloan & Williams, 1986)

- Test di valutazione del rischio stress lavoro-correlato nella prospettiva del benessere

organizzativo (Qu- Bo, De Carlo, Falco & Capozza, 2008-2010)

Fra i vari strumenti si richiamano il test Qu-Bo messo a punto da un’equipe interdiscipli-

nare dell’Università di Padova (De Carlo, Falco & Capozza, 2008-2010). Lo strumento è stato elaborato facendo riferimento alla letteratura internazionale maggiormente consolidata in tema di stress ed alle indicazioni degli organismi italiani, europei e internazionali operanti nel campo del-la sicurezza sul lavoro.

Il test si compone di varie scale, con una configurazione originaria massima di 350 do-mande, rimodulata nelle versioni più recenti a circa 200 item, grazie ad una sperimentazione con-dotta su oltre 30.000 lavoratori. Grazie all’adozione di un approccio sistemico, il modello multi-dimensionale consente di rilevare un ampio spettro di dimensioni lavorative, organizzative e in-dividuali che rappresentano possibili fonti di rischio. Vengono infatti presi in considerazione e-lementi che possono influire sul rischio stesso, quali il carico lavorativo sia quantitativo che co-gnitivo, il grado di controllo/autonomia, le ricompense sociali anche in termini di supporto da parte dell’organizzazione, la crescita professionale, l’equità e la giustizia organizzativa, varie forme di conflitto fra le quali il conflitto vita/lavoro, persona-ruolo, con i colleghi, i superiori e i

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Metodologie e strumenti per la

valutazione del rischio stress

lavoro-correlato Alessandra Falco – Cap. 2

collaboratori, il cambiamento, la non chiara definizione delle responsabilità. Tali elementi posso-no determinare conseguenze negative per la salute del lavoratore e nel contempo un peggiora-mento delle performance aziendali. Una specifica sezione del test è dedicata al rilevamento dei sintomi psicofisici – quali irritabilità, depressione, senso di inefficacia, gastralgie, insonnie, arit-mie cardiache, ... – e comportamentali – quali ad esempio abuso di alcool, farmaci, fumo, ... – e di eventuali altri disagi che possono accompagnarsi al rischio di stress lavoro-correlato e costitui-re dunque ulteriori fonti/conseguenze del rischio stesso di cui al D.Lgs 81/08.

Vengono inoltre indagate alcune caratteristiche e risorse individuali quali resilienza, ot-

timismo, senso di efficacia, strategia di coping (ovvero modalità di comportamento per far fronte alle difficoltà), affettività negativa, desiderabilità sociale, anche al fine di valutare la validità e affidabilità delle risposte alle diverse domande.

Il protocollo è adattabile, sia per moduli che per specifici costrutti, alle differenti esigen-ze delle organizzazioni, nei vari contesti pubblici e privati, nei diversi settori produttivi e di ser-vizi (Istruzione/formazione, Metalmeccanico, Manifatturiero, Pubblica Amministrazione, Sanità, Servizi finanziari/assicurativi, …), mediante articolazioni mirate del test stesso. Per i diversi set-tori, in una prospettiva di benchmarking, sono disponibili specifici campioni di riferimento, ovve-ro con i valori normativi della categoria produttiva nel cui ambito opera l’organizzazione in cui si effettua la valutazione del rischio stress lavoro-correlato, nella prospettiva della prevenzione e del benessere organizzativo.

Per testare la struttura fattoriale delle scale di cui si compone il test, sono stati utilizzati modelli di equazione strutturali.

4.4 Punti di forza e di debolezza delle misure soggettive

Nell’ambito delle teorie transazionali precedentemente citate, lo stress viene definito co-me uno stato psicologico che è parte e rispecchia un processo più ampio di interazione tra la per-sona e l’ambiente di lavoro. Ne deriva che il significato dell’esposizione ai fattori di rischio psi-cosociali varia in modo sostanziale tra gli individui poiché viene moderato da processi cognitivi ed emozionali.

Non sorprende dunque che molte delle ricerche condotte sullo stress lavorativo abbiano utilizzato le percezioni del lavoratore per rilevare sia i fattori di rischio che le conseguenze a li-vello individuale e organizzativo (Podsakoff, LePine, & LePine, 2007). Le misure self report ga-rantiscono infatti un accesso diretto alle valutazioni soggettive dei lavoratori circa il proprio am-biente di lavoro, sia fisico che sociale. Molti ricercatori concordano sul fatto che siano le perce-zioni dell’ambiente di lavoro, più che l’ambiente di lavoro in sé, a condurre a situazioni di disa-gio e di stress lavorativo (Lazarus, 1999).

Altre motivazioni sostengono l’utilizzo di misure soggettive e in particolare dei questio-nari (Kasl, 1998). 1) L’economicità in termini di costi e tempi di rilevazione e analisi dei dati, soprattutto se con-frontati con strumenti soggettivi di tipo qualitativo (focus group, colloqui, ...).

2) La quantificazione del grado di esposizione al rischio percepita del soggetto attraverso l’uso di item a risposta chiusa.

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Metodologie e strumenti per la

valutazione del rischio stress

lavoro-correlato Alessandra Falco – Cap. 2

3) La possibilità di confrontare i punteggi di una data popolazione lavorativa con quelli propri del campione di standardizzazione. Analogamente, la quantificazione può consentire la com-parazione dei risultati ottenuti dal medesimo campione di lavoratori in somministrazioni suc-cessive nel tempo.

4) Il coinvolgimento partecipativo dei lavoratori, incrementando il senso di appartenenza, la mo-tivazione al lavoro e la responsabilizzazione individuale.

Secondo Cox et al. (2002) malgrado la loro evidente centralità ed importanza, le misure soggettive di valutazione dello stress sono, da sole, insufficienti. Sebbene sia possibile stabilire la loro affidabilità in termini di struttura interna o di rendimento nel tempo senza fare riferimento ad altri dati, lo stesso principio non può essere applicato alla loro validità (Cox et al., 2002, p. 61). Gli autori sottolineano, in particolare, il ruolo esercitato dall’affettività negativa (NA) nell’in-fluenzare la validità (Semmer, Grebner, & Elfering, 2004).

Watson e Clark (1984) definiscono l’affettività negativa come una “dimensione indivi-duale di disposizione d’umore che riflette differenze pervasive nella concezione di sé e nella ten-denza ad esperire stati emotivi negativi” (p. 465). Quest’ultima influirebbe non solo sulla perce-zione che i lavoratori hanno del loro ambiente di lavoro ma anche sulla loro valutazione circa il proprio stato di salute psicologica o di benessere. In altre parole, questa dimensione potrebbe in-fluire in maniera determinante sulle correlazioni fra un’elevata percezione dei rischi associati all’ambiente di lavoro e una corrispondente percezione degli effetti sulla salute (Fortunato & Stone-Romero, 1999; Girardi, Falco, Dal Corso, Kravina, & De Carlo, 2011).

Atri aspetti che possono influenzare la risposta ai questionari soggettivi possono essere riconducibili a fattori quali (Winkler, Kanouse & Ware, 1982; Semmer, Zapf & Greif, 1996; Gangster, Hennessey & Luthans, 1983): - l’acquiescenza, intesa come attitudine a rispondere positivamente ai quesiti posti; - l’effetto coerenza, per cui le persone, desiderando apparire coerenti nelle propri risposte, po-trebbero cercare delle similitudini negli item, creando di conseguenza relazioni artificiose fra le variabili;

- la desiderabilità sociale, ovvero l’inclinazione deliberata o inconsapevole a veicolare un im-magine positiva di sé;

- la tendenza a fornire risposte estreme o centrali rispetto alla scala di risposta; - i processi di attribuzione causale della persona.

Appare dunque comprensibile la necessità, sottolineata anche nel precedente capitolo, di avvalersi di una costante integrazione fra gli strumenti – oggettivi e soggettivi – al fine di supera-re le limitazioni intrinseche a ciascun metodo e di valorizzare le integrazioni di informazioni pro-venienti da fonti diverse.

5. Bibliografia

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Metodologie e strumenti per la

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lavoro-correlato Alessandra Falco – Cap. 2

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Metodologie e strumenti per la

valutazione del rischio stress

lavoro-correlato Alessandra Falco – Cap. 2

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3. Rischio stress lavoro-correlato: il ruolo del medico del lavoro Giorgio Marcuzzo

1. Introduzione

Il D. Lgs 81/08 modificato dal D. Lgs 106/09 ha introdotto l’obbligo della valutazione da

parte del datore di lavoro del rischio stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo eu-ropeo dell’8/10/04. Si tratta del primo atto legislativo che pone nel nostro Paese l’interesse sul tema dello stress legato al lavoro, se si escludono i richiami indiretti o comunque delimitati ad ambiti particolari per questo rischio rinvenibili in precedenti decreti quali ad esempio i DD. Lgss 626/94, 271/99, 151/01 e 66/03. A differenza di queste norme, nel Testo Unico il rischio stress lavoro-correlato viene trattato alla stregua di qualsiasi altro rischio lavorativo, rendendo così ne-cessaria una complessiva valutazione dell’entità del rischio presente in azienda, sulla base della quale dovranno essere previsti, qualora ne venga rilevata la presenza, interventi migliorativi atti a ridurre l’incidenza del rischio.

A differenza però di altri fattori di rischio storicamente individuati e individuabili nelle attività produttive, lo stress lavoro-correlato presenta caratteristiche peculiari che ne rendono piuttosto difficoltosa la definizione sia in termini qualitativi che quantitativi. Sono stati proposti diversi metodi di valutazione che prendono spunto da differenti modelli teorici sui fattori che de-terminano stress negli ambienti di lavoro, la cui discussione va oltre i limiti di questa trattazione (Cooper, Sloan & Williams, 2002; Avallone & Paplomatas, 2005; Siegrist, Starke, Chandola, Godin, Marmot, Niedhammer & Peter, 2004; De Carlo, Falco & Capozza; 2008). Ciò che interes-sa è che la responsabilità della valutazione del rischio stress lavoro-correlato spetta al Datore di Lavoro, il quale si dovrà avvalere, se vorrà giungere ad un risultato coerente con gli obiettivi del-la prevenzione, di figure professionali che siano in grado di utilizzare in modo corretto le metodi-che attualmente proposte, affrontando il problema nei suoi diversi aspetti. Fra queste figure, ac-canto ad altre di rilievo tra cui vale la pena citare lo psicologo del lavoro, vi è senz’altro quella del medico del lavoro che nelle proposte di modelli di valutazione più recenti (Metodo VIS) as-sume un ruolo fondamentale (Sarto, Vianello, Zanella, De Carlo, Falco, Dal Corso, Magosso & Bartolucci, 2009).

La gestione del rischio stress lavoro-correlato deve prevedere un intervento da parte del medico del lavoro sia nelle fasi di valutazione del rischio, sia nelle fasi di successiva messa in at-to degli interventi di carattere preventivo più generali e collettivi e di quelli di carattere sanitario individuale, non ultimo quello della formulazione dell’idoneità lavorativa.

2. Ruolo del medico del lavoro nella valutazione del rischio

Nella sua pratica professionale il medico del lavoro viene normalmente chiamato a colla-

borare, così come previsto dalle norme vigenti, al processo di valutazione dei rischi presenti in

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Rischio stress lavoro-correlato: il

ruolo del medico del lavoro Giorgio Marcuzzo – Cap. 3

azienda. È una fase dell’attività del medico del lavoro che storicamente ha avuto un ruolo di grande rilievo. Attraverso l’osservazione epidemiologica del medico del lavoro si sono infatti i-dentificati importanti fattori di rischio, mentre il coinvolgimento del medico nelle fasi di monito-raggio ambientale e soprattutto biologico è essenziale per la identificazione e la quantificazione del livello di esposizione a tossici occupazionali. Non ultimo, il medico del lavoro è chiamato ad effettuare una integrazione fra le misure ambientali e biologiche e tra gli indicatori di dose e di effetto/danno, esercitando anche un ruolo di verifica della validità delle metodiche utilizzate per la valutazione del rischio.

Nel caso del rischio stress lavoro-correlato e dei rischi psicosociali occorre considerare che non si può dimostrare una relazione dose/effetto-danno poiché stimoli qualitativamente diffe-renti possono provocare la medesima reazione di stress, così come stimoli di pari intensità posso-no provocare risposte di tipo ed entità diversa nei diversi individui, essendo riconosciuta una ge-nesi multifattoriale nella reazione da stress. Ciò pone notevoli difficoltà metodologiche e tecniche alla messa in atto di una valutazione che miri ad identificare il livello di rischio, gli elementi che determinano prevalentemente il rischio nella specifica situazione esaminata e conseguentemente le azioni di miglioramento che possono e devono essere programmate nel caso in esame. A tale proposito vale la pena segnalare come la stessa Società Italiana di Medicina del Lavoro ed Igiene Industriale, che ha pubblicato negli ultimi anni numerose linee guida indirizzate ai medici del la-voro e dedicate alla valutazione di specifici rischi lavorativi, nel caso della gestione del rischio stress lavoro-correlato abbia emanato solo un “consensus document”, poiché il Gruppo di Lavoro istituito allo scopo ha constatato la problematicità di introdurre la considerazione del fattore di rischio stress nella tradizionale attività dei medici competenti (Apostoli, Imbriani, Soleo, Abbritti & Ambrosi, 2006).

Altro importante momento nella attività del medico del lavoro, che contribuisce in modo sostanziale alla formulazione di una corretta valutazione dei rischi ed è peraltro previsto nella normativa, è quello del sopralluogo negli ambienti di lavoro. Esso consente al medico di verifica-re de visu gli ambienti in cui si svolge l’attività lavorativa, i processi lavorativi, le attrezzature e sostanze utilizzate e le condizioni di lavoro in genere, permettendogli tra l’altro di rilevare aspetti che in qualche maniera possono essere utili nella valutazione del rischio stress lavoro-correlato, quali la monotonia e la ripetitività del compito, il carico fisico del lavoro, la presenza di lavoro a turni. Ciò tuttavia consente in genere al medico competente di formarsi un’idea solo parziale sul-la presenza o meno di aspetti che possono portare a situazioni di stress lavoro-correlato in quanto il rilievo di alcuni dei determinanti di benessere/malessere connessi a disfunzionalità organizzati-ve (livello di partecipazione, buone o cattive relazioni sociali, conflitti, ecc.) necessita di una spe-cifica preparazione, che difficilmente fa parte del bagaglio culturale/tecnico del medico del lavo-ro. È perciò indispensabile che il medico acquisisca o approfondisca competenze specifiche in tema di organizzazione del lavoro e delle sue declinazioni patologiche, non tanto perché spettino a lui le valutazioni su questi aspetti specifici, quanto per poter essere in grado di acquisire e valu-tare per quanto lo riguarda le indicazioni che gli provengono da chi di professione effettua tali va-lutazioni.

Infine, un elemento essenziale nel processo di valutazione del rischio è costituito dalla conoscenza che il medico ha in merito allo stato di salute dei lavoratori che egli sottopone a sor-veglianza sanitaria. Come detto più sopra, l’analisi epidemiologica ha consentito negli anni pas-sati di individuare specifici fattori di rischio per la salute dei lavoratori permettendo di porre in

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Rischio stress lavoro-correlato: il

ruolo del medico del lavoro Giorgio Marcuzzo – Cap. 3

relazione eziologica l’esposizione ad un rischio con lo sviluppo di una patologia. Per quanto ri-guarda la valutazione del rischio stress lavoro-correlato un contributo fondamentale può essere fornito dal medico competente nel momento in cui egli riesca ad individuare nell’ambito della sorveglianza sanitaria dei casi clinici, ad esempio soggetti che lamentano disturbi riferibili a si-tuazioni di burnout, che sono da considerare veri e propri “eventi sentinella” di una condizione che richiede urgenti interventi esplorativi/migliorativi.

3. Ruolo del medico del lavoro nella sorveglianza sanitaria

Nella gestione dello stress lavoro-correlato la sorveglianza sanitaria assume un ruolo fon-

damentale sotto diversi aspetti. Da un lato, come detto più sopra, consente di individuare casi già clinicamente evidenti di possibile danno da stress, con particolare riferimento a situazioni di bur-nout, disturbo dell’adattamento, disturbo acuto da stress, disturbo post-traumatico da stress, distur-bi d’ansia, depressione; dall’altro, la sorveglianza sanitaria acquista valenza epidemiologica più generale in quanto consente al medico del lavoro un monitoraggio dei disturbi correlati allo stress e di conseguenza fornisce un ulteriore elemento di valutazione, nell’ottica di un approccio integra-to al problema, sia del livello di rischio che degli effetti di eventuali interventi migliorativi.

Restano ancora aperti alcuni interrogativi riguardo alcuni aspetti della sorveglianza sani-taria meritevoli di approfondimenti.

In primo luogo, ancora non è chiaro che tipologia di protocollo sanitario sia utile adottare per analizzare i soggetti esposti a rischio. Il documento di consenso della SIMLII evidenzia come sia adeguato l’approccio tendente ad evidenziare l’insorgenza di patologie cardiovascolari, intese come patologie rappresentative del modello fisiopatologico che vede lo stress agire prevalente-mente sull’apparato cardiovascolare. Il rilievo di alcuni parametri funzionali facilmente e rapi-damente ottenibili, criterio necessario per accertamenti che devono intendersi a livello di screening, quali la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca, risente tuttavia di un’alta variabili-tà inter- e intraindividuale; peraltro tali parametri vengono influenzati da numerosi altri fattori, oltre che dal livello di stress, e pertanto non sono di fatto utili da soli a valutare lo stato di stress dell’individuo.

È stato anche proposto il dosaggio di alcuni parametri biochimici, quali il cortisolo urina-rio/salivare/ematico o le catecolamine urinarie, il cui incremento è funzionalmente correlato al-l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene che si osserva nelle situazioni stressanti. Anche per tali fattori tuttavia la variabilità inter- e intraindividuale e circadiana è tale da non consentire correlazioni precise fra il loro livello e il livello di stress percepito dal soggetto.

Come ulteriore modalità di valutazione vi è la possibilità di raccogliere in corso di anam-nesi gli eventuali sintomi correlabili allo stress, lamentati dal soggetto. A questo proposito posso-no essere utilizzati questionari che fanno riferimento allo stato di salute più generale dell’indivi-duo, come il General Health Questionnaire di Goldberg (Goldberg & Blackwell, 1970) a 12 i-tems, il cui utilizzo è stato anche proposto nel documento di consenso SIMLII, oppure questiona-ri che esplorano più dettagliatamente i disturbi legati allo stress, come ad esempio quello previsto nel modello VIS di valutazione dello stress lavoro-correlato, che costituisce una check list per una intervista mirata in corso di visita medica ed esplora sintomi riferibili all’ansia, alla depres-sione, al burnout e a manifestazioni somatiche dello stress. Nell’uso dei questionari vi è tuttavia

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Rischio stress lavoro-correlato: il

ruolo del medico del lavoro Giorgio Marcuzzo – Cap. 3

il problema della difficile attribuzione dei sintomi riferiti a situazioni legate al lavoro o a situa-zioni della vita quotidiana, anche per il fatto che a volte i due ambiti sono strettamente intercon-nessi.

In definitiva non sembra possibile attualmente identificare una metodologia di sorve-glianza sanitaria univoca che consenta di individuare in modo rapido e preciso i soggetti che pre-sentano disturbi riferibili ad uno stato di stress. Probabilmente il modo migliore è dato dall’inte-grazione delle misure di sorveglianza sanitaria sopra indicate che consente di commisurare le percezioni dell’individuo con i parametri bio-funzionali associati allo stress.

Un ulteriore materia di discussione è costituita dal momento in cui effettuare la sorve-glianza sanitaria. Come già sostenuto più sopra, la sorveglianza sanitaria è uno dei momenti più importanti per i numerosi elementi che fornisce in termini di riscontro epidemiologico ai fini del-la valutazione del rischio. In questa fase il medico, se già effettua sorveglianza sanitaria nei con-fronti dei lavoratori, può contribuire attraverso l’indagine sullo stato di salute relativo a situazioni di stress. Ma anche laddove la presenza del medico competente non sia ancora stata richiesta, un iniziale sorveglianza sanitaria a fini del completamento della valutazione dei rischi può essere di grande utilità nelle aziende nelle quali il rischio stress è noto dalla letteratura o anche in quelle dove non è noto il rischio ma dove l’analisi di altri fattori di stress effettuata attraverso indicatori oggettivi, focus group, ecc. abbia evidenziato un potenziale rischio.

Relativamente alla periodicità della sorveglianza sanitaria, essa va programmata in tutti i casi in cui il rischio stress lavoro-correlato sia stato definito nell’ambito della valutazione dei ri-schi, così come vale per tutti gli altri rischi presenti nell’ambiente di lavoro. Certo è che in nessun caso come in questo diviene importante, anzi fondamentale, il ruolo clinico del medico compe-tente. Solo se il medico competente avrà la capacità/sensibilità/volontà di porsi nei confronti del lavoratore con atteggiamento di vero ascolto, che da fiducia alla persona che ha di fronte, potrà ottenere gli elementi che gli sono utili per valutare eventuali situazioni stressogene e sintomi cor-relabili allo stress. A proposito dei sintomi va tenuto presente anche la necessità che il medico conosca il valore diagnostico dei sintomi che rileva, ed eventualmente in quali quadri psicopato-logici inquadrare il soggetto. L’accuratezza della raccolta delle informazioni in corso di sorve-glianza sanitaria risulta peraltro elemento imprescindibile se vogliamo che questa abbia rilievo anche nella valutazione del rischio, quale ulteriore elemento di valutazione.

A completamento della sorveglianza sanitaria il medico del lavoro dovrà formulare anche il giudizio di idoneità sia per i lavoratori che vengono sottoposti a sorveglianza sanitaria in quan-to l’analisi dei rischi ha evidenziato un rischio stress lavoro-correlato, sia nei casi in cui venga richiesta una visita straordinaria da parte di lavoratori che ritengono di essere sottoposti a fattori di stress e che per questo accusano disturbi. In tutti questi casi il giudizio del medico potrà essere indirizzato verso la piena idoneità del lavoratore o verso una non idoneità all’attuale contesto la-vorativo, ovvero, posto in altri termini, ad una idoneità con la prescrizione che il lavoratore venga allontanato dalla situazione/contesto lavorativo che ne pregiudica o ne potrebbe pregiudicare lo stato di salute. Tale prescrizione potrà avere carattere di temporaneità, laddove il medico compe-tente giudichi che un intervento migliorativo di qualche tipo può ricreare le condizioni per il rein-serimento del lavoratore, ovvero carattere permanente, laddove il miglioramento del contesto la-vorativo non sia possibile o nei casi in cui il lavoratore, per caratteristiche proprie, debba neces-sariamente essere occupato in altro contesto.

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Rischio stress lavoro-correlato: il

ruolo del medico del lavoro Giorgio Marcuzzo – Cap. 3

Per poter formulare il giudizio di idoneità il medico del lavoro dovrà avvalersi di valuta-zioni effettuate anche da altri specialisti, in particolare per la valutazione psicodiagnostica. Po-trebbe essere utile in tal senso inviare il lavoratore presso centri specializzati in valutazioni di questo tipo, che possono effettuare tutti gli accertamenti ritenuti necessari restituendo al medico competente una relazione complessiva in base alla quale egli potrà formulare il giudizio di ido-neità più adeguato al caso specifico.

Non va dimenticato che anche l’analisi nel tempo delle idoneità lavorative in termini di incidenza e prevalenza dei casi con prescrizioni fornisce un’importante indicazione sia relativa-mente al progressivo aggiornamento della valutazione del rischio, sia relativamente alla valuta-zione dell’efficacia degli interventi migliorativi che nel frattempo dovessero essere implementati.

Un ultimo accenno spetta proprio al ruolo che il medico del lavoro ha nella programma-zione/effettuazione degli interventi migliorativi. Questi possono essere previsti sia a livello indi-viduale, ad esempio in forma di counselling o di interventi per migliorare la resilienza e gli stili di coping, o a livello di gruppi, ad esempio per migliorare lo stile comunicativo o di leadership, op-pure, infine, a livello organizzativo, con interventi più profondi sull’assetto organizzativo dell’azienda. In tutti i casi il medico del lavoro deve essere a conoscenza di quale tipologia di in-tervento viene effettuata e di quali effetti ci si attende da tali interventi, in modo che egli possa valutare, nell’ambito della sorveglianza sanitaria, se gli interventi hanno avuto gli effetti sperati sulla salute/benessere dei lavoratori. Nulla osta, infine, che il medico stesso possa intervenire di-rettamente su singoli lavoratori, in base alla propria esperienza, capacità e professionalità, soprat-tutto attraverso attività di counselling e sostegno alla persona in difficoltà sul lavoro.

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4. La tutela del benessere psicofisico nel posto di lavoro: una prospettiva

giuridica Gianni Loy

1. Introduzione

La tutela del benessere psicofisico negli ambienti di lavoro ha stentato ad affermarsi. An-

zi, era persino difficile immaginare che il legislatore, il padrone, e persino gli stessi lavoratori, potessero preoccuparsene. Il diritto del lavoro degli albori guardava ancora con fatalismo alla stessa protezione fisica dei lavoratori. “I rischi fatalmente inerenti all’industria e difficilmente e-vitabili sono noti, prevedibili: ognuno che conosca un po’ il mestiere sa che è un rischio inevita-bile… laddove si maneggia il mercurio, il piombo, etc, – affermava Ludovico Barassi al principio del secolo scorso – è certa la lenta intossicazione”.1 Si tratta di pericoli “che non si possono asso-lutamente evitare, che costituiscono la conseguenza permanente e necessaria dell’esercizio dell’impresa”.2 Quei rischi, naturalmente, doveva assumerseli l’operaio al quale era concesso al più di pretendere, in cambio, una proporzionale elevazione della suo salario.

Ma non si trattava di una cattiveria del legislatore, piuttosto di una cultura diffusa, oscil-lante tra la spavalderia ed il rischio calcolato (subito o scelto) per la sopravvivenza o l’arricchimento. È Primo Levi a rammentarci la concezione, fatalista e cinica allo stesso tempo, del giovane Rodmund che, come i suoi avi, passava la vita a cercare le pietre da cui estrarre il piombo nero: “La nostra è un’arte che rende ricchi, ma fa morire giovani. Qualcuno dice che que-sto avviene perché il metallo entra nel sangue e lo smagrisce a poco a poco … ma in ogni modo a noi Rodmund importa poco che la nostra vita sia breve, perché siamo ricchi, rispettati e vediamo tutto il mondo”.3

Quella cultura non è stata del tutto superata, ma le legislazioni in materia di protezione della salute, da tempo, hanno incominciato a dettare norme incisive e raffinate, seppure spesso ineffettive, in materia di protezione della salute dei lavoratori negli ambienti di lavoro.

Dei rischi psicosociali, invece, il legislatore ha incominciato ad occuparsi più tardi, forse applicando, inconsciamente, il principio del primum vivere deinde philosophari.

Eppure, almeno a partire dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, i principi di riferimento per una tutela completa dell’individuo, anche all’interno dei luoghi di lavoro, sia nel versante fisico che in quello pischico e morale, sono entrati a far parte del nostro patrimonio giuridico.

Quello stesso legislatore, peraltro, si è occupato solo marginalmente del tema dei rischi psicosociali, come si vedrà. L’attenzione a quei fenomeni, sotto il profilo giuridico, è stata piutto-sto determinata da una presa di coscienza collettiva. Si è trattato di una evoluzione culturale che,

1 Barassi 1901, 574. 2 Ivi, 577. 3 Levi, 1975, 85

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per un verso, ha spinto il legislatore ad occuparsi della materia e, per altro verso, ha fatto si che i principi generali dell’ordinamento che tutelano l’integrità fisica, psichica e morale del lavoratore, trovassero applicazione in ambito giudiziario, mediante processi di interpretazione, e nella sfera dell’autonomia collettiva (contrattazione collettiva).

Una prima fase di inversione di tendenza è dovuta proprio alla nuova cultura della sicu-rezza che si è prepotentemente affacciata in Italia alla fine degli anni ‘60, quando i lavoratori e le loro organizzazioni, mediante la contrattazione, hanno respinto le tradizionali logiche della “mo-netizzazione del rischio”, cioè dell’accettazione del rischio in cambio di una maggiorazione retri-butiva, respingendo, tra l’altro, le forme di organizzazione del lavoro, come il cottimo, individua-to quale fattore di accentuazione del rischio anche sotto il profilo psicosociale. Si sono affacciate, in quegli anni, le prime analisi relative ai danni che oggi possiamo inquadrare tra i rischi psicoso-ciali, con la denuncia delle patologie, nevrosi, derivanti dal modello di organizzazione del lavoro della fabbrica e dai ritmi di lavoro. Oggi si parlerebbe di stress.

Ebbene, a partire da quella presa di coscienza, si è progressivamente sviluppata, pur con alterne fasi di evoluzione e di involuzione, quella cultura che oggi, pur con differenti modalità, fa sì che i rischi psicosociali, differentemente che nel passato, possano essere riconosciuti e, pur con limiti di origine intrinseca ed estrinseca, anche tutelati.

2. Il fondamento giuridico della tutela. I principi costituzionali e l’art. 2087 c.c.

La nozione dei singoli rischi psicosociali è frutto, soprattutto, della elaborazione delle

scienze sociali. Tali rischi, rilevano per il diritto, in quanto sono riconducibili alla lesione del be-ne salute che, secondo le più moderne accezioni, comprende anche la mera perdita del benessere psicofisico e l’alterazione dei normali ritmi della vita di relazione.

La pluralità e la disomogeneità delle fattispecie riconducibili ai rischi psicosociali impe-disce di ricollegarli alla violazione di un unico principio dell’ordinamento. La loro idoneità a produrre danni di natura fisica, psicologia e sociale, ma direi anche morale, fa si che più d’uno siano i principi ed i diritti posti in questione da tali rischi. A livello costituzionale viene in mente, prima di tutto, il diritto alla salute (art. 32), ma possono essere posti in questione altri principi, come il diritto all’uguaglianza di cui all’art. 3 sotto il profilo della non discriminazione, o il dirit-to al lavoro di cui all’art. 4, posto che l’espulsione dal posto di lavoro può far parte delle motiva-zioni di talune delle condotte di cui il lavoratore può esser vittima o può costituirne l’effetto più significativo.

Utile è anche il riferimento all’art. 41 cost. che, nel riconoscere la libertà di iniziativa e-conomica, precisa che tale libertà “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

In qualche caso, come si vedrà, la tutela dei diritti costituzionali interessati dal fenomeno dei rischi psicosociali è disciplinata dal legislatore. Quando ciò non avvenga, tuttavia, trova ap-plicazione una norma generale del codice civile, l’art.. 2087, che rappresenta una sorta di norma di chiusura dell’ordinamento. Tale norma stabilisce che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavo-ro”. Il datore di lavoro, pertanto, ha l’obbligo di adottare tali misure ed il lavoratore, dal canto

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suo, è titolare di un diritto soggettivo a che tali misure vengano adottate. L’art. 2087, secondo la migliore dottrina, fonda un vero e proprio obbligo di protezione capace di penetrare nel sinallag-ma contrattuale, rappresenta, quindi, un incisivo strumento di tutela in mancanza di una specifica disciplina.

La responsabilità (contrattuale) del datore di lavoro non comporta la sussistenza di una responsabilità oggettiva. Il datore di lavoro dovrà risultare inadempiente per la mancata adozione delle misure di sicurezza idonee alla protezione della salute del lavoratore. Ma, una volta provato ciò, non occorre dimostrare che l’evento concreto si sia prodotto per colpa dell’imprenditore.

Tra gli obblighi del datore di lavoro richiamati dall’art. 2087 vi è anche quello di garanti-re una organizzazione del lavoro e un ambiente di lavoro, anche nel senso delle relazioni inter-personali che vi si svolgono, tale da non arrecare danno alla salute psicofisica dei lavoratori. In sostanza, il datore di lavoro deve garantire che l’ambiente di lavoro non sia fonte di stress e non si producano fenomeni di mobbing.

Grazie all’art. 2087, in definitiva, anche fenomeni come i rischi psicosociali, ancor quan-do non disciplinati legislativamente, acquistano rilievo giuridico.

Non è semplice, anche in considerazione della eterogeneità delle fattispecie, classificare i rischi psicosociali sotto un profilo giuridico. Mi pare utile al riguardo, proseguire l’esame secon-do il seguente schema: a) la nozione dei rischi psicosociali: b) le forme di tutela comuni a tutte le fattispecie; c) forme di tutela specifiche di singole fattispecie; d) i limiti della tutela sotto il profi-lo previdenziale; e) aspetti relativi alla prevenzione.

3. La fonte giuridica della nozione (delle nozioni) di rischio psicosociale

L’ordinamento giuridico italiano non contiene alcuna definizione generale di rischio psi-

cosociale. I singoli rischi psico-sociali, invece, trovano una definizione “giuridica” la cui fonte varia a seconda del rischio preso in considerazione.

a) Le molestie sessuali. L’unica definizione fondata sulla legge che recepisce, sostan-zialmente, alcune direttive comunitarie, è quella relativa alle c.d. molestie sessuali. Più esatta-mente, sono previste due fattispecie: le molestie poste in essere per ragioni connesse al sesso, e quelle aventi connotazione sessuale. Si tratta, in entrambi i casi, di “comportamenti indesiderati aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.4 Le molestie a connotazione ses-suale si distinguono dalle prime, secondo la formulazione della norma, in quanto i comportamenti indesiderati sono “espressi in forma fisica, verbale o non verbale”. In sostanza, mentre la mole-stia sessuale è qualificata dalle ragioni del comportamento indesiderato, la molestia a connota-zione sessuale, è qualificata sulla base del comportamento stesso, cioè dalle “modalità di manife-stazione”.5

Della formulazione, deve mettersi in evidenza il fatto che i comportamenti indesiderati non vengono tipizzati. Di conseguenza, non è richiesta la dimostrazione del loro carattere ogget-

4 Decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna a norma dell'articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246”., art. 26. 5 Izzi, 2001, 190.

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tivo.6 Il rilievo assunto dall’aspetto soggettivo della molestia avvantaggia, indubbiamente, il sog-getto molestato, soprattutto sotto il profilo probatorio, anche se aumenta il margine di discrezio-nalità del giudice.

A fronte della scelta di una disciplina legale specifica per le molestie sessuali, il confine tra queste ed un altro rischio psicosociale, il mobbing, rimane assai labile. Senza scendere nei det-tagli del dibattito dottrinale sull’argomento, credo che nonostante le molestie sessuali, per effetto della disciplina legale, abbiano acquistato una specifica definizione e siano state dotate di pecu-liari strumenti di tutela (estranei al mobbing), niente impedisce che le molestie possano, in situa-zioni concrete, coincidere con una condotta mobbizzante o costituire uno dei comportamenti che costituiscono tale condotta.

b) Il mobbing. Diversamente da quanto avviene per le molestie, la nozione di mobbing non ha alcun fondamento legale. Essa è stata elaborata dalla giurisprudenza (sono oramai nume-rose le sentenze in materia di mobbing) sulla scorta delle definizioni recepite dalle scienze socia-li. Per la verità, una nozione è stata offerta da un legislatore regionale, quello del Lazio,7 ma la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale tale legge in quanto la materia del rapporto di lavoro è di esclusiva competenza statale.8

La Corte costituzionale, proprio nel dichiarare incostituzionale tale legge, ha sostanzial-mente accolto la nozione di mobbing contenuta nella stessa legge regionale del Lazio: il mobbing consiste in “una serie di atti e comportamenti vessatori”.

In mancanza di una definizione legale, è evidente che la nozione non può che derivare da quella corrente nelle scienze sociali, compatibilmente con le regole del diritto. Così ha affermato una parte della giurisprudenza: “si avrà mobbing solo ed in quanto determinate condotte presenti-no i requisiti richiesti dalla psicologia del lavoro internazionale (in particolare grazie ai lavori del professore Heinz Leymann) e nazionale (grazie ai lavori del professor Ege) per poter parlare di tale fenomeno”.9

Il processo di adattamento della definizione “sociale” di mobbing al diritto attraverso le ormai numerose sentenze della giurisprudenza è complesso. Tra le definizioni più complete si può segnalare quella del Tribunale di Milano: “il mobbing si identifica in comportamenti ostili, vessatori e di persecuzione psicologica, posti in essere dai colleghi e/o dal datore di lavoro o su-periori nei confronti di un dipendente, individuato come vittima, atti e comportamenti intenzio-nalmente volti ad isolarla ed emarginarla nell’ambiente di lavoro e spesso finalizzati ad ottenerne l’estromissione.10

Peraltro, sotto il profilo giuridico, non è importante tanto ricavare una nozione sintetica di mobbing, quanto individuare le caratteristiche essenziali che i “comportamenti vessatori” do-vranno possedere per integrare un comportamento suscettibile di avere rilievo sotto il profilo giu-ridico.

Possono indicarsi, in maniera molto sintetica, tre elementi fondamentali: la condotta, l’in-tenzionalità, l’idoneità a provocare danno alla vittima.

6 Lazzeroni, 2007, 379 ss. 7 Legge regionale Lazio 11 luglio 2002, n. 16, Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del “mobbing” nei luoghi di lavoro. 8 Corte Costituzionale, 19 dicembre 2003, n. 359. 9 Tribunale di Forlì, 15 marzo 2001. 10 Tribunale di Milano, 31 luglio 2003.

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Innanzitutto, il mobbing non può essere costituito da un solo atto. Deve trattarsi di una “condotta”, cioè di diversi atti, o anche di un solo atto, ripetuti nel tempo. Ciascuno (o una parte) può consistere in comportamenti di per sé illegittimi o vietati. Tuttavia, i singoli comportamenti “possono essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico e tuttavia acquisire comunque rilievo quali elementi della complessa condotta”.11 È questa, a mio avviso, l’ipotesi più tipica del mobbing. Laddove esso si componga di comporta-menti di per se illeciti, infatti, potrà trovare applicazione il rimedio previsto per il compimento di tali atti, mentre laddove consista in una reiterazione di comportamenti di per sé leciti o indifferen-ti per il diritto, sarà meno agevole la sua identificazione. Naturalmente, ove si componga di una serie di atti, alcuni dei quali legittimi ed altri no, se nel complesso si riconosce alla condotta la qualificazione di mobbing, troveranno applicazione (senza che gli uni escludano gli altri) sia i ri-medi previsti per le singole condotte illecite che quelli applicabili in caso di mobbing.

Il secondo aspetto riguarda il fatto che l’insieme delle condotte considerate, per poter es-sere qualificate mobbing, devono essere intenzionali. La Corte costituzionale, in tal senso, affer-ma che il mobbing è “caratterizzato da un intento di persecuzione ed emarginazione”.12 Ciò e-sclude la sussistenza di una responsabilità oggettiva e richiede la sussistenza del dolo, cioè di un “animus nocendi che mira a ledere la psiche del mobbizzato”.13 Il requisito dell’intenzionalità, in alcuni casi, fa sì che azioni apparentemente neutre possano essere qualificate come mobbing. L’intenzionalità pura, tuttavia, non è da sola sufficiente per poter qualificare la pluralità di atti (la condotta) come mobbing. Si richiede anche la presenza di un ulteriore elemento. La condotta do-vrà risultare obiettivamente idonea a produrre un danno alla vittima. Ciò significa a produrre gli effetti tipici del mobbing, anche se non necessariamente a produrre un danno ulteriore, come me-glio si vedrà, posto che di fronte ad un identico comportamento del mobber (sanzionabile in quanto tale) non è detto che in tutte le vittime si producano gli stessi effetti.

c) Lo stress. Anche la nozione di stress, come quella di mobbing, non è indicata dal legi-slatore. Questi, tuttavia, a differenza che nel mobbing, richiama lo stress (o meglio lo stress lavo-ro-correlato), pur senza definirlo, tra i comportamenti giuridicamente rilevanti. Ciò si verifica in materia di adempimenti relativi alla prevenzione di cui al Decreto legislativo n. 81/2008.

La nozione di stress, peraltro, è contenuta in altre fonti, cui il legislatore si è evidente-mente ispirato o alla quale fa rinvio.

La prima è costituita dall’Accordo interconfederale, che recepisce l’Accordo quadro euro-peo sullo stress lavoro-correlato,14 del 9 giugno 2008. Tale Accordo, che richiama fedelmente quel-lo europeo, considera lo stress come una situazione che, pur non essendo una malattia, può ridurre l’efficienza sul lavoro e può determinare un cattivo stato di salute.

Lo stress è definito quale “condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfun-zioni di natura fisica, psicologica o sociale ed è conseguenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative riposte in loro” (art. 3). La defi-nizione, peraltro, specifica che gli effetti negativi dello stress sono dovuti alla durata dell’esposi-zione piuttosto che alla sua intensità, ammettendo che una esposizione anche intensa ma di breve durata potrebbe persino avere effetti positivi sulla prestazione. Altro elemento preso in conside-

11 Corte costituzionale n. 359/2003. 12 Ivi. 13 Tribunale di Como, 22 maggio 2001. 14 Accordo quadro del 8 ottobre 2004 sottoscritto da UNICE/UEAPME, CEEP E CES.

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razione è il rilievo soggettivo dello stress, posto che “individui diversi possono reagire differen-temente a situazioni simili e lo stesso individuo può reagire diversamente di fronte a situazioni simili in momenti diversi della propria vita” (Art. 3, c. II).

La definizione, in questo caso, rileva ai fini dell’assunzione di impegni da parte dei fir-matari in materia di prevenzione del fenomeno che, in ogni caso, viene ricondotto all’obbligo giuridico di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori alla luce della direttiva quadro n. 89/391.

La seconda fonte è costituita dal documento redatto dalla Commissione consultiva per-manente per la salute e la sicurezza sul lavoro di cui all’art. 6 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.15 La nozione ivi contenuta, pur non essendo stata dettata direttamente dal legislatore, è formulata da parte di una Commissione cui la stessa legge affida il compito di stabilire le indi-cazioni necessarie per la valutazione dello stress lavoro-correlato ai fini dell’applicazione di un obbligo stabilito, come più avanti si vedrà, dalla stessa legge.

La Commissione accoglie integralmente la definizione già contenuta nell’Accordo inter-confederale del 2008, precisando che, tuttavia, “non tutte le manifestazioni di stress sul lavoro possono essere considerate come stress lavoro-correlato”. Lo stress lavoro-correlato, infatti, è so-lo “quello causato da vari fattori propri del contesto e del contenuto del lavoro”.

Alla luce di tale definizione, la Commissione assolve al suo compito indicando il percor-so metodologico necessario per identificare i relativi fattori di rischio all’interno dell’azienda.

4. Le forme di tutela comuni a tutte le fattispecie. Il danno

La principale forma di tutela, comune a tutti i rischi di natura psico-sociale è costituita

dal diritto al risarcimento del danno a favore di chi abbia subito le conseguenze di un comporta-mento illecito, anche se non penalmente rilevante. Giova solo precisare, con particolare riferi-mento al mobbing, che la vittima non è tenuta a dimostrare di aver subito, a causa del mobbing, un danno specifico. In tal caso, infatti, il danno è costituito dal mobbing stesso. La sofferenza per il trattamento dovuto ad una condotta mobbizzante costituisce, di per sé, un danno suscettibile di risarcimento.

In tutti i casi, l’obbligo di risarcimento del danno può derivare sia dalla violazione dell’obbligo (contrattuale) di cui all’art. 2087 c.c., di cui già si è detto, sia a seguito della respon-sabilità (extracontrattuale) di cui all’art. 2043 c.c., in base alla quale “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Le due fattispecie, peraltro, fanno riferimento ad un differente grado di responsabilità. Nell’ambito della responsabilità extracontrattuale sarà necessario dimostrare quantomeno la col-pa di chi abbia cagionato il danno. Nell’ambito della responsabilità contrattuale di cui all’art. 2087 c.c., invece, una volta dimostrato l’inadempimento del datore di lavoro, per non aver adotta-to tutte le misure necessarie per la tutela psico-fisica del lavoratore, non occorrerà anche dimo-strare che l’evento si sia prodotto per colpa o dolo dell’imprenditore.

15 Direzione Generale della tutela delle condizioni di lavoro, Circolare del 18/11/2010,m prot. N. 15, avente ad oggetto: Lettera circolare in ordine alla approvazione delle indicazioni necessarie alla valutazione del rischio da stress lavoro correlato di cui all’art. 28, comma 1-bis del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 3 successive modifiche e integra-zioni.

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Così, ad esempio, in caso di danno causato da mobbing, o per effetto di molestie sessuali, da parte di persona diversa dal datore di lavoro, l’autore della condotta, se almeno colposa, potrà esser tenuto a risarcire il danno per responsabilità extracontrattuale. Allo stesso tempo il datore di lavoro, se non ha adottato tutte le misure necessarie per evitare il rischio, potrà essere chiamato a risarcire il danno sotto il profilo della responsabilità contrattuale.

Fermo restando che, a seconda dei casi, l’attribuzione della responsabilità potrà essere at-tribuita sulla base di differenti criteri, per tutte le differenti fattispecie di rischio psicosociale è possibile far ricorso sia alla responsabilità extracontrattuale che a quella contrattuale. La respon-sabilità contrattuale, ovviamente, potrà esser fatta valere solo in capo al datore di lavoro.

Per quanto riguarda il danno, potranno essere risarciti si quello patrimoniale che quello non patrimoniale.

Per quanto riguarda il danno patrimoniale, si avrà diritto al risarcimento in tutti i casi nei quali tale danno possa essere dimostrato. Nei casi di specie, per eventuale perdita di retribuzione o anche per lucro cessante, ove, ad esempio, sia stato leso il diritto ad avanzamento di carriera nell’ambito di una condotta mobbizzante. Rientrano nell’ambito del danno patrimoniale anche eventuali spese mediche.16

Quanto al danno non patrimoniale, esso non è atipico ed è risarcibile, secondo il disposto di cui all’art. 2059 c.c., solo nei casi previsti dalla legge.

Il tema della risarcibilità del danno non patrimoniale per lesioni dovute a rischi psicoso-ciali è particolarmente complesso. In breve sintesi può dirsi che la giurisprudenza della Cassazio-ne ha riconosciuto come risarcibili non soltanto i danni patrimoniali ma anche tutti quei danni che “ostacolano le attività realizzatrici della persona umana”,17 considerando, quindi, il danno non pa-trimoniale come danno lesivo di valori inerenti alla persona e non più soltanto come danno mora-le soggettivo. La successiva giurisprudenza di merito, sulla base di tale orientamento, ha tradizio-nalmente fatto ricorso soprattutto alle categorie del danno biologico e del danno morale. Succes-sivamente è diventato prevalente il ricorso al cosiddetto danno esistenziale, consistente, ad esem-pio, nelle “sofferenze patite per aver lavorato per un lasso di tempo di molti mesi in un ambiente ostile”.18

Recentemente, si è osservato un mutamento di indirizzo nella giurisprudenza della Cas-sazione. Essa ha stabilito che il danno non patrimoniale non è categoria suscettibile di divisioni al suo interno e che pertanto, non sarebbero fondate le distinzioni operate dalla giurisprudenza di merito. Ha anche precisato, ritenendo non risarcibile il danno esistenziale, che la mera infelicità non può essere risarcita, stabilendo che “il diritto deve essere inciso oltre una soglia minima ca-gionando un pregiudizio serio”.19

Tale orientamento, che riafferma anche la tipicità delle ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale, non pregiudica la risarcibilità dei danni derivanti dal mobbing, posto che si trat-ta di lesione alla personalità morale, ovverosia di un bene di rango costituzionale, la cui risarcibi-lità anche nell’ambito del danno non patrimoniale è confermata.

16 Tribunale di Pinerolo, sez. lav., 21 giugno 2004. 17 Cassazione, 7 giugno 2000, n. 7713. 18 Tribunale di Tempio Pausania, 10 luglio 2003. 19 Cassazione 11 novembre 2008, n. 26972.

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5. Le norme di tutela specifiche di singole fattispecie

Ferme restando l’esperibilità della tutela risarcitoria, per alcuni dei cosiddetti rischi psi-

co-sociali, sono previste tutele specifiche. Nel caso delle molestie sessuali o a connotazione ses-suale è stabilita la nullità di tutti gli “atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavo-ro” se adottati in conseguenza del rifiuto della vittima a sottomettersi a tali molestie.20

Per quanto riguarda lo stress, infine, la mancata effettuazione della valutazione dei rischi derivanti da stress lavoro-correlato costituisce violazione dello specifico obbligo stabilito dall’art. 28 del decreto legislativo n. 81/2008.

5.1 I limiti della tutela sotto il profilo previdenziale

Si è detto che ai fini del diritto al risarcimento del danno, non è richiesto che si produca

una vera e propria patologia. Se questa si produce, tuttavia, la vittima del rischio psico-sociale potrebbe aver diritto, in taluni casi, al trattamento erogato dall’Istituto Nazionale per l’Assicura-zione contro le Malattie (INAIL). Ciò si verifica in presenza di malattie da disturbo dell’adatta-mento cronico e di malattie psichiche e psicosomatiche da disturbo post-traumatico o cronico da stress.

Tali patologie non sono comprese tra quelle la cui causa lavorativa è stabilita ex lege (e-lencate in una prima lista) ma compaiono in una seconda lista, nella quale sono comprese patolo-gie la cui causa lavorativa è soltanto possibile. Il rapporto eziologico tra le condizioni di lavoro e la malattia, per queste patologie, può, però, essere accertata. Pertanto, pur in assenza di automati-smo, ove nell’ambiente di lavoro siano individuati i fattori che producono l’insorgere di tali di-sturbi, tra i quali sono compresi tutti quelli tipici del mobbing, esse daranno diritto alle prestazio-ni dell’Istituto assicurativo.

Quanto all’entità della prestazione, posto che il grado di invalidità di tali patologie oscilla tra il 6 ed il 16%, è esclusa la corresponsione di una rendita e la prestazione consisterà in una in-dennità per danno biologico corrisposta, una tantum, sotto forma di capitale.

5.2 La prevenzione

a) Profili legali L’art. 2087 del codice civile fonda un generale obbligo di sicurezza. Già si è detto che ta-

le obbligo costituisce un vero e proprio diritto soggettivo. Esso impone al datore di lavoro di a-dottare tutte le misure che secondo la natura della prestazione, l’esperienza e la tecnica, siano in grado di tutelare la sicurezza e la dignità morale del lavoratore. L’art. 2087, in altri termini, è norma di carattere eminentemente prevenzionale, quantunque, nella pratica, sia stato utilizzato per fondare il diritto al risarcimento una volta che il danno si sia prodotto. È opportuno richiama-

20 Decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna a norma dell'articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246”., art. 26.

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re che in Italia sia la prevalente dottrina che la giurisprudenza, ritengono che l’obbligo di preven-zione del datore di lavoro imponga l’adozione di tutte le misure “tecnologicamente fattibili” e non soltanto di quelle che il datore di lavoro potrebbe porre in essere secondo un criterio di “ra-gionevolezza economica”, come avviene in altri ordinamenti.

Questo generale obbligo di prevenzione, scaturente dall’art. 2087, riguarda indistinta-mente tutti i rischi psico-sociali. Il fatto che, per lungo tempo, i rischi psico-sociali o alcuni di es-si siano stati trascurati o addirittura ritenuti ineliminabili è altra cosa, riguarda quella patologia dell’ineffettività che, lamentabilmente, colpisce in maniera seria il diritto del lavoro.

La transizione da una sottovalutazione dell’obbligo di prevenzione dei rischi psicosociali ad un suo pieno riconoscimento è dovuta, oltreché ad una evoluzione culturale supportata dall’e-voluzione scientifica, anche dal recepimento delle direttive comunitarie in materia di tutela della salute e della sicurezza del lavoro che impongono agli Stati di adottare misure per la prevenzione di “tutti” i rischi legati allo svolgimento dell’attività lavorativa. Lo Stato italiano, per non aver correttamente recepito la particolare estensione dell’obbligo, è stato condannato dalla Corte di Giustizia europea e ha dovuto adattare la propria disciplina interna con la specifica indicazione che le procedure di valutazione preventiva dei rischi debbano riguardare tutti i possibili rischi.

Così, oggi, l’art. 28 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, esplicitamente stabilisce che l’obbligo di valutazione dei rischi deve riguardare “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori [...] tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004”.

La norma generale di cui all’art. 2087, in tal modo, viene ribadita e rafforzata, per quanto riguarda gli obblighi di prevenzione, dal d.lgs n. 81/2008. Ma questo decreto, che contiene la normativa generale in materia di protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori, oltreché implicitamente richiamare gli obblighi di prevenzione in materia di (tutti i) rischi psicosociali, stabilisce che la valutazione dei rischi all’interno dei luoghi di lavoro debba essere effettuata “te-nendo conto, tra l’altro, dei rischi da stress lavoro-correlato”. Solo uno dei rischi psico-sociali, in altri termini, è esplicitamente richiamato perché sia tenuto in conto ai fini della valutazione pre-ventiva dei rischi cui è tenuto il datore di lavoro. Ciò non significa che, quanto agli altri, come le molestie sessuali ed il mobbing, l’obbligo non sussista, solo che, per quanto riguarda lo stress la-voro-correlato, tale obbligo è esplicitamente richiamato dal legislatore.

Pertanto, mentre per i rischi psico-sociali, in generale, essi dovranno comparire nel do-cumento di valutazione dei rischi solo se eventualmente sussistenti, dello stress deve esserne dato conto in ogni caso, seguendo le modalità fornite dalla Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro di cui all’art. 6 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.

Ciò, a mio avviso, non significa affatto porre in secondo piano gli altri rischi psico-sociali. Si evidenzia solo il fatto che lo stress, in quanto causato da fattori relativi al contenuto della prestazione ed all’organizzazione del lavoro, costituisce elemento tipico e più facilmente valutabile, rispetto ad altri rischi, come il mobbing o le molestie sessuali, che potremmo definire semplicemente “eventuali” rispetto ad un rischio insito nel lavoro, come lo stress, che si presta agevolmente ad una valutazione preventiva.

L’obbligo di valutazione preventiva dello stress all’interno del documento di valutazione dei rischi, peraltro, contenuto già all’art. 28 del decreto legislativo del 2008, è stato fatto oggetto di successive proroghe, l’ultima della quale, se non si verificheranno ulteriori dilazioni, è sta-bilita al 31 dicembre 2010.

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b) Contrattazione collettiva ed autoregolamentazione

Per completezza, occorre segnalare l’esistenza di numerosi strumenti di prevenzione dei rischi psicosociali istituiti dalla contrattazione collettiva o come prodotto dell’autoregolamen-tazione. Si tratta, per lo più, di commissioni con finalità di informazione, prevenzione e di assi-stenza alle vittime o possibili vittime di molestie, mobbing o, più in generale, di atti discriminato-ri. È frequente che, soprattutto negli enti pubblici, vergano approvati codici di condotta che, in taluni casi, prevedono l’istituzione di una figura denominata “consigliere di fiducia”, che può es-sere scelto o eletto anche tra non appartenenti all’organizzazione, alla quale sono istituzionalmen-te affidati i compiti di prevenzione. In taluni enti pubblici vengono realizzate campagne di infor-mazione e di prevenzione del fenomeno.

6. Bibliografia

Barassi L. (1901), Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, Milano, Società Editrice Libraria, Mi-

lano. Izzi V., Eguaglianza e differenze nei rapporti di lavoro: il diritto antidiscriminatorio tra genere e fattori di

rischio emergenti, Jovene, Napoli, 2001, p. 190. Lazzeroni L., Molestie e molestie sessuali: nozioni, regole, confini, in Il nuovo diritto antidiscriminatorio.

Il quadro comunitario e nazionale, a cura di M. Barbera, Giuffré, Milano, 2007, p. 379, ss. Levi P. (1975), Piombo, in Il sistema periodico, Milano, Einaudi,. Loy, G., Il mobbing, profili giuridici. in “Il diritto del lavoro”. Roma. 2005.

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5. Stress lavoro-correlato: le criticità per gli RSPP Domenico Salimbeni

1. Introduzione

La valutazione dei rischi inerenti lo stress lavoro-correlato, prescritta in modo esplicito

dall’art. 28 del testo unico sulla sicurezza sul lavoro (TU: D.Lgs. n. 81/08 modificato e integrato dal D.Lgs. n. 106/09), deve essere fatta dal datore di lavoro (DL), com’è ovvio alla luce degli at-tuali orientamenti normativi europei in materia di sicurezza sul lavoro.

La valutazione dello stress lavoro-correlato deve essere basata su “elementi oggettivi” che consentano di orientarsi facilmente verso le necessarie azioni preventive, ovvero escludere con ragionevole certezza la sussistenza del rischio ed escludere dette azioni, fatto salvo un moni-toraggio continuo della situazione.

Il processo di valutazione del rischio, inoltre, deve evidenziare la chiara volontà dell’a-zienda di intervenire sull’organizzazione del lavoro, quindi deve essere gestito direttamente dal DL e dagli attori interni della prevenzione, anche perché la normativa vigente prescrive non una valutazione episodica del rischio da stress lavoro-correlato, che potrebbe essere commissionata a un consulente esterno, bensì la garanzia della gestione del rischio. Ne segue che anche in caso di ricorso a una consulenza esterna si deve garantire sempre e comunque la centralità degli attori in-terni della prevenzione.

A questo proposito è utile verificare quali sono le figure professionali previste dalla norma-tiva vigente, che impone al datore di lavoro la nomina obbligatoria di due consulenti o collaboratori: 1. il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), persona in possesso dei requi-siti richiamati nell’art. 32 del TU, la cui mancata nomina è sanzionata, ai sensi dell’art. 55 del TU, con l’arresto sino a sei mesi o con l’ammenda sino a 6.400 €;

2. il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS), che non è un vero e proprio consulente ma deve essere nominato ai sensi dell’art. 47 comma 2 del TU;

oltre a una terza figura, prescritta solo se sussiste l’obbligo di sorveglianza sanitaria (art. 18 comma 1.d e art. 41 del TU): 3. il medico competente (MC), che pertanto non sempre è presente nel luogo di lavoro e infatti (comma 1 art. 29) collabora alla valutazione dei rischi col DL e l’RSPP solo nei casi in cui è obbligatoria la sorveglianza sanitaria.

Poiché la valutazione del rischio da stress lavoro-correlato deve essere fatta in tutte le at-tività, anche in quelle nelle quali non è obbligatoria la sorveglianza sanitaria, mentre il MC non è presente in tutte le attività, è palese come il DL non abbia alternative al coinvolgimento diretto dell’RSPP, unico consulente sempre presente nell’attività. L’RSPP, infatti, è comunque presente sul luogo di lavoro anche nei casi in cui lo stesso DL ha la facoltà di svolgerne le funzioni.

Inoltre l’RSPP è uno specialista in sicurezza sul lavoro appositamente formato tramite corsi istituiti all’uopo (ai sensi del D.Lgs. n. 195/03). Fra le materie di formazione degli RSPP la norma prevede infatti esplicitamente lo stress lavoro-correlato, indicando chiaramente come

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l’onere della valutazione del rischio ricada proprio su questa figura professionale. Una recentissima sentenza della Cassazione penale (n. 1834 del 15 gennaio 2010 della

Sez. IV) rafforza questa conclusione quando afferma che “a seguito della qualifica di cui al

D.Lgs. n. 195/03, un RSPP, pur privo di poteri decisionali e di spesa, è corresponsabile col dato-

re di lavoro, benché questi mantenga la posizione di garanzia, in quanto obbligato a conoscere, e

segnalare al DL, una situazione di rischio pur non preventivabile in quanto a lui non segnalata”, e prosegue stabilendo che “l’assenza di capacità immediatamente operative non esclude che la

mancata elaborazione delle procedure di sicurezza, nonché di informazione e formazione, possa

integrare un’omissione “sensibile” da parte di un RSPP incaricato di monitorare costantemente

la sicurezza sul lavoro”. La Cassazione penale afferma infatti che la frequenza obbligatoria dei corsi di cui al

D.Lgs. n. 195/03, che si concludono con una “verifica di apprendimento”, non consente a un RSPP di non considerarsi specialista in una qualsiasi tipologia di rischio, quindi anche in materia di rischio lavoro-correlato.

In aggiunta si può rilevare anche come fra le misure per prevenire, eliminare o ridurre i problemi di stress lavoro-correlato individuate dall’art. 6 del TU rientrino attività di stretta com-petenza degli RSPP o dagli stessi organizzate. 1. Adozione di opportune misure di gestione e comunicazione, quali per esempio:

� organizzazione del sistema di gestione della sicurezza (tipicamente OHSAS 18001); � chiarimento degli obiettivi aziendali e del ruolo di ciascun lavoratore; � sostegno adeguato ai singoli lavoratori e ai gruppi; � responsabilizzazione del potere di controllo sul lavoro; � miglioramento della gestione dell’organizzazione e dei processi di lavoro, delle condizioni lavorative, dell’ambiente di lavoro.

2. Formazione dei dirigenti e dei lavoratori (anche se nel caso che ci interessa mirata all’accre-scimento della loro consapevolezza e conoscenza dello stress, delle sue possibili cause).

3. Informazione e consultazione dei lavoratori e degli RLS.

2. Competenze degli RSPP

La conclusione cui perviene la Cassazione penale, in realtà, appare meno assurda di

quanto possa apparire a prima vista se si tiene in considerazione la formazione culturale di un RSPP, che è sostanzialmente un tecnico della sicurezza. Infatti: 1. è certamente l’RSPP la figura di riferimento del datore di lavoro in materia di valutazione dei rischi;

2. l’RSPP è in possesso di un attestato di “frequenza, con verifica dell’apprendimento, a specifici corsi di formazione in materia di prevenzione e protezione dei rischi, anche di natura ergono-mica e da stress lavoro-correlato di cui all’articolo 28, comma 1, di organizzazione e gestione delle attività tecnico amministrative e di tecniche di comunicazione in azienda e di relazioni sindacali”;

3. la normativa vigente e la Cassazione penale, però, non individuano nel RSPP un’anacronistica figura onnisciente, ma semplicemente uno specialista nella valutazione dei rischi, cioè un pro-fessionista appositamente formato in materia di sicurezza sul lavoro che, individuato un peri-

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colo, è in grado di valutarne il rischio conseguente e se egli stesso può intervenire con effica-cia nella sua riduzione.

È evidente infatti che l’RSPP ha la facoltà di ritenere più corretto consigliare al datore di lavoro il ricorso a uno specialista della materia inerente il rischio sul quale ritiene si debba inter-venire nell’ottica della sua riduzione.

Ne segue che l’RSPP, specialista nella valutazione dei rischi ma non in tutti i campi della scienza, potrà consigliare al DL il ricorso a un ingegnere elettrico per l’eliminazione di un rischio da contatto, a un ingegnere acustico per la riduzione di un rischio da rumore, a un chimico per il controllo del rischio chimico, e così via. Sempre che non sia competente egli stesso nella materia specifica oppure non ritenga comunque di poter intervenire direttamente in considerazione della modesta entità del rischio e/o dell’intervento da effettuare.

Nel caso specifico del rischio lavoro-correlato, un RSPP dovrà valutarne la possibile presen-za e, qualora non sia in grado di escluderla in relazione alle indicazioni fornite dalla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro (comma 8, m-quater, art. 6 del TU), o con l’utilizzazione di altri strumenti delle more dell’emanazione di dette indicazioni, consigliare al datore di lavoro la consulenza di uno specialista della materia, dunque di uno psicologo del lavoro.

Riconoscendo la validità di questa impostazione procedurale, peraltro dettata in modo e-splicito dalla normativa vigente, si evita anche l’implosione dell’intero sistema sicurezza sul la-voro, in quanto tutte le attività medio-piccole, e soprattutto queste ultime, già oggi sono sottopo-ste a un carico economico non facilmente sopportabile a causa della presenza di tre figure profes-sionali (anche l’RLS ha un costo per il DL se realmente si occupa di sicurezza) in aggiunta a tutti gli oneri di mantenimento delle condizioni di sicurezza minime indispensabili. Un onere econo-mico che già oggi è non facilmente sopportabile anche senza l’aggravio dei costi di uno psicolo-go del lavoro competente, di un ingegnere elettrico competente, di un acustico competente, un chimico competente, e così via.

3. Esigenze degli RSPP Gli RSPP, che in passato avevano potuto trascurare l’analisi dell’influenza dei fattori

dell’ambiente di lavoro in aggiunta alle condizioni tecniche produttive e organizzative grazie alla genericità delle prescrizioni della normativa pre-vigente il TU (comma 1.d dell’art. 3 del D.Lgs. n. 626/94), hanno l’esigenza di disporre di uno strumento utilizzabile da un “valutatore del ri-schio” che gli consenta di individuare una delle due alternative seguenti: esclusione oppure non esclusione del rischio lavoro-correlato.

Poiché questo strumento non è facilmente reperibile sul mercato ad opera di un “non ad-detto ai lavori” la ricerca si può orientare naturalmente in direzioni differenti che qui di seguito saranno elencate in una sequenza logica nell’ottica esclusiva dell’RSPP il quale, memore della sua estrazione tecnica, è tendenzialmente portato alla ricerca di uno strumento che sia in grado di misurare lo stress.

3.1. Strumenti di valutazione

Sono disponibili numerosi strumenti di valutazione del rischio lavoro-correlato, alcuni

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dei quali elencati nella matrice che segue nella quale l’ultima colonna evidenzia il codice interna-zionale alfabetico gerarchico che indica, in senso decrescente da C verso A1, il livello di compe-tenze in materia di psicologia del lavoro necessario all’operatore per la loro utilizzazione.

TABELLA 1

Strumenti d valutazione

nome titolo autori anno item cod

JSQ Job Stress Questionnaire Hurrel, NIOSH 1988 219 C

Q-Bo

Test di valutazione del rischio stress lavoro-correlato nella prospettiva del benessere

organizzativo

De Carlo, Falco, Capozza 2008 ∼200 C

MOHQ Questionario

multidimensionale sulla salute organizzativa

Avallone, Paplomatas 2005 139 C

OSI Occupational Stress Inventory Cooper Sloan e Williams 1988 167 B

OSQ Occupational Stress Questionnaire

Elo et al. 1992 93 B

Val.Mob strumento valutativo del rischio

mobbing nei contesti organizzativi

Nardella, Deitinger, Bonafede, Aiello

2008 71 A2

OCS Occupational Check up System Leiter, Maslach 2005 68 A2 JCQ Job Content Questionnaire Karasek 1998 49 A2 ERI Effort Reward Imbalance Siegrist 1996 46 A2

Va.RP Valutazione Rischi Psicosociali Nardella, Deitinger, Bonafede, Aiello

2008 ? A2

JSS Job Stress Survey Spielberg 1994 30 A2

CL-SL Checklist Sicurezza sul lavoro Nardella, Deitinger, Bonafede, Aiello

2009 18 A1

PSS Perceived Stress Scale Cohen et al. 1983 10 A1

Questi strumenti risentono fortemente della variabile culturale, per cui quelli stranieri non sono direttamente esportabili, anche se tradotti e ri-validati. Inoltre si tratta prevalentemente di strumenti di valutazione soggettiva utilizzabili quasi esclusivamente da psicologi del lavoro (co-dici C e B) e comunque da personale formato (codice A2).

L’RSPP però, anche se potrebbe rientrare nel codice A2 nel quale certamente rientra il MC, non è interessato a un’analisi approfondita dello stress lavoro-correlato, bensì semplicemen-te a valutare l’eventuale sussistenza del rischio di stress lavoro-correlato, campo nel quale è l’uni-co specialista riconosciuto dalla normativa vigente.

3.2. Strumento necessario all’RSPP

Ne segue che all’RSPP occorrerebbe uno strumento semplice, oggettivo, e veloce da

somministrare, che individui una soglia di stress da interpretare nel seguente modo: • assenza certa del rischio di stress lavoro-correlato se l’indice di stress individuato dallo stru-mento risulta inferiore alla soglia;

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• rischio di stress non escludibile se l’indice di stress individuato dallo strumento risulta supe-riore alla soglia;

Con la disponibilità di uno strumento oggettivo come quello descritto sopra, la procedura di valutazione del rischio di stress lavoro-correlato, effettuata dell’RSPP, potrebbe svilupparsi se-condo il seguente diagramma di flusso:

GRAFICO 1

Diagramma di analisi rischio stress lavoro-correlato

Effettuata una diagnosi preliminare con lo strumento descritto sopra l’RSPP potrebbe:

• escludere la sussistenza del rischio e chiudere la procedura sino a una verifica successiva, pre-vedendo nel frattempo eventuali interventi nel caso dovessero emergere problemi legati allo stress in alcuni reparti, gruppi di lavoratori, settori, etc., evidentemente isolati.

La verifica successiva, naturalmente, dovrebbe essere programmata in modo rigido, infatti il rischio stress lavoro-correlato, come e più degli altri, costringe le aziende ad una pe-riodica rivalutazione dello stesso, in quanto l’organizzazione del lavoro e le interazioni tra le persone possono subire variazioni anche molto veloci.

Oppure: • non poter escludere la sussistenza del rischio, e rimandare l’approfondimento del problema, lasciandone la valutazione ad uno psicologo del lavoro che, utilizzando uno strumento sogget-tivo, potrebbe accertare definitivamente l’assenza del rischio, oppure riconoscerne la presenza e programmare gli interventi di contenimento del rischio a suo giudizio più adatti.

In questo caso, infatti, è necessario identificare le aree aziendali con priorità di inter-vento, ed effettuare una valutazione della percezione dello stress dei lavoratori.

Dovrà dunque essere programmato il monitoraggio delle condizioni di stress e dell’effi-cacia delle azioni di miglioramento secondo la logica PDCA (ciclo di Deming).

In questa situazione lo psicologo del lavoro dovrà definire gli interventi su tre livelli di prevenzione:

R?

