"Nugae" n.2

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Sognai. Sognai quella notte voli di gabbiani su scon-finati mari ad approdare su una spiaggia bianca. Poi rossa ed al fine verde – era diventato un prato on-deggiante di fiori, grano dorato ed ulivi.

Sotto un albero bellissimo e secolare, agitato dal vento che ne mostrava così il retro-foglia argenteo, sedeva mio padre.

Da sotto il suo cappello di paglia – vecchio animo di contadino – mi guardava sorridendo. Mi avvicinai. Nell’abbraccio mi svegliai. Ne ricordo il calore.

Antonia di Dario

***

“Cosa fai?” Urlò la voce dalla stanza da pranzo. “Dormo”.

A.d.D.

***

Una mattina, alzandosi, si guardò allo specchio nel raggio di luce calda che al mattino s’intrufolava tra le persiane.

Si disse “in fondo si può migliorare. Da oggi si cambia.”

Il tempo – correndo – è trascorso, ma poco è cam-biato.

E così, tra un bicchierino ed un bicchiere, ha perso tutto ciò che era la sua vita. Ora, in solitudine, cerca un cantuccio dove posare il cuore.

A.d.D.

***

Odori

Il suo naso veniva continuamente corteggiato dagli odori…

Ad ogni effluvio corrispondeva una scena di vita.

Odore di cane bagnato; legna bruciata; naftalina; salumi appesi; urina; cipolla…

Come per dire: pioggia in montagna; il camino dei non-ni; il baule in soffitta; il ristorante di zio; i bagni di una stazione; i souvlaki de “La Plaka”…

Impazziva per strada... Riannusando ad ogni angolo storie rimosse, persone dimenticate…

Deliziosi “déjà vu olfattivi” sfiorando mamme al profu-mo di latte e bigliettai sudati al retrolfatto di pino silvestre.

A volte il cervello viveva minuti di autentica soffe-renza mentre ricercava, nel suo database chimico, l’at-timo esatto, la persona, la vicenda, un nome, una stretta di mano, una canzone, un luogo, il tepore o il gelo sulla pelle, i rumori collaterali, …

Un qualcosa che collegasse quell’odore ad una traccia reale nella sua vita.

E quando ci riusciva, la mente esplodeva in una ca-scata di ricordi proiettati nel buio della sua forzata sala cinematografica. L’emotività del naso, che sto-ria!

L’unico odore su cui non aveva dubbi era quello di Lady. L’odore di una femmina di pastore tedesco.

Lady: cane per ciechi.

Michele Nigro

Raccontinani

Piccola Prosa

Oggi giovedì 12 si sono schiuse le

uova: 6 pulcini.

Alcuni finiranno al forno

con le patate.

Altri, crescendo, faranno uova.

Purtroppo la percentuale di riuscita

delle femmine è sempre più alta.

A.d.D.

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L’editoriale

scrittore l’esito testuale può conflui-re anche in uno stato di non definiti-va comprensione.

Ad esempio, Umberto Eco per sem-plificare al massimo la distinzione fra saggistica e narrativa sostiene che “ la saggistica lavora verso la risposta, la narrativa lavora in direzione della domanda e dunque si possono rivela-re complementari.”

Nella ricerca, si potrebbe quindi per-venire ad uno stadio dubitativo pur producendo testi di accentuata quali-tà.

Sebbene devastata, la terra in cui si vive è pur sempre parte della nostra storia in quanto concorrente alla no-stra esperienza umana.

Quindi, scrivere diventa testimonia-re i risultati della nostra esperienza sotto la spinta della necessità di ricre-are tutto ciò di cui avvertiamo l’as-senza.

Per Ignazio Silone, la produzione del testo, oltre che essere una testimo-nianza del proprio particolare modo di intuire la vita e il mondo, diventa una ossessione di cui assolutamente liberarsi.

Si arricchisce, dunque, il carattere di necessità dell’elaborato testuale.

Tornando all’urgenza di un ricono-scimento pieno delle proprie poeti-

che, si può dire che nel caso dei fon-datori di Nugae tale transito si impo-ne solo per coloro che intendono assolvere sino in fondo ad una delle istanze pristine della rivista battipa-gliese: proporre un cambiamento di prospettiva alla dinamica “culturale” del proprio ambiente.

L’esposizione critica del proprio pro-gramma d’arte, o come direbbe Brecht, lo “straniamento didattico” può condurre ad una presa di co-scienza sociale; e ciò anche non vo-lendo necessariamente prefiggersi desueti ruoli educativi per mezzo della elaborazione artistica.

Semmai, con l’intento di custodire la capacità umana di far rinascere il mondo da se stesso.

Mi sentirei, dunque, di incoraggiare un discorso sulle poetiche che po-trebbe assolvere ad una doppia fun-zione.

La prima è sicuramente quella di contrapporre elementi tangibili ai disastri della nostra Waste land, co-struita sulle ceneri di un passato ine-spresso, sul tentativo continuo di nascondimento dello squallore mora-le imperante.

Tentativo effettuato illusoriamente tramite il cortocircuito che collega in presa diretta le mozzarelle di bufala agli articoli di abbigliamento, oblite-rando completamente le librerie.

La seconda potrebbe essere quella di rinvenire tracce di poetiche comuni che, oltre ad alimentare un fertile dibattito interno, possano fronteggia-re validamente gli attacchi critici di non omogeneità mossi al gruppo.

Auguri!

Poetica come generatrice di testi.

Dovendo ricostruire artigianalmente un tessuto culturale al proprio habitat, chi si interessa di letteratura è destinato a confrontarsi con l’indi-viduazione di quel complesso di mo-tivazioni che spingono lo scrittore a riempire la pagina vuota.

Tutto nasce dalla necessità di supera-re la frustrazione di un’assenza. Una terra desolata manca di punti di rife-rimento e lo scrittore si ripropone di identificarli. Rintracciare la fonte dell’ispirazione e le ragioni che spin-gono a scrivere significa, in ultima analisi, ricercare la poetica.

E se è vero che il termine significa semplicemente creazione o arte del fare, in una terra culturalmente de-solata si impone con la forza della necessità la generazione di ciò che definiamo letteratura: il sostrato fisi-co e psicologico della prassi di scrive-re e di leggere, di creare e di alimen-tare continuamente la genesi infinita di poetiche nuove.

Ma questa ricerca non sempre con-duce a risultati intelligibili, neanche per lo stesso autore di scritti.

Per esempio Borges sostiene che "non sapendo interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere il vero poeta crea, poi comprende...qualche volta”.

A questo punto, si pone la questione se sia o meno determinante per uno scrittore il completo riconoscimento della propria poetica. Probabilmen-te, no.

Il processo di accertamento della poetica, o meglio, dell’insieme di poetiche che determinano in uno

di Lucio Spampinato

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La pausa di Fabio De Santis

L’aria mattutina si era fatta già pesante in classe. Fabrizi, come gli altri, era andato in confusione con Verga. La poe-tica dei vinti aveva gettato in crisi l’intera classe di tredi-cenni. Angelo Fabrizi masticava parole in una bocca impa-stata, con le mani poggiate sulla cattedra fissava in alto, ma lo spirito di Giovanni Verga sembrava proprio restio ad illuminare il ragazzino rossiccio.

L’interesse di Edoardo scivolò sotto la cattedra impiallac-ciata, la testa girovagava quasi come un malore: “scusate ragazzi” disse, “facciamo pau-sa.” Fabrizi rimase freddo, sorpreso, sospeso sulla barca di ‘Ntoni; guardava il volto spossato di Edoardo che mas-saggiava le tempie con le dita, si girò verso il ragazzo e disse: “sei e mezzo.” Fabrizi annuì timidamente come avesse dovuto acconsentire. Il sei e mezzo fu una sorsata d’acqua insperata, beatifican-te però e beato remò verso il banco.