Programmazione delle misure

Psicologo del lavoro

fine

Stima rischio “oggettiva”

NO

SI

Diagnosi prelimi-nare

Valutazione rischio “soggettiva”

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1. controllo dei rischi, con interventi sull’organizzazione dell’attività, sulla gestione, e sulla pro-gettazione del lavoro e dell’ergonomia definiti unitamente all’RSPP;

2. formazione integrativa aziendale ed individuale; 3. assistenza dei lavoratori con conseguenze di salute indotte allo stress lavoro-correlato.

Il processo di valutazione descritto non mira alla ricerca di un unico indicatore dello stress, operazione che sicuramente sarebbe errata, bensì alla ricerca di un unico indice di valuta-zione del rischio di stress.

Questo processo assumerebbe un’importanza maggiore dello stesso risultato ottenuto (la valutazione del rischio), in quanto costituirebbe implicitamente una attività di miglioramento che non si esaurirebbe all’analisi del fenomeno stress ma si estenderebbe a tutte le variabili organizza-tive che possono migliorare le procedure lavorative e, di conseguenza, la produttività aziendale.

Nell’ottica descritta sopra appare particolarmente interessante per l’RSPP la proposta me-todologica del etwork nazionale per la prevenzione, disagio psicosociale nei luoghi di lavoro fatta propria dall’ISPESL (oggi confluito nell’INAIL), che si articola su tre fasi: 1. inquadramento degli indicatori oggettivi associabili a condizioni di stress da lavoro attraverso la compilazione della check-list appositamente predisposta;

2. individuazione oggettiva del livello di rischio da stress lavoro-correlato su tre gradini (basso, medio, alto), con contestuale pianificazione delle azioni di miglioramento;

3. utilizzazione, in modo aggregato (la norma prevede la valutazione del rischio da stress dell’or-ganizzazione, non del singolo lavoratore), di strumenti specifici (per esempio uno dei questio-nari validati scelto fra quelli elencati sopra).

Vale l’accorgimento che si arriva alla fase 3 solo se si verifica una delle due condizioni seguenti: 1. il rischio è valutato “alto”; 2. il rischio è valutato “medio” e dopo un anno di applicazione monitorata delle azioni di miglio-ramento individuate non si è ottenuto un miglioramento oggettivo.

Nel caso si verifichi una delle due condizioni menzionate e si renda necessario il ricorso alla fase 3 il DL dovrà valutare, con la collaborazione degli attori interni della prevenzione, se ri-correre oppure no a un consulente esterno che, comunque, dovrà collaborare con gli attori interni della prevenzione, al fine di garantire la continuità dell’azione di miglioramento.

4. Bibliografia

Feigenbaum, E. A., (1977). The art of Artificial Intelligence, 1:Theories and case studies in knowledge en-

gineering, Proc. 5th IJCAI. Valutazione e gestione del rischio da stress lavoro-correlato. Guida operativa. Coordinamento tecnico re-

gionale della prevenzione nei luoghi di lavoro. Marzo 2010. La valutazione dello stress lavoro-correlato. Proposta metodologica. Network nazionale per la prevenzione,

disagio psicosociale nei luoghi di lavoro. ISPESL, Istituto superiore per la Prevenzione e la Sicurez-za sul Lavoro. Marzo 2010 aggiornato a Maggio 2010.

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6. Il ruolo del sindacato nella valutazione dei rischi da stress

lavoro-correlato Oriana Putzolu

1. Premessa

La tutela della salute e della sicurezza si persegue attraverso tanti strumenti di natura e

modalità diverse. La legislazione è senz’altro l’aspetto più coerente e centrale. Ma in una temati-ca come quella della prevenzione in ambiente di lavoro le regole e le disposizioni coercitive pro-ducono la loro efficacia solo se collocate all’interno in un contesto culturale in grado non solo di rispettarle, ma di potenziarne gli effetti in positivo, tendendo al miglioramento continuo. Per que-sto occorre rendere il terreno fertile in ogni contesto lavorativo, favorendo la conoscenza sui ri-schi che possono presentarsi nel regolare svolgimento del proprio lavoro, ma favorendo anche la conoscenza sugli interventi di prevenzione e protezione che possono essere realizzati o sulle at-tenzioni da riportare per salvaguardare “l’integrità fisica e la personalità morale” di ogni lavora-trice e ogni lavoratore.

A fine gennaio 2010, si è svolta una Conferenza a Bruxelles, organizzata dalla CES e dall’Istituto europeo, che si è occupata delle tematiche dello sviluppo sostenibile (ETUI), sulla partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti in azienda, focalizzando in particolare l’attenzione sulla valutazione del rischio in ambiente di lavoro, al fine di apportare un contributo rilevante e significativo alle tante iniziative promosse a livello europeo e dai singoli Paesi, sul tema cardine della Campagna europea: “Ambienti di lavoro sani e sicuri. Un bene per te, un bene per l’azienda”. È emersa in modo preoccupante la scarsa diffusione nelle aziende di uno svolgi-mento adeguato di valutazione dei rischi, di interventi mirati e costanti di prevenzione e protezio-ne, di modelli di coinvolgimento dei lavoratori/lavoratrici e dei loro rappresentanti nelle fasi più rilevanti dell’analisi e dell’individuazione di necessari cambiamenti organizzativi, strutturali e strumentali in azienda, volti a garantire un’adeguata tutela e realizzazione di condizioni di lavoro basate sul rispetto e centralità della persona.

2. Il rapporto di lavoro e il concetto di stress lavoro-correlato

Non si può dimenticare la rilevanza che la nostra Carta fondamentale attribuisce al lavo-

ro, non a caso posto a fondamento della nostra democrazia, e considerato non solo come strumen-to di sostentamento ma come un mezzo di realizzazione della dignità dei cittadini,come emerge con assoluta chiarezza dagli articoli 3 e 4 , e dall’interno Titolo III della Costituzione. Perciò: • sul piano tecnico giuridico il rapporto di lavoro è un rapporto nel quale ciascuna delle parti,

accanto alla obbligazione principale (cioè la prestazione dell’attività lavorativa da un lato, la retribuzione dall’altro) assume una serie di obblighi collaterali, tra i quali l’obbligo di tutela dell’ambiente di lavoro da parte del datore del lavoro;

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uovi codici del lavoro. Contributi

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Il ruolo del sindacato nella

valutazione dei rischi da stress

lavoro-correlato Oriana Putzolu – Cap. 6

• sul piano sociale ed economico non può essere dimenticata la peculiarità del rapporto del la-voro, sia in relazione ai principi costituzionali sopra ricordati, sia perché oggettivamente il rapporto lavorativo assume per il prestatore d’opera implicazioni fondamentali per la sua esi-stenza, dignità e salute.

Il concetto di stress lavoro-correlato, quindi, è così ufficialmente entrato nel contesto del-la tutela della salute e sicurezza sul lavoro in Italia, a seguito del recepimento dell’Accordo euro-peo del 2004, avvenuto dopo circa quattro anni dalla sua emanazione, il 9 giugno 2008, da parte delle associazioni datoriali e organizzazioni sindacali che avevano contribuito alla sua redazione a livello europeo, inserendo per la prima volta in maniera chiara ed espressa, tra gli adempimenti a carico del datore di lavoro l’obbligo di valutazione dello stress lavoro-correlato.

Lo stress lavoro-correlato, si legge all’art. 3 dell’Accordo: “è una condizione che può es-sere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale ed è conse-guenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative riposte in loro”.

Alla luce di tale definizione emerge con chiarezza che l’organizzazione del lavoro non potrà mai ritenere adeguato il ricorrere a modalità e condizioni di lavoro stressanti ai fini di sti-molare i propri dipendenti in vista di un aumento di prestazioni/produzione, ma al contempo non potrà neanche trascurare l’analisi delle condizioni di lavoro e delle regole organizzative praticate nell’ambiente di lavoro (ritmi di lavoro, carichi di lavoro, monotonia e ripetitività di questo etc.).

I datori di lavoro quindi hanno il dovere, da un lato, di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in relazione a ogni aspetto collegato all’attività lavorativa e, dall’altro lato, di effet-tuare una valutazione dei rischi.

3. La valutazione dei rischi

Perché effettuare una valutazione dei rischi? Ogni manciata di minuti qualcuno nell’UE

muore a causa del lavoro. Ogni anno, inoltre, centinaia di migliaia di lavoratori sono vittime di infortuni sul lavoro, mentre altri chiedono permessi per malattia a causa dello stress, dell’ecces-sivo carico di lavoro, di disturbi muscolo-scheletrici o di altre malattie legate all’attività lavorati-va. Gli infortuni e le malattie, oltre a generare costi in termini di disagio umano a carico dei lavo-ratori e delle loro famiglie, vanno a incidere anche sulle risorse dei sistemi sanitari e riducono la produttività delle aziende (Frascheri, 2001).

Alla domanda quindi rispondiamo che: la valutazione dei rischi è fondamentale per una gestione efficace della sicurezza e della salute e può essere considerata la chiave per limitare gli infortuni legati all’attività lavorativa e le malattie professionali.

E se svolta in maniera corretta, può migliorare la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro e, più in generale, accrescere il rendimento dell’azienda.

In cosa consiste la valutazione dei rischi? La valutazione dei rischi è quindi un processo di valutazione dei rischi per la sicurezza e

la salute dei lavoratori derivanti da pericoli presenti sul luogo di lavoro. Consiste in un esame si-stematico di tutti gli aspetti dell’attività lavorativa, volto a stabilire cosa può provocare lesioni o danni; se è possibile eliminare i pericoli e, nel caso in cui ciò non sia possibile, mettere in atto misure di prevenzione o di protezione per controllare i rischi.

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valutazione dei rischi da stress

lavoro-correlato Oriana Putzolu – Cap. 6

Il livello drammatico degli infortuni, delle morti sul lavoro e per malattie professionali si colloca all’interno di questa valutazione. Inoltre, ai tradizionali rischi legati al rapporto uomo-macchina, sono intervenuti nuovi rischi dovuti ai mutamenti nei sistemi produttivi e nelle tipolo-gie di rapporti di lavoro. Emergono cioè nuove patologie consequenziali a frustrazioni, delusioni, cadute motivazionali, ansie, ecc., che a loro volta sono anche causa indiretta di infortuni.

L’obbligo di valutazione di “tutti i rischi” ritorna anche oggi, fedelmente, nel testo del d.lgs. 81/2008 (Barbato, Frascheri, 2009).

Tra gli obblighi posti al datore di lavoro, di particolare rilievo è quello della valutazione dei rischi nell’ambito di un più generale obbligo di programmazione della prevenzione. La valu-tazione dei rischi si dovrà tradurre in un documento concernente, tra l’altro, le misure di preven-zione previste dall’azienda, le procedure per la loro attuazione, l’indicazione dei ruoli dell’orga-nizzazione aziendale che vi debbono provvedere.

La valutazione dei rischi, che deve essere oggetto di costante aggiornamento, è effettuata dal datore di lavoro in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e con il medico competente previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.

Come già detto, è da evidenziare la portata generale dell’obbligo della valutazione dei ri-schi, comprensivo di quelli collegati allo stress, alla maternità, nonché alle differenze di genere (Frascheri, 2009), all’età, alla provenienza da altri paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro. Quelli che vengono definiti come rischi psicosociali.

4. I rischi psicosociali

Il controllo dei rischi professionali, che si articola in un insieme coordinato di attività di

valutazione, sorveglianza e verifica, deve comprendere anche l’analisi dei rischi psicosociali. Essi mostrano di fatto significative associazioni, sia con il fenomeno infortunistico, che

con diverse patologie correlate al lavoro, di natura organica o psichica. La valutazione dello stress da lavoro è un compito tutt’altro che semplice. La prima diffi-

coltà è semantica: nel linguaggio comune il termine stress viene spesso impiegato sia per indicare le cause (lo stress professionale) che le conseguenze patologiche (essere stressati).

Nel primo caso sarà più corretto parlare di “fattori di stress” o, con maggiore precisione, di “fattori di strain”, agenti cioè capaci di mettere sotto tensione l’individuo.

L’evento patologico (“lo stress”) potrà verificarsi solo dopo il superamento delle capacità di opporsi agli agenti di rischio.

Il termine stress lavoro-correlato così introdotto dal legislatore nel testo del d.lgs. 81/2008 determina una chiarezza e completezza indicando non solo i rischi di carattere tradizio-nale, ma anche quelli collegati alla tipicità del lavoratore/lavoratrice. Lo stress lavoro-correlato di certo appartiene alla categoria dei rischi psico-fisici, ma non è l’unico rischio e perciò con esso rientrano anche, tra i principali, i fenomeni del mobbing, del burnout, della violenza sul lavoro (sia essa a carattere sessuale che fisica).1

1 Per un approfondimento sulle principali forme di disagio psicosociale, si vedano i Cap. 8, 9 e 10 e gli specifici appro-fondimenti nella Seconda Parte: linee di ricerca e prospettive applicative.

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lavoro-correlato Oriana Putzolu – Cap. 6

• Mobbing – si parla di mobbing quando a determinare le diverse condotte negative nei riguardi di un lavoratore o lavoratrice vittima è una precisa volontà nociva da parte di un soggetto su-periore o subordinato, e comunque della struttura aziendale, al preciso scopo di portare il lavo-ratore/lavoratrice individuato, a non essere più disposto a lavorare perché continuamente ves-sato o a non essere più in grado di lavorare perché limitato costantemente nelle azioni e nei mezzi o per conseguenze di salute.

• Burnout – tradotto letteralmente vuol dire bruciato ma rende meglio l’idea ”scoppiato dal la-voro”. Si intende una progressiva perdita di idealismo, energia, e scopi, vissuta da operatori sociali, professionali e non, come risultato delle condizioni in cui lavorano. Il burnout a diffe-renza degli altri fenomeni è già una patologia a carattere individuale, che si determina per le condizioni lavorative inadeguate. Tale patologia colpisce, con maggior frequenza, coloro che lavorano in costante presenza di tensione emotiva (infermieri, servizi sociali, vigili del fuoco, etc.) senza aver alcun supporto di natura strumentale e psicologica. L’individuo colpito, dap-prima tenta di difendersi/reagire attuando comportamenti cinici, distaccati, spersonalizzati. Se non riesce a risollevarsi arriva a non credere più in se stesso, nelle sue capacità, perde la fidu-cia nelle sue competenze, si lascia sopraffare dall’apatia e dalla frustrazione, fino al desiderio, nei casi estremi, di annientamento e morte.

• Violenza sul lavoro intesa nei suoi tre diversi aspetti: violenza fisica, sessuale e psicologica, è sempre frutto di un atto mirato e voluto, o comunque non represso, al momento dello scate-narsi da parte di un soggetto nei riguardi di una precisa vittima. Poiché la violenza sul lavoro è un fenomeno in grande crescita a livello europeo, è stato deciso di avviare un tavolo di con-fronto del dialogo sociale. Nell’aprile 2007 si è giunti a firmare un Accordo bilaterale europeo sul tema da parte di tutte le organizzazioni datoriali e sindacali europee.

Il mobbing e la violenza sul lavoro sono due fenomeni che prendono consistenza al mo-mento in cui viene in essere o emerge l’intento nocivo da parte dell’autore nei riguardi del sog-getto individuato quale vittima. Per questo preciso e chiaro motivo non si può sostenere che tali fenomeni comportamentali possano essere oggetto di valutazione del rischio e pertanto oggetto di obbligo a carico del datore di lavoro, tenuto conto che l’analisi dei rischi è per sua natura a carat-tere preventivo e a dimensione collettiva.

Nel caso dello stress lavoro-correlato e del burnout, invece, gli elementi di disagio/danno possono sussistere indipendente dalla volontà nociva espressa da un singolo autore nei riguardi di una vittima.

In un ambiente di lavoro, quindi, per motivi diversi (siano essi determinati da sottovalu-tazione del problema o incongruenza organizzativa, ma anche da una precisa politica aziendale), si possono creare le condizioni che favoriscono il radicarsi dello stress lavoro-correlato (o in si-tuazioni più gravi e specifiche, di burnout) alimentando situazioni di disagio lavorativo nella col-lettività lavorativa e innescando, in alcuni casi, le premesse per il determinarsi di condizioni di danno specifico. In questo senso, l’obbligo di valutazione dei rischi preventiva e collettiva a cari-co del datore di lavoro trova la sua piena ragione d’essere e il suo prioritario fine.

Per esempio come nel caso di eventuale rischio tradizionale come il rumore, il datore di lavoro è chiamato a garantire un ambiente di lavoro che rispetti i parametri di tutela collettiva dal rischio, mentre la prevenzione, invece, che potrà essere determinata per gli eventuali casi di mob-bing e violenza sul lavoro troverà nelle diverse forme di accordo di clima,di protocollo di intesa, costituzione di comitati tematici, la risposta più adeguata.

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lavoro-correlato Oriana Putzolu – Cap. 6

5. Cosa fa il sindacato

L’elemento cardine del sistema di prevenzione e protezione aziendale del D.lgs. 81/08 è

l’obbligo della valutazione del rischio a carico del datore di lavoro. Non solo. Anche la formazione dei lavoratori, degli addetti e del rappresentante dei lavoratori per la

sicurezza (RLS) è un obbligo anch’esso in capo al datore di lavoro e deve essere effettuata in ora-rio di lavoro senza oneri per i lavoratori.

La formazione dei lavoratori e quella del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza deve avvenire in collaborazione con gli organismi paritetici territoriali, costituti a livello territo-riale tra le organizzazioni sindacali e quelle dei datori di lavoro.

È attraverso i responsabili della sicurezza e gli organismi paritetici che il sindacato inter-viene fortemente nella direzione di rispetto del decreto della sicurezza affinché soprattutto la pre-venzione sia continua e costante, e i lavoratori siano tutelati con le attenzioni dovute sia nel meri-to dell’informazione, che della formazione e della partecipazione.

Proprio con il decreto 81/08 è individuata una procedura di prevenzione da attuarsi in tut-te le aziende con riferimento a tutti gli ambienti di lavoro compresi anche gli esterni; questa pro-cedura coinvolge, attraverso un sistema relazionale di tipo partecipativo, il datore di lavoro coa-diuvato: • dai dirigenti; • dai preposti; • dal responsabile del servizio di Prevenzione e protezione (il datore di lavoro ne designa il re-

sponsabile e gli addetti) che individua e valuta i rischi, elabora le misure di prevenzione, in-forma i lavoratori e propone programmi di formazione;

• dal medico competente (nominato sempre dal datore di lavoro) che istituisce le cartelle sanita-rie dei lavoratori e informa e collabora con i lavoratori e il datore di lavoro ed effettua i so-pralluoghi nei luoghi di lavoro;

• dai lavoratori, anch’essi hanno obblighi come il datore di lavoro e quindi hanno l’obbligo di osservare le disposizioni ricevute e devono prendersi cura della propria salute e sicurezza ed eleggono il rappresentante della sicurezza;

• dal rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, che in alcuni contratti si definisce RLSSA (rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, salute e ambiente) e a volte RLS, con compiti importanti di rappresentanza per la tutela dell’ambiente, per formulare programmi di miglio-ramento e di sviluppo delle gestioni.

Naturalmente il sindacato, che fortemente è impegnato sul fronte della sicurezza sul lavo-ro, agisce al suo interno con numerose iniziative formative e informative. Tutte le strutture di ca-tegoria realizzano veri e propri corsi sulla sicurezza sia nel settore pubblico che nel privato e ca-ratterizzano anche con pubblicazioni i percorsi informativi e gli aggiornamenti legislativi e attua-tivi delle norme, sia quelle legislative che quelle inserite nei contratti di lavoro.

Un richiamo importante va fatto all’Accordo Stato-Regioni datato 21 dicembre 2011 ( e pubblicato in G.U. l’11 gennaio 2012) relativo alla formazione dei lavoratori ai sensi dell’art.37, c.2 , del D.lgs 9 aprile 2002,n.81, per quanto concerne “la durata, i contenuti e le modalità della formazione”.Questo Accordo elaborato dai soggetti istituzionali specifici per competenza; Stato-Regioni, è frutto anche del contributo delle Parti Sociali che, come espressamente previsto dal te-

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lavoro-correlato Oriana Putzolu – Cap. 6

sto del decreto legislativo,sono state previamente consultate sul merito dei contenuti del testo dell’Accordo. Ad oggi si è in attesa di una nota esplicativa dell’Accordo poiché contiene una se-rie di nodi non chiari e di difficile applicazione ( il ruolo degli Enti bilaterali e organismi pariteti-ci, i requisiti dei docenti,l’organizzazione della formazione,i lavoratori stranieri,la formazione dei preposti, etc.). Per tali ragioni il sindacato ha accolto con favore l’impegno previsto nell’Accordo stesso di costituire un gruppo tecnico (costituito dai soggetti istituzionali e dalle parti sociali) per monitorare e valutare l’applicazione delle disposizioni in esso contenute.

Per queste ragioni il modello contrattuale che la CISL ha di recente consolidato in due li-velli di riferimento, uno nazionale e uno territoriale, risulta essere importante poiché si inserisco-no tutte le norme a difesa e tutela del lavoratore nel posto di lavoro, utilizzando le leggi di riferi-mento.

Lo spazio da sempre occupato dalla contrattazione collettiva aziendale,oggi,mediante il processo di valutazione del rischio da stress lavoro-correlato, trova non solo una fonte importante di dati e indicazioni puntuali relative alle condizioni di lavoro, alle modalità e agli effetti deter-minati sulla popolazione lavorativa dalle regole gestionali interne all’azienda, ma diviene occa-sione privilegiata di confronto e successiva programmazione di interventi che possano risultare efficaci al cammino di sviluppo e miglioramento della realtà lavorativa,tesa non solo alla preven-zione e protezione della salute e sicurezza delle proprie lavoratrici e lavoratori, ma anche verso il raggiungimento di una condizione stabile e complessiva di benessere sul lavoro.

Quando poi le azioni di tutela non fossero sufficienti all’interno del rapporto di lavoro e il rappresentante dei lavoratori sulla sicurezza, il sindacato utilizza anche i servizi della propria or-ganizzazione come il patronato e gli uffici vertenze che tra le competenze hanno anche quella di intervenire a tutela delle condizioni di sicurezza del posto di lavoro e gli uffici vertenze.

L’azione sindacale non si ferma e procede con le giuste rivendicazioni e soprattutto il ri-spetto degli impegni in tal senso.

6. Conclusioni

L’impianto complessivo del decreto legislativo e dell’accordo europeo in materia di salu-

te e di sicurezza sul lavoro assegna un ruolo non indifferente alle organizzazioni sindacali che, insieme alle associazioni datoriali, tramite lo strumento della pariteticità, dovranno promuovere la cultura della sicurezza specialmente nelle piccole aziende. Gli organismi paritetici (art. 51) non hanno ancora raggiunto una dimensione soddisfacente sotto il profilo non solo del numero delle articolazioni territoriali esistenti, ma anche dal livello qualitativo e quantitativo delle loro rela-zioni con le imprese e i lavoratori. Permane un aspetto ancora critico che consiste nel convincere i datori di lavoro che dotarsi di metodi di organizzazione del lavoro non rappresenti solo aggravi economici, distrazioni dalla produzione e inutili sovrastrutture. Il tendere ad uno stato di benesse-re sul luogo di lavoro deve divenire un’esigenza d’impresa, deve coniugarsi con la strategia a-ziendale, e soprattutto non può ridursi ad un mero obbligo di legge. La vera sfida che si apre è proprio quella di assistere ad un cambiamento radicale da parte delle imprese e delle aziende e dei lavoratori. Fino a quando la salute, la sicurezza e il benessere sul lavoro, saranno considerati solo costi, e la gestione dell’organizzazione del lavoro un mero aggravio documentale e burocra-tico, continueremo a pagarne le conseguenze non solo sul piano economico, ma soprattutto di vite

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valutazione dei rischi da stress

lavoro-correlato Oriana Putzolu – Cap. 6

umane, falciate dagli infortuni, dalle malattie professionali e dalla crescita esponenziale di casi di danno e disagio lavorativo.

7. Bibliografia

Barbato, L., Frascheri, C. (a cura di) (2009). Salute e sicurezza sul lavoro . Guida al DLGS 81/08 integrato

con il DLGS 106/09. Roma: Edizioni lavoro Frascheri, C. (a cura di) (2009). Salute e sicurezza sul lavoro in ottica di genere. Roma: Edizioni lavoro. Frascheri, C. (a cura di ) (2011). Il rischio da stress lavoro-correlato . Normativa, procedure di valutazione

e organizzazione del lavoro. Roma: Edizioni lavoro.

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7. L’integrazione tra le figure della prevenzione in un sistema

di gestione aziendale Giovanni Battista Bartolucci

1. Premessa

La legislazione italiana in tema di prevenzione, igiene e sicurezza negli ambienti di lavo-

ro ha registrato a partire dalla metà degli anni ‘90 (in particolare con il D.Lgs 626/94) un profon-do mutamento, passando da un approccio “command e control” caratterizzato da un sistema rigi-do di tipo prescrittivo, settoriale e con eccessiva frammentazione legislativa, poco orientato alla prevenzione e molto di più alla repressione e teso al rispetto formale della conformità, ad un ap-proccio “organizzativo e gestionale”, più flessibile e teso a raggiungere il rispetto sostanziale del-le misure di prevenzione e promozione anche attraverso il supporto di nuovi istituti relazionali e di figure professionali a cui vengono affidati specifici ruoli in un sistema di gestione organizzato.

Secondo il D.Lgs 81/08 (come integrato dal D.Lgs 106/09) il Medico Competente (MC) è tenuto a collaborare con il datore di lavoro in merito alla valutazione dei rischi, alla predisposi-zione delle misure per la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, alla individuazione dei di-spositivi individuali di protezione, alla effettuazione delle attività di formazione e informazione. Alcune di queste funzioni sono svolte dal Servizio di Prevenzione e Protezione (SPP) grazie al sostanziale lavoro di tecnici consulenti (igienisti del lavoro, esperti di sicurezza, ergonomi, ecc.). Ne consegue che tra MC e tecnici consulenti dovrebbe sussistere una concreta e proficua intera-zione. Di fatto questa collaborazione viene spesso a mancare.

Eppure la sorveglianza sanitaria prende avvio e si sviluppa sulla base degli esiti della va-lutazione del rischio; viceversa la valutazione del rischio e le misure di prevenzione che ne con-seguono andrebbero rielaborate considerando i risultati della sorveglianza sanitaria. L’interdi-pendenza tra i due aspetti, e quindi tra le diverse figure professionali, è evidente.

La multifattorialità delle problematiche di sicurezza e salute richiede competenze polidi-sciplinari, sia nella fase di rilevazione e valutazione dei rischi che nella successiva definizione e gestione delle misure di prevenzione, e ciò necessita di un rinnovato protocollo operativo che fa-vorisca la collaborazione tra gli operatori della prevenzione. Tale collaborazione deve pertanto assumere non più carattere episodico o occasionale, ma deve diventare un modus operandi siste-matico e costante.

Al riguardo il 10 giugno 2009, nell’ambito del 12° Salone della qualità e sicurezza sul la-voro di Bologna, si è tenuto il Seminario “Medici competenti – Tecnici consulenti: una interazio-ne necessaria”, organizzato dalle Associazioni scientifiche AIDII (Associazione Italiana degli I-gienisti Industriali), SIMLII (Società Italiana di Medicina del Lavoro ed Igiene Industriale), SIE (Società Italiana di Ergonomia), AIA (Associazione Italiana di Acustica) e AIAS (Associazione Italiana Addetti alla Sicurezza) allo scopo di stimolare i loro associati ad intraprendere routina-riamente sul campo azioni operative condivise e in stretta integrazione tra le diverse figure pro-fessionali (1).

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L’integrazione tra le figure della

prevenzione in un sistema di

gestione aziendale Giovanni Battista Bartolucci – Cap. 7

2. L’attuale scenario della prevenzione

Il ruolo del MC è ancora troppo spesso “confinato” nella semplice effettuazione di accer-

tamenti sanitari e sistematicamente escluso (o meglio, nella maggior parte dei casi tende ad auto-escludersi) dalla definizione delle politiche aziendali in materia di prevenzione, soprattutto nelle piccole e medie imprese. Il D.Lgs 81/08 tenta di superare questo problema, spingendo la figura del MC sempre più fuori dall’ambulatorio e sempre più al centro della vita aziendale e sociale, quest’ultimo aspetto soprattutto in considerazione della più stretta integrazione delle attività di sorveglianza sanitaria con il Sistema Sanitario Nazionale (SSN).

In particolare all’art. 25 del D.Lgs 81/08 è sancito che il MC, oltre agli obblighi suoi tipi-ci (programmazione della sorveglianza sanitaria ed organizzazione del servizio di primo soccorso anche ai fini della tutela della salute e della integrità psico-fisica dei lavoratori), deve collaborare col datore di lavoro e SPP alla valutazione dei rischi, alle attività di formazione e informazione, ed inoltre alla attuazione e valorizzazione di programmi volontari di promozione della salute se-condo i principi della responsabilità sociale.

Tale nuovo scenario normativo è allineato con i recenti orientamenti comunitari e internazio-nali per la “promozione della salute” (2, 3) e con l’attuale evoluzione dei rischi in ambito occupazio-nale. Infatti, sono in aumento le attività lavorative che espongono i lavoratori a rischi multipli intera-genti e correlati sostanzialmente a fattori di natura psico-sociale e discomfort lavorativo, ove la Medi-cina del Lavoro può svolgere un ruolo fondamentale in collaborazione anche con altre discipline.

Pertanto si ribadisce il concetto della necessità di stretta integrazione con le altre figure della prevenzione soprattutto nella fase di valutazione del rischio: con figure relativamente nuove quali gli psicologi del lavoro in relazione alla necessità di valutare anche i rischi collegati allo stress lavoro-correlato (vedi specificamente art. 28 del D.Lgs 81/08) o gli ergonomi per affrontare in maniera ade-guata il crescente problema delle patologie osteoarticolari correlate al lavoro, o con le figure tecniche degli igienisti industriali e degli addetti alla sicurezza relativamente ai rischi più tradizionali.

3. Il percorso verso la promozione della salute Comunque l’uomo è, e rimane, l’elemento centrale della prevenzione: pertanto, il futuro

della prevenzione è strettamente legato alla “promozione della salute” e dell’efficienza organizza-tiva e non può prescindere dall’integrazione della stessa nei modelli gestionali aziendali (risorse umane, produzione, tecnologie, ecc.) e dalle moderne politiche sociali. La Promozione della Sa-lute nei Luoghi di Lavoro, infatti, si esplica attraverso la sinergia delle azioni intraprese dai datori di lavoro, dai lavoratori e dalla società per il miglioramento della salute e del benessere delle per-sone e dei lavoratori in particolare.

È all’interno delle moderne strategie di Responsabilità Sociale di Impresa (Corporate So-

cial Responsibility – CSR) che si sviluppa il concetto di Promozione della Salute, che a livello aziendale potrà essere assicurata solo intraprendendo un percorso che faccia sì che il MC agisca non solo a livello di prevenzione secondaria (quale è la sorveglianza sanitaria), ma anche nel-l’ambito della prevenzione primaria, attraverso l’integrazione delle sue funzioni nel sistema di gestione delle risorse umane e nel SPP.

Si può contribuire al raggiungimento di tale obiettivo agendo:

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L’integrazione tra le figure della

prevenzione in un sistema di

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• a livello delle risorse umane, promuovendo e accrescendo il senso di responsabilità e di con-sapevolezza dei lavoratori affinché adottino abitudini comportamentali idonee per la preserva-zione della propria salute;

• a livello di organizzazione aziendale, proponendo interventi per il miglioramento delle condi-zioni ambientali ed ergonomiche, per la migliore organizzazione del lavoro e la gestione delle risorse umane, al fine di migliorare il benessere lavorativo e il clima aziendale.

Una rinnovata concezione del ruolo del MC dovrebbe, inoltre, prevedere un collegamen-to tra le attività di medicina svolte in ambito occupazionale e quelle effettuate dal SSN, contri-buendo così allo sviluppo di politiche sociali sempre più efficaci per la promozione della salute, sia in ambito lavorativo che, più in generale, collettivo. Solo una collaborazione intersettoriale, potrà infatti assicurare la salute e la protezione dai rischi nell’ambiente fisico, economico e socia-le, razionalizzando le risorse disponibili.

4. I sistemi di gestione salute e sicurezza

Per Sistema di Gestione Salute e Sicurezza (SGSS) si intende l’insieme di elementi quali

la struttura organizzativa, le risorse umane e produttive, le regole interne, i metodi di lavoro, i percorsi di approvazione e autorizzazione, il passaggio delle informazioni, le procedure e le pras-si in uso, i documenti utilizzati finalizzati alla realizzazione degli obiettivi dell’organizzazione.

I SGSS applicano alla tematica specifica la metodologia di tutti i sistemi di gestione che si rifanno al ciclo di Deming (PDCA), la cui sequenza è riportata sotto.

GRAFICO 1

Ciclo di Deming (PDCA)

Ogni sistema di gestione deve infatti prevedere, a partire da un obiettivo di carattere ge-

nerale, le seguenti fasi: • Pianificazione (Plan): organizzazione delle analisi e delle informazioni che consentono di

pianificare le attività che devono essere poste in atto per raggiungere gli obiettivi; • Attuazione (Do): realizzazione di quanto pianificato, attraverso l’assegnazione dei ruoli e del-

le responsabilità, la formazione delle competenze necessarie e la realizzazione delle attività previste sia in condizioni ordinarie che di emergenza;

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L’integrazione tra le figure della

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• Controllo (Check): raccolta dei feedback e verifica sia delle attività svolte che del rispetto del-le procedure adottate;

• Azione (Act): messa a fuoco di eventuali necessità ed individuazione di modifiche dell’orga-nizzazione o delle modalità di attuazione dei programmi.

Tutti i sistemi di gestione si riferiscono a questa costruzione generale, riconosciuta a li-vello internazionale e sulla quale gli operatori della prevenzione nel nostro Paese si confrontano già da molti anni (4). Sulla base di questo schema sono state costruite le norme sia cogenti (D.Lgs 626/94 e successivamente D.Lgs 81/08) che le norme e linee guida tecniche come le OHSAS 18001:2007 del BSI (5) o le linee guida UNI INAIL (6). Questi due riferimenti, fino ad oggi utilizzati dagli addetti ai lavori, diventano particolarmente importanti in considerazione di quanto esplicitamente riportato nell’art. 30 del D.Lgs 81/08 e successive modifiche a proposito della CSR. Nella Tabella 1 si riporta la struttura degli elementi che costituiscono il sistema di ge-stione della sicurezza e salute come descritto dalla OHSAS 18001.

TABELLA 1

Elementi costitutivi il Sistema di Gestione Salute e Sicurezza

Pianificazione Individuazione dei pericoli e valutazione dei rischi Requisiti legali Obiettivi e programmi

Implementazione e gestione

Ruoli e responsabilità Formazione, consapevolezza e competenza Comunicazione e partecipazione Documentazione Controllo dei documenti Controllo operativo Gestione delle emergenze

Controlli e azioni correttive

Misurazione della performance Valutazione delle conformità Incidenti ed azioni correttive Gestione delle non conformità Controllo delle registrazioni Audit interni

Riesame Miglioramento continuo

Le Linee Guida dell’UNI INAIL sono state elaborate successivamente alla pubblicazione

della prima versione delle OHSAS 18001 e in molte parti si ispirano ad essa, anche se offrono spunti originali in rapporto alle specificità del nostro Paese.

5. Le figure della prevenzione nei modelli organizzativi aziendali

La Promozione della Salute nei Luoghi di Lavoro si configura, altresì, come una strategia

imprenditoriale che basa il suo successo sulla motivazione e sulla salute dei lavoratori e che con-

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gestione aziendale Giovanni Battista Bartolucci – Cap. 7

tribuisce, se integrata nelle politiche aziendali, all’implementazione della CSR, i cui ritorni, in termini di aumento della produttività, miglioramento della qualità del lavoro e del benessere lavo-rativo sono immediatamente visibili e quantificabili.

Per tale ragione, è necessario che il MC si integri strettamente con il SPP, e che entrambi siano coinvolti nell’impostazione e definizione delle politiche aziendali per la prevenzione e per la promozione della salute per il miglioramento delle condizioni di sicurezza e benessere nei luo-ghi di lavoro, secondo lo schema riportato sotto:

GRAFICO 2

Schema delle relazioni nell’ambito della Corporate Social Responsibility (CSR) tra Sistema di Gestione Salute e Sicurezza e figure della prevenzione (SPP e MC)

Questo approccio non può che favorire, a livello aziendale, l’utilizzo ottimale delle risor-

se umane, accrescere le conoscenze individuali e rafforzare la fiducia dei lavoratori nelle proprie capacità e nel management, e dare visibilità esterna dell’impegno sociale dell’azienda.

È evidente che per ottenere questi risultati è necessario che il mondo imprenditoriale comprenda realmente la valenza innovativa delle strategie di promozione della salute e di CSR e che colga gli aspetti positivi (e vantaggiosi) connessi con l’applicazione di quanto previsto dall’art. 30 del D.Lgs 81/08.

Naturalmente l’adozione di un tale modello organizzativo potrà essere più semplice nelle aziende di medio-grandi dimensioni, già strutturalmente orientate a forme gestionali più evolute. Si deve peraltro sottolineare come anche per le aziende di piccole dimensioni ed artigianali (che sono la stragrande maggioranza nel nostro Paese) un tale modello, troppo oneroso se organizzato direttamente all’interno, potrebbe funzionare dall’esterno attraverso servizi forniti dalle associa-

Sistema di Gestione Salute e Sicurezza

Ruoli e responsabilità

SPP MC

Valutazione

del rischio,

sorveglianza

sanitaria Informazione

e formazione,

promozione

della salute

Consulenza

Gestione

Risorse

Umane

CSR

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prevenzione in un sistema di

gestione aziendale Giovanni Battista Bartolucci – Cap. 7

zioni imprenditoriali e/o da studi di consulenza nei quali le competenze mediche e tecniche della prevenzione siano funzionalmente ed operativamente ben integrate (7).

I tecnici della prevenzione hanno fino ad ora seguito questo sviluppo con interesse relati-vo; al contrario, le loro competenze possono assicurare un contributo essenziale per il persegui-mento di obiettivi strategici, al fine di ottenere uno sviluppo efficace in questo nuovo scenario at-traverso una serie di azioni: • garantire la completezza della valutazione dei rischi, grazie all’integrazione di competenze

manageriali, ingegneristiche e di igiene industriale con quelle tipiche del MC; • migliorare la prevenzione, attraverso l’individuazione di misure di tutela più efficaci che ten-

gano conto anche delle specificità dei lavoratori come “persone”; • contenere gli oneri diretti e indiretti della prevenzione, mediante la riduzione delle passività

correlate al disagio psicofisico dei lavoratori, agli infortuni e alle malattie professionali, gene-ralmente visibili nel medio-lungo termine (es. diminuzione della produttività a causa di assen-ze dal lavoro, denunce di malattie professionali, ecc.);

• creare un clima aziendale che favorisca il benessere lavorativo, finalizzato ad aumentare il consenso sociale interno e conseguentemente a ridurre i possibili contenziosi e le patologie stress correlate;

• sviluppare la prevenzione “classica” in un modello integrato nelle norme sociali di comporta-mento, secondo i moderni orientamenti delle politiche economiche e sociali, nella logica della CSR.

In questo contesto e con questa prospettiva assume sempre maggiore rilevanza curare il be-nessere organizzativo in ambiente di lavoro e valutare preventivamente le condizioni di stress lavo-ro-correlato, come recentemente normato dall’art. 28 del D.Lgs 81/08 e successive modifiche.

Si tratta sicuramente di attività che rimangono prerogativa dei tecnici della prevenzione aziendali (MC e SPP), ma per le quali è indubbio che risulta essenziale il contributo di figure pro-fessionali specifiche quali gli psicologi del lavoro, sia nella fase della messa a punto degli stru-menti operativi per la valutazione del rischio (8, 9) che nella gestione della valutazione stessa so-prattutto nelle realtà aziendali di maggiore complessità.

Entra quindi nello scenario aziendale una nuova figura quale quella dello psicologo del lavoro, in passato tradizionalmente impegnata nella selezione del personale ed ora invece sempre più strettamente coinvolta nelle attività di prevenzione.

6. Bibliografia

Atti del Seminario “Medici competenti – Tecnici consulenti: una interazione necessaria”. (2009) Ambiente

Lavoro-12° Salone della qualità e sicurezza sul lavoro, Bologna 10 giugno 2009. Giornale degli I-

gienisti Industriali, 34: 142-185. I.L.O. (1998) Linee guida tecniche ed etiche per la sorveglianza sanitaria dei lavoratori. European Agency for Safety and Health at Work. (2005) Priorities for occupational safety and health re-

search in EU-25. Working Environment information-Working Paper. AA.VV. (2001) Sessione 3 – I sistemi di gestione dell’igiene e della sicurezza aziendale. Atti del 19° Con-

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Guida Operativa.

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prevenzione in un sistema di

gestione aziendale Giovanni Battista Bartolucci – Cap. 7

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gonomia, 32: 408-411. Sarto, F., Vianello, L., Zanella, D., De Carlo, N.A., Falco, A., Dal Corso, L., Magosso, D., Bartolucci, G.B.

(2009) Il Metodo VIS per la valutazione dello stress: come si migliorano i processi lavorativi? Quat-tro schede di indicatori e stime collegiali per determinare la magnitudo del rischio. Ambiente & Si-

curezza-Il Sole24Ore, 15: 3-23. Falco, A., Dal Corso, L., Sarto, F., Vianello, L., Girardi, D., Marcuzzo, G., Magosso, D., De Carlo, N.A.,

Bartolucci, G.B. (2010) The role of “objective” and “subjective” indicators for the assessment af work-related stress risk: the V.I.S. method. Italian Journal of Occupational and Environmental Hy-

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8. Il ruolo della formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro Stefania Piras, Stefania Cuccu

1. Sicurezza e formazione

Nel contesto nazionale italiano, il Testo Unico sulla Salute e Sicurezza sul Lavoro (D.Lgs. 81/2008 e succ. mod. e int.), rappresenta un importante strumento per l’adempimento e l’attuazione della promozione della cultura della sicurezza, attraverso azioni di prevenzione di tipo informativo, di istruzione, di addestramento o di formazione (art.35, Costituzione; DPR 547/1955; DPR 303/1956; D.Lgs. 1994, n. 626; D.Lgs. 2008, n. 81; D.Lgs. 2009, n. 106; circolare ministero del la-voro e delle politiche sociali, novembre 2010; linee guida INAIL, maggio 2011). Il tema della for-mazione nei contesti lavorativi intercetta ambiti e aspetti molteplici, il presente lavoro si focalizzerà sul ruolo della formazione in ambito organizzativo in riferimento alla salute e sicurezza sul lavoro.

L’azione del formare, oltre che per l’adempimento normativo, si configura come uno strumento atto a favorire processi di cambiamento all’interno di contesti socio-organizzativi e per il miglioramento delle condizioni lavorative, nonché per la promozione della cultura della pre-venzione e della sicurezza.

Realizzare un processo formativo richiede la gestione della complessità del sistema di sa-lute, benessere e sicurezza organizzativa che mobilita e necessita di continui e costanti processi comunicativi all’interno di un approccio interdisciplinare e interfunzionale (Rutelli, Agus, Car-boni, 2007). Gli interventi formativi si caratterizzano qualitativamente se rispondono a criteri di efficienza ed efficacia e se generano ricadute positive sui comportamenti individuali e collettivi (Vergani, 1994; 1997; 1999).

Promuovere la formazione nei contesti organizzativi significa intervenire sulla cultura professionale non solo dei singoli lavoratori, ma dei gruppi e del collettivo organizzativo. Tutto ciò implica un intervento sul sistema delle conoscenze, sulla cultura organizzativa, sulle espe-rienze, sulle informazioni possedute dai lavoratori e sul sistema delle credenze, dei comporta-menti, degli atteggiamenti e delle norme che contraddistinguono ciascun gruppo di lavoro al qua-le appartiene ciascun lavoratore.

Per questo motivo è cruciale finalizzare l’apprendimento al perseguimento e al raggiun-gimento di obiettivi di salute e sicurezza, che siano stati effettivamente rilevati attraverso l’analisi dei bisogni formativi e che siano chiari per tutti i lavoratori a prescindere dal ruolo che ricoprono all’interno della realtà organizzativa.

La formazione deve prevedere una ricaduta su tre livelli, il primo è quello individuale, nel quale il lavoratore esprime i propri bisogni formativi; il secondo riguarda il livello professio-nale, generato dal risultato dell’incontro tra ciò che si aspetta l’azienda in riferimento ad un de-terminato ruolo professionale e le competenze professionali effettivamente possedute dal singolo lavoratore. Infine il livello organizzativo definisce le linee strategiche d’azione, ovvero la mission e la vision aziendali (Quaglino, 2005; Quaglino & Carrozzi, 1998; Avallone & Paplomatas, 2005; Argentero, Cortese & Piccardo, 2008).

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Il risultato della formazione è l’apprendimento, che può essere definito semplice, per ag-giunta di nuovi concetti e nuove informazioni (conoscenze, procedure, ecc.) oppure complesso, dovuto alla modifica del campo cognitivo e quindi della cultura professionale, nonché della vi-sione di sé nel ruolo di lavoratore (Alberici, 2002; Bruscaglioni, 1997; Castagna, 1998).

I contenuti della formazione devono essere considerati in relazione al tipo di rischio che si vuole prevenire e agli obiettivi formativi che sono stati prefissati, tenendo sempre in dovuta considerazione non solo i contenuti formativi, ma anche i destinatari della formazione e le moda-lità formative che si intendono utilizzare per promuovere cambiamenti orientati a comportamenti sicuri.

Trattare il tema della formazione nei contesti lavorativi implica una particolare attenzione alle modalità di apprendimento e insegnamento riferite agli adulti (Knowles, 1996; Castagna, 1998; Knowles, Holton & Swanson, 2008). Essendo l’apprendimento, per questi ultimi, il proces-so attraverso il quale si crea conoscenza mediante la trasformazione di conoscenze pregresse è necessario tenere in considerazione, seguendo un approccio costruttivista, che il sapere per gli adulti va inteso come costruzione personale di senso e significato, attribuendo così importanza all’apprendimento attivo che va inserito all’interno di un processo esperienziale (Kolb & Fry, 1975; 1981). Il contributo del formatore, in questa accezione, è inteso come supervisore e facili-tatore del processo (Jarvis, 1996). Secondo la prospettiva andragogica (Knowles, 1996; 2008), l'apprendimento negli adulti si realizza quando il soggetto sente il bisogno di conoscere aspetti legati all’esperienza reale e pertanto il formatore deve rispettare il concetto di sé e il bisogno di autonomia che il formando esprime in quel contesto. I fattori salienti, sottostanti l’apprendimento degli adulti sono: - il bisogno di conoscere, ogni adulto avverte l’esigenza del sapere ma per apprendere qualcosa

deve capirne l’utilità (Muzzarelli, 2007); - il concetto di Sé, l’adulto ha un concetto di Sé di indipendenza e autonomia; - l’esperienza del soggetto, l’esperienza di cui si fa portatore l’adulto consente maggiori possi-

bilità di integrazione degli apprendimenti con le proprie risorse interne. Ecco perché l’impor-tanza di un apprendimento basato maggiormente sull’esperienza piuttosto che sulla trasmis-sione delle informazioni;

- il riferimento alla vita reale, gli apprendimenti appresi necessitano di poter essere declinabili operativamente nelle attività quotidiane con le quali devono avere un collegamento diretto. L'apprendimento va dunque declinato alla vita reale del soggetto che apprende;

- la motivazione, le motivazioni legate all’apprendimento negli adulti possono essere ricondu-cibili a variabili esterne o estrinseche quali premi, sanzioni, retribuzioni, ecc. In sede formati-va, tuttavia, esse hanno bisogno di essere orientate rispetto a variabili interne o intrinseche che conferiscono centralità dell’adulto nel processo di apprendimento, come ad esempio migliora-re la qualità della vita, promuovere comportamenti sicuri per se e per gli altri, sperimentare nuove strategie comportamentali efficaci.

Si rende necessaria una particolare focalizzazione anche alle tipologie di errori (Burro, Bortolani & Cubico, 2005) che possono manifestarsi nel contesto lavorativo i quali richiedono interventi formativi specifici. È dunque doveroso tenere in considerazione alcuni importanti pro-cessi cognitivi che intervengono nell’interazione tra la persona e l’ambiente. - Memoria: svolge funzione mnestica, nonché di assimilazione, ritenzione e richiamo degli ap-

prendimenti, delle conoscenze e delle informazioni acquisite dalla persona durante l’esperien-

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za. La memoria è inficiata da elementi soggettivi connessi all’emozione e alla motivazione correlati all’informazione acquisita, composta da elementi sia cognitivi sia emotivi. Il proces-so mnestico si articola in acquisizione e decodifica (accogliere lo stimolo/informazione e rap-presentazione a livello cognitivo dello stesso), ritenzione e immagazzinamento (consolida-mento dell’informazione e trattenimento della stessa per diverso tempo), recupero (richiamo e recupero dell’informazione immagazzinata) (Eysenck & Keane, 2006).

- Attenzione: favorisce la selezione di stimoli/informazioni ambientali (attenzione selettiva). Svol-ge la funzione di filtro, ovvero la persona seleziona e utilizza le informazioni di proprio interesse;

- Percezione: consente a livello cognitivo la sintesi e l’organizzazione dei dati sensoriali. La percezione si basa sulla sensazione, prima fase attraverso la quale i ricettori sensoriali colgono i segnali provenienti dall’esterno, scaturendo una risposta. Le percezioni fungono da sistema per la costruzione della realtà percepita o per la creazione della rappresentazione oggettiva dell’oggetto (Canestrari, 2007).

- Apprendimento: processo di costruzione, acquisizione e/o modifica di nuove o preesistenti conoscenze. L’apprendimento non riguarda solo semplici cognizioni, ma processi di cambia-mento strettamente connessi a stili comportamentali, capacità, competenze e valori.

Nell’ambito della sicurezza quando ci si riferisce ad interventi inerenti l’informazione, la formazione e l’addestramento è necessario riferirsi a conoscenze, capacità e competenze tecniche e professionali. Conoscere ed essere competenti include il “sapere”, il “saper fare” e “il saper es-sere”, concetti dinamici e flessibili che rimandano a percorsi di accrescimento e di promozione di conoscenze, abilità e competenze (Ajello &Meghnagi, 1998; Ajello, Cevoli & Meghnagi, 1998). In formazione è necessario, quindi, tenere in dovuta considerazione i seguenti ambiti. - Sapere: ci si riferisce alle conoscenze teoriche (norme, procedure, informazioni inerenti il set-

tore della salute e della sicurezza), che possono essere trasmesse e acquisite attraverso percor-si di istruzione, formazione, aggiornamento ed esperienza. Quest’area è costituita dell’insieme di concetti ed informazioni che orientano il “saper fare” (Spencer & Spencer; 1993).

- Saper fare: ci si riferisce ad aspetti teorico pratici, rappresentano il connubio tra la teoria e la pratica. È l’insieme delle abilità e delle capacità maturate attraverso la pratica e l’esperienza, evidenti attraverso la messa in pratica di una performance (applicazione delle procedure) (Bat-tistelli, Majer & Odoardi, 1992; Vino, 2001; Rutelli, Agus & Carboni, 2007).

- Saper essere: indica l’insieme degli atteggiamenti e la consapevolezza dei propri stili compor-tamentali, intesi come caratteristica peculiare che contraddistingue i singoli comportamenti, basata su elementi relazionali e comunicativi (ad esempio il lavorare in squadra e in équipe). Nel campo del saper essere sono presenti le competenze trasversali che consentono alla perso-na attraverso peculiarità emotive e relazioni di integrarsi e relazionarsi in modo funzionale all’interno dei vari contesti, mettendo in pratica comportamenti adeguati (Rutelli, Agus & Carboni, 2007; Ajello, 1998; Vino, 2001).

2. L’apprendimento trasformativo e la sicurezza nei luoghi di lavoro

Tra le diverse metodologie formative adottate nei contesti organizzativi sarebbe auspica-bile l’utilizzo di una metodologia capace di integrare aspetti teorici e aspetti pratici dell’agire or-

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ganizzativo, in grado di poter generare effettive ricadute positive nel contesto all’interno del qua-le si opera (De Carlo, 2010).

I diversi riferimenti normativi in materia di sicurezza evidenziano l’importanza della formazione, ma nonostante i considerevoli investimenti finanziari, i benefici non sono sempre equiparabili ai costi sostenuti.

Nonostante il valore della responsabilità individuale dei comportamenti in un sistema in sicurezza, non sempre gli addetti ai lavori agiscono azioni consapevoli e responsabili di tutela al-la salute per sé e per gli altri e ancor meno si sentono corresponsabili del mantenimento della si-curezza per gli altri.

Il Sistema di Prevenzione e Protezione si occupa dell’applicazione della norma in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, ed oltre alla rilevazione dei possibili rischi si occupa della progettazione della formazione.

La complessa applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza richiede, da parte degli addetti ai lavori competenze tecnico specialistiche per la promozione di percorsi o-rientati a cambiamenti organizzativi, nonché la capacità di tradurre in azioni concrete le richieste dell’adempimento.

Gli addetti alla promozione e tutela della salute e sicurezza in alcuni casi ritengono di possedere conoscenze e competenze adeguate, poiché i percorsi di istruzione e formazione risul-tano essere alcune volte inadeguati rispetto alle specificità di ciascuna tipologia di rischio possi-bile che possa essere presente in azienda (es. chimici, movimentazione dei carichi, psicosociali, ecc.) e laddove sia presente da parte del consulente esperto una specifica competenza tecnica in alcuni casi è carente la competenza gestionale e relazionale (Rutelli, Agus & Carboni, 2007), uti-le per pianificare e promuovere percorsi di sensibilizzazione alla cultura e a comportamenti im-prontati sulla sicurezza.

In particolare per ciò che attiene alla dimensione soggettiva e della percezione (afferenti ai rischi psicosociali) è doveroso sottolineare che non tutti i consulenti sono in grado di interveni-re sia a livello individuale sia organizzativo, accontentandosi di affrontare le tematiche connesse ai rischi psicosociali esclusivamente con la trasmissione di contenuti tecnici e trascurando in as-senza di competenze gli aspetti soggettivi, relazionali e organizzativi. Un atteggiamento di questo tipo da parte dei consulenti può connotarsi con un approccio di tipo normativo e tecnico speciali-stico, riducendo così la gestione della complessità del rischio psicosociale e trascurando tutti gli elementi strettamente connessi alla soggettività, alla percezione e alla gestione delle emozioni (Kaneklin, Olivetti & Manoukian, 1990).

Trattandosi di formazione per gli adulti in contesti lavorativi, il metodo dell’apprendi-mento trasformativo può effettivamente essere utile all’adulto per promuovere un vero cambia-mento e attivare una ricaduta sul comportamento organizzativo (Mezirow, 2003). Secondo questo approccio la riflessione rappresenta “un processo con cui si valutano criticamente il contenuto, il processo o le premesse dei nostri sforzi finalizzati a interpretare un’esperienza e a darvi significa-to” (Mezirow, 2003).

La riflessione sul processo si compone del tentativo di esaminare come agiscono le mo-dalità di percepire, sentire e agire a seconda delle quali si basano le valutazioni e considerazioni rispetto all’efficacia delle azioni agite.

Il processo di maturazione delle capacità cognitive e il rispetto dei tempi dell’apprendi-mento individuale, secondo Mezirow (2003) offrono all’adulto l’opportunità di acquisire padro-

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nanza nella capacità di analisi delle esperienze pregresse, nonché della loro rielaborazione e mo-difica in una prospettiva presente e futura. È un processo di maturazione delle capacità cognitive, che non presenta stadi evolutivi predefiniti.

Secondo Dewey (1949; 1976), nel processo di apprendimento, quando una persona si trova dinnanzi ad un evento o un problema indefinibile o al quale non riesce ad attribuire una so-luzione, interviene l’azione riflessiva, poiché la situazione critica richiede la generazione di nuovi e diversi modelli d’azione, integrando, o addirittura sostituendo i modelli appresi precedentemen-te La persona attraverso il pensiero riflessivo analizza la logica che sottostà all’interpretazione delle esperienze, soffermandosi sugli automatismi e sulle azioni abituali. Questo approccio gene-ra l’evoluzione di attribuzione di significato alle esperienze vissute e la possibilità di costanti e continue integrazioni riferite a nuove esperienze e nel caso specifico della sicurezza a nuove pro-cedure e nuovi comportamenti.

Le criticità riscontrate in ambito organizzativo riferite soprattutto alla sicurezza, secondo i nostri studi e le nostre esperienze, necessitano di un approccio basato sull’apprendimento tra-sformativo in grado di garantire il cambiamento di presupposti non più funzionali, che stanno alla base di comportamenti non sicuri. L’apprendimento trasformativo pertanto si colloca in qualità di strumento e metodologia atta a favorire e promuovere nuove interpretazioni ed analisi da parte del formando, poiché favorirà l’esame attento tra attese, strumenti e risultati attesi, in questo caso specifico attinenti alla sicurezza e favorirà anche nuove analisi e consapevolezze sulle strategie comportamentali orientate a comportamenti sicuri.

L’apprendimento trasformativo poggia su interventi volti a un processo di miglioramento continuo. Habermas (1986) sostiene che le dimensioni nucleari siano le seguenti: • dimensione comunicativa: strettamente connessa all’apprendimento di sistemi di lavoro effi-

caci, che richiede partecipazione attiva nelle decisioni; • dimensione strumentale: strettamente connessa alla gestione degli aspetti materiali a disposi-

zione, presuppone l’applicazione di tecniche di miglioramento del processo, del prodotto o del servizio. Tutto ciò attraverso l’individuazione delle relazioni di causa-effetto e la strategia del-la risoluzione dei problemi orientata al compito.

Questo approccio consente di aggiungere nuove conoscenze ai sistemi di significato che le persone possiedono, al fine di poter interpretare in prospettiva diversa la propria esperienza e quella organizzativa.

3. La valutazione delle ricadute organizzative della formazione

Al fine di poter predisporre un sistema di valutazione delle ricadute organizzative della formazione per ciò attiene i comportamenti sicuri è necessario definire quali siano le variabili da misurare. Tra le variabili che indicano la presenza di ricadute positive generate dall’attività for-mativa possiamo prendere in considerazione le seguenti: • competenze cognitive (strettamente connesse ai saperi organizzativi rilevabili attraverso stru-

menti valutativi oggettivi che indaghino le conoscenze effettivamente acquisite durante il per-corso formativo);

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• competenze tecnico/specialistiche (strettamente connesse al saper fare quindi all’applicazione di procedure, utilizzo di metodi e strumenti, dimensione rilevabile attraverso specifiche prove pratiche che possono prevedere simulazioni o analisi di incidenti critici);

• competenze trasversali (strettamente connesse agli stili personali individuali e alle modalità comportamentali individuali rilevabili attraverso valutazioni di performance sul campo).

La valutazione e la verifica di effettive ricadute positive all’interno dell’organizzazione rientrano all’interno del processo formativo, poiché attraverso la valutazione sarà possibile, in una prospettiva di apprendimento continuo, poter intervenire in modo correttivo su comporta-menti disfunzionali (Bezzi, 2007; Lipari, 1995, 2006; Masoni, 2002).

In quest’ottica di affiancamento e di miglioramento continuo sarà possibile promuovere concretamente sia la cultura della sicurezza sia la cultura della valutazione.

Operativamente, la valutazione delle ricadute organizzative può essere effettuata analiz-zando: • le procedure e le modalità di esecuzione del lavoro: rilevando se ciò che è stato trasferito at-

traverso la formazione sia effettivamente applicato nel luogo di lavoro al fine di migliorare la prestazione e i livelli di sicurezza (esempio: utilizzo dei D.P.I.; conoscenza dei percorsi di e-vacuazione in caso di incendio; conoscenza dei percorsi e della segnaletica presente nel conte-sto; ecc.);

• la gestione del lavoro: rilevando se i metodi di lavoro siano stati effettivamente acquisiti (e-sempio: riunione periodica per la sicurezza; gestione dei lavori di gruppo; carico di lavoro; turnazione; ecc.);

• costi e benefici: analisi dei costi formativi e verifica dei benefici, valutando l’efficienza e ri-ducendo i costi (esempio: analisi degli infortuni; analisi del turnover; analisi del numero di ri-chiami; ecc.).

L’analisi delle ricadute organizzative oltre ai criteri di valutazione sopraindicati richiede un costante monitoraggio al fine di poter apportare correttivi in corso d’opera.

4. Conclusioni

Nelle realtà organizzative è costante la necessità di implementare azioni di miglioramen-to continuo per ciò che attiene alle condizioni lavorative e alla salubrità degli ambienti, che non si limita alla semplice applicazione della normativa vigente, ma richiede interventi formativi mirati e strutturati.

La formazione riferita alla sicurezza e alla salute negli ambienti di lavoro non può pre-scindere da elementi di complessità, settori di lavoro e procedure.

La finalità della formazione è fornire conoscenze, metodi e strumenti per soddisfare bi-sogni specifici volti a processi e percorsi di cambiamento.

Nonostante ciò è doveroso considerare alcune inefficienze che alcune volte si esplicano con la formazione, quali: la scarsa applicazione ai contesti lavorativi; l’inapplicabilità dei conte-nuti appresi che con il trascorrere del tempo decadono; l’insufficiente o l’inadeguato allineamen-to e coerenza tra bisogni dei lavoratori e bisogni dell’azienda.

La formazione può rappresentare uno strumento utile per chi opera a vario titolo all’in-terno del SPP, in particolare RSPP e ASPP, poiché la traduzione delle linee normative in materia

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di sicurezza non sempre sono facilmente applicabili nei contesti lavorativi, spesso legata all’insufficiente efficacia della formazione tradizionale, altre alla scarsa motivazione e percezione dell’utilità da parte dei lavoratori.

La cultura organizzativa poggia su quattro dimensioni importanti che riguardano le co-gnizioni (modalità di pensiero e ragionamento), tradizioni (rituali e regole socialmente condivi-se), procedimenti tecnici (modalità d’azione professionale) e comportamenti (Bonani, 2002; Bal-dassarre &Bonani, 2004).

Il consulente non può prescindere per la promozione del cambiamento culturale, all’inter-no delle organizzazione, da teorie quali quella del modello di Robert Dilts che tratta della leade-ship e della visione creativa tenendo in dovuta considerazione identità, credenze, valori, capacità, comportamenti e ambiente (Re, Dilts, Fantechi, 2010).

Pertanto chi ha il compito e il dovere di promuovere la cultura della sicurezza all’interno di sistemi organizzati dovrebbe essere non solo un agevolatore di processo, ma un professionista capace di fornire consulenza sugli aspetti critici riconducibili alla scarsa percezione del rischio, analisi dei casi critici e consulenza su rischi e procedure specifiche legate alle mansioni del ruolo, quindi agire un ruolo orientato alla consulenza.

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�uovi codici del lavoro. Contributi

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Il ruolo della formazione in

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9. Disagio relazionale, ostilità, mobbing. Una visione integrata dei

processi organizzativi negativi Marcello onnis

1. Introduzione

Il mobbing può essere definito un processo degenerativo, caratterizzato da un insieme di

comportamenti ostili messi in atto con sistematicità e per un arco di tempo significativo, da uno o più lavoratori nei confronti di uno o più colleghi (a prescindere dalle reciproche posizioni gerar-chiche), finalizzato all’emarginazione o estromissione di coloro i quali subiscono tali azioni. La parola mobbing deriva dal verbo inglese “to mob” (assalire tumultuando, adunarsi contro qualcu-no).1 Leymann, ha per primo utilizzato il termine mobbing riferito alle aggressioni subite nel luo-go di lavoro (Leymann & Gustavsson, 1984; Leymann, 1993, 1996, 2003), ma già diversi anni prima Brodsky (1976) aveva descritto, seppur con altri termini, questo fenomeno.

Il mobbing è un processo evolutivo2 che si estrinseca in una costellazione di comporta-menti vessatori (Nonnis, Cuccu & Porcu, 2011). Leymann (1992), a cui si deve lo strumento di rilevazione più accreditato a livello internazionale, (LIPT – Leymann Inventory of Psychological Terrorism) ha individuato cinque categorie: attacchi ai contatti umani e alla possibilità di comu-nicare, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni, attacchi alla reputazione, violenza e minacce.

Le conseguenze delle reiterate violenze psicologiche e morali in ambito lavorativo, sono prevalentemente a carico della o delle vittime, la letteratura (Ege, 1998; Liefooghe, Mackenzie Da-vey, 2001; Favretto, 2005; Marini & Nonnis, 2006) si focalizza prevalentemente sulla sindrome an-siosa e sulla sindrome da stress; sulla base della constatazione che, rispetto all’inquadramento del Dsm-IV (AA.VV., 2002) è predominante il disturbo post traumatico da stress e in proporzione mi-nore il disturbo dell’adattamento con ansia o con alterazione del tono dell’umore (De Risio, 2002).

Affrontare il tema della diagnosi e dell’intervento sul mobbing, o comunque delle diverse forme di ostilità relazionale che possono condurre a questo (Ege, 2005), implica gestire tre di-mensioni di complessità. La prima è relativa ai diversi livelli di funzionamento sociale delle or-ganizzazioni: il mobbing è un epifenomeno che si esprime sui singoli lavoratori, ma che origina da processi di gruppo, organizzativi e collettivi disfunzionali. La seconda dimensione, opportu-namente intercettata dall’attuale normativa sulla sicurezza (T.U. 81/08 e successive modificazioni e integrazioni) è relativa alla possibile interazione e integrazione tra diverse forme di disagio psi-cosociale (art. 28); la terza, concerne l’integrazione tra due prospettive, quella oggettiva (di misu-rabilità e prevedibilità), individuata come preliminare, e quella soggettiva (o meglio, intersogget-

1 Il termine è stato originariamente utilizzato dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere il comportamento aggressivo, di attacco, che alcuni volatili mostrano nei confronti di altri uccelli che intendono invadere il loro nido (Ege, 1996). 2 In sintesi, i diversi studi sull’evoluzione del fenomeno, si focalizzano sulle seguenti tappe: il conflitto generalizzato; il conflitto personalizzato e l’inizio del processo di mobbing; la spirale di aggravamento della vittima; il mancato o errato intervento dell’area del personale; l’uscita o la marginalizzazione della vittima dal contesto di lavoro (Depolo, 2003).

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Disagio relazionale, ostilità,

mobbing. Una visione integrata

dei processi organizzativi

negativi Marcello Nonnis – Cap. 9

tiva). La trattazione che segue, sul tema del mobbing, si muoverà nell’ambito di questi tre diversi piani di analisi e complessità.

2. La persona e le relazioni ostili

Da un punto di vista cronologico, i primi studi sul mobbing, si sono focalizzati sui tratti

di personalità degli attori coinvolti: la o le vittime, il o i mobbers. Sebbene questo ambito di ri-cerca non sia stato in grado di dimostrare un nesso causale stretto tra personalità e probabilità di interpretare il ruolo di vittima o aggressore, è prudenzialmente opportuno parlare di fragilità o maggiore rischio psicosociale di accadimento di situazioni di ostilità, in presenza di determinate condizioni soggettive e oggettive individuali.

2.1 Il punto di vista oggettivo

Premesso che, in questa sede, data la complessità e l’ambiguità del fenomeno mobbing, “oggettivo” è da intendersi nei termini di manifesto, riscontrabile, narrabile (e quindi ricostruibi-le, ad esempio, in sede di accertamento delle responsabilità); per quanto riguarda le vittime, se-condo Huber (1994) sono a rischio di mobbing: a) le persone sole (per esempio una sola donna in un ufficio di maschi); b) le persone “strane”, in qualche modo ritenute diverse dai colleghi (per esempio i diversamente abili o gli stranieri); c) le persone di successo, che ricevono promozioni o lodi da parte del capo e che di conseguenza provocano gelosie da parte dei colleghi; d) le persona nuove (ad esempio più qualificate o più giovani dei colleghi). Per quanto riguarda il mobber, Walter (1993) ne descrive alcune tipologie: a) tra diverse alternative di comportamento, scelgono la più aggressiva; b) quando si trovano in una situazione di negatività relazionale, si impegnano attivamente affinché il conflitto prosegua e si intensifichi; c) conoscono e accettano in modo sia attivo che passivo le conseguenze negative del mobbing per la vittima; d) non mostrano sensi di colpa e addirittura a volte credono di fare qualcosa di buono; e) danno agli altri la colpa della si-tuazione che si è generata e sono convinti di avere soltanto reagito a delle provocazioni.

2.2 Il punto di vista soggettivo

Gli studi sul bullismo nei contesti scolastici (Olweus, 1996; Fonzi, 1999; Pedditzi, 2007), hanno configurato la possibilità che potesse esistere una sorta di continuità tra i profili di perso-nalità del bullo e vittima in ambito scolastico, e quelli di mobber e vittima nel contesto lavorativo (Brodsky, 1976; Leymann, 1996; Mameli & Marini, 2006; Pedditzi, 2010). Per quanto riguarda la vittima, sono state messe in luce due tipologie: quella passiva e quella provocatrice. La prima si caratterizza per mancanza di autostima, debolezza e dipendenza dagli altri. Generalmente ansio-se, le vittime passive manifestano carattere insicuro e mancanza di assertività. Sono incapaci di gestire il conflitto e manifestano bisogno protezione. La vittima provocatrice invece, ha bisogno di sentirsi al centro dell’attenzione e finisce inevitabilmente per entrare nell’orbita del mobber provocandone la reazione.