Il fornello lo aveva sistema-to bene nel borsone, insieme alla piccola bombola semi-vuota, reduce dall’ultimo campeggio con Pepa. Lo ave-vano usato molto; su quello stesso fornello Edoardo aveva imparato a cucinare la paella, sotto la dolce supervisione della valenciana. Pepa non amava le tisane, specie ad agosto; preferiva il caffè. Edoardo invece aveva l’abitudine di tenere sempre il bricco con l’acqua sul fornello.

Pensava alla vacanza, Edoardo, mentre tirava fuori gli arnesi dal borsone e li sistemava comodamente. Lo aveva-no notato quel lunedì mattina entrare a scuola con il fardel-lo. Lo avevano salutato i colleghi. Rispose a tutti con genti-lezza. Ninetta gli sorrise anche. Lo avevano notato anche gli alunni, ma preventivamente avevano evitato di ridere, come avrebbero voluto: era giorno di interrogazioni quel-lo. Il banco in prima fila di Mauri e Iacobelli entrambi,

provvidenzialmente, assenti, fu il piano ideale su cui predi-sporre tutto. Antonella Mauri sarebbe potuta essere l’unica a sostenere un buon colloquio su Verga. Questo lo pensò Edoardo e sorrise, ma fu un lampo, una leggera distrazio-ne. Si concentrò sulle mani, ma non del tutto: erano ope-razioni che aveva fatto molte volte in tanti anni di campeg-gio. Pensava, con rancore, all’ignobile iniziativa del profes-sor Francesconi, preside, di acquistare per la scuola una macchina per il caffè a gettoni, senza consultare minima-

mente gli altri docenti. Od-dio, qualche fiancheggiatore occulto era ipotizzabile. Due o tre nomi circolavano per i corridoi. Ma non era la pre-senza di quell’aggeggio, che sputava caffè equivoco, ad innervosire Edoardo; il ran-core era dovuto alla contem-poranea decisione di France-sconi di far sparire il fornello della scuola dalla sala dei bi-delli. I docenti avevano per-duto la possibilità di bersi un fumante caffè a metà mattina-ta. A Ninetta era stata tolta la mansione di preparare il caf-fè; ora il suo ruolo era solo quello della pulizia delle aule. Un ruolo oscuro e senza gra-tificazione, dopo che per anni si era aggirata per le aule consegnando l’ottimo caffè; i docenti lo raccoglievano dalle sue mani con preziosa caute-la, rinfrancando il suo lavoro

con un sorriso. Certo non mancavano gli arroganti, la cui scortesia era il modo per evidenziare la superiorità del ruo-lo di professore su quello comune di bidella. Nel mondo ve ne erano a migliaia di professori così. In quell’istituto, pen-sandoci, ad Edoardo venivano in mente due o tre nomi.

Il professor Francesconi l’aveva fatta grossa; Edoardo non si era perso d’animo. Osservava la macchinetta sul fornel-lo: la fiamma la solleticava. Solitamente umile, quella mat-tina troneggiava sul banco della Mauri, sotto gli occhi di diciannove ragazzini inaspettatamente in silenzio. Sperava-

Prosa

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in altro modo il vecchio problema dell’inscindibilità lin-guaggio scienza e mito, costanti che la finalità del nume-ro quasimodiano (negli esiti di quei “valori simbolici” intuiti per Cassirer da C. Segre, in Semiotica filologica, Torino 1979, p. 76) tende a superare. Compendio degli studi precedentemente compiuti dal filosofo tedesco, risulta il lavoro Linguaggio e mito, Milano 1961.

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prendere consistenza” (M. Tondo, op. cit., pp. 33s).

6 “ruota dell’imperfetto congegno della società uma-na”, in merito alla “ruota” perfettibile del pianeta in visione in Al padre (TI), è quanto riporta C.Salinari C.Ricci, Storia della letteratura italiana, Bari 1978, p. 1310.

7 Cfr. R.Aymone, Quasimodo: le curve della ‘ pa-rola’, in Poeti ermetici meridionali, op. cit.

Parola come “dono tremendo” sperimentato “assiduamente” dal poeta, a verificarne “tristezza”. (L.Reina, Il viaggio della Démetra. Elegismo regres-sivo ed ansia di modernità negli scrittori meridionali del novecento, Napoli 1982, pp. 196s).

Per C.Di Girolamo, la “religione della parola…di Quasimodo” si esprime attraverso un “verso libe-ro…poco meno che un manifesto poetico” in durata “fino al 1936 circa”. (Teoria e prassi della versificazione, Bologna 1983, pp. 185s).

8 Cfr. O.Macrì, La poesia di Quasimodo, Palermo 1986.

9 Negli innumerevoli ver-santi della figura “spazio”, emerge l’esigenza del do-mandarsi di “spazio” e di “spazio poetico”; e l’affer-marsi, quindi, dell’esistenza di uno “spazio grammatica-le” inteso né come “luogo” né come “tempo”, ma quale tematica variata dalla spa-zialità non riconducibile a un “dove” e a un “quando”. (S.Ramat, Storia della poe-sia italiana del novecento, Milano 1976, pp. 281 ss. che riassume probabilmente M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino 1967).

10 Della valenza linguistica del numero quale possibili-tà di discernimento e sintesi del pensiero, se ne occupò Cassirer, che dalla sua ope-ra più nota La filosofia delle forme simboliche passò successivamente a ritrattare

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o quarta fascia come quella “scala” celeste, o quelle “cesure” lacerate? Inquadrabili, in opposto, risulteran-no “pietre”, “tufo”, “cemento”, ovvero “materiale” d’u-so che necessitano di “segni” di mediazione: “struttura”, “trama”, per essere trattati dagli “strumenti della Men-te”, “metro”, “moduli e schede”, e, dunque, sviscerati da molti componimenti poetici. In vana limitazione, se ne cercassimo stime per una comprensione relativa al funzionamento di singole poesie, escludendo l’ipotesi di un loro convergere profondo (nei tratti emblematici del “muro” alzato dai muratori, dell’“asino –che- porta macigni” Nell’isola,) alla realizzazione di un unico si-gnificato, di un’unica costruzione: la poesia geometrica di Salvatore Quasimodo.

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1 Circa un breve inventario su figure significative o meno, ritroviamo: “altezza”, “circolare”, “diagramma”, “geometria”, “meridiani”, “orbite”, “punto”, “rette”, “simmetrica”, “triangoli”, “vertice”, “volume”, “voluta”. Poi: “chino”, “conchiglie”, “croce”, “dieci”, “equilibrare”, “gorghi”, “globi”, “mezzelune”, “onda”, “ondulato”, “parabola”, “rete”, “rotondo”, “sinuoso”, “superficie”, “trapezio”. Quindi: “mosaico”, “figura”, “piani”, “vetri”, “acquario”, “fase”, “dondolano”, “risale”, “risorgono”, “immagine”, “icona”, “schermo”, “mitria”, “corona”, “giostre”, “rotea”, “avvolgimenti”, “filo”, “lame”, “sghembi”, “nodi”, “catena”, “incatena”.

2 ovvero, l’immediato peggiorarsi “in bel canto, in una messa in scena di armonie, di levigatezze” (R:Aymone, L’età delle rose. Note e letture di poesia, Napoli 1982, p.11).

3 Nel risultato ancora di “fredda figurazione”, in riferi-mento all’Angelo di Oboe sommerso. (M.Tondo, Sal-vatore Quasimodo, Milano 1970, p. 39).

4 Nei percorsi di una poesia ermetica del mezzogiorno, con differenti caratterizzazioni da poeta a poeta, l’anti-tesi reale-ideale per una condizione corporea proiettata in una dimensione virtuale, fenomizza a rimedio possi-bile la necessità vitale del sogno elemento di mediazio-ne col mondo pitagorico insieme al “furore dell’esi-stenza” per l’Ungaretti di La rosa di Pesto. (In epoca più moderna il sud aggiungerà a Pitagora i nomi di Te-lesio, Campanella e Bruno nella tesi illustrata dal Macrì di Realtà del simbolo per discussione sugli ermetici del sud, con qualche aggiunta ulteriore di nomi (Comi…)

fuori dalla nota cinquina. Con diverse sfumature, Ramat in L’Ermetismo, riprende il motivo esposto da Macrì. S’includa ancora per questo tema l’apporto dato da Gat-to nei lumi di Cartesio, sulle identiche intuizioni di De Martino attraverso il suo Sud e magia; contributo ai mo-derni da parte del poeta salernitano è ancora in Risposta, Un poeta e la sua città. Pertinenti le riflessioni di A.Bocelli con opportune precisazioni in Poesie di Comi, Sonetti e poesie. Ma si veda complessivamente R.Aymone, Vittorio Bodini, Poesia e poetica del Sud, Salerno 1980, in particolare pp. 31-32, 42-47).