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dei processi organizzativi

negativi Marcello Nonnis – Cap. 9

Per quanto concerne il mobber, è possibile individuare: il tipo aggressivo, quello ansioso quello passivo. Il primo è deciso, forte, intraprendente e pronto a sopraffare chiunque ostacoli il suo percorso professionale. Il secondo, apparentemente forte e sicuro di sé, è in realtà insicuro. Il terzo infine partecipa al mobbing in modo passivo e compiacente verso le figure dominanti. Hiri-goyen (2000) ha proposto il profilo del mobber in quanto narcisita perverso, che prova e perse-gue il piacere nell’infliggere sofferenza agli altri, in quanto probabilmente nella fase evolutiva della sua crescita, ha dovuto subire sofferenza e sopraffazione da altre persone.

3. Il gruppo di lavoro e le relazioni ostili

Affrontare il tema del mobbing nella prospettiva del gruppo, implica chiedersi quanto

nelle organizzazioni i gruppi formali, generati dagli scopi o dagli organigrammi aziendali siano tali anche da un punto di vista sostanziale, ovvero psicosociale, in termini di conoscenza recipro-ca, senso di appartenenza, supporto e solidarietà, maturità e accettazione della diversità (in una parola, sintalità). Un gruppo non è infatti tale solo in quanto le persone condividono uno spazio e un tempo di lavoro, ma implica un processo evolutivo e, auspicabilmente, figure consulenziali di facilitazione e manutenzione. L’assenza di questi requisiti può generare configurazioni di gruppo che possono costituire la premessa per dinamiche di gruppo ostili, negative, esclusorie nei con-fronti di alcuni.

3.1 Il punto di vista oggettivo

Questa prospettiva implica l’ingegnerizzazione (progettazione, implementazione, facili-

tazione e monitoraggio) degli aspetti formali e strutturali del gruppo quali, ad esempio: la compo-sizione in base al genere, la strutturazione dei compiti, l’individuazione dei ruoli e delle espres-sioni di status, le modalità formali di valutazione dell’operato e l’erogazione di premi e sanzioni. Questi vincoli determinano conflitti che si manifestano solitamente nella vita organizzativa: a) di interesse (ad es. tra le aspettative individuali e collettive o rispetto alla dirigenza); b) tra le esi-genze di autonomia e di coordinamento (ad es. centralizzata vs partecipata); c) tra le esigenze di stabilità del gruppo e quelle di cambiamento (Quaglino & Cortese, 2003; Kaneklin, 2010). La ge-stione di questi aspetti può prevenire, o al contrario facilitare processi di mobbizzazione di alcuni membri del gruppo.

3.2 Il punto di vista soggettivo

I gruppi, tra i quali quelli di lavoro nelle organizzazioni, sviluppano senso di appartenen-

za, capacità di supporto reciproco e coesione, se hanno la possibilità di attraversare alcune fasi evolutive, alcune delle quali sono connotate da instabilità, forte intensità emotiva e dualità, Tu-ckman (1965) ad esempio, parla di fase storming (letteralmente “tempesta”), tra quelle di passag-gio verso la costituzione di un gruppo in senso psicosociale. Uno dei fenomeni abbinati a queste fasi è denominato del capro espiatorio. Rappresenta uno dei ruoli che emergono fisiologicamente

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nei gruppi psicosociali, assolve la funzione di chiarificatore delle norme del gruppo e funge da catalizzatore dei sentimenti negativi, nonché dell’aggressività espressa e agita dai membri del gruppo (Spaltro, 1999). La figura del capro espiatorio possiede quindi caratteristiche comporta-mentali diverse da quelle accettate dal gruppo che, transitoriamente, elicitano i comportamenti vessatori. La vittima di mobbing, in quest’ottica, si configura destinataria di alcune dinamiche sociali, spontanee e fisiologiche nella vita dei gruppi, che fanno sì che essa diventi oggetto di vessazioni e persecuzioni, in quanto il gruppo si è cristallizzato in una fase evolutiva intermedia, emotivamente connotata e caratterizzata da una non adeguata maturità relazionale ed emozionale (Depolo, 2003).

4. L’organizzazione e le relazioni ostili

L’organizzazione è oggettività e soggettività, è un inestricabile e sovente contraddittorio

intreccio tra dimensioni assolutamente tangibili, quali le tecnologie, gli arredi lavorativi, le pro-cedure e i comportamenti codificati, e dimensioni intangibili, quali valori, miti, modelli di pensie-ro e di costruzione condivisa dei significati.

4.1 Il punto di vista oggettivo

La cultura organizzativa, è l’insieme dei modelli di azione appresi, prodotti e ricreati dagli

individui, di credenze, simbologie, che convivono all’interno delle organizzazioni; che si è istituito nel tempo per risolvere i problemi di integrazione interna e di adattamento con l’ambiente esterno, ed è per i membri (nuovi e non) il corretto modo di percepire, pensare e svolgere i compiti orga-nizzativi. (Schein, 1990, 2000; Alvesson & Berg, 1993; Gagliardi, 1995). La cultura organizzativa è soggettiva e oggettiva, materiale e immateriale, gestuale e verbale, osservabile ed evocativa, è quindi un sistema di riferimenti che consente agli individui e ai gruppi di rappresentare e rappre-sentarsi i problemi, le situazioni, i contesti; è un codice di condotta che le persone possono utiliz-zare per orientarsi nelle situazioni organizzative contingenti, da questo punto di vista, se non è sol-tanto oggettiva è però certamente implicante e in alcuni casi determinante per i comportamenti dei lavoratori. Diversi autori hanno focalizzato la loro attenzione sulla relazione tra determinate cultu-re organizzative e la possibilità che potessero manifestarsi e consolidarsi condotte ostili e vero e proprio mobbing (Einarsen, Raknes & Matthiesen; 1994; Leymann, 1996; Favretto, 2005; Nonnis, Cuccu & Porcu, 2011). In sintesi, i fattori organizzativi preponderanti sembrano essere quelli col-legati allo stile di comando e di leadership dei superiori, alla mancanza di controllo sul proprio o-perato da parte dei lavoratori, ai conflitti di ruolo nell’esercizio delle proprie mansioni, sebbene il peso di questi fattori possa essere diverso nei diversi comparti produttivi.

4.2 Il punto di vista soggettivo

Il clima organizzativo può essere definito una condizione psicologica condivisa da un

collettivo sociale, in grado di influenzare il funzionamento, i comportamenti e i risultati dell’or-

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ganizzazione di cui questi fanno parte. È sinonimo di soggetto collettivo o, se si vuole, dell’altra faccia della struttura organizzativa, è il modo in cui una pluralità di individui dà un significato prima diverso e poi comune (non eguale) al proprio mondo organizzativo, è riferibile a percezioni molari che le persone hanno del loro ambiente di lavoro (De Vito Piscicelli, 1984; Quaglino & Mander, 1987; D’Amato & Majer, 2005; Nonnis, 2007). Negli studi sul clima organizzativo si è ormai consolidata la prospettiva culturalista, secondo la quale il clima è influenzato dalla cultura organizzativa, in quanto questa ha un ruolo determinante nel modellare i processi che producono il clima organizzativo, intersoggettivamente percepito e condiviso. Il clima organizzativo è per-meato dalle più stabili e profonde istanze della cultura, ma è anche la risultante di fluttuazioni e dei cambiamenti a breve termine che si verificano in un contesto lavorativo, ad esempio, varia-zioni di budget, di personale, delle politiche aziendali, delle tecnologie adottate possono sicura-mente avere effetti incisivi sul clima, è meno probabile che possano avere lo stesso impatto sulla cultura organizzativa. Diversi studi si sono focalizzati sulla relazione tra clima organizzativo e mobbing. Zapf (1999), indagando la percezione del clima organizzativo da parte di vittime di mobbing ha riscontrato che queste avvertivano una maggiore condizione di dis-stress e una mino-re possibilità di controllo del proprio lavoro. Nonnis, Cuccu e Porcu (2009) hanno evidenziato come situazioni di negatività e ostilità nelle organizzazioni possano essere riscontrate attraverso il costrutto del clima organizzativo per finalità di diagnosi e intervento.

5. Responsabilità sociale d’impresa, immagine sociale, marketing e mobbing

L’epoca attuale, quantomeno per quello che potremmo ancora definire il primo mondo, è

connotata dalla crescita della sensibilità sociale, in senso ampio e generalizzato, verso i temi dell’equità, della giustizia sociale, della sostenibilità (ed esempio dello sfruttamento delle risorse naturali, della crescita economica). Le organizzazioni non possono ignorare queste dinamiche macro sociali, le più sensibili rimodulano la loro immagine sociale e ciò ha delle conseguenze anche per quanto riguarda il rispetto per le persone che lavorano e il contrasto delle condotte osti-li sui luoghi di lavoro e il mobbing.

5.1 Il punto di vista oggettivo

La Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) è una prospettiva promossa da un crescente

numero di organizzazioni, in risposta a varie pressioni sociali, ambientali ed economiche, alla cui base è la consapevolezza che le organizzazioni non siano separabili dai contesti nei quali operano, ma che, al contrario, siano punti di riferimento per chi ci lavora, ci investe, produce e vive nel terri-torio (De Carlo, Falco & Vianello, 2009). La Commissione delle Comunità Europee definisce la CSR (Corporate Social Responsability, 2001, p.7) “l’integrazione, su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate. [Si consegue n.d.a.] investendo di più nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate.” La RSI è una prospettiva per generare profitto in modo responsabile verso i diversi stakeholder: collaboratori/dipendenti, investitori, utenti, consumatori, partner commerciali, concorrenti, poteri pubblici, organizzazioni non governative, per citare le più

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mobbing. Una visione integrata

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importanti (il cosiddetto SRM: Stakeholder relationship Management, Cerana, 2004). Essa si basa sulla consapevolezza della crescente interdipendenza tra i risultati economico-produttivi e quelli so-ciali. L’adozione di questa prospettiva implica l’importanza data dall’organizzazione non soltanto ai beni/servizi prodotti, ma anche all’impatto del ciclo produttivo sull’ambiente, la sicurezza dei lavo-ratori e della popolazione in prossimità degli insediamenti produttivi, l’impatto sociale delle politi-che aziendali nei confronti dei lavoratori e di chi partecipa a vario titolo al processo produttivo.

Per quanto riguarda il tema della sicurezza dei lavoratori e del mobbing in prospettiva RSI, sono sempre più numerose le aziende che, insieme alle parti sociali e governative, stipulano accordi interconfederali,3 organizzazioni che si dotano di un codice etico, che sanciscono accordi di clima organizzativo, che attivano o ospitano sportelli di ascolto antimobbing, che in modalità non semplicemente ottemperativa, svolgono approfondite valutazioni sui fattori oggettivi e sog-gettivi dei rischi psicosociali, (quindi mobbing incluso) sapendo fare networking con gli stake-holders, di natura prevalentemente istituzionale: SPRESAL (o SPISAL, a seconda dei contesti regionali), Centri di Salute Mentale, organismi rappresentativi della tutela dei lavoratori in senso più ampio, Università e/o centri di ricerca (solo per citarne alcuni) deputati alla tutela della salute.

5.2 Il punto di vista soggettivo

La crescente sensibilità sociale alle tematiche dell’equità, della responsabilità e della so-stenibilità, stanno sempre più orientando le organizzazioni nelle loro strategie di marketing e di comunicazione esterna. Progressivamente l’immagine stessa dell’impresa si sta modificando, an-che in risposta alla crescente attenzione dell’opinione pubblica che, anche grazie al Web, ai social forum e alle nuove possibilità di comunicazione e scambio di informazioni consentito da Internet, fa registrare un costante rafforzamento dei movimenti dei consumatori, specie nei paesi economi-camente più evoluti (De Carlo, Falco & Vianello, 2009), che in alcuni casi hanno generato veri e propri boicottaggi nei confronti di alcune aziende.4 La produzione sta diventando sempre più so-ciale, integrata nei contesti sociali, responsabile. Di conseguenza il marketing e la comunicazione esterna delle organizzazioni sono sempre più impegnate sul tema della credibilità (accountability) e della distintività su questo versante (Rutelli & Bortolanza, 2006), alimentando un circolo vir-tuoso che non sia semplicemente una trovata pubblicitaria manipolatoria della sensibilità dei segmenti di mercato per finalità commerciali e/o persuasive, ma l’interiorizzazione di un assetto valoriale all’interno della cultura stessa delle organizzazioni.

6. Territorio, comunità, convivenza organizzativa e mobbing Alcune dinamiche di natura macrosociale e culturale determinano profondi e vasti cam-

biamenti degli assetti organizzativi. Queste modificazioni, a volte più lente, altre più rapide, han-

3 Ad esempio, ha fatto scuola da un punto di vista giuslavoristico e sindacale l’accordo interno alla Wolkswagen (Ege, 1996). Per questo tema si veda inoltre Cap. 5 4 Ad esempio, è attiva da alcuni anni un’azione di boicottaggio di alcune marche di cosmetici che utilizzano esperimen-ti su animali per testare i loro prodotti, e più recentemente, una importante marca di abbigliamento e accessori sportivi ha dovuto modificare le proprie strategie di produzione in quanto accusata di far confezionare alcuni prodotti in paesi del Terzo Mondo, a lavoratori bambini sfruttati e sottopagati.

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mobbing. Una visione integrata

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negativi Marcello Nonnis – Cap. 9

no un effetto in alcuni casi diretto, in altri, mediato, sulle dinamiche organizzative anche per quanto concerne il tema del mobbing.

6.1 Il punto di vista oggettivo

Senza avere la pretesa di stabilire un ordine di importanza, un primo fattore oggettivo di

natura globale che è in grado di generare una rimodulazione degli assetti organizzativi è costituito dalle evidenze empiriche prodottesi in diversi decenni sul tema dello stress lavoro correlato e, in modo più specifico dei rischi psico-sociali. Uno degli esiti tangibili di questa attività scientifica è la realizzazione di diversi metodi e strumenti di valutazione del rischio stress lavoro-correlato, e la produzione legislativa europea (e successivamente italiana) in materia (Magnani & Majer, 2011).

Il secondo fattore è in linea generale riconducibile alle dinamiche di mercato di globaliz-zazione della competizione, intensificatesi nell’ultimo ventennio. Questa configurazione ha alcu-ne conseguenze sulle organizzazioni e sui lavoratori, tra le più importanti possiamo annoverare: la ricerca di nuovi mercati e di contesti di produzione vantaggiosi in termini economici (deloca-lizzazione); la necessità di una flessibilizzazione dell’offerta di lavoro e la genesi di nuovi para-digmi contrattuali (Rutelli, Agus & Caboni 2007); la necessità di rendere efficienti e snelli i pro-cessi organizzativi e istituzionali (outsourcing); la difficoltà, come conseguenza di queste dina-miche, per le organizzazioni e i servizi che tutelano i lavoratori, di rimodulare le forme di aiuto nei loro confronti.

Il terzo fattore è individuabile nelle dinamiche demografiche: la prima, per così dire in-terna al Paese, è legata al potenziale conflitto generazionale tra paradigmi lavorativi diversi con i più giovani, tendenzialmente più istruiti, con una prospettiva di percorso lavorativo segmentato, senza una linea di continuità e coerenza (boundaryless and protean careers, Cortini, Tanucci & Morin 2011) e con la difficoltà di autonomizzarsi dalle famiglie di origine; e i secondi, più anzia-ni, più garantiti e tutelati che si configurano come potenziale ammortizzatore sociale diffuso e per un tempo prolungato dei propri figli. La seconda, per così dire esterna, è riconducibile alla cre-scente multi-etnicità che sta configurandosi nel nostro Paese. Ciò pone, internamente alle orga-nizzazioni la questione della convivenza organizzativa e del diversity management (Avallone, 2006).

I fattori sin qui succintamente delineati, influiscono sul tema dell’ostilità nei contesti or-ganizzativi da diverse angolazioni, infatti se è vero che la conoscenza, da un punto di vista scien-tifico, delle forme del disagio organizzativo di natura psicosociale è un indubbio vantaggio, le di-namiche di mercato e quelle demografiche sinteticamente descritte favoriscono una condizione di rischio per i lavoratori e un possibile indebolimento degli organismi di loro tutela, soprattutto se la comunità e il tessuto sociale non hanno maturato una adeguata sensibilità e attenzione a questa tematica e alla sua prevenzione.

6.2 Il punto di vista soggettivo

Uno dei tratti fondamentali caratterizzanti l’epoca attuale, è la rapidità e l’ampiezza

della possibilità di accesso all’informazione. Come gia detto, e in particolar modo per quanto

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dei processi organizzativi

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riguarda le persone in età lavorativa, è progressivamente diventato imprescindibile, quantome-no nel contesto europeo e quindi italiano, essere in grado di utilizzare il Web nelle sue diverse espressioni. Ciò ha favorito sicuramente la diffusione e la condivisione di informazioni inerenti il tema del benessere organizzativo tra i lavoratori e la loro aggregazione in forme collettive di influenza, di pressione, di condizionamento delle decisioni politiche sui temi del welfare. Per quanto concerne il tema dei rischi psico-sociali, nell’ambito più generale della valutazione del-lo stress lavoro-correlato, Scatolini (2011) sottolinea come alcune recenti drammatiche vicende sul versante della sicurezza negli ambienti di lavoro, abbiano generato una sensibilizzazione dell’opinione pubblica, che ha contribuito ad accelerare la promulgazione del T.U. 81/08 e l’attivazione dell’obbligo della valutazione sui rischi stress lavoro-correlati negli ambienti di lavoro. La produzione legislativa del resto è spesso, in linea generale, una formalizzazione in termini prescrittivi degli orientamenti e dell’evoluzione culturale di una collettività. Per quanto concerne il tema del mobbing, Gulotta (2006) sottolinea il rischio, data la complessità del fe-nomeno, della sua semplificazione (fino ad una vera e propria banalizzazione e distorsione del-la sua definizione), come conseguenza della sua socializzazione presso la collettività, fenome-no peraltro verificatosi alcuni anni addietro anche per lo stesso tema dello stress, tanto che at-tualmente questo termine è tra quelli più frequentemente utilizzati dai lavoratori (e non solo) per denominare il proprio disagio, sovrapponendolo erroneamente tout-court con quello più appropriato di dis-stress.

7. Conclusioni

Il mobbing è stato prevalentemente studiato, trattato, prevenuto in quanto conseguenza estrema di tipo individuale di dinamiche interpersonali negative, ostili di tipo esclusorio. In chia-ve preventiva e ancor più di promozione del benessere organizzativo, invece, possiamo affermare che il mobbing è un epifenomeno di estrema intensità, con conseguenze prevalentemente indivi-duali, conseguenti al fallimento di processi relazionali interpersonali, di gruppo, organizzativi e sociali. In senso metaforico il manifestarsi del mobbing è più associabile ad un allineamento sfa-vorevole di pianeti. Una dinamica negativa che rischia di degenerare in mobbing, può essere di-sinnescata se le persone coinvolte hanno la maturità personale e professionale di stare su un piano di conflitto generativo (e oggettivo), se i gruppi di riferimento sono sufficientemente coesi e sup-portivi, se la cultura di una organizzazione è valorialmente orientata al rispetto delle persone (an-che in caso di contingenti difficoltà), se il tessuto culturale e comunitario nel quale l’organizzazione è inserita è vigile e correttamente sensibilizzato al tema del benessere lavorativo (Figura 1).

È però evidente che un sistema organizzativo così orientato è in grado di prevenire non soltanto il mobbing, ma, in linea generale, tutte le forme rischio psicosociale stress lavoro-correlato. Non a caso, infatti, la letteratura attuale sul tema converge sulla valutazione multidi-mensionale delle diverse forme di rischio psicosociale, in una prospettiva integrata di promozione del benessere e della salute organizzativa.

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mobbing. Una visione integrata

dei processi organizzativi

negativi Marcello Nonnis – Cap. 9

FIGURA 1 Una visione integrata sul tema del mobbing

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lano: Franco Angeli.

Comunità

Ruoli e azioni individuali degli attori

Dimensioni di personalitàdegli attori

senso di appartenenza

Struttura, ruoli, funzioni dei

Sin

talità

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rità,

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i lavoro

Culture organizzative (artefatti, processi,

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, potere, conflitto,, speranza etc…)

Clim

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Influenze di tipo sociale (movimenti di opinione, rappresentazioni collettive, influenza dei media…)

Responsabilità sociale dell’organizzazione

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sociale dell’organizzazione (brand)

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Influenze di tipo scientifico empirico sul disagio organizzativo e le sue conseguenze

DIMENSIONI OGGETTIVE

DIMENSIONI SOGGETTIVE

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Territorio

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10. Il burnout: modelli teorici, dimensioni psicologiche, fattori di rischio

e di protezione Maria Luisa Pedditzi

1. Premessa

Il burnout è un problema che riguarda numerosi operatori impegnati nella relazione con

l’utenza e può comportare elevati livelli di disagio personale e organizzativo.

Diversi studi testimoniano l’incidenza della sindrome nelle professioni d’aiuto e in parti-

colare in quelle che comportano uno stretto contatto con l’utenza.

Il termine “burnout” si riferisce quindi a una specifica forma di disagio, osservata ini-

zialmente negli operatori dei servizi socio-sanitari che, dopo mesi o anni di impegno proficuo nel

rapporto con gli utenti, “si bruciano”, manifestando un atteggiamento di apatia, indifferenza e di-

stacco (Maslach, 1982).

Tenendo conto della varietà e complessità dei modelli teorici che sul tema si sono susse-

guiti nel corso del tempo, di seguito si cercherà di rispondere ai seguenti interrogativi: cos’è il

burnout? Che relazione esiste fra stress e burnout? Quali sono i principali fattori di rischio? Quali

i fattori di protezione dalla sindrome?

2. Cos’è il burnout?

Il termine “burnout”, tradotto come “bruciato” e “esaurito”, deriva dal linguaggio utiliz-

zato in ambito sportivo per indicare il fenomeno con il quale molti atleti, dopo anni di successo,

non riescono più a raggiungere dei risultati in linea con le loro potenzialità (Paine, 1982). Fu uti-

lizzato per la prima volta nelle scienze sociali e psicologiche da Freudenberger (1975), per de-

scrivere la condizione di fatica nella quale venivano a trovarsi dei volontari impegnati in un pro-

gramma di riabilitazione per tossicodipendenti.

Altri autori (Farber 1983, McDermott, 1984) fanno risalire il termine burnout alla condi-

zione di abuso cronico di sostanze stupefacenti, facendo corrispondere il significato del termine

al gergo “scoppiato”.

Una prima definizione operazionale del concetto di burnout è riconducibile a Maslach

(1982) che lo considera come una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione, di

ridotta realizzazione personale, che può insorgere in operatori che lavorano a contatto diretto con

le persone.

Maslach e Jackson (1986), che elaborano il modello interpretativo attualmente più cono-

sciuto del burnout, evidenziano che:

• l’esaurimento emotivo consiste nel sentirsi svuotati, annullati dal proprio lavoro;

• la depersonalizzazione si manifesta con atteggiamenti di chiusura, di allontanamento e di ri-

fiuto verso l’utenza;

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Il burnout: modelli teorici,

dimensioni psicologiche, fattori

di rischio e di protezione Maria Luisa Pedditzi – Cap. 10

• la riduzione della realizzazione personale si caratterizza per la percezione di inadeguatezza e

la sensazione di insuccesso personale sul lavoro.

Cherniss (1980), riprendendo il modello dello stress di Selye (Sindrome generale di adat-

tamento data dal divario fra le richieste provenienti dall’ambiente e le risorse disponibili per fron-

teggiarlo) definisce il burnout come un “processo transazionale”, che è caratterizzato da tre fasi:

• lo stress lavorativo, ovvero la differenza tra richieste e risorse disponibili;

• lo strain o tensione, che è la reazione immediata allo squilibrio in cui si avverte stanchezza,

fatica, facile irritabilità e demotivazione (risposta emotiva);

• il coping difensivo, caratterizzato da una serie di cambiamenti nel comportamento con atteggia-

menti di ritiro, cinismo e tendenza a trattare gli utenti in modo impersonale (risposta difensiva).

Il burnout risulta in questo modello come la fase estrema dello stress che si attua quando

l’operatore si difende da un eccesso di esaurimento emotivo, con il ritiro dal coinvolgimento in-

terpersonale (Nonnis & Rutelli, 2008; Pedditzi, 2005).

Cherniss (1980) definisce infatti il burnout come una ritirata psicologica dal lavoro in ri-

sposta all’eccessivo stress e insoddisfazione.

Anche secondo il modello di Perlman e Hartman (1982), il burnout è un processo che

passa attraverso le fasi di percezione dello stress lavorativo: nella prima fase si ha uno sbilancia-

mento fra richieste e risorse. Nella seconda fase lo stress è già percepito dal lavoratore. La terza

fase vede la produzione di risposte difensive alla situazione di stress. L’ultima fase corrisponde

alle conseguenze dello stress lavorativo come ad esempio “insoddisfazione lavorativa, caduta del-

la qualità delle prestazioni, manifestazioni di disagio psico-fisico, assenteismo, abbandono del

lavoro” (Cifiello, 2004).

Harrison (1983) propone un modello di competenza/efficacia, dove sostanzialmente il

burnout dipende dalla percezione che il lavoratore ha delle sue capacità di operare in situazioni di

“aiuto”, intervenendo in maniera efficace sull’ambiente e sull’utente. Se tale efficacia non è sup-

portata da feedback che l’operatore ritiene positivi, subentra un calo di motivazione che porta

all’insorgenza del burnout. L’insorgenza del burnout dipende quindi non solo dalle aspettative

individuali ma anche dal sistema di gratificazioni provenienti dall’ambiente lavorativo.

Anche secondo Farber (1983) il burnout é un processo che si sviluppa diversamente in ogni

individuo a seconda delle caratteristiche del lavoro, del contesto sociale e delle caratteristiche di

personalità. Egli suddivide il burnout in classico, da scarsa gratificazione e da sottostimolazione.

Il burnout classico segue le fasi di sviluppo della sindrome, passando per lo stress e

l’insoddisfazione, mentre nel burnout da scarsa gratificazione e da sottostimolazione l’accento

viene posto maggiormente sulla qualità e quantità degli stimoli ambientali e relazionali a cui si è

sottoposti.

Pines e Aronson (1988) considerano il burnout come la conseguenza dello scontro fra le

aspettative professionali iniziali dell’operatore e la realtà.

Le aspettative vertono intorno a obiettivi che permettono di attribuire “significato esi-

stenziale” al proprio lavoro. Il modello di Pines supporta l’idea secondo cui il burnout sia più dif-

fuso tra le professioni di aiuto, in quanto tradizionalmente legate a scelte di tipo vocazionale e ad

aspettative particolarmente elevate dal punto di vista dei rapporti umani e dei risultati attesi (Fer-

rara & La Barbera, 2006).

Edelwich e Brodsky (1980) evidenziano il processo di sviluppo del burnout, attraverso le

seguenti fasi:

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Il burnout: modelli teorici,

dimensioni psicologiche, fattori

di rischio e di protezione Maria Luisa Pedditzi – Cap. 10

• Entusiasmo, che è la voglia di fare qualcosa per “migliorare il mondo”;

• Stagnazione, che è la prima fase di stallo dopo l’iniziale entusiasmo;

• Frustrazione, che nasce quando l’operatore comincia a pensare di non “servire a nulla”;

• Apatia, che prende forma come un progressivo disimpegno emozionale, conseguentemente a

una situazione di frustrazione.

Essi considerano il burnout come risultato di un processo in cui le attese verso il lavoro

vengono deluse e il burnout si pone come una progressiva perdita di idealismo, energia e scopi,

da parte di operatori sociali e non, come risultato delle condizioni in cui lavorano.

Anche secondo Freudenberger (1975) le cause del burnout sono riconducibili alla presen-

za di una tendenza a perseguire obiettivi altamente idealizzati. Rossati e Magro (1999) definisco-

no sindrome del “Buon Samaritano” una tendenza generalizzata ad incentrare la propria vita e

l’immagine di sé intorno al ruolo personale di “Salvatore”. La disillusione nascerebbe da una pro-

fonda motivazione e dal bisogno di aiutare gli altri per dare un senso alla propria vita attraverso

la professione che si svolge.

Il modello del LBQ di Santinello (2007) tiene conto della dimensione della disillusione

degli operatori, e rielabora il modello dell’MBI di Maslach, allo scopo di ottenere un costrutto

maggiormente esplicativo della sindrome, caratterizzato da quattro dimensioni bipolari:

• esaurimento-energia (dimensione psicofisica);

• deterioramento-coinvolgimento (dimensione della relazione);

• inefficacia-efficacia (dimensione della competenza professionale);

• disillusione-soddisfazione (dimensione delle aspettative esistenziali).

Questo modello nasce dall’esigenza di continuare a caratterizzare il costrutto con una sua

specifica identità, come associato alle professioni di aiuto.

I modelli teorici che supportano quindi la maggior parte delle ricerche sul burnout sono:

il modello della conservazione delle risorse e il modello delle richieste-risorse.

Secondo il primo modello (the conservation of resources theory of stress), il burnout sa-

rebbe la conseguenza di un lungo periodo caratterizzato da continui investimenti in termini di ri-

sorse personali per poter fronteggiare le pressanti richieste provenienti dal lavoro. Il concetto

chiave del modello è che le richieste e le risorse possono differentemente predire il burnout e le

sue diverse dimensioni (Leiter, 1993). Alcune ricerche hanno, infatti, rilevato come determinate

richieste (ad es. un sovraccarico di lavoro) siano più fortemente associate all’esaurimento emoti-

vo rispetto a variabili inerenti le risorse (Halbesleben; Buckley, 2004).

Il modello delle richieste-risorse (the job demands-resources model) (Demerouti; Bakker;

Nachreiner; Schaufeli, 2001; Schaufeli; Taris; Van Rhenen, 2008), sostiene che il burnout si svi-

luppa quando certe richieste di lavoro sono troppo elevate e quando le risorse risultano invece li-

mitate. Le richieste sono quegli aspetti del lavoro che comportano fatica, per cui un determinato

risultato implica un costo psicologico; le risorse sono invece legate al raggiungimento degli o-

biettivi professionali e conducono ad una crescita personale. Il modello mostra che le richieste

sono positivamente correlate all’esaurimento emotivo, mentre le risorse di lavoro sono negativa-

mente correlate alla depersonalizzazione (definita dagli autori disinvestimento, per indicare un

più generale processo di ritiro dal proprio lavoro) e positivamente correlate alla realizzazione pro-

fessionale (Bakker; Demerouti; Taris; Schaufeli; Schreurs, 2003; Schaufeli; Taris; Van Rhenen,

2008).

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Il burnout: modelli teorici,

dimensioni psicologiche, fattori

di rischio e di protezione Maria Luisa Pedditzi – Cap. 10

3. Sintomi e diagnosi del burnout

I sintomi più frequenti di burnout riguardano sia la dimensione somatica, sia quella psico-

logica e relazionale e sono descritti in maniera dettagliata da Cherniss (1980). Di seguito si ripor-

tano i sintomi principali:

• senso di stanchezza e di esaurimento;

• notevole affaticamento dopo il lavoro;

• insonnia e disturbi di somatizzazione (tachicardia, cefalea e nausea);

• frequenti mal di testa e disturbi gastrointestinali;

• incapacità di concentrarsi;

• isolamento e ritiro;

• evitamento dei contatti con i colleghi;

• discussioni sul lavoro con i colleghi;

• sospetto e paranoia;

• perdita di sentimenti positivi verso gli utenti (con comportamenti come rimandare i contatti e

respingere le loro telefonate);

• cinismo verso gli utenti e atteggiamento colpevolizzante nei loro confronti;

• rappresentazioni stereotipate degli utenti;

• negativismo, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento;

• tendenza a seguire in modo crescente procedure rigidamente standardizzate;

• sensazione di fallimento, sensi di colpa e disistima;

• preoccupazione per se stessi;

• eccessivo uso di farmaci o alcool;

• conflitti coniugali e familiari;

• frequenti malesseri e influenze;

• assenteismo e resistenza a recarsi a lavoro.

Schaufeli, Bakker, Hoodguin, Schaap e Kladler (2001) evidenziano che il burnout si ma-

nifesta con: predominanza di sintomi legati alla fatica, alla stanchezza emotiva e psicologica; sin-

tomi di distress fisico; stretta connessione dei sintomi alla situazione lavorativa; peggioramento

delle prestazioni professionali come conseguenza dello sviluppo di un atteggiamento negativo

verso il lavoro; manifestazione della sintomatologia in persone che non soffrono di altre forme di

psicopatologia.

I sintomi del burnout possono essere raggruppati nelle categorie diagnostiche dell’ansia,

della depressione, dei disturbi somatoformi e psicosomatici, con eccessivo affaticamento nel la-

voro e svalutazione di sé, fino al rigetto del proprio impegno professionale, con ritiro nella soffe-

renza (Pellegrino, 2000). Tuttavia, a distinguere il burnout dall’ansia generalizzata e dalla depres-

sione si pone il fatto che le persone in burnout spesso, al di là del funzionamento lavorativo, han-

no una vita di relazione e una capacità di recupero adeguate. Pellegrino (2000) afferma che la

diagnosi del burnout potrebbe essere affrontata seguendo l’approccio multiassiale del DSM IV,

tenendo conto del quadro complessivo che emerge dall’esame della situazione, facendo attenzio-

ne a rilevare quanto richiesto dai diversi Assi del manuale diagnostico. Quando l’oggetto

dell’attenzione clinica è un problema lavorativo che non è dovuto ad un disturbo mentale specifi-

co o è talmente grave da giustificare di per sé attenzione clinica, esso può essere indicato come

“Problema lavorativo” (in Asse I). Il burnout viene così codificato, tenendo conto principalmente

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di quelle che, in Asse I, sono identificate come “Altre condizioni che possono essere oggetto di

attenzione clinica”, che costituiscono la diagnosi principale o il motivo della visita. Questa cate-

goria diagnostica è sicuramente quella più indicata per codificare la sindrome. Il burnout può i-

noltre rientrare fra i disturbi dell’adattamento, che comprendono la presenza di sintomi emotivi e

comportamentali in risposta ad uno o più fattori stressanti identificabili fra i “problemi lavorativi”

(da indicare in asse IV). Risultano infatti soddisfatti i criteri del disturbo dell’adattamento, poiché

la sindrome è correlabile a uno o più fattori stressogeni: è presente marcato disagio, vi è com-

promissione significativa del comportamento sociale, non esiste alcun collegamento a una situa-

zione di lutto e la remissione può essere completa dopo l’allontanamento della condizione stres-

sogena (Messineo & Messineo, 2000). Di seguito viene riportato un esempio di diagnosi multias-

siale del burnout (Pellegrino, 2000).

TABELLA 1

Diagnosi del burnout (Pellegrino, 2000)

Asse I

Problema lavorativo

Disturbo dell’adattamento

Altri disturbi

Asse II Fattori di personalità

Asse III Condizioni mediche generali

Asse IV Fattori psicosociali

Asse V Funzionalità globale

Il DSM rende possibile un approccio complessivo, a partire dalle situazioni precliniche,

fino ai disturbi dell’adattamento e ai disturbi psichici propriamente detti e dando la possibilità di

rilevare i tratti di personalità, l’eventuale concomitanza di patologie organiche, la natura degli

eventi stressanti e la funzionalità globale del soggetto. La sintomatologia del burnout, tipico di

alcune professioni che interagiscono con pazienti gravi, spesso caratterizzati da disturbi cronici

(malattie psichiatriche, tumori, ecc.), potrebbe trovare collocazione nosografica anche tra i di-

sturbi da stress post-traumatico (Baiocco, Crea & Laghi, 2003). Infatti, alcuni sintomi richiamano

un aspetto particolare di tale disturbo, denominato «traumatizzazione vicaria», che si manifesta in

chi interagisce con persone che hanno subito un trauma o un evento estremo, con conseguente

sviluppo di un disturbo da stress post-traumatico. Tale termine descrive l’impatto psicologico che

può avere il vissuto traumatico del paziente in chi, prendendolo in carico, empatizza emotiva-

mente con tali vissuti.

4. Quale rapporto esiste tra lo stress e il burnout?

Per Maslach e Leiter (1997) il burnout è comprensibile solo se messo in relazione con le

fonti situazionali di stress occupazionale e con i rapporti interpersonali negli ambienti di lavoro.

Essi considerano a questo proposito sei aree della vita lavorativa come punto di incontro tra

l’ambiente e la persona e potenziali fonti di stress: il sovraccarico di lavoro; i riconoscimenti in-

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sufficienti; il crollo dell’integrazione sociale; l’assenza di equità; il conflitto di valori e la man-

canza di controllo da parte del lavoratore.

Farber (1983) evidenzia che il burnout può manifestarsi in concomitanza dello stress e lo

stress può esserne una concausa, ma che non necessariamente quando c’è una situazione di stress

c’è anche burnout. Il burnout è una risposta difensiva a certe condizioni di stress connesse in par-

ticolare alla dimensione psicosociale. Stress e burnout possono condividere delle origini comuni,

legate a certe condizioni lavorative di malessere, ma il fatto di essere sotto stress è condizione

necessaria ma non sufficiente per essere considerati burned out. In questo senso, si deve ribadire

come i due termini “stress” e “burnout” non possano essere utilizzati scambievolmente come si-

nonimi. Un altro aspetto che concorre a determinare confusione nel definire certe sintomatologie

come stress e burnout è dato dagli aspetti eziologici. Molti autori infatti (Pines, Aronson & Kafry,

1981) tendono ad enfatizzare l’origine interna della sindrome, a prescindere dagli aspetti organiz-

zativi, sottolineando il divario esistente fra le aspettative degli operatori, le loro mete idealistiche

e la realtà lavorativa, con conseguente disillusione. Considerare l’importanza delle determinanti

psicologiche e personali non esclude naturalmente la possibilità che entrambi questi ordini di fat-

tori (interni ed esterni all’individuo) possano concorrere insieme nel determinare lo sviluppo del-

la sindrome. Aldilà di questi aspetti infatti, un altro ordine di fattori contribuisce a generare con-

fusione nel denominare come stress o come burnout il disagio lavorativo di certi operatori. La

confusione deriva principalmente dal fatto di aver esteso la sindrome non solo alle professioni

d’aiuto propriamente dette (operatori socio-sanitari, psicologi, insegnanti, operatori di volontaria-

to, ecc.) ma anche a numerose altre professioni, che implicano un contatto diretto con il pubblico

(ad es. forze dell’ordine, amministrativi, ecc.). Recentemente inoltre il costrutto è stato generaliz-

zato a tutti i contesti organizzativi (Leiter & Schaufeli, 1996) e costituisce un indicatore dello sta-

to della relazione tra lavoratore e azienda.

L’estensione del termine burnout a numerosi stati di disagio organizzativo ha fatto si che

spesso il burnout sia considerato come un sinonimo di stress o di malessere professionale, ri-

schiando di perdere la sua identità come costrutto autonomo (Santinello, 2007).

5. Fattori di rischio nell’insorgenza della sindrome

Numerosi fattori relazionali, organizzativi e individuali contribuiscono all’insorgenza e

allo sviluppo del burnout.

Fra i fattori relazionali si pongono:

• l’utenza in generale, in quanto bisognosa di aiuto, che induce in situazioni potenzialmente

stressanti;

• la cronicità di certi disturbi (ad esempio gli stati terminali, le psicosi, le condizioni di handicap

grave, l’anzianità e i suoi disturbi);

• i conflitti con i colleghi di lavoro;

• la mancanza di reti di sostegno sociale.

Fra i fattori organizzativi più frequenti si pongono:

• il sovraccarico lavorativo (troppe cose da fare in poco tempo o con scarse risorse);

• il conflitto di ruolo (richieste e aspettative incompatibili tra di loro);

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• l’ambiguità dei compiti di ruolo (carenza di informazioni necessarie per assolvere adeguata-

mente il ruolo);

• la mancanza di feedback sui risultati, sugli obiettivi e sui criteri di esecuzione dei compiti;

• la mancanza di varietà;

• la struttura di potere gerarchico che si traduce in limitate possibilità di espressione e di con-

trollo sugli eventi del lavoro;

• l’elevato grado di burocratizzazione vissuta come limitazione dell’autonomia dell’operatore;

• la gratificazione insufficiente, in termini retributivi, di prestigio, di sicurezza e di possibilità di

carriera.

Fra i fattori individuali si evidenziano:

• i fattori socio-demografici (età, sesso, livello di istruzione);

• le caratteristiche personali.

Per quanto concerne il genere, le ricerche hanno dimostrato che tra uomini e donne non ci

sono significative differenze nell’insorgenza della sindrome, bensì nelle sue manifestazioni. Ma-

slach e Jackson (1986) rilevano che la differenza tra i due sessi è inerente al livello di percezione

degli effetti: le donne sarebbero portate a provare e/o a sperimentare l’esaurimento emotivo a

causa di un generale eccesso di empatia, mentre i maschi sarebbero portati a manifestare mag-

giormente il disagio con sentimenti di chiusura e depersonalizzazione. La relazione tra burnout ed

età presenta risultati di ricerca tra loro discordanti: alcuni dati mostrano che la possibilità di en-

trare in burnout aumenta con gli anni; mentre altri dati evidenziano che i soggetti più sensibili al

burnout sarebbero quelli giovani e alle prese con le prime esperienze professionali (Maslach &

Jackson, 1986). Per quanto concerne la personalità degli operatori, dagli studi finora condotti,

appare evidente che non esiste un particolare tipo di personalità pre-morbosa, coinvolta nella ge-

nesi della sindrome, tuttavia alcuni aspetti sarebbero maggiormente correlati con il burnout. Al-

cuni autori (Pedditzi & Nonnis, 2011; Pellegrino, 2000) propongono un elenco delle caratteristi-

che maggiormente citate nei vari lavori di ricerca: perfezionismo e idealismo; eccessiva dedizio-

ne al lavoro; vita privata poco soddisfacente; bisogno di tenere tutto sotto controllo; autoritari-

smo; pulsione ossessiva al raggiungimento di una meta; forte bisogno di aiutare gli altri e di

“cambiare il mondo”; logica del potere ed eccessiva ambizione; personalità ansiosa e nevrotici-

smo; eccessiva introversione o estroversione; locus of control esterno e impotenza appresa; di-

pendenza dagli altri o eccessiva ostilità; aspettative irrealistiche. Altri studi considerano mag-

giormente esposti al burnout: le personalità di tipo A, a causa dell’eccessiva frenesia e competiti-

vità con cui vivono il tempo, le mete e le relazioni; le personalità dipendenti e con un locus of

control esterno, che tendono ad adeguarsi eccessivamente alle pressioni degli altri; tratti come

l’introversione e una bassa autostima, per la tendenza ad isolarsi; la ridotta tolleranza alla frustra-

zione e la tendenza all’idealizzazione professionale (Favretto, 1994).

6. Fattori di protezione

Considerati i precedenti fattori di rischio del burnout di tipo relazionale ed organizzativo,

fra i principali fattori di protezione dalla sindrome si possono identificare (Leiter & Maslach,

2000): il carico di lavoro sostenibile; l’esperienza di scelta e di controllo del proprio lavoro; i ri-

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conoscimenti e le ricompense; il senso di integrazione sociale; l’equità, il rispetto e il senso di

giustizia, la congruità fra valori personali e organizzativi.

Un carico di lavoro sostenibile fornisce infatti l’opportunità di svolgere un attività piace-

vole, di perseguire obiettivi di carriera e di crescere professionalmente. Per quanto concerne il

controllo del proprio lavoro, si ha quando le procedure e le strutture organizzative consentono il

raggiungimento degli obiettivi di carriera. I riconoscimenti e le ricompense costituiscono quindi

un significativo elemento motivante del proprio lavoro che fornisce fondamentali indicazioni cir-

ca gli obiettivi a cui tendere e i valori organizzativi. L’integrazione sociale indica la qualità

dell’ambiente sociale dell’organizzazione: tale ambiente è positivo quando le persone percepi-

scono il supporto, la collaborazione e vivono sentimenti positivi di appartenenza. In tal senso

l’equità esprime la misura attraverso la quale l’organizzazione manifesta la presenza di regole che

sono uguali per tutti. Questa variabile è strettamente connessa ai valori dell’organizzazione che

indicano cosa è importante per l’insieme dei suoi membri. Quando valori organizzativi e valori

personali sono congruenti, i successi vengono condivisi; c’è invece discrepanza quando persisto-

no conflitti duraturi tra i principi personali e i valori organizzativi. Anche il modello del Q-Bo di

De Carlo, Falco e Capozza (2008) evidenzia la relazione esistente fra determinanti dello stress e

potenziali rischi e conseguenze di malessere o benessere per l’organizzazione. Fra le fonti di

stress e i fattori di protezione si pongono: il clima organizzativo; la cultura organizzativa; la sicu-

rezza e l’ambiente di lavoro; il conflitto organizzativo; il carico lavorativo; la percezione di sup-

porto da parte dell’organizzazione; l’efficacia collettiva; le variabili individuali (self-efficacy, ot-

timismo, ecc.).

I fattori di protezione dalla sindrome evidenziati da Leiter e Maslach (2000) e da De Car-

lo, Falco e Capozza (2008) sono quindi anche le indicazioni da seguire in vista della prevenzione

del burnout e del benessere organizzativo.

“Se l’ambiente lavorativo non riconosce infatti l’aspetto umano del lavoro, il risultato è

una crescente mancanza di sintonia e una discrepanza tra la persona e il suo lavoro” (Leiter &

Maslach, 2000).

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11. Insicurezza lavorativa e nuovi percorsi di carriera Alessandro Lo Presti

1. Introduzione Trattare di insicurezza lavorativa senza prendere in considerazione l’attualità dello scena-

rio socio-economico odierno appare epistemologicamente discutibile. I dati ai quali poter fare riferimento sono numerosi e oggi più che mai (soprattutto a causa

della famosa crisi dei subprime iniziata nel 2007) fonte di preoccupazione e allarme. Secondo l’Eurostat (2012), il tasso di disoccupazione nell’area Euro che era sceso costantemen-

te fino al primo trimestre 2008 (attestandosi al 7.5%) è risalito rapidamente per raggiungere il 10.4% nel quarto trimestre 2011. Sul fronte italiano, si è passati dal minimo del 6.1% toccato nel 2007, all’attuale 8.9% (percentuale che risulterebbe maggiore se si prendessero in considerazione i cassintegrati).

Un ulteriore, e spesso sottostimato, fattore che ha significative ripercussioni sulla perce-zione di precarietà e insicurezza della popolazione attiva (lavorativamente parlando) è l’incre-mento tendenziale delle forme contrattuali atipiche.1 Il CNEL (2009), rielaborando i dati Euro-stat, ha mostrato come in tutti i paesi europei vi sia stato un tendenziale incremento di tali forme contrattuali rispetto al totale degli occupati; il caso più estremo è quello della Spagna che mostra percentuali intorno al 30%; l’Italia ha visto crescere tale percentuale dal 5% del 1990 a circa il 12% nel 2005; prendendo in considerazione solo la popolazione tra 15-24 anni (una delle fasce che notoriamente incontra più difficoltà a inserirsi nel mercato del lavoro), si è passati dal 20% del 2000 a oltre il 30% soli cinque anni dopo.

Ovviamente, fenomeni quali l’aumento dei disoccupati o dei lavoratori atipici devono es-sere valutati in relazione a tutta una serie di altri fattori.

Innanzitutto, ogni anno (e oggi più che nel recente passato) milioni di lavoratori in tutto il mondo sono coinvolti in ristrutturazioni aziendali caratterizzate da: fusioni e acquisizioni, chiusu-ra di interi impianti produttivi e riorganizzazione (sia qualitativa che quantitativa) della forza la-voro (Probst, 2002) operata attraverso la riconversione delle mansioni da full-time a part-time, l’incremento percentuale delle posizioni temporanee e atipiche (Barling & Tetrick, 1995) e natu-ralmente licenziamenti più o meno massivi (downsizing o layoff); senza considerare, infine, colo-ro i quali “rimangono”, ossia i non licenziati, e che soffrono della cosiddetta “sindrome da so-pravvissuti”, nella quale alla persistente insicurezza lavorativa si associano vissuti di colpa, rottu-ra del contratto psicologico, ecc (Brockner, Wiesenfeld, Reed, Grover & Martin, 1993).

Oltre ai fenomeni organizzativi prima citati, alcuni studiosi, tra i quali Burchell, Ladipo e Wilkinson (2002), si sono concentrati sui macrofattori, soprattutto di ordine economico, che in-fluenzano negativamente le percezioni di insicurezza dei lavoratori; tra i principali possiamo cita-

1 Per forme contrattuali atipiche intendiamo, consci di semplificare, tutte le tipologie contrattuali escluse quelle a tem-

po indeterminato (quindi: a tempo determinato, interinali, di collaborazione, prestazione occasionale, ecc.).

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Insicurezza lavorativa e nuovi

percorsi di carriera Alessandro Lo Presti – Cap. 11

re: la globalizzazione e l’incremento della competizione economica, la spinta privatizzatrice nel settore pubblico, l’influenza degli stock market sulle strategie di management a breve e medio-lungo termine, il declino dell’influenza sindacale, la deregulation della normativa giuslaboristica (cfr. legge 30/2003 o Biagi).

Il presente contributo ha lo scopo di sollecitare una revisione della riflessione teorica sull’insicurezza lavorativa in funzione dei fenomeni prima descritti, i quali hanno messo in luce come proprio i vissuti di insicurezza, o sarebbe meglio dire di precarietà, oltre che essere circo-scritti a determinate categorie contrattuali o gruppi professionali, rappresentano per altre una sor-ta di baseline, o se vogliamo, di condizione di default, che naturalmente ha delle ricadute negati-ve sulla qualità della vita individuale. Tale obiettivo risulta ancora più pregnante se si considera come, nel corso degli ultimi decenni, parallelamente all’incremento delle forme contrattuali atipi-che, sono radicalmente mutati i percorsi di carriera, che sono diventati meno lineari, più tortuosi e discontinui (Lo Presti, 2009).

2. L’insicurezza lavorativa L’insicurezza lavorativa è una percezione individuale fondata sia soggettivamente che

oggettivamente. Nel primo caso, può riferirsi ad una preoccupazione generica circa l’esistenza futura del

proprio lavoro (Rosenblatt & Ruvio, 1996) o alla percezione di una potenziale minaccia alla con-tinuità della propria occupazione attuale (Heaney, Israel & House, 1994); ne deriva che, in gene-rale, l’insicurezza lavorativa si riferisce all’anticipazione di un evento stressogeno nella misura in cui la propria occupazione attuale o aspetti significativi della stessa siano percepiti a rischio. Ciò implica che la percezione di insicurezza può variare tra individui diversi sebbene la situazione al-la quale sono esposti sia la medesima.

Il versante oggettivo si riferisce all’insieme di informazioni, recepite sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione, riguardanti la probabilità di essere licenziati.

A riguardo, Borg e Elizur (1992) hanno distinto tra insicurezza lavorativa cognitiva (la probabilità di perdere il proprio lavoro) e affettiva (la paura di perderlo). Hellgren, Sverke e Isa-ksson (1999) hanno invece distinto tra insicurezza quantitativa (la preoccupazione di perdere il proprio lavoro) e qualitativa (la preoccupazione di perdere aspetti specifici della propria attività).

Tra i vari modelli concettuali proposti circa la relazione tra variabili antecedenti, insicu-rezza lavorativa e suoi effetti (Greenhalgh & Rosenblatt, 1984), ha attratto maggiormente l’attenzione degli studiosi quello avanzato da Sverke e Hellgren (2002). Tale modello presuppone due categorie di variabili antecedenti: le “oggettive” quali le caratteristiche del mercato del lavo-ro, i cambiamenti intervenuti nell’organizzazione e nei contratti di lavoro, le incertezze riguardo il futuro dell’azienda, ecc. e le “soggettive” quali l’auto-percezione di employability, l’autoeffica-cia, il bisogno di sicurezza, ecc. In seconda istanza, identifica le conseguenze (o outcome), che possiamo distinguere tra: quelle inerenti la salute (benessere, strain, ecc.), gli atteggiamenti indi-viduali – a loro volta suddivisibili in lavorativi (soddisfazione, coinvolgimento, ecc.) e organizza-tivi (commitment, identificazione, ecc.) – e infine i comportamenti o indicatori oggettivi (assen-teismo, performance, presenteeism, ecc.). L’ultima classe di variabili, sui quali progressivamente si è concentrata l’attenzione dei ricercatori, riguarda i moderatori, riconducibili alle differenze in-

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Insicurezza lavorativa e nuovi

percorsi di carriera Alessandro Lo Presti – Cap. 11

dividuali, alle forme di supporto di cui usufruisce l’individuo, a caratteristiche socio-anagrafiche, ecc. Ossia variabili che, intervenendo sulla relazione tra insicurezza e potenziali esiti, ne modifi-cano radicalmente direzionalità ed entità.

La meta-analisi di Cheng e Chan (2008) ha sistematizzato le evidenze più recenti in lette-ratura. Distinguendo tra outcome prossimali e distali, è emerso che tra i primi l’insicurezza è as-sociata negativamente con la fiducia nell’organizzazione, la soddisfazione lavorativa, il commit-

ment organizzativo e il coinvolgimento, mentre tra gli outcome distali, sussistono relazioni nega-tive con il benessere psicofisico e con la performance lavorativa, e positive con l’intenzione di turnover. Tale meta-analisi ha cercato di chiarire anche il ruolo di alcuni potenziali moderatori, un tema quanto mai attuale (Lo Presti & Nonnis, 2010); in particolare, è emerso che l’anzianità di servizio e l’età anagrafica moderano significativamente la relazione tra insicurezza ed alcuni ou-

tcome, mentre il genere non agisce come moderatore. Più recentemente Lo Presti (2010), proponendo un modello semplificato (540 lavoratori

dipendenti, tramite path analysis), ove l’employability risulta antecedente all’insicurezza, la quale a sua volta è collegata a due outcome quali il coinvolgimento lavorativo e lo strain psicofisico, ha messo in luce una serie di effetti di moderazione di seguito illustrati.

In primis, distinguendo tra lavoratori a tempo indeterminato e con contratti atipici, ha ri-scontrato che l’employability è negativamente associata con l’insicurezza solo nei secondi (β = –.21), mentre la relazione tra questa e gli outcome era statisticamente significativa solo nel caso dei lavoratori con contratti a tempo indeterminato (nello specifico, negativa con il coinvolgimen-to, β = –.25, e positiva rispetto allo strain, β = .24).

Dividendo i lavoratori in due gruppi rispetto all’età (bassa vs. alta), è emerso che l’insi-curezza è associata negativamente al coinvolgimento soltanto nei soggetti più giovani (β = –.18).

In terzo luogo, suddividendo i lavoratori rispetto alla bassa o alta proattività che percepi-scono rispetto alla gestione della propria carriera, la relazione tra insicurezza e strain è significa-tivamente positiva solo tra i meno proattivi (β = .39), mentre la relazione con il coinvolgimento è negativa solo tra i più proattivi (β = –.28).

Infine, distinguendo tra lavoratori più o meno autoefficaci rispetto alla gestione della car-riera, l’insicurezza è negativamente associata con il coinvolgimento tra i più autoefficaci (β = –.37), e positivamente con lo strain solo tra i meno efficaci (β = .15).

Questi dati, oltre che confermare la salienza, non solo teorica ma dettata anche dall’at-tualità socio-economica, dell’insicurezza lavorativa, tendono a sottolineare il ruolo dei possibili moderatori sugli effetti della stessa, in quanto ciò permetterebbe di calibrare interventi psicoso-ciali tenendo conto dell’esistenza di subpopolazioni specifiche, non solo su base socio-anagrafica ma in funzione di determinati fenomeni psicologici salienti. In particolare, sulla base del progres-sivo e recente incremento delle forme contrattuali atipiche nonché del crescente interesse dei ri-cercatori, è da porre sotto particolare osservazione la distinzione tra lavoratori con contratti a tempo indeterminato e atipici.

3. Contratti a vita o atipici? Recentemente Scherer (2009), interessandosi delle conseguenze sociali dei lavori precari,

si è concentrato sullo studio dei contratti di lavoro atipici.

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Questo autore ha affermato che, sebbene le forme contrattuali atipiche possano idealmen-te rappresentare un utile strumento per l’ingresso nel mercato del lavoro di fasce di popolazione che altrimenti ne sarebbero escluse (madri, studenti, ecc.) (OECD, 2006), in realtà i lavoratori che ne sono interessati fronteggiano una maggiore instabilità occupazionale, maggiori rischi di ritrovarsi disoccupati, minori possibilità di “far carriera” e di migrare verso forme contrattuali più sicure.

Scherer (2009) ha riscontrato che i lavoratori con contratti atipici hanno un maggiore conflitto vita-lavoro, posticipano nel tempo la paternità, hanno minori livelli di soddisfazione di vita e maggiori problemi di natura economica.

Sembrerebbe quasi che tali lavoratori siano potenzialmente interessati da un’insicurezza lavorativa che si sviluppa nel momento stesso in cui accettano un contratto di lavoro atipico o meglio, esperiscano costantemente un senso di insicurezza lavorativa e precarietà esistenziale do-vuto proprio alla mancanza di una carriera lineare e stabile.

De Cuyper, de Jong, De Witte, Isaksson, Rigotti e Schalk (2008), operando una vasta e organica rassegna della letteratura, hanno individuato tre stressor che agirebbero specificatamen-te sui lavoratori atipici e che si sommano alla già ampia mole di stressor lavorativi noti. Innanzi-tutto, il considerarsi ed essere considerati periferici rispetto ai colleghi a tempo indeterminato e la mancanza di investimenti (non solo economici) sugli “atipici” da parte dei datori di lavoro. Il se-condo è l’operare in condizioni di lavoro caratterizzate da minor controllo, maggiore stress legato al ruolo e supporto sociale e organizzativo limitati. Infine, quello che Lewchuk, de Wolff, King e Polanyi (2005) hanno definito employment strain, ossia una forma di disagio derivante non dall’attività lavorativa come nel modello di Karasek e Theorell (1990) al quale si ispira, ma dalla natura dello stesso contratto di lavoro; in particolare le elevate richieste atterrebbero alla ricerca costante di un impiego più sicuro, allo sforzo di mantenere quello attuale, al bisogno di guada-gnarsi una valutazione positiva dal datore di lavoro e, solo per alcuni, allo sforzo di cercare di de-streggiarsi tra più impieghi in contemporanea; il basso controllo invece rifletterebbe l’incertezza circa i termini e le condizioni dell’impiego (soprattutto rispetto al futuro), nonché la progettazio-ne e l’implementazione della propria attività lavorativa.

Di primo acchito, ci si potrebbe aspettare gli stessi effetti negativi per i lavoratori insicuri (non necessariamente con contratti a termine) e quelli con contratti di lavoro atipici; in realtà De Cuyper e colleghi (2008) hanno messo in luce tutta una serie di fattori di differenziazione, dei quali ne riportiamo alcuni a titolo esemplificativo (rimandando alla suddetta rassegna).

I lavoratori temporanei possono prendere come base di paragone lavoratori temporanei di altre aziende e non i loro colleghi a tempo indeterminato, “soffrendo” meno della loro precarietà (De Gilder, 2003).

Il contratto psicologico dei lavoratori temporanei può essere meno ampio e sensibile ad eventuali rotture/violazioni da parte dell’organizzazione, e quindi più tollerante (o di natura più transazionale che relazionale; Connelly & Gallagher, 2006).

Per tali lavoratori, il commitment alla loro professione può risultare più saliente rispetto a quello nei confronti della loro organizzazione attuale (Felfe, Schmook, Six & Wieland, 2005).

La durata del contratto di lavoro è particolarmente importante: contratti più duraturi ren-dono più simili gli atteggiamenti e quindi gli outcome per i lavoratori atipici a quelli dei loro col-leghi a tempo indeterminato (Engellandt & Riphahn, 2005).

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È fondamentale distinguere tra chi ha accettato liberamente (i.e. volition) e chi ha subito l’imposizione di tale forma contrattuale (Connelly & Gallagher, 2006). A sua volta, la volition interagisce con la percezione individuale circa le caratteristiche del mercato del lavoro e della propria employability (Guest, 2004).

Appare chiaro che la definizione classica di insicurezza lavorativa, che presuppone rife-rirsi ad un lavoratore a tempo indeterminato, risulta meno pregnante se riferita a soggetti con con-tratti atipici o, in generale, per tutti coloro in cerca di un’occupazione che, alla luce delle condi-zioni attuali del mercato del lavoro, sentono o vedono crescere il loro senso di precarietà, con ri-flessi non solo lavorativi ma sulla propria vita presente nonché sulla pianificazione di quella futu-ra (e.g. contrarre un matrimonio, pianificare una gravidanza, acquistare una casa, ecc.).

Sulla base delle raccomandazioni che sono state avanzate circa la necessità di implemen-tare disegni di ricerca longitudinali e l’importanza dei fattori di moderazione (De Cuyper et al., 2008; Sverke & Hellgren, 2002), sarebbe opportuno approfondire le molteplici relazioni tra i mu-tamenti lavorativi, familiari e organizzativi che interessano l’individuo, gli atteggiamenti relativi al proprio lavoro, la carriera e l’organizzazione, e i potenziali effetti sui diversi domini di vita.

4. Le nuove forme di carriera Stante la progressiva perdita di linearità dei percorsi occupazionali, e il crescente bisogno

degli individui di farsi carico in prima persona della propria carriera, l’interesse degli studiosi si è spostato verso l’approfondimento delle modalità proattive individuali di gestione della carriera dette anche self career management (in contrapposizione alle vecchie concezioni di career deve-

lopment etero diretto). Più recentemente sono stati studiati gli orientamenti individuali nei confronti della pro-

pria carriera, nonché la loro influenza sugli atteggiamenti e i comportamenti lavorativi e organiz-zativi (Lo Presti, Nonnis & Briscoe, 2011). In particolare, si fa riferimento agli atteggiamenti ver-so la carriera versatile (Protean Career Attitude; Hall, 1996) e quelli verso la carriera senza con-fini (Boundaryless Career Attitude; Arthur & Rousseau, 1996).

Entrambi questi contributi teorici trovano una prima giustificazione empirica nella neces-sità di dover riconsiderare la relazione tra individuo e carriera alla luce del cambiamento che ha interessato il contratto psicologico tra lavoratore e datore di lavoro. Sono diventati sempre più frequenti i casi in cui si è passati da contratti relazionali, basati su una serie di diritti/doveri reci-proci, informali e con una prospettiva di lunga durata, a contratti transazionali, di natura esclusi-vamente estrinseca e con interscambi di servizi e benefit solo nel breve periodo (Hall & Mirvis, 1995).

Gli atteggiamenti verso la carriera versatile si fondano su modalità proattive e autonome di gestione del proprio percorso occupazionale, sul perseguimento del successo e della soddisfa-zione psicosociali (Hall, 2002), e sull’influenza dei valori personali e etici nel guidare la propria vita professionale.

La carriera senza confini attiene invece ad atteggiamenti e modalità comportamentali che tendono al superamento dei tradizionali confini organizzativi sia psicologicamente che fisicamen-te; lavoratori con tale orientamento sono propensi ad instaurare relazioni di lavoro sia all’interno della propria organizzazione travalicando gli usuali schemi organizzativi di comunicazione e in-

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terrelazione, che intrattenere rapporti di lavoro con più organizzazioni al contempo. Se ne deduce che mentre il primo aspetto può riguardare lavoratori dipendenti, anche con contratti a tempo in-determinato, la seconda tipologia si riferisce a categorie di lavoratori, per lo più indipendenti o freelance, che intrattengono rapporti di collaborazione e consulenza con più aziende in contem-poranea.

Tali orientamenti di carriera hanno finora ricevuto poca attenzione e solo recentemente è stato proposto l’adattamento italiano (Lo Presti, Nonnis & Briscoe, 2011) delle scale sviluppate da Briscoe, Hall e De Muth (2006). Sarebbe auspicabile valutarne la validità e la salienza rispetto al nostro contesto socio-economico, culturale e lavorativo/organizzativo.

Recentemente, Lo Presti (2010) ha valutato la relazione tra i due atteggiamenti di carriera sopracitati e variabili quali l’employability, la proattività e l’autoefficacia nella gestione della propria carriera. Inoltre, per individuare eventuali effetti di moderazione, ha operato delle distin-zioni rispetto alla tipologia contrattuale (a tempo indeterminato vs. atipici) e all’anzianità di ser-vizio (bassa vs. alta).

Per quanto riguarda i lavoratori a tempo indeterminato, la carriera versatile è associata positivamente con la proattività (β = .32), mentre la carriera senza confini lo è con l’autoefficacia (β = .48), con l’employability (β = .28) e con la stessa proattività (β = .45). Per quanto attiene in-vece i lavoratori atipici, la carriera versatile è associata positivamente con la proattività (β = .41), con l’autoefficacia (β = .17) e con l’employability (β = .31); mentre la carriera senza confini lo è con la proattività (β = .30), con l’autoefficacia (β = .29) e con l’employability (β = .21).

Distinguendo tra lavoratori con bassa o alta anzianità di servizio, i meno anziani mostra-no un’associazione positiva tra carriera versatile e proattività (β = .35), con l’autoefficacia (β = .15) e con l’employability (β = .22); mentre la carriera senza confini lo è con la proattività (β = .41), con l’autoefficacia (β = .38) e con l’employability (β = .27).

Per quanto riguarda i lavoratori con maggiore anzianità, la carriera versatile è risultata as-sociata con la proattività (β = .35); mentre la carriera senza confini lo è con l’autoefficacia (β = .43), con l’employability (β = .22) e con la proattività (β = .37).

In generale, tali risultati mostrano come sviluppare atteggiamenti legati alla carriera ver-satile e senza confini è associato positivamente con fattori che hanno un’importanza basilare per il successo occupazionale del lavoratore, non solo ma soprattutto atipico, quali l’employability, la proattività e l’autoefficacia nella gestione della propria carriera.

Ma ancor più nello specifico, se prendiamo in considerazione i lavoratori con contratti a-tipici o quelli con minore anzianità di servizio (e che con maggiore probabilità hanno contratti di lavoro atipici) troviamo come un buon numero dei legami tra variabili prima esposti abbiano co-efficienti più elevati o risultino significativi (ove invece per i lavoratori a tempo indeterminato o più anziani ciò non risulta). In particolare, si ravvisano delle differenze intergruppo riguardo la relazione tra carriera versatile e autoefficacia ed employability.

In conclusione, sviluppare atteggiamenti relativi alla propria carriera che si ricollegano alla gestione autonoma della stessa, all’influenza dei propri valori/obiettivi sui comportamenti professionali, alla tendenza a travalicare i tradizionali confini organizzativi – tutti aspetti spesso auspicati dagli stessi datori di lavoro ma soprattutto imprescindibili data la necessità attuale che ciascuno si faccia maggiormente carico del proprio successo professionale – risulta associato po-sitivamente alla percezione di employability, e al sentirsi efficaci e motivati nel gestire gli alti e bassi della propria carriera e delle eventuali transizioni che essa dovesse comportare.

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5. Conclusioni Considerando la recente e perdurante crisi economica e i cambiamenti intercorsi nei fe-

nomeni psicosociali connessi alla perdita di linearità delle carriere e dei percorsi occupazionali, quanto è valida la definizione attuale di insicurezza lavorativa?

Essa sembra riferirsi a momenti ben specifici della carriera individuale nel corso dei quali il lavoro attuale è percepito come essere a rischio. I contributi più recenti in letteratura, anche sul-la base delle sollecitazioni dell’attualità socio-economica, suggeriscono che, stante il crescente numero di persone con contratti atipici – soprattutto tra i giovani – l’insicurezza sia non solo qua-si endemica ma cronica, ossia non riguardi brevi momenti della carriera ma ne sia condizione di fondo, soprattutto se parliamo di soggetti che tentano di entrare nel mercato del lavoro e di trova-re un percorso lavorativo stabile barcamenandosi tra contratti atipici, spesso imposti.

Appare quindi necessario considerare l’insicurezza/precarietà come uno stressor occupa-zionale a tutti gli effetti, soprattutto se stiamo trattando di lavoratori atipici.

La Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni può contribuire significativamente in maniera duplice. In primo luogo, dal punto di vista dello studio e della ricerca scientifica, diviene necessario complessificare i disegni di ricerca prediligendo ottiche longitudinali che siano in gra-do di rendere conto delle modificazioni nel corso del tempo delle variabili più salienti, promuo-vendo un approccio multidisciplinare con sociologi, antropologi, economisti, ecc. e, congiunta-mente alla riflessione teorica (specialmente quella sugli effetti psicosociali dei contratti atipici e dei nuovi atteggiamenti circa la carriera), tenere conto di tutta una serie di variabili quali l’em-ployability, il contratto psicologico, ecc. fino ad ora poco considerate in studi di questo tipo, sen-za, in ultimo, dimenticare gli eventuali, ulteriori, fattori di moderazione.

Il tema dei moderatori si ricollega alla seconda necessità, quella di ordine pratico, e che a sua volta richiama necessità di carattere etico. Diviene auspicabile immaginare ed implementare interventi di orientamento professionale o career guidance che rendano in grado i destinatari, se-condo un’ottica di empowerment, di sviluppare autonome capacità di gestione della propria car-riera acquisendo fiducia verso se stessi e diventando abili nel pianificare tutti i passi necessari (e.g. aggiornamento professionale, career planning, ecc.) per ottenere il massimo successo occu-pazionale, ed in questo modo controbilanciare i vissuti di precarietà ed insicurezza.

6. Bibliografia

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Seconda Parte

Linee di ricerca e prospettive applicative

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12. Sicurezza e sostenibilità della vita organizzativa: esperienze

di ricerca-formazione Laura Galuppo, Mara Gorli, Cesare Kaneklin, Giuseppe Scaratti

1. Introduzione

Il tema della sicurezza e della salute al lavoro rappresentano oggi in modo sempre più in-

discusso una priorità nell’agenda delle organizzazioni sociosanitarie e delle imprese. Pur in pre-senza di una crescente sensibilità e talvolta di un impegno non formale nei confronti di tali que-stioni, tuttavia, drammaticamente frequenti appaiono ancora gli episodi di malessere e di disagio al lavoro, di fatica individuale e collettiva nel far fronte alle sempre più pressanti richieste di effi-cienza organizzativa, ai cambiamenti veloci, alla precarietà del futuro.

A fronte di tale scenario, appare prioritario non rinunciare a riflettere su quanto oggi la vita lavorativa di individui e gruppi sia sollecitata nella sua sostenibilità, per individuare strategie di avvicinamento e di intervento nei contesti realmente in grado di accompagnare la costruzione di condizioni di lavoro e di vita organizzativa più salutari (Kaneklin e Scaratti, 2010)

Scopo del presente contributo è proprio discutere attraverso quali leve e strategie di azio-ne sia possibile costruire organizzazioni più sicure e caratterizzate da una vita lavorativa più so-stenibile, attraverso la delineazione di alcune evidenze emerse da tre “cantieri” di ricerca-forma-zione, che hanno visto rispettivamente come ricercatori-consulenti chi scrive e alcuni colleghi del Raggruppamento di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni dell’Università Cattolica di Mi-lano,1 e come co-ricercatori/partecipanti dei gruppi di manager e professionisti di un ospedale, di un servizio ambulatoriale e di un centro di riabilitazione e cura per disabili e anziani del centro e nord Italia.

2. Sicurezza e sostenibilità della vita organizzativa

Gli studi più recenti (Scaratti e Kaneklin, 2010; Avallone e Pamplomatas, 2005) mettono

bene in evidenza come oggi il costrutto della sicurezza abbia intercettato un tale livello di com-plessità da essersi rimodellato e progressivamente ampliato fino a comprendere un insieme di va-riabili soggettive (come il senso di sicurezza o la motivazione alla sicurezza) intersoggettive ed organizzative (si veda il concetto di rischio psicosociale), andando in alcuni casi perfino a so-vrapporsi parzialmente al concetto di salute e buon funzionamento del sistema organizzativo.

Allargatosi progressivamente il suo campo semantico, il costrutto “sicurezza” appare og-gi quindi sempre più al confine, se non già parte, di numerosi altri costrutti che in modi diversi

1 Lo staff di lavoro era composto da Cesare Kaneklin, Giuseppe Scaratti, Mara Gorli e Laura Galuppo per l’Università Cattolica, Giovanna Cangiano e Roberta Paleani come libere professioniste.

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Sicurezza e sostenibilità della

vita organizzativa: esperienze

di ricerca-formazione Laura Galuppo, Mara Gorli, Cesare Kaneklin, Giuseppe Scaratti – Cap. 12

intercettano la più ampia e complessa questione della qualità della vita organizzativa: il concetto di salute organizzativa, di benessere e, non meno, quello di sostenibilità.

È in particolare su quest’ultimo che ci proponiamo di soffermarci in quanto a nostro av-viso particolarmente promettente ed in grado di mettere bene in evidenza alcune sfide e questioni “dilemmatiche” che oggi caratterizzano il vivere entro le organizzazioni degli individui e dei gruppi.

Nella sua accezione classica, il concetto di sostenibilità ha a che fare con la possibilità per un sistema di soddisfare i bisogni attuali senza compromettere la soddisfazione dei bisogni delle generazioni future (United Nations’ World Commission on Environment and Development, 1987). Riferito alla vita lavorativa, sostenibilità significa dunque per un’organizzazione non solo funzionare in modo da non depauperare le sue differenti risorse – umane e sociali così come eco-nomiche ed ecologiche – ma anche in modo da supportare il loro sviluppo e la loro capacità di rigenerazione (Docherty, Kira, e Shani, 2009).

La salvaguardia e lo sviluppo di tali risorse è tuttavia un compito complesso e dilemmati-co: ciascuna di esse infatti muove interessi, valori, orientamenti non spontaneamente in armonia, ma più frequentemente in conflitto l’uno rispetto agli altri.

La sostenibilità della vita di un’organizzazione si fonda quindi sulla possibilità di mante-nere un sottile equilibrio tra interessi e valori differenti, sostenuti spesso da stakeholders diversi, e altrettanto spesso intrinsecamente conflittuali: i valori dell’efficienza tecnologica così come della tutela ambientale, la salvaguardia delle risorse sociali così come del capitale economico. Tale equilibrio appare “sostenibile” nella misura in cui consenta a ciascuno di questi interessi e valori di essere salvaguardato e promosso, in un bilancio che permetta all’organizzazione non so-lo di sopravvivere (in termini di adattamento) ma anche di creare nuove opportunità (in termini di proattività e creatività) per il presente e per il futuro (Galuppo 2010; Galuppo e Gorli, 2010; Ka-neklin e Galuppo, 2009).

La prospettiva della sostenibilità consente dunque di pensare alla salute e alla qualità del-la vita lavorativa mettendo al centro dell’attenzione la complessità dei processi organizzativi, e sottolineando: a) il carattere intrinsecamente conflittuale degli interessi, delle credenze, dei valori che attraversano i sistemi organizzati; b) il carattere strettamente contestuale ed embedded di tali interessi e valori, che si esprimono come “teorie in uso” in grado di orientare e fondare le prati-che lavorative ed organizzative di individui e gruppi entro ciascuno specifico contesto. In tale ac-cezione il tema della sicurezza si connota come uno degli interessi in gioco, parte del più ampio dilemma di come coniugare attenzione e salvaguardia dell’integrità psicofisica dei lavoratori con le istanze di efficienza, produttività, risparmio, tutela ambientale, etc.

A partire dal riconoscimento e dalla presa in carico di tali aspetti, quindi, e al di là di ogni semplificazione idealizzante della questione, l’impegno della sostenibilità pare focalizzato a co-struire un’opzione di gestione il più possibile costruttiva (“win-win”) di tale conflitto di valori, interessi, orientamenti all’azione. Un’opzione che possa interpretare il conflitto non nei termini della competizione, della concorrenza, dell’ostacolamento, o addirittura della frammentazione e della eliminazione di una o più parti/voci discordanti, ma nei termini della creazione di spazi di riconoscimento reciproco e di costruzione creativa di valore per tutti i portatori di interessi in gioco. Si tratta di una opzione non definibile a priori, ma generata a partire dal concreto avvici-namento ai contesti e all’apertura di piste di confronto e di ricerca locali e situate.

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In tal senso, appare interessante esplorare quali specifiche condizioni di sostenibilità ven-gano individuate come cruciali nei concreti contesti organizzativi e in che modo sia possibile tu-telarle e promuoverle. Tali questioni verranno approfondite nei paragrafi che seguono.

3. I cantieri di ricerca

Le esperienze di seguito tratteggiate2 si collocano entro un filone di lavoro e di collabora-

zione avviatosi nel 2005 tra il Raggruppamento di Psicologia Applicata dell’Università Cattolica di Milano e l’ISPESL (Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro), con l’obiettivo di esplorare quali strategie e dispositivi di ricerca e formazione potessero dirsi promet-tenti per promuovere migliori e più sostenibili condizioni di vita lavorativa nei servizi sociosani-tari.

Il primo cantiere è consistito in un percorso di ricerca-formazione entro un Servizio di Prevenzione e Protezione (SPP) di un ospedale romano; obiettivo del lavoro è stato riprogettare insieme ai dirigenti e alle Responsabili del SPP tale servizio come luogo capace di accompagnare la costruzione di condizioni di vita più sicure e sostenibili entro il contesto considerato.

Il secondo cantiere di ricerca-formazione si è svolto entro un servizio di diabetologia in un presidio ospedaliero di Prato; qui l’intera equipe del centro è stata coinvolta in un percorso o-rientato a consentire una migliore integrazione lavorativa e professionale a fronte di processi di organizzazione del lavoro poco sostenibili per gli operatori coinvolti.

Infine, il terzo cantiere ha riguardato un percorso di ricerca-formazione con i dirigenti in-termedi di un servizio di riabilitazione e di cura per disabili e anziani di Milano, e ha avuto l’o-biettivo di individuare quali condizioni di sostenibilità potessero essere rintracciate a fronte di un momento di profonda trasformazione dell’organizzazione e di passaggio generazionale entro il management.

4. L’approccio della ricerca-formazione

L’approccio metodologico prescelto è stato quello della ricerca-formazione, volta a pro-muovere conoscenza, apprendimento e cambiamento attraverso un lavoro ricorsivo di esplorazio-ne dei problemi, riflessione e riprogettazione intorno ad essi, sperimentazione e valutazione delle strategie di gestione proposte (Dubost e Levy, 2002/2005).

Tale approccio è apparso promettente in quanto in grado di sviluppare entro ciascun con-testo forme di apprendimento riflessivo, sociale, situato ed esperienziale, in grado di generare nuova conoscenza e orientamenti all’azione attraverso la revisione delle pratiche e delle “teorie in uso” sostenibili ed insostenibili ad esse connesse (Kaneklin e Gorli, 2008; Scaratti e Kaneklin, 2010).

Nei tre cantieri, esso in particolare ha previsto:

2 Per una descrizione dettagliata delle esperienze si rimanda ai capitoli di Cangiano, Paleani, Galuppo e Gorli nel testo di Kaneklin e Scaratti (2010).

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‒ un avvicinamento lento ai contesti di lavoro, regolato attraverso una negoziazione continua con la dirigenza, costituitasi come gruppo di committenza in grado di legittimare ed accompa-gnare il processo di lavoro;

‒ la costruzione di un’organizzazione temporanea (Kaneklin e Olivetti Manoukian, 1990) nella quale le persone coinvolte, di volta in volta dirigenti intermedi o operatori di equipe, potessero trovare spazi di sosta in cui essere accompagnate a raccontarsi, a vedersi e ri-vedersi nei pro-pri processi di lavoro, a ripensarsi e ricollocarsi entro nuove pratiche lavorative progettate per salvaguardare una maggiore sostenibilità organizzativa;

‒ il ricorso a diversi metodi e strumenti attinti dalla tradizione della ricerca qualitativa, come le interviste narrative, le discussioni in gruppo, la stesura congiunta di report e diari, utilizzati per supportare il racconto, l’analisi delle pratiche, la progettazione di nuove soluzioni.

4.1 Partecipanti

Al fine di consentire un coinvolgimento allargato e di tutelare diversi livelli di partecipa-zione entro i contesti organizzativi, tutti e tre i cantieri hanno previsto la costituzione di due gruppi di lavoro: un gruppo di ricerca, con il compito di costruire e riflettere su quali rappresen-tazioni e condizioni lavorative fossero connesse con maggiore o minore sostenibilità della vita nel proprio contesto, e un gruppo di regia o di committenza, che ha mantenuto una funzione di monitoraggio del processo e ha avuto il compito di accogliere le evidenze emerse dal percorso e di formulare ipotesi interpretative e di azione.

Il primo cantiere, in particolare, ha previsto un gruppo di committenza costituito da un ri-cercatore e da due dirigenti del servizio di Prevenzione e Protezione e un gruppo di ricerca costi-tuito da 30 Dirigenti di Unità Operative Complesse dell’Ospedale.

Il secondo cantiere, analogamente al primo, ha visto il coinvolgimento di un gruppo di committenza costituito da un ricercatore e due dirigenti del servizio di Diabetologia e da un gruppo di ricerca di 13 operatori (medici, infermieri e dietisti).

Il terzo cantiere, infine, si è caratterizzato per un gruppo di committenza costituito da tre ricercatori e 8 alti dirigenti e per un gruppo di ricerca costituito dai ricercatori e 14 dirigenti in-termedi.

4.2 Strumenti e analisi dei dati

L’approccio metodologico prescelto ha previsto, in tutti e tre i casi, la costruzione di un setting di lavoro che permettesse ai gruppi di ricerca di confrontarsi in incontri3 sui temi oggetto di analisi e ai gruppi di committenza di accompagnare il processo grazie a continui aggiornamenti e confronti con i ricercatori.

I dati costruiti entro i due gruppi hanno costituito un corpus di materiale la cui analisi di contenuto ed elaborazione interpretativa è stato compito comune dei ricercatori e dei partecipanti

3 Da un minimo di due incontri plenari nel primo cantiere a un massimo di 10 incontri mensili nel secondo e terzo can-tiere.

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al lavoro. I dati progressivamente raccolti e analizzati sono stati infine organizzati in rapporti in-termedi via via ampliati, integrati e condivisi entro i gruppi, fino ad arrivare alla stesura di report finali resi visibili al resto dell’organizzazione.

5. Evidenze dai cantieri

I tre cantieri hanno prodotto risultati corposi e articolati che non è obiettivo del presente lavoro discutere in forma esaustiva.

La seguente discussione di alcune delle evidenze emerse ha piuttosto lo scopo di indivi-duare riflessioni trasversali rispetto a cosa significhi costruire organizzazioni sociosanitarie sicure e sostenibili.

5.1 Sicurezza e sostenibilità

Il lavoro di confronto e di ricerca intorno ai temi della sostenibilità della vita organizzati-

va ha permesso di mettere in luce nei tre cantieri un intreccio complesso e unico di dimensioni ed aspetti. Al di là del carattere contestuale di molte questioni, possono tuttavia essere rintracciati alcuni elementi di trasversalità che vale la pena qui citare.

1) La sicurezza e la sostenibilità come processi possibili più che come indicazioni ideali. Attraverso l’analisi delle pratiche e dei processi organizzativi, il tema della sicurezza e

della sostenibilità hanno preso corpo, passando da una accezione inizialmente tecnica e normati-va, ad una accezione più processuale. Da standard ideale, nelle rappresentazioni dei soggetti coinvolti, esse sono in altre parole diventate qualità intrinseche delle pratiche e dei processi di la-voro, suscettibili di revisioni e ripensamenti. Un “organizzarsi” in-sicurezza e in-sostenibilità che è apparso un compito non più impossibile, non più soggetto alla logica della “colpa” e della “san-zione”, ma a quella della responsabilità e dell’impegno comune.

Nel primo cantiere questo ha significato ad esempio iniziare a considerare l’oggetto di lavoro del RSPP non solo nei termini della valutazione tecnica del rischio fisico, ma anche della tutela della salute e della prevenzione dei rischi psicosociali.

Nel secondo cantiere, dove il tema centrale nel percorso era stato quello dell’integrazione in equipe multi professionali, il tema della “sostenibilità” è stato tradotto nei termini della possi-bilità di rappresentarsi il lavoro di gruppo non solo come un insieme di procedure standardizzate più o meno efficienti, ma anche come un processo complesso e instabile, dove la dimensione in-tersoggettiva e psicosociale e non solo quella tecnica fossero considerate e trattate.

Nel terzo cantiere, infine, dove un tema forte era apparso il cambiamento dei ruoli mana-geriali a fronte delle ristrutturazioni in corso, la sostenibilità è consistita nel ripensamento delle pratiche gestionali, verso la possibilità di tenere insieme identificazioni e appartenenze multiple, ad esempio l’identificazione con il reparto e gli ospiti ma anche quella con le funzioni di gestione delle risorse economiche e tecnologiche, che erano percepite in pesante e distruttivo conflitto tra loro.

2) Le condizioni della sostenibilità: connettere il disagio individuale con le complessità

organizzative; alimentare pratiche lavorative dotate di “senso comune”.

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A fronte di questo scenario, condizioni critiche per costruire sicurezza e nuova sostenibi-lità della vita organizzativa sono apparse in primo luogo la possibilità, per i singoli soggetti, di ricollocare le fatiche del proprio lavoro entro scenari di comprensione delle richieste e del fun-zionamento organizzativo più ampi e più complessi. Questo ha consentito di sentirsi maggior-mente attori e meno spettatori della propria vita lavorativa.

Nel primo cantiere ciò ha significato per gli RSPP riconoscersi, a fronte della complessità dei processi di valutazione del rischio richiesti dall’organizzazione, un nuovo spazio di lavoro possibile, non più solo nei termini del controllo e della sanzione, ma anche della sensibilizzazione e accompagnamento al monitoraggio e alla promozione di salute organizzativa. Questa nuova prospettiva, che poneva gli RSPP in un ruolo più “consulenziale”, apriva infatti margini di azione maggiori e più intriganti.

Nel secondo cantiere, condizione di “sostenibilità” è apparsa la possibilità di percepirsi in grado di lavorare non più solo su procedure e linee guida, nei confronti delle quali si sperimenta-va un vissuto di impotenza e di impoverimento, ma anche sul tema più ampio della qualità del servizio, procedendo per regolazioni parziali e provvisorie, meno idealizzate, più incerte ma più gestibili.

Nel terzo cantiere, infine, centrale è stata la possibilità di recuperare momenti di incontro nei quali, al di là della lamentazione, fosse possibile lavorare assieme per comprendere come tra-durre in prassi operative le indicazioni strategiche relative ai nuovi ruoli e all’organizzazione che stava cambiando.

In seconda battuta, condizione di sostenibilità è apparsa trasversalmente ai tre cantieri l’istituzione di occasioni per ritrovare il “senso comune” di pratiche e di processi di lavoro, orga-nizzandosi per progettare congiuntamente il futuro. Al di là della costruzione di “buone relazioni sociali” supportive, la sostenibilità del vivere lavorativo è stata identificata nella possibilità di di-sporre di momenti e spazi di confronto non solo operativo sui problemi, ma soprattutto progettua-le (costruire un “senso” del futuro).

Nel primo cantiere tali occasioni sono state riconosciute in particolare nella istituzione di un lavoro di progettazione comune di protocolli di valutazione del rischio, da usare quali stru-menti di lavoro condivisi da RSPP e dirigenti di unità operative complesse.

Nel secondo cantiere tali occasioni si sono configurate nella costituzione di sottogruppi di analisi e lavoro sui casi, con l’obiettivo di riflettere sulla qualità delle pratiche di cura e sul man-dato del servizio, riprogettando, a partire da tali riflessioni, i processi ritenuti meno funzionali e più critici.

Nel terzo cantiere tali occasioni sono state identificate infine in momenti di confronto e riprogettazione del funzionamento delle Divisioni del servizio, livello intermedio della struttura organizzativa riconosciuto come cruciale nel tenere insieme operatività e funzioni strategiche, specialmente durante la fase di riorganizzazione in atto.

5.2 Costruire sostenibilità: la ricerca-formazione

A fronte delle rappresentazioni di sicurezza e sostenibilità individuate, in tutti e tre i can-

tieri il percorso di ricerca-formazione si è avvalso di alcune leve cruciali per costruire concreta-mente entro i contesti prescelti una vita organizzativa sostenibile.

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Ancora una volta pare possibile individuare alcune trasversalità nei processi di lavoro in-trapresi.

1) La costruzione di committenza attraverso l’apertura di spazi di parola. Una prima leva è apparsa la possibilità di avvicinarsi “in punta di piedi” ai contesti orga-

nizzativi, lavorando per aggregare committenza a diversi livelli e con diversi stakeholder. Questo processo, non scontato, non dato a priori ma frutto di costruzione progressiva, è stato reso possi-bile dall’istituzione fin dai primi colloqui con la committenza di occasioni di presa di parola, di racconto e di pensiero intorno al proprio vivere lavorativo. Tali occasioni sono state mantenute, entro i gruppi di ricerca, nei momenti di incontro, racconto e confronto intorno alle proprie storie e ai propri casi critici. In tal senso, la scelta di utilizzare i metodi narrativi e della scrittura con-giunta di documenti intermedi, in grado di fare memoria, consentire ripensamenti, distanziamenti e revisioni delle proprie storie e pratiche, è apparsa promettente ed estremamente funzionale.

2) Il lavoro congiunto sulle dimensioni implicite delle pratiche. Una seconda leva è apparsa la possibilità di legittimare ed elaborare, a partire dai racconti

e dalla discussione delle esperienze, le dimensioni implicite e tacite insite nelle pratiche lavorati-ve raccontate e nei processi di lavoro descritti, rendendole rappresentabili e accessibili e prefigu-rando modalità per una loro rilettura critica.

Tale possibilità è sembrata importante per consentire ai soggetti di disporre di visioni più ampie e critiche sui problemi oggetto di discussione, per restituire senso a situazioni inizialmente poco comprensibili e individuare alternative di soluzione inizialmente non praticate. Questo lavo-ro è apparso inoltre di cruciale valore per attivare momenti collettivi generatori di nuova proget-tualità e nuovi sguardi sul futuro. Esso è risultato infine occasione di sostegno alla responsabilità individuale e di gruppo, in quanto ha restituito ai soggetti coinvolti un ruolo attivo e non delegan-te, di autorialità e azione rispetto alle questioni salienti del proprio vivere lavorativo.

6. Conclusioni

Le riflessioni presentate a partire dai tre cantieri di ricerca consentono di produrre alcune

considerazioni conclusive in merito a cosa significhi, entro contesti sociosanitari, costruire una vita organizzativa sicura e sostenibile.

L’analisi di alcuni nodi trasversali emersi dai cantieri ha messo in evidenza ad esempio che la sicurezza e la sostenibilità della vita organizzativa sono strettamente connesse con la co-struzione e l’appropriazione, da parte degli attori organizzativi, di visioni plurime, complesse e non idealizzanti intorno ai problemi e alle sfide organizzative, con la possibilità di non delegare il proprio rapporto con il lavoro e di godere di spazi e opportunità per rivedere il senso del proprio lavoro e riprogettare congiuntamente il futuro.

Rispetto all’ambito sociosanitario, la centratura su queste dimensioni non sembra casua-le: oggi le organizzazioni sanitarie paiono in effetti particolarmente sfidate dalla necessità di al-largare lo sguardo sui problemi, tenendo insieme normativa, valori di servizio e dati di scenario sempre più complessi. Appaiono inoltre attraversate dall’esigenza di non irrigidirsi in strutture gerarchiche e burocratiche e dall’importanza di distribuire spazi di potere e di impresa ai diversi livelli della gerarchia, a tutela della vitalità e della creatività dei processi di funzionamento e di produzione del servizio.

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Rispetto a tali condizioni individuate come centrali per costruire sostenibilità, la ricerca-formazione può essere valorizzata come approccio metodologico significativo e di valore, in quanto in grado di innescare processi di apprendimento funzionali a sostenere la vita lavorativa degli individui e gruppi coinvolti. Nello specifico, l’istituzione di spazi di parola e di analisi delle pratiche sono state riconosciute come leve metodologiche generative di “nuove sostenibilità”.

Questo passaggio non appare esente da rischi, fatiche, e complessità: cogliere e analizza-re modelli e schemi di riferimento profondi e radicati, sollecitare la soggettività e le responsabili-tà, mettere a tema le conoscenze implicite e i saperi pratici delle persone al fine di una loro riela-borazione più funzionale esige di procedere con cautela, negoziando di volta in volta con i parte-cipanti la loro stessa committenza e commitment, definendo e rivedendo i margini e i confini di lavoro possibile (Scaratti e Kaneklin, 2010). D’altra parte, sembra che nell’insieme delle tre espe-rienze risulti confermata l’idea che strumenti standardizzati entro programmi e processi di ricerca e intervento lineari abbiano scarsa possibilità di influenzare questioni connesse con la qualità e sostenibilità della vita lavorativa. Il rischio di tali approcci infatti è quello di scindere il piano del-le rappresentazioni intrapsichiche e sociali da quello dei soggetti; i soggetti dagli oggetti indagati; il sapere scientifico dal sapere profano; la realtà materiale da quella sociale rappresentata.

L’approccio qui presentato, invece, pare riconfermarsi come promettente per consentire a individui e gruppi di essere accompagnati entro i propri contesti di lavoro a far fronte alle sfide attuali, lavorando a partire dai concreti problemi che incontrano nella vita lavorativa, costruendo equilibri e bilanci sostenibili, cioè generativi di risorse e di opportunità per il presente e per il fu-turo.

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Sicurezza e sostenibilità della

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13. Un approccio quali-quantitativo alla ricerca sullo stress lavoro-

correlato Claudio G. Cortese

1. Premessa La ricerca qui presentata si propone di individuare la presenza di fattori di rischio stress

lavoro-correlato (SLC) all’interno di un’Azienda Sanitaria Ospedaliera (ASO) del Nord Italia di

grandi dimensioni, in ottemperanza a quanto previsto dal Decreto Legislativo 81/08 integrato dal

D.Lgs 106/2009, ed è stata condotta da un gruppo di esperti composto da psicologi del lavoro e

psicologi della salute del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino insieme

alle figure aziendali di riferimento (medico competente e responsabile servizio prevenzione e

protezione).1 In questo contributo, particolare attenzione verrà dedicata alla descrizione del meto-

do di indagine e alle modalità di utilizzo dei risultati emersi dalla ricerca.

2. Metodo

2.1 Contesto

L’ASO in cui è stata realizzata la ricerca è un ente ad elevata specializzazione, ospedale

di riferimento per un ampio territorio, le cui funzioni sono svolte nell’ambito di 12 Dipartimenti

articolati in 53 Strutture Autonome (45 di tipo sanitario e 8 di tipo tecnico e amministrativo) in

cui lavorano 2.334 dipendenti.

2.2 Procedura

Il percorso di indagine ha previsto l’utilizzo di una pluralità di strumenti (cfr. Cox, Cox,

1993; Haq et al., 2008; Oommen et al., 2010) articolandosi in sei principali fasi.

1. Analisi degli indicatori aziendali. Allo scopo di ottenere un’iniziale stima dell’eventuale pre-

senza di eventi sentinella, sono stati esaminati gli indicatori aziendali riguardanti: assenze per

malattia, indici infortunistici, mobilità del personale (turnover da e verso l’Azienda e trasferi-

menti interni), segnalazioni del Medico Competente (visite a richiesta e giudizi di limitazione

per costrittività organizzative) e provvedimenti disciplinari.

2. Interviste. Successivamente sono state realizzate 53 interviste semistrutturate ai responsabili

delle 53 Strutture, della durata media di circa due ore, nel corso delle quali veniva richiesto di

1 Il gruppo di lavoro, oltre all’autore, era composto da: dr.ssa Laura Gerbaudo, dr.ssa Maria Paola Manconi, dr.ssa Sa-

brina Montagna, dr. Massimiliano Spano, dr. Benedetto Violante.

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Un approccio quali-quantitativo

alla ricerca sullo stress lavoro-

correlato Claudio G. Cortese – Cap. 13

indicare, alla luce della definizione di SLC dell’Accordo Europeo dell’8 ottobre 2004, i po-

tenziali fattori di rischio presenti nella propria Struttura. La modalità di conduzione delle in-

terviste ha seguito le indicazioni di Taylor e Barling (2004), che hanno utilizzato questo stru-

mento per la ricerca in ambito sanitario. Un focus group con il medesimo contenuto di indagi-

ne è stato successivamente realizzato con gli RLS aziendali.

3. Costruzione della check-list. Integrando i risultati delle interviste con le indicazioni derivate

dalla normativa e dalla letteratura (Antoniou et al., 2003), è stata messa a punto una check-list

comprendente 42 indicatori di rischio SLC articolati in sette categorie (cfr. Tabella 3). La

check-list è stata utilizzata nelle fasi successive al fine di rilevare, per ogni indicatore in cia-

scuna Struttura, la presenza di rischi e – in caso positivo – il livello di tale rischio.

4. Osservazione. Nelle 53 Strutture è stata realizzata un’osservazione condotta mediante la tecni-

ca dello shadowing (Bernard, 2002; Fetterman, 2009; per un esempio di utilizzo dello shado-

wing in ambito sanitario, cfr. Oommen et al., 2010). All’osservazione sono state dedicate un

minimo di 16 ore per ciascuna Struttura, divise in segmenti di due ore, in modo da coprire tutti

i turni (anche notturni e festivi) in cui l’attività di lavoro viene realizzata. Al termine di ogni

momento di osservazione, il ricercatore compilava la check-list indicando la presenza e il li-

vello di ciascun indicatore di rischio.

5. Focus group. In ciascuna Struttura è stato realizzato un focus group, della durata media di cir-

ca due ore, in cui i partecipanti venivano invitati dal ricercatore che conduceva l’incontro a

indicare la presenza o meno dei 42 indicatori di rischio SLC nella propria Struttura e, in caso

positivo, a fornire degli esempi concreti della loro presenza. Come per l’osservazione, al ter-

mine di ogni focus group il ricercatore compilava la check-list indicando la presenza e il livel-

lo di ciascun indicatore di rischio.

6. Somministrazione estensiva della check-list. Riprendendo il metodo utilizzato da Bunce e

West (1994), a un campione rappresentativo di lavoratori di ciascuna Struttura è stata inviata

la check-list (reimpaginata nella forma di un questionario con domande chiuse e aperte) con la

richiesta di indicare quali indicatori di rischio SLC fossero presenti nella propria Struttura (SI-

NO) e, in caso positivo, di fornire un esempio.

2.3 Popolazione

Nella fase 2 sono stati intervistati i dirigenti e/o i preposti di ogni Struttura per un totale

di 83 responsabili ascoltati nel corso di 53 interviste condotte da un ricercatore.

Nella fase 5 sono stati realizzati 53 focus group che hanno coinvolto complessivamente

261 lavoratori (da un minimo di quattro a un massimo di sette per ciascuna Struttura). La parteci-

pazione al focus group era di tipo volontario, e l’autocandidatura seguiva l’invito fatto dal ricer-

catore a tutto il personale della Struttura nel corso della fase di osservazione.

Nella fase 6 è stato coinvolto almeno il 30% del personale di ciascuna Struttura, indivi-

duato dal gruppo di ricerca in modo da essere rappresentativo per qualifica (medici, infermieri,

tecnici e amministrativi), per genere e per anzianità di servizio (inferiore a 5 anni, da 6 a 20 anni,

oltre 20 anni). A fronte di 747 check list distribuite dal/dai responsabile/i di Struttura (pari al

31,5% dei dipendenti dell’ASO), sono state riconsegnate complessivamente 529 check list com-

pilate, pari al 70,8% delle check list distribuite e al 22,4% dei dipendenti dell’ASO. In nessuna

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Struttura la percentuale di rispondenti è risultata inferiore al 20% dei dipendenti in servizio.

Va precisato che i soggetti che hanno preso parte alle interviste, ai focus group e alla

compilazione della check list sono sempre stati diversi tra loro.

2.4 Strumento di valutazione

La check-list elaborata nella fase 3 (cfr. Tabella 3) ha rappresentato il principale strumen-

to di ricerca, perché è attraverso di essa che sono stati raccolti i dati nelle successive fasi dello

studio.

La check-list si articola in 42 indicatori di rischio SLC che confluiscono in sette categorie

ed è stata costruita facendo riferimento alla normativa, alla letteratura (Barling et al., 2005; Cesa-

na et al., 2006; Dewe et al., 2010; ISPESL, 2010; Karasek, Theorell, 1990; Regione Lombardia,

2009; Regione Toscana, 2009; Sulsky, Smith, 2004) e alle interviste ai responsabili delle Struttu-

re. Questa molteplicità di riferimenti ha consentito di disporre di uno strumento di ricerca che

fosse al tempo stesso in linea con gli standard nazionali ma anche coerente con le peculiarità

dell’ASO in cui è stato impiegato.

La sua validità di costrutto è stata verificata mediante l’analisi di un panel di quattro e-

sperti del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino (esterni rispetto al gruppo di ricer-

ca), che hanno fornito suggerimenti relativi alla formulazione degli indicatori e all’etichetta delle

categorie. L’utilizzo nelle fasi 4, 5, e 6 della ricerca non ha evidenziato criticità relative allo

strumento in termini di comprensibilità degli item e di coerenza con le attività svolte all’interno

dell’ASO.

2.5 Analisi dei dati

L’analisi degli indicatori aziendali individuati nella fase 1 è stata effettuata per confronto

longitudinale (andamento negli ultimi tre anni) e con i dati riportati in letteratura (Feltrin et al.,

2010; Patronella et al., 2011; Regione Emilia Romagna, 2004; Treleani et al., 2011; Veronesi et

al., 2011; Zoni et al. 2010) e nei siti dell’INAIL e della Regione Piemonte.

Sulle interviste realizzate nella fase 2 è stata condotta un’analisi di contenuto con un me-

todo carta-e-matita (Kyngas, Vanhanen, 1999; Taylor, 2001) al fine di individuare i fattori di ri-

schio SLC presenti nell’ASO a parere degli intervistati.

Le fasi 4 e 5 hanno prodotto, per ciascuna Struttura, una check-list con un punteggio su

una scala da 0 a 3 per ciascun indicatore. Il punteggio pari a 0 indica un livello di rischio “Non

significativo” dell’indicatore, valutato “non presente”. Gli altri tre livelli sono l’esito dell’incro-

cio di due variabili riferite all’indicatore stesso:

‒ occasionalità/sistematicità della sua presenza;

‒ intensità bassa/elevata.

In dettaglio, il punteggio 1 deriva da una condizione di presenza occasionale combinata

con una bassa intensità; il punteggio 2 deriva da una presenza occasionale combinata con un’ele-

vata intensità oppure da una presenza sistematica combinata con una bassa intensità; il punteggio

3 deriva da una presenza sistematica combinata con un’elevata intensità (Tabella 1).

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TABELLA 1

Scala utilizzata per la valutazione del livello di rischio associato agli indicatori

Livello di rischio Note

Non significativo

punteggio = 0

L’analisi dei dati non evidenzia una presenza significativa dell’indi-

catore

Basso

punteggio = 1

L’analisi dei dati evidenzia che la presenza dell’indicatore è di livel-

lo basso, in quanto occasionale e poco intensa

Medio

punteggio = 2

L’analisi dei dati evidenzia che la presenza dell’indicatore è di livel-

lo medio, in quanto sistematica ma poco intensa oppure intensa ma

occasionale

Elevato

punteggio = 3

L’analisi dei dati evidenzia che la presenza dell’indicatore è di livel-

lo elevato, in quanto sistematica e intensa

Nella fase 4 (osservazione) e nella fase 5 (focus group), tale punteggio è stato attribuito

dai ricercatori a partire dall’analisi dei dati raccolti sul campo.

Per quanto riguarda la fase 6, sulle check-list compilate dai soggetti appartenenti a ogni

specifica Struttura è stata compiuta un’analisi statistica delle frequenze con cui ciascun indicatore

era stato considerato presente dai rispondenti (mediante la risposta SI). Se l’indicatore non è stato

ritenuto presente da nessun soggetto, è stato assegnato il punteggio 0. Se l’indicatore è stato rite-

nuto presente da meno del 25% dei soggetti, è stato assegnato il punteggio 1. Se l’indicatore è

stato ritenuto presente da una percentuale di soggetti tra il 25% e il 50%, è stato assegnato il pun-

teggio 2. Se l’indicatore è stato ritenuto presente da più del 50% dei soggetti, è stato assegnato il

punteggio 3.

In sintesi, al termine delle sei fasi di ricerca i ricercatori disponevano, per ciascuna Strut-

tura, di tre check-list con un punteggio per ciascun indicatore espresso sulla scala da 0 a 3 descrit-

ta in precedenza. Le tre check-list sono state a questo punto messe a confronto e ricondotte a una

sola. Per ciascun indicatore:

‒ in caso di omogeneità fra i tre punteggi si è mantenuto quel punteggio come dato di sintesi;

complessivamente si sono verificati 1276 casi di omogeneità su 2226 combinazioni potenziali;

‒ in caso di disomogeneità (950 casi su 2226) è stato calcolato il valore medio dei tre punteggi,

successivamente arrotondato per eccesso al valore intero più vicino, utilizzando quest’ultimo

come dato di sintesi.

Successivamente, sommando i punteggi degli indicatori che la compongono, sono stati

calcolati i punteggi per ciascuna categoria. Ogni categoria, costituita da 6 indicatori, può assume-

re teoricamente un valore da 0 a 18. Tali punteggi di categoria sono stati riportati alla scala da 0 a

3 con il seguente criterio: da 0 a 2 = 0; da 3 a 8 = 1; da 9 a 14 = 2; da 15 a 18 = 3.2

Al termine di questa procedura, è stato messo a punto un quadro sinottico, costituito

dall’incrocio dei 42 indicatori divisi in 7 categorie (in riga) con le 53 Strutture (in colonna). Cia-

2 In tutti i passaggi della ricerca che hanno richiesto una trasformazione dei punteggi per riportarli alla scala da 0 a 3, i

cutoff sono stati definiti in modo da privilegiare la sensibilità rispetto ai segnali critici: nell’esempio riportato, la pre-

senza di tre indicatori con punteggio pari a 1 e di tre indicatori con punteggio pari a 2 determina un punteggio di cate-

goria pari a 2.

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scuna delle 2597 celle risultanti conteneva un punteggio sulla scala da 0 a 3.

Ciò ha consentito di procedere con due tipi di analisi dei dati: trasversale (per ciascun in-

dicatore considerando tutte le Strutture) e verticale (per ciascuna Struttura considerando tutti gli

indicatori). Precisamente:

‒ la somma dei punteggi ottenuti da ogni singolo/a indicatore/categoria nelle 53 Strutture (teori-

camente variabile tra 0 e 159) è stata riportata alla scala da 0 a 3 con il seguente criterio: da 0

a 26 = 0; da 27 a 79 = 1; da 80 a 132 = 2; da 133 a 159 = 3. Questo dato indica il livello di ri-

schio associato a ciascun indicatore/categoria considerando l’ASO nel suo complesso;

‒ la somma dei punteggi dei 42 indicatori riferiti a ogni singola Struttura (teoricamente un valo-

re da 0 a 126) è stata riportata alla scala da 0 a 3 con il seguente criterio: da 0 a 20 = 0; da 21 a

62 = 1; da 63 a 104 = 2; da 105 a 126 = 3.

Quest’ultimo dato indica il livello di rischio associato a ciascuna Struttura, con il signifi-

cato indicato in Tabella 2.

TABELLA 2

Scala utilizzata per la valutazione del livello di rischio associato alle Strutture

Livello di rischio Note

Non significativo

punteggio = 0

L’analisi dei dati non evidenzia particolari con-

dizioni che possono determinare la presenza di

SLC nella Struttura

Basso

punteggio = 1

L’analisi dei dati evidenzia che il livello genera-

le di rischio per la Struttura non è critico. Singoli

indicatori potrebbero determinare situazioni di

SLC per gruppi di operatori

Medio

punteggio = 2

L’analisi dei dati evidenzia situazioni che po-

trebbero determinare la presenza di SLC nelle

Strutture per le quali si devono predisporre azio-

ni correttive/preventive

Elevato

punteggio = 3

L’analisi dei dati evidenzia situazioni che indi-

cano la presenza di SLC nella Struttura per le

quali è necessario. predisporre tempestive azioni

correttive

3. Risultati e discussione

L’analisi di ciascuno degli indicatori aziendali considerati nella prima fase di ricerca non

ha evidenziato elementi suggestivi di criticità per quanto attiene a situazioni di SLC: tutti gli in-

dicatori risultano stabili e con un livello inferiore rispetto ai dati di riferimento riportati in lettera-

tura.

La Tabella 3 riporta un estratto del quadro sinottico messo a punto nelle successiva fasi

di ricerca, in cui le righe sono costituite dai 42 indicatori raggruppati in 7 categorie, e le colonne

sono costituite dalle 53 Strutture.

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In termini generali, l’indagine condotta ha consentito di ottenere tre tipi di dati:

‒ anzitutto, sono stati individuati gli indicatori trasversali a tutta l’ASO con un livello “Medio”

e “Elevato” di rischio SLC, sui quali intervenire con azioni di bonifica condotte a livello di

ASO;

‒ successivamente, sono state individuate le Strutture con un livello “Medio” e “Elevato” di ri-

schio SLC, sulle quali intervenire sia con azioni mirate di bonifica (in riferimento agli indica-

tori per i quali il livello di rischio è stato valutato “Elevato”) sia in un’ottica preventiva (in ri-

ferimento ad altri indicatori con livello di rischio “Basso”);

‒ infine, sono state rilevate le criticità puntuali (ovvero ulteriori rispetto agli indicatori trasver-

sali) presenti in Strutture con livello di rischio “Non Significativo” o “Basso”, sulle quali in-

tervenire con azioni mirate di bonifica.

TABELLA 3

Estratto dal quadro sinottico dei risultati della ricerca

Struttura 1

Blocco

operatorio

Struttura 2

Pronto

soccorso

… Struttura 53

Urologia

Categoria 1 – Condizioni di lavoro 11 16 9

1.1 – Lavoro a turni e/o reperibilità 1 3 1

1.2 – Ritmi di lavoro 2 3 2

1.3 – Adeguatezza delle risorse umane necessa-

rie allo svolgimento delle attività 1 1 1

1.4 – Adempimenti burocratici 1 3 1

1.5 – Ambienti di lavoro e condizioni ergono-

miche 3 3 2

1.6 – Grado di attenzione richiesto dalle attività 3 3 2

Categoria 2 – Controllo e decisionalità

lavorativa 10 9 4

2.1 – Adeguato coinvolgimento nelle decisioni

inerenti la gestione del paziente 2 1 0

2.2 – Adeguato coinvolgimento nelle decisioni

organizzative 3 1 1

2.3 – Autonomia professionale 0 1 1

2.4 – Partecipazione alle decisioni aziendali 3 1 1

2.5 – Controllo sulla programmazione delle at-

tività 2 3 0

2.6 – Pertinenza degli assistiti rispetto alla spe-

cificità della Struttura 0 2 1

Categoria 3 – Relazione con l’utenza 5 10 7

3.1 – Presa in carico dei bisogni emotivi dei

pazienti e dei parenti 1 2 1

3.2 – Coinvolgimento affettivo degli operatori 0 1 2

3.3 – Gestione della conflittualità con pazienti e

familiari 0 3 1

3.4 – Aspetti etici relativi ai trattamenti sanitari 1 0 0

3.5 – Confronto con la morte o gravi patologie 1 3 2

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3.6 – Assistenza a pazienti fragili 2 1 1

Categoria 4 – Comunicazione 8 10 9

4.1 – Disponibilità di informazioni relative alla

condizione clinica dei pazienti 1 2 1

4.2 – Disponibilità di informazioni relative alle

modalità di svolgimento del lavoro 2 0 2

4.3 – Comunicazione aziendale rivolta agli o-

peratori 2 1 2

4.4 – Adeguatezza delle riunioni (frequenza ed

efficacia) 1 1 1

4.5 – Interferenze nello svolgimento delle atti-

vità 2 3 2

4.6 – Comunicazione con pazienti e famigliari

relativa agli aspetti professionali 0 3 1

Categoria 5 – Supporto e valorizzazione 10 7 8

5.1 – Possibilità di rivolgersi ai propri superiori 2 1 0

5.2 – Supporto professionale da parte dei colle-

ghi 2 1 0

5.3 – Supporto emotivo 1 2 2

5.4 – Sviluppo di carriera 2 1 2

5.5 – Sistemi premianti 2 1 2

5.6 – Formazione relativa all’acquisizione di

competenze professionale e trasversali 1 1 2

Categoria 6 – Ruolo nell’organizzazione 11 13 5

6.1 – Definizione dei contenuti e dei confini del

ruolo 2 1 0

6.2 – Chiara definizione delle responsabilità del

ruolo svolto in Azienda 1 1 0

6.3 – Rapporti all’interno della struttura 2 2 1

6.4 – Rapporti con altre strutture 1 3 0

6.5 – Responsabilità verso gli utenti 2 3 1

6.6 – Potenziali contenziosi legali 3 3 3

Categoria 7 – Aspetti soggettivi 7 10 4

7.1 – Percezione dell’adeguatezza delle proprie

competenze 1 1 1

7.2 – Percezione della valorizzazione del pro-

prio operato 2 2 1

7.3 – Controllo delle emozioni 1 2 0

7.4 – Percezione di tutela della propria sicurez-

za da parte dell’Azienda 2 1 0

7.5 – Percezione di rischio derivante dal lavoro

a contatto con pazienti potenzialmente violenti 0 2 1

7.6 – Equilibrio vita-lavoro 1 2 1

Considerando gli indicatori, un più significativo livello di rischio SLC è emerso in sei ca-

si. Quattro di questi appartengono alla categoria delle “Condizioni di lavoro”: “Ritmi di lavoro”,

“Adeguatezza delle risorse umane necessarie allo svolgimento delle attività”, “Ambienti di lavoro

e condizioni ergonomiche” e “Grado di attenzione richiesto dalle attività”. Il primo e il quarto in-

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dicatore chiamano in causa fonti di rischio SLC già evidenziate in altre ricerche (Argentero et al.,

2010; Peterson et al. 2008); il secondo e il terzo aspetto possono essere considerati più specifici

per l’ASO in cui è stata effettuata la ricerca. Gli altri due indicatori sono le “Interferenze nello

svolgimento delle attività” e i “Sistemi premianti”. Anche queste ultime due problematiche pos-

sono essere considerate specifiche per l’ASO in cui è stata effettuata la ricerca.

Guardando alle Strutture, un significativo livello di rischio SLC si è riscontrato in otto

casi. Tra queste Strutture, ve ne sono in alcune sono presenti in misura più critica le problemati-

che trasversali appena descritte, mentre in altre, come il Pronto Soccorso e la Psichiatria, sono

emerse problematiche altamente specifiche.

Il percorso di ricerca ha consentito inoltre di individuare ulteriori criticità “puntuali” (in-

dicatori con punteggio 3 in Strutture con punteggi complessivi che indicano un rischio “Non si-

gnificativo” o “Basso”), che in alcuni casi hanno confermato dati già noti in letteratura, come ad

esempio la criticità del “Controllo delle emozioni” per gli operatori di Oncologia (Le Blanc et al.

2001) o gli “Aspetti etici legati ai trattamenti sanitari” per Geriatria (White et al. 2006), in altri

casi hanno rilevato criticità tipiche dell’ASO in cui è stata realizzata la ricerca, come ad esempio i

“Rapporti all’interno della Struttura”, che possono risultare estremamente utili per orientare le

successive azioni di bonifica e/o prevenzione.

Tra i limiti della ricerca è importante segnalare in primo luogo la sua durata che, conside-

rando tutte le fasi, è risultata pari a circa un anno e mezzo. In questo intervallo temporale si sono

verificati alcuni cambiamenti (ad esempio una Struttura è stata trasferita in altri locali di recente

ristrutturazione) e gli esiti di questi cambiamenti sono stati considerati solo parzialmente. Un se-

condo limite è relativo ai costi della ricerca e all’impegno richiesto: in questo senso non sempre è

stato semplice inserire i momenti di indagine (in particolar modo le interviste e i focus group)

all’interno di una routine comunque molto impegnativa e solo in minima parte programmabile;

inoltre, si è reso necessario un preventivo allineamento dei ricercatori al fine di rendere omogenei

i criteri di valutazione utilizzati per attribuire i punteggi agli indicatori della check-list. Un ulte-

riore limite riguarda l’impossibilità di coinvolgere tutti i dipendenti dell’ASO nella fase 6 di

compilazione della check-list, ma solo un campione rappresentativo, a causa della limitazione nei

tempi e nelle risorse.

4. Implicazioni per l’intervento

La presentazione e discussione dei risultati con il vertice aziendale ha originato un pro-

gramma di intervento composto da quattro linee di azione.

La prima linea di azione è relativa alle criticità trasversali di tipo organizzativo, e riguar-

da gli indicatori “Adeguatezza delle risorse umane necessarie allo svolgimento delle attività”,

“Ambienti di lavoro e condizioni ergonomiche”, “Interferenze nello svolgimento delle attività” e

“Sistemi premianti”. Interventi programmati per i prossimi mesi sono la ridefinizione delle moda-

lità di analisi dei bisogni formativi individuali, la razionalizzazione dell’utilizzo di alcuni spazi,

la limitazione all’accesso da parte degli utenti, la gestione del ricevimento telefonico (solo in al-

cune fasce orarie) e la revisione del sistema di valutazione delle prestazioni.

La seconda linea d’azione riguarda le Strutture in cui il livello di rischio stress è risultato

più significativo: qui, al/i Responsabile/i, è stato chiesto di individuare tre priorità di intervento e

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– per ciascuna di esse –– un percorso finalizzato a diminuire lo stress percepito, all’interno della

propria Struttura. Inoltre, ai Responsabili che lo desiderano potrà essere offerto un percorso di

coaching individualizzato per accrescere le competenze di gestione del gruppo e dei singoli.

La terza linea di azione consiste in un percorso formativo in piccolo gruppo per tutti gli

operatori delle Strutture che hanno evidenziato criticità relative agli aspetti di relazione con i pa-

zienti o i famigliari, la presa in carico dei bisogni emotivi del paziente, il controllo delle proprie

emozioni.

Un’ultima linea di azione, infine, è di tipo preventivo e consiste nell’introduzione di un

modulo di circa mezza giornata dedicato ai temi dello SLC e della sua gestione mediante un effi-

cace stile di coping all’interno delle iniziative di formazione obbligatoria per tutto il personale

dell’ASO sul tema della Sicurezza in Azienda.

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143

14. Dar voce al disagio: uno studio esplorativo su storie di vita lavorativa Laura Dal Corso

1. Quadro di riferimento e agenda del paziente

Ci collochiamo all’interno dell’ambito teorico-metodologico relativo alla valutazione e al-

la prevenzione del rischio stress lavoro-correlato nella prospettiva del benessere organizzativo. Sappiamo che “potenzialmente lo stress può riguardare ogni luogo di lavoro e ogni lavoratore, in-dipendentemente dalle dimensioni dell’azienda, dal settore di attività o dalla tipologia del contratto o del rapporto di lavoro”, così come viene affermato nell’Accordo Europeo sullo stress lavoro-correlato dell’8 ottobre 2004, successivamente recepito nel D.Lgs. 81/2008 (art. 1, comma 2).

Secondo le indicazioni della Commissione Consultiva Permanente sulla salute e sicurez-za sul lavoro, divulgate con la circolare del 18 novembre 2010 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e relativo comunicato in G.U. n. 304 del 30 dicembre 2010, la valutazione dello stress lavoro-correlato prevede una fase preliminare “necessaria” costituita dalla rilevazione di “indicatori di rischio da stress lavoro-correlato oggettivi e verificabili e, ove possibile, numeri-camente apprezzabili” (eventi sentinella, fattori di contenuto e fattori di contesto del lavoro) ed una fase approfondita “eventuale” volta a rilevare le valutazioni soggettive dei lavoratori relati-vamente alla percezione e rappresentazione del proprio lavoro (su questi temi si rimanda al capi-tolo di Nicola A. De Carlo nel presente volume). È noto, comunque, che la distinzione non è così netta poiché in tutti gli indicatori oggettivi esiste una componente valutativa soggettiva legata alla personale interpretazione del dato oggettivo e, viceversa, tutte le valutazioni soggettive non pos-sono prescindere dell’oggettività delle situazioni alle quali si riferiscono; ne deriva che una valu-tazione del rischio stress lavoro-correlato può ritenersi realmente adeguata quando va oltre al semplice adempimento delle indicazioni normative ed è in grado di valorizzare anche la succes-siva fase “eventuale” consentendo ai lavoratori di manifestare il proprio vissuto e di esprimere le proprie valutazioni.

Tali considerazioni riguardano anche gli strumenti che è possibile adottare nella valuta-zione del rischio stress lavoro-correlato, per cui oltre a quelli basati su misure oggettive (quali da-ti di archivio, misure biologiche, …), tipici della fase preliminare e che presentano generalmente la caratteristica di non variare da valutatore a valutatore, è raccomandabile l’uso di strumenti ba-sati su misure self-report i quali peraltro, se usati da soli, potrebbero determinare errori derivanti dalla soggettività delle valutazioni personali relative ai fattori di rischio e al modo in cui le perso-ne percepiscono le proprie condizioni di lavoro (si veda in proposito il capitolo di Alessandra Falco nel presente volume).

È evidente che anche un’accurata valutazione complessiva del rischio che non abbia evi-denziato situazioni difficili o anomale non esclude la possibilità che all’interno di un contesto or-ganizzativo alcuni lavoratori possano percepire un disagio – anche di rilievo – correlato a stress da lavoro; è emersa, di conseguenza, anche la necessità di offrire al lavoratore la possibilità di da-re voce al proprio disagio attraverso l’istituzione di apposite strutture. In particolare la Legge Re-

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gionale del Veneto del 22 gennaio 2010, n. 8 (Prevenzione e contrasto dei fenomeni di mobbing e tutela della salute psico-sociale della persona sul luogo di lavoro) all’art. 6 prevede che all’inter-no delle aziende ULSS siano attivati “Sportelli di assistenza ed ascolto sul mobbing, sul disagio lavorativo e sullo stress psico-sociale nei luoghi di lavoro”, il cui fine è quello di informare il la-voratore sui propri diritti e sui relativi strumenti di tutela, orientandolo se necessario verso le strutture di supporto presenti in ambito regionale, tra le quali particolare importanza rivestono i Centri di riferimento per il benessere organizzativo previsti dall’art. 7 della stessa legge in ogni azienda ULSS del Comune capoluogo di provincia. I compiti dei Centri sono rappresentati dall’accertamento dello stato di disagio psico-sociale o di malattia del lavoratore e dall’eventuale indicazione del percorso terapeutico di sostegno, cura e riabilitazione; dall’individuazione delle misure di tutela che il datore di lavoro è tenuto ad adottare quando siano effettivamente rilevati casi di disagio lavorativo; dal supporto agli SPISAL nelle attività di verifica sui luoghi di lavoro relative alla valutazione dei rischi psico-sociali ai sensi dell’art. 28 del D.Lgs n. 81/2008 e ss.mm.. Lo svolgimento di tali compiti è opportunamente demandato dal legislatore ad un Colle-gio multidisciplinare di specialisti coordinato da un medico specialista in medicina del lavoro, del quale fanno parte almeno uno psicologo esperto in test psicodiagnostici, uno psicologo esperto in psicologia del lavoro e delle organizzazioni, un medico specialista in psichiatria ed uno psicote-rapeuta, in grado di fornire attraverso l’integrazione delle diverse specifiche competenze profes-sionali un servizio qualificato nella gestione delle situazioni di disagio, che tenga conto sia dei fattori individuali di carattere somatico e psicologico che di quelli organizzativi.

L’analisi della letteratura scientifica di settore testimonia come la qualità della relazione in-terpersonale in ambito sanitario (quindi nell’ambito delle strutture e dei compiti istituzionali delle ULSS appena descritti), anche nell’approccio evidence based, sia una tra le variabili più importanti in grado di incidere non solo sulla compliance e sull’esito di un intervento terapeutico, ma anche sul comportamento dello stesso professionista della cura. Tale relazione è influenzata, come è noto, dalle caratteristiche individuali di quest’ultimo e del paziente, dal loro rispettivo ruolo, dai vissuti di disa-gio o di malattia, nonché dal contesto istituzionale e socio-culturale in cui tale interazione avviene.

La centralità della relazione interpersonale in ambito sanitario si è progressivamente af-fermata, a partire dagli anni Settanta, con lo sviluppo di un modello bio-psico-sociale accanto al modello bio-medico tradizionale evidence based, e tale centralità è ben rappresentata dal rilievo assegnato da Kleinmann (1988) al termine “illness”, inteso come vissuto soggettivo della persona malata, accanto al termine “disease”, che identifica la mera alterazione organica e/o funzionale, nella definizione dello stato di malattia.

Il riconoscimento dell’importanza del vissuto di malattia nello stabilirsi di un’alleanza te-rapeutica con il paziente, presupposto irrinunciabile per la comprensione e per la cura della ma-lattia stessa, ha portato negli Stati Uniti negli anni Novanta, grazie all’opera di Rita Charon pres-so la Columbia University (1995) e ai lavori di Greenhalgh e Hurwitz (1998), e solo più di recen-te in Italia, allo sviluppo di un approccio definito “�arrative Based Medicine”, nell’ambito del quale il paziente diventa elemento centrale della relazione terapeutica, in quanto la sua narrazione della malattia integra la raccolta di sintomi e segni obiettivi consentendo “al medico che ascolta attentamente di ottenere a parità di tempo molti più dati clinicamente utili a scopo diagnostico e terapeutico” (Moja & Vegni, 2000, p. 120).

L’approccio narrativo proprio del modello di medicina patient-centered non sostituisce il modello biomedico tradizionale disease-centered, ma lo integra e lo completa ponendo attenzione

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non solo alla spiegazione della malattia in senso biologico ma anche alla comprensione di come essa venga percepita e vissuta dal paziente (Gangemi, Zanetto, & Elli, 2006; Bert, 2007). L’importanza della dimensione narrativa è testimoniata dal fatto che la disponibilità a sottoporsi ad accertamenti diagnostici e l’accettazione del progetto terapeutico sono ampiamente influenzate dai significati che pazienti e professionisti della cura hanno co-costruito nella loro relazione attraverso la narrazione.

Vale la pena di ricordare che i “vissuti di malattia”, sia cognitivi (congetture, teorie, cre-denze, automatismi) sia emotivi (emozioni, sentimenti, stati d’animo), sono di natura inconsape-vole. Essi si trasformano in “esperienza di malattia” per il paziente, il quale ne acquisisce in tal modo la consapevolezza, soltanto attraverso quel processo di riflessione, alla base dell’appren-dimento degli adulti (Mezirow, 2003), che può essere favorito dalla narrazione della propria ma-lattia in forma autobiografica (Holt, 2004). In tale prospettiva la storia del paziente, co-costruita con il professionista della cura, diventa un importante strumento di conoscenza della malattia; es-sa inoltre offre l’opportunità di un cambiamento attraverso la riflessione su sé stesso e sulla pro-pria vita personale e lavorativa, e contribuisce al superamento della situazione di disagio aprendo la strada all’elaborazione di un nuovo progetto esistenziale e professionale.

Una raccolta del vissuto di malattia del paziente, da affiancare all’analisi della dimensio-ne biologica della malattia e in grado di orientare concretamente il curante, può essere ottenuta ricorrendo al concetto di “agenda” del paziente, proposto da Moja e Vegni (2000) ed articolato in tre settori di interesse che si identificano nell’area dei sentimenti evocati nel paziente dalla malat-tia, nell’area delle idee e delle interpretazioni della malattia dal suo punto di vista e nell’area delle aspettative e dei desideri riguardo alle possibili cure; è inoltre parte integrante dell’agenda il con-testo familiare, sociale, culturale e lavorativo del paziente che ricomprende le tre aree e le loro influenze reciproche. Il contesto infatti è in grado di modificare i sentimenti, le idee e le interpre-tazioni, i desideri e le aspettative del paziente, che oltre ad influenzarsi tra loro ricadono sul con-testo stesso modificandolo a sua volta. In tale prospettiva si colloca il contributo di Dal Corso, De Carlo, Sandler, Di Sipio e Armezzani (2010).

L’applicazione dell’approccio narrativo in ambito sanitario si è rivelata efficace sia nella fase diagnostica, fornendo al curante indizi utili ad identificare la malattia e facilitandone la com-prensione e l’accettazione da parte del paziente, sia in quella terapeutica, favorendo l’adesione alle cure e creando il presupposto per il miglioramento clinico in quanto essa stessa intrinseca-mente terapeutica; ha inoltre, come già sottolineato, importanti finalità educative, stimolando il processo di riflessione sull’esperienza di malattia del paziente, nonché formative per i professio-nisti della cura (Garrino, 2010).

La poesia del Premio Nobel per la Letteratura Wisława Szymborska dal titolo “La gioia di scrivere” (2009, pp. 182-185) offre lo spunto per illustrare i benefici dell’elaborazione scritta di eventi ed emozioni sulla salute psicofisica sia dei pazienti sia dei professionisti della cura, nonché il suo valore formativo su questi ultimi.

Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto? Ad abbeverarsi a un’acqua scritta che riflette il suo musetto come carta carbone? Perché alza la testa, sente forse qualcosa? Poggiata su esili zampe prese in prestito dalla verità, da sotto le mie dita rizza le orecchie. Silenzio – anche questa parola fruscia sulla carta e scosta i rami generati dalla parola “bosco”.

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Sopra il foglio bianco si preparano al balzo lettere che possono mettersi male, un assedio di frasi che non lasceranno scampo. In una goccia di inchiostro c’è una buona scorta di cacciatori con l’occhio al mirino, pronti a correr giù per la ripida penna, a circondare la cerva, a puntare. Dimenticano che la vita non è qui. Altre leggi, nero su bianco, vigono qui. Un batter d’occhio durerà quanto dico io, si lascerà dividere in piccole eternità piene di pallottole fermate in volo. �on una cosa avverrà qui se non voglio. Senza il mio assenso non cadrà foglia, né si piegherà stelo sotto il punto del piccolo zoccolo. C’è dunque un mondo di cui reggo le sorti indipendenti? Un tempo che lego con catene di segni? Un esistere a mio comando incessante? La gioia di scrivere. Il potere di perpetuare. La vendetta d’una mano mortale.

2. Memoriali e storie personali

La scrittura dell’esperienza di malattia (autopathography), genere letterario che si è svi-

luppato già a partire dagli anni Cinquanta, fornisce materiale prezioso per la formazione dei pro-fessionisti della cura ed ha inoltre un valore terapeutico, pur non essendo l’unica tipologia di testo narrativo utilizzato in medicina (Charon, 2001; 2006).

I primi studi sugli effetti terapeutici della scrittura delle proprie emozioni sulla salute del-le persone sia sane che malate, denominata “expressive writing” in quanto si concentra essen-zialmente sull’espressione delle emozioni, si devono a Pennebaker (1997a; 1997b). Quando essa si propone finalità più ampie rispetto al superamento di una situazione traumatica viene definita “therapeutic writing” assumendo prospettive educative, autoeducative e trasformative (Demetrio, 1995); per le indicazioni e controindicazioni all’utilizzo della scrittura autobiografica nelle diver-se tipologie di pazienti si rimanda al contributo di Zannini (2008).

La scrittura autobiografica in ambito sanitario può rappresentare un’utile strategia per il paziente nell’attribuire un significato alla malattia attraverso la narrazione coerente dell’esperien-za vissuta o ancora in corso. Per una valida costruzione del patto autobiografico il paziente va la-sciato libero di decidere che cosa narrare, come narrarla e se condividerla con “altri significativi” quali altri pazienti, familiari e operatori sanitari (Bolton, 1999).

In tale contesto è assai raro che la scrittura autobiografica riguardi l’intera esperienza di malattia, focalizzandosi più frequentemente su ricordi, idee, pensieri, emozioni e sogni; Formenti (1998) la definisce in tal caso scrittura autobiografica per “temi prefissati”, che si presenta come un compito assai più facile per il paziente perché riconducibile all’interno di una chiara cornice di riferimento nello spazio e nel tempo.

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Seguendo la classificazione proposta da Demetrio (2008), il memoriale rientra fra le scritture egografiche maggiori, caratterizzate da prevalenti riferimenti al passato e da una partico-lare attenzione alla struttura narrativa e “riassume in chiave prospettica – a differenza del diario che registra nel momento del loro accadere – eventi memorabili e particolari: lo si scrive per rac-contare un viaggio avventuroso, un momento di vita inusuale, una vicenda bellica alla quale si è sopravvissuti o una situazione di prigionia, di sofferenza o di malattia. Anche una circoscritta sto-ria d’amore” (p. 211).

La stesura del memoriale può rappresentare per il paziente un’utile modalità di ricostru-zione dei fatti e nel contempo offre l’opportunità di elaborare i propri vissuti di malattia, rappre-sentando la prima esperienza di formalizzazione della propria situazione di disagio e restituendo un filo logico all’insieme spesso caotico degli eventi; per il professionista che si occupi di valuta-zione del rischio stress lavoro-correlato il memoriale, secondo Menelao, Della Porta e Rindonone (2001), può essere utile, accanto alle informazioni ricavate nell’ambito del colloquio e dalla somministrazione di test diagnostici, nell’analisi delle relazioni tra disagio e ambiente/attività la-vorativa. A tal fine può essere utile suggerire al paziente di concentrarsi su aspetti specifici quali le motivazioni che lo hanno condotto ad accedere al servizio, l’esordio del disagio, la sua evolu-zione nel tempo, la situazione attuale.

L’approccio narrativo, che nel presente lavoro viene applicato all’analisi dei resoconti scritti (memoriali) di situazioni di disagio lavorativo, costituisce un interessante ambito di ricerca e di intervento, i cui risultati preliminari vengono di seguito descritti.

3. Obiettivi, metodologia e partecipanti

Alla luce delle premesse sopra delineate, ci si propone di valorizzare, al fine di una mi-

glior comprensione del possibile disagio sperimentato in ambito lavorativo e del suo significato per il singolo, il contributo del metodo narrativo in ambito sanitario, evidenziandone le ricadute positive sulla percezione della relazione interpersonale tra professionisti della cura (nel nostro ca-so medico del lavoro, psicologo del lavoro e delle organizzazioni, psicologo clinico, psicotera-peuta) e richiedenti/utenti (date le situazioni e le finalità dei servizi presi in esame, da qui in poi si userà prevalentemente quest’ultimo termine).

La ricerca, di tipo esplorativo, è stata realizzata attraverso l’analisi dei resoconti scritti da 25 utenti che si sono rivolti al “Laboratorio per la valutazione e la prevenzione delle problematiche occupazionali da stress” del Dipartimento di Prevenzione – Spisal Ulss 16 di Padova (in un perio-do che va dal 2006 ai primi mesi del 2010), di cui 14 resoconti prodotti da donne e 11 da uomini, realizzata attraverso la tecnica dell’analisi tematica del contenuto. Per una descrizione approfondi-ta degli obiettivi, delle attività e del percorso di valutazione proposto dal Laboratorio si rimanda al capitolo del presente volume di Vianello, Ferrarin, Zanella, Ambrosiano e Sarto (2012).

La richiesta di produrre il memoriale è in accordo con le linee guida proposte dal Network Nazionale per la Prevenzione del Disagio Psicosociale nei Luoghi di Lavoro. Il network condivide il protocollo diagnostico e la procedura operativa dell’ISPESL (2007), oggi confluito nell’INAIL.

La richiesta di produrre una narrazione scritta (memoriale) si è collocata nell’ambito della fase di accesso del richiedente al Laboratorio. Le indicazioni fornite in tale fase dall’équipe erano

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volutamente “neutre”, con la sola raccomandazione che la narrazione fosse il più possibile completa e accurata per meglio comprendere la sua situazione; il richiedente veniva inoltre informato che es-sa avrebbe costituito parte integrante della documentazione raccolta. La consegna del memoriale scritto avveniva durante il primo colloquio e costituiva il punto di partenza per la valutazione della situazione, con particolare riferimento alla relazione esistente tra disturbi e rischi psicosociali, all’opportunità di un eventuale approfondimento diagnostico e alla necessità di sostegno e di cura.

4. Analisi delle narrazioni scritte

Dopo una prima lettura “ingenua” dei memoriali, essi sono state sottoposti ad un’analisi

del contenuto, volta ad individuare da un corpus di dati qualitativi molto ampio i temi ricorrenti, che a loro volta sono stati articolati in categorie sulla base del significato emerso dai testi. L’approccio metodologico adottato, in linea con i presupposti della Grounded Theory (Glaser & Strauss, 1967), è di tipo bottom-up, il cui “obiettivo principale è quello della ‘scoperta’ di nuove categorie di contenuto partendo dal basso, dai dati stessi” […] dal punto di vista soggettivamente scelto dal ricercatore” (Lucidi, Alivernini, & Pedon, 2008). Al fine di raggiungere un livello di ricostruzione interpretativa soddisfacente, è stata prevista una fase di confronto e di condivisione fra i professionisti coinvolti.

I memoriali appaiono, sin dalla prima lettura, molto diversi tra loro per: a) sequenzialità in cui gli eventi narrati sono organizzati, in alcuni casi i dettagli e le loro con-

nessioni sono particolarmente precisi; b) presenza di eventi inattesi che rompono la routine, quella che Smorti (1994) definisce “viola-

zione della canonicità” (“Il tutto nasce da quando …” “Il mio rapporto di lavoro inizia nel giugno dell’anno 2002 e fino a tutto l’anno 2005 si è svolto con serenità e tranquillità […] ad ottobre viene assunta una nuova figura per il controllo di gestione e già dal mese di novembre verifico la non reciprocità nella collaborazione ...”);

c) linguaggio utilizzato, discorsivo o piuttosto logico e razionale, carico di emotività oppure freddo e impersonale (“Come da richiesta, sono a produrre la seguente relazione che rappre-senta situazione di disagio, continuata e protratta, tale da produrre conseguenze anche e non solo sulla salute”);

d) completezza e accuratezza delle informazioni riportate (con dovizia di particolari, nomi, date, …); e) tendenza a descrivere rappresentazioni di eventi piuttosto che fatti obiettivi; f) esplicitazione delle finalità per cui la storia viene prodotta, una sorta di “etichettamento” del disagio

vissuto e narrato, con particolare riferimento al mobbing (“I primi mesi di questa attività di mob-bing, io la definisco tale, ma lo Spisal la definirà come crede”; all’oggetto della e-mail come pro-memoria “Relazione-denuncia di condotta riconducibile a molestie morali-mobbing”; “�el novem-bre 2005 dopo un anno passato a subire mobbing, fui vittima negli uffici della filiale dell’ennesima aggressione …”; “�el nuovo posto di lavoro non trovo, per una volta, problemi in ufficio e non tro-vo mobbing, al punto che io stesso sono portato a provare fiducia in questi nuovi colleghi”);

g) prevalenza nella narrazione del passato e del presente, raramente del futuro, denotando la dif-ficoltà di immaginare nuove prospettive alternative alla propria storia di disagio;

h) modalità di scrittura, in quanto 18 memoriali sono stati scritti mediante il computer, i restanti 7 a mano.