Per aspetti pitagorici in genere, dello stesso autore si rimanda a Filosofia ed estetica del paesaggio in Bodini, in Poeti ermetici meridionali, Salerno 1981. I passaggi d’e-quazione pianura-cielo si confermano nella prosa del poeta salentino Pitagora è uno delle nostre parti, in “La Fiera Letteraria”, 1952. Il Sinisgalli della Vigna vecchia, auspica devastazioni secondo tempeste e alluvioni: “limo sui vecchi triangoli”; rimeditando l’ordine delle cose su un preesistente caos della natura: il disegno (di Pitagora) di un “triangolo…scongiuro…ai fermenti della materia troppo viva” nei Triangoli, in L’età della luna. Conviven-za lineare tra forme di vita e antichi morti nel pieno del “dominio pitagorico” viene espressa in L’odor moro. Dai Versi d’oro di Pitagora, infine, Sinisgalli rimodula il sen-so della condizione umana come “fragili cilindri”, Cilin-dri pitagorici, appunto, nell’Indovino.

5 “neoclassica inclinazione per le ellissi geometriche e melodiche” R.Aymone, Note di metodo e proposte di analisi, in Poeti ermetici meridionali, op. cit., p. 19. O ancora “ellissi” che rimandano a immagini insufficienti “a

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no che la macchinetta non smettesse mai di ammaliare il professore, così da accantonare definitivamente Verga per quella lezione. L’esiguità della fiamma attardava l’alchimia della polvere in liquido bollente, e questo era un bene per il palato, pensava Edoardo, ma non s’attardava tanto da sod-disfare allo stesso modo le aspettative della classe.

Compressa, sotto la concentrata pressione dei pensieri di tutti, la macchinetta emise un lieve rantolo: era l’inizio di una progressiva enfasi che avrebbe liberato una tensione che ormai gravava da troppi minuti. Quel movimento sonoro riportò Edoardo in campeggio, ad una notte d’amore con Pepa; la lunga scura gamba di lei urtò il fornello, ancora caldo dell’ultimo caffè, rovesciandolo; risero ma non frena-rono la voglia d’amarsi. Un fremito prima dello scroscio del liquido nel bacino caldo: trattenne la bevanda di un nero sempre più fitto. Dopo l’amplesso Edoardo cosparse la piaga, formatasi sulla gamba, di olio d’oliva crudo. Or-mai la macchinetta era piena fino all’orlo.

Il caffè crollò nella tazzina rilasciando fumo e aroma. L’o-dore prese il sopravvento sui pensieri. Edoardo versò il cucchiaino di zucchero e si sedette dietro la cattedra. Gira-va il caffè e osservava il fumo salire davanti ai suoi occhi. L’aula era in silenzio, eccetto un mormorio provenire dal fondo. Era Fabrizi. Edoardo si pentì di avergli rilasciato un sei e mezzo. Il ragazzo aveva trascritto il voto decine di volte su tutto il banco con una penna verde; non aveva mai avuto più di cinque dal professore.

Edoardo lanciò un’occhiata sul banco gravato dal peso degli strumenti da campeggio; pensò che avrebbe dovuto aspettare il raffreddarsi del fornello prima di rimettere l’at-trezzatura in borsa. Pepa non ebbe più fastidio dopo il mas-saggio a base di olio d’oliva. Fecero l’amore ancora quella notte. Lo zucchero si era sciolto bene nella tazza bollente. La professoressa Simoni si fermò davanti alla porta della III E e batté due volte con il pugno. Edoardo sbuffò. Il fumo fece delle piroette davanti al suo viso poi continuò ad ar-rampicarsi dalla tazza verso il soffitto. “Sì?” disse. La profes-soressa con entusiasmo aprì la porta; la sua voce entrò dopo l’intenso seno e chiese: “Professor Costanzi: ha per caso del latte?!”

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La sera scese d’improvviso a posarsi sui tetti e i comigno-li, mentre un esercito di stelle luminose si profilava sempre più nitidamente nella concavità del cielo sovrastante.

I corpi celesti parevano soldati d’oro che a mano a mano venivano fuori, severi e maestosi, da una nebbia di luce: ulti-mo bagliore agonizzante di un altro giorno deceduto. L’oscu-rità smorzò del tutto i vivaci colori dell’enorme tavolozza rappresentata dalla distesa di terrazzi, tetti, piante da fiori e multicolori indumenti appesi ad asciugare.

Le stelle, adesso, avevano ripreso il loro posto consueto: aspettavano qualcosa… Si poteva paragonarle ai pastori di Betlemme durante le ore che precedettero la nascita di Ge-sù; oppure ai sudditi di una ammaliante regina che attendeva-no di presentarsi al suo cospetto.

No! Aspettavano la Luna che, dopo un po’, sorse quasi piena. E come lo spettro di un uomo, dicono, torni dal pas-sato a farne sentire la voce o a mostrarne il sembiante, così il fantasma del sole rifletteva sul satellite una opaca luce giallo-gnola, pallido ricordo del giorno trascorso.

Tutto un mondo di brusii e furtivi movimenti regnava ora incontrastato in cima ai tetti di Roma.

Quasi ad imitare la volta stellata, luci al neon e vecchie lampadine comparivano all’improvviso dal buio ad illuminare le finestre delle soffitte, dietro le quali si intuiva la rappre-sentazione dell’ultimo atto del dramma quotidiano di molte vite. E della vita che evaporava da quelle case se ne poteva quasi sentire il profumo. Quella fragranza così vivida e tragi-ca dovette pervenire anche sul piccolo e scalcinato terrazzo dove abitava il giovane Ingo Wurzburg, rifugiatosi nella capi-tale nei primi anni ottanta per sfuggire al regime repressivo dell’ex Germania Democratica.

Ingo era un ragazzone della provincia e come molti ragazzi che vengono dalla periferia di una nazione preservava certi modi di fare che tradivano in lui semplicità d’animo e senso del sacrificio.

Era studente di violoncello al Conservatorio e si mantene-va agli studi suonando il pianoforte in alcuni locali. Nono-stante una impostazione assai classica, era versatile ed appas-sionato di jazz; genere di cui carpiva in fretta le scale e le armonie, per poi proporle ai suoi spettatori. Ingo teneva, inoltre, lezioni di tedesco nelle case degli allievi.

Quella sera era particolarmente eccitato perché dalle sue attività aveva raccolto una cospicua somma di danaro; preso com’era dai mille progetti riguardanti quei soldi, non si ac-

corse subito, nel salire a casa, della lettera nella sua cassetta postale. Tuttavia, giunto sull’uscio, la difficoltosa serratura lo costrinse ad uscire dal lieve stato di ebbrezza causato dalla gioia di quel momento per impegnarlo in un gioco di ripetute scosse alla porta finché la stessa non si aprì. Quel-l’attimo di reale concretezza gli fece balzare subito in men-te di avere intravisto con la coda dell’occhio qualcosa nella cassetta.

Di corsa si precipitò giù all’entrata ed altrettanto veloce-mente tornò su, ancor più traboccante di felicità. Gli scri-veva Regine, la sua ragazza. Era una lettera piena d’amore e di speranze per il futuro.

Ingo la rilesse molte volte e la baciò, cercando di ritrova-re in essa il profumo della propria terra che ora immagina-va ancora coperta dalla neve. La notte gli sembrò un ladro che spiava dietro ai vetri e, istintivamente, accostò la tendi-na lisa, quasi paventasse che l’oscurità potesse strappargli di mano la lettera e con essa un pezzo amato della propria esistenza.

Fantasticò. La città era un veliero che navigava cauta-mente, senza virate. Ingo canticchiò una canzone tedesca e cambiò l’acqua ai fiori che aveva ricevuto in regalo il gior-no prima per il suo compleanno dall’anziana signora che gli locava la stanza.

Per certi versi quella donna gli ricordava sua madre e il rimorso di aver lasciato i suoi in balìa delle pressioni più o meno fastidiose delle autorità d’improvviso lo colse. Ma si rasserenò presto, pensando che ora tutto a casa andava per il verso giusto. Fuori, il mondo emanava gli ultimi ruggiti e dopo aver mangiato qualcosa, Ingo andò a dormire.

Ma il sonno non gli fu amico, anzi lo consegnò nelle grinfie di un incubo caotico; quasi si trattasse del sogno agitato di un attore che sovrappone e confonde parti di recitazione di diverse opere teatrali. Si alzò di scatto a se-dere sul letto e si trovò faccia a faccia con il pallore lunare. Alcuni cani abbaiavano in lontananza e Roma dormiva leg-gera al secolare sciabordìo delle acque del Tevere.

Ingo pensò che la cena lo avesse disturbato ma la spiega-zione non placò affatto la sua inquietudine, che sapeva di beffa perpetrata alle sue spalle, di tradimento consumato a sua insaputa. I moti dell’animo sono avversari assai subdoli nelle ore notturne.

Si girò e rigirò continuamente, ma solo intorno alle sei del mattino trovò uno scampolo di pace che gli consentì di

Una notte di Luigi Spampinato

Prosa

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La geometria attraversa in maniera fondamentale la poesia di Quasimodo, e si manifesta su tre o quattro livelli1 essen-ziali. E quando il segnale geometrico risulta farsi sempre più debole scomparendo del tutto, infine, nella fruizione del singolo termine, interviene una geometria per struttura globale, decorativa2 (può non prescindere da singole o più denominazioni forti o meno forti) che trova sue variabili ad esempio nella resa di figure di danza e di zodiaco. La fonta-na barocca dei ritorni con rocce e tritoni rivela di una stati-ca raffreddata3 materia in opposto alle mobili trasparenze che s’innestano nei riflessi della luce, per estensione alla sinu-soide di “suoni e amore”, alle cinematiche frequenti oscilla-zioni di “ali” “strade” e “sole di crisalide”. Si può azzardare, dunque, della difficoltà nel rinvenire un luogo della men-zionata poesia libero da quest’-elemento. Le suddette presen-ze si rivelano per progetto nei rimanenti ermetici del sud, a recupero del vissuto4 come accennammo in un precedente lavoro; casuali o causali in altre epoche della letteratura, deve essere dimostrato. Ritornando alle figure principali del tipo “arco”, “centro”, “cerchio”, “cono”, “ellisse”5, “raggio”, “spirale”, e secondarie (geometrizzanti!) come “arcobaleno”, “disco”, “imbuto”, “ruota”6 , “vortice”, in diversi casi vengono elaborate in chiave fisica: cavalli “obliqui”; oppure astratta: “oblique” tristezze. Si pensi ancora ai “dadi d’amore” lanciati dai fra-telli Cervi. Ricordiamo in ultimo, a rafforzare la tesi di queste ricorrenti dicotomie, il materiale “arco di rose” e l’opposto senso tragico dell’“arco continuo” della morte. La duttilità della parola7 nel modellarsi in “curve”, rimanda al condizionamento dell’ambiente esterno da “cieli e colli” a particolari femminili plasmati in curvature, come allusio-ne a una rappresentazione fisica della parola stessa, sua conquista erotica e conseguenze di seduzione: “ma se ti

prendo, ecco:/parola tu pure mi sei e tristezza.” (Parola). Macrì, si è interessato a una classificazione delle figure geo-metriche secondo schemi8; la circolarità di norma è perva-sa da una sostenuta dinamicità e drammaticità: il “girasole” che volge a ponente, il minuscolo “disco di dolore”. Le linee possono assumere dei comportamenti autonomi, “Linee verticali”, “profili” dritti di una personale storia, oppure interessare la circolarità determinandone all’inter-no grovigli di più effetti: il “fiore” (figura circolare) “tagliato” (l’azione della linea) “dal vento”. Il “centro” ten-

tato dai balestrieri con la “freccia”. La trascendenza è identificabile nell’estensione dello “spazio”9 configurato esteriormente, interiormente e temporalmente: “dei colli”, “nel cuore”, “in un tempo”. Ribadita nella “forma” che defi-nisce una generica situazione temporale informe, ma ricosti-tuita “nella memoria”; riformu-lata in “apparenze” per la di-mensione del futuro. Rinveni-bile ancora per “specchi” men-tali, “videi” dell’esistenza e “quadranti” per età infantili. Da porre in rilievo è il rapporto intrinseco tra la “misura” e il “numero”10; “misura”, quale

“testa di serie” in esso, che intanto viene enunciata in vari modi: modello di riferimento è la materna “misura d’amo-re” che ne registra le altre, ovvero per citarne alcune, la negata “misura di bellezza” della Sironi, la “misura d’armi” umana, quelle “astratte”del mondo. Al “numero”, per cui si rapporta la “sillaba” anche “cellula” di feconda oscurità, ne è altra radice di base il “segno”, dorato nell’ascolto della ferina costellazione di Delfica. Il dato numerico si riparti-sce in valenza morale, “somma di un tempo”, “Dare e ave-re”, titolo di raccolta, “cifre dei misteri”; e in una più speci-fica connotazione aritmetica: “domani”, “da un minuto all’altro”, “uno per uno”. E infine, cosa aggiungere di ulte-riori figure di difficili collocazione in esatti “limiti” di terza

Figure geometriche nella poesia di Quasimodo

di Vito Cerullo

Saggistica

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i tumulti dei ciompi del liceo,

e tutti presi per incantamento

sul pattino del lido:

tanto gentile giovane donna per me.

Oggi vivo il ventesimo,

medaglia a doppio esergo:

pogrom e rock and roll,

lager e luna,

Berlino e Sarajevo.

Chiedo,

cerco silenzio

nella vita che viene

raccolgo in un profumo di clorofilla,

nel palmo del giorno,

l’attimo pieno

che è sempre più mio.

Metamorfosi di Venerando Fregellese

Poesia Metamorfosi: oltre le mie età.

Sembra un minuto fa: nascita e vita!

Uomo e bambino, paura della notte

nel chiarore oscuro del principio.

Mille folgorazioni, gioia e declino

negli ampi spazi del restare solo,

nei giardini collegiali,

al tempo della pietra

dei miei quattro anni.

Le prime conoscenze, i rudimenti,

il bricolage elettrotecnico

tardoimperiale:

la scoperta della calamita.

Quando un grano di sale

narcotizzava una carie dolente.

Ma deposto sul cuore,

nessun cloruro placa la sete

d’amore.

E i cancelli serrati

mi respingono ancora

un’avemaria nelle ossa,

nel medioevo dei sette.

E il “tu devi” opprimeva gli anni migliori

bruciandoli innocenti

su roghi di inquisizione;

ricacciando ragione finalmente ottimista

negli ipogei disperati del mai più.

Poi, d’improvviso, un’ombra di rinascenza,

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sonnecchiare un poco prima della sveglia. Le prime avan-guardie di luce vennero a liberarlo definitivamente dalla tormentosa danza col suo cuore in tumulto. Mentre si ra-deva si interrogava intorno alle possibili cause di quella sua condizione; poi, quasi presentisse di dover competere con una agghiacciante risposta, cominciò a fischiettare la parti-tura per violoncello che di lì a poco avrebbe dovuto esegui-re al Conservatorio.