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All’atto della consegna del memoriale si è riscontrata, come evidenziato in letteratura, una certa difficoltà di alcuni utenti nella sua redazione, non solo sul versante del coinvolgimento emotivo legato alla rievocazione dei fatti ma anche, aspetto non trascurabile, da una modesta abi-tudine a scrivere di ciò che ci accade, riconducibile anche al diverso livello socio-culturale degli utenti stessi. Da ciò è anche derivata la mancata consegna all’équipe dei professionisti di altri memoriali, oltre a quelli presi in esame. Le motivazioni addotte erano essersene dimenticati, il non aver compreso bene le indicazioni o, ancora, non avere avuto tempo per la redazione.

Per una descrizione dei principali temi emersi dai 25 memoriali analizzati, accompagnata da alcuni esemplificativi stralci di testo si veda la Tabella 1 (alla fine di questo capitolo).

Come appare nella tabella, i disagi vengono percepiti come derivanti da costrittività or-ganizzative di varia natura e ricondotti a situazioni di marginalizzazione e sofferenza, anche acu-ta. Le percezioni – e le emozioni connesse, che sono manifestate anche attraverso metafore di particolare intensità, fra cui “... ero bianca come un lenzuolo”, “... sono stata ‘bersaglio’ di mal-trattamenti psicologici”, “... tutto ciò ha comportato la mia ‘morte civile’”, “… e mi trovo fino ad ora circa quattro mesi senza nessun referente, nessun compito da eseguire in un clima ostile a vegetare con i miei pensieri, adesso molto chiuso come un riccio”, “Cambiano le dirigenze e la sottoscritta viene barattata da un direttore a una direttrice”, “... questa è la schiavitù che ricono-sco e che ho metabolizzata”, “Il senso di umiliazione nell’essere immerso in tale acquario di di-cerie da anni e anni e senza possibilità di uscita mi ha prostrato”, “È palese che sono considera-to ormai come un lebbroso” – vengono sovente collegate a conflitti irrisolti con colleghi e supe-riori, a problematiche organizzative e gestionali avverse, alle caratteristiche della persona stessa.

5. Conclusioni, utilità e possibili sviluppi

Nel presente lavoro si è inteso descrivere in via preliminare l’utilità dell’applicazione del

metodo narrativo alla valutazione delle problematiche del disagio e dello stress lavoro-correlato, nonché le sue ricadute operative per una migliore relazione tra professionisti e utenti, evidenzian-done anche le possibili implicazioni a livello di ricerca e di intervento.

Dal punto di vista applicativo, le narrazioni hanno costituito un importante contributo per gli operatori del Laboratorio. Hanno facilitato infatti l’inquadramento delle diverse situazioni in-dividuali nell’ambito dei rispettivi contesti organizzativi.

Dal punto di vista della ricerca, sarebbe opportuno dar vita ad un approfondimento del li-vello di analisi, anche attraverso una specifica procedura software assistita e ulteriori studi che possano ampliare la casistica disponibile e consentire il monitoraggio nel tempo delle diverse si-tuazioni. La narrazione scritta prodotta all’inizio del percorso costituisce indubbiamente un utile strumento per la co-costruzione di una nuova narrazione della vita lavorativa dell’utente.

Dal punto di vista dell’intervento, il memoriale si presenta come una valida guida per una lettura clinica – nella fattispecie condotta essenzialmente in chiave costruttivista – utile per orien-tare il professionista nell’avvio del percorso di sostegno psicologico/psicoterapeutico, previsto nell’ambito del servizio offerto (Zanella, 2010; Covre, 2011).

Dal punto di vista dell’intervento formativo, infine, per i professionisti della cura si au-spica la possibilità di una reale valorizzazione del metodo narrativo anche attraverso l’approfon-dimento delle medical humanities, espressione con la quale si intende “qualsiasi forma sistemati-

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ca di studio che si propone di raccogliere e interpretare l’esperienza umana” (Evans, 2000, p. 510).

Poiché la raccolta della narrazione si è rivelata intrinsecamente una forma di aiuto per i professionisti e per gli utenti coinvolti, si ritiene possa essere utile tendere ad aumentare la com-pliance dell’utente rispetto alla richiesta di produrre il memoriale, rassicurandolo ulteriormente sulla naturale difficoltà iniziale che si può incontrare nel ri-costruire (e, dunque, ri-vivere) la pro-pria storia di disagio e di sofferenza e sottolineandone, nel contempo, l’elevato valore di appren-dimento trasformativo (Mezirow, 2003).

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Dar voce al disagio: uno studio esplorativo su storie di vita lavorativa Laura Dal Corso – Cap. 14

TABELLA 1 Aree tematiche, categorie, sotto-categorie ed esempi tratti dai testi

La situazione lavorativa precedente

“… a causa delle mie qualità professionali e grinta nella vendita di servizi ero molto apprezzato e portato come esempio di fronte ai miei colleghi dalla ditta e dal capo del-la filiale” (memoriale 4) “Ho sempre svolto il mio lavoro con professionalità e impegno e mi è stato dimostrato innumerevoli volte, sia verbalmente che con strette di mano dai clienti, il massimo rin-graziamento per la mia disponibilità, pazienza, cortesia e amore per il mio lavoro [...] il responsabile del negozio una settimana prima si era complimentato con me per il lavoro svolto e l’impegno dimostrato” (memoriale 3)

Le forme del disagio

Azioni

Sfera della comunicazione “… mentre alcuni altri da ottobre […] avevano scritto a caratteri cubitali sul mio ar-madietto […] e altre cose simili, punta di iceberg di anni di ogni sorta di insulti subiti” (memoriale 14) “… mi vengono disattivati gli accessi al software gestionale rendendomi difficile, se non in alcuni casi impossibile, lo svolgimento dei compiti a me ancora assegnati” (memo-riale 22) “… mi comunicò che con effetto immediato mi veniva impedito l’accesso all’auletta dove passavo l’orario di servizio, mi ritrovai quindi a trascorrere del tempo tra lo spogliatoio e la sala d’attesa assieme agli ammalati” (memoriale 6) “… nel manifestarmi ‘stima e apprezzamento’ mi consigliava di ‘andare via’ da tale posto di lavoro perché ‘mi farà morire’ […] vengo letteralmente aggredito, in maniera verbale, da […] che mi elencano, urlando, i supposti episodi di slealtà nei loro con-fronti e […] mi minaccia avvisandomi che chi si comporta male poi la pagherà” (me-moriale 1) “… e poi quando mi lamento con il Direttore e gli comunico che devo andare dal me-dico curante perché non sto bene degenera la situazione e vengo da quest’ultimo ag-gredito fisicamente” (memoriale 2)

Sfera delle relazioni sociali “Da quel momento cominciò per me una persecuzione sistematica operata dal Signor […] fatta di offese sia dirette che indirette, umiliazioni sia umane che professionali, lettere di richiamo disciplinari, boicottamento continuo e, un po’ per paura un po’ per convenienza, anche da parte dei miei colleghi non c’era nessuna solidarietà” (memo-riale 4) “Poi è arrivato l’isolamento da parte di […] e degli altri colleghi” (memoriale 19)

Sfera dell’immagine sociale

“… non solo mi aggredisce fisicamente in segreteria davanti a tutti i presenti, cac-ciandomi con spintoni dalla stessa, ma si precipita da […] il quale senza neanche sen-tire la mia versione dei fatti senza neanche informarmi sulle sue intenzioni manda im-mediatamente una lettera contro di me in Direzione” (memoriale 7) “Anche la mia nuova tutor […] invece di collaborare si impegnò screditandomi di fronte a colleghi e dirigenti, mettendomi in difficoltà, sminuendo il mio lavoro, arri-vando persino a critiche personali” (memoriale 20)

Sfera dell’area professionale

“… anche se rimango da solo gli esami prenotati non sono adeguatamente ridotti, quindi per giorni e giorni, ho dovuto eseguire, da solo, una quantità di lavoro prevista per due operatori. Inoltre, come già da mesi facevo, dovevo eseguire orario aggiuntivo all’istituzionale più pomeriggi alla settimana […] noto la mancanza del personal com-puter nell’ambulatorio dove lavoro […] mi accorgo che il telefono dell’ambulatorio è stato disabilitato […] un tavolino con dentro e sopra documenti era stato assurdamen-te ‘buttato’ via, l’ho trovato all’esterno e distante dall’ambulatorio” (memoriale 1) “Le mie giornate lavorative trascorrono senza essere adibita ad alcuna mansione da 4 mesi […] con accesso consentito solo al bagno in quanto tutti i locali vengono chiusi a chiave, in pausa pranzo rinchiusa in ufficio e discriminata in quanto a tutti, me esclu-sa, sono state consegnata le chiavi di accesso” (memoriale 22)

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�uovi codici del lavoro. Contributi per la salute e il benessere nelle organizzazioni a cura di N. A. De Carlo & M. Nonnis TPM Edizioni 2012

Dar voce al disagio: uno studio esplorativo su storie di vita lavorativa Laura Dal Corso – Cap. 14

Sfera della salute “… vengo aggredito verbalmente dalle colleghe [...] e dal Direttore aggredito fisica-mente” (memoriale 2) “… dopo essere stata aggredita per la seconda volta in pochi giorni e minacciata sen-za motivazione …” (memoriale 3)

Conseguenze

Salute “A tal punto ho dovuto ricorrere al mio medico curante che mi ha prescritto 3 giorni di riposo per ansia e disturbi del sonno onde evitare possibili crisi o danni fisici” (me-moriale 2) “In quel periodo ho cominciato ad accusare problemi di salute e mi è stata diagnosti-cata una sindrome ansioso-depressiva ed ho iniziato una terapia con farmaci” (memo-riale 1) “Ora mi trovo in uno stato di malessere persistente […]asma, aggressività mai avuta prima, irritabilità e irascibilità, ansia, tachicardia, acidità di stomaco, disturbi del sonno, stress, difficoltà a mangiare e quasi rifiuto di bere, astenia, bruciore agli occhi e difficoltà visive, dolori costanti alle ginocchia e alle caviglie e spesso mi capita un insolito prurito al torace” (memoriale 20) “Tutta questa situazione ha avuto pesanti ripercussioni sul mio stato psico-fisico: in-sonnia, irritabilità, depressione,episodi di colite spastica, uno stato di agitazione co-stante, problemi di stomaco […] sono aumentata di dieci chili e mi sono molto lasciata andare, ho avuto crisi di panico e uno stato d’ansia costante” (memoriale 7)

Ambiente familiare “Il possibile licenziamento mi è stato ‘manifestato’ alla presenza di mia moglie, con le conseguenze immaginabili” (memoriale 1) “Il dottor […] aveva richiesto la mia personale presenza per tali giorni e poi in realtà non c’erano esami prenotati […] un tale comportamento mi privava di una adeguata visita a mio padre malato” (memoriale 1) “Questa situazione ha fortemente gravato sulla mia salute psico-fisica e non solo, an-che sulla mia famiglia, sto assumendo ansiolitici in quanto non dormo più, ho sempre la pressione alta e non riesco più a rapportarmi con nessuno, nemmeno in famiglia” (memoriale 16) “Relativamente al mio stato attuale mi sento di poter dire che […] la mia vita coniuga-le, a seguito dei farmaci e non solo, ne sta risentendo” (memoriale 5)

Le emozioni connesse al disagio

“Gli aspetti non documentabili (attraverso l’esistenza di un carteggio e di atti pubbli-ci, ufficiali e scritti ) sono la parte predominante e più dura della mia vicenda” (me-moriale 14) “… la vergogna è il sentimento della mia condizione, la consapevolezza e accettazione di rimanere ad espiare la colpa di un sistema” (memoriale 23) “Mi aveva confusa, non sapevo cosa mi stesse chiedendo, mi sentivo più umiliata delle altre volte e incapace di darle una risposta” (memoriale 10) “Durante tutta questa situazione mi sentii umiliata e molto offesa” (memoriale 17) “Inoltre il fatto mi obbliga all’umiliazione di chiedere aiuto ai miei colleghi anche per le più banali informazioni a cui tutti possono accedere, quali ad esempio il numero di telefono di fornitori o clienti” (memoriale 25) “Il sottoscritto per paura, nonostante il foglio ferie fosse stato firmato, si presentava al lavoro” (memoriale 1) “�on riuscivo più a concentrarmi, il cervello ha cominciato ad elaborare continua-mente, senza pausa ed avevo sempre più paura” (memoriale 5) “… ho cominciato a piangere e ad agitarmi esprimendo apertamente la mia rabbia per come venivo trattata e il senso di ingiustizia che provavo per tutte quelle accuse ingiu-stificate” (memoriale 7)

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15. Efficacia percepita nella gestione dello stress e attività no-

profit: uno studio nelle associazioni di volontariato Veronica Cerina, Ferdinando Fornara

1. Introduzione

Negli ultimi vent’anni il fenomeno del volontariato è andato incontro, nel nostro paese, a

un periodo di forte crescita e diversificazione dei propri ambiti di intervento, alcuni dei quali ri-

chiedono notevoli capacità di gestire efficacemente situazioni altamente stressogene, quali ad e-

sempio quelle rappresentate dagli episodi di emergenza sanitaria o di calamità naturale.

Alcuni studi hanno dimostrato il ruolo delle attività stressanti nel favorire il calo dei livel-

li di soddisfazione dei volontari (Davis, Hall, & Meyer, 2003), mentre l’aumento del livello di

soddisfazione è in grado di prolungare la durata del loro servizio (Omoto & Snyder, 1995). Altri

studi hanno invece evidenziato il ruolo della reciprocità, ovvero del bisogno di raggiungere un

equilibrio tra il “dare” e il “ricevere” in cambio (in termini di incentivi alle proprie personali mo-

tivazioni che possono portare ad impegnarsi in attività volontaristiche), come fattore in grado sia

di ridurre lo stress all’interno delle relazioni d’aiuto, sia di sostenere il servizio dei volontari e a-

limentare il loro coinvolgimento in attività volontaristiche (Merrell, 2000; Walster, Walster, &

Berscheid, 1978). Dunque, sulla base di queste relazioni, aiutare i volontari ad affrontare effica-

cemente situazioni particolarmente stressanti (quali il mancato raggiungimento di un buon clima

organizzativo all’interno delle associazioni – cfr. Nonnis, 2007 – oppure eventi situazionali, co-

me, ad esempio, la carenza di personale volontario), attraverso l’elaborazione di adeguate strate-

gie di coping (Sbattella & Pini, 2004), può portare benefici sia al volontario, in termini di benes-

sere personale percepito, sia alle associazioni di appartenenza, favorendo una maggiore perma-

nenza dei membri al loro interno.

Il quadro concettuale di riferimento dello studio è costituito dalla teoria sociale-cognitiva

sulle convinzioni di efficacia percepita (Barbaranelli & Capanna, 2001; Bandura, 1997) e dal

modello delle funzioni del volontariato (VPM, Omoto & Snyder, 1995), che individua gli aspetti

psicologici, comportamentali e valoriali che si associano agli antecedenti, alle esperienze e alle

conseguenze dell’impegno volontario nei contesti sociali, organizzativi ed economici.

2. Obiettivi e ipotesi

Lo scopo dello studio è quello di approfondire la conoscenza sul ruolo di alcune dimen-

sioni psicologico-sociali nell’influenzare l’intenzione di continuare a fare volontariato in futuro.

In particolare, l’obiettivo principale consiste nel verificare l’importanza, come antecedenti di tale

intenzione, da un lato a) dell’efficacia percepita nella gestione dello stress derivante dalla parte-

cipazione ad attività volontaristiche, dall’altro lato b) della soddisfazione verso tali attività, so-

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Efficacia percepita nella gestione

dello stress e attività no-profit:

uno studio nelle associazioni di

volontariato Veronica Cerina, Ferdinando Fornara – Cap. 15

prattutto alla luce dei risultati emersi in altri studi sul tema (Davis, Hall, & Meyer, 2003; Omoto

& Snyder, 1995; Clary, Ridge, Stukas, Snyder, Copeland, Haugen, & Miene, 1998; Caprara,

2001; Penner & Finkelstein, 1998).

Le ipotesi operative della ricerca sono le seguenti:

� H1: l’efficacia percepita nella gestione dello stress è un predittore significativo della soddisfa-

zione;

� H2: la percezione di efficacia collettiva è un predittore significativo dell’efficacia percepita

nella gestione dello stress e della soddisfazione;

� H3: la soddisfazione, la percezione di efficacia collettiva e l’integrazione sono predittori signi-

ficativi delle intenzioni di continuare;

� H4: la percezione di aver ricevuto benefici è correlata positivamente alle intenzioni di continuare;

� H5: la longevità di servizio è correlata positivamente all’efficacia percepita nella gestione del-

lo stress e alla soddisfazione.

3. Metodo

3.1 Partecipanti e procedure di somministrazione

Hanno partecipato alla ricerca complessivamente 135 volontari, 71 maschi e 64 femmine

(rispettivamente il 52.6% e il 47.4% del campione) aderenti a nove associazioni di volontariato im-

pegnate prevalentemente negli ambiti socio-sanitario, socio-assistenziale, culturale e ambientale.

Tali associazioni sono operanti in diversi comuni di una zona geografica della Sardegna

sud-orientale.

L’età dei soggetti è compresa tra i 16 e gli 80 anni (M = 44.8, DS = 14.1).

Il livello di istruzione è prevalentemente medio-basso: in particolare, il 47.8% del cam-

pione ha conseguito la licenza media inferiore, il 37.3% è in possesso di un diploma, il 12.7% ha

unicamente la licenza elementare, mentre solamente il 2.2% è laureato (un partecipante non ha

fornito questa informazione).

Per quanto riguarda la professione svolta, il 26.9% dei volontari sono pensionati, il

18.4% sono impiegati e dipendenti, il 16.9% casalinghe, il 6.9% operai, il 6.2% disoccupati o i-

noccupati, mentre le altre categorie professionali sono rappresentate in percentuali trascurabili (5

volontari non hanno reso disponibile quest’informazione).

Per quanto riguarda la longevità di servizio in generale, non solo all’interno dell’associa-

zione della quale si è attualmente membri ma anche eventualmente come membri di altre asso-

ciazioni precedentemente frequentate, le percentuali maggiormente rappresentate sono costituite

dal 12.6% dei volontari che svolge servizio da almeno due anni, dal 10.4% che svolge servizio da

almeno un anno, dal 10.4% che svolge servizio da almeno dieci anni e dal 9.6% che svolge servi-

zio rispettivamente da sei anni e da otto anni.

Per quanto riguarda le ore di impegno settimanali, il 77.8% dei volontari dedica meno di

33 ore settimanali alle attività di volontariato, il 18.5% dedica al volontariato dalle 68 alle 101

ore settimanali, il 3% dedica dalle 34 alle 67 ore settimanali mentre gli altri intervalli sono rap-

presentati in percentuali trascurabili.

La somministrazione è avvenuta tra marzo e aprile del 2006.

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Efficacia percepita nella gestione

dello stress e attività no-profit:

uno studio nelle associazioni di

volontariato Veronica Cerina, Ferdinando Fornara – Cap. 15

3.2 Strumenti

I volontari che hanno accettato di partecipare alla ricerca hanno ricevuto un questionario

self-report contenente le seguenti misure.

Scala di efficacia personale (Barbaranelli & Capanna, 2001). La scala è composta da 19

item e misura quanto i singoli individui si ritengono capaci di far fronte efficacemente alle diver-

se esperienze che incontrano nell’ambito della loro attività volontaristica. La scala di risposta è a

cinque passi (da 1 = per niente capace a 5 = molto capace). Gli item sono riconducibili ad un u-

nico fattore che spiega il 38.55% della varianza, con alfa = .90.

Scala di efficacia percepita nella gestione dello stress (Barbaranelli & Capanna, 2001).

La scala è composta da 6 item appartenenti alla scala di efficacia personale e misura, nello speci-

fico, quanto i singoli individui si ritengono capaci di gestire efficacemente lo stress derivante dal-

la partecipazione ad attività volontaristiche. La scala di risposta è a cinque passi (da 1 = per nien-

te capace a 5 = molto capace). Gli item sono riconducibili ad un unico fattore che spiega il

49.74% della varianza, con alfa = .79.

Scala di efficacia collettiva (Barbaranelli & Capanna, 2001). Composta da 5 item, misura

quanto i volontari ritengono l’organizzazione nelle quale operano capace di far fronte e di gestire

efficacemente le situazioni e gli eventi problematici che si presentano nell’attività volontaristica.

La scala di risposta è a cinque passi e misura il grado di accordo dei volontari rispetto ad

una serie di capacità riconosciute all’associazione della quale fanno parte (da 1 = del tutto in di-

saccordo a 5 = del tutto d’accordo). Gli item sono riconducibili ad un unico fattore che spiega il

48.43% della varianza, con alfa = .73.

Percezione dei benefici ottenuti. La scala, mutuata da Clary et al. (1998), è composta da 6

item, ognuno dei quali misura se ed in quale misura il volontario ritiene di aver ottenuto,

nell’ambito del suo servizio di volontariato, dei benefici relativi a ciascuna delle sei funzioni mo-

tivazionali valutate dal VFI (motivazione ai Valori, alla Conoscenza, al Sociale, alla Carriera, alla

Protezione e all’Accrescimento). Ogni item è valutato su una scala a cinque passi (da 1 = per

niente vero a 5 = molto vero). Gli item sono riconducibili ad un fattore che spiega il 36.97% della

varianza, con alfa = .65.

Integrazione nell’associazione. La scala è costituita da 4 item con differenti formati di ri-

sposta. Un item è stato mutuato da Omoto e Snyder (1995) e misura l’importanza che ogni volonta-

rio attribuisce alla partecipazione alle assemblee dell’associazione di volontariato della quale fa par-

te (da 1 = per niente importante a 5 = molto importante). Gli altri tre item sono stati tratti da un que-

stionario utilizzato dall’IRS (Istituto per la Ricerca Sociale) e dal CRC (Centro di Ricerche sulla

Cooperazione) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nell’ambito di una ricerca sul

non-profit e valutano la frequenza con la quale i volontari intervengono alle riunioni, partecipano

alle attività dell’associazione (valutati su una scala a cinque passi, da 1 = mai a 5 = sempre) e il

tempo che viene dedicato settimanalmente al lavoro volontario, espresso in ore di servizio. Gli item

sono riconducibili ad un fattore che spiega il 77.62% della varianza, con alfa = .71.

Soddisfazione in relazione all’attività svolta. La scala, mutuata da Clary et al. (1998), è

composta da 3 item e misura quanto il volontario si ritiene soddisfatto della propria esperienza di

volontariato. Ogni item è valutato su una scala a cinque passi, da 1 = per niente vero a 5 = molto

vero. Gli item sono riconducibili ad un fattore che spiega il 78.86% della varianza, con alfa = .73.

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dello stress e attività no-profit:

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Intenzione di continuare a fare volontariato. Questa scala, mutuata da Omoto e Snyder

(1995), è composta da 5 item e riguarda l’intenzione manifestata dal volontario di continuare a

svolgere tale attività in futuro, sia a breve termine (nei successivi sei mesi), sia a lungo termine

(rispettivamente per ancora uno, tre e cinque anni).

Tutti gli item prevedevano un formato di risposta su scala a cinque passi, da 1 = per nien-

te probabile a 5 = molto probabile. Gli item sono riconducibili ad un unico fattore che spiega il

61.95% della varianza, con alfa = .79.

Longevità di servizio. La misura è composta da 2 item, ai quali i volontari dovevano ri-

spondere indicando rispettivamente da quanti anni svolgevano servizio volontario all’interno

dell’associazione della quale erano membri e da quanti anni facevano volontariato in generale,

eventualmente come membri di altre associazioni precedentemente frequentate.

La sezione finale del questionario comprendeva la raccolta dei dati socio-anagrafici del

rispondente.

4. Analisi dei dati

Prima di procedere con la verifica delle relazioni ipotizzate, sono state effettuate alcune

analisi preliminari sulle varie scale di misura per studiarne le caratteristiche psicometriche.

Per tutte le scale è stata effettuata l’Analisi delle Componenti Principali (ACP), con lo

scopo di identificare le soluzioni fattoriali più plausibili ed eliminare gli item che non risultavano

rappresentati per ciascuna soluzione.

L’attendibilità di scale e sottoscale è stata poi calcolata mediante il coefficiente Alfa di

Cronbach. Sono stati così eliminati gli item che, pur avendo saturazioni superiori a .30 sulla ri-

spettiva componente, abbassavano l’attendibilità della scala.

Si sono poi calcolati punteggi aggregati, costituiti dalla media delle risposte agli item

componenti, per ogni singolo fattore o scala.

Per la verifica delle relazioni ipotizzate sono state effettuate tre regressioni multiple, la

prima delle quali seguendo un approccio di tipo gerarchico.

5. Risultati

I risultati delle Analisi delle Componenti Principali e i coefficienti di coerenza interna

delle varie scale sono illustrati nella Tabella 1.

Nella Tabella 2 sono illustrati i risultati della regressione multipla gerarchica effettuata

considerando come criterio la percezione di efficacia nella gestione dello stress e come predittori

l’integrazione, la longevità di servizio e la percezione dei benefici ottenuti al primo passo, l’ef-

ficacia collettiva al secondo passo.

Nella Tabella 3 sono illustrati i risultati della regressione multipla della soddisfazione

sulla percezione di efficacia nella gestione dello stress, sull’efficacia collettiva e sulla longevità

di servizio come predittori.

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Efficacia percepita nella gestione

dello stress e attività no-profit:

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TABELLA 1

Proprietà psicometriche delle varie scale

Scale Fattori % Varianza

spiegata

item αlfa

Efficacia percepita

nella gestione dello

stress

Gestione stress 49.74 6 .79

Percezione benefici Percezione benefici 36.97 6 .65

Integrazione

nell’associazione Integrazione 77.62 2 .71

Soddisfazione per le

attività Soddisfazione 78.86 2 .73

Intenzione di

continuare Intenzione 61.95 4 .79

Efficacia personale Efficacia personale 38.55 18 .90

Efficacia collettiva Efficacia collettiva 48.43 5 .73

TABELLA 2

Regressione multipla gerarchica della percezione di efficacia nella gestione dello stress

su integrazione, longevità di servizio e percezione benefici (Passo 1) ed efficacia collettiva (Passo 2)

Criterio: gestione stress Coefficienti di regressione

Passo 1 Passo 2

Integrazione .20* .14

Longevità di servizio .05 –.03

Percezione benefici .21* .14

Efficacia collettiva – .41***

Variazione R²

.11**

.11**

.26***

.15***

�ota. � = 135. ***p < .001. **p < .01. *p < .05.

TABELLA 3

Regressione multipla della soddisfazione sulla percezione di efficacia

nella gestione dello stress, sull’efficacia collettiva e sulla longevità di servizio

Predittori Beta Fit del modello

Gestione dello stress .22*

Efficacia collettiva .20* R² .13***

Longevità di servizio –.11 F(3, 130) 6.52***

�ota. � = 135. ***p < .001. **p < .01. *p < .05.

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�uovi codici del lavoro. Contributi

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Efficacia percepita nella gestione

dello stress e attività no-profit:

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volontariato Veronica Cerina, Ferdinando Fornara – Cap. 15

Nella Tabella 4 sono, infine, illustrati i risultati della regressione multipla delle intenzioni

sulla percezione di efficacia nella gestione dello stress, sull’efficacia collettiva, sull’integrazione,

sulla percezione dei benefici ottenuti, sulla soddisfazione e sulla longevità di servizio come pre-

dittori.

TABELLA 4

Regressione multipla delle intenzioni sulla percezione di efficacia nella gestione dello stress,

sull’efficacia collettiva, sull’integrazione, sulla percezione dei benefici ottenuti,

sulla soddisfazione e sulla longevità di servizio

Predittori Beta Fit del modello

Gestione dello stress .16

Efficacia collettiva –.04

Integrazione .29** R² .32***

Percezione benefici –.03 F(6, 127) 10.18***

Soddisfazione .31**

Longevità di servizio .13

�ota. � = 135. ***p < .001. **p < .01. *p < .05.

6. Discussione e conclusioni

I risultati della ricerca supportano in parte le ipotesi di partenza. Per quanto riguarda il

ruolo della percezione di efficacia nella gestione dello stress nell’influenzare la soddisfazione

verso l’attività svolta come volontari (ipotesi H1), viene confermato quanto emerso nello studio

di Davis, Hall e Meyer (2003), infatti l’efficacia percepita nella gestione dello stress si è rivelata

anche in questo studio un predittore significativo della soddisfazione. Per quanto riguarda l’ipo-

tesi H2, ci si attendeva che la percezione di efficacia collettiva avrebbe influenzato positivamente

la soddisfazione e l’efficacia percepita nella gestione dello stress. Dai risultati è emerso che la

percezione di efficacia collettiva risulta essere sia un predittore forte e significativo dell’efficacia

percepita nella gestione dello stress, sia, coerentemente ai risultati di Barbaranelli e Capanna

(2001), un predittore, seppur più debole, della soddisfazione.

Per quanto concerne l’ipotesi H3, ci si attendeva, in accordo con quanto emerso negli

studi sia di Barbaranelli e collaboratori (2003), sia di Omoto e Snyder (1995), che la soddisfazio-

ne avrebbe avuto un ruolo significativo come antecedente delle intenzioni, analogamente alla

percezione di efficacia collettiva e all’integrazione. Parzialmente in accordo con H3 è emerso che

la percezione di efficacia collettiva non sembra avere alcuna influenza sulle intenzioni di conti-

nuare a svolgere attività di volontariato in futuro, mentre sia la soddisfazione che l’integrazione

all’interno dell’associazione sono antecedenti significativi delle intenzioni.

In riferimento all’ipotesi H4, è emerso che la percezione di aver ricevuto benefici non ri-

sulta essere correlata alle intenzioni di continuare, contrariamente ai risultati riportati da Merrell

(2000).

Infine, per quanto riguarda l’ipotesi H5, si attendeva che la longevità di servizio fosse le-

gata da un lato alla soddisfazione verso la propria attività di volontariato, dall’altro lato alla per-

cezione di efficacia nella gestione dello stress (Hytten & Hasle, 1989; McCarroll, Ursano,

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Efficacia percepita nella gestione

dello stress e attività no-profit:

uno studio nelle associazioni di

volontariato Veronica Cerina, Ferdinando Fornara – Cap. 15

Wright, & Fullerton, 1993; Beaton, Murphy, Johnson, Pike, & Corneil, 1999) derivante dalle

proprie attività volontaristiche. Tale ipotesi è basata sull’idea che gli individui con una più lunga

carriera alle spalle come volontari sviluppino nel tempo delle strategie di coping che consentano

di affrontare e gestire le situazioni stressogene, incrementando anche il grado di soddisfazione

verso la loro attività volontaristica. I risultati di questo studio non forniscono evidenza empirica a

questa ipotesi, poiché la longevità di servizio non risulta associata né alla soddisfazione, come

invece era emerso nello studio di Penner e Finkelstein (1998), né all’efficacia percepita nella ge-

stione dello stress.

La dimensione organizzativa e associativa sembrerebbe rivestire quindi, per i volontari,

un ruolo più importante rispetto a quella individuale nel ridurre l’impatto di eventuali fattori

stress-correlati, nell’incrementare i livelli di soddisfazione e nel sostenere l’impegno in attività

volontaristiche nel tempo.

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16. Lo sviluppo dello strumento Va.RP per l’analisi del rischio stress

lavoro-correlato Patrizia Deitinger, Christian �ardella, Antonio Aiello

1. Introduzione

Il tema dello stress lavoro correlato e più in generale della gestione dei rischi psicosociali negli ambienti di lavoro è divenuto un argomento centrale, di interesse trasversale a numerosi ambiti disciplinari e di intervento: medico, ingegneristico, psicologico, sociologico, economico.

Come sottolineato da O’Driscoll, Brough, e Kalliath (2009) nella letteratura sullo stress lavorativo le determinanti degli stati di tensione – gli stressor – sono stati classificati in molti modi, ma secondo la proposta degli autori sono raggruppabili in tre grandi categorie: (i) fonti di stress correlate al lavoro specifico, (ii) fonti dovute all’organizzazione, e (iii) fonti individua-li/personali. Già Cooper e Marshall (1976) hanno fornito una prima tipologia di stressor “ambien-tali”, successivamente aggiornata da Cartwight e Cooper (1997), che delineano in proposito sei categorie primarie: 1. Fattori intrinseci al lavoro; 2. Ruoli nell’organizzazione; 3. Relazioni al lavoro, con supervisori, colleghi, e subordinati; 4. Sviluppo di carriera; 5. Fattori organizzativi, includendo sia la struttura e il clima dell’organizzazione, che l’ambiente culturale e politico.

6. Interfaccia lavoro-vita privata. Le prime cinque categorie riguardano gli stressor dell’ambiente lavorativo, mentre la se-

sta si focalizza sull’interazione tra le esperienze sul lavoro ed extralavorative. Gli stressor, non operano necessariamente in modo isolato: è stato infatti messo in luce da alcuni ricercatori (cfr. tra gli altri, Wellens, Smith, 2006) che gli effetti cumulativi o combinati sul benessere, possono divenire sostanziali anche se si tratta di stressor inizialmente di livello moderato, per quantità e intensità.

Johnson e collaboratori (2005) hanno esteso la classificazione degli stressor di Cooper e Marshall (1976), delineando in proposito la seguente configurazione di fattori: 1. Relazioni lavorative: interazioni con le persone al lavoro; 2. Il lavoro in sé: la natura del lavoro svolto; 3. Sovraccarico: carico di lavoro e pressioni temporali; 4. Controllo: mancanza di controllo del lavoratore sul processo lavorativo e sui tempi; 5. Stabilità del lavoro: incertezza sul futuro della propria occupazione; 6. Risorse e comunicazione: risorse tecnologiche o di altro tipo inadeguate o mal funzionanti; processi comunicativi inefficaci sul posto di lavoro.

7. Bilanciamento lavoro-vita: interferenza o conflitto tra il lavoro e la vita personale/famiglia.

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8. Retribuzione e benefici: inadeguatezza percepita o oggettiva della remunerazione e di altri importanti benefici tangibili.

Gli esempi sopra richiamati non sono certo esaustivi di un quadro sempre più complesso e multi sfaccettato riguardante lo stress lavoro-correlato, mettendo in evidenza la criticità solo di alcune variabili esaminate nella letteratura internazionale sull’argomento.

Un altro aspetto rilevante su cui si focalizza la ricerca sullo stress è, inoltre, connesso alle strategie di coping, o di fronteggiamento, anche se per questo aspetto specifico i risultati ottenuti sono stati contenuti in una letteratura meno estesa.

Prenderemo qui in considerazione quanto proposto entro la teoria “transazionale” (Laza-rus, Folkman, 1984) per cui il coping è indicato come una risposta finalizzata a preservare lo sta-to di equilibrio individuale dall’azione degli stressor, per poter agire in modo da mantenere gli stati individuali di benessere. Il modello sviluppato a partire da tale prospettiva prevede che la persona utilizzi strategie che si concentrano sia sui compiti che sulle emozioni percepite. Il suc-cesso o meno di queste strategie esercita un feedback nel processo di valutazione che può modifi-care la percezione della situazione da parte della persona.

Esiste attualmente una vasta produzione scientifica che esamina sia la natura della ten-sione psicologica e del benessere sul lavoro, che i fattori che contribuiscono alla tensione stessa, e le strategie individuali e organizzative per combattere l’impatto negativo dello stress lavoro correlato sul benessere psicologico e sulla salute fisica (Antoniou, Cooper 2005; Semmer 2003). Questa letteratura tende ad avvalorare come lo stress lavoro-correlato sia un problema partico-larmente significativo sia per gli individui che per le organizzazioni, sottolineando la necessità di un impegno continuo per identificare strategie efficaci di “stress management”.

2. Gli antecedenti del modello VARP: il progetto PRIMA-EF per la gestione dei ri-

schi psicosociali nel contesto europeo

La classica definizione di Cox e Griffiths (1995) di rischi psicosociali li circoscrive co-

me: “quegli aspetti di progettazione, gestione e organizzazione del lavoro e dell’ambiente sociale, che potenzialmente possono arrecare danni fisici o psicologici”. Secondo questa prospettiva, che si inserisce nel più ampio filone della Occupatonal Healt Psichology (cfr. Antoniou, Cooper, 2005; Cox, Griffith, 1995; William, Cooper, 1998), ossia l’applicazione della psicologia per mi-gliorare la qualità della vita lavorativa e per proteggere e promuovere la sicurezza, la salute ed il benessere dei lavoratori (Sauter et al., 1999), i rischi psicosociali possono incidere sulla salute sia fisica che psicologica, in modo diretto ed indiretto, attraverso anche l’esperienza dello stress, per cui diviene di centrale interesse lo studio di tale fenomeno, sopratutto attraverso competenze di tipo psicologico. Anche secondo questo punto di vista, lo stress lavoro correlato può dipendere dall’esposizione a fattori di rischio psicosociali presenti nell’ambiente di lavoro.

Su tali tematiche è stato realizzato il progetto “Psychosocial RIsk MAnagement – Euro-pean Framework” (PRIMA-EF) (Leka, Cox, 2008), finalizzato a creare un modello europeo per la gestione dei rischi psicosociali a cui hanno preso parte diversi Istituti internazionali di ricerca (I-WHO, BAuA, ISPESL, TNO, CIOP, FIOH), con il sostegno dell’OMS e dell’ILO.

L’obiettivo primario del progetto PRIMA-EF era contribuire all’avanzamento delle cono-scenze nell’area del rischio psicosociale, attraverso lo sviluppo di un modello europeo per la ge-

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stione di tale tipologia di rischi. Il modello integrato prodotto dal Progetto PRIMA-EF per il mo-nitoraggio dei rischi psicosociali focalizza l’attenzione su tre elementi fondamentali: a) indicatori di esposizione (cioè i fattori di rischio psicosociale); b) conseguenze e c) azioni preventive o in-terventi. Il modello illustra inoltre il processo ciclico di gestione del rischio psicosociale ed esa-mina i tre livelli di impatto lungo l’asse dimensionale individuale, organizzativo e sociale.

In Italia, il D. Lgs. 81/08 e s.m.i., pur non intaccando il complesso impianto della norma-tiva precedente, ne semplifica e ridefinisce l’insieme delle norme riferite alla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Ad esempio, l’art.28 sottolinea in modo esplicito che la valutazione dei rischi deve riguardare tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori, tra cui anche quelli relativi allo stress lavoro correlato, secondo i contenuti dell’Accordo Europeo del 8 ottobre 2004.

Sulla base dei risultati del PRIMA-EF è stato sviluppato un percorso per il monitoraggio dei rischi psicosociali, sistematizzato nel Modello VARP in cinque specifiche fasi: 1. Identificazio-ne dei pericoli/rischi psicosociali attraverso indicatori di tipo oggettivo e soggettivo; 2. Valutazione dei rischi psicosociali effettuata tramite lo strumento psicometrico Va.RP, nella forma per grandi o medie aziende, distribuito a tutti i lavoratori o ad un campione rappresentativo degli stessi; 3. Stra-tegie di intervento a livello individuale, di gruppo o organizzativo/strategico; 4. Monitoraggio dell’efficacia delle strategie intraprese con tecniche quali-quantitative; 5. Rivalutazione del rischio o rischi specifici da ripetere periodicamente e comunque in funzione dei mutamenti del contesto la-vorativo. Lo sviluppo di tale modello, in linea con i requisiti raccomandati a livello europeo, e spe-cifico per il contesto italiano, è stato oggetto di una precedente e originaria pubblicazione che ne ha delineato e fondato contenuti e operatività in Aiello, Deitinger e Nardella (2012), a cui si rimanda.

2.1 Obiettivo

Obiettivo del presente lavoro è presentare in sintesi la pianificazione progettuale che ha portato allo sviluppo dello strumento multidimensionale per la valutazione dei rischi psicosociali Va.RP.

2.2 Metodo e procedura

Seguendo un approccio prevalentemente documentaristico, il presente studio ha dapprima messo a fuoco le principali dimensioni indagate in letteratura internazionale, al fine di definire l’insieme di aree generatrici particolarmente salienti per la messa a punto dello strumento Va.RP. Si è quindi proceduto innanzitutto alla documentata individuazione delle “dimensioni” fonda-mentali che sono alla base della percezione del livello di stress correlato all’ambiente di lavoro.

Per valutare in modo affidabile le varie tipologie a cui i rischi psicosociali vengono ricon-dotti nella letteratura interessata, sono stati presi in considerazione oltre ai risultati ottenuti dal pro-getto PRIMA-EF, anche gli strumenti valutativi maggiormente dibattuti in letteratura (Karasek, 1979; Siegrsit, 1996; Cooper, Sloan, Williams, 2000; D’Amato, Majer , 2005; Avallone, Paploma-tas, 2005; Ripamonti, Steca, Prunas, 2007; De Carlo, Falco, Capozza, 2008; Leiter, Maslach, 2005; Lindström, et al., 2000; Magnani, Mancini, Majer, 2009; Inail, 2011; Griffiths, Cox, Karanika, Khan, Tomás, 2005; Hansez, 2008; Kristensen, Hannerz, Høgh, Borg, 2005; Cousins et al. 2004).

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2.3 Risultati

Prestando particolare attenzione sia alle similarità che alle diversità, nonché alle possibili

aree di miglioramento dei modelli e degli strumenti di valutazione esaminati, sono state prese in considerazione le principali dimensioni riguardanti le caratteristiche del lavoro identificate come potenzialmente rilevanti per il tema di interesse ed utilizzate nello sviluppo dello strumento Va.RP. 1. Sicurezza e ambiente lavorativo: intesa come qualità percepita dell’ambiente di lavoro in cui si possono includere l’insieme delle attrezzature e degli strumenti di lavoro, l’ambiente fisico, le misure di sicurezza progettate e attuate all’interno dell’organizzazione, la formazione e l’informazione sulla sicurezza;

2. Caratteristiche del lavoro: comprendono diversi elementi correlati al benessere psicosociale quali la pianificazione dei compiti, il carico, il ritmo, l’orario di lavoro, la chiarezza e la rota-zione dei compiti, la fluidità lavorativa, il controllo sui carichi di lavoro e il contenuto del la-voro;

3. Ruolo nell’organizzazione: l’insieme delle norme e delle aspettative che convergono su un in-dividuo in quanto occupa una determinata posizione in un sistema aziendale. All’interno indi-viduano subcategorie quali ambiguità di ruolo, conflitto di ruolo, chiarezza del ruolo, richieste congrue al ruolo;

4. Sviluppo di carriera e competenze: promozioni insufficienti o eccessive, opportunità di pro-mozioni, chiarezza dei criteri di promozione, equità nella distribuzione delle promozioni, in-stabilità lavorativa, opportunità di sviluppo professionale, apertura ai bisogni personali e rela-zioni fra abilità personali e compiti lavorativi;

5. Relazioni interpersonali: sono stati individuati tre gruppi di rapporti, quali le relazioni con i superiori, con i subalterni e con i colleghi. Elementi caratterizzanti risultano essere: integra-zione sociale/senso di comunità, coesione del gruppo di lavoro, conflitto interpersonale, diffi-coltà relazionali, isolamento fisico o sociale;

6. Supporto sociale: appoggio, sostegno da parte di superiori, subalterni e colleghi. Uno scarso sostegno interpersonale sul lavoro determina maggiori livelli di ansia, esaurimento emotivo, tensione e scarsa soddisfazione per il proprio lavoro.

7. Processi gestionali: la complessità delle funzioni che costituiscono l’ossatura dell’organizza-zione, definizione e chiarezza degli obiettivi, modalità di risoluzione dei problemi, giustizia organizzativa, vari tipi di comunicazione, modalità di valutazione delle perfomance e fiducia nei rapporti fra management e lavoratori, bilanciamento lavoro/vita privata;

8. Leadership e Decisioni: si riferisce al giudizio sui propri capi, alla qualità della comunicazione con il proprio capo diretto e con i vertici dell’organizzazione, anche sul grado di partecipazio-ne ai processi decisionali, possibilità d’influenza sui tali processi, possibilità di decidere le pause o le interruzioni lavorative.

Lo strumento Va.RP così delineato (Fig. 1) si colloca nel frame operativo multidimensio-nale sviluppato entro il Modello VARP (Aiello et al., 2012) a partire dal progetto PRIMA-EF, che prevede un integrated multifacet model per il monitoraggio dei rischi psicosociali preceden-temente descritto.

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FIGURA 1 Lo strumento Va.RP (Aiello et al., 2012) integrato nel Modello

Psychosocial RIsk MAnagement-European Framework (PRIMA-EF).

Le otto dimensioni analizzate dallo strumento Va.RP (Aiello et al., 2012) rappresentano

pertanto l’esplicitazione degli Organizational Factors e degli Individual Working Factors, mentre le Individual Characteristics vengono valutate attraverso le strategie di coping.

Su questa linea, sono state prese in considerazione due classificazioni principali di com-portamenti di coping: il coping focalizzato sul problema o sulle emozioni (Lazarus, Folkman, 1984).

Una sezione specifica all’interno del modello è dedicata agli effetti organizzativi, giacché le variabili identificate e sopra descritte sono state ampiamente riconosciute come cause concor-renti e interdipendenti di condizioni nocive per lavoratori e aziende, e dunque potenziali fattori legati all’emergere dello stress lavoro correlato.

Notoriamente, gli esiti/effetti che lo stress lavoro correlato può produrre siano incidenti sul lavoro, disturbi della salute fisica e/o mentale, insoddisfazione lavorativa e turnover, assenze per malattia, lavoro mentre si è malati (per esempio, il “presenteismo”), costi economici per inci-denti e assenze, cali di prestazione/produttività.

È stato rilevato (Cox, Griffiths, Rial-Gonzàlez, 2000) che nel caso in cui circa il 40% dei lavoratori di un’organizzazione si trovi ad affrontare problemi connessi allo stress, è possibile af-fermare che questa organizzazione non goda di buona salute.

È per altro opportuno tenere presente che ognuno di tali effetti sull’individuo produce conseguenze a livello organizzativo: ad esempio, una dinamica derivante da un incidente sul la-

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voro scaturito da una situazione stressante prolungata nel tempo (o da disfunzioni organizzative), può produrre per l’individuo danni di invalidità temporanea o permanente, malattie o, nel peggio-re dei casi, la morte stessa dell’individuo.

Allo stesso modo, gli effetti sulla salute fisica o mentale che possono determinare altret-tante invalidità, malattie o riduzione delle abilità lavorative, influiscono anche sull’organizza-zione, non solo per i costi economici legati alle assenze, ma anche per la necessità di ricorrere al turnover e di far fronte ai cali di produttività. A livello organizzativo, effetti del tutto simili pos-sono essere dunque prodotti da un alto livello di insoddisfazione lavorativa, che sul piano indivi-duale si può manifestare anche con disturbi psicologici.

Parallelamente, tale dinamica investe l’azienda anche per i costi economici e sociali che possono essere sia “diretti”, di tipo strutturale (danni ai macchinari) o di tipo risarcitorio, o “indi-retti” dovuti, per esempio, come accennato, ad assenze e cali di produttività nei singoli e nei gruppi al lavoro.

3. &ote conclusive

Lo studio qui riportato ha voluto delineare i principali passaggi che hanno condotto allo sviluppo dello strumento metrico-scalare multidimensionale Va.RP (Aiello et al., 2012; cfr. an-che Nardella, Deitinger, & Aiello, 2011), secondo una procedura articolata in cinque specifiche fasi. Lo strumento è rilasciato, per l’applicazione e uso, in due forme, una specifica per le aziende di grandi dimensioni (Va.RP-G) ed una, peculiarmente rivolta alle aziende di medie dimensioni (Va.RP-M). Lo strumento, ideato in una struttura “modulare”, permette peraltro un impiego fles-sibile in funzione dei diversi settori ATECO. Particolare attenzione è stata posta inoltre ai con-sueti requisiti che caratterizzano strumenti del genere (i) facilità d’uso sia per l’utente che per il somministratore; (ii) flessibilità di impiego progettuale per la sua applicazione in diversi contesti lavorativi (iii) chiarezza negli indicatori, diretti e indiretti, degli effetti (outcomes) delle variabili di volta in volta considerate.

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17. Lo strumento “CSL” per la gestione dello stress lavoro-correlato

nelle micro e piccole imprese Christian ardella, Patrizia Deitinger, Antonio Aiello

1. Introduzione

Nella letteratura internazionale sulla Occupational Health Psychology (OHP, Raymond,

Wood, Patrick, 1990; Quinck, 1999; Schabracq, Winnubst, Cooper 2003), il tema della gestione e

progettazione del lavoro sta sollevando l’interesse di un numero sempre crescente di ricercatori

interessati a focalizzare l’attenzione di studio sul cosiddetto “errore progettuale” o “fallimento”,

di solito individuato sulla base di un ampio spettro di fattori rintracciati nelle scelte operate

all’interno dell’organizzazione e che hanno ripercussioni sul benessere e la salute dei lavoratori.

L’approccio OHP proposto da Rymond, Wood e Patrick (1990) e approfondito nello stu-

dio dei rischi psicosociali da vari autori (Sauter et al., 1999; Daniels, 2004; Dollard et al., 2007;

Cox et al., 2007; Mark, Smith, 2008), si focalizza sull’applicazione di prospettive di studio volte

a migliorare la qualità della vita lavorativa per proteggere e promuovere la salute dei lavoratori.

Il presente lavoro approfondisce questa linea di studio, presentando uno strumento (per

cui si rimanda al lavoro di Nardella, Deitinger e Aiello, 2011) che si candida ad essere applicato

nelle specifiche realtà delle micro e piccole imprese, enfatizzando un approccio che sostiene una

visione del concetto di sicurezza inserito in quello più ampio di salute dell’organizzazione. Spes-

so ci si riferisce ai “fallimenti” come derivanti da “fattori organizzativi e lavorativi” senza deline-

are uno studio analitico di tali fattori che costituiscono invece, dal nostro punto di vista, uno sno-

do fondamentale per la corretta valutazione dei rischi legati allo stress lavoro-correlato.

Gli strumenti utilizzati in aziende di grandi dimensioni e in tutti i settori, hanno trascurato

sovente le realtà organizzative oggetto del nostro studio, che risultano composte, nella maggio-

ranza dei casi, da un numero di lavoratori inferiore a 15. Tali realtà organizzative si connotano

infatti per caratteristiche del tutto proprie e che sovente sfuggono agli esiti diagnostici di stru-

menti impiegati per la valutazione del benessere organizzativo, che non sono in grado di rilevare

le criticità specifiche di tali realtà lavorative.

Per una corretta valutazione del rischio stress lavoro-correlato vi è la necessità di risolve-

re il nodo della specificità del contesto, ossia raggiungere un equilibrio fra la necessità di avere

uno strumento idoneamente progettato per non assorbire troppe risorse e che mantenga al tempo

stesso elevati livelli informativi atti a supportare gli interventi per la riduzione del rischio (Grif-

fiths et al., 2006).

Appare dunque chiaro che la dimensione d’impresa ha un impatto rilevante sul grado del-

la definizione e messa in campo di strategie e modelli di prevenzione dei rischi di natura psicoso-

ciale: le micro e piccole aziende presentano infatti caratteristiche che le rendono sensibilmente

differenti dalle imprese di maggiori dimensioni, che, per mandato, gestiscono con più elevata

consapevolezza e finalità strategica le politiche del personale.

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imprese Christian Nardella, Patrizia Deitinger, Antonio Aiello – Cap. 17

Questo tipo di valutazione non risulta ancora del tutto affrontata dalla maggior parte delle

micro e piccole imprese, che generalmente sono coinvolte in azioni di micromanagement legate

alla gestione dei rischi psicosociali in modo meno “consapevole”, spesso derivante dall’orienta-

mento progettuale di natura intuitiva dell’imprenditore.

2. Obiettivo della ricerca

Il presente lavoro sottolinea l’importanza di dotarsi di strumenti diagnostici del tutto pecu-

liari per le micro e piccole aziende al fine di ottenere strategie efficaci di gestione dei rischi psico-

sociali. Il nostro intento pertanto è quello di presentare i passi principali di costruzione dello stru-

mento CSL e le principali proprietà mostrate dallo strumento, rimandando all’originario e prece-

dente contributo di Aiello, Deitinger e Nardella (2012) per un approfondimento in proposito.

3. Metodo e procedura

3.1 Partecipanti

I dati presentati si riferiscono a 1033 lavoratori provenienti da 136 aziende, differenziate

per dimensioni e settori produttivi secondo la classificazione Ateco delle attività. Il 69.1% delle

aziende che hanno preso parte allo studio ha fino a 10 dipendenti, il 30.9% tra gli 11 e i 50 dipen-

denti circa. La mediana dei dipendenti per azienda è 5.

I settori produttivi, mostrano una presenza maggiore relativa all’attività manifatturiera

(27.9%), alle costruzioni (24.3%) e al commercio (19.1%), mentre, per esempio i settori traspor-

to/magazzinaggio, servizio di alloggio/ristorazioni e attività professionali/scientifiche e tecniche

sono presenti al 5.9%.

3.2 Strumento

Il CSL si presenta sotto forma di Checklist e si compone di 18 item atti a valutare i più

comuni problemi riguardanti la progettazione e la gestione del lavoro negli ambienti di lavoro

nella micro e piccola impresa. Le voci dello strumento CSL sono corredate da una scala di fre-

quenza con quantificatori indeterminati a quattro passi valutativi (da 0 = Mai a 3 = Sempre, con

punti intermedi su 1 = Qualche volta e 2 = Spesso).

Le iniziali voci contenute nel CSL risultano avere origine da otto principali aree temati-

che: (1) Clima organizzativo nel posto di lavoro e come lo stress viene percepito; (2) Richieste:

prestazioni che pesano sui dipendenti, quali ad esempio una troppo eterogenea distribuzione dei

carichi di lavoro (troppo o troppo poco lavoro); (3) Controllo: se, ed in quale maniera, è possibile

influire sul modo in cui si svolge il proprio lavoro; (4) Qualità dei rapporti sociali sul luogo di la-

voro; (5) Cambiamento: in quale misura si viene informati dei cambiamenti e si ritiene che essi

siano ben pianificati (aderenti alle necessità); (6) Funzioni: chiarezza nelle funzioni affidate; (7)

Sostegno da parte dei colleghi e dei responsabili; (8) Formazione: a garanzia che vengano fornite

le competenze necessarie a svolgere le mansioni affidate.

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3.3 Analisi statistiche

Per valutare il carattere gaussiano della distribuzione degli item della scala si è proceduto

ad un preliminare controllo sui valori delle statistiche descrittive: medie, deviazione standard, er-

rore standard e parametri di asimmetria e curtosi.

L’analisi della struttura dimensionale del questionario è stata effettuata tramite l’Analisi

delle Componenti Principali (ACP) e l’attendibilità delle scale è stata verificata mediante il calco-

lo dell’indice di coerenza interna α di Cronbach e tramite il calcolo dei coefficienti di correlazio-

ne item-scala totale corretti. Sono state condotte infine le analisi correlazionali.

4. Risultati

Prima di effettuare l’ACP, sono stati esaminati due test empirici per verificare le ipotesi

di fattorializzabilità della matrice di correlazione: il test di sfericità di Bartlett e il test di adegua-

tezza campionaria di Kaiser-Meyer-Olkin (KMO). Queste prime evidenze mostrano un indice di

KMO = .91 e il test di Bartlett = 7065.72 (gdl = 153; p < .0001), in entrambi i test i risultati sono

stati ritenuti soddisfacenti per l’applicazione dell’ACP.

Con lo scopo di identificare la soluzione fattoriale più plausibile, è stata quindi condotta

una prima serie di ACP sulle risposte dei partecipanti ai 24 item che componevano inizialmente

lo strumento. L’estrazione dei fattori è stata condotta tramite il metodo dello Scree Test seguen-

do, inoltre, un criterio di interpretabilità dei fattori. Sulla base di questa prima analisi si è proce-

duto a una seconda serie di ACP per avere soluzioni fattoriali più pulite, eliminando alcuni item

con saturazioni inferiori a .40 oppure quelli che saturavano contemporaneamente in più fattori e

che, di conseguenza, non contribuivano all’omogeneità interna delle scale (Barbaranelli, 2003).

La soluzione fattoriale ultima – composta da 18 item – è costituita da tre fattori correlati

che spiegano il 52.76% della varianza totale (Tabella 1).

Successivamente, la matrice a tre fattori è stata sottoposta ad un’analisi della rotazione

obliqua utilizzando il metodo Promax.

Il primo fattore, denominato “Cultura organizzativa” (36% di varianza spiegata), è com-

posto, ad esempio, da item che descrivono aspetti come: il coinvolgimento nel prendere decisioni,

il coinvolgimento nei cambiamenti, la possibilità di influire sul modo di svolgere il proprio lavo-

ro, l’informazione sul posto di lavoro.

Il secondo fattore, denominato “Carico di lavoro” (9.95% di varianza spiegata), è compo-

sto, ad esempio, da item che descrivono aspetti come: la quantità di lavoro assegnato, gli eccessi-

vi cambiamenti, la pressione lavorativa,

Il terzo fattore, denominato “Qualità delle relazioni e sostegno” (6.81% di varianza spie-

gata), è composto da item che descrivono aspetti come: il rapporto e il sostegno con i colleghi.

La Tabella 2 riporta i risultati dei coefficienti di attendibilità Alfa di Cronbach per i tre

fattori. Le dimensioni emerse risultano attendibili, con un indice Alfa pari a .84 per la Cultura or-

ganizzativa, pari a .76 per il Carico di lavoro e .79 per la Qualità delle relazioni e sostegno.

Le correlazioni item-totale sono soddisfacenti, con indici tutti superiori a .50.

Infine, le analisi correlazionali hanno evidenziato che le dimensioni sono tutte correlate

tra loro (.478 < r < .652) per un livello di significativa di p < .01.

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TABELLA 1

Saturazioni fattoriali dello strumento CSL

Sintesi degli item I Fattore II Fattore III Fattore

Coinvolgimento nella presa di decisioni 0.87

Coinvolgimento nei cambiamenti dell’attività lavorativa 0.83

Possibilità di influire sul proprio lavoro 0.77

Informazione sui cambiamenti pertinenti il posto di lavoro 0.73

Incoraggiamento allo sviluppo delle abilità 0.61

Lavoro soddisfacente 0.54

Apprezzamento in caso di buon lavoro svolto 0.52

Chiara definizione di mansioni e responsabilità 0.43

Troppo lavoro da fare in poco tempo 0.79

Sensazione di eccessivi cambiamenti 0.77

Sensazione costante di pressione a fare di più 0.70

Eccessiva difficoltà nel lavoro assegnato 0.70

Sensazione di dover lavorare troppo per ottenere promozioni 0.70

Svolgimento di compiti diversi dalla propria competenza 0.59

Buon rapporto con i colleghi 0.99

Sostegno dei colleghi 0.93

Buon rapporto con il superiore 0.44

Sostegno del diretto superiore 0.43

Autovalori 6.48 1.80 1.23

% Varianza spiegata 36 9.9 6.8

% Varianza spiegata dopo la rotazione 22.2 17.1 13.5

% Varianza cumulata 52.8

ota. Metodo estrazione: analisi componenti principali. Metodo rotazione Promax con normalizzazione Kaiser

TABELLA 2

Alfa di Cronbach e correlazione item-scala totale relativi ai fattori del CSL

Fattore Alfa di Cronbach Correlazione media item-totale

Cultura organizzativa .84 .59

Carico di lavoro .76 .53

Qualità relazioni e sostegno .79 .60

5. Conclusioni

I risultati messi in luce dalle analisi statistiche delineano lo strumento CSL come dotato

di item con distribuzioni ottimali, una fattorializzabilità adeguata, in grado di evidenziare tre aree

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distintive e pertinenti la valutazione dello stress lavoro-correlato, con dimensioni dotate di un’e-

levata coerenza interna ed attendibilità.

Il presente studio, evidenzia la sostenibilità di un approccio per la valutazione del rischio

focalizzato sulla specifica realtà delle micro e piccole aziende. Tali aziende infatti, si trovano og-

gi ad affrontare la sfida di garantire il benessere organizzativo (Avallone e Paplomatas, 2005) e la

sua promozione alla luce anche delle normative vigenti in materia di tutela della salute e sicurez-

za sul lavoro.

In conclusione, come peraltro già sottolineato nelle originarie pubblicazioni di Nardella

et al. (201) e Aiello et al. (2012), va messo in evidenza come la valutazione del rischio da stress

lavoro-correlato sia il primo passo di un percorso finalizzato alla realizzazione di interventi volti

alla riduzione del rischio, che costituiscono, nella linea prospettica della ricerca-azione, il passo

successivo nel percorso di gestione e prevenzione dei rischi negli ambienti di lavoro.

6. Bibliografia

Aiello, A., Deitinger, P., Nardella, C. (2012). Il modello di “Valutazione dei Rischi Psicosociali (VARP)”.

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18. Analisi dei rapporti di antecedenza dell’organizational commitment

e del job involvement sulle dimensioni del work engagement Fabrizio Scrima, Lucrezia Lorito, Franco Di Maria

1. Introduzione

All’interno della prospettiva della psicologia positiva, l’attenzione dei ricercatori si è di

recente spostata dallo studio delle componenti di stress e burnout nei diversi contesti lavorativi

(Maslach & Leiter, 1997; Schaufeli et al., 1996; Taris et al., 1999; Schutte et al., 2000) all’inda-

gine sul work engagement. Numerosi sono, infatti, gli studi che hanno sottolineato il ruolo delle

relazioni tra le componenti dell’engagement e la salute dei lavoratori. Tra esse, le ricerche con-

dotte in ambito sanitario, hanno fatto emergere la presenza di correlazioni significative tra le di-

mensioni del work engagement e le componenti del commitment (Hakenen, 2004; Laine, 2005).

Ulteriori studi, invece, pongono il costrutto ad analisi discriminante, in tal modo inda-

gando il rapporto fra work engagement ed altre variabili proprie del contesto organizzativo, tra

cui il job involvement. In un recente lavoro, Hallberg e Schaufeli (2006) notano infatti che, pur

essendo correlati tra loro, work engagement, organizational commitment e job involvement sono

costrutti tra loro empiricamente differenti.

Come sottolineano gli autori, l’introduzione del work engagement nel panorama della

psicologia delle organizzazioni implica una rigorosa procedura di validazione discriminante del

costrutto, al fine di evitare ridondanze concettuali.

In linea con quanto affermato, obiettivo del nostro lavoro è contribuire ad una più artico-

lata definizione del costrutto di work engagement indagandone le variabili di antecedenza, rin-

tracciate nei due costrutti di organizational commitment e job involvement.

Approfondire il rapporto di antecedenza delle variabili correlate al work engagement, a

nostro parere, significa infatti contribuire ad una maggiore articolazione e comprensione del co-

strutto stesso.

L’engagement, al pari del burnout, viene letto come una variabile di esito e, seppur empi-

ricamente separato dalle più note variabili che legano l’individuo al contesto di lavoro, esso in-

terviene analogamente all’interno di tale relazione. L’engagement è quindi concepito come la

fonte della motivazione e della comparsa di emozioni positive rispetto all’organizzazione, come

supportato dalla ricerca empirica (Hallberg & Schaufeli, 2006).

Schaufeli et al. (2002) definiscono il work engagement come uno stato della mente appa-

gante e positivo composto da tre dimensioni: il vigore, la dedizione e l’assorbimento. La dimen-

sione del vigore fa riferimento a livelli elevati di energia e resistenza mentale durante il lavoro,

disponibilità a compiere sforzi notevoli nel proprio lavoro e persistenza in situazioni difficili

(Schaufeli et al., 2002); la dedizione è caratterizzata da un forte coinvolgimento psicologico nel

proprio lavoro, combinato con un senso di significato, entusiasmo, ispirazione, orgoglio e sfida

(Schaufeli et al., 2002); l’assorbimento, infine, si riferisce alla totale concentrazione ed immer-

sione nel lavoro per cui tale dimensione è caratterizzata dalla percezione che il tempo passi velo-

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Analisi dei rapporti di anteceden-

za dell’organizational commit-

ment e del job involvement sulle

dimensioni del work engagement Fabrizio Scrima, Lucrezia Lorito, Franco Di Maria – Cap. 18

cemente e dalla difficoltà a staccarsi dal proprio lavoro (Schaufeli, Salanova, González-Roma &

Bakker, 2002).

La letteratura indica il job involvement (Kanungo, 1982a; 1982b; Parasuraman, Na-

chman, 1987) fra gli antecedenti del work engagement (Hallberg & Schaufeli, 2006), laddove il

job involvement è inteso come il grado in cui un individuo si identifica con il proprio lavoro e svi-

luppa un attaccamento nei confronti di esso. Le ricerche inerenti lo studio della natura del job in-

volvement hanno costituito tre differenti approcci, tuttavia se il primo appare interessato alle dif-

ferenze individuali (Wood, 1974) e il secondo, invece, orientato all’individuazione delle caratte-

ristiche del lavoro (Vroom, 1960; McGregor, 1960), è solo il terzo approccio che si focalizza sul-

l’interazione tra le caratteristiche individuali e quelle lavorative (Lawler & Hall, 1970).

Analogamente, l’organizational commitment consente una maggiore comprensione del

rapporto fra individuo ed organizzazione, in quanto esso si riferisce all’attaccamento emotivo che

gli impiegati hanno nei confronti dell’organizzazione a cui appartengono (Porter et al., 1974;

Meyer & Allen, 1997).

Allen e Meyer, (1990; 1996) concepiscono il commitment come composto da tre dimen-

sioni: affettiva, normativa e di permanenza.

La prima dimensione fa riferimento ad una forte credenza e accettazione negli obiettivi e

valori organizzativi; la seconda è caratterizzata, invece, da una volontà, regolata da norme inter-

ne, ad esercitare sforzi considerevoli per l’organizzazione; la terza, infine, rappresenta il desiderio

di rimanere membro dell’organizzazione alla luce del rapporto costi/benefici.

In particolare, il commitment affettivo è caratterizzato da attaccamento emotivo, identifi-

cazione e coinvolgimento con l’organizzazione (Meyer & Allen, 1984).

Se alcuni ricercatori sottolineano come esso moderi l’impatto negativo che hanno i fattori

di stress sulla salute dei lavoratori (Begley & Czajka, 1993), altre ricerche tuttavia suggeriscono

che i dipendenti maggiormente committed potrebbero avere reazioni più negative ai fattori di

stress rispetto a coloro che sono meno coinvolti (Reilly, 1994).

Per capire queste differenze bisognerebbe orientare l’attenzione verso il ruolo che gioca-

no le componenti del commitment nel discriminare il modo in cui sono connesse con alti e bassi

livelli di stress percepito.

Variabile legata all’organizational commitment è inoltre lo stesso job involvement, letto

come variabile correlata in numerosi modelli teorici ed empirici (Meyer, Stanley Herscovitch &

Topolnytsky, 2002). Meyer e Allen (1991; 1997) affermano che il job involvement è distinguibile

dalle dimensioni dell’organizational commitment, in quanto la possibilità di identificarsi e coin-

volgersi con la propria organizzazione e di sviluppare un forte legame nei confronti del proprio

posto di lavoro può influire sull’impegno che un lavoratore manifesta anche in termini di dedi-

zione, vigore e assorbimento.

Pur riferendosi analogamente all’attaccamento positivo al lavoro, work engagement, job in-

volvement e organizational commitment esprimono quindi parti diverse di varianza. L’engagement,

in particolare, è maggiormente legato al benessere del lavoratore, il job involvement alla perfor-

mance ed all’autostima nello svolgimento di un compito e, diversamente, l’organizational com-

mitment alla dimensione affettiva del lavoratore.

Se da un lato le numerose ricerche empiriche e la ben più nota convergenza teorica del

costrutto conducono alla lettura dell’involvement come variabile indipendente, non è ancora chia-

ra la direzionalità della relazione tra le componenti dell’engagement e quelle del commitment.

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ment e del job involvement sulle

dimensioni del work engagement Fabrizio Scrima, Lucrezia Lorito, Franco Di Maria – Cap. 18

Sono infatti numerose le ricerche che analizzano le correlazioni tra i costrutti, senza però

indicarne la direzione.

Pertanto, il presente contributo ha lo scopo di fornire un primo passo alla conferma del

modello proposto da Hallberg e Schaufeli (2006), da un lato, mediante la conferma del ruolo di

antecedenza del job involvement sulle componenti del work engagement, dall’altro, mediante l’e-

sclusione del ruolo delle dimensioni dell’organizational commitment nello spiegare parti di va-

rianza dell’engagement.

Una volta esclusa la funzione di antecedenza del commitment sull’engagement, e quindi

rifiutata la lettura dell’engagement come variabile di esito nei modelli di attaccamento (Maslach

& Leiter, 1997), sarà possibile sottoporre ad analisi empirica il modello ipotizzato da Hallberg e

Schaufeli (2006).

2. Obiettivo ed ipotesi

Obiettivo della ricerca è analizzare i rapporti di antecedenza delle dimensioni

dell’organizational commitment e del job involvement rispetto alle tre dimensioni del work

engagement, lette come variabili dipendenti.

Nello specifico si ipotizza che:

H1: il job involvement sia un antecedente delle tre componenti del work engagement.

H2: le tre dimensioni dell’organizational commitment non siano antecedenti delle tre componenti

del work engagement.

3. Metodo

3.1 Partecipanti

Hanno partecipato alla ricerca 205 lavoratori impiegati in organizzazioni di medie e

grandi dimensioni (53% uomini, 47% donne), di età media pari a 44 anni (DS = 9.62). Il 6% del

gruppo di partecipanti è composto da operai, il 76% da lavoratori dipendenti, il 9% da quadri e il

9% da top manager. L’anzianità media di servizio è pari a 16.81 anni (DS = 10). Il 60% dei lavo-

ratori sono impiegati del settore pubblico, il 40% del settore privato.