Per strada si lasciò sfiorare dalla gente che cominciava ad animare il mattino, si lasciò accarezzare dagli odori del mercatino rionale sotto casa sua, fu inghiottito dai vicoli e, finalmente, fu solo musica. Eseguì con sorprendente bra-vura un concerto di Vivaldi e dopo le prime note gli si schiuse la porta di teneri ricordi legati a Regine.

La rivide sul manubrio della sua bicicletta in un pomerig-gio di fine giugno, quando con lei era andato a fare una scampagnata a una ventina di chilometri dal borgo. Erano su un prato ai margini del fiume. La musica donò a quelle immagini la freschezza del presente, la fragranza di molteplici profumi che ave-vano impressionato la sua memoria.

Soprattutto, il profumo di lei che proprio in quel pome-riggio si era concessa al suo giovane impeto amoroso. Poi, un nodo alla gola gene-rato dall’emozione di un’ar-monia particolarmente deli-cata lo restituì al presente.

La giornata trascorse ugua-le alle altre ma fu priva di quella gaiezza di fondo che Ingo aveva preservato sin dal suo arrivo in città. Quella notte gli aveva rubato qualcosa, pur non sapendo dire cosa. Dopo il Conservatorio fece una fugace apparizione alla trattoria che era solito frequentare, ma neanche la consueta avvenenza della titolare riuscì quel giorno a trattenerlo più di tanto.

Nel pomeriggio non avrebbe dovuto tenere lezioni e decise di smaltire quel suo senso di insoddisfazione con una lunga passeggiata, non importava in quale direzione. Tutta-via, come d’abitudine, imboccò i gomitoli di vie seconda-rie. Ingo non amava molto le strade principali e troppo affollate e Trastevere faceva al caso suo.

Viveva in una dimensione particolare. La sua esistenza somigliava alla pace che regna nelle opache e silenziose biblioteche di un paese anglosassone; di quelle che danno su verdi prati con aiuole fiorite e curate, come figlie da sposare, da meticolosi e cordiali giardinieri.

La sua sviscerata passione per l’Italia e per la sua storia lo portò a fermarsi di continuo davanti ad archi, portali e cor-tili. Ogni particolare lo stimolava e lo induceva a riflessioni sugli stili architettonici susseguitisi su questo o quell’edifi-cio. Entrò anche in una chiesa piccola ma sfarzosa, dove gli parve di riudire una messa cantata nella notte dell’ultimo Natale trascorso a casa.

Teneramente gli ritornò alla memoria la sua Regine, ma vestita sempre come quel pomeriggio di giugno. Assorto nel ricordo la chiamò ad alta voce. Un’anziana donna gli mormorò qualcosa in romanesco, poi tornò a sgranare il suo rosario consumato dalle dita e dalla preghiera.

Ingo si riebbe e uscì in fretta dalla chiesa, segnandosi meccanicamente. Si era all’inizio della primavera e alle diciannove la luce cominciò a congedarsi ancora una volta

dai vicoli e dalle piazzette di quell’angolo della capitale.

Ingo, che non sapeva quanto avesse camminato sino ad allora, decise di far ritorno a casa e nel far ciò passò per il locale dove nei giorni dispari della settimana si esibiva al piano. Vi trovò alcuni amici che lo accolsero con gioia e con la consueta ammirazione. Lo convinsero a sedersi al pianoforte mentre l’odore dei prodotti usati per lavare il pavimento lasciava già il po-sto al fumo delle sigarette e ai miasmi della cucina. Ingo lasciò scivolare tra le sue dita qualche brano di Chopin, poi trovò una scusa e gentilmente si accomiatò dagli amici.

Uscito fuori la sera parve a tratti pedinarlo e lo schiaffeg-giò ripetutamente con improvvise raffiche di vento, prelu-dio sicuro ad un violento temporale. Le prime grandi goc-ce di pioggia lo mancarono d’un soffio e gli sembrò di esse-re sfuggito alle schegge di una granata. Nel portone di casa tutto gli pareva tetro e triste: non ebbe neanche voglia di controllare se vi fosse posta.

Dopo aver fatto le scale con indolenza, aprì la porta della sua stanza, questa volta senza difficoltà, e corse a stendersi sul letto. Scoppiò inspiegabilmente in un pianto che pareva venire da lontano: sapeva di birra e neve gelida sul viso e sulle mani.

Ingo non capiva cosa si fosse impadronito di lui già dalla notte precedente. Sentiva solo un gran freddo nell’anima, un gran vuoto nella sua esistenza. Qualcosa dovette sugge-rirgli di andare a guardare ancora nella cassetta postale e

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Page 7: "Nugae" n.2

prima che il pensiero si facesse azione Ingo era già per via. Aguzzò avidamente la vista e nella fioca luce dell’an-drone biancheggiò al suo sguardo una lettera.

Non era Regine, la calligrafia era diversa, ma veniva dal suo paese. Scriveva la madre della ragazza e lo mette-va al corrente di un terribile segreto: Regine era ammala-ta di leucemia e ne avrebbe avuto ancora per poco. Quel-le laconiche e crude righe equivalsero ad una sprangata assestata crudelmente dal destino.

La madre di Regine spiegò anche che la figlia aveva voluto che lui non venisse a conoscenza della malattia, nella speranza che preservasse una gioiosa immagine di lei quanto più a lungo possibile. Il ragazzo si lasciò cadere sul letto e pensò subito a come Regine avesse ben dissimula-to il suo stato di salute quando l’aveva sentita al telefono alcuni giorni prima. Le fu istintivamente riconoscente, ma provò anche rabbia per non poterle stare vicino.

Sapeva di dover fare qualcosa, ma gli stimoli e il corag-gio di continuare a vivere erano sordi agli appelli della ragione. Pianse e pensò a lei e al fatto che forse non l’a-vrebbe mai più rivista. Presto qualcuno bussò alla porta: era la padrona di casa che lo pregava di correre giù da lei per rispondere ad una telefonata dalla Germania.

Raccolse rapidamente le residue energie e si precipitò verso l’apparecchio telefonico. Questa volta era sua ma-dre che gli disse di aver chiamato altre due volte nella giornata e di non essere riuscita a rintracciarlo.

Poi, col pianto nelle parole, comunicò a Ingo che la notte precedente Regine era spirata. Tutto si offuscò, la voce di sua madre parve giungergli realmente dal suo paese, e non attraverso il telefono, tanto la sentiva lonta-na e irreale.

Non seppe cosa rispondere alla madre che lo scongiu-rava di non tornare in patria, vista la pericolosità effettiva che sarebbe derivata per lui in caso di ritorno. Ingo recu-però la sua lucidità e disse alla madre di porgere le sue condoglianze alla famiglia di Regine, riservandosi di farlo di persona al telefono più tardi.

La padrona di casa gli mostrò tutto il suo dispiacere quando il giovane le riferì la cattiva notizia. Poi Ingo si ritirò nella sua stanza. D’un tratto capì il senso della tor-mentata notte precedente. Il suo spirito ne fu quasi tran-quillizzato. Era come se la tensione per quella notte e quel giorno convulsi si fosse scaricata: ora tutto rientrava nella natura delle cose. E fu quasi contento quando, al salire di un mare di lacrime ai suoi occhi, realizzò di esse-re stato in quel modo vicino a Regine che provava il suo ultimo dolore.

Poté pensare a lei. La condusse idealmente per i suoi interni sentieri, suonò per lei ancora una volta il violon-cello, la baciò e la strinse a sé nei luoghi della loro adole-scenza. La sua immagine compì il miracolo di sostenerlo

...citando…

“ - Ah, caro signore, sapesse com’è faticoso pensare. Da come la vedo vivere, mi sa che lei questo tormento non lo conosca. Ma io, caro signore, le ripeto, non smetto un minuto di far funzionare la mia materia grigia. Neanche quando vado al gabinetto. Lei non può immagi-nare. Roba da non credere.

- E sogna? - chiese Cidrolin.

- Mai. Non potrei. Bisogna pur che mi riposi.