3.2 Strumenti

Per la misurazione dell’organizational commitment (Pierro, Lombardo, Fabbri, Di Spiri-

to, 1995) è stata utilizzata la validazione italiana della scala di Meyer e Allen (1984). La scala è

costituita da 18 item e prevede una modalità di risposta di tipo Likert a 5 punti. L’analisi della

dimensionalità mostra una struttura a tre fattori che spiega complessivamente il 43% della va-

rianza totale. L'analisi dell’attendibilità calcolata con l’indice alpha di Cronbach mostra stime

soddisfacenti pari a .89, .85 e .69, rispettivamente.

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Analisi dei rapporti di anteceden-

za dell’organizational commit-

ment e del job involvement sulle

dimensioni del work engagement Fabrizio Scrima, Lucrezia Lorito, Franco Di Maria – Cap. 18

Il job involvement è stato misurato mediante la Job Involvement Scale (Kanungo, 1982),

costituita da 10 item. Esempio di item è: «La maggior parte degli obiettivi della mia vita perso-

nale sono orientati sul lavoro». Anche in questo caso la modalità di risposta è una scala Likert a

5 punti. Nel nostro studio, un singolo fattore spiega il 42% della varianza con alpha di Cronbach

uguale a .84.

Il work engagement è stato misurato mediante l’Utrecht Work Engagement Scale

(UWES) sviluppato da Schaufeli et al. (2002). La scala propone 17 item ed è composta da tre di-

mensioni correlate tra loro con modalità di risposta Likert a 5 punti. Le dimensioni assorbimento

(α = .85), vigore (α = .89) e dedizione (α = .87) spiegano rispettivamente il 21.3%, il 20.1% e il

20.1% della varianza.

3.3 Analisi dei dati

Dopo aver verificato la normalità univariata delle distribuzioni, mediante gli indici di

simmetria e curtosi, il coefficiente di curtosi multivariata di Mardia ha permesso di verificare la

normalità multivariata e la linearità delle relazioni tra le variabili (Barbaranelli, 2006). Successi-

vamente sono state calcolate le statistiche descrittive per ciascun item ed effettuata l’analisi

dell’attendibilità di ciascuna scala mediante l’indice di consistenza interna alpha di Cronbach. La

verifica delle ipotesi è stata effettuata mediante tre analisi di regressione lineare con il metodo

stepwise. Questa procedura ha permesso di selezionare le variabili indipendenti che contribuisco-

no a spiegare porzioni di varianza della variabile dipendente e di conseguenza escludere le varia-

bili indipendenti con coefficienti di regressione non significativi (Barbaranelli, 2006).

4. Risultati

Dopo aver verificato la normalità univariata mediante gli indici di asimmetria e curtosi

(indici < 1) e la normalità multivariata mediante il coefficiente di Mardia (p < .001), è stata sti-

mata l’attendibilità delle dimensioni delle scale mediante il calcolo dei coefficienti alpha di

Cronbach. Tutti i coefficienti risultano all’interno di un range soddisfacente (tra α = .64 e α =

.89). Gli indici medi (tabella 1) superano il valore della media teorica (pari a 3) ad eccezione del-

la scala del job involvement (M = 2,60), appena sotto la soglia.

In Tabella 1 vengono riportati, inoltre, gli indici di correlazione r di Pearson fra le varia-

bili oggetto dello studio. Per quanto concerne la dimensione del commitment di permanenza, si

osserva un andamento inappropriato se letto in relazione con la componente affettiva (r = –.31, p

< .01) e con quella normativa (r = –.21, p = n.s.). Inoltre, non risultano significativi gli indici con

le tre dimensioni del work engagement. Il job involvement risulta correlato sia con le tre dimen-

sioni del work engagement che con la componenti affettiva (r = .42, p < .01) e normativa (r = .39,

p < .01) del commitment. Come previsto dal modello, tutte e tre le dimensioni del work

engagement mostrano tra loro indici di correlazione robusti.

Per la verifica delle ipotesi sono state effettuate tre analisi delle regressioni con il metodo

stepwise.

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za dell’organizational commit-

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dimensioni del work engagement Fabrizio Scrima, Lucrezia Lorito, Franco Di Maria – Cap. 18

TABELLA 1

Medie, deviazioni standard, coefficienti di correlazione e Alpha (in parentesi)

M DS 1 2 3 4 5 6 7

Commitment affettivo 3.63 .95 (.82)

Commitment normativo 3.18 .96 .65* (.80)

Continuance commitment 3.26 .83 –.31* –.21 (.64)

Job Involvement 2.60 .81 .42* .39

* –.06 (.84)

Engagement (Vigore) 3.48 .92 .49* .33

* –.11 .63

* (.85)

Engagement (Assorbimento) 3.24 .98 .45* .35

* –.03 .70

* .82

* (.87)

Engagement (Dedizione) 3.46 1.09 .58* .47

* –.16 .63

* .79

* .79

* (.89)

�ota. � = 205. *p < .01.

In Tabella 2 sono riportati i coefficienti di regressione relativi alla dimensione del vigore.

Come visibile, l’analisi ha estratto due modelli che vedono, il primo, come antecedente il job in-

volvement (β = .63, p < .001), con una varianza spiegata pari al 39%, e, il secondo, sia il job in-

volvement (β = .51, p < .001) che il commitment affettivo (β = .27, p < .001), che spiega il 45%

della varianza. L’analisi ha eliminato dal modello sia il commitment normativo (β = .11, p < .001)

sia il commitment di permanenza (β = .07, p < .001).

TABELLA 2

Regressione lineare sulla dimensione: Vigore

B SE β t Sig. R R² ∆R²

Step 1 (Costant) 1.63 .16 9.71 .001

Job Involvement .71 .06 .63 11.57 .001 .63 .39 .39

Step 2 (Costant) .99 .20 4.86 .001

Job Involvement .57 .06 .51 9.01 .001

Commitment affettivo .26 .05 .27 4.85 .001

.67 .46 .45

�ota. Variabile dipendente: Engagement (Vigore)

Come mostrato in Tabella 3, medesimo andamento risulta nel modello che prevede come

variabile dipendente la dimensione dell’assorbimento. Anche in questo caso, l’analisi ha estratto

due modelli che vedono come antecedenti, nel primo modello, il job involvement (β = .70, p <

.001), che spiega il 49% della varianza, e nel secondo il job involvement (β = .63, p < .001) e il

commitment affettivo (β = .18, p < .001), che spiega invece il 52% della varianza. Anche in que-

sto caso, l’analisi ha eliminato sia il commitment normativo (β = –.02, p < .001) che di permanen-

za (β = .06, p < .001).

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dimensioni del work engagement Fabrizio Scrima, Lucrezia Lorito, Franco Di Maria – Cap. 18

TABELLA 3

Regressione lineare sulla dimensione: Assorbimento

B SE β t Sig. R R² ∆R²

Step 1 (Costant) 1.02 .16 6.27 .001

Job Involvement .85 .05 .70 14.31 .001 .70 .50 .49

Step 2 (Costant) .56 .20 2.77 .01

Job Involvement .75 .06 .63 11.85 .001

Commitment affettivo .19 .05 .18 3.50 .001

.72 .53 .52

�ota. Variabile dipendente: Engagement (Assorbimento)

Per concludere, come visibile in Tabella 4, anche la dedizione mostra le stesse caratteri-

stiche delle altre due componenti del work engagement. Il primo modello vede come variabile in-

dipendente il job involvement (β = .63, p < .001), con una varianza spiegata pari al 40%). Il se-

condo modello, che inserisce anche la dimensione affettiva del commitment (β = .38, p < .001),

migliora l’R² del modello da .40 a .52.

TABELLA 4

Regressione lineare sulla dimensione: Dedizione

B SE β t Sig. R R² ∆R²

Step 1 (Costant) 1.23 .19 6.28 .001

Job Involvement .85 .07 .63 11.85 .001 .63 .40 .40

Step 2 (Costant) .19 .22 .85 .396

Job Involvement .63 .07 .47 8.96 .001

Commitment affettivo .44 .06 .38 7.27 .001

.72 .53 .52

�ota. Variabile dipendente: Engagement (Dedizione)

5. Conclusioni

Scopo del presente lavoro è stato di offrire un contributo alla comprensione dei rapporti

di antecedenza e conseguenza tra quelle variabili, ampiamente utilizzate in letteratura, che dise-

gnano un modello di attaccamento al lavoro.

In tal senso, sono stati presi in considerazioni il job involvement (Kanugo, 1982), le tre

dimensioni dell’organizational commitment proposte da Allen e Meyer (1990) ed il più recente

modello di Schaufeli et al. (2002) inerente il costrutto di work engagement.

In un recente lavoro, Hallberg et al. (2006) confermano, mediante analisi fattoriale, la

struttura empiricamente discriminante del modello. Pare, infatti, che le tre variabili, seppur corre-

late positivamente tra loro, spieghino aspetti differenti del costrutto di attaccamento al lavoro.

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In quest’ottica, il job involvement è inteso come funzione delle componenti individuali

(Lawler & Hall, 1970) e l’organizational commitment come funzione delle componenti situazio-

nali (Allen & Meyer, 1990), per cui l’interpretazione rinvia ad una lettura del job involvement

come variabile indipendente, laddove work engagement e organizational commitment possono

essere viste come variabili dipendenti nei modelli che spiegano le dinamiche lavoro/organizza-

zione (Hallberg et al., 2006).

La formalizzazione di un modello, richiede pertanto la verifica e/o la confutazione di tut-

te le possibili relazioni tra variabili all’interno di un robusto modello teorico di riferimento. In tal

senso si è ritenuto opportuno offrire ai lettori un primo contributo che possa rispondere ad alcune

domande circa gli effetti di antecedenza di job involvement e organizational commitment sul

work engagement.

I nostri risultati appaiono coerenti con quanto esposto.

Le nostre ipotesi, tuttavia, sono state confermate solo parzialmente. Se da un lato il job in-

volvement predice tutte e tre le componenti del work engagement, le tre dimensioni dell’organiza-

tional commitment, lette come variabili dipendenti, sembrano non dare un contributo importante

alla comprensione della dedizione, dell’assorbimento e del vigore.

Il job involvement è inoltre considerata una variabile disposizionale che descrive il grado

con cui le persone partecipano attivamente nel proprio posto di lavoro (Blau & Boal, 1987). Pun-

teggi alti nel job involvement portano gli individui a impegnarsi in comportamenti altamente per-

formanti allo scopo di mostrare le proprie competenze e di ottenere premi aziendali (Kacmar,

Carlson & Bratton, 2004). In tal senso, dedizione, vigore e assorbimento potrebbero essere letti

come il prodotto di una rappresentazione interna del lavoratore orientata all’ottenimento di risor-

se limitate.

Per quanto riguarda, invece, le tre componenti del commitment, l’analisi dei dati ha esclu-

so sia la componente normativa che quella di permanenza per tutte e tre le dimensioni del work

engagement; pare, infatti che l’attaccamento influenzato dal personale sistema valoriale o dalla

riflessione circa il rapporto costi/benefici non si traduca in pattern comportamentali caratterizzati

da livelli elevati di energia e resistenza mentale, da un forte coinvolgimento psicologico nel pro-

prio lavoro, entusiasmo e capacità di concentrazione tipici delle dimensioni del work engagement.

Inoltre, il commitment affettivo sembra dare un contributo inferiore al job involvement e

ciò appare di difficile interpretazione teorica. A differenza del job involvement, la componente

affettiva del commitment sembrerebbe infatti legare il lavoratore al proprio posto di lavoro non

per ottenere benefit aziendali, quanto piuttosto per una internalizzazione degli obiettivi organiz-

zativi e per lo sviluppo di identificazione e affetto verso il proprio luogo di lavoro.

In tal senso, è plausibile che la porzione di varianza spiegata da questa dimensione su vi-

gore, assorbimento e dedizione possa indicare la componente simbolico/affettiva di un modello di

attaccamento a lavoro.

Tuttavia, coerentemente con quanto intuito da Hallberg et al. (2006), sarebbe a nostro av-

viso più opportuno considerare il job involvement come variabile indipendente ed inoltre, consi-

derando alcuni modelli che vedono le dimensioni dell’engagement come antecedenti dell’affective

commitment (Richardsen, Burke & Martinussen, 2006; Hakenen, Bakker & Schaufeli, 2006), si

propone di orientare le ricerche future sul ruolo di mediazione delle tre dimensioni del work

engagement rispetto al job involvement ed all’organizational commitment.

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19. Quando la famiglia diventa mobber. Una ricerca esplorativa sul

doppio mobbing Michela Cortini, Silvia Di Carlo, Riccardo Giorgio Zuffo, Massimiliano Barattucci

1. Il doppio mobbing

Le definizioni di mobbing alle quali il presente testo esplicitamente ed implicitamente fa riferimento possono essere riassunte, per gli scopi del presente capitolo, nella definizione di Duffy e Sperry: “The nonsexual harassment of a coworker by a group of other workers or other members of an organization designed to secure the removal from the organization of the one who is targeted. Mobbing results in the humiliation, devaluation, discrediting, degradation, loss of professional reputation and, usually, the removal of the target from the organization with all the concomitant financial, career, health, and psychosocial implications that one might expect from a protracted traumatizing experience” (2007, p.398). Una simile definizione ci porta a sottolineare come e quanto il mobbing sia sempre una patologia relazionale; da un lato è la rete relazionale che imprigiona e isola il mobbizzato invece di contenerlo e sostenerlo, dall’altro, sono le regole informali che nutrono il gruppo a rinforzare e rendere sempre più massiccio il mobbing.

Diventa interessante, a questo punto, spostarsi dal focus prevalente che sta assumendo la letteratura nazionale ed internazionale sul mobbing, l’investigazione, in altre parole, delle cause che vi conducono, per rivolgere la nostra attenzione alle conseguenze ed alle dinamiche relazio-nali e familiari che il mobbing si porta dietro. A tal fine, varrà la pena di sottolineare una premes-sa concernente il grande valore che nella nostra tradizione giudaico-cristiana assegniamo al lavo-rare ed all’importanza che l’occupazione riveste in termini di identità sociale e riconoscimento sociale (Sperry & Duffy, 2009); premessa senza la quale è difficile cogliere appieno il fenomeno mobbing nella sua complessità.

Un primo outcome di natura sociale tipicamente associato all’esperienza del mobbing è l’isolamento da parte dei colleghi inizialmente non coinvolti che, loro malgrado, finiscono con l’essere dei co-mobbers, spesso per paura di fare la stessa fine del mobbizzato (Spery & Duffy, 2009).

Venendo al cuore tematico del nostro studio, vi sono poi delle considerazioni da tener presente per quanto riguarda la relazione esistente tra il contesto lavorativo, in cui nasce e si svi-luppa il fenomeno mobbing e il contesto familiare della vittima in questione. Sono molti gli studi che certificano, con dati empirici a supporto, le diverse dinamiche familiari che il mobbing è in grado di scatenare (tra gli altri, si vedano Mikkelsen, Einarsen, 2001; Hartig & Frosch, 2006), tanto da far riflettere in seno alla società americana di terapia familiare sulle diverse strategie a-dottabili nel setting terapeutico (Sperry & Duffy, 2009).

In particolare, nei Paesi latini è stata riscontrata dagli studiosi una situazione di grande coinvolgimento legata al ruolo dominante che ricopre la famiglia, che sfocia nel fenomeno del doppio mobbing (Ege, 1996; Ferrari, 2004).

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Quando la famiglia diventa mob-

ber. Una ricerca esplorativa sul

doppio mobbing Michela Cortini, Silvia Di Carlo, Riccardo Giorgio Zuffo, Massimiliano Barattucci – Cap. 19

In Italia, infatti, il legame tra individuo e famiglia è molto forte: la famiglia partecipa at-tivamente alla definizione sociale e personale dei suoi membri, si interessa al loro lavoro, alla lo-ro vita privata (Scabini, 1995). Possiamo, così, ipotizzare che la vittima di una situazione di mob-bing tenda a cercare aiuto e consiglio soprattutto fra le mura domestiche. Qui sfogherà la rabbia, l’insoddisfazione o la depressione che ha accumulato durante una giornata lavorativa.

La famiglia assorbirà tutta questa negatività cercando di dispensare supporto in termini di aiuto, protezione e comprensione. La crisi porterà necessariamente ad uno squilibrio dei rapporti ma la famiglia avrà molte più risorse e capacità di ripresa di un singolo, riuscendo a tamponare la rottura. Ma è proprio nella sua lunga durata che il mobbing ha la sua forza devastante; questo lo-gorio, infatti, attacca la famiglia e quando le risorse saranno esaurite entrerà anch’essa in crisi. Come un vaso colmo, anche la famiglia può assorbire fino ad un certo limite i lamenti dei suoi membri. È come se ogni volta che la vittima si sfoga, delegasse la sua famiglia a gestire la rabbia, la depressione e il malumore accumulati.

Se si arriva alla saturazione la famiglia che prima era protettrice, improvvisamente cam-bia atteggiamento, cessando cosi di sostenere la vittima e cominciando invece a proteggere se stessa dalla forza distruttiva del mobbing.

Quindi la famiglia si chiude in sé stessa per istinto di sopravvivenza e passa alla difensi-va, che diverrà a tutti gli effetti una forma di attacco aggiuntivo. La vittima di mobbing è diventa-ta una minaccia per l’integrità e la salute del nucleo familiare che ora pensa a proteggersi e poi a contrattaccare, cessa, così, l’aiuto e il sostegno del proprio caro.

A questo punto la vittima si ritrova in un mobbing raddoppiato continuando sempre ad essere bersagliato sul posto di lavoro e per di più privato della comprensione e aiuto della fami-glia.

A questo punto possiamo distinguere il fenomeno, ancora poco conosciuto, del mobbing familiare, cercando di cogliere in cosa si distingua dal doppio mobbing. Secondo alcuni autori questo tipo di mobbing viene posto da quei coniugi che in modo organizzato tendono, con atteg-giamenti persecutori, a costringere i loro partner a lasciare la casa familiare o addirittura giungere alla separazione consensuale per chiudere rapporti coniugali sofferenti.

Le strategie di mobbing familiare, inoltre, sono spesso indirette e subdole ma possono es-sere anche costituite da azioni palesi e violente e che mirano a costringere la vittima in una posi-zione di debolezza e di inoffensività.

In genere la strategia è costituita da atteggiamenti offensivi ed insultanti, provocazioni si-stematiche, rifiuto di qualsiasi forma di cooperazione, imposizione della propria volontà nelle scelte che riguardano la famiglia, sottrazioni di beni comuni, con la conseguenza che il mobbiz-zato è preda della più profonda disperazione e normalmente diviene soggetto a malattie psicoso-matiche e crisi depressive. Caratteristiche essenziali sono la chiusura della comunicazione, le cri-tiche, l’assoluta indifferenza nei confronti dei bisogni e del malessere dell’altro (Giordano, 2004).

2. Quando la famiglia diventa mobber: una ricerca esplorativa

La ricerca che presentiamo nasce con l’intento di indagare le storie scritte dagli stessi u-tenti che si sono rivolti presso il Centro di Riferimento Regionale per il Disagio Lavorativo – “Sportello Mobbing”, attivato dall’Azienda Sanitaria Locale di Pescara a partire dall’ottobre del

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Quando la famiglia diventa mob-

ber. Una ricerca esplorativa sul

doppio mobbing Michela Cortini, Silvia Di Carlo, Riccardo Giorgio Zuffo, Massimiliano Barattucci – Cap. 19

2001 e finanziato oggi da specifica Legge Regionale a partire dal 2004.1 Lo scopo è studiare l’esistenza del fenomeno doppio mobbing e come viene rappresentato nelle mentalizzazioni e nelle esternalizzazioni discorsive del mobbizzato.

Il corpus di dati è costituito da un campione delle storie di vita e lavoro, giunte spontane-amente, in forma scritta, allo Sportello Mobbing di Pescara nel periodo 2005-2009, 5 scritte da donne e 5 da uomini. La seguente ricerca vuol essere uno spunto di riflessione per analizzare i di-versi vissuti dei mobbizzati tramite l’analisi delle loro stesse verbalizzazioni

L’analisi fa capo alla metodologia triangolare, incrociando da un lato l’analisi del discor-so e, dall’altro, l’analisi del contenuto effettuata con l’ausilio del software T-Lab (Lancia, 2004).

2.1 Risultati

In primis, vale la pena di restituire qualche accenno dell’analisi del discorso fatta, met-tendo in luce in modo particolare l’analisi metaforica sulla rappresentazione dello scatenarsi del mobbing e dell’eventuale doppio mobbing nelle narrazioni dei partecipanti.

La prima cosa da rilevare è la rappresentazione delle cause del mobbing e la visione di questo che ne scaturisce.

Esempio 1: “�eanche oggi mi è stato dato lavoro da svolgere. Per tutta la mattinata so-

no_stato assalito da continui sentimenti di colpa”.

Esempio 2: “La mancanza di fiducia in me stesso mi ha fatto sentire in un forte stato an-

sioso che mi ha portato dei forti dolori allo stomaco. Come mi succede spesso, sento come un'

animale che si attorciglia al mio interno”.

Dagli esempi 1 e 2 emerge da un lato l’importanza di avere un’occupazione specifica da svolgere, che significa, in termini psicologici, un compito in cui esprimere una parte di sé e dall’altro i sentimenti di colpa e di ansia, così spesso associati al mobbing nella letteratura specia-listica. Colpisce, inoltre, la metafora dell’animale che si attorciglia al proprio interno, lasciando intendere una visione di sé come in totale balia di questa entità.

Esempio 3: “Avverto che le mie emozioni sono pesantemente frustrate, come chiuse in

una gabbia di sofferenza. Un forte sentimento di colpa fa ingigantire il dolore morale che ho

dentro”.

Sempre in termini metaforici, uno dei partecipanti descrive il proprio vissuto emotivo come incapace di esplodere, chiuso in una gabbia (esempio 3) quasi implodesse verso l’interno senza possibilità di rinascita; da notare ancora una volta l’accento al vissuto di colpa.

Esempio 4: “Spesso quando torno a casa me la prendo con la mia famiglia che non ha

nessuna colpa”

1 Il servizio consente, a coloro che vi si rivolgono, di valutare le situazioni lavorative presentate, di accedere ad assi-stenza medico-legale e di fruire di consulenze cliniche e terapeutiche. Al servizio si accede gratuitamente mediante ri-chiesta di appuntamento telefonica o a mezzo di posta elettronica. In un primo colloquio, uno psichiatra ed uno psico-logo esaminano la condizione lavorativa e sintomatologica dell’utente attraverso un protocollo standardizzato e l’utilizzo di strumenti di assessment, forniscono un primo orientamento e propongono interventi terapeutici. In un se-condo colloquio, un medico del lavoro, un medico legale ed un secondo psicologo approfondiscono la valutazione della vicenda lavorativa, forniscono un orientamento pratico, assistenza medico-legale e soluzioni operative alla situazione lavorativa e sintomatologica. Successivamente, attraverso una riunione collegiale, gli specialisti ri-esaminano il caso e propongono una certificazione, possibili interventi di medicina preventiva o interventi terapeutici.

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doppio mobbing Michela Cortini, Silvia Di Carlo, Riccardo Giorgio Zuffo, Massimiliano Barattucci – Cap. 19

Esempio 5: “Lui non contento è tornato alla carica e questa volta assicurandosi che non

ci fosse nessuno mi ha detto: “ sei lenta, datti una mossa e vedi di prenderla velocemente questa

decisione”. Lui si è allontanato ed io ho pianto. Ho finito il mio turno e sono tornata a casa dalle

mie bimbe, quel giorno la mezza giornata tanto attesa era riuscito a rovinarla”. Interessante notare l’emergere del doppio mobbing; da un lato il mobbizzato che ammette

di sfogare la propria rabbia contro la famiglia (esempio 4) e dall’altro l’impossibilità della vittima di godersi la vita familiare stessa (esempio 5) che dovrebbe fungere da forte elemento di reco-

very. Esempio 6: “A casa non va molto meglio poiché questa situazione sta cambiando la vita

familiare, i conflitti a casa sono accentuati da questa situazione” . Ed infine la famiglia che diviene al contempo vittima (esempio 6 “questa situazione sta

cambiando la vita familiare” ma anche “boia”, reagendo al malessere del mobbizzato col conflitto (esempio 6), in una chiave che è stata definita dalla letteratura come difensiva.

2.2 Le analisi del contenuto

Come fase preliminare per realizzare le analisi del contenuto, abbiamo accorpato in due

files formato “txt” alcune storie di vita raggiunte allo Sportello Mobbing, selezionate casualmen-te, distinguendole seconda del genere del mobbizzato, con il sotto-scopo di indagare non solo le tracce discorsive del doppio mobbing in termini molto generali ma anche di rinvenire eventuali differenze nei vissuti di doppio mobbing tra uomini e donne.

Prima di far “girare” il testo in T-Lab abbiamo proceduto con le necessarie operazioni di pulitura del testo. Queste hanno compreso sia un lavoro di disambiguazione, dove parole omofo-ne vengono distinte, che di lemmatizzazione, dove parole diverse vengono fatte risalire ad un’u-nica radice lemmatica.

Un esempio di disambiguazione è dato dalla forma linguistica stato che può significare sia “nazione” che participio passato del verbo essere; disambiguare significa ripercorrere nel testo tutte le possibili parole omofone e rietichettarle.

Per quanto concerne il procedimento in un certo senso inverso, la lemmatizzazione, che porta diverse forme linguistiche ad una radice comune, pensiamo, come esempio, di unire alla ra-dice lemmatica lavoro, le forme linguistiche del verbo lavorare; la logica di tale operazione ri-sponde alla necessità di computare il concetto di lavoro in qualsiasi delle forme linguistiche con cui si esprime, e dunque di accorpare, continuando con questo esempio, tutti i modi, i tempi e le persone del verbo lavorare (operazione preliminare che il software realizza in maniera automati-ca prima di cominciare

le analisi), così come tutte le altre parole utilizzate che richiamano il concetto di lavoro; la tecnica di analisi che stiamo effettuando intende infatti analizzare i contenuti concettuali che si nascondono dietro forme linguistiche apparentemente distinte.

Una volta così preparato il testo, abbiamo proceduto con la prima analisi automatica delle occorrenze e co-occorrenze, quella che in gergo tecnico viene chiamata Analisi delle Associazio-

ni, realizzata solo sulle parole con soglia di frequenza 4.

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GRAFICO 1 Analisi delle Associazioni di parola per il sub corpus donne

GRAFICO 2 Analisi delle Associazioni di parola per il sub corpus uomini

Per quanto concerne le analisi delle occorrenze e co-occorrenze è da rilevare che per en-

trambi i subcorpora, di donne e uomini, la parola più citata nel parlare di mobbing sia “lavoro”; se da un lato questo è abbastanza scontato ed intuitivo, dall’altro, fa capire che l’universo conte-stuale in cui origina il mobbing resta comunque quello occupazionale-lavorativo.

Venendo nello specifico all’analisi delle co-occorrenze, il cuore dell’analisi delle asso-ciazioni che di fatto specifica e definisce la visione che i parlanti hanno della parola più citata, va rilevato che, per le donne, il lavoro appare un universo occupazionale dominato dagli aspetti rela-zionali (Grafico 1), con diverse associazioni che richiamano le relazioni famigliari e più in gene-

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rale sociali, quali ad esempio quelle con i lemmi “casa”, “dirigente”, “colleghi”, “persone”, “di-rettore”.

Viceversa, gli uomini sembrano più centrati verso il compito lavorativo, ed in tal senso colpiscono le associazioni del lemma “lavoro” con i lemmi “svolgere”, “impegno”, “disposizio-ni”, “compito”; per gli uomini il lavoro è il mondo dell’efficienza, dei compiti, della performan-ce.

Rispetto alla visione del mobbing, gli uomini presentano un universo discorsivo decisa-mente più ricco ed articolato (nella lucida rilevazione delle cause e dei vissuti emotivi), e ne fan-no fede le occorrenze di termini che richiamano il mobbing, quali per esempio “stress” e “disa-gio”; ciononostante, sembrano poco coscienti di tutti gli effetti, interpretazione alla quale siamo giunti attraverso l’analisi della specificità linguistica esclusiva, che mira a cogliere, in un parago-ne tra due subcorpora, quali lemmi caratterizzino uno e non l’altro (Tabella 1) e viceversa.

In termini di risposta al mobbing, entrambi i generi riscontrano in maniera fortemente emotiva i propri vissuti (Tabella 1 con grande ricchezza di termini che evocano vissuti emotivi), come già evidenziato con l’analisi del discorso; le donne però sembrano più pragmatiche e reatti-ve; si prenda ad esempio il lemma “denunciare” come specificità femminile.

Rispetto all’ipotesi del doppio mobbing, le donne fanno più spesso riferimento ai singoli ruoli familiari, gli uomini al contesto famiglia nella sua interezza (Tabella 1); per entrambi, co-munque, si può ipotizzare qualche avvisaglia della presenza del doppio mobbing.

Per meglio indagare un’eventuale riferimento al doppio mobbing, abbiamo infine accor-pato le storie di vita di uomini e donne e proceduto con un’analisi delle mappe concettuali che, in termini di statistica applicata a dati categoriali quali le parole sono, è un vero e proprio muldi-

mensional scaling che intende restituire una sorta di macro-dimensioni del discorrere, ripropo-nendo in chiave categoriale quello che l’analisi fattoriale farebbe sugli item di un questionario.

Da detta analisi è possibile “estrarre” due macrofattori (distinti nelle sfumature di grigio), che corrispondono da un lato ai contesti nei quali emerge il mobbing, rappresentati dal reparto, dall’azienda, dall’ufficio, ma anche dalla casa (a dimostrazione dell’esistenza del doppio mob-bing) e dall’altro, alle azioni che il singolo può intraprendere, che vanno dal chiedere, al riuscire, al rimanere.

TABELLA 1

Specificità linguistica esclusiva

Lemmi esclusivi corpus donne

bimbo, marito, sintomo, persecuzione, esaurimento, estenuante, esaspera-re, fallimento, ferire, calvario, accusa, rifiutato, maltrattato, rimproveri, timori, vessazioni, vergogna, licenziato, ipertensione, morire, esagerare, privare, raccontare, piangere, urlare, ricominciare, fronteggiare, subire,

imprecare, rinnovare, denunciare

Lemmi esclusivi corpus uomini

famiglia, stress, crisi, colpa, vittima, dolore, incertezza, malattia, paura, sofferenza, soffrire, attacco, insonnia, tachicardia, oppressione, frustrato, agitazione, cattiveria, amarezza, sfigato, sfiduciato, scoraggiamento, com-

battere, rimboccarsi le maniche, scoppiare

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GRAFICO 3 Analisi delle mappe concettuali

3. Conclusioni

Siamo partiti con l’ipotesi di indagare il fenomeno del doppio mobbing. Abbiamo inteso

questo mandato di ricerca in termini esplorativi e per questa ragione abbiamo deciso di focaliz-zarci su un corpus di dati di natura qualitativa. Le analisi a questo applicate ci hanno restituito una conferma del forte intreccio che esisterebbe tra il mobbing ed una forma di disagio familiare che può sfociare in un vero e proprio doppio mobbing.

In conclusione ci sembra doveroso da un lato sottolineare i limiti della presente ricerca e, dall’altro, immaginare e mettere a punto alcune domande di ricerca per il futuro.

Il primo limite da sottolineare fa sicuramente capo al numero limitato di storie di vita a-nalizzate, 10. Se da un lato, inoltre, abbiamo garantito un’analisi triangolare, che sposa tecniche meramente qualitative (l’analisi metaforica) con tecniche di analisi quantitative (l’analisi del con-tenuto), dall’altro è pur vero che il corpus di dati su cui abbiamo svolto dette analisi è esclusiva-mente qualitativo, le storie, e limitato a 10 partecipanti come fonte di dati. Sarebbe opportuno per il futuro mettere a punto uno strumento di rilevazione quantitativo, rappresentato da un questio-nario ad hoc che, sulla scorta dei risultati di questa indagine esplorativa, miri ad investigare le di-namiche del doppio mobbing, le sue cause scatenanti ed i suoi outcomes.

Sarebbe opportuno, infine, indagare maggiormente le differenze di genere nel vissuto del mobbing e del doppio mobbing; generalmente la bibliografia attribuisce una maggiore sofferenza da mobbing agli uomini, che tradizionalmente investono affettivamente di più nel lavoro. Da un lato varrebbe la pena di riverificare questa premessa e, dall’altro, cosa succede nel doppio mob-bing, dove potremmo ipotizzare una maggiore sofferenza a carico delle donne, visto il grande in-vestimento affettivo di queste nel contesto e nella vita familiare.

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4. Bibliografia

Casilli, A. A., 2000, Stop mobbing. Resistere alla violenza psicologica sul luogo di lavoro. Roma, De-

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sion on “Preventive measures to fight violence against childre, young people and women”. Giordano G. (2004), Conflittualità nella separazione coniugale: il "mobbing" genitoriale, Psychome-

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20. Lo stress lavoro-correlato nelle PMI artigiane del sud Sardegna Renato Troffa, Pierluigi Caddeo, Marcello Secchi

1. Introduzione

Il presente contributo prende le mosse da uno studio esplorativo emerso come risposta al-la richiesta di un quadro riguardante la realtà e le dimensioni del rischio stress lavoro-correlato nelle aziende artigiane del sud Sardegna.1

L’esigenza dello studio ha riguardato la costruzione di una banca dati dei fabbisogni for-mativi relativi agli interventi e ai rischi da stress lavoro-correlato. L’obiettivo infatti era quello di ottenere un quadro della situazione reale degli ambienti lavorativi in un campione specifico e ben articolato per caratteristiche funzionali e lavorative.

Lo studio di una realtà specifica come quella della Sardegna emerge in questo caso come in-teressante anche in funzione della sua particolarità a livello nazionale. Sebbene a livello legislativo e commerciale la realtà delle piccole e medie imprese artigiane sarde sia in linea con le direttive nazio-nali, si distingue come realtà del tutto peculiare connotata da un mercato del lavoro culturalmente definito dall’insularità e dunque meno permeabile rispetto a quello di altre regioni.

Le specifiche realtà territoriali e gli specifici contesti lavorativi possono rappresentare, in quest’ottica, un utile campo di studi per esplorare l’esistenza di sovrapposizioni o differenze tra la realtà specifica e il contesto specifico. L’interesse per questa tipologia di campione è data dalla collocazione socio-geografica ma anche dalle caratteristiche del lavoro. Il contesto aziendale di riferimento è costituito infatti da un alto numero di micro-imprese, spesso composte solo dal tito-lare e/o da un esiguo numero di dipendenti che operano in gran parte all’esterno della sede azien-dale, svolgendo le proprie mansioni in maniera de-localizzata nel territorio. Questo ha rappresen-tato un fattore di particolare interesse specifico nello studio della peculiare realtà sociale e lavora-tiva e della tematica riguardante lo stress lavoro-correlato.

Da questo punto di vista, l’approccio psicosociale allo studio della sicurezza lavorativa pre-suppone l’esistenza di più livelli d’analisi nello studio del comportamento degli individui all’interno dei contesti lavorativi. Tali livelli possono far riferimento a fattori di natura individuale, sociale e organizzativa. Il centro d’interesse in questo campo si è progressivamente esteso fino ad includere l’impatto che determinati aspetti dell’ambiente di lavoro possono avere sulla salute delle persone (Cox, Griffiths e Rial-Gonzalez, 2002; Cox, Karanika, Griffiths e Houdmont, 2007). Con la defini-zione rischi trasversali o psicosociali si intendono infatti gli “aspetti di progettazione del lavoro e di organizzazione e gestione del lavoro, nonché i rispettivi contesti ambientali e sociali, che poten-zialmente possono arrecare danni fisici e psicologici” (Cox e Griffith 1995).

È possibile individuare un insieme di caratteristiche del lavoro che possono incidere sulla salute fisica e psicologica (Kasl, 1990; Cox, 1993; Cox, Griffiths e Leka, 2005) sia attraverso un

1 Studio realizzato con: Camera di Commercio Industria, Artigianato e Agricoltura di Cagliari; CLAAI Associazione degli Artigiani della Provincia di Cagliari.

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Lo stress lavoro-correlato nelle

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percorso fisico diretto sia attraverso un percorso psicologico mediato da stress. Sebbene le rea-zioni delle persone allo stress non determinino necessariamente disturbi o danni, le esperienze emotive negative connesse all’esperienza di stress possono ridurre la qualità della vita e il senso individuale di benessere. Oltre agli indicatori indiretti degli aspetti fisiologici dello stress va valu-tata la condizione dei lavoratori, sia dal punto di vista oggettivo (ambiente, rapporto uomo-macchina) sia dal punto di vista soggettivo (soddisfazione lavorativa, clima, alienazione) (Torto-rici e Rozbowsky, 2006).

Periodi prolungati di stress possono influire negativamente sullo stato di salute di un in-dividuo. Alcuni studi hanno dimostrato la correlazione tra stress lavoro-correlato e: a) disturbi fi-sici quali cardiopatie, mal di schiena, cefalee ed altre patologie minori (Cox et al., 2002); b) di-sturbi psichici quali ansia, depressione, difficoltà di concentrazione, ridotte capacità decisionali (Ferrie, Shipley, Stansfeld e Marmot, 2002). Inoltre, lo stress può condurre ad altri comportamen-ti potenzialmente nocivi per il benessere e a modifiche comportamentali nello stile di vita (Mols, Denollet, e Type, 2010).

Appare dunque evidente come l’adozione di provvedimenti per la gestione e prevenzione delle cause dello stress lavoro-correlato possa rendere possibile prevenire, o quanto meno ridurre, l’impatto negativo che questo fenomeno può avere sulle persone e sull’azienda e generare, in questo modo, benefici aziendali.

Riguardo lo stress sono stati proposti vari modelli descrittivi. Tra i più utilizzati in lette-ratura vi è quello formulato da Cooper e collaboratori (Cooper e Marshall, 1976; Sutherland e Cooper, 1990, Palmer, Cooper, e Thomas, 2003). Il modello di Cooper si concentra sulla natura e sulla tipologia dello stress correlato al lavoro e sulle ricadute sia individuali che organizzative. Parte del processo di stress è rappresentato dai rapporti tra l’ambiente di lavoro e le percezioni del lavoratore, tra tali percezioni e l’esperienza di stress, nonché tra l’esperienza di stress ed i cambiamenti nel comportamento, nella funzione fisiologica e nella salute. Lo stress può anche

manifestarsi quale conseguenza di un carico di lavoro eccessivo e, a sua volta, può influire su di-versi aspetti della salute. Si evidenzia quindi un legame costante tra i fattori di rischio e lo stato di salute. Palmer e collaboratori (2003) nella più recente formulazione del modello propongono una macro distinzione tra: a) Fonti di stress; b) Sintomi da stress; c) Malattie.

Nello specifico, tra le principali “Fonti di Stress” gli autori distinguono tra: a) Fattori Inerenti al Lavoro: relativi sia alle condizioni fisiche dell’ambiente di lavoro, sia alle

task demands (caratteristiche del compito, carico del lavoro, ecc.); b) Ruolo nell’organizzazione: connesso principalmente all’ambiguità di ruolo (relativa alla man-

canza di chiarezza circa gli obiettivi e le aspettative rispetto al ruolo che si ricopre), al conflit-to di ruolo e alla responsabilità;

c) Rapporti sul lavoro: ritenuti potenziale fonte di stress nel momento in cui coincidono con una difficoltà di relazione con i vertici direttivi, con i dipendenti e tra i colleghi stessi;

d) Sviluppo di Carriera: fa riferimento alle sovra-promozioni, collegate al timore di non essere all’altezza del compito, così come alla mancanza di promozioni e alle retrocessioni, connesse invece a sensazioni di frustrazione;

e) Clima e struttura organizzativa: coincide con la percezione, da parte degli individui, di un clima aziendale più o meno rassicurante che influenza la probabilità di valutazione positiva delle richieste formulate nei loro confronti;

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f) Interfaccia Casa-Lavoro: le “pressioni” derivanti dalla vita lavorativa possono incidere negativa-mente anche nelle vita privata e viceversa. Se da un lato infatti i problemi lavorativi possono riper-cuotersi nella vita familiare, è altrettanto vero che la vita personale può influire su quella lavorativa.

Gli autori propongono poi una classificazione dei “Sintomi da stress” distinguendoli nei modi di seguito indicati. a) Individuali: ad esempio, alterazioni del ritmo cardiaco, aumentato consumo di alcolici e di si-

garette, disagio psicologico, umore depresso, irritabilità, insoddisfazione professionale, aspi-razioni e motivazioni ridotte;

b) Organizzativi: ad esempio, alto assenteismo, elevato turnover nel lavoro, abbandono, rischio di infortuni, cattiva qualità nelle relazioni lavorative.

Le due principali tipologie dei sintomi da stress possono rispettivamente provocare l’in-sorgenza di specifici disagi – malattie – classificabili come: a) malattie individuali, fra cui, ad esempio, disturbi cardiocircolatori, alterazioni dello stato di

salute mentale, ecc.; b) malattie organizzative, fra cui, ad esempio, frequenti e gravi incidenti, deterioramento della

performance organizzativa, ecc..

2. Obiettivi della ricerca

Il problema della sicurezza sul lavoro, e in particolare l’analisi delle dimensioni dello stress lavoro-correlato, sono alcuni degli aspetti da prendere necessariamente in considerazione al fine di fa-vorire la definizione e la crescita di una vera cultura della sicurezza in ambito lavorativo. Partendo da un approccio di tipo psicosociale che consideri lo stress in termini di interazione dinamica tra persona e ambiente lavorativo, è utile riconsiderare il fenomeno dello stress lavoro-correlato a partire da un approccio contestualizzato che lo consideri in funzione della realtà e del contesto in cui si manifesta.

È apparso perciò utile, venendo oltretutto la richiesta dalle realtà imprenditoriali e dato-riali, partire nel presente studio dalla specifica realtà lavorativa in cui trovano forma e consisten-za i rischi psicologico sociali e organizzativi alla base di tale fenomeno. Da questi presupposti si è mossa la necessità di un’indagine esplorativa in un contesto lavorativo specifico come quello delle piccole e medie imprese artigiane.

L’obiettivo dello studio è stato, infatti, quello di esplorare la percezione dei rischi con-nessi allo stress lavoro-correlato, le relative cause e le conseguenze percepite dai lavoratori, inda-gando la situazione esistente negli ambienti lavorativi di una particolare realtà locale. Viene quindi proposto uno studio volto ad indagare la specificità di tale realtà in relazione alle perce-zioni e alle considerazioni dei lavoratori del settore. Tale studio si pone inoltre l’obiettivo di ana-lizzare e riconsiderare il fenomeno alla luce dei modelli teorici di riferimento.

3. Metodo

3.1 Partecipanti

I partecipanti sono lavoratori e datori di lavoro di piccole e medie imprese artigiane delle province di Cagliari, Carbonia-Iglesias e Medio Campidano, situate nel sud-Sardegna. Le aziende

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coinvolte sono state individuate attraverso un campionamento di tipo stratificato tratto dalla po-polazione rappresentata dalle imprese artigiane del territorio di riferimento. I criteri di base della stratificazione sono stati ricavati da dati di archivio e implementati attraverso una serie di collo-qui e interviste semi-strutturate con rappresentanti di categoria e imprenditori artigiani.

Le imprese e/o i singoli lavoratori sono stati quindi contattati e dopo essere stati informati sulle finalità dello studio hanno autorizzato gli intervistatori a procedere.

Lo studio ha quindi coinvolto un totale di 53 aziende, per un totale campionario di n = 60 partecipanti allo studio. Il campione contattato era formato sia da titolari che da dipendenti di età compresa tra i 25 e i 60 anni (Età media = 40,94; DS = 8).

3.2 Strumenti e procedure

Per la realizzazione dello studio sono state effettuate delle interviste semi-strutturate vol-te a rilevare la percezione del rischio e degli effetti dello stress lavoro-correlato nelle aziende coinvolte. La griglia dell’intervista è stata costruita a partire dalle categorie emergenti dall’analisi della letteratura e dai colloqui preparatori allo studio (con rappresentanti di categoria e datori di lavoro). Il presente lavoro mostra solo i dati riferiti alla percezione e agli effetti dello stress lavo-ro-correlato.

L’intervista è stata in primo luogo sottoposta a pre-test mediante la somministrazione a cinque soggetti anch’essi lavoratori artigiani del settore. L’analisi del pre-test ha consentito di ve-rificarne la coerenza interna e la corrispondenza con le aree di interesse. A quel punto è stata uti-lizzata nello studio.

4. Analisi dei dati

Il contenuto delle interviste è stato trascritto e poi sottoposto ad un’analisi di tipo qualita-tivo. Il primo passo è stata la costruzione di un vocabolario in cui forme verbali differenti solo per genere e numero o con radice semantica simile (esempio, scale-scala; visto-veduto) sono state accorpate e considerate identiche. Successivamente due giudici indipendenti (con il metodo “dop-pio cieco”) hanno categorizzato e suddiviso per aree semantiche i dati secondo la tassonomia ri-cavata dalla letteratura di riferimento. Le categorie utilizzate sono rispettivamente: a) Fonti di

stress; b) Sintomi da stress; c) Malattie. Quindi, attraverso l’utilizzo del software SPAD-T 5.5 (Lebart e Morineau, 1985), sono stati prima rilevati per ogni area i termini con frequenza interna maggiore; le parole individuate sono state quindi analizzate secondo la procedura “CORDA” per la rilevazione delle concordanze all’interno del testo. Gli estratti di testo così individuati sono sta-ti accorpati per aree semantiche analoghe.

5. Risultati

L’analisi dei dati ha, in primo luogo, consentito di ricavare il dato relativo alla frequenza con la quale i lavoratori contattati hanno riportato esperienze di stress, a diversi livelli. Il 73.2%

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degli intervistati ha riportato di aver esperito personalmente situazioni di stress. I resoconti e le descrizioni di queste esperienze hanno messo in luce differenti livelli di stress, diverse categorie di motivazioni e diverse conseguenze, tanto a livello personale quanto organizzativo. I risultati delle analisi saranno di seguito riportati secondo le tre dimensioni principali dello stress lavoro-correlato utilizzate nel disegno di ricerca.

5.1 Fonti di stress

Tra le cause (o fonti di stress) è stato possibile individuare diverse categorie, coerenti con

quelle del modello esplicativo adottato da Palmer et al. (2003). Sono state quindi individuate 6 specifiche categorie descrittive delle fonti di stress, cosi riassumibili: a) Fattori Inerenti al Lavoro; b) Ruolo nell’organizzazione; c) Rapporti sul lavoro; d) Sviluppo di Carriera; e) Clima e struttura organizzativa; f) Interfaccia Casa-Lavoro.

Per quanto riguarda i fattori inerenti agli aspetti specifici del lavoro, le frasi significative individuate sottolineano la stretta relazione tra carico, ritmi e natura ripetitiva del lavoro e stress. Alcune delle concordanze individuate (le più significative) sono riportate in Tabella 1.

TABELLA 1

Fonti di stress e fattori inerenti al lavoro

“(la) ripetitività… lo porta ad assentarsi mentalmente dal lavoro, come se uno vaga nel vuoto, si disinnamora del lavoro” “il lavoro, in questo periodo, è stressante perché si va sempre di fretta, la fretta. È imposta dal sistema, la fretta, per questo non è che posso diminuire io la velo-cità…” “se a uno piace no non è stressante.. giusto la stanchezza ogni tanto…” “deve piacere… non è questione solo di manovalanza”

La dimensione dello stress viene sottolineata spesso in funzione degli aspetti organizzati-

vi del lavoro e dello specifico ruolo ricoperto dal lavoratore all’interno dell’azienda. Appare im-portante sottolineare come le specifiche attività svolte e le necessità relazionali all’interno dell’azienda si caratterizzino come fonti di stress spesso percepite in maniera differente o opposta a seconda del ruolo ricoperto. Il ruolo nell’organizzazione, e in particolare la responsabilità dei dipendenti e/o la responsabilità organizzativa, finanziaria e amministrativa, finiscono per influire soprattutto sui titolari. Essi infatti esperiscono lo stress in relazione anche (e soprattutto) al ri-schio d’impresa e alle responsabilità. Le concordanze individuate sono riportate in Tabella 2.

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La qualità dei rapporti all’interno dell’azienda sembra rivestire una grande importanza, non solo in quanto possibile fonte di stress ma, anche, in quanto può rappresentare un elemento in grado di contrastare lo stress (vedi Tabella 3).

TABELLA 2

Concordanze su fonti di stress inerenti al ruolo

“Come gli altri lavori magari la mia mansione è un po’ più stressante, perché ti devi occupare del cantiere, ma ti devi occupare anche di molte altre cose. Ti devi occupare dei dipendenti” “L’impiantistica è molto stressante, devo stare dietro agli ingegneri, ai clienti, devo seguire la progettazione di tutto il lavoro che sto facendo” “Abbastanza. Il mio personalmente, sì. I miei dipendenti sono stressati, ma non penso dal lavoro”

TABELLA 3 Concordanze su fonti di stress inerenti i rapporti sul lavoro

“... dipende anche da che rapporto c’è con il datore di lavoro, con tutta l’équipe…” “Cioè, il dipendente prende le trasse

2 del padrone: se il padrone è stressato, è stressato anche il dipendente” “... lavoravo con persone che non ti lasciano in pace…”

Per quanto riguarda le possibilità di progressione di carriera, concordemente con il tipo di lavoro delle imprese artigiane dove la progressione verticale è molto limitata, il sistema premian-te del lavoro e la relazione tra richieste dell’azienda e gratificazioni per il lavoratore diventa u-n'altra causa percepita di malessere che può portare il lavoratore a situazioni di stress lavorativo (Cooper, 2005). Esempi di concordanze sono riportate in Tabella 4.

TABELLA 4

Concordanze su fonti di stress inerenti evoluzione di carriera

“… non venivo valutato per quello che facevo” “Pretendevano più di quello che facevo senza essere tanto retribuito…”

La percezione di appartenere ad una struttura aziendale connotata da un clima rassicuran-

te e sereno, che permetta ai lavoratori di poter espletare al meglio le proprie funzioni con respon-sabilità e sicurezza, è una condizione considerata necessaria per limitare lo stress lavorativo. L’assenza di tali condizioni, infatti, viene percepita come una dimensione del malessere lavorati-vo e come condizione stressogena. Esempi di concordanze sono riportate in Tabella 5.

2 Trasse: espressione della lingua sarda riferita a modalità comportamentali consolidate.

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La cosiddetta interfaccia casa-lavoro è percepita dai lavoratori intervistati, coerentemente con la letteratura (Cooper, Lu, Kao, Chang & Wu, 2008), come un elemento in grado di rivestire una fondamentale importanza nelle dinamiche connesse allo stress lavoro-correlato. In questo sen-so i problemi relativi alla sfera personale e familiare che vengono portati a lavoro e le pressioni legate al lavoro che vengono portate a casa, si trovano in un rapporto di mutua influenza, e posso-no provocare esperienze di stress. Le concordanze più significative sono riportate in Tabella 6.

TABELLA 5

Concordanze su fonti di stress inerenti clima e struttura organizzativa

“Lavoravo con persone che non ti lasciano in pace…” “È diventata una cultura di darti fogli di carta, non di darti il corso vero e pro-prio, di darti le istruzioni che servono” “Se lavori che sei tranquillo, che hai preso il lavoro bene, e non hai quella fretta di fare di più per guadagnare di più… che poi, guadagnare di più non è assolu-tamente un problema…”

TABELLA 6 Concordanze su fonti di stress inerenti l’interfaccia casa-lavoro

“Non sono sicuramente dal solo lavoro, ma dal cumulo di varie cose: lavoro, fa-miglia, problemi (…), tutte le cose insieme…” “In famiglia, se le cose te le porti a casa i problemi li crea…” “Poi c’è magari chi c’ha qualche altro problema o in casa, o fuori, magari se lo riporta al lavoro…”

5.2 Sintomi da stress

Per quanto riguarda i sintomi da stress, sono state rilevate due macro categorie di sintomi. La prima riguarda le esperienze vissute in prima persona, le seconda quelle osservate durante il proprio lavoro, che riguardano sia aspetti organizzativi che relazionali dell’esperienza lavorativa. Queste esperienze sono state riferite dagli intervistati come verificatesi a diversi livelli, sia per quel che riguarda le dimensioni (più o meno gravi) che riguardo gli elementi coinvolti (individuo o azienda).

Le fonti individuali di stress riportate corrispondono pienamente a quelle rilevate in lette-ratura e si rifanno alla difficoltà ad attuare strategie di coping positive. La risposta sintomatica quindi diviene quella classica della difficoltà a dormire o rilassarsi che viene risolta spesso con l’uso di farmaci o alcolici.

Esempi di concordanze sono riportate in Tabella 7. Per quanto riguarda le fonti di carattere organizzativo, esse trovano comune espressione

nella gestione disfunzionale delle relazioni sociali e lavorative che sfocia in maggiori possibilità di infortunio. Esempi di concordanze sono riportate in Tabella 8.

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TABELLA 7 Concordanze su sintomi da stress individuali

“Avevo problemi seri, dovevo prendere pastiglie per rilassarmi…” “…non ci dormi la notte…” “Molti si sono dati all’alcool…”

TABELLA 8 Concordanze su sintomi da stress organizzativi

“È questa una delle cause che possono determinare un infortunio anche serio” “Ho visto gente litigare, per scemenze, quello era dovuto anche allo stress”

5.3 Malattie

Strettamente correlate ai sintomi vi sono quindi le malattie, espressione di una conse-guenza negativa dello stress lavorativo che si esprime, anche in questo caso, con malattie legate sia alla sfera individuale che a quella organizzativa (Cooper & Marshall, 1976).

Per quanto riguarda le malattie legate ai sintomi da stress di tipo individuale, vengono ri-portate esperienze legate a problemi di tipo nervoso come attacchi di panico e a casi di esauri-mento nervoso. Esempi di concordanze sono riportate in Tabella 9.

TABELLA 9

Concordanze su malattie da stress legate a sintomi individuali

Le malattie hanno spesso anche una dimensione organizzativa che trova la sua espressio-ne in condizioni che facilitano la possibilità di incorrere in incidenti o che portano ad un allonta-namento dalla vita lavorativa. L’allontanamento dalla vita lavorativa sembra essere un aspetto particolarmente importante proprio perché presente a prescindere dal ruolo ricoperto nell’azienda stessa. Esempi di concordanze sono riportate in Tabella 10.

TABELLA 10

Concordanze su malattie da stress legate a sintomi organizzativi

“Sono uscito fuori di testa. Avevo attacchi di panico…” “Ho avuto un esaurimento” “Ha avuto conseguenze, problemi psichici in cui chiaramente non aveva più co-gnizione del mondo”

“Aumenti la percentuale di incidenti…” “Alcuni hanno chiuso l’azienda…” “Ho lasciato l’azienda, me ne sono andato”

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6. Conclusioni

I risultati dell’indagine qui presentata hanno evidenziato come la gran parte dei lavoratori coinvolti nello studio abbia riferito esperienze di stress lavoro-correlato. Lo strumento utilizzato nell’indagine ha permesso di verifica la coerenza tra le esperienze riportate e le principali dimen-sioni dello stress identificate nella letteratura di riferimento (Cox e Griffith 1995; Cox et al., 2002; Palmer et al., 2003; Cooper, 2006; Cox et al., 2007). In particolare, le principali fonti di

stress (fattori inerenti al lavoro; ruolo; rapporti sul lavoro; sviluppo di carriera; clima e struttura organizzativa; interfaccia casa-lavoro) sono state riportate dai partecipanti nelle descrizioni della propria vita lavorativa. Sono emerse come particolarmente salienti le dimensioni relative alle fon-ti da stress “inerenti al lavoro” (ad esempio, la ripetitività e la pressione temporale), quelle relati-ve al “ruolo” (come l’ambiguità di ruolo e le aspettative verso i dipendenti) e quelle relative al “clima e alla struttura organizzativa” (ad esempio, un clima rigido e oppositivo vs. un clima sere-no). In linea con quanto previsto dal modello teorico proposto da Palmer e collaboratori (2003), alcuni partecipanti hanno sottolineato la consistente presenza di sintomi da stress, sia a livello in-dividuale sia organizzativo. Per quanto riguarda i sintomi individuali, i lavoratori sottolineano la presenza di aspetti legati a variazioni comportamentali (come l’abuso di sostanze alcoliche e psi-cotrope); per quel che concerne invece i sintomi organizzativi, gli intervistati indicano l’esistenza di incomprensioni relazionali che sfociano in continui litigi a lavoro. Parallelamente ai sintomi sono emerse, nei racconti dei lavoratori, esperienze riconducibili a malattie professionali, anche in questo caso sia di tipo individuale (ad esempio, attacchi di panico, esaurimento, problemi co-gnitivi) che organizzativo (come l’aumento della percentuale di incidenti, la chiusura dell’azienda, i licenziamenti, ecc.). Il contrasto di tali emergenze con quanto emerso dai primi colloqui con rappresentanti di categoria evidenzia una sottovalutazione a livello locale del pro-blema, che stimola ad un’ulteriore attenzione verso studi che coinvolgano realtà medio-piccole distribuite sul territorio, al fine di avere un quadro più completo della situazione.

Alla luce dei risultati appare sempre più inderogabile la necessità di adattare le politiche organizzative al passaggio da una cura del disagio ad una comprensione e prevenzione delle cau-se organizzative del disagio. Nonostante il recepimento di direttive Europee come la 89/391 e le successive integrazioni (European Union, 1989), che offre un quadro normativo di riferimento per far si che i lavoratori godano di elevati livelli di sicurezza sul posto di lavoro ancora molto resta da fare a livello di interiorizzazione e attuazione di tali norme sui posti di lavoro. Coerente-mente con le indicazioni della Comunità europea che individua nella fase di valutazione del ri-schio, il punto di partenza per implementare un efficace prevenzione del rischio (EU-OSHA, 2009), sempre di più si verifica l’esigenza di conoscere precocemente, attraverso pratiche di mo-nitoraggio e valutazione, gli antecedenti dello stress presenti nell’azienda sia dal punto di vista oggettivo-strutturale sia da un punto di vista soggettivo-personale può permettere quindi di poter attivare misure di promozione del benessere aziendale condivise da tutte le persone che ogni giorno contribuiscono a costruire la vita dell’impresa.

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21. Benessere e sicurezza nei lavoratori della sanità: una ricerca

sull’efficacia personale e l’engagement Giuseppe Santisi, Tiziana Ramaci

1. Introduzione

L’attenzione alla sicurezza nei luoghi di lavoro, alla luce delle innovazioni prodotte dal Testo Unico sulla Sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/08 e successive modifiche), fa emer-gere con maggiore forza l’ambito più generale della tutela e promozione della salute, intesa non come semplice assenza di malattia o infermità quanto, invece, come stato di completo benessere fisico, mentale e sociale. Dalla prima pronuncia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (1948; art. 2, comma 1, lett. O), sino alle più recenti determinazioni del medesimo organo, con-fluite nel 2001 nell’ICF (International Classification on Functioning),1 la cultura della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro ha via via trasformato il lavoratore da attore passivo, in cui prevaleva una forte componente razionale e prescrittiva, ad un soggetto attivo in cui emergono con grande forza dimensioni e fattori strettamente connessi al particolare contesto lavorativo (Franus, 1991) e alle molteplici interazioni di tale contesto con fondamentali dinamiche della vita organizzativa quali la crescita, lo sviluppo e la soddisfazione personale dei lavoratori.

L’individuazione di questi fattori ha dunque richiesto l’apertura di prospettive di analisi in cui sono poste al centro dell’attenzione il contributo (in termini di ruolo e funzioni) che la ri-

sorsa uomo assicura alla sopravvivenza ed allo sviluppo dell’intera struttura organizzativa. La prospettiva della salute organizzativa,2 ritenuta da molti approcci utile per la riduzione

di stati di malessere all’interno delle organizzazioni (Griffin, Hart & Wilson-Evered, 2000), mira ad enfatizzare il bisogno dell’azienda di coniugare tanto il benessere dei propri addetti con l’esito della prestazione lavorativa. Tale prospettiva, di analisi e d’intervento, sostiene un generale pro-cesso di attenzione verso quegli indicatori di “qualità”, individuali ed organizzativi, di fatto coin-volti nell’intero processo di mantenimento dell’efficienza del sistema, con particolare attenzione a quei fattori inerenti le performance molto spesso oscurati.

Come sostengono Lindstom, Schrey, Ahonen, e Kaleva (2000) “La salute organizzativa

1 La classificazione internazionale definita nell’ICS descrive in modo unificato e standardizzato le componenti di salute di una persona, le condizioni di vita ad esse correlate nonché le limitazioni delle funzioni corporee, delle attività quotidiane e di partecipazione sociale, in conseguenza alle compromissioni nello stato di salute. Nell’ICF non si fa menzione della condizione di non autosufficienza; l’accento viene posto infatti sui concetti di funzionamento e di disabilità che rappresentano due termini ombrello che coinvolgono, da un lato tutte le funzioni corporee e di partecipazione sociale dell’individuo, dall’altro tutte le limitazioni sia delle funzioni corporee che delle attività di partecipazione sociale, dovute alla presenza di particolari condizioni di salute. In questo contesto pertanto, lo stato di salute di un individuo è immaginabile come un continuum ai cui estremi opposti si trovano da una parte l’individuo in perfette condizioni di salute e senza alcun tipo di limitazione sia fisica che sociale, dall’altra parte l’individuo totalmente non autosufficiente, le cui sfere di autonomia fisica e sociale sono completamente compromesse. 2 Oltre al concetto di “salute organizzativa”, le problematiche di matrice psicosociale inerenti la sicurezza negli ambienti di lavoro si inseriscono a pieno titolo anche nel concetto di “benessere organizzativo”. Con tale termine, ci si riferisce alla capacità di un’organizzazione di promuovere e mantenere il benessere – fisico, psicologico e sociale – dei propri dipendenti. Di fondamentale importanza, in tale costrutto, è la qualità della relazione esistente tra le persone ed il loro contesto di lavoro (Avallone & Bonaretti, 2003; Falvo, R., Hichy, Z., Capozza, D., & De Carlo, N.A., 2002; De Carlo, Falco, Capozza, 2008).

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implica che un’organizzazione possa ottimizzare la sua efficacia ed il benessere dei suoi impiega-ti e sia capace di affrontare con successo i cambiamenti sia interni che esterni” (p. 83). L’assunto di base è che l’efficacia organizzativa sia una funzione del benessere degli individui e, affinché questo venga considerato come elemento centrale in sede di ri-progettazione e di sviluppo per le organizzazioni, sul versante organizzativo devono essere attentamente considerati aspetti quali l’organizzazione del lavoro, la cultura, gli stili di leadership, l’apprendimento organizzativo e la prevenzione del disagio (Di Nuovo, Dal Corso & Falco, 2006), ponendo l’attenzione sulla rela-zione tra soddisfazione individuale e raggiungimento degli obiettivi organizzativi.

Garantire il benessere dei lavoratori significa dunque creare quelle condizioni in cui essi possono esprimere al meglio capacità e potenzialità, con conseguenti ricadute positive in termini di qualità della prestazione individuale e della produttività (De Nisi & Griffin, 2008).

In questa prospettiva vanno dunque promossi comportamenti sempre più consapevoli nei lavoratori. Nello stesso tempo, va richiesto alle organizzazioni di adottare approcci orientati alla salute, di mettere a punto metodi per l’identificazione e la valutazione di nuovi rischi, di poten-ziare la ricerca relativamente agli aspetti psicosociali e ai rischi insorgenti dalle nuove forme di organizzazione del lavoro (Kaneklin & Scaratti, 2010). Nella competizione tra organizzazioni ef-ficienti la posta in gioco non può essere declinata solo ed esclusivamente da variabili di natura economica ma anche (e forse soprattutto) attraverso fattori intangibili che governano e sviluppa-no la dimensione informativa, quella della innovazione, quella delle competenze trasversali degli attori protagonisti della vita organizzativa. Il valore della pratica di lavoro, dell’adattarsi attraver-so le abilità, le esperienze e le capacità anticipatorie che derivano dalle conoscenze accumulate e ri-costruite in forma situata, diventano canali (e scommesse) generare vero capitale intellettuale.

Se è vero, dunque, che nelle organizzazioni vanno promossi comportamenti sempre più coscienti nei lavoratori, e che la capacità dei singoli di relazionarsi con la realtà rappresenta un fattore sostanziale del successo organizzativo, tuttavia ciò non è sufficiente a garantire l’efficacia collettiva, soprattutto allorquando il successo dipende dalla capacità dei vari sistemi sociali di o-perare come unità e creare sinergie. È perciò intuibile che, in ambiti a elevato grado di interdi-pendenza, come appunto entro i contesti organizzativi, più che le condizioni di efficacia persona-le, è il costrutto di “Efficacia Collettiva” (Bandura, 1995) che si rivela come l’indicatore mag-giormente legato alla capacità di realizzare un, congiuntamente, obiettivi di “profitto, produzione, servizio e continuità” (Jaffe, 1995, p. 15).

Non pochi sono gli interrogativi che possono dunque emergere da queste iniziali conside-razione. Tra i tanti, quelli che riteniamo maggiormente significativi sono rappresentati dai se-guenti: che tipo di cura riservano le organizzazioni al loro personale? Quali sono le connessioni

tra le misure tradizionali di efficacia e la salute/benessere delle persone che lavorano nell’orga-

nizzazione? Le organizzazioni efficaci supportano anche la crescita e lo sviluppo dei bisogni dei

loro lavoratori?

2. Obiettivo

Obiettivo dello studio che presentiamo in queste pagine è stato quello di valutare i fattori che promuovono, o possono ostacolare, il benessere all’interno di una organizzazione operante nel comparto pubblico del settore sanitario, nella considerazione che il miglioramento della salute or-

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ganizzativa – e delle dinamiche di valorizzazione delle risorse umane – può determinare un concre-to salto di qualità nell’efficienza dell’intero sistema. Investire in qualità e benessere per un’azienda ospedaliera può determinare vantaggi strategici e concreti, primi fra tutti il coinvolgimento conti-nuo e attivo dei soggetti verso un percorso di miglioramento delle performance individuali e a-ziendali (Kaneklin, 2010). Tale obiettivo sottende anche la possibilità di migliorare la gestione dei propri processi, implementando le occasioni per monitorare, ed eventualmente ridurre, i costi della sicurezza. In termini pratici ciò vuol dire: riduzione degli infortuni e incidenti sul lavoro, miglio-ramento della vision, risk management, stabile e concreto confronto con gli organi di vigilanza e gli enti di controllo (Di Nuovo & Santisi, 2010). Al contrario, invece, operare in un clima di ma-lessere organizzativo equivale a creare condizioni da cui scaturirebbero inevitabilmente fenomeni quali: bassi livelli di motivazione, assenteismo, ridotta disponibilità al lavoro, carenza di fiducia e mancanza di impegno, diminuzione della produttività (Meyer, Stanley, Herscovitch & To-polnytsky, 2002), ed in genere tutte le forme di disagio tipiche delle professioni sociosanitarie (Nonnis & Rutelli, 2008), con elevate ricadute in termini di qualità dei servizi erogati.

3. La ricerca: obiettivi, campione, strumenti

Saranno di seguito esposti i risultati di una ricerca volta a comprendere se e quanto la

condizione percepita di “stress” come conseguenza dell’assenza di benessere si possa ricollegare da un lato a particolari caratteristiche dei lavoratori, quali l’anzianità di servizio, la differenza di genere e non ultimo lo svolgimento di determinati ruoli professionali, attraverso l’analisi di alcu-ne dimensioni che sembrerebbero determinare condizioni di salute.

Ci riferiamo, in particolare, a tre condizioni che abbiamo ritenuto idonei a valutare lo sta-to di benessere/malessere dei lavoratori all’interno dell’organizzazione: l’engagement degli ope-ratori nei confronti della propria organizzazione, le percezioni di efficacia individuale e collettiva, lo stress organizzativo nelle sua varie dimensioni significative.

Il campione è costituito da 155 lavoratori del comparto della sanità pubblica etnea (88 maschi e 67 femmine) (Tabella 1) di età compresa tra 25 e oltre 50 anni e oltre di età, appartenen-ti alle categorie professionali di seguito indicate (Tabella 2) ed aventi una anzianità di servizio che si estende a più di venti anni. Il campione opera all’interno di una struttura ospedaliera ad alta specializzazione nel campo della cardiologia e cardiochirurgia.

TABELLA 1

Distribuzione del campione per genere e titolo di studio

Titolo di studio M % F % Tot. M-F

%

Media inferiore 5 5.6 5 7.4 10 6.6 Diploma 25 28.4 14 21.0 39 25.3 Laurea (con o senza specializzazione)

58 65.9 48 71.6 106 68.3

Totale 88 56.9 67 43.2 155

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TABELLA 2 Distribuzione del campione per ruolo professionale

Ruolo professionale � %

Infermieri 47 30.3 Medici 80 51.6 Tecnici socio-sanitari 24 15.5 Amministrativi 4 20.6

Totale 155

TABELLA 3 Distribuzione del campione per anzianità di servizio

Anni di lavoro � %

Da 1 a 7 anni 70 45.2 Da 8 a 19 anni 42 27.1 Venti anni e oltre 43 27.7

Totale 155

Per gli scopi della ricerca sono stati utilizzati i seguenti strumenti:

a) L’UWES – Utrecht Work Engagement Scale di Schaufeli e Bakker (2004; adattamento it. Pi-santi, Paplomatas, & Bertini, 2008), è uno strumento volto a misurare l’engagement nei lavo-ratori, come condizione psicologica associata al lavoro, positiva e soddisfacente. È composto da 17 item, con scala di risposta formato Likert a 7 punti che, secondo gli autori, misurano tre dimensioni: 1) il Vigore 2) la Dedizione 3) il Coinvolgimento

b) L’OSI – Occupational Stress Indicator di Cary, Cooper, Sloan e Williams (1988; adattamento it. Sirigatti & Stefanile, 1998), è uno strumento teso a valutare sia le fonti sia gli effetti dello stress lavorativo. Il questionario è composto da sei sezioni, denominate: 1) Che cosa pensa, come si sente nei confronti del Suo lavoro; 2) Come giudica il Suo attuale stato di salute; 3) Come si comporta di solito; 4) Come interpreta gli eventi che accadono intorno a lei; 5) Fonti di pressione nel Suo lavoro; 6) Il suo modo di affrontare lo stress.

All’interno delle quali sono contemplate delle sottoscale. c) Le Scale di Efficacia Personale e Collettiva nelle organizzazioni produttive (Caprara, 2011).

Le due scale sono costituite ciascuna da 6 item che misurano le convinzioni degli individui

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(EPOP) e dei membri dell’organizzazione (ECOP), relativamente alle capacità individuali e di gruppo di padroneggiare con successo le situazioni critiche richieste dal lavoro.

4. Discussione dei risultati

4.1 Differenze legate al genere La prima analisi ha preso in considerazione le differenze legate al genere (esse vengono

integralmente riportate all’interno della Tabella 4). I risultati statisticamente significativi mettono in evidenza che:

a) le donne ottengono punteggi più elevati in corrispondenza delle dimensioni Salute Psicologi-

ca, Salute fisica e Relazioni con altre persone. Tale livelli si collocano, per quanto riguarda la salute Psicologica, al di sotto della norma del campione di standardizzazione. Gli altri due (PHIT e FR) al di sopra, mostrando in generale un una buona condizione di salute fisica e di disponibilità alle relazioni.

b) gli uomini mostrano punteggi più elevati in corrispondenza delle sottodimensioni di Soddisfa-

zione per il proprio lavoro, Logica, Tempo e Coinvolgimento. Tali livelli si collocano, nel caso del secondo sub-campione maschile, tutti al di sopra dei valori normativi del campione com-plessivo di standardizzazione.

Si potrebbe ipotizzare dunque una differenziazione del campione nelle caratteristiche di percezione dello stress tradizionalmente legata al genere. In particolare: le donne, più sensibili alle opportunità che il lavoro offre di riprodurre positivi legami relazionali, rivelano minore tolle-ranza alle situazioni stressanti, con ripercussioni soprattutto sulla salute psicologica; per quanto riguarda gli uomini, la possibilità di gestire situazioni stressanti sarebbe maggiormente dipenden-te dalla possibilità di soddisfazione derivante dai contenuti del proprio lavoro e dalla possibilità di essere coinvolti.

TABELLA 4

Medie e deviazioni standard nei cluster dell’OSI. Differenze tra generi (t test)

Dimensioni OSI Maschi n = 88

Femmine n = 67

M DS M DS

p

SJ Soddisfazione per il lavoro 17.08 3.93 15.57 3.34 .012 SALUTE PSYT Salute Psicologica

51.09 12.09 57.72 11.39 .001

PHIT Salute fisica 26.00 9.45 36.12 13.83 < .001 FR Relazione con le altre persone

35.35 8.43 38.18 7.44 .031

CL Logica 14.27 2.21 13.04 3.29 .006 CT Tempo 17.27 2.45 16.07 3.31 .011 CI Coinvolgimento 27.07 3.62 25.54 5.84 .047

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4.2 Differenze legate all’anzianità di servizio e al ruolo professionale Relativamente all’influenza della variabile anzianità di servizio – aggregata su tre catego-

rie (1-7 anni; 8-19 anni; 20 anni e oltre ) – per quanto riguarda le dimensioni del secondo stru-mento volto a valutare sia le fonti che le conseguenze dello stress, differenze significative emer-gono per le due sottodimensioni: Ambizione e Controllo (Tabella 5). Mentre il Controllo rispetto al valore normativo standardizzato (= 19.20) è più basso in chi lavora da meno tempo, ed aumen-ta con l’aumentare degli anni di servizio; l’Ambizione presente con livelli più alti (rispetto al va-lore normativo pari a 10.63) all’inizio di carriera, decresce nella fase middle-age, per poi aumen-tare nuovamente verso la fine della carriera.

TABELLA 5

Medie e deviazioni standard nelle dimensioni e sottodimensioni dell’OSI e dell’UWES. Differenze per anzianità di servizio (ANOVA)

Dimensioni OSI

Da 1 a 7 anni n = 70

Da 8 a 19 anni n = 42

20 anni e oltre n = 43

M DS M DS M DS

p

AMB Ambizione 11.79 2.50 10.36 2.28 11.00 2.65 .013 LOCO Controllo Forze organizzative

18.63 3.66 21.07 3.95 20.60 3.94 .002

Dimensioni UWES

Dedizione 4.74 1.07 4.41 1.26 4.13 1.67 .050

Si riscontrano, invece significative differenze per ciò che riguarda la sotto-dimensione

dell’Engagement individuata nella Dedizione. Sembrerebbe che questa dimensione, identificata nel senso di entusiasmo, ispirazione, orgoglio, sfida degli ostacoli, decresca in maniera propor-zionale all’aumentare del tempo trascorso nella propria Azienda.

I dati esposti di seguito indicano come il fatto di lavorare da più o meno anni agisce come forte leva motivazionale e come leva per la gestione di situazioni frustranti.

Mettendo, infine, a confronto i punteggi medi nell’Osi e nell’UWES per categoria pro-

fessionale (Tabella 6), ancora una volta è la soddisfazione per il proprio lavoro ad essere percepi-ta come fonte potenziale di stress: in tutti i casi – categorie professionali – i valori medi si collo-cano al di sopra della norma del campione di standardizzazione, e in particolar modo per le cate-gorie professionali dei medici e degli amministrativi. Valori più bassi, sembrano tuttavia emerge-re riguardo gli operatori socio-sanitari e gli infermieri. Per quanto riguarda l’Ambizione questa assume valori molto alti , anche rispetto al dato normativo (= 10.63) prevalentemente per le cate-gorie degli infermieri e degli amministrativi nonostante questi ultimi siano una percentuale irrile-vante (2,6%) rispetto al campione complessivo.

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TABELLA 6 Medie e deviazioni standard nelle dimensioni e sottodimensioni dell’OSI e dell’UWES.

Differenze per ruolo professionale (ANOVA)

Dimensioni OSI

Infermieri n = 47

Operatori sociosanitari

n = 24

Medici n = 80

Amministrativi n = 4

M DS M DS M DS M DS

p

SJ Soddisfazione per il lavoro

15.59 3.65 15.43 4.53 17.37 3.49 18.25 3.50 .021

AMB Ambizione

11.93 2.65 10.36 1.69 10.57 2.38 11.50 3.00 .009

Dimensioni UWES

Dedizione 4.47 1.07 3.40 1.25 4.44 1.48 3.96 1.00 .004

Infine, per ciò che riguarda l’engagement come condizione psicologica associata al lavo-ro, la Dedizione è ancora una volta quella che rivela differenze statisticamente significative per ciò che riguarda, in questo ultimo caso, la differenza di ruolo professionale. Più nelle categorie professionali associate alla “cura medica della persona” (infermieri e medici), rispetto al persona-le amministrativo ed a quello dei servizi socio-sanitari, con valori medi superiori rispetto al cam-pione normativo (= 4.33). In poche parole, la Dedizione sembra essere, per medici e infermieri, una condizione psicologica fortemente associata al lavoro svolto.

Per un’analisi più approfondita della relazione di dipendenza lineare tra alcune variabili previste nel disegno abbiamo utilizzato la regressione lineare stepwise. Nel presente studio il cri-terio consisteva nell’individuare se, ed in che modo, la salute fisica (variabile dipendente) risul-tasse influenzata da alcune fonti o effetti dello stress percepito sul posto di lavoro (dimensioni OSI come variabili indipendenti). Le dimensioni che influenzerebbero lo stato di salute fisica e che possono considerarsi predittivi in senso positivo (Tabella 7) sono il fattore Salute Psicologica

(PSYT) dell’OSI (1° step) e la dimensione Interfaccia casa-lavoro (FI) (2° step); al 3° step entra come predittore della Salute fisica, ma in senso negativo, la relazione casa-lavoro (CR).

Si è proceduto con le analisi di regressione lineare stepwise anche per verificare quali, tra le dimensioni dell’OSI (considerate come variabili indipendenti), potessero essere influenzate da quella dimensione dell’engagement individuata nella Dedizione (variabile dipendente) (cfr. Tabel-la 8 per i coefficienti beta). La soddisfazione per i processi lavorativi e l’Ambizione sarebbero degli ottimi predittori del comportamento di dedizione che i lavoratori sperimenterebbero nei confronti del loro lavoro. La salute psicologica risulterebbe influenzare, in senso negativo, sud-detta dimensione.

Un’analisi esplorativa delle correlazioni tra le convinzioni di autoefficacia personale e collettiva e l’ Engagement testimonia le relazioni significative di segno positivo tra Autoefficacia e tutte e tre le sotto-dimensioni dell’UWES (Tabella 9).

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TABELLA 7 Risultati della regressione lineare con metodo stepwise, sul totale del campione tra PHIT

e tutte le altre sottodimensioni dell’OSI. Coefficienti beta per ciascuna regressione

Variabili Osi B BETA R2 t p

1. PSYT .573 557 .310 8.290 < .001 PSYT

2. FI .282 197 .343 2.763 .006 PSYT FI

3. CR –.430 –.143 .365 –2.175 .031

�ota. Variabile dipendente: PHYT Salute fisica. PSYT = Salute psicologica; FI = Interfaccia casa-lavoro; CR = Relazione casa-lavoro.

TABELLA 8 Risultati della regressione lineare con metodo stepwise, sul totale del campione, tra la sotto

dimensione Dedizione (UWES) e le dimensioni dell’OSI. Coefficienti beta per ciascuna regressione

Variabili OSI B BETA R2 t p

1. SP .195 .558 .312 8.323 < .001 SP

2. PSYT –.025 –.230 .359 –3.349 .001 SP PSYT

3. AMB .104 .198 .398 3.123 .002

�ota. Variabile dipendente: DE Dedizione. SP = Soddisfazione per i processi organizzativi; PSYT = Salute psicologica; AMB = Ambizione.

TABELLA 9

Sintesi delle correlazioni tra Dimensioni UWES e le dimensioni dell’Efficacia Personale e Collettiva Percepita nelle organizzazioni

Dimensioni UWES EPOP ECOP

Vigore .380** .488** Dedizione .200* .299** Coinvolgimento .269** .314*

** p < . 01. * p < . 05.

Lo stretto legame riscontrato tra impegno organizzativo, coinvolgimento ed altre dimen-

sioni lavorative (cfr. risultati fin qui discussi) viene confermato in questo studio anche in relazio-

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ne al ruolo delle convinzioni di efficacia quali fattori predisponenti per il successo organizzativo, ovvero in termini di potenziamento del valore dell’engagement, che il nostro campione, costituito da un gruppo di dipendenti di una struttura ospedaliera isolana, manifesta.

5. Considerazioni conclusive I risultati nel complesso attestano sostanzialmente che, per quanto riguarda la dimensione

dell’efficacia, è quella personale a configurarsi come variabile maggiormente determinante l’im-pegno, il coinvolgimento e la soddisfazione lavorativa soprattutto degli operatori infermieristici, categoria che più di altre tende a riprodurre comportamenti lavorativi di tipo individualistico. Tuttavia, la valutazione affettiva che i lavoratori mostrano nei confronti dei vari aspetti orga-nizzativi, come ad esempio la soddisfazione relativa ai rapporti con i colleghi, sembra determi-nare comportamenti lavorativi orientati non al lavoro di gruppo.

Per ciò riguarda invece i dati emersi dall’UWES, si evince come nell’organizzazione siano presenti elevati livelli di energia e resistenza mentale allo stress lavorativo. Emerge la pro-pensione a voler investire energia e risorse nel proprio operato. Questo atteggiamento persiste anche di fronte alle difficoltà. La dedizione nei confronti del proprio lavoro – rivelatasi statisti-camente significativa – rivela nei fatti che i lavoratori dell’azienda sanitaria si dedicano con passione al proprio lavoro ed esprimono in esso entusiasmo, ispirazione ed orgoglio. Questo sen-timento prevale nei medici mentre risulta di minor rilevanza nel personale sociosanitario.

Concludendo si può affermare che sicuramente l’ambiente lavorativo costituisce l’ambito in cui si manifesta con maggiore evidenza l’importanza di efficaci strategie volte alla promozione della salute organizzativa. Ciò, tuttavia, richiede una combinazione di azioni condivise ed interio-rizzate che promuovono continui apprendimenti e trasformazioni, piuttosto che sterili logiche di formale applicazione regolamentare.

Per ciò che riguarda la ricerca qui presentata, le risultanze emerse potrebbero indurre alla progettazione di azioni-guida volte ed intervenire sulle diverse fonti che minacciano la salute, il benessere e la qualità di vita delle persone, comprendendone i fattore critici di successo o insuc-cesso. Ciò diventa un obiettivo oltremodo imprescindibile se si pensa nel che caso di organizza-zioni che operano nel settore sanitario, il benessere e la soddisfazione dell’operatore si riflette sulla salute del paziente in primo luogo nei termini di qualità delle cure e del servizio prestato (Rutelli, Faa, & Poddi, 2008; Rutelli & Annis, 2008).

La logica che abbiamo seguito in questa esplorazione ha messo al centro dell’attenzione il soggetto in alcuni suoi importanti indicatori di legame con il contesto organizzativo. Da questo punto di vista, la percezione di efficacia personale si è configurata come variabile da cui discende efficienza organizzativa, impegno, coinvolgimento e soddisfazione lavorativa. Tuttavia, il forte ancoraggio alle proprie capacità individuali, manifestato da alcune categorie di lavoratori, paven-ta il rischio di un pericoloso scivolamento verso uno scarso apprezzamento dell’efficienza collet-tiva. Ciò potrebbe determinare una minore efficienza organizzativa ed un maggiore conflitto ed isolamento all’interno (e tra) i gruppi di lavoro, laddove invece è risaputo che le relazioni interpersonali e i comportamenti di gruppo non sono esclusivamente riconducibili a caratteristi-che personali ma connesse a fattori contestuali e contingenti.

Possiamo dunque ritenere che la percezione di efficacia personale e collettiva si qualifi-

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chi come un nucleo centrale su cui poter intervenire per promuovere apprendimenti a sostegno della salute e del benessere dei lavoratori e dell’organizzazione. Queste variabili esercitano un certo grado di influenza sulla percezione dello stress e sulla soddisfazione lavorativa, oltre che in-direttamente sull’attaccamento verso l’organizzazione di appartenenza.

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22. Laboratorio per la valutazione e prevenzione delle problematiche

occupazionali da stress Liviano Vianello, Letizia Ferrarin, Donata Zanella, Ivan Ambrosiano, Franco Sarto

1. Introduzione

Per rispondere alle richieste provenienti dal territorio relative a situazioni di disagio o malattia psicofisica legate a rischi presenti nel lavoro è stato istituito, presso il Servizio Preven-zione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro (SPISAL) della ULSS 16 di Padova, il “Laboratorio per la valutazione e prevenzione delle problematiche occupazionali da stress”. Il laboratorio conta su una forte rete di collaborazione tra ULSS 16 e Università di Padova, in particolare con gli Isti-tuti di Psicologia e Medicina del Lavoro; nella rete sono presenti inoltre la Psichiatria Territoriale dell’ULSS 16 Padova e la Clinica Psichiatrica III^ dell’Azienda Ospedaliera di Padova, infine l’INAIL di Padova. Sono coinvolte direttamente le seguenti figure professionali: medico del la-voro, psicologo del lavoro, psicologo clinico / psicoterapeuta, psichiatra. Presentiamo in modo più particolareggiato l’organigramma: Dipartimento di Prevenzione-SPISAL ASL 16 PD

• Spisal Ulss 16 Padova – direttore: Dott. Franco Sarto; • Responsabile Laboratorio: Dott. Liviano Vianello; medico del lavoro: Letizia Ferrarin; colla-

boratore: Dott.ssa Donata Zanella, psicologo clinico/psicoterapeuta: Dott. Ivan Ambrosiano. C.I.D. Centro Interdipartimentale dell’Università di Padova – facoltà di Medicina e Psicologia – per la prevenzione del disagio e la promozione del benessere organizzativo, Laboratorio di Qua-

lità & Marketing e Risorse Umane del Dipartimento di Psicologia Applicata • Prof. Nicola De Carlo, Prof. Laura Dal Corso e Prof. Alessandra Falco – Psicologia del Lavo-

ro e delle Organizzazioni dell’Università di Padova; • Prof. Giovanni Battista Bartolucci, Dott. Giorgio Marcuzzo – Istituto di Medicina del Lavoro

dell’Università di Padova. C.R.R.E.O. Centro Regionale di Riferimento per l’Ergonomia Occupazionale

• Dott. Doriano Magosso, Dott.ssa Anna Lombardo, Servizi Psichiatrici dell’Università degli Studi di Padova e dell’ULSS 16;

• Prof. Paolo Santonastaso, Clinica Psichiatrica 3^ ; • Servizi Territoriali di salute Mentale C.S.M.

Questo Laboratorio si è posto due obiettivi: 1. accoglienza e approfondimento dal punto di vista preventivo, diagnostico, terapeutico e medi-

co legale, delle segnalazioni di patologie da stress/strain, burnout, mobbing e in generale di disagio psicosociale;

2. valutazione del rischio da stress e identificazione delle misure di prevenzione nei casi di se-gnalazione di situazioni di disagio negli ambienti di lavoro con possibili ripercussioni sulla sa-lute dei lavoratori.

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Laboratorio per la valutazione e

prevenzione delle problematiche

occupazionali da stress Liviano Vianello, Letizia Ferrarin, Donata Zanella, Ivan Ambrosiano, Franco Sarto – Cap. 22

In questa relazione approfondiremo l’attività del nostro Laboratorio rispetto al primo dei due obiettivi, cioè l’accoglienza e approfondimento dal punto di vista preventivo, diagnostico, terapeutico e medico legale, delle segnalazioni di patologie da stress/strain, burnout, mobbing e in generale di disagio psicosociale. Il percorso di valutazione dei casi che pervengono allo SPISAL denunciando situazioni di disagio e/o malattia è sinteticamente qui riportato.

2. Percorso di valutazione

2.1 Fase 1: accesso

Lo SPISAL è il servizio deputato alla gestione dell’accettazione dei casi. Il personale

coinvolto in questa fase lavora in un’equipe che è composta da un medico del lavoro, da uno psi-cologo del lavoro dello Spisal e da uno psicologo clinico/psicoterapeuta. Nell’ambito del primo accertamento viene effettuato un inquadramento della situazione e programmati gli ulteriori ap-profondimenti diagnostici ed eventuali supporti psicologici. Previo appuntamento telefonico vie-ne stabilita la data dell’incontro. La prestazione è gratuita in quanto svolta nell’ambito dei compi-ti istituzionali nell’ipotesi di malattia professionale. La valutazione comprende un’anamnesi lavo-rativa, fisiologica, patologica, visita medica,ed un primo approfondimento sui fattori eziologici tramite colloquio e somministrazione di strumenti specifici. In questa prima fase ci si propone di iniziare un percorso di accompagnamento, diagnosi e supporto attraverso la costruzione di uno spazio di riflessione e azione nell’ambito del quale approfondire con l’utente le aspettative e le motivazioni che lo hanno portato a rivolgersi al Laboratorio anche attraverso l’analisi delle pos-sibili prospettive che le diverse soluzioni comportano. Tale analisi, infatti, può essere utile “al fi-ne di avviare fin da principio un chiarimento sui limiti delle risposte che egli potrà eventualmente ricevere” (Pastore, 2008, p.9). In questo modo “gli accadimenti riferiti e i vissuti ad essi legati vengono messi a fuoco e collocati in una cornice di adeguate informazioni a riguardo del disagio lavorativo vissuto” (Pastore, 2008, p.9). Le finalità, infatti, degli interventi sono quelle di: • valutare la relazione tra disturbi e rischi occupazionali psicosociali; • valutare la necessità di un approfondimento diagnostico; • valutare la necessità di sostegno e cura.

La conclusione della visita di accesso può essere sintetizzata nei modi seguenti: • il caso non è in relazione a rischi occupazionali psicosociali; • il caso non ha rilevanza sanitaria ma solo di altro genere, per esempio contrattuale; • il caso necessita di approfondimento clinico diagnostico e di cura; • il caso può essere in relazione a rischi occupazionali psicosociali che necessitano di valutazio-

ne.

2.2 Fase 2: approfondimento psicodiagnostico e sostegno psicologico Il Dipartimento di Psicologia Applicata, cattedra di psicologia del lavoro e delle organiz-

zazioni, lo psicologo del lavoro dello Spisal e lo psicologo clinico contribuiscono all’approfondi-

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Laboratorio per la valutazione e

prevenzione delle problematiche

occupazionali da stress Liviano Vianello, Letizia Ferrarin, Donata Zanella, Ivan Ambrosiano, Franco Sarto – Cap. 22

mento psicodiagnostico, avvalendosi dell’integrazione di diversi metodi: anamnesi, valutazione clinica tramite colloquio, somministrazione di una batteria di strumenti per la valutazione di: • personalità; • abilità cognitive e caratteristiche psicoattitudinali; • livelli di stress/strain/burnout; • disturbi psicofisici, psicosomatici e comportamentali; • caratteristiche dell’organizzazione lavorativa e dei compiti lavorativi; • contesto psico-relazionale; • eventi antecedenti e caratterizzanti il mobbing-costrittività lavorativa.

Il protocollo di valutazione, in accordo con le linee di indirizzo del protocollo del network ISPESL (2007), comprende i seguenti livelli:

TABELLA 1

Livelli del protocollo di valutazione

Valutazione psicodiagnostica 1 livello 2 livello

Colloquio clinicomemoriale

Area organizzativa Qu-Bo (De Carlo, 2008)

Area di personalità M.M.P.I.-2 (Hathaway, 1995)

Area psicopatologia specifica STAI FORMA Y (Spielberg, 1989)

BDI II (Beck, 2006)

Area proiettiva reattivo di disegno (Wartegg)

Area cognitiva W.A.I.S. – R

Area psicosomatica Scheda sintomi V.I.S. (Sarto, 2011)

Visita psichiatrica1

L’ambulatorio offre sostegno psicologico e psicoterapie brevi nei casi in cui emerga

l’urgenza e l’utilità.2

1 Il Servizio Psichiatrico della Clinica Psichiatrica 3^ e i Servizi Territoriali di Salute Mentale C.S.M. sono deputati all’approfondimento diagnostico mirato alla definizione della presenza di uno “stato di malattia”, di una prognosi ini-ziale e della necessità di cure. La visita psichiatrica viene effettuata in tutti i casi in cui il lavoratore riporta, in fase di accesso, diagnosi di patologia o sintomi di sofferenza psichica per cui è necessario un approfondimento specialistico. 2 Spesso le persone che si rivolgono presso il Laboratorio possiedono buone risorse personali e relazionali ma la pro-lungata esposizione alla situazione stressogena può aver minacciato alcune capacità quali l’autostima, le capacità di fronteggiamento e, in particolare, la mentalizzazione, cioè la capacità dell’individuo di attribuire significato agli eventi relazionali e psichici. Inquadrare tali eventi in un ottica più ampia e complessa, aiutando a pensare agli stati d’animo non solo propri ma anche degli altri (desideri, intenzioni e gli stessi pensieri) e ad identificarsi temporaneamente in loro ha lo scopo di comprenderli e intrpretare le loro (e proprie) azioni (Allen, 2008). Tali competenze vengono meno in situazioni in cui prevale la confusione, il disorientamento, l’incapacità di comprendere come e perché un rapporto lavo-rativo prima soddisfacente inizia a deteriorarsi; spesso nei racconti è difficile rintracciare i primi segnali della crisi e prevale la sensazione che tutto avvenga all’improvviso e senza una ragione.

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Se necessario i servizi psichiatrici territoriali hanno il compito della presa in carico dei casi a fini terapeutici.

Potranno essere contattati il medico competente aziendale, il medico di base o altri spe-cialisti coinvolti, per fini informativi, di completamento diagnostico e di cura.

2.3 Fase 3: accertamento e intervento ambientale Quando emerga la necessità lo SPISAL effettua sopralluoghi nell’ambiente di lavoro al

fine di verificare il rispetto delle norme sulla salute nel lavoro e raccogliere documentazione e te-stimonianze relativamente ai fatti che il lavoratore ha indicato come causa del disagio, per meglio definire il nesso di causa.

L’attenzione verrà posta sulla valutazione della presenza di situazioni che possano essere comprese nella “costrittività organizzativa” secondo i criteri definiti dalla circolare INAIL 71/2003.

Il Dipartimento di Psicologia Applicata, cattedra di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni può partecipare alla valutazione delle caratteristiche organizzative e rela-zionali dell’ambiente di lavoro.

Tra INAIL e SPISAL avviene uno scambio di informazioni sia ai fini di approfondimento che di aggiornamento sui casi.

Nei casi nei quali si individuasse la presenza di situazioni mobbizzanti o in generale stressogene causa di disagio, lo SPISAL intraprenderà azioni per promuovere interventi di pre-venzione.

2.4 Fase 4: conclusioni Al termine degli approfondimenti si riunisce l’équipe che conclude collegialmente tra i

vari attori: • SPISAL e psicologo clinico; • Dipartimento di Psicologia Applicata, cattedra di psicologia del lavoro e delle organizzazioni; • Servizio Psichiatrico.

Il lavoratore riceve una relazione conclusiva sugli accertamenti svolti. Nel caso si individui il nesso di causa tra patologia e lavoro, il medico del lavoro procede

alla denuncia di malattia professionale. Le conclusioni diagnostiche nel caso si evidenzi una patologia psichica, possono essere

sintetizzate in tre casi: • psicopatologia in situazione lavorativa vissuta con disagio (si ritengono prevalenti le cause le-

gate a fattori intrinseci del soggetto o ad altre cause extralavorative); • psicopatologia in situazione lavorativa causa di disagio (situazione intermedia in cui hanno

rilevanza sia i fattori legati al soggetto sia quelli ambientali); • psicopatologia correlata alla situazione lavorativa (costrittività organizzativa, mobbing,

…burnout, elevata conflittualità, che è possibile oggettivare e con esclusione di altre possibili cause).

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2.5 Fase 5: monitoraggio Le verifiche nel tempo verranno effettuate dallo Spisal con l’eventuale concorso del-

l’équipe sia per quanto riguarda i casi clinici che le situazioni ambientali. La periodicità stabilita per il monitoraggio è variabile da caso a caso ma prevede comun-

que rilevazioni a distanza di 6 e 12 mesi.

3. Attività svolta dal Laboratorio L’attività dello SPISAL di Padova per la valutazione dei casi di patologie stress correlate

inizia nel 2005 e progressivamente è cresciuta fino, nel 2007, a formalizzare la costituzione del Laboratorio stesso. Il numero di accessi al Laboratorio è progressivamente aumentato. L’utenza che si è rivolta al servizio è prevalentemente femminile (62%), ma non mancano i soggetti ma-schi (38%). La fascia d’età più rappresentata è la classe da 40 a 49 anni e lo stato civile prevalen-te è coniugato/a (48%). La mansione svolta nella maggior parte dei casi è esecutiva (42%), tutta-via il 14% dei soggetti svolge mansioni di coordinamento ad alto livello (quadro-dirigenza). 3 soggetti su 4 provengono dal settore privato, il 26% dal pubblico. In entrambi i settori il comparto più rappresentato è quello dei servizi, complessivamente il 68% dei soggetti opera in questo am-bito; al suo interno la sanità è uno dei comparti più presenti, sia pubblica che privata. Le aziende sono più spesso di medio-grandi dimensioni. Il disturbo riscontrato più frequentemente a seguito del disagio organizzativo è un disturbo ansioso-depressivo misto (37% dei soggetti), seguito da un disturbo dell’adattamento. I sintomi nella maggior parte dei casi sono manifesti da un periodo compreso tra 6 mesi e 2 anni, come evidenziato nella Tabella 2 e nei Grafici 1, 2 e 3.

TABELLA 2

Sintesi della casistica del laboratorio

2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 Totale

Numero di casi

3 3 7 18 16 46 47 140

Genere Maschi Femmine Totale

Numero di casi 53 (38%) 87 (62%) 140

Età anni < 30 30 – 39 40 – 49 > 50 Totale

Numero di casi 9 (6%) 38 (27%) 53 (38%) 40 (29%) 140

Stato civile Coniugato Convivente Divorziato/

separato Vedovo

2ubile/

celibe Totale

Numero di casi

68 (48%) 10 (7%) 19 (14%) 1 (1%) 42 (30%) 140

Mansione 2umero di casi

Esecutivo/operaio 57 (42%)

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Impiegato 45 (33%)

Operatore sanitario 19 (14%)

Quadro 15 (11%)

Dirigente 4 (3%)

Totale 140

Settore pubblico 2umero di casi

Sanità pubblica 15

Scuola pubblica 7

Ministeri (difesa, ecc.) 6

Istituti/ Organismi Comunali 4

Trasporti, comunicazioni, magazzini 2

Istituti/ Organismi Provinciali 1

Università e Istituti di Ricerca 1

Settore privato

Metalmeccanica 18

Altro (manifatturiero) 15

Commercio 17

Alberghi e ristoranti 15

Sanità privata e servizi sociali privati 11

Attività immobiliari e professionali 9

Trasporti, comunicazioni, magazzini 8

Servizi di pulizia e disinfestazione 4

Altri Servizi 7

Durata disturbi < 6 mesi 6 mesi – 2 anni > 2 anni Totale

Numero di casi 50 (36%) 54 (38%) 36 (26%) 47

GRAFICO 1 Settore produttivo

Pubblica

amministrazione

8%

Servizi pubblici

18%

Industria 23%

Servizi privati

50%

Artigianato 1%

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GRAFICO 2 Dimensioni delle aziende di provenienza dei soggetti

GRAFICO 3 Patologie psichiatriche trattate

Cercando di riassumere l’ampia casistica presentatasi al Laboratorio, si sono raggruppati in

4 classi i fattori scatenanti la dinamica del disagio. Nella maggior parte dei casi (40%) il disagio si genera da una trasformazione dell’organizzazione aziendale: vengono compresi in questa categoria i casi di ristrutturazione aziendale, per es. la fusione con altre aziende, oppure i cambi della dirigen-za, del diretto responsabile/superiore, i tagli al personale, i trasferimenti all’interno dell’azienda. Al secondo posto (24%) si collocano i conflitti interpersonali, tra colleghi o con i superiori. Seguono le richieste poste dal soggetto ma non accolte dall’azienda (per es.: flessibilità dell’orario lavorativo al rientro dalla maternità, richieste di tipo sindacale/contrattuale ecc.) e/o richieste dell’azienda non accettate dal lavoratore (per es. orari di lavoro non concilianti con la vita privata, flessibilità negli spostamenti di sede lavorativa, carichi/ritmi di lavoro vissuti come eccessivi, ecc.)

Molto rilevanti a nostro parere sono infine i casi in cui il problema nasce a seguito di un cambiamento nella condizione di salute del lavoratore (10%), in particolare quando questo com-porta una limitazione dell’idoneità lavorativa e una conseguente difficoltà dell’azienda nel ricol-locarlo in una nuova mansione.

Spesso (39% dei casi) si manifesta l’esplicita, verbale o scritta, intenzione di estromettere il lavoratore dall’organizzazione; nella maggior parte dei casi però il disagio è legato a una caren-

Dimensioni aziendali

17%

36%

28%

18%

0%

23%

11%

66%

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

< 10 lavoratori 11 a 50 51 a 200 > 200

Privato

Pubblico

Patologia psichica individuata

37%

21%

15%

12%

1%

1%

9%

5%

0% 5% 10% 15% 20% 25% 30% 35% 40%

Disturbo ansioso-depressivo misto

Disturbo dell'adattamento

Disturbo d'ansia generalizzata

Disturbo di personalità

Disturbo post-traumatico da stress

Disturbo depressivo maggiore

Altro

Non effettuata

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te attenzione alla progettazione e organizzazione del lavoro e al conseguente benessere della per-sona, mancando infatti una intenzione di allontanamento delle persone dal contesto lavorativo.

Dalle conclusioni tratte al termine della valutazione del Laboratorio, in quasi la metà dei casi (46%) si può intravedere una netta correlazione tra il disagio e l’organizzazione del lavoro (co-strittività organizzativa), in un ulteriore 43% la relazione è meno evidente: è cioè una situazione in cui hanno rilevanza sia i fattori legati al soggetto, sia quelli ambientali. Solo nell’11% dei casi si conclude che fattori intrinseci del soggetto o altre cause extralavorative siano prevalenti nell deter-minare il disagio. La Tabella 3 e il Grafico 4 illustrano la sintesi di questi dati.

TABELLA 3

Sintesi dei casi trattati presso il laboratorio

Evento scatenante principale 2umero di casi

Conflitti interpersonali 33 24%

Cambiamento sfera salute 14 10%

Di cui: Cambiamento sfera salute 2 Di cui: Idoneità al lavoro 11 Di cui: Infortunio 1

Richieste del soggetto/dell’azienda 28 20%

Di cui: Maternità 4 Di cui: Orari/ambiente lavoro 4 Di cui: Probl. sindacali/contrattuali 5 Di cui: Richieste del soggetto 4 Di cui: Richieste dell'azienda/contestazioni 11

Riorganizzazione aziendale 57 40%

Di cui: Ristrutturazione aziendale 26 Di cui: Tagli al personale 2 Di cui: Trasferimento interno 9 Di cui: Cambio di un superiore 20

Altro 8 6%

Totale 140 100%

Intenzione esplicita di licenziamento Sì 2o Totale

Numero di casi 54 (39%) 86 (62%) 140

GRAFICO 4 Relazione tra casi trattati presso il laboratorio e contesto lavorativo

Correlazione con lavoro

46%

No

11%

In parte

43%

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Riportiamo alcuni casi esemplificativi dell’attività svolta dal laboratorio,in particolare con riferimento alle diverse tipologie di conclusione diagnostica.

Psicopatologia in situazione lavorativa vissuta con disagio (si ritengono prevalenti le

cause legate a fattori intrinseci del soggetto o ad altre cause extralavorative). 44 anni – Impiegata amministrativa in un ente pubblico, nel 2002 alcuni disabili vengono

inseriti nell’ambiente di lavoro, tra cui un disabile psichico che ha un comportamento “ossessi-vo”. La lavoratrice, contrariamente ai suoi colleghi, non riesce a contenere questa persona che ri-volge continuamente a lei in modo “pressante” la sua attenzione. La lavoratrice si rivolge ai supe-riori che però minimizzano il problema. Nel 2005 la lavoratrice si rivolge prima al suo medico di base per calo ponderale e disturbi del sonno, poi viene indirizzata al servizio psichiatrico che fa diagnosi di disturbo depressivo reattivo. Per mesi si astiene dal lavoro per la malattia. A seguito di intervento dello SPISAL viene trasferita in una nuova posizione di lavoro.

51 anni, invalida civile per pregresso k mammario impiegata in azienda privata di 20 di-pendenti, evidenza di patologia psichiatrica in fase di accesso, con delirio paranoico; non ha co-scienza di malattia. Chiede un intervento nell’ambiente di lavoro per verificare se ci sono fonti che emettono radiazioni pericolose . Riferisce di essere è oggetto di esclusione e derisione da par-te di colleghe e superiori e di essere isolata. La paziente viene inviata ai servizi territoriali di cura. In azienda si interviene per cercare di migliorare il suo inserimento: si riscontra una posizione di lavoro deliberatamente confinata e isolata, che si impone di risolvere; si effettua un colloquio se-parato con datore di lavoro e colleghe per cercare di facilitare l’integrazione della lavoratrice.

Psicopatologia in situazione lavorativa causa di disagio (situazione intermedia in cui

hanno rilevanza sia i fattori legati al soggetto sia quelli ambientali). 47 anni – Impiegata in una azienda pubblica privatizzata con più di 200 dipendenti. Af-

fetta da esiti invalidanti alla spalla per infortunio nel lavoro da sindrome fibromialgica. Il medico competente formula un giudizio di idoneità condizionata. Riferisce di aver vissuto conflitti con i superiori ed i colleghi proprio a causa della sua parziale inidoneità. Sollecitata l’azienda da parte dello SPISAL, viene inserita in una nuova mansione in seguito all’interessamento del nuovo re-sponsabile risorse umane.

36 anni – Impiegato amministrativo in azienda privata con 80 dipendenti. Dopo un anno e mezzo di situazione positiva cambia il dirigente del suo ufficio. Inizia una situazione di elevata conflittualità con accuse di inefficienza che coinvolgono anche il datore di lavoro. Nel 2009 gli viene proposto il licenziamento che rifiuta. Si ammala di depressione. Personalità nella norma con tendenza alla precisione e alla meticolosità. Sta maturando la convinzione di cambiare lavo-ro. È in corso un intervento breve di sostegno psicologico.

Psicopatologia correlata alla situazione lavorativa (costrittività organizzativa, mobbing,

burnout, elevata conflittualità,che è possibile oggettivare e con esclusione di altre possibili cau-

se). 55 anni – Impiegato amministrativo in azienda privata con piu’ di 200 dipendenti e più

sedi. Nel 2005, a seguito di una riorganizzazione del lavoro viene trasferito in una nuova sede. Successivamente ad un periodo di conflittualità gli viene proposto il licenziamento che rifiuta. Viene trasferito d’ufficio in un’altra sede lontana. Si ammala di depressione, nessuno è trasferito al suo posto. Si licenzia. Diagnosi: esiti di Disturbo dell’adattamento cronico con reazione de-pressiva da costrittività organizzativa. L’INAIL riconosce la malattia professionale

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4. Cenni sulla normativa regionale

La Regione Veneto ha emesso la Legge regionale 22 gennaio 2010, n. 8 (BUR n. 8/2010) per la “prevenzione e contrasto dei fenomeni di mobbing e tutela della salute psico-sociale della persona sul luogo del lavoro”. Questa legge prevede l’istituzione di un Osservatorio regionale sul mobbing, disagio lavorativo e stress psico-sociale nei luoghi di lavoro (Art. 5) e di Centri di rife-rimento per il benessere organizzativo istituiti presso ogni azienda ULSS del capoluogo di pro-vincia (Art. 7). I compiti dei centri sono quelli di: a) accertare il disagio o malattia ed indicare del percorso terapeutico b) individuare le misure di tutela … ; c) supporto agli SPISAL nelle verifiche sui luoghi di lavoro in tema di valutazione dei rischi

stress lavoro correlato (DLgs 81 / 2008) Nei centri dovrà operare un collegio multidisciplinare di specialisti, composto almeno da:

a) un medico specialista in medicina del lavoro, con funzioni di coordinamento; b) uno psicologo, esperto in test psicodiagnostici; c) uno psicologo, esperto in psicologia del lavoro e delle organizzazioni; d) un medico specialista in psichiatria; e) uno psicoterapeuta.

Il nostro centro risponde alle caratteristiche che questa legge regionale, prevede caratteri-stiche che sono fondate sulla presenza di uno stretto legame tra il centro stesso e il territorio; que-sto permette di affrontare e problematiche del disagi intervenendo sia sulla persona, sia sull’ambiente di lavoro. La diffusione di questi centri a tutte le province, come prevede la legge, dimostra la volontà di affrontare questo problema in modo strutturato e concreto.

5. Bibliografia

Allen, J., Fonagay, P., Bateman, A. (2008). La mentalizzazione nella pratica clinica. Milano: Raffello Cor-

tina Editore. Beck, A.T., Steer, R.A., Brown, G.k. (2006). Beck Depression Inventory. Firenze: Giunti O.S. De Carlo, N., Falco, A., Capozza, D. (2008). Il Qu-Bo. Test di valutazione del rischio stress lavoro-

correlato nella prospettiva del benessere organizzativo. Milano: FrancoAngeli. DIREZIONE GENERALE INAIL, Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro. Rischio tute-

lato e diagnosi di malattia professionale. Modalità di trattamento delle pratiche, Circolare 71 del 17 dicembre 2003.

Hathaway, S.R., McKinley, J.C. (1995). Minnesota Multiphasic Personality Inventory - 2. Firenze: Giunti O.S.

ISPESL (2007) Network Nazionale per la Prevenzione Disagio Psicosociale nei Luoghi di Lavoro - proto-collo diagnostico e la procedura operativa – www.ispesl.it/networkMobbing/

Legge regionale 22 gennaio 2010, n. 8 (BUR n. 8/2010). Prevenzione e contrasto dei fenomeni di mobbing e tutela della salute psico-sociale della persona sul luogo del lavoro.

Pastore, L. (2009). Il fenomeno del mobbing. Aspetti psicologici e strumenti di ricerca -intervento. Milano: FrancoAngeli.

Sarto, F., De Carlo, N., Falco, A., Vianello, L., Magosso, D., Bartolucci, G.B., Marcuzzo, G. (2011). Il Me-todo V.I.S. – Guida operativa – Schede di indicatori per la valutazione del rischio da stress lavoro-

correlato. Milano: FrancoAngeli. Spielberg, C.D., Gorsuch, R.L., Lushene, R.E. (1989). State –Trait Anxiety Inventory – FormaY. Firenze:

Giunti O.S.

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23. La valutazione dello stress lavoro-correlato: la figura dello psicologo Barbara Barbieri, Stefania Cuccu, Stefano Porcu, Marcello �onnis

1. La psicologia del lavoro nella valutazione della salute e dei rischi psicosociali in

ambito organizzativo

In questi ultimi anni, numerosi studi e ricerche si sono occupati della salute organizzati-va, intesa come l’insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che ani-mano la convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando il benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative (Avallone & Paplmatas, 2005). La salute è così uno stato di benessere fisico, mentale e sociale e non solamente assenza di malattia. I fattori che influenzano la salute organizzativa non sono solo ambientali (livello di rumore, di temperatu-ra, progettazione dello spazio…) o fisici (malattie, alimentazione scorretta…), ma anche sociali (le relazioni lavorative e gli eventi della vita) e mentali, come l’autostima, il tono dell’umore, l’ansia e lo stress (Williams, 1994). La maggior parte degli studi sulla salute lavorativa ha posto l’attenzione prevalentemente sulla sicurezza e soprattutto sullo stress lavorativo.

La sicurezza nei luoghi di lavoro e la valutazione dei rischi sono state fino a poco tempo fa affrontate prevalentemente in una prospettiva normativo-giuridica, ingegneristica ed ergono-mica. In realtà, però, anche la psicologia del lavoro ha contribuito in maniera determinante allo studio di questi temi, partendo proprio dall’osservazione degli effetti deleteri del lavoro sulle per-sone, sull’organizzazione e sulla società (Sarchielli, 2003). Ne sono testimonianza i modelli sullo stress occupazionale sviluppati nei decenni da questo ambito di ricerca, tra cui il modello di Coo-per, la Person-Environment Fit di French e Caplan, il Demand-Control di Karasek, il modello Transactional Process di Cox e Mac Kay; il modello Job Demand-Resources, di Bakker e Deme-routi (Favretto, 1994; Gabassi, 2007; Magnani & Majer, 2011).

Vista la complessità e la multidimensionalità dei rischi organizzativi e psicosociali e delle loro cause, le conoscenze e le competenze dello psicologo, adeguatamente integrate con le altre professionalità che si occupano delle valutazione dei rischi psicosociali, sono fondamentali per la gestione del processo di valutazione di questi rischi, nonché per interventi di prevenzione e di cambiamento organizzativo.

2. Le figure coinvolte nella valutazione del rischio stress lavoro correlato

Ancora oggi però nel caso della valutazione del rischio dello stress lavoro correlato, si

pone il problema di chi possa valutare la vulnerabilità del lavoratore, o meglio se un solo profes-sionista possa gestire tale processo in autonomia. Un elemento importante che ci sembra utile sot-tolineare riguarda la salute del singolo lavoratore, che per legge è posta sotto la tutela del medico competente, che nello specifico compito è responsabilizzato da sanzioni penali.

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La valutazione dello stress lavoro-correlato: la figura dello psicologo Barbara Barbieri, Stefania Cuccu, Stefano Porcu, Marcello Nonnis – Cap. 23

Un aspetto critico che emerge da tale impostazione è la limitazione dell’intervento del medico competente alla valutazione dei rischi ai soli casi in cui si renda necessaria la sorveglian-za sanitaria (comma 1 art. 29 D.Lgs 81/08).

Pertanto ci sembra opportuno sottolineare quanto, nel procedimento di valutazione del ri-schio, il benessere lavorativo rappresenti l’obiettivo più alto della prevenzione sebbene sia neces-sario valutare la probabilità che una certa malattia si manifesti.

In letteratura vi è sostanziale accordo sulla necessità di adottare un modello integrato nel-la valutazione dei rischi che preveda da un lato la valutazione dell’organizzazione e dall’altro la valutazione delle percezioni del lavoratore (Argentero, Dell’Olivo, Setti & Zanaletti, 2008). La possibilità di adottare un approccio multidisciplinare che veda coinvolte, oltre al medico del lavo-ro, altre figure professionali fra le quali: lo psicologo del lavoro (Magnani & Majer, 2011), ci sembra ancora una volta la via giusta nella valutazione dei rischi.

3. Un’indagine sulla percezione del ruolo dello psicologo nella valutazione dei rischi

psicosociali

3.1 Obiettivi

Ci siamo a tal proposito interrogati su quale fosse la percezione da parte delle aziende

sull’importanza di inserire lo psicologo nel processo di valutazione dei rischi psicosociali.

3.2 Campione Per tale ragione abbiamo intervistato, i responsabili delle risorse umane e/o della sicurez-

za di 5 aziende del Settore pubblico: Comune di Sassari, Provincia di Sassari, Asl di Sassari, A-genzia delle Entrate di Sassari, Università degli studi di Cagliari; e di 5 aziende del Settore priva-to: CEDI SISA Codrongianus, Sella e Mosca (gruppo Campari) Alghero, Gruppo Nonna ISA su-permercati di Villacidro, CASAR di Villacidro, Cooperativa Macomer.

3.3 Strumento L’intervista è stata articolata nelle seguenti domande:

- È a conoscenza che le aziende entro agosto 2010 dovranno effettuare la valutazione dei rischi stress lavoro-correlati?

- Avete già effettuato la rilevazione dello stress lavoro-correlato? - Se SI, quali criticità ha incontrato? - Se NO, quali criticità prevede di incontrare? - A chi pensa di rivolgersi e perché? - Quale ritiene possa essere il professionista più adatto per la sua azienda per effettuare la rile-vazione dello stress?

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La valutazione dello stress lavoro-correlato: la figura dello psicologo Barbara Barbieri, Stefania Cuccu, Stefano Porcu, Marcello Nonnis – Cap. 23

- Secondo lei, perché anche uno psicologo deve essere coinvolto per una valutazione dello stress lavoro-correlato?

- Come pensa di utilizzare i dati emersi dalla valutazione?

3.4 Metodo di analisi dei dati Abbiamo effettuato una prima analisi del contenuto qualitativa esplorativa e una succes-

siva quantitativa con il software T-Lab (Lancia, 2004).

3.5 Risultati Ci interessava esplorare attraverso le interviste, il livello di consapevolezza dei responsa-

bili interni alle aziende, della complessità del processo di valutazione dei rischi da stress lavoro correlato, la disponibilità o meno delle aziende stesse a coinvolgere la figura dello psicologo del lavoro in questo processo e le ragioni sottese al coinvolgimento di questa figura professionale, spesso sconosciuta al mondo dell’impresa.

Da una prima analisi testuale sulle interviste è chiaramente emersa la consapevolezza del-la complessità del processo di valutazione dei rischi psicosociali, così come la necessità e le ra-gioni di inserire lo psicologo del lavoro nel processo di valutazione. Al contempo però è emerso lo scarso utilizzo dello psicologo nella valutazione e l’impiego per tale processo del medico com-petente o della figura dell’ingegnere responsabile della sicurezza o di questi due professionisti insieme.

Se la percezione condivisa mette in evidenza l’importanza che sia uno psicologo ad oc-cuparsi della valutazione dei rischi psicosociali in ambito lavorativo, “…rivolgersi in questo caso alla figura professionale dello psicologo è fondamentale perché o-gnuno ovviamente ha la sua competenza” “è obiettivamente la figura più vicina per valutare” … “chi meglio di lui è in grado di capire” “Io le dico la verità, io sono favorevole al fatto che ci debba essere anche la figura dello psico-logo” “Perché riesce a captare dei dati che un altro professionista non avendo la competenza non ha l’occhio clinico per vederli, per forza” “Solo lo psicologo? �on lo so, non ditelo ai medici. Anche lo psicologo? La domanda è così?” “È chiaro che poi, laddove dovesse emergere una situazione in cui gli indicatori diano effettiva-mente una valutazione del rischio alto, a quel punto lo psicologo deve intervenire, proprio l’or-ganizzazione di tutto il percorso di tutto l’iter che permette sia la somministrazione dei questio-nari che la valutazione dei questionari”

All’atto pratico però, nel momento in cui deve essere fatta la valutazione dei rischi stress lavoro-correlato, i testimoni intervistati indicano prevalentemente il medico come le figura pro-fessionale a cui ci si rivolge e più in generale ad una figura esperta in materia: “Penso di rivolgermi alle figure professionali alle quali la legge mi chiederà di rivolgermi”

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“Quando sarà chiara la strada che dobbiamo percorrere, vedremo di affiancare al nostro medi-co competente uno psicologo” “Lo vedo un percorso complicato, che andrà affrontato sicuramente non da soli come servizio di prevenzione e protezione, sicuramente con l’aiuto di figure specializzate” “Sicuramente per me persone esperte in materia”

Qual è dunque la motivazione della distanza tra gli intenti e i fatti delle organizzazioni nello scegliere le figure professionali adeguate per la gestione del processo di valutazione dei ri-schi psicosociali?

La figura professionale dello psicologo, certamente ritenuta la più pertinente per questa valutazione, è a tutt’oggi quella meno inserita nel processo medesimo. Senza dubbio, ancora oggi in Italia, possiamo definire lo psicologo del lavoro una figura di recente acquisizione nel mondo delle organizzazioni, tanto che la sua professionalità e le sue competenze sono per lo più scono-sciute o conosciute solo parzialmente e in alcuni ambiti specifici. Probabilmente da questo deri-vano fantasie e timori connessi propri a questa figura professionale: “Il problema è che non generi l’aspettativa di un “automatico” diritto alla felicità che ponga sulle spalle dell’azienda compiti e responsabilità improprie...” “Questo processo di valutazione deve considerare l’importanza di analizzare il contenuto rela-zionale nel contesto del funzionamento di un sistema cioè solo da un punto di vista organizzativo e non soggettivo...” “Il problema è che possano venir fuori delle insoddisfazioni che da un certo punto di vista io ri-tengo fisiologiche... e che potrebbero venire strumentalizzate”

Sembra infatti emergere dalle interviste una rappresentazione di questa figura professio-nale in termini prevalentemente clinico-terapeutici, sottolineando di questa professione l’unico presunto interesse per l’individuo e la soggettività di questo. La paura dunque è che questo pro-fessionista non adoperi criteri oggettivi e strumenti propri dell’organizzazione per la valutazione dei rischi psicosociali.

Per il secondo livello di analisi dei dati relativi alle interviste con il software T-lab abbiamo scelto di soffermarci sulle parole “valutazione”, “medico” e “psicologo”. Le parole associate ai tre termini ci hanno consentito di approfondirne la valenza attribuitagli nel testo narrativo.

Per quel che concerne il focus sul lemma “valutazione” (Figura 1), possiamo notare nel grafico di sotto che le parole che co-occorrono maggiormente sono tutte strettamente connesse al processo valutativo dei rischi da stress lavoro correlato: rischi, documento, questionario, lavora-tore, stress. Nel quadro d’insieme sembra emergere, rispetto a questo lemma, non solo la consa-pevolezza della complessità inerente la gestione di questo processo, ma anche le criticità che questo processo genera o potrebbe generare. La figura professionale che risulta più idonea per competenze, almeno in linea teorica, è quella dello psicologo. Risulta associata alla valutazione anche la professione ingegneristica, sebbene più distante rispetto al focus, mentre non compare la figura del medico competente.

Se confrontiamo i due grafici inerenti i lemmi “medico” e “psicologo” possiamo notare come ancora una volta la figura professionale che risulta maggiormente centrale nel processo di valutazione dei rischi è quella dello psicologo (Figure 2 e 3). Un dato interessante che emerge dai grafici è legato al fatto che i due lemmi co-occorrono insieme anche alla figura dell’ingegnere come a significare l’importanza di una necessaria integrazione tra le tre figure professionali den-tro il processo.

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FIGURA 1 Lemma Valutazione

FIGURA 2

Lemma Medico

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FIGURA 3 Lemma Psicologo

Se il medico sembra apparire la figura professionale deputata a garantire la sicurezza nel

posto di lavoro, lo psicologo e l’ingegnere ne valutano i rischi attraverso l’integrazione delle loro competenze professionali.

4. Conclusioni: l’importanza dello Psicologo nella valutazione dello stress lavoro-correlato L’analisi dei rischi stress lavoro correlati, intesa come analisi dei contesti organizzativi al

fine di individuare o prevenire tutti quei fattori di rischio collegato o collegabile allo stress orga-nizzativo (carico lavorativo, controllo/autonomia, equità e giustizia, sistemi di potere…), non è, per la Psicologia del Lavoro, un ambito di indagine nuovo. Dal 1913, quando Munsterberg si fece fondatore della psicotecnica, la Psicologia del Lavoro ha progressivamente assunto un ruolo cen-trale nell’analisi del lavoro umano inteso inizialmente come sistema razionale-economico, ed e divenuta, con il passare del tempo, una disciplina sempre più orientata all’analisi dell’uomo come sistema sociale integrato (Spaltro, 1974; De Carlo, 2006).

Attualmente, nello studio e nella ricerca della Psicologia del Lavoro e delle Organizza-zioni assumono un ruolo centrale diversi fattori lavorativi quali i sentimenti e gli atteggiamenti delle persone, i loro comportamenti e processi psico-sociali in ambito lavorativo. L’oggetto di studio di tale disciplina è fondamentalmente l’uomo e il suo ambiente lavorativo (Chmiel, 2000; Sarchielli, 2003; De Carlo, 2006).

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Diversi autori, (Sarchielli, 2003; De Carlo, 2006; Argentero, 2007) nella tassonomia di attività dello Psicologo del Lavoro da loro prodotta, tra le altre, riportano: la costruzione di stru-menti di rilevazione (test, questionari, griglie di rilevazione); l’analisi dei fabbisogni formativi e progettazione formativa; la formazione e aggiornamento professionale del personale; la progetta-zione e valutazione di interventi per la sicurezza sul posto di lavoro dal punto di vista dello stress, dell’apprendimento delle regole di sicurezza, della reazione a specifiche situazioni di pericolo.

Sul versante organizzativo, lo Psicologo del Lavoro interviene dunque nella prevenzione dei rischi psicosociali connessi all’attività lavorativa di un individuo. In questo settore di inter-vento, il suo lavoro riguarda principalmente l’individuazione delle criticità e dei punti di forza di un sistema organizzativo, lo sviluppo della consapevolezza di tali elementi da parte dei singoli lavoratori e del gruppo e quindi un miglioramento dei processi organizzativi in termini di effi-cienza ed efficacia (De Carlo & Maeran, 2008).

In effetti, quella dello Psicologo del Lavoro, potrebbe anche non rappresentare la figura professionale di primo e unico riferimento in sede di rilevazione del rischio in azienda; tuttavia, lo diviene sicuramente, nel momento in cui diventa necessario per l’organizzazione pensare ad una serie di azioni di miglioramento organizzativo che dovessero rendersi necessarie o auspicabi-li a seconda che il rischio rilevato sia di alta, media o bassa intensità.

In un processo di valutazione dei rischi psicosociali in ambito lavorativo come lo sono quelli da stress lavoro correlato, nel quale è necessario l’utilizzo di strumenti attendibili e validi scientificamente, la “lettura” delle dinamiche organizzative sia a livello personale che di gruppo, ma soprattutto l’individuazione dei fabbisogni per il miglioramento organizzativo e la progetta-zione e l’implementazione di piani di miglioramento per la prevenzione dei rischi, la figura dello Psicologo del Lavoro, diviene dunque, professione chiave per tutti quei contesti organizzativi che mirino al raggiungimento di elevati standard qualitativi sia in termini di risultati raggiunti sia ri-spetto alla qualità dei processi con i quali essi sono stati perseguiti.

5. Bibliografia

Argentero, P., Dell’Olivo, B., Setti, I. & Zanaletti, W. (2008), I rischi psicosociali, in Argentero, P., Corte-

se, C. G. & Piccardo, C. (a cura di), Psicologia del lavoro. Milano: Raffaello Cortina. Argentero, P. (2007), (a cura di), Psicologia del lavoro e interventi organizzativi, Teorie e strumenti per la

gestione delle risorse umane, la promozione della qualità e la prevenzione dei rischi psicosociali. Milano: Franco Angeli.

Avallone, F. & Paplomatas, A. (2005), Salute organizzativa. Psicologia del benessere nei contesti lavorati-vi. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Chmiel, N. (2000), Tecnologia e lavoro. Un approccio psicologico. Bologna: Il Mulino. De Carlo, N. A. (a cura di) (2006), Teorie e strumenti per lo psicologo del lavoro e delle organizzazioni,

Volume primo, Milano: Franco Angeli. De Carlo, N.A. & Maeran, R. (2008), Storia, sviluppo e prospettive professionali in psicologia del lavoro,

in Argentero, P., Cortese, C. & Piccardo, C. (a cura di) Psicologia del lavoro e delle organizzazioni. Milano: Raffaello Cortina.

Favretto, G. (1994), Lo stress nelle organizzazioni. Bologna: Il Mulino. Gabassi, P. G. (2007), Psicologia del Lavoro nelle Organizzazioni. Milano: Franco Angeli. Lancia, F. (2004), Strumenti per l’analisi dei testi. Introduzione all’uso di T-LAB. Milano: Franco Angeli. Magnani M. & Mayer V. (2011), Rischio stress lavoro-correlato. Milano: Raffello Cortina. Sarchielli, G. (2003), Psicologia del lavoro. Bologna: Il Mulino. Spaltro, E. (1974), Storia e metodo della psicologia del lavoro. Milano: ETAS Libri.

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La valutazione dello stress lavoro-correlato: la figura dello psicologo Barbara Barbieri, Stefania Cuccu, Stefano Porcu, Marcello Nonnis – Cap. 23

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24. Il burnout degli insegnanti: un contributo empirico con i modelli di

equazioni strutturali Maria Luisa Pedditzi, Paola Grassi, Eraldo �icotra

1. Presupposti teorici La professione dell’insegnante è fra quelle considerate ad alto rischio di burnout a causa

dell’elevata implicazione relazionale con gli studenti e delle frequenti richieste connesse al dare

aiuto, supportare ed educare. Numerosi studi evidenziano infatti che fra gli insegnanti sono presenti

i disturbi psicosomatici e psicologici riconducibili allo stress e alla sintomatologia propria del bur-

nout (Di Pietro & Rampazzo, 1997; Rossati & Magro, 1999; Lodolo D’Oria, Pecori Giraldi, Vitel-

lo, Vanoli, Zeppegno & Frigoli, 2002; Pedditzi, 2005). Il burnout è uno stato di esaurimento fisico,

emozionale e mentale che si sviluppa a seguito di una protratta esposizione a situazioni lavorative

emotivamente esigenti (Maslach & Leiter, 2000). Secondo il modello di Maslach e Jackson (1986)

il burnout è una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione, di ridotta realizzazione

personale, che può insorgere in operatori che lavorano a contatto diretto con le persone (Maslach,

1982). L’esaurimento emotivo si manifesta con sentimenti di sopraffazione, affaticamento e svuo-

tamento per l’eccessivo lavoro. La depersonalizzazione si caratterizza per la presenza di sentimenti

di critica e di avversione verso l’utenza, come una sorta di autodifesa per proteggersi dal coinvol-

gimento emotivo. La ridotta realizzazione lavorativa si esplicita infine con sentimenti di incompe-

tenza, di inadeguatezza e di fallimento personale sul lavoro. Come Maslach e Leiter (1997) eviden-

ziano, il burnout può essere compreso solo se messo in relazione con le fonti situazionali di stress

occupazionale e con i rapporti interpersonali negli ambienti di lavoro. Il burnout, infatti, risente di

numerose condizioni, tipiche degli ambienti di lavoro, che possono incidere sul benessere degli o-

peratori e contribuire in maniera rilevante alla sua genesi (Maslach & Leiter, 1997). I presupposti

teorici di questo studio sono il modello esplicativo dello stress lavorativo di Cooper, Sloan & Wil-

liams (1988), che individua i principali fattori del contesto responsabili dello stress lavorativo e il

modello tridimensionale del burnout di Maslach e Jackson (1986), utilizzato in via preferenziale

rispetto al modello successivo di Maslach e Leiter (1997), per la sua capacità di evidenziare le ca-

ratteristiche del burnout associate alle professioni di aiuto, enfatizzando la dimensione della deper-

sonalizzazione che riguarda specificatamente la relazione con gli utenti. A partire da questi presup-

posti teorici, si intende validare il modello del burnout di Maslach e Jackson (1986), tenendo conto

delle fonti di stress tipiche dei docenti, al fine di individuare i principali fattori predittivi del bur-

nout degli insegnanti, con particolare riferimento alla depersonalizzazione che descrive la degene-

razione del rapporto con gli alunni.

2. Obiettivo della ricerca

Il presente studio è teso ad esplorare le fonti dello stress predisponenti al burnout fra gli in-

segnanti del campione esaminato e ha come obiettivo principale quello di descrivere la relazione

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Il burnout degli insegnanti: un

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di equazioni strutturali Maria Luisa Pedditzi, Paola Grassi,

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che intercorre fra la percezione delle fonti di stress lavorativo e la presenza di burnout nella rela-

zione con gli studenti.

Si indaga la dimensionalità latente dei giudizi sulle componenti rilevanti del burnout attra-

verso l’utilizzo dei modelli di equazioni strutturali confermative delle relazioni causali insite nella

struttura dei dati.

2.1 Campione

Il campione è costituito da 882 docenti, di cui il 52,4% insegna presso la scuola primaria (n

= 462) e il 47,6% presso la scuola secondaria di 1° grado (n = 420). Il 31,3% dei docenti proviene

da Cagliari (n = 276), il 30% da Sassari (n = 265), il 18,5% da Roma (n = 163) e il 20,2% da Bari

(n = 178).

Il 29,1% degli insegnanti intervistati ha un’anzianità di servizio compresa fra 1 e 13 anni; il

43,9 % tra i 14 e i 26 anni e il 27 % tra i 27 e i 39 anni.

La ripartizione del campione per genere rispecchia le caratteristiche della scuola italiana,

con una maggiore presenza di insegnanti di genere femminile (84,4%) rispetto ai colleghi (15,6%).

2.2 Strumenti

Il questionario MBI o Maslach Burnout Inventory (Sirigatti & Stefanile,1993) si compone

di 22 items, valutabili secondo una scala a 6 punti (0 = mai, 6 = ogni giorno) attraverso tre scale:

� Esaurimento Emotivo (EE), che evidenzia una condizione cronica di tensione e astenia;

� Depersonalizzazione (DP), che rileva una modalità di rapporto con gli utenti emotivamente di-

staccata e formale;

� Realizzazione personale (RP), che valuta il grado di soddisfazione dell’operatore alle condizioni

lavorative.

Il questionario di Cooper (Favretto, 1994; Marini, 1997), misura le fonti di stress con 42 i-

tems, misurabili secondo una scala a 7 punti (1 = assolutamente falso, 7 = assolutamente vero).

Le scale del questionario sono:

� Carico di Lavoro, CL (8 items), misura il carico di lavoro individuale con items del tipo “Nella

mia attività di insegnamento ho troppe cose da fare e troppo poco tempo per farle”;

� Conflitto Interpersonale, CI (7 items), misura il livello di conflitto interpersonale fra colleghi

con items del tipo: “Ci sono spesso dei contrasti tra me e i colleghi con cui devo lavorare”;

� Conflitto Organizzativo, CO (7 items), misura il conflitto organizzativo all’interno della scuola

con items del tipo: “Incontro molti problemi didattici e/o organizzativi a causa di procedure in-

compatibili”;

� Immagine Personale, IP (7 items), valuta l’immagine privata dei docenti e comprende afferma-

zioni del tipo: “I miei bisogni personali sono spesso in conflitto col mio lavoro” e “Il mio par-

tner ha un atteggiamento negativo verso il mio lavoro”;

� Immagine di Ruolo, IR (7 items), misura l’immagine di ruolo del docente con items del tipo

“Penso di essere sottoqualificato rispetto al lavoro che svolgo” e “Ho scarsa opportunità di ac-

cedere alla carriera di dirigente scolastico”;

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� Ambiguità dei compiti di ruolo, AR (7 items), valuta l’ambiguità dei compiti di ruolo ed è carat-

terizzata da items del tipo: “Gli allievi non sembrano capire esattamente quali sono i miei com-

piti istituzionali” e “Le richieste rivolte agli insegnanti dall’istituzione scolastica sono spesso in

conflitto fra di loro”.

2.3 Modello statistico impiegato

I modelli MIMIC (Multiple Indicators and Multiple Causes) sono un caso particolare

nell’ambito dei modelli LISREL; essi contengono diverse variabili osservate che fungono da Indici

Multipli e da Cause Multiple delle variabili latenti. Nella loro forma più semplice, i modelli hanno

un’unica variabile latente, η, causata da diverse variabili osservate esogene X, esterne al modello, e

misurata da diverse variabili osservate endogene Y (Bollen, 1989).

Il punto di partenza dell’analisi per identificare il modello è la matrice di covarianza Σxy tra

le cause e gli indicatori della variabile latente η:

( ) ( )( )[ ]ε+ηλδ+ξλ==∑ yx

xyEXYE (1)

Il modello MIMIC assume come necessari i seguenti vincoli:

( ) ( ) ( ) 0=ξε=δη=ξζ ''' EEE

Gli errori di modellazione debbono essere incorrelati con le variabili causa, gli errori di mi-

surazione delle X debbono esserlo con i tratti latenti endogeni ed i tratti latenti esogeni, debbono, a

loro volta, essere incorrelati con gli errori di misurazione delle variabili endogene Y. In termini

semplici, la componente di varianza spiegata dal modello deve risultare indipendente da quella non

spiegata al fine di rendere il modello statistico puramente additivo attraverso le sue componenti.

La varianza Σxy si ottiene dallo sviluppo dell’equazione (1) ed assume, in termini di stima

dei parametri del modello la forma:

( ) xxy

'

x BI Λ−ΦΓΛ=−

∑1

(2)

in cui Φ è la matrice di covarianza fra le variabili ξ, Λx è la matrice dei parametri strutturali

tra le x e le ξ, Γ è la matrice dei parametri strutturali tra le ξ e le η, e B è la matrice dei coefficienti

strutturali tra le variabili η.

Poiché le variabili esogene X assumono, in questo caso, il ruolo di cause del comportamen-

to del tratto latente endogeno η, misurato dalle variabili osservative endogene Y, esse vengono as-

sunte come misure perfette del tratto latente η. Pertanto, per questa classe di modelli Lisrel, è ne-

cessario assumere il vincolo esposto nella seguente equazione (3):

ξ=+ξ=δ+ξλ= 01xX (3)

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Inoltre, avendo in questo caso un’unica variabile latente, si potrà notare che tutte le variabi-

li X, che sono causa del comportamento statistico di η, saranno espressamente scritte come parte

della stessa variabile latente η (Bollen, 1989). Nel caso in cui si abbia un’unica variabile latente η,

la matrice dei parametri B sarà composta esclusivamente da zeri. In questo caso il modello assume-

rà la veste:

ζ+ξΓ=ζ+ξΓ+η=ζ+ξΓ+η=η BB 0 (4)

L’equazione (4) può, in ultimo, essere scritta nei termini delle variabili esogene osservate

riconoscendo che nei modelli MIMIC si ha X = ξ; pertanto il modello generale assume la forma:

ζ+Γ=ζ+ξΓ=η X (5)

In presenza dei vincoli esposti e della natura strutturale indicata, il modello MIMIC può es-

sere considerato simile ad una analisi di regressione multipla multivariata con la presenza, al suo

interno, di due vincoli formali:

• la matrice di regressione deve avere rango uguale a 1;

• la matrice dei residui ottenuta per confronto tra dati osservati e valori stimati dal modello deve

soddisfare gli assunti specifici della misurazione congenerica. Una misura può dirsi congenerica

se un tratto latente viene misurato da variabili osservative che dimostrano di possedere la mede-

sima efficacia misurativa. Formalmente:

( ) ε+ζλ+Γλ=ε+ζ+Γλ=ε+ηλ= yyyy XXY

2.4 Risultati

In Figura 1 vengono riportati i valori dei parametri strutturali del modello MIMIC, elabora-

to sull’intero campione di 882 insegnanti. Il buon adattamento del modello ai dati osservati è rile-

vabile in funzione dell’indice del chi-quadrato, il quale, con 24 gradi di libertà, ottiene il valore

23.03 con probabilità P = .51789. Il modello è quindi non rigettabile. Se consideriamo inoltre il

rapporto tra il valore del chi-quadrato ed i gradi di libertà del modello otteniamo il valore 0.959,

nettamente inferiore a quello massimo convenzionale di accettazione del modello che fa riferimen-

to al rapporto pari a 2. L’errore residuale di approssimazione, genericamente indicato in Lisrel con

(RMSEA ≅ 0.00), risulta essere trascurabile.