- Io invece sogno molto, - disse Cidrolin.—Sognare è molto interessante.”

da “I fiori blu” di Raymond Queneau nella traduzione di Italo Calvino.

in quella condizione irreale molto a lungo, tanto che Ingo non si accorse affatto del trascorrere della notte dopo che le sue fantasticherie si fusero ad un sonno pro-fondo.

Roma venne a svegliarlo solo a giorno fatto e lo trovò triste ma rassegnato. Regine era con lui, nei suoi pensie-ri, molto più di prima: ora che il suo corpo non trattene-va più la sua anima a tutti quei chilometri di distanza. Regine viveva felice in lui e gli sorrideva, incoraggiando-lo negli impegni di studio e di lavoro. Era sempre con lui e gli sussurrava di continuare a vivere anche per lei, per quella ragazza che in una notte di primavera accostò gli scuri dei suoi occhi e divenne un angelo.

***

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***

Vino, argentino impilato in bacheca.

Amici bevono. Portano,

partono. e Valeria è volata

giù dal ponte, alberi-abbracci

di stelle cadenti, caduti

i tuoi pochi anni

odori di cani randagi, cuori

ritoccati di vita, rintoccano

di morte.

Lucciole nel fondo del mare barche

scivolano su fiumi di

coscienze arraspate portano

doni di pesci vivi – a morire

per vivere alcuno. Io qui

vaneggio.

Antonia di Dario Carmen a Carmen Lattarulo Mi desterò presto per seguirti dall’alba sino al limite della vita…la porta fiammante dell’eternità. Ricorda, l’hai promesso; a quello stendersi di striscia arrossata e ferma eternamente, io le ho fatto segno di attenderci. Ora un’altra attesa guarda foglie d’alberi discendere lungo il volto di un cielo, e un cuore fiore piegato anela ai declivi di quei capelli per risalirvi. Fiumi di risveglio muovono colore attraverso ciglia, verso il nascere di un sorriso. La pianta felice che tenta l’occhio di quel cielo è una voglia d’aderirvi di cose terrestri, l’avvicinarsi estremo. Poi più nulla resta in visione del giorno, più nulla è possibile del mondo, se giungi improvvisamente alla sera a narrare di te, di tua veste. Poi resta

una costellazione di sogni. Io prego che un sogno non aggiunga tasselli a una tua immagine. In un altro, il mare sommerge memorie: ed io esito nel dire di te, del tuo nome che diviene eco riflesso d’acquamarina dentro dimensioni senza tempo. E sento ancora di te svelata in sembianza di brezza e di pianeti. Per questi occhi aperti, stasera, per quest’ultimo sogno che si rinnova fuori da crisalide di sonno, domani, sarà testimonianza decisiva del sole in un amen di luce su te: donna o angelo, Carmen?

Vito Cerullo

Autori vari Poesia

...aforistica mente…

“L’approvazione degli altri è uno stimolan-te, dal quale talvolta è bene diffidare.”

Paul Cezanne

“Molti falliscono per aver rischiato troppo nella prova della vita. Essersi rovinato con la poesia è un onore.”

Oscar Wilde

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Palomma

Tu sì ‘na palomma spersa

pe’ st’aria pesante

ca nun pare cchiù primmavera!..

I’ songo ‘na fronna

ca vola po’ viento

e che sta pe’ cade’.

E chi se chiagne

e llacreme e st’ammore

s’addorme tutte e sere

miezzo e spine,

ma chi se vo’ scurda’

e ‘na passione,

ca s’arricorde

‘a meglia gioventù,

resta pe’ sempe

dinto ‘a ‘na caiola

e nun po’ vulà cchiù!

Marì

Marì,

quanno penso che oggi o dimani

putimmo murì,

‘na pena ‘into ‘o core

me sento e piglià,

chissà comme sarà l’aldilà

e si putimmo parlà,

ma si là nce putimmo capì,

vale ‘a pena e murì!

Desiderio e te

Comme sparita ‘na rosa,

comme s’appiccia o cielo

chino e’ fuoco,

dinto a stu core ‘nfuso

e lacrime e passione,

sta o desiderio e te.

E vaco camminanno

Pe’ ‘na via

addò sta e casa ‘na malinconia

ca è sulamente ‘a mia.

E busso ‘a ‘nu purtono,

sempe chiuso,

cu ‘na speranza ancora

e cu nu desiderio ca nun more:

o desiderio e te!

Na’ regina!

Ncoppa ‘a sta loggia,

addò piglio ‘o frisco,

sola, ‘a sera,

te penso stritto a me.

Ma tu nun vuò sapé

ca sta vita è niente senza e te!

Nun me fa chiagnere,

te prego…

famme sentì felice,

si me vase,

me faie sentì regina,

si m’abbracci,

me faie sentì bambina,

si me dice amore,

me faie felice o core!

Silloge “ ‘A Palomma “ di Lucia Rulli Poesia

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Monumento ai rialzati di Michele Nigro

(dal diario personale di un disertore: venerdì 4 Settembre 1965)

Forse per seguire il macabro gusto di un’epoca trascorsa al suono dei tamburi marziali; forse per alimentare quel sen-timento patriottico a cui soldati e generali - spesso e volen-tieri con la silenziosa e comprensiva latitanza spirituale dei primi - fanno riferimento nei loro alzabandiera. Forse, ancora, per nutrire le storie paesane di eroici ritorni da russie improbabili o per far versare lacrime a mia zia che si commuove sentendo le bande militari. Forse per tutti que-sti motivi o per nessuno di essi, si ergono e sopravvivono al tempo, nelle distratte piazze trafficate delle nostre nevroti-che città o nei piccoli paesi tra un gruppo di vecchietti nostalgici e una fresca fon-tana, si ergono – dicevo – i monumenti ai caduti.

Simboli eterni di un senso del dovere strappato con melliflua destrezza da parte di quei giocolieri tanto bravi a farci credere che il nemico andava battuto non tanto perché anch’esso simbolo controlaterale di un inganno perpetrato in nome del potere economi-co, ma in quanto potenzia-le stupratore di mogli e squartatore di pargoli.

Il nemico: anch’esso spinto verso di noi come quando all’i-nizio di una rissa nessuno prende l’iniziativa per dare il primo colpo e la folla alle spalle spinge i contendenti l’uno verso l’altro perché ha già puntato una cifra sul presunto vincitore e vuole portare i soldi a casa.

I politici scommettono, i generali lanciano i dadi e i soldati pregano affinché esca il numero giusto!

Nelle nostre piazze… Sotto la pioggia e la neve; con il sole e il vento un soldato di bronzo, invecchiato dall’acqua, dal tempo e da colombi irriverenti, grida eternamente l’ultimo assalto scultoreo verso un nemico che in realtà non vede ma che è costretto a vedere facendosi spazio nella mente tra i volti di mamme e sorelle o di figli “sentiti” nascere e

Prosa mai visti… Occhi di bronzo e senza pupille, persi tra l’edi-cola e la pasticceria di una rilassata italietta ossequiosa e benpensante…

In una mano stringe l’itala bandiera… Ma se potesse sce-gliere nel momento esatto in cui vede la punta del proietti-le entrare nella sua carne nostalgica di femminee carezze e di soleggiate gite al mare, se potesse scegliere, getterebbe il tricolore per riprendere in mano la sua chiave inglese, il suo erpice abbandonato nel capanno, il suo martello per piantare chiodi nel legno di una casa di campagna da ripara-re…

Sulla base della statua una lunga serie di nomi e di date traccia la strada della nazione verso il cosiddetto

“inevitabile progresso”…Ma chi vi ha chiesto di tracciarla con il loro sangue? Non è forse degna la vita di un pallido pediatra alle prese con le diarree dei tanti bam-bini nati tra le sue mani? Non traccia anch’egli un suo progresso? E se indaghiamo nella vita di quel silenzioso pediatra non scopriamo che ebbe il coraggio di disertare quella lunga fila di nomi che ogni mattina legge con la coda dell’occhio sulla base del monumento mentre passa per la piazza e si dirige verso il suo studio? Allora,

signori miei, non ci resta che alzare, nella nostra architet-tonica fantasia, un monumento ai rialzati.