I parametri significativamente diversi da zero del modello riguardano le variabili CI, AR e

IP, che fanno riferimento alle dimensioni di stress legate al conflitto interpersonale, all’ambiguità

dei compiti di ruolo e all’immagine personale del docente. Di minor rilievo predittivo del burnout

risultano invece le variabili collegate con il carico di lavoro, con l’immagine di ruolo e con il con-

flitto organizzativo.

In Tabella 1 vengono riportati i valori relativi ai parametri strutturali della matrice Γ del

modello, i quali indicano la forza del legame causale che le singole componenti dello stress hanno

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con il tratto latente del burnout (formalmente indicato con η). I parametri vengono presentati nella

loro forma standardizzata equivalente all’indice di correlazione r di Pearson.

FIGURA 1

Schema del Modello MIMIC testato

TABELLA 1

Valori dei parametri gamma e loro significatività statistica

CL AR CI CO IR IP

Gamma (γ) –.13 .17 .28 .02 –.01 .49

Valori t –2.46* 3.33* 6.09* .31 –.26 11.6*

* significativamente diversi da 0 per α ≤ .05.

I valori t ottenuti mostrano l’efficacia delle stime dei parametri gamma al fine di determi-

nare la composizione interna del tratto latente del burnout. Le stime dei parametri non sufficiente-

mente affidabili dal punto di vista statistico, fanno riferimento ai legami strutturali del burnout con

le variabili causa conflitto organizzativo (t = .31) e immagine di ruolo (t = –.26), le quali non risul-

tano significativamente diverse da zero.

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TABELLA 2 Valori dei parametri lambda-y e loro significatività statistica

EE DP RP

Lambda-y (λy) .73 .64 –.47

Valori t – 14.17* –10.47*

* significativamente diversi da 0 per α ≤ .05.

I valori t riscontrati per le differenze da zero dei parametri strutturali lambda-y risultano

anch’essi statisticamente significativi per α = .05, pertanto, gli effetti previsionali delle fonti di

stress lavorativo sulle componenti del burnout risultano statisticamente attendibili. Come è possibi-

le notare, la componente relativa all’esaurimento emotivo risulta essere quella con il più alto valore

di stima (r = .73), seguita dalla depersonalizzazione (r = .64). Il modello rileva, inoltre, una corre-

lazione inversa rispetto alle precedenti variabili anch’essa statisticamente significativa (r = –.47).

Tale valore indica, come è ragionevole attendersi, che al crescere dei valori delle variabili causa

(stress) tendano a crescere significativamente i punteggi relativi all’esaurimento emotivo e alla de-

personalizzazione, congiuntamente ad una marcata diminuzione dei punteggi relativi alla realizza-

zione professionale.

In Tabella 3 vengono mostrati i valori relativi alle correlazioni multiple, corrispondenti alle

quantità di varianza spiegata dal modello relativamente agli indicatori del burnout quali l’esauri-

mento emotivo, la depersonalizzazione e la realizzazione professionale.

TABELLA 3

Valori dei coefficienti di correlazione multipla

Variabili EE DP RP

R2 .53 .41 .22

Osservando i valori in essa riportati, è possibile riscontrare che lo strumento rileva in ma-

niera maggiore la variazione dei punteggi, attraverso il tratto latente del burnout, per la variabile

esaurimento emotivo (.53), a livello intermedio per la variabile depersonalizzazione (.41), mentre la

realizzazione professionale, con correlazione pari a .22, non sembra essere sufficientemente spiega-

ta dallo stesso tratto latente.

In Tabella 4 vengono presentati i principali indici di adattamento del modello testato.

TABELLA 4

Indici di bontà di adattamento del modello ai dati osservati

Indice CHI RMSEA RMR NFI NNFI PNFI GFI AGFI PGFI RFI

Valore 23.03 .00 .019 1 1 .66 .99 .99 .53 .99

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L’elevato grado dei valori degli indici di bontà di adattamento del modello ai dati osservati

(indici normalizzati nell’intervallo [0,1] ad eccezione del chi-quadrato, del RMSEA e del RMR che

debbono convergere a zero) segnalano l’adeguatezza strutturale dei parametri stimati che conduco-

no i valori residuali delle equazioni di sistema prossimi al valore zero. La varianza globalmente

spiegata dal tratto latente η, riferito al burnout, è pari ad R2

=.52, mentre il valore 1 – R2 = .48 rap-

presenta la varianza non spiegata imputabile ad errore di modellazione. Tale valore, all’interno dei

modelli Lisrel, appartiene alla matrice di varianze-covarianze ψ. Dalla struttura parametrica ottenu-

ta si evince che le componenti di valutazione dello stress lavorativo quali il conflitto organizzativo

e l’immagine di ruolo hanno scarsa, se non nulla, capacità predittiva del burnout, almeno per questa

classe di lavoratori; pertanto, una così alta misura dell’errore di modellazione può essere primaria-

mente dovuta alla presenza di tali variabili nell’insieme delle cause del burnout.

In ultimo, in Tabella 5, vengono presentati i valori relativi agli effetti diretti ed indiretti,

standardizzati, tra le variabili causa e gli indicatori del tratto latente del burnout.

TABELLA 5

Effetti diretti ed indiretti tra le X e le Y

Effetti CL AR CI CO IR IP

Esaurimento Emotivo –.10 .13 .20 .01 –.01 .36

Depersonalizzazione –.09 .11 .18 .01 –.01 .32

Realizzazione personale .06 –.08 –.13 –.01 .01 –.23

3. Conclusioni

Gli esiti ottenuti confermano che le relazioni esistenti tra fonti percepite di stress occupa-

zionale e burnout presentano livelli differenti di efficacia predittiva. Nello specifico, come mostrato

in Figura 1 e in Tabella 3, le cause maggiormente predittive del burnout sono legate all’immagine

personale del docente e al conflitto interpersonale, con particolare riferimento alle misure dell’esau-

rimento emotivo e della depersonalizzazione.

La scala che misura l’immagine personale del docente descrive la rappresentazione che

l’insegnante ha di sé in riferimento alle sue problematiche lavorative, con affermazioni del tipo:

“Sono insoddisfatto del rapporto che stabilisco con gli allievi e con i genitori”; “I miei bisogni per-

sonali sono spesso in conflitto con il mio lavoro”; “Il mio status professionale non corrisponde al

mio status sociale”; “Ho dei problemi familiari a causa del lavoro che devo portare a casa”.

Il disagio personale del docente, che si traduce in un’immagine conflittuale rispetto ai biso-

gni personali e familiari dell’insegnante, costituisce uno dei fattori maggiormente predittivi della

sindrome del burnout nelle sue dimensioni dell’esaurimento emotivo e della depersonalizzazione.

Anche il conflitto interpersonale all’interno dell’ambiente lavorativo è un fattore altamente

predittivo della sindrome e si traduce con affermazioni del tipo: “Ci sono spesso dei contrasti irri-

solti tra me e i miei colleghi”; “Mi capita di dover biasimare o criticare i miei colleghi”; “Mi capita

di non rivolgere neanche una parola a qualche collega”; “Mi capita di dover criticare genitori o per-

sonale non docente”; “Ho dei contrasti irrisolti con qualche genitore dei miei allievi”.

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Per quanto concerne invece l’ambiguità dei compiti di ruolo, si evidenzia che questa fonte

di stress ottiene effetti predittivi alquanto modesti in riferimento al burnout. L’ambiguità dei com-

piti di ruolo si riferisce infatti alle molteplici aspettative nei confronti degli insegnanti e alla perce-

zione di ambiguità fra queste, misurata da affermazioni del tipo: “La sovrapposizione di mie e al-

trui responsabilità mi causa dei problemi”; “Nel mio lavoro ci sono continui cambiamenti e innova-

zioni”; “Gli allievi sembrano non capire quali sono esattamente i miei compiti istituzionali”; “Le

richieste rivolte agli insegnanti dall’istituzione scolastica sono spesso in conflitto tra loro”.

Il fatto che l’ambiguità dei compiti di ruolo incida sul burnout in modo modesto evidenzia

un probabile adeguamento dei docenti alla normativa sull’autonomia scolastica (si veda a tal propo-

sito il DPR 275/99), che nell’estendere le possibilità di iniziativa e di progettazione dei docenti, ha

esteso il numero dei ruoli, delle aspettative e delle possibilità nei loro confronti.

Questo dato è confermato anche dalle risposte alle domande inerenti l’immagine di ruolo

dei docenti, che non risultano predittive della sindrome, misurate da affermazioni circa le rappre-

sentazioni inerenti il proprio ruolo del tipo: “Le mie idee sui problemi educativi vengono tenute in

scarsa considerazione dal/dalla direttore/direttrice”; “Nel mio lavoro bisogna aggiornare continua-

mente il proprio bagaglio di conoscenze”; “Nel mio lavoro spesso devo prendere decisioni senza

avere il tempo di riflettere a fondo”; “Penso di essere sovraqualificato/a rispetto al lavoro che svol-

go”.

L’immagine di ruolo del docente non costituisce una fonte di stress predittiva del burnout

neanche in riferimento alle scarse possibilità di carriera, evidenziate da affermazioni del tipo:

“Nell’organizzazione scolastica le possibilità di carriera sono praticamente nulle”; “Ho scarsa op-

portunità di accedere alla carriera di dirigente scolastico”.

L’ipotesi di adeguamento alla nuova immagine di docente prestabilita dalla normativa

sull’autonomia scolastica contribuisce probabilmente alla mancanza di predittività del conflitto or-

ganizzativo rispetto al burnout del docente, che non risulta considerare le seguenti affermazioni

come fonte di disagio: “La mia preparazione professionale è in contraddizione con la pratica orga-

nizzativa della scuola nella quale insegno”; “Cambiamenti e decisioni che mi toccano vengono pre-

si senza che io sia coinvolto”; “Incontro molti problemi didattici e/o organizzativi a causa di proce-

dure incompatibili”; “Le procedure burocratiche interferiscono con l’efficacia del mio lavoro”.

Per quanto concerne quindi il modello statistico complessivamente testato, gli indici di fit

presentano valori estremamente adeguati e si stabilizzano al di sopra del .90, generalmente accetta-

to come il valore minimo per ritenere ben assestato il modello implementato. Il modello unidimen-

sionale del burnout, valutato tramite le variabili osservate endogene dell’esaurimento emotivo, del-

la depersonalizzazione e della realizzazione personale, sembra quindi poter essere descritto, seppu-

re a differenti livelli di predittività, dalle fonti informative di stress dei docenti considerate.

4. Bibliografia

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25. Benessere organizzativo: una comparazione tra campioni del com-

parto pubblico e del terzo settore Paula Benevene, Antonino Callea

1. Quadro teorico

1.1 Salute organizzativa e dinamiche organizzative

La salute è definita dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) in termini di uno

stato di completo benessere fisico, mentale e sociale. Pertanto, con il termine di salute organizza-tiva fa riferimento a una organizzazione dove quanti coloro operano al suo interno (individui e gruppi) sperimentano uno stato di benessere fisico, psicologica e sociale (Smith et al., 2002).

Gli studi sulla salute organizzativa si sono focalizzati inizialmente soprattutto sulle con-seguenze che le dimensioni organizzative (quali la strutture organizzative, ruoli e caratteristiche del compito, il sostegno sociale e la comunicazione) o le variabili individuali (come ad esempio lo stile di coping e i tratti di personalità) determinavano sul benessere individuale dei lavoratori (Carmeli et al., 2009). Le dinamiche organizzative non sono state affrontate con altrettanta atten-zione, nonostante diversi studi e ricerche abbiano dimostrato che la salute organizzativa è intrec-ciata con i comportamenti organizzativi (Wright, 2003). Il benessere personale esiste, infatti, al-l’interno di uno specifico contesto sociale; dunque, la salute organizzativa va affrontata lavoran-do sull’organizzazione come sistema, intervenendo quindi sulle sue dinamiche, sui suoi processi così come sulle relazioni tra individui e gruppi (De Carlo, 2004).

1.2 Esiti positivi della salute organizzativa

L’analisi della letteratura scientifica ha fatto emergere che la salute organizzativa è for-

temente associata con l’equilibrio tra la vita lavorativa e la vita extralavorativa, con la soddisfa-zione lavorativa, la salute fisica e mentale, il clima organizzativo positivo, il riconoscimento e la valorizzazione delle competenze, l’impegno e la motivazione dei dipendenti, l’efficacia della co-municazione all’interno dell’organizzazione e l’allineamento delle pratiche di lavoro con lo spe-cifico contesto organizzativo (Tuomi et al., 2004).

Gli esiti della salute organizzativa sono stati identificati nell’accresciuta produttività dei membri dell’organizzazione, nella riduzione del livello di assenteismo e di turn-over e nell’ au-mento della soddisfazione del cliente (cfr. ad esempio Miller, 1995; Taris e Schreurs, 2009): fat-tori che generano a loro volta un vantaggio competitivo per l’organizzazione (Baptiste, 2008). Secondo alcuni studiosi, il benessere dei membri di una organizzazione è predittivo della perfor-mance lavorativa ancor più della soddisfazione lavorativa, perché il benessere media il rapporto tra la soddisfazione lavorativa e la performance (Wright et al., 2007).

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Benessere organizzativo: una

comparazione tra campioni del

comparto pubblico e del terzo

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1.3 Salute organizzativa, terzo settore e comparto pubblico

La salute organizzativa interessa tutte le organizzazioni: quelle del settore for-profit, del

comparto pubblico e del terzo settore. Tuttavia, questo tema è stato affrontato soprattutto nel-l’ambito delle realtà del comparto pubblico e, anche se in misura minore, del settore for-profit. Per quanto riguarda la salute organizzativa nelle organizzazioni del comparto pubblico, preceden-ti ricerche, condotte in Italia, hanno dimostrato che l’ascolto attivo, utilità sociale, l’informazio-ne, l’operatività e le relazioni personali sono le dimensioni percepite in termini più positivi. La valorizzazione e, soprattutto, la giustizia organizzativa costituiscono le dimensioni più problema-tiche (Avallone e Bonaretti, 2003).

Per quanto riguarda le organizzazioni del terzo settore, vi è una sostanziale mancanza di ricerche sulla salute organizzativa, anche se spesso è stato ipotizzato che queste realtà siano in grado di sviluppare un livello alto di benessere tra i loro membri, riuscendo a suscitare maggiore motivazione e impegno dei dipendenti e (Namasivayam e Denizci, 2006). È necessario, dunque, verificare se davvero la salute organizzativa è superiore nelle realtà del terzo settore, ed even-tualmente in quali aree della vita organizzativa. Comparando i risultati emersi dal confronto tra terzo settore e comparto pubblico è possibile non solo individuare le aree critiche su cui interve-nire per migliorare la salute organizzativa, ma anche aprire un’ulteriore riflessione sulle buone pratiche da promuovere o da riportare da un settore all’altro, eventualmente con i dovuti accor-gimenti, necessari dalle specificità di ciascuna organizzazione.

Infine, sotto un profilo più strettamente teorico, nell’ambito delle organizzazioni del terzo settore la verifica dell’affidabilità e della replicabilità di strumenti e metodi già impiegati nel pro-fit e nel comparto pubblico può aiutare lo sviluppo di un corpus di conoscenze relativo al management delle organizzazioni del terzo settore che superi un approccio strettamente prescrit-tivo. Attualmente, infatti, esiste un ampio dibattito sull’opportunità e la fattibilità di riportare nel terzo settore le teorie, i modelli e gli interventi già sperimentati negli altri ambiti organizzativi.

2. Metodologia della ricerca

2.1 Obiettivo e ipotesi

L’obiettivo generale della ricerca è quello di confrontare la salute (o benessere) organiz-

zativa tra realtà non profit e realtà del comparto pubblico. In particolare, è stata formulata la se-guente ipotesi:

le organizzazioni del terzo settore mostrano un grado significativamente più alto di salute organizzativa organizzativo rispetto organizzazioni del comparto pubblico.

Nessuna ricerca è stata precedentemente effettuata per comparare il benessere organizza-tivo tra le Organizzazioni Non Profit e organizzazioni del comparto pubblico. È possibile ipotiz-zare che la riduzione nell’assegnazione di risorse, nonché di programmi di ristrutturazione nelle organizzazioni del comparto pubblico abbiano influenzato negativamente il benessere psicologi-co dei lavoratori dipendenti del comparto pubblico (McHugh, 1997). In aggiunta, alcune ricerche hanno evidenziato che i lavoratori delle organizzazioni del terzo settore tendono ad essere più soddisfatti del loro lavoro rispetto agli altri lavoratori. Essi mostrano un più elevato livello di

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Benessere organizzativo: una

comparazione tra campioni del

comparto pubblico e del terzo

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soddisfazione personale e di percepire un maggior livello di equità organizzativa (Benz, 2005; Tortia, 2008). La mancanza di fiducia nella dirigenza nel comparto pubblico è emerso come un ulteriore elemento critico anche da altre ricerche (Atkinson, 2007; Pate et al., 2007b).

2.2 Il campione

La ricerca è stata condotta su 787 soggetti, di cui 312 (39.65%) lavoratori del comparto

pubblico, 475 (60.35%) nel terzo settore. Tutti gli intervistati operano nel settore dei servizi di utilità sociale.

Per quanto riguarda gli intervistati del comparto pubblico: 130 (41.66%) sono uomini e 182 (58.44%) donne. L’ età è compresa tra i 28 e 61 anni; (età media: 49.6; deviazione standard: 7,45). Il livello di studio è mediamente alto, in confronto alla media nazionale: il 61.90% (� = 195) possiede un diploma di scuola superiore, il 33.3% (� = 105) è laureato. La stessa percentua-le, tra la popolazione italiana adulta, è rispettivamente del 31.50% (diploma scuola superiore) e del 10.2% (laurea) (Istat, 2009).

Gli intervistati del terzo settore sono suddivisi tra: 174 (36.63%) uomini e 301 (63.37%) donne. L’età è compresa tra i 24 e i 56 anni (età media: 38.5; devizione standard: 11,85). Il livello di studio è alto anche in questo gruppo: il 61.90% (� = 195) possiede un diploma di scuola supe-riore, il 51.57% (� = 244) è laureato.

2.3 Il questionario

È stato somministrato il Multidimentional Organizational Health Questionnaire (MOHQ) (Avallone e Paplomatas, 2002). È uno strumento standardizzato, utilizzato finora soprattutto per misurare e valutare il benessere organizzativo in ambito sanitario e nel comparto pubblico. Per cia-scuna dimensione è stata messa a punto una scala. Le dimensioni indagate dalla ricerca sono le se-guenti: Obiettivi: chiarezza degli obiettivi organizzativi e coerenza tra enunciati e pratiche organiz-zative da parte del management; Valorizzazione: riconoscimento e valorizzazione delle competenze dei dipendenti; promozione di nuove potenzialità; Ascolto: ascolto attivo verso le istanze dei dipen-denti; Informazioni: accessibilità e condivisione delle informazioni; Conflittualità: eventuale pre-senza di situazioni conflittuali sia manifeste sia implicite; Relazioni interpersonali: ambiente rela-zionale franco, comunicativo, collaborativo; Operatività: scorrevolezza operativa, rapidità di deci-sione, supporto dell’azione verso gli obiettivi; Equità: giustizia organizzativa in termini di equità di trattamento a livello retributivo, di assegnazione di responsabilità, di promozione del personale; Utilità: percezione di utilità sociale nei dipendenti, sentimento di contribuire a raggiungere i risulta-ti comuni; Apertura all’innovazione: apertura verso l’ambiente esterno, all’innovazione tecnologica e culturale; Indicatori positivi: valutano l’insieme dei vissuti individuali della vita lavorativa, quali la soddisfazione, l’investimento e il senso di appartenenza ad un team.

2.4 Analisi dei dati

I dati sono stati analizzati utilizzando il programma SPSS 17. L’affidabilità del questio-

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comparazione tra campioni del

comparto pubblico e del terzo

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nario è stata valutata in base al calcolo del coefficiente dell’alpha di Cronbach (Nunally e Ber-nstein, 1994). È stato effettuato il Test t di Student per campioni indipendenti per verificare le i-potesi. La variabile indipendente considerata è il tipo di organizzazione dove i partecipanti lavo-rano (terzo settore oppure comparto pubblico).

3. Principali risultati

Tutte le scale relative al costrutto della salute organizzativa e dell burnout sono state con-

siderate attendibili, evidenziando coefficienti alpha di Cronbach compresi tra i valori 0.62 e 0.95.

3.1 La salute organizzativa

Per quanto riguarda la salute organizzativa, il t-test per campioni indipendenti ha evi-

denziato che i lavoratori delle organizzazioni del terzo settore mostrano punteggi più elevati nelle seguenti scale: Valorizzazione, Ascolto, Rapporti personali, Conflittualità, Equità, Inno-

vazione e Indicatori positivi. La scala denominata Conflittualità è l’unica in cui le organizza-zioni del comparto pubblico raggiungono un punteggio significativamente più alto rispetto ai dipendenti delle organizzazioni del terzo settore, ma anche questo risultato è legato ad un più elevato livello di benessere organizzativo tra le organizzazioni non profit, perché evidenzia come in queste ultime il livello di conflittualità sia inferiore, rispetto alle organizzazioni del comparto pubblico.

Le restanti quattro scale (Obiettivi, Informazioni, Utilità sociale) non mostrano differenze significative (Tabella 1).

TABELLA 1

Comparazione tra medie del terzo settore e del comparto pubblico

Dimensioni t Gradi di libertà Significatività

Obiettivi –1.68 480 .094

Valorizzazione –2.68 480 .008

Ascolto attivo –1.88 480 .061

Informazione –0.95 480 .339

Conflittualità 2.50 480 .013

Relazioni interpersonali –3.04 480 .002

Operatività –2.47 480 .014

Equità –4.14 480 .000

Utilità sociale –0.52 480 .599

Innovazione 6.46 785 .000

Indicatori positivi 4.44 784 .000

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comparazione tra campioni del

comparto pubblico e del terzo

settore Paula Benevene, Antonino Callea – Cap. 25

Le medie e la deviazione standard di ciascuna scala, per il terzo settore e il comparto pubblico, sono riportate nella Tabella 2.

TABELLA 2

Medie dimensioni salute organizzativa tra lavoratori del comparto pubblico e lavoratori del terzo settore

Dimensioni Settori Media DS

Comparto pubblico 2.65 .652 Obiettivi Terzo settore 2.76 .718

Comparto pubblico 2.47 .530 Valorizzazione Terzo settore 2.61 .616

Comparto pubblico 2.8523 .74973 Ascolto Terzo settore 2.9804 .64545

Comparto pubblico 2.8267 .59722 Informazione Terzo settore 2.8838 .67836

Comparto pubblico 2.423 .6537 Conflittualità Terzo settore 2.263 .7029

Comparto pubblico 2.76 .564 Relazioni interpersonali Terzo settore 2.93 .636

Comparto pubblico 2.667 .5681 Operatività Terzo settore 2.807 .6362

Comparto pubblico 2.2481 .60792 Equità Terzo settore 2.4990 .68148

Comparto pubblico 2.958 .5408 Utilità sociale Terzo settore 2.988 .6887

Innovazione Comparto pubblico 2.5076 .55975 Terzo settore 2.7204 .36462

Indicatori positivi Comparto pubblico 2.7493 .56355 Terzo settore 2.9739 .76515

4. Conclusioni

I risultati confermano l’ipotesi secondo la quale i lavoratori delle organizzazioni del terzo

settore, rispetto ai lavoratori del comparto pubblico, mostrano livelli più elevati di benessere or-ganizzativo.

Le organizzazioni del terzo settore riportano punteggi medi più elevati in otto delle dodi-ci scale della salute organizzativa, mentre nelle restanti scale non si evidenziano differenze signi-ficative.

L’Equità emerge come la dimensione organizzativa dove la divergenza tra le medie dei due gruppi è massima (4.15). In una precedente ricerca, in cui è stato somministrato il MOHQ ad un gruppo di lavoratori pubblici, la dimensione della giustizia organizzativa è emersa come il fat-

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tore più rilevante nel determinare la salute organizzativa (Pelizzoni, 2005). L’equità è in relazione con la percezione di ricevere supporto dal management che, a sua volta genera impegno, soddi-sfazione nel lavoro, clima positivo, desiderio di rimanere con l’organizzazione e bassi livelli di turnover (Rooney et al., 2009). Inoltre, l’equità è emersa come un fattore cruciale per l’efficacia della leadership (Van Knippenberg et al., 2007).

In linea con questo, i dipendenti delle organizzazioni non profit mostrano punteggi medi più elevati anche nella dimensione Obiettivi, emersa nella precedente somministrazione di MOHQ come un’area problematica tra i lavoratori del comparto pubblico. Questi risultati sembrano evi-denziare che i lavoratori delle organizzazioni del terzo settore hanno maggiore più fiducia nel lo-ro management, che è in grado di offrire maggiore chiarezza e coerenza negli obiettivi proposti. Più in generale, i risultati sembrano confermare le precedenti ricerche effettuate sul ruolo svolto dalla percezione di giustizia nella promozione della salute organizzativa (Moliner et al. 2008).

Una maggiore percezione di giustizia organizzativa nelle organizzazioni del terzo settore è in linea con i punteggi medi più alti raggiunti da queste realtà anche nella dimensione Indicatori

positivi. Questo risultato indica che in confronto ai loro colleghi del comparto pubblico, i lavora-tori delle organizzazioni del terzo settore tendono ad essere più soddisfatti del loro vita lavorati-va, ad avere un livello più alto di commitment e a identificarsi maggiormente con gli obiettivi e i valori della cultura organizzativa. Questi aspetti sono spesso citati nella letteratura con un ap-proccio prescrittivi, ma non sono ancora stati finora provati e valutati sistematicamente.

I soggetti che provengono dalle organizzazioni del terzo settore mostrano anche punteggi medi significativamente più alti nella dimensione Rapporti personali, che risultano quindi essere più positivi tra queste realtà. Questa dimensione fa esplicito riferimento alla capacità di lavorare in un modo collaborativo e cooperativo, con il sostegno della direzione. Nella letteratura prescrit-tiva sulle organizzazioni del terzo settore, è spesso dato per scontato che all’interno di queste re-altà esistono relazioni personali positive, anche se questo è un ulteriore aspetto che non è stato ancora studiato in profondità (Anheier e Ben-Ner, 2003). L’unica ricerca finora condotta su que-sto tema da Borzaga e Depedri (2005) ha fatto emergere che le relazioni personali (sia tra colle-ghi e superiori) tra i lavoratori delle organizzazioni del terzo settore sono migliori di quelle espe-rite dei lavoratori del comparto pubblico. L’ipotesi che esiste una migliore qualità dei rapporti personali all’interno del terzo settore deriva da un dato: queste organizzazioni producono essen-zialmente beni relazionali, attraverso le loro risorse umane (Donati e Colozzi, 2006). In effetti, le risorse umane sono la risorsa più importante del terzo settore, o meglio un fattore critico di suc-cesso per gli interventi sviluppati. Infatti, soprattutto dalla qualità del lavoro del personale (sia retribuito sia volontario) dipende la qualità dei servizi offerti da tali organizzazioni, mentre le ri-sorse logistiche o tecniche hanno una rilevanza decisamente inferiore (Boyle et al., 2007).

Coerentemente con i risultati relativi alla presenza di relazioni interpersonali positive tra i lavoratori delle organizzazioni del terzo settore, quanti lavorano nel comparto pubblico mostrano punteggi medi più elevati nella dimensione Conflittualità. In particolare, secondo le risposte degli intervistati, all’interno delle organizzazioni del terzo settore ci sono meno tensioni tra colleghi e con il management.

Un ulteriore aspetto che merita di essere considerato è la differenza tra i punteggi medi tra il terzo settore e il comparto pubblico in merito alla dimensione Innovazione. Le organizza-zioni del terzo settore tendono ad essere estremamente sensibili ai cambiamenti del loro ambiente e la loro capacità di spostare rapidamente le proprie risorse verso nuovi campi di intervento, an-

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settore Paula Benevene, Antonino Callea – Cap. 25

cora scoperti dalle attività dello stato e dal mercato sono tra le più caratteristiche salienti di queste realtà; viceversa, il comparto pubblico tende ad essere molto più gerarchico e burocratico (Lettie-ri et al., 2004).

Rilevanti anche i risultati emersi nella dimensione Valorizzazione, dove le medie dei par-tecipanti del terzo settore sono sensibilmente superiori a quelle provenienti dal comparto pubbli-co. Questo dato sembra confermare ciò che viene già affermato nella letteratura prescrittiva: ri-spetto ad altre tipologie di organizzazioni, i lavoratori del terzo settore percepiscono con forza sia il senso del loro lavoro sia il valore riconosciuto a questo dell’organizzazione stessa. È ipotizza-bile che allo sviluppo di questo aspetto contribuisca in modo significativo lo svolgimento di un lavoro maggiormente improntato al contatto diretto con l’utenza (high contact wok), rispetto a quanto accade nel comparto pubblico (Lovelock, 1983).

Un’ultima riflessione è necessaria a proposito dei risultati ottenuti, coerenti con le ipotesi formulate, ma il gruppo raggiunto dalle interviste non costituisce un campione rappresentativo, ma piuttosto un campione di convenienza. Inoltre i dati esaminati sono stati raccolti solo in Italia ma sarebbe interessante somministrare lo stesso questionario anche in realtà del terzo settore e del comparto pubblico di altri paesi, per compararne i risultati.

5. Bibliografia

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26. La sicurezza a scuola Gianmauro onnis

1. Premessa

La scuola è un settore attorno al quale ruotano una molteplicità di figure professionali che vanno dai dirigenti scolastico-amministrativi, al personale assistente, al personale docente, alle ditte esterne di manutenzione e servizi, agli studenti.

Ovviamente questa molteplicità di figure professionali genera una molteplicità di esi-genze in materia di sicurezza che vanno tra loro coordinate e verificate periodicamente e puntual-mente.

In questo contesto un ruolo particolarmente importante è rivestito dal Responsabile dei Lavoratori per la Sicurezza il quale essendo nominato tra le RSU ha origine sindacale e richiama ulteriori protagonisti nel campo della Prevenzione e Protezione del settore.

Con questo articolo, si vuole dare un contributo tecnico da parte di chi opera nel settore della sicurezza; infatti nella molteplice veste di docente di Discipline Meccaniche e Tecnologia per l’istruzione superiore, di vicepresidente Nazionale e coordinatore della regione Sardegna dell’ANIEF – SINDACATO SCUOLA, di ingegnere con mansioni di Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) nonché di coordinatore per la sicurezza del comparto scuola, lo scrivente è stato più volte individuato quale formatore per i corsi di livello A, B e C rivolti al personale scolastico.

2. Il metodo delle check-list

Laddove subentri un nuovo Dirigente Scolastico o un nuovo RSPP, così come ad ogni

verifica periodica del Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) è saggia prassi proporre al personale un’intervista preliminare alle cui domande il personale dovrà rispondere nel modo più sincero possibile … in fondo si sta lavorando per la sicurezza di tutti.

In questo articolo si vuole mettere l’accento sulle problematiche relative a questa delica-tissima fase.

A titolo di esempio si riporta una parte (non esaustiva) di scheda di rilevazione dati (check-list) per gli Assistenti Tecnici e Amministrativi ATA:

Come si evince dalla tipologia di domande contenute nella scheda l’intento è quello di rilevare se, all’atto dell’intervista, esistano già delle criticità in materia di salute e sicurezza sul posto di lavoro.

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La sicurezza a scuola Gianmauro Nonnis – Cap. 26

FIGURA 1 Traccia di intervista per personale amministrativo

Interviste individuali (a campione) o di gruppo

Questionari da somministrare a tutti

TRACCIA I�TERVISTA/QUESTIO�ARIO PERSO�ALE AMMI�ISTRATIVO

Descriva le operazioni che effettua abitualmente, indicando la ripartizione temporale

nell’arco di un giorno/settimana

– Lavoro al VDT _______________________________________________

– Sportello ____________________________________________________

– Compiti di tipo amministrativo ___________________________________

Alla fine della giornata ha disturbi agli occhi? ESIENO

Alla fine della giornata ha senso di affaticamento alla schiena? ESIENO

Conosce le prescrizioni previste dalla norma per il lavoro al VDT? ESIENO

Ritiene idoneo il suo sedile? ESIENO

Se NO perché? _____________________________________________________

Ritiene idoneo la sua postazione di lavoro al VDT? ESIENO

Se NO perché? _____________________________________________________

Sa a chi rivolgersi in caso di problemi connessi alla sicurezza? ESIENO

Descriva i rischi connessi alle diverse operazioni che svolge __________________

…………………………..(segue)

Le risposte più immediate e più frequenti, di seguito riportate, possono risultare scon-

fortanti e mettono in luce il clima di diffidenza che talvolta incontrano gli operatori della sicu-rezza nella scuola: “… ma perché lo devo fare?” (mettendo in discussione la funzione del Servizio di Prevenzione e Protezione SPP) “… a cosa serve?” (ammettendo di non conoscere gli iter minimi del DVR, oppure che il precedente DVR non prevedeva l’intervista preliminare) “… il dirigente non ci ha informato” (mettendo in discussione l’autorità del RSPP) “… ma poi se sbaglio posso correggere?” (sollevando il dubbio sull’esistenza di fattori di rischio di cui non si vuole discutere) “… ma non è che poi il mio nome salta fuori, vero??” (ammettendo di non voler essere coinvolti in eventuali contradditori con il resto del personale e/o della dirigenza).

Va da sé che il clima che ne traspare non appare certo di tipo collaborativo. Per individuare meglio le problematiche legate allo svolgimento delle mansioni di RSPP

facciamo luce sui passaggi che portano agli incarichi per la sicurezza seguendo il percorso che va

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La sicurezza a scuola Gianmauro Nonnis – Cap. 26

dalla formazione iniziale del personale, alla costituzione del SPP, al rapporto con le ammini-strazioni, fino alle prassi operative consolidate.

3. La formazione del personale

Vengono di seguito riportati alcuni articoli di legge che regolano il settore della

formazione iniziale in materia di sicurezza sul luogo di lavoro. Dal D.Lgs. 81/08 art. 32, comma 2 (non modificato dal D.Lgs. 106/09): “Per lo

svolgimento delle funzioni da parte dei soggetti di cui al comma 1, (addetti e responsabili del SPP, ndr) è necessario essere in possesso di un titolo di studio non inferiore al diploma di istruzione secondaria superiore nonché di un attestato di frequenza, con verifica dell’apprendi-mento, a specifici corsi di formazione adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative.”

Dal D.Lgs. 81/08 art. 32, comma 6 (non modificato dal D.Lgs. 106/09): “I responsabili e gli addetti dei servizi di prevenzione e protezione sono tenuti a frequentare corsi di aggior-namento secondo gli indirizzi definiti nell’accordo Stato-Regioni”

Seppure alcune norme di cedevolezza (ad es. l’art. 3) abbiano reso finora l’applicazione di questi articoli meno vincolante per gli operatori, si rilevano alcune criticità che aiutano a comprendere (ma non a giustificare) la diffidenza del personale nei confronti delle procedure per la sicurezza; per esempio spesso il personale addetto è formato, ma non ha seguito corsi di aggiornamento recenti, inoltre gli enti che più frequentemente organizzano i corsi sono esterni alla scuola e ubicati presso i grossi centri abitati, spesso distanti dalle periferie e quindi non facilmente raggiungibili per chi lavora nelle sedi scolastiche decentrate.

Talvolta i corsi in oggetto sono tenuti all’interno delle stesse istituzioni scolastiche, cionondimeno le difficoltà ad organizzarli e a seguirli proficuamente risultano notevoli; si citano degli esempi: • la mancata disponibilità di personale assistente: come si citerà più dettagliatamente in seguito

è alla base di molte difficoltà, se non è disponibile il personale addetto all’apertura dei locali la scuola potrebbe non riuscire ad ospitare i corsi;

• la dislocazione del personale su più sedi, soprattutto quello docente, il quale svolgendo mansioni di preposto alla sicurezza ha dei doveri precisi nei confronti dei lavoratori (studenti), d’altro canto però l’informazione e la formazione sui rischi sono peculiarità specifiche dei singoli istituti, va da se che se si svolge servizio su più scuole le informative sulla sicurezza dovranno essere molteplici e molteplici dovranno essere i corsi sui rischi specifici che il personale docente è tenuto a seguire, ovvero anche laddove ogni singolo istituto riuscisse ad organizzare i corsi sui rischi specifici della sede lavorativa, dato che la formazione è un atto previsto all’ingresso del personale nella sede di lavoro, il docente condiviso su più istituti dovrebbe seguire più corsi contemporaneamente;

• l’affidamento del servizio di manutenzione dei locali e delle attrezzature a ditte esterne il personale delle quali, non facendo parte di quello scolastico, deve seguire un piano per la sicurezza e la gestione delle emergenze coordinato con quello dell’istituto ospitante, spesso però le ditte accedono agli incarichi in tempi e con modalità differenti di anno in anno e, per i

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motivi sopraccitati, non sempre il SPP riesce ad adeguarsi per tempo ai continui cambiamenti che ne seguono;

• la precarizzazione e il turnover continuo del personale addetto e preposto, vera croce del mondo del lavoro attuale dal quale non rimane escluso nemmeno il mondo della scuola e a cui è dedicata una parte successiva.

Il risultato è una situazione conflittuale in cui, tra i vari aspetti, se da un lato è premente l’esigenza di istituire (o ricostituire) il SPP, dall’altro gli addetti danno la loro disponibilità in base al possesso di requisiti e di titoli non sempre all’altezza della normativa vigente e dei compiti previsti.

4. Le difficoltà a costituire il SPP

Si ritiene opportuno a questo punto dare delle indicazioni circa le figure che ruotano attorno al SPP; esso è costituito, negli elementi minimi, da: � Il responsabile del servizio RSPP (dirigente, personale interno, personale esterno) � I Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza RLS (derivanti dalle Rappresentanze Sinda-

cali Unitarie RSU) � Gli addetti antincendio (generalmente personale ATA) � Gli addetti al primo soccorso (generalmente personale ATA) � Gli addetti al personale in condizioni di handicap (generalmente personale ATA) � Gli addetti ai laboratori (generalmente personale ATA) � I preposti alla sicurezza (generalmente docenti).

Per quanto concerne i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza RLS questi, essendo individuati tra gli RSU (art. 47 c. 4 D. Lgs 81/08), non sempre hanno i titoli e la preparazione adeguata (primo intervento, antincendio, assistenza al personale in condizione di handicap …..) soprattutto a valle delle elezioni per il rinnovo di mandato, infatti l’incarico di RSU viene assegnato su base elettorale al personale di ruolo nella scuola previa candidatura iniziale, le stesse elezioni sono stabilite ogni 3 anni (salvo rinvii come negli ultimi tre) e al momento della pre-sentazione delle candidature non sono richiesti particolari prerequisiti in materia di sicurezza; si può facilmente immaginare come esista un ampio margine di incertezza nella costituzione del nuovo SPP tra il momento dell’insediamento delle RSU e l’adeguamento della loro preparazione ai fini della mansione di RLS.

Gli addetti antincendio in genere sono scelti tra gli ATA in quanto lavoratori peren-nemente in servizio durante tutta la giornata lavorativa e soprattutto depositari delle chiavi di tutti i locali dell’edificio.

Purtroppo il numero di posti riservati al personale ATA è funzione degli organici (stu-denti iscritti e numero di classi ottenute) e varia di anno in anno.

Stessa cosa dicasi per gli addetti al primo soccorso, addetti al personale in condizioni di handicap e addetti ai laboratori.

I preposti alla sicurezza per la loro costanza nell’opera di vigilanza dei lavoratori (in maggior numero studenti) sono individuati nella figura dei docenti durante le ore di didattica.

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La sicurezza a scuola Gianmauro Nonnis – Cap. 26

Purtroppo il continuo turnover che consegue alla precarietà degli impieghi e soprattutto alla temporaneità degli incarichi non consente di formare adeguatamente e tempestivamente i docenti al momento dell’accesso al lavoro.

A titolo di esempio basti pensare che negli ordini di scuola primari le supplenze di un solo giorno, soprattutto nel periodo delle influenze stagionali, risultano numerose, si comprende quindi come l’attuale regime di precarizzazione cronica a cui si sta assoggettando il personale della scuola sia difficilmente compatibile con la formazione iniziale in materia di sicurezza: molto difficilmente appare possibile fare informazione-formazione sui rischi specifici del posto di lavoro quando la chiamata per la supplenza viene ricevuta alle 8:00 del mattino e il servizio deve essere garantito per le 8:30.

5. I rapporti con le amministrazioni

Dal D.Lgs. 81/08 art. 18, comma 3 (non modificato dal D.Lgs. 106/09): “la sicurezza dei locali e degli edifici […] ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico del-l’amministrazione tenuta […] alla loro manutenzione […] gli obblighi previsti dal presente decre-to legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all’amministra-zione competente o al soggetto che ne ha l’obbligo giuridico”.

Il che significa che una volta inoltrata la richiesta di adempimento, prese opportune misu-re che garantiscano analoghe garanzie di sicurezza, i doveri sulla sicurezza passano rapidamente da un livello tecnico (scuola) a un livello politico (comune, provincia, ministeri).

È opinione diffusa che la tenuta politica delle amministrazioni faccia sentire il suo peso anche in questo campo: un recente rapporto di Legambiente (febbraio 2010) afferma che il 30% degli edifici scolastici necessita di interventi urgenti.

Tale percentuale, sempre secondo Legambiente, è recentemente salita al 37% (ottobre 2011).

6. Le prassi e le innovazioni

È accertata una correlazione tra arretratezza tecnologica e fattore di rischio. È altrettanto accertata la correlazione tra la mancata gestione e manutenzione delle strut-

ture, laboratori e impianti e la probabilità di loro malfunzionamenti. Altrettanto ovvia quindi appare la correlazione tra manutenzione e fattore di rischio. Bene, anche se con minore evidenza, lo stesso si può affermare circa il nesso esistente tra

le prassi burocratiche e il fattore di rischio (revisione del DVR, aggiornamento del SPP, adeguamento della formazione nel personale addetto e preposto …), ovvero più frequentemente vengono messi in discussione e sottoposti a revisione il DVR e tutti gli atti annessi, minore è il rischio che questi risultino arretrati e obsoleti, minore risulta il rischio di trovarsi impreparati di fronte alle emergenze, minore risulta quindi la probabilità che dalle emergenze derivino danni per la salute e l’incolumità alle persone.

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La sicurezza a scuola Gianmauro Nonnis – Cap. 26

È saggia prassi quindi sottoporre a verifica periodica tutti gli atti relativi al DVR se-guendo per loro le stesse procedure e le stesse prassi previste per la manutenzione periodica dei locali e delle tecnologie.

Purtroppo gli effetti delle revisioni di bilancio della spesa pubblica fanno spesso sentire il loro peso proprio sulle prassi consolidate: a titolo di esempio, se a seguito della razionalizzazione di spesa sul personale viene meno un assistente ATA (in genere il più giovane è spesso anche il più volenteroso, ma anche colui che vantando un minore punteggio di graduatoria è più soggetto alla mobilità annuale tra una sede e l’altra), difficilmente sarà possibile ricostituire lo stesso SPP con continuità e altrettanto difficilmente sarà possibile mettere in atto con continuità quelle prassi innovative che tengono alto il livello di sicurezza sia dal punto di vista tecnologico sia dal punto di vista burocratico-amministrativo.

7. Bibliografia

Decreto legislativo n. 81/2008 “Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro”. Decreto legilsativo n.106/2009 “Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 9 aprile 2008,

n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”. Concorso per Dirigenti Scolastici; manuale per la preparazione alle prove scritte e orali. A cura di

Leonardo Maiorca, anno 2011, gruppo editoriale ESSELIBRI, Edizioni Simone.

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�ote biografiche sugli autori

Antonio Aiello ([email protected]) è professore associato presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Pisa dove insegna Psicologia Sociale e Psi-cologia del Lavoro e delle Organizzazioni. I suoi interessi di ricerca vertono su tematiche di psicologia sociale della politica e psicologia del lavoro, con particolare attenzione allo studio dei Rischi psicosociali. Sull’insieme di questi argomenti, è autore di pubblicazioni in riviste e volumi, italiane ed internazionali.

Ivan Ambrosiano ([email protected]), psicologo psicoterapeuta, gruppo-analista. È stato consulente presso lo Spisal di Padova nel Laboratorio per la valutazione e prevenzione delle problematiche occupazionali da stress. Attualmente è consulente presso il Comune di Padova nello Sportello di ascolto sul disagio organizzativo.

Massimiliano Barattucci ([email protected]), psicologo e psicoterapeuta, dottore di ricerca, specialista in selezione del personale, orientamento professionale e formazione. Dal 2002 collabora con il Centro di Riferimento Regionale per il Disagio Lavorativo della Asl di Pescara, è stato membro del Network Nazionale per la Prevenzione del Disagio Psicosociale nei Luoghi di Lavoro dell’ISPESL, è membro del Gruppo di Lavoro Stress Lavoro Correlato del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, è professore a contratto di materie inerenti la Psicologia del Lavoro presso l’Università “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara. Gli interessi di ricer-ca riguardano principalmente i fenomeni degenerativi sul posto di lavoro e le variabili ambientali organizzative.

Barbara Barbieri ([email protected]) è ricercatrice presso il Dipartimento di Psicologia dei processi di sviluppo e socializzazione dell’Università Sapienza di Roma. I suoi principali interessi di ricerca riguardano i temi del benessere organizzativo e della valorizzazione della persona, le implicazioni psicologiche nel successo imprenditoriale, la ricerca-azione nei contesti organizzativi.

Giovanni Battista Bartolucci ([email protected]) è professore straordi-nario di Medicina del Lavoro afferente al Dipartimento di Medicina Molecolare Università di Padova, Direttore della Scuola di Specializzazione in Medicina del Lavoro e Presidente del Corso di Laurea in Tecniche della Prevenzione nell’Ambiente e nei Luoghi di Lavoro; Direttore f.f. della Unità Operativa Complessa di Medicina del Lavoro e del Centro di Igiene Industriale del-l’Azienda Ospedaliera di Padova. Autore di oltre 600 pubblicazioni. I suoi interessi di ricerca sono nel campo degli agenti di rischio chimici e fisici, delle procedure di valutazione del rischio e di prevenzione, degli indicatori di monitoraggio biologico e dello stress lavoro correlato.

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�ote biografiche sugli autori

Paula Benevene ([email protected]) è ricercatore confermato, insegna Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni e Psicologia Economica presso il Dipartimento di Scienze Umane della LUMSA. È Direttore del Master in gestione delle Risorse Umane della LUMSA e membro del Comitato Tecnico Scientifico del Forum del Terzo settore del Lazio. Tra i principali interessi di ricerca: benessere organizzativo, organizzazioni Non-profit, consumi orientati eticamente, socializzazione anticipata al lavoro.

Pierluigi Caddeo ([email protected]), psicologo sociale; dottore di ricerca in Psicologia Cognitiva, Psicofisiologia e Personalità. È docente a contratto nelle università di Cagliari e Perugia per gli insegnamenti di Psicologia Sociale, Ambientale e dei Gruppi. Si occupa della gestione di progetti di ricerca sul tema dei processi di scelta di consumo e sulla reputazione dei prodotti alimentari. È stato assegnista di ricerca presso l’Università di Cagliari con un progetto sull’identificazione regionale e l’accettazione di tecnologie sostenibili. È socio della Teseus s.r.l., una società specializzata in formazione, ricerca e consulenza aziendale nella quale si occupa della valutazione stress lavoro-correlato nelle aziende.

Antonino Callea ([email protected]), ricercatore in Psicometria presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università Lumsa di Roma, è dottore in Psicologia del lavoro e delle organizzazioni e Ph.D. Le principali aree di ricerca riguardano: le conseguenze psicologiche del lavoro atipico, il benessere e il malessere organizzativo, la validazione di strumenti per la valu-tazione dello stress-lavoro correlato. È autore di alcuni libri, tra cui “Psicologia del lavoro atipi-co” (2011; Alpes), e di articoli scientifici pubblicati in ambito nazionale ed internazionale.

Veronica Cerina ([email protected] ) è dottore di ricerca in Psicologia am-bientale, titolo conseguito presso il C.I.R.P.A. (Centro Interuniversitario di Ricerca in Psicologia Ambientale) – Sapienza Università di Roma. Attualmente collabora con il Dipartimento di Pe-dagogia, Psicologia e Filosofia dell’Università di Cagliari nell’ambito di un progetto sugli atteg-giamenti verso i quartieri sostenibili e i sistemi fotovoltaici a livello domestico. I suoi interessi di ricerca principali riguardano gli aspetti psicosociali relativi allo svolgimento di attività di volon-tariato, gli atteggiamenti della popolazione anziana verso gli spostamenti dal luogo di residenza e la percezione di qualità ambientale delle case di riposo.

Claudio G. Cortese ([email protected]) è professore straordinario di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino. Svolge attività di ricerca sui temi dell’apprendimento in età adulta e dei metodi di formazione, della soddisfazione e della motivazione lavorativa, del benessere nelle organizzazioni, del lavoro di gruppo e della selezione del personale.

Michela Cortini ([email protected]) è ricercatrice in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni all’Università G. d’Annunzio di Chieti-Pescara dove insegna “Psicologia delle Organizzazioni” e dove è responsabile dei servizi di orientamento e job placement della Facoltà di Psicologia. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la comunicazione organizzativa, il crisis management, il benessere al lavoro e gli approcci di analisi mix-method in psicologia del lavoro e delle organizzazioni.

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�ote biografiche sugli autori

Stefania Cuccu ([email protected]), psicologa, psicoterapeuta, è dottoranda in Psicologia della salute presso l’Università di Torino. Si occupa di prevenzione del disagio e promozione del benessere in ambito sociale e organizzativo. Svolge attività di ricerca e intervento nell’ambito della Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni con particolare riferimento al contesto socio-sanitario.

Laura Dal Corso ([email protected]), professore aggregato di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni presso il Dipartimento FISPPA dell’Università di Padova – Sezione di Psicologia Applicata. I suoi principali ambiti di ricerca sono a) la diagnosi organizzativa nella prospettiva della promozione del benessere organizzativo e della prevenzione del rischio stress lavoro-correlato e b) l’umanizzazione dell’assistenza e della cura, con particolare riferimento alle tematiche dell’ascolto, del sostegno nelle difficoltà e della valorizzazione della persona. Docente di “Metodologia della ricerca-azione” e di “Gestione delle risorse umane” nei Corsi di Laurea triennali e magistrali. È Direttore del Master di II livello Interdipartimentale in “Valutazione, Formazione e Sviluppo delle Risorse Umane. Analisi Organizzativa e Interventi, Prevenzione del Rischio” dell’Università di Padova.

�icola Alberto De Carlo ([email protected]), già Direttore del Dipartimento di Psi-cologia Applicata, è professore ordinario all’Università di Padova. Autore di numerose pubbli-cazioni scientifiche, fra cui oltre trenta volumi, è particolarmente impegnato in alcuni settori: management positivo, nuovi codici del lavoro, benessere organizzativo, performance e qualità, stress lavoro-correlato, disagio individuale e collettivo, comunicazione e cambiamento, apprendi-mento trasformativo, marketing sociale. I suoi studi hanno dato luogo a numerose attività di ricer-ca-azione – prevalentemente in tema di direzione e gestione delle risorse umane – nell’ambito di strutture pubbliche e private, fra cui Organizzazioni sindacali, Asl, Confindustria, Abi, Provincie e Comuni, Camere di commercio, nonché Organismi di livello internazionale. Presiede il Co-mitato tecnico-scientifico di IF – Informazione&Fiducia, progetto nazionale di monitoraggio del disagio lavorativo.

Patrizia Deitinger ([email protected]), psicologa del lavoro, Senior Researcher presso l’ISPESL, oggi confluito nell’INAIL, svolge da molti anni studi e ricerche nel campo della prevenzione dei rischi psicosociali da stress lavoro-correlato e da mobbing. È autrice e co-autrice di oltre 40 pubblicazioni in riviste e volumi nazionali ed internazionali. Ha partecipato a numerosi convegni e congressi internazionali e a gruppi di lavoro europei in materia di rischi psicosociali ed ha fatto parte del Progetto Psychosocial RIsk Management – European Framework (PRIMA-EF) e del Network Nazionale per la Prevenzione del Disagio Psicosociale nei luoghi di lavoro.

Silvia Di Carlo ([email protected]) ha studiato presso l’Università Carlo Bo di Urbino, dove si è laureata in Psicologia con indirizzo del lavoro e delle organizzazioni; durante l’ultimo anno ha approfondito gli studi presso l’università di Portsmouth in Inghilterra ove ha potuto inoltre, frequentare il Tavistock Institute di Londra reperendo materiale utile per con-seguire la tesi di laurea sui modelli organizzativi. Ha continuato gli studi a Roma in Mediazione familiare sensibilizzandosi in problematiche di comunicazione in ambito famigliare. Ha lavorato

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in ambito scolastico occupandosi di programmi di sostegno per bambini diversamente abili. At-tualmente lavora in un Centro di riabilitazione che sostiene le famiglie di bambini con proble-matiche neuromotorie.

Franco Di Maria ([email protected]), è professore ordinario di Psicologia dina-mica – Università degli Studi di Palermo. Ha pubblicato diversi lavori su temi afferenti allo psichismo mafioso e alle dinamiche dei gruppi di lavoro.

Alessandra Falco ([email protected]), professore aggregato di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni presso il Dipartimento FISPPA dell’Università degli Studi di Padova – Sezione di Psicologia Applicata. Fra i suoi principali ambiti di ricerca rientrano: la valutazione del rischio stress lavoro-correlato, con particolare riferimento alla messa a punto di strumenti “integrati” mediante indicatori soggettivi, oggettivi e fisiologici; l’analisi del ruolo di specifiche componenti individuali e comportamentali – fra le quali affettività negativa, workaholism, work engagement e presenteismo – nell’eziologia del benessere/disagio organizzativo. Docente di “Tecniche di ricerca di mercato” e di “Valutazione del personale nelle organizzazioni” nei corsi di laurea triennali e specialistici.

Letizia Ferrarin ([email protected]) è medico del lavoro. Lavora presso il Servizio Prevenzione e Sicurezza Ambienti di Lavoro della ASL Padova. Responsabile U.O.S./ Vigilanza Strutture Sanitarie. Collabora nel “Gruppo di lavoro per la promozione del benessere organizzativo negli ambienti di lavoro e lo sviluppo di azioni contrasto dei rischi psicosociali” della Regione Veneto. È componente del Centro di Riferimento per il Benessere Organizzativo Provinciale (L.08/2010).

Ferdinando Fornara ([email protected]) è ricercatore e docente di psicologia sociale e psicologia ambientale presso il Dipartimento di Pedagogia, Psicologia, Filosofia dell’Università di Cagliari. È membro dell’Editorial Board del Journal of Environmental Psychology, dell’Editorial Committee del Bulletin of People-environment Studies e del Comitato Scientifico del CIRPA (Centro Interuniversitario di Ricerca in Psicologia Ambientale), di cui è rappresentante di sede presso l’Università di Cagliari. I suoi interessi di ricerca principali riguardano la misura della qualità percepita degli ambienti di cura e residenziali, le determinanti psicologico-sociali dei comportamenti pro-ambientali e la rigeneratività degli ambienti naturali e costruiti.

Laura Galuppo ([email protected]) è dottore di ricerca in Psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso la Facoltà di Psicologia dell’ Università Cattolica del S. Cuore di Milano. I suoi principali ambiti di ricerca e di interesse riguardano la responsabilità sociale di impresa e la sostenibilità organizzativa; la ricerca qualitativa ed in particolare la ricerca etnogra-fica nelle organizzazioni; i processi di apprendimento e la riflessività in ambito lavorativo e professionale.

Mara Gorli ([email protected]) è psicologa del lavoro e ricercatrice dell’Università Cattolica di Milano. Presso le Facoltà di Psicologia e Scienze della Formazione è docente dei

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corsi di Psicologia delle Organizzazioni e Psicologia della Formazione e dell’Intervento Organiz-zativo. I suoi principali interessi di ricerca riguardano l’area dell’apprendimento, della gestione e circolazione delle conoscenze nelle organizzazioni, e della sostenibilità sociale e organizzativa.

Paola Grassi ([email protected]) è dottoranda presso L’ITAB (Istituto Tecnologie Avan-zate Biomediche), Università di Chieti-Pescara. Le sue attività di ricerca hanno riguardato l’ap-plicazione dei metodi psicometrici allo studio analitico delle abilità cognitive e relazionali in soggetti affetti da sindrome di autismo con riferimento ai tracciati fMRA. Ha insegnato Psicometria (Corso Progredito) nel Corso di Laurea in Tecniche Psicologiche dell’Università di Cagliari. È attualmente titolare degli insegnamenti riguardanti il Laboratorio Psicometrico del Corso di Laurea in Psicologia dell’Università di Cagliari e dell’EPG di Metodologia della Ricerca e Tecniche Multivariate di Analisi dei Dati dell’Università di Chieti-Pescara.

Cesare Kaneklin ([email protected]), professore ordinario di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni, insegna Psicologia dei gruppi e delle organizzazioni alla Facoltà di Psicologia, Università Cattolica di Milano. Si occupa di formazione e apprendimento nei contesti lavorativi, da sempre coniugando aspetti di ricerca e di consulenza con e per i gruppi e le organizzazioni. È autore di numerose pubblicazioni nel campo della formazione, dell’intervento e della sostenibilità della vita lavorativa.

Alessandro Lo Presti ([email protected]), Ph.D., è ricercatore presso il Di-partimento di Psicologia della Seconda Università di Napoli. Presso tale Ateneo, in qualità di pro-fessore aggregato, insegna Psicologia del Lavoro e Psicosociologia delle organizzazioni. È autore di pubblicazioni e presentazioni congressuali, sia nazionali che internazionali, riguardanti: le transizioni e i nuovi orientamenti di carriera, l’insicurezza e il coinvolgimento lavorativi, la vali-dazione di strumenti inerenti gli interessi professionali e le problematiche connesse al career decision-making, gli aspetti organizzativi del volontariato.

Lucrezia Lorito ([email protected]) è dottore di ricerca in Psicologia – Università degli Studi di Palermo, Psicoterapeuta gruppoanalista. Fra i suoi interessi vanno annoverati gli studi sugli stili di attaccamento adulto e di psicologia clinica applicata alle organizzazioni.

Gianni Loy ([email protected]), professore ordinario di diritto del lavoro nel Dipartimento di Scienze sociali e delle Istituzioni. Già Direttore del Centro Studi di Relazioni industriali del-l’Università di Cagliari. Autore di monografie e saggi di carattere giuslavoristico su riviste na-zionali ed internazionali su numerosi temi tra cui la capacità fisica del lavoratore, la formazione, il mobbing, i rischi psicosociali, la disciplina antidiscriminatoria con riferimento all’età, al sesso, all’handicap. Tra i più recenti volumi: “La condizione giuridica di Rom e Sinti in Italia” e “El derecho del trabajo segùn Sancho Panza”.

Giorgio Marcuzzo ([email protected]) è Dirigente Medico presso l’Azienda Ospedaliera di Padova, si occupa di prevenzione negli ambienti di lavoro e svolge attività di Medico Competente per conto di diversi Enti Pubblici. In modo particolare si interessa alla valutazione e gestione di casi di disagio lavorativo, alla valutazione del rischio stress lavoro-

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correlato negli ambienti di lavoro ed alla formazione per i lavoratori sui temi legati alla preven-zione dello strain lavoro-correlato.

Christian �ardella ([email protected]), psicologo del lavoro, attualmente frequenta il Dottorato in Relazioni di Lavoro – area organizzazione aziendale – presso la Fondazione Universitaria Marco Biagi – Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Lavora presso l’INAIL. Svolge attività di studio e ricerca sulle tematiche dei rischi psicosociali, dello stress lavorativo e del mobbing. È autore di diverse pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali e del volume Il modello “Valutazione dei Rischi Psicosociali” (VARP) (con A. Aiello e P. Deitinger, 2012).

Eraldo �icotra ([email protected]) è professore associato presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Cagliari. Ѐ titolare degli insegnamenti di Psicometria e di Metodi di Analisi Multivariata presso i Corsi di Laurea triennale e magistrale in Psicologia. L’ambito di attività scientifica riguarda lo studio dei modelli relativi all’impiego della Formal

Concept Analysis e alla Knowledge Space Theory. Ha, inoltre, fornito contributi scientifici nel-l’ambito della valutazione psicometrica della percezione del rischio ed è autore di alcuni manuali didattici rivolti allo studio dei fondamenti statistici della Psicometria.

Gianmauro �onnis ([email protected]), ingegnere iscritto all’Ordine professionale di Cagliari con mansioni di RSPP per il comparto pubblico impiego-scuola, è inoltre insegnante di scuola secondaria di II grado di “Discipline meccaniche e tecnologia”, ed è quadro sindacale per l’ANIEF – sindacato scuola aderente a CONFEDIR-MIT PA.

Marcello �onnis ([email protected]), è psicoterapeuta e professore aggregato di

Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni presso il Dipartimento di Pedagogia, Psicologia e Filosofia dell’Università di Cagliari. I suoi principali ambiti di ricerca sono il benessere e la prevenzione del rischio stress lavoro-correlato e l’umanizzazione dell’assistenza e della cura, con particolare riferimento alle tematiche dell’efficacia e salute organizzativa dei profili professionali socio-sanitari. È docente di Psicologia della salute organizzativa presso il Corso di Laurea Magistrale in Psicologia e di Psicologia della professione sanitaria presso il Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia e diversi corsi di laurea delle professioni sanitarie dell’ateneo cagliaritano.

Maria Luisa Pedditzi ([email protected]) è ricercatrice confermata in Psicologia dello Sviluppo e dell’educazione presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Cagliari. Insegna psicologia dell’educazione presso la Facoltà di Scienze della Formazione di Cagliari e da diversi anni si occupa di disagio/benessere scolastico con la realizzazione di numerosi studi e ricerche nell’ambito della dispersione scolastica, del bullismo, dell’orientamento scolastico e professionale e del burnout nelle professioni d’aiuto. I suoi interessi di ricerca si focalizzano anche sulla programmazione e valutazione di interventi educativi e sulla prevenzione del disagio nella scuola e nella comunità.

Stefania Piras ([email protected]), consulente psicologo, psicologa del lavo-

ro, psicoterapeuta, Tecnico Superiore gestione e sviluppo risorse umane e Rspp. Dal 2004 col-

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�ote biografiche sugli autori

labora con l’attuale Dipartimento di Pedagogia, Psicologia e Folosofia dell’Università degli studi di Cagliari in attività di ricerca, orientamento e formazione. Attualmente è libera professionista impegnata in attività di consulenza e intervento di prevenzione del disagio e promozione del benessere individuale e organizzativo, di orientamento e ricollocazione professionale, di forma-zione e progettazione.

Oriana Putzolu ([email protected]), segretaria regionale della Cisl Sardegna con delega alle politiche di organizzazione del pubblico impiego e della scuola, formazione professio-nale e università, politiche sociali e sanitarie, mercato del lavoro, politiche giovanili, femminili, dell’immigrazione, dell’emigrazione, coordinamento servizi Cisl. Le attività principalmente se-guite sono l’organizzazione degli eventi sindacali, attività di concertazione sindacale con la regione Sardegna e con le organizzazioni di categoria datoriali. Attività di formazione sindacale per dirigenti (corsi sulla Cisl, sulle politiche di genere, sulla sicurezza nei luoghi di lavoro).

Stefano Porcu ([email protected]), psicologo e psicoterapeuta, specializzato in Lavoro e Organizzazioni, svolge attività di consulenza e di sviluppo organizzativo per organiz-zazioni pubbliche e private; si occupa di progettazione, di coordinamento e di attività di docenza; ha pubblicato contributi scientifici di natura psicologica sul tema della prevenzione del disagio lavorativo e la promozione del benessere psicosociale.

Tiziana Ramaci ([email protected]) è assistant professor presso la Libera Uni-versità degli Studi di Enna – Kore. Docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni, ha come principali interessi di ricerca il benessere organizzativo, i modelli di selezione del perso-nale, i fattori di inclusione sociale per le nuove categorie di lavoratori.

Domenico Salimbeni ([email protected]), ingegnere, componente CDA università ca-gliaritana, membro esperto CT ristretto Provveditorato interregionale opere pubbliche Lazio-Abruzzo-Sardegna. Attività: energia, sicurezza sul lavoro (responsabile scientifico-didattico con-venzione ISPESL-UniCA), prevenzione incendi, impianti tecnologici, acustica. Professore di Controllo dei processi, Controllo dei processi in regime di qualità, Controllo degli impianti termi-ci. Ricerca. Sistemi energetici: responsabile nei progetti “nFVs: il nostro futuro verso il sole” (realizzazione di sistema hi-tech integrato progettazione-produzione di impianti fotovoltaici), e “PrasiS: pianificazione e realizzazione di architetture sostenibili in Sardegna” (progettazione di soluzioni tecniche per sostenibilità e risparmio energetico), finanziati dal bando Ricerca&Svilup-po, centro di competenza FER, POR Sardegna.

Giuseppe Santisi ([email protected]) è professore associato di Psicologia del lavoro e

delle organizzazioni presso l’Università di Catania (Corso di Laurea in Psicologia), dove è titolare anche degli insegnamenti di Sviluppo Organizzativo e Psicologia della Sicurezza nei luoghi di lavoro. I principali interessi di ricerca riguardano l’organizzazione e lo sviluppo delle risorse umane, la valutazione delle performance aziendali, i comportamenti economici e di con-sumo.

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�ote biografiche sugli autori

Franco Sarto ([email protected]), medico del lavoro e medico competente. Già Direttore del Servizio Prevenzione e Sicurezza Ambienti di Lavoro della ASL Padova e respon-sabile del Centro di Riferimento per il Benessere Organizzativo Provinciale. È stato componente del “Gruppo di lavoro per la promozione del benessere organizzativo negli ambienti di lavoro e lo sviluppo di azioni contrasto dei rischi psicosociali” della Regione del Veneto.

Giuseppe Scaratti ([email protected]) è professore ordinario di Psicologia del

lavoro e delle organizzazioni presso la Facoltà di Economia dell’ Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. I suoi principali ambiti di interesse e ricerca riguardano la formazione, consu-lenza e cambiamento organizzativo; la valutazione della formazione; la qualità della vita e il benessere organizzativo; la ricerca qualitativa; i processi di produzione e di gestione della conoscenza nelle organizzazioni; le culture lavorative e comunità di pratica; la cooperazione e il conflitto nelle organizzazioni.

Fabrizio Scrima ([email protected]) è dottore di ricerca in Psicologia –

Università degli Studi di Palermo. I suoi principali interessi sono rivolti allo studio delle dinami-che di convivenza organizzativa e alle relazioni Individuo-Organizzazione.

Marcello Secchi ([email protected]), Psicologo del lavoro e delle organizza-

zioni, si occupa di progettare e realizzare interventi di formazione e di sviluppo organizzativo, con particolare attenzione agli ambiti della cooperazione sociale e dell’ICT, il suo ente di afferenza è Poliste srl.

Renato Troffa ([email protected]), è dottore di ricerca in Psicologia Cognitiva,

Psicofisiologia e Personalità. È docente a contratto di Psicologia Ambientale, Psicologia Ecolo-gica e Psicologia dei Gruppi presso le Università di Cagliari, Sapienza e LUMSA di Roma. Formatore e ricercatore nel campo della sicurezza sul lavoro, della gestione delle risorse umane e della qualità ambientale percepita, è stato assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Ricerche Economiche e Sociali dell’università di Cagliari con un progetto su sostenibilità ambientale e tecnologie di produzione di energie sostenibili. È amministratore di Teseus, società specializzata in formazione, ricerca e consulenza aziendale.

Liviano Vianello ([email protected]). medico del lavoro, Direttore (f.f.)

del Servizio Prevenzione e Sicurezza Ambienti di Lavoro della ASL Padova. Componente del “Gruppo di lavoro per la promozione del benessere organizzativo negli ambienti di lavoro e lo sviluppo di azioni contrasto dei rischi psicosociali” della Regione del Veneto. Coordinatore del Centro di Riferimento per il Benessere Organizzativo Provinciale (L.08/2010).

Donata Zanella ([email protected]), psicologa del lavoro, psicoterapeuta.

Collabora nel “Gruppo di lavoro per la promozione del benessere organizzativo negli ambienti di lavoro e lo sviluppo di azioni contrasto dei rischi psicosociali” della Regione del Veneto. Collabora con il Centro di Riferimento per il Benessere Organizzativo Provinciale (L.08/2010). Lavora presso il Servizio Prevenzione e Sicurezza Ambienti di Lavoro della ASL Padova.

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Riccardo Giorgio Zuffo ([email protected] ) è professore associato di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi G. D’Annunzio di Chieti. I suoi principali interessi di ricerca riguardano le origini della psicologia del lavoro e i costrutti psicologici (stress lavoro-correlato, fiducia, commitment, cynicism, citta-dinanza organizzativa) legati ai processi organizzativi complessi e di natura straordinaria (downsizing, M&A, layoff). È partner fondatore di Telema e di Telema International, società che operano nella consulenza organizzativa, nell’executive search e nei servizi psicologici.

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Ottobre 2012

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