Un monumento per tutti quelli che ancor prima di cadere hanno avuto la lungimirante e salvifica codardia nel rialzar-si, uscire dalla trincea e tornare a casa…

A casa: dove tutto conta ed ha un valore. Un valore più grande di quello nazionale.

Una casa dove ci sono i libri amati e non bollettini ufficiali; dove ci sono le foto di famiglia e non le ipocrite scene dise-gnate sulla “Domenica del Corriere”; dove poter rivedere i volti sognati durante una notte di pioggia sul fronte e non la faccia insanguinata di un compagno strappato da una cattedra di latino al liceo ; il caldo tepore di ricordi perso-

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nali e non le massime scritte sui muri da un dittatore paz-zo; il libero arbitrio di un giornale da leggere in veranda e non l’elenco dei morti sul fronte dell’anno 1917; il soave suono del caffè che sale e non il fischio di una locomotiva che riporta a casa pezzi di soldati; la carezza di un gatto che chiede un tetto e un paio di gambe da colonizzare e non la dura pelle di un mulo che trasporta cannoni in alta montagna; il tappo di un profumo femminile lasciato per caso sul lavandino da una moglie distratta e non una bom-ba a mano attaccata alla cintura…

Evviva il riprovevole disertore: ribrezzo per ogni genera-le; vergogna del padre interventista; pecora nera per il fratello mutilato in guerra…

Addio “Sezione Mutilati di guerra”!!! Con le mie gambe vado veloce verso la fabbri-ca di bottoni che ho aperto nel dopoguer-ra. Ebbi l’idea di vendermi i bottoni dorati d e l l a m i a “divisa da di-sertore” per pagarmi il bi-glietto ferro-viario con cui sono tornato a casa. E con le maniche del mio pastrano da trincea ho confezionato le pattìne con cui scivolo sui pavimenti in-cerati di mia moglie… Che spasso!

Sono un uomo casalingo e felice: se mio figlio mi chiede della guerra, gli mostro i sentieri di campagna colmi di silenzio, respiri e more. Quando mi domandano se mi sento italiano, rispondo che se una persona ha il piacere di mangiare un pomodoro cresciuto sulla propria terra, allora di-venta un tutt’uno con quella terra…Non importa quale no-me abbia quel luogo…!

La terra siamo noi e abbiamo lo stesso diritto di entrare a far parte del “ciclo del carbonio” di una qualsiasi altra perso-na che si definisca “nazional-patriottico-popolare”!

“Libro e moschetto”: ma quale libro? Forse uno di quelli che non fa pensare o che fa pensare solo in una direzione? Forse uno di quei libri stampati solo per far volume in

biblioteche di regime?

Evviva i rialzati che, pur piangendo per i compagni caduti, non resteranno un minuto di più su quei campi maledetti di sangue e fango.

Evviva i disertori di ogni guerra che dopo aver gettato il fucile hanno dovuto affrontare il plotone del pregiudizio e che tradendo il cosiddetto “senso comune” hanno seguito l’egoistico progetto del “si salvi chi può!”

Evviva gli esistenzialisti che hanno atteso la fine della guer-ra nascosti in un fienile con la calda e morbida compagnia di una contadina ucraina…

E se questo mio discorso non convince i fautori del “qui o si fa l’Italia o si muore!”, allora rinuncio al mio monumento ai

rialzati e me ne andrò tra gli sberleffi di chi si sente vivo tra le cannonate di un’-ennesima guerra. Consapevole del fatto che le guer-re silenziose di anime sporche d’inchiostro, non fanno notizia…

I motivi di una guerra non sono mai quelli che ci vengono presen-tati nei telegior-nali. Dopo anni e anni dalla fine di una guerra si scoprono sempre nuovi movimen-ti, nuovi segreti, nuove menti,

nuovi statisti che pilotano milioni di cervelli e di corpi ver-so egoistiche trincee camuffate da valori nazionali.

E allora, prima che l’ennesima madre pianga il proprio figlio credendolo sacrificato per la patria, erigiamo un mo-numento ai rialzati sotto cui ridere e cantare… Non un monumento su cui porgere patetiche corone di fiori, ma un luogo in cui incontrarsi con gli amici vivi profumati di mo-sto e sughero.

***

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E’ ancora possibile la poesia nella società delle

comunicazioni di massa?

di Mora Desirèe *

Capita spesso di sentirsi disorientati, con la noia appicci-cata addosso come se la nostra vita fosse colla: casa, scuo-la e lavoro, orologio sempre al polso sostituito negli ulti-mi anni da quello sul cellulare, il secondo degli schermi che più ci ha reso dipendenti, il primo quello della tanto amata televisione, baby sitter per i piccini, consolatrice di vite non troppo perfette per i più grandicelli, compagnia non rinfacciata per gli anziani. Vite frustrate alla ricerca del perfetto, con l’ossessione di fermare il tempo: l’im-portante è non invecchiare o perlomeno non invecchiare dal di fuori. La vita frenetica, quella senza un minuto di silenzio, di riflessione, la vita dove gli obiettivi di una persona diventano di tutto un paese, l’omologazione, i bambini sfornati come stampini, le guerre di interesse, la discrimina-zione, la miseria… E la sera, rag-giunto il nido denominato casa, il solito divano e lo stesso tuffo in quello schermo nudo di emozioni, pieno, invece, di falsità, di vita facile, di sfarzo, di perfezione. E il ritrovarsi soli anche se in compa-gnia, in silenzio. Abbiamo acquisi-to competenze spaventose negli ultimi secoli, noi umani, ma abbia-mo, nello stesso momento, dimenticato cosa voglia dire “perdere tempo”, dedicarsi al silenzio dell’anima, ascoltarla. Come dice Montale, le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione hanno tentato, non senza suc-cesso, di annientare ogni possibilità di solitudine e di ri-flessione. La sera, appoggiata la testa sul cuscino, sosti-tuiamo al pensiero il messaggino della buona notte. E il libro delle poesie? Quello è in qualche cassetto, non sap-piamo nemmeno precisamente dove è…! Forse è meglio cosi, lo abbiamo nascosto molto tempo fa; la poesia ci fa pensare troppo e poi rende tristi, preferiamo chiudere gli occhi o per lo meno aprirli solo nei momenti convenien-ti, in apparenza gioiosi, quelli del sabato pomeriggio, quando imbambolati ci ritroviamo a vedere Alessandra e Costantino, la perfezione mai trovata. Perché leggere quindi una poesia con la fatica dell’analisi quando le cose le possiamo trovare così, spiaccicate su uno schermo piat-

Prosa to che tutto rende colorato, anche lo squallido? L’emozio-ne, la gioia o il dolore nell’assaporare una poesia, a quella non siamo interessati; proviamo angoscia se ancora ci pen-siamo. Vassalli sostiene: la poesia è ormai un genere lette-rario sempre più specialistico, che non interessa nessuno, o quasi, al di fuori delle università e di una cerchia ristretta di cultori. In classe leggiamo spesso poesie e la passione con cui le legge la mia prof è straordinaria. Bellissimo quando tra quattro mura bianche di una classe anonima, ci si ritro-va in un solo brivido, in un solo pensiero, quando leggendo dei versi ti senti la pelle d’oca che sale e leggi sul volto degli altri la stessa cosa; infine quando esci dall’aula senti di aver acquisito qualcosa che nessun altro riuscirà mai a rega-

larti, ma che solo due versi di quel poeta quasi dimenticato sono riu-sciti a far scaturire. Raboni scrive: la poesia è irreversibilmente morta oppure è viva e lotta con noi ? Vor-rei poter sperare che qualcosa sia rimasto in tutti noi; rinunciare completamente a tutto ciò che ca-ratterizza il presente sarà forse im-possibile ma voglio sognare e pen-sare che quel brivido che provo io quando sento un verso che mi tocca

lo provino tutti ,in maniera diversa, ma che sia gioia per tutti. La poesia è spesso verità cruda, ci costringe a pensa-re, è faticosa, ci sbatte in faccia problemi dimenticati in un bicchiere di quella cruda menzogna che ci vuole far vedere solo cose belle, gioiose, immortali. Ma non è così… Lo spettacolo ad un certo punto deve finire, la vita vera è al-tro, è gioia perché sofferenza, è sofferenza con gioia, è nostalgia, è prima di tutto guardare in faccia la verità. Se-condo me la poesia non può essere dimenticata: è arte, è creazione, è riflessione, è sensibilità, è qualcosa di bellissi-mo presso cui vale la pena fermarsi, sedersi e in silenzio ascoltare.

* Istituto prof. per il commercio e i servizi turistici

“ Don Milani “ - Classe V A

Rovereto

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Page 10: "Nugae" n.2

Rivista letteraria bimestrale autogestita

a cura dell’Associazione Culturale

“Nugae” Presidente: Fabio De Santis

Sede legale: via Guinizelli, 14 Sc. A

84091 Battipaglia (Sa)

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Pubblicità: Paola Magaldi

(cell. 335-8384148)

Stampa: Centro copie “Duc@s” via E. De Nicola, 24 Battipaglia Registrazione del Tribunale di Salerno:

N° 20 del 28/Giugno/2004

Editore: “Edizioni Nugae”

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Chiuso in Redazione: 24/9/2004 Per liberi contributi, lasciti, donazioni rivolger-si al Tesoriere Sig. Colitti Salvatore (Cell. 338-2025760) o direttamente in Redazione. Grazie.

“Nugae—Scritti Autografi”

Norme per la collaborazione : la collaborazione è aperta a tutti ed è comple-tamente gratuita. Gli elaborati vanno inviati tramite e—mail o all’indirizzo della Redazione nitidamente dattiloscritti e firmati ove non fosse possibile l’invio di floppy disk o cd-r . I racconti non dovranno superare la lunghezza di 6 cartelle. La Redazione non restituirà il materiale pervenuto presso la sede del periodico. La Redazione, inoltre, si avvale della prerogativa di non pubblicare gli elaborati sprovvisti dei requisiti minimi dal punto di vista letterario o sgrammaticati. La riproduzione, anche parziale, della presente rivista, è consentita dietro autorizza-zione scritta della Direzione e con la citazione della fonte. Gli organizzatori dei premi letterari dovranno far pervenire i testi dei bandi almeno quattro mesi pri-ma. Gli articoli, i racconti e le liriche riflettono le opinioni dei loro Autori, che di essi risponderanno direttamente di fronte alla Legge.

In copertina:

foto di Michele Nigro

Titolo :

“Binari di scrittura nelle

stazioni deserte dell’anima”

L’Editoriale Lucio Spampinato 3

La pausa Fabio De Santis 4

Una notte Luigi Spampinato 6

Monumento ai rialzati Michele Nigro 9

E’ ancora possibile la poesia nella società delle comunicazioni di massa? Mora Desirèe

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Silloge “ ‘A Palomma” Lucia Rulli 12

Autori vari 13

Metamorfosi Venerando Fregellese 14

Figure geometriche nella poesia di Quasimodo Vito Cerullo

15

Raccontinani

Controedicola

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SOMMARIO pag.

Elenco delle librerie e caffè letterari dove è in distribuzione “Nugae”:

-Libreria Mondadori via Mazzini, 31 - Battipaglia (SA)

-Libreria Mondadori corso Trieste, 198/200 - Caserta

-Libreria Baol via Rocco Cocchia, 12 Salerno

-Libreria Feltrinelli corso V.Emanuele, 230 - Salerno

-Libreria Guida corso Garibaldi, 142/B/C - Salerno

-Nuova Libreria Internazionale piazza 24 Maggio, 10 - Salerno

-Libreria Mondadori corso V.Emanuele, Salerno

-Libreria Legislativa Criscuolo via Nicotera, 47 - Nocera Inf. (SA)

-Caffè Letterario “Intra Moenia” piazza Bellini – Napoli

-Libreria Feltrinelli piazza dei Martiri - Napoli

Controedicola In alternativa alla cultura dilagante del “ best seller da edicola” e all’ “enciclopedia da supermarket”, Nugae è lieta di presentare ai suoi Lettori una piccola rubrica dedicata ai cosiddetti “libri particolari” - sconosciuti o quasi—, agli “sfortunati” delle classifiche, ai “figli stampati di un dio minore”… A tutti quei testi, insom-ma, che un po’ per le tematiche affrontate e, in parte, a causa dell’ombra creata dai “grandi successi”, non hanno mai aspirato e mai aspireranno a risalire le “top ten” dei libri più venduti. Libri che hanno ancora tanto da raccontare.

“Note di un anatomopatologo”

di F. Gonzales-Crussi

Per mestiere, un anatomopatologo è co-stretto a vedere, della vita e della morte, molti aspetti che generalmente spaventano o si ignorano —o comunque si respingono nell’aberrante e nel paradossale. Gonzalez- Crussi, discendente moderno di Sir Thomas Browne o di Francesco Redi, cioè di quei medici che sapevano divagare su tutto in ottima prosa e con gesto amabile, ci guida in questi saggi fra molti temi di cui poco sappiamo e che molto ci incuriosiscono. Per esempio l’imbalsamazione; o lo strano caso di due gemelle ungheresi attaccate per il bacino che si presentano a un ospedale vittoriano perché una di loro è incinta, anche se entrambe si proclamano vergini; o l’autopsia di un gigantesco boscaiolo, em-piamente tatuato e crivellato da mezzo chilo di piombo, al quale aveva ben resisti-to, mentre a ucciderlo era stato un minu-scolo verme lungo meno di tre millimetri; o i mostri. Raccontando questi strani casi o divagando su temi clinici ben poco usuali, Gonzalez-Crussi mostra sempre la dote principe dello scienziato scrittore che abbia il dono dell’ironia e della prosa: suscitare stupore e invitare alla riflessione.

“Nikolaj Nikolaevic:

il donatore di sperma”

(viaggio illuminato all’interno del-l’oscuro letamaio della biologia

sovietica)

di Juz Aleskovskij

Nikolaj, uscito dai lager staliniani, campa fa-cendo il borseggiatore sugli autobus. La fortu-na comincia a sorridergli quando trova lavoro come donatore di sperma in un Istituto di Ricerca, dove l’inesauribile produzione e la prorompente vitalità del suo seme sono ogget-to di attenti studi e sempre nuovi esperimenti, fino al tentativo di stabilire un nesso tra erezio-ne e lettura dei classici. In un turbinìo di equi-voci sentimentali e ideologici, tra sbronze e masturbazioni, l’ironia la fa da padrona.

“L’arte di tacere”

di

Abate Dinouart

Quando Padre Lamy dell’Oratorio offrì in dono al Cardinale Camus la sua opera dal titolo L’arte di parlare, quest’ultimo disse: « Senza dubbio questa è un’arte eccellente, ma chi ci insegnerà l’arte di tacere? ».

Sarebbe un grande servizio reso all’uomo fornirgli i principi di quest’arte e convincer-lo che saperli mettere in pratica è nel suo interesse. Quanti uomini si sono condannati con la lingua o con la penna! Ignoriamo, forse, quanti sono stati esiliati e proscritti per aver pronunciato una parola impruden-te, o scritto cose empie e profane, e che molti tra loro non hanno saputo trarre inse-gnamento neanche dalla loro sventura?

Nel 1771, l’abate Joseph Antoine Toussaint Dinouart pubblicò L’art de se taire, principalement en matière de religion. Con questo trattato l’abate Dinouart voleva forse concludere la lunga serie di quelle arti della parola che costellano la retorica dell’età classica? O voleva invece fissare definitivamente il concetto stesso di retorica? Niente di tutto ciò. L’arte di tacere è una paradossale arte della parola, un altro capitolo della retorica, della quale ha mantenuto tutte le finalità pratiche: non è tanto, infatti, un’arte di far silenzio, quanto un’arte di fare qualcosa all’altro con

